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Racconti e Pensieri 2010-2011 Raccolta I in collaborazione con www.memori.it www.piazzadelgrano.org

Racconti e pensieri I raccolta

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Mensile d'informazione politica e cultura dell'Associazione comunista "Luciana Fittaioli" con sede a Foligno (PG)

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Racconti e Pensieri2010-2011 Raccolta I

in collaborazione con www.memori.it

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PremessaDi fronte all’ultimo numero del mensile di Piazza del Grano,molti devono aver pensato che la Redazione si fosse concessaun periodo di otium, vale a dire, come ci spiega Arianna a p. 7,un periodo di isolamento volontario da una società come lanostra, alla ricerca di un miglioramento complessivo (p. 8) e dinuove forme d’espressione. In realtà, lo dimostra questo no-stro primo libro, di tempo per la vita contemplativa ce ne sia-mo preso ben poco, anzi, i “negotia” si sono moltiplicati su piùfronti…insomma, si sono aperte nuove strade. Anche se “l’ira”(Cristiano, p. 14) è senz’altro “un sentimento propedeutico allariflessione”, in quanto il primo di una cascata di sentimenti for-ti che ci costringono a riprendere in mano la nostra vita, tutta-via non è stata l’ira a muoverci, ma la certezza che “lo straor-dinario” è assolutamente possibile (p. 15): è possibile dare vocee corpo a parole altrimenti “mute”, imprigionate su fogli dicarta, è possibile trasformare le parole in persone con dignitàe bisogni propri, è possibile, infine, costruire con le sole paroleuna relazione anche tra perfetti sconosciuti. Però, come cispiega Iolanda a p. 22, ci vorrebbero forse troppe parole, perrendere il senso di un abbraccio; il loro compito allora è farsivolume che si possa stringere tra le mani, è farsi “ponte”, unponte vivo quanto quello descritto dall’omonimo racconto diKafka, un “materiale senziente” destinato a supportare i verisoggetti della vita fino alla meta loro assegnata, col solo poteredi resistere o crollare. Così come avviene per il ponte, una pa-rola, una volta scritta, se non viene cancellata rovinosamente,non può smettere di farsi tramite tra un essere umano e un al-tro. Altrimenti, senza evocare le parole giuste, come potrem-mo far rivivere, anche a chi non c’era, gli odori e i sapori delpaese in cui abbiamo vissuto, come potremmo dare un sensoal nostro dolore e convincerci ad andare avanti? “[…]/E la miabarca va in questo mare in burrasca, ogni giorno faticosamen-te, finché viene sera…/Ed io stanca di remare mi addormento”(Mariella, p. 32). Tutto ciò che abbiamo da dire rappresenta lanostra più potente linfa vitale, ciò che ci fa rimanere noi stessianche quando il sonno ci rende incoscienti, e che, se è neces-

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sario, ci costringe a dormire male: “[…] Di certo dormire sullascrivania avendo come cuscino le pagine 41 e 42 delle Epistulaeex Ponto di Ovidio, non è il massimo del confort” (Samantha, p.34). Questa prima raccolta di racconti e pensieri vorrebbe po-ter divenire per la coscienza un “cuscino” scomodo almenoquanto Ovidio, vorrebbe poter aiutare, chi lo desidera, a ricor-dare e a ragionare: “Passavo in auto e come tante altre volte hogettato uno sguardo alla mia destra per guardare lo zuccheri-ficio, o meglio, le strutture della ex distilleria di Foligno. […] Poi[…] mi sono chiesto: […] una foto può raccontare una storia? Inparte naturalmente sì… Ma cosa ne sa di quel fabbricato lungolungo, con un improvviso parallelepipedo che svetta in alto, e siriallinea. Di quella finestrella che guarda verso Pale, di cosac’era dietro le porte in basso, alcune con le inferiate a protegge-re qualcosa di prezioso altre no” (Fausto, p. 39). Quando guar-diamo di sfuggita le nostre vite, i luoghi in cui studiamo, in cuilavoriamo, cerchiamo una traccia pur flebile del nostro pas-saggio oppure ci limitiamo ad esprimere il desiderio di esserealtrove? Scrive Zinaida N. Gippius: “[…]La volontà si è nascostanell’ambito circoscritto dei semplici desideri. E io non voglioesprimere dei desideri. Non serve” (Maria Sara p. 53). Chiedersiin continuazione il perché delle cose che avvengono è l’unicomodo per rimpastare la realtà e sfornarla di nuovo comeavrebbe voluto fare la fornaia, protagonista del racconto di Pa-ride a p. 57, con la propria sorte, per rendere più appetibile ainostri occhi persino “questa sporca vita”. Parafrasando PaoloConte, e Irene a p. 63, “se non avessi questa sporca vita”, e que-sta inestinguibile, sporco bisogno perenne di scrivere, “mori-rei”. È proprio per non lasciar “morire” le voci di chi desideraconfrontarsi con ciò che lo circonda che prende il via questanostra nuova forma editoriale. Gli autori qui raccolti sono glistessi che ci hanno accompagnato durante l’avventura prece-dente, quindi li chiameremo solo per nome, non hanno biso-gno di troppe presentazioni, ma presto seguiranno altri rac-conti inediti, e altri autori le cui parole formeranno nuovi pontida percorrere insieme.

Maria Sara Mirti

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“E’ difficile per un uomo sopportare se stesso”Lo sballo promette felicità evanescente e il suo richiamoè assordanteMarco Aurelio ha ragione, sopportare i propri pensieri, tor-menti, angosce è la cosa più complicata che ci sia, special-mente a vent’anni, quando si è ancora tanto confusi. A que-sta età la tentazione dello sballo è forte, in particolare si fasentire la curiosità, quasi morbosa, di scoprire cosa riservaquesto mondo colorato, scintillante e pulsante di ecstasy,cocaina, eroina, il tutto miscelato con cocktail dai nomi ac-cattivanti ed esotici. Lo sballo seduce, il suo richiamo a voltesembra farsi quasi assordante, il gruppo di amici che ci ca-sca, tanto una volta sola cosa vuoi che sia, ma poi la dipen-denza dalla felicità artificiale è inevitabile; le droghe sinte-tiche portano in paradiso, ma poi si riscende in terra e spes-so cadere fa male. Molto male. Resistere è fondamentale, go-dere di una sana emarginazione è presupposto per non es-sere omologati in una massa indistinta e per avere la dignitàdi essere se stessi. Il consumo di droghe sintetiche crescesempre di più, secondo le statistiche sarebbero circa ottan-tacinquemila i consumatori, tra i quindici e i venticinque an-ni, dati allarmanti per gli esperti, soprattutto perché in que-sto vortice sono coinvolti i giovanissimi. Le angosce dellagiovinezza, gli amici che spingono a provare, e nessuno acasa che chieda delle spiegazioni, creano una miscela esplo-siva. Un dato da non tralasciare è che molto spesso questiragazzi sono lascati soli, non hanno alle spalle genitori o chiper loro, che si preoccupano, che fanno domande, che chie-dono chiarimenti sul perché i loro figli siano apatici, in unostato depressivo, che rappresenta una delle fondamentaliconseguenze dell’euforia provocata dall’ecstasy, e trepida-mente in attesa del sabato successivo. Bisogna avere il co-raggio di tenere duro, di resistere al desiderio di vedere cosasi prova. Pandora lo sapeva bene, lei che con la sua curiosi-tà ha aperto il vaso e ha fatto uscire i mali del mondo. Ri-fiutare le facili euforie è segno d’intelligenza, di forza d’ani-mo che permette di sentire le proprie sensazioni, le più ele-

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mentari percezioni, come il caldo, il freddo, il piacere di di-vertirsi e ballare senza lasciarsi obnubilare e stordire. Ilmondo dello sballo promette incanti, colori, luci sfavillanti,vortici di pura euforia ma ciò che rimane è un senso di vuo-to, l’amarezza di aver vissuto una serata della propria vitae non ricordarsela.“A che serve passare dei giorni se non si ricordano?” dicevaCesare Pavese.

Gli eroi omerici del 2011Migranti che raggiungono la terra fermae i doveri di solidarietàNel canto VI dell’Odissea, Odisseo, per aver accecato Polife-mo, si imbatte in una terribile tempesta causata dall’ira diPoseidone, il dio del mare, ma viene salvato dalla dea Inoche gli permettere di raggiungere la terra ferma, l’isola deiFeaci. Odisseo è stremato, nudo e coperto di salsedine maviene accolto da Nausicaa, la figlia del re Alcinoo, la qualeadempie i doveri della solidarietà dando all’eroe le cure dicui necessita: a Odisseo viene data una veste, cibo, bevandee un bagno nel fiume. Questo episodio rappresenta unesempio di ospitalità, quella che i Greci chiamavano “xenia”,ovvero un concetto fondamentale nei rapporti della Greciaantica,che comprendeva consuetudini da rispettare per nonscatenare l’ira degli dei. La “xenia “ richiede il rispetto reci-proco dell’ ospite verso l’ospitante e dell’ospitante versol’ospite, il padrone di casa doveva dare all’ospite cibo, be-vande, un bagno e delle vesti, esattamente quello che faNausicaa nei confronti di Odisseo. Nel momento in cuil’ospitalità terminava l’ ospitante doveva lasciare un donoal suo ospite e quest’ultimo avrebbe a sua volta ricambiato,creando in questo modo un vero e proprio vincolo. Era unrapporto connotato principalmente da reciprocità e rispettoe soprattutto garantito dagli dei. Un singolare rapporto dicontinuità si può cogliere tra l’eroe omerico e i migliaia dimigranti che giungono alle nostre coste. Ugualmente stre-mati dal viaggio, dal mare, chissà se per l’ira di qualche dio,

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non sempre riescono ad arrivare alla terra ferma; chi ce lafa me lo immagino come Odisseo, solo e bisognoso di cure,che irrompe nella leggerezza e tranquillità dei giochi diNausicaa e delle sue ancelle ,esattamente come gli immigra-ti piombano nella vita tranquilla di Lampedusa. Il proble-ma è che non c’è Nausicaa ad accoglierli, almeno non sem-pre. Sono in balia di una Europa che non se ne preoccupa,nelle mani di un’ Italia così unita che litiga su dove metterequeste migliaia di persone, perché alcune regioni sarebbe-ro disposte ad accogliere solo i rifugiati politici e non i clan-destini. La sensazione generale, non solo in Italia, ma so-prattutto in Europa, è che si è in presenza di una clamorosaviolazione dei “sacri “ doveri di ospitalità; chiaramente sista verificando un’importante emergenza, visto che gli“ospiti” sono migliaia, ma almeno un posto decente in cuistare è un diritto sacrosanto di ogni uomo. L’eroe omericoalla fine trionfa, ma queste povere anime raggiungerannomai la loro Itaca? “Abitiamo in disparte, nel mare ondoso /ai confini del mondo, nessun altro mortale arriva tra noi. Macostui è un infelice, qui arrivato ramingo/ che ora ha biso-gno di cure: mendicanti e stranieri/ sono mandati da Zeus.Il dono sia piccolo e caro. Ancelle, date all’ospite cibo e be-vanda,/ fategli il bagno nel fiume, dove c’è un riparo dalvento.” (Odissea, VI, vv 204-2010)

Una lettera al mondo adultoChe ne sarà di noi e del mondo che ci lasciateCaro mondo adulto,basta a chi ci dice “bamboccioni “, gioventù senza valori,senza Dio, senza educazione. Basta agli articoli e saggi di il-lustri sociologi e psichiatri che dicono di quanto noi venten-ni siamo confusi e persi. Lo sappiamo benissimo. E basta di-re che è colpa della scuola, della televisione, del computer,della scienza. Basta a chi si erge e dall’alto della sua incom-mensurabile scienza, giudica e ci infila in categorie. Si parlaspesso di tribù metropolitane, come i punk, i metallari, gliemo, i pariolini, gli skaters e tanti altri, che l’esigenza di

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mettere tutto in categorie ha classificato. Ma non siamo mi-ca dei prodotti da supermercato, messi accuratamente alposto giusto nel reparto di riferimento. Che tristezza!! Noisiamo chi siamo, e basta; evitate di rinchiuderci in stereotipiperché poi va a finire che in qualche modo ci crediamo an-che noi e uscirne è difficile perché per una stupida esigenzadi coerenza si è obbligati a restare nella propria rassicuran-te categoria di riferimento e finisce che si fa fatica a capirechi siamo veramente. Ci state lasciando un mondo che va arotoli, ci date esempi ben poco edificanti e poi vi lamentateche restiamo a casa fino a trent’anni. Andate voi con laureae magari anche master ed esperienze all’estero a fare i ca-merieri, se vi sta bene. Dovreste prendere invece esempioda questi ragazzi che lavorano sodo, che hanno studiatotanto, con risultati eccellenti e che vanno a fare lavori cheun tempo faceva solo chi era poco istruito. E scusate se poil’affitto per una casa, da soli, non ce la facciamo a pagarlo,scusate se non riusciamo a lavorare per più di un anno o an-che meno, ma con la precarietà che avanza non è cosa sem-plice. Non siamo noi che siamo senza valori, ma siete voiche li avete distrutti, e con loro molte altre cose. Ci insegna-te che per fare successo conta essere belli, per le ragazze es-sere anche un po’ veline non guasta, giovani, pronti a lavo-rare anche dodici ore al giorno, che la maternità a trent’anniè solo un impedimento ad una carriera eccellente, che con-tano le conoscenze e amicizie, e poi se sei competente è an-che meglio ma non fondamentale. Ma che cosa state dicen-do? E il merito? La classe politica urla che i romani sonoporci e vi lamentate del fatto che l’unità nazionale si realiz-za servendo il paese con uno di stipendio sicuro a fine me-se. Non investite sulla scuola, sull’educazione e non vi ren-dete conto di quante capacità e risorse state sprecando ob-bligando giovani laureati italiani a realizzarsi all’estero.Quindi basta stereotipi, e mettetevi una mano sulla coscien-za. Proprio sicuri che quelli senza valori siamo noi? In boccaal lupo, ragazzi.

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L’otium a RomaIl binomio vita contemplativa - azione ai giorni nostriLa vita ci costringe a ritmi frenetici, la fretta ci divora, e avolte ci si dimentica di noi stessi, della nostra interiorità.Nella cultura romana era frequente il ricorso al cosiddetto“otium “, che nulla ha a che fare con il moderno significatodi ozio, inteso come inattività, pigrizia, inerzia, sicuramentein un’accezione negativa. Al contrario, il termine otium in-dicava il tempo lontano dai “negotia”, ovvero dagli affari edalla vita politica, dedito all’attività contemplativa, alla spe-culazione intellettuale; era una sorta di dolce riposo dellamente, uno spazio privato, che atteneva alla domus, alla di-mensione privata del cittadino. Otium come disimpegno po-litico, distacco dallo Stato, e riscoperta della propria indivi-dualità, spazio riservato allo studio, alla cultura, alle arti, alnutrimento e alla rigenerazione del proprio spirito. In par-ticolare Seneca ( 4 a. C.- 65 d. C.), nel suo libro “ De otio” (“La vita contemplativa”) , dedicato ad Anneo Sereno, affer-ma la necessità dell’otium come spazio privato, perché la vi-ta contemplativa migliora l’uomo, che a sua volta sarà mi-gliore anche per gli altri e più facilmente saprà rendersi uti-le per la propria comunità. Afferma Seneca “ Tutti sonod'accordo nel ritenere che, vivendo in società, è difficile es-sere immuni dai vizi, e allora, se non abbiamo altro mezzoper salvarci da essi, isoliamoci: già questo solo fatto ci ren-derà migliori. D'altronde chi c'impedisce, pur vivendo ap-partati, di avvicinare uomini virtuosi e ricavarne un esempiosu cui modellare la nostra esistenza? E ciò non è possibilese non in una vita tranquilla, lontana dalle pubbliche faccen-de: solo così potremo mantenere fermi i nostri propositi,non avendo accanto nessuno che, sollecitato dalla grandemassa che gli sta intorno, possa distoglierci dalla nostra de-cisione, ancora instabile, all'inizio, e perciò facile a sgreto-larsi.” Seneca , in questa opera,risolve il binomio azione- vi-ta contemplativa a favore della seconda, probabilmente in-fluenzato dalle vicende personali ; il saggio deve evitare iturbamenti dello Stato, deve dedicarsi a se stesso perché “

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se io passerò in rassegna tutti gli Stati, uno per uno, non netroverò nessuno, che possa accettare un saggio o che il sag-gio possa sopportare. E se non si trova quello Stato che noiimmaginiamo, comincia ad essere necessaria per tutti la vitaappartata “. E allora se anche noi, in alcuni momenti, pen-siamo che il nostro Stato sia pieno di vizi, insopportabile,allora ritiriamoci nell’otium; se non ce la facciamo più a cor-rere da una parte all’altra dietro alle nostre quotidiane atti-vità, allora dedichiamoci al nostro spirito e riposiamo le no-stre anime affinchè si possa trarre dall’otium un migliora-mento complessivo.

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“… le parole veraci … del mio calzolaio”Uno spunto per non fermare la ricerca di noi e della realtàche ci appartieneIl mio calzolaio. “La parola “vergogna” non la spreco: non necapireste il proposito./ Mi dispiace, cari non amici miei!/ Nonsiete riusciti ad amare…/ non ce l’avete fatta ad apprezzarel’alba… ma siete bravi a gridare “assassino”!... ”assassino”...senza sapere./ Le vostre priorità non le considero!/ False sicu-rezze vi danno una forza inconsistente …/ mai arguti né ta-glienti./ Beati voi!/ Sei miliardi di persone non esistono,/ l’in-contaminata letteratura non esiste,/ il calore di una carezzanon esiste,/il sole di un sorriso non esiste,/ e non esiste l’es-sere,/ ma solo il vile allineamento…/ La noia è sconosciuta,/la cordialità un relitto./ O antico rispetto!... quanto mi man-chi,/ ma lo so:/ non morirai mai./ Io cerco senza sosta e/ cer-cherò sempre… senza sosta!/ Beati voi, che senza reali pro-spettive ignorate che la vera rivoluzione/ è assorbire,/ osmo-ticamente e con giovane leggerezza,/le parole veraci …/ delmio calzolaio!” Una giornata come tante. Quelle che certamente non si ricor-dano. Quelle di cui nemmeno ti rendi conto che sono stateanonime e piatte, finché qualcosa o qualcuno non te lo fa pen-sare… e ti fa cambiare assolutamente idea. Un evento cosìsemplice da potersi considerare straordinario. Un’ora del tuotempo che ti offre spunti di riflessione, che ti fa pensare di sta-re bene proprio quando non te l’aspettavi. Uno scambio di opi-nioni così autentico da meritare, nella tua mente a volte addor-mentata, qualche “sgangherato” verso. Così, per gioco, dopoaver tirato un gran sospiro di sollievo, ho voluto fermare quelconfronto… quelle parole dell’inconsapevole Giorgio, il miocalzolaio. La scoperta della meraviglia di ciò che ti circonda rie-sce a innescare la miccia di un equilibrio vacillante o a conso-lidare quello in fase di raggiungimento. E non credo che occor-ra una particolare predisposizione o impostazione mentaleper vedere ciò che normalmente non vediamo, perché occul-tato dai frenetici ostacoli del quotidiano. Basta solo avere unpo’ di pazienza ed essere ben avviati sulla strada del “dubbio”.

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Credo che la ricerca della coerenza e di una stabilità interiore,parta proprio da un approccio profondamente umile e auto-critico nei confronti dell’altro, dei suoi sentimenti e delle sueidee. Ovviamente, il rischio di incappare nella banalità di ideee parole inflazionate è davvero elevato in questa propensioneverso un mondo spesso vigliacco e così difficile da compren-dere. Ma questo è un rischio sano, che vale la pena correre, percrescere, per migliorare. Forse in maniera più lenta, ma di cer-to più compiutamente. Tanta gente è concentrata solo nel “suotutto”. Osservando i comportamenti automatici e i tic quoti-diani ti accorgi che in realtà porre l’attenzione solo sul “pro-prio tutto” equivale a farlo sul niente. Ci sarà un motivo per-che sulla Terra siamo sei miliardi di persone, o no? Forse la ra-gione sta proprio nel fatto che dobbiamo cercarci, scoprirci, ri-spettarci. Ed è questo il viatico verso una vita dignitosa per tut-ti. Semplicemente per tutti. Il ragionamento non vuole condur-re a una scontata promozione dell’altruismo. Un altruismotroppo spesso spento e fonte di insegnamenti retoricamentetramandati. Vuole solo sottolineare come la volontà di co-struire la propria personalità, ha bisogno di traguardi moltopiù esigenti della costruzione di un benessere chiuso e spicca-tamente interiore. Le nostre energie, la nostra rabbia, attendo-no solo di essere utilizzate per un miglioramento comune e to-tale. Per la creazione di un futuro che non sia la banale ripeti-zione del presente. Ed è proprio la ricerca di una sintonia cri-tica con il nostro “intorno” che ci fa sfuggire al rischio di omo-logarci a esso e allinearsi al comune sentimento. La piccola ri-voluzione quotidiana muove da questa consapevolezza: ognu-no di noi può essere con il proprio atteggiamento attivo e pro-positivo un “cavallo di Troia” all’interno della realtà; un virussano in grado di “sbugiardare” le false sicurezze che qualcunovuole darci e che molto, troppo!?, spesso vengono accettatepassivamente, o contrastate solo quando è troppo tardi; ciò,con la convinzione che la vita migliore sia quella del flusso fa-vorevole e tranquillo. E va bene allora: se la vita può essere fa-cile, che lo sia per tutti! Altrimenti qualcosa va assolutamentecambiato. Cominciamo intanto a guardarci intorno. A sentire

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intorno. Ad accogliere i messaggi che la nostra realtà ci invia eche troppo velocemente cancelliamo. Se mentre cammino perstrada, butto il mozzicone spento della sigaretta nel cestinodei rifiuti anziché per terra, non voglio essere guardato constupore, come se facessi chissà che… perché mi sto solo “guar-dando intorno”.

Una fiaba per guarire“C’era una volta, in un tempo lontano …” Era così che inizia-vano i nostri sogni. Una luce soffusa e la voce calda del nostrostanco “narratore” che si impegnava a leggere qualcosa di cuigià conosceva il finale, tralasciando, furbescamente, le parti in-terlocutorie. Poco importava. Qualche immagine offuscata, in-determinata … e il sogno aveva inizio. Una magia che accen-deva le luci dell’immaginazione, un “contenente” a cui davamoun coloratissimo contenuto di innocente speranza. Magia rac-contata, magia ascoltata. Questo è lo spunto per un pensierosemplice e assolutamente lontano dal fornire una soluzionealle frustrazioni quotidiane e all’astuta debolezza delle “men-ti” importanti. Vuole essere solo un inizio, come il sogno diquesta premessa. Ho immaginato qualcosa di fantastico perevadere dalla mia realtà. Un qualcosa di fantastico, ma comun-que tangibile, esistente. Una fiaba appunto, scritta e letta, nar-rata e utilizzata. Ritengo che le fiabe siano in grado di svilup-pare in ognuno di noi la creatività; di svegliare il talento spessoaddormentato da una vita in cui troppa gente riesce a svolgereesclusivamente il proprio “compitino”. Esiste in psicoterapiaun metodo, il c.d. “metodo Debailleul” che si incentra sostan-zialmente sullo sviluppo della creatività e del potenziale attra-verso l’ascolto e l’analisi delle fiabe; in tal modo si riconducela persona alla radice infinita della sua qualità umana:riscopri-re il Re, l’Eroe o la Fata che vivono in noi ci porta a riscoprire ilnostro valore. La meraviglia! Una storia fantastica riesce a ren-derci segretamente felici per qualcosa o qualcuno che solo ap-parentemente non esiste. Oggi, nel mondo degli adulti il signi-ficato e l'importanza delle fiabe è spesso frainteso o sottova-lutato; l'adulto pensa che le fiabe siano utili solo ai bambini;

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pertanto, si limita a leggerle ai suoi figli, senza riservare trop-po interesse ai messaggi che queste contengono; e poi, non ap-pena questi crescono, le fiabe, ritenute oramai inutili, vengonorelegate in soffitta. Questo atteggiamento comune verso la fia-ba è fortemente riduttivo nei confronti del suo "significato"; lefiabe ci offrono la possibilità di ripercorrere le tracce di quelloche è stato il cammino dell'umanità, dei problemi, delle diffi-coltà e delle ingiustizie in cui si è imbattuta. La favola insegnaquanto sia seducente ed attraente il "male" poiché questo èsempre rappresentato da qualcuno o qualcosa di molto poten-te, abituato ad usare i suoi poteri in modo subdolo. Streghe,draghi, orchi e serpenti usurpatori che "rubano" il posto chespetterebbe di diritto all'eroe; e quando troviamo queste situa-zioni, la conclusione risulta sempre chiara: il "crimine", di fat-to, non paga, perché alla lunga chi rappresenta il male è unperdente. La fiaba ci raggiunge attraverso il tempo per trasfor-mare il nostro atteggiamento nei confronti della vita e favorireil cambiamento. Un cambiamento che in qualche modo devetrovare spazio nelle troppe scontate esistenze. I nuovi mali sistanno ormai diffondendo ed impossessando delle menti deipopoli, delle "civiltà" industrializzate; adulti e bambini sonosempre più spesso vittime di stress e depressione, si sentonodemotivati ed hanno perso di vista il vero significato della vita.Il piacere di una passeggiata, il vento che ti accarezza. Mali sot-tili, spesso trascurati che, inevitabilmente, portano a viveregrosse crisi esistenziali. Un rimedio naturale per queste "mentistanche" potrebbe essere quello di riprendere contatto con lafiaba. Le fiabe creano e risolvono situazioni di paura, inade-guatezza e solitudine, sconfiggono angosce e fanno svanire ifantasmi. Che piacere sottrarsi dalla realtà e tuffarsi nell’illu-sione che esiste la possibilità di un’inversione radicale deglieventi. Si, perché nella fiaba è l’eroe che “sguaina” il propriocoraggio e sovverte i pronostici. Quando esco da casa ognigiorno, sono io l’eroe di me stesso … con fantasia e coraggio,con fiducia di queste mie uniche risorse. Purtroppo e per for-tuna! Siamo circondati di streghe e serpenti, meschini e poten-ti ... potremmo essere eroi, per il momento, avendo la sola con-

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sapevolezza che resistere e lottare non è solo una “fiaba”.

“Giocosamente”:una laica accelerazione verso i sogni ritrovati.

Finalmente!

La mente ricorda quando le mie serate se ne andavano tristemente,

affannosamente …

la mia estate magicamente era diventata un inverno, o un inferno?

La luce del sole trasmette desiderio, normalmente …

ma guarda che facilmente la voglia può trasformarsi in noia,

inspiegabilmente.

Il giorno rovente iniziava immediatamente … e non finiva mai,

l’uscita era lontana, nonostante gridava il contrario la corrente …

giustamente!

Però! Però la speranza latente improvvisamente si pente

e si annulla come il gol marcato irregolarmente … che gioia ardente!

Percorro la strada impervia ma gli eventi mi aiutano fortunatamente.

Mi riaccingo a vivere, tremante, ma l’amore vero è quello che

ti circonda …

il difficile è accorgersene immediatamente impedendo che ti colpi-

sca l’infingardo fendente …

bugiardo, ma così bello che avrebbe ingannato ogni gente.

Amati incondizionatamente, accetta la realtà vivente, non gioire

inutilmente di un

preciso futuro inesistente, e arrogante!

Aggiungi coraggio al presente, distogli celermente le energie da chi

non le ha guadagnate meritatamente … ma solo apparentemente

in forza di un involucro splendente.

Adesso!

Il giorno si dipana stimolante, mai scontatamente.

Non è fortuna … è forza!

Vigore che si libera naturalmente, inaspettatamente … te ne accorgi,

non procedi penosamente come un serpente

ma fiero e sorprendente come un aliante …

state attente!

Umilmente e consapevolmente,

aderisco rispettosamente alla parola che vuole

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che lo spasso diverta efficacemente

se si protrae concisamente, ma

… finalmente, giocosamente!!!

Ho giocato con le parole, qualche tempo fa. Avverbi, participipresenti e termini in movimento. Un amuleto. Un inno al risve-glio, uno scatto di reni al di fuori delle frustrazioni e delle pau-re che incombono sugli animi più sensibili. Molto spesso è pro-prio la “maledetta” sensibilità ad impedirti di affrontare a visoaperto i pericoli e le sofferenze. Ti ritrovi in una palude di pen-sieri, quasi sempre malsani, putridi come quelle acque. Tutta-via, sarà proprio questo ristagno, costante, lento e continuo,dannatamente palese, che in lampo d’amore e razionalità ticondurrà fuori dal “riposo” forzato. Ed ecco allora: una laicaaccelerazione verso la agognate mete; una vita semplice con-dita da immagini e sapori antichi … le parole di un amico:quelle stesse parole che nel periodo di letargo erano solo pa-role, mentre adesso ingenerano desideri su desideri. Nel con-tempo e per fortuna, si modifica l’interpretazione dei segnidella natura: dall’indifferenza alla meraviglia; dalla normalitàallo stupore; dal fastidio a non poterne fare a meno. È questoil mutamento che genera forza e genialità, tanti sorrisi e sanainsofferenza. Si, insofferenza. Perché nell’”inferno” tutto vabene e non riesci nemmeno ad arrabbiarti. E allora non impor-ta in che direzione si propaga questa nuova energia … non im-porta, purché si liberi … fiera, arrogante! Una storia come tan-te, questa, innaffiata dal coraggio di giocare, a posteriori …Questo è quello che vorrò fare ed essere. Quando sei in apnea,inizia a correre più veloce che puoi. Ti fermerai ad un certopunto, affannato; ma probabilmente, con la testa di nuovo frale nuvole, riderai. Riderai … e ripartirai!

L’ira, un sentimento propedeutico alla riflessioneUn peccato capitale! Già avevo deciso di trattare questo con-cetto. E poi, la meraviglia nel fare mente locale. Sì, uno dei settevizi, da cui secondo la religione cristiana, dovremmo astenerciin ogni caso. In ogni caso!? Affascinante! Si tratta di uno statopsichico alterato, in genere suscitato da uno o più elementi di

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provocazione, capace di rimuovere alcuni dei freni inibitoriche influenzano nettamente,… fortunatamente, le scelte delsoggetto coinvolto. Una reazione, che si scatena quando laprofonda avversione verso qualcosa o qualcuno fuoriescedall’involucro della ragione. Esistono tre diverse tipologie diira: quella “frettolosa e improvvisa", animalesca, che si verificaquando ci sentiamo tormentati e intrappolati; quella “caratte-riale”, scarsamente incisiva, che molto spesso conduce a si-tuazioni di scontrosità e villania; e, infine, la mia preferita :quella "costante e deliberata”. Adorabilmente adolescenziale.La reazione alla consapevolezza di subire un trattamento in-giusto. Ogni giorno, ogni volta che apro gli occhi mi sento for-tunato … e profondamente arrabbiato. Perché lo so che di lì apoco, magari al distributore di benzina o al bar, incontrerò l’in-casellato di turno, il figlio stralegittimo del suo contesto, equindi arrogante. Lui, mai tagliente né arguto, si innervosiscesolo perché il suo i-phone non ha il segnale pieno. Felice e pre-varicatore, ma non lo sa. Non se ne accorge. Una lettura super-ficiale del problema porterebbe a pensare che una riflessionedel genere muove da una profonda invidia verso il vile allinea-to, perennemente contento. In parte è vero. “Sono arrabbiatoperché so che mi arrabbierò”: un cane che si morde la coda. Enon esiste una soluzione definitiva. Allora il segreto è quellodi amare questo stato d’ira, farlo proprio ed utilizzarlo. Riten-go che molto spesso la rabbia sia propedeutica ad una razio-nale meditazione. Una contraddizione in termini forse, ma ildiscorso fila: se non ho lo spunto, non scrivo; se non sono ar-rabbiato non rifletto. L’ira, nel suo intimo significato, è poten-zialmente in grado di mobilitare risorse psicologiche positivee di trasformarle in un sano dibattito interiore. E poco male sediventa distruttiva. Non è necessario un controllo cognitivo delproprio comportamento, laddove questo porti ad una seden-tarietà mentale. Ed è inevitabile, leggendo un giornale o ascol-tando le esteticamente impeccabili interviste dei nostri “eroici”rappresentanti, avere qualcosa di irrisolto, una disarmonia in-teriore, una discrepanza tra desideri e realtà. Inevitabile? Forseno, se penso al perennemente contento di cui sopra. Io sono

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arrabbiato ma lui resta felicemente innocuo. Come il suo sor-riso. Rivolgo il pensiero ad un classico: Achille, l’eroe omerico.Un leone in gabbia. La percezione del dolore e dell’ingiustiziafa si che quell’uomo sprigioni la sua vera essenza, il suo ane-lito di vita. Ed ecco allora che un ruggito diventa melodia. Unabattaglia può placare la fame di giustizia. “Se si dovesse espri-mere in una frase la caratteristica più importante dell’attualesituazione psico-politica mondiale, questa dovrebbe essere:siamo entrati in un’era senza punti di raccolta dell’ira con pro-spettiva mondiale” (Peter Sloterdijk “Ira e tempo”). La solitaprovocazione per dire che forse non ci arrabbiamo abbastan-za. Non facciamo in modo che questo dibattuto sentimento siafonte di respiro e vitalità. Ed è proprio quell’eroe che in qual-che modo ci dice che solo attraverso costanti e quotidiane im-pennate di energia siamo in grado di salvarci e ripartire. Inogni ambito e ad ogni livello. Con ogni mezzo. Lo “straordina-rio” è assolutamente possibile. Così come è possibile alzarsioltre la medietà senza che ciò implichi presunzione ed inutiletrascendenza. Troppo spesso essere ed esistere, vivere e so-pravvivere significano la stessa cosa. Questo mi spaventa, …profondamente! Mi spaventa molto di più rispetto al pensieroche la mia sana ira possa costituire anche la mia debolezza, ilmio “tallone”. E allora, forse, in realtà mi sento fortunato adessere arrabbiato.

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Pensavo fosse amore … invece era un calesse“Ma perché l’amore è così fragile nei primi mesi di vita? Perchéè così allergico, così esposto alle intemperie, così soggetto all’im-pietosa regola della selezione naturale? [...] Se nella vita ordina-ria (quella senza traumi né gioie, a cui in fondo tendiamo: la vi-ta – ottobre, dove ci si copre poco) la morte è una comparsa, nel-l’amore giovane si presenta, piuttosto, come un’imposta abusi-va, un’Irpef della felicità. Come i pesciolini che nuotano sotto lacoda degli squali, con la differenza che la morte – Irpef non siattacca all’amore per vivere a scrocco, ma per schiantarsi in-sieme a lui contro il primo scoglio” (Diego De Silva – Mia suoce-ra beve; Ed. Einaudi) Forse perché quello dei primi mesi di vita non è “Amore”? Sipuò, infatti, “Amare” una persona che non si conosce? Incontriqualcuno che ti rimette in moto i battiti del cuore, che ti tra-smette emozioni, che ti sconvolge la tua quotidianità, le tue si-curezze, il tuo modo di essere e di porti. Che ti fa scoprire unaparte di te che non pensavi neppure esistesse. Quel qualcunocomincia ad avere un posto in prima fila nei tuoi pensieri, nelletute giornate, nei tuoi programmi. Anche quando non te ne ac-corgi, quel qualcuno sta lì nella tua vita. Ti sei innamorato – oalmeno è questa l’espressione che si usa per definire il tuo sta-to di subbuglio emotivo. Ma di cosa ti sei innamorato? Diun’immagine, di momenti condivisi, di atteggiamenti, delleemozioni che l’altro trasmette, spesso di mere proiezioni. Già,perché l’altro non sai ancora chi sia. E’, dunque, un sentimentotanto intenso, quanto irrazionale e superficiale, quello che èdefinito “innamoramento”. Un sentimento che, proprio perchénasce e si fonda su sensazioni e apparenze, è destinato aschiantarsi contro il primo scoglio. Si potrà schiantare controla prima incomprensione; o, sopravvivendo, si schianterà difronte alla conoscenza dell’altro, se la realtà che si scopre è di-versa dall'immagine di cui ci si è innamorati o se, semplice-mente, il tempo svelerà che quella realtà non emoziona più. Oancora, pur dimostrando di possedere una tempra più forte diquello che apparentemente palesava, morirà di morte naturalequando si accorgerà che il “noi”, quell’entità nuova che l’inna-

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AN

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moramento aveva generato, anziché crescere e fortificarsi inun unicum ritorna pian piano a sdoppiarsi e regredisce nuo-vamente a un “io” e un “tu”, perché il “noi” era solo un’espres-sione vuota. O, vigliaccamente, si lascerà morire perché un“noi” è più impegnativo di un “io e un “tu” e fa paura. E’ in quelmomento “… che la vecchia insaziabile ti propone il condono:“Molla tutto, - dice, e ti risparmierai un sacco di sofferenze”. Espesso, lì dove si annidava il sentimento dell’innamoramento,trova posto un senso di delusione. Ci si scopre, così, non piùinnamorati e delusi. Ma delusi da chi? Da cosa? Da noi stessi?Dalle nostre aspettative? Dalle nostre proiezioni? Dalla nostraincapacità di investire e costruire? Già, perché innamorarsi èuna puntata alla roulette. Anche se si conosce il gioco, anchese si è fortunati, non si potrà mai essere sicuri anticipatamenteche il numero su cui si è fatto la puntata sia quello vincente.Ma può succedere che, assistiti dalla fortuna e grazie all’abilitànel gioco, la puntata sia vincente. Ci si potrà allora acconten-tare di consumare la vincita godendone finché dura, fintantoche non arriverà l’esattore dell’“abominevole imposta”, e nelfrattempo, magari, scommettere già su un altro numero. Per-ché l’importante è giocare! Oppure, se si ha la capacità di com-prendere quanto si è stati fortunati e non si vuole sciupare lafortuna che è capitata - perché non è dato sapere se e quandodi nuovo capiterà di puntare su un numero vincente e, soprat-tutto, se la vincita avrà lo stesso valore – decidere di investireal meglio quella vincita senza rischiare di dissiparla. Perché nelfrattempo ci si è accorti che la conoscenza dell’altro, anche lesue diversità, continuano a emozionare; che ogni giorno chepassa il sentimento che si nutre nei confronti di chi si sta co-noscendo è più forte di quello che si provava ieri verso unaproiezione. Allora nascerà il desiderio di scoprire cosa sarà do-mani insieme all’altro. E se ci sono delle difficoltà che mettonoa rischio l’investimento, si farà di tutto per superarle affinchéi frutti che quell’investimento sta producendo non vadanopersi infrangendosi contro lo scoglio della incapacità e dellapaura ma, anzi, possano aumentare nel tempo. Certo il tuttofunzionerà solo se l’“io” e il “tu” sono innamorati; se entrambi

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scoprono che l’altro è una vincita preziosa da non dissipare; seentrambi vorranno investire in un “noi”, anche se fa paura; seentrambi saranno capaci di proteggere il “noi” e farlo diventarela dimensione nella quale condividere anche domani quello cheda soli ieri non avevano. Perché entrambi hanno sentito chequella è la dimensione in cui possono essere felici ed hanno ca-pito che solo attraverso la forza del “noi” potranno riuscire,probabilmente, a non pagare l’Irpef su quella felicità o, almeno,a posticiparne il pagamento. E’ forse questo l’“Amore”?

Il peccato originale di Dio“In primo luogo, persino l’intelligenza più rudimentale nonavrebbe alcuna difficoltà a comprendere che essere informatosarà sempre preferibile a ignorare, soprattutto in materie tantodelicate come lo sono queste del bene e del male, nel qualechiunque si mette a rischio, senza saperlo di una condannaeterna a un inferno che allora era ancora da inventare” (JosèSaramago - Caino; Ed. Feltrinelli). La conoscenza come strumento per non sbagliare o, comun-que, per sbagliare consapevolmente comprendendo le conse-guenze che dall’errore commesso deriveranno. E’ questo il pri-mo appunto che Saramago fa a Dio a proposito del “nefandocrimine di aver mangiato del frutto dell’albero della conoscen-za del bene e del male”: non aver reso edotti Adamo ed Eva cheun semplice atto, quale quello di mangiare una mela, avrebbemacchiato per sempre la loro discendenza di un peccato inde-lebile. E sono l’incomprensione e i fraintendimenti fra Dio e gliuomini che, secondo Saramago, caratterizzano la storia diquesti ultimi. Nelle pagine di “Caino” troviamo un’immaginedi un Dio molto diversa da quella che il catechismo, le liturgiee anche la cultura, domestica e non, ci hanno trasmesso. Maquesta immagine è poi così diversa da quella che ritroviamonella lettura de La Bibbia? Nel Libro della Genesi 3,14 - Castigoe Promessa – invero non incontriamo certamente il più com-prensivo dei Padri. Certo, stiamo parlando di una mera letturadel libro, non già di una lettura guidata o dell’interpretazionedelle Sacre Scritture. E non è certo questa la sede per voler e/o

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poter disquisire su, o men che meno interpretare, La Bibbia. In-vero, chi scrive intende prendere spunto da quello che affermaSaramago in merito all’ignoranza come uno dei fattori cheportano gli uomini a commettere errori – sin dal primo e piùgrave errore mai commesso – per esprimere qualche personaleconsiderazione sulla non conoscenza e, conseguentemente,sull’incomprensione e i fraintendimenti nei rapporti interper-sonali. Il non sapere, perché non si conosce, non si può cono-scere, si è ingannati, si fraintende, se nella cultura popolarespesso è considerato come un bene – “Occhio non vede, cuorenon duole” -, di fatto impedisce la comprensione di ciò che è epotrà essere e, conseguentemente, di trovare ed utilizzare glistrumenti per non sbagliare e/o per prevenire o correggere glierrori. Solo con la conoscenza si può comprendere; anche senon sempre la conoscenza comporta la comprensione né, tan-tomeno, la comprensione evita i fraintendimenti e gli errori.Sovente nell’interagire con gli altri non abbiamo una reale co-noscenza dell’essere cui ci relazioniamo che ci consenta dicomprendere le ragioni di certe affermazioni o di certi com-portamenti ed atteggiamenti. Tendiamo a considerarli e valu-tarli secondo quelli che sono i nostri parametri di riferimentoe di ragionamento, le nostre esperienze, le nostre convinzioni,le nostre esigenze e i nostri desideri, non conoscendo quelliche sono i percorsi mentali ed emotivi che, invece, portano l’al-tro a fare quelle affermazioni o tenere quei comportamenti edatteggiamenti. Eppure, sono tante le volte in cui erriamo nelvalutare e recepire ciò che l’altro voleva fare o dire. Di qui ifraintendimenti e le incomprensioni che possono rovinare irapporti umani ed allontanare gli uni dagli altri. Ciò non vuoldire che la conoscenza dell’altro ci eviterebbe di commettere imedesimi errori o di comprendere ciò che ci viene dagli altri.Non è dato a noi sapere, infatti, se avendo Adamo ed Eva co-nosciute le conseguenze del loro gesto, non avrebbero agitonello stesso identico modo. Tuttavia, la conoscenza di ciò chenon siamo, unitamente al desiderio di sapere e capire le ragio-ni che sottostanno a certe affermazioni, comportamenti o at-teggiamenti, forse potrebbero evitare tanti fraintendimenti.

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Un proposito buono per il nuovo anno che ognuno di noi do-vrebbe fare è quello di impegnarsi a stare più attento a ciò chegli altri dicono e fanno, ascoltare ed osservare, non solo con ipropri occhi e i propri orecchi, ma cercando di capire come glialtri vedono e sentono, e di chiedere, quando non si compren-de, le ragioni che sottostanno a quei comportamenti e atteg-giamenti che a noi appaiono errati. Magari, così, riusciremo adevitare che i fraintendimenti rovinino rapporti preziosi.

L’amore non carnale - Il linguaggio della parola “muta”Nelle mie lunghe giornate estive ho avuto il piacere di rileggere“Le lettere a Felice” di Franz Kafka (Ed. Mondadori – Coll. I Me-ridiani). Trattasi di un romanzo epistolare che raccoglie le let-tere d’amore scritte da Kafka fra il 1912 e il 1917 alla fidanzataFelice. Le numerose lettere racchiudono in sé una storiad’amore durata 5 anni: dal primo incontro, alle tormentose vi-cende del fidanzamento, sino alla fine della storia. Un amorenato da un solo incontro – che Kafka descrive minuziosamen-te, attimo per attimo, riuscendo quasi a renderci partecipi diquell’incontro – e alimentato da Kafka attraverso una seduzio-ne epistolare (60 lettere nei soli primi 4 mesi) dapprima timidae discreta e successivamente manifesta e intima. Un amore na-to, vissuto e finito quasi esclusivamente attraverso le parole“mute” affidate a numerosi fogli di carta (i due in cinque annisi erano incontrati solo pochissimi giorni). Un amore che uni-sce l’anima di due persone senza mai coinvolgerne la carne.Un amore, si potrebbe pensare, assolutamente anacronisticoin un’epoca in cui ogni pulsione amorosa attraversa il corpoprima – forse - di arrivare nell’anima. Eppure, uno sguardo piùattento ci rileva anche oggi una realtà in cui alla parola è anco-ra – o nuovamente – affidato il compito di traghettare le emo-zioni e i sentimenti da un’anima all’altra. E’ il mondo dellechat, dei social network, degli sms. Senza entrare nel meritodelle ragioni psico/sociologiche per cui detti strumenti di co-municazione hanno acquisito così tanto spazio nella vita ditanti, è un fatto che sempre più spesso si sceglie il linguaggiodella parola “muta” per emozionarsi ed emozionare. Quante

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anime si saranno incontrate sul web senza che i corpi si sianomai conosciuti? Quante storie di amore saranno disperse nel-l’etere? La lettera d’amore, quella con cui Kafka esprimeva ilsuo amore a Felice, ha oggi la foggia di una e-mail o di un sms.“Raccontare” se stessi ed i propri desideri, “esprimere” i proprisentimenti e le emozioni attraverso le parole scritte è certa-mente più facile. Le parole possono sedurre, possono confon-dere, possono aprire dei varchi nelle chiusure emozionali, pos-sono portare nuova acqua nei deserti sentimentali. Ma nonsempre le parole – soprattutto se “mute” - comunicano la re-altà. E non solo perché spesso attraverso le parole si raccontaun “io” che non è, bensì la proiezione di quello che si vorrebbeessere, o si esprimono sentimenti che esistono solo in quanto“parola”. Quante volte le parole comunicate arriverebbero al-l’udito di chi le ascolta con un significato diverso se solo fosse-ro accompagnate dall’emozione della voce che le esprime o sesi potesse guardare negli occhi chi le pronuncia? E’ fuor di dub-bio che attraverso la parola “muta” nei secoli sono state elabo-rate e tramandate le rappresentazioni più poetiche dei senti-menti e delle emozioni regalando loro l’immortalità. Ma può laparola – soprattutto “muta” - comunicare e trasmettere adun’altra anima i sentimenti e le emozioni al pari e con la stessaintensità di uno sguardo o un semplice contatto fisico? Quanteparole sono necessarie per tentare solo di descrivere le sensa-zioni che si possono provare per un semplice abbraccio?

La vita è una favolosa rottura di coglioniTony Pagoda, il protagonista del libro di Paolo Sorrentino“Hanno tutti ragione” (Ed. Feltrinelli), sostiene che “La vita èuna favolosa rottura di coglioni. Ma su cosa dobbiamo concen-trarci? Sulla rottura di coglioni? O sul favoloso?”D’istinto risponderemmo tutti “sul favoloso”, ma nella realtàle scelte che giorno dopo giorno ognuno di noi effettua miranoeffettivamente a raggiungere “il favoloso”? O “il favoloso” loreleghiamo a mero ricordo di un momento passato della no-stra vita che non ci appartiene più o, ancora, lo collochiamo inuna sorta di limbo da cui confidiamo che prima o poi verrà

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fuori per sconvolgere il nostro futuro? Chi di noi non ha, alme-no una volta, chiuso gli occhi sognando di vivere una favola?Nell’infanzia la favola che ci veniva racconta ci trasportava inmondi lontani e meravigliosi dove i principi e le principesse vi-vevano per sempre felici, dove i desideri diventavano realtà edove il cattivo veniva sempre sopraffatto dal buono; da adole-scenti, nella favola che ci raccontavamo da soli, diventavamonoi i principi e le principesse che avrebbero voluto vivere persempre felici, sognavamo che i nostri desideri si sarebbero rea-lizzati e che avremmo vissuto in un mondo in cui il bene nonsarebbe sempre stato sopraffatto dal male. E poi? Persa la ca-pacità di vivere le favole siamo diventati anche incapaci di de-siderare “il favoloso”? Certamente gli anni vissuti ci portanosempre più spesso a pensare che “tranquillo” e “favoloso” sia-no sinonimi. Il che, in alcune situazioni, può essere anche vero.Ma ciò accade solo quando un momento di tranquillità è vis-suto con quella leggerezza razionale e profondità emozionaleche è propria degli animi sognatori. Ma non confondiamo il vi-vere tranquillo della quotidianità con il “vissero felici” delle fa-vole. La felicità, intesa come quel momento di straordinaria in-tensità e, nel contempo, di fugace durata, può certamente tro-vare ingresso in una vita tranquilla ma è proprio in quel mo-mento di felicità che sparisce la tranquillità. C’è chi preferisce,senza se e senza ma, la tranquillità come leitmotiv della pro-pria esistenza anche se ciò comporta la rinuncia, anche defini-tiva, della ricerca della felicità, e l’incapacità di provare sincerepassioni (sono, come li definisce Pagoda, “… quelli che si met-tono comodi. E appassiscono ... I comodi si adagiano sulla rot-tura di coglioni. Li rassicura. Come il telegiornale alle otto”).C’è chi, come Tony Pagoda decide di rinunciare, tout court, aduna vita tranquilla, per andare alla ricerca spasmodica di tantimomenti intensi quanto fugaci di felicità, ai quali, però, diven-ta assuefatto come alla cocaina. C’è anche chi, come quei Paoloe Francesca che Dante colloca nel girone dei lussuriosi, decidedi sacrificare in nome di un solo momento di felicità, la pro-pria esistenza. Allora su cosa dobbiamo concentrarci? Sullarottura di coglioni? O sul favoloso? Forse dovremmo, sempli-

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cemente, far si che la nostra vita, sia pur tranquilla [o come ladefinisce Tony Pagoda “… semplice (che non significa banale,tutt’altro)”] non diventi una rottura di coglioni e, soprattutto,non rinunciare mai a cercare dei momenti favolosi da cui la-sciare stravolgere quella tranquillità che abbiamo conquistato.E non importa se il momento favoloso sconvolgerà solo il no-stro mondo interiore senza necessariamente coinvolgere laquotidianità. L’importante è mantenere viva sempre e comun-que la capacità di farsi emozionare dalla favola. Perchè, se co-me dice il Maestro Mimmo Repetto, idolo di Pagoda, l’unica co-sa importante è la “sfumatura”, allora bisogna chiedersi se unavita serena e tranquilla ma senza sfumature emozionali sia omeno una vita realmente vissuta.

L’incontro tra due essenze ovvero l’affinità non carnale“…Un incontro, a stretto rigor di termini è una coincidenza, ilche non significa, è chiaro, che tutte le coincidenze debbano es-sere incontri” (Josè Saramago – Il Vangelo secondo Gesù Cristo;Ed. Universale Economica Feltrinelli) Nel corso della vita le coincidenze ci portano ad incrociare unnumero indeterminato di persone. Alcune le ignoriamo, altreci soffermiamo a guardarle ma non riusciamo a vederle, altreancora entrano a far parte della nostra esistenza, per un atti-mo o per anni. La loro vita incontra la nostra. Fra le varie viteche incontriamo ce ne sono talune che sin dal primo istantepercepiamo simili e nei confronti delle quali proviamo imme-diatamente un’attrazione, una vicinanza, istintiva. Sono quelleche Goethe definiva le nature “affini”. Altre, invece, che sentia-mo assolutamente diverse e lontane al nostro io e che altret-tanto istintivamente respingiamo. Con queste ultime è proba-bile che rimarremo estranee. Ci sono corpi “che stringono pre-sto relazione e si uniscono senza alterarsi l’un l’latro: come il vi-no si mescola all’acqua. Ora invece si manterranno estraneil’un l’altro e nemmeno la mescolanza e l’attrito meccanico var-ranno a fonderli insieme: così come l’olio e l’acqua, sbattuti in-sieme, dopo un attimo si tornano a separare” (Johann WolfangGoethe – Le affinità elettive; Ed. Fabbri Editori).

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Eppure, può capitare che una mera coincidenza determini unincontro fra due esseri opposti, che forse proprio perché op-posti e nonostante la presenza di altri esseri simili, incontran-dosi si attraggono, si scelgono, si avvincono, si abbandonanoe si legano modificandosi per formare un’entità nuova. Che co-s’è, però, quel quid che causa l’attrazione, l’affinità, fra due op-posti? Goethe lo identificava negli elementi mediatori checombinano ciò che reciprocamente si respinge: le leggi, la mo-rale, le sostanze chimiche, ecc. Ma in un rapporto fra un uomoed una donna che per una coincidenza si incontrano e, seppuropposti o, quantomeno, diversi, si attraggono, in che cosa sipuò identificare l’elemento mediatore? L’attrazione fisica o,meglio, la passione, è l’elemento che più frequentemente spin-ge due esseri a cercarsi, a confondersi fino a perdersi l’uno nelcorpo dell’altro. E’ il desiderio di possedersi, di dare e attingerepiacere che determinerà il legame. I corpi saranno lo strumen-to per vivere l’incontro. E ciò anche quando i due esseri hannoun io che razionalmente non potrà mai incontrarsi e compe-netrarsi. Consumata la passione finirà l’incontro. Ma può ac-cadere che due esseri, seppur diversi, nonostante istintiva-mente e talvolta anche razionalmente si respingano, non pos-sano fare a meno di cercarsi. E non per attrazione o piacere fi-sici. Non è la ricerca di un corpo. Il corpo sarà solo lo strumen-to attraverso il quale i due esseri creeranno il primo contatto.Gli occhi, le mani, la bocca, la pelle, l’odore serviranno solo co-me veicoli per unire l’essenza dei due esseri, ciò che si cela sot-to le sovrastrutture che il percorso delle due vite ha creato suciò che naturalmente è del tutto simile. L’essenza si riconosce-rà, comunicherà, si unirà, si confonderà e si perderà in una di-mensione astratta, avulsa e lontana dalla realtà delle due vite,che diversamente continueranno a respingersi. Le parole e igesti non serviranno per mantenere unite le due essenze, anzi,spesso saranno utilizzate per separarle. Sarà una lotta conti-nua fra ciò che l’essere “è” e ciò che “è diventato”, finché l’unonon si arrenderà all’altro. Certamente la razionalità aiuterà ciòche l’essere “è diventato” a prevalere sulla parte più nuda edindifesa dell’io, l’ essenza. Tuttavia se ciò che l’essere “è diven-

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tato” realizzasse quanto siano rare le coincidenze che deter-minano l’incontro con altre essenze simili, si spoglierebbe im-mediatamente delle sovrastrutture inutili, mettendo a tacerela razionalità e dimenticando le parole, i gesti, gli atteggiamen-ti che gli derivano da altre coincidenze e altri incontri, per ab-bandonarsi totalmente a ciò che “è” per diventare un’entitànuova con un'altra essenza.

Ho perso le mutande… ma solo quelle di cotoneLe cerco disperatamente ma non le trovo. Non so come siapossibile che le abbia perse, erano riposte nel cassetto del-l’armadio. Eppure ora non ci sono più. Sono sparite tutte.Ma non tutte tutte, solo le mutande di cotone. Che scioccadonna, era solo un sogno!!! Cerco di riaddormentarmi, ma-gari nel sogno successivo ritrovo la mutande. E’ mattino enon ricordo altri sogni. Le mutande sono tutte al loro posto.Dentro di me è rimasta una sensazione di smarrimento e dicuriosità. Qualcosa mi dice che quello della scorsa nottenon era un sogno qualsiasi. Perdere le mutande e, soprattut-to, perdere solo una ben precisa tipologia di mutande, cosavorrà significare? Consulto la Smorfia. Perdere le mutande:perderai tutto (numero della cabala 9 - che, peraltro, consi-dero anche il mio numero fortunato); mutande pulite: co-scienza tranquilla (45); mutande da donna: desiderio ses-suale (22). E quindi? che conclusioni trarne? sto perdendola coscienza tranquilla o il desiderio sessuale? Forse dovreilimitarmi a giocare questi numeri al lotto, magari… Le orepassano, ma il sogno continua ad incuriosirmi. Ne parlo congli amici. Qualcuno mi dice che perdere le mutande significaperdere la dignità. Mi chiedo: “Ma se io ho perso solo le mu-tande di cotone e non quelle di pizzo o quelle di lycra, hoperso solo una parte di dignità? solo quella di più bassoprofilo?” Mi viene anche suggerito che forse, consideratoche ho sognato di perdere solo le mutande di cotone, incon-sciamente penso che sia arrivato il momento di dismetterleed incominciare ad usare quelle meno comode, ma tantopiù sexy, di pizzo. Consulto internet, altra interpretazione:

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“Ti vergogni di qualcosa e questo qualcosa è simboleggiatodalla perdita delle mutande. Perché i vestiti nei sogni sonole maschere che portiamo nella vita, quindi quei costruttisociali che ci fanno apparire ma non mostrano quello chesiamo veramente. Le mutande poi sono un indumento inti-mo che rappresenta la protezione più forte, la maschera piùforte di una donna, che non vuole mostrarsi completamenteal pubblico, che nasconde la sua bellezza ed intimità soloper chi ama veramente. Quindi hai timore che questa ricercadi una stabilità sociale ti possa portare a perdere l'intimità,quelle maschere che hai costruito per socializzare con gli al-tri”. Bah! Eppure, sono sicura che quel sogno qualcosa na-sconde, deve significare qualcosa. Mutande… perdere lemutande di cotone… Se “mutanda” etimologicamente signi-fica “da cambiare”, se il cotone rappresenta qualcosa di na-turale, forse il mio inconscio mi vuole comunicare che stocambiando e perdendo la mia “naturalezza”? oppure, con-siderato che nel sogno cercavo disperatamente le mutandeperse, che ho già subito dei cambiamenti che non accetto e,pertanto, vado alla ricerca della parte di me più semplice enaturale? Ma che idiozie dico!? E se, invece, quello che ricor-do è solo una parte del sogno? Magari c’era dell’altro nel so-gno che il risveglio ha rimosso nella memoria e, dunque, laperdita delle mutande era solo un episodio marginale diuna situazione più complessa. Torno a casa, apro il casset-to, contemplo le mutande. Ne manca qualcuna? Come faccioa saperlo, non le ho mai contate. Allora penso: “Se ne perdoqualcuna come faccio ad accorgemene?” Chissà quante neho perse negli anni e non l’ho mai notato. Forse, allora, nonsono così importanti!? E poi, mi dico, se anche le perdessitutte le potrei ricomprare o usarne di altro tipo. Magari èquesta l’occasione per comprarne di più belle. Fra un po’ èil mio compleanno, potrei fare la lista delle mutande da far-mi regalare. E se invece di continuare a perdere tempo apensare alle mutande, che peraltro non ho perso, facessi al-tro? Esco. Il mio pensiero ritorna al sogno. Ormai è un incu-bo!!! Cerco di distrarmi. E’ inutile. Torno a casa, apro il cas-

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setto, prendo tutte le mutande di cotone, le metto in un sac-chetto, le poggio vicino alla spazzatura. Le butto, così nonpotrò più avere paura di perderle. Faccio altro, non devo piùpensare alle mutande. Ritorno indietro, il sacchetto è lì, loriprendo. Non posso buttare le mie mutande, le perderei persempre. Sono di nuovo al loro posto, sono belle da vederetutte insieme. Vorrei immortalarle in una foto, così se leperdo mi rimarrà un loro ricordo. Oddio, incomincio a fareconfusione fra sogno e realtà!!! Ci manca poco che mi mettoa colloquiare con le mutande. Non sarà che mi sto facendocondizionare dalle elucubrazioni oniriche di Schnitzler? Ri-chiudo il cassetto. E’ tardi, ho trascorso la giornata pensan-do al sogno e alle mutande e non mi sono accorta che è sce-sa la notte. Non ho neppure cenato per pensare alla mutan-de. Mi sono smarrita. Vado a dormire. Chissà cosa succede-rà questa notte!? Brucia! Mi sono addormentata sotto il sole.E’ la birra a pranzo che fa quest’effetto. Forse è il caso chemi butti in acqua per rinfrescarmi. Mi soffermo un attimo,mi guardo intorno … quella che mi circonda è gente in mu-tande!? Basta!!! [“Nessun sogno è soltanto un sogno!” (Dop-pio sogno - Arthur Schnitzler)]

L’insostenibile leggerezza dell’essere zitella“Amare, sacrificarsi e soccombere! questo è il destino suo eforse di tutte le donne? … Ero pervenuta al sofisma di tantedonne che conciliavano l’amore dei figli colla menzogna ma-ritale? Il mio spirito si raffigurava un avvenire di viltà felicefra le gioie materne e gli amplessi dell’amante?” (Sibilla Ale-ramo, Una Donna; Ed. Universale Economica Feltrinelli).“Quanti anni hai?” “42” “E sei sposata? “No” “Hai figli?”“No”. Abracadabra!!! I due “no” trasformano in un attimo ladonna che ha osato rispondere negativamente in un essereminus habens. Già, perché se sei “una quarantenne”, non seisposata e, soprattutto, non hai figli, appartieni ad un’altrarealtà, ad una dimensione popolata da esseri la cui vita è de-stinata all’infelicità perenne perché “mancante” di quel va-lore aggiunto che è il matrimonio e/o la procreazione. E non

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importa se nella tua vita hai avuto relazioni di durata piùlunga di quella che mediamente ha un matrimonio. Né han-no rilevanza alcuna le ragioni per cui un figlio non è statoda te concepito. Sei “mancante”! Ma non c’era stato il fem-minismo? L’emancipazione femminile? L’autodeteminazio-ne e l’imposizione della donna in quanto tale e non solo co-me moglie e madre? Allora perché ancora oggi una donna èconsiderata come un essere destinato all’infelicità se ha su-perato i quarant’anni senza marito o figli? Sarà, forse, per-ché quella donna che incarna ancora, nell’immaginario so-prattutto femminile, uno status sociale che ha condizionatonegativamente, nei decenni passati, la vita di intere genera-zioni femminili. L’emancipazione femminile ha trasformatola nubile in “single”. L’essere “single” ha reso fantastica emeravigliosa quella fascia di età, dai 30 ai 40 anni, che perle generazioni femminili precedenti rappresentava, invece,il trapasso, in assenza di coniugio, dalla condizione di nu-bile a quella di “zitella”. Ma parliamoci chiaro e chiamiamole cose con il loro nome, oggi puoi chiamarti o essere chia-mata “single” sino al compimento dei cento anni. Di fatto,però, se hai passato i quarant’anni, non sei sposata o, co-munque, convivente e non hai neppure figli, il termine “sin-gle” assume lo stesso significato che una volta aveva il ter-mine “zitella” (parola, peraltro, meravigliosa!!!). Ed è forseper questo che gli occhi di chi considera “mancante” unadonna solo perché a quarant’anni è solo ancora “donna” so-no quasi sempre quelli di altre quarantenni che hanno scon-giurato la possibilità di diventare zitelle abbandonando lavita da “donna single” in prossimità dei quarant’anni. Sonoloro che si sentono donne “migliori” solo perché mogli (oanche solo ex mogli) e madri e a prescindere dai loro suc-cessi come donne, mogli o madri. Che avendo deciso di“completarsi” diventando mogli ma, soprattutto, madri nonriescono più a concepire che ci si può sentire completi an-che facendo scelte e vivendo vite diverse dalle loro; che noncomprendono che non essere moglie e/o madre non privaassolutamente la donna della possibilità di essere felice; che

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una donna può essere felice avendo accanto un “uomo” an-che se non è marito; che ci sono donne che vivono bene an-che se un figlio lo volevano ma non sono riuscite a procre-arlo o, addirittura, che vivono meglio pensando di non averprocreato un figlio che avrebbe sofferto per gli errori proprio di un padre sbagliato; che ci sono donne che non potreb-bero mai sopportare i sacrifici che l’essere moglie e madrerichiede; che ci sono donne che non potrebbero mai accet-tare l’ipocrisia e la monotonia che alcune volte caratterizzala vita coniugale; che per alcune donne è proprio la libertàda qualsivoglia vincolo coniugale o filiale che può costituirefonte di felicità. Che non sanno che esiste una insostenibileleggerezza dell’essere zitella che ti fa godere del privilegiodi essere donna anche se accanto non hai né un marito néun figlio.

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Il mio paese sapeva di buonoNell’aria si mescolavano senza darsi fastidio profumi di tutti itipi. Per Pasqua l’odore forte delle pizze di formaggio si alterna-va al profumo leggero della vaniglia, dei canditi, dell’uvetta diquelle dolci. Le donne passavano dritte per i vicoli, orgogliose,sotto il peso di lunghe tavole di legno, attraversavano il paese esopra, civettuole, facevano l’occhiolino le pizze, appena coperteda candidi panni bianchi, tutte da cuocere al forno di Galileo.Davanti a quel piccolo forno sulla discesa di Santa Margheritaera tutto un fervore... devo infornare io - no tocca a me! - sonoarrivata prima!... ed erano veri drammi quando il povero Galileo,il fornaio, aihmé, sbagliava i tempi o la temperatura e le brucia-va tutte, le pizze. E ricordo che succedeva... succedeva. C’erranole pizze della sora Totina, le pizze della signora Onella e c’eranole pizze della zia Melania (e più buone!). Per San Niccolò le mo-nache del Monte preparavano dei biscotti buonissimi ricopertidi zucchero, erano a forma di asinello, di casetta, di albero diNatale, di san Niccolò, ecc., li mangiavamo la mattina con il latteche tutte le sere portava il lattaio. Il lattaio veniva a bussare a ca-sa la sera, veniva in bicicletta con la sua giacca bianca, un grandecontenitore di latta argentata e legati con delle catenelle 2 o 3bicchieri dosatori sempre di latta argentata. Si sentiva da lonta-no che arrivava per il tintinnio del contenitore e dei bicchieri. Siscendeva in strada con il tegame in mano e lui versava il latteprofumato. A novembre il corso del paese sapeva tutto di buo-no, erano le castagne arrosto di Zuara, la fruttivendola del paeseche aveva sempre un sorriso e una parola per tutti e profumavadi castagne arrosto, 7-8 in un cartoccio di carta paia, ed era su-bito festa. Miaccio - Miacioooooo callo callo! Era il macellaio sul-la porta della bottega avvisava tutti a squarciagola: era cotto ilmiaccio. Sempre in cartocci di carta paia vendeva sangue di ma-iale cotto e condito con zucchero, uvetta, pinoli... che buono cheera! A settembre-ottobre un forte odore di mosto avvolgeva tut-to il paese, nei vicoli erano tante le piccole cantine dove si pres-sava l’uva. Arrivava (l’uva) su carretti tirati da asini pigri o dacandidi buoi, arrivava dalla campagna che tutta intorno abbrac-ciava Bevagna. Ma per le strade, nei vicoli, si sentiva anche sem-

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pre forte l’odore delle stalle dei maiali, dei somari, dei polli. Dal-le porte socchiuse uscivano caldi e morbidi i profumi delle zup-pe, dagli usci si intravedevano piccoli fuochi accesi sotto pento-le di coccio, lì bollivano fagioli, ceci, cicerchie, spesso unico pa-sto di tutta una giornata. La gente degli anni cinquanta era po-vera, prevalentemente povera, in questo piccolo paese di pianu-ra immerso nella nebbia d’inverno e affogato dalla calura d’esta-te, ma dignitosa e onesta e… se chiudo gli occhi… sento conprofonda nostalgia che profumava proprio di buono.

In dueSto cercando una casa nuova... la mia l’ha spazzata via l’uragano…

Tra le sue macerie cerco me stessa e non mi ritrovo…

Diversa, impaurita e spaesata insieme.

Per quaranta anni… ho camminato insieme a lui, per lui, a volte con-

tro di lui… ma sempre insieme.

A volte lo ami il tuo compagno, in altri momenti lo sopporti, in altri

non puoi fare a meno di lui,

in altri… in altri… e via via, come un fiume che attraversa pianure

verdi, rapide turbolente,

anfratti nascosti…

Così è la vita in due… ma condivisa sempre nel bene e nel male,

Così è stata la nostra…

Oggi da sola non mi riconosco e cerco appigli per vivere, sopravvive-

re e soprattutto ricominciare a vivere:

I figli, i nipoti,

Gli amici… pochi, i fratelli… uno…

E la mia barca va in questo mare in burrasca, ogni giorno faticosa-

mente, finché viene sera…

Ed io stanca di remare… mi addormento

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Elenco di una vita universitaria del XXI secolo1. Essere pronti a lasciare la propria terra, i genitori, gli amici,anche i futili amori adolescenziali per inseguire la paura di unfuturo che non c'è o forse solo l'incoscienza dei propri sogni; 2.Mettersi in coda armati di foglio e penna per vagliare gli annuncipiù convenienti riguardo alle stanze da affittare. Telefonare,prendere un appuntamento e accorgersi solo dopo che in unacasa di 50 mq si vive in quattro, i muri hanno le crepe, il riscal-damento non funziona, l'acqua è fredda a giorni dispari e l'af-fitto è in nero; 3. Lavorare fino alle 5 di mattina al pub, in disco-teca guadagnando 5 euro l'ora o alzarsi per lavorare alle 5 dimattina consegnando volantini per 30 euro al giorno, e poi an-dare a lezione con gli occhi cerchiati di nero ed essere accusatidi fare uso di sostanze stupefacenti e di essere una generazionebruciata e irriconoscente; 4. Addormentarsi sui libri mentre fuo-ri piove e l'odore del caffè e delle sigarette irrora il tugurio chemi ostino a chiamare casa e a nascondere alla vista dei miei ge-nitori per non farli vergognare di avere una figlia studentessauniversitaria che si ostina a vivere in un luogo come questo; 5.Fare la coda per due, tre, cinque ore davanti all'ufficio del pro-fessore e poi sentirsi dire dal personale dell'università che il do-cente non si presenterà a ricevimento: ha un impegno di lavoro;6. Aspettare l'autobus sempre in ritardo sotto la pioggia o cor-rere per non perdere l'autobus dopo l'ultima lezione delle ottodi sera perché sennò poi si torna a piedi a casa. Sotto la pioggia.E nonostante tutto vedersi i biglietti dell'autobus aumentati del50%; 7. Elemosinare un pasto a mensa e chiedersi se i rifiuti ita-liani abbiano, nelle cucine di queste sedi, trovato un nuovo al-loggio; 8. Essere derisi dai compagni che hanno lasciato gli studiperché ora vivi come una pezzente fuori di casa e loro hanno unmisero lavoro. Essere derisi dai padroni delle case dove vivi per-ché hai gli abiti bucati ma paghi regolarmente l'affitto. Esserederisi dai datori di lavoro perché se ti chiedono di fare il doppioturno abbassi la testa e non apri bocca. Essere derisi dagli amiciquando invii l'ennesimo curriculum che non avrà che una rispo-sta: il silenzio. Essere derisi da quelli che non credevano in te eti ritrovano a fare il commesso al supermercato perché ti ostini

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a inseguire i tuoi sogni. Essere derisi quando provi a fare unconcorso qualunque esso sia. Essere derisi quando dici di avere20 anni e di non voler fare né il medico né l'attore né l'avvocato.Essere derisi da se stessi quando la sera si fissa il soffitto e ci siritrova a pensare; 9. Voglio cambiare il mio Paese inseguendo imiei sogni. Non voglio più essere considerata un'eroina comeeroi sono Falcone, Borsellino, Impastato, se scelgo di farlo. Nonvoglio essere più l'unica a urlare nel silenzio, ma voglio che lamia voce si confonda con migliaia di altre diverse voci.

La finestra sul ponte generazionaleE' un'altra umida mattina. Le mie ossa sembrano avere 80 annio poco più. Di certo dormire sulla scrivania avendo come cusci-no le pagine 41 e 42 delle “Epistulae ex Ponto” di Ovidio, non èil massimo del comfort. Niente a che vedere con le televenditedei materassi. Sì quelle che riciclano i personaggi spazzaturadella tv. Abito molto lontano da qui. Talmente tanto che nonsento più l'odore di caffè appena fatto da mia madre alle 7 dimattina o i passi già stanchi di mio padre che va al lavoro in fab-brica. L'angosciante paura del domani a volte si fa opprimente.Che farò? Chi sarò? Ma soprattutto..quando sarà il mio futuro?La mia storia è quella di tanti altri, dei giovani che scappano dal-la provincia per rincorrere sogni e aspettative, per cambiare lastoria familiare, per “elevarsi” al di sopra di un ceto sociale dimedie ambizioni. L'università. Già. Sono una studentessa uni-versitaria con disturbo bipolare della personalità. Di giorno stu-dio, di notte lavoro. Dottor Jekyll and Mister Hide. No, no, nonquel tipo di lavoro che credete voi. Non c'entrano niente marcia-piedi o quant'altro. Cameriera in un pub per 5 euro l'ora. Et voi-là. L'affitto è pagato. 250 euro al mese per una stanza (speseescluse), e passa la paura. Perchè la scalata verso il futuro è du-ra. Ma soprattutto costa. Come tutto in Italia, d'altronde. Anda-telo a dire ai politici che vendono il loro didietro per un posto eun po' di euro mensili, andatelo a dire ai furbi delle aziende cheti fanno entrare se fai la tesserina magica per questo o quel par-tito, per questo o quel sindacato. Test d'ingresso alle facoltà de-gli svariati atenei. Devo aggiungere qualcosa? Oh si forse una

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nota in inglese poiché i nostri cugini europei poco capirebbero.Quanto astio, quanta rabbia. Ci vuole un Malox per digerire unarticolo così. Pensate a viverlo. Che vuol dire essere poco piùche ventenni nell'italica nazione del 2010? Non saprei. Cioè nonsaprei da dove cominciare. Il fatto è che tu parti motivato, vera-mente. A 20 anni lasci tutto, la tua famiglia, i tuoi amici, gli amo-ri talvolta, sacrifichi tutta la tua vita di adolescente bambino eparti. Ti senti un po' nonno emigrante a cercar fortuna. La primavolta che metti piede in una università ti rendi conto che sei fot-tuto. Che non c'è speranza. Se anche lotterai e sgomiterai e ur-lerai più forte, nessuno correrà a soccorrerti. A meno che non tiasciughi le lacrime con dei bigliettoni verdi. Sei figlia di un ope-raio? Peggio per te. E in più sei anche poco attraente? Allora tor-natene in fabbrichetta a fare l' “operaia” silenziosa che si buscai suoi bei 1000 euro tondi tondi, che va a casa a vedere i realityshow sognando la svolta della sua vita, che si gioca tutto all'ena-lotto e ai gratta e vinci, e chiama le trasmissioni dei pacchi perpartecipare come concorrente. Meglio di così, che altro si puòsognare? Oh si un cellulare di ultimissima generazione e una va-canza pagata con il mutuo a Porto Cervo o che so io al Billionai-re. Da soli non ce la si può fare. Eppure. Eppure eccomi qua. Ap-pena sveglia dopo una notte di studio dopo una serata di lavoro.Fa freddo e mi infilerò il giubbotto di pelle per andare a lezionestamattina. Darò un saluto veloce alla mia coinquilina e scappe-rò a perdere l'autobus. Le scarpe mi si slacceranno a metà stra-da e quando entrerò il professore si interromperà un attimo edovrò sedermi per terra perchè non ci sono abbastanza postiper seguire le lezioni seduti. Oh accidenti. Che futuro posso ave-re? Uno di cui sarò orgogliosa comunque vada. Uno in cui mi ri-corderò di oggi, ieri e domani. Del freddo, del caldo, dell'auto-bus puzzolente, del cibo del discount, degli abiti comprati allesvendite. Dei 5 euro guadagnati ogni ora di lavoro, dei calli allemani, del mal di schiena. Della profonda ingiustizia che regnanella società verso i giovani. Io voglio lottare e fallire e non rin-graziare. Anzi, qualcuno voglio ringraziare. Ringrazio tutte lemamme e i papà, che come i miei, fanno sacrifici e buchi in piùalla cintura, per far studiare i figli all'università. Ringrazio quelli

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che come me credono ancora che questa nazione possa cambia-re e faranno di tutto per toglierla dagli artigli dell'avvoltoio ma-nierismo politico.

The polITicALY 2010. Le strade restano intasate d'auto, e il cielo leggermentevelato di grigio. E' un'altra lunga giornata in Italia. E a ventidueanni sono molte le cose da fare, troppi i sogni da inseguire, inquesto Paese di vecchi. Già. Di vecchi. Sembra non esserci postoper qualcosa che profumi di giovinezza, di ribellione, di vogliadi cambiare. La classe politica di questa, ormai rinominata, Se-conda Repubblica è la pallida e sgualcita immagine di questoostile sentimento contrario al nuovo. Le poltrone sembrano in-collarsi ai fondoschiena di deputati per niente onorevoli, chenon hanno alcun senso della res publica e l'unica legge che co-noscono è quella dei nove zeri ad ogni costo. Favori, scambi-smo, furbate. Prendere in giro la gente che sputa sangue perquattro soldi al mese e da essa essere osannati. Nessuna pauradei sentimenti di rabbia. C'è la televisione e il suo mondo doratoa calmare gli animi. La tv con i suoi amarcord musicali del ve-nerdì sera e i suoi irreality show che fanno sognare non il dirittoa chiedere uno Stato migliore, ma la botta di culo che può cam-biarti la vita. La tua. Per quella degli altri si vedrà. Che si arran-gino. Questo hanno creato i nostri politicanti. Nessun valore daconsegnare ai posteri prossimi. E se gli chiedete che fine ha fattoil nostro futuro, sono sicura che subito risponderanno: “Ma co-me? Non lo sai? E' lì in fondo a destra”. Esatto. Come i wc. Se nevola via la cenere dell'ultima sigaretta poggiata nel posacenereal primo vento di maggio. Domani è un altro giorno.

Il coraggio di essere coinvoltiNon è facile essere se stessi sempre e comunque... Lo so bene ioche ho una famiglia e dei figli. Ti alzi la mattina, in questa cittàdove tutto conosce tutti e tutti conoscono tutto, e pensi a farfinta di niente, a evitare gli specchi perché a guardarsi negli oc-chi ci si fa comunque un po’ schifo. Pensare che non sta succe-dendo niente. Non pensare che mi hanno strappato via un lavo-

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ro che io mi sono sudato e nessuna tessera partitica o sindacalerappresenta il sudore che ho versato Non pensare a quandostringevo i denti e mi mordevo le labbra e subivo le umiliazioniin silenzio per non essere licenziato e andavo a lavorare nei peg-gio posti della catena di montaggio, a spaccarmi le braccia purdi mantenere quello che era il mio presente e il futuro della miafamiglia. Adesso che vedo qualcun altro lottare anche per me,abbasso lo sguardo e cammino veloce pensando a quanto, aquanto vorrei essere lì pure io... Perché non ci sono? Perché hopaura di essere coinvolto? Perché non sta succedendo niente, lefabbriche riapriranno, le umiliazioni torneranno e io...non possoniente contro tutto questo. Chiedo scusa a tutti i ragazzi chehanno l'età dei miei figli, vent'anni o poco più. La mia genera-zione è una generazione vigliacca, che pur di avere soldi e pote-re la dignità l'ha buttata via, l'ha dimenticata, l'ha rimossa. Manon solo quella, anche l'identità...Si l'identità, perché io non sopiù chi sono, mi sento solo uno dei tanti. Come una goccia delmare, per capirci. Eppure qualcuno lotta anche per me. Scusa-temi tutti, pure voi che gridate con la mia voce anche per contomio, se stasera non sono lì a ridere o piangere insieme, a scrive-re messaggi, volantini, a fare il punto della situazione. Ma nonsta succedendo niente, e chi sono io per compromettermi così?Per sfidare questo sistema? Le fabbriche riapriranno e io torne-rò a essere umiliato. Voi forse no. Io tornerò a essere umiliato,voi no. Come sempre. Andate avanti. Non mollate.

Lacrime e sangueC'era un tempo la speranza di un mondo migliore, di una socie-tà più giusta. Per tutti. C'era un tempo il lavoro, lo stipendio, idiritti. C'erano un tempo i sogni di una famiglia da costruire,una casa in cui invecchiare, un'auto per correre verso il mare.Dice il famoso passo della Bibbia che c'è un tempo per ogni co-sa. Da oggi infatti le cose cambiano. Ora è il tempo dei pianti,delle urla, della disperazione perché è troppa la nebbia che na-sconde l'orizzonte di un domani. Il lavoro. Quale lavoro? Colpadella crisi? Troppo comodo. Troppo facile. Il lavoro, l'occupa-zione non esistono più. Da questo momento si chiamano ele-

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mosina. E lo stipendio? E' solo parte di quest'obolo, una gentileconcessione fatta da filantropi che già si prodigano nel dare unsenso alla vita delle persone normali come noi. Di quelle insi-gnificanti come noi. Di quelle che se muoiono sono un numero,come noi. I diritti sono solo pretese. I diritti sono solo retaggidel passato, frutto di un modo di parlare e di concepire la realtàviziato dagli anni di piombo. Guai a usare questi termini. Guaia usare questo linguaggio. Guai solo a pensarlo. Signori miei, lospettacolo è finito. Chi avrà il coraggio di cambiare questa real-tà? Io ormai scrivo queste poche righe, non avendo più fiduciain niente e nessuno. Eppure ho solo 23 anni. E non ho visto nien-te. Ma ho conosciuto bene l'umiliazione di essere una studen-tessa universitaria che cerca casa fuori sede, che cerca un lavoroonesto retribuito in maniera onesta. Questo è l'ultimo articoloche parlerà dell'attuale situazione del nostro Paese. Non intendoproseguire oltre. A cosa serve se nessuno vuol capire? Mirafiori.Questa è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Che mi ha fat-to capire che ormai c'è poco da fare. Che questa società noncambia, non cambia. E loro, i politici, non la cambiano. Mi sem-bra di fare un'orribile citazione al discorso della vedova di VitoSchifani. Mirafiori. Ogni parola di un politico, mi sembrava unaviolenza alla mia vita. Io figlia di un operaio. Li avete sentiti par-lare i nostri “onorevoli”? Ma come possiamo ancora essere cosìciechi di fronte a tutto questo? Dobbiamo pretendere di più!Moriamo per soli 1200 euro al mese, quando va bene. Oppuremoriamo di fame lavorando in nero per cercare di mettere in-sieme il pranzo con la cena. E lasciamo che ci prendano in giro,che ci umilino. Eppure non si può alzare la voce. Perché se si al-za siamo violenti. Terroristi. Figli degli antichi ideali. Comunisti.Come finiremo? Che ne sarà di noi?

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La distilleria minore dello zuccherificioPassavo in auto e come tante altre volte ho gettato unosguardo alla mia destra per guardare lo zuccherificio, o me-glio, le strutture della ex distilleria di Foligno. Da tempo sinotavano strutture fatiscenti già spogliate di tutto e ho no-tato un grande mezzo che stava completando l'opera di de-finitiva demolizione. La prima sensazione è stata di com-piacimento, finalmente! Da anni l'area era un vero sito ar-cheologico praticamente dentro la città. Poi ripensando aquello che scriverò mi sono chiesto: le foto o filmati potran-no ricordare la sua storia, o meglio, una foto può raccontarela storia? In parte sicuramente si... Ma cosa ne sa di quel fab-bricato lungo lungo, con un improvviso parallelepipedo chesvetta in alto, e si riallinea. Di quella finestrella che guardaverso Pale, di cosa c'era dietro le porte in basso, alcune conle inferriate a proteggere qualcosa di prezioso altre no. Erala distilleria, figlia minore dello zuccherificio, ma i cui ope-rai che ci lavoravano si consideravano l'elite della fabbrica.Il perché l’ho compreso da grande; la catena di produzioneera breve,circa 3\4 passaggi. Ognuno di noi vedeva il pro-dotto finito e la cosa, contrariamente allo zucchero che pre-vedeva decine di ruoli diversi e dispersivi, era particolar-mente gratificante. Noi facevamo l'alcool con la melassa del-la barbabietola. Sembrava petrolio dolciastro molto denso,per farla scorrere nei tubi doveva essere riscaldata. Poi mi-schiata con acidi e acqua, fatta fermentare, riposare e invia-ta alle grandi colonne di distillazione. Ecco l'alcool buongu-sto o denaturato, attentamente controllato dalla guardia difinanza che insieme a noi prestava servizio nelle 24 ore. Cir-ca tre per turno, in totale 11\12 operai. Alla prima lavora-zione erano destinati i più giovani, alcuni universitari comeme, con qualche libro dietro nella speranza di poter magaridare una ripassata all'esame in preparazione. Generalmentenon si apriva libro,tanto era il rumore e le cose da fare, maqualcosa sicuramente ha aiutato visto che, dei colleghi chericordo, tutti abbiamo conseguito la laurea. A me piaceva ilturno di notte, sonno a parte; mi piaceva la sensazione che

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mentre altri dormivano,lì era giorno pieno. Si parlava, fuma-va, mangiava, lavorava normalmente, le luci erano artificialima la vita e le cose da fare erano le stesse fatte a mezzogior-no. Ricordo un particolare divertente del mio lavoro: la baseche preparavo di melassa per la fermentazione doveva ave-re una determinata acidità e concentrazione zuccherina: perla presenza dello zucchero era abbastanza semplice, si usa-va un saccarometro ma per l'acidità si usava una cartina ditornasole che in base alla sua colorazione determinava l'ag-giunta ulteriore di acido o di acqua. Abbastanza facile no?Si, se non fossi daltonico... e allora? di corsa giù per una sca-letta a domandare al collega di sotto: è troppo rossa? comeva? Le prime volte mi prendevano in giro, poi... più acqua,metti un po’ più di acido e il risultato era sempre raggiunto.Poi la sirena, arrivava il cambio, quattro chiacchiere e via unpo' assonnato ma tutto contento di uscire con la mia lam-bretta per ritrovare amici e familiari. La paga era strepitosaper un operaio (si parla degli anni '68 '69 '70): in tre mesicirca di campagna, mi comprai la prima auto e anche se uti-litaria era come comprarsi ora una Punto del valore di12\13.000euro in tre mesi di stipendio (l'equivalente di cir-ca 3.000euro mese). Tre anni di lavoro, o meglio tre campa-gne, così si chiamava il periodo lavorativo. Poi si chiudeva,rimanevano gli effettivi (l'attuale contratto a tempo indeter-minato) e gli avventizi venivano licenziati. Per molti era unmomento di tristezza, il lavoro finiva, per altri fortunata-mente ricominciava una vita più normale: studio o altro , inogni caso si realizzavano gli obiettivi della nostra vita futu-ra. Mazzoni, Belloni, Crisanti, Nizzi, Vittorio, sono alcuninomi di colleghi che ricordo. Perciò tranquilli, fino a che cisaremo noi, vi racconteremo cosa c'era dietro quella porta.

Come eravamoFra poco partiamo per Terni da zia Giuliana, hai preso il fia-sco dell'acqua? E io capivo senza bisogno di tante spiegazio-ni cosa dovevo fare. L'acqua era indispensabile; fiat seicentoprimo modello affrontare la salita della Somma significava

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fermarsi almeno una volta per rimboccare il radiatore del-l'acqua che incominciava a bollire ed era una cosa del tuttonaturale. Stesso discorso se si andava al mare a Riccione,ovviamente bagagli sul tetto dell'auto (bisognava valicareNocera e Gualdo). Dai siete pronti? Si va a Perugia alla Stan-da (era come andare ai grandi magazzini Harrold di Lon-dra). Il gelato da Cirillo era da trenta e cinquanta lire (ma surichiesta anche da venti lire). Ed il caro Safwan (un nostroamico siriano) che in quattro con la cinquecento partiva daPerugia per andare ad Aleppo (Siria). Poi il cinema all'aperto,il pacchetto di sigarette solo da 10, le feste studenteschecon elezione della miss, le vespa o lambretta, stivaletti allabeatles (tornati di moda almeno altre 5 o 6 volte), pantalonistretti in fondo, larghi a campana (anche loro più volte rivi-sitati), LA MINIGONNA! Sembrano barzellette, ma erano co-se normali. Eppure tanti di noi, che hanno pienamente vis-suto il ventesimo secolo e vivono il ventunesimo, ci sentia-mo ancora assolutamente in sintonia con il tempo passatoe quello attuale. Non eé una dichiarazione di "giovanilismo"o sindrome di Peter Pan. Da cosa dipenda questa sensazio-ne non lo so esattamente: forse dagli studi fatti, dall'educa-zione ricevuta e la voglia di crescere, la curiosità per le cosenuove, di migliorare e di buttare un po' il cuore oltre l'osta-colo, è rimasta. Certo tanti di noi si sono persi per strada esono quelli che io ora chiamo "ai miei tempi questo non ac-cadeva” o “le mezze stagioni non ci sono più” o “più sicu-rezza” (ingaggiamo anche la Polizia Provinciale in assetto dacombattimento - nota attuale)… ma bisogna avere fiducia,lo spazio per migliorarsi si può sempre trovare, PRIMA oPOI. Purtroppo tanti di noi oggi si dedicano a tempo pienoa fare i censori "sempre e comunque preoccupati per la de-riva democratica" o per sottolineare quello che non va o percensurare i comportamenti degli altri. Probabilmente seguardassero dentro se stessi troverebbero più di una cosada censurare e se ognuno pensasse ai propri comportamen-ti molte cose migliorerebbero (purtroppo la maggiore indul-genza si usa sempre con se stessi e difficilmente si è inclini

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a valutare i propri difetti); mi sembra di averla già da temposentita "guarda la trave che hai nel tuo occhio, piuttosto chela pagliuzza nell’occhio dell’altro". Ed ora che si farà? Ma fi-gurati se sappiamo cosa si farà domani! Con le proprie cer-tezze ed insicurezze.

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I cavalieri vanno alla guerraLa tragedia è il semplice pianto che può diventare un’inonda-zione sul viso altrui; è una morte violenta, è la vita che sfuggesenza rimedio, è il dissolversi dei corpi, delle immagini e deiracconti. La tragedia è la guerra, è la mancanza di pudore chespinge la morte, così come la vita, a mostrarsi senza veli al no-stro sguardo. Per lo più rimaniamo ciechi, sordi, impauriti difronte alla notizia di un evento tragico, sentiamo il dolore e lapaura ma non sappiamo da quale parte, da quale istante, conesattezza, essi provengano. Se è vero che la nudità dell’uomoè più evidente, più esposta al ludibrio, di quanto non lo sia perla totalità della natura, se è vero cioè che la natura è portatricedi una nudità impossibile da scoprire, da sorprendere, da farvergognare, mentre l’uomo è vittima della sua stessa autoaf-fermazione di nudità e di colpa, del suo bisogno di rivestirsi diun ruolo, allora si può affermare che il dolore e la paura veico-lati da un evento tragico causino lo stesso tipo di disagio, lastessa perdizione che prova il nostro corpo nel sentirsi denu-dato. Per ovviare a tale nudità teoretica, gli uomini ricopronoi propri corpi di armature, costruiscono nuovi ordigni e chia-mano tutto questo progresso, sicurezza. Se qualcuno ci attac-ca, o ci minaccia, fino a che punto è lecito difendersi? Almenofino al limite della nostra sicurezza. Quando si compiono “sa-crifici umani“, ogni vittima diviene tale nell’illusione di allun-gare, migliorare e glorificare la vita che resta ai carnefici. Nes-suno, vorrebbe trovarsi mai nel ruolo di vittima, allora, in no-me della propria sicurezza, tanto vale diventare buoni carne-fici. Se necessario si procederà alla disumanizzazione del co-siddetto nemico, si cercherà di distinguere tra una violenzagiusta, o comunque giustificabile, e una violenza insostenibile;la paura e il dolore, allora, saranno aggravanti per una parte eattenuanti per l’altra. I cavalieri senza macchia che immaginia-mo un giorno ci vengano a salvare dalla nostra quotidianità sualtrettanto bianchi destrieri, appariranno per quello che sono:burattini di carta pirandelliani, sagome bianche come sudari,come lo stupore che ha sostituito l’empatia nei nostri occhi,come lo spazio lasciato bianco sulle mappe a indicare un mon-

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do ignoto, ancora da esplorare. Mi viene in mente un’affabula-zione ellenistica che parla di Bellicosa, una delle molte città del-l’immenso, immaginario, continente situato al di là delle terree dei mari conosciuti. I suoi abitanti erano costantemente inguerra coi paesi limitrofi, inoltre pur possedendo oro e argentoin abbondanza, ritenevano più prezioso il ferro a cui i loro cor-pi erano invulnerabili. I Bellicosi, avrebbero dovuto essere ca-paci di difendersi in ogni circostanza, eppure il proprio eccessodi difesa li ha ridotti a dover essere uccisi in un modo selvaggio,quasi animalesco: a suon di sassi e bastoni. Mi chiedo come cidifenderemo noi una volta divenuti “invincibili”: ci ricorderemoancora come nasconderci da pietre e bastoni, da sguardi diodio? Non bastano certo le armi contro il panico notturno, nonbastano i vestiti, troppo facili da strappare via, a farci sentireabbastanza nascosti da sguardi indiscreti, e non basta il corpointero, con i suoi nascondigli più remoti, a proteggere da uncontatto esterno tutti i nostri desideri e il nostro orgoglio. Dopouna tragedia regna solo l‘attesa: si aspetta solo la pace.

Così è, se vi piaceNon mi sono mai posta il problema di quale fosse l’abito giu-sto da indossare, né tantomeno quale abito preferirei indos-sassero le persone che incontro; in effetti gli unici quesiti chedi solito mi pongo rispetto a un abito riguardano la sua vesti-bilità (che sia della mia taglia o più grande) e la sua sopporta-bilità (pesante o leggero, pulito). Credo che siano soltanto glisguardi ad avere il compito sociale di essere rassicuranti od’incutere timore, e comunque non riesco a memorizzarenemmeno i dettagli dei volti: in fondo quanto potrà mai inci-dere il colore degli occhi, o la forma delle labbra, sul caratteredi qualcuno? È davvero così necessario abbinare tra loro glielementi di cui siamo, casualmente, composti? Quando anchel’insieme ne risultasse più armonico, rimarrebbe comunque ilproblema della vestibilità e della sopportabilità del nostro, noncasuale, carattere. Molte persone possiedono il dono di ema-nare la propria personalità anche attraverso il più sofisticatotravestimento, anche attraverso i propri innati difetti, altre no,

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e questo è tutto. Una volta qualcuno rimproverò a Prometeo dinon aver apposto sul petto degli uomini, al momento della lo-ro creazione, una finestrella da cui fosse possibile osservaredirettamente il cuore umano e discernere così l’amico dal ne-mico, ecc. Mi chiedo, se davvero esistesse una finestra sul no-stro petto, con quale criterio si sceglierebbe il gradevole e losgradevole, che cosa si cercherebbe, cosa ci si aspetterebbe ditrovare? Se anche avessimo libero accesso alla visuale del no-stro cuore, non ci sarebbe comunque modo d’interpretarne laqualità a partire dalla forma, o dal colore, o magari dal suo rit-mo. I colori non ci appartengono, e le impressioni fingono sol-tanto di esistere, in realtà non ci possiedono, né all’interno néall’esterno, ci vengono addosso semplicemente, seguono lascia delle nostre tracce, confondendoci e creando un mistoinestricabile d’identità: bastano del succo di mirtillo e del ros-setto rosso sul viola della cannuccia, ed ecco che tutto, con ilsole allo zenit, diventa di un imperscrutabile violaceo oltrema-re; è così che si mescolano tra loro sensi e colori. Basta poco etutto si confonde. Paolo Mantegazza scrive: “L’eterna storiadell’egoismo e del cuore si può tutta ritrarre colle leggi dell’ot-tica. I cuori degli uomini si possono tutti dividere in quattroclassi, cioè in bianchi che riflettono sempre, in neri che sempreassorbono, in trasparenti che lasciano passare la luce, ed ingrigi che assorbono e riflettono; e questi sono i più.” (P. Man-tegazza, ”Fisiologia del piacere”, Casa Editrice Mandella, SestoS. Giovanni, Milano, 1913, p. 151) Non riesco a dargli torto:pensati separati dal resto i cuori, rossi come sono, sembranopiccoli e inutili, niente più di una geniale, e tuttavia limitata,meccanica esistenziale. Inoltre, il bianco, il nero e il grigio, in-dossati, danno una maggior sicurezza, e giocare con le traspa-renze permette di ampliare ogni possibile confine ed affron-tare ad armi pari tutte le forme. Il rosso invece, pur nelle suediverse sfumature, è quantomeno scomodo, pretende certa-mente l’esclusiva, una certa originalità nell’essere esibito. Maè anche vero che, se parliamo di cuori, il rosso è l’unico colorepossibile, l’unico che rimane indifferente a mode e pregiudizi,fedele solamente a se stesso.

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Esistere appena“Il Subcomandante spiega perché è un partito di poscritti”Capita di sentire che qualcosa è rimasto tra le dita, che ci sonoancora alcune parole che vogliono trovare la strada per tra-sformarsi in frasi, che non si è finito di vuotare le tasche del-l’anima. Ma è inutile, non ci sarà mai un poscritto in grado dicontenere così tanti incubi…e così tanti sogni.” (da J. Berger,Photocopies, Pantheon Books, New York 1996, BloomsburyLondon 1996, Fotocopie, trad. M. Nadotti, Bollati Boringhieri,Torino 2004, p. 142)Se ho preso in prestito queste parole, è perché mi preme pre-cisare che non tutte le anime hanno delle tasche segrete davuotare, che non tutti gli spiriti nascondono risorse inaspetta-te. In realtà noi possediamo virtù e difetti in numero propor-zionale alle volte in cui ci siamo andati a cercare le prime e ab-biamo subito, più o meno di buon grado, i secondi. Un uomo(inteso come appartenente al genere umano) si può giudicare,senza commettere errori di giudizio, da ciò che gli rimane trale dita dopo che tutti i veli sono caduti. Tempo fa ho potuto ve-dere da vicino uno dei quadri che più riescono a colpirmi nelprofondo. Si tratta della “Negazione di S. Pietro” del Caravag-gio: mi è quasi impossibile sostenere a lungo lo sguardo inti-morito, sconcertato, di Pietro senza avere un moto di repulsio-ne. Gli occhi del - futuro - Santo sono languidi fino all’eccesso,sembra quasi che vogliano fluire via dalle orbite per non esserecostretti a riconoscere il proprio compito, il proprio ruolo nelmondo. Le gote appaiono congestionate per un’agitazione re-pentina e d’ingiustificata violenza. La sua non è una smorfia didolore o di sorpresa, è più che altro un piagnucolare clowne-sco inconsolabile, un‘espressione in cui la futura grandezzabiblica del personaggio appare ancora irriconoscibile. Quellemani grandi rivolte al petto canuto non sembrano essere maistate buone a fare nulla di pratico. Si potrebbe definire il ritrat-to di un uomo che, nonostante l’età matura, non sa ancora diessere tale. Ci sono degli uomini che non hanno nulla da offri-re a parte se stessi, la propria limitata essenza e le propriesterminate paure. Altri si credono a tal punto ingranaggio di

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un insieme più grande di loro da reputare vera la storia chel’unica differenza tra sé e un altro stia nel nome e nella gran-dezza della sua grafia. Ci sono padri orfani di se stessi, inca-paci tanto di prendere quanto di dare. Padri dei propri vizi,delle proprie paure, dei propri bisogni, padri alla continua ri-cerca di un senso, di una forma per la propria vita. Ma ci sonoanche padri della patria, i padri di un’ideologia, i padri di unarivoluzione, capaci sì questi ultimi di tramandare un senso, ditrasmettere un’anima insieme a una carne incerta e involonta-ria, di offrire la vita di cui sono padroni a piena mani. Anchese ad alcuni di questi uomini le mani dovessero tremare, reste-rebbe comunque la loro voce roca, pastosa, in grado di spie-garti, e di piegare, il mondo intero, resterebbero il loro corag-gio, il loro non essere succubi, schiavi, dei propri limiti. Nes-suno vorrebbe mai ritrovarsi a essere l’unico padre di se stessoe dover quantificare il peso dei propri resti.

Soltanto per interessePotrebbe sorprendere scoprire come, a ben guardare, la filoso-fia, la politica, la cultura, insomma tutto ciò che ci definisce“occidentali”, nasca dal lavoro in senso ampio e come in essopoi si riverberi. Tutto: i canti, i sogni, le speranze di progresso,il modo di guardare l’altro, il modo di pensare e rappresentareil mondo che ci circonda, il modo d’intendere la religiosità, i le-gami interpersonali e, non ultimo, il modo d’intendere noistessi, la nostra individualità. Dai tempi dell’antica Grecia (chesapeva quanto il lavoro, nella forma dell‘utilizzo degli schiavi,fosse indispensabile) in avanti però, il lavoro è stato progres-sivamente sottovalutato e, nella nostra Era post-capitalistica oquasi, trasformato in qualcosa non di necessario ma di umile,non di specializzato e fondamentale ma di mediocre. Qualcosadi adatto più agli schiavi e agli stranieri che ai cittadini, un pe-so simile a una oscura colpa. Qualcosa che può arrivare a de-turpare la nostra immagine. Il modo che abbiamo di rappor-tarci ad esso dipende soltanto dal concetto ancestrale, che cia-scuno di noi possiede e assimila senza nemmeno saperlo, diinteresse e quindi, in ultima analisi, di egoismo. Mi viene in

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mente un epigramma d’ispirazione omerica che elenca, indi-visibili, le caratteristiche biografiche e le capacità lavorative diun tale Atota, “lavoratore metallurgico” (si è ipotizzato di trat-tasse di uno dei tanti schiavi che aveva trovato lavoro in Atticameridionale): “Il magnanimo Atota, paflàgone del Ponto Eusi-no, lontano dalla sua terra riposò il corpo dalle fatiche. Nell’ar-te non ebbe rivali: discendendo dalla stirpe di Pilèmene, chemorì domato dalla mano di Achille.” (S. Nicosia, Il segno e lamemoria, p. 137, Sellerio Editore Palermo, 1992). Atota è unoperaio, ma di stirpe regale, così come regale è, secondo Pla-tone, il suo particolare mestiere; eppure è palese l’esigenza daparte della cultura greca di regolamentare il contatto con lepopolazioni “altre” tramite una genealogia mitica. Noi oggi,poco avvezzi a chiedere spiegazioni alle storie raccontate daimiti, ci ritroviamo sforniti di appigli culturali, consci e incon-sci, che ci aiutino a spiegarci e ad accettare la presenza dellostraniero, a “casa nostra”, a maggior ragione se del suo lavoroabbiamo un disperato bisogno, se il cosiddetto straniero si faportatore, nella nostra società, di abilità e saperi un tempo no-stri e oggi dimenticati, se si trova, malauguratamente, a colma-re le nostre “lacune” economiche e sociali. Siamo del tutto im-preparati a spiegarci le nostre stesse esigenze, a colmare le di-stanze, fisiologiche, che ci sono e sempre ci saranno tra il sem-plice lavoro e il profitto di cui il lavoro rappresenta la parte piùscomoda. Si può dire che nelle epigrafi le parole rinnovino sestesse ad ogni sguardo rappresentando un bisogno di movi-mento, di nuova vita, e di confronto; noi invece, almeno in ap-parenza, preferiremmo di gran lunga l’immobilità a 360 gradisia per i morti che per i vivi; tutto preferiremmo fuorché ri-prendere in mano i nostri orizzonti e rimetterne in discussio-ne i confini. Cercando di soddisfare tanto Tucidide (che vedevale convulsioni delle brame di potere, inevitabili e devastanti co-me la paste, trasferirsi nella follia delle azioni e delle parole)quanto J. Adams (che confidava nella divisione dei poteri perequilibrare società e sentimenti), la follia è sì inevitabile, ma es-sa, qui in occidente, continua a preferire una violenza cultura-le, che però noi non consideriamo tale, da esercitare in modo

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indiscriminato, alla violenza propria di una Natura rivelatrice.Scrive Giorgio Cremaschi nel suo recente libro: “Lavoratori mi-granti che stanno da una vita nello stesso posto di lavoro, sonosoggetti però al ricatto permanente del rinnovo del permesso disoggiorno e a quello dell’espulsione, che riguarda loro e i fami-liari. Ed è proprio con i migranti che si manifesta tutta l’ipocri-sia autoritaria del liberismo. I capitali sono liberi di girare pertutto il mondo, ricattando lavoratori e popoli. Le persone no. Piùcresce la libertà di manovra dei capitali, più le leggi mettonovincoli a quella delle persone. Il perché è chiaro. Se le personepotessero muoversi come le merci, dai paesi più poveri afflui-rebbero in quelli più ricchi in misura molto maggiore del con-sentito. Nei paesi più poveri il mercato del lavoro si stabilizze-rebbe e i salari comincerebbero a crescere velocemente.” (G.Cremaschi, Il regime dei padroni. Da Berlusconi a Marchionne,p. 47, Editori Riuniti, 2010)Ignorare l’importanza e la dignità del lavoro vuol dire accetta-re della nostra cultura solo la parte più distruttiva. Se l’alter-nativa alla violenza naturale deve essere la violenza culturale,organizzata ed esportata come sistema, allora tanto vale rima-nere in uno stato egoistico di natura, perché la natura conosce,pur negli sconvolgimenti peggiori, i propri limiti; sa essere tra-gica ma, almeno, mai sacrilega.

Neri luminosiLa maggior parte di noi non è in grado, all’occorrenza, di di-stinguere, in nome di una pretestuosa sicurezza (mentale), ungesto “strano” da un gesto “straniero”. Ma tutti noi siamo solitigiustificare le nostre lacune con motivazioni ottusamente vi-sive, di “colpo d’occhio”, o “di pelle“, quindi in un certo senso“caratteriali”, ontologiche. A tale proposito è interessante latestimonianza riportata da P. Tabet: “Pirri, Cagliari I elemen-tare. I miei genitori sono neri e anche noi nasciamo anche noineri e se noi siamo neri e anche i nostri figli nasceranno ancheloro neri e se tutti siamo morti abbiamo le anime nere. […]”(tratto da P. Tabet, La pelle giusta, p. 11, Einaudi, Torino, 1997)La diversità è un’immagine opaca, l’equivalente di un (presun-

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ta) normalità sporcata con dolo dall’aggiunta di una tintura in-delebile di cui non si conoscono la fattura né la provenienza.Si sa comunque che tale tintura passa con facilità attraverso leblande coperture di abiti, costumi e professioni, che non puòessere nascosta alla vista, che può oltrepassare persino la no-stra più intima difesa, la pelle, mettendo a rischio, così pare,l’identità della nostra stessa anima, quindi la nostra stessa so-pravvivenza. Il nero, una volta penetrato fino al nostro interno,si teme faccia diventare neri persino i nostri pensieri e la no-stra voce che invece, con i suoi accenti, dovrebbe raccontare dinoi, trasformandola così in un insieme di suoni incomprensi-bili, echi di mostruosità che si vorrebbe poter tacitare. Chi po-trebbe distinguere i diversi colori di cui si forma il nero? Chipotrebbe vedere di notte, attraverso l’oscurità? Solo chi nel-l’oscurità è già immerso, proprio come i morti, vale a dire coluio coloro i cui occhi non sono avvezzi alla facile comunicazionedella luce e dei suoi colori. Ci sarà pure un motivo per cui itratti di un viso, se più scuri, sembrano tutti uguali, tutti im-penetrabili in ugual misura! Se la “loro” faccia non è chiara-mente interpretabile, ci sarà un motivo! Infatti ogni tonalità di-versa dalla nostra sta lì per ricordarci che la nostra faccia nonè altro che un foglio bianco, tutto ancora da scrivere dal desti-no. Se è vero che esistono altri colori oltre al bianco e al nero,è anche vero che questi ultimi determinano il “chiaro” e lo”scuro”, come il buono e il cattivo, il noto e l’ignoto, ciò che èfruibile da ciò che è inarrivabile, e che quindi fa paura. “D: Leiha denunciato in particolare lo scandalo della a nera in Rim-baud. R: Vede, ci sono persone che hanno l’orecchio assolutoe altre che non ce l’hanno, ma riescono lo stesso ad associareimmediatamente un colore a una vocale. La sperimentazione,soprattutto quella fatta sui bambini, ha dimostrato che nellastragrande maggioranza dei casi il rosso viene associato allavocale a. […] Ovviamente perché è il colore più saturo e piùcromatico, così come nel registro uditivo il fonema a è il piùpieno e il più sonoro. In questo senso, per molti linguisti è sta-ta una sorpresa il fatto che Rimbaud nella sua poesia abbia de-finito nera la a. D: E lei ha capito perché l’ha definita così? […]

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R: Per Newton esistono colori primari: i colori del prisma, cioèsette od otto. Castel s’interessa invece ai colori dei tintori e, co-me dice lui stesso, al modo in cui li ottenevano mischiandouna tinta con l’altra. Ora, dal momento che per fare il nero bi-sogna mescolare tra loro una quantità di colori si arriva allaconclusione che il colore più ricco in assoluto non è il rosso,ma è il nero.” (da Claude Lévi-Strauss. Cristi di oscure speran-ze. Intervista di Silvia Ronchey e Giuseppe Scaraffia, pp. 12 ss,gransasso nottetempo, Roma 2008)Il nero che tanto atterrisce, può anche segnalare pienezza vi-tale: l’intervista infatti prosegue spiegando che Valéry chiama-va i neri di Manet “neri luminosi”. Un po’ come dire che usandosegni neri accuratamente scelti si possono tracciare suoni, co-lori, immagini e significati su quella che, prima, era soltantouna pagina tristemente bianca.

Il pane degli uomini“Tanti e tanti chicchi di grano in un sacco, ma scuotili pure espargili, chicchi restano. Nessuna quantità di russi, di francesi,di inglesi è in grado di costruire un popolo, chicchi nel saccoanche loro, sempre frumento umano ancora non macinato,convertito in farina, ben cotto in pane. La condizione di chiccodi grano nel pane corrisponde alla condizione dell’identità in-dividuale in quella combinazione unificante, completamentenuova e non meccanica che si chiama popolo. E possono esser-ci appunto epoche in cui non si sforna pane ben cotto, e poigranai ricolmi di frumento umano non c’è però macinatura, ilmugnaio è stanco, decrepito, e le larghe ali palmate dei muliniimpotenti aspettano che si dia loro lavoro. Il forno della storia,mai stato così spazioso e largo, il forno caldo, il forno tutoredella casa, si è messo in sciopero. Il frumento umano ovunquerumoreggia e si agita, ma pane non diventa, sebbene a ciò loforzino, quanti si ritengono suoi padroni, rozzi proprietari,possessori di granai e depositi. […] C’è bisogno d’uno sguardosobrio: l’Europa di oggi è un enorme granaio di grano umanodi autentico frumento d’uomini, e al presente un sacco di que-sto grano è più monumentale del gotico.” (O. Mandel’stam, Il

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programma del pane, cur. Lia Tosi, pp. 20 ss, Città aperta, Troi-na, 2004) A molti uomini ancora oggi, sulla faccia dell’Europae del mondo intero, manca tanto il pane, il sostentamento,quanto l’essere pane, cioè l’essere l’uno per l’altro elemento es-senziale piuttosto che pericolosa incognita. La metafora reli-giosa del “Pane delle Vita” è qui evidente, e si potrebbe dire che,per l’Autore, il pane rappresenti la salvezza dalla fame concre-ta, e la vita la libertà di scrivere e tradurre poemi. A testimo-nianza della quantità di pane consumato, portatore di un calo-re materno, rimane una data quantità di uomini, mentre a te-stimonianza degli uomini passati rimane un numero inversa-mente proporzionale di poesie. La poesia, in grado di scompor-re il cibo nelle sue molte parti simboliche, è l’unica a dare un fi-nale, un senso sacro al pane degli uomini. Ma il pane per esserevivo, per essere investito di una sacralità che altrimenti gli sa-rebbe estranea, deve perdere i propri confini fisici e i propri li-miti culturali; deve cioè saper ritrovare i frammenti più sottilidi se stesso pur essendo questi ultimi dispersi in un amalgamaomogeneo, apparentemente anonimo, di popoli e idee. Tuttinoi abbiamo, e ci aspettiamo di avere, un limite, fosse solo untermine ultimo. Viviamo nel terrore di un’ultima parola, di unultimo respiro, troppo spesso crediamo che il margine estremodella statura dei nostri pensieri arrivi esattamente là dove unpiccolo segno, fatto su un muro della casa a segnalare l’altezzamassima raggiunta da ragazzi, ci sbarra idealmente la stradaverso l’alto. Non siamo in grado di lievitare, di andare oltre lanostra ragionevole prigione, al cui interno però regna la follia.Gli uomini sono composti di uno strano impasto: la farina,ovunque raccolta, mantiene sempre la stessa consistenza ep-pure mai lo stesso sapore, ha dappertutto lo stesso peso e lastessa dignità, eppure si cuoce in tempi diversi a seconda, par-rebbe, della latitudine in cui è stata raccolta la messe. E tutti ab-biamo bisogno di pane, tutti siamo pane, pane che viene dallafatica e dal dolore, non dal nulla; per questo, come qualcuno hagià detto, ci è lecito chiedere soltanto “il nostro pane quotidia-no”: pane “sociale”, non personale, e neanche pietanza di cui ipotenti che fanno le guerre, che seminano morte e povertà, non

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sono mai sazi. Mandel’stam considera l’europeismo, l’interna-zionalità di cui proprio l’europeismo avrebbe dovuto essere ilprecursore, come l’unica condizione moralmente, culturalmen-te ed economicamente possibile per sfornare un buon pane,pane capace di sfamare un buon popolo. Non solo c’è bisognoche un chicco smetta di essere tale perché faccia frutto, ma isuoi frutti necessitano di una ulteriore lavorazione sofferta cheli porti a far parte dell’impasto del mondo o, ma Mandel’stamforse non sarebbe stato d’accordo, di una singola Nazione, diuna singola comunità, di un “tutto” grande o minuto che sia. Sipuò essere, o meglio si è già, parte di un tutto pur senza capirsi,senza nemmeno vedersi, ma solo percependosi attraverso l’in-visibilità dei sentimenti, attraverso, potremmo dire, l’interna-zionalità del pane delle idee. E poco importa se le parole nonbasteranno per esprimersi, se il pane prima o poi finirà o se fi-niranno anche gli uomini: superare almeno di un chicco di gra-no i nostri limiti, creare nuovi tempi, non vuol dire far irrom-pere dal nulla un’infinità di chicchi, o di pani, senza identità,anche perché il forno della storia è uno solo, bensì vuol dire sa-per setacciare e trovare in un numero finito e irripetibile di fru-mento un’infinità di risorse.

Se di Rivoluzione si può parlare “23 febbraio-giovedì [1917]”Come guardando nell’acqua torbida non riusciamo a vederenulla, così non sappiamo a quale distanza ci troviamo dal crol-lo. Esso è inevitabile. Non siamo più nelle condizioni non dicodi evitarlo, ma nemmeno di modificarlo, ma nemmeno di mo-dificarlo in qualche modo (questo adesso è evidente). La volon-tà si è nascosta nell’ambito circoscritto dei semplici desideri. Eio non voglio esprimere dei desideri. Non serve. Là si scontranoistinti e viltà, timore e speranza. Anche lì nulla è chiaro. Se do-mani tutto si sarà placato e torneremo a sopportare come è no-stro costume in modo ottuso, insensato, in silenzio, non cam-bierà proprio niente nel nostro futuro. Insorti senza dignità,senza dignità chineremo un’altra volta la testa. E se invece sen-za dignità non ci piegassimo? Sarebbe meglio? Sarebbe peggio?Che tormento. Meglio tacere. Penso alla guerra. Guardo da

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quella parte e vedo che un senso di stanchezza collettivo gene-rato dall’insensatezza e dall’orrore si impadronisce dell’uma-nità. La guerra sta probabilmente corrodendo le viscere dell’uo-mo. Si è fatta quasi carne galvanizzata, corpo, materia viva chelotta. Lo zar è partito per il fronte. Ora il suo entourage è liberodi ‘stroncare’. Ma loro ci ‘stroncheranno’ con la stessa debolez-za con cui noi ci ribelleremo. Quale delle due debolezze vince-rà? Povera terra mia. Risvegliati.” (Zinaida N. Gippius, Diari pie-troburghesi 1914-1919 (dal 1914 al 1917), cur. D. Di Sora, trad.R. Gabrielli, intr. S. Trombetta, pp. 79-80, Biblioteca del Vascel-lo, Roma, 1993) …E “non avere paura di doverti svegliare”.Nemmeno se si tratta di un freddo risveglio invernale. Mi piaceil profilo degli alberi d’inverno, coi rami spogli che si allunganoverso l’alto e nei quali il cielo s’impiglia al punto d’apparire im-mobile e gelido. Sono delle mani protese, pronte ad accogliereuna specie di dono. Il dono più necessario tra quelli possibiliperò, non viene né dal cielo né da alcun altro posto, né lo si ri-trova impigliato sui rami: il dono maggiore per una qualsiasi vi-ta è l’assenza di paura. Smettere di tracciare confini sottili espogli nella speranza vana di rendere esclusivamente nostrauna parte di mondo, smettere d’isolarci, di fare delle nostre vitealtrettanti moduli di società prefabbricate nelle quali nessunoha il coraggio di tracciare strade abbastanza lunghe, oppuresemplici linee di congiunzione tra un insieme e l’altro. Proprioquesto mi paiono gli alberi d’inverno: fili lasciati a indicare altrispazi. Che lo vogliamo o no, ogni giorno trascorso si profila co-me una nuova rivoluzione dei nostri moduli vitali: ogni istante,pur restando noi immobili, la terra si sposta un po’ da sotto inostri piedi, voci, oggetti, immagini varcano giorno e notte lalinea immaginaria dei nostri confini. Tutto quanto ci appartieneper diritto di fatica o di discendenza sembra sfuggirci conti-nuamente di mano, spinto da misteriosi sobbalzi. Nessuna sor-presa dunque nel vedere persone agitate e furiose battere i pu-gni lamentando il fatto che qualcuno abbia sottratto loro unafelicità immaginaria. Chissà se sanno di reclamare contro sestessi: anche la felicità passa dall’assenza di paura. Le paure so-no tutte uguali, in apparenza, per chi li vive, e se hanno ampiez-

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ze diverse, hanno comunque tutte pari profondità. Non c’è leg-ge, provvedimento o armamento che possa arginarle davvero.A volte si ha paura che qualcosa cambi e a volte la vera rivolu-zione sta proprio nell’ammettere che prima o poi le cose cam-bieranno lo stesso, ma che sta a noi decidere se in meglio o inpeggio. Per vincere la paura bisogna recuperare quello spiritodi freddezza che alita in inverno e che rende più sopportabiligli spasmi dei nostri dolori cronici. Se solo anche a noi, comeall’inverno, venissero concessi, se non risvegli, almeno sonnicosì tranquilli…

Semplice al tatto“Lo sguardo tocca perché si approssima. Viene vicino al lago, vi-cino alle pietre, agli alberi, ai lembi di nebbia. Viene contro le on-de minuscole dell’acqua, sposa il loro fremito. L’approssimarsi èciò che arriva direttamente fino al bordo, è ciò che si approssimafino a toccare. Ma il toccare si ritrae: è il tatto stesso. Non pene-tra, non sposta niente della superficie di cui si fa tangente. […]ritrae i suoi bordi come fa la mimosa, la pianta mimetica che siritrae quando la si tocca.” (Jean-Luc Nancy, Il peso di un pensie-ro, l’approssimarsi, trad. it. a cura di D. Calabrò, Mimes Edizio-ni, Milano-Udine 2009, p. 114)Se la povertà è quasi una debolezza fisica, assimilabile a unabrutta cicatrice sulla pelle del mondo esposto ai climi peggiorie ai lavori più usuranti, essa è anche una sindrome diffusa, unsentimento acuto e bruciante, un’erosione frutto del contattotroppo violento tra uomini, e tra gli uomini e le proprie risorse.Avvicinarsi nel modo sbagliato a un mondo diverso dal nostro,“toccarlo”, potrebbe voler dire operare su di esso trasformazio-ni deturpanti. Il tatto è l’unico senso dato a tale sindrome epi-dermica, il più capace di riconoscere l’essenza delle cose, quel-lo che meno apprezza le sovrastrutture umane, quello che av-vicina tra loro tutte le specie di esseri viventi e non viventi, ilprimo a percepire il cambiamento violento che prelude alla po-vertà. Il materiale di un vestito, di una casa, la sostanza di cuisono costituiti animali, terra e persone si percepisce al tatto.Esso può mutare le proprie sensazioni all’improvviso senza

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provare lo stesso sgomento degli altri sensi quando vengonoturbati. L’attitudine inglobante del tatto non ha uguali. Guarda-re qualcosa di spiacevole, per esempio, vuol dire ratificarne,fondarne, l’esistenza, rendersene in parte colpevoli, farsi inparte luogo immateriale in cui una data realtà continuerà adesistere al di fuori del tempo. Lo sguardo quindi ci rende col-pevoli, il gusto ci costringe a scegliere, l’udito ci rivela la pro-fondità delle nostre voci, l’olfatto spesso ci fa perdere la stradae la ragione. Il tatto invece ammalia senza ferire, traccia segnichiari, descrive limiti, argini sottili e normalmente invisibili, trauno stato d’animo e l’altro. C’è un’eccezione però: un’acquafor-te di Rembrandt del 1638, Adamo ed Eva (citato da FedericoFerrari e Jean-Luc Nancy in La pelle delle immagini, Bollati Bo-ringhieri, Torino 2003, pp. 42 ss.), in cui le mani che si stringo-no intorno al frutto proibito finiscono per toccarsi, creando co-sì, quasi per contagio, il luogo del peccato, non segnalando con-fini ma prolungando la pelle del frutto con la propria. Forte diquella prima esperienza, sembra voler dire il quadro, ora la su-perficie della nostra pelle, anche la più provata, la più abrasa,lascia scivolare via tutte le onde d’urto dei suoni, delle voci, tut-te le scene di discriminazione, tutto l’amaro della prevaricazio-ne e della violenza fine a se stessa, per mutare la propria fun-zione, per farsi, da ferita che era, soglia privilegiata di cono-scenza, superamento dell’umano limite. Quello che resta al tat-to è l’esigenza di una contiguità sociale, di un’autoaffermazio-ne, sia pure violenta. Il frutto proibito, sempre parafrasandoNancy, “è il luogo del toccare”, del sentire e del verificare, manon del mangiare, un luogo in cui la fame resta dignitosamenteinsoddisfatta, e resisterle diventa il senso del venire al mondo.

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A volte ti chiedi perchè debbano succedere certe cosePerchè il buon Dio si debba accanire contro determinate per-sone che nella vita non hanno mai fatto del male a nessuno, elascia che la vita di altri, magari malvagi, scivoli via serena esenza scossoni. Perchè? Mentre questi pensieri le affollavanola testa, stava seduta in poltrona, lo sguardo fisso sullo scher-mo del televisore. Immagini colorate gli passavano davanti agliocchi; ma lei non le vedeva. Stava seduta in poltrona, con la co-perta sulle ginocchia, nella stanza che si era ricavata in quellagrande casa, con le cuffie in testa, per la parziale sordità chel'aveva colpita da qualche anno. Aveva quasi cento anni. Altre immagini popolavano la sua mente, immagini di tantotempo fa, non ricordava bene, decine e decine di anni. Non siera mai sposata, era troppo indaffarata a tirar su i suoi fratelli,per pensare al matrimonio. Otto fratelli, e lei l'unica femmina.Lava, stira, pulisci, cucina, e poi il forno, dove cuocere il paneper tutto il paese, lavoro duro, ore strappate al sonno. Il paneche lievita, l'attesa prima di impastare, la grande madia piena,il forno caldo, il pane infornato, sfornato caldo e biondo. I po-chi soldi guadagnati, dati alla famiglia, per vestire, far studiarei fratelli. Quante notti insonni, quanta fatica. Ma che soddisfa-zione i fratelli istruiti, ben vestiti, rispettati. Un’occasione dimatrimonio l'aveva avuta anche lei, si anche lei si era innamo-rata. un bel giovane, alto, robusto, due forti braccia, gran lavo-ratore.......ma poi la proposta...”andiamo in America, potremofare fortuna io e te, partiamo!!”. In America, con te, con il piro-scafo, un'altra vita, lontano dall'unico posto che aveva mai vi-sto, il piccolo paese, chiuso dalle montagne, dove tutti si cono-scevano, dove vivere era duro, ma… La mamma, i fratelli comeavrebbero potuto fare senza di lei, chi li avrebbe sfamati, chi liavrebbe accuditi...Gigi, Pietro, Giuseppe...chi? Quante notti in-sonni, com’era combattuta, quanta responsabilità... Infine pre-se la sua decisione… non partì. L'amore, i sogni, la speranza sene andarono una mattina di primavera, a dorso di mulo, per lastrada polverosa. Lei non andò a salutarlo, era lì davanti allagrande madia, ad impastare il pane, lo sguardo fisso sulla pa-sta , decisa, risoluta. Ebbe solo un momento di debolezza,

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quando sentì gli zoccoli del mulo sotto la sua finestra, che sifermarono per pochi secondi, allora si, sentì un tonfo al cuore,un velo le offuscò lo sguardo, una lacrima le rigò la guancia.Fu solo un attimo. Si asciugò con la manica la guancia bagnata,e seguitò ad impastare. Il mulo riprese il cammino, camminoverso l'America, verso un'altra vita, verso un'altra Lei.Era nata nel 1904, il due agosto, quando scoppiò la guerra ave-va 12 anni. Li vide partire, tutti e quattro i suoi fratelli, con ladivisa verde, le fasce ai piedi, gli scarponi, quanto erano belli.Alti, pieni di vita, allegri, li accompagnò verso il carretto che liavrebbe portati via, li salutò tutti, Pietro, Filippo... che festa, lamusica, le bandiere, i fazzoletti che sventolano, i ragazzi sor-ridenti che abbracciano la morosa, e le mamme piangenti, i pa-dri che seguono con lo sguardo compiacente i giovani, quasiinvidiosi, che festa. Passarono pochi mesi, Pietro tornò senzauna gamba, il suo bel carattere era scomparsa; era diventatotorvo, pensieroso, quasi scontroso. Non era più lui. Poi arrivola notizia, Filippo era morto, insieme a tanti altri, lassù, in mez-zo alla neve, lontano da tutti, lontano dal suo paese. Di lui ri-tornò solo una medaglia, che lei ancora oggi conserva dopotanti anni. Fu un dolore immenso che colpì la famiglia, uno diloro era scomparso, divorato dalla guerra, un’entità che condifficoltà riusciva a comprendere. Di tutti i famigliari fu lamamma a risentirne di più, si invecchiò improvvisamente, isuoi 60 anni, sembravano moltiplicarsi, e nel giro di pochi me-si morì, di Spagnola dissero, di dolore pensava lei. Erano tempiduri, tempi in cui la vita e la morte convivevano senza drammi,in cui si era consapevoli della possibilità di andarsene in qual-siasi momento, anche per cause banali. Pietro si sposò, e sem-brò come rifiorire, sembrò tornare il ragazzo di prima, anchecon una gamba di legno. La moglie rimase subito incinta; tuttala famiglia aspettò con trepidazione che la gravidanza giun-gesse a termine. Tutti si diedero da fare, copertine, calzini, fa-sciature, cappellini, tutto era pronto per il grande evento. Mala fortuna spesso tira brutti colpi, quasi prendendoci gusto, afarti cadere nel momento che cerchi di spiccare il volo. Nacqueuna bambina, le fu dato il nome di Beppa, “la mi Beppa”, ma la

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mamma morì per una emorragia, lasciando Pietro e la bambi-na soli. Il padre della piccola ripiombò nella disperazione, ilsuo carattere si fece duro e scostante. La bambina fu affidataalla famiglia. Fu affidata a lei, che aveva la stessa età dellamamma morta, e lei ne divenne la mamma. La accudiva conamore, la nutriva, vestiva, la amava come una mamma. E labambina cresceva, bella, robusta, con i suoi capelli neri comela fuliggine, i suoi occhi neri e luminosi come un cielo stellato.La chiamava mamma e lei se ne compiaceva, si, era la sua bam-bina… Pietro dopo qualche anno si risposò, una donna piùvecchia di lui, non più giovane, che tutti chiamavano “la par-rucca”, perché appunto teneva in testa una parrucca. Era unadonna vanitosa, egoista, che non accettò mai la figlia del ma-rito, tanto che la Beppa rimase a vivere nella casa dei genitori,non con il padre. La parrucca tentò molte volte di avere figli,ma abortì, sempre. Per lei fu una gioia, continuare ad accudirequella bambina. Il solo pensiero che potesse allontanarsi da lei, l'avrebbe distrutta. Ma sin da allora e per tutti gli anni, tantianni, che le rimasero da vivere non perdonò mai più al fratelloPietro e a quella donna, chiamata in modo dispregiativo “laParrucca” di non essersi più interessati alla piccola. Furono an-ni felici, pesanti, il forno la notte, l’educazione della Beppa, laMi Beppa il giorno. La nutrì, la vestì come una regina, le inse-gnò a scrivere e a far di conto, aiutata dalla mastra Emirene,sua maestra e vicina di casa; le elementari, le medie, poi lascuola da maestra. Quanto era bella la “Mi Beppa”, ormai unasignorina, alta, con quei capelli neri, ricci, quello sguardo viva-ce pieno di vita, quanto era bella ai suoi occhi. Nel vederlascomparivano tutti i sacrifici che aveva dovuto sostenere, il la-voro, la fatica, la possibilità di farsi una famiglia propria, tuttopassava in secondo piano. Già la vedeva maestra, la maestragiovane e bella del paese, ed era stata lei, un’umile fornaia, adaverla allevata, educata, formata, amata. Quanti sogni, quanteaspettative, quanti bei pensieri... Un giorno d’inverno, si ungiorno freddo e ventoso la morte se la venne a prendere e sela portò via, “la Mi' Beppa”; così, senza un perché, senza unaspiegazione, senza un motivo se ne andò. Perchè?, si ripeteva,

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perché proprio a me, perché proprio lei… Nessuno mai le det-te una risposta, nessuno mai le potrà rispondere. È la vita.Una sera la Beppa andò a letto presto, perchè aveva un po’ didolori alla pancia, “si vai pure, tanto io resto alzata” le disse laZia. Durante la notte i dolori aumentarono, fino a farsi insop-portabili. La Zia mandò a chiamare Pietro, ma questi non si al-zò dal letto. Andò dal farmacista, l’unico a quei tempi che ca-pisse di malattie. Il farmacista viste le condizioni della ragaz-za, mandò a chiamare il medico, che si trovava, a dieci chilo-metri di distanza. Nevicava, faceva un freddo terribile, il Medi-co arrivò dopo diverse ore, quando ormai la ragazza era stre-mata dai dolori e dalla febbre. Appendicite sentenziò, perito-nite aggiunse. Tutto finì lì, intono a quel letto, con il medico eil farmacista che si guardarono negli occhi, sentenziando la fi-ne di un sogno, la fine di una vita. Il giorno dopo la Mì Beppamorì. Perché continuò a chiedersi la Zia, perché propria a me…Ma nessuno nei tanti anni che ancora visse le potè dare una ri-sposta. Eccola ora davanti alla TV, vecchia e malata, con la co-perta sulle ginocchia. Ancora questi ricordi le occupavano ilcervello, si, mentre guadava lo schermo senza vederlo, mentrefigure colorate le passavano davanti agli occhi, mentre tantifantasmi confusi apparivano e scomparivano di fronte a lei.Perché proprio a me?...

La ragazza (20/07/06)Il gommone procedeva lento nello stretto passaggio tra dueisole. Era un pomeriggio di luglio. Dopo una mattina di cal-do sole, verso le due erano comparse alcune nuvole, che poiprogressivamente erano andate aumentando. Alle cinque siera alzato un po’ di vento, il cielo era ormai coperto. Perquesto decidemmo di fare rientro alla base. Gli altri avevanopreso il piccolo traghetto, per risparmiare al gommone dueviaggi. Eravamo in tre sulla imbarcazione, io, Andrea e suamoglie Maria. Andrea era l’esperto marinaio. Lasciammo laspiaggia e ci dirigemmo lentamente verso la città di Hvar. Inuno stretto braccio di mare, il motore all’improvviso comin-ciò a tossire, poi si fermò. “Sicuramente manca l’olio” – dis-

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se Andrea e cominciò ad armeggiare sul fondo dello scafo esul motore. Io ero seduto sul grosso tubolare, incuriositodalla situazione e dal posto. Si stava bene, non era caldo equel paesaggio leggermente cupo, senza sole mi piaceva. Lacosta scogliosa, ma bassa, era a poche decine di metri su en-trambi i lati. Mentre mi guardavo intorno, il mio sguardo siposò su una macchia chiara, in movimento sulla scogliera,anche essa chiara. Guardai meglio e la vidi, era una figurafemminile, che si slanciava contro la roccia. Una donna gio-vane, alta, magra, ma ben fatta, con lunghi capelli castanochiaro che le ondeggiavano sulle spalle ad ogni passo. Eracompletamente nuda, sola. Camminava con attenzione trale rocce aguzze, ogni tanto si chinava a raccogliere proba-bilmente spigo. Non riuscivo a distinguerne i lineamenti, masolo le sinuose curve del corpo, la grazia dei movimenti, len-ti, spontanei, la naturalezza dell’essere nuda, senza imba-razzo e senza malizia. Si muoveva lentamente con grazia, sichinava, si rialzava, si protendeva in avanti, raccoglieva queifiori secchi e li riuniva in un mazzo, tenendoli con il bracciosinistro, accostati al piccolo seno. Sicuramente intorno a sési spandeva un profumo di spigo, un alone che come unasfera magica isolava quella figura dal mondo estero. Guar-dandola, inizialmente ho provato un senso di disagio, comese stessi rubando qualche cosa. Adesso, pensavo, quella ra-gazza, mi rivolge lo sguardo come per dire “che cosa vuoi?Perché mi guardi così? Non hai mai visto una donna nuda?Invece niente, lei seguitava la sua opera, procedendo lenta-mente sulla costa, come se stesse in un luogo deserto; lei, ifiori, la costa e il mare. I miei amici parlavano tra di loro, ioseguivo in silenzio quell’immagine. Non riuscivo, data lalontananza a distinguerne i lineamenti, ma solo la figura nelsuo insieme. Forse era la personificazione dell’’immaginefemminile, astratta, sublime, gracile ma nello stesso tempoforte, vicina ma irraggiungibile. Mi sono ritornati in mente ilontani e confusi ricordi scolastici di poeti dell’antichità, daOmero, quando nell’Odissea Ulisse si ritrovò semi inco-sciente su una spiaggia, circondato da fanciulle nude; o i

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poeti del trecento che idealizzavano la donna, fino a farladiventare irreale. Fortunatamente il motore si avviò, primache io mi sentissi troppo colto, la barca partì, allontanando-si lentamente dal luogo, mentre la ragazza nuda diventavasempre più piccola, confusa, fino a dileguarsi, come si dile-guano i sogni al risveglio.

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Questa sporca vita che amoL’altro giorno ho risentito questa canzone di Paolo Conte, faparte del suo primo album “Paolo Conte”, inciso nel 1974, ave-vo voglia di riascoltarla perché sapevo che c’era stato, cometanti, qualcuno che aveva cantato l’ironia di questa nostra vita.Sono stati in molti a farlo ma il Conte con una semplice ballatarende l’idea e lo fa anche con quel pizzico di non sense e dialeatorio che caratterizza tutta questa melodic-song.La sporca vita di cui si canta a mio avviso è un canto di gioiaverso anche la sua incomprensibilità e per chi come a me ca-pita di perdersi in elucubrazioni varie e amare, sul suo corsobizzarro e impietoso. Io vivo come tutti una sporca vita, cheamo. Ho trentadue anni e lavoro come operatrice sociale pres-so “La Locomotiva” una cooperativa che opera da più di tren-t’anni nella città di Foligno, svolgo attività di animazione perbambini dai 6 ai 10 anni. Lavorare con i bambini mi piace mol-to, sto bene con loro e penso che il modo migliore sia ascoltarlie parlare con loro in maniera diretta e semplice coinvolgendolie facendoli sentire parte pensante e decidente. Una cosa curio-sa che ho notato, poco dopo compiuti i trent’anni ed è il viag-gio a ritroso dell’esistenza che si innesca inconsciamente, ov-vero, ricordi sepolti dell’infanzia che ti sorprendono nei mo-menti più impensati e lì, in quei momenti di stordito stuporee calore è come se qualcosa cominciasse a prendere una suaforma. Non sempre è facile spiegare la vita a chi di sporco co-nosce solo quello dei pantaloni e delle magliette (o talvoltaquello decisamente più sporco della tv!) spesso anche perchéil bambino stesso sta svolgendo dentro di sé alcune matassedi cui ancora, spesso, non osa parlare; penso che il ruolo di chicome fa questo lavoro sia riuscire a rendere chiaro proprioquello sporco accettando in fondo con le nostre parole e sor-risi e grida e rimproveri come dice Conte quel che.. .a volertelospiegare non saprei. Se non avessi questa vita morirei. E più cipenso e più mi accorgo che è così. Ogni volta mi ritrovo sem-pre qui. A far trottare sotto il sole e la notte questa sporca vita.Che non ha mai pietà e non è mai finita…

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Supplemento del periodico Piazza del GranoAutorizzazione dei tribunale di Perugia n. 29/2009

via della Piazza del Grano n. 11 - Folignoe-mail [email protected]

Stampato presso GPT Srl via Sorel n. 14 - Città di Castellonovembre 2011

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La cultura è organizzazione, disciplina delproprio io interiore; è presa di possessodella propria personalità, é conquista dicoscienza superiore, per la quale si riescea comprendere il proprio valore storico, lapropria funzione nella vita, i propri diritti,i propri doveri.Istruitevi, perché avremo bisogno di tuttala nostra intelligenza.

Antonio Gramsci