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Q uindici Anno I - numero 7 del 30 ottobre 2013 Supplemento quindicinale de La Stefani - agenzia di informazione della Scuola superiore di giornalismo di Bologna Calcio giovanile, la fabbrica delle disillusioni Writer fra arte e imbratto Rifugiati in Purgatorio Coworking, l’ufficio condiviso Un pezzo d’Italia nel nobel per la pace

Quindici - 7° Numero

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Quindicinale di approfondimento della scuola di giornalismo di Bologna

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QuindiciAnno I - numero 7 del 30 ottobre 2013

Supplemento quindicinale de �La Stefani� - agenzia di informazione della Scuola superiore di giornalismo di Bologna

Calcio giovanile, la fabbrica delle disillusioni

Writer fra arte e imbratto

Rifugiati in Purgatorio

Coworking, l’ufficio condiviso

Un pezzo d’Italia nel nobel per la pace

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In questo numero

DirettoreresponsabileGiorgio Gazzotti

Edizione a cura diSergio Gessi

In redazioneGiulia DalmonteSilvia De SantisCarla FalzoneAlice MagnaniGerardo MuolloRiccardo RimondiAngelo RussoSirio TesoriEmiliano Trovati

La Stefani- via T. Martelli22/2440136 Bologna (BO)tel 051 2091969fax 051 [email protected] registrata di pro-prietàdell’Ordine dei giornalistidell’Emilia-RomagnaRegistrazione al TribunalediBologna n.5934 del 28/12/1990

3- Fiera, la grande fuga6- Viaggio nel purgatorio dei rifugiati10- Un po’ d’Italia nel Nobel per la pace12- Coworking, la nuova frontiera del lavoro15- Writer fra arte e imbratto18- Squadre anti-graffiti da Natale in città20- Maledetta Primavera23- La pagina dei come e dei perché24- Controcopertina

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ologna, 1976. James Hunt e NikiLauda, dopo essersele date di santaragione sui circuiti di Formula 1 nelcorso di una stagione che prima en-trerà nella storia e poi nei cinema, sipresentano alla Fiera di Bologna. Ma-rio Zodiaco, giovane imprenditore diLizzano in Belvedere, ha appena datovita a un nuovo salone dell’auto. Unevento diverso da quelli già esistenti,irriverente, rivolto al grande pubblicoe ricco di esibizioni. Il suo nome, chenon cambierà mai più e sarà conosciu-to in tutto il mondo, è già un program-ma: Motor Show.Bologna, 8 ottobre 2013. Dalla Fran-cia arriva una notizia che gela gli ap-

passionati di motori: la trentottesimaedizione del Motor Show è stata an-nullata. L’annuncio viene dato sullapagina Facebook della manifestazio-ne. La motivazione di Gl Events, lasocietà che nel 2007 è subentrata albolognese Alfredo Cazzola nell’orga-nizzazione, sta “nella totale assenzadelle case automobilistiche, fulcro diun salone dell’automobile”. La crisieconomica, che ha dimezzato il nume-ro di immatricolazioni nel giro di solisei anni, non perdona nessuno. Nem-meno uno degli appuntamenti bolo-gnesi più attesi dell’anno. Nel mondodei motori, infatti, come in tutti i setto-ri, quando i soldi scarseggiano, la pri-ma cosa che si taglia è il marketing, lapubblicità. Con la cancellazione di unodei fiori all’occhiello di BolognaFiere,si aprono le polemiche e le accuse diresponsabilità. Gl Events chiede di ri-dimensionare l’evento, riducendo lospazio minimo di esposizione garanti-to da 30mila metri quadrati a circa

10mila. Duccio Campagnoli, presiden-te di BolognaFiere, rifiuta di rinego-ziare il contratto, perché questo toglie-rebbe valore al marchio. Irritato dallostop improvviso, propone di parlarepersonalmente con le case automobi-listiche.Il caso Motor Show esplode ora, male avvisaglie della crisi c’erano già daanni. Gl Events ha organizzato la ma-nifestazione sei volte: nel 2007 i visi-tatori erano oltre 1,1 milioni. Nel 2012la kermesse, che è durata solo 5 gior-ni, ha attirato appena 450mila perso-ne. Una contrazione, per usare un eu-femismo, del 60%. Nulla, però, rispet-to al crollo verticale del fatturato, cheè passato in un lustro da 22 milioni dieuro a 3,2. E già l’anno scorso, 21 caseautomobilistiche su 33 avevano diser-tato il Motor Show.La cancellazione dell’evento è diven-tata anche un caso politico: Regione,Provincia e Comune possiedono, in-sieme, quasi un terzo della Fiera. E,

La grande fuga

L’annullamento del Motor Show è solo la punta dell’icebergIl secondo polo fieristico italiano è in crisi da anniGli espositori danno forfait, gli alberghi si svuotanoE decine di lavoratori rimangono a piedi

Riccardo RimondiSirio Tesori

B

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come fa notare Graziano Prantoni, as-sessore provinciale al turismo e alleattività produttive, lo stop al MotorShow non è una bella notizia per il ter-ritorio: «Il problema è soprattutto diimmagine, perché se gli eventi fieristi-ci calano questo non aiuta a promuo-vere il brand di una città nel Paese».Il problema non può dirsi limitato allakermesse motoristica. Se Atene pian-ge, Sparta non ride. A ben vedere ètutto il mercato fieristico a soffrire. IlSaie (Salone dell’innovazione edilizia),un altro degli eventi più attesi all’in-terno del programma fieristico, nel2007 aveva quasi 180mila visitatoriprofessionali e oltre 1700 espositori.Quest’anno, gli espositori erano 800e i visitatori poco meno di 85mila. E illato tragico è che, dopo i numeri an-cora più deludenti degli anni scorsi,questa è stata battezzata come “l’edi-zione dei record”, anche perché rac-coglieva, in un’unica formula, quattrosaloni. Il numero annuale di esposito-ri era arrivato a 22208 nel 2005, primadi una brusca inversione di tendenzache ha portato il numero a 13582. An-che i dipendenti della Fiera è calato:se mediamente erano 307 nel 2006, nel2011 erano scesi a 261. A questi nu-meri, si aggiunge quella fabbrica didebiti che è il parcheggio di via Mi-chelino: solo nel 2012, ha perso tremilioni di euro.Dante Stefani, ex presidente della Fie-ra negli anni ’90, ha le idee chiare: «Ilcalo è dovuto soprattutto alla situa-zione economica. Le fiere sono eventicommerciali che si basano sull’incon-tro fra domanda e offerta, ed è chiaroche, se entrambe calano, il settore fie-ristico ne risente». Non è questa, però,

l’unica ragione delle difficoltà. «Quan-do ero presidente io – continua Stefa-ni– e la Fiera stava attraversando unperiodo di forte crescita, la Fiera di Mi-lano era in crisi. Questo fattore ci aiutòmolto».La crisi di via Michelino, però, non ri-guarda solo gli stand. Colpisce tutta laprovincia, che da decenni vive dell’in-dotto generato dalle manifestazioni fie-ristiche. In questo territorio, infatti, ilturismo è stato per anni indissolubil-mente legato agli eventi della Fiera. Eraun turismo “business”, composto prin-cipalmente da espositori e visitatori pro-fessionali che a Bologna ci venivanoper lavoro. Cristina Giglio è capo-rice-vimento al Novotel, un quattro stellealle porte di Bologna, che chiuderà pocoprima di Natale, lasciando a piedi unatrentina di persone: «Noi abbiamo con-venzioni con gli espositori, sette su die-

ci tra i nostri clienti vengono per lefiere. Quest’anno non sta andandomalissimo, ma rispetto a cinque annifa il calo si aggira sul 30-35%». An-che i piccoli alberghi se la passanomale, come racconta Luca D’Ambro-sio. La sua famiglia gestisce l’HotelGarisenda, un due stelle, l’albergopiù centrale di Bologna: «I piccolialbergatori del centro, oggi, vivonodelle Fiere. Gli ultimi anni, e in parti-colare il 2011, sono stati molto diffi-cili. Il Motor Show era già morto daanni, ma la verità è che di fatto lefiere più importanti, a Bologna, nonci sono più».«La Fiera è indubbiamente un vola-no importante, porta a Bologna gran-di numeri – conferma l’assessorePrantoni – Il turismo business è infase di restringimento perché le im-prese sono in difficoltà e, quindi, lacapacità di spesa è minore. Fortuna-tamente siamo in una fase in cui ilturismo ricreativo è in crescita a talpunto da compensare, almeno sottoil profilo numerico, il calo della Fie-ra». Luca la pensa diversamente:«Quello che so è che, se nel 2014non ci fosse la Fiera, noi dovremmochiudere».Anche i ristoranti hanno molto daperdere con le fiere in difficoltà.L’osteria San Sisto, che si trova apoca distanza dal distretto fieristico,è uno dei punti di riferimento dei pro-fessionisti che vengono a Bolognaper trovarsi all’ombra delle torri diKenzo. La titolare lamenta il calo eaddossa le responsabilità anche aglialbergatori, che in periodo di espo-sizioni «alzano i prezzi delle camereda 90 a 240 euro. Alcuni miei clientivanno a dormire a Castel San PietroTerme, per risparmiare. È ovvio checon un sistema del genere noi finia-mo per essere penalizzati».L’indotto, tuttavia, non è solo lega-to al mondo del turismo: anzi, i primia notare – e a soffrire – la contrazio-ne sono quelli che le fiere le allesti-

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scono. È il caso di Simone Cesari, tito-lare di Arredart, una delle tante impre-se bolognesi che si occupa di allesti-menti fieristici. Quando un brand de-cide di partecipare a una kermesse –sia esso una casa automobilistica piut-tosto che una società di prodotti bio-logici – entrano in gioco aziende comela sua, che allestisce lo stand. AncheSimone conferma il trend: meno 30 percento negli ultimi cinque anni. La suaazienda, negli anni ruggenti del Mo-tor Show, montava l’installazione perRoxy Bar e per Quattroruote. Ora chel’edizione è stata annullata, si ritrova

scoperto nei mesi invernali. «Stiamorimanendo in pochi» - afferma - «l’uni-ca soluzione ormai è puntare all’este-ro, soprattutto in Germania. Chi nonsi sbriga rimane tagliato fuori». L’im-presa di Simone ha circa trenta dipen-denti, e collabora con altri 15 artigianiquando ci sono i periodi di picco. Al-tre aziende, anche più grandi della sua,hanno dovuto chiudere o ridimensio-nare gli organici.Il caso più clamoroso è quello delGruppo Sabatini, forse la sintesi per-fetta di quello che sta succedendo aBologna. Lungi dall’essere una pic-cola realtà - svolge sia attività di alle-stimento che organizzazione di eventi- ha deciso di licenziare 24 dipendentisu 42 per “contrazione del mercato fie-ristico”. Un bello smacco per il patronClaudio Sabatini: a Bologna è cono-sciuto soprattutto per avere rilevatola Virtus Pallacanestro dopo il falli-mento del 200. Nel corso degli anni ilgruppo Sabatini ha spesso organizza-to manifestazioni fieristiche, tra le più

importanti sulla scena bolognese enon: l’esempio è il Futurshow, che sisvolse per la prima volta a Bolognanella primavera del 1996. Il caso havoluto che l’annuncio sia arrivato soloalcuni giorni dopo quel laconico mes-saggio che annunciava la cancellazio-ne della trentottesima edizione delMotor Show.Come si esce da una crisi di questedimensioni? Le opinioni e le idee sonodiverse. Secondo Luca, «bisognereb-be cercare di avere più visibilità inter-nazionale e puntare di più sui grandieventi. Non a caso, il nostro anno mi-

gliore fu il 2000, quando Bologna eracittà europea della cultura». Prantonipunta sul territorio: «Dobbiamo met-tere in campo iniziative di qualità cheabbiano una loro specificità: se tuttele Fiere organizzano gli stessi eventi,noi perdiamo attrattiva. Speriamo an-che in una maggiore partecipazionedelle imprese, e per questo è impor-tante che arrivino segnali positivi diripresa economica».Su questo punto, però, le istituzionisembrano più concentrate sul proget-to Fico, la fiera dell’agroalimentare, la“Disneyworld del cibo” voluta dalpatron di Eataly Oscar Farinetti. «Èun grandissimo progetto – affermaPrantoni – che si collega al tema del-l’identità gastronomica, agricola eagroalimentare. Si basa sulla nostraidentità e sulla nostra storia. Sonoquesti i temi che incontrano attenzio-ne dal punto di vista dei visitatori,perché sempre più gente si muove allaricerca dell’identità e della specifici-tà». Dante Stefani, invece, guarda al-

l’estero: «Già più di vent’anni fa ave-vamo capito l’importanza che potevaavere portare la fiera fuori dai confinidi Bologna. All’inizio degli anni No-vanta – racconta orgoglioso l’ex as-sessore regionale e parlamentare Pci–avevamo portato il Cosmoprof inCina e Lineapelle a Mosca. Sono que-ste le cose che salvano la Fiera. Perrilanciarsi, infatti, bisogna affacciarsianche sui mercati che non sono in cri-si. Credo che Campagnoli stia lavo-rando molto bene su questo punto,considerando la situazione attuale ele risorse che ha a disposizione. Non

sono così sicuro che l’abbiano fatto isuoi due predecessori (Luca Corderodi Montezemolo e Fabio Roversi Mo-naco, ndr). In passato, sono state fat-te scelte sbagliate». È una crisi, quelladella Fiera, che preoccupa un’interacittà. I soldi e i posti di lavoro in gio-co, come si è visto, sono ben superio-ri a quelli mossi direttamente daglieventi organizzati in viale Aldo Moro.«Quand’ero presidente io – ricorda no-stalgico Stefani – l’uscita della tangen-ziale non era ancora stata costruita, ela situazione per la viabilità era più dif-ficile di oggi. Ci furono, a fine anniNovanta, un po’ di polemiche: molti silamentavano perché la Fiera portavatraffico e disagi. Noi scrivemmo undepliant, in cui pubblicavamo unostudio che spiegava come sarebbe sta-ta Bologna senza di essa. Secondo inostri dati, la sua scomparsa avrebbeprovocato una ricaduta economicasulla città pari a 14,5 volte il bilanciodella Fiera. Questa era l’azienda chedava più lavoro di tutte in città».

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emergenza rifugiati non lambiscesolo le coste di Lampedusa. A Bolo-gna, per esempio, oltre duecento esu-li della Primavera Araba del 2011, siarrabattano da due anni occupandovecchie scuole, divenute l’ultimo lidoper chi non ha trovato posto nei cen-tri d’accoglienza.«Voglio solo trovare un lavoro. In que-sti mesi sono venuti in molti a intervi-starci, filmarci, scrivere di noi. Ma noncambia mai nulla». John ha ventiseianni ed è un rifugiato politico. Le ulti-me immagini berbere che porta con sésono quelle della Libia. Alle vecchiescuole elementari Merlani è un giornod’ottobre inoltrato, che il sole pomeri-diano sottrae ancora all’uggiosa mo-notonia dell’autunno. Ma la monoto-

nia qui non conosce stagioni, è dicasa. Si misura nella transumanza deigiornalisti a caccia di storie e nel pas-so lento dei giorni che si ripetono,vuoti e ciechi, da quel fortunoso ap-prodo nel 2011 in una terra sognata,in fuga da un’Iliade crudele.Due anni di purgatorio tra impasseburocratici e ricorsi per un riconosci-mento giuridico – quello di rifugiatopolitico – che li salvi dalla clandesti-nità non sempre valgono l’ascesa alParadiso a chi è riuscito a varcare leporte d’Europa senza annegare nelmare Nostrum. Il tempo d’attesa peravere un primo esito alla richiestad’asilo presentata in Questura è di duemesi, secondo la legge. Almeno ottosecondo la prassi, escludendo even-

tuali ricorsi, che pure rientrano inun’ordinarietà tutta italiana. E anchequando viene ottenuto, il riconosci-mento di protezione internazionalenon basta a ricostruirsi una vita in unPaese vessato dalla crisi, in cui il la-voro è diventato un privilegio. È unadelega in bianco per chi riesce a usu-fruire, seppur per un breve periodo,degli aiuti offerti dai progetti naziona-li per l’immigrazione e l’integrazione.Si rivela spesso un biglietto scadutoper chi, disorientato nel dedalo dellaburocrazia italiana o troppo “fortuna-to” nella miseria e nella disperazioneper potervi accedere, non riesce a in-tercettare la rete dei servizi, abbando-nato alla strada e alla sua sorte.Nel 2011 John è tra gli esuli della

Dalle ex Merlani alle scuole FerrariViaggio nel “Purgatorio” dei rifugiatiMessi in strada alla fine del piano Emergenza Nordafrica erimasti fuori dai centri d’accoglienza. A due anni dall’arrivo aBologna, ecco dove vivono alcuni dei duecento migranti chehanno chiesto asilo politico. In attesa di un lavoro.E di un futuro che non parte.

Silvia De Santis

L’

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Primavera Araba, cacciati a forza dirastrellamenti casa per casa dalle mili-zie filogovernative di Gheddafi. La suanuova vita nel Belpaese inizia con losbarco a Lampedusa e continua con iltrasferimento in aereo a Bologna, nel-l’ex caserma dei Prati di Caprara, ge-stita dalla Croce Rossa per conto del-la Protezione civile nel quadro del-l’Emergenza Nordafrica.La feroce repressione del rais durantela rivoluzione libica del 17 febbraioaveva riversato sulle coste italiane28.000 profughi, spingendo il ministe-ro dell’Interno a coordinarsi con laProtezione civile e gli enti locali perfar fronte all’inaspettata migrazione.Fu stanziato un miliardo di euro perun piano d’accoglienza durato finoallo scorso dicembre. «Poi ci hannodetto che dovevamo andare via. Milleeuro in mano e ci hanno messi allaporta» racconta John, sguardo fissoe giacca di jeans chiusa fino all’ultimobottone.

È l’origine della diaspora di centodie-ci persone, congedate a fondi esauri-ti, senza una prospettiva e con pocoitaliano da masticare, il 31 marzo 2012.Nelle strutture pubbliche – come quel-le del progetto Sprar, il Sistema di pro-tezione per chi richiede asilo politicoo l’ha già ottenuto – non c’è postoper tutti, neanche a emergenza con-clusa.«Dall’inizio dell’anno ad oggi, su 285richieste di accoglienza pervenute ainostri sportelli, siamo stati in grado dirispondere solo a 77» afferma Anto-nio Maura, coordinatore dello SprarEmilia Romagna. Questo vuol dire cheil 73% di coloro che, in gravi situazio-ni di difficoltà, spesso figli della guer-ra o sopravvissuti a torture, chiedonoassistenza per rimettere in moto la pro-pria vita e poter nascere una secondavolta, sono destinati al «circuito diassociazioni di volontariato, come laCaritas o l’Antoniano, o a centri “peril disagio adulto”». Il che porta spes-so a misconoscere la reale condizionedel migrante, finendo per accostarloin maniera semplicistica, a persone conaltri tipi di difficoltà, come i senzatet-to.Ma alcuni, come John, hanno trovatoposto a Bologna alle ex scuole elemen-tari Merlani di via Siepelunga, unapalazzina rossa su un vialetto che davia Murri si inerpica fino a MonteDonato, imbiancata e rimessa a nuo-vo da chi ci vive dentro. Di proprietàdel Comune, i locali sono stati affidatia luglio per un anno ad un gruppo dicinquantuno immigrati costituitisi perl’occasione nell’associazione “Free-

dom and Justice”.«La possibilità chesi è aperta con lescuole Merlani, difare un tavolo conl’amministrazionecomunale, capitauna volta su cen-to» afferma convin-ta Maria Elena Sca-variello, responsa-bile dello sportelloimmigrazione delsindacato AsiaUsb, che insieme adaltre associazionidel panorama bolo-gnese (tra cui Tpo,Yabasta, PrimaveraUrbana) ha contribuito al successodella trattativa.Tre piani del palazzo, per cinquantu-no posti letto, sono concessi in auto-gestione a titolo gratuito; le uten-zeinvece sono a carico degli abitantidella casa, che le pagano attraversoaperitivi e cene sociali di autofinan-zia-mento sotto la regia degli altri sog-getti impegnati nella causa. Arginatotemporaneamente il problema di untetto sotto cui trovare riparo, restaquello dell’assenza di lavoro, di fron-te al quale tutti i sogni di riscatto so-ciale diventano di carta e l’esistenzasi trasforma in un’estenuante attesadi Godot. Questo aspettare, tuttavia,non ha nulla di miracolista. È un im-mobilismo forzato e forzoso, che nonlascia spazio alla commiserazione inquesti uomini parcheggiati da oltredue anni in un Paese non all’altezzadelle loro aspettative. Lo si capiscedai modi fieri di John. Mostra com-prensione verso i compagni che, di-sillusi e restii a parlare, ignorano lanostra presenza e tornano in cucina adedicarsi a venti cespi di insalata peril pranzo. Poi getta uno sguardo fuga-

ce alla cartina geografica che campeg-gia nella sala per gli ospiti, quasi unmemento per cinquantuno inquilinicostretti all’esodo dalle proprie origi-ni. E con piglio polemico ci chiede:«Cos’è importante nella vita di unuomo o di una donna?». Non attende

risposte: «Avere due soldi in tasca perpoter comprare un panino quando siha fame. E invece qui io non possopermettermi neanche questo. Sonobloccato in Italia da due anni senzaun’occupazione. Non faccio altro chedormire. Prima facevo il piastrellista,sono andato anche in Germania a cer-care fortuna ma mi hanno rispedito quiperché la legge mi impedisce di lavo-rare in un Paese diverso da quello incui ho richiesto asilo politico. È vitaquesta? Se potessi, tornerei in Libia.Lì puoi fare qualsiasi lavoro tu sia ingrado di fare».

È tutto qui il dramma dei “dublinanti”.Dietro un’espressione apparente-mente poetica si cela la condizione ditotale impotenza di asilanti e rifugiati,per i quali diventa impossibile ridise-gnare il proprio futuro in Paesi diversida quello in cui hanno trovato prima

accoglienza. E che,piuttosto che re-stare a galleggiarenel Belpaese, pre-ferirebbero far ritor-no all’inferno da cuisono scappati.Il viaggio dal Suddell’ Europa - dal-l’Italia ad esempio- sempre più vistocome area di tran-sito verso l’ambitoNord che offre con-dizioni di vita mi-gliori, è spesso in-terrotto da un rego-lamento europeo

sulla cooperazione in materia di immi-grazione internazionale - il regolamen-to di Dublino II del 2003. Quest’ulti-mo, oltre a consentire la transitorietànell’area Schengen di chi ha ottenutoun riconoscimento di asilo politico,stabilisce che il primo Stato

“Su 285 rifugiati,solo 77 trovano posto incentri l’accoglienza”

L’ex palestra, ora sala comune, alle scuoleelementari occupate S. Ferrari

“E’ vita questa?Se potessi tornereiin Libia”

Cortile delle ex-scuole elementari Merlani

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in cui l’immigrato arriva è titolare e re-sponsabile della sua protezione. Vin-cola così asilanti e rifugiati a restaresul territorio del primo Paese d’Euro-pa di cui varcano la frontiera.«È proprio questo l’enorme problemairrisolto di oggi» spiega AntonioMaura, coordinatore del progettoSprar dell’Emilia Romagna.

«Bisognerebbe ridefinire Dublino II inbase alle “quote di sostenibilità” dirichieste Paese per Paese. Spagna, Ita-lia e Grecia sono i varchi attraversocui arriva l’immigrazione. Tuttavia laGrecia è stata dichiarata Paese nonaffidabile in merito alla legislazione suirichiedenti protezione internazionali.Infatti i dublinanti che transitano inEuropa non vengono rispediti in Gre-cia. La Spagna è in una situazioneambigua: di tanto in tanto si senteparlare di cannonate sparate nel Me-diterraneo per colpire i barconi. Restal’Italia, che si trova oggi ad operarecon mezzi insufficienti e spesso ana-cronistici rispetto alle sfide che è chia-mata ad affrontare».Pur essendo geograficamente prote-sa verso i due continenti “di migrazio-ne” che più si spostano in questi anni- Asia e Africa - l’Italia è al sesto po-sto «per numero di ingressi all’anno eper richieste di protezione internazio-nale, dopo Francia, Svezia, Gran Bre-tagna e Belgio, che raggruppano piùdel 70% di tutte le richieste d’asilo dei27 Paesi europei». Per una sorta disudditanza ancestrale o per indisso-lubile legame filiale, gli immigrati delleex colonie tendono a raggiungere lamadrepatria, e lo fanno in aereo. «InItalia arrivano in maggioranza nigeria-ni, eritrei, somali. Nell’80% dei casi sitratta di arrivi con visto turisticoche si trasformano poi in richiested’asilo politico» continua Maura.«Solo il 15% dei migranti arriva at-traverso varchi marittimi. Di que-sti, il 5% - in questo particolare fran-gente storico - proviene da Lampe-dusa. Negli ultimi sei mesi abbiamocontato, nei centri Sprar, quasi tre-mila richieste. Le rotte, comunque,sono le più misteriose. Due anni fauna famiglia della Mongolia è arri-vata a Bologna attraversando mez-za Europa in auto senza che fossemai intercettata a nessuna frontie-ra».Pur essendo un palliativo all’emor-ra-gia di migranti avutasi con la chiusuradelle strutture d’accoglienza del-l’Emergenza Nordafrica, le ex scuoleMerlani «non sono state in grado diaccogliere tutti i migranti sotto sfrat-

Esterno delle ex scuole elemenatari Ferrari occupate

“L’Italia è al sesto posto in Europa per richiested’asilo”

Scritte sulle pareti nelle ex scuoleFerrari occupate

to.Per questo una ventina di rifugiatisono confluiti qui, alle ex scuole ele-mentari Severino Ferrari, e ne aspet-tiamo ancora altri, quelli che sono an-dati via da Bologna ma che sarannocostretti a tornare per il rinnovo deipermessi di soggiorno» racconta Ma-ria Elena, che ci fa da Virgilio nello sta-bile occupato di via Toscana. L’edifi-cio, di proprietà di banca Carisbo, èinutilizzato da almeno due anni, daquando è stata costruita, nelle vici-nanze, la linea dell’Alta Velocità e lascuola è stata chiusa perché il livellodel rumore ambientale era superiore alconsentito. «Prima di occupare, abbia-mo proposto una mediazione alla pro-prietà, ma ci hanno chiuso tutte leporte. È quasi sempre cosi, soprattut-to quando l’amministrazione comuna-le non si assume la responsabilità diforzare determinate trattative».«Solidarietà alla rivolta di Mineo» silegge su uno striscione appeso allafacciata. Reca la firma «Freedom andJustice», il gruppo dei migranti delle

Merlani. L’esasperazione per una vitache non parte è un sentimento chemangia chilometri e accorcia le distan-ze, da Bologna a Catania. Nel cortiledella scuola un murales avverte: «Chi

semina sgomberi, raccoglie resisten-za». Ma la polizia durante questi seimesi di “assedio” non si è ancora fat-ta vedere. Se decidesse di farlo, nonavrebbe gioco facile. Gli studenti, imigranti, alcuni pensionati bolognesiche condividono insieme questo spa-zio nella convinzione che «la casa èun diritto» si sono organizzati per nonlasciarsi cogliere di sorpresa. «Biso-gna sempre stare all’erta» spiega unragazzo, costretto a trasferirsi nellascuola perché da qualche mese nonha più un lavoro, «ma è improbabileche ci caccino con l’arrivo dell’inver-no, quando ci sarà l’emergenza fred-do».

Intanto, la proprietà continua a paga-re le bollette; luce e gas, infatti, eranogià in funzione prima dell’occupazio-ne e non sono state staccate.

La scuola Ferra-ri è un enormeostello dellagioventù senzaletti a castello.Nelle aule, spa-ziose, ci sonomaterassi perterra e mobiliodozzinale, manon manca nul-la del necessa-rio.«Qui dentroognuno con-duce la vita chevuole. Noi di

Asia crediamo fermamente che l’inte-grazione del migrante nel tessuto so-ciale passi anche per la sua responsa-bilizzazione. In questo senso dovercucinare, rifare

“L’80% dei migrantiarriva in aereo,solo il 15% via mare”

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Rifugiati: 66 posti a BolognaMa dal 2014 raddoppieranno

Poco importa se per motivi di razza, religione, nazionalità, opinionipolitiche: i rifugiati sono cittadini stranieri perseguitati nel proprio Pa-ese di origine, che richiedono la protezione internazionale allo Statoin cui cercano riparo. In Italia il progetto nazionale che si occupa dioffrire loro accoglienza e favorirne l’inserimento sociale è il sistema diprotezione per richiedenti asilo e rifugiati, lo Sprar, gestito dal ministe-ro degli Interni in coordinamento con una rete di centotrenta enti loca-li.Il Comune di Bologna ha dato il suo contributo aprendo lo Sportelloprotezioni internazionali – primo faro per chi intende fare domanda diasilo politico – e pagando le utenze delle quattro strutture riservate airichiedenti protezione o a chi l’ha già ottenuta, per un totale di 66posti che dal prossimo anno diventeranno 122. Questo vuol dire che icento migranti ospitati annualmente nelle sedi dello Sprar potrebberoraddoppiare. Ma la strada da percorrere è ancora lunga se si pensache ogni anno i richiedenti asilo sono almeno 20mila. Un tentativo,comunque, di smettere di lavorare sulle emergenze, pianificando ilpiù possibile. E proprio a partire da questo principio, prendono forma

le strutture dello Sprar.

La residenza sociale Santa Francesca Cabrini, per esempio, sorgealle porte della città di Bologna, al Lazzaretto. Dieci anni fa ci abitava-no stranieri lavoratori cui il Comune dava una mano concedendo affittia buon mercato. Oggi vivono qui trentadue beneficiari del progettoSprar. La campanella del passaggio a livello scandisce il tempo inquesta struttura rossa che ricorda vagamente una domus romana deigiorni nostri, con i suoi quattro appartamenti affacciati su un cortileinterno, protetti da un porticato. «Qui le persone autogestiscono laloro giornata. Hanno a disposizione ogni giorno un pocket money da

spendere, preparano i pasti in autonomia, si occupanodi tener pulita la casa, seguono corsi di italiano. Alcunilavorano grazie alle “borse lavoro”, che consentono lorodi svolgere tirocini presso aziende convenzionate» spie-ga Giacomo Rossi, coordinatore del centro. «Uno deipunti di forza di questa residenza è il ricrearsi, tra chivi abita, di un senso di comunità. Anche le personesegnate da esperienze traumatiche, con problemi asocializzare, riescono a ricostruire relazioni». Molti be-neficiari, una volta usciti dal progetto, restano in con-tatto con gli operatori, «come Omar, che una volta an-dato via di qui, ha lavorato come dipendente, poi haaperto una partita Iva e, alla fine, é riuscito a ottenere ilricongiungimento familiare per tutta la sua famiglia cheera rimasta in Somalia». Quello che lascia un po’ per-plessi è che questo pezzo di comunità viva lontano enascosto agli occhi della città.

Residenza Sprar Santa Francesca Cabrini

il letto, pulire la camera sono stimolifunzionali a normalizzare la sua vita ead aiutarlo nell’inserimento sociale.Qui non vige la logica assistenzialistadegli Sprar, che accudiscono i rifugia-ti trattandoli come ospiti. Qui ognunoè a casa propria ed è padrone dellasua vita». I cartelli, sparsi sui piani,che invitano ad autogestire la puliziaconfermano le parole di Maria Elena.In un corridoio, la scritta «Africa Uni-te! Primavera Araba II» raccoglie ilsenso di quest’esperienza collettivain via Toscana. Ce la indica un migran-te che è stato uno dei primi a spalan-care le porte di questa scuola ubicatain un quartiere «difficile, sicuramentenon popolare» - lo definisce MariaElena.Anche qui, come alle ex scuole Mer-lani, il vuoto di una vita senza lavorosi riempie con il sonno. Non quellodell’ozio, ma della disperazione.«L’unica cosa che vorresti fare è dor-mire tutto il giorno, ma io non mi ar-rendo, continuo a cercare. Tutte leagenzie del lavoro della città hanno ilmio nome. Ogni volta che ci passo, midicono: “Mohammed, torna più tar-di”. Così mi ritrovo ad andare in girosenza far nulla». Mohammed ha ven-tisei anni ed è originario della SierraLeone. Prima di arrivare in Italia, dueanni fa, lavorava in Libia. Nella guerradel 2011 ha perso un fratello e unasorella. Della madre invece non hapiù notizie da quando aveva quattor-dici anni. Con il deserto alle spalle, èin questo Paese che vuole rilanciare idadi: «Mi piace l’Italia, mi piaccionogli italiani. Condivido pure la vostracausa di far valere i propri diritti» dicerivolgendosi ai ragazzi di Asia, suoicompagni in quest’occupazione, «macosì la realtà non si cambia. Solo unlavoro può farlo, solo con un lavoropotrò permettermi una vera casa».Mohammed torna in stanza a studiareitaliano, la sua prima carta da giocare.Come sostiene il coordinatore Anto-nio Maura di Sprar, «queste personenon hanno un arco, ma una faretra dipotenzialità. L’economia ripartirà daqueste braccia, volenti o nolenti».

Murales all’esterno delle scuole Ferrari

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uando, tra un mese, nel munici-pio di Oslo verrà consegnato il Pre-mio Nobel per la pace, a ritirarlo cisarà anche un pezzetto di Italia.Fra i membri del comitato scientificodell’Opac, l’organizzazione che ha vin-to l’ultima edizione, c’è anche Ferruc-cio Trifirò, preside della facoltà di chi-mica industriale dell’Università di Bo-logna, l’unico rappresentante del no-stro Paese.L’avventura di Trifirò a L’Aja, doveha sede l’Organizzazione per la proi-bizione delle armi chimiche, è iniziatadue anni fa, quando è stato chiamatoa far parte dei 25 membri del comitato.Il suo compito è supportare il lavorodegli ispettori, inviati periodicamentea controllare che nessuno Stato si stiacreando un arsenale chimico. Il Comi-tato scientifico in pratica dà chiarimentiagli inviati su qualsiasi tipo di dubbiotecnologico o scientifico.Se negli ultimi mesi, ai tanti conflittigià esistenti non se ne è aggiunto unotra l’occidente e la Siria è anche grazieall’Opac. Probabilmente è proprio perquesto che il prestigioso riconosci-mento è arrivato quest’anno e non,

ad esempio, due annifa, quando, come rac-conta il professor Tri-firò, l’Accademia del-le Scienze di Bolognapropose l’Opac per ilNobel. I tempi non era-no ancora maturi e «cifu risposto che eratroppo presto perchébisognava aspettarela distruzione totaledelle armi chimiche».Un obiettivo che, seb-bene ancora non siastato raggiunto,appare oggi meno di-stante. E, nella valutazione dei giudi-ci, ha di certo pesato la considerazio-ne del conflitto sventato in Siria.Ma quanto dobbiamo aspettare perdire definitivamente addio alle armichimiche? Sicuramente qualche anno,ma siamo a buon punto. «L’Opac hadistrutto- spiega Ferruccio Trifirò- cir-ca l’80% dell’arsenale totale. Manca-no la Siria, che comunque ha accetta-to di smaltire le proprie armi, e le ulti-me scorte di Stati Uniti e Russia».Il processo di distruzione è molto com-plicato, perché costa tanto e, soprat-tutto, comporta molti rischi. Se duran-

te le operazioni per losmaltimento qualcosaandasse storto, le con-seguenze sarebberocatastrofiche. La pau-ra è tanta, così tantache ci sono cittadiniamericani che si op-pongono alla distruzio-ne delle armi chimicheperché temono il disa-stro. Così, si deve pro-cedere a piccoli passi.La situazione adessosembra migliorare e nonsolo perché Russia e

Stati Uniti vanno avanti nel loro pro-cesso di smaltimento, ma perché laSiria ha accettato di entrare a far partedell’Opac, rendendosi disponibile a di-struggere tutto il suo arsenale.Tra i 188 Paesi membri dell’Organizza-zione per la proibizione delle armi chi-miche mancano all’appello solo seiStati: Israele, Egitto, Corea del Nord,Sud Sudan, Myanmar e Angola.La speranza che l’elenco si assottigliè ancora esile. L’unica possibilità perTrifirò è che «l’ingresso della Siriaspinga Israele a fare lo stesso. FinchéSiria ed Egitto non erano disposti afirmare, Israele non si esponeva.Adesso che la situazione è cambiatac’è qualche speranza in più».La vittoria del Nobel non ha distrattogli osservatori dell’Opac dal loro la-voro di controllo nella terra del regimedi Assad. Dopo l’attacco di agosto,che ha provocato centinaia di mortitra i civili, le polemiche sulle respon-sabilità non sono mancate. Per qual-cuno il gas era stato usato dal regime,per altri, invece, dai ribelli. Per altri,ancora, le armi chimiche non furononemmeno usate, ipotesi smentite peròdalle analisi effettuate dalla stessa or-ganizzazione. «È Paula Vanninen,membro finlandese del nostro comita-to scientifico, a sostenere questa tesi.

“Riconoscimento a chi ha evitato la guerra”Un po’ d’Italia nel Nobel per la pace

Il professor Trifirò lavora da due anni all’Opacl’organizzazione per la proibizionedelle armi chimiche premiata quest’anno«Abbiamo già distrutto l’80% dell’arsenale totalee adesso cominciamo ad eliminare quello siriano»

Giulia Dalmonte

Q

Ferruccio Trifiròmembro del comitato scientifico dell’Opac

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Lei ha notato che i soccorritori sonoarrivati sul posto senza maschera equesto, in caso di attacco chimico,sarebbe stato letale per loro. Le anali-si che abbiamo fatto comunque dico-no che sono stati usati quei gas».L’attacco e l’esistenza delle armi chi-miche sono insomma le uniche certez-ze che abbiamo su quel che è succes-so in Siria. Se le morti siano una re-sponsabilità di Assad o dei ribelli, in-vece, è ancora un mistero. Se sui re-sponsabili non si è fatta ancora luce,anche sulle modalità e i tempi di smal-timento degli arsenali resta il buio.«Facciamo fatica a finire di distrugge-re le armi chimiche di Russia e StatiUniti, che hanno esperti più compe-tenti e macchine più tecnologiche, fi-guriamoci in Siria», commenta l’unicomembro italiano del comitato scienti-fico.Dei costi economici probabilmente sene farà carico l’Onu. Tra l’altro si èscoperto che, tra le mille tonnellate diarsenale a disposizione del regime,non c’erano vere e proprie armi chimi-che, ma dei precursori, ovvero dellesostanze con cui è possibile otteneregas letali. Questo significa che il pro-cesso di distruzione potrà essere piùrapido e meno pericoloso, tant’è chesi parla di un solo anno necessarioper lo smaltimento totale.A dicembre, come ogni anno, ci saràla premiazione a Oslo. Ferruccio Trifi-rò non sa ancora se sarà presente, in-tanto si gode i complimenti dei suoistudenti ed ex laureati, che gli hannochiesto anche di organizzare una con-ferenza sulle attività dell’Opac.Il legame tra l’università di Bologna el’Organizzazione per la proibizionedelle armi chimiche esiste da moltianni. Prima di Trifirò, nel comitatoscientifico c’era un altro professoredi chimica dell’Unibo: Alberto Brec-cia della facoltà di farmacia, rimasto incarica per due mandati. Ma dell’Opacnon fanno parte solo gli Stati, ci sonoanche delle organizzazioni non gover-native. Tra queste, l’unica italiana èl’Accademia delle Scienze di Bologna,che partecipa da dieci anni a tutte leriunioni.L’Università di Bologna, inoltre, è sta-to l’unica al mondo a conferire la lau-rea honoris causa all’ex direttore ge-nerale dell’organizzazione, RogelioPfirter.Un rapporto stretto, insomma, quellotra la più antica università del mondooccidentale e il neo vincitore del No-bel, che inorgoglisce il professor Tri-firò. Come di orgoglio si può parlareper la vittoria del premio intitolato al-l’inventore della dinamite. «È statapremiata un’attività che in questi anninon ha avuto molto risalto, per que-sto mi fa molto piacere».

Ha sedici anni e il suo compito èlo stesso dal 1997, ma i riflettoresu di lei si sono accesi di recen-te.L’obiettivo dell’Opac è scritto nelsuo nome: Organizzazione per laproibizione delle armi chimiche.Un paio di mesi fa proprio i timorigenerati dall’arsenale chimico del-la Siria stavano facendo scoppia-re una guerra, ma l’intervento del-l’organizzazione ha fermato l’of-fensiva americana convincendo ilPaese governato da Bashar al-Assad a distruggere tutti i gas le-tali che, secondo gli oppositori,qualche giorno prima avevanocausato centinaia di morti.Probabilmente è stato proprioquesto intervento ad assegnarela vittoria del Premio Nobel per lapace agli uomini e alle donne chedal 1997 si battono per eliminaretutte le armi chimiche conserva-te nel mondo.L’Opac ha sede a L’Aja, in Olan-da, e ha il compito di far rispetta-re la Convenzione sulle armi chi-miche, firmata a Parigi nel 1993.In pratica, distruzio-ne di tutti i gas letalie impegno a non pro-durne di nuovi.L’Opac non fa partedell’Onu, ma dal2000 le due organiz-zazione collaboranoper l’eliminazione ditutte le armi chimi-che. Per ora, comeracconta l’Opac, nesono stati eliminatel’80% del totale.Al momento fannoparte dell’organizza-zione 188 Paesi, nemancano ancora sei:Angola, Myanmar,Sud Sudan, Israele,Egitto e Corea delNord.Essere membri dell’Opac signifi-ca accettare di eliminare tutte learmi chimiche all’interno del pro-prio Paese e impegnarsi a noncrearne di nuove.Gli ispettori che periodicamentevengono inviati negli Stati mem-bri a controllare l’assenza di armichimiche devono verificare anche

non vengano sfruttati i nuovi pas-si in avanti della scienza per pro-durre nuovi gas letali.Su tutti, la guida è il direttore ge-nerale, attualmente il turco AhmetUzumcu. Il corpo principale del-l’Opac, invece, è la Conferenzadei Paesi membri. A farne partesono tutti gli Stati firmatari dellaConvenzione. Come portavocedelle nazioni ci sono i rappresen-tanti permanenti, di solito imper-sonati dagli ambasciatori stranie-ri presenti nei Paesi Bassi.C’è poi il Consiglio esecutivo, dicui fanno parte 41 Paesi nomina-ti ogni due anni dalla Conferen-za.È nel Consiglio esecutivo che tro-viamo un primo pezzo d’Italia, chedetiene, infatti, la vice presiden-za con l’ambasciatore FrancescoAzzarello. Un altro rappresentan-te italiano fa parte, invece, delConsiglio scientifico, un ramo del-l’Opac che ha il compito di dareconsigli agli ispettori inviati nei di-versi Paesi firmatari. FerruccioTrifirò, professore e preside della

Obiettivo distruzionedelle armi chimicheEcco che cos’è l’Opac

La sede dell’Opac a L’Aja

facoltà di Chimica industriale diBologna, è entrato a far parte del-l’organizzazione neo vincitrice delNobel due anni fa e ci resterà finoal 2014. O fino al 2017, se gli ver-rà rinnovato il mandato.

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dell’accesso ad un ambiente lavo-rativo smart, contaminato e stimo-lante» - Alessandro, socio di “Ki-lowatt”.Ultimamente si parla sempre di piùdi coworking. Co-working, letteral-mente lavorare insieme.Fare coworking significa condividereun ambiente di lavoro, che spesso èun ufficio, mantenendo un’attivitàindipendente. Qualsiasi spazio dicoworking è generalmente compo-sto da un numero arbitrario di po-stazioni di lavoro, ognuna con il suotavolo, attacco per pc e connessio-ne a Internet, un’eventuale sala riu-nioni per ricevere ospiti e clienti. Iltutto è compreso nell’affitto che ilcoworker paga mensilmente, al gior-no o ad ora.

Ma come nasce il coworking? È sta-to Brad Neuberg, programmatore in-traprendente, ad aprire il primo spa-zio di coworking a San Francisco.Correva l’anno 2005 quando Neu-berg prese in affitto un locale lungoMinnesota Street, lo riempì di mobiliIkea e disse «ecco le postazioni, qui

c’è quello che occorreper un ufficio, chi vuolelo può affittare». Daquel momento ilcoworking si è diffusocon fortuna, dall’Ame-rica al Nord Europa finoin Italia.L’idea, oltre all’affitto diun ufficio, era avvicina-re persone che condivi-dono passione per l’in-novazione, oltre che perl’attività che svolgono.Alla base del coworkingc’è quindi un progetto di rete socia-le e non di profitto: quello che contasono le persone, i risultati economi-ci vengono poi di conseguenza.Lo stesso concetto di rete socialeviene definito anche da Andrea Bran-zi (architetto e designer) nel suo li-bro “Modernità debole e diffusa”come «correlazione tra persone chelavorano spalla a spalla pur non es-sendo dello stesso settore. Questacorrelazione porta all’ accrescimen-to di ogni utente: nascono collabo-razioni per nuovi business e tutti di-spensano micro-consulenze agli al-tri coworkers». Il sapere dei singoliviene quindi connesso per creare ilmaggior scambio possibile di idee e

conoscenzetramite comu-n i c a z i o n e ,condivisionee cooperazio-ne. Il coworkingassurge alruolo di unanuova realtàprofessionaleche comportan u m e r o s iv a n t a g g icome la flessi-bilità, l’auto-nomia impren-ditoriale, lacondivisione,il confronto e

lo scambio di knowhow tra impren-ditori che operano nel medesimo set-tore. Al contempo c’è la possibilitàdi avere un ufficio a un costo bas-sissimo smaltendo le incombenzeburocratiche, i costi di gestione e lamanutenzione. L’ambiente che sicrea è ricco e dinamico, accresce lasocialità fra coworkers con lo scam-bio di esperienze e conoscenze e,così facendo, favorisce la nascita diprogetti integrati.Lavorare in coworking comporta al-cuni sopportabili svantaggi come lamancanza di privacy, la mancanza disilenzio e maggiori distrazioni rispet-to ad un normale luogo di lavoro.Generalmente le persone attratte alavorare in coworking sono profes-sionisti che lavorano da casa, free-lance, startupper, giovani che nonpossono permettersi un ufficio opersone che viaggiano spesso perlavoro. Sono tutti professionisti chelavorano in modo indipendente mache condividono alcuni valori esono interessati alle sinergie che sipossono realizzare lavorando a con-tatto con colleghi di talento. O sem-plicemente sono persone che vo-gliono abbattere l’isolamento lavo-rativo, separare la vita lavorativa daquella privata, o ancora, che cerca-no un’alternativa al lavorare nei baro nelle biblioteche.Secondo un’indagine del quotidia-no “La Repubblica” del 2011 icoworkers sono per lo più program-

Coworking, la nuova frontiera del lavoroDalla comunicazione alla collaborazione

Si chiama coworking, è la nuova frontiera del lavoro. Unascrivania, uno spazio condiviso, tanta comunicazione e il giocoè fatto. Per molti una scelta obbligata. Ma anche una modalitàinnovativa che potrebbe risultare una strategia vincente percombattere la crisi.

Alice Magnani

oworking significa disporreC«

Postazioni coworkers di Work in Progress

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matori, grafici/web designer, consu-lenti, pr e marketing, dirigenti, giorna-listi, architetti e fotografi. Sempre se-condo lo stesso studio, l’età media deicoworkers va dai 30 ai 49 anni, secon-di i coworkers dai 20 ai 29 anni, gli altrihanno un’età media dai 40 ai 49 anni.Il coworking è già una realtà afferma-ta, tanto da essere regolamentato a li-vello giuridico-formativo. L’attività del

coworking deve infatti essere abbina-ta a determinati parametri e requisitiquali conformità alle normative di si-curezza negli spazi di lavoro, garanziadi ambienti con destinazione d’usoadeguata (uso ufficio), possibilitàdiuna polizza assicurativa contro furtoe infortuni, presenza di un contrattodi utilizzo di postazione.Dall’inizio del 2013, sulla scia della leg-ge attuativa delle Start up innovative,si è avuto in Italia un boom di nascitedi coworking.In questo periodo di crisi, in cui lesocietà riducono il personale e svuo-tano gli uffici, avere spazi disponibilidiventa quindi un’occasione per cre-are un coworking. Il coworking trasfor-ma gli uffici in bacini di creatività einnovazione, che possono diventareun utile strumento per combattere ladisoccupazione e facilitare l’iniziativaimprenditoriale.

La tecnologiaè parte integrante

A Bologna non mancano questi baci-ni di creatività, come “Work in pro-gress”, aperto dalla società Bam Stra-tegie al civico 45 di via Marconi. «Ilcoworking è un’occasione preziosaper riunire i professionisti dei lavoriflessibili, come quelli del lavoro cultu-rale». A parlare è Federico Borreani diBam Strategie, uno dei soci.Bam Strategie è una società che si oc-

cupa di progettazione e comunicazio-ne per il settore creativo, fa cioè lavo-ro di consulenza. «Prima lavoravamoin ufficio, poi abbiamo sentito la ne-cessità di uno spazio più grande e peraffrontare i costi abbiamo pensato acondividere l’ufficio. Il coworking siadatta molto bene alla nostra società,che si muove con forme di lavoro fles-sibili, specie tramite il lavoro freelan-ce».Qui ogni libero professionista può af-fittare la scrivania tramite un abbona-mento mensile. La decisione di inau-gurare una realtà di questo tipo è ser-vita per «creare qualcosa di nuovo -dice Borreani - le persone che abbia-mo scelto come coworker sono tuttefigure professionali interessanti». Almomento “Work in progress” puòvantare cinque coworkers fissi e an-cora un posto libero. L’intento è quel-lo di creare interessanti sinergie, è perquesto che al momento di scegliere ifuturi colleghi «ricerchiamo innanzi-tutto collaborazione tra di loro».“Work in progress” è uno spazio nuo-vo, luminoso, a metà strada dal centrodi Bologna e dalla stazione. È’ apertodal lunedì al venerdì dalle 8,30 alle19,30 e ogni coworkers possiede lechiavi per gestire indipendentementeil suo tempo. Lo spazio è compostodall’ufficio di Bam Strategie, una salariunioni, una zona centrale comunecon angolo ristoro e altre tre sezionicon scrivanie mobili suddivise da li-brerie.La tecnologia è parte integrante: peresempio si usano le prenotazioni onli-ne per riservare la sala riunioni e lasala centrale per proiezioni serali. Ognicoworker lavora individualmente,mentre il pranzo, consumato nella salariunioni, diventa spesso un momentodi condivisione.Fra i progetti già nati all’interno dellastruttura, il documento “Una RoadmapVerso la Sostenibilità” per il Museodella civiltà contadina di Bentivoglio(Bo) e la mappatura del Distretto dellamultimedialità dell’Emilia-Romagna, ilprogetto “Bononia 2200” sviluppatoinsieme al Museo Civico Archeologi-co e il format ”BreakfastPlanning” come spazio informale diconfronto professionale fra impre-se creative. Altre intraprese sono: ilworkshop internazionale in proget-tazione culturale ”Nuove Risorseper la Cultura e la gestione delnetwork di “Incredibol”, la rete delleprofessioni creative in Emilia-Roma-gna. Hanno curato anche la comu-nicazione 2.0 durante ”Artlab 11", ehanno supportato l’Urban Center diBologna nella costruzione di identi-tà e nel copywriting nella promozio-ne del nuovo piano di pedonalitàdella città di Bologna, ”Di nuovo incentro”.Fra i coworkers c’è anche FrancescaSanzo, che si occupa di comunicazio-

ne web e strategie social, insegna aprofessori ed aziende come utilizzareal meglio web e social media e tienecorsi sull’identità nei social media.Prima di iscriversi, Francesca lavora-va da casa e aveva bisogno di un po-sto dove fare riunioni, dove sperimen-tare networking, sviluppare collabo-razioni e conoscere altri professioni-sti.«Da quando lavoro qui, riesco a ge-stire la mia identità professionale e nelmentre intrattengo relazioni. Inoltre hoorari lavorativi più definiti e posso ge-stirmi il tempo come preferisco. Ilcoworking è una forma di lavoro checonsiglio perché è uno spazio di rela-zioni professionali e di gestione effi-cace e sostanziale del lavoro».

Un modo diverso di vedere l’economia

«Il coworking è condivisione di idee etecnologie, è vedere l’economia inmodo diverso. Significa darsi unamano condividendo esperienze». Aparlare questa volta è Vito Magliaro,uno dei soci creatori di “So Up”, alcivico 8 di via Amendola.Perché una società di information tec-nology crea uno spazio di coworking?«La nostra storia nasce tre anni fa conla ricerca di un locale più grande in cuilavorare - dice Vito - Ma solo ad apriledi quest’anno abbiamo partecipato albando del Comune di Bologna ‘Smartcities’. Fra i requisiti della nuova cittàsmart c’era la creazione di spazi dicoworking e il nostro progetto è arri-vato ventisettesimo fra i 33 che il Co-mune ha finanziato».Alla base di “So Up” c’è la creazionedi uno spazio nuovo, molto richiestoda freelance e consulenti che «voglio-no evitare di incontrare clienti in hotele bar- aggiunge Vito – oltre ad essereun luogo dove lavorare, il nostrocoworking diventa anche centro dicondivisione di esperienze». Un pre-gio di So Up è di essere molto vicinoalla stazione. «Abbiamo scelto una

Postazione Bam Strategie

Zona relax a So Up

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Tutti sono residenti a Bologna e lavo-rano dal lunedì al venerdì, quindi sfrut-tano lo spazio come un ufficio tradi-zionale.Al momento di scegliere un coworker«cerchiamo professionalità compati-bili con la mission dell’organizzazio-ne, in generale persone fortementecollaborative e tolleranti» dice Ales-sandro. Lavorare in coworking ha isuoi vantaggi e i suoi svantaggi, comequalsiasi forma di lavoro. Per Alessan-dro sono pochi gli svantaggi come lamancanza di riservatezza e qualche ru-more mentre i vantaggi sono numero-si «c’è abbattimento delle spese, sicrea una generazione di opportunitàdi business, c’è accesso ad una com

Il coworking in Regionetutti i prezzi da conoscereNella Regione Emilia-Romagna sono presenti undici spazi dicoworking, di cui otto a Bologna e tre in provincia di Modena. E’questa la stima riportata dal sito “Coworking For”, il primo motoredi ricerca italiano di spazi in coworking.La spesa media mensile per affittare una scrivania nella città delledue torri arriva ai 240 euro. I prezzi si intendono completi di tutti glioptional quali connessione internet, cucina, zona relax e tutte le

comodità che si possono ritrovare inquesti spazi. Il prezzo sale decisamen-te se si vuole affittare una scrivania inprovincia di Modena: la media mensilearriva infatti a 285 euro.Mentre per l’affitto a giornata si arriva aspendere 26 euro a Bologna e 37 euroin provincia di Modena. In alcuni spazi èpossibile prendere in affitto la scrivaniaanche ad ore per un costo medio di 6,75euro a Bologna e 5,6 euro a Modena.

collocazione che favorisse gli sposta-menti alle persone che lavorano in pro-vincia di Bologna» spiega Vito. Inol-tre è uno spazio collegato in manieratecnologica al mercato, dato che l’edi-ficio è cablato in fibra ottica(la formadi connessione Internet più veloceche esiste). «Tutto ciò che è comunicazione, quiè possibile farlo» dice Vito riferendosiall’episodio dell’inaugurazione dellanuova stazione di Bologna, quando igiornalisti si sono appoggiati a loroper sfruttare la velocità della fibra ot-tica nel mandare i primi video alle re-dazioni.Lo spazio è diviso in diverse aree: unasala riunioni, un bar e una sala d’atte-sa comune a tutti,ci sono poi tre ufficicon dieci postazioni e l’ufficio centra-le di So Up, la società creatrice. Allospazio non manca una zona relax alle-stita nel terrazzo, un posto dove farecomunicazione.Non ci sono criteri di scelta per icoworkers, «il nostro spazio è apertoa tutti» dice Vito.Le collaborazioni fra coworkers sonol’obiettivo finale a cui So Up tende.Sono già attivi diversi progetti fra icoworkers come una start-up che harilevato un’azienda di macchine elet-triche recentemente fallita a Imola e lacollaborazione della stessa So Up conl’agenzia di vendita di information tec-nology (loro coworker) a cui offronoformazione del personale. Al momen-to So up può contare su diversicoworkers: “Valentino fashion group”che si appoggia a loro per fare sele-zioni in video-conferenza, una ragaz-za ingeniere che cura le caratteristi-che foniche delle industrie, un’agen-zia di vendita di information tecnolo-gy, ragazze che si occupano di sele-zione di personale farmaceutico e unragazzo che si occupa della commer-cializzazione di prodotti di bellezza.

È proprio a quest’ultimo, FedericoLongobardi, che abbiamo chiestoun’opinione.Federico si occupa del commercio diprodotti professionali per parrucchie-ri e ha lavorato da casa finché, l’ago-sto scorso, è approdato a So Up. «Hoscelto il coworking perché posso ave-re un ufficio in zona centrale spenden-do un terzo rispetto i tradizionali affit-ti. È’ stato da subito come un ufficio‘chiavi in mano’». Federico sfrutta lasua postazione quattro giorni su set-te, gestendo al meglio il suo tempo.«Il grande aiuto è stato distaccare lavita privata da quella lavorativa» dice.E aggiunge «sto cercando collabora-zioni con gli altri coworkers ma ancoranon ho all’attivo nessun progetto».E il significato del coworking? «Per meil coworking è uno spazio lavorativodove condividere esperienze e, perchéno, anche frustrazioni della vita lavo-

rativa».

Un’altra realtà bolognese delcoworking è Kilowatt. Kilowatt nascead ottobre 2012 «per raccogliere nu-merosi professionisti che avevano bi-sogno di uno spazio per catalizzare leenergie progettuali del gruppo» a par-lare Alessandro, un socio dello spa-zio.Kilowatt offre ai coworkers 19 posta-zioni suddivise in due sale, oltre a unacucina e uno spazio relax comuni. Lospazio, aperto 24 ore su 24, è dotatoanche di una sala riunioni e di unapiccola corte esterna. I coworkers at-tualmente presenti sono architetti,designer di processi, social media ma-nager, registi ed esperti di sostenibili-tà.Tutti sono residenti a Bologna e la-vorano dal lunedì al venerdì, quindisfruttano lo spazio come un ufficiotradizionale. Al momento di scegliereun coworker «cerchiamo professiona-lità compatibili con la mission dell’or-ganizzazione, in genere persone for-temente collaborative e tolleranti»dice Alessandro. Lavorare incoworking hai suoi vantaggi e i suoisvantaggi, come qualsiasi forma dilavoro.Per Alessandro sono pochi gli svan-taggi come la mancanza di riservatez-za e qualche rumore mentre i vantag-gi sono numerosi «c’è abbattimentodelle spese, si crea una generazionedi opportunità di business, c’è acces-so ad una community organizzata e astrumenti e spazi condivisi» dice. «Per me coworking significa dispor-re dell’accesso ad un ambiente lavo-rativo smart, contaminato e stimolan-te» dice Alessandro. E aggiunge «lacollaborazione fra i vari coworkers èfondamentale, è il motivo per cui esi-stiamo. E’ collaborando che nasconoin continuazione nuovi progetti».Zona relax di So Up

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Dopo aver rilasciato un’intervi-sta al Corriere di Bologna la street ar-tist Alice Pasquini - in arte Alicè - èstata denunciata dalla procura di Bo-logna per imbrattamento. Non è ba-stata la leggerezza degli sguardi da leirappresentati nelle sue piccole pitturedi strada per addolcire la repressioneartistica: la legge è legge e sui murinon si scrive! “I volti sono pure belli,ma Procura e forze dell’ordine appli-cano solo le leggi in vigore e non pos-sono agire in base a valutazioni este-tiche”, ha dichiarato il procuratoreaggiunto di Bologna Valter Giovanni-ni in merito alla denuncia partita aidanni della pittrice. “Non spetta allaProcura stabilire cosa è arte e cosa nonlo è” tuona il procuratore che ha pre-so la decisione sulla base delle ricer-che fatte dal reparto sicurezza urbanae antidegrado della Polizia municipa-le. “Ciò che conta in questo genere diespressione - che sia artistica o no - èla configurabilità di un reato che ri-guarda il supporto: il reato c’è se unmuro o un portone o un altro elemen-to stradale viene imbrattato o danneg-giato”. Fine della storia.E le Procure italiane non sono nuovea questo tipo di azioni giudiziarie. Nelnovembre scorso fece scalpore il rea-to che il Tribunale di Milano contestòad un gruppo di giovanissimi writer:associazione a delinquere finalizzatoall’imbrattamento e al deturpamento.Un capo di imputazione che ha fattotremare artisti e graffitari di tutte le cit-tà visto il peso giudiziario della con-danna che considerava il gruppo allastregua di un’organizzazione crimina-le. L’episodio si concluse con l’am-missione del fatto da parte di un paio

degli “artisti vandali” che si interna-zionali. Hanno esposto nelle maggioricapitali europee e illustrato pareti dipalazzi su tutti i continenti. Acclamatidai commentatori come gli artisti distrada che hanno rivoluzionato il mododi concepire lo spazio pubblico, han-no tutti in comune un orizzonte: Bolo-gna. Sebbene non si possa parlare diuna vera e propria scuola bolognesedel writing – perché è nella natura stes-sa di questo tipo di espressione arti-stica il diniego di uno schematismo –è indubbia l’esistenza di una forte tra-dizione bolognese della materia. Trale prime accademiche ad appassionar-si al genere nei primi anni Ottanta, fula ricercatrice del Dams di BolognaFrancesca Alinovi, del cui feroce omi-cidio si occuparonole cronache nazio-nali. Caludio Musso, ricercatore edesperto di Street Art al dipartimentodi discipline visive di Bologna, com-menta così la vicenda: “E’ un’ennesi-ma sconfitta per noi che con il Mam-bo - il museo d’arte contemporanea diBologna – volevamo elevare il discor-so indagando sulla materia assieme a

sociologi e amministratori”. Mussoche è stato curatore del progetto Fron-tier insieme a Fabiola Naldi – la per-formance che nel 2012 ha concesso adiversi writer di colorare una decinadi palazzi di periferia in tutta legalità -con rammarico racconta di come “azio-ni legali tanto gravi non facciano beneal dibattito pubblico su questo tipod’arte”. Raccontando della sensibili-tà che c’è sull’argomento fa notarecome a suo avviso “l’opinione pub-blica sia già estremamente confusasulla differenza tra l’artista e il vanda-lo”. Il punto è proprio questo: dovefinisce il vandalismo e dove comincial’arte? Di certo “il fine ultimo del wri-ter non è sporcare”. Detto ciò, “cosìcome non tutti gli studenti dell’Acca-demia delle belle arti diventano artisti,non tutti quelli che disegnano con lebombolette sui muri divengono poiwriter di fama” spiega lo studioso.Un’evidenza che non scioglie il dilem-ma di fondo.

Writer fra arte e imbratto

Carla Falzone

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GLOSSARIO -TERMINI UTILIALLA LETTURAChiamati erroneamente murales,per gli appassionati del settoresono una forma specifica di espres-sione artistica con termini e formedifferenti. Tag, murales, graffito. Maqual è la differenza? Perché nontutti gli street artist sono writer! Unbreve glossario per districarsi nellinguaggio della street art.Tag - è la forma archetipa del graf-fitismo. Si tratta della semplice let-tera disegnata sui muri delle città.È la firma del writer.Graffito – da non confondere conl’arte dei murales, definisce l’ope-ra più completa e composita. E’ lasofisticazione della tag. Nato all’ini-zio degli anni Settanta, il termineveniva utilizzato con un’accezionedispregiativa.Throw-up: tradotto letteralmentesignifica vomito, nel writing questotermine è stato utilizzato nel tem-po per indicare diversi tipi di graffi-ti. Alcuni intendono per throw-up ungraffito realizzato con un solo stratodi colore di riempimento e un outli-ne. E’ l’espressione usata nel ger-go per descrivere i “pezzi” veloci.Esempio ne sono i grandi graffitisui vagoni dei treni.Writer – è l’illustratore. Appassio-nato di street art generalmente usale bombolette spray per disegna-re.Street Art – arte urbana letteral-mente. Sono considerate tali quelleforme di arte che si manifestano inluoghi pubblici, spesso illegalmen-te, nelle tecniche piùdisparate:spray, sticker art, sten-cil, proiezioni video, sculture ecce-tera. La sostanziale differenza trala street art e i graffiti si riscontranella tecnica non per forza vinco-late all’uso di vernice spray e alsoggetto non obbligatoriamentelegato allo studio della lettera,mentre il punto di incontro chespesso fa omologare le due disci-pline rimane il luogo e alle voltealcune modalità di esecuzione.

Graffiti 2.0La mappa della street art

S i chiamano Francesco, Chiara eNiccolò. Giovanissimi (perciò nientecognomi come impone la privacy), an-cora studenti, da diversi mesi hannoideato un blog che mappa i graffiti deimuri di Bologna: Bologna Street Art.Attraverso una applicazione web sonoriusciti a creare un vero e proprio pro-spetto della città che segnala dove echi ha realizzato un “pezzo di arte ur-bana”. Un archivio interattivo chepermette ai naviganti di scoprire a chiappartengono i graffiti che campanosulle pareti di palazzi, portoni e cabinetelefoniche del capoluogo emiliano. Almomento, sono una ventina le operesegnalate sul loto sito, e tra questec’è anche quella alle pitture di Alicè.Perché lo fanno? Perché sono certiche a Bologna ci siano molte personecuriose di scoprire chi è l’autore delproprio graffito del cuore. Secondogli ideatori del progetto, Bologna Stre-et Art può diventare uno strumentoefficace di marketing territoriale, unastrategia in più per l’accoglienza di chivisita la città. Non solo monumenti epalazzi storici dunque. “A Barcellonae in altre città d’Europa esistono giàprogetti simili di mappatura e vieneproprio utilizzata per promuovere daun punto di vista turistico la città” rac-contato i blogger. Una piattaformamultimediale che proprio attraverso lamappatura dei pezzi rende riconosci-bili e rintracciabili gli artisti che - spes-so illegalmente - imprimono con lebombolette spray portici e case. Ap-presa la notizia della denuncia a cari-co di Alicè i ragazzi del blog hannocosì commentato: “Noi non ci sentia-mo minacciati. Ogni writer si accolla ilrischio, l’adrenalina è parte della per-formance.” Obiettivo del loro lavoro èdare visibilità ai writer. “La nostra èuna piattaforma attraverso cui gli Stre-et Artist possono comunicare le loro

ultime opere” racconta Francesco. Ap-passionati dell’arte urbana, intenzio-ne dei blogger è fare una selezionedelle opere e portarne alla luce deipezzi specifici. “Tutto è potenzialmen-te inseribile” raccontano loro, anchele decine di tag che secondo l’opinio-ne più diffusa sono solo elemento didegrado. “Tra le decine di lettere scrit-te sotto i portici, è possibile che ci siaanche solo una lettera disegnata in unmodo nuovo e diverso dalle altre” rac-conta Chiara. E nell’universo writerfatto di contaminazione di stili di scrit-tura, una strada piena di tag è una mi-niera per trovare ispirazione.Il giorno della notizia della denunciaad Alicè i commenti sono schizzati sututti gli altri muri, quelli dei socialnetwork. “Tristezza a palate”, “È dav-vero desolante la scala di valori che sista affermando in questo paese :( “.La solidarietà è arrivata da tutto l’am-biente vicino ai writer. Cheap, l’inter-nazionale di Street Poster Art ha affi-dato a un comunicato il commento alcaso di Alice: “Non crediamo che larepressione e la criminalizzazione del-le forme artistiche e della libertà diespressione siano il modo con cui ri-qualificare le nostre città”. Il gruppoche promuove l’arte del graffito sucarta continua: “Mettere sullo stessopiano le/gli Street Artist con la crimi-nalità organizzata ci sembra un atto diinqualificabile irresponsabilità”.

C.F.

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Parla Dado Ferri è uno degli espo-nenti più attivi e pubblici nella scenabolognese del writing. Nel 2011 è sta-to tra i promotori di Frontier – il pro-getto nato in sinergia con l’ammini-strazione bolognese che ha permessola realizzazione di una decina di writersui palazzi di Bologna. Ha alle spalleuna lunga storia fatta di bombolette ebozzetti. Conosce benissimo i segretie gli escamotages che usano i writersdi strada per sfuggire ai controlli dellamunicipale. Perché cambiano le gene-razioni me lo stile rimane. Negli ultimianni ha partecipato a diverse iniziati-ve per la realizzazione di opere di arre-do urbano e ama le grandi pareti. So-gna di poter vedere un giorno il quar-tiere periferico del Pilastro pieno dicolori, interamente ridipinto dai wri-ters.

Scrivere e disegnare sui muri dellacittà comporta una denuncia penaleper imbrattamento. Qual è la conce-zione di legalità per un writer?L’attività del writer non si pone il pro-blema della legalità. Chi pratica que-st’attività molto spesso ha tra i 14 e i18 anni, un’età troppo giovane perporsi un certo tipo di domande. Pro-vocazione dell’arte sta nel trovare larottura. Tutto può essere lecito se fat-to con coscienza e giudizio, quello checonta è comunque l’esperienza. Il fat-tore dell’illegalità è come un mezzo perl’opera. Come se fosse un elementopura come può essere un mezzo dicontestazione o un gioco di comuni-cazione.

Qual’è la differenza tra la street arteil writing?Possono toccare diverse sfere coin-volgendo il livello sia sociale che lu-dico. Se compreso nella sua comples-sità è possibile provare a interagire conil fenomeno artistico, altrimenti rima-ne difficile capire cosa può essere ille-gale o giusto. La Stret Art invece, par-la di cose politiche. Attraverso le fi-gure crea delle rappresentazioni, delleimmagini esplicite. Ed è un messaggioaltamente comunicativo. Qualsiasistrumento per dipingere è lecito nellatecnica artistica. Il writer invece, vuo-le proprio creare un altro tipo di lin-

guaggio. Chiunque può discernereun’opera di Banksy, il graffito è inve-ce un linguaggio in se stesso. Nel con-cetto stesso della parola writing c’èl’idea del disegnare – scrivendo in-sieme allo scrivere disegnando. Impos-sibile da tradurre nella lingua italianain una sola parola.

La scena writer a Bologna. È possibi-le rintracciare un dialogo con la cit-tà?Sembra che Bologna sia presa da unadisassociazione. E’ divisa in due tipidi amministrazione: una colta e lungi-mirante come l’assessorato alla cultu-ra che, con una grande sensibilità rie-sce a collocare il fenomeno. Poi in c’èl’altra parte di città che condanna iwriter dietro un finto perbenismo. Cisono tante visioni sull’argomento. C’èchi apprezza le tag e ne vive il fascinoe chi le vede come mero degrado. Ilwriting quando diventa accettato daiComuni e dalle amministrazioni, e na-sce da un lavoro fatto insieme diven-ta un’opera di arredo urbano.

Quali gli spazi per i writer in città?Bologna in realtà è una delle città inItalia con più spazi autorizzati per di-pingere. In città ci sono quattro pontiautorizzati dal 1993. Esistono i permes-si per dipingere in diversi luoghi. . Ioper esempio mi astengo dal dipingerenel centro storico, perché mi rendo

“E adessodenunciatecitutti”C.F.

conto del fatto che possa cozzare conil paesaggio. Però non concepisco lastessa cosa per la periferia e le faccia-te dei palazzi mediocri.

Quale il grado di attenzione artisticaverso la scena bolognese?Come se in città ci fosse una volontànel voler tenere sopito il movimentoche in realtà esiste e da molto tempo.Sin dai tempi di Francesca Alinovi,guai mai a dire che in questa città siaccorga del potenziale e valorizzi i suoiartisti locali riconosciuti e apprezzatinel circuito internazionale. Per nessu-no di questi si è mai pensato ad unamostra per valorizzarli. È come se inquesta città non si riuscisse ad anda-re oltre i canoni classici dell’arte con-temporanea.

Come hai reagito alla notizia della de-nuncia fatta ad Alicé?Mi spiace moltissimo che lei sia stataperseguita perché riconoscibile. Sareb-be stato carino capire dove avrebberecapitato la denuncia se avesseroprovato a denunciare Banksy. Se que-sto è l’approccio allora dovrebberoarrestarci tutti! Io ho un sacco di ope-re in giro, Blu e gli altri, tutti abbiamoopere in giro. Allora mandateci unalettera a tutti e smettete di chiamarciquando le amministrazioni hanno bi-sogno di interventi pianificati. Perchéforse è ora che di cominciare a rispet-tare la nostra romantica.

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S e n’era sentito parlaretempo fa, ma nessuno neaveva più saputo nulla.L’achitetto Manuela Fausti-ni, respon-sabile dell’ uffi-cio Edilizia e ambiti urbanistorico monumentale, delcomune di Bologna, inve-ce, garantisce che la squa-dra antigraffiti da natale co-mincerà a perlustrare i muridella città a caccia di mura-les. Presentata all’inizio dell’anno come un’iniziativa in-novativa capace di coniuga-re più esigenze al costo diuna. La squadra dovrebberispondere alla richiesta didecoro urbano, garantendoallo stesso tempo, un con-tratto di lavoro annuale apersone in condizioni eco-nomiche precarie. I più ac-corti, sicuramente, ricorda-no il progetto vagamentedelineato tempo fa dal Co-

assicurare un ulteriore 30 %di disoccupati. Il 30 ottobreapriremo le buste e selezio-neremo la cooperativa allaquale affidare l’incarico».Tutto, dunque, proseguecome promesso.

“Dodici personeal lavoro per 500mila euro di spe-sa”

L’idea sicuramente è buona.Ma facendo un bilancio co-sti benefici, in termini di so-stegno al precariato e di mi-sura per il decoro urbano, ilprogetto perde parte del suosmalto. La squadra antigraf-fiti sarà composta di 12 per-sone e 500 mila euro è il suocosto complessivo. Guar-dando alle voci di spesa in-serite nel bilancio provviso-rio spunta qualche spesache fa riflettere.I soldi realmente destinati apagare gli stipendi per i la-voratori sono in tutto 175

Squadre antigraffiti da Natale in cittàUn ‘caro’ regalo del Comune

Emiliano Trovatimune. Ad aprile, l’assesso-re alle Politiche sociali, Ma-lagoli, annuncia con orgo-glio la nascita del “fondoanticrisi”: 4,5 milioni di euroa sostegno di famiglie e im-prese colpite della crisi. Al-l’interno del fondo vienedestinato mezzo milione dieuro, si legge, “all’elimina-zione di graffiti ed incon-gruo”. Ad agosto, poi, ilprogetto prende forma e sicomincia a parlare di squa-dre antigraffiti. Non c’è peròchiarezza né sul numero de-gli interessati, né sulle man-sioni. Si sa solo che, primao poi, in città un gruppo dipersone armate di secchio estrofinaccio ripuliranno imuri dei palazzi.

“Da dicembre lesquadre sarannoin strada”Scopriamo invece che ilprogetto sta andando avan-ti. L’architetto Faustini, chesta lavorando al bando, ga-rantisce: «Da dicembre le

Progetto pilota dell’Amministrazione bolognese per migliorare il decoro urbano,offrendo un’opportunità di lavoro ai disoccupati. Nel frattempo la legislazioneattuale verso i murales è severa e inadeguata. Mentre il dibattito è fermo.

squadre saranno in strada».Attualmente siamo nellafase di selezione, in questigiorni, infatti, «il bando èancora in essere – continual’architetto -. Abbiamo in-vitato le cooperative delterzo settore, quelle che danormativa impiegano il 30%di personale in condizionisvantaggiate, a fare propo-ste, vincolandole, però, ad

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mila euro, definiti “Speseservizio di pulizia superfici”,ed ulteriori 80 mila euro per i“Lavori di rimozione incon-gruo”. Accanto a questi,poi, troviamo le voci di spe-sa accessorie, tra cui: 100mila per “Acquisto materia-le”, ovviamente quello cheverrà adoperato nei cantie-ri; ancora, 16 mila destinatinel complesso agli “Oneridella sicurezza”. Infine, tro-viamo 40 mila euro per il“servizio formazione”. Giu-stamente, al team antigraffi-ti va fatto un corso accele-rato di edilizia e cantiere.

“Alicè, notawriter romana,denunciata perimbrattamento aBologna”

Fatti i dovuti conti, il risul-tato è questo. Il progettogarantisce a 12 persone la-voro per un anno, questo èquanto riesce a coprire lacifra stanziata. Di questedodici assunzioni solo quat-tro sono attualmente disoc-cupati (il 30% in più richie-sto dall’amministrazione). Aqueste andrà in media, te-nendo conto di 14 mensilitàpercepite, all’incirca milleeuro mensili. Visto in questitermini lo sforzo dell’ ammi-nistrazione, anche se nobi-le, sembra limitato.Guardiamo poi al corso ilformazione. Questo verràfatto dall’Iiple di Bologna,istituto specializzato nellaformazione edile. Il diretto-re, Mario Gaini, spiega che«avrà la durata di tre setti-mane, gli studenti realizze-ranno un cantiere assiemeai tutor dell’istituto su unedificio cittadino, dopodi-ché proseguiranno da soli».In tutto il corso prevedere96 ore di formazione dellequali 40 di cantiere. Tuttofatto da due tutor, insegnan-ti dell’ istituto, che affian-cheranno gli studenti. Insostanza, visto il costo com-plessivo del corso di 40 milaeuro, parliamo di una forma-zione da 500 euro ad ora d’in-segnamento.Ma oltre alle perplessità sor-te guardando ai costi delprogetto, quella delle squa-

dre antigraffiti rimane co-munque una soluzione ex-post. D’altronde quando siparla di murales, graffiti oimbrattamento, le opinioni lepiù disparate. Quella forsepiù diffusa è che si tratti diuna forma deviata d’arte chein barba alle regole del quie-to vivere e del decoro urba-no imbratta indistinta-men-te pareti, muri e monumentiper manifestare un disagiovisto come adolescenzialeed incomprensibile.Viceversa per molti altril’opera dei writers, e di quelsottobosco di artisti cheoperano all’interno dellastreet-art, è solo il simbolodella volontà di sperimenta-

zione delle giovani genera-zioni. La ricerca di nuovispazi dove dare seguito allapropria ispirazione, al difuori dei canoni dell’orto-dossia artistica.Al di là dei punti di vista, incittà l’argomento è moltosentito basta guardare al-l’attenzione dei giornali sultema. Ultimo caso ad anima-re la discussione, cronolo-gicamente, è quello di Ali-cè. Nota writer romana, co-nosciuta e apprezzata in tut-to il mondo (in questi giornisi trova in Vietnam per unlavoro commissiona-tole), laragazza è al centro del-l’obiettivo mediatico daqualche tempo per colpad’una denuncia d’ imbratta-mento ricevuta dal repartosicurezza urbana e antide-grado della polizia munici-pale di Bologna, a causa dialcuni murales realizzati sumuri e pareti cittadine. Il caso

ha fatto molto parlare. Dalsindaco agli assessori, dapolitici locali a personagginoti, attraverso le colonnedei giornali abbiamo assisti-to al teatrino dei pareri.Nodo centrale, la questione:il murales, la tag o qualsiasiforma di street-art, merita lospazio urbano che occupaillegalmente, nella maggiorparte dei casi, oppure no?Ed ancora, quali sono le giu-ste misure per combattere ilfenomeno?A rispondere ci pensa la leg-ge, con estrema rigidità peralcuni. Dare sfogo alla pro-pria creatività, infatti, oggicostituisce reato. Secondol’articolo 639 del Codice pe-

nale, chiunque deturpa oimbratta cose mobili o immo-bili altrui è punito, a quereladella persona offesa, conuna multa fino a 103 euro.Pena che aumenta sensibil-mente se l’imbratto è com-messo su cose di interessestorico o artistico, o su im-mobili compresi nel centrostorico. Il reato diviene per-seguibile d’ufficio e la penapuò arrivare fino a un annodi reclusione, oppure ad unamulta fino a 1.032 euro.

“ Per i muralespene eccessive edincongrue”Visto, però, il graduale cam-biamento della sensibilitàcomune rispetto a questaforma d’ espressione artisti-ca, le pene previste per il

reato d’imbrattamento sem-brano «eccessive ed incon-grue». A sostenerlo è An-drea Amato, responsabilenazionale di Antigraffiti, as-sociazione nazionale per ildecoro urbano, la «reclusio-ne ha un alto costo sociale,non impartisce un insegna-men-to al contrario, invece,rischia di peggiorare la con-dizione della persona». PerAmato il fenomeno va af-frontato facendo «infor-mazione. Bisogna innanzitutto scindere tra opera d’ar-te ed atto vandalico. Il no-stro nome può essere fuor-viante, ma la nostra asso-ciazione condanna esclusi-vamente i secondi: le scrit-te sui monumenti, quelle suimezzi pubblici e le tag. Nonabbiamo mai fatto cancella-re un murales». A questoproposito, però, ci tiene aprecisare che « a volte an-che i giornalisti aiutano acreare confusione. Le ope-re di artisti riconosciuti,come il caso di Alicè, realiz-zate in spazi autorizzati,come succede in tutto ilmondo, vanno salvaguar-date». Per ottenere una le-gislazione più congrua, l’as-sociazione da tempo lavoraad alcune proposte di leg-ge per sensibilizzare l’opi-nione pubblica e l’ammini-strazione.Il responsabile nazionalespiega ancora che è più vir-tuosa una «normativa cheelimini il reato penale (arre-sto e detenzione) e che alsuo posto crei un fondo peril decoro urbano, dove con-vogliare quanto riscossodalle ammende fatte ai writ-er trovati ad imbrattare i muricittadini e che destini que-sti proventi alla ripulitura eristrutturazione di muri emonumenti».Quello delle squadre anti-graffiti è il tentativo dell’Amministra-zione di porreun primo rimedio al proble-ma del decoro urbano. Ini-ziativa sicuramente validaper l’aspetto sociale e per irisvolti in ambito lavorati-vo. L’idea, però, da sola nonpuò arginare il fenomeno.Anche perché questo siposiziona su un crinalescosceso: la street-art è arteoppure no? Rispondere aquesta domanda è il primopasso da fare per avvicinar-si ad una soluzione.

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Maledetta Primavera

Un sogno quasi impossibile. Su 5000 bambini che iniziano a giocare a pallone, solouno arriva ad esordire in serie A. Ogni anno più di 300.000 mini calciatori si iscrivo-no ad una scuola calcio. Un esercito di ragazzini che insegue un sogno che, dopo pochianni, si infrange sul muro della realtà. A guardare le statistiche i numeri sono impie-tosi: se il campionato Allievi (15-16 anni) a tutti i livelli, conta circa 70.000 tesserati,nel campionato Primavera giocano poco più di mille ragazzi.

Un viaggio in Emilia Romagna per scoprire problemi esperanze, sogni e realtà dei ragazzi che vogliono diventarecalciatori professionisti

Gerardo MuolloAngelo Russo

Sarà capitato a tutti gli ap-passionati di calcio di leg-gere la formazione della pro-pria squadra del cuore e tro-vare, tra le riserve, i nomi diperfetti sconosciuti. Sonoragazzi di 18 anni che dallaPrimavera si affacciano alcalcio dei grandi. Tra loroci saranno i nuovi Totti e

Balotelli, ma anche moltepromesse mancate. Tantianni di sacrifici e speranzeinfrante a un passo dal so-gno. È questa la dura realtàche affrontano quotidiana-mente i giovani delle Prima-vere italiane. “E’ vero, c’è ilrischio di non farcela, maper ora non ci penso. Ognigiorno devi dimostrare sulcampo di essere il più for-te”. Lo dice Ettore Gliozzi(classe 1995), uno dei gio-vani più interessanti dellaprimavera del Sassuolo. Èpartito tre anni fa da Sider-no, un paese di 16.000 abi-tanti in provincia di ReggioCalabria. Uno dei centri piùpopolosi e complicati dellaLocride, un comune che il27 marzo 2013 è stato sciol-to per infiltrazioni della

‘ndrangheta. “Non è facileandare via da casa, anchese lo fai per inseguire unsogno. A quindici anni hodovuto lasciare la mia fami-glia, i miei amici per trasfe-rirmi a Sassuolo, una cittàtotalmente diversa da Sider-no. I primi mesi ho soffertotanto”. Per Ettore è statofondamentale avere l’ap-poggio incondizionato del-la famiglia: “I miei genitorihanno sempre sostenuto lamia scelta. Se c’è una per-sona che devo ringraziare èmio padre, è stato impor-tante vederlo ogni domeni-ca in tribuna fare il tifo perme”.Il giovane attaccante cala-brese, durante l’estate, par-tecipando al ritiro pre-cam-pionato della prima squa-

dra, ha avuto l’occasione diassaporare il mondo deiprofessionisti. Valorizzare igiovani del vivaio non è unanovità perla societàneroverde.Non sonoun caso, ils e c o n d ogoal in serieA di Dome-nico Berardinel derbycon il Bolo-gna, le otti-me presta-zione delg h a n e s eRaman Chi-bsah e ladoppie t tadi DiegoFalcinelli

Sassuolo, dopoBerardi, percontinuare ad essereuna fabbrica dibaby fenomeni

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che proietta il sorprenden-te Lanciano in testa alla se-rie B. Sono tutti prodottidella cantera del Sassuolo,come ha ricordato con or-goglio Paolo Mandelli, sto-rico mister del settore gio-vanile sassolese dove alle-na dal 2003, una sorta diArsene Wenger in salsamodenese.La sua lunga esperienzacon i giovani calciatori loinduce a fare una riflessio-ne sul percorso di formazio-ne dei ragazzi: “Credo chela scuola per noi sia un pro-blema, manca un rapportotra le società professionisti-che e le istituzioni scolasti-che. Se all’estero gli studen-ti che praticano una disci-plina a livello professioni-stico vengono aiutati conpiani di studio ad hoc, quida noi i ragazzi non sono innessun modo tutelati. Chesenso ha costringere ungiovane professionista,che si allena tutti i giorni, afare quattro ore di educa-zione fisica? Queste attivi-tà motorie possono addirit-tura essere dannose se noncompatibili con i nostri al-lenamenti”.Gli otto anni del settore gio-vanile sono una tappa im-portante nella fase di edu-cazione dei ragazzi. Il misterha le idee molto chiare sul-l’argomento: “Per noi è fon-damentale che tutti i gioca-tori intraprendano un per-corso di crescita che li fac-cia maturare prima dei lorocoetanei, questa esperien-za è una palestra di vita im-portante.” I ragazzi entranonel vivaio che sono pocopiù che bambini e ne esco-no che sono quasi uomini,gli otto passaggi, tra unastagione e l’altra, devonoservire alla maturazione deigiovani. “E’ importante chein questi step i ragazzi ma-turino la consapevolezzache non tutti diventerannogiocatori professionisti, perquesto puntiamo a costrui-re delle persone prima chedei calciatori”. Non tutti ar-riveranno in serie A, moltisaranno catapultati nelleserie minori. Mister Man-delli dice la sua su questotema: “Purtroppo la serie Cnon è più la palestra di unavolta, la Lega Pro oggi èuna giungla, molte societàhanno gravi problemi orga-nizzitivi e finanziari”.

“Frequentare un liceoscientifico e giocare in Pri-mavera non è semplice, lascuola non solo non mi ri-conosce crediti, ma mi chie-de il rispetto delle assenzesenza concedermi né per-messi né deroghe, se finoad oggi sono riuscito a sta-re in pari lo devo solo aisacrifici che ho fatto”. E’questo lo sfogo di Marcel-lo Sereni, modenese al pri-mo anno di Primavera, an-che se questa è la sua setti-ma stagione in neroverde.“Sono arrivato qui quasi percaso, e insieme agli altri ra-gazzi del ’96 abbiamo vistocrescere il Sassuolo versola conquista della serie A,fino a quest’anno era soloun grande divertimento,ora si fa sul serio”.Il giovane esterno della Pri-mavera neroverde sottoli-nea quanto sia importanteil sostegno della famiglia: “Imiei mi incoraggiano manon troppo. Ogni volta chedevo uscire prima da scuo-la il sabato, c’è da litigarecon mia mamma. Però anchelei sa che per me il calcio èla cosa più importante”.Quando gli viene chiestoquale sia il suo sogno,Marcello non ha dubbi:“vincere il pallone d’oro”.Intanto dovrà sudare nonpoco per guadagnarsi unamaglia da titolare nel 4-3-3di mister Mandelli.“Facciamo giocare le ottosquadre del settore giova-nile tutte con lo stesso si-

stema di gioco, il 4-3-3. Lostesso schema usato damister Di Francesco in pri-ma squadra, questo favori-sce a creare una sinergia trai miei ragazzi e la squadraA. Così si rende più sempli-ce l’inserimento dei giova-ni, e le prestazioni di Berar-di e Chibsa ne sono unaprova”. Infine il mister ricor-da, che aldilà dei moduli digioco, è importante che “siinsegni ai ragazzi una filo-sofia di calcio propositivo– ride – non a caso sia ioche Di Francesco siamostati giocatori di Zeman”.

Modena,un campionedel mondoper far cresce-re giovanitalenti

Se il tuo mister havinto un mondiale,c’è solo da impara-re. È il caso dei ra-gazzi della Primave-ra del Modena al-lenati da SimoneBarone, l’ex centro-campista di Parma,Palermo e Torino,campione del mon-do con l’Italia diMarcello Lippi nel-la fortunata spedi-zione di Germania2006.

“Essere qui è una fortuna,in pochi giorni puoi ritro-varti a giocare in serie B. Mai ragazzi, spesso non lo ca-piscono, hanno troppi sva-ghi e non pensano solo adallenarsi”. Eppure avrebbe-ro l’esempio di Filippo Mi-narini, classe ’94, che dopoaver fatto tutta la trafila nelvivaio gialloblù, ha esordi-to quest’anno nell’undici diValter Novellino. Forse il mi-ster pronuncia queste pa-role memore della sua espe-rienza, quando, uscito dal-la Primavera del Parma, fumandato a farsi le ossa inserie C a Padova. Barone,infatti, non è d’accordo conmister Mandelli: “Andare agiocare in C (oggi Lega Pro)

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serve e come, per diventaregiocatori bisogna misurar-si con i grandi”.L’allenatore campano ricor-da, con un pizzico d’orgo-glio, che la Primavera deicanarini ha dato un gioca-tore, Matteo Lomolino,classe 1996, all’Italia under17, impegnata in Qatar nelmondiale di categoria.Il cartellino di Lomolino èdi proprietà dell’Inter, comequello di altri quattro ragaz-zi che sono passati dal vi-vaio nerazzurro alla Prima-vera di mister Barone. Ales-sandro Ponti, 17 anni, mila-nese, è uno di questi: “Lasocietà ci ha messo a dispo-sizione un appartamento incentro e dei pulmini che ciportano agli allenamenti”.Nonostante Alessandro siatra gli attaccanti più pro-mettenti, rimane con i piediper terra, e ha pronto un pia-no b se non dovesse diven-tare un giocatore professio-nista: “Finita la scuola pergeometri, andrei a lavorarenell’azienda di famiglia”. Ilsuo compagno di stanza èLorenzo Laras, 18 anni, ilsuo accento tradisce le sueorigini viareggine. L’ester-no ammette di avere qual-che difficoltà a coniugarel’attività calcistica con lascuola: “Qui a Modena hoavuto modo di ripartire, que-sto è il mio primo anno inEmilia e mi sono iscritto alterzo anno di ragioneria”.Simone Barone elogia lasua società perché: “Ha fat-to un investimento impor-tante sul vivaio”, ma nonperde l’occasione per reci-tare un j’accuse nei con-fronti di tutto il movimento

calcistico italiano: “In Italianon si punta abbastanzasul settore giovanile, nonc’è il coraggio di scommet-tere sui giovani e di lanciar-li sui palcoscenici importan-ti”. Il mister cita l’esempiodel Psv Eindhoven: “Nelpreliminare di ChampionsLeague contro il Milan gliolandesi avevano la forma-zione titolare piena di gio-vani del ’94 e del ’95, unqualcosa che in Italia non èneanche pensabile. Sonopaesi che hanno una cultu-ra calcistica completamen-te diversa dalla nostra”.Alla fine dell’intervista l’al-lenatore della Primaveragialloblù scherza con i suoiragazzi: “Quando giocavonel Parma, avevamo un vi-vaio di fenomeni, c’eranogiocatori del calibro di Ci-

garini e Giuseppe Rossi.Voi?”.Poi torna per un attimocalciatore. La mente volaalla partita vinta dagli az-zurri contro la Repubbli-ca Ceca. Alla domandase avesse mai speratoche, nell’azione del goldel 2 a 0, Pippo Inzaghigli passasse la palla, ilmister sorridendo ri-sponde: “Secondo te?”.

Cesenanel vivaioil segretodei successi

Da Villa Silvia, il quartier

generale del Cesena, sonopassati tanti baby campio-ni lanciati nel calcio checonta, solo negli ultimi anniGiaccherini, Pozzi e Bernac-ci, prima di loro alcuni mo-stri sacri come Seba Rossie il “condor” Agostini.Luigi Piangerelli, responsa-bile del settore giovanilebianconero, ammette orgo-glioso: “Essere un punto diriferimento tra i vivai in Ita-lia è una grande soddisfa-zione, tenere il livello altocomporta delle scelte diffi-cili, innanzi tutto da noi nonci si può iscrivere, le attivi-tà di scouting iniziano daipulcini, abbiamo dei sele-zionatori esperti che scel-gono i ragazzi più promet-tenti fin dai primi anni di at-tività, si diventa bravi solostando in mezzo ai bravi.”Il Cesena crede fermamen-te nella formazione dei gio-catori sotto il profilo dellatecnica: “Ogni squadra ol-tre ad un allenatore puòcontare su un istruttore di

tecnica ed uno di coordina-zione, svolgiamo un lavoroaccurato e personalizzatosu ogni ragazzo, questo cicontraddistingue”. Infinechiude: “Molti ragazzi, so-prattutto i più promettenti,sono abbagliati dalla pos-sibilità di andare a giocarenelle squadre più blasona-te come Milan, Juve e Inter,con il rischio di perdersi.Sono realtà più complessedove è difficile essere lan-ciati in prima squadra, senoi vediamo del talento inun ragazzo lo accompagnia-mo dal vivaio al professio-nismo”. Parole confermatedall’attuale rosa del Cese-na che, piena di giovani, sitrova seconda nel campio-nato di serie B.

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Dei come e dei perchèErick Thohir e James Pallotta, gli stranieri che investono nelcalcio italiano

La chiesa è decisamente al centro del villaggio, l’aveva promesso Rudy Garcia e, a giudicare dalle prime nove, ci stariuscendo. Nove vittorie su nove, 23 gol fatti uno solo subito, dieci diversi marcatori. Basta sciorinare i numeri di questaRoma per capire che sarà un’annata straordinaria. Finalmente la proprietà americana, guidata da James Pallotta, inizia araccogliere i frutti degli investimenti fatti nei primi tre anni nella capitale.

Cala il sipario su mezzo secolo di calcio italiano, dalla grande Inter di papà Angelo, alla pazza Inter del figlio Massimo,finisce il matrimonio tra la famiglia Moratti e la società nerazzurra che ha segnato un’epoca nello sport del nostro paese.Vendere o non vendere? Questo è stato il dilemma dell’ormai ex presidente dell’Inter da quando, alla fine di maggio, èarrivata l’offerta del magnate indonesiano Erick Thohir per acquistare l’Inter.Poi qualche giorno fa l’annuncio: “L’Inter è di Thohir”.

1. La prima mossa di Garcia è stata riportare i due uomini simbolo alcentro del progetto. Totti e De Rossi, messi in discussione dagliultimi tecnici, sono la spina dorsale di questa Roma.

2. Il tecnico francese ha ricostruito la squadra dalle maceriezemaniane, partendo dalla difesa, gli arrivi di Maicon, Benatia e DeSanctis hanno dato compattezza ed esperienza ad un pacchettoarretrato quasi impenetrabile.

3. Un mercato praticamente perfetto, sia in entrata che in uscita, sonoarrivati giocatori voluti da Garcia, su tutti Gervinho, in grado didare un’identità ben precisa alla squadra. Sono stati cedutigiocatori, come Osvaldo, che hanno letteralmente spaccato in due lospogliatoio.

4. Il Pjanic rinato. Sul campo dell’Olimpico, fino ad ora, si era visto soloa sprazzi il giocatore dalla classe cristallina ammirato a Lione. Oggifinalmente, grazie all’intuizione di Garcia, di riportarlo nel suo ruoloideale, Miralem è il vero cervello della squadra. Top player ritrovato.

5. Dopo l’annus horribilis culminato con la sconfitta nel derby in finaledi Coppa Italia, non era facile riportare l’entusiasmo in una tifoseriacon il morale sotto i tacchi. Il sergente Garcia e la sua truppa ci sonoriusciti a suon di vittorie, i tremila giallorossi a Udine ne sono lacontroprova. Chapeau! A. Russo

1. Già nel 2006 prima di Calciopoli Moratti stava per venderead un fondo arabo. La stanchezza poi venne cancellata daisuccessi dell’era Mancini-Mourinho. Oggi, dopo 18 anni dipresidenza, l’entusiasmo non era più quello dei primi anni.

2. Un’offerta del genere forse non si sarebbe più ripresentata.250 milioni per il 70% della società non sono pochi,soprattutto in un periodo di crisi dell’economia.

3. Moratti non aveva più intenzione di spendere come inpassato. L’Inter in 18 anni gli è costata parecchio (più di unmiliardo di euro) Dopo la crisi anche la Saras, l’azienda difamiglia ha dovuto ridimensionarsi.

4. Il calcio non è più quello di vent’anni fa. Oggi comandano ivari Abramovich, gli sceicchi e i fondi d’investimento. O cisi adegua o si rischia di sparire soprattutto a livellointernazionale.

5. Moratti è stufo di essere considerato troppo buono. L’Internon ha mai badato a spese, ha il maggior numero didirigenti in A e in passato ha elargito stipendi faraonici.“All’Inter nessuno guadagna meno di un miliardo”. Fuquesta la battuta fatta da Moratti al momento della firma delcontratto di Diego Fuser. G. Muollo

5 motivi che hanno convinto Moratti a cedere l’Inter:

5 motivi del record di una Roma a stelle e strisce:

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Chi ha paura di Halloween?

‘Dolcetto o scherzetto?’Il tradizionale motto diHalloween è da tempodivenuto comune nelnostro Paese. Talmentenoto da essere attesodai giovani almenoquanto il regalo diNatale, se non di più.Tra pochi giorni ci saràla festa più paurosadell’anno e in Italia c’ègià chi pensa aipreparativi per ifesteggiamenti. Laricorrenza, che cometutti sanno ha originiirlandesi, diviene uncult, però, comeapproda in America, dadove viene proiettata intutto il mondo

occidentale come unprodotto commerciale.Da noi Halloween èparecchio diffusa tra iragazzi e da una decinad’anni è una vera epropria mania.Quello che non sapetedi sicuro è che la festariscuote talmente tantosuccesso che il termine‘Halloween’ non harivali in quanto aricerche su Google.Nemmeno le festività anoi più comuni, comeNatale, Epifania oCapodanno, hannoretto il confronto. È ilcaso di dire cheHalloween non ‘teme’nessuno.