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7 Contributi l dolore in sede di cambio di medicazione è un argomento di cui si sta molto parlando in ambito scientifico. Impor- tanti associazioni come Ewma (2002) e Wuwhs (2004), av- valendosi anche della collaborazione di infermiere, hanno, infatti, steso documenti di consensus sull’argomento, invi- tandoci a riflettere sull’utilità di eliminare il dolore nei pa- zienti con ulcerazioni cutanee. Entrambi i documenti descrivono differenti tipi di dolore cui indirizzare la nostra attenzione, evidenziando modi di- versi d’approccio. Sono sicuramente lavori corretti dal pun- to di vista scientifico, ma quando si tenta di uniformare i comportamenti di fronte al dolore, l’unicità dell’individuo emerge comunque, mettendo in discussione ogni tentati- vo di dare risposte univoche al problema. Di questo erano ben consapevoli anche i pittori che nel Seicento hanno di- pinto scene di medicazioni molto simili, eppure tanto di- verse tra loro. È indispensabile porre la nostra attenzione anche all’arte poiché, come dice il noto critico Vittorio Sgarbi, “l’arte è, prima di tutto, una forma di conoscenza del mondo, intui- tiva ed illuminata” ed è in questa ottica che ho voluto con- siderare tre opere seicentesche per cogliere da esse spunti di riflessione utili a chi ama il mondo del Wound Care. L’infermiere deve necessariamente confrontarsi con il pro- blema dolore poiché la medicazione, prestazione eseguita dagli infermieri, è uno dei momenti in cui il dolore da le- sione è maggiormente presente. DIPINTI RIGUARDANTI IL WOUND CARE Le opere che ho voluto considerare per questa riflessione sono tre dipinti, di autori diversi, del medesimo periodo sto- rico europeo, il ‘600. Esse sono: Operazione chirurgica, di David Teniers il Giovane (Anver- sa 1610-Bruxelles 1690), olio su tela conservato al Museo del Prado di Madrid; Il chirurgo, di David Rijckaert III (Anversa 1612-1661), olio su tela conservato al Musèe des Beaux Arts di Valenciennes; Il flebotomo, di Johannes Lingelbach (Francoforte 1622- Amsterdam 1674), olio su tela conservato a Roma in colle- zione privata. Questi dipinti fanno parte di quel gruppo dell’iconografia seicentesca riguardanti la malattia, detti “di genere”, di com- mittenza generalmente laica, rappresentanti medici e am- malati; poiché raffigurano la realtà popolare, sono privi di esteriori orpelli ambientali e mettono in evidenza solo la malattia, il dolore e la sofferenza. Per capire queste opere è indispensabile conoscere le figu- re dei chirurghi-barbieri nel Seicento europeo. Il chirur- go – termine che etimologicamente significa “che opera con le mani” – era una figura ben separata dalla profes- sione medica. I chirurghi erano organizzati in corpora- zioni; pur non essendo laureati e non conoscendo il lati- no, essi dovevano eseguire un corso e un tirocinio prati- co in ospedale; per l’esercizio della professione dovevano conseguire un attestato che era loro rilasciato dopo aver superato un esame. A loro era concesso: fare salassi, cop- pettazioni, applicare sanguisughe, occuparsi di ferite e ra- dere barbe. La chirurgia era considerata dai medici una disciplina inferiore, tanto è vero che i candidati alla di- sciplina dell’arte medica dovevano giurare di non essere chirurghi, per avere il diploma, e di non operare “cum fer- ro et igni" (dal latino: con il ferro e con il fuoco). La figura delle infermiere attraversava in questi anni invece “un pe- riodo buio”; per soddisfare la richiesta d’assistenza nei vari ospedali, furono reclutate donne da tutte le parti: molte di loro, anziché scontare la pena della prigione, furono desti- nate ad assistere gli infermi. SIMILITUDINI DELLE TELE Nei tre dipinti, l’ulcerazione riguarda gli arti inferiori e vi è la presenza di almeno tre persone. Oltre al medico e al pa- ziente, si nota una terza persona che partecipa attivamen- te alla scena: questa può avere il ruolo d’aiutante del chi- rurgo, d’accompagnatore o di un successivo paziente. La scena della medicazione si svolge in un luogo chiuso, probabilmente il negozio del chirurgo, poiché è possibile vedere strumenti medici riposti in scaffali o appoggiati sul tavolo. Questi sono rappresentati da albarelli, versatori, orio- li e alambicchi di ceramica o di vetro. Immaginiamo, per le conoscenze che si hanno delle medicazioni dell’epoca, che essi contengano medicamenti come unguento egiziaco, olio di cagnolino, olio di trementina, lieviti, antimonio, piom- bo, zinco… I pazienti sono seduti su sgabelli di legno, coperti da sem- plici vestiti, spesso logori. Anche i barbieri-chirurghi non sembrano essere agiati, considerando la povertà dei luoghi in cui eseguono le medicazioni. L’ulcerazione cutanea è, in tutti i dipinti, ben evidente e in due casi i chirurghi hanno in mano strumenti. Di facile riconoscimento appare quel- lo del dipinto “operazione chirurgica”, con la tipica forma ad uncino che fa pensare a dilatatori o forbici. Ad eccezione del dipinto del Flebotomo, è visibile una civetta appoggiata su ante di legno, simbolo di sapienza, attributo classico di Minerva. DIFFERENZE TRA LE TELE Le tre tele appaiono notevolmente differenti per quanto ri- guarda l’atteggiamento del paziente e del medico nell’atto della medicazione. • La rappresentazione di David Teniers il Giovane appare avvolta da un’atmosfera di profonda serenità; il chirurgo ha lo sguardo fisso sul viso del paziente, sembra quasi parlare con lui, forse per spiegargli che cosa andrà a compiere. Il paziente appare tranquillo, rassicurato forse dalla presenza della moglie che l’accompagna; anche lo sguardo di que- st’ultima è concentrato sul congiunto e non sulla lesione. Un aiutante del chirurgo entra con una zuppiera ricolma di brodo. Quest’ultimo particolare rimanda chiaramente ad una visione d’atmosfera familiare, in cui anche l’alimenta- zione riveste un’importanza particolare per il sostegno del paziente. In altre tele simili, l’autore ripresenta la stessa at- mosfera d’attenzione verso il paziente, come nel dipinto Die Baderstube; il termine tedesco potrebbe essere interpretato come “salone di bellezza per uomini”, indicando un am- biente dove venivano anche rase barbe e tagliati capelli. • Nella rappresentazione di David Rijckaert III appaiono chiari elementi di sofferenza; il chirurgo è concentrato sul- la piaga su cui sta lavorando con uno strumento chirurgi- co; in termini moderni diremmo che sta specillando una fe- rita. Il paziente manifesta sofferenza, come si può notare dallo sgabello che tende ad oscillare all’indietro, forse nel tentativo di ritrarre la gamba per il dolore, e dall’espressio- ne del viso, in cui la bocca è semiaperta, quasi emettesse un lamento. La terza persona della raffigurazione è intenta ad osservare l’ulcerazione dell’arto, quasi dimentica della per- sona che soffre. • Nel dipinto di Johannes Lingelbach una grande sofferen- za avvolge ogni particolare dell’opera. I colori bui della sce- na rappresentata sembrano contribuire a rendere ancor più drammatico l’evento. Il chirurgo sta rimuovendo una garza dalla lesione ed appare unicamente concentrato su ciò che sta facendo. L’atto assistenziale deve fare molto male al pa- ziente, poiché si nota in tutto l’atteggiamento del corpo la partecipazione al dolore. Tutti i muscoli sono contratti, una mano è serrata a pugno, quasi a bloccare il dolore, gli oc- chi sono spalancati e la bocca serrata. Il paziente è alzato dallo sgabello: probabilmente il dolore non gli permette di Riflessioni sulle problematiche del dolore attraverso alcune tele del Seicento I QUANDO L’ARTE PARLA DI ASSISTENZA LADDOVE ESISTE AMORE PER L UMANITÀ NON PUÒ NON MANCARE L AMORE PER L ARTE (IPPOCRATE) DI CRISTINA COPPI* David Teniers il Giovane (Anversa 1610 - Bruxelles 1690), Operazione chirurgica, olio su tela, Madrid, Museo del Prado. David Rijckaert III (Anversa 1612-1661), Il chirurgo, olio su tela, Valenciennes, Musée des Beaux Arts.

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7Contributi

l dolore in sede di cambio di medicazione è un argomentodi cui si sta molto parlando in ambito scientifico. Impor-tanti associazioni come Ewma (2002) e Wuwhs (2004), av-valendosi anche della collaborazione di infermiere, hanno,infatti, steso documenti di consensus sull’argomento, invi-tandoci a riflettere sull’utilità di eliminare il dolore nei pa-zienti con ulcerazioni cutanee.Entrambi i documenti descrivono differenti tipi di dolorecui indirizzare la nostra attenzione, evidenziando modi di-versi d’approccio. Sono sicuramente lavori corretti dal pun-to di vista scientifico, ma quando si tenta di uniformare icomportamenti di fronte al dolore, l’unicità dell’individuoemerge comunque, mettendo in discussione ogni tentati-vo di dare risposte univoche al problema. Di questo eranoben consapevoli anche i pittori che nel Seicento hanno di-pinto scene di medicazioni molto simili, eppure tanto di-verse tra loro.È indispensabile porre la nostra attenzione anche all’artepoiché, come dice il noto critico Vittorio Sgarbi, “l’arte è,prima di tutto, una forma di conoscenza del mondo, intui-tiva ed illuminata” ed è in questa ottica che ho voluto con-siderare tre opere seicentesche per cogliere da esse spuntidi riflessione utili a chi ama il mondo del Wound Care.L’infermiere deve necessariamente confrontarsi con il pro-blema dolore poiché la medicazione, prestazione eseguitadagli infermieri, è uno dei momenti in cui il dolore da le-sione è maggiormente presente.

DIPINTI RIGUARDANTI IL WOUND CARELe opere che ho voluto considerare per questa riflessionesono tre dipinti, di autori diversi, del medesimo periodo sto-rico europeo, il ‘600. Esse sono:• Operazione chirurgica, di David Teniers il Giovane (Anver-sa 1610-Bruxelles 1690), olio su tela conservato al Museodel Prado di Madrid;• Il chirurgo, di David Rijckaert III (Anversa 1612-1661), oliosu tela conservato al Musèe des Beaux Arts di Valenciennes;

• Il flebotomo, di Johannes Lingelbach (Francoforte 1622-Amsterdam 1674), olio su tela conservato a Roma in colle-zione privata.Questi dipinti fanno parte di quel gruppo dell’iconografiaseicentesca riguardanti la malattia, detti “di genere”, di com-mittenza generalmente laica, rappresentanti medici e am-malati; poiché raffigurano la realtà popolare, sono privi diesteriori orpelli ambientali e mettono in evidenza solo lamalattia, il dolore e la sofferenza.Per capire queste opere è indispensabile conoscere le figu-re dei chirurghi-barbieri nel Seicento europeo. Il chirur-go – termine che etimologicamente significa “che operacon le mani” – era una figura ben separata dalla profes-sione medica. I chirurghi erano organizzati in corpora-zioni; pur non essendo laureati e non conoscendo il lati-no, essi dovevano eseguire un corso e un tirocinio prati-co in ospedale; per l’esercizio della professione dovevanoconseguire un attestato che era loro rilasciato dopo aversuperato un esame. A loro era concesso: fare salassi, cop-pettazioni, applicare sanguisughe, occuparsi di ferite e ra-dere barbe. La chirurgia era considerata dai medici unadisciplina inferiore, tanto è vero che i candidati alla di-sciplina dell’arte medica dovevano giurare di non esserechirurghi, per avere il diploma, e di non operare “cum fer-ro et igni" (dal latino: con il ferro e con il fuoco). La figuradelle infermiere attraversava in questi anni invece “un pe-riodo buio”; per soddisfare la richiesta d’assistenza nei variospedali, furono reclutate donne da tutte le parti: molte diloro, anziché scontare la pena della prigione, furono desti-nate ad assistere gli infermi.

SIMILITUDINI DELLE TELENei tre dipinti, l’ulcerazione riguarda gli arti inferiori e viè la presenza di almeno tre persone. Oltre al medico e al pa-ziente, si nota una terza persona che partecipa attivamen-te alla scena: questa può avere il ruolo d’aiutante del chi-rurgo, d’accompagnatore o di un successivo paziente. La scena della medicazione si svolge in un luogo chiuso,probabilmente il negozio del chirurgo, poiché è possibilevedere strumenti medici riposti in scaffali o appoggiati sultavolo. Questi sono rappresentati da albarelli, versatori, orio-li e alambicchi di ceramica o di vetro. Immaginiamo, per leconoscenze che si hanno delle medicazioni dell’epoca, cheessi contengano medicamenti come unguento egiziaco, oliodi cagnolino, olio di trementina, lieviti, antimonio, piom-bo, zinco… I pazienti sono seduti su sgabelli di legno, coperti da sem-plici vestiti, spesso logori. Anche i barbieri-chirurghi nonsembrano essere agiati, considerando la povertà dei luoghiin cui eseguono le medicazioni. L’ulcerazione cutanea è, intutti i dipinti, ben evidente e in due casi i chirurghi hannoin mano strumenti. Di facile riconoscimento appare quel-lo del dipinto “operazione chirurgica”, con la tipica formaad uncino che fa pensare a dilatatori o forbici. Ad eccezione del dipinto del Flebotomo, è visibile una civettaappoggiata su ante di legno, simbolo di sapienza, attributoclassico di Minerva.

DIFFERENZE TRA LE TELELe tre tele appaiono notevolmente differenti per quanto ri-

guarda l’atteggiamento del paziente e del medico nell’attodella medicazione.• La rappresentazione di David Teniers il Giovane appareavvolta da un’atmosfera di profonda serenità; il chirurgo halo sguardo fisso sul viso del paziente, sembra quasi parlarecon lui, forse per spiegargli che cosa andrà a compiere. Ilpaziente appare tranquillo, rassicurato forse dalla presenzadella moglie che l’accompagna; anche lo sguardo di que-st’ultima è concentrato sul congiunto e non sulla lesione.Un aiutante del chirurgo entra con una zuppiera ricolma dibrodo. Quest’ultimo particolare rimanda chiaramente aduna visione d’atmosfera familiare, in cui anche l’alimenta-zione riveste un’importanza particolare per il sostegno delpaziente. In altre tele simili, l’autore ripresenta la stessa at-mosfera d’attenzione verso il paziente, come nel dipinto DieBaderstube; il termine tedesco potrebbe essere interpretatocome “salone di bellezza per uomini”, indicando un am-biente dove venivano anche rase barbe e tagliati capelli. • Nella rappresentazione di David Rijckaert III appaionochiari elementi di sofferenza; il chirurgo è concentrato sul-la piaga su cui sta lavorando con uno strumento chirurgi-co; in termini moderni diremmo che sta specillando una fe-rita. Il paziente manifesta sofferenza, come si può notaredallo sgabello che tende ad oscillare all’indietro, forse neltentativo di ritrarre la gamba per il dolore, e dall’espressio-ne del viso, in cui la bocca è semiaperta, quasi emettesse unlamento. La terza persona della raffigurazione è intenta adosservare l’ulcerazione dell’arto, quasi dimentica della per-sona che soffre.• Nel dipinto di Johannes Lingelbach una grande sofferen-za avvolge ogni particolare dell’opera. I colori bui della sce-na rappresentata sembrano contribuire a rendere ancor piùdrammatico l’evento. Il chirurgo sta rimuovendo una garzadalla lesione ed appare unicamente concentrato su ciò chesta facendo. L’atto assistenziale deve fare molto male al pa-ziente, poiché si nota in tutto l’atteggiamento del corpo lapartecipazione al dolore. Tutti i muscoli sono contratti, unamano è serrata a pugno, quasi a bloccare il dolore, gli oc-chi sono spalancati e la bocca serrata. Il paziente è alzatodallo sgabello: probabilmente il dolore non gli permette di

Riflessioni sulle problematiche del dolore attraverso alcune tele del Seicento

I

QUANDO L’ARTEPARLA DI ASSISTENZA

LADDOVE ESISTE AMORE PER L’UMANITÀ NON PUÒ NON MANCARE L’AMORE PER L’ARTE (IPPOCRATE)

DI CRISTINA COPPI*

David Teniers il Giovane (Anversa 1610 - Bruxelles 1690),

Operazione chirurgica, olio su tela, Madrid, Museo del Prado.

David Rijckaert III (Anversa 1612-1661), Il chirurgo, olio su tela, Valenciennes,

Musée des Beaux Arts.

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stare seduto. Rimuovere una garza dalla lesione, specie seasciutta, è uno degli atti della medicazione che ancor oggiporta maggior dolore al paziente.La terza persona è senz’altro un paziente, poiché si nota il brac-cio bendato appeso al collo e una benda sulla bocca, chiaroriferimento all’attività di cavadenti esercitata dai chirurghi.

CONCLUSIONIL’osservazione delle immagini d’arte è un invito a guar-dare attentamente anche i nostri pazienti e il nostro mo-do di porci nei confronti della sofferenza.Il possibile dolore provocato dalla medicazione e da atticruenti su di essa dovrebbe essere sempre presente adogni professionista di Wound Care. Solo oggi se ne co-mincia a parlare, tuttavia l’argomento è antichissimo, segià nella pittura del Seicento il dolore è così presente nel-le raffigurazioni.Sofocle diceva, molti secoli fa, che il più grande dolore èquello che noi stessi provochiamo, indicando in questomodo la necessità di valutare attentamente tutti i nostriatti terapeutici.Non conosciamo gli atti per lenire il dolore al cambio del-la medicazione praticati nel 1600, ma si può affermareche la buona comunicazione con il paziente, già allora,era la chiave di volta per la gestione del dolore. Anche seoggi conosciamo strategie terapeutiche ed assistenzialiper diminuire il dolore al cambio della medicazione, l’im-portanza della comunicazione con il paziente e l’empatiache si viene ad istaurare con lui sono considerati impor-tantissimi anche oggi, e sono menzionati in molti lavori

scientifici sull’argomento.Concludo questa breve riflessione con il sonetto satiricodi Pierre Loisy III (Besançon 1619-1670 circa) inserito sot-to un’incisione di Adriaen Brouwer (Oudenaerde 1605-Anversa 1638) dal titolo Un barbiere medica un braccio adun giovane, conservata a Roma all’Istituto Nazionale dellaGrafica, Collezione Corsini. Nel sonetto si immagina cheil paziente, rivolgendosi al cerusico che lo sta curando, loesorti a fare attenzione durante le medicazioni, coglien-do inoltre l’occasione per biasimare tutti quelli che in-traprendono la professione medica senza avere la capa-cità e le adeguate conoscenze, alle quali tentano invecedi sopperire con le molte chiacchiere:

“piano piano Barbier, che l’acqua scotta, voi medicate senza aver dolore,non sentite il paziente che borbottae manda dai calzoni un cattivo odore…, quanti il chirurgo pensan di fare, e di cani non san ne’anco castrare…mi ravvoltolate a dirvi le bodella, con sentirvi parlar tanto alla sciocca, vorreste dopo aver sana la piaga al povero barbier rubar la paga”.

*assistente sanitaria, Asl di Cremona

BIBLIOGRAFIASilvia Guastalla, Mario Diegoli, La nuova bottega dell’arte, 2003Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

Sergio Rossi (a cura di), Scienza e miracoli nell’arte del ‘600, 1988ElectaGioachino Caresana, Dermochirurgia e medioevo, Salus. Anno IVn° 15, dic 2004;14-15Sherwin B. Nuland, Storia della medicina, 1992 MondadoriM, Patricia Donahue, Nursing, storia illustrata della assistenza in-

fermieristica, 1991 Antonio Delfino EditoreStata Norton, Experimental Therapeutics in the Renaissance, TheJournal of Pharmacology and Experimental Therapeutics. 2003Feb; 304(2):489-92Catherine A. Eager, Caregiver’s Corner: relieving pain during dres-

sing changes in the elderly, Ostomy Wound Management 2002may;48(5) 20-21F.Dobson, The art of pain management, Professional Nurse 2000,15(12); 786-790

Ad Asolo un’esperienza sul territorio

Sono un infermiere che da un anno e qualche mese ha messo a disposizione dei cittadini e dell’amministrazionecomunale parte del suo tempo occupandosi delle problematiche sociali e assistenziali presenti sul territorio.Ho letto nell’ultimo numero del nostro notiziario un interessante articolo, sviluppato in più punti, riguardanti itemi “caldi” per la professione.In particolare ho centrato la mia attenzione sul paragrafo Il progetto infermieristico di assistenza sulterritorio.Desidero farvi conoscere la nostra piccola esperienza. Il nostro Comune, costituito da 8.600 abitanti, facenteparte del territorio collinare-pedemontano che ha visto la chiusura di quattro ospedali nel giro di quindici anni,ove il Pronto soccorso più vicino è a circa 20 chilometri, dove fortunatamente esiste un efficace Suem 118 me-dicalizzato h24, ha un servizio sociale formato da due assistenti sociali, due assistenti domiciliari, un infermie-re “di comunità”, varie persone impegnate nel mondo del volontariato organizzato e spontaneo.Perché la scelta dell’infermiere?La risposta è purtroppo molto semplice: numerose richieste dei cittadini per prevenzione e medicazioni di decu-biti, ferite chirurgiche, terapie infusive, controllo di tracheotomie, Peg, Sng, alimentazioni enterali e parenterali,iniezioni, prelievi ematici, educazione sanitaria…Cittadini anziani, ma anche giovani incidentati, dimessi precocemente dalle strutture ospedaliere di riferimento,che in attesa dell’attivazione del Servizio infermieristico domiciliare dell’Asl (tempo medio di attesa 15 giorni!)non sapevano a chi rivolgersi.Da qui la scelta dell’amministrazione di puntare su questa figura fondamentale ed essenziale nell’assistenza sa-nitaria territoriale.In poco tempo i risultati più che positivi hanno portato a un’efficace collaborazione con i medici di base e i ser-vizi territoriali dell’Asl (Assistenza domiciliare integrata, Ospedalizzazione domiciliare), tanto che alcuni casiparticolare vengono gestiti e seguiti in cooperazione.Nel corso del 2004 le prestazioni effettuate sono state circa 1.200.Il lato negativo sta nel fatto che ultimamente anche i medici di base si rivolgono direttamente al nostro servizioper avere delle prestazioni infermieristiche.Dico negativo perché tali prestazioni dovrebbero essere date in prima istanza dai preposti servizi dell’Asl.Il nostro servizio dovrebbe essere solo di sostegno e di cooperazione, dovremmo intervenire in seconda istanza oin casi di emergenza.Ma anche queste prestazioni sono soggette a tempi di attesa, che portano inevitabilmente i cittadini e i profes-sionisti a trovare strade alternative per dare una risposta precoce all’utente-paziente.Ben volentieri la nostra amministrazione proseguirà sulla strada intrapresa, consci di dare un servizio efficace ainostri cittadini, consci di sostituire in più occasioni la struttura pubblica deputata a erogare questo servizio.Mi auguro che la figura dell’“infermiere di comunità” possa ulteriormente svilupparsi, trovando il modo di con-venzionarsi con le varie realtà del territorio, creando dei “coordinamenti” sovracomunali al fine di gestire effica-cemente tutte le risorse disponibili.Non è certamente materia facile da affrontare, è comunque importante parlarne, riflettere, confrontarsi.

Mauro MiglioriniIp e Assessore alle politiche sociali del Comune di Asolo (Tv)

Fa veramente piacere sapere che, in un momento in cui molto si parla di “cure primarie”, di assisten-za nel territorio, di infermiere di famiglia/comunità, una interessante esperienza è statarealizzata da un nostro collega nel Comune di Asolo (Tv). Una realtà che merita di essereraccontata in modo che possa costituire un esempio da imitare nelle diverse realtà del no-stro Paese.È a tutti noto che l’obiettivo 15.1 del documento Health 21 dell’Oms prevede che il 90%dei Paesi dovrà realizzare servizi di cure primarie complete che assicurino la continuitàdelle cure utilizzando sistemi di orientamento al paziente e garantendo una buona utiliz-zazione delle risorse.Le cure primarie rappresentano infatti la porta di accesso, il primo contatto con il cittadi-no, con la famiglia e con la comunità con gli operatori del Servizio sanitario nazionale.Lo stesso documento prevede la realizzazione di una nuova funzione assistenziale, ovveroquella dell’infermiere di famiglia/comunità. Questa nuova figura offrirà, in seno all’équipemultidisciplinare di figure sanitarie, un contributo fondamentale per il raggiungimento de-gli obiettivi definiti dalla politica sanitaria della Regione europea dell’Oms, per raggiun-gere il pieno potenziamento di salute per tutti attraverso il perseguimento di due scopiprincipali :• promuovere e proteggere la salute della popolazione lungo tutto l’arco della vita;• ridurre l’incidenza delle malattie, alleviando le sofferenze che queste causano.La Federazione nazionale dei Collegi Ipasvi è determinata a dare un forte impulso allo svi-luppo delle cure primarie ed infatti sono state realizzate diverse iniziative in tal senso:

1) percorrendo la strada tracciata dal Dm 739/94, è stato progettato un percorso formati-vo orientato alla risposta ai problemi prioritari di salute della popolazione, “Master diprimo livello in Sanità pubblica” per qualificare la figura di infermiere di Sanità pub-blica;

2) è stato siglato un accordo “territoriale” con il maggior sindacato italiano della medici-na di famiglia (Fimmg), per progettare iniziative comuni e rafforzare la cura e l’assistenzadelle persone nei luoghi della loro vita, in casa, nelle strutture di degenza non ospeda-liera, negli ospedali di comunità;

3) è stato costituito un gruppo di lavoro sulle “cure primarie”, al fine di analizzare i mo-delli organizzativi di assistenza e le modalità operative da realizzare nelle diverse real-tà regionali.

In altre parole si mira a costituire in senso culturale e organizzativo le reali condizioni peravere un’efficace rete di assistenza territoriale, cosa tra l’altro prevista dal Piano sanitarionazionale 2003-2005.Credo che l’esperienza realizzata dal Comune di Asolo e dai nostri colleghi vada proprio inquesta direzione, ovvero l’appropriatezza delle cure e integrazione tra professionisti, con-sentendo di realizzare in ambito di assistenza territoriale la sperimentazione di una ade-guata organizzazione dei modelli di organizzazione dell’assistenza.

Giovanni Valerio

Lettera

Contributil ’ i n f e r m i e r e 8 / 2 0 0 5

Johannes Lingelbach (Francoforte 1622 - Amsterdam 1674),

Il flebotomo, olio su tela, Roma, collezione privata.

Contributi 9

i sono lavoratori di centrale importanza per il correttofunzionamento di una determinata struttura: i macchi-nisti o i controllori nelle ferrovie, i cameramen nei quiztelevisivi… . Ma nessuno si è mai azzardato a raccontareil mondo delle rotaie o dei varietà attraverso gli occhi diqueste figure, per il solo fatto che la loro è sempre stata“una vita da mediano”, senza gli allori di ruoli direttivi. Anna Zenarolla, con la collaborazione di Dario Bonini,Ivano Mucin e Ornella Schiffo, ha scelto invece di af-frontare un tema scomodo (e spesso rimosso) come ilfunzionamento dei manicomi in Italia fino alla loro chiu-sura nel 1978 attraverso il punto di vista degli infermie-ri psichiatrici, le cosiddette “guardie dei pazzi”, lavorato-ri ai margini della classica gerarchia professionale: dopodi loro solo i malati di mente, ai quali si riteneva che fi-nissero, a poco a poco, per somigliare. Il personale dei manicomi era allora composto dagli “in-fermieri psichiatrici”, figure equiparate ai generici, men-tre i primi infermieri professionali entreranno nei Di-partimenti di salute mentale solo a partire dagli anni Ot-tanta.Quando, dopo l’approvazione della cosiddetta legge Ba-saglia, i manicomi vennero chiusi – o meglio, quando leloro porte vennero finalmente aperte – non ci fu più bi-sogno di chi facesse la guardia per evitare zuffe, suicidi,fughe; di chi chiudesse a chiave le stanze come in un car-cere; di chi restasse sveglio tutta la notte, registrando lapropria vigile presenza su appositi “orologi timbratori”ogni trenta minuti.Di colpo, malati di mente e personale si ritrovarono a fa-re nuovamente i conti con la realtà di tutti i giorni, lon-tano dai ritmi e dalle regole degli ospedali psichiatrici.Ma il passato non passa così facilmente, soprattutto quan-do c’è qualcuno pronto a ricordare e a raccontare. È nato così un libro, Gli ultimi guardiani del “gatto nero”.Racconti di vita e di lavoro in un manicomio, un volume agi-le e ottimamente curato nell’impostazione grafica e nel-la presentazione dei testi, a cura dell’Istituto RicercheEconomiche e Sociali del Friuli Venezia Giulia, con il con-tributo della Regione. A impreziosire il lavoro dei curatori, per l’appunto, i rac-conti di alcuni infermieri psichiatrici dell’ex Ospedalepsichiatrico provinciale di Udine. E non è un caso che questo prodotto editoriale abbia vi-sto la luce in Friuli, una Regione da sempre all’avanguardianell’approccio alla malattia mentale. Nel 1955, come ri-corda Renato in una delle interviste che aprono il libro,nel manicomio di Udine per la prima volta in Italia furo-no tolte le camice di forza a quasi tutti i pazienti. Anniparticolari, quelli: di lì a poco un giovane psichiatra ve-neziano, Franco Basaglia, arrivato alla direzione del-l’Ospedale psichiatrico di Gorizia avrebbe dato il via aduna vera e propria rivoluzione, abbattendo recinzioni econsentendo ai malati di passeggiare e mangiare all’a-perto. Aperture che gradualmente portarono ad un in-

tervento legislativo ad hoc, che da allora hainquadrato l’assistenza psichiatrica all’in-terno del sistema sanitario nazionale, dan-do preminenza alla riabilitazione e allaprevenzione, senza alcun intervento co-ercitivo e limitante la libertà dell’indivi-duo malato. Ma oggi, a venticinque anni esatti dal-la scomparsa di Basaglia, non si puòignorare cosa fossero i manicomi pri-ma della loro chiusura, prima della “ri-voluzione”. Violenze, soprusi, elettros-hock senza anestesia, camere di iso-lamento, con personale spesso privodi una formazione adeguata, ridot-to a legare i pazienti pur di tenerli calmi,usando la scopa per pulire i loro corpi al mattino. Prati-che rimosse con troppa leggerezza: un film denuncia co-me Qualcuno volò sul nido del cuculo in Italia non c’è maistato, o comunque non ha mai avuto eguale risonanzanella pubblica opinione.Per questo, le testimonianze contenute in questo libro ri-vestono un’importanza di prim’ordine. Dal racconto diItalo, ad esempio, si desume che l’arruolamento del per-sonale nei manicomi avveniva nelle maniere più stram-be, e che la formazione arrivava solo dopo l’assunzione.“Avevo fatto domanda come elettricista, e mi ritrovai in-fermiere psichiatrico”, risponde al suo intervistatore inmerito al suo primo giorno di lavoro. Turni massacranti,

anche quattordici ore conti-nuative, a contatto con disagi divario genere. L’alcolismo, adesempio, tratto comune di unaparte di malati e alcuni operato-ri. E poi la violenza. “Picchiali tu,prima che ti picchino loro”, era ilconsiglio che Italo si sentiva ripe-tere dai colleghi più anziani. “Se timostravi un po’ più disponibile, ve-nivi considerato uno stupido, ti guar-davano storto”, racconta Fulvio, cheammette di conservare ancora rap-porti di amicizia con gli ex “ospiti”dell’ospedale psichiatrico di Udine.Squarci di umanità in una guerra trapoveri, dove la condizione dei carcerie-

ri spesso non era migliore di quella dei carcerati, e il para-gone con i penitenziari non è casuale, viste le difficoltàdi tenuta del sistema carcerario italiano.Storie difficili da tutte e due i lati della barricata: si pen-si a Renza, assunta come infermiera psichiatrica nel1947 e costretta a licenziarsi dopo essersi sposata, acausa di una legge che imponeva il nubilato per chifaceva questo lavoro. “Senza contare che per i primidieci anni di servizio non si aveva diritto ad alcun be-neficio, a partire dalla pensione”, ricorda.Gli ultimi guardiani del “gatto nero”. Ultimi, in tuttii sensi…

Un libro per ricordare una pagina dura dell’assistenza in Italia

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QUALCUNO VOLÒ SUL NIDODEL … GATTO NEROA VENTICINQUE ANNI DALLA SCOMPARSA DI FRANCO BASAGLIA, UN LIBRO RACCOGLIE LE TESTIMONIANZE DI EX

INFERMIERI PSICHIATRICI E RACCONTA LA REALTÀ DEI MANICOMI ITALIANI PRIMA DELLA LORO CHIUSURA, TRA

VIOLENZE, SOPRUSI, TANTA UMANITÀ E I “SOLITI” DISAGI DI CHI VUOLE LAVORARE ONESTAMENTE NELL’ESCLUSIVO

INTERESSE DEL MALATO

DI SILVESTRO GIANNANTONIO

Renato, il pazzo “infiltrato”“Dopo un corso di formazione per infermieri in Toscana,lo psichiatria Mario Tobino mi chiese un favore, in vistadi una relazione da tenere ad un convegno nazionale: “De-vi fingerti malato di mente – mi disse – Per due, tre gior-ni dovrai vivere assieme ai ricoverati di Lucca per cono-scere la realtà del reparto”. Così, mi dettero la divisa emi mandarono in un reparto. “Mi raccomando – gli ri-sposi – spero che qualcuno non mi prenda per farmil’elettroshock o delle terapie!”. Ho vissuto tre giorni etre notti insieme agli ammalati, e ho notato come il per-sonale si comportava con loro. Ho visto picchiare bru-talmente un ammalato da un infermiere psichiatrico unpo’ sbronzo e allora non ho fatto a meno di intervenire,dicendogli di smetterla. Mi ha subito aggredito, avver-tendomi che non dovevo occuparmi degli altri. Il gior-no successivo il professore in persona mi ha presentatoal personale, svelando la mia vera identità. Successiva-mente, in una riunione generale ho raccontato la miaesperienza, smascherando quel ‘picchiatore’, che, pre-sente all’incontro, sosteneva a gran voce che occorrevarispettare gli ammalati e aiutarli”.

Fulvio, l’amico di tutti“Mi fa piacere che i malati mi vogliono ancora bene. Erosempre disponibile ad ascoltare le loro richieste, an-che se ad alcuni colleghi questo modo di fare dava fa-stidio. Anche adesso che sono vecchio, penso che qual-siasi tipo di ammalato è da considerarsi una cosa sacra.Mai perdere la pazienza!”.

Gloria, il dramma dell’elettroshock“Il ruolo dell’infermiera psichiatrica era quello di con-tenere manualmente il paziente e tenergli le spalle men-tre subiva le scariche. Eravamo al massimo in due, piùil medico e la suora. Era il medico che applicava gli elet-trodi; la suora aveva funzioni di caposala. Solo le più an-ziane e a stretto contatto con il medico potevano assi-stere a quelle pratiche; le nuove avevano il compito dipulire e basta”.

Daria e le sorelle violente“Al reparto c’erano due ammalate, due sorelle, che siferivano a vicenda: si morsicavano, si pizzicavano, ave-vano sempre delle lesioni addosso e dovevi stare atten-ta a non passare troppo vicino a loro, perché erano pron-te ad afferrarti e non sempre ne uscivi integra. Se nes-suno mi avesse avvertita, non avrei mai potuto preve-dere simili reazioni…”.

I racconti degli exinfermieri psichiatrici

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10ContributiVecchi e nuovi errori per il trattamento della sindrome autistica

Pubblichiamo un contributo inviato in redazione dal professorCarlo Hanau sul grave problema dell’autismo.

onosciamo da molti anni le teorie e le “terapie alternati-ve” proposte a caro prezzo dai componenti del cosiddet-to protocollo DAN!, tanto che abbiamo invitato a Bolo-gna il suo ispiratore, lo psicologo Bernard Rimland, nellontano 1988. Si tratta di ipotesi di lavoro su presuntecause o concause dell’autismo, la cui validità non è maistata documentata. Al posto della sperimentazione seria,che può essere fatta soltanto dopo avere chiesto l’auto-rizzazione ai Comitati etici e secondo regole che valgo-no nei nostri Paesi industrializzati, i professionisti chevendono tali terapie portano testimonianze di genitorientusiasti, trascurando l’esistenza dell’effetto placebo,cioè della suggestione, che esiste nell’autismo come inogni altra patologia e che è stata ben documentata nel-le sperimentazioni avvenute e concluse su farmaci comela fenfluramina, il naltrexone e la secretina. Questi far-maci sembravano molto efficaci ai genitori ed ai medicicuranti, fin tanto che essi erano consapevoli che stavanosperimentando dei farmaci nei quali riponevano fiduciaa priori (in aperto); sono poi risultati inefficaci, e cioèuguali al placebo, quando sottoposti a sperimentazionirigorose in “doppio cieco”. La storia della medicina ci in-segna che, se non si passa attraverso rigorose sperimen-tazioni, si ricade negli errori del passato, quando si pra-ticava, ad esempio, il salasso per lo svenimento e per lapolmonite.Giornali e televisioni a volte sembra che spingano le fa-miglie disperate a portare soldi a chi promette miracoli,senza consultare né gli specialisti del settore (venti deiquali fanno parte del Comitato scientifico dell’Angsa) eneppure l’Associazione internazionale Autisme Europe(www.autismeurope.org) alla quale aderiscono oltre al-l’Angsa più di settanta associazioni di genitori ed esper-ti, che attualmente è presieduta da un’italiana, Donata

Vivanti, presidente di Autismo Italia.Il protocollo DAN! fa parte delle medicine alternative esi-stenti in Usa, la cui efficacia non è né cercata, né prova-ta. Le terapie “innovative” di cui si parla (diete, vitamine,chelanti dei metalli pesanti, probiotici, zinco etc.) le co-nosciamo da anni e alcune da decenni. Si parla in termi-ni miracolistici della dieta senza glutine e senza latte, chenella Clinica Neurologica dell’Università di Bologna èstata sperimentata nel lontano 1991 senza risultato ap-prezzabile. Questo non esclude che vi sia una minoran-za di autistici per i quali la dieta possa essere utile. Perora non ci sono prove in tal senso. È comunque in cor-so, ad opera del ministero della Salute degli Usa, una spe-rimentazione che darà una risposta definitiva al quesitose nei casi di miglioramenti seguiti alla dieta si sia trat-tato di un rapporto causale o casuale. Si consigliano vitamine ad alte dosi, dicendo che le vita-mine non hanno tossicità, cosa non vera, come si può leg-gere in ogni trattato di medicina. La vitamina B6 ad al-te dosi associata al Magnesio viene proposta come te-rapia di sicura efficacia, mentre la fondazione Coch-rane ha fatto una rassegna recente, concludendo chegli studi fatti sino ad ora sono di pessima qualità me-todologica e che sono necessarie sperimentazione cor-rette per dirimere il quesito se realmente vi sia un sot-togruppo di autistici che risponde alla terapia e, se sì,per quanto tempo.A favore del DAN! c’è anche in Italia un gruppo di ge-nitori un gruppo autarchico che tralascia i cardinidella documentazione di efficacia delle terapie, e pro-clama tale efficacia sulla base delle proprie impres-sioni, reagendo violentemente alle critiche. L’autismo è una disabiltà grave che porta alla non au-tosufficienza permanente nella grande maggioranzadei casi. Il professionista serio deve sapere comuni-care la cattiva notizia ed aiutare a trovare la forza e lacapacità di accettarla: questo al fine di attivare tuttoquello che si può allo stato attuale per migliorare lacondizione di vita, con grandi sforzi e piccoli risulta-

ti. A fronte del professionista serio, il venditore di il-lusioni trova terreno fertile tra i genitori, pronti a igno-rare i professionisti onesti, ad osannare chi prometteil miracolo, a spendere tutto il denaro di cui dispongo-no e a portargli nuovi adepti. Ad esempio, alcuni medici, che ammettono di essersi in-teressati di autismo da poco tempo, vengono però pre-sentati come capaci di curare e guarire l’autismo conesami e medicine provenienti dagli Usa, Paese nel qua-le i proponenti di queste terapie trovano l’assoluta osti-lità della medicina ufficiale, rappresentata dalla Foodand Drug Administration, che non riconosce validità anessuna delle terapie proposte dal DAN!Qui da noi purtroppo le famiglie non ricevono l’aiu-to di cui hanno bisogno. Dagli Usa vengono approc-ci psicoeducativi e riabilitativi, derivati dalle scuole diSchopler e di Lovaas ed ora adottati dal piano di inter-vento della Regione Marche, che possono dare risultaticonsiderevoli in una buona percentuale di autistici, mache non vengono applicati per resistenze ideologiche eper mancanza di competenze da parte del Servizio sa-nitario nazionale e della scuola. Pur nella generalizzatainsufficienza di assistenza valida e qualificata, anche inItalia ci sono da tempo servizi di eccellenza riabilitativanel pubblico e nel privato convenzionato che merite-rebbero di essere conosciuti e imitati.Dopo il 2003 quattro Regioni (Sicilia, Campania, Emi-lia Romagna e Abruzzo) hanno ufficialmente emanatobuone linee guida per l’autismo. Esistono anche com-petenze importanti nella ricerca delle cause biologichedell’autismo, che andrebbero supportate con ben altrimezzi finanziari. Soltanto una ricerca fatta coi mezzi dis-ponibili nel terzo millennio da persone competenti eben finanziate può dare speranze motivate e non falseillusioni a chi soffre di autismo e a chi gli sta vicino.

*docente di Programmazione e organizzazione dei ser-vizi sociali e sanitari, Università di Modena e ReggioEmilia

TERAPIE CHE FANNO CRESCERE GRANDI SPERANZE, MA CHE NON REGGONO ALLE SPERIMENTAZIONI SCIENTIFICHE. LA STORIA DI QUESTA PATOLOGIA È PURTROPPO COSTELLATA DI FALLIMENTI E ANCHE DI QUALCHE ENTUSIASMO

UN PO’ TROPPO FACILE (O INTERESSATO)

Maggiori informazioni si possono ricevere consultan-do il sito www.angsaonlus.org e il Bollettino dell’Angsa.In particolare consigliamo di accedere al sitowww.autismoededucazione.org dove sarà possibileseguire il convegno internazionale del 18 novem-bre 2005 su Autismo ed educazione, che si svolgerà aBologna organizzato da Angsa Emilia Romagna eFondazione Augusta Pini e ospizi marini Onlus. Un buon libro per avvicinarsi a queste tematiche èAutismo: che fare? Orientarsi tra le teorie e gli interven-ti, a cura di R. Cavagnola, P. Moderato, M. Leoni, conscritti di G.M. Arduino, C. Hanau, D. Mariani Cera-ti, E. Micheli, D. Vivanti. Gussago (Bs), edito nei me-si scorsi da Vannini (in vendita a 7 euro).Inoltre molte Regioni hanno deliberato proprie li-

nee guida sull’autismo. Fra queste vedi ad esempioquelle dell’Emilia Romagna, nel Dossier n.103, sca-ricabile dal sito:www.regione.emilia-romagna.it/agenziasan/coll-doss/index.htmLe associazioni che riuniscono i genitori di perso-ne con autismo sono contattabili attraverso i siti in-ternet:www.autismeurope.orgwww.angsaonlus.orgwww.autismoitalia.orgInfine, il Bollettino dell’Angsa, bimestrale, è otteni-bile chiedendo a [email protected] nazionale genitori soggetti autistici,via Casal Bruciato 13, 00159 Roma

Per saperne DI PIÙ

Autismo: QUALI SPERANZE?

CDI CARLO HANAU*

Ancora oggi, non potendoci riferire alle cause,nella maggior parte dei casi ignote, l’autismo vie-ne definito in base a comportamenti osservabi-li, descritti in due manuali statunitensi, ICD 10 eDSM-IV. Entrambi i sistemi di classificazione ri-calcano ancora la prima descrizione avanzata daLeo Kanner nel 1943. Riportiamo quella ripresadal DSM-IV:Definiamo “autismo” un insieme di alterazioni quali-tative nelle aree del funzionamento sociale, della co-municazione e del comportamento. Il gruppo di dis-abilità più ampio di cui l’autismo fa parte viene de-nominato anche con le seguenti espressioni equiva-lenti: disturbi dello spettro autistico, disturbi genera-lizzati dello sviluppo, disturbi pervasivi dello sviluppo.

Cos’è L’AUTISMO