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RASSEGNA STAMPA di giovedì 15 febbraio 2018 SOMMARIO “La logica del giudizio, in ogni processo penale, ha una struttura costante - scrive oggi Giuseppe Anzani nell’editoriale in prima pagina su Avvenire -. C’è un fatto da verificare, una norma da interpretare e applicare, una colpevolezza da accertare o escludere. Davanti alla Corte d’Assise di Milano nel processo a Marco Cappato per l’aiuto al suicidio di Fabiano Antoniani, qualcosa si è inceppato. Non nella ricostruzione del fatto: un uomo che accompagna appositamente in Svizzera un altro uomo a uccidersi. Non nella chiarezza della norma, che incrimina l’agevolazione del suicidio fatta «in qualsiasi modo». Non nella intenzionalità della condotta, confessata e anzi ostentata dall’imputato. Assolto dall’accusa di aver rafforzato il proposito suicida, ma non da quella di aver agevolato il suicidio. Se il viaggio in auto verso la morte fosse stato ritenuto irrilevante, estraneo alla fase 'esecutiva', la Corte avrebbe assolto del tutto. Ma una motivazione così non sarebbe piaciuta all’imputato, desideroso di sentire, come la difesa e l’accusa all’unisono, una lettura della norma intonata al diritto al suicidio per chi reputa la propria vita insopportabile; ed esente da pena chi l’aiuta a morire «con dignità». Non dunque un desiderio di assoluzione qualsiasi: il bersaglio vero era colpire la norma, la richiesta era di manipolarne il senso, slacciarlo dal testo e 'orientarlo' (come si suol dire) verso i princìpi costituzionali, giocando l’atout dell’autodeterminazione. La Corte ha rifiutato anche questa soluzione assolutoria: le parole della norma restano quelle che sono, e il senso quello che è. Ma non ha condannato. Non ha condannato perché ha dubitato che la norma sia costituzionalmente illegittima, quando incrimina l’aiuto al suicidio per chi non ha influenzato la volontà della persona che si uccide. Ciò per i princìpi di libertà e dignità che spettano, si dice, in tema di decisione sulla propria morte. E ha rimesso gli atti alla Consulta. Cosa accadrà in quella sede nessuno ora può dire. Ma alcuni concetti fondamentali ritagliano sin d’ora i limiti di un possibile intervento del giudice delle leggi. Ipotizzare una pronuncia semplicemente abrogativa dell’agevolazione del suicidio 'in genere' pare in assoluto un non senso (e non è pensabile che l’ordinanza di remissione la solleciti), quand’anche si inventasse che la Costituzione assegna una libertà individuale di «decidere come e quando morire». L’art. 580 del codice penale non riguarda, invero, il gesto (individuale) del suicida, non raggiungibile da pena, ma il gesto (sociale) di un altro, che di certo non ha diritti su quella vita e concorre nel procurarne la morte. È proprio qui la differenza inconfondibile. Si è tanto discusso della peculiarità del caso disperato. Ma in termini di diritto, chi può arbitrare le differenze fra suicidio e suicidio, per vagliare quale merita aiuto senza pena e quale no? La vicenda processuale di Milano ha incontrato una fattispecie di grande sofferenza e disabilità fisica, che gronda dolore. Ma chi esplora qualcosa nelle statistiche dei suicidi sa che esistono dolori e disperazioni dell’anima non meno torturanti, e forme depressive che annientano la voglia di vivere. Ci sono suicidi adolescenti. Ci sono pulsioni di morte che salgono da lutti, o rimorsi, o sensi di vergogna e di rovina. Uno dei luoghi dove il suicidio è più frequente è il carcere. Se la regola è il diritto di morire quando la vita è divenuta indegna, e giudicare l’indegnità spetta a chi vuol darsi la morte, è lecito agevolare il libero e deliberato suicidio dei detenuti? O non è tempo di mutare sentimento e proporre aiuto e conforto solidale, per rimontare la disperazione di molti, quella che Kierkegard chiamava la «malattia mortale»? Si dirà che non sono questi i casi da prevedere. Sì, ma il catalogo casistico è proprio quello che la Corte costituzionale non può fare, e non farà. È il giudice delle leggi, ma non il legislatore. Non potrà inserire varianti discrezionali secondo i tipi di suicidio ammesso e di suicidio escluso dall’agevolazione, a suo criterio. E generalizzare la liceità è la cosa più disumana. La più incostituzionale” (a.p.) 1 – IL PATRIARCA

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 15 febbraio 2018

SOMMARIO

“La logica del giudizio, in ogni processo penale, ha una struttura costante - scrive oggi Giuseppe Anzani nell’editoriale in prima pagina su Avvenire -. C’è un fatto da

verificare, una norma da interpretare e applicare, una colpevolezza da accertare o escludere. Davanti alla Corte d’Assise di Milano nel processo a Marco Cappato per

l’aiuto al suicidio di Fabiano Antoniani, qualcosa si è inceppato. Non nella ricostruzione del fatto: un uomo che accompagna appositamente in Svizzera un altro uomo a uccidersi. Non nella chiarezza della norma, che incrimina l’agevolazione del suicidio fatta «in qualsiasi modo». Non nella intenzionalità della condotta, confessata

e anzi ostentata dall’imputato. Assolto dall’accusa di aver rafforzato il proposito suicida, ma non da quella di aver agevolato il suicidio. Se il viaggio in auto verso la

morte fosse stato ritenuto irrilevante, estraneo alla fase 'esecutiva', la Corte avrebbe assolto del tutto. Ma una motivazione così non sarebbe piaciuta all’imputato,

desideroso di sentire, come la difesa e l’accusa all’unisono, una lettura della norma intonata al diritto al suicidio per chi reputa la propria vita insopportabile; ed esente da pena chi l’aiuta a morire «con dignità». Non dunque un desiderio di assoluzione qualsiasi: il bersaglio vero era colpire la norma, la richiesta era di manipolarne il

senso, slacciarlo dal testo e 'orientarlo' (come si suol dire) verso i princìpi costituzionali, giocando l’atout dell’autodeterminazione. La Corte ha rifiutato anche questa soluzione assolutoria: le parole della norma restano quelle che sono, e il senso

quello che è. Ma non ha condannato. Non ha condannato perché ha dubitato che la norma sia costituzionalmente illegittima, quando incrimina l’aiuto al suicidio per chi

non ha influenzato la volontà della persona che si uccide. Ciò per i princìpi di libertà e dignità che spettano, si dice, in tema di decisione sulla propria morte. E ha rimesso gli

atti alla Consulta. Cosa accadrà in quella sede nessuno ora può dire. Ma alcuni concetti fondamentali ritagliano sin d’ora i limiti di un possibile intervento del giudice delle leggi. Ipotizzare una pronuncia semplicemente abrogativa dell’agevolazione del suicidio 'in genere' pare in assoluto un non senso (e non è pensabile che l’ordinanza di

remissione la solleciti), quand’anche si inventasse che la Costituzione assegna una libertà individuale di «decidere come e quando morire». L’art. 580 del codice penale non riguarda, invero, il gesto (individuale) del suicida, non raggiungibile da pena, ma il gesto (sociale) di un altro, che di certo non ha diritti su quella vita e concorre nel procurarne la morte. È proprio qui la differenza inconfondibile. Si è tanto discusso

della peculiarità del caso disperato. Ma in termini di diritto, chi può arbitrare le differenze fra suicidio e suicidio, per vagliare quale merita aiuto senza pena e quale

no? La vicenda processuale di Milano ha incontrato una fattispecie di grande sofferenza e disabilità fisica, che gronda dolore. Ma chi esplora qualcosa nelle

statistiche dei suicidi sa che esistono dolori e disperazioni dell’anima non meno torturanti, e forme depressive che annientano la voglia di vivere. Ci sono suicidi adolescenti. Ci sono pulsioni di morte che salgono da lutti, o rimorsi, o sensi di

vergogna e di rovina. Uno dei luoghi dove il suicidio è più frequente è il carcere. Se la regola è il diritto di morire quando la vita è divenuta indegna, e giudicare l’indegnità spetta a chi vuol darsi la morte, è lecito agevolare il libero e deliberato suicidio dei detenuti? O non è tempo di mutare sentimento e proporre aiuto e conforto solidale, per rimontare la disperazione di molti, quella che Kierkegard chiamava la «malattia

mortale»? Si dirà che non sono questi i casi da prevedere. Sì, ma il catalogo casistico è proprio quello che la Corte costituzionale non può fare, e non farà. È il giudice delle leggi, ma non il legislatore. Non potrà inserire varianti discrezionali secondo i tipi di

suicidio ammesso e di suicidio escluso dall’agevolazione, a suo criterio. E generalizzare la liceità è la cosa più disumana. La più incostituzionale” (a.p.)

1 – IL PATRIARCA

LA NUOVA Pag 32 Da domani il Patriarca a Cavallino di f.ma. 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 17 Il Papa: a Messa la Parola va letta e spiegata bene “E’ un diritto spirituale riceverla con abbondanza. Le richieste autoreferenziali restano inascoltate” CORRIERE DELLA SERA Pag 21 “I blog che mi chiamano eretico? Conosco chi li scrive, non li leggo” di Antonio Spadaro Francesco ai gesuiti in Cile e Perù: no ai religiosi che vivono da scapoloni pettegoli IL FOGLIO Pag III Toto porpora di La Gran Sottana Oltretevere si mormora di nuovi cardinali entro l’anno, Tanti dubbi ma un nome circola: Bartolomeo Sorge VATICAN INSIDER Il Papa: stop alla pensione automatica per nunzi e vescovi curiali di Andrea Tornielli Motu proprio di Francesco, “Imparare a congedarsi”, che cancella l’automatismo della decadenza ai 75 anni: anche per gli “ambasciatori”, i capi dicastero non cardinali e i segretari la rinuncia dovrà essere accettata e ci potranno essere proroghe 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 23 “Da studente dico ai genitori: non fate i sindacalisti dei vostri figli” di Enrico Galletti (studente 18enne) AVVENIRE Pag 3 Non si rovesci (a botte) il rapporto di Ferdinando Camon La scuola, la famiglia e l’insegnante picchiato 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ LA NUOVA Pag 20 La Cisl: “L’offerta di Villa Salus è l’unica arrivata?” Il futuro del San Camillo 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag III L’ipotesi del macabro avviso, l’ombra della guerra tra clan di Maurizio Dianese Il ritorno della “banda dei mestrini” per il controllo del traffico di turisti Pag XI Suicida a 13 anni, è il terzo caso di Davide Tamiello Si è ucciso mentre la mamma e il fratello erano al funerale del 14enne di Marghera che si era tolto la vita una settimana fa. Il dramma delle morti senza spiegazione. Gli studenti modello con l’anima fragile Pag XIII Il Capodanno cinese coinvolge quartiere e parrocchia di Giacinta Gimma CORRIERE DEL VENETO Pag 8 San Marco, studio sugli ingressi. La Procuratoria “frena” gli sponsor di

F.B. Tesserin: ok ai finanziamenti ma niente manifesti. Progetto del Politecnico sul ticket Pag 9 Tredicenne si uccide dopo i funerali dell’amico, terzo suicidio in un mese di Gi.Co. e G.B. Tragedia a Mestre. Il parroco in Duomo: ragazzi, lasciatevi amare. La psicologa: “Giovani cresciuti nella crisi, diamogli sogni e speranze, soffiamo sulle loro vele” LA NUOVA Pag 25 Minorenne suicida trovato dalla madre La donna rientrava dal funerale di un altro ragazzo 10 – GENTE VENETA Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 7 di Gente Veneta in uscita venerdì 16 febbraio 2018: Pagg 1, 25 Riprendersi la vita col Cammino di Giulia Busetto I duemila chilometri a piedi di un ragazzo “difficile”. Per la prima volta in Italia, grazie a un’associazione di Mestre, viene testata questa metodologia educativa Pag 1 La scuola di don Milani non è quel liceo di Roma di Antonino Stinà Pag 2 Penultimi contro ultimi e la politica cattiva gongola di Serena Spinazzi Lucchesi Pag 3 «Se la Chiesa è sinodale il diacono non è solo un supplente» di Gino Cintolo Petrolino, presidente della Comunità del diaconato in Italia: «La valorizzazione del diacono dipende dal modello di Chiesa che fa da riferimento. Se il modello è quello dell’uomo solo al comando, allora il diacono finirà per essere ridotto a delegato del parroco. Invece il diacono può promuovere uno stile di corresponsabilità nella comunità» Pagg 4 – 5 Giù la maschera, c’è un tempo per Dio di Giorgio Malavasi e Giovanni Carnio Cinquanta giovani, la sera di sabato di Carnevale, fermano chi passa, a Rialto, e gli propongono di entrare in chiesa, per riflettere un attimo su vita e fede. Il Patriarca agli evangelizzatori di strada: «Servi inutili, di cui il Signore vuole aver bisogno». L’esperienza di un evangelizzatore: “Dove sta la festa? Se la maschera cade, è dentro la chiesa” Pag 7 Il voto? Prima di chi o cosa, meglio studiare come di Marco Monaco Una croce o due, sistema uninominale e proporzionale: la scheda elettorale di questa tornata rischia di essere un rebus. Si potrà votare un candidato, oppure un partito, oppure entrambi. Ma - attenzione - non è previsto il voto disgiunto Pag 11 Elena, Marta e Lorenzo: l’elogio della vita in tre testimonianze di Alessandro Polet In una gremita chiesa di San Giovanni Evangelista il racconto di due coniugi mestrini e di una mamma moldava che ha dato alla luce un figlio grazie al Centro aiuto vita: «La vicinanza di persone disponibili ad ascoltarmi mi è stata di grande aiuto e mi fa guardare al futuro con speranza». Marta, mamma di tre figli: «Non è una fregatura, si può fare nel Signore che ci dà la forza. E grazie a tre cose: preghiera quotidiana, vita comunitaria, fede ed esempio di tante famiglie» Pag 12 Pastorale familiare in Diocesi: i 57 gruppi sposi e molto altro di Alessandro Polet Circa metà della parrocchie dispongono di un gruppo. E altri sette si stanno costituendo. Al Consiglio pastorale diocesano il Patriarca ha rinnovato l’invito a far sì che in ogni

collaborazione pastorale vi sia un gruppo di persone che si prendano carico della pastorale familiare ed esprimano proposte Pag 15 Cavallino-Treporti, dove la stima e il popolo si incontrano di Giorgio Malavasi e Serena Spinazzi Lucchesi Da venerdì 16 febbraio gli incontri con il Patriarca Francesco. Il ritratto di parrocchie dove i sacerdoti si sono ridotti a due e i laici collaborano di più. Di recente si è formato il cenacolo. I due parroci rilevano: «Ci siamo accorti che le persone che ne fanno parte si stimano vicendevolmente, così come stimano noi parroci. E non in maniera formale, ma di una stima sostanziale». Uno stile di relazione che viene percepito e trova riscontro tra la gente Pag 27 Villa Salus offre venti milioni per acquisire il S. Camillo al Lido di Giorgio Malavasi Il direttore dell’ospedale mestrino Mario Bassano: «L’eventuale acquisizione ci interessa perché il San Camillo è un istituto di ricerca e cura. E questo ci consentirebbe di arricchire la nostra offerta». Il Patriarca: auspicabili sinergie per servire meglio i malati e mantenimento dell’occupazione All’interno di questo numero di GV il supplemento a cura dell’Ufficio missionario diocesano con alcune riflessioni sulla Quaresima … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le buone regole servono di Francesco Giavazzi Europa e debito Pag 2 Saranno 35 collegi del Sud a decidere la partita del voto di Marco Castelnuovo Pag 3 Le incognite di una legge tra realtà e propaganda di Massimo Franco Pag 28 I curdi sono stati una diga, ora fermezza con Ankara di Bernard-Henri Lévy AVVENIRE Pag 1 Non si può o si potrà tutto di Giuseppe Anzani Il terribile nodo: “agevolare” la fine Pag 2 Il “desiderio” di non vedere i clochard. Quell’ansia di decoro che è lato oscuro (lettere al giornale) Pag 5 “Aiuto al suicidio”, deciderà la Consulta di Nello Scavo e Marcello Palmieri Per il Tribunale di Milano Cappato non va condannato: “Norme illegittime”. La costituzionalista Violini: “Può essere disponibile un bene economico. La vita no” IL FOGLIO Pag 3 La pericolosa sentenza sul caso Cappato Il sistema giudiziario si mette al servizio di una battaglia politica. Di nuovo IL GAZZETTINO Pag 1 Il dovere di spiegare di Ario Gervasutti Pag 1 Vita e morte, la libertà (e i limiti) di decidere di Cesare Mirabelli Il caso Cappato Pag 6 Quel divieto di aiutare a uccidersi. I giuristi: è una legge da cambiare di Gigi Di Fiore

LA NUOVA Pag 1 Farà perdere consenso? Non è detto di Roberto Weber Pag 1 Voto segreto, fondamento di democrazia di Mario Bertolissi

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA LA NUOVA Pag 32 Da domani il Patriarca a Cavallino di f.ma. Cavallino. Seconda tappa della visita pastorale del Patriarca Francesco Moraglia (nella foto) a Cavallino-Treporti dove sarà presente da domani a domenica 18 e poi da venerdì 23 a domenica 25 febbraio, per incontrare le comunità parrocchiali. Numerosi gli appuntamenti sia in ambito ecclesiale che con istituzioni e realtà associative. Si inizia nel pomeriggio di domani quando sarà in visita dai carabinieri a Ca' Savio e poi all'Ufficio Circondariale Marittimo. La mattina di sabato 17 è previsto l'incontro in municipio con l'amministrazione comunale di Cavallino-Treporti, le associazioni e categorie. Domenica 18 alle 10 il Patriarca presiederà la messa nella chiesa parrocchiale di S. Maria Elisabetta a Cavallino, per continuare nel pomeriggio di sabato 24 con l'incontro a Ca' Savio dei rappresentanti del mondo dello sport. Nella mattina di domenica 25, infine, il Patriarca chiuderà la tappa in zona con la Messa della collaborazione pastorale nella chiesa parrocchiale di S. Francesco d'Assisi a Ca' Savio in programma alle 10.30. In sinergia quattro parrocchie: S. Francesco di Assisi a Ca' Savio e SS. Trinità a Treporti entrambe guidate dal parroco don Alessandro Panzanato e S. Maria Elisabetta a Cavallino e Sacro Cuore di Gesù a Ca' Vio, guidate da don Daniele Memo. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 17 Il Papa: a Messa la Parola va letta e spiegata bene “E’ un diritto spirituale riceverla con abbondanza. Le richieste autoreferenziali restano inascoltate” Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Buongiorno anche se la giornata è un po’ bruttina. Ma se l’anima è in gioia sempre è un buon giorno. Così, buongiorno! Oggi l’udienza si farà in due parti: un piccolo gruppo di ammalati è in aula, per il tempo e noi siamo qui. Ma noi vediamo loro e loro vedono noi nel maxischermo. Li salutiamo con un applauso. Continuiamo con la catechesi sulla Messa. L’ascolto delle Letture bibliche, prolungato nell’omelia, risponde a che cosa? Risponde a un diritto: il diritto spirituale del popolo di Dio a ricevere con abbondanza il tesoro della Parola di Dio (cfr Introduzione al Lezionario, 45). Ognuno di noi quando va a Messa ha il diritto di ricevere abbondantemente la Parola di Dio ben letta, ben detta e poi, ben spiegata nell’omelia. È un diritto! E quando la Parola di Dio non è ben letta, non è predicata con fervore dal diacono, dal sacerdote o dal vescovo si manca a un diritto dei fedeli. Noi abbiamo il diritto di ascoltare la Parola di Dio. Il Signore parla per tutti, Pastori e fedeli. Egli bussa al cuore di quanti partecipano alla Messa, ognuno nella sua condizione di vita, età, situazione. Il Signore consola, chiama, suscita germogli di vita nuova e riconciliata. E questo per mezzo della sua Parola. La sua Parola bussa al cuore e cambia i cuori! Perciò, dopo l’omelia, un tempo di silenzio permette di sedimentare nell’animo il seme ricevuto, affinché nascano propositi di adesione a ciò che lo Spirito ha suggerito a ciascuno. Il silenzio dopo l’omelia. Un bel silenzio si deve fare lì e ognuno deve pensare a quello che ha ascoltato. Dopo questo silenzio, come continua la Messa? La personale risposta di fede si inserisce nella professione di fede della Chiesa, espressa nel “Credo”. Tutti noi

recitiamo il “Credo” nella Messa. Recitato da tutta l’assemblea, il Simbolo manifesta la comune risposta a quanto insieme si è ascoltato dalla Parola di Dio (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 185197). C’è un nesso vitale tra ascolto e fede. Sono uniti. Questa - la fede -, infatti, non nasce da fantasia di menti umane ma, come ricorda san Paolo, «viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo» (Rm 10,17). La fede si alimenta, dunque, con l’ascolto e conduce al Sacramento. Così, la recita del “Credo” fa sì che l’assemblea liturgica «torni a meditare e professi i grandi misteri della fede, prima della loro celebrazione nell’Eucaristia» (Ordinamento generale del Messale Romano, 67). Il Simbolo di fede vincola l’Eucaristia al Battesimo, ricevuto «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo», e ci ricorda che i Sacramenti sono comprensibili alla luce della fede della Chiesa. La risposta alla Parola di Dio accolta con fede si esprime poi nella supplica comune, denominata Preghiera universale, perché abbraccia le necessità della Chiesa e del mondo (cfr Ogmr, 69-71; Introduzione al Lezionario, 30-31). Viene anche detta Preghiera dei fedeli. I Padri del Vaticano II hanno voluto ripristinare questa preghiera dopo il Vangelo e l’omelia, specialmente nella domenica e nelle feste, affinché «con la partecipazione del popolo, si facciano preghiere per la santa Chiesa, per coloro che ci governano, per coloro che si trovano in varie necessità, per tutti gli uomini e per la salvezza di tutto il mondo» (Cost. Sacrosanctum Concilium, 53; cfr 1 Tm 2,1-2). Pertanto, sotto la guida del sacerdote che introduce e conclude, «il popolo, esercitando il proprio sacerdozio battesimale, offre a Dio preghiere per la salvezza di tutti» (Ogmr, 69). E dopo le singole intenzioni, proposte dal diacono o da un lettore, l’assemblea unisce la sua voce invocando: «Ascoltaci, o Signore». Ricordiamo, infatti, quanto ci ha detto il Signore Gesù: «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto» (Gv15,7). «Ma noi non crediamo questo, perché abbiamo poca fede». Ma se noi avessimo una fede – dice Gesù – come il grano di senape, avremmo ricevuto tutto. «Chiedete quello che volete e vi sarà fatto». E in questo momento della preghiera universale dopo il Credo, è il momento di chiedere al Signore le cose più forti nella Messa, le cose di cui noi abbiamo bisogno, quello che vogliamo. «Vi sarà fatto»; in uno o nell’altro modo ma «Vi sarà fatto». «Tutto è possibile a colui che crede», ha detto il Signore. Che cosa ha risposto quell’uomo al quale il Signore si è rivolto per dire questa parola – tutto è possibile a quello che crede – ? Ha detto: «Credo Signore. Aiuta la mia poca fede». Anche noi possiamo dire: «Signore, io credo. Ma aiuta la mia poca fede». E la preghiera dobbiamo farla con questo spirito di fede: «Credo Signore, aiuta la mia poca fede». Le pretese di logiche mondane, invece, non decollano verso il Cielo, così come restano inascoltate le richieste autoreferenziali (cfr Gc4, 2- 3). Le intenzioni per cui si invita il popolo fedele a pregare devono dar voce ai bisogni concreti della comunità ecclesiale e del mondo, evitando di ricorrere a formule convenzionali e miopi. La preghiera “universale”, che conclude la liturgia della Parola, ci esorta a fare nostro lo sguardo di Dio, che si prende cura di tutti i suoi figli. (Durante la catechesi il Papa ha commentato un brano tratto dal Vangelo di Giovanni: Gv 15,7-8) CORRIERE DELLA SERA Pag 21 “I blog che mi chiamano eretico? Conosco chi li scrive, non li leggo” di Antonio Spadaro Francesco ai gesuiti in Cile e Perù: no ai religiosi che vivono da scapoloni pettegoli Santo Padre, quali sono state le grandi gioie e i grandi dispiaceri che lei ha avuto nel suo pontificato? «Questo del pontificato è un periodo piuttosto tranquillo. Dal momento in cui in Conclave mi sono reso conto di quello che stava per succedere - una sorpresa istantanea per me -, ho provato molta pace. E fino ad oggi quella pace non mi ha lasciato. È un dono del Signore, di cui sono grato. E davvero spero che non me lo tolga. Le cose che non mi tolgono la pace, ma sì mi addolorano, sono i pettegolezzi. E a me i pettegolezzi dispiacciono, mi rattristano. Accade spesso nei mondi chiusi. Quando accade in un contesto di sacerdoti o di religiosi, a me viene da chiedere: ma come è possibile? Tu che hai lasciato tutto, hai deciso di non avere accanto una donna, non ti sei sposato, non hai avuto figli... vuoi finire come uno scapolone pettegolo? Oh, mio Dio, che vita triste!».

Quali resistenze ha incontrato e come le ha vissute? «Davanti alla difficoltà non dico mai che è una “resistenza”, perché significherebbe rinunciare a discernere, cosa che invece voglio fare. È facile dire che c’è resistenza e non rendersi conto che in quel contrasto può esserci anche un briciolo di verità. Questo mi aiuta anche a relativizzare molte cose che, a prima vista, sembrano resistenze, ma in realtà è una reazione che nasce da un fraintendimento... Quando invece mi rendo conto che c’è vera resistenza, certo, mi dispiace. Alcuni mi dicono che è normale che ci sia resistenza quando qualcuno vuol fare dei cambiamenti. Il famoso “si è sempre fatto così” regna dappertutto, è una grande tentazione che tutti abbiamo vissuto. Le resistenze dopo il Vaticano II, tuttora presenti, hanno questo significato: relativizzare, annacquare il Concilio. Mi dispiace ancora di più quando qualcuno si arruola in una campagna di resistenza. E purtroppo vedo anche questo. Non posso negare che ce ne siano, di resistenze. Le vedo e le conosco. Ci sono le resistenze dottrinali. Per salute mentale io non leggo i siti internet di questa cosiddetta “resistenza”. So chi sono, conosco i gruppi, ma non li leggo, semplicemente per mia salute mentale. Se c’è qualcosa di molto serio, me ne informano perché lo sappia. È un dispiacere, ma bisogna andare avanti. Quando percepisco resistenze, cerco di dialogare, quando il dialogo è possibile; ma alcune resistenze vengono da persone che credono di possedere la vera dottrina e ti accusano di essere eretico. Quando in queste persone, per quel che dicono o scrivono, non trovo bontà spirituale, io semplicemente prego per loro. Provo dispiacere, ma non mi soffermo su questo sentimento per igiene mentale». In quali riforme possiamo appoggiarla meglio? «Credo che una delle cose di cui la Chiesa oggi ha più bisogno, e questa cosa è molto chiara nelle prospettive e negli obiettivi pastorali di Amoris laetitia , è il discernimento. Noi siamo abituati al “si può o non si può”. Ho ricevuto anch’io, nella mia formazione, la maniera del pensare “fin qui si può, fin qui non si può”. Non so se ti ricordi di quel gesuita colombiano che venne a insegnarci morale al «Collegio Massimo»; quando si venne a parlare del sesto comandamento, uno si azzardò a fare la domanda: “I fidanzati possono baciarsi?”. Se potevano baciarsi! Capite? E lui disse: “Sì, che lo possono! Non c’è problema! Basta però che mettano in mezzo un fazzoletto”. Questa è una forma mentis del fare teologia in generale. Una forma mentis basata sul limite. E ce ne portiamo addosso le conseguenze». Che cosa dire (nella Compagnia) a coloro che vanno invecchiando e dietro loro vedono meno persone? «Considerando la diminuzione di giovani e forze, si potrebbe entrare in desolazione istituzionale. No, non ve lo potete permettere. La desolazione ti tira verso il basso, è una coperta fradicia che ti tirano addosso per vedere come te la cavi, e ti porta all’amarezza, al disinganno. Io mi domando se Saverio, davanti al fallimento di vedere la Cina senza poterci entrare, fosse desolato. No, io immagino che egli si sia rivolto al Signore, dicendo: “Tu non lo vuoi, quindi ciao, va bene così”. Ha scelto di seguire la strada che gli veniva proposta, e in quel caso era la morte!... Ma va bene! Come Saverio alle porte della Cina, guardate sempre avanti... Sa Dio!». Vorrei ci dicesse qualche parola sul tema degli abusi sessuali. Siamo molto segnati da questi scandali. «È la desolazione più grande che la Chiesa sta subendo. Questo ci spinge alla vergogna, ma bisogna pure ricordare che la vergogna è anche una grazia molto ignaziana. E quindi prendiamola come grazia e vergogniamoci profondamente. Dobbiamo amare una Chiesa con le piaghe. Molte piaghe... Ti racconto un fatto. Il 24 marzo, in Argentina è la memoria del colpo di Stato militare, della dittatura, dei desaparecidos, e Plaza de Mayo si riempie per ricordarlo. In uno di quei 24 marzo, mentre stavo per attraversare la strada, c’era una coppia con un bambino di due o tre anni, e il bambino correva avanti. Il papà gli ha detto: “Vieni, vieni, vieni qua... Attento ai pedofili!”. Che vergogna ho provato! Che vergogna! Non si sono resi conto che ero l’arcivescovo, ero un prete e... che vergogna! A volte si tirano fuori “premi di consolazione”, e qualcuno perfino dice: «Guarda le statistiche... il... non so... 70% dei pedofili si trova nell’ambito familiare, dei conoscenti. Poi nelle palestre, le piscine. La percentuale dei pedofili che sono preti cattolici non raggiunge il 2%, è dell’1,6%. Non è poi tanto…”. Ma è terribile anche se fosse uno solo di questi nostri fratelli! Perché Dio l’ha unto per santificare bambini e grandi, e lui li ha distrutti. È orribile! Bisogna ascoltare che cosa prova un abusato o

un’abusata! Di venerdì - a volte lo si sa e a volte non lo si sa - mi incontro abitualmente con alcuni di loro. Il loro processo è durissimo, restano annientati. Per la Chiesa è una grande umiliazione. Mostra non solo la nostra fragilità ma anche, diciamolo chiaramente, il nostro livello di ipocrisia. È curioso: il fenomeno dell’abuso ha toccato alcune Congregazioni nuove, prospere. Lì l’abuso è sempre frutto di una mentalità legata al potere, che va guarita nelle sue radici maligne. Ci sono tre livelli di abuso che vanno insieme: abuso di autorità, sessuale, e pasticci economici. Il denaro c’è sempre di mezzo: il diavolo entra dal portafoglio». Come vede che lo Spirito adesso stia muovendo la Chiesa verso il futuro? «Riprendete in mano il Concilio Vaticano II, la Lumen gentium. Parlando ai vescovi cileni, li esortavo alla declericalizzazione. L’evangelizzazione viene fatta dalla Chiesa come popolo di Dio. A noi il Signore sta chiedendo di essere Chiesa in uscita, ospedale da campo... Una Chiesa povera per i poveri! I poveri non sono una formula teorica del partito comunista, sono il centro del Vangelo! È su questa linea che sento ci sta portando lo Spirito. Ci sono forti resistenze, ma per me il fatto che nascano è il segno che si va per la via buona. Altrimenti il demonio non si affannerebbe a fare resistenza». IL FOGLIO Pag III Toto porpora di La Gran Sottana Oltretevere si mormora di nuovi cardinali entro l’anno, Tanti dubbi ma un nome circola: Bartolomeo Sorge Ma come un concistoro? Eminenza, ne hanno da poco fatto uno", dico al cardinale che mi riceve nel salotto di casa (pavimento davvero vintage, con quel marmo verdognolo circondato da parquet). Dall'ultima volta che l'avevo visto, il cardinale sembra ringiovanito: "Diciamo che ho trovato la pace dei sensi", dice mettendosi subito a ridere mentre giochicchia con l'anello al dito. La suora entra e mi porta un sobrio bicchiere d'acqua - "Non è ancora quaresima", dice l'eminenza domandandomi se preferisco un succo al mirtillo. Rispondo che va bene l'acqua ma vorrei che si passasse subito al tema messo sul tavolo dall'interlocutore: il concistoro. "Non lo so, vedremo, ma la prassi qui è di riempire subito il buco che si apre. I posti liberi sono pochissimi, però sa, qua si dice che qualche porpora sarà dispensata anche in codesto 2018". Chiedo i nomi. "Il criterio è quel che conta, non s'aspetti di vedere italiani residenziali, ma si andrà sempre di più a pescare lontano. Con il problema che poi questi vescovi cardinali a Roma neppure ci vengono". Parte la ridda delle supposizioni, che è inutile trascrivere, intervallata com'è dai "boh", "forse", "potrebbe". Un nome però l'eminenza lo fa, è un italiano e ha pure un bel po' di anni: "Bartolomeo Sorge, gesuita coltissimo, ultraottantenne e quindi non elettore, ex direttore della Civiltà Cattolica, il candidato che Giovanni Paolo I voleva come Patriarca di Venezia al suo posto. Gode di ottima stampa sa? L'altro giorno intervistato non ricordo più dove ha detto che l'Humanae vitae del prossimo santo Paolo VI era inadeguata da un punto di vista pastorale". VATICAN INSIDER Il Papa: stop alla pensione automatica per nunzi e vescovi curiali di Andrea

Tornielli Motu proprio di Francesco, “Imparare a congedarsi”, che cancella l’automatismo della

decadenza ai 75 anni: anche per gli “ambasciatori”, i capi dicastero non cardinali e i segretari la rinuncia dovrà essere accettata e ci potranno essere proroghe

La Quaresima ha portato una sorpresa per i nunzi apostolici, i vescovi della Curia romana non cardinali e i prelati segretari: al compimento del 75° anno d’età non decadranno più automaticamente dal loro incarico come avveniva fino ad oggi. La loro situazione sarà dunque simile a quella dei vescovi residenziali e dei cardinali capi dicastero vaticani: saranno cioè tenuti a presentare la rinuncia all’età canonica prevista, ma il Papa, se lo riterrà opportuno, avrà la possibilità di prolungarli nel loro servizio. La fine dell’automatismo è sancita da un motu proprio di Francesco, pubblicato oggi, intitolato “Imparare a congedarsi” e datato 12 febbraio 2018. I nunzi apostolici - gli “ambasciatori” papali che rappresentano la Santa Sede presso i governi dei vari Paesi del mondo, ma sono anche incaricati di interloquire con gli episcopati e raccogliere le

informazioni per le “provviste” delle Chiese (nulla a che vedere con le scorte alimentari, il termine tecnico indica l’iter per arrivare alla nomina dei nuovi vescovi) – fino ad ora allo scoccare dei 75 anni venivano automaticamente pensionati. La regola del raggiunto limite d’età, introdotta per tutti i vescovi dal Concilio Ecumenico Vaticano II, nel loro caso prevedeva infatti un’applicazione automatica, con rare possibilità discrezionali. Lo stesso valeva per i prelati curiali non cardinali, come i vescovi capi dicastero e i segretari delle congregazioni vaticane: anche per loro lo scoccare dell’età portava alla fine del mandato. Al contrario, per i capi dicastero cardinali, come pure per tutti i vescovi residenziali delle diocesi del mondo, la rinuncia da presentare al raggiungimento dell’età canonica non ha mai significato l’immediata cessazione dall’incarico. Nel Codice di diritto canonico (401) si legge: «Il vescovo diocesano che abbia compiuto i settantacinque anni di età è invitato a presentare la rinuncia all’ufficio al Sommo Pontefice, il quale provvederà, dopo aver valutato tutte le circostanze». Il Papa, a sua discrezione, può decidere di prolungarli per uno, due o anche cinque anni, com’è accaduto e come accade: ha ottenuto un prolungamento per cinque anni come arcivescovo di Perugia l’attuale presidente della CEI, il cardinale Gualtiero Bassetti, nominato alla guida dell’episcopato italiano ormai 75enne. La discrezionalità si applica anche per i cardinali capi dicastero, come previsto dal secondo paragrafo dell’articolo 5 della costituzione apostolica “Pastor Bonus”, promulgata da Giovanni Paolo II nel giugno 1988: «Compiuto il settantacinquesimo anno di età, i cardinali preposti sono pregati di presentare le loro dimissioni al romano Pontefice, il quale, ponderata ogni cosa, procederà». E ci sono attualmente due cardinali capi di dicasteri curiali che stanno per compiere ottant’anni ancora in servizio: il Prefetto delle cause dei santi Angelo Amato e il presidente dei testi legislativi Francesco Coccopalmerio. Questa discrezionalità non era però mai stata prevista per i capi dicastero non cardinali, per i segretari dei dicasteri e per i nunzi apostolici (equiparati ai primi per volere di Paolo VI con il motu proprio “Sollicitudo omnium Ecclesiarum” del 1969). Il già citato articolo della “Pastor Bonus” infatti continuava: «Gli altri capi di dicastero, così come i segretari, compiuto il settantacinquesimo anno di età, decadono dal loro incarico». Decadono e basta, automaticamente. D’ora in avanti, in forza del nuovo motu proprio, anche per i nunzi apostolici, per i capi dicastero non cardinali e per i prelati segretari si applicherà quanto previsto per cardinali e vescovi diocesani. Che cosa ha spinto Papa Francesco a compiere questo passo? L’innalzamento generale dell’età e la delicatezza di certe situazioni diplomatiche, hanno consigliato la svolta, così che il Papa possa decidere in certi casi, a seconda delle necessità, di prorogare il nunzio apostolico nel suo incarico. Lo stesso potrà avvenire con i capi dicastero non cardinali e i loro segretari. Spiega il Papa nella motivazione del motu proprio: «“Imparare a congedarsi”, è quello che ho chiesto, commentando una lettura degli Atti degli Apostoli, in una preghiera per i Pastori». Era nella Messa mattutina a Casa Santa Marta del 30 maggio 2017. La conclusione «di un ufficio ecclesiale deve essere considerata parte integrante del servizio stesso in quanto richiede una nuova forma di disponibilità». Questo atteggiamento interiore è necessario «sia quando, per ragioni di età, ci si deve preparare a lasciare il proprio incarico, sia quando venga chiesto di continuare quel servizio per un periodo più lungo, pur essendo stata raggiunta l’età di settantacinque anni». Chi si prepara a presentare la rinuncia ha bisogno di prepararsi «adeguatamente davanti a Dio, spogliandosi dei desideri di potere e della pretesa di essere indispensabile. Questo permetterà di attraversare con pace e fiducia tale momento, che altrimenti potrebbe essere doloroso e conflittuale». Allo stesso tempo, chi assume «nella verità questa necessità di congedarsi, deve discernere nella preghiera come vivere la tappa che sta per iniziare, elaborando un nuovo progetto di vita, segnato per quanto è possibile da austerità, umiltà, preghiera di intercessione, tempo dedicato alla lettura e disponibilità a fornire semplici servizi pastorali». D’altra parte, se eccezionalmente viene chiesto di continuare il servizio per un periodo più lungo, ciò implica «abbandonare, con generosità, il proprio nuovo progetto personale. Questa situazione, però, non dev’essere considerata un privilegio, o un trionfo personale, o un favore dovuto a presunti obblighi derivati dall’amicizia o dalla vicinanza, né come gratitudine per l’efficacia dei servizi forniti». Ogni eventuale proroga «si può comprendere solo - precisa il Pontefice nel Documento - per taluni motivi sempre legati al bene comune ecclesiale». Questa decisione pontificia non è un atto «automatico ma un atto di governo; di conseguenza implica la virtù della prudenza che aiuterà,

attraverso un adeguato discernimento, a prendere la decisione appropriata». Francesco cita «solo come esempio alcune delle possibili ragioni: l’importanza di completare adeguatamente un progetto molto proficuo per la Chiesa; la convenienza di assicurare la continuità di opere importanti; alcune difficoltà legate alla composizione del Dicastero in un periodo di transizione; l’importanza del contributo che tale persona può apportare all’applicazione di direttive recentemente emesse dalla Santa Sede oppure alla recezione di nuovi orientamenti magisteriali». Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 23 “Da studente dico ai genitori: non fate i sindacalisti dei vostri figli” di Enrico Galletti (studente 18enne) Il rimprovero, il brutto voto, la parola di troppo, il regolamento di conti a suon di botte. Il timore di assestare quel quattro a caratteri cubitali perché con ogni probabilità il professore dovrà vedersela con i genitori. Tra la malavita e questo lato della scuola, il confine è labile. Tanto labile da chiedersi se i vecchi tempi - quelli del dietro la lavagna, del «è così e basta», del sola andata per la presidenza - siano del tutto finiti. Di anni ne ho diciotto io, mica sessanta. Non sono docente e nemmeno genitore. Sono studente, con tutto quello che comporta. Vedo i telegiornali: il padre che va dal vicepreside e lo manda all’ospedale perché ha rimproverato suo figlio, la madre che dice al professore che quel voto non era un quattro, ma che suo figlio meritava sei. Ho visto una giovane madre andare dal professore di latino e minacciarlo di fare ricorso al Tar per una versione andata male. La stessa versione di cui io stesso, a quindici anni, avevo azzeccato forse una riga. Viene da chiedersi chi fa la scuola. Se noi studenti, con il nostro entusiasmo, se i professori, con la loro competenza, oppure i genitori, con quelle loro regole che rischiano di diventare intimidatorie. Il problema, però, è che quell’entusiasmo che ci si aspetta dalla scuola - deputata a formare nuovi cittadini - rischia di essere stroncato dall’atteggiamento dei nuovi genitori. I genitori del «lei non si deve permettere», quelli del «mio figlio me la racconta giusta e la colpa è sua». La verità è una: è che noi millennials siamo dei bravi ragazzi. Lo siamo per davvero, ma dobbiamo avere più coraggio. Dobbiamo par-lare chiaro ai nostri genitori e dobbiamo dar loro un consiglio: «Genitori, metteteci in discussione». Fa male, è difficile, è un po’ masochista, ma è necessario. Parliamo ai nostri genitori e chiediamo loro di guardarci con occhi diversi, di mettere in discussione la nostra verità prima di pestare un professore, anche quando i fatti sembreranno così cristallini da non destare il minimo dubbio. Chiediamo un passo indietro, un po’ di malizia ad evitare conclusioni affrettate. Chiediamo di verificare le parole di noi figli: fonti dirette che possono essere distorte. Chiediamo di rispettare i ruoli. Genitori, dateci credito ma trattateci da figli. E se necessario, considerateci figli «bugiardi», perché essere figli vuol dire anche questo: distorcere la realtà, all’occorrenza. La verità è che io ho paura, paura di diventare un genitore sindacalista, paura che mio figlio, un domani, si adagi sulla fiducia che riporrò in lui, che non sia disposto a farmi capire che si sbaglia a difendere a spada tratta i figli. Ho paura di diventare io stesso il genitore che aspetta al varco il professore. Per questo dirò ai miei genitori di mettermi in discussione ogni giorno, con la stessa affidabilità di sempre ma con una fiducia un po’ più filtrata. Che ho diciott’anni io, mica più dodici. E un domani padre lo sarò anch’io. AVVENIRE Pag 3 Non si rovesci (a botte) il rapporto di Ferdinando Camon La scuola, la famiglia e l’insegnante picchiato La notizia che viene da Foggia, dove un padre ha picchiato un insegnante di scuola media perché aveva rimproverato suo figlio, è stata commentata e raccontata più dettagliatamente su questo giornale che su altri. E si capisce perché: è una notizia a forte carica etica. Non parla di uno scontro fra insegnante e alunno, e nemmeno fra

genitore dell’alunno e insegnante. Se così fosse, sarebbe una notizia regionale, e non avrebbe avuto il rilievo che ha avuto. No, sotto sotto, molto in profondità, le due istituzioni che si trovano a contatto, e non si accettano, sono la scuola e la famiglia. La scuola ha sempre a che fare con le famiglie degli alunni, e agendo (com’è suo dovere) sulla cultura degli alunni agisce sulla cultura delle famiglie. Il compito della scuola è di rendere migliore la società, di rendere la nuova generazione migliore della precedente. Il che vuol dire i figli migliori dei genitori. E questo non tutti i genitori lo accettano, il genitore di Foggia voleva il figlio come una ripetizione di se stesso. Non c’è dubbio che i miei figli hanno studiato e imparato cose che io non conoscevo, e che i miei nipoti studiano e imparano cose che i miei figli neanche sospettavano. In un certo senso, è per questo che io mandavo a scuola i miei figli, perché diventassero migliori di me. Si dice sempre che la scuola è la prosecuzione della famiglia, ma non è esatto: la famiglia che dà i suoi figli a una scuola glieli dà perché faccia sui figli ciò che lei non può fare, non è in grado, non ha la cultura, o non ha il tempo. La famiglia che manda i suoi figli a scuola sperando però che non imparino niente di più, o di diverso, di quello che già lei sa, fa del male ai figli e alla società. Io vengo da una famiglia contadina, la scuola mi ha insegnato una cultura cittadina e nazionale e internazionale. Un’altra cultura vuol dire un’altra morale, un’altra idea del rapporto con gli altri e della giustizia. Ciò che impari a casa, ciò che avviene a casa, viene discusso a scuola, approvato o corretto. La famiglia di Foggia rovesciava questo rapporto. Ciò che avveniva a scuola veniva discusso a casa, corretto e condannato. C’è un libretto, vecchio ma bellissimo, intitolato Le bacchette di Lula, in cui si racconta l’insegnamento in Sardegna: i bambini andavano a scuola portandosi da casa una bacchetta, con la quale il maestro doveva picchiarli quando se lo meritavano. Qui a Foggia succedeva l’inverso: il bambino raccontava a casa l’insegnamento della scuola, e i genitori, se quell’insegnamento non gli piaceva, si riempivano di collera verso gl’insegnanti, e alla prima occasione saldavano il conto. Nella notizia che commentiamo, il padre del ragazzo non ha aspettato che si presentasse l’occasione, ma se l’è creata, precipitandosi a scuola. La scuola insegna una relazione basata sul dialogo: non si fa altro che parlare, a scuola, di tutto e con tutti. Le malattie professionali degli insegnanti riguardano l’apparato vocale. Questa famiglia di Foggia basa le relazioni sulle bòtte. Se il padre riesce a picchiare il professore, gliele dà e non le prende, vuol dire che ha ragione. È la morale arcaica. Non si discute, ma si picchia. C’è una frase di Freud che dice: «L’uomo che, invece di scagliare una lancia, scagliò una parolaccia, fondò la civiltà». La scuola è il luogo dove s’insegna a parlare e con ciò s’insegna la civiltà. Quest’uomo che, invece di parlare e magari insultare, non ha fatto altro che picchiare, insegna al figlio la barbarie. E così il figlio è preso tra due fuochi: la barbarie a casa, la civiltà a scuola. La settimana scorsa venti madri calabresi hanno chiesto al tribunale dei minori di Reggio Calabria: «Portate via dalle nostre case i nostri figli, perché qui crescono mafiosi». Non sappiamo niente della madre di questo ragazzo di Foggia, ma è così che doveva fare. Torna al sommario 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ LA NUOVA Pag 20 La Cisl: “L’offerta di Villa Salus è l’unica arrivata?” Il futuro del San Camillo Lido. «Prima di conoscere la credibilità del piano industriale, vogliamo che si faccia chiarezza sul tema principale: i camilliani hanno davvero intenzione di vendere il San Camillo? È Vila Salus l'interlocutore più vicino all'acquisto?». Dopo la Cgil e la Uil, anche la Cisl dice la sua sulla vicenda dell'Ircss del Lido. Il segretario provinciale, Carlo Alzetta, condivide alcuni auspici degli altri sindacati. In primo luogo, quello della tutela dei trecento lavoratori attualmente impiegati nella struttura. In secondo luogo, il mantenimento dell'offerta socio-sanitaria al Lido. «L'incertezza regna sovrana da due anni» commenta Alzetta. «Prima di conoscere il piano industriale, ci interessa sapere altro». Svariati gli interrogativi sollevati dalla Cisl: «I camilliani» si chiede Alzetta, «hanno intenzione di vendere? Vorremmo sapere c e se, ad oggi, Villa Salus è l'unico acquirente interessato».

Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag III L’ipotesi del macabro avviso, l’ombra della guerra tra clan di Maurizio Dianese Il ritorno della “banda dei mestrini” per il controllo del traffico di turisti Venezia. Se non è un incendio innescato da un corto circuito, allora sono guai grossi. Perchè Bruno Siega non è uno qualsiasi e se gli hanno incendiato la barca, allora vuol dire che al Tronchetto è iniziata una guerra per bande. Non sarebbe la prima volta. Di barca bruciate o lasciate andare alla deriva in laguna, in piena notte, sono piene le cronache fino ad una decina di anni fa, quando la leadership del Tronchetto non era ancora chiara. Ma poi, tra arresti e inchieste, alla fine era rimasta in campo una sola holding nell'Isola Nuovissima, che ha regnato incontrastata fino a pochi mesi fa su quei 10 milioni di turisti che sbarcano ogni anno a Venezia. Dalla scorsa estate però è entrata - o, meglio, è tornata - in campo un'altra banda e sono iniziati i guai. CLAN E PROCESSI - E non è improbabile che Bruno Siega possa essere finito nel tritacarne della lotta tra i due gruppi. Dunque, adesso bisogna capire che equilibri sono saltati in quell'isola artificiale dove la legalità non è di casa, grazie anche all'insipienza della Giunte che hanno amministrato Venezia. La Procura veneziana ha tentato un paio di volte di mettere ordine in quella giungla che ingoia ogni anno i portafogli di milioni di turisti, senza riuscirci. L'ultima volta è stato nel 2007. Una maxi inchiesta dei carabinieri, avviata nel 2000, aveva portato ad un processo con decine di imputati. L'inchiesta aveva portato alla luce l'esistenza di due gruppi che tenevano sotto controllo Piazzale Roma e il Tronchetto, senza lasciarsi sfuggire un solo turista. All'appello mancava solo il terzo gruppo, quello capeggiato dal Cocco Cinese, ovvero Otello Novello, che era rimasto fuori da quell'inchiesta. Il processo di primo grado si era chiuso con una raffica di condanne e il sequestro di tutte le barche. Del resto c'era poco da discutere: intromettitori e motoscafisti abusivi e non utilizzavano tutti i metodi soprattutto quelli illeciti per accaparrarsi i turisti. E se si trattava di girare i cartelli dell'Actv che indicavano i vaporetti o di costringere le impiegate dell'Associazione veneziana albergatori a dare le indicazioni giuste, certo nessuno di loro si tirava indietro, PENA RIDOTTA - Compreso Bruno Siega che infatti era stato condannato a 3 anni. Poi in Appello i tre anni erano diventati 6 mesi e Bruno Siega, come tutti gli altri era tornato al lavoro. Il lavoro di sempre, quello di motoscafista. Nel frattempo al Tronchetto si era consolidata l'egemonia del Cocco Cinese, al secolo Otello Novello. Ma nell'ultimo anno gli equilibri sono cambiati perchè al Tronchetto sono tornati i mestrini. Si tratta di un gruppo di malavitosi molto importante che, a suo tempo, ha contribuito all'ascesa e al consolidamento del potere di Felice Maniero. Dopo vent'anni di galera sono di nuovo in pista. Pronti a contendere il Tronchetto al gruppo del Cocco Cinese. In ogni caso, che Bruno Siega sia un cane sciolto come è stato negli ultimi anni o che si sia legato a questo o a quel gruppo, quel che conta è che bisogna iniziare a preoccuparsi. CAMPANELLO D'ALLARME - Perché, se l'incendio non è stato innescato da un corto circuito, allora vuol dire che è iniziata la guerra tra bande. Esattamente quelle bande che, stando alla sentenza di Appello di quel processo sul Tronchetto, non sono mai esistite. Peccato che dalla loro non esistenza si stiano facendo vive a colpi di attentati incendiari. Sempre che non si tratti di un corto circuito. Venezia. E' stato un altro Carnevale milionario per la malavita organizzata del Tronchetto. Anche quest'anno. Come l'anno prima. Come dieci anni fa. Come vent'anni fa. Solo che il piatto ogni anno si fa più ricco. I boss della mala incassano quattrini a palate e il Comune, cioè i cittadini contribuenti, pagano il conto dei danni creati dalle orde di turisti che invadono Venezia. I malavitosi ingrassano e l'Actv continua a girare con i vaporetti vuoti. GLI INCASSI - Non c'è nulla da fare, passa il tempo, ma non cambia mai nulla al Tronchetto, se non in peggio. Ormai è per sempre una terra abbandonata dallo Stato e

dal Comune e definitivamente nella mani della malavita organizzata che ogni anno fattura qualcosa come 200 milioni di euro. In nero. Novità non ce ne sono state nemmeno per questo Carnevale da record: i banditi che ingrassano sul turismo organizzato sono sempre gli stessi, ogni anno più ricchi, ogni anno più strafottenti, ogni anno sempre più padroni della porta di Venezia. L'unica novità se di novità vogliamo parlare è che quest'anno si può certificare il ritorno in campo della banda dei cosiddetti mestrini, appena tornati fuori dalla galera e decisi a riprendersi il Tronchetto. L'anno scorso si intuiva che stavano per tornare, c'erano le avvisaglie, quest'anno invece sono tornati proprio e alla grande. Ed hanno occupato la parte degli imbarcaderi più vicini al people mover che infatti nel 2017 ha cominciato a vedere rosso. Nel 2016 il people mover aveva incassato 1 milione 650 mila euro, nel 2017 1 milione 386 mila. Il calo in parte si spiega con la diminuzione di turisti delle navi da crociera che prendevano il People mover alla Marittima 179 mila euro ma un centinaio di migliaia di euro è il danno diretto provocato dalla concorrenza sleale degli intromettitori che lavorano per i mestrini. Sono loro che intercettano i turisti che scendono dai Flixbus e li convogliano sulle barche. IL RITORNO - I mestrini hanno passato vent'anni in galera e adesso tra permessi premio e semilibertà hanno ripreso a frequentare il centro storico lagunare. Sono la parte della banda di Felice Maniero che aveva il controllo del Tronchetto e dello spaccio di droga a Venezia. All'origine erano in cinque, poi uno si è pentito Paolo Tenderini uno è ancora dentro - Gino Causin - tre sono tornati fuori. Sono Paolo Pattarello, Giovanni Paggiarin e Gilberto Boatto detto Lolli, da sempre il capo riconosciuto di questa falange della mala del Brenta che ai tempi d'oro della banda di Maniero aveva il controllo di Venezia e che era diventata famosa per la sua capacità imprenditoriale, ma anche per la sua ferocia. Ma Paggiarin si è tirato fuori dal Tronchetto e in corsa sono rimasti solo in due della vecchia banda, Boatto e Pattarello. Sono tornati al Tronchetto in un posto che, negli ultimi vent'anni, è stato sempre gestito da Otello Novello soprannominato il Cocco Cinese, all'origine anche lui in forza ai mestrini, ma diventato sempre più autonomo nel corso degli anni, proprietario di un impero di quasi 20 lancioni fino a poco tempo fa, quando ha deciso di passare tutto alla figlia. Per carità, il Cocco Cinese continua ogni mattina a fare il suo al Tronchetto, ma dal punto di vista legale non è più proprietario di nulla, anche se basta dare un occhio a come lo trattano i suoi uomini per vedere che è ancora e sempre il capo. Adesso però deve fare i conti non con lo Stato, non con il Comune, non con la Guardia di finanza, non con la magistratura che pure vuole processarlo per concorso esterno in associazione mafiosa, ma con la banda dei mestrini che sta iniziando a piazzare i suoi uomini al Tronchetto. LE MAFIE - Ma i mestrini non sono gli unici ad aver messo gli occhi e le mani sul business milionario del turismo organizzato perché al Tronchetto si vedono anche camorristi, mafiosi e qualche uomo che si dice legato alla ndrangheta. Adesso, con il ritorno in campo dei mestrini, il Tronchetto deve per forza trovare un equilibrio. E lo Stato, le forze dell'ordine, il Comune? Sono i grandi assenti. Tant'è che nemmeno nei giorni caldi dell'afflusso turistico nell'Isola Nuovissima non c'era traccia di Vigili urbani, di polizia, di carabinieri o di Guardia di finanza. Come se non si sapesse che lì si lavora in nero. Come se non si sapesse che lì c'è la malavita. Come se non si sapesse che giorno dopo giorno l'Actv perde centinaia di migliaia di euro perché non riesce a far fronte alla concorrenza dei malavitosi. Il Comune continua a far finta di nulla. Rimanda ancora e chissà per quanto la costruzione della caserma dei carabinieri e non manda i Vigili nemmeno a multare le auto degli intromettitori più o meno abusivi che parcheggiano nel park del Comune, quello riservato agli autobus. Del resto quello è da sempre territorio loro e anche gli ausiliari delle Ztl, quelli che controllano che i bus paghino il ticket, si limitano a fare un passaggio da quelle parti senza interferire minimamente su quel che succede. E quel che succede rispetta un copione che va in scena uguale ogni mattina. Con gli stessi attori i malavitosi - e le stesse comparse i turisti. Milioni di turisti. L'unica assente è la legalità sotto forma di rispetto delle regole. E' il sistema Tronchetto. Ma forse è il sistema Venezia. Pag XI Suicida a 13 anni, è il terzo caso di Davide Tamiello

Si è ucciso mentre la mamma e il fratello erano al funerale del 14enne di Marghera che si era tolto la vita una settimana fa. Il dramma delle morti senza spiegazione. Gli studenti modello con l’anima fragile Mestre. Per gli inquirenti è l'equivalente di una morte bianca, quella che uccide un neonato nella sua culla. Non per le modalità, ovviamente, ma per la frustrazione di non poter trovare una spiegazione. Un altro suicidio, un altro minore, questa volta di 13 anni, che si è tolto la vita senza un perché. Ed è il terzo caso in meno di un mese. L'unico legame con i casi precedenti: il ragazzino conosceva il 14enne che si era ucciso mercoledì 7 febbraio. Il fratello del 13enne, infatti, era un amico del ragazzino di Marghera. Tanto che ieri mattina lui e la madre erano andati al suo funerale. L'allarme è scattato non appena sono tornati a casa, in Rione Pertini, dalla cerimonia funebre e hanno trovato il ragazzo impiccato. Volanti e Suem sono arrivati a sirene spiegate: i medici del pronto soccorso hanno provato a lungo a rianimare il 13enne, ma non c'è stato nulla da fare. INSPIEGABILE - Sul caso sta indagando la polizia, ma il gesto ha colto tutti di sorpresa. Una famiglia modello, due fratelli affiatati e con una vita estremamente normale. Il ragazzino, che giocava a Rugby, prima a Mestre poi nelle fila del Mogliano, per lo sport aveva una vera e propria venerazione. Leader, anche con i compagni di squadra, proprio lunedì aveva chiamato gli amici: «Mi raccomando, ci vediamo domani ad allenamento». Per lui non c'è stato nessun allenamento, solo un'immane e inspiegabile tragedia che ha stravolto un'intera comunità. Parenti, amici, società sportive che sono cadute dolorosamente dalle nuvole. Nessun segnale, nessun apparente disagio, nessun messaggio alla famiglia o agli amici, nessun grido di disperazione o richiesta di aiuto. Nulla di nulla: un gesto che rimane, ancora una volta, senza un perché. I PRECEDENTI - Un caso che sembra avere lo stesso profilo dei due precedenti: la diciottenne che la sera di sabato 18 gennaio si era lanciata dal quinto piano del palazzo della nonna, in via Einaudi, e l'episodio del 14enne di Marghera, morto nelle stesse circostanze del fratello dell'amico. Tragedie immense, strazianti, con degli enormi punti di domande. I classici bravi ragazzi, apparentemente lontani da ombre e da cattive compagnie: ottimi studenti, ben inseriti tra amici e compagni di scuola o di squadra, con tante attività a cui pensare e un futuro tutto da progettare. Quale male oscuro nascondessero per arrivare a tanto è un mistero. La polizia ha provato a sondare di tutto: droga, bullismo, depressione. Nessun risultato, nessun riscontro. NESSUN LEGAME - I tre episodi si concentrano dal 20 gennaio al 14 febbraio. Un dramma concentrato in tre settimane che non ha precedenti nella storia recente di Mestre, quantomeno negli ultimi 20 anni. Per gli investigatori, però, non ci sarebbe nessun collegamento tra queste morti. Salvo, ovviamente, la conoscenza tra i ragazzi del primo e secondo episodio. La polizia in ogni caso esclude categoricamente la presenza di qualche agente esterno. Un elemento che possa aver scatenato uno spirito di emulazione o, peggio, abbia fatto da istigatore. In questi giorni è tornata in mente a chiunque la tanto temuta Blue whale, il gioco dell'orrore che attraverso una serie di prove condurrebbe lentamente i ragazzi al suicidio. Se non altro per i numeri, per l'età e per l'intervallo di tempo così ridotto in cui si sono verificate le tragedie. Gli investigatori, però, escludono qualunque possibile legame con situazioni analoghe. Una terribile fatalità, quindi. Quel che rimane è il dolore immenso di tre famiglie, che hanno perso un figlio e non sapranno mai perché. Mestre. Due casi che hanno scosso le comunità di Chirignago e Marghera, quelle che si sono verificate negli ultimi venti giorni. La sera del 20 gennaio una 18enne, scout, attiva in parrocchia, studentessa modello, va a trovare la nonna in via Einaudi. L’anziana è rimasta vedova da poco e la ragazza va da lei per farle compagnia. Poi, prima di uscire, sale fino al quinto piano, dove ci sono dei finestroni che danno sul cortile interno, e si lancia nel vuoto. Un volo dal quinto piano che non le dà scampo. La ragazza non lascia messaggi né lettere. Mai l’ombra di un qualche problema che potesse tradursi in un campanello d’allarme. Tutti gli approfondimenti delle forze dell’ordine sul caso hanno dato esito negativo. Alla veglia di preghiera per lei hanno partecipato circa 700 persone. Alla messa del funerale, ce n’era un altro migliaio: la comunità di Chirignago è rimasta stravolta da questa storia. Il secondo caso è quello del 14enne di Marghera: mercoledì 7

febbraio il ragazzo viene trovato morto nell’abitazione in cui viveva con i genitori. Per gli inquirenti nessun dubbio: si è trattato di suicidio. Anche in questo caso la vittima non ha lasciato biglietti o messaggi che potessero spiegare l’accaduto. Anche in questo caso c’è il mistero sui motivi: un ragazzo semplice, in una famiglia normale, che non aveva mai avuto nessun tipo di problema. La polizia ha cercato di indagare per capire se vi fossero altre cause possibili di decesso, tanto pareva impossibile la ricostruzione di un suicidio per un adolescente di buona famiglia. Tutte le strade, però, hanno portato a quella drammatica conclusione. Ieri, si è tenuto il suo funerale a Marghera. Funerale a cui, appunto, avevano partecipato anche la mamma e il fratello del 13enne del Rione Pertini. Pag XIII Il Capodanno cinese coinvolge quartiere e parrocchia di Giacinta Gimma Marghera. E' qui la festa? Intonava Jovanotti quasi trent'anni fa. Ebbene, alla Cita possono rispondere sì. Il Capodanno cinese a Venezia che scoccherà domani, venerdì 16 con il taglio del nastro sull'anno del Cane, verrà festeggiato proprio tra torri e palazzoni del rione di Marghera con un paio di giorni di ritardo, per farlo coincidere con un giorno festivo. Domenica 18, alle 16 alle 19, grazie alla collaborazione della parrocchia della Resurrezione, del Khung Fu Chang Accademy Fiori di Loto e dell'associazione di promozione sociale PassaCinese, il patronato della parrocchia della Resurrezione accoglierà iniziative per celebrare il primo giorno del calendario lunare cinese. I LABORATORI - Festeggiamenti all'insegna del fare: si potrà partecipare, infatti, ad un laboratorio per imparare a preparare i ravioli cinesi, ad un altro di origami per costruire il proprio pendaglio Fu. Non solo, chiunque lo vorrà potrà imparare a scrivere il proprio nome in cinese e ad intonare alcuni canti in questa lingua. Sarà possibile, inoltre, assistere ad un'esibizione e ad una prova pratica di Kung Fu e Tai Qi. Importante, nell'organizzazione, il ruolo dell'associazione PassaCinese, fondata circa un anno e mezzo fa con l'obiettivo di rendere possibili momenti di incontro e scambio tra studenti universitari di lingua cinese e la comunità locale. TANDEM LINGUISTICO - «Crediamo che mettere in relazione queste due realtà possa creare un'energia positiva in città: gli studenti italiani di Ca' Foscari possono mettere in pratica la nuova lingua che stanno studiando aiutando i bambini cinesi neoarrivati ad imparare l'italiano e a fare i compiti per casa. Si è creato, insomma, un tandem linguistico tra universitari italiani e giovanissimi cinesi». A parlare è Marcello Feraco che, insieme a Giorgia Vendema e Yanan Zhao, una studentessa cafoscarina, stanno organizzando la domenica pomeriggio di festa alla Cita. LA CITTÀ DI TUTTI - «Ogni volta che leggiamo una notizia sui migranti proviamo a chiederci cosa posso fare io per contribuire a costruire la città di tutti. La risposta è moltiplicare e partecipare a tutte le occasioni per conoscerci meglio, come sarà senz'altro il grande Capodanno Cinese 2018. Alla Cita commenta, soddisfatto, don Nandino Capovilla, parroco della Resurrezione - diciamo da anni che siamo il quartiere della convivialità delle differenze e siamo orgogliosi di esserlo sempre di più in particolare con i fratelli e le sorelle cinesi. Gli auguri del Patriarca Francesco li abbiamo sentiti rivolti anche a noi, quando a Natale diceva che: non ci sono pelle, né lingua né cultura che non entrino nell'abbraccio di Dio». CORRIERE DEL VENETO Pag 8 San Marco, studio sugli ingressi. La Procuratoria “frena” gli sponsor di F.B. Tesserin: ok ai finanziamenti ma niente manifesti. Progetto del Politecnico sul ticket Venezia. La Procuratoria frena sullo sponsor a San Marco. O meglio: finanziamento sì, pubblicità sulla Basilica no. «Non possiamo pensare di far mettere manifesti - spiega Carlo Alberto Tesserin, primo procuratore di San Marco -. Se il Consorzio Venezia Nuova trova degli sponsor siamo ben lieti, ma dobbiamo salvaguardare il luogo qual è la chiesa di San Marco». Il Consorzio infatti a qualche settimana dall’inizio dei lavori per mettere all’asciutto il nartece della Basilica dall’acqua alta (la parte all’ingresso che va sotto anche con maree modeste, di 65-70 centimetri), sta pensando di trovare contributi per impermeabilizzare tutta la Piazza ben sapendo che parlare di maxi affissioni in area marciana è quasi proibitivo. Del resto nonostante il molo che dà sul bacino è stato

rialzato fino a 110 centimetri, l’acqua entra già a 85 attraverso i tombini, che dovrebbero dunque essere chiusi per tenere la piazza all’asciutto. L’intervento originariamente stimato in 50 milioni di euro, dovrebbe poter costare la metà dopo che il Provveditore alle Opere pubbliche Roberto Linetti ha chiesto una revisione del progetto per ridurre l’importo complessivo. «E’ chiaro che gli sponsor più che per il nartece già finanziato dal Provveditorato e di un importo limitato (due milioni di euro, ndr ) servono per San Marco», spiega Tesserin. Il Procuratore sottolinea che qualsiasi azione del Consorzio deve essere concordata con la Procuratoria e la sovrintendenza. «Il nostro obiettivo - aggiunge - è mettere all’asciutto al più presto la Basilica, ma nel frattempo stiamo lavorando per aumentare la sicurezza: la prova del Carnevale è stata superata con successo». Il progetto prevede l’introduzione un biglietto di ingresso, seppur gratuito, ma necessario per limitare gli accessi, ridurre le code e organizzare meglio la visita. Il Politecnico di Torino ha già consegnato la prima relazione, che nelle prossime settimane sarà analizzata dalla Procuratoria di San Marco. Il piano si sviluppa sulle indicazioni della Conferenza Episcopale italiana che non vuole chiese a pagamento. Solo chi, per evitare la coda, vorrà prenotare giorno e ora della visita, pagherà un contributo oscillante fra i due e i tre euro che coprirà i costi del servizio. Lo studio del Politecnico affinerà le ipotesi sul tavolo, ben sapendo - sottolinea Tesserin - «che la chiesa è destinata prima di tutto al culto». E le misure potrebbero essere adottate per l’estate. In realtà la prenotazione, per saltare le file e le attese c’è da tempo ed è gestita da un’agenzia che attiva il servizio dall’1 aprile al 2 novembre con un contributo di 2 euro, ma in futuro la cosa dovrà essere organizzata in maniera più stabile. Poi nel 2019 saranno introdotte modalità nuove per rendere più ricca, fluida o diversificata la visita alle altre parti dell’area marciana come il campanile, il museo di San Marco, la Pala d’oro e il Tesoro attraverso ad esempio un biglietto cumulativo. Qualche disagio questa estate ci sarà per i lavori del nartece (della durata di sei mesi) che inizieranno tra fine febbraio e l’inizio di marzo L’operazione consiste nell’isolare con delle valvole i canali di uscita e gli scoli dell’acqua piovana che in caso di marea sostenuta portano all’interno l’acqua dai tombini. In questo modo si recupererebbero almeno venti centimetri, in attesa degli interventi di isolamento sulla superficie della Piazza. E dello sponsor. Pag 9 Tredicenne si uccide dopo i funerali dell’amico, terzo suicidio in un mese di Gi.Co. e G.B. Tragedia a Mestre. Il parroco in Duomo: ragazzi, lasciatevi amare. La psicologa: “Giovani cresciuti nella crisi, diamogli sogni e speranze, soffiamo sulle loro vele” Mestre. Si è ucciso a tredici anni, a casa, l’ultimo giorno delle vacanze scolastiche di Carnevale, in un momento in cui i familiari erano fuori. Una tragedia resa più spaventosa dal fatto che l’adolescente si è tolto la vita nelle ore del funerale di un altro ragazzino, quattordicenne, anche lui morto suicida una settimana fa e amico del fratello. Cosa accade ai ragazzi? Una domanda obbligata davanti alla sequenza di gesti di queste settimane. Il 20 gennaio un’altra ragazzina, diciassettenne, si è uccisa in centro a Mestre, lanciandosi nel vuoto. Tre tragedie in un mese, sarebbe troppo anche solo una. Quella di ieri ha lasciato senza fiato una famiglia, ma anche i tanti ragazzi che in mattinata avevano partecipato ai funerali del quattordicenne, in duomo. Non è chiaro se tra loro c’era anche il ragazzino che poco dopo si è tolto la vita, di certo tra i banchi erano seduti sua mamma e il fratello maggiore. Di sicuro in casa, un po’ prima dell’ora di pranzo non c’era nessuno. Quando i familiari sono rientrati lo hanno trovato senza vita e il tentativo di rianimarlo, di chiamare i soccorsi, è stato inutile. La notizia della morte del ragazzino ha attraversato tutto il quartiere, anche se la famiglia del ragazzo si era da poco trasferita in zona ed era ancora poco conosciuta. Il ragazzo era stato adottato, ma non aveva mai dato segni di un disagio tanto grande da far immaginare un gesto così. «Il dito che vi fa sentire che non valete niente non è di Dio – aveva detto poco prima il parroco ai funerali del quattordicenne in duomo - Una ragazza mi ha detto: “questo mondo mi fa paura”, ma è il mondo a dover avere paura di voi perché siete liberi, perché siete amati, e quindi non sarete mai soli, mai falliti. Siamo polvere, ma il Signore su questa polvere scrive la sua storia. Ci vuole coraggio ad essere fragili, a lasciarsi amare. E allora non sentiamoci soli». C’era tantissima gente in duomo, una folla di mamme e papà e ragazzi che si sono stretti intorno ai familiari del ragazzino. I genitori

hanno scelto di leggere una poesia di Massimo Bisotti: «E se ci perderemo non mi perderai. Ci sono tramonti che non finisco mai». «Ti abbiamo voluto bene anche se ci conoscevamo da sei mesi – hanno letto la lettera i compagni di classe - Eravamo assieme e non lo saremo più. Ti vogliamo bene, riposa in pace». «Queste morti le abbiamo tutti noi sulla coscienza». Giulia Rossetto è psicologa e psicoterapeuta, aiuta le famiglie ad affrontare i problemi dell’essere mamme e papà e lavora con gli adolescenti, anche al patronato dei Frari. Nell’ultimo mese tre ragazzi si sono tolti la vita, nessuno di loro aveva dato segnali di malessere gravi, cosa sta succedendo? «Succede che i nostri adolescenti non sono più capaci di pensare che una breccia dentro il muro è possibile, sono nati e vissuti nella crisi, sono senza speranze». Così giovani, perché? «Noi ci lamentiamo sempre, siamo introiettati sui nostri problemi, non sappiamo trasmettere speranze e il risultato è che loro non hanno entusiasmo, sono piatti, pieni di rabbia. Non sappiamo far vedere che è possibile crescere, che la sfida di diventare adulti può essere giocata, per questo dico che queste morti le abbiamo tutti noi sulla coscienza». L’eccesso di tecnologie, gli smartphone a cui tutti, ma soprattutto i giovani, siamo collegati aumentano l’isolamento? «Non demonizzerei le tecnologie, certo siamo impreparati e ci stiamo attrezzando, ma non darei la colpa solo a questo». Lei che lavora con gli adolescenti cosa vede ogni giorno? «Che sono anestetizzati, il nostro nichilismo fa loro male, non si accende nei ragazzi la scintilla e, quindi, nemmeno il fuoco. Per loro, è tutto uguale, vivere o morire, non c’è differenza. Una ragazzina, in riferimento ad un fatto analogo a quelli di cui stiamo parlando, mi ha detto: “Lui è stato coraggioso”. Ma non tutto è negativo». C’è una strada allora? «Se li agganci, se riesci a tendere ai ragazzi una mano e a tessere con loro una tela, loro ci sono e arrivano le risposte». Qual è il suo consiglio a genitori, insegnanti e in generale agli adulti? «Diamo ai nostri ragazzi sogni e speranze, lasciamoli andare perché oggi ce li teniamo sempre troppo stretti, lasciamoli andare controllandoli, soffiamo sulle loro vele non solo sulle nostre, dobbiamo ricordarci che noi siamo al loro servizio, sono loro il nostro futuro. Non dobbiamo tirare i remi in barca ma dire: “ci sono”. E se facciamo fatica ad esserci, chiediamo aiuto. In Veneto questo è difficile». In Veneto? «Sì, già in Lombardia le famiglie hanno meno problemi a chiedere una mano». LA NUOVA Pag 25 Minorenne suicida trovato dalla madre La donna rientrava dal funerale di un altro ragazzo Mestre. La porta della sua camera era chiusa. Il ragazzo non rispondeva alla madre e al fratello che lo chiamavano. Nei due nessun presentimento di quello che era successo. Poi la donna ha aperto la porta e quella maledetta scena le si è aperta davanti agli occhi: il corpo del figlio, poco più che tredicenne, era senza vita. In quel momento alla donna il mondo è crollato addosso. Lei era appena tornata dal funerale del 14enne morto suicida, nella stessa maniera, dieci giorni fa. Una messa in Duomo alla quale aveva partecipato anche l'altro figlio della donna in quanto suo amico. La mamma ha cercato di soccorrere il figlioletto. Anche se si rendeva conto che ormai era troppo tardi ha subito chiesto l'intervento del 118. Il medico ha constatato la morte e come da prassi è stata avvisata la polizia. Sul posto gli agenti delle volanti. Il ragazzo non ha lasciato messaggi per spiegare il gesto. Avvisato il pm di turno, quest'ultimo ha messo a disposizione della famiglia il corpo del ragazzo per il funerale. La rete di soccorso. È fitta la rete di punti di aiuto per chi è in difficoltà e spesso, sempre più spesso, si trova a non poter far fronte al "male di vivere". Un sostegno a giovani e adulti che non ce la fanno ad andare avanti, una sponda anche per le famiglie, i genitori che vogliano avere un interlocutore per affrontare in percorsi guidati il disagio che vivono i ragazzi durante la crescita. Anche se

non sempre si hanno le chiavi per "leggere" le problematiche di chi ci è vicino. Sono così attivi alcuni numeri verdi ai quali chiunque può rivolgersi per avere supporto e aiuto psicologico: Telefono Amico 199.284.284; Telefono Azzurro 1.96.96; Progetto InOltre 800.334.343; e De Leo Fund 800.168.768. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le buone regole servono di Francesco Giavazzi Europa e debito Sembrava fosse l’orco dal quale difendersi e invece il fiscal compact , il Trattato europeo inizialmente negoziato dal governo Berlusconi e poi firmato sei anni fa dal governo Monti, è scomparso dalla campagna elettorale. Desaparecido . Ci sono due interpretazioni. È scomparso perché i partiti hanno capito che le affermazioni contrarie all’Europa non portano voti. Si veda il successo che riscuote la lista guidata da Emma Bonino che ha un nome non equivoco: Più Europa! Scomparse quindi le promesse di Lega e 5 Stelle di fare un referendum sull’euro, scomparsi i progetti di Berlusconi di introdurre una moneta parallela, cioè che circoli insieme all’euro. Magari questi capitoli si riapriranno dopo le elezioni: intanto zitti. Oppure, più semplicemente perché i programmi economici dei partiti, al di là della retorica, hanno accolto la sostanza di quel trattato, cioè l’impegno a ridurre il debito pubblico. «L’obiettivo del Partito democratico è ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil al valore del 100% entro i prossimi 10 anni» (Programma del Pd). «Obiettivi del quinquennio 2018-23: portare il debito pubblico verso il 100 per cento» (Programma di Forza Italia). «Pensiamo di poter ridurre il rapporto debito-Pil di 40 punti percentuali nel corso di due legislature» (Movimento 5 Stelle). Il problema è che non si capisce in che modo, al di là dell’osservazione, ovvia, che ciò che si vuole ridurre è un rapporto fra debito e Pil. Per ridurre il rapporto tra debito e Pil si può agire sul numeratore, il debito, o sul denominatore, il Pil. Ma i programmi si concentrano (vagamente) sul denominatore, la crescita del Pil, dimenticando il numeratore, cioè tasse e spese. Anzi, impegnandosi (giustamente) a ridurre la pressione fiscale, ma dimenticandosi di parlare di spesa al di là di vuoti riferimenti al taglio di spese inutili. La realtà è che la legge di Stabilità approvata in dicembre dal Parlamento già prevede un profilo del debito pubblico italiano coerente con il sentiero richiesto dal fiscal compact. Il Trattato richiede ai Paesi che lo hanno firmato e che, come l’Italia, hanno un debito pubblico superiore al 60 per cento del Pil, l’impegno a ridurne l’eccedenza di un ventesimo l’anno, che per noi significa ridurre il debito ogni anno di tre punti e mezzo del Pil. La legge di Stabilità prevede che il rapporto debito/Pil scenda di quasi il 2 per cento quest’anno e poco meno del 3,5 per cento nel 2020. Questi conti sono basati su una stima realistica della crescita, intorno all’1,5 per cento l’anno, e tengono conto del fatto che i tassi di interesse, e quindi il costo del debito, riprenderanno a crescere. Insomma, i criteri indicati dal fiscal compact sostanzialmente già li rispettiamo. Ma la legge di Stabilità è scritta nell’ipotesi che i risparmi ottenuti grazie alla riforma delle pensioni non scompaiano. Da sola la legge Fornero vale in prospettiva circa 8 punti di Pil, cioè la riduzione del debito richiesta sull’arco di mezza legislatura. Legge che invece perlomeno Lega e Movimento 5 Stelle si sono impegnati a modificare pesantemente. Purtroppo ai numeri non ci si può sottrarre. Gli interessi sul debito oggi costano 4 punti di Pil l’anno, un costo destinato a salire quando i tassi aumenteranno. Una quantità di risorse (circa 50 miliardi di euro l’anno) che si potrebbe usare (a seconda delle preferenze politiche) per ridurre la pressione fiscale o per investire in scuole e ospedali. Comunque lo si facesse (ma l’esperienza insegna che una riduzione delle tasse sarebbe senza dubbio la via migliore) è difficile riprendere a crescere se non si riesce a ridurre in maniera consistente questo fardello. Farlo non è certo semplice. Ma interrompere il sentiero virtuoso che il fiscal compact ci ha fatto imboccare sarebbe un errore grave. Le campagne elettorali sono il momento degli slogan, della conquista del consenso, persino dei sogni. Dopo arriva il tempo del governo e del realismo. Sarebbe da irresponsabili illudere prima per poi deludere.

Pag 2 Saranno 35 collegi del Sud a decidere la partita del voto di Marco Castelnuovo Chi vince le prossime elezioni? È possibile ottenere una maggioranza assoluta in un sistema che vede tre poli alternativi? Per scoprirlo, bisogna capire cosa sta succedendo nei singoli collegi uninominali, come i candidati sul territorio stanno spostando voti e se la vittoria di una coalizione o di un’altra nelle zone in bilico potrà avere ripercussioni sul dato finale. La situazione è abbastanza cristallizzata. Il centrodestra è in largo vantaggio al Nord, il centrosinistra al Centro, mentre in buona parte del Sud è sfida aperta tra Movimento cinque Stelle e centrodestra. Se la coalizione di Berlusconi, Salvini e Meloni, riuscisse a imporsi anche nel Mezzogiorno potrebbe ottenere la maggioranza assoluta dei seggi. Leader e peones - Le campagne elettorali sono due: una, mediatica e incentrata sui leader, è quella per il proporzionale, che determinerà i due terzi del Parlamento. L’altra, sul territorio, riguarda 348 collegi uninominali (232 alla Camera, 116 al Senato). Lì corrono alcuni leader (mai uno contro l’altro) qualche big e molti peones: la vittoria è certa per chi prende un voto più degli altri. Un gruppo di studiosi legati a Quorum, YouTrend e Reti, ha elaborato Rosatellum.info, un’analisi collegio per collegio basata su sondaggi, serie storiche e trend in grado di determinare quanto un collegio sia «sicuro» e quanto sia incerto, ovvero i collegi nei quali la differenza tra le prime due coalizioni è inferiore al cinque per cento dei voti. Sono i collegi contendibili, quelli nei quali un candidato o una campagna azzeccata possono cambiare il corso delle cose. Secondo Rosatellum.info ce ne sono 113, 78 alla Camera e 35 al Senato. «Effetto trascinamento» - Spostare gli equilibri nei collegi maggioritari non solo garantisce parlamentari eletti, ma ha anche un «effetto trascinamento» - seppur piccolo - sul collegio proporzionale soprastante, che è formato dalla «somma» di diversi collegi maggioritari affiancati. Il Nord è deciso - Al Nord la partita è quasi chiusa. Il centrodestra ha largo margine di vantaggio in buona parte dei collegi e quelli incerti sono solo 29 (su 138), 21 alla Camera e 8 al Senato. Berlusconi è fuori dai giochi solo in due dei collegi incerti del Nord (Torino 2 e Torino 4), mentre in Liguria combatterà alla pari praticamente ovunque, tranne che in due dei 4 collegi di Genova, saldamente in mano ai Cinque Stelle. Discorso simile per il Senato. Degli otto collegi incerti al Nord per la conquista di Palazzo Madama, solo uno è conteso tra Movimento 5 Stelle e centrosinistra (Torino), mentre in tutti gli altri la sfida sarà «classica» tra la coalizione di Berlusconi e quella di Renzi (sono 5 in totale: in Lombardia solo uno, nella zona di Milano che racchiude il centro e tutta la parte est). La variante adriatica - Al centro, invece, molti collegi sono già considerati sicuri per il centrosinistra e anche in quelli incerti, Pd e alleati sono sempre in vantaggio. La roccaforte rossa tiene, anche se la spina nel fianco di Liberi e uguali rende molti collegi da «probabile» (percentuale superiore a oltre il 10% sul secondo arrivato) a «tendente» (tra il 5 e il 10%). Diverso però il discorso sul litorale adriatico, dove il Movimento 5 Stelle ha sempre ottenuto buoni risultati. Da Rimini a Bari ci sono 18 collegi e sono quasi tutti incerti. Le coalizioni si «spartiscono» equamente le regioni. Il centrosinistra è in vantaggio nei collegi incerti dell’alto Marche (Pesaro, Fano, Ancona); il Movimento 5 Stelle guida da Ascoli a Vasto. Da Cerignola a Bari invece, il centrodestra è davanti alla lista di Di Maio. Dove si decidono le elezioni - E per tutto il Sud sarà così. La vera sfida è tra centrodestra e Movimento 5 Stelle nei collegi del Sud. Lì il centrodestra può trovare quella trentina di seggi (tra maggioritario e proporzionale) che ancora gli mancano per ottenere la maggioranza assoluta in entrambe le Camere. La gran parte dei collegi del Sud e delle isole è infatti un testa a testa tra Berlusconi e Di Maio. Nell’area metropolitana di Napoli nulla è deciso: di nove collegi alla Camera, solo due sono - di fatto - già assegnati. Negli altri se la giocano, compreso il collegio di Acerra dove c’è una delle pochissime sfide tra big: quella tra lo stesso Luigi Di Maio, candidato premier M5S, e Vittorio Sgarbi per il centrodestra. In tutto il Sud c’è un unico collegio alla Camera che probabilmente andrà al centrosinistra, quello di Potenza. Ce ne sono altri due «incerti», quello di Potenza al Senato (che racchiude anche il collegio di Matera alla Camera) e

quello di Corigliano Calabro. Per il resto, è sfida a due - aperta e incerta - in ben 35 collegi tra Camera e Senato. Intere regioni sono in bilico: Sicilia, Campania, Calabria. Qualora il centrodestra facesse filotto, cioè riuscisse a vincere i seggi in bilico anche in quelli in cui è per ora dietro, riuscirebbe nell’impresa di ottenere quei seggi in più che a oggi gli mancano per raggiungere i 315 seggi a Montecitorio e i 158 a Palazzo Madama. Le grandi città in bilico - Zoomando un po’ nella mappa, è interessante vedere come nelle grandi città il risultato è molto più incerto che nel resto del Paese. A Milano sono in bilico 4 collegi su 9 (la competizione qui è centrodestra-centrosinistra), Torino è tutta in bilico in un’affascinante competizione a tre (tranne che per il seggio di Collegno, quello verso la Val Susa che vede il M5S saldamente al comando). A Roma 9 collegi su sedici sono in bilico; a Bari e Napoli è apertissima la sfida tra M5S e centrodestra (con leggero vantaggio per la coalizione di Berlusconi). Le sfide tra candidati - Detto della sfida ad Acerra tra Di Maio e Sgarbi, non ci sono grandi match tra big, o candidature pesanti capaci di invertire i risultati. Nemmeno la tesissima sfida nel collegio senatoriale di Bologna tra Casini, che oggi si candida col centrosinistra e l’ex governatore della Regione Vasco Errani in lista per Liberi e Uguali. Vedremo se queste due settimane di campagna elettorale potranno invertire la tendenza. Pag 3 Le incognite di una legge tra realtà e propaganda di Massimo Franco È una mappa politica tutta da decifrare, quella che emergerà dalle elezioni del 4 marzo. L’incertezza sugli effetti della riforma implica la possibilità di risultati sorprendenti: in termini di partecipazione e, di conseguenza, di numeri parlamentari. Tutti i sondaggi hanno detto finora che non si intravede la possibilità di ottenere una maggioranza, per un qualunque schieramento dei tre principali. E il numero degli indecisi, che a diciassette giorni dal voto rappresentano quasi un terzo dei votanti, è composto in prevalenza da elettori del centrosinistra. In più, secondo l’Istituto Demopolis il 67 per cento degli italiani non conosce i nomi dei candidati del suo collegio uninominale. Sono elementi che contribuiscono a far ritenere che dalle urne possano uscire sorprese. Al di là della competizione tra centrosinistra, centrodestra e Movimento 5 Stelle, e all’interno delle singole coalizioni, l’incognita è di sistema. L’Europa scommette sulla possibilità che si formi un governo, in una fase nella quale si ridisegneranno gli equilibri continentali insieme con Germania e Francia. Il problema è quale ne sarà il perno, e se ce ne sarà uno. Per come si vanno configurando le sfide nei collegi, soprattutto per l’uninominale, è reale la prospettiva che la partita venga ridotta in molte realtà a quella tra centrodestra e M5S. E non perché lo dice il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi. La frattura a sinistra tra Pd e Liberi e uguali risulta, al momento, non ricomponibile. E sembra verosimile che molti dei consensi in marcia verso il partito di Pietro Grasso non siano in libera uscita ma siano stati persi da tempo dai dem di Matteo Renzi. Questo non toglie che lo scontro tra il maggior partito di sinistra e quanto è nato dopo la sua scissione promette di tradursi in un’elezione nella quale entrambi si faranno male. E beneficiari saranno centrodestra e M5S, soprattutto nei collegi dove bocciature e promozioni si giocheranno sul filo di lana di una manciata di voti: e sull’intero territorio nazionale. L’altra incognita proviene dalla tenuta dei partiti minori in coalizione. Se non raggiungono l’uno per cento, i loro consensi andranno dispersi. Se lo toccheranno senza salire fino al tre, rimpolperanno le liste della forza maggiore. Se andranno oltre il tre, potranno avere una propria rappresentanza. Si tratta di un punto interrogativo che lambisce il centrodestra e sovrasta il Pd. Per il M5S, invece, il tema è la capacità di produrre non solo voti, ma seggi. Il Movimento grillino è dato in testa come percentuali di un singolo partito. La legge elettorale non garantisce, tuttavia, che significhi avere più deputati e senatori degli altri. D’altronde, la riforma è stata approvata da Pd, FI e Lega anche con l’obiettivo di arginare i Cinque Stelle. Rimane da capire quanto il calcolo pagherà davvero; e misurare alla distanza l’eventuale effetto del pasticcio dei rimborsi non restituiti da parte di un gruppo di parlamentari del Movimento grillino. La storia recente consiglia di non sopravvalutarlo, nonostante le falle evidenti nell’organizzazione del Movimento e la mancanza di controlli. Eppure, la sensazione è che non sia quello il tema in grado di staccare pezzi di elettorato di opinione da una forza alimentata in buona parte, sebbene non interamente, dalle contraddizioni e dagli errori dei partiti

tradizionali. Al di là della schiuma propagandistica, pesano la competenza e la credibilità dei programmi. Chissà che anche su questo non arrivi qualche sorpresa. Pag 28 I curdi sono stati una diga, ora fermezza con Ankara di Bernard-Henri Lévy Non ripeteremo mai abbastanza che i curdi, in Siria come in Iraq, sono stati la nostra diga, il nostro baluardo, il muro di coraggio e di energia che ci ha protetti da Daesh. Dappertutto, in Siria non meno che in Iraq, sono riusciti a tener chiuse le frontiere dove gli eserciti iracheno e turco lasciavano aperte le porte attraverso cui arrivavano, scappavano, ripartivano gli islamisti che, mentre straziavano la regione, venivano in Europa a commettere attentati. Giunta la vittoria, questi combattenti curdi hanno avuto l’ingenuità di pensare che avrebbero potuto vivere, in pace, nel territorio da loro difeso, dove i loro cari sono morti e dove ora riposano. Ed ecco che, come premio della loro innocenza, sono ancora una volta perseguitati, torturati, assassinati, mutilati, ma ad Afrin, nel Nordest della Siria: sono stati la nostra diga, il cordone sanitario che conteneva la peste islamista ed ora sono braccati da un portinaio machiavellico, da uno che svuota le porte dell’inferno, da un Erdogan che trasforma la propria situazione geografica in pretesto per ricattare l’Occidente. Di fronte a tanto cinismo, nelle alte sfere della comunità internazionale si è come le tre piccole scimmie della favola. Con gli occhi bendati davanti al martirio di uomini e donne, considerati dunque ammirevoli negli anni pari e insignificanti negli anni dispari. Con le orecchie otturate, soprattutto per non sentire il rumore delle cannoniere del neo sultano, che spinge il sarcasmo, l’insolenza e la provocazione fino al punto di chiamare - mescolando cinismo orwelliano ed esultanza beffarda - la sua pulizia etnica «operazione Ramo d’olivo». Con il dito sulle labbra, miserevoli per vigliaccheria, fingiamo di credere sulla parola alle dimostrazioni di umiltà plenipotenziaria e benevola della propaganda di Ankara, e non sappiamo far altro che ripetere, scuotendo gravemente il capo: «Niente, non è successo niente ad Afrin». A Mosca, alcuni vedono nel sudario di obbrobrio e di vergogna che la soldatesca turca, e quella al soldo della Turchia stendono sul Kurdistan siriano, il prezzo da pagare per la vittoria della loro vischiosa strategia regionale. A Washington, altri recitano la parte di esperti delle anticamere politiche, di demiurghi del tè delle cinque, ma in realtà hanno trovato, nel lasciapassare offerto agli artefici della pulizia etnica, la soluzione alla loro nuova volontà di avere la pace senza dover fare la guerra. Altrove, ovunque, regna lo stesso lungo e doloroso silenzio. Oppure si odono parole vane: «Oriente complicato... incomprensibili storie di frontiere e di cambiamenti di alleanze... perché litigare con un Paese potente e sovrano?». O ancora si odono chiacchiere da bar, dove i piccoli furbi e i grandi pigri, chini su presunti misteri nascosti, e non osando rialzare la testa per paura di dover osservare la propria codardia, sanno soltanto ripetere ininterrottamente che non si andrà a morire per Afrin come ieri non si andò a morire per Danzica... È l’eterna storia - classica, ahimè, nelle democrazie - dei migliori amici a tempo determinato, dei fratelli quando ci conviene, dei compagni d’armi che svaniscono velocemente come una story su Instagram. È la continuazione della lunga notte dei popoli sfruttati e poi abbandonati come kleenex; dei liberatori trasformati in truppe ausiliarie; degli eroi strumentali, ma solo per il tempo di una battaglia e, per il resto, moneta spicciola del Grande Gioco delle transazioni geopolitiche. E poi, ma questo è inedito, è il frutto del patto faustiano che abbiamo stretto con Erdogan e che, semplicemente, non è più sopportabile. La Turchia, come il gatto di Schrödinger, può essere in effetti, e visibilmente, sia nella Nato che al di fuori. Può pretendere di stare sotto l’ombrello, certo bucato, dell’America, liquidando al tempo stesso apertamente coloro che furono i migliori alleati di quest’ultima. La Turchia ha generali ambidestri, che con una mano firmano decreti di eterna alleanza, a Londra o a Parigi, e con l’altra, tradendo subito gli impegni presi, con il Ramo d’olivo umiliano i loro presunti alleati. Ricicla i più temibili jihadisti, dà loro uno stipendio e li rimanda subdolamente a combattere, restando formalmente il Paese civile che continua ad ambire, come la Svizzera, la Norvegia o la Bosnia, a un partenariato strategico con l’Unione Europea. Ed ha un presidente che, grazie alle nostre debolezze, almeno per ora si sente abbastanza forte da fare dichiarazioni insensate, attraverso i propri ministri, sul presunto massacro dei curdi che sarebbe cosa da nulla in confronto alla colonizzazione dell’Algeria, colonizzazione che non autorizzerebbe certo la Francia a impartire lezioni. Questa atroce commedia è durata fin troppo. Se non la si

blocca, il 2018 sarà da ricordare come un anno nero: con una cortina di ferro, turca, che si abbatterà sul popolo curdo. E bloccarla, oggi, significa rompere, non più «congelare», quella farsa che sono diventati i negoziati di adesione all’Europa; significa sciogliere la commissione parlamentare mista che continua ad esistere nel parlamento di Bruxelles; significa espellere la Turchia da un Consiglio dell’Europa che, detto fra parentesi, l’ha condannata 2.812 volte da quando vi è entrata; infine, significa porsi seriamente la questione della sua presenza in seno all’Alleanza atlantica. Erdogan non ci lascia più la scelta. O questi gesti di elementare fermezza, oppure, all’orrore del massacro dei curdi, si aggiungerà la vergogna di vedere il massacratore sogghignare, e continuare a sogghignare, sulle rovine del nostro onore. AVVENIRE Pag 1 Non si può o si potrà tutto di Giuseppe Anzani Il terribile nodo: “agevolare” la fine La logica del giudizio, in ogni processo penale, ha una struttura costante. C’è un fatto da verificare, una norma da interpretare e applicare, una colpevolezza da accertare o escludere. Davanti alla Corte d’Assise di Milano nel processo a Marco Cappato per l’aiuto al suicidio di Fabiano Antoniani, qualcosa si è inceppato. Non nella ricostruzione del fatto: un uomo che accompagna appositamente in Svizzera un altro uomo a uccidersi. Non nella chiarezza della norma, che incrimina l’agevolazione del suicidio fatta «in qualsiasi modo». Non nella intenzionalità della condotta, confessata e anzi ostentata dall’imputato. Assolto dall’accusa di aver rafforzato il proposito suicida, ma non da quella di aver agevolato il suicidio. Se il viaggio in auto verso la morte fosse stato ritenuto irrilevante, estraneo alla fase 'esecutiva', la Corte avrebbe assolto del tutto. Ma una motivazione così non sarebbe piaciuta all’imputato, desideroso di sentire, come la difesa e l’accusa all’unisono, una lettura della norma intonata al diritto al suicidio per chi reputa la propria vita insopportabile; ed esente da pena chi l’aiuta a morire «con dignità». Non dunque un desiderio di assoluzione qualsiasi: il bersaglio vero era colpire la norma, la richiesta era di manipolarne il senso, slacciarlo dal testo e 'orientarlo' (come si suol dire) verso i princìpi costituzionali, giocando l’atout dell’autodeterminazione. La Corte ha rifiutato anche questa soluzione assolutoria: le parole della norma restano quelle che sono, e il senso quello che è. Ma non ha condannato. Non ha condannato perché ha dubitato che la norma sia costituzionalmente illegittima, quando incrimina l’aiuto al suicidio per chi non ha influenzato la volontà della persona che si uccide. Ciò per i princìpi di libertà e dignità che spettano, si dice, in tema di decisione sulla propria morte. E ha rimesso gli atti alla Consulta. Cosa accadrà in quella sede nessuno ora può dire. Ma alcuni concetti fondamentali ritagliano sin d’ora i limiti di un possibile intervento del giudice delle leggi. Ipotizzare una pronuncia semplicemente abrogativa dell’agevolazione del suicidio 'in genere' pare in assoluto un non senso (e non è pensabile che l’ordinanza di remissione la solleciti), quand’anche si inventasse che la Costituzione assegna una libertà individuale di «decidere come e quando morire». L’art. 580 del codice penale non riguarda, invero, il gesto (individuale) del suicida, non raggiungibile da pena, ma il gesto (sociale) di un altro, che di certo non ha diritti su quella vita e concorre nel procurarne la morte. È proprio qui la differenza inconfondibile. Si è tanto discusso della peculiarità del caso disperato. Ma in termini di diritto, chi può arbitrare le differenze fra suicidio e suicidio, per vagliare quale merita aiuto senza pena e quale no? La vicenda processuale di Milano ha incontrato una fattispecie di grande sofferenza e disabilità fisica, che gronda dolore. Ma chi esplora qualcosa nelle statistiche dei suicidi sa che esistono dolori e disperazioni dell’anima non meno torturanti, e forme depressive che annientano la voglia di vivere. Ci sono suicidi adolescenti. Ci sono pulsioni di morte che salgono da lutti, o rimorsi, o sensi di vergogna e di rovina. Uno dei luoghi dove il suicidio è più frequente è il carcere. Se la regola è il diritto di morire quando la vita è divenuta indegna, e giudicare l’indegnità spetta a chi vuol darsi la morte, è lecito agevolare il libero e deliberato suicidio dei detenuti? O non è tempo di mutare sentimento e proporre aiuto e conforto solidale, per rimontare la disperazione di molti, quella che Kierkegard chiamava la «malattia mortale»? Si dirà che non sono questi i casi da prevedere. Sì, ma il catalogo casistico è proprio quello che la Corte costituzionale non può fare, e non farà. È il giudice delle leggi, ma non il legislatore. Non potrà inserire varianti discrezionali secondo i tipi di

suicidio ammesso e di suicidio escluso dall’agevolazione, a suo criterio. E generalizzare la liceità è la cosa più disumana. La più incostituzionale. Pag 2 Il “desiderio” di non vedere i clochard. Quell’ansia di decoro che è lato oscuro (lettere al giornale) Caro Avvenire, la visibilità di poveri e senzatetto è un problema. Di certo a nessuno piace vedere persone in precarie condizioni igieniche sedute sui marciapiedi ad elemosinare o, peggio, dormire per strada avvolte in stracci e coperte, tra cartoni e masserizie. Persone così non solo non vorremmo vederle, vorremmo che proprio non esistessero: comunque la si pensi, costituiscono una silenziosa, ma eloquente e sanguinante, ferita aperta che interroga e inquieta la coscienza, denuncia la nostra società e il nostro modello di sviluppo, ferisce la dignità umana e il decoro cittadino. No, persone in tali condizioni non devono proprio esserci: se sono reali indigenti vanno assolutamente aiutate perché non è accettabile, almeno nelle nostre città, una simile forbice tra la loro miseria e il nostro benessere; se invece si tratta di un disgustoso racket deve essere assolutamente bloccato e perseguito; se infine sono impostori vanno denunciati. E così il problema si risolve, semplice, no? Purtroppo no, semplice per nulla, come ben sanno tutti coloro che operano nel sociale e nel volontariato. Certamente dobbiamo dare tutto il possibile sostegno alle strutture della solidarietà e dell’assistenza sociale. Ma loro, i poveri stessi, i barboni... lasciarli lì, per le strade, o allontanarli, renderli meno visibili, inquietanti e, per qualcuno, anche meno fastidiosi. Non nego che anche io preferirei non vederli: faccio parte di coloro che, al solo pensiero dell’ingiustizia sociale, si sente terribilmente in colpa. Sì, queste persone preferirei proprio non vederle: magari col tempo finirei per dimenticarmene e forse potrei anche convincermi che non esistano più. Problema risolto. Ecco: proprio per questo è bene che i 'poveri', dato che esistono, restino visibili e continuino a turbarci. Per evitarci di dimenticare che miseria e abbandono sono laceranti, brutti, degradanti. Quanta poesia si è fatta sulla dignità della povertà. Non è così: la miseria è sporca, disgusta. Solo avendo un contatto diretto con i poveri, solo incrociandone lo sguardo, solo passando con la nostra scarpa vicino alla testa di un clochard buttato a terra o sentendone l’odore spesso sgradevole possiamo renderci conto del carico di dolore e di solitudine che porta con sé. Ed è ancora poco, molto poco, ma è almeno qualcosa. I poveri però sono parecchi, alcuni più e altri meno visibili. Chi aiutare, come, quanto o cosa dare loro? Difficile scegliere. Molto più comodo sarebbe se a questi nostri concittadini provvedessero le istituzioni, togliendoci così dall’imbarazzo. Si potrebbe fare un’offerta o devolvere parte delle tasse, una volta per tutte. Vero: vero però anche che questo sistema di delega ci renderebbe più cinici, più duri, più indifferenti, nella presunzione che 'a far la carità' ci pensa già qualcun altro: alla chiusura del borsellini seguirebbe ben presto anche quella della mente e del cuore. No, non ci farebbe bene. La storia ce lo insegna. Il primo passo per negare un problema è nasconderlo. Ci sono stati (e ci sono ancora) regimi in cui semplicemente essere zingari, ebrei od omosessuali era un problema. Non dimentichiamoci di come è finita, perché il meccanismo mentale potrebbe ripetersi. Adesso tocca ai poveri? Non illudiamoci di poter espungere tutta la sofferenza dal nostro orizzonte quotidiano, non è possibile e non ci renderebbe nemmeno più felici. (Marina Del Fabbro - presidente Sezione Uciim di Trieste / Associazione professionale cattolica di insegnanti, dirigenti e formatori) Risponde Marina Corradi: Mi è capitato qualche volta di passare per il centro di Milano attorno alle nove di sera, quando anche gli ultimi grandi magazzini stanno chiudendo. A quell’ora sotto i portici di Vittorio Emanuele e nelle gallerie limitrofe si assiste all’insediamento dei clochard: soli, o a gruppi, o con un loro inseparabile cane, si sistemano per la notte. Sono probabilmente quelli che non accettano alcun tetto sulla testa, nemmeno quello di un ostello, per una notte. E mi viene in mente uno psicologo che studiava il comportamento di queste persone, che mi spiegò come per alcuni di loro il ricordo della vita in una casa sia così intollerabile, che non accettano più mura intorno a sé. I clochard di Vittorio Emanuele arrivano con sacchi a pelo e cartoni, si piazzano davanti alle vetrine scintillanti. In queste notti rigide ti domandi come facciano ad arrivare al mattino. So che ci sono volontari che passano con bevande calde, e coperte.

Milano è ancora una città umana con questa gente. Ce ne sono altre dove si mettono sbarre di ferro sulle panchine, perché i barboni non si possano sdraiare, o si progetta di cacciarli. Perché ha ragione la signora Del Fabbro: c’è sempre dentro di noi un desiderio di 'non' vedere queste persone. Di non dover vedere quanto la malattia, l’alcol, la solitudine possano, e fino a che punto, devastare un uomo. Bisogna essere davvero molto distratti per non essere anche fuggevolmente feriti e interrogati da questa miseria, quando la incroci. C’è però chi questa domanda la rimuove, infastidito. Non vorrebbe vedere. Che li chiudano in ostelli, i clochard, che li nascondano, ma che non si mostrino a noi, cittadini 'normali'. È un non voler vedere che riecheggia quello di chi vorrebbe togliere le prostitute dalle strade per spostarle in 'case chiuse', riempiendole di prostitute ragazzine 'importate' dall’Africa per il nostro 'mercato'. C’è chi non vorrebbe vedere niente di quello che è sporco, penoso, miserabile. Ma se i nostri occhi potessero arrivare alle periferie delle grandi città del Terzo mondo, quanti di questi poveri incontreremmo, realtà ineludibile e tragica di quelle latitudini. Tanti miserabili, che sarebbe impossibile nasconderli. Forse da noi, dove sono relativamente ancora pochi, stonano con le nostre belle vie, i negozi costosi, i vestiti eleganti? Quell’ansia di renderli non visibili per 'decoro' mi fa pensare a una censura perbenista, e a un volere ignorare fino a che punto può arrivare il lato oscuro degli uomini. Forse perché temiamo troppo quell’angolo di oscurità, che è nel fondo di ciascuno di noi. Pag 5 “Aiuto al suicidio”, deciderà la Consulta di Nello Scavo e Marcello Palmieri Per il Tribunale di Milano Cappato non va condannato: “Norme illegittime”. La costituzionalista Violini: “Può essere disponibile un bene economico. La vita no” Né assoluzione né condanna per Marco Cappato, accusato di avere aiutato Fabiano Antoniani, alias Dj Fabo, a raggiungere la Svizzera per fare ricorso al suicidio assistito. La prima Corte d’Assise di Milano ha scelto la terza via, sospendendo il giudizio e rinviando alla Corte costituzionale la responsabilità di stabilire la legittimità dell’articolo 580 del codice penale, che disciplina il reato di aiuto e istigazione al suicidio e prevede una pena tra i 6 e i 12 anni di carcere. I trionfalismi del dopo sentenza, però, dovranno fare i conti con la disciplina del Diritto esercitata dalla suprema Corte. Il tribunale milanese (presidente Ilio Mannucci Pacini, a latere Ilaria Simi De Burgis e sei giudici popolari), ha ritenuto di «sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 580» del codice penale, «nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio», ossia quella contestata proprio a Marco Cappato, «a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito suicidiario». Il dispositivo del tribunale sembra però voler bisbigliare una soluzione ai giudici costituzionali, che però non sono chiamati a un ruolo di notai. All’individuo, si legge nell’ordinanza, va «riconosciuta la libertà» di decidere «come e quando morire» in forza di principi costituzionali. Per i giudici, in sostanza, Marco Cappato non ha rafforzato il proposito suicidiario e la parte della norma che punisce l’agevolazione al suicidio senza influenza sulla volontà dell’altra persona è costituzionalmente illegittima: «La condotta di Marco Cappato non ha inciso sulla decisione di Antoniani di mettere fine alla sua vita e quindi va assolto dall’accusa di aver rafforzato il suo proposito suicidiario». Rafforzamento al suicidio che, secondo la Corte, a differenza di quanto aveva stabilito il gip disponendo l’imputazione coatta per Cappato, non c’è stato da parte dell’esponente radicale perché Fabiano Antoniani, e su questo il dibattimento non ha mostrato titubanze, ha «deciso in piena autonomia di porre termine alla sue sofferenze». Per orientarsi dentro al caso giudiziario bisognerebbe avere dimestichezza con la Storia del Dirittto, l’ingegneria giudiziaria e la tecnica processuale. Perché il caso di dj Fabo ha messo a nudo una delle tante vulnerabilità del nostro ordinamento, laddove le 'interpretazioni' della legge rischiano di contare più della legge stessa. Tanto più, come in questo caso, che la norma risale agli anni ’30 del secolo scorso. Fu Antoniani, stando a perizie e immagini, ad attivare con un movimento della mandibola il macchinario che gli somministrò il farmaco letale. Perciò, come avevano sottolineato i pm milanesi nella requisitoria del 17 gennaio scorso, «nella fase esecutiva del suicidio, Cappato non ha svolto nessun ruolo». A questo punto la faccenda per la Corte Costituzionale diventerà, oltre che etica, molto tecnica. Il reato di agevolazione al suicidio, previsto dall’articolo 580 del Codice penale, «deve riguardare il momento esecutivo del suicidio», quando cioè Marco Cappato era già uscito dalla stanza di

Antoniani, dove invece si trovavano la madre e la fidanzata, che non sono indagate. Impostazione che Cappato stesso più volte aveva rigettato perché avrebbe voluto vedere riconosciuta la sa sua partecipazione a esercitare la «libertà di scelta» e non, come sostenuto dalla Procura, perché non ebbe ruolo attivo nel suicidio assistito di Antoniani. Erano due le contestazioni a Cappato, entrambe comprese nella complessa ipotesi di reato di «aiuto al suicidio». Per una, quella di avere «rafforzato il proposito suicidiario» di Fabiano, secondo i giudici va assolto «perché non indirizzò o condizionò la sua decisione di togliersi la vita in Svizzera attraverso le modalità consentite in quello Stato, ma al contrario gli prospettò la possibilità di farlo in Italia, interrompendo le terapie che lo tenevano in vita». Non ci sono dubbi invece che l’esponente radicale abbia agevolato Dj Fabo «avendolo aiutato a recarsi in Svizzera presso la Dignitas». Ma qui entra in gioco quella che per i giudici è l’incostituzionalità della norma «nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito del suicidio». «Aiutare Fabo a morire – ha detto Cappato – era un mio dovere, la Corte costituzionale stabilirà se questo era anche un suo diritto oltre che un mio diritto». L’invio degli atti a Roma, per la fidanzata di Fabiano, Valeria, «è una vittoria non solo per Fabo, ma per tutti», ed era anche una delle richieste del pm Sara Arduini e del procuratore aggiunto Tiziana Sicilano, che ha parlato di un’ordinanza «di straordinaria completezza e impeccabile». Per la Corte «la sanzione indiscriminata di tutte le condotte di aiuto al suicidio», prevista dall’articolo 580 del codice penale che punisce contrasta anche con Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. E se anche la Cassazione sul caso di Eluana Englaro aveva dei passaggi contrari, per i giudici, «ai principi di libertà e autodeterminazione », nemmeno la mancata regolamentazione del «suicidio assistito» nella recente legge sul testamento biologico può «portare a negare la sussistenza della libertà della persona di scegliere quando e come porre termine alla propria esistenza». «La vita è un diritto fondamentale della persona, radice stessa dei diritti fondamentali tutelati dall’articolo 2 della Costituzione». Durante il Governo Letta, Lorenza Violini fece parte dei 35 'saggi' chiamati a orientare le riforme. Ora, da professore ordinario, prosegue la sua docenza di Diritto costituzionale alla Statale di Milano. La vita resta dunque un bene indisponibile per il nostro ordinamento? Sotto il profilo fattuale, l’uomo ne ha la disponibilità e per questo può compiere anche scelte tragiche verso sé e la sua vita. Dal punto di vista giuridico, invece, il discorso è molto diverso: l’uomo può 'disporre' di alcuni beni ove questi abbiano valore economico. Essi e solo essi possono diventare oggetto di contratto in quanto economici. Per la vita, che non ha valore economico, le cose sono almeno parzialmente diverse. In che modo? Pensiamo alla schiavitù e alla vendita della prole, ma anche alla disponibilità di alcuni organi del nostro corpo: le prime due sono vietate, l’ultima è soggetta a importantissime restrizioni ed è subordinata alla non compromissione permanente della propria salute. Quindi parlare di disponibilità del bene-vita comporta un’importante rivoluzione sul piano dei fondamenti stessi dell’ordinamento. Ordinamento che per sua natura evolve nel tempo, ma che dinanzi a cambiamenti così radicali richiede che si agisca con molta prudenza, soprattutto per via delle conseguenze 'seconde' che verrebbero a esistere. L’ordinanza milanese di rimessione alla Corte costituzionale include tra le libertà fondamentali anche quella relativa a 'come e quando morire'... È il principio dell’autodeterminazione: molto importante e quasi ovvio in una Costituzione liberale e democratica, ma non per questo si può sostenere che sia esente da limiti. Un valore giuridico, un principio costituzionale, per quanto importanti, non possono essere pensati e regolamentati senza che siano limitati e limitabili. Un principio non limitato è un principio che diventa tiranno: per questo si è parlato di 'tirannia dei valori' o di diritti insaziabili. Se insieme al diritto non si concepisce e indentifica il suo limite si toglie alla legge la possibilità di regolamentare la vita civile e sociale. Come fare dunque a limitare l’autodeterminazione? Anzitutto definendola, come tutti i princìpi costituzionali. Diversamente, e anche questa è un’evidenza di carattere generale, non si riescono a dare regole alla società. I giudici milanesi ritengono che l’articolo 580 del Codice penale vìoli diversi principi costituzionali, inclusi alcuni alcuni che c’entrano poco...

È una tecnica argomentativa abbastanza frequente: quando una parte processuale sostiene l’illegittimità costituzionale di una norma, e i giudici le danno ragione, questi ultimi nell’ordinanza di rimessione alla Consulta ampliano molto i sospettati motivi d’incostituzionalità, così da presentare alla Corte uno spettro di valutazioni il più ampio possibile. Se una persona giunge a propositi suicidari si può dire che il contesto in cui vive non è stato in grado di assicurarle la tutela di valori costituzionali? Direi proprio di sì. Quello che viene in evidenza è il valore della solidarietà, qui declinato come necessità che il contesto sociale da cui la persona è circondata faccia tutto il possibile per scoraggiare questa forma ultima di annientamento di sé. Quali sono le forme concrete in cui può esprimersi questa solidarietà? Gli stadi sono diversi, l’ultimo è quello dell’approccio alla sofferenza. Penso alle cure palliative, non solo legittime ma anche doverose, che accompagnano la persona alla morte alleviandone le sofferenze. Definire invece l’aiuto al suicidio come una forma di solidarietà è problematico, perché qui la solidarietà cambia segno: non si tradurrebbe più di un principio volto alla conservazione dell’umano e alla sua valorizzazione ma finalizzato al suo annientamento. IL FOGLIO Pag 3 La pericolosa sentenza sul caso Cappato Il sistema giudiziario si mette al servizio di una battaglia politica. Di nuovo Il processo a Marco Cappato per aver aiutato il suicidio di Dj Fabo è stato un processo anomalo: era iniziato con un'autodenuncia dell'esponente radicale. Dopo un primitivo rifiuto a incriminarlo, era iniziato il 6 novembre scorso. Nel corso del dibattimento sono stati molti i momenti propagandistici, a cominciare dalla proiezione di un'intervista rilasciata dal suicida. C'è stata una sostanziale complicità tra accusa e difesa, nel comune intento di sostenere non solo la liceità del comportamento specifico di Cappato, ma l'incongruenza della legislazione che vieta l'eutanasia. Insomma, Cappato ha usato il procedimento giudiziario per sostenere una tesi politica, con il concorso dell'accusa, il che rende piuttosto ambigua tutta la vicenda giudiziaria. Alla fine, invece dell'assoluzione ampiamente prevista, la titolare dell'accusa Tiziana Siciliano ha chiesto alla Corte di appellarsi alla Consulta perché definisca incostituzionale la legge che considera un reato l'aiuto al suicidio. Il tribunale ha accettato la richiesta e alla fine c'è stata una stretta di mano, largamente diffusa dai media tra accusato e pubblico ministero. Da una parte ammiriamo l'abilità con cui Cappato è riuscito a usare il sistema giudiziario per ottenere il suo scopo di fare propaganda all'eutanasia, dall'altra, però, si deve constatare che anche per questa via si tende ad attribuire obliquamente alla magistratura la funzione legislativa. In passato si sosteneva che questa "supplenza" era resa necessaria dall' incapacità della politica di affrontare il problema. Ora, dopo che è stata approvata una legge sul fine vita, anche questa - peraltro discutibile giustificazione dell' invasione di campo - è caduta. A Cappato non bastano le forme di eutanasia, attiva e passiva, indirettamente introdotte dalla nuova normativa. Vuole che l'eutanasia diventi un diritto: naturalmente ha diritto a svolgere la sua battaglia, ma non si capisce perché il sistema giudiziario debba mettersi al servizio di una battaglia politica di parte. L'idea che sia la Consulta e non il Parlamento la sede della decisione legislativa è pericolosa oltre che lesiva dell'equilibrio tra i poteri dello stato, il che rende assai discutibile l'andamento e l'esito del processo appena concluso. IL GAZZETTINO Pag 1 Il dovere di spiegare di Ario Gervasutti C'è un elemento, nella tempesta che si è abbattuta sul Movimento 5 stelle, persino più grave delle pur discutibili creste sui compensi di qualche parlamentare. E riguarda non un eletto qualsiasi, ma colui che fino all'altro ieri era uno degli adepti più vicini alla coppia Grillo-Casaleggio: l'europarlamentare e primo consigliere comunale grillino d'Italia, il trevigiano David Borrelli. Non è uno dei tanti, e la sua uscita dal Movimento equivale a un terremoto; è come se una Boschi annunciasse l'abbandono del Pd. Non è qui in discussione il diritto di cambiare idea o partito. Ma non è consentito, ed è appunto

grave, farlo prima adducendo risibili motivi di salute, poi minacciando querele a chi parla di lui, infine scrivendo una vuota nota in cui accenna al tempo di cambiare e alla volontà di fare un nuovo movimento: il tutto, senza degnarsi di rispondere alle mille domande alle quali - questo è il punto - ha il dovere di sottoporsi. Perché Borrelli non è il titolare di un'azienda privata: è un rappresentante del popolo. I grillini (o ex) saranno anche abituati così: ma i comunicati e le veline sono strumenti da regime, non da democrazia. Se non può o non vuole rispondere delle sue azioni non deve cambiare partito, ma mestiere. Pag 1 Vita e morte, la libertà (e i limiti) di decidere di Cesare Mirabelli Il caso Cappato La Corte d'assise di Milano ha aperto a tutto campo le questioni giuridiche poste dalla pratica del suicidio assistito, chiedendo che su di esse si pronunci la Corte costituzionale. Il punto di partenza è l'applicazione dell'art. 580 del codice penale, che considera reato la istigazione o aiuto al suicidio, e prevede la reclusione da cinque a dodici anni per chiunque determina altri al suicidio o ne rafforza il proposito, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione. L'oggetto del giudizio riguardava quest'ultimo aspetto, non la istigazione ma l'agevolazione addebitata a Marco Cappato nel caso della morte di dj Fabo, da lui condotto in Svizzera. La Corte d'assise di Milano non segue una interpretazione restrittiva della norma penale, di recente adottata da altri giudici di merito per escluderne l'impatto su comportamenti di agevolazione ritenuti ininfluenti sulla volontà e sulla attività suicida. Pur non condividendola, preferisce attestarsi sulla più rigorosa giurisprudenza della Cassazione, che considera punibile qualsiasi forma di aiuto o agevolazione in qualsiasi modo realizzato, per sottoporre la norma penale al giudizio della Corte costituzionale, con una motivazione che l'ordinanza letta in udienza sviluppa nei termini più ampi. Esiste e trova espressione costituzionale il diritto dell'individuo di determinarsi come e quando porre fine alla propria esistenza ? Se si afferma questo diritto, agevolarne la esecuzione non potrebbe essere sanzionato, se non si incide sul percorso di formazione della volontà e deliberativo, mentre resterebbe punibile la istigazione. Nella prospettiva dell'ordinanza, la libertà di decidere della propria vita sarebbe assoluta e si manifesterebbe in ogni aspetto . Non solo, quindi, il diritto di non curarsi, di rifiutare trattamenti sanitari e di interrompere le terapie. Questo è già garantito e trova espressione nella recente legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento. Di fronte alla rinuncia o al rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza, il medico prospetta al paziente le conseguenze di questa sua decisione e promuove ogni azione di sostegno, ma ne rispetta la volontà. In caso di prognosi infausta a breve termine può ricorrere alla sedazione palliativa profonda associata alla terapia del dolore, ma secondo la legge attuale, non può provocare direttamente la morte, che sopravviene naturalmente. L'ordinanza della Corte d'assise ritiene che si debba andare oltre, con il diritto a decidere della propria morte, come atto di libertà individuale sganciato da qualsiasi condizione. Pur proponendo la questione in termini così ampi ed assoluti, l'ordinanza sembra voler suscitare l'intervento del legislatore per proteggere le persone vulnerabili, assicurare la libera formazione della volontà, richiedere una indagine rigorosa dello stato mentale, oltre ad offrire informazioni e alternative destinate tuttavia a non sovrapporsi alla volontà della persona. Si può dubitare della idoneità delle disposizioni costituzionali e della convenzione europea sui diritti dell'uomo, richiamate dall'ordinanza, a sostenere la costruzione offerta dall'ampia motivazione: diritto alla vita, libertà personale, diritto al rispetto della vita privata. Su questo non mancherà un dibattito che consenta l'approfondimento che richiede una questione così delicata, e consente la preparazione della discussione che si annuncia dinanzi alla Corte costituzionale. Nelle sue conclusioni l'ordinanza si limita a due richieste di minore portata. La prima è che la illegittimità costituzionale dell'art. 580 del codice penale riguardi le condotte di aiuto al suicidio a prescindere dal loro contributo al rafforzamento o al proposito suicida, e si pone così una questione che il giudice avrebbe potuto risolvere con una propria interpretazione. La seconda è che la pena della reclusione è prevista nella stessa misura per comportamenti di diversa gravità, quali la istigazione al suicidio e le condotte di agevolazione al suicidio,

le quali non incidano sul percorso deliberativo dell'aspirante al suicidio. È evidente che si lasciano larghi spazi per soluzioni nelle quali può prevalere una ragionevole misura. Pag 6 Quel divieto di aiutare a uccidersi. I giuristi: è una legge da cambiare di Gigi Di Fiore Con i naturali distinguo e le differenti interpretazioni, tutti giudicano positivo che la parola finale passi alla risolutiva interpretazione della Corte costituzionale. L'articolo 580 del codice penale che disciplina l'istigazione al suicidio, il valore della vita, il rapporto tra la percezione etica di quel valore e la sua evoluzione storica nelle riflessioni dei giuristi dopo la decisione della Corte d'Assise d'appello di Milano sul processo a Marco Cappato nella vicenda di Dj Fabi. «Nella storia l'idea culturale del suicidio ha subito diverse interpretazioni nel tempo - dice il professore Francesco Paolo Casavola - In epoca precristiana, veniva giustificato per motivi di onore, per la confessione di un misfatto, per un comandante militare che sceglie di uccidersi invece di arrendersi al nemico. Poi, il cristianesimo ha legato la sua etica religiosa anche all'integrità del corpo donato da Dio. In questo caso, però, si discute esclusivamente su chi aiuta qualcuno a mettere in atto la sua decisione di porre fine alla propria vita». Ed è questo l'argomento giuridico di fondo, sintesi dell'ordinanza dei giudici milanesi. Il suicida, per ovvi motivi, non può essere punito e il suicidio in sé quindi non è reato. Ma non lo è neanche il tentato suicidio. Così, spiega il professore Antonio Vallini che a questi temi ha dedicato un suo lavoro: «Il suicidio, che non crea offesa ad altri, viene considerato un atto lecito. Sul terzo che lo agevola o lo rende possibile si è più volte espressa anche la Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedu). Il punto nodale resta la tutela di chi è fragile psicologicamente cercando il suicidio in condizioni depressive e viene aiutato a farlo. Ma se c'è piena consapevolezza nel suicidio e viene deciso in altre situazioni, estreme, dov'è la vittima del reato?». IL DIRITTO ALLA SALUTE - Un tema di cui si occupano da prospettive diverse sia il codice civile sia il codice penale. Il rapporto con quanto prevede la Costituzione riguarda essenzialmente il diritto alla salute e l'eguaglianza dei cittadini. Sostiene il professore Michele Ainis: «Premesso che stiamo parlando di una buona notizia perché finalmente, di questo tema si occupa la Consulta sciogliendo temi rimasti troppo a lungo sospesi, credo che sia opportuno rivedere una norma che nasce in un codice varato in epoca fascista con forte impronta derivante dal cattolicesimo». Per il professore Ainis, il paradosso delle norme attuali è che «se stai bene, ti puoi uccidere; se invece hai situazioni fisiche e di salute in cui vuoi farlo ma hai bisogno che qualcuno ti aiuti diventa reato». Etica, diritto e storia. Un approccio multidisciplinare che, ragionando su suicidio ed eutanasia, è più che mai indispensabile. Lo argomenta il professore Casavola: «Le convinzioni e le sensibilità su questi temi sono sempre storicamente determinate. Variano con i mutamenti storico-sociali, che provocano cambiamenti anche nelle soglie etiche su più fenomeni. Va considerato che chi si suicida rifiuta il legame sociale che è proprio dell'essere umano, considerandosene già estraneo. Il caso in questione ne è espressione. E allora è più che giusto che, ad attualizzare costituzionalmente questi temi, intervenga la Consulta». Un altro tema su cui la Corte costituzionale viene chiamata a decidere per dare vita al diritto che è, per definizione, sempre influenzato dai mutamenti sociali e dalle ideologie e convinzioni in continuo divenire. E accaduto anche in altri Paesi europei. In Svizzera, Belgio e Olanda il suicidio assistito è consentito. Spiega il professore Vallini: «La Corte europea ha affrontato molti casi nati in Inghilterra, dove invece esiste un divieto simile al nostro. L'aspetto singolare è che la Cedu, pur riconoscendo il suicidio come una forma di libertà, non ha mai condannato gli Stati che, come l'Inghilterra, hanno normative molto rigorose su questo tema. La Corte costituzionale credo debba affrontare la questione dell'equilibrio tra una libertà e la scelta di essere aiutati a soddisfarla, con la necessità di impedire abusi da parte di chi è fragile psicologicamente». Un tema impegnativo, perché se il codice civile (estraneo al quesito che arriva alla Consulta) affronta la questione dell'integrità fisica, la decisione estrema di togliersi la vita trova spazio nel codice penale solo per l'aiuto fornito da un terzo al suicida. Dice ancora il professore Casavola: «È evidente che siamo di fronte ad un superamento di fatto dell'etica cristiana. Il tema giuridico, ormai, si muove partendo da un'etica diversa di pura razionalità laica».

LA NUOVA Pag 1 Farà perdere consenso? Non è detto di Roberto Weber Procede con una lentezza esasperante questa campagna elettorale, da cui - per la prima volta nei miei ricordi - sono banditi i banchetti, i "santini"nelle cassette della posta, i volti dei candidati sui manifesti, i comizi, i porta a porta, addirittura i simboli dei partiti, insomma la cangiante carovana di simboli e volti, amori ed odi, che ci ha accompagnato da quando eravamo bambini. Tutto ciò è effetto e conseguenza anche della cancellazione del finanziamento pubblico ai partiti, cui le donazioni private non sembrano portare rimedio, né sembra portar rimedio il denaro che dovrebbe uscire dalle tasche dei candidati. L'esito è un clima da "Terra desolata" o se si vuole, da pre-regime, che lascia gli elettori in una solitudine profonda. Un clima su cui, del resto, grava la precarietà dei leader in campo: uno "nominato"(Di Maio), uno azzoppato (lo scarto fra Renzi e Gentiloni a seconda delle misurazioni va da 10 a 15 punti a favore del secondo), uno improvvisato (Grasso), uno, infine, (Berlusconi) segnato dall'età e dall'implacabile dipanarsi della Giustizia. Come se non bastasse, su tutto ciò pesano le scarse identità programmatiche. Sappiamo - accurate indagini giornalistiche ce lo confermano - che tutti offrono misure non sostenibili sotto il profilo dei costi; sappiamo anche che - aldilà dei toni e delle accentuazioni - molte di queste misure hanno lo stesso sapore: meno tasse, redditi vari di supporto o sussistenza, promesse d'ordine e rigore, sostanziale chiusura all'immigrazione, una generale rancorosità verso l'Unione Europea che tuttavia non sfocia in una proposta di uscire dalla Ue. In queste condizioni prevalgono i movimenti inerziali figli del peso del passato e nemici del futuro e con essi parte degli antichi equilibri che l'Italia ha lungamente conosciuto: un peso tradizionalmente superiore del centro-destra (moderato o scapigliato), un centro-sinistra e una sinistra divisi e comunque non maggioritari, l'M5S che cresce ancora, ma non di tantissimo, rispetto al 2013. Non dobbiamo stupirci quindi se, in uno scenario di questo tipo, quelli che nel gioco del calcio, o spesso nella vita, definiamo "episodi", diventino importanti: dove tutto è fermo, anche un minimo svarione, un errore, una distrazione sono significativi. Ecco perché la battuta infelice di Renzi su Di Maio e l'M5S accostati a Craxi e ai "mariuoli"potrebbe costargli il voto dei socialisti di sinistra. Quanti? Duecentomila o trecentomila.... sufficienti per fargli perdere tra mezzo punto e un punto. Oppure ecco perché la partita dei "rimborsi" dei deputati in Europa del Movimento 5 Stelle potrebbe rivelarsi erosiva. L'M5S in questa fase parrebbe ancora al riparo: la grande generalità dei sui elettori vota "a prescindere", vota perché vuole punire, vota per far male agli "altri", si tratti del centro-destra o della pattuglia renziana, vota perché nel paese scatti un ricambio; poi si vedrà. Ci sono tratti fideistici in tutto questo, ma c'è un malessere emotivo profondo, che non andrebbe né offeso né sottovalutato. Credo che questa parte sia vastamente impermeabile e che ancora tolleri il vulnus inflitto al principio fondativo della "diversità dagli altri" riassumibile nello slogan "onestà onestà". C'è invece una parte di opinione, probabilmente minoritaria, che definisce il proprio orientamento in funzione della coerenza annunciata e successivamente praticata. Per questi elettori piuttosto esigenti, di impianto laico, siano essi potenziali o effettivi, il fastidio può diventare reale e costare un numero di voti magari decisivi in molti dei collegi ancora in gioco (non meno di 80). Non dimentichiamo però che l'Italia e le sue varie e divisissime platee elettorali ne hanno viste di tutti i colori in questi anni e molto spesso hanno reagito in modo inatteso. Complici i media - largamente quelli televisivi - è spesso accaduto che il potenziale colpevole fosse trasformato in vittima agli occhi degli elettori e che alla fine se ne uscisse intoccato. Potrebbe ripetersi. Ma chi può del resto scagliare la prima pietra? In fondo noi italiani, siamo brava gente e profondamente compassionevoli. Pag 1 Voto segreto, fondamento di democrazia di Mario Bertolissi Nel commentare l'articolo 1 della Costituzione - il cui comma 2 stabilisce che "La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione", - Costantino Mortati ha chiarito che "L'esercizio della sovranità è affidato al corpo elettorale". Ciò significa che il diritto di voto rappresenta il cuore della democrazia. Se non è trasparente, è la democrazia a rimetterci, sotto questo essenziale profilo. Dunque,

l'enunciato cardine del sistema è l'articolo 48 della Legge fondamentale, il cui comma 1 stabilisce chi sono gli elettori, mentre il comma 2 afferma che "Il voto è personale ed eguale, libero e segreto". Queste caratteristiche rendono palese quel che ha inteso disporre il Costituente: si deve evitare, con un rigore assoluto, che la scelta dell'elettore possa essere sviata, inquinata, divergere rispetto alla propria volontà. Con il voto, il cittadino concorre alla scelta di un indirizzo politico, che durerà quanto una legislatura. E lo fa attraverso una opzione che è, innanzi tutto, una assunzione di responsabilità. Se si leggono gli ulteriori due commi dell'articolo 48, ci si accorge che, tranne il secondo, gli altri potrebbero far parte pure di un ordinamento autoritario, nell'ambito del quale il voto può essere, al limite, la risultante di una coazione. D'altra parte, è del tutto plausibile, dal momento chiunque è in grado di comprendere che una espressione di voto è libera, se non vi è condizionamento: in una prospettiva non astratta, ma concreta, a motivo delle garanzie stabilite dalla legge. La garanzia principale è quella della segretezza. Chi ha votato si è reso conto di quante cautele sono state apprestate: prima, durante e dopo. Tra l'altro, bisogna deporre il telefonino, perché all'elettore è vietato riprendersi, mentre vota, e divulgare la propria scelta. In questo caso, il voto è nullo. Eppure, parrebbe scontato il contrario, se non fosse che chi vota non può disporre del suo diritto come a lui aggrada: non può trasformarlo, da segreto, in palese. A ulteriore conferma del fatto che la segretezza è un valore non derogabile: è un valore assoluto. Più che rappresentare l'esito di raffinate teorie - che corrono il rischio di trasformarsi in elucubrazioni -, questo dato dell'esperienza ha dalla sua la grande regola del buon senso. Infatti, è segreto un "fatto o informazione...che non deve essere divulgata". Insomma, perché qualcosa di segreto rimanga tale, non deve avvenire quel che racconta Alessandro Manzoni, a proposito dell'amicizia: "Quando dunque un amico si procura quella consolazione di deporre un segreto nel seno d'un altro, dà a costui la voglia di procurarsi la stessa consolazione anche lui". Il segreto evapora e diviene una notizia che corre di bocca in bocca. È quel che è accaduto e potrà accadere un'infinità di volte per il cittadino italiano che risiede all'estero, al quale è consentito di votare per corrispondenza. Ma la legge n. 459/2001 ha scelto modalità, che non assicurano affatto la segretezza, come hanno dimostrato, purtroppo, vicende, di cui ha dovuto occuparsi il giudice penale. Del resto, del pericolo di brogli si parla anche quando il voto è espresso - come si dice - "in luogo presidiato": allestito ad hoc, alla presenza di un pubblico ufficiale, in una cabina... Ma quale certezza vi può essere se il voto è contenuto in una scheda, inserita in una semplice "busta affrancata"? Prima che le cronache rendessero note deprecabili nefandezze, si poteva sostenere che il valore da tutelare era quello della massima estensione del suffragio. Ma un suffragio inquinato corrompe la democrazia, delegittimandola. È per questo che un giudice coraggioso del Tribunale di Venezia - Silvia Barison - ha redatto una bella ordinanza, con cui ha investito del problema la Corte costituzionale. Quest'ultima, con una rapidità senza precedenti, ha fissato, per il 21 febbraio l'udienza pubblica di discussione. Ed è verosimile che il medesimo giorno si conosca il verdetto, che potrà incidere sulle consultazioni del 4 marzo. Quale sarà, ovviamente, è ignoto. È noto, però, che questa vicenda civilissima ha un promotore: è il consigliere regionale Antonio Guadagnini. A conferma di una evidenza non secondaria: in Veneto non si trascurano le istituzioni e il loro avvenire. Torna al sommario