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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 13 dicembre 2017 SOMMARIO “C’è un fil rouge - scrive Dario Di Vico sul Corriere della Sera di oggi - che ci permette di collegare i casi di cui si discute in questi giorni ovvero Amazon, Ikea e persino Melegatti? Credo di sì e la novità riguarda l’ingresso del consumatore nell’arena delle relazioni industriali e delle crisi aziendali. Prendiamo queste ultime: come era già avvenuto per la pasta Rummo - il cui stabilimento era stato distrutto da un’alluvione - anche per il pandoro veronese i lavoratori hanno fatto appello alla solidarietà dei consumatori come ultima dea . Hanno tentato di utilizzare la visibilità ottenuta sui media per costruire una corsia preferenziale, una forma di marketing empatico che non risolve di per sé i nodi che stanno a monte ma che si segnala per il rapporto diretto tra operai e consumatori. Nel campo delle relazioni industriali questo tipo di dinamica segue percorsi più complessi ma i sindacati sembrano in qualche modo capaci di usarla. Prendiamo il primo sciopero indetto nel centro di smistamento Amazon di Piacenza, un’azione che si è giovata di un clima di solidarietà diffuso anche in settori che non tifano abitualmente per le lotte sindacali. Lo sciopero Amazon è stato vissuto come anticipazione delle future relazioni sindacali in contesti altamente automatizzati e quindi ancora una volta come ultima dea. A questo punto può passare anche in secondo piano la percentuale reale di adesione allo sciopero perché il sindacato non è rimasto isolato. Il sindacato al contrario ha conquistato simpatie dentro la community degli innovatori, che a sua volta rappresenta il nocciolo duro degli utilizzatori del servizio Amazon. Con maggiore evidenza questa riflessione si attaglia al caso Ikea, un gruppo che vuoi per l’attenzione alla diversity in azienda vuoi per un’immagine «democratica» (prezzi e non solo) abilmente costruita in passato è sempre stato considerato amico del consumatore. Nel momento in cui ha adottato politiche del personale molto drastiche - come nel caso del licenziamento di una lavoratrice madre di un disabile - il feeling con il consumatore si è inevitabilmente incrinato e ha dato agio al sindacato di sfruttare il varco coniando l’hashtag #pessimaIkea. Per avere una riprova di queste discontinuità vale la pena raccontare cosa è accaduto nei giorni scorsi all’Electrolux di Susegana in provincia di Treviso. L’Ikea negli ultimi anni con le sue commesse aveva reso possibile la saturazione produttiva della fabbrica e anzi la necessità di soddisfarle in tempi brevi aveva generato discussioni tra azienda e sindacato sulla gestione dei picchi di lavoro e degli straordinari. Adesso però la multinazionale svedese ha deciso di tradire la connazionale Electrolux e di affidare una maxi-commessa di 100 mila frigo da incasso all’americana Whirlpool. Sapete qual è stata la reazione degli operai e degli attivisti sindacali di Susegana? Minacciare, quantomeno a parole, di boicottare i punti vendita Ikea. Ancora una volta in situazione di emergenza è stato chiamato in causa il consumatore e il suo potere di condizionamento. Il fenomeno è molto interessante e fa venire in mente le recenti dichiarazioni di Guido Barilla, che pur guidando una multinazionale ha lanciato il guanto di sfida: «Noi guardiamo ai consumatori non agli analisti finanziari». Il mercato quindi non è più quel protagonista senza volto, cinico e orientato solo al breve termine, ma prende le sembianze del consumatore della porta accanto e del suo tasso di infedeltà mai così alto in passato. Da qui (anche) la tendenza sindacale a farselo amico, a cercare di coinvolgerlo nelle crisi aziendali e nelle relazioni industriali. Dall’esterno viene solo da auspicare che qualcosa del genere possa accadere non solo nella manifattura ma nei servizi dove invece l’utente continua a contare meno di zero. Prendiamo la vexata quaestio degli scioperi del venerdì nel trasporto pubblico o anche delle agitazioni lobbistiche dei taxisti: il consumatore è disarmato e non può che subire. Per contare dovrebbe poter scegliere come normalmente gli capita davanti allo scaffale di un supermercato ma avrebbe bisogno che ci fosse più concorrenza e libertà, proprio quella che in vario modo i sindacati e i taxisti combattono. Ma perché ciò che vale per sanzionare l’Ikea non

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 13 dicembre 2017

SOMMARIO

“C’è un fil rouge - scrive Dario Di Vico sul Corriere della Sera di oggi - che ci permette di collegare i casi di cui si discute in questi giorni ovvero Amazon, Ikea e persino

Melegatti? Credo di sì e la novità riguarda l’ingresso del consumatore nell’arena delle relazioni industriali e delle crisi aziendali. Prendiamo queste ultime: come era già

avvenuto per la pasta Rummo - il cui stabilimento era stato distrutto da un’alluvione - anche per il pandoro veronese i lavoratori hanno fatto appello alla solidarietà dei

consumatori come ultima dea . Hanno tentato di utilizzare la visibilità ottenuta sui media per costruire una corsia preferenziale, una forma di marketing empatico che

non risolve di per sé i nodi che stanno a monte ma che si segnala per il rapporto diretto tra operai e consumatori. Nel campo delle relazioni industriali questo tipo di

dinamica segue percorsi più complessi ma i sindacati sembrano in qualche modo capaci di usarla. Prendiamo il primo sciopero indetto nel centro di smistamento

Amazon di Piacenza, un’azione che si è giovata di un clima di solidarietà diffuso anche in settori che non tifano abitualmente per le lotte sindacali. Lo sciopero Amazon è

stato vissuto come anticipazione delle future relazioni sindacali in contesti altamente automatizzati e quindi ancora una volta come ultima dea. A questo punto può passare

anche in secondo piano la percentuale reale di adesione allo sciopero perché il sindacato non è rimasto isolato. Il sindacato al contrario ha conquistato simpatie

dentro la community degli innovatori, che a sua volta rappresenta il nocciolo duro degli utilizzatori del servizio Amazon. Con maggiore evidenza questa riflessione si

attaglia al caso Ikea, un gruppo che vuoi per l’attenzione alla diversity in azienda vuoi per un’immagine «democratica» (prezzi e non solo) abilmente costruita in passato è sempre stato considerato amico del consumatore. Nel momento in cui ha adottato politiche del personale molto drastiche - come nel caso del licenziamento di una

lavoratrice madre di un disabile - il feeling con il consumatore si è inevitabilmente incrinato e ha dato agio al sindacato di sfruttare il varco coniando l’hashtag

#pessimaIkea. Per avere una riprova di queste discontinuità vale la pena raccontare cosa è accaduto nei giorni scorsi all’Electrolux di Susegana in provincia di Treviso. L’Ikea negli ultimi anni con le sue commesse aveva reso possibile la saturazione produttiva della fabbrica e anzi la necessità di soddisfarle in tempi brevi aveva

generato discussioni tra azienda e sindacato sulla gestione dei picchi di lavoro e degli straordinari. Adesso però la multinazionale svedese ha deciso di tradire la

connazionale Electrolux e di affidare una maxi-commessa di 100 mila frigo da incasso all’americana Whirlpool. Sapete qual è stata la reazione degli operai e degli attivisti

sindacali di Susegana? Minacciare, quantomeno a parole, di boicottare i punti vendita Ikea. Ancora una volta in situazione di emergenza è stato chiamato in causa il

consumatore e il suo potere di condizionamento. Il fenomeno è molto interessante e fa venire in mente le recenti dichiarazioni di Guido Barilla, che pur guidando una

multinazionale ha lanciato il guanto di sfida: «Noi guardiamo ai consumatori non agli analisti finanziari». Il mercato quindi non è più quel protagonista senza volto, cinico e orientato solo al breve termine, ma prende le sembianze del consumatore della porta

accanto e del suo tasso di infedeltà mai così alto in passato. Da qui (anche) la tendenza sindacale a farselo amico, a cercare di coinvolgerlo nelle crisi aziendali e

nelle relazioni industriali. Dall’esterno viene solo da auspicare che qualcosa del genere possa accadere non solo nella manifattura ma nei servizi dove invece l’utente

continua a contare meno di zero. Prendiamo la vexata quaestio degli scioperi del venerdì nel trasporto pubblico o anche delle agitazioni lobbistiche dei taxisti: il

consumatore è disarmato e non può che subire. Per contare dovrebbe poter scegliere come normalmente gli capita davanti allo scaffale di un supermercato ma avrebbe bisogno che ci fosse più concorrenza e libertà, proprio quella che in vario modo i sindacati e i taxisti combattono. Ma perché ciò che vale per sanzionare l’Ikea non

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deve valere per l’Atac?” (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VIII Santa Lucia 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 2 Impariamo a perdonare i sacerdoti: diciamo “padre”, vediamoli come figli (lettere al giornale) Pag 19 Dalla teologia da tavolino alla teologia in ginocchio di Sara Melchiori A Padova Versaldi inaugura l’anno accademico della Facoltà del Triveneto. Con Moraglia e Cipolla Pag 25 La campagna elettorale viaggia sui social di Diego Motta Per la comunicazione politica il passaggio da Internet è ormai obbligato, ma rischia anche di risultare controproducente CORRIERE DELLA SERA Pag 27 “Social, tv, giornale e radio. La riforma dei media vaticani” di Gian Guido Vecchi Monsignor Viganò: una redazione per tutti i canali, il Papa d’accordo LA NUOVA Pag 45 Umile e straordinaria. “Gemme” dalla vita di monsignor Nervo di Sergio Frigo Nata dai fogli sparsi ritrovati dopo la morte, l’autobiografia di un uomo che h segnato un’epoca e interpretato il futuro 4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI LA NUOVA Pag 23 Migranti e aiuto ai poveri, confronto al Laurentianum 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Relazioni industriali ed empatia di Dario Di Vico Il ruolo dei sindacati Pag 9 Che cosa rischiamo? di Stefano Agnoli L’Italia dipende per il 90% della sua energia dall’estero. E la Russia copre il 40% delle importazione di gas LA STAMPA Il Belpaese che esclude i deboli di Mario Deaglio AVVENIRE Pag 3 I figli e il legame di sangue, un passo indietro pericoloso di Luciano Moia Perché il superiore interesse del minore è una conquista Pag 7 Bitcoin, la folle corsa della criptovaluta di Pietro Saccò Le quotazioni corrono, ma il mercato è una giungla. Il risparmiatore è avvertito 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

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IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XIII Festa rinviata per la chiesa ortodossa di Santa Lucia di Alvise Sperandio Ancora al grezzo l’interno del complesso della comunità romena 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 11 Nordest, il 69% non crede che la mafia viva anche qui di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Solo il 28 per cento sa della presenza malavitosa: un allarme in rapidissima crescita. Bettin: “Contamina il mercato e l’ambiente” Pag 23 Mafia, il modo di agire appreso anche a Nordest di Francesco Trotta LA NUOVA Pagg 2 – 3 Una nuova mareggiata si mangia le spiagge di Elisabetta B. Anzoleti e Mitia Chiarin E’ la terza di un mese che colpisce la costa veneziana mettendo in ginocchio l’intero litorale. Danni complessivi per quasi un milione e mezzo di euro. L’accusa della Regione … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le strategie anti-corruzione da ripensare di Sabino Cassese Pag 10 Gli esorcismi dei leader contro i rischi dell’astensione di Massimo Franco Pag 14 La nuova crisi dei missili di Paolo Valentino Torna la Guerra fredda in Europa? Pag 32 Al tempo del “doppio occhio” mutano destra e sinistra di Mauro Magatti AVVENIRE Pag 1 Il prezzo delle armi di Raul Caruso Vendite su. E l’Italia che fa? Pag 3 Assolutizzare la libertà svuota la solidarietà di Fiorenzo Facchini Fine vita: parole del Papa e compito dello Stato Pag 8 Polemiche inutili, convergenze sul merito IL GAZZETTINO Pag 1 Pagare le tasse in Italia, la svolta di Facebook di Paolo Balduzzi LA NUOVA Pag 1 I vitalizi e l’autogol del Pd di Massimiliano Panarari Pag 1 L’Italia e il fantasma di Weimar di Vincenzo Milanesi

Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VIII Santa Lucia

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Oggi nella chiesa di San Geremia, sarà celebrata la ricorrenza di Santa Lucia, protettrice della vista, e le cui spoglie sono custodite nell'altare centrale del tempio. Interverrà anche il Patriarca che officerà la Messa alle ore 17, mentre altri riti sono così ripartiti: alle 10, con la partecipazione del Capitolo dei canonici di San Marco, alle 13, Messa per gli ottici, optometristi ed elettricisti, alle 16 per il vicariato di Cannaregio ed estuario e alle 18, per i giovani della città. Nel giorno della ricorrenza la chiesa resterà aperta, senza interruzione, dalle 7 alle 20.30. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 2 Impariamo a perdonare i sacerdoti: diciamo “padre”, vediamoli come figli (lettere al giornale) Caro Avvenire, vorrei tornare sul tema dell’omelia a Messa. Sono dell’avviso, come ha commentato giorni fa Marina Corradi, che occorra anche difendere «i preti novelli, veri figli coraggiosi» che si discostano dai vecchi modelli e sono magari più accattivanti e simpatici. Però credo anche che questi 'figli' dovrebbero crescere un po’ più in fretta degli altri per essere davvero pastori di anime. Per insegnarci a mettere al centro non noi stessi e le nostre idee di rinnovamento della Chiesa (che possono pure essere giuste), ma Dio Padre. Mi pare che tali novelli preti facciano un po’ di confusione, e non sappiano oggi come dividersi fra i social network e le persone in carne ed ossa. Si fa fatica oggi a parlare con loro, se non previo appuntamento. (lettera di Patrizia Carollo – Palermo) Risponde Marina Corradi: L’ultimo giovane sacerdote che ho conosciuto è parroco in Val di Non, in Trentino. Ho passato una mezza giornata con lui: si divide fra cinque o sei parrocchie disseminate fra le montagne, ogni mattina celebra Messa in una chiesa diversa, la domenica di Messe ne celebra tre. Ho visto questo giovane prete continuamente in viaggio su strade strette e tortuose con la sua vecchia Fiat, che tutti, quando passa attraverso i paesi, riconoscono. E quanti salutano, e quanti si fermano per una parola al volo, a un incrocio. Mi ha colpito come in questa sequela di villaggi in cui ha centinaia e centinaia di parrocchiani, quel giovane prete ricordasse il nome di ciascuno. Mi sono chiesta quanto debba essere stanco la sera, solo nella sua canonica, e quanto urga il pensiero di tutto ciò che ha da fare, domani. Ho pensato: se fosse figlio mio mi angoscerebbe sapere di tanta fatica quotidiana, di tante domande e bisogni che pesano sulle sue spalle. E mi è sembrato sorprendente e grande che il figlio di un negoziante di un centro di villeggiatura trentino, il futuro garantito se restava in bottega, abbia scelto questa vita di missione fra le montagne, e abbia imparato a memoria i nomi dei bambini, e quelli dei vecchi. Perché un sacerdote è sempre un dono, ma oggi lo è di più. Un figlio che persegua questo desiderio va contro tutto ciò che la cultura dominante oggi insegna e anzi comanda. I ragazzi imparano che bisogna vivere nell’attimo, che bisogna consumare, che bisogna pensare alla propria immagine. Un giovane che sceglie il sacerdozio oggi a me sembra un rivoluzionario, e ho grande stima e gratitudine per quanti lo fanno. La lettrice si lamenta che i novelli preti stanno troppo sullo smartphone e sul computer. Ma forse quello è il luogo in cui dialogano con quelli della loro età, ed è una cosa importante. Poi dice: per parlare con loro bisogna prendere appuntamento. Devo dire che la cosa non mi scandalizza. Secondo i dati dell’Annuario pontificio, il potenziale di sostituibilità generazionale dei sacerdoti attualmente nel Vecchio Continente è di dieci candidati all’Ordinazione ogni cento sacerdoti in attività. Noi siamo cresciuti abituati a trovare un prete disponibile a ascoltarci in qualsiasi momento, una Messa sotto casa tutte le mattine. Non sarà così in futuro, ci dovremo abituare. Imparando a perdonare i nostri sacerdoti, sempre più preziosi, e accogliendo con un abbraccio quelli, giovani, che si presentano nelle nostre chiese. Chiamandoli, come si usa, 'padre', ma guardandoli con gli occhi benigni e generosi con cui si guardano i figli. Pag 19 Dalla teologia da tavolino alla teologia in ginocchio di Sara Melchiori

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A Padova Versaldi inaugura l’anno accademico della Facoltà del Triveneto. Con Moraglia e Cipolla Si è ufficialmente aperto ieri a Padova il 13° anno accademico della Facoltà teologica del Triveneto, che registra 378 docenti e 1.858 iscritti (circa la metà sono laici) tra i tre cicli teologici della sede patavina, i sei istituti teologici affiliati e i 10 Istituti superiori di Scienze religiose collegati. Una fucina culturale e di ricerca attenta a leggere i tempi e il mondo per rispondere sempre meglio al compito di collaborare alla missione evangelizzatrice della Chiesa, come hanno sottolineato il preside, monsignor Roberto Tommasi, tracciando la relazione sulla vita accademica; il vice gran cancelliere, il vescovo di Padova Claudio Cipolla, auspicando il reciproco arricchimento tra i processi innescati nella vita pastorale delle Chiese locali e la ricerca teologica; e il gran cancelliere, il patriarca Francesco Moraglia, augurando ai teologi e alle teologhe di essere «attenti scrutatori dei segni dei tempi», dediti allo studio, all’orazione, e “fondati” nella virtù dell’umiltà, che accanto al cuore puro facilita l’intus-legentia. In questa prospettiva la prolusione del Dies academicus è stata affidata al prefetto della Congregazione per l’Educazione cattolica e gran cancelliere della Pontificia Università Gregoriana, il cardinale Giuseppe Versaldi, chiamato a indagare «Il contributo delle facoltà teologiche alla missione della Chiesa». Dopo un excursus storico il cardinale ha puntato dritto alle sfide e opportunità che la teologia si trova oggi ad affrontare così come papa Francesco le enuclea nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium, laddove ricorda il prezioso compito della teologia nel «pensare come far giungere la proposta del Vangelo alla varietà dei contesti culturali e dei destinatari », sollecitando a non accontentarsi di una «teologia da tavolino», ma ad aprirsi pienamente alla finalità evangelizzatrice. Come dire: uscire dagli intellettualismi, dalle torri d’avorio, dal fascino dell’autopreservazione per entrare nella condizione reale e storica degli uomini destinatari del messaggio di salvezza, trovare linguaggi semplici di annuncio del messaggio di Gesù dove l’intelligenza si unisca all’ardore del cuore. «Le riflessioni di papa Francesco indicano la direzione in cui la teologia può svilupparsi e dare il suo specifico e insostituibile apporto alla missione evangelizzatrice della Chiesa» ha sottolineato il cardinale Versaldi. Si tratta cioè di passare dalla teologia da tavolino alla teologia che «si fa in ginocchio », una teologia cioè «attenta sia al significato da cercare con senso autocritico sia alla modalità di comunicazione con cura della capacità di comprensione dei destinatari». Ma c’è di più: la verità che la teologia indaga è Dio, che è amore, pertanto un’enunciazione fredda e chiusa, benché ortodossa, della verità di fede, «non è adeguata a trasmettere il fuoco dell’amore di Dio agli uomini». Solo quando «la teologia diventa adeguata all’oggetto che studio (Dio-amore) allora da scienza si trasforma in sapienza». Pag 25 La campagna elettorale viaggia sui social di Diego Motta Per la comunicazione politica il passaggio da Internet è ormai obbligato, ma rischia anche di risultare controproducente La comunicazione politica è diventata uno spazio saturo e, per evitare che la prossima campagna elettorale si trasformi in una corrida dal clima irrespirabile dove contano solo gli 'olé' del pubblico, occorrerà differenziarsi. In tutto: stili, parole, opere e costruzioni (del consenso). La fast politics non ha tempo per riflettere su se stessa, sui propri cortocircuiti e sui propri errori. Per questo, sarà necessario allargare l’analisi e lo sguardo agli spazi che essa occupa, in questa sfida permanente per convincere l’opinione pubblica. «Nella società delle reti, assistiamo sempre di più alla personalizzazione e all’individualizzazione dei messaggi, con una direzione dei flussi comunicativi per quanto possibile orientata scientificamente» spiega Cristopher Cepernich, sociologo e direttore dell’Osservatorio sulla Comunicazione politica e pubblica dell’Università di Torino, che ha da poco dato alle stampe Le campagne elettorali al tempo della networked politics (Laterza, pagine 170, euro 18,00). Internet non è tanto il terreno su cui si disputa la sfida per conquistare voti e fiducia, quanto un acceleratore dei temi e dei programmi dei partiti. Meglio ancora, rappresenta un facilitatore per i candidati, perché «mette in relazione la Rete con l’offline – dice Cepernich –. La campagna elettorale ha costituito per lungo tempo una parentesi breve, circoscritta e

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limitata. In una fase storica successiva, la mediatizzazione e l’applicazione delle tecniche di marketing hanno trasformato la politica in 'campagna permanente'. Ora la digitalizzazione della politica rende ancora più complesso questo paradigma, affiancandogli quello della 'politica permanente'». Da MoveOn, piattaforma online dei democratici Usa nata a inizio degli anni Duemila, fino a En Marche!, la struttura leggera creata da Emmanuel Macron in Francia nel 2016 (cui si aderisce gratuitamente andando sul sito con un clic) passando per i Meet Up lanciati da Beppe Grillo e per il caso Trump con il coinvolgimento della società Cambridge Analytics, la storia recente è piena di innovazioni (realizzate o tentate) al fine di attrarre, dietro al brand del candidato (che deve essere possibilmente il più forte) milioni di elettori potenzialmente indecisi. In che modo? La prassi più comune, al momento, è la seguente: i social network producono in nome e per conto del leader dei temi in grado di influenzare e fare massa critica tra i cittadini in Rete, mentre televisione, radio e giornali fanno da cassa di risonanza e continuano a scandire l’agenda delle priorità. La grande incognita è il fenomeno del microtargeting, che dovrebbe permettere ai politici di segmentare l’offerta sulla base delle richieste di diverse categorie di elettori, cavalcando di volta in volta argomenti differenti. «La forza del microtargeting è che permette di spaccare il muro che divide politici e cittadini – osserva Cepernich –. In questo modo, la politica può trovare dei temi di cui discutere con persone che, normalmente, non intercetterebbe mai perché del tutto disilluse e disinteressate. In pratica: si abita e si gestisce uno spazio vuoto, facendo proposte sui singoli temi, dalla sicurezza alle tasse fino all’immigrazione, per riuscire a catturare l’attenzione dei cittadini e abbassarne le autodifese e i pregiudizi». È necessario però sapere come e quando colpire, individuando i target di pubblico giusti. Il rischio boomerang è dietro la porta: nel 2008 lo staff del repubblicano Ron Paul alle primarie si accorse molto tardi della rete di sostenitori creatasi dal basso a favore del candidato: cercò di rimediare attivando blog su Internet e affiggendo in modo caotico cartelli sulle strade a sostegno, con rimandi a Google e alla Rete per chi volesse cercare informazioni. Il risultato fu che i supporter di Paul si fecero ben presto la reputazione di spammer e la campagna per il leader non decollò mai. «Tentativi in tal senso li fanno un po’ tutti i partiti, basta sponsorizzare qualsiasi evento via Facebook – spiega il sociologo di Torino –. Rispetto agli Usa, l’Italia peraltro è molto più indietro nell’uso delle banche dati, i cosiddetti big data. Negli Stati Uniti, gli accordi firmati tra i leader politici e i colossi di Internet permettono di profilare oltre il 90% dei cittadini. Ma per entrare in possesso di queste informazioni, servono molti soldi e competenze che nel nostro Paese non si vedono, basti pensare che i partiti non hanno alcun database dei loro elettori». È evidente che un processo comunicativo del genere presenta alcune grosse controindicazioni: la rinuncia a individuare risposte sulle issues, sui grandi problemi; la ripetitività di slogan all’eccesso e lo scadimento della qualità complessiva dell’offerta politica; il presidio di alcuni versanti comunicativi e l’abbandono di altri. Meno visione, insomma, e più bar sport. «Più si lavora per specifici obiettivi, più si restringe il campo di interesse della comunicazione pubblica. Il punto è che, avanti di questo passo, si va verso uno scenario saturo di idee e opinioni». Attenzione: la campagna digitale non è la campagna online. È molto di più. «I canali mediatici sui quali si fonda la campagna digitale sono oggi quelli della disintermediazione – spiega Cepernich – e dell’ibridazione tra pratiche vecchie e nuove di consumo mediale. L’ibridazione nell’uso della televisione e di Internet resta il punto fermo della comunicazione politica digitale, sia dal lato di chi la produce, sia dal lato di chi ne fruisce». Se il web diventa dunque un fattore organizzativo strategico per tutta la contesa elettorale, specularmente non si potrà fare a meno del porta a porta e della presenza sul terreno. Non si tratta solo di presidiare i collegi e di 'territorializzare' il dibattito politico, occorre anche considerare il fattore tempo. «La campagna elettorale tout court si svolge in un periodo ristretto, dentro uno spazio mediatico che si riduce giorno dopo giorno. Nei prossimi mesi, in vista delle prossime Politiche, è difficile per questo immaginare grandi sperimentazioni, così come forzature improvvise. Paradossalmente, soprattutto in questa fase iniziale, sarà l’assenza a creare visibilità. Alla fine, chi più saprà differenziare lo stile comunicativo, risulterà vincente perché nel chiacchiericcio generale dei tg e dei social network, prevale chi sta zitto». La vera sfida pare dunque essere proprio quella di re-iniettare fiducia nel sistema comunicativo, alterato dal rischio di un doping informativo controproducente per tutti gli attori in gioco.

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CORRIERE DELLA SERA Pag 27 “Social, tv, giornale e radio. La riforma dei media vaticani” di Gian Guido Vecchi Monsignor Viganò: una redazione per tutti i canali, il Papa d’accordo Città del Vaticano. «Cosa non andava? Le riforme non si fanno perché qualcosa non va. Si fanno perché cambiano i tempi». Monsignor Dario Edoardo Viganò, prefetto della Segreteria per la Comunicazione, ha illustrato ieri al Papa e al Consiglio dei nove cardinali la riforma dei media della Santa Sede. A giorni andrà in Rete il nuovo portale unico, www.vaticannews.va, in versione «beta», non definitiva. Tre nuovi loghi identificheranno la comunicazione vaticana. Niente più radio, tv, casa editrice o altri media distinti. Da gennaio sarà «accorpato» anche l’ Osservatore Romano, seppure «mantenendo la sua identità». Tutto farà capo alla «direzione editoriale» del dicastero. Il processo è «aperto», ma niente sarà come prima. Che succede, monsignore? «Non bisogna confondere la riforma con il portale, che ne è solo un effetto. La riforma è un nuovo sistema “agnostico”, definito assieme ad “Accenture Interactive”, che non è pensato per un medium particolare ma permette un nuovo modello di produzione, fondato sulla gestione unitaria». Ma perché? «Qualunque studioso oggi ti dice che il profilo identitario di un medium non esiste più. Un tempo la tv faceva la tv e non poteva fare la radio, la radio faceva la radio ma non la tv. Ormai è passato, siamo anzi un po’ in ritardo. Le identità confluiscono, il digitale impone l’approccio multimediale». Come farete? «Ci sono due riunioni giornaliere e si decidono i temi che vengono sviluppati in base alle richieste dei vari canali, il portale, la radio, i social eccetera. Un giornalista potrà lavorare per l’uno o l’altro, è un gioco di squadra. Si preparerà un testo per il portale, con il podcast , un servizio radiofonico, un video e così via». Niente più redazione della Radio vaticana, della tv… «No, c’è un’unica redazione multilinguistica. Nel Centro editoriale multimediale confluiranno progressivamente 350 tra redattori e tecnici. Devo ringraziare i giornalisti che si sono sobbarcati un lavoro straordinario tra formazione e impegno quotidiano…». Che succederà a chi cercherà il sito della Radio? «Verrà reindirizzato al portale. Ma ci sono altri aspetti, ad esempio i nuovi loghi. Avevamo simboli storici, nati però in epoche diverse. Oggi si faceva fatica a mettere insieme la radio, il centro televisivo, la libreria editrice… Abbiamo lavorato sull’identità del brand: per dare l’idea di una grande famiglia con vari canali». E i loghi storici? Non è un rischio accantonarli? La Radio creata da Marconi… «Vengono congelati. Non è stato facile. Però il Papa ci ha detto: riforma non è “imbiancare un po’ le cose” ma dare “un’altra forma”. Del resto rimane “Radio Vaticana Italia”». Perché solo «Italia»? «Perché l’emittente radiofonica è in Italia. Nelle altre lingue erano portali, magari con 10 minuti al giorno di trasmissione: diverranno podcast». Da gennaio si completerà l’«accorpamento» con l’«Osservatore». Che succederà al giornale? Rimarrà su carta? «L’Osservatore è una testata storica. Diciamo che entreranno tutti nella Segreteria. Poi, anche in base alle indicazioni che ci daranno i nove cardinali e la Segreteria di Stato, valuteremo come mantenere la sua riconoscibilità. Non cambierà il nome. Il problema è capire come diffonderlo meglio, non sappiamo ancora. L’essenziale è che si aprano i processi, dice il Papa. La riforma è aperta, ci vorranno anni perché vada a regime, vedremo col tempo». LA NUOVA Pag 45 Umile e straordinaria. “Gemme” dalla vita di monsignor Nervo di Sergio Frigo

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Nata dai fogli sparsi ritrovati dopo la morte, l’autobiografia di un uomo che h segnato un’epoca e interpretato il futuro "Gemme di carità e giustizia. Il racconto di una vita" (Ed. Edb, EUR 15) è l'ultimo regalo di monsignor Giovanni Nervo alla sua Fondazione Zancan, ai suoi collaboratori e alla sua folla di amici ed estimatori: una autobiografia "preterintenzionale", scritta su tanti fogli sparsi ritrovati fra le sue carte e "montati" da Diego Cipriani (Caritas) e Tiziano Vecchiato (Fondazione Zancan). I due curatori hanno aggiunto una sezione con alcuni dei suoi interventi più significativi sui temi che hanno ispirato il suo impegno religioso, sociale e culturale. Il vescovo di Padova, Claudio Cipolla, e l'arcivescovo di Agrigento e presidente della Caritas Italiana, Francesco Montenegro, hanno aggiunto rispettivamente la prefazione e la postfazione. Il libro sarà presentato oggi alle 15 al Museo Diocesano di Padova, con gli interventi del vescovo Claudio Cipolla, di Emanuele Rossi (Scuola superiore Sant'Anna di Pisa), di Luciano Bordignon (docente di teologia della carità) e dei curatori; conclusioni di Cesare Dosi, presidente della Fondazione Zancan. A sorprendere, di monsignor Giovanni Nervo - scomparso il 21 marzo 2013 - erano la ricchezza e la complessità che aveva saputo distillare dalla semplicità di una vita lunghissima ma ispirata sostanzialmente a due parametri: la fede e l'amore di Dio e degli uomini, soprattutto i più poveri. Ma su queste basi ha fondato un impegno religioso, sociale, civile e culturale a tutto tondo, che ha parlato indistintamente a credenti e non credenti, formando generazioni di sacerdoti, operatori sociali, sindacalisti, politici, almeno quelli che mettono a fondamento della loro azione il servizio alla comunità. Un approdo che ha sorpreso prima di tutti lui stesso, come sottolineano Diego Cipriani e Tiziano Vecchiato, curatori dell'autobiografia "Gemme di carità e giustizia. Il racconto di una vita", che viene presentata oggi, giorno in cui avrebbe compiuto 99 anni, a Padova: "La luce ha illuminato i suoi passi e li ha portati lontano, dove non avrebbe immaginato. Lo ha capito alla fine e ha ringraziato del dono della vita". Il punto di partenza era stato dei più umili, una famiglia di Solagna (Vi) che viveva coltivando il tabacco, esule dopo Caporetto. «Sono nato profugo, a Lodi, il 13 ottobre del 1918» raccontò in un'intervista l'anno prima di morire «Mio papà Sebastiano fece appena in tempo a vedermi, al battesimo, perché morì 17 giorni dopo, all'Ospedale del Lido di Venezia, di febbre spagnola. La mia è stata sempre una famiglia povera e questa condizione umana, prima ancora della fede, mi ha dato la possibilità di entrare sempre in sintonia con i più umili». Ma anche se rimase sempre legatissimo alla madre Teresa e alla sorella Anna, il suo racconto di vita, in uno stile sobrio ed essenziale di grande efficacia, inizia con l'ordinazione sacerdotale, il 6 luglio 1941 a Padova, e con le burbere parole del vescovo Carlo Agostini: «"Tu fai il tuo dovere secondo coscienza davanti a Dio. E poi non aspettarti niente dal tuo vescovo". Un metodo piuttosto spartano, ma (...) che mi ha liberato dall'idea di far carriera e mi ha lasciato grande libertà nelle mie scelte senza avere la preoccupazione della copertura dell'autorità». Una lezione che mise in pratica due anni dopo, quando entrò nella Resistenza celebrando messa sui Colli Alti per i ragazzi scappati in montagna dopo l'8 settembre. Sono fra le pagine più vive, interessanti e drammatiche del libro, perché coniugano le vicende avventurose e tragiche della guerra civile a Padova e nell'Alto Vicentino con la presa di coscienza del giovane prete che vedeva morire amici partigiani per mano di amici fascisti, e doveva conciliare carità e militanza: nell'occasione citata ci raccontò del dramma interiore vissuto quando il capo della Resistenza padovana Marcello Olivi lo incaricò di verificare la veridicità dei sospetti di tradimento a carico della moglie di un industriale che era passato coi partigiani, prima di deciderne l'eliminazione. «Poi per fortuna arrivò il 25 aprile e si è tutto risolto», chiosò don Giovanni. Gli anni successivi lo videro assistente spirituale delle Acli a Padova, insegnante di religione, cappellano di fabbrica (in rapporti "dinamici" ma fraterni con gli operai comunisti), quindi formatore e coordinatore nazionale delle scuole di servizio sociale, presidente della Fondazione Zancan, parroco a Santa Sofia, fino al grande salto a Roma, nel 1971, chiamato dalla Cei a fondare e presiedere la Caritas. La sua grande intuizione fu che fosse necessario anche per la Chiesa uscire dalle logiche meramente assistenziali del tempo per aprirsi a «una prospettiva di promozione della giustizia sociale», incoraggiando al tempo stesso la crescita delle comunità locali (esemplare l'attività nel Friuli terremotato) e la costruzione

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di professionalità adeguate. Furono anni entusiasmanti, ma non privi di ostacoli e contrasti: bisognava superare vecchie incrostazioni e contrastare nuovi appetiti di potere, presenti anche nelle sacre stanze, e mons. Nervo (forte dell'appoggio di Paolo VI), ne scrive senza reticenze, ma senza mai abdicare allo spirito di carità. Nel 1991 però (con Camillo Ruini segretario della Cei) don Giovanni di ritrovò senza più nulla da fare. «Nessuno mi aveva esplicitamente licenziato» scrive «ma scaduto il mio mandato lasciai silenziosamente, insalutato ospite, la Cei e ritornai in diocesi, dove mi accolse il vescovo, mons. Antonio Mattiazzo». Si apre per il sacerdote una nuova fase, in cui alternerà l'impegno nei rapporti fra Chiesa, istituzioni e territorio, i riconoscimenti, gli interventi pubblici, la scrittura, di cui offre testimonianza la seconda parte del volume. Si tratta di scritti sui temi a lui cari della solidarietà, del Vangelo e della Costituzione, della carità e della fede, in cui dà prova di doti profetiche: in particolare sull'immigrazione scrive (nel 1996 ) che «Non si tratta soltanto di un'emergenza, come un terremoto o un'alluvione. Qui si tratta probabilmente dell'inizio di una più vasta trasmigrazione di popoli. Bisogna allora guardare lontano: la normalità non sarà più la situazione di prima, il futuro della nostra società non sarà come il passato, ma multietnico, multiculturale, multireligioso». Auspica più accoglienza e stigmatizza le leggi via via più respingenti adottate dal Parlamento, ma aggiunge: «Non possiamo lasciar venire chi vuole, come vuole, e abbandonare poi gli immigrati e la popolazione ad arrangiarsi nel risolvere i problemi del lavoro, dell'abitazione, dei servizi, dell'ordine pubblico. Questo è il modo di favorire il rifiuto, l'intolleranza e il razzismo». Parole - tra le tante altre - che fanno dire a Tiziano Vecchiato: «Don Giovanni non ci ha lasciati» Torna al sommario 4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI LA NUOVA Pag 23 Migranti e aiuto ai poveri, confronto al Laurentianum Sul tema "Aiutiamoli a casa loro? Quando i migranti erano il nostro prossimo" basato sul libro di Antonio Benci "Il prossimo lontano" si sono confrontati ieri al Laurentianum - moderati da Alessandro Polet - Giovanni Vian storico del Cristianesimo e Diego Vecchiato, esperto di cooperazione internazionale. Vian ha ricordato quando Giovanni XXIII parlava di un vincolo insperabile tra poveri e Vangelo e dei poveri che ci evangelizzavano. Papa Luciani fu il primo a chiedere che le chiese europee si sentissero debitrici dei più poveri. Benci ha specificato che si possono individuare tre fasi nella seconda metà del secolo scorso. La maggioritaria era di aiutarli nella loro zona, poi ci fu l'intervento cooperativo in maniera caritatevole e la lotta alla fame dove emerse la figura del missionario. Con Paolo VI ci fu lo sviluppo di progetti sull'uomo sviluppando bisogni e diritti. Filosofia riportata oggi non più dai missionari ma dai volontari delle Ong. Diego Vecchiato ha sottolineato come «oggi non esiste più una cooperazione cattolica ma economica. La Cina ora ha in mano mezza Africa: non sono più obiettivi di sviluppo ma di sviluppo sostenibile. Ora la cooperazione è di alto livello ma si rischia di perdere di vista la persona come essere umano». Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Relazioni industriali ed empatia di Dario Di Vico Il ruolo dei sindacati C’è un fil rouge che ci permette di collegare i casi di cui si discute in questi giorni ovvero Amazon, Ikea e persino Melegatti? Credo di sì e la novità riguarda l’ingresso del consumatore nell’arena delle relazioni industriali e delle crisi aziendali. Prendiamo queste ultime: come era già avvenuto per la pasta Rummo - il cui stabilimento era stato distrutto da un’alluvione - anche per il pandoro veronese i lavoratori hanno fatto appello

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alla solidarietà dei consumatori come ultima dea . Hanno tentato di utilizzare la visibilità ottenuta sui media per costruire una corsia preferenziale, una forma di marketing empatico che non risolve di per sé i nodi che stanno a monte ma che si segnala per il rapporto diretto tra operai e consumatori. Nel campo delle relazioni industriali questo tipo di dinamica segue percorsi più complessi ma i sindacati sembrano in qualche modo capaci di usarla. Prendiamo il primo sciopero indetto nel centro di smistamento Amazon di Piacenza, un’azione che si è giovata di un clima di solidarietà diffuso anche in settori che non tifano abitualmente per le lotte sindacali. Lo sciopero Amazon è stato vissuto come anticipazione delle future relazioni sindacali in contesti altamente automatizzati e quindi ancora una volta come ultima dea. A questo punto può passare anche in secondo piano la percentuale reale di adesione allo sciopero perché il sindacato non è rimasto isolato. Il sindacato al contrario ha conquistato simpatie dentro la community degli innovatori, che a sua volta rappresenta il nocciolo duro degli utilizzatori del servizio Amazon. Con maggiore evidenza questa riflessione si attaglia al caso Ikea, un gruppo che vuoi per l’attenzione alla diversity in azienda vuoi per un’immagine «democratica» (prezzi e non solo) abilmente costruita in passato è sempre stato considerato amico del consumatore. Nel momento in cui ha adottato politiche del personale molto drastiche - come nel caso del licenziamento di una lavoratrice madre di un disabile - il feeling con il consumatore si è inevitabilmente incrinato e ha dato agio al sindacato di sfruttare il varco coniando l’ hashtag #pessimaIkea. Per avere una riprova di queste discontinuità vale la pena raccontare cosa è accaduto nei giorni scorsi all’Electrolux di Susegana in provincia di Treviso. L’Ikea negli ultimi anni con le sue commesse aveva reso possibile la saturazione produttiva della fabbrica e anzi la necessità di soddisfarle in tempi brevi aveva generato discussioni tra azienda e sindacato sulla gestione dei picchi di lavoro e degli straordinari. Adesso però la multinazionale svedese ha deciso di tradire la connazionale Electrolux e di affidare una maxi-commessa di 100 mila frigo da incasso all’americana Whirlpool. Sapete qual è stata la reazione degli operai e degli attivisti sindacali di Susegana? Minacciare, quantomeno a parole, di boicottare i punti vendita Ikea. Ancora una volta in situazione di emergenza è stato chiamato in causa il consumatore e il suo potere di condizionamento. Il fenomeno è molto interessante e fa venire in mente le recenti dichiarazioni di Guido Barilla, che pur guidando una multinazionale ha lanciato il guanto di sfida: «Noi guardiamo ai consumatori non agli analisti finanziari». Il mercato quindi non è più quel protagonista senza volto, cinico e orientato solo al breve termine, ma prende le sembianze del consumatore della porta accanto e del suo tasso di infedeltà mai così alto in passato. Da qui (anche) la tendenza sindacale a farselo amico, a cercare di coinvolgerlo nelle crisi aziendali e nelle relazioni industriali. Dall’esterno viene solo da auspicare che qualcosa del genere possa accadere non solo nella manifattura ma nei servizi dove invece l’utente continua a contare meno di zero. Prendiamo la vexata quaestio degli scioperi del venerdì nel trasporto pubblico o anche delle agitazioni lobbistiche dei taxisti: il consumatore è disarmato e non può che subire. Per contare dovrebbe poter scegliere come normalmente gli capita davanti allo scaffale di un supermercato ma avrebbe bisogno che ci fosse più concorrenza e libertà, proprio quella che in vario modo i sindacati e i taxisti combattono. Ma perché ciò che vale per sanzionare l’Ikea non deve valere per l’Atac? Pag 9 Che cosa rischiamo? di Stefano Agnoli L’Italia dipende per il 90% della sua energia dall’estero. E la Russia copre il 40% delle importazione di gas Se tutto andrà come sembra, con la ripresa del flusso dal gasdotto austriaco annunciata per la mezzanotte di ieri, anche questa volta l’Italia l’avrà scampata. Ma l’esplosione a Baumgarten non fa che mettere in risalto l’antica debolezza del sistema energetico nazionale. Dal quale dipendono i riscaldamenti delle abitazioni e l’attività delle industrie. Premessa necessaria: l’Italia è un Paese di storica dipendenza, visto che il 90% del suo fabbisogno viene dall’estero. E il gas gioca un ruolo fondamentale: copre il 35% dei consumi nazionali e con esso si produce il 42% dell’elettricità. Logico che ogni incertezza faccia scattare parecchia apprensione. La «regola N-1» - Come è accaduto ieri: nei Paesi dell’Unione Europea vale la cosiddetta «regola N-1», incorporata anche nel «Piano di emergenza del sistema italiano del gas

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naturale». Il che significa che se un’importante fonte di approvvigionamento si interrompe in modo imprevisto il ministero dello Sviluppo deve dichiarare lo stato di emergenza, saltando ovviamente a piè pari quelli di preallarme e di allarme. Ma è così rilevante il gasdotto che viene dalla Russia malgrado tutte le incertezze del passato (e quelle attuali inasprite dal regime di sanzioni dopo l’annessione della Crimea)? Dalla Siberia - Lo è, eccome: malgrado le crisi del 2006-07 e del 2009, quando il sistema nazionale è andato a un passo dal crac, l’import di gas dalla Russia negli ultimi anni è cresciuto. In un giorno lavorativo «normale» come lunedì scorso, il gas proveniente dai giacimenti siberiani della penisola di Yamal ha coperto poco meno della metà dell’import, circa 107 milioni di metri cubi sui 224 arrivati ai confini nazionali da altri quattro Paesi: Algeria, Libia, mare del Nord e Qatar (via nave sotto forma liquida fino al delta del Po). Senza dimenticare poi l’apporto della produzione nazionale, peraltro sempre più vituperata: alla fine del secolo scorso (il suo momento d’oro) copriva quasi un terzo dei consumi italiani, ora è abbondantemente sotto il 10%. Se si vuole un panorama su base annua, nel 2016 dalla Russia è arrivato il 40% del gas bruciato in Italia. Dall’Algeria, in passato primo fornitore, è giunto il 27%, dall’Olanda meno del 10%. Ce la farebbe il nostro Paese a cavarsela anche senza il gas russo per un lungo periodo? Gasdotto insostituibile - La risposta può venire dalla «Strategia energetica nazionale 2017» approvata proprio poche settimane fa. Lì si legge che «nel caso di una sospensione totale e prolungata delle importazioni dalla maggiore delle fonti di approvvigionamento (ad esempio blocco o incidente rilevante dei gasdotti che attraverso Ucraina, Slovacchia ed Austria portano il gas russo in Italia), è molto difficile ipotizzare di poter approvvigionare circa 27-30 miliardi di metri cubi da fonti di approvvigionamento diverse, anche accettando (come è subito avvenuto ieri, ndr) un sensibile innalzamento dei prezzi». Difficile che le altre rotte del gas possano colmare un eventuale «buco» lasciato dalla Russia: in Libia la guerra civile tra le fazioni imperversa dal 2011; da Olanda e Norvegia non c’è da attendersi aumenti di produzione; con l’Algeria i rapporti non sono ottimali in vista di importanti scadenze contrattuali previste per il 2019; il Gnl adriatico lascia spazi di manovra limitati. Che altre soluzioni ha di fronte l’Italia? Le alternative - In attesa che la transizione verso le fonti rinnovabili sia in grado di sostituire il gas, che alternative ci sono? Intanto va considerato che il sistema italiano è quello che più in Europa può basarsi su ingenti riserve: gli «stoccaggi» (gas iniettato d’estate in vecchi giacimenti esauriti che servono da contenitori, pronti per essere chiamati in causa d’inverno) che proprio ieri sono entrati in funzione. Si tratta di 11,5 miliardi di metri cubi «commerciali» e di altri 4,5 miliardi «strategici», che ieri erano ancora pieni all’80%. E poi c’è il tema delle nuove infrastrutture. Non solo quella in arrivo dall’Azerbaigian, il famigerato Tap. Ma anche le prospettive che vengono dal Mediterraneo orientale, con i ritrovamenti nelle acque tra Egitto, Cipro e Israele. Ultima annotazione: l’Europa, e la Germania, con il progetto del raddoppio del Nord Stream 2 (il gasdotto baltico) non ci aiutano molto. Se tutto il gas russo poi passasse di lì, per evitare l’Ucraina, l’Italia finirebbe per pagarlo di più. Ecco perché, paradossalmente, ci potrebbe servire il Turk Stream. Sempre gas russo, ma dal mar Nero. Effetti della geopolitica. LA STAMPA Il Belpaese che esclude i deboli di Mario Deaglio Secondo una convinzione largamente diffusa, gli italiani sono «brava gente»: sono pacifici, sensibili e civili e un pezzo di pane al vicino in difficoltà non si nega mai. Naturalmente non mancano importanti esempi in questo senso, ma nel suo complesso il paese sta andando in una direzione diversa. L’Italia non è diventata solo «rancorosa», come l’ha definita il Censis nel suo 51° Rapporto, ma anche sempre più spaccata tra «ricchi» e «poveri», tra «chi è dentro» e «chi è fuori» come la descrive l’Eurostat in uno studio reso noto ieri. L’Istituto di Statistica dell’Unione Europea analizza la «deprivazione materiale e sociale», una definizione allargata di povertà che tiene conto non solo dei redditi ma anche della capacità della gente di soddisfare bisogni «normali» come quello di abitare in una casa sufficientemente calda, di essere in grado di sostituire un capo di

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vestiario consunto, di possedere almeno due paia di scarpe. In base a questi criteri, l’Italia, con il 17,2 per cento della popolazione è sopra la media europea dei «deprivati» e quindi degli esclusi, e, in particolare, sopra i valori di quasi tutti i grandi Paesi del Continente (tra questi, la sola Spagna fa marginalmente peggio di noi). Con valori più alti dei nostri troviamo soprattutto i Paesi del Sud e molti Paesi dell’Est (ma non la Polonia, la Slovenia e l’Estonia). Il tasso di «deprivazione materiale e sociale» della Germania è pari a poco più della metà di quello italiano, in Austria è ancora inferiore. Tutto ciò fa sì che, passando dalle percentuali ai numeri, l’Italia abbia la poco invidiabile caratteristica di essere in testa alla classifica del numero delle persone in difficoltà con quasi dieci milioni e mezzo di abitanti, contro i 7-8 milioni di Francia e Regno Unito – che hanno una popolazione sostanzialmente pari alla nostra – e della Germania che ha un terzo di abitanti in più dell’Italia. Se poi si adottano i criteri dell’Istat sugli «italiani a rischio povertà o esclusione sociale» si raggiunge il 30 per cento della popolazione con un fortissimo divario tra il Nord, i cui valori sono abbastanza vicini alle medie europee e il Mezzogiorno dove si è prossimi alla metà della popolazione. E quasi ovunque la tendenza è all’aumento. L’allargarsi dell’area di esclusione-povertà è un fenomeno mondiale. È però più sopportabile là dove i redditi aumentano con un buon ritmo e i livelli di reddito pre-crisi sono già stati superati, il che fornisce a tutti almeno qualche speranza di inclusione. È anche per questo che centinaia di migliaia di giovani italiani, spesso dotati di livelli medi ed elevati di istruzione, si sono trasferiti e si stanno ancora trasferendo all’estero. In Italia la crisi economica ha tagliato i redditi più che altrove, ma forse il suo danno peggiore è quello di aver ridotto (per moltissimi giovani, quasi annullato) una speciale porzione del «capitale umano» fatta di fiducia, entusiasmo, programmi, piani di vita. E questo è il succo di cui si nutrono le «vere» riprese, che non possono essere solo economiche ma devono avere alla base qualche obiettivo ideale. Possiamo certo congratularci di aver fatto ripartire, sia pure, per il momento, a velocità medio-bassa, la «macchina dell’economia» ma dobbiamo riconoscere di non essere finora riusciti a far ripartire la «macchina della società». Ci concentriamo sui sondaggi pre-elettorali ma dimentichiamo che tali indagini - come quella di La 7 resa nota lunedì sera - mostrano che, se si votasse oggi, la somma dei non votanti, di coloro voterebbero scheda bianca o non saprebbero a quale lista dare il loro appoggio, supera di un soffio la metà degli intervistati (e quindi la metà degli italiani). Può una metà del Paese far finta che l’altra metà non esista? A considerare questo fine legislatura e inizio di fatto della campagna elettorale, si direbbe di sì. È sufficiente gettare un piccolo sguardo alle migliaia di emendamenti alla legge di bilancio 1918, in discussione alla Camera: rappresentano il trionfo del particolarismo, degli interessi di piccoli gruppi. O quando si affrontano i «grandi problemi», lo si fa solo a livello di principi, senza preoccuparsi di dove possano provenire le risorse per realizzarli. Possiamo solo augurarci che il modo degli italiani – e delle forze politiche italiane – di guardare alla loro società e alla loro economia migliori nel corso delle settimane che ci separano dalle urne; e che l’Italia trovi il coraggio di guardarsi nello specchio. AVVENIRE Pag 3 I figli e il legame di sangue, un passo indietro pericoloso di Luciano Moia Perché il superiore interesse del minore è una conquista Il diritto del legame di sangue evocato qualche giorno fa dal procuratore della Cassazione a proposito di due casi molto discussi di bambini contesi – quello della 'coppia dell’acido' e quello dei cosiddetti 'genitori-nonni' – non è solo un arretramento nella cultura giuridica ma anche una pericolosa apertura alla logica adultocentrica. Quella secondo cui il bambino è un 'desiderio' a disposizione dei grandi che si può ottenere a qualsiasi prezzo. Anche ignorando il fatto, per esempio, che un minore viva già stabilmente da quasi sette anni con la stessa famiglia e che l’adozione sia stata disposta con sentenza definitiva e legittimante (caso dei 'genitori-nonni' di Casale Monferrato). Oppure (passando al caso milanese della 'coppia dell’acido) che due sentenze di primo e secondo grado, e due consulenze tecniche d’ufficio (Ctu) conformi a quelle, abbiano considerato i genitori e i nonni di un minore del tutto inadeguati a svolgere funzioni di riferimento educativo. Il fatto che, nonostante queste evidenze giuridiche e culturali, il procuratore della Cassazione, Francesca Cerone, abbia chiesto

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l’azzeramento di entrambe le decisioni spiegando che non si può mai spezzare il collegamento con la famiglia biologica, rischia di recuperare un concetto arcano e pericoloso, desunto dal peggior familismo, che rovescia il principio del 'superiore interesse del minore' recepito dalla nostra legislazione da almeno mezzo secolo. Era il 1967 quando la prima legge italiana sull’adozione superava il concetto medievale dell’affiliazione, secondo cui il bambino non diventava in alcun modo 'figlio dell’affiliante' e, soprattutto, il rapporto poteva essere interrotto in qualsiasi momento, in base alla volontà, e spesso all’arbitrio dell’adulto (non era indispensabile che ad 'affiliare' fosse una coppia). Poi nel 1983, la legge 184 – quella attualmente in vigore – poi solo parzialmente riformata nel 2001, proclamava finalmente il diritto del minore ad avere una famiglia. Una svolta importante, confermata dal diritto internazionale, su cui è vietato aprire spiragli concettuali. Perché quando nella giurisprudenza specifica il minore, bambino o ragazzo che sia, invece di risultare sempre e comunque centrale come soggetto debole, può essere messo da parte, oscurato, idealmente marginalizzato per far prevalere altri interessi – dal legame di sangue alla pretesa del figlio ad ogni costo – si spalanca un percorso ad alto rischio in cui i desideri vengono scambiati per diritti e in cui tutto quello che è tecnicamente possibile diventa anche eticamente lecito. Entrando nei dettagli delle due vicende, emergono poi altri aspetti su cui la valutazione del procuratore della Cassazione sembra quasi avere l’effetto di un colpo di spugna a proposito di consuetudini giuridiche che sono allo stesso tempo conquiste di civiltà. Nel caso dei 'genitori-nonni' è stato possibile ridiscutere un’adozione già definitiva perché si è conclusa nel frattempo la vicenda penale legata alle accuse di 'abbandono di minore'. Il padre, che oggi ha 76 anni (la madre 64), aveva subito un procedimento giudiziario perché, secondo quanto riferito dai vicini, avrebbe lasciato in auto. a lungo e da sola, la bambina di pochi mesi, nata con la fecondazione eterologa. Con la denuncia sono partite anche le verifiche dei servizi sociali attivate dal Tribunale per i minorenni che, dopo lunghissime e approfondite sedute, hanno valutato l’inadeguatezza genitoriale della coppia. L’età avanzata è stata solo uno degli elementi entrati nel giudizio degli specialisti. E non quello determinante. A confermare l’accusa di 'abbandono' sono stati invece tutta una serie di elementi legati all’esistenza di un vuoto educativo tale da far considerare i due del tutto inadeguati per accompagnare la crescita della piccola. Quindi, anche se l’accusa penale è caduta, rimangono le considerazioni negative espresse dal Tribunale dei minorenni a proposito delle qualità genitoriali della coppia. Non a caso, prima di arrivare alla fecondazione assistita – all’epoca illegale in Italia – i due avevano tentato senza successo la strada dell’adozione ma, anche in quell’occasione, il Tribunale non aveva loro concesso l’idoneità (succede solo nel 10 per cento dei casi) respingendo la richiesta. Anche in quell’occasione gli elementi entrati nella valutazione dei magistrati avevano prodotto un giudizio negativo sulle loro aspirazioni a diventare genitori. Ora invece, ammettendo la possibilità di ridiscutere un’adozione definitiva sulla base di un giudizio penale, il pg della Cassazione considera il proscioglimento del padre come fatto nuovo intervenuto, ignorando tutte le oggettive valutazioni sulle carenze educative. Una posizione ideologica che finge inoltre di dimenticare la stabilità affettiva conquistata ormai da quasi sette anni dalla piccola, proprio grazie alla nuova famiglia. Se al centro dei giudizio ci fosse effettivamente il 'miglior interesse del bambino' sarebbe difficile immaginare una collocazione più favorevole per una crescita equilibrata. Una posizione, frutto di decenni di elaborazione culturale, coerenti nell’affermare la centralità del bambino come portatore di diritti, che ora rischia di essere ridiscussa da una richiesta tutta focalizzata sulle rivendicazioni della famiglia biologica. La retrocessione dell’interesse del minore rispetto alla volontà degli adulti è anche lo schema seguito nella richiesta di riassegnare ai nonni il figlio della cosiddetta 'coppia dell’acido' (condanna definitiva a 20 anni per lei, duplice condanna a 24 e a 14 anni per lui). Il piccolo, che oggi ha due anni e 4 mesi, vive serenamente in una famiglia che ha ottenuto un affido 'a scopo adottivo' e che quindi, se non interverranno fattori nuovi, potrà avere a tutti gli effetti un padre e una madre a tempo pieno. La richiesta del pg della Cassazione sconvolge questo percorso coerente, rimette in gioco le possibilità di affido avanzate dai nonni materni già considerati inadeguati dal punto di vista educativo dopo 46 incontri con un pool di esperti (neuropsichiatra infantile, psicologa, assistente sociale). Anche in questo caso va rimosso il pregiudizio secondo cui ad orientare la consulenza siano stati i crimini orrendi commessi dalla figlia. Non è stata valutata la

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'colpa educativa pregressa' – quella nessuno potrà mai giudicarla in modo obiettivo – ma la possibilità di costituire un punto di riferimento affidabile per il futuro del bambino. Questi nonni mettevano davvero al centro le esigenze di crescita del piccolo? Sarebbero riusciti ad essere pienamente disponibili per un progetto a lungo termine? Non rischiavano di mettere al primo posto altre istanze, come la volontà di preservare alla figlia un’ipotesi di maternità che le sarà però impossibile concretizzare per i prossimi vent’anni, da trascorrere in carcere? Il giudizio negativo del Tribunale dei minori sulle 'capacità genitoriali' di questi nonni non va quindi letto come una 'punizione' ma come una valutazione, certo sofferta e complicata, concepita per il 'miglior interesse del bambino'. Ecco perché la presa di posizione del procuratore della Cassazione sembra trascendere la realtà dei casi concreti per stabilire una norma ideale, quella della piena disponibilità del minore per i genitori biologici e per la famiglia allargata – con tutte le conseguenze facilmente ipotizzabili – anche quando quelle famiglie appaiono segnate da insuperabili e accertate inadeguatezze. Tali comunque da rappresentare per il bambino un rischio oggettivo nel percorso di crescita. E questo è un inaccettabile salto nel buio. Pag 7 Bitcoin, la folle corsa della criptovaluta di Pietro Saccò Le quotazioni corrono, ma il mercato è una giungla. Il risparmiatore è avvertito Nessuno ormai può sostenere di non essere stato avvertito: entrare nel mondo delle monete virtuali comprando bitcoin, ethereum, litecoin o qualche altra criptovaluta significa avventurarsi in una giungla finanziaria. Dentro può succedere di tutto. I prezzi possono andare vorticosamente verso l’alto, com’è successo quest’anno, ma possono anche crollare spaventosamente com’è successo nel 2014, quando dopo avere superato per la prima volta i mille dollari la quota- zione della criptovaluta è scivolata fin quasi a 200 dollari. Il potere del piccolo risparmiatore nel determinare il prezzo è naturalmente zero: sono i trader sui mercati professionali a dettare le regole. Possono esserci anche dei furti, in questa giungla finanziaria. La settimana scorsa è successo in una piattaforma di scambi slovena, NiceHash, dove sono spariti improvvisamente 4700 bitcoin che valgono circa 80 milioni di dollari, alle quotazioni attuali. Nel 2014 è capitato a Mt Gox, che allora era la principale borsa dei bitcoin e ha chiuso improvvisamente facendo sparire 850mila bitcoin, criptovalute che allora valevano 450 milioni di dollari e che oggi con una quotazione complessiva di 14 miliardi e 450 milioni di dollari troverebbero sicuramente posto tra i più preziosi bottini della storia dell’umanità. E non ci sono regole o tutele, nel mondo dei bitcoin: non ci sono banche centrali che si muovono per tenere in equilibrio le valute virtuali, si sta completamente in balìa del mercato, che in questo caso è completamente slegato da ogni aggancio con l’economia 'reale'. Insomma, può darsi che sia una «bolla che rischia di finire in lacrime», come avvertiva ieri Joseph Stiglitz, che nel 2001 ha vinto il Nobel per l’Economia grazie al suo contributo alla teoria delle 'asimmetrie informative'. La teoria dice che se in un processo economico alcuni soggetti hanno informazioni che gli altri non hanno allora i soggetti 'informati' possono usare quelle informazioni a proprio vantaggio. Conviene sempre chiedersi se si è nel gruppo degli informati o in quello dei disinformati, prima di fare un investimento. Oppure si possono comprare dei bitcoin e poi chiudere gli occhi e incrociare le dita. Ieri il prezzo medio del re delle criptovalute è salito ancora, portandosi a 17.700 dollari. In un anno l’aumento è stato del 2.171%. Niente vieta di sperare che questa corsa non finisca mai. Certo, per crederci serve uno smodato ottimismo. CHE COSA SONO I BITCOIN? Nell’idea del loro misterioso inventore, qualcuno che si nasconde dietro lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto, i bitcoin dovevano essere una moneta virtuale che permettesse di fare pagamenti online senza bisogno di passare da un’istituzione finanziaria, ad esempio da una banca. La loro forza innovativa sta nella blockchain, il meccanismo peer-to-peer che Nakamoto ha ideato per garantire la titolarità di ogni bitcoin, così da evitare, per esempio, che qualcuno spenda due volte lo stesso bitcoin. CHE COSA SIGNIFICA PEER-TO-PEER? Nakamoto ha pensato i bitcoin come una moneta peer-to-peer, cioè basata su una rete informatica “paritaria”. Le reti informatiche più diffuse sono organizzate secondo un principio di server e client: ci sono cioè computer

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che offrono “servizi” (i server) e altri che li ricevono (i client). Per esempio se leggete un articolo su un giornale online il vostro apparecchio è il client che riceve testo, immagini e video dal server del giornale. Nelle reti “paritarie” ogni computer è allo stesso tempo server e client, cioè fornisce e riceve dati dagli altri computer collegati alla rete. Questo tipo di tecnologia è utilizzata da diversi anni nei sistemi di scambio di file, come l’ormai defunto Napster o i più nuovi eMule o uTorrent: i file che gli utenti condividono su queste applicazioni sono memorizzati su diversi computer della rete, quando un utente sceglie di scaricarne uno lo scarica prendone diversi “pezzettini” dai computer degli altri utenti, che a loro volta possono scaricare “pezzettini” di file dal suo computer. La forza di queste reti è che rispetto a quelle tradizionali sono più difficili da attaccare: in un sistema in cui ci sono server e client distinti basta spegnere i server per chiudere la rete, mentre in un sistema peer-to-peer la rete continua a operare finché non vengono spenti tutti i computer che ne fanno parte. COME FUNZIONA BLOCKCHAIN? Blockchain è il sistema che dota i bitcoin dell’l’inattaccabilità delle reti peer-to-peer. I computer connessi alla rete della moneta virtuale registrano ogni generazione di nuovi bitcoin e ogni passaggio di proprietà di un bitcoin su blockchain, registro pubblico e condiviso tra tutti gli utenti della rete che verifica e autentica quanti sono i bitcoin e a chi appartengono. Ogni volta che un bitcoin passa di mano, questo trasferimento viene registrato su blockchain (che significa proprio catena di blocchi) in un nuovo “blocco” di dati crittografato, che si aggiunge ai blocchi in cui sono incluse le operazioni precedenti e alle quali si lega indissolubilmente. Oggi i blocchi sono poco meno di 500mila. È impossibile modificarne uno, perché sarebbe incompatibile con tutti quelli precedenti e quelli successivi, già memorizzati su tutti i computer della rete. Questo registro condiviso, studiato da banche in tutto il mondo per altre possibili applicazioni, è una sorta di banca centrale dei bitcoin, la massima garanzia dell’esistenza e della titolarità delle monete virtuali. CHI CREA I BITCOIN? La verifica della validità dei blocchi della blockchain avviene attraverso la risoluzione di calcoli matematici estremamente complessi. Nella rete dei bitcoin ci sono utenti che mettono a disposizione la capacità di calcolo dei loro computer per risolvere queste operazioni, così da contribuire alla costruzione della catena di blocchi. Più la catena si allunga più i calcoli si fanno complessi. Quando riescono a completare un’operazione di verifica questi soggetti – chiamati “miners”, cioè minatori, perché estraggono i dati dai blocchi – vengono ricompensati con un premio in bitcoin. L’attività dei miners non è per tutti: servono reti di computer estremamente potenti per risolvere i calcoli. Secondo le stime del centro di analisi sulle criptovalute Digiconomist per validare ogni singola transazione in bitcoin si consumano 235 kilowattora di energia elettrica, quasi un decimo del consumo annuo di elettricità di una famiglia italiana media. PERCHÉ ADESSO SI PARLA TANTO DEI BITCOIN? I bitcoin non sono una novità: il documento fondativo di Nakamoto è stato pubblicato nell’estate del 2008 e la rete peer-to-peer è al lavoro su blockchain dal 2009. Per i primi anni sono rimasti un oggetto che appassionava solo gli informatici e certi fan dell’anarchia resa possibile dal mondo del web. Non ci sono dati ufficiali sul loro uso come “valuta”, ma raramente sono stati davvero utilizzati come moneta per acquistare qualcosa di “reale”. Il loro essere completamente indipendenti da entità governative o bancarie li ha resi però presto uno strumento di scambio molto utilizzato nel mondo del commercio illegale, ad esempio per gli acquisti di droga o armi. Ma è da quest’anno che le monete peer-to-peer pensate da Nakamoto hanno cessato di essere qualcosa di simile a una valuta per diventare uno strumento di investimento: la valutazione dei bitcoin, che ci aveva messo quattro anni a salire da 1 a 100 dollari e tra il 2014 e il 2016 si era mossa tra i 300 e i 900 dollari, è andata fuori controllo all’inizio di questo 2017: è salita dai 995 dollari di inizio gennaio agli attuali 17mila dollari, con una crescita di oltre il 1.600%. COME SI INVESTE SUI BITCOIN? Il mondo della moneta virtuale è sregolato, anarchico e asimmetrico. Alla base ci sono i “minatori” che ottengono i bitcoin (fino ad oggi ne sono stati estratti 16,5 milioni, blockchain è concepita perché se ne possano generare al

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massimo 21 milioni) e che ne mettono in vendita una parte. Poi ci sono i trader, che attraverso piattaforme del tutto simili a quelle che utilizzano ad esempio per gli scambi di Borsa comprano e vendono bitcoin “facendo” la quotazione, cioè indicando il prezzo a cui sono disposti a cederli e quello a cui sono disposti a comprarli. Infine ci sono i piccoli investitori, che si sono affidati a qualche azienda come Coinbase o Blockchain per aprire un loro wallet, cioè un portafoglio in cui mettere bitcoin da comprare con la carta di credito o collegando il wallet al proprio conto in banca. Su ogni acquisto si paga una commissione. Oggi in pochi comprano interi bitcoin, ma si limitano a piccole porzioni. I prezzi per questi acquisti sono determinati dalle aziende con cui si apre il wallet, che vendono ai risparmiatori i bitcoin generati da loro o quelli acquistati sulle borse in cui si muovono i trader. Quando vuole vendere il suo bitcoin, il risparmiatore lo cede all’azienda del suo wallet, che gli applica lo stesso prezzo a cui compra le valute virtuali (e gli fa di nuovo pagare una commissione). PERCHÉ LE VALUTAZIONI DEI BITCOIN CRESCONO COSÌ TANTO? La corsa della valutazione dei bitcoin è qualcosa che si autoalimenta. I bitcoin e le altre valute virtuali che sono nate nel frattempo – come Ethereum, Litecoin o Bitcoin cash, nata da una costola della moneta di Nakamoto – non hanno legami con un’attività economica reale: non hanno nessun uso significativo nel mondo fisico, la loro valutazione si basa solo su quanto le persone sono disposte a spendere per possederne uno. Dietro la crescita iniziale delle quotazioni possono esserci stati fattori diversi: essendo una moneta fuori dal controllo dei governi, i bitcoin possono avere rappresentato una via di fuga per gli investimenti di cittadini di paesi come la Cina o il Venezuela, sottoposti a limiti severi per l’espatrio dei capitali. Ma sono solo ipotesi. Ciò che è evidente è invece che la vorticosa crescita delle quotazioni generata dall’aumento della domanda di bitcoin ha spinto anche risparmiatori di paesi dove i capitali sono ben più tutelati (Italia compresa) a usare i loro soldi veri per comprare valuta virtuale, così da approfittare dei guadagni e partecipare a quella che sembra la scoperta collettiva di un Eldorado. È VERO CHE È UN’ENORME BOLLA? Impossibile dirlo con certezza. Di sicuro davanti a una crescita del 1600% il rischio di bolla è elevatissimo. Soprattutto perché dietro ai bitcoin non c’è nulla, se non la frenesia dei risparmiatori di mezzo mondo: il loro valore è determinato solo da quanto le persone sono disposte a pagare per averne uno e da quanto i trader si aspettano che le persone saranno disposte a pagare in futuro. Se il valore di un’azione si lega alle aspettative degli utili che un’azienda sarà in grado di generare e quello di titoli specultativi come i futures sul petrolio si lega alle dinamiche della domanda e dell’offerta della principale materia prima energetica del mondo, la quotazione dei bitcoin non si lega ad altro che a se stessa, in una pericolosissima autosufficienza. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XIII Festa rinviata per la chiesa ortodossa di Santa Lucia di Alvise Sperandio Ancora al grezzo l’interno del complesso della comunità romena Oggi i romeni ortodossi avrebbero voluto celebrare la festa di Santa Lucia nella loro nuova chiesa che sta sorgendo in via Scaramuzza a Zelarino. Dovranno, invece, aspettare ancora un po' perché il cantiere è in ritardo sulla tabella di marcia: se fuori l'edificio è finito, dentro è fermo al grezzo e di lavoro davanti ce n'è ancora molto. «Abbiamo preferito concentraci sull'esterno anche per non tenere a lungo le impalcature che costano tanto. D'altronde non abbiamo fretta e per fare le cose al meglio è bene prendersi il tempo che serve», spiegano gli operai. Quello che sta sorgendo è un vero gioiello che visto dalla strada, tra cupole e archi, svetta già in tutta la magnificenza della sua dimensione (35 metri per 15). Soprattutto la grande cuspide, con la guglia in rame, si staglia imponente e la sera quand'è illuminata si fa notare a distanza specie dalla sommità del vicino cavalcavia che porta a Trivignano. Entrando nella chiesa, a colpire

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ancora di più è l'altezza della torre che non vuol essere un campanile, ma ricordare lo stile moldavo rievocando i monasteri di quella regione. Poco per volta, comunque, le diverse parti prendono forma: si intravedono la zona rialzata dell'altare, la sacrestia, la navata, il soppalco per il coro sopra il grande portale. «Immaginiamo che in tutto possano starci 500 persone», racconta Giovanni aprendo le porte del cantiere. I lavori sono già più avanti nella cripta sotterranea dove è già terminato l'elegante soffitto a volte con mosaici e che sarà un altro spazio utile per il culto della comunità composta da più di duemila fedeli. Vista da dentro, la sensazione è che ci sia un'attenzione particolare per il dettaglio di tutta la costruzione che giustifica non solo il ritardo nella conclusione dell'opera, ma anche il costo preventivato in due milioni di euro. «Soldi che mettiamo tutti noi con l'autotassazione», ribadiscono i fedeli. Nel cartello ormai sbiadito apposto sul cancello si legge che il permesso di costruire risale all'estate del 2014. La posa della prima pietra sul terreno da seimila metri quadrati che il Comune ha dato in comodato gratuito per 50 anni rinnovabili, risale invece all'aprile del 2015. Ora, date per la consegna non vengono indicate. I romeni ortodossi hanno la pazienza di aspettare che tutto sia completato al meglio e nel frattempo si accontentano della chiesetta da 80 posti in via Monte Piana. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 11 Nordest, il 69% non crede che la mafia viva anche qui di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Solo il 28 per cento sa della presenza malavitosa: un allarme in rapidissima crescita. Bettin: “Contamina il mercato e l’ambiente” «Qui la mafia non è certo quella dell'immaginario collettivo, con la coppola e la lupara. E non è neppure più soltanto quella che gestisce il traffico e lo spaccio della droga. Siamo in una fase in cui i mafiosi vedono questa regione, con le sue industrie e le attività economiche, come un luogo in cui investire il denaro sporco, riciclandolo, in modo da ottenere capitali puliti. Come una grande lavatrice, appunto». Queste sono le parole che il procuratore capo Bruno Cherchi, da un anno alla guida della Direzione distrettuale antimafia di Venezia, ha usato qualche settimana fa nel corso di un'intervista per descrivere la presenza della mafia in Veneto, ma probabilmente un discorso del tutto assimilabile potrebbe essere fatto anche per il Friuli-Venezia Giulia e la provincia di Trento. L'OPINIONE PUBBLICA - Quanto l'opinione pubblica nordestina rileva la presenza di questa grande lavatrice vicino a sé? Secondo i dati raccolti da Demos per Il Gazzettino, il 28% degli intervistati ritiene la mafia molto o abbastanza presente nella propria zona di residenza, mentre è il 69% a ritenerla poco o per niente presente. Guardando alla serie storica dell'Osservatorio sul Nord Est, possiamo osservare come la percentuale di coloro che ammettono l'esistenza di mafia in queste terre sia aumentata nel corso del tempo. Nel 2010, infatti, era il 19% a giudicare l'attività mafiosa molto o abbastanza presente. La percentuale era poi salita al 22% nel 2013 e si era stabilizzata nel 2016 (21%). Con i valori registrati nell'ultima indagine, però, il balzo è consistente: +7 punti percentuali rispetto ad un anno fa. Quali sono i settori socio-professionali maggiormente consapevoli della presenza mafiosa nelle proprie zone di residenza? Disoccupati (45%) e imprenditori (39%), oltre a lavoratori atipici (36%) e operai (32%), sembrano essere le categorie che maggiormente percepiscono la presenza della criminalità organizzata intorno a loro. Rileviamo, però, come sia sempre una minoranza ad esplicitare questo tipo di sensazione, mentre la maggioranza degli intervistati rimane convinta che la mafia a Nord Est sia poco o per nulla presente. Anche se tra il 2010 ed oggi la percentuale di scettici è diminuita di 9 punti percentuali, restano su queste posizioni quasi 7 intervistati su 10. Questo orientamento, inoltre, tende a farsi ancora più largo tra studenti (89%) e liberi professionisti (81%), tecnici e impiegati (76%). Com'è cambiata la presenza della criminalità organizzata nel corso degli ultimi 10 anni? L'idea che sia aumentata riguarda il 27% degli intervistati, mentre il 38% ritiene sia rimasta stabile. Un nordestino su dieci,

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poi, pensa che l'attività di mafia, camorra e n'drangheta sia diminuita nel corso dell'ultima decade e il 16% sostiene che le mafie, a Nord Est, non ci sono e non ci sono mai state. Piuttosto consistente (9%), infine, la percentuale di intervistati che si mostrano reticenti alla domanda, sintomo di quanto questo argomento sia, ancora oggi, particolarmente difficile per l'opinione pubblica. «Il Nordest sottovaluta la presenza delle mafie. Eppure si tratta di un'emergenza diffusa nel nostro territorio, che si nutre e cresce mimetizzandosi nelle nostre comunità». Gianfranco Bettin, sociologo veneziano, una vita da sempre attiva nelle amministrazioni locali, dedicata soprattutto alla realizzazione di politiche forti di lotta alla criminalità, non ha dubbi: «La mafia a Nordest esiste. E i cittadini anche se, molto lentamente, iniziano a capire la gravità della situazione». Buona parte di veneti, friulani e trentini, non sembra però preoccupata. «Il fatto che la mafia qui non uccida non significa che sia meno pericolosa. Anzi. La mafia da noi agisce a livello economico, contaminando il mercato del lavoro, insinuandosi nella leale concorrenza tra le aziende per l'ottenimento degli appalti. E rovinando i paesaggi con la cementificazione selvaggia di aree ancora integre del nostro territorio. E poi c'è il narcotraffico. Perché il male della droga non giunge per mano degli spacciatori nordafricani che vediamo nelle nostre città. Sono le mafie i veri predatori». Perché la mafia a Nordest? «È un'area strategica per due ragioni: investimenti e riciclaggio. E poi c'è il grande business del narcotraffico». I più consapevoli dell'emergenza sono gli imprenditori. «Perché proprio da loro sono partite le prime denunce coraggiose e le prime indagini della magistratura. Molti piccoli imprenditori, negli anni della crisi, si sono rivolti a soggetti mafiosi per chiedere un facile' sostegno economico. Ma poi, spesso, quegli aiuti sono diventati l'inizio della fine delle loro attività a cui hanno dedicato una vita». Pag 23 Mafia, il modo di agire appreso anche a Nordest di Francesco Trotta Cos'è la mafia?: questo chiedo sempre agli studenti delle scuole medie e superiori con cui, da circa due anni, interagisco. Due risposte mi hanno colpito molto. La prima è di alcune studentesse del Liceo Galilei di Dolo. Secondo loro, la mafia è un'istituzione sociale. Definizione assai interessante che allarga l'orizzonte della comprensione del fenomeno mafioso. Invece, una studentessa della Scuola Pierazzo di Noale ha detto che: la mafia è lo Stato. Brividi. Fossi nella classe dirigente di questo Paese mi chiederei quale messaggio sta dando alle nuove generazioni. Perché lo Stato è avvertito come un'entità altra dai più giovani, che non sempre ricordano di essere loro stessi lo Stato. É un tema complesso quello delle mafie e della loro percezione, come dimostrano i dati raccolti da Demos. Se è vero che nel tempo è cresciuta la quota di chi afferma che nel Nordest e in Veneto la mafia c'è, è altrettanto vero che questa percezione sembra essere ridotta rispetto a inchieste giornalistiche o indagini della magistratura. O rispetto a un certo recente passato. Felice Maniero è veneto ed era il capo della Mafia del Brenta: per qualcuno un semplice bandito, uno che faceva rapine, un'immagine su una maglietta. Maniero, però, è uno che ha ucciso, un criminale tra i peggiori, un mafioso. E sono mafiosi i condannati nell'inchiesta Aspide. Ed erano mafiosi i latitanti catturati qui negli anni scorsi. Eppure, qualcuno li accoglie, i mafiosi, li cerca per portare avanti o costruire insieme aziende, ci fa affari da centinaia di migliaia di euro. Rifiuti, edilizia, turismo, servizi, scommesse: non c'è settore dell'economia in cui non ci sia stata o non ci sia l'ombra delle mafie. E tutta una serie di reati - dagli attentati incendiari all'usura - hanno dei protagonisti che godono di rispettabilità, spesso mantenuta nonostante condanne o patteggiamenti. Ecco che allora non dobbiamo solo chiederci se ci sia, la mafia, ma anche dove stiano, i mafiosi, cosa facciano e con chi, soprattutto. Sul sito dell'Associazione Cosa Vostra stiamo provando a mapparli, dove aver geolocalizzato i beni confiscati. Perché le mafie non uccidono solo con mitra e pistole, ma anche, ad esempio, con rifiuti smaltiti illegalmente vicino a terreni coltivati, cemento depotenziato, diritti dei lavoratori cancellati. Potremmo accorgerci allora che il modo di agire delle mafie è stato ben appreso da qualche imprenditore del Nordest. E potremmo ricordare a chi fa affari con le mafie di quel bidone con l'acido in cui è stato sciolto a 14 anni

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Giuseppe Di Matteo. Questa è la mafia di sempre ed è sempre la mafia. E se è vero che la mafia è una montagna di merda, che odore ha chi fa affari con lei? LA NUOVA Pagg 2 – 3 Una nuova mareggiata si mangia le spiagge di Elisabetta B. Anzoleti e Mitia Chiarin E’ la terza di un mese che colpisce la costa veneziana mettendo in ginocchio l’intero litorale. Danni complessivi per quasi un milione e mezzo di euro. L’accusa della Regione Venezia. Nuova mareggiata sulla costa veneziana, nuove polemiche. Il maltempo degli ultimi giorni ha messo in ginocchio nuovamente il litorale veneto, colpendo tutta la costa da Isola Verde fino a Bibione. La terza violenta mareggiata nell'arco di un mese ha spazzato via quel poco di spiaggia che era rimasto dei precedenti ripascimenti. Lavoro e tanti soldi, quasi un milione e mezzo di euro, buttati letteralmente a mare. A Isola Verde, la spiaggia a sud di Chioggia, che non ha alcuna difesa strutturale, si è presentata vulnerabile visto che già a novembre, in due riprese, la mareggiata violenta si era portata via la sabbia che era appena stata ripristinata con l'intervento di ripascimento, circa cinquantamila metri cubi e duecentomila euro di danni. E questo è proprio uno degli aspetti che più fa infuriare gli operatori perché quest'anno le operazioni si sono concluse a settembre, a stagione praticamente finita. «Un assurdo», spiegano i concessionari di Isola Verde, «prima la beffa di lavorare per tutta l'estate con una spiaggia in parte compromessa dalle erosioni del precedente inverno e ora il danno di aver perso anche gli effetti del ripascimento tardivo ritrovandosi come prima dell'intervento se non peggio. Altri metri di spiaggia se ne sono andati, l'acqua è arrivata oltre la massicciata, oltre le strutture e dietro di sé ha lasciato scalini importanti». Gli operatori da anni chiedono interventi strutturali che mettano fine alla rincorsa continua all'emergenza. I ripascimenti costano e non durano. Il progetto per Isola Verde, che prevede alcuni pennelli di contenimento delle maree, esistono da tempo e di recente hanno ottenuto anche la copertura finanziaria. Eppure le ruspe non si sono ancora viste. «Abbiamo avuto anche di recente degli incontri con l'assessore regionale all'ambiente Gianpaolo Bottacin», spiega Giorgio Bellemo, presidente dei balneari di Ascot, «ci auguriamo che l'assessore si ricordi che Chioggia ancora fa parte della regione». Jesolo ed Eraclea sono state le spiagge più colpite del Veneto orientale. A Jesolo sono spariti altri 20 o 30 mila metri cubi di sabbia, dopo i 50 mila del mese scorso. Ieri mattina, vertice in Comune con il sindaco, Valerio Zoggia, e il presidente della Federconsorzi, Renato Cattai. «La situazione non è delle migliori», ha detto il sindaco, «perché continuiamo a subire la minaccia dell'erosione. Noi confidiamo al più presto nel via libera dalla Regione perché almeno si possa partire con i pontili nella zona del lido est. Sarebbe un punto di partenza, prima dell'intervento più importante in Pineta programmato per l'estate 2019». In una notte il mare ha sempre battuto la costa jesolana. «Dove abbiamo eretto le dune», spiega il presidente della Federconsorzi, Renato Cattai, «le onde si sono fermate e hanno scavato davanti». A Cortellazzo il dislivello è di quasi 2 metri. A Eraclea Mare, la "passeggiata dell'amore" all'estremità ovest è stata scavata dal mare, lo scalino sulla battigia supera il metro e anche qui sarà necessario un ripascimento importante. «È un punto debole del litorale», ha commentato l'ex sindaco, Giorgi Talon, «una passeggiata rialzata ora bersaglio dell'erosione». Sono cinque i metri di arenile erosi a Caorle, e dieci a Bibione. La cifra stimata per i danni sfiora i 200 mila euro. A Caorle per colpa delle forti raffiche di scirocco superiori agli 80 orari, l'acqua sulla riviera di Ponente si è spinta fino alla passeggiata, all'inizio del Lungomare Venezia, nella zona della Conchiglia. Sul settore di Levante invece non ci sono stati contraccolpi particolari. Il Consorzio Arenili Caorle già da oggi lavorerà per sistemare i tratti di spiaggia erosi dal mare. Ruspe in azione dunque fin dal mattino. A Bibione è stato piazzale Zenith a patire le peggiori conseguenze. All'incrocio di via della Luna alcuni locali sono stati invasi dall'acqua. Il mare si è spinto fino al muretto del piazzale. In previsione della mareggiata è stata innalzata una provvidenziale barriera di poco inferiore al metro, che ha protetto il presepe di sabbia, realizzato per la prima volta a Bibione.

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Venezia. «Abbiamo un progetto che vale 60 milioni di euro, realizzato con l'università e che abbiamo presentato al ministero dell'Ambiente che si era impegnato a finanziarlo. Ma purtroppo, ad oggi siamo senza riscontri». L'assessore regionale all'Ambiente, Gianpaolo Bottacin, assicura attenzione al litorale di nuovo colpito dalle mareggiate. Lo ripeterà anche lunedì a Jesolo al convegno sull'erosione promosso dalla Regione e dal consigliere regionale Francesco Calzavara. Ma l'assessore va anche all'attacco dello Stato centrale, "reo" di non approvare progetti importanti e garantire linee di finanziamento. Anche per intervenire contro le mareggiate nel litorale veneto. Nel 2016, un anno fa, la Regione rese noti i risultati della indagine su 160 chilometri della costa veneta dell'Università di Padova - Dipartimento di Ingegneria civile e Ambientale, che ha elaborato uno studio dettagliato sui fenomeni di subsidenza ed erosione mettendo in evidenza le criticità in atto e le possibili soluzioni per la difesa del litorale. Lo studio ha suddiviso la costa veneta in venti celle e per ciascuna è stato valutato il trend evolutivo e le criticità, fornendo un quadro generale basato su misure, rilievi e calcoli omogenei, utile ad una strategia unitaria di pianificazione degli interventi da effettuare. Calcolati anche i costi: 51 milioni di euro per gli interventi di ripristino e 9 milioni di euro annui per le manutenzioni. Lo studio ha analizzato il moto ondoso, la subsidenza, il trasporto solido litoraneo e fluviale, il rischio di allagamento costiero e i cambiamenti climatici. Per le opere di difesa si è pensato ad un piano decennale. Le zone di maggiore criticità? Il tratto costiero di Cortellazzo, Pellestrina e nel delta del Po la zona antistante la Sacca di Scardovari. Assessore Bottacin, quel progetto che fine ha fatto?«Lo abbiamo presentato al ministero più di un anno fa ma non è ancora stato finanziato. E ci tengo a ribadire che come evidenzia lo studio dell'Università, servono sia opere infrastrutturali che interventi di ripascimento meccanico. L'apporto meccanico di sabbia non è eliminabile. Questo dicono gli esperti e di questo bisogna tener conto quando si polemizza su questi temi. Un intervento su due livelli è oggettivo, stante la situazione: i corsi d'acqua, sfruttati per l'agricoltura o per i bacini idroelettrici non apportano più gli stessi volumi di sedimenti a valle, e quindi sulle spiagge. E ricordo che intanto i canoni demaniali invece vanno tutti allo Stato».Cosa intende dire?«Dico che se i canoni demaniali andassero alla nostra Regione avremmo le somme per intervenire con una costante manutenzione. Ma così non avviene. Quei canoni se li prende Roma. E dobbiamo intervenire come Regione da soli. Ma nel nostro territorio ci sono anche altre priorità: spendiamo per le mareggiate milioni di euro e abbiamo da fronteggiare qualcosa come 9.576 frane che hanno già prodotto un morto, a Cortina. Come amministratore ho il dovere di intervenire sui rischi effettivi e le frane lo sono». Ma sulle mareggiate che stanno colpendo il litorale, la Regione mette altri fondi?«Spendiamo milioni di euro ogni anno. È evidente che interverremo ancora».Quanti fondi mettete a disposizione? «Per il 2017 mettiamo quasi 7 milioni. Nel 2016 avevamo investito 6,5 milioni». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le strategie anti-corruzione da ripensare di Sabino Cassese È vero che l’Italia è endemicamente corrotta? Secondo classifiche dell’ International Country Risk Guide, del Corruption Perception Index, di World Bank Indicators, l’Italia è più corrotta della Namibia, della Georgia, del Ghana, del Ruanda, di Cuba, collocandosi al 90°, al 69° e al 52° posto nelle rispettive classifiche. Il costo della corruzione sarebbe di 60 miliardi all’anno, pari a metà del costo della corruzione di tutti i Paesi dell’Unione Europea messi insieme. Ma già numerosi studiosi hanno dimostrato che il costo stimato della corruzione è una «leggenda» (basta dare una scorsa a quello che hanno scritto Luca Ricolfi e Caterina Guidoni nel volume su «Il pregiudizio universale» edito da Laterza nel 2016). E tutti sanno che la maggiore conoscenza di singoli episodi di corruzione e il modo in cui sono riportati nei «media» influenzano la percezione della corruzione e tendono a dilatarne la portata. Se i dati su cui si fonda l’impressione di una corruzione capillare, pervasiva, sono fondati su misurazioni della percezione del fenomeno, si potrebbero raccogliere dati più affidabili? L’Istituto nazionale di statistica ha risposto,

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nell’ottobre scorso, a questa domanda con un rapporto accurato, fondato su un campione di ben 43 mila persone tra i 18 e gli 80 anni, alle quali è stato chiesto di riferire episodi in cui loro o le loro famiglie erano stati destinatari di tentativi di corruzione. Il risultato è che nell’ultimo anno solo l’1,2 per cento delle famiglie ha ricevuto richieste di denaro, favori, regali o altro, in cambio di servizi o agevolazioni. I settori più corrotti si sono rivelati sanità, assistenza, giustizia, uffici pubblici; quelli meno corrotti, forze dell’ordine e istruzione. Il centro-sud è la zona dove è maggiore la corruzione. Questi dati sulla corruzione misurata , fondati su una rilevazione ufficiale e sicura, confermano quelli già rilevati da Eurobarometro sulle vittime della corruzione, secondo i quali l’Italia sarebbe uno dei Paesi meno corrotti d’Europa, con un indice inferiore alla media europea, alla pari della Francia, nonché quelli sui casi effettivamente verificatisi di corruzione all’estero a danno di imprese multinazionali, secondo i quali l’Italia si collocherebbe poco dopo la Germania, su 152 Paesi. Questi dati, per quanto possano essere viziati dall’omertà di chi è stato intervistato, mostrano quanto distanti dalla realtà sono le indagini basate sulla percezione della corruzione. Su queste, però, si è innestato un circolo vizioso già acutamente rilevato da Romano Prodi sul Corriere della sera dello scorso anno: «Non ci fidiamo dello Stato e moltiplichiamo i controlli e le proibizioni». Questi, a loro volta, producono un effetto di blocco, per cui ai costi della corruzione si aggiungono, per le imprese e per la società intera, i costi dell’anticorruzione in termini di ulteriori adempimenti, di rallentamenti, di divieti. Da ultimo, si è aggiunta la norma, appena approvata scopiazzando male leggi analoghe statunitensi e britanniche, che consente a chiunque di fare segnalazioni conservando l’anonimato (l’identità non può essere rivelata), agendo come gli informatori del «Consiglio dei Dieci» nella Venezia del XIV-XIX secolo. Queste più accurate misurazioni della corruzione consigliano un riesame della politiche anticorruzione. Per arginare la corruzione, bisogna conoscere l’entità del fenomeno, i fattori che lo agevolano, le aree più indiziate, per concentrare gli sforzi, invece di creare sbarramenti generali che rischiano di aumentare strutture, procedure e costi pubblici, rallentando l’azione statale. Pag 10 Gli esorcismi dei leader contro i rischi dell’astensione di Massimo Franco Silvio Berlusconi è stato l’unico a dirlo esplicitamente, perfino con una punta di brutalità: solo la metà dei parlamentari di Forza Italia sarà ricandidata. Ma il tema riguarda gran parte delle formazioni politiche. La scomparsa di buona parte degli eletti nella prossima legislatura è l’argomento inconfessato della discussione fino al voto. Nella formazione delle liste il ruolo dei segretari sarà determinante. Ma la possibilità di offrire«collegi sicuri» a piene mani si restringe. La riforma elettorale impone logiche diverse. E la sicurezza ostentata dai leader somiglia a un esorcismo. È un modo per rassicurare eserciti incerti sul risultato; e per spaventare non solo gli avversari degli altri schieramenti, ma quanti competono nella stessa area politica. Uno degli effetti secondari della frammentazione del Parlamento è che dilata le posizioni di rendita. E questo costringe i partiti più grandi a un’acrobatica operazione di inseguimento dei partitini allo scopo di creare una coalizione, e insieme di rilancio del proprio ruolo. Ognuno sembra certo di ottenere una maggioranza: anche se, per rendere credibile l’affermazione, riduce d’ufficio l’astensionismo. Così, Berlusconi rivendica la crescita di FI nei sondaggi dal 13 al 17,4 per cento. Matteo Salvini si dice convinto che «il centrodestra a guida leghista può essere maggioranza sia alla Camera che al Senato». E si mostra sicuro di «coinvolgere e appassionare» una parte di quel «cinquanta per cento che ancora non ha deciso chi votare». E Matteo Renzi dichiara che il Pd sarà «il primo partito come numero di voti e il primo gruppo parlamentare... Non saranno pochi quelli che, convinti di entrare in conclave come papa, usciranno cardinali». Quanto al Movimento 5 Stelle, da mesi si vede a un passo dal governo con più voti di tutti. È chiaro che uno schema del genere è destinato a non funzionare per tutti. L’inserimento nelle liste misurerà per intero il potere dei segretari. Ma, comunque vengano formate, l’astensionismo rappresenta un’incognita che può sconvolgere qualunque calcolo. «I dati sull’assenteismo elettorale sono allarmanti», avverte la presidente della Camera, Laura Boldrini. «Si è visto nelle elezioni in Sicilia e a Ostia. Ma nessun politico si interroga sul perché, preferendo una lettura autoindulgente». Riaffiora il tema di un’autoreferenzialità che alimenta il distacco. Finora, nessun partito si è dimostrato in grado di arginare

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questa deriva: neppure i Cinque Stelle, che pure sono cresciuti accreditandosi come argine contro le spinte antisistema più radicali. Oggi anche loro rischiano di vincere in un mare di astensioni. La tentazione di rivoluzionare le liste è il tentativo estremo di riprendere contatto con la realtà. Ma un’analisi che vede nel «nuovismo» e nell’estraneità alla politica il modo per rilanciarla si è già dimostrata a doppio taglio. Pag 14 La nuova crisi dei missili di Paolo Valentino Torna la Guerra fredda in Europa? L’8 dicembre 1987, Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov firmavano il trattato Inf, primo accordo della Storia che riduceva il numero dei missili nucleari basati a terra di Stati Uniti e Unione Sovietica, eliminando una intera categoria di armi atomiche dal territorio europeo. Fu una pietra miliare della Guerra Fredda e il preludio alla sua conclusione; quasi 2.700 ordigni balistici e da crociera con una gittata compresa tra 500 e 5 mila chilometri, celebri come Euromissili, vennero distrutti dalle due Superpotenze entro il 1991. Sono passati trent’anni e il trattato Inf (Intermediate Nuclear Forces) appare a rischio. Meno immediata e pericolosa sul piano militare del poker in corso nella penisola coreana, una nuova corsa al riarmo nucleare potenzialmente devastante sul piano politico incombe sull’Europa, minaccia di sprofondarla nella logica della Guerra Fredda, lacerare la Nato e ampliare il fossato con l’America. Gli Stati Uniti affermano di poter provare che la Russia sia in violazione del trattato Inf, che proibisce possesso, produzione e installazione a terra di nuovi missili nucleari a medio raggio. Lo ha riferito un mese fa il capo del Pentagono, James Mattis, ai colleghi della Nato nel bunker superprotetto del Nuclear Planning Group: Mosca avrebbe sviluppato segretamente un ordigno con una gittata di 2.500 chilometri, conosciuto come l’SSC-8. Di più, basandosi sulle immagini satellitari, gli Usa dicono di averne osservato due batterie già operative, una a Kapustin Yar, sito di lancio non lontano da Volgograd e un’altra in una non precisata base del distretto centrale. In entrambi i casi, la portata degli SSC-8 permetterebbe loro di raggiungere qualsiasi obiettivo in Europa occidentale. Mattis avrebbe dato agli alleati un vero e proprio ultimatum: o la Nato al vertice della prossima estate prende una posizione comune e vara contromisure per costringere Mosca a tornare al rispetto del trattato, oppure l’America deciderà da sola le azioni da prendere. Il che, con un comandate in capo balzano come Donald Trump, non è esattamente una promessa di equilibrio. Il problema è che ci sono molti dubbi fra i governi atlantici e perfino fra gli esperti, che le prove in mano al Pentagono siano decisive. Adducendo ragioni di segretezza, Mattis infatti ha detto di non poter svelare tutti i dati in suo possesso. Fonti tedesche hanno detto a Der Spiegel che il materiale dei servizi Usa «è credibile ma manca una prova definitiva». Ci sarebbero per esempio intercettazioni telefoniche o trasferimenti di denaro a suggerire che i russi starebbero investendo in tecnologia missilistica, ma questo non sarebbe in violazione del Trattato Inf, che non proibisce ricerca e sviluppo. «Prendiamo seriamente le indicazioni di una possibile violazione - ha detto il ministro della Difesa tedesco, Ursula von der Leyen - e tocca ai russi chiarire i dubbi nel quadro del dialogo con gli Usa e la Nato». Mosca nega ogni addebito. Il vice-ministro degli Esteri Sergei Ryabkov ha definito «del tutto non sostanziate» le accuse americane e si è detto pronto a dialogare, «ma senza ultimatum e senza nuove sanzioni», che invece Washington ha già annunciato di voler varare. Il dilemma è quello classico: occorre fronteggiare la Russia a muso duro o far pressioni con un dialogo serrato? Per adesso è prevalsa la prudenza: i Paesi europei, Germania in testa, hanno bloccato una dichiarazione della Nato, proposta dagli Usa, che accusava esplicitamente i russi di aver violato l’Inf. Da mesi, i governi atlantici si sono visti sottoporre da Washington una lista di opzioni sulle possibili risposte. Quelle più estreme sono marcate in rosso. Sostenuta dalla lobby militar-industriale, l’Amministrazione non fa mistero di preferire lo sviluppo di un nuovo missile da crociera da schierare in Europa. Già, ma chi ne avrebbe il controllo? Quali sarebbero gli obiettivi e le regole d’ingaggio? E soprattutto, se del caso, chi avrebbe la decisione suprema? Donald Trump? È lo scenario da incubo che manda in fibrillazione Paesi come Germania, Italia e Spagna. Ricordiamo cosa provocò all’inizio degli Anni Ottanta la decisione di installare in Europa Cruise e Pershing, in risposta agli SS-20 sovietici, lacerando le società del Continente. Nella Repubblica federale, la protesta di strada costò la cancelleria a Helmut Schmidt, che per

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primo aveva chiesto gli Euromissili. In Italia la campagna contro i missili a Comiso, poi installati per decisione del governo Craxi, fu guidata dal Pci e anche un giovane Paolo Gentiloni, allora caporedattore della rivista Pace e Guerra, diretta da Luciana Castellina, scrisse per gli Editori Riuniti un pamphlet contro lo schieramento dal titolo «Missili e Mafia». Oggi, non è neppure certo che dietro la nuova, impalpabile Cortina di Ferro ci sia un missile proibito che giustifichi un’ansia esistenziale dell’Europa. Abbiamo proprio bisogno di una corsa al riarmo atomico sul territorio europeo? «Un nuovo missile da crociera americano - dice Douglas Barrie dell’Istituto di Studi strategici di Londra - sarebbe un regalo a Putin, che avrebbe una ragione legittima per rovesciare sugli Usa la responsabilità della fine dell’Inf». Pag 32 Al tempo del “doppio occhio” mutano destra e sinistra di Mauro Magatti In quest’epoca di transizione, i codici della politica stanno cambiando sotto i nostri occhi. Il punto di massima torsione è naturalmente costituto dall’attuale amministrazione americana. In effetti nelle ultime settimane, proprio mentre volge al termine il suo primo anno di governo, Trump ha messo a segno diverse decisioni politicamente «pesanti»: l’approvazione della riforma fiscale che avvantaggia i ceti più ricchi in nome di una promessa di crescita futura; l’uscita dal piano Onu sui migranti, come segno simbolico da dare in pasto a quella parte dell’opinione pubblica che vede in questo tema un facile capro espiatorio nonché il banco di prova di una nuova visione politica; e infine la decisione di rendere operativo lo spostamento della ambasciata americana a Gerusalemme: gesto incomprensibile in un momento storico già pieno di tensioni, se non nel quadro di uno scambio con i grandi interessi che hanno sostenuto il successo elettorale del presidente Usa. In questo modo Trump delinea, un passo dopo l’altro, la sua nuova agenda post neoliberista. Il punto di partenza è il nuovo scenario che si è andato configurando col 2008, nel quale il rapporto tra economia e politica è tornato centrale. In condizioni storiche del tutto diverse, siamo tornati a un regime che lo storico francese Pierre Manent, riferendosi al Medioevo cristiano, ha chiamato del «doppio occhio». Oggi, però, il dualismo non è più tra il Papa e l’imperatore, nel quadro di una cosmologia cristiana, ma tra sistemi politici (di dimensioni continentali: Usa, Ue, Giappone, Cina, Uk, Russia, India e così via) e grandi interessi/istituzioni tecno-economiche nel quadro di un sistema tecnico planetario. Caduta l’illusione di una regolazione tecnocratica globale, la politica è rientrata pesantemente in gioco. In un mondo ormai multipolare, in questi ultimi anni è tornato evidente che la tecnica da sola non basta e che per andare avanti occorre una politica capace di contribuire alla costruzione di equilibri complessi. Anche se è tutt’altro che chiaro cosa ciò voglia dire. È rispetto a tale questione che destra e sinistra si vanno ridefinendo. La direzione verso cui si muove la nuova destra può essere intuita proprio attraverso ciò che un po’ per volta va delineando la presidenza Trump. La linea di fondo è quella di mettere al centro gli interessi nazionali tanto in politica interna (mediante uno stretto legame con i grandi centri di potere economico) che estera (mostrando i muscoli sulla scena internazionale e lavorando su confini e alleanze) in una cornice generale che fa dell’identità la propria leva fondamentale. Abbandonati i cardini dalla dottrina neoliberista, tutto il gioco mira a ridisegnare un nuovo ordine (interno e esterno) fondato su un mix di decisionismo e sicurizzazione. Con la consapevolezza che, nell’impossibilità di arrivare a costruire un benessere inclusivo (e questa è la fine della classe media), sia necessario attrezzarsi per gestire una società a clessidra (divisa tra una quota minoritaria ma non piccola di benestanti e un’ampia quota di marginali e indigenti). Quale equilibrio - più vicino al polo dell’autoritarismo (se non della bellicosità) o a quello più collaudato dell’ordoliberalismo (cioè della costituzionalizzazione del liberismo a livello nazionale) - rimane ancora da chiarire. E non è questione da poco. C’è una alternativa? In linea di principio sì. A condizione che si riconosca che il ruolo della politica oggi ha senso solo nella rinegoziazione di un nuovo legame sociale capace di creare compatibilità comuni. L’alternativa al modello emergente della destra mondiale è infatti la creazione di condizioni che facciano della sostenibilità integrale (che va dalla dimensione ambientale a quella sociale e umana) il proprio criterio di riferimento. Il che significa la capacità di definire priorità a cui tutti sono poi chiamati a contribuire. Un modello che attribuisce alla politica il doppio ruolo di garante per tutti coloro che si riconoscono in questo sforzo

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comune e di creatrice di quelle compatibilità di sistema necessarie per la produzione di valore condiviso in un contesto globalizzato. Per la sinistra ciò comporta un salto culturale, ripensando le spinte iperindividualiste che l’hanno attraversata in questi decenni in favore di un recupero, su basi completamente rinnovate, della vena solidarista. Basata non tanto su uno statalismo ormai improponibile, quanto su un’idea di nuovo scambio sociale che metta in relazione un’economia basata sulla sostenibilità con un modello sociale capace di fare della contribuzione il nuovo baricentro. Qualche (vago) elemento in questo senso è riconoscibile nell’azione di Macron in Francia e nell’azione del governo Gentiloni in Italia. Ma si tratta di frammenti che non riescono ancora a diventare discorso. AVVENIRE Pag 1 Il prezzo delle armi di Raul Caruso Vendite su. E l’Italia che fa? Il Sipri, l’Istituto internazionale di ricerca sulla pace, con sede a Stoccolma, ha pubblicato i nuovi dati in merito alla performance dell’industria globale nel settore degli armamenti e in particolare delle cento imprese più grandi al mondo. Le 'top-100' delle armi nel 2016 hanno dichiarato vendite per un totale di 374,8 miliardi di dollari. In termini costanti si tratta di un aumento dell’1,9% rispetto al 2015. A fare la parte del leone sono le imprese statunitensi, che di questa cifra coprono circa 217,2 miliardi di dollari. Due gruppi italiani, pur non vedendo crescere le proprie vendite, rientrano in questa classifica: il gruppo Leonardo, campione nazionale italiano di proprietà pubblica, si piazza al nono posto, mentre Fincantieri si attesta al 54esimo. L’aspetto interessante della ricerca Sipri sta nel fatto che le grandi imprese hanno ricominciato a crescere in termini relativi rispetto a quelle di minori dimensioni. Un andamento in netta discontinuità rispetto agli ultimi anni: tra il 2011 e il 2015 le vendite delle prime cento imprese erano diminuite in media del 3% all’anno. Le spiegazioni di questa inversione di tendenza sono sostanzialmente due. In primo luogo, nel momento in cui la guerra diviene sempre più high-tech per l’utilizzo di droni e altri dispositivi ad alto contenuto tecnologico, è chiaro che siano le aziende maggiori ad avere a disposizione tali ordigni per la cui produzione sono state impiegate ingenti risorse in ricerca e sviluppo. In buona sostanza, la guerra tecnologica del futuro, combattuta con droni e robot, sarà sempre più un affare di pochi. Unitamente al fattore tecnologico vi è poi una novità di natura politica che tenderà a enfatizzarsi nell’era di 'The Donald'. La politica spregiudicata sul fronte della difesa e delle esportazioni militari dell’amministrazione Trump alimenteranno una discontinuità nel mercato spingendo ancora di più le grandi imprese americane del comparto militare. Una conferma importante del fattore 'The Donald' si trova nella relazione finanziaria del gruppo Leonardo, in cui si dice esplicitamente che «la nuova amministrazione Trump e la maggioranza raggiunta dai repubblicani al Congresso generano aspettative sulla crescita del bilancio della difesa degli Stati Uniti, con effetti attesi anche sugli Stati europei…». In breve, ’The Donald’ è considerato e già si sta dimostrando il miglior amico dell’industria militare di tutto il mondo. Se il presidente americano in carica rappresenta la discontinuità più recente, dai dati del Sipri si evince in maniera chiara che nel lungo periodo un ruolo decisivo è stato giocato invece dalle decisioni che l’amministrazione di George W. Bush prese all’indomani dell’11 settembre 2001. A partire dal 2002, infatti, le vendite del gruppo delle 100 maggiori imprese di armamenti è aumentato di circa il 38% in termini reali. L’Italia in questo contesto mantiene in maniera silente la sua solidissima ambiguità. I cittadini-contribuenti italiani attraverso il gruppo Leonardo, già Finmeccanica, e il gruppo Fincantieri, sono di fatto tra i principali venditori di armamenti in tutto il mondo. Tra il 2002 e il 2016 le vendite in termini reali di Leonardo-Finmeccanica sono aumentate del 40,4% mentre per Fincantieri nello stesso periodo l’aumento è stato del 54,3%. Nel nostro Paese, tuttavia, negli ultimi anni non sembra vi sia stata alcuna discontinuità in merito all’industria militare mentre l’impressione è che la nostra classe dirigente in maniera bipartisan abbia favorito il rafforzamento dei nostri campioni nazionali nel mercato globale degli armamenti. Viviamo in una campagna elettorale permanente eppure non si è mai udita una sola parola in merito alla nostra industria militare. In particolare sembra destare una preoccupazione assolutamente minoritaria il fatto che negli ultimi anni Leonardo-

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Finmeccanica e Fincantieri siano divenuti fornitori di governi mediorientali quali Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar. Questi infatti, come anche 'Avvenire' scrive e documenta da tempo, sono coinvolti in una corsa agli armamenti a livello regionale e, a vario titolo, nei sanguinosi conflitti in Yemen e Siria che hanno generato profonde crisi umanitarie e un gran numero di rifugiati che bussa alle porte dell’Europa. L’augurio è che nella futura campagna elettorale i leader politici decidano di affrontare in maniera seria e coraggiosa questo nodo, per troppi anni trascurato e ignorato, a dispetto del fatto che esso attiene ai grandi temi della guerra e della pace e quindi alla nostra vita. Pag 3 Assolutizzare la libertà svuota la solidarietà di Fiorenzo Facchini Fine vita: parole del Papa e compito dello Stato Nella discussione sulla proposta di legge all’esame del Senato sulle Dat («Disposizioni anticipate di trattamento») la posizione di 'Avvenire' è chiara – particolarmente dopo gli interventi dei cardinali Bassetti e Betori, e, nei giorni precedenti, del direttore, di Francesco Ognibene, di Antonio Gambino, di Gian Luigi Gigli e di altri ancora – a sostegno di alcuni correttivi del testo che si intende approvare in via definitiva domani al Senato. Gli strattoni che la stampa cosiddetta laica ha dato alle recenti parole di papa Francesco circa l’accanimento terapeutico sono rivelatori di intenzioni che mirano a sancire la disponibilità assoluta della propria vita richiedendo la complicità dello Stato. Papa Francesco ha ripetuto la dottrina tradizionale, quella che troviamo in Pio XII, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e nella nuova Carta degli operatori sanitari del Pontificio Consiglio per la pastorale della salute (2016). Il nodo è ciò che è da intendersi come accanimento terapeutico nella situazione concreta del malato, che non può essere prevista da nessuna legge ed entra piuttosto nella relazione di cura in cui è coinvolto il medico. Né può sostenersi che la nutrizione e idratazione artificiale siano da considerarsi sempre una terapia da accettare o a cui rinunciare. Ciò non è vero e non poteva essere ignorato dai proponenti della legge. Perché allora non si è cercato di introdurre limitazioni lasciando al medico la valutazione nelle situazioni concrete? Il testo di legge votato alla Camera e portato ora all’esame del Senato sancisce, invece, la disponibilità assoluta della propria vita chiedendo allo Stato che si faccia partecipe e complice della scelta di ciascuno sul vivere e sul morire. Ma è questo il senso dell’articolo 32 della Costituzione, che rappresenta il riferimento assoluto per le Dat, quasi un idolo a cui tutto va sacrificato e pure lo Stato deve inchinarsi? È questo il rispetto della persona richiesto dallo stesso articolo della Costituzione? Come può armonizzarsi con altre affermazioni della Costituzione stessa? La sua assolutizzazione, purtroppo possibile e in buona misura già avviata dal concerto politico-mediatico 'interpretativo' che accompagna il pressing per il varo dell’attuale ipotesi di normativa sulle Dat, apre la strada a una eutanasia meno strisciante di quanto si possa pensare. Che dire poi delle situazioni delle persone in stato vegetativo o di minima coscienza sulle quali Gian Luigi Gigli, da neurologo di vaglia qual è, ha richiamato l’attenzione? La ricerca scientifica sta aprendo nuovi orizzonti su questi pazienti, sul grado di coscienza in essi presente. Le situazioni non si possono generalizzare. La nutrizione e idratazione artificiale in queste persone non è terapia da accettare o rifiutare, non può essere vista come accanimento terapeutico L’applicazione di eventuali desideri espressi dalla persona in buone condizioni di salute non può essere automatica. Lo Stato deve tutelare la libertà di scelta dei trattamenti sanitari, e anche l’eventuale rinuncia, ma in una società solidale lo Stato non può rendersi complice ed esecutore di scelte che direttamente provocano la morte in una persona, sia che lo capisca sia che non se ne renda conto. L’assolutizzazione della libertà individuale e la sua tutela, così come l’amministrazione della morte, non è richiesta da un buon funzionamento dello Stato. A monte di certe posizioni sta una visione etica individualista del cittadino, della società civile, della vita e della morte, in cui si restringe lo spazio di una solidarietà che è affermata dalla Costituzione e deve unire tutta la società, aiutando a non sentirsi soli di fronte alla sofferenza e alla morte. Pag 8 Polemiche inutili, convergenze sul merito La campagna elettorale impone già contrapposizioni e polemiche 'necessarie' per gli schieramenti politici. Spesso artificiali. Ancor più frequentemente inutili. Quella sulla

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'liberazione del tempo di vita' attraverso la chiusura di negozi e centri commerciali in alcune festività ne è un esempio. Lo Stato (e gli enti locali) hanno da sempre regolamentato la materia e, dopo la liberalizzazione totale e indiscriminata operata dal governo Monti delle aperture domenicali e festive, si sono susseguite diverse iniziative con raccolta di firme e presentazione di proposte di legge da parte di associazioni di commercianti e sindacati, appoggiate pure dalla stessa Chiesa italiana, per 'liberare la domenica' e per alcune chiusure obbligatorie (dei servizi non essenziali) con una maggiore concertazione con i rappresentanti dei lavoratori. Un tema a cui anche 'Avvenire' ha dato il suo contributo di motivazioni e idee. Da ultimo c’è anche la proposta di legge del Movimento 5 Stelle che prevede la chiusura dei negozi in almeno 6 festività sulle 12 nazionali esistenti, da concordare con gli enti locali. Anziché menare scandali francamente inesistenti per la lesione al 'diritto di shopping', sarebbe assai utile discuterne nel merito. E trovare magari convergenze che possano assicurare una nuova valorizzazione della festa, come occasione per vivere un tempo che i credenti possono dedicare anche a Dio e tutti possono godere in famiglia e nella comunità. IL GAZZETTINO Pag 1 Pagare le tasse in Italia, la svolta di Facebook di Paolo Balduzzi Facebook comincerà a pagare le imposte in Italia: quella che dovrebbe essere una ovvietà, per una delle più grandi società web mondiali che fattura milioni di euro ogni anno nel nostro Paese, diventa una notizia da prima pagina. Già, perché a fronte di fatturati da capogiro, finora le imposte pagate dal colosso di Menlo Park (ma discorso identico si può fare per Google, Amazon e gli altri giganti del web) ammontavano a poche centinaia di migliaia di euro ogni anno. Il che, è evidente, risulta poco tollerabile sia dal punto di vista del fisco sia, e soprattutto, dal punto d vista dell'equità distributiva. In un Paese dove la tassazione sui redditi delle persone e delle piccole imprese è da sempre, e non a torto, ritenuta eccessiva e soffocante, sapere che chi guadagna milioni di euro contribuirà anch'esso in misura congrua alla fiscalità generale non può che essere accolto in maniera positiva. Si tratta in ogni caso di un piccolo raggio di sole, durante una stagione che rimane caratterizzata da freddo polare. Innanzitutto, sono da verificare i tempi in cui Facebook passerà a una struttura di vendita locale, con ricavi pubblicitari tassati nel paese in cui sono in effetti realizzati. Inoltre, si tratta pur sempre della scelta di una sola azienda, a fronte di molte altre che, al momento, restano alla finestra. Infine, è molto difficile fare previsioni su quale sarà il gettito derivante da questa operazione. Anche perché nessuna azienda che vive di profitto - implementerebbe mai una strategia aziendale che la porti a pagare più imposte. A che cosa è dovuta quindi la scelta di Facebook? Che sia forse merito delle proposte sempre più concrete di introdurre una web tax nei Paesi europei o della riforma fiscale di Trump? Difficile dirlo. Finora le strategie dei governi sono state varie. Qualche governo ha semplicemente deciso di ignorare il problema. Lo hanno fatto in tanti e per troppo tempo. Che ciò fosse frutto di una filosofia per cui la tassazione deprime l'economia o, meno eroicamente, della pressione delle lobby, è ormai chiaro si sia trattato di una strategia iniqua. Altri, come più recentemente l'Italia, hanno realizzato accordi singoli e una tantum a fronte di controlli fiscali. Una strategia comunque miope, perché basata sulla lotta all'evasione giustissima ma che lascia scoperto il problema dell'insufficiente tassazione di queste imprese. Forse quella della web tax è finalmente la strategia più corretta, almeno sulla carta. E il Paese più all'avanguardia in materia è proprio l'Italia. Dove però la forma stessa della web tax è ancora in fase di definizione. E non si tratta di questioni di poco conto. Una web tax sugli utili, quindi un'imposta diretta, non dovrebbe in teoria trasferirsi sui consumatori; ma una web tax sui ricavi, quindi un'imposta indiretta, potenzialmente sì. Si tratta di dettagli tecnici ma con rilevanti ripercussioni dal punto di vista della distribuzione del carico fiscale e della giustizia sociale. La battaglia in Parlamento su questi temi è il segno, da un lato, di una sensibilità del legislatore che è finalmente cambiata; dall'altro lato, tuttavia, conferma la difficoltà e la debolezza degli Stati che pur basando la loro sovranità sulla delega dei cittadini, la utilizzano con severità contro gli stessi e con troppa leggerezza contro i potenti. Perché non si tratti solo di un timido, isolato e fugace raggio di sole, vorremmo quindi regalare per Natale

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un po' di coraggio al nostro legislatore: che non si accontenti della carità dei più ricchi, ma che faccia di tutto per realizzare un fisco più giusto. LA NUOVA Pag 1 I vitalizi e l’autogol del Pd di Massimiliano Panarari Verrebbe voglia di scomodare il Profeta Isaia (anche se, verosimilmente, si tratta di un calco da un detto latino precedente): «Dio acceca chi vuol perdere».E il riferimento, naturalmente, è al salvataggio dei vitalizi dei parlamentari operato dalla commissione Bilancio della Camera con la dichiarazione di inammissibilità opposta al tentativo in corner di Matteo Richetti di inserire la norma col loro taglio nella manovra finanziaria. Uno sforzo fatto in zona Cesarini per superare il ritardo del Senato nella conversione del provvedimento a sua firma che avrebbe dovuto ridurre i generosissimi (e non accettabili) benefici pensionistici di cui godono legioni di ex parlamentari e di cui godranno, seppure in forma un poco rivista, i parlamentari di questa legislatura. Vanno così in scena i già visti e rivisti (e tristissimi) rimpallo delle responsabilità e scaricabarile tra i vari partiti, al cui interno pochissimi volevano effettivamente l'approvazione del taglio. Una sorta di cupio dissolvi che verrà duramente pagato sotto il profilo elettorale dal Partito democratico, il quale avrebbe voluto intestarsi il successo di questa misura, molto contestata e avversata dalla "casta" (e l'espressione, in questo caso, ci sta tutta). Ma i dem erano percorsi da troppe tensioni in materia, e non hanno pianificato nel modo dovuto una battaglia oggettivamente difficile. La casta parlamentare, trasversalissima e compatta, ha quindi agito per sabotare la riduzione di un privilegio avvertito comprensibilmente (e giustamente) come fastidiosissimo da parte dei tanti "cittadini normali" di questo Paese alle prese con una vita quotidiana che, giorno dopo giorno, si fa più faticosa e complicata. E ha vinto, lasciando il Pd col cerino acceso in mano. Era un tema ovviamente pensato come acchiappaconsensi - ma innegabilmente significativo, tanto più in questo perdurante contesto di difficoltà economica e sociale. Ed era una tematica che ribadiva l'egemonia "antipolitica" in seno al discorso pubblico - come affermerebbero i teorici a oltranza dei "diritti acquisiti" dei parlamentari -, ma sarebbe miope e sbagliatissimo ignorare l'impatto simbolico sull'immaginario collettivo di questa disparità di trattamento tra classe politica e cittadini-elettori. Dopo lo scacco, il Pd risulta oltre modo lacerato al proprio interno, e si può facilmente pensare come in seno all'inflessibile battaglia pro-mantenimento dei vitalizi condotta da Ugo Sposetti, da parecchio tempo custode economico dell'ex partitone rosso, si sia dato anche un regolamento postumo di conti tra la vecchia guardia e i più giovani rottamatori. Ed ecco, così, un'occasione per il Movimento 5 Stelle per inchiodare il Partito democratico alla mancata coerenza tra le dichiarazioni e le azioni, tanto più che i pentastellati avevano firmato l'emendamento dem - ma, come noto e già visto ampiamente, non esiste "un Pd", sostituito da una federazione di gruppi interni gli uni contro gli altri armati, con contrapposizioni intra moenia che indeboliranno ulteriormente la competitività di un centrosinistra con cui i sondaggi di queste settimane si stanno rivelando impietosi. E, da oggi in avanti, anche Matteo Salvini non perderà l'occasione per attaccare a ogni piè sospinto i dem che hanno fallito la tempistica e la strategia di una promessa sulla quale avevano puntato parecchio per cavalcare il clima d'opinione. Si tratta dunque di un autogol che avrà, in tutta evidenza, delle serie conseguenze per il Pd, e di un regalo coi fiocchi ai grillini, e pure a quei leghisti che, all'atto pratico, ben poco (se non nulla) hanno fatto davvero per eliminare. Pag 1 L’Italia e il fantasma di Weimar di Vincenzo Milanesi I fatti, messi in fila uno dopo l'altro, parlano chiaro. Il successo elettorale di Casa Pound ad Ostia, il raid a Como dei naziskin veneti, il blitz sotto la redazione di La Repubblica, la contromanifestazione durante la giornata antifascista di sabato scorso appunto a Como, ci fanno pensare che non siamo di fronte ad episodi isolati, a gesti di quattro sconsiderati che meritano solo di essere ignorati, ma che invece nella nostra società stia emergendo un sommerso di "nostalgie" rispetto a quanto di più nefando ci ha lasciato nella memoria storica il Novecento. Non sarebbe una novità, si potrebbe dire, dati i precedenti nella nostra vita repubblicana, dalla presenza di un partito che si ispirava

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dichiaratamente agli ideali del Ventennio, il MSI, fino alle stragi "nere" che hanno insanguinato l'Italia negli anni bui della "strategia della tensione". La novità è però un'altra, e cioè che quel sommerso è ormai diventato materiale di campagna elettorale per le prossime politiche. La prova? Sta nelle reazioni della stampa vicina non solo alla destra-destra ma anche al centro-destra, che, ad esempio, ha subito minimizzato la vicenda di Como derubricandola ad un semplice ed innocente gesto dimostrativo. Insomma, di quelli che non fanno male a nessuno. Del resto, anche il convergere nel partito di Salvini di Alemanno e Storace stanno lì a dimostrare quanto il campione delle nuova Lega stia posizionando il suo partito su un fronte che ne fa l'espressione presentabile anche di quel sommerso di "nostalgie", in gara con quello della Meloni. Sfruttando le gravi difficoltà della società italiana dei nostri anni, stretta tra una crisi economica da cui si fatica ad uscire, con pesanti conseguenze sul piano della coesione sociale e di una almeno tendenziale equità nella distribuzione del reddito, da un lato. E dall'altro dalla presenza di una questione epocale e sinora non adeguatamente affrontata quale è quella dei migranti che approdano a centinaia di migliaia sulle nostre coste, nella generale indifferenza ed anzi spesso ostilità verso l'Italia da parte dei Paesi dell'Unione Europea. E questo partito, insieme a quello della Giovanna d'Arco della Garbatella, si candida ad essere parte essenziale dello schieramento probabilmente maggioritario dopo le prossime politiche, grazie alla resurrezione dell'ex-Cavaliere. Non possiamo ignorare le preoccupazioni per quanto sta accadendo in molti Paesi europei, comprese la Francia, con un risorgente e neanche poi tanto strisciante antisemitismo, e la stessa Germania, dove AfD è diventato un partito che non prende affatto le distanze, anzi, rispetto a quel macigno che è stata l'ideologia del nazifascismo, con cui la coscienza civile e la società tedesca nel suo complesso sembravano aver fatto definitivamente i conti. Ricordiamoci bene che l'ascesa di Hitler al potere non è avvenuta con un atto di forza, dichiaratamente eversivo, ma è stata resa possibile dalla crisi della democrazia nella Repubblica di Weimar. Non vorremmo in alcun modo dover tra breve fare i conti proprio con il fantasma di Weimar che si aggira per l'Europa. Un'Europa illusa che un tramonto delle ideologie, di tutte le ideologie, tanto proclamato quanto inesistente, l'avrebbe messa al sicuro da ritorni angosciosi. L'Italia si candida forse ad esser l'anello debole anche da questo punto di vista, con la più forte formazione politica post-ideologica d'Europa, il M5S, ormai primo partito. Non bastano allora manifestazioni come quella di Como di sabato scorso a difesa dei valori di tolleranza e democrazia. Forse è davvero venuto il momento di pubbliche discussioni e dibattiti su queste tematiche che coinvolgano nel modo più ampio possibile l'opinione pubblica, e soprattutto gli studenti delle scuole che saranno i cittadini di domani. Per aiutarli, ed aiutarci tutti reciprocamente, ad aprire gli occhi fin che si è in tempo. Per non dimenticare che il sonno della ragione genera mostri. Torna al sommario