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rapporto annuale 2011 Il Sud, i Sud Geoeconomia e geopolitica della questione meridionale scenari italiani territorio / ambiente / società / economia

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rapporto annuale 2011

Il Sud, i SudGeoeconomia e geopolitica dellaquestione meridionale

€ 30,00

s c e n a r i i t a l i a n iterritorio/ambiente/società/economia

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SCENARI ITALIANI 2011Rapporto annuale della Società Geografica Italiana

Il Sud, i Sud Geoeconomia e geopolitica dellaquestione meridionale

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Scenari italianiRapporto annuale della Società Geografica Italiana

Comitato Scientifico: Claudio Cerreti, Sergio Conti, Tullio D’Aponte, Piergiorgio Landini, Ernesto Mazzetti, Franco Sal-vatori

Questa edizione del Rapporto è stata curata da Tullio D’Aponte ed Ernesto Mazzetti, cui si devono anche i testi dei para-grafi 1.1, 1.4, 4.5 (Ernesto Mazzetti), 1.2, 1.3 (Tullio D’Aponte). Ernesto Mazzetti è poi autore dei box Leggi specialiper il “risorgimento economico”; Lo shipping: punto di forza dell’imprenditoria meridionale; Una piattaforma logisticaa scala internazionale.Alla stesura del Rapporto hanno collaborato: Fabio Amato, cui si deve il paragrafo 4.3 e il box Il paradosso della mobi-lità: braccia in arrivo, cervelli in fuga; Vittorio Amato, autore dei paragrafi 2.5, 2.7, 8.1, 8.3 e del box IDE e TPA; Mas-similiano Bencardino, che ha scritto il testo del paragrafo 9.3 e del box Gli sfasciumi geologici; Libera D’Alessandro peril box La colonizzazione delle periferie a opera della grande distribuzione; Viviana D’Aponte, autrice dei paragrafi 3.2,7.2, 9.2; Marialaura Gasparini, cui si devono i paragrafi 7.1, 7.3, 9.1; Daniela La Foresta, che ha elaborato il paragrafo5.3 e il box Paesaggi, cultura, strutture, flussi; Ugo Leone, autore del box Lusinghe del paesaggio naturale e condannedella morfologia; Elio Manzi, autore del box Napoli: 150 anni dall’Unità e 50 da Francesco Compagna; Leonardo Mer-catanti, cui si deve il paragrafo 2.6; Fabio Pollice per i paragrafi 3.1, 3.3, 7.4 e in collaborazione con Carmelo Porto ilparagrafo 8.2; Caterina Rinaldi, che ha scritto i paragrafi 2.1, 2.2, 2.3, 2.4 e il box Le false promesse dell’industria dibase; Giovanna Russo, cui si devono tutti i testi del capitolo 6; Dionisia Russo Krauss, autrice dei paragrafi 5.1, 5.2;Alessia Salaris, che ha elaborato il paragrafo 4.4 e il box Il perverso ciclo dei rifiuti a Napoli e Palermo; Rosario Som-mella, cui si deve il paragrafo 4.1; Lida Viganoni, che ha scritto il paragrafo 4.2.Le note di conclusione sono di Ernesto Mazzetti (paragrafo 1), Giuseppe Campione (paragrafo 2), Tullio D’Aponte(paragrafo 3).L’Appendice è stata curata da Ernesto Mazzetti.

ISBN 978-88-88692-76-0

È vietata la riproduzione e l’archiviazione, anche parziali e anche per uso didattico, con qualsiasi mezzo, sia del conte-nuto di quest’opera sia della forma editoriale con la quale essa è pubblicata (legge 22/4/1941, n. 633 e l. 18/8/2000, n.248). La riproduzione in fotocopia è consentita esclusivamente per uso personale e per una porzione non superiore al15% delle pagine del volume, con le modalità e il pagamento del compenso stabiliti a favore degli aventi diritto.

© 2011 by Società Geografica Italiana ONLUS

Via della Navicella 12 (Villa Celimontana), Romatel. 067008279 – fax 0677079518 – e-mail: [email protected]

Finito di stampare nel novembre 2011

Copertina: Pietro Palladino

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Indice

Presentazione 7

IL RAPPORTO

Il Sud, i Sud. Geoeconomia e geopolitica della questione meridionale 9

1. 150 anni dopo l’Unità 11

1.1. I tempi brevi e i tempi lunghi per il riequilibrio del Paese. La questione meridionale 11fra geoeconomia e geopolitica1.2. La rivoluzione dei trasporti contro l’antica “perifericità” geografica 131.3. Il mito della convergenza: perduranti divari e crisi di competitività 181.4. Unicità e frammentazione della questione meridionale 20

2. Ascesa e declino del Mezzogiorno industriale 25

2.1. Mito e realtà dell’industrializzazione pre-unitaria 252.2. La costruzione di un apparato industriale 262.3. Lo Stato imprenditore pre- e post-guerra 302.4. Dalle aree di sviluppo ai distretti: Casmez e privati incentivati 322.5. La de-industrializzazione degli anni Ottanta e i tentativi di rimedio: i distretti 352.6. Oggi: verso un nuovo modello di relazioni industriali? La fabbrica Marchionne 382.7. La struttura finanziaria: collasso e colonizzazione del sistema bancario meridionale 41

3. Contadini e cittadini: trasformazioni del paesaggio agrario e della società rurale 45

3.1. La vocazione agricola del Mezzogiorno, tra mito e realtà 453.2. Recenti tendenze evolutive 473.3. Il “disagio” del mondo agricolo e le “opportunità” dell’industria alimentare 51

4. La rete urbana oggi 55

4.1. Mezzogiorno e mutamento urbano 554.2. L’articolazione regionale 564.3. La nebulosa della periferia continua 594.4. Deficit finanziari e crisi di governance nelle città meridionali 614.5. La questione meridionale come questione urbana? 64

5. Una società senza comunità 69

5.1. Transizioni demografiche: dall’emigrazione all’immigrazione 695.2. Il Sud fuori del Sud: flussi e riflussi di movimenti migratori 715.3. Terziario di crisi o crisi del terziario meridionale? 74

6. La resistibile ascesa della cultura dell’illegalità 77

6.1. Il fattore “sicurezza” di fronte alla criminalità organizzata 776.2. Le roccaforti territoriali delle quattro mafie 77

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6.3. La “mafia liquida” e la dilatazione dell’economia “canaglia” 786.4. Il costo dell’illecito 816.5. La confisca dei beni mafiosi 836.6. Il percorso lungo delle politiche di sicurezza 84

7. La ricerca delle prospettive di sviluppo: l’opzione turistica 87

7.1. Il tardivo e inadeguato ricorso alla risorsa turismo 877.2. Vastità di risorse potenziali e carenti politiche di valorizzazione 887.3. I comparti ricettivi 897.4. Vecchie formule d’intervento e possibili modelli di promozione e coordinamento 92

8. La ricerca delle prospettive di sviluppo: l’opzione produttiva 95

8.1. Elementi d’innovazione nell’apparato manifatturiero esistente 958.2. Il ruolo della ricerca e gli ostacoli allo sviluppo 978.3. Alcuni elementi della propensione all’internazionalizzazione 100

9. Perifericità geografica e ritardato sviluppo 105

9.1. Le “infrastrutture deboli” 1059.2. Il “digital divide” fattore di debolezza delle “reti tecnologiche” 1089.3. I fabbisogni energetici: eolico, biomasse, rigassificatori 110

10. Qualche nota di conclusione 115

10.1. Il Sud come “crisi”: ragioni e stereotipi nell’interpretazione d’uno storico divario 11510.2. La sfida federalista: federalismo e autonomie 11810.3. Il Mezzogiorno “possibile”: la via d’una impervia convergenza 119

Appendice

Il Sud, i Sud. Geoeconomia e gepolitica della questione meridionale. Sintesi degli intervential convegno promosso dalla Società Geografica Italiana per la discussione dei temi trattatidal Rapporto 2011 125

Indice delle figure 129

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Il Rapporto 2011 della Società Geografica Ita-liana viene dedicato a una ricognizione dello statodel territorio e dell’economia delle regioni delMezzogiorno. Fa seguito al Rapporto del 2010,dedicato ad aspetti e problemi che configuranol’esistenza di una “questione settentrionale”; essoebbe titolo “Il Nord, i Nord”, espressivo della va-rietà di situazioni produttive e territoriali riscon-trabili in questo vasto compartimento geografico.Analogamente, al Rapporto 2011 viene dato il ti-tolo “Il Sud, i Sud”, espressivo della circostanzache, pur all’interno della vasta questione meridio-nale, negli ultimi decenni si sono verificate diffe-renziazioni negli sviluppi e nelle condizioni di vitatra province e città. Temi dell’odierno Rapporto sono lo spazio geo-grafico e la realtà umana di quello che fu il Regnodelle Due Sicilie (con in più la Sardegna, che lageografia considera nella parte meridionale delterritorio nazionale). È concorde il giudizio che, adistanza di 150 anni dalla nascita dell’Italia unitae a 63 anni dalla nascita della Repubblica, l’areameridionale del Paese presenta ancora condizionicomplessivamente meno favorevoli rispetto al re-sto del territorio nazionale. Di qui la perduranteattualità di quella che sin dalla fine dell’Ottocentos’era cominciata a definire la “questione meridio-nale”. Approfondire con un nostro Rapporto vec-chi e nuovi termini della “questione” è stata unascelta non casuale della SGI; al contrario, l’ab-biamo ritenuta uno dei modi, coerenti con i nostriruoli istituzionali, di essere partecipi della ricor-renza d’un anniversario importante quale il cento-cinquantenario dell’unificazione nazionale. A differenza di altri rapporti dedicati con periodi-

cità al Mezzogiorno, a principiare dal Rapportoprodotto annualmente dalla benemerita Associa-zione per lo Sviluppo del Mezzogiorno (SVIMEZ),questo della SGI, più che all’andamento congiun-turale di reddito, occupazione, risorse e investi-menti nelle regioni del Sud, è volto a dar conto diaspetti strutturali del Mezzogiorno, visto prevalen-temente nella sua dimensione macroregionale, condisaggregazioni alla scala regionale limitate soloa taluni fenomeni di particolare significato localeo distrettuale. Aspetti strutturali dei quali, natural-mente, si cerca di cogliere le dinamiche in un arcotemporale più o meno ampio a seconda delle ca-ratteristiche dei fenomeni analizzati.Al testo del Rapporto 2011 – che è stato appron-tato da un gruppo di geografi attivi nelle univer-sità meridionali – segue come appendice la sintesidi un dibattito sui temi sviluppati nel Rapportostesso. La Società ha invitato a parteciparvi – il25 maggio nella propria sede di Villa Celimon-tana – interlocutori portatori di varie esperienze,politiche, scientifiche, manageriali, ponendo a loro disposizione, come base di discussione, un testo disintesi del Rapporto medesimo. È ben noto che l’approccio passato e presente allafenomenologia che da oltre un secolo è inquadratanell’espressione “questione meridionale” è, sì,materia – e non da oggi, come testimonia una as-sai vasta bibliografia – delle discipline geografi-che; ma è anche spazio di confronto politico e dia-lettica di interessi. Onde per la SGI è stato motivodi soddisfazione che interlocutori autorevoli con leloro riflessioni ci abbiano consentito di dilatareconsiderazioni e ipotesi propositive circa le temati-che oggetto del presente lavoro.

Franco Salvatori, Presidente della Società Geografica Italiana

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Il Rapporto

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1. 150 anni dopo l’Unità

adoperati nelle analisi economiche e territo-riali, ovvero la debolezza del Sud italiano difronte alle regioni “forti” d’Europa, è conside-rata l’anomalia di uno degli Stati più indu-strializzati del mondo, quale, a dispetto di pro-blemi antichi e congiunture recenti, resta pursempre l’Italia. È vero che alcune province delSud negli ultimi due decenni hanno generatodinamiche tali da innalzare il reddito mediopro capite a livelli che, a scala mondiale, col-locano le rispettive regioni nel ristretto spaziodella ricchezza, non certo in quello del sotto-sviluppo. Eppure, nel suo complesso, il Mez-zogiorno soffre un permanente squilibrio: lecondizioni di vita, misurabili per redditi, occu-pazione, dotazioni di servizi, lo collocano a li-velli mediocri rispetto al resto d’Italia e del-l’Europa occidentale. Era uno scenario di miserie quello che apparveall’indomani dell’unificazione nazionale; e mi-serabili si palesarono le condizioni della gentedel Sud e delle Isole anche all’avvento della Re-pubblica. Entrambi questi periodi furono con-traddistinti da fenomeni migratori che videroprotagonisti, nella prima come nella secondafase, milioni di meridionali. A partire dal 1950,grazie all’avvio di quella cui si dette nome dipolitica meridionalista, l’afflusso di risorse con-vogliato dallo Stato verso il Mezzogiorno, rile-vante specie tra i decenni Sessanta e Ottanta delNovecento, ha cancellato i segni, almeno più vi-stosi, delle miserie del passato, determinando lacrescita di tutti i parametri che, riferiti alle atti-vità prevalenti, alle condizioni sociali come allestrutture del territorio, segnano il passaggiodalle condizioni del sottosviluppo a quelle pro-prie dell’Occidente sviluppato.

1.1. I tempi brevi e i tempi lunghi per il riequi-librio del Paese. La questione meridionale frageoeconomia e geopolitica

A distanza di 150 dalla nascita dell’Italia unitae a 63 anni dalla nascita della Repubblica, laparte meridionale del Paese, corrispondente aiterritori che rientravano nel Regno delle DueSicilie, più la Sardegna (che la geografia, an-che se non lo volle la storia, annette al com-parto meridionale), presenta ancora condizionicomplessivamente meno favorevoli rispetto alresto del territorio nazionale. Quella che giàagli albori del secolo scorso si cominciò a defi-nire la “questione meridionale” è dunque tut-tora esistente. Riguarda le sei regioni del Suddella Penisola e le due grandi isole: oltre unterzo della superficie del Paese, 123.056 km2

ove vivono circa 21 dei 60,6 milioni di resi-denti in Italia.Che la “questione” sia tuttora attuale è giudi-zio pressoché concorde. Mutano, semmai, levalutazioni circa i fattori prevalenti che ne de-terminano oggi la sussistenza; diversi, a se-conda delle ottiche con le quali essa viene os-servata: l’ottica dell’economia, della geogra-fia, della politica, l’interpretazione culturale osociologica. Diversi a seconda della colloca-zione geografica dell’osservatorio, al nord o alsud. Si differenziano, e sovente s’intersecanoo anche confliggono, le spiegazioni alle qualida decenni si ricorre per comprenderne le ma-trici e la persistenza. Onde i suoi caratteri sa-lienti, da geoeconomici, quali sono stati consi-derati per oltre un secolo, sono venuti acqui-sendo valenze geopolitiche. La realtà palesata dagli indicatori solitamente

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Tale afflusso di risorse si mantenne costantefin quando fu il governo centrale a determi-narne tempi, misura e modi d’impiego. Nonsempre con scelte felici; sovente con sprechidolosi e colposi attribuibili a dialettiche poli-tiche, a inframmettenze clientelari, interessilocalistici e di settori. La centralità dell’inter-vento nel Mezzogiorno venne meno quandoalle competenze proprie del governo si in-trecciarono, a partire dagli anni Settanta,quelle delle neoistituite Regioni a statuto or-dinario e s’abolirono organismi, come laCassa per il Mezzogiorno, preposti alla ge-stione unitaria dei finanziamenti per operepubbliche e per sostegno alle imprese. Ancorpiù s’affievolì quando la partecipazione al-l’Unione Europea impose che la politica me-ridionalistica dello Stato italiano venisse ri-condotta nell’ambito della politica comunita-ria in favore delle regioni più deboli. Un dato di fondo emerge dalla disamina di unsessantennio di interventi volti a eliminare ocontenere il divario tra Sud e Centro-Nordd’Italia: l’afflusso di investimenti indirizzatiai diversi settori produttivi, alle opere pubbli-che e ai servizi, nel suo complesso, non è ap-parso in grado di attivare processi tali da far sìche la popolazione meridionale cominciasse aprodurre, se non di più, almeno in misura paria quanto consuma. Far sì che il suo apparatoproduttivo, agricolo, manifatturiero, terziarioacquisisse dimensioni e capacità che lo pones-sero in grado di accumulare risorse da inve-stire in loco, accelerando il passo della cre-scita a un ritmo pari, se non maggiore, aquello del Nord. Il Mezzogiorno continua ad aver bisogno dicapitali esterni. Le regioni che lo compon-gono, in misura proporzionale alle rispettivepopolazioni, massime quelle di Campania eSicilia (superiori ai 5 milioni di abitanti), ri-

chiedono erogazioni della finanza pubblica asostegno dei propri sistemi sanitari, scolastici,a integrazione dei bilanci degli enti locali; at-tingono ai fondi europei per propri progetti in-frastrutturali; abbisognano di frequenti inter-venti straordinari dello Stato per emergenzeconnesse alla gestione dei territori, così comeper politiche assistenziali a fronte di perdu-ranti problematiche sociali. A partire dagli anni Novanta si è avuta nettapercezione che il riequilibro tra le “due Ita-lie” non sarebbe stato un traguardo raggiun-gibile entro la fine del secolo. Constatazioneassai deludente per quanti, studiosi e politici,agli albori dell’attività della Cassa per ilMezzogiorno ritenevano ragionevole un taleobiettivo. E lo ritenevano possibile anchequando, constatato che ritmi più celeri di svi-luppo delle regioni meridionali non venivanoassicurati dai soli investimenti in opere di at-trezzatura del territorio – bonifiche agrarie,reti di irrigazione, elettriche, telefoniche, ac-quedotti, strade, ferrovie, porti – operaronoaffinché imprese e istituti creditizi a con-trollo statale dessero vita nel Sud a industriesostenute dal capitale pubblico.La permanenza del divario rispetto al Centro-Nord e anzi il suo aggravamento per talune pro-vince del Sud, in passato più industrializzate diquanto non appaiano oggi, quali quelle di Na-poli e Caserta, sembra aver dato ragione aquanti, come l’eminente economista e primopresidente della Repubblica Luigi Einaudi, ipo-tizzavano che l’obiettivo del riequilibrio do-vesse collocarsi nei “tempi lunghi”.Balza in evidenza come la permanente attua-lità della “questione” abbia fatto sì che all’in-sieme di problemi caratterizzanti il dualismoterritoriale, e fino ad almeno un quindicenniofa tali da ritenersi delimitati in un ambito pro-priamente geoeconomico, si siano aggiunti ri-

12 Il Sud, i Sud. Geoeconomia e geopolitica della questione meridionale

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svolti che della medesima “questione” fannooggi un problema geopolitico di forte impattosullo scenario nazionale. È venuta facendosi strada in larghi settori del-l’opinione pubblica espressa dalle regioni set-tentrionali la considerazione che proprio lapermanenza di squilibri tra Nord e Sud tolgaogni legittimità, politica, se non scientifica,alla tesi secondo la quale la “questione” an-drebbe vista come problema unitario del Paese.Il problema del Mezzogiorno, dunque, comeproblema “dei meridionali”, non dell’Italia in-tera. Che anzi, risulta raffrenata nel suo svi-luppo, competitivo col resto d’Europa, dalla“palla al piede” costituita dal Sud che consumapiù di quanto produce e non si mostra in grado,da solo, di accelerare la sua crescita. Vengonoaggiunte motivazioni che riconducono alla di-mensione politica, o sociologica, o storica: in-somma a una dimensione (e a un problema)culturale. Alle Regioni meridionali si è impu-tata e si imputa una “ingordigia clientelare”maggiore rispetto alle settentrionali: afferma-zione peraltro già in passato in vario modo di-mostrata da storici e sociologi, da Salvemini aPutnam. Così come si imputa l’aver generato eaccresciuto la piaga del crimine organizzatoche, in almeno quattro regioni (Campania, Ca-labria, Puglia, Sicilia), mostra incontenibile vi-rulenza. Le spinte politiche volte a porre in luce l’e-mergere di una “questione settentrionale”,che scaturisce dal fardello dei problemi delMeridione, si sono negli ultimi anni tradottenell’avvio d’una legislazione la cui finalità èla realizzazione d’un federalismo fiscale taleda rendere le singole Regioni padrone in mi-sura maggiore di quanto non lo siano oggidel gettito fiscale raccolto nei rispettivi terri-tori, e quindi garantire a quelle più produttiveun’accresciuta disponibilità di risorse. E, per

converso, obbligare le meno produttive acontenere le proprie spese, consentendo lorolimitate coperture di eventuali deficit in set-tori vitali, come la sanità, entro parametriprefissati.A centocinquant’anni dall’unificazione delPaese s’assiste quindi a tensioni politiche chenegli ultimi anni sono state interpretate comefattori di affievolimento del sentimento di ap-partenenza nazionale. La ricorrenza del cento-cinquantesimo anniversario, a dispetto dellecelebrazioni di rito, lascia trasparire, in ester-nazioni provenienti da partiti rappresentati inParlamento, così come in commenti dei massmedia, umori e comportamenti che testimo-niano disunità, piuttosto che unità d’Italia. Ne-gli anni Settanta, Pasquale Saraceno, illustreeconomista settentrionale teorizzatore dell’in-tervento statale nell’industrializzazione delSud, riprendeva un assunto che già decenniprima era stato di Giustino Fortunato: “l’Italiasarà quel che il Mezzogiorno sarà”. Taluniaspetti dell’odierno scenario italiano lascianopensare a una conferma, in negativo, di tali,ancorché remote, affermazioni.

1.2. La rivoluzione dei trasporti contro l’an-tica “perifericità” geografica

Quell’isolamento gravoso che aveva condizio-nato per così lungo tempo la relazionalità delleregioni meridionali, ormai, con la nuova fron-tiera dei trasporti veloci ed economici è solo unricordo di un’Italia “troppo lunga”. Basti consi-derare come l’alta velocità, che nel primo de-cennio del nuovo secolo è divenuta realtà lungola linea Roma-Milano, poi prolungata verso Na-poli, ha reso la ferrovia concorrenziale all’aria,interrompendo un lungo predominio. Ma è purvero che la geografia dei trasporti continua a

Scenari italiani 2011 13

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svelare faticosi transiti, solo in parte superati daadeguate innovazioni infrastrutturali. È unarealtà molto spesso condizionante nei confrontidi uno sviluppo territoriale equilibrato; indubbiaconseguenza della morfologia del Paese, dila-tato sproporzionatamente in direzione latitudi-nale: essenza estrema della fisicità della Peni-sola, lo “stivale” dalla chioma montuosa, im-merso nel Centro Europa, e contemporanea-mente proteso nel Mediterraneo. Vincolo cheimpone non semplici opere d’ingegneria, sia peril transito trasversale, lungo la direttrice est-ovest, tra Adriatico e Tirreno, sia per le relazioninord-sud, tra regioni settentrionali, meridionali eisole maggiori. Del resto, mentre le valli trasver-sali alpine, fratture fisiche di straordinaria va-lenza relazionale, agevolano la proiezione delNord nel vasto spazio centro-europeo, non al-trettanto si verifica, a valle della Pianura Pa-dana, quando la dorsale appenninica interponela sua massa montuosa tra due opposti versanti,parimenti incorniciati da strette pianure litora-nee. Così, mentre il Settentrione, sia per un piùdiretto transito alpino, sia per la vasta estensionedella grande pianura, attraversata, tra occidentee oriente, dai principali corsi fluviali, gode diuna naturale preminenza relazionale, il Mezzo-giorno ha difficoltà di transiti, sia sul piano delleinterazioni con il proprio territorio, sia con il re-sto del Paese e, ancor maggiormente, con il piùavanzato distretto produttivo continentale.L’Italia “toppo lunga”, che pur riuscì a unifi-carsi sotto un’unica bandiera, nonostante lasua forma, e le distanze d’ogni genere, conti-nua a richiedere investimenti infrastrutturalipiù moderni per un indispensabile adegua-mento del proprio territorio nello spazio euro-peo. Sono scomparse, certo, le tortuose stradepercorse da Francesco De Sanctis in quel suoappassionato “viaggio elettorale” in Irpinianel 1875; ed è solo un ricordo l’estremo isola-mento di Basilicata e Calabria, oggi che auto-

strade e superstrade ne rendono accessibilitutti i centri maggiori. Tuttavia, le conse-guenze di una sfavorevole posizione geogra-fica restano, quanto meno come priorità irri-nunciabile. Laddove la rete su ferro era inesi-stente, la politica infrastrutturale ha privile-giato la “cura dell’asfalto”, non certo suffi-ciente ad annullare il divario di centralità. In-fatti, nonostante gli investimenti nella rete au-tostradale progettata, sin dai primi anni Ses-santa, per congiungere il Nord al Sud, sinoalla porta dell’Isola maggiore, le distanze re-stano enormi. Pur sempre 1.250 km tra Mi-lano e Reggio Calabria: ossia il doppio delladistanza che separa il capoluogo lombardo daFrancoforte sul Meno, una volta e mezzaquella che lo separa dalla capitale dell’Île deFrance. Ancor più sfavorevole appare il diva-rio in termini di rete su ferro: le ricorrenti ca-renze infrastrutturali certo non facilitanoscambi commerciali e relazioni umane tra ter-ritori che, per l’insieme dei fattori economicie sociali che li caratterizzano, a buona ra-gione, sostanziano due diverse, contrapposte,Italie. Realtà, da molti punti di vista, separateda un fattore di discontinuità relazionale che,tuttora, dopo centocinquant’anni, continua adamplificare distanze, non solo, e non più, percause di esclusiva natura geografica, bensìper livelli di velocità commerciale del tuttodisomogenei.In questa poco soddisfacente rappresenta-zione, l’incontrastata anomalia italiana del-l’eccessivo sbilanciamento del traffico merci,a vantaggio del movimento su gomma, pro-voca ulteriori condizioni d’isolamento che siriflettono, amplificate, nei confronti delle rela-zioni con la Sicilia, estrema regione perifericaitaliana, a sua volta sacrificata da una rete suferro ancor meno efficiente. Circostanza, que-st’ultima, che ha lasciato, e lascia, vagheg-giare soluzioni di collegamento stabile con la

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terraferma – l’ipotesi del “ponte sullo Stretto”– onerose e insicure, causa di non secondariemodificazioni degli equilibri ambientali, distravolgimenti insediativi e di conseguentimutamenti sociali. La Sicilia, più del Mezzogiorno continentale,in un’Italia resa ancora più “lunga” da così nu-merose carenze infrastrutturali, oltre che perl’ovvio dato geografico dell’insularità, restadecisamente periferica. Il risultato di tanteconcomitanti condizioni negative si traduce, inconclusione, in una sorta di tacito isolamentoche, di fatto, man mano che ci si allontana dalsolco del Garigliano, sino alle estreme propag-gini isolane, alimenta in misura crescente queldiffuso senso di emarginazione che progressi-vamente contraddistingue la condizione meri-dionale.Misurare, in termini parametrici, il grado di pe-rifericità delle diverse aree economiche delPaese è abbastanza semplice, ove si ricorra al-l’impiego di indicatori oggettivi; tuttavia,quanto si vorrebbe lasciar trasparire non è af-fatto la condizione di scarsa relazionaltà rela-tiva, in cui versa ampia parte del Paese, quantol’inefficacia delle politiche che hanno cercatodi porvi rimedio, senza riuscire affatto a scon-figgere del tutto questo handicap di un’Italiadalla rete infrastrutturale debole. Fatto 100 il

valore medio nazionale per quanto riguardadotazioni infrastrutturali, la tabella 1 esprimegli scostamenti rilevati nei diversi comparti-menti del Paese. Paradossale, ma non illogica a fronte degli at-tuali divari di accessibilità, sarebbe la solu-zione di capovolgere le convenienze di mer-cato: invertire il senso di marcia dei progettidi ammodernamento della rete ferroviaria, in-vestendo massicciamente proprio nelle re-gioni meno dotate delle relative infrastrutture.Realizzando, in apparente controtendenza, larete dell’alta velocità da sud verso nord, piut-tosto che assecondando la domanda di traf-fico, inevitabilmente più ampia e stabile, incorrispondenza delle regioni del Centro-Nord.Sarebbe stato opportuno, e tuttora lo sarebbe,potenziare il sistema del cabotaggio marit-timo che, per molti versi, è in grado di offrireuna valida alternativa al traffico terrestre. Le“autostrade del mare”, in particolare sullelunghe distanze, tra Centro Europa e Mezzo-giorno, attraverso un efficace shipment Nord-Tirrenico e Nord-Adriatico, rappresentano al-ternative sia in termini di riduzione dei costiglobali del trasporto, sia di impatto ambien-tale, oltreché di maggiore velocità commer-ciale. A condizione, tuttavia, che il sistemaportuale e l’organizzazione mercantile roll-

Scenari italiani 2011 15

AREAGEOGRAFICA

RETESTRADALE

RETEFERROVIARIA

PORTI AEROPORTI

Nord-Ovest 115,5 92,7 72,8 142,1

Nord-Est 109,2 107,8 146,7 76,7

Centro 97,3 133,4 79,6 148,9

Mezzogiorno 86,5 82,4 102,6 59,7

ITALIA 100,0 100,0 100,0 100,0

Tab. 1 – Infrastrutture di trasporto in Italia, per ripartizione geografica

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on/roll-off goda di adeguate infrastrutture emoderni impianti di logistica dedicata. Circo-stanza raramente rilevabile, sul piano dell’ef-ficienza organizzativa e della ricettività por-tuale meridionale.Insomma, un’Italia “più corta”, nonostante la

struttura fisica e la geomorfologia, sarebbepossibile, a condizione che, nell’assunzione diobiettivi di riequilibrio territoriale, una diversaintelligenza progettuale e una più attenta otticageografica riescano a prevalere rispetto allelogiche fin oggi prevalse.

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Gli sfasciumi geologici

«Sfasciume geologico pendulo tra due mari»: fu l’icastica definizione del territorio calabrese di Giu-stino Fortunato. L’Italia meridionale e insulare ha una storia idrogeologica costellata di disastri. Lafragilità territoriale che caratterizza specialmente l’Appennino meridionale e ampie zolle isolane èstata aggravata da una progressiva degradazione e consumo di suolo indotti dalle attività dell’uomo.Frane, erosione e alluvioni modificano il territorio nel tempo, generando la continua trasformazione diuna coltre superficiale assolutamente instabile. Se poi si aggiungono gli effetti prodotti da movimentisismici e dalle ricorrenti esondazioni di corsi irrigui, si compone uno scenario di estrema instabilità.A queste condizioni “naturali”, si sommano la pessima manutenzione del territorio, che in molte zoneappenniniche fa sì che interi territori comunali rischino di essere coinvolti in eventi franosi e alluvio-nali, la cui frequenza spaziale e temporale tende a incrementarsi anche per le modifiche dei regimidelle piogge indotte dai cambiamenti climatici.Nel primo decennio del Nocevento, su impulso della Società Geografia Italiana, il noto geografo Ro-berto Almagià predispose un censimento dei fenomeni franosi in Italia, a cui seguì la prima legge orga-nica (regio decreto 445 del 1908) che indicava gli abitati da “consolidare e trasferire”. Quell’elenco, eil suo aggiornamento così come per le aree sismiche, rappresentò per molti decenni l’unico riferimentoper la conoscenza della distribuzione territoriale dei dissesti.Bisogna attendere gli anni Ottanta del Novecento per assistere a un certo risveglio d’attenzione neiconfronti dello studio sistematico della stabilità dei suoli. L’ENEA varò il progetto GIANO, con l’obiet-tivo di catalogare gli eventi naturali eccezionali in un lasso di tempo millenario per costruire serie sto-riche significative circa intensità e frequenza dei fenomeni, indispensabili a una corretta pianificazionedell’uso del territorio. Accantonato quel primo progetto, la regia della ricerca passò al Dipartimentodella Protezione Civile che commissionò, al Gruppo Nazionale per la Difesa dalle Catastrofi Idrogeo-logiche (GNDCI) del Consiglio Nazionale delle Ricerche, il censimento delle aree del Paese colpite dafrane e da inondazioni per il periodo 1918-1990, denominato progetto AVI. Infine, ai giorni nostri, ilprogetto IFFI, finanziato dal Ministero della Difesa del Suolo e coordinato dall’APAT, ha l’obiettivo diidentificare e mappare eventi franosi secondo modalità standardizzate e condivise.

Una breve sintesi delle condizioni ricorrenti a scala regionale meridionale, sia pur con problematicitàdiverse, lascia trasparire una notevole quantità di eventi calamitosi che in misura ricorrente stressanoil territorio e le relative infrastrutture e, ciò che più preoccupa, mietono vite umane.

In questo elenco si concentrano innumerevoli tragici episodi, tra i quali spiccano per gravità delle re-lative conseguenze, in termini di vite umane distrutte, i dissesti catastrofici nella zona sorrentino-amal-fitana e nei dintorni di Salerno, conseguenti ai nubifragi del 1924, 1954, 1963, 1966, 1968, di volta involta con decine e anche centinaia di vittime. Più recenti sono gli eventi di Sarno-Quindici-Braci-gliano del 1998, dell’isola d’Ischia del 2006 e, recentissimo, quello di Atrani del 2010 provocato, comespesso si verifica, da colate detritiche dopo giorni di piogge intense.

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Scenari italiani 2011 17

Il quadro delle calamità naturali, in Abruzzo, ha confermato l’elevato grado di dissesto idrogeologico della regione, evidenziando come le esondazioni rappresentino una calamità che affligge pesantementeil territorio, in ragione di particolari caratteristiche litologiche oltre che per interventi irresponsabili in-dotti dall’attività antropica. La Calabria è una delle regioni italiane in cui si registra il più alto numerodi dissesti, essenzialmente legati a fattori morfologici e litologici. Con straordinaria frequenza il territo-rio viene colpito da eventi meteorici che innescano o riattivano fenomeni franosi, accelerando processierosivi e causando inondazioni e straripamenti dei corsi d’acqua. L’evento maggiormente distruttivo av-venne nel 1953, nelle provincie di Reggio Calabria e Catanzaro, dove si ebbero centinaia di morti e dis-persi, migliaia di profughi e diverse centinaia di abitazioni distrutte. Più recentemente, ulteriori eventidisastrosi si sono prodotti a seguito delle alluvioni di Crotone (1996), Soverato (2000), Vibo Valentia(2006), Rogliano (2009), e ancora la frana di Maierato del 2010, oltre ad altre centinaia di frane chehanno compromesso la viabilità negli ultimi inverni praticamente su tutte le strade della Calabria.In Puglia le calamità geologiche si concentrano nell’area del Sub Appennino Dauno, mentre la regioneBasilicata risulta afflitta da tali fenomeni in forma diffusa: questo è il territorio che, tra quelli dellaPenisola, presenta la maggiore diffusione di forme di dissesto idrogeologico esteso, per la coincidenzadi sfavorevoli condizioni ambientali, di natura geomorfologica, idrologica e idrografica, amplificateda cause antropiche. In Sicilia emerge uno stato di dissesto del territorio particolarmente diffuso, confenomeni franosi talora di notevole entità che si sono manifestati anche più volte nella stessa area a di-stanza di tempo. I danni collegati alla fenomenologia franosa presentano caratteri di particolare gra-vità nelle zone centro-meridionali dell’Isola, dove la litologia dei terreni affioranti favorisce maggior-mente, assieme ad altri fattori, l’instaurarsi di movimenti di massa di varia estensione. Particolar-mente colpite risultano le province di Palermo, Caltanissetta, Agrigento, Enna, Messina.Infine, in Sardegna i danni provocati da dissesti geologici hanno interessato prevalentemente centriabitati, urbani e rurali, e le vie di trasporto, sia quelle su ruote sia quelle su rotaie, e solo in poche cir-costanze hanno causato la perdita di vite umane.

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Tab. 2 – Numero di comuni delle regioni meridionali esposti a diverso rischio di natura idrogeologica

RegioneComuni a rischio

franaComuni a rischio

alluvioneComuni a rischiofrana e alluvione

Comuni a rischio% Comuni

a rischio

Calabria 57 2 350 409 100%

Basilicata 56 2 65 123 94%

Molise 41 1 79 121 89%

Campania 193 67 214 474 86%

Sicilia 200 23 49 272 70%

Abruzzo 103 20 55 178 58%

Puglia 44 1 3 48 19%

Sardegna 4 38 0 42 11%

Totale 698 154 815 1.667

Fonte: nostra elaborazione su dati del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio

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1.3. Il mito della convergenza: perduranti di-vari e crisi di competitività

Nella geografia politico-economica contem-poranea, come già si è anticipato, il temadella “convergenza” non è più da declinarein termini di aggregato nazionale, bensì inrapporto alla più ampia configurazione spa-ziale della compagine europea. Sia perché,inevitabilmente, i mercati, gli spazi geogra-fici politico-economici hanno reso impropo-nibile il concetto confinario, sia perché,nella determinazione delle politiche per l’al-lineamento delle economie regionali, intornoa valori tendenzialmente omogenei degli in-dicatori di sviluppo, si è imposta la strettaconcatenazione tra interventi nazionali e po-litiche comunitarie. Del resto, in particolare,per quanto si riferisce alla realtà del Mezzo-giorno d’Italia, il problema dei divari di svi-luppo economico, sul piano regionale, deter-mina una ben precisa coincidenza tra margi-nalità alla scala nazionale e perifericità a li-vello comunitario. Con lievi scostamenti, neltempo, dipendenti dalla natura dei successiviampliamenti della compagine comunitaria,da cui derivano i calcoli statistici sui quali sibasano gli standard di riferimento. In altritermini, è evidente che dagli ampliamentidella prima metà degli anni Settanta, sino aquelli assai recenti del 2004-2007, la geogra-fia della contrapposizione centro-periferia siè fortemente evoluta, includendo nel core

europeo più vaste regioni, ma, egualmente,accrescendo il peso delle aree marginali, inritardo di sviluppo.Le analisi delle proiezioni territoriali, nellospazio interregionale, della mobilità del capi-tale finanziario e delle risorse umane lascianotrasparire come i vincoli geografici dei divaridi convergenza e quelli sociali del radica-mento imprenditoriale e della formazione delcapitale umano, negli stessi distretti d’origine,contribuiscono, sinergicamente, a impedireuna possibile ricomposizione dei divari attra-verso la redistribuzione dei fattori produttivitra regioni maggiormente sviluppate e regioniin ritardo di sviluppo. Nel caso italiano, l’euforia indotta dalla velo-cizzazione dello sviluppo economico post-bel-lico, coniugata col paradigma della piena oc-cupazione, spingeva in direzione di una nonimpossibile ricomposizione delle distanze tra iprincipali distretti geoeconomici del Paese,ipotizzando un significativo superamento delritmo di crescita delle regioni meridionali, insintonia con il mito di un “miracolo econo-mico” sempre più dilatato e diffusivo.

Diversamente, come testimonia il grafico, conla prima metà degli anni Settanta, questa illu-sione si frantuma contro gli scogli di una crisiindustriale e di una massiccia caduta degli in-vestimenti pubblici che riporta le regioni delMezzogiorno entro i confini di un assai lento emodesto incremento del prodotto interno

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Prevenire i rischi dei dissesti idrogeologici nel Sud continentale e insulare richiederebbe ingenti inve-stimenti e sistematica manutenzione, a tutela di un patrimonio infrastrutturale, ambientale e storico-culturale particolarmente significativo. Si tratta di un obiettivo realizzabile attraverso maggiori inve-stimenti nell’informazione storica, nell’utilizzo di modelli di analisi adeguati e nella corretta pianifica-zione urbanistica e territoriale; investimenti, per giunta, che opportunamente indirizzati risulterebberovantaggiosi anche sul piano economico, oltre che sociale, per la riduzione dei costi di ripristino a valledegli eventi disastrosi.

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lordo. Del resto, anche il decennio di piùstraordinaria performance positiva del PILmeridionale, quello degli anni Sessanta-Set-tanta, declina un andamento del differenzialedi pochi decimali di scarto, per lo più dipen-denti da una significativa accelerazione dellosviluppo di regioni come la Sardegna, la Pu-glia e la Campania, dove maggiormente siconcentravano investimenti nei settori a ele-vata intensità di capitale, favoriti dalle politi-che pubbliche d’incentivazione del settore in-dustriale.Non sfugge, quindi, che l’idea di uno svi-luppo accelerato del Mezzogiorno, al fine diconseguire la ricomposizione dei divari ri-spetto al Centro-Nord, nell’impossibilità ditradursi in valori ulteriormente elevati,avrebbe richiesto un contemporaneo rallen-

tamento delle economie più avanzate e dina-miche dell’intero Paese. Ipotesi, non solo an-tistorica, ma priva di concreto fondamentopolitico-economico.Né appare perseguibile l’idea di un riallinea-mento, attraverso interventi comunitari di po-litica regionale, il cui varo avveniva proprio inquegli anni Settanta, in cui prendeva corpouna crisi economica diffusa. È vero, infatti,che l’intervento comunitario nelle aree in ri-tardo di sviluppo – essenzialmente il Mezzo-giorno, nel caso italiano – era stato concepitocome azione “aggiuntiva” rispetto alle politi-che nazionali che, tuttavia, proprio in queglistessi anni, subivano drastici ridimensiona-menti: culminati nella soppressione dellaCassa per gli Interventi Straordinari nel Mez-zogiorno, decretata nell’agosto del 1984.

Scenari italiani 2011 19

Fig. 1 – Tasso di crescita decennale del PIL a prezzi costanti 1995 per ripartizione geografica

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Nello scenario evolutivo prodotto da pocomeno di quarant’anni d’intervento comunita-rio nel Mezzogiorno, specialmente il settoreinfrastrutturale ha intensamente contribuitoalla riduzione degli svantaggi relazionali diun’Italia troppo estesa nel senso dei paralleli;tuttavia, l’ampiezza dei differenziali di svi-luppo non s’è affatto ridotta, né alla scala na-zionale, né nei confronti dell’Europa più evo-luta. Nonostante tutto, in altri termini, le stra-tegie localizzative dell’industria non hanno af-fatto incluso il Mezzogiorno nel novero dellerelative convenienze ubicazionali.L’esperienza del Mezzogiorno, in definitiva,può anche essere letta come la riprova che ilmito della soppressione dei divari si rivela unfalso problema. I differenziali di sviluppo rap-presentano una realtà non necessariamente dademonizzare: il processo che determina effettiagglomerativi diseguali, in un’ottica di spintaintegrazione economica, alimenta flussi le cuidirezioni, spesso, agiscono favorevolmente neiconfronti delle stesse regioni periferiche. Piut-tosto, ciò che conta, e ciò a cui tendere, è ilconseguimento di livelli di soglia opportuni, aldi là dei quali si determinano quelle condi-zioni di base che consentono il radicamentodello sviluppo sul territorio.La domanda da porsi, quindi, è se tali condi-zioni si siano determinate, in misura adeguatae sufficiente, ossia se, come appare condivisi-bile, la parte meridionale del Paese, in ragionedegli interventi realizzati, sia, ormai, in gradodi attrarre investimenti, sostenendone le atti-vità attraverso strutture, servizi e organizza-zione sociale moderna. A questo interrogativo,in parte, si deve una risposta affermativa, pursenza nascondere la compresenza di fattori re-pulsivi, tuttora d’ingombrante pervasività.Questione, geopolitica, quindi, ancor primache geoeconomica.

1.4. Unicità e frammentazione della questionemeridionale

Il Sud, al singolare, o i Sud, al plurale? Latradizionale ripartizione del territorio italianoin Settentrione, Centro e Meridione fa sì che,una volta identificata – a partire dalla secondametà dell’Ottocento – l’esistenza di una “que-stione” connessa al divario di sviluppo e qua-lità di vita tra aree centro-settentrionali e areameridionale, si prendesse a considerare l’in-tero complesso di province rientranti nelle re-gioni, continentali e insulari, del Sud delPaese come una indifferenziata realtà socialee territoriale. Tale unicità non ha riscontro negli elementidella geografia fisica. Le sei regioni continen-tali e le due grandi isole e circostanti arcipela-ghi rientranti nella partizione meridionale pre-sentano varietà morfologiche – geologie, sismi-cità, orografie, idrografie, climi, marittimità,vegetazione, anche all’interno di ciascuna re-gione. Non c’è un paesaggio meridionale uni-forme, bensì un mosaico di paesaggi. Ben rile-vati da studiosi eminenti (Fortunato, Sereni,Biasutti, Rossi Doria). A tale mosaico hannofatto storicamente riscontro difformità di popo-lamento a scala delle singole regioni: onde ilgiudizio ora di “un vasto regno senza strade esenza città”; ora di un territorio con “una capi-tale ipertrofica [Napoli] su un corpo esile” (F.S.Nitti). Una pluralità di modelli insediativi dellepopolazioni e delle loro attività prevalenti; maanche una pluralità di culture e dialetti locali,con difformità identitarie, in più casi enfatizzatedalle condizioni di accessibilità ai luoghi.All’inizio degli anni Ottanta del Novecento loscenario meridionale palesava modificazioniprofonde: effetto degli interventi straordinari,certo, ma soprattutto del dinamismo che, spe-cie nei primi due decenni post-bellici, aveva

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caratterizzato l’intero paese: industrializza-zione, urbanizzazione, rottura d’antiche segre-gazioni geografiche a opera di reti stradali eferroviarie, espansione qualitativa e quantita-tiva dei consumi, mutamento sociale e cultu-rale. L’onda dello sviluppo e delle trasforma-zioni aveva raggiunto il Mezzogiorno, ma conintensità attenuata, e in modo difforme tra lediverse province. Profonda la modificazione della distribuzione dipopolazione per settori d’attività: crescita delsettore industriale, progresso dell’agricoltura purcon la fortissima diminuzione del numero degliaddetti e della superficie agraria. Estese e signi-ficative le modificazioni intervenute nel modelloinsediativo della popolazione meridionale, in-tensamente aumentata la popolazione urbana ri-spetto a quella rurale, con una concentrazionedell’incremento nelle città di oltre 100.000 abi-tanti e la formazione di aree metropolitane.Lungo gli spazi costieri, alle edificazioni per esi-genze industriali a ridosso di preesistenti tessutiedilizi e tali da alimentare ulteriori incrementiresidenziali, si sono venuti aggiungendo semprepiù estesi segmenti di urbanizzazione lineare perusi turistico-residenziali, al punto che si puòoggi parlare di “metropolizzazione” dell’interoperimetro costiero meridionale e delle fasce pia-neggianti a ridosso della costa.Proprio a far data da quegli anni Ottanta ap-parve evidente come, nell’ambito del generaleprocesso di evoluzione del Mezzogiorno, si pa-lesassero difformità, rilevabili alla scala dellesingole regioni: province caratterizzate da fortedinamismo, altre più lente; talune ristagnanti e,in qualche caso, declinanti. La Svimez, utilizzando negli anni Ottanta lemacrovariabili relative al prodotto interno lordoe alla popolazione, aveva calcolato che, rispettoal prodotto pro capite medio dell’intero Paese, ilSud presentava nel 1980 uno scarto negativo di

21 punti rispetto al Nord. Tale scarto agli inizidegli anni Cinquanta era pari a 27 punti. Quindinel giro del trentennio era stato riassorbito 1/5del divario iniziale. Ma a tale risultato le diverseprovince meridionali avevano contribuito in mi-sura diversa. Utilizzando il medesimo parame-tro del prodotto pro capite, la Svimez le avevadistinte in “aree a divario limitato”; “aree forte-mente dinamiche a rapida riduzione del diva-rio”, “aree metropolitane” e “aree a sensibile di-vario”. In tale prospettiva, emergeva il maggiordinamismo delle province abruzzesi, molisane,sarde, del Foggiano e del Materano. Ma rista-gnavano l’area metropolitana di Napoli e le pro-vince siciliane, declinava la Calabria. Sull’ano-malia dell’espansione in termini di popolazione,ma non di attività e funzioni urbane, dell’area diNapoli, come di altre agglomerazioni urbanemeridionali, avrebbero poi insistito FrancescoCompagna e studiosi della sua scuola. Semprepiù, al volgere del Novecento, si profilava unoscenario del Mezzogiorno configurabile, nelladefinizione del Censis, come “sviluppo a mac-chia di leopardo”.Il processo d’assorbimento del divario, pur-troppo, è venuto sempre più rallentando, finoa interrompersi nei decenni successivi per ef-fetto di eventi e congiunture nazionali e permodifiche strutturali del quadro di riferimentoeuropeo e globale. Alle soglie del 2000 si èsempre più fatta strada la valutazione che, purrestando il Sud italiano un’area periferica ri-spetto alle regioni “forti” d’Europa, con unadisoccupazione difficilmente riassorbibile daun sistema economico de-industrializzato, en-tro questo complesso territoriale vadano indi-viduate contraddizioni e differenze. Gli stu-diosi attivi intorno alla rivista pugliese “Meri-diana” sostennero che la dotazione di infra-strutture del Mezzogiorno era “un paradossalemiscuglio di abbondanza e penuria” e, se pur

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in più casi mal gestita, aveva raggiunto un li-vello “compatibile con lo sviluppo econo-mico”. Il sistema produttivo restava “alleprese con una strutturale fragilità”, ma presen-tava alcuni punti di forza. In conclusione: nonc’è più una “questione meridionale”, ma unasomma di “peculiarità”, che hanno punte diconcentrazione in talune aree, prevalente-mente tirreniche, onde è ragionevole parlare didifferenti gradi di sviluppo delle regioni delSud, differenti livelli di qualità della vita; eper conseguenza, della necessità di politichedifferenziate in rapporto alla diversità delleprospettive, o difficoltà di evoluzione delle va-rie realtà territoriali e sociali. Emerge, dunque,in ampia concordanza di valutazioni, che nellatradizionale struttura dei “compartimenti”geografico-statistici entro cui si racchiudeva la

definizione di “Mezzogiorno”, progressiva-mente, si è andata delineando una sorta dilenta frammentazione. Se ne sono distaccateAbruzzo e Molise, gravitanti e sempre più in-terconnesse a una macroregione centro-adria-tica. La Puglia mostra di poter trovare una suaprospettiva nell’interrelazione con l’altrasponda adriatica e con l’Egeo. Condizioni dimaggior equilibrio tra popolazione (scarsa) erisorse produttive (industria dell’auto, turi-smo) non fanno più della Basilicata una terradi esodo. Il turismo ha legato stabilmente laSardegna a interessi e a logiche di mercato delCentro-Nord. La maggior concentrazione diaspetti problematici si palesa invece lungo lalinea tirrenica: area metropolitana di Napoli,Calabria, aree urbane siciliane. Le provincedella camorra, della ’ndrangheta e della mafia.

22 Il Sud, i Sud. Geoeconomia e geopolitica della questione meridionale

Lusinghe del paesaggio naturale e condanne della morfologia

Alla vigilia dell’Unità d’Italia, nel 1861 il paesaggio del Mezzogiorno era sostanzialmente “integro”. Èvero che regioni come la Lucania avevano progressivamente perso il naturale originario aspetto boschi-vo e il diboscamento era una caratteristica che aveva caratterizzato mutamenti del paesaggio in moltearee meridionali; ma, complessivamente, il paesaggio conservava ancora le caratteristiche prevalente-mente rurali che per secoli avevano segnato il Regno delle Due Sicilie. Un paesaggio definibile indu-striale era presente solo nel Napoletano; molto puntiforme (Napoli, Palermo) il paesaggio urbano; radele strade, specialmente quelle dell’interno; ancora in itinere la costruzione della rete ferroviaria (sul cuisviluppo molto avrebbe puntato Cavour) e, anche in questo caso, concentrata intorno a Napoli.Molti viaggiatori stranieri, quelli che si erano spinti a sud di Napoli, nelle loro lettere e diari di viag-gio “preunitari” hanno lasciato descrizioni di un ambiente “ancora” naturale cui corrispondeva unintegro paesaggio. E, come ha ricordato Francesco Compagna nella sua Questione meridionale, moltistudiosi e uomini politici italiani, ancora nell’Italia ormai politicamente unificata, ripetevano vecchiedefinizioni dell’età del Grand Tour descrivendo il Mezzogiorno come un “giardino delle Esperidi”.Toccò a Giustino Fortunato nel suo “ventennale girovagare pedestre” sfatare questa visione ottimi-stica per darne una molto più realistica – pessimistica è stata anche giudicata – come di una terrache “è sempre valsa e tuttora vale assai poco”. Vale assai poco proprio per quelle condizioni clima-tiche e per le caratteristiche dei suoli che avevano alimentato le lusinghe di viaggiatori stranieri euomini politici. Quelle lusinghe, nella più realistica visione di Fortunato, suonavano, invece, comeuna condanna della morfologia.Fu per la più ottimistica visione di studiosi come Carlo Maranelli che le considerava “condanne” sì,ma non immanenti ed eterne, che il paesaggio meridionale cominciò a caratterizzarsi anche per la pre-senza di ciminiere simbolo dell’avanzante industrializzazione. Non dovunque, secondo una visione che

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avrebbe voluto una ciminiera accanto a ogni campanile, ma con concentrazioni prevalentemente co-stiere e prevalentemente lungo le coste campana e pugliese. Più avanti, con l’avanzata della illusionepetrolchimica, anche siciliana e sarda. Furono soprattutto gli impianti della “pesante” industria di ba-se a caratterizzare il paesaggio industriale. Oggi la progressiva dismissione di molti di quegli impianti ha modificato questa componente paesaggi-stica, quando quegli impianti sono stati smantellati, o li ha trasformati in simboli di archeologia indu-striale, quando permangono come contenitori di attività terziarie. Il paesaggio industriale presenta caratteristiche ulteriormente nuove, a dimostrazione dell’assunto se-condo il quale il paesaggio non è una realtà statica, ma legata al dinamismo delle trasformazioni so-ciali ed economiche: in corrispondenza dei siti prescelti per l’insediamento di parchi eolici lungo i cri-nali ventosi dell’Appennino, soprattutto campano e pugliese, in Sardegna e in Sicilia; e della più lenta,ma comunque diffusa avanzata dei tetti fotovoltaici.Con l’industrializzazione e con la crescente urbanizzazione “a servizio” dell’industria, con lo sviluppodelle infrastrutture stradali e ferroviarie che ha rotto l’isolamento topografico delle regioni meridionali,come lo definiva Giustino Fortunato, il paesaggio ha cominciato ad assumere le attuali caratteristiche.Quasi di pari passo con questi interventi, concentrati prevalentemente nelle aree pianeggianti e costie-re sede, generalmente, anche della più fertile e ricca agricoltura, è andato modificandosi il paesaggioagrario. La diffusione dell’irrigazione ha avuto dovunque riflessi rilevanti sul paesaggio agrario so-prattutto con la trasformazione in ortofrutta di molte aree granarie, cui si è aggiunta la diffusione del-la olivicoltura e della viticoltura. Alla sottrazione di suolo agricolo derivata dalla urbanizzazione edall’inurbamento crescente della popolazione si è cercato di sopperire con lo sviluppo di colture in ser-ra, che costituiscono un ulteriore elemento di modifica dell’immagine del territorio e una “novità” nelpaesaggio agrario.

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2. Ascesa e declino del Mezzogiorno industriale

liana era localizzata al Sud: immagine ben di-versa rispetto a quella sovente delineata di unMezzogiorno pre-industriale o addirittura feu-dale. Il settore tessile era molto fiorente e con-correnziale: in Campania l’opificio di San Leu-cio aveva raggiunto un elevato livello tecnolo-gico nella lavorazione della seta, era conosciutoin tutta Europa e la sua produzione largamenteesportata. Nel comparto cotoniero, sempre inCampania, si producevano 13 milioni di metridi tessuto (trascurando la pur diffusissima lavo-razione a domicilio e considerando i soli stabili-menti meccanici), a fronte dei 16 milioni dellaLombardia. Il più grosso opificio lombardo, laFilatura Ponti, nel 1848 aveva 414 operai controi 1.300 della Egg di Piedimonte. Le cartiere ave-vano conseguito una capacità produttiva compe-titiva con un’espansione delle esportazioni a li-vello europeo. Al momento dell’Unità d’Italia laproduzione meridionale di carta rappresentava il25% di quella dell’intera Penisola e le industrieutilizzavano macchinari modernissimi dando la-voro a 5.000 persone. Tuttavia, il grave pro-blema della scarsa dotazione infrastrutturale (inparticolare delle vie di comunicazione e di tra-sporto delle merci), come pure carenze culturalidella classe mercantile e imprenditoriale, primafra tutte la limitata propensione all’associazioni-smo, il timore del rischio e gli insufficienti inve-stimenti, costituivano un freno sostanziale e re-legavano il Mezzogiorno ai margini del pro-cesso di sviluppo economico europeo.Con l’avvento dello Stato unitario le debolezzestrutturali del sistema economico meridionaleaffiorarono prepotentemente e la situazione co-minciò gradualmente a degenerare, schiacciatadalle politiche accentratrici cui la borghesia

2.1. Mito e realtà dell’industrializzazione pre-unitaria

Rientrata in possesso del Regno dopo il decen-nio napoleonico, la dinastia dei Borbone avviòuna politica economica finalizzata a stimolarel’industria, proteggendola con misure protezio-nistiche. Obbediva alla preoccupazione che ilRegno potesse essere schiacciato degli Stati piùforti, oltre che alla necessità di tenere in parità labilancia dei pagamenti e impedire le fughe dicapitali all’estero, pur strozzando le esportazionidei prodotti agricoli (facendone cadere i prezzi).Riuscì ad attrarre capitale straniero che, a causadegli alti dazi e dei bassi salari, si dimostrava al-tamente remunerativo, con conseguente crescitadell’accumulazione. Erano inglesi e francesi gliindustriali che intorno alla capitale avevanoimpiantato i cantieri metalmeccanici: si affian-cavano agli arsenali e alle fabbriche d’armi ge-stite direttamente dallo Stato borbonico, im-prese protette dai dazi e garantite dalle com-messe statali. Crebbero e si moltiplicarono lecompagnie commerciali d’investimento mentresi ramificava il sistema bancario. Il Mezzo-giorno pre-unitario, dunque, non era, comespesso superficialmente descritto, l’espressionesolo di una chiusa società feudale, ma anche diuna società capitalisticamente in via di svi-luppo la quale, operando nel vivo dei mercatiinternazionali, tentava di premunirsi dalle ten-denze imperialistiche che si andavano deli-neando, con una oculatissima politica protezio-nistica, che mirava a sviluppare l’industria aspese dell’agricoltura. Il censimento fatto nel 1861 rilevava che il 51%della manodopera impiegata nell’industria ita-

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meridionale (rurale e industriale) non riuscì acontrapporre un’adeguata forza imprendito-riale. L’abbattimento dei dazi protettivi e la ri-duzione delle commesse provocarono coltempo la crisi degli stabilimenti e la lenta deca-denza degli arsenali e dei cantieri. Diverse ma-nifatture tessili, un tempo fiorenti, furono co-strette a chiudere, sopraffatte dalla concorrenzadi quelle del Nord. Le politiche pubbliche – fi-scali, monetarie e commerciali – adottate dalnuovo Stato compromisero, poi, in manierainarrestabile le possibilità di sviluppo indu-striale ed economico del Mezzogiorno.

2.2. La costruzione di un apparato industriale

All’indomani dell’Unità, l’Italia si presentavacome un’area di produzione e consumo tut-

t’altro che trascurabile nel panorama europeodell’epoca. Il modello di sviluppo economicomutò profondamente, con l’avvio di un pro-cesso d’industrializzazione destinato ad ac-crescere rapidamente la modernità e la forzaeconomica del Paese, mentre il ruolo dell’a-gricoltura fu ridimensionato per effetto dellacrisi agraria europea, dopo l’unificazione delmercato mondiale dovuta alla diffusione dellecomunicazioni marittime e ferroviarie.Almeno fino al 1878, l’industria italiana con-tinuò a essere trainata dal settore tessile, di-feso dal nuovo regime tariffario protezioni-stico che, però, lasciava senza barriere la na-scente industria chimica e le produzioni mec-caniche e penalizzava intere aree territorialicome il Mezzogiorno. Condizionata dalla“grande depressione” internazionale deglianni 1887-1894 e dalla crisi bancaria, l’atti-

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Fig. 2 – Evoluzione del settore industriale nei primi decenni post-unitari (% di popolazione addettanel settore)È evidente la tendenza negativa riscontrabile nelle regioni del Mezzogiorno

Fonte: Stentella (1996)

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vità industriale rimase stagnante ancora perqualche anno, per poi far registrare una verae propria impennata a partire dal 1896, conun primo ampliamento dello spettro delle at-tività produttive. Secondo l’orientamento se-guito, il ritardo accumulato dall’Italia ri-spetto ad altri grandi Paesi europei imponevadi accelerare “artificialmente” l’espansionedelle cosiddette industrie di base, ossia diquelle industrie che, garantendo una produ-zione nazionale di beni intermedi, potesseroconsentire, in prospettiva, un graduale allen-tamento del vincolo esterno alla crescita. Ilcambiamento fu tale che, alla data del censi-mento industriale del 1911, nella strutturadell’industria italiana, in termini di valore ag-giunto, il settore tessile rappresentava sola-mente il 10% dell’industria manifatturiera,mentre le costruzioni meccaniche avevanoraddoppiato la loro quota. L’espansione del-l’industria meccanica – nonostante l’esclu-sione dalla protezione tariffaria – trovò ali-mento in importanti interventi di sostegnodella domanda come, ad esempio, la crea-zione di quote di privilegio per le impreseitaliane nelle commesse ferroviarie e le age-volazioni riservate alla cantieristica. Ma erala stessa industria tessile a creare una cre-scente domanda di attrezzature meccaniche,che, almeno nelle lavorazioni meno com-plesse, poteva cominciare a essere soddisfattada produttori nazionali. Parallelamente, perfar fronte alla scarsità di materie prime,venne incentivata l’attività di estrazione: pertutto l’Ottocento la Sicilia detenne il mono-polio della produzione mondiale di zolfo, as-sorbendo 1/3 degli operai del settore. Si svi-luppò notevolmente la siderurgia, legata alleforniture per la marina mercantile e militare.In questo settore il Sud impiegava 20.000operai (4.000 in meno rispetto al Nord) e pre-

sentava un’accentuata concentrazione delleaziende, con un elevato livello tecnologico:lo standard tecnico della Guppy di Pietrarsa edella Zino & Henry di Napoli, con i loro1.200 addetti, era eguagliato solo dall’An-saldo di Genova, che, però, aveva appena480 operai. Particolarmente fiorente al Sudera anche il settore cantieristico: nei due soligrandi cantieri del golfo di Napoli lavora-vano 3.400 operai sui 6.650 del ramo in tuttaItalia. Mentre Castellammare si stava specia-lizzando nella lavorazione di scafi in ferro,l’arsenale-cantiere di Napoli diventò il mag-gior centro italiano per la produzione di mac-chine e motori marini ed era l’unico ad avereun bacino di carenaggio in muratura lungo 75metri. Nonostante questi segnali incorag-gianti, però, le iniziative imprenditoriali me-ridionali erano concentrate in pochissimearee urbane, alle quali si contrapponeva unvasto territorio rurale con un’economia agri-cola basata essenzialmente sul latifondoestensivo o a pascolo.Con l’età giolittiana si pensò di far fronte al-l’arretratezza riscontrata in larga parte delPaese attraverso due direttrici fondate sull’in-tervento statale: la legislazione speciale per ilMezzogiorno, con l’introduzione di ammini-strazioni speciali per la sua gestione e la rile-vazione da parte dello Stato di grandi servizipubblici (nazionalizzazione delle ferrovie edelle assicurazioni), o il potenziamento e lamodernizzazione di servizi già statali (le postee i telegrafi). Tuttavia, il sostegno accordatoprevalentemente all’industria pesante, a disca-pito di quella agro-manifatturiera, non fu chel’esito di una visione industrialista che nontenne in debito conto i caratteri complessividell’economia del Mezzogiorno, il qualeavrebbe, invece, necessitato di interventi ditrasformazione più incidenti rispetto alla sola

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costruzione dell’acquedotto pugliese. Il diva-rio tra Nord e Sud si accentuò con l’avventodella prima guerra mondiale, che alimentò unflusso ininterrotto di trasferimenti della ric-chezza lungo la direttrice Sud/Nord generatodell’espansione dell’industria pesante setten-trionale sotto l’impulso delle pressanti esi-genze belliche e delle commesse a esse colle-gate, di cui lo Stato era il maggior cliente. Nell’immediato primo dopoguerra si creò uncircuito di finanziamento delle opere pubblichee dell’industria di base estraneo al Tesoro, sep-pur collegato stabilmente a finalità pubbliche:

furono istituiti, sull’esempio dell’Ina, l’OperaNazionale Combattenti, il Consorzio di Creditoper le Opere Pubbliche, l’Istituto di Credito perle Imprese di Pubblica Utilità (che proprio nelMezzogiorno finanziò l’industria elettrica), l’I-stituto per il Credito Navale. In questo periodoi tassi di crescita medi annui della produzionenelle industrie meccaniche e in quella chimicafurono molto elevati (7,6%), anche a confrontocon quelli di altri Paesi. L’espansione dellaproduzione di input intermedi nell’industria dibase rappresentò uno degli assi portanti sia deipiani autarchici impostati nel 1934 e nel 1937,

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Aziende per settore 1911 1927 1937 1951

Alimentari e bevande 13,8 11,3 13,9 10,3

Tabacco 1 0,8 1,4 1,5

Pelli e cuoio 1,2 1,1 1,1 1,1

Tessili 22,7 23,2 17,7 18,6

Vestiario e abbigliamento 15,2 17,2 13,5 11,8

Legno (e mobilio) 11,8 10,1 8,2 8,4

Carta e cartotecnica 1,5 1,6 1,6 1,8

Poligrafico-editoriali 2 2,1 2,1 2,1

Foto-fono-cinematografiche 0,1 0,3 0,3 0,3

Metallurgiche 1,9 3,2 3 4,1

Meccaniche 17,2 17,9 24,7 25,6

Minerali non metalliferi 8,4 6,2 6 5,9

Chimiche 2,6 3 4,4 5,7

Gomma 0,1 0,6 0,8 1,1

Manifatturiere varie 0,5 1,5 1,2 1,5

Tab. 3 – I principali distretti industriali nel Mezzogiorno

Fonte: Cainelli e Stampini (2002)

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sia dell’economia di guerra che egemonizzò gliorientamenti della politica industriale neglianni successivi. Complessivamente, nel qua-rantennio che va dal 1911 al 1951, l’insiemedelle produzioni di tipo più tradizionale, chenel 1911 rappresentavano i due terzi delle atti-vità di trasformazione, si era ridotto a poco piùdella metà; le industrie della metallurgia, dellachimica, della gomma e della meccanica, in-

vece, avevano ulteriormente ampliato la loroquota (da 21,8% a 36,5% del totale degli occu-pati). Il radicamento di questa impostazione,all’interno delle politiche industriali degli or-ganismi preposti a presiedere alla ricostru-zione, fu una delle condizioni che consentironoal modello di specializzazione italiano di man-tenere la propria rotta ancora per tutto il primoventennio del dopoguerra.

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Leggi speciali per il “risorgimento economico”

La legge che fu detta “pel risorgimento economico di Napoli”, votata dalla Camera il 2 luglio 1904, ful’8 luglio approvata anche al Senato. Non era la prima legge “speciale” varata per Napoli dopo l’uni-tà d’Italia: ve ne erano state per opere di fognatura, portuali e idriche. Era stata preceduta, e ne costi-tuiva una coerente integrazione, dalla legge per il “risanamento della città” votata dopo che l’epide-mia di colera scoppiata nell’estate del 1884 aveva imposto al Paese lo scenario di degrado dell’anticacapitale e di miseria della popolazione. Il rinnovo urbano promosso dal “risanamento” pur dando respiro all’economia locale non aveva de-terminato una trasformazione della struttura produttiva locale. Le risorse produttive esistenti, a giudi-zio di F.S. Nitti, restavano “incapaci di una solida influenza evolutiva sulla struttura sociale dellacittà”. Occorreva puntare sulla grande industria, “chiave di volta di ogni trasformazione”, per arre-stare la drammatica emigrazione di manodopera e incentivare un’economia estremamente depressa. Articolata in base alle conclusioni d’una commissione ministeriale, la legge del “risorgimento econo-mico” gettò le basi per la realizzazione degli impianti siderurgici nella rada di Bagnoli, per opere por-tuali e di elettrificazione, e l’avvio di una industrializzazione dell’intera provincia, con localizzazioniprevalentemente costiere. La legge “pel risorgimento economico” fu seguita da altre leggi speciali per Napoli e la sua area neidecenni precedenti la seconda guerra mondiale. Alcune si palesarono significative: l’assorbimento nelcomune capoluogo di piccoli comuni confinanti; l’istituzione dell’Alto commissariato preposto a impo-nenti opere di rinnovo urbano nelle aree centrali; la creazione della Mostra d’Oltremare nell’area oc-cidentale. Nel dopoguerra, una legge speciale del 1961 dispose nuove infrastrutture urbane. In seguitoalla crisi seguita a una infezione colerica negli anni Settanta, si disposero finanziamenti per restauri dimonumenti e portualità minore; nello stesso decennio, il bradisismo nell’area flegrea indusse alla rea-lizzazione d’un quartiere “satellite” nel comune di Pozzuoli. La costruzione del nuovo centro direzio-nale nella zona orientale del capoluogo, l’autostrada tangenziale, l’avvio della costruzione della ferro-via metropolitana sono frutto d’altrettanti provvedimenti “speciali”. Anche al recupero delle aree dis-messe dagli impianti siderurgici di Bagnoli si procede con stanziamenti ad hoc, seppur tra lentezze econtroversie sulla natura dei progetti.La “politica delle leggi speciali” è stata sovente oggetto di critiche. C’è chi tali leggi ha considerato“generose elemosine” a fronte di manchevolezze dello Stato nei confronti di Napoli (come del Mezzo-giorno), non di rado disposte a fini clientelari. Ma si è osservato (F. Isabella) che la legge del 1904 in-novava in modo significativo la struttura produttiva dell’ex capitale, e ben rispondeva all’intento diCavour di operare affinché, riducendo il divario tra le regioni d’Italia, si venisse realizzando una realeunità italiana.

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2.3. Lo Stato imprenditore pre- e post-guerra

La politica industriale dell’Italia, incentratasull’industria di base, necessitava di un nettoorientamento protezionista e del diretto inter-vento statale sia nel settore industriale sia inquello creditizio. A partire dalla grande crisibancaria di fine Ottocento, che portò alla na-scita della Banca d’Italia (1894), lo Stato in-tervenne sistematicamente in tutte le fasi dicrisi del sistema: prima tra il 1907 e il 1911,poi nei primi anni Venti – quando crollarono i“colossi dai piedi di argilla” trascinando consé interi pezzi del sistema bancario come laBanca di Sconto e il Banco di Roma – poi, an-cora, negli anni successivi alla “grande crisi”del 1929, che videro la nascita di Imi e Iri. Pereffetto della crisi, nel 1930 la produzione in-dustriale italiana era scesa del 23% circa equella agricola del 50%; i prezzi erano crollatibruscamente mentre il valore dei titoli indu-striali era precipitato del 40% circa. Si diede, quindi, avvio a una complessa serie diazioni che si configurava come un modello diintervento economico con finalità pubbliche main forme privatistiche che avrebbe fatto epoca.Attraverso il meccanismo delle partecipazionistatali si realizzava una forma assai efficace diintervento diretto dello Stato nell’economia alloscopo di orientarne e dirigerne lo sviluppo se-condo le linee della politica di programmazioneeconomica. Nel 1937 lo Stato italiano si tro-vava quindi a controllare, attraverso l’Iri, il20% dell’intero capitale azionario nazionale,ampie porzioni dell’industria nazionale e del si-stema creditizio, diventando di fatto il mag-giore imprenditore italiano, in particolare neisettori ad alta intensità di capitale con impresedi grandi dimensioni (Ansaldo, Ilva, CantieriRiuniti dell’Adriatico, Sip, Sme, Terni, Edison).Il controllo pubblico interessava il 100% della

siderurgia bellica (Terni, Ansaldo, Cogne), il40% della siderurgia comune, l’80-90% dellecostruzioni navali, il 30% dell’industria elet-trica, il 25% dell’industria meccanica, il 20%dell’industria del rayon, il 15% dell’industriachimica, il 15% dell’industria cotoniera, l’80%del settore bancario (le tre principali banche ita-liane: Banca commerciale italiana, Credito ita-liano, Banco di Roma). Il presidente dell’Iri Alberto Beneduce affidòalla Sme di Giuseppe Cenzato il compito di sti-molare anche nel Mezzogiorno una crescitadell’industrializzazione sostenuta dallo Stato econcentrata nell’area napoletana, e di favorireil rinnovamento tecnologico e organizzativodel fragile apparato produttivo locale. In realtàsi trattava di una risposta solo parziale ai pro-blemi del Mezzogiorno e all’esigenza di unacrescita autonoma e diffusa dell’apparato pro-duttivo e industriale locale. L’indiscutibile di-namismo attivato da queste forme di inter-vento, infatti, appariva limitato dal preponde-rante ruolo della grande industria “esterna” elegata allo Stato, a scapito della piccola e me-dia impresa locale, e dalla concentrazione dellosviluppo nell’area industriale campana. Il rista-gno complessivo del Mezzogiorno nel periodofascista è segnalato dal calo del reddito medioper abitante, che si dimezzò rispetto a quellosettentrionale. Le condizioni economiche e so-ciali meridionali si aggravarono con lo scoppiodella guerra – i cui bombardamenti avrebberoprovveduto a dissolvere gran parte degli im-pianti industriali meridionali – e con l’infla-zione determinata dall’immissione senza al-cuna regolazione delle “am-lire” con cui l’Ita-lia pagava le spese degli eserciti di occupa-zione al Sud. Poco efficace fu anche il “pianodi primo aiuto” alleato che doveva consentirele importazioni necessarie alla ripresa produt-tiva dell’Italia: alla fine del 1944 furono messe

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a disposizione risorse che corrispondevano allamassa monetaria delle “am-lire” poste in circo-lazione al Sud, accresciuta dalle rimesse indollari degli emigrati meridionali. L’obiettivoera di stimolare la ripresa della produzione nel-l’area meridionale liberata, ma la fine dellaguerra determinò la destinazione di questi fi-nanziamenti alla riattivazione dell’apparato in-dustriale concentrato al Nord.Negli anni della ricostruzione gli indirizzi dipolitica economica individuarono nell’indu-strializzazione l’obiettivo prioritario per assi-curare crescita economica e sviluppo; essaavrebbe dovuto coinvolgere le regioni meridio-nali, nella cui arretratezza economica si indivi-duava un fattore frenante della crescita dell’in-tero Paese. Veniva auspicata una modifica-zione qualitativa degli investimenti pubbliciper il Mezzogiorno, questa volta finalmente

orientati a incrementare la formazione di capi-tali direttamente collegati allo sviluppo produt-tivo. Una tale strategia poteva essere esemplifi-cata solo con la presenza e con l’affermazionedi un’industria di base di grandi dimensioni. Epoiché le stesse dimensioni delle aziende ri-chiedevano investimenti di capitali e di ricercadi non poco conto, accanto all’iniziativa pri-vata agiva contemporaneamente una “industriadi Stato” che aveva nell’Iri e nell’Eni i punti diriferimento. Per innescare il meccanismo auto-propulsivo, che avrebbe dovuto modificare ilmodello di economia dualistica, appariva poiindispensabile un intervento statale di caratterestraordinario e addizionale, inteso a creare nelMezzogiorno condizioni di convenienza perl’investimento industriale, intervento che trovòattuazione nella creazione della Cassa per ilMezzogiorno nel 1950.

Le false promesse dell’industria di base

La logica della realizzazione di economie di scala all’interno di grandi impianti operanti soprattuttonei settori di base (metallurgia, chimica, energia) o nei comparti di produzione di beni di consumo du-revoli e di mezzi di trasporto caratterizzò le politiche industriali dell’Italia nei primi decenni successivialla fine della seconda guerra mondiale. Il Mezzogiorno divenne la sede privilegiata per la localizza-zione dei grandi complessi produttivi della metallurgia e della siderurgia (Napoli-Bagnoli, Taranto),della chimica e petrolchimica (Porto Torres, Gela, Siracusa), nonché di quelli dell’industria manifattu-riera. Essi, infatti, non richiedevano un preesistente ambiente industriale; lavoravano prevalentementea ciclo integrale; producevano beni intermedi che andavano ad approvvigionare il sistema produttivosettentrionale. Per contro, abbisognavano di grossi impieghi di capitale. Risorse statali andarono alleimprese pubbliche e assicurarono incentivi creditizi e fiscali e contributi a fondo perduto ai privati.Vennero realizzate infrastrutture e servizi. La concentrazione degli interventi pubblici nell’industria dibase offriva vantaggi politici più certi alle forze di governo, rispetto a quanto sarebbe potuto avvenirecon uno sviluppo graduale e diffuso. Garantiva, inoltre, un potente effetto di immagine e permetteva diattivare lo scambio tra voti e posti di lavoro, proprio in quanto questi ultimi venivano offerti e control-lati da imprese pubbliche. Cominciò così a profilarsi un connubio tra pubblico e privato che doveva ri-velarsi, in seguito, catastrofico.Trainata dall’espansione della siderurgia pubblica e delle miniacciaierie, la produzione nazionale diacciaio tra il 1958 e il 1970 crebbe al tasso medio annuo dell’8,7%, mentre quella di ghisa del 12,5%.Nel decennio che va dal 1961 al 1971 a Taranto il saldo migratorio fu pressoché nullo e la popola-zione aumentò del 9,1%, rispetto al 6,7% dell’Italia e all’1,2% del Mezzogiorno. Ma nel frattempocirca 31.000 agricoltori abbandonavano le campagne per diventare operai all’interno dell’Italsider o

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2.4. Dalle aree di sviluppo ai distretti: Ca-smez e privati incentivati

A partire dagli anni Cinquanta i programmidi sviluppo economico per il Mezzogiorno siconformarono a una nuova filosofia che po-neva al centro dell’attenzione non più la re-gione in quanto unità amministrativa, ma laregione naturale o l’unità economica. Fu l’i-nizio di una sorta di “rivoluzione” della qualefu protagonista la Cassa per il Mezzogiornoistituita sul modello dell’esperienza statuni-tense della Tennessee Valley Authority, conlo scopo di avviare interventi pubblici attra-

verso complessi organici di opere, con unorizzonte temporale decennale, realizzate conuna spesa aggiuntiva pianificata e con proce-dure straordinarie.Si prese quindi atto che il Mezzogiorno nonera uno spazio omogeneo e per tale ragionenecessitava di interventi differenziati per in-tensità e qualità. Si identificarono così tre ti-pologie territoriali: le “aree di sviluppo inte-grale” (32% del territorio meridionale, 25%della popolazione), comprensori naturali deli-mitati da valli fluviali o piane che si presenta-vano come aree suscettibili di un’opera di va-lorizzazione organica; le “aree di sviluppo ul-

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nell’indotto che pian piano si formava all’ombra delle ciminiere. Su trentamila stipendiati della piùgrande industria del Sud, almeno la metà apparteneva a quella che Walter Tobagi definì, in una sua in-chiesta del 1979, la categoria dei “metalmezzadri”. Gli aumenti di produttività, resi possibili dal pro-gresso tecnologico, però, comportarono un aumento dell’occupazione estremamente ridotto. In partico-lare nel periodo 1962-1968 l’occupazione nel settore non subì alcun aumento, pur in corrispondenza diun’elevatissima crescita produttiva. Superata la fase del decollo industriale, prese avvio la fase della“disoccupazione di ritorno” in un clima che trasformò il territorio in cui si localizzavano i poli indu-striali in una polveriera di emergenze sociali pronta a esplodere. La dimensione degli impianti, la loroelevata intensità di capitale, il ricorso a investimenti anche a fronte di una bassa, talora nulla, redditi-vità, il ricorso smisurato a finanziamenti di istituti di credito (tra il 1959 e il 1970 il tasso d’indebita-mento totale crebbe di circa tre volte) non facevano dell’industria di base un candidato credibile per losviluppo di un’area con grande disponibilità di manodopera scarsamente qualificata. Quando la crisiinternazionale della metà degli anni Settanta colpì l’Italia, la struttura finanziaria di molte imprese eradebolissima, il peso degli oneri finanziari grande e, per di più, molti progetti di allargamento della ca-pacità produttiva (alcuni dei quali sovradimensionati) erano ancora in corso. A ciò si aggiunse la crisienergetica mondiale che mise in crisi costi e strutture dell’industria di base, contestata anche per il suonon più sostenibile rapporto con l’ambiente. La nuova divisione internazionale dell’economia, la glo-balizzazione dei processi industriali, la dinamica dei nuovi Paesi industrializzati hanno di fatto contri-buito a una rivisitazione, in chiave talora fortemente critica, delle strategie produttive, ma soprattuttodelle interrelazioni tra economia e territorio. Le grandi dimensioni produttive, infatti, avevano richie-sto non solo ingenti capitali, ma anche e soprattutto suolo su cui localizzare gli impianti e le infrastrut-ture necessarie per la movimentazione dei fattori produttivi, entrando in competizione con altri usi delterritorio e producendo su di esso pericolosi effetti di polarizzazione, le cui conseguenze sono ancoraoggi evidenti. La maggior parte di queste grandi industrie è ormai inattiva, altre in fase di ristruttura-zione e di riconversione, talune sono state privatizzate dopo una lunga stagione di controllo pubblicodel capitale, molte sono tuttora soggette a piani di risanamento e bonifica ambientale. In molti casirappresentano una sorta di “archeologia industriale” dal futuro ancora tutto da esplorare. Ma tutte,indistintamente, hanno segnato, nel bene e nel male, più o meno profondamente, l’organizzazione di unterritorio che si espande ben al di là dei meri ambiti di localizzazione.

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teriore” (3,9% della superficie, 25% della po-polazione), gravitanti intorno ai maggiori ag-glomerati urbani e dotate di un pur minimosviluppo industriale; le “aree di sistema-zione”, prive di risorse naturali, per le qualinon si poteva ragionevolmente prospettare unprocesso di industrializzazione, ma si dove-vano prevedere opere di difesa del suolo e direalizzazione di servizi sociali. Uno dei risul-tati di questa visione, però, fu il rafforza-mento degli squilibri territoriali tra zone in-terne e zone costiere, aree urbane e aree ruralie tra le diverse armature urbane: il 64% delterritorio del Mezzogiorno, in cui risiedevaquasi il 50% della popolazione, venne infatticonsiderato residuale e marginale e divennecentro di irradiazione di quei flussi migratoriche portarono poi al tramonto dell’antica ci-viltà contadina.Il consistente fondo di 1.280 miliardi di liredell’epoca, in cui veniva incanalata ancheuna parte dei finanziamenti per la ricostru-zione proveniente dagli Stati Uniti, venne de-

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stinato per circa il 90% a programmi di boni-fica, di trasformazioni fondiarie e alla realiz-zazione di acquedotti, con l’obiettivo di mo-dernizzare il paesaggio meridionale attra-verso una più ordinata sistemazione e funzio-nalità dello spazio.Malgrado tutti i suoi limiti, il primo venten-nio dell’intervento straordinario – che, nelfrattempo, da aggiuntivo era divenuto sostitu-tivo di quello ordinario – sembrò chiudersi inmodo positivo, con una scossa alla situazionedi stallo in cui il Mezzogiorno si trovava: ilreddito, al netto dell’inflazione, era cresciutodi due volte e mezzo, il peso dell’agricolturanella formazione del reddito si era dimezzato,anche se l’occupazione nel settore era ancoraequivalente a un terzo di quella totale. Nelcomplesso si intravedevano i prodromi di unosviluppo urbano-industriale. Alle bonifiche sisostituì un tipo di infrastrutturazione che, at-traverso la viabilità, tentava di ricucire le frat-ture territoriali e di integrare le zone internecon quelle costiere. Per l’intero decennio de-

Fig. 3 – L’industria manifatturiera nel Mezzogiorno prima e dopo l’intervento straordinarioIl raggio dei circoli è proporzionale al numero di addetti del settore

Fonte: Istat, Censimenti industria e servizi

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gli anni Sessanta l’espansione restò regolare ecostante, ma già cominciava a trasparire comel’infrastrutturazione non fosse di per sé piùsufficiente ad avviare un sostenuto processodi sviluppo, ma occorresse estendere l’inter-vento al settore industriale. In tale prospettiva venne approvata la leggesulle aree e i nuclei industriali, che imposel’obbligo per le imprese a partecipazione sta-tale di collocare al Sud il 60% dei nuovi im-pianti. Inoltre, finanziamenti agevolati e sgravifiscali dovevano servire a diffondere la localiz-

zazione nel Meridione anche di piccole e me-die industrie. Si moltiplicarono, così, indiscri-minatamente le “aree di sviluppo industriale” ei “nuclei di industrializzazione” – che inveceavrebbero dovuto essere limitati di numero estrategicamente localizzati – senza tuttaviaprovocare effetti diffusivi apprezzabili in ter-mini di crescita e di sviluppo, anche a causadella mancanza di strumenti in grado di ferti-lizzare gli spazi intermedi. Dopo alcuni annigli incentivi furono estesi alla grande industria,privata e pubblica, che nel Sud realizzò cospi-

Agevolazioni finanziarie per le iniziative industrialiRiordino/creazione istituti speciali per il credito agevolato(dal 1953)Contributi a fondo perduto (dal 1957)Contributi in conto canoni (dal 1976)

Agevolazioni finanziarie per centri e progetti di ricerca(dal 1976)Contributi a fondo perdutoFinanziamenti agevolati

Agevolazioni finanziarie per l’offerta e la domandadi servizi (dal 1986)Servizi di consulenza e organizzazioneServizi di consulenza tecnico-economicaServizi resi dalle società di revisioneServizi per la pubblicitàServizi di informatica e di telecomunicazione

Agevolazioni per l’imprenditorialità giovanile(dal 1986)Contributi a fondo perdutoFinanziamenti agevolatiContributi in conto gestioneServizi reali (assistenza tecnica e formazione imprendito-riale)

Riserva degli investimenti delle Partecipazioni Statali(dal 1957)

Agevolazioni fiscali (dal 1957)Esenzione decennale imposta locale sui redditiRiduzione allo 0,50% dell’imposta di registro sugli attidi fusione tra societàRiduzione del 50% dell’imposta di consumo sull’energiaelettrica per forza motrice

Contratti di programma per la localizzazione digrandi impianti e consorzi di PMI (dal 1986)Realizzazione opere infrastrutturaliAgevolazioni finanziarie per le iniziative produttiveAgevolazioni finanziarie per la ricerca Formazione e riqualificazione professionale

Consorzi per le aree di sviluppo industriale (dal 1957)Contributi finanziari per l’infrastrutturazione delle areeper gli insediamenti industriali

Partecipazioni finanziarieFIME - Assunzione di partecipazioni finanziarie nel ca-pitale sociale di PMI industriali (dal 1965)

Assistenza tecnica e formazione professionaleIASM (dal 1961) FORMEZ (dal 1961)

Sgravi dei contributivi previdenziali (dal 1968)Parziali (generali, aggiuntivi, supplementari)

Totali (decennale, annuale)

34 Il Sud, i Sud. Geoeconomia e geopolitica della questione meridionale

Tab. 4 – Principali misure dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno aventi rilievo per lo sviluppodell’industria (1950-1995)

Fonte: Padovani e Servidio (2010)

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cui investimenti. In quasi tutte le regioni fiori-rono le “cattedrali nel deserto”, grandi impiantiperlopiù siderurgici, petrolchimici e – da Ta-ranto a Brindisi, fino all’Alfa Romeo a Pomi-gliano e la Fiat a Melfi e Cassino – che nonavevano quasi nessun legame con il territorioin cui erano ubicati e che rispondevano a logi-che e interessi di politica industriale nazionale,piuttosto che alle politiche per il Mezzogiorno.Gli investimenti prevalentemente nei settori dibase ad alta intensità di capitale e a ciclochiuso, però, non erano tecnicamente in gradodi trascinare lo sviluppo, favorendo la nascitadi piccole e medie imprese. I grandi gruppieconomico-finanziari trovarono nel ceto poli-tico locale e nella stessa Cassa un debole inter-locutore, incapace di arginare l’incontrollataspoliazione del territorio e l’accaparramentodei generosi incentivi statali che hanno con-corso ai deludenti risultati della seconda fasedell’intervento straordinario.All’appuntamento con l’industria, dunque, ilMezzogiorno non solo giunse impreparato,ma anche tardi: la rivoluzione tecnologica einformatica, infatti, apriva già le porte allafase post-fordista dell’industrializzazione. Siassisteva allora all’inizio del tramonto della“modernizzazione dall’alto” che nel decenniosuccessivo sfociò nell’esautoramento e nellachiusura definitiva della Cassa e degli enti aessa collegati, con l’amara constatazionedella sproporzione tra i risultati ottenuti e ilvolume di risorse che la collettività nazionaleaveva destinato al Mezzogiorno, lasciandoloa metà del suo percorso: non più una societàagricola, non ancora una società urbano-in-dustriale. I dati del censimento del 1981 ri-propongono un Mezzogiorno diverso daquello degli anni Cinquanta, con uno svi-luppo diseguale e una sorta di rovesciamentodelle gerarchie spaziali: le maggiori concen-

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trazioni urbane stavano subendo un’involu-zione, mentre alcune delle aree di sviluppointegrale sembravano sul punto di uscire dal-l’arretratezza grazie a un’urbanizzazione piùdiffusa accompagnata dal sorgere di piccole emedie imprese.

2.5. La de-industrializzazione degli anni Ot-tanta e i tentativi di rimedio: i distretti

Nel generale processo di de-industrializza-zione che ha caratterizzato il Mezzogiornodagli anni Ottanta, l’insieme dei distretti in-dustriali ha rappresentato e rappresentaun’ancora di salvezza. Mentre i distretti industriali del Centro-Nordsi sviluppano spesso a partire dall’industriatessile, la presenza di un’industria tessile al-l’origine della nascita di distretti nel Mezzo-giorno è registrata con certezza solo a Mar-tina Franca, nel Napoletano e in alcune zonedell’Abruzzo. Fondamentale in tutti i distrettimeridionali è la disponibilità di risorseumane, presente anche nelle aree del Sud incui questi non si sono sviluppati. La disponi-bilità di capitale non sembra essere un fattorecentrale per spiegare lo sviluppo, soprattuttoper via della connotazione labour intensivedelle produzioni prevalenti nei distretti meri-dionali. La disponibilità di infrastrutture loca-lizzate, ad esempio di suoli attrezzati per gliinsediamenti produttivi, non è, in genere, unfattore produttivo rilevante; anzi, la maggiorparte delle imprese distrettuali nasce al difuori di aree appositamente attrezzate. La geografia non favorisce certo i distrettimeridionali, essendo lontanissimi dai grandimercati di sbocco; ciononostante, in media ol-tre il 70% delle vendite dei distretti si realizzain aree extrameridionali – disponibilità e co-

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sto del trasporto di merci sono fattori decisivi. Un ruolo relativamente importante nella na-scita dei distretti è rappresentato dalle tradi-zioni artigiane locali. Riguardo a questoaspetto, i distretti meridionali possono essereraccolti in tre principali gruppi:

1) tradizioni artigiane decisive; 2) nati comunque a partire da un piccoloartigianato locale; 3) assenza di tradizioni.

Tuttavia, diverse analisi negli ultimi anni hannoevidenziato il forte livello di effervescenza im-prenditoriale di diverse realtà locali. Si stannoaffermando nel Mezzogiorno diversi sistemi lo-cali produttivi che presentano anche interes-santi potenzialità di apertura sui mercati esteri.In effetti il valore medio dell’incidenza del fat-turato esportato su quello totale è pari al 45% e,se si considera che larga parte della produzionedi queste aree si dirige sui mercati di altre re-gioni, ne deriva che il riferimento delle impreselocali al mercato di prossimità è molto mode-

sto. In considerazione della minore presenza lo-cale, e probabilmente anche della minore capa-cità di attivare un sistema di interdipendenzecon altri settori che compongono l’export di-strettuale indiretto, molto diversa è la capacitàdi trascinamento del complesso sistema econo-mico da parte di queste realtà produttive locali.Infatti, mentre a livello nazionale l’export di-strettuale incide per il 43% su quello comples-sivo, l’export distrettuale nel Mezzogiorno èmeno del 16% di quello dell’area. Si può dunque ritenere che, nonostante la mi-nore presenza di realtà distrettuali nel Mezzo-giorno (va ricordato che queste incidono permeno del 10% sul complesso delle aree di-stretto nazionali, sebbene con una tendenza increscita), quelle presenti fanno rilevare unadecisa apertura ai mercati. Benché il loro di-namismo sui mercati esteri sia comunque in-feriore rispetto al dato medio del Mezzo-giorno, la situazione complessiva lascia bensperare per il futuro, purché si dimostri unacontinua capacità di innovare e di inserimentonei circuiti alti della competizione. Non si

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Fig. 4 – L’industria manifatturiera nel Mezzogiorno negli anni della de-industrializzazioneLa dimensione dei simboli è proporzionale al numero di addetti del settore

Fonte: Istat, Censimenti industria e servizi

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può, tuttavia, trascurare la circostanza che sitratta comunque di fenomeni che attualmenteincidono in maniera ancora modesta sul com-plesso delle esportazioni dell’area e, pertanto,da essi non ci si può attendere – almeno nelbreve periodo – quella spinta sull’economialocale che invece caratterizza il complessodelle realtà distrettuali del Paese anche permerito della maggiore massa di esportazioniche sviluppano.Per quanto riguarda il ruolo del decentra-mento produttivo, l’esperienza dei distrettimeridionali è assai varia. In questo caso la

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letteratura individua tre differenti gruppi didistretti:

1) casi in cui il decentramento è fonda-mentale; 2) casi in cui aiuta lo sviluppo di distrettigià nati; 3) casi in cui è irrilevante.

Per diversi distretti è fondamentale il ruolo diimprese “motrici”, quelle cioè che avvianoper prime la produzione o realizzano innova-zioni di processo e/o di prodotto decisive, de-

Tab. 5 – I principali distretti industriali nel Mezzogiorno

Distretti Prodotti 1) Pelletteria teramana Borse e articoli da viaggio in pelle 2) Abbigliamento nord-abruzzese Abbigliamento casual esterno 3) Calzature teramane Calzature da passeggio 4) Mobilio abruzzese Mobili per ufficio e per cucina 5) Abbigliamento sud-abruzzese Abbigliamento prevalentemente capi spalla 6) Calzature di Guardiagrele Calzature da passeggio 7) Abbigliamento di Isernia Abbigliamento esterno 8) Abbigliamento nord-barese Abbigliamento prevalentemente intimo e tute 9) Maglieria di Barletta Maglieria esterna 10) Calzature di Barletta Calzature per tempo libero e usi tecnici 11) Abbigliamento sud-barese Abbigliamento esterno 12) Abbigliamento del Salento Abbigliamento casual e accessori 13) Calzetteria sud-Salento Calze da uomo e bambino 14) Calzature del Salento Calzature da passeggio 15) Salotti della Murgia Divani e poltrone in pelle e tessuto 16) Corsetteria di Lavello Reggiseni e intimo donna 17) Abbigliamento del Sannio Abbigliamento esterno 18) Sete di San Leucio Tessuti in seta per arredamento 19) Abbigliamento nord-napoletano Abbigliamento esterno 20) Calzature napoletane Calzature da passeggio da uomo classiche e sportive 21) Pelletteria napoletana Borse e articoli da viaggio in pelle 22) Abbigliamento sud-napoletano Abbigliamento esterno 23) Concia di Solofra Pelli ovi-caprine conciate 24) Abbigliamento salernitano Abbigliamento 25) Abbigliamento della Sicilia centrale Abbigliamento esterno

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terminando conseguentemente la nascita difornitori e concorrenti. Nella maggior partedei casi l’impresa motrice è locale, anche senon mancano i casi di imprese “motrici” eso-gene. Le sorti evolutive delle imprese “mo-trici” sono molteplici: in certi casi esse scom-paiono dopo pochi anni, in altri casi, invece,hanno sfruttato il loro vantaggio competitivoiniziale per diventare le imprese “leader” deldistretto produttivo di riferimento. La do-manda locale gioca un ruolo assai importantenella nascita e nello sviluppo dei distretti: è ladimensione della domanda locale a consentireai distretti di nascere e successivamente rag-giungere dimensioni tali da scomporre il cicloproduttivo, acquisire, produrre e diffondereinformazione tecnica, esercitare un effetto du-raturo sul mercato del lavoro. In tutti i di-stretti meridionali le produzioni sono desti-nate (almeno inizialmente) al mercato locale.Tuttavia, la capacità di esportare è quasi sem-pre alla radice del successo. Alla base dellacapacità competitiva dei distretti meridionalivi sono stati diversi fattori in momenti di-versi. In tutti i casi, quando le produzionisono state avviate esse sono riuscite a difen-dere il proprio mercato locale o a espandersisu mercati non locali grazie, principalmente,al minor prezzo. Questo iter è fisiologico: chiinizia a produrre dopo ha meno conoscenze emeno esperienze sui prodotti, sui mercati,sulle tecnologie; chi produce in aree relativa-mente arretrate non ha condizioni di contestofavorevoli; chi produce in aree lontane daigrandi bacini di popolazione ha alti costi ditrasporto e di comunicazione; chi opera inaree in cui il volume complessivo di produ-zione è contenuto non si giova di economiedistrettuali: non ha fornitori specializzati, nonpuò reperire dirigenti e tecnici esperti. Le imprese meridionali riescono a praticare

prezzi inferiori alla concorrenza, nonostantele diseconomie ambientali, i sovracosti di tra-sporto e la mancanza dell’“effetto distretto”,grazie principalmente a un minor costo del la-voro. La capacità competitiva dei distretti me-ridionali cambia però con il tempo. Manmano che la produzione aumenta, i distrettiaffiancano progressivamente al costo del la-voro altri fattori in grado di dare loro un van-taggio competitivo, attraverso innovazioni diprocesso e organizzative. In generale ciò cheriduce più i costi totali, al di là del costo dellavoro, è l’organizzazione della produzione subase distrettuale. L’esistenza dei fornitori, larete dei trasportatori, l’abitudine a lavorareinsieme rendono questo vantaggio stabile edifficile da riprodurre. Vi è dunque una com-plessa dinamica dei fattori competitivi. Non sipuò certo sostenere che i distretti meridionaliabbiano ormai maturato capacità tali da met-terli al riparo dalla concorrenza internazio-nale. In molti casi, però, specie nei distrettipiù grandi, vi sono interessanti tendenze evo-lutive in atto.

2.6. Oggi: verso un nuovo modello di rela-zioni industriali? La fabbrica Marchionne

Negli ultimi decenni la competizione è dive-nuta sempre più globale anche per l’apertura dinuovi mercati a seguito della fine delle cosid-dette stagioni dittatoriali. In molti paesi, tra l’al-tro, la fine di un regime (è il caso della Roma-nia) o l’apertura verso un’accezione più mo-derna del concetto di “mercato” (valga per tuttil’esempio della Repubblica Popolare Cinese)hanno consentito anche la nascita di nuove op-portunità di riduzione dei costi di manodoperaper le storiche grandi imprese occidentali. Nelcontempo sono cambiate anche le esigenze dei

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consumatori, sempre più attenti, responsabili eprotagonisti della società dell’informazione: nelcampo automobilistico, ad esempio, è richiestapiù tecnologia, maggiore comfort e sicurezza,minori consumi. Si pensi a quanto sia diversauna utilitaria degli anni Ottanta dal modellocorrispondente di oggi. Il settore automobilistico è, forse, quello chemaggiormente ha risentito tanto della competi-zione globale quanto degli effetti della crisi eciò ha portato alla scomparsa o al ridimensiona-mento di marchi storici; e all’emergere di nuovigruppi (significativo il caso dell’indiana Tata).In questo complesso quadro si è resa necessariauna nuova politica di alleanze commerciali, dicondivisione degli investimenti nel settore Ri-cerca e Sviluppo, di utilizzo comune di semila-vorati o prodotti finiti, di ricerca di nuovi mer-cati e di delocalizzazioni delle fasi produttive odi assemblaggio. Ciò anche in considerazionedelle diverse politiche di “difesa” attuate oggidai governi, coinvolti anch’essi dal recente pe-riodo di crisi. I governi, costretti ad attuare po-litiche restrittive della spesa pubblica, non pos-sono come in passato dedicare le stesse risorsefinanziarie e le stesse attenzioni alle grandi im-prese. In pochi anni tutti i nodi sono venuti alpettine, i sovradimensionamenti e le specula-zioni si sono palesati gravemente e veloce-mente. È esattamente il caso italiano, in cui ilgruppo Fiat SpA, nato agli inizi del 2011, ha trai suoi obiettivi principali quello di imprimereuna svolta decisiva al mercato automobilisticoitaliano. Fiat SpA comprende Ferrari, Maseratie Fiat Group Automobiles (che controlla al100% Fiat, Alfa Romeo, Lancia e Abarth e hapartecipazioni rilevanti in Chrysler, Dodge,Jeep). Il Gruppo, coerentemente con quanto av-venuto in passato con Giovanni Agnelli, è oggiassociato alla figura di un solo uomo, il suoamministratore delegato Sergio Marchionne. A

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lui il compito di condurre l’azienda – attraversoun percorso non solo strategico e logistico, maanche culturale e sociale – al raggiungimentodegli ambiziosi obiettivi prefissati nel breve pe-riodo. La nuova morfologia del gruppo è il ri-sultato di cambiamenti importanti degli ultimianni e il Mezzogiorno è particolarmente inte-ressato a questi processi in rapido divenire se siconsidera che, ormai, la gran parte della produ-zione viene realizzata in stabilimenti localizzatiin regioni meridionali. Ma Pomigliano (5.200addetti e 70.000 veicoli) e Melfi (2.280 addettie 280.000 veicoli) sono in competizione infra-gruppo con gli stabilimenti Fiat in Brasile e Po-lonia che dimostrano livelli di produttività assaisuperiori: lo stabilimento brasiliano di Betimproduce 730.000 vetture all’anno con 9.400 di-pendenti, quello di Tychy in Polonia ha unaproduzione annuale che raggiunge le 600.000vetture all’anno con soltanto 6.100 dipendenti.Il Rapporto Svimez 2010 sull’economia delMezzogiorno, nell’evidenziare i danni del-l’assenza di opportune strategie di politica in-dustriale nei decenni precedenti, punta l’at-tenzione sugli effetti dei provvedimenti ri-guardanti lo sfortunato stabilimento Fiat diTermini Imerese e in particolare la sua impro-crastinabile chiusura entro il 2012. In effettigià nella scelta localizzativa dello stesso sta-bilimento siciliano – nato nel 1970 grazie alcontributo della Regione Siciliana e non peroculate scelte strategiche industriali – pote-vano essere ipotizzate le ragioni della suacrisi attuale. Il Rapporto sottolinea come lanuova idea della divisione internazionale dellavoro possa condurre, nelle aree non concor-renziali sul costo della manodopera (ed è ilcaso di Termini Imerese), a forme di desertifi-cazione del tessuto delle piccole industrie. Inpoche parole si sostiene che le nuove sceltelocalizzative degli impianti e il nuovo sistema

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di relazioni industriali potrebbero da un latomutare positivamente le sorti della singolaazienda, ma dall’altro alterare gli equilibri e ilsuccesso delle altre imprese di minori dimen-sioni che compongono l’indotto industriale.La “fabbrica Marchionne”, simbolo del nuovocammino intrapreso dalla grande industria, ècaratterizzata in modo forte da uno slancionei confronti di altri soggetti che da competi-tori divengono partners. Si tratta di un nuovoapproccio, di un vero e proprio modello di re-lazioni industriali che, rispetto al passato, va-lica i confini nazionali e perfino continentali.Ne è esempio il legame, sempre più incisivo estretto, fra Torino e Detroit. La distanza asso-luta è sempre meno importante a favore dellescelte strategiche e di mercato. Il punto dipartenza è quasi sempre una grande crisi cheinveste l’azienda. Lo scambio di know-how,lo sfruttamento di economie di scala e l’otti-mizzazione nell’utilizzazione degli impianti

creano nuove alleanze. In Italia il caso Fiatforse è il più eclatante, ma in realtà altregrandi imprese (si pensi ad Alitalia, Parmalato Telecom Italia) hanno basato la loro recente“resurrezione” facendo leva proprio su nuoverelazioni industriali. La “fabbrica Marchionne” inizia a farescuola. Aumentano, infatti, le aziende inten-zionate a disdire i contratti nazionali in atto ea imporre ai propri dipendenti accordi nuovie meno onerosi. A uscire allo scoperto finorasono state alcune associazioni industriali esingole imprese come Indesit, Sirti e Riva. Inalcuni casi – Electrolux di Forlì, Ducati Mo-tor e Lamborghini – lavoratori e aziende sonoriusciti a raggiungere accordi “straordinari”senza grossi clamori. Si tratta di processi chesembrano ormai inarrestabili e implicano quasinaturalmente conseguenze sociali come il supe-ramento dei contratti nazionali e dunque unaminore importanza della componente sindacale.

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IDE e TPA

In un contesto di crescente globalizzazione, gli Investimenti Diretti Esteri (IDE) rappresentano, comenoto, uno dei fattori strategici di maggior rilievo ai fini della crescita economica, non solo dei Paesi invia di sviluppo ma anche di singole aree o regioni deboli dei Paesi più avanzati.La capacità del Mezzogiorno di attrarre investimenti dall’estero è risultata, però, anche negli anni2000, nettamente inferiore rispetto a quanto si ravvisa nel resto del Paese, già di per sé caratterizzatoda un volume di IDE in entrata decisamente minore in confronto ai principali Paesi europei.In Italia il flusso annuo di investimenti esteri per abitante è stato negli ultimi anni di circa 305 euro,per 292 euro nel Centro-Nord e per appena 13 euro nel Mezzogiorno. Nella media UE tale valore èasceso a 800 euro e ha raggiunto i 1.500 euro in Irlanda, Paesi Bassi e Svezia e, tra i Paesi di nuovaadesione, i 500 euro in Estonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia. La quasi assenza di investimenti esteri nel Mezzogiorno è confermata in modo evidente anche dai datirelativi alla presenza di imprese estere in Italia della banca dati Reprint. Tali dati dimostrano che laquota del Sud sugli addetti nelle partecipate estere nel Paese risulta pari al 5,5%, di molto inferiorealle dimensioni economiche dell’area.All’interno di questo quadro, caratterizzato da una crescente divaricazione tra i due sistemi industriali,va però segnalato l’emergere nel Mezzogiorno di alcuni segnali positivi anch’essi, presumibilmente, in-dotti dalla pressione competitiva estera.Tra questi un elemento di interesse è costituito dalla crescita nel Sud dei “traffici di perfezionamento

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2.7. La struttura finanziaria: collasso e colo-nizzazione del sistema bancario meridionale

Nel corso degli anni Novanta il sistema crediti-zio e finanziario italiano conosce una trasfor-mazione tanto rapida quanto profonda. L’affer-marsi di un nuovo modello di vigilanza, la li-beralizzazione del mercato e l’espansione delleattività di gestione del risparmio, ne determi-nano, infatti, sia un aumento del grado di con-centrazione, sia una ristrutturazione. Una “dif-ficile metamorfosi” ha portato a un sistemabancario e finanziario molto diverso da quellodisegnato nel 1936.In Italia, a partire dal 1990 (anno in cui laLegge Amato-Carli ridisegna il modello ban-cario nazionale), il sistema creditizio italianoè stato investito da una profonda mutazione lecui conseguenze si sono manifestate, innanzi-tutto, nelle operazioni di concentrazione (fu-sioni e acquisizioni). Secondo la Banca d’Ita-lia, nel solo periodo 1990-2000, il sistemabancario è stato, infatti, interessato da ben ol-tre 200 acquisizioni e le fusioni e le acquisi-zioni bancarie hanno riguardato circa il 14%dei fondi intermediati. Sul mercato del credito del Mezzogiorno glieffetti dei cambiamenti sopra accennati sonostati notevoli. Quelli forse più evidenti sonoriassumibili nella drastica riduzione dellebanche con sede legale nelle regioni del Sud.In meno di un decennio, a seguito delle acqui-

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sizioni effettuate dai grandi gruppi con sedenel Centro-Nord, il sistema bancario meridio-nale subisce quella che Adriano Giannola haefficacemente definito come “integrazione di-pendente” con il sistema bancario del restodel Paese.

Nei Paesi con sistemi finanziari sviluppati(definiti nella letteratura di settore marketeconomies), le imprese reperiscono le risorsefinanziarie necessarie all’attività di investi-mento attraverso il ricorso al mercato. Al con-trario, nei Paesi con mercati finanziari relati-vamente meno sviluppati, le imprese, soprat-tutto quelle piccole, ricorrono prevalente-mente al credito bancario (banking econo-mies). Nonostante il consistente sviluppo, ilsistema finanziario e di borsa risulta, in Italiae ancor più nel Mezzogiorno, ancora relativa-mente arretrato, per dimensione e struttura,non solo rispetto alle market economies, maanche ad alcune banking economies. Ne con-segue che, per le imprese, i prestiti bancari ri-sultano la fonte predominante di finanzia-mento. Il mercato finanziario italiano è, in-fatti, caratterizzato da una dimensione mode-sta del mercato obbligazionario, da una ri-dotta capitalizzazione della borsa e, soprat-tutto, da un numero di società quotate ridottorispetto a quello degli altri Paesi avanzati. Inaltre parole, in un’economia come quella ita-liana e meridionale, in cui le PMI rappresen-

attivo” (i TPA sono importazioni temporanee di merci per la lavorazione e la successiva riesporta-zione), la cui quota sul totale nazionale è risultata, nel 2008, del 17%, valore di gran lunga più elevatorispetto a quello registrato dall’area per le altre forme di internazionalizzazione.Sebbene sotto il profilo qualitativo questa tipologia di internazionalizzazione non sia direttamente con-frontabile con altre proprie di sistemi economici più evoluti, essa può comunque rappresentare unaconcreta possibilità di inserire il Mezzogiorno nelle filiere transnazionali in cui si è riorganizzata laproduzione su scala mondiale, con indubbi effetti positivi per un’area che, proprio nella modesta inte-grazione con l’estero, trova un formidabile vincolo allo sviluppo.

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tano la quota prevalente del sistema produt-tivo, il sistema bancario gioca un ruolo fonda-mentale per lo sviluppo economico. La letteratura e l’esperienza hanno mostratocome il modello più efficace di finanziamentodelle PMI sia rappresentato da quelle forme di“fare banca” che trovano la loro origine in unpatrimonio di rapporti duraturi e fiduciari, ba-sati sulla conoscenza reciproca tra istituzionebancaria e impresa. L’esistenza di tali rapportitende, infatti, a ridurre le asimmetrie informa-tive tipiche del mercato creditizio e si può tra-durre in una disponibilità di linee di finanzia-mento relativamente più vantaggiose per leimprese. In tale contesto, i piccoli istituti dicredito possono essere considerati attori dellacrescita economica locale. Caratterizzati dauna forte connotazione locale, i piccoli istitutisembrano, infatti, capaci più dei grandi di in-

staurare i rapporti fiduciari di cui si giovanoprincipalmente le PMI, tessuto industriale dacui è ormai connotato il Mezzogiorno.Il sistema bancario del Mezzogiorno è statointeressato non soltanto dalle trasformazioniinterne al settore creditizio, ma ha visto talidinamiche intrecciarsi con quelle, più gene-rali, dell’economia meridionale. Per usare an-cora le parole di Giannola, “Le banche meri-dionali sono coinvolte nel repentino e pro-gressivo sfaldarsi del modello di economiaassistita che, dopo la fine delle politiche di in-dustrializzazione, ha dominato il Sud”. Per il sistema bancario del Mezzogiorno, icambiamenti iniziati con gli anni Novanta simanifestano, innanzitutto, attraverso un nu-mero elevato di acquisizioni e un aumentodella concentrazione (dovuto al fatto che leacquisizioni hanno avuto come obiettivo prin-

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Fig. 5 – Numero di banche in Italia e nel Mezzogiorno (1996-2010)

Fonte: nostra elaborazione su dati Banca d’Italia

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cipalmente i piccoli istituti, soprattutto di cre-dito cooperativo, operanti su scala locale). I dati mostrano come il Mezzogiorno e ilNord del Paese siano stati interessati da unaquota di acquisizioni sostanzialmente simile(circa il 40%); tuttavia, i processi sono statiradicalmente diversi. Mentre, infatti, nel Nordla quasi totalità delle acquisizioni è avvenutaall’interno della stessa ripartizione territo-riale, nel Mezzogiorno solo 9 acquisizioni su89 sono state realizzate da banche aventi sedelegale nell’area. Le implicazioni derivanti datale dinamica sono evidenti: nel corso deglianni Novanta, un numero elevato di banchelocali è stato acquisito da gruppi bancariesterni. Tra il 1990 e il 2010, il numero dibanche con sede legale nelle regioni meridio-nali è diminuito di oltre la metà passando da

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313 a 148; questa diminuzione si è accompa-gnata all’ingresso delle principali banche me-ridionali in gruppi bancari nazionali. Le ra-gioni dell’espansione dei grandi gruppi ban-cari verso le regioni meridionali sono diverse.Tra queste ha certo pesato la capacità di ri-sparmio riscontrabile in queste regioni e,quindi, la possibilità di convogliare la rac-colta verso settori o aree con rendimenti ele-vati. Una conferma indiretta di tale ipotesiproviene dal rapporto tra prestiti e depositinelle due aree territoriali. Il rapporto prestiti/depositi nel Mezzogiorno,oltre a essere significativamente più basso ri-spetto a quello riscontrabile nel resto delPaese, mostra un andamento divergente ri-spetto a quello del Centro-Nord. Ciò significache, nelle regioni meridionali, il livello degli

Fig. 6 – Dinamica degli sportelli bancari in Italia e nel Mezzogiorno (1996-2010)

Fonte: nostra elaborazione su dati Banca d’Italia

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impieghi tende a essere via via inferiore ri-spetto ai depositi. In altre parole, queste re-gioni rappresentano mercati di raccolta del ri-sparmio il quale viene “drenato”, per succes-sivi impieghi, verso altre regioni del Paese conrendimenti maggiori o con minore rischiosità. Tuttavia, la possibilità di accesso al creditobancario costituisce una conditio sine qua nondello sviluppo economico regionale poiché ivincoli al credito si traducono in un minorprocesso di accumulazione del capitale e,quindi, in una minore capacità di produzionedell’economia. Il rapporto tra prestiti e depositi bancari, cui sifaceva cenno in precedenza, mostra come ilMezzogiorno sia principalmente un mercato diraccolta, non d’impiego, del risparmio banca-rio. Ciò segnala come le risorse finanziarie(provenienti dal sistema creditizio) siano, inquest’area, utilizzate in misura inferiore ri-

spetto al Centro-Nord. Quest’evidenza è raf-forzata dal fatto che nel Mezzogiorno gli im-pieghi costituiscono una quota significativa-mente inferiore del prodotto, e ciò sembra in-dicare come il sistema produttivo dell’area uti-lizzi una quota considerevolmente inferiore,rispetto al resto del Paese, delle risorse finan-ziarie rese disponibili dal sistema bancario. Si può dunque amaramente concludere che leregioni meridionali rimangono (pur in pre-senza di una propensione al risparmio analogaal resto del Paese) ancora mercati di raccoltae non d’impiego e che i risparmi raccolti nel-l’area finanziano regioni meno rischiose, opiù remunerative, per gli istituti creditizi. Ilsistema produttivo dell’area beneficia, quindi,delle risorse finanziarie provenienti dal si-stema bancario in misura inferiore rispetto alCentro-Nord e questo riduce sensibilmente lesue capacità di crescita.

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3. Contadini e cittadini: trasformazioni del paesaggio agrario e della società rurale

trando l’industria nelle regioni centro-setten-trionali. Diverse, invece, sono le considera-zioni relative al periodo post-unitario,quando nasce la questione meridionale e losviluppo economico e sociale del Mezzo-giorno emerge all’attenzione politica. A quel-l’epoca, lo sviluppo dell’agricoltura meridio-nale avrebbe potuto comportare, come era ac-caduto in altre aree del Paese, l’affermazionedi un ceto imprenditoriale in grado di soste-nere – anche grazie al concomitante processodi accumulazione del capitale – un’industria-lizzazione di matrice endogena, con un forteradicamento territoriale. Oggi – e ancor piùall’indomani del secondo conflitto mondiale– il rapporto si è invertito e “l’industrializza-zione è una condizione, e non, come i piùsembrerebbero ritenere, una conseguenza alungo termine della valorizzazione agricola”(Compagna, 1980). Ne consegue che lo svi-luppo dell’agricoltura dipende, principal-mente, dalla presenza di un’imprenditoria ingrado di interpretare in maniera innovativa levocazioni produttive del territorio, valoriz-zandone le differenti potenzialità.Un’errata valutazione della vocazione agricoladel Mezzogiorno è alla base di inopportunescelte di pianificazione produttiva, da cui sonoderivati assetti agronomici insostenibili sottoil profilo economico e ambientale. Del resto,oltre a vincoli di matrice culturale, che sono difatto comuni ad altri settori produttivi delMezzogiorno, l’agricoltura sconta condiziona-menti di matrice ambientale, relativi alle con-dizioni di contesto, prime tra tutte quelle natu-rali, notevolmente penalizzanti. Manlio RossiDoria, all’inizio degli anni Cinquanta, sottoli-

3.1. La vocazione agricola del Mezzogiorno,tra mito e realtà

Troppo spesso si è enfatizzato il mito di unMezzogiorno da industrializzare facendo levasu di un – ipotetico – ricco potenziale agri-colo da valorizzare. La realtà è ben diversa,come osservava Francesco Compagna sindall’inizio degli anni Ottanta:

“Il richiamo del Nord – ormai consuetonella sua ricorrenza – alla considerazioneche la politica meridionalistica avrebbe do-vuto dedicare maggiore impegno alla valo-rizzazione dell’agricoltura, e non disper-dersi all’inseguimento di una mitica indu-strializzazione, corrisponde a un pregiudi-zio; tale quando lo si consideri in base al-l’argomento che la politica meridionalisticaavrebbe trascurato l’agricoltura e talequando lo si consideri in base all’argo-mento che l’agricoltura mediterranea delSud offrirebbe cospicue risorse”.

Perché non è vero affatto che l’agricolturanon abbia avuto adeguato peso nelle politichedi sviluppo del Mezzogiorno, né che la stessanon possedesse – e non possegga, tuttora –notevoli potenzialità inespresse. Piuttosto, vachiarito che, prescindendo da vere o presunte“vocazioni” agricole del Mezzogiorno, altret-tanto non vero è che si sarebbe potuto affi-dare al mondo agricolo il compito di colmareil divario economico con il resto del Paese.Del tutto utopico, infatti, immaginare di poterincentrare lo sviluppo del Paese destinando alMezzogiorno il primato agricolo e concen-

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neava come i fattori che avevano sino ad al-lora ostacolato lo sviluppo agricolo del territo-rio meridionale erano ascrivibili alla morfolo-gia (un territorio prevalentemente montuoso ecollinare), alle formazioni geologiche domi-nanti (prevalenza di formazioni sedimentarieterziarie, conglomerati del miocene ed eocene,argille dell’eocene e del pliocene, sabbie delpliocene), causa di fenomeni franosi ed ero-sivi, e alle stesse condizioni climatiche. Sic-ché, “il mancato sviluppo del Mezzogiorno hauna spiegazione obiettiva nella natura stessadei suoi territori” (Rossi Doria, 1953): ragio-namento che offre un quadro abbastanza reali-stico e disincantato della presunta vocazioneagricola di larga parte dello spazio meridio-nale d’Italia. Larga parte, perché sin dall’uni-ficazione il Mezzogiorno svelava un modelloagricolo dicotomico con non rare aree fiorentidi colture intensive, a fronte della maggior su-perficie dominata da un’agricoltura intensivacon rese molto modeste. Se questo, realistica-mente, è il quadro dell’agricoltura meridionaleentro il quale si sarebbe inserito l’interventodella Cassa per il Mezzogiorno, è pur vero chenon si sarebbe trattato di scarso impegno e ca-renza di progettazione dell’intervento straordi-nario quanto, più correttamente, di situazioniproblematiche assai complesse da dipanareper conseguire effetti di efficace sviluppo. Tral’inizio degli anni Cinquanta e la metà deglianni Sessanta l’agricoltura meridionale visse,indubbiamente, un periodo di grande espan-sione e rinnovamento, sostenuta, soprattutto,dall’intervento straordinario che consentì lebasi per una sensibile trasformazione socialesenza, tuttavia, riuscire a incidere sul perdu-rante divario economico con le regioni centro-settentrionali. Come scrisse De Benedictis nel1980, commentando la situazione dell’agricol-tura sul finire di quel decennio:

“Nonostante la rapida crescita della produ-zione agricola, accompagnata da una sensi-bilissima riduzione della forza lavoro impe-gnata nel settore, occorre constatare che ildivario Nord-Sud, anche nei riguardi delsettore agricolo, non solo continua ad esi-stere, ma è caratterizzato da dimensioni so-stanzialmente identiche a quelle esistenti ne-gli anni ’50: la produttività per addetto eranel 1950 pari ad appena i due terzi di quelladelle regioni settentrionali e tale rimane an-cora a metà degli anni ’70; anche in terminidi peso del settore sulla formazione del pro-dotto lordo, l’agricoltura occupa oggi nelMezzogiorno un posto uguale a quello cheessa occupava a livello nazionale a metà de-gli anni ’50”.

I limitati benefici delle riforme agrarie, lamancata modernizzazione del settore, unoscarso livello di professionalizzazione del-l’imprenditoria agricola e, allo stesso tempo,la mancata integrazione dell’agricoltura in unsistema agroalimentare in grado di enfatiz-zare le valenze competitive sono i principalifattori che hanno frenato lo sviluppo dell’a-gricoltura meridionale. Infine, a indebolirel’agricoltura meridionale ha peraltro contri-buito – dalle prime alle più recenti formula-zioni – la stessa Politica Agricola Comunita-ria (PAC) che ha utilizzato strumenti d’inter-vento maggiormente indirizzati verso conve-nienze proprie delle regioni settentrionali eu-ropee, a danno dell’agricoltura meridionale edei suoi specifici plus competitivi. La nuovaPAC se, da un lato, facendo tesoro dell’espe-rienza maturata, si concentra sullo svilupporurale, ridefinendo e ampliando il ruolo del-l’agricoltura, dall’altro, comportando una ri-duzione degli interventi di mercato, esponel’agricoltura alla concorrenza internazionale;una condizione, quest’ultima, che rischia di

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penalizzare fortemente il Mezzogiorno in ra-gione delle minori capacità competitive delsuo sistema agricolo.

3.2. Recenti tendenze evolutive

Il valore aggiunto dell’agricoltura meridio-nale nel 2009 ha prodotto 10.153 milioni dieuro, pari al 3,2% del valore aggiunto totaledell’area. Rispetto al Centro-Nord (1,4%)emerge la maggiore rilevanza che il settore ri-veste all’interno dell’economia del Mezzo-giorno. Tuttavia, nel medio periodo, tale rile-vanza appare decisamente decrescente; pur secon più moderata accelerazione che nel restodel Paese. Un analogo andamento flessivo si è registratosul fronte occupazionale. Le unità di lavoro at-tivate dal settore agricolo nel complesso delleregioni meridionali si sono infatti ridotte nelcorso degli ultimi quindici anni di oltre il30%: dalle 821.000 del 1995 alle 571.000 del2009. L’incidenza occupazionale del settore,di conseguenza, si è notevolmente ridotta, dal13% all’8,8%, diversamente dal Centro-Nord,dove si è registrato un trend flessivo minore diben 10 punti (cfr. fig. 7). La maggiore flessione occupazionale che si re-gistra nel Mezzogiorno, per le ragioni di cui di-remo, non è addebitabile all’introduzione di in-

novazioni colturali di tipo labour saving, ma al-l’aumento del lavoro irregolare, favorito da dif-fusa immigrazione illegale e conseguente sotto-remunerazione della componente lavoro. Altraparticolarità del Mezzogiorno risiede nellacomposizione dell’occupazione in termini di ri-partizione tra unità di lavoro dipendenti e indi-pendenti. Mentre nel Centro-Nord le prime co-stituiscono meno di un terzo del totale (28,5%),nel Mezzogiorno si attestano intorno a quasi lametà delle unità di lavoro agricole (cfr. fig. 8).Si tratta di un fattore di divergenza che ha unamatrice causale assai complessa, ma in cuigioca un ruolo assai importante ai fini della red-ditività economica il differente quadro agrono-mico e zootecnico e il diverso livello di mecca-nizzazione del settore agricolo.Ma ciò che più preoccupa è il divario di pro-duttività tra il Mezzogiorno e la circoscrizionecentro-settentrionale: il differenziale resta ele-vato (-27% nel 2009) pur se nel periodo consi-derato (1995-2009) il valore aggiunto perunità di lavoro è cresciuto più nelle regionimeridionali che nel resto del Paese (cfr. fig.9). Divario che non riesce affatto a ridursi,come osservava già De Benedictis negli anniOttanta nel confronto con gli anni Cinquanta,restando, tuttora, pressoché invariato.Conseguentemente emerge come l’agricolturameridionale continui a esprimere livelli dicompetitività insoddisfacenti, semmai non più

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Circoscrizione 1995 2000 2005 2009

Mezzogiorno 5,3 4,5 4 3,2

Centro-Nord 2,7 2,3 1,7 1,4

Tab. 6 – Evoluzione comparata dell’incidenza del valore aggiunto prodotto da agricoltura, silvicol-tura e pesca

Fonte: nostra elaborazione su dati Istat

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da addebitarsi a fattori prevalentemente strut-turali (legati cioè all’organizzazione del set-tore agricolo), bensì amplificati da fattori con-giunturali o di scenario: in primo luogo dallariallocazione dei flussi commerciali tra Paesiavanzati e Paesi emergenti, dai cambiamentinelle ragioni di scambio tra agricoltura e altrisettori, dalle modifiche della politica agricolacomunitaria e dagli effetti che ne sono derivatiin termini di produzioni (Svimez, 2010).Dalla prospettiva strutturale, la crisi di compe-titività dell’agricoltura meridionale è addebita-bile in larga misura alla perdurante stagna-zione degli investimenti, il cui livello, soprat-tutto se paragonato al Centro-Nord, appare deltutto inadeguato a sostenere significativi mi-

glioramenti di produttività. Nel corso dell’ul-timo decennio gli investimenti, a valori conca-tenati, si sono ridotti del 16%, accrescendo ildivario con il Centro-Nord, tra investimentifissi lordi e valore aggiunto, di ben 12 puntipercentuali, con valori pari rispettivamente al33% e al 45%. La carenza di decisioni di inve-stimento, ovviamente, indebolisce ulterior-mente – e soprattutto in chiave prospettica – lacompetitività delle produzioni meridionali, al-lontanando ancor di più la prospettiva di un ri-allineamento con le regioni centro-settentrio-nali e peggiorando le prospettive di mercatonei confronti dei più diretti concorrenti dell’a-rea euro-mediterranea.Oltre al problema del basso livello degli inve-

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Fig. 7 – Evoluzione occupazionale comparata del settore ASP (1995-2009)

Fonte: nostra elaborazione su dati Istat

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stimenti, l’agricoltura meridionale trova frenonella stessa caratterizzazione dimensionale delsuo tessuto produttivo, tuttora contraddistintodalla prevalenza di aziende con una superficieagricola utilizzata insufficiente a garantire –tenuto conto dei quadri colturali e delle condi-zioni di mercato – livello di reddito adeguati.Le più recenti rilevazioni disponibili (Istat,2007) registrano 959.642 aziende agricole,pari al 57,2% del totale nazionale, ma questaincidenza varia notevolmente a secondadella classe dimensionale: dal 65,1% nellaclasse delle aziende che dispongono di unaSAU inferiore a 1 ettaro, al 40,7% di quellecon 50 ettari e oltre. Avverse condizioni di mercato, spinta concor-

renza e dinamica dei prezzi negativa hannodeterminato un processo di razionalizzazionedell’agricoltura meridionale che ha prodottola fuoriuscita dal mercato delle aziende di mi-nori dimensioni che, nel solo periodo 2003-2007, ha visto scomparire oltre 200.000aziende (-17,3%), praticamente concentratenella classe dimensionale delle imprese conmeno di un ettaro di SAU. Classe che ha su-bito una contrazione del 37,2%, mentre digran lunga inferiori, se non marginali, sonostate le variazioni che si sono registrate nellealtre classi dimensionali.Le trasformazioni che hanno dato corpo alprocesso di razionalizzazione della strutturasettoriale hanno coinvolto, inevitabilmente, le

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Fig. 8 – Composizione occupazionale comparata del settore ASP (2009)

Fonte: nostra elaborazione su dati Istat

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superfici agricole utilizzate, ridottesi nel pe-riodo considerato di appena il 3,7%, quasiesclusivamente nella classe delle superfici in-feriori a 1 ettaro.Se ne conclude che l’agricoltura meridionalecontinua a mostrare divari significativi, so-

prattutto in termini strutturali, sia rispetto almodello centro-settentrionale, sia rispetto adaltre regioni agricole dell’Unione Europea.Una condizione che la espone intensamentealla crescente pressione competitiva esercitatadalla concorrenza internazionale, col rischio

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CircoscrizioneClassi di SAU (ettari)

TotaleMeno di 1 1 - 2 2 - 5 5 - 10 10 - 20 20 - 50 50 e oltre

Mezzogiorno -37,2 -4,3 -9,2 -1,3 1,9 -0,1 -1,9 -17,4

Centro-Nord -31 -2,8 -2,4 -1,4 -0,3 -8 -0,3 -10,4

Tab. 7 – Variazione percentuale del numero di aziende per classi di SAU (2003-2007)

Fonte: nostra elaborazione su dati Istat

Fig. 9 – Evoluzione comparata dei livelli di produttività (valore aggiunto per addetto)

Fonte: nostra elaborazione su dati Istat

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che un progressivo ridimensionamento del set-tore agricolo andrebbe ad accrescere il divarioeconomico e occupazionale con le altre areedel Paese, e avrebbe ripercussioni ancor piùnegative sull’ambiente e sul paesaggio, coneffetti depressivi particolarmente intensi pro-prio in quelle aree rurali di cui l’Unione Euro-pea si prefigge integrazione e valorizzazione.

3.3. Il “disagio” del mondo agricolo e le “op-portunità” dell’industria alimentare

L’agricoltura nel Mezzogiorno è oggi dinanzi auna svolta epocale: o rinnovarsi, investendo ri-

sorse e competenze nello sviluppo di nuove fi-liere produttive – da quelle legate alle produ-zioni biologiche e di qualità, in cui già emer-gono significative eccellenze, a quelle più con-troverse, legate alle produzioni energetiche –stabilendo rapporti sinergici e interattivi con isettori a valle, attraverso la cooperazione istitu-zionale e l’innovazione tecnologica e produt-tiva; o rassegnarsi a un lento e inesorabile de-clino, con conseguente perdita di uno dei piùimportanti riferimenti identitari del territorio.Sicché, dopo circa sessant’anni, valgono ancorale considerazioni di Rossi Doria per il quale ilfuturo dell’agricoltura meridionale “deve fon-darsi su due assi: la tecnologia e la cultura”.

Fig. 10 – Composizione comparata delle aziende agricole per classi di SAU (2007)

Fonte: nostra elaborazione su dati Istat

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Secondo molti, un freno allo sviluppo dell’agri-coltura meridionale è ascrivibile alle carenze diun’industria alimentare sufficientemente com-petitiva e dinamica. Si osserva, infatti, che nelleregioni settentrionali proprio lo sviluppo del re-lativo comparto industriale aveva trainato losviluppo delle produzioni agricole. Tuttavia,questo ragionamento sembra condivisibile conriferimento al periodo tra il secondo dopo-guerra e gli anni Settanta, in ragione dellastretta interazione originaria tra i due settorieconomici, mentre, ormai, nei decenni più re-centi non è più accetta. Le modificazioni inter-venute nell’economia mondiale, la posizionecompetitiva delle produzioni italiane e il pesoassunto dagli effetti delle politiche comunitariehanno significativamente inciso sull’organizza-zione agricola facendo emergere nuove conve-nienze e più complesse interazioni. L’Ismea neisuoi più recenti rapporti sottolinea proprio lacrescente divergenza che caratterizza gli anda-menti settoriali. Del resto, è proprio negli ultimidue decenni, a partire dagli anni Novanta, conlo sviluppo delle produzioni agricole e agroali-mentari di qualità, che si afferma un nuovomeccanismo di interazione virtuosa tra i duesettori, da cui emerge la prospettiva di uno svi-luppo concatenato virtuoso. In realtà lo svi-

luppo delle produzioni di qualità, se da un latorisponde all’evoluzione della domanda, dall’al-tro è l’effetto di una politica di riposiziona-mento dell’agricoltura comunitaria promossaper sostenere il settore, minacciato dalla con-correnza internazionale. Così, mentre, per unverso, l’agricoltura “industriale” del Mezzo-giorno appare di fatto sempre più sganciatadallo sviluppo del settore alimentare, per altroverso nel comparto delle produzioni tipiche o diqualità lo stesso legame si rivela imprescindi-bile e indissolubile. Ed è proprio sullo sviluppodi questo legame e delle produzioni che nesono causa ed effetto che si gioca il futuro del-l’agroalimentare del Mezzogiorno.Ma, in termini di dinamica evolutiva, il valoreaggiunto prodotto dal settore alimentare nelMezzogiorno nel 2007, pari a 5.660 milioni dieuro, con un’incidenza del 22,8% sul totale na-zionale, misurato in prezzi costanti, non si dis-costa di molto dai livelli che si registravano al-l’inizio del decennio. Espressione di un’evi-dente stagnazione del settore alimentare, cheha peraltro accomunato entrambe le circoscri-zioni. Tuttavia, nel periodo 2004-2009, il set-tore alimentare ha fatto registrare incrementimedi annui positivi e comunque largamenteal di sopra della media dell’industria mani-

52 Il Sud, i Sud. Geoeconomia e geopolitica della questione meridionale

CircoscrizioniUnità di lavoro (UL) Valore aggiunto (VA)

VA/ULVal. ass. Inc.% milioni € Inc.%

Mezzogiorno 142.400 30 5.660 22,8 39.748

Centro Nord 332.900 70 19.133 77,2 57.474

Italia 475.300 100 24.793 100 52.163

Tab. 8 – Consistenza economica e occupazionale del settore alimentare (2007)

Fonte: nostra elaborazione su dati Istat

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fatturiera, con un’accentuazione di questa di-vergenza nell’ultimo biennio. Sul piano oc-cupazionale si tratta di una forza lavoro dicirca 142.000 unità, superiore al 30% del to-tale nazionale. A fronte di un rapporto di circa 1 a 2,4 dell’oc-cupazione, però, si rileva un rapporto di 1 a 3,4del valore aggiunto, il che svela il ben più mo-desto livello di produttività dell’industria ali-mentare del Mezzogiorno: addebitabile, inlarga misura, a caratteristiche strutturali e, inparticolare, alle ridotte dimensioni delle im-prese. Si tratta, come ben s’intende, di una con-dizione produttiva che incide negativamente sullivello di innovazione e di competitività delleimprese meridionali, riducendone la stessa pro-

pensione all’export. Nonostante che il Mezzo-giorno presenti una specializzazione relativa as-sai rilevante, con un’incidenza economica e oc-cupazionale – pari, rispettivamente, al 15,4 e al16,2% – circa il doppio di quella che si registranella circoscrizione centro-settentrionale.Su di un piano più generale, all’interno dellacircoscrizione meridionale possono indivi-duarsi tre diversi clusters di regioni: 1) quelload alta specializzazione che comprende Sici-lia, Calabria e Sardegna; 2) quello a mediaspecializzazione in cui rientrano, seppur condifferenti livelli occupazionali, Campania,Molise, Puglia e Basilicata; 3) quello a bassaspecializzazione che comprende il soloAbruzzo, regione che maggiormente si ap-

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Fig. 11 – Incidenza economica (% sul valore aggiunto) e occupazionale (% di unità di lavoro) delsettore alimentare sull’insieme dei settori manifatturieri (2007)

Fonte: nostra elaborazione su dati Istat

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prossima ai valori medi della circoscrizionecentro-settentrionale.Tuttavia, l’aspetto più rilevante è che più dei2/3 del valore aggiunto dell’industria alimen-tare del Mezzogiorno si concentra in appenatre regioni: Campania, Puglia e Sicilia. Molto significativa, poi, la circostanza che,mentre la specializzazione alimentare non ècorrelata a quella agricola, la situazione mutaradicalmente in corrispondenza delle produzionidi qualità. Qui infatti, come già si era osservato,il legame di reciprocità e interdipendenza traproduzione agricola e trasformazione industrialediviene un elemento caratterizzante. Non è uncaso che questo legame abbia dato vita a filieredinamiche e competitive che a tutt’oggi costitui-scono le punte di eccellenza dell’agroalimentaredel Mezzogiorno, contribuendo in manierasempre più significativa alla creazione di ric-chezza e di opportunità occupazionali. Si trattadi produzioni agroalimentari di qualità – DOP(Denominazione di Origine Protetta), IGP (In-dicazione Geografica Protetta) e STG (Specia-lità Tradizionale Garantita) che coinvolgonopiù di 35.000 ettari, 22.000 operatori e oltre17.000 allevamenti; e ben 1.554 trasformatori e2.376 impianti produttivi. La dimensione rag-

guardevole raggiunta dal Mezzogiorno è laconseguenza di uno sviluppo graduale e conti-nuo che, proprio per l’enorme potenzialità delleriserve di elevata qualità produttiva, non puòaffatto ritenersi satura, restando aperti numerosiulteriori segmenti sperimentabili. Una situa-zione analoga, infine, si registra nel settore viti-vinicolo, che nel Mezzogiorno ha conosciutouno straordinario sviluppo, con significativi li-velli di competitività, sia sul mercato interno,sia su quello internazionale.Nel complesso, è possibile concludere chel’industria agroalimentare rappresenta uno deisettori più rappresentativi dell’economia meri-dionale e che ha notevoli possibilità di ulte-riore sviluppo, soprattutto nelle filiere di qua-lità e nella valorizzazione innovativa delleproduzioni tipiche locali. La valorizzazione diqueste produzioni richiede l’adozione di stra-tegie di filiera che promuovano l’interazionesinergica tra i diversi attori che ne alimentanola struttura portante, ma necessita anche diazioni volte a sostenerne la domanda a livellonazionale e internazionale, a difenderle dallacontraffazione e da comportamenti specula-tivi, e, nondimeno, a promuovere la competiti-vità delle imprese che vi operano.

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4. La rete urbana oggi

prossimità di piazze e vie dense di locali pub-blici ed esercizi commerciali. Dappertutto ilcambiamento dei valori immobiliari che ne èderivato va stravolgendo la geografia sociale.Alcuni piccoli centri dell’Appennino non sonorimasti estranei a questo processo e, con le ri-sorse provenienti soprattutto dai programmieuropei, hanno riqualificato porzioni apprez-zabili di strutture preesistenti.Nelle grandi aree urbane di cui si riconoscevala caratteristica monocentrica, come nel Napo-letano, sono cresciuti nodi piccoli e medi in si-tuazioni di crescente complementarità oriz-zontale. Sono emerse nuove polarità e le areeinterne non scontano più l’isolamento e l’arre-tratezza del secondo dopoguerra. Il policentri-smo pugliese e quello di alcune aree delleisole è progredito, il livello di vita medioabruzzese è molto elevato e la Campania, cheda più parti viene definita non più come l’aread’influenza di Napoli, ma come “regione me-tropolitana”, si avvia a essere dotata di una trale migliori reti integrate di trasporto in Italia.La Basilicata, una classica non-regione delleanalisi funzionali del secondo dopoguerra,prova a valorizzare la sua autonomia e la suaqualità ambientale, come in generale accadeper le aree interne. Le piane calabresi espri-mono tessuti urbani talvolta dinamici. Dapper-tutto, anche nelle porzioni più marginali, si ri-scontra una geografia molto variegata di dina-mismi locali, talvolta poco chiari sotto il pro-filo della legalità.D’altro canto però, le città, quelle grandi so-prattutto, che dovrebbero avere il ruolo di gui-dare gli spazi regionali nella nuova competi-zione globale, scontano ritardi enormi nei loro

4.1. Mezzogiorno e mutamento urbano

Il Mezzogiorno vive oggi una fase difficiledella sua storia, segnata da un marcato pro-cesso di periferizzazione della sua posizione,al margine sud dell’Unione Europea. Si èusata, e abusata, l’immagine del Sud italiano“ponte” tra Europa e Mediterraneo, per defi-nire prospettive strategiche della macrore-gione Mezzogiorno. In realtà essa si rivelavuota di contenuti concreti. La frontiera traEuropa e Mediterraneo appare, mai comeoggi, una dimensione geografica assai proble-matica per svolgere funzioni di raccordo; piut-tosto che fungere da “ponte”, il Mezzogiorno,oggi “saltato” in gran parte dai flussi che do-vrebbero conferire consistenza a questo ruolo,appare come la zona sottostante al ponte: me-tafora efficace di marginalità.Le forme contraddittorie della transizione vis-suta dagli spazi meridionali si evidenzianonella geografia urbana. Non è dubbio che ilMezzogiorno urbano presenta profondi muta-menti rispetto al passato. Il crescente deficit disviluppo e capacità organizzative convive concambiamenti anche rilevanti. Per quanto possaapparire contraddittorio, ad esempio, oggi nelMezzogiorno si vive, in alcuni casi discreta-mente, in città medie: un’entità territoriale,sconosciuta alla geografia urbana dell’Italiameridionale ancora negli anni Ottanta, se noncome puro aggregato dimensionale, ma che, intermini funzionali, ha visto crescere il suoruolo. In tutte le città del Mezzogiorno, diqualsiasi dimensione, sono stati avviati pro-grammi di riqualificazione dei centri storicicon la costruzione di spazi di vivibilità in

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processi di trasformazione. La transizionepost-industriale è stata vissuta a lungo passi-vamente dai ceti dirigenti del Mezzogiorno,tenacemente, tuttora, attaccati alla rendita.Mentre crescevano anche nel Sud tessuti alter-nativi di piccole e medie imprese, le grandicittà non sono state protagoniste dei processidi terziarizzazione vissuti dagli spazi urbanieuropei. Le grandi città – anche mediterranee– d’Europa hanno puntato sul riuso degli spaziindustriali dismessi, sul recupero della fun-zione culturale della città e delle risorse am-bientali, sull’innovazione radicata nelle istitu-zioni (come le università) e nelle tradizioni lo-cali, sulle infrastrutture di qualità, su processidi rigenerazione che consentissero il migliora-mento contemporaneo della qualità e dell’effi-cienza dell’ambiente urbano. Spesso grandieventi o progetti-simbolo hanno guidato la tra-sformazione. Operazioni di questo genere, cherichiedono sofisticati sforzi organizzativi, nonsi prospettano per il Mezzogiorno, neppureladdove sarebbe possibile (come a Napoli-Ba-gnoli), mentre ancora resistono le difficoltà aorganizzare la gestione ordinaria delle proble-matiche urbane e ambientali. Molti dei centrimedi emersi dalle trasformazioni recenti sonodinamici e creativi sul piano economico, maimpresentabili su quello urbanistico, oppureviceversa, luoghi ameni, ma costruiti sullarendita e poco propulsivi per i loro territori.Gli spazi a ridosso dei centri metropolitanisono sempre più diffusamente caratterizzati daproliferazioni edilizie scarsamente governate,all’opposto di quella “città compatta” postacome obiettivo dalle politiche europee di so-stenibilità urbana.Le città meridionali avrebbero potenzialità dirilievo nella valorizzazione della risorsa turi-stica. Il Mezzogiorno vanta beni culturali, pae-saggi, i quadri ambientali, identità urbane tali

da esercitare un grande richiamo. La mediter-raneità è una risorsa rilevante, in concorrenzacon altre regioni e paesi che competono con lostesso tipo di offerta, un insieme simbolico sulquale imperniare politiche di marketing, in ri-ferimento a una domanda di loisir che pro-viene dai Paesi avanzati, ma che nel Mezzo-giorno incontra anche una consistente do-manda locale. È ormai soprattutto sul ruolo dicittà d’arte piccole e medie e di grandi attrat-tori come Napoli e Palermo che è possibile co-struire gran parte della competitività interna-zionale delle città del Mezzogiorno, non soloin chiave meramente turistica, ma anche nel-l’ottica di opportunità legate agli affari.Sulla valorizzazione di queste risorse pesanoremore in vario modo diffuse nello scenariomeridionale: il basso livello della sicurezzanegli spazi più sviluppati (a Napoli, ma anchealtrove) e la scarsa accessibilità al trasportoaereo, praticamente assente in vaste aree delMezzogiorno. Risalta soprattutto la inadeguataattitudine a incanalare queste contraddizioni inun disegno strategico; la difficoltà di ammini-strare e di risolvere i problemi. Non è solo ungap “tecnico”, di mancata efficienza ammini-strativa, ma spesso è la mancanza, o inadegua-tezza, di “politica”, quella che marca le ca-renze degli scenari urbani meridionali. È inquesto, forse, che sta la passività, la scarsa in-novatività, la carenza di competitività. La pe-rifericità, purtroppo, detta forme di adatta-mento (non necessariamente di passività) chedifficilmente si prestano a mutarsi in politica.

4.2. L’articolazione regionale

Molte delle trasformazioni e delle tendenzeche si manifestano oggi nell’assetto urbanodelle regioni meridionali sono andate profilan-

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dosi all’interno di un più vasto ridisegno dellageografia dell’intero Mezzogiorno, all’incircanell’ultimo trentennio. Tra la fine degli anniSettanta e l’inizio degli Ottanta prendeva a de-linearsi, infatti, un assetto più complesso ri-spetto a quello riscontrabile sino ad allora, do-vuto all’emergere di strutture insediative mag-giormente articolate, sintomi di alcuni episodidi ascesa urbana e di rivalorizzazione perife-rica, che sembravano annunciare gravitazioniregionali meno deboli e slegate. I quadri ur-bani del Mezzogiorno evidenziano oggi, so-prattutto, l’attenuazione di quella frattura terri-toriale tra aree interne e aree di costa cheaveva fortemente contribuito a generare i tantisquilibri di cui erano espressione la debolezzadegli impianti urbani e le carenze, talvolta an-che l’assoluta mancanza, delle reti di città.Le grandi polarità restano i vertici forti degliimpianti urbani regionali che le ospitano. Èqui che continuano a concentrarsi le funzionidi governo regionale; esse tendono a raffor-zare il proprio ruolo economico, richiamandonella loro immediata periferia centri commer-ciali e ipermercati, grandi strutture ricreative,accentuando la specializzazione terziaria e raf-forzando le infrastrutture di trasporto di livellosuperiore, come porti e aeroporti. Non irrile-vanti però risultano anche i processi di decon-gestione delle grandi aree urbane costiere,verso un assetto tendenzialmente più policen-trico, che evolve in qualche caso verso forma-zioni reticolari (come in Puglia e in Sicilia),più articolate funzionalità di alcuni spazi ur-bano-regionali (Basilicata e Molise, in partico-lare), l’arricchimento consistente di presidi dimedie dimensioni, il più significativo ruolosvolto da alcuni centri delle aree interne. Ancora negli anni Ottanta del Novecento lavasta e popolosa area metropolitana di Napolifigurava saldamente al vertice dell’impianto

urbano dell’intera Campania – e del Mezzo-giorno – e sembrava destinata ad ampliareprogressivamente la propria area di influenzafino a inglobare tutti gli altri capoluoghi pro-vinciali. Per quanto il predominio della metro-poli partenopea appaia ancora oggi molto mar-cato, e gli stessi confini della sua area metro-politana si siano dilatati ulteriormente, questacircostanza non ha però impedito il distaccofunzionale del polo salernitano, né è riuscita afagocitare del tutto gli altri capoluoghi provin-ciali che hanno progressivamente acquisitouna loro significativa autonomia funzionale.In Campania le modifiche più significative sisono anzi evidenziate nell’attivazione di pro-cessi di maggiore articolazione e di redistribu-zione di funzioni che accordano spazio cre-scente a centri di medie dimensioni: quelli al-l’interno del perimetro più urbanizzato delleprovince di Napoli, di Salerno e di Caserta;quelli all’esterno, in direzione del Casertano,dell’area irpina, delle valli del Sannio bene-ventano e delle piccole polarità dell’area ci-lentana e del Vallo di Diano. Sebbene in formacaotica, si è venuta configurando una “regioneurbana” che, nella parte tra Napoli, Nola e Ca-serta, si pone come la più importante città-porta del Mezzogiorno.Un diffuso patrimonio di città di dimensioniintermedie conferisce, invece, alle regioni delversante adriatico assetti urbani più equilibrati.L’armatura urbana della regione adriatica, in-fatti, già alquanto soddisfacente negli anni Ot-tanta, sia sotto il profilo della dimensione deicentri, sia sotto quello della loro distribuzioneterritoriale, ha continuato a rafforzarsi nelcorso del tempo. I non pochi fattori che oggi rendono più omo-genei gli assetti urbani dell’Abruzzo e del Mo-lise ne giustificano la definizione di regionemedioadriatica, per quanto i rispettivi quadri

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urbani appaiano ancora distinti, con maggioredinamicità nella parte abruzzese. Lungo que-sta direttrice si è ormai andato consolidandoun allineamento di centri e di aree urbane dibuon livello funzionale. La fascia costiera te-ramana e il suo immediato retroterra hannomutuato dalle vicine realtà marchigiane moltimodelli di comportamento imprenditoriale,mentre più a sud la coppia Pescara-Chieti si èdel tutto consolidata ed esibisce una buona ar-ticolazione delle funzioni urbane. Siamo quiin presenza di un insieme dinamico che si svi-luppa fino al Vastese e al nucleo industriale diTermoli, lungo decine di chilometri di costaintessuti di valorizzazioni turistiche, di inizia-tive industriali, di significativi episodi di pe-netrazione verso i fronti vallivi. All’integra-zione della fascia costiera si affianca oggi ilrafforzamento delle conche; dal nucleo indu-striale di Avezzano all’area di Venafro-Isernia,fino alla direttrice bifernina, da Boiano a Ter-moli, e a quella emergente L’Aquila-Sulmona-Castel di Sangro, si disegna un fronte che siproietta fino a Campobasso e Benevento e cheprefigura l’integrazione tra sistemi locali delMezzogiorno appenninico e aree metropoli-tane e urbane dei versanti adriatico e tirrenico.L’armatura urbana pugliese è oggi molto arti-colata ed evolve in linea con il complessifi-carsi dell’economia regionale. Bari rimaneovviamente in posizione dominante; luogo diconcentrazione delle funzioni di governo re-gionale, perno di una economia sempre piùterziaria che dilaga nelle immediate periferiecon centri commerciali e ipermercati associatia poli ristorativi e ricreativi. A nord, nel trian-golo Barletta, Andria e Trani (neoprovinciaBAT), si affianca ormai alla tradizionale eco-nomia agricola un tessuto industriale di signi-ficative dimensioni, mentre, a sud, Brindisi,oltre ad aver consolidato il proprio ruolo dicapoluogo di provincia, è oggi il più grande

polo energetico italiano. Significativa anchel’effervescenza del capoluogo salentino; par-ticolarmente vocata alle attività culturali esede della seconda Università della regione,Lecce si distingue, soprattutto, per la sua ca-pacità di competere sullo scenario regionale.Sul fronte ionico, Taranto, fortemente indebo-lita dalla crisi della grande industria, prova arecuperare terreno attraverso la riorganizza-zione delle funzioni portuali. Quel che inveceappare problematico è l’ulteriore allenta-mento della direttrice più interna, parallela allitorale, che si dispiega lungo l’asse murgiano(tra Minervino e Noci), e il segmento San Se-vero-Foggia-Cerignola.In territorio lucano, si conferma la “forza” deidue capoluoghi provinciali, la supremazia diPotenza rispetto a Matera e la sostanziale de-bolezza delle relazioni tra i due poli, ampia-mente sedimentata nella storia della regione.Sempre rilevante la capacità di attrazione cheil capoluogo regionale esercita rispetto a unintorno abbastanza ampio: di una certa consi-stenza appaiono i rapporti con Tito, sede diarea industriale, e con Melfi, quest’ultima re-lazione motivata dalla presenza della Fiat. Dalcanto suo Matera, da sempre maggiormenteconnotata dagli stretti rapporti che intrattienecon i comuni murgiani della Puglia, consolidanegli anni recenti l’appartenenza a un sistemaurbano sovraregionale. In quella che era la“regione senza città” appare in tutta evidenzacome alcuni centri acquisiscano la funzione difulcri di gravitazione per aree più vaste. Sonoquelli che si sviluppano lungo il perimetroesterno; da quelli costieri, che trovano mag-gior forza nell’evoluzione del settore turistico,a quelli che fanno da riferimento al compartoagricolo del Metapontino, fino a quelli delquadrilatero urbano del Vulture-Melfese(Melfi, Rionero, Venosa, Lavello), oggi capi-saldi consolidati di un territorio sufficiente-

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mente innervato nel comparto agricolo e inquello industriale, ma anche valido punto dipartenza per incrementare un’“economia non-Fiat”, basata sulla valorizzazione dei giaci-menti culturali e naturalistici. Ancora sostanzialmente deboli le trame urbaneche si disegnano sul versante tirrenico. Proble-matica la situazione in cui ancora versa l’as-setto urbano della regione calabrese. La dicoto-mia costa/interno continua a caratterizzare l’as-setto regionale. Netta dunque la cesura tra im-pianti urbani costieri, dai capoluoghi provin-ciali ai centri che governano le piane irrigue, eil resto del territorio. La struttura urbana cala-brese, non più segnata dal vuoto urbano che lacontraddistingueva, resta comunque poco con-nessa con l’esterno e caratterizzata, per la man-canza di un centro coordinatore regionale, daun policentrismo debole. Tra i centri maggioriemerge in parte il ruolo di Cosenza, legata allaricerca scientifica, quello di Reggio, cittàorientata verso lo Stretto piuttosto che verso ilterritorio regionale, e cala quello di Catanzaro,che perde importanza a favore di Vibo Valentiae Crotone e cede funzioni di interconnessioneinfrastrutturale a Lamezia. Cresce il ruolo deicentri di piccola e media dimensione, legatiallo sviluppo agricolo delle piane o alla diffu-sione delle funzioni terziarie. Pur dotata di un discreto patrimonio di polaritàurbane di media taglia, la Sicilia denuncia unassetto urbano poco equilibrato, per il dominioche ancora vi esercitano i grandi centri metro-politani dislocati a nord e a est, a fronte di uninterno sostanzialmente povero di nuclei ur-bani vitali, e ulteriormente impoveritosi nelcorso degli anni. Un sistema urbano policen-trico, che fa perno su Siracusa e su unità ur-bane di medie dimensioni, si è fortemente con-solidato invece nella regione iblea che esibisceormai, insieme a quella etnea, prospettive di si-

stemi urbani reticolari. Il segnalato profilarsi,poi, sul versante sud-occidentale, tra Agrigentoe Trapani, di una struttura urbana policentricache nel tempo, rafforzandosi, avrebbe potutofavorire un riequilibrio territoriale, trova oggiconferma per l’emergere di altri rilevanti centricostieri (Mazara del Vallo e Sciacca). Ancora molto slabbrata l’orditura urbanasarda, fortemente orientata verso la costa e se-gnata dalla dipendenza e dalla marginalità de-gli spazi interni. Ancora oggi, a parte il dina-mismo dell’area conurbata intorno a Cagliari,polarità urbane di un certo rilievo fanno capoai soli centri del Golfo degli Aranci e dellaCosta Smeralda, da un lato, e al triangolo Sas-sari-Alghero-Porto Torres, dall’altro. Quel chepuò rimarcarsi è l’evidenza di una configura-zione urbana sostanzialmente espressione diuno spazio regionale dualistico.

4.3. La nebulosa della periferia continua

Come nel resto d’Italia, anche nelle regionimeridionali l’intensa e rapida espansione edi-lizia, combinata con un profondo ridisegno in-frastrutturale e con lo sviluppo della motoriz-zazione privata, ha generato, subito dopo laseconda guerra mondiale, vaste periferie in-torno alle principali aree urbane, demolendo ladimensione compatta delle città. Si tratta di unprocesso che, pur generando una degradazioneprogressiva del sistema insediativo, nascecome risposta ai pressanti bisogni abitativi e,in alcuni casi, come supporto al decentra-mento delle attività produttive. È opportunoinoltre ricordare che la periferia diventa il fon-dale materiale su cui si esprime il riscatto resi-denziale di una quota significativa della popo-lazione italiana. Gran parte di chi vive oggi incittà vive in periferia.

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Questo valore aggiunto, tuttavia, si è smarritonel disordinato processo di crescita delle cittàdel Mezzogiorno che ha prodotto, in formepiù o meno vistose, aree urbanizzate assaiestese, prive ormai di un confine individua-bile. Sono grandi quantità di territorio diffu-samente edificato, non solo in prossimità deigrandi centri, che spesso a stento riusciamoad associare al termine di città, non potendoavere né le caratteristiche fisiche, né quellesociali di un contesto urbano prodotto dallasedimentazione storica. In definitiva, si trattadi territori che spesso consideriamo come “al-tro” rispetto alla città, ma che devono essereletti come elementi che compongono ormaiuna forma diffusa, nebulosa, di città. In ul-tima analisi, buona parte della popolazioneche definiamo urbana vive ormai in questi as-setti dispersi, non di rado labirintici: nucleiurbani storici, vecchi nodi rurali, nuovi centricommerciali, città metropolitane.Chi decidesse di attraversare in automobile iterritori urbani dei principali centri siciliani,pugliesi o campani si accorgerebbe subito dicome questo processo, spesso incoerente, nondi rado sia frutto di abusivismi o d’incerte re-golazioni che configurano vistose slabbraturedel territorio. Si rischia di perdersi nel disordi-nato continuum urbanistico che non lascia spa-zio a chiare identità diverse. Pur essendo pre-valente la dimensione problematica delle areeperiferiche, è necessario definirne le differentitipologie, non sempre marginali e totalmentedeprivate. La perifericità, in tal senso, si puòdeclinare secondo diverse chiavi di lettura,siano esse più propriamente topografico-spa-ziali (la periferia della città, la periferia oltre ilcomune centrale e la periferia dell’Hinter-land), sia in termini di strutture socio-territo-riali. È opportuno provare a tratteggiare al-meno cinque sottoinsiemi, non necessaria-

mente geograficamente continui, che si regi-strano nelle principali aree urbane meridionali.L’elevata qualità in periferia. Lungo l’arco ditutti i sistemi urbani è possibile individuare al-cune forme di edilizia che ricordano la logicadei sobborghi agiati anglosassoni: sono in par-ticolare parchi privati, dove si possono intra-vedere i caratteri delle gated communties: è ilcaso del comune di Pozzuoli nel Napoletanooppure, fino a qualche anno fa, di Bagherianel Palermitano. Un tipo di insediamento det-tato dal bisogno di tranquillità, oltre all’ame-nità del luogo, pagato con la distanza dal cen-tro urbano.La borghesia migrata in periferia. Le aree direcente espansione edilizia, grazie alla promo-zione privata e cooperativa, costituita da edi-fici non intensivi e collocata in zone semicen-trali dei vari comuni, ospita, a macchia di leo-pardo, la media borghesia tracimata dal centrodi Napoli, Palermo, Bari ma anche di altri ca-poluoghi per l’inaccessibilità del mercato im-mobiliare delle zone centrali. È la parte piùconsistente degli insediamenti degli ultimivent’anni. Si tratta, spesso, di giovani coppieche hanno dovuto migrare seguendo il gra-diente inverso della rendita urbana. Anche inquesto caso, la difesa dal degrado esterno siesprime attraverso una valorizzazione deglispazi di prossimità condominali se non addi-rittura nel singolo appartamento.Le antiche realtà rurali. Gli antichi borghi ru-rali, oggi inglobati dalla disordinata espan-sione edilizia, rappresentano, in alcuni casi,luoghi di particolare degrado oppure si trasfor-mano in nodalità secondarie, grazie ai processidi rinnovo urbano nei settori centrali. In ognisingolo comune i prezzi di locazione e venditaseguono un andamento decrescente passandodal centro verso la periferia.Le zonizzazioni dell’edilizia sovvenzionata. I

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quartieri della prima periferia, nelle principalicittà e successivamente anche nel resto dellearee urbane, sono stati interessati dall’inter-vento pubblico dell’Ina-Casa e dell’Iacp. Seb-bene oggi alcune delle componenti sociali chele abitano si possano considerare a rischio dipovertà, vi permane una minima articolazionesociale, misurabile attraverso il crescente ri-scatto in proprietà dei vecchi inquilini. No-nostante la prossimità con il tessuto urbanoconsolidato, si tratta sovente di entità chiuse insé, poco correlate con il resto del territorio, se-condo una conformazione tradizionale dell’e-dilizia economica popolare. Non a caso è suquesto tipo di zonizzazioni che si concentratradizionalmente lo sguardo delle inchiestesulle periferie degradate, nonostante le poten-zialità connesse a una certa complessità socialee a una dotazione di servizi non sempre defici-taria. La narrativa su questi quartieri finiscecosì spesso per semplificare la situazione diluoghi come Scampia di Napoli, San Paolo diBari, Librino di Catania e lo ZEN di Palermo. Le vere banlieues della periferia. Queste abi-tazioni appartengono alla stessa tipologia dellaprecedente categoria, ma sono state localizzatein aree ben distanti del tessuto urbanizzato –sospese in mezzo alla campagna o a metàstrada dagli abitati tradizionali – e dove il de-grado fisico si associa a condizioni di disagiosocio-economico estremo. Gli interventi diedilizia pubblica del dopo terremoto nella pro-vincia di Napoli rappresentano efficacementequesta tipologia (Salicelle ad Afragola oppureParco Verde a Caivano).Per quanto nell’ambito di un paesaggio spessoinforme, le periferie non sono gli spazi indi-stinti e omogenei (in negativo) che vengonospesso raccontati. In periferia si innescano o siconsolidano anzi nuove identità e processi chemeriterebbero maggiore attenzione. Un luogoperiferico può, peraltro, esprimere una certa

complessità in termini funzionali: una buonainterconnessione del sistema di trasporti, adesempio, può garantire nuove centralità a luo-ghi distanti dal centro consolidato. Si tratta diun potenziale processo di riequilibrio dei cao-tici sistemi urbani meridionali, al momentoleggibile solo nelle visioni strategiche dellapianificazione su cui sembra aver scommessocon forza la grande distribuzione (vedi box).Sugli spazi esterni alle metropoli, in partico-lare nel caso napoletano, hanno infine datempo puntato le perverse strategie delle orga-nizzazioni criminali, alla ricerca di spaziaperti e meglio connessi con le reti lunghedelle comunicazioni extraregionali.

4.4. Deficit finanziari e crisi di governancenelle città meridionali

Strette fra i vincoli sempre più incalzanti det-tati dalle esigenze di controllo della spesapubblica e la necessità di rispondere a una do-manda di servizi sempre più complessa e arti-colata, le amministrazioni comunali vivonouna fase di grande difficoltà, resa ancora piùoscura dagli effetti della crisi economica. Seciò vale, in termini generali, per tutti i comuni,a prescindere dalla loro dimensione, appareancor più vero per quelli più grandi. In parti-colare, i comuni centrali delle aree metropoli-tane si trovano a dover sostenere spese legatenon solo alle esigenze dei propri cittadini, maanche a quelle di una platea più o meno vastadi pendolari e turisti, city users in genere, afronte di entrate commisurate essenzialmentealla sola popolazione residente. Esiste, dun-que, una questione di scala che complica ilraggiungimento del pareggio del bilancio, manon possiamo negare che, anche fra i comunipiù grandi, esistano notevoli differenze legatenon solo a variabili territoriali, ma anche al-

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l’efficienza amministrativa, alla capacità dicontenere gli sprechi e di programmare gli in-vestimenti, alle scelte della politica. Se è veroche ogni Comune è un caso a sé, con la pro-pria “storia finanziaria”, tuttavia, non si puòfare a meno di osservare che le tre principalicittà del Mezzogiorno (Napoli, Palermo e Ca-tania) hanno incontrato o incontrano situazionidi deficit preoccupante. In particolare, la crisidi insolvenza di Catania è stata tamponata conun intervento straordinario di 140 milioni dieuro, la situazione di Palermo appare gravesoprattutto con riferimento alle società con-trollate, mentre il Comune di Napoli, puravendo intrapreso negli ultimi anni un’azionedi risanamento, si trova ad affrontare un ulte-riore abbassamento del rating che rende piùdifficile il ricorso al credito bancario. Inoltre,dei 442 comuni italiani che dal 1989 al 2010sono stati dichiarati in dissesto, 127 sono cala-bresi e 113 sono campani (per lo più di piccoladimensione), come si evince dalla relazionesulla gestione finanziaria degli enti locali(esercizi 2008-2009) della Corte dei Conti. Il ricorso ad alcuni parametri normalmente uti-lizzati per confrontare, sia pur sommariamente,l’azione amministrativa ci fornisce alcune indi-cazioni, ma anche qualche sorpresa. Così, se aPalermo c’è un dipendente comunale ogni 67abitanti e a Napoli uno ogni 73, mentre allascala nazionale il rapporto è di 1 su 129, è an-che vero che il peso della macchina comunaleè particolarmente alto anche a Bologna (1 su69), Firenze (1 su 70) e Milano (1 su 77), purcon ben altri risultati in termini di qualità deiservizi (dati Ifel-Anci-Cittalia). Un ragiona-mento analogo può essere fatto sui dirigenti inrapporto alla popolazione, che a Napoli sonopiù del doppio della media nazionale (ma su li-velli molto simili a quelli di Trento e Bologna)e a Potenza addirittura il triplo.

Forse più preoccupante è il dato sull’autono-mia finanziaria, che è tanto più basso quantopiù denota la dipendenza da trasferimenti dirisorse da parte di Stato e Regioni. In questocaso, la situazione di Napoli (41%) e Palermo(35%) appare grave, se confrontata con cittàcome Bologna, Milano e Venezia, tutte con ungrado di autonomia oltre il 60%. Il dato indicail rapporto tra le entrate tributarie ed extratri-butarie e le entrate correnti complessive, e mi-sura la capacità dell’ente di finanziare autono-mamente le proprie attività. Va osservato che,a seguito del blocco della leva fiscale per iComuni e dell’abolizione dell’ICI sulla primacasa, negli ultimi anni esso è sensibilmentepeggiorato.Proprio il nodo dei trasferimenti dallo Stato ècruciale, nell’attuale fase di transizione versoil federalismo fiscale, poiché finora il criterioseguito è stato quello della “spesa storica”, se-condo il quale le risorse vengono assegnate inbase alla spesa sostenuta nel passato, alimen-tando di fatto distorsioni a vantaggio dei Co-muni meno virtuosi e introducendo differen-ziazioni territoriali non del tutto giustificabilisul piano del disagio socio-economico di al-cune aree del Paese. Ad esempio, nel 2008 Ca-tania, Napoli, Palermo e Messina erano incima alla graduatoria dei trasferimenti pro ca-pite da parte dello Stato. La riforma federale(legge delega 42/2009), una volta a regime,dovrebbe consentire il definitivo abbandonodella “finanza derivata” (basata cioè sui trasfe-rimenti), in favore di un approccio orientatoall’autonomia e alla responsabilizzazione de-gli enti locali, introducendo fra l’altro il crite-rio dei fabbisogni standard per ognuna dellefunzioni esercitate dai Comuni. A questo pro-posito, uno degli aspetti più complessi saràproprio il calcolo dei costi e dei fabbisognistandard delle funzioni comunali, ovvero dei

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parametri di spesa per i servizi, oggi forte-mente differenziati. Il calcolo dovrà tenerconto di una serie di variabili tra cui l’am-piezza demografica e le caratteristiche territo-riali dei comuni.In futuro, l’assetto dei tributi comunali, deli-neato dal recente decreto sul “federalismo muni-cipale”, tenderà, inoltre, a premiare i comuni infunzione del valore delle abitazioni, della viva-cità del mercato immobiliare, della presenza diabitazioni non occupate e della vocazione turi-stica. Alcune prime stime degli effetti della ri-forma elaborate dal senatore Stradiotto (PD) in-dicano che, rispetto agli attuali trasferimenti, aperderci sarebbero soprattutto le città del Mez-zogiorno (agli ultimi posti figurano Napoli,Messina, Palermo, Cosenza, Potenza, Catania,Taranto e Foggia) e sarà quindi necessario indi-viduare meccanismi di tipo perequativo. Nei prossimi anni, dunque, come afferma l’Isti-tuto per la Finanza e l’Economia Locale (Ifel,2010) le principali città meridionali si trove-ranno presumibilmente ad affrontare una de-curtazione delle entrate, vincoli di finanzapubblica sempre più stringenti, spazi di mano-

vra limitati dal lato delle entrate. La primacontromisura sarà molto probabilmente il ta-glio degli investimenti (di fatto già attuato ne-gli ultimi anni), ma non si possono escluderelimitazioni della spesa così drastiche da met-tere in discussione la stessa erogazione dellefunzioni comunali. In questo scenario, si dilataenormemente lo scarto fra i sogni di gloria dimolti piani strategici delle città del Mezzo-giorno, che puntano alla creatività, alla cul-tura, alla ricerca e alle attività innovative, el’effettiva possibilità di avviare tali politiche. A più di vent’anni dalla legge 142/1990, re-sta, infine, ancora tutta da inventare la gover-nance delle città metropolitane, pure inseritecome asse portante della riforma federale, cheforse potrebbe contribuire a inquadrare i pro-blemi delle nostre aree urbane in modo piùadeguato rispetto al grado di complessità rag-giunto dall’insieme delle relazioni che in essesi svolgono. Invece, sotto molti aspetti, il no-stro ordinamento continua a considerare lecittà metropolitane di oggi alla stregua dellaSiena trecentesca raffigurata dal Lorenzetti:chiusa da mura.

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Il perverso ciclo dei rifiuti a Napoli e Palermo

Quanti inceneritori servono in Campania? Quante nuove discariche per evitare il disastro igienico-sa-nitario e soprattutto di immagine che subiscono periodicamente due città di fama internazionale comeNapoli e Palermo? Probabilmente un cittadino campano, specie se residente in un’area prescelta perla localizzazione dell’impianto, risponderebbe che la domanda è mal posta: l’accumulo dei rifiuti do-vrebbe essere prevenuto secondo le direttive europee e non è più utopico attuarne una drastica ridu-zione. Vari comuni virtuosi lo dimostrano: non solo quelli del Centro-Nord, ma anche centri come Sa-lerno, primo capoluogo di provincia in Italia dal 2009 per quota di raccolta differenziata (oltre il 70%)o come Portici, il comune più densamente abitato d’Europa che, alle falde del Vesuvio, ha recente-mente superato quota 65% di differenziata per mezzo della raccolta porta a porta.La buona gestione dei rifiuti urbani, a norma di legge, parte però dalla pianificazione a scala regionaledel servizio che, dalla prevenzione allo smaltimento, deve integrare raccolta, trasporto e trattamento sulterritorio attraverso gli ATO (Ambiti Territoriali Ottimali). In Campania, invece, il principale punto cri-tico è proprio nel cattivo esito della pianificazione: il ciclo integrato, affidato nel 2000 alla Fibe, ha la-sciato sul terreno più di sei milioni di “ecoballe” fuori norma, impianti di selezione e di compo-

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4.5. La questione meridionale come questioneurbana?

Il Mezzogiorno cittadino e non più contadino:era l’auspicio del pensiero meridionalistico findagli anni Sessanta del Novecento. Lo svi-luppo di una rete urbana articolata in città-me-tropoli e città medio-piccole si riteneva condi-zione fondamentale per lo sviluppo econo-mico e per l’avvio d’un processo di generalepromozione culturale e sociale.

In effetti, dall’intensa dinamica della popola-zione meridionale in senso verticale, con sposta-menti da sedi altimetricamente più elevate aquelle di pianura, e orizzontale, dall’internoverso le coste, è derivato l’ispessimento, o laformazione, di aree metropolitane in Campania,Sicilia, Puglia, Abruzzo. Consumo di spazio eaddensamento demografico sono stati, in pro-porzione, assai maggiori di quanto non si possadire dell’innalzamento della qualità delle fun-zioni urbane nei centri maggiori e in quelli

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staggio mal funzionanti, discariche sfruttate oltre le norme di sicurezza, un inceneritore contestato econflitti ambientali tuttora non sopiti con le comunità locali.Il sistema parallelo e parassitario delle ecomafie, invece, ha funzionato bene: ha tratto enormi van-taggi dal caos amministrativo, infiltrandosi negli appalti di trasporto, movimento terra e affitto deisuoli, ma soprattutto si è giovato dell’attenzione mediatica e istituzionale rivolta ai rifiuti urbani percontinuare a sviluppare sottotraccia il traffico illegale di rifiuti speciali, smaltiti sia nelle aree agri-cole, anche di pregio, sia nelle stesse discariche per rifiuti urbani: affare tanto proficuo quanto nocivoper il futuro dell’ambiente regionale.Il lungo commissariamento della Regione Campania da parte del governo nazionale ha deresponsabi-lizzato gli enti locali, che dovranno ora riorganizzarsi pur non ereditando una situazione migliorata.L’emergenza non ha evitato crisi periodiche del sistema: le soluzioni tampone adottate per ripulire lestrade della provincia di Napoli, sempre più frequentemente in deroga alle normative ambientali,hanno alimentato una spirale perversa in cui si finisce per usare la forza contro i cittadini che conte-stano l’apertura di discariche localizzate in aree normalmente non idonee o che si oppongono alla ri-apertura di quelle già sature.Rispetto alla Campania, in Sicilia non c’è un grave problema impiantistico-strutturale, ma i rifiuti sonogestiti affidandosi quasi del tutto allo smaltimento in discarica, opzione tra le peggiori secondo lenorme ambientali europee. Le attività di prevenzione dei rifiuti sono irrisorie – nonostante anche qui lesperimentazioni della raccolta porta a porta promettano bene. L’invasione dell’immondizia per lestrade di Palermo e delle altre città dell’isola si è presentata come a Napoli e dintorni, ma è stata cau-sata soprattutto dalla gestione delle aziende comunali di igiene urbana. L’Amia di Palermo, ad esem-pio, è in deficit: a suo carico il sospetto di assunzioni clientelari e di una cattiva gestione della disca-rica di Bellolampo. In più, il fenomeno delle infiltrazioni mafiose è presente anche negli appalti pub-blici per lo smaltimento dei rifiuti urbani. L’ipotesi di costruire impianti di incenerimento è presentatain Sicilia, come in Campania, come la panacea di tutti i mali, benché gli inceneritori rischino ovunquedi diventare l’alternativa (piuttosto che una forma integrativa) preferita dall’industria a soluzioni piùsostenibili sia per l’ambiente che per le casse pubbliche. Pianificando per il futuro, bisognerà tenerconto delle esperienze di prevenzione dei rifiuti urbani incentrate sul riutilizzo e sul riciclaggio dei ma-teriali, che potrebbero avere maggiori ricadute occupazionali e potrebbero sostenere cicli economici edecologici virtuosi: basti qui accennare all’importanza di recuperare la frazione organica per l’agricol-tura di qualità delle due regioni e alla possibilità di avviare filiere di riciclo di materiali ad alta inten-sità di lavoro, utili a sostenere sia l’occupazione sia la sostenibilità di un ciclo non più perverso, mavirtuoso, della materia.

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medi. L’esperienza degli ultimi due decenni cimostra che il modello d’una equilibrata e fun-zionale urbanizzazione non s’è realizzato. So-prattutto perché è venuto meno il presuppostodell’industrializzazione che avrebbe dovuto so-stenere il processo e dar funzionalità autonomaalla rete urbana. Assai dannoso, dal punto di vi-sta “culturale”, che la de-industrializzazionedelle maggiori aree urbane o peri-urbane delMezzogiorno (ove, per gran parte del Nove-cento, s’era venuta formando una classe, e unaconsapevolezza, operaia) abbia fatto venirmeno, nel giro di pochi anni, le strutture ingrado di alimentare un processo di sia pur lentapromozione economica e, insieme, civile.A Napoli e Palermo, aree di più antica indu-strializzazione e, ancora, in Sicilia, Calabria,Puglia e Sardegna, dove erano i “poli” princi-pali delle imprese “assistite” realizzate finoagli anni Settanta, la crisi produttiva ha colpitocon maggior durezza. Dove si sono dissoltipreesistenti spazi di occupazione operaia epossibilità per leve giovanili emergenti, è statafatale la regressione di larghi strati della popo-lazione in età lavorativa da una condizioneproletaria a una sottoproletaria. La condanna auna terziarizzazione patologica, nel settore deicommerci banali, della burocrazia, dei me-stieri saltuari, ha generato pesanti assorbi-menti nel “lavoro sommerso”. O, molto peg-gio, nelle attività criminali.La metropoli del Mezzogiorno ha visto sva-nire anche residue funzioni terziarie di livellosuperiore quando condizioni di mercato, cosìcome errori umani e colpe politiche, hannoprovocato il collasso di antiche istituzioni fi-nanziarie e creditizie. Grandi banche e cassedi risparmio, su cui gravitavano prospettiveimprenditoriali, iniziative culturali, attività di-rezionali di Napoli, Palermo, capoluoghi diprovincia e rispettive aree d’influenza, sono

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state assorbite dalla concorrenza del Centro-Nord o anche straniera. Calo dell’occupa-zione; ma soprattutto perdita dell’autonomia,del ruolo per le rispettive, originarie sedi.Cosa resta a innervare in qualche modo lastruttura funzionale delle aree metropolitanedel Sud? Cultura, senza dubbio, alimentata daconsolidate tradizioni di creatività, nello spet-tacolo, nella musica, nell’arte. Ma si restringein nicchie elitarie o s’impantana nel vernaco-lare la creatività non sostenuta da vaste e so-lide dimensioni di mercato. Restano le univer-sità, certamente: strutture di formazione dinuove leve e presupposto della ricerca pluridi-sciplinare. Poche le città e le province del Sudche non abbiano oggi un loro Ateneo o almenouna qualche Facoltà decentrata. Tuttavia,senza una domanda che sprigioni da sistemiproduttivi in espansione, si attenua la spintaverso la ricerca applicata e di base, e divieneproblematico l’assorbimento dei nuovi lau-reati. Il malessere di fondo che permane in più re-gioni e province meridionali si palesa soprat-tutto nello spazio urbanizzato del Mezzo-giorno, crescente in misura proporzionale algrado di addensamento demografico, quale siavverte nelle aree metropolitane di Napoli,Palermo, Catania, Bari. Fortemente urbaniz-zato, ma a basso grado di industrializzazione;con città che consumano quote elevate di ri-sorse che provengono dall’esterno e poco lecapitalizzano, ma in gran parte le disperdononell’ipertrofia delle burocrazie comunali, re-gionali, statali, o in un sistema commercialeframmentato; il Mezzogiorno finisce per es-sere prevalentemente un mercato sussidiatoper lo sbocco delle produzioni del Centro-Nord o straniere. Soprattutto, finisce per ca-ratterizzarsi ancora, e in misura maggiore,quale campo d’azione per i “mediatori del

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consenso”, per le “ingordigie clientelari” o,peggio, per le inframmettenze camorristiche emafiose.Alcune differenze quantitative – densità abita-tiva, tipi prevalenti di attività economica –preesistevano tra le province. Nuove diversitàemergono dai percorsi diversi seguiti da città epopolazioni delle varie regioni. E anche diver-sificazioni progressive nell’evoluzione dellaqualità della vita, dimostrabili attraverso il ri-corso a una molteplicità di indicatori, struttu-rali e culturali. Effetto benefico di “sistemi lo-cali” il cui dinamismo è derivato dal ruolo ca-talizzante di imprese che nel giro di pochianni, dalle radici di antiche tradizioni manifat-

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turiere locali, hanno saputo espandersi neimercati nazionale e internazionale. Nel par.4.2 si è posto in luce come processi siffattihanno avuto luogo soprattutto sul versanteadriatico del Sud. Così in Basilicata e Molisee in talune aeree pugliesi. Assai meno inci-denti si sono palesati altrove. La “meridiona-lità”, non tanto come dato geografico, con-nesso a una posizione periferica rispetto a unCentro e a un Nord, quanto come condizioneesistenziale, che sottolinei una dissomiglianza,sembra dunque restare peculiarità di Campa-nia, Calabria, Sicilia. E, entro i loro confini,peculiarità soprattutto delle aree metropolitanee dei maggiori addensamenti urbani.

Napoli: 150 anni dall’Unità e 50 da Francesco Compagna(Considerazioni d’un geografo meridionale)

Osservo un volantino del 2000 che conservo, affisso su un porta-appunti murale: “Alibi Blu Sub Cen-ter sponsorizzato dal Comune di Napoli organizza immersioni sui siti di NAPOLI SOMMERSA sabatoe domenica…”; il grazioso manifestino reca una gouache del Golfo visto da Mergellina, e da tempo viho aggiunto un bigliettino sotto le parole “NAPOLI SOMMERSA” …DALLA MUNNEZZA.Al peggio non c’è fine per la martoriata antica capitale del Mezzogiorno, 150 anni dopo l’Unità che laretrocesse a capoluogo di provincia con poche risorse e tanti problemi: una Unità indispensabile ma malrealizzata, con il rimpianto di un federalismo equo che sarebbe stato necessario appunto 150 anni fa.Il dramma dell’immondizia, visto in tutto il mondo, ha dato il colpo di grazia e soprattutto ha messoancora più a nudo l’incapacità di buona parte della classe dirigente locale e nazionale per soluzioniefficaci e non troppo costose. Nel frattempo, la questione meridionale pare morta, non se ne deve piùparlare, anche perché molti dei politici attuali non hanno la preparazione necessaria. Sono passati 50anni da quando Francesco Compagna svolgeva un corso di Geografia politica ed economica all’Uni-versità su Napoli e la questione meridionale. Ebbi la fortuna di seguire quel corso come studente;Compagna già tratteggiava molte delle debolezze di fondo della città, e ancor meglio scrisse quandotrasferì le sue riflessioni nell’Introduzione al libro Napoli dopo un secolo (1961). Compagna, pur assaicritico, concludeva il saggio con un filo di ottimismo: “la città del Fondaco Verde e del colera del 1884offre oggi, ad onta degli innumerevoli errori di urbanistica commessi nel frattempo e della tuttora in-sufficiente capacità abitativa, un aspetto non solo più armonico e moderno, ma anche più razionale edefficiente”. Compagna vedeva nell’industrializzazione uno dei rimedi maggiori alle debolezze dellacittà come di tutto il Sud. Oggi grandi quartieri napoletani sono pesantemente deindustrializzati, comeBagnoli e San Giovanni a Teduccio, dove in passato migliaia di operai e impiegati formavano un tes-suto sociale abbastanza impermeabile all’espansione camorristica adesso pervasiva. L’industria eraforse obsoleta, ma la sostituzione con altro è stata nulla o quasi.Da quando Compagna scriveva paiono passati non 50 anni, ma duecento anni, si torna all’inizio delregno di Ferdinando II che, bene o male, qualche industria l’aveva localizzata. L’ossessione del voto

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favorevole a ogni costo ha allucinato i politici locali che rincorrono clientelismi molto pericolosi esottovalutano la criminalità organizzata e non.Nemmeno il ricordo dei grandi artisti del passato che hanno illustrato Napoli in Italia e nel mondo ciconforta, anzi ci pare che irridano a modo loro dalle nebbie di epoche morte: così le smorfie di Totò,sapiente marionetta erede della commedia dell’arte e persino i letterati tra Ottocento e Novecento.Ferdinando Russo, poeta e giornalista di vaglia, lasciò sul tavolo i suoi ultimi versi: “Napule ride int’ana luce ‘e sole chiena ‘e feneste aperte e d’uocchie nire” (1927). Da quella Napoli paiono passatimille, duemila anni. Jean-Noël Schifano scrive, nel suo Dictionnaire amoureux de Naples (2007) chesolo nel 1982 la camorra è stata riconosciuta ufficialmente come un’organizzazione criminale perico-losa come la mafia. Il capo dello Stato Giorgio Napolitano ha evocato Carlo di Borbone re di Napolicome vecchio nume tutelare del buono della città. Che sia rimasto solo quello, dopo che San Gennaropare abbia esaurito le forze?

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5. Una società senza comunità

crisi economica che non era più solo congiuntu-rale portarono a una svolta decisiva: l’Italia, in-sieme agli altri Paesi dell’Europa meridionale,divenne meta non soltanto di alcuni consistentiflussi di ritorno, ma anche di nuove immigra-zioni. Nuovi ingressi che fin dal principio simostrarono motivati più da push factors, ov-vero da serie condizioni di disagio, esistentinelle aree di origine, che da pull factors (ossiacaratteristiche attrattive) del nostro Paese:l’unica domanda di lavoro presente sul mer-cato italiano in quegli anni, d’altra parte, eraquella che riguardava le attività meno qualifi-cate del terziario, e in particolare il settoredomestico. Un processo che si rivelò tantopiù dirompente dal momento che gli arriviavvennero al di fuori di ogni controllo e nellapressoché totale assenza di provvedimenti or-ganici a livello nazionale sia in materia dicontenimento dei flussi sia sul piano dellemisure di accoglienza e integrazione.Se è indubbio che, fin dall’inizio, le aree me-tropolitane del Centro e del Nord d’Italia ab-biano costituito le principali destinazioni deiflussi immigratori, è pur vero che nel corsodegli anni si sono avute importanti trasforma-zioni, da un punto di vista quantitativo e quali-tativo: da un lato, infatti, si è assistito a un in-cremento praticamente generalizzato dei li-velli di incidenza della popolazione straniera;dall’altro è accaduto che aree prima interes-sate solo marginalmente dal fenomeno nesiano state sempre più coinvolte. Così è statoper il Mezzogiorno, che nell’ultimo decennioha visto crescere gli stranieri residenti sul suoterritorio in modo forse meno eclatante ri-spetto al resto del Paese, ma altrettanto signifi-

5.1. Transizioni demografiche: dall’emigra-zione all’immigrazione

Per almeno un secolo l’Italia ha rappresentatouno dei maggiori Paesi d’emigrazione almondo. I flussi verso l’estero – che in una faseiniziale videro coinvolte per lo più le regionisettentrionali – avevano acquistato una certaconsistenza tra la fine del XIX e l’inizio delXX secolo, dirigendosi dapprima verso laFrancia, la Svizzera, l’Austria, la Germania, esuccessivamente anche verso gli Stati Uniti,l’Argentina, il Brasile; contrattisi notevol-mente con la prima guerra mondiale, conob-bero una certa ripresa negli anni Venti, quandoaumentò il peso degli spostamenti all’internodell’Europa, mentre si ridussero nuovamentein seguito all’attuazione della politica antimi-gratoria fascista. Dopo la seconda guerra mon-diale l’emigrazione ricominciò, pur se su livellipiù contenuti; i flussi si “meridionalizzarono”e si diffuse una mobilità di breve periodo, an-che perché la crescita economica di alcunezone del Paese consentiva, intanto, l’assorbi-mento di una considerevole migrazione in-terna. La situazione andò così cambiando: daun lato, gli spostamenti transoceanici perserovia via importanza, soppiantati da un flussosempre più consistente diretto verso l’Europa;dall’altro, alle migrazioni verso l’estero andòaffiancandosi una corrente crescente di migra-zioni interne, che dal Mezzogiorno e dallezone povere del Centro-Nord confluivano nel“triangolo industriale”.All’inizio degli anni Settanta, però, le politicherestrittive adottate dai principali Paesi di immi-grazione d’Europa per far fronte a un periodo di

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cativo; è proprio qui, d’altra parte, che negliultimi due anni la crescita della popolazionestraniera è stata, in termini relativi, maggiore:Puglia, Basilicata, Sardegna e Calabria hannofatto registrare, di recente, incrementi supe-riori a quelli di regioni – come la Lombardia el’Emilia-Romagna – storicamente attrattiveper l’immigrazione dall’estero.Benché ancora oggi il Sud continui a costi-tuire il naturale punto di approdo per tanti mi-granti in fuga da condizioni economiche o po-litiche particolarmente critiche, la via di tran-sito più accessibile in vista di un successivoinsediamento altrove – sotto gli occhi di tutti èl’emergenza generata dalla drammatica crisimaghrebina, rispetto alla quale si rivela piùche mai necessario trovare un equilibro fral’esigenza di impedire i flussi irregolari equella di assicurare il rispetto dei diritti fonda-mentali di ciascun individuo – numerosi ele-menti mostrano come, nel tempo, si sia note-volmente accresciuta la stanzialità degli immi-grati in questa ripartizione: oltre ai residenti e(soprattutto in seguito alle ultime regolarizza-zioni) ai possessori di un permesso di sog-giorno valido, sono aumentati, infatti, anche iminori stranieri presenti sul territorio e le ac-quisizioni di cittadinanza italiana.Per quanto, allora, tutt’altro che omogenea sipresenti ancora oggi la distribuzione deglistranieri sul territorio nazionale – sia in terminidi macro-aree sia confrontando il peso relativodelle singole regioni, e tanto considerando ilcomplesso della popolazione immigrata,quanto tenendo conto delle diverse collettività– anche al Sud numerosi sono i segnali di sta-bilizzazione. E sebbene, quindi, l’osservazionedel saldo migratorio con l’estero riveli come ilMezzogiorno continui a essere, per tanti immi-grati, la “porta d’ingresso” nel Paese, mentre idati relativi alla mobilità interna degli stranieri

ci mostrino l’attrattività, tuttora maggiore,delle regioni del Nord, evidenziando l’esi-stenza di un processo di redistribuzione de-mografica lungo la direttrice sud-nord, è al-trettanto vero che sempre più immigrati deci-dono di fermarsi stabilmente in alcune zonedel Mezzogiorno: le province di Napoli, Bari,Salerno, Caserta, Palermo e Catania accol-gono, complessivamente, più del 38,6% ditutti gli stranieri residenti nel Meridione, maanche in quelle di Reggio Calabria, Teramo,Messina, Cosenza e L’Aquila il loro numero èsalito costantemente.All’interno di tale contesto, due regioni si di-stinguono, sia pure per motivi diversi: da unlato la Campania, prima regione del Mezzo-giorno per numero di immigrati e terra in cui –come ha sottolineato un recente rapporto dellaCommissione ministeriale d’indagine sull’e-sclusione sociale – numerosi sono oggi i mi-granti che, dopo aver perso il proprio impiegoregolare al Nord, si riversano, accettando dilavorare “al nero” e diventando così, di fatto,irregolari; dall’altro l’Abruzzo, regione in cuil’incidenza degli stranieri sul totale dei resi-denti (5,7%) è particolarmente significativa,soprattutto se confrontata con i valori medidella ripartizione meridionale (2,8% per il Sude 2,4% per le Isole), e dove – a dimostrazionedi una forte attrattività e di una presenza im-migrata radicata – maggiore è l’incidenzadelle famiglie straniere sul totale delle fami-glie (qui, in base ai dati dell’Istat, il 5,4%) equella delle nascite di bambini stranieri sulcomplesso delle nascite (il 10%). Quanto allapercentuale di minori sul totale degli stranieriresidenti, d’altra parte, l’Abruzzo – con il Mo-lise, la Puglia e la Sicilia – risulta vicino allamedia nazionale (collocandosi attorno al20%); e le province di Trapani, Caltanissetta ePalermo si trovano ai primi posti della gradua-

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toria nazionale, a non troppa distanza da al-cune province del Nord.Ampio è il serbatoio di manodopera stranieradisponibile nel Mezzogiorno; anche qui, no-nostante un’economia meno dinamica, sonovenute formandosi delle nicchie occupazionaliin cui gli immigrati sono andati a inserirsisempre più stabilmente. Per non parlare ditutto il settore dei servizi alla persona, concen-trato soprattutto nelle maggiori città, dove piùelevata è la domanda. Immigrazione ed econo-mia meridionale – dall’edilizia all’agricoltura,dal grande bacino dei vari servizi alla personaall’indotto turistico – si sono incontrate in unavasta gamma di situazioni lavorative, che havisto “riservate” in particolare a certi gruppi (efra questi gli irregolari, componente più consi-stente proprio nel Mezzogiorno) le offerte diun mercato a bassa qualificazione, forte seg-mentazione, elevata flessibilità e scarsa tutela.E, questo, ancora di più in un momento comequello attuale, in cui, per rimanere nel Paesemalgrado la crisi, molti di essi hanno ripiegatosulla sottoccupazione, si sono spostati sul ter-ritorio, e hanno accettato più di prima impie-ghi precari, di bassa manovalanza o “al nero”.La presenza degli stranieri, il loro insedia-mento e le pratiche legate alle attività econo-miche producono, nell’incontro con i diversicontesti locali, dinamiche in continua evolu-zione, dalla cui osservazione risulta evidente ilruolo del fenomeno immigratorio nei processiche stanno modificando il paesaggio italiano.E l’immigrazione dà prova di essere, ancorauna volta, una cartina di tornasole in grado dimettere in risalto aspetti positivi e negatividella società di accoglienza. Così nel Mezzo-giorno storie di marginalità sociale convivonocon esempi di grande dinamicità, con espe-rienze che sorprendono per la loro capacità didar vita a validi modelli di integrazione. Ma

anche laddove – notava il Censis qualche annofa in una sua relazione – l’immigrazione nonriesce a prendere la strada dell’integrazione,molto spesso le cose procedono secondo glischemi e le modalità con cui la marginalità ègestita da anni; ed è proprio questa abitudine aconvivere con la marginalità, a saperla “ge-stire”, ad aprire al Sud inaspettati spazi di con-vivenza.

5.2. Il Sud fuori del Sud: flussi e riflussi dimovimenti migratori

Pur essendo l’Italia divenuta, dall’inizio deglianni Settanta, terra d’arrivo per un numero cre-scente di stranieri, tutt’altro che irrilevante ri-sulta ancora oggi l’emigrazione: con circa 4 mi-lioni di nostri connazionali all’estero e oltre 60milioni di oriundi discendenti degli italiani par-titi negli ultimi centocinquanta anni, il nostro è,tra gli Stati dell’Unione Europea, quello con ilpiù elevato numero di emigrati e, a livello mon-diale, il Paese sviluppato con la più alta inci-denza di cittadini emigrati rispetto alla popola-zione presente in patria. Peculiarità dei contestidi insediamento, epoca della migrazione e par-ticolarità dell’esperienza di ciascuno rendonotale insieme estremamente eterogeneo.Dei circa 4 milioni di iscritti all’Anagrafe degliItaliani Residenti all’Estero all’inizio del 2010– secondo il più recente Rapporto Italiani nelMondo – la maggior parte vive in Europa (piùdel 55%) e in America (circa il 39%); Germa-nia, Argentina e Svizzera, e poi Francia, Bra-sile, Belgio, Stati Uniti, Regno Unito, Canadae Australia costituiscono i principali Paesi incui si sono stabiliti nostri connazionali, piùdella metà dei quali è di origine meridionale (eciò soprattutto per quel che riguarda Europa eOceania, ove maggiore è il peso del Sud). La

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prima regione per numero di emigrati, d’altraparte, è la Sicilia (con poco meno di 650.000residenti all’estero), seguita da Campania, La-zio, Calabria e Puglia.Ma il numero di italiani all’estero, oltre a es-sere tutt’altro che trascurabile, continua ad au-mentare: in primo luogo in conseguenza dellacrescita interna delle collettività, e poi – siapure in misura ridotta – per la partenza dinuove persone. Siamo dinanzi a un fenomenoche, lungi dall’esser concluso, continua a ca-ratterizzare sotto forme nuove anche il pre-sente: i “nuovi emigranti” sono infatti semprepiù spesso giovani che decidono di portareavanti il proprio percorso formativo o profes-sionale fuori dai confini nazionali, là dovepossano trovare migliori opportunità, o lavora-tori qualificati, specializzati in settori ad altaintensità di ricerca e assunti all’estero, o, an-cora, dipendenti di aziende italiane che hannoscelto di sviluppare altrove le proprie attività.Su dieci che decidono di lasciare il proprioluogo d’origine, però, solo uno si trasferisce inun Paese straniero (in valore assoluto, tra il1996 al 2007, si parla di 242.000 persone, dicui oltre 13.000 laureati, e di circa 50.000l’anno al momento attuale); per gli altri nove lavera “America” rimane il Centro-Nord. Dimi-nuita dunque la propensione a trasferirsi all’e-stero, la mobilità della popolazione italiana haper lo più carattere interno; tant’è che – vienesottolineato nell’ultimo Rapporto Svimez – l’I-talia è ancora adesso, anche sul fronte migrato-rio, un Paese spaccato a metà. I dati lo dimo-strano: tra il 1990 e il 2005 – secondo uno stu-dio della Banca d’Italia – sono stati due milionii meridionali che si sono trasferiti al Nord; oggisi calcola che siano circa 120.000 coloro che sispostano annualmente dal Sud nelle regionicentro-settentrionali, e che circa 50.000 sianoinvece quelli che, provenienti da altre parti d’I-talia, vanno ad abitare nelle regioni del Sud.

Non solo; accanto ai trasferimenti interni sta-bili, vi è una mobilità temporanea, quella deipendolari meridionali “di lungo raggio”, i qualilavorano al Centro-Nord pur mantenendo lapropria residenza al Sud, dove ritornano perio-dicamente: nel complesso, si stima che sianopressappoco 136.000, e che si tratti per lo più digiovani, maschi, spesso laureati, mossi dallavolontà di raggiungere una propria afferma-zione professionale o dal desiderio di veder va-lorizzate le proprie capacità.Come ha evidenziato, ancora, il Rapporto Svi-mez del 2010, il Sud negli ultimi cinque anniha perso 143.000 occupati, cifra che corri-sponde a una diminuzione del 2,2% (che ar-riva al 15,2% per la classe di età tra i 15 e i 35anni). Dal confronto con i dati dell’UnioneEuropea, d’altra parte, emerge un divario neltasso di occupazione di tredici punti percen-tuali (il 24,4% per l’Italia contro il 37,5% del-l’UE), che sale a venti se si considera il soloMezzogiorno, dove gli occupati sono tornati ailivelli di dieci anni fa – con cali più consi-stenti in Abruzzo, Campania e Puglia. Netta èanche la differenza nel tasso di attività delledue ripartizioni (40,8% per il Sud, 52,8% peril Centro-Nord), e ancor di più per i più gio-vani (se al Centro-Nord su 100 giovani tra i 25e i 34 anni ce ne sono 84 attivi, al Sud ve nesono 60); così come netto è il divario nel tassodi disoccupazione: più del doppio quello delMezzogiorno (12,5%) rispetto al Centro-Nord(5,9%). Ebbene, di fronte a un sistema produt-tivo non in grado di assorbire personale ad altaqualificazione e a una carenza cronica di postidi lavoro, sono stati soprattutto napoletani, pa-lermitani e baresi a decidere di spostarsi; per-dite forti, però, si sono registrate in questi annianche nelle province di Caserta e Foggia. DaCampania, Sicilia e Puglia è partito il maggiornumero di persone, dirette in buona parte inLombardia e in Emilia-Romagna; abruzzesi e

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molisani, invece, hanno mostrato di preferirecome regione di destinazione il Lazio.Su molti degli individui coinvolti nelle “nuove”migrazioni non hanno mancato di farsi sentire,nell’ultimo anno, gli effetti della crisi econo-mica: prova ne è che è andato lentamente cre-scendo un flusso di rientro di individui espulsidal mercato del lavoro del Centro-Nord e sonoaumentati i trasferimenti da Nord a Sud, specieper quegli “emigranti precari” che, perso il pro-prio posto, sono tornati a casa, così da godere,

nell’attesa di una nuova occupazione e di unanuova partenza, almeno dell’aiuto della propriafamiglia d’origine. Non è stato quindi l’avviodi un processo di sviluppo né la creazione dinuove opportunità di lavoro a farli rientrare, mala crisi, che se, da un lato, ha contribuito a ride-finire la struttura del flusso migratorio interno,accrescendo il peso della componente più qua-lificata, dall’altro ha agito sui pendolari “dilungo raggio”, più esposti – proprio in quanto“precari” – alle congiunture.

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Il paradosso della mobilità: braccia in arrivo, cervelli in fuga

Primo fotogramma: Piazza Garibaldi, quartiere della Stazione Centrale di Napoli. Si parte, si arriva,ci si ferma, ci si incontra, si vende, si discute, si contratta, si traffica più o meno lecitamente e le lingueutilizzate sono decine. Si tratta di un’area in continuo fermento che ben presto è diventata punto di ri-ferimento per le comunità migranti in transito e per quelle che scelgono di restare. Il perimetro ampiodella Piazza è un grande arcipelago relazionale dove si sperimenta la mixité nei suoi percorsi più vir-tuosi e in quelli della marginalità più precaria: voci, volti e colori dei nuovi napoletani hanno in questazona la loro vetrina principale. In realtà, si tratta di un paesaggio urbano che si ripete, con declina-zioni diverse, in ogni quartiere che ospita le stazioni ferroviarie delle principali città italiane ed euro-pee. Attraverso questi luoghi si dipana il percorso che i migranti si sono creati nelle maglie del mer-cato del lavoro italiano. Un aspetto che è solo apparentemente in contraddizione con il contesto so-cioeconomico delle regioni meridionali, connotate da un sistema produttivo debole, un welfare localecarente, aspetti che esprimono un alto livello di disoccupazione e un significativo ruolo dell’economiainformale. Da terre di transito le regioni meridionali sono diventate mete di residenza per un numerocrescente di stranieri che trovano accesso soprattutto al mercato del lavoro dequalificato e precariodell’agricoltura, delle piccole imprese, della collaborazione domestica e del terziario povero.Secondo fotogramma: ancora Piazza Garibaldi, la domenica sera. Una storia meno nota. Decine dipersone si dirigono silenziose verso i treni notturni per Torino, Milano, Trieste oppure per Monfalcone,Modena, Verona, Rovigo, La Spezia. Sono i giovani campani che, come in altri contesti del Mezzo-giorno, sono stati costretti a dirigersi nelle regioni del Centro-Nord per trovare un impiego. Si trattaperlopiù di persone tra i 20 e i 45 anni, diplomati e laureati che la Svimez (nell’ultimo Rapporto an-nuale) stima in 270.000 all’anno in partenza da tutte le regioni del Sud. Di questi, 120.000 si spostanodefinitivamente, mentre gli altri sono pendolari di lungo periodo perché ancora studenti o lavoratoritemporanei che non dispongono di un reddito sufficiente per sostenersi. Spesso si muovono con gli ae-rei low cost o con vetture private e il loro raggio di azione cresce con il livello di qualificazione: i mi-gliori cervelli, senza valigie di cartone, ripercorrono le strade dell’emigrazione oltrepassando i confiniper andare verso centri di studio e di ricerca europei e americani.Un incrocio di destini paradossale che si gioca in un proscenio ferroviario: migranti spesso diplomatie qualche volta laureati costretti a lavori più umili, lavori che sono rifiutati da diplomati e laureati me-ridionali costretti, a loro volta, a emigrare. Mobilità sociali che si accompagnano a migrazioni in uncontesto lavorativo che sembra privo di una casella dove collocare diplomati e laureati.

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5.3. Terziario di crisi o crisi del terziario me-ridionale?

Con un totale di circa 1 milione di imprese, 4,7milioni di occupati e il 78% del valore aggiuntoprodotto, il terziario del Mezzogiorno contri-buisce tra il 70 e l’80% alla composizione deirelativi aggregati. Dal 1995 al 2008 il settore ècostantemente cresciuto confermando quellatensione verso una spinta terziarizzazione che,sin dall’immediato dopoguerra, ha caratteriz-zato il sistema economico meridionale.L’attuale contesto di crescita particolarmenterallentata ha, tuttavia, frenato le dinamiche disviluppo del terziario che, in ogni caso, hamostrato, rispetto all’agricoltura (-9%) e al-l’industria (-8,8%), una maggiore capacità diresistenza alle pressioni congiunturali, confer-mando la tradizionale struttura anticiclica chelo caratterizza.Sia nel periodo antecedente la crisi che inquello recessivo successivo, non tutti i com-parti in cui si articola il settore hanno fatto re-gistrare dinamiche assimilabili.Fino al 2008, infatti, i servizi alla produzione(comprendenti l’intermediazione finanziaria,monetaria e le attività immobiliari e imprendi-toriali) e i servizi sociali (altre attività di ser-vizi) crescono con valori che superano i ritmiincrementali dell’intero terziario.Nel periodo antecedente la crisi, tra il 2000 eil 2007, i servizi alla produzione avevano regi-strato una crescita del valore aggiunto pari al40%. Parte di questa crescita, tuttavia, non èsolo legata a sviluppi positivi dell’economiameridionale quanto, piuttosto, a un aumentodel credito sospinto dall’indebitamento delleamministrazioni locali. Il che spiega bene ilbrusco rallentamento nella crescita segnato trail 2008 e il 2009, con una riduzione del valoreaggiunto prodotto di circa -1,7%.

Anche l’eterogeneo aggregato “Altre attivitàdi servizi”, che sempre tra 2000 e 2007 contri-buiva a mantenere positivo il trend del terzia-rio nelle regioni del Mezzogiorno, soprattuttoin Campania e in Sicilia (+34% per la Campa-nia, +39,1% per la Sicilia), ha subito nell’ul-timo biennio una riduzione della crescita. Laridotta propensione all’innovazione, alla speri-mentazione e al mercato continuano a traspa-rire dai diversi ritmi di sviluppo degli aggre-gati in cui si articola tale comparto, che vedeuna prevalenza delle attività più tradizionalilegate ai servizi alle famiglie, all’istruzione ealla sanità.Ritmi di crescita più lenti rispetto alle dina-miche dell’intero settore (+15,2% tra il 2000e il 2007) ed evidenti segnali di affanno nel-l’ultimo biennio emergono dal comparto delcommercio, riparazioni, alberghi e ristoranti,trasporti e comunicazione (servizi distributivie servizi al consumo). Sono queste le attivitàche subiscono più di ogni altra gli effetti con-giunturali che incidono pesantemente sucommercio (-11%), alberghi, trasporti e turi-smo (-3%), in quanto maggiormente espostialla contrazione dei consumi.Il rallentamento congiunturale post 2008, purimponendo una razionalizzazione del sistemad’impresa terziario, non ha tuttavia stravoltol’assetto imprenditoriale del Mezzogiorno checontinua a essere fortemente rappresentato daimprese del settore (che in termini d’impresecontinua a crescere: passando dal 50% del2008 al 55% nel 2009). Con saldi di natalitàpositivi e un incremento di circa il 17% del nu-mero complessivo delle aziende, le imprese delterziario hanno dimostrato come, anche in con-dizioni congiunturali sfavorevoli, le crescentiopportunità di fare impresa derivino, nel Mez-zogiorno, proprio da tale comparto. Anche senon pochi dubbi sembra legittimo porre in ter-

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mini di qualità del relativo livello di moderniz-zazione imprenditoriale, adeguamento dell’of-ferta alle dinamiche sempre più esigenti delladomanda, capacità di presenza sui vasti mer-cati delle relative strutture organizzative.Un’ulteriore conferma del carattere prevalente-mente terziario del sistema economico meridio-nale emerge dalla consistenza della relativa oc-cupazione: con i suoi 4,7 milioni di lavoratori,il terziario costituisce il principale bacino diimpiego del Sud d’Italia. Ma si tratta di un ag-gregato articolato ed estremamente differen-ziato, all’interno del quale convivono le più di-verse figure professionali, mentre un peso deci-samente consistente concerne la pubblica am-ministrazione, sebbene anche il Mezzogiorno,più di recente, abbia subito un netto decre-mento della relativa occupazione (ormai, in-torno a un valore di 39 dipendenti pubblici permille abitanti). Significative sono anche le di-namiche complessive del lavoro dipendente, ri-spetto a quello autonomo, il cui incremento, ne-gli ultimi dieci anni, ha comportato una sostan-ziale parificazione delle relative componenti.Questa particolarità del Mezzogiorno, in con-

trotendenza rispetto a quella nazionale, in cui ilavoratori autonomi calano e gli occupati alledipendenze crescono, presenta aspetti di nonsecondario interesse. Infatti, il processo può es-sere letto alla luce di una complessa riarticola-zione imprenditoriale di natura organizzativa,che prova a rispondere alla crescente domandadi servizi, non più soddisfatta dalla sola compo-nente pubblica, quanto dipendere dalla satura-zione della domanda istituzionale di lavoro che,di conseguenza, orienta le nuove leve verso dif-ferenti modelli professionali, rivolti all’autoim-piego. In definitiva, al di là degli effetti con-giunturali, il rallentamento del terziario meri-dionale nelle dinamiche di medio periodo evi-denzia le debolezze di un sistema economicoche sconta, soprattutto, gli effetti di una scarsacompetitività, in un contesto caratterizzato damodesta propensione all’innovazione e allasperimentazione. Il rischio più grave, quindi, èrappresentato da un terziario sempre maggior-mente “levantino”, incapace di evolversi vir-tuosamente, sopraffatto da carenza di adeguatiinvestimenti in ricerca e sviluppo; pertanto,poco aperto al confronto globale.

La colonizzazione delle periferie a opera della grande distribuzione

Nel quadro di una modernizzazione tardiva della distribuzione al dettaglio che ha caratterizzato l’evolu-zione della rete commerciale a scala italiana, poi accelerata dalla liberalizzazione introdotta dalla co-siddetta Riforma Bersani (1998), il Mezzogiorno ha sperimentato dinamiche per certi versi contradditto-rie. Al limitato sviluppo dei nuovi format distributivi tra gli anni Ottanta e Novanta ha fatto da contral-tare, soprattutto a partire dalla seconda metà del decennio Duemila, una vistosa proliferazione di eser-cizi che, ad esempio per quanto riguarda i centri commerciali, ha fatto parlare del Sud come “locomo-tiva” in questo settore. Tale scenario di strutture commerciali meridionali va ricondotto non solo alladotazione esistente degli shopping centers, all’interno dei quali si è registrato un aumento del numeromedio dei punti-vendita e una rilevante presenza di promotori locali, ma ancor di più a quella previstaper i prossimi anni, che destinerebbe il 35% dei progetti proprio alla parte meridionale del Paese. Il dinamismo della distribuzione commerciale nel Mezzogiorno non dovrebbe tuttavia essere letto,come troppo spesso avviene, alla luce di un rapporto diretto tra la proliferazione dei nuovi format, lamodernizzazione del comparto e quindi lo sviluppo territoriale. La colonizzazione delle periferie aopera della grande distribuzione, in prossimità dei nodi infrastrutturali, che sta interessando in modo

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sempre più pervasivo anche il Mezzogiorno, è infatti nella gran parte dei casi interpretata quale meta-fora del recupero di un deficit di modernizzazione. La vivacità del comparto commerciale meridionale,invece, andrebbe piuttosto ricercata nella pluralità di presenze che, accanto all’insediamento dellagrande distribuzione, vedono la resistenza del piccolo dettaglio e di forme del commercio come i mercatie le strade commerciali. In un altro segmento, che eredita il ruolo detenuto dall’ingrosso, andrebbe al-tresì registrato il successo di iniziative come quelle che caratterizzano la piattaforma logistica tra Na-poli, Nola e Marcianise in Campania (si veda il Box nel Cap. 9). Tuttavia, come è stato sottolineato dauna recente ricerca dell’Associazione Studi e Ricerche per il Mezzogiorno (2007), l’altra faccia dellamedaglia del dinamismo meridionale è rappresentata da una debolezza evidente nel persistente utilizzodel commercio come settore-rifugio (generatore di eccessiva frammentazione) e, soprattutto, in un te-nore di vita e in una capacità di spesa certamente inferiori a quelli dell’Italia centro-settentrionale. In parte, comunque, i mutamenti dei paesaggi commerciali del Mezzogiorno sono effettivamente da ri-condurre alla recente proliferazione di esercizi afferenti alla grande distribuzione gestita da gruppi amarchio straniero, come testimonia la leadership di Carrefour e Auchan, che al 2006 già realizzavanoil 30% del fatturato della grande distribuzione del Sud. Ma altrettanto rilevante è la diffusione di spazicommerciali che combinano shopping e leisure: più che “non-luoghi”, come è stato osservato (G.Amendola, 2006), si tratta di “superluoghi”, cioè non dei semplici contenitori ma dei prodotti essistessi, attrattori che vorrebbero rappresentare ciò che erano le piazze italiane o monumenti e, perfarlo, li imitano. Il caso più vistoso è il “Vulcano Buono” progettato da Renzo Piano e inserito nelcomplesso CIS-Interporto di Nola (si veda ancora il Box nel Cap. 9), ma anche il Reggia Outlet Center,un designer outlet afferente al gruppo McArthurGlen localizzato a Marcianise, che si richiama esplici-tamente alla magnificenza della vicina Reggia di Caserta o del Fashion District Outlet di Molfetta, chesi propone quale nodo cruciale nel Mezzogiorno per lo shopping turistico. Ma si possono citare anchei diversi centri realizzati da Ikea che, specie nei fine settimana, divengono mete di famiglie cui, accantoalle occasioni di acquisti, offrono possibilità di ristorazione e spazi ludici per bambini. D’altra parte,benché le regioni meridionali abbiano adottato comportamenti eterogenei nella disciplina del commer-cio dopo il decreto Bersani, si registra una convergenza nel rispondere alla colonizzazione delle perife-rie a opera dei centri commerciali pianificati attraverso un rilancio del rapporto tra commercio e cittànegli spazi centrali, adottando politiche di recupero e riqualificazione dei cosiddetti “centri commer-ciali naturali”. Come è accaduto anche nell’Italia centro-settentrionale, quindi, il problema del go-verno del settore commerciale si intreccia con una serie di cambiamenti che attraversano i centri e leperiferie del Mezzogiorno urbano. Proprio per tale ragione, la sostituzione delle gerarchie urbano-commerciali tradizionali con nuovi assetti reticolari e post-gerarchici potrebbe rappresentare, per leregioni meridionali, un’occasione per una più efficace pianificazione del settore. In tal senso, la rispo-sta più efficace al tumultuoso e recente sviluppo della grande distribuzione dovrebbe essere individuatain nuovi strumenti di governo della coesistenza tra i molteplici luoghi del commercio che strutturanoattualmente il milieu commerciale delle regioni meridionali.

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6. La resistibile ascesa della cultura dell’illegalità

gioni del Mezzogiorno in cui si concentra il75% del crimine organizzato, il valore ag-giunto pro capite del settore privato è pari al45% di quello del Centro Nord”. Accanto ai tradizionali reati di mafia, qualil’estorsione e l’usura, le cosche sono riuscite aconquistare nuovi spazi economici, in formenon sempre immediatamente riconoscibilicome illegali, affiancando modalità d’azioneinnovative ai tradizionali modelli operativi eprofili criminali. Ragguardevoli risultati inve-stigativi e processuali, soprattutto negli annipiù recenti, hanno assestato colpi dalla grandevalenza simbolica ai sodalizi criminali piùstrutturati; d’altra parte significativo e impor-tante è il risveglio della società civile e la cre-scente mobilitazione anti-mafia della cittadi-nanza. Nonostante ciò le cosche mostrano unapervicace resistenza nel radicamento nelleprincipali “roccaforti” dei territori d’origine,strutturandosi in profonda correlazione con ledimensioni sociali, economiche e politiche delcontesto. Situazione che chiama a rinnovate epiù incisive politiche pubbliche antimafia.

6.2. Le roccaforti territoriali delle quattro mafie

È noto che la criminalità di tipo mafioso staestendendo il suo raggio d’azione fuori delle re-gioni meridionali, al Centro-Nord dell’Italia eoltre frontiera, anche costituendo cartelli conorganizzazioni straniere, lungo nuove direttricidi impiego dei capitali e ricerca di nuovi affari.Tuttavia è soprattutto nei luoghi d’origine chele principali matrici organizzate autoctone delMezzogiorno – cosa nostra, camorra, ’ndran-

6.1. Il fattore “sicurezza” di fronte alla crimi-nalità organizzata

Lo sviluppo economico si giova della sicu-rezza. Questa concorre a costituire il “capitalesociale” di un territorio, insieme a un ampioinsieme di fattori immateriali che sostengonoil buon funzionamento del mondo produttivo.Nel Mezzogiorno la diffusa presenza di varieforme di illegalità, il fortissimo radicamentodi una criminalità organizzata di tipo mafioso,a fianco di quella comune, sono segni inequi-vocabili della carenza di questa condizioneessenziale.Il gap di sicurezza e di legalità tra il Mezzo-giorno e il resto d’Italia viene messo in lucedal numero di delitti di tipo mafioso denun-ciati all’autorità giudiziaria. Al Sud si concen-trano il 53% delle rapine, il 52% delle estor-sioni, il 51% dei reati di usura, il 48% degli at-tentati, il 92% dei reati di associazione di tipomafioso (Confindustria, 2010) e pressoché iltotale degli omicidi per motivi di mafia: 104crimini al Sud, contro 2 al Nord e nessuno alCentro (Istat, 2008). Gli effetti perturbatividella presenza criminale e mafiosa si sovrap-pongono alle criticità strutturali del Mezzo-giorno, tanto da rappresentare – dichiarazionedi Cristiana Coppola, presidente del ComitatoMezzogiorno della Confindustria – “uno deiprincipali motivi, se non il principale, del ri-tardo economico del Mezzogiorno”. Nellostesso senso, cogliendo la connessione tra ladensità della criminalità organizzata e il li-vello dello sviluppo, il governatore dellaBanca d’Italia nelle “considerazioni finali”dell’anno 2010 ha affermato che “nelle tre re-

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gheta, criminalità pugliese – restano forte-mente arroccate, in profondo legame con il ter-ritorio, nel cui contesto da un lato diffondono ipropri codici culturali, dall’altro si giovano del-l’esistenza di un “humus” sociale favorevole, inun circolo vizioso che si autoriproduce. La mappa delle cosche che si dividono, inlotta tra di loro, l’egemonia territoriale è estre-mamente fitta. Un’indagine del Censis (set-tembre 2009), condotta nelle quattro regioniritenute più “a rischio” – Campania, Calabria,Puglia e Sicilia – ha rilevato in oltre un terzodei 1.608 comuni di queste regioni uno o piùindicatori di presenza della criminalità orga-nizzata: in 406 comuni sono stati compiutireati riconducibili a organizzazioni di tipo ma-fioso, in 396 comuni sono stati sequestratibeni appartenenti a cosche criminali e 25 am-ministrazioni comunali, all’epoca dell’inda-gine, risultano sciolte per ragioni di infiltra-zione mafiosa, tra le quali 8 in provincia diNapoli, 4 in quella di Palermo e 3 rispettiva-mente nelle province di Reggio Calabria eVibo Valentia. Il primato negativo spetta allaSicilia, con il 50% di comuni marcati dallapresenza mafiosa, seguita dalla Puglia(37,6%), dalla Campania (36,8%) e dalla Ca-labria (28,1%). La provincia più coinvolta èquella di Agrigento, con l’86% di comuni, se-guita dalla provincia di Napoli (79,3%) equella di Caltanissetta (77,3%); mentre emer-gono in positivo le situazioni di Avellino e Co-senza, dove l’influenza delle mafie sembra es-sere circoscritta ad alcune aree.Dall’indagine si evince il carattere prevalente-mente urbano delle mafie, dal momento chequeste roccaforti di insediamento sono, gene-ralmente, città dalla dimensione medio-grande, dove si presentano le più appetibili oc-casioni di business e di riciclaggio del denaro“sporco”, afflusso di capitali pubblici e pro-

grammi di espansione edilizia. È un’area incui viene prodotto il 14,6% del PIL nazionalee si registrano il 12,4% dei depositi bancari eil 7,8% degli impieghi. Allo stesso tempo, visi riscontrano i più alti tassi nazionali di disoc-cupazione e basso reddito pro capite, situa-zione entro la quale la criminalità può attin-gere più facilmente la sua manovalanza e rin-novare contingenti operativi smembrati dagliarresti. In questa area vivono 13 milioni circadi persone, il 77,2% della popolazione resi-dente complessiva, vale a dire circa il 22%della popolazione italiana. La superficie com-plessivamente occupata è di 37.458 km2, parial 50,8% del territorio delle quattro regioni.Sono dati da cui la forza pervasiva della crimi-nalità organizzata emerge in tutta la sua dram-maticità.

6.3. La “mafia liquida” e la dilatazione del-l’economia “canaglia”

Il panorama criminale è in continuo fermento.Arresti “eccellenti”, collaboratori di giustizia,faide interne scompongono equilibri e assettiorganizzativi, richiedono adeguamento di stra-tegie e flessibilità di tecniche operative. Impegnate nella gestione degli ingenti patri-moni accumulati e nella ricerca di nuovi spazidi penetrazione, le consorterie più potenti ten-dono a lasciare usura ed estorsione a piccolecosche in formazione, o anche alla delinquenzacomune – forma di criminalità autonoma masubalterna alla macrocriminalità – limitandosi,a volte, a pretendere una “quota” dell’illecitoprofitto. In alcune aree, perciò, le risultanze in-vestigative registrano un calo dei reati violentiquali incendi dolosi, attentati, aggressioni,omicidi, che tradizionalmente caratterizzano ilcomportamento mafioso. Tale condotta “di

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basso profilo” non corrisponde a un cambia-mento genetico delle organizzazioni crimi-nali, né a un diminuito controllo e influenzasull’economia e sul territorio; al contrario, siaccompagna a strategie di ampliamento delleattività apparentemente “lecite”, sul pianoimprenditoriale e finanziario, alle quali nongiova l’allarme sociale. “A fronte di una di-minuzione del profilo di esposizione tipica-mente «militare», la mafia ha stimolato lapropria dimensione affaristico-finanziaria, di-ventando, secondo un’espressione ormai digergo, una «mafia più liquida»” (Relazionedel Ministro dell’Interno al Parlamento, I se-mestre 2010). In alcuni casi, tuttavia, dove iltessuto criminale assume connotati frammen-tari e magmatici, come accade nelle aree me-tropolitane di Napoli e Palermo, si continua aregistrare un vasto spettro di azioni delittuoseviolente. In questo quadro evolutivo, la pratica estorsivatende ad assumere forme più in linea con il con-notato imprenditoriale delle consorterie crimi-nali: all’azienda viene richiesto non tanto il pa-gamento di una somma di denaro, quanto assun-zioni di personale, forniture di merci e di servizierogati da un’altra impresa malavitosa. In al-cune aree la fornitura di calcestruzzo è impostaalla totalità delle imprese di costruzione, es-sendo l’edilizia uno dei business più monopoliz-zati dalla criminalità organizzata. La pressioneestorsiva può arrivare all’acquisizione parzialedell’azienda, a titolo di maggioranza, in formadiretta o tramite prestanome. In Calabria le’ndrine hanno messo in atto una metodologia diespansione territoriale basata su varie forme dicessione di attività aziendali: “Le ’ndrine nonvogliono il pizzo dai commercianti e artigiani,vogliono soprattutto che se ne vadano” (SoSImpresa, XII Rapporto annuale, 2010). Senza rinunciare alle tradizionali attività di

tipo predatorio, e utilizzandole come fonte diaccumulazione primitiva di capitale, la “mafiaimprenditrice” ha così portato più avanti il ci-clo di inserimento nei settori dell’economia in-trapreso nei decenni passati. L’economia “ca-naglia” si espande dai settori produttivi aquelli del commercio e dei servizi, dalla risto-razione alla grande distribuzione, dagli appaltiper le forniture pubbliche al settore immobi-liare e finanziario. Non sempre l’infiltrazione èfrutto di vessazione. La “collusione parteci-pata”, vale a dire con il consenso dell’impren-ditore, è una pratica molto cresciuta, favoritadalla perdita di redditività delle più deboliaziende locali nell’attuale congiuntura econo-mica, ma alla quale non si sottraggono diversigrandi e medi imprenditori extralocali, siacome prezzo da pagare alla continuazione del-l’attività, sia nell’intento di sfruttare i vantaggidi una posizione monopolistica, qual è quelladi una impresa mafiosa, che si procura capitaled’investimento a bassissimo costo, provento dialtre attività illecite, usa la forza intimidatriceper acquisire quote di mercato, si accaparra ri-sorse pubbliche, utilizza lavoro a basso costo,in violazione di diritti sindacali e norme di si-curezza. Il modello della “collusione parteci-pata”, tra i molteplici tipi di legami che pos-sono esistere tra mafie e imprese, è forse laforma più pericolosa, sovrapposizione oscura einquietante del lecito e dell’illecito, che ali-menta la capacità di riciclaggio e reimpiegodel denaro mafioso nell’economia legale. Esiste, inoltre, una “contiguità compiacente” diuna vasta area di borghesia collusa (avvocati,ragionieri, commercialisti, imprenditori, medici,funzionari di banca) che opera organicamenteper conto dei clan e ne sostiene l’espansioneeconomica garantendo l’uso di prestanome el’impiego di sofisticate tecniche commerciali,tributarie e finanziare per l’occultamento del-

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l’origine dei capitali e degli assetti societari. Trale fila di questa membership qualificata si tro-vano anche esponenti politici, referenti di unarete di interessi che va al di là della dimensionelocale, sulla scorta dell’evoluzione del sistemaeconomico-finanziario. Le risultanze investiga-tive affermano che, in questa fase di trasforma-zione del condizionamento mafioso dell’econo-mia e della società, l’elemento patologico distin-tivo è “l’appartenenza ormai organica di autore-voli segmenti di borghesia intellettuale, impren-ditoriale e amministrativa, senza i quali le orga-nizzazioni criminali non avrebbero potuto con-solidare la robustezza economica-finanziariaraggiunta. Si è formato un sistema le cui caratte-ristiche afferiscono non più a connotati di com-mistione, ma di vero e proprio autonomo si-stema con piena autoreferenzialità funzionale.Ed è sempre meno agevole per gli investigatoriricostruire il quadro completo degli associati,l’intera rete mafiosa di controllo degli investi-menti e dei commerci caduti in forme di con-trollo mafioso dissimulato, gli interna corporisdelle cosche, che vanno a comporre le architet-ture operative e a tracciare le direttrici dispie-gate sul territorio” (DIA, Centro operativo diNapoli, Relazione sulla criminalità organizzatain Campania, 1° semestre 2010). Più è vasta la quota dell’economia che cadenelle mani della criminalità organizzata, piùforte diventa la sua capacità di condizionare lescelte politiche e amministrative locali nei set-tori più appetibili come la pianificazione edili-zia, l’ambiente, la sanità, le opere infrastrutturalifinanziate da fondi nazionali ed europei. Undato della Commissione Parlamentare Antima-fia: dal 1991 al 2007 in Italia si sono verificati172 casi di scioglimento di amministrazioni co-munali per ragioni di mafia, la quasi totalità co-stituita da amministrazioni di piccole e mediecittà del Mezzogiorno: 75 casi in Campania,specie in provincia di Napoli e Caserta; 49 scio-

glimenti in Sicilia, in particolare in provincia diPalermo; in Calabria 38 casi, soprattutto in pro-vincia di Reggio Calabria; in Puglia 7 casi, nelleprovince di Bari e Lecce. In alcuni comuni iprovvedimenti sono intervenuti più di una volta.In Campania si è verificato il primo caso discioglimento di una Asl per infiltrazione camor-ristica, l’Asl Napoli 4 di Pomigliano d’Arco. La penetrazione della criminalità organizzatanelle istituzioni locali territoriali è favorita daun autonomo fenomeno di illegalità che si an-nida nella PA. In uno studio dell’Alto Com-missario Anticorruzione – un organismo cheha operato tra il 2004 e il 2008 presso il Mini-stero per la PA e l’Innovazione – si legge: “lacorruzione nella PA è molto diffusa e favoritada alcune caratteristiche specifiche del sistemaamministrativo italiano, tra cui un meccani-smo di reclutamento e promozione alquantooscuro e inefficiente: il pagamento di tangentisembra essere una prassi comune per ottenerelicenze e autorizzazioni, appalti pubblici,transazioni finanziarie, come per facilitare ilsuperamento di esami universitari, praticare lamedicina, concludere accordi nel mondo delcalcio, ecc.” (Il fenomeno della corruzione inItalia. 1a Mappa dell’Alto Commissario Anti-corruzione, dicembre 2007). Questi comporta-menti si riscontrano al Sud come al Nord, manel Mezzogiorno più facilmente il sistema,che si potrebbe definire “a legalità debole”(Antonio La Spina), offre aree di contiguitàcon le organizzazioni economico-affaristichedi matrice criminale, che sono presenti sulterritorio. Restando tale endemica corruzionesostanzialmente impunita, ne deriva la ridu-zione della soglia della percettibilità da partedell’opinione pubblica. D’altronde il compor-tamento illegale è condiviso, con ricchezza diforme, dall’intero quadro sociale: basta ricor-dare l’ampiezza dell’area del “sommerso”,componente strutturale del sistema produttivo

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meridionale, l’evasione delle norme fiscali edi sicurezza del lavoro, l’abusivismo edilizio ela violazione delle norme di tutela ambientale,comportamenti privati radicati nell’abitudine.La cultura dell’illegalità tende a imporsi senzache la parte sana della società civile sia ingrado di opporre la tensione morale necessariaa determinare un cambiamento.

6.4. Il costo dell’illecito

Qual è la dimensione dei costi imposti alle im-prese, alla società e al territorio dall’inarresta-bile pressione che fa sempre attivo il bilanciodelle cosche? Il carattere occulto del feno-meno rende difficile il calcolo. Diverse fonticoncordano nel ritenere enorme l’ammontaredel fatturato criminale ma le stime e gli ordinidi grandezza proposti sono diversi, in fun-zione anche del criterio utilizzato. SoS Im-presa nel suo Rapporto dell’anno 2010 ritieneche la contabilità mafiosa in Italia abbia rag-giunto i 135 miliardi di euro di fatturato e unutile di circa 70 miliardi, al netto di investi-menti e accantonamenti, pari al 7% del PILnazionale. Una gran parte di questa ricchezzaviene realizzata al Sud. La metà degli introitideriva dal traffico di droga, che trova nel Mez-zogiorno importanti teste di ponte. L’usura è il reato più in crescita, “esploso”nell’attuale congiuntura per il drammatico au-mento della vulnerabilità delle famiglie e dellepiccole aziende a conduzione familiare che vifanno ricorso per le difficoltà di accesso alcredito ordinario, oppure trovandosi nell’im-possibilità di fare fronte alle scadenze dei mu-tui. L’incidenza del reato di usura nelle quattroregioni del Sud a maggior rischio di mafia siattesta oltre il 50% del totale nazionale. Se-condo i dati in possesso di SoS Impresa, nel

solo settore del commercio, sono coinvolti ol-tre 90.000 esercizi nel Mezzogiorno, il giro diaffari si colloca intorno ai 9 miliardi di euro.Gli interessi possono essere anche giornalieri(10%) e settimanali (60-70%). Il credito usu-rario è un’altra via di infiltrazione nel tessutoimprenditoriale legale: spesso l’azienda debi-trice è obbligata ad accettare la liquidità of-ferta a titolo di partecipazione finanziaria al-l’attività.L’estorsione riguarda quasi un terzo delle im-prese meridionali con meno di 250 addetti(Censis-Fondazione BNC). Nel 2008 la Cam-pania, la Calabria, la Puglia e la Sicilia hannoregistrato 2.859 denunce di reati di estorsione,il 43% del totale nazionale (Dati SDI, Dire-zione Investigativa Antimafia), pur essendo illoro apparato imprenditoriale meno sviluppatodi quello centro-settentrionale. Nel settore delcommercio, sono colpiti l’80% degli esercizidi Catania e Palermo, il 70% di quelli di Reg-gio Calabria, il 50% di quelli di Napoli; nellearee periferiche di queste città è coinvolta laquasi totalità delle attività commerciali, dellaristorazione, dell’edilizia, restando esclusesolo quelle di proprietà mafiosa o che con lemafie hanno stabilito rapporti collusivi.Un tentativo organico di stimare il prelievo mo-netario estorsivo nel Mezzogiorno è compiutoda due ricerche promosse dalla FondazioneRocco Chinnici, relative l’una alla Sicilia (acura di A. La Spina) e l’altra alla Campania (acura di G. Di Gennaro e A. La Spina). In riferi-mento alla Sicilia, Asmundo e Lisciandra sti-mano che la pratica del “pizzo” sottrae ognianno all’intero sistema produttivo sicilianocirca 1 miliardo di euro. Lo stesso Lisciandra,analizzando la situazione in Campania, in uncampione di imprese di Napoli e Caserta, og-getto di pressioni estorsive tra il 1990 e il 2009,ha potuto documentare un’imposizione perio-

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dica mensile compresa tra i 25/30 euro mensiliper i piccoli esercizi e i venditori ambulanti,compresi gli abusivi, e i 30.000 euro richiesti auna grande società di smaltimento di rifiuti delCasertano. Per i prelievi una tantum l’indagineha osservato una variabilità dimensionale tra i50 euro e i 650.000 euro. Le medie più elevatesono riscontrate per il commercio all’ingrosso,dove si può arrivare a imporre l’acquisto digadget natalizi per un valore di 100.000 euro.Un quarto delle estorsioni riguarda il settoredelle costruzioni, sottoposto a una forma di pre-lievo specifico, del tipo “messa a posto”, in cuil’ammontare dipende dall’opera realizzata. Ge-neralmente i clan prelevano tra il 3 e il 5% del-l’investimento privato o pubblico. Complessi-vamente, mediante estorsione monetaria, nelledue province campane i clan della camorra siappropriano di almeno il 2% del totale del va-lore aggiunto, pari a 1 miliardo e 200 milioni. Queste stime riguardano i “costi diretti” chegravano sul sistema produttivo. Più arduo èstimare quelli “indiretti”, i mancati guadagniper gli operatori economici e l’effetto depres-sivo per l’insieme dell’economia: lo scorag-giamento degli investimenti provenienti da al-tre regioni o dall’estero, che priva il Mezzo-giorno di input di sviluppo fondamentali; ildeterioramento del “capitale sociale”, il rap-porto fiduciario tra attori pubblici, imprese ecittadini; la distorsione delle condizioni dimercato, causata dalla concorrenza sleale delleimprese mafiose; la rinuncia di molte aziendesane ad ampliamenti e innovazioni come mi-sura di difesa preventiva dalle ”attenzioni” deicriminali, la spinta a smembrare l’attività edeffettuare frequenti cambi di ragione socialeper far “perdere le tracce”. Un parametro di misura dell’impatto ostativodelle attività criminali si ricava da un’indaginedel Censis, realizzata nel 2006 per un campione

di 800 imprese medio-piccole della Campania,Puglia, Calabria, Basilicata, Sardegna, Sicilia.Il 30,9% degli intervistati dichiarava che, acausa della presenza della criminalità organiz-zata, riteneva molto (17,4%) o abbastanza(13,5%) difficile condurre la propria attività.Allo stesso tempo il 42,1% degli imprenditori(soprattutto campani e pugliesi) dichiarava cheil fatturato della propria azienda sarebbe statomaggiore, in una misura variabile dal 5 al 20%,se avesse potuto svolgere la propria attività inun contesto territoriale più sicuro.Quanto ai costi legati all’infiltrazione nelleamministrazioni locali, nessuna stima o ri-cerca specifica ha espresso con valori quanti-tativi il costo sopportato dalla collettività so-ciale per l’accumulo di sprechi, irrazionalità einefficienze causate dalla tendenza ad ammini-strare il denaro pubblico nell’interesse privatodi individui e gruppi criminali, l’incapacità diorganismi, inquinati dalla presenza malavi-tosa, di affrontare le criticità dello sviluppodel territorio, i patti scellerati tra pubblici fun-zionari e gestori criminali. I “buchi” nei bi-lanci regionali sono quantità rilevabili, ma as-sai più gravi sono le diseconomie, in tutte lebranche deputate all’erogazione di servizi, do-vute ai comportamenti collusivi.Un esempio che, per certi versi, costituisce unosservatorio privilegiato della commistionepolitico-sociale-criminale è la “crisi dei ri-fiuti” a Napoli, in cui risultano coinvolti am-ministratori, politici, tecnici, dirigenti dellaPA, operatori delle strutture commissariali chesi sono avvicendate nella gestione di una“emergenza” ufficialmente durata dal 1994 al2009, ma in realtà tuttora presente. Essa è co-stata, e sta costando, carissimo alla collettivitàin termini monetari e di mancati servizi pre-stati, inquinamento ambientale e aumento dipatologie sanitarie, offuscamento dell’imma-

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gine internazionale della città faticosamenterilanciata negli anni scorsi, con il crollo deiflussi turistici che da qualche decennio ave-vano conosciuto un trend positivo. I reati ambientali, nel campo dei RSU e dell’a-busivismo edilizio, sono quelli che presentanoforse il conto più salato, e anche più amaro,considerato che le regioni del Mezzogiorno,dove si concentra la gran parte dei cosiddetti“ecoreati” italiani, sono dotate di straordinarierisorse naturali e paesaggistiche, irrimediabil-mente devastate e distrutte. E infine, ma non meno importante, un altrotributo pagato al crimine organizzato, è piùsfuggente ma nel lungo periodo più deva-stante: la diffusione della cultura dell’illega-lità, retaggio da cui è difficile affrancarsi piùche dalle debolezze economiche.

6.5. La confisca dei beni mafiosi

Tra le azioni di contrasto alla criminalità orga-nizzata condotte dalla magistratura e dalleforze dell’ordine, la strategia più efficace è si-curamente il sequestro e la confisca di benipatrimoniali mafiosi e la loro destinazione afinalità sociali. Le disposizioni dettate dallalegge n. 646 del 13 settembre 1982, detta “Ro-gnoni-La Torre”, che integra la precedentelegge del 31 maggio 1965 n. 575, e l’ampia le-gislazione successiva, allargano il campo dellemisure sanzionatorie, acquistando efficaciaanche dal punto di vista preventivo. Le mafiesono colpite incisivamente nella loro capacitàeconomica di rigenerazione continua delleloro fila e di infiltrazione nelle attività legali,mentre il riuso sociale dei beni di provenienzaillecita ha grande valenza simbolica sul pianodel ripristino della cultura della legalità. I beniconfiscati sono ricollocati all’interno di inizia-tive di welfare o di valorizzazione delle risorse

territoriali, anche assicurando posti di lavoroin aree in cui la disoccupazione è fattore di ri-schio per le giovani generazioni, mettendo inuna luce positiva la forza legale dello Stato. I dati del Commissario straordinario del go-verno per la gestione e la destinazione deibeni confiscati mostrano la dimensione delpatrimonio sottratto alle consorterie crimi-nali. Fino al 31 dicembre 2009 sul territorionazionale sono stati confiscati 9.198 beni im-mobili, in massima parte concentrati nelle re-gioni del Mezzogiorno (84,1%), in partico-lare in Sicilia (45,7%), in Campania (14,7%),in Calabria (14,4%). Si tratta in gran parte diabitazioni e terreni agricoli ed edificabili, peril resto box, cantine, fabbricati in genere,cave e capannoni industriali, alberghi, pen-sioni e impianti sportivi (fig. 12). Le aziendeconfiscate sono 1.223, di cui 38,8% in Sicilia,19% in Campania. Operano soprattutto nelsettore delle costruzioni, della ristorazione edel turismo (fig. 13). Circa il 60% dei beni immobili confiscati èstato assegnato a enti locali, associazioni divolontariato, cooperative sociali e trasformatiin scuole, comunità di recupero, case per an-ziani, centri per rifugiati politici. Ci sono staticasi di terreni destinati a cooperative di gio-vani, che hanno avviato un’attività di produ-zione agricola: valga l’esempio della coopera-tiva sociale di lavoro e produzione Valle delMarro-Libera Terra, nella piana di GioiaTauro, impegnata nella coltivazione di 60 et-tari di terre confiscate alla ’ndrangheta. La piena attuazione della normativa è, tuttavia,difficoltosa. L’esistenza di ipoteche o pignora-menti, di occupazione del bene da parte dei fa-miliari, di contenziosi a seguito delle ordinanzedi sgombero, la carenza di risorse finanziarie dadestinare alla ristrutturazione degli edifici, nor-malmente vandalizzati prima del sequestro, rap-presentano motivi di rallentamento nel processo

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di assegnazione, o addirittura il rischio che al-cuni beni rimangano inutilizzati, restando alloStato l’onere della custodia. La recente crea-zione di una “Agenzia nazionale per l’ammini-strazione e la destinazione dei beni sequestrati econfiscati alla criminalità organizzata” (legge n.50 del 31 marzo 2010), chiamata ad ammini-strare i beni oggetto di confisca, dovrebbe favo-rire tempi più rapidi della fase di affidamento.L’Agenzia ha il potere di assumere le iniziativee i provvedimenti necessari per l’assegnazione ela destinazione dei beni confiscati, fino alla no-mina di un commissario ad acta. Un rilievo cen-trale hanno assunto le prefetture del luogo dovesi trovano i beni o ha sede l’azienda. Problemi specifici riguardano le aziende confi-scate, per le frequenti manovre dei proprietarimalavitosi tese a sottrarle alla giustizia primadella confisca definitiva. Di esse, infatti, solo il33% finora ha trovato una destinazione attra-verso la vendita, l’affitto o la liquidazione. Si-gnificativi risultano i protocolli d’intesa, comequello firmato tra l’Unione Industriali di Napolie l’Autorità Giudiziaria, che ha dato la possibi-lità ai custodi giudiziari di ricorrere al supportodi manager qualificati per la continuazione del-l’attività economica, con la salvaguardia dei po-sti di lavoro. Accanto a esperienze positive sonorimaste aperte delicate questioni, il pericoloconcreto che, a prezzo vile, i beni ritornino nelladisponibilità dei proprietari malavitosi, nel casoin cui li si debba vendere alle aste giudiziarie,per il tramite dei circuiti collusivi di cui questeorganizzazioni si servono.

6.6. Il percorso lungo delle politiche di sicu-rezza

Una questione grave, complessa e stratificatacome quella mafiosa è un’ingarbugliata matassa

da dipanare, con interventi differenziati di me-dio-lungo periodo e un corredo di strumenti spe-cifici. Sul versante investigativo e giudiziariol’azione di contrasto alla criminalità sta regi-strando, come si è detto, un crescente successoin termini di disarticolazione dei tessuti associa-tivi e di attacco ai patrimoni criminali, con ilsupporto di una rinnovata normativa sui poteriinvestigativi dell’Autorità Giudiziaria, sull’usodei collaboratori di giustizia, sulla confisca deibeni mafiosi. Un’importante occasione da co-gliere su questo piano è il cospicuo stanzia-mento del PON “Sicurezza per lo sviluppo –Obiettivo convergenza 2007-2013” (1.158 mi-lioni di euro), che offre alle Regioni e agli entipubblici la possibilità di progettare nuovi inter-venti territoriali, dalla sorveglianza ambientalealla lotta alla contraffazione e al commercio ille-gale, alla trasparenza degli appalti pubblici, pre-vedendo anche la formazione degli operatori. Un altro versante di lotta alla criminalità orga-nizzata è quello del fronte civile antimafia,che negli ultimi anni ha visto crescere il nu-mero delle reti antiracket e antiusura, a cui sisono aggiunte le associazioni imprenditorialidi categoria. Anche su questo piano un ruoloimportante è stato svolto da una normativa chesi propone di favorire le denunce e il contri-buto collaborativo delle parti offese con lacreazione di fondi di solidarietà. La mobilita-zione della società civile gioca un ruolo estre-mamente importante nella rottura del clima dirassegnazione e di isolamento che circondachi rifiuta di sottostare alle pressioni criminali.Le stesse organizzazioni antiracket, tuttavia,riconoscono che “l’avanzata della legalità èlenta”, il numero delle denunce è ancorascarso di fronte al numero dei soggetti coin-volti nei rapporti estorsivi e usurari. Siamoforse alle prime battute di un fenomeno chepotrebbe avere andamento cumulativo, in fun-

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zione della diffusione della coscienza dei costieconomici e sociali dell’illegalità.Il versante più carente è quello della “preven-zione”. Sarebbe fruttuoso affrontare alle radiciil problema, piuttosto che cercare di porre ri-medio al “danno da evento”, una volta che siastato compiuto. In questo senso, il compitoimportante, forse centrale, dell’interventodello Stato riguarda l’impegno ad affrontare ilnodo problematico del rapporto fra sviluppoeconomico e sviluppo civile, due processi chesono intimamente legati e che non possonosvolgersi a lungo l’uno separatamente dall’al-tro senza generare gravi squilibri. Si tratta di

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un tema caro ai meridionalisti e a quantihanno portato e portano attenzione alla storiaeconomica e sociale del Mezzogiorno, neisuoi elementi qualitativi, oltre che quantitativi.Basti ricordare le argomentazioni dell’econo-mista Sylos Labini, che vedeva l’esistenza diuna criminalità organizzata fortemente con-nessa alle condizioni civili arcaiche nel Mez-zogiorno, dove l’ipertrofia del settore terziario– a fronte di una ipotrofia dell’industria – por-tava alla frequente trasformazione del poterepolitico in potere economico, favorendo lacollusione delle amministrazioni locali con leimprese fornitrici di beni e servizi.

Fig. 12 – Beni immobili confiscati al 30 giu-gno 2009

Fonte: Ufficio del Commissario straordinario del go-verno per la gestione e la destinazione dei beni confi-scati a organizzazioni criminali

Fig. 13 – Aziende confiscate al 30 giugno 2009(escluse le aziende uscite dalla gestione)

Fonte: Ufficio del Commissario straordinario del go-verno per la gestione e la destinazione dei beni confi-scati a organizzazioni criminali

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7. La ricerca delle prospettive di sviluppo: l’opzione turistica

giorno, area geografica tra le più ricche di ri-sorse naturali e storiche, la cui indubbia voca-zione turistica riesce solo parzialmente a tra-sformarsi in catalizzatrice di presenze. Proba-bilmente, tra le tante diseconomie, nel caso delMezzogiorno gioca l’effetto negativo del vin-colo di perifericità geografica, considerato chepur di fronte a una dinamica positiva degli ar-rivi registrati nell’ultimo decennio, soffre di unrilevante divario con il resto del paese, concen-trando appena il 18,2% degli arrivi comples-sivi e meno del 12% degli stranieri (2009).Non v’è dubbio che i problemi attuali derivinoanche dalla circostanza che sin dai lontanianni del secondo dopoguerra, l’immanenza deigravosi squilibri presenti nel Paese spinse aprivilegiare per il Mezzogiorno un modello diintervento orientato all’infrastrutturazione e aun insediamento industriale a forte impattoterritoriale. Il turismo, in tale visione strate-gica, ottenne una collocazione residuale nellaripartizione degli investimenti pubblici e degliincentivi, come nell’allocazione degli investi-menti privati. Accanto a un impegno finanzia-rio inadeguato, quello che mancava era, so-prattutto, un disegno di sviluppo concepito infunzione delle specificità dei contesti territo-riali, il più delle volte abbandonati a se stessi o“risarciti” con interventi episodici e frammen-tari, privi di esplicita coerenza programmatica.Quando, con molto ritardo, agli inizi deglianni Settanta, iniziò a vacillare il modello in-dustriale tradizionale, in una più realistica vi-sione del quadro di programmazione dello svi-luppo, riemerse il tema del turismo; tuttavia intermini astratti e verbalistici, piuttosto checoncretamente operativi. Errori gravi, proprio

7.1. Il tardivo e inadeguato ricorso alla ri-sorsa turismo

Nonostante la sfavorevole congiuntura inter-nazionale, nel corso dell’ultimo decennio il tu-rismo ha contribuito al PIL globale per circa il10% e assicurato lavoro a circa il 7% della po-polazione attiva mondiale (UNWTO, 2010).In Italia, tuttavia, s’è manifestato un trendevolutivo piuttosto contenuto e meno che pro-porzionale rispetto all’andamento del feno-meno a scala mondiale. Negli arrivi, siamopreceduti dalla Cina e, ciò che più preoccupa,collocati in posizioni di retrovia nelle classifi-che della competitività turistica. Il Rapporto2010 del World Economic Forum colloca l’I-talia al 27° posto a fronte del 2° della Germa-nia, del 3° della Francia, dell’8° della Spagna,nostri principali concorrenti europei. Si trattadi evidenti segnali di difficoltà, solo in partegiustificati dalla crisi economico-finanziaria diquesti ultimi anni, che nettamente contraddi-cono qualità, ampiezza, articolazione e varietàtipologica di risorse, che non si riesce adegua-tamente a trasformare da potenziale di attra-zione, in effettiva capacità di polarizzazionedei flussi turistici. Scenario che non escludeneppure il comparto del turismo balneare, tra-dizionalmente attivo lungo i ben 5.000 km dispiagge, oramai in difficoltà rispetto ai nuovibacini turistici, particolarmente agguerriti pro-prio nell’offerta “sole e mare”, commercializ-zata attraverso una politica aggressiva di bassiprezzi d’offerta “all inclusive”. Tuttavia, per molti versi, ciò che maggior-mente preoccupa è il modesto contributo of-ferto all’economia del settore dal Mezzo-

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se confrontati con l’evidente, accelerato, pro-cesso di de-industrializzazione subito dalMezzogiorno, mentre le potenzialità endogenee le vocazioni autentiche del territorio, privedi adeguate strategie che ne sostenessero lacentralità, subivano un ulteriore duro colpodalla contemporanea carenza di opportune po-litiche ambientali.

7.2. Vastità di risorse potenziali e carenti poli-tiche di valorizzazione

Tre ordini di motivi sono rintracciabili nelMezzogiorno, alla base della distorsione traofferta potenziale di risorse e relativa frui-zione. La prima ragione risiede nell’inadegua-tezza del sistema infrastrutturale e nel fattore“distanza” dai principali mercati: debolezzadel sistema stradale e ferroviario accompa-gnata dall’analoga debolezza di quello aero-portuale, privo di scali hub che, ove in posi-zione baricentrica, consentirebbero l’efficacedistribuzione dei flussi. Alla carenza di colle-gamenti si sovrappone poi un problema di ca-rattere culturale: la crisi d’immagine che ilMezzogiorno sta vivendo nella percezione in-ternazionale. Innanzitutto, il senso di scarsa si-curezza, unita all’assenza di un’adeguata stra-tegia di promozione del territorio, rappresen-tano un fattore di forte freno nell’orientamentodelle scelte dei potenziali turisti, favorendo lacapacità competitiva di altre mete dello stessobacino del Mediterraneo (Spagna, Grecia, Tur-chia, Croazia, Tunisia, Egitto, Marocco). In-fine, la scarsa capacità d’innovare e diversifi-care la propria offerta, tuttora fortemente an-corata al segmento balneare, che unita alle ca-renze strutturali sul piano dell’accessibilità edella sicurezza colloca il Mezzogiorno ai mar-gini del Mediterraneo.

Diversamente, il Mezzogiorno rappresentauna delle aree del Mediterraneo in cui l’ampiavarietà di risorse permetterebbe la fruizionedelle più varie tipologie di turismo: e tuttavial’offerta risulta concentrata in ambiti decisa-mente “maturi”. In tal modo, mentre un ampiocapitale turistico resta ancora sottoutilizzato,le risorse su cui il Mezzogiorno riassume lapropria offerta, se pur di pregio, finiscono percoincidere, per tipologia, con quelle concor-renti delle destinazioni emergenti, decisa-mente più competitive per livello di prezzi e,persino, per ampiezza di servizi complemen-tari offerti.Del resto, la stessa risorsa balneare, che ri-chiama il maggior numero di turisti verso lecoste del Mezzogiorno, pur disponendo disempre più spiagge “bandiera blu”, soffre dicarenza di servizi nello stesso comparto nau-tico, disponendo di una percentuale eccessiva-mente contenuta di approdi diportistici e di ser-vizi avanzati di cantieristica, il che ne condi-ziona notevolmente la capacità attrattiva e nelimita la competitività nel bacino del Mediter-raneo. Questione troppo spesso sottovalutata ecomparativamente ben più deficitaria di quellapresente lungo le coste del Centro-Nord: solola Sardegna con 9 approdi si avvicina a stan-dard di buon livello, mentre intere regioniquali la Puglia, Basilicata e Calabria ne risul-tano ben distanti. Ne scaturisce una realtà che,seppur in tendenziale sviluppo, fornisce l’im-magine di una stridente divaricazione tra ilNord e il Sud del Paese in termini di postibarca per chilometro di litorale, che varia daun minimo di 11 nelle regioni meridionali finoa un massimo di ben sei volte maggiore nelleregioni settentrionali. I limiti estremi di taledivario sono rappresentati dagli oltre 24.000posti barca della Liguria, dotati in buona mi-sura anche di servizi complessi, e i poco più di

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5.000, minimamente attrezzati per cantieri-stica e rimessaggio invernale delle imbarca-zioni maggiori, della Calabria, regione cheproprio sulla risorsa mare incentra la propriacapacità attrattiva.L’obiettivo a cui tendere, per contrastare laconcorrenza internazionale, è operare il rilan-cio delle destinazioni, creare nuovi prodottituristici legati alla destagionalizzazione e ba-sati su di un mix di risorse che attraggono più“turismi”, non esclusi quelli di nicchia, concostante incremento dei livelli qualitativi del-l’offerta, l’innovazione nei servizi, il maggiorimpatto derivante da eventi di ampia rilevanzaed eco. Il segmento balneare va riposizionatofacendo leva sulle attività complementari piùvarie che una concezione a rete dell’offertaterritoriale può enfatizzare, determinando lepremesse per innovativi cicli di prodotto, siapur non necessariamente congiunti alla risorsaprimaria.Del resto, non è solo la risorsa balneare a la-sciare emergere segnali di forte criticità, inquanto analoghe considerazioni emergono ra-gionando sull’altro segmento prevalente nel-l’offerta turistica meridionale: la risorsa cultu-rale. Sulla base della Convenzione sulla Prote-zione del Patrimonio Mondiale, culturale e na-turale, adottata nel 1972, l’Unesco ha finorariconosciuto a scala mondiale un totale di 878siti (679 beni culturali, 174 naturali e 25 misti)presenti in 145 Paesi del mondo. Dei 44 sitiche pongono l’Italia al vertice della classificamondiale, nel Mezzogiorno se ne concentrano14, tra i quali compaiono le aree archeologi-che di Pompei ed Ercolano, così come il cen-tro storico di Napoli e le città tardo barocchedel Val di Noto, congiuntamente a risorse na-turali, come la Costiera Amalfitana e il ParcoNazionale del Cilento e Vallo di Diano, chesono localizzate nel Mezzogiorno d’Italia e

prevalentemente distribuite in Campania, Pu-glia e Sicilia. Nello stesso tempo, sul piano delle risorse na-turali tutelate, il Mezzogiorno concentra unaquota rilevante del patrimonio nazionale, oc-cupando il 69,4% della superficie totale deiparchi nazionali, il 39,1% delle riserve natu-rali e il 34,8% dei parchi regionali ponendosi,in tal modo, come una delle aree geograficheitaliane maggiormente dotata.

7.3. I comparti ricettivi

La situazione di sottodimensionamento delflusso turistico rivolto alle regioni meridionaliè declinato dal recente risultato del 2009: solo18,2 arrivi su cento registrati in Italia hannoavuto come destinazione il Mezzogiorno, conuna forte incidenza, peraltro, della compo-nente italiana (72,5%) rispetto a quella stra-niera (27,5%), a fronte di un sostanziale bilan-ciamento delle due componenti nel Centro-Nord (53,5% e 46,5%). Il nodo della questionesi dipana considerando come la concorrenza dialcuni Paesi, sia di consolidata vocazione turi-stica sia di più recente affermazione, si deter-mini proprio nel segmento trainante per ilMezzogiorno: quello balneare. Infatti, perogni straniero che va nel Sud, ben 10,9 vannoin Spagna, 5,3 in Turchia, 3,1 in Grecia, 2 inCroazia, 1,4 in Tunisia.Come regioni di accoglienza, Campania e Si-cilia risultano nettamente ai primi posti in ter-mini di arrivi, sia nazionali sia stranieri, purse la Campania, in controtendenza, rappre-senta l’unica regione che ha registrato unacontrazione (-5,4% nel 2009) in larga misuraper un abbandono, soprattutto, degli stranieriscoraggiati dalla “crisi dei rifiuti”. In terminidi tipologia dei flussi, sono comunque le loca-

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lità marine a prevalere, pur soffrendo la con-correnza di località estere; tengono abba-stanza bene le città d’arte e crescono forme“nuove” di turismo, legate alla fruizione dibeni culturali e ambientali, pur se ancora inquota minoritaria. La prevalenza della com-ponente marina determina una elevata stagio-nalità con una forte concentrazione in pochiperiodi dell’anno il che, oltre a causare fortioscillazioni dell’occupazione, rappresenta an-che un evidente limite in termini di sviluppoconsolidato.Se molti vincoli condizionano l’afflusso di tu-risti nel Mezzogiorno, è pur vero che anche intermini di offerta ricettiva il divario con ilCentro-Nord è tuttora elevato: solo un quartodella ricettività alberghiera e di quella extra-alberghiera (posti letto) risulta ubicata nelSud, per giunta con significative differenzeregionali. Nel comparto alberghiero, emer-gono Sicilia, Campania e Sardegna con situa-zioni di forte concentrazione nei comuni co-stieri: Napoli è nettamente al primo posto, se-guita da Arzachena (in buona parte ricadentein Costa Smeralda, dove si realizza la mag-giore incidenza di posti letto “di qualità” ele-vata) e da Sorrento che svolge anche una fun-zione di “hub” per un movimento escursioni-stico verso la stessa Napoli, Pompei-Erco-lano, Ischia, Capri, Costiera Amalfitana, Pae-stum. Pur se con disponibilità meno ampie,seguono Palermo e tutta una serie di localitàprettamente estive (Forio, Ischia, Vieste, Al-ghero, Villasimius), a conferma della preva-lenza del turismo balneare.Ciò che interessa porre in evidenza è la circo-stanza che la forbice con il resto del Paese, intermini di ricettività complessiva, va assotti-gliandosi, come dimostra un incremento diquasi 40 punti percentuali nel decennio re-cente (a fronte di un incremento nazionale del20,2%), con punte particolarmente elevate in

Basilicata (+86%), Sicilia (+53%), Puglia eCalabria (+50%).Il comparto extraalberghiero, invece, noncresce altrettanto (+12,1% a fronte di unacrescita nazionale del 15,3%), benché nelMezzogiorno queste strutture (inizialmentesoprattutto campeggi, poi anche alloggi in af-fitto, agriturismi e B&B) dovrebbero esseredelegate a svolgere una funzione compensa-tiva, nell’ambito del sistema ricettivo com-plessivo, per soddisfare le esigenze di unadomanda a più basso reddito e che non po-trebbe, perciò, trovare sbocchi adeguati nellapiù tradizionale ricettività alberghiera. Inquesto segmento, a fronte del calo moltonetto dei campeggi e villaggi turistici, si è af-fermato un raddoppio degli alloggi in affitto,un vero e proprio boom degli agriturismi edei B&B, tipologia, quest’ultima, che apparela più idonea a catturare una domanda turi-stica legata, oltre che a motivi di spesa, an-che alla richiesta di un rapporto più direttocon il territorio visitato, mediato da un’inter-faccia di tipo familiare.Infine, il sistema delle “seconde case” che, perquanto di difficile quantificazione (statistica-mente si tratta delle abitazioni “non occupatedai residenti”, la cui occupazione non necessa-riamente è sempre “turistica”), appare in fortecrescita. Si tratta di un fenomeno che, puresprimendo maggior benessere sociale, pro-voca fenomeni ricorrenti di degrado, di conge-stione, di compromissione dell’ambiente e delpaesaggio, per la carenza di controlli e indi-rizzi di politica del territorio ancorati a valuta-zioni di brevissimo periodo, disgiunte da stra-tegie di sviluppo compatibile. Pur nella scarsa“trasparenza” del dato, nel Mezzogiorno risultaconcentrato ben il 46% delle abitazioni non oc-cupate in Italia con punte molto elevate in Sici-lia, Puglia e Calabria (al primo, quarto e sestoposto nazionale per valore assoluto). Si tratta

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di un dato geografico sicuramente preoccu-pante, laddove si considerino i rischi di con-sumo di spazi paesisticamente pregiati, di pres-sione sia umana che ambientale in zone (per lopiù costiere) che, più delle altre, necessitereb-bero di politiche ambientali di salvaguardia.Un’ulteriore riflessione merita il segmento delturismo delle città d’arte, che nel Mezzo-giorno è scarsamente attivo, anche in ragionedi una dotazione “urbana” della ricettività: aparte Napoli, solo Palermo (quarto posto), Ra-gusa (16mo) e Bari (25mo) raggiungono una

dotazione superiore ai 4.000 posti letto; sogliache nel resto del Paese è superata da ben quin-dici capoluoghi. Lo scenario complessivo che definisce la con-dizione “turistica” del contenitore meridionaledel Paese, riferita ad alcuni parametri stretta-mente economici, lascia emergere la debo-lezza del Mezzogiorno: appena il 22% deglioccupati, un valore aggiunto del 3,4% (3,9%nel Centro-Nord), l’8% della spesa turisticasul totale dei consumi interni rispetto all’11%nel Centro-Nord.

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Paesaggi, cultura, strutture, flussi

Ampia diffusione del patrimonio culturale, paesaggi e spazi incontaminati, città e castelli, santuari,tradizioni vive per produzioni tipiche ed enogastronomia di qualità rappresentano gli assets di un terri-torio che, declinato in mille storie e memorie esemplari, da sempre cattura l’immaginario del viaggia-tore, pur senza scadere nell’involgarimento turistico e consumistico che, fin troppo spesso, assedia ilpatrimonio storico-artistico maggiormente celebrato. La capacità di attrazione esercitata dal paesaggio culturale del Meridione d’Italia, frenata dalla irri-solta perifericità geografica, si rivela fattore di indubbia consistenza per il flusso di visitatori che, purcompresso per gli effetti dell’avversa congiuntura di inizio millennio, sembra aver ripreso a rivolgervila sua attenzione, riscoprendone l’originaria fascinazione.Cresce, infatti, nel 2010, dopo due anni di flessione, e in linea con il dato nazionale, pur se con va-lori incrementali diversi, il numero dei visitatori e dei turisti diretti verso le destinazioni culturalidelle regioni meridionali: le visite di quel 22% di turisti che hanno scelto i beni storico-artistici delMezzogiorno, infatti, lasciano trasparire valori positivi sia in termini di visitatori (+6,42%) sia diintroiti (+7,49%). La competitività e la potenzialità attrattiva tuttora esercitate dal Mezzogiorno sulla domanda stranierasono testimoniate dal fatto che Campania e Sicilia sono incluse tra le prime sei destinazioni italianecommercializzate dai tour operators sui mercati internazionali, con una incidenza percentuale sul to-tale, rispettivamente, del 43,6% e del 41,8%. Il dato non si modifica anche con riferimento ad altrimercati organizzati, quali quello statunitense e giapponese, dove migliora il posizionamento dellaCampania, che giunge a una quota pari al 60% del totale. A tal proposito merita di essere rimarcato ilcaso della Basilicata che, a fronte di un’intelligente promozione, tra il 2009 e il 2010, ha visto quasiraddoppiare i pernottamenti dei turisti stranieri (+73,7%) e contestualmente incrementata la spesa daquesti sostenuta (+85,7%). I 14 siti Unesco distribuiti in Italia meridionale assorbono circa il 47% del totale dei flussi rivoltiverso le regioni meridionali e rappresentano la principale scelta localizzativa delle strutture ricettive.La grande consistenza del patrimonio materiale e immateriale distribuito sul territorio, a testimo-nianza della secolare stratificazione culturale che in esso si è operata, congiunta a suggestive emer-genze paesaggistiche e ambientali, potrebbe assicurare afflussi e redditi assai maggiori con più ade-guate politiche di comunicazione, efficace pianificazione dei grandi eventi, miglioramento delle strut-ture e servizi di trasporto.

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7.4. Vecchie formule d’intervento e possibilimodelli di promozione e coordinamento

Le cause che hanno impedito al Mezzogiornodi realizzare appieno la sua vocazione turisticasono quasi tutte ascrivibili alla mancanza –piuttosto che alle carenze – di una politica delturismo capace di interpretare questa voca-zione e inquadrarla in un quadro organico disostegno che, per la natura stessa del turismo,avrebbe dovuto avere una caratterizzazione in-tersettoriale e sistemica. Nelle scelte strategi-che che hanno guidato l’intervento pubblico, eorientato l’iniziativa privata, sin dal dopo-guerra, l’opzione turistica è stata consideratainidonea a svolgere un ruolo trainante nella ri-duzione del divario con il resto del Paese. Lodimostra sia l’inconsistenza della dotazione fi-nanziaria del turismo all’interno delle politi-che di sviluppo, sia la scarsa sensibilità per lavalorizzazione del suo immenso potenziale at-trattivo, mortificato da decenni di degrado, in-curia, saccheggio e speculazione edilizia. Po-sto che non esiste altro settore economico che

mostri una così stretta dipendenza dalle condi-zioni ambientali – fruibilità degli attrattori,qualità ambientale e paesaggistica del conte-sto, accessibilità, servizi pubblici ecc. – l’inef-ficienza delle istituzioni è stata a tal punto pe-nalizzante che non ha solo inibito lo sviluppodel turismo, ma l’ha fatto anche regredire. È incontestabile, del resto, che le politiche delturismo nei confronti del Mezzogiorno espri-mano sia una frammentazione spazio-tempo-rale, sia una decontestualizzazione nella defi-nizione dei contenuti e delle strategie; ne deri-vano un’incoerenza geografica delle stesse e,persino, una scarsa integrazione con le altrepolitiche territoriali. Un primo intervento perlo sviluppo turistico del Mezzogiorno trae ori-gine dalla politica “straordinaria” del pro-gramma operativo della Cassa per il Mezzo-giorno, che con la legge 717/65 di Disciplinadegli interventi per lo sviluppo del Mezzo-giorno individuava 29 comprensori turisticisuddivisi, nel successivo piano di coordina-mento, in tre tipi caratterizzati da: “economiaturistica matura”; “ulteriore sviluppo”; “svi-

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I segnali positivi, tuttavia, non mancano. Anche in epoca di crisi e di recessione complessiva del turi-smo culturale si registra il fiorire di nuove destinazioni che provano a intercettare la domanda cultu-rale che si caratterizza per la ricerca di contenuti esperienziali e originali e si traduce nella ricerca dipiccoli centri, di luoghi da scoprire, laddove l’aspetto culturale intercetta il bisogno di nuove espe-rienze, di cui sempre più esplicitamente si compone la domanda dei nuovi viaggiatori “responsabili”.Tale bisogno, correttamente interpretato, si è tradotto in un sistema di offerta territoriale nella vastaregione meridionale che, sebbene ancora puntiforme, comincia ad avere una sua precisa identità e an-che un suo diretto mercato, grazie alle potenzialità consentite dalla comunicazione attraverso il web. Ilsuccesso di una simile politica di offerta emerge in misura evidente dai dati sull’andamento 2009 e2010 dei visitatori e degli introiti dei musei statali. L’introito dei musei statali della Campania(25.447.796 euro) costituisce la quota maggiore del totale degli incassi museali delle regioni del Mez-zogiorno. Tutte le regioni, peraltro, con l’unica eccezione della Calabria, registrano andamenti posi-tivi, con alcune punte di eccellenza, a due cifre, rappresentate dall’Abruzzo (+111,83% incremento vi-sitatori e +23,11% incremento introiti netti), Molise (+70,03% incremento visitatori e +27,49% incre-mento introiti netti), Basilicata (+19,41% e +20,13%) e Sardegna (+26,23% e +13,72%).

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luppo turistico”. Tuttavia, in concreto, la rela-tiva azione d’intervento, lungamente inappli-cata, non condusse né all’approccio compren-soriale, né alla riduzione di quel gap infra-strutturale che separava sotto il profilo turi-stico le regioni meridionali da quelle centro-settentrionali. La legge 183/76, dopo un decennio dall’avviodel modello dei comprensori, sancì il passaggiodallo Stato alle Regioni della direzione dellepolitiche di sostegno a favore del settore turi-stico, mentre la Cassa per il Mezzogiornoavrebbe assolto un ruolo indiretto, attraverso“progetti speciali” redatti dalle Regioni e appro-vati dal CIPE. Dopo un lungo e poco incisivopercorso, si pervenne alla legge 64/86 per rior-ganizzare l’intervento straordinario secondo cri-teri di specializzazione operativa attraverso trepiani triennali (1985-1987; 1988-1990; 1990-1992): il primo indirizzava gli interventi sul-l’accessibilità, sulla ricettività alberghiera, sulrecupero e valorizzazione del patrimonio pae-saggistico e culturale; il secondo prevedeva unprogetto strategico direttamente rivolto alla pro-mozione turistica e due progetti relativi all’am-biente e al patrimonio storico-culturale; il terzosi inserisce in un clima di cambiamento istitu-zionale, allorché all’intervento straordinario siaffiancano l’intervento comunitario e l’azioneordinaria regionale mediante i programmi re-gionali di sviluppo. Prende così corpo il pro-gramma d’intervento “Turismo Mezzogiorno”,redatto dal Dipartimento del Mezzogiorno nel-l’ambito del programma operativo multiregio-nale per il FESR (1990-1993), all’interno delquale vengono sperimentate forme di cofinan-ziamento e coordinamento progettuale tra piùistituzioni. In complesso, i risultati di tutti gliinterventi sopramenzionati si dimostravano benal di sotto delle aspettative e lontani dal pro-durre effetti concreti sul livello di attrattività tu-ristica del Mezzogiorno.

Durante gli anni Novanta si sperimentanonuovi modelli di integrazione tra livelli istitu-zionali differenti – comunitario, nazionale eregionale – e il turismo inizia a configurarsicome uno dei principali assi di intervento perlo sviluppo socio-economico delle regioni me-ridionali. Il programma operativo multiregio-nale 1994-1999 Sviluppo e valorizzazione delturismo sostenibile nelle regioni dell’Obiettivo1, promosso dal Dipartimento del Turismo ecofinanziato dall’Unione Europea, introduceun intervento di tipo programmatico e inte-grato, per il quale ogni Regione è chiamata apredisporre azioni specifiche. Inizia in questoperiodo a diffondersi negli strumenti di pro-grammazione economica l’espressione “turi-smo sostenibile”, anche se la sua trascrizionein termini politici non è sempre chiara e con-vincente.A partire dall’Agenda 2000, sul piano della pro-grammazione dei fondi strutturali e sull’alloca-zione delle risorse vengono introdotte alcunenovità. Il quadro comunitario di sostegno 2000-2006, a differenza del precedente strumento diprogrammazione a base settoriale, si fonda suun approccio integrato che pone il territorio, inquanto realtà sistematicamente interconnessa,al centro dell’intero processo di programma-zione. Avviene, in tal modo che nel periodo2000-2006 il turismo si ritrovi, indirettamente,in tutti gli assi d’intervento. Coerenza territo-riale, integrazione sistemica, nella fase di defi-nizione delle strategie, e concertazione, decen-tramento e responsabilizzazione dei soggetticoinvolti, nella fase attuativa delle politiche, ca-ratterizzano questa fase della programmazione.Il contributo cruciale offerto dal turismo, per ilraggiungimento degli obiettivi della “strategiadi Lisbona”, crescita economica e occupa-zione, appare determinante nel ciclo di pro-grammazione settennale dei fondi strutturali2007-2013, offrendo la possibilità di finan-

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ziare o cofinanziare progetti di indirizzo turi-stico attraverso il Fondo Europeo di SviluppoRegionale (FESR), il Fondo Sociale Europeo(FSE), il Fondo Europeo Agricolo (FEA) e ilFondo Europeo per la Pesca (FEP). In partico-lare il FESR individua undici priorità, tra cuiil turismo, per il raggiungimento dell’obiettivoconvergenza (ex Obiettivo 1), che coinvolgequattro Regioni del Mezzogiorno: Campania,Puglia, Calabria e Sicilia. Lo stesso FESR in-dividua altre priorità, specificatamente indiriz-zate al sostegno delle piccole e medie imprese,ma che hanno strette attinenze con il turismo,per il raggiungimento dell’obiettivo competiti-vità regionale e occupazione (ex Obiettivo 2)che coinvolge le altre rimanenti Regioni delCentro-Nord, alle quali si aggiungono anchele Regioni che sono uscite dal Mezzogiorno edall’Obiettivo 1. L’associazione tra i pro-grammi finanziati dai fondi strutturali e gli al-tri programmi nazionali finanziati dal FondoArea Sottoutilizzata (FAS) assicura il perse-guimento di un’azione congiunta e integratasu numerose aree tematiche, come il turismo.Secondo questa linea di principio il QuadroStrategico Nazionale (QSN) 2007/2013 pre-vede un “programma operativo interregio-nale” denominato POIN Attrattori Culturali,Naturali e Turismo, limitato alle quattro Re-gioni dell’obiettivo convergenza, finanziatocon fondi FESR, a cui si aggiunge un “Pro-gramma Nazionale Interregionale Mezzo-giorno” (PNIM) Cultura e Turismo finanziatocon fondi FAS come estensione del POIN an-che alle altre Regioni del Mezzogiorno. Sebbene di queste più recenti linee politichenon sia possibile valutare l’efficacia, ciò chesembra evidente nell’impianto strategico aesse sotteso è sia la mancanza di una visioneintersettoriale e transcalare dello sviluppo turi-stico, sia l’assenza di una cabina di regia che

renda credibile la progettazione, prima, e l’at-tuazione, poi, di un organico progetto di svi-luppo che investa il complesso delle Regionimeridionali.L’esigenza di un coordinamento capace di in-tegrare i diversi livelli istituzionali coinvolti(Stato e Regioni meridionali in primo luogo),va estesa all’istituzione di un’Agenzia spe-ciale (organismo tecnico di tipo misto) per lapromozione (funzioni di incoming) dell’of-ferta turistica delle Regioni e dei sistemi localiche ne costituiscono l’articolazione territoriale(sistemi turistici locali). All’Agenzia spette-rebbe anche il compito di collaborare con lacabina di regia all’elaborazione delle politichedel turismo per il Mezzogiorno, occupandosidella trascrizione in termini operativi delle li-nee strategiche individuate. Il modello di politiche del turismo auspicabiledovrebbe riflettere l’intersettorialità propriadel comparto, articolandosi su due distinti li-velli: quello delle “politiche di contesto”, co-stituito dall’insieme delle linee d’azione voltea creare le condizioni territoriali per l’attra-zione dei flussi turistici nazionali e internazio-nali con il concorso dei ministeri competenti(Trasporti, Ambiente, Cultura ecc.) e in colla-borazione con le Regioni meridionali; il se-condo livello, invece, riferito al consegui-mento dell’obiettivo specifico dello sviluppodell’offerta turistica nelle sue diverse compo-nenti sistemiche, attraverso l’adeguamentocompetitivo sul piano qualitativo, quantitativoe tipologico. Verrebbe così prefigurata un’of-ferta modulare di livello transcalare, entro laquale turisti e intermediari turistici possano in-dividuare la combinazione prodotti-territoripiù rispondente alle proprie esigenze e aspet-tative, seguendo un itinerario operativo ingrado di ricollocare il Mezzogiorno all’internodel mercato turistico internazionale.

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8. La ricerca delle prospettive di sviluppo: l’opzione produttiva

come è noto, si caratterizza per la sovrapposi-zione di due sottosistemi economico-territo-riali che viaggiano a velocità diverse; eccoperché la crisi nel Mezzogiorno ha avuto ef-fetti devastanti rispetto a quelli registrati nelCentro-Nord, e in effetti il Rapporto Svimez(2010) sull’economia delle regioni meridionaliha messo in luce come quest’area, avendo re-gistrato, nel periodo 2000-2007, ritmi di cre-scita dimezzati rispetto al resto del Paese, si èritrovata per effetto della crisi con un valoredel PIL che in termini assoluti era uguale aquello di dieci anni prima.Pertanto, sembra ormai superata l’idea di unsistema produttivo meridionale che, essendomeno aperto agli scambi con l’estero, subiscemeno gli effetti ciclici di una congiuntura ne-gativa, anche perché “protetto” da una strut-tura produttiva fortemente orientata su settorianticiclici come i servizi. Questa crisi ha, in-vece, dimostrato la maggiore debolezza del si-stema economico meridionale, il quale nonsolo risulta fortemente vulnerabile agli shocksdiretti provenienti dalla domanda estera, masubisce indirettamente anche le brusche “fre-nate” dell’economia del Centro-Nord.Oggi il sistema produttivo del Mezzogiorno èil risultato della sovrapposizione di tre sottosi-stemi d’impresa. I grandi poli industriali “eso-geni” – frutto, come si è detto, di quelle politi-che di sviluppo per il Mezzogiorno che a par-tire dagli anni Sessanta del secolo scorsohanno caratterizzato i processi di crescita dimolte città meridionali – hanno restituito, ge-neralmente, modelli di sviluppo industriale in-completi, deboli nella struttura e spesso slegatidal milieu locale e dalla vocazione dei territori

8.1. Elementi d’innovazione nell’apparato ma-nifatturiero esistente

Una recente indagine del Centro Studi di Con-findustria (giugno 2010) conferma l’Italiacome uno dei Paesi europei leader nella pro-duzione e nell’esportazione di manufatti; e sebisogna accontentarsi di un secondo posto ditutto rispetto (dopo la Germania) nelle produ-zioni meccaniche, dei mezzi di trasporto, mec-canico-elettriche e di elettrodomestici e neimanufatti di base (ferro, ceramica e vetro),essa detiene ancora il primato assoluto, ancherispetto alla Cina, nell’export di produzionitessili, abbigliamento, cuoio, pelletterie e cal-zature. Questo vantaggio competitivo sulleeconomie degli altri Paesi europei, piuttostoche su quelle emergenti dei Paesi BRIC, deveessere mantenuto, ancor di più in questo mo-mento storico, in cui la congiuntura sfavore-vole mondiale che, come è noto, ha alimentatola “grande crisi” del primo decennio del nuovosecolo, sta contribuendo alla ridefinizione de-gli equilibri economici e produttivi globali, ri-disegnando verso Est, anche attraverso unarinnovata divisione internazionale del lavoro,nuove “centralità” per l’economia mondiale. Già sul finire del 2008, come molte altre eco-nomie europee ed extraeuropee, anche quellaitaliana impattava con una congiuntura econo-mica negativa che di lì a poco l’avrebbe tra-ghettata verso una lunga fase di depressioneeconomica che si sarebbe protratta per tutto il2009, determinando una contrazione del PILdel 4,9%, con lenti ma inequivocabili sintomidi ripresa che avrebbero caratterizzato il 2010.Ma il sistema economico del nostro Paese,

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coinvolti; tra questi si ricordano i poli petrol-chimici di Priolo Gargallo e di Brindisi, il di-stretto metalmeccanico di Taranto e quello,ben diverso ma assimilabile nella logica e ne-gli effetti, dell’automobile di Melfi. A questi siaffiancano alcuni importanti distretti “endo-geni” come quello della concia a Solofra equello alimentare a Scafati, entrambi localiz-zati nei pressi di Salerno, o quello di Alta-mura, nel Barese, specializzato nella concia. Completano il panorama produttivo meridionalequelle aggregazioni di imprese che la letteraturapiù recente definisce clusters, cioè un gruppo diimprese che operano nella medesima area geo-grafica e hanno relazioni di tipo fornitore-cliente. In questo caso non si è in presenza di unsistema locale in senso stretto, ma, coerente-mente con la definizione di cluster proposta daPorter, di una concentrazione geografica disocietà e istituzioni interconnesse in un set-tore/filiera specifico. Generalmente si tratta disistemi d’imprese che, pur non esprimendoforte innovazione, sono riusciti a posizionarsibene sul mercato nazionale ed estero; sonoquelle realtà produttive territoriali del “madein Italy” che sono riuscite a riconvertirsi inprodotti di qualità. Tra queste si ricordanoBarletta e Andria (BT) rispettivamente perl’abbigliamento e la maglieria; Arzano (NA),Cassarano (LE) e Santa Maria a Vico (CE)per le calzature; Sant’Egidio alla Vibrata (TE)e San Giuseppe Vesuviano (NA) sempre perl’abbigliamento; Ragusa e Modica (RG) perla lavorazione della particolare pietra o Torredel Greco (NA) per il corallo.Le configurazioni produttive descritte, però,sono molto lontane da quei sistemi locali evo-luti che, caratterizzandosi per un elevatogrado di “radicamento sociale” e “conoscenzadi base”, danno vita a sistemi produttivi deltipo Science Park, Technopoles, Regional In-

novation System, garantendo alle aree più svi-luppate del nostro Paese quel grado di compe-titività necessario per essere attori nel “si-stema globale”.Pur esistendo alcune realtà di questo tipo anchenel Mezzogiorno, esse sono ancora troppo po-che (circa 25 su 200 presenti complessivamentenel Paese), scarsamente connesse fra loro e perla maggior parte ancora in fase embrionale; traqueste le più promettenti e a oggi riconducibilia formazioni sistemiche di tipo RIS sono ilPolo Aeronautico di Pomigliano (NA), l’EtnaValley (CT) per la microelettronica e il PoloTrasporti e Logistica di Modugno (BA). Tanto le realtà produttive distrettuali (salvo lepolarizzazioni “esogene”) quanto le forma-zioni più deboli che abbiamo definito cluster,secondo la ricostruzione proposta da GiovanniIuzzolino (2006), presentano numerosi puntidi debolezza in termini di competitività, per labassa propensione all’innovazione soprattuttodi processo (produttiva e commerciale), chederiva sostanzialmente dall’incapacità di faresistema con coloro che istituzionalmente sonopreposti a offrirla (università, enti di ricercapubblici e privati, parchi scientifici e tecnolo-gici) e che si traduce in una scarsa capacità diaprirsi ai mercati sovra-locali (nazionali e in-ternazionali).Questa lettura sembra essere confermata an-che da un’analisi econometrica condotta re-centemente da Svimez che evidenzia come,nel Mezzogiorno, i miglioramenti competitivi,nell’ultimo decennio, siano stati prerogativa dipoche imprese, mentre a livello sistemicosono emerse numerose difficoltà ad adeguarsial nuovo contesto. In termini quantitativi, que-sta considerazione è confermata da un valorenegativo del PIL delle regioni meridionali nelperiodo 2000-2009, con una perdita comples-siva di produttività del -0,3%, a fronte di una

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performance delle regioni centro-settentrionalimediocre ma positiva (+2,1%).Da una sommaria analisi sembrano esseremancati quei fattori di “competitività” chenelle regioni del Centro-Nord hanno fatto da“traino” all’intero sistema produttivo e cioèinnovazione (non incrementale) e internazio-nalizzazione (specie nelle forme più evoluteche vanno oltre il semplice export).In altre parole, le cause di questo peggiora-mento cumulativo nel tempo e nello spaziodevono essere inscritte in una cornice più am-pia, in cui il ridimensionamento della politicaindustriale per il Sud, e in particolare di quellaregionale, le inefficaci politiche territoriali,dovute troppo spesso alla scarsa programma-zione locale, che si è tradotta in un uso pocoaccorto delle risorse comunitarie (2000-2006 e2007-2013), la scomparsa di importanti stru-menti, come la legge 488/1992 e di altri a essacollegati, che avevano l’obiettivo di sosteneregli investimenti in R&S e innovazione, e in-fine la sostanziale inoperatività (dal 2009) ditutti gli interventi di incentivazione che inquell’anno erano stati approvati, come le zonefranche urbane, i nuovi contratti di pro-gramma e i contratti di sviluppo, che restanoin attesa di una regolamentazione, rappresen-tano le concause che ancora una volta deter-minano il “sacco” per il Sud.Anche la recente manovra, che con il decretolegge 78/2010 ha di fatto abolito le ZFU in fa-vore delle “Zone a burocrazia zero”, non resti-tuisce uno strumento sufficiente a garantirequalsivoglia forma di sviluppo locale.Il nostro ragionamento sullo stato delle im-prese del Mezzogiorno si presta ad alcune con-siderazioni. Innanzitutto, il “trauma” euro/glo-balizzazione di inizio decennio per il Sud èstato certamente più doloroso che per il restodel Paese e per due ordini di motivi: il perdu-

rare di una struttura industriale fortemente po-larizzata tra poche, e sempre meno, grandi im-prese, quasi sempre di matrice esogena, emolte piccole imprese locali orientate al mer-cato interno, ma scarsamente collegate alle al-tre unità produttive maggiori localizzate nellostesso Mezzogiorno; la presenza di piccole im-prese nelle quali l’innovazione è un’attività re-siduale, e/o che entrano/escono dal mercatoestero a seconda della convenienza relativa.Sembra perdurare un processo di polarizza-zione degli squilibri che contrasta nettamentecon la convergenza riscontrabile in Spagna esoprattutto in Germania, anche durante questagrande crisi.Del resto le cronache di questo ultimo anno su-gli stabilimenti Fiat di Termini Imerese e Pomi-gliano d’Arco, sebbene complesse e diverse traloro, sono emblematiche e lasciano intravedereun grande “rischio” e cioè che aree deboli comeil Mezzogiorno, peraltro poco concorrenzialisul costo del lavoro per effetto della nuova divi-sione internazionale, attraverso la chiusura deigrandi impianti potrebbero andare incontro aforme di desertificazione del tessuto di piccoleindustrie a esse legate, confermando che, al dilà delle singole scelte aziendali, non sempreprive di fondamento economico, ciò che pesasul territorio sono i decenni di mancate strate-gie di politica industriale.

8.2. Il ruolo della ricerca e gli ostacoli allosviluppo

Stando ai dati forniti dall’Istat la spesa per Ri-cerca & Sviluppo nel Mezzogiorno ha sfioratonel 2008 i 3,4 miliardi di euro con un’inci-denza sull’analogo valore nazionale pari al21,3%, senza sostanziali variazioni rispetto al-l’inizio del decennio e in assoluta coerenza

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con la distribuzione geografica del PIL. Ri-spetto al totale d’area, la quota coperta dal set-tore privato, tra il 2000 e il 2008, si è incre-mentata di 5 punti (dal 27,6% al 32,6%), re-stando pur sempre molto distante dalla realtàcentro-settentrionale, dove il peso del settoreprivato è pari a circa il 61%. Tuttavia, valutando il trend recente, sembre-rebbe potersi affermare che il ruolo della ri-cerca privata, in questi ultimi anni, sia andatosì crescendo in tutte le circoscrizioni, ma conuna maggiore intensità nel Mezzogiorno. As-setto, però, che non trova riscontro in terminioccupazionali.Infatti il Mezzogiorno occupa nel settore R&Spiù di 44.000 persone (pari al 18,6% della rela-tiva occupazione a livello nazionale). L’inci-denza occupazionale delle regioni meridionali,da un iniziale 19%, è andata costantemente au-mentando nella prima parte del decennio, rag-giungendo nel 2004 il suo valore massimo, pari

a 20,6%, per poi mostrare una tendenza alla ri-duzione, particolarmente accentuata nel periodo2007-2008. Per quel che attiene al peso occupa-zionale del settore privato, nelle regioni meri-dionali la sua incidenza è pari ad appena il22,2%, contro un valore che nel Centro-Nordraggiunge il 49,7%. Di conseguenza, mentrenelle regioni centro-settentrionali l’incidenzaoccupazionale del settore privato è cresciuta trail 2000 e il 2008 di circa 10 punti percentuali,quella delle regioni meridionali si è addiritturaridotta, passando dal 22,6 al 22,2%. Nel Sud il settore della Ricerca & Sviluppo, afronte della contestuale riduzione dell’inci-denza percentuale delle istituzioni pubbliche(fenomeno che interessa invero entrambe lecircoscrizioni), è affidato esclusivamente alleuniversità che occupano poco meno del 61%degli addetti; una percentuale doppia rispetto aquella che si registra nel Centro-Nord. Neconsegue che in questo momento ridurre le ri-

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Fig. 14 – Composizione della spesa per la ricerca in Italia (2008)

Fonte: nostra elaborazione su dati Istat

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sorse pubbliche destinate alla ricerca universi-taria vuol dire dunque affossare definitiva-mente la ricerca nel Mezzogiorno.Il divario del Mezzogiorno dal resto del Paesediviene ancor più evidente se si utilizzano indicipiù complessi e articolati che, oltre ai valori pre-cedentemente richiamati, considerano anchel’innovazione, quale risultato caratterizzantedella ricerca e indicatore della qualità degli in-vestimenti e del tasso di rinnovamento competi-tivo del sistema produttivo. La ricerca condottadalla Svimez sulla competitività del Mezzo-giorno lascia trasparire un livello di Innova-zione/Ricerca & Sviluppo pari a meno dellametà di quello presente nella media delle re-gioni europee (UE25) e notevolmente più bassodi quello relativo alle altre circoscrizioni ita-liane. Invero gli aspetti dimensionali rappresen-tano solo una variabile, mentre sono la configu-razione tipologica e qualitativa e il livello di in-terazione che si instaura all’interno del quadro

complessivo tra gli attori a determinare le poten-zialità competitive del sistema territoriale di ri-ferimento. Quest’ultimo aspetto è particolar-mente significativo perché fornisce un’ulteriorespiegazione delle difficoltà che inibiscono losviluppo della ricerca nel Mezzogiorno, inquanto le strutture che vi operano sono spessodistanti e poco integrate, il che comporta – an-che in considerazione del minor livello di pro-pensione collaborativa che si registra nelle re-gioni meridionali – un basso livello di intera-zione sinergica tra soggetti e attività di ricerca.A dispetto della marginalità economica e oc-cupazionale che il settore della R&S rivestenell’economia meridionale, lo sviluppo delMezzogiorno è indissolubilmente legato allacrescita di questo settore, per almeno tre or-dini di ragioni: a) il riposizionamento competi-tivo del sistema produttivo meridionale neces-sita di una forte spinta innovativa di matrice en-dogena – diversamente si creerebbe un rapporto

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Fig. 15 – Evoluzione comparata degli addetti nel settore privato della R&S (2000-2008)

Fonte: nostra elaborazione su dati Istat

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di dipendenza rischioso e insostenibile – chenon può che venire da un potenziamento degliinvestimenti in R&S; b) il settore della R&S ri-veste un ruolo strategico all’interno della kno-wledge economy e le possibilità di sviluppodel Mezzogiorno, in considerazione dell’evo-luzione dello scenario competitivo internazio-nale, discendono proprio dalla possibilità diaderire a questo modello economico; c) ilMezzogiorno deve puntare a valorizzare il fat-tore produttivo di cui è relativamente più ricco equesto è rappresentato dal capitale umano conparticolare riguardo per i giovani laureati; unarisorsa tuttora sottoutilizzata – come dimostranoi consistenti flussi emigratori che si sono regi-strati in questi ultimi anni – che, se messa in va-lore, potrebbe concorrere al riscatto economicoe sociale delle regioni meridionali.Le criticità che si registrano rispetto a questiobiettivi sono numerose. Per quel che attiene al settore pubblico, comesi è già detto, occorrerebbe – diversamente daquanto accaduto in questi ultimi anni – valo-rizzare il sistema della ricerca pubblica e, inparticolare, di quella universitaria che, a diffe-renza di quanto accade in altre regioni euro-pee, non può fare affidamento sugli apportiesterni provenienti dal settore privato. Il soste-gno alla ricerca universitaria dovrebbe essereprioritariamente indirizzato a supportare tuttiquei progetti che vedono la partecipazionedelle imprese private o che promettono diavere ricadute significative sul tessuto econo-mico-produttivo e sulle amministrazioni pub-bliche, così da promuovere l’innovazione e losviluppo territoriale. Per quel che attiene al settore privato, invece,andrebbero incentivati gli investimenti privaticon una forte premialità per quelli a più ele-vata intensità occupazionale. Bisognerebbe al-tresì adottare una strategia di attrazione selet-

tiva verso quelle iniziative nel settore dellaR&S che possano avere un effetto di fertiliz-zazione sull’economia locale. Infine, per attenuare il problema della ridottacaratterizzazione dimensionale del sistemaproduttivo, sarebbe opportuno promuovere –anche facendo leva sui più recenti strumentinormativi, come i “contratti di rete” – le aggre-gazioni d’impresa, creando dei canali privile-giati per finanziarne e sostenerne le attività diricerca e i processi di internazionalizzazione.

8.3. Alcuni elementi della propensione all’in-ternazionalizzazione

La propensione media del Mezzogiorno al-l’export negli ultimi anni è sensibilmente infe-riore a quella nazionale (10,2% rispetto al22,1%) e particolarmente ampio risulta il di-vario con il Centro-Nord (25,5%). I valori piùbassi si registrano in Calabria (1,1%), in Sici-lia (8,9%), in Campania (9,2%) e in Sardegna(11,6%) mentre sensibilmente più alto è ildato dell’Abruzzo, che, con il 24,5%, superaanche varie regioni del Centro-Nord. Dal con-fronto internazionale emerge che la propen-sione all’export del Mezzogiorno risulta infe-riore a quella di tutti gli altri Paesi dell’UE27,compresi quelli di nuova adesione, con la solaeccezione della Grecia e di Cipro. Il Mezzogiorno riveste, in sintesi, un pesopiuttosto modesto sul totale delle esportazioninazionali: solo il 10,5%, con una forte diminu-zione rispetto al 12,1% del 2008. Tale diminu-zione inverte la tendenza decennale a un leg-gero progressivo aumento della quota delMezzogiorno, che si attestava al 9,2% nel1997. Il quadro peggiora se il valore dell’ex-port meridionale viene ricalcolato al netto deiprodotti petroliferi, settore molto rilevante per

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l’economia meridionale, che negli ultimi anniha beneficiato di un andamento favorevole deiprezzi. In questo caso, il Mezzogiorno rappre-senta appena l’8,4% dell’export nazionale.Elevata è, dunque, la specializzazione delleesportazioni nel settore del “Coke, prodottipetroliferi raffinati e combustibili nucleari”con un indice pari a 7; il settore, costituito so-prattutto dai prodotti della raffinazione petroli-fera, è molto presente in Sicilia e Sardegna (ilMezzogiorno, come noto, fornisce da soloquasi tre quarti dell’export nazionale). Ancheper il chimico-farmaceutico e l’alimentare laspecializzazione risulta piuttosto elevata (1,6). La distribuzione geografica dell’export delMezzogiorno privilegia alcune destinazioni, cheassumono un peso maggiore rispetto alla mediaitaliana: la Spagna (8,9% sull’export meridio-

nale), l’Africa settentrionale (quota doppia diquella nazionale: 8,3% contro 4,1%), in misuraminore l’America del Nord. Nel caso delle de-stinazioni nordafricane, in particolare, la cre-scita appare molto rilevante: nel 2002 questa de-stinazione assorbiva solo il 4,6% dell’exportmeridionale, contro l’8,3% attuale. Molto mo-deste appaiono le esportazioni verso i Paesi piùdinamici, tra cui, in particolare, India e Cina. Le regioni meridionali, poi, presentano un’at-trattività estremamente limitata – e decre-scente – nei confronti degli investitori stra-nieri. In anni recenti i flussi di IDE in entrata,componente importante dell’internazionalizza-zione di una economia, sono stati intorno allo0,1% del PIL. Il dato del Mezzogiorno risultanettamente inferiore a quello del Centro-Nord,che registra l’1,6% nel 2006, con un massimo

Fig. 16 – Andamento delle esportazioni. Quota % del Mezzogiorno sul totale italiano

Fonte: nostra elaborazione su dati Istat

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per Lazio e Piemonte (rispettivamente: 4,3% e4,1% del PIL). Il Mezzogiorno è superato am-piamente da tutti i Paesi europei, compresiquelli di nuova adesione, con l’eccezione del-l’Irlanda, che ha subito una serie di rilevantidisinvestimenti. Infine, i dati riferiti alle imprese manifattu-riere evidenziano l’assottigliarsi delle impresepartecipate da capitale estero in tutto il Paese

ma soprattutto nel Mezzogiorno. Fra il 2001 eil 2007, il numero delle imprese partecipate èdiminuito del 3,7% a livello nazionale e del15,4% nel Mezzogiorno. Quanto agli addetti,la riduzione è stata ancora più sensibile: alladiminuzione del 3,7% delle imprese corri-sponde a livello nazionale una flessione del17,9% degli addetti che raggiunge il -24,3%nel Mezzogiorno.

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Lo shipping: punto di forza dell’imprenditoria meridionale

L’armamento navale costituisce uno dei pochi settori economici in cui il Mezzogiorno possa vantare unruolo internazionale, e forse l’unico in cui palesi una supremazia in Italia. Oltre la metà dell’interaflotta mercantile italiana appartiene a società armatrici controllate da imprenditori privati meridio-nali. Gli armatori campani prevalgono nettamente in tutti i rami dello shipping; Puglia e Calabria

k

Fig. 17 – Esportazioni del Mezzogiorno per destinazione geografica

Fonte: nostra elaborazione su dati Istat

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hanno presenze apprezzabili nei traghetti; la Sicilia nella flotta da pesca. Nel trasporto dei carichi sec-chi alla rinfusa o, in particolare, del rimorchio portuale, le società meridionali posseggono circa l’80%della flotta nazionale. Gli imprenditori proiettati nell’attività marittima – in genere eredi di antiche di-nastie armatoriali – costituiscono un esempio assai lusinghiero di attitudine al rischio e capacità ge-stionale in grado di misurarsi con la concorrenza mondiale. Non è dato trovarne di simili nelle attivitàindustriali di terraferma, salvo poche eccezioni. Lo shipping, per quanto attivo a una scala geografica assai più ampia di quella nazionale, è fonte rile-vante di occupazione per il Sud. Direttamente, attraverso l’assorbimento di personale marittimo e am-ministrativo sul mercato regionale del lavoro, soprattutto in Campania. Indirettamente, nella misura incui, a monte e a valle della loro attività, gli armatori operanti nelle regioni meridionali richiedono ser-vizi al settore terziario (legali, finanziari, assicurativi, rifornimenti, agenzie marittime e turistiche, spe-dizionieri) e al settore industriale (cantieri navali, installazioni di bordo, riparazioni). Anche nei primidecenni dell’Ottocento – secondo le analisi degli storici dell’economia – i trasporti e le costruzioni na-vali costituivano il settore più importante dell’economia del Regno. Allora una parte non trascurabiledel merito spettava alla politica di incoraggiamento per lo sviluppo delle attività marinare, voluta dalgoverno borbonico. Oggi che, come ieri, il settore resta il più dinamico nel quadro economico meridio-nale, in specie campano, è agevole constatare che merito di ciò tocca pressoché esclusivamente al di-namismo dei privati piuttosto che all’apporto di istituzioni pubbliche, centrali e locali. Sarebbe un arbitrio statistico sommare insieme il fatturato delle società armatrici facenti capo a im-prenditori meridionali, perché i dati sono disomogenei, trattandosi di attività che si svolgono a scalainternazionale, che fanno capo a società variamente ubicate in Italia e in paesi esteri, che utilizzanonaviglio proprio e a noleggio battente bandiere di più Paesi, e personale di mare e di terra delle piùvarie provenienze. Ma se ciò fosse possibile, probabilmente ci troveremmo di fronte a cifre tali da farcompiere un balzo in avanti al prodotto interno lordo del Sud.Alla forte rilevanza economica degli armatori non corrisponde una loro altrettanto significativa pre-senza sulla scena politica delle regioni in cui operano, a differenza di quanto si verificò alla metà deglianni Cinquanta del Novecento, quando l’armatore Achille Lauro acquisì un rilevante, anche se dis-cusso, protagonismo politico, non solo a Napoli, città di cui fu sindaco, ma anche in Parlamento. Rile-vante evidenza le famiglie armatoriali del Sud hanno invece nei vari organismi rappresentativi dellacategoria: a livello sia italiano sia internazionale.

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9. Perifericità geografica e ritardato sviluppo

ce su 36 si collocano al di sotto del dato medionazionale e appena 8 al di sopra. Le realtà me-glio servite sono quelle costiere: Napoli, Taran-to, Brindisi, Catania, Bari, Trapani, Pescara eSiracusa, nei cui confronti la presenza di portiincide significativamente, tant’è che, prescin-dendo da tale tipologia di infrastruttura, soloNapoli e Pescara mantengono più o meno lapropria posizione nella graduatoria complessi-va. Da segnalare anche che, analogamente aquanto registrato agli inizi del decennio, gli ul-timi posti continuano a essere occupati da pro-vince tutte meridionali (Nuoro, Oristano, Mate-ra e Potenza), il che spinge a conclusioni nega-tive circa gli effetti degli interventi che l’Unio-ne Europea e il governo nazionale hanno postoin essere per l’attuazione dell’Obiettivo “con-vergenza”, che nelle infrastrutture ha uno deisuoi principali cardini.Nell’ambito delle infrastrutture economiche, lacomponente trasporti assume ruolo prioritarioin quanto da essa dipendono le opportunità of-ferte dalla globalizzazione degli scambi. Perl’Italia, e ancor più per il Mezzogiorno, la po-sizione geografica appare decisamente favore-vole in termini di centralità rispetto ai nuovimercati di sbocco di un’Europa che sta semprepiù riscoprendo l’importanza dell’area medi-terranea. Tuttavia, con la parziale eccezionedei porti, negli altri sistemi di trasporto non so-lo le deficienze del Mezzogiorno sono eviden-ti, ma si registra addirittura un peggioramentorispetto alla situazione di dieci anni fa. Nel si-stema stradale, che rappresenta l’elemento fon-damentale di connessione tra il territorio e inodi di trasporto multimodale, soltanto quattroregioni (Abruzzo, Calabria, Campania e Moli-

9.1. Le “infrastrutture deboli”

Già nei capitoli precedenti è stato sottolineatocome i problemi dell’integrazione del Mezzo-giorno nella più vasta economia di mercato sia-no spesso connessi a questioni di perifericitàgeografica, acuiti da carenze infrastrutturali. Ta-le condizione coinvolge sia la fisicità del siste-ma, cioè le infrastrutture materiali, siano esseeconomiche o sociali, sia la componente virtua-le, attraverso la quale servizi avanzati di tra-smissione ed elaborazione delle informazioniconsentono di aggregare realtà produttive indi-pendenti all’interno di uno spazio relazionaleglobale. La modesta consistenza quali-quantita-tiva di alcune categorie di infrastrutture “mate-riali” di trasporto (strade, ferrovie, porti, aero-porti), di supporto al sistema produttivo (im-pianti e reti energetico-ambientali, reti telefoni-che e telematiche, reti bancarie) e sociali (strut-ture per l’istruzione, la cultura e la ricreazione,la sanità) ostacolano lo sviluppo del Mezzogior-no. Il ritardo col quale si va procedendo nellaprogrammazione e nella realizzazione degli in-terventi di innovazione infrastrutturale rappre-senta un handicap assai pericoloso nella stessaprospettiva di interscalarità delle relazioni nord-sud ipotizzate in funzione dei grandi corridoi ditraffico inter-europei. Sul piano infrastrutturale generale (sintesi deisingoli indicatori relativi a ciascuna delle diecicategorie di infrastrutture significative), il Mez-zogiorno, pur registrando miglioramenti rispet-to a dieci anni fa, continua a presentare una do-tazione che, nel complesso, si colloca intorno ai2/3 circa di quella presente nel Centro-Nord.L’evidenza più immediata è che ben 28 provin-

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se) presentano una dotazione appena al di so-pra della media, mentre ben 13 province meri-dionali (su 18 italiane) non sono affatto attra-versate da tratti autostradali. Anche per le relazioni su ferro si registranoampi divari dovuti in parte alla morfologia delterritorio, in parte a scelte politiche inopportu-ne e disattente che non hanno saputo indiriz-zare adeguati investimenti nel miglioramentodella rete e nella velocizzazione delle relazio-ni, con disastrose conseguenze in termini dieccessiva spinta al movimento su gomma e,più in generale, di ulteriore indebolimento del-le capacità proiettive di vaste aree meridionalinei confronti dei più dinamici bacini centro-settentrionali italiani ed europei. Inoltre, la re-te meridionale risulta sensibilmente squilibratatra una più robusta dorsale tirrenica e una piùdebole dorsale adriatica, priva di adeguati col-legamenti trasversali. Sono tre le regioni meri-dionali a registrare un indice superiore a quel-lo medio nazionale (Campania, Calabria e Pu-glia nell’ordine), mentre l’intero Mezzogior-no, penalizzato da una dotazione insufficientenelle altre cinque regioni, soffre di un indicedi ben venti punti inferiore alla media, indiceche scende ulteriormente allorché la valutazio-ne tiene conto della disponibilità di linee adoppio binario e dell’elettrificazione. Situa-zione particolarmente insoddisfacente: siproiettano a scadenze lontane gli adeguamentidelle reti nelle tecnologie e negli standard diservizio. Così è per il prolungamento dell’AltaVelocità/Capacità fino a Reggio Calabria,mentre l’ipotesi di velocizzare una tratta im-portante come la Napoli-Bari appare compro-messa da sollecitazioni localistiche che po-trebbero portare a un’eccessiva interposizionedi fermate intermedie. Decisamente carente anche il settore aeropor-tuale, sia per la mancanza fisica di strutture,

sia per bacini di gravitazione su scali situati inaree esterne, il cui sviluppo è inficiato da in-sufficienti reti di collegamento. Manca, poi,nel Mezzogiorno la funzione di hub che, am-pliando l’interazione tra le rotte, produrrebbeindubbi vantaggi, innanzitutto in ambito turi-stico, consentendo, oltre a un incremento deiflussi, anche una loro destagionalizzazione. Per molti versi anche il settore portuale, cheper ovvi motivi è l’unica categoria infrastrut-turale in cui il Mezzogiorno supera la medianazionale, presenta limiti evidenti per ragionidimensionali, un eccessivo orientamento altraffico passeggeri e scarsa propensione al ca-botaggio roll-on/roll-off, che per molti versipotrebbe contribuire ad alleggerire la conge-stione del traffico su gomma. Le strutture portuali di dimensioni maggiori,invece, sono orientate prevalentemente altranshipment, con una dotazione che tende aprivilegiare più il transito che la movimenta-zione e la manipolazione delle merci. Quanto emerge, in questo segmento della rela-zionalità globale, è la carenza di una chiara poli-tica di sviluppo, incentrata su forme consortili digestione portuale, esplicitamente organizzate intermini di efficace specializzazione e di funzio-nale complementarità. Le attuali carenze lascia-no spazio ampio a una concorrenza che semprepiù minaccia la nostra leadership nel Mediterra-neo in segmenti fondamentali, come il trasportocontainer, compresso da problemi gestionali einefficienze sul piano dell’integrazione con glialtri sistemi di trasporto (retro-portualità e inter-portualità integrata, intermodalità con ferro egomma). I nodi di scambio, sia marittimi sia ter-restri, risultano, infatti, poco sviluppati no-nostante la presenza di alcune apprezzabili dota-zioni portuali, intorno alle quali è possibile atti-vare progetti di integrazione logistica per la va-lorizzazione delle potenzialità di un’area desti-

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nata a svolgere un ruolo sempre più importantenel processo di apertura verso i mercati dell’A-frica e del Vicino Oriente. In questo ambito re-centi realizzazioni in Campania, a opera di im-prenditori privati (si veda il Box), hanno rappre-sentato una significativa innovazione. Al di là delle infrastrutture fisiche di base, inlarga misura coincidenti con le infrastrutture ditrasporto, il Mezzogiorno soffre di livelli didotazione modesti soprattutto nel compartoche si fonda sulle tecnologie innovative (retitelefoniche e telematiche), sui servizi fonda-mentali per la popolazione, quali impianti e re-ti energetico-ambientali, e sui servizi alle im-prese (reti bancarie e uffici postali). Unicamen-te le reti telefoniche e telematiche presentanouna dotazione soddisfacente, quasi in linea conlo standard nazionale, con ben 12 province so-pra la media, tra cui Napoli che occupa addirit-tura il primo posto assoluto. Diversamente,nelle altre categorie d’infrastrutture a rete, in-vece, la situazione dei servizi è disastrosa (ben

35 punti sotto la media) e con valori significa-tivi solo per Brindisi, Taranto, Napoli e Siracu-sa nel settore energetico ambientale, e per Na-poli e Pescara nelle reti bancarie e di servizi.Preoccupante, infine, la debolezza del Mezzo-giorno anche nelle infrastrutture sociali. Sani-tà, istruzione e strutture culturali-ricreative inuna sola provincia (Napoli) presentano unadotazione molto elevata, in cui l’indicatore èsuperiore di una volta e mezzo alla media na-zionale, insieme ad altre, praticamente i prin-cipali capoluoghi di regione e qualche provin-cia, che si distinguono per livelli appena supe-riori alla media nazionale nella sanità (Bari,Messina, Palermo, Pescara, Catanzaro) e nel-l’istruzione (Catania, Bari, Lecce, Palermo,Messina, Salerno, Taranto, Caserta). Diversa-mente, nella dotazione di strutture dedicate al-l’offerta di servizi culturali e di ricreazione, ladisponibilità è modestissima, con ben undiciprovince meridionali relegate agli ultimi undi-ci posti della graduatoria complessiva.

Scenari italiani 2011 107

Una piattaforma logistica a scala internazionale

Va posto in risalto come negli ultimi anni la Campania sia divenuta sede di rilevanti iniziative che han-no fortemente potenziato l’integrazione logistica e intermodale del traffico merci. Le iniziative private,che attraverso forme associative e consortili avevano già dato vita (1986) al CIS di Nola, in provinciadi Napoli, una fiera permanente tra le maggiori d’Europa per il commercio all’ingrosso (oltre 300esercizi attivi in circa 90 settori merceologici), hanno successivamente realizzato il contiguo InterportoCampano. Si tratta dell’unica struttura logistica intermodale di rilevanza nazionale operativa nel Mez-zogiorno. Nell’area, estesa su tre milioni di metri quadrati, hanno trovato ubicazione anche le strutturedi manutenzione e rimessaggio dei convogli che entreranno in attività a opera della neo costituita reteferroviaria privata italiana. La vasta area occupata dal complesso è collegata alla rete autostradale,oltre che a quella ferroviaria, attraverso diramazioni dedicate.Generata dalla società Interporto Campano, opera anche la società Interporto Servizi Cargo, che inte-gra la figura dell’operatore intermodale con quella di impresa ferroviaria, e che ha l’obiettivo di rea-lizzare un network ferroviario privato collegando le maggiori realtà interportuali e portuali italiane.Il sistema CIS-Interporto si è dilatato anche in direzione del terziario di consumo e di turismo, attra-verso la realizzazione del complesso, progettato da Renzo Piano, denominato “Vulcano Buono”, dive-nuto operativo nel 2007: singolare edificio a forma conica al cui interno si aprono esercizi commercia-li, di ristorazione, un albergo e attrezzature per il tempo libero e per spettacoli, con un’area parcheggiocapace di 8.000 auto.

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9.2. Il “digital divide” fattore di debolezzadelle “reti tecnologiche”

C’è in Europa, come da decenni confermanoanalisi condotte nell’ottica di varie discipline,un’area di intenso sviluppo i cui vertici sonorappresentati da Londra, Amburgo, Monaco,Milano e Parigi. Anche le analisi condotte dal-l’Espon (European Spatial Planning Observa-tion Network) per individuare le tipologie fun-zionali che caratterizzano gli assetti urbani nelcontesto europeo evidenziano il forte scosta-mento tuttora esistente tra quest’area e le zoneesterne che, indipendentemente dalle più omeno esplicite qualità urbane di talune città,definiscono la vasta periferia dell’Europa piùdinamica, competitiva e moderna. La “area forte” dello spazio geografico euro-peo è anche quella che concentra i modellitecnologici maggiormente innovativi, ovveroquelli incentrati sulla diffusione delle ICT (In-formation and Communication Tecnologies):fattori in grado di generare un effetto “leva”,rivolto al conseguimento di quella coesioneterritoriale posta come priorità della politicacomunitaria. Nelle innovazioni tecnologiche,peraltro, si identificano i principali strumentiper il più rapido ed efficace riequilibrio tradifferenti assetti socio-economici. In terminidi potenzialità di sviluppo e di efficaci intera-zioni virtuose tra istituzioni, imprese e, più ingenerale, comunità regionali, il network del-l’ICT appare molto meno soggetto al “vinco-lo” geografico di ogni altra forma d’infrastrut-tura. Infatti, la realizzazione delle relative reti

collaborative è solo marginalmente condizio-nata da strutture fisiche, le quali incidono uni-camente in termini di capacità di intensità delsegnale distribuito.Di conseguenza, per evidenti ragioni commer-ciali legate al paradigma della convenienzadegli operatori a soddisfare la domanda, av-viene che le migliori performances si addensa-no nelle grandi aree metropolitane, coinciden-do con la maggiore densità delle infrastrutturefisiche di trasporto. È evidente che tale tendenza localizzativa age-vola le aree forti e rende meno facile il riequi-librio tra esse e le aree periferiche. Nel Mez-zogiorno – dove la carenza nella dotazione in-frastrutturale, evidente anche per quel che ri-guarda le infrastrutture di comunicazione, harappresentato per lungo tempo un importanteostacolo allo sviluppo economico – tale scarsadotazione frena oggi, ancor più, la diffusionedel processo innovativo. L’osservazione empi-rica della diffusione geografica delle reti dicomunicazione virtuale, le reti in fibra otticacosì come i punti di accesso a Internet (i co-siddetti providers), infatti, ha fin dagli inizisuggerito e documentato una certa coinciden-za tra la localizzazione dei sistemi di comuni-cazione virtuale e le infrastrutture di mobilitàmateriale. Le reti digitali, in altri termini, lungi dal dispie-garsi laddove più debole appariva il sistema dicomunicazione fisica al fine di colmare un si-mile squilibrio e offrire opportunità alternati-ve, hanno trovato concentrazione in quellearee geografiche dove più intenso risultava il

108 Il Sud, i Sud. Geoeconomia e geopolitica della questione meridionale

Si calcola che l’insieme delle attività sviluppate dal sistema occupi intorno alle 9.000 unità e generi unafflusso quotidiano di 20.000 veicoli di clienti.La disponibilità di strutture interportuali della Campania è arricchita, seppur con dimensioni operati-ve minori, anche dall’Interporto realizzato a Marcianise, in provincia di Caserta.

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volume di traffico e, dunque, più capillare lapresenza d’infrastrutture di mobilità. La consi-derazione, pur banale, non è però insignifican-te. Testimonia, infatti, una condizione ben no-ta e ricorrente nella logica dei processi cumu-lativi di sviluppo allorché condizioni inizialidi maggiore vantaggio non solo costituisconosignificativi apristrada alla crescita, bensì ten-dono ad attrarre e concentrare sempre più co-spicue dotazioni di risorse per effetto di fattoriincrementali dell’attrattività geografica espres-si da determinate configurazioni territoriali.Da un simile assetto, scaturisce una geografiadelle condizioni strutturali della competitivitàche esaspera le distanze tra i differenti poli disviluppo, aggravando le condizioni di periferi-cità di cui soffrono i territori meno favoritidalla rete infrastrutturale, sia fisica sia virtuale.Inoltre, in ragione di un accelerato processod’innovazione tecnologica realizzato nel cam-po della trasmissione dati, coesistono almenotre tipologie di reti telematiche, la più perfor-mante delle quali è consentita da fibre ottichea larga banda che permettono la più elevatavelocità di trasmissione delle informazioni neidue sensi direzionali. Del resto, come è bennoto, le imprese internazionali dimostrano in-teresse alla localizzazione di segmenti azien-dali in grado di accrescere la produzione di va-lore attraverso l’accesso a vantaggi competiti-vi maggiormente disponibili, appunto, nellearee geografiche in cui si concentra la diffusio-ne di innovazione. È evidente che si determi-nano condizioni di mercato favorevoli perl’immigrazione d’impresa quando lo sviluppodi politiche integrate, nei comparti tecnologi-camente più avanzati, coincide, sul piano terri-toriale, con condizioni attrattive più generali,quali presenza di competenze di eccellenza,centri di ricerca interconnessi, università, ulte-riori networks virtuosi di sviluppo locale.

La copertura territoriale della rete “virtuale”varia da un livello minimo che si riferisce allasituazione del Molise, regione che offre unacopertura a banda larga che corrisponde appe-na alla metà dei residenti (raggiungendo il56% della popolazione), fino a un valore mas-simo che si registra in Puglia che, con il 95%di popolazione servita, si pone come la regio-ne dove, per l’ampiezza dell’offerta, è persinoimproprio esprimersi in termini di digital divi-de. Le realtà fortemente deficitarie di servizisono rappresentate oltre che dal Molise ancheda Basilicata e Sardegna, mentre l’attuazionedi politiche di incentivazione della diffusionedella ICT poste in essere da Puglia e Campa-nia hanno determinato una significativa diffu-sione nei relativi territori di insediamenti lega-ti alle tecnologie informatiche e alla relativaricerca di sviluppo. In conclusione, se da un lato emerge una ap-prezzabile possibilità d’accesso alle reti tecno-logiche in alcune regioni meridionali, non vadimenticato come, allo stato, tutti i riferimentivengano misurati in termini di “popolazione”servita, il che non è affatto sufficiente. Infatti,ciò che conta maggiormente è considerare ladisponibilità del servizio a scala territoriale inmodo da perimetrare le aree in cui i fattori“innovativi” di attrattività risultano più o me-no presenti. Differenza, quindi, tutt’altro chemarginale, sul piano delle prospettive virtuosedi sviluppo locale. Il prevalere d’una logicaper la quale i servizi vengono implementati infunzione di prospettive misurate sulla doman-da espressa penalizza lo sviluppo di aree mar-ginali, in cui non si manifesta, almeno tempo-raneamente, una domanda economicamentesignificativa per il fornitore di servizi. Di con-seguenza, l’innovazione territoriale difficil-mente può concretizzarsi e con essa, parimen-ti, più complessa appare la possibilità di loca-

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lizzazione d’impresa innovativa. Avviene così,per riferirsi a una delle regioni meridionali cheesprime maggior dinamismo nel comparto, chela stessa Campania privilegi la copertura intermini di popolazione, piuttosto che di unitàcomunali servite, esprimendo un differenzialetra i due valori di circa il 32%. La spiegazionedi questo ulteriore vincolo è abbastanza evi-dente: le compagnie di telecomunicazione, inassenza di speciali incentivi pubblici finalizza-ti all’ampliamento della rete geografica, tendo-no a servire le aree maggiormente popolose e,quindi, a investire più sui ricavi “da bolletta”che sugli altri servizi a valore aggiunto. Ne consegue che, anche di fronte alla questio-ne dello sviluppo infrastrutturale delle reti vir-tuali, non è affatto azzardato concludere chel’orientamento settoriale del mercato finisceper avere il sopravvento su ben più rilevanti ecomplesse considerazioni di ordine strategicoincentrate sul nesso virtuoso tra competitivitàe riequilibrio territoriale.

9.3. I fabbisogni energetici: eolico, biomasse,rigassificatori

Il forte aumento della domanda energetica èespresso da un incremento dei consumi mon-diali di energia balzato in ottant’anni (1925-2005) da 1,45 miliardi di tep a 10 miliardi ditep, per decuplicarsi, secondo stime, nel 2025(intorno ai 14 miliardi di tep). Tutto ciò necessita investimenti in infrastruttu-re e ricerca di nuovi giacimenti e soprattuttouna diversificazione delle fonti sia per farfronte all’inevitabile esaurimento delle risorsepetrolifere e di gas, sia per far fronte alle pro-blematiche ambientali che pone l’uso dellefonti tradizionali.Le riserve mondiali stimate di petrolio, oggi

ammontanti a circa 175 miliardi di tonnellate,sulla base dei consumi attuali dovrebbero es-sere sufficienti per meno di cinquant’anni;quelle di gas naturale (circa 180.000 miliardidi mc) sono valutate sufficienti per circa 75anni. La rapida crescita di alcune economiedetermina una ulteriore espansione della do-manda che tende a correggere l’attuale inegua-le distribuzione dei consumi, che privilegiaPaesi come Stati Uniti, Unione Europea eGiappone, che assorbono circa la metà dell’in-tero consumo mondiale di energia. Gli squili-bri che caratterizzano i consumi mondiali si ri-trovano anche nella concentrazione delle ri-sorse: le riserve petrolifere sono concentrateper il 57% in Medio Oriente, quelle di gas na-turale in Medio Oriente (40%) e in Russia(26%). Sono sufficienti questi dati per com-prendere l’estrema dipendenza dell’Europa dafonti energetiche strategiche importate per ol-tre il 75% del fabbisogno di petrolio, il 57% digas naturale, il 40% del carbone.Le crisi energetiche degli anni Settanta-Ottan-ta hanno fatto emergere la necessità di un’in-novativa politica energetica i cui principi sonocondensati nel Libro Bianco sull’Energia e nelLibro Verde Verso una strategia europea di si-curezza dell’approvvigionamento energetico.Obiettivi della politica energetica europea so-no: il cambiamento dei comportamenti indivi-duali per ridurre i consumi (soprattutto nei set-tori dell’edilizia e dei trasporti), la ricerca difonti rinnovabili alternative, l’uso di biocarbu-ranti, il ricorso al nucleare pulito.Si tratta, quindi, di una questione cruciale dal-le enormi implicanze di natura geopolitica,che rappresenta un fondamentale snodo dellapolitica di sviluppo per l’Italia e, per diversimotivi legati a considerazioni ambientali e aopportunità strategiche, assolutamente centra-le per le regioni meridionali.

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Scenari italiani 2011 111

A fronte di un aumento di domanda che neiprossimi vent’anni potrebbe portare a un in-cremento di oltre il 40% dell’attuale fabbiso-gno, la questione delle energie rinnovabili edello sdoganamento dall’eccessivo peso deri-vante dalla dipendenza dagli idrocarburi, la di-versificazione delle fonti, rappresenta unastrada obbligata ineludibile.Pur nella stazionarietà dei consumi, in Italia ilsettore industriale incide per il 50% sui consumitotali, il terziario per il 27%, l’agricoltura per il2%, gli usi domestici per il 22%. Se si conside-rano i consumi relativi ai primi due settori emer-ge chiaramente l’importanza delle fonti energe-tiche per la nostra economia e, contemporanea-mente, traspare la stessa geografia dei consumiche vede assolutamente prioritari i fabbisognidelle regioni centro-settentrionali. Nello stessotempo, valutando le variabili climatiche che ca-ratterizzano la meteorologia a scala nazionale, etenendo conto della funzione di terminali di ap-provvigionamento del greggio e del gas naturaledi provenienza estera, che impiega in larga mi-sura gli scali meridionali del Paese, più agevol-mente raggiungibili in rapporto alle rotte deiflussi energetici, emerge un’importante prospet-tiva di valorizzazione delle opportunità legatealla localizzazione nel Mezzogiorno di impiantinon solo di raffinazione e degassificazione, ben-sì di produzione energetica da fonti rinnovabili.Assume, pertanto, particolare rilievo valutarequanto l’Italia, e in particolare il Mezzogior-no, possano investire nelle fonti rinnovabili, equanto queste possano contribuire all’autosuf-ficienza energetica. Nel 2009, il fabbisognonazionale lordo di energia elettrica è stato co-perto per il 67,3% attraverso centrali termoe-lettriche che bruciano principalmente combu-stibili fossili in gran parte importati dall’este-ro, mentre un altro 19,6% deriva da fonti rin-novabili e la rimanente parte è importata dal-l’estero (13%).

Trascurando l’apporto consolidato di idroelet-trico e geotermico, per fotografare lo scenariodelle fonti rinnovabili, la loro distribuzionegeografica e una visione prospettica del lorosviluppo, è opportuno concentrare l’attenzionesu fotovoltaico, solare e biomasse.Tuttavia, nonostante le caratteristiche geogra-fiche del territorio, l’analisi dell’andamentodel conto energia fotovoltaico (FV) a scalaregionale, secondo i dati del GSE (GestoreServizi Elettrici) a fine novembre 2010, mo-stra come il Mezzogiorno, a eccezione dellaPuglia, sia in forte ritardo sul tema del foto-voltaico.La potenza di FV installata lascia emergerecome tutto il Sud – se si esclude la regione Pu-glia, leader nel settore in Italia – esprima unasituazione di assoluta marginalità e ritardo.Solo il 9,3% del fotovoltaico installato in Ita-lia riguarda le regioni Abruzzo, Molise, Cam-pania, Basilicata e Calabria. Nel 2008 l’interoMezzogiorno (Puglia e Isole comprese) a sten-to eguagliava la potenza installata nel soloNord-Est. Con gli investimenti degli ultimidue anni in Italia la potenza installata com-plessiva è passata da 177 MW a 1.876 MW to-tali, la potenza pro capite da 3,1 W/ab. a 31,1W/ab. e si è parzialmente ridotto il gap traNord e Sud, soprattutto grazie alla Puglia chepassa da terza regione produttrice a prima. Ilfotovoltaico, infatti, risulta in costante crescitae tale espansione è stata fortemente favoritadal crollo, a scala globale, dei prezzi dei pan-nelli solari che si sono più che dimezzati ri-spetto ad appena tre anni addietro.Ma non sono cambiate di molto le proporzionitra le grandi aree del Paese. Sud e Isole dispon-gono di una potenza pro capite nettamente in-feriore alla media nazionale, a conferma chenel Mezzogiorno non è stata colta in tempo lapotenzialità del FV nonostante l’indubbiamaggiore insolazione disponibile.

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Discorso a parte merita invece l’eolico che,secondo fonte APER (Associazione Produt-tori di Energia Elettrica da Fonti Rinnovabi-li), alla fine del 2008 mostra un andamentocompletamente opposto al fotovoltaico, e ve-de le regioni del Mezzogiorno assolutamenteprimeggiare nella installazione di questi im-pianti. La regione capofila è ancora una voltala Puglia, sul cui territorio è installato unquarto di tutta la potenza dell’eolico italiano,mentre l’intero Mezzogiorno, Isole compre-se, rappresenta il 97,8% dell’intera produzio-ne eolica nazionale.

Nell’economia delle biomasse, lo sfruttamentoè limitato da determinati fattori strettamentelegati alla loro natura: esse non sono disponi-bili in ogni momento dell’anno, hanno unabassa resa per ettaro, e non sono esenti da pro-blematiche legate all’emissione di CO2 e di in-quinanti atmosferici. Nel nostro Paese le bio-masse producono complessivamente energiaelettrica pari al 2,6% della produzione totalenazionale, e l’11,1% della produzione di ener-gia elettrica da fonti rinnovabili.In termini di incidenza sulla produzione globaleda fonti rinnovabili, sicuramente l’Italia assume

112 Il Sud, i Sud. Geoeconomia e geopolitica della questione meridionale

Potenza (MW) Perc. (%) Pop. 2010Potenza pro capite

(W)N° Impianti

Nord-Ovest 366,9 19,60 16.016.223 22,9 27.927

Nord-Est 443,3 23,60 11.570.346 38,3 35.716

Centro 376 20,00 11.872.330 31,7 21.412

Sud (senza Puglia) 174,8 9,30 10.081.998 17,3 9.815

Puglia 362,4 19,30 4.084.035 88,7 17.494

Isole 152,6 8,10 6.715.396 22,7 12.661

Italia 1.876 100,00 60.340.328 31,1 125.025

Potenza (MW) Perc. (%) Potenza (MW) Perc. (%)

Nord-Ovest 32,7 0,70 Puglia 1.158 23,90

Nord-Est 20,4 0,40 Isole 1.703 35,20

Centro 55,5 1,10 Mezzogiorno 4.735 97,80

Sud (senza Puglia) 1.874 38,70 Italia 4.843,6 100,00

Tab. 9 – Potenza di fotovoltaico installato in Italia a fine novembre 2010

Fonte: GSE (2011)

Tab. 10 – Potenza di eolico installato in Italia a fine dicembre 2008

Fonte: APER (2009)

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10. Qualche nota di conclusione

torio dalle ferrovie e dalle autostrade. Crisipolitica, per il persistere nelle regioni meridio-nali di meccanismi di formazione della classedirigente basati sulla cooptazione e l’affìlia-zione, la clientela e la parentela (ma è davveropeculiarità meridionale?), piuttosto che sullaselezione meritocratica. Il Sud come crisi, perenne, quasi ineluttabile.Già in occasione del terremoto che nel novem-bre 1980 colpì la Basilicata e l’Irpinia e arrecòdanni nel Salernitano e a Napoli si constatòcome all’aggravamento degli aspetti quantita-tivi di problemi “vecchi”, si venivano aggiun-gendo problemi nuovi, di moralità politica, diordine pubblico. Francesco Compagna, uomo di Stato e di stu-di, sostenne che proprio eventi così calamitosidovevano indurre Parlamento e Governo aoperare mantenendo ben saldo, quale obiettivodi fondo d’ogni azione politica, il riequilibrioa scala nazionale tra le “due Italie”. Né era le-cito ritenere contraddetto tale obiettivo dallaperdita di una quota, pur rilevante, del patri-monio abitativo preesistente, della dotazionedi infrastrutture e della disponibilità di im-pianti industriali e commerciali. Così pure re-stavano valide, all’interno del Mezzogiorno, ledue linee guida della politica del territorio. Dauna parte il recupero delle zone interne colli-nari e montane in un circuito di produzione edi reddito non soltanto marginale. Dall’altraparte il risanamento del grande agglomeratourbano costiero napoletano, cui la congestioneedilizia impediva (come ancor oggi impedi-sce) di svolgere le funzioni di servizio urbanoche le potenzialità metropolitane sue proprievorrebbero venissero esercitate nei confronti

10.1. Il Sud come “crisi”: ragioni e stereotipinell’interpretazione d’uno storico divario

Ogni qualvolta nel Mezzogiorno continentalee insulare si manifesta un evento calamitoso,riconducibile a fatti della natura o a fatti del-l’uomo – o a entrambi – si ripropongono con-siderazioni che riconducono alla visione di unMezzogiorno “altro” rispetto all’Italia e al-l’Europa. Si tratti – limitandoci alla citazionedi casi recenti – di eventi devastanti per uomi-ni e cose, come i terremoti (ultimo quello cheha colpito L’Aquila e la sua provincia, aprile2009), come le frane (la provincia di Messina,ottobre 2009); si tratti di casi di mala gestionedi pubblici servizi, come le recidivanti som-mersioni da cumuli di spazzatura non rimossi(Napoli e provincia, 2010 e 2011); tutti questicasi assecondano la tendenza a considerare laproblematica meridionale un male cronico del-l’organismo Italia, da contenere attraverso te-rapie sintomatiche, locali, piuttosto che da af-frontare alla radice con interventi generali. Il Sud come crisi. Crisi sociale, per la presen-za di strati di popolazione che hanno di meno,che vivono peggio. Crisi economica, per l’as-senza di strutture produttive paragonabili inquantità, tipologia, efficienza a quelle d’altreregioni d’Italia e d’Europa. Crisi urbana, per-ché appaiono diversi, nell’immagine esteriorecome nei dati funzionali (ricavabili attraversogli indicatori della geografia urbana), gli inse-diamenti meridionali: sia i grandi agglomerati,densi di popolazione racchiusa in tessuti edili-zi congestionati, solcati da limacciosi flussi diauto, sia i piccoli nuclei marcati dall’isola-mento rispetto alle direttrici tracciate nel terri-

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del territorio regionale; e, anche, la rianima-zione di altre significative agglomerazioni ur-bane del Sud: Palermo, Catania, Bari. Fu rilevante, in termini finanziari, l’interventoin favore delle aree terremotate. Ricostruzionedel patrimonio abitativo nei centri più colpiti,nuovi rioni di edilizia pubblica nella periferiae in provincia di Napoli per trasferirvi abitantidi quartieri degradati; finanziamenti fortemen-te agevolati per nuove intraprese industriali.Ma anche molti gli sprechi, servizi e infra-strutture poi rilevatisi inutili o mal gestiti; spe-culazioni di imprenditori disonesti; espansionedelle inframmettenze malavitose e sviluppod’una economia criminale. Gli anni Novanta segnarono la fine della Cassaper il Mezzogiorno. Il saldo tra entrate e uscitedi risorse finanziarie divenne negativo. In pre-cedenza, anche se parte significativa della rac-colta bancaria operata nel Mezzogiorno dal si-stema creditizio non mancava di defluire inimpieghi al Nord, le erogazioni operate dallaCasmez e dagli istituti preposti al medio credi-to a sostegno delle intraprese meridionali(Isveimer, Irfis e Cis) rendevano il flusso fi-nanziario largamente attivo per il Sud. Il so-praggiungere di crisi di grandi e storici istitutibancari meridionali (primo fra gli altri il Bancodi Napoli) e la politica di accorpamenti e fusio-ni favorita dalla Banca d’Italia nel corso d’undecennio finirono per “desertificare” – comerilevato da molte ricerche al riguardo, e comeperaltro constatato in studi della stessa Bancad’Italia – la tradizionale struttura creditizia del-le regioni del Sud. O meglio, a fronte di un au-mento considerevole degli sportelli in tutte leregioni meridionali, i centri di governo del si-stema del credito si sono tutti trasferiti in re-gioni del Centro-Nord (se si eccettuano pochiistituti di credito popolare e cooperativo, anco-ra autonomi e attivi in alcune regioni). Le fon-

dazioni, create dalla legge Amato quali ele-menti di equilibrio nel processo di privatizza-zione delle banche a prevalente capitale pub-blico e finalizzate al sostegno di azioni di pro-mozione culturale e di animazione nei territoridi competenza, pur quando insediate e attivenelle regioni meridionali, restano tuttavia con-giunte strettamente agli istituti bancari di rife-rimento, tutti al di fuori del Mezzogiorno.S’avverte l’assenza d’una istituzione creditiziaadeguatamente capitalizzata e insediata nelSud con strutture idonee a cogliere potenziali-tà locali e a sostenerle finanziariamente nell’o-biettivo di ricostruire una rete produttiva che,almeno in parte, sopperisca ai vuoti creati dal-la scomparsa della maggior parte delle indu-strie a capitale statale verificatasi nel corso de-gli ultimi due decenni. Onde è apprezzabileche tra le “voci” d’un possibile “piano per ilSud” più volte annunciato dagli ultimi gover-ni, figuri, appunto, la fondazione d’una bancadel Sud. Anche se ne restano incerti capitali,dimensioni e strutture operative. Nello svolgimento di questo Rapporto si è po-sto in luce che, a dispetto del permanere deldivario tra la macroregione meridionale e ilresto d’Italia, il Mezzogiorno, valutato attra-verso i parametri cui si è soliti ricorrere nellamisurazione del grado di sviluppo, occupa po-sizioni certamente non apicali, ma neppur infi-me rispetto a territori di Paesi inseriti nei re-centi processi di dilatazione dei confini del-l’Unione Europea. Si è posto egualmente inluce un generalizzato miglioramento del qua-dro infrastrutturale, anche se nel caso di porti,aeroporti, alta velocità ferroviaria è lecito ri-correre alla metafora del bicchiere mezzo pie-no e mezzo vuoto. Dove il “pieno” è costituitoda taluni ampliamenti e rinnovi, a fronte dicrescenti domande di traffico aereo, di movi-menti marittimi di passeggeri e containers, co-

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sì come è costituito dall’estensione a Napolidell’alta velocità ferroviaria e, ancora per Na-poli, dal sia pur lento progredire della rete diferrovia metropolitana, e dalla creazione dellepiattaforme logistiche di Nola e Marcianise. Edove il “vuoto” resta rappresentato dalla ca-rente rete ferroviaria e autostradale di Sicilia eSardegna, e dalla perdurante inadeguatezzadei collegamenti ferroviari tra Tirreno e Adria-tico e tra Tirreno e Ionio. Discorso analogoper quanto riguarda le reti acquedottistiche;mal gestite nelle regioni continentali, assoluta-mente precarie, con gravi disagi per la popola-zione, in Sicilia.Così pure, nel Rapporto, adeguati accenni so-no stati dedicati a eccellenze, nel campo dellaricerca scientifica, sia connessa alle struttureuniversitarie, sia riconducibile a istituti delCNR, o autonomi. Ci si riferisce all’ambitomedico e biologico, a quello agronomico, aquello delle tecnologie aerospaziali, motoristi-che, informatiche.Al geografo non sfugge, tuttavia, come le “ec-cellenze”, laddove restino isolate nel proprioambito specifico e non siano affiancate da al-tre, difficilmente possono acquisire una massacritica tale da profondamente innovare nel ter-ritorio di riferimento. E ciò è tanto più validoper strutture innovative nel settore delle altetecnologie; qui risulta fondamentale, al fine dideterminare ricadute diffuse nel territorio coneffetti propulsivi sull’economia, la saldaturacon attività manifatturiere ad alto contenuto diricerca. Non mancano casi, soprattutto nel-l’ambito dell’industria aeronautica (Campania,Puglia), pur tuttavia limitati.Nei discorsi di prospettiva riguardanti il Mez-zogiorno, si è soliti attribuire ruolo rilevantealla risorsa turistica. Non si è sottratto a talevalutazione anche il presente Rapporto, ai cuiestensori, in coerenza con la disciplina prati-cata, non sfuggiva certo l’entità dei valori, e

dell’attrattività, di peculiarità geomorfologi-che riscontrabili in ogni provincia del Mezzo-giorno continentale e insulare. Parimenti nonpoteva sfuggire come sempre più delicato siprospetta il problema dell’equilibrio da ricer-care tra le ragioni della valorizzazione a finituristici – che richiede consumo di spazio perinfrastrutture e residenze, alberghiere e private– anzitutto dei siti costieri (in larga misura giàmalamente utilizzati), ma anche di quelli colli-nari e montani, e le ragioni della preservazio-ne ambientale e paesaggistica. Si pone l’interrogativo se, e in quale misura, laprospettiva turistica possa, almeno in parte, ri-velarsi sostitutiva nel meccanismo di forma-zione del reddito delle province meridionali e,ancor più, nel processo di riassorbimento dellequote rilevanti di popolazione attiva, speciegiovanile, non occupata o solo parzialmenteoccupata perché espulsa dalle attività indu-striali, o mai da queste assunte, date le esiguedimensioni che esse palesano in numerose trale province meridionali. È convincimento de-gli estensori del Rapporto – convinzione pe-raltro suffragata da alcuni interventi svolti inoccasione del convegno promosso dalla Socie-tà Geografica appunto al fine di discutere undocumento riassuntivo del Rapporto (inter-venti dei quali si dà conto nell’Appendice aquesto testo) – che la risorsa turismo di per sésola non potrà, nell’immediato come in pro-spettiva, fronteggiare il divario tra domanda eofferta di lavoro; e che, specie guardando alfuturo dei giovani meridionali, l’opzione ma-nifatturiera resta a fondamento di qualsivogliaazione poteri centrali e locali intendano (sedavvero intenderanno) operare per conteneredivergenze economiche e sociali tra le “dueItalie”. Con riferimento particolare alle pro-vince più colpite da processi antichi e recentidi de-industrializzazione o da mancata crescita

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di intraprese produttive: territori, questi, rien-tranti in prevalenza nel Mezzogiorno tirrenicoe nelle province siciliane.

10.2. La sfida federalista: federalismo e auto-nomie

La contrapposizione tra Stato regionale e Statofederalista, lungi dall’essere strutturale, è perlo più nominalistica; ha acquisito valenza dimobilitazione politica, in qualche caso colora-ta da atteggiamenti confusamente revanchistio comunque da attese palingenetiche. Lo Stato regionale avrebbe dovuto rappresen-tare un modo, pur nel suo schematismo, l’uni-co invero in atto possibile, di mettere assiemeistanze di autonomia e necessarie opzioni didecentramento, per relazionare e integrare di-versità in un nuovo più maturo patto unitario,ponendo in risalto, proprio a partire dalla que-stione meridionale, il tema di una unità consa-pevole; alla ricerca di una diversa sostanza edi una nuova qualità nell’articolarsi istituzio-nale e nello strutturarsi delle dimensioni delterritorio, e con una attenzione, da parte delpotere politico, ai valori, ai coinvolgimenti, aidinamismi interni alla sua articolazione cultu-rale, sociale ed economica. Ne è derivato invece, dalla lunga pratica dellacostituzione materiale, un automatico somma-re centralismo a centralismo, burocrazia a bu-rocrazia, senza l’insorgere di processi auto-or-ganizzativi locali, per l’attivazione di relazionie di fattori da ricombinare in vista di incre-menti e sviluppo possibili. Adesso vengono ri-proposti i processi di costruzione del mito, perla carica polemica che le parole della politicafiniscono con l’avere nei confronti di situazio-ni che si vogliono smobilitare.Il nuovo processo costituente sarebbe comun-

que il portato delle diversità reali che, comeisole di resistenza, finirebbero per sostanziarela novità federalista; e il senso del rapporto fe-derale potrà significare la valorizzazione delpotere locale, nella logica nuova della gover-nance e del principio di sussidiarietà. Si supereranno così le contrapposizioni traistanze localistiche e istanze centralistiche?Certo aumenteranno i processi di responsabi-lizzazione, così spesso vistosamente disattesi.Ma si recupereranno gli squilibri, già macro-scopicamente presenti e destinati ad accrescer-si in virtù del cosiddetto federalismo fiscale?Certo l’abbandono del criterio della spesa sto-rica consolidata fotograferà o aumenterà ledifferenze tra le Regioni, sempre che lo Statonon intervenga in funzione di riequilibrio ne-cessario, anche se il principio di maggiore re-sponsabilità, sopra menzionato, attenuerà talu-ni consolidati sperperi, con un evidente incre-mento del livello della spesa pubblica. Ed èevidente che tutto ciò richiederà accentuati pe-riodi di assestamento, data per scontata la pos-sibilità di considerevoli deficit in molte realtàterritoriali, proprio per gli squilibri strutturalivistosamente consolidati e tuttavia presenti.Bisognerà però osservare che l’approdo dellariforma federalista può nel contempo ottenereun modello sempre più significativamente uni-tario, che riplasmi le strutture, conferisca loroautorità, ne legittimi compiutamente il potere,al di là di una storia per stereotipi, costruita re-trospettivamente e solo ripensata alla luce distoriche identità, talvolta mitizzate. Invece ilfederalismo potrà essere l’occasione della ri-lettura degli statuti, potenzialmente in grado didissacrare le ridondanze di culture separate,per protenderle verso compiute modernità didiritti naturali e civili. Questo soprattutto in Sicilia, anche per sfatarevisioni mitopoietiche tendenti a dimostrare

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che, da una identità mai compiutamente decli-nata, potessero sempre discendere necessità didifesa dell’autonomia da teorie e prassi di unpiù o meno presunto antimeridionalismo, oaddirittura ameridionalismo, del Paese. Men-tre qui, più opportunamente, si dovrà conveni-re che, almeno a partire dal 1970, proprio perl’avvento delle Regioni a statuto ordinario, sisarebbe potuta compiere una lettura critica ditutto: ideologizzazioni, statuizioni e prassi.Ma anche allora si dimenticò che l’autonomiasiciliana era stata concepita con caratteri chela fecero speciale fin dal momento in cui fupensata: addirittura lo statuto siciliano si rifece“allo statuto albertino regionale, ossia la re-gione fu prevista con un ordinamento centra-lizzato simile al centralismo dello stato italia-no”. Così nello statuto fu opposta la barrieradell’articolo 14, quello dell’esercizio della po-testà legislativa esclusiva. Nessun aspetto delrinnovamento italiano, come delineato dallaCostituzione, sarebbe passato in Sicilia senzail consenso legislativo dell’assemblea regiona-le e molte trasformazioni, effetto dei muta-menti profondi della società nazionale, hannocosì finito spesso col non ritrovarsi nelle risul-tanze dell’autonomia.Adesso invece, così come in taluni momentidiciamo anomali, talvolta dolorosi, di mag-giore consapevolezza, sembra prevalere – inverità più al livello della cultura politica, chenelle prassi di legiferazione e di governo, tal-volta pedissequamente importate da altreesperienze – l’assunto che le rivendicazionisovente lamentose (non coerenti con una co-statazione, che si dovrà pur fare, sulla noncongruità fin qui della risposta delle autono-mie rispetto ai necessari processi di moder-nizzazione, enfaticamente invocati, ma sem-pre sostanzialmente disattesi) dovranno final-mente misurarsi con una complessiva modali-

tà del funzionamento, nella nuova intrapresaistituzionale del federalismo, programmatasull’attuazione di un principio di sussidiarietàe soprattutto su accentuati valori di responsa-bilità.Torna in sostanza nel dibattito, dopo negligen-ze e colpevoli distrazioni, sapientemente col-locate sugli snodi del consenso maturato perlo più nelle strettoie e negli anfratti delloscambio, e sulla utilizzazione del malesserecome rendita di posizione per l’ottenimento dienfatizzati riparazionismi di dubbia motiva-zione, l’assunto che invece sarebbe soprattuttoconvenuto svolgere all’interno delle autono-mie (la qualità del governare e, soprattutto,dell’amministrare), guardando all’esterno nonper continuare estenuanti bracci di ferro ripeti-tivi, ma per attingere idee, prospettive, stili divita e di convivenza da immettere e amalga-mare, in una logica di proficuo intreccio, con ifili variopinti della realtà.

10.3. Il Mezzogiorno “possibile”: la via d’unaimpervia convergenza

Il tema che si vorrebbe discutere, alla conclu-sione di questa esplorazione all’interno dellageografia politica ed economica del Mezzo-giorno d’Italia, concerne una valutazione pro-spettica dei limiti entro i quali è ipotizzabileindividuare una prospettiva di maggiore com-petitività e di più virtuoso sviluppo delle di-verse regioni della compagine meridionale.Già nel passato, agli inizi degli anni Ottanta, siera dovuto constatare che, anche nel periodopiù favorevole, i vent’anni tra la metà deglianni Cinquanta e gli anni Settanta, il divariotra i tassi di crescita delle due macroaree delPaese si era modificato in misura piuttostomodesta. Né, di seguito, le rilevazioni statisti-

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che avevano fornito evidenze maggiormenteconfortanti. Infatti, se alla soglia degli anniOttanta il PIL per abitante del Mezzogiorno sicollocava al di sotto del 65% di quello delCentro-Nord, nei quindici anni successivi nonsi evidenziava alcun mutamento di tendenza,proseguendo, piuttosto, una progressiva disce-sa del divario fino al 55%: punto di minima dacui, sia pur lentamente, prendeva inizio un lie-ve miglioramento, dopo il 1995. Tutto ciò,nonostante che, lungo un ventennio, la Cassaper le Opere Straordinarie nel Mezzogiornoavesse operato con ampiezza di risorse, distri-buendo una cospicua massa di investimenti fi-nanziari e di incentivi. Nello stesso tempo, lapolitica regionale europea, dopo il lento avvio,dagli anni dal 1973 al 1986, progressivamenteaveva destinato alle aree in ritardo di svilupporisorse crescenti che, specialmente nell’artico-lazione dei due ultimi quadri comunitari diSostegno, mettevano in circolo disponibilità ilcui impiego, sia per innovazione nei metodi dispesa, sia per concentrazione e selezione delleopere, avrebbe dovuto produrre effetti di in-dubbio rilievo. Com’è emerso dall’analisi svolta sullo specifi-co tema, va decisamente distinta la politica diopere pubbliche concretizzata in interventi in-frastrutturali, azioni strutturali di riconversio-ne in agricoltura e, più in generale, nella ma-nutenzione e gestione del territorio, dalla poli-tica di sostegno alla localizzazione industriale.Mentre nel primo caso gli investimenti realiz-zati, pur nel difficile contesto in cui si inseri-vano, rappresentavano un fondamentale fatto-re di innovazione, in termini di accrescimentodella centralità potenziale delle regioni meri-dionali rispetto alle direttrici dei flussi econo-mici, diversamente, gli esiti della politica in-dustriale si traducevano in molto labili effettidi disseminazione territoriale della matrice in-

dustriale, lasciando del tutto disattesa ogniaspettativa di consolidamento e moltiplicazio-ne del tessuto imprenditoriale locale. Più che a vantaggio delle aree in cui si compi-va la localizzazione di grandi impianti produt-tivi, l’incentivo erogato dallo Stato rispondevaa inderogabili convenienze di quell’industriadi base, generalmente ad alta intensità di capi-tale che, non sempre effettivamente strategicaper lo stesso Paese, non determinava conve-nienze ubicazionali nell’ambito del suo intor-no geografico.La chimica, più d’altri, rappresentata comegrande opportunità al fine della diffusione diinnumerevoli attività connesse all’impiegodella relativa materia prima e dei suoi tanti de-rivati, si rivelava, in concreto, una grande illu-sione, conclusasi in una enorme dispersione dicapitale pubblico, a unico beneficio di scaltricapitani d’industria, più esperti nella privatiz-zazione degli utili e pubblicizzazione delleperdite che nella conduzione manageriale. Delresto, il paradosso di una forma di sostegnoche, nonostante obiettivi espliciti di assorbi-mento della disoccupazione dell’area, parame-trava il valore degli incentivi alla misura delcapitale piuttosto che all’entità della forza la-voro da impiegare, chiarisce in modo esplicitoil danno di una impostazione politica condi-zionata da interessi del grande capitale.La disoccupazione, il più grave e doloroso di-vario del Mezzogiorno, nel periodo dei grandiinvestimenti agevolati, si attestava pur sempreintorno a un divario di circa 11 punti rispettoal Centro-Nord. In un simile scenario, il datoforse più drammatico è espresso da un feno-meno di contrazione della forza lavoro meri-dionale, rispetto al quale la riduzione delladisoccupazione dipendeva dalla consistenzadel flusso migratorio interno, piuttosto chedalle opportunità endogene di domanda di la-

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voro nell’area meridionale. Non più gli esodibiblici degli anni Cinquanta-Sessanta, ma per-sistenti flussi di significativa consistenza se-gnavano la ripresa dell’emigrazione verso ilNord, già dalla metà dei recenti anni Novanta.A prescindere, quindi, da tanti altri fattori, dicui si cercherà di dare rapido conto più innan-zi, la storia economica dell’intervento straordi-nario, sia nella fase dell’investimento naziona-le, sia in quello della regia regionale, sostenutada politiche comunitarie di convergenza, in ri-ferimento alle risorse impegnate nel Mezzo-giorno lascia trasparire le ombre di deludenti,ovvero incaute, politiche industriali palesatesicompiacenti verso il grande capitalismo inter-nazionale, ma del tutto incapaci di restituire, intermini di generazione di nuova impresa, svi-luppo endogeno alle regioni meridionali.Tuttavia, nei confronti delle diverse aree (al-cune, come Abruzzo, Molise, Basilicata, Sar-degna, con più avanzate performances di rien-tro), di fronte a un simile processo, non è im-proprio convenire che lo sforzo finanziario, al-meno per la parte impiegata in utili opere in-frastrutturali e nella creazione di servizi mo-derni, anche se incapace di determinare il su-peramento dei divari storici e inefficace a ge-nerare agglomerazioni produttive, ha miglio-rato le pre-condizioni dell’industrializzazionea venire. Ha reso il Mezzogiorno decisamentepiù vivibile e sviluppabile di quanto non appa-risse, dall’insieme di contesto, nella prima me-tà del secolo scorso.Le analisi più accreditate concordano nel rite-nere che il problema che continua a frenare losviluppo dell’economia meridionale sia stret-tamente correlato alla perdurante carenza diinfrastrutture, fisiche e virtuali, di cui soffrel’area. Si tratta, come ben s’intende, di un vin-colo tutt’altro che marginale, dal quale derivauna palese difficoltà per le imprese di stabilire

reti cooperative all’interno di uno stesso setto-re produttivo, rendendo, in pari tempo, piùcomplesso realizzare condizioni propizie a si-stemi distrettuali efficaci e frenando la stessapropensione all’internazionalizzazione. Vinco-li amplificati da una struttura dimensionaledelle imprese che lascia emergere una forteconcentrazione delle aziende (96%) intorno aclassi dimensionali micro e mini (fino a 9 ad-detti) con estesa presenza di iniziative indivi-duali a struttura familiare e scarsa propensionealla gestione manageriale. Nello stesso tempo,nonostante l’indubbia ricchezza di risorse am-bientali, sia pure malamente gestite, e di unesteso patrimonio culturale, distribuito inequilibrata misura su tutto il territorio, il Mez-zogiorno non riesce a esprimere una significa-tiva attrazione turistica, intercettando flussi,sia verso il resto del Paese, sia verso l’estero,in misura troppo modesta in termini di arrivie, ancor più, di presenze complessive.Rispetto a tale scenario, gli effetti recenti dellacrisi internazionale, propagatisi sin dai primimesi del 2008, hanno creato un inevitabilepeggioramento della situazione congiunturaledell’economia meridionale, i cui parametri didefault hanno, per lo più, conosciuto ulterioripeggioramenti in termini assoluti. Anche se,per taluni versi, il fenomeno non appare omo-geneo: infatti, le rilevazioni statistiche fannoregistrare situazioni in cui la flessione subitadal Mezzogiorno, in più di una componente, sirivela meno drammatica nel confronto con ilCentro-Nord. Tuttavia, a ben scrutare la realtà,si tratta di situazioni in cui un peso determi-nante, al fine del dato meno negativo, è prodot-to dal saldo migratorio e dalla contrazione del-la forza lavoro, nel caso della perdita di occu-pazione; ovvero da una minore esposizioneagli effetti depressivi della crisi dei vasti mer-cati, in ragione del basso livello dell’export.

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Più in generale, infine, i motivi della minoresofferenza del sistema meridionale sono spie-gabili con la specializzazione produttiva preva-lente dell’area, dove ha un peso marginale lapresenza della componente meccanica che, neicasi in cui viceversa prevale, subisce maggior-mente i contraccolpi della crisi di domandaglobale. Ed è proprio per questi motivi che, nelcorso del biennio 2008-2009, il fatturato delleimprese meridionali subisce un calo del 12%,significativamente minore di quello medio re-gistrato nella ben più industrializzata riparti-zione nord-occidentale del Paese, dove la dé-bâcle si è tradotta in una contrazione di benventi punti. In altri termini, in definitiva, nelbreve periodo, la struttura produttiva meridio-nale, proprio per motivi strutturali della suastessa debolezza, subisce contraccolpi menopesanti, mentre, in simili condizioni, appareancora più problematico immaginare una rea-zione efficace, un risveglio produttivo accele-rato del sistema Mezzogiorno.Proprio riflettendo sulle peculiarità che sonoemerse in misura ben evidente attraverso ladiagnosi degli effetti della crisi, è possibileavanzare alcune ipotesi e proporre qualcheconsiderazione di scenario.La prima, realisticamente concreta, presupponel’abbandono di ogni illusione circa il riallinea-mento “spontaneo” dell’economia meridionalerispetto al Centro-Nord. Le analisi dei princi-pali centri di ricerca economica concordanonel valutare che per assorbire il divario sarebbenecessario un raddoppio dell’attuale PIL, innon più di quindici anni, una crescita della pro-duttività del lavoro superiore al 15% e un in-cremento di occupazione aggiuntiva di almenotre milioni di unità. Entità improponibili senza,beninteso, esplicite politiche finalizzate.Una seconda ipotesi lascia intravedere la possi-bilità di un più realistico balzo in avanti: in

grado, quanto meno, di attenuare le divergenzedalla soglia di convergenza. Tale ipotesi fa levasulla constatazione della presenza nel Mezzo-giorno di non marginali “eccellenze” nelle pro-duzioni locali. Ci si riferisce a quei particolarimarchi di pregio radicati nel territorio meridio-nale: dalla sartoria di Kiton, agli imbottiti diNatuzzi, alle aziende vinicole Donnafugata (edaltre emergenti in Campania, Puglia, Sicilia,Sardegna), all’abbigliamento maschile di Har-mont&Blaine, alla moda di alta qualità di Sar-torio come di Marinella, ai gruppi Carpisa, Ya-mamay, Intimissimi (attivatori di punti venditaa diffusione globale) e, ancora oltre, a compar-ti di eccellenza dell’agro-alimentare di qualità,delle bevande, dell’informatica innovativa. Edè proprio lungo questa linea di tendenza che sicollocano indicazioni di recente illustrate daConfindustria. Le strategie prevalenti tra leaziende meridionali lasciano emergere una bendelineata propensione dell’imprenditoria localea puntare su processi d’innovazione, migliora-mento qualitativo e maggiore attenzione aimercati, nella consapevolezza di un indispen-sabile rafforzamento di competitività, trascu-rando effetti di breve periodo, conseguibili at-traverso generiche riduzioni di costi di produ-zione. Nello stesso tempo, anche considerandocon maggiore attenzione la questione dellascarsa propensione all’internazionalizzazione,non deve sfuggire come la questione vada af-frontata con più esplicita attenzione alla deter-minante geografica. Questa consente di rende-re trasparente un orientamento dell’export me-ridionale piuttosto caratterizzato verso mercaticome la Spagna (8,9%, pari a ben 3 punti oltrela media nazionale), l’Africa settentrionale(8,3%, quota doppia di quella nazionale) neicui confronti si realizza una crescita molto rile-vante (raddoppio del movimento, rispetto al-l’anno 2000).

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In questa prospettiva, l’asserita carenza dipropensione all’export del Mezzogiorno an-drebbe riletta, interpretandola come una con-seguenza della stessa specializzazione pro-duttiva dell’area, dove incombe la prevalen-za del comparto petrolifero e derivati, delchimico-farmaceutico e, solo più di recente,dell’agro-alimentare. Il che suggerisce diprospettare realistici mutamenti di tendenza,proprio facendo leva sulla filosofia di svi-luppo dell’innovazione e dei contenuti quali-tativi evidenziati dalla ricerca di Confindu-stria, correlati al prosieguo di un’efficace pe-netrazione commerciale su mercati comequello mediterraneo. Anche se i recenti som-movimenti politici di Tunisia, Egitto e Libiadeterminano incertezze che giustificano va-lutazioni caute, si può ritenere che l’eleva-zione degli standard di qualità della vita del-le popolazioni nello scenario mediterraneoresti un dato tale da prospettare performan-ces di crescita della relativa domanda.A sostegno del processo di sviluppo dell’areameridionale del Paese restano irrinunciabilisensibilità e interventi di natura politica. Tale

affermazione va riproposta a conclusione delpresente Rapporto. Incombe tuttora sul Mez-zogiorno un vincolo più incisivo: la carenza dicapitale sociale. Certamente, in misura diversada regione a regione, da territorio a territorio,come insegnano geopolitica e sociologia eco-nomica: sicché non il Sud, bensì i Sud. Restaindispensabile, quindi, sviluppare adeguata-mente una simile riflessione, non potendosinon condividere la centralità di questo ulterio-re criterio di approccio alla questione meridio-nale. Ne sono più che autorevole conferma leespressioni del presidente Napolitano in ordi-ne all’esigenza di “superare una lettura troppoeconomicistica del Mezzogiorno” dando mag-gior spazio a valutazioni riferite ad attributi dinatura culturale e istituzionale, considerando“il livello di cultura civica, l’incidenza di nor-me informali condivise, di regole di comporta-mento socialmente approvate che favorisconola cooperazione, sostengono la fiducia neglialtri”, al fine di porre in essere efficaci politi-che, sforzandosi di “individuare le strade dabattere per far crescere in tempi ragionevoli ilcapitale sociale nelle regioni meridionali”.

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Era consuetudine far seguire al testo dei Rapporti della Società Geografica Ita-liana la sintesi di un sondaggio tra i geografi delle università italiane realizzato at-traverso risposte a quesiti circa i temi prescelti quali oggetto del Rapporto del-l’anno. Ciò è avvenuto per le edizioni dal 2003 al 2010. Quest’anno, il Comitatoscientifico preposto all’elaborazione del Rapporto ha deciso di innovare: non piùpredisponendo un sondaggio tra geografi circa temi affrontati dal Rapporto, maaprendo a un significativo numero di interlocutori, portatori di varie esperienze,politiche, scientifiche, manageriali, la discussione sul tema dell’anno e invitandolia un convegno dopo aver posto a loro disposizione, come base di discussione, untesto di sintesi del Rapporto medesimo. Il convegno, aperto col saluto e il ringraziamento agli ospiti del presidente dellaSGI, prof. Franco Salvatori, è stato introdotto dall’ampia esposizione del contenutodel Rapporto svolta dal prof. Tullio D’Aponte, coordinatore del Rapporto insiemeal prof. Ernesto Mazzetti, entrambi cattedratici di Geografia politica ed economicanell’Università di Napoli “Federico II”. Al prof. Mazzetti è stato quindi affidato ilcompito di moderare il dibattito, che è risultato ampio ed esauriente.

Appendice

Il Sud, i Sud. Geoeconomia e gepolitica della questione meridionaleSintesi degli interventi al convegno promosso

dalla Società Geografica Italiana per la discussione dei temi trattati dal Rapporto 2011*

*All’incontro organizzato dalla SGI il 25 maggio nella propria sede di Villa Celimontana sono intervenuti: ilprof. Franco ARCHIBUGI, del Centro di Studi e Piani Economici; l’on. Antonio BASSOLINO, presidente dellaFondazione Sudd; il prof. Alessandro BIANCHI, dell’Università di Reggio Calabria; l’on. Gerardo BIANCO,presidente dell’Animi; il dr. Luigi CANNARI, direttore del Servizio Studi di Struttura Economica e Finanziariadella Banca d’Italia; il prof. Giovanni CANNATA, rettore dell’Università del Molise; il dr. Vito DE FILIPPO,rappresentante della Regione Basilicata; il dr. Franco GARUFI, del Dipartimento Politiche di Coesione Econo-mica e Sociale e del Mezzogiorno della CGIL; la dr.ssa Silvia GRANDI, dirigente del Dipartimento per lo Svi-luppo e la Coesione Economica del Ministero dello Sviluppo Economico; il dr. Francesco MONACO, per l’As-sociazione Nazionale dei Comuni Italiani; l’on. Alfonso PECORARO SCANIO, presidente della FondazioneUniverde; il dr. Gianpiero PERRI, direttore dell’Azienda di Promozione Turistica della Basilicata; la dr.ssa An-tonella PIRASTU, responsabile delle Politiche del Lavoro e Mezzogiorno della UIL; la dr.ssa Maria RosariaPUGLIESE, responsabile dell’Ufficio per il Mezzogiorno della UGL; il dr. Vito SANTARSIERO, per l’Asso-ciazione Nazionale dei Comuni Italiani; la dr.ssa Giulia TAVERNESE, per il Dipartimento Mezzogiorno e Svi-luppo territoriale della CISL; l’on. Luciano VIOLANTE, presidente della Fondazione Italiadecide. Tra gli invitati che hanno motivato la loro assenza a causa di altri impegni: il prof. Corrado BEGUINOT, pre-sidente della Fondazione Della Rocca; l’on. Gianni CHIODI, presidente della Regione Abruzzo; il dr. Emma-nuele F.M. EMANUELE, presidente della Fondazione Roma; il prof. Guido FABIANI, rettore dell’Univer-sità degli Studi Roma Tre; il dr. Massimo FIASCHI, segretario generale Manageritalia; il prof. AdrianoGIANNOLA, presidente della Svimez; l’on. Vincenzo SCOTTI, sottosegretario del Ministero degli AffariEsteri; l’on. Nichi VENDOLA, presidente della Regione Puglia.Hanno partecipato all’incontro anche alcuni componenti del Consiglio della SGI: i proff. Giuseppe CAM-PIONE, Sergio CONTI, Lida VIGANONI; e, tra i collaboratori al Rapporto, il prof. Rosario SOMMELLA ela dr.ssa Libera D’ALESSANDRO, nonché i dott. Cristiano PESARESI dell’Università di Roma “La Sa-pienza” e Ugo ROSSI dell’Università di Cagliari, invitati in quanto recenti vincitori di premi della SGI desti-nati a giovani ricercatori.

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Pur con differenze circa l’ottica d’approccio, tre sono stati i punti generali dimaggior convergenza espressi dagli interlocutori:

1) è indispensabile continuare a parlare e approfondire la problematica meri-dionale. La permanenza di una questione meridionale costituisce una criticitàdell’intera Italia; occorre rafforzare tale assunto anche attraverso iniziative didibattito localizzate nei maggiori centri dell’Italia settentrionale; 2) è giusto individuare nell’ambito d’una macroregione meridionale le signifi-cative differenziazioni che si sono venute determinando alla scala di singoleprovince e regioni, onde le legittimità di riferirsi più che a “un Sud”, indiffe-renziato, a “Sud molteplici”; tuttavia, politiche di rianimazione e sviluppo divasti settori – industria, turismo, ricerca scientifica – così come di rafforza-mento delle infrastrutture e delle reti telematiche vanno impostate e affrontatein ottica globale, in un coordinamento tra poteri centrali e regionali;3) a grandi problemi, quali quelli della disoccupazione, connessa anche a fe-nomeni di de-industrializzazione più o meno recenti, o della insoddisfacenteinfrastrutturazione di gran parte del territorio del Mezzogiorno continentalee delle grandi isole, fanno tuttavia da contrasto grandi potenzialità: come ilturismo e alcune punte di eccellenza nell’ambito della ricerca scientifica etecnologica.

I contenuti del Rapporto, quali desumibili dalla sintesi che era stata precedente-mente inviata ai partecipanti, sono stati apprezzati da gran parte degli interlocu-tori. Su alcuni punti è stato espresso il desiderio di trattazioni più ampie: Can-nata per questione ambientale e Sud nel contesto europeo e mediterraneo;Conti e Cannari per quanto riguarda l’utilizzazione dei fondi europei per ilSud; Cannari, ancora, per quanto riguarda squilibri finanziari e strategie azien-dali, settori di rilevante impatto; Pecoraro Scanio a proposito di nuovi scenarimediterranei in conseguenza delle crisi in atto nei Paesi del Nord Africa; Taver-nese per quanto riguarda la valutazione delle politiche di sviluppo poste in es-sere dalle Regioni del Sud. In riferimento a tali considerazioni, i curatori hanno cercato di effettuare alcunecoerenti integrazioni al testo in sede di revisione del Rapporto.Ovviamente i diversi temi distribuiti nei capitoli del Rapporto hanno costituito al-trettanti spunti colti dagli intervenuti per esporre punti di vista connessi a loro di-rette esperienze – politiche, scientifiche, manageriali – così come connessi alleposizioni delle organizzazioni e istituzioni rispettivamente rappresentate. Il tema che, nell’intervento di Archibugi, è stato indicato come fondamentale perqualsiasi approccio alla problematica meridionalistica, ovvero il ritardo dell’indu-strializzazione, è riecheggiato in molti altri contributi. Gli interlocutori presenti inrappresentanza dei maggiori sindacati nazionali, in particolare, hanno espressopreoccupazione per la rilevante dimensione della disoccupazione nel Sud e perl’inadeguato supporto alla crescita di un nuovo apparato produttivo tale da col-

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mare, almeno in parte, i vuoti generati nella struttura di attività manifatturiere e dibase dai gravissimi fenomeni di de-industrializzazione degli ultimi decenni. Instretta connessione all’esigenza di azioni per la ripresa produttiva si colloca il dis-corso delle carenze infrastrutturali. Tavernese ha posto l’accento sul divario trapolitiche prospettate e concrete capacità attuative. Garufi ha sottolineato come lacrisi abbia colpito particolarmente l’apparato industriale meridionale, anche nelsettore agro-alimentare; e non intravede adeguato impegno nazionale, specie perquanto riguarda il lavoro per i giovani. Pirastu ha auspicato interventi in infra-strutture materiali e immateriali e ha colto nel “patto di stabilità” un oggettivoostacolo. Pugliese ha richiamato l’esigenza di valorizzare le positività che il Sudpur presenta; qualità del territorio e beni culturali sono aspetti del rilancio dellacompetitività meridionale.Altro tema presente in numerosi contributi al dibattito è stato quello dell’utilizzodi risorse provenienti dall’Unione Europea e dai Fas, ma congiunto all’esigenzadi una visione nazionale della problematica meridionale. Per Conti l’utilizzazionedi tali fondi da parte di enti locali meridionali appare insoddisfacente. Ciò è vero,ma solo in parte, ha argomentato Santarsiero, il quale ha posto l’accento sull’ina-deguatezza dell’azione di governo per il Sud: vanno rilanciati gli enti locali e re-stituita centralità alla questione meridionale, perché il problema è in Italia, nonnel Sud. Nell’anno 2011, anniversario dell’Unità, troppo poco – è il giudizio diBassolino – si discute su queste tematiche: occorre avviare una nuova fase di ri-flessione e proposta; del Rapporto apprezza le analisi circa la “società senza co-munità”; osserva però che senza una solida struttura economica s’indebolisconole fondamenta di una comunità. Per Campione il tema del federalismo obbliga asuperare fittizie divisioni di poteri locali e tornare a politiche unitarie. Da più in-terventi, peraltro, sono emerse perplessità circa rispetto all’impatto che gli indi-rizzi circa la fiscalità federale possono determinare nelle regioni meridionali.Sommella ha argomentato che è in atto un processo di ulteriore perifericizzazionedel Mezzogiorno, che va combattuto con più decise politiche nazionali. Grandiha richiamato l’attenzione sul Rapporto elaborato dal Dipartimento per lo Svi-luppo e la Coesione Economica del Ministero dello Sviluppo Economico, cosìcome sui contenuti del V Rapporto sulla Coesione Economica, Sociale e Territo-riale della Commissione Europea. Bianchi ha posto l’accento sulla questione urbana quale aspetto oggi particolar-mente rilevante della inadeguata crescita delle regioni meridionali: un forte ma-lessere si concentra nelle aree metropolitane meridionali, dove la qualità di vitaappare del tutto insoddisfacente rispetto alle città del Nord. Una via di risoluzionedella questione urbana del Sud è da individuarsi, secondo D’Alessandro, nellapatrimonializzazione e valorizzazione dei beni culturali presenti nelle maggioricittà meridionali. Il rafforzamento delle strutture logistiche del Mezzogiorno – haosservato Rossi – è importante per le città meridionali, specie a fronte della com-

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petizione con quelle della sponda nordafricana del Mediterraneo, che hanno avutoforti sussidi dall’Europa. Secondo Bianco il dualismo che permane tra Nord e Sud non deve creare divi-sioni, ma competitività; il Sud ha specificità importanti (ad esempio lo shipping,come riferito nel Rapporto), che è fondamentale valorizzare. L’investimento nelfattore umano presuppone sforzi nel settore scientifico, culturale, scolastico.Tema, questo, come in particolare quello della ricerca, che è stato oggetto d’atten-zione anche da parte di altri interlocutori. Alla cultura che migliori strategie azien-dali, aprendole all’innovazione e all’internazionalizzazione, ha accennato Can-nari. Cannata ha posto l’accento su ricerca e trasferimento nelle nuove tecnolo-gie. Bianchi ha affermato che la questione della ricerca e della formazione è cen-trale nella società moderna; al riguardo si lamenta una inadeguatezza di finanzia-menti; c’è il rischio di rimanere lontani dal mondo sviluppato; bisogna insisteresull’obiettivo di mettere in rete le università del Sud, ragionando su prospettive dilungo periodo. Temi ripresi da Pesaresi, che ha richiamato l’attenzione su pecu-liarità del Sud nel settore dell’alta formazione. Alla risorsa turismo quale opzione strategica hanno fatto cenno, in particolare, Peco-raro Scanio, Perri e Cannata. Le azioni per favorirne lo sviluppo nel Sud appaionodeboli; inadeguati i progetti di cooperazione interregionale nel settore. Si salda forte-mente a ogni discorso sul turismo quello riguardante la salvaguardia dell’ambiente: èfacile affermare che il Mezzogiorno offre attrattive paesistiche e monumentalistraordinarie, ma sussistono problemi di salvaguardia e gestione di beni culturali edei numerosi parchi su cui operano competenze nazionali e regionali, così come ditutela del paesaggio a fronte di comportamenti omissivi di poteri locali.

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Indice delle figure

IL RAPPORTO

Fig. 1 Tasso di crescita decennale del PIL a prezzi costanti 1995 per ripartizione geografica 19

Fig. 2 Evoluzione del settore industriale nei primi decenni post-unitari (% di popolazione 26addetta nel settore)

Fig. 3 L’industria manifatturiera nel Mezzogiorno prima e dopo l’intervento straordinario 33

Fig. 4 L’industria manifatturiera nel Mezzogiorno negli anni della de-industrializzazione 36

Fig. 5 Numero di banche in Italia e nel Mezzogiorno (1996-2010) 42

Fig. 6 Dinamica degli sportelli bancari in Italia e nel Mezzogiorno 43

Fig. 7 Evoluzione occupazionale comparata del settore ASP (1995-2009) 48

Fig. 8 Composizione occupazionale comparata del settore ASP (2009) 49

Fig. 9 Evoluzione comparata dei livelli di produttività (valore aggiunto per addetto) 50

Fig. 10 Composizione comparata delle aziende agricole per classi di SAU (2007) 51

Fig. 11 Incidenza economica (% sul valore aggiunto) e occupazionale (% di unità di lavoro) 53del settore alimentare sull’insieme dei settori manifatturieri (2007)

Fig. 12 Beni immobili confiscati al 30 giugno 2009 85

Fig. 13 Aziende confiscate al 30 giugno 2009 (escluse le aziende uscite dalla gestione) 85

Fig. 14 Composizione della spesa per la ricerca in Italia (2008) 98

Fig. 15 Evoluzione comparata degli addetti nel settore privato della R&S (2000-2008) 99

Fig. 16 Andamento delle esportazioni. Quota % del Mezzogiorno sul totale italiano 101

Fig. 17 Esportazioni del Mezzogiorno per destinazione geografica 102

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una posizione di tutto rilievo in Europa, prece-dendo nel 2008 le confinanti Francia e Spagna.Dal Rapporto Statistico del Gestore dei ServiziEnergetici è emerso come nel periodo dall’anno1999 all’anno 2009 la crescita degli impiantialimentati con le biomasse abbia fatto registrareuna crescita sostenuta (+14,8% all’anno). Al 31dicembre del 2009 il 62% degli impianti a bio-masse, considerando la quota totale di potenzainstallata, era alimentato con rifiuti solidi urbanie con biomasse solide. A livello geografico treregioni in Italia si dividono oltre il 50% dellapotenza italiana complessiva e sono la Lombar-dia, l’Emilia-Romagna e la Campania.La sfida che coinvolge il Mezzogiorno passa perla creazione di condizioni per costruire una se-conda fase dello sviluppo delle fonti rinnovabilinel territorio. La prima fase, sostenuta soprattut-to dagli incentivi prelevati in bolletta piuttostoche attraverso i fondi europei, è servita a verifi-care l’affidabilità delle tecnologie, a creare nuo-ve imprese, costruire una filiera e a spingere laricerca; la seconda, più ambiziosa, dovrebberaggiungere gli obiettivi europei di sviluppo al

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2020 per poi continuare in una direzione di pro-gressiva innovazione energetica e di progressivoabbandono delle fonti fossili.Tuttavia, la politica delle fonti rinnovabili ri-schia di subire un brusco arresto per lo scontrotra due visioni contrapposte: quella che consi-dera le fonti alternative marginali nello scena-rio energetico, costose e comunque non suffi-cienti a coprire i fabbisogni energetici nazio-nali, e quella, opposta, che crede in queste tec-nologie ritenendole in grado di realizzare quo-te importanti di produzione energetica e quin-di tendere a una sostanziale autosufficienza.Le incertezze che agitano il dibattito rappre-sentano una grave remora per il Mezzogiornoche – ove si determinassero condizioni per losviluppo di un’adeguata politica d’incentiva-zione delle applicazioni tecnologiche rivolteall’incremento della produttività degli impian-ti di produzione alternativa – potrebbe giovar-si di investimenti in campo energetico in gra-do di favorire una nuova politica di sviluppo,incentrata sulla crescita di una moderna im-prenditorialità in un’ottica euromediterranea.

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«Scenari italiani»: i Rapporti annuali della Società Geografica Italiana

2003 L’altrove tra noi. Dati, analisi e valutazioni sul fenomeno migratorio in Italia

2004 Trasporti in Italia: oggi e domani. Dati, analisi e valutazioni su qualità e quantità dell’attrezzatura del territorio italiano [esaurito]

2005 L’Italia nel Mediterraneo. Gli spazi della collaborazione e dello sviluppo [esaurito]

2006 Europa. Un territorio per l’Unione

2007 Turismo e territorio. L’Italia in competizione

2008 L’Italia delle città. Tra malessere e trasfigurazione

2009 I paesaggi italiani. Fra nostalgia e trasformazione

2010 Il Nord, i Nord. Geopolitica della questione settentrionale

2011 Il Sud, i Sud. Geoeconomia e geopolitica della questione meridionale

Il Rapporto 2012 riguarderà Gli spazi dell’agricoltura

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finito di stampare nel 2011 - brigati tiziana - genova-pontedecimo

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