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[Rassegna ragionata in tema di società di persone] [Federica Sisca] [Gennaio 2009] © Luiss Guido Carli. La riproduzione è autorizzata con indicazione della fonte o come altrimenti specificato. Qualora sia richiesta un’autorizzazione pre limina re per la riproduzione o l’impiego di informazioni testuali e multimediali, tale autorizzazione annulla e sostituisce quella generale di cui sopra, indicando esplicitamente ogni altra restrizione Dipartimento di Scienze giuridiche CERADI – Centro di ric erca per il diritto d’ impresa

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[Rassegna ragionata in tema di società dipersone]

[Federica Sisca]

[Gennaio 2009]

© Luiss Guido Carli. La riproduzione è autorizzata con indicazione della fonte ocome altrimenti specificato. Qualora sia richiesta un’autorizzazione preliminare per lariproduzione o l’ impiego di informazioni testuali e multimediali, tale autorizzazione annu lla esostituisce quella generale di cui sopra, indicando esplicitamente ogni altra restrizione

Dipartimento di Scienze g iuridiche

CERADI – Centro di ricerca per il diritto d’ impresa

Sommario:

1) La soggettività nelle società di persone; 2) La

forma del contratto sociale; 3) Il rapporto di

amministrazione nelle società di persone 3.1)

amministratore estraneo, 3.2) diritto di

opposizione - formazione della volontà sociale, 3.3)

l’azione sociale di responsabilità degli

amministratori, 3.4) divieto d’immistione del socio

accomandante; 4) La disciplina dei conferimenti -

il passaggio dei rischi; 5) La responsabilità per le

obbligazioni sociale; 6) Scioglimento del rapporto

limitatamente ad un socio 6.1) la morte del socio,

6.2) il recesso, 6.3) l’esclusione.

1) La soggettività nelle società

di persone.

Nonostante la disciplina codicistica

attribuisca nulla di più che una mera autonomia

patrimoniale per le società di persone (in diversa misura

secondo il tipo sociale), la maggior parte della dottrina e

della giurisprudenza riconosce a quest’ultime un profilo

di soggettività; conseguendone così un’inevitabile

confusione tra i concetti di personalità , soggettività e

autonomia patrimoniale. In linea di principio, le

questioni che sembrano maggiormente legate al

riconoscimento o meno di una personalità sono la

possibilità di nominare amministratore un non socio;

l’uso del metodo collegiale nella formazione della

volontà sociale; la titolarità della qualifica

d’imprenditore. Dall’analisi casistica, invece, emerge

chiaramente come l’argomento della soggettività

(indicato nell’autonomia patrimonia le) è spesso

richiamato senza essere in realtà determinante per la

soluzione della controversia, sembrando, piuttosto, un

espediente di solito accompagnato da altre

argomentazioni che si rivelano determinanti.

La tesi che riconosce alle società di persone

la personalità giuridica è sicuramente la più

antica e si lega all’abrogato codice di

commercio che, all’art. 77, attribuiva la

personalità giuridica a tutte le società

commerciali1. Fondamento di tale teoria è

l’autonomia patrimoniale intesa come

separazione tra patrimonio sociale e

patrimonio del socio2. In particolare,

1 Sostiene il VIGHI che affinché si abbiapersonalità giuridica è necessario e sufficiente che unente figuri come soggetto attivo o passivo di rapport ipatrimoniali. A fondamento della propria tesi l’Autoremenziona l’art. 77, ultimo comma, cod. comm., in baseal quale le società commerciali costituiscono rispetto aiterzi enti collettivi distinti dalle persone dei soci, <<laparola distinto che si legge nell’art. in discorso dicechiaramente che l’ente giurid ico non è già la semplicepluralità dei consociat i ma bensì qualche cosa di d iversoe di autonomo immanente alla pluralità stessa. Lasocietà, pertanto, entra come tale nella vita del traffico, ilche val quanto dire che non la pluralità dei soci comesoci ma la società, come ente distinto dalla pluralità,costituisce il termine dei rapporti attivi e passividipendenti dalle operazioni socia li>> (VIGHI, Lapersonalità giuridica delle società commerciali, Verona - Padova,1900, pag. 214).

2 Il BONELLI arriva a parificare patrimonioautonomo e personalità giurid ica. Secondo l’Autore,infatti, <<il concetto di personalità coincide con quello

quest’ultimo aspetto ha portato in passato

autorevole dottrina a estendere la figura della

personalità a tal punto da attribuirla anche alla

comunione sull’assunto che una pluralità di

persone fisiche o è disgregata o è unificata,

ossia riconosciuta dal diritto come collegata

per una qualche finalità che sia di particolare

rilevanza per l’ordinamento3. Secondo tale

pensiero la società (commerciale o civile,

di autonomia: autonomia patrimoniale (sostanziale) eautonomia formale. La prima comprende di necessità laseconda; questa può riscontrarsi invece senza quella. Edio vorrei che solamente a quella si riservasse la qualifica,per il solito postulato scientifico che a idee distintedebbano corrispondere distinte parole>> (BONELLI,Personalità e comunione, in Riv. dir. comm., 1913, I, pag. 744).In riferimento all’art. 77, ultimo comma, del cod. d icomm., il BONELLI afferma che la persona giuridicacome tale esiste sempre e soltanto rispetto ai terzi, ciò inquanto persona giuridica significa soggetto di diritti e d iobbligazioni, ossia di rapporti giuridici, e i rapport igiurid ici si hanno sempre con i terzi. <<Anche lapersona fisica, in quanto è giuridica, cioè in quanto èsubbietto di rapporti giurid ici, non esiste che di fronte aiterzi. Ma che significa la parola terzo? Terzo vuol diremolte cose (…) ma adoperato in rapporto a una personagiurid ica, significa chiunque entra o può entrare inrapporti di d iritto patrimoniale colla persona. Dunqueanche i soci quando entrano in rapporto giuridico collasocietà e non soltanto quando il rapporto giurid ico èestraneo al contratto sociale, ma anche quando nedipende, poiché anche allora essi si trovano dinanzi l’entedistinto che non si confonde punto colla somma degli altrisoci>>, (BONELLI, I concetti di comunione e di personalitànella teorica delle società commerciali, in Riv. d ir. comm., 1903,I, pag. 290).

3 Secondo il CARNELUTTI, infatti, non sonopossibili vie di mezzo, <<né vi può esserericonoscimento del gruppo senza personificazione>>(Personalità giuridica e autonomia patrimoniale nella società enella comunione, in Riv. dir. comm., 1903, I, pag. 87).

regolare o irregolare) è una comunione e non

possono esistere due tipi di comunione

(personificata e non personificata), dal

momento che il diritto sulle cose comuni o si

attribuisce ai singoli o si attribuisce al gruppo,

non potendo spettare sia agli uni che all’altro

allo stesso tempo4.

4 CARNELUTTI, op. cit., pag. 100. Per l’Autore è

pacifico che se la proprietà non spetta ai singoli

partecipant i alla comunione, necessariamente spetta al

gruppo; se il gruppo ha la proprietà allora è persona

giurid ica, <<constatato che il gruppo è soggetto di un

diritto in ant itesi ai singoli, i l gruppo è una persona; e

poiché non è una persona fisica, deve essere una

persona giuridica>> (CARNELUTTI, op. cit., pag. 106).

L’Autore non si ferma qui ma, in forte contrasto col

pensiero del BONELLI, adotta un’idea di autonomia

patrimoniale molto più ristretta, ossia come semplice

diritto di preferenza dei creditori sociali. Il

CARNELUTTI, infatti, afferma che a voler introdurre

come limite al concetto di persona giurid ica la perfetta

autonomia del patrimonio, intesa (secondo il

BONELLI) come insensibilità reciproca e completa dei

patrimoni del gruppo e dei soci alle rispettive

obbligazioni, si dovrebbe restringere la qualifica di

persona alle sole società anonime, escludendo tutte le

altre. Ma l’Autore va oltre, ed arriva a sbarazzarsi

totalmente dell’autonomia patrimoniale, anche intesa in

questo senso più ristretto, in quanto pur non esistendo

obbligazioni comuni distinte dalle obbligazioni

particolari, rimane il diritto di proprietà sulle cose

comuni che rende il gruppo un soggetto di diritto e

quindi una persona giuridica. In conclusione, il gruppo è

persona perché è proprietario.

La dottrina più recente, esaminando il

problema alla luce del nuovo codice civile,

individua un elenco di argomenti a favore della

personalità giuridica nella società semplice5.

Primo argomento utilizzato risiede negli artt.

2267, 2268 e 2270 c.c., in tema di autonomia

patrimoniale e beneficio di preventiva

escussione, in base ai quali è possibile

riconoscere due entità patrimoniali distinte.

Altro argomento è quello dell’organizzazione

della società, l’art. 2257 c.c., infatti, dispone

che la maggioranza dei soci decide

sull’opposizione ad atti di amministrazione e

tale principio maggioritario sarebbe idoneo a

imprimere alla società semplice una struttura

unitaria. Milita in favore della personalità

giuridica, in ultimo, l’art. 2266 c.c., in base al

quale la società sta in giudizio nella persona dei

soci che ne hanno la rappresentanza.

In sostanza, secondo la tesi favorevole

l’elemento caratterizzante la persona giuridica è

l’autonomia patrimoniale (vista come

separazione tra il patrimonio dei soci e quello

sociale). Conseguenze pratiche sembrerebbero

essere l’ammissibilità di nomina di un

amministratore non socio (proprio come

accade nelle società di capitali); l’uso del

5 BOLAFFI, La società semplice, Milano, 1975(ristampa), pag. 302 e seg.

metodo collegiale (essenziale per l’imputazione

dell’atto alle persone giuridiche); e, in ultimo, la

presenza di un’organizzazione imprenditoriale

diversa dalla compagine sociale (alla quale si

sovrappone) cui attribuire lo status di

imprenditore, in altre parole: la società è

imprenditore.

Argomentazioni differenti da quelle finora

indicate si riscontrano, invece, nelle tesi

contrarie al riconoscimento della personalità e

soggettività alle società personali, alle quali è

attribuita una mera autonomia patrimoniale.

Secondo tale dottrina, infatti, è per rispondere

all’esigenza commerciale di tutela dei creditori

sociali, assicurando loro un privilegio nei

pagamenti rispetto ai creditori particolari dei

soci, che si è inserita nel codice di commercio

la disposizione secondo cui le società

commerciali costituiscono enti collettivi

rispetto ai terzi6. A supporto di tale teoria vi è,

6 <<Rispetto ai terzi, si; ma per ogni altro rispetto,no; esse sono enti giuridici relativi, non assoluti; dellapersonalità giuridica delle società commerciali si discorrediffusamente e anche splendidamente dagli scrittori; maandate al fondo di tutti i d iscorsi, voi non troverete maialtro effetto, altro risultato, che il privilegio dei creditorisociali. Credereste voi che una società commercia le siacapace di ricevere per testamento come persona distintada quelle dei soci?>>, (PESCATORE, Dottrine giuridiche,II, 1879, pag. 144). L’Autore, confrontando l’art. 2 delcod. civ. con l’art. 107 del cod. comm., definisce lesocietà commerciali come enti giuridici re lativi, <<Glienti giuridici assoluti rappresentano un interesseperpetuo, e personificano per conseguenza, non che lagenerazione vivente, tutte le generazioni avvenire dipartecipant i futuri, contemplati dalla natura dell’ istituto.

inoltre, la convinzione che se la personalità

giuridica è definita come un soggetto giuridico

diverso dalla persona dei soci, allora la società

di commercio non può considerarsi tale, in

quanto, non essendo diversa dalle persone dei

soci, in sé li compenetra e li unifica7. Pertanto,

secondo tale ragionamento, l’art. 77 cod. di

comm. vale ad esprimere appunto questo

aggruppamento unitario delle pluralità

mediante l’espressione ente collettivo, che

comprende da un lato l’unità operativa (ente) e

dall’altro la pluralità sottostante (collettivo).

Poiché è carattere essenziale di un simile

complesso unitario l’agire di fronte ai terzi

Dunque i partecipi o soci ora vivent i non sonoproprietari d i quell’interesse che è rappresentatodall’ente (…) ondechè le persone dei singoli membri, coirispettivi loro patrimoni e diritti rimangono affattodistinti dalla persona perpetua, dal patrimonio e daldiritto comunale>>. Le società private sono, a lcontrario, un contratto durevole un tempo determinato,volto al perseguimento di un interesse particolare eprivato dei soci, i quali, <<conferendo beni in comuneper formare una massa, non perdono punto, matrasformano e cambiano il loro diritto di proprietà checontinua a risiedere nelle loro singole persone. (…)Dunque il patrimonio socia le è patrimonio dei singoli, iquali rimangono l’unico subbietto del diritto>> ,(PESCATORE, op. cit., pag. 142).

7 <<Il diritto oggettivo non fa che riconoscerel’unificazione; ma non distrugge i diritti dei singoli, nonli trasmette ad un terzo soggetto: accetta solo che essisiano esercitati in forma unitaria; ed analogamente sidica dei doveri giuridici. È una saldatura che saràpenetrante e ferrea nelle società di capitali; tenue efragile in quelle di persone. Ma nelle une e nelle a ltre lapluralità dei soggetti non cessa>>, (SOPRANO, Lesocietà commerciali, I, 1934, pag. 25).

distintamente dai singoli componenti, l’ultimo

comma dell’art. 77 va allora considerato

semplicemente come un <<utile

chiarimento>>8.

In una posizione intermedia (e minoritaria)

è, invece, quella dottrina che, basandosi

sull’inciso rispetto ai terzi dell’art. 77 cod. di

comm., ha sostenuto che le società

commerciali costituiscono persone giuridiche

solo esternamente, mentre, per quanto riguarda

i rapporti interni, sono semplici comunioni9.

In sintesi, alla base del diniego di una

forma di soggettività alle società personali vi è

l’idea che il legislatore abbia voluto distinguere

le suddette società dalle società di capitali,

riconoscendo esclusivamente a quest’ultime

una personalità giuridica e individuando nelle

8 SOPRANO, op. cit., pag. 22.

9 ROCCO, Le società commerciali in rapporto al giudiziocivile, 1898. <<Personalità giuridica non vuol dir alt ro senon capacità di avere diritti privati patrimoniali>> ,pertanto, non deve, secondo l’Autore, sembrare illogicoimmaginare una capacità ad avere diritti che non siaassoluta ma in qualche modo limitata, <<con ciò non sidistrugge affatto il concetto di personalità : non si fa cherestringerne il contenuto>>, (ROCCO, op. cit., pag. 60 eseg.).

società di persone null’altro che delle

comunioni qualificate10.

In base a tali considerazioni ne consegue,

pertanto, che nelle società di persone, non

esistendo organi, imprenditori sono solo i soci;

l’ammissibilità di un amministratore non socio

è da valutarsi in base alla compatibilità della

disciplina del mandato con la struttura

societaria11, così come l’operatività del

metodo collegiale; i soci acquistano la qualità di

imprenditori in quanto vi sia l’effettivo

10 GHIDINI, Società personali, Padova, 1972, pag. 194e seg. <<L’assenza della personalità giuridica, nellasocietà personale, risulta anche da altre disposizioni: cosìad esempio, per l’art. 2256 il socio non può servirsi,senza il consenso degli alt ri soci, delle cose appartenent ial patrimonio socia le per fini estranei a quelli dellasocietà; per l’art. 2271 non è ammessa compensazionefra un debito che n terzo ha verso la società e il creditoche egli ha verso un socio. Tali disposizioni sarebberodel tutto superflue ove la società personale costituisse unsoggetto diverso dai soci>>; secondo le riflessionidell’Autore, quando la società è persona giuridica(società di capitali) i beni costituenti il patrimonio socialeappartengono al soggetto persona giuridica , diverso edistinto dai soci. Quando, invece, la società non èpersona giurid ica (società di persone), i beni costituenti ilpatrimonio sociale sono posti sotto la con titolarità deisoci; <<non viene dunque a recidersi (come inveceaccade quando il conferimento è fatto a favore di societàcon personalità giuridica) il rapporto o vincolo (d ititolarità) che, prima del conferimento, sussisteva tra ilsocio conferente ed il bene da esso conferito; talerelazione originaria permane, ma anziché essere piena edesclusiva, subisce una riduzione di misura>>(GHIDINI, op. cit., pag. 198).

11 Compatibilità da escludere secondo GALGANO,Le società in genere. Le società di persone, Milano, 2007, pag.239 e seg.

esercizio dell’impresa (compimento di qualsiasi

atto in nome della società) mentre, se la società

fosse persona giuridica acquisterebbe lei stessa

la qualifica di imprenditore con la sola

registrazione.

Sono queste, in linea di principio, le

differenze principali, che, nonostante le diverse

argomentazioni utilizzate, vanno poi ad

assomigliarsi nelle conclusioni in merito, ad

esempio, al riconoscimento della capacità della

società e ad alcuni profili processuali12.

Non è facile delineare l’orientamento

giurisprudenziale sul punto.

Non particolarmente interessanti

appaiono, ad esempio, le pronunce risolte con

il riconoscimento della soggettività alle società

personali in tema di locazione13, altre ancora

12 GHIDINI, op. cit. pag. 235 e seg., pur attribuendoalle società di persone la sola autonomia pat rimonialericonosce che <<essendo la società espressione sinteticadel complesso formato dai singoli soci, svolgent iassieme un’attività economico-produttiva, la capacitàdella società è quella stessa che va riconosciuta ai socipersone fisiche. (…) Pertanto la società personale puòacquistare beni in proprietà , diritti reali (…) Può stare ingiudizio, come attrice o convenuta, e intervenire incausa, in persona dei suoi rappresentanti (…)>>.

13 Cfr. Cass. 06-02-1984, n. 907; il locatore di unimmobile chiede la risoluzione del contratto per graveinadempienza della s. n. c. conduttrice in quanto,scioltasi la società per mancata ricostituzione dellapluralità dei soci ent ro i sei mesi dal verificarsidell’evento, il socio superstite aveva proseguito (inproprio) la stessa attività nei locali affittati. L’attorebasava la sua pretesa sul mutamento soggettivo

nell’originario rapporto di locazione. La Corte rigetta ilricorso affermando che le società di persone non hannopersonalità giuridica ; pertanto, centro unitario soggettivodi riferimento delle posizioni giuridiche soggettive attivee passive costituenti il patrimonio sociale sono i soci nelloro complesso, così che la titolarità è unitaria edinscindibile. Nel caso di specie, venuta meno la pluralitàdei soci, la titolarità del pat rimonio si concent ra nelsocio superstite; la Corte conclude il proprioragionamento osservando, inoltre, che un modoparticolare di liquidazione si ha quando l’unico sociodecida di continuare l’esercizio attribuendosi i benicostituenti il patrimonio sociale. Quindi: non vi è statamodificazione soggettiva del rapporto di locazioneperché il conduttore convenuto era sempre stato titolaredel contratto.

A prima vista, l’affermazione di principio dellaCorte sembra inopportuna, in quanto il cont rattod’affitto avrebbe comunque seguito l’azienda poiché ècon quest’ultima che la locazione è stata assunta. Infatti,se anche la società avesse trasferito l’azienda vi sarebbestato un mutamento del soggetto ma il contratto non sisarebbe sciolto. Nel caso di specie, l’argomento dellasoggettività potrebbe essere rilevante solo ipot izzando lapresenza nel contratto di locazione di una clausola d irecesso nell’ipotesi di trasferimento d’azienda.

Risolve in fatto Cass., sez. III, 13-04-2007, n. 8853;la causa viene introdotta dalla s.p.a. locatricedell’immobile (di cui è proprietaria), quest’ultimalamenta che i giudici d i merito abbiano riconosciutocome parte conduttrice del rapporto locativol’associazione professionale, nonostante il cont rattofosse stato intestato in via successiva a due diversiprofessionisti senza che questi spendessero mai il nomedello studio associato per conto del quale stipulavano,con la conseguenza che il contratto andava riferito allesingole persone e non all’ente collettivo. La Corte,confermando in ta l senso la sentenza d’appello, ritieneda un lato che lo studio professionale associato, seppureprivo di personalità giuridica , rientra nell’ambito di quei<<fenomeni di aggregazione di interessi (quali le societàpersonali)>> cui la legge attribuisce la capacità d i porsicome autonomi centri di imputazione di rapport igiurid ici; in base a tale principio, l’avvicendamento dipersone diverse (quali rappresentanti dell’associazioneprofessionale) non comporta la sostituzione di soggett idiversi nella titolarità dei rapporti facent i capoalla’associazione stessa. Dall’altro, rit iene chel’esternazione del potere rappresentativo può avvenireanche senza espressa dichiarazione di spendita del nomedel rappresentato, purché vi sia un comportamento del

avrebbero trovato la medesima soluzione

indipendentemente dal riconoscimento della

soggettività14. Numerose sono, poi, le sentenze

in tema di liquidazione del socio uscente, che

hanno solitamente risolto la questione

esclusivamente col riconoscimento di una

soggettività alle società di persone ma che, in

realtà, avrebbero avuto uguale soluzione

mandatario tale da portare a conoscenza dell’altra partela circostanza che sta agendo per altro soggetto.

14 Cfr. Trib. Firenze, 13-03-2002; in tale sentenza,ponendosi in contrasto con un indirizzo dellagiurisprudenza di merito, si ritiene che la fideiussionerilasciata da un socio in favore della s.n.c. sia un validocontratto atipico di garanzia per la meritevolezza degliinteressi coinvolti. La giurisprudenza è solitamenteorientata a considerare nu lla simile fideiussione permancanza di causa, perché inidonea a rafforzare legaranzie del creditore, in quanto non vi sarebbe l’ampliamento, per il creditore, del potere di aggressioneverso un patrimonio di altro soggetto diverso daldebitore principale. L’argomentazione del Tribunale diFirenze è stato recentemente ripreso in Cass., sez. I, 12-12-2007, n. 26012; secondo la quale fermo restando chealla società di persone, in quanto titolare di unpatrimonio autonomo, deve essere riconosciuta unasoggettività, ne consegue che la fideiussione prestata dalsocio a favore della società rient ra tra le garanzie perdebito alt rui. Inolt re, lo stesso creditore potrebbe averecomunque l’interesse ad una forma di garanziaaggiunt iva che, ad esempio, gli permetta di evitare lapreventiva azione esecutiva nei confronti della società(ex art. 2304 c.c.).

In sostanza, è possibile affermare che il cont ratto difideiussione è una clausola che rende il sociosolidalmente responsabile verso un determinatocreditore senza l’operabilità della preventiva escussione;in quest’ordine di idee, quindi, è sicuramente valida lafideiussione che dovesse rilasciare il socio accomandantedi s.a.s. Pertanto, il criterio della soggettività ancora unavolta non è determinante.

ritenendo tali società dotate di mera

autonomia15; una rilevanza, seppure non

15 Cfr. Cass., Sezioni unite, 26-04-2000, n. 291. Lacontroversia fu promossa dall’erede del socio decedutonei confronti della società (non ne viene specificato iltitolo) e tra le stesse parti fu proseguita in fase diimpugnazione; la questione posta alla Corte riguardava ildifetto di costituzione del cont raddittorio o l’eventualeincompletezza di questo, a causa della mancata citazionein giudizio degli a ltri soci. La Cassazione, dopo averpremesso che anche la società di persone è unautonomo soggetto dell’ord inamento, in quanto ètitolare dei beni sociali ed ha capacità sostanzia le eprocessuale nei rapporti esterni che coinvolgono i benistessi (ex artt. 2266-67 c.c.), ha qualificato la posizionedegli eredi (o in generale del socio uscente dalla società)come posizione creditoria nei confront i della societàstessa, come fosse un qualsiasi altro terzo estraneo. Taleragionamento della Corte lascia presumere che i soci d iuna società di persone abbiano costituito un patrimonioseparato rispetto a quello personale, direttamenteaggredibile per la soddisfazione di obbligazioni cont rattenell’esplicazione dell’attività d’impresa; ne consegueautomaticamente che si è costituito un soggetto diversodai soci, in cui l’autonomia patrimoniale costituiscesurrogato della personalità giuridica.

In realtà, l’argomento determinante nel riconoscerela società come debitrice non è la soggettività ma ilvincolo contratto con la società. Sarebbe sufficienterichiamare le regole della comunione per arrivare allostesso risultato, se, infatti, il debito al socio receduto(escluso o deceduto) fosse a carico dei soci rimanenti,questi verrebbero obbligati a un nuovo conferimentopari alla quota liquidata, che resterebbe, quindi, vincolataalla società. Poiché non è possibile costringere i soci aun conferimento coatto, ci si dovrà necessariamenterivolgere alla società. In sintesi, è la stessa soluzione chesi avrebbe nell’ipotesi di scioglimento parziale dellacomunione.

È bene sottolineare, ancora , come la questione sullanatura (sociale o a carico dei singoli soci) del debito diliquidazione del socio uscente ha effetti esclusivamenteprocessuali. Nel caso di obbligazione sociale, infatti, lalegittimazione passiva spetta solo alla società; nell’ipotesiinversa, invece, i singoli soci sono debitori e pertanto ilcontraddittorio deve essere instaurato nei confronti d itutti e il pagamento può essere chiesto ad ognuno senzal’operabilità del beneficio di prevent iva escussione.Spesso la giurisprudenza, prescindendo dalla questionesul riconoscimento o meno di soggettività, si è

decisiva, si riconosce infine a quelle sentenze

che hanno affrontato la questione della

capacità processuale (si presenta, infatti, spesso

il dubbio su a chi spetti la legittimazione

processuale; la giurisprudenza è ancora

contraddittoria sul punto)16.

pronunciata sull’aspetto della regolarità delcontraddittorio, senza però dare soluzioni univoche. Sutali aspetti si rinvia a CASADEI, Le società di persone,Milano, 1997, pag. 196 e seg.

16 Cfr. Cass., sez. I, 23-05-2006, n. 12125 (Il fatto:due fratelli, in qualità di eredi, citano in giudizio, per laliquidazione della quota del defunto genitore,direttamente gli a ltri soci e non anche la società), in cu isi legge che la mera evocazione in giudizio di tutti i socinon equivale ad intimazione della società in mancanza diuna corrispondente intenzione dell’attore, desumibiledall’interpretazione della domanda giudiziale; in sensocontrario si veda Cass., sez. I, 05-04-2006, n. 7886 (laCorte ritiene che la società non è passivamentelegittimata nel giudizio avente ad oggettol’impugnazione di un contratto preliminare di cessionedella quota sociale) , in cui si afferma, seppure in obiterdictum, che la citazione di tutti i soci equivale alla (orealizza la) citazione della società.

Secondo quest’ultimo indirizzo, ne consegue che sipassa da un processo a due parti (attore/società) a unolitisconsortile (attore/soci); solo che, a ben riflettere,nessuno dei soci rappresenta la società costituendosi perla società ed in suo nome.

Cfr. anche a Trib. Milano, 16-04-1992, (in tema di

legittimazione all’ azione di responsabilità degli

amministratori) uno dei t re soci di una s.n.c. propose

domanda giudiziale per far valere la responsabilità del

socio amministratore unico, accusandolo di aver

commesso gravi irregolarità nella gestione sociale

causando un grave danno sia nei confronti dei soci che

della società. Il giudice del merito chiariva innanzitutto

che anche alle società di persone debba essere

Le decisioni più interessanti che sono state

individuate (in quanto attinenti a questioni in

cui possono meglio cogliersi le differenze tra le

varie impostazioni teoriche all’inizio

esaminate), riguardano la possibilità di

nominare un amministratore non socio;

riconosciuta una soggettività giuridica , costituendo un

centro d’imputazione d’interessi autonomo e distinto dai

singoli soci che ne fanno parte; conseguentemente la

legittimazione a esperire l’azione sociale di responsabilità

contro gli amministratori spetta alla società stessa e non

al singolo socio. La sentenza termina con la possibilità,

in linea di principio, per il singolo socio di proporre

un’azione individuale di responsabilità contro

l’amministratore, solo se diretta a lla tutela d i un suo

personale interesse (riconducendola all’azione generale

prevista per il risarcimento da fatto illecito ex art. 2043

c.c.).

Importante principio è stato sancito recentemente

dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 14815 del

2008, dove viene affermato che nel caso di accertamento

a una società di persone si apre la strada al giudizio

collettivo anche se il ricorso è stato presentato da uno

solo dei soggetti coinvolti. Secondo tale sentenza, infatti,

l’art. 40 del Dpr 600/1973 in materia di accertamento

unitario comporta che il ricorso presentato da uno solo

dei soci o dalla società riguarda in realtà inscindibilmente

entrambi, pertanto, tutti devono prendere parte allo

stesso processo. Conseguentemente, il giudizio svolto

senza la partecipazione di tutti i l itisconsorti necessari è

nullo in violazione del principio del contraddittorio ex

art. 101 c.p.c. e 111, 2° comma, della Costituzione.

l’operatività del metodo collegiale e la titolarità

della qualità di imprenditore.

La questione in merito alla possibilità o

meno di nominare amministratore un non

socio ha infatti una sua rilevanza per negare la

personalità e soggettività alle società di

persone17 (come già anticipato all’inizio);

stesso discorso vale per l’operatività del

metodo collegiale, legata alla constatazione che

l’assenza di personalità giuridica nelle società

personali escluderebbe la costituzione di un

organo assembleare per la raccolta della

volontà dei soci18; con riguardo agli effetti

17 A tal riguardo, la giurisprudenza sembraorientata nel senso di un’inscindibilità della qualità disocio da quella di amministratore, in base allaconsiderazione che nelle società personali l’ intuituspersonae caratterizza l’intera organizzazione ed ilfunzionamento del tipo societario, ma, soprattutto, invirtù del principio che nel sistema delle società personaliil potere di amministrazione è legato alla responsabilitàillimitata. Cfr. Trib. Foggia, 29-02-2000; Trib. Cagliari,11-11-2005; Trib. Biella, 23-10-1999.

In realtà, la questione potrebbe impostarsi in mododiverso. Più che sul collegamento tra potere dispositivoe responsabilità ill imitata, ci si dovrebbe interrogare sullanatura del rapporto che si instaurerebbe tra i soci e ilterzo amministratore. Se fosse persona giuridica sarebbeun rapporto organico; nel caso di società personale,invece, si avrebbe una sorta di prestazione di servizio (diamministrazione) che è reso ai soci collettivamenteintesi, non alla società come ente distinto.

18 Cfr. Cass., sez. I, 7-06-2002, n. 8276; (in cui laCorte è orientata ad ammettere l’adozione del metodocollegiale anche nelle società personali, ritenendoapplicabili le norme dettate in materia d i società perazioni).

della soggettività rispetto all’attribuzione della

qualità di imprenditore, l’analisi casistica non

porta a conclusioni univoche. I casi in cui la

titolarità è attribuita alla società riguardano

solitamente la dichiarazione di fallimento19.

In conclusione, dall’analisi casistica svolta,

ne deriva che l’argomento della soggettività è

spesso richiamato senza poi essere

determinante per la soluzione della

controversia, per la quale si rivelano, invece,

determinanti altre argomentazioni. Sembra,

quindi, doversi affermare che la personalità è

riconosciuta dalla giurisprudenza solo alle

società commerciali, ma solo in determinate

circostanze. Rispetto a queste, infatti, la

soggettività si manifesta solo quando è la legge

stabilirlo (es. fallimento20), pertanto, spetta

all’interprete, di volta in volta, verificare se il

caso concreto sia o meno da ricomprendere

nell’ambito della soggettività.

19 Cfr. Trib. Roma, 01-11-2006; Trib. Torino, 19-03-1990.

20 Nelle d ichiarazioni d i fallimento la titolarit àdell’attività economica commerciale è attribuita allasocietà, cfr. Trib. Torino, 22-02-1974, in cui si affermache le società aventi ad oggetto attività commercia lesono sempre soggette al fallimento, anche se in fattohanno svolto attività non commerciale, <<la Corteindividua, infatti, nel momento della costituzione di unasocietà con oggetto commercia le la nascita di unimprenditore commerciale, con la conseguenza che lesocietà aventi tale oggetto sono assoggettabili a l

2) La forma del contratto

sociale nella società semplice.

L’art. 2251 c.c., dettato in materia di società

semplice (ma applicabile anche alla società in nome

collettivo in virtù del rinvio operato dall’art. 2293 c.c.),

stabilisce che il relativo atto costitutivo <<non è

soggetto a forme speciali>> , può pertanto concludersi

anche oralmente o per facta concludentia. Tale libertà

viene meno nell’ipotesi in cui si conferisca in società un

bene il cu i trasferimento richieda una forma speciale ex

art. 1350, n. 1 e 9, c.c. Le possibili conseguenze sono

due: 1) la forma speciale (nella specie quella scritta)

richiesta dalla natura dei beni da conferire reagisce

sull’intero contratto di società; 2) la forma è richiesta

per il solo conferimento. Nel primo caso, la mancata

osservanza della forma scritta determina la nullità del

contratto sociale, mentre nel secondo caso, ritenendo

che la forma sia richiesta per il solo conferimento,

rimane valido e vincolante il contratto di società. La

questione ha una sua rilevanza pratica nella sorte

dell’immobile conferito oralmente o di fatto in società

e, quindi, nella posizione dei creditori particolari del

socio conferente rispetto a quelli sociali in base alla

possibilità di aggressione sull’immobile conferito. La

giurisprudenza adotta una posizione ambigua ritenendo

che la forma speciale richiesta per la natura dei beni

conferit i sia anche forma dell’intero contratto di società

solo se tali beni sono essenziali allo svolgimento

dell’attività socia le. Pertanto, a prescindere dalla scelta

di principio (il difetto di forma comporta la nullità

fallimento indipendentemente dal compimento, inconcreto, di operazioni commerciali>>.

dell’intero contratto sociale, ovvero comporta la nullità

del singolo conferimento che solo se essenziale travolge

l’intero contratto sociale), il risultato è il medesimo.

Minoritaria in dottrina è la tesi secondo la

quale la forma richiesta per la natura dei beni

conferiti è essenziale per la validità dell’intero

contratto sociale.

In generale, la dottrina in esame reputa

decisivo il dato letterale dell’art. 1350, n.1 e 9,

c.c. Com’è noto, quest’ultima disposizione

esige la forma scritta non per il singolo atto

traslativo, bensì per <<i contratti che

trasferiscono la proprietà di beni immobili>>

(art. 1350 n. 1), nonché per <<i contratti con i

quali si conferisce il godimento di beni

immobili o di altri diritti reali immobiliari per

un tempo eccedente i nove anni o a tempo

indeterminato>> (art. 1350 n. 9). Pertanto, a

voler seguire la dottrina contraria, ci si

troverebbe per coerenza costretti ad applicare

la distinzione tra atto traslativo e contratto non

solo nel diritto societario ma a tutti i contratti

cui l’art. 1350 c.c. fa espresso riferimento. Ci si

troverebbe, ad esempio, nell’assurda situazione

di considerare valida una compravendita in cui

sia stato stipulato per iscritto il solo consenso

al trasferimento, mentre il prezzo è stato

pattuito oralmente21. È facile intuire l’assurdità

di tale posizione, soprattutto se si fa

riferimento a quella dottrina e giurisprudenza22

in cui si legge che quando la legge prescrive

oneri formali questi necessariamente

riguardano l’intero contratto (la causa,

l’oggetto ecc.) e non la sola pattuizione da cui

consegue l’effetto traslativo23.

21 Cfr. MAGRI’, Conferimento immobiliare in società difatto, principio di conservazione e conversione del contratto nullo,in Riv. dir. comm., 1999, pag 590 e seg.

22 In Cass. 21-06-1965, n. 1299. Nel caso di specie,due persone avevano ceduto con scrittura privata unapprezzamento di terreno fabbricativo ad un terzosoggetto, a titolo di provvigione per la mediazione da luisvolta. Non avendo in seguito effettivamente trasferitol’immobile, che anzi venne venduto ad altri, l’attore sirivolse al Tribunale perché fosse dichiarato l’obbligo deiconvenuti a t radurre in atto pubblico il contenuto dellascrittura privata, o, in mancanza, che la sentenzaemanata fosse titolo idoneo al t rasferimento dellaproprietà in suo favore. Sia in primo che in secondogrado si dichiarò la suddetta scrittura privata pienamenteefficace ai fini del t rasferimento della proprietàdell’immobile. In Cassazione i ricorrenti sottolineavanoche la pattuizione contenuta nella scrittura privata nonpoteva costituire valido contratto in quanto nonrisultava la causa del contratto stesso, che non potevacertamente desumersi da elementi estranei all’atto scritto(come invece aveva fatto il tribunale di primo gradodando rilievo ad un interrogatorio non formale delleparti). La Corte accoglie il ricorso e dichiara <<nulla laconvenzione con la quale si cede in proprietà un beneimmobile senza che ne risulti la causa dall’atto scritto,necessario per la validità del trasferimento>>.

23 Cfr. BIANCA, Dir itto civile, 3, Il contratto, Milano,2000, p. 287; <<In quanto il contratto è un accordo,devono risultare per iscritto le manifestazioni di volontàattraverso le quali l’accordo si perfeziona>>. In sensocontrario GIORGIANNI, in Enc. Dir., XVIII, Milano,1968, p. 1005; secondo il quale, in riferimento all’art .

In conclusione, secondo tale dottrina, non

è concepibile che una società semplice sia

costituita oralmente nel caso di conferimento

immobiliare (in proprietà o godimento

ultranovennale)24; pertanto, essendo la forma

richiesta per l’intero contratto sociale, la sua

inosservanza comporta la nullità della società.

È, tuttavia, prevalente la tesi secondo cui la

forma scritta non è richiesta per l’intero

1350 c.c., l’atto scritto non deve necessariamenteindicare la causa del trasferimento <<si pensi che ancheallorché le parti fanno riferimento ad un contrattotipico, la causa può essere diversa da quella apparente,eppure tale circostanza non è stata considerata incontrasto col precetto di forma. Dal che dovrebbe trarsila conseguenza che – per l’art. 1350 n. 1 – il contenutominimo dell’atto, ai fini del rispetto del precetto diforma, è costituito esclusivamente dal trasferimentodella proprietà>>.

24 Interessante è anche l’argomentazione elaboratadal ROMANO-PAVONI. Quest’ultimo, infatti, osservache <<il senso dell’art. 2251 è che il cont ratto non èsoggetto, d i regola a forme, ma vi è soggetto (quindi, èsoggetto il cont ratto per intero), quando una data formasia richiesta dalla natura dei beni conferiti: cioè si ha unastatuizione eventuale (solo per dati casi) di forma,precisata per relationem a quella della legge richiesta per iltrasferimento, in generale, dei beni conferiti>> (Teoriadelle società. Tipi – Costituzione, Milano, 1953, p. 415); edaggiunge poi che l’art. 1350, n. 9, prevedendo l’obbligodella forma scritta a pena di nullità per << i contratti d isocietà (…) con i quali si conferisce il godimento di beniimmobili (…)>> pone chiaramente la necessità dellaforma scritta per l’ intero contratto. L’Autore considera,inoltre, come l’art. 2251 c.c., facendo salve le formestabilite per la natura dei beni conferiti, non distingue traforme ad substantiam e ad probationem, conseguentementeritiene che il negozio costitutivo di società in cui vengaconferita , ad esempio, un’azienda di impresa soggetta aregistrazione vada redatto per iscritto ad probationem exart. 2256 c.c.

contratto di società ma solo per l’atto di

conferimento, introducendo in tal modo una

distinzione tra la forma del contratto sociale e

la forma dell’atto di conferimento in esso

contenuto.

In base a tale dottrina, non è argomento

decisivo per la questione il testo letterale

dell’art. 1350, n. 1-9, c.c.; potendosi obiettare

che, analogamente a quanto accade nell’ipotesi

di cessione d’azienda in cui lo scritto ad

substantiam è previsto solo per i singoli beni cui

esso occorre ai fini del trasferimento (ex art.

2556 c.c.), il contratto con cui si conferisce

non deve essere necessariamente ed

inscindibilmente congiunto con le restanti

pattuizioni sociali. In conseguenza a quanto

detto, se per un conferimento manca la forma

scritta ad substantiam, l’invalidità non incide

sull’intero contratto ma determinerà una nullità

parziale che colpisce il vincolo di uno dei

contraenti, <<mentre il contratto sarà invalido

nel suo complesso solo se la partecipazione di

questi potesse ritenersi essenziale>>25.

25 Cfr. COTTINO, Considerazioni sulla forma delcontratto di società, in Riv. soc., 1963, p. 287. Della stessaidea è il GHIDINI, secondo il quale la formulazionedell’art. 2251 c.c. è chiara nel riferire la forma scritta soloal bene conferito <<e quindi a l fine di rea lizzare lavalidità del conferimento specifico di quel bene; malascia impregiudicata la questione sulla validità edefficacia degli altri conferimenti ancorché non sussista laforma scritta di impegno ad effettuarli, lascia cioèimpregiudicata la questione sulla valid ità e efficacia del

Conseguentemente, in applicazione del

principio di conservazione, qualora il

conferimento nullo fosse essenziale per

l’attività sociale, la nullità inevitabilmente

travolge l’intero contratto sociale.

Ben argomentata, infine, è la tesi che si

basa sull’applicazione analogica dell’art. 1574,

n. 1, c.c., in tema di locazioni stipulate a tempo

indeterminato26. Secondo tale disciplina, se le

parti non hanno indicato la durata della

locazione avente ad oggetto locali per

l’esercizio di una professione, di un’industria o

di un commercio, questa s’intende convenuta

contratto sociale, tra gli altri soci, i quali abbianoconferito beni d i natura diversa (non immobili), per ilconferimento dei quali non si richiede l’atto scritto, a ifini della validità e efficacia dell’obbligo delconferimento stesso>>, (Società personali, Padova, 1972, p.87-88 e nota n. 89). L’Autore riconosce, tuttavia, lanecessità di forma scritta nelle ipotesi in cu i i soci, giàcomproprietari d i un bene immobile, intendono iniziareun’attività economica utilizzando l’ immobile stesso epertanto conferiscono le quote immobiliari (unite nelvincolo della comunione) nella società di persone daloro stessi formata. L’esigenza della forma scritta èdovuta, però, non a causa del trasferimento di proprietà(ex art. 1350, n. 1 e 9 c.c.), in quanto le società d ipersone sono prive di personalità giurid ica, bensì inquanto alla comunione di godimento si sostituisce undiverso rapporto, quello socia le, cu i conseguel’applicazione di un diverso regime giurid ico. Pertanto, ilrequisito formale è dovuto all’applicazione dell’art. 1350,n. 3 e 5, c.c., essendo un atto di rinuncia alla comunione(la legge, infatti, disciplina in modo nettamente diversola comunione dalla società, ex art. 2248 c.c.).

26 Cfr. D. DI SABATO, Sui conferimenti immobiliari insocietà di fatto, in Giur. comm., 1990, II, p. 241 e seg.

per un anno. Tale soluzione prende le mosse

dalla considerazione che la nullità della società

(per mancanza di forma scritta) va in esclusivo

danno dei creditori sociali, favorendo al

contrario i creditori personali dei soci nonché il

singolo socio che in tal modo può agevolmente

sottrarsi alle obbligazioni sociali. Il discorso si

giustifica alla luce del riconoscimento della

medesima ratio posta alla base delle due

discipline, <<Non c’è infatti ragione per non

applicare il termine di un anno al conferimento

in godimento di un fondo di per sé non

produttivo, ma che diviene tale proprio per

volontà delle parti ed è, dunque, bene

strumentale in quanto utilizzato ad esempio

per la collocazione di capannoni

industriali>>27. Secondo il medesimo

orientamento, escludere che vi sia società

quando si utilizza un bene immobile conferito

oralmente, pur essendovi più persone che

effettivamente svolgono un’attività produttiva

e vi sia una affectio societatis, porta

necessariamente ad una revisione delle

differenze tra società e comunione.

Ricorrerebbe, infatti, quest’ultima ogni qual

volta non sia stato rispettato il requisito della

27 Cfr. D. DI SABATO, op. cit., p. 242.

forma scritta per i conferimenti immobiliari,

pur in presenza degli elementi suddetti28.

La giurisprudenza, che ha affrontato il

problema soprattutto in tema di società di

fatto, è ormai consolidata nel ritenere nullo il

contratto sociale per mancanza di forma scritta

qualora il conferimento immobiliare sia

essenziale all’attività. In merito, poi, alla

questione sull’ applicazione del principio di

conservazione del contratto (ex art. 1367

28 L’applicazione analogica della disciplina della

locazione ha suscitato la critica da parte di alcuna

dottrina, secondo cu i applicando l’art. 1574, n. 1, c.c.

<<la durata dovrebbe così intendersi convenuta nei

limiti di un anno non solo nell’ ipotesi di costituzione di

società di persone per fatti concludenti con

conferimento tacito (e per ciò solo a tempo

indeterminato) del godimento di immobili, ma anche nel

caso in cui l’attribuzione dello stesso sia pattuito senza

limiti di tempo per dichiarazione espressa delle parti,

come accade in materia di locazione. È evidente come

un simile impiego dello strumento analogico conduca

all’inaccettabile espunzione dal sistema della figura del

conferimento in godimento a tempo indeterminato,

pervenendo ad un risultato contrastante con la presenza

nell’ord inamento dell’art. 1350, n. 9, che nel regolare la

forma del contratto di società lascia trasparire

l’ammissibilità di un’attribuzione del bene senza limiti d i

tempo>> (Cfr. MAGRI’, op. cit., p. 593).

c.c.)29, la giurisprudenza di legittimità tende ad

escluderne l’operatività.

La gran parte delle pronunce esaminate

hanno riconosciuto la nullità della società per

difetto di forma del conferimento ritenuto

essenziale30 e, con riferimento agli effetti

29 In applicazione del quale nel caso diconferimento in godimento di un immobile senzaindicazione del termine, deve ritenersi che il cont rattoverbale costitutivo di società è validamente stipulato nellimite temporale di nove anni (ex art. 1350, n. 9, c.c.).

30 In Cass. 04-07-1987, n. 5862, la Corte afferm ache <<il contratto costitutivo di una società di fatto conconferimento di un immobile senza l’osservanza dellaforma scritta è nu llo se il detto conferimento è per suanatura essenziale al raggiungimento dello scopo sociale.Non può infatti ritenersi, in applicazione del principio diconservazione del cont ratto, che tale conferimentopossa essere interpretato come conferimento delgodimento dell’immobile d i durata novennale>>. Inbreve il fatto: il proprietario di un terreno ne vende unaparte e costruisce, insieme all’acquirente, un edificio(insistente sui due fondi) che viene arredato da entrambiai fini della gestione di un night club. Ricorrendo ingiudizio, l’alienante sosteneva che la vendita era simulataallo scopo di costituire t ra i due una società di fatto perla gestione del night club e, a seguito dell’accertamento ditale simulazione, chiedeva lo scioglimento del rapportosociale per inadempimento dell’alt ro socio (che lo aveva,infatti, escluso dal possesso dell’immobile edall’impresa); l’acquirente, a l contrario, eccepiva che lavendita era reale e rivendicava pertanto la proprietàdell’intero immobile in quanto insisteva per la gran partesul suo fondo. La Corte d’appello ha ritenuto valida lasocietà di fatto, in applicazione dell’art. 1367 c.c.,ritenendo che i suddetti conferimenti erano statieffettuati non in proprietà ma in godimentoinfranovennale. Avanti alla Suprema Corte, i ricorrenti,assumono che erroneamente la corte d’appello haritenuto valida la società di fatto nonostante ilconferimento dei beni immobili necessari allarealizzazione del fine sociale non avesse la forma scritta,in quanto non è possibile applicare il principio diconservazione ai sensi dell’art. 1367 c.c. per escludere lanullità del contratto. Secondo la S.C., infatti, <<la norma

contenuta nell’art. 1367 c.c. presuppone che, fallito ognialtro tentativo di attribuire alla clausola cont rattuale (o alcontratto) un qualsiasi significato mediante l’adozionedegli altri criteri dell’interpretazione oggettiva, il dubbiocirca la sua reale portata permanga, onde in tal casoviene privilegiata l’ interpretazione che riconosce allaclausola dubbia qualche effetto anziché quella per cuiessa non ne avrebbe alcuno. (…) In realtà, per superareil ritenuto conflitto tra gli artt. 2248 e 1350 n. 9 c.c., nonè possibile il ricorso all’art. 1367 c.c. poichél’applicazione della norma si risolve in ta l caso in unainterpretazione abrogans del precetto relat ivo allaprescrizione formale, il quale non viene applicatononostante che il conferimento abbia avuto per oggettoun bene immobile ovvero un diritto immobiliare, nelsilenzio delle parti, a tempo indeterminato>>.

Interessante è anche la sentenza della Cass. 19-01-1995, n. 565. Due soggetti avevano costituito unasocietà di fatto allo scopo di creare e gestire un campingper 20 anni, convenendo verbalmente che il primoavrebbe conferito il terreno e sarebbe stato proprietariodi eventuali costruzioni, il secondo avrebbe invececurato la contabilità. Dopo qualche anno il secondorecedeva e vi furono disaccordi sull’ammontare dellaliquidazione della quota. In giudizio, il socio recedentechiedeva che fosse determinato e liquidato il valore dellapropria quota, mentre, il socio convenuto rilevava che lasocietà, pur prevedendo il conferimento di un immobileper 20 anni, non era stata stipulata per iscritto e chiedevala declaratoria di nullità della società . Il giudice di primogrado dichiarò nulla la società per violazione dell’art .1350, n. 9, c.c. e, inoltre, negò la liquidazione della quotasociale, non essendo venuta ad esistenza la società ,pertanto affermò il diritto delle parti alla restituzione deirispettivi conferimenti. La Corte d’appello confermò lasentenza di primo grado, conseguentemente i giudicistabilirono che, essendo nulla la società, le parti avevanodiritto alla sola restituzione dei conferimenti eseguiti eagli utili in rapporto di parità. Secondo la Cassazione<<il contratto verbale con il conferimento in godimentoultranovennale di beni immobili, essenziali a lraggiungimento dello scopo sociale, è dunque affetto danullità (…) per escludere detta nullità non è invocabile ilprincipio della conservazione del negozio giurid ico exart. 1367 c.c., al fine di circoscrivere nel novennio ilpatto societario, in quanto ciò esulerebbe dalla merainterpretazione della volontà delle parti, t raducendosi inuna arbitraria sostituzione del loro effettivo intento>> .Risolto tale aspetto, la Corte si è poi d ilungata sullaquestione degli effetti del contratto nullo. A tal riguardo,la Corte sull’assunto che la società ha comunque avutopratica attuazione per un periodo di tempo (producendo

inevitabilmente degli effetti) , dichiara <<non vi è dubbioche tra i conferimenti dei soci, vadano compresi, oltreagli apport i di denaro o di beni, anche l’attività lavorativasvolta per la gestione sociale; e che fra gli utili, vadaricompreso anche l’eventuale ut ile patrimonializzato checonsiste nell’aumento di valore acquisito dall’azienda,quando questa, insistendo su un immobile di proprietàesclusiva di uno dei soci, ritorna interamente, per effettodello scioglimento, nella piena titolarità di uno solo fraessi. In questo senso è esatto affermare che il plusvaloreche sia stato acquisito dai beni organizzati in azienda,per effetto dell’attività comune, è per intero, effetto delcomplessivo conferimento dei soci (…). Ma ciò staanche a significare la piena equiparazione, quoad effectum,della declaratoria di nu llità della società di persone cheha agito come tale, allo scioglimento>>.

È bene sottolineare come l’espressione usata dallaCorte (<<contratto verbale costitutivo di una società d ifatto>>) porti a rit enere si trattasse di una s.n.c.costituita oralmente, giacché nella società d i fatto non viè alcuna contrattazione. Pertanto, l’affermazioneespressa nella sentenza suesposta, secondo cui la nullitàdel conferimento essenziale alla società travolge l’interocontratto sociale, non vale ad interpretare l’art. 2251 c.c.poiché, trattandosi di una s.n.c. costituita oralmente, lanullità deriva dalla mancanza di forma scrittaprescindendo dalla forma dell’atto di conferimento.

Più recente è la pronuncia di Cass. 25-10-2001, n.13158. Tre persone avevano costituito una società difatto avente ad oggetto l’esercizio di att ività edilizia, conl’accordo che dell’ impresa solo uno di loro sarebbeapparso l’esclusivo titolare, al quale avrebbero dovutoessere intestati i beni immobili acquistati con gli utilisocietari. Qualche anno dopo la società si scioglieva e letrattative per liqu idare il patrimonio socia le si eranointerrotte per divergenze sorte sulla valutazione di dueedifici, costruiti su un terreno che il socio apparentetitolare dell’ impresa possedeva ancor prima di costituirela società e che, qu indi, riteneva di sua esclusivaproprietà . Davanti al tribunale, l’attore chiedeva che, unavolta accertata l’esistenza della società di fatto, il giudicevalutasse la consistenza della quota a lui spettante. Ilconvenuto (apparente esclusivo titolare dell’ impresa)eccepiva la nullità della detta società perché, pur avendocome oggetto sociale la costruzione di edifici trami attidi acquisto e vendita di beni immobili, era stata costituitaverbalmente tra i tre. In Cassazione, il ricorrente lamentache sia in primo (Trib. Montepulciano, 07-03-1992) chein secondo grado (App. Firenze, 25-09-1999), sia stataritenuta valida la società . La Corte, accogliendo ilmotivo, dichiara <<dispone l’art. 2251 c.c. che il

conseguenti, l’orientamento dominante

prevede una liquidazione della quota del

singolo socio, in riferimento alla complessiva

situazione patrimoniale dell’azienda al

momento dello scioglimento, comprendendo

principio di libertà di forma dell’atto costitutivo dellasocietà semplice (la cui d isciplina è applicabile allasocietà di fatto) non si applica nel caso in cui la naturadel bene conferito richieda una forma particolare.Conseguentemente, questa Corte, con costanteorientamento, ha affermato la nullità dell’atto costitutivodi una società di fatto il cui fondo comune sia costituitoda conferimento (in proprietà, in uso o in godimentoultranovennale) di beni immobili essenziali per ilperseguimento delle finalità socia li>>. Secondo la S.C., ilgiudice d’appello non ha ignorato l’orientamentodominante, ma ne ha semplicemente limitato la portata ,traendone la sola conseguenza che i terreni risultanti almomento della costituzione della società , poiché nonerano oggetto di conferimento con atto scritto (bensìerano di esclusiva proprietà del ricorrente), nondovevano essere compresi nella valutazione delpatrimonio aziendale da prendere a base delprocedimento di liquidazione delle quote. <<Poichédalla sentenza impugnata risulta che i terreni di proprietàesclusiva del sig. T., all’atto della costituzione dellasocietà, furono oggetto di conferimento, ma che taleconferimento è nu llo perché non redatto per iscritto, a lfine di valutare la tesi del ricorrente, secondo cui da talenullità discendeva, ai sensi dell’art. 2252 c.c., la nullitàdell’atto costitutivo della società d i fatto, la corteterritoriale doveva anche esaminare la questione se taleconferimento fosse essenziale per il persegu imento degliscopi sociali. in secondo luogo, e conseguentemente,doveva essere individuato quale fosse allora l’apportodel sig. T. al fondo comune>>.

È possibile notare come, nelle sentenze riportate, lanullità della società discende dall’essenzialità delconferimento immobiliare; pertanto, secondo taleorientamento, non è importante stabilire se vi è unadistinzione tra la forma del contratto sociale e quellarichiesta per il conferimento. Inoltre, per quantoriguarda gli effetti della declaratoria di nullità, questi nonsono diversi da quelli che si avrebbero in sede discioglimento della società.

tutte le componenti relative, anche quelle di

avviamento31.

31 Cfr. Trib. Termini Imerese, 21-05-2002, in cui silegge <<E’ nullo ai sensi degli art. 2252 e 1350 n. 9 c.c. ilcontratto verbale con costitutivo di una società ove visia stato il conferimento in godimento di beni immobiliessenziali al raggiungimento dello scopo sociale. Pereffetto della nu llità i rapporti tra i soci sono disciplinat idall’art. 2033 c.c., qualora la società non abbia iniziato adoperare. Quando, invece, la società abbia concretamenteoperato, si deve procedere alla liquidazione dei beni,secondo quanto previsto dagli art. 2280 e 2282 c.c.,procedendosi in via preliminare al pagamento deicreditori sociali>>.

Si veda anche Cass. 02-04-1999, n. 3166,riguardante la vicenda già esaminata dalla stessa Cortecon sentenza 565/95. In seguito a quest’ultimapronuncia, il giudice del rinvio provvedeva allaliquidazione del socio recedente sulla base del valorecomplessivo attribuito all’impresa che era stato ottenutosommando: il capitale iniziale della società , l’ impianto el’ampliamento del camping con stabili manufatti, unacospicua sovvenzione regionale, i mobili, le att rezzaturee le merci nonché l’avviamento commerciale. Controtale sentenza propone ricorso per cassazione l’altrosocio, il quale lamenta che il giudice di secondo grado èandato oltre l’ambito del giudizio di rinvio che eralimitato alle due component i dell’attività lavorativa edell’utile patrimonializzato. Secondo la S.C. la censura èinfondata. <<Con la sentenza 565/95 questa Corte haritenuto fondato il terzo motivo di ricorso, con il quale ilsig. B. aveva lamentato che la Corte d’appello si fosselimitata alla quantificazione contabile dei conferiment ieffettuati e degli utili conseguit i, mentre il valore deiconferiment i doveva considerarsi coincidente con ilvalore stesso dell’azienda, costruita ed ampliata tramitegli apporti dei soci. Accogliendo tale motivo, questaCorte ha affermato in particolare, nel quadro della pienaequiparazione, quoad effectum, della declaratoria di nullitàdella società allo scioglimento, che il plusvalore acquisitodai beni organizzati in azienda, grazie all’attività comune,era da qualificarsi, per intero, effetto del complessivoconferimento dei soci: conseguentemente, ha cassato lapronuncia della Corte d’appello, che aveva ristrettol’indagine ai soli conferimenti in denaro, escludendo larilevanza di ogni alt ro apporto, ed aveva negato la provadi utili, senza tenere alcun conto del plusvalore che ibeni organizzati in azienda avevano acquisito>>.

È necessario segnalare l’esistenza di alcune

pronunce minoritarie che, a differenza delle

decisioni finora esaminate, adottano

l’interpretazione che distingue tra contratto

sociale e negozio di conferimento, prevedendo

esclusivamente per quest’ultimo la necessità

della forma scritta32.

32 Cfr. Trib. Padova, ordinanza 17-08-2000.L’attore conviene in giudizio la propria socia perottenere l’accertamento dell’esistenza di una società d ifatto tra gli stessi, nonché il trasferimento a favore dellasocietà di due immobili intestati alla convenuta, ed in viacautelare ottiene il sequestro conservativo dell’aziendadella convenuta. Quest’ultima ricorre contro ilprovvedimento di sequestro ed il t ribunale accoglie talereclamo. La convenuta, infatti, eccepisce anzituttol’inesistenza di una società d i fatto, che sarebbecomunque nulla poiché manca un atto scritto avente adoggetto la costituzione della società e il conferimento deidue beni immobili di cui si discute, in violazione dell’art .1350, n. 9, c.c. Secondo il tribunale <<è opportunoosservare che, ritenendo applicabile alla società di fattola norma di cui all’art. 2251 c.c., la necessità del requisitodella forma scritta investe non già il contratto sociale,bensì il singolo atto di conferimento di un bene nellasocietà. Deve quindi ritenersi valido un conferimentoimmobiliare fatto per iscritto ad una società semplicecostituita verbalmente, salvi gli eventuali problemiconnessi all’esigenza di procedere alla trascrizionedell’atto di acquisto dell’immobile, in difetto di uncontratto di società concluso per iscritto o di unasentenza che abbia accertato la costituzione della societàmedesima>>. In secondo luogo, il giudice ritiene che<<la prova dell’esistenza di una società di fatto tra il sig.C. e la sig.ra S. non può certamente essere desunta dallaritenuta qualità di mandatario del C., giacché l’esistenzadi un contratto di mandato avente ad oggetto la gestionedella società è incompatibile con un vincolo qualificabilecome affectio societatis>>.

Secondo tale decisione, quindi, in difetto di formascritta è nullo solo il negozio di conferimento (ex art .1418 c.c.), mentre l’accordo societario resta vincolante.

Cfr. anche a Cass. 29-04-1982, n. 2688.

Quanto alle modifiche del contratto sociale

(ex art. 2252 c.c.) non è richiesta alcuna forma

specifica né ad substantiam e né ad probationem33,

ciò vale anche in presenza di un patrimonio

societario immobiliare34.

In base all’analisi svolta, ne consegue,

come prima e immediata osservazione, che a

prescindere dalla posizione che si voglia

assumere (ossia, il difetto di forma comporta la

nullità dell’intero contratto sociale, ovvero

comporta la nullità del singolo conferimento

che solo se essenziale travolgerà l’intero

contratto sociale), il risultato è il medesimo.

33 Cfr. Cass. 10-05-1984, n. 2860, in cui si legge cheil consenso di tutti i soci, necessario per la modifica delcontratto sociale nella società di persone, non è soggettoa forme vincolate e può desumersi anche da atti ocomportamenti che dimostrino inequivocabilmentel’unanime volontà dei soci. Nella fattispecie, si trattavadella modifica di una clausola regolante l’ipotesi d imorte di un socio, nel senso di consentire la prosecuzionedella società con tutti gli eredi, anziché con uno solo di essi.

34 Cfr. Cass. 28-02-1998, n. 2252. Non è moltochiaro il caso ma la Corte enuncia il principio di dirittosecondo cui <<con riguardo alle società di persone conpatrimonio immobiliare – mentre è necessaria, ai sensidell’art. 1350 c.c., la forma scritta per i conferiment iimmobiliari, traslativi della titolarità di quei beni dalconferente alla società – può prescindersi, invece, dallaprescrizione di una tale forma nel caso di cessione dellaquota sociale (pur comprensiva di beni immobili) per laragione appunto (correttamente addotta dal ricorrente)che il negozio di cessione determina il trasferimento deidiritti e degli obblighi inerenti alla qualità di socio ( diuna posizione complessiva quindi di natura mobiliare) ,ma non già il trasferimento del patrimonio sociale,restando il patrimonio stesso nella titolarità appuntodella società, estranea al contratto di cessione>>.

Inoltre, secondo il testo degli artt. 2251 e

1350, n. 9, c.c. è evidente che la forma è

richiesta per la validità dell’intero contratto

sociale. Pertanto, in applicazione dei generali

principi di nullità parziale e conversione del

contratto nullo (ex artt. 1419 e 1424 c.c.), se il

bene conferito non è essenziale alla società

allora sarà comunque valido il contratto sociale

concluso oralmente. In altri termini,

l’interprete dovrà di volta in volta accertare se

le parti (i soci) avrebbero ugualmente concluso

quel contratto anche senza quel determinato

bene.

A tal riguardo, una difficoltà deriva dall’art.

2253, 2° comma, c.c., in base al quale <<se i

conferimenti non sono determinati, si presume

che i soci siano obbligati a conferire, in parti

uguali tra loro, quanto è necessario per il

conseguimento dell’oggetto sociale>>, ne

consegue che per accertare la reale volontà dei

soci, l’interprete dovrà domandarsi se, secondo

il caso specifico sottopostogli, per il

raggiungimento dello scopo sociale è

necessario che il bene sia conferito in proprietà

piuttosto che in semplice godimento. Se il bene

è dato in proprietà, ne deriva che la forma del

conferimento è forma del contratto sociale,

essendone implicita l’essenzialità.

È possibile notare, infatti, che nei casi in

cui è stata pronunciata la nullità della società

per difetto di forma del conferimento,

quest’ultimo doveva, presumibilmente, essere

dato in proprietà ai fini del perseguimento

dell’oggetto sociale35.

È facile considerare, inoltre, che, nei casi di

conferimento immobiliare in proprietà (perché

essenziale alla società), la scrittura privata con

cui si conferisce deve obbligatoriamente far

riferimento alla società cui si trasferisce

l’immobile, e, non essendo richiesta alle società

di persone alcuna formalità per la stipula del

contratto, la scrittura per il conferimento

coincide con la scrittura per il contratto di

società36.

35 Si veda, ad esempio, Cass. 25-10-2001, n. 13158;Cass. 02-04-1999, n. 3166; Cass. 19-01-1995, n. 565.

36 Cfr. COTTINO, Diritto commerciale, Padova,1994, p. 114, <<si pone il problema preliminare,nascente dall’esigenza di procedere a trascrizionedell’atto di acquisto dell’immobile. Questa non puòinfatti avvenire in capo a una società semplice senza chesia preceduta dalla relazione di un atto notarile d iacquisto, da stipularsi da chi è legittimato a farlo(l’amministratore) in base ad una regolare scrittura disocietà (o di una sentenza che ne abbia accertato lacostituzione). Ciò indica che nella prassi sarebbeinipotizzabile un conferimento immobiliare a unasocietà costituita verbalmente e che tale permanga; espiega proprio come in tema di società di fatto lagiurisprudenza della cassazione sembri sempre riferire ilrequisito della forma scritta anche all’accordo sociale>>.

3) Il rapporto di

amministrazione nelle società

di persone.

3.1) Amministratore

estraneo.

L’art. 2257 c.c. detta, al 1° comma, un

principio generale applicabile a tutte le società di

persone; la norma dispone, infatt i, che <<Salvo diversa

pattuizione, l’amministrazione della società spetta a

ciascuno dei soci disgiuntamente dagli alt ri>>. Secondo

un’interpretazione letterale, ne deriva che nelle società

di persone il potere di amministrare è strettamente

connesso alla qualità di socio illimitatamente

responsabile37. Profonde sono le divergenze dottrinarie

in ordine sia alla natura giuridica del rapporto di

amministrazione, sia alla questione (strettamente

collegata alla prima) sull’ammissibilità dell’attribuzione

del potere di amministrazione a chi non è socio. A tal

riguardo, il dibattito vede in contrapposizione da una

parte la teoria secondo cui l’amministratore nelle società

di persone è parificato ad un mandatario e pertanto può

essere nominato anche un non socio; dall’a ltra parte

l’idea che nel sistema delle società personali vige il

genera le principio dell’inscindibile correlazione tra

37 È, infatti, opportuno precisare che tale principionon vale né per i soci di società semplice che godano delpatto di limitazione della responsabilità (ex art. 2267c.c.), né per i soci accomandanti di s.a.s. (ex art. 2318, 2°comma, c.c.).

potere di d irezione dell’impresa e qualità di socio. La

giurisprudenza, tendenzialmente contraria

all’ammissibilità d i amministratori estranei alla

compagine sociale, affronta la questione sia in via

indiretta (negando la possibilità di nominare un

amministratore giudiziario), sia in via d i principio

(interrogandosi sulla possibilità che l’usufruttuario di

quote possa amministrare la società). Alla base delle

varie discussioni vi è la causa del contratto socia le: la

gestione in comune dell’impresa.

Chi configura l’amministratore di società

di persone alla stessa stregua di un mandatario

o di un institore, ovviamente non ha difficoltà

ad ammettere la possibilità di amministratori

estranei alla società38.

Solitamente, gli argomenti utilizzati da

coloro che sostengono che chi è

amministratore di una società di persone deve

esserne anche socio, poggiano sulle norme

contenute negli artt. 2318, 2° comma39 e 2267

38 Tale tesi trae le proprie ragioni dal testo dell’art .

2260 c.c., che al 1° comma stabilisce <<I diritti e gli

obblighi degli amministratori sono regolati dalle norme

sul mandato>>.

39 Norma che, in materia di s.a.s., stabilisce chel’amministrazione della società può essere affidatasoltanto ai soci accomandatari. A tal riguardo, ilBOLAFFI ritiene che proprio la presenza di una normaeccezionale come quella contenuta nell’art. 2318 c.c.porta alla conclusione che alla carica di amministratorepuò essere chiamato anche un estraneo, <<Nella societàsemplice, mancando una norma eccezionale in tal senso

c.c. Quest’ultimo, in particolare, stabilisce solo

per i soci rappresentanti il divieto di limitare

verso l’esterno la responsabilità personale40.

Ne consegue che, il socio che non ha assunto

la veste di rappresentante può sempre limitare

verso l’esterno la propria responsabilità, pur

rivestendo la carica di amministratore

interno41. Pertanto, se la rappresentanza fosse

attribuita a soggetti estranei alla società si

dovrebbe ammettere la possibilità di costituire,

ad esempio, una società semplice in cui tutti i

soci assumono verso l’esterno una

responsabilità limitata al valore del

conferimento. Tale argomentazione

costituirebbe, insieme alla tesi secondo cui le

posizioni di amministratore e di rappresentante

– che del resto non avrebbe pratica giustificazione – latitolarità degli organi socia li può, a nostro avviso, essereaffidata tanto ai soci quanto a persone estranee allasocietà>>, (BOLAFFI, La società semplice, Milano, 1975,p. 447). In sostanza, secondo l’Autore, nel silenzio dellalegge non sarebbe possibile negare alla società il dirittoche spetta a qualsiasi soggetto di farsi rappresentare dachi gode di sua fiducia.

40 <<I creditori della società possono far valere iloro diritti sul patrimonio socia le. Per le obbligazionisociali rispondono inoltre personalmente e solidalmentei soci che hanno agito in nome e per conto della societàe, salvo patto contrario, gli alt ri soci>>, art. 2267, 1°comma, c.c.

41 Per gli altri soci, infatt i, il contratto socia le puòescludere la responsabilità o anche la sola solidarietà . Atal riguardo, la norma impone solo un obbligo dipubblicità.

ex art. 2257 e 2266 c.c. spettano al socio in

virtù dello stesso contratto sociale e non di un

altro contratto collegato e strutturalmente

distinto, una conclusione a sostegno

dell’inammissibilità di amministratori e

rappresentanti estranei.

A tal riguardo, quella parte della dottrina

favorevole alla figura di un amministratore di

società personale estraneo alla compagine

sociale, ritiene che fondare su questa norma la

tesi dell’inammissibilità di amministratori

estranei trova un limite nell’impossibilità di

trasferire le medesime conclusioni sulla società

in nome collettivo, ove la responsabilità

solidale e illimitata di ciascun socio verso i terzi

è in ogni caso garantita imperativamente dalla

legge (art. 2291, comma 2, c.c.)42. Pertanto,

l’eventuale previsione contrattuale di un

estraneo alla gestione della società non

potrebbe mai pregiudicare gli interessi dei

creditori sociali. Al contrario, quest’ultimi

potrebbero addirittura ricavarne un vantaggio

se si considera che possono sempre e

comunque agire nei confronti dei soci, in

quanto illimitatamente responsabili per le

obbligazioni sociali, e qualora il

comportamento dell’amministratore estraneo

42 TASSINARI, La rappresentanza nelle società dipersone, Milano, 1993, p. 148 e seg.

dovesse configurare un illecito, potrebbero

agire anche nei confronti di questo a titolo di

responsabilità extracontrattuale43.

In conformità a tale impostazione, si nega,

inoltre, che l’inammissibilità di amministratori

interni e rappresentanti estranei alla società

possa argomentarsi sulla base del

riconoscimento agli amministratori di un

potere originario che si fonda direttamente sul

contratto sociale44 giacché all’art. 2259, 2°

43 Lo stesso Autore, per estendere il suoragionamento alla società semplice, è costretto asostenere che in simile ipotesi i soci non potrebberointrodurre pattiziamente delle limitazioni dellaresponsabilità, cadendo in tal modo in una crit icabileinterpretazione della disciplina codicistica.

44 <<Anche ritenendosi che normalmente leposizioni d i amministratore e rappresentante derivinodirettamente dal cont ratto socia le, non vi è alcunadifficoltà nel ritenere che i soci, scegliendo di att ribuiretali incarichi a soggetti estranei, facciano ricorso, stantela necessità di ottenere il consenso di un soggetto chenon è stato parte del contratto sociale stesso, ad unafattispecie negoziale d istinta sotto il profilo strutturale etipologico. La tesi a suo tempo sostenuta in merito allanormale mancanza di autonomia del cont ratto diamministrazione, mirava esclusivamente a suggerire unasemplificazione nella ricostruzione dell’istituto e nonvoleva porsi come punto di partenza per l’elaborazionedi principi inderogabili o per la scoperta d i rigidesimmetrie. Non ci sono quindi difficoltà, quando lerelative esigenze di semplificazione non sussistono, adammettere che, in tali casi, il rapporto che legaamministratori e rappresentanti alla società debba essereinquadrato nell’ambito di diversi schemi funzionali>> ,(TASSINARI, op. cit., p. 152).

Per quanto riguarda, poi, la disposizione contenuta

nell’art . 2318 c.c., secondo la quale nella società in

accomandita semplice l’amministrazione va attribuita

comma, c.c. si prevede la facoltà di nomina

dell’amministratore con atto separato45.

A tal riguardo, interessante è la posizione

di autorevole dottrina secondo cui il potere

gestorio non discende dal contratto sociale

bensì dall’atto di nomina, geneticamente e

funzionalmente collegato al primo46. Al

esclusivamente ai soci accomandatari, l’Autore ritiene

opportuno circoscriverne il significato al mero

riconoscimento di un carattere tipologico appartenente

esclusivamente alle s.a.s. In altri termini, tale società si

fonda sull’esistenza di due categorie di soci e solo ad una

è riconosciuto il potere di gestione; se i soci

accomandatari potessero delegare in blocco a terzi

l’amministrazione della società, verrebbe meno l’aspetto

che più caratterizza la distinzione t ra le suddette

categorie di soci ed inoltre il socio accomandatario

finirebbe ad essere un prestanome con il solo compito di

assumere la veste di soggetto illimitatamente

responsabile.

45 <<quest’ultima espressione se non la si vuoleriferire all’elemento strettamente documentale, puòintendersi con riguardo al momento in cui la nomina èavvenuta oppure alla circostanza che alla nomina stessasi sia proceduto con un atto strutturalmente e tipologicamente autonomo rispetto al contratto sociale>>,(TASSINARI, op. cit., p. 154).

46 SPADA, La tipicità delle società, Padova, 1974.L’Autore, anzi, nel tentativo di ricostruire la nozione diamministratore di società personale, riflette sul fatto che<<la tradizione codicistica franco-italiana conosceva nonuna, bensì due figure di socio amministratore, in virtùdella possibile collocazione della nomina in un pattospeciale del contratto di società o in un atto posteriore(artt. 1856 code civ., 1720, commi I e II, c.c. ’65). Aqueste separate collocazioni (…), corrispondevanoregimi non coincident i della revocabilità e, per il nesso

postulato secondo cui la partecipazione al

rischio è il criterio legislativamente utilizzato a

garanzia di una responsabile gestione

dell’impresa (individuale o sociale)47,

coerentemente, la stessa dottrina risponde che

<<non sarebbe prudente utilizzare il binomio

iniziativa-rischio per conseguire una meccanica

soluzione del nostro problema (conferibilità ad

estranei dell’amministrazione nei tipi

elementari di società), per la trasparente

ragione che tale impiego, per essere legittimo,

presupporrebbe che si formulasse una risposta

positiva circa due opinabili quesiti: se allo

schema societario sia coessenziale (la

programmazione d’) un’attività fornita dei

caratteri dell’impresa e (subordinatamente) se i

soci illimitatamente responsabili siano

che appare attendibile instaurare tra revocabilità edistruibilità , dei poteri d’istruzione successiva vantati daisoci non amministratori. L’art. 1720 c.c. ’65 era esplicitoal riguardo: la facoltà di amministrazione non è espostaall’opposizione degli altri soci, non può esser revocatadurante la società senza una causa legittima;espressamente, invece, questa facoltà, se att ribuita conatto separato, è detta revocabile come un semplicemandato e – l’argomento a contrario è semplicissimo –soggetta all’opposizione dei soci non amministratori>>,(SPADA, op. cit., p. 357 e seg.).

47 In base a tale principio, la d irezione dell’impresaè necessariamente riservata all’ imprenditore, ciò significache, nelle società personali, i soci ill imitatamenteresponsabili sono tutti imprenditori, collettivamente acapo dell’ impresa sociale. Pertanto, i soci possonorinunciare a lla gestione comune dell’ impresa solo afavore di uno o alcuni tra loro stessi.

imprenditori (indiretti). Ma altrettanto

azzardato sarebbe condizionare la soluzione

con rifiuti o del postulato o dei segnalati

passaggi si stematici che ne consentono

l’operatività sul terreno societario>>48.

Secondo tale argomentazione, infatti, non

sembra dubitabile che il rischio possa essere

dissociato dall’iniziativa, e una dimostrazione

in tal senso è riscontrabile nella figura del

mandato in rem propriam49. Basandosi sul testo

letterale dell’art. 1723, 2° comma, c.c.

(<<mandato conferito anche nell’interesse del

mandatario>>), la dottrina in esame fa una

distinzione tra saldo passivo e saldo attivo

dell’azione, in quanto solo così è possibile

conciliare i due principi per cui il mandatario

svolge sempre un’attività per conto del

mandante ma nell’ipotesi in questione trattiene

nel suo patrimonio il risultato della gestione.

<<Il saldo negativo della gestione (in quanto

concretamente ricorra) sarà conteggiabile al

48 SPADA, op. cit., p. 349.

49 Ai sensi dell’art . 1723, 2° comma, c.c. ilmandatario si impegna a compiere atti che hanno effettinel proprio patrimonio e non in quello del mandante: adesempio, il mandatario viene incaricato di incassare ilprezzo di una vendita al fine di estinguere un credito cheegli stesso ha verso il mandante. Tale forma di mandato,inoltre, implica una procura irrevocabile se non pergiusta causa; a tal riguardo cfr. Cass. 01-02-1983, n. 857;Cass. 11-02-1998, n. 1388.

mandante, benché il saldo positivo debba,

secondo taluni degli interpreti della disputa su

questa figura, esser trattenuto dal mandatario

(o destinato al terzo). Il mandante, allora, pur non

avendo poteri di governo sull’azione del mandatario

successivi al conferimento dell’incarico (irrevocabilità

e implicata non istruibilità), sarà illimitatamente

esposto al rischio (: saldo passivo) connesso ad

un’azione altrui>>50.

Secondo altra corrente dottrinaria, si ritiene

ammissibile la figura di un amministratore

estraneo solo nelle società in nome collettivo,

in virtù del fatto che solo in tale tipologia

societaria (come è stato già anticipatamente

precisato) tutti i soci sono sempre e comunque

illimitatamente responsabili per le obbligazioni

sociali (ex art. 2291 c.c.), a prescindere dal

potere di amministrazione. In altri termini, un

amministratore estraneo non potrebbe mai

essere uno strumento volto ad eludere il

principio della responsabilità illimitata dei soci

versoi creditori sociali51.

In senso contrario, a sostegno

dell’inammissibilità di un amministratore

estraneo alla compagine sociale, le

50 SPADA, op. cit., p. 356.

51 CAMPOBASSO, Diritto commerciale, vol. 2,Torino, 2003, p. 108 e seg.

argomentazioni ricorrenti poggiano da un lato,

sull’esigenza di evitare che la nomina di un

amministratore terzo possa costituire un facile

espediente per eludere il principio della

responsabilità illimitata e solidale dei soci verso

i creditori sociali; dall’altro, sul generale

principio (vigente in materia di società

personali) dell’inscindibile correlazione tra

potere di direzione dell’impresa e qualità di

socio52.

Tali osservazioni inducono buona parte

della dottrina ad affermare che i poteri

dell’amministratore di una società di persone

non sono quelli di un institore ma, al contrario,

sono quelli che normalmente spettano

all’imprenditore sulla propria impresa.

Pertanto, se è vero che ai sensi dell’art. 2260,

1° comma, c.c. <<i diritti e gli obblighi degli

52 Su quest’ultimo aspetto, in particolare, ènecessario citare GALGANO, secondo il quale la veranozione di socio amministratore è quella che loidentifica nel <<capo dell’ impresa sociale>>, ciò vale adire che amministratore non è semplicemente coluiincaricato a gestire ed eseguire le operazioni socia li ma ècolui che si trova in una posizione di supremaziadell’impresa (GALGANO, Le società in genere. Le società dipersone, Milano, 2007, p. 219 e seg.). <<Questa diversaconcezione di amministrare del socio si t rova congiuntacon la considerazione di questo quale imprenditore: a isoci amministratori si riconosce la condizione diimprenditori capi dell’ impresa sociale. Alla responsabilitàillimitata dei soci viene attribu ito il medesimofondamento della responsabilità illimitatadell’imprenditore individuale>> , (GALGANO, op. cit.,p. 223 e seg.).

amministratori sono regolati dalle norme sul

mandato>>, è altrettanto vero che le medesime

sono applicabili nei limiti della loro

compatibilità con la disciplina tipica di tali

società. Secondo tale pensiero, quindi, può

ritenersi applicabile l’art. 1717 c.c. (in base al

quale il mandatario non può farsi sostituire

nell’esecuzione del mandato in assenza di

specifica autorizzazione del mandante); così

come l’art. 1710 c.c. (in tema di diligenza del

mandatario). Non sarà, invece, applicabile in

nessun caso l’art. 1711 c.c. (in cui si dispone

che il mandatario, nell’esecuzione del mandato,

deve sempre attenersi alle istruzioni ricevute

dal mandante), in quanto in evidente contrasto

con la disposizione contenuta all’art. 2257, 2°

comma, c.c.53. Tutto ciò, porta all’inevitabile

conclusione che il potere di amministrazione è

un potere originario (derivante dal contratto

sociale) e non un potere derivato (al pari di un

mandatario o di un institore).

La risposta negativa al quesito

sull’ammissibilità o meno di un amministratore

estraneo, la si ricava, sempre secondo la

medesima dottrina, anche dalla disciplina

dell’accomandita semplice che, come è già

53 Secondo tale disposizione, infatti, il socioamministratore può compiere ogni tipo di operazionesociale e gli altri soci (non amministratori) non hanno lapossibilità di interferire.

stato osservato, esclude i soci accomandatari

dall’amministrazione della società. In altri

termini, la disciplina della s.a.s. è la

testimonianza che la responsabilità illimitata

dei soci è il solo espediente possibile a garanzia

di una responsabile direzione dell’impresa54.

54 A tal riguardo, vi è chi è portato comunque ad

ammettere un amministratore terzo alla società ,

prevedendo una responsabilità personale nei suoi

confronti. Ciò equivale a sostenere che l’inscindibilità tra

potere amministrativo e responsabilità illimitata , lungi

dall’escludere la figura dell’amministratore non socio,

porta a concludere per una responsabilità personale

dello stesso con conseguente diritto di regresso per

intero nei confront i dei soci (BOLAFFI, La società

semplice, Milano, 1975, p. 389). A tale opinione,

GALGANO risponde osservando che <<se la

soggezione alle perdite trova causa nella partecipazione

agli utili, è mai concepibile che estranei, i quali non

partecipano agli utili sociali, debbano sopportare le

perdite della società? (…) è, a questo punto, evidente

che la partecipazione agli utili dell’amministratore

estraneo cessa di essere un compenso in senso tecnico

se ad essa deve necessariamente conseguire la

soggezione alle perdite della società. Ed è chiaro altresì

che l’amministratore, al quale sia dato di partecipare agli

utili sociali ed imposto di sopportare le perdite della

società, cessa di essere un estraneo per assumere i

connotati propri della figura del socio>>, (GALGANO,

op. cit., p. 244). Della stessa opinione è il GHIDINI, il

quale basa il proprio ragionamento oltre che sull’art .

2318, 2° comma, c.c. (<<L’amministrazione della società

può essere conferita soltanto ai soci accomandatari>>) ,

su una comparazione tra le società di persone e di

capitali. L’ Autore afferma in primo luogo che nelle

società di capita li vi è la fisiologica dissociazione t ra

proprietà e direzione dell’impresa <<assunta da una

categoria sociale (gli amministratori, i managers)

specializzata, indipendente e diversa da quella dei

proprietari>>; in secondo luogo, osserva come nelle

società di capitali sia previsto un complesso sistema di

controlli interni ed esterni d i per sé idonei a garantire

una corretta e prudente amministrazione; mentre una

simile organizzazione non è prevista per le società

personali in quanto il potere amministrativo è esercitato

da chi è soggetto alle conseguenze dell’amministrazione

stessa, (GHIDINI, Società personali, Padova, 1972, p. 419

e seg.).

Simile è l’argomentazione sostenuta daCAGNASSO, il quale svolge la propria indagine conparticolare riferimento alla società semplice. Inparticolare, l’Autore si muove in una critica neiconfronti della tesi esposta dal TASSINARI.Quest’ultimo, come già osservato, in risposta a quantisostengono che, in base all’art. 2267 c.c., sel’amministrazione e la rappresentanza fosse affidata adun terzo che, in quanto ta le, non potrebbe mai esserechiamato a rispondere illimitatamente per le obbligazionisociali, si avrebbe una società in cui tutti i soci sonolimitatamente responsabili, sostiene che nel caso diamministratore estraneo i soci perdono il potere dilimitare la loro responsabilità (TASSINARI, op. cit., p. 145e seg.). Il CAGNASSO, prende le mosse del suodiscorso da un paragone t ra società semplice eaccomandita semplice, <<la presenza di due categorie d isoci (gli uni con responsabilità ill imitata, gli altri conresponsabilità limitata) ha indotto il legislatore,nell’ambito dell’accomandita semplice, a stabilireesplicitamente che il potere di amministrazione possaessere attribuito solo ai soci accomandatari. Analogodiscorso mi pare estensibile alla società semplice, ove ilcontratto sociale può prevedere la presenza di duecategorie di soci, con differente responsabilità e ove èstabilito che solo i soci a cui è attribuito il potere diamministrazione (di rappresentanza) debbano essereillimitatamente responsabili>>, (CAGNASSO, La societàsemplice, in Tra. Dir. civ. Sacco, Torino, 1998, p. 152).

Le discussioni appena sopra riportate

potrebbero ben applicarsi anche all’ipotesi di

amministratore persona giuridica55.

La questione muove dalla disposizione

legislativa contenuta all’art. 2361, 2°comma,

c.c. che, a seguito della riforma delle società di

capitali, consente alle s.p.a. l’assunzione di

partecipazioni in s.n.c., in s.a.s. (sia come

accomandatari che come accomandanti) ed in

società semplice.

Pertanto, ammessa senza dubbio la

possibilità che una società di capitali partecipi

in una società di persone, è inevitabile

domandarsi se questa possa rivestire la carica

di amministratore della società partecipata.

Nel silenzio del legislatore, l’orientamento

favorevole si basa principalmente sull’art. 111

duodecies delle disp. att. c.c. (<<Qualora tutti i

loro soci illimitatamente responsabili, di cui

all’art. 2361, comma secondo, del codice, siano

società per azioni, in accomandita per azioni o

società a responsabilità limitata, le società in

nome collettivo o in accomandita semplice

devono redigere il bilancio secondo le norme

previste per le società per azioni; devono

inoltre redigere e pubblicare il bilancio

55 Non sono stati rinvenuti casi giurisprudenzia li inmateria.

consolidato come disciplinato dall’art. 26 del

decreto legislativo 9 aprile 1991, n. 127, ed in

presenza dei presupposti ivi previsti>>), dal cui

teso sembra emergere la possibilità che società

di capitali siano amministratori di società di

persone.

Parte della dottrina ritiene che la carica di

amministratore va riconosciuta esclusivamente

in capo a persone fisiche, ed inoltre,

nell’ipotesi in esame, si configurerebbe

l’assurda situazione di una società (di persone)

amministrata dagli amministratori della società

socia, <<ossia da soggetti scelti da terzi,

sostituibili ad opera di terzi e revocabili da

costoro>>56.

A questa tesi, alcuni rispondono che nel

caso di una società di capitali cui venga

attribuita la qualità di amministratore di una

società di persone si applicherebbe l’art. 2542,

2° comma, c.c. (norma dettata in tema di

società cooperative, in cui si prevede che <<la

maggioranza degli amministratori è scelta tra i

soci cooperatori ovvero tra le persone indicate

dai soci cooperatori persone giuridiche>>),

pertanto, ad amministrare la società di persone

56 GLIOZZI, Società di capitali amministratore di societàper azioni?, in Riv. soc., 1968, p. 93 e seg.

saranno persone fisiche indicate dalle società di

capitali socie57.

In conclusione, le argomentazioni possono

essere molte, sia in senso negativo che

positivo, ciò che è pacifico affermare è che pur

ritenendo possibile l’assunzione della carica di

amministratore da parte di una persona

giuridica58, sono notevoli le complicazioni

derivanti. Si avrebbe, infatti, una

compenetrazione di due categorie sociali

profondamente diverse e con diverse

discipline. Ci si potrebbe domandare, ad

esempio, se una stessa persona fisica può

essere amministratore di entrambe le società

(partecipata e partecipante). Il problema è che,

non avendo il legislatore disposto nulla al

riguardo, si dovrebbe anzitutto tentare di

individuare le regole per la designazione della

persona fisica che concretamente amministrerà

la società (di persone). Quindi, la domanda è: si

dovrà far riferimento alla disciplina della

società di persone, ovvero a quella delle società

57 GALGANO, Diritto civile e commerciale, vol. III, t.2, 2004, p. 559.

58 In effetti, concordando con chi ritiene che ilpotere di amministrazione competa esclusivamente aisoci (in quanto imprenditori), sembra assurdoammettere che una società di capitali possa esser socia diuna società d i persone ma non possa, al pari degli altri,rivestirne la qualifica di amministratore.

di capitali, o sarebbe opportuno far riferimento

al sistema legislativo in generale?

Venendo ora alla giurisprudenza in materia

di ammissibilità di amministratori estranei, non

si sono ri scontrate pronunce interessanti,

anche se sembra prevalente l’orientamento

contrario59.

59 Cfr. Trib. Foggia, 29-02-2000 (ordinanza); in cu isi affronta la questione se l’ incarico di amministratore diuna s.n.c. possa essere conferito ad un soggetto estraneoalla compagine sociale, pur rivestendo la qualifica d iaccomandatario di una s.a.s. che di tale compagine faparte. In breve, il fatto consiste in un ricorso promossodal notaio rogante l’atto costitutivo della<<s.a.s.&s.n.c.>>, cont ro il provvedimento di rifiuto diiscrizione adottato dall’Ufficio del Registro delleImprese. Il giudice del registro rileva che l’iscrizione èstata rifiutata in quanto l’amministrazione risultavaaffidata ad un soggetto estraneo alla società,considerando come irrilevante la circostanza che questorivestisse la qualifica d i socio (unico) accomandatariodella s.a.s., a sua volta socia della s.n.c. Il giudice, dopoaver brevemente esaminato le varie teorie present i indottrina in materia di ammissibilità d i un amministratorenon socio, rigetta il ricorso alla luce di due osservazioni.Da un lato, egli afferma che <<secondo la tesi, che qui sicondivide, la struttura personalizzata caratterizza lapartecipazione sociale nelle società personali, nelle qualil’intuitus personae assume una rilevanza preponderante inrelazione alla singola partecipazione sociale e permea lastessa organizzazione ed il funzionamento del tiposocietario, all’ interno del quale la posizione di socio equella di amministratore presentano una natura leconnessione>>. Dall’altro, considerato che nel casospecifico il grado di estraneità rispetto alla compaginesociale del terzo chiamato ad amministrare risultanotevolmente attenuato, il giudice motiva il propriorigetto sulla considerazione che <<a norma dell’art. 2318c.c. gli accomandatari della s.a.s., come i soci della s.n.c.,godono del benficium excussionis ex art. 2304 c.c.: icreditori della società della quale si chiede l’iscrizione,pertanto, prima di poter agire nei confrontidell’amministratore estraneo, sarebbero tenuti non soload escutere il patrimonio della s.n.c., ma anche quellodella s.a.s.>>.

La questione viene in rilievo, seppure

indirettamente, nei casi in cui si nega la

possibilità di nominare un amministratore

giudiziario. La soluzione negativa è solitamente

giustificata sulla considerazione che, in caso

contrario, sarebbe imposto alla collettività dei

soci un amministratore estraneo non scelto da

loro, alla cui gestione sarebbero illimitatamente

responsabili60.

In realtà, non sembra che l’ulteriore beneficio diescussione di cui potrebbe godere l’amministratoreestraneo possa essere l’argomento determinante per ladecisione. Il vero rischio potrebbe, infatt i, essere dettatodall’eventualità che il socio in questione potrebbedegradare a semplice accomandante, se non addiritturauscire dalla s.a.s. In quest’ultimo caso, d iverrebbe a tuttigli effetti un estraneo per la società da lui amministrata,pertanto, perderebbe la responsabilità illimitata per leobbligazioni sociali della s.n.c. Avrebbe allora più sensomotivare la decisione sulla base di argomentazionicontrarie alla figura di amministratore estraneo nellesocietà personali, in virtù della inscindibilità traresponsabilità ill imitata e gestione dell’impresa.

Cfr. anche a Trib. Cagliari, 11-11-2005, di cui èpossibile riportare solo la massima <<La nomina, daparte dei soci di una società in nome collettivo, d i unamministratore terzo, investendo profili attinentiall’economia genera le, lato sensu riconducibili all’ordinepubblico economico, lungi dal configurare un legittimoesercizio di autonomia privata, si risolve in una modificaessenziale degli elementi caratterizzanti il presceltoschema societario, non consentita e, come tale, nonmeritevole di alcuna tutela>>.

60 Cfr. Trib. Milano, 14-02-2004; in cui si affermal’inammissibilità della nomina di un amministratoregiudiziario nell’ambito delle società di persone. Nel casoconcreto, una socia d i società semplice chiede: 1)l’accertamento della giusta causa di revoca ex art. 2259c.c. dei poteri gestori di straordinaria amministrazionespettanti, secondo i patti sociali, all’a ltro socio, nonchéconiuge separato; 2) l’attribuzione di tali poteri in formacongiunta, ovvero la nomina di un amministratore

Le decisioni più interessanti, a dire il vero,

sono quelle che affrontano il problema di cui si

discute in connessione alla particolare

questione se l’usufruttuario di quota sociale

possa acquistare la qualità di socio; la

giurisprudenza appare divisa61.

giudiziario. Il giudice, avendo accertato l’effettivasussistenza della giusta causa di revoca dei poteri d istraordinaria amministrazione (che nella fattispecie sonoindividuate <<nel complessivo mutamento dei rapportipersonali tra i due soci già coniugi e nella conseguenteconflittualità tra gli stessi insorta (…) che impedisce divalutare oggi l’esercizio dei poteri d i gestionestraordinaria da parte del convenuto di per sé idoneo adassicurare gli interessi di entrambi i soci e della stessasocietà>>), revoca i suddetti poteri ma non accoglie laseconda domanda attorea, in quanto la nomina di unamministratore giudiziario si risolverebbe in una<<disposizione integrativa e sostitutiva della originariaconvenzione sociale non ammissibile secondo ladisciplina della società semplice nel vigenteordinamento>>.

In realtà, l’ipotesi in esame non sembraparagonabile alla più ampia questione della nomina di unamministratore non socio. Riflettendo su quale potrebbeessere l’interesse che la d isposizione contenuta all’art.2259 c.c. vuole persegu ire, una risposta potrebbe esserela conservazione della società, ossia permetterle diproseguire con la propria attività. Facendo un paragonecon la disciplina delle società d i capita li, infatti, ex art.2409, 4° comma, c.c. il tribunale può nominare unamministratore giudiziario determinandone i poteri e ladurata in carica , alt rettanta tutela dovrebbe esserericonosciuta per le società di persone.

61 A favore della tesi per cui l’usufruttuario di quotedi una società di persone non assume la qualità di socioe non può quindi essere amministratore della società,cfr. Trib. Biella, 23-10-1999 (decreto). Il conservatoredel Registro delle Imprese rifiuta l’iscrizione dell’attoportante modifica dei patti sociali di una societàsemplice. Per effetto delle suddette modifiche uno deisoci cedeva le proprie quote rimanendone usufruttuarioe amministratore della società . Pertanto, il conservatorerifiuta l’ iscrizione in virtù del fatto che, a seguito dellacessione, era venuta meno la qualifica di socio ( riservata

al nudo proprietario). Contro tale provvedimentopromuove ricorso il notaio rogante l’atto. Il giudicerigetta il ricorso sulla base del seguente ragionamento<<l’usufrutto di quote sociali determinerebbe unacomunione di godimento sulle quote medesime tra ilnudo proprietario e l’usufruttuario, che comporterebbela responsabilità personale e illimitata per le obbligazionisociali di entrambi i soggetti nonché la necessità diriconoscere anche in capo all’usufruttuario un potere digestione che va al di là del mero godimento della cosa dicui all’art . 981 c.c. (…) Attribuire all’amministratoreestraneo – in virtù del meccanismo dell’usufrutto diquote sociali – la responsabilità personale e illimitata perle obbligazioni sociali consente di superare i motivitradizionalmente addotti a sostegno del divieto dinomina nelle società semplici e nelle società in nomecollettivo>>. Pertanto, il giudice conclude rifiutando ilriconoscimento della qualità di socio all’usufruttuario diquote sociali <<sembrano ostare a detto riconoscimento- quantomeno in questa sede – anche motivi di ordineformale attinenti a l sistema di pubblicità legale realizzatomediante il registro delle imprese (…), che appaionorendere inopportuna ed inammissibile l’ iscrizione comesocio di soggetto che risulta avere ceduto l’intera propriaquota di partecipazione alla società in oggetto, fermarestando la nomina dello stesso ad amministratore>>.

Nello stesso senso anche Trib. Bologna, 24-04-2001(decreto). Pronunciandosi su un fatto identico a quelloprima esaminato, il giudice afferma come nelle società dipersone non possa essere attribuito all’usufruttuario diquota sociale il potere di amministrare e rappresentare lasocietà, in considerazione del fatto che questo non puòessere assimilato totalmente a un socio essendogli, adesempio, precluso il potere di modificare il contrattosociale. La pronuncia procede, poi, con una critica allatesi che ammette il conferimento di poteri d iamministrazione all’usufruttuario, <<la tesi positiva deveporsi il problema della responsabilità connessa ai poteridi amministrazione, e lo risolve ritenendol’usufruttuario, a l pari del socio, ill imitatamenteresponsabile e, per le società commercia li, fa llibile. Mal’argomento utilizzato – e cioè il fatto che l’usufruttuarioconcorre, con altri soci, all’esercizio dell’impresa – secostituisce la ratio della responsabilità illimitata , ancoranon ne è il fondamento normativo; il quale invece èdifficilmente rinvenibile nella legge>>. Neppure,secondo l’argomentazione qui sostenuta, è possibile farriferimento all’art. 2561 c.c. (che disciplina l’usufrutto diazienda), giacché in simile ipotesi l’usufruttuariorisponde di debit i propri, anche se riguardant i la cosapresa in usufrutto, mentre, nel caso di usufrutto di quotesociali, egli dovrebbe rispondere dei debiti della società.

In conclusione, dall’analisi casistica svolta e

dalle correnti dottrinarie esaminate, è possibile

affermare che, in mancanza di un espresso

dato normativo, è necessario esaminare la

disciplina tipica di tali società nel suo

complesso. In altri termini, l’interprete dovrà

verificare se siano applicabili all’estraneo quelle

specifiche norme che identificano

In senso contrario alle precedent i pronunce, cfr.Trib. Parma 19-01-1998, che si esprime in sensofavorevole a l riconoscimento all’usufruttuario dei poteridi amministrazione della società di persone, proprio invirtù dell’applicabilità dell’art. 2561 c.c. in materia d iusufrutto di azienda. Nella fattispecie, il Tribunale haaccolto il ricorso proposto ex art. 2192 c.c. contro undecreto del giudice del Registro delle Imprese, che avevarifiutato l’iscrizione di un atto costitutivo di società innome collettivo in cui s’includevano tra gliamministratori anche due usufruttuari di quote sociali.Secondo il giudice del registro, poiché l’usufruttuarionon è socio, non può essere nemmeno amministratore,in quanto altrimenti sarebbe in contrasto con il principiodella responsabilità illimitata dei soci che agiscono innome e per conto della società ex art. 2267 c.c. IlTribunale, al cont rario, non pronunciandosi in viagenera le sulla qualifica d i amministratore in capo a unnon socio, ha ammesso nel caso specificol’amministrazione dell’usufruttuario di quote, ritenendodi dover applicare analogicamente l’art. 2561 c.c. in temadi usufrutto di azienda. Secondo tale disposizione,infatti, la gestione dell’azienda spetta a ll’usufruttuario,che la deve gestire senza modificarne la destinazione e inmodo da conservare l’efficienza dell’organizzazione edegli impianti; all’usufruttuario di azienda è quindiespressamente riconosciuto il potere di gestir econseguentemente di amministrare l’azienda. Tutto ciò,in applicazione analogica dell’art. 2561 c.c., non puòdeterminare altro che il riconoscimento ancheall’usufruttuario della quota sociale il dirittoall’amministrazione e gestione (parziaria) dell’aziendasociale. Il provvedimento, pertanto, afferma l’iscrivibilitàal Registro delle Imprese della società in nome collettivocon usufruttuari amministratori, prevedendo inoltre,sempre per analogia con l’usufrutto di azienda, laresponsabilità patrimoniale illimitata per le obbligazionisociali sorte durante l’amministrazione.

l’amministratore di società personale in senso

tecnico.

In particolare, l’interprete dovrà

domandarsi se, ad esempio, una norma come

quella all’art. 2267 c.c. possa applicarsi a un

soggetto non socio. Se la risposta è

affermativa, allora deve ammettersi che un

amministratore estraneo sia illimitatamente

responsabile. La difficoltà sorge dal fatto che

per principio consolidato la soggezione alle

perdite ha come giusto contrappeso la

partecipazione agli utili, si dovrebbe allora

affermare che anche l’amministratore estraneo

ha come compenso una partecipazione agli

utili. Ne consegue che, se è soggetto alle

perdite della società e ha come compenso una

partecipazione agli utili inevitabilmente assume

la qualifica di socio.

Quanto affermato porta alla conclusione

che i soci non possono impegnare un terzo ad

amministrare la società se non tramite la

stipulazione di un contratto diverso da quello

sociale. In tal modo, l’atto di amministrazione

dei soci è costituito dalla decisione di conferire

l’incarico al terzo, che svolgerà la propria opera

professionale sempre alle dipendenze dei soci e

in esecuzione di un contratto distinto da quello

plurilaterale di società. Il terzo sarebbe,

pertanto, non un amministratore in senso

tecnico bensì un mandatario chiamato a

svolgere una diversa prestazione professionale

per conto dei soci.

3.2) Diritto di opposizione –

formazione della volontà sociale.

Ai sensi dell’art. 2257, 2° comma, c.c.

ciascun socio amministratore ha il diritto di opporsi

all’operazione che alt ro socio voglia compiere.

Sull’opposizione è chiamata a pronunciarsi l’intera

collettività dei soci (quindi anche non amministratori)

che decide a maggioranza (ex art. 2257, 3°comma, c.c.).

In assenza di una regola generale, sorge la questione su

quale sia la modalità di adozione della decisione

sull’opposizione, questione che si pone in realtà per

qualsiasi manifestazione di volontà62. La dottrina è

profondamente divisa. Secondo un primo

orientamento, per la formazione della volontà sociale la

sola regola generale è il sistema maggioritario - metodo

62 Nel codice, infatti, si prevede, a volte, il consenso

di tutti i soci ex artt. 2252 (per le modificazioni del

contratto sociale) e 2275 (per la nomina e la revoca dei

liquidatori); ovvero il consenso di tutti i soci amministratori ex

art. 2258, 1° comma (per l’amministrazione

congiuntiva); ovvero il consenso della maggioranza dei soci ex

art. 2258, 2° comma (nel caso di amministrazione

congiuntiva, se così è stabilito statutariamente). Alt re

volte, il legislatore prevede che la maggioranza dei soci decide

ex art. 2257, 3° comma (per la decisione sull’opposizione

nel caso di amministrazione disgiuntiva) o che la stessa

delibera ex art. 2287 (per l’esclusione del socio).

collegiale (con tutto ciò che ne consegue); altro

orientamento, a l contrario, sostiene che, nel silenzio

della legge e del contratto sociale, la regola generale è

l’unanimità e che il metodo assembleare non trova mai

applicazione nelle società di persone, nemmeno là dove

il codice espressamente richiede una maggioranza. Ne

consegue che la volontà sociale può liberamente

formarsi anche tra persone lontane, trovando piena

applicazione i principi contrattuali di diritto comune. La

giurisprudenza, invece, ha costantemente affermato che

nelle società personali, non esistendo l’organo

assembleare, la volontà sociale può formarsi in

qualunque modo e senza le regole del metodo

collegiale.

In forte critica a quella giurisprudenza63

affermante che l’assenza dell’organo

assembleare deriva dalla mancanza di

personalità giuridica nelle società di persone,

autorevole dottrina sostiene che il

63 Cfr. Cass. 06-03-1953, n. 536, in cui, poggiandosul tenore lettera le degli artt. 2256 e 2301 c.c. (chefanno divieto al socio di utilizzare le cose socia li o disvolgere attività concorrenziale senza il consenso deglialtri soci, e non della società) si legge <<nelle società d ipersone, le quali non hanno personalità giurid ica masolo un’autonomia pat rimonia le, non esiste l’organosociale “assemblea” come non esiste l’altro organo“consiglio di amministrazione” proprio della società d icapitali. Esiste solo una plura lità di soci, normalmentetutti amministratori, i quali deliberano liberamente,senza l’obbligo della osservanza di formalità . Quando siparla di maggioranza, si intende aver riguardo, non giàad un organo collegiale, al quale debba attribuirsi lavolontà espressa dalla maggioranza dei suoi membri,bensì ad una pluralità di soci ed alla somma delle lorovolontà singolarmente considerate>>.

collegamento tra collegialità e personalità

giuridica non è mai stato dimostrato e non è

dimostrabile64. A sostegno di tale

orientamento vi è la constatazione che

nell’ordinamento è possibile rinvenire

l’esistenza di gruppi che, nonostante siano

sforniti di personalità giuridica, si

caratterizzano per la loro organizzazione

collegiale interna65. Pertanto, una volta

64 VENDITTI, Collegialità e maggioranza nelle società dipersone, Napoli, 1955, p. 38 e seg. Della stessa opinione èil MIRONE, il quale basa la propria argomentazionesull’assunto che il collegamento tra personalità giuridicae metodo collegiale presenta un’evidente contraddizioneinterna, nonché sulla considerazione che i sostenitori d idetta tesi non sempre ricavano la presenza dellacollegialità dal presupposto della personalità giuridica,ma il nesso in questione viene adoperato spesso inmaniera approssimativa e a mero scopo esemplificativodel discorso. <<Infatti, alla teoria della personalitàgiurid ica delle società di persone consegue una definitivaequiparazione del concetto di personalità a quello disoggettività giuridica . (…)Nessun rapporto sussiste,invece, fra la natura di soggetto di diritto – centroautonomo d’imputazione di situazioni soggettive – el’esistenza di determinate modalità concrete diorganizzazione interna del gruppo come quelle collegiali,piuttosto che di altre prive della fase di riunione fravotanti>>, (MIRONE, Il procedimento deliberativo nellesocietà di persone, Torino, 1998, p. 21).

65 Nella comunione, ad esempio, pur essendo entenon personificato, trova applicazione il principiomaggioritario, grazie al quale si realizza quell’organizzazione minima dei rapporti tra comproprietariidonea a rendere meno precaria l’esistenza dell’istituto. Ilregime della comunione, infatti, <<mostra chiaramenteche il subentrare della regola maggioritaria all’originariamancanza di d isciplina implica l’abolizione o, a lmeno, iltemperamento del potere di veto, con la conseguentedisponibilità, ad opera dei più, dell’autonomiaindividuale, non più intangibile, per l’avvenutasostituzione di valutazioni solidaristiche all’originarioatomismo; ma tale risultato, già manifesto come tutela

eliminato il collegamento tra collegialità e

personalità giuridica, è possibile ammettere che

anche nelle società di persone si arriva a una

formazione di volontà tramite la convocazione,

la riunione, la discussione con votazione finale

e l’apposita documentazione. Si considera,

inoltre, che pur ammettendo che la mancanza

di personalità giuridica comporti l’assenza di

un organo assembleare, ciò non significa che la

maggioranza non debba osservare nessun tipo

di onere procedimentale66.

dell’interesse collettivo nella compilazione giustinianea,non importa reductio ad unum dell’elemento soggettivo,non ha il valore di riconoscimento come entità unitariadel gruppo organizzato>>, (VENDITTI, op. cit., p. 41).Secondo l’Autore, infatti, la prevalenza del volere dellamaggioranza non è una prova della personalità giuridicadella comunione, il fatto che ci sia una volontà unitarianon significa che il gruppo possa considerarsi unautonomo soggetto di diritto. <<Può, quindi, ribadirsiche questo principio riguarda esclusivamentel’organizzazione interna del gruppo; e non vale comericonoscimento implicito di personalità, che del resto, puòaversi, secondo l’insegnamento tradizionale, soltantocon la proiezione del soggetto unitario nei confronti deiterzi>>, (VENDITTI, op. cit., p. 45).

66 <<Non è detto, infatti, che la minoranza non

possa essere garant ita anche con meccanismi non

assembleari, come il referendum, che comunque

permettano al singolo di partecipare alle decisioni e di

influenzare l’esito deliberat ivo, pur rimanendo ferma

l’inesistenza di un’organizzazione collegia le del

gruppo>>, (MIRONE, op. cit., p. 23 e seg.). Pertanto, se

da un lato tale dottrina critica l’idea che le decisioni della

maggioranza possano essere assunte senza che siano

Altro argomento a sostegno del principio

maggioritario quale regola generale viene dalla

dottrina individuato nell’art. 2257 c.c., in cui si

prevede che la maggioranza dei soci,

determinata secondo la parte attribuita a

ciascuno negli utili, decide sull’opposizione67.

Secondo tale dottrina, seppure il legislatore

non ha previsto una disciplina espressa

dell’assemblea dei soci nella società semplice, è

indubbio che l’ordinamento ammette la

possibilità di riunioni tra soci a cui riconosce

efficacia giuridica68.

consultati tutti i soci, dall’a ltro ritiene sufficiente che i

voti (di tutti i soci) siano raccolti anche informalmente

utilizzando il cd . metodo del referendum che può essere

un metodo totalmente informale senza un’articolazione

in fasi predefinite, quali la contemporanea informazione

di tutti i soci sulla proposta di deliberazione e la

fissazione di un termine per la risposta. Il profilo

garantista (che vale a distinguerlo dal metodo della

raccolta interna) emerge col d ivieto a carico della

maggioranza di dare esecuzione alla decisione se non vi

è stato un confronto tra tutti i soci.

67 È il pensiero di BOLAFFI, secondo il quale <<Ilprincipio maggioritario vale così ad imprimere allasocietà semplice una struttura unitaria . I poteri spettantiai soci non vengono in considerazione isolatamente, inmaniera che l’esercizio di uno di tali poteri venga adimpedire l’operazione progettata>>, (BOLAFFI, Lasocietà semplice, Milano, 1975, p. 305).

68 A tal riguardo, il BOLAFFI, procede la propriaargomentazione esaminando alcune disposizionicodicistiche, quali, ad esempio, l’art. 2252 c.c. (in base al

In conclusione, tale orientamento (secondo

cui è ammissibile anche nelle società personali

l’applicazione del metodo collegiale, e quindi la

presenza di un’assemblea, per la formazione

della volontà sociale) si basa sull’idea che al

principio maggioritario si lega sempre il

metodo collegiale. Ne consegue la necessità di

una riunione assembleare, previa convocazione

di tutti i soci, discussione delle materie poste

all’ordine del giorno e votazione finale.

In senso opposto, ritiene altra dottrina che,

non esistendo organo assembleare nelle società

di persone, non può in alcun modo trovare

applicazione il metodo collegiale, nemmeno in

quei casi in cui è il codice stesso a prevedere

espressamente una volontà a maggioranza69.

quale il contratto socia le può essere modificato solo colconsenso di tutti i soci) <<è sufficiente rilevare che, invirtù di questa disposizione legislativa, le parti possonovalidamente convenire che il contratto, col quale è statacostituita la società semplice, può essere modificatomediante una semplice deliberazione di maggioranza. Intal modo si annette pratica importanza all’assemblea deisoci, dandosi ad essa positivo riconoscimento>>,(BOLAFFI, op. cit., p. 410). In altri termini, là dove vi èprincipio maggioritario vi è la necessità di un’assemblea,<<il rigore del principio maggioritario – e il sacrificioche esso impone ai fini di un’efficace ed unitariagestione sociale – deve trovare un indispensabilecorrettivo nella possibilità che i soci dissenzient ipossano manifestare la loro opinione>>.

69 Secondo il FERRI, infatti, alla base di ogniragionamento vi è la constatazione che le società d ipersone non hanno personalità giuridica , e pertanto, nonvi potrebbe essere la costituzione dell’organo assemblea(cui è strettamente collegata l’applicazione del metodocollegiale). <<Non esiste (nelle società personali), indifetto della personalità giuridica, quel part icolare

Conseguentemente, nelle ipotesi in cui è

prevista l’unanimità è sufficiente che sia in

qualunque modo raggiunto l’accordo di tutti i

soci, senza alcun onere formale. Quando,

invece, è richiesta una decisione a

maggioranza, questa può ritenersi adottata non

appena siano stati raccolti i consensi necessari;

in altri termini, è sufficiente consultare tanti

soci quanti servono per la costituzione della

maggioranza richiesta. Ciò, evidentemente,

significa che le decisioni possono essere

adottate anche all’insaputa della minoranza.

Pertanto, seppure sia possibile che

determinate operazioni richiedano la volontà

della maggioranza, tale volontà si considera

quale espressione diretta dei soci e non il

risultato di una deliberazione collegiale.

Argomentazione più articolata è quella

secondo cui l’assenza dell’organo assembleare

si giustifica non per la mancata personalità

giuridica, bensì per la disciplina tipica delle

società personali70. A tal riguardo, tale dottrina

organo socia le che è l’assemblea dei soci e quindi nonsussistono particolari requisiti affinché la volontà deisingoli possa valere come volontà sociale>>, (FERRI,Delle società di persone, in Commentario del codice civile, a curadi Scialoja – Branca, Bologna – Roma, 1972, p. 90 eseg.).

70 È l’ opinione del GALGANO, il quale, facendoun parallelo con il regime della comunione in cui, comegià evidenziato precedentemente, è previsto il metodoassembleare (ex art. 1105, 3° comma, c.c.), ritiene che il

sottolinea come alla base della previsione di

un’amministrazione disgiuntiva (ex art. 2257

c.c.) vi sia l’esigenza di rapidità nella

conclusione degli affari; in altre parole, nelle

società di persone vige un sistema in base al

quale persino il singolo socio è in grado di

vincolare la società. Pertanto, seppure il

legislatore richiede che sia la maggioranza a

decidere sull’opposizione proposta da uno dei

soci, ciò non significa che abbia aperto la

strada all’applicazione del metodo collegiale,

ma ha semplicemente ridotto l’ambito di

applicazione del consenso unanime71.

silenzio del legislatore nell’ambito di società personalivada spiegato nell’intenzione di renderne più semplice erapida l’amministrazione. (GALGANO, Le società ingenere. Le società di persone, Milano, 2007, p. 277 e seg.).

71 In base a tale argomentazione, l’utilit àdell’applicazione del metodo collegiale nelle societàpersonali è da escludere in virtù dell’art. 2273 c.c., inbase al quale la società è tacitamente prorogata se,decorso il tempo per cui fu contratta, i soci continuano acompiere le operazioni sociali. <<E’ indubbio che laproroga della società comporti una modificazione delcontratto socia le e richieda pertanto, a norma dell’art .2252 c.c., il consenso di tutti i soci. Ma è altrettantoevidente che l’ammissibilità, legislativamentericonosciuta dall’art. 2273 c.c., di un consenso risultanteda implicite dichiarazioni di volontà postuli la superfluitàdel metodo collegiale>> (GALGANO, op. cit., p. 286.).A dar forza a ta le argomentazione vi è, inoltre, laconstatazione che nel vecchio codice di commercio l’art .96 disponeva <<la mutazione, il recesso o l’esclusionedei soci, i cambiamenti della ragione sociale, della sede odell’oggetto della società, o dei soci che hanno la firmasociale, l’aumento o la reintegrazione del capita le, loscioglimento anteriore al termine stabilito nel contratto,la fusione con altre società e la prorogazione oltre iltermine suddetto, devono risultare, per le società innome collettivo e accomandita semplice da espressadichiarazione o deliberazione dei soci>>. Secondo il

Prevalente in giurisprudenza è, invece, la

tesi secondo cui nelle società di persone non

esiste l’organo assembleare e, pertanto, non è

imposto il metodo collegiale.

A tal riguardo, la questione è stata

affrontata spesso in merito all’ipotesi di

esclusione del socio (art. 2287 c.c. )72. In breve,

pensiero dell’Autore, tale disposizione era ladimostrazione dell’assenza del metodo collegiale nellesocietà personali, in quanto se fosse vero il contrarionon vi sarebbe stato bisogno di ta le previsione testuale,dal momento che il metodo collegia le implicanecessariamente una deliberazione espressa. Laspiegazione a questa norma, era, infatti, individuata nelsuccessivo art. 100 cod. comm., che disponeva <<icambiamenti dell’atto costitutivo e dello statuto,qualunque sia la specie della società, non hanno effetto,sino a che non siano trascritti e pubblicat i secondo ledisposizioni dell’art. 96>>, in altri termini, la necessità diuna forma espressa si legava alla natura costitutiva dellapubblicità. <<Ma la pubblicità delle modificazionidell’atto costitutivo ha, per il vigente codice civile, naturameramente dichiarativa (art. 2300, ult. cpv.): anche senon iscritte nel registro delle imprese, le deliberazionisono oggi vincolant i per i soci e sono altresì efficaci neiconfronti di quei terzi che, pur in difetto della pubblicitàlegale, ne fossero venuti a conoscenza>> (GALGANO,op. cit., p. 288).

72 Cfr. Cass. 10-01-1998, n. 153. La questione, inbreve, riguarda la validità della delibera di esclusioneadottata nei confronti di uno dei quattro soci di unas.n.c., senza che fossero interpellati tutti i soci ma soloquelli necessari per la costituzione della maggioranzarichiesta ex art. 2287 c.c. Fece opposizione contro dettadelibera in primo grado il socio escluso. Il tribunaleaccolse il ricorso sull’assunto che seppure laconvocazione dell’assemblea al fine di deliberarel’esclusione del socio può avvenire anche informalmente(e che quindi le manifestazioni di volontà possonoessere raccolte anche separatamente) , vi è sempre lanecessità che tutti i soci siano interpellat i. Contro ta lesentenza fece appello la società, rilevando chel’interpello del socio non coinvolto nella deliberazionesarebbe stata del tutto inutile, dal momento che la

delibera era stata presa dai soci che possedevano il 50%del capitale e cioè dalla maggioranza. La Corte d’Appelloaccolse il ricorso (ribaltando, quindi, la sentenza emessain primo grado), rilevando che l’art. 2287 c.c. prevedesolo che l’esclusione sia deliberata a maggioranza deisoci, e non anche l’interpello degli alt ri soci. Avverso talesentenza il socio escluso propone ricorso perCassazione, sostenendo che in base all’art. 2287 c.c. ènecessario adottare una delibera, e questa impone perdefinizione l’adozione del metodo collegiale (quindi, laconvocazione di tutti i soci). La Corte ritiene tale motivoinfondato, e afferma che <<nella disciplina legale dellasocietà di persone manca la previsione dell’organo e delmetodo assembleare; (…) per cui, a llorquando si debbaadottare la delibera di esclusione di un socio, non ènecessaria la consultazione di tutti i soci, né lacontestualità della manifestazione di volontà espressaattraverso una delibera unitaria, ma è sufficienteraccogliere le singole volontà idonee a formare lamaggioranza, anche separatamente. (…) anche aritenere, correttamente, che l’esclusione del socio sia attodella società (e no degli a ltri soci) egualmente si deveaver riguardo esclusivamente alla volontà degli altri soci,e cioè alla somma delle loro volontà individuali, e nongià a quella di un organo assembleare>>.

Per le Corti di merito, cfr. Tribunale Milano, 08-03-1999. I due ricorrenti, soci al 40% di una s.a.s.,pretendono che il resistente venga allontanatodefinitivamente dai locali sede della società e dell’aziendain virtù dell’esecutività della delibera di esclusione ex art.2287 c.c. Il resistente, da parte sua, eccepisce l’invalid itàdella decisione assunta dalla maggioranza dei soci,poiché priva dei requ isiti di collegia lità. Tale delibera,infatti, risulta assunta in una riunione informale dei duesoci e all’insaputa sia dell’escludendo che dell’altro sociodi minoranza. Il giudice ritiene l’eccezione infondata,<<nella disciplina legale delle società d i persone mancala previsione dell’organo e del metodo assembleare,cosicché non risulta necessaria per il raggiungimentodella maggioranza voluta dalla legge in materia d iesclusione del socio né la consultazione di tutti i soci néla contestualità della manifestazione delle volontà . Èdunque sufficiente, contrariamente a quanto sostenutodalla difesa del resistente, la separata raccolta delle firmenecessaria a formare una maggioranza>> .

Ancora in tema di esclusione del socio, la pronunciapiù interessante è Cass. 06-03-1953, n. 536; in cui ilsocio escluso dalla società senza aver ricevutoconvocazione, impugna la decisione chiedendo ilrisarcimento danni. La Corte rigetta il ricorso ericonosce la validità della decisione in quanto <<l ’organo

ciò che risulta dall’analisi casistica svolta, è che

le motivazioni che inducono l’orientamento

giurisprudenziale si riducono alla convinzione

(accolta anche da gran parte della dottrina) che

il procedimento assembleare è caratteristico

assemblea non può esistere nelle società personalineanche nei casi in cui il contratto sociale prevede che ilconsenso dei soci sia dato in un’assemblea e che sidebbano seguire determinate modalità di convocazione edeliberazione: in tale ipotesi si ha soltanto la previsionecontrattuale di una determinata forma per lamanifestazione della volontà dei soci, e non la creazionedell’organo assembleare>>. Ma l’aspetto più interessantedi tale motivazione si ha nel momento in cu i la Corteafferma che <<il procedimento di esclusione èconfigurato sul tipo dei procedimenti monitori, nei qualiè invertita l’iniziat iva del contraddittorio, essendorimessa a quella parte che normalmente è la convenuta.Così l’art. 2287 demanda agli alt ri soci di deliberare amaggioranza, di numero e non di quote, la esclusione;dispone che la deliberazione sia comunicata al socioescluso; attribuisce a questo la potestà di proporreopposizione davanti al tribunale nel termine di trentagiorni dalla comunicazione; differisce l’efficacia delladeliberazione fino alla scadenza del detto termine e dàfacoltà al giudice di sospenderne l’esecuzione. Come neiprocedimenti monitori previsti dal codice di rito ilprovvedimento è preso inaudita altera parte e ilcontraddittorio si instaura con la opposizione. Siffattoprocedimento garantisce nel modo più ampio i diritt i delsocio escluso, perché gli consente di far decidere dalgiudice se esisteva o meno una causa di esclusione e difar sospendere l’esecuzione del provvedimento per tuttoil corso del giudizio. Esso perciò rende superflua unapreventiva disputa tra l’escludendo e gli altri soci, chesarebbe inutile e spesso inopportuna. (…) L’esclusionedeve essere comunicata al socio escluso. Se fosseprevista la convocazione di lui all’adunanza la leggeprevedrebbe, almeno come possibile, se non anchecome frequente, la presenza del socio escluso alladeliberazione e quindi limiterebbe l’obbligo dellacomunicazione ai soli casi in cui sia mancata talepresenza. Essa invece impone in ogni caso lacomunicazione statuisce che senza di essa ilprovvedimento non produca mai effetto, d imostrandocosì di presupporre sempre l’assenza del socio>>.

delle persone giuridiche, pertanto, non

possono esservi organi in senso tecnico nelle

società di persone73.

Tale convinzione talvolta è espressa in

forma più attenuata, quando si afferma che

nelle società di persone non è obbligatorio il

metodo assembleare, senza tuttavia escludere

la possibilità per i soci di prevedere

statutariamente l’esistenza di un simile

organo74.

73 Cfr. ancora a Cass. 06-03-1953, n. 536, in cui s ilegge che <<nelle società di persone, le quali non hannopersonalità giuridica ma solo un’autonomia patrimoniale,non esiste l’organo sociale “assemblea” come non esistel’altro organo “consiglio di amministrazione” propriodella società di capitali. Esiste solo una pluralità di soci,normalmente tutti amministratori, i quali deliberanoliberamente, senza l’obbligo della osservanza diformalità. Quando si parla di maggioranza, si intendeaver riguardo, non già a ll’organo collegiale, a l qualedebba attribuirsi la volontà espressa dalla maggioranzadei suoi membri, bensì ad una plura lità di soci ed allasomma delle loro volontà singolarmente considerate>>.

74 In tal senso cfr. Cass. 07-06-2002, n. 8276. in cuila Corte afferma che pur essendo il regime decisionaledelle società semplici caratterizzato dalla sufficienza diuna semplice somma di consensi anche non contestuali,non è tuttavia vietato ricorrere al metodo assembleare.Nella pronuncia si legge infatti che <<la mancatanormativa di un organo assembleare nelle società d ipersone non comporta che ne sia, per ciò solo, vietata lacostituzione, e che sia preclusa ai soci qualora questisiano chiamati ad esprimere il proprio consenso nellematerie di cu i agli artt. (…) la possibilità di riunirsi inassemblea per deliberare, appunto, ai sensi delle normecitate, all’unanimità ovvero a maggioranza. Ne consegueche l’adozione del metodo assembleare per ledeliberazioni sociali da ritenersi del tutto legittimo –comporta che, quanto alla disciplina dellevalidità/invalid ità di tali atti deliberativi, debba farsiapplicazione dei principi genera li sulle patologie degli

In merito, poi, all’altra questione se, nel

silenzio della legge e del contratto, la regola

generale sia quella dell’unanimità o della

decisione a maggioranza, non sono state

rilevate pronunce interessanti75.

atti negozia li plurisoggett ivi (esclusa per converso,l’applicabilità degli artt. 2377 e 2379, dettati conspecifico riferimento alle sole delibere delle società perazioni), di talché, dalla eventuale violazione di normeimperative (quale quella di cui a ll’art. 2252 c.c.,specificativa del principio genera le di immodificabilitàdel contratto senza il consenso di tutti i contraenti)discende senz’altro la nullità della delibera societaria, exart. 1418 c.c.>>. Tale pronuncia sorprende non tanto peril suo contenuto, quanto per il contesto in cu i è statapresa, nella fattispecie il socio accomandante di una s.a.s.impugna una deliberazione con cui l’assemblea avevaautorizzato l’accomandatario ad un’operazionecontrastante con lo statuto sociale. La questione, infatt i,era se dopo il deliberato scioglimento della società sipotesse deliberare, non all’unanimità, la venditadell’unico cespite sociale, come atto di gestione(effettuabile qu indi dal socio accomandatario) inevidente contrasto con l’art. 2275 c.c. (che prevede lanecessità di nominare all’unanimità un liquidatore).

In realtà, il caso non riguardava propriamente laquestione sulla legittimità del metodo assembleare nellesocietà di persone, ma l’assenza del potere per i soci d idecidere su un’operazione che, essendosi sciolta lasocietà, non era di loro competenza. Il principioaffermato è, inolt re, sicuramente corretto anche sepotrebbe ritenersi ovvio; non sarebbe possibile, infatt i,negare ai soci (qualora vogliano) il potere di riunirsi ediscutere su alcune questioni.

75 È possibile citare la sentenza del Trib. Napoli,17-07-1996. (Non è chiaro il fatto) in tale pronuncia silegge che <<è legittima e non contrasta coi principifondamentali in materia societaria la clausola statutariache richiede la maggioranza del novanta per cento delcapitale sociale per l’approvazione delle deliberazioniche non comportino modifiche dei patti socia li>>.Secondo il t ribunale, quindi, una simile clausola noncontrasta con il regime delle società personali (nellafattispecie una s.n.c.) che risulta anzi derogabile (ad es. vi

In conclusione, alla luce dell’analisi

dottrinale e giurisprudenziale svolta sul tema,

risulta condivisibile il principio per cui tali

società, non avendo la personalità giuridica,

non possono costituire un organo assembleare

in senso tecnico (così come si ha nelle società

di capitali). Risulta altrettanto pacifico

riconoscere ai soci la possibilità di introdurre,

con apposita clausola, il metodo assembleare

(senza che ciò comporti la creazione di un vero

e proprio organo collegiale) per tutte o solo

alcune decisioni.

Il profilo che sembra suscitare maggiore

interesse è, invece, quello concernente l’ambito

di applicazione del principio maggioritario o

dell’unanimità nel silenzio della legge e

contratto sociale. A tal riguardo, sembra

preferibile non impostare la questione in

termini astratti e generali, ma sarebbe

opportuno valutare nel caso concreto, secondo

le regole contrattuali, se la previsione statutaria

possa ledere, senza alcuna giustificazione, gli

interessi delle parti.

è l’art. 2257 c.c., che prevede la derogabilità del principiodi amministrazione disgiuntiva).

3.3) L’azione sociale di

responsabilità degli amministratori.

Pur prevedendo all’art. 2260, 2° comma,

c.c. che <<gli amministratori sono solidalmente

responsabili verso la società per l’adempimento degli

obblighi ad essi imposti dalla legge e dal contratto

sociale>> , il legislatore non ha dato elementi precisi

volti a regolare l’azione di responsabilità nei confronti

degli amministratori di società personali. Si pone,

pertanto, il problema dell’ individuazione del soggetto

legittimato all’esercizio di detta azione. Sulla base di tali

premesse, vi sono diverse teorie dott rinarie che

affrontano la questione sostenendo, da un lato, che

l’azione sociale d i responsabilità possa essere promossa

solo da chi ha la rappresentanza legale della società

(ossia gli altri amministratori). Pertanto, i soci non

amministratori dovrebbero revocare o, qualora vi siano

i presupposti, escludere dalla società il socio

amministratore e nominarne uno nuovo che possa

esercitare l’azione sociale di responsabilità nei confronti

dell’ex amministratore. Dall’altro lato, si sostiene che

anche i singoli soci possano esperire l’azione sociale ex

art. 2260 e 2393 c.c. Usando esclusivamente il tema

della soggettività, la giurisprudenza ha, invece,

costantemente affermato che l’azione socia le di

responsabilità spetta al socio amministratore in quanto

rappresentante la società. La stessa giurisprudenza,

come si vedrà, ha anche affermato in principio di diritto

una legittimazione attiva concorrente del socio che

agisce esclusivamente per la ricostituzione del

patrimonio sociale (c.d . uti socius), e non per il

risarcimento del danno da lui singolarmente subito.

Dalla tesi secondo cui l’azione sociale di

responsabilità spetta solo alla società per

mezzo del suo legale rappresentante consegue

che solo la società, quale centro autonomo di

imputazione di diritti e doveri, può agire

contro chi le ha causato un danno. Pertanto, a

fronte di un comportamento illegittimo degli

amministratori la società può agire nei loro

confronti per mezzo del suo legale

rappresentante, ossia gli altri amministratori (in

caso di amministrazione congiuntiva) o il

singolo socio amministratore (in caso di

amministrazione disgiuntiva)76.

76 In tale contesto vengono in rilievo le posizioni

sostenute da GIANNATTASIO e DI SABATO.

Secondo GIANNATTASIO, non è condivisibile la

posizione di chi afferma che anche il singolo socio (in

alternativa all’amministratore rappresentante la società)

possa agire nei confronti dell’amministratore. In risposta

a questa tesi, che prende le mosse dalla considerazione

che l’interesse del socio è comunque legato a quello della

società e pertanto è autorizzato ad agire verso ogni alt ro

socio per una causa socia le, l’Autore ritiene al contrario

che <<la legittimazione del socio, come tale, non

sarebbe neppure configurabile sotto il profilo di

un’azione surrogatoria (art. 2900 c.c.) diretta a riportare

nelle casse sociali quei beni che la società trascuri di

tutelare, perché il socio è soltanto un possibile, eventuale

creditore (art. 2282 c.c.)>>, (GIANNATASIO,

Legittimazione del singolo socio della società in nome collettivo ad

agire, nell’interesse della società, contro il socio amministratore

infedele, in Giust. civ., 1960, p. 1263). Secondo l’Autore,

infatti, nell’ipotesi in cui l’amministratore abbia recato

danno alla società la sola possibilità per il socio (non

rappresentante) è promuovere l’azione di revoca per

giusta causa (ex art. 2259 c.c.), <<una volta revocato

l’amministratore (eventualmente escluso dalla stessa

società) quello che è chiamato a sostituirlo agirà, nei

nomi della società, contro il socio o contro l’ex socio

infedele>>, (GIANNATTASIO, op. cit., p. 1263. Critica

tale posizione il DI CHIO, L’azione sociale di responsabilità

nelle società personali: legittimazione del singolo socio ad

esperirla?, in Giur. comm., 1981, II, p. 99, n. 31; il quale

ribatte <<si pensi all’ ipotesi di un amministratore

nominato con il contratto sociale per cui, di fronte ad

una sua resistenza, occorrerebbe dimostrare

giudizialmente l’esistenza della giusta causa: solo dopo la

conclusione del giudizio, e in caso positivo, potrebbe

essere esperita l’azione sociale contro l’amministratore.

O all’ipotesi di una società di due soci, per cui

occorrerebbe la nomina di un curatore speciale>>). La

stessa dottrina conclude affermando, inoltre, che

l’amministratore infedele non potrebbe mai accusare gli

altri soci per la loro mancata vigilanza,

<<l’amministratore, che è tenuto all’osservanza delle

regole del mandato risponde al pari del mandatario

infedele e, seppure la legge prevede un controllo da

parte dei soci, ipotizza un diritto, non un dovere, per cui

se gli a ltri soci non eseguono il cont rollo e si rimettono

alla presunta diligenza ed onestà del socio

amministratore, costui non potrà farsi un’arma della

fiducia in lui riposta, da usare nei confronti di coloro che

egli ha ingannato e non potrà, quindi, sfuggire alla sua

responsabilità>>.

Della stessa opinione è DI SABATO, secondo ilquale la sola legittimata a far valere l’azione diresponsabilità ex art. 2260, 2° comma, c.c. è la società.<<Ciò vale a dire che – indipendentemente dal problemadella personalità giuridica delle società di persone –l’azione dovrà essere esperita dagli a ltri sociamministratori, sempre che abbiano la rappresentanzalegale della società, e pertanto non uti singuli, ma nella

Tale argomentazione poggia

essenzialmente sul riconoscimento di una

soggettività delle società personali77.

È bene, infatti, ricordare come sotto molti

aspetti il legislatore sembra aver valorizzato la

distinzione di fatto esistente tra soci e società

personale. Si pensi, ad esempio, all’art. 2266, 1°

comma, c.c. in cui è stabilito che la società sta

in giudizio nella persona dei soci che la

rappresentano; ovvero alla condizione di

autonomia patrimoniale riconosciuta anche alle

società semplici (ex artt. 2268 e 2270 c.c.). E’

possibile considerare, inoltre, sia la

disposizione contenuta all’art. 2659, n.1, c.c. in

cui si riconosce alla società semplice la

possibilità di effettuare acquisiti immobiliari e

risultarne intestataria dagli appositi registri, sia,

in ultimo, l’art. 2267 c.c. il quale, in relazione

alla responsabilità per i debiti sociali, prevede la

possibilità per i soci non rappresentanti di

limitare la loro responsabilità personale.

Tale posizione va, tuttavia, ad affievolirsi

con riguardo al riconoscimento della

qualità e in nome del gruppo: scopo dell’azione è infattila reintegrazione del patrimonio socia le mediante ilrisarcimento del danno prodotto dal responsabile>>,(DI SABATO, Manuale delle società, Torino, 1992, p. 133).

77 Posizione adottata dalla giurisprudenzadominante.

legittimazione processuale passiva della società.

A tal riguardo, domina la tesi secondo cui per

una valida instaurazione del contraddittorio nei

confronti di una società personale è sufficiente

citare in giudizio tutti i soci, in cui la società

stessa si esaurisce78.

Non sono mancati, tuttavia, in dottrina i

sostenitori della tesi avversa secondo cui, in

alternativa agli amministratori, anche il singolo

socio può esercitare l’azione sociale di

responsabilità contro l’amministratore.

Secondo tale orientamento, non si ritiene

possibile affermare che il socio di società

personale non sia mai legittimato a proporre

domanda di risarcimento per i danni causati

dalla cattiva gestione di un amministratore79. A

78 Cfr. Cass. 05-04-2006, n. 7886; cfr. anche a Cass.23-05-2006, n. 12125 in cui è precisato che la sempliceevocazione in giudizio di tutti i soci non è di per sésufficiente se non risulta, dall’interpretazione delladomanda giudizia le, la volontà di citare in giudizio lasocietà.

79 Il DI CHIO, identifica anzitutto unaresponsabilità dell’amministratore verso il singolo socioo terzo, il quale, qualora subisca un danno direttodall’il legittimo comportamento dell’amministratore, puòesperire nei suoi confronti un’azione di responsabilità.<<Né credo che in tal caso vi sia bisogno di applicareper analogia la norma dell’art. 2395 c.c., poiché questotipo di azione trova il suo fondamento nei principigenera li della responsabilità aquiliana>>, (DI CHIO,L’azione sociale di responsabilità nelle società personali:legittimazione del singolo socio ad esperirla?, in Giur. comm.,1981, II, p. 92). Con riferimento, poi, alla specificaquestione su a chi competa l’azione prevista dall’art.2260, 2° comma, c.c., l’Autore basa la propria

sostegno di tale argomentazione vi è anzitutto

la considerazione che le società personali, pur

avendo indubbiamente un’autonomia

patrimoniale e una capacità processuale, non

hanno personalità giuridica e la società non è

un nuovo soggetto completamente distinto

dalle persone dei soci che la compongono80.

Ne consegue che i soci sono i soli contitolari

dei rapporti giuridici facenti capo al gruppo,

pertanto, in una società personale ciascun

socio (c.d. uti socius), in virtù della contitolarità

dei diritti sociali, è legittimato ad agire in

giudizio per farli valere. Ciascun socio può

quindi legittimamente esperire l’azione sociale

di responsabilità per ottenere la restaurazione

argomentazione evidenziando le evidenti difficoltà cuiporterebbe l’applicazione della drastica tesi in base allaquale la sola legittimata è la società. Riprendendo, infatt i,una serie di esempi già elaborat i dal GHIDINI, l’Autoreritiene che <<ad ammettere che l’azione possa veniresercitata solo dal socio che abbia la rappresentanzalegale della società , che accadrebbe in una società di duesoci di cui uno solo sia amministratore? O in una societàdi tre soci, di cui due amministratori entrambiinadempienti? O in una società in accomandita semplicecon un solo socio accomandatario?>> (DI CHIO, op. cit.,p. 96).

80 <<L’autonomia patrimoniale va riconosciuta neilimiti in cui la legge la pone; ed è ancora in questi limit iche va ricostruito il contenuto della soggettività giuridicariferita alle società d i persone. (…) In alt ri termini: iocredo che la veste di soggetto di diritto debba esserericonosciuta anche alle società di persone, ma purché siammetta che esse sono delle mere contitolaritàqualificate dalla particolare destinazione allo scopo>>,(DI CHIO, op. cit., p. 97).

del patrimonio sociale e non, ovviamente, il

risarcimento del danno subito individualmente

uti singulus81.

81 <<Quindi, se il patrimonio sociale soffre un

danno a causa dell’illegittimo comportamento doloso o

colposo dell’amministratore, non solo il gruppo (società)

ma anche ogni singolo membro del gruppo subisce

direttamente il danno e come tale è pienamente

legittimato, nell’interesse e a tutela della società, a

promuovere l’azione sociale di responsabilità verso

l’amministratore (…) per il danno cagionato al

patrimonio sociale>> (DI CHIO, op. cit., p. 98). Dello

stesso avviso è il GHIDINI, secondo il quale il

legislatore non ha attribuito alla società un diritto

autonomo rispetto a quello che compete al socio in

quanto tale (ossia contitolare del pat rimonio sociale). A

sostegno della propria argomentazione, l’Autore illustra

come a voler seguire l’opposta tesi (secondo la quale

l’azione sociale d i responsabilità può essere esercitata

solo da chi ha la rappresentanza della società) ne

conseguono delle illogiche conseguenze, <<secondo

questa tesi atteso il conflitto di interessi (le posizioni d i

rappresentante e di amministratore di solito coincidono),

occorrerà dapprima revocare (per giusta causa)

l’amministratore-rappresentante, per far agire

quest’ultimo. Ma se l’amministratore revocando era stato

nominato col contratto sociale, per ottenerne la revoca

dovrebbe venir dimostrata la giusta causa,

giudizialmente, di fronte alla resistenza

dell’amministratore in questione; così l’azione di

responsabilità pot rebbe proporsi solo dopo la

conclusione del giudizio sulla sussistenza o meno della

giusta causa di revoca>> (GHIDINI, Società personali,

Padova, 1972, p. 430, nota 256). Secondo tale dottrina

non vi è, poi, nessun contrasto tra l’art. 2260, 2° comma,

In conclusione, alla base dei due opposti

orientamenti appena esaminati vi è la questione

del riconoscimento o meno della soggettività

nelle società personali. Tuttavia, non manca chi

ritiene di risolvere la questione prescindendo

da tale aspetto82.

Secondo quest’ultima dottrina, infatti,

indipendentemente dal riconoscimento o

meno di una soggettività alle società di

persone, gli amministratori sono comunque

responsabili per una corretta gestione sia nei

confronti della società che dei singoli soci. Si

ritiene, pertanto, necessario individuare quale

sia la normativa applicabile all’azione di

responsabilità verso gli amministratori e

verificare l’applicabilità analogica di quella

tipica prevista per gli amministratori di s.p.a.83

c.c. e la tesi per cui l’azione di responsabilità compete ad

ogni socio. La disposizione in esame, infatti, va intesa

nel senso che il risultato dell’azione è quello di realizzare

la responsabilità dell’amministratore verso la società a l

fine di ottenere la reintegrazione del patrimonio sociale.

82 PAPA, La responsabilità degli amministratori di societàpersonali, in Dir. e giur., 1996, p. 436.

83 Cfr. Cass. 10-03-1992, n. 2872, in cui si ammettel’applicazione analogica dell’art. 2395 c.c. alle societàpersonali; <<in tema di società di persone inliquidazione, mentre legittimato ad esperire l’azionesociale d i responsabilità nei confronti degliamministratori, a norma dell’art. 2260 c.c., èesclusivamente il liquidatore, va in ogni caso

A tal riguardo, la stessa dottrina sottolinea

come affinché il socio o il terzo possano agire

autonomamente (ex art. 2395 c.c.), vi deve

essere <<un’attività amministrativa

obiettivamente contraria all’ufficio e generata

proprio nell’ambito del normale esercizio

dell’ufficio stesso, nonché l’esistenza di un

nesso giuridico causalmente rilevante con il

danno direttamente cagionato al soggetto

legittimato ad agire>>84; conseguendone,

inevitabilmente, una scarsità applicativa a causa

della difficoltà ad individuare la diretta lesione

di singoli interessi del socio o di un terzo. A

fronte di tali considerazioni, si pone la

questione se alla disciplina della responsabilità

degli amministratori di società personali siano

applicabili altre norme specifiche e più adatte

rispetto all’art. 2395 c.c. In particolare, per la

soluzione del problema sembra potersi riferire

ai principi generali previsti in tema di mandato

riconosciuta al socio (o al terzo), direttamentedanneggiato da atto colposo o dolosodell’amministratore, in applicazione analogica dell’art.2395 c.c., l’azione individuale di responsabilità; ta lestrumento difensivo deve riconoscersi anche al sociocoammministratore, quando viga il regime diamministrazione disgiuntiva, se l’affermazione diresponsabilità sia chiesta dal soggetto danneggiato nellasua veste di socio, relativamente ad atti d iamministrazione per intero compiuti da alt rocoammministratore>>.

84 PAPA, op. cit., p. 436.

in virtù dell’esplicito richiamo contenuto all’art.

2260 c.c.85

Secondo tale argomentazione, quindi, non

è necessario ricorrere all’applicazione analogica

dell’art. 2395 c.c. (norma idonea ad una

struttura sociale totalmente diversa) poiché il

richiamo alla disciplina del mandato risulta di

per sé un idoneo quadro normativo di

riferimento per la responsabilità

dell’amministratore di società personale.

Quest’ultimo, infatti, pur non essendo un

diretto mandatario del singolo socio, è sempre

tenuto ad una gestione ispirata al

mantenimento del patrimonio sociale nonché

alla sua fruttificazione.

Venendo ora ad un’analisi casistica sulla

questione, la giurisprudenza appare decisa nel

riconoscere la legittimazione attiva anzitutto al

socio amministratore che si sia dimostrato

esente da colpa, ma afferma anche, in principio

85 Riferendosi, poi, alla natura di tale responsabilità ,l’Autore afferma che, essendo di tipo contrattuale,questa si fonda sui due presupposti della colpa e deldanno; <<Con riferimento al primo, va comunquerilevato che esso andrà provato ad opera dei soci attori.In particolare, sarà necessario dimostrare la contrarietàdi uno o più atti dell’amministratore agli ordinariprincipi di diligenza nella corretta gestione della societàed individuare il nesso causale tra tale atto ed il dannoarrecato alla società stessa. Il danno, poi, si manifesta, suun piano eziologico, quando il frutto di una determinatascelta, non conforme a criteri di diligenza, lede leposizioni patrimoniali della società in termini di mancatoconseguimento di vantaggi e d i produzione di perdite>>(PAPA, op. cit., p. 438).

di diritto, che vi sia una legittimazione

concorrente del singolo socio che agisce in

favore dell’interesse sociale. In altri termini, si

riconosce una legittimazione attiva concorrente

del socio che agisce esclusivamente per la

ricostituzione del patrimonio sociale (c.d. uti

socius), e non per il risarcimento del danno da

lui singolarmente subito.

A tal riguardo, va rilevato che spesso nel

caso concreto la legittimazione del socio, tanto

affermata in diritto, viene poi negata nel merito

poiché dal contenuto delle domande attoree

l’azione risulta esercitata uti singulus, ossia

diretta al risarcimento dei danni subiti e non

alla reintegrazione del patrimonio sociale86.

86 Cfr. a Trib. Milano, 11-09-2003. L’ unica sociaaccomandante di una s.a.s. agisce in giudizio perchiedere la condanna dell’unica socia accomandataria(amministratrice) poiché quest’ultima, appena pochimesi dopo la costituzione della società , l’aveva di fattorisolta con la conseguente cessazione di ogni att ività.L’attrice chiede, quindi, la condanna dell’amministratricealla restituzione del proprio conferimento in società , alrimborso delle spese notarili sostenute per lacostituzione, a ll’attribuzione dei dividendi mai percepit i,e chiede, inoltre, il risarcimento del danno sostenendoun illecito arricchimento della convenuta per avertrafugato della merce di valore dalla società per poirivenderla a terzi. Per quanto riguarda le domanderelative alla restituzione dei conferimenti, delle sommeversate per la costituzione e dell’attribuzione deidividendi mai percepit i, queste vengono respinte dalTribunale per carenza di legittimazione passiva dellaconvenuta <<dal momento che tale richiesta – inerendoai rapporti sociali – doveva essere proposta nei confrontidella società e non dell’amministratrice in proprio>>.Per quanto riguarda, poi, la generica richiesta dirisarcimento per danno emergente e lucro cessante, ilTribunale ritiene, in via generale, che <<per

giurisprudenza costante la legittimazione ad esperirel’azione sociale di responsabilità cont ro gliamministratori di società di persone cioè l’azione voltaad ottenere la reintegrazione del patrimonio socia ledepauperato dal comportamento illegittimo degliamministratori, compete alla stessa società e non aisingoli soci. (…) Tale legittimazione principale non puòescludere la legittimazione concorrente dei soci, quandoessi intendano agire non singolarmente per la tutela d iun diritto individuale, ma nella loro qualità di soci (utisocius) allo scopo di ottenere il risarcimento del danno infavore del pat rimonio socia le. (…) Dunque, se siriconosce al singolo socio, in ragione della con titolaritàdei rapporti giuridici che fanno capo al gruppo, lalegittimazione ad esperire le azioni rivolte allasalvaguardia del pat rimonio sociale, è indispensabileperò che nell’esercizio dell’azione di responsabilitàproposta contro l’amministratore infedele venga fattovalere l’ interesse al risarcimento del patrimonio socia lecomune. Nel caso di specie la parte attrice non ha agitoin nome della società (di cui non aveva la legalerappresentanza) né ha fatto valere l’interesse alrisarcimento del patrimonio sociale, dal momento cheha chiesto espressamente la condanna della convenuta alrisarcimento del danno da lei direttamente arrecato permala gestio nonché per la merce trafugata>>. La sentenzasi conclude con la classificazione della domanda attoreaai sensi dell’art. 2395 c.c., ma nella fattispecie si ritieneche non è stata fornita la prova degli addebit i mossi allaconvenuta e né di un danno provocato direttamenteall’attrice.

Nel caso appena esaminato, quindi, il Tribunaleafferma in linea di principio la legittimazione ad agireper il singolo socio purché lo faccia nell’interesse dellasocietà. Tuttavia, è necessario notare come nel caso dispecie è in rilievo il rapporto tra i soci, non è tanto unproblema di amministrazione quanto un problema dicontratto (in base al quale i soci deleganol’amministratore di gestire il patrimonio comune).

Di non semplice definizione è, invece, la decisionepronunciata dal Trib. Milano, 31-05-2001. Il fatto, inbreve, riguarda l’azione giudiziaria promossadall’acquirente delle azioni d i una s.p.a. (partecipante inuna s.a.s.) a causa degli atti di spoliazione del patrimoniosociale compiuti dagli amministratori nel periodointercorrente tra l’acquisto delle azioni e la loro effettivagirata all’acquirente. Una volta ottenuta la declaratoria diinvalidità dei suddetti atti (tra cui la cessione dellapartecipazione in una s.a.s., considerata il cespite dimaggior rilevanza presente nel pat rimonio della s.p.a., edetenuta da questa in qualità accomandante), il nuovo

organo amministrativo della s.p.a. (ritenendo che dalladetta pronuncia ne derivasse il ripristino della propriaqualità di socio accomandante) deliberava la revoca delsocio accomandatario dalla carica di amministratorenominandone uno provvisorio. Si chiedeva, inoltre, ladeclaratoria giudiziale di nullità o annullamento degli attiposti dal socio accomandante della s.a.s. (cui era stataceduta la partecipazione), in virtù della declaratoria dinullità della cessione della partecipazione, nonché lacondanna in solido dell’apparente accomandante edell’accomandatario al risarcimento dei danni subiti dalvero accomandante e dalla società. Pertanto, il giudice, afronte della domanda mossa sia dall’accomandante(s.p.a.), sia dalla società (s.a.s.), osserva che <<le singolerichieste risarcitorie hanno tutte per presupposto laviolazione degli specifichi obblighi di gestione propridell’amministratore e sono finalizzate alla reintegrazionedel patrimonio socia le depauperatosi in conseguenzadegli atti di mala gestio; dunque la domanda vagiurid icamente qualificata come azione sociale diresponsabilità contro l’ infedele amministratore, azione icui principi, dettati in materia di società di capitali,valgono anche per le società d i persone>> . In base aquanto detto, in adesione alla giurisprudenzamaggioritaria , tale sentenza afferma che <<per quantoconcerne le società di persone (al pari delle società d icapitali), solo la società , e non il singolo socio, èlegittimata all’azione volta ad ottenere la reintegrazionedel patrimonio sociale; ta le azione pertanto può essereesercitata in giudizio solo da chi abbia la rappresentanzalegale della società , e dunque dall’amministratore,mentre l’eventuale concorrente legittimazione dei singolisoci potrà ricorrere nell’ipotesi in cui il potere diamministrare e rappresentare la società competa aciascuno di questi e purché – comunque – il singolosocio agisca uti socius, onde ottenere il risarcimento deldanno in favore del patrimonio socia le, e non uti singulus,al fine cioè di reintegrare il proprio patrimoniopersonale, sussistendo in quest’ultimo caso solo lalegittimazione del socio ad esercitare l’azione individualedi responsabilità di cui all’art. 2395 c.c., norma questapure applicabile alle società d i persone>>. In base aquanto detto, la sentenza si conclude riconoscendo lalegittimazione ad esperire l’azione sociale diresponsabilità alla sola s.a.s. e non anche al socioaccomandante (s.p.a.).

Cfr. in ult imo a Trib. Alba, 10-02-1995. L’attrice,socia non amministrat rice di una società semplicepartecipante in una s.a.s. in qualità di accomandante,conviene in giudizio gli amministratori di entrambe lesocietà chiedendo la condanna al risarcimento dei dannida lei subiti a causa della cattiva gestione sia della società

semplice che della s.a.s. Gli amministratori, convenut i,eccepiscono il difetto di legittimazione dell’attrice aproporre azione nei confronti della gestione della s.a.s.dal momento che non ne è socia direttamente matramite una distinta società. L’attrice replica che, essendole società di persone prive di personalità giurid ica, ilsocio di società a sua volta socia di altra società, èlegittimato ad agire nei confronti di atti dannosicompiuti dagli amministratori della società partecipatarisultati lesivi per il patrimonio della società partecipante.In via di principio, il tribunale ha riconosciuto al socionon amministratore la legittimazione ad esercitarel’azione di responsabilità a patto che tale azione abbia ilsolo scopo di reintegrare il patrimonio sociale leso dallamala gestio degli amministratori. In tale sentenza siafferma, infatti, che <<l’assenza di un qualunquemeccanismo previsto dalla legge, finalizzato adisciplinare la manifestazione di volontà della collettivitàdei soci diretta ad esercitare l’azione, in una con il rilievoche l’azione non può essere esercitata da uno dei co-amministratori (in quanto responsabile solidale conl’amministratore convenuto), porta a concludere chel’azione possa essere esperita dal singolo socio>>.Tuttavia, nel caso di specie, il tribunale (desumendo dalcontenuto della domanda che l’attrice abbia agito utisingulus) ritiene che l’azione esperita sia volta a l fine diottenere la condanna dei convenuti al risarcimento deidanni in proprio favore, <<deve pertanto ritenersi chel’attrice abbia esperito l’azione individuale ex articolo2395 , codice civile, che spetta anche al socio dellasocietà di persone>> . In base a quanto detto, il tribunaleosserva come presupposto per l’applicabilità dell’art.2395 c.c. è che il danno lamentato dal socio sia diretto, erileva nel merito che gli episodi lamentati attengonoesclusivamente alle gestione della s.a.s. e non possonopertanto ritenersi causa di danno diretto né per ilpatrimonio della società semplice e né per quellopersonale dell’attrice. Pertanto, la sentenza si concluderigettando la domanda attorea per difetto di uno deglielementi costitutivi della domanda, senza pronunciarsisulla questione di legittimazione in quanto assorbita.

In tutti e tre i casi, visto l’atteggiamento favorevolein giurisprudenza, i soci avrebbero probabilmente avutosorti migliori inquadrando le loro azioni nell’art . 2260(agendo, qu indi, in favore del solo patrimonio sociale enon anche per il risarcimento del danno subito proquota) anziché nell’art. 2395 c.c. In quanto, avrebberoottenuto ristoro indirettamente già dalla reintegrazionedel patrimonio sociale.

Non si dubita, ovviamente, della possibilità

per il singolo socio di agire uti singulus nei

confronti dell’amministratore per ottenere il

risarcimento di danni subiti direttamente sul

patrimonio personale87.

87 Cfr. Trib. Milano, 16-04-1992. Tale sentenzaaderisce totalmente all’orientamento secondo cui anchele società di persone sono dotate di una loro soggettività.Pertanto, essendo autonomi soggetti di diritto, <<neconsegue che i soci uti singuli, a norma della disposizioneprevista dall’art. 2260 c.c., non sono legittimati all’azionedi responsabilità socia le, la quale può essere fatta valeredalla società in via esclusiva, perché ogni azione per lareintegrazione del pat rimonio sociale spetta alla società,cioè può essere fatta valere soltanto da quello tra i sociche abbia la rappresentanza legale dell’ente>>. In breveil fatto: uno dei tre soci di una s.n.c. propone domandagiudiziale per far valere la responsabilità del socioamministratore unico, accusandolo di aver commessogravi irregolarità nella gestione sociale causando ungrave danno sia per la società che per i singoli soci,chiedendo, inoltre, il risarcimento di tutti i danni da luipersonalmente subiti. A fronte di tale richiesta ilTribunale afferma che <<l’ inadempimento da parte deisoci amministratori dei doveri da essi imposti dalla leggee dall’atto costitutivo può costituire causa diresponsabilità degli amministratori sia nei confronti dellasocietà, sia nei confronti dei singoli soci o dei terzidanneggiati>>. Sulla base di tale argomentazione, ilTribunale osserva, inolt re, come non sia dubitabile che ilsingolo socio possa proporre un’azione di responsabilitàcontro l’amministratore diretta a lla tutela di un suopersonale interesse. Detta azione è, infatti, riconducibilea quella genera le prevista per il risarcimento del dannocausato da fatto illecito ex art. 2043 c.c. In conclusione,secondo tale pronuncia, <<il socio ed il terzo, quindi,sono ammessi ad agire nei confronti degliamministratori, alla condizione che questi abbianocagionato un danno che colpisce direttamente ilpatrimonio del socio stesso o del terzo, mentre il dannoindividuale lamentato non deve costituire una sempliceripercussione economica di un danno provocato alpatrimonio sociale, e a causa della violazione dei solidoveri che la legge e l’atto costitutivo impongono agliamministratori verso la società>>.

Cfr. anche a Cass. 28-03-1996, n. 2846, (non risultachiaro il caso) in cui si legge che <<Le società di

Nelle società personali è, infatti,

pacificamente ammessa l’applicazione

analogica dell’art. 2395 c.c. sulla base della

considerazione che tale disposizione non va

identificata come un principio originale

introdotto nell’ordinamento esclusivamente

per le società di capitali, ma è in realtà

un’applicazione, in ambito societario, della più

generale disciplina della responsabilità

extracontrattuale ex art. 2043 c.c.88.

persone, anche se non riconosciute quali personegiurid iche, costituiscono pur sempre un centro diimputazione di situazioni giuridiche distinte da quelle deisoci. nelle società di persone è configurabile unaresponsabilità degli amministratori nei confronti deisingoli soci, oltre che verso la società>>. Secondol’argomentazione sostenuta dalla Corte non ha rilievo ilfatto che nell’art. 2260 c.c. non vi sia menzione dellaresponsabilità che gli amministratori hanno neiconfronti dei soci, olt re che verso la società in quanto<<il principio per cui gli amministratori sonopersonalmente responsabili nei confront i dei soci per idanni ad essi d irettamente arrecat i con un lorocomportamento doloso o colposo, specificamentestabilito dall’art. 2395 c.c. per le società di capitali, èoperante anche rispetto alle società personali>> .

88 Cfr. Cass. 07-07-2004, n. 12415. Il socio di unasocietà di fatto convenne insieme in giudizio l’alt ro socioed il liquidatore della società. In particolare, aquest’ultimo l’attore addebitava varie inadempienze(<<in occasione della vendita dei beni sociali avevaomesso di riscuotere l’imposta sul valore aggiunto; diseguito a tale operazione non aveva svolto nessunaattività, e tuttavia protratto la liquidazione della societàper olt re cinque anni; aveva omesso di presentare ilrendiconto; aveva trattenuto oltre 40 milioni d i lire invista di presunte ed imprecisate spese>>) e lo accusavadi aver eseguito il proprio mandato in violazionedell’obbligo di diligenza. L’attore, pertanto, chiedeva lacondanna del liquidatore al risarcimento dei dannicausati dalla cattiva esecuzione del mandato. Sia ilTribunale di primo grado, sia la Corte d’Appello

È, infatti, possibile che dalla gestione degli

amministratori di società possa derivarne un

danno diretto ai singoli soci.

A tal riguardo il riferimento va all’art. 2281

c.c. dove si prevede che nell’ipotesi in cui i soci

abbiano conferito beni in godimento, possono

agire nei confronti degli amministratori se dalla

loro gestione questi si siano deteriorati o siano

periti.

respinsero per infondatezza la domanda dell’attore sullaconsiderazione che <<la domanda di risarcimento danniproposta nei confronti del liquidatore prima e dei suoieredi oggi, rientra nello schema della responsabilità d inatura extracontrattuale prevista dall’art. 2395 c.c.(riguardante gli amministratori ma applicabile a ltresì a iliquidatori per il rinvio contenuto nell’art. 2276 c.c.),responsabilità che presuppone che il danno allegato noncostituisca il riflesso di altro danno arrecato alpatrimonio sociale ma abbia autonoma genesi efisionomia, con ciò distinguendosi dalla responsabilitàcontrattuale ex art. 2393 c.c. (…) Sotto questo profilo,nessun danno specifico è stato prospettato o dimostratodall’attore che, tutto sommato, neppure è riuscito afornire la prova di gravi inadempienze a carico delconvenuto>>. L’attore ricorre, quindi, in Cassazione laviolazione e errata applicazione degli artt. 2393 e 2395c.c. oltre che l’ insufficienza e contraddittorietà dellamotivazione. Secondo l’ argomentazione del ricorrente,infatti, la responsabilità del liquidatore avrebbe dovutoessere esaminata con riferimento alle norme degli artt.2260 e 2276 c.c. Al contrario, la Corte ritiene che <<è daescludere che la Corte di merito abbia erroneamentegiudicato in diritto rifacendosi, per il caso di specie,all’azione di responsabilità di cui a ll’art. 2395 c.c., azioneche, prevista nella disciplina delle società d i capita li, ètuttavia esperibile, in applicazione analogica della normacome si è detto, anche dal socio delle società personali,secondo la sua struttura di azione posta a tutela del sociodirettamente danneggiato da atti dolosi o colposi del odegli amministratori>>.

Sono, inoltre, individuabili alcuni diritti dei

soci dalla cui violazione ne discende un danno

diretto nella loro sfera patrimoniale

personale89.

89 Sulla nozione di danno diretto cfr. Cass. 06-01-1982, n. 14. Il fatto: una società di capitali, in personadell’amministratore, aveva ceduto a due coniugi il dirittodi superficie relativamente a quattro appartamenti,ancora da costruire, due al quindicesimo piano, e altridue al diciassettesimo piano di un caseggiato. Tuttavia, almomento della cessione la licenza edilizia che era statarilasciata alla società autorizzava l’edificazioni di solisedici piani. L’amministratore della società cedenteaveva, però, dato precise assicurazioni ai due cessionarisull’avvenuto rilascio della licenza anche per ildiciassettesimo piano, pertanto si concluse il cont ratto.Venuti a conoscenza della reale situazione, i due coniugicitano in giudizio sia la società (per responsabilitàcontrattuale), sia l’amministratore (per responsabilitàextracontrattuale ex art. 2395 c.c.). L’amministratoreconvenuto eccepisce che nella fattispecie non vi erastato un danno diretto <<infatti, se si ipot izza chel’amministratore agente sia responsabile per non averfatto quanto era necessario affinché anche ildiciassettesimo piano dell’ed ificio fosse inserito nellalicenza, il suo comportamento costituito lesione delpatrimonio socia le, di modo che i coniugi (attori) soloindirettamente avrebbero potuto risentirnepregiudizio>>. Se le corti di merito hanno accolto ladomanda azionata, la Corte di legitt imità cassa ladecisione imponendo al giudice del rinvio di uniformarsial principio secondo cui, ex art . 2395 c.c.,l’amministratore di s.p.a . risponde esclusivamente del<<danno direttamente ricollegabile, con nesso dicausalità immediata, alla predetta attività illecitadell’amministratore>>. Secondo l’argomentazione dellaCassazione, infatti, la questione va risolta nelcollegamento tra l’art. 2395 c.c. (che riconosce al socio oal terzo il diritto al risarcimento per essere statidirettamente danneggiat i da atti il lecit i degliamministratori) e l’art. 1223 c.c. (che, in materia dirisarcimento del danno prevede, per il creditore, larisarcibilità del danno patrimonia le sofferto che sia<<conseguenza immediata e diretta>> dell’i llecitocontrattuale). Dalla motivazione della sentenza ne derivache il singolo socio o il terzo sono direttamentedanneggiati quando hanno subito un danno diretto dallacondotta illecita degli amministratori; il danno diretto va

In conclusione, sulla base della presente

rassegna vi sono alcune considerazioni da fare.

In primo luogo, sembra evidente come la

tesi secondo cui la legittimazione ad agire

spetta in via esclusiva al rappresentante la

società (quindi, a colui che ha il potere di

amministrazione), porta ad inevitabili

complicazioni. Anzitutto, il possibile conflitto

d’interessi che potrebbe sorgere a fronte

dell’azione sociale di responsabilità da parte di

un amministratore nei confronti di altro

amministratore. Dall’altro lato, è possibile

pensare alla situazione di stallo che si verrebbe

a creare, ad esempio, in una accomandita

semplice che abbia, come spesso accade, un

inteso come conseguenza immediata e diretta (ex art.1223 c.c.). In altri termini, alla base della decisione vi è ladistinzione t ra danno diretto e danno riflesso, pertanto,afferma la Corte <<spetta al giudice di rinvio accertarequale danno fra quelli dedott i dai coniugi nel giudizio dimerito, possa essere ritenuto conseguenza diretta delfatto illecito addebitato all’amministratorepersonalmente e possa quindi, per il risarcimento, essereposto a carico di lui a titolo di responsabilitàextracontrattuale. (…) Il giudice del rinvio si atterrà a lseguente principio di diritto: tenuto conto della naturaextracontrattuale della responsabilità posta a carico degliamministratori di società per azioni dall’art . 2395 c.c.nell’ipotesi di fatto illecito dell’amministratore posto inessere, con dolo o colpa, durante l’attività dicontrattazione da lui svolta in nome della società,occorre distinguere t ra il danno derivante all’alt rocontraente dall’ inadempimento del contratto stipu latodalla società rappresentata dall’amministratore, del qualerisponde la società, a titolo di responsabilità contrattuale,e il danno direttamente ricollegabile, con nesso dicausalità immediata alla predetta attività illecitadell’amministratore, solo di questo ultimo potendo farsicarico al medesimo personalmente per il risarcimento infavore dell’alt ro contraente danneggiato>>.

unico socio accomandatario (pertanto, l’unico

legittimato all’azione).

Inoltre, è necessario sottolineare come una

simile soluzione non contrasterebbe col

riconoscimento di una soggettività alle società

personali poiché il socio agisce non per un

proprio interesse ma per quello della società,

soggetto diverso. In altri termini, l’azione mira

ad ottenere la reintegrazione del patrimonio

sociale che rimane distinto dal patrimonio del

socio, è solo il primo che va risarcito.

Dubbi maggiori sorgono, in realtà, rispetto

alla possibile applicazione analogica dell’art.

2395 c.c. anche alle società di persone.

Posto, infatti, che le società personali non

sono persone giuridiche, pur avendo ormai la

giurisprudenza costantemente riconosciuto una

loro soggettività, potrebbe chiedersi quale

significato assume in questo contesto l’art.

2395 c.c. nell’espressione <<direttamente

danneggiati>>. In altri termini, essendo

solitamente i soci illimitatamente responsabili

per le obbligazioni sociali, un danno causato al

patrimonio sociale dalla cattiva gestione degli

amministratori potrebbe già di per sé essere

considerato un danno diretto.

Pertanto, per evitare ulteriori complicazioni

sembra opportuno, soprattutto per esigenze

pratiche, aderire all’orientamento che riconosce

anche al singolo socio la possibilità di agire uti

socius per tutela del patrimonio sociale.

Conclusione, quest’ultima, che sembra inoltre

ben compatibile con l’idea delle società

personali come soggetti imperfetti.

3.4) Divieto d’immistione del

socio accomandante.

Premesso che tale divieto comprende sia

la categoria degli atti di amministrazione interna

(esercizio di poteri decisionali rispetto al compimento

degli affari sociali) sia di amministrazione esterna

(spendita del nome della società nei rapporti con

terzi)90, le d iscussioni che si pongono intorno alla sua

90 A tal riguardo cfr. Cass. 11-11-1970, n. 2344. Inbreve il fatto: una s.p.a ., poiché credit rice di una sommadi denaro dovuta a pagamento di una fornitura che lastessa aveva eseguito in adempimento del cont rattosottoscritto a nome della s.a.s. da parte del suo socioaccomandante, invece di escutere preventivamente ilpatrimonio sociale aveva ottenuto dal tribunale undecreto ingiunt ivo nei confronti del socio stipulante.Quest’ultimo fece opposizione, accolta dal t ribunale,sulla base del principio del beneficium excussionis ex art.2304 c.c. Nel giudizio d’appello, promosso dalla s.p.a.creditrice, il socio accomandante produsse una procuradalla quale risultava che l’unica socia accomandataria loaveva preventivamente autorizzato alla conclusione delcontratto con la s.p.a. Tuttavia, la Corte d’Appellogiudicò falsa la suddetta procura e confermò laresponsabilità illimitata e solidale dell’accomandante,sussidiariamente a quella della società. La Corte respinse,inoltre, la tesi (sostenuta dalla società creditrice) secondocui vi fosse una diretta responsabilità del socio poichéingeritosi come falsus procurator. La s.p.a. aveva, pertanto,

ratio dividono la dottrina in due grossi orientamenti. Da

un lato, si sostiene che alla base della norma vi sia la

tutela dell’affidamento dei terzi; dall’altro lato, la

ragione dell’art. 2320 c.c. è individuata nella tutela

dell’interesse pubblico (ossia dell’intera collettività) a

che vi sia un responsabile esercizio del potere

economico91. A tal riguardo, la questione che si pone è

proposto ricorso per Cassazione denunciando l’erroneaapplicazione dell’art. 2320 c.c. <<in quanto tale normaconcerne unicamente il rapporto interno tra la società eil socio accomandante e non la situazione relat iva alterzo con cu i l’accomandante ha trattato senza potere.Siffatta situazione sarebbe regolata, invece, dalle normedettate in materia di rappresentanza senza potere e, delresto, sarebbe ingiusto, prosegue la ricorrente, che,mentre il falsus procurator è responsabile direttamente neiconfronti del terzo, lo stesso falsus procurator sia solosussidiariamente responsabile se è un socioaccomandante che t ratta per la società senza averne ilpotere>> . La Cassazione rigettò il ricorso sull’assuntoche nell’ ipotesi in cui l’accomandante svolge attivitàsociale senza giusta procura, ne consegue unaequiparazione della responsabilità (nei confront i deiterzi) dell’accomandante con quella dell’accomandatario.<<La responsabilità in tal modo risultante non giustificala disparità di trattamento t ra i vari obbligati in viasolidale, quale verrebbe a verificarsi se si ritenesseapplicabile solo nei confronti dell’accomandatario, e nonanche dell’accomandante, la norma dell’art. 2304,secondo la quale i creditori sociali non possonopretendere il pagamento dai singoli soci, se non dopol’escussione del patrimonio sociale>>. La Corteprosegue precisando che il divieto di immistionecomprende sia gli atti di amministrazione interna chequelli di amministrazione esterna, <<infatti il citato art.2320 prevede separatamente entrambe le categorie d iatti, vietando al socio accomandante il compimento diatti di amministrazione e la trattazione e conclusione diaffari in nome della società, laddove con la primacategoria di atti la norma ha voluto riferirsi a ll’attività d iamministrazione interna mentre con la seconda ha avutoriguardo all’attività sociale esterna>>.

91 In altri termini, l ’imposizione del divieto diimmistione ha la funzione di tutelare l’interesse a che lasocietà sia amministrata da coloro che, in quantoillimitatamente esposti alle obbligazioni sociali,garantiscono una responsabile gestione dell’ impresa.

se la responsabilità illimitata dell’accomandante valga

solo all’esterno (rispetto ai terzi) o si estenda anche nei

rapporti t ra i soci. Solo aderendo alla prima tesi non si

hanno difficoltà ad ammettere il diritto di regresso nei

confronti degli accomandatari per l’accomandante

ingeritosi che abbia estinto un debito sociale. Al

contrario, sostenendo che il divieto in esame tuteli

l’interesse pubblico ad una corretta gestione

dell’impresa, non è possibile riconoscere un diritto di

regresso dell’accomandante nei confronti

dell’accomandatario senza rischiare di svuotare di

significato la norma. A causa della scarsità di pronunce

significative (soprattutto tra quelle recenti), non è

possibile definire con precisione l’indirizzo seguito dalla

giurisprudenza.

Parte della dottrina ritiene che la violazione

del divieto d’immistione comporti per

l’accomandante ingeritosi una responsabilità

illimitata e solidale sia esterna (nei confronti

dei terzi) che interna (nei confronti dei soci).

A sostegno di tale orientamento si ritiene

che il divieto di immistione mira a tutelare

molteplici interessi, tra i quali vi è anzitutto

quello dei soci a che l’impresa sia gestita solo

da chi, essendo illimitatamente esposto alle

obbligazioni sociali, garantisce un’ accurata

amministrazione. E a tal riguardo, l’art. 2320

c.c. prevede la possibilità per i soci di escludere

dalla società l’accomandante ingeritosi.

Tuttavia, questo non risulta essere l’unico

interesse preso in considerazione dalla norma

in esame, essendovi anche quello dei creditori

sociali, i quali potrebbero essere indotti a

considerare l’accomandante ingeritosi come

accomandatario, facendo pertanto affidamento

sulla sua personale responsabilità. Ma vi è di

più, la stessa dottrina, infatti, non manca di

sottolineare come l’art. 2320 c.c. preveda che

l’accomandante in tal caso risponde

illimitatamente verso i terzi per tutte le

obbligazioni sociali, e quindi anche per quelle

anteriori all’ingerenza nell’amministrazione. In

tal modo, il divieto di immistione sembra voler

tutelare anche quei creditori sociali che mai

avrebbero potuto far affidamento sulla

personale responsabilità dell’accomandante92.

92 In tal senso si esprime il GALGANO il quale

afferma che <<ciò fa comprendere come siano stati

legislativamente valutati altri interessi oltre che

l’interesse dei soci e quello dei creditori sociali: interessi

che operano anche quando l’interesse dei soci o quello

dei creditori della società non vengono in

considerazione. (…) L’interesse protetto è, dunque, un

interesse valutato come pubblico, cioè come proprio

dell’intera collettività: è l’interesse ad un responsabile

esercizio del potere economico. La legge mostra qui di

preoccuparsi dell’equilibrio del sistema produttivo: essa

instaura una necessaria correlazione fra esercizio del

potere economico e assunzione di un rischio illimitato;

affida a quest’ultimo la funzione di agire da contrappeso

del potere e, quindi, da garanzia d i una responsabile

direzione dell’impresa>> (GALGANO, Le società in

genere. Le società di persone, Milano, 2007, p. 464 e seg.).

Avendo in tal senso individuato la ratio della norma in

esame, l’Autore prosegue la propria argomentazione

esaminando le conseguenze dell’eventuale violazione del

divieto. A tal riguardo, risulta pacifico che ai sensi

dell’art. 2320 c.c. l’accomandante ingeritosi decada

anzitutto dal beneficio della responsabilità limitata e

sarà, di conseguenza, personalmente soggetto al

fallimento in caso di fallimento della società (ex art . 147,

10° comma, l. fall.). Tuttavia, ciò non comporta una

conversione della posizione contrattuale da socio

accomandante ad accomandatario, né tantomeno la

conversione da s.a.s. a società in nome collettivo,

qualora egli fosse l’unico socio accomandante. In

risposta a quella dottrina qualificante la responsabilità

dell’accomandante ingeritosi come responsabilità

esclusivamente esterna, riconoscendogli pertanto il

diritto di regresso nei confronti degli accomandatari,

l’Autore afferma che <<l’accomandante che si sia

ingerito nell’amministrazione – in quanto responsabile di

tutte le obbligazioni sociali, anche anteriori alla sua

ingerenza – risponde pure nei confronti dei creditori che

non hanno fatto alcun affidamento sulla sua

responsabilità; e, se l’accomandante risponde nei

confronti dei terzi anche quando l’ interesse di costoro

non lo esige, non ha senso concepire la sua

responsabilità come responsabilità esclusivamente

esterna>> (GALGANO, op. cit., p. 469). Dello stesso

avviso è la BERTACCHINI, la quale dopo aver

identificato la violazione del divieto di immistione in

qualunque attività amministrativa (sia interna che

esterna) da intendersi nello specifico senso di direzione

degli affari socia li, si pone in posizione di critica nei

confronti dell’opposto orientamento identificante la ratio

del suddetto divieto nella tutela dell’affidamento dei

terzi. Secondo l’Autrice, infatti, se è vero che la norma in

questione mira a tutelare esclusivamente i creditori

sociali, non risulta chiaro il motivo per cui il d ivieto

In altri termini, essendo il divieto previsto a

tutela del superiore interesse della responsabile

direzione dell’impresa, si spiega il perché

comprenda anche gli atti di amministrazione interna,

così come ugualmente non si spiega il perché

l’accomandante ingeritosi debba rispondere

illimitatamente anche per le obbligazioni anteriori alla

violazione del divieto. L’ Autrice ritiene, inoltre, non

condivisibile anche l’ulteriore motivazione secondo cui il

divieto di immistione tutela gli interessi dei soci

accomandatari a che la gestione dell’ impresa sia svolta

responsabilmente, in quanto la responsabilità ill imitata

dell’accomandante ingeritosi permane anche nell’ipotesi

in cui vi sia stato un tacito consenso degli accomandatari

alla violazione del d ivieto, venendo meno pertanto la

necessità di tutela del loro interesse alla corretta gestione

dell’impresa. Pertanto, la tesi da condividere è

indubbiamente quella identificante la ratio del divieto di

immistione alla tutela di un interesse più ampio di quello

dei soci accomandatari o dei creditori sociali. <<Il

legislatore, in quest’ottica, avrebbe dunque voluto

tutelare l’ interesse generale ad una corretta gestione

dell’impresa. Da un lato questo criterio di

interpretazione è più ampio, in quanto consente di

colpire qualsiasi atto (anche isolato o addirittura non

concluso) posto in essere dall’accomandante privo della

necessaria procura; dall’alt ro, però, il criterio

dell’interesse generale permette di non assumere una

posizione eccessivamente rigida e meccanica,

consentendo di formulare una concezione dei rapport i

tra accomandante e accomandatario adeguata allo

sviluppo del sistema economico>> (BERTACCHINI, In

tema di immistione dell’accomandante receduto, in Giur. comm., 1989,

II, p. 337).

l’accomandante abbia certamente una

responsabilità esterna anche quando non vi è

lesione dell’affidamento dei terzi, e, per la

stessa ragione, si comprende il perché non può

venir meno anche la sua responsabilità interna

nei confronti degli altri soci. In tal senso, la

disposizione contenuta all’art. 2320 c.c. è

considerata quale espressione del basilare

principio per cui chi amministra risponde per

l’attività esercitata, conseguentemente

l’accomandante ingeritosi viene parificato ad

un amministratore93.

93 È il pensiero espresso anche dalla BUZZONIZOCCOLA. Secondo l’Autrice, infatti, La responsabilitàillimitata, infatti, <<costituisce l’emanazione di unprincipio generale, che regola l’amministrazione dellesocietà di persone: chi ha il potere di gestione diun’impresa sociale risponde delle obbligazioni di questa,oltre che con i conferimenti effettuati, con tutto ilproprio patrimonio. Al potere di gestione che competeal socio fa riscontro la sua responsabilità illimitata esolidale, unitamente e sussidiariamente allaresponsabilità della società. (…) La responsabilitàillimitata dell’accomandante potrebbe al limitequalificarsi, più che come una sanzione del divieto di cuiall’art. 2320 c.c. (…) come una imprescindibileconseguenza della partecipazione alla direzionedell’impresa, e questo precluderebbe la possibilità d i fardiscendere dalla volontà delle parti la suaapplicazione>>, (in Appunti in tema di divieto di immistione,in Riv. dir. comm., 1972, II, p. 156). Similmente anche ilGHIDINI ritiene l’accomandante ingeritosiillimitatamente responsabile verso i terzi, essendo a talriguardo irrilevante l’eventuale consenso degli altri soci(come previsto dall’art . 2320 c.c.). Al contrario, secondol’Autore, il consenso degli altri soci elimina laresponsabilità illimitata <<nei rapporti interni (salvo cherisulti l’intendimento comune di immutare la posizionedel socio accomandante in quella di socioaccomandatario) e della inammissibilità dellaesclusione>>, (G HIDINI, Società personali, Padova, 1972,p. 769 n. 83).

In quest’ordine, si ritiene inoltre che

nell’ipotesi di compimento di atti di

amministrazione interna, la responsabilità

illimitata dell’accomandante ingeritosi non

potrebbe mai esser fatta valere dai terzi (pretesi

esclusivi destinatari della disposizione in

esame) non essendo tali atti fonte diretta di

danno per i creditori sociali.

Per un diverso orientamento, la sanzione

della illimitata responsabilità

dell’accomandante ingeritosi vale solo

all’esterno nei confronti dei terzi, pertanto,

l’accomandante ha un diritto di regresso verso

la società e verso i soci.

Secondo tale dottrina, la disposizione

contenuta all’art. 2320 c.c. si pone quale

esclusiva tutela per i terzi e non riguarda,

invece, i rapporti interni tra i soci. Ne

consegue che l’accomandante resta tale e che,

qualora escusso da parte di un creditore

sociale, ha certamente diritto di rivalsa verso gli

accomandatari. A favore di quest’ultimi, infatti,

la legge prevede un’altra sanzione rispetto alla

personale ed illimitata responsabilità, ovvero

l’eventuale esclusione dell’accomandante dalla

società94.

94 In tal senso FERRARA jr – CORSI, in Gli

imprenditori e le società, Milano, 1996, p. 369. Ugualmente

Diversa è invece la posizione adottata da

quella dottrina che non ritiene condivisibile la

tesi per cui la ragione del divieto di immistione

è la tutela dell’affidamento dei terzi dal

momento che l’accomandante risponde delle

obbligazioni sociali anche per gli atti interni,

oltre che per le obbligazioni precedenti la

violazione del divieto. Ugualmente risulta

sproporzionato anche riferire la ratio della

disposizione alla tutela dell’interesse pubblico

al corretto esercizio dell’attività economica, dal

momento che il divieto d’immistione viene

violato anche col compimento di un solo atto

di amministrazione interna (anche se interno e

comunque indipendentemente

semplice e diretta è l’argomentazione sostenuta dal

CAMPOBASSO. L’Autore, infatti, ritiene l’estensione

della responsabilità ill imitata per tutte le obbligazioni

sociali <<particolarmente grave e non proporzionata

all’infrazione commessa. (…) Con l’ulteriore

conseguenza che, in caso di fallimento della società,

anch’egli sarà automaticamente dichiarato fallito al pari

degli accomandatari>> (CAMPOBASSO, Diritto

commerciale, 2, Torino, 2003, p. 145). Da ciò ne deriva in

primo luogo, che l’accomandante perde il beneficio della

responsabilità limitata solo nei confronti dei terzi, in

secondo luogo, <<egli avrà azione di regresso per

l’intero non solo verso la società ma anche verso gli

accomandatari. Viceversa, gli accomandatari non hanno

azione di regresso verso l’accomandante che ha violato il

divieto di immistione, salva l’azione per il risarcimento

degli eventuali danni dallo stesso arrecati alla società>>.

dall’importanza). Secondo quest’ultimo

indirizzo, infatti, il divieto in questione ha

esclusivamente la funzione di evitare che la

s.a.s. perda i suoi lineamenti essenziali

trasformandosi in una collettiva con soci a

responsabilità limitata95.

95 È la posizione adottata dal DI SABATO il quale

afferma <<Più adeguata è pertanto una giustificazione

che si ponga sul piano della soluzione del conflitto tra le

posizioni delle due categorie di soci e che colleghi

l’indisponibilità della rimozione del divieto da parte degli

accomandatari (e degli altri accomandanti) al rilievo

tipologico che assume nell’accomandita la compresenza

di due categorie di soci: l’ interesse (esterno ai soci)

consiste nella immutabilità del tipo sociale prescelto, se

non mediante una modificazione dell’atto costitutivo>>

(DI SABATO, Manuale delle società, Torino, 1992, p. 214).

La critica maggiormente mossa dall’Autore alla tesi del

divieto del diritto di regresso riguarda una delle sue

inevitabili conseguenze, ossia che alla responsabilità

esterna dell’accomandatario corrisponda la sua

responsabilità interna. Ne consegue che

l’accomandatario costretto a pagare il creditore socia le

avrà senz’altro diritto di regresso nei confront i

dell’accomandante, quest’ultimo, al contrario, seppure

costretto ad estinguere un debito socia le non avrebbe

possibilità di regresso nei confronti degli altri soci.

Sostiene l’Autore che <<la tesi non regge, per la

semplice ragione che responsabilità esterna e

responsabilità interna, nonché partecipazione alle

perdite, sono su piani diversi; (…), anche

l’accomandatario, in tesi titolare del supremo potere

direttivo, ha regresso prima di tutto verso la società per

l’intero ed inolt re, pro quota, verso gli altri

accomandatari. Non v’è quindi ragione, d i fronte ad un

Le medesime argomentazioni poste alla

base delle varie discussioni dottrinarie in

merito alla ratio del divieto, si riscontrano

anche nelle pronunce giurisprudenziali sul

tema.

A tal riguardo, in principio di diritto la

giurisprudenza di legittimità ha a volte

giustificato il divieto di immistione sulla

conservazione della tipicità della struttura

societaria96; ma non sono mancate pronunce

medesimo trattamento della responsabilità esterna, d i

fare un diverso trattamento all’accomandatario e

all’accomandante indiscreto>> (DI SABATO, op. cit., p.

214). A tal riguardo, il DI SABATO ritiene l’errore

dovuto dalla non considerazione delle due diverse

qualificazioni del medesimo atto d’ingerenza, mentre

l’art. 2320 c.c. chiaramente distingue a livello

sanzionatorio nel momento in cui, dopo aver

riconosciuto un responsabilità esterna

dell’accomandante, d ispone alla fine del 1° comma <<e

può essere escluso a norma dell’art. 2286 c.c.>>.

96 Cfr. Cass. 19-02-2003, n. 2481; in cui la Corte èintervenuta risolvendo la questione se in una s.a.s.,caratterizzata in quanto tale dalla compresenza di duecategorie di soci, la responsabilità limitata degliaccomandanti possa venir meno, oltre che nell’ipotesidell’art. 2320 c.c., anche tramite apposita clausoladell’atto costitutivo. Il problema in questione riguardava,infatti, la clausola dell’atto costitutivo di una s.a.s. in cuiera prevista l’uguale ripart izione fra tutti i soci degli utilie delle perdite. I soci accomandatari citavano, pertanto,in giudizio i due accomandanti chiedendo che fosserocondannati, in virtù della suddetta clausola, a parteciparealle perdite subite dalla società. I convenuti sicostituivano deducendo che la clausola invocata dagliattori in realtà si limitava a stabilire la misura di ciascunsocio alle perdite, lasciando immutata la limitazione della

(sia di legittimità che di merito) identificanti la

ratio dell’art. 2320 c.c. nell’interesse pubblico ad

responsabilità degli accomandanti al capita le di rischio. IlTribunale e la Corte d’Appello rigettarono la domandaattrice sulla considerazione che per il combinatodisposto degli artt. 2263 e 2313 c.c., nelle s.a.s. ilcontratto sociale può stabilire liberamente le proporzionispettanti agli accomandant i ed accomandatari nellaripartizione dei guadagni, ma non può stabilire che leperdite possano gravare sugli accomandanti oltre ilconferimento, neppure nei rapporti interni, perchéaltrimenti il tipo sociale non corrisponderebbe più allafigura legale. Contro la sentenza della Corte d’Appello isoci accomandatari fecero ricorso in Cassazione. LaCorte rigetta il ricorso e dichiara nulla la clausola inquestione, fondando il proprio convincimento sull’art.2313 c.c., <<tale statuizione deve ritenersi delimiti allostesso tempo, per entrambe le categorie di socidell’accomandita semplice, il regime sia dellaresponsabilità esterna sia della responsabilità interna,limitando alla quota conferita, in relazione ad entrambi iversanti della responsabilità, il suo regime legale perquanto riguarda i soci accomandanti, escludendoespressamente la responsabilità personale di questacategoria di soci per le obbligazioni sociali. Ne consegueche né i creditori sociali, d i regola, possono agire cont rodi essi per ottenerne l’adempimento, né i sociaccomandatari, che viceversa ne rispondonoillimitatamente, (…), possono agire contro di essi in viadi regresso. Con l’ulteriore conseguenza che i sociaccomandanti non rispondono per le perdite socia li senon nei limiti di quanto conferito>>. Secondo la Corte,infatti, la struttura del tipo societario è confermataproprio dall’art. 2320 c.c., inoltre, si osserva comel’eventuale responsabilità illimitata degli accomandant inei rapport i interni, potrebbe esser fatta valere anche daicreditori sociali in via surrogatoria, <<così aggirandosi,nella sostanza, la irresponsabilità degli accomandant ioltre il limite della quota conferita>>.

Secondo la posizione assunta dalla Corte, quindi,eventuali pattuizioni modificative della responsabilità deisoci per le obbligazioni sociali sono radicalmente nulle, ilche equivale a dire che l’eventuale clausola che alteri ilsuddetto schema non vale a trasformare la s.a.s. in alt rotipo societario. Applicando tale ragionamento allaquestione in esame ne consegue che giammai potrebbetrovare giustificazione l’estensione della responsabilitàillimitata dell’accomandante anche nei rapport i internitra i soci.

un responsabile esercizio del potere

economico97.

97 Cfr. Trib. Milano, 03-10-1991. Il fatto riguarda laviolazione del divieto ex art . 2320 c.c. da parte dell’accomandante di una s.a.s., per aver condotto delletrattative (volte alla conclusione di un affare con alt rasocietà) in rappresentanza della suddetta società senzaaverne la necessaria procura. Un socio accomandatariocita, pertanto, in giudizio l’accomandante ingeritosipretendendo di ripetere da quest’ultimo la metàdell’importo che l’attore è stato costretto a pagareall’INAIL per dei contributi dovuti dalla società. Sipone, quindi, a l giudice la questione se l’ill imitataresponsabilità oltre ad operare nei confronti dei terzi,com’è assolutamente pacifico che debba operare nelcaso di specie, operi anche nei rapporti fra i soci. A ta lriguardo, il Tribunale ritiene che <<la sanzionedell’i llimitata e solidale responsabilità finirebbe conl’essere svuotata di reale contenuto se fosse limitata a isoli rapporti esterni (consentendosi a ll’accomandanteche abbia compiuto att i di amministrazione di ripeterequanto abbia dovuto pagare ai terzi oltre i limiti delproprio conferimento): del resto, una siffatta limitazionemal si accorderebbe con l’ indiscussa affermazionesecondo la quale il beneficio della responsabilità limitataviene a cadere anche nell’ ipotesi di compimento da partedell’accomandante di atti di amministrazione puramenteinterna, senza alcun diretto rapporto con i terzi>>. Inconclusione, in base alla scelta interpretativa seguita dalTribunale accoglie la richiesta attrice sull’assunto che ilsocio accomandante che abbia amministrato deverispondere olt re il limite del conferimento ed inproporzione della propria partecipazione di tutte leobbligazioni e le perdite della società.

Di particolare importanza è, inoltre, Cass. 19-12-1978, n. 6085. Tale pronuncia merita attenzione olt reper la chiarezza delle argomentazioni in essa contenute,anche per essere da sempre un punto di riferimentocostante per l’attuale giurisprudenza. Con tale sentenza,per la prima volta dall’entrata in vigore del codice civiledel 1942, la Corte si è trovata a pronunciarsi sullalegittimità della richiesta da parte di un socioaccomandatario, che aveva estinto per intero i debit isociali, a chiedere rimborso pro quota al socioaccomandante ingeritosi. Per risolvere la questione, laCassazione ha ritenuto di dover anzitutto identificarel’interesse tutelato dall’art. 2320 c.c. A ta l riguardo, laCorte ha escluso che il suddetto interesse possa esserel’affidamento dei terzi considerato da un lato che ildivieto di immistione è esteso anche agli atti di mera

amministrazione interna, dall’altro lato che laresponsabilità illimitata copre tutte le obbligazionisociali, anche quelle precedenti l’ingerenza. La stessaCorte ha, inoltre, escluso che l’interesse posto alla basedella norma in esame sia quello dei soci accomandatari<<questa finalità può indubbiamente considerarsi tenutapresente dal legislatore quando ha riconosciuto ai sociaccomandatari il potere di deliberare la esclusione dallasocietà del socio accomandante ingeritosi nella gestionesociale. Ma essa non è sufficiente a spiegare il limiteposto all’autonomia negoziale dei soci con il divieto delconferimento di una procura generale ai sociaccomandanti, implicitamente contenuto nelladisposizione, dettata dallo stesso art. 2320 c.c., (…)divieto che appare manifestamente diretto a tutela re uninteresse esterno alla società, del quale i soci nonpossano disporre>>. Pertanto, secondo taleargomentazione l’interesse sottostante la norma èl’interesse generale a che vi sia sempre la necessariacorrelazione caratterizzante le società di persone, traesercizio del potere di amministrazione della società e laresponsabilità illimitata del socio per le obbligazionisociali. <<In armonia con la rat io della norma, cosìindividuata, la responsabilità ill imitata e solidale per tuttele obbligazioni sociali assunte dal socio accomandanteper effetto della sua ingerenza nell’amministrazione dellasocietà non può perciò, contrariamente a quantoassumono i ricorrenti, ritenersi circoscritta ai rapport icon i terzi, ma (…) vale anche nei rapporti con i sociaccomandatari, i quali, se dopo l’escussione delpatrimonio socia le, abbiano soddisfatto debiti dellasocietà, possono esercitare nei suoi confronti l’azione diregresso>>.

Il ragionamento seguito dalla Corte è senza dubbiologico e lineare, tuttavia, è possibile fare delleconsiderazioni.

La sentenza in esame non ha fatto altro cheindividuare l’interesse protetto dalla norma,riconoscendolo nell’interesse collettivo alla responsabileamministrazione dell’ impresa sociale, e facendoneconseguire l’illimitata responsabilità dell’accomandanteindiscreto nei confronti anche dei soci accomandatari. Inrealtà, l’ind ividuazione dell’interesse tutelato nondovrebbe portare automaticamente a questa conclusioneper il semplice motivo che dal testo dell’art. 2320 c.c.non sembra che il legislatore abbia voluto disciplinare irapporti interni t ra i soci, cui risultano sufficienti ledisposizioni contenute agli art. 2267 e 2291 c.c. In altritermini, le argomentazioni elaborate dalla Cassazionedimostrano solo che l’ interesse tutelato dal d ivieto è uninteresse superiore a quello dei terzi o dei soci

In conclusione, tra le varie interpretazioni

dottrinali, sembra preferibile appoggiare quella

identificante la ratio del divieto nella tutela

dell’interesse pubblico alla corretta gestione del

potere economico. Tale orientamento è, infatti,

l’unico in grado di riconoscere la vera portata

applicativa dell’art. 2320 c.c., in quanto

prescinde dagli interessi dei creditori e degli

accomandatari, che, come visto, potrebbero

mancare nel caso concreto.

È bene notare, inoltre, che a differenza

della società semplice, in cui per esservi la

responsabilità illimitata è necessario spendere

verso i terzi il nome della società (ex art. 2267

c.c.), nella s.a.s. l’accomandante perde il

beneficio della responsabilità limitata già per il

semplice fatto di essersi ingerito

nell’amministrazione. Ciò deriva sicuramente

accomandatari ma non dimostra, di per sé, che pertutelarlo il legislatore abbia voluto utilizzare lostrumento della responsabilità ill imitata nei rapport iinterni t ra i soci. Per arrivare a quest’ultima conclusioneè necessario fare un ragionamento più ampio, daricondurre al generale principio (vigente nelle societàpersonali) d i diritto comune per cui all’ iniziativaeconomica si lega sempre il rischio. Se quanto dettofinora è vero, allora, è ragionevole concludere chesicuramente l’interesse tutelato dalla norma è uninteresse generale alla corretta gestione del potereeconomico e che, nell’ipotesi in questione, ciò comportanecessariamente il venir meno per l’accomandanteingeritosi del beneficio della responsabilità limitataanche verso i soci accomandatari, al fine di evitare ilpericolo di possibile frode da parte dell’accomandanteche, godendo della responsabilità limitata , gestiscaindividualmente l’impresa collettiva.

dalla natura commerciale dell’attività esercitata

da tale tipo di società, con l’ulteriore

conseguenza che chi esercita (anche se in

forma collettiva) attività d’impresa se ne

assume il rischio. Ecco perché è ragionevole

affermare che l’accomandante che abbia

compiuto anche un solo atto di

amministrazione in violazione dell’art. 2320

c.c., dovrà rispondere illimitatamente sia verso

i creditori sociali che verso gli altri soci

accomandatari, perdendo così il beneficio della

responsabilità limitata ai conferimenti.

La posizione dell’accomandante quale

socio limitatamente responsabile è, infatti,

giustificata in virtù della sua funzione di mero

finanziatore e ciò che il legislatore vuole evitare

è che vi possa essere un uso fraudolento della

struttura societaria, in cui l’accomandante,

riparandosi dietro la propria responsabilità

limitata, eserciti l’attività commerciale

approfittando della figura del socio

accomandatario.

4) La disciplina dei conferimenti

– il passaggio dei rischi.

La disciplina codicistica prevista in materia

di conferimenti nelle società di persone, risulta alquanto

frammentaria e in buona parte risolta in un rinvio ad

altre norme. Per le cose conferite in proprietà , infatti,

l’art. 2254, 1° comma, c.c. d ispone che <<la garanzia

dovuta dal socio e il passaggio dei rischi sono regolati

dalle norme sulla vendita>>98; ne consegue che, se la

società ha acquistato la proprietà della cosa, il rischio

del perimento graverà su quest’ultima. Il rischio per le

cose conferite in godimento è, invece, <<a carico del

socio che le ha conferite>> (ex art. 2254, 2° comma,

c.c.); in a ltri termini, ciò significa che il socio, pur non

essendogli imputabile il perimento del conferimento,

può essere escluso dalla società per volontà degli altri

soci (ex art. 2286 c.c.). A tal riguardo, si pone il

problema dell’estensibilità a i conferimenti della

disposizione contenuta all’art . 1465 c.c., in particolare il

2° comma, essendo quest’ultimo in contrasto con

quanto stabilito all’art. 2286, ultimo comma, c.c. in base

al quale il socio che si è obbligato a trasferire la

proprietà di una cosa alla società può essere escluso

<<se questa è perita prima che la proprietà sia

acquistata dalla società>>. Non risultano pronunce

giurisprudenziali sulla questione.

Premesso che, in caso di dubbio, per

stabilire se il conferimento è in godimento o in

proprietà sarà necessario ricorrere a quanto

98 È bene sottolineare come erroneamente illegislatore abbia richiamato le norme della vendita ancheper il passaggio dei rischi essendo quest’ultimo aspetto,in realtà, disciplinato nel titolo riguardante i contratti ingenera le, più specificatamente si fa riferimento all’art.1465 c.c.

disposto dall’art. 2253, 2° comma, c.c.99; si

discute sui possibili problemi sollevati dal

rinvio alle norme sulla vendita.

Com’è noto, il passaggio del ri schio del

perimento della cosa avviene al momento del

verificarsi dell’effetto reale, pertanto, se per

caso fortuito la cosa è perita dopo il verificarsi

del suddetto effetto e per causa non imputabile

all’alienante non vi sarà la risoluzione del

contratto e l’acquirente sarà obbligato al

pagamento del prezzo anche se la cosa non gli

è stata ancora consegnata (cd. principio del res

perit domino).

Tale principio subisce delle eccezioni,

anzitutto nella previsione dell’art. 1465, 2°

comma, c.c. in cui si dispone che qualora

l’effetto reale è differito fino allo scadere di un

termine, il passaggio del rischio avviene già alla

stipulazione del contratto. Quando, invece, il

trasferimento del diritto reale è sottoposto a

condizione sospensiva, il passaggio del ri schio

avviene al verificarsi della condizione e non al

momento della stipulazione del contratto (ex

art. 1465, ultimo comma, c.c.).

In merito all’applicabilità in generale del

principio consensualistico ai conferimenti di

99 In base al quale il bene conferito deve ritenersi inproprietà della società se necessario al perseguimentodell’oggetto sociale.

beni in proprietà parte della dottrina, aderendo

alla tesi per cui anche in materia societaria

trova applicazione il principio consensualistico

(il che equivale a dire che l’atto costitutivo di

società rientra tra gli atti ad effetti reali ex art.

1376 c.c.), individua la spiegazione dell’ultimo

comma dell’art. 2286 c.c. <<nella posizione

assunta dall’ordinamento vigente sul problema,

in passato controverso, del passaggio del

rischio nell’ipotesi di apporto di beni in

proprietà (o diritti reali in genere)>>100. Nel

sistema previgente, infatti, si riteneva che

tramite gli artt. 1731, 1° comma, c.c. e 186, 2°

comma, cod. comm. era stato introdotto il

principio speciale in base al quale il rischio, a

differenza di ciò che normalmente accade nella

compravendita, veniva trasmesso solo alla

consegna della cosa conferita e non al

trasferimento della proprietà; tutto ciò al fine

di assicurare l’integrale costituzione del fondo

sociale e di rafforzare l’obbligo dell’apporto.

Tuttavia, tale interpretazione non superò le

critiche mosse da gran parte della dottrina,

anzitutto non era possibile attribuire al

contratto sociale la natura di contratto

traslativo e non riconoscere che i beni

apportati costituivano fondo sociale a

100 PORTALE, Principio consensualistico e conferimentodi beni in proprietà, in Riv. soc., 1970, p. 927.

prescindere dalla consegna. Inoltre, si notava

come mettendo in relazione l’art. 186, 2°

comma, cod. comm., e l’art. 1731, 1° comma,

c.c. con il 3° comma di quest’ultimo (<<la

società rimane sciolta per la perdita della cosa

la cui proprietà fu già conferita (…)>>), ne

risultava che tali disposizioni si limitavano a

prevedere che il rischio gravasse sul socio solo

quando, per la natura del bene conferito, non

fosse possibile che dalla sottoscrizione del

contratto sociale conseguisse l’effetto reale101.

Con specifico riferimento, poi, ai problemi

che il rinvio alle norme della vendita comporta,

autorevole dottrina ritiene indubbiamente

applicabile, in tema di rischi dei conferimenti,

sia il principio generale del res perit domino, sia

tutte le ipotesi di eccezione al principio (art.

101 In base a quanto detto, l’Autore ritiene che <<laformula dell’art. 2286, comma 3°, cod. civ. vig. è stataadottata proprio al fine di riaffermare in termini piùchiari questo stesso principio: il legislatore del ’42, (…),per eliminare ogni dubbio sul momento del passaggiodel rischio del conferimento, non solo ha richiamatonell’art . 2254, comma 1°, cod. civ. vig. la disciplina dellavendita, ma si è anche servito nell’art. 2286, comma 3°,di un linguaggio idoneo a ribadire in modo espressoquanto già implicitamente detto nella prima norma, ecioè che, nell’ ipotesi di apporto di beni in proprietà, iltrasferimento del rischio è collegato non alla consegna,ma all’effetto reale, con la conseguenza che in caso diperimento del bene, il socio può essere escluso soltantose questo evento si verifichi prima dell’acquisto dellatitolarità del bene da parte della società>> (PORTALE,op. cit., p. 929).

1465 c.c.), purché compatibili con la disciplina

societaria102.

102 Si tratta di CAGNASSO. Rispetto all’art . 2286,

ultimo comma, c.c. l’ Autore afferma che tale

disposizione debba necessariamente leggersi in

collegamento con l’art. 2254 c.c.,<<secondo una

peculiare tecnica legislativa, in quest’ultimo è fissata la

disciplina del passaggio del rischio nei conferimenti d i

beni in proprietà, nella prima sono indicate le

conseguenze sotto il profilo dell’esclusione del socio.

(…) Occorre, in alt ri termini, non dimenticare che,

mentre sotto l’impero dei codici abrogati, sussisteva, in

tema di passaggio dei rischi in materia di conferiment i di

cose in proprietà , una sola d isposizione che ne indicava

le conseguenze sotto il profilo dell’esclusione del socio

(art. 186 cod. comm. 1882) o dello scioglimento della

società (art. 1731 c.c. 1865), (…), nel sistema vigente

vengono in considerazione due disposizioni (…) non mi

pare quindi possa ricavarsi dalla lettera dell’art. 2286 una

limitazione all’operatività del principio posto dal primo

comma dell’art . 2254>> (CAGNASSO, Problemi

interpretativi in tema di garanzia e rischi dei conferimenti in

natura, in Riv. soc., 1974, p. 759 e seg.). A sostegno di tale

argomentazione, si fa riferimento all’art. 1221 c.c., in

base al quale l’impossibilità sopravvenuta della

prestazione non libera il debitore in mora anche se a lu i

non imputabile. <<Tale principio, applicato ai contratt i

con efficacia traslativa, costituisce un’attenuazione della

regola res perit domino. Non c’è dubbio, d’alt ro lato,

come esso si applichi anche in caso di mora nei

conferiment i in società. (…) Se, per converso, si ritiene

estensibile ai conferimenti l’attenuazione del principio

res perit domino contenuta nell’art. 1221, non si vede

perché non debba ritenersi applicabile anche il disposto

di cui al secondo comma dell’art. 1465>>. Con

riferimento, invece, al caso di conferimento in

Con lo specifico riferimento, poi, al

conferimento in godimento è stato sostenuto

che il regime del rischio è senza dubbio a

carico del socio (considerato come debitore

verso la società perché obbligato a far godere

della cosa conferita103) che avrà l’onere di

dimostrare che il perimento non è in alcun

modo a lui imputabile104.

godimento e della questione su a chi spetti l’onere della

prova liberatoria, l’Autore ritiene che la soluzione si

trovi nell’applicazione dell’art. 1588 c.c. (Che al

1°comma dispone <<il conduttore risponde della perdita

e del deterioramento della cosa che avvengono nel corso

della locazione, anche se derivanti da incendio, qualora

non provi che siano accaduti per causa a lui non

imputabile>>) dal quale ne consegu irebbe che è la

società a dover provare che il perimento o il solo

deterioramento della cosa non è a lei imputabile. Tale

argomentazione, infatti, si basa sulla considerazione che

l società ha l’obbligo di custodire e restituire la cosa.

103 GHIDINI, Società personali, Padova, 1972, p. 161nota 119, <<Si deve invece ravvisare il socio conferentecome debitore della continuità del godimento della cosa,a favore della società; in tal modo la soluzione da noidifesa trova conferma nello stesso art. 1218 c.c., inquanto, se il socio vuole evitare le conseguenze delmancato adempimento, dipendente dal perimento dellacosa conferita in godimento, deve provare che ilperimento stesso derivò da causa a lui non imputabile,bensì imputabile agli amministratori>>.

104 Sostenere l’idea contraria (per cui spetta allasocietà l’onere della prova), afferma l’Autore, porterebbealla conclusione che <<in realtà il rischio del perimentoincomberebbe sulla società essendo essa tenuta a subirloove non le riuscisse la prova liberatoria. Si applicherebbe

Non risultano numerose pronunce sul

tema della disciplina applicabile ai conferimenti

in società personale, soprattutto con riguardo

al particolare aspetto del passaggio del rischio.

Tuttavia, non sono mancate sentenze

orientate ad escludere l’applicabilità delle

norme sulla vendita al conferimento in

società105.

allora la regola posta per la locazione (art. 1588, 1°comma), laddove, proprio nel contesto di una norma(art. 2254) che richiama il regolamento della locazioneper la garanzia, il richiamo non è stato fatto per ilpassaggio del rischio>> (GHIDINI, op. cit., p. 161).

105 Cfr. Cass. 24-05-1965, n. 999. In opposizioneall’applicabilità della clausola compromissoria, nellaquale era previsto il deferimento agli arbitri dellecontroversie relative al cont ratto sociale, il ricorrentesosteneva che il conferimento di beni in società (nellafattispecie una s.p.a.) fosse assimilabile allacompravendita e, pertanto, la posizione del conferenteandava identificata con la posizione di unvenditore/creditore del prezzo, conseguentemente, ta leposizione esulava dai rapporti societari. La Corte rigettatale tesi, affermando che <<l’atto di conferimento, qualeche ne sia il contenuto, è atto di adempimento delcontratto di società, in quanto con esso viene attuatol’impegno assunto con quel contratto. Il conferimentopresuppone, quindi, il perfezionamento del vincolosociale e l’assunzione della qualità di socio da parte delconferente, poiché, ove il patto sociale non sussistesse ela qualità di socio non fosse stata assunta, ilconferimento medesimo resterebbe privo di causa>>.Secondo il pensiero della Corte, pertanto, non èpossibile identificare il conferimento con il rapporto dicompravendita ma vi è solo un <<assoggettamento delconferimento in proprietà alle norme proprie deirapporti traslativi, che trovano nel rapporto dicompravendita il più evidente punto di emersione>>.L’art. 2254 c.c., secondo tale orientamento, si limita adapplicare ai conferiment i in società il principio per cui ilsoggetto cui il bene è t rasferito deve essere garantito daeventuali vizi.

5) La responsabilità per le

obbligazioni sociali.

In base alla disciplina contenuta all’art.

2267 c.c., vi sono diverse questioni discusse in dottrina:

1) se rispondono delle obbligazioni sociali nello stesso

modo coloro che hanno agito in nome e per conto della

società e coloro che hanno compiuto atti di

amministrazione interna; 2) quale sia la natura giuridica

della responsabilità illimitata dei soci e, infine, 3) quali

sono le condizioni per l’escussione del patrimonio

personale del socio. La giurisprudenza si è t rovata ad

esaminare il problema della natura giuridica della

responsabilità dei soci soprattutto con riferimento a casi

di garanzia fideiussoria.

In altri termini, l’orientamento espresso dallaCassazione in questa pronuncia ritiene che, in materia diconferiment i in società (sia personali che di capita li) visia un negozio iniziale (il contratto sociale) da cui derival’obbligo di trasferire il bene e, successivamente, un attodi esecuzione con efficacia rea le. Tale interpretazionerisulta certamente coerente con la lettera dell’art. 2286,ultimo comma, c.c. in cui si dispone l’esclusione delsocio <<che si è obbligato con il conferimento atrasferire la proprietà di una cosa>>.

Nello stesso senso anche Cass. 20-08-1990, n. 8492.L’affittuario di un podere lamentava la violazione delsuo diritto di prelazione in quanto, il suddetto podere,era stato conferito in una s.p.a. senza dargli la possibilitàdi esercitare il diritto. Il ricorrente basava la propriapretesa sull’equiparazione del conferimento in società adun contratto a titolo oneroso di compravendita. LaCassazione respinge il ricorso sull’assunto che <<ilconferimento di un bene in proprietà non concreta uncontratto di scambio e non rient ra nel novero dellealienazioni a t itolo oneroso. (…) Dal d isposto dell’art.2254 c.c., richiamato dall’art. 2342 c.c., è erroneoargomentare una equiparazione del conferimento dellaproprietà di una cosa con la sua compravendita>>.

Per quanto riguarda il primo quesito, la

dottrina dominante esclude che il legislatore

consideri come inderogabile la responsabilità di

coloro che hanno compiuto solo atti di

amministrazione interna.

Tale argomentazione poggia sull’idea che,

in base al testo dell’art. 2267 c.c.,

l’inderogabilità della responsabilità illimitata di

colui che agisce in nome e per conto della

società trova giustificazione nella necessità di

tutelare i terzi in mancanza di un sistema di

pubblicità legale. A tal riguardo, è possibile

paragonare la norma in esame con quella che

dispone la responsabilità illimitata per

l’accomandante ingeritosi nella gestione

sociale. Ricordando infatti che il divieto di

immistione comprende sia gli atti di

amministrazione esterna che interna, la

dottrina ritiene che la norma sulla

responsabilità di chi agisce in nome e per

conto della società acquista il proprio

significato solo ponendola in relazione con la

distinzione legislativa tra amministrazione e

rappresentanza, per cui le norme dettate per

questa non devono necessariamente essere

estese a quella106.

106 È il pensiero del BOLAFFI (La società semplice,

Milano, 1975, p. 520 e seg.). In tal senso si esprime

In opposizione a questa tesi, recente

dottrina ritiene che l’interpretazione dell’art.

2267 c.c. nel senso dell’inderogabilità della

responsabilità illimitata per chi ha la

rappresentanza della società, con la

anche il DI SABATO, secondo il quale con la formula

<<i soci che hanno agito>> il legislatore ha voluto

riferirsi ai <<soci amministratori a i quali è attribuita la

rappresentanza della società, posto che la ratio della

responsabilità personale inderogabile risiede

nell’esigenza di tutela dei terzi che acquistano diritti nei

confronti di un gruppo non personificato, privo quindi

di affidabile organizzazione interna>> (DI SABATO,

Manuale delle società, Torino, 1995, p. 138). Secondo

l’Autore, infatti, non sarebbe giustificabile una

responsabilità inderogabile per gli amministratori sfornit i

del potere di rappresentanza poiché, con l’art. 2267 c.c.,

il legislatore ha voluto individuare una categoria d i

soggetti che rispondono sempre di tutte le obbligazioni

sociali. <<Se così non fosse, non si saprebbe quale

significato dare alla solidarietà stabilita t ra soci che

agiscono, dato che secondo il regime legale ciascun

socio può compiere da solo atti che impegnano la

società (art. 2257 c.c.). Né si giustificherebbe la

limitazione della responsabilità personale di questi soci

alle sole obbligazioni derivant i dall’att ività negoziale,

lasciando fuori dalla previsione normativa le

obbligazioni di fonte non negoziale (tributarie, da fatto

illecito), per le quali o non risponderebbe personalmente

alcun socio o risponderebbero soltanto i soci che non

agiscono, la cui responsabilità – ove non esclusa dal

contratto sociale – finirebbe quindi per essere

paradossalmente più ampia di quella dei soci che

agiscono>> (DI SABATO, op. cit., p. 137 e seg.).

conseguenza che del patto di limitazione

possono usufruire anche i soci amministratori

purché non agiscano all’esterno, porta a delle

inaccettabili conclusioni. Tale ricostruzione,

infatti, andrebbe inevitabilmente a spezzare

quella correlazione tra potere di direzione e

rischio di impresa della quale si è più volte

parlato come principio fondamentale delle

società di persone107. Pertanto, secondo tale

orientamento, l’art. 2267, 1° comma, c.c. fa

riferimento ai soci che, in qualsiasi modo,

partecipano alla gestione della società, anche

107 È la tesi sostenuta dal GALGANO. A talriguardo, l’Autore tenta di rovesciare la tradizionalelettura dell’art. 2267 c.c. osservando che unaresponsabilità legata alla rappresentanza porterebbe allaconclusione che i soci che hanno agito in nome e perconto della società saranno responsabili delle soleobbligazioni da loro stessi assunte e per le quali hannoagito, e non anche di quelle assunte dagli altrirappresentanti la società. <<Ma è proprio questaconclusione che mette in evidenza l’erroneità dellapremessa. Una responsabilità connessa con larappresentanza è concepibile solo per le obbligazionicontrattuali; e queste non esauriscono la serie delleobbligazioni sociali: sono altrettante obbligazioni sociali,agli effett i dell’art. 2267 c.c., anche le obbligazioni dafatto illecito, le quali sorgono indipendentemente daogni agire in nome e per conto della società; e si pensi,oltre che alle obbligazioni da fatto illecito, al debito diimposta, anch’esso irriducibile al concetto diobbligazione contrattuale. Perciò il patto di limitazionedella responsabilità, se inteso come patto che riduce laresponsabilità del socio alle sole obbligazioni per le qualiegli stesso abbia agito, non varrebbe soltanto adescludere la responsabilità d i ciascun socio per leobbligazioni contrattuali assunte da altri soci, mavarrebbe altresì ad escludere la responsabilità di tutti i sociper le obbligazioni non contrattuali>> (GALGANO, Lesocietà in genere. Le società di persone, Milano, 2007, p 304).

senza agire all’esterno in qualità di

rappresentanti.

Venendo alla seconda questione sulla

natura della responsabilità dei soci, questa è

diversamente ricostruibile come responsabilità

diretta per debito proprio, o come

responsabilità indiretta, cioè per debito altrui.

La prima impostazione viene solitamente

giustificata con l’ assenza di soggettività

giuridica nelle società di persone,

considerando, pertanto, i soci come contitolari

dell’impresa sociale. Ne consegue che la

distinzione tra la responsabilità dei soci e

responsabilità della società non opera sotto il

profilo soggettivo, bensì sotto quello oggettivo

del gruppo di beni offerti al soddisfacimento

del creditore. Quest’ultimo può agire prima su

un gruppo di beni (quelli attinenti al

patrimonio sociale), successivamente su un

altro gruppo di beni (quelli personali del socio

illimitatamente responsabile)108.

Non è mancato in dottrina chi, pur

arrivando alla medesima conclusione, articola

la propria argomentazione su basi differenti

ritenendo sia la questione della soggettività

delle società personali, che l’esistenza del

108 In tal senso GHIDINI, Società personali, Padova,1972, p. 228 e seg.

beneficium excussionis non determinanti per

risolvere il problema inerente la natura della

responsabilità dei soci109. Pertanto, non può

escludersi che la responsabilità del socio pur

avendo carattere sussidiario sia comunque una

responsabilità diretta nei confronti dei creditori

sociali. In realtà, la soluzione andrebbe cercata

nella struttura della società. Esaminando la

disciplina codicistica, in particolare gli artt.

2291 (in cui si dispone che tutti i soci della

s.n.c. sono illimitatamente responsabili), 2267,

2313 (per cui sono allo stesso modo

personalmente responsabili i soci

accomandatari) e 2320 (secondo cui la

responsabilità si estende anche agli

accomandanti ingeritisi nella gestione sociale)

c.c., ne deriva che la responsabilità personale

dei soci è strettamente connessa al ri schio

d’impresa. Si arriva, pertanto, alla conclusione

che l’obbligazione sociale è un’obbligazione

per debito proprio del socio poiché per lo

109 Il beneficium excussionis, infatti, <<rappresenta unamodalità di attuazione del rapporto obbligatoriorilevante nella fase esecutiva; le norme che rendonosussidiaria la responsabilità dei soci si limitano a stabilirel’ordine in cui dovranno essere aggrediti i beni dei soci(prima quelli comuni, poi quelli di ciascuno) ma nonincidono sul dato fondamentale per cui i socisopportano integralmente il rischio d’impresa erispondono per le obbligazioni relative all’impresa siacon i beni investiti che con i propri personali>>(BOZZA, Limiti dei privilegi generali in materia di fallimentodelle società di persone, in Dir. fall., 1983, I, p. 341-42).

stesso debito sono obbligati la società (col

patrimonio sociale) e ciascun socio col proprio

patrimonio110.

Secondo la dottrina contraria, invece, vi è

una diversità, sia sotto l’aspetto genetico -

funzionale sia per quanto riguarda l’oggetto

della prestazione, tra l’obbligazione della

società e quella del socio. Tale differenza,

concettuale e di conseguenze giuridiche, tra

l’obbligazione della società e quella che grava

sul socio illimitatamente responsabile, è resa

evidente dalle norme contenute agli artt. 2266

(con cui si dispone la capacità delle società

personali di acquistare diritti ed assumere

obbligazioni), 2268 (dal quale si evince, al 1°

comma, che l’obbligazione gravante sul socio è

solo quella del pagamento dei debiti sociali) e

2269 (in cui è prevista la responsabilità del

socio subentrato anche per le obbligazioni

pregresse). L’obbligazione della società, infatti,

sorge in virtù del rapporto con il terzo

(creditore) e ha come contenuto la prestazione

stabilita, mentre quella del singolo socio sorge

110 <<E’ un’obbligazione soggettivamentecomplessa, con una pluralità di soggetti ex parte debitoris, iquali sono tenuti all’eadem res debita che discende dall’eadem causa obligandi e che si attua in fase esecutiva conmodalità diverse in rapporto di sussidiarietà e non disolidarietà>>, (BOZZA, op. cit., p. 348).

dall’obbligo legale di responsabilità ed ha

sempre un contenuto monetario111.

Per quanto riguarda, invece, le condizioni

per l’escussione del patrimonio personale del

socio (ex art. 2304 c.c.), non è del tutto chiaro

se, ai fini della procedibilità, il creditore sociale

debba sempre aver agito esecutivamente ed

infruttuosamente il patrimonio sociale o se, al

111 È l’argomentazione sostenuta dal PALMIERI,secondo il quale <<Per un immediato apprezzamentodella distinzione basta por mente a tutte quelle ipotesi incui l’obbligazione della società consiste in un facere o nonfacere (ad es. un patto di non concorrenza). In casi siffattiil terzo non potrà pretendere dal socio illimitatamenteresponsabile il comportamento dovuto dalla società, masolo ed eventualmente una prestazione di pagamento>>,(PALMIERI, Privilegio generale e sua estensione al fallimentodei soci illimitatamente responsabili, in Riv. d ir. comm., 1978,II, p. 7). Sostiene la tesi per cui la responsabilità delsocio è responsabilità per debito altrui anche DISABATO. Secondo l’Autore, infatti, se davvero sitrattasse di una responsabilità solidale per debitoproprio, il socio, che abbia estinto un debito sociale,avrebbe allora il diritto di regresso soltanto nei confront idegli a ltri soci pro quota, secondo i comuni principi dellasolidarietà ex art. 1299 c.c. <<E se così fosse, la societàvedrebbe in tal modo estinto direttamente dai soci il suodebito e potrebbe quindi – senza contropart ite –cancellarlo dal proprio passivo come se si t rattasse diuna sopravvenienza attiva>> , (DI SABATO, Manualedelle società, Torino, 1995, p. 135). Tale soluzione,sostiene l’Autore, qualora fosse accolta violerebbe, da unlato, il principio secondo cu i i soci non possono esserecostretti a conferimenti u lteriori rispetto al cont rattosociale, dall’altro lato, contrasterebbe con la regola percui l’utile è la plusvalenza dell’attivo rispetto al passivo,<<dato che la tesi in questione induce allarappresentazione in bilancio di un risultato positivofittizio, d i importo pari alla posta passiva eliminata aseguito del pagamento dei debiti socia li eseguito dai sociin proprio>>. Ne consegue che è la società l’unicodebitore principale nei confronti dei creditori sociali,mentre i soci sono responsabili solidalmente comegaranti dei debiti sociali giuridicamente imputabili allasocietà.

contrario, sia sufficiente la dimostrazione, in

qualunque modo raggiunta, dell’insufficienza

del patrimonio sociale alla soddisfazione anche

parziale del credito. A quest’ultima

interpretazione si lega, conseguentemente,

l’ulteriore quesito su quali siano i mezzi idonei

alla dimostrazione dell’incapienza del

patrimonio sociale112.

Con riferimento alla natura giuridica della

responsabilità dei soci, la giurisprudenza

solitamente riteneva che, in virtù del mancato

112 Aderisce alla prima tesi il G HIDINI, il quale

ritiene che la procedura esecutiva nei confronti della

società debba essere addirittura esaurita prima di poter

agire verso il socio. <<La preventiva escussione non

consiste nella semplice richiesta di pagamento, che

rimanga inevasa, rivolta alla società (a i rappresentanti d i

essa), ma nel compimento degli atti esecutivi a carico

della società medesima e nell’esaurimento della

procedura esecutiva>> (GHIDINI, Le società personali,

Padova, 1972, p. 260). Secondo il CAMPOBASSO,

invece, l’istituto del beneficium excussionis non richiede al

creditore socia le di condurre fino in fondo un

procedimento esecutivo infruttuoso prima di poter agire

nei confront i del socio. <<E’ tuttavia opinione corretta

che la preventiva escussione del patrimonio sociale non

è necessaria quando circostanze oggett ive dimostrano

con certezza l’inutilità della stessa. Ad esempio, azione

esecutiva inutilmente tentata da altro creditore senza che

nel frattempo siano mutate le condizioni pat rimoniali

della società>> (CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 2,

Torino, 2003, p. 93).

riconoscimento della personalità giuridica alle

società di persone, ed essendo, inoltre, il socio

l’ultimo soggetto chiamato a rispondere dei

debiti sociali (ex art. 2291 c.c.), era a lui che

doveva esserne direttamente imputata la

titolarità. Pertanto, la responsabilità del socio

illimitatamente responsabile era responsabilità

per debito proprio113.

La questione sulla natura diretta per debito

proprio diventa determinante in quelle

pronunce rese in merito alla validità o meno

della garanzia fideiussoria prestata dal socio

illimitatamente responsabile verso il creditore

sociale114. Problema, quest’ultimo, venuto

113 Cfr. Cass. 05-11-1999, n. 12310. Non risultachiaro il fatto ma nell’argomentazione della Corte silegge che <<la posizione del socio illimitatamenteresponsabile d i una società personale non è assimilabilea quella di un fideiussore, sia pure ex lege, poiché mentrequest’ultimo garantisce un debito altru i e per ta leragione, una volta effettuato il pagamento ha azione diregresso per l’ intero nei confronti del debitore principalee si surroga nei d iritti del creditore (artt. 1949 e 1950c.c.), il socio illimitatamente responsabile risponde con ilproprio pat rimonio di debiti che non possono dirsi a luiestranei, in quanto derivanti dall’esercizio dell’attivitàcomune (…). Tali conclusioni non trovano ostacolo nelfatto che anche le società personali costituiscono centridi imputazione di situazioni giuridiche distint i dallepersone dei soci, posto che siffatta soggettività hacarattere transitorio e strumentale, essendo i diritt i e gliobblighi ad esse imputati destinati a tradursi in situazioniindividuali in capo ai singoli membri>>.

114 Cfr. Trib. Milano 08-06-1998. Con talepronuncia è dichiarata la nullità della fideiussioneprestata da alcuni soci di una s.n.c. in garanzia d iun’obbligazione sociale. La sentenza viene emessa insede di opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto dal

solitamente in considerazione nell’ambito di

procedure di concordato preventivo, essendo

ben diverse le conseguenze a carico del

creditore sociale nei confronti sia della società che deisoci fideiussori, l’opposizione viene promossa da unodei soci assumendo di aver ceduto la propria quotasociale in data anteriore e eccependo la liberazione delfideiussore ai sensi dell’art. 1956 c.c. In accoglimentodell’eccezione, il Tribunale afferma che <<la fideiussionedel socio di società in nome collettivo è nulla permancanza di causa poiché il socio già risponde delleobbligazioni sociali con tutto il proprio patrimonio,essendo già obbligato per i debiti della società, ai sensidegli artt. 2267 e 2291 c.c.>>. Pertanto, essendo statoemesso decreto ingiuntivo nei confronti dell’opponentenella sua qualità di fideiussore e non di socio il Tribunalerevoca nei suoi confronti il suddetto decreto.

Nello stesso senso anche Trib. Nocera Inferiore 02-03-1995. Identico il fatto, due soci d i s.n.c. sioppongono alla richiesta di pagamento avanzata da uncreditore sociale in qualità di fideiussori della societàstessa. In merito alla validità o meno della fideiussioneprestata dai soci il Tribunale non ritiene la mancanza disoggettività della s.n.c. un argomento decisivo perinvalidità della garanzia fideiussoria. <<La ricostruzionesistematica della disciplina normativa della società innome collettivo non consente di escludere l’effettivaterzietà del socio rispetto alla società (ex art. 2305 c.c.). ladiversità dei soggetti e l’altruità dell’obbligazionegarantita, essenziali alla nozione di fideiussionepresupposta dall’art. 1936 c.c., non è in definit iva diostacolo, considerandosi garante il socio e garantita lasocietà>>. Secondo l’argomentazione seguita nellasentenza in esame, viene meno la tipica causafideiussoria, che è quella di rafforzare la garanzia delcreditore tramite l’allargamento del suo potere diaggressione verso il patrimonio di un altro soggetto (ilfideiussore) diverso dal debitore principale. <<Ma, inipotesi di fideiussione prestata dal socio a favore di unas.n.c., si rivela inesistente ogni funzione diretta edimmediata di rafforzamento dell’obbligazione socia legarantita, giacché ex art. 2291 c.c. società in nomecollettivo tutti i soci rispondono illimitatamente verso icreditori sociali>>.

In senso contrario è Cass. 12-12-2007, n. 26012 eTrib. Firenze 13-03-2002 di cui si è già discusso inmerito alla questione sulla soggett ività delle societàpersonali, in nota n. 27.

soggetto a seconda che venga collocato tra i

destinatari delle disposizioni del 1° o del 2°

comma dell’art. 184 l. fall. che, disciplinando

gli effetti del concordato preventivo per i

creditori, stabilisce al 3° comma, <<salvo patto

contrario, il concordato della società ha

efficacia nei confronti dei soci illimitatamente

responsabili>>. La norma è quindi piuttosto

chiara nel disporre che in assenza di espressa

pattuizione fra i creditori e la società debitrice,

il pagamento della percentuale concordataria

da parte della società libera anche i soci

illimitatamente responsabili. la questione che si

pone è allora se ciò valga anche per quei soci

illimitatamente responsabili che abbiano

personalmente garantito i debiti della società.

La giurisprudenza, dopo un atteggiamento

oscillante, ha riconosciuto l’efficacia

esdebitativa del concordato, impedendo così ai

creditori sociali di escutere direttamente i soci

fideiussori oltre i limiti della percentuale

concordataria, in base alla considerazione che

ritenere il socio fideiussore come un

coobbligato ai sensi dell’art. 184, 2° comma, l.

fall. assicurerebbe ad un singolo creditore il

pagamento pieno, violando in tal modo la par

condicio creditorum115.

115 Cfr. App. Genova 12-05-1982. In cui si leggeche <<i l concordato prevent ivo di società con sociillimitatamente responsabili (nella specie, società in

È possibile osservare che tale indirizzo, di

fatto, non riconosce la fideiussione del socio, o

più precisamente, da un lato ammette la

possibilità per il socio illimitatamente

responsabile di prestare fideiussione per un

debito sociale, dall’altro la stessa

giurisprudenza ritiene simile garanzia

inoperabile in sede fallimentare. È bene

sottolineare ancora come non sia necessario

affrontare la questione sulla soggettività delle

società personali per risolvere il problema della

validità della fideiussione del socio. Si

potrebbe, infatti, ritenere che il socio si pone

come garante per un debito comune a tutti i

soci rinunciando preventivamente all’eccezione

della preventiva escussione del patrimonio

sociale.

Con riferimento, invece, all’operatività del

beneficium excussionis sono poche le pronunce

rilevanti in giurisprudenza dalle quali è

possibile trarre i principi secondo cui: 1) se il

socio chiamato in giudizio per il pagamento di

un credito sociale, vuole opporre, in via

d’eccezione, al creditore sociale il beneficio di

preventiva escussione del patrimonio sociale

deve necessariamente procedere ala citazione

nome collettivo) produce la liberazione anche dei sociche abbiano prestato separatamente fideiussioni perobbligazioni della stessa società>>.

degli altri soci (non sussistendo per il giudice

l’obbligo di procedere ex officio a tale chiamata

in giudizio)116; 2) l’ambito di operatività del

116 Cfr. Cass. 12-01-1983, n. 198. Il socio di unasocietà di fatto propone ricorso avverso la sentenzad’appello in cu i era stabilito che il beneficio d’escussionenon potesse essere opposto come eccezione, e che su dilui gravasse l’onere di chiamare in causa gli alt ri soci alfine di poterlo esercitare. Pertanto, l’opponentedichiarava da un lato che si trattava di una vera e propriaeccezione (posto che senza di questa non era possibilefar valere il beneficio); dall’altro lato che dall’art. 2268c.c. non era possibile evincere il suddetto onere dichiamata in causa degli altri soci al fine dell’esercizio delbeneficio. La Corte, a tal riguardo, osserva come nellesocietà personali i creditori socia li possono semprecontare sul patrimonio socia le e sulla responsabilitàpersonale e solidale dei soci che hanno agito in nome eper conto della società (ex art. 2267 c.c.); e che al sociocui sia richiesto il pagamento di un debito sociale èattribuito il beneficio della prevent iva escussione delpatrimonio sociale con l’onere di indicare i beni su cui ilcreditore possa agevolmente soddisfarsi. Il beneficio,pertanto, è subordinato a due condizioni: 1) che sia fattovalere dal socio, 2) che questo indichi i beni cui ilcreditore possa soddisfarsi agevolmente. <<Ora,riguardo al primo punto, è evidente che perchél’esercizio della preventiva escussione possa ritenersiconcretamente richiesto occorre che nella causa il socioperseguito ne attui il presupposto: e ciò con la citazionedegli alt ri soci o con l’ istanza, rivolta al giudice, di essereautorizzato ad esercitare la chiamata in causa. Occorre,quindi, che l’azione, legittimamente promossa dalcreditore nei confront i di uno solo dei soci della societàdi fatto, venga paralizzata mediante l’int roduzione nelgiudizio, ad iniziativa ad e cura del titolare del beneficio,degli a ltri soggetti nei confronti dei quali il creditoresociale possa, a norma dell’art . 2268 c.c., esercitarel’escussione preventiva>> . La Corte, pertanto, rigetta ilricorso e conclude definendo il beneficio di preventivaescussione <<una ipotesi di garanzia impropria, rispettoalla quale – com’è noto – non sussiste alcun obbligo peril giudice in ordine alla chiamata in causa, ex officio, delterzo; ma sussiste soltanto la facoltà d i autorizzarla sesollecitato, con specifica istanza, dalla parteinteressata>>.

Proprio quest’ultimo aspetto della sentenza inesame desta curiosità. Non sembra condivisibileaccostare la figura del socio richiesto del pagamento dal

beneficio è limitato alla fase esecutiva ma ciò

non toglie che può essere opposto al creditore

sociale non solo quando l’esecuzione sia

iniziata ma anche quando è semplicemente

minacciata a mezzo precetto117.

creditore sociale a quella di un soggetto che vanta unagaranzia impropria. A ben vedere, infatt i, l’unicovantaggio che ha il socio in questione è solo quello dipagare dopo l’escussione del patrimonio sociale.Processualmente parlando, poi, è comprensibile ilprincipio secondo cui il socio, nell’eccepire il beneficio,debba chiamare in giudizio anche gli altri soci, in quanto,essendo il patrimonio sociale comune a tutti è giusto chegli interessati siano presenti per poter tutelare larispettiva posizione in relazione ai beni comuni, ancheperché potrebbero essere pregiudicati dall’azione delcreditore.

117 Cfr. Cass. 15-07-2005, n. 15036. Il socioaccomandatario di una s.a.s. propose opposizione alprecetto int imatogli da un creditore sociale deducendoche il titolo esecutivo si riferiva ad un debito dellasocietà, di cui lui rispondeva solo dopo il beneficiumexcussionis. Il creditore dichiarava che nel caso concretonon poteva trovare applicazione il suddetto beneficioavendo un’efficacia limitata esclusivamente alla faseesecutiva. In accoglimento di quest’ultima tesi, sia inprimo che in secondo grado venne rigettatal’opposizione sulla considerazione che il precetto ha unvalore solo negoziale e non esecutivo. Contro lasentenza della Corte d’Appello il socio accomandatariopropone ricorso in Cassazione. La Corte accoglie ilricorso sull’assunto che <<la tutela dei soci attraverso ilbeneficio costituisce applicazione del principio dell’art.2740 c.c. e del concetto di garanzia genera le che èconnesso al patrimonio del debitore a favore delcreditore; conseguentemente, il beneficio, attenendo allagaranzia del pat rimonio del socio nei confronti delcreditore socia le, opera nel senso che il socio non puòessere chiamato a rispondere in sede esecutiva primadella società, dotata di autonomia patrimonia le>>.Tuttavia, la Corte rileva come non possa impedirsi alcreditore di munirsi di titolo esecutivo nei confronti delsocio, esercitando le opportune azioni anche al fine dipoter iscrivere ipoteca giudiziale sui beni immobili delsocio stesso <<con la differenza che, se il titolo riguardala società , può essere azionato pure contro il socio,

mentre altrettanto non avviene nel caso inverso>>.Secondo l’argomentazione seguita dalla Corte, quindi, ilbeneficio della prevent iva escussione costituiscecondizione per l’azione esecutiva nei confront i del socio,tanto più che questo può proporre eccezione ex art. 615c.p.c. in caso di sua inosservanza. A differenza di quantoha ritenuto la corte di merito, la Cassazione afferma chea tal fine non è necessario che l’esecuzione sia iniziatama è sufficiente che sia già solo minacciata tramiteprecetto. <<Si posticiperebbe altriment i senza alcunagiustificazione la tutela del socio, imponendogli d iattendere che la minaccia contenuta nel precetto si attuicon il pignoramento, laddove viene ammessa la tutelaanticipata del debitore, consentendogli di ottenereancora prima dell’instaurazione del giudizio diopposizione a precetto un provvedimento che inibiscal’attivazione dell’esecuzione forzata>>. Pertanto, laCorte cassa la sentenza con rinvio.

La decisione assunta dalla Corta sembra corretta.Non sarebbe, infatti, logico imporre al debitore diaspettare di subire il pignoramento prima di poteropporre al creditore il beneficium excussionis. Se fosse così,il socio subirebbe un sacrificio (quello del pignoramentodi tutti o parte dei suoi beni personali) inutile, poichéquel pignoramento è destinato a venir menoconseguentemente all’opposizione del socio con cui favalere il beneficium excussionis.

Nello stesso senso è Cass. 12-08-2004, n. 15713. Dicui è possibile riportare solo la massima, <<Il beneficiumexcussionis concesso ai soci illimitatamente responsabilid’una società di persone, in base al quale il creditoresociale non può pretendere il pagamento da un singolosocio se non dopo l’escussione del patrimonio sociale,opera esclusivamente in sede esecutiva, nel senso che ilcreditore sociale non può proceder coattivamente acarico del socio se non dopo aver agitoinfruttuosamente sui beni della società, ma nonimpedisce al predetto creditore di agire in sede dicognizione, per munirsi d ’uno specifico titolo esecutivonei confronti del socio, sia per poter iscrivere ipotecagiudiziale sui beni immobili di questi, sia per poterprontamente agire in via esecutiva contro il medesimo,ove il patrimonio sociale risulti incapiente>> .

6) Scioglimento del rapporto

sociale limitatamente ad un

socio.

6.1) Morte del socio.

In base ad una prima interpretazione

dell’art. 2284 c.c., alla morte del socio consegue come

effetto immediato e diretto lo scioglimento del vincolo

particolare, nonché l’obbligo di liquidare la quota agli

eredi. Ne deriva che 1) l’effetto legale della morte è solo

la liquidazione della quota; 2) gli eredi hanno un diritto

di credito ad una somma di denaro (la liquidazione,

appunto) sottoposto ad una condizione risolutiva

potestativa di una diversa volontà dei soci superstiti

(che potrebbero, infatti, voler sciogliere la società o

continuarla con gli eredi); 3) la non necessità per i soci

superstiti che vogliano liqu idare la quota di manifestare

esplicitamente alcuna volontà in ta l senso. In base ad

altro orientamento, al cont rario, la morte non è causa di

scioglimento del rapporto (come si avrebbe con il

recesso e l’esclusione) che rimane in uno stato di

quiescenza conseguendone una situazione di incertezza,

destinata a risolversi solo una volta scelta una delle tre

soluzioni dettate dall’art . 2284 c.c. Altro problema che

si pone è, inoltre, se l’acquisizione della qualità di socio

da parte dell’erede implichi anche il conseguimento

della qualità di amministratore. La casistica riscontrata

non è particolarmente significativa.

Secondo un’autorevole dottrina l’effetto

diretto ed immediato della morte del socio

sarebbe la risoluzione del vincolo

particolare118. Ponendosi in una posizione di

critica con quanti ritengono che all’evento si

apra per i soci superstiti una triplice strada, la

tesi in esame non manca di sottolineare come

tale orientamento comporti un’inevitabile

situazione giuridica di incertezza destinata a

risolversi (nel silenzio degli altri soci) con

l’iniziativa degli eredi da manifestarsi mediante

l’intimazione ai soci di prendere la loro

decisione entro un dato termine, fissato

dall’autorità giudiziaria o dagli eredi stessi119.

118 Sostiene, ad esempio, il GHIDINI che le

alternative previste al’art. 2284 c.c. non sono tutte sullo

stesso piano, <<deve invece dirsi che alla morte del

socio, si ha una sola conseguenza legale, quella per cui la

società continua tra i soci superstiti, i quali debbono

liquidare agli eredi la quota del defunto. I soci superstiti

hanno tuttavia la facoltà di rimuovere la conseguenza

legale, decidendo, invece, o di sciogliere la società o di

continuarla con gli eredi (ove questi vi acconsentano)>>,

(GHIDINI, Società personali, Padova, 1972, p. 478).

Coerentemente a quanto detto, l’Autore ritiene che,

essendo il suddetto obbligo previsto dalla legge una

conseguenza diretta ed immediata della morte di un

socio, la volontà dei soci superstiti di liquidare la quota

agli eredi non necessita di espressa manifestazione.

119 <<Ognuno vede l’incongruità della soluzione:essendo tre le alternative, la interpellazione (invito adecidere) in ordine alla accettazione o meno di una di

Conseguentemente a quanto appena detto,

essendovi l’immediato scioglimento del

vincolo sociale nonché il principio

d’intrasferibilità della partecipazione sociale, la

quota non può trasmettersi automaticamente

agli eredi ai quali, pertanto, spetta un diritto di

credito alla liquidazione della stessa. Tale

diritto è tuttavia sottoposto alla condizione

risolutiva potestativa che i soci superstiti

decidano di sciogliere la società o di

esse, non sarebbe sufficiente a dirimere l’incertezza; isoci, tacendo, rivelerebbero bensì (arg. art. 1399, 4°comma) di rifiutare la soluzione oggetto dellainterpellazione, ma non rivelerebbero a quale delle dueulteriori alternat ive ancora libere o possibili, vada la loropreferenza>>, (GHIDINI, op. cit., p. 479). A talriguardo, l’Autore ritiene inadeguato il ricorso all’art.1399 c.c. poiché tale norma opera sul presupposto chel’intimazione a rispondere abbia ad oggetto ilcompimento di un solo atto (la ratifica), ne consegue chel’eventuale silenzio assume il significato di rifiuto alcompimento di quell’atto. Se, a l cont rario, le alternativepossibili sono più di una, la suddetta regola non puòvalidamente applicarsi, <<Infatti non sarebbe lecito agliinterpellanti (nella specie agli eredi) di formulare l’ invitoa decidere nel senso che, nel silenzio, si intenderà accoltauna data soluzione; in tal caso infatti la scelta dellasoluzione che dovrebbe prevalere o valere, verrebbefatta dagli interpellanti, i quali, in più casi, pot rebberoora indicare una soluzione, ora un’alt ra ancora; maproprio dal sistema accolto dalla legge, rivelato dall’art.1399, 4° co. (e dagli artt. 1286, 72 l. fallim.), risulta chenon la parte, ma solo la legge, può attribuire al silenziodell’interpellato un particolare significato volit ivo (quellodel rifiuto del dato – e solo – atteggiamento indicatonell’int imazione), mentre col sistema qui criticato,sarebbero gli eredi a stabilire, liberamente, il significatodel silenzio osservato di soci>>. GHIDINI, op. cit., nota13, p. 479.

proseguirla chiedendo agli eredi di subentrare

nel rapporto sociale120.

120 Della stessa opinione è AULETTA, il qualeafferma che <<la morte del socio trasforma il suo dirittoalla quota in diritto di credito degli eredi; ma se, neltermine di sei mesi, interviene la delibera dei socisopravvissuti di liquidare la società o il contratto dicontinuazione tra soci ed eredi, allora a lla morteconsegue nella prima ipotesi la successione degli eredinella quota della società in liquidazione, nella secondaipotesi la loro successione nella quota della società inattività d’impresa>>, (AULETTA, La morte del socio nellesocietà di persone, in Annali del Seminario giuridicodell’Università di Catania, IV (1949 – 50) Napoli, 1950, p.138). Proprio con riferimento a quest’ultima ipotesi,l’Autore afferma che con la stipulazione del suddettocontratto si attua una conversione del diritto di credito aun diritto di quota ed osserva, inoltre, che <<non si puòpiù parlare di successione degli eredi nel rapporto socia ledel defunto. D’altra parte, tra la morte e il contratto dicontinuazione intercorre un certo lasso di tempo, ondediventa inevitabile l’alternativa: o si esclude lasuccessione o si ritiene che la legge ha attribuito alcontratto di continuazione valore retroattivo>>,(AULETTA, op. cit., p . 136). A tal riguardo, l’Autoreritiene che affinché gli eredi partecipino anche neirapporti interni ai guadagni e alle perdite effettuate nelperiodo intercorso tra la morte del socio e il cont ratto dicontinuazione, <<è sufficiente che allo stesso contrattosi attribuisca efficacia retroattiva obbligatoria, ciò che èfacile per via d i interpretazione della volontà delleparti>> ; ritenendo, invece, che il contratto sia dotato diretroattività rea le, si avrebbe una successione nella quotae sarebbe come se non ci fosse mai stato un diritto dicredito degli eredi a lla liquidazione della stessa.L’argomento probante è, in realtà, quello che prende inconsiderazione gli interessi tutelati dal legislatore contramite la previsione di questa possibilità (cont inuazionedel rapporto socia le t ra gli eredi e i soci superstiti).Secondo quanto correttamente rit iene l’Autore, lo scopodel legislatore è di conservare in vita la società e in talsenso tutelare sia l’interesse dei soci superstiti ad averecome consoci delle persone gradite, sia l’ interesse deglieredi a non partecipare ad un’impresa non gradita, <<i lcontratto di continuazione dimostra che detti interessi,nell’ipotesi particolare, o non esistono o non sonopregiudicati dal permanere immutato del vincolo sociale;ora se detto contratto non agisse retroattivamente, loscioglimento parzia le finirebbe col tutelare interessi (p.es. gli interessi dei creditori del defunto o dei creditori

Contraria è l’opinione di chi sostiene che

l’evento morte si limiti a rendere quiescente il

rapporto sociale. Secondo tale orientamento,

alla morte del socio ne consegue che i soci

sopravvissuti debbano scegliere una delle tre

alternative poste all’art. 2284 c.c.121. Pertanto,

se i soci restanti deliberano lo scioglimento

della società, l’evento va considerato quale

mera occasione per la detta deliberazione e

non quale causa dello scioglimento né della

società e né del singolo rapporto sociale, che

degli eredi) diversi da quelli per la tutela dei quali lostesso è stato concesso, incrinando in certo sensol’indirizzo legislat ivo di favore per la continuazione dellasocietà>>, (AULETTA, op. cit., 137).

Non molto chiara è la posizione assunta dalBOLAFFI, secondo il quale lo scioglimento delrapporto sociale per morte non opera di diritto bensìsolo su richiesta di uno degli interessati e afferma,inoltre, la possibilità d i sostituire la disciplina legale conaltra soluzione decisa all’unanimità (BOLAFFI, La societàsemplice, Milano, 1975, p. 634).

121 A tal riguardo, afferma il VENDITTI che <<adifferenza del recesso e dall’esclusione, che hanno taleefficacia in quanto atti giu ridici, non opera di per séquale causa di scioglimento del rapporto socia lelimitatamente ad un socio. La sorte del quale, (…), restaprovvisoriamente incerta , in un sopravvenuto stato diquiescenza; ed è rimessa, pur indirettamente, cioèattraverso il riconoscimento di un potere di opzione, allavalutazione dei soci superstiti ed alla loromanifestazione, espressa o tacita, di volontà: dalla qualeviene perciò a dipendere l’assunzione, da parte deglieredi, della veste giuridica – rispettivamente – del sociouscente ovvero del socio di società in liquidazione o(salva, in questo solo caso, la necessità del loroconsenso) di società in attività d’impresa>>,(VENDITTI, L’erede del socio a responsabilità illimitata e lacontinuazione della società, in Riv. dir. comm., 1953, I, p. 220).

subisce solo le conseguenze della nuova realtà

trasformandosi da partecipazione a società

attiva in partecipazione a società in

liquidazione, e in questa partecipazione

subentreranno gli eredi122. Il permanere

dell’identità oggettiva della partecipazione

stessa insieme alla persistenza del vincolo

quiescente, porta la dottrina a ritenere che con

la continuazione del vincolo sociale insieme

agli eredi si attui una sostituzione soggettiva

all’interno della partecipazione123.

Breve accenno merita anche la diversa

questione se l’acquisizione dello status di socio

da parte degli eredi comporti anche il

conseguimento della qualità di amministratore.

122 È proprio in virtù di questa successione che,sostiene il VENDITTI, non è possibile considerarerisolto il vincolo particolare e, tantomeno, che si siacostituito in capo alla società l’obbligo di liquidare aglieredi la quota del de cuius. <<Il semplice riconoscimentodel potere di porre in liquidazione la società basta adimostrare che tale conseguenza non si è ancoraverificata, apparendo incongrua (…) una interpretazioneche configuri l’obbligo di liquidazione della quota comegià sorto e derogabile con la successiva delibera discioglimento>> (VENDITTI, op. cit., p. 222).

123 In quest’ottica sembra sia possibilericomprendere anche quella dottrina che, seppurecontraria all’ idea di una quiescenza del rapporto sociale,ritiene che se entro sei mesi si perfeziona il contratto dicontinuazione vi sarà una successione degli eredi nellaquota della società in attività d ’impresa. AULETTA, op.cit., p. 138.

Di parere negativo è quella dottrina (già

evidenziata in tema della figura

dell’amministratore non socio nelle società di

persone) secondo cui il potere

d’amministrazione non deriva dal contratto

sociale bensì da un atto di nomina

geneticamente e funzionalmente collegato al

primo124. Secondo tale argomentazione, se

l’amministratore è nominato con atto separato

risulta evidente che non può esservi nessuna

interdipendenza tra partecipazione sociale e

posizione gestoria per cui le vicende traslative

della prima non possono coinvolgere l’altra125.

124 In tal senso SPADA, il quale ritiene che <<i ltrasferimento della partecipazione non si estenda alpotere di amministrazione risalente ad un atto dinomina, ma comprenda soltanto il potere originario,connaturale alla qualità d i socio, quale tipicamente (senon esclusivamente) si evidenzia, in difetto d’unregolamento organizzativo pattizio, nel regime diamministrazione disgiuntiva di tutti i soci (art. 2257)>>,(SPADA, La tipicità delle società, Padova, 1974, p. 314).

125 <<A nostro modo di vedere, la vicenda

traslativa della partecipazione sociale non può estendersi

ad un rapporto il cui titolo è autonomo rispetto al

contratto di società: che il fatto costitutivo del rapporto

gestorio sia collegato al contratto di società (…) non

deve oscurare la circostanza che la fattispecie societaria è

compiuta a prescindere dalla nomina di

amministratori>> (SPADA, op. cit., nota 150 p. 315).

Diversa è l’opinione di AULETTA. L’Autore,

riferendosi esplicitamente all’ipotesi in cui i poteri d i

amministrazione siano stati attribuiti al defunto col

contratto socia le, si pone in una posizione di critica nei

Si trovano pronunce interessanti, seppure

non molto recenti, sulla questione della validità

della clausola di continuazione contenuta nel

contratto sociale che riconosca la successione

confronti di quella dottrina che solitamente cerca la

soluzione del problema nella natura personale del

rapporto. Contro chi ritiene che i poteri

d’amministrazione non si trasmettono mai all’erede,

l’Autore sostiene che <<con la soluzione ora esposta si

dà la più energica tutela all’ interesse dei superstiti alle

qualità dei consoci, cioè si tien ferma la personalità del

rapporto socia le, nonostante la clausola d i

continuazione, in quanto in sostanza si toglie agli eredi,

cioè ai soci non scelti dagli alt ri, ogni possibilità d i

influire decisamente sull’andamento dell’ impresa sociale.

Ma la medaglia ha, evidentemente, il suo rovescio; il

risultato è raggiunto col sacrificio massimo degli eredi,

esclusi dalla predetta possibilità di influenza e pur

illimitatamente responsabili alla pari degli alt ri soci>> ,

(AULETTA, Clausole di continuazione della società coll’erede

del socio personalmente responsabile, in Riv. trim. dir. proc. civ. ,

1951, p. 909). La soluzione andrebbe in realtà cercata

nell’ interpretazione del contratto, in altri termini, è

sufficiente verificare (tramite interpretazione soggettiva)

se può dirsi convenuta la successione degli eredi nei

poteri di amministrazione o l’esclusione della stessa o,

ancora, l’att ribuzione di poteri di amministrazione

diversi da quelli che spettavano al de cuius. Nei casi in cui,

invece, opera l’interpretazione oggettiva, l’Autore ritiene

che debba riconoscersi la successione nei poteri

d’amministrazione qualora dal contratto non risulti che i

suddetti poteri erano stati attribuiti a l defunto per le sue

qualità personali.

dell’erede nei poteri amministrativi del

defunto.

A tal riguardo, la giurisprudenza appare

negativa all’idea di una piena disponibilità per i

soci di rinunciare preventivamente alla scelta

del nuovo amministratore in favore dell’erede.

Dall’analisi svolta risulta, infatti, che la

designazione alla carica di amministratore in

incertam personam è nulla poiché contraria al

principio dell’intuitus personae tipico delle società

personali126.

126 Cfr. Cass. 04-03-1993, n. 2632. Tale sentenzariguarda un caso di s.a.s. con solo due soci in cui vienemeno l’accomandatario. Nel contratto sociale siprevedeva la trasferibilità delle quote sociali <<coneffetto verso la società>> col consenso dellamaggioranza del capita le sociale, nonché, in caso dimorte di un socio, il diritto degli eredi di continuare lasocietà. Deceduto l’accomandatario, la moglie ed unicaerede convenne in giudizio il socio accomandantechiedendo che fosse accertato l’acquisto da parte suadella qualità di socia accomandataria, e che fosseconseguentemente dichiarato illegitt imo ogni tipo diingerenza da parte del socio accomandante nellagestione della società. Il tribunale respinse la domandaformulata in via riconvenzionale dal convenuto diescludere l’attrice dalla società , accogliendo invece ladomanda dell’attrice. La pronuncia venne confermata inappello in virtù della considerazione che la successionedell’erede nella quota sociale comportava la suaassunzione della stessa posizione giuridica(accomandatario-amministratore) del de cuius. Il socioaccomandante propone ricorso in Cassazionelamentando: 1) la falsa applicazione dell’art. 1722, n. 4,c.c. perché applicabile alla sola ipotesi di morte delmandante imprenditore; 2) che la corte di merito non haconsiderato che l’attribuzione nel contratto socia le dellostatus di amministratore al socio defunto volevasottolineare il carattere personale di tale attribuzione e,pertanto, la sua in trasmissibilità senza il consenso ditutti i soci; 3) che nella successione ereditaria delle quotesociali restano esclusi gli eventuali d iritti personali

connessi rendendo nulla (ex art. 1418 c.c.) una clausolache stabilisca la trasmissibilità anche della qualità diaccomandatario e di amministratore. La Cassazioneritiene i suddetti motivi fondati e meritevoli d iaccoglimento. Premesso che non vi sono dubbi nellagiurisprudenza di legittimità circa la validità delleclausole di cont inuazione stabilite in favore degli eredidel socio defunto, <<i l problema della valid ità di taleclausola si pone, invece, quando essa contenga unadesignazione della funzione amministrativa in incertampersonam o delineata con criteri d i indifferenza, così dacostituire, sostanzialmente, un atto abdicat ivo, da partedi un socio (l’accomandante superstite), all’espressionedella volontà negoziale su un punto essenziale delcontratto sociale>>. Sulla base della considerazione chela funzione amministrat iva è strettamente funzionale alperseguimento dell’oggetto socia le, la Corte ritiene chesimile funzione non possa essere realizzata da unsoggetto che, al momento in cui è stato concluso ilnegozio societario, <<resti indeterminabile ovvero siaindividuabile con criteri di indifferenza rispetto alle sortidella società e allo scopo che i soci intendonoperseguire>>. Pertanto, una designazione di tal generelederebbe un elemento essenziale del contratto di societàin accomandita. <<Egualmente, sarebbe illegittima unaclausola di continuazione che, con indifferenza rispettoai soci accomandatari o accomandant i, prevedessegenericamente il subentro degli eredi del socio defuntoanche nella qualifica di amministratore da lui rivestitanella società. E non potrebbe impedire una diversadeterminazione negoziale da parte dell’erededell’accomandatario e dell’accomandante superstite>>.In conclusione la Corte cassa la sentenza indicando algiudice del rinvio di conformarsi ai seguenti principi <<èinvalida la clausola di continuazione, con la quale i socidi società in accomandita semplice, nell’atto costitutivo,in deroga all’art. 2284 c.c., prevedono l’automaticatrasmissibilità all’erede del socio accomandatariodefunto, di cu i non sia certa l’ identità, unitamente allapredetta qualità di socio, anche del munus diamministratore, tenendo conto che tale designazione inincertam personam coinvolge la stessa struttura societaria, eche la funzione amministrativa, strettamente strumentaleal perseguimento del fine sociale, non può essereaffidata ad un soggetto che, al momento in cui è postoin essere il negozio societario, resti indeterminabile,ovvero sia individuabile con criteri d’indifferenzarispetto alle sorti della società e allo scopo che i sociintendono raggiungere>>.

Non risultano dei precedenti giurisprudenziali editiin merito alla validità di clausole statutarie in cui siaprevista la successione dell’erede nelle cariche

Tuttavia, non sono mancate pronunce che

a fronte di fattispecie riguardanti società in cui

vige il regime legale di amministrazione, dove

pertanto il potere d’amministrazione è insito

alla qualità di socio illimitatamente

responsabile, siano orientate a riconoscere

l’assunzione da parte dell’erede anche dei

suddetti poteri127.

amministrative che facevano capo al de cuius, vi sonoperò delle pronunce relative alla questione dellasussistenza o meno di un diritto dell’erede di subentrareope legis nei poteri gestori del socio defunto, in assenza dispecifiche disposizioni nell’atto costitutivo. Una t raqueste è la sentenza del Trib. Milano 05-03-1987, in cuisi afferma che a seguito della morte del socio, la clausoladi continuazione del socio attribuisce agli eredi il dirittodi subentrare nella società ma non nei poteriamministrativi. La fattispecie è differente da quella cheha portato alla sentenza di Cassazione esaminata. Il fattoriguarda, infatti, una società semplice in cui i poteri d iamministrazione, nonché di rappresentanza, eranointeramente attribu iti ad uno solo dei soci. Pertanto, ilgiudice correttamente li considerò attribuiti al defunto adpersonam.

127 Cfr. App. Milano 07-05-1974. Anche qui il casoriguarda una s.a.s. con unico accomandatario poideceduto. La questione (in realtà non molto chiara) siriferiva alla portata e agli effetti di una disposizionestatutaria, inserita nella clausola di cont inuazionefacoltativa, in cui si prevedeva che qualora gli eredi delsocio deceduto fossero stati più d’uno avrebbero dovutofarsi rappresentare da una sola persona. Il collegiogiudicante dopo aver precisato che <<in virtù dellaclausola, insieme alle quote sociali cadute in successione,si trovano gli ulteriori diritti alle medesime connessi, chequindi passano al chiamato, non già per atto inter vivos,ma bensì iure haereditatis con l’accettazione dell’ered ità.Cioè senza bisogno di specia le dichiarazione comeritenuto in sentenza (…)>> , afferma che la disposizionestatutaria in esame <<si riferisce all’esercizio dei diritticonnessi alla qualità di socio all’interno della società:

In conclusione, è possibile considerare che

la questione sulla validità delle clausole di

continuazione si lega al principio dell’intuitus

personae, basilare nelle società personali.

A tal riguardo, il suddetto principio sembra

voler garantire l’immutabilità della compagine

sociale nell’esclusivo interesse delle parti, ne

consegue che è liberamente rinunciabile dai

soci stessi. Quanto detto porterebbe pertanto a

ritenere senz’altro valida la clausola di

continuazione con gli eredi.

Rispetto, poi, al tema della validità delle

clausole del contratto sociale che prevedono la

successione degli eredi nei poteri

amministrativi della società, ritengo sia agevole

comprendere che l’erede non possa mai

subentrare nella carica amministrativa quando

riconosciuta al de cuius con atto separato. Con

tale atto, infatti, si è nominato il primo titolare

del potere amministrativo, pertanto, affinché vi

sia un nuovo titolare è necessario un nuovo

atto di nomina. In buona sostanza, la nomina

come amministratore della società non deriva

in questo caso direttamente dal contratto

sociale e per ciò non è possibile la sua

all’esigenza che uno solo fra più accomandatari assumala gestione>> .

In base a quanto affermato in sentenza, è logicodedurre che la corte d’appello milanese abbia dato perscontato che gli eredi dell’unico accomandatarioassumano di diritto i poteri gestori.

trasmissione insieme alla quota in via

ereditaria.

Al di là di quest’ipotesi, ci si chiede se i soci

non possano davvero mai rinunciare al loro

diritto di scelta del nuovo amministratore della

società nel caso di successione ereditaria nella

quota del socio cui era statutariamente

riconosciuto il potere gestorio. A ben vedere,

la continuazione della società con gli eredi

quando applicata alle società a regime legale di

amministrazione, comporta inevitabilmente

una designazione di amministratore ad incertam

personam. Se ciò è vero, non dovrebbero allora

esservi grossi impedimenti a ritenere valida una

clausola di continuazione che preveda anche al

successione degli eredi nei poteri

amministrativi.

6.2) Il recesso.

La presente indagine intende esaminare la

specifica questione se a fronte del recesso di un socio

(art. 2285 c.c.), gli altri soci possano decidere di

sciogliere la società e, conseguentemente, se il suddetto

scioglimento sia in tal caso opponibile al recedente. Il

risvolto pratico della questione poggia sull’idea che se lo

scioglimento della società non è opponibile al

recedente, quest’ultimo avrà diritto ad ottenere la

liquidazione della quota ent ro i sei mesi dal giorno in

cui il recesso è divenuto efficace (ex art. 2289, 4°

comma, c.c.); mentre, se lo scioglimento è opponibile il

recedente dovrà aspettare la chiusura della procedura di

liquidazione. Il problema sorge dalla considerazione che

se nel caso di morte del socio il legislatore ha previsto la

possibilità di sciogliere la società (ex art . 2284 c.c.), una

simile previsione manca nell’ipotesi del recesso.

Se alla disciplina del recesso si attribuisce la

medesima ratio posta alla base della disciplina

contenuta all’art. 2284 c.c., secondo cui ai soci

restanti è riconosciuta la possibilità di

sciogliere la società qualora il socio uscente

fosse essenziale, non vi possono essere

difficoltà ad ammettere la stessa facoltà in caso

di recesso del socio128.

In base a tale argomentazione, deve

considerarsi sicuramente opponibile lo

scioglimento della società nel caso in cui il

recesso sia stato dato con preavviso e il

suddetto scioglimento sia intervenuto entro il

termine del preavviso. La motivazione risiede

nella considerazione che entro la scadenza di

quel termine il recedente è ancora un socio e in

128 È l’argomentazione sostenuta dal GHIDINI(l’unico ad avere approfondito la questione) secondo ilquale <<Il recesso di un socio, al pari della morte ponegli altri soci di fronte al problema se sia possibile o menocontinuare ancora nella società, nell’esercizio attivo dellastessa; lo scioglimento della società è la risposta negativaal quesito, in dipendenza della riconosciuta essenzialitàdella partecipazione alla società del socio receduto>>,(GHIDINI, Società personali, Padova, 1972, p. 594).

quanto tale subisce le decisioni prese dagli altri

soci.

Diversa è l’ipotesi di recesso per giusta

causa. Secondo la disciplina prevista, infatti,

non è richiesto un preavviso, ma è operante in

via immediata non appena comunicato agli altri

soci. Pertanto, sarebbe logico ritenere che il

socio receduto abbia conseguito il diritto al

valore della quota contestualmente al

momento in cui il suo recesso è divenuto

operante, ovvero nel momento in cui vi è stata

la dichiarazione di voler recedere dalla

società129.

Conclusivamente, è bene specificare che

affinché possa applicarsi lo stesso schema

previsto nell’ipotesi di morte del socio, è

necessario che lo scioglimento risulti (anche

temporalmente) essere conseguenza diretta del

recesso del socio.

129 A tal riguardo il GHIDINI afferma che <<se èvero che nel concorso t ra più cause di scioglimento delsingolo vincolo sociale (morte, recesso, esclusione),prevale quella che diviene operante per prima, ciò nonpuò dirsi per il concorso tra lo scioglimento (genera le)della società e lo scioglimento del singolo vincolo; laprova di ciò è data dall’art. 2284, per cui, benché lamorte del socio determini l’immediata cessazione delvincolo sociale, è tuttavia opponibile agli eredi loscioglimento (generale) della società , che sia decisosuccessivamente (ma in dipendenza e in conseguenza dellamorte del socio)>>, (GHIDINI, op. cit., p. 595).

Non si ri scontrano pronunce specifiche sul

tema in esame130.

6.3) L’esclusione.

In virtù del doppio rinvio dell’art. 2315 c.c.

alla disciplina di s.n.c. e dell’art. 2293 c.c. a lla società

semplice, la disciplina in materia di esclusione (ex artt.

2286, 2287, 2288 c.c.) è applicabile anche alla s.a.s. Si

espone, pertanto, qui di seguito la particolare ipotesi

riguardante l’esclusione dell’unico socio

accomandatario per mezzo delle più recenti pronunce

130 È possibile citare una recente sentenza di unaCorte d’appello da cui poterne ricavare, indirettamente,il principio per cui il recesso del socio viene assorbitodal conseguente scioglimento della società. Cfr. App.Salerno 08-04-2004. Il curatore del fallimento del sociodeceduto di una s.n.c. si rivolge al tribunale affinché,previo accertamento del verificarsi della causa discioglimento prevista a ll’art . 2272, n. 4, c.c., provvedaalla nomina del liquidatore ex art. 2275 c.c. La suddettaistanza viene respinta dal tribunale per carenza dilegittimazione del curatore, prendendo comunque attodell’avvenuto scioglimento conseguente alla morte delsocio. Il giudizio viene, tuttavia, ribaltato in seded’appello, in cui la Corte riconosce la legittimazionedella curatela e nomina un liquidatore; <<ritenuto indiritto che, sebbene il recesso di un socio debba tenersidistinto dallo scioglimento consensuale della società,anche nel caso in cui essa sia composta da due soci inquanto lascia in vita la società con la possibilità per ilsocio rimasto solo di ricostituire la pluralità dei soci,deve tuttavia ritenersi che qualora al socio deceduto nonsia stata nel termine di 6 mesi previsto dall’art. 2289 c.c.pagata e liqu idata la somma corrispondente al valoredella quota, egli possa chiedere lo scioglimento dellasocietà se nel contempo non si sia ricostituita la pluralitàdei soci ex art. 2272 c.c. non perché abbia conservato laqualità di socio nei rapporti interni, ma in base alle suequalità di creditore della società per detta liquidazionedella quota>>.

giurisprudenziali. Non sono state riscontrate

interessanti opinioni dottrinarie sulla questione.

È bene anzitutto fare la distinzione tra

l’ipotesi di società con solo due soci

(accomandante e accomandatario) e l’ipotesi di

s.a.s. con un socio accomandatario e una

pluralità di accomandanti.

Nel primo caso opera indubbiamente la

disposizione contenuta all’art. 2287, 3° comma,

c.c. in base alla quale sarà il tribunale, su

domanda di uno dei due soci, a pronunciare

l’esclusione dell’altro. Per quando riguarda il

secondo caso, la giurisprudenza di legittimità

ritiene applicabile l’art. 2287, 1° comma, c.c.,

pertanto, l’esclusione dell’unico

accomandatario da parte della pluralità degli

accomandanti viene deliberata a maggioranza

di questi non computando il socio da escludere

cui si riconosce il termine di 30 giorni dalla

comunicazione per proporre opposizione

davanti al tribunale131.

131 Cfr. Cass. 22-12-2006, n. 27504. In breve ilfatto, il socio accomandatario unico di una s.a.s. citava ingiudizio i due accomandanti chiedendo che fossedichiarata nulla la delibera con cui i convenuti loavevano escluso dalla società. I convenuti(accomandanti) si costituirono opponendosiall’accoglimento della suddetta domanda e chiedendo,inoltre, la condanna dell’attore al rendimento del contodi gestione e al risarcimento dei danni. Nei primi duegradi d i giudizio la domanda proposta dal socio unicoaccomandatario veniva rigettata . Il socioaccomandatario, pertanto, propone ricorso per

Cassazione denunciando la violazione degl’ artt. 2287, 3°comma, 2315 e 2319 c.c., in base ai quali in una s.a.s.con un solo accomandatario e più accomandant iquest’ultimi non avrebbero il potere di deliberarel’esclusione dell’accomandatario per giusta causa,essendo a ciò necessario un ricorso al giudice ex art.2287 c.c., disposizione da ritenersi applicabile in tutti icasi in cu i vi siano nella società due contrapposti centridi interesse. La Corte rigetta il ricorso affermando che<<alle società in accomandita semplice è applicabile lanormativa dettata dagli artt. 2286 e 2287 c.c., la qualeprevede che, in caso di gravi inadempienze del socio,l’esclusione dello stesso può esser deliberata dallamaggioranza dei soci, non computandosi nel relativonumero il socio da escludere>>. La stessa Corteaggiunge inolt re che la previsione per cui l’esclusionedeve essere pronunciata dal tribunale (ex art. 2287, 3°comma, c.c.) è di stretta interpretazione e non adattabileall’ipotesi in cui, come afferma il ricorrente, all’internodella compagine socia le vi sono due gruppi di interesseomogenei e contrapposti. <<Deve poi aggiungersi che innessun caso sarebbe lecito configurare, nella società inaccomandita semplice, i soci accomandant i e gliaccomandatari come due gruppi di interessi, ciascunoomogeneo nel proprio interno ad all’alt ro contrapposto,potendosi eventuali divergenze o aggregazioni diinteressi verificare, nella compagine sociale, in base allepiù varie contingenze e secondo linee del tutto indipendenti da quella che formalmente distingue le duetipologie di partecipazione alla società>>.

Dello stesso tenore è Cass. 10-01-1998, n. 153. Lapronuncia (già esaminata in merito alla più genera lequestione della formazione della volontà sociale in nota23) verte sulla valid ità della delibera di esclusione di unsocio da una s.a.s. adottata a maggioranza. Il ricorrente(escluso) soccombente nei precedenti gradi di giudizio,lamenta da un lato il mancato rispetto del metodocollegiale, dall’altro la violazione dell’art. 2287, 3°comma, c.c. in quanto l’esclusione (secondo la suainterpretazione) doveva essere richiesta giudizia lmenteessendo la società in questione composta da due coppiedi coniugi, quindi due cent ri autonomi di interessi,pertanto equiparabile ad una società con due soli soci.Giustamente ed esaurientemente la Corte rigetta ilricorso affermando che <<la previsione di cui a ll’art.2287, 3° comma, del codice civile, (…), è previsioneeccezionale, come tale insuscettibile di applicazioneanalogica, con la conseguenza che resta applicabile laregola genera le di cui al comma 1 del citato articolo 2287in tutti i casi in cu i i soci siano più di due, anche seall’interno della compagine sociale siano configurabili

Tale posizione non è tuttavia pacifica in

dottrina.

Non manca, infatti, chi ritiene che <<il

socio accomandante non possa, pure in

presenza di mala gestio dell’accomandatario,

agire per l’esclusione dello stesso dalla

società>>132. L’ argomentazione si fonda sulla

considerazione della particolare struttura della

s.a.s. che, a differenza delle altre società

personali, si caratterizza per la presenza di due

distinte categorie di soci. Tale peculiarità di

certo non osta all’estensibilità della disciplina

prevista agli artt. 2286-87 c.c. anche a tale tipo

sociale, tuttavia parte della dottrina sostiene

che <<le cautele ed i numerosi e precisi limiti

apposti alla devoluzione di poteri gestori

all’accomandante portano a concludere che

l’area di amministrazione consentita allo stesso

non possa estendersi sino a legittimare la

partecipazione alle delibere – quali appunto

quelle di esclusione dell’accomandatario –

destinate ad incidere sulle sorti del rapporto

contrattuale che unisce tra loro i soci>>133.

due gruppi di interessi omogenei e fra lorocontrapposti>>.

132 VIDIRI, Società in accomandita semplice: esclusionedell’unico accomandatario da parte dell’accomandante, in Giust.civ., 2002, II, p. 1042.

133 VIDIRI, op. cit., p. 1042.

Vi è, inoltre, un diverso orientamento

seguito dalla giurisprudenza di merito, secondo

cui essendovi normalmente una

compenetrazione tra posizione di socio

accomandatario e amministratore, ne consegue

che alla sua esclusione opera contestualmente

la revoca dai poteri gestori. Pertanto, la

disciplina di riferimento dovrebbe essere l’art.

2319 c.c., in base alla quale per la nomina e

revoca degli amministratori <<sono necessari il

consenso dei soci accomandatari e

l’approvazione di tanti soci accomandanti che

rappresentino la maggioranza del capitale da

essi sottoscritto>>. In base a tale posizione, il

venir meno di uno dei presupposti richiesti

obbligherebbe al ricorso in tribunale ex art.

2287, 3° comma, c.c. applicando, in tal modo,

la disciplina prevista per l’ipotesi di società

composta da solo due soci134.

134 Cfr. Trib. Genova 15-03-2001 (ord.). Laquestione riguardava una s.a.s. composta da treaccomandatari ed un solo accomandante in cui il socioaccomandatario e l’accomandante avevano deliberatol’esclusione degli altri due accomandatari, d i cui unonominato amministratore nell’atto costitutivo e l’alt rocon atto separato. La suddetta delibera venne adottatasecondo i criteri dell’art. 2287, 1° comma, c.c. senzacomputare il voto dei soci esclusi. Su apposito reclamoproposto dai soci esclusi il Tribunale ha rilevatol’inapplicabilità della suddetta disciplina per il caso dispecie affermando che per il socio accomandatarionominato amministratore con atto costitutivo <<devetrovare applicazione l’art. 2252 con la conseguentenecessità del consenso di tutti gli a ltri soci>>, conriferimento al socio nominato amministratore con attoseparato, invece, <<valgono le regole dettate dall’art.

2319 c.c., secondo il quale è richiesto l’unanimeconsenso dei soci accomandatari e della maggioranzadegli accomandanti>>. In conclusione, il Tribunale hasospeso l’esecuzione della delibera di esclusioneritenendo in entrambi i casi necessario il consenso deidue soci esclusi.

In base a tale pronuncia è, pertanto, ragionevoleconcludere che la peculiarità della s.a.s. porta adistinguere il caso di esclusione del socio accomandanteda quella del socio accomandatario. Per il primo, ènecessaria la maggioranza dei soci calcolata per teste exart. 2287, 1° comma, c.c. , mentre, per l’accomandatarioopera un’ulteriore distinzione. Se la nominadell’amministratore è nell’atto costitutivo allora èrichiesto il consenso di tutti i soci; se, al contrario, lanomina è fatta con atto separato allora servirà il votofavorevole di tutti i soci accomandatari e dei sociaccomandanti rappresentanti la maggioranza del capita le(ex art. 2319 c.c.).

Cfr. anche a Trib. Milano 25-05-1998. Nellafattispecie il socio accomandante di una s.a.s. convenivadavanti al Tribunale l’alt ro socio accomandante e il socioaccomandatario chiedendo l’esclusione di quest’ultimoper gravi inadempiment i. I convenuti eccepivanoanzitutto l’improponibilità della domanda di esclusionepoiché la società era composta da più di due soci epertanto questa andava deliberata a maggioranzasecondo quanto disposto all’art. 2287 c.c. Il Tribunale, alcontrario, ritiene legittima la domanda di esclusione efondata nel merito in base alla considerazione che <<sel’amministratore è unico perché unico èl’accomandatario, non sarebbe materialmente possibilela sua revoca ai sensi dell’art. 2319 c.c. in quanto nonpotrebbe verificarsi uno dei due presupposti previstidalla legge e cioè quello del consenso degliaccomandatari (…) nell’ipotesi considerata avrebberocome unico strumento legittimo, la possibilità d ichiedere giudizialmente la revoca dell’amministratore aisensi dell’art. 2259, 3° comma, c.c. La stessa situazione siverifica nel caso in cui gli accomandanti intendanoescludere l’unico accomandatario, atteso che, essendoquest’ultimo anche l’unico amministratore ecomportando l’esclusione la sua revoca, d ifetterebbe ilsuo consenso e dunque uno dei presupposti previstidalla legge per la revoca. Ne consegue che, in dettasituazione, la norma contenuta nell’art . 2287 1° e 2°comma, c.c. (…) non può essere applicata non essendocompatibile con la peculiare struttura della s.a.s. (…)Qualora vi siano più accomandant i e un soloaccomandatario e i primi intendano escludere il secondo,essendo necessario anche il consenso di quest’ult imo, si

Tuttavia, è opportuno porre in rilievo

l’eventualità che il socio accomandatario non

sia allo stesso tempo amministratore della

società, conseguendone la distinzione tra

esclusione e revoca. Questi sono infatti istituti

autonomi, ciò porta la Cassazione a ritenere

che il procedimento di esclusione non è

automaticamente assorbito dalla disciplina

prevista per la revoca135.

crea in definitiva una situazione in cui si fronteggianodue gruppi contrapposti di soci 8accomandanti da unlato e unico accomandatario dall’alt ro) del tutto analogaall’art. 2287, 3° comma c.c.>>.

Il ragionamento seguito dal Tribunale apparecondivisibile nella sua semplicità . È infatti agevoleconsiderare che essendovi un solo socio accomandatarioè obbligatoriamente a lui che sono attribuiti i poteri diamministratore, pertanto, se per la revoca di ta li poteri ènecessario anche il suo consenso, in mancanza di questol’unica alternativa è il ricorso al Tribunale, a meno chel’atto costitutivo preveda la possibilità di revoca amaggioranza (come previsto all’art. 2319 c.c.).

135 Cfr. Cass. 29-11-2001, n. 15197. Non risultachiaro il fatto: in una s.a.s. composta da tre soci uno deidue accomandanti chiedeva per via giudiziarial’esclusione dalla società dell’unico socio accomandatarioper aver commesso varie inadempienze. La sentenza inesame, contrastando con quanto stabilito dalle corti d imerito, ha ritenuto applicabile alla fattispecie inquestione la disciplina prevista agli artt. 2286 e 2287 c.c.In pieno accoglimento della tesi del ricorrente (socioaccomandante), infatti, la Corte ritiene cheerroneamente i giudici d i merito hanno consideratoincompatibile la d isciplina dell’art. 2287, 3° comma, c.c.con la fatt ispecie in esame e, inoltre, considera <<malposto per due ordini di ragioni il richiamo all’art. 2319c.c. che prevede per la revoca degli amministratori ilconcorso della volontà di entrambe le categorie di soci ecioè il consenso dei soci accomandatari e l’approvazionedei soci accomandanti che rappresentano la maggioranzadel capitale da loro sottoscritto. (…) non può sfuggire ladiversità, sotto il profilo soggettivo e oggettivo,

dell’ipotesi di revoca dell’amministratore rispetto aquella di esclusione del socio, sia pure accomandatario.Anche se l’esclusione del socio, che cumuli pure laqualifica di amministratore, può basarsi sulle stesseviolazioni che integrano un comportamento contrario aidoveri propri dell’amministratore allorché ta lecomportamento mini altresì le finalità e gli interessi dellasocietà a segu ito di violazioni previste dallo statuto, ilrelativo procedimento regolato espressamente dall’art.2287 c.c. non può ritenersi per ciò solo assorbito dalladisciplina dettata per la revoca dell’amministratore,trattandosi di effetti che si producono su piani diversi>>.

Nello stesso senso è anche Trib. Torino 10-05-2004(ord.), in cu i si legge che <<il cumulo delle qualifiche disocio e amministratore non impedisce che le irregolaritào le illiceità commesse dall’amministratore determininonon solo la revoca del mandato di amministratore el’esercizio dell’azione di responsabilità espressamenteprevista, ma anche l’esclusione da socio per la violazionedei doveri previsti dallo statuto a tutela delle finalità edegli interessi dell’ente>>. Il fatto riguardava una s.a.s.composta da solo due soci in cui l’accomandantechiedeva giudizialmente la revoca dell’amministratorenonché la sua esclusione dalla società.