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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO-BICOCCA FACOLTA’ DI PSICOLOGIA Corso di laurea in Psicologia RAPPRESENTAZIONE MENTALE DI NOMI E VERBI: UNO STUDIO NEUROPSICOLOGICO SU PAZIENTI AFASICI. Relatore: chiar.mo prof. Claudio Luzzatti Crepaldi Davide matr. N° 598565 A.A. 2002-2003

RAPPRESENTAZIONE MENTALE DI NOMI E VERBI: … · Warrington, 1985): la dissociazione tra nomi e verbi in afasia. Esso consiste in Esso consiste in prestazioni differenti con le due

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO-BICOCCA

FACOLTA’ DI PSICOLOGIACorso di laurea in Psicologia

RAPPRESENTAZIONE MENTALE DI NOMI E

VERBI: UNO STUDIO NEUROPSICOLOGICO

SU PAZIENTI AFASICI.

Relatore: chiar.mo prof. Claudio Luzzatti

Crepaldi Davidematr. N° 598565

A.A. 2002-2003

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“…ogni vita, la si riceve da qualcun altro,strumento nelle mani di Dio, datore di ogni

bene.”

Enzo Bianchi

“La strada è sempre meglio della locanda.”

Miguel de Cervantes

“L’avvicinamento più grande alla realtà, allacomprensione, si fa non nella luce meridiana

delle definizioni, ma nel buio crepuscolaredell’indefinizione, nel tenue, ma percepibile

sconforto che lo accompagna e nella tolleranzadi non lasciarsene sopraffare.”

Leonardo Ancona

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INDICE

RIASSUNTO 7ABSTRACT 8INTRODUZIONE 9

PARTE I1. CONCETTI INTRODUTTIVI 15

1. NOMI E VERBI IN LINGUISTICA 15

1. LE CATEGORIE LESSICALI 161.1 Le “classi” di parole 161.2 Criteri di definizione 161.3 Quante e quali? 191.4 Nomi e verbi 212. SOTTOCLASSI DI NOMI E VERBI 222.1 Nomi “naturali” e nomi “artificiali” 232.2 Verbi transitivi e verbi intransitivi 242.3 Verbi inergativi e verbi inaccusativi 253. DIFFERENZE LINGUISTICHE TRA NOMI E VERBI 353.1 I tratti binari 353.2 Tratti comuni e tratti specifici 383.3 Il tratto [relazione] 394. ALTRE DIFFERENZE TRA NOMI E VERBI 414.1 Il caso grammaticale 424.2 Il movimento sintattico 44

2. CONCETTI LINGUISTICI O COSTRUTTI DELLA MENTE? 49

3. L’AFASIA 521. AFASIA E SINDROMI AFASICHE 521.1 Afasie non-fluenti 54

1.1.1 Afasia di Broca 541.1.2 Afasia globale 551.1.3 Afasia transcorticale motoria 561.1.4 Afasia doppia transcorticale 57

1.2 Afasie fluenti 57

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1.2.1 Afasia di Wernicke 581.2.2 Afasia di conduzione 581.2.3 Afasia amnestica 591.2.4 Afasia transcorticale sensoriale 60

2. PATOLOGIA E NORMALITÀ 61

2. LA LETTERATURA SULLA DISSOCIAZIONE NOMI-VERBI 66

1. GLI STUDI SU PAZIENTI AFASICI 681.1 L’associazione tra dissociazione nomi-verbi e tipo di afasia 681.2 Le variabili lessicali 711.3 Il locus funzionale del deficit 74

1.3.1 Deficit sintattico 751.3.2 Deficit morfologico 791.3.3 Deficit semantico 801.3.4 Deficit lessicale 891.3.5 Deficit fonologico 95

1.4 Conclusione 96

2. GLI STUDI DI LOCALIZZAZIONE ANATOMICA 96

PARTE II3. ANALISI QUALITATIVA E QUANTITATIVA DELLE RISPOSTE AD UNTEST DI DENOMINAZIONE DA PARTE DI 58 PAZIENTI AFASICI 102

1. L’ANALISI QUALITATIVA 102

1. INTRODUZIONE 1032. ANALISI QUALITATIVA DEI PROTOCOLLI 1082.1 Materiali e metodi 1102.2 Risultati 117

2.2.1 Asimmetrie tra dissociati-meglio-nomi e dissociati-meglio-verbi 1172.2.2 Analisi per tipo di afasia: dissociati-meglio-nomi 1192.2.3 Analisi per tipo di afasia: dissociati-meglio-verbi 128

2.3 Discussione 1292.3.1 Dissociati-meglio-nomi e dissociati-meglio-verbi 1292.3.2 Dissociazione-meglio-nomi e tipo di afasia 1352.3.3 Dissociazione-meglio-verbi e tipo di afasia 138

2.4 Profili di singoli soggetti 1392.4.1 Due profili contrapposti 1402.4.2 Tipo di dissociazione/afasia e profili qualitativi 141

2.5 Conclusioni 143

2. VERIFICA DELLE IPOTESI DI BIRD ET AL. (2000) 147

1. MATERIALI E METODI 1502. RISULTATI 150

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3. DISCUSSIONE 1514. CONCLUSIONE 154

4. STUDIO SULLA DISSOCIAZIONE NOMI-VERBI IN UN GRUPPO DIPAZIENTI AFASICI ATTRAVERSO UN TEST DI RECUPERO LESSICALEIN UN COMPITO DI COMPLETAMENTO DI FRASI (RNV-CF) 156

1. MATERIALI E METODI: IL TEST DI RECUPERO LESSICALE DI NOMI E VERBI IN

UN COMPITO DI COMPLETAMENTO DI FRASI (RNV-CF) 1601.1 Il materiale 1611.2 La somministrazione 1621.3 La randomizzazione 1631.4 Le variabili semantico-lessicali 1641.5 I sottogruppi di item 1661.6 Pregi e difetti 1672. MATERIALI E METODI: UNA NUOVA BATTERIA DI DENOMINAZIONE 1682.1 Quale test di denominazione usare? 1692.2 La costruzione della nuova batteria 170

2.2.1 La base di partenza 1702.2.2 Lo studio pilota 1712.2.3 La selezione degli item 1752.2.4 Il bilanciamento dei singoli sottogruppi verbali 181

2.3 Riassunto delle caratteristiche della nuova batteria di denominazione 1833. MATERIALI E METODI: SOGGETTI E SOMMINISTRAZIONE DEI TEST 1843.1 Soggetti 1843.2 Materiale e somministrazione del compito 1854. RISULTATI 1874.1 Il test di denominazione su figura 1874.2 Il test RNV-CF 1914.3 Denominazione e RNV-CF a confronto 1925. DISCUSSIONE 1986. CONCLUSIONI

209

5. DISCUSSIONE GENERALE 211

6. APPENDICE 216

BIBLIOGRAFIA 237

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RIASSUNTO

Gli studi neuropsicologici su pazienti afasici hanno fornito dati importanti

per la comprensione della struttura dell’apparato linguistico mentale: in

particolare, la scoperta della possibile dissociazione tra le capacità di recupero

lessicale di nomi e verbi nei pazienti afasici ha aperto un interessante dibattito

sulla rappresentazione mentale di queste due classi lessicali..

Alcuni autori sostengono, infatti, che le categorie di nome e verbo non siano

rappresentate a livello mentale, ma riflettano differenze di tipo semantico; altri,

invece, ritengono che l’informazione relativa a queste classi lessicali sia davvero

rappresentata nel sistema linguistico mentale, secondo alcuni a livello sintattico,

secondo altri a livello morofologico piuttosto che lessicale o fonologico.

Lo scopo di questo lavoro è di fornire un contributo sperimentale al dibattito

in corso, dopo aver considerato gli elementi che la letteratura neuropsicologica

offre e dopo aver riflettuto sulle basi linguistiche della distinzione nomi-verbi.

Questo contributo sperimentale è stato ottenuto attraverso una rianalisi, di

tipo qualitativo e quantitativo, di alcuni dati già presenti e discussi in letteratura

e attraverso la somministrazione ad un gruppo di pazienti afasici di due nuovi

test di recupero lessicale da noi costruiti.

I risultati ottenuti sembrano indicare che il deficit all’origine della

dissociazione è da collocarsi a livello lessicale piuttosto che semantico o

sintattico e che tale deficit non è sempre uguale nei diversi pazienti dissociati,

potendo collocarsi sia ad un livello lessicale-sintattico (il livello del lemma) sia

ad un livello più periferico, lessicale-fonologico (il livello del lessema).

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ABSTRACT

Neuropsychological studies provided important evidences regarding the

organization of lexical representations and the underlying conceptual structure.

For instance, it has been shown that aphasic patients may undergo a lexical

damage that is specific for grammatical classes, like nouns and verbs.

The interpretation of this phenomenon is not obvious: many authors have

proposed different accounts, each of which refers to a specific level of language

analysis (semantic, syntactic, lexical or phonological level).

The aim of the present study is to provide an experimental contribution to

the debate upon the functional locus of the deficit causing noun-verb

dissociation, by testing a group of aphasic patients for lexical retrieval. We will

also supply an overview of linguistic and theoretical basis of the distinction

between nouns and verbs and explore the neuropsychological literature upon

noun-verb dissociation and its interpretation.

Our results indicate that the noun-verb dissociation is a consequence of a

lexical impairment that can occur either at the lemma level (i.e. a level at which

lexical-syntactic information like theta-roles or argument structure are stored) or

at the lexeme level (i.e. a more peripheral stage involved in storing the words’

phonological structure).

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INTRODUZIONE

Il lessico mentale è uno degli argomenti che sono stati maggiormente

dibattuti negli ultimi anni di ricerca neurolinguistica.

Molti autori hanno indagato la struttura di questo costrutto, peraltro non

nuovo nella storia della psicologia: che dovesse esistere da qualche parte nella

mente un “magazzino” che contenesse le “immagini delle parole” era già chiaro

e comunemente accettato dagli studiosi della seconda metà dell’ottocento

(Wernicke, 1874; Lichtheim, 1885; Freud, 1891).

Non si può, però, certo dire che ai tempi di Broca, Wernicke e Lichtheim, si

parlasse di un lessico mentale come lo intendiamo noi oggi; le immagini delle

parole, infatti, altro non erano che engrammi motori o pattern uditivi, legati in

modo stretto ad un contesto associazionistico senso-motorio.

Soltanto con l’avvento della linguistica moderna si è cominciato a parlare di

un livello lessicale del linguaggio, intendendo con esso un livello intermedio tra

quello concettuale-semantico e quello fonologico-articolatorio; in questo senso,

le parole sono considerate puri simboli (significanti, secondo la terminologia

semiotica), etichette che acquisiscono senso e utilità solo in quanto riconosciute

dai parlanti come associate a determinati concetti.

Interpretato in questo modo, il lessico è diventato negli ultimi decenni un

riferimento costante per l’interpretazione clinica dei sintomi delle sindromi

afasiche e un argomento di ricerca estremamente dibattuto in psicologia

cognitiva e neuropsicologia.

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In particolare, ci si è riferiti al lessico mentale per interpretare un

fenomeno clinico di grande interesse, emerso circa vent’anni fa (Baxter,

Warrington, 1985): la dissociazione tra nomi e verbi in afasia. Esso consiste in

prestazioni differenti con le due classi lessicali ottenute in compiti linguistici che

coinvolgono nomi e verbi, come la denominazione di figure, il completamento

di frasi, il compito di fluenza, l’associazione di parole a figure.

Le evidenze a favore dell’esistenza di questo fenomeno sono ormai molto

forti: si è visto, certo, che molte delle dissociazioni riportate nel passato in

letteratura sono dovute al mancato bilanciamento delle principali variabili

lessicali (immaginabilità e frequenza d’uso, ad esempio), ma si è anche

dimostrato come altri casi siano, invece, interpretabili solo come dei veri effetti

di classe grammaticale.

Tutti i ricercatori sono, quindi, d’accordo sul fatto che esista il fenomeno

della dissociazione nomi-verbi; molto meno accordo c’è, però, sul modo di

spiegarlo.

Alcuni, infatti, ritengono che la classe grammaticale non sia rappresentata a

livello lessicale e che il fenomeno sia da spiegare in termini di rappresentazioni

semantiche; altri ritengono, invece, che la dissociazione sia genuinamente

lessicale e che, quindi, sia necessario studiare il modo in cui la categoria

grammaticale è rappresentata nel lessico; altri ancora fanno risalire la

dissociazione-meglio-nomi a problemi di natura sintattica che impediscono agli

afasici di processare in modo corretto i verbi, più complessi dei nomi morfo-

sintatticamente.

Come si può vedere, il panorama è molto variegato e le ipotesi interpretative

sono molte e di natura piuttosto differente tra loro.

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Noi indagheremo il fenomeno della dissociazione attraverso la

riconsiderazione dei risultati ottenuti da Luzzatti et al. nel loro lavoro del 2002 e

attraverso la somministrazione ad un campione di pazienti afasici di un compito

di recupero lessicale e di un nuovo compito di denominazione di figure da noi

costruito; prima di affrontare la parte sperimentale, però, riassumeremo le

principali basi teoriche e storiche del problema.

La tesi sarà, quindi, organizzata in due parti: una introduttiva in cui

affronteremo, come detto, gli aspetti teorici (capitolo 1) e storici (capitolo 2)

della questione della dissociazione nomi-verbi e una sperimentale in cui, invece,

parleremo del nostro lavoro con i pazienti (capitoli 3 e 4) e trarremo le

conclusioni dai dati che sono emersi (capitolo 5).

Prima di cominciare, però, desidero ringraziare i miei “compagni di

viaggio”, coloro che in questi due anni mi sono stati vicini con entusiasmo,

pazienza, discrezione, interesse, disponibilità… in un parola, con amore.

Ringrazio Silvia perché la serenità che mi hanno dato due braccia sempre

pronte a stringermi e darmi coraggio è stata fondamentale e perché la sua voce

sa ricordarmi di tornare bambino e recuperare la semplicità e la gioia che a volte

perdo.

Ringrazio il papà e la mamma perché è molto più facile studiare quando c’è

qualcuno che ti prepara la cena, ti rifà il letto e và a fare la spesa anche per te:

spero di diventare capace come voi di servire gli altri con gratuità in tutto, nelle

grandi e nelle piccole cose.

Ringrazio Luca perché mi riempie ogni giorno il cuore di gioia con la sua

spensieratezza e la sua energia.

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Ringrazio Laura, don Marco, Marco e Paolo perché se oggi riesco a donare

un po’ di amore agli altri è solo perché essi me ne hanno dato una quantità

enorme in tanti anni di vita insieme.

Ringrazio gli amici che hanno camminato con me verso Santiago,

insegnandomi che c’è una gioia grandissima nella condivisione della fatica e nel

dono gratuito.

Ringrazio tutti i miei amici, la Compagnia Filodrammatica “Entrata di

Sicurezza” e tutti coloro che ho conosciuto in questi anni di studi perché hanno

rinnovato continuamente in me la gioia e lo stupore dell’amicizia.

Ringrazio tutti coloro con cui ho condiviso l’esperienza educativa in oratorio

e i ragazzi cui ho tentato di dare qualcosa di me: quasi tutte le mie convinzioni,

idee e passioni sono nate educando.

Si dice che un regalo inaspettato valga doppio: forse non è così, ma

sicuramente la gioia che esso dà è grandissima. In questi due anni ho conosciuto

persone che avrebbero potuto non donarmi nulla…ed invece mi hanno travolto

di generosità!

Ringrazio Lorenzo Montali, Chiara Ripamonti, Emanuela Bricolo, Roberta

Daini, Michele Burigo, Alberto Gallace, Lola De Hevia e gli altri ricercatori del

Dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca che hanno creato

intorno a me un bellissimo clima di accoglienza, ideale per lavorare bene.

Ringrazio le logopediste che mi hanno aiutato a raccogliere i dati sui

pazienti afasici: in particolare, Mariarosa Colombo per la sua capacità di

impegnarsi per gli altri, Graziella Ghirardi per la tenerezza con cui accompagna

i pazienti e Giusy Zonca per la sua travolgente allegria.

Ringrazio Silvia Aggujaro per la spontaneità che ha reso il nostro lavoro

insieme più divertente, oltre che molto costruttivo.

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Ringrazio Gennaro Chierchia per la paterna pazienza e disponibilità che mi

ha mostrato in questi due anni: la semplicità con cui sa donare le sue conoscenze

agli altri è davvero uno straordinario e preziosissimo dono.

Ringrazio Saskia Arduino per l’enorme aiuto che mi ha dato nei primi passi

del mio cammino, notoriamente i più difficili: il suo appoggio e la sua

competenza sono davvero stati fondamentali per questa tesi.

Infine, ringrazio Claudio Luzzatti perché non si è limitato ad assistere il mio

lavoro, ma ha voluto costruirlo insieme a me. E’ stato sempre presente quando

avevo bisogno di lui e mi ha continuamente donato il suo entusiasmo, la sua

partecipazione e la sua disponibilità: in questo contesto imparare tanto è stato

non solo molto facile, ma piacevole e divertente.

Mi sono dilungato nei ringraziamenti volutamente, perché sono convinto che

un uomo nella sua vita possa fare ben poco da solo, ma sia capace di cose

incredibili se riconosce l’amore che gli altri quotidianamente gli danno.

Quali grandi doni ho ricevuto! Questa tesi non è altro che il frutto di questi

doni, che mi hanno davvero riempito di gioia e che spero di aver custodito e

fatto maturare in modo adeguato.

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PARTE I

Come già anticipato, ci occuperemo in questa prima parte della tesi degli

aspetti teorici e storici del problema della dissociazione nomi-verbi.

In particolare, nel primo capitolo introdurremo i concetti teorici di nome e

verbo da un punto di vista linguistico; inoltre, descriveremo le principali

sindromi afasiche e discuteremo del problema metodologico dell’indagine sulla

struttura della mente condotta con esperimenti su pazienti cerebrolesi.

Nel secondo capitolo, invece, ci soffermeremo più specificamente sul

fenomeno della dissociazione nomi-verbi, analizzando il contributo della

ricchissima letteratura neuropsicologica e neurocognitiva sull’argomento.

Parte I

Capitolo 1 CONCETTI INTRODUTTIVI

Capitolo 2 LA LETTERATURA SULLADISSOCIAZIONE NOMI-VERBI

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CONCETTI INTRODUTTIVI

1. Nomi e verbi in linguistica

Questa tesi si occupa dell’organizzazione mentale dei nomi e dei verbi; i

concetti di nome e di verbo verranno dunque considerati come costrutti mentali.

Storicamente, però, essi non sono nati in ambito psicologico, ma sono stati

“presi in prestito” dalla linguistica, scienza con cui la psicologia ha iniziato da

qualche decennio ad intrattenere rapporti sempre più stretti.

Mi sembra quindi necessario, prima di occuparci dei costrutti mentali nome

e verbo, osservare e conoscere i corrispettivi costrutti linguistici, da cui

storicamente derivano.

Ci porremo, perciò, qualche domanda su come queste categorie lessicali

siano emerse nella ricerca linguistica, su quali siano i dati che giustificano la

loro distinzione, su quali rapporti intrattengano da un punto di vista puramente

linguistico e su quale sia il loro status semantico.

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1. Le categorie lessicali

1.1 Le “classi” di parole

Le parole si “comportano” tutte allo stesso modo? Vanno tutte incontro agli

stessi fenomeni? Detto in altri termini, sono tutte dello “stesso tipo”?

La risposta è evidentemente no: ci sono delle parole che indicano azioni

(camminare), altre che indicano oggetti (sedia) e altre che sembrano non

indicare né azioni né oggetti (senza); ancora, ci sono parole che possono stare in

certe posizioni e altre no, ci sono parole che indicano relazioni e altre non

relazionali.

Le parole non sono quindi tutte uguali: ma allora, è possibile raggruppare le

parole in classi? E’ possibile costruire un modello con queste classi? Le classi

sono disgiunte e complementari tra loro? Corrispondono a quelle che ci hanno

insegnato a scuola?

Inoltre, queste categorie funzionali sono costrutti prettamente linguistici o

sono anche categorie della mente?

Per rispondere a queste domande dobbiamo provare a costruire queste

categorie e vedere che cosa succede.

1.2 Criteri di definizione

Un primo tentativo di costruire queste “classi” potrebbe essere fatto

cercando delle caratteristiche necessarie e sufficienti che definiscano ciascuna

delle ipotetiche categorie.

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Percorrendo questa strada si scopre, innanzitutto, che non è possibile trovare

un criterio inerente1 che, da solo, renda conto della distinzione tra due classi

(nome e verbo, ad esempio) disgiunte tra loro2.

Per chiarire meglio, uso un esempio: è conoscenza comune (utilizzata in

maniera proficua anche nell’insegnamento delle basi della grammatica ai

bambini) che i nomi indichino oggetti e i verbi, invece, azioni.

Questo è sicuramente vero, in generale3; non possiamo, però, usare questo

criterio, da solo, per determinare univocamente se una parola sia un nome o un

verbo; infatti, non riusciremmo a spiegare perché “gioia” sia un nome o perché

“temere” sia un verbo.

Allora potremmo usare, invece di un solo criterio, alcuni criteri in modo

congiunto.

In questo modo, è possibile definire meglio le classi lessicali, ma non

descrivere perfettamente le nostre intuizioni di parlanti.

Ad esempio, un verbo potrebbe essere una parola che indica un’azione

oppure una parola astratta e relazionale: secondo questo criterio, “temere”

sarebbe ben classificato, ma non “soffrire” (che non indica un’azione vera e

propria, è astratto, ma non relazionale) o “relazione” (che non indica un’azione,

è astratto, è relazionale, ma non è un verbo!).

Negli esempi fatti finora, abbiamo considerato soltanto criteri semantici e

abbiamo visto che non è possibile definire le classi lessicali che intuitivamente

1 un criterio inerente è un criterio fondato su proprietà della parola che non si riferiscono

alla struttura della frase; sono proprietà di questo tipo tutte le proprietà “semantiche” (come, adesempio, denotare un’entità concreta o astratta) e alcune proprietà “morfo-sintattiche” (come laconiugazione del verbo o l’essere regolare o meno).

2 questa mi sembra essere l’intuizione dei parlanti: non esistono parole che sianocontemporaneamente nome e verbo e, quindi, le due classi sono disgiunte.

3 ed è probabilmente stato così anche nell’evoluzione del linguaggio umano.

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ciascun parlante conosce con un insieme definito di caratteristiche necessarie e

sufficienti.

Provando ad usare criteri di altro tipo, scopriamo, però, che esistono delle

prove molto affidabili per decidere l’appartenenza di una parola ad una certa

classe (almeno per i nomi, i verbi, le preposizioni e gli aggettivi); questi criteri

sono così potenti che quasi possono essere considerati necessari e sufficienti.

Essi non sono, però, semantici, ma distribuzionali4.

Ad esempio, in italiano, un verbo può precedere direttamente un nome

proprio all’interno di un sintagma5, mentre un nome non può farlo, ma ha

bisogno di una preposizione interposta:

(1) Mario tradisce Maria

(2) *Il tradimento Maria da parte di Mario

(3) Il tradimento di Maria da parte di Mario

Esistono, poi, caratteristiche sub-lessicali che possono differenziare parole di

classi diverse: ad esempio, solo certe parole (gli aggettivi) possono essere

modificate con il suffisso -issimo/a/i/e. Anche questi criteri sono molto

affidabili.

4 “distribuzionale” è il contrario di “inerente”; un criterio distribuzionale, infatti, si riferisceal comportamento della parola nella frase (ad esempio, il fatto che un verbo sia transitivo ointransitivo oppure il fatto che possa essere preceduto o seguito da certi elementi e non da altri).

Si potrebbe notare che “distribuzionale” equivale a “sintattico”: questo è in parte vero, mapreferisco conservare la dizione “distribuzionale” per indicare che questi criteri sono “ingenui”,ateorici; ciascuno di noi, infatti, ne ha una familiarità tale che è in grado di capirli e usarli confacilità anche senza avere mai studiato sintassi.

5 quest’ultima specificazione è importante. Infatti è possibile dire: “Sotto il sole Mariasuda”. In questa frase, il nome sole precede direttamente il nome Maria: i due nomi, però,appartengono a due sintagmi diversi. Se così non fosse, la frase sarebbe non-grammaticale.

Il concetto di sintagma è uno dei più importanti nella linguistica moderna; lo definiremo estudieremo più avanti (pagina 27). Per ora sia sufficiente dire che il sintagma è l’entitàlinguistica sopralessicale più piccola, è fortemente strutturato al suo interno ed ha una strutturacostante, indipendente dalla “categoria” di appartenenza del sintagma stesso.

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Riassumendo, non è possibile dividere le parole in classi lessicali disgiunte e

complementari sulla base di criteri puramente semantici (o comunque, inerenti).

E’ possibile, invece, individuare delle caratteristiche di tipo morfologico e

distribuzionale che sono proprie di certi gruppi di parole e non di altri; sulla base

di questi criteri, e di quelli inerenti citati sopra, diventa relativamente facile per

un linguista (e per tutti i parlanti nativi di una lingua) distinguere parole di

diverse classi lessicali.

Ogni classe di parole potrebbe, quindi, essere descritta come un insieme di

caratteristiche di diverso tipo (semantiche, morfologiche, distribuzionali),

ciascuna con un diverso livello di “affidabilità”, dove per “affidabilità” si

intende il grado di condivisione di quella caratteristica da parte delle parole che

fanno parte di quella categoria: ad esempio, il tratto “essere potenzialmente

preceduto da un determinante” è condiviso da tutti i nomi, mentre il tratto

“indicare un oggetto” è proprio della maggioranza dei nomi, ma non di tutti.

Come si vede, quindi, le categorie lessicali non sono descrivibili tramite un

numero definito di tratti necessari e sufficienti, ma tramite delle caratteristiche,

alcune molto “tipiche” o molto “affidabili” (quasi a raggiungere lo status di

necessità-sufficienza), altre meno “tipiche”, perché non condivise da tutti i

componenti della classe.

1.3 Quante e quali?

Abbiamo visto quali caratteristiche necessariamente hanno le classi in cui

potremmo raggruppare le parole che hanno un comportamento simile tra loro.

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Questo è tutto quello che possiamo fare semplicemente osservando il

linguaggio così come si presenta a noi ogni giorno.

Infatti, se volessimo stabilire quante classi lessicali esistono e quali sono

queste classi, avremmo bisogno di guardare il linguaggio attraverso la “lente” di

una teoria.

Mi spiego meglio: abbiamo visto che le differenze esistenti tra parole diverse

sono moltissime. Quali di queste differenze dobbiamo allora considerare per

tentare una classificazione?

A meno di non procedere a caso, non si può rispondere a questa domanda

senza farsi guidare da un’ipotesi interpretativa, per quanto rudimentale, sul

funzionamento del linguaggio.

Da questo deriva che “lenti teoriche” diverse (applicate, magari, a lingue

molto diverse tra loro) possono lasciare vedere un numero diverso di classi

lessicali o tipi diversi di classi lessicali.

Ma allora, il sistema di classificazione della linguistica moderna non è

universale? E, forse, nemmeno l’unico possibile? E se non è l’unico possibile,

ha uno status privilegiato solo per motivi storici e culturali?

Rispondere a queste domande non è così semplice, anche per ragioni

“affettive”; vogliamo molto bene ai nostri costrutti e alle nostre convinzioni ed è

difficile chiedersi con serenità e obiettività se questi siano fondati.

Nella scienza, però, ogni teoria è solo un modo possibile di spiegare i dati:

può sempre succedere (ed in effetti è capitato spesso) che emergano modi

alternativi di organizzare teoricamente le conoscenze e che questi risultino più

efficaci di quelli che eravamo abituati ad usare.

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1.4 Nomi e verbi

Detto questo, pare che almeno alcune categorie lessicali non siano solo

frutto dell’uso di una particolare teoria.

La lingua è un mezzo di comunicazione che può servire a diversi scopi:

ordinare, chiedere, mettere in atto qualcosa (un matrimonio, ad esempio),

dichiarare uno stato di cose a proposito del mondo o di se stessi.

A tutte queste funzioni sottostà la natura primariamente predicativa del

linguaggio: attraverso il linguaggio, io posso affermare uno stato di cose,

metterlo in atto, chiedere se sussiste, ordinare che venga instaurato, ma, in tutti

questi casi, il nucleo comunicativo resta uno stato di cose, il fatto che qualcuno

sia qualcosa (Graffi, 1994).

Per questo, due elementi devono essere necessariamente presenti (anche se,

a volte, possono restare inespressi fonologicamente) in ogni frase: un entità

linguistica che serve per predicare qualcosa (di solito, il verbo) e una che serve

per specificare i protagonisti della predicazione, cioè gli argomenti (di solito, il

nome6).

Questa considerazione, unita alla presenza praticamente costante di entità

lessicali di tipo verbale e nominale nelle diverse lingue del mondo, assegna a

nomi e verbi un ruolo privilegiato nel panorama delle categorie lessicali.

Possiamo fare un’ultima, ma importante considerazione: in neuropsicologia

esistono, con frequenza non trascurabile, doppie dissociazioni tra nomi e verbi,

mentre non sono mai state rilevate dissociazioni significative tra avverbi ed

aggettivi o tra preposizioni e congiunzioni. Anche questo, evidentemente, è un

6 più correttamente, il sintagma verbale e il sintagma nominale: introdurremo questi concetti

tra poco. Vedi nota 5.

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segno del fatto che nomi e verbi non siano classi grammaticali come le altre, ma

abbiano qualcosa di “speciale”.

2. Sottoclassi di nomi e verbi

Stabilito che è possibile distinguere tra diverse categorie di parole, diventa

molto interessante indagare più a fondo la composizione interna di queste

categorie, almeno di quelle che riteniamo essere praticamente universali (nome e

verbo, appunto).

Indagare più a fondo la composizione interna significa, almeno in una fase

iniziale, chiedersi se sia possibile costruire delle sottoclassi di nomi e verbi.

La risposta è sicuramente sì: ci sono molti possibili parametri seguendo i

quali si possono costruire sottoclassi verbali e nominali.

Le sottoclassi così formate sono, molto spesso, trasversali tra loro.

Noi parleremo solo di alcune di esse, non tanto perché siano le più

importanti in assoluto, quanto perché sono quelle, cognitivamente e

neuropsicologicamente, più interessanti per i nostri fini.

Non mi occuperò ora di giustificare la nostra scelta perché le sue ragioni

emergeranno in modo evidente nei prossimi capitoli, quando parleremo della

letteratura neuropsicologica a proposito di nomi e verbi e discuteremo il nostro

esperimento.

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2.1 Nomi “naturali” e nomi “artificiali”

Una distinzione molto evidente a ciascun parlante è, ad esempio, quella che

separa nomi astratti (come gioia o speranza) da nomi concreti (come “albero” o

“sedia”).

Queste categorie molto generali possono, poi, essere divise in ulteriori sotto-

categorie: ad esempio, una distinzione interna ai nomi concreti che si trova

spesso negli studi psicologici sul lessico mentale è quella tra nomi naturali e

nomi artificiali.

I primi si riferiscono ad oggetti naturali (animali, piante, parti del corpo,

ecc.), mentre i secondi si riferiscono a quegli oggetti che sono costruiti

dall’uomo (tutti i manufatti, in sostanza).

La ragione dell’insistenza degli studiosi di lessico mentale su queste

sottocategorie è principalmente la loro rilevanza neuropsicologica: la

dissociazione tra la capacità di denominare oggetti naturali e quella di

denominare oggetti “artificiali” è stata una delle prime e più ricorrenti

dissociazioni rilevate in pazienti afasici (Warrington, McCarthy, 1983; Hart,

Berndt, Caramazza, 1985).

Negli ultimi anni, poi, sono state avanzate teorie che tentano di spiegare

queste dissociazioni (Bird et al., 2000, ad esempio), per cui la distinzione tra

nomi naturali e artificiali ha acquisito anche una discreta importanza teorica,

divenendo oggetto di dibattito tra gli studiosi (Shapiro, Caramazza, 2001; Bird,

Howard, Franklin, 2001).

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2.2 Verbi transitivi e verbi intransitivi

La classificazione dei verbi è almeno altrettanto ricca di quella dei nomi;

anzi, in virtù della maggior complessità morfologica- e forse anche sintattica-

dei verbi stessi, le sottocategorie verbali sono probabilmente più numerose e più

intricate di quelle nominali.

Alcune sono molto familiari: ad esempio, la distinzione tra verbi ausiliari e

verbi a contenuto (lessicali) oppure quella tra verbi della prima, seconda o terza

coniugazione.

Un’altra distinzione molto familiare (che useremo nel nostro studio) è quella

tra verbi transitivi e verbi intransitivi.

A scuola abbiamo tutti studiato che i verbi transitivi sono quelli che

vogliono il complemento oggetto, mentre quelli intransitivi non lo possono

reggere.

Nei termini della sintassi generativa, questa distinzione transitivi-intransitivi

va precisata meglio: i verbi transitivi, infatti, sono i verbi che possiedono

almeno due argomenti e che danno un caso grammaticale strutturale al proprio

argomento interno, mentre i verbi intransitivi sono quelli, ad uno o più

argomenti, che non danno un caso grammaticale strutturale al proprio argomento

interno.

In questa definizione ho anticipato dei concetti che sono necessari per

definire le due classi di verbi, ma che non ho ancora introdotto e spiegato: lo

farò in parte nel prossimo paragrafo, in parte nel seguito del capitolo (per il

concetto di argomento interno e di argomento esterno, vedi pagina 27; per quello

di caso grammaticale, vedi pagina 40).

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A costo di ripetermi un po’, mi sembra importante esplicitare le due

differenze principali tra questi tipi di verbi: innanzi tutto, i transitivi hanno, di

norma, più argomenti degli intransitivi, e secondariamente, i transitivi danno un

caso al loro argomento interno mentre gli intransitivi non lo fanno.

Soprattutto la prima differenza è importante perché permette di testare

alcune ipotesi neuropsicologiche: ad esempio, quella per cui gli agrammatici

manifestano maggiori difficoltà nel trattamento dei verbi transitivi, in quanto

generalmente più ricchi di argomenti e, quindi, più complessi sintatticamente

(Thompson, 2003; Thompson et al., 1995).

2.3 Verbi inergativi e verbi inaccusativi

Tra i verbi intransitivi, si rende poi necessaria un’ulteriore, importante,

distinzione.

Esistono, infatti, dei verbi monoargomentali intransitivi che hanno dei

comportamenti molto simili a quelli dei verbi transitivi: questi verbi sono

chiamati inaccusativi7.

Ad esempio, come i transitivi, ma al contrario degli altri intransitivi (che,

d’ora in poi, chiamerò inergativi), i verbi inaccusativi permettono la costruzione

di frasi contenenti l’elemento clitico “ne”:

7 il primo termine usato per designare questi verbi era “ergativo”, originariamente utilizzato

nella descrizione di lingue non-indoeuropee.L’introduzione del termine “inaccusativo” è dovuta a Perlmutter (1978); in seguito a questa

nuova denominazione, i verbi intransitivi non-ergativi sono stati chiamati “inergativi”. Oggi, glistudiosi sono piuttosto concordi nel ritenere più corretti i termini più recenti.

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(4) inaccusativo: Molti ragazzi sono scivolati -> Ne sono scivolati molti

(5) transitivo: Paolo ha mangiato molti biscotti -> Paolo ne ha mangiati molti

(6) inergativo: Molti ragazzi hanno telefonato -> *Ne hanno telefonati molti

Ancora, i verbi inaccusativi usano l’ausiliare essere, mentre gli inergativi e i

transitivi attivi vogliono l’ausiliare avere.

Infatti:

(7) inaccusativo: Mario è scivolato

(8) transitivo: Mario ha mangiato la torta

(9) inergativo: Mario ha riso

L’utilizzo dell’ausiliare essere è una caratteristica sintattica molto rilevante;

ricorda da vicino, infatti, i verbi transitivi in forma passiva, che possiedono

sempre questo ausiliare.

Un’altra importante caratteristica di verbi inaccusativi è che, nella

maggioranza dei casi, possiedono un elemento in posizione di soggetto che non

è l’agente dell’azione: l’analogia con le forme passive diventa sempre più forte.

(10) inaccusativo: Il palazzo è crollato

(11) inaccusativo: Giovanni è caduto dalle scale

(12) transitivo passivo: La torta è mangiata da Luca

E’ possibile dare una spiegazione unica e coerente a queste “stranezze”?

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Un elemento di guida importante per gli studiosi è stato l’uso dell’ausiliare

essere, considerato “spia” di un fenomeno di movimento sintattico8.

Consideriamo le tre frasi seguenti:

(13) transitivo: Luca ha divorato la cena

(14) inergativo: Luca ha dormito

(15) inaccusativo: Luca è scivolato

Nella loro forma superficiale, queste tre frasi sembrano strutturalmente

identiche, a parte, ovviamente, per l’oggetto del verbo transitivo divorare che gli

altri due verbi, monoargomentali, non possiedono.

Ma allora come spieghiamo il diverso comportamento di dormire e

scivolare?

L’ipotesi più accreditata è che il verbo dormire possieda un argomento

esterno, mentre il verbo scivolare non lo possieda.

Ma cosa significa argomento esterno?

Per rispondere a questa domanda dovrò necessariamente fare riferimento ad

una teoria della sintassi; in particolare, mi farò aiutare da quella più diffusa e

condivisa attualmente: la teoria X-barra.

Questa teoria prevede che ogni sintagma sia strutturato su tre livelli; al

livello zero (più “profondo”) si pongono solo la testa del sintagma e l’argomento

interno della testa (complemento), mentre l’argomento esterno e gli altri

8 i fenomeni di movimento sintattico prevedono degli spostamenti di interi sintagmi o

elementi lessicali nel passaggio dalla struttura profonda, dove la frase viene inizialmentecostruita nella sua forma base, dichiarativa, alla struttura superficiale della frase stessa, che è laforma in cui la frase viene pronunciata (Cook e Newson, 1996).

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elementi del sintagma (chiamati aggiunti) si situano al livello una barra

(l’argomento esterno discende direttamente da X’’, occupando la posizione di

specificatore).

Possiamo rappresentare graficamente la struttura dei sintagmi come in figura

19.

Per chiarirci ancora meglio le idee, rappresentiamo il seguente sintagma

verbale

(16) “Luca divorare la cena con grande foga”

Figura 1: il sintagma secondo la teoria X-barra.

9 accanto agli apici che indicano il livello, si usa la lettera X per indicare che questa struttura

è uguale in tutti i sintagmi. Quando si conosce la natura del sintagma, determinata dall’entratalessicale che si insedia nella posizione di testa, si sostituisce la X con l’iniziale della classegrammaticale della testa. Ad esempio, se diventa testa l’entrata lessicale “tavol-”, il sintagmadiventa nominale e allora X, X’ e X’’ verranno sostituite da N, N’ e N’’.

Similmente accade se, ad insediarsi nella posizione di testa, è un verbo o un aggettivo o unapreposizione: parleremo allora di sintagma verbale (V’’ o VP, dall’inglese verbal phrase), disintagma aggettivale (A’’ o AP, adjectival phrase) o di sintagma preposizionale (P’’ o PP,prepositional phrase).

Argomentoesterno(specificatore)

X’

X’

Aggiunto

Argomentointerno(complemento)

XTESTA DELSINTAGMA

X’’

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La testa lessicale è “divorare”, l’argomento interno è “la cena” e

l’argomento esterno “Luca” e l’aggiunto “con grande foga”.

Graficamente, il sintagma si presenta come in figura 210.

Come si può vedere, la testa è priva delle specifiche flessive di tempo e

accordo: esse le verranno date soltanto quando si insedierà in una frase. Ecco

come questo processo avviene.

Secondo la teoria X-barra, la frase stessa è un sintagma (il sintagma flessivo

o IP o I’’, dall’inglese inflectional phrase), alla cui testa si insediano

Figura 2: rappresentazione grafica del sintagma verbale (16)

10 In questo albero, ho rappresentato due sintagmi nominali e un sintagma preposizionale

come se fossero entità terminali dell’albero; in altre parole, sintagmi non svolti, cioè, ancora allivello due barre. Questo non significa che quei sintagmi non sviluppino il livello una barra e illivello zero: la loro struttura è esattamente identica a quella di tutti gli altri sintagmi.

Non ho rappresentato i due livelli più bassi solo per semplicità, dato che non sono rilevantiper la nostra discussione.

Così succederà anche nel prosieguo di questo capitolo: quando saranno presenti negli alberidei sintagmi di livello due barre come entità terminali, questo sarà dovuto a ragioni di semplicitàe non al fatto che in quei sintagmi non siano presenti i livello una barra e il livello zero.

V’’

V’

V’

V“divorare”

N’’

NArgomento

esterno“Luca”

N’’Argomento

interno“la cena”

P’’Aggiunto

“con grande foga”

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informazioni come l’accordo, il tempo o il modo del verbo, che non si

realizzano con una parola.

In questa struttura, il sintagma verbale finisce per occupare la posizione di

argomento interno della testa flessiva (figura 3).

Figura 3: rappresentazione sintagmatica della frase “Luca ha divorato la cena congrande foga”secondo la teoria X-barra11

11 la teoria X-barra, nelle sue formulazioni più recenti, divide il sintagma flessivo (IP) in due

sintagmi, il sintagma di tempo ( Tens) e il sintagma di accordo (Agr). Manterrò il termine IP (oI’’) perché più semplice e chiaro, oltre che sufficiente per i nostri scopi.Anche la struttura frasale, così come l’ho descritta qui, è semplificata rispetto alla formulazionestandard della teoria X-barra: ancora più “in alto” nella struttura sintattica, esiste un ulterioresintagma, il sintagma del complementatore (CP), di cui IP è argomento interno

Argomentoesterno di IP

I’’

I’

N’’Argomento

esterno“Luca”

V’’

V’

V’P’’

Aggiunto“con grande foga”

N’’Argomento

interno“la cena”

V“ha divorato”

Aggiuntodi IP

IAccordo,tempo, modo

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Dopodiché l’argomento esterno della testa verbale, quello che occupa la

posizione di soggetto, si sposta nella posizione di argomento esterno del

sintagma flessivo (figura 4).

La posizione canonica del soggetto nelle frasi attive è, quindi, quella indicata

in figura 4; e quelli che ho descritto sopra sono gli “eventi” attraverso i quali il

soggetto grammaticale arriva ad occupare quella posizione.

Figura 4: il movimento del NP soggetto

N’’Argomento

esterno“Luca”

I’

I’

N’’Argomento

esterno“Luca”

V’’

V’

V’ P’’Aggiunto

“con grande foga”

N’’Argomento

interno“la cena”

V“Ha divorato”

Aggiunto

IAccordo,tempo, modo

I’’

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Ecco che ora possiamo rendere più chiaro il senso dell’inaccusatività

I verbi transitivi e inergativi possiedono un vero argomento esterno, nel

senso che il loro soggetto compie il tragitto canonico che abbiamo visto sopra:

“nasce” come argomento esterno della testa verbale e poi muove ad argomento

esterno della testa flessiva.

I verbi inaccusativi, invece, non possiedono un vero argomento esterno; i

loro soggetti nascono come argomenti interni del verbo (per intenderci, nella

posizione dell’oggetto dei verbi transitivi) e, solo in un secondo tempo,

muovono nella posizione di argomento esterno della testa verbale; da ultimo,

subiscono il movimento verso la posizione di argomento esterno della testa

flessiva, come tutti gli altri verbi.

Si può forse fare un po’ di chiarezza con il confronto grafico tra la struttura

dei verbi inergativi e la struttura dei verbi in accusativi (vedi figura 5).

In sostanza, i verbi inaccusativi subiscono un movimento in più rispetto ai

transitivi e agli inergativi. Questo movimento è esattamente uguale a quello

compiuto dai complementi oggetto (gli argomenti interni) dei verbi transitivi

che volgono al passivo: l’uso dell’ausiliare essere potrebbe rispecchiare questa

analogia.

Inoltre, i soggetti degli inaccusativi nascono nella posizione di argomento

interno della testa verbale, cioè nella posizione dove nascono gli oggetti dei

verbi transitivi: questo è coerente con il fatto che non sono quasi mai agenti

delle azioni che il verbo denota e col fatto che possono essere cliticizzati con la

particella “ne”.

Questa interpretazione del comportamento dei verbi inaccusativi spiega,

quindi, piuttosto bene i fenomeni linguistici di cui sono protagonisti.

Inoltre, sul piano psicologico, lascia prevedere che:

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N’’Argomento

esterno“Luca”

Figura 5a e 5b: confronto tra gli alberi sintattici di un verbo inergativo e di un verboinaccusativo

N’’Argomento

esterno“Luca”

I’’

I’

V’’

V’

V“Ha dormito”

IAccordo,tempo, modo

N’’Argomento

esterno“Luca”

I’’

I’

N’’Argomento

esterno“Luca”

V’’

V’

V“È scivolato”

IAccordo,tempo, modo

N’’Argomento

interno“Luca”

5a: Verbo inergativo “ dormire”

5b: Verbo inaccusativo:“scivolare”

M2

M2

M1

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il trattamento di questi verbi richieda, in generale e da un punto di

vista più specificamente sintattico, un carico di risorse maggiore rispetto ai

transitivi e agli inergativi per via del movimento ulteriore cui vanno incontro

questo ulteriore movimento richieda un processamento psicologico

diverso da quello necessario per trattare inergativi e transitivi per via della

diversa natura dei movimenti M1 e M2 (figura 5) 12; se questo processamento

fosse selettivamente colpito da un danno neurologico, causerebbe un deficit

specifico per i verbi inaccusativi (vedi anche Thompson, 2003).

La prima previsione è coerente col fatto che la prestazione ai verbi

inaccusativi di alcuni gruppi di afasici (anomici e Wernicke), oltre che dei

controlli normali, sia leggermente peggiore di quella agli altri tipi di verbi

(Luzzatti et al., 2002).

Le due previsioni, considerate insieme, porterebbero, inoltre, a pensare che

gli agrammatici siano il gruppo di afasici più compromesso nella produzione e

comprensione degli inaccusativi; in questa direzione vanno anche alcune

interpretazioni dell’agrammatismo (Grodzinsky, 1986, 1995) che fanno

riferimento proprio alla difficoltà nel trattare i fenomeni di movimento per

spiegare i problemi sintattici di questi pazienti13.

12 a livello linguistico, infatti, i due movimenti di figura 5 sono di natura diversa: in M 1, NP

muove dalla posizione di complemento a quella di argomento esterno dello stesso sintagma,mentre, in M2, si muove da un sintagma all’altro, sempre come argomento esterno.

13 Ogni movimento sintattico provoca la formazione di una “ traccia”, un “segno” che nonha realizzazione fonetica, ma resta nel posto da cui la parola o il sintagma si è mosso.

Le tracce hanno una grande importanza perché giustificano il fatto che i posti abbandonatidagli elementi che si sono mossi non vengano occupati da nessun altro sintagma o parola: infatti,quei posti non restano vuoti, ma ospitano la traccia dell’elemento spostato.

Secondo la Trance Deletion Hypotesis (TDH) di Grodzinsky (1986, 1995), gli agrammaticihanno difficoltà proprio a trattare queste tracce.

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Questo è proprio ciò che Luzzatti et al. (2002) trovano: gli agrammatici (e

anche gli altri afasici non-fluenti) denominano peggio i verbi inaccusativi

rispetto a quelli inergativi.

Torneremo in seguito sulla questione.

3. Differenze linguistiche tra nomi e verbi

Nomi e verbi si distinguono sia per la loro diversa natura (come abbiamo

visto nel paragrafo 1.4) che per alcune differenze di comportamento sotto

diversi aspetti linguistici.

Passeremo ora in rassegna alcune di queste differenze, facendoci aiutare da

un sistema di descrizione delle entrate lessicali14 (EL) che è ormai applicato a

molti campi della linguistica, dalla fonologia alla morfologia: il sistema dei tratti

binari15.

Nel paragrafo successivo, studieremo, invece, quelle differenze tra nomi e

verbi che non vengono colte dal sistema dei tratti binari.

3.1 I tratti binari

Il sistema dei tratti binari prevede che le entrate lessicali siano descritte

come un insieme di valori binari, ciascuno associato ad un tratto, ad una

14 uso questo termine in modo del tutto scevro da significati teorici; per entrata lessicale

(EL) intendo una “voce del vocabolario”, cioè una parola non flessa (in forma base).15 per la verità, non mi atterrò strettamente alla sintassi dei tratti binari, ma utilizzerò quegli

aspetti che ci aiutano a cogliere le differenze tra nomi e verbi. Questo perché a volteun’eccessiva attenzione alla forma appesantisce l’argomentazione.

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proprietà, che ogni entrata lessicale può possedere (ed allora avrà valore

positivo) oppure non possedere (ed allora avrà segno negativo).

In definitiva, ogni EL è vista come un elenco di caratteristiche, dove, però, è

stato individuato un insieme finito di parametri di riferimento rispetto ai quali

valutare queste caratteristiche.

Possiamo rendere più chiaro il concetto utilizzando due esempi di entrata

lessicale, una nominale e una verbale, descritte attraverso dei tratti binari

(Tabella 1).

Consideriamo i primi due tratti, [verbo] e [nome]. Questi, valutati insieme,

indicano la categoria cui appartiene l’entrata lessicale.

Questi due tratti permettono, però, di descrivere solo quattro classi lessicali:

verbo (+V e -N), nome (-V e +N), aggettivo (+V e +N) e preposizione (-V e –N)

(Chomsky, 1970).

Dobbiamo credere, dunque, che esse siano in qualche modo “privilegiate”

rispetto alle altre? Dobbiamo pensare che possiedano qualcosa di speciale?

Secondo la teoria X-barra, sì: infatti, le classi lessicali di nome, verbo,

aggettivo e preposizione sono le uniche i cui componenti possono essere teste di

sintagmi lessicali16.

16 I sintagmi lessicali sono quelli che veicolano non solo informazione sintattica (il tempo,

l’accordo, il modo, ecc.), ma anche informazione semantica propria.Ad esempio, il sintagma nominale è un sintagma lessicale: “Il bambino di Maria” denota

un'entità, il bambino, e ne “coinvolge” un’altra, Maria (informazione semantica). Al contrario, ilsintagma dell’accordo garantisce che ci sia accordo tra il soggetto (o l’oggetto) e il verbo,inserendo il morfema adeguato, senza dirci nulla su chi siano il soggetto e il verbo (informazionesintattica).

Sintagmi di questi tipo vengono chiamati funzionali (Cook e Newson, 1996).La testa di un sintagma lessicale è, invece, l’elemento lessicale principale, quello che

trasmette al sintagma tutta una serie di informazioni, come il numero di argomenti, la classegrammaticale, il significato di base (che potrà poi essere modificato dagli altri elementi delsintagma), il tipo di sintagmi o parole che possono occupare determinate posizioni del sintagma.

Il concetto di testa è, però, legato non tanto a queste proprietà, ma alla struttura delsintagma: è, infatti, sulla base di questa che si stabilisce chi sia la testa del sintagma (vedi pagina26 e seguenti).

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Prima di chiederci che cosa significhino gli altri tratti dell’esempio,

introduciamo più approfonditamente una distinzione cui abbiamo già fatto

riferimento nel paragrafo 1.2 (vedi nota 1 e 4).

Alcuni linguisti (ad esempio, Scalise, 1994) dividono i tratti in due gruppi:

inerenti e contestuali.

Tabella 1: le entrate lessicali “tavolo” e “mangiare” descritte con i tratti binari.

TAVOLO MANGIARE

[verbo –] [verbo +]

[nome +] [nome -]

[regolarità +] [regolarità +]

[concretezza +] [concretezza +]

[I° coniugazione +]

[II° coniugazione -]

[III° coniugazione -]

[animatezza -]

[lessicalità +]

[inaccusatività -]

[zerovalenza +] [zerovalenza -]

[monovalenza -] [monovalenza -]

[bivalenza -] [bivalenza +]

[trivalenza -] [trivalenza -]

[relazione -] [relazione +]

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Inerenti sono quei tratti che non fanno riferimento al “vicinato” linguistico

delle parole nelle frasi, che possono essere evidenziate anche osservando la

parola al di fuori di contesti sovralessicali; ad esempio, il significato è quasi

sempre una caratteristica inerente.

Sono, invece, contestuali quei tratti che possono essere indagati solo

considerando il comportamento della parola nel contesto sintagmatico o frasale.

Tenendo presente che alcuni tratti non sono chiaramente classificabili perché

definiti in riferimento al contesto, ma anche a caratteristiche inerenti, seguiremo

questa bipartizione nell’indagare i successivi tratti dell’esempio alla ricerca di

altre differenze tra nomi e verbi.

3.2 Tratti comuni e tratti specifici

Cominciamo osservando che alcuni tratti sono comuni a nomi e verbi,

mentre altri sono specifici per gli uni o per gli altri.

In particolare, sul versante inerente, sono condivisi i tratti di regolarità e

concretezza, mentre non sono condivisi quelli di coniugazione e animatezza.

Questa considerazione non sembra dirci granché, anche se bisogna fare

qualche osservazione importante.

Dapprima, il fatto che la coniugazione sia un tratto specifico dei verbi è

proprio dell’italiano, ma non di tutte le lingue: in latino, ad esempio, anche i

nomi appartengono a classi che si differenziano tra loro per il tipo di affissi usati

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nella flessione della radice (le declinazioni), per cui potremmo dire che esiste

per i nomi il tratto [declinazione] analogo al tratto [coniugazione] per i verbi17.

La seconda osservazione è che non sempre tratti uguali hanno significati

perfettamente corrispondenti per nomi e verbi.

Ad esempio, per decidere se un nome è concreto oppure no, un buon criterio

potrebbe essere la possibilità di toccare ciò che il nome denota; è evidente che

questo criterio non è di nessuna utilità per i verbi, dal momento che tutti

diremmo che il verbo “costruire” è molto concreto (rispetto ad “amare”, per

esempio) benché nessuno di noi sia in grado di toccare il “costruire”.

3.3 Il tratto [relazione]

Passando al versante prevalentemente contestuale, si può notare un’altra

importante differenza tra nomi e verbi.

Entrambi possiedono il tratto [relazione], però, mentre i verbi sono sempre

relazionali, i nomi non lo sono necessariamente (Graffi, 1994).

Il valore a questo tratto, quindi, è sempre [+] per i verbi, mentre varia per i

nomi: essi, infatti, possono essere argomentali (e allora avranno segno positivo

al tratto [relazione]) oppure non-argomentali (e allora avranno a quel tratto

valore negativo).

Si potrebbe obiettare che i verbi intransitivi stretti, cioè i verbi ad un solo

argomento (ad esempio, cenare), non sono relazionali; questa obiezione è

legittima se si usa il termine “relazione” nell’accezione comune, ma Graffi usa il

17 uso il tratto generico [coniugazione] e non i tratti più specifici usati sopra per comodità (vedi

nota 15).

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termine “relazionale” a proposito dei verbi per indicare che essi devono sempre

saturare le proprie valenze.

In altre parole, tutti gli argomenti predicati dal verbo devono essere

sintatticamente18 presenti nella frase.

Consideriamo gli esempi seguenti:

(17) Mario ha abbracciato Claudia

(18) *Mario ha abbracciato

(19) L’abbraccio tra Mario e Claudia fu molto caloroso

(20) L’abbraccio fu molto caloroso

Di queste quattro frasi, solo (18) è non-grammaticale, probabilmente per il

fatto che manca l’oggetto, cioè uno dei due protagonisti della relazione denotata;

come si può vedere da (17), infatti, se aggiungo l’oggetto, la frase diviene

corretta.

Osservando, però, il quarto esempio, dove a denotare la stessa relazione

(l’abbraccio) è un nome, si vede che, non soltanto uno, ma entrambi gli

argomenti della relazione sono assenti: eppure la frase è grammaticale!

Ecco, quindi, che la differenza diventa evidente: i verbi sono obbligati a

realizzare i loro argomenti, pena la non-grammaticalità della frase.

La stessa cosa non vale per i nomi che, anche quando sono relazionali,

possono “permettersi” di non realizzare fonologicamente i propri argomenti

(purché, dal contesto, sia intuibile la loro esistenza).

18 gli argomenti non devono essere necessariamente realizzati fonologicamente: è necessario

soltanto che il verbo assegni ad una posizione sintattica (un nodo dell’albero) ciascuno dei suoiargomenti. I nodi cui la testa verbale ha assegnato un argomento potranno poi essere occupati daelementi fonologicamente nulli e quindi non essere espressi.

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Ad esempio, madre è un nome strettamente relazionale: perché ci sia una

madre ci deve essere un figlio, non si può essere madre senza un rapporto di

maternità con un “oggetto” altro da sé, proprio figlio.

Eppure la frase “la madre si comportò male in quella situazione” è

perfettamente grammaticale, purché si possa capire dal contesto che un figlio

esiste, anche se non viene citato esplicitamente.

I nomi argomentali, quindi, a differenza dei verbi, possono apparire da soli,

anche se, in quei casi, i loro argomenti devono essere chiaramente presenti nel

contesto.

I nomi non-argomentali, invece, possono -ma non devono- essere seguiti da

“complementi di specificazione”: posso, infatti, dire sia “Il palazzo di Marco è

crollato” che “Il palazzo è crollato”.

Un ultima nota: nonostante, come si è visto, possiedano diverse regole di

realizzazione degli argomenti, nomi e verbi fanno uso degli stessi tratti per

specificare la natura “quantitativa” della relazione che denotano; detto in altro

modo, indipendentemente dal fatto che siano obbligati a realizzarli oppure no,

sia i nomi che i verbi fanno uso dei tratti [zerovalenza], [monovalenza],

[bivalenza] e [trivalenza] per specificare quante entità coinvolga la loro

predicazione.

4. Altre differenze tra nomi e verbi

Ci sono altre differenze di comportamento tra nomi e verbi; il sistema dei

tratti binari non può coglierle, però, appieno, così le analizzeremo a parte in

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questo paragrafo, riferendoci a due fenomeni molto importanti in ambito

sintattico: i fenomeni di caso e quelli di movimento.

4.1 Il caso grammaticale

Consideriamo ora queste frasi:

(21) Mario ha bevuto l’acqua

(22) Mario ha chiesto di Maria

(23) *Mario ha chiesto Maria

Le prime due frasi sono corrette, mentre la terza è chiaramente non-

grammaticale: perché?

La differenza tra la (22) e la (23) sta tutta nella preposizione “di” prima del

nome “Maria”: perché questa preposizione è così importante, tanto da decidere

della grammaticalità della frase?

Per rispondere a questa domanda è necessario notare che, nella (21), non c’è

una preposizione prima del sintagma nominale “l’acqua”, eppure la frase è

grammaticale; anzi, se ci fosse una preposizione, questa causerebbe la non-

grammaticalità della frase (*Mario ha bevuto di l’acqua).

La ragione di questa asimmetria và ricercata nei verbi che reggono le due

proposizioni (bere e chiedere).

Bere è un verbo biargomentale transitivo, mentre chiedere è biargomentale

intransitivo.

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La differenza tra i verbi biargomentali transitivi e intransitivi sta nel fatto

che i transitivi assegnano un caso grammaticale strutturale all’oggetto, mentre

gli intransitivi non lo fanno (vedi paragrafo 2.2).

Un caso grammaticale strutturale è una sorta di “etichetta”, assegnata da

teste lessicali col tratto [N-] (vedi pagina 36 e seguenti), a sintagmi nominali

secondo certe regole che possono variare da lingua a lingua19.

Questa “etichetta” può avere realizzazione morfologica e fonologica (ad

esempio, in latino o in tedesco), oppure non avere nessun marker visibile; in

questo secondo caso si parla di caso astratto20.

A proposito dell’assegnazione dei casi, esiste una legge, il filtro del caso,

che dice che ogni sintagma nominale dotato di realizzazione fonologica deve

possedere un caso (astratto) (Cook e Newson, 1996).

Ecco quindi spiegata la non-grammaticalità di (23): il SN “Maria”, essendo

oggetto di un verbo intransitivo, non possiede caso. In (22), invece, la

preposizione interposta tra verbo e oggetto fornisce caso a “Maria”, rendendo la

frase accettabile.

In (21) la preposizione non è necessaria perché il verbo è transitivo ed è

quindi esso stesso a dare caso al suo oggetto, il SN “L’acqua”.

Questa piccola digressione sul caso grammaticale mi serve per evidenziare

una seconda differenza tra nomi e verbi, implicitamente già emersa.

19 ad esempio, alcune lingue richiedono l’adiacenza tra verbo e oggetto per l’assegnazione

del caso, mentre altre non lo fanno (come il francese); o ancora, in molte lingue, i verbiassegnano il caso all’oggetto verso destra, ma in alcune altre, come il giapponese, la “direzione”dell’assegnazione del caso è contraria e il verbo assegna il caso all’oggetto che sta alla suasinistra (Cook e Newson, 1996).

20 esistono varie prove dell’esistenza del caso astratto, tra cui una delle più evidenti è proprioquella che abbiamo preso ad esempio in questo contesto (il filtro del caso).

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I nomi hanno bisogno di un caso per esprimersi fonologicamente, mentre i

verbi non solo non hanno bisogno di caso, ma addirittura sono essi stessi ad

assegnarlo!

Questo evidenzia ancora quanto le entrate lessicali verbali e le entrate

lessicali nominali (e, quindi, i sintagmi che vanno ad “abitare”) differiscano tra

loro.

4.2 Il movimento sintattico

E’ possibile notare un’ulteriore differenza tra nomi e verbi analizzando due

tipi di movimento sintattico.

Un primo fenomeno di movimento è il movimento del sintagma nominale,

un esempio del quale, in realtà, abbiamo già visto parlando di inaccusatività: un

sintagma nominale (NP)21 in posizione di oggetto ( complemento della testa

verbale) si muove ad occupare la posizione di soggetto (specificatore della testa

flessiva)22.

Riporto l’esempio in figura 5b per chiarezza.

Come si vede dall’albero, il NP che occupava la posizione di complemento

della testa verbale muove nella posizione di specificatore di V’’ prima e in

quella di specificatore di I’’ poi.

Non solo gli oggetti dei verbi inaccusativi, ma anche gli oggetti dei verbi transitivi

fanno questo tipo di movimento quando la frase è volta in forma passiva: il NP che,

21 riprendo qui la legenda di nota 9: VP è il sintagma verbale ( Verbal Phrase), NP il

sintagma nominale, AP il sintagma aggettivale, PP il sintagma preposizionale e IP il sintagmaflessivo. Per il concetto e la struttura del sintagma, si veda pagina 27 e seguenti.

22 i concetti di complemento e specificatore sono introdotti a pagina 27.

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nella forma attiva, si trova in posizione di oggetto si sposta nella posizione di

soggetto (figura 6).

Ora dovrebbe essere chiara la dinamica del movimento; resta, però, aperta una

domanda: perché mai questi SN dovrebbero spostarsi? Che cosa provoca il loro

movimento?

Figura 5b: albero sintattico di una frase contenente un verbo inaccusativo.

N’’Argomento

esterno“Luca”

I’’

I’

N’’Argomento

esterno“Luca”

V’’

V’

V“È scivolato”

IAccordo,tempo, modo

N’’Argomento

interno“Luca”

M2

M1

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Per capire, soffermiamoci sui verbi inaccusativi, quelli cioè che non

possiedono un argomento esterno: di fatto, ogni verbo che non possiede

argomento esterno non assegna caso al suo argomento interno.

Da qui, ricordando il filtro del caso (vedi pagina 43), deduciamo che il NP è

costretto a muoversi da quella posizione!

Infatti, restando nel “luogo di nascita”, sarebbe privo del caso necessario per

la sua realizzazione fonologica.

Dunque il NP si muove alla ricerca del caso grammaticale, andando

trovarlo dalla testa flessiva, la quale, essendo una testa [N-], può dare un caso ai

NP.

E questo vale anche per il passivo: il verbo transitivo in questa forma, infatti,

perde la capacità di dare il caso accusativo al suo oggetto, costringendolo a

“migrare”.

Anche i verbi vanno incontro a fenomeni di movimento, ma di tipo diverso

rispetto a quelli cui sottostanno i NP.

Consideriamo l’esempio:

(24) “Luca legge spesso questi libri”

la cui struttura sintattica è rappresentata in figura 7.

Come si può vedere, la testa verbale si muove dalla sua posizione naturale

alla posizione di testa flessiva. Questa posizione è già occupata dalle specifiche

di tempo, accordo e modo (anche se queste non hanno, di per sé, realizzazione

fonologica), ma questo non impedisce il movimento.

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Figura 6: albero sintattico di una frase in forma passiva.

L’interpretazione della struttura sintattica della frase potrebbe sembrare un

po’ arbitraria, ma in realtà non lo è; infatti, ipotizzare un movimento è l’unico

modo per giustificare il fatto che il verbo (una testa di sintagma) preceda

l’avverbio (il suo specificatore).

In italiano, infatti, la struttura del sintagma (vedi pagina 28) è tale per cui la testa

sta sempre in seconda posizione, preceduta dal suo argomento esterno di

sinistra, lo specificatore appunto; per cui la nostra frase di esempio, così come

sintatticamente nasce, dovrebbe essere “Luca spesso legge questi libri”23.

23 questa frase ( Luca spesso legge questi libri ) non è del tutto non-grammaticale, ma viene

prodotta molto meno spesso della forma col movimento (Luca legge spesso questi libri):potremmo dire, dunque, che è una forma insolita.

N’’Argomento

esterno“Luca”

I’’

I’

V’’

V’

V“È statointerrogato”

IAccordo, tempo,modo, FORMAPASSIVA

N’’Argomento

interno“Luca”

N’’Argomento

esterno“Luca”

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Figura 7: il movimento della testa verbale.

Osservando i due movimenti in modo comparato emergono subito delle

differenze:

il movimento di NP è un movimento di un intero sintagma, mentre il

movimento del verbo coinvolge solo la testa, lasciando fermo il resto

del sintagma.

il luogo di destinazione del NP mosso è una posizione della struttura

sintattica vuota (come, ad esempio, lo specificatore del sintagma

flessivo), mentre il verbo và ad occupare una posizione che, sebbene

N’’Argomento

esterno“Luca”

I’’

I’

Argomentoesterno

“spesso”

V’’

V’

V“legge”

IAccordo, tempo,

modo“legge”

N’’Argomento

interno“questi libri”

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non sia occupata da elementi che, di per sé, avranno una

realizzazione fonologica, contiene comunque qualcosa.

Anche qui, però, la cosa più interessante è il perché del movimento.

L’ipotesi più probabile è che il verbo si sposti per raggiungere le specifiche

di tempo, accordo, modo e forma per potersi realizzare fonologicamente: infatti,

il verbo deve essere coniugato prima di essere espresso.

Possiamo, quindi, immaginare che il verbo “vada a prendersi” le proprie

specifiche flessive, andando ad insediarsi nella loro posizione di nascita.

Detto questo, la più grande differenza tra il movimento di NP e il

movimento della testa verbale sembra essere proprio la causa: mentre il nome si

vede costretto alla migrazione da una legge che gli impedisce di realizzarsi

senza ricevere un caso da una testa [N-], il verbo si muove “attivamente” alla

ricerca della propria flessione.

2. Concetti linguistici o costrutti della mente?

All’inizio del precedente capitolo abbiamo detto che ci saremmo occupati

dei costrutti mentali di nome e verbo; fino ad ora, però, abbiamo indagato in

modo piuttosto approfondito soltanto i rispettivi concetti linguistici.

E’ giunto il momento di scoprire le carte: vi è corrispondenza biunivoca tra

unità linguistiche e unità di elaborazione mentale?

La risposta è evidentemente no (o almeno, non necessariamente), anche se

riteniamo che tra le due entità ci sia qualche relazione.

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Più in particolare, riteniamo che un comportamento concreto “prodotto” da

una certa struttura mentale debba riflettere in qualche modo le caratteristiche

della struttura mentale stessa.

Il modo in cui le proprietà della mente si riflettono nelle sue manifestazioni

è, però, tutt’altro che trasparente; non ci illudiamo, quindi, che sia sufficiente

trovare dei buoni principi organizzativi ed esplicativi di un comportamento per

capire la struttura dell’apparato mentale che l’ha prodotto.

Non possiamo, in altre parole, fare un’attenta analisi funzionale di un

fenomeno, costruire una teoria esplicativa dei dati e poi semplicemente

affermare che anche la mente funziona secondo quei principi e quelle modalità:

le teorie dei comportamenti non sono necessariamente teorie della mente.

Però, è piuttosto evidente, per il fatto stesso che ogni nostro comportamento

scaturisce da qualche struttura mentale, che i fenomeni manifesti possiedano

principi organizzativi e caratteristiche che, in qualche modo, derivano dalla

mente.

Il problema allora si sposta e diventa: come è possibile indagare il tipo di

relazione che lega le caratteristiche dei fenomeni con le caratteristiche degli

apparati mentali che hanno contribuito a produrli?

Noi crediamo che un buon metodo sia quello di partire da un’analisi

funzionale descrittiva ed esplicativa (non necessariamente di tipo psicologico) di

un dato concreto, per poi assumere che i processi mentali all’origine del dato

stesso abbiano proprio quelle caratteristiche o caratteristiche molto simili.

Questo non perché crediamo davvero che ci sia una totale trasparenza tra

livello mentale e livello comportamentale (abbiamo appena affermato il

contrario!), ma perché è la base di partenza più solida che abbiamo: in ormai

qualche decennio di ricerca cognitiva abbiamo sviluppato dei solidi strumenti

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per l’analisi funzionale dei fenomeni psicologici, senza considerare l’aiuto che

in questo senso ci possono dare discipline come la scienza computazionale,

l’informatica, la linguistica, la teoria dei sistemi, ecc.

Avendo questa base solida, è possibile poi affrontare la fase sperimentale

della nostra ricerca: controllare le ipotesi emerse sul piano puramente funzionale

descrittivo-interpretativo al banco di prova del comportamento in condizione

sperimentale.

Noi sappiamo che, molto probabilmente, le nostre ipotesi iniziali, proprio

perché presuppongono la trasparenza tra il livello mentale e quello

comportamentale, non saranno corrette; ma questo non importa più di tanto

perché sarà l’esperimento stesso a dirci come migliorare le nostre idee.

Passo dopo passo, esperimento dopo esperimento, ci avvicineremo alla reale

organizzazione della struttura mentale che stiamo indagando; la strada è

probabilmente molto lunga, ma sembra metodologicamente giusta e, quindi,

promettente.

Con questo spero di avervi almeno in parte convinto dell’utilità e

dell’importanza delle prime pagine di questa tesi: per studiare la struttura

mentale dell’apparato linguistico è necessario riferirsi continuamente al livello

funzionale descrittivo-interpretativo che la scienza linguistica odierna ci offre.

Necessario, ma non sufficiente: senza testare a livello comportamentale, in

modo controllato e sperimentale, le ipotesi emerse in quel campo, esse restano

per la psicologia delle promesse incompiute. Cercheremo di scongiurare questa

eventualità nella seconda parte della tesi.

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3. L’afasia

Dopo aver raccolto molti suggerimenti dalla linguistica, dobbiamo dunque

passare alla sperimentazione sul piano comportamentale delle ipotesi

psicologiche che da quei suggerimenti sono nate.

In particolare, il nostro studio -il nostro confrontarci con la realtà dei

comportamenti umani- sarà di tipo neuropsicologico: più precisamente,

indagheremo le prestazioni di alcuni pazienti afasici ad un test di recupero

lessicale.

Questo ci obbliga ad affrontare, seppur molto brevemente, due questioni:

che cosa è l’afasia? Quali forme cliniche di afasia esistono? Quali

sono le loro principali caratteristiche?

perché indaghiamo la struttura della mente “normale” in pazienti

cerebrolesi, afasici, in cui presumibilmente il sistema cognitivo è

danneggiato? Questo metodo di indagine è legittimo e affidabile?

1. Afasia e sindromi afasiche

L’afasia è un disturbo della comunicazione verbale conseguente ad una

lesione cerebrale acquisita che interessa uno o più componenti del processo di

comprensione e produzione di messaggi verbali.

Questa definizione contiene i quattro elementi fondamentali che

caratterizzano l’afasia nell’ampio mondo dei disturbi della comunicazione:

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l’afasia è un disturbo della comunicazione verbale, non della

comunicazione in toto; le componenti comunicative non-verbali possono

essere risparmiate e, in qualche caso, utilizzate come strategia

compensativa spontanea.

il disturbo afasico consegue ad un danno organico cerebrale,

solitamente focale e localizzato nell’emisfero sinistro.

la lesione responsabile dell’afasia non è congenita, ma acquisita;

colpisce, cioè, individui che avevano già sviluppato una normale

competenza linguistica e comunicativa.

il disturbo afasico riguarda una o più componenti del sistema linguistico:

esistono forme di afasia piuttosto selettive accanto a forme molto gravi

che compromettono quasi tutti i livelli linguistici.

La classificazione attuale delle afasie più diffusa è una classificazione di tipo

sindromico, frutto dell’integrazione tra i modelli anatomo-clinici ottocenteschi, i

dati e le osservazioni emerse in un secolo di pratica clinica e i più recenti

sviluppi dell’analisi linguistica funzionale.

Essa si basa innanzitutto su una distinzione di tipo quasi esclusivamente

quantitativo: la distinzione tra afasie fluenti e afasie non-fluenti. Queste due

forme si distinguono fondamentalmente per la quantità di eloquio emesso

nell’unità di tempo e per la lunghezza delle locuzioni prodotte: la quantità è

paragonabile a quella dei controlli normali per gli afasici fluenti ed è molto

minore per gli afasici non-fluenti, mentre, per ciò che riguarda la lunghezza

delle locuzioni, le frasi dei non-fluenti sono significativamente più brevi di

quelle prodotte dai fluenti e dai controlli normali.

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Questa prima distinzione è utile clinicamente, ma è solo preliminare: afasie

fluenti e non-fluenti, infatti, si distinguono ulteriormente in sindromi più

specifiche sulla base di criteri di tipo qualitativo.

1.1 Afasie non-fluenti

Le afasie non-fluenti sono tipicamente caratterizzate da alcuni disturbi che

determinano la scarsa fluenza dell’eloquio: problemi articolatori, disprosodia

(disturbo del ritmo e della melodia del linguaggio), difficoltà di produzione

dell’eloquio (che si manifesta con sforzo, a volte notevole, nel corso della

produzione orale). Inoltre, le frasi sono brevi, spesso presentano omissioni delle

parole grammaticali (le preposizioni, ad esempio) o sostituzioni delle forme

flesse con forme meno marcate morfo-sintatticamente (forme base o di

citazione).

Le sindromi afasiche che più spesso possiedono questi sintomi e, quindi, più

spesso si associano ad una fluenza molto bassa sono quattro.

1.1.1 Afasia di Broca

L’afasia di Broca, nella sua forma più tipica, è caratterizzata da un eloquio

ridotto e dalla presenza di un disturbo dell’articolazione non paretico, chiamato

anartria o aprassia articolatoria. Sempre sul versante della produzione, può

essere presente l’agrammatismo, un fenomeno per cui l’afasico semplifica e

riduce le strutture grammaticali: i verbi non sono declinati, i funtori

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grammaticali sono spesso omessi, l’ordine delle parole può essere alterato,

vengono prodotte pochissime o nessuna frase subordinata, ecc.

Ancora, sono spesso presenti anomie e parafasie fonemiche.

La comprensione sembra preservata o molto poco danneggiata in

conversazioni informali, ma si dimostra piuttosto deficitaria a prove specifiche,

soprattutto con frasi sintatticamente complesse.

Le prove di transcodificazione sono solo parzialmente colpite, purché non

coinvolgano la produzione orale; la copia è preservata, mentre la ripetizione

presenta di solito gli stessi problemi del linguaggio spontaneo.

La lettura ad alta voce può essere relativamente risparmiata: quando non lo

è, presenta le caratteristiche tipiche di una dislessia fonologico-profonda.

La letteratura classica ha nel passato riferito una localizzazione lesionale

frontale postero-inferiore; di fatto, però, la maggioranza dei casi presenta lesioni

assai più ampie, solitamente estese anche alle aree parietali e temporali (Mohr,

1976, Mohr et al., 1978; Lecours at al., 1985; Alexander, Naeser, Palumbo,

1990).

1.1.2 Afasia globale

L’afasia globale è la forma più grave di afasia non-fluente in quanto colpisce

praticamente tutti gli aspetti della produzione e della comprensione linguistica.

Quest’ultima è, a volte, parzialmente risparmiata nelle conversazioni su

argomenti familiari in contesti “naturali”, ma si rivela fortemente deficitaria a

qualsiasi test formale.

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La produzione è nulla, talvolta costituita da frammenti sillabici ripetuti

(recurring utterences) o da stereotipie.

Il linguaggio scritto e le prove di transcodificazione sono anch’esse

gravemente compromesse (qualche paziente può riuscire ancora a produrre la

propria firma).

La lesione è solitamente molto ampia, coinvolgendo tutte le aree linguistiche

dell’emisfero sinistro (zone perisilviane fronto-temporo-parietali).

1.1.3 Afasia transcorticale motoria

E’ una forma di afasia molto particolare (simile all’afasia dinamica di Luria)

e non frequentissima.

Il paziente è in grado di svolgere bene quasi tutti i compiti linguistici, ma il

suo eloquio è caratterizzato da grave inerzia, cioè tendenza a non utilizzare il

linguaggio: Lichtheim interpretava già alla fine del secolo scorso questo quadro

come una disconnessione tra le rappresentazioni concettuali e quelle lessicali.

In sostanza, quindi, il paziente tende a non usare spontaneamente il

linguaggio o ad usare solo parole isolate o frasi molto brevi e dimostra una

notevole dissociazione tra la capacità di descrivere un evento e la capacità di

denominare o di ripetere frasi anche lunghe e complesse.

La comprensione è solitamente normale, sia a livello lessicale che sintattico.

La lesione è tipicamente frontale premotoria, quindi con relativo risparmio

dell’area di Broca.

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1.1.4 Afasia doppia transcorticale

Concettualmente, questo quadro consiste nell’isolamento completo, sia in

produzione che in comprensione, tra linguaggio e rappresentazioni concettuali.

E’ una forma piuttosto rara, caratterizzata clinicamente da una forte

dissociazione tra la prestazione nelle prove di ripetizione (conservate) e la

prestazione alle prove di comprensione e produzione, entrambe gravemente

compromesse.

La lesione che provoca questo quadro solitamente coinvolge le aree

perisilviane anteriori e posteriori, con un risparmio relativo delle aree di Broca e

Wernicke.

1.2 Afasie fluenti

Come abbiamo detto prima, nelle forme fluenti di afasia l’eloquio non è

rallentato né scarso, ma paragonabile quantitativamente a quello dei normali.

I sintomi clinici generali formano un quadro simmetrico e opposto a quello

delle forme non-fluenti: non ci sono disturbi articolatori, la prosodia è

conservata, le frasi sono relativamente lunghe ed elaborate dal punto di vista

sintattico, la propensione a parlare è normale, a volte anche troppo marcata

(questi pazienti sono frequentemente logorroici).

Inoltre, un tratto tipico dei pazienti fluenti è la grande ricchezza di parafasie

verbali e/o fonemiche e di neologismi che rendono il loro eloquio

incomprensibile (quando le parafasie e i neologismi sono molto frequenti, fino a

costituire interamente l’eloquio del paziente, si parla di gergo).

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1.2.1 Afasia di Wernicke

Nonostante sia storicamente una delle prime sindromi afasiche ad essere

entrata nella pratica clinica, l’afasia di Wernicke ha un quadro piuttosto

eterogeneo.

Nella sua forma più tipica, la produzione verbale è abbondante,

caratterizzata da errori fonemici, che vanno dalle frequenti parafasie, ai

neologismi, fino al gergo fonemico.

Molto frequenti sono anche gli errori lessicali (anomie, parafasie semantiche

e verbali, fino al gergo).

Caratteristica di questi pazienti è una certa inconsapevolezza del fatto che

ciò che essi producono è incomprensibile all’interlocutore: questa

inconsapevolezza molto spesso non è totale, ma li porta comunque a

sottovalutare il proprio disturbo.

La comprensione è di solito anch’essa compromessa, ma presenta una

gravità molto variabile (espressione della gravità generale della sindrome).

Ripetizione, lettura ad alta voce e dettato sono frequentemente

compromesse.

La lesione tipica di questo quadro è situata nella prima circonvoluzione

temporale, nella sua parte medio-posteriore (area di Wernicke).

1.2.2 Afasia di conduzione

La produzione è simile a quella dei Wernicke, ma, in questo caso,

prevalgono gli errori fonemici; frequenti sono le conduites d’approche, tentativi

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successivi, solitamente progressivamente migliori, di superare e correggere le

difficoltà fonologiche per arrivare alla parola target. Ripetizione e lettura

presentano un quadro simile, con molte parafasie fonemiche, anomie e qualche

parafasia verbale.

L’elemento classico e distintivo di questa sindrome è il netto contrasto tra

una capacità di ripetizione piuttosto deficitaria e una buona comprensione,

soprattutto in contesti informali e nel colloquio clinico: nei termini della

linguistica moderna, si potrebbe dire che questo tipo di afasia presenta un deficit

a livello fonologico con risparmio lessicale e sintattico.

La sede lesionale non è chiaramente evidente: i classici addebitarono il

deficit ad una lesione del fascicolo arcuato, ma possono esitare in questo quadro

anche lesioni corticali del giro sovramarginale e dell’insula.

1.2.3 Afasia amnestica

Questa forma di afasia è caratterizzata da una prevalente compromissione

della capacità di denominazione, a fronte di prestazioni solitamente meno

deficitarie negli altri ambiti.

L’eloquio è dunque fluente, ma spesso interrotto da anomie e reso prolisso e

complicato dalle frequenti circonlocuzioni, giri di parole che l’afasico usa per

spiegarsi quando non riesce a recuperare la parola target.

Le difficoltà lessicali portano spesso il paziente ad utilizzare parole passe-

partout (come “cosa”, “roba”, “fare”), parole, cioè, molto “leggere”

semanticamente, poco specifiche, utilizzate in luogo di quelle più corrette, ma

più ricche di significato, che questi pazienti non riescono a recuperare.

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La comprensione, la lettura e gli altri compiti di transcodificazione sono

solitamente conservati.

Anche per questa sindrome, la lesione non è facilmente identificabile:

sembra, però, che le aree più spesso lese in questi pazienti siano quelle temporo-

parieto-occipitali, posteriori all’area di Wernicke, corrispondenti alle aree 37 e

39 di Broadmann.

1.2.4 Afasia transcorticale sensoriale

L’afasia transcorticale sensoriale è caratterizzata da una produzione fluente,

ricca di parafasie verbali ed anomie che possono arrivare a destrutturate

completamente l’eloquio, rendendolo incomprensibile (gergo verbale).

Simmetricamente all’afasia di conduzione, il tratto tipico di questa sindrome

è la dissociazione tra una conservata ripetizione (buona anche con frasi lunghe e

sintatticamente complesse) e una comprensione molto compromessa, soprattutto

a livello lessicale-semantico: potremmo dire che questa sindrome è

caratterizzata da un deficit lessicale-semantico marcato con relativo risparmio

della fonologia.

La lettura e la scrittura presentano solitamente un pattern parallelo al

linguaggio orale, con una compromissione non molto grave, ma centrata

soprattutto sul livello lessicale-semantico.

Le aree coinvolte nelle lesioni che esitano in questo quadro sono molto

simili a quelle dell’afasia amnestica; l’unica possibile differenza sta nel fatto

che, in questo caso, la lesione delle aree 37 e 39 di Broadmann è più estesa.

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2. Patologia e normalità

L’ultimo argomento di questo capitolo è la questione metodologica posta

all’inizio del paragrafo: perché indagare la struttura della mente in pazienti

cerebrolesi?

Gli studi neuropsicologici vengono utilizzati di solito con due obiettivi:

1. lo studio delle aree cerebrali che sono coinvolte nei processi

cognitivi.

2. lo studio dei processi cognitivi di per sé, a livello puramente

funzionale.

Per ciò che riguarda il primo scopo, il senso degli studi neuropsicologici è

abbastanza evidente: se devo studiare come si associano aree cerebrali e

prestazioni cognitive, l’indagine delle capacità mentali dei pazienti cerebrolesi

non è solo un metodo di indagine, ma il metodo di indagine principale (fino a

qualche anno fa, prima che la tecnologia permettesse gli studi funzionali in vivo,

era anche l’unico).

Ciò non significa, però, che questa metodologia sia perfetta: nonostante il

metodo sia utilizzato da più di un secolo e mezzo (Bouillaud ne parlava già nel

1825) e sia stato lungo questo arco di tempo perfezionato -con la revisione, ad

esempio, del concetto di localizzazione e di funzione (vedi, ad esempio, Luria,

1977)- ancora oggi ci sono dei dubbi e delle questioni irrisolte, oltre ad alcuni

assunti necessari per ritenere i dati ottenuti su pazienti informativi a proposito

della mente normale.

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Prima di vedere quali sono, riflettiamo un po’ sul secondo obiettivo degli

studi sui pazienti, quello puramente funzionale.

La storia è ricchissima di esempi dell’importanza della ricerca

neuropsicologica per la psicologia cognitiva: basti pensare all’ambito degli studi

sulla memoria, dove l’esistenza di pazienti con memoria a lungo termine

preservata a fronte di un chiaro deficit di memoria a breve termine ha mandato

in crisi i modelli sequenziali come quello proposto da Atkinson e Shiffrin

nel 1968, portando alla formulazione di modelli paralleli che si sono rivelati più

adeguati a rendere conto non solo dei dati neuropsicologici stessi, ma anche dei

dati ottenuti su soggetti normali.

Lo stesso argomento di questa tesi è prevalentemente funzionale (noi ci

chiediamo, infatti, come sono organizzati i concetti di nome e verbo nella mente

più che chiederci se ci sono delle aree cerebrali specifiche che si occupano di

trattarli) eppure è emerso da dati neuropsicologici, cioè dall’esigenza di spiegare

come mai degli afasici possano mostrare delle ottime capacità di denominare

nomi, ma non verbi e viceversa.

Generalizzando, i dati comportamentali che osserviamo nei pazienti

cerebrolesi devono essere spiegati e previsti dai modelli cognitivi della mente

normale: ecco allora che neuropsicologia e scienze cognitive appaiono legate

l’un l’altra e risulta giustificato l’uso degli studi sui pazienti per l’indagine sulla

struttura della mente.

Questa affermazione mi permette di introdurre la prima delle questioni

aperte a proposito del metodo neuropsicologico: infatti, ciò che abbiamo detto

sopra è vero solo se assumiamo che la mente lesa mantenga un rapporto stretto

con quella normale, in particolare se crediamo che la mente lesa si comporti

come la mente normale senza le funzioni perse e non come una mente

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organizzata in un nuovo ordine, poco prevedibile, comprendente magari nuove

strutture, e non necessariamente simile a quello che la mente aveva

precedentemente al danno cerebrale.

Questo è l’assunto di costanza (Vallar, 2000), necessario se vogliamo dare

un rilievo non solo clinico agli studi neuropsicologici.

Un secondo assunto molto importante che i ricercatori neuropsicologi

solitamente adottano, implicitamente presente già in quello di costanza, è quello

di modularità: per dirla come Marr, “…any large computation should be split up

into a collection of small, nearly indipendent, specialised subprocesses” (Vallar,

2000).

Ogni nostra elaborazione mentale è costituita, dunque, di tante piccole

elaborazioni più specifiche, ciascuna delle quali, aggiungiamo noi, è svolta da

un sotto-sistema mentale specializzato, relativamente indipendente dagli altri.

Un ultimo assunto necessario è quello di corrispondenza tra

l’organizzazione funzionale e l’organizzazione neurologica, secondo cui questi

sotto-sistemi mentali sono implementati nel substrato neurale in modo che la

proprietà della modularità sia conservata: infatti, se i sotto-sistemi mentali

fossero a carico di circuiti cerebrali distribuiti e non separati, diffusi nella

corteccia, non neurologicamente indipendenti e non cognitivamente specifici,

nessuna lesione selettiva dei moduli mentali sarebbe possibile e i fenomeni

comportamentali conseguenti non sarebbero più interpretabili in modo chiaro

dalla scienza cognitiva né a livello funzionale né a livello localizzativo.

Ogni ricerca neuropsicologica accetta questi assunti prima di generalizzare

alla mente normale i propri risultati e prima di localizzare le funzioni: ma questi

assunti non sono privi di insidie e, anche se sono sostenuti da una grande massa

di dati a loro favore, non devono essere intesi in modo troppo rigido.

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Ad esempio, il fatto che un danno neurologico focale porti praticamente

sempre ad un danno cognitivo relativamente limitato, con alcune funzioni

cognitive lese e altre risparmiate, è una prova forte a favore della modularità.

Allo stesso modo, i dati provenienti dalla neurofisiologia dimostrano

l’esistenza di circuiti neuronali altamente specializzati e anatomicamente

identificabili, come quelli presenti nella corteccia visiva, selettivamente

responsabili della percezione delle forme, piuttosto che del colore o del

movimento (Cowey, 1985, Lueck et al., 1989): anche a livello neurologico,

quindi, gli assunti di modularità e di specificità funzionale sono plausibili ed è

quindi realistico che l’organizzazione neurologica rifletta quella mentale-

funzionale (assunto di corrispondenza).

Anche l’assunto di costanza è ben documentato: nella pratica clinica è molto

raro trovare dei fenomeni qualitativamente così diversi dai normali da dover

ipotizzare la formazione di strutture cognitive nuove. La riabilitazione stessa è

sempre mirata al recupero o al compenso delle funzioni perse basato sull’utilizzo

delle strutture conservate e precedentemente presenti, non su nuove strutture,

siano esse emerse spontaneamente o costruite nella pratica riabilitativa.

Questo non significa, però, che i tre assunti vadano accettati sempre nel loro

significato più stretto.

Ad esempio, non dobbiamo considerare i moduli mentali come realmente del

tutto indipendenti: quelli che, pur con compiti diversi e specifici, partecipano

allo stesso processo cognitivo devono essere in qualche modo in contatto,

devono passarsi informazioni l’un l’altro; di conseguenza, nessun modulo potrà

restare del tutto indifferente ai danni subiti dai moduli funzionalmente

“confinanti”.

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Allo stesso modo, all’assunto di corrispondenza non chiediamo di

giustificare una mappatura precisa e puntuale di ogni struttura mentale in una

certa area cerebrale: già a partire dagli anni settanta (vedi Luria, 1977) si è

diffusa l’idea che non siano singole aree cerebrali a farsi carico di singoli

compiti mentali, ma piuttosto complessi circuiti, che è certamente possibile

individuare, ma non in modo così lineare come i localizzazionisti puri

ritenevano: questi circuiti, infatti, si intrecciano, condividono moduli,

coinvolgono strutture cerebrali anche molto lontane tra loro a livello anatomico.

Infine, le prove accumulate negli ultimi anni sulla plasticità cerebrale (Basso

e Pizzamiglio, 1999; Cappa e Vallar, 1992; Weiller, Chollet, Friston et al., 1992)

invitano alla prudenza nell’interpretare il principio di costanza: è probabilmente

vero che non si creano nuove strutture cognitive di alto livello dopo lesioni

cerebrali, ma un certo grado di riorganizzazione funzionale e anatomica va

messo in conto.

Accettando, quindi, cum grano salis questi assunti, ci inoltriamo nella ricca -

almeno negli ultimi anni- letteratura neuropsicologica sui nomi e i verbi, prima

di affrontare la parte sperimentale vera e propria: non camminiamo, infatti, su

una strada inesplorata, ma abbiamo delle tracce promettenti da seguire.

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2

LA LETTERATURA SULLADISSOCIAZIONE NOMI-VERBI

Negli ultimi vent’anni molti autori si sono occupati della dissociazione

nomi-verbi.

Più in generale, l’interesse verso questo fenomeno rispecchia l’attenzione

sempre maggiore che gli studiosi hanno riservato alle dissociazioni tra classi di

parole nelle sindromi afasiche come “indizi” fondamentali per capire la struttura

del sistema linguistico umano.

L’esistenza di compromissioni dissociate in afasia è stata evidenziata in

letteratura già molti anni fa (Head, 1926; Goldstein, 1948), ma l’importanza

teorica che gli era conferita non era molta; al contrario, negli ultimi due decenni,

ci sono state molte osservazioni di tali fenomeni e, soprattutto, un ricco dibattito

teorico sul modo migliore di interpretarli.

In questa direzione ha senza dubbio pesato lo sviluppo delle teorie

linguistiche moderne e la collaborazione sempre più stretta tra psicologia e

linguistica nello studio della mente.

Sono state osservate e descritte dissociazioni tra oggetti naturali e oggetti

artificiali (Warrington, McCarthy, 1983; Hart, Berndt, Caramazza, 1985), tra

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nomi astratti e nomi concreti (Head, 1926), tra parole a contenuto e parole-

funtore (Goodglass, Menn, 1985), tra oggetti indoor e outdoor (Gardner, 1973).

Le proposte esplicative di questi fenomeni sono state molte e, come avremo

modo di vedere più in dettaglio, hanno toccato quasi tutti i livelli linguistici, da

quello semantico a quello lessicale a quello sintattico.

Tra queste proposte, emergono in particolare due filoni interpretativi: alcuni

autori hanno visto la dissociazione tra due categorie di parole come la prova di

un’organizzazione separata di queste categorie a livello lessicale centrale o in

uscita, mentre altri hanno fatto risalire le differenze di prestazione a differenze

nei concetti semantici sottostanti alle etichette lessicali dissociate. Come

vedremo, questa dicotomia interpretativa si riproporrà a proposito della

dissociazione nomi-verbi.

Essa è stata osservata e descritta per la prima volta in modo esplicito da

Miceli, Silveri, Villa e Caramazza (1984); in realtà, già prima di allora si parlava

di deficit dei verbi (Myerson, Goodglass, 1972), intendendo, però, un problema

prettamente sintattico, un fenomeno tipico dell’agrammatismo associato alla

semplificazione sintattica della frase e all’omissione dei funtori. Non era

presente nessun accenno di riflessione a livello lessicale o semantico e di

confronto con i nomi, tutte cose che appaiono dallo studio di Miceli et al. (1984)

in avanti.

Da allora, come abbiamo più volte sottolineato, tutta una serie di studi ha

rafforzato le evidenze a favore dell’esistenza di questo fenomeno, ne ha

sottolineato aspetti diversi e ha proposto ipotesi esplicative anche radicalmente

differenti tra loro.

In particolare, potremmo raggruppare la letteratura sull’argomento in base a

tre grossi temi, strettamente legati tra loro:

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1. l’associazione tra tipo di afasia e fenomeni dissociativi a favore dei

verbi o dei nomi.

2. il ruolo delle variabili lessicali e semantiche.

3. il locus funzionale del deficit che crea la dissociazione.

Inoltre, un po’ più recentemente, alcuni studi di neuroimmagine funzionale

con soggetti normali si sono occupati di nomi e verbi con risultati a volte

contrastanti rispetto a quelli degli studi neuropsicologici. Parleremo di questi

lavori nella seconda parte del capitolo.

1. Gli studi su pazienti afasici

1.1 L’associazione tra dissociazione nomi-verbi e tipo di afasia

Già prima che in letteratura emergesse una riflessione esplicita sulla

dissociazione tra nomi e verbi era noto che uno dei disturbi che caratterizzano il

fenomeno agrammatico è la difficoltà di produzione dei verbi.

Essi erano visti come entità primariamente sintattiche e la loro

compromissione marcata nell’agrammatismo veniva ricollegata quasi sempre a

disturbi di tipo sintattico.

Parallelamente, i pazienti con afasia amnestica mostravano, in alcuni studi, il

pattern opposto, con una difficoltà specifica nella produzione di nomi, sia in

compiti di recupero di parole isolate che nel linguaggio spontaneo (Zingeser,

Berndt, 1988, 1990).

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Quest’idea dell’associazione tra dissociazione-meglio-nomi e agrammatismo

e tra dissociazione-meglio-verbi e afasia amnestica è rimasta piuttosto salda

anche quando la dissociazione nomi-verbi ha smesso di essere interpretata come

“effetto collaterale” di certe sindromi afasiche e ha iniziato ad essere studiata

come fenomeno lessicale a sé stante.

Recentemente, due studi si sono occupati di questi argomenti e sono giunti a

conclusioni piuttosto simili.

Berndt, Haendiges, Mitchum e Sandson (1997) hanno sottoposto dieci

pazienti afasici ad una serie di compiti che coinvolgevano la produzione e la

comprensione di parole isolate (denominazione su figura e su definizione,

denominazione di scene in videotape, completamento di frasi e lettura ad alta

voce) e la produzione e comprensione di frasi (racconto di storie, descrizione di

scene, produzione di frasi contenenti una parola target, associazione frase-figura

e frase-videotape). Tre dei quattro pazienti agrammatici risultarono dissociati-

meglio-nomi, mentre due dei tre afasici amnestici risultarono dissociati-meglio-

verbi; facevano parte dello studio, però, anche altri due afasici dissociati-

meglio-nomi i quali non erano agrammatici. Gli autori deducono da questi

risultati che la correlazione tra dissociazione-meglio-nomi e agrammatismo non

è perfetta (non parlano, invece, esplicitamente dell’associazione tra anomia e

dissociazione-meglio-verbi).

A sostegno di questa conclusione, Berndt et al. sottolineano come la

dissociazione-meglio-nomi correli piuttosto bene con i deficit della struttura

frasale (i dissociati-meglio-nomi producono meno frasi e frasi più semplici, oltre

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che ricche di verbi semanticamente leggeri24), ma non altrettanto con i deficit

morfologici, tipici dell’agrammatismo.

Pur non essendo perfetta l’associazione tra agrammatismo e dissociazione-

meglio-nomi, esiste un’evidente tendenza da parte degli agrammatici a mostrare

un deficit più marcato per i verbi: quando questa tendenza è stata interpretata in

termini causali, si è sempre ipotizzato che fosse il deficit agrammatico a

determinare la dissociazione (Myerson, Goodglass, 1972).

Berndt et al. (1997), invece, ipotizzano la relazione inversa; essi, infatti,

sostengono che un deficit primariamente lessicale dei verbi, se occorre a livello

del lemma25, cioè al livello in cui sono immagazzinate tutte le informazioni

sintattiche legate alle etichette lessicali, può provocare problemi nella

costruzione della struttura frasale (vedi anche Saffran, 1982); questo perché i

verbi forniscono molte delle informazioni necessarie per una corretta

realizzazione della cornice sintattica (i lemmi dei verbi specificano i ruoli

tematici e la griglia di sottocategorizzazione, cioè il numero di argomenti retti

dalla testa verbale e il tipo di sintagma in cui si devono realizzare).

Luzzatti, Raggi, Zonca, Pistarini, Contardi e Pinna (2002) hanno effettuato

uno studio su 58 pazienti afasici, i quali furono sottoposti ad un test di

denominazione su figura.

Di questi 58 pazienti, 26 risultarono dissociati, 20 a favore dei nomi e 6 a

favore dei verbi; 5 dei 6 dissociati-meglio-verbi erano pazienti con afasia

amnestica e 5 dei 6 agrammatici che parteciparono allo studio erano dissociati-

meglio-verbi. Visti da questa angolazione, i risultati sembrano confermare le

24 I verbi semanticamente leggeri sono quei verbi, come fare, ad esempio, che portano poca

informazione semantica, che sono poco specificati avendo un significato piuttosto ampio, vago eapplicabile in molto contesti diversi.

25 Parleremo più specificamente di lemma e della teoria dell’accesso lessicale di Levelt et al.nel paragrafo 1.3.4.

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associazioni ipotizzate in letteratura; dobbiamo, però, considerare anche che gli

afasici amnestici che parteciparono allo studio erano 13, per cui 8 di loro non

mostravano l’attesa dissociazione-meglio-verbi; allo stesso modo, se è vero che

5 dei 6 agrammatici erano dissociati-meglio-nomi, è anche vero che 15 pazienti

risultarono dissociati-meglio-nomi senza essere agrammatici.

Anche da questo studio sembra, dunque, che non ci sia una vera e propria

associazione sistematica tra dissociazione-meglio-nomi e agrammatismo e

dissociazione-meglio-verbi e afasia amnestica, pur essendo presente una certa

tendenza da parte degli agrammatici ad avere maggiore difficoltà con i verbi e

da parte degli afasici amnestici a cadere prevalentemente con i nomi.

1.2 Le variabili lessicali

Molti studi riportano in letteratura l’importanza di considerare le variabili

lessicali (in particolare frequenza, immaginabilità, lunghezza ed età di

acquisizione) nell’interpretare i risultati di esperimenti che coinvolgano la

produzione, la lettura e la comprensione di parole isolate (Bates, Burani,

D’Amico, Barca, 2001).

E’ noto, infatti, che le prestazioni dei soggetti normali e dei pazienti afasici

siano influenzate da queste variabili in modo piuttosto importante.

In particolare, l’immaginabilità e la frequenza d’uso sono state studiate in

molto lavori che si occupavano di dissociazione nomi-verbi.

Berndt, Haendiges, Mitchum e Sandson (1997) hanno indagato l’effetto

della frequenza d’uso in alcuni compiti di produzione di parole isolate. Nel

compito di denominazione di figure e videotape, gli autori trovano un effetto

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complessivo della frequenza d’uso nella prestazione degli 11 afasici e un effetto

sul singolo soggetto in 4 dei 7 pazienti dissociati; in nessuno di questi 4 soggetti,

però, la frequenza poteva spiegare interamente la dissociazione nomi-verbi, dato

che ciascuno di essi denominava meglio i nomi a bassa frequenza che i verbi ad

alta frequenza o viceversa, a seconda della direzione della dissociazione.

In uno studio successivo, Berndt, Haendiges, Burton e Mitchum (2002)

hanno sottoposto 7 soggetti afasici ad un compito di completamento di frasi;

questo allo scopo di bilanciare nomi e verbi per immaginabilità, cosa molto

difficile quando è necessario raffigurare gli oggetti e le azioni da denominare.

I 7 soggetti che parteciparono allo studio erano stati sottoposti

precedentemente ad un compito di denominazione di figure e di lettura di parole

singole ad alta e bassa immaginabilità: 5 di essi erano risultati dissociati-meglio-

nomi e altrettanti avevano mostrato un effetto di immaginabilità (3 di questi

facevano parte del gruppo dei dissociati).

Entrambi i pazienti dissociati-meglio-nomi, i quali non avevano mostrato un

effetto di immaginabilità in lettura, continuavano ad essere dissociati al compito

di completamento di frasi (anche se per uno dei due le differenza non era più

statisticamente significativa), ma non sensibili all’effetto di immaginabilità.

Dei 3 afasici dissociati-meglio-nomi che mostravano anche l’effetto di

immaginabilità in lettura, uno (ML) continuava ad essere molto dissociato nel

completamento, mostrando in aggiunta un forte effetto di immaginabilità; questo

effetto era indipendente dalla dissociazione visto che ML denominava i nomi ad

alta immaginabilità meglio dei verbi ad alta immaginabilità e i nomi a bassa

immaginabilità meglio dei verbi a bassa immaginabilità.

Gli altri due soggetti avevano una dissociazione più ridotta di quella che

mostravano in denominazione di figure, ma non erano più sensibili

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all’immaginabilità, che quindi non può essere indicata come la causa della

diminuita dissociazione.

Il paziente DS, invece, che non era dissociato alla denominazione, ma aveva

un forte effetto di immaginabilità in lettura, univa queste due caratteristiche nel

completamento di frasi: per Berndt et al. questo paziente è decisivo nel

completare la doppia dissociazione e mostrare così che i due effetti, quello di

classe grammaticale e quello di immaginabilità, sono indipendenti e che nessuno

dei due può essere fatto risalire all’altro.

Luzzatti, Raggi, Zonca, Pistarini, Contardi e Pinna (2002) hanno anch’essi

indagato l’effetto dell’immaginabilità oltre a quello di frequenza, ottenendo un

risultato molto interessante. Essi hanno sottoposto 58 pazienti afasici ad un test

di denominazione di figure trovando una forte associazione tra l’effetto

frequenza e la superiorità ai verbi e l’effetto di immaginabilità e la superiorità ai

nomi: infatti, la frequenza risultava un predittore significativo all’analisi di

Regressione Logistica (McCullugh, Nelder, 1983) solo per 11 dei 58 soggetti,

ma per ben 5 dei 6 dissociati-meglio-verbi, mentre l’immaginabilità era

significativa in 29 dei 58 pazienti, ma in tutti i 20 dissociati-meglio-nomi. Un

altro risultato importante trovato dagli autori è quello per cui, sottoponendo i

dati a regressione logistica bivariata, in ben 18 dei 20 dissociati-meglio-nomi il

fattore categoria grammaticale non è più significativo, mentre lo è ancora quello

di immaginabilità. Con la stessa procedura, si vede come la prestazione di 3 dei

6 dissociati-meglio-verbi non sia più significativamente influenzata dalla classe

grammaticale, mentre continui ad esserlo dalla frequenza.

Sembra, quindi, che la prestazione della maggioranza dei dissociati dello

studio di Luzzatti et al. (2002) dipenda, più che dalla categoria grammaticale, da

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alcune variabili lessicali che, tramite il loro effetto, creano una dissociazione

“apparente”.

Gli autori sottolineano, però, il fatto che 2 dissociati-meglio-nomi e 3

dissociati-meglio-verbi siano realmente tali (cioè, anche nell’analisi bivariata il

fattore classe grammaticale è significativo); questo significa che il fenomeno

della dissociazione nomi-verbi non è sempre riducibile all’effetto delle variabili

lessicali, ma esiste indipendentemente da esse.

Chiarello, Shears e Lund (1999) hanno condotto un ampio studio

sull’immaginabilità e sono giunti alla conclusione che i processi attraverso cui i

soggetti valutano l’immaginabilità dei nomi e dei verbi sono diversi.

Nei loro dati, le valutazioni di immaginabilità dei nomi correlavano molto

bene con il tempo che il soggetto impiegava per emettere il giudizio; questo

suggerisce che i soggetti in quel caso valutassero la facilità e la velocità con cui

generavano un’immagine mentale dell’oggetto cui il nome si riferiva.

Questa correlazione era molto più debole per i verbi, lasciando pensare,

appunto, che i processi nei due casi fossero diversi.

Tutto ciò è molto importante perché indica che l’immaginabilità dei nomi

non è solo più alta di quella dei verbi, ma riflette diversi processi qualitativi

sottostanti la produzione del giudizio o forse addirittura diversi processi di

generazione delle immagini mentali.

1.3 Il locus funzionale del deficit

Il fatto che un paziente afasico produca o comprenda meglio i nomi dei verbi

che cosa ci dice a proposito dei suoi disturbi linguistici?

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La domanda non è banale perché sono effettivamente molte le risposte

possibili.

Tutti i modelli cognitivi del linguaggio, infatti, prevedono il passaggio, sia in

produzione che in comprensione, da tre livelli di processing: quello fonologico,

quello lessicale e quello semantico.

Inoltre, le informazioni linguistiche devono essere processate sintatticamente

ed esistono evidenze che mostrano come anche la produzione di parole isolate

comporti il recupero di alcune informazioni sintattiche (Thompson, Lange,

Schneider, Shapiro, 1997).

E’ quindi possibile, almeno in linea teorica, che a ciascuno di questi livelli

sia rappresentata la divisione tra nomi e verbi e sia presente il deficit che

provoca la dissociazione.

Nei prossimi paragrafi, descriveremo gli studi che si sono occupati del

problema del locus del deficit, iniziando da quelli che ipotizzano un problema

sintattico, passando poi per gli studi che pongono il danno a livello morfologico,

semantico, lessicale e fonologico.

1.3.1 Deficit sintattico

Le spiegazioni della dissociazione nomi-verbi che sono state proposte in

letteratura e che riconducono il deficit al livello sintattico sono di due tipi:

un’ipotesi sostiene che alcuni afasici abbiano un generico disturbo

sintattico della costruzione della frase il quale, unito ai disturbi

morfologici, causa l’agrammatismo e, insieme, il deficit ai verbi;

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questi ultimi sono visti in quest’ottica come entità meramente

sintattiche, con un ruolo centrale nella strutturazione della frase.

altre ipotesi più recenti precisano maggiormente il deficit all’origine

del disturbo dei verbi, riferendosi a volte a problemi

nell’assegnazione dei ruoli tematici che le entrate lessicali verbali

prevedono, a volte a difficoltà più periferiche, nella realizzazione

degli stessi ruoli tematici. Il disturbo è quindi localizzato, in questo

contesto, più verso il versante lessicale, ponendosi all’interfaccia tra i

due livelli.

La prima ipotesi esplicativa è stata la più diffusa (praticamente, l’unica) fino

alla metà degli anni ottanta, quando il progresso della linguistica generativa e la

sua influenza in campo psicologico hanno favorito la nascita di interpretazioni

più precise.

Gli elementi su cui questa idea è basata sono fondamentalmente due, uno di

carattere teorico e uno di tipo sperimentale:

1. il verbo ha un ruolo cruciale nella costruzione sintattica della frase e

ha una complessità morfologica molto maggiore di quella dei nomi.

2. agrammatismo e dissociazione-meglio-nomi si associano spesso nei

disturbi dei pazienti afasici.

Le interpretazioni sintattiche più recenti discendono dalla prima, essendone,

in sostanza, delle versioni più precise e più raffinate linguisticamente (Marshall,

Chiat, 1996).

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Oltre che su una più avanzata elaborazione teorica, esse si basano su alcuni

dati sperimentali che dimostrano l’esistenza di pazienti con un deficit selettivo

dell’assegnazione degli argomenti del verbo in produzione e della comprensione

dei ruoli tematici associati al verbo stesso (Marshall, Chiat, Pring, 1997; Byng,

1988).

Queste evidenze a favore dei disturbi selettivi dei ruoli tematici e della loro

realizzazione sono ritenute da alcuni ricercatori non particolarmente forti

(Druks, 2002), anche se effettivamente spiegano bene e in modo economico i

disturbi di alcuni pazienti.

Le spiegazioni sintattiche condividono, però, un limite molto evidente: esse

spiegano l’emergere della dissociazione-meglio-nomi, ma non della

dissociazione-meglio-verbi. Tutte ricorrono alla presenza di un problema

sintattico che colpisce i verbi, o perché più complessi o perché caratterizzati da

un processing specifico (ruoli tematici, ad esempio), ma nessuna ipotizza la

possibilità di un deficit sintattico selettivo per i nomi.

Questo significa che esse spiegano la prestazione di certi dissociati, ma non

di tutti: devono perciò essere affiancate necessariamente da altre ipotesi

esplicative che giustifichino la dissociazione opposta. Questa strada è stata

effettivamente seguita da alcuni ricercatori, come Marshall e Chiat (1996), i

quali hanno proposto che disturbi sintattici dei ruoli tematici causino la

dissociazione-meglio-nomi e disturbi semantici della “conoscenza percettiva”

siano all’origine della dissociazione-meglio-verbi.

Un ultimo appunto che è possibile fare a queste ipotesi interpretative si basa

sulla forza delle prove sperimentali.

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Esse, come abbiamo detto prima, sono state evidenziate più volte e, dunque,

sono molto solide, ma non ci sembrano così stringenti nel provare un danno a

livello sintattico: sono possibili, infatti, ipotesi alternative.

Ad esempio, il fatto che l’agrammatismo si associ con la dissociazione-

meglio-nomi non prova necessariamente l’origine sintattica del deficit: è

ugualmente possibile che coesistano due deficit separati, uno sintattico e uno

lessicale indipendente dal primo (Miceli, Silveri, Villa, Caramazza, 1984).

O ancora, essendo che le correlazioni non rivelano nulla sull’esistenza di una

causalità e, soprattutto, sulla sua direzione, si potrebbe anche interpretare i dati

in senso opposto, ipotizzando che sia un deficit lessicale per i verbi a causare

almeno qualche sintomo agrammatico e non viceversa (Berndt et al., 1997b).

Esiste un’altra spiegazione della dissociazione nomi-verbi che fa risalire il

problema ad un deficit sintattico: essa è stata proposta di recente da Naama

Friedmann (2000).

Questa ipotesi fa ampio riferimento alle teorie linguistiche attuali, ma, a

differenza della spiegazione di Marshall e Chiat, non è una versione moderna,

rivista e corretta delle spiegazioni sintattiche tradizionali che hanno dominato

fino agli anno ’80: essa non si basa, infatti, sugli stessi dati sperimentali e non fa

riferimento ad aspetti di interfaccia tra lessico e sintassi, ma a fenomeni

puramente sintattici.

Secondo Friedmann, il danno selettivo dei verbi è legato ad un deficit

dell’albero sintattico, per cui tutti i nodi posizionati al di sopra del Tense Phrase

(traducibile con “sintagma del tempo”) vengono distrutti o sottospecificati26:

questo deficit impedirebbe ai pazienti afasici di muovere il verbo all’interno

26 Il concetto di “ albero sintattico ” è stato introdotto nel primo capitolo; il sintagma del

tempo è uno dei due sintagmi in cui è stato recentemente diviso il sintagma inflessionale (IP) dicui abbiamo parlato nel primo capitolo: esso porta le informazioni temporali per l’accordo delverbo.

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dell’albero sintattico e di fletterlo correttamente, causando un disturbo selettivo

per questa categoria grammaticale.

1.3.2 Deficit morfologico

Una delle caratteristiche tipiche dell’agrammatismo è il deficit morfologico,

caratterizzato dall’omissione dei funtori grammaticali e dalle difficoltà di

produzione dei morfemi legati, derivazionali e flessivi.

L’associazione tra agrammatismo e dissociazione-meglio-nomi può quindi

dare adito ad interpretazioni del deficit verbale anche nei termini di un danno

morfologico.

Quest’idea è stata avanzata da alcuni ricercatori, tra cui Saffran, Schwartz e

Marin (1980) e Saffran (1982), i quali hanno sostenuto che la dissociazione-

meglio-nomi emerge a causa di un danno ai morfemi grammaticali; una

posizione più articolata è stata assunta da Friedmann (2000), la quale sostiene,

come abbiamo visto, che un disturbo dell’albero sintattico, impedendo il

movimento della testa verbale, renda impossibile la corretta flessione del verbo.

Queste interpretazioni soffrono degli stessi limiti di quelle sintattiche, in

quanto giustificano solo la dissociazione-meglio-nomi e si fondano su dati

sperimentali molto solidi (ancora una volta, l’associazione agrammatismo-

dissociazione-meglio-nomi), ma interpretabili in molti modi diversi.

Shapiro e Levine (1990) e Shapiro, Shelton e Caramazza (2000) descrivono,

poi, un paziente con afasia amnestica, dissociato-meglio-verbi, il quale mostra

un deficit marcato della morfologia nominale (non riusciva a produrre l’affisso

del plurale), ma non ha problemi con la morfologia del verbo.

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Gli autori non usano, però, questo dato per argomentare che un deficit

morfologico specifico per i nomi possa, da solo, causare una dissociazione; in

effetti, la dissociazione si manifesta anche in compiti che non hanno nulla di

morfologico, come la denominazione di oggetti, e, in ogni caso, il danno

morfologico non è una costante di tutti i dissociati-meglio-verbi, ma un deficit

specifico di alcuni di questi pazienti.

Resta, quindi, il problema principale di queste ipotesi esplicative: un deficit

morfologico isolato e selettivo può, secondo alcuni autori, causare una

dissociazione-meglio-nomi, ma non una dissociazione-meglio-verbi, nonostante

ci siano evidenze che un deficit morfologico per i nomi possa far parte del

quadro patologico di alcuni pazienti afasici DMV.

1.3.3 Deficit semantico

E’ possibile spiegare la dissociazione nomi-verbi riferendosi al livello

semantico? E’ possibile che la distinzione tra nomi e verbi sia rappresentata a

questo livello nel sistema cognitivo?

Nome e verbo sono, in realtà, due concetti sintattico-lessicali, nel senso che

costruiscono, in senso stretto, una contrapposizione tra gruppi di parole che si

fonda sul comportamento sintattico e sulla distribuzione nella frase (vedi cap. 1).

Sembrerebbe, quindi, impossibile sostenere che la distinzione tra nomi e

verbi sia rappresentata a livello semantico nel sistema cognitivo umano.

Però, tipicamente, i nomi sono etichette lessicali che denotano oggetti,

mentre i verbi molto spesso rappresentano azioni: è quindi possibile ricondurre

la distinzione nomi-verbi (una distinzione, come abbiamo visto, sintattico-

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lessicale) alla distinzione oggetti-azioni (una distinzione semantica). Facendo

questa operazione, diventa del tutto naturale riferire al livello dei significati e dei

concetti il deficit che produce la dissociazione nomi-verbi in afasia.

Ancora, si potrebbe sostenere, assumendo un approccio composizionale27 al

significato (Breedin et al., 1998), che i diversi concetti si basino principalmente

su caratteristiche definenti percettive piuttosto che non percettive o viceversa: in

questo senso, banana sarebbe definito principalmente da caratteristiche

percettive (è gialla, ha forma allungata), mentre il concetto di bottiglia si

fonderebbe più su caratteristiche funzionali (le bottiglie hanno forme e colori

molto diversi: il nucleo concettuale che definisce il significato sembra essere più

il fatto che serve per contenere liquidi).

Se fosse così, sarebbe piuttosto intuitivo sostenere che i nomi naturali, in

quanto rappresentano oggetti non costruiti dall’uomo, si riferiscano a concetti

fondati più sulle proprietà percettive, mentre i nomi artificiali e i verbi, in

quanto denotano strumenti o azioni, si riferiscano a concetti basati

principalmente su caratteristiche funzionali.

Ecco allora che un deficit semantico selettivo delle proprietà funzionali o

percettive dei concetti simulerebbe una dissociazione tra nomi e verbi.

Grazie a queste due argomentazioni è possibile ricondurre i deficit dei nomi

o dei verbi a problemi di natura semantica.

Questo tipo di considerazioni, in modo più o meno esplicito, sono il

fondamento delle ipotesi esplicative che sono state proposte in letteratura per

rendere conto della dissociazione nomi-verbi attraverso un disturbo semantico:

non è possibile porre la distinzione a livello semantico riferendosi direttamente

27 L’approccio composizionale è basato sull’assunto che i significati depositati nel nostro

sistema semantico non siano unità monolitiche e indivisibili, ma siano costruiti da una serie dicaratteristiche elementari (features) che, sommandosi le une alle altre, determinano i diversiconcetti.

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a nomi e verbi, bisogna prima ricondurre questi costrutti ad altre distinzioni,

che hanno davvero a che fare con il mondo dei significati e dei concetti.

Queste argomentazioni teoriche sono intrinsecamente coerenti e sicuramente

plausibili, ma nascondono un pericolo: interpretate in modo rigido, ci dicono che

i costrutti di nome e verbo non sono necessari, essendo riconducibili ad altre e

più basilari distinzioni. Potremmo addirittura dire, in quest’ottica, che la

distinzione nome-verbo non è rappresentata nel nostro sistema linguistico.

Un altro elemento a favore di queste ipotesi esplicative consiste nel fatto che

sono particolarmente economiche: infatti, fanno risalire ad un unico meccanismo

quasi tutte le dissociazioni tra classi di parole che sono state osservate in

letteratura (o almeno spiegano in un unico modo le due dissociazioni principali,

quella nomi-verbi e quella oggetti animati-oggetti inanimati).

La prima spiegazione di una dissociazione in termini semantici risale alla

metà degli anni ottanta, grazie al lavoro di Elizabeth Warrington e dei suoi

collaboratori (Warrington, McCarthy, 1983; Warrington, Shallice, 1984) a

proposito della dissociazione tra nomi di oggetti viventi e nomi di oggetti non

viventi.

Essa si fondava due assunti (che poi sono stati ripresi per spiegare la

dissociazione nomi-verbi):

1. la conoscenza concettuale è organizzata nella mente secondo il tipo

(visiva, olfattiva, motoria, funzionale, ecc.).

2. le proprietà funzionali e sensoriali sono differentemente importanti

nel definire i concetti degli oggetti viventi e degli oggetti non viventi.

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Questi due assunti sono stai ripresi, con qualche piccola modifica e con

qualche aggiunta, da Bird, Howard e Franklin (2000) per rendere conto della

dissociazione nomi-verbi.

La spiegazione birdiana della dissociazione prevede che siano all’opera due

meccanismi: il primo è quello legato all’immaginabilità cui, secondo gli autori,

molti afasici diventano estremamente sensibili dopo il danno cerebrale. Secondo

Bird et al., questo fattore è così importante che la maggioranza delle

dissociazioni-meglio-nomi sono in realtà dovute ad esso; gli autori, infatti, si

spingono a dire: “We would even go as far as to claim that “true” verb deficits

do not exist”.

A fianco dell’immaginabilità opera l’altro fattore che crea la dissociazione e

cioè la diversa distribuzione delle caratteristiche sensoriali e funzionali nei

concetti denotati dai nomi e nei concetti denotati dai verbi; se a questo

aggiungiamo che le caratteristiche sensoriali e funzionali possono essere lese da

un danno cerebrale in modo relativamente selettivo, ecco spiegata la

dissociazione nomi-verbi in entrambe le direzioni.

Sotto questo “secondo fattore” si nascondono alcuni assunti che è bene

esplicitare:

i concetti sono organizzati nella mente in modo composizionale (vedi

nota 27).

l’informazione semantica è immagazzinata secondo la modalità di

acquisizione.

le informazioni semantiche funzionali e sensoriali mantengono un

certo grado di indipendenza (funzionale e anatomica), dato che

possono essere lese selettivamente.

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Da ultimo, Bird et al. sostengono che anche i nomi di oggetti animati e i

nomi di oggetti inanimati hanno una diversa distribuzione nelle caratteristiche

semantiche che li definiscono, essendo i primi definiti più da proprietà sensoriali

e i secondi più da proprietà funzionali; questo è molto importante perché fa

prevedere delle associazioni tra tipi diversi di dissociazione che saranno usati da

Bird et al. per dimostrare la loro teoria, ma che saranno anche il tallone

d’Achille dell’ipotesi, secondo i suoi critici.

Riassumendo, se combiniamo i due fattori che sono all’origine delle

dissociazioni secondo Bird et al. (2000), otteniamo 4 diversi scenari dissociativi

possibili in seguito ad un danno cerebrale:

1. DEFICIT LIEVE O MEDIO DELLE SENSORY FEATURES:

danno prevalente ai nomi di oggetti viventi rispetto ai nomi di oggetti

inanimati; i nomi, nel complesso, dovrebbero essere penalizzati da questo

deficit, ma la loro maggiore immaginabilità compensa l’altro effetto: nomi

denominati come i verbi.

2. DEFICIT GRAVE DELLE SENSORY FEATURES: danno

prevalente ai nomi animati rispetto ai nomi inanimati; il deficit delle sensory

features è molto profondo così che la maggior immaginabilità dei nomi non

compensa più il suo effetto, ma solo lo attutisce: nomi denominati peggio dei

verbi.

3. DEFICIT DELLE FUNCTIONAL FEATURES: danno prevalente

dei nomi inanimati rispetto ai nomi animati e dei verbi rispetto ai nomi;

generalmente, nomi di manufatti meglio dei verbi per la loro maggiore

immaginabilità.

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4. DEFICIT GENERALE DEL SISTEMA SEMANTICO CON

MARCATO EFFETTO DI IMMAGINABILITA’: nomi animati e inanimati

piuttosto equilibrati; nomi meglio dei verbi per la maggior sensibilità

all’immaginabilità creata dal deficit.

La teoria di Bird et al. (2000) prevede, quindi, che:

1. molte dissociazioni-meglio-nomi scompaiano con un controllo

severo del fattore immaginabilità.

2. nelle dissociazioni “sopravvissute” ci sia un’associazione tra deficit

degli oggetti inanimati e deficit dei verbi e tra deficit degli oggetti

animati e deficit dei nomi.

3. i pazienti dissociati-meglio-nomi (che non subiscono un forte effetto

di immaginabilità) mostrino un deficit della conoscenza o del

processing delle caratteristiche funzionali dei concetti ; viceversa, i

dissociati-meglio-verbi dovrebbero avere dei problemi nel processare

e recuperare le proprietà sensoriali dei concetti.

Queste previsioni sono state controllate da Bird et al. (2000) sia attraverso

una revisione della letteratura che attraverso l’analisi di sei pazienti afasici

dissociati nelle due direzioni.

La prima previsione è stata confermata in modo piuttosto chiaro, sia in

letteratura che nei pazienti (ma anche in altri studi, vedi Luzzatti et al., 2002),

mentre le altre due sollevano qualche dubbio.

Infatti, per ciò che riguarda la seconda previsione, i tre pazienti verb-spared

di Bird et al. (2000) (i quali non erano dissociati-meglio-verbi probabilmente per

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l’effetto di immaginabilità) mostravano, nel complesso, una migliore prestazione

con i nomi inanimati, ma nessuno dei tre singolarmente aveva questo effetto.

Per ciò che riguarda la terza previsione, essa è confermata, in un compito di

produzione di definizioni, dalla prestazione dei verb-spared (la proporzione di

caratteristiche sensoriali fornita da essi era molto bassa), ma non dalla

prestazione dei dissociati-meglio-nomi, che producevano più caratteristiche

sensoriali nel definire gli oggetti animati, ma non nel definire quelli inanimati.

Gli autori spiegano questo fatto con la tendenza a produrre solo le caratteristiche

essenziali dei concetti, per via della non-fluenza molto marcata di questi

pazienti; la spiegazione è plausibile, ma è data a posteriori e sembra costruita ad

hoc.

Questi risultati sono ritenuti sufficienti da Bird et al. per confermare la loro

ipotesi esplicativa.

Nel complesso, l’ipotesi del deficit selettivo delle sensory/functional

features mostra alcuni limiti: innanzitutto, come altri ricercatori hanno

argomentato (Shapiro, Caramazza, 2001a), le evidenze sperimentali a sostegno

della teoria non sono molto solide.

In particolare, oltre ai problemi nei dati proposti dagli stessi autori a prova

della loro ipotesi, alcuni studi che hanno dimostrato la diversa distribuzione

delle caratteristiche sensoriali e funzionali nei concetti di nomi e verbi, come

quello di Farah e McClelland (1991), hanno usato una definizione di

caratteristiche funzionali troppo restrittiva, escludendo quelle caratteristiche

come il luogo di vita e la categoria di appartenenza che definiscono in modo

importante anche gli oggetti viventi, ma che non sono sensoriali (Shapiro,

Caramazza, 2001b).

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Introducendo una definizione più ampia di caratteristiche funzionali,

Caramazza e Shelton (1998) non trovano evidenti differenze nella distribuzione

di proprietà sensoriali e funzionali tra concetti denotati da nomi e concetti

denotati da verbi.

Un altro problema per queste teorie, è la presenza di pazienti con deficit

dell’elaborazione delle informazioni visive che non sono dissociati-meglio-verbi

e meglio-inanimati (Coltheart et al., 1998); inoltre, esistono pazienti dissociati-

meglio-inanimati che non mostrano un deficit prevalente delle informazioni

sensoriali (Laiacona et al., 1993).

Altre evidenze sperimentali non facilmente spiegabili nella teoria di Bird,

Howard e Franklin sono le dissociazioni più specifiche, ad esempio, tra animali

e frutta/verdura (Hart, Gordon, 1992) e i deficit specifici per categorie molto

ristrette, come i cibi. Esse possono essere spiegate solo ipotizzando ad hoc

ulteriori differenze nelle distribuzioni delle caratteristiche semantiche, che

ancora non sono state dimostrate sperimentalmente.

Il dato, però, che è stato impugnato più volte come la prova decisiva contro

l’ipotesi di Bird et al. è la presenza di alcuni pazienti che mostrano la

dissociazione solo in output o solo in input, oppure solo nel linguaggio scritto o

in quello orale (Caramazza, Hillis, 1991); inoltre, sono stati descritti dei pazienti

con una dissociazione a favore dei verbi nella denominazione orale, ma con una

dissociazione opposta nella denominazione scritta (Hillis, Caramazza, 1995).

Assumendo che il sistema semantico sia unico e che serva sia la modalità

scritta che quella orale, oltre che essere punto di passaggio comune nel

processing della comprensione e della produzione, non è possibile localizzare il

deficit a livello semantico e spiegare queste dissociazioni tra modalità e compiti

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diversi (in alcuni pazienti, la dissociazione è addirittura doppia; Rapp,

Caramazza, 2002).

In realtà, sono proprio Caramazza e i suoi colleghi, i principali critici

dell’ipotesi birdiana, a suggerire una soluzione del problema; essi, infatti,

suggeriscono che, ipotizzando un danno non solo semantico, ma anche lessicale

nella sola modalità scritta (o orale), si potrebbe rendere conto dei disturbi dei

pazienti con dissociazioni selettive del linguaggio scritto (o orale).

Questa ipotesi è, però, molto poco economica (prevede due loci funzionali

lesi invece che uno) ed inoltre difficilmente sostenibile considerando che i

pazienti, nella modalità meno danneggiata, avevano performance praticamente

normali, cosa poco probabile in presenza di un danno al sistema semantico

(Shapiro, Caramazza, 2001a).

Inoltre, se consideriamo i pazienti con la doppia dissociazione nomi-verbi

nel linguaggio orale e scritto, anche assumendo l’ipotesi esplicativa suggerita da

Shapiro e Caramazza, dobbiamo accettare che la categoria grammaticale sia in

qualche modo rappresentata nel lessico fonologico e ortografico di uscita, al di

fuori, quindi, del sistema semantico.

Riassumendo, l’ipotesi del deficit semantico (Bird et al., 2000) mantiene un

fascino molto grande perché è particolarmente economica, anche se non sembra

essere sostenuta solidamente dai dati sperimentali; in particolare, esisterebbero

alcuni pazienti con una dissociazione solo in modalità orale o solo in modalità

scritta o solo in input o solo in output, mentre altri addirittura sembrerebbero

mostrare una doppia dissociazione nomi-verbi in diverse modalità: questi

soggetti sembrano rendere molto poco probabile l’ipotesi per cui il fenomeno

dissociativo emerge a causa di un problema semantico.

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1.3.4 Deficit lessicale

Come abbiamo detto all’inizio del paragrafo precedente, le categorie di

nome e verbo sono, di fatto, delle categorie di parole, di etichette verbali, che

sono state classificate così per rendere conto del loro diverso comportamento in

contesti sintattici (capitolo 1).

Da qui deriva che il livello in cui più naturalmente si potrebbe collocare la

loro rappresentazione è quello lessicale o lessicale-sintattico. Di fatto, questa

posizione è quella maggiormente condivisa dai ricercatori che si sono occupati

di dissociazione nomi-verbi fino ad oggi (Druks, 2002).

Il primo a proporre un’ipotesi di questi tipo è stato Miceli; egli, insieme al

suo gruppo di collaboratori, ha proposto già nel 1984 che la scarsa prestazione ai

verbi che caratterizzava gli agrammatici non fosse parte del pattern di deficit

sintattici che compongono l’agrammatismo, ma fosse da ricondurre ad un

disturbo lessicale aggiuntivo e indipendente (Miceli, Silveri, Villa, Caramazza,

1984; Miceli, Silveri, Nocentini, Caramazza, 1988).

Per la precisione, nel lavoro del 1988, gli autori specificano che il disturbo

deve essere localizzato nel lessico fonologico di uscita, il quale è organizzato

secondo la categoria grammaticale; questa ipotesi emerse sulla base di quello

che, ancora oggi, sembra essere il dato sperimentale più forte a favore di un

deficit lessicale relativamente periferico e cioè la dissociazione tra produzione e

comprensione di nomi/verbi trovata in alcuni pazienti.

In questo filone si sono poi inseriti nuovi studi, più recenti, i quali,

descrivendo nuove dissociazioni tra modalità e tra input e output, hanno

riproposto con sempre maggior forza questo schema interpretativo (Caramazza,

Hillis, 1991; Hillis, Caramazza, 1995).

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Dall’inizio degli anni novanta, sono stati descritti pazienti con deficit

selettivi dei verbi in denominazione e lettura, ma non in scrittura (Caramazza,

Hillis, 1991), pazienti con deficit ai verbi in scrittura su dettato, ma non in

denominazione e lettura (Caramazza, Hillis, 1991), pazienti con deficit ai nomi

in produzione orale e ai verbi in comprensione scritta (Hillis, Caramazza, 1995),

pazienti con deficit ai nomi in produzione orale e ai verbi in produzione scritta,

sia in contesti di recupero di parole isolate che in contesti frasali (Rapp,

Caramazza, 2002); come si può vedere, è possibile costruire doppie

dissociazioni praticamente tra tutti i lessici ortografici e fonologici, di input e di

output.

Questo modo di interpretare la dissociazione nomi-verbi, benché basato sulla

prestazione di pochi pazienti, ha una grossa ricaduta sui modelli linguistici

umani: infatti, questa prospettiva implica che le categorie grammaticali siano

rappresentate in modo ridondante in ogni lessico mentale, sia in quello

ortografico che in quello fonologico in uscita, sia in quello ortografico che in

quello fonologico in entrata.

La rappresentazione delle categorie grammaticali contiene tutte quelle

informazioni sintattiche che dal lessico sono recuperate per costruire la struttura

della frase: se ipotizziamo che essa sia rappresentata nei lessici periferici,

diventa superfluo avere un livello lessicale più centrale, comune ai lessici

ortografici e fonologici di input e output, che veicola proprio quelle

informazioni sintattiche che possiedono già i lessici periferici stessi.

Questo livello lessicale-sintattico centrale è, in realtà, ipotizzato da molti

modelli della produzione del linguaggio, tra cui quello di Levelt, Roelofs e

Meyer (1999).

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Questo modello prevede due livelli lessicali: uno centrale, utilizzato sia in

produzione che in comprensione, costituito da lemmi, nodi lessicali direttamente

collegati col sistema semantico, che portano tutta una serie di informazioni

sintattiche, come la categoria lessicale, le specifiche sui ruoli tematici e la

griglia di sottocategorizzazione28 e morfologiche, come la persona, il tempo e il

numero. I lemmi non possiedono invece nessuna informazione fonologica.

Questa è situata al secondo, e più periferico, livello lessicale, quello dei

lessemi: queste etichette sono, appunto, primariamente fonologiche e

contengono informazioni come la qualità dei fonemi e la struttura metrico-

accentuativa della parola da produrre.

Esistono due sistemi di lessemi, uno specifico per la produzione e uno

specifico per la comprensione: questi due magazzini possono comunicare

direttamente tra loro.

Al di là dei particolari, la cosa importante è che in questo modello, costruito

sulla base di dati ottenuti solo su soggetti normali, la distinzione nome-verbo

esiste solo ad un livello lessicale centrale, comune al sistema di comprensione e

a quello di produzione: esso dunque non contempla la possibilità di doppie

dissociazioni come quelle descritte nella letteratura neuropsicologica.

Per questa ragione, Rapp e Caramazza (2002) argomentano contro alcuni

assunti della teoria di Levelt et al. (1999):

1. essi sostengono che le informazioni sulla classe grammaticale

possono essere rappresentate amodalmente in modo indipendente

dalla semantica e dalla forma fonologica delle parole (come avviene

28 La griglia di sottocategorizzazione contiene le informazioni necessarie per realizzare gli

argomenti del verbo, come, ad esempio, il sintagma tramite cui ciascun ruolo tematico deveessere realizzato.

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nel modello di Levelt), ma non devono essere legate a nessun livello

lessicale centrale, analogo a quello del lemma.

2. il livello del lemma non esiste, o comunque deve essere prevista la

possibilità che le forme fonologiche delle parole vengano attivate

direttamente dai rispettivi concetti semantici.

3. i lessici contenenti le forme fonologiche delle parole devono essere

specifici per modalità e organizzati secondo la classe grammaticale

degli elementi che ne fanno parte.

Accettando questi assunti, è effettivamente possibile spiegare le doppie

dissociazioni citate sopra.

In sostanza, in questa prospettiva, il livello del lemma non esiste e le

informazioni lessicali-sintattiche, che nel modello leveltiano erano integrate nel

sistema lessicale, ora sono spostate in un livello di elaborazione sintattica,

sicuramente comunicante col sistema lessicale (tanto che i lessici sono

organizzati secondo principi sintattici, i.e. la classe grammaticale), ma

sostanzialmente esterno e indipendente da esso (Caramazza, Miozzo, 1997).

Esiste qualche evidenza neuropsicologica che testimoni l’esistenza del

livello del lemma?

Berndt, Mitchum, Haendiges e Sandson (1997a; 1997b) sostengono che il

deficit che provoca la dissociazione nomi-verbi deve essere collocato a livello

lessicale: si chiedono, però, se il deficit sia a livello del lessema o a livello del

lemma.

Gli autori cercano di rispondere a questo quesito analizzando il disturbo di

10 pazienti afasici con una serie di compiti di produzione e di comprensione di

parole isolate e di frasi.

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Dall’analisi della prestazione dei pazienti ai compiti che avevano a che fare

con parole isolate emerge che, in produzione, 5 soggetti erano dissociati-meglio-

nomi, 2 erano dissociati-meglio-verbi e 3 non erano dissociati; inoltre, c’era un

effetto di frequenza d’uso nella prestazione complessiva del gruppo (oltre che in

4 casi singoli), un alto numero di errori semantici e una comprensione non

dissociata in tutti i 7 pazienti dissociati in produzione.

Questi risultati non sono chiari: l’alto numero di errori semantici suggerisce,

infatti, un danno a livello del lemma, mentre l’effetto frequenza (dovuto alla

forma fonologica delle parole) e la comprensione intatta portano a pensare,

invece, ad un problema a livello del lessema.

Berndt et al. continuano allora l’indagine, utilizzando stavolta compiti che

coinvolgono il processing di frasi; questo perché se il deficit dei dissociati-

meglio-nomi fosse a livello del lemma, argomentano gli autori, esso dovrebbe

compromettere la struttura di tutta la frase, in quanto la struttura argomentale del

verbo stesso e le indicazioni per la realizzazione dei ruoli tematici sarebbero

danneggiate. Un deficit del lessema, al contrario, non causerebbe questi effetti

collaterali, in quanto interverrebbe ad un livello in cui la cornice sintattica della

frase è già stata definita.

Ai dieci afasici venne chiesto, quindi, di raccontare una storia e di

descrivere delle scene rappresentate visivamente: la prestazione dei pazienti

rivelò una correlazione tra deficit ai verbi e difficoltà nella costruzione della

frase di tipo puramente strutturale, non morfologico.

Questo dato suggerisce che il deficit lessicale che causa la dissociazione sia

a livello del lemma: per controllare questa ipotesi, i soggetti vennero sottoposti

ad un compito di produzione di frasi da una parola target, in cui lo

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sperimentatore diceva un verbo (o un nome) al paziente e gli chiedeva di

costruire con esso una frase.

In questo compito il lemma con cui hanno difficoltà i dissociati viene fornito

dall’esterno e con esso tutto il bagaglio di informazioni sintattiche necessarie

alla buona costruzione della frase; per questa ragione, i dissociati con lesione

lemmatica dovrebbero trarre vantaggio da questa condizione e comportarsi

meglio che negli altri compiti, mentre la prestazione dei dissociati con lesione

lessematica non dovrebbe cambiare.

Due dissociati-meglio-nomi dimostrarono il miglioramento atteso: Berndt et

al. interpretano questi risultati come prova del fatto che, per questi due pazienti,

il deficit lessicale è situato a livello del lemma. A riprova di ciò, questi due

pazienti mostravano una difficoltà relativamente selettiva nella comprensione

delle frasi reversibili rispetto a quelle non-reversibili (indice di un problema con

i ruoli tematici, rappresentati a livello del lemma).

Altri due dissociati-meglio-nomi continuarono ad avere una prestazione

molto bassa, con grossi problemi nella costruzione della frase: gli autori

sostengono che questi pazienti hanno un problema sintattico di costruzione della

frase indipendente dal lessico.

L’ultimo paziente con un deficit dei verbi, invece, continuava a costruire

frasi con una buona struttura sintattica, mantenendo, però, la sua difficoltà nel

produrre verbi: questo quadro è interpretato come il risultato comportamentale

di un deficit del livello dei lessemi.

Riassumendo, per Berndt et al. (1997), il deficit che causa la dissociazione

nomi-verbi è di tipo lessicale e può colpire sia il livello del lemma, producendo

difficoltà anche nella strutturazione della frase, sia il livello del lessema.

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1.3.5 Deficit fonologico

Alcuni studi (ad esempio, Kelly, 1992) hanno dimostrato che, nella lingua

inglese, nomi e verbi differiscono in una serie di caratteristiche fonologiche,

come la lunghezza media, il pattern accentuativo (nelle parole bisillabiche) e la

qualità di vocali.

Questo fa legittimamente sorgere l’ipotesi che le differenze osservate tra

nomi e verbi possano essere meglio attribuite a difficoltà con particolari tratti

fonologici piuttosto che a problemi con una specifica classe grammaticale

(Rapp, Caramazza, 2002).

Questa ipotesi incontra almeno due difficoltà:

1. innanzitutto, le differenze fonologiche tra nomi e verbi non si

tramutano sempre in differenze ortografiche (si pensi alla qualità

delle vocali e al pattern accentuativo che, ortograficamente, non è

rappresentato) eppure la dissociazione emerge anche in compiti

scritti in alcuni pazienti (KSR in Rapp, Caramazza, 2002)

2. la dissociazione emerge anche in compiti che coinvolgono nomi e

verbi perfettamente omofoni e identici ortograficamente (in inglese

questa condizione è realizzata molto spesso: si pensi a hammer e to

hammer, rock e to rock, fish e to fish) dove, ovviamente, tutte le

variabili fonologiche sono bilanciate (Rapp, Caramazza, 2002).

E’ quindi piuttosto difficile pensare a questo come a un meccanismo capace

di spiegare tutte le dissociazioni, anche se esso potrebbe avere un ruolo almeno

in alcuni pazienti.

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1.4 Conclusione

Come abbiamo avuto occasione di vedere, la letteratura ha fornito molti dati

su cui riflettere, sia a proposito del ruolo delle variabili lessicali che a proposito

del rapporto tra dissociazione nomi-verbi e sindromi afasiche.

Ma l’elemento che più ha interessato i ricercatori e che ha più importanza

per le sue implicazioni sui modelli linguistici della mente è sicuramente il locus

funzionale della lesione che causa la dissociazione.

Le ipotesi possibili in linea teorica (ed anche quelle proposte in base ai dati

sperimentali) sono moltissime, ma la letteratura sembra affermare che le due più

accreditate siano quella lessicale e quella semantica: semplificando molto il

problema, a favore della prima giocano alcuni dati sperimentali piuttosto

stringenti, come le dissociazioni per modalità e per input/output, mentre a favore

della seconda gioca soprattutto il fattore economia, essendo piuttosto

controverse le evidenze sperimentali su cui è fondata.

2. Gli studi di localizzazione anatomica

Alcuni autori si sono occupati del fenomeno della dissociazione nomi-verbi

anche da un punto di vista localizzativo: si sono chiesti, in sostanza, se

esistessero delle aree cerebrali prevalentemente associate al recupero o al

trattamento di queste due classi lessicali.

Gli studi che hanno cercato di rispondere a questa domanda sono si due tipi:

quelli che usano il metodo della correlazione anatomo-clinica e lavorano quindi

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su pazienti cerebrolesi e quelli che utilizzano le tecniche elettrofisiologiche e di

neuroimmagine in vivo, lavorando quindi su soggetti normali.

Gli studi sui pazienti cerebrolesi. Gli studi che utilizzano il metodo della

correlazione anatomo-clinica sembrano indicare un quadro relativamente

definito: esso associa una lesione frontale, in particolare a livello dell’opercolo,

dell’insula, delle aree pre-centrali inferiori e delle aree pre-motorie e pre-

frontali, ad un deficit più marcato nella produzione dei verbi e un deficit

temporale, sia anteriore che inferiore, ad un problema relativamente selettivo per

i nomi.

In questa direzione vanno i dati provenienti da molti studi, tra cui quello di

Tranel et al. (2001) e quello di Glosser e Donofrio (2001).

Non mancano, però, dati contrastanti con questo quadro: nello stesso studio

di Tranel et al. (2001) viene sottolineato come esistano pazienti con un deficit

più marcato ai nomi che presentano lesioni pre-motorie/pre-frontali oppure della

corteccia occipitale mesiale sinistra; ancora, alcuni studi (Hillis, Caramazza,

1995) mostrano invece come pazienti con ampie lesioni frontali sinistre

presentino una buona produzione orale di verbi.

Da ultimo, alcuni ricercatori sottolineano che anche lesioni al lobo parietale

posteriore, andando a colpire le rappresentazione mentali dei programmi motori,

influiscono sulla produzione verbale dei pazienti cerebrolesi, a volte causando

una dissociazione-meglio-nomi, anche se forse non di origine strettamente

lessicale (De Renzi, Lucchelli, 1988).

Gli studi sui soggetti normali. Il quadro degli studi che utilizzano tecniche

elettrofisiologiche o di neuroimmagine sembra essere un po’ meno definito.

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Sono riportati in letteratura, infatti, sia dati che confermano i risultati degli

studi su pazienti cerebrolesi sia dati che confutano l’ipotesi dell’associazione tra

aree frontali e verbi e tra aree temporali e nomi.

Nello studio di Perani et al. (1999), ad esempio, si nota, in corrispondenza

della denominazione di azioni, un’attivazione delle aree pre-motorie e pre-

frontali, ma anche un’attivazione temporale laterale.

L’associazione tra aree frontali e deficit ai verbi sembra essere quella che

trova più conferme nei dati sui soggetti normali: in questa direzione vanno,

infatti, i risultati di Damasio et al. (2001), di Chao e Martin (2000) e di Hillis et

al. (2002).

L’associazione tra produzione dei nomi e aree temporali ha ricevuto sia

conferme che smentite: Perani et al. (1999) non hanno rilevato nessuna area

associata in modo particolare alla denominazione di oggetti, mentre Hillis et al.

(2002) hanno sottolineato un’attivazione notevole dei giri temporale superiore e

medio dell’emisfero di sinistra in corrispondenza del recupero lessicale di nomi.

Uno studio particolare è quello di Martin et al. (1996): esso conferma

l’associazione ipotizzata tra lobo temporale sinistro e produzione di nomi, ma

evidenzia un ruolo importante nella denominazione dei verbi non tanto del lobo

frontale sinistro, ma delle aree temporali più posteriori, al confine con il lobo

occipitale e quello parietale.

Un ultimo studio che mi preme sottolineare è quello di Joan Sereno (1999),

la quale, utilizzando la tecnica dei tempi di reazione e della presentazione dello

stimolo in un solo emicampo visivo in compiti di categorizzazione e decisione

lessicale, ha dimostrato come i nomi presentati nell’emicampo sinistro siano

processati altrettanto velocemente di quelli presentati nell’emicampo destro: i

verbi, al contrario, sono processati in modo significativamente più lento se

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presentati nell’emicampo sinistro. Questo indica che la competenza

dell’emisfero destro per quello che riguarda i verbi è piuttosto limitata (risultati

simili sono stati ottenuti da Pugh et al., 1997).

In conclusione, la letteratura sembra suggerire un’associazione tra aree

frontali e processamento dei verbi e tra aree temporali e processamento dei

nomi; si intuisce, inoltre, anche se non in modo chiaro, un ruolo del lobo

parietale posteriore e della parte posteriore del lobo temporale nell’elaborazione

dei verbi.

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PARTE II

Dopo avere descritto e commentato le fondamenta sulle quali vogliamo

poggiare la nostra costruzione, in questa seconda parte della tesi, ci occuperemo

del nostro lavoro sperimentale.

Esso è costituito da due parti:

1. una nuova analisi qualitativa e quantitativa dei risultati ottenuti su 26

pazienti afasici dissociati nomi-verbi in un precedente compito di

denominazione su figura (Luzzatti et al., 2002).

2. la somministrazione di un nuovo test di denominazione e di un test

che valuta il recupero lessicale di nomi e verbi in un compito di

completamento di frasi, dove gli item appartenenti alle due categorie

lessicali sono bilanciati per immaginabilità.

La seconda parte del lavoro sperimentale ci ha permesso di chiarire

l’intricata relazione tra dissociazione nomi-verbi e immaginabilità emersa già da

tempo in letteratura e riproposta dall’analisi qualitativa dei dati di Luzzatti et al.

(2002); inoltre, il contesto frasale in cui si svolgeva il test di recupero lessicale

ci ha aiutato a confermare le ipotesi sul locus funzionale del deficit che erano

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emerse anch’esse dall’analisi qualitativa descritta nel terzo capitolo di questa

tesi.

Per poter condurre queste ulteriori analisi è stato necessario costruire una

batteria di completamento di frasi che ha permesso un bilanciamento migliore

dell’immaginabilità tra nomi e verbi e una nuova batteria di denominazione,

costituita da 50 figure di azioni e 50 figure di oggetti.

La scansione dei capitoli rispetta lo schema fin qui esposto: nel terzo

capitolo ci occuperemo della nuova analisi dei risultati ottenuti da un precedente

compito di denominazione (Luzzatti et al., 2002), mentre nel quarto

descriveremo le procedure attraverso cui abbiamo costruito le due nuove batterie

e discuteremo dei risultati ottenuti dalla somministrazione di queste nuove

batterie ad una serie di pazienti afasici non selezionati; infine, nel quinto

capitolo daremo uno sguardo complessivo ai dati ottenuti e trarremo le

conclusioni del nostro lavoro.

Parte II

Capitolo 3 ANALISI QUALITATIVA E QUANTITATIVADELLE RISPOSTE AD UN TEST IDENOMINAZIONE DA PARTE DI 58PAZIENTI AFASICI

Capitolo 4 STUDIO SULLA DISSOCIAZIONE NOMI-VERBI IN UN GRUPPO DI PAZIENTIAFASICI ATTRAVERSO UN TEST DIRECUPERO LESSICALE IN UN COMPITODI COMPLETAMENTO DI FRASI (RNV-CF)

Capitolo 5 DISCUSSIONE GENERALE

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3

ANALISI QUALITATIVA EQUANTITATIVA DELLE RISPOSTEAD UN TEST DI DENOMINAZIONE

DA PARTE DI 58 PAZIENTI AFASICI

La prima parte del mio lavoro sperimentale è consistita in una rilettura e

un’ulteriore approfondimento dei dati emersi nell’esperimento di Luzzatti et al.

(2002), attraverso un’analisi qualitativa delle risposte dei pazienti e una rianalisi

quantitativa ad hoc, pensata per testare le previsioni sulla dissociazione nomi-

verbi fatte da Bird, Howard e Franklin (2000), secondo cui la dissociazione

emerge a causa di un disturbo semantico.

1. L’analisi qualitativa

L’analisi qualitativa è consistita nella classificazione degli errori commessi

da ciascun soggetto: abbiamo, in sostanza, costruito dei profili più approfonditi

delle prestazioni dei singoli pazienti, in cui le informazioni presenti non erano

più solo la correttezza o meno delle risposte, ma anche i tipi di errore commessi.

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Questa analisi è stata condotta con l’obiettivo di raccogliere ulteriori dati che

potessero chiarire i risultati quantitativi e guidare la nuova ricerca.

In particolare, l’analisi quantitativa dei dati di Luzzatti et al. (2002) aveva

lasciato aperti alcuni quesiti:

1. quale meccanismo patologico porta ad una prestazione scadente ai

nomi piuttosto che ai verbi o viceversa?

2. questo meccanismo patologico è unico oppure ce ne sono diversi?

3. se ce ne sono diversi, essi sono specifici per tipo di dissociazione e

per tipo di afasia oppure no?

Prima di cercare di rispondere a queste domande, riassumerò nella prima

parte del capitolo materiali, metodi e risultati dell’esperimento di Luzzatti et al.

(2002), in modo da chiarire il punto di partenza del nostro lavoro.

1. Introduzione

Il lavoro di Luzzatti et al. si proponeva di indagare alcuni aspetti della

dissociazione nomi-verbi poco chiari in letteratura (vedi capitolo 2), in

particolare:

l’esistenza di associazioni tra tipo di afasia e prevalente deficit dei

nomi o dei verbi.

la presenza di differenze nelle prestazioni dei soggetti dissociati tra

tipi di verbo (transitivi, inaccusativi e inergativi).

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i meccanismi all’origine della dissociazione.

All’esperimento parteciparono 45 soggetti normali di controllo e 58 afasici,

36 dei quali erano fluenti (13 amnestici e 23 Wernicke); 15 erano invece afasici

non-fluenti (di cui sei erano agrammatici), mentre sette erano afasici che non era

stato possibile classificare in modo chiaro.

Tutti i soggetti vennero sottoposti ad un compito di denominazione di figure

che rappresentavano azioni e oggetti: in particolare, furono utilizzate 30 figure

raffiguranti oggetti (15 naturali e 15 artificiali) e 40 figure raffiguranti azioni (16

raffiguravano verbi transitivi, 12 verbi inergativi e 12 verbi inaccusativi).

Ogni disegno venne valutato da 42 soggetti normali: tutte le figure usate

nello studio erano state denominate correttamente da almeno il 95% dei

controlli.

Per ciascun item furono calcolati i valori delle principali variabili lessicali:

frequenza d’uso orale, età di acquisizione, familiarità ed immaginabilità.

La batteria finale risultò bilanciata tra nomi e verbi per età di acquisizione e

familiarità; poiché alcuni item furono eliminati dalla versione finale a causa di

un name agreement inferiore al valore preliminarmente deciso, la frequenza

orale dei verbi era leggermente più alta di quella dei nomi (Mann-Whitney test:

p =.045). D’altra parte, era stato del tutto impossibile bilanciare l’immaginabilità

di nomi e verbi da denominare (i nomi erano più immaginabili dei verbi; Mann-

Whitney test: p <.001).

Per quello che riguarda, invece, il bilanciamento della batteria tra tipi di

verbo, transitivi, inergativi ed inaccusativi risultarono avere frequenza,

familiarità, età di acquisizione ed immaginabilità non significativamente

differenti , tranne in due confronti: l’età di acquisizione degli inergativi era più

bassa di quella dei transitivi (Mann-Whitney test: p =.04) e l’immaginabilità

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degli inaccusativi più bassa di quella degli intransitivi (Mann-Whitney test: p

=.03).

Vennero condotti due tipi di analisi: una a livello di gruppo e una per casi

singoli.

L’analisi per casi singoli aveva l’obiettivo di capire il ruolo delle diverse

variabili nella prestazione di ogni singolo soggetto attraverso l’Analisi di

Regressione Logistica (McCullagh, Nelder, 1983), sia univariata (considerando,

cioè, una singola variabile per volta) che multivariata (considerando invece più

variabili contemporaneamente).

I risultati emersi sono i seguenti:

1. a livello di gruppo, i pazienti afasici non-fluenti mostrarono una

compromissione nel recupero lessicale più marcata con i verbi che

con i nomi (p<.001). Anche gli afasici fluenti avevano livelli di

compromissione diversi, ma in modo meno evidente e a favore dei

nomi (p =.05). Gli agrammatici, in particolare, denominarono

correttamente il 33% dei verbi e il 70% dei nomi.

2. nei non-fluenti vi era una prestazione molto peggiore con i verbi

inaccusativi rispetto ai transitivi e agli inergativi (p<.001); gli

agrammatici, inoltre, si comportarono peggio con i verbi transitivi

che con i verbi inaccusativi e inergativi, anche se la differenza non

risultò statisticamente significativa (p =.12)

3. attraverso la regressione logistica univariata, si vide che la frequenza

d’uso orale aveva effetto su solo 11 dei 58 pazienti, ma su ben 5 dei

6 dissociati con superiorità ai verbi; parallelamente, l’immaginabilità

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aveva effetti su solo 29 dei 58 pazienti, ma su tutti i 20 dissociati

meglio-nomi.

4. attraverso l’analisi della regressione multivariata, si vide, inoltre, che

la prestazione di 3 dei 6 dissociati meglio-verbi non dipendeva più

significativamente dalla classe grammaticale dell’item, se nel

modello veniva introdotta la frequenza d’uso; inoltre, la prestazione

di 18 dei 20 dissociati meglio-nomi non dipendeva più dalla classe

grammaticale se nel modello veniva inserito il fattore

immaginabilità.

5. per quanto riguarda il rapporto tra tipo di afasia e dissociazione, si

notò che 5 dei 6 dissociati meglio-verbi erano amnestici e che 5 dei 6

agrammatici mostravano una superiorità dei nomi. Inoltre, dei 7

amnestici dissociati, ben 5 lo erano a favore dei verbi e degli 8

Wernicke dissociati, soltanto uno aveva una superiorità ai verbi.

Come si può vedere, i dati emersi permettono di dare risposte, seppure

parziali, ai quesiti che Luzzatti et al. si ponevano all’inizio dello studio.

Innanzitutto, è stata ancora una volta verificata l’esistenza del fenomeno

della dissociazione nome-verbo negli afasici: la dissociazione è stata osservata

in entrambe le direzioni (doppia dissociazione), cioè sia a favore dei verbi che a

favore dei nomi.

L’associazione tra agrammatismo e superiorità dei nomi è stata trovata

anche in questo studio, così come quella tra afasie fluenti (in particolare, afasia

amnestica) e superiorità dei verbi. L’interpretazione di questo dato è complessa,

perché le “regole” associative in questione non sono biunivoche: se è vero che

quasi tutti gli agrammatici hanno un deficit più marcato ai verbi, non è vero che

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tutti gli afasici con superiorità ai verbi sono agrammatici (solo 5 su 20), così

come non è vero che tutti gli afasici amnestici (o quasi) sono dissociati meglio-

verbi (solo 5 su 13), nonostante quasi tutti i dissociati meglio-verbi soffrano di

afasia amnestica.

Questo indica che l’associazione esiste (almeno in questo campione), ma che

la superiorità ai verbi e quella ai nomi non sono semplici fenomeni corollari

dell’agrammatismo o della sindrome afasica amnestica; piuttosto, essi sembrano

fenomeni complessi, trasversali alle diverse forme afasiche.

Sono state trovate differenze tra tipo di verbo, come gli autori si aspettavano;

Luzzatti et al. ipotizzano che la caduta ai transitivi degli agrammatici sia legata

alla difficoltà di questi nel trattare verbi con molti argomenti (e i transitivi ne

hanno sempre almeno due, al contrario di inergativi e inaccusativi). Al contrario,

la caduta dei non-fluenti agli inaccusativi potrebbe essere legata alla struttura

quasi-passiva di questi verbi, probabilmente “registrata” a livello del lemma.

Da ultimo, è risultato evidente il ruolo delle variabili lessicali: frequenza e

immaginabilità spiegano buona parte delle dissociazioni, ma non tutte. Proprio

su questo Luzzatti et al. si appoggiano per dimostrare che la dissociazione non è

(o almeno non è solo) un artefatto derivato dal non-bilanciamento delle batterie,

creato, quindi, dai diversi valori di immaginabilità, frequenza, lunghezza ed età

d’acquisizione che si associano a nomi e verbi.

Inoltre, è difficile anche pensare che la dissociazione (in particolare, quella a

favore dei nomi) sia l’effetto di un deficit sintattico che impedisce agli

agrammatici di trattare i verbi. Infatti, questa ipotesi mal si accorda col fatto che

molti dissociati meglio-nomi non siano agrammatici o abbiano problemi

sintattici piuttosto lievi; inoltre, mal si accorda col fatto che l’immaginabilità

giochi un ruolo importante nello spiegare la maggior parte dei deficit verbali.

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Altro dato molto interessante è quello per cui la variabile immaginabilità

gioca un ruolo cruciale nella prestazione di tutti i dissociati meglio-nomi, ma in

pochi dissociati meglio-verbi e, parallelamente, la frequenza d’uso sia un fattore

significativo nelle prestazioni di quasi tutti i dissociati meglio-verbi, ma in

pochissimi dissociati meglio-nomi.

Date queste considerazioni, bisogna ammettere che, almeno in alcuni casi, la

dissociazione sia un “vero” fenomeno lessicale, legato alla classe

grammaticale, anche se questo non significa necessariamente che il lessico sia

diviso in un lessico dei nomi e in un lessico dei verbi.

In conclusione, Luzzatti et al. sostengono che la dissociazione nome-verbo

in afasia sia un fenomeno legato alla classe grammaticale e che la sua origine

non vada ricercata tanto in una suddivisione funzionale e anatomica del lessico

mentale, quanto piuttosto nella diversa complessità sintattica (numero di

argomenti, ad esempio) e nelle diverse caratteristiche semantiche

(immaginabilità e frequenza d’uso) che sono proprie di nomi e verbi.

2. Analisi qualitativa dei protocolli

Lo scopo di questa analisi è ottenere nuove informazioni sugli aspetti

qualitativi della dissociazione nomi-verbi.

Più specificamente, si vuole rispondere ad alcune domande:

quale meccanismo patologico porta ad una prestazione scadente ai

nomi piuttosto che ai verbi o viceversa?

questo meccanismo patologico è unico oppure ce ne sono diversi?

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se ce ne sono diversi, essi sono specifici per tipo di dissociazione e

per tipo di afasia oppure no?

Un meccanismo patologico prevede necessariamente un certo tipo di errore

piuttosto che altri: costruire dei profili d’errore può quindi esserci molto utile

per risalire al tipo di disturbo che li ha causati e ai meccanismi attraverso i quali

si sono manifestati.

Ancora, se il tipo di disturbo che si nasconde dietro le dissociazioni di

ciascuno dei pazienti fosse uno solo, allora dovremmo attenderci dei profili

d’errore omogenei nei diversi soggetti; in caso contrario, non ci stupiremmo di

osservare fenomeni qualitativi anche molto diversi tra loro negli errori dei

dissociati.

Da ultimo, se notassimo che certi fenomeni qualitativi si associano con

maggior frequenza a certi tipi di dissociazione o a certi tipi di afasia, allora

potremmo ipotizzare non solo l’esistenza di meccanismi patologici diversi, ma

anche che questi diversi meccanismi dipendano appunto dal tipo di afasia o dal

tipo di dissociazione.

Se consideriamo, ad esempio, quali tipi di afasici mostrano una

dissociazione-meglio-nomi tra i 58 testati, ci accorgiamo che in questo gruppo

sono presenti sia afasici fluenti che afasici non-fluenti: essi hanno, per

definizione, dei quadri patologici molto diversi tra loro ed è dunque ragionevole

attendersi che mostrino qualche differenza anche nel dissociare tra nomi e verbi.

Non sembra, però, che queste eventuali differenze emergano dall’analisi

quantitativa (i due gruppi hanno gravità di dissociazione confrontabile e

mostrano un forte effetto di immaginabilità, ma non di frequenza d’uso).

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2.1 Materiali e metodi

Sono stati considerati per questo studio 26 pazienti afasici. Di questi, 15

erano afasici fluenti, sei erano afasici non-fluenti e i restanti cinque soffrivano di

una forma di afasia non classificabile lungo il parametro fluente/non fluente.

Dei 21 pazienti cui era stata attribuita una diagnosi, sette pazienti furono

classificati come amnestici, otto come afasici di Wernicke, cinque come

agrammatici e uno come afasico non-fluente non agrammatico. Da ultimo, 20

erano dissociati-meglio-nomi (DMN) e sei erano dissociati-meglio-verbi

(DMV).

I soggetti sono stati sottoposti ad un test di denominazione di oggetti (30) e

azioni (40), le cui caratteristiche sono esposte a pagina 104.

Le risposte dei soggetti vennero classificate secondo una griglia che

comprendeva undici possibili tipi di errore.

Le alternative erano le seguenti (vedi anche Tabella 3):

Tabella 2: composizione del campione di afasici che ha partecipato allo studio(DMN=dissociati-meglio-nomi; DMV=dissociati-meglio-verbi).

DMN DMV TOTALE

AMNESTICI 2 5 7

WERNICKE 7 1 8

BROCA NON AGRAMMATICI 1 0 1

BROCA CON AGRAMMATISMO 5 0 5

NON CLASSIFICABILI 5 0 5

TOTALE 20 6 26

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1. Risposta corretta (R+): il soggetto denomina correttamente

l’oggetto o l’azione target.

2. Latenza: il soggetto denomina correttamente il target, ma solo dopo

un intervallo di almeno tre secondi.

3. Scambio nome/verbo (N_V): il soggetto produce un nome al posto di

un verbo o un verbo al posto di un nome con un legame semantico tra

gli elementi scambiati.

4. Produzione di un argomento del verbo (S/Ogg): il paziente, al posto

di un verbo, produce un nome che, indipendentemente dal suo legame

semantico col target, è un suo possibile argomento esterno (soggetto) o

complemento. Il legame tra le entrate lessicali scambiate, in questo

caso, è principalmente di natura sintattica piuttosto che semantica.

5. Produzione di un argomento del verbo insieme ad un verbo leggero

(S/Ogg+Vppt): il soggetto si comporta come nel caso dell’errore

descritto sopra, ma produce inoltre un verbo semanticamente leggero.

6. Circonlocuzione (Circ): il soggetto non riesce a denominare il target

e cerca di farlo capire attraverso un giro di parole.

7. Parafasia semantica (PS-cat+): il soggetto produce un elemento

della classe grammaticale corretta (nome per nome o verbo per verbo),

ma non denomina il target, bensì un oggetto (o un’azione)

semanticamente relato.

8. Parafasia verbale (PV-cat+): il soggetto produce un elemento della

classe grammaticale corretta (nome per nome o verbo per verbo), ma

non relato semanticamente al target; in questa classe è stata inclusa

anche la produzione di elementi lessicali della categoria giusta, ma

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semanticamente leggeri, cioè con un significato molto generico, al

confine con le parole passe-partout.

9. Forma neologistica verbale derivata da nome (Neol): questo tipo di

errore è stato rilevato solo nella denominazione delle azioni e consiste

nella produzione di una forma verbale neologistica, morfologicamente

corretta, ottenuta per derivazione da un nome (di solito, relato

semanticamente al verbo target; ad esempio, fuocare per bruciare).

10. Risposta nulla (ø): il soggetto non da risposta, produce una frase

incomprensibile o senza senso oppure produce solo elementi

stereotipati.

11. Errore visivo: il soggetto sbaglia la denominazione dell’oggetto

perché non capisce o interpreta male il disegno.

La scelta di questo schema di correzione è dovuta all’esigenza di classificare

tutte le riposte dei soggetti, sottolineando, però, alcuni tipi di errore che ci

sembravano significativi, importanti per capire il meccanismo attraverso il quale

la dissociazione tra nomi e verbi emerge.

In questa prospettiva, i primi due tipi di risposta testimoniano un risparmio

della capacità di accesso al magazzino lessicale29 (quello dei verbi se si stanno

denominando azioni o quello dei nomi se si stanno denominando oggetti) anche

se, in qualche caso, non completo, come può testimoniare il tempo di latenza

Al contrario, lo scambio nome-verbo (N_V) e la produzione di un argomento

del verbo (S/Ogg) provano una evidente difficoltà di accesso al magazzino in

questione, tanto da costringere il paziente a scivolare su un item relato al target,

ma della categoria grammaticale opposta; secondo una terminologia introdotta

29 Intendo per “ magazzino lessicale ” un termine puramente funzionale-linguistico che nonsottende una divisione anatomica tra i lemmi verbali e quelli nominali.

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da Saussure (1967) e Jakobson (1966), potremmo chiamare questi errori

sintagmatici.

Le parafasie, semantiche (PS) o verbali (PV) che siano, testimoniano,

invece, una conservata capacità di accesso al magazzino lessicale in esame, il

quale, però, non è perfettamente conservato; sempre seguendo Saussure e

Jakobson, potremmo chiamare questi errori paradigmatici. Essi sottendono un

tipo di deficit piuttosto diverso da quello sottolineato dagli scambi sintagmatici:

in particolare, PS e PV rivelano una conservata capacità di produrre elementi

della classe grammaticale in questione.

Errori come la circonlocuzione (Circ) e la produzione di un argomento del

verbo insieme ad un verbo leggero (S/Ogg+Vppt) sono indici di un mancato

accesso alla parola target, ma non ci permettono di decidere con chiarezza se si

tratta di un errore sintagmatico o paradigmatico; essi sottolineano, però, che il

paziente è riuscito a costruire una struttura frasale, per quanto semplice o

scorretta, ed è riuscito a produrre un verbo, per quanto semanticamente leggero.

La forma neologistica verbale derivata da nome (Neol) è un tipo di errore

molto interessante, perché prova un deficit di accesso lessicale ai verbi, ma

garantisce che il paziente sa che deve produrre un verbo (altrimenti non si

sforzerebbe di costruirne uno) e che ha un sistema morfologico ancora piuttosto

intatto.

La risposta nulla caratterizza un deficit di accesso lessicale molto grave e

l’assenza di un meccanismo di compenso; l’errore visivo, invece, è teoricamente

meno rilevante per i quesiti che ci siamo posti.

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Dopo avere classificato ogni singolo errore, abbiamo costruito i profili

qualitativi di ciascun soggetto partecipante all’esperimento30.

Fatto ciò, abbiamo raggruppato i dati per ottenere una sorta di “profilo

qualitativo medio” dei DMV e dei DMN.

Inoltre, all’interno di ciascuno dei due gruppi di dissociati, abbiamo

costruito i profili medi dei gruppi di afasici presenti: amnestici e Wernicke per i

DMV, amnestici, agrammatici e Wernicke per i DMN.

Tutto ciò è stato fatto per analizzare questi profili alla ricerca di somiglianze

ed eventuali simmetrie.

30 Le tabelle con i profili qualitativi d’errore completi di tutti i soggetti dissociati che hanno

partecipato allo studio si trovano in Appendice.

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Tabella 3: schema di classificazione delle risposte per l’analisi qualitativa. Nell’ultimacolonna, dopo il nome e la definizione, si trovano esempi tratti dalle risposte dei pazientiche hanno partecipato allo studio.

ERRORE DEFINIZIONE ESEMPIOACCESSO CONSERVATO E MAGAZZINO LESSICALE CONSERVATO

Risposta corretta(R+)

Il soggetto denomina correttamentel’oggetto o l’azione target.

FOTOGRAFARE:"Sta fotografando" oppure “Laragazza fotografa”

Latenza (Lat)Il soggetto denomina correttamente il target,ma solo dopo un intervallo di almeno tresecondi.

MARTELLO:"….martello"

ACCESSO NON CONSERVATO; CAMBIO DI CATEGORIA

Scambionome/verbo (N_V)

Il soggetto produce un nome al posto di unverbo o un verbo al posto di un nome conun legame semantico tra gli elementiscambiati.

STARNUTIRE:"Ciu,Ciu..fazzoletto..fazzolettoce l'ho"

Produzione di unargomento delverbo (S/Ogg)

Il soggetto, al posto di un verbo, produce unnome che, indipendentemente dal legamesemantico col target, è un suo possibileargomento esterno (soggetto) ocomplemento.

LEGARE:"la capra..la capra con lacorda..f..."

PSEUDO-STRUTTURA FRASALE; PRODUCE UN VERBO

Circonlocuzione(Circ)

Il soggetto non riesce a denominare il targete cerca di farlo capire attraverso un giro diparole.

PIOVERE:"…quando non c'è il sole"

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Tabella 3: continua.

Produzione di unargomento delverbo insieme ad unverbo leggero(S/Ogg+Vppt)

Il soggetto, al posto di un verbo, produce unnome che, indipendentemente dal legamesemantico col target, è un suo possibileargomento esterno (soggetto) ocomplemento; produce, inoltre, un verbosemanticamente leggero. Dimostra unastruttura frasale per quanto semplice oscorretta.

SOLLEVARE:"C'è il l'armadio…per..perandare.."

ACCESSO CONSERVATO; MAGAZZINO DEFICITARIO

Parafasia semantica(PS)

Il soggetto produce un elemento della classegrammaticale corretta (nome per nome overbo per verbo), ma non denomina iltarget, bensì un oggetto (o un’azione)semanticamente relato.

CADERE:"Sta..sta scivolando, stascivolando questo ragazzo"

Parafasia verbale(PV)

Il soggetto produce un elemento della classegrammaticale corretta (nome per nome overbo per verbo), ma non relatosemanticamente al target.

CADERE:"Stanno levando su.. questo stafacendo"

ACCESSO NON CONSERVATO; MORFOLOGIA VERBALE CONSERVATA

Forma neologisticaverbale derivata danome (Neol)

Il soggetto produce una forma neologisticaverbale, morfologicamente corretta,ottenuta per derivazione da un nome (disolito, relato semanticamente al verbotarget).

BRUCIARE:"Fuocava.."

ALTRI ERRORI

Risposta nulla (ø)Il soggetto non da risposta, produce unafrase incomprensibile o senza senso oppureproduce solo elementi stereotipati.

SEGA:"…questa non la conosco.."

Errore visivo (EV)Il soggetto sbaglia la denominazionedell’oggetto perché non capisce o interpretamale il disegno.

CAMPANA:"..berretto"

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2.2 Risultati

2.2.1 Asimmetrie tra dissociati-meglio-nomi e dissociati-meglio-verbi

Risposte nulle. Un primo dato che risalta con chiarezza è la differenza di

risposte nulle nella denominazione degli oggetti: i dissociati-meglio-verbi

(DMV) commettono questo errore nel 49% dei casi, mentre i dissociati-meglio-

nomi (DMN) solo nel 12% (t = 5,0; p < ,001).

Il dato è relativamente scontato: i DMN sono tali proprio perché hanno

difficoltà nel denominare oggetti.

Se fosse tutto così semplice, però, troveremmo la stessa differenza, in

maniera simmetrica, nelle risposte nulle ai verbi: sorprendentemente, invece, i

DMN fanno un tale errore il 18% delle volte che tentano di denominare

un’azione contro il 13% dei DMV (t = -.584; p = .565 n.s.; Figura 8).

Scambi di categoria. Un altro dato abbastanza evidente è che i DMN

producono un nome al posto di un verbo quando devono denominare un’azione

nel 22% dei casi (13% N_V, 9% S/Ogg), mentre solo nel 3% dei casi i DMV

fanno questo scambio: questa differenza è statisticamente significativa (t = -

3,087; p = .005).

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Figura 8: risposte nulle nella denominazione di azioni e oggetti: si noti l’evidenteasimmetria.

Ancora una volta, se i due profili d’errore fossero simmetrici, dovremmo

aspettarci qualcosa di simile per l’errore opposto (verbo al posto di un nome

quando si denomina un oggetto): questo, però, non accade dato che i DMV

fanno questo scambio solo nell’uno per cento dei casi (mentre i DMN non lo

fanno mai; t = 1,869; p = ,74, n.s.; Figura 9).

Entrambe le asimmetrie osservate sono evidenziate in Tabella 4.

Tabella 4: denominazione delle azioni dei DMN e denominazione degli oggetti deiDMV (i dati sono in percentuale); i profili non sono simmetrici.

R+ N_V S/Ogg Ø

DMV (oggetti) 23 1 0 49

DMN (azioni) 27 13 9 18

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Figura 9: scambi di categoria nella denominazione di azioni e oggetti

2.2.2 Analisi per tipo di afasia: dissociati-meglio-nomi

Prima di iniziare ad osservare i risultati, faccio notare che, nel nostro studio,

soltanto due pazienti con afasia amnestica sono dissociati-meglio-nomi; questo

significa che tutto ciò che sottolineeremo a proposito di essi e del loro “profilo

medio” non potrà essere esteso, se non con grande cautela e solo in via ipotetica,

a tutti gli afasici amnestici.

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Scambi categoriali. Ancora una volta, la differenza più evidente tra i gruppi

confrontati sta nel numero di scambi di categoria lessicale: in questo caso, dato

che stiamo parlando di dissociati-meglio-nomi, si tratta del numero di N_V e

S/Ogg nella denominazione delle azioni.

In sostanza, i due afasici amnestici commettono uno di questi due errori

(producendo, quindi, un nome al posto di un verbo) il 3% delle volte che devono

denominare un’azione, mentre gli afasici di Wernicke lo fanno nel 24% dei

casi.31

Anche gli agrammatici fanno un gran numero di scambi di categoria nel

denominare le azioni (26% dei casi): la differenza tra amnestici e agrammatici è,

quindi, anch’essa molto marcata, pur se non statisticamente significativa (vedi

nota 2).

Come si può vedere, le attese differenze emergono, ma non distinguono gli

agrammatici dagli afasici di Wernicke, bensì gli afasici amnestici dagli altri due

gruppi.

Risposte corrette, risposte nulle e parafasie. Come viene compensata questa

grande differenza di scambi categoriali?

Se confrontiamo amnestici e Wernicke (Tabella 5), sembra che il maggior

numero di risposte corrette dei primi (43% contro 19%) compensi del tutto la

differenza sottolineata sopra.

31 Data l’esiguità dei campioni, qualsiasi tipo di confronto statistico perde notevolmente in

affidabilità: ci baseremo, quindi, soltanto su confronti qualitativi, senza l’appoggio di teststatistici.

L’esiguità dei campioni limita la validità statistica di questi risultati, che restano, però, anostro avviso, molto importanti per i suggerimenti che possono dare sull’aspetto qualitativo delfenomeno della dissociazione nomi-verbi: le ipotesi sui meccanismi che causano questadissociazione produrranno previsioni che potranno poi essere confermate o disattese da studiquantitativamente più estesi (e quindi statisticamente significativi).

Inoltre, da un punto di vista epistemologico, l’esiguità del campione limita l’estendibilitàdei risultati al gruppo di appartenenza, ma non la validità e l’importanza teorica del dato in sé.

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Confrontando, invece, amnestici e agrammatici (Tabella 6), si nota che la

differenza di scambi categoriali è compensata, oltre che dalle risposte corrette

(43% gli amnestici, 38% gli agrammatici), anche dalle risposte nulle (15%

contro 8%), dalla parafasie semantiche e verbali (17% contro 15%) e dalle

produzioni di argomenti del verbo insieme a verbi leggeri (5% contro 1%).

Percentuale di scambi categoriali sul totale degli errori. Se consideriamo

solo le risposte scorrette (cosa che ci permette di avere dei dati “al netto” della

capacità generale di denominare i verbi), il 5% degli errori commessi dagli

amnestici alla denominazione di azioni è un errore che comporta la produzione

di un nome semanticamente (N_V) o sintatticamente (S/Ogg) relato: errori di

questo tipo costituiscono, invece, il 41% degli errori totali degli agrammatici e il

29% degli errori totali degli afasici di Wernicke.

Comincia ad emergere una prima differenza tra afasici di Wernicke e

agrammatici: la peggior prestazione media di questi ultimi fa sì che, se anche il

numero di errori sintagmatici è confrontabile in assoluto, la percentuale di questi

sia maggiore negli agrammatici.

Tabella 5: scambi categoriali, risposte corrette, risposte nulle e parafasie nelladenominazione delle azioni dei DMN

R+ N_V S/Ogg. Ø PS-cat+ PV-cat+Amnestici (n=2) 43 3 0 15 16 1Wernicke (n=7) 19 14 10 19 10 3

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Tabella 6: scambi categoriali, risposte corrette, risposte nulle e parafasie nelladenominazione delle azioni dei DMN

R+ N_V S/Ogg. Ø S/Ogg.+Vppt PS-cat+ PV-cat+Amnestici (n=2) 43 3 0 15 5 16 1Agrammatici (n=5) 38 16 10 8 1 12 3

Circonlocuzioni e S/Ogg+Vppt. La differenza tra afasici di Wernicke e

agrammatici che abbiamo appena sottolineato è compensata dalla diversa

percentuale di quel tipo di errori che indicano la presenza di un verbo e di una

struttura frasale, per quanto semplice e imperfetta.

Come potevamo prevedere visti i marcati problemi sintattici dei pazienti con

agrammatismo, questi ultimi producono una circonlocuzione o un argomento del

verbo con un verbo leggero (S/Ogg+Vppt) solo nel 7% dei loro errori; i pazienti

con afasia di Wernicke, al contrario, fanno uno di questi due errori il 17% delle

volte che sbagliano, essendo in questo molto più simili agli afasici amnestici

(16% degli errori sono circonlocuzioni o S/Ogg+Vppt).

Più parafasie o più scambi? Un altro dato interessante è quello per cui gli

afasici di Wernicke, nella denominazione delle azioni, fanno molti più scambi di

categoria (24% degli item, come abbiamo detto sopra) che parafasie semantiche

o verbali (13%): in altre parole, quando sbagliano a denominare un’azione,

molto più spesso producono un nome relato piuttosto che un verbo scorretto. Un

andamento simile è manifestato dagli agrammatici: 26% di scambi contro 15%

di parafasie semantiche e verbali.

In entrambi i gruppi prevalgono, perciò, gli scambi che abbiamo chiamato a

pagina 113, sintagmatici.

Al contrario, gli afasici amnestici producono più spesso (17% degli item

contro 3%) un verbo sbagliato piuttosto che un nome (Figura 10).

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In sostanza, i dati presentati a proposito dei dissociati-meglio-nomi indicano

che, mentre gli amnestici DMN tendono a sbagliare la denominazione delle

azioni mantenendo la classe grammaticale del target (producendo, in

maggioranza, scambi paradigmatici), gli afasici di Wernicke e gli agrammatici

più spesso producono un nome, semanticamente o sintatticamente relato, al

posto del verbo corretto, facendo, cioè, più scambi sintagmatici che

paradigmatici.

Inoltre, gli afasici di Wernicke e gli afasici amnestici producono anche molte

circonlocuzioni e molti S/Ogg+Vppt, indicando una capacità relativamente

conservata di costruzione della struttura frasale; questo tipo di errori è invece

più raro negli agrammatici.

Capacità generale di produrre verbi. Consideriamo, poi, tutti gli item (sia

quelli corretti che quelli sbagliati) e contiamo il numero di volte che ciascun

afasico DMN è riuscito, in assoluto, a produrre un verbo per un verbo, cioè ad

accedere al magazzino lessicale dei verbi.

In concreto, si tratta di considerare la frequenza totale di risposte corrette,

latenze, parafasie semantiche e verbali, circonlocuzioni e S/Ogg+Vpp, cioè tutti

quei tipi di risposta che presuppongono la produzione di un elemento della

categoria corretta; ciò che si osserva è che gli amnestici accedono a quel

magazzino nel 78% dei casi, gli agrammatici nel 64% e i Wernicke soltanto nel

51%.

Gli afasici amnestici e quelli di Wernicke si comportano come potevamo

prevedere in base agli altri risultati dell’analisi qualitativa. I primi producono

spesso un verbo quando sbagliano e quindi ci aspettiamo che mostrino un

accesso al magazzino lessicale dei verbi carente, ma non gravemente

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Figura 10: scambi di categoria e parafasie semantiche (con categoria lessicale corretta)nella denominazione delle azioni da parte dei DMN.

compromesso, mentre i secondi più frequentemente scivolano su un nome e,

quindi, ci aspettiamo che abbiano maggiore difficoltà a produrre verbi in

assoluto: queste previsioni sono verificate (Figura 11).

Così non è per gli agrammatici, che, quando sbagliano, producono un nome

al posto di un verbo come gli afasici di Wernicke, ma, in assoluto, dimostrano di

sapere accedere meglio di loro al magazzino lessicale dei nomi (figura 11).

Capacità generale di produrre verbi e scivolamenti sul nome. Le previsioni

sopraccitate si basavano sull’assunto che un gran numero di scivolamenti verso

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la categoria lessicale meno compromessa (i nomi) fosse indice di un accesso

molto difficoltoso al magazzino maggiormente leso (quello dei verbi).

Stimolati dal fatto che, come abbiamo visto, le previsioni fondate su questo

assunto non sono sempre state confermate, ci siamo proposti di verificare la

plausibilità dell’assunto stesso.

Abbiamo quindi calcolato il coefficiente di correlazione lineare e la retta di

regressione tra quello che noi consideravamo un indice della capacità di accesso

al magazzino dei verbi -il numero di scambi categoriali nella denominazione

delle azioni (considerati come variabile indipendente)- e il numero di verbi

Figura 11: denominazione delle azioni nei dissociati-meglio-nomi. Capacità generale diprodurre verbi e scivolamenti sul nome sembrano non correlare inversamente.

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realmente prodotti sul totale delle 40 azioni da denominare (variabile

dipendente).

Il risultato è molto chiaro: l’indice di Pearson (r) è assai basso. Esso, infatti, è di

-.24, il che significa che il modello lineare di regressione spiega solo il 6% della

varianza della variabile dipendente (r2 = .057; p = .31, n.s.; vedi Figura 12).

In Figura 13, il coefficiente di correlazione lineare e la retta di regressione sono

calcolati anche per il gruppo degli agrammatici e per gli afasici di Wernicke

Figura 12: denominazione delle azioni di tutti i dissociati-meglio-nomi. Correlazione eregressione lineare tra gli scambi categoriali e il numero totale di verbi prodotti: come sipuò vedere, la correlazione è molto bassa e il modello di regressione spiega solo il 6%della varianza totale dei dati

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(non per gli afasici amnestici (due) e per l’afasico di Broca non agrammatico

(uno solo) perché troppo poco numerosi): di fatto, nemmeno nei singoli gruppi

di pazienti si vede l’attesa correlazione, anche se negli agrammatici emerge un

trend (r2 = .46; p = .21 n.s.), che, invece, non si vede negli afasici di Wernicke

(r2 = .045; p = .64 n.s.).

Figura 13: denominazione delle azioni dei dissociati-meglio-nomi. Correlazione eregressione lineare tra gli scambi categoriali e il numero totale di verbi prodotti neisingoli gruppi afasici: soltanto nel gruppo dei pazienti agrammatici si nota unacorrelazione tra le due grandezze ed è possibile costruire un modello lineareabbastanza predittivo.

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2.2.3 Analisi per tipo di afasia: dissociati-meglio-verbi

Prima di osservare i dati, ricordo che questo gruppo è composto da cinque

afasici amnestici e un solo afasico di Wernicke: ciò significa che, mentre il

profilo dei primi è un “vero profilo medio”, da cui si possono, con la dovuta

cautela (data la limitatezza numerica del campione), fare ipotesi generali su tutti

gli afasici amnestici, il profilo del paziente con afasia di Wernicke è un profilo

singolo, informativo solo su quel paziente; su di esso, è legittimo soltanto

costruire ipotesi di lavoro sui meccanismi della dissociazione che agiscono su

quel soggetto, non su tutti gli afasici di Wernicke.

Scambi sintagmatici. Un primo dato interessante è quello per cui sia il

paziente con afasia di Wernicke che i 5 pazienti con afasia amnestica non

producono mai un verbo al posto di un nome quando devono denominare un

oggetto: quando devono recuperare un’entrata lessicale della categoria più

danneggiata, questi soggetti non ”scivolano” mai su un’entrata lessicale della

classe opposta.

Ricordiamo che, nei DMN, gli afasici di Wernicke erano proprio quelli che

più massicciamente manifestavano questo fenomeno (lo “scivolamento” su

un’entrata lessicale della categoria meno danneggiata): se la tendenza mostrata

da questo paziente fosse confermata da altri afasici di Wernicke DMV, ecco che

emergerebbe un’altra delle asimmetrie che caratterizzano la dissociazione nomi-

verbi.

Scambi paradigmatici e risposte nulle. Un secondo elemento che emerge in

modo piuttosto evidente è la differenza molto marcata tra il numero di parafasie

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semantiche o verbali (scambi paradigmatici) e il numero di risposte nulle nel

gruppo degli amnestici: 51% contro 11%. Questa differenza è presente anche nel

paziente con afasia di Wernicke, ma in modo molto marcato (40% contro 23%).

Sembra, quindi, che gli amnestici abbiano tendenzialmente maggiore

difficoltà dell’afasico di Wernicke a produrre un nome.

Questa impressione è confermata da un altro fatto: considerando solo gli

errori (come abbiamo detto a pagina 121, questo ci aiuta ad avere dati al netto

dell’entità del deficit generale di denominazione), il paziente con afasia di

Wernicke produce un nome il 48% delle volte che sbaglia a denominare un

oggetto, mentre gli amnestici, in media, hanno questo comportamento solo nel

19% dei casi (nel restante 80% fanno soprattutto risposte nulle).

In conclusione, gli amnestici dissociati-meglio-verbi sembrano avere un

accesso difficoltoso al “magazzino lessicale” dei nomi; il paziente con afasia di

Wernicke, al contrario, sembra riuscire più facilmente a recuperare nomi,

producendo, però, spesso parafasie semantiche o verbali.

2.3 Discussione

2.3.1 Dissociati-meglio-nomi e dissociati-meglio-verbi

Diversi meccanismi di dissociazione? La domanda da cui siamo partiti

nell’analisi qualitativa dei protocolli era la seguente: il disturbo selettivo per i

nomi e quello selettivo per i verbi hanno le stesse caratteristiche oppure no?

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Detto in altro modo, i fenomeni comportamentali che si verificano nei DMN e

nei DMV sono simili oppure diversi?

I nostri dati non rivelano profili d’errore simmetrici e speculari tra DMN e

DMV , ma, al contrario, profili caratterizzati da fenomeni qualitativi differenti.

I DMN fanno un numero significativamente più alto di scambi di categoria

(sintagmatici) nella denominazione delle azioni rispetto a quanti ne facciano i

DMV nella denominazione degli oggetti; i DMV, a loro volta, fanno molte più

risposte nulle ai nomi di quante ne facciano i DMN ai verbi.

E’ possibile dare due tipi di interpretazione alla diversità dei profili d’errore:

potremmo dire che i dati testimoniano che la dissociazione-meglio-

verbi e la dissociazione-meglio-nomi sono fenomeni realmente diversi tra loro,

non due “aspetti” di un unico fenomeno; per questa ragione le caratteristiche dei

profili d’errore dei DMN e dei DMV non sono speculari, ma qualitativamente

differenti tra loro.

alternativamente, potremmo sostenere che la diversità dei profili

d’errore è causata da un deficit unitario, uguale nelle due dissociazioni; esso

colpisce, però, due categorie grammaticali diverse, non solo nel senso di

distinte, ma anche nel senso di strutturalmente differenti. Le due classi

avrebbero proprietà, struttura e caratteristiche specifiche, diverse tra loro, tali da

fare emergere pattern di errore diversi, pur essendo in atto il medesimo processo

patologico.

Scegliere tra le due spiegazioni è praticamente impossibile con i dati a

disposizione; la seconda ipotesi è forse più economica da un punto di vista

neuropsicologico, ma ha bisogno di appoggiarsi ad una teoria psicolinguistica

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che spieghi quali differenze tra nomi e verbi possano causare un comportamento

così diverso tra i DMV e i DMN nella classe grammaticale più danneggiata.

Perché mai un afasico con problemi specifici ai nomi dovrebbe produrre

risposte nulle o parafasie semantiche piuttosto che scivolare verso un verbo

semanticamente relato?

E, simmetricamente, quali caratteristiche dei verbi dovrebbero condurre i

DMN a fare molti più scambi sintagmatici che paradigmatici?

La risposta a queste domande è tutt’altro che banale: nessuna teoria

psicolinguistica attuale giustifica in modo esplicito queste asimmetrie.

Quale meccanismo di dissociazione? Il profilo d’errore medio dei DMN

potrebbe essere spiegato nel modo seguente.

Nell’esporre questa ipotesi, farò riferimento alla teoria dell’accesso lessicale

di Levelt, Roelofs e Meyer (1999) (vedi capitolo 2); essa è la teoria dell’accesso

lessicale più completa che abbiamo oggi a disposizione e si presta molto bene a

spiegare gli scivolamenti verso la categoria meno danneggiata tipici dei DMN.

Sottolineo, però, che il meccanismo che vado ad esporre è, in realtà, applicabile

anche in contesti teorici dell’accesso lessicale diversi da quello di Levelt et al.

(1999).

Nel modello leveltiano, a livello del lemma, ogni nodo lessicale è legato ad

una serie di nodi sintattici i quali specificano tutte le sue caratteristiche morfo-

sintattiche, tra cui anche la classe lessicale.

Potremmo ipotizzare che i DMN abbiano un disturbo, più o meno grave, di

alcuni di questi nodi sintattici, in particolare proprio di quelli che specificano le

“etichette di categoria lessicale”; questo deficit avrebbe conseguenze assai più

eclatanti sull’elaborazione delle etichette verbali rispetto a quelle nominali, per

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via del fatto che le prime sono molto più ricche di informazioni sintattiche

(contengono, infatti, la griglia tematica del verbo e le regole di

sottocategorizzazione).

Nella teoria di Levelt at al. (1999), i nodi lessicali sottostanti alla

rappresentazione dei verbi e quelli sottostanti alla rappresentazione dei nomi

stanno in un unico magazzino lessicale e sono legati tra loro da legami

associativi del tutto uguali a quelli che uniscono nomi con nomi e verbi con

verbi.

Stando così le cose, quando un afasico cercherà di denominare un’azione, il

nodo lessicale corrispondente si attiverà, ma a volte esso non potrà essere

recuperato a causa della lesione alla sua etichetta categoriale (“verbo”), senza la

quale il lemma non può trovare una sistemazione nella frase.

Quando il lemma di un verbo non è recuperabile, è probabile che si attivino i

lemmi di altre parole, semanticamente relate a quella non recuperata.

I nodi semanticamente relati sono, però, sia nomi che verbi: se le etichette

lessicali dei nomi sono meno danneggiate, è più probabile che sarà selezionato

un nome, che ne sarà recuperato il lessema (vedi teoria di Levelt et al. (1999) al

capitolo 2) e la corrispondente sequenza fonologica; questo meccanismo porterà

piuttosto spesso alla produzione di nomi relati al verbo-target.

Ovviamente, essendo la lesione delle etichette lessicali verbo di entità

variabile e, comunque, mai totale, potranno essere prodotte anche delle risposte

corrette o delle parafasie semantiche.

Questa ipotesi prevede necessariamente un numero piuttosto rilevante di

scambi sintagmatici (N_V e S/Ogg) e non sembra, perciò, essere applicabile ai

DMV.

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Essi, infatti, come abbiamo visto, non producono quasi mai un verbo per un

nome quando denominano gli oggetti: molto più frequentemente, non riescono a

recuperare nulla oppure producono elementi stereotipati. Sembra, quindi, che i

DMV “sappiano” in modo implicito di dover produrre un nome, cosa che

permette loro di non scivolare mai sulla categoria opposta.

Potremmo dire, quindi, che i DMV non hanno quel deficit che abbiamo

ipotizzato nei DMN e cioè un problema a livello del lemma che causa la perdita

delle informazioni riguardanti la classe lessicale: sembrerebbe che il loro deficit

sia più periferico, più spostato verso il livello del lessema, e quindi non tale da

compromettere le informazioni sulla categoria grammaticale.

In questo senso và anche il dato per cui la variabile lessicale che più

influenza la prestazione dei DMV è la frequenza (Luzzatti et al., 2002) che in

letteratura è stata indicata come caratteristica non tanto del livello semantico o

lessicale-sintattico, ma di un livello lessicale-fonologico (Berndt et al., 1997).

Scivolamento sul nome e capacità di produrre verbi. Se davvero il problema

dei DMN fosse a livello del lemma e si realizzasse nel modo ipotizzato,

dovremmo aspettarci un numero tanto maggiore di scivolamenti sul nome

quanto più è grave la lesione dell’etichetta verbo. In altre parole, più grande è il

deficit delle etichette lessicali verbali, maggiore sarà la probabilità di selezionare

nomi relati al target piuttosto che verbi relati al target in caso di errore.

Ci aspettiamo, quindi, una correlazione negativa tra la capacità generale di

produrre verbi e il numero di scivolamenti sul nome.

Un modo piuttosto diretto per “misurare” la capacità generale di produrre

verbi è contare il numero di volte che un paziente è riuscito a dire un verbo

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134

quando doveva denominare un’azione, indipendentemente dal fatto che questo

verbo fosse giusto o sbagliato.

Concretamente, quindi, ci aspettiamo una correlazione negativa tra il numero

di verbi prodotti in totale nel compito di denominazione delle azioni e il numero

di scivolamenti sul nome rispetto al totale degli errori commessi: infatti,

secondo il nostro modello esplicativo, meno verbi un paziente produce in totale,

maggiore sarà il deficit all’etichetta lessicale verbo, maggiore la probabilità che,

tra i nodi lessicali attivati dall’immagine del test di denominazione, ne sia

selezionato uno nominale.

In realtà, così non è! La correlazione tra le due grandezze è molto bassa

(vedi Figura 12); non solo, ma nemmeno i modelli non-lineari (polinomiali di

grado maggiore o uguale a due, logaritmici, esponenziali) riescono a spiegare

più del 30% della varianza dei dati. Possiamo dire con realtiva certezza che le

due variabili considerate sono indipendenti.

Alla luce dei dati, quindi, sembra evidente che lo scambio sintagmatico (la

produzione di un nome al posto di un verbo nella denominazione delle azioni) è

un fenomeno indipendente dalla capacità generale di recuperare verbi.

Ricordo ancora che, anche assumendo modelli psicolinguistici diversi da

quello di Levelt et al. (1999), ad esempio modelli che prevedono due magazzini

lessicali separati e interconnessi per nomi e verbi, l’osservazione non perde il

suo valore teorico e resta interessante per la corretta interpretazione del

fenomeno dissociativo.

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2.3.2 Dissociazione-meglio-nomi e tipo di afasia

Due profili differenti. Anche occupandoci delle sindromi afasiche e del loro

rapporto con la dissociazione nomi-verbi ci imbattiamo in una contrapposizione

tra due tipi di profili qualitativi piuttosto diversi.

I due quadri d’errore che emergono sono gli stessi che si notavano nel

confronto tra DMV e DMN: uno ricco di scambi sintagmatici e uno

caratterizzato dalla tendenza alla produzione di scambi paradigmatici.

Da una parte, abbiamo gli amnestici DMN che sembrano comportarsi nella

denominazione delle azioni come i DMV facevano nella denominazione degli

oggetti: essi fanno solo il 3% di scambi categoriali (il 5% di tutti gli errori

commessi), producono più parafasie semantiche che scambi di classe (17%

contro 3%) e riescono a produrre un verbo il 78% delle volte che devono

denominare un’azione.

Sull’altro versante si pongono gli afasici di Wernicke e agrammatici, i quali,

al contrario, fanno più scambi categoriali che parafasie (rispettivamente, 24%

contro 13% e 26% contro 15%) e scivolano su un nome molto più spesso degli

afasici amnestici (nel 29% degli errori gli afasici di Wernicke, nel 41% errori gli

agrammatici).

Sembra, quindi, che anche all’interno della dissociazione-meglio-nomi siano

presenti modi diversi di sbagliare, anche se non si associano, come avremmo

previsto, uno agli agrammatici e uno agli afasici di Wernicke.

Torneremo su questo punto tra poco, dopo aver sottolineato una prima

conseguenza di questo dato.

Ora non abbiamo più a che fare con due categorie lessicali diverse, ma con

una sola: quindi, non può più essere avanzata l’ipotesi esplicativa di un unico

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meccanismo di disturbo che dà origine a quadri d’errore diversi perché colpisce

due componenti del sistema linguistico molto diverse tra loro. Dobbiamo

necessariamente ammettere l’esistenza di due diversi meccanismi di comparsa

del deficit principale.

Agrammatici e afasici di Wernicke. Appurata l’esistenza di due meccanismi

dissociativi diversi, occupiamoci di vedere se essi associano in modo

preferenziale con qualcuna delle diverse sindromi afasiche.

I dati ottenuti sottolineano un’evidente asimmetria tra la prestazione degli

afasici amnestici da un lato e quella degli afasici di Wernicke e degli

agrammatici dall’altro. Il gruppo degli afasici amnestici è, però, troppo piccolo

per essere considerato rappresentativo e quindi non avrebbe molto senso

discutere il confronto suggerito dai dati: i risultati emersi potrebbero essere

causati dalla particolarità di questi due pazienti.

Più interessante è sicuramente il confronto tra agrammatici e afasici di

Wernicke sia per via della maggiore rappresentatività dei campioni che per

alcune ragioni teoriche.

Come abbiamo anticipato nell’introduzione, questi due gruppi hanno dei

quadri patologici molto diversi tra loro: gli agrammatici sono pazienti afasici

non fluenti, costruiscono strutture frasali molto semplici, hanno grosse difficoltà

sintattiche e/o morfologiche, mentre gli afasici di Wernicke sono fluenti, sanno

costruire anche frasi relativamente lunghe e complesse, manifestano problemi a

livello soprattutto lessicale, fonologico e semantico, con relativo risparmio della

sintassi (vedi pagine 54 e 58).

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La diversità dei quadri sindromici non vieta, ovviamente, che entrambi

manifestino una superiorità ai nomi, ma lascia legittimamente prevedere che il

fenomeno emerga in modo differente.

Inoltre, i pazienti considerati in questo studio manifestavano delle lesioni

notevolmente differenti: gli agrammatici avevano lesioni perisilviane sinistre

molto ampie che andavano praticamente a distruggere tutte le aree linguistiche,

mentre gli afasici di Wernicke mostravano o lesioni corticali limitate alle aree

temporo-parietali, nelle vicinanze del giro sovramarginale o lesioni

esclusivamente sottocorticali in corrispondenza della corteccia insulare.

A maggior ragione, quindi, ci aspettavamo delle differenze tra questi due

gruppi: prevedevamo che gli agrammatici avrebbero fatto molti scambi di

categoria e poche parafasie, che non avrebbero quasi mai costruito strutture

frasali (poche circonlocuzioni e S/Ogg+Vppt), che avrebbero mostrato un grosso

effetto di immaginabilità (forse dovuto all’emergenza delle capacità linguistiche

dell’emisfero destro), mentre gli afasici di Wernicke avrebbero mostrato buone

strutture frasali, pochi scambi di categoria e molte parafasie.

Considerando sia i risultati dell’analisi quantitativa che quelli dell’analisi

qualitativa dei dati, non si notano le differenze attese: entrambi i gruppi

manifestano l’effetto di immaginabilità e non di frequenza d’uso, per entrambi

gli errori più comuni sono gli scambi sintagmatici, che vengono commessi

molto più spesso di quelli paradigmatici, entrambi fanno all’incirca lo stesso

numero di parafasie semantiche e verbali.

Le uniche differenze riguardano la maggior frequenza di circonlocuzioni e

S/Ogg+Vppt negli afasici di Wernicke (probabilmente legate al fatto che questi

pazienti sono fluenti) e il maggior numero di risposte nulle sempre nei pazienti

con afasia di Wernicke.

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Agrammatici e meccanismo dissociativo. In realtà, c’è un’altra differenza

tra i due gruppi di afasici che non risalta in modo esplicito dai profili d’errore.

Nel paragrafo 2.3.1 dicevamo che un requisito necessario per dare qualche

credito all’ipotesi di meccanismo dissociativo esposta a pagina 131 (deficit a

livello del lemma con perdita delle informazioni sulla classe grammaticale) era

la presenza di una correlazione negativa tra il numero di scivolamenti sul nome

e il numero totale di verbi prodotti nella denominazione delle azioni;

correlazione che non è stata trovata nell’intero campione di DMN dello studio.

In realtà, se consideriamo solo i DMN agrammatici, questa correlazione

inversa è presente (r = -.68, vedi pagina 127): il dato non raggiunge la

significatività statistica (p = .21), ma è così diverso da quello ottenuto con tutti i

DMN (r = -.24) e con i Wernicke (r = .21) da non poter essere trascurato.

Il dato è di difficile interpretazione: certo non prova che il meccanismo

dissociativo ipotizzato (lesione a livello del lemma con deficit delle etichette di

categoria lessicale) agisce davvero negli agrammatici e non nei Wernicke, ma

l’indicazione che fornisce va in questa direzione.

2.3.3 Dissociazione-meglio-verbi e tipo di afasia

L’interpretazione dei risultati riguardanti i DMV è più incerta data la

dimensione ridotta del campione.

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139

In particolare, essendo un solo afasico di Wernicke dissociato a favore dei

verbi, devo considerare i dati ottenuti su di lui come dati non generalizzabili, ma

informativi solo su quel paziente.

Egli produce soprattutto risposte nulle (40%) e parafasie semantiche (23%),

dimostrando una capacità di produzione dei nomi non particolarmente brillante

(ha risposto con un nome al 57% degli item e nel 48% degli errori), ma

decisamente migliore di quella degli amnestici. Questi, infatti, producono un

nome solo il 38% delle volte che devono denominare un oggetto (il 19% degli

errori), mentre producono molte più risposte nulle (51%).

Questi dati non sembrano in grado di darci suggerimenti sul possibile

meccanismo dissociativo specifico in atto negli amnestici e nei dissociati-

meglio-verbi con afasia di Wernicke né sembrano evidenziare asimmetrie simili

a quelle rilevate tra DMV e DMN e all’interno dei DMN tra amnestici,

agrammatici e Wernicke.

2.4 Profili di singoli soggetti

Tutti i dati discussi fino ad ora sono stati ottenuti su profili medi, costruiti,

cioè, aggregando i profili dei soggetti per sindrome afasica; era, perciò,

importante verificare la distribuzione dei profili dei singoli pazienti.

In particolare, volevamo dimostrare che:

esistono davvero due principali tipi di profili d’errore differenti tra

loro: abbiamo, quindi, cercato se tra i profili singoli ce ne fosse

qualcuno paradigmatico per ciascuna delle due tendenze osservate

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nei profili medi (quella a scivolare verso il nome e quella a produrre

parafasie o riposte nulle).

ciascuno dei due profili è tipicamente presente in determinati tipi di

dissociazione e in determinati tipi di afasia.

2.4.1 Due profili contrapposti

Consideriamo la prestazione al compito di denominazione delle azioni dei

soggetti FC e GP (vedi Appendice).

Entrambi sono dissociati-meglio-nomi; FC ha un’afasia di Broca con

agrammatismo, mentre GP è uno di quei soggetti che non era stato possibile

classificare in una classica sindrome afasica.

In Tabella 7 sono riportati i loro profili.

Come si può vedere in modo piuttosto chiaro essi hanno una prestazione

abbastanza scadente e circa pari quantitativamente (30% di risposte corrette FC

e 37,5% GP).

I loro profili d’errore sono però nettamente diversi, essendo uno dominato

dagli scambi di categoria (produzione di nomi al posto di verbi) e uno

caratterizzato più dalle parafasie e dalle risposte nulle; mentre FC tende in modo

netto a produrre nomi al posto di verbi (N_V e S/Ogg costituiscono il 42% di

tutto il profilo) GP non presenta questa tendenza (i due errori citati sopra

riguardano solo il 7,5% delle risposte), ma riesce a produrre spesso un nome

anche quando sbaglia la denominazione (parafasie semantiche, parafasie verbali

e latenze, le quali prevedono la produzione di un nome scorretto o recuperato

dopo più di tre secondi dallo stimolo, coprono il 32,5% del profilo).

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Abbiamo quindi visto come i due profili tipici rivelati dall’analisi dei

profili medi non siano un artefatto derivato dall’aggregazione dei dati, ma, al

contrario, caratterizzino una contrapposizione reale tra due modalità

“preferenziali“ di errore.

2.4.2 Tipo di dissociazione/afasia e profili qualitativi

Queste “modalità preferenziali” d’errore si associano davvero a determinati

tipi di afasia e di dissociazione come i profili aggregati sembrano suggerire?

Per rispondere a questa domanda abbiamo cercato di capire quanti tra i

componenti di ciascun gruppo manifestano un profilo d’errore in linea con

quello medio del gruppo stesso; i dati sono riassunti in Tabella 8.

Tabella 7: profili qualitativi d’errore di FC, paziente con agrammatismo e GP, non classificato.

R+ Latenza N_V S/Ogg S/Ogg+ Vppt Circ PS-cat+ PV-cat+ Neol Ø Visivo Altro

FC (Agr) num 12 2 9 8 1 1 3 0 0 3 1 0

perc 30 5 22,5 20 2,5 2,5 7,5 0 0 7,5 2,5 0

GP (NC) num 15 2 3 0 0 1 9 2 0 6 1 1

perc 37,5 5 7,5 0 0 2,5 22,5 5 0 15 2,5 2,5

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Come si può vedere, la tendenza indicata dai profili aggregati non è sempre

confermata dai profili singoli.

Il gruppo dei DMV sembra essere il più omogeneo: cinque dei sei

componenti presentano un profilo d’errore “tipico”, mentre uno soltanto (APr) si

discosta da esso. Inoltre, il profilo di APr è diverso, ma non contrapposto a

quello medio dei DMV: in sostanza, non presenta molti scivolamenti sul verbo

(scambi sintagmatici).

Il gruppo degli amnestici DMN è costituito da soli due soggetti che, per

giunta, non si comportano nello stesso modo: il profilo del paziente AC è

dominato dalle parafasie, mentre quello di GM dalle risposte nulle. Per questa

ragione non è possibile parlare di un vero e proprio “profilo medio dei DMN

amnestici”.

Gli altri due gruppi di DMN non sembrano godere di omogeneità,

considerando che presentano al loro interno degli afasici con un profilo opposto

a quello previsto: è il caso, ad esempio, di LR, dissociato-meglio-nomi e afasico

di Wernicke, che presenta una netta prevalenza di risposte nulle e parafasie a

fronte di solo tre scivolamenti sul nome.

In conclusione, possiamo dire che le associazioni tra tipi di errore e tipo di

dissociazione/afasia che i profili medi aggregati ci hanno suggerito sembrano

essere relativamente affidabili (fatta eccezione per il gruppo dei DMN

amnestici): la maggioranza dei soggetti di ciascun gruppo si comporta, infatti,

come il profilo medio del gruppo stesso lascia prevedere. Esistono, tuttavia,

eccezioni significative e non rare che sottolineano come quelle associazioni non

siano assolute, ma siano piuttosto da considerare come semplici tendenze.

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Tabella 8: i profili dei singoli pazienti rispettano quelli aggregati della classe cui appartengono?

GRUPPI PROFILO MEDIO N° TOTALEN° PROFILI

TIPICISOGGETTI CON PROFILI NON

TIPICI

DMV ainomi

Netta prevalenza di risposte nulle;qualche parafasia semantica equalche circonlocuzione; nessunoscivolamento su verbo.

6 5Apr: molte parafasie, pochissimerisposte nulle

DMNamnestici aiverbi

Prevalenti risposte nulle e parafasie;qualche latenza e scivolamento sunome (non più della metà delleparafasie).

2 0GM: più risposte nulle che parafasie.AC: più parafasie che risposte nulle.

DMNagrammaticiai verbi

Prevalenza di scambi categoriali,(circa il doppio delle parafasie);qualche latenza e risposta nulla.

5 3

LZ: più parafasie che scivolamentisul nomeMBI: stesso numero di parafasie escambi categoriali; molte rispostenulle

DMNWernickeai verbi

Netta prevalenza di scambicategoriali su parafasie (circa ildoppio delle parafasie);numeroconsistente di risposte nulle.

7 4

LR: netta prevalenza di risposte nullee parafasieCB: molte più parafasie che scambiSM: stesso numero di parafasie escambi; molte risposte nulle

2.5 Conclusioni

In conclusione, che cosa ci hanno detto i dati qualitativi a proposito delle

domande che ci eravamo posti all’inizio del lavoro?

Il risultato più evidente e forte (anche in senso statistico) sembra essere la

presenza di due diversi pattern di errore ricorrenti, uno caratterizzato dalla

tendenza a sbagliare producendo, però, una parola della giusta classe lessicale o

non producendo nulla e uno caratterizzato invece dalla tendenza a cambiare

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144

classe grammaticale e a produrre comunque un lemma della classe lessicale

meno danneggiata.

L’interpretazione di questo dato può essere duplice, come abbiamo visto:

potrebbero dare origine a questo quadro sia due deficit cognitivi realmente

diversi sia un deficit cognitivo unico, che, però, ha due diversi meccanismi di

azione, dovuti, per esempio, alle differente organizzazione cognitiva delle

rappresentazioni lessicali di nomi e verbi.

I due quadri contrapposti, però, sono presenti anche all’interno della stessa

dissociazione (quella meglio-nomi), dove evidentemente la struttura cognitiva

colpita è la stessa (il magazzino dei verbi): di conseguenza, l’ipotesi secondo cui

le differenze qualitative emergono per via del diverso locus del deficit non può

essere sostenuta.

Esistono, dunque, due diversi meccanismi dissociativi: ma quali sono? che

caratteristiche hanno?

Qui i risultati sono meno chiari.

I profili d’errore caratterizzati dagli scambi sintagmatici ci hanno fatto

immaginare un deficit delle etichette lessicali a livello del lemma, che

comprometterebbe le informazioni a proposito della classe grammaticale e altre

informazioni sintattico-lessicali, come la griglia dei ruoli tematici; questo tipo di

disturbo sembra rendere conto degli scambi di categoria e della povertà di

circonlocuzioni e S/Ogg+Vppt (a causa della perdita dei ruoli tematici; Berndt,

1997).

Questo tipo di disturbo si manifesta solo nei DMN e ciò è coerente col fatto

che un deficit a livello del lemma dovrebbe disturbare maggiormente i verbi a

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causa della maggiore complessità delle informazioni sintattico-lessicali

contenute nei lemmi dei verbi.

Questa ipotesi ha tuttavia dei problemi: in particolare, prevedrebbe una

correlazione negativa tra la capacità generale di produrre un verbo e il numero di

scivolamenti sui lemmi della classe nome; correlazione che non esiste, se non

nel gruppo degli agrammatici DMN.

I profili ricchi di parafasie e risposte nulle e poveri di scambi sintagmatici ci

hanno invece suggerito un deficit più periferico.

Infatti, la mancanza di scivolamenti sulla classe opposta sembra testimoniare

una conservazione delle informazioni sulla categoria lessicale dei lemmi: questi

pazienti “sanno” che devono produrre un nome oppure che devono produrre un

verbo e sanno valutare, se non altro in modo implicito, se la parola che stanno

per dire è un nome o un verbo. Questa competenza fa intuire che il livello del

lemma deve essere in qualche modo risparmiato in questi pazienti.

Da ultimo, i profili medi dei diversi gruppi facevano pensare alla presenza di

associazioni tra il profilo qualitativo d’errore e il tipo di dissociazione e di

afasia; in particolare, sembrava che i DMV tendessero a fare scambi

paradigmatici, mentre i DMN con afasia di Wernicke e i DMN agrammatici

tendessero a fare scambi sintagmatici.

L’analisi dei singoli profili dei pazienti non ha confermato con chiarezza

queste associazioni, anzi ne ha ridimensionato la forza: esse sono tendenze

significative, rispettate dalla maggioranza dei soggetti, ma anche caratterizzate

da non rare eccezioni di un certo interesse teorico (come i soggetti LR,

Wernicke atipico, e LZ, agrammatico atipico).

Riassumendo, sembra che:

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1. esistano due profili principali di errore, uno caratterizzato

prevalentemente da scambi categoriali, l’altro da parafasie

semantiche o verbali e da risposte nulle; essi testimoniano l’esistenza

per lo meno di due diversi meccanismi dissociativi, se non addirittura

di due diverse tipologie di dissociazione, originate da deficit di

diverso tipo.

2. i due meccanismi possano essere fatti risalire a deficit lessicali, ma a

livelli diversi: uno a livello del lemma (con relativa compromissione

delle etichette categoriali e delle informazioni sintattico-lessicali

come la griglia tematica, il numero o il tempo), l’altro ad un livello

più periferico (forse quello del lessema, dove non ci sono

informazioni lessicali-fonologiche).

3. il quadro d’errore spiegato con il deficit lessicale più periferico è

presente in ben 5 dei 6 pazienti afasici dissociati-meglio-verbi.

4. l’altro profilo, ricco di scambi sintagmatici, prevale nei dissociati-

meglio-nomi, ma non si può dire che si associ con chiarezza ad esso

né ad alcuno dei sottogruppi che lo compongono (agrammatici e

afasici di Wernicke).

5. non sembrano esserci evidenti differenze nel modo di dissociare

degli agrammatici DMN rispetto agli afasici di Wernicke DMN,

nonostante molti indizi lo lasciassero prevedere; dobbiamo segnalare,

però, nei pazienti con agrammatismo e non in quelli con afasia di

Wernicke, la presenza di una buona correlazione tra capacità di

produzione dei verbi e numero di scivolamenti sul nome ad indicare

un deficit a livello del lemma.

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2. Verifica delle ipotesi di Bird et al. (2000)

Abbiamo analizzato ancora i dati di Luzzatti et al. (2002) per verificare

l’ipotesi esplicativa della dissociazione nomi-verbi che Helen Bird, David

Howard e Sue Franklin hanno formulato nel loro lavoro del 2000.

Il loro studio è riassunto nel secondo capitolo: rimando ad esso per una

esposizione più completa dei presupposti teorici e delle verifiche sperimentali da

essi condotte. Qui, mi limiterò a ricordare le previsioni che scaturivano dal loro

ragionamento e a verificarle nei soggetti dell’esperimento di Luzzatti et al.

(2002).

Nel loro articolo del 2000, Why is a verb like an inanimate object?, Bird et

al. hanno sostenuto che la dissociazione nomi-verbi non è un vero fenomeno

categoriale, quanto piuttosto la conseguenza di una serie di fatti indipendenti tra

loro:

a volte gli afasici manifestano un effetto di immaginabilità molto

ampliato dal danno cerebrale per cui denominano molto meglio

oggetti e azioni altamente immaginabili che oggetti e azioni non

facilmente immaginabili.

nomi e verbi sono definiti semanticamente da un insieme di

caratteristiche (features) che possono essere sensoriali (sensory

features) o funzionali (functional features).

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lesioni cerebrali possono esitare in un danno relativamente selettivo

per le functional features piuttosto che per le sensory features e

viceversa.

i nomi naturali, rispetto a quelli artificiali, sono maggiormente definiti

attraverso sensory features piuttosto che functional features.

i nomi, nel loro complesso, sono definiti più dalle sensory features

che dalle functional features; al contrario, i verbi sono maggiormente

definiti attraverso functional features.

nel loro insieme, i nomi sono più immaginabili dei verbi.

Secondo questi presupposti, si possono configurare quattro diversi scenari di

dissociazione in seguito ad un danno cerebrale:

1. DEFICIT LIEVE O MEDIO DELLE SENSORY FEATURES

danno prevalente ai nomi di oggetti naturali rispetto ai nomi di oggetti

artificiali; i nomi nel loro complesso dovrebbero essere penalizzati da

questo deficit, ma in realtà ciò non avviene perché la loro maggiore

immaginabilità compensa l’effetto della perdita delle sensory

features.

2. DEFICIT GRAVE DELLE SENSORY FEATURES danno

netto dei nomi di oggetti naturali rispetto ai nomi di oggetti artificiali;

il deficit delle sensory features è molto profondo così che la maggior

immaginabilità dei nomi non compensa più il suo effetto, ma solo lo

attutisce: nomi denominati peggio dei verbi.

3. DEFICIT DELLE FUNCTIONAL FEATURES danno

prevalente ai nomi di manufatti rispetto ai nomi di oggetti naturali e

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dei verbi rispetto ai nomi; generalmente, nomi di manufatti meglio

dei verbi per la loro maggiore immaginabilità.

4. DEFICIT GENERALE DEL SISTEMA SEMANTICO-LESSICALE

(con marcato effetto di immaginabilità) nomi naturali e di

manufatti piuttosto equilibrati; nomi meglio dei verbi per la maggior

sensibilità all’immaginabilità creata dal deficit.

Nello studio di Luzzatti, per 3 dei 6 dissociati-meglio-verbi, l’effetto di

classe grammaticale spariva se l’analisi veniva effettuata al netto della frequenza

d’uso; allo stesso modo, per 18 dei 20 dissociati-meglio-nomi, l’effetto di classe

grammaticale scompariva alla regressione logistica multivariata se i punteggi

venivano corretti per immaginabilità: in sostanza, soltanto due afasici DMV e

due afasici DMN sembravano essere “genuinamente” dissociati, al di là del forte

effetto di frequenza d’uso o di immaginabilità.

I due afasici DMN che restavano dissociati anche dopo la correzione per

immaginabilità dovrebbero essere, secondo Bird, proprio quei dissociati che

manifestano tale fenomeno non solo per un effetto di immaginabilità molto

marcato; ci deve essere, dunque, un danno selettivo delle functional features e,

perciò, ci aspettiamo che entrambi mostrino una dissociazione a favore dei nomi

naturali rispetto ai nomi artificiali.

Al contrario, se negli altri 18 dissociati-meglio-nomi è l’effetto di

immaginabilità a spiegare interamente la diversa prestazione ai nomi e ai verbi,

non dovremmo mai trovare dissociazioni-meglio-naturali.

Abbiamo cercato di verificare queste previsioni con una nuova analisi dei

dati raccolti su 58 pazienti (confronta Luzzatti et al., 2002).

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1. Materiali e metodi

In questa analisi dei risultati raccolti su 58 pazienti afasici, non abbiamo

considerato solo coloro che erano risultati dissociati, ma tutti i pazienti che

erano stati sottoposti al compito di denominazione.

Ricordo brevemente le caratteristiche del campione e del compito.

Sono stati considerati per questo studio 58 pazienti afasici, 20 dei quali

erano dissociati-meglio-nomi e 6 dissociati-meglio-verbi.

Di questi 58 soggetti, 36 soffrivano di una forma afasica fluente (13 erano

afasici amnestici e 23 afasici di Wernicke), 15 di una forma afasica non-fluente

(6 pazienti erano anche agrammatici) e 7 erano pazienti che non era stato

possibile classificare con chiarezza.

I soggetti sono stati sottoposti ad un compito di denominazione di oggetti

(30) e azioni (40) le cui caratteristiche metriche sono esposte a pagina 104.

I risultati sono stati analizzati nel modo quantitativo classico, classificando

le risposte attraverso la dicotomia corretto/sbagliato: in particolare, abbiamo

concentrato la nostra attenzione sulla rilevazione delle dissociazioni nomi/verbi

e delle dissociazioni oggetti naturali/oggetti artificiali.

2. Risultati

I risultati sono riassunti in Tabella 9.

Come si può vedere, soltanto uno dei sei dissociati-meglio-verbi è anche

dissociato-meglio-artificiali, come l’ipotesi birdiana vorrebbe.

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Allo stesso modo, soltanto uno dei venti dissociati-meglio-nomi è anche

dissociato-meglio-naturali.

3. Discussione

Soltanto un soggetto sui sei dissociati-meglio-verbi è anche dissociato a

favore dei nomi artificiali: nel modello di Bird et al. questo è difficile da

giustificare, dato che la dissociazione a favore dei verbi, essendo essi meno

immaginabili dei nomi, è necessariamente legata ad un deficit degli aspetti

sensoriali (sensory features) dei concetti e questo deficit non può che esitare,

sempre nel modello birdiano, in una ulteriore dissociazione a favore dei nomi

artificiali rispetto a quelli naturali.

Tabella 9: dissociazioni nomi-verbi e dissociazioni oggetti naturali-oggetti artificiali.Come si vede, le ipotesi di Bird non sono verificate.

artificiali > naturali artificiali = naturali artificiali < naturali TOTALE

nomi < verbi 1 (17%) 5 (83%) 0 6

nomi = verbi 2 (6%) 27 (84%) 3 (10%) 32

nomi > verbi 5 (25%) 14 (70%) 1 (5%) 20

TOTALE 8 46 4 58

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Le previsioni di Bird et al., dunque, sembrano non essere confermate da

questi dati.

Per spiegare l’assenza in quasi tutti i DMV della dissociazione-meglio-

artificiali bisognerebbe ipotizzare che una maggiore immaginabilità (o l’effetto

di una qualche altra variabile lessicale o sub-lessicale) dei nomi naturali abbia

compensato il deficit: questo, però, non è possibile dato che l’immaginabilità e

le altre variabili lessicali sono bilanciate tra nomi naturali e artificiali nella

batteria utilizzata (Tabella 10).

Allo stesso modo, l’associazione presunta tra migliore prestazione ai nomi

rispetto ai verbi e migliore prestazione ai nomi naturali rispetto a quelli

artificiali non è verificata: solo un soggetto su 20 (5%) manifesta entrambe le

dissociazioni.

Questo potrebbe significare, nella prospettiva birdiana, che i nostri

dissociati-meglio-nomi siano in realtà pazienti con una grande sensibilità

all’immaginabilità e non pazienti con una vera dissociazione “semantica” dovuta

al danno delle sensory features.

Tabella 10: variabili lessicali bilanciate tra nomi naturali e artificiali nella batteria diLuzzatti et al. (2002)

Media nomiartificiali

Media nominaturali p (K-S)

FU 7,40 5,87 n.s.

IMM 6,27 6,37 n.s.

AOA 3,97 3,76 n.s.

FAM 5,60 5,50 n.s.

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Questa ipotesi potrebbe essere vera: infatti, l’analisi della regressione

logistica univariata evidenzia come tutti i 20 soggetti dissociati-meglio-nomi

subiscano un effetto di immaginabilità, mentre soltanto due dei 6 pazienti che

denominavano meglio i verbi avevano un effetto immaginabilità significativo.

Di fatto, quindi, tutti i pazienti DMN mostrano un marcato effetto di

immaginabilità: è del tutto plausibile che la loro dissociazione sia dovuta a

questo, come dovremmo sostenere se assumessimo la prospettiva di Bird,

Howard e Franklin.

Inoltre, se osserviamo l’esito dell’analisi della regressione logistica

multivariata (che analizza, invece che ciascuna variabile singolarmente, tutte le

variabili insieme), ci accorgiamo che in ben 18 dissociati-meglio-nomi l’effetto

di classe grammaticale sparisce se viene corretto per l’immaginabilità: in altre

parole, anche le analisi statistiche supportano l’idea che la diversa prestazione

nella denominazione di nomi e verbi sia, in questi 18 afasici, dovuta ad un forte

effetto di immaginabilità e non alla diversa classe grammaticale delle parole.

Ora, però, osserviamo il rovescio della medaglia: l’analisi della regressione

logistica multivariata ci ha detto anche che due pazienti sono davvero dissociati-

meglio-nomi, nel senso che, per loro, l’immaginabilità non basta a spiegare la

differente prestazione nella denominazione degli oggetti e delle azioni.

Se l’immaginabilità non spiega interamente la dissociazione, dobbiamo

ipotizzare che qualcosa d’altro lo faccia: secondo l’ipotesi di Bird, questo

“qualcosa d’altro” non può che essere il danno delle functional features.

Ma se è così, allora questi due pazienti (UB e RB) dovrebbero mostrare

anche la dissociazione-meglio-naturali: ciò, però, non accade. Infatti, UB

denomina correttamente 12 dei 15 oggetti artificiali e 14 dei 15 oggetti naturali

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(p = .59 n.s. al p esatto di Fisher), mentre RB denomina correttamente 10 dei 15

oggetti artificiali e 11 dei 15 oggetti naturali (p = .5 n.s. al p esatto di Fisher).

In conclusione, nessuna delle tre ipotesi formulate all’inizio del paragrafo

sulla base del modello birdiano della dissociazione nomi-verbi sembra essere

confermata dai risultati di Luzzatti et al. (2002).

4. Conclusione

In questa sezione, abbiamo controllato alcune previsioni che scaturiscono

dall’interpretazione teorica della dissociazione nomi-verbi formulata da Bird,

Howard e Franklin nel loro lavoro del 2000.

Essi sostengono che un deficit selettivo ai verbi non debba essere visto come

la manifestazione di una organizzazione separata a livello semantico o lessicale

dei nomi e dei verbi nel sistema cognitivo, ma come conseguenza di un forte

effetto di immaginabilità e della diversa distribuzione delle caratteristiche

sensoriali e funzionali che definiscono i concetti dei nomi e dei verbi.

Questa ipotesi ha originato tre previsioni che abbiamo controllato sui dati

ottenuti in un test di denominazione di azioni e oggetti (confronta Luzzatti et al.,

2002): nessuna di esse ha retto alla verifica sperimentale.

Ne dobbiamo dedurre che l’interpretazione di Bird non può spiegare i

pazienti qui considerati; essi sembrano meglio inquadrabili in una spiegazione

teorica che faccia riferimento, oltre che alle differenze di immaginabilità e

frequenza d’uso, al livello lessicale e che preveda una distinzione tra nomi e

verbi basata non soltanto su differenze di natura semantica (come erano quelle

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fondate sulla dicotomia sensory/functional features), ma anche di natura

sintattica (ad esempio, riguardanti la struttura argomentale).

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156

4

STUDIO SULLADISSOCIAZIONE NOMI-VERBI IN

UN GRUPPO DI PAZIENTIAFASICI ATTRAVERSO UN TESTDI RECUPERO LESSICALE IN UNCOMPITO DI COMPLETAMENTO

DI FRASI (RNV-CF)32

La nuova analisi dei risultati ottenuti dal compito di denominazione condotto

da Luzzatti et al. (2002) ha fornito preziose indicazioni a proposito del

meccanismo patologico attraverso cui emerge la dissociazione e a proposito del

locus funzionale del deficit.

Abbiamo visto che i dati propendono a favore di un deficit non semantico

(per lo meno, non nei termini in cui lo ipotizzavano Bird, Howard e Franklin) e,

32 Per questo capitolo ringrazio in modo particolare la dott.ssa Lisa Saskia Arduino che si è

occupata direttamente della preparazione della prima lista dei verbi per il test di denominazionee della lista degli item per il test RNV-CF e che mi ha guidato e accompagnato con pazienza edentusiasmo nella raccolta e nell’elaborazione dei dati normativi delle due batterie.

Ringrazio, inoltre, il prof. Claudio Luzzatti, il prof. Fabio Madeddu e il dott. LorenzoMontali e per il tempo che mi hanno concesso al termine delle loro lezioni per lo svolgimentodello studio pilota e il prof. Pietro Rizzi per l’aiuto che ci ha dato nella preparazione dei disegni.

Inoltre, ringrazio i servizi di Recupero e Rieducazione Funzionale dell’ospedale di Legnano,dell’ospedale di Passirana di Rho e del Centro Medico della Fondazione S. Maugeri aMontescano e il servizio di neurospicologia dell’ospedale Valduce di Costamasnaga. Inparticolare, ringrazio Mariarosa Colombo, Graziella Ghirardi, Mariangela Taricco, Giusy Zoncae Mariagrazia Inzaghi

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molto probabilmente, non sempre uguale in tutti i pazienti, almeno a giudicare

dai modi molto diversi di sbagliare che i dissociati manifestano.

In particolare abbiamo ipotizzato che il deficit che provoca la dissociazione

possa intervenire a livello del lemma, compromettendo le etichette che

specificano la categoria grammaticale e le informazioni sintattico-lessicali come

la griglia tematica, il numero o la persona (confronta Levelt, 1999); in questo

senso vanno dati come il gran numero di scambi categoriali, la difficoltà nel

costruire strutture frasali (poche circonlocuzioni) e l’importanza del fattore

immaginabilità.

In alternativa, il disturbo potrebbe avvenire ad un livello lessicale più

periferico (quello del lessema), senza quindi compromettere le informazioni

sulla classe grammaticale, come testimoniano i pochi scambi sintagmatici, la

netta prevalenza di scambi paradigmatici e l’importanza dell’effetto frequenza

riscontrati in alcuni dissociati.

Questo secondo tipo di deficit è manifestato in particolare da 5 dei 6 pazienti

dissociati-meglio-nomi (DMN); il primo, invece, quello cioè che coinvolge il

livello del lemma, non sembra associarsi in modo chiaro a nessuno dei gruppi di

soggetti afasici coinvolti nello studio.

In particolare, eravamo interessati al confronto tra i dissociati-meglio-verbi

(DMV) con afasia di Wernicke e i dissociati-meglio-verbi con agrammatismo:

nell’analisi qualitativa, non sembrano emergere elementi che distinguano con

chiarezza i meccanismi di dissociazione in atto in questi due tipi di afasia.

A questi dati, và aggiunto quello sottolineato già nello studio di Luzzatti et

al. (2002), oltre che in molti altri studi presenti in letteratura: l’immaginabilità è

un fattore importante nel determinare la prestazione al compito di

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denominazione dei pazienti DMN, al punto che in qualche caso (addirittura in

18 pazienti su 20 in alcuni lavori) la differente prestazione ai nomi e ai verbi

sembra essere un effetto secondario dell’immaginabilità piuttosto che un

“genuino” effetto di classe grammaticale.

Come si può vedere, i dati emersi dall’analisi qualitativa sono ricchi di

preziose informazioni per l’interpretazione del fenomeno della dissociazione

nomi-verbi e per la comprensione della struttura del sistema lessicale umano.

A questo punto, due sono i fattori che ci interessa indagare ulteriormente:

innanzitutto, vogliamo controllare le impressioni avute nell’analisi qualitativa a

proposito del fatto che il deficit a monte della dissociazione possa localizzarsi

sia a livello del lemma che a livello del lessema e poi vogliamo capire un po’

meglio l’intricata relazione che è emersa tra dissociazione nomi-verbi e

immaginabilità.

Per raggiungere il primo obiettivo, abbiamo deciso di usare un test di

recupero lessicale in un contesto frasale: le informazioni depositate a livello del

lemma sono, infatti, molto importanti per la costruzione della frase, mentre non

si può dire la stessa cosa per le informazioni conservate a livello del lessema.

Dunque, ci aspettiamo che l’utilizzo di un contesto frasale permetta un

miglioramento della prestazione ai verbi dei DMN con deficit a livello del

lemma, mentre non crei cambiamenti evidenti nella prestazione ai verbi dei

DMN con deficit a livello del lessema.

Per controllare, invece, il contributo alla dissociazione dato dal fattore

immaginabilità, abbiamo bisogno di un test in cui nomi e verbi siano

perfettamente bilanciati per questa variabile.

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Ciò che ci aspettiamo è che queste due novità abbiano un effetto sul

recupero lessicale dei pazienti che testeremo. In particolare, se le indicazioni

emerse dall’analisi qualitativa sono veritiere, ci aspettiamo che:

1. alcuni pazienti manifestino una dissociazione solo in test non

bilanciati tra nomi e verbi per immaginabilità, non mostrando più

questa caratteristica se testati con prove bilanciate.

2. almeno alcuni dissociati-meglio-nomi presentino un miglioramento

della prestazione ai verbi in un test che preveda un contesto sintattico

di aiuto rispetto alla semplice prova di denominazione di figure.

Da quanto detto sopra a proposito delle prove che vogliamo impiegare in

questo studio, emerge con chiarezza che il test di denominazione

tradizionalmente usato per valutare le capacità di recupero lessicale non è

adeguato ai nostri scopi: ciò di cui abbiamo bisogno è, infatti, un test di recupero

lessicale che permetta un buon bilanciamento tra nomi e verbi per

immaginabilità e che coinvolga un contesto frasale, caratteristiche che il test di

denominazione su figura non possiede.

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1. MATERIALI E METODI: il test di recupero lessicale di nomi e verbi in

un compito di completamento di frasi (RNV-CF)

In letteratura (anche in quella sulla dissociazione nomi-verbi) è stato spesso

usato il test di completamento di frasi come test di recupero lessicale in un

contesto sintattico (Berndt et al., 1997): questo tipo di prova, utilizzando come

cue non più una figura, ma una frase incompleta, permette inoltre di utilizzare

item a bassa immaginabilità con i quali sembra intuitivamente più abbordabile il

bilanciamento nomi-verbi per questa variabile.

Il difetto principale di questo test, dal nostro punto di vista, è la vasta

possibilità di risposta che il paziente afasico ha di fronte allo stimolo. Ad

esempio, nelle frasi utilizzate per elicitare un nome, si fornisce un soggetto e un

verbo e si chiede al paziente di produrre il complemento oggetto: quasi tutti i

verbi, però, permettono l’uso di molti complementi oggetti diversi, rendendo in

questo modo impossibile decidere a priori una sola risposta corretta. Questa

caratteristica rende impossibile il bilanciamento pre-somministrazione per le

variabili lessicali.

Inoltre, questo test è caratterizzato da un effetto facilitatorio ben noto: l’uso

di frasi da completare (“Si pianta il chiodo con il…”) facilita la produzione

lessicale nei pazienti afasici; è dunque possibile che gli stessi soggetti abbiano

prestazioni piuttosto diverse ad un test di questo tipo rispetto al più classico test

di denominazione di figure, pur valutando entrambi la capacità di recupero

lessicale.

Abbiamo quindi deciso di modificare il test di completamento di frasi, in

modo da favorire la presenza di un’unica risposta corretta: così nasce il test di

recupero lessicale di nomi e verbi in un compito di completamento di frasi

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(d’ora in avanti, R N V - C F ), di cui ora descriverò le caratteristiche,

concentrandomi prima sulle caratteristiche di ogni singolo item e poi sulla

struttura complessiva del test.

1.1 Il materiale

Ciascun item di questo test è costituito da due frasi che descrivono lo stesso

evento, una utilizzando un nome, una utilizzando il verbo corrispondente.

Ad esempio, due coppie di frasi usate nel test sono le seguenti:

(25) “Dalla finestra si vede piovere”

(26) “Dalla finestra si vede la pioggia”

(27) “L’atleta si allena nel lancio della palla”

(28) “L’atleta si allena a lanciare la palla”

Chiameremo stimolo o elemento critico il nome/verbo che cambia classe

grammaticale da una frase all’altra.

Queste due frasi vengono presentate su uno schermo accompagnate da una

figura che rappresenta la situazione descritta in esse e vengono, inoltre, lette

dall’esaminatore.

La prima frase di ogni coppia viene presentata interamente, mentre la

seconda presenta una lacuna in corrispondenza dello stimolo critico (Figura 14):

il soggetto viene poi invitato a completare oralmente la frase con l’elemento

mancante (lo stimolo critico, appunto).

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Ciascuna coppia di frasi genera, poi, due item: infatti, al soggetto viene

chiesto di completare una frase col verbo avendo ascoltato e visto la frase

completa col nome, ma anche di completare la frase con un nome avendo

ascoltato e visto la frase completa col verbo.

In questo modo, dalle 45 coppie di frasi si costituiscono 90 trial: in 45 di essi

viene chiesto al paziente di produrre un nome, mentre negli altri 45 gli viene

chiesto di produrre un verbo.

1.2 La somministrazione

Il soggetto è seduto di fronte allo schermo di un computer: su di esso

compaiono gli stimoli della prova che, come abbiamo visto, sono costituiti dalle

due frasi e dal disegno. La prima frase è completa e ha lo stimolo critico

colorato di blu (se è un verbo) o di rosso (se è un nome), mentre la seconda

presenta dei puntini di sospensione in corrispondenza dello stimolo critico,

anch’essi colorati di blu o di rosso a seconda che sottendano un nome o un

verbo.

L’esaminatore legge quindi la prima frase sottolineando con l’intonazione lo

stimolo critico, poi legge la seconda in cui questo è omesso: il compito del

paziente è quello di completare la frase producendo proprio l’elemento critico,

cioè, il nome corrispondente al posto del verbo della prima frase o il verbo

corrispondente al posto del nome della prima frase.

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1.3 La randomizzazione

Come abbiamo detto prima, ciascuna coppia di frasi viene presentata al

paziente nelle due direzioni: si chiede, in pratica, di completare la frase col

Figura 14: quattro esempi di stimolo fornito ai pazienti nella somministrazione del test RNV-CF:in due di essi lo stimolo critico è in ultima posizione, mentre nelle altre due è in penultima. Lefrasi sottostanti le figure vengono lette dall’esaminatore.

Alla donna piace il pattinaggioAlla donna piace ………

Ho proposto al ragazzo di camminareHo proposto al ragazzo una ………

Abbiamo sentito starnutire il signoreAbbiamo sentito lo …….. del signore

I soldati videro l’esplosione della bombaI soldati videro ……… la bomba

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nome partendo da quella col verbo e viceversa.

Ai 90 trial così costruiti si aggiungono tre coppie di frasi, utilizzate come

esempio, anch’esse somministrate nelle due direzioni: nel complesso, quindi, 90

trial più 6 esempi.

Essendo il test piuttosto lungo ed essendo esso costituito da trial simmetrici,

abbiamo deciso di spezzarlo in due sessioni, ciascuna da 45 item.

La prima sessione è composta dalla spiegazione del compito, da 3 item di

esempio da nome a verbo, dalle prime 23 coppie di frasi somministrate da nome

a verbo, da 3 item di esempio da verbo e nome e dalle altre 22 coppie di frasi

somministrate da verbo a nome; la seconda sessione ha una struttura speculare,

essendo composta dalla spiegazione del compito, 3 item di esempio da verbo a

nome, le prime 23 coppie della prima sessione, somministrate, però, da verbo a

nome, 3 item di esempio da nome a verbo e le ultime 22 coppie della prima

sessione somministrate questa volta da nome a verbo.

Questa struttura è stata pensata in modo che ciascuna coppia di frasi

compaia una sola volta in ogni sessione.

Ciascuna delle due sessioni richiede circa 45 minuti di tempo.

1.4 Le variabili semantico-lessicali

Per ciascun item della batteria sono state considerate la lunghezza e la

frequenza d’uso orale della parola target, oltre all’immaginabilità del concetto

sottostante.

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Abbiamo misurato la lunghezza contando il numero di lettere e sillabe che

costituivano ciascun item; abbiamo tratto, invece, la frequenza d’uso, dal

Lessico di Frequenza dell’Italiano Parlato (De Mauro et al., 1993).

Per l’immaginabilità è stato necessario sottoporre gli item al giudizio di un

gruppo di soggetti di controllo: abbiamo presentato a 21 soggetti normali

volontari (6 uomini e 15 donne di età compresa tra i 19 e i 35 anni) un elenco

scritto contenente i 45 nomi e i 45 verbi che fanno parte del test RNV-CF. Nomi

e verbi erano randomizzati all’interno di un'unica lista.

A fianco di ciascun item era posta una griglia a 7 spazi, numerati da 1 a 7.

Ai soggetti veniva chiesto di leggere ciascuna parola e di valutarla sulla base

della facilità e velocità con cui evocava un’immagine mentale attribuendole un

punteggio crescente da 1 a 7: veniva inoltre specificato che l’1 corrispondeva ad

una notevole difficoltà nel generare l’immagine mentale e il 7 ad una grande

facilità. Non venivano dati limiti di tempo e si ricordava ai soggetti di utilizzare

possibilmente l’intera griglia.

Il risultato della raccolta di questi dati è riassunto in Tabella 11.

Come possiamo vedere, nomi e verbi sono ottimamente bilanciati per

immaginabilità.

Come ulteriore controllo, abbiamo confrontato l’immaginabilità di ogni

Tabella 11: variabili semantico-lessicali per i nomi e i verbi del test RNV-CF.

Nomi (n=45) Verbi (n=45) t Test p

Frequenza d'uso orale 11,02 ± 15,28 36,53 ± 77,66 -2,16 <.05

Immaginabilità 4,30 ± 0,92 4,52 ± 0,68 -1,28 n.s.

Lunghezza in lettere 7,71 ± 2,41 8,06 ± 1,54 0,24 n.s.

Lunghezza in sillabe 3,09 ± 0,97 3,47 ± 0,59 0,001 n.s.

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nome con quella del proprio verbo corrispondente: nessuna delle 45 coppie

risulta sbilanciata per immaginabilità, come era lecito aspettarsi vista l’identità

di significato tra nome e verbo all’interno della stessa coppia (nessun confronto

dà un valore t superiore a .65, ampiamente non significativo).

Nomi e verbi differiscono, invece, per frequenza d’uso, che risulta maggiore

nei verbi rispetto ai nomi (36,53 contro 11,02; p < .05)

1.5 I sottogruppi di item

Tra i 45 verbi che fanno parte del test RNV-CF, ci sono 22 verbi transitivi,

14 verbi inergativi e 9 verbi inaccusativi.

I nomi, invece, sono stati classificati con criteri diversi rispetto a quelli

utilizzati solitamente in letteratura.

Il test RNV-CF, infatti, utilizza come stimoli nomi e verbi relati non solo

semanticamente, ma anche morfologicamente.

In altre parole, le coppie di nomi e verbi inserite nel nostro test che denotano

lo stesso evento intrattengono anche una relazione morfologica tra loro (vedi

Appendice per l’elenco completo degli item; qui basti qualche esempio in

aggiunta a quelli precedenti: ballare e ballo, bombardare e bombardamento,

correre e corsa).

Temevano, quindi, che i risultati fossero influenzati da questo fattore e che

essi fossero informativi più sulle capacità morfologiche dei pazienti che su

quelle di recupero lessicale.

Per controllare questo aspetto, abbiamo classificato le coppie nome-verbo in

tre categorie sulla base della relazione morfologica che intrattengono: una classe

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(Der) è costituita da nomi derivati per mezzo di un vero e proprio processo

morfologico di aggiunta di suffissi derivazionali deverbali come -zione, -aggio, -

mento, una seconda classe (PP) è costituita da nomi la cui forma fonologica è

uguale a quella del participio passato del verbo corrispondente (ad esempio,

cadere/caduta o correre/corsa) e una terza classe (1PS) è costituita, invece, da

nomi la cui forma fonologica è uguale a quella della prima persona singolare del

verbo corrispondente (ad esempio, cantare/canto o lanciare/lancio).

In sede di analisi dei risultati, questa classificazione ci consentirà di

individuare quei pazienti che cadono particolarmente ai nomi derivati, cosa che

ci aspettiamo da parte di coloro che hanno problemi morfologici e che cercano

di risolvere questo compito derivando il nome dal verbo, piuttosto che

recuperandolo dal magazzino lessicale.

1.6 Pregi e difetti

La batteria RNV-CF ci permette, in conclusione, di testare la dissociazione

nomi-verbi in un contesto bilanciato per immaginabilità.

Inoltre, il test RNV-CF fornisce un costrutto frasale in cui la parola deve

essere inserita: questa contestualizzazione del recupero lessicale è molto

interessante per via del fatto che ci permette di verificare se la dissociazione che

emerge nel recupero di parole isolate persiste in una struttura frasale. Questa,

infatti, fornisce una cornice su cui il sistema cognitivo potrebbe basare le sue

strategie di compensazione di eventuali difetti lessicali (e magari fare

scomparire o diminuire la differenza tra nomi e verbi).

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A fronte di questi vantaggi, il test RNV-CF presenta anche dei problemi: ad

esempio, il mancato bilanciamento per frequenza oppure la difficoltà intrinseca

nella spiegazione del compito, durante la quale bisogna necessariamente riferirsi

ai termini “nome” e “verbo” che non tutti gli afasici potrebbero comprendere

con chiarezza.

Infine, ricordiamo il problema costituito dal fatto che i pazienti afasici

potrebbero cercare di rispondere derivando morfologicamente il nome dal verbo

corrispondente o viceversa: per questa ragione, abbiamo classificato gli item a

seconda della loro struttura morfologica, preparandoci ad un controllo di questo

fattore, almeno a posteriori.

2. MATERIALI E METODI: una nuova batteria di denominazione su figura

I risultati che saranno ottenuti col test appena descritto non sono tanto

informativi di per sé: sono, invece, molto preziosi se confrontati con quelli

ottenuti dagli stessi pazienti ad un compito di recupero lessicale standard come

quello di denominazione su figura.

Infatti, per i nostri scopi, non è molto importante sapere come si comportano

in assoluto i pazienti nel recupero di nomi e verbi quando devono completare

una frase e quando l’immaginabilità dei nomi e dei verbi è ben bilanciata; ciò

che a noi interessa osservare è se il contesto frasale o l’immaginabilità bilanciata

facilitano il paziente dissociato oppure no.

Ciò che noi ci chiediamo è se quei pazienti che alla denominazione di figure

risultano dissociati lo sono ancora in un compito piuttosto diverso, dove è

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presente una struttura frasale e dove nomi e verbi hanno all’incirca la stessa

immaginabilità.

Per questa ragione è necessario sottoporre i pazienti anche ad un test di

denominazione di figure.

2.1 Quale test di denominazione usare?

Abbiamo quindi bisogno di un test di denominazione che contenga figure di

oggetti e figure di azioni e che sia pensato e tarato per confrontare la prestazione

dei pazienti ai nomi e ai verbi: prove di questo tipo non sono presenti in

letteratura (e in commercio).

Avremmo potuto utilizzare di nuovo la batteria usata da Luzzatti et al.

(2002): essa, però, conteneva degli item che si erano rivelati un po’

problematici. Alcune figure di azioni erano relativamente ambigue (elicitavano

nei pazienti afasici due o tre risposte più o meno con la stessa frequenza; questo

può diventare un problema se le alternative di scelta sono verbi di categorie

diverse) e, tra gli oggetti naturali, erano presenti item che rappresentavano parti

del corpo (orecchio, gamba e piede), le quali hanno anche una rappresentazione

cinestesica e non sono quindi del tutto paragonabili agli altri oggetti naturali.

Dato che non abbiamo trovato in letteratura un test con le caratteristiche che

chiedevamo e che la batteria di Luzzatti et al. (2002) aveva dei difetti cui

intendevamo cercare di porre rimedio, abbiamo scelto di costruire ex-novo un

test di denominazione di azioni e oggetti.

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2.2 La costruzione della nuova batteria

2.2.1 La base di partenza

Per ciò che riguarda i nomi, esistono ampi database (con le relative figure),

appositamente costruiti per i test di denominazione; in questi database sono

presenti i dati normativi per le principali variabili lessicali e per i più importanti

parametri specifici del test di denominazione (come l’accordo sul nome, di cui

parleremo più avanti), raccolti in genere su campioni ampi e rappresentativi.

Utilizzare i nomi di uno di questi database ci avrebbe garantito una serie di

vantaggi:

avremmo avuto un ampia scelta per gli item nominali.

di tutti questi item avremmo avuto già i dati normativi: questi, infatti,

erano stati raccolti su soggetti italiani, con un range d’età piuttosto

ampio e con una cultura confrontabile a quella dei pazienti afasici

che avremmo testato nel nostro studio.

di questi item avremmo avuto i disegni, anch’essi già testati su

gruppi di controllo.

Tra i database di nomi presenti in letteratura, abbiamo scelto il PD/DPSS, di

Lotto, Dell’Acqua e Job (2000).

Esso è composto da 266 nomi con le relative figure e i dati normativi: essi

comprendevano tutte le variabili lessicali che avevamo deciso di includere nella

batteria (frequenza, età di acquisizione soggettiva, lunghezza in lettere e sillabe,

name agreement) tranne l’immaginabilità.

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Inoltre, in questo database, i nomi sono classificati per categoria semantica

di appartenenza.

Per ciò che riguarda i verbi, invece, data la mancanza di database appositi,

abbiamo preparato una prima lista di 123 item con i relativi disegni da cui poi,

attraverso uno studio pilota, avremmo tratto i verbi della nuova batteria.

Questa lista conteneva 26 verbi transitivi, 22 verbi inergativi, 18 verbi con

forma sia transitiva che inergativa, 23 verbi inaccusativi, 9 verbi di transitivi, 16

verbi riflessivi inerenti, 7 verbi riflessivi e 2 verbi atmosferici.

Come vedremo, in questa prima lista avevamo incluso molti verbi in più

rispetto a quelli che poi abbiamo inserito nella batteria e avevamo considerato

anche più categorie verbali; questo, in parte perché sapevamo che molti item

non avrebbero soddisfatto i requisiti che chiedevamo, in parte per avere più

possibilità di scelta nel bilanciamento delle variabili lessicali e in parte perché

non volevamo a priori escludere la possibilità di inserire altre categorie di verbi

nella lista finale.

2.2.2 Lo studio pilota

Creato questo primo set di 389 item (123 verbi e 266 nomi), il passo

successivo è stato quello di scegliere tra questi gli item della batteria definitiva.

Le variabili che abbiamo considerato nello studio sono l’accordo sul nome

(name agreement), la frequenza d’uso orale, l’immaginabilità, la lunghezza in

lettere e in sillabe, l’età di acquisizione soggettiva, la tipicità della figura.

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La scelta di queste variabili è legata soprattutto a ciò che la letteratura riporta

a proposito dei test di denominazione, in particolare nell’ambito della

dissociazione nomi-verbi.

La tipicità della figura è, invece, una variabile meno usata in letteratura: con

essa intendiamo una misura della “bontà” della figura stessa, cioè una misura

che riflette quanto questa si avvicina all’immagini prototipica di un certo

oggetto.

Come abbiamo detto prima, erano già stati condotti degli studi-pilota per le

figure dei nomi: in questi studi erano state incluse tutte le variabili che avevamo

deciso di considerare tranne l’immaginabilità e la tipicità della figura (Lotto,

Dell’Acqua e Job, 2000).

Dato che il campione di riferimento era paragonabile al nostro per cultura (i

dati normativi del PD/DPSS sono stati raccolti a Padova) e piuttosto ampio

numericamente (88 soggetti), anche se non perfettamente distribuito per età

anagrafica (tutti i soggetti erano studenti universitari), abbiamo deciso di tenere i

dati ottenuti su quel campione e raccogliere ex-novo solo i dati mancanti, cioè

quelli che si riferiscono a tutte le variabili per i verbi e all’immaginabilità per i

nomi.

Materiali e metodi. Lo studio delle variabili strutturali, lessicali e semantico-

lessicali, è stato condotto seguendo due metodologie generali.

I valori di frequenza d’uso orale per i verbi sono stati tratti dal Lessico di

Frequenza dell’Italiano Parlato (De Mauro et al., 1993), mentre la lunghezza

degli item è stata calcolata attraverso il conteggio del numero delle lettere e

delle sillabe.

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173

Per le altre variabili, invece, è stato necessario testare dei soggetti:

descriverò ora singolarmente la metodologia usata per ciascuna variabile.

Accordo sulla denominazione di verbi. Abbiamo mostrato, una per volta, le

123 figure che rappresentavano le azioni a 37 soggetti volontari, di età compresa

tra i 20 e i 52 anni; a ciascuno di loro era stato chiesto di osservare con

attenzione i disegni e di scrivere su un foglio il verbo corrispondente all’azione

raffigurata.

Immaginabilità dei nomi e dei verbi. Per valutare questa variabile, abbiamo

presentato ad un campione di 19 soggetti normali volontari (15 donne e 4

uomini di età compresa tra i 18 e i 52 anni) una lista di 266 nomi e 123 verbi (in

totale, 389 item).

A fianco di ciascun item era posta una griglia a 7 spazi, numerati da 1 a 7. Ai

soggetti veniva chiesto di leggere ciascuna parola e di esprimere la facilità e la

velocità con cui ne evocavano un’immagine mentale tramite un punteggio

crescente da 1 a 7: veniva inoltre specificato che il valore “1” corrispondeva ad

una notevole difficoltà nel generare l’immagine mentale e il valore “7” ad una

grande facilità.

Età d’acquisizione per i verbi. L’indagine si è svolta su un campione di 20

soggetti (17 donne e 3 uomini) di età compresa tra i 20 e i 45 anni.

A ciascuno di essi veniva presentata la lista dei 123 verbi, seguita da una

griglia a 9 spazi, ciascuno numerato da 1 a 9: ad ogni spazio numerato

corrispondeva una range d’età. Nel complesso, la scala partiva dal numero 1 che

era associato all’età di 0-2 anni e arrivava al numero 9 che corrispondeva a 13

anni e oltre.

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Ai soggetti veniva chiesto di leggere ogni parola e di stimare l’età a cui

pensavano di avere appreso questa e il sottostante significato; quindi, dovevano

segnare sulla griglia lo spazio numerato associato all’età stimata.

Tipicità della figura per nomi e verbi. Lo studio ha coinvolto 23 soggetti

non-afasici volontari, 15 donne e 8 uomini, con un’età compresa tra i 17 e i 32

anni; con 12 di essi abbiamo raccolto i dati sui verbi e con 11 i dati sui nomi:

ciascun soggetto ha valutato soltanto gli item di una delle due classi

grammaticali.

Ai soggetti è stata consegnata la lista dei nomi o quella dei verbi: accanto ad

ogni item era posta una griglia con 7 spazi, numerati in modo crescente da 1 a 7.

La consegna era di leggere la parola e immaginarsi, nel modo più prototipico

possibile, l’oggetto o l’azione rappresentata: dopo di che, veniva mostrata ai

soggetti la figura e veniva chiesto loro di valutare quanto questa corrispondesse

a quella che si erano precedentemente immaginati; veniva, inoltre, specificato

che 1 doveva essere barrato in caso di corrispondenza nulla, mentre 7 doveva

essere scelto in caso di altissima corrispondenza.

Risultati. Abbiamo, dunque, raccolto per ciascuno dei 389 item oggetto di

studio i valori normativi per le variabili di accordo sul nome, immaginabilità,

età di acquisizione soggettiva, tipicità del disegno, frequenza d’uso, lunghezza

in lettere e lunghezza in sillabe.

Questi dati sono poi stati utilizzati per la costruzione della batteria definitiva.

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2.2.3 La selezione degli item

Dall’ampio elenco di 123 verbi e 266 nomi, abbiamo selezionato 50 nomi e

50 verbi che andassero a costituire la batteria definitiva che avremmo

somministrato ai pazienti.

La scelta di questi 100 item è stata guidata da una serie di obiettivi:

aumentare il numero degli item della batteria rispetto allo studio di

Luzzatti et al. (2002).

evitare di inserire item problematici, ad esempio a causa di figure

ambigue o con un basso accordo sul nome oppure a causa di una

rappresentazione mentale particolare (come le parti del corpo).

inserire tra i nomi un ugual numero di oggetti naturali e di oggetti

artificiali.

inserire tra i verbi un numero il più possibile confrontabile di

transitivi, inaccusativi e inergativi in modo da favorire un confronto

delle prestazioni dei pazienti per queste tre classi di verbi.

bilanciare il più possibile i diversi gruppi di item (nomi/verbi, nomi

naturali/nomi artificiali, verbi transitivi/inergativi/inaccusativi) per le

variabili che avevamo precedentemente misurato.

Ci aspettavamo di raggiungere con relativa facilità i primi quattro obiettivi e

di dover faticare molto per soddisfare il quinto: come vedremo, le nostre

previsioni erano giuste.

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La batteria finale è composta, come abbiamo già detto, da 50 nomi e 50

verbi (l’elenco completo con i dati normativi per ciascun item si trova in

Appendice a questo capitolo).

Tra i 50 nomi, 25 sono artificiali (denotano oggetti costruiti dall’uomo) e 25

sono naturali (denotano animali e vegetali); tra i 50 verbi, 20 sono transitivi

(possiedono un argomento interno cui assegnano il caso grammaticale, vedi

capitolo 1, pagina 20), 17 sono inergativi (non danno caso al loro argomento

interno, vedi capitolo 1, pagina 20) e 13 sono inaccusativi (non possiedono un

argomento esterno, vedi capitolo 1, pagina 23).

Vediamo ora, una variabile per volta, i risultati del bilanciamento (Tabella

12, Tabella 13 e Tabella 14).

Accordo sul nome. Più che per bilanciare i gruppi di item, questa variabile è

stata usata per escludere dalla batteria alcuni nomi o verbi che non erano

univocamente denominati dai soggetti normali.

Nel test, infatti, sono stati inserite soltanto quelle figure che risultavano

denominate con lo stesso nome/verbo da almeno l’85% dei soggetti di controllo.

Inoltre, il test con cui abbiamo raccolto i dati sul name agreement (che di

fatto non era altro che un test di denominazione scritta) è stato utilizzato come

prova di controllo; le risposte non maggioritarie che hanno raggiunto il 5% di

frequenza sono state considerate risposte alternative corrette nella versione

finale del test.

Frequenza d’uso. La frequenza d’uso di nomi e verbi non è perfettamente

bilanciata, ma la loro differenza non è statisticamente significativa (13,82 ±

21,22 la media dei verbi, 8,48 ± 15,69 quella dei nomi). La stessa cosa vale per

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il confronto tra verbi inaccusativi e verbi inergativi (18,38 ± 20,82 contro 6,94 ±

13,90) e tra questi ultimi e i verbi transitivi (6,94 ± 13,90 contro 16,70 ± 26,12).

La frequenza d’uso è invece bilanciata tra verbi inaccusativi e verbi

transitivi (18,38 ± 20,82 contro 16,70 ± 26,12; p = .84) e tra nomi di oggetti

naturali e nomi di oggetti artificiali (6,28 ± 14,08 contro 10,68 ± 17,18; p =

.32).

Immaginabilità. Questa variabile ha costituito il principale problema sin

dall’inizio della costruzione della batteria. Sapevamo che i nomi sono

mediamente più immaginabili dei verbi e che bilanciare questa variabile sarebbe

Tabella 12: variabili semantico-lessicali per i nomi e i verbi.

Variabile Verbi (n=50) Nomi (n=50) t Test p

Frequenza d'uso orale 13,82 ± 21,22 8,48 ± 15,69 1,45 .15

Immaginabilità 4,58 ± 0,77 6,01 ± 0,39 -11,84 <.01

Lunghezza in lettere 8,08 ± 1,41 7,08 ± 1,77 3,17 <.01

Lunghezza in sillabe 3,42 ± 0,57 3,02 ± 0,84 2,88 <.01

Età d'acquisizione 3,76 ± 1,14 3,40 ± 1,03 1,66 .10

Tipicità della figura 5,63 ± 0,80 5,81 ± 0,94 1,29 .20

Tabella 13: variabili semantico-lessicali per i verbi transitivi, inergativi e inaccusativi e confrontistatistici (test t).

Transitivi (n=20) Inergativi(n=17) Inaccusativi(n=13) T-Ie (p) T-Ia (p) Ie-Ia (p)

Frequenza d'uso orale 16,70 ± 26,12 6,94 ± 13,90 18,38 ± 20,82 .16 .84 .06

Immaginabilità 4,65 ± 0,60 4,99 ± 0,79 3,93 ± 0,57 .14 .001 <.001

Lunghezza in lettere 8,20 ± 1,54 8,05 ± 1,43 7,92 ± 1,26 .77 .59 .78

Lunghezza in sillabe 3,50 ± 0,69 3,29 ± 0,47 3,46 ± 0,52 .30 .86 .36

Età d'acquisizione 3,78 ± 1,07 3,64 ± 1,04 3,88 ± 1,42 .69 .82 .60

Tipicità della figura 5,57 ± 0,84 5,66 ± 0,84 5,65 ± 0,76 .75 .78 .98

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stato molto difficile in un test in cui gli item devono essere raffigurabili: anche

le indicazioni della letteratura andavano in questa direzione (Bird et al., 2000;

Luzzatti et al., 2002).

Il risultato del nostro lavoro non ha smentito le previsioni: l’immaginabilità

non è bilanciabile tra nomi e verbi (6,01 ± 0,39 contro 4,58 ± 0,77; p < .01).

Inoltre, il vincolo della raffigurabilità degli item e del buon accordo sul

nome, ci ha costretti ad introdurre nelle versione finale della batteria dei verbi

che non garantiscono il bilanciamento di questa variabile nemmeno tra verbi

transitivi e verbi inergativi e tra questi ultimi e i verbi inaccusativi (vedi Tabella

13).

Nomi di oggetti naturali e nomi di oggetti artificiali sono, invece, ben

bilanciati (5,93 ± 0,35 contro 6,08 ± 0,43; p = .16).

Lunghezza. I nomi inseriti nella versione finale della batteria sono più lunghi

dei verbi in modo statisticamente significativo (8,08 ± 1,77 contro 7,08 ± 1,41 in

lettere e 3,42 ± 0,84 contro 3,02 ± 0,57 in sillabe; in entrambi i confronti p <

.01); al contrario, i tre gruppi di verbi, transitivi, inergativi e inaccusativi sono

bilanciati per questa variabile in modo piuttosto buono (vedi Tabella 13), come

anche i due gruppi di nomi (vedi Tabella 14).

A che cosa è dovuta questo differenza di lunghezza tra nomi e verbi?

Bilanciare i due gruppi per lunghezza ci avrebbe costretto ad avere un

bilanciamento peggiore per le altre variabili, in particolare per frequenza ed età

di acquisizione: dovevamo scegliere a chi dare la priorità.

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Tabella 14: variabili semantico-lessicali per i nomi di oggetti naturali e i nomi dioggetti artificiali.

Naturali (n=25) Artificiali (n=25) t Test p

Frequenza d'uso orale 6,28 ± 14,08 10,68 ± 17,18 0,99 .32

Immaginabilità 5,93 ± 0,35 6,08 ± 0,43 1,44 .16

Lunghezza in lettere 7,04 ± 1,88 7,12 ± 1,69 0,16 .87

Lunghezza in sillabe 3,16 ± 0,85 2,88 ± 0,83 -1,25 .21

Età d'acquisizione 3,34 ± 0,82 3,46 ± 1,20 0,42 .67

Tipicità della figura 5,87 ± 1,01 5,74 ± 0,87 -0,73 .46

La scelta è caduta sull’età di acquisizione e sulla frequenza d’uso per via del

fatto che in letteratura ci sono dei dati che indicano nella lunghezza una

variabile importante in contesti di lettura ad alta voce, ma meno decisiva in caso

di prove di denominazione (Bates et al., 2001); inoltre, questa variabile

interviene ad un livello piuttosto periferico della produzione linguistica (livello

fonologico-segmentale) dove probabilmente tutte le informazioni sulla categoria

lessicale sono già state elaborate. Al contrario, come nel secondo capitolo

abbiamo più volte sottolineato, la frequenza sembra avere un ruolo chiave nelle

prove di denominazione di oggetti e azioni (Berndt et al., 1997; Luzzatti et al.,

2002).

Età di acquisizione. L’età di acquisizione dei nomi è lievemente inferiore a

quella dei verbi, ma non in modo statisticamente significativo (3,76 ± 1,14 per i

verbi, 3,40 ± 1,03 per i nomi; p > .05). I tre gruppi verbali hanno invece valori

medi di età di acquisizione del tutto confrontabili (3,78 ± 1,07 la media dei

transitivi, 3,64 ± 1,04 quella degli inergativi e 3,88 ± 1,42 quella degli

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inaccusativi); la stessa cosa si può dire per i nomi di oggetti naturali e i nomi di

manufatti (3,34 ± 0,82 contro 3,46 ± 1,20; p = .67).

Tipicità della figura. Questa variabile è perfettamente bilanciata tra i tre

gruppi verbali (5,57 ± 0,84 la media dei verbi transitivi, 5,66 ± 0,84 quella dei

verbi inergativi, 5,65 ± 0,76 quella dei verbi inaccusativi) e tra i due gruppi di

nomi (i nomi di oggetti naturali hanno una media di 5,87 ± 1,01 e i nomi di

manufatti hanno una media di 5,74 ± 0,87; p = .46), mentre è presente una

differenza, anche se non molto marcata, tra i nomi e i verbi (5,63 ± 0,80 contro

5,81 ± 0,94; p = .20).

Nel complesso, abbiamo raggiunto quasi tutti gli obiettivi che ci eravamo

proposti all’inizio della costruzione della batteria: gli item hanno tutti un alto

name agreement, non sono teoricamente problematici (come erano i nomi di

parti del corpo nella vecchia batteria) e il loro numero non è né troppo piccolo

(il che ci avrebbe impedito di fare delle analisi statistiche affidabili sui risultati),

né troppo grande (il che avrebbe richiesto uno sforzo notevole ai pazienti

sottoposti al test).

La batteria, inoltre, contiene nomi di oggetti naturali e di oggetti artificiali in

ugual numero e verbi transitivi, inergativi e inaccusativi in numero simile.

I nomi di oggetti naturali e di oggetti artificiali sono bilanciati tra loro per

tutte la variabili lessicali; i verbi transitivi, i verbi inergativi e i verbi

inaccusativi sono anch’essi ben bilanciati tra loro, tranne che per

l’immaginabilità.

Il bilanciamento tra nomi e verbi, invece, è stato raggiunto per le variabili di

età d’acquisizione, accordo sulla figura e frequenza, ma non per lunghezza e

immaginabilità.

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181

2.2.4 Il bilanciamento dei singoli sottogruppi verbali

Per cercare di porre rimedio al mancato bilanciamento dell’immaginabilità e

della lunghezza, abbiamo selezionato dall’insieme dei 50 nomi inclusi nella

batteria tre sottogruppi di item, ciascuno dei quali fosse bilanciato con uno dei

tre gruppi di verbi (transitivi, inergativi e inaccusativi).

In altre parole, abbiamo costruito tre liste di nomi: una costituita da 18 item,

bilanciata con il gruppo dei 20 verbi transitivi, una da 17 item, bilanciata con il

gruppo dei 17 verbi inergativi e una da 12 item, bilanciata col gruppo dei 13

verbi inaccusativi.

I nomi inseriti in queste tre liste sono stati presi dall’insieme dei 50 che

costituiscono la batteria di denominazione complessiva in modo che non fosse

necessario sottoporre ai pazienti degli item in più.

La procedura che, in questo modo, diventa possibile utilizzare è la seguente:

si testano i pazienti con i 100 item della batteria complessiva, si confronta la

prestazione ai 50 nomi con quella ai 50 verbi per evidenziare l’eventuale

dissociazione e si esegue un’analisi statistica dei risultati: nel caso questa metta

in evidenza un significativo effetto di lunghezza o un significativo effetto di

immaginabilità, è possibile confrontare la prestazione nei tre singoli gruppi di

verbi con i rispettivi gruppi di nomi bilanciati anche per queste due variabili.

In questo modo, è sempre possibile avere un controllo ulteriore del fattore

classe grammaticale al netto delle variabili di frequenza d’uso o di

immaginabilità.

In Tabella 15, 16 e 17 troviamo i risultati del bilanciamento, con i valori

medi delle variabili semantico-lessicali nei tre gruppi di verbi e nelle tre

sottoliste di nomi.

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Tabella 15: variabili semantico-lessicali per i verbi transitivi e un sottogruppo di nomi bilanciati

Nomi (n=18) Verbi transitivi (n=20) t Test p

Frequenza d'uso orale 15,89 ± 21,89 16,70 ± 26,12 0,10 .91

Immaginabilità 5,95 ± 0,42 4,65 ± 0,60 -7,65 <.001

Lunghezza in lettere 7,78 ± 2,07 8,20 ± 1,54 0,71 .47

Lunghezza in sillabe 3,39 ± 0,98 3,50 ± 0,69 0,40 .68

Età d'acquisizione 3,57 ± 1,15 3,78 ± 1,07 0,57 .57

Tipicità della figura 5,82 ± 0,93 5,57 ± 0,84 -1,01 .31

Tabella 16: variabili semantico-lessicali per i verbi inaccusativi e un sottogruppo di nomibilanciati

Nomi (n=12) Verbi inaccusativi (n=13) t Test p

Frequenza d'uso orale 20,58 ± 25,61 18,38 ± 20,82 -0,23 .81

Immaginabilità 5,99 ± 0,44 3,93 ± 0,57 -10,04 <.001

Lunghezza in lettere 7,75 ± 2,09 7,92 ± 1,26 0,25 .80

Lunghezza in sillabe 3,33 ± 0,89 3,46 ± 0,52 0,44 .66

Età d'acquisizione 3,50 ± 1,39 3,88 ± 1,42 0,67 .50

Tipicità della figura 5,88 ± 0,81 5,65 ± 0,76 -0,80 .43

Come si vede, la lunghezza, sia in lettere che in sillabe, è ora bilanciata tra

sottogruppi di verbi e sottogruppi di nomi; le altre variabili lessicali sono

anch’esse bilanciate, ma l’immaginabilità dei nomi è ancora maggiore

dell’immaginabilità dei verbi in tutte e tre le sottobatterie.

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183

2.3 Riassunto delle caratteristiche della nuova batteria di denominazione

Data l’assenza di un test di denominazione di azioni e oggetti che

soddisfacesse i nostri bisogni e dati i difetti della batteria utilizzata per la

raccolta dei dati su cui abbiamo condotto l’analisi qualitativa e il controllo

dell’ipotesi di Bird et al. (2000), abbiamo costruito una nuova batteria di

denominazione.

Partendo da una lista iniziale di 266 nomi e 123 verbi, attraverso la

misurazione delle principali variabili semantico-lessicali per ciascun item,

abbiamo selezionato 50 verbi e 50 nomi con cui abbiamo costituito il nuovo test.

Tra i nomi sono presenti 25 item che rappresentano oggetti naturali e 25 item

che rappresentano oggetti artificiali; tra i 50 verbi, invece, 20 sono transitivi, 17

inergativi e 13 inaccusativi.

Per quello che riguarda il bilanciamento delle variabili semantico-lessicali,

possiamo dire che la frequenza d’uso, l’età di acquisizione e la tipicità della

figura presentano valori medi simili (o comunque, non significativamente

Tabella 17: variabili semantico-lessicali per i verbi transitivi e un sottogruppo di nomi bilanciati

Nomi (n=17) Verbi inergativi (n=17) t Test p

Frequenza d'uso orale 10,18 ± 18,44 6,94 ± 13,90 -0,61 .54

Immaginabilità 5,84 ± 0,44 4,99 ± 0,79 -3,94 <.001

Lunghezza in lettere 7,88 ± 2,06 8,05 ± 1,43 0,29 .77

Lunghezza in sillabe 3,35 ± 1,00 3,29 ± 0,47 -0,22 .82

Età d'acquisizione 3,53 ± 1,07 3,64 ± 1,04 0,31 .93

Tipicità della figura 5,83 ± 0,90 5,66 ± 0,84 -0,69 .49

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diversi) nei diversi sottogruppi di item. Non si è riusciti neppure questa volta a

bilanciare nomi e verbi per immaginabilità: i nomi sono significativamente più

immaginabili dei verbi e i verbi inaccusativi meno immaginabili dei verbi

transitivi e inergativi.

Anche la lunghezza in lettere e in sillabe non è perfettamente bilanciata tra

nomi e verbi, mentre lo è tra sottotipi di verbo e tra nomi di oggetti naturali e

nomi di manufatti.

Da ultimo, abbiamo costruito tre sottogruppi di nomi, cercando di far sì che

ciascuno di essi fosse bilanciato con uno dei tre sottogruppi verbali (verbi

transitivi, inergativi e inaccusativi) anche per quelle variabili che non erano

perfettamente bilanciate nel confronto tra tutti i 50 nomi e tutti i 50 verbi: ciò è

stato possibile per la lunghezza in lettere e in sillabe, ma non per

l’immaginabilità.

3. MATERIALI E METODI: soggetti e somministrazione dei test

3.1 Soggetti

Hanno partecipato allo studio 39 pazienti afasici: di questi, 21 soffrivano di

una forma di afasia fluente, 8 di una forma di afasia non-fluente, 7 avevano una

sindrome afasica residua, mentre non era stato possibile classificare 3 pazienti

lungo il parametro fluente/non-fluente.

Tra i 21 afasici fluenti, 12 soffrivano di afasia amnestica e 9 di afasia di

Wernicke, mentre, tra gli 8 pazienti non-fluenti, 5 soffrivano dei sintomi tipici

dell’agrammatismo (vedi Tabella 18).

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Di questi 39 soggetti, 13 sono stati sottoposti anche al test RNV-CF: al test di

denominazione su figura, 10 di essi erano risultati dissociati-meglio-nomi

(DMN), 1 era risultato dissociato-meglio-verbi (DMV) e 2 non dissociati (ND).

La composizione del campione di pazienti che è stato sottoposto al test RNV-

CF è descritta in Tabella 19: 4 pazienti soffrivano di una forma afasica fluente, 4

erano afasici non-fluenti, 3 soffrivano di una sindrome afasica residua e 2 erano

afasici che non era stato possibile classificare secondo la fluenza dell’eloquio.

Dei 4 afasici non-fluenti, 2 erano pazienti agrammatici.

3.2 Materiale e somministrazione del compito

Tutti i soggetti che hanno partecipato allo studio sono stati sottoposti al test

di denominazione su figura che abbiamo descritto nel secondo paragrafo di

questo capitolo; rimando dunque ad esso per le caratteristiche del compito,

ricordando qui soltanto che la batteria è composta da 50 figure di oggetti e 50

figure di nomi ed è bilanciata tra nomi e verbi per le variabili di frequenza d’uso

orale,

Tabella 18: composizione del campione che è stato sottoposto al test di denominazione.

Numerosità Età media Scolarità media

Afasia amnestica 12 53,5 7,6

Sindrome residua afasica 7 49,3 7,4

Afasia di Broca 3 49,5 9

Afasia di Broca con Agrammatismo 5 45,6 10,2

Afasia di Wernicke 9 64 7,6

Non classificabili 3 59 8,3

TOTALE 39 53,4 8,4

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Tabella 19: composizione del campione che è stato sottoposto al test RNV-CF.

Numerosità Età media Scolarità media

Afasia amnestica 4 54,7 7,8

Sindrome residua afasica 3 54,3 7

Afasia di Broca 2 63,5 8

Afasia di Broca con Agrammatismo 2 35 12

Non classificabili 2 61,5 6,5

TOTALE 13 54,2 8,3

età d’acquisizione e tipicità della figura, ma non per le variabili di lunghezza e

immaginabilità.

Il test RNV-CF è invece stato descritto nel primo paragrafo di questo

capitolo: lì si possono trovare le sue principali caratteristiche, discusse e

commentate in modo ampio. Qui ricorderemo semplicemente che il test prevede

la somministrazione di 45 item verbali e 45 item nominali e che questa batteria è

bilanciata tra nomi e verbi per immaginabilità e lunghezza, ma non per

frequenza d’uso orale.

La procedura prevedeva la somministrazione del compito di denominazione

a tutti i soggetti e del test RNV-CF solo ad alcuni pazienti, quelli di maggior

interesse, ad esempio per la presenza di una dissociazione tra nomi di oggetti

naturali e nomi di manufatti oppure per la presenza di effetti molto marcati di

qualche variabile semantico-lessicale oppure ancora per il tipo di afasia: la

somministrazione del RNV-CF avveniva, comunque, in una sessione successiva

rispetto a quella in cui era stato svolto il compito di denominazione su figura.

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187

4. RISULTATI

4.1 Il test di denominazione su figura

Dopo avere sottoposto i pazienti afasici al test di denominazione, abbiamo

analizzato i risultati ottenuti, confrontando, per ciascun soggetto, la prestazione

ai verbi con quella ai nomi e la prestazione ai nomi di oggetti naturali con quella

ottenuta ai nomi di manufatti.

I risultati di questa analisi sono riassunti in Tabella 21 (in Appendice

abbiamo riportato la Tabella completa dei risultati con i valori percentuali

ottenuti da ogni singolo soggetto e il valore del chi quadrato per i confronti in

questione).

Tipo di afasia. Come si può vedere, dei 39 pazienti considerati, ben 25

risultano dissociati-meglio-nomi, mentre 1 soltanto è dissociato-meglio-verbi; i

restanti 13 soggetti presentano prestazioni confrontabili nelle due categorie

lessicali.

E’ piuttosto interessante guardare il modo in cui gli afasici dissociati si

distribuiscono tra la diverse sindromi afasiche.

Alcuni dati spiccano con chiarezza: ad esempio, tutti i pazienti non-fluenti

con agrammatismo sono dissociati-meglio-nomi.

Questo risultato non è certo nuovo in letteratura (vedi capitolo 2); è stato

individuato, infatti, già molti anni fa (Myerson, Goodglass 1972; McCarthy,

Warrington, 1985), in un periodo in cui era molto diffusa l’idea che un disturbo

selettivo dei verbi è parte del pattern di errori tipico dell’agrammatismo.

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In questa chiave, va sottolineata un’altra evidenza che emerge dai nostri dati:

dei 25 dissociati-meglio-nomi solo 5 sono agrammatici. Se è dunque vero che

tutti gli agrammatici sono dissociati-meglio-nomi, non è vero che tutti i

dissociati-meglio-nomi sono agrammatici (confronta Luzzatti et al., 2002).

Un altro dato interessante indica che ben 7 dei 9 pazienti con afasia di

Wernicke che hanno partecipato allo studio sono dissociati-meglio-nomi.

Il nostro unico paziente dissociato-meglio-verbi soffre di afasia amnestica,

in accordo con la tendenza spesso indicata in letteratura.

Da ultimo notiamo che, nonostante la letteratura indichi una forte

associazione tra afasia amnestica e dissociazione-meglio-verbi, nel nostro studio

abbiamo trovato ben 5 afasici amnestici dissociati-meglio-nomi.

Tabella 20: associazione tra tipo di afasia e tipo di dissociazione al test didenominazione di figure (DMN = dissociati-meglio-nomi; DMV = dissociati-meglio-verbi; ND = non dissociati).

DMN DMV ND TOTALE

Broca 1 0 2 3

Broca con agrammatismo 5 0 0 5

Wernicke 7 0 2 9

Amnestici 5 1 6 12

Sindrome residua afasica 4 0 3 7

Non classificabili 3 0 0 3

TOTALE 25 1 13 39

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Per ciò che riguarda la dissociazione tra nomi di oggetti naturali e nomi di

manufatti, 5 pazienti mostravano di saper denominare meglio le figure di questi

ultimi; nessun paziente, al contrario, aveva una dissociazione a favore dei nomi

naturali.

Dei 5 dissociati-meglio-artificiali, 3 erano anche dissociati-meglio-nomi

(vedi Tabella 21); per ciò che riguarda il tipo di afasia, invece, 2 avevano una

sindrome afasica residua, due un’afasia non-fluente (uno presentava anche i

sintomi dell’agrammatismo) e uno un’afasia di Wernicke.

Variabili semantico-lessicali. Per scoprire se i pazienti del nostro campione

presentassero qualche effetto legato a queste variabili, abbiamo condotto

un’analisi per casi singoli utilizzando la tecnica della Regressione Logistica

(McCullagh, Nelder, 1983).

I risultati dettagliati di questa analisi, contenenti i valori delle statistiche e le

probabilità associate, si trovano in Appendice: i dati sono, inoltre, riassunti in

Tabella 22.

Come si può vedere da essa, l’immaginabilità non è significativa nell’unico

paziente afasico DMV, è significativa in 5 dei 13 pazienti ND ed è significativa

anche in tutti i 25 pazienti DMN; la frequenza d’uso, invece, è significativa

nell’unico DMV, ma in uno solo dei 25 pazienti DMN.

L’età di acquisizione è risultata un predittore statisticamente importante per

18 dei 25 DMN, per l’unico DMV, ma per soli 4 pazienti sui 13 non dissociati;

da ultimo, la lunghezza degli item è significativa in 13 dei 25 DMN e in 3 dei 13

pazienti ND, mentre non è significativa nel dissociato-meglio-verbi

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Tabella 21: compito di denominazione su figura: dissociazioni tra nomi dioggetti naturali (Nat) e nomi di oggetti artificiali (Art) e dissociazioni tra nomie verbi.

DMN DMV ND TOTALE

Art > Nat 3 0 2 5

Nat > Art 0 0 0 0

Nat = Art 22 1 11 34

TOTALE 25 1 13 39

.

Sembra dunque che anche dai nostri soggetti, come da quelli di Luzzatti et

al. (2002), sia emersa la grande importanza dell’effetto di immaginabilità per i

dissociati-meglio-nomi; nel contempo, invece, sembra che la frequenza d’uso

orale degli item non sia cruciale nel prevedere la prestazione di questi pazienti.

Rispetto alla letteratura sull’argomento rappresenta, invece, una novità il

ruolo importante dell’età di acquisizione soggettiva: essa è un predittore

significativo in ben 18 dei 25 DMN e nell’unico DMV; allo stesso modo, la

lunghezza non è citata spesso in letteratura come variabile importante nello

spiegare la prestazione dei pazienti dissociati ad un compito di denominazione

di figure, eppure si rivela un predittore significativo in più della metà dei DMN.

A proposito delle variabili cruciali per i DMV non possiamo dire molto dato

che, nel nostro campione, soltanto un afasico è risultato dissociato-meglio-verbi:

questo paziente presenta un importante effetto di frequenza d’uso, allineandosi

così anch’esso ai risultati descritti in Luzzatti et al. (2002).

Un ultimo dato da sottolineare è quello per cui in ben 21 dei 25 afasici

dissociati-meglio-nomi l’effetto di classe grammaticale non è più statisticamente

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significativo in un modello bivariato in cui è presente anche il fattore

immaginabilità: detto in altro modo, la dissociazione nomi-verbi non è più

presente quando i dati vengono corretti per immaginabilità, ad indicare che

probabilmente un forte effetto di immaginabilità creava delle “apparenti”

dissociazioni tra nomi e verbi che, in realtà, non hanno una base legata alla

categoria grammaticale delle parole.

Questa “scomparsa” della dissociazione nomi-verbi dopo una correzione dei

dati per le variabili lessicali si verifica solo con l’immaginabilità: infatti, in

nessun paziente la frequenza d’uso, l’età di acquisizione o la lunghezza

dell’item eliminano l’effetto di classe grammaticale in un modello bivariato.

4.2 Il test RNV-CF

La Tabella 23 riassume nel complesso i risultati ottenuti dai pazienti afasici

al test RNV-CF.

Tabella 22: compito di denominazione su figura: numero di pazienti dissociati-meglio-nomi (DMN), dissociati-meglio-verbi (DMV) e non dissociati (ND) per cuisono risultate significative le seguenti variabili semantico-lessicali all’Analisi diRegressione Logistica.

DMN (%) DMV (%) ND (%) TOTALE (%)

Immaginabilità 25 (100%) 0 5 (38%) 30 (77%)

Frequenza d'uso 1 (4%) 1 (100%) 4 (31%) 6 (15%)

Età d'acquisizione 18 (72%) 1 (100%) 4 (31%) 23 (59%)

Lunghezza 13 (52%) 0 3 (23%) 16 (41%)

TOTALE 25 (100%) 1 (100%) 13 (100%) 39 (100%)

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Come si può vedere, soltanto 5 pazienti sono risultati ancora dissociati in

questo test, uno per ogni gruppo afasico (un paziente con afasia amnestica, un

paziente con afasia di Broca, uno con afasia di Broca e agrammatismo, uno con

una sindrome afasica residua e uno non classificato).

Tra questi 5 pazienti, non c’è il dissociato-meglio-verbi che, in questo

compito, mostra una prestazione simile nelle due classi grammaticali.

Anche l’effetto “morfologico” che avevamo previsto non è così dirompente

come ci si poteva aspettare: un solo paziente (il numero 22), infatti, mostra una

prestazione significativamente peggiore con i nomi derivati stricto sensu (DER)

rispetto ai nomi con forma fonologica identica alla prima persona singolare del

verbo (1PS) o con forma fonologica identica al participio passato (PP).

Curiosamente, questo unico paziente è proprio quello che mostrava la

dissociazione-meglio-verbi alla denominazione di figure.

4.3 Denominazione e RNV-CF a confronto

Analisi di gruppo: prestazione complessiva ai verbi. Scorrendo i risultati, si nota

subito come i dissociati-meglio-nomi (DMN) abbiano nel complesso delle

prestazioni ai verbi migliori nel test RNV-CF rispetto a quelle che hanno

mostrato nella denominazione di figure (Figura 15) .

Infatti, mentre la media delle percentuali di risposte corrette al test di

denominazione dei DMN è del 36%, la stessa media è del 59% al RNV-CF (t

test = 5,08; p < .001).

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Tabella 23: risultati dei pazienti afasici sottoposti al test RNV-CF (Legenda: N° = numero delpaziente; Diss Den = tipo di dissociazione al compito di denominazione su figura; Af = tipo di afasia;%N = percentuale di risposte corrette ai nomi; %V = percentuale di risposte corrette ai verbi; 1PS= nomi con forma uguale alla prima persona singolare del verbo corrispondente; PP = nomi conforma uguale al participio passato del verbo corrispondente; DER = nomi ottenuti dal verbo peraggiunta di un suffisso derivazionale; N vs V e DER vs PP+1PS = confronto statistico delleprestazioni con queste categorie di item).

RNV-CF

%N N vs V DER vs PP+1PS

N° Diss Den Af 1PS PP DER TOT %V chi2 P chi2 p

22 V>N A 59 33 5 29 47 12,42 <.001

1 N>V A 65 67 55 60 89 9,87 .001

12 N>V A 65 67 64 64 76

18 N>V A 41 50 64 53 47

3 N>V NC 88 83 77 82 27 28,00 <.001

5 N>V NC 24 33 32 29 42

4 N>V SAR 82 50 77 76 78

9 N>V SAR 88 100 91 91 80

15 N>V B+ 82 100 82 84 87

16 N>V B+ 24 17 9 15 38 5,68 <.01

17 N>V B- 41 50 64 53 27 6,67 <.01

13 N=V SAR 17 50 9 18 47 11,07 <.001

25 N=V B- 47 50 50 49 49

Questo fenomeno non si verifica con i dissociati-meglio-verbi (DMV) e i

non dissociati (ND): essi, infatti, sembrano svolgere i due compiti con la stessa

accuratezza per quello che riguarda gli item verbali (54% alla denominazione e

47% al RNV-CF; p > .05).

Analisi di gruppo: prestazione complessiva ai nomi. Questo effetto facilitatorio

del test RNV-CF è completamente ribaltato con i nomi: infatti, i DMN hanno

delle prestazioni con questa classe grammaticale peggiori al RNV-CF rispetto al

test di denominazione su figura (Figura 15).

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194

La differenza è, però, un po’ meno marcata rispetto a quella che caratterizza

le prestazioni con i verbi: in media, i DMN fanno correttamente il 76% degli

item nominali alla denominazione, mentre hanno una percentuale di risposte

corrette del 60% al RNV-CF (t test = 2,17; p = .05).

Studio per casi singoli. Osservando in modo comparato la prestazione di

ciascun paziente afasico partecipante allo studio (Tabella 25), si nota

immediatamente che, dei 10 soggetti risultati dissociati-meglio-nomi al test di

denominazione di figure, soltanto due conservano la dissociazione al test RNV-

Figura 15: percentuali di risposte corrette dei dissociati-meglio-nomi (DMN) alcompito di denominazione e al test RNV-CF.

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CF; in questo test infatti, 6 DMN non sono più dissociati, mentre due altri

pazienti DMN addirittura risultano dissociati-meglio-verbi!

Un altro aspetto molto interessante della prestazione al RNV-CF dei DMN è

che i due fenomeni evidenziati dai dati aggregati (il miglioramento ai verbi e il

peggioramento ai nomi) si manifestano con chiarezza anche nell’osservazione di

ogni singolo paziente.

In Tabella 24 sono riassunte le prestazioni ai due test di tutti i 13 soggetti

che hanno svolto entrambi i compiti: come si può vedere da essa, i pazienti 1, 5,

12, 16 e 18 mostrano proprio una prestazione migliore ai verbi del test RNV-CF

rispetto ai verbi del test di denominazione su figura e viceversa una prestazione

peggiore ai nomi del test RNV-CF rispetto ai nomi del test di denominazione su

figura. In tre casi (5, 12 e 18), questi due fenomeni fanno si che i soggetti non

siano più dissociati, mentre in due casi (1 e 16) addirittura ribaltano la

dissociazione, con l’effetto di rendere DMV due soggetti che erano DMN al test

di denominazione di figure.

Proseguendo nell’analisi dei profili dei singoli pazienti, notiamo che altri 4

soggetti (i numeri 4, 9, 15 e 17) mostrano una prestazione migliore ai verbi del

RNV-CF rispetto ai verbi del test di denominazione, ma non una prestazione

peggiore ai nomi del RNV-CF rispetto a quelli del test di denominazione su

figura: anche qui, in tre casi (4, 9 e 15) il miglioramento ai verbi fa sì che i

pazienti non siano più dissociati, mentre in un caso (17) esso non è sufficiente a

portare la percentuale di verbi corretti al livello di quella dei nomi (il soggetto

resta quindi dissociato-meglio-nomi).

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Tabella 24: prestazione dei soggetti ai nomi e ai verbi del test di denominazione aconfronto con le prestazioni degli stessi soggetti ai nomi e ai verbi del test RNV-CF (N° =numero del paziente; Diss Den = tipo di dissociazione al test di denominazione su figura; Den= prestazioni al test di denominazione si figura; RNV-CF = prestazioni al test di Recupero diNomi e Verbi in un compito di Completamento di Frasi).

NOMI VERBI

N° Diss Den Den RNV-CF chi2 p Den RNV-CF chi2 p1 N>V 84 60 6,86 <.01 44 89 21,05 <.0015 N>V 78 29 23,06 <.001 32 42 1,06 n.s.12 N>V 86 64 6,00 .01 48 76 7,56 <.0116 N>V 60 15 19,67 <.001 16 38 5,79 .0118 N>V 88 53 13,99 <.001 38 47 0,73 n.s.4 N>V 82 76 0,59 n.s 46 78 10,06 .0019 N>V 78 91 3,06 n.s 58 80 5,31 .0115 N>V 82 84 0,10 n.s 46 87 17,28 <.00117 N>V 46 53 0,51 n.s 4 27 9,68 <.005

3 N>V 78 82 0,26 n.s 28 27 0,02 n.s

22 V>N 18 29 1,58 n.s 44 47 0,07 n.s

13 N=V 54 18 13,35 <.001 42 47 0,79 n.s25 N=V 64 49 2,20 n.s 50 49 0,01 n.s

Dei 10 dissociati-meglio-nomi alla denominazione, un paziente soltanto (il

numero 3) non si “adegua” all’andamento generale: egli presenta delle

percentuali di risposte corrette quasi identiche a quelle ottenute al compito di

denominazione, sia con i verbi che con i nomi.

Riassumendo, sembra quindi che 9 dei 10 pazienti afasici che mostravano un

deficit selettivo dei verbi al compito di denominazione manifestino, al test RNV-

CF, un netto miglioramento della prestazione con i verbi e, nella maggioranza

dei casi, un peggioramento della prestazione con i nomi. Al contrario, un

paziente afasico DMN alla denominazione (il numero 3) ha delle prestazioni ai

due test del tutto confrontabili.

C’è una nota importante da fare a proposito del comportamento al RNV-CF

dei 10 DMN: noi ci aspettavamo che un elemento fondamentale nel determinare

il comportamento dei pazienti a questo test, fosse il fatto che l’effetto di classe

grammaticale restasse oppure no significativo anche dopo la correzione dei

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punteggi per immaginabilità. Infatti, questo elemento distingueva, secondo noi

(ma non solo secondo noi, vedi Luzzatti et al., 2002), i dissociati “forti” da

quelli “deboli”, quelli cioè per cui non era solo la classe grammaticale, ma anche

(e, forse, soprattutto) l’immaginabilità a determinare la diversa prestazione ai

nomi e ai verbi.

Questo non è accaduto! Infatti, la presenza di una prestazione migliore ai

verbi del nuovo test è trasversale ai due gruppi, così come la caduta della

percentuale di risposte corrette ai nomi.

Passiamo ora ad analizzare la prestazione dell’unico DMV (il numero 22)

che faceva parte del nostro campione.

Al test RNV-CF, egli si comporta nuovamente meglio con i verbi che con i

nomi in modo piuttosto evidente anche se non statisticamente significativo (47%

contro 29%; p = .08).

La mancata significatività statistica (sottolineo, però, che rimane un chiaro

trend) è da attribuirsi ad una percentuale di risposte corrette ai nomi leggermente

più alta, trascinata dalla notevole prestazione ai nomi della categoria 1PS (ben

59% di risposte corrette), cioè a quei nomi la cui forma fonologica è identica

alla prima persona singolare del verbo corrispondente: come vedremo in

discussione, questo indica una strategia risolutiva di tipo morfologico, che ha

successo solo con i nomi più facili da questo punto di vista (gli 1PS, appunto).

La prestazione al RNV-CF dei due pazienti non dissociati al compito di

denominazione non è omogenea: un soggetto (il numero 25) presenta una

prestazione del tutto confrontabile con quella ottenuta denominando le figure

(resta, quindi, non dissociato), mentre un altro (il numero 13) presenta una

percentuale di risposte corrette ai nomi molto più bassa rispetto al compito di

denominazione di figure: ciò lo rende in questo test dissociato-meglio-verbi.

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Anche in questo caso, c’è il sospetto che la scadente prestazione ai nomi

consegua ad un tentativo da parte del paziente di compensare il proprio deficit

lessicale con una strategia di risoluzione fondata sull’applicazione di routines

morfologiche. In particolare, sembra che il paziente ipergeneralizzi il paradigma

cadere/caduta con una conseguente prestazione buona a questi item (i nomi PP),

ma scadente agli altri (i nomi DER e 1PS).

5. DISCUSSIONE

Come possiamo spiegare questo quadro? Che cosa ci dicono questi risultati a

proposito della dissociazione nomi-verbi presente nel nostro gruppo di 13

pazienti afasici?

Come abbiamo visto sopra, i 10 pazienti che mostravano una dissociazione-

meglio-nomi al test di denominazione di figure si sono divisi in tre gruppi:

1. due soggetti sono ancora dissociati-meglio-nomi al test RNV-CF.

2. sei soggetti non mostrano più alcuna dissociazione in questo test.

3. due soggetti mostrano addirittura una dissociazione opposta, a favore

dei verbi.

Inoltre, il dissociato-meglio-verbi al test di denominazione (il numero 22)

non mostra più anch’esso alcuna dissociazione al test RNV-CF.

Potremmo, quindi, dire che:

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1. i due pazienti che risultano DMN ad entrambi i test mostrano un

effetto di classe grammaticale molto forte, indipendente dal fattore

immaginabilità e dall’utilizzo di un contesto frasale di sostegno.

2. sei pazienti mostrano, invece, un effetto di classe grammaticale

prevalentemente legato all’effetto di immaginabilità tanto che,

quando essa è bilanciata tra nomi e verbi, non dissociano più; a

questo effetto và aggiunto quello legato alla presenza di una struttura

sintattica di sostegno e di un nome semanticamente, lessicalmente e

morfologicamente relato al verbo target che potrebbe avere aiutato il

recupero lessicale, quello dei verbi in particolare.

3. due pazienti sembrano così sensibili alle modifiche introdotte nel

compito RNV-CF rispetto al test di denominazione (immaginabilità

bilanciata e contesto frasale) che non solo non mostrano più una

dissociazione-meglio-nomi, ma addirittura ne rivelano una opposta

(meglio-verbi): l’immaginabilità bilanciata e la presenza del nome

relato hanno permesso un tale miglioramento del recupero lessicale

dei verbi che esso è diventato migliore del recupero lessicale dei

nomi.

4. il paziente dissociato-meglio-verbi sembra ottenere grande beneficio

dalla presenza del verbo relato: esso gli consente, almeno in alcuni

casi, di utilizzare una strategia morfologica di risoluzione del

compito che permette un miglioramento sensibile del recupero

lessicale dei nomi (soprattutto dei nomi 1PS, quelli più trasparenti

morfologicamente) il quale a sua volta fa scomparire la

dissociazione.

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Tabella 25: confronto, paziente per paziente, delle prestazioni al test di denominazione su figura e al test RNV-CF.

DENOMINAZIONE DI FIGURE RNV-CF

Risultati Variabili lessicali An. bvariata Risultati Analisi univariata

%N Freq Imm N-V + Imm %N N-V DER vs 1PS+PPN° Af Art Nat Art-Nat TOT %V Diss Wald p Wald p Wald p 1PS PP DER TOT %V Diss chi2 p chi2 p22 A 20 16 18 44 V>N 5,18 <.05 59 33 5 29 47 N=V 12,42 <.00113 SR 72 36 Art>Nat 54 42 N=V 10,16 .001 17 50 9 18 47 V>N 11,07 <.00125 B- 80 48 Art>Nat 64 50 N=V 5,2 <.05 47 50 50 49 49 N=V

1 A 84 84 84 44 N>V 21,27 <.001 0,13 n.s. 65 67 55 60 89 V>N 9,87 .00116 B+ 52 68 60 16 N>V 20,93 <.001 0,25 n.s. 24 17 9 15 38 V>N 5,68 <.015 NC 80 76 78 32 N>V 15,2 <.001 4,78 <.05 24 33 32 29 42 N=V

12 A 84 88 86 48 N>V 12,32 <.001 4,01 <.05 65 67 64 64 76 N=V

18 A 88 88 88 38 N>V 11,36 .001 11,71 .001 41 50 64 53 47 N=V

4 SR 88 76 82 46 N>V 14,26 <.001 1,27* n.s. 82 50 77 76 78 N=V

9 SR 92 64 Art>Nat 78 58 N>V 9,51 <.005 0,55 n.s. 88 100 91 91 80 N=V

15 B+ 100 68 Art>Nat 82 46 N>V 17,17 <.001 0,28 n.s. 82 100 82 84 87 N=V

17 B- 52 40 46 4 N>V 14,4 <.001 3,05* n.s. 41 50 64 53 27 N>V 6,67 <.013 NC 84 72 78 28 N>V 16,09 <.001 4,05 <.05 88 83 77 82 27 N>V 28,00 <.001

Legenda: N° = numero del paziente; ; Af = tipo di afasia; Diss = superiorità dei verbi o dei nomi; Art-Nat = superiorità ai nomi di oggetti naturali o ai nomi dimanufatti; A = afasia amnestica; B- = afasia di Broca senza agrammatismo; B+ = afasia di Broca con agrammatismo; W = afasia di Wernicke; SAR = sindromeafasica residua; NC = afasia non classificabile; %N = percentuale di nomi corretti; %V = percentuale di verbi corretti; Imm = immaginabilità; Freq = frequenzad’uso orale; Wald = valore del test di Wald; p = probabilità associata al valore del test di Wald; 1PS = nomi con forma uguale alla prima persona singolare del verbocorrispondente; PP = nomi con forma uguale al participio passato del verbo corrispondente; DER = nomi derivati dal verbo per aggiunta di un suffissoderivazionale.

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In questa interpretazione iniziale, però, l’azione dei due fattori che ci

proponevamo di studiare col test RNV-CF (l’immaginabilità e il contesto frasale)

è ancora confusa: i due effetti si intersecano e si sovrappongono non

permettendoci di coglierli entrambi con chiarezza. Vogliamo provare a

distinguerli meglio.

Il ruolo dell’immaginabilità. Il fatto che molti soggetti con dissociazione tra

nomi e verbi al compito di denominazione di figure non mostrino più questo

fenomeno al test RNV-CF potrebbe essere interpretato come prova del fatto che le

prestazioni al test di denominazione di figure conseguivano non ad un effetto di

classe grammaticale, ma al diverso gradiente di immaginabilità: di conseguenza,

in una prova dove le due categorie grammaticali sono perfettamente bilanciate per

questo aspetto, non vi sarebbe ragione di aspettarsi che la dissociazione sia ancora

presente.

Contro questa interpretazione vanno, però, due elementi.

Innanzitutto, il test RNV-CF è composto da nomi la cui immaginabilità media

(4,30) è inferiore a quella dei nomi che fanno parte del test di denominazione e da

verbi la cui immaginabilità media è invece quasi uguale a quella dei verbi della

prova di denominazione (4,52 contro 4,58): da ciò discende che, se fosse solo il

fattore immaginabilità a creare la dissociazione in denominazione, dovremmo

aspettarci una prestazione peggiore ai nomi del RNV-CF rispetto ai nomi del test

di denominazione, ma una prestazione ai verbi del RNV-CF confrontabile con

quella ottenuta dai pazienti ai verbi della prova di denominazione di figure. Al

contrario, ciò che si verifica è si il peggioramento ai nomi, ma anche un netto

miglioramento ai verbi: evidentemente, questo ultimo fenomeno non può essere

spiegato riferendosi al fattore immaginabilità.

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Secondariamente, ci sono alcuni pazienti per cui, al test di denominazione,

l’effetto di classe grammaticale non è più significativo se i dati vengono corretti

per immaginabilità: ciò significa che in loro l’effetto di immaginabilità incide in

modo cospicuo nel determinare la dissociazione nomi-verbi.

Come è evidente, da questi soggetti, e solo da loro, ci saremmo aspettati la

riduzione dell’effetto di classe grammaticale al compito RNV-CF, ma così non è

andata: infatti, non dissociano al nuovo test anche pazienti che ritenevamo avere

un disturbo cognitivo per i verbi indipendente del fattore immaginabilità (il cui

effetto di classe grammaticale, cioè, restava significativo anche dopo la correzione

dei dati per immaginabilità), mentre, viceversa, nel RNV-CF continua ad avere

una prestazione migliore ai nomi un paziente che, al compito di denominazione,

sembrava subire un grande effetto di immaginabilità.

Sembra, quindi, che il numero ridotto di dissociati-meglio-nomi al test RNV-

CF sia solo in parte spiegabile con il bilanciamento dell’immaginabilità.

Il ruolo del contesto frasale e del verbo/nome relato. Come abbiamo detto nel

paragrafo precedente, se potevamo aspettarci da parte dei DMN una percentuale

minore di risposte corrette ai nomi del RNV-CF rispetto ai nomi del test di

denominazione per via della minore immaginabilità, ci ha piuttosto sorpreso il

miglioramento della prestazione dei DMN ai verbi.

Ricordo ancora, infatti, che questi ultimi non hanno nel test RNV-CF

un’immaginabilità diversa rispetto al test di denominazione: ci deve quindi essere

qualche caratteristica del test RNV-CF, diversa dall’immaginabilità, che ha

favorito il miglioramento ai verbi da parte dei DMN.

Questa caratteristica potrebbe essere la struttura del compito.

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Il test RNV-CF, infatti, presuppone che sia fornito dall’esaminatore al paziente

afasico un nome relato al verbo target, sia semanticamente che

morfologicamente, (“Dalla finestra si vede la pioggia; dalla finestra si vede …”)

ed inoltre un contesto frasale, sia nella frase di esempio che l’esaminatore legge

(“Dalla finestra si vede la pioggia”), sia nella frase da completare (“Dalla finestra

si vede la …”).

Queste due caratteristiche del test RNV-CF sembrano favorire una prestazione

migliore ai verbi: in che modo?

Io vedo almeno tre possibilità, a proposito delle quali cercherò di dimostrare

che una è molto più probabile ed economica delle altre.

Innanzitutto, come avevamo ipotizzato a pagina 166 e seguenti, i pazienti

potrebbero cercare di risolvere il compito per via morfologica: in questo caso,

prenderebbero il nome, ne ricaverebbero la radice e ci aggiungerebbero il suffisso

verbale. Se così fosse, è chiaro che il nome relato fornito nella prima frase-

stimolo permetterebbe il miglioramento della prestazione ai verbi che abbiamo

osservato.

L’ipotesi è, però, piuttosto improbabile per due ragioni, una teorica e una

sperimentale:

1. consideriamo, infatti, la non-trasparenza del sistema morfologico

italiano: il procedimento ipotizzato è piuttosto dispendioso e necessita

di capacità morfologiche molto fini, che i pazienti afasici spesso non

hanno. Certo, esistono degli studi che dimostrano delle notevoli

capacità residue di applicazione di regole morfologiche, soprattutto

flessive, in pazienti agrammatici (Luzzatti, De Bleser, 1996), ma la

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morfologia derivazionale sembra essere molto più complessa di quella

flessiva o, se non altro, meno predicibile.

2. La ragione sperimentale per cui questa ipotesi è improbabile è la

seguente: se i pazienti avessero usato una strategia simile a quella

ipotizzata, avremmo dovuto ragionevolmente aspettarci una

prestazione migliore con i verbi che hanno una relazione morfologica

più semplice e più trasparente col nome corrispondente (quelli del

gruppo 1PS e PP). Questo non si verifica in nessuno dei 10 DMN!

La seconda possibilità è che l’attivazione del nome corrispondente, causata

dall’ascolto (e/o lettura) della frase stimolo, faciliti l’accesso lessicale al verbo

target: il nome letto dall’esaminatore è, infatti, semanticamente (ma anche

morfologicamente, lessicalmente e, molto spesso, fonologicamente) relato al

verbo target ed è quindi ragionevole che, in un sistema a rete come quello

ipotizzato da tutti i modelli lessicali più recenti, incluso quello di Levelt et al.

(1999), la sua attivazione si diffonda ai nodi vicini, tra cui c’è molto

probabilmente il verbo target.

Se fosse così, però, dovremmo notare un effetto simmetrico nel passaggio dal

verbo al nome: l’ascolto del verbo relato pre-attiva il nome target, che diventa più

semplice da recuperare, con un conseguente miglioramento della prestazione ai

nomi nel RNV-CF rispetto ai nomi nel compito di denominazione.

Come abbiamo già descritto, però, ai nomi del test RNV-CF non si hanno

prestazioni migliori rispetto ai nomi del test di denominazione né da parte dei

DMN né da parte dell’unico DMV.

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L’ultima ipotesi è quella per cui la struttura frasale e l’ascolto del nome

corrispondente fornisca al paziente afasico una facilitazione nel recupero della

struttura argomentale del verbo, un danno della quale potrebbe essere all’origine

della bassa prestazione ai verbi nel compito di denominazione.

E’ noto, infatti, che i nomi derivati da un verbo (come quelli presenti nel RNV-

CF) conservino la struttura argomentale del verbo stesso, anche se, come

dicevamo nel capitolo 1, non sono obbligati a realizzarla: l’ascolto del nome, per

di più in un contesto frasale, potrebbe quindi fornire al paziente quelle

informazioni che i suoi lemmi verbali non hanno più, o possiedono solo

parzialmente. La struttura frasale, fornita dalla frase da completare, potrebbe poi

ulteriormente facilitare l’inserimento del verbo.

In questo quadro, diventa spiegabile anche il fatto che l’ascolto del verbo

relato non sia, invece, facilitatorio nella produzione del nome. La struttura

argomentale, infatti, non è così indispensabile per recuperare i nomi: quand’anche

(come in questo test) essi ne posseggano una, non è strettamente necessario che

essa si dispieghi nella struttura sintattica della frase, come invece sono tenute a

fare le griglie tematiche dei verbi (vedi capitolo 1).

Questa ipotesi rende conto anche di un altro dato importante, quello per cui

soltanto i pazienti che sono risultati DMN al test di denominazione di figure

mostrano prestazioni peggiori ai verbi di questo test rispetto ai verbi del test

RNV-CF; infatti, i pazienti DMV e non dissociati, non avendo un deficit selettivo

per i verbi, paiono conoscere già la struttura argomentale dei verbi che devono

produrre e non hanno quindi bisogno di recuperarla dal nome relato ascoltato

nella frase stimolo.

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Nel complesso, sembra, dunque, che le nostre previsioni siano state rispettate:

nel primo paragrafo di questo capitolo, infatti, avevamo detto che

l’immaginabilità bilanciata tra nomi e verbi e il contesto frasale in cui i soggetti

dovevano inserire la parola-target avrebbero avuto un effetto nelle prestazioni dei

nostri pazienti.

Come abbiamo visto, così è stato: con l’immaginabilità bilanciata molti

soggetti non hanno più manifestato nel test RNV-CF la dissociazione-meglio-

nomi che li caratterizzava nel test di denominazione di figure; inoltre, l’effetto

facilitatorio del nome relato e del contesto frasale in cui i soggetti dovevano

inserire la parola-target ha favorito un generale miglioramento del recupero

lessicale dei verbi da parte dei DMN.

Questi due effetti, agendo in modo combinato, hanno fatto sì che alcuni

soggetti, dissociati-meglio-nomi al test di denominazione di figure, non

risultassero più dissociati al test RNV-CF o addirittura mostrassero in questa

prova una dissociazione-meglio-verbi.

L’interpretazione del deficit dei pazienti. Sulla base di queste considerazioni,

possiamo tentare un’interpretazione del deficit funzionale dei 13 pazienti che, nel

nostro studio, sono stati sottoposti sia al test di denominazione di figure che al test

RNV-CF.

I 9 pazienti DMN che migliorano la prestazione ai verbi nel RNV-CF

sembrano mostrare un deficit a livello del lemma che colpisce selettivamente i

verbi ed in particolar modo la loro struttura argomentale. Inoltre, sono sensibili

all’immaginabilità degli item (come suggeriscono i dati di Luzzatti at al., 2002, e i

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nostri dati sul compito di denominazione, i due aspetti del deficit potrebbero

essere legati).

Questi due elementi fanno sì che questi pazienti crollino ai nomi nel RNV-CF

a causa della loro bassa immaginabilità (e forse a causa del fatto che, essendo

nomi derivati da verbi, possiedono anch’essa una griglia tematica) e che invece

migliorino la loro prestazione ai verbi grazie all’aiuto che l’ascolto del nome

corrispondente dà loro nel recupero della struttura argomentale e all’effetto

facilitatorio della struttura frasale in cui il verbo target deve essere inserito.

Nel nostro campione è presente anche un paziente DMN in denominazione di

figure (il numero 3) che, però, non mostra né il miglioramento ai verbi né il

peggioramento ai nomi: come interpretare il suo deficit?

Nei fatti, la sua prestazione resta del tutto indifferente al contesto frasale e alla

presenza del nome deverbale: ciò potrebbe indicare che le informazioni da essi

fornite sono già presenti nel suo sistema cognitivo, che non sarebbe quindi leso

nella griglia argomentale a livello del lemma, ma ad un livello più periferico.

Egli, però, manifestava al test di denominazione un forte effetto di

immaginabilità che non può essere scomparso all’improvviso: ciò fa prevedere

quasi con certezza un peggioramento ai nomi nel RNV-CF in quanto essi sono

meno immaginabili di quelli compresi nel test di denominazione su figura.

Questo peggioramento, come abbiamo visto, non si è verificato, lasciando

pensare che qualcosa nel test RNV-CF abbia facilitato in questo paziente il

recupero dei nomi, compensando così l’effetto peggiorativo della bassa

immaginabilità.

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Da ultimo, i tre pazienti non dissociati-meglio-nomi (13, 22 e 25) non

manifestano nessun miglioramento ai verbi: come abbiamo già anticipato, questo

è poco sorprendente dato che ciò che il contesto frasale e il nome corrispondente

possono fornire loro (la struttura argomentale), essi lo possiedono già.

Per ciò che riguarda i nomi, due dei tre soggetti (il numero 13 e il numero 22)

manifestano un effetto di tipo morfologico (entrambi hanno una prestazione

piuttosto scadente ai nomi DER, il paziente numero 13 va molto male anche con i

nomi 1PS): questo indica probabilmente l’uso di una strategia di risoluzione del

compito basata sul tentativo di generare il nome a partire dal verbo tramite

l’aggiunta di un suffisso di derivazione (questa strategia è chiaramente inefficace

in assenza di un’adeguata conoscenza lessicale della forma nominale corretta: ad

esempio, da cacciare posso derivare non solo caccia, ma anche cacciagione,

cacciamento, ecc.).

Nel complesso, non si vedono cambiamenti evidenti nelle prestazioni dei

pazienti, al di fuori di quelle create dall’effetto morfologico di cui abbiamo

appena parlato.

In generale, possiamo quindi dire che l’utilizzo di un contesto frasale e la

presenza di un elemento della classe grammaticale opposta corrispondente al

target non è stato di alcun aiuto per questi pazienti: le informazioni di tipo

sintattico-lessicale e sintattico puro che questi elementi portavano con sé

evidentemente non sono serviti loro per migliorare la produzione dei nomi. Ciò

indica con tutta probabilità che il loro disturbo è presente ad un livello più

periferico rispetto al livello del lemma che, invece, sembra proprio essere il locus

della lesione che ha colpito i 9 pazienti DMN descritti in precedenza.

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6. CONCLUSIONI

I dati raccolti dalla somministrazione del test di denominazione su figura e del

test RNV-CF ad un gruppo di 13 afasici, sembra indicare la presenza di due gruppi

ben distinti per il livello a cui è possibile porre il danno funzionale

neurolinguistico.

Un primo gruppo di pazienti afasici risulta DMN al compito di

denominazione, mentre nel RNV-CF mostra un miglioramento della prestazione

con i verbi e un peggioramento con i nomi.

La migliore prestazione ai verbi nel RNV-CF è stata attribuita ad una

facilitazione nel recupero della griglia tematica dovuta alla presenza del nome

derivato dal verbo e di una struttura frasale in cui inserire il verbo target.

La peggior prestazione ai nomi sembra, invece, essere legata alla più bassa

immaginabilità che questi ultimi hanno nel test RNV-CF e al fatto che i nomi

presenti in questo compito sono derivati da un verbo, e dunque possiedono

anch’essi una griglia tematica.

Il quadro complessivo sembra dunque condurre ad un deficit a livello del

lemma, che colpisce in particolar modo la struttura argomentale e che, di

conseguenza, trae notevole giovamento dalla presenza di una struttura frasale o

dalla presenza di elementi che aiutano il recupero dei ruoli tematici legati ad

ogni verbo.

Un altro gruppo di pazienti, che sono risultati al compito di denominazione su

figura dissociati-meglio-verbi o non dissociati, non ha tratto alcun vantaggio dal

contesto frasale in cui deve essere effettuato il recupero lessicale nel RNV-CF.

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Inoltre, la prestazione ai nomi è stata confrontabile nei due test, nonostante gli

item nominali del RNV-CF fossero meno immaginabili di quelli presenti nella

batteria di denominazione e possedessero una struttura argomentale: anche questo

dato è indice di una bassa sensibilità agli elementi di tipo lessicale-sintattico,

come la struttura argomentale, appunto.

Nel complesso, sembra quindi che il deficit funzionale di questi pazienti sia da

collocare ad un livello più periferico, di tipo lessicale-fonologico, paragonabile

al livello del lessema di Levelt, Roelofs e Meyer (1997).

A questi due gruppi di pazienti, si aggiunge un soggetto (il numero 3), il cui

deficit è difficilmente interpretabile in uno dei quadri, essendo caratterizzato da

elementi tipici del deficit lessicale-fonologico (i verbi non migliorano al RNV-

CF), ma anche da caratteristiche di origine non chiara (qualche elemento del test

RNV-CF facilita il recupero dei nomi, in modo da compensare l’effetto negativo

della ridotta immaginabilità).

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211

5

DISCUSSIONE GENERALE

Negli ultimi vent’anni, l’interesse per le dissociazioni tra classi lessicali in

afasia è notevolmente aumentato: molti sono infatti i contributi che si sono

occupati di questi fenomeni e, soprattutto, delle loro implicazioni sulla struttura

del lessico mentale. In questo quadro, la dissociazione senz’altro più studiata è

stata quella tra nomi e verbi.

Tale dissociazione ha posto notevoli problemi di interpretazione: diversi

autori hanno proposto punti di vista anche molto differenti tra loro e la letteratura

è tutt’altro che concorde nell’indicare il locus funzionale della lesione che causa

la dissociazione. Non solo, ma anche alcuni dati sperimentali, che fino a pochi

anni fa erano ritenuti certi, sono stati messi in dubbio negli studi più recenti.

Il nostro lavoro si pone in questa cornice con l’obiettivo di dare un contributo

sperimentale al dibattito in corso, dopo avere riflettuto sulle basi linguistiche della

distinzione nomi-verbi e sulla letteratura neuropsicologica che si è interessata a

questo argomento.

In particolare, ci proponevamo di capire meglio il livello funzionale a cui

interviene il deficit che sta all’origine della dissociazione nomi-verbi.

Per raggiungere questo obiettivo abbiamo condotto due indagini sperimentali

di diverso tipo: dapprima, abbiamo riconsiderato da un punto di vista qualitativo i

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risultati ottenuti in precedenza da Luzzatti et al. (2002), in secondo luogo abbiamo

sottoposto 39 pazienti afasici ad un test di denominazione e 13 di questi 39

soggetti ad un test di completamento di frasi che abbiamo chiamato RNV-CF.

Il primo lavoro è consistito nella ripresa dei protocolli ottenuti sottoponendo

26 pazienti afasici dissociati ad un test di denominazione di azioni e oggetti:

abbiamo classificato qualitativamente gli errori di questi pazienti e abbiamo

studiato i “profili d’errore” di ciascun soggetto così ottenuti.

I risultati indicano l’esistenza di due profili d’errore principali, uno dominato

dagli scambi sintagmatici (nomi al posto di verbi o verbi al posto di nomi) e

l’altro dominato dagli scambi paradigmatici (nomi per nomi o verbi per verbi) e

dalle risposte nulle.

Le caratteristiche di questi profili sembrano indicare che il locus funzionale

del deficit all’origine della dissociazione non sia sempre uguale: infatti, mentre i

profili caratterizzati dagli scambi sintagmatici fanno pensare ad un deficit a livello

del lemma (vedi Levelt et al., 1999), i profili dominati dalle parafasie e dalle

risposte nulle lasciano pensare che il deficit intervenga a livello del lessema

(Levelt et al., 1999).

Inoltre, i dati emersi da questa analisi indicano che il danno a livello del

lessema caratterizza i dissociati-meglio-verbi, mentre quello a livello del lemma

sembra essere più frequente nei dissociati-meglio-nomi. A proposito di questi

ultimi, ci saremmo aspettati di rilevare delle differenze tra i DMN agrammatici e i

DMN con afasia di Wernicke: così non è stato, ad indicare che il deficit che causa

la dissociazione è trasversale a queste due sindromi afasiche e si manifesta in

entrambe con modalità simili.

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213

La seconda parte del nostro lavoro sperimentale è invece consistita nella

somministrazione di due nuovi test da noi costruiti (un test di denominazione su

figura e il test RNV-CF) ad un campione di 39 pazienti afasici.

Anche i nuovi dati ottenuti in questo modo portano nella direzione che aveva

indicato l’analisi qualitativa dei protocolli e, in generale, la riconsiderazione dei

dati ottenuti in precedenza da Luzzatti et al. (2002).

Riassumendo, questa “direzione” si costituisce di due fondamentali

affermazioni:

1. pur essendo possibile che l’effetto di immaginabilità o un disturbo

semantico sulla falsariga di quello ipotizzato da Bird et al. (2000)

causino, in qualche paziente, un’apparente dissociazione nomi-verbi, il

locus funzionale del deficit che, nella maggioranza dei soggetti,

provoca tale dissociazione va posto a livello lessicale.

2. il deficit lessicale all’origine della dissociazione può poi, a sua volta,

localizzarsi a livello del lemma, cioè ad un livello lessicale contenente

informazioni di natura sintattica (più spesso colpito nei DMN), oppure

ad un livello lessicale più periferico contenente informazioni

principalmente di tipo fonologico (più spesso colpito nei DMV).

Mi pare che queste due affermazioni abbiano alcuni interessanti risvolti sia in

campo clinico che in campo cognitivo, a proposito dei modelli neurolinguistici del

lessico.

Sul primo versante, la grande eterogeneità dei deficit che stanno all’origine

della dissociazione nomi-verbi invoca la necessità di un’attività diagnostica molto

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precisa, che non si limiti ad indagare la prestazione dei pazienti ad un test di

denominazione su figura di oggetti e azioni, ma che approfondisca il locus del

deficit funzionale a monte del problema. In questa prospettiva, possono essere

molto utili prove che testino il recupero lessicale in contesti frasali (come il test

RNV-CF) o che richiedano la produzione di nomi e verbi bilanciati almeno per

immaginabilità e frequenza d’uso.

In linea con tutto ciò, il trattamento riabilitativo dei deficit selettivi per classe

grammaticale non può non tenere conto del livello a cui si colloca la lesione che

ha creato la dissociazione: nel caso si accerti un danno a livello del lemma, la

riabilitazione dovrebbe andare a insistere, oltre che sugli aspetti tradizionali del

trattamento dei disturbi del lessico, su aspetti di interfaccia tra lessico e sintassi

quali la struttura argomentale dei verbi o il corretto utilizzo dei ruoli tematici.

Da un punto di vista cognitivo, i nostri dato depongono nettamente a favore

dell’esistenza di un livello lessicale in cui siano immagazzinate informazioni di

tipo sintattico (il livello del lemma ipotizzato da Levelt, Roelofs e Meyer (1999).

Si è molto dibattuto intorno a questo problema (Hillis, Caramazza, 1995;

Levelt et al., 1999; Rapp, Caramazza, 2002) e alcuni autori hanno anche

ipotizzato la non-necessità di tale livello, essendo possibile rappresentare la classe

grammaticale degli item a livello di ogni singolo lessico mentale periferico

(fonologico e ortografico, di entrata e di uscita).

A questo proposito, i dati neuropsicologici che abbiamo ottenuto e

commentato sembrano essere meglio inquadrabili in un modello lessicale che

preveda un “livello del lemma” centrale, dove sia rappresentata in modo unitario

e unico la classe grammaticale degli item, insieme ad altre informazioni che ad

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essa sono legate (come appunto la griglia tematica o le regole di realizzazione

degli argomenti).

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6

APPENDICE

Tabella 1: item e dati normativi della batteria di denominazione (Legenda: V/N= verbo/nome; CAT=categoria;FREQ=frequenza d’uso orale; LET=lunghezza in lettere; SIL=lunghezza in sillabe; EA=età di acquisizionesoggettiva; AN=accordo sul nome; IMM=immaginabilità; TIP=tipicità della figura).

N° ITEM V/N CAT FREQ LET SIL EA AN IMM TIP1 cadere V Ia 62 6 3 1,75 92% 4,32 4,172 fiorire/sbocciare V Ia 0 7 3 3,55 92% 3,63 4,833 scoppiare V Ia 9 9 3 3,75 95% 3,79 5,174 dimagrire V Ia 9 9 4 5,90 95% 2,89 5,755 scivolare V Ia 14 9 4 2,85 100% 4,53 5,336 volare V Ia 17 6 3 2,85 91% 4,37 5,257 decollare V Ia 1 9 4 6,00 100% 4,42 6,428 salire V Ia 35 6 3 2,85 97% 4,21 5,509 Crescere/allungarsi V Ia 44 8 3 3,20 87% 2,68 5,4210 affogare/annegare V Ia 1 8 4 4,30 100% 4,32 6,4211 scendere V Ia 44 8 3 2,55 100% 4,16 5,9212 affondare V Ia 2 9 4 5,05 95% 3,89 6,9213 atterrare V Ia 1 9 4 5,85 95% 3,89 6,4214 ridere V Ie 41 6 3 2,26 100% 5,58 6,2515 sciare V Ie 0 6 3 4,40 97% 5,53 6,4216 nuotare V Ie 0 7 3 3,85 100% 5,95 6,4217 ruggire V Ie 0 7 3 4,15 100% 3,39 6,7518 bussare V Ie 0 7 3 3,40 95% 5,42 5,7519 marciare V Ie 4 8 3 5,45 89% 4,32 6,3320 piangere V Ie 24 8 3 1,80 100% 5,05 5,5821 brillare/luccicare/splendere V Ie 1 8 3 4,80 97% 3,58 3,8322 camminare V Ie 18 9 4 2,11 97% 5,84 4,8323 pattinare V Ie 0 9 4 4,50 100% 5,21 6,0824 sanguinare V Ie 1 10 4 4,10 92% 4,53 6,1725 starnutire V Ie 0 10 4 2,90 95% 4,84 5,5026 sbadigliare V Ie 1 11 4 3,50 95% 5,74 5,5027 fischiare V Ie 3 9 3 3,75 89% 4,53 3,8328 sparare V Ie 9 7 3 4,20 92% 4,26 5,8329 pregare V Ie 41 7 3 4,50 100% 5,89 5,9230 soffiare V Ie 9 8 3 2,35 100% 5,32 5,2531 legare/slegare V T 40 6 3 3,55 94% 4,47 5,17

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Tabella 1: continua.

N° ITEM V/N CAT FREQ LET SIL EA AN IMM TIP32 pelare/sbucciare V T 0 6 3 4,95 97% 3,95 6,3333 baciare V T 1 7 3 2,50 100% 5,53 5,9234 leccare V T 0 7 3 2,85 97% 4,37 4,5835 mordere/azzannare/morsicare V T 0 7 3 2,60 100% 5,06 5,0036 versare V T 22 7 3 3,95 100% 4,95 6,5837 scuotere/scrollare V T 0 8 3 5,45 94% 3,74 3,8338 gonfiare/pompare V T 7 8 3 3,95 97% 4,42 4,2539 lanciare V T 22 8 3 3,16 100% 4,53 5,6740 spingere V T 13 8 3 3,15 100% 4,22 5,4241 tagliare V T 39 8 3 2,95 95% 5,00 5,5042 imbucare/impostare V T 6 8 4 5,70 89% 3,95 6,3343 arrestare/ammanettare V T 9 9 4 5,10 97% 4,00 6,5844 sollevare V T 3 9 4 4,40 92% 4,26 5,5845 annaffiare V T 0 10 4 4,05 97% 4,89 6,6746 raccogliere V T 39 11 4 3,90 100% 4,16 4,5047 accarezzare V T 0 11 5 2,65 100% 5,63 5,1748 fotografare V T 8 11 5 4,45 92% 5,05 6,5049 guidare V T 14 7 3 4,60 100% 5,58 5,8350 salutare V T 111 8 4 1,80 92% 5,42 6,0851 candela N Art 0 7 3 2,73 100 6,53 6,1852 clessidra N Art 0 9 3 6,13 95 5,95 5,9153 fionda N Art 0 6 2 4,40 90 5,21 6,1854 fisarmonica N Art 0 11 5 4,80 86 5,32 5,6455 guanto N Art 0 6 2 2,93 100 6,32 5,0956 imbuto N Art 0 6 3 3,80 100 5,95 6,0957 manette N Art 0 7 3 5,1 98 5,79 6,2758 elicottero N Art 1 10 5 4,0 98 5,79 5,3659 pipa N Art 1 4 2 3,60 100 5,89 6,1860 arpa N Art 2 4 2 5,73 100 5,53 6,0061 coltello N Art 2 8 3 2,33 100 6,47 5,7362 cravatta N Art 2 8 3 3,93 98 6,26 6,3663 trattore N Art 2 8 3 3,00 95 5,79 4,5564 chitarra N Art 3 8 3 4,26 100 6,47 6,0065 stivale N Art 3 7 3 3,53 100 5,84 5,1866 piramide N Art 4 8 4 4,73 98 6,11 6,2767 cucchiaio N Art 7 9 3 2,00 100 6,53 6,9168 giacca N Art 9 6 2 3,33 98 6,11 5,6469 bottiglia N Art 11 9 3 1,87 98 6,58 6,1870 camion N Art 12 6 2 3,1 93 6,00 5,0971 scarpa N Art 17 6 2 2,1 100 6,16 4,6472 chiesa N Art 34 6 2 2,86 100 6,21 5,09

73 divano N Art 36 6 3 2,5 93 6,47 5,64

74 antenna N Art 56 7 3 5,0 95 5,00 4,7375 tavolo N Art 59 6 3 2,07 98 6,37 6,7376 banana N Nat 0 6 3 2,33 100 6,26 6,4577 cammello N Nat 0 8 3 3,93 93 5,68 4,8278 canguro N Nat 0 7 3 3,86 98 5,63 5,6479 ciliegia N Nat 0 8 3 2,93 81 6,53 5,91

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Tabella 1: continua.

N° ITEM V/N CAT FREQ LET SIL EA AN IMM TIP80 fragola N Nat 0 7 3 2,53 100 6,53 6,1881 giraffa N Nat 0 7 3 2,87 98 5,74 6,3682 gufo N Nat 0 4 2 4,06 90 5,47 6,1883 rinoceronte N Nat 0 11 5 4,60 93 5,58 6,4584 scoiattolo N Nat 0 10 4 2,93 93 5,68 6,4585 zebra N Nat 0 5 2 3,60 95 5,79 6,6486 ananas N Nat 1 6 3 4,47 100 6,42 6,6487 elefante N Nat 1 8 4 2,67 100 6,21 6,0088 ippopotamo N Nat 1 10 5 4,00 83 5,68 4,7389 pavone N Nat 1 6 3 4,47 98 5,32 5,5590 pinguino N Nat 1 8 3 3,27 95 5,74 5,4591 pecora N Nat 3 6 3 2,80 98 5,95 5,0092 carota N Nat 4 6 3 2,93 100 6,21 6,6493 pappagallo N Nat 4 10 4 3,53 90 5,79 5,9194 zucca N Nat 5 5 2 4,80 86 5,53 6,3695 fungo N Nat 6 5 2 2,93 93 6,00 5,9196 peperone N Nat 6 8 4 4,33 95 5,95 5,7397 pomodoro N Nat 7 8 4 2,66 100 6,47 6,0098 maiale N Nat 15 6 3 2,53 98 5,95 5,3699 cavallo N Nat 43 7 3 2,60 100 6,16 5,36

100 cane N Nat 59 4 2 1,87 100 6,16 5,09

Tabella 2: item e dati normativi del test RNV-CF (Legenda: V/N= verbo/nome; CAT=categoria;FREQ=frequenza d’uso orale; LET=lunghezza in lettere; SIL=lunghezza in sillabe;IMM=immaginabilità).

N° ITEM V/N CAT FREQ LET SIL IMM1 volo N 1PS 13 4 2 4,762 sbadiglio N 1PS 0 9 3 5,293 lancio N 1PS 0 6 2 3,814 starnuto N 1PS 0 8 3 5,385 abbraccio N 1PS 15 9 3 5,956 ballo N 1PS 5 5 2 5,767 scoppio N 1PS 4 7 2 4,248 canto N 1PS 10 5 2 4,679 saluto N 1PS 41 6 3 4,6210 massaggio N 1PS 0 9 3 5,1411 sparo N 1PS 0 5 2 4,0512 crollo N 1PS 2 6 2 4,1913 bacio N 1PS 61 5 2 5,9514 arresto N 1PS 0 7 3 3,0015 salto N 1PS 11 5 2 4,0516 calcolo N 1PS 32 7 3 2,52

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Tabella 2: continua.

N° ITEM V/N CAT FREQ LET SIL IMM17 soffio N 1PS 0 6 2 2,9018 pioggia N Der 25 7 2 6,1919 bombardamento N Der 3 13 5 4,4820 salvataggio N Der 0 11 4 4,1921 costruzione N Der 34 11 4 3,8622 evasione N Der 4 8 4 3,0523 ululato N Der 1 7 4 4,1924 camminata N Der 0 9 4 4,4825 nascita N Der 34 7 3 5,2926 potatura N Der 0 8 4 3,7627 rasatura N Der 0 8 4 3,7628 risata N Der 4 6 3 4,3329 pattinaggio N Der 0 11 4 4,4830 conversazione N Der 10 13 5 4,1431 interrogazione N Der 12 15 6 4,3832 giuramento N Der 8 10 4 2,8133 ruggito N Der 0 7 3 4,1934 preghiera N Der 12 9 3 3,1435 scrittura N Der 11 9 3 4,1436 partenza N Der 15 8 3 3,2437 lettura N Der 64 7 3 3,4038 esplosione N Der 3 10 4 5,0039 raccolta N PP 19 8 3 3,0040 pianto N PP 1 6 2 4,7141 caduta N PP 5 6 3 4,0042 applauso N PP 10 8 4 4,8643 corsa N PP 8 5 2 4,2444 morso N PP 5 5 2 4,1045 neve/nevicata N Der/PP 14 6 3 6,2446 cadere V Ia 62 6 3 4,5747 crollare V Ia 8 8 3 4,2448 correre V Ia 29 7 3 5,3349 partire V Ia 207 7 3 4,2450 esplodere V Ia 7 9 4 4,5251 volare V Ia 17 6 3 4,1052 evadere V Ia 0 7 4 3,1953 scoppiare V Ia 9 9 3 4,1054 nascere V Ia 94 7 3 3,6255 sparare V Ie 9 7 3 4,9056 ridere V Ie 41 6 3 5,5257 pattinare V Ie 0 9 4 5,3358 conversare V Ie 1 10 4 4,5259 ruggire V Ie 0 7 3 4,2460 pregare V Ie 41 7 3 4,5761 soffiare V Ie 9 8 3 4,2462 sbadigliare V Ie 1 11 4 5,1963 starnutire V Ie 0 10 4 5,05

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Tabella 2: continua.

N° ITEM V/N CAT Frq.Lip LET SYL IMM64 ululare V Ie 0 7 4 4,0065 camminare V Ie 18 9 4 5,1066 piangere V Ie 24 8 3 4,4367 radere V T 3 6 3 4,5268 interrogare V T 15 11 5 4,6769 baciare V T 1 7 3 6,1070 applaudire V T 2 10 5 5,1071 mordere V T 0 7 3 4,9572 arrestare V T 9 9 4 3,9573 saltare V T 22 7 3 4,4874 calcolare V T 11 9 4 4,3375 scrivere V T 420 8 3 5,0576 leggere V T 263 7 3 4,8177 lanciare V T 22 8 3 4,3378 raccogliere V T 39 11 4 4,0579 bombardare V T 0 10 4 4,0080 salvare V T 22 7 3 2,5781 costruire V T 39 9 4 3,9082 abbracciare V T 17 11 4 4,9583 ballare V T 17 7 3 4,9084 cantare V T 11 7 3 4,4885 potare V T 7 6 3 3,6786 salutare V T 111 8 4 5,1487 massaggiare V T 0 11 4 4,6288 nevicare V A 4 8 4 5,7089 piovere V A 10 7 3 5,2990 giurare V D 22 7 3 3,24

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221

Tabella 3: profili qualitativi d’errore dei pazienti afasici dissociati-meglio-verbi (i dati sono percentuale).

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro9 PV Amnestica verbi 57,5 0,0 / / 10,0 10,0 2,5 7,5 7,5 5,0 0 100 /

nomi 16,7 0,0 / / 80,0 3,3 0,0 0,0 0,0 0,0 0 100 /totale 40,0 0,0 / / 40,0 7,1 1,4 4,3 4,3 2,9 0 100 /

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro5 FG Amnestica verbi 45,0 0,0 / / 12,5 25,0 0,0 2,5 12,5 0,0 2,5 100 /

nomi 10,0 0,0 / / 60,0 13,3 0,0 0,0 13,3 3,3 0 100 /totale 30,0 0,0 / / 32,9 20,0 0,0 1,4 12,9 1,4 1,429 100 /

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro13 RM Amnestica verbi 67,5 0,0 / / 2,5 12,5 0,0 2,5 15,0 0,0 0 100 /

nomi 43,3 0,0 / / 33,3 13,3 3,3 3,3 3,3 0,0 0 100 /totale 57,1 0,0 / / 15,7 12,9 1,4 2,9 10,0 0,0 0 100 /

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro8 APr Amnestica verbi 65,0 2,5 / / 2,5 22,5 2,5 2,5 0,0 2,5 0 100 /

nomi 36,7 6,7 / / 13,3 16,7 0,0 0,0 26,7 0,0 0 100 /totale 52,9 4,3 / / 7,1 20,0 1,4 1,4 11,4 1,4 0 100 /

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222

Tabella 3: continua.

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro7 DM Amnestica verbi 37,5 7,5 / / 25,0 20,0 0,0 5,0 5,0 0,0 0 100 /

nomi 13,3 0,0 / / 70,0 6,7 0,0 10,0 0,0 0,0 0 100 /totale 27,1 4,3 / / 44,3 14,3 0,0 7,1 2,9 0,0 0 100 /

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro20 GDP Wernicke verbi 40,0 7,5 / / 27,5 15,0 0,0 2,5 2,5 2,5 0 97,5 2,5

nomi 16,7 0,0 / / 40,0 23,3 0,0 6,7 3,3 0,0 0 90 10totale 30,0 4,3 / / 32,9 18,6 0,0 4,3 2,9 1,4 0 94,3 5,7

Tabella 4: profili qualitativi d’errore dei pazienti afasici dissociati-meglio-nomi (i dati sono percentuale).

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro1 AC Amnestica verbi 40,0 2,5 0,0 5,0 7,5 25,0 2,5 12,5 2,5 2,5 0,0 100,0 / nomi 73,3 0,0 0,0 0,0 6,7 13,3 0,0 3,3 3,3 0,0 0,0 100,0 / totale 54,3 1,4 0,0 2,9 7,1 20,0 1,4 8,6 2,9 1,4 0,0 100,0 /

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro6 GM Amnestica verbi 45,0 2,5 0,0 5,0 22,5 7,5 0,0 5,0 5,0 7,5 0,0 100,0 / nomi 80,0 0,0 0,0 0,0 6,7 6,7 0,0 6,7 0,0 0,0 0,0 100,0 / totale 60,0 1,4 0,0 2,9 15,7 7,1 0,0 5,7 2,9 4,3 0,0 100,0 /

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223

Tabella 4: continua.

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro16 UB Wernicke verbi 47,5 20,0 10,0 0,0 0,0 10,0 2,5 5,0 0,0 2,5 2,5 100,0 / nomi 86,7 0,0 0,0 0,0 0,0 3,3 0,0 3,3 3,3 0,0 0,0 96,7 3,3 totale 64,3 11,4 5,7 0,0 0,0 7,1 1,4 4,3 1,4 1,4 1,4 98,6 1,4

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro21 MC Wernicke verbi 10,0 22,5 20,0 15,0 7,5 7,5 2,5 7,5 7,5 0,0 0,0 100,0 / nomi 70,0 0,0 0,0 0,0 13,3 3,3 0,0 0,0 6,7 0,0 0,0 93,3 6,7 totale 35,7 12,9 11,4 8,6 10,0 5,7 1,4 4,3 7,1 0,0 0,0 97,1 2,9

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro24 RD Wernicke verbi 7,5 27,5 22,5 12,5 12,5 0,0 0,0 7,5 10,0 0,0 0,0 100,0 / nomi 56,7 0,0 0,0 0,0 3,3 26,7 3,3 10,0 0,0 0,0 0,0 100,0 / totale 28,6 15,7 12,9 7,1 8,6 11,4 1,4 8,6 5,7 0,0 0,0 100,0 /

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro25 RB Wernicke verbi 40,0 12,5 7,5 7,5 10,0 7,5 0,0 7,5 5,0 2,5 0,0 100,0 / nomi 66,7 0,0 0,0 0,0 10,0 10,0 0,0 10,0 0,0 0,0 0,0 96,7 3,3 totale 51,4 7,1 4,3 4,3 10,0 8,6 0,0 8,6 2,9 1,4 0,0 98,6 1,4

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224

Tabella 4: continua.

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro30 CB Wernicke verbi 15,0 7,5 5,0 10,0 20,0 22,5 7,5 2,5 10,0 0,0 0,0 100,0 / nomi 46,7 0,0 0,0 0,0 23,3 16,7 0,0 10,0 3,3 0,0 0,0 100,0 / totale 28,6 4,3 2,9 5,7 21,4 20,0 4,3 5,7 7,1 0,0 0,0 100,0 /

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro32 SM Wernicke verbi 10,0 5,0 5,0 2,5 50,0 12,5 0,0 5,0 10,0 0,0 0,0 100,0 / nomi 46,7 0,0 0,0 0,0 26,7 13,3 10,0 0,0 0,0 3,3 0,0 100,0 / totale 25,7 2,9 2,9 1,4 40,0 12,9 4,3 2,9 5,7 1,4 0,0 100,0 /

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro47 LZ Agrammatico verbi 37,5 15,0 2,5 0,0 0,0 22,5 5,0 7,5 2,5 7,5 0,0 100,0 / nomi 70,0 0,0 0,0 0,0 0,0 13,3 3,3 13,3 0,0 0,0 0,0 100,0 / totale 51,4 8,6 1,4 0,0 0,0 18,6 4,3 10,0 1,4 4,3 0,0 100,0 /

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225

Tabella 4: continua.

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro48 MBI Agrammatico verbi 35,0 12,5 2,5 0,0 22,5 10,0 2,5 15,0 0,0 0,0 0,0 100,0 / nomi 83,3 0,0 0,0 0,0 0,0 6,7 0,0 10,0 0,0 0,0 0,0 100,0 / totale 55,7 7,1 1,4 0,0 12,9 8,6 1,4 12,9 0,0 0,0 0,0 100,0 /

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro49 FC Agrammatico verbi 30,0 22,5 20,0 2,5 7,5 7,5 0,0 5,0 2,5 2,5 0,0 100,0 / nomi 86,7 0,0 0,0 0,0 3,3 3,3 0,0 3,3 0,0 0,0 0,0 96,7 3,3 totale 54,3 12,9 11,4 1,4 5,7 5,7 0,0 4,3 1,4 1,4 0,0 98,6 1,4

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro50 FM Agrammatico verbi 40,0 15,0 15,0 0,0 5,0 15,0 2,5 5,0 0,0 0,0 0,0 97,5 2,5 nomi 70,0 0,0 0,0 0,0 6,7 0,0 0,0 6,7 0,0 3,3 0,0 86,7 13,3 totale 52,9 8,6 8,6 0,0 5,7 8,6 1,4 5,7 0,0 1,4 0,0 92,9 7,1

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro51 MP Agrammatico verbi 45,0 12,5 10,0 0,0 2,5 5,0 2,5 5,0 15,0 2,5 0,0 100,0 / nomi 80,0 0,0 0,0 0,0 3,3 6,7 0,0 10,0 0,0 0,0 0,0 100,0 / totale 60,0 7,1 5,7 0,0 2,9 5,7 1,4 7,1 8,6 1,4 0,0 100,0 /

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226

Tabella 4: continua.

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro42 AF Broca (-agr) verbi 2,5 5,0 10,0 0,0 62,5 7,5 2,5 2,5 5,0 0,0 0,0 97,5 2,5 nomi 53,3 0,0 0,0 0,0 33,3 6,7 0,0 3,3 0,0 0,0 0,0 96,7 3,3 totale 24,3 2,9 5,7 0,0 50,0 7,1 1,4 2,9 2,9 0,0 0,0 97,1 2,9

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro52 EM non classificabile verbi 27,5 15,0 15,0 0,0 20,0 12,5 2,5 5,0 0,0 0,0 0,0 97,5 2,5 nomi 56,7 0,0 0,0 0,0 30,0 0,0 0,0 10,0 0,0 3,3 0,0 100,0 / totale 40,0 8,6 8,6 0,0 24,3 7,1 1,4 7,1 0,0 1,4 0,0 98,6 1,4

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro53 FS non classificabile verbi 15,0 10,0 7,5 0,0 25,0 10,0 2,5 5,0 25,0 0,0 0,0 100,0 / nomi 46,7 0,0 0,0 0,0 33,3 20,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 100,0 / totale 28,6 5,7 4,3 0,0 28,6 14,3 1,4 2,9 14,3 0,0 0,0 100,0 /

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro54 GP non classificabile verbi 37,5 7,5 0,0 0,0 15,0 22,5 5,0 5,0 2,5 2,5 0,0 97,5 2,5 nomi 70,0 0,0 0,0 0,0 13,3 13,3 0,0 3,3 0,0 0,0 0,0 100,0 / totale 51,4 4,3 0,0 0,0 14,3 18,6 2,9 4,3 1,4 1,4 0,0 98,6 1,4

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227

Tabella 4: continua.

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro57 MRdG non classificabile verbi 45,0 12,5 2,5 0,0 2,5 12,5 2,5 12,5 7,5 2,5 0,0 100,0 / nomi 70,0 0,0 0,0 0,0 0,0 3,3 3,3 23,3 0,0 0,0 0,0 100,0 / totale 55,7 7,1 1,4 0,0 1,4 8,6 2,9 17,1 4,3 1,4 0,0 100,0 /

N° SIGLA AFASIA R+ E-N/V S/Ogg S/Ogg+Vppt Ø PS-cat+ PV-cat+ Latenza Circ Visivo Neol Totale Altro58 AP non classificabile verbi 5,0 32,5 20,0 0,0 30,0 2,5 0,0 10,0 0,0 0,0 0,0 100,0 / nomi 53,3 0,0 0,0 0,0 23,3 10,0 0,0 6,7 0,0 0,0 0,0 93,3 6,7 totale 25,7 18,6 11,4 0,0 27,1 5,7 0,0 8,6 0,0 0,0 0,0 97,1 2,9

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228

Tabella 5: profili di errore “aggregati” dei dissociati-meglio-nomi (DMN) e dei dissociati-meglio-verbi (DMV). I dati sono in percentuale.

a. Denominazione delle azioni

R+ E-N/V Ø Circ Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ Neol S/Ogg S/Ogg+Vppt

DMV 52 3 13 7 2 4 18 1 0 0 0

DMN 27 13 18 6 2 7 12 3 0 9 3

b. Denominazione degli oggetti

R+ E-N/V Ø Circ Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ Neol S/Ogg S/Ogg+Vppt Altro

DMV 23 1 49 8 1 3 13 1 0 0 0 1

DMN 67 0 12 1 1 7 9 1 0 0 0 2

c. Denominazione degli oggetti e delle azioni

R+ E-N/V Ø Circ Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ Neol S/Ogg S/Ogg+Vppt Altro

DMV 40 2 29 7 1 4 15 1 0 0 0 1

DMN 43 8 15 4 1 7 10 2 0 5 2 2

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229

Tabella 6: profili d’errore “aggregati” dei dissociati-meglio-nomi (Wernicke, Agrammatici, Amnestici). I dati sono in percentuale.

a. Denominazione delle azioni

R+ E-N/V Ø Circ Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ Neol da nome S/Ogg S/Ogg+ v PPT AltroAmnestici 43 3 15 4 5 9 16 1 0 0 5 0Agrammatici 38 16 8 4 2 7 12 3 0 10 1 0Wernicke 19 14 19 7 1 5 10 3 0 10 7 5

b. Denominazione degli oggetti

R+ E-N/V Ø Circ Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ Neol da nome S/Ogg S/Ogg+ v PPT AltroAmnestici 77 0 7 1 0 5 10 0 0 0 0 0Agrammatici 78 0 3 0 1 9 6 1 0 0 0 2Wernicke 62 0 13 2 1 6 12 2 0 0 0 2

c. Denominazione degli oggetti e delle azioni

R+ E-N/V Ø Circ Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ Neol da nome S/Ogg S/Ogg+ v PPT AltroAmnestici 57 1 11 3 3 7 14 1 0 0 3 0Agrammatici 55 9 5 2 2 8 9 2 0 6 0 2Wernicke 45 12 7 4 1 6 8 1 0 9 5 2

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230

Tabella 7: profili d’errore “aggregati” dei dissociati-meglio-verbi (Wernicke e Amnestici). I dati sono in percentuale.

a. Denominazione delle azioni

R+ E-N/V Ø Circ Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ Neol da nomeAmnestici 55 2 11 8 2 4 18 1 1Wernicke 40 8 28 3 3 3 15 0 0

b. Denominazione degli oggetti

R+ E-N/V Ø Circ Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ Neol da nome AltroAmnestici 24 1 51 9 1 3 11 0 0Wernicke 17 0 40 3 0 7 23 0 0 10

c. Denominazione degli oggetti e delle azioni

R+ E-N/V Ø Circ Visivo Latenza PS-cat+ PV-cat+ Neol da nomeAmnestici 41 2 28 8 1 3 15 1 0Wernicke 30 4 33 3 1 4 19 0 0

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231

Tabella 8: risultati dello studio per casi singoli sui 39 pazienti afasici sottoposti al test di denominazione

%N N-V Art-Nat

N° Sup (N-V)Sup (Art-

Nat) Af Art Nat TOT %V chi2 p chi2 p22 V>N A 20 16 18 44 6,7 .01 1 N>V A 84 84 84 44 15,49 .00013 N>V NC 84 72 78 28 25,09 <.00014 N>V SRA 88 76 82 46 14,06 <.0015 N>V NC 80 76 78 32 21,37 <.00017 N>V A 92 84 88 56 12,7 <.0019 N>V Art>Nat SRA 92 64 78 58 4,6 <.05 4,2 <.0510 N>V SRA 68 68 68 36 10,26 .00112 N>V A 84 88 86 48 6,59 .0115 N>V Art>Nat B+ 100 68 82 46 12,5 <.001 8,7 <.00516 N>V B+ 52 68 60 16 18,72 <.000117 N>V B- 52 40 46 4 21,33 <.000118 N>V A 88 88 88 38 24,7 <.000119 N>V W 68 68 68 34 10,2 .00120 N>V A 84 64 74 50 5,1 .0223 N>V NC 72 80 76 48 7,17 <.0126 N>V W 68 64 66 12 28,42 <.000127 N>V W 72 48 60 20 16,67 <.000129 N>V B+ 92 88 90 68 4,72 <.0532 N>V W 72 64 68 38 9,03 <.00533 N>V B+ 40 64 52 20 11,11 <.00135 N>V W 84 76 80 56 6,62 .0136 N>V B+ 84 84 84 54 10,52 .001

Page 245: RAPPRESENTAZIONE MENTALE DI NOMI E VERBI: … · Warrington, 1985): la dissociazione tra nomi e verbi in afasia. Esso consiste in Esso consiste in prestazioni differenti con le due

232

Tabella 8: continua.

%N N-V Art-Nat

N° Sup (N-V)Sup (Art-

Nat) Af Art Nat TOT %V chi2 p chi2 p37 N>V W 40 24 32 12 5,83 .0138 N>V SRA 80 88 84 62 6,14 .0139 N>V Art>Nat W 80 48 64 26 14,59 .0001 4,25 <.05

2 N=V A 72 68 70 526 N=V SRA 100 100 100 968 N=V A 56 52 54 5211 N=V SRA 88 88 88 7213 N=V Art>Nat SRA 72 36 54 42 6,52 .0114 N=V A 64 40 52 5021 N=V A 68 84 76 6624 N=V A 92 84 88 8225 N=V Art>Nat B- 80 48 64 50 5,56 .0128 N=V B- 12 8 10 1630 N=V W 96 76 86 7231 N=V A 56 48 52 5234 N=V W 32 20 26 20

Legenda: N° = numero del paziente; Sup(N-V) = superiorità dei verbi o dei nomi; Sup(Art-Nat) = superiorità ai nomi dioggetti naturali o ai nomi di manufatti; Af = tipo di afasia; %N, %V, Art, Nat = denominazione, rispettivamente, di nomi, verbi,nomi di manufatti, nomi di oggetti naturali; N-V = confronto tra nomi e verbi; Art-Nat = confronto tra nomi di oggetti artificialie nomi di oggetti naturali.

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233

Tabella 9: risultati dell'analisi per casi singoli sui 39 pazienti afasici sottoposto al test di denominazione: ruolo delle variabilisemantico-lessicali (analisi univariata)

Imm Freq AoA Let Num Arg

N° Sup (N-V) Sup (Art-Nat) Af Wald p Wald p Wald p Wald p chi2 p22 V>N A 5,18 <.05 9,41 <.01 1 N>V A 21,27 <.001 6,84 <.01 11,03 .0013 N>V NC 16,09 <.001 5,07 <.054 N>V SRA 14,26 <.0015 N>V NC 15,2 <.001 5,37 <.057 N>V A 16,13 <.001 10,16 .001 5,11 <.059 N>V Art>Nat SRA 9,51 <.00510 N>V SRA 12,62 <.001 8,87 <.00512 N>V A 12,32 <.001 6,68 .01 7,26 <.0115 N>V Art>Nat B+ 17,17 <.001 6,84 <.0116 N>V B+ 20,93 <.001 14,32 <.001 10,99 .00117 N>V B- 14,4 <.001 5,26 <.05 9,44 <.00518 N>V A 11,36 .001 3,88 <.05 4,73 <.0519 N>V W 12,36 <.001 10,4 .001 8,06 .00520 N>V A 6,75 <.01 7,1 <.01 15,5 <.001 4,57 <.05 7,63 <.0123 N>V NC 13,38 <.001 6,38 .01 4,06 <.0526 N>V W 20,88 <.001 18,5 <.001 7,21 <.0127 N>V W 12,1 .001 4,96 <.05 11,3 .00129 N>V B+ 8,34 <.005 4,74 <.05 7,83 .00532 N>V W 8,13 <.00533 N>V B+ 12,41 <.00135 N>V W 12,65 <.001 7,57 <.0136 N>V B+ 12,42 <.001 6,36 .01

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234

Tabella 9: continua.

Imm Freq AoA Let Num Arg

N° Sup (N-V) Sup (Art-Nat) Af Wald p Wald p Wald p Wald p chi2 p37 N>V W 9,18 <.005 3,69 .0538 N>V SRA 9 <.005 6,47 .01 4,14 <.0539 N>V Art>Nat W 11,23 .0012 N=V A 8,95 <.005 4,06 <.056 N=V SRA8 N=V A 7,67 <.01 5,78 .01 15,11 <.00111 N=V SRA 5,01 <.05 3,89 <.05 7,93 <.0113 N=V Art>Nat SRA 10,16 .001 8,89 <.0114 N=V A 6,21 <.0521 N=V A 6,53 .01 5,79 .01 4,94 <.0524 N=V A25 N=V Art>Nat B- 5,2 <.0528 N=V B- 7,74 .00530 N=V W 10,06 <.00531 N=V A 7,23 <.01 11,65 .00134 N=V W 3,75 .05

Legenda: N° = numero del paziente; Sup(N-V) = superiorità dei verbi o dei nomi; Sup(Art-Nat) = superiorità ai nomi di oggettinaturali o ai nomi di manufatti; Af = tipo di afasia; Imm = immaginabilità; Freq = frequenza d’uso orale; AoA = Età di acquisizione; Let= lunghezza in lettere; Num Arg = numeo di argomenti del verbo; Wald = valore del test di Wald; p = probabilità associata al valore deltest di Wald.

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Tabella 10: risultati dell'analisi per casi singoli sui 26 pazienti afasici dissociati nomi-verbi: ruolo delle variabili semantico-lessicali(analisi bivariata). Il valore del test di Wald e della probabilità associata in tabella si riferiscono al fattore classe grammaticale. Quando ilvalore del test di Wald è seguito da un asterisco, il modello lineare ipotizzato spiega una porzione molto bassa della varianza dei dati tantoche anche la varibile semantico-lessicale per la quale si covaria non è significativa in quel modello.

N-V + Imm N-V + Freq N-V + AoA N-V + Let

N° Sup (N-V) Sup (Art-Nat) Af Wald p Wald p Wald p Wald P22 V>N A 6,11 .01 1 N>V A 0,13 n.s. 14,19 <.001 6,8 <.013 N>V NC 4,05 <.05 13,33 <.0014 N>V SRA 1,27* n.s.5 N>V NC 4,78 <.05 18.09 <.0017 N>V A 0,22 n.s. 9,78 <.0059 N>V Art>Nat SRA 0,55 n.s.10 N>V SRA 0,01 n.s. 7,17 <.0112 N>V A 4,01 <.05 13,17 <.001 11,23 .00115 N>V Art>Nat B+ 0,28 n.s. 11,52 .00116 N>V B+ 0,25 n.s. 18,01 <.001 14,53 <.00117 N>V B- 3,05* n.s. 14,59 <.001 12,25 <.00118 N>V A 11,71 .001 19,98 <.001 18,27 <.00119 N>V W 0,66 n.s. 9,38 <.005 7,24 <.0120 N>V A 1,13* n.s. 12,05 .001 5,16 <.05 4,69 <.0523 N>V NC 0,01 n.s. 6,67 .0126 N>V W 0,007 n.s. 22,36 <.001 21,59 <.00127 N>V W 3,15* n.s. 14,01 <.001 10,18 .00129 N>V B+ 0,67* n.s. 5,6 .01 4,19 <.0532 N>V W 0,74* n.s.33 N>V B+ 0,22 n.s.35 N>V W 0,18 n.s. 5,01 <.05

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Tabella 10: continua.

N-V + Imm N-V + Freq N-V + AoA N-V + Let

N° Sup (N-V) Sup (Art-Nat) Af Wald p Wald p Wald p Wald P36 N>V B+ 0,53 n.s. 6,9 <.0137 N>V W 0,2 n.s. 4,65 <.0538 N>V SRA 0,06 n.s. 4,63 <.05 3,91 <.0539 N>V Art>Nat W 2,68* n.s.

Legenda: N° = numero del paziente; Sup(N-V) = superiorità dei verbi o dei nomi; Sup(Art-Nat) = superiorità ai nomi di oggetti naturali oai nomi di manufatti; Af = tipo di afasia; Imm = immaginabilità; Freq = frequenza d’uso orale; AoA = Età di acquisizione; Let = lunghezza inlettere; Num Arg = numeo di argomenti del verbo; Wald = valore del test di Wald; p = probabilità associata al valore del test di Wald.

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