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N. 7/2013 LUGLIO Raccolta Normativa Indice Pag. 1 Civit, deliberazione n. 50/2013 Pag. 18 Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza n. 26222/2013 Pag. 20 Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 18168/2013 Pag. 24 Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 3609/2013 Pag. 30 Cassazione penale, sez. VI, sentenza 30177/2013 Pag. 40 Tar Campania, Napoli, sez. VIII, sentenza n. 3261/2013 Pag. 43 Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 3586/2013 Pag. 46 Corte Costituzionale, sentenza n. 229 del 23 luglio 2013 Pag. 62 Corte Costituzionale, sentenza n. 236 del 24 luglio 2013

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N. 7/2013 LUGLIO

Raccolta Normativa Indice

Pag. 1

Civit, deliberazione n. 50/2013

Pag. 18 Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza n. 26222/2013

Pag. 20 Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 18168/2013

Pag. 24 Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 3609/2013

Pag. 30 Cassazione penale, sez. VI, sentenza 30177/2013

Pag. 40 Tar Campania, Napoli, sez. VIII, sentenza n. 3261/2013

Pag. 43 Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 3586/2013

Pag. 46 Corte Costituzionale, sentenza n. 229 del 23 luglio 2013

Pag. 62

Corte Costituzionale, sentenza n. 236 del 24 luglio 2013

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Commissione indipendente per la Valutazione, la Trasparenza e l’Integrità delle amministrazioni pubbliche

Autorità Nazionale Anticorruzione

Presidente

Delibera n. 50/2013

“Linee guida per l’aggiornamento del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità

2014-2016”

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INDICE

Premessa............................................................................................................................................... 3

1. Sull’ambito soggettivo di applicazione del d.lgs. n. 33/2013 ......................................................... 5

2. Aggiornamento del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità....................................... 6

2.1. Termine per l’adozione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità .................... 7

2.2. Elaborazione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità ..................................... 8

2.3. Contenuti del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità .......................................... 9

2.4. Dati ulteriori ............................................................................................................................ 13

3. Attestazione sull’assolvimento degli obblighi di pubblicazione e monitoraggio sull’elaborazione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità ............................................................... 14

4. Accesso civico ............................................................................................................................... 16

Allegati

Allegato 1 Elenco degli obblighi di pubblicazione vigenti

Allegato 1.1 Nota esplicativa dell’Allegato 1 – Elenco degli obblighi di pubblicazione

vigenti

Allegato 2 Documento tecnico sui criteri di qualità della pubblicazione dei dati

Allegato 3 Scheda standard per la compilazione del Programma triennale sul Portale

della trasparenza (solo per le amministrazioni statali e gli enti pubblici non

economici nazionali)

Allegato 4 Monitoraggio sull’avvio ciclo della trasparenza 2014 da parte degli OIV (solo

per le amministrazioni statali e gli enti pubblici non economici nazionali)

Allegato 5 Calendario delle attività in materia di trasparenza per gli anni 2013 e 2014

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Premessa La disciplina sulla trasparenza nelle pubbliche amministrazioni è stata oggetto, negli ultimi mesi, di

penetranti interventi normativi.

Innanzitutto, il 28 novembre 2012 è entrata in vigore la legge 6 novembre 2012, n. 190,

“Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica

amministrazione”, che ha fatto del principio di trasparenza uno degli assi portanti delle politiche di

prevenzione della corruzione, e ha previsto che le amministrazioni elaborino i Piani triennali di

prevenzione della corruzione entro il 31 gennaio. La legge ha conferito, inoltre, una delega al

governo ai fini dell’adozione di un decreto legislativo per il riordino della disciplina riguardante gli

obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni da parte delle pubbliche

amministrazioni.

La legge 17 dicembre 2012, n. 221, “Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese”, aveva poi

differito al 31 marzo 2013 il termine per l’adozione del Piano della prevenzione della corruzione, ai

sensi dell’art. 1, c. 8, della legge n. 190/2012. In considerazione del rilievo della trasparenza

all’interno dei Piani triennali di prevenzione della corruzione, del predetto differimento del termine

per la loro adozione, nonché della delega sul riordino degli obblighi di trasparenza, questa

Commissione, quale Autorità Nazionale Anticorruzione, nella delibera n. 6/2013, “ Linee guida

relative al ciclo di gestione della performance per l’annualità 2013”, al fine di evitare duplicazioni,

si era riservata di intervenire successivamente, per definire il termine e le modalità di

aggiornamento del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità e il suo coordinamento con

il Piano triennale di prevenzione della corruzione.

Da ultimo, in attuazione della delega contenuta nella legge n. 190/2012 sopra citata, il Governo ha

adottato il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, recante il “Riordino della disciplina riguardante gli obblighi

di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni” in

cui, nel ribadire che la trasparenza è intesa come accessibilità totale delle informazioni concernenti

l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, è stato evidenziato che essa è

finalizzata alla realizzazione di una amministrazione aperta e al servizio del cittadino (art. 1, c. 2,

d.lgs. n. 33/2013). Nel decreto è specificato che le misure del Programma triennale della trasparenza

e dell’integrità sono collegate al Piano triennale della prevenzione della corruzione e che, a tal fine,

il Programma costituisce, di norma, una sezione di detto Piano.

Il d.lgs. n. 33/2013 è di rilevante impatto sull’intera disciplina della trasparenza.

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Tale provvedimento ha complessivamente operato una sistematizzazione dei principali obblighi di

pubblicazione vigenti, introducendone anche di nuovi, e ha disciplinato per la prima volta l’istituto

dell’accesso civico (art. 5).

Esso è intervenuto sui Programmi triennali per la trasparenza e l’integrità, modificando la disciplina

recata dall’art. 11 del d.lgs. n. 150/2009, anche al fine di coordinare i contenuti del Programma con

quelli del Piano triennale di prevenzione della corruzione e del Piano della performance. In

particolare, sono stati precisati i compiti e le funzioni dei Responsabili della trasparenza e degli OIV

e è stata prevista la creazione della sezione “Amministrazione trasparente”, che sostituisce la

precedente sezione “Trasparenza, valutazione e merito” prevista dall’art. 11, c. 8, del d.lgs. n.

150/2009. Nello specifico, la nuova sezione sarà articolata in sotto-sezioni di primo e di secondo

livello corrispondenti a tipologie di dati da pubblicare, come indicato nell’allegato A del d.lgs. n.

33/2013 e nell’allegato 1 alla presente delibera.

Infine, il decreto provvede a implementare il sistema dei controlli e delle sanzioni sull’attuazione

delle norme in materia di trasparenza.

Alla luce delle rilevanti modifiche normative, le presenti Linee guida forniscono, a integrazione

delle delibere CiVIT n. 105/2010, “Linee guida per la predisposizione del Programma triennale per

la trasparenza e l’integrità”, e n. 2/2012, “Linee guida per il miglioramento della predisposizione e

dell’aggiornamento del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità”, le principali

indicazioni per l’aggiornamento del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità e per il suo

coordinamento con il Piano di prevenzione della corruzione previsto dalla legge n. 190/2012, per il

controllo e il monitoraggio sull’elaborazione e sull’attuazione del Programma.

In allegato sono resi disponibili:

a) l’elenco degli obblighi di pubblicazione attualmente vigenti per le amministrazioni

pubbliche con l’individuazione dei rispettivi ambiti soggettivi di applicazione (allegato 1);

b) una nota esplicativa dell’elenco degli obblighi di pubblicazione (allegato 1.1)

c) un documento tecnico sui criteri di qualità dei dati da pubblicare (allegato 2);

d) la scheda standard per la compilazione del Programma triennale sul Portale della

trasparenza da parte delle amministrazioni statali e degli enti pubblici non economici

nazionali (allegato 3);

e) la scheda di monitoraggio dell’OIV sull’avvio ciclo della trasparenza per le amministrazioni

statali e gli enti pubblici non economici nazionali (allegato 4);

f) il calendario degli adempimenti in materia di trasparenza per gli anni 2013 e 2014 (allegato

5).

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1. Sull’ambito soggettivo di applicazione del d.lgs. n. 33/2013

In via generale, l’art. 11, c. 1, prevede che il decreto si applichi alle amministrazioni di cui all’art.

1, c. 2, del d.lgs. n. 165/2001, ossia a tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e

le scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende e amministrazioni dello Stato a

ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane e loro consorzi e

associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di

commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non

economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio

sanitario nazionale, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni

(ARAN), le Agenzie previste dal d.lgs. n. 300/1999, e, fino alla revisione organica della disciplina

di settore, il CONI.

Per quanto concerne le Agenzie fiscali previste dal d.lgs. n. 300/1999, il mancato perfezionamento

dell’apposito decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, da adottarsi di concerto con il

Ministero dell’Economia e delle Finanze, previsto dal d.lgs. n. 235/2010 per la definizione dei limiti

e delle modalità di applicazione delle disposizioni dei titoli II e III del d.lgs. n. 150/2009 al

personale del Ministero dell’Economia e delle Finanze e delle Agenzie fiscali, non preclude

l’immediata applicazione a esse delle disposizioni in materia di trasparenza previste dalla legge n.

190/2012 e dal d.lgs. n. 33/2013.

Per quanto riguarda, più specificamente, gli enti territoriali nonché gli enti pubblici e i soggetti di

diritto privato sottoposti al loro controllo, nelle more dell’adozione delle intese di cui all’art. 1, c.

61, della legge n. 190/2012, gli stessi sono tenuti a dare comunque attuazione alle disposizioni del

d.lgs. n. 33/2013. Ulteriori indicazioni e specificazioni potranno derivare dalle suddette intese con

cui verranno definiti eventuali particolari adempimenti attuativi.

Le indicazioni contenute nella presente delibera costituiscono un parametro di riferimento anche per

gli enti pubblici e per i soggetti di diritto privato sottoposti al controllo delle regioni, delle province

autonome di Trento e Bolzano e degli enti locali.

Tutte queste amministrazioni sono tenute ad adottare il Programma triennale e a creare la sezione

“Amministrazione trasparente” prevedendo anche le misure organizzative per l’attuazione delle

disposizioni sull’accesso civico. Per l’attestazione sull’assolvimento degli obblighi di trasparenza,

gli OIV, o le altre strutture interne a ciò deputate, si dovranno attenere a quanto previsto nel

paragrafo 3.

Come previsto dall’art. 11 del d.lgs. n. 33/2013, le società partecipate dalle pubbliche

amministrazioni e le società da esse controllate ai sensi dell’art. 2359 del codice civile sono

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tenute alla pubblicazione dei dati indicati dall’art. 1, commi da 15 a 33, della legge n. 190/2012,

limitatamente all’attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o dell’Unione

europea. Ne consegue che esse sono tenute a costituire la sezione “Amministrazione trasparente”

nei propri siti internet. Tali società è opportuno che prevedano, al proprio interno, una funzione di

controllo e di monitoraggio dell’assolvimento degli obblighi di pubblicazione, anche al fine di

dichiarare, entro il 31 dicembre, l’assolvimento degli stessi. Esse provvedono a organizzare, per

quel che riguarda le richieste da parte dei cittadini e delle imprese sui dati non pubblicati, un

sistema che fornisca risposte tempestive secondo i principi dell’art. 5 del d.lgs. n. 33/2013. Non

sono tenute, invece, ad adottare il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità.

Per le autorità di garanzia, vigilanza e regolazione, il legislatore ha stabilito che esse provvedono

all’attuazione della disciplina vigente in materia di trasparenza secondo le disposizioni dei rispettivi

ordinamenti.

Le disposizioni del decreto vanno poi coordinate con quanto previsto dall’art. 1, c. 34, della legge

n. 190/2012 secondo cui anche gli enti pubblici nazionali, da intendersi come enti pubblici

economici, sono tenuti all’applicazione dei cc. da 15 a 33 dell’art. 1 della medesima legge, che

riguardano, in gran parte, obblighi di trasparenza. Ne consegue l’opportunità, anche per tali enti, di

costituire la sezione “Amministrazione trasparente” nei propri siti internet e di prevedere, al proprio

interno, una funzione di controllo e di monitoraggio dell’assolvimento degli obblighi di

pubblicazione, anche al fine di dichiarare, entro il 31 dicembre, l’assolvimento degli stessi. Essi

provvedono a organizzare, per quel che riguarda le richieste da parte dei cittadini e delle imprese sui

dati non pubblicati, un sistema che fornisca risposte tempestive secondo i principi dell’art. 5 del

d.lgs. n. 33/2013. Non sono tenuti, invece, ad adottare il Programma triennale per la trasparenza e

l’integrità.

Il d.lgs. n. 33/2013 contiene, poi, una serie di obblighi di pubblicazione settoriali (ad esempio in

materia ambientale, in materia sanitaria e di pianificazione e governo del territorio) il cui ambito di

applicazione è circoscritto a categorie di soggetti individuati volta per volta dalle singole norme. Al

riguardo si rinvia all’allegato 1.

2. Aggiornamento del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità

Il d.lgs. n. 33/2013, nel modificare, in parte, la disciplina sul Programma triennale per la trasparenza

e l’integrità contenuta nell’art. 11 del d.lgs. n. 150/2009, conferma, all’art. 10, l’obbligo per

ciascuna amministrazione di adottare un Programma triennale per la trasparenza e l’integrità. In

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proposito, è opportuno sottolineare che la mancata predisposizione del Programma è valutata ai fini

della responsabilità dirigenziale e della corresponsione della retribuzione di risultato e del

trattamento accessorio collegato alla performance individuale dei responsabili e può dar luogo a

responsabilità per danno all’immagine dell’amministrazione (art. 46, d.lgs. n. 33/2013).

2.1. Termine per l’adozione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità

Innanzitutto, il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità è delineato come strumento di

programmazione autonomo rispetto al Piano di prevenzione della corruzione, pur se ad esso

strettamente collegato, considerato che il Programma “di norma” integra una sezione del predetto

Piano. Il Programma triennale per trasparenza e l’integrità e il Piano triennale di prevenzione della

corruzione possono essere predisposti altresì quali documenti distinti, purché sia assicurato il

coordinamento e la coerenza fra i contenuti degli stessi.

In ragione di questo stretto raccordo fra i due strumenti programmatori, che ogni amministrazione

potrà realizzare secondo le proprie peculiarità organizzative e funzionali, discende l’opportunità

che, a regime, il termine per l’adozione dei due atti sia lo stesso e cioè il 31 gennaio (art. 1, c. 8,

legge n. 190/2012).

In sede di prima applicazione la legge n. 221/2012 aveva disposto che il termine per l’adozione dei

Piani triennali per la prevenzione della corruzione fosse il 31 marzo 2013. Nelle more dell’adozione

del Piano nazionale anticorruzione, che costituisce la base per i singoli Piani triennali di

prevenzione della corruzione, e in considerazione dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 33/2013 nonché

dell’avvenuta adozione dei Piani della performance per il triennio 2013-2015, o di analoghi

strumenti di programmazione, il termine per l’adozione del Programma triennale per la trasparenza

e l’integrità è il 31 gennaio 2014, salvo successive integrazioni al fine di coordinarne i contenuti

con quelli del Piano triennale per la prevenzione della corruzione qualora entro quella data non sia

stato adottato anche quest’ultimo.

Il differimento del termine per l’adozione del Programma risponde a esigenze di semplificazione

volte a non creare duplicazioni di adempimenti da parte delle pubbliche amministrazioni e a

consentire l’adozione di atti programmatori fra loro coerenti e coordinati.

Rileva, infatti, l’esigenza di evitare la nuova rielaborazione del Piano della performance per il

triennio 2013-2015, o di analoghi strumenti di programmazione, volta a garantirne il collegamento

con il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità. Inoltre, questo differimento tiene anche

conto del fatto che ad oggi non è stato ancora adottato il Piano nazionale anticorruzione che

costituisce un importante presupposto per la definizione delle misure in materia di trasparenza.

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Infine, il differimento del termine consentirà alle amministrazioni di definire l’aggiornamento del

Programma muovendo dai risultati della verifica sull’assolvimento degli obblighi di pubblicazione

da parte degli OIV la cui attestazione dovrà pervenire alla Commissione entro il 31 dicembre

2013 (sul punto si veda il paragrafo 3).

Gli enti territoriali adottano il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità secondo le

modalità e i termini definiti dalla presente delibera fino a quando e nei limiti in cui interverranno le

intese in sede di Conferenza unificata, previste dall’art. 1, c. 61, della legge n. 190/2012.

Le presenti indicazioni sul Programma triennale costituiscono, altresì, principi di riferimento per le

autorità indipendenti di garanzia, vigilanza e regolazione per l’attuazione di quanto previsto dalla

normativa vigente in materia di trasparenza ai sensi dell’art. 11, c. 3, del d.lgs. n. 33/2013.

2.2. Elaborazione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità

Il collegamento fra il Piano triennale di prevenzione della corruzione e il Programma triennale per

la trasparenza e l’integrità è assicurato dal Responsabile della trasparenza le cui funzioni, secondo

quanto previsto dall’art. 43, c. 1, del d.lgs. n. 33/2013, sono svolte, di norma, dal Responsabile per

la prevenzione della corruzione, di cui all’art. 1, c. 7, della legge n. 190/2012.

E’ opportuno precisare che, laddove l’amministrazione abbia nominato due soggetti distinti per le

funzioni in materia di trasparenza e per quelle di prevenzione della corruzione, essa, nell’ambito

della propria autonomia organizzativa, deve garantire un coordinamento tra i due soggetti, i cui

nomi, si ricorda, devono essere pubblicati anche sul sito istituzionale.

Il d.lgs. n. 33/2013 ha optato per una soluzione già anticipata dalla Commissione nell’immediatezza

dell’entrata in vigore della legge n. 190/2012, e motivata dal rilievo attribuito da quest’ultima alla

trasparenza in funzione di prevenzione della corruzione. Complessivamente, inoltre, è opportuno

sottolineare la strumentalità e la complementarietà del ciclo della performance con la prevenzione

della corruzione.

Il processo di elaborazione e attuazione del Programma resta sostanzialmente lo stesso e continuerà

pertanto ad articolarsi secondo le fasi, le attività e i soggetti competenti indicati nella delibera n.

2/2012. Vi è, infatti, una significativa coerenza tra quanto previsto nella citata delibera e il

contenuto del d.lgs. n. 33/2013, che ha tuttavia ulteriormente specificato ruoli e responsabilità dei

soggetti coinvolti nella predisposizione e nel controllo sull’attuazione del Programma.

A questo proposito, il decreto specifica i principali compiti del Responsabile della trasparenza tra i

quali quello di verificare l’adempimento da parte dell’amministrazione degli obblighi di

pubblicazione previsti dalla normativa vigente, assicurando la qualità dei dati pubblicati. In caso di

inottemperanza dell’amministrazione, il Responsabile inoltra una segnalazione all’organo di

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indirizzo politico, all’organismo indipendente di valutazione (OIV), a CiVIT e, nei casi più gravi,

all’ufficio di disciplina (art. 43, cc. 1 e 5, d.lgs. n. 33/2013).

Gli inadempimenti sono altresì segnalati da CiVIT ai vertici politici delle amministrazioni, agli OIV

e, ove necessario, alla Corte dei conti ai fini dell’attivazione delle altre forme di responsabilità (art.

45, c. 4, d.lgs. n. 33/2013). Peraltro, si fa presente che sia la mancata predisposizione del

Programma triennale sia l’inadempimento degli obblighi di pubblicazione sono valutati ai fini della

responsabilità dirigenziale e possono dar luogo a responsabilità per danno all’immagine della

amministrazione (art. 46, d.lgs. n. 33/2013). Tali responsabilità, però, non ricadono unicamente sul

Responsabile della trasparenza; infatti, ai sensi dell’art. 46, c. 2, questi non risponde

dell’inadempimento degli obblighi di pubblicazione o della mancata predisposizione del

Programma triennale per la trasparenza e l’integrità se prova che ciò è dipeso da causa non

imputabile alla sua persona.

Infatti, in linea con le pregresse indicazioni della Commissione sulle attribuzioni dei dirigenti ai fini

della pubblicazione dei dati, il d.lgs. n. 33/2013 prevede esplicitamente che “i dirigenti responsabili

degli uffici dell’amministrazione garantiscono il tempestivo e regolare flusso delle informazioni da

pubblicare ai fini del rispetto dei termini stabiliti dalla legge ” (art. 43, c. 3). Al riguardo si precisa

che per trasmissione si intende, nel caso in cui i dati siano archiviati in una banca dati, sia

l’immissione dei dati nell’archivio sia la confluenza degli stessi dall’archivio al soggetto

responsabile della pubblicazione sul sito. In particolare, nella amministrazioni con

un’organizzazione complessa, è opportuno che le stesse formalizzino in un atto organizzativo

interno e, quando verrà adottato, nel Programma triennale, se vi siano e quali siano i soggetti

responsabili, oltre che dell’elaborazione dei dati, della loro trasmissione e pubblicazione sul sito

istituzionale, laddove non coincidano con il Responsabile della trasparenza.

E’ necessario sottolineare che l’individuazione di tali dirigenti è opportuno venga effettuata anche

per gli uffici periferici, laddove esistenti. Sarà cura dell’amministrazione prevedere nel Programma

triennale, o nell’atto organizzativo di cui sopra, come coordinare le attività previste a livello

centrale con quelle delle sedi periferiche.

2.3. Contenuti del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità

L’art. 10 del d.lgs. n. 33/2013 individua i principali contenuti del Programma triennale. Le

previsioni di tale norma si pongono in continuità con le delibere CiVIT nn. 105/2010 e 2/2012 e con

quanto emerso dai monitoraggi effettuati dalla Commissione sui Programmi triennali dei Ministeri e

degli enti pubblici nazionali in cui era stata rilevata la necessità di una maggiore integrazione tra

performance e trasparenza per quanto riguarda sia la pubblicazione delle informazioni prodotte dal

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ciclo di gestione della performance, che la esplicita previsione nel Piano della performance di

specifici obiettivi in tema di trasparenza.

Nel decreto è riaffermata e sottolineata la necessità che vi sia un collegamento fra la

programmazione strategica e operativa dell’amministrazione, contenuta nel Piano della

performance o negli analoghi strumenti di programmazione, e gli obiettivi di trasparenza indicati

nel Programma triennale.

Si richiama, al riguardo, quanto la Commissione ha previsto nella delibera n. 6/2013, par. 3.1., lett.

b), in merito alla necessità di un coordinamento e di una integrazione fra gli ambiti relativi alla

performance e alla trasparenza, affinché le misure contenute nei Programmi triennali per la

trasparenza e l’integrità diventino obiettivi da inserire nel Piano della performance.

Il Programma, infatti, deve indicare le iniziative previste per garantire un adeguato livello di

trasparenza, nonché la legalità e lo sviluppo della cultura dell’integrità in quanto “definisce le

misure, i modi e le iniziative volti all’attuazione degli obblighi di pubblicazione previsti dalla

normativa vigente, ivi comprese le misure organizzative volte ad assicurare la regolarità e la

tempestività dei flussi informativi di cui all’articolo 43, comma 3”, misure e iniziative che devono

essere collegate con quelle previste dal Piano di prevenzione della corruzione (art. 10, c. 2, d.lgs. n.

33/2013).

Tra le possibili misure, con riferimento in particolare alle amministrazioni con organizzazione

complessa, può essere valutata quella relativa all’individuazione di referenti per la trasparenza in

strutture interne all’amministrazione, anche territoriali. Le modalità di coordinamento tra il

Responsabile della trasparenza e i referenti vanno indicate nel Programma triennale per la

trasparenza e l’integrità.

È, inoltre, opportuno segnalare che all’interno del Programma devono essere previste specifiche

misure di monitoraggio e di vigilanza sull’attuazione degli obblighi di trasparenza (art. 10, cc.

2 e 7, e art. 43, c. 2, del d.lgs. n. 33/2013) la cui definizione è rimessa all’autonomia organizzativa

delle singole amministrazioni. Si ricorda che alla corretta attuazione del Programma triennale, come

già indicato nella delibera n. 2/2012, concorrono, oltre al Responsabile della trasparenza, tutti gli

uffici dell’amministrazione, sia centrali che periferici e i relativi dirigenti.

Resta inteso il necessario rispetto delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali ai

sensi dell’art. 1, c. 2, del d.lgs. n. 33/2013, e, in particolare, della disposizione contenuta nell’art. 4,

c. 4, del d.lgs. n. 33/2013 secondo la quale “nei casi in cui norme di legge o di regolamento

prevedano la pubblicazione di atti o documenti, le pubbliche amministrazioni provvedono a rendere

non intelligibili i dati personali non pertinenti o, se sensibili o giudiziari, non indispensabili

rispetto alle specifiche finalità di trasparenza della pubblicazione”, nonché di quanto previsto

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dall’art. 4, c. 6, del medesimo decreto che prevede un divieto di “diffusione dei dati idonei a

rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”.

Per la redazione del Programma triennale è fortemente auspicato che le amministrazioni seguano

l’indice riportato nella Tabella n. 1 al fine di garantire l’uniformità e, dunque, la comparabilità dei

Programmi stessi.

Tabella 1. Indice del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità

Introduzione: organizzazione e funzioni dell’amministrazione

Organizzazione e funzioni dell’amministrazione, anche con riferimento a particolari strutture interne (ad

es.: corpi e istituti) e agli uffici periferici, laddove presenti

1. Le principali novità

In questa sezione del Programma vanno evidenziati i principali cambiamenti intervenuti rispetto al

Programma precedente

2. Procedimento di elaborazione e adozione del Programma

In questa sezione del Programma è opportuno illustrare:

• gli obiettivi strategici in materia di trasparenza posti dagli organi di vertice negli atti di indirizzo

• i collegamenti con il Piano della performance o con analoghi strumenti di programmazione

previsti da normative di settore

• l’indicazione degli uffici e dei dirigenti coinvolti per l’individuazione dei contenuti del

Programma

• le modalità di coinvolgimento degli stakeholder e i risultati di tale coinvolgimento

• i termini e le modalità di adozione del Programma da parte degli organi di vertice

3. Iniziative di comunicazione della trasparenza

In questa sezione vanno illustrati:

• iniziative e strumenti di comunicazione per la diffusione dei contenuti del Programma e dei dati

pubblicati

• organizzazione e risultati attesi delle Giornate della trasparenza

4. Processo di attuazione del Programma

In questa sezione occorre fare riferimento a:

• individuazione dei dirigenti responsabili della trasmissione dei dati (nel caso in cui i dati siano

archiviati in una banca dati, per trasmissione si intende sia l’immissione dei dati nell’archivio

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che la confluenza dei dati dall’archivio al soggetto responsabile della pubblicazione)

• individuazione dei dirigenti responsabili della pubblicazione e dell’aggiornamento dei dati

• individuazione di eventuali referenti per la trasparenza e specificazione delle modalità di

coordinamento con il Responsabile della trasparenza

• misure organizzative volte ad assicurare la regolarità e la tempestività dei flussi informativi

• misure di monitoraggio e di vigilanza sull’attuazione degli obblighi di trasparenza a supporto

dell’attività di controllo dell’adempimento da parte del responsabile della trasparenza

• strumenti e tecniche di rilevazione dell’effettivo utilizzo dei dati da parte degli utenti della

sezione “Amministrazione Trasparente”

• misure per assicurare l’efficacia dell’istituto dell’accesso civico

5. “Dati ulteriori”

• indicazione dei dati ulteriori, in tabelle in formato aperto, che l’amministrazione si impegna a

pubblicare entro la fine dell’anno e nel triennio, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 4, c. 3,

del d.lgs. n. 33/2013

La Commissione ribadisce, inoltre, che il Programma triennale è innanzitutto uno strumento rivolto

ai cittadini e alle imprese con cui le amministrazioni rendono noti gli impegni in materia di

trasparenza. Ne consegue l’importanza che nella redazione del documento sia privilegiata la

chiarezza espositiva e la comprensibilità dei contenuti anche per chi non è uno specialista del

settore.

Come già previsto dalle delibere CiVIT nn. 105/2010 e 2/2012, tutte le amministrazioni sono

tenute a pubblicare il testo del Programma sul proprio sito istituzionale nella sezione

“Amministrazione trasparente”, secondo quanto previsto dall’allegato A del d.lgs. n. 33/2013,

impiegando un formato aperto di pubblicazione (ad esempio HTML o PDF/A).

Le amministrazioni statali, gli enti pubblici non economici nazionali, le Agenzie, incluse quelle

fiscali di cui al d.lgs. n. 300/1999, le Università e le Camere di Commercio sono tenuti a

comunicare alla CiVIT, all’indirizzo e-mail [email protected], esclusivamente il link

della pagina nella quale è pubblicato il Programma, specificando nell’oggetto della

trasmissione la denominazione dell’amministrazione e la dicitura “Programma triennale per

la trasparenza e l’integrità 2014-2016”.

Nelle more della definizione di un sistema e di un programma di controllo che la CiVIT si riserva di

comunicare, tutti gli altri enti e amministrazioni non sono tenuti a trasmettere il link del

Programma alla CiVIT.

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Per le amministrazioni statali e gli enti pubblici non economici nazionali, sarà cura del

Responsabile della trasparenza inserire entro il 28 febbraio 2014 sul Portale della trasparenza le

informazioni sugli aspetti più rilevanti del Programma secondo il formato standard contenuto

nell’allegato 3. La Commissione si riserva di fornire a queste medesime amministrazioni,

successivamente a una fase di sperimentazione, le modalità di accesso e trasmissione al Portale

della trasparenza.

2.4. Dati ulteriori

Come già precisato nella delibera CiVIT n. 2/2012, la più recente accezione della trasparenza quale

“accessibilità totale”, implica che le amministrazioni si impegnino, nell’esercizio della propria

discrezionalità e in relazione all’attività istituzionale espletata, a pubblicare sui propri siti

istituzionali dati “ulteriori” oltre a quelli espressamente indicati e richiesti da specifiche norme di

legge. La pubblicazione dei “dati ulteriori” è prevista anche dalla legge n. 190/2012 come contenuto

dei Piani triennali di prevenzione della corruzione (art. 1, c. 9, lett. f) e dallo stesso d.lgs. n. 33/2013

(art. 4, c. 3).

Il d.lgs. n. 33/2013, all’art. 1, c. 1, nell’esplicitare il principio generale di trasparenza e nel fare

riferimento alle informazioni concernenti “l’organizzazione e l’attività delle pubbliche

amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni

istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche” offre un criterio di discrezionalità molto ampio

che è opportuno sia letto in una logica di piena apertura dell’amministrazione verso l’esterno e non

declinato solamente in forme di mero adempimento delle norme puntuali sugli obblighi di

pubblicazione.

In questa ottica, i dati ulteriori sono quelli che ogni amministrazione, in ragione delle proprie

caratteristiche strutturali e funzionali, dovrebbe individuare a partire dalle richieste di conoscenza

dei propri portatori di interesse, anche in coerenza con le finalità del d.lgs. n. 150/2009 e della legge

n. 190/2012. A tal fine, ad esempio, potrebbe essere utile, oltre che una più attenta “funzione di

ascolto” dei portatori di interesse, un’analisi delle richieste di accesso ai dati ai sensi della legge n.

241/1990 per individuare tipologie di informazioni che, a prescindere da interessi prettamente

individuali, rispondono a richieste frequenti e che, pertanto, possa essere opportuno rendere

pubbliche nella logica dell’accessibilità totale.

Tenuto conto dei costi che l’amministrazione deve sopportare anche per l’individuazione e la

pubblicazione di tali dati, è importante sottolineare che si deve trattare di dati utili per i portatori di

interesse. Essi possono anche consistere in elaborazione di “secondo livello” di dati e informazioni

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obbligatori, resi più comprensibili per gli interlocutori che non hanno specifiche competenze

tecniche.

A titolo esemplificativo si richiamano alcune categorie di dati già indicate dal paragrafo n. 5 della

delibera CiVIT n. 2/2012, quali ad esempio quelli sulle tipologie di spesa e sulle tipologie di

entrata, quelli sull’attività ispettiva e quelli sul sistema della responsabilità disciplinare e, per

quanto riguarda i pagamenti, i dati sulle fatture, i mandati e i relativi tempi di pagamento.

Resta inteso che la pubblicazione di dati ulteriori deve essere effettuata nel rispetto dell’art. 4, c. 3,

del d.lgs. n. 33/2013, in virtù del quale “le pubbliche amministrazioni possono disporre la

pubblicazione nel proprio sito istituzionale di dati, informazioni e documenti che non hanno

l’obbligo di pubblicare ai sensi del presente decreto o sulla base di specifica previsione di legge o

regolamento, fermi restando i limiti e le condizioni espressamente previsti da disposizioni di legge,

procedendo alla anonimizzazione dei dati personali eventualmente presenti”.

Nel Programma le amministrazioni indicheranno, in tabelle pubblicate in formato aperto, i dati

ulteriori individuati ai fini della pubblicazione entro la fine dell’anno e nel triennio.

Come riportato nell’allegato 1 alla delibera, i dati, le informazioni e i documenti ulteriori per i quali

non sussiste un espresso obbligo di pubblicazione dovranno essere pubblicati nella sotto-sezione di

primo livello “Altri contenuti - Dati ulteriori”, laddove non sia possibile ricondurli ad alcuna delle

sotto-sezioni in cui deve articolarsi la sezione “Amministrazione trasparente”.

3. Attestazione sull’assolvimento degli obblighi di pubblicazione e monitoraggio sull’elaborazione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità

In considerazione dei rilevanti profili di responsabilità connessi all’assolvimento degli obblighi di

pubblicazione e ai più penetranti poteri di controllo attribuiti alla Commissione e al Responsabile

della trasparenza dal d.lgs. n. 33/2013, assume particolare rilievo, nel nuovo quadro normativo,

l’attestazione sull’assolvimento degli obblighi cui sono tenuti gli OIV ai sensi dell’art. 14, c. 4, lett.

g), del d.lgs. n. 150/2009.

Facendo seguito al monitoraggio sulle attestazioni della trasparenza prodotte dagli OIV e condotto

da CiVIT nel 2012, gli allegati 1 e 2 hanno lo scopo di aggiornare il quadro degli obblighi di

pubblicazione sui siti istituzionali nonché di specificare alcuni aspetti dirimenti relativi alla qualità

dei dati pubblicati. L’intento, oltre che di fornire un quadro unitario per le pubbliche

amministrazioni, è anche quello di rendere più omogenee le attività di controllo, monitoraggio e

attestazione degli OIV.

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Nell’allegato 1 è disponibile un elenco degli obblighi di pubblicazione attualmente in vigore in cui è

proposta una specifica tempistica per l’aggiornamento dei dati, coerente con quanto stabilito al

riguardo dal d.lgs. n. 33/2013. L’elenco è accompagnato da una nota esplicativa disponibile

nell’allegato 1.1.

L’allegato 2 costituisce, invece, un documento tecnico in cui sono specificate le nozioni di

completezza, aggiornamento e apertura del formato dei dati utilizzate dalla Commissione ai fini

della propria attività di vigilanza e di controllo. Il documento non è finalizzato a delineare standard

e specifiche tecniche per la pubblicazione dei dati. Esso, piuttosto, mira a precisare i criteri di

qualità del contenuto informativo dei dati al fine di risolvere le incertezze di interpretazione di tali

criteri emerse in sede di monitoraggio delle attestazioni 2012.

Resta invariato l’oggetto dell’attestazione che, anche per il 2013, sarà riferita non solo all’avvenuta

pubblicazione dei dati ma anche alla qualità degli stessi in termini di completezza, aggiornamento e

apertura. Come già anticipato nel paragrafo 2.1., l’attestazione sull’assolvimento degli obblighi di

pubblicazione dovrà essere completata e inviata alla CiVIT in formato elettronico entro e non

oltre il 31 dicembre 2013.

La Commissione renderà disponibile, in tempi utili, la nuova griglia per l’attestazione 2013 nonché

fornirà indicazioni operative ulteriori sulla redazione dell’attestazione e sulle modalità di

trasmissione alla CiVIT da parte degli OIV.

La Commissione, inoltre, si riserva la facoltà di chiedere agli OIV di alcune tipologie di

amministrazioni di effettuare attestazioni mirate sull’assolvimento di specifiche categorie di

obblighi di pubblicazione nei mesi che precedono il termine del 31 dicembre 2013 per l’invio

dell’attestazione. Le attestazioni predisposte dagli OIV costituiscono l’unico strumento di verifica

sull’assolvimento degli obblighi di pubblicazione nel corso del 2013. È necessario, pertanto, che le

amministrazioni programmino le attività e adottino tutte le soluzioni e le misure operative e

organizzative utili a garantire tempestivamente l’assolvimento degli obblighi di pubblicazione

vigenti.

Oltre alla verifica sul rispetto degli obblighi di pubblicazione al 2013, esclusivamente gli OIV delle

amministrazioni statali e degli enti pubblici non economici nazionali dovranno curare anche il

monitoraggio sull’avvio del ciclo della trasparenza per il 2014, secondo i contenuti

dell’allegato 4.

Esso sarà focalizzato sui seguenti aspetti:

a) qualità del processo di elaborazione del Programma;

b) qualità del processo di attuazione previsto nel Programma.

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La Commissione si riserva di fornire indicazioni operative ulteriori ai fini dell’inserimento sul

Portale della trasparenza dei dati del monitoraggio degli OIV sull’avvio ciclo della trasparenza

2014. Gli esiti dei riscontri effettuati dall’OIV dovranno comunque pervenire alla CiVIT entro il 28

febbraio 2014.

Al fine di offrire un quadro unitario dei termini e delle scadenze con riferimento alle attività che le

amministrazioni e gli OIV devono porre in essere in materia di trasparenza, nell’allegato 5 è reso

disponibile un apposito calendario per gli anni 2013 e 2014.

4. Accesso civico

Tra le novità introdotte dal d.lgs. n. 33/2013 una delle principali riguarda l’istituto dell’accesso

civico (art. 5). Le amministrazioni sono tenute ad adottare autonomamente le misure organizzative

necessarie al fine di assicurare l’efficacia di tale istituto e a pubblicare, nella sezione

“Amministrazione trasparente”, gli indirizzi di posta elettronica cui inoltrare le richieste di accesso

civico e di attivazione del potere sostitutivo, corredate dalle informazioni relative alle modalità di

esercizio di tale diritto.

Il Responsabile della trasparenza, ai sensi dell’art. 5, c. 2, del decreto, si pronuncia in ordine alla

richiesta di accesso civico e, in virtù dell’art. 43, c. 4, ne controlla e assicura la regolare attuazione.

Peraltro, nel caso in cui il Responsabile non ottemperi alla richiesta, l’art. 5, c. 4, prevede che il

richiedente possa ricorrere al titolare del potere sostitutivo che dunque assicura la pubblicazione e la

trasmissione all’istante dei dati richiesti.

Ai fini della migliore tutela dell’esercizio dell’accesso civico e preferibilmente nei casi in cui vi sia

un unico dirigente cui attribuire le funzioni di Responsabile della trasparenza e di prevenzione della

corruzione, le funzioni relative all’accesso civico di cui all’art. 5, c. 2, del citato decreto possono

essere delegate dal Responsabile della trasparenza ad altro dipendente, in modo che il potere

sostitutivo possa rimanere in capo al Responsabile stesso. Questa soluzione, rimessa all’autonomia

organizzativa degli enti, consentirebbe di evitare che il soggetto titolare del potere sostitutivo

rivesta una qualifica inferiore rispetto al soggetto sostituito. Inoltre, anche al fine di monitorare e migliorare il sistema della trasparenza, la Commissione

evidenzia quanto già indicato nella delibera n. 2/2012 in relazione all’opportunità che le

amministrazioni approntino propri strumenti e iniziative di ascolto dei cittadini e delle imprese con

riferimento alla rilevazione quantitativa degli accessi alla sezione “Amministrazione trasparente” e

alla raccolta del feedback degli stakeholder sul livello di utilità dei dati pubblicati nonché di

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eventuali reclami in merito a inadempienze riscontrate, pubblicando annualmente i risultati di tali

rilevazioni.

Roma, 4 luglio 2013

Romilda Rizzo

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Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 12-04-2013) 14-06-2013, n. 26222

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. DUBOLINO Pietro - Presidente - Dott. BRUNO Paolo A. - Consigliere - Dott. VESSICHELLI Maria - Consigliere - Dott. ZAZA Carlo - rel. Consigliere - Dott. GUARDIANO Alfredo - Consigliere - ha pronunciato la seguente:

sentenza sul ricorso proposto da: Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino; nel procedimento nei confronti di: C.A., nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 27/09/2012 del Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Torino; Visti gli atti, il provvedimento impugnato, il ricorso e la memoria depositata dall'imputato; udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Carlo Zaza; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale CEDRANGOLO Oscar, che ha concluso per l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata.

Svolgimento del processo Con la sentenza impugnata, il Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Torino dichiarava non luogo a procedere per insussistenza del fatto nei confronti di C.A. in ordine ai reati di cui agli artt. 476 e 490 cod. pen., contestati come commessi il 15/09/2011 quale dipendente della GTT s.p.a., società incaricata dell'accertamento alle violazioni in materia di sosta degli autoveicoli nel Comune di Torino, alterando un verbale nell'indicazione del numero di targa di un'autovettura e distruggendo la copia del verbale destinata ad essere consegnata all'autore dell'infrazione. Nella sentenza si osservava in particolare che la natura privatistica della GTT escludeva la ravvisabilità del reato di cui all'art. 476 cod. pen.. e che la distruzione della copia del verbale, che non teneva luogo dell'originale e costituiva in ipotesi mero attestato di un atto pubblico, non integrava comunque il reato di cui all'art. 490 cod. pen.. Il Procuratore della Repubblica ricorrente deduce violazione di legge nelle conclusioni appena riportate, rilevando che, a prescindere dalla natura della società a cui era affidato il servizio, le condotte contestate erano poste in essere nell'esercizio di un'attività alla quale la L. 23 dicembre 1999, n. 488, art. 68, comma 1, ricollega il potere di redigere verbali aventi efficacia di atti pubblici. L'imputato ha depositato memoria a sostegno della richiesta di rigetto del ricorso.

Motivi della decisione Il ricorso è infondato. Con riguardo in primo luogo al proscioglimento del C. dall'imputazione di cui all'art. 476 cod. pen., è opportuno rammentare che detta norma incriminatrice vede quale soggetto attivo il pubblico ufficiale; e che la responsabilità per il reato in esame si estende all'incaricato di pubblico servizio, per effetto della specifica previsione di cui all'art. 493 cod. pen., solo a condizione che tale soggetto sia impiegato dello Stato o di altro ente pubblico. Orbene, i cosiddetti "ausiliari del traffico", espressione che sintetizza anche nell'uso comune le attribuzioni la posizione di soggetti quali l'imputato nel presente procedimento, non rivestono la qualifica di pubblici ufficiali; proprio la norma citata dal ricorrente nella L. n. 488 del 1999, art. 68, comma 1, delimita infatti le funzioni di tali soggetti a quelle di accertamento e contestazione delle violazioni in materia di sosta all'interno delle aree oggetto di concessione alle imprese di gestione dei parcheggi e di quelle

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immediatamente limitrofe e necessarie a compiere le manovre atte a garantire la concreta funzionalità del parcheggio in concessione (Sez. 6, n. 38877 del 05/07/2006, D'Arcangelo, Rv. 235229). Laddove si voglia riconoscere nella descritta attività quella dell'incaricato di un pubblico servizio (Sez. 6, n. 7496 del 14/01/2009, De M Certo, Rv. 242914), è però sicuramente da escludere che l'imputato, dipendente di una società privata pur se affidataria di tale servizio, possa essere qualificato come pubblico impiegato; manca dunque, nella posizione dei C., la qualifica soggettiva che consenta di configurare a suo carico il reato in questione. Quanto all'imputazione di cui all'art. 490 cod. pen., posto che le copie di atti pubblici costituiscono oggetto materiale di reati quale quello in esame, ai sensi dell'art. 492 cod. pen., solo allorchè si tratti di copie autentiche che per espressa disposizione di legge tengano luogo degli originali mancanti (Sez. 5, n. 6685 del 06/03/1998, Ridella, Rv. 211361), la sentenza impugnata era coerentemente motivata nell'escludere che alla copia del verbale di contravvenzione, destinata alla consegna al trasgressore, possa essere attribuita tale qualifica; e comunque nel rilevare che alle copie in questione può essere riconosciuta unicamente la natura di attestati e non quella di atti o certificati pubblici, ai quali soli si riferisce la previsione incriminatrice di cui al citato art. 490 attraverso il rinvio ai precedenti artt. 476 e 477 (Sez. 5, n. 6060 del 22/02/1978, Minio, Rv. 139033). Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Così deciso in Roma, il 12 aprile 2013. Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2013

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Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 26-07-2013, n. 18168

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ROSELLI Federico - Presidente - Dott. BANDINI Gianfranco - Consigliere - Dott. MAISANO Giulio - Consigliere - Dott. BLASUTTO Daniela - Consigliere - Dott. MAROTTA Caterina - rel. Consigliere - ha pronunciato la seguente:

sentenza sul ricorso 30102/2008 proposto da: REGIONE CALABRIA (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. NICOTERA 29 SC. 9 INT. 2, presso lo studio dell'avvocato CASALINUOVO ALDO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato FALDUTO PAOLO, giusta delega in atti; - ricorrente - contro F.F.A.; - intimata - avverso la sentenza n. 1336/2008 della CORTE D'APPELLO di CATANZARO, depositata il 02/09/2008 R.G.N. 389/2003; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/05/2013 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

La Corte di appello, giudice del lavoro, di Reggio Calabria, in accoglimento dell'impugnazione proposta dalla Regione Calabria, dichiarava la nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado proposto da F.F.A. e della sentenza impugnata e ciò dopo aver riscontrato che non fossero intercorsi almeno trenta giorni

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tra la data di notifica del ricorso e la data dell'udienza di discussione; quindi, considerando che tale nullità non rientrava tra quelle per cui era prevista la rimessione della causa al primo giudice, decideva nel merito accogliendo la domanda proposta dal F. e condannando la Regione Calabria al pagamento, in suo favore, della somma di Euro 2.235,16 oltre accessori a titolo di indennità sostitutiva delle ferie non godute dal dipendente (collocato a riposo con decorrenza 1/1/2000) nell'anno 1999. Per la cassazione di tale sentenza la Regione Calabria propone ricorso affidato a due motivi. E' rimasto solo intimato F.F.A.. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo la Regione ricorrente denuncia: "Violazione e falsa applicazione dell'art. 415 c.p.c., comma 5, e art. 354 c.p.c., nonchè omessa, insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia". Si duole del fatto che la Corte territoriale ha ritenuto di non rimettere la causa al primo giudice rilevando che il mancato rispetto del termine a comparire determina la nullità della notifica e non quella del ricorso. 2. Il motivo è infondato. Nei procedimenti soggetti al rito del lavoro, introdotti mediante ricorso da notificarsi al convenuto unitamente al decreto di fissazione dell'udienza di discussione, trova applicazione la disciplina dettata dall'art. 415 c.p.c., per cui, in particolare, tra la data di notificazione al convenuto e quella dell'udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di trenta giorni (comma 5), elevato a quaranta giorni se la notificazione debba effettuarsi all'estero (comma 6). La disciplina di tali procedimenti, peraltro, non prevede specificamente le conseguenze processuali derivanti dalla mancata osservanza in primo grado del prescritto termine dilatorio, come avviene, invece, per il procedimento ordinario, nel quale, essendo esplicitamente prevista la nullità della citazione in caso di assegnazione di un termine a comparire inferiore a quello stabilito dalla legge (artt. 164 e 163 bis c.p.c.), il giudice di appello, ove la nullità non sia stata sanata in primo grado mediante costituzione del convenuto o rinnovazione dell'atto di citazione, deve necessariamente disporre la rinnovazione degli atti nulli, ex art. 162 c.c., comma 1, e decidere la causa nel merito, non potendo comunque trovare applicazione il disposto dell'art. 354 c.p.c., comma 1, che prevede la rimessione al primo giudice nel caso di nullità della sola notificazione e non anche dello stesso atto introduttivo. La questione se la disciplina ordinaria sia integralmente applicabile ai suddetti procedimenti di rito speciale ovvero se la particolarità della vocatio, propria di tali procedimenti, con la scissione della editio actionis (che si realizza con il deposito del ricorso nella cancelleria del giudice) e della vocatio in jus (che si attua mediante il concorso del comportamento del giudice, che emette il decreto di fissazione dell'udienza, e dell'attore, che deve provvedere alla notificazione del ricorso e del decreto al convenuto entro un termine sufficiente ad assicurare il prescritto spatium deliberarteli), comporti che la violazione del termine di comparizione afferisca alla sola fase di notificazione, senza che il vizio si estenda allo stesso atto introduttivo del giudizio, e se ne derivi, in tal caso, per il giudice di appello, l'obbligo di rimettere la causa al primo giudice, in applicazione di quanto previsto dal citato art. 354 c.p.c., comma 1, per l'ipotesi di nullità della notifica della citazione, è stata risolta dalle sez. un. di questa Corte con decisione del 21 marzo 2001, n. 122. E' stato così ritenuto, risolvendo un contrasto, che il giudice di appello che rilevi la nullità dell'introduzione del giudizio, determinata dall'inosservanza del termine dilatorio di comparizione stabilito dall'art. 415 c.p.c., comma 5, non possa dichiarare la nullità e rimettere la causa al giudice di primo grado (non ricorrendo in detta ipotesi nè la nullità della notificazione dell'atto introduttivo, nè alcuna delle altre ipotesi tassativamente previste dall'art. 353 c.p.c., e art. 354 c.p.c., comma 1), ma debba trattenere la causa e, previa ammissione dell'appellante ad esercitare in appello tutte le attività che avrebbe potuto svolgere in primo grado se il processo si fosse ritualmente instaurato, decidere nel merito. Ciò in ragione della diversità strutturale tra l'atto introduttivo del giudizio ordinario (che inizia con la citazione ad udienza fissa) e l'atto introduttivo del giudizio secondo il rito del lavoro, che non consente l'automatica trasposizione dell'art. 164 c.p.c., comma 1, nella parte in cui qualifica come causa di nullità della citazione l'inosservanza del termine dilatorio di comparizione, al rito del lavoro, che assume la struttura di fattispecie complessa a formazione progressiva, caratterizzata dalla scissione tra l'editio actionis e la vocatio injus. Inoltre è stato considerato che

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l'inosservanza del termine di comparizione di cui all'art. 415, comma 5, sia essa dovuta al provvedimento del giudice ovvero alla successiva condotta dell'attore, è causa di invalidità della vocatio in jus, e non può quindi incidere sulla validità dell'editio actionis, perfezionata mediante il deposito del ricorso, in ragione del principio generale di cui all'art. 159 c.p.c., comma 1, secondo cui la nullità di un atto non importa quella degli atti precedenti. In sostanza, nel caso dell'inosservanza del termine dilatorio di comparizione stabilito dall'art. 415 c.p.c., comma 5, la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione viene postulata come valida: il contatto tra attore e convenuto si è realizzato, mediante la notificazione, ed il contraddittorio è potenzialmente instaurato. Il convenuto che, pur avendo avuto notizia del giudizio intentato nei suoi confronti, rileva la violazione del termine di comparizione, non si costituisce per libera scelta di strategia processuale, riservandosi la tutela in sede di impugnazione. Non si verte, quindi, in una ipotesi di nullità della notificazione dell'atto introduttivo, determinante il difetto di conoscenza nel convenuto della pendenza del giudizio, ma in una ipotesi di nullità della fattispecie introduttiva determinata dalla lesione del diritto di difesa del convenuto, inciso dall'assegnazione di uno spatium deliberaridi inferiore a quello garantito dalla legge. E questa ipotesi non è espressamente prevista dall'art. 354 c.p.c., comma 1. Ne consegue l'inapplicabilità della rimessione al primo giudice di cui al medesimo art. 354 c.p.c., comma 1. Questa Corte non ha motivo di discostarsi da tale soluzione. Avendo, dunque, la Corte territoriale correttamente trattenuto la causa e non essendo in discussione che la Regione appellante sia stata posta in condizione di esercitare in grado di appello tutte le attività che avrebbe potuto svolgere in primo grado, il motivo deve essere disatteso. 3. Con il secondo motivo la Regione ricorrente denuncia: "Violazione e falsa applicazione dell'art. 36 Cost., e art. 2109 c.c., nonchè violazione e/o falsa applicazione dell'art. 10 del c.c.n.l. Regioni Enti Locali del 6/7/1995 (applicabile ratione temporis) - omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione su un punto decisivo". Si duole del fatto che siano state ritenute monetizzabili ferie di cui il lavoratore non aveva goduto e ciò sulla base della sola circostanza del mancato godimento e senza tener conto che una specifica disposizione pattizia (art. 18, comma 9, c.c.n.l. del 6/7/1995) prevedeva tale monetizzazione solo nell'ipotesi in cui le ferie spettanti non fossero state fruite per esigenze di servizio, situazione nella specie non sussistente. 4. Anche tale motivo è infondato. Va, al riguardo, richiamato il principio già espresso da questa Corte secondo cui, in relazione al carattere irrinunciabile del diritto alle ferie, garantito anche dall'art. 36 Cost., e dall'art. 7 della direttiva 2003/88/CE (v. la sentenza 20 gennaio 2009 nei procedimenti riuniti c-350/06 e c-520/06 della Corte di giustizia dell'Unione Europea), ove in concreto le ferie non siano effettivamente fruite, anche senza responsabilità del datore di lavoro, spetta al lavoratore l'indennità sostitutiva che ha, per un verso, carattere risarcitorio, in quanto idonea a compensare il danno costituito dalla perdita di un bene (il riposo con recupero delle energie psicofisiche, la possibilità di meglio dedicarsi a relazioni familiari e sociali, l'opportunità di svolgere attività ricreative e simili) al cui soddisfacimento l'istituto delle ferie è destinato e, per altro verso, costituisce erogazione di indubbia natura retributiva, perchè non solo è connessa al sinallagma caratterizzante il rapporto di lavoro, quale rapporto a prestazioni corrispettive, ma più specificamente rappresenta il corrispettivo dell'attività lavorativa resa in periodo che, pur essendo di per sè retribuito, avrebbe invece dovuto essere non lavorato perchè destinato al godimento delle ferie annuali, restando indifferente l'eventuale responsabilità del datore di lavoro per il mancato godimento delle stesse (cfr., tra le più recenti, Cass. 9 luglio 2012, n. 11462; id. 11 ottobre 2012, n. 17353). Dovendo, quindi, farsi applicazione del principio secondo cui dal mancato godimento delle ferie - una volta divenuto impossibile per il datore di lavoro, anche senza sua colpa, adempiere l'obbligo di consentirne la fruizione - deriva il diritto del lavoratore al pagamento dell'indennità sostitutiva, le clausole del contratto collettivo (nella specie, l'art. 18, comma 9, c.c.n.l. Regioni ed enti locali, triennio 1994-1997), che pur prevedono che le ferie non sono monetizzabili, vanno interpretate - in considerazione dell'irrinunciabilità del

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diritto alle ferie, ed in applicazione del principio di conservazione del contratto - nel senso che, in caso di mancata fruizione delle ferie per causa non imputabile al lavoratore, non è escluso il diritto di quest'ultimo all'indennità sostitutiva. 5. Da tanto consegue che il ricorso deve essere rigettato. 6. Infine nulla va disposto in ordine alle spese processuali del presente giudizio di legittimità essendo il F. rimasto solo intimato.

P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese. Così deciso in Roma, il 14 maggio 2013. Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2013

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N. 03609/2013REG.PROV.COLL. N. 01981/2013 REG.RIC.

R E P U B B L I C A I T A L I A N A

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1981 del 2013, proposto da: Societa' Immobiliare Zini S.R.L., rappresentato e difeso dall'avv. Lorenzo Lentini, con domicilio eletto presso Giuseppe Placidi in Roma, via Cosseria N. 2;

contro Comune di Casagiove, rappresentato e difeso dall'avv. Luigi Adinolfi, con domicilio eletto presso Anna Bei in Roma, via Ovidio N.10 c/o Studio Rosati;

nei confronti di Provincia di Caserta, Regione Campania; Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Presidenza del Consiglio dei Ministri, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma della sentenza del T.A.R. CAMPANIA - NAPOLI: SEZIONE VIII n. 00772/2013, resa tra le parti, concernente diniego proposta di edilizia residenziale sociale Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Comune di Casagiove e di Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e di Presidenza del Consiglio dei Ministri; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 giugno 2013 il Cons. Sergio De Felice e uditi per le parti gli avvocati Lorenzo Lentini, Luigi Adinolfi e l'avvocato dello Stato Giustina Noviello; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO Con ricorso dinanzi al Tar Campania-Napoli, la società attuale appellante agiva per l’annullamento della delibera del Consiglio Comunale di Casagiove n. 5 del 15 marzo 2012 recante rigetto della proposta di edilizia residenziale (c.d. housing sociale) avanzata ai sensi dell’art. 11 del D.L. 25 giugno 2008 n. 112 e dell’art. 8 del D.P.C.M. 16 luglio 2009. A seguito dell’emanazione dell’avviso indetto con decreto regionale n. 376/2010, la società ZI.NI. s.r.l. aveva proposto un programma di intervento di social housing da realizzarsi su suoli di proprietà siti nel Comune di Casagiove e classificati come aree a destinazione agricola dal vigente P.R.G.. Con decreti dirigenziali n. 510 dell’11 novembre 2010 e n. 62 del 3 marzo 2011 la società (unitamente ad altra società) veniva ammessa, rispettivamente, alla seconda e terza fase della selezione concorsuale. Per l’effetto, la proposta presentata dalla ZI.NI. s.r.l. accedeva alla procedura negoziata di cui all’art. 8 del decreto dirigenziale regionale n. 376/2010 (conferenza di servizi preliminare per ciascun ambito provinciale ex art. 14 bis L. 241/90). Con nota del 9 febbraio 2012 la Regione invitava il Comune di Casagiove e la ZI.NI. s.r.l. presso i propri uffici per la prosecuzione di tale procedura negoziata e per la determinazione dei contenuti progettuali definitivi della proposta. La Regione rappresentava inoltre che in data 19 ottobre 2011 era stato sottoscritto l’accordo di programma tra Regione e Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti previsto dall’art. 4 del D.P.C.M. 16 luglio 2009 in ordine alle modalità di attivazione del programma di housing sociale regionale. Detto accordo prevedeva che, entro il termine di 180 giorni dalla comunicazione dell’avvenuta approvazione da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri, la Regione avrebbe dovuto stipulare le intese con i Comuni interessati per la

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definitiva approvazione dei progetti ed il tempestivo avvio dei lavori. Pertanto, con la precitata nota la Regione invitava la ricorrente a trasmettere il progetto definitivo entro 45 giorni aggiungendo altresì che “Nello stesso termine andranno parimenti risolte eventuali problematiche di carattere urbanistico e/o ambientale”. Tuttavia, i lavori della conferenza di servizi non si concludevano e, con la delibera consiliare n. 5 del 15 marzo 2012, oggetto del ricorso originario, il Comune di Casagiove esprimeva il proprio diniego sulle proposte di edilizia residenziale presentate dalla società ZI.NI. s.r.l.. In particolare, trattandosi di interventi da realizzare in aree classificate come agricole dal vigente strumento urbanistico, il Comune motivava il diniego in quanto sosteneva di preferire risolvere le problematiche residenziali nell’ambito della pianificazione urbanistica generale (avendo in corso la redazione del Piano Urbanistico Comunale - PUC) ritenuta più idonea e più adeguata in relazione all’interesse pubblico al corretto ed armonico utilizzo del territorio. Il primo giudice rigettava i motivi di ricorso sostenuti dalla società ricorrente – che sosteneva quantomeno la esigenza di idonea motivazione a sorreggere un diniego che vanificava il percorso procedimentale già avviato su finalità aventi interesse strategico nazionale ai sensi di legge- non ritenendo che il Comune potesse essere costretto ad adeguarsi a decisioni prese da altri livelli amministrativi territoriali. La scelta delle proposte di social housing da ammettere a finanziamento non può prescindere dall’assenso dei Comuni interessati, il cui apporto procedimentale è indispensabile al fine di concentrare gli interventi sulla effettiva richiesta abitativa nei singoli contesti, rapportati alla dimensione fisica e demografica del territorio di riferimento, specie allorquando tali programmi di intervento richiedono l’adeguamento degli strumenti urbanistici vigenti. Conseguentemente, andava esclusa dall’elenco degli interventi ammessi al programma regionale di edilizia residenziale la proposta per la quale il Comune interessato aveva espresso chiaro diniego. Secondo il primo giudice, il ruolo del Comune è, in linea di principio, preponderante, in tema di localizzazione di interventi di housing sociale, in quanto ad esso spetta l'iniziativa e la formulazione di una compiuta proposta, mediante l'adozione del progetto di piano, competendo alla distinta autorità provinciale l’approvazione del medesimo, oltre che per ragioni di carattere ambientale, anche perché l’approvazione del PUC in corso di redazione deve essere preceduto dalla Valutazione Ambientale Strategica ex D.Lgs. 3 aprile 2006 n. 152. Avverso tale sentenza, ritenendola errata e ingiusta, propone appello la stessa società originaria ricorrente, che, dopo avere ricostruito la disciplina in materia, deduce i vizi di error in iudicando e violazione di legge sotto vari profili e cioè: la insostenibilità di atto politico e quasi non motivato del parere espresso dal Comune, sulla base della normativa in materia, che configura tali interventi di interesse strategico nazionale; la insostenibilità di un potere di veto o gradimento incondizionato sulla base delle competenze comunali; la sindacabilità da parte dell’adito giudice amministrativo dei pareri espressi dal Comune; la completa obliterazione di quanto sostenuto dalla ordinanza cautelare di questo Consiglio di Stato, che, sia pure in tale sede, aveva avvertito della esigenza di una concreta e adeguata valutazione del progetto di housing sociale alla luce delle risultanze complessive dell’iter procedimentale svoltosi a monte; si deduce come il parere del Comune avrebbe dovuto precedere e non seguire l’accordo di programma; con altro motivo si lamenta anche la erroneità della sentenza laddove ha condiviso la tesi della difesa comunale di inadeguatezza del progetto perché sovradimensionato, anche perché si tratta della ponderazione di interessi che non sono soltanto di rango comunale, ma anche sovracomunale; si lamenta la erroneità della sentenza, anche per la inconferenza delle affermazioni in ordine alla competenza in materia di valutazione ambientale strategica da parte dei Comuni. Si deducono e ripropongono anche i vizi di illogicità del parere negativo, perché richiama un parere della Conferenza dei Capigruppo con riferimento al Piano Casa Regionale di due anni prima circa, del tutto non pertinente; è illegittimo il motivo di rinviare alla adozione del redigendo Piano Urbanistico Comunale. Si è costituito il Comune di Casagiove, chiedendo il rigetto dell’appello perché infondato. Deduce l’inammissibilità dell’appello perché non avrebbe impugnato il capo di sentenza relativo alla esclusione; per il resto insiste nel chiedere il rigetto dell’appello perché infondato. Si sono costituiti altresì le amministrazioni statali appellate, con memoria di forma. Alla udienza pubblica del 18 giugno 2013 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO 1. In via preliminare, va rigettata l’eccezione di inammissibilità dell’appello, in quanto è evidente che la esclusione, il cui capo non sarebbe stato fatto oggetto di specifica impugnazione in appello, non è altro che la conseguenza automatica della conclusione della legittimità del diniego o parere negativo espresso dal Comune competente in relazione alla proposta di housing sociale al finanziamento regionale.

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2. Nel merito, si osserva quanto segue, ricostruendo la normativa applicabile alla specie. L’art. 11 del D.L. 25 giugno 2008 n. 112 (convertito con modificazioni dalla L. 6 agosto 2008 n. 133) - recante “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria” – prevede, al fine di garantire su tutto il territorio nazionale i livelli minimi essenziali di fabbisogno abitativo per il pieno sviluppo della persona umana, l’approvazione di un Piano nazionale di edilizia abitativa con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, previa delibera del Comitato Interministeriale per la Programmazione economica (CIPE), di intesa con la Conferenza unificata di cui all’art. 8 D.Lgs. 28 agosto 1997 n. 281 e su proposta del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. Ai sensi del terzo comma lett. e) della citata disposizione, il piano nazionale di edilizia abitativa ha ad oggetto la costruzione di nuove abitazioni, il recupero del patrimonio abitativo esistente e la realizzazione di programmi integrati di promozione di edilizia residenziale sociale (c.d. social housing). Tale Piano è stato approvato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 16 luglio 2009 che, all’art. 4, prevede la stipula di accordi di programma promossi dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti con le Regioni e i Comuni “al fine di concentrare gli interventi sull’effettiva richiesta abitativa nei singoli contesti, rapportati alla dimensione fisica e demografica del territorio di riferimento attraverso la realizzazione di programmi integrati di promozione di edilizia residenziale anche sociale e di riqualificazione urbana, caratterizzati da elevati livelli di vivibilità, salubrità, sicurezza e sostenibilità ambientale ed energetica, anche attraverso la risoluzione di problemi di mobilità, promuovendo e valorizzando la partecipazione di soggetti pubblici e privati”. Ai sensi della richiamata disposizione, la stipulazione di tali accordi di programma avviene “sulla base delle procedure attuative di cui all’art. 8”. In particolare, l’art. 8 del D.P.C.M. 16 luglio 2009 disciplina tali procedure statuendo che: - le Regioni d’intesa con gli enti locali propongono al Ministero un programma coordinato di interventi volti a incrementare, in risposta alle diverse tipologie di fabbisogno abitativo, il patrimonio di edilizia residenziale sociale; - attraverso procedure di evidenza pubblica, le proposte di intervento provenienti dai soggetti pubblici e privati interessati vengono vagliate e valutate ai fini dell’ammissibilità e dell’inserimento nel programma di edilizia abitativa; - qualora, ai fini del coordinamento delle azioni previste nelle proposte di intervento, sia necessaria la contestuale definizione o variazione di più atti di programmazione economico-finanziaria e di pianificazione territoriale di competenza di amministrazioni diverse, è indetta un’apposita conferenza di servizi, cui partecipano tutti i soggetti interessati al rilascio di atti di assenso comunque denominati. Ai sensi dell’art. 9 del citato D.P.C.M., i programmi di intervento dovevano pervenire al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti entro 180 gg. dalla pubblicazione del provvedimento ministeriale di ripartizione dei contributi appositamente stanziati. Con decreto dell’8 marzo 2010, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ripartiva tra le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano le risorse del Piano nazionale di edilizia abitativa sulla base di predeterminati coefficienti ed assegnava alla Regione Campania la somma di euro 41.168.899,68 destinata a finanziare le quattro linee di intervento previste dall’art. 1 del Piano nazionale (incremento patrimonio edilizia residenziale pubblica, promozione anche da parte dei privati di interventi in project financing, agevolazione a cooperative edilizie, programmi integrati di promozione di edilizia residenziale sociale). Con decreto dirigenziale n. 376 del 28 luglio 2010 la Regione Campania pubblicava l’avviso per la definizione del Programma regionale di edilizia residenziale di cui all’art. 8 del D.P.C.M. 16 luglio 2009, finalizzato ad individuare la disponibilità di soggetti pubblici, privati ed operatori economici proponenti interventi di edilizia residenziale sociale. Tale avviso prevedeva una procedura articolata in tre fasi concernenti, rispettivamente: I) la verifica dei requisiti di ammissibilità delle proposte; II) la valutazione delle proposte medesime in base a parametri prestabiliti; III) la successiva procedura di negoziazione. In dettaglio, ai sensi dell’art. 7 del suddetto avviso, per le proposte ritenute ammissibili era prevista l’attribuzione di massimo 100 punti assegnati in base ai seguenti criteri di valutazione: A) localizzazione degli interventi, 15 punti; B) qualità urbana, 45 punti; C) sostenibilità economica e gestionale, 40 punti. Le proposte con un punteggio minimo di 60 punti potevano accedere alla successiva fase di approfondimento (procedura negoziata di cui all’art. 8) volta a determinare i contenuti progettuali definitivi delle proposte di housing sociale, anche con riferimento all’attivazione di operazioni urbanistiche di scambio, perequative e di incremento dei parametri volumetrici.

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A tale scopo era prevista la convocazione da parte della Regione di una conferenza di servizi preliminare per ciascun ambito provinciale ai sensi dell’art. 14 bis L. 7 agosto 1990 n. 241 con la partecipazione dei soggetti proponenti ammessi nonché della Provincia e dei Comuni interessati. Il verbale conclusivo della conferenza di servizi doveva infine essere ratificato dal Comune interessato entro 30 giorni dalla sottoscrizione, al fine della necessaria dichiarazione di interesse pubblico della proposta progettuale (la mancata ratifica entro il termine prescritto avrebbe comportato l’esclusione delle proposte dall’elenco di quelle ammesse al finanziamento). All’esito delle conferenze di servizi e sulla base del punteggio di valutazione, la Regione avrebbe formulato l’elenco delle proposte progettuali di housing ammesse a finanziamento nel programma regionale di edilizia residenziale sociale: per queste ultime sarebbe stato infine attivato l’accordo di programma di cui al D.P.C.M. 16 luglio 2009 (art. 8, quinto comma, del decreto dirigenziale 376/2010). L'art. 8 dell'allegato A dell'Avviso per la definizione del Programma regionale di edilizia residenziale sociale, prevedeva quindi che nella fase procedurale di negoziazione venisse convocata da parte della Regione una Conferenza di servizi preliminare ex art. 14 bis della legge n. 241/90 con la partecipazione dei soggetti proponenti, la Provincia e i Comuni interessati. È previsto, ai comma 3 e 4 del medesimo art. 8, che "3. Il verbale conclusivo della Conferenza di servizi deve essere ratificato dal Comune interessato entro trenta giorni dalla sottoscrizione, al fine della necessaria dichiarazione di interesse pubblico della proposta progettuale di Housing Sociale in questione . 4. Decorso il termine di trenta giorni le proposte non ratificate sarebbero state escluse dall'elenco di cui al comma successivo" ovverosia dall'elenco delle proposte progettuali ammesse al finanziamento nel Programma regionale di edilizia residenziale sociale". In tal senso, pertanto, la positiva dichiarazione di interesse da parte del Comune sul cui territorio deve essere realizzato l'intervento, è certamente indispensabile ai fini della prosecuzione dell'ammissione del progetto tra quelli finanziabili, prevedendo la disposizione in questione che il Comune si esprima positivamente sul progetto, mediante ratifica del verbale conclusivo della Conferenza dei servizi, determinandone il carattere di interesse pubblico della stessa. Non può sostenersi che tale ratifica o assenso sia un atto vincolato da parte del Comune (anche in presenza di una dichiarazione di interesse strategico nazionale di tali interventi ai sensi del comma 11 dell’art. 11 del decreto-legge 25 giugno 2008 n.112 convertito in legge 6 agosto 2008, n.133) non essendovi alcuna indicazione normativa in tal senso e, anzi, lasciando la disposizione in esame la questione alla valutazione discrezionale dell'Ente stesso. Ciò è, peraltro, reso più evidente dalla previsione del quarto comma del’art. 8 richiamato secondo cui in caso di mancata ratifica la proposta è automaticamente esclusa da quelle finanziabili, in quanto anche la sola mera inerzia del Comune comporta la non ammissione della proposta alle fasi successivi. Risulta quindi evidente come la ratifica sia condizione essenziale e che la stessa non sia un atto vincolato bensì sia oggetto delle scelte amministrative del Comune. Tale conclusione è in linea con le generali competenze attribuite al Comune in materia di governo del territorio e pianificazione urbanistica che impediscono che, in mancanza di specifiche disposizioni legislative, interventi edilizi di housing sociale siano localizzati sul territorio di un Comune senza che quest'ultimo si sia espresso positivamente, anche perché il medesimo Comune è l'ente più idoneo a valutare i bisogni di edilizia residenziale sociale sul suo territorio. Nella suddetta materia non può sostenersi che l'atto con cui il Comune si esprime in ordine al progetto di housing sociale sia considerabile un atto politico, come tale svincolato da ogni obbligo di motivazione e sottratto al sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo. Il presupposto per cui un atto soggettivamente e formalmente amministrativo possa ritenersi avere natura politica è che lo stesso costituisca espressione della fondamentale funzione di direzione e di indirizzo politico. Alla nozione legislativa di atto politico concorrono due requisiti, l'uno soggettivo e l'altro oggettivo: occorre, da un lato, che si tratti di atto o provvedimento emanato dal Governo, e cioè dall'Autorità amministrativa cui compete la funzione di indirizzo politico e di direzione al massimo livello della cosa pubblica; dall'altro, che si tratti di atto o provvedimento emanato nell'esercizio del potere politico, anziché nell'esercizio di attività meramente amministrativa (Consiglio di Stato, sez. IV, 4 maggio 2012, n. 2588) ovverosia debba riguardare la costituzione, la salvaguardia e il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione (Consiglio di Stato, sez. IV, 18 novembre 2011, n. 6083; Consiglio di Stato, sez. IV, 12 marzo 2001, n. 1397). È evidente come l'atto in esame, ovverosia la manifestazione di interesse relativa ad un progetto di housing sociale, non possa rientrare tra gli atti politici, in quanto pur provenendo da un organo di vertice del

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Comune, riguarda sul piano oggettivo la localizzazione di un intervento edilizio, ovverosia un atto rientrante nella competenza amministrativa dell'Ente. Tale atto, quindi, per quanto abbia un ambito di discrezionalità amministrativa piuttosto ampia, riguardando anche il governo del territorio, è comunque soggetto all'obbligo di motivazione e al normale regime di legittimità degli atti amministrativi, dovendo l'azione amministrativa sempre svolgersi in base ai principi di buona amministrazione, mediante scelte logiche e razionali, debitamente motivate. Anche nelle ipotesi in cui la discrezionalità amministrativa si presenta come ampia, il sindacato del giudice amministrativo potrà censurare i profili di irragionevolezza, irrazionalità, arbitrarietà o travisamento dei fatti e difetto di motivazione. Come già ha osservato sia pure in sede cautelare questo Consesso (ordinanza della quinta sezione n. 3830 del 2012) la motivazione deve essere adeguata a seguito di una valutazione concreta del progetto di housing sociale, alla luce delle risultanze complessive dell’iter procedimentale svoltosi. Il Comune con la delibera n.5 del 2012, al di là delle premesse dell’atto, ha motivato il suo dissenso in base alla circostanza che sarebbe in corso di redazione il PUC e che in quella sede intenderebbe procedere alla verifica e alle scelte delle destinazioni nell’ambito della pianificazione urbanistica generale del territorio, più idonea e più adeguata in relazione all’interesse pubblico al corretto ed armonico utilizzo del territorio. Viene altresì richiamata la posizione espressa dalla Conferenza dei Capigruppo del 23 febbraio 2010, che in merito alle possibilità relative al Piano Casa regionale, aveva espresso la volontà di attuare la risoluzione di tali problematiche all’interno della variante al PRG, allora in itinere ed oggi definitivamente approvata. Tale motivazione, collegata alla mera esistenza di una procedura di formazione di un nuovo Piano Urbanistico Comunale, appare allo stato generica e inidonea a giustificare l'esito negativo, in quanto non fornisce specifiche ragioni sul perché tale nuova programmazione escluderebbe la possibilità di realizzazione dell'intervento mediante l'approvazione di limitati varianti al fine del progetto in questione. In sostanza, il provvedimento comunale sembra basato sul presupposto erroneo che basti avere in programma una nuova pianificazione urbanistica per escludere automaticamente la possibilità di qualsiasi iniziativa progettuale che, sebbene inserita in un programma Regionale di edilizia residenziale sociale, necessiti di una limitata variante al PRG di un'area a destinazione agricola. Dall'esame degli atti risulta, difatti, che l'iniziativa in questione non sia stata presa in esame nella sua completezza e concretezza e l'organo procedente si sia fermato all'esame dell'aspetto formale dell'esistenza di un procedimento per una nuova pianificazione urbanistica. La mera esistenza di tale procedimento, però, non si palesa come circostanza di per sé idonea a giustificare il parere negativo da parte del Comune in ordine al progetto in esame, dovendosi una valutazione negativa esprimersi su fondate ragioni carattere tecnico-urbanistico, sulla necessità di tutela di interessi pubblici prevalenti o sull'esistenza di motivate ragioni di opportunità amministrativa realmente incompatibili con l'iniziativa in questione. Il provvedimento appare quindi affetto da difetto di motivazione. D’altra parte, nelle premesse dell’atto il Consiglio Comunale ha dovuto richiamare – e non potrebbe essere altrimenti – i vari atti, procedimenti e fasi e quindi premettere che : 1) il DPCM del 16 luglio 2009 pubblicato sulla G.U. 19 agosto 2009 di approvazione del Piano nazionale di Edilizia Abitativa; 2) la delibera della Giunta Regionale n.572 del 22 luglio 2010 con cui la Regione ha approvato le linee in materia di ERS per la redazione e attuazione dei programmi finalizzati alla risoluzione di tali problematiche abitative e alla riqualificazione del patrimonio edilizio ed urbanistico esistente, sulla base delle quali emanare l’avviso pubblico per la definizione del programma regionale di edilizia residenziale sociale di cui all’art. 8 DPCM 16 luglio 2009; 3) il D.D. n.376 del 28 luglio 2010 con cui è stato approvato l’avviso per la definizione del programma regionale di edilizia residenziale sociale, pubblicato sul BURC del 2 agosto 2010; 4) la valutazione eseguita dalla Regione Campania con D.D. 62 del 3 marzo 2011 pubblicata sul BURC n.15 del 7 marzo 2011 di approvazione delle proposte che accedono alla fase di approfondimento e definizione conclusiva mediante l’attivazione della procedura negoziata ex art. 8 del richiamato avviso; 5) che in tale elenco figurano due proposte prodotte da privati, che riguardano il Comune di Casagiove; 6) che in attuazione di tali fasi la Regione Campania convocava una conferenza di servizi preliminare ai sensi dell’art. 14 bis legge 241 del 1990 e che alla seduta del 5 maggio 2011 hanno partecipato rappresentanti del Comune; 7) che in data 30 marzo 2011 la società odierna appellante aveva inviato al Comune il progetto preliminare per le valutazioni. Ora, sulla base della complessa procedura ora descritta – pur partendo dalla affermazione che le scelte urbanistiche spettano al Comune per competenza – non può non osservarsi che, anche per il principio generale di economicità dell’attività amministrativa, non possa assistersi allo spreco della pregressa attività istruttoria, che ha ponderato e valutato interessi anche di rango sovra comunale come si desume dalla

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normativa in materia, ammettendo una motivazione apodittica e non adeguatamente istruita e ponderata in ordine alla concretezza dell’intervento proposto, che consentiva di accedere al finanziamento parziale dello stesso. La manifestazione di interesse relativa ad un progetto di housing sociale non può quindi rientrare tra gli atti politici, in quanto pur provenendo da un organo di vertice del Comune, riguarda sul piano oggettivo la localizzazione di un intervento edilizio, ovverosia un atto rientrante nella competenza amministrativa dell'Ente. Tale atto, quindi, per quanto abbia un ambito di discrezionalità amministrativa piuttosto ampia, riguardando anche il governo del territorio, è comunque soggetto all'obbligo di motivazione e al normale regime di legittimità degli atti amministrativi, dovendo l'azione amministrativa sempre svolgersi in base ai principi di buona amministrazione, mediante scelte logiche e razionali, debitamente motivate. Anche nell'ipotesi in cui la discrezionalità amministrativa si presenta come ampia, il sindacato del giudice amministrativo può censurare i profili di irragionevolezza, irrazionalità, arbitrarietà o travisamenti dei fatti e difetto di motivazione. In un ambito sia pure in parte diverso, (Consiglio Stato sez. IV, 5 dicembre 2006, n. 7131) si è ritenuto che il semplice avvio del procedimento di revisione del piano regolatore generale – e quindi la giustificazione della pendenza del procedimento di revisione del PRG - non costituisca adempimento da parte del comune dell'obbligo di attribuire la riqualificazione urbanistica alla zona rimasta priva di specifica disciplina a seguito di decadenza del vincolo di destinazione su di essa gravante, atteso che l'adempimento esatto e non elusivo di tale obbligo può essere dato soltanto dallo specifico ed immediato completamento del piano regolatore generale per quella zona, senza attendere la conclusione delle ulteriori e dilatorie procedure che comportano la riconsiderazione dell'intero piano urbanistico. D’altronde, sia pure in via successiva e integrativa, la difesa comunale (pagine da 4 in poi), oltre a riportare il motivo esposto del diniego, riporta passaggi della Relazione dell’Assessore competente, che pure fa riferimento ad altre ragioni (non abbracciate né richiamate dalla delibera impugnata), con riguardo alla sproporzione del numero degli appartamenti e altro. L’accoglimento del motivo di censura procedimentale relativo al difetto di motivazione, con salvezza delle successive attività procedimentali, esime il Collegio dall’esame degli altri motivi. 3. Per le considerazioni sopra svolte, salve le successive determinazioni dell’amministrazione, in riforma dell’appellata sentenza, va accolto il ricorso originario ai sensi di cui in motivazione, con annullamento dell’atto originariamente impugnato. La condanna alle spese del doppio grado di giudizio segue il principio della soccombenza per il Comune; le spese sono liquidate in dispositivo. Sussistono giustificati motivi di compensazione per il resto.

P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie ai sensi di cui in motivazione e di conseguenza, in riforma dell’appellata sentenza, accoglie il ricorso originario. Condanna il Comune appellato al pagamento in favore dell’appellante delle spese del doppio grado di giudizio, liquidandole in complessivi euro cinquemila. Compensa le spese nei confronti della altre parti costituite. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 giugno 2013 con l'intervento dei magistrati:

Giorgio Giaccardi, Presidente Sergio De Felice, Consigliere, Estensore Raffaele Potenza, Consigliere Andrea Migliozzi, Consigliere Oberdan Forlenza, Consigliere

L'ESTENSORE

IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 08/07/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. AGRO' Antonio S. - Presidente - Dott. SERPICO Francesco - Consigliere - Dott. CORTESE Arturo - Consigliere - Dott. IPPOLITO Francesco - Consigliere - Dott. DI STEFANO Pierluigi - rel. Consigliere - ha pronunciato la seguente:

sentenza sul ricorso proposto da: 1) C.A. n. (OMISSIS); 2) D.T.L. n. (OMISSIS); 3) D.S.M. n. (OMISSIS); 4) O.A. n. (OMISSIS); 5) R.G.G. n. (OMISSIS); avverso la sentenza n. 910/2010 della CORTE DI APPELLO di MILANO del 28/10/2011; visti gli atti, la sentenza ed il ricorso; udita la relazione fatta dal Consigliere Dott. PIERLUIGI DI STEFANO; Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. GABRIELE MAZZOTTA che ha concluso chiedendo: - nei confronti di D.T. e D.S. l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata per nuova determinazione della pena, previa riqualificazione dei fatti quale appropriazione indebita, ed il rigetto nel resto; - nei confronti di C., O. e R. il rigetto dei ricorsi; Udito il difensore di C.A. ed O.A. avv. FRANCESCA NEGRI che ha chiesto l'accoglimento del ricorso; Udito il difensore di D.T.L. e D.S.M. avv. VINICIO NARDO che ha chiesto l'accoglimento dei ricorsi; Udito il difensore di R.G.G. avv. PALMIRA MIRELLA VISCUSO che ha chiesto l'accoglimento del ricorso.

Fatto Diritto P.Q.M.

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. AGRO' Antonio S. - Presidente - Dott. SERPICO Francesco - Consigliere - Dott. CORTESE Arturo - Consigliere - Dott. IPPOLITO Francesco - Consigliere - Dott. DI STEFANO Pierluigi - rel. Consigliere - ha pronunciato la seguente:

sentenza sul ricorso proposto da: 1) C.A. n. (OMISSIS); 2) D.T.L. n. (OMISSIS); 3) D.S.M. n. (OMISSIS); 4) O.A. n. (OMISSIS); 5) R.G.G. n. (OMISSIS); avverso la sentenza n. 910/2010 della CORTE DI APPELLO di MILANO del 28/10/2011; visti gli atti, la sentenza ed il ricorso; udita la relazione fatta dal Consigliere Dott. PIERLUIGI DI STEFANO; Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. GABRIELE MAZZOTTA che ha concluso chiedendo: - nei confronti di D.T. e D.S. l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata per nuova determinazione della pena, previa riqualificazione dei fatti quale appropriazione indebita, ed il rigetto nel resto; - nei confronti di C., O. e R. il rigetto dei ricorsi; Udito il difensore di C.A. ed O.A. avv. FRANCESCA NEGRI che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;

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Udito il difensore di D.T.L. e D.S.M. avv. VINICIO NARDO che ha chiesto l'accoglimento dei ricorsi; Udito il difensore di R.G.G. avv. PALMIRA MIRELLA VISCUSO che ha chiesto l'accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Milano con sentenza del 28 ottobre 2011 confermava in punto di responsabilità e determinazione della pena la sentenza del Tribunale di Milano del 1 ottobre 2009 che condannava C.A., D.T.L., D.S.M., O. A., R.G.G. e M.M.G. per vari fatti di truffa aggravata e peculato ai danni di Poste Italiane spa dei quali gli imputati erano dipendenti; riformava parzialmente la sentenza applicando a tutti gli imputati la non menzione della condanna. Questi i fatti accertati: nel (OMISSIS), a seguito della denunzia presentata da un dipendente dell'ufficio di Poste Italiane filiale di (OMISSIS) in ordine ad anomali ritardi di personale di quell'Ufficio nella presentazione quotidiana al lavoro, la polizia giudiziaria disponeva un servizio di controllo sia mediante osservazione diretta che mediante l'installazione di un impianto video che riprendeva l'atrio dell'ufficio di Poste spa, in particolare l'area riservata all'ingresso dei dipendenti, ove si trovava l'orologio marcatempo. Gli accertamenti erano svolti per due settimane lavorative, dai (OMISSIS) al (OMISSIS). Le registrazioni video così realizzate consentivano di notare i gesti dei soggetti intenti ad utilizzare l'orologio marcatempo, pur non essendo quest'ultimo direttamente visibile; in particolare, secondo i giudici di merito, dai gesti si comprendeva come la dipendente M.M.G. effettuasse più registrazioni di presenza, facendo passare più volte la/e scheda/e badge nel lettore. Sulla scorta della valutazione incrociata di quali fossero i dipendenti il cui ingresso risultava, in base ai dati del sistema di registrazione degli accessi, sostanzialmente contemporaneo a quello della M. e della visione nelle registrazioni video di chi fosse effettivamente entrato in ufficio nel medesimo arco temporale, si individuavano C.A., O.A. e R. G.G. per coloro la cui presenza era stata registrata dalla M. ma che invece erano assenti. Evidentemente, quindi, la M. aveva avuto a disposizione i loro badge. I giudici di merito, poichè la pg non aveva verificato se la assenza dei predetti dipendenti in ufficio si fosse protratta per tutto l'arco delle giornate lavorative, ricostruivano i fatti ritenendo che la certezza della loro abusiva assenza dal lavoro, occultata nel modo anzidetto, dovesse essere limitata all'arco temporale tra la timbratura del cartellino e l'orario di spegnimento giornaliero dell'impianto video (ore 8:30), non potendosi comunque escludere che le tre impiegate si fossero recate al lavoro dopo tale orario. Per tali fatti, considerandone la reiterazione in vari giorni, i giudici di merito ritenevano sussistere il reato di truffa aggravata ai sensi dell'art. 61 c.p., nn. 9 ed 11. Nel corso della medesima attività di indagine, la p.g. accertava che il dipendente D.T., assegnatario di una vettura Fiat Panda dell'ente per garantire la sua mobilità sul territorio essendo tecnico informatico addetto alla gestione guasti di numerosi uffici postali, la utilizzava ampiamente per ragioni private. Tale condotta risultava dal servizio di pedinamento svolto dalla p.g. che rilevava anche che, in una occasione, l'auto risultava utilizzata anche dal coniuge del D.T., D.S.M.. I giudici di merito, non ritenendo che tale condotta fosse giustificata dalle impellenti ragioni indicate da D.T. e D. S., affermavano la sussistenza dei reati di peculato contestati ai capi 12 e 14, escludendo, invece, la rilevanza penale dell'uso dell'autovettura da parte del D.T. per gli spostamenti casa- ufficio. Quanto agli specifici motivi di appello la Corte: - escludeva la necessità di riapertura del dibattimento, richiesta ai sensi dell'art. 603 c.p.p., comma 1. - Escludeva che ricorressero ragioni di inutilizzabilità delle videoriprese effettuate senza autorizzazione della autorità giudiziaria in quanto non vi stata l'intercettazione di comunicazioni bensì la sola ripresa di comportamenti; il luogo dì esecuzione non era una privata dimora nè era ad essa assimilabile, trattandosi dell'atrio di un ufficio postale; l'apparecchio di videoripresa era collocato all'esterno; non è applicabile ad una simile ipotesi l'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori che offre tutela nei rapporti fra datori di lavoro e dipendenti ma non limita il potere delle forze dell'ordine di disporre indagini. - Escludeva la rilevanza degli argomenti della difesa in ordine ad essere state altrimenti recuperate le ore di lavoro in ipotesi perse per il citato meccanismo di alterazione degli orari d'ingresso. - Le imputate C., O., R. e M. andavano qualificate quali incaricate di pubblico servizio poichè operavano nell'ambito della struttura incaricata di ispezioni e controlli interni sulla operatività di Poste Italiane. Parimenti il D. T. era certamente un incaricato di pubblico servizio perchè la sua attività era strategica per garantire la funzionalità del servizio in caso di guasti dei sistemi informatici delle singole filiali. - Non ricorreva la speciale tenuità del danno dovendo essere lo stesso valutato in relazione a tutti gli episodi tenendo, peraltro, anche conto della ripetitività della condotta.

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C.A., D.T.L., D.S.M., O. A., R.G.G. hanno proposto ricorso avverso tale sentenza: C. e O. con unico ricorso a firma del proprio difensore deducono: Con primo motivo la violazione di legge in relazione all'art. 266 c.p.p. e ss., rito in quanto le videoriprese erano state "effettuate in luogo privato ed in assenza di autorizzazione del giudice". L'area ripresa, infatti, era luogo certamente privato, poco rilevando che le telecamere fossero installate all'esterno, richiamando tal fine la giurisprudenza che ha affermato l'illegittimità delle videoriprese effettuate in un locale pubblico senza autorizzazione. Con secondo motivo deducono il vizio di motivazione; ripercorso il contenuto delle prove acquisite in sede dibattimentale, osservano come la motivazione sia carente nell'attribuire loro la responsabilità per i fatti contestati. Con terzo motivo deducono la carenza di motivazione in relazione all'art. 640 c.p., per assenza di adeguata motivazione sulla offensività della condotta. Richiamate le regole in tema di offensività del reato, osservano che, perchè nel caso di specie ricorra il reato di truffa, è necessario dimostrare che i periodi di assenza dal lavoro comportino conseguenze economicamente apprezzabili. Ma da tali assenze non sono affatto conseguite tali conseguenze, come dimostra la stessa circostanza che l'indagine non è partita da un esposto dell'ente Poste spa, il quale non si è neanche costituito parte civile, ma dalla denunzia di un altro dipendente, motivata da ragioni di carattere personale. Il danno che sarebbe stato in concreto provocato dai ricorrenti ammonterebbe per Cuna a circa Euro 55,00 e per l'altra a circa Euro 25,00. Con quarto motivo deducono la violazione di legge ed il vizio di motivazione per l'applicazione dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 9 cod. pen. in quanto la struttura di "Internal Auditing" nell'ambito della spa Poste Italiane non è qualificabile quale ente pubblico in sè nè partecipa ad alcuna delle attività che integrano lo svolgimento di una pubblica funzione. Con quinto motivo deducono la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione all'applicazione dell'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 11. Deducono di aver già argomentato nei motivi di appello, senza che vi sia stata adeguata motivazione, sulla non configurabilità di un rapporto fiduciario che giustificasse la contestazione di "abuso di relazioni di ufficio". Il sistema del cartellino marcatempo per controllare le presenze non comporta alcun affidamento nella spontanea condotta leale del dipendente. Al riguardo, quindi, è erronea sia l'affermazione in diritto che, comunque, inadeguata la motivazione che non risponde allo specifico motivo di appello. Con sesto motivo deducono violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 640 c.p., in quanto, escluse le aggravanti di cui all'art. 61 c.p., nn. 9 ed 11, il reato di truffa non aggravato non è procedibile se non a querela della persona offesa che, nel caso di specie, non risulta presentata. Con settimo motivo deducono la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla applicazione di entrambe le aggravanti in questione laddove fra le stesse vi è un rapporto di specialità che, in caso di concorso apparente, impone la applicazione della sola aggravante di cui all'art. 61, n. 9. Con l'ottavo motivo deducono la violazione di cui all'art. 606 c.p.p., lett. D), per mancata assunzione di una prova decisiva laddove la difesa chiedeva di dimostrare, mediante rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, che le ricorrenti erano sempre state "impiegate modello" nonchè chiedeva di dimostrare l'effettuazione di ore di lavoro straordinario non pagate per le quali chiedeva rilevarsi la avvenuta compensazione con il presunto danno. Con il nono motivo deduce la violazione di legge in relazione al diniego della attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4, atteso che il danno provocato è indubbiamente di minima entità. R. propone ricorso a firma del proprio difensore. Con primo motivo deduce la violazione legge in riferimento all'art. 191 c.p.p., commi 1 e 2. Rileva che le riprese video sono state effettuate in un luogo privato non essendo gli uffici "Internal auditing" ufficio pubblico o aperto al pubblico, potendovi accedere solo i dipendenti ed essendo anche l'atrio parte integrante di tale ufficio privato. Con secondo motivo deduce il vizio di motivazione in ordine al reato di truffa non essendovi stata adeguata valutazione delle risultanze probatorie per affermare la sussistenza dell'elemento soggettivo quanto alla consapevolezza di realizzare un ingiusto profitto. Le prove dimostravano l'accesso della ricorrente nel sistema informatico in fasce orarie tali da far venir meno l'ipotesi di assenza ingiustificata superiore a pochi minuti. Con terzo motivo deduce il vizio di motivazione quanto alla ritenuta circostanza di cui all'art. 61 c.p., n. 9, poichè la ricorrente partecipa ad una attività interna dell'ente non finalizzata alla garanzia di effettività del servizio postale ma alla valutazione dei processi di controllo, di gestione dei rischi e di "corporate governante".

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Con quarto motivo deduce il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza della aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 11, sia perchè esclusa in ragione del rapporto di specialità in caso di sussistenza della aggravante di cui al precedente n. 9 e sia perchè, nel caso specifico, non è possibile individuare un profilo di abuso della fiducia. Con quinto motivo deduce il vizio di motivazione per essere stata ritenuta la truffa consumata e non il mero tentativo di truffa: non essendovi stato conseguimento del profitto del reato, lo stesso non può ritenersi consumato. D.T. propone ricorso a mezzo del proprio difensore: con primo motivo deduce il vizio di motivazione quanto alla omessa risposta alle doglianze difensive espresse in sede di motivi di appello avendo la Corte sostanzialmente confermato la decisione di primo grado senza ulteriori argomentazioni. Con secondo motivo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto alla ritenuta qualifica di incaricato di pubblico servizio del ricorrente. Rammentato che l'ente Poste è oggi esercente un'attività pubblicistica con esclusivo riferimento ai servizi postali ed alla raccolta del risparmio, osserva come sia indubbio che il ricorrente svolga soltanto attività di tecnico informatico, mansioni di natura meramente materiale; in alcun modo sono coinvolte le attività della società che rientrano nell'ambito della pubblica funzione. Con terzo motivo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione per essere stata affermata la sussistenza dell'elemento oggettivo del reato e la offensività della condotta pur in assenza di alcuna concreta lesione della attività dell'ente e di apprezzabile danno economico. Con quarto motivo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto alla ritenuta sussistenza dell'elemento psicologico del reato. D.S. propone ricorso a firma del proprio difensore con contenuto sostanzialmente simile a quello del coniuge D.T. osservando, quale ragione di sicura esclusione dell'ipotesi di peculato, che l'uso da parte sua della autovettura assegnata al coniuge era comunque avvenuto in una singola occasione ed era finalizzato a raggiungere il posto di lavoro presso un ufficio della medesima spa Poste della quale era dipendente.

Motivi della decisione

Tutti i ricorsi sono infondati. Ricorso C. / O. e motivi corrispondenti del ricorso R.: il primo motivo può essere trattato unitamente al primo motivo del ricorso di R., che pone simili questioni in ordine alla utilizzabilità quale prova delle videoriprese. Gli argomenti posti dai ricorsi per giungere ad affermare l'inutilizzabilità sono: - Le videoriprese di comportamenti non comunicativi sono vietate nell'ambito del domicilio. - Il luogo ove era installato l'orologio marcatempo era un luogo privato essendo posto in un edificio privato, non rilevando che la telecamera fosse installata all'esterno e che l'area ripresa fosse l'atrio dell'ufficio postale. Il carattere di luogo "privato" ricorre ancorchè si tratti di un locale aperto al pubblico. - Inoltre, l'ufficio di "Internal Auditing", di Poste Italiane S.p.A. di (OMISSIS) non è neanche un ufficio aperto al pubblico essendone consentito l'accesso solo ai dipendenti. - La conseguenza, per le ricorrenti, è che gli ambiti in cui sono state effettuate le riprese "andavano ritenuti quali luoghi di privata dimora, in quanto luoghi utilizzati per lo svolgimento di manifestazione della vita privata (come l'attività professionale) di chi lo occupava, anche in ragione della durata del rapporto tra il luogo e persona che vi operava". - E, ancora, nel caso di specie è certamente operante il divieto dell'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, ovvero il divieto assoluto di controllo a distanza dei lavoratori, divieto che si pone nei confronti di qualsiasi soggetto e non soltanto del datore di lavoro. A tali argomenti i giudici di merito avevano già risposto che: - le operazioni di registrazioni video dell'area ove era posto l'orologio marcatempo sia per individuare chi utilizzasse più tessere magnetiche sia per identificare gli impiegati che entravano per poter poi determinare, per esclusione, chi fossero i soggetti la cui presenza era stata falsamente registrata da altri impiegati compiacenti, non rappresentavano una intercettazione di comunicazioni e rientravano invece nell'ambito delle prove atipiche di cui all'art. 189 c.p.p.. Osserva quindi questa Corte che l'affermazione del trovarsi dinanzi ad una tipologia di prova che non rientra nella disciplina di cui all'art. 266 c.p.p. e ss., è certamente corretta: - non si tratta di intercettazioni di comunicazioni, neanche sotto forma di "comportamenti comunicativi", perchè l'obiettivo del controllo era da un lato la condotta di una singola persona di utilizzazione di più badge e dall'altro il mancato ingresso di altri impiegati. Quindi, non dovevano essere applicate le

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disposizioni dell'art. 266 c.p.p. e ss., che riguardano la captazione di comunicazioni e lo scambio di informazioni per via informatica. Su tale punto non vi è alcuna deduzione contraria da parte dei ricorrenti ma tale precisazione è necessaria perchè, nella intestazione del primo motivo del ricorso C. e O., viene invocata la violazione di legge con riferimento all'art. 266 c.p.p. e ss., ma nella successiva esposizione degli argomenti, invece, non vi è alcun riferimento alla normativa sulle intercettazioni. - le videoriprese hanno rappresentato un'attività di indagine della polizia giudiziaria, per cui non si è in presenza di "documenti" ex art. 234 cod. proc. pen. in quanto i "documenti" presuppongono la formazione al di fuori del procedimento. Così chiarito l'ambito in cui si discute delle prove in questione, i ricorsi di C., O. e R., in modo sostanzialmente alternativo, prospettano due ragioni per la inutilizzabilità delle riprese video. Da un lato si sostiene che si sia trattato di attività svolta in un'area che costituisce "domicilio", rientrandosi così nella ipotesi di assoluto divieto di videoriprese di comportamenti non comunicativi - quindi si tratterebbe di una prova inammissibile (principio conseguente a quanto affermato nella sentenza Corte Costituzionale n. 235 del 2002) - e dall'altro, trattandosi di attività svolta in un luogo "privato", vi sarebbe una esigenze di tutela della riservatezza del singolo che impone comunque il provvedimento dell'Autorità Giudiziaria atteso il rango costituzionale del diritto alla riservatezza (anche in questo caso si tratta di una chiara conseguenza della medesima sentenza della Corte Costituzionale). La questione è certamente infondata sotto entrambi i profili proposti dalle ricorrenti. Va premesso che effettivamente non è corretto l'argomento della Corte di Appello secondo cui ciò che rileva è il luogo in cui era installata la telecamera (nel caso di specie era installata in strada), in quanto l'intrusione nella sfera privata, sia che avvenga nel domicilio vero e proprio, sia che avvenga in un più limitato contesto in cui sia comunque tutelata la riservatezza, va valutata con riferimento al luogo in cui viene tenuto il comportamento oggetto di captazione video e non al luogo in cui è posto lo strumento che consente la visione. Si tratta di una regola sostanzialmente ovvia, comunque tale errore risulta, nel contesto generale, privo di conseguenze, come da argomenti che seguono. Passando quindi oltre, si rileva innanzitutto che è indiscutibile che nel caso di specie non si sia affatto in presenza di un "domicilio". Difatti il richiamo generico che le ricorrenti fanno alla giurisprudenza che ha affermato come anche l'"ufficio" possa rappresentare un "domicilio" ai sensi dell'art. 14 Cost., e delle varie norme dell'ordinamento penale, non è pertinente al caso in esame: secondo tale giurisprudenza di legittimità, l'"ufficio" tutelato quale domicilio è la sede di lavoro propria del singolo soggetto in cui il singolo soggetto abbia l'autonomo diritto di permanere e precludere l'ingresso a terzi; ovvero, sì tratta dell'ufficio "privato" di uno o più lavoratori determinati in cui non è consentito l'ingresso indiscriminato. I difensori, invece, vorrebbero attribuire la caratteristica di domicilio al complesso del luogo adibito ad uffici non a contatto con il pubblico, ma l'atrio di un ufficio così come tutte le sue parti comuni e le stanze "collettive" (uffici open space) non sono affatto la estensione di un domicilio privato, in modo non dissimile dalle parti comuni di un condominio di edificio, non essendovi affatto la possibilità per singoli soggetti di fruirne con una pienezza corrispondente a quella di fruizione del domicilio. Quindi sicuramente non si verte nella ben diversa ipotesi di videoriprese di comportamenti non comunicativi all'interno del domicilio privato, per la quale opera il già citato divieto assoluto che la rende prova del tutto inammissibile. Ma non ricorre neanche la diversa situazione di "... luoghi che pur non costituendo un domicilio vengono usati per attività che si vogliono mantenere riservate...". Proprio la giurisprudenza richiamata dai ricorrenti (Sez. U, n. 26795 del 28/03/2006 - dep. 28/07/2006, Prisco) pone in modo chiaro il discrimine fra i casi di riprese video di comportamenti per i quali può procedere la polizia giudiziaria senza necessità di autorizzazione e i casi in cui, invece, è necessaria la autorizzazione della autorità giudiziaria. Non è un discrimine che consegua all'essere il luogo delle riprese pubblico o privato, accessibile ad un pubblico indiscriminato o solo a determinati soggetti, bensì la diversa regolamentazione dipende dall'essere il dato luogo destinato, nel dato momento ed alle date condizioni, a garantire la riservatezza della persona. La Corte, difatti, nel confermare la possibilità di riprese video in qualsiasi ambiente che non sia qualificabile quale domicilio, chiariva che è comunque possibile che in determinati luoghi (caso tipico una toeletta di un locale di uso non esclusivo, poco importa se al servizio di un locale pubblico o ufficio od altro), proprio per caratteristiche e funzione degli stessi, il singolo goda di un particolare diritto alla riservatezza. Quindi la necessità di una particolare tutela non consegue al carattere del luogo - pubblico, privato, aperto o meno al pubblico generale - ma alle sue specifiche caratteristiche rispetto alla modalità di fruizione da parte del singolo; come detto, non è una condizione che ricorra di per sè in un pubblico esercizio ma ricorre in quelle parti di esso (appunto, le toelette comuni o i ed "privè" citati nella sentenza delle Sezioni Unite) in cui

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il soggetto ha facoltà solo temporanea, durante la sua permanenza nel dato luogo, di escludere la presenza di altri per riconoscimento, appunto, di un suo diritto alla riservatezza. Oltre ai casi predetti si può citare, ad esempio, facendo riferimento a luoghi di lavoro, l'ipotesi dell'ufficio open space nel quale sono ricavate singole aree di lavoro con parziali separazioni finalizzate a garantire un livello minimo di riservatezza. Tutto questo, evidentemente, non ricorre nel caso di specie in cui i ricorrenti tentano di riportare il concetto di ambito di tutela della riservatezza al complesso dei locali adibiti ad uffici non aperti al pubblico di Poste spa. Ma, così come un tale spazio non è certamente domicilio, non è neanche di per sè un luogo nel quale venga esercitata e tutelata la riservatezza dell'individuo; affermazione, questa, valida ancor di più in riferimento all'area di ingresso dove era posto l'orologio marcatempo. Non vi era, quindi, alcun limite alla effettuazione di videoriprese sotto il profilo delle caratteristiche del luogo oggetto di riprese, potendo operare di iniziativa la p.g. senza necessità di provvedimento della autorità giudiziaria. Tali riprese rappresentano, per le ragioni sopra citate, una prova atipica e non un "documento". Del tutto infondato è anche l'ulteriore argomento difensivo fondato sulla disciplina di cui all'art. 4 Statuto dei Lavoratori e al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 114. Si tratta, difatti, di una disposizione mirata e limitata al divieto di controllo della attività lavorativa in quanto tale ovvero al divieto di controllo della corretta esecuzione della ordinaria prestazione del lavoratore subordinato; ma tale stessa disposizione non impedisce, invece, i controlli destinati alla difesa dell'impresa rispetto a specifiche condotte illecite del lavoratore o, comunque, a tutela del patrimonio aziendale (la giurisprudenza civile in materia è del tutto pacifica, tra le numerose pronunzie si veda Sez. L, Sentenza n. 2722 del 23/02/2012, Rv. 621115). Perciò si afferma comunemente nella giurisprudenza penale di questa Corte la piena utilizzabilità ai fini della prova di reati anche delle videoregistrazioni effettuate direttamente dal datore di lavoro, destinatario del citato divieto, laddove agisca non per il controllo della prestazione lavorativa ma per specifici casi di tutela dell'azienda rispetto a specifici illeciti. Perciò, che dalla citata disposizione dello Statuto dei Lavoratori discenda un divieto probatorio che riguardi la polizia giudiziaria, è affermazione totalmente erronea sia perchè il divieto, coerentemente con la sua funzione, è testualmente riferito al datore di lavoro e sia perchè il divieto riguarda solo il controllo dell'esecuzione dell'ordinaria attività lavorativa. Superate, quindi, le obiezioni alla ammissibilità ed utilizzabilità delle videoriprese i motivi in questione vanno tutti dichiarati infondati. Il secondo motivo è manifestamente infondato in quanto propone questioni di merito non deducendo vizi della motivazione rilevanti in questa sede ma chiedendo esplicitamente una nuova valutazione dei medesimi elementi probatori da parte di questa Corte, attività che esula dai suoi poteri. Il terzo motivo va considerato sotto il profilo dell'essersi in presenza di un danno economico irrilevante e tale da escludere una concreta offensività del reato. La difesa ha innanzitutto indicato quale dato da valutare al fine di giungere a tale conclusione la condotta della persona offesa ente Poste che, sostiene, non avrebbe manifestato alcuna doglianza quanto al danno subito; indice, si afferma, della inconsistenza del danno. Ma, al di là della scarsa significatività della sola circostanza che la persona offesa non si sia costituita quale parte civile, la stessa difesa ha depositato della documentazione che dimostra esattamente il contrario di quanto sostiene: a dimostrazione della percezione del danno, l'ente Poste spa ha licenziato le ricorrenti per grave inadempimento e la sentenza del Giudice del Lavoro depositata dalla difesa riteneva illegittimo tale licenziamento solo in ragione del profilo formale del ritardo di contestazione (il lasso di tempo tra conoscenza della condotta e inizio del procedimento disciplinare). Per quanto la ragione del licenziamento sia ben più probabilmente la perdita di fiducia nel regolare futuro adempimento della prestazione lavorativa dimostrato dalla abitualità della frode sugli orari di ingresso piuttosto che l'entità della perdita economica per i casi accertati, il dato della certezza della percezione da parte dell'Ente Poste di avere subito un danno contribuisce a ritenere la concreta offensività del reato. Ma, anche ragionando sul semplice danno economico provocato, non si può affermare che si sia nell'ambito della assoluta inoffensività della condotta intesa come mancata realizzazione di alcun effettivo danno patrimoniale. Innanzitutto ci si trova davanti ad un profitto che non può ritenersi del tutto inconsistente e che, tuttalpiù, potrebbe rientrare nella nozione della legislazione penale della "tenuità". Si rammentano alcune particolari ipotesi normative: vi è l'ipotesi della "tenuità del fatto" che vale ad escludere la procedibilità (solo) per i reati commessi da minorenni e per i reati di competenza del giudice di pace - si tratta dei casi in cui, appunto, vi è il danno (non solo economico) o comunque l'offesa del bene

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giuridico, ma di minimo rilievo; evidentemente non è una causa generale di esclusione della tipicità del fatto ma si applica solo ai casi citati. Vi è, poi, la generale previsione della "speciale tenuità" del danno patrimoniale o del lucro di cui all'art. 62 c.p., n. 4: ed è proprio quest'ultima disposizione che dimostra come, attesa la specifica previsione di una attenuazione ma non dell'esclusione della pena, l'ordinamento penale non riconosca affatto alla esiguità del danno patrimoniale la capacità di escludere il carattere offensivo della condotta e, quindi, la non configurabilità in concreto del reato. Vi è, ancora, la simile ipotesi attenuata di ricettazione di cui all'art. 648 c.p., comma 2, ("se il fatto è di particolare tenuità"). "Tenuità", inoltre, non è un concetto strettamente limitato al valore economico; si ritrova, tra l'altro, nell'art. 311 c.p., laddove la "particolare tenuità del danno o del pericolo" che rende il fatto di lieve entità (comunque punibile) è riferita a reati contro la personalità dello Stato, quindi certamente non si tratta di danno "economico". Ciò introduce l'ulteriore argomento che il danno può essere definito "tenue" solo a fronte della complessiva minima capacità della condotta di danneggiare, in modo oggettivo, la sfera globale di interessi della persona offesa danneggiata, appunto, dal reato. Si è osservato, difatti, che laddove il danno debba essere considerato con esclusivo riferimento al valore dell'oggetto, la legge ha utilizzato una diversa espressione come nel caso del furto che è punibile a querela dell'offeso se il fatto è commesso su "cose di tenue valore" (art. 626 c.p., n. 2 - peraltro si noti che anche in questo caso la punibilità non è esclusa, pur se il trattamento penale è più favorevole). Ed invece, con riferimento alla determinazione del danno patrimoniale ai sensi dell'art. 62 c.p., n. 4, si è affermato come tale danno, dovendo essere considerato dal punto di vista delle conseguenze sofferte dalla persona offesa, vada comunque determinato in termini complessivi in quanto il valore della cosa non sempre esaurisce la gravità del danno: La sussistenza della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità in riferimento ai delitti contro il patrimonio non ha riguardo soltanto al valore della cosa oggetto materiale del reato ma anche alla condotta dell'imputato ed alle relative conseguenze nella sua globalità. (Sez. 2, n. 21014 del 13/05/2010 - dep. 04/06/2010, Gebbia, Rv. 247122- nello stesso senso Sez. 2, Sentenza n. 12456 del 04/03/2008 Ud. (dep. 20/03/2008) Rv. 239749 2, Sentenza n. 41578 del 22/11/2006 Ud. (dep. 19/12/2006) Rv. 235386). Pur se i casi ora citati riguardano reati (rapina ed estorsione) che strutturalmente offendono anche la persona, la situazione è simile anche nei reati che offendono solo il patrimonio in quanto il danno patrimoniale deve essere valutato, comunque, secondo la prospettiva soggettiva della persona offesa (ovviamente "oggettivizzata", ovvero considerando quale sia la percezione del danno da parte del soggetto medio alle date condizioni). Le regole ora richiamate in termini generali rilevano in due modi nel caso di specie per escludere che dalla entità del danno accertato possano trarsi le conseguenze indicate dalla difesa. Innanzitutto vi è stato un danno economico diretto che, per quanto minimo, non è del tutto inconsistente e quindi non può fare ritenere la condotta del tutto inoffensiva. La scarsità del danno potrebbe essere valutata al fine delle varie conseguenze della "tenuità" ma non per escludere l'integrazione del fatto tipico per assenza di "offensività". Inoltre, dal contesto complessivo accertato dai giudici di merito, risulta corretto il giudizio di esclusione che il danno sia stato irrilevante o comunque di minima consistenza. Il fatto commesso realizza oggettivamente una seria lesione del rapporto fiduciario tra le parti; per quanto il profitto della singola occasione (il singolo ingresso giornaliero fraudolentemente ritardato) sia minimo, è evidente come il vantaggio complessivo ed il danno complessivo siano conseguenza di una reiterazione di condotte come è risultato evidente nel dato periodo di indagine. Inoltre tale condotta è apparsa ragionevolmente corrispondere a un programma di più ampio periodo, necessario del resto per realizzare una concreta utilità della condotta. In conclusione, va escluso che nel caso di specie il fatto non abbia le caratteristiche di offensività necessarie per fare ritenere integrato il reato. Il quarto motivo del ricorso C. - O. ed il terzo motivo del ricorso R., da valutarsi congiuntamente perchè di analogo contenuto, sono infondati. In entrambi i ricorsi si individuano correttamente le regole in tema di individuazione del soggetto che sia incaricato di pubblico servizio, dovendosi fare riferimento alla natura dell'attività svolta da parte dell'ente di appartenenza e, poi, valutare se il singolo dipendente operi nell'ambito di tali attività di pubblico servizio e non sia, invece, addetto a compiti che siano meramente materiali o, comunque, non connessi alla attività di pubblico servizio. Ma proprio tali regole richiamate dalle difesa sono state pienamente rispettate dai giudici di merito che, in base a quanto accertato in fatto, hanno ritenuto che le ricorrenti C., O. e R. "facevano parte della struttura di controllo ed ispezione in funzione all'interno di Poste Italiane s.p.a., denominata Direzione Internal

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Auditing. Si tratta di una struttura incaricata di effettuare ispezioni e controlli interni sui dipendenti e sulle operatività della Poste Italiane s.p.a., al fine di mantenere monitorato il servizio, gestire i rischi, mantenere i livelli qualitativi prefissati e garantire l'operatività in tutti i settori (così anche il teste Ma., ud. 02.07.2009). Nel manuale di Internal Audit prodotto dalla difesa R., si legge che sebbene si tratti di una struttura verticistica, ogni membro della divisione è coinvolto nel sistema di gestione e di controllo, tanto che i componenti della struttura sono richiamati a doveri di riservatezza e di correttezza". Le ricorrenti, invece, si limitano ad affermare apoditticamente che l'attività del loro ufficio non fosse connessa al pubblico servizio esercitato dall'ente, come se tale circostanza dovesse risultare con immediatezza dallo stesso modo in cui hanno definito la propria attività (".... la struttura di auditing non svolge alcuna delle suddette funzioni; al contrario si tratta di organismo il cui obiettivo primario è quello di valutare il sistema dei controlli interni e di gestione dei rischi, in relazione al perseguimento delle strategie aziendali.... L'attività di verifica e di controllo, in sostanza, è limitata ad accertare il rispetto delle procedure interne di lavoro da parte degli operatori". Viene indicato quale organismo esterno autonomo ed indipendente con "... semplici mansioni di auditing, di verifica e monitoraggio delle attività svolte dai dipendenti dell'ente Poste"). Ma sono proprio gli argomenti difensivi che confermano ulteriormente che si è in presenza di attività strettamente connessa all'esercizio della pubblica funzione da parte dell'ente Poste, non potendo certamente essere relativo ad attività diverse il compito di verifica dei conti e del conformarsi dei singoli uffici postali alle direttive gestionali, come si intende nello stesso documento allegato dalla ricorrente R. per dimostrare quali fossero le proprie mansioni (è il documento con il quale la "audit manager" - dirigente revisore - riferisce che la predetta, quale "team member" - componente del gruppo di lavoro -, ha partecipato ad attività di "audit" e "compliance" - verifica di conformità alle direttive aziendali etc. di vari uffici postali). E' quindi assolutamente corretta, rispetto alle premesse in fatto, la valutazione di merito secondo cui la attività dello specifico ufficio è strettamente inerente alla gestione del "core business" di Poste spa, costituente esercizio di un pubblico servizio. Rispetto a tale immediata evidenza non risulta neanche allegato che i compiti svolti da C. od O. rientrassero in mere mansioni d'ordine o prestazioni meramente materiali. Risulta, perciò, assolutamente corretta la valutazione in diritto dei giudici di merito e adeguata la conseguente motivazione. Il quinto ed il settimo motivo del ricorso C. - O. ed il quarto motivo del ricorso R., da valutarsi congiuntamente perchè di analogo contenuto, sono infondati. Le difese sostengono che non ricorre la condizione di abuso di fiducia in ragione del contenuto della decisione di questa Corte Sez. 2, n. 1938 del 17/03/1998 - dep. 09/10/1998, PM in proc. Balloni, Rv. 211663, secondo cui "Posto che la ratio dell'aggravante consiste nella condizione in cui si trova l'agente di poter poi facilmente commettere il reato, a cagione della fiducia che i vari rapporti elencati nell'art. 61 n. 11 cp comportano, ne consegue che, allorquando non sia ravvisabile nella fattispecie concreta tale fiducia, viene meno la possibilità di configurare ed applicare detta aggravante. Nel caso che ne occupa questo substrato fiduciario - come ha puntualmente evidenziato il Pretore - manca, in quanto la condotta delittuosa si è estrinsecata nella falsificazione delle risultanze dei cartellini segnatempo, di un mezzo, cioè, con il quale il datore di lavoro si assicurava, al di là e al di fuori di un qualsiasi affidamento alla coscienza e lealtà di dipendenti, il controllo del lavoro effettivamente svolto da costoro. Nè il possesso di tali cartellini da parte degli imputati lavoratori dipendenti può essere posto a fondamento di quel rapporto fiduciario di cui si è detto, essendo tale possesso l'unico mezzo per realizzare il funzionamento del metodo di controllo scelto dalla datrice di lavoro". Si tratta però di un precedente non direttamente riferibile al caso di specie, in quanto il "cartellino segnatempo" cui si fa riferimento in quella decisione risulta essere il più datato "cartoncino" sul quale l'orologio "marcatempo" timbrava l'orario di ingresso e di uscita, al di fuori di qualsiasi attività di individuazione e registrazione dei dati nel sistema informatico. In quel caso era stata effettuata una falsificazione materiale delle annotazioni sul cartellino, documento probante le presenze. Diverso, nel caso in esame, il sistema di controllo dell'accesso, per quanto risulta dal provvedimento impugnato. Si è in presenza di un sistema che registra informaticamente il dato dell'ingresso del singolo lavoratore. La prova della presenza non è il "badge" a disposizione del lavoratore (ovvero, questo non è l'equivalente digitale del vecchio tesserino cartaceo destinato a provare le presenze al lavoro) ma la prova è costituite dalle annotazioni nella base dati del sistema.

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Nel caso di specie, quindi, il sistema di rilievo della presenza mediante "strisciatura" del badge sostituisce il personale addetto all'ingresso che effettuava l'annotazione dei lavoratori che entravano rilevandone il nome dal documento di identità o in base alla conoscenza diretta. E' invece evidente che, nel sistema utilizzato da Poste spa, il datore di lavoro non ha modo di controllare chi sia la persona in ingresso che utilizza il badge; quindi la funzionalità di tale sistema è fondata sulla fiducia nella condotta in buona fede del prestatore d'opera cui è affidata la predetta scheda, equivalente di un tesserino di riconoscimento. Questa è, peraltro, la esatta ragione per la quale è stato possibile il tipo di frode in questione, estremamente semplice perchè unico ostacolo alla ovviamente prospettabile utilizzazione del "badge" da parte di altre persone è proprio la buona fede del singolo lavoratore. Quindi, con riferimento al caso qui in esame, non può che confermarsi la vantazione dei giudici di merito sull'abuso di fiducia da parte del prestatore d'opera; per quanto detto la difformità della decisione rispetto al precedente citato è solo apparente. Infine, si rammenta che la configurabilità delle aggravanti esclude la punibilità a querela e, essendo sufficiente a tal fine che ne ricorra almeno una, tenuto altresì conto che sono state ritenute minusvalenti nel giudizio di comparazione con le attenuanti, è irrilevante affermare se le stesse concorrano o Cuna sia esclusa dall'altra in quanto norma speciale. Il sesto motivo del ricorso, relativo alla mancata presentazione di querela, è superato dalle precedenti vantazioni che portano ad affermare che la truffa contestata è procedibile di ufficio. L'ottavo motivo è manifestamente infondato. E' innanzitutto evidente come le prove richieste (finalizzate a dimostrare che le ricorrenti erano sempre state "impiegate modello" e che avevano effettuato ore di lavoro straordinario non pagate, compensate con il presunto danno) non rientrino nell'ambito della prova decisiva che l'art. 606 c.p.p., lett. D), limita ai casi di cui all'art. 495 c.p.p., comma 2, (ovvero il caso delle "prove a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico") in quanto non si tratta di fatti oggetto delle prove a carico. Inoltre, anche a volere allargare il tema come posto nel ricorso ad un più generale vizio di motivazione ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. e, per la mancata valutazione di circostanze rilevanti per una corretta ricostruzione della vicenda, non risulta affatto nè che le circostanze da provare rendessero altrimenti impossibile la decisione nè che, comunque, fossero da valutare per una corretta decisione. Su tali profili, peraltro, non vi è alcuno sviluppo dei motivi. E', infine, infondato il nono motivo, con il quale si contesta il diniego della attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4, che, secondo le ricorrenti, sarebbe integrata per essere il danno provocato di minima entità. La Corte di Appello ha efficacemente e sinteticamente risposto che "Ai fini dell'applicabilità della circostanza attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4, la speciale tenuità del danno deve essere valutata in relazione a tutti gli episodi e non soltanto a tal uni di essi (Cass. sez. 6^, 17.3.1982 n. 3969, Truglio). In tale ottica, la ripetitività della condotta non consente di configurare un danno di lieve entità e pertanto non può essere concessa l'attenuante". Oltre questa ragione per escludere la applicabilità dell'attenuante, rispetto alla quale le ricorrenti deducono genericamente l'esistenza di giurisprudenza di altro segno, senza alcun esposizione di ragioni a sostegno della loro affermazione, hanno rilievo anche gli argomenti svolti sopra in tema di offensività, nel corso dei quali si è rammentato come l'attenuante in questione non dipenda esclusivamente dallo scarso valore venale del danno economico, ma anche dalla complessiva gravità del fatto, restando perciò esclusa laddove il danno complessivo sia costituito non solo dal minimo valore della cosa in sè, ma anche da altri interessi lesi dalla condotta delittuosa. Il ricorso R. è infondato; la risposta ai motivi primo, terzo e quarto è stata già data. Quanto al secondo, con il quale si afferma la assenza di (prova dell') elemento soggettivo, si tratta di affermazione del tutto sganciata dai fatti accertati; l'evidente finalità della condotta della R. era l'unico risultato plausibile, ovvero i vantaggi connessi al risultare presente al lavoro pur non essendolo. Nè la parte offre ragioni alternative della propria condotta, tali da contrastare l'immediata evidenza. Con quinto motivo la ricorrente deduce il vizio di motivazione della sentenza che ha ritenuto sussistere la truffa consumata e non il mero tentativo di truffa; si afferma che, non essendovi stato conseguimento del profitto del reato, lo stesso non può ritenersi consumato. Si tratta di questione palesemente infondata, tenuto conto dell'accertamento in fatto che emerge dalle sentenze di merito. Non è, difatti, dubbio che vi sia stata una registrazione di presenza delle lavorataci nonostante ciò non corrispondesse a verità con conseguente assunzione da parte dell'ente datore di lavoro dell'obbligo retributivo anche per la fase della assenza fraudolenta. Poco rileva che, nel caso concreto, il definitivo incasso delle somme sia stato (eventualmente) impedito dal successivo intervento della autorità giudiziaria che ha fatto conoscere la frode in corso.

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Ricorso D.T.. E' innanzitutto infondato il primo motivo che lamenta in via del tutto generica la assenza di puntuali risposte ai propri motivi di appello, sostenendo che la sentenza di secondo grado avrebbe semplicemente ribadito in modo acritico quanto affermato dai primi giudici nonostante le contestazioni della difesa. Ma il complesso delle argomentazioni della Corte di Appello ed il rinvio da essa fatto alla sentenza di primo grado per quanto non specificatamene confutato risultano motivazione adeguata. Del resto, D.T. non ha neanche detto su quali punti non avrebbe avuto risposta e, comunque, la Corte doveva affrontare soltanto le limitate questioni che i motivi di appello ponevano, sostanzialmente ripetitive delle proprie ragioni già proposte al Tribunale e da questo ritenute infondate con motivazione specifica e non seriamente contrastata dal ricorso. E' infondato anche il secondo motivo, ovvero l'argomento relativo all'essere il D.T. soggetto addetto a mere attività materiali non collegate alla attività di esercizio di una pubblica funzione da parte dell'ente. Tale argomento è superato proprio da quanto riferito dalla parte per giustificare l'affidamento della autovettura di Poste spa, ovvero l'essere egli addetto a mansioni di gestione, in autonomia, dei sistemi informatici di un ampio numero di uffici postali. E' indiscutibile che, alla stregua di quanto emerge dalle sentenze di merito e dai motivi di ricorso, il D.T. avesse il ruolo centrale e strategico di garantire la continuità dei servizi delle singole filiali, che è certamente cosa ben diversa dall'essere un semplice tecnico addetto alla esecuzione di singole operazioni materiali. Il ruolo svolto, quindi, dimostra con certezza la sussistenza della qualifica di incaricato di pubblico servizio, con le conseguenze in ordine al reato configurabile. Il terzo motivo pone il tema della scarsità del danno e della pretesa non offensività della condotta che trovano adeguata risposta nei medesimi argomenti sopra svolti in ordine alla sussistenza, alle date condizioni, di offensività della condotta di frode ai sistemi di rilevamento degli ingressi. Il quarto motivo è manifestamente infondato. E' palese che la motivazione sia adeguata a dimostrare l'elemento psicologico, del resto alquanto evidente per chi ha consapevolmente utilizzato privatamente la vettura affidatagli per esclusivo uso di istituto. Nè, del resto, il ricorrente indica quale poteva essere la lettura alternativa dell'elemento psicologico connesso al suo uso privato dell'autovettura di servizio. Quanto, infine, al ricorso D.S., lo stesso è infondato innanzitutto per gli stessi argomenti svolti per il ricorso del coniuge quanto alla sussistenza del fatto; e, poi, del tutto inconsistente l'argomento relativo all'essere il fatto irrilevante per essere la D.S. dipendente dell'Ente Poste, non essendo la stessa autorizzata per ciò solo all'uso dell'autovettura assegnata ad altro dipendente per le attività di istituto; del resto ciò è solo casuale avendo correttamente ritenuto i giudici di merito che effettiva ragione della acquisita disponibilità dell'autovettura non era il rapporto di lavoro, bensì il rapporto di coniugio con chi poteva disporne materialmente.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 4 giugno 2013. Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2013

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N. 03261/2013 REG.PROV.COLL. N. 01996/2013 REG.RIC.

R E P U B B L I C A I T A L I A N A

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

(Sezione Ottava)

ha pronunciato la presente SENTENZA

ex art. 60 cod. proc. amm.; sul ricorso numero di registro generale 1996 del 2013, proposto da: Ge.Te.T. Gestione Tesorerie e Tributi Spa, rappresentata e difesa dagli avv. Antonio Romano, Eduardo Romano e Alessandro Romano, con domicilio eletto presso Antonio Romano in Napoli, p.zza Trieste e Trento, 48;

contro Comune di Frignano, rappresentato e difeso dall'avv. Maria Capasso, con domicilio eletto presso Laura Sofia Allamprese in Napoli, Salita Moiariello n. 66;

nei confronti di Banca della Campania Spa;

per l'annullamento della deliberazione del Consiglio Comunale di Frignano n. 3 del 20.03.2013 di rinnovo dell'affidamento del servizio di tesoreria comunale alla Banca della Campania s.p.a. di Avellino, periodo 1.01.2013-31.12.2017, in assenza di indizione di procedura di gara ad evidenza pubblica per l'affidamento del suddetto servizio. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Frignano; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 5 giugno 2013 il dott. Renata Emma Ianigro e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO VISTO l’art. 60 cod. proc. amm.di cui al d.lgs. 104/2010 che consente al Giudice amministrativo, chiamato a pronunciarsi sulla domanda cautelare, di decidere il merito della causa con "sentenza in forma semplificata”, purchè siano trascorsi almeno venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso; sentite sul punto le parti costituite; PREMESSO CHE risulta impugnata la delibera n. 3 del 20.03.2013 con cui il Consiglio Comunale di Frignano è pervenuto, ex art. 210 d.lgs. n. 267/2000 e 81 reg. cont. comunale approvato con del. C.C.n. 4 del 14.01.2002, senza previa indizione di gara pubblica, al rinnovo dell’affidamento del servizio di tesoreria comunale per il periodo 1.01.2013-31.12.2017 in favore della Banca della Campania s.p.a. di Avellino quale soggetto che ne aveva curato la gestione per il periodo 1.01.2008-31.12.2012 per averne ottenuto l’aggiudicazione giusta determina n. 7 dell’8.02.2008 di approvazione della procedura di gara ad evidenza pubblica a suo tempo espletata; RITENUTO CHE va respinta poiché infondata l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dal Comune poiché la giurisdizione esclusiva in materia di procedure di affidamento di cui all’art. 133 comma 1 lettera e) sub 1) c.p.a. si radica anche qualora si lamenti, come nella specie, che è mancata da parte dell’amministrazione la procedura di affidamento predeterminata ex lege nonché nei casi in cui vi sia stato un affidamento a trattativa privata al di fuori dei casi consentiti (Cons.St. sez. VI, 12.12.2011 n. 6942; Cass. S.S.U.U. 18.11.1998 n.11619; C.G.C.E 11.01.2005 C-26/03);

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va analogamente respinta l’eccezione di carenza di interesse, dovendo indubbiamente riconoscersi in capo alla ricorrente - quale impresa operante nel settore - la legittimazione a contestare le determinazioni con cui l’amministrazione abbia inteso operare la scelta di un sistema di contrattazione al di fuori dei casi consentiti dalla legge, in funzione della indizione ed eventuale partecipazione ad una procedura aperta o ristretta ( Cons.St. sez. IV, 5.04.2006 n. 1789). Le imprese operanti nel settore economico cui si riferisce l’oggetto del contratto vantano difatti una posizione di interesse qualificato alla correttezza e legalità della scelta, anche tenuto conto che la disciplina comunitaria di scelta del contraente non è posta solo nell’interesse dell’amministrazione ma è volta altresì all’attuazione del regime di libera concorrenza fra le imprese e, quanto agli appalti interni occorre tener conto che l’esercizio dell’attività di impresa è garantito da norme di rilievo costituzionale. CONSIDERATO CHE l’affidamento del servizio di tesoreria comunale - inteso ai sensi dell’art. 209 t.u. quale complesso di operazioni legate alla gestione finanziaria dell’ente locale ivi inclusa la riscossione delle entrate, la custodia di titoli e valori e gli adempimenti connessi - rientra nell’ambito di operatività della normativa di cui al d.lgs. n. 163/2006 risultando assoggettato alle disposizioni del Codice ai sensi del comma 2 dell’art. 20 in quanto incluso tra “i servizi finanziari” di cui all’allegato II A ed identificato con cpv 66600000-6; il servizio affidato dal Comune di Frignano sulla base di una convenzione che ne stabiliva la remuneratività tramite la previsione di un compenso annuale a carico dell’ente si differenzia per tale ragione dalle concessioni di servizi in quanto l’onere del servizio viene a gravare integralmente sull’amministrazione (cfr Cons. St. sez. V 6.06.2011 n.3377) per cui è riconducibile, anche sotto tale profilo, alla disciplina degli appalti; ai sensi dell’art. 210 del d.lgs. n. 267/2000 - posto a base del provvedimento impugnato - l’ente può procedere al rinnovo del contratto di tesoreria nei confronti del medesimo soggetto per non più di una volta solo “qualora ricorrano le condizioni di legge”; nell’ambito delle “condizioni di legge” in presenza delle quali è ammesso il rinnovo non può prescindersi dal rilievo della normativa di derivazione comunitaria introdotta dall’art. 23 della legge 18.04.2005 n. 62 che, al fine di porre termine ad una procedura di infrazione azionata da parte della Commissione europea (n.2110/2003), ha esplicitamente soppresso la facoltà, precedentemente riconosciuta alle amministrazioni dall’art. 6 comma 2 della legge 24.12.1993 n.537, di pervenire al rinnovo di contratti pubblici nei confronti del medesimo contraente in presenza di accertate ragioni di convenienza e di pubblico interesse, consentendo la sola proroga dei contratti per acquisti e forniture di beni e servizi per il tempo necessario alla stipula dei nuovi contratti a seguito di espletamento di gara pubblica; in seguito all’entrata in vigore dell’art. 23 della legge n. 62/2005, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha chiarito che, in tema di rinnovo o proroga dei contratti pubblici di appalto non vi è alcuno spazio per l’autonomia contrattuale delle parti, ma vige il principio che l’amministrazione, una volta scaduto il contratto, qualora abbia ancora la necessità di avvalersi dello stesso tipo di prestazioni, deve effettuare una nuova gara (Cons.St. sez, IV 31.10.2006 n. 6457; Con. St. sez. V 8.07.2008 n.3391; Cons. St. sez. V 11.05.2009 n.2882), ed ancora che : “il principio del divieto di rinnovo dei contratti di appalto scaduti, stabilito dall’art. 23 della legge 18.04.2005 n. 62 ha valenza generale e preclusiva sulle altre e contrarie disposizioni dell’ordinamento”(cfr Cons. St. sez. VI 24.11.2011 n. 6194); del tutto irrilevante risulta l’eccepita specialità della normativa di cui all’art. 210 cit dal momento che la Corte di Giustizia ha più volte affermato che il primato del diritto comunitario si impone non solo nei confronti delle giurisdizioni di uno Stato ma anche di tutti gli organi dello Stato ivi incluse le autorità amministrative e gli enti territoriali (C.G.C.E. 29.04.1999 n. C.224/97); analogamente non può ritenersi operante rispetto alla normativa di stampo comunitario l’opposta “clausola di rafforzamento” di cui all’art. 1 comma 4 del d.lgs. n. 267/2000, che sancisce l’inderogabilità della normativa ivi prevista da parte delle leggi della Repubblica, e ciò anche alla luce della costituzionalizzazione dei vincoli comunitari recepita dalla successiva legge costituzionale n.3/2001 di modifica dell’art. 117 Cost. ; la giurisprudenza ha difatti chiarito che: “ l’eliminazione della possibilità di provvedere al rinnovo dei contratti di appalto scaduti , disposta dall’art. 23 cit., introdotto allo scopo di adeguare l’ordinamento interno a quello sovranazionale, è a tutti gli effetti oggetto di una norma inderogabile di diritto pubblico, imperativa dal punto di vista civilistico, e in grado di etero integrare anche i regolamenti negoziali in essere all’epoca della sua entrata in vigore, e ad essa deve assegnarsi una valenza generale ed una portata preclusiva di opzioni ermeneutiche e applicative di altre disposizioni dell’ordinamento che si risolvano, di fatto, nell’elusione del divieto di rinnovazione dei contratti pubblici” ( CG.A.R.S. 19.05.2011 n.364) l’art. 57 comma 5 lett. b) del Codice, in tema di procedure negoziate senza previa pubblicazione di un bando di gara circoscrive i casi in cui è ammesso l’affidamento diretto all’operatore economico aggiudicatario del contratto iniziale solo per i “nuovi servizi consistenti nella ripetizione di servizi analoghi” alle condizioni ivi

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indicate tra cui la previa indicazione nel bando originario della possibilità del ricorso alla procedura negoziata; il Consiglio di Stato nella decisione 11.05.2009 n. 2882, ha chiarito che l’art. 57 ha ad oggetto una nuova aggiudicazione di “nuovi servizi” e si riferisce a servizi la cui esecuzione, al momento della indizione della gara originaria, è presa in considerazione solo a livello di mera eventualità perché, a quell'epoca, il relativo bisogno non esiste. È questa la ragione per la quale la disposizione, dal punto di vista letterale, parla di "nuovi servizi": si tratta, appunto, di servizi in relazione ai quali il bisogno è eventuale e può sorgere solo successivamente alla gara originaria. Ed è per questo che la stazione appaltante, pur prendendoli in considerazione nel bando, non li assegna all'esito della corrispondente procedura concorsuale ma si riserva la facoltà di farlo nel triennio dalla stipula del contratto; tale essendo il quadro normativo di riferimento, e stante la preminenza della legislazione di derivazione comunitaria rispetto alle norme di diritto interno, nonché la necessità di privilegiare in ogni caso un’interpretazione del dato normativo il più possibile coerente con il diritto comunitario, deve escludersi che il rinnovo del servizio di tesoreria nei confronti del medesimo operatore economico già aggiudicatario del servizio possa avvenire, in via diretta, senza previo espletamento di una gara pubblica; l’amministrazione comunale di Frignano, con la delibera di rinnovo impugnata, ha altresì concordato ed approvato la modifica e l’integrazione di più clausole della convenzione in precedenza stipulata così modificando l’assetto contrattuale originariamente posto a base di gara; l’intervenuta modifica dell’assetto contrattuale determinato nella originaria convenzione induce altresì ad escludere la ravvisabilità nella specie di una sorta di “proroga” della convenzione originariamente stipulata peraltro ammessa dalla legge, come innanzi anticipato, per il solo tempo strettamente necessario all’espletamento di una nuova gara, mentre nella specie il rinnovo è avvenuto per un periodo di quattro anni identico a quello coperto dalla precedente convenzione; l’impugnato rinnovo, avendo dato luogo ad una trattativa privata al di fuori dei limiti di legge, viene a ledere il nucleo indefettibile di garanzie poste dalla disciplina comunitaria a presidio indistintamente di tutti i contratti pubblici con particolare riferimento alla tutela della concorrenza e della par condicio tra gli aspiranti all’affidamento del servizio in oggetto; alla luce di quanto sopra il ricorso merita accoglimento conseguendone l’annullamento della delibera impugnata nonché, come richiesto, la declaratoria di inefficacia, ove stipulata, della convenzione per il rinnovo del servizio di tesoreria comunale per il periodo 2013-2017 ricorrendo l’ipotesi di cui all’art. 121 c.p.a. comma 1 lett. a) e le condizioni ivi previste; quanto alle spese processuali, ricorrono giusti motivi per disporne la compensazione tra le parti costituite vista la peculiarità delle questioni trattate.

P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Ottava) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla la delibera impugnata e dichiara l’inefficacia della convenzione per il periodo 2013-2017 ove stipulata; spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Napoli nella camera di consiglio dei giorni 5 e 19 giugno 2013 con l'intervento dei magistrati:

Antonino Savo Amodio, Presidente Paolo Corciulo, Consigliere Renata Emma Ianigro, Consigliere, Estensore

L'ESTENSORE

IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 21/06/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

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N. 03568/2013REG.PROV.COLL. N. 08804/2012 REG.RIC.

R E P U B B L I C A I T A L I A N A

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8804 del 2012, proposto dall’Azienda Ospedaliera di Cosenza, rappresentata e difesa dall'avv. Vincenzo De Stefano, con domicilio eletto presso Studio Stajano Caputi Giovanni in Roma, via Sardegna, n. 14;

contro Carestream Health Italia s.r.l., in proprio e quale capogruppo dello r.t.i. con la ditta Medicalray, non costituitasi in giudizio;

nei confronti di - Agfa-Gevaert s.p.a,. in proprio e quale capogruppo dello r.t.i. con l’ impresa Edilminniti di Giovanni Minniti, non costituitasi in giudizio;- Fujifilm Italia s.p.a, non costituitasi in giudizio;

per la riforma della sentenza del T.A.R. CALABRIA - CATANZARO :SEZIONE II n. 00740/2012, resa tra le parti, nella parte relativa all’applicazione della sanzione prevista dall’art. 123 cod. proc. amm. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 giugno 2013 il consigliere Bruno Rosario Polito e uditi per l’ appellante l’ avvocato Moravia per delega di De Stefano; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO 1. Con ricorso proposto avanti al T.A.R. per la Calabria, sede di Catanzaro, la Carestream Health Italia s.r.l., in proprio e quale capogruppo mandataria del costituendo r.t.i. con la ditta Medicalrey, impugnava, per dedotti motivi di violazione di legge ed eccesso di potere in diversi profili, la delibera n. 338 del 25 marzo 2011 del Commissario Straordinario dell’ Azienda Ospedaliera di Cosenza, nonché gli atti di gara anteriori e successivi comunque collegati e connessi, relativi all’ aggiudicazione in favore di AGFA – Gavaert s.p.a. della licitazione privata per l’acquisizione in service di sistemi digitali per la gestione di immagini diagnostiche radiologiche e la fornitura del relativo materiale di consumo per le UU.OO.CC. dell’Azienda, nonché eventuali opere murarie per anni cinque, per una spesa complessiva di € 4.500.000,00 oltre IVA. Con sentenza n. 740 del 2012 il T.A.R. adito accoglieva il ricorso incidentale proposto dalla soc. AGFA – Gavaert - con il quale era stata dedotta l’irregolarità della domanda di partecipazione presentata dalla ricorrente principale nella parte relativa al possesso dei requisiti di qualificazione, in particolare, di quelli indicati agli artt. 41 (comma 1 lett. c) e 42 (comma 1 lett. a - f- g- h - l- m) del d.lgs. n. 163/2006 – ed in conseguenza dichiarava l’inammissibilità per difetto di legittimazione all’impugnativa del ricorso principale proposto dalla soc. Carestream Health Italia. Contestualmente il T.A.R. irrogava nei confronti della stazione appaltante, ai sensi, dell’art. 123 cod. proc. amm., la sanzione pecuniaria pari al valore dell’ 1 % del corrispettivo di aggiudicazione del contratto per violazione del divieto stabilito dall’ art. 11 ter del d.lgs. n. 163 del 2006 di stipulare il contratto “dal momento della notificazione dell'istanza cautelare alla stazione appaltante e per i successivi venti giorni, a condizione che entro tale termine intervenga almeno il provvedimento cautelare di primo grado o la pubblicazione del dispositivo della sentenza di primo grado in caso di decisione del merito all'udienza cautelare ovvero fino alla pronuncia di detti provvedimenti se successiva”. Avverso il su riferito capo della sentenza ha proposto ricorso l’ Azienda Ospedaliera di Cosenza e ne ha chiesto l’annullamento per i seguenti motivi:

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a) l’accoglimento dell’impugnativa proposta in via incidentale e la conseguente declaratoria di inammissibilità del ricorso principale comporta l’effetto preclusivo di ogni altra domanda nel merito formulata nell’atto introduttivo del giudizio; b) non è stata assicurata ad iniziativa del T.A.R. la fase di contraddittorio, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 73 e 123 cod. proc. amm. c) sussistevano ragioni di urgenza per l’immediata stipula del contratto, teso a garantire la continuità del servizio relativo ai sistemi digitalizzati e di gestione delle immagini diagnostiche, avente carattere essenziale nella cura di gravi patologie. Dette ragioni di urgenza, ai sensi dell’art. 11, comma 9, del d.lgs. n. 163 del 2006, e successive modificazioni, consentono di derogare al periodo di standstill, tenuto conto della natura essenziale del servizio e delle specifiche finalità di interesse pubblico perseguite; d). in violazione della regola della soccombenza ed in difetto di motivazione il primo giudice ha disposto al compensazione delle spese del giudizio fra le parti. Le società intimate non si sono costituite in giudizio. All’udienza del 15 marzo 2013 il ricorso è stato trattenuto per la decisione. 2. Quanto al motivo sub. a) le sanzione alternative previste dall’art. 123 cod. proc. amm. sono applicate d’ufficio dal giudice amministrativo in relazione al verificarsi sul piano oggettivo dei presupposti di legge (nella specie si addebita all’ Amministrazione la stipula del contratto durante il periodo di stadstill previsto dall’art. 11, comma 10 ter, del d.lgs. n. 163 del 2006 per effetto della proposizione del ricorso principale con contestuale richiesta di misura cautelare), indipendentemente dal successivo esito del ricorso in merito alla sussistenza delle condizioni di legittimazione alla domanda di annullamento. 2.1. In ordine alla mancata osservanza della regola del contraddittorio la decisione impugnata dà atto che della questione sono state rese edotte le parti ai sensi dell’art. 73, comma 3, cod. proc. amm., secondo quanto prescritto dal successivo art. 123, comma 2. Sul punto questa Sezione con ordinanza n. 1836 del 2013 ha disposto istruttoria ai fini dell’acquisizione del verbale di udienza. L’incombente non è stato assolto entro il termine assegnato e, pertanto, il gravame va deciso allo stato degli atti. 2.3. Ciò posto il Collegio reputa che possa accedersi alla tesi della ricorrente Amministrazione in base alla quale sussisteva la causa esonerativa dall’osservanza dello standstill secondo quale prevista dall’art. 11, comma 9, del d.lgs. n. 163 del 2006, e successive modificazioni, in presenza di grave danno all’interesse pubblico per la mancata erogazione della prestazione oggetto di gara. Non è, invero, in discussione il carattere essenziale delle prestazioni di radio diagnostica per la cura di specifiche e gravi patologie, da erogarsi nei confronti dell’utenza in via continuativa e stabile del tempo. Quanto precede è, inoltre, avvalorato dalla circostanza dell’esito negativo delle domande cautelari presentate dalla società ricorrente in via principale. Si versa, quindi, a fronte di una causa che giustifica l’immediata stipula del contratto, venendo così meno i presupposti per l’irrogazione della sanzione prevista dall’art. 123 cod. proc. amm., in presenza di prestazioni di carattere essenziale per l’erogazione di servizi di assistenza e di cura non procrastinabili nel tempo. 4. Quanto alla doglianza che investe la mancata liquidazione delle spese del giudizio a fronte della soccombenza dell’a.t.i. ricorrente in prime cure deve ribadirsi, come da concorde giurisprudenza, la più ampia discrezionalità del giudice del merito di ripartire fra le parti l’onere delle spese sostenute per la partecipazione al giudizio, salvo un controllo estrinseco in sede di appello in ordine alla corretta applicazione dei canoni di ragionevolezza e di proporzionalità, che nella specie, in relazione all’effettivo svolgimento del giudizio e della peculiarità della materia oggetto del contendere, non si configurano violati. 4.1. Nessuna determinazione è adottata in ordine a spese ed onorari, trattandosi di fase di giudizio che non implica posizioni di contraddittore necessario.

P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, annulla la sentenza impugnata nella parte in cui ha inflitto la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 123 cod. proc. amm. Nulla per le spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

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Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 giugno 2013 con l'intervento dei magistrati: Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Bruno Rosario Polito, Consigliere, Estensore Dante D'Alessio, Consigliere Lydia Ada Orsola Spiezia, Consigliere Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere

L'ESTENSORE

IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 03/07/2013

IL SEGRETARIO (Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

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SENTENZA N. 229 ANNO 2013

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Franco GALLO; Giudici : Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,

ha pronunciato la seguente SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1, 2, 3, 3-sexies, 4, 5, 6, 7, 8, 8-bis, 9, 10, 11, 12, 13 e 14 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, promossi con ricorsi delle Regioni Lazio, Veneto, Campania, delle Regioni autonome Friuli-Venezia Giulia e Sardegna, della Regione siciliana e della Regione Puglia, notificati il 12-17, il 12, il 13-17, il 15, il 12, il 13 e il 16-24 ottobre 2012, depositati in cancelleria il 16, il 17, il 18, il 19 e il 23 ottobre 2012 ed iscritti ai nn. 145, 151, 153, 159, 160, 170 e 171 del registro ricorsi 2012. Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 18 giugno 2013 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro; uditi gli avvocati Massimo Luciani per la Regione autonoma della Sardegna, Francesco Saverio Marini per la Regione Lazio, Luigi Manzi e Mario Bertolissi per la Regione Veneto, Marcello Collevecchio per la Regione Campania, Giandomenico Falcon per la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, Beatrice Fiandaca e Marina Valli per la Regione siciliana e l’avvocato dello Stato Gabriella D’Avanzo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso notificato il 12-17 ottobre 2012 e depositato presso la cancelleria di questa Corte il 16 ottobre 2012 (reg. ric. n. 145 del 2012), la Regione Lazio ha promosso questione di legittimità costituzionale di numerose disposizioni del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, recante «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini», convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, fra le quali, in particolare, l’art. 4 ed in specie i commi 1, 3-sexies ed 8, in riferimento agli artt. 117, primo, terzo, quarto e sesto comma, e 123, primo comma, Cost. ed al principio di leale collaborazione. 1.1.– La ricorrente premette che l’art. 4, rubricato «Riduzione di spese, messa in liquidazione e privatizzazione di società pubbliche», detta una disciplina che interviene in via diretta ed immediata su aspetti organizzativi e di funzionamento amministrativo regionale. In particolare, la ricorrente ricorda che il predetto articolo, al comma 1, impone alla Regione l’obbligo di procedere allo scioglimento o, in alternativa, alla privatizzazione delle società controllate dalla stessa direttamente o indirettamente, le quali abbiano conseguito nell’anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi in favore della pubblica amministrazione superiore al 90 per cento dell’intero fatturato; al comma 3-sexies prevede che, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, la Regione predisponga appositi piani di ristrutturazione e razionalizzazione delle società controllate, la cui approvazione è subordinata al previo parere favorevole del Commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa per l’acquisto di beni e servizi, al quale sono riconosciuti pregnanti poteri decisionali in ordine alle scelte organizzative dell’ente; infine, al comma 8, limita la possibilità di procedere all’affidamento diretto dei servizi pubblici locali «solo a favore di società a capitale interamente pubblico […] a condizione che il valore economico del servizio o dei beni oggetto dell’affidamento sia complessivamente pari o inferiore a 200.000 euro annui». Così disponendo, il citato art. 4 inciderebbe indebitamente sull’autonomia organizzativa e di funzionamento della Regione, con conseguente lesione di competenze regionali garantite da norme di rango costituzionale. In particolare, la disciplina dettata dal comma 1, che impone lo scioglimento ovvero la privatizzazione di tutte le società direttamente o indirettamente controllate dalla Regione, sarebbe costituzionalmente illegittima per violazione della competenza statutaria in tema di determinazione dei principi fondamentali di

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organizzazione e funzionamento della Regione di cui all’art. 123 Cost. Inoltre, sia il comma 1 che il comma 3-sexies del medesimo art. 4, nella parte in cui subordinano al previo parere positivo del Commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa per l’acquisto di beni e servizi l’approvazione dei piani di ristrutturazione e razionalizzazione delle società controllate predisposti dalla Regione, determinerebbero la lesione della competenza regionale residuale in materia di “enti pubblici regionali” e “organizzazione amministrativa” di cui all’art. 117, quarto comma, Cost.; mentre il comma 8 dello stesso articolo, nella parte in cui dispone che l’affidamento diretto dei servizi pubblici locali di rilevanza economica debba avvenire, previo rispetto dei requisiti richiesti dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in house, «a condizione che il valore economico del servizio o dei beni oggetto dell’affidamento sia complessivamente pari o inferiore a 200.000 euro annui» determinerebbe, altresì, una menomazione della competenza legislativa residuale regionale in materia di servizi pubblici, nonché la lesione della sfera di autonomia incomprimibile di cui gli enti locali godono in virtù dell’art. 117, sesto comma, Cost, ponendosi peraltro in contrasto con la normativa comunitaria che consente la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale, allorquando l’applicazione delle regole di concorrenza ostacoli, in diritto o in fatto, la «speciale missione dell’ente pubblico» (art. 106 TFUE). I predetti commi dell’art. 4 sarebbero, inoltre, lesivi della competenza legislativa regionale concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica, nonché del principio di leale collaborazione, che trova fondamento diretto negli artt. 5 e 120 Cost., in quanto non lascerebbero alla Regione alcun margine di manovra in ordine alle scelte volte all’individuazione degli strumenti e delle modalità per il perseguimento degli indicati obiettivi di contenimento della spesa pubblica. 2.– Con ricorso notificato il 12 ottobre 2012 e depositato presso la cancelleria di questa Corte il 17 ottobre 2012 (reg. ric. n. 151 del 2012), la Regione Veneto ha promosso questione di legittimità costituzionale di numerose disposizioni del citato d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, fra le quali, in particolare, l’art. 4, in riferimento agli artt. 3, 97, 117, 118 e 119 Cost. ed al principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost. La Regione deduce, in particolare, che i commi 1, 3, 3-sexies, 4, 5, 6, 7, 8, 8-bis, 9, 10, 11, 12 e 14 violano: l’art. 117, quarto comma, Cost., che attribuisce alla Regione la competenza legislativa residuale in materia di organizzazione amministrativa della Regione, nonché, conseguentemente, gli artt.118 e 119 Cost.; l’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui, eliminando il potere delle Regioni di procedere ad affidamenti in house, pacificamente ammessi, al ricorrere di determinati presupposti, a livello di ordinamento comunitario, si porrebbero in contrasto con le indicazioni della giurisprudenza comunitaria, nonché con la Carta europea delle autonomie locali; gli artt. 3 e 97 Cost., posto che alle Regioni sarebbero impediti gli affidamenti in house a prescindere da qualsivoglia valutazione discrezionale da svolgersi nel rispetto dei principi di ragionevolezza e buon andamento dell’azione amministrativa; l’art. 118, secondo comma, Cost., per la parte in cui tali norme ledono le competenze amministrative degli enti locali e ciò in ragione della stretta connessione di queste con le attribuzioni regionali. Inoltre, con specifico riferimento ai commi 4, 5, 9, 10, 11 e 12 del medesimo art. 4, la ricorrente deduce la violazione della competenza legislativa regionale concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.; in relazione al comma 14 prospetta la violazione della potestà legislativa regionale residuale in materia di “organizzazione amministrativa della Regione”, nonché degli artt. 3 e 97 Cost. nella parte in cui, pur vietando di deferire in arbitrato le controversie tra le società a totale partecipazione pubblica, diretta o indiretta, e le relative amministrazioni (anche regionali) detentrici delle partecipazioni stesse, fa salve le clausole arbitrali contenute nei contratti tra le amministrazioni e le società pubbliche quando si siano già costituiti i relativi collegi arbitrali; in relazione ai commi 3 e 13, denuncia la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., nonché del principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost., in quanto, nell’individuazione delle società cui non trova applicazione l’art. 4 non è previsto alcun coinvolgimento delle Regioni neppure mediante l’intervento della Conferenza unificata Stato-Regioni. 3.– Con ricorso notificato il 13-17 ottobre 2012 e depositato presso la cancelleria di questa Corte il 18 ottobre 2012 (reg. ric. n. 153 del 2012), anche la Regione Campania ha promosso questione di legittimità costituzionale di numerose disposizioni del citato d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, fra le quali, in particolare, l’art. 4, commi 3 ed 8, in relazione agli artt. 5, 41, 75, 114, 117, 118 e 136 Cost. 3.1.– Le predette norme sono, in primo luogo, censurate in riferimento agli artt. 5, 75, 114, 117, 118 e 136 Cost., nella parte in cui, delineando una procedura ad hoc per le società alle quali sia precluso un utile ed efficace ricorso al mercato in ragione di peculiari caratteristiche, nonché riducendo la possibilità di affidamenti diretti dei servizi pubblici locali (commi 3 ed 8), con la più grave sanzione dello scioglimento o della privatizzazione delle società controllate direttamente o indirettamente dalle Regioni e dagli enti locali (comma 1), finisce di fatto per riprodurre una disciplina già espunta dall’ordinamento, dapprima a seguito

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del referendum del 12-13 giugno 2011 e poi con la sentenza n. 199 del 2012, ledendo la competenza legislativa regionale residuale in materia di servizi pubblici locali, che si era riespansa all’indomani della consultazione popolare e della decisione di questa Corte. Le richiamate disposizioni lederebbero, altresì, la competenza legislativa concorrente regionale in tema di coordinamento della finanza pubblica, non recando principi di coordinamento, ma una disciplina minuziosa e dettagliata. Con specifico riferimento al comma 3, la Regione ne denuncia il contrasto con gli artt. 41 e 114 Cost., nella parte in cui preclude in radice alle Regioni la possibilità di esercitare attività di rilevanza economica in precedenza svolte tramite società controllate. Con riferimento al comma 8, nella parte in cui dispone che, a decorrere dal 1° gennaio 2014, l’affidamento diretto possa avvenire solo a favore di società a capitale interamente pubblico, nel rispetto dei requisiti richiesti dal diritto comunitario in materia di in house providing purché il valore economico del servizio o dei beni oggetto dell’affidamento non superi 200.000 euro annui, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. per contrasto con i limiti posti dalla configurazione comunitaria dell’in house. 4.– Con ricorso notificato il 15 ottobre 2012 e depositato presso la cancelleria di questa Corte il 19 ottobre 2012 (reg. ric. n. 159 del 2012), la Regione Friuli–Venezia Giulia ha promosso questione di legittimità costituzionale di numerose disposizioni del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, fra le quali, in particolare, l’art. 4, commi 1, 2, 3, 7 ed 8, in riferimento all’art. 4 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia) ed all’art. 117, secondo e terzo comma, Cost. 4.1.– La Regione premette che l’impugnazione dell’art. 4 ha carattere subordinato, per l’ipotesi in cui si dovesse intendere che tale articolo è destinato ad applicarsi anche nel territorio regionale o che comunque ponga attualmente limiti o vincoli alla Regione Friuli-Venezia Giulia, nonostante la presenza della clausola di salvaguardia di cui all’art. 24-bis del medesimo d.l. 4.2.– Ove, infatti, si ritenesse che l’art. 4 sia applicabile anche nelle Regioni ad autonomia speciale, le predette norme sarebbero lesive della potestà legislativa regionale primaria in materia di “ordinamento degli uffici e degli enti dipendenti dalla Regione”, nonché dei poteri legislativi riconosciuti dall’art. 117 Cost., in quanto la decisione della Regione di operare attraverso proprie strutture o attraverso società in house costituirebbe una scelta puramente organizzativa che non può essere compressa in nome di un generico coordinamento finanziario, privo di uno specifico contenuto economico, né in nome della tutela della concorrenza, in quanto la problematica della concorrenza si porrebbe solo una volta che siano state operate le scelte organizzative dell’ente e quest’ultimo, una volta organizzatosi (nell’ambito della propria autonomia), ricorra al mercato. 5.– Con ricorso notificato il 12 ottobre 2012 e depositato presso la cancelleria di questa Corte il 19 ottobre 2012 (reg. ric. n. 160 del 2012), anche la Regione Sardegna ha promosso questione di legittimità costituzionale di numerose disposizioni del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, fra le quali, in particolare, l’art. 4, in riferimento agli artt. 3, 4, 7 ed 8 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna) ed agli artt. 3, 75, 117, 119 e 136 Cost. 5.1.– In via preliminare, la ricorrente precisa che gli articoli della Costituzione che riconoscono attribuzioni costituzionali alle Regioni ordinarie sono richiamati ai sensi dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), che estende alle Regioni ad autonomia speciale le disposizioni di maggior favore per le Regioni ordinarie nelle more della revisione dei loro statuti. 5.2.– Nel merito, la Regione censura, in particolare, i commi 1, 2, 5 ed 8 in relazione agli artt. 3, comma 1, lettere a), b) e g), e 4, comma 1, lettere f) e g), dello statuto speciale, per violazione delle competenze legislative regionali primarie nelle materie “ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi della Regione e stato giuridico ed economico del personale”, “ordinamento degli enti locali”, “trasporti su linee automobilistiche e tranviarie” e di quelle concorrenti relative alle materie “assunzione di pubblici servizi” e “linee marittime ed aeree di cabotaggio fra i porti e gli scali della Regione”, nonché per violazione delle competenze legislative regionali concorrenti in materia di coordinamento della finanza pubblica. Le disposizioni recate dai predetti commi sarebbero, inoltre, lesive degli artt. 75 e 136 Cost., in connessione con gli artt. 117 e 3 e 4 dello statuto speciale, in quanto avrebbero nuovamente innalzato una barriera nei confronti dell’affidamento in house dei servizi pubblici locali, in contrasto con la consultazione referendaria del 12-13 giugno 2011, nonché con la declaratoria di illegittimità costituzionale contenuta nella sentenza di questa Corte n. 199 del 2012, sia prevedendo la liquidazione o la privatizzazione delle società in essere, sia, quanto all’affidamento dei servizi pubblici locali, fissando un limite di valore complessivo pari a 200.000 euro. Le predette disposizioni lederebbero anche l’autonomia finanziaria regionale garantita dagli artt. 7 ed 8 dello statuto e dall’art. 119 Cost .

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Con riguardo, poi, ai commi 1, 2, 3, 4, 5, 9, 10, 11, 12, 13 e 14, la ricorrente denuncia la violazione delle competenze statutarie e costituzionali della Regione Sardegna, attenendo dette norme all’organizzazione ed allo svolgimento, in forma societaria, delle funzioni pubbliche demandate alla Regione, analogamente al comma 3-sexies, il quale sottopone al vaglio di un organo statale di nomina governativa procedimenti che attengono allo svolgimento delle funzioni pubbliche regionali. 6.– Con ricorso, notificato il 13 ottobre 2012 e depositato presso la cancelleria di questa Corte il 19 ottobre 2012 (reg. ric. n. 170 del 2012), la Regione siciliana ha promosso questione di legittimità costituzionale di numerose disposizioni del più volte citato d.l. n. 95 del 2012, fra le quali, in particolare, l’art. 4, comma 3–sexies, in riferimento agli artt. 14, lettere o) e p), 15 e 17 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana), convertito in legge costituzionale dalla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, ed all’art. 118, primo e secondo comma, Cost., in relazione all’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001. 6.1.– La Regione impugna l’art. 4, comma 3-sexies, nella parte in cui dispone che i piani di ristrutturazione e razionalizzazione delle società controllate sono approvati «previo parere favorevole del Commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa per acquisto di beni e servizi di cui all’art. 2 del d.l. n. 52 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 94 del 2012» e che il termine di 90 giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione può essere prorogato «con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, adottato su proposta del Commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa per l’acquisto di beni e servizi». Così disponendo, esso violerebbe le competenze legislative regionali statutarie primarie di cui all’art. 14, lettera p) in tema di “ordinamento degli uffici e degli enti regionali”, all’art. 14, lettera o), in tema di “regime degli enti locali”, nonché all’art. 15 in tema di “legislazione esclusiva ed esecuzione diretta in materia di circoscrizione, ordinamento e controllo”, e le correlative funzioni esecutive ed amministrative regionali e degli enti locali, la cui disciplina è attribuita alla competenza primaria delle Regioni, nonché le competenze di cui all’art. 118 Cost. 7.– Con ricorso notificato il 16-24 ottobre 2012 e depositato presso la cancelleria di questa Corte il 23 ottobre 2012 (reg. ric. n. 171 del 2012), la Regione Puglia ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1 ed 8, del predetto d.l. n. 95 del 2012, in riferimento agli artt. 3, 5, 41, 42, 43, 75, 77, 114, 117, primo, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, 118, primo e secondo comma, e 119 Cost. 7.1.– La Regione Puglia impugna, in particolare: i commi 1 e 2, nella parte in cui impongono alle Regioni ed agli enti locali di dismettere le società partecipate, per violazione: dello spirito del Titolo V della Parte II della Costituzione e dell’assetto delle competenze ivi fissato, volto alla valorizzazione degli enti locali; dell’art. 117, primo comma, Cost. in relazione ai principi di autonomia ed autarchia, consacrati anche in ambito sovranazionale (art. 5 TUE); dell’art. 114, secondo comma, Cost., in relazione al principio costituzionale di tutela della proprietà pubblica di cui all’art. 42 Cost. nonché al principio autonomistico di cui agli artt. 5 e 114 Cost.; il comma 3, nella parte in cui esclude dall’ambito di operatività dei commi 1 e 2 solo le società che svolgono servizi che rientrano tra quelli di interesse generale anche aventi rilevanza economica, per violazione dei commi primo, quarto e sesto dell’art. 117 e degli artt. 118 e 119 Cost., in quanto l’assenza dell’interesse generale e della dimensione economica del servizio collocherebbero tali società nell’alveo legislativo regionale, sia dal punto di vista organizzativo che gestionale-finanziario; il comma 8, nella parte in cui introduce limiti agli affidamenti diretti a società per azioni pubbliche, escludendo totalmente gli affidamenti a soggetti di diritto pubblico, per violazione del vincolo referendario e dei contenuti della sentenza n. 199 del 2012, oltre che dell’ordinamento comunitario in tema di affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, e conseguente lesione delle competenze costituzionali delle Regioni nelle materie dei servizi pubblici e dell’organizzazione degli enti locali; i commi 1 ed 8, per violazione degli artt. 114, 117 e 118 Cost., in quanto inciderebbero in maniera consistente sulla sfera di competenza della Regione, sia sul piano patrimoniale-proprietario, che organizzativo-funzionale e gestionale; per violazione degli artt. 41, 42 e 43 Cost., in quanto la normativa da essi recata altererebbe irrimediabilmente l’equilibrio tra proprietà pubblica e proprietà privata, tra impresa pubblica ed impresa privata; per violazione dell’art. 77 Cost., per l’assenza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza. 8.– In tutti i giudizi si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che i ricorsi siano dichiarati inammissibili e/o rigettati. In particolare, la difesa statale ha osservato che la disposizione censurata (l’art. 4), nella parte in cui prescrive lo scioglimento o la privatizzazione delle società a partecipazione pubblica, e quindi la riduzione del numero degli enti a partecipazione pubblica che erogano servizi strumentali alla pubblica amministrazione, rientrerebbe nel novero delle disposizioni che, in quanto finalizzate al contenimento ed alla razionalizzazione della spesa pubblica, costituiscono “principi di coordinamento in materia di finanza

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pubblica” ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. Essa, ponendosi in linea di continuità con i precedenti interventi legislativi in materia di società pubbliche, risponderebbe, inoltre, all’esigenza di evitare distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la par condicio degli operatori. A suo avviso, la disciplina limitativa degli enti pubblici strumentali non inciderebbe in materia di organizzazione amministrativa perché non sarebbe rivolta a regolare una forma di svolgimento dell’attività amministrativa, ma sarebbe riconducibile, da un lato, alla competenza legislativa esclusiva in materia di ordinamento civile, in quanto volta a definire i confini tra l’attività amministrativa e l’attività d’impresa, soggetta alle regole del mercato e, dall’altro, alla competenza legislativa esclusiva in materia di tutela della concorrenza, in quanto volta ad eliminare distorsioni della concorrenza stessa. La difesa statale precisa, inoltre, che il comma 3 dell’art. 4 esclude dall’ambito di applicazione una serie di società tra le quali quelle che svolgono servizi di interesse generale, anche aventi rilevanza economica, categoria quest’ultima alla quale sarebbe possibile ricondurre i servizi pubblici locali. Con le richiamate disposizioni il legislatore avrebbe inteso fare riferimento solo alle c.d. società strumentali della pubblica amministrazione e cioè a quelle società che producono beni e servizi strumentali alle funzioni amministrative di cui è titolare l’ente pubblico per il perseguimento dei suoi fini istituzionali. Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, inoltre, l’impugnata disposizione, lungi dall’esautorare le Regioni dal procedimento di razionalizzazione degli enti ad esse strumentali, lascerebbe ampi margini di autonomia alla potestà organizzativa regionale, in armonia con il principio di leale collaborazione di cui all’art. 117 Cost., prevedendosi anche meccanismi di partecipazione delle Regioni al processo di privatizzazione delle società da esse controllate, attraverso la possibilità loro riconosciuta di predisporre appositi piani di ristrutturazione. Le disposizioni contenute nei commi 1, 2 e 3 del citato art. 4 sarebbero riconducibili alla materia dell’ordinamento civile in quanto, inserendosi in un contesto normativo volto a razionalizzare l’assetto organizzativo delle pubbliche amministrazioni (in linea con l’art. 3, comma 27, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008»), mirerebbero ad assicurare una distinzione sempre più incisiva tra attività amministrativa in forma privatistica (posta in essere da società che operano per una pubblica amministrazione) ed attività di impresa di enti pubblici, incidendo sul regime giuridico, delineato in termini necessariamente uniformi sul territorio nazionale, di quelle realtà societarie direttamente o indirettamente controllate dalla pubblica amministrazione. Esse mirerebbero altresì ad evitare che l’attività d’impresa degli enti pubblici possa essere svolta beneficiando dei privilegi dei quali un soggetto può godere in quanto pubblica amministrazione: conseguentemente sarebbero riconducibili anche alla materia di competenza legislativa esclusiva statale della tutela della concorrenza. Quanto ai successivi commi 7 ed 8 dell’art. 4, la difesa statale deduce che anch’essi sarebbero finalizzati ad evitare distorsioni della concorrenza e del mercato e costituirebbero disposizioni rientranti nella competenza legislativa esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza, mentre l’art. 4, comma 3-sexies, nella parte in cui prevede che le società controllate da tutte le pubbliche amministrazioni possono avere come oggetto sociale solo l’esercizio delle funzioni amministrative di cui all’art. 118 Cost. e dispone che esse rispondano ai requisiti della legislazione comunitaria in materia di in house providing, inciderebbe sia sulla materia dell’ “ordinamento civile”, in quanto delimita l’oggetto sociale ed impone che le predette società rispondano ai requisiti della legislazione comunitaria in tema di in house providing; sia sulla la materia della “tutela della concorrenza”, materie entrambe nelle quali lo Stato può dettare disposizioni vincolanti anche per gli enti locali, competendo sempre allo Stato anche verificare la corretta attuazione delle proprie disposizioni vincolanti in concreto. 9.– All’udienza pubblica le parti hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni già formulate nelle difese scritte.

Considerato in diritto 1.– Con sette distinti ricorsi, le Regioni Lazio (n. 145 del 2012), Veneto (n. 151 del 2012), Campania (n. 153 del 2012) e Puglia (n. 171 del 2012), nonché le Regioni autonome Friuli-Venezia Giulia (n. 159 del 2012), Sardegna (n. 160 del 2012) e la Regione siciliana (n. 170 del 2012) hanno promosso questioni di legittimità costituzionale, in via principale, di numerose norme del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, recante «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini», convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, e, tra queste, dell’art. 4 ed in specie di alcuni commi del medesimo articolo. 2.– Le ricorrenti impugnano il citato art. 4 nella parte in cui: dispone lo scioglimento, entro il 31 dicembre 2013, delle società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1,

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comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), e quindi anche dalle Regioni e dagli enti locali, che, nel corso dell’anno 2011, abbiano conseguito un fatturato da prestazione di servizi a favore delle pubbliche amministrazioni stesse superiore al 90 per cento dell’intero fatturato (comma 1); prescrive, in alternativa, l’alienazione, mediante procedure di evidenza pubblica, delle relative partecipazioni entro il 30 giugno 2013 (comma 1), prevedendo, in caso di mancato adeguamento, il divieto di nuovi affidamenti diretti di servizi e del rinnovo degli affidamenti di cui le predette società siano titolari (comma 2); prevede che le predette disposizioni non si applichino, oltre che ad una serie di società specificamente individuate (commi 3 e 13), solo «qualora per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto, anche territoriale, di riferimento non sia possibile per l’amministrazione pubblica controllante un efficace e utile ricorso al mercato», sottoponendo, peraltro, gli esiti della predetta verifica all’Autorità garante della concorrenza e del mercato per l’acquisizione del parere vincolante, parere poi da comunicarsi alla Presidenza del Consiglio dei ministri (comma 3); sottopone al «previo parere favorevole» di un organo statale, e cioè del Commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa per l’acquisto di beni e servizi, l’approvazione degli eventuali piani «di ristrutturazione e razionalizzazione delle società controllate» che le Regioni abbiano predisposto entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto (comma 3-sexies); impone alle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, a decorrere dal 1° gennaio 2014, di acquisire sul mercato i beni e i servizi strumentali alla propria attività mediante le procedure concorrenziali previste dal decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, recante «Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE» (comma 7); condiziona, a decorrere dalla medesima data, la possibilità di affidamenti diretti a favore di società a capitale interamente pubblico alla circostanza che «il valore economico del servizio o dei beni oggetto dell’affidamento sia complessivamente pari o inferiore a 200.000 euro annui», nel rispetto dei requisiti richiesti dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in house (comma 8). Il medesimo art. 4 è inoltre censurato nella parte in cui detta disposizioni puntuali in ordine alla composizione ed al funzionamento dei consigli di amministrazione delle società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001 e quindi anche dalle Regioni e dagli enti locali (commi 4 e 5); impone limitazioni in ordine all’assunzione di personale ed al relativo trattamento economico (commi 9, 10, 11 e 12); vieta, a pena di nullità, di inserire clausole arbitrali in sede di stipulazione di contratti di servizio ovvero di atti convenzionali comunque denominati, intercorrenti tra società a totale partecipazione pubblica, diretta o indiretta, e amministrazioni statali e regionali (comma 14). Le ricorrenti sostengono che una simile dettagliata disciplina, considerata nel suo complesso o anche solo con riguardo a specifici commi, impedendo o comunque condizionando la scelta delle Regioni in ordine alla forma giuridica da adottare per organizzare ed erogare i propri servizi, soprattutto con la previsione di una drastica riduzione delle ipotesi di ricorso all’affidamento in house, determinerebbe la violazione: della competenza legislativa regionale residuale in materia di “organizzazione amministrativa regionale e degli enti pubblici regionali”, nonché in materia di “servizi pubblici locali”; della potestà legislativa regionale primaria spettante, in materia di “ordinamento degli uffici e degli enti dipendenti dalla Regione”, alle Regioni autonome Friuli-Venezia Giulia, Sardegna ed alla Regione siciliana (nonché in materia di “stato giuridico ed economico del personale”, “ordinamento degli enti locali”, “trasporti su linee automobilistiche e tranviarie” per la Regione Sardegna; in materia di “regime degli enti locali”, “legislazione esclusiva ed esecuzione diretta in materia di circoscrizione, ordinamento e controllo” per la Regione siciliana); della competenza statutaria in tema di determinazione dei principi fondamentali di organizzazione e funzionamento della Regione (Regione Lazio); dell’autonomia regolamentare e delle competenze amministrative degli enti locali, nonché dell’autonomia amministrativa e finanziaria regionale. Le norme impugnate, inoltre, recherebbero vulnus anche alla competenza legislativa regionale concorrente in tema di coordinamento della finanza pubblica, non recando meri principi di coordinamento della finanza pubblica, ma disposizioni dettagliate ed autoapplicative (Regioni Lazio, Veneto, Campania, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna). Infine, impedendo alle Regioni di procedere ad affidamenti in house, a prescindere da qualsivoglia valutazione discrezionale della stessa, si porrebbero anche in contrasto con la normativa dell’Unione europea che consente la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale (Regioni Lazio, Veneto, Campania), nonché con i principi di ragionevolezza e buon andamento dell’azione amministrativa (Regione Veneto). Le Regioni Campania, Sardegna e Puglia censurano il citato art. 4 anche nella parte in cui, delineando una procedura ad hoc per le società che esercitano servizi pubblici locali in ordine alle quali sia precluso un utile

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ed efficace ricorso al mercato in ragione di peculiari caratteristiche, nonché riducendo la possibilità di affidamenti diretti dei medesimi servizi pubblici locali (commi 3 ed 8), con la più grave sanzione dello scioglimento o della privatizzazione delle società controllate direttamente o indirettamente dagli enti locali (comma 1), ed il divieto di nuovi affidamenti diretti di servizi e del rinnovo degli affidamenti in essere (comma 2), riprodurrebbe, di fatto, una disciplina già espunta dall’ordinamento, dapprima a seguito del referendum del 12-13 giugno 2011 e poi per effetto della sentenza di questa Corte n. 199 del 2012, in violazione degli artt. 75 e 136 Cost. e con conseguente lesione delle competenze costituzionali e statutarie delle Regioni nella materia dei servizi pubblici. La Regione Veneto impugna i commi 3 e 13 del citato art. 4 in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost. ed al principio di leale collaborazione (artt. 5 e 120 Cost.), in quanto, nell’individuazione delle società cui non trova applicazione detta norma non sarebbe stato previsto alcun coinvolgimento delle Regioni neppure mediante l’intervento della Conferenza unificata Stato-Regioni. Siffatta Regione censura anche il comma 14 per violazione della potestà legislativa regionale (residuale) in materia di “organizzazione amministrativa della Regione” e degli artt. 3 e 97 Cost., nella parte in cui, pur vietando di inserire clausole arbitrali in sede di stipulazione di contratti di servizio tra società a totale partecipazione pubblica, diretta o indiretta, e amministrazioni statali e regionali, fa salve le clausole arbitrali contenute nei contratti tra le amministrazioni e le società pubbliche quando si siano già costituiti i relativi collegi arbitrali. La stessa Regione impugna, inoltre, i commi 1, 3, 3-sexies, 7 ed 8, ritenendo che essi violino l’art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto con le indicazioni della giurisprudenza comunitaria e con la Carta europea delle autonomie locali. Secondo la Regione Puglia, i commi 1 ed 8 della norma in esame violerebbero gli artt. 41, 42 e 43 Cost., in quanto altererebbero irrimediabilmente l’equilibrio tra proprietà pubblica e proprietà privata, tra impresa pubblica ed impresa privata, nonché l’art. 77 Cost., per l’assenza delle ragioni di straordinaria necessità ed urgenza, che avrebbero potuto giustificare l’adozione del decreto-legge. 3.– In considerazione della sostanziale identità delle norme impugnate, sopra indicate, e dell’analogia delle censure proposte con i suddetti ricorsi, i relativi giudizi possono essere riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia: la valutazione delle restanti questioni sollevate, coi medesimi ricorsi, dalle sopraindicate Regioni è riservata ad altre decisioni. 4.– In via preliminare, occorre tener conto di alcune modifiche legislative sopraggiunte alla proposizione dei ricorsi. 4.1.– L’art. 34, comma 27, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, ha modificato l’impugnato comma 8 dell’art. 4 sopprimendo le parole: «e a condizione che il valore economico del servizio o dei beni oggetto dell’affidamento sia complessivamente pari o inferiore a 200.000 euro annui». Occorre, dunque, valutare se tale modifica possa determinare la cessazione della materia del contendere con riguardo alle censure concernenti il richiamato comma 8 dell’art. 4, la cui efficacia era comunque rinviata al 1° gennaio 2014 e che, quindi, non ha avuto applicazione nella sua originaria formulazione. Siffatta modifica, che ha eliminato la soglia massima dei 200.000 euro di valore economico del servizio ai fini della possibilità di ricorrere all’affidamento in house dei servizi, pur facendo venir meno uno degli elementi limitativi del ricorso all’affidamento in house, non risulta totalmente satisfattiva delle istanze delle Regioni ricorrenti, poiché resta inserita in un contesto normativo, complessivamente censurato, che risulta sostanzialmente immutato. In base a quest’ultimo, detti affidamenti diretti possono essere effettuati in favore delle società pubbliche che abbiano i requisiti di cui al comma 1 (siano controllate dalle pubbliche amministrazioni in favore delle quali abbiano prestato servizi, conseguendo, in riferimento ad essi, nell’anno 2011, un fatturato superiore al 90 per cento dell’intero fatturato), o in quanto rientrino fra quelle espressamente escluse dall’ambito di applicazione dell’art. 4 (commi 3 e 13), oppure in quanto ricorra per esse la condizione di cui al comma 3 e cioè che «per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto, anche territoriale, di riferimento non sia possibile per l’amministrazione pubblica controllante un efficace e utile ricorso al mercato» (comma 3, secondo periodo), secondo il parere vincolante dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Ove tali condizioni non siano soddisfatte e le predette società non siano state sciolte o privatizzate, come previsto dal comma 1, esse non possono, infatti, essere più destinatarie di affidamenti diretti (comma 2). Pertanto, posto che la sopravvenienza legislativa non modifica in modo significativo il complessivo quadro normativo, e certamente non lo fa in modo satisfattivo delle istanze delle Regioni ricorrenti, non è possibile dichiarare cessata la materia del contendere. In considerazione della sostanziale identità del contenuto precettivo della norma modificata, la questione, come proposta, si intende trasferita sul testo attualmente vigente del comma 8 dell’art. 4.

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4.2.– L’art. 1, comma 148, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge di stabilità 2013) ha modificato l’impugnato comma 10 del medesimo art. 4 del d.l. n. 95 del 2012, aggiungendo, al testo già vigente, il seguente periodo: «Le medesime società applicano le disposizioni di cui all’articolo 7, commi 6 e 6-bis, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, in materia di presupposti, limiti e obblighi di trasparenza nel conferimento degli incarichi» Anche in tal caso la sopravvenienza legislativa, intervenuta quando la norma originaria non era stata ancora applicata, non costituisce una modifica satisfattiva delle pretese delle ricorrenti, dal momento che introduce, in capo alle società pubbliche oggetto dell’art. 4, ulteriori vincoli in materia di rapporti di lavoro (contratti di collaborazione e conferimento di incarichi), estendendo alle medesime società i limiti imposti, in materia, dal d.lgs. n. 165 del 2001 alle pubbliche amministrazioni “controllanti”. Tenuto conto, quindi, che non è mutato il contenuto precettivo della norma modificata, la questione, come proposta, si intende trasferita sul testo attualmente vigente del comma 10 dell’art. 4. 5. – Ancora in linea preliminare, va dichiarata l’inammissibilità delle questioni promosse dalla Regione Veneto (ric. n. 151 del 2012), nei confronti del comma 8-bis dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012. Tale disposizione, sebbene sia evocata fra quelle impugnate dalla predetta Regione con il citato ricorso congiuntamente ai commi 1, 3, 3-sexies, 9, 10, 11, 12 e 14 del citato articolo, non è fatta oggetto di nessuna delle censure ivi prospettate. 6.– Va, altresì, dichiarata l’inammissibilità delle questioni promosse dalla Regione Puglia (ric. n. 171 del 2012) nei confronti dei commi 1 ed 8 del citato art. 4, in riferimento sia agli artt. 41, 42 e 43 Cost. che all’ art. 77 Cost., nonché delle questioni proposte dalla Regione Veneto (ric. n. 151 del 2012) nei confronti del comma 14 del medesimo art. 4, in riferimento agli artt. 117, quarto comma, e 3 e 97 Cost., nonché nei confronti dei commi 1, 3, 3-sexies, 7 ed 8, della predetta norma, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con la giurisprudenza comunitaria e con la Carta europea delle autonomie locali. 6.1.– Questa Corte ha più volte affermato che le Regioni possono evocare parametri di legittimità diversi da quelli che sovrintendono al riparto di attribuzioni solo allorquando la violazione denunciata sia «potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle attribuzioni costituzionali delle Regioni» (sentenza n. 199 del 2012) e queste abbiano sufficientemente motivato in ordine ai profili di una possibile ridondanza della predetta violazione sul riparto di competenze, assolvendo all’onere di operare la necessaria indicazione della specifica competenza regionale che ne risulterebbe offesa e delle ragioni di tale lesione (sentenza n. 33 del 2011). Nella specie, dette condizioni di ammissibilità delle censure non sono soddisfatte. La Regione Puglia si è, infatti, limitata a denunciare, peraltro genericamente, in un caso, la violazione degli artt. 41, 42 e 43 Cost. sostenendo che la normativa da essi recata altererebbe irrimediabilmente l’equilibrio tra proprietà pubblica e proprietà privata, tra impresa pubblica ed impresa privata; nell’altro, la violazione dell’art. 77 Cost. per assenza dei presupposti di necessità ed urgenza; e ciò senza motivare circa la possibile ridondanza delle violazioni sul riparto delle competenze. Analogamente, la Regione Veneto ha impugnato il comma 14 della norma in esame per violazione della potestà legislativa regionale (residuale) in materia di “organizzazione amministrativa della Regione” e degli artt. 3 e 97 Cost. nella parte in cui, pur vietando di inserire clausole arbitrali in sede di stipulazione di contratti di servizio tra società a totale partecipazione pubblica, diretta o indiretta, e amministrazioni statali e regionali, fa salve le clausole arbitrali contenute nei contratti tra le amministrazioni e le società pubbliche quando si siano già costituiti i relativi collegi arbitrali, senza fornire alcuna argomentazione circa le ragioni per le quali la predetta disposizione determinerebbe una lesione della competenza regionale in materia di organizzazione amministrativa regionale. Anche le censure di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., prospettate dalla medesima Regione Veneto in relazione ai commi 1, 3, 3-sexies, 7 ed 8, sono formulate senza alcuna motivazione sulla possibile ridondanza sulla sfera di competenza regionale del preteso contrasto con le indicazioni della giurisprudenza comunitaria e con la Carta europea delle autonomie locali, peraltro genericamente evocata. 7.– Sono, invece, ammissibili le questioni proposte dalle Regioni Campania, Sardegna e Puglia in riferimento agli artt. 75 e 136 Cost. Le Regioni ricorrenti assumono, infatti, che la normativa qui impugnata (in specie i commi 1, 2, 3 ed 8) ha nuovamente innalzato una barriera nei confronti dell’affidamento in house dei servizi pubblici locali, reintroducendo una disciplina analoga, ed anzi ancor più restrittiva, sia di quella già oggetto di abrogazione referendaria, con la quale si riduceva la possibilità di affidamenti diretti dei servizi pubblici locali, sia di quella dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione della volontà popolare espressa attraverso la consultazione referendaria. Posto che, sia a seguito dell’abrogazione referendaria, che a seguito della

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declaratoria di illegittimità costituzionale, le competenze regionali e degli enti locali nel settore dei servizi pubblici locali si erano riespanse, le ricorrenti impugnano dette norme, in quanto lesive della sfera di competenza regionale (e degli enti locali) in materia di servizi pubblici locali come “riespansa”. Le ricorrenti hanno, quindi, fornito una sufficiente motivazione in ordine ai profili della possibile ridondanza sul riparto di competenze della denunciata violazione, evidenziando la potenziale lesione della potestà legislativa regionale residuale in materia di servizi pubblici locali (e della relativa competenza regolamentare degli enti locali) che deriverebbe dalla violazione degli artt. 75 e 136 Cost. 8.– La Regione Friuli-Venezia Giulia prospetta le censure nei confronti delle disposizioni dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012 solo in via subordinata, «per l’ipotesi in cui si dovesse intendere che esse sono destinate ad applicarsi anche nel territorio regionale» e che quindi non operi la c.d. clausola di salvaguardia di cui all’art. 24-bis del medesimo d.l. n. 95 del 2012. Ad avviso della ricorrente, tale norma, nella parte in cui stabilisce che «[…] le disposizioni del presente decreto si applicano alle predette regioni e province autonome secondo le procedure previste dai rispettivi statuti speciali e dalle relative norme di attuazione, anche con riferimento agli enti locali delle autonomie speciali che esercitano le funzioni in materia di finanza locale, agli enti ed organismi strumentali dei predetti enti territoriali e agli altri enti o organismi ad ordinamento regionale o provinciale», renderebbe inapplicabili ad essa ed a tutte le Regioni ad autonomia speciale ed alle Province autonome le disposizioni del decreto-legge, tranne quelle che, a loro volta (come nel caso dell’art. 17), contengano specifiche indicazioni sulla loro applicabilità alle autonomie speciali. Pertanto, poiché l’impugnato art. 4 non contiene alcuna specifica menzione, le disposizioni da esso recate non sarebbero applicabili alle autonomie speciali. 8.1.– La tesi della Regione Friuli-Venezia Giulia è corretta, in quanto dall’esame dei lavori preparatori si desume che la clausola di cui all’art. 24-bis è stata introdotta, in sede di conversione in legge, alla fine del testo del d.l. n. 95 del 2012, proprio per garantire che «il contributo delle Regioni a statuto speciale all’azione di risanamento come fissata in questo provvedimento dallo stesso Governo […] venga realizzato rispettando i rapporti e i vincoli che gli statuti speciali stabiliscono tra livello nazionale e Regioni a statuto speciale». La predetta clausola è analoga ad altre sulle quali questa Corte si è già pronunciata, affermando che esse sono volte ad escludere la diretta applicazione agli enti ad autonomia speciale delle disposizioni dettate dal legislatore statale che non siano compatibili con quanto stabilito negli statuti speciali e nelle norme di attuazione degli stessi, al di fuori delle particolari procedure previste dai rispettivi statuti (sentenza n. 193 del 2012). Tale tipo di clausole, lungi dall’essere mere clausole di stile, hanno la «precisa funzione di rendere applicabile il decreto agli enti ad autonomia differenziata solo a condizione che siano “rispettati” gli statuti speciali» (sentenza n. 241 del 2012): esse, in tal modo, prefigurano «un percorso procedurale, dominato dal principio consensualistico, per la modificazione delle norme di attuazione degli statuti speciali, con riguardo all’eventualità in cui lo Stato voglia introdurre negli enti ad autonomia differenziata, quanto alle materie trattate nel decreto-legge, una disciplina non conforme alle norme di attuazione statutaria» (sentenza n. 241 del 2012; in senso analogo cfr. anche, fra le altre, sentenze n. 178 del 2012 e n. 64 del 2012). Da ciò si desume che, anche qualora si accertasse che le norme dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012 impugnate rechino disposizioni incompatibili con gli statuti speciali, esse non sarebbero di per sé applicabili alle Regioni ad autonomia speciale, ma richiederebbero il recepimento tramite le apposite procedure (consensuali) prescritte dalla normativa statutaria e di attuazione statutaria. 9.– Procedendo all’esame del merito delle questioni proposte, occorre, in primo luogo, esaminare le censure delle Regioni Campania, Sardegna e Puglia concernenti il citato art. 4, nella parte in cui delinea una procedura ad hoc per le società che esercitano servizi pubblici locali in ordine alle quali sia precluso un utile ed efficace ricorso al mercato in ragione di peculiari caratteristiche, nonché riduce la possibilità di affidamenti diretti dei medesimi servizi pubblici locali (commi 3 ed 8), con la più grave sanzione dello scioglimento o della privatizzazione delle società controllate direttamente o indirettamente dagli enti locali (comma 1) ed il divieto di nuovi affidamenti diretti di servizi e del rinnovo degli affidamenti in essere (comma 2), nonché con la previsione dell’obbligo, posto a carico delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001, di acquisire sul mercato i beni e i servizi con le procedure ad evidenza pubblica (comma 7). Così disponendo, l’art. 4 riprodurrebbe una disciplina già espunta dall’ordinamento, dapprima, a seguito del referendum del 12-13 giugno 2011 e, poi, per effetto della sentenza n. 199 del 2012, in violazione degli artt. 75 e 136 Cost., con conseguente lesione delle competenze costituzionali e statutarie delle Regioni nella materia dei servizi pubblici, nonché delle competenze regolamentari ed amministrative degli enti locali nella medesima materia. 9.1.– Le questioni non sono fondate. Occorre premettere che con il d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, il legislatore statale ha introdotto disposizioni urgenti finalizzate a «razionalizzare la spesa pubblica attraverso

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la riduzione delle spese per beni e servizi, garantendo al contempo l’invarianza dei servizi ai cittadini». In questo ambito si colloca l’art. 4, rubricato «Riduzione di spese, messa in liquidazione e privatizzazione di società pubbliche», il quale contiene una serie di disposizioni volte primariamente a realizzare lo scioglimento o, in alternativa, la privatizzazione delle società, controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni, titolari di affidamenti diretti di servizi in favore delle pubbliche amministrazioni, ed in specie di quelle, fra di esse, che abbiano conseguito nell’anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore delle pubbliche amministrazioni stesse superiore al 90 per cento dell’intero fatturato, mirando a ridurne il numero. A tale scopo, si prevede che le predette società (di cui al comma 1) possono continuare ad operare, senza essere sciolte o privatizzate, solo «qualora per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto, anche territoriale, di riferimento non sia possibile per l’amministrazione pubblica controllante un efficace e utile ricorso al mercato» e a condizione che tale verifica venga sottoposta all’Autorità garante della concorrenza e del mercato per l’acquisizione del parere vincolante, da rendere entro sessanta giorni dalla ricezione della relazione, parere poi da comunicarsi alla Presidenza del Consiglio dei ministri (comma 3). Si delimita, poi, ulteriormente, a partire dal 1° gennaio 2014, il ricorso agli affidamenti diretti solo a favore di società a capitale interamente pubblico (comma 8), imponendosi, viceversa, alle pubbliche amministrazioni, come regola, l’obbligo di acquisire i servizi strumentali alle proprie attività sul mercato secondo le procedure concorrenziali (comma 7) . L’ambito di applicazione di tali disposizioni è definito in negativo dai commi 3 e 13, i quali espressamente individuano una serie di società controllate dalle pubbliche amministrazioni sottratte al regime dettato dall’art. 4, fra le quali vi sono, in primo luogo, le società che svolgono servizi di interesse generale, anche aventi rilevanza economica. Posto che la definizione dei servizi di interesse generale trova nella normativa dell’Unione europea i suoi fondamenti, e che, alla luce di essa, tali servizi corrispondono ad attività (anche commerciali) orientate al bene della collettività e pertanto vincolate a specifici obblighi di servizio pubblico da parte delle autorità, tra le quali si annoverano, ad esempio, i trasporti, i servizi postali, le telecomunicazioni, è agevole desumere che i servizi pubblici locali rientrano fra i servizi di interesse generale. Le censure muovono, perciò, da un presupposto interpretativo erroneo, che è quello dell’applicabilità delle norme qui in esame in riferimento ai servizi pubblici locali. Tale presupposto non solo è contraddetto espressamente dal citato comma 3, ma viene anche smentito da una lettura sistematica delle disposizioni dell’art. 4, le quali più volte fanno riferimento a società controllate che svolgono servizi in favore delle pubbliche amministrazioni (già nel comma 1), che sono “strumentali” all’attività delle medesime (ad esempio, al comma 7). Considerato che le disposizioni censurate hanno un ambito di applicazione diverso da quello delle disposizioni oggetto del referendum abrogativo del 12-13 giugno 2011 e della declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 199 del 2012 e, dunque, non sono riproduttive né delle disposizioni abrogate con il referendum, né delle disposizioni dichiarate costituzionalmente illegittime con la citata sentenza n. 199 del 2012, non sussiste alcuna lesione né del giudicato costituzionale, né della volontà popolare espressa tramite il referendum. 10.– L’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012 è, inoltre, censurato nella parte in cui, impedendo o comunque condizionando la scelta delle Regioni in ordine alla forma giuridica da adottare per organizzare ed erogare i propri servizi, in specie con l’imposizione dello scioglimento o della privatizzazione delle società in house, nonché, comunque, con la previsione di una drastica riduzione delle ipotesi di ricorso all’affidamento in house, determinerebbe la violazione della competenza legislativa regionale residuale in materia di organizzazione amministrativa regionale e degli enti pubblici regionali, nonché delle competenze legislative primarie in materia di “ordinamento degli uffici e degli enti dipendenti dalla Regione” per la Regione Friuli-Venezia Giulia, la Regione Sardegna e la Regione siciliana; in materia di “stato giuridico ed economico del personale”, “ordinamento degli enti locali”, “trasporti su linee automobilistiche e tranviarie” per la Regione Sardegna; in materia di “regime degli enti locali”, “legislazione esclusiva ed esecuzione diretta in materia di circoscrizione, ordinamento e controllo” per la Regione siciliana. Si osserva, peraltro, da parte di alcune ricorrenti, che una simile compressione della predetta competenza legislativa regionale non potrebbe giustificarsi in quanto volta a garantire il rispetto di principi di coordinamento della finanza pubblica, posto che le norme impugnate recherebbero disposizioni dettagliate ed autoapplicative, non riconducibili ai predetti principi (Regioni Lazio, Veneto, Campania, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna). L’esame della questione impone di verificare quale sia la materia alla quale va ricondotta la normativa censurata. A tal fine, questa Corte ha più volte affermato che «per la identificazione della materia in cui si colloca la disposizione impugnata, questa va individuata avendo riguardo all’oggetto o alla disciplina da

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essa stabilita, sulla base della sua ratio, senza tenere conto degli aspetti marginali e riflessi» (sentenza n. 235 del 2010; in tal senso anche le sentenze n. 368 del 2008 e n. 165 del 2007). 10.1.– Quanto all’oggetto, già dalla rubrica dell’art. 4 si desume che esso è costituito dalla «messa in liquidazione e privatizzazione di società pubbliche», volta a ridurne il numero in vista della riduzione delle spese. Il comma 1 del predetto articolo chiarisce che oggetto della disciplina da esso dettata sono le società pubbliche o, più precisamente, quelle società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, che siano titolari di affidamenti diretti di servizi svolti a favore delle medesime pubbliche amministrazioni e cioè di quelle società che producono beni o servizi strumentali alle pubbliche amministrazioni. Con riguardo a tali società pubbliche strumentali, il comma 1 dispone che esse siano sciolte entro il 31 dicembre 2013 o che siano privatizzate entro il 30 giugno dello stesso anno, qualora abbiano conseguito nell’anno 2011 più del 90 per cento del fatturato da prestazioni di servizi alla pubblica amministrazione; e stabilisce anche che, nel caso di mancato adeguamento a tali indicazioni, le predette società non possano più ottenere nuovi affidamenti diretti, né il rinnovo degli affidamenti preesistenti (comma 2, al quale si collega il comma 8). Per ovviare ai predetti esiti, alle amministrazioni pubbliche controllanti è solo consentito: a) di predisporre un’analisi di mercato sulla base della quale risulti che, per le peculiari caratteristiche economiche e sociali, ambientali e geo-morfologiche del contesto, anche territoriale, di riferimento, non è possibile un efficace ed utile ricorso al mercato, analisi tuttavia soggetta al parere vincolante dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (comma 3, ultimo periodo); b) ovvero (entro 90 giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione) di predisporre piani di razionalizzazione e ristrutturazione delle predette società, i quali, tuttavia, sono assoggettati al previo parere favorevole del Commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa per l’acquisto di beni e servizi di cui all’articolo 2 del decreto-legge 7 maggio 2012, n. 52 (Disposizioni urgenti per la razionalizzazione della spesa pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 luglio 2012, n. 94. A tali disposizioni, chiaramente finalizzate alla riduzione dell’uso delle società pubbliche strumentali, si aggiunge, da un lato, la previsione secondo cui, dal 1° gennaio 2014, le amministrazioni pubbliche acquisiscono i servizi strumentali alla propria attività sul mercato nel rispetto delle regole concorrenziali stabilite dal d.lgs. n. 163 del 2006 (comma 7); dall’altro, una serie di norme che disciplinano l’organizzazione ed il funzionamento delle predette società, che siano rimaste operative in base all’applicazione della predetta normativa, sia imponendo limiti al numero dei componenti dei consigli di amministrazione (commi 4 e 5), nonché alle spese per il personale delle medesime società e per il relativo trattamento economico (commi 9, 10 ed 11), sia, infine ponendo in capo agli amministratori e dirigenti delle medesime società la responsabilità contabile in caso di violazione dei vincoli di spesa (comma 12). Tale essendo il contenuto delle norme in esame, emerge chiaramente che le stesse dettano una disciplina puntuale delle società pubbliche strumentali, che si aggiunge ai numerosi interventi del legislatore statale sulle medesime società, i quali, negli anni più recenti, ne hanno accentuato i profili di specialità rispetto al regime generale delle società di diritto comune. Fra tali interventi si colloca la disciplina restrittiva stabilita, dapprima, con il decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248; e, poi, con la legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008). In particolare, con l’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006, si è disposto che le società interamente pubbliche o miste, costituite o partecipate da amministrazioni pubbliche regionali e locali per lo svolgimento di attività strumentali ovvero per lo svolgimento esternalizzato delle funzioni amministrative dell’ente (fatta eccezione per i servizi pubblici locali e i servizi e centrali di committenza), a decorrere dal 4 gennaio 2010, devono operare esclusivamente a favore degli enti costituenti o partecipanti o affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati e non possono partecipare ad altre società o enti aventi sede nel territorio nazionale. Con l’art. 3, comma 27, della legge n. 244 del 2007, si è, inoltre, stabilito il divieto per le amministrazioni pubbliche di cui al citato articolo 1, comma 2 del d.lgs. n. 165 del 2001 di costituire società aventi ad oggetto la produzione di beni e servizi non strettamente necessari al perseguimento delle proprie finalità istituzionali, ovvero il divieto di assumere o mantenere – direttamente – partecipazioni, anche di minoranza, in tali società. Sulla richiamata disciplina restrittiva delle società pubbliche strumentali questa Corte ha già avuto occasione di pronunciarsi, rilevando come sia il divieto per le predette società strumentali di svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, in affidamento diretto o con gara, e di partecipare ad altre società o enti (art. 13 del d.l. n. 223 del 2006), sia il divieto per le pubbliche amministrazioni di costituire società aventi per oggetto la produzione di beni e servizi, non strettamente necessari al perseguimento delle proprie

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finalità istituzionali, e di assumere e mantenere le partecipazioni in tali società (art. 3, comma 27, della legge n. 244 del 2007), «mirano, da un canto, a rafforzare la distinzione tra attività amministrativa in forma privatistica (posta in essere da società che operano per una pubblica amministrazione) ed attività di impresa di enti pubblici, dall’altro, ad evitare che quest’ultima possa essere svolta beneficiando dei privilegi dei quali un soggetto può godere in quanto pubblica amministrazione» (sentenza n. 148 del 2009). Esse sono, quindi, dirette ad evitare che soggetti dotati di privilegi svolgano attività economica al di fuori dei casi nei quali ciò è imprescindibile per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, anche al fine di eliminare eventuali distorsioni della concorrenza (sentenza n. 326 del 2008). In altri termini, in tali previsioni restrittive si è ravvisata la finalità di assicurare che le società pubbliche che svolgono servizi strumentali per le pubbliche amministrazioni non approfittino del vantaggio che ad esse deriva dal particolare rapporto con le predette pubbliche amministrazioni operando sul mercato, al fine di evitare distorsioni della concorrenza, ma concentrino il proprio operato esclusivamente nell’“attività amministrativa svolta in forma privatistica” per le medesime amministrazioni pubbliche. E ciò in linea con la normativa dell’Unione europea, il cui primario obiettivo è quello di evitare che l’impresa pubblica goda di regimi privilegiati e di assicurare – ai fini dell’ammissibilità degli affidamenti diretti di servizi a società pubbliche – che l’ente affidante eserciti sull’affidatario un controllo analogo a quello che esso esercita sui propri servizi e che l’affidatario realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente controllante (per tutte, sentenza Corte di giustizia, sez. V, 18 novembre 1999, n. C-107/98, Teckal c. Comune di Viano). La disciplina dettata dai commi 1 e 2 dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012, tuttavia, lungi dal perseguire l’obiettivo di garantire che le società pubbliche che svolgono servizi strumentali per le pubbliche amministrazioni concentrino il proprio operato esclusivamente nell’“attività amministrativa svolta in forma privatistica” per le predette amministrazioni pubbliche e non operino sul mercato «beneficiando dei privilegi dei quali un soggetto può godere in quanto pubblica amministrazione» (sentenza n. 326 del 2008), colpisce proprio le società pubbliche che hanno realizzato tale obiettivo. Essa, infatti, impone a tutte le amministrazioni, quindi anche a quelle regionali, di sciogliere o privatizzare proprio le società pubbliche strumentali che, nell’anno 2011, abbiano conseguito più del 90 per cento del proprio fatturato da prestazioni di servizi alla pubblica amministrazione controllante (comma 1), sanzionandole, in caso di mancato adeguamento agli obblighi di scioglimento o privatizzazione, con il divieto del rinnovo di affidamenti in essere e di nuovi affidamenti diretti in favore delle predette società (comma 2, cui si congiunge il comma 8). In tal modo, è sottratta alle medesime amministrazioni, di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, la scelta in ordine alle modalità organizzative di svolgimento delle attività di produzione di beni o servizi strumentali alle proprie finalità istituzionali, in quanto si esclude la possibilità che, pur ricorrendo le condizioni prescritte dall’ordinamento dell’Unione europea, le medesime amministrazioni continuino ad avvalersi di società in house. Di queste ultime, infatti, si impone lo scioglimento o la privatizzazione, consentendosi che le stesse sopravvivano e continuino ad essere titolari di affidamenti diretti (comma 8) solo nelle rare ipotesi nelle quali «per le peculiari caratteristiche economiche e sociali, ambientali e geo-morfologiche del contesto, anche territoriale, di riferimento non è possibile un efficace ed utile ricorso al mercato», soggette comunque alla valutazione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (comma 3, secondo periodo), o negli ancor più ridotti casi nei quali siano stati predisposti dei piani di razionalizzazione e di ristrutturazione delle medesime società, i quali devono peraltro aver avuto il parere favorevole (vincolante) del Commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa per l’acquisto di beni e servizi di cui all’articolo 2 del d.l. n. 52 del 2012 (comma 3-sexies). In sostanza, le richiamate disposizioni (in specie i commi 1 e 2, ai quali sono strettamente collegati il comma 3, secondo periodo, il comma 3-sexies, ed il comma 8) precludono anche alle Regioni, titolari di competenza legislativa residuale e primaria in materia di organizzazione, costituzionalmente e statutariamente riconosciuta e garantita, la scelta di una delle possibili modalità di svolgimento dei servizi strumentali alle proprie finalità istituzionali. Siffatta scelta costituisce un modo di esercizio dell’autonomia organizzativa delle Regioni, e cioè quello di continuare ad avvalersi di quelle società che, svolgendo esclusivamente “attività amministrativa in forma privatistica” nei confronti delle pubbliche amministrazioni, sono in armonia sia con i vincoli “costitutivi” imposti dall’art. 3, comma 27, della legge n. 244 del 2007, sia con i limiti di attività delineati dall’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006 e sono, peraltro, contraddistinte da un legame con le medesime, basato sulla sussistenza delle condizioni prescritte dalla giurisprudenza comunitaria del “controllo analogo” e dell’“attività prevalente”, tale da configurarle quali «longa manus delle amministrazioni pubbliche, operanti per queste ultime e non per il pubblico», come da tempo riconosciuto dalla giurisprudenza amministrativa (per tutte, Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 4 agosto 2011, n. 17).

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Le predette norme (commi 1, 2, 3, secondo periodo, 3-sexies, 8) incidono, pertanto, sulla materia dell’organizzazione e funzionamento della Regione, affidata dall’art. 117, quarto comma, Cost., alla competenza legislativa regionale residuale delle Regioni ad autonomia ordinaria ed alla competenza legislativa regionale primaria delle Regioni ad autonomia speciale dai rispettivi statuti, tenuto conto che esse inibiscono in radice una delle possibili declinazioni dell’autonomia organizzativa regionale. Tale collocazione per materia delle norme impugnate qui in esame non risulta, tuttavia, totalmente assorbente. Occorre, infatti, tener conto del fatto che l’impugnato art. 4 si inserisce fra le disposizioni recate dal d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, con le quali il legislatore statale ha inteso «razionalizzare la spesa pubblica attraverso la riduzione delle spese per beni e servizi, garantendo al contempo l’invarianza dei servizi ai cittadini». È, quindi, indiscutibile che la disciplina impugnata obbedisce anche alla finalità del contenimento della spesa pubblica. Poiché la giurisprudenza costituzionale ha espressamente riconosciuto che disposizioni statali di principio in tema di coordinamento della finanza pubblica, ove costituzionalmente legittime, possono «incidere su una materia di competenza della Regione e delle Province autonome (sentenze n. 188 del 2007, n. 2 del 2004 e n. 274 del 2003), come l’organizzazione ed il funzionamento dell’amministrazione regionale e provinciale» (sentenza n. 159 del 2008), si tratta di verificare se le singole disposizioni impugnate dalle Regioni siano riconducibili a principi di coordinamento della finanza pubblica. Questa Corte ha ripetutamente ribadito al riguardo che è consentito imporre limiti alla spesa di enti pubblici regionali alla duplice condizione: a) di porre obiettivi di riequilibrio della medesima, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente; b) di non prevedere in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi (sentenza n. 289 del 2008). Può essere, in altri termini, imposto alle Regioni un «limite globale, complessivo, al punto che ciascuna Regione deve ritenersi libera di darvi attuazione, nelle varie leggi di spesa, relativamente ai diversi comparti, in modo graduato e differenziato, purché il risultato complessivo sia pari a quello indicato nella legge statale» (sentenza n. 36 del 2013; sentenza n. 211 del 2012). Nella specie, le disposizioni di cui ai commi 1, 2, 3, secondo periodo, 3-sexies ed 8, delineano, invece, una disciplina puntuale e dettagliata che vincola totalmente anche le amministrazioni regionali, senza lasciare alcun margine di adeguamento, anche a Regioni e Province autonome, con conseguente lesione dell’autonomia organizzativa della Regione, nonché della competenza regionale concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica. 10.1.1.– Pertanto, va dichiarata l’illegittimità costituzionale dei commi 1, 2, 3, secondo periodo, 3-sexies, ed 8 dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012 nella parte in cui si riferiscono anche alle Regioni ad autonomia ordinaria. Restano assorbite le censure riferite all’art. 123 Cost. ed agli artt. 118 e 119 Cost. (per violazione dell’autonomia amministrativa e finanziaria regionale). 10.1.2.– Quanto alle Regioni ad autonomia speciale deve, invece, dichiararsi la non fondatezza delle questioni proposte, posto che le disposizioni censurate, come si è già detto, non si applicano alle medesime, in virtù dell’operatività della clausola di salvaguardia di cui all’art. 24-bis (punto 8.1). 10.2.– Non fondate devono dichiararsi le censure di violazione delle attribuzioni costituzionali e statutarie degli enti locali prospettate (in particolare nei ricorsi n. 145, n. 151, n. 160, n. 170 e n. 171 del 2012) nei confronti dei suddetti commi dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012 dalle Regioni ricorrenti, in quanto ritenute strettamente connesse alle proprie competenze regionali (per tutte, sentenza n. 311 del 2012). Le norme impugnate hanno, infatti, evidente attinenza con i profili organizzativi degli enti locali, posto che esse coinvolgono le modalità con cui tali enti perseguono, quand’anche nelle forme del diritto privato, le proprie finalità istituzionali. Con riferimento alle Regioni a statuto ordinario, tuttavia, questa Corte ha già affermato che «spetta al legislatore statale […] disciplinare i profili organizzativi concernenti l’ordinamento degli enti locali (art. 117, secondo comma, lettera p), Cost.)»: pertanto, posto che le società controllate sulle quali incide la normativa impugnata svolgono attività strumentali alle finalità istituzionali delle amministrazioni degli enti locali, strettamente connesse con le previsioni contenute nel testo unico degli enti locali, legittimamente su di esse è intervenuto il legislatore statale (sentenza n. 159 del 2008). Diverso ragionamento deve farsi con riguardo alle Regioni ad autonomia speciale, titolari di competenza legislativa primaria in materia di “ordinamento degli enti locali”. Tenuto conto dell’inerenza della disciplina censurata alla materia dell’organizzazione delle amministrazioni controllanti le società pubbliche oggetto dell’impugnato art. 4, e del rilievo che i vincoli da essa imposti a fini di contenimento della spesa pubblica sono legittimi solo ove corrispondano a principi di coordinamento della finanza pubblica, deve ravvisarsi, nella specie, un contrasto con la normativa statutaria e di attuazione statutaria. Tuttavia, stante la clausola di

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salvaguardia di cui all’art. 24-bis, deve ritenersi che le disposizioni censurate siano inoperanti nell’ambito delle predette Regioni. Devono, pertanto, dichiararsi non fondate le censure proposte dalle Regioni ad autonomia speciale (Regione Sardegna con il ricorso n. 160 e Regione siciliana, con il ricorso n. 170) in relazione alla pretesa violazione della competenza regionale in tema di ordinamento degli enti locali in riferimento ai commi 1, 2, 3, secondo periodo, 3–sexies ed 8 dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012. 10.3.– Le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto i commi 4 e 5 dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012 non sono fondate. Tali commi sono impugnati nella parte in cui determinano il numero massimo dei componenti dei consigli di amministrazione delle società pubbliche di cui al comma 1 (comma 4) e delle società a totale partecipazione pubblica (comma 5), individuando anche le modalità di composizione dei predetti consigli e le funzioni dei componenti. Essi vanno ricondotti ad una materia diversa da quelle sopra individuate in relazione agli altri commi. Una volta, infatti, che la Regione abbia esercitato la sua autonomia organizzativa, operando la scelta fra i vari moduli organizzativi possibili per lo svolgimento dei servizi strumentali alle proprie finalità istituzionali in favore dell’affidamento diretto a società pubbliche, essa ha anche accettato di rispettare lo speciale statuto che contraddistingue tali società, il quale, pur connotato da rilevanti profili di matrice pubblicistica, è comunque riconducibile, in termini generali, al modello societario privatistico che ha radice nel codice civile. La disciplina puntuale delle modalità di composizione dei consigli di amministrazione di tali società, nonché l’individuazione del numero e delle funzioni dei componenti deve, pertanto, essere ricondotta alla materia dell’ “ordinamento civile”, di competenza esclusiva del legislatore statale. Quest’ultima «comprende gli aspetti che ineriscono a rapporti di natura privatistica, per i quali sussista un’esigenza di uniformità a livello nazionale; […] non è esclusa dalla presenza di aspetti di specialità rispetto alle previsioni codicistiche; […] comprende la disciplina delle persone giuridiche di diritto privato», nonché «istituti caratterizzati da elementi di matrice pubblicistica, ma che conservano natura privatistica (sentenze n. 159 e n. 51 del 2008, n. 438 e n. 401 del 2007 e n. 29 del 2006)» (sentenza n. 326 del 2008). Di qui la non fondatezza delle censure. 10.4.– Le questioni promosse nei confronti dei commi 9, 10, 11 e 12 dell’art. 4 non sono fondate. Considerazioni analoghe a quelle sopra svolte, vanno effettuate, infatti, con riguardo a tali commi, i quali stabiliscono, rispettivamente, che: alle società di cui al comma 1 si applicano le disposizioni limitative delle assunzioni previste per l’amministrazione controllante fino al 31 dicembre 2015 (comma 9); a decorrere dall’anno 2013, le società di cui al comma 1 possono avvalersi di personale a tempo determinato ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa nel limite del 50 per cento della spesa sostenuta per le rispettive finalità nell’anno 2009 (comma 10); a decorrere dal 1° gennaio 2013 e fino al 31 dicembre 2014, il trattamento economico complessivo dei singoli dipendenti delle società di cui al comma 1, ivi compreso quello accessorio, non può superare quello ordinariamente spettante per l’anno 2011 (comma 11); in caso di violazione dei vincoli di spesa, gli amministratori esecutivi ed i dirigenti responsabili della società rispondono a titolo di danno erariale per le retribuzioni ed i compensi erogati in virtù dei contratti stipulati (comma 12). Tali norme disciplinano aspetti rilevanti del regime speciale che contraddistingue le predette società pubbliche, inerenti al rapporto di lavoro dei dipendenti ed al loro trattamento economico, nonché alle forme di responsabilità degli amministratori e dirigenti. Esse – che peraltro perseguono evidentemente l’obiettivo del contenimento della spesa in ordine ad un rilevante aggregato della stessa, qual è quello relativo al comparto del personale, recando, pertanto, principi di coordinamento della finanza pubblica (sentenza n. 130 del 2012; sentenza n. 169 del 2007) – devono, dal punto di vista dell’oggetto, ricondursi, sulla base degli argomenti svolti con riferimento ai commi 4 e 5, alla materia dell’ “ordinamento civile”, di competenza esclusiva del legislatore statale. Da ciò consegue la non fondatezza delle censure. 10.5.– Le censure di violazione dell’autonomia organizzativa regionale proposte nei confronti del comma 7 dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012 non sono fondate. Tale norma, disponendo che, dal 1° gennaio 2014, le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, nel rispetto dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006 (Codice dei contratti pubblici) «acquisiscono sul mercato i beni e servizi strumentali alla propria attività mediante le procedure concorrenziali previste dal citato decreto legislativo», obbedisce alla finalità, dichiarata dallo stesso legislatore, «di evitare distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori sul territorio nazionale» e va quindi ricondotta alla materia della “tutela della concorrenza” di competenza esclusiva del legislatore statale. Essa infatti, in primo luogo, stabilisce che le amministrazioni, anche regionali, decidono l’affidamento di servizi strumentali alla propria attività in modo che esso garantisca la qualità delle prestazioni e si svolga

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«nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza», nonché dei «principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità», e di pubblicità con le modalità indicate nel presente codice (art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006). Una volta che, nel rispetto dei predetti principi, l’amministrazione decida di acquisire detti servizi strumentali da soggetti operanti sul mercato, ivi comprese società pubbliche che svolgono attività d’impresa, la norma in esame impone loro di seguire le regole concorrenziali dell’affidamento mediante gara, secondo quanto stabilito dal predetto Codice dei contratti pubblici ed in armonia con la normativa dell’Unione europea. Pertanto, anche le altre censure promosse nei confronti del comma 7, in riferimento agli artt. 118 e 119 Cost., non sono fondate. 11.– Non sono fondate, infine, le censure promosse, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost. ed al principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost., nei confronti dei commi 3 e 13 dell’art. 4, in quanto, nell’individuazione delle società cui non trova applicazione l’art. 4, non sarebbe stato previsto alcun coinvolgimento delle Regioni neppure mediante l’intervento della Conferenza unificata Stato-Regioni. Ed, infatti, da un lato, il parametro di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. si rivela inconferente in relazione alle censure proposte, dall’altro, riguardo alla pretesa lesione del principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost., più volte questa Corte ha affermato che tale principio non può essere invocato con riguardo alla funzione legislativa, non essendo l’esercizio della predetta funzione soggetto alle procedure di leale collaborazione (sentenze n. 63 del 2013, n. 100 del 2010, n. 225 del 2009).

per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi, riservata a separate pronunce la decisione delle altre questioni di legittimità costituzionale promosse con i ricorsi indicati in epigrafe: 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dei commi 1, 2, 3, secondo periodo, 3-sexies ed 8 dell’art. 4 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, nella parte in cui si applicano alle Regioni ad autonomia ordinaria; 2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale promosse dalla Regione Friuli-Venezia Giulia, con il ricorso n. 159 del 2012, dalla Regione Sardegna, con il ricorso n. 160 del 2012, e dalla Regione siciliana, con il ricorso n. 171 del 2012, nei confronti dei commi 1, 2, 3, 3-sexies, 8 dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012, in riferimento all’art. 4 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), agli artt. 3, comma 1, lettere a), b) e g), e 4, comma 1, lettere f) e g), 7 ed 8 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), agli artt. 14, lettere o) e p), 15 e 17 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana), convertito in legge costituzionale dalla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, ed agli artt. 75, 117, secondo e terzo comma, 118, primo e secondo comma, e 136 Cost., in relazione all’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione); 3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale, promosse dalle Regioni Campania, Sardegna e Puglia, con i ricorsi n. 153, n. 160 e n. 171 del 2012, in riferimento agli artt. 5, 75, 114, 117, 118 e 136 Cost., nonché agli artt. 3 e 4 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), nei confronti dei commi 1, 2, 3, 7 ed 8 dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012; 4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del comma 7 dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012, promosse dalla Regione Veneto, con ricorso n. 151 del 2012, in riferimento all’art. 117, quarto comma, ed agli artt. 118 e 119 Cost., nonché dalla Regione Friuli-Venezia Giulia, con ricorso n. 159 del 2012, in relazione all’art. 4 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia) ed all’art. 117 Cost.; 5) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale, promosse dalle Regioni Lazio, Veneto e Puglia, con i ricorsi n. 145, n.151 e n. 171 del 2012, in riferimento alle attribuzioni costituzionali degli enti locali, di cui agli artt. 5, 114, 117, sesto comma, e 118 Cost., nei confronti dei commi 1, 2, 3, secondo periodo, 3-sexies ed 8 dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012, nella parte in cui si applicano agli enti locali; 6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 4, 5, 7, 9, 10, 11, 12 e 14 dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012, promosse dalla Regione Veneto, con ricorso n. 151 del 2012, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., nonché dalla Regione Sardegna, con ricorso n. 160, in riferimento agli artt. 3 e 4 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna);

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7) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale promossa dalla Regione Veneto, con il ricorso n. 151 del 2012, dei commi 3 e 13 dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012, in riferimento a1l’art. 117, terzo comma, Cost., nonché al principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost.; 8) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale promosse dalla Regione Veneto, con il ricorso n. 151 del 2012, nei confronti del comma 8-bis dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012, in riferimento agli artt. 3, 97, 117, primo e quarto comma, 118 e 119 Cost.; 9) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale promosse dalla Regione Puglia, con il ricorso n. 171 del 2012, nei confronti dei commi 1 ed 8 dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012, in riferimento agli artt. 41, 42, 43 e 77 Cost.; 10) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale promosse dalla Regione Veneto, con il ricorso n. 151 del 2012, nei confronti del comma 14 dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012, in riferimento agli artt. 117, quarto comma, 3 e 97 Cost., nonché dei commi 1, 3, 3-sexies, 7 ed 8 del medesimo art. 4 del d.l. n. 95 del 2012, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 luglio 2013. F.to: Franco GALLO, Presidente Giuseppe TESAURO, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2013. Il Direttore della Cancelleria F.to: Gabriella MELATTI

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SENTENZA N. 236

ANNO 2013 REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Franco GALLO; Giudici : Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 9, commi 1, 1-bis, 2, 3, 4, 5 e 6, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, promossi dalle Regioni Lazio e Veneto e dalle Regioni autonome Friuli-Venezia Giulia e Sardegna con ricorsi notificati rispettivamente il 12-17, il 12, il 15 e il 12 ottobre 2012, depositati in cancelleria il 16, il 17 e il 19 ottobre 2012 ed iscritti ai nn. 145, 151, 159 e 160 del registro ricorsi 2012. Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 18 giugno 2013 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano; uditi gli avvocati Massimo Luciani per la Regione autonoma Sardegna, Francesco Saverio Marini per la Regione Lazio, Luigi Manzi e Mario Bertolissi per la Regione Veneto, Giandomenico Falcon per la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia e l’avvocato dello Stato Gabriella D’Avanzo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto 1.− Con ricorso notificato il 12 ottobre 2012 e depositato il successivo 16 ottobre la Regione Lazio ha impugnato, tra gli altri, l’articolo 9, commi 1, 2, 3 e 4, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, per violazione degli artt. 117, commi quarto e sesto, e 123 della Costituzione. Il ricorrente premette che la norma impugnata, nel dichiarato intento di realizzare il contenimento della spesa e il corrispondente conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, ha stabilito che «Regioni, Province e Comuni sopprimono o accorpano o, in ogni caso, assicurano, la riduzione dei relativi oneri finanziari in misura non inferiore al 20%, enti, agenzie e organismi comunque denominati. [...] che esercitano, alla data di entrata in vigore del decreto, anche in via strumentale, funzioni fondamentali di cui all’art. 117, secondo comma, lett. p) Cost., o funzioni amministrative spettanti a Comuni, Province e Città metropolitane ai sensi dell’art. 118 della Costituzione». Il legislatore ha previsto un’apposita procedura articolata in tre passaggi: a) ricognizione, entro tre mesi dall’entrata in vigore del decreto, di tutti gli «enti, agenzie e organismi» che esercitano funzioni fondamentali o, in ogni caso, di tipo amministrativo degli enti locali (comma 2); b) definizione, mediante intesa da adottarsi in sede di Conferenza Unificata, dei «criteri e della tempistica» per l’attuazione della norma (comma 3); c) soppressione ope legis di tutti gli enti, agenzie e organismi, con conseguente nullità di tutti gli atti successivamente adottati, qualora le Regioni, le Province e i Comuni, decorsi nove mesi dalla data di entrata in vigore del decreto, non abbiano concretamente dato attuazione al precetto normativo (comma 4). Poste tali premesse, secondo la Regione ricorrente, non dovrebbero nutrirsi dubbi sul fatto che la disciplina impugnata contrasti con gli art. 123 e 117, comma quarto, Cost., incidendo indebitamente sulla sfera di autonomia organizzativa e di funzionamento dell’amministrazione regionale. A tale proposito la ricorrente ribadisce che i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento regionale attengono, ai sensi dell’art. 123 Cost., all’autonomia statutaria, nell’esercizio della quale la Regione Lazio ha individuato e disciplinato puntualmente una serie di strutture organizzative, quali le «Agenzie regionali» (art. 54 dello statuto), gli «enti pubblici dipendenti dalla Regione» (art. 55 dello statuto), le «società ed altri enti privati a partecipazione regionale» (art. 56 dello statuto), rimettendo alla legge regionale la disciplina relativa all’istituzione e al funzionamento di tali organismi.

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La materia «organizzazione amministrativa» della Regione, inoltre, ricade, in forza dell’art. 117, comma quarto, Cost., nella propria potestà legislativa residuale e non sono ammesse interferenze ad opera del legislatore statale. Sulla base di ciò, la Regione conclude nel senso che il censurato art. 9, commi l, 2, 3 e 4 − per effetto del quale è prevista la «soppressione» o l’«accorpamento» di enti, agenzie e organismi comunque denominati – deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo per violazione dei citati articoli 123 e 117, comma quarto, Cost., trattandosi di previsione che incide in via immediata sui predetti ambiti materiali di competenza regionale. L’illegittimità costituzionale dello stesso articolo rileverebbe, altresì, sotto un ulteriore e concorrente profilo. Il comma l, infatti, impone anche agli enti locali l’obbligo di soppressione o accorpamento di agenzie ed enti che esercitino funzioni fondamentali e funzioni loro conferite, in aperto contrasto con l’art. 117, comma sesto, Cost., che riconosce, come noto, ai predetti enti la potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, le quali possono essere svolte attraverso enti, agenzie ed organismi vari. A seguito della riforma del titolo V della Costituzione, che ha delineato un nuovo quadro delle funzioni e dei poteri dei Comuni e delle Province (e delle Città metropolitane), è possibile individuare un fondamento di rango costituzionale alla disciplina delle funzioni e dell’organizzazione degli enti locali. Inoltre, la lesione delle menzionate sfere di autonomia costituzionale garantite in capo alle Regioni e agli enti locali non sarebbe esclusa dall’individuazione, da parte del legislatore statale, dell’accordo in Conferenza unificata e dal richiamo al principio di leale collaborazione per l’attuazione della norma. Tali meccanismi di raccordo si mostrano inidonei ad evitare le lesioni di competenza prospettate, ove si consideri che, per espressa previsione normativa (comma 4), si procederà comunque alla soppressione ope legis di enti, agenzie ed organismi vari, con conseguente nullità degli atti da essi adottati, qualora la Regione e gli enti locali laziali non abbiano dato, entro nove mesi dall’entrata in vigore del decreto − e, dunque, in un arco temporale ristretto − intera attuazione al dettato normativo statale. La ricorrente censura anche l’eccessiva astrattezza e genericità del meccanismo volto ad individuare i «criteri e la tempistica» per l’attuazione della norma, ove si consideri che tali criteri saranno facilmente applicabili nelle sole ipotesi di enti ed organismi che risultino, in maniera inequivocabile, inutili ed antieconomici. Nei restanti casi, tuttavia, sarebbe particolarmente difficoltosa la ricerca di presupposti univoci e precisi sulla cui base procedere, in vista dell’unica finalità di ridurre del 20 per cento gli oneri finanziari, alla soppressione o all’accorpamento degli organismi contemplati dalla norma. La Regione evidenzia che la richiamata disciplina statale, la quale fa leva su finalità formalmente connesse al «coordinamento e al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica», non possa ritenersi legittimamente adottata dallo Stato nell’esercizio della propria competenza legislativa concorrente in tema di «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», prevista dall’art. 117, comma terzo, Cost. e dall’art. 119, comma secondo, Cost. La ricorrente, a tal proposito, richiama la giurisprudenza costituzionale che ha negato ogni valore all’autoqualificazione ai fini dell’individuazione della materia cui ascrivere la normativa impugnata (sentenza n. 247 del 2010), dovendosi far riferimento all’oggetto della disciplina medesima. Secondo la Regione, il legislatore statale non sarebbe intervenuto, se non in termini meramente marginali e riflessi, nella materia «coordinamento della finanza pubblica», rispetto alla quale, peraltro, lo Stato deve in ogni caso limitarsi a dettare esclusivamente norme di principio e non di dettaglio come nella presente circostanza. In realtà, l’oggetto della disciplina impugnata sarebbe rappresentato da un vasto e profondo intervento modificativo dell’assetto organizzativo regionale, rispetto al quale, tuttavia, lo Stato non potrebbe vantare alcuna competenza. Sulla base di queste considerazioni la Regione chiede che la norma impugnata sia dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione degli artt. 117, commi quarto e sesto, e 123 Cost. 1.1.− In data 26 novembre 2012 si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, concludendo nel senso dell’infondatezza delle questioni sollevate dalla Regione Lazio. La difesa statale evidenzia che gli obblighi di soppressione o accorpamento o riduzione degli oneri finanziari sono motivati dalle esigenze di coordinamento e di conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, nonché di contenimento della spesa e di migliore svolgimento delle funzioni amministrative. Il processo di riforma degli enti pubblici strumentali è, d’altronde, già da diversi anni al centro di numerosi interventi normativi diretti a procedere ad una loro drastica riduzione, per razionalizzare il funzionamento della pubblica amministrazione e contenere le spese della stessa.

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L’Avvocatura dello Stato richiama la giurisprudenza costituzionale secondo cui le disposizioni statali che intervengono in tema di coordinamento della finanza pubblica possono incidere anche sulla materia dell’organizzazione e del funzionamento della Regione (sentenza n. 159 del 2008), riconducibile al comma quarto dell’art. 117 Cost. (sentenze n. 188 del 2007, n. 2 del 2004 e n. 274 del 2003). Le norme statali che fissano limiti alla spesa delle Regioni e degli enti locali possono qualificarsi principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alla seguente duplice condizione: in primo luogo, che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della medesima, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente; in secondo luogo, che non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi (sentenze n. 142 del 2012, n. 139 del 2009, n. 289 e n. 120 del 2008). Entrambi i requisiti sarebbero nel caso di specie rispettati. La disposizione in esame, infatti, in attuazione dell’obiettivo generale di contenere una voce importante della spesa pubblica corrente, prevede un’articolata procedura (commi 2 e 3) in cui s’innestano diversi momenti di raccordo tra lo Stato e le Regioni e distinti adempimenti per pervenire, entro il termine individuato dalla norma, alla soppressione degli enti, il tutto nel rispetto del principio di leale collaborazione. In particolare, il comma 2 vincola ad un accordo, da perseguire in sede di Conferenza unificata (ai sensi dell’art. 9 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, recante «Definizione ed ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse comune delle regioni, delle province e dei comuni, con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali»), la ricognizione degli enti da sopprimere o da accorpare. Il comma 3 rimanda ad un’intesa – da concludere nella stessa sede, ai sensi dell’art. 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), e sulla base del principio di leale collaborazione – per ciò che concerne la definizione delle modalità e della tempistica per l’attuazione degli obblighi di cui alla norma in commento. La previsione finale, secondo cui, in caso di mancato intervento da parte degli enti territoriali interessati entro il termine di 9 mesi, si determina l’automatica soppressione degli enti e vengono colpiti da nullità tutti gli atti da questi successivamente adottati, ponendosi al termine di una procedura caratterizzata da numerosi momenti di concertazione che lasciano alle regioni ampie possibilità di autonome scelte in merito alla razionalizzazione degli enti strumentali, rappresenta, invero, strumento di concreta attuazione della disposizione in esame, al fine di realizzare gli obiettivi indicati dal legislatore statale. 2.− Con ricorso notificato il 12 ottobre 2012 e depositato il successivo 17 ottobre la Regione Veneto ha impugnato, tra gli altri, l’art. 9 del d.l. n. 95 del 2012 per violazione degli artt. 117, 118 e 119 Cost. Dopo aver riportato il contenuto della norma impugnata, la ricorrente evidenzia che la stessa non contiene principi fondamentali di «coordinamento della finanza pubblica» dettati dallo Stato nell’esercizio della sua potestà legislativa concorrente e, dunque, si pone in contrasto con l’art. 117, comma terzo, Cost. La Regione Veneto richiama la giurisprudenza della Corte costituzionale con la quale si è affermato che quando una disposizione di legge statale imponga− come nel caso di specie − vincoli ad una singola voce di spesa delle Regioni (o degli Enti locali), essa deve considerarsi costituzionalmente illegittima, perché «pone un precetto specifico e puntuale, comprimendo l’autonomia finanziaria regionale ed eccedendo dall’ambito dei poteri statali in materia di coordinamento della finanza pubblica» risolvendosi ciò «in un’indebita invasione dell’area riservata dall’art. 119 Cost. alle autonomie regionali» (sentenze n. 182 del 2011 e n. 157 del 2007). In particolare, secondo la ricorrente, i commi l, l-bis e 4 dell’art. 9 porrebbero chiaramente precetti specifici e puntuali che comprimono l’autonomia finanziaria regionale: alle Regioni sarebbe impedito il contenimento della spesa pubblica per il tramite della riduzione di voci di spesa diverse da quelle rappresentate dagli enti che svolgono funzioni amministrative regionali (comma l); alle Regioni sarebbe impedito il contenimento della spesa pubblica per il tramite della soppressione o dell’accorpamento o comunque della riduzione degli oneri finanziari di aziende speciali o di enti (o istituzioni) che gestiscano servizi socio-assistenziali, educativi e culturali (comma lbis). La violazione degli artt. 118 e 119 Cost. sarebbe evidente e consequenziale rispetto alla già denunciata violazione dell’art. 117, comma terzo, Cost. Lo stesso comma 5, imponendo alle Regioni di adeguarsi ai principi di cui al comma l, relativamente agli enti, alle agenzie ed agli organismi comunque denominati e di qualsiasi natura che svolgano ai sensi dell’art.118 Cost. funzioni amministrative conferite alle medesime Regioni, imporrebbe, in realtà, alle Regioni di ridurre una singola, specifica e ben individuata voce di spesa, in palese contrasto con gli artt.117 e 119 della Costituzione, come riconosciuto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 157 del 2007.

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La Regione Veneto censura anche il comma 6 dell’art. 9 nella parte in cui che vieta agli Enti locali di istituire enti, agenzie o organismi che esercitino una o più funzioni fondamentali e funzioni amministrative loro conferite ai sensi dell’art. 118 Cost. Tale norma esulerebbe dalle materie che l’art. 117, comma secondo, lettera p), Cost. riserva alla potestà legislativa esclusiva dello Stato. Inoltre risulterebbe violato anche l’art. 118 Cost. perché una siffatta disciplina interferisce con l’autonomia amministrativa degli Enti locali e con il potere delle Regioni di conferire funzioni amministrative agli Enti locali. Infine, la Regione ritiene violato anche l’art. 119 Cost., perché la norma impugnata interferisce pesantemente con l’autonomia finanziaria regionale e locale. A tal proposito la ricorrente evidenzia che le Regioni sono legittimate a denunciare l’illegittimità costituzionale di una legge statale anche per violazione delle competenze proprie degli Enti locali purché la «stretta connessione, in particolare [...] in tema di finanza regionale e locale, tra le attribuzioni regionali e quelle delle autonomie locali consenta di ritenere che la lesione delle competenze locali sia potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle competenze regionali» (sentenze n.169 e n. 95 del 2007, n. 417 del 2005 e n. 196 del 2004). La ricorrente lamenta anche la violazione degli artt. 3 e 97 Cost., in quanto il legislatore statale avrebbe imposto dall’alto divieti e vincoli, piuttosto che sollecitare correzioni idonee a coniugare la ricchezza dei diversi modelli organizzativi con la necessità di contenimento della spesa pubblica in contrasto con il principio di ragionevolezza. 2.1.− In data 21 novembre 2012 si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, concludendo nel senso dell’infondatezza delle questioni sollevate dalla Regione Veneto. Nell’atto di costituzione vengono sviluppate difese analoghe a quelle svolte nell’atto di costituzione contro il ricorso della Regione Lazio che sono state sopra riportate. 3.− Con ricorso notificato il 15 ottobre 2012 e depositato il successivo 19 ottobre la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia ha impugnato, tra gli altri, l’art. 9, commi 1, 2, 3 e 4, del d.l. n. 95 del 2012, per violazione degli artt. 4 e 54 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), nonché degli artt. 3, 97 e 117, comma quarto, Cost. Preliminarmente, la Regione evidenzia che l’impugnazione dell’art. 9 avviene in subordine, per l’ipotesi che esso risulti applicabile alla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia. Infatti, secondo la ricorrente, la norma impugnata non sarebbe destinata a vincolarla, per il disposto della clausola di salvaguardia di cui all’art. 24-bis del d.l. n. 95 del 2012, secondo la quale «fermo restando il contributo delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano all’azione di risanamento così come determinata dagli articoli 15 e 16, comma 3, le disposizioni del presente decreto si applicano alle predette regioni e province autonome secondo le procedure previste dai rispettivi statuti speciali e dalle relative norme di attuazione, anche con riferimento agli enti locali delle autonomie speciali che esercitano le funzioni in materia di finanza locale, agli enti ed organismi strumentali dei predetti enti territoriali e agli altri enti o organismi ad ordinamento regionale o provinciale». Pertanto non sarebbero vincolanti per la Regione tutte le disposizioni che non contengono una specifica affermazione circa la loro applicabilità alle autonomie speciali. Inoltre, secondo la ricorrente, l’art. 9 non porrebbe alcun vincolo ai modi con i quali in futuro le «procedure previste dai rispettivi statuti speciali e dalle relative norme di attuazione» ne disciplineranno eventualmente l’applicazione (sentenze n. 198, n. 193 e n. 178 del 2012). La Regione ritiene che la non applicabilità dell’art.9 alle autonomie speciali, in forza della clausola di salvaguardia, non possa essere contraddetta da quanto statuito con la sentenza n. 289 del 2008 perché in quel caso la clausola di salvaguardia era formulata in modo del tutto generico tale da non consentire la disapplicazione delle norme di quel decreto. Infatti non risultava neppure precisato «quali norme (dovessero) considerarsi non applicabili alla ricorrente per incompatibilità con lo statuto speciale e con le relative norme di attuazione e quali, invece, (dovessero) ritenersi applicabili». Mentre nel caso in esame la clausola di salvaguardia di cui all’art. 24-bis individuerebbe con precisione le disposizioni che rimangono applicabili, con ciò individuando precisamente anche quelle non applicabili, costituite dall’insieme delle altre. Inoltre, l’art. 24-bis non condizionerebbe l’applicabilità delle disposizioni in questione ad un indeterminato giudizio di compatibilità, ma la escluderebbe direttamente, rinviandola per il futuro alle «procedure previste dai rispettivi statuti speciali e dalle relative norme di attuazione», cioè ad ulteriori e futuri atti normativi, il cui contenuto è vincolato solo dallo statuto e dalla stessa Costituzione.

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La ricorrente, tuttavia, nel caso la Corte ritenga applicabile l’art. 9 in esame anche alla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, censura la norma per violazione degli artt. 117 e 118 Cost. La disposizione impugnata avrebbe, secondo la ricorrente, contenuto prettamente organizzativo e violerebbe la competenza primaria regionale di cui all’art. 4, numero l, dello statuto speciale di autonomia, in materia di ordinamento degli Uffici e degli Enti dipendenti dalla Regione (oltre che la competenza residuale in materia riconosciuta a tutte le Regioni). La parte della norma che si riferisce agli enti locali, violerebbe sia la competenza legislativa primaria della Regione in materia di ordinamento degli enti locali prevista dall’art. 4, numero l-bis, dello statuto speciale di autonomia, sia la competenza regionale in materia di finanza locale prevista dall’art. 54 del medesimo statuto (secondo il quale «allo scopo di adeguare le finanze delle Province e dei Comuni al raggiungimento delle finalità ed all’esercizio delle funzioni stabilite dalle leggi, il Consiglio regionale può assegnare ad essi annualmente una quota delle entrate della Regione») e dalle norme di attuazione di cui all’art. 9 del decreto legislativo 2 gennaio 1997, n. 9 (Norme di attuazione dello Statuto speciale per la regione Friuli-Venezia Giulia in materia di ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni), che ha precisato che «spetta alla regione disciplinare la finanza locale, l’ordinamento finanziario e contabile, l’amministrazione del patrimonio e i contratti degli enti locali» (comma l), e che «la regione finanzia gli enti locali con oneri a carico del proprio bilancio, salvo il disposto di cui al comma 3» (comma 2). La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia sottolinea, inoltre, che la legge 13 dicembre 2010, n. 220, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2011)», in attuazione di un accordo stipulato tra Regione e Stato, ha stabilito le modalità con cui la medesima Regione concorre agli obiettivi di finanza pubblica e, soprattutto, ha stabilito chiaramente che lo Stato non può dettare norme di coordinamento finanziario in relazione agli enti locali del Friuli Venezia Giulia i cui costi, del resto, sono a carico della Regione. La ricorrente evidenzia che la citata legge n. 220 del 2010 si è basata su un accordo e non può essere unilateralmente derogata dal legislatore statale, pena la violazione del principio pattizio che domina i rapporti finanziari tra Stato e Regioni speciali. Risulterebbe, infine, violata anche la stessa autonomia organizzativa degli enti locali, garantita dall’art. 114, comma secondo, Cost., nonché dall’art.117, comma sesto (secondo periodo), Cost., in tema, rispettivamente, di autonomia statutaria e regolamentare. Le disposizioni sopra riportate sarebbero, poi, costituzionalmente illegittime per ulteriori specifiche ragioni. In primo luogo, sarebbe illegittimo il vincolo posto dal comma l a Regioni, Province e Comuni teso a sopprimere o accorpare gli «enti, agenzie e organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica», o a ridurre almeno nella misura del 20% gli oneri finanziari relativi ad essi. Quanto alla soppressione, si tratterebbe di un irragionevole vincolo alla autonomia organizzativa della Regione e degli enti autonomi, smentito del resto dallo stesso legislatore, che lo pone in alternativa alla predetta riduzione degli oneri finanziari. Ma anche tale vincolo sarebbe illegittimo, in quanto relativo ad una specifica voce di spesa, che per giunta non rappresenta né un aggregato complessivo né un aggregato significativo, essendo evidente che sia le funzioni che le strutture che attualmente esercitano le funzioni dovrebbero essere ricollocate, senza neppure la garanzia di una effettiva riduzione di spesa. Ma anche ove, in denegata ipotesi, tale principio fosse in sé e per sé legittimo come principio di coordinamento della finanza pubblica, sarebbero comunque illegittime le norme dettagliate che lo accompagnano (sentenze 297 del 2009 e n. 159 del 2008). Così sarebbe per la norma che direttamente esclude l’applicazione della disposizione alle aziende speciali, agli enti ed alle istituzioni che gestiscono servizi socio-assistenziali, educativi e culturali, anziché lasciare tale individuazione alle singole regioni interessate, che, tra l’altro, sono competenti anche per le materie in questione. Così sarebbe per il comma 4, in base al quale, trascorsi nove mesi senza che le regioni, le province e i comuni abbiano dato attuazione a quanto disposto dal comma l, «gli enti, le agenzie e gli organismi indicati al medesimo comma l sono soppressi», e «sono nulli gli atti successivamente adottati dai medesimi». Si tratterebbe di un intervento non consentito rispetto all’autonomia organizzativa della ricorrente Regione (anche in relazione alla propria potestà primaria in materia di enti locali e dei propri compiti in materia di finanza locale) e degli stessi enti locali. La Regione ricorrente richiama la sentenza n. 237 del 2009 che ha dichiarato illegittima una analoga disciplina di dettaglio ed auto applicativa. Si tratterebbe inoltre di una norma del tutto irragionevole, in quanto la «soppressione», con norma generale, di strutture non precisamente individuate, e la dichiarazione di nullità di atti anche essi non precisamente individuati, determina una situazione di incertezza giuridica

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con riferimento sia al personale che alle funzioni, mentre la transizione delle competenze a organi e strutture non individuati ne comprometterebbe l’esercizio. Alla ricorrente sembra, dunque, evidente la violazione del principio di ragionevolezza e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost. La Regione sarebbe legittimata ad invocare i principi di ragionevolezza e buon andamento, perché le norme che li violano inciderebbero su materie regionali (sentenze n. 80 e n. 22 del 2012), anzi condizionerebbero la stessa organizzazione della Regione e degli enti locali della Regione. La ricorrente impugna per gli stessi motivi anche il comma 5 dell’art. 9 evidenziando l’oscurità della norma che, peraltro, si porrebbe in contraddizione con il comma 4, rendendo il complesso normativo ulteriormente incerto, con nuova violazione dei parametri già esposti a proposito del comma 4. Da ultimo, la Regione impugna il comma 6 dell’art. 9 nella parte in cui fa «divieto agli enti locali di istituire enti, agenzie e organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica, che esercitino una o più funzioni fondamentali e funzioni amministrative loro conferite ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione». Poiché gli enti locali non hanno altre funzioni che quelle fondamentali e le altre ad essi conferite, la norma si traduce in un divieto assoluto per essi di istituire «enti, agenzie e organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica». Inoltre la norma è destinata ad applicarsi a tutti gli enti locali, eccettuato forse il Comune di Roma per il suo speciale status di capitale. Nella Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, il divieto si applicherebbe al comune più piccolo così come per i Comuni di Udine e Trieste. Nessuno di essi sarebbe giuridicamente in grado di istituire il minimo organismo, comunque denominato e di «qualsiasi natura giuridica». Una simile disposizione − nella sua estensione indiscriminata − violerebbe evidentemente il principio di ragionevolezza e di proporzionalità, non essendovi rapporto alcuno con i presunti vantaggi per la finanza pubblica, la cui portata del resto non è neppure enunciata. Vi sarebbe, infine, l’evidente violazione della potestà legislativa regionale in materia di ordinamento degli enti locali e di finanza locale, nonché dell’autonomia stessa degli enti locali interessati, come protetta dagli artt. 114 e 117 Cost., sopra indicati. 3.1.− In data 22 novembre 2012 si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, concludendo nel senso dell’infondatezza delle questioni sollevate dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia. La difesa statale rileva che le norme censurate sono volte ad assicurare il coordinamento ed il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, il contenimento della spesa ed il migliore svolgimento delle funzioni amministrative e dispongono che Regioni, Province e Comuni assicurino la riduzione degli oneri finanziari relativi ad enti, agenzie ed organismi che esercitino funzioni spettanti agli enti territoriali. Le stesse, pertanto, rientrerebbero nella copertura statuale del coordinamento della finanza pubblica. Inoltre, il legislatore statale avrebbe anche previsto un ampio coinvolgimento degli enti territoriali interessati. Si prevede, infatti, che la ricognizione di qualsivoglia ente avvenga in sede di accordo sancito nell’ambito della Conferenza unificata e che, quindi, nella stessa sede, si provveda, mediante intesa, alla individuazione dei criteri e della tempistica per l’attuazione di quanto previsto dall’articolo e alla definizione delle modalità di monitoraggio. Il legislatore, pertanto, avrebbe prefigurato un percorso procedurale dominato dal principio consensualistico cui conseguirebbe l’infondatezza di tutte le doglianze formulate dalla ricorrente. Per quanto riguarda le censure mosse ai profili sanzionatori in caso di mancata attuazione del disposto di cui al comma l, l’Avvocatura dello Stato rileva che, anche in questo caso, gli strumenti previsti dal legislatore costituiscono principi di coordinamento della finanza pubblica e rientrano nella competenza legislativa concorrente dello Stato, ai sensi dell’art. 117, comma terzo, Cost. Infine, quanto al comma 6, che contiene il divieto agli enti locali di istituire enti, agenzie ed organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica, i rilievi della regione non dovrebbero essere accolti, atteso che anche per essi varrebbe la riconducibilità ai principi di coordinamento della finanza pubblica. 4.− Con ricorso notificato il 12 ottobre 2012 e depositato il successivo 19 ottobre, la Regione autonoma Sardegna ha impugnato, tra gli altri, l’art. 9, commi 1, 2, 3, e 4, del d.l. n. 95 del 2012, per violazione degli artt. 3, comma 1, lettere a), b) e q), e 7 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), nonché degli artt. 3, 117, comma terzo, e 119 Cost. La Regione evidenzia che la norma impugnata regola nel dettaglio l’organizzazione amministrativa degli enti territoriali, imponendo alle Regioni e agli enti locali non solo una quota di risparmio di gestione delle funzioni amministrative così esercitate, ma obbligando all’accorpamento o alla soppressione di enti e organizzazioni, senza considerare che la Regione, nell’esercizio della propria competenza legislativa esclusiva nelle materie «ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi della Regione», «ordinamento

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degli enti locali e delle relative circoscrizioni» e «biblioteche e musei di enti locali» (art. 3, comma 1, lettere a, b e q, dello statuto speciale di autonomia), potrebbe conseguire il medesimo risultato di contenimento della spesa pubblica utilizzando le forme di gestione delle funzioni pubbliche ritenute più idonee allo scopo. Per tale motivo la disposizione menzionata violerebbe le norme statutarie indicate, e, nello stesso tempo, anche l’art. 117, comma terzo, Cost., nella misura in cui detta norme per il coordinamento della finanza pubblica che travalicano i «principi fondamentali» della materia. L’imposizione, ai fini del contenimento degli oneri della finanza pubblica, di obblighi che si ripercuotono direttamente sull’organizzazione degli enti locali fa sì che sia lesa anche l’autonomia finanziaria della Regione, di cui all’art. 7 dello statuto speciale e all’art. 119 Cost., che tale autonomia tutelano. A questo proposito la ricorrente richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 82 del 2007 nella quale si afferma che non è contestabile «il potere del legislatore statale di imporre agli enti autonomi, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti», e che, «in via transitoria e in vista degli specifici obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica perseguiti dal legislatore statale», possono anche imporsi limiti complessivi alla crescita della spesa corrente degli enti autonomi (sentenza n. 36 del 2004). Tali vincoli devono ritenersi applicabili anche alle autonomie speciali, in considerazione dell’obbligo generale di partecipazione di tutte le Regioni, ivi comprese quelle a statuto speciale, all’azione di risanamento della finanza pubblica (sentenza n. 416 del 1995 e successivamente, anche se non con specifico riferimento alle Regioni a statuto speciale, sentenze n. 417 del 2005, n. 353, n. 345 e n. 36 del 2004). Un tale obbligo, però, deve essere contemperato e coordinato con la speciale autonomia in materia finanziaria di cui godono le predette Regioni, in forza dei loro statuti. In tale prospettiva, la previsione normativa del metodo dell’accordo tra le Regioni a statuto speciale e il Ministero dell’economia e delle finanze, per la determinazione delle spese correnti e in conto capitale, nonché dei relativi pagamenti, deve considerarsi espressione della descritta autonomia finanziaria e del contemperamento di tale principio con quello del rispetto dei limiti alla spesa imposti dal cosiddetto «patto di stabilità» (sentenza n. 353 del 2004). Pertanto, il legislatore statale, onde conseguire il maggior risparmio nello svolgimento delle funzioni pubbliche degli enti locali, doveva limitarsi ad indicare il risparmio atteso, rispettando l’autonomia organizzativa delle Regioni. Né si potrebbe dire, ovviamente, che con l’articolo censurato il legislatore statale abbia inteso esercitare la propria potestà esclusiva in materia di «funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane», di cui all’art. 117, comma secondo, lettera p), Cost., per la semplice ragione che tale competenza generale non può certo prevalere (secondo i comuni principi di risoluzione delle antinomie) su quella speciale dettata, in materia, dall’art. 3, comma 1, lettere a) e b), dello statuto speciale, che affida alla competenza esclusiva della Regione autonoma Sardegna le materie «ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi della Regione e stato giuridico ed economico del personale» e «ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni». Senza considerare, inoltre, che l’art. 117, comma secondo, lettera p), Cost., «concerne l’istituzione e la regolazione delle funzioni amministrative, il procedimento da seguire, gli interessi pubblici da perseguire, mentre la disposizione censurata agisce sul versante dell’organizzazione degli enti al fine di conseguire un ipotetico vantaggio di finanza pubblica». Per quest’ultimo profilo, poi, sarebbe violato anche il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., in relazione all’art. 3, comma 1, lettere a), b) e q), dello statuto speciale di autonomia , in quanto il divieto per gli enti locali di istituire enti strumentali impedisce che Province e Comuni, anche in ossequio alla normativa regionale, possano esercitare le proprie funzioni in regime di intercomunalità, istituendo un apposito ente associativo, anche qualora tale modello organizzativo comporti significative economie di scala. 4.1.− In data 21 novembre 2011 si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato concludendo nel senso dell’infondatezza delle questioni sollevate dalla Regione autonoma Sardegna. La difesa statale rileva che attraverso le misure introdotte dall’articolo impugnato il legislatore ha inteso assicurare, come si legge al comma primo dell’art. 9, «il coordinamento e il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, il contenimento della spesa e il migliore svolgimento delle funzioni amministrative». La norma segue le previsioni restrittive del patto di stabilità interno di cui all’art. 14 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2012, n. 122, il cui comma 32, recante il divieto di costituire società per i comuni con una densità abitativa inferiore a determinati parametri è espressamente richiamato al comma 7 dell’art. 9 in esame.

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Sarebbe pertanto riduttiva e, comunque, infondata, l’impostazione interpretativa che della norma in esame ha dato la ricorrente, omettendo di misurarne la legittimità nel più ampio contesto degli interventi legislativi miranti alla realizzazione del medesimo obiettivo del rispetto dei vincoli posti dal patto di stabilità. È noto come il legislatore statale possa, con una disciplina di principio, imporre agli enti territoriali, anche ad autonomia speciale, determinati obblighi volti al contenimento della spesa pubblica a fini di coordinamento finanziario. Sotto tale profilo, la giurisprudenza della Corte ha elaborato una nozione ampia in materia di «principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica», precisando che la piena attuazione del suddetto principio di coordinamento fa sì che la competenza statale non si esaurisca con l’esercizio del potere legislativo, ma implichi anche «l’esercizio di poteri di ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo» (sentenze n. 112 e n. 29 del 2011, n. 57 del 2010). Peraltro, al comma 3 della disposizione in esame, il legislatore introduce anche, quale presupposto applicativo delle nuove regole, una previsione di reciproca collaborazione tra lo Stato e le Regioni, al fine di raggiungere, attraverso gli strumenti di leale cooperazione, una soluzione condivisa sull’individuazione dei criteri e della tempistica per l’attuazione del sistema che contemperi le peculiarità degli enti coinvolti. 5.− In prossimità dell’udienza le Regioni Lazio, Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna, hanno presentato memorie con le quali hanno ribadito le ragioni a sostegno dell’illegittimità costituzionale delle norme impugnate, insistendo per l’accoglimento dei rispettivi ricorsi. 6.− L’Avvocatura dello Stato, sempre in prossimità dell’udienza, ha presentato memorie con le quali ha ribadito le proprie argomentazioni a sostegno dell’infondatezza dei ricorsi.

Considerato in diritto

1.− Le Regioni Lazio, Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna, con distinti ricorsi, rispettivamente contrassegnati con i numeri 145, 151, 159 e 160 del registro ricorsi dell’anno 2012, hanno sollevato, in via principale, questione di legittimità costituzionale tra gli altri dell’art. 9, commi 1, 1-bis, 2, 3, 4, 5 e 6 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, in riferimento agli articoli 3, 97, 117, commi secondo, terzo, quarto e sesto, 118, 119 e 123 della Costituzione. Per tutte le ricorrenti il punto centrale del dubbio di costituzionalità è costituito, in sintesi, dalla asserita lesione della loro potestà legislativa in materia di «organizzazione regionale» di cui all’art. 117, comma quarto, Cost., dalla violazione dell’autonomia finanziaria degli enti locali di cui all’art. 119 Cost. e dalla assenza di titoli di legittimazione dello Stato ad adottare la disciplina in esame. La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia lamenta anche la lesione da parte della norma impugnata degli artt. 4 e 54 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), che riserva alla competenza legislativa primaria della Regione la materia ordinamento degli uffici e degli Enti dipendenti dalla Regione mentre la Regione autonoma Sardegna lamenta anche la violazione degli artt. 3, comma l, lettere a), b) e q), e 7 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), ove si attribuisce alla Regione medesima la competenza legislativa esclusiva nelle materie «ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi della Regione», «ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni» e «biblioteche e musei di enti locali». Stante la connessione esistente tra i predetti ricorsi, i relativi giudizi devono essere riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia, la quale avrà ad oggetto esclusivamente le questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni legislative sopra indicate, essendo riservata ad altre decisioni la valutazione delle restanti questioni sollevate coi medesimi ricorsi dalle sopraindicate Regioni. 2.− La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia solleva le questioni di costituzionalità solo in via cautelativa qualora si ritenga l’art. 9 direttamente applicabile anche a Regioni e Province autonome. In realtà, secondo la ricorrente, le disposizioni del decreto-legge non sarebbero vincolanti per gli enti che godono di autonomia speciale, dovendosi applicare la clausola di salvaguardia di cui all’art. 24-bis del d.l. n. 95 del 2012, secondo la quale «fermo restando il contributo delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano all’azione di risanamento così come determinata dagli articoli 15 e 16, comma 3, le disposizioni del presente decreto si applicano alle predette regioni e province autonome secondo le procedure previste dai rispettivi statuti speciali e dalle relative norme di attuazione, anche con riferimento agli enti locali delle autonomie speciali che esercitano le funzioni in materia di finanza locale, agli enti ed organismi strumentali dei predetti enti territoriali e agli altri enti o organismi ad ordinamento regionale o provinciale». 2.1.− Le questioni sollevate dalle Regioni autonome Friuli-Venezia Giulia e Sardegna non sono fondate.

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La clausola di salvaguardia prevista dall’art. 24-bis del d.l. n. 95 del 2012 rimette l’applicazione delle norme introdotte dal decreto alle procedure previste dagli statuti speciali e dalle relative norme di attuazione. Tale clausola è stata introdotta, in sede di conversione, alla fine del testo del d.l. n. 95 del 2012, proprio per garantire che il contributo delle Regioni a statuto speciale all’azione di risanamento venga realizzato rispettando i rapporti e i vincoli che gli statuti speciali stabiliscono tra livello nazionale e Regioni a statuto speciale. Essa dunque non costituisce una mera formula di stile, priva di significato normativo, ma ha la «precisa funzione di rendere applicabile il decreto agli enti ad autonomia differenziata solo a condizione che siano “rispettati” gli statuti speciali» (sentenza n. 241 del 2012) ed i particolari percorsi procedurali ivi previsti per la modificazione delle norme di attuazione degli statuti medesimi. La previsione di una procedura “garantita” al fine di applicare agli enti ad autonomia speciale la normativa introdotta esclude, perciò, l’automatica efficacia della disciplina prevista dal decreto-legge per le Regioni a statuto ordinario (sentenza n. 178 del 2012). Le norme dell’art. 9 del d.l. n. 95 del 2012, dunque, non sono immediatamente applicabili alle Regioni ad autonomia speciale, ma richiedono il recepimento tramite le apposite procedure prescritte dalla normativa statutaria e di attuazione statutaria. La partecipazione delle Regioni e delle Province autonome alla procedura impedisce che possano introdursi norme lesive degli statuti e determina l’infondatezza delle questioni sollevate dalle Regioni autonome Friuli-Venezia Giulia e Sardegna (sentenze n. 178 del 2012 e n. 145 del 2008). 3.− La prima delle questioni sollevate, comune ai restanti ricorsi delle Regioni Lazio e Veneto, riguarda il comma 1 dell’art. 9 del d.l. n. 95 del 2012 il quale, nel dichiarato intento di realizzare il contenimento della spesa e il corrispondente conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, stabilisce che «Regioni, Province e Comuni sopprimono o accorpano o, in ogni caso, assicurano la riduzione dei relativi oneri finanziari in misura non inferiore al 20%, enti, agenzie e organismi comunque denominati che esercitano, alla data di entrata in vigore del decreto, anche in via strumentale, funzioni fondamentali di cui all’art. 117, secondo comma, lett. p) Cost., o funzioni amministrative spettanti a Comuni, province e Città metropolitane ai sensi dell’art. 118 della Costituzione». Vi è da premettere che, per la migliore comprensione della disposizione, sarebbe stato preferibile non spezzare il collegamento tra i primi due verbi («sopprimono o accorpano») e le parole che fungono da complemento oggetto («enti, agenzie e organismi comunque denominati»), spostando al termine della frase il terzo verbo e l’espressione cui viene a dare significato («o, in ogni caso, assicurano la riduzione dei relativi oneri finanziari in misura non inferiore al 20%»). Secondo le Regioni ricorrenti, la norma sopra citata violerebbe l’art. 117, comma quarto, Cost. in quanto ascrivibile alla materia «organizzazione amministrativa» delle Regioni. La Regione Lazio evoca anche la violazione dell’art. 123 Cost. perché i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento delle Regioni sono riservati all’autonomia statutaria. La Regione Veneto lamenta inoltre l’illegittima compressione dell’autonomia finanziaria regionale in violazione degli artt. 117, comma terzo, e 118 Cost. 3.1.− La questione non è fondata. In primo luogo, è necessario individuare l’ambito di applicazione dell’art. 9, comma 1, del d.l. n. 95 del 2012 in quanto le Regioni ricorrenti incorrono nell’erroneo presupposto interpretativo di ritenere che tale disposizione disciplini anche l’accorpamento, la soppressione o la riduzione, nella misura del 20 per cento dei costi, degli enti, agenzie e organismi comunque denominati istituiti dalla Regione per lo svolgimento delle funzioni amministrative di propria competenza. Infatti, come si è detto, la principale delle censure svolte nei ricorsi in esame riguarda la violazione della competenza legislativa residuale delle Regioni in ordine alla materia «organizzazione amministrativa della Regione e degli enti pubblici regionali» rientrante nella competenza residuale delle Regioni ai sensi dell’art.117, comma quarto, Cost. L’art. 9, comma 1, invece, prevede esclusivamente la soppressione, l’accorpamento e la riduzione dei costi di enti, agenzie o organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica che svolgano funzioni fondamentali di cui all’articolo 117, comma secondo, lettera p), Cost. o funzioni amministrative spettanti a Comuni, Province e Città metropolitane ai sensi dell’art. 118 Cost. La disposizione in esame individua, dunque, un criterio funzionale per circoscriverne l’ambito di applicazione rivolgendosi solo ai soggetti − enti, agenzie e organismi comunque denominati − che operano nell’ambito di Comuni, Province e Città metropolitane. Del resto, che gli enti strumentali delle Regioni siano esclusi dall’ambito di applicazione della norma non è soltanto affermato nella Relazione al Senato del disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 95 del 2012, nella quale si precisa che «Si introduce l’obbligo, con l’articolo 9, per gli enti territoriali di sopprimere o accorpare enti, agenzie ed organismi al fine di raggiungere una riduzione degli oneri finanziari non inferiore

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al 20 per cento» e ribadito dal Relatore che ha illustrato il provvedimento alla Commissione Bilancio della Camera nella seduta del 1° agosto 2012, ma risulta dalla stessa lettera della disposizione legislativa. Infatti la platea dei soggetti destinatari dell’intervento è costituita esclusivamente da quelli che esercitano, anche in via strumentale, funzioni fondamentali (ai sensi dell’art. 117, comma secondo, lettera p, Cost.) o funzioni amministrative spettanti ai suddetti enti locali ai sensi dell’art. 118 Cost. Il riferimento, nell’incipit della disposizione, alle “Regioni” deve, quindi, intendersi come una fuorviante indicazione del soggetto, dotato di potere legislativo, che, ai sensi del comma secondo dell’art. 118 Cost., può, unitamente allo Stato, conferire agli enti locali funzioni amministrative. La disposizione che potrebbe interferire con l’organizzazione amministrativa regionale è il comma 5 dell’art. 9, che prevede l’obbligo per le Regioni di procedere, ai fini del coordinamento della finanza pubblica, all’adeguamento ai principi di cui al comma 1 relativamente agli enti, agenzie ed organismi comunque denominati e di qualsiasi natura, che svolgano, ai sensi dell’art. 118 Cost., funzioni conferite alle medesime Regioni. Pertanto le censure delle ricorrenti aventi ad oggetto la violazione da parte dell’art. 9, comma 1, del d.l. n. 95 del 2012 della competenza legislativa residuale delle Regioni nella materia «organizzazione regionale» di cui all’art. 117, comma quarto, Cost. non sono fondate. Per lo stesso motivo, non sono fondate anche le censure proposte rispettivamente dalla Regione Lazio in relazione alla violazione dell’art. 123 Cost., che rimette alla potestà statutaria la determinazione dei principi fondamentali dell’organizzazione regionale (nei limiti dei principi fondamentali) e quella della Regione Veneto, in relazione agli artt. 117, comma terzo, 118 e 119 Cost. per l’illegittima compressione dell’autonomia finanziaria regionale. 3.2.− La Regione Lazio impugna l’art. 9, comma 1, anche sotto il profilo dell’illegittima imposizione agli enti locali, da parte del legislatore statale, dell’obbligo di soppressione o accorpamento di agenzie ed enti che esercitino funzioni fondamentali e funzioni loro conferite, in aperto contrasto con l’art. 117, comma sesto, Cost., che riconosce ai predetti enti la potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, le quali possono essere svolte anche attraverso enti, agenzie ed organismi vari. La Regione Veneto, invece, lamenta la violazione, da parte della norma citata, dell’autonomia finanziaria degli enti locali di cui all’art. 119 Cost.. Va premesso che tali censure sono ammissibili in quanto, secondo la giurisprudenza di questa Corte, le Regioni sono legittimate a denunciare l’illegittimità costituzionale di una legge statale anche per violazione delle competenze proprie degli Enti locali perché la «stretta connessione in particolare [...] in tema di finanza regionale tra le attribuzioni regionali e quelle delle autonomie locali consent(e) di ritenere che la lesione delle competenze locali sia potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle competenze regionali» (sentenze n. 298 del 2009, n. 169 del 2007, n. 95 del 2007, n. 417 del 2005 e n. 196 del 2004). 3.3.− Le questioni non sono fondate. Il legislatore motiva la previsione di obblighi di soppressione o accorpamento o riduzione degli oneri finanziari con le «esigenze di coordinamento, conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, (di) contenimento della spesa e […] migliore svolgimento delle funzioni amministrative». Nella giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidato l’orientamento secondo cui il legislatore statale può, con una disciplina di principio, legittimamente imporre alle Regioni e agli enti locali, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti territoriali (ex plurimis, sentenze n. 182 del 2011, n. 207 e n. 128 del 2010). Questi vincoli possono considerarsi rispettosi dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali quando stabiliscono un «limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa» (sentenza n. 182 del 2011, nonché sentenze n. 297 del 2009, n. 289 del 2008 e n. 169 del 2007). In altri termini, le norme statali devono limitarsi a porre obiettivi di contenimento senza prevedere in modo esaustivo strumenti e modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi in modo che rimanga uno spazio aperto all’esercizio dell’autonomia regionale (sentenza n. 182 del 2011). Inoltre, la disciplina dettata dal legislatore non deve ledere il canone generale della ragionevolezza e proporzionalità dell’intervento normativo rispetto all’obiettivo prefissato. Sulla base delle considerazioni che precedono e in applicazione dei canoni interpretativi sopra indicati deve ritenersi che le disposizioni contenute nell’art. 9, comma 1, del d.l. n. 95 del 2012 costituiscono effettivamente espressione di principi fondamentali nella materia del coordinamento della finanza pubblica proprio per la chiara finalità di riduzione della spesa e per la proporzionalità dell’intervento rispetto al fine che il

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legislatore statale intende perseguire. La norma impugnata, infatti, dopo aver indicativamente previsto la possibilità di una soppressione o di un accorpamento degli «enti, agenzie e organismi comunque denominati», limita il contenuto inderogabile della disposizione al risultato di una riduzione del 20 per cento dei costi del funzionamento degli enti strumentali degli enti locali. In sostanza, l’accorpamento o la soppressione di taluni di questi enti può essere lo strumento, ma non il solo, per ottenere l’obiettivo di una riduzione del 20 per cento dei costi. Per il raggiungimento di questo obiettivo, i commi 2 e 3 prevedono un duplice procedimento volto alla ricognizione di tali enti e all’individuazione dei criteri e della tempistica per l’attuazione del principio posto dal comma 1 con il coinvolgimento delle autonomie locali. Il comma 2 dell’art. 9, infatti, prevede che «con accordo sancito in sede di Conferenza unificata ai sensi dell’articolo 9 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, si provvede alla complessiva ricognizione degli enti, delle agenzie e degli organismi, comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica di cui al comma 1» mentre il comma 3 rimanda l’individuazione dei criteri e della tempistica per l’attuazione della norma e per la definizione delle modalità di monitoraggio ad un’intesa «ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, e sulla base del principio di leale collaborazione». Il legislatore statale ha, dunque, previsto un ampio coinvolgimento anche delle autonomie locali nell’individuare le modalità della riduzione dei costi degli enti strumentali mediante lo strumento dell’intesa in sede di Conferenza unificata ai sensi dell’art. 9 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (Definizione ed ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse comune delle regioni, delle province e dei comuni, con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali). Deve, pertanto, ritenersi che quanto disposto dal comma in questione non comporti, di per sé, una indebita invasione dell’area riservata dall’art. 119 Cost. all’autonomia degli enti locali, cui la legge statale può legittimamente prescrivere criteri ed obiettivi di riduzione dei costi. Va anche sottolineato che l’obiettivo di riduzione degli oneri finanziari relativi agli enti strumentali in misura non inferiore al 20 per cento è rispettoso del canone generale della ragionevolezza e proporzionalità dell’intervento normativo rispetto alla sfera di autonomia degli enti locali. 4.− Il comma 1-bis dell’art. 9 del d.l. n. 95 del 2012 è impugnato dalla sola Regione Veneto nella parte in cui esclude dall’ambito di applicazione del comma 1 le aziende speciali, gli enti e le istituzioni che gestiscono servizi socio-assistenziali, educativi e culturali. Secondo la ricorrente, tale disposizione impedirebbe alle Regioni il contenimento della spesa pubblica per il tramite della soppressione o dell’accorpamento o comunque della riduzione degli oneri finanziari di aziende speciali o di enti (o istituzioni) che gestiscano servizi socio-assistenziali, educativi e culturali. 4.1.− La questione non è fondata. Infatti, come si è detto, gli enti strumentali delle Regioni sono esclusi dall’ambito di applicazione del comma 1, che invece si rivolge solo a enti, agenzie e organismi comunque denominati che svolgono funzioni amministrative – fondamentali o conferite − di Comuni, Province e Città metropolitane. 5.− La Regione Lazio impugna i commi 2 e 3 dell’art. 9 del d.l. n. 95 del 2012 nella parte in cui prevedono una procedura concertata per la ricognizione di tutti gli «enti, agenzie e organismi» e per la definizione, mediante intesa, da adottarsi in sede di Conferenza unificata, dei «criteri e della tempistica» per l’attuazione della norma. La ricorrente evidenzia l’eccessiva astrattezza e genericità del meccanismo volto all’individuazione dei criteri e della tempistica per l’attuazione della norma in assenza di titoli di legittimazione statale, non essendo le norme citate ascrivibili alla competenza legislativa concorrente in materia di «coordinamento della finanza pubblica» di cui all’art. 117, comma terzo, Cost. e, in ogni caso, non potendosi qualificare le stesse quali norme di principio nella suddetta materia. 5.1.− La questione non è fondata. Il processo di razionalizzazione degli enti pubblici strumentali, attraverso la loro trasformazione, soppressione o accorpamento, con l’obiettivo del contenimento dei costi, presenta problematiche particolarmente complesse in relazione alle esigenze di riorganizzazione dell’esercizio delle funzioni precedentemente svolte dagli enti in oggetto e al trasferimento del personale dipendente. Va ribadito ancora una volta che le disposizioni di cui ai commi 1, 2, 3 e 4 dell’art. 9 si rivolgono esclusivamente ad enti, agenzie e organismi comunque denominati che svolgono funzioni di Comuni, Province e Città metropolitane e, che pertanto, le stesse non ledono alcuna prerogativa organizzativa o finanziaria regionale. Il legislatore statale, con le citate disposizioni, sempre in funzione dell’obiettivo di riduzione della spesa corrente per il funzionamento degli enti strumentali degli enti locali, si limita a individuare un procedimento

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che vede il più ampio coinvolgimento delle autonomie locali, oltre che delle stesse Regioni, mediante il meccanismo dell’intesa in sede di conferenza unificata, per stabilire concretamente le modalità con le quali deve essere raggiunto l’obiettivo prefissato di riduzione di spesa. Ne consegue che le disposizioni impugnate, considerate nel loro insieme e in relazione al risultato finale che esse si prefiggono di raggiungere, non si pongono in contrasto con gli artt. 117, comma terzo, e 119 Cost., in quanto non prevedono «in modo esaustivo e puntuale strumenti o modalità per il perseguimento» di obiettivi di riequilibrio finanziario, non introducono limiti puntuali a singole voci di spesa degli enti locali e, pertanto, non comportano alcuna indebita invasione dell’autonomia finanziaria degli enti locali (sentenze n. 182 del 2011, n. 207 e n. 128 del 2010). 6.− Le Regioni ricorrenti impugnano anche il comma 4 dell’art. 9 del d.l. n. 95 del 2012. Tale disposizione prevede che «decorsi nove mesi dalla data di entrata in vigore del decreto, se le Regioni, le Province e i Comuni non hanno dato attuazione a quanto disposto dal comma 1, gli enti, le agenzie e gli organismi indicati al medesimo comma 1 sono soppressi. Sono nulli gli atti successivamente adottati dai medesimi». La Regione Lazio ritiene che detto comma violi l’art. 117, comma quarto, Cost. in quanto norma ascrivibile alla materia “organizzazione amministrativa” della Regione e l’art. 123 Cost. perché i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento delle Regioni sono riservati all’autonomia statutaria. La Regione Veneto afferma che la citata disposizione, introducendo precetti specifici e puntuali che chiaramente comprimono l’autonomia finanziaria regionale e degli enti locali, si porrebbe in contrasto con gli artt. 117, comma terzo, e 118 Cost. Ritiene anche violati gli artt. 3 e 97 Cost., in quanto sarebbe leso il principio di “ragionevolezza della legislazione”. In particolare, la Regione lamenta, da un lato che la norma impugnata non consente il contenimento della spesa pubblica per il tramite della riduzione di voci di spesa diverse da quelle rappresentate dagli enti che svolgono determinate funzioni amministrative e dall’altro, che è impedito il contenimento della spesa pubblica per il tramite della soppressione o dell’accorpamento o comunque della riduzione degli oneri finanziari di aziende speciali o di enti (o istituzioni) che gestiscono servizi socio-assistenziali, educativi e culturali. Va, preliminarmente, affermata l’ammissibilità di tutte le censure, anche se non riferite a parametri relativi al riparto delle competenze legislative. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, le Regioni sono legittimate a denunciare la legge statale anche per la lesione di parametri diversi da quelli relativi al riparto delle competenze legislative ove la loro violazione comporti una compromissione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite o ridondi sul riparto di competenze legislative (ex plurimis, sentenze n. 128 e n. 33del 2011, n. 156 e n. 52 del 2010). Nel caso in esame l’automatica soppressione di tutti gli enti strumentali degli enti locali impedisce che questi possano svolgere anche le funzioni eventualmente conferite ai medesimi dal legislatore regionale nell’esercizio delle proprie competenze legislative. Risulta evidente, pertanto, che la questione, se pure sollevata in relazione agli artt. 3 e 97 Cost., coinvolga anche le attribuzioni costituzionali delle Regioni. 6.1.− La questione è fondata. Il legislatore statale, decorso il termine di nove mesi dall’approvazione del decreto-legge, sopprime in modo indistinto tutti gli enti strumentali che svolgono funzioni fondamentali o conferite di Province e Comuni senza che questi siano sufficientemente individuati. L’incertezza circa i soggetti destinatari della norma è tale che, come si è visto, lo stesso legislatore statale ha ritenuto necessario un procedimento concertato per la complessiva ricognizione degli enti, delle agenzie e degli organismi, comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica da sopprimere o accorpare e per l’individuazione dei criteri e della tempistica per l’attuazione della norma. Risulta palese, pertanto, la contraddittorietà della disposizione in esame, che stabilisce la soppressione ex lege di tutti gli enti comunque denominati allo scadere del termine di nove mesi dall’approvazione del decreto-legge non tenendo conto della previsione di cui ai commi 2 e 3, istitutiva di un procedimento volto alla ricognizione dei suddetti enti e all’individuazione dei criteri e della tempistica per l’attuazione della norma con il coinvolgimento delle autonomie locali. Inoltre, l’automatica soppressione di enti, agenzie e organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica che esercitano, anche in via strumentale, funzioni nell’ambito delle competenze spettanti a Comuni, Province, e Città metropolitane ai sensi dell’art. 118 Cost., prima che tali enti locali abbiano proceduto alla necessaria riorganizzazione, pone a rischio lo svolgimento delle suddette funzioni, rischio

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ulteriormente aggravato dalla previsione della nullità di tutti gli atti adottati successivamente allo scadere del termine. In conclusione, la difficoltà di individuare quali siano gli enti strumentali effettivamente soppressi e la necessità per gli enti locali di riorganizzare i servizi e le funzioni da questi svolte rendono l’art. 9, comma 4, del d.l. n. 95 del 2012 manifestamente irragionevole Restano assorbite le restanti censure della norma in esame sollevate dalle Regioni Lazio e Veneto in relazione ad altri parametri. 7.− La Regione Veneto impugna anche il comma 5 dell’art. 9 del d.l. n. 95 del 2012 nella parte in cui prevede che: «Ai fini del coordinamento della finanza pubblica, le regioni si adeguano ai principi di cui al comma 1 relativamente agli enti, agenzie ed organismi comunque denominati e di qualsiasi natura, che svolgono, ai sensi dell’articolo 118, della Costituzione, funzioni amministrative conferite alle medesime regioni». Secondo la ricorrente, in tal modo il legislatore statale imporrebbe alle Regioni di ridurre una singola, specifica e ben individuata voce di spesa, in contrasto con gli artt. 117, comma terzo, e 119 Cost. 7.1.− La questione non è fondata. Una volta riconosciuta al comma 1 dell’art. 9 del d.l. n. 95 del 2012 la natura di normativa di principio nella materia concorrente del coordinamento della finanza pubblica di cui all’art. 117, comma terzo, Cost. deve, a maggior ragione, riconoscersi la medesima natura anche al successivo comma 5. Con tale disposizione, infatti, il legislatore statale ha fissato degli obiettivi di riduzione dei costi degli enti strumentali lasciando alle Regioni, nell’esercizio delle loro competenze, il più ampio spazio di autonomia per adeguarsi ai principi stabiliti dal comma 1. Infatti, mentre con riferimento alla riduzione dei costi degli enti strumentali degli enti locali, come si è visto, è stata prevista una procedura concertata particolarmente celere per dare attuazione alla norma, invece, per quanto riguarda le Regioni non è stato previsto alcun termine e non è stata imposta alcuna specifica modalità per l’adeguamento dell’ordinamento regionale ai suddetti principi. La disposizione impugnata, dunque, costituisce principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica (art. 117, comma terzo, Cost.) ed è pertanto ascrivibile a tale titolo alla competenza legislativa concorrente dello Stato. Ne consegue che l’eventuale impatto di essa sull’autonomia finanziaria (119 Cost.) ed organizzativa (117, comma quarto, e 118 Cost.) delle Regioni si traduce in una «circostanza di fatto come tale non incidente sul piano della legittimità costituzionale» (sentenza n. 40 del 2010, n. 169 del 2007 e n. 36 del 2004). 8.− La Regione Veneto, infine, impugna il comma 6 dell’art. 9 del d.l. n. 95 del 2012, ritenendo che tale disposizione, nella parte in cui vieta agli Enti locali di istituire enti, agenzie o organismi che esercitino una o più funzioni fondamentali e funzioni amministrative loro conferite ai sensi dell’art. 118 Cost., violi gli artt. 117, comma 2, lettera p), 118 e 119 Cost., perché, non disciplinando gli organi di governo e le funzioni fondamentali degli Enti locali, invade una materia riservata alla potestà legislativa regionale e interferisce con l’autonomia amministrativa e finanziaria degli Enti locali oltre che con il potere di conferire funzioni amministrative agli Enti locali. 8.1.− La questione relativa al comma 6 dell’art. 9 del d.l. n. 95 del 2012 non è fondata nei sensi di seguito precisati. La norma impugnata stabilisce il divieto per gli enti locali di istituire enti, agenzie e organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica, che esercitino una o più funzioni fondamentali e funzioni amministrative loro conferite ai sensi dell’articolo 118 Cost. Tale disposizione deve essere necessariamente coordinata con quanto stabilito nei commi precedenti e, in particolare, nel comma 1. Infatti l’obiettivo del legislatore è esclusivamente la riduzione dei costi relativi agli enti strumentali degli enti locali nella misura almeno del 20 per cento, anche mediante la soppressione o l’accorpamento dei medesimi. Pertanto la disposizione in esame deve essere interpretata nel senso che il divieto di istituire nuovi enti strumentali opera solo nei limiti della necessaria riduzione del 20 per cento dei costi relativi al loro funzionamento. Vale a dire che, se, complessivamente, le spese per «enti, agenzie e organismi comunque denominati» di cui ai commi 1 e 6 del citato art. 9, resta al di sotto dell’80 per cento dei precedenti oneri finanziari, non opera il divieto di cui al comma 6. Una siffatta interpretazione, costituzionalmente orientata, si rende necessaria anche per consentire agli enti locali di dare attuazione al comma 1 mediante l’accorpamento degli enti strumentali che svolgono funzioni fondamentali o conferite. In tal modo, infatti, gli enti locali potranno procedere all’accorpamento degli enti strumentali esistenti anche mediante l’istituzione di un nuovo soggetto, purché sia rispettato l’obiettivo di riduzione complessiva dei costi. per questi motivi

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LA CORTE COSTITUZIONALE

riservata a separate pronunce ogni decisione sulle ulteriori questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto altre disposizioni del decreto-legge oggetto di impugnazione; riuniti i giudizi; 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 4, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135; 2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 9, commi 1, 2, 3, 5 e 6, del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, sollevata, in riferimento agli articoli 4 e 54 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia con il ricorso indicato in epigrafe; 3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 9, commi 1, 2 e 3, del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 7 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), dalla Regione autonoma Sardegna con il ricorso indicato in epigrafe; 4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 9, commi 1, 1-bis, 2, 3 e 5, del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, sollevate, in riferimento agli articoli 3, 97, 117, commi secondo, lettera p), terzo, quarto e sesto, 118, 119 e 123 della Costituzione, dalle Regioni Lazio e Veneto con i ricorsi indicati in epigrafe; 5) dichiara non fondate – nei sensi di cui in motivazione − le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 6, del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 97, 117, commi secondo e quarto, 118 e 119 della Costituzione, dalla Regione Veneto con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 luglio 2013. F.to: Franco GALLO, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 24 luglio 2013. Il Direttore della Cancelleria F.to: Gabriella MELATTI

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