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RASSEGNA STAMPA di giovedì 21 aprile 2016 SOMMARIO “Milano, aprile – Alle cinque di sera nella grande casa di riposo, sedute su delle panchine lungo il corridoio, le ricoverate attendono che si faccia l’ora di cena. Sull’orologio a muro la lancetta avanza con estenuante lentezza. Che silenzio: i rumori da fuori in questi antichi locali arrivano ovattati. Dalle cucine, un vago odore di minestra di verdure si mescola a quello del detersivo dei pavimenti, accuratamente puliti. La signora cui passo accanto mi ferma gentilmente, con un cenno della mano. Ha i capelli candidi ben curati, e sul viso le tracce, sotto gli oltre ottant’anni, di una antica bellezza. È ben vestita, di un’eleganza di altri tempi, e i suoi occhi azzurri sono chiari come il cielo dell’alba. «Scusi, signora – mi chiede gentilmente – lei sa quando verrà il mio papà, a prendermi?». È così serena l’espressione della donna: come di una bambina che sia certa che suo padre non mancherà, davanti a scuola, quando suonerà la campana dell’ultima ora. Interdetta, io non so cosa rispondere. Non voglio spezzare il sogno della sconosciuta. Dico allora: «Verrà certamente suo padre, signora, forse è soltanto un po’ in ritardo». Istintivamente allungo lo sguardo verso il fondo dell’ampio corridoio, quasi credessi anche io che quel padre possa arrivare. Sciocca, mi dico, quell’uomo, se fosse vivo, avrebbe 120 anni. Poi, non so esattamente perché, ma mi siedo accanto alla donna. Mi dice di chiamarsi Giuseppina. Quanti anni ha, ora non lo ricorda: fa un gesto vago con la mano, come se la cosa non fosse poi così importante. Faceva la sarta, mi dice, a brevi frasi interrotte e più volte ripetute: «Vestivo le signore eleganti di Milano, sa». A tratti è qui, presente, a momenti altrove, persa in un indefinito orizzonte. Forse è la tenerezza di Dio, mi dico, in così tarda età a velare come di nebbia lo sguardo: così come si dice ai bambini di chiudere gli occhi, di fronte a qualcosa che può fare loro paura. Le lancette dell’orologio a muro paiono sempre più lente, come se il tempo, fiume impigrito in una lanca, qui si stesse fermando. Vedo che la signora sorveglia il fondo del corridoio, ora di nuovo attenta. «Quando verrà il mio papà a prendermi?», ripete, quieta, ostinata, con i suoi occhi chiari da bambina. Verrà, vorrei dirle, verrà suo padre, signora. Lui, infine, arriva sempre. Siamo tutti così autonomi e padroni di noi, ma poi negli ultimissimi anni, anche se tutto attorno svanisce come in una nebbia, resta, tenace, un pensiero: qualcuno ci verrà a prendere. È scritto, in qualche luogo, che un Padre debba venire: benigno, pietoso, a prenderci per mano, e a riportarci, infine, a casa” (Marina Corradi - Avvenire) (a.p.) 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XVII Dieci giorni di festa per la sagra dei Santi Marco e Pietro Da domani a Trivignano Pag XVIII Chirignago. Al via la festa di San Giorgio LA NUOVA Pag 27 Torna la sagra di San Marco e San Pietro di s.b. Pag 27 Oggi alla Sala Lux si parla di bollette dell’energia e del gas di m.a. 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Dalla parte della donna che piange All’udienza generale Francesco parla delle lacrime della peccatrice che ottengono il perdono

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 21 aprile 2016

SOMMARIO

“Milano, aprile – Alle cinque di sera nella grande casa di riposo, sedute su delle panchine lungo il corridoio, le ricoverate attendono che si faccia l’ora di cena. Sull’orologio a muro la lancetta avanza con estenuante lentezza. Che silenzio: i

rumori da fuori in questi antichi locali arrivano ovattati. Dalle cucine, un vago odore di minestra di verdure si mescola a quello del detersivo dei pavimenti, accuratamente puliti. La signora cui passo accanto mi ferma gentilmente, con un cenno della mano. Ha i capelli candidi ben curati, e sul viso le tracce, sotto gli oltre ottant’anni, di una antica bellezza. È ben vestita, di un’eleganza di altri tempi, e i suoi occhi azzurri sono chiari come il cielo dell’alba. «Scusi, signora – mi chiede gentilmente – lei sa quando verrà il mio papà, a prendermi?». È così serena l’espressione della donna: come di una bambina che sia certa che suo padre non mancherà, davanti a scuola, quando suonerà la campana dell’ultima ora. Interdetta, io non so cosa rispondere. Non voglio spezzare il sogno della sconosciuta. Dico allora: «Verrà certamente suo padre, signora, forse è soltanto un po’ in ritardo». Istintivamente allungo lo sguardo verso il fondo dell’ampio corridoio, quasi credessi anche io che quel padre possa arrivare. Sciocca, mi dico, quell’uomo, se fosse vivo, avrebbe 120 anni. Poi, non so esattamente perché, ma mi siedo accanto alla donna. Mi dice di chiamarsi Giuseppina. Quanti anni ha, ora non lo ricorda: fa un gesto vago con la mano, come se la cosa non fosse poi così importante. Faceva la sarta, mi dice, a brevi frasi interrotte e più volte ripetute: «Vestivo le

signore eleganti di Milano, sa». A tratti è qui, presente, a momenti altrove, persa in un indefinito orizzonte. Forse è la tenerezza di Dio, mi dico, in così tarda età a velare come di nebbia lo sguardo: così come si dice ai bambini di chiudere gli occhi, di fronte a qualcosa che può fare loro paura. Le lancette dell’orologio a muro paiono sempre più lente, come se il tempo, fiume impigrito in una lanca, qui si stesse fermando. Vedo che la signora sorveglia il fondo del corridoio, ora di nuovo attenta. «Quando verrà il mio papà a prendermi?», ripete, quieta, ostinata, con i suoi occhi chiari da bambina. Verrà, vorrei dirle, verrà suo padre, signora. Lui, infine, arriva sempre. Siamo tutti così autonomi e padroni di noi, ma poi negli ultimissimi anni, anche se tutto attorno svanisce come in una nebbia, resta, tenace, un pensiero: qualcuno ci verrà a prendere. È scritto, in qualche luogo, che un Padre debba venire: benigno, pietoso, a prenderci per mano, e a riportarci, infine, a casa” (Marina Corradi -

Avvenire) (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XVII Dieci giorni di festa per la sagra dei Santi Marco e Pietro Da domani a Trivignano Pag XVIII Chirignago. Al via la festa di San Giorgio LA NUOVA Pag 27 Torna la sagra di San Marco e San Pietro di s.b. Pag 27 Oggi alla Sala Lux si parla di bollette dell’energia e del gas di m.a. 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Dalla parte della donna che piange All’udienza generale Francesco parla delle lacrime della peccatrice che ottengono il perdono

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CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Carròn dal Papa: sa che siamo leali di G.G.V. Il leader di Cl racconta l’udienza con Bergoglio in una lettera IL FOGLIO Pag 2 Francesco, pastore del pueblo con tic peronisti. Detto da sinistra di mvlp Un saggio (inaspettato) dello storico Loris Zanatta. La rivista bolognese Il Mulino: “Il cattolicesimo di Bergoglio è imbevuto di antiliberalismo viscerale” 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 1 Quei conti senza futuro di Francesco Riccardi Previdenza, chiromanzia e realtà Pag 3 Quando verrà mio papà a prendermi? di Marina Corradi LA NUOVA Pag 4 Menzogne sulla pelle dei giovani di Giorgio Boatti Pag 23 Calano le imprese costrette a chiudere di Gianni Favarato Il saldo tra attività nate e cessate resta negativo ma a Venezia va meno peggio che altrove grazie a turismo e servizi CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Pensioni liquide di Vittorio Filippi Quelli degli anni ‘80 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 21 Roiter, funerali a San Giovanni e Paolo di Alberto Vitucci Domattina alle 9 la cerimonia in basilica per il grande fotografo morto alla soglia dei 90 anni Pag 26 Apertura a metà giugno del Centro don Vecchi 6 di Marta Artico L’ultima fatica di don Armando Trevisiol è quasi pronta: si tratta di 65 alloggi per giovani coppie, padri e madri separati con figli, disabili autosufficienti Pag 26 Il presidente delle Acli a Lampedusa Immigrazione IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VI “La burocrazia frena gli sponsor per l’arte” di Filomena Spolaor Pag XV Paritarie a rischio, Ferrazzi attacca di m.fus. Il capogruppo del Pd rilancia le “convenzioni triennali” 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 13 Scoperti i “veleni” nel sangue. Ora esami per 250mila veneti di Alda Vanzan Inquinamento da Pfas, presentati i risultati dell’Istituto superiore di sanità. Interessati 31 comuni tra Vicenza, Padova e Verona IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag II Aperta ad Annone la prima vera moschea. Con un convertito di Monica

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Andolfatto E a Jesolo gli islamici invitano il Patriarca, domani il taglio del nastro del Centro che fa discutere LA NUOVA Pag 1 Una piazza per cambiare il Veneto di Paolo Possamai 10 – GENTE VENETA Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 16 di Gente Veneta in uscita venerdì 22 aprile 2016: Pag 1 Disertare le urne e accalcarsi per un pollo di Serena Spinazzi Lucchesi Pag 1 Papa Francesco, la motrice del mondo di Giorgio Malavasi Pagg 1, 4 - 5 Piacere, ti presento Gesù Cristo di Giorgio Malavasi Il Patriarca ai catechisti, nell’assemblea diocesana: come dire le ragioni del nostro credere oggi. Comunicare la fede: «Se Lui è con me, lo dico a tutti» Pag 2 I Vescovi del Triveneto: accogliere con generosità Preoccupazione per le chiusure alle frontiere prospettate da alcune nazioni europee e sostegno al vescovo di Bolzano-Bressanone che si è espresso contro la decisione dell’Austria al Brennero. Muser: a che serve celebrare l’Anno della Misericordia se siamo duri di cuore nei confronti del prossimo? Vicinanza ai veneti in difficoltà economica a causa delle banche Pag 7 Banda larga e Spid, Poggiani: «Venezia nel futuro» di Chiara Semenzato Piano del Governo per l’introduzione della banda larga mediante Enel e contributi pubblici nelle aree meno “profittevoli”. Venezia sarà tra le città pilota: si navigherà a 100 mega entro il 2017. E intanto parte lo Spid, la password unica per i servizi Pag 9 Istituti Superiori di Scienze religiose: nuova configurazione di Roberto Tommasi Da 11 a 7 secondo i criteri stabiliti dalla Congregazione per l’educazione cattolica: ovvero sostenibilità accademica ed economica. La Congregazione ha invitato le Conferenze episcopali a favorire l’accorpamento di Istituti superiori vicini o la creazione di Istituti inter-diocesani Pag 15 Lido, il Grest raddoppia e diventa “itinerante” di Lorenzo Mayer Dopo la buona accoglienza dell’esperienza 2015, quest’anno vengono proposte tre settimane, dal 13 giugno al 2 luglio. E ogni settimana la sede sarà diversa: si inizia a Sant’Antonio, poi Sant’Ignazio, per chiudere a S. Maria Elisabetta Pag 18 Ex Umberto I: dal basso molte idee, dall’alto molto silenzio di Chiara Semenzato Il comitato Mestre Second Life ha presentato un dossier ricco di proposte: «Abbiamo in mente tanti piccoli interventi, coordinati da un’unica regia. Si va dal recupero dei padiglioni storici per gli ambulatori, allo spostamento del mercato settimanale ai temporary shop. Ma in Comune non si muove nulla» Pagg 24 – 25 Adolf Hitler. Un mostro che può ancora tornare di Giorgio Malavasi Il filosofo Giuseppe Goisis: «Anche oggi c’è chi pensa che non tutti siamo degni di vivere» … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le ragioni di un duello inevitabile di Massimo Gaggi

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America e voto Pag 25 L’allargamento, cintura di sicurezza per l’Europa di Ricardo Franco Levi Lotta all’Isis AVVENIRE Pag 2 Ma la disumanità si vince con l’umanità di Mario Chiavario Il ricorso vinto dallo stragista Breivik e un principio-cardine Pag 3 La Francia ha perso l’egalité tra nuovi ghetti e precarietà di Daniele Zappalà Disuguaglianza al top e calo delle nascite. E’ allarme Pag 3 La gita mancata e i “lager” nella testa di Ferdinando Camon Il caso serio nella vicenda della bimba autistica IL GAZZETTINO Pag 1 Giustizia, Renzi ora non si deve fermare di Carlo Nordio Pag 1 Dalle primarie le inquietudini degli americani di Massimo Teodori

Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XVII Dieci giorni di festa per la sagra dei Santi Marco e Pietro Da domani a Trivignano È antica ma si rinnova ogni anno. Da domani fino a domenica 1 maggio torna la Sagra di San Marco e San Pietro di Trivignano organizzata dal locale Comitato festeggiamenti presieduto da Francesco Mognato. Le proposte di questi dieci giorni sono talmente varie e tante da attrarre ogni anno centinaia di persone che riempiono gli spazi tra via Castellana e via Chiesa. Si parte alle 18.30 di domani naturalmente con l’apertura dello stand gastronomico, che propone le specialità della casa (gnocchi fatti in casa, baccalà alla vicentina, frittura di pesce, carne alla griglia, mozzarelle in carrozza... ), e del parco divertimenti con le giostre. Ci saranno anche un torneo di calcio a 5 per ragazzi e giovani, e uno di pallavolo under 13 femminile, più una giornata dedicata ai giochi di una volta, compresa la scalata al palo della cuccagna. Serate concerto, danzanti e pure di spettacoli con la selezione Regionale Miss Mondo, e una serata di danze orientali. Sono state organizzate, inoltre, le presentazioni di due libri e allestite due mostre. Gran finale il 1 maggio alle 22:30 con i fuochi d’artificio. Per informazioni e prenotazioni Claudio 349 2101486 e Adriano 328 3013445. Pag XVIII Chirignago. Al via la festa di San Giorgio Mestre - Bambini e ragazzi aprono il programma dei festeggiamenti di San Giorgio, patrono di Chirignago. Sarà inaugurata oggi, alle 17 nella sala San Giorgio di via Parroco, la mostra dei lavori delle scuole materne, elementari e medie del quartiere, e del Centro “Don Orione”. Inizia così la 29. edizione della Festa di San Giorgio, coordinata dal Gruppo “Luciani”. Domenica mattina mostra di fiori e piante prodotti dall’Istituto don Orione sul sagrato della chiesa e, alle 10,30 nella Galleria “La Piccola”, mostra della pittrice Paola Gamba di Portogruaro (aperta fino al 1. maggio). Lunedì 25 aprile vendita del tradizionale “bocolo” nel sagrato della chiesa a cura della Caritas locale, con il ricavato a favore delle famiglie in difficoltà. Sabato 30, alle 20,30 in chiesa, appuntamento con il Concerto vocale delle quattro corali parrocchiali. «Anche quest’anno

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- concludono a Chirignago - è stato organizzato il concorso di poesia "Luigina Ferrarese Bortolato" con 319 partecipanti, in collaborazione con l’Istituto comprensivo “Colombo”». LA NUOVA Pag 27 Torna la sagra di San Marco e San Pietro di s.b. Trivignano. Da domani e fino al 1° maggio torna a Trivignano l'appuntamento con l'Antica Sagra di San Marco e San Pietro. Una delle feste patronali più amate sul territorio mestrino e del suo hinterland, capace di attirare lo scorso anno, solo per la serata di chiusura, oltre 1.500 persone. Si comincerà domani alle 18.30 con l'apertura degli stand gastronomici e della mostra di miniature di civiltà contadini e vecchi mestieri, per poi passare al concerto dei Velvet Dress, tribute band degli U2. Poi sarà un continuo di eventi e iniziative fino al 1° maggio, tra tornei sportivi, serate musicali, di danze orientali e di ballo liscio. Non mancheranno le giostre e la pesca di beneficenza, i pranzi di classe e lo spettacolo di fiochi artificiali alle 22.30 della serata conclusiva. Da segnalare il pranzo dei Lustri (25 aprile alle 12.30), la selezione regionale di Miss Mondo (26 aprile alle 21.30), la rinomata cena del baccalà (27 aprile alle 20.30) e quella delle associazioni (28 aprile alle 19.30). Domenica primo maggio dalle 8 spazio a Trivignano Pedala, prova non competitiva a velocità controllata in collaborazione con la Polisportiva Arcobaleno. I pranzi e le cene organizzate sono su prenotazione. Basterà chiamare i numeri 349.2101486 (Claudio) e 328.3013445 (Adriano). Le specialità dello stand gastronomico saranno gnocchi fatti in casa, baccalà alla vicentina, frittura di pesce, carne alla griglia e mozzarelle in carrozza. Pag 27 Oggi alla Sala Lux si parla di bollette dell’energia e del gas di m.a. Mestre. Oggi appuntamento alle 17 nella Sala Lux della Parrocchia di Carpenedo a Mestre con un incontro formativo promosso dalla Lega Consumatori di Venezia in collaborazione con il Comune per orientarsi meglio all'interno del mercato dell'energia e del gas “Bollette: come districarsi tra il mercato libero e quello di tutela”. Interverranno il responsabile dello sportello della Lega Consumatori di Venezia Patrizio Negrisolo e la presidente regionale Erika Zanca. Lo sportello della Lega Consumatori a Venezia è aperto nella sede Acli di Marghera in via Ulloa il giovedì dalle 14 alle 18 e anche nella sede di Mira (via Gramsci 41) il lunedì e venerdì dalle 9-12.30 e 15-18. Offre consulenza su numerose pratiche che riguardano la tutela dei consumatori contro abusi e violazioni nell'ambito dell'energia elettrica e del gas (pratiche di recesso, disdette, reclami e conciliazione con Enel, Eni, Edison, Sorgenia, etc), della telefonia, delle assicurazioni, dei contratti bancari e del condominio ma anche in caso di sinistri stradali con danni fino a 15.000 euro. La prima consulenza è gratuita ed è preferibile fissare l'appuntamento al numero 339 7367999 con il responsabile dello sportello di Venezia Patrizio Negrisolo. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Dalla parte della donna che piange All’udienza generale Francesco parla delle lacrime della peccatrice che ottengono il perdono «Tra il fariseo e la donna peccatrice, Gesù si schiera con quest’ultima», perché è «libero da pregiudizi che impediscono alla misericordia di esprimersi». È quanto ha sottolineato Papa Francesco all’udienza generale di mercoledì 20 aprile, proseguendo con i fedeli presenti in piazza San Pietro, le riflessioni sulla tematica giubilare riletta alla luce del vangelo. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Oggi vogliamo soffermarci su un aspetto della misericordia ben rappresentato dal brano del Vangelo di Luca che abbiamo ascoltato. Si tratta di un fatto accaduto a Gesù mentre era ospite di un fariseo di nome Simone.

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Questi aveva voluto invitare Gesù a casa sua perché aveva sentito parlare bene di Lui come di un grande profeta. E mentre si trovano seduti a pranzo, entra una donna conosciuta da tutti in città come una peccatrice. Questa, senza dire una parola, si mette ai piedi di Gesù e scoppia in pianto; le sue lacrime bagnano i piedi di Gesù e lei li asciuga con i suoi capelli, poi li bacia e li unge con un olio profumato che ha portato con sé. Risalta il confronto tra le due figure: quella di Simone, lo zelante servitore della legge, e quella dell’anonima donna peccatrice. Mentre il primo giudica gli altri in base alle apparenze, la seconda con i suoi gesti esprime con sincerità il suo cuore. Simone, pur avendo invitato Gesù, non vuole compromettersi né coinvolgere la sua vita con il Maestro; la donna, al contrario, si affida pienamente a Lui con amore e con venerazione. Il fariseo non concepisce che Gesù si lasci “contaminare” dai peccatori. Egli pensa che se fosse realmente un profeta dovrebbe riconoscerli e tenerli lontani per non esserne macchiato, come se fossero lebbrosi. Questo atteggiamento è tipico di un certo modo di intendere la religione, ed è motivato dal fatto che Dio e il peccato si oppongono radicalmente. Ma la Parola di Dio ci insegna a distinguere tra il peccato e il peccatore: con il peccato non bisogna scendere a compromessi, mentre i peccatori - cioè tutti noi! - siamo come dei malati, che vanno curati, e per curarli bisogna che il medico li avvicini, li visiti, li tocchi. E naturalmente il malato, per essere guarito, deve riconoscere di avere bisogno del medico! Tra il fariseo e la donna peccatrice, Gesù si schiera con quest’ultima. Gesù, libero da pregiudizi che impediscono alla misericordia di esprimersi, la lascia fare. Lui, il Santo di Dio, si lascia toccare da lei senza temere di esserne contaminato. Gesù è libero, perché vicino a Dio che è Padre misericordioso. E questa vicinanza a Dio, Padre misericordioso, dà a Gesù la libertà. Anzi, entrando in relazione con la peccatrice, Gesù pone fine a quella condizione di isolamento a cui il giudizio impietoso del fariseo e dei suoi concittadini — i quali la sfruttavano — la condannava: «I tuoi peccati sono perdonati» (v. 48). La donna ora può dunque andare “in pace”. Il Signore ha visto la sincerità della sua fede e della sua conversione; perciò davanti a tutti proclama: «La tua fede ti ha salvata» (v. 50). Da una parte quell’ipocrisia del dottore della legge, dall’altra parte la sincerità, l’umiltà e la fede della donna. Tutti noi siamo peccatori, ma tante volte cadiamo nella tentazione dell’ipocrisia, di crederci migliori degli altri e diciamo: “Guarda il tuo peccato...”. Tutti noi dobbiamo invece guardare il nostro peccato, le nostre cadute, i nostri sbagli e guardare al Signore. Questa è la linea di salvezza: il rapporto tra “io” peccatore e il Signore. Se io mi sento giusto, questo rapporto di salvezza non si dà. A questo punto, uno stupore ancora più grande assale tutti i commensali: «Chi è costui che perdona anche i peccati?» (v. 49). Gesù non dà una esplicita risposta, ma la conversione della peccatrice è davanti agli occhi di tutti e dimostra che in Lui risplende la potenza della misericordia di Dio, capace di trasformare i cuori. La donna peccatrice ci insegna il legame tra fede, amore e riconoscenza. Le sono stati perdonati «molti peccati» e per questo ama molto; «invece colui al quale si perdona poco, ama poco» (v. 47). Anche lo stesso Simone deve ammettere che ama di più colui al quale è stato condonato di più. Dio ha racchiuso tutti nello stesso mistero di misericordia; e da questo amore, che sempre ci precede, tutti noi impariamo ad amare. Come ricorda san Paolo: «In Cristo, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi» (Ef 1, 7-8). In questo testo, il termine “grazia” è praticamente sinonimo di misericordia, e viene detta “abbondante”, cioè oltre ogni nostra attesa, perché attua il progetto salvifico di Dio per ognuno di noi. Cari fratelli, siamo riconoscenti del dono della fede, ringraziamo il Signore per il suo amore così grande e immeritato! Lasciamo che l’amore di Cristo si riversi in noi: a questo amore il discepolo attinge e su di esso si fonda; di questo amore ognuno si può nutrire e alimentare. Così, nell’amore riconoscente che riversiamo a nostra volta sui nostri fratelli, nelle nostre case, in famiglia, nella società si comunica a tutti la misericordia del Signore. CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Carròn dal Papa: sa che siamo leali di G.G.V. Il leader di Cl racconta l’udienza con Bergoglio in una lettera Città del Vaticano. «Non dimentichiamoci di pregare ogni giorno per papa Francesco, vero dono di Dio alla sua Chiesa per questi tempi di cambiamenti epocali…». È una

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lettera importante, quella che don Julián Carrón ha scritto al movimento - centomila persone in una novantina i Paesi - dopo l’udienza della settimana scorsa con Bergoglio. «Il Santo Padre conosce bene la lealtà con cui seguiamo lui e la Santa Sede, e di questo - con mia grande sorpresa - mi ha ringraziato subito, all’inizio del dialogo», scrive il successore di don Luigi Giussani. Non è un mistero che tra i critici talvolta più aspri del pontificato di Francesco ci siano persone che sono o sono state vicine a Cl. Lo stesso Carrón è stato contestato ma sa come gran parte del movimento lo segua. L’udienza, il 14 aprile, «è stata innanzitutto l’occasione per esprimergli tutta la mia e nostra gratitudine per l’instancabile insistenza con cui ci testimonia la sollecitudine piena di misericordia sull’uomo e sul mondo che nasce dalla fede in Cristo», scrive. «Gli ho manifestato con convinzione che noi tutti, io per primo, desideriamo imparare sempre di più questo suo modo di guardare all’uomo e alla realtà; gli ho fatto sapere che non mi stanco di proporlo a voi». Il leader di Cl ha informato Francesco di aver invitato «i responsabili del movimento a immergersi nella lettura della sua Esortazione per immedesimarsi il più possibile in questo sguardo, affinché diventi sempre più nostro nel rapporto con gli altri». Così Carrón parla della «profonda consonanza» tra Bergoglio e don Giussani: «Niente può aiutarci più della tensione costante a immedesimarci con la testimonianza che il Papa ci offre». IL FOGLIO Pag 2 Francesco, pastore del pueblo con tic peronisti. Detto da sinistra di mvlp Un saggio (inaspettato) dello storico Loris Zanatta. La rivista bolognese Il Mulino: “Il cattolicesimo di Bergoglio è imbevuto di antiliberalismo viscerale” Roma. Poco più di un anno dopo l'ascesa di Jorge Mario Bergoglio al soglio pontificio, nel giugno 2014 l'Economist ritenne necessario commentare un'intervista al quotidiano spagnolo la Vanguardia in cui Papa Francesco diceva tra le altre cose: "Stiamo scartando un'intera generazione per mantenere in vita un sistema economico che non riesce più a tenersi da sé, un sistema che per sopravvivere deve fare la guerra, come accaduto per tutti gli imperi". Il settimanale britannico più conosciuto al mondo chiosò così quelle parole: "Istituendo un nesso tra capitalismo e guerra, Papa Francesco sembra prendere una posizione ultra radicale: una posizione che, consapevolmente o meno, ricalca quella di Vladimir Lenin e la sua diagnosi su capitalismo e imperialismo come cause principali della guerra mondiale". L'Economist, certo non un periodico conservatore, fu accusato da più parti di essere troppo liberista per comprendere fino in fondo Francesco. Difficile oggi replicare quel tipo di accuse di fronte a un ponderoso saggio, anch'esso critico della cultura che emerge dai discorsi del Papa, scritto da Loris Zanatta, storico delle Relazioni internazionali dell'America Latina all'Università di Bologna. Zanatta, il cui ultimo libro s'intitola "La nazione cattolica. Chiesa e dittatura nell'Argentina di Bergoglio" (Laterza), ha pubblicato infatti questo scritto su una prestigiosa rivista di tendenza gauchiste, capace di unire la sinistra laica e quella cattolica, come Il Mulino. Si tratta cioè del bimestrale diretto oggi da Michele Salvati, politologo e fondatore ideale del Partito democratico, la stessa rivista di cui fu caporedattore lo storico cattolico Pietro Scoppola, edita dalla omonima casa editrice che è stata presieduta tra gli altri dal cattolico democratico Romano Prodi. Il saggio di Zanatta è intitolato sobriamente: "Un Papa peronista?". La risposta, seppure lungamente e abilmente articolata, è però un netto "sì". Sulla "celebre etichetta di Papa peroni sta", scrive Zanatta, "molti ci hanno scherzato, pochi si sono sforzati di capirla. A torto. (...) Bergoglio è peronista? Assolutamente sì. Ma non perché vi aderì in gioventù. Lo è nel senso che il peronismo è il movimento che sancì il trionfo dell'Argentina cattolica su quella liberale, che salvò i valori cristiani del popolo dal cosmopolitismo delle élite. Il peronismo incarna perciò per Bergoglio la salutare coniugazione tra popolo e nazione a difesa di un ordine temporale basato sui valori cristiani e immune da quelli liberali. Bergoglio, in breve, è figlio di una cattolicità imbevuta di antiliberalismo viscerale, erettasi, attraverso il peronismo, a guida della crociata cattolica contro il liberalismo protestante, il cui ethos si proietta come un'ombra coloniale sull'identità cattolica dell'America latina". Ma allora Bergoglio è populista? "Assolutamente sì - risponde Zanatta - purché tale concetto sia inteso a dovere. Che si chiami peronismo o in altro modo, i tratti ideali del populismo antiliberale sono sempre gli stessi. Difatti il populismo del Papa non ha nulla di originale, salvo la

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proiezione globale che la sua carica gli conferisce. Prima però di vederne i contenuti", lo storico fa un'altra premessa. "L'universo lessicale del Papa: nei suoi grandi viaggi del 2015 - Ecuador, Bolivia, Paraguay; Cuba e Stati Uniti; Kenya, Uganda, Centrafrica - Francesco ha pronunciato 356 volte la parola pueblo. Il populismo del Papa è già nelle parole. Meno familiarità ha invece Bergoglio con un altro lessico: democrazia l'ha detta appena 10 volte, individuo 14 volte, per lo più in accezione negativa. La parola libertà l'ha ripetuta più spesso, 73 volte, in più della metà dei casi negli Stati Uniti. A Cuba, per dire, l'ha detta solo due volte, due in più della parola democrazia. Sono numeri senza senso? Mica tanto. Ci confermano quel che si intuiva: che la nozione di pueblo è l'architrave del suo immaginario sociale. Non c'è niente di male: pueblo è una bella parola, potente ed evocativa. Ma anche scivolosa e ambigua. Qual è l'idea di pueblo di Francesco? Il suo popolo è buono, virtuoso e la povertà gli conferisce un'innata superiorità morale. E' nei quartieri popolari, dice il Papa, che si conservano saggezza, solidarietà, valori del Vangelo. Lì sta la società cristiana, il deposito della fede. Di più: quel pueblo non è per lui una somma di individui, ma una comunità che li trascende, un organismo vivente animato da una fede antica, naturale, dove l'individuo si scioglie nel Tutto. Come tale, quel pueblo è il Popolo Eletto che custodisce un'identità in pericolo. Non a caso l'identità è l'altro pilastro del populismo di Bergoglio: un'identità eterna e impermeabile al divenire della storia, di cui il pueblo ha l'esclusiva; un'identità cui ogni istituzione o Costituzione umana deve piegarsi per non perdere la legittimità che le conferisce il pueblo". Continua lo storico, nel suo saggio che in Argentina è stato pubblicato in contemporanea sull'ultimo numero della rivista cattolica Criterio: "Va da sé che tale nozione romantica di pueblo sia discutibile e che altrettanto lo sia la superiorità morale del povero. Non ci vuole un antropologo per sapere che le comunità popolari hanno, come ogni comunità, vizi e virtù. E lo riconosce, contraddicendosi, lo stesso Pontefice, quando stabilisce un nesso di causa ed effetto tra povertà e terrorismo fondamentalista; un nesso peraltro improbabile. Ma idealizzare il pueblo aiuta a semplificare la complessità del mondo, cosa in cui i populisti non hanno rivali". Al pueblo il Pontefice contrappone "una oligarchia predatrice ed egoista", "essenza del Male come cultrice pagana del Dio denaro: il consumo è consumismo, l'individuo egoista, l'attenzione al denaro adorazione senz'anima". Zanatta si interroga sulla fondatezza di questa visione, e ancora una volta è scettico: il mondo sarà diseguale ma è sempre più ricco, e a livello mondiale anche meno diseguale da vent'anni a questa parte. Prova ne è che "in Asia e in America latina decine di milioni di persone hanno fatto ingresso nel ceto medio: sono più scolarizzate del pueblo caro a Bergoglio. Una cronista ha chiesto al Papa: perché non parla mai del ceto medio? Già: che ruolo avrà nel mondo bipolare del populismo papale? Francesco, gentile, ha ringraziato del suggerimento e si è ripromesso di dire qualcosa. Poi il Papa ha ricordato di averne detto qualcosa in passato. Ed è vero: il ceto medio, disse e pensa, è una classe coloniale che contagia il pueblo con l'ethos individualista. Perciò non ha mai nascosto di prediligere i movimenti politici e sociali nazionalpopolari e di detestare quelli del ceto medio: a Cristina Kirchner ha concesso cinque udienze in un paio d'anni; non perché l'amasse, ma perché era peronista, il partito del pueblo. Con Mauricio Macri non s'è nemmeno felicitato, quando ha vinto le elezioni: così vuole il protocollo, ha spiegato, lui che della forma suole farsi un baffo. Ovvio: Macri incarna il ceto medio porteño, laico e cosmopolita". Da questa idea di populismo discenda l'idea di una democrazia come "concetto sociale, solamente sociale". "Pochi aneddoti, tratti dai momenti in cui il Papa si discosta dai testi scritti, illustrano quanto scritto finora. In Paraguay, si sa, Bergoglio fece una gaffe. Capita anche ai Papi: amen. Ma una gaffe che si presta a considerazioni. In breve: qualcuno chiese a Francesco di fare appello per la liberazione di un prigioniero, lui dette per scontato che si trattasse di un abuso dello stato e fece una lavata di capo pubblica al presidente del Paraguay, salvo scoprire che il prigioniero in questione era nelle mani di un gruppo terrorista e che lo stato paraguayano, per malconcio che sia, non c'entrava nulla. La sua reazione, spontanea e in buona fede, lascia interdetti. Intanto rivela le predilezioni del Papa: bello o brutto che sia, il governo paraguayano non ricade nel novero dei governi del pueblo cari a Bergoglio; al contrario di quelli di Ecuador e Bolivia, dove era stato assai abbottonato con le autorità locali, che non si può certo dire siano senza macchia. L'episodio dimostra poi che il silenzio sui diritti umani, mantenuto in seguito da Francesco a Cuba o in Uganda, non si deve a una precisa volontà di evitare tensioni con

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le autorità politiche. Quando lo ritiene opportuno, Bergoglio non teme di richiamarle all'ordine: come in Paraguay e in Centrafrica. La convinzione che taluni regimi tutelino l'essenza religiosa del pueblo meglio di altri, si direbbe la sua bussola". Se n'è avuta un'altra prova durante il suo viaggio a Cuba, "quando un giornalista gli ha chiesto: perché non ha ricevuto i dissidenti? Lo sa che molti sono stati arrestati perché non la incontrassero? Non ne so nulla, ha risposto Francesco, e comunque non ho concesso udienze private a nessuno, 'non solo a dissidenti, ma perfino a un capo di stato'. Così, ponendo sullo stesso piano la foto che un dignitario sperava di portare a casa insieme al Papa e i familiari dei prigionieri in cerca di conforto. Com'è possibile? Lui stesso ci aiuta a capirlo: i diritti umani, aveva detto poco prima, non si rispettano in molti paesi del mondo. Per poi aggiungere: vi sono paesi europei che per vari motivi non ti permettono nemmeno di portare segni religiosi". E se "il Tutto è superiore alla Parte", non sorprende lo sprezzo di Francesco per l'individualismo, dimostrato in particolare durante i suoi viaggi in Africa, con i commenti su diritti e Aids: "C'è un'umanità da salvare - commenta Zanatta - Come perdersi dietro a individui che probabilmente hanno peccato?". "Se tale è il prisma ideale attraverso cui il Papa interpreta il mondo, ha buon gioco chi ne fa notare la vena apocalittica, la cui altra, inevitabile faccia è la vena redentiva. E' uno snodo chiave, perché il binomio apocalisse/redenzione è l'anima della visione manichea del mondo tipica del populismo; una visione ostile agli approcci pragmatici ai problemi del mondo, in cui Francesco vede in agguato l’impero 'tecnocratico' che tutti ci domina". Si legge ancora nel lungo saggio pubblicato sul Mulino: "La dialettica politica si trasforma in guerra tra pueblo e antipueblo; l'apocalissi è una profezia che si autoavvera; la redenzione rimane un sogno inappagato. Ciò non impedisce però a Francesco, afflitto dall'idea che la globalizzazione contagi e uccida le identità del pueblo, diverse tra loro ma tutte intrise di religiosità, di invocarne la difesa a oltranza. E' ciò cui mira quando si scaglia contro l'uniformità che il capitale imporrebbe al mondo; quando chiede pluralismo, concetto che Bergoglio declina a suo modo: come pluralità di pueblos, una volta ancora, non di invidui; benché molti pueblos non ammettano pluralismo al loro interno. Eppure è ovvio che le identità non sono immuni al cambiamento, che sono di per sé soggette ad ibridarsi tra loro. E lo è ancor più che l'imputazione di colonizzare tali identità che il Papa rivolge oggi alla globalizzazione, fu un tempo rivolta alla cristianità, quando plasmò le identità popolari che Francesco ora difende come fossero eterne e statiche". "Ma quante chiacchiere astruse, dirà qualcuno: la sostanza è che il Papa difende i poveri e denuncia i potenti. Il resto è artificio intellettuale, attività che Francesco ama così poco da ripetere spesso che la Realtà è superiore alle Idee. La tradizione populista è d'altronde anti intellettuale per definizione. L'argomento è così forte, così definitivo nel porre chi l'espone dal lato della superiorità morale, che non lascia molto margine a obiezioni. Al laico malato di dubbi, però, cui lo studio della storia ha insegnato che spesso le migliori intenzioni fanno più danni della grandine e allontanano l'obiettivo che ambivano raggiungere, qualche domanda sorge spontanea. La prima è se le vaghe idee che il Papa espone sull'economia siano le più adeguate per ridurre le diseguaglianze sociali e la povertà. Ne dubito. E so che ne dubitano in molti. Il Papa non è un economista e non è tenuto a dare ricette! Giusto. Ma dato che, com'è sacrosanto, si esprime in proposito, altrettanto lecito sarà esprimersi su quanto le sue diagnosi e le terapie cui allude siano infondate: molto meno mercato, molto più stato, in breve; l'economia dovrebbe basarsi su princìpi morali invece che sulla logica del profitto. Il che non è una gran novità, diciamolo. Il fatto è che i modelli economici populistici cui in tal modo Francesco allude non hanno mai dato buona prova: né in termini di creazione della ricchezza da distribuire, né di riduzione strutturale delle diseguaglianze. Le economie populiste fabbricano povertà in nome del povero e la loro eredità suole gravare sulle generazioni future. Non sarà eccessiva l'ostilità del Papa per il mercato?". Un monito per la gauche senza popolo Un dilemma intrigante, infine: "Da un lato, il Papa lancia strali contro l'ingiusto sistema economico, causa della diffusa povertà nel mondo; dall'altro lato, però, indica nel Povero la quintessenza delle virtù da preservare. Francesco sottoscriverebbe la famosa frase di Olof Palme: il nostro nemico non è la ricchezza, ma la povertà? O dinanzi al rischio che con la povertà svaniscano le virtù cristiane del Povero, prediligerebbe un mondo di poveri? Così farebbe pensare la sua esplicita vena pauperistica. non è chiaro: Bergoglio si esprime ora contro la povertà, ora in difesa del Povero". Questa l'analisi. Dopodiché Zanatta si domanda, in conclusione,

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quanto sia fondata questa visione del mondo. L'avanzata del ceto medio in tutto il pianeta consiglierebbe cautela, visto che "perfino sul piano politico, i populismi con cui il Papa condivide tante affinità hanno subìto duri colpi, specie in America latina, tanto da fare sospettare che stiano rimanendo orfani del pueblo che invocano". In altre parole il Pontefice rischia di rimanere "adorato dai fedeli ma anch'egli orfano, almeno un po', del pueblo". Un monito laico, certo, che pubblicato sul Mulino di Salvati suona soprattutto come un avvertimento a quella sinistra globale che in Francesco sembra aver trovato un nuovo Papa straniero per navigare nell'attuale terra incognita dell'economia. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 1 Quei conti senza futuro di Francesco Riccardi Previdenza, chiromanzia e realtà I conti sulle pensioni non tornano. E non parliamo solo dei bilanci dell’Inps, gravati da un deficit strutturale. Ma degli slogan lanciati, dei messaggi cifrati, delle vere e proprie manovre che si stanno delineando intorno alla previdenza. Ciò che è accaduto martedì è esemplare. Di prima mattina il ministro dell’Economia apre uno spiraglio sulla possibilità di modificare il sistema previdenziale, anche se, già a sera, il principale consigliere economico della presidenza del Consiglio torna a piantare una serie di paletti, evidenziando come un intervento strutturale sulla flessibilità in uscita avrebbe un costo tra i 5 e i 7 miliardi di euro, difficilmente sostenibile e ancor più difficilmente accettabile da parte della Commissione europea. In vista di un duplice passaggio elettorale – il referendum costituzionale a ottobre, le elezioni politiche con ogni probabilità già nel 2017 – il tema assai popolare delle pensioni ritorna così nell’agenda dell’esecutivo, dopo essere stato a lungo negato e rinnegato. Il nodo, non meno intricato di quello gordiano, è come riuscire ad allentare la morsa sull’età del pensionamento senza incidere troppo sul bilancio pubblico. Le ricette in campo sono diverse: prestito previdenziale, anticipo con penalizzazione variabile, prelievo sulle rendite cosiddette 'd’oro', perfino un mix di tutte e tre. Ma mentre il dibattito è ancora sul nascere, lo stesso martedì come una bomba esplode l’intervento del presidente Inps sui 35enni di oggi che «rischiano di andare in pensione solo a 75 anni», a causa dei buchi accumulati nella «contribuzione per prolungati periodi di disoccupazione ». Il messaggio sotteso sembra: occorre intervenire sulla flessibilità in uscita verso la pensione, altrimenti i lavoratori 'anziani' restano troppo a lungo nelle imprese e non c’è spazio per l’ingresso dei giovani che non arriveranno mai alla pensione. Una tesi suggestiva, sempre sostenuta dai sindacati, ma che paradossalmente proprio Tito Boeri, in veste di economista, smentiva con parole nette appena tre anni fa in un articolo sul suo sito lavoce.info: «...nei dati la sostituibilità tra lavoratori giovani e anziani proprio non esiste. Sarebbe dunque utile abbandonare questa logica ». Allora perché parlarne adesso? Perché gettare nello sconforto i trentenni? Certo, la previdenza è proprio la capacità di guardare al futuro per tutelarsi dai fattori negativi. Ma compiere oggi una proiezione a 40 anni sul mercato del lavoro e sul sistema pensionistico assomiglia più a un esercizio di chiromanzia che non a uno studio scientifico. Negli ultimi 40 anni, in Italia sono state approvate almeno 10 riforme della previdenza che hanno cambiato completamente il sistema di calcolo, di finanziamento, i limiti di età e i criteri del pensionamento. Quanto è cambiata la pensione che i 60enni di oggi bramano rispetto a quella che immaginavano da trentenni nel 1986, già quasi 'pregustandola'? E quante altre riforme interverranno da qui al 2056 quando, secondo i calcoli del presidente Inps, dovrebbero andare in quiescenza i 35enni di oggi? Più di tutto, però, sono i cambiamenti incredibilmente veloci dei servizi, della produzione e del lavoro stesso, imposti dallo sviluppo tecnologico, a far apparire poco realistiche le previsioni di pensionamento da qui a 40 anni dei nostri giovani. Siamo sinceri: il problema non è quanti anni di inoccupazione sconteranno i ragazzi del 1980 e quanti contributi eventualmente mancheranno loro in futuro, ma se lavoreranno. E come e dove. Con quali contratti e quali retribuzioni. Gli addetti di interi settori – ad esempio quello dei call center – sono destinati a scomparire nel giro di meno di un decennio,

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sostituiti da software con nomi accattivanti come 'Amelia' della Ipsoft. Altri verranno soppiantati dai robot, i nuovi 'dipendenti non umani' delle fabbriche 4.0. Le ricerche delle università di mezzo mondo ci dicono che la metà almeno dei nostri ragazzi avrà un lavoro che oggi neppure esiste o immaginiamo. Preoccuparsi se – nel 2056 – i trentenni dovranno attendere 2 o 3 anni in più per la pensione ci pare proprio l’ultimo dei pensieri. E poi per chi ha solo il contributivo non bastano forse 20 anni di versamenti per la pensione di vecchiaia? Una maggiore flessibilità in uscita verso la pensione è auspicabile e, come scrivevamo due settimane fa, sarebbe bene aprire subito un confronto serio e documentato sulla questione. Senza allarmismi, senza manovre tattiche. Coscienti che resta l’occupazione – e il lavoro dei giovani in particolare – l’emergenza più importante da affrontare. Qui e ora, e sempre. Pag 3 Quando verrà mio papà a prendermi? di Marina Corradi Milano, aprile – Alle cinque di sera nella grande casa di riposo, sedute su delle panchine lungo il corridoio, le ricoverate attendono che si faccia l’ora di cena. Sull’orologio a muro la lancetta avanza con estenuante lentezza. Che silenzio: i rumori da fuori in questi antichi locali arrivano ovattati. Dalle cucine, un vago odore di minestra di verdure si mescola a quello del detersivo dei pavimenti, accuratamente puliti. La signora cui passo accanto mi ferma gentilmente, con un cenno della mano. Ha i capelli candidi ben curati, e sul viso le tracce, sotto gli oltre ottant’anni, di una antica bellezza. È ben vestita, di un’eleganza di altri tempi, e i suoi occhi azzurri sono chiari come il cielo dell’alba. «Scusi, signora – mi chiede gentilmente – lei sa quando verrà il mio papà, a prendermi?». È così serena l’espressione della donna: come di una bambina che sia certa che suo padre non mancherà, davanti a scuola, quando suonerà la campana dell’ultima ora. Interdetta, io non so cosa rispondere. Non voglio spezzare il sogno della sconosciuta. Dico allora: «Verrà certamente suo padre, signora, forse è soltanto un po’ in ritardo». Istintivamente allungo lo sguardo verso il fondo dell’ampio corridoio, quasi credessi anche io che quel padre possa arrivare. Sciocca, mi dico, quell’uomo, se fosse vivo, avrebbe 120 anni. Poi, non so esattamente perché, ma mi siedo accanto alla donna. Mi dice di chiamarsi Giuseppina. Quanti anni ha, ora non lo ricorda: fa un gesto vago con la mano, come se la cosa non fosse poi così importante. Faceva la sarta, mi dice, a brevi frasi interrotte e più volte ripetute: «Vestivo le signore eleganti di Milano, sa». A tratti è qui, presente, a momenti altrove, persa in un indefinito orizzonte. Forse è la tenerezza di Dio, mi dico, in così tarda età a velare come di nebbia lo sguardo: così come si dice ai bambini di chiudere gli occhi, di fronte a qualcosa che può fare loro paura. Le lancette dell’orologio a muro paiono sempre più lente, come se il tempo, fiume impigrito in una lanca, qui si stesse fermando. Vedo che la signora sorveglia il fondo del corridoio, ora di nuovo attenta. «Quando verrà il mio papà a prendermi?», ripete, quieta, ostinata, con i suoi occhi chiari da bambina. Verrà, vorrei dirle, verrà suo padre, signora. Lui, infine, arriva sempre. Siamo tutti così autonomi e padroni di noi, ma poi negli ultimissimi anni, anche se tutto attorno svanisce come in una nebbia, resta, tenace, un pensiero: qualcuno ci verrà a prendere. È scritto, in qualche luogo, che un Padre debba venire: benigno, pietoso, a prenderci per mano, e a riportarci, infine, a casa. LA NUOVA Pag 4 Menzogne sulla pelle dei giovani di Giorgio Boatti Tanti anni fa, il filosofo Benedetto Croce affrontando la cosiddetta “questione dei giovani” sentenziava: «I giovani hanno un compito solo, e molto semplice: invecchiare». Con quel termine, invecchiare, non si riferiva al dato anagrafico ma piuttosto alla difficile sfida di maturare, diventando cittadini consapevoli in un Paese che doveva rinascere, dopo la guerra. Nell’Italia di allora, dove la vita media si aggirava sui 65 anni, la componente giovanile era largamente maggioritaria. In quella situazione non si poteva dunque che puntare sulle generazioni più giovani, protagoniste della ricostruzione industriale e del boom economico. La generazione successiva, i figli del “boom”, i cosiddetti “baby boomers”, furono presi a braccetto dalla stagione del “welfare”. Si aprì una fase di sicurezza sociale che finalmente diede riconoscimento a fondamentali diritti

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sul lavoro e assicurò, altresì, una vecchiaia sicura a gran parte della popolazione. L’obiettivo fu raggiunto con le pensioni retributive, una forma di “retribuzione differita”, estesa appunto anche nel tempo in cui cessava l’attività lavorativa del singolo. L’estendersi progressivo della vita media - negli anni Ottanta si raggiungono i 73 anni, negli anni Novanta si è a quota 76, nel 2016 siamo ad una aspettativa di vita di 82 anni - consente alla generazione cosiddetta del “posto fisso”, spesso in grandi concentrazioni industriali, di affrontare la vecchiaia in una condizione migliore delle generazioni precedenti. Per chi viene dopo di loro non sarà così. Le nuove generazioni - quelle nate negli anni Settanta e Ottanta - per contare su una pensione adeguata non potranno lasciare il lavoro prima di aver raggiunto i 70/75 anni. Secondo gli scenari diffusi in questi giorni, la “generazione Erasmus”, quella di cui invidiamo l’energia con cui percorre il grande mondo e affronta ogni difficile sfida, per andare in pensione nel 2049, a 75 anni, dovrà aver versato ben 46 anni e 3 mesi di contributi. Dunque quasi mezzo secolo di contributi per godersi poi una manciata di anni di pensione. È evidente la disparità, anzi l’ingiustizia, che penalizza la generazione che viene rispetto alla precedente. In realtà l’ingiustizia va ben oltre i numeri e gli scenari che giocano a mosca cieca con la realtà. Una realtà lavorativa che oggi, per i giovani italiani, è costituita da occupazioni saltuarie, incarichi a progetto “senza progetto”, impieghi interinali che fanno ruotare come trottole, finte partite Iva, voucher, stage retribuiti. Pensare di offrire una “carriera pensionistica” a coloro che oggi sono giovani attraverso questo dissennato slalom di “flessibilità” che brucia ogni certezza di vita e ogni decenza retributiva è una menzogna intollerabile, spacciata da chi ci ha governato nell’ultimo trentennio. Menzogna analoga a quella di chi ha contrabbandato il precariato diffuso che sta mortificando una generazione come una libera scelta, quella di essere “imprenditori di se stessi” . Non a caso i giovani, più assennati di chi abita il “Palazzo”, non perdono tempo con calcoli sugli scenari pensionistici del 2030/40 che li dovrebbero riguardare. Dedicano le loro energie alle emergenze lavorative quotidiane, che se le prendono tutte. Quanto al futuro, questa generazione sarà la generazione “Munchhausen”. Proprio come il leggendario barone che per alzarsi da terra si sostenne solo ai propri capelli, i nostri giovani, per difendersi dal futuro che è stato loro assegnato, non potranno che fare affidamento su se stessi. Sulla determinazione, solidarietà e senso di eguaglianza che sapranno esprimere. Unite a una sana indignazione possono portare lontano. Pag 23 Calano le imprese costrette a chiudere di Gianni Favarato Il saldo tra attività nate e cessate resta negativo ma a Venezia va meno peggio che altrove grazie a turismo e servizi La provincia di Venezia continua a perdere imprese artigiane, ma grazie alle attività legate al turismo ha il saldo negativo minore, tra imprese avviate e cessate, di tutto il Veneto. Secondo i dati elaborati da Confartigianato, sulla base di quelli forniti da Unioncamere Veneto, nei primi tre mesi di quest’anno in provincia di Venezia c’è stata un’ulteriore flessione di -0,44% (-84 imprese con un totale di imprese attive di 19.205 a fine marzo 2016. Si tratta di una caldo ancora negativo tra nuove imprese iscritte alla Camera di Commercio e quelle che hanno dovuto cessare l’attività. Un risultato (- 0,44 %) ancora negativo ma che nel veneziano è pari a meno della metà della media nazionale (-0,92 %) e al di sotto della media regionale veneta (-0,745) di iscrizioni al Registro imprese della Camera di Commercio. Le migliori (o meno peggiori) performance dell’artigianato veneziano sono dovute alla forte presenza delle attività trasversali (che interessano, cioè, tutti gli altri macrosettori) legate ai flussi turistici a Venezia e nelle spiagge del litorale. Tra i macrosettori in cui operano le imprese artigiane, l’unico ad avere un saldo positivo (+0,38%) è il terziario, ovvero quello dei sevizi forniti alle imprese del commercio, delle strutture alberghiere e della ristorazione, dell’industria e dell’agricoltura, che comprende settori come servizi la fornitura di attrezzature, macchinari o beni di altro genere, trasporti e comunicazioni, informatica, formazione e -consulenza legale e fiscale, attività di ricerca e sviluppo, analisi e collaudi, servizio di pulimento, indagini di mercato e analisi dei dati raccolti per conoscere le esigenze dei consumatori e la raccolta e veicolazione della pubblicità. In grande sofferenza resta il comparto edile/costruzioni, il “grande malato” cresciuto a dismisura fino al 2009 e poi interessato – in seguito alla crisi immobiliare internazionale e nazionale – da un

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progressivo ridimensionamento che non sembra volersi arrestare, tanto da perdere nel primo trimestre di quest’anno in provincia di Venezia altre 43 imprese (-0,58% sul totale di quelle attive), un numero comunque inferiore della metà del calo a livello regionale (-1,16%). Cala anche il macrosettore dei trasporti (-0,43%, rispetto al dato regionale di -1,15%), come pure si riducono ancora, anche se di poco le imprese del macrosettore del Servizi alla Persone, con un -0,17% nei primi tre mesi di quest’anno, a fronte del -0,25 % registrato a livello regionale. «I dati di Unioncamere sulle imprese artigiane iscritte e cessate nel primo scorcio del 2016 – ribadisce Confartigianato – vedono il Veneto perdere un altro pezzo del suo patrimonio di imprese artigiane. Così si avvicina pericolosamente la soglia “psicologica” delle 131mila imprese iscritte nelle sette camere di commercio (a marzo sono 131.065), risultato raggiunto dopo un ulteriore saldo negativo nel 1° trimestre dello -0,75% che vale -990 aziende in meno nel Veneto». La crisi, ci tiene a precisare la Confartigianato «non è, purtroppo, ancora finita dietro le spalle». Malgrado le debole ripresa dei consumi e della crescita del Pil a livello nazionale, il numero complessivo delle imprese attive, infatti, continua a ridursi, seppure con un impatto meno drammatico e pesante a Venezia che nel resto del Veneto. «Ma qualche luce nel buio degli ultimi anni in provincia di Venezia si comincia a vedere una luce, seppure ancora molto debole», commenta il presidente di Confartigianato per l’Unione Provinciale Artigiani della provincia di Venezia, Marco Semenzato. «I dati del primo trimestre di quest’anno sono ancora nel segno meno in tutta Italia (12mila507 gli artigiani che mancano all’appello, oltre i due terzi della riduzione totale di imprese) che vede però il Veneto tra le regioni che soffrono meno. E soprattutto la provincia di Venezia che ha registrato un saldo negativo tra i più bassi d’Italia, l’ottavo per precisione, ed il migliore del Veneto in termini percentuali». Il presidente di Confartigianato veneziana cerca di vedere, come si suole dire il “bicchiere mezzo pieno”. «Dopo diversi trimestri in cui la nostra area registrava saldi peggiori della media, dallo scorso anno le cose vanno, dunque, un po’ meno peggio», sottolinea Marco Semenzato. «Rispetto allo stesso trimestre del 2015 è diminuito di più il numero di imprese artigiane che hanno cessato l’attività, rispetto al numero delle nuove imprese che si sono iscritte nel Registro imprese della Camera di Commercio. Si tratta di piccolissimi segnali positivi che non smorzano il dato generale di fortissima criticità ancora da superare». «Questi segnali debbono trasformarsi in una vera ripresa economica», aggiunge Semenzato, «le 500 imprese cessate in soli tre mesi nella nostra provincia, con una media di sei al giorno, sono il segnale tangibile che il protrarsi della recessione sta riducendo allo stremo le nostre imprese che vivono sulla propria pelle il peso insostenibile dell’eccessiva pressione fiscale, del crollo dei consumi senza precedenti, del difficile e costoso accesso al credito, dell’annosa questione della riscossione dei crediti vantati nei confronti dei loro committenti e dalla Pubblica amministrazione». «Abbiamo davanti», conclude il presidente di Confartigianato, «una montagna già difficile da scalare e non c’è bisogno di caricare sulla spalle delle imprese ulteriori fardelli come tariffe energetiche lunari e penalizzanti per i più piccoli, Sistri, Tasi, Imu, burocrazia ed inefficienze varie». CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Pensioni liquide di Vittorio Filippi Quelli degli anni ‘80 Dice il presidente del’Inps Tito Boeri che le generazioni nate negli anni ottanta rischiano di dover aspettare la pensione fino a 75 anni. Cioè nella seconda metà del secolo. Il motivo sta nella carriera contributiva discontinua, un modo soft e gentile per dire precarietà, disoccupazione e bassi salari. E’ curiosa (ed amara) la storia di questa generazione. Apparsa negli anni ottanta, ha respirato l’ottimismo spensierato che soprattutto nella seconda metà del decennio ha accompagnato la crescita sostanziosa del Pil e dell’occupazione. Quasi un bis, sia pure in tono minore, degli anni sessanta. Certo, già dall’83 – per la prima volta – in Veneto il numero dei nati era superato da quello dei morti e l’ immigrazione era ancora una novità. Curiosa ma contenuta. Ma in Veneto esplodeva il miracolo (ed il mito) dei distretti industriali, un modo per essere giganti economici con piccole aziende. E le aziende cominciavano a rubarsi il personale che mancava. I genitori di questa generazione erano i baby boomer che avevano fatto il

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’68, ma ormai gli anni ottanta avevano voltato le spalle ai cupi anni settanta. Il consumismo – pompato da radio e televisioni commerciali – attraeva decisamente di più del comunismo, prossimo al suo funerale epocale nell’89. Partita con il vento in poppa, la generazione degli anni ottanta cominciava però subito male: perché proprio quando stava per affacciarsi al mondo del lavoro, scontava l’inizio della grande crisi iniziata nel 2008. Una crisi lunga che ha obbligato molti genitori a fare da amorevole cassa integrazione ai figli. Cui sta seguendo un periodo – chissà quanto lungo – di crescita fragile, debole, insufficiente. Ma non è solo un discorso di traballante congiuntura economica. Né solamente di tecnologie sempre più invasive e minacciose per l’occupazione, come se il lavoro morto – per dirla con Marx – prevaricasse decisamente sul lavoro vivo. In realtà la generazione nata negli scanzonati anni ottanta si trova di fronte, per la prima volta, ad un mondo del lavoro liquido, per usare un aggettivo oggi di moda quanto efficace. Efficace perché ben descrive realtà lavorative veloci, mutevoli, competitive, individualistiche, sottoposte al fiato corto di mercati volatili e di tecnologie accelerate. Complice una demografia sempre più avara – una avarizia già visibile proprio negli anni ottanta, ma allora beatamente ignorata – la generazione di quel gaio decennio sperimenterà sulla propria pelle, sembra, anche un pensionamento liquido. In cui le certezze saranno solamente due, entrambe poco lusinghiere: l’età della pensione si sposterà sempre più in là e i redditi pensionistici saranno sempre più striminziti. I trentenni sono avvertiti: i numeri dei giovani che se ne andranno «a catar fortuna» (e pensione) all’estero non potranno che aumentare. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 21 Roiter, funerali a San Giovanni e Paolo di Alberto Vitucci Domattina alle 9 la cerimonia in basilica per il grande fotografo morto alla soglia dei 90 anni Venezia. Si terranno domattina alle 9 nella Basilica di San Giovanni e Paolo i funerali solenni di Fulvio Roiter, il grande fotografo veneziano scomparso l’altra notte all’età di quasi 90 anni. Una decisione presa all’ultimo dalla famiglia, che in un primo tempo aveva scelto il “profilo basso” per rispettare la volontà di Fulvio. Ma l’eco anche nazionale, gli articoli di stampa, l’affetto dimostrato hanno convinto i familiari e in primo luogo la moglie, la fotografa belga Louise Enmbo a scegliere la cerimonia religiosa. I funerali saranno celebrato da padre Angelo, parroco domenicano di San Giovanni e Paolo, all’interno della grande chiesa gotica. Un modo anche per ospitare i tanti veneziani che conoscevano Roiter e ne apprezzavano le capacità artistiche. Fulvio Roiter ha portato nel mondo le immagini di Venezia. Carriera lunghissima e segnata da tanti riconoscimenti. All’inizio era stato un fotografo di viaggio, reportage in bianco e nero da ogni parte del mondo. Poi erano arrivati i classici, «Essere Venezia», grande libro fotografico che porta le imnagini della «sua» Venezia nel mondo. Una Venezia romantica e godibile anche per il grande pubblico. Impressioni e ritratti, gocce di pioggia, effetto flou. I puristi storcono il naso. «Foto commerciali», dice qualche critico. «Immagini bellissime, dalla tecnica raffinata», rispondono i suoi tanti estimatori. La Venezia di Roiter è sicuramente diversa da quelle di altri fotografi che mettono su carta la denuncia, il degrado, i fumi di Marghera e più di recente i danni ambientali e le grandi navi. È una Venezia “romantica” che per la prima volta ha raggiunto un pubblico importante, tirature da milioni di copie e fama internazionale. I funerali di Roiter domattina nella Basilica che ospita le tombe dei dogi e le cerimonie religiose per i veneziani illustri. Pag 26 Apertura a metà giugno del Centro don Vecchi 6 di Marta Artico L’ultima fatica di don Armando Trevisiol è quasi pronta: si tratta di 65 alloggi per giovani coppie, padri e madri separati con figli, disabili autosufficienti

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Mestre. Ci siamo quasi. Aprirà nella seconda metà di giugno il “Centro don Vecchi 6”, l'ultima fatica del vulcanico don Armando Trevisiol, ideato e costruito agli Arzeroni, in via Marsala (a fianco del Don Vecchi 5) per sostenere le giovani coppie che si avviano alla vita in comune, le persone disabili autosufficienti, i padri e le madri separati e con figli minori, in una parola, dare riposta alle criticità abitative del territorio. «Lo scopo ultimo di questo Centro», spiega il presidente della Fondazione Carpinetum, don Armando, «è quello di concorrere concretamente a fare di Mestre una città solidale. Il nostro modesto esempio tende soprattutto a influenzare l'opinione pubblica e a creare una nuova cultura di solidarietà contrapposta al dilagante individualismo e alla rassegnazione della civica amministrazione a sacrificare la solidarietà a favore di altre realtà meno nobili e meno urgenti. Se la nostra piccola Fondazione riesce a far questo, cosa potrebbero fare il Comune, la Regione, i sindacati e gli industriali?». Come sempre, però, la macchina organizzativa che fa capo a don Trevisiol sta cercando di arrivare a più persone possibili, per far sapere anche a chi è meno informato o non conosce tutte le possibilità o gli aiuti che potrebbe avere, di questa opportunità. L'obiettivo del Don Vecchi 6 è quello di «promuovere e diffondere una cultura della solidarietà a favore di chi si trova in disagio abitativo e non dispone dei mezzi economici necessari per la vita in autonomia». La finalità specifica, è «offrire un aiuto concreto per superare momentanee criticità». Chi può accedere? «Persone con disabilità che aspirino ad una vita indipendente, giovani coppie nella fase di avvio della vita comune in temporanea difficoltà finanziaria, padri e madri separati con figli minori, lavoratori stagionali fuori sede (operai, impiegati, studenti, professionisti, medici e infermieri che lavorano a Mestre), familiari che assistono cari degenti negli ospedali di Mestre». E che hanno bisogno di un luogo non troppo dispendioso e confortevole dove stare in un periodo difficile. Gli alloggi disponibili sono 65. Ogni residente è tenuto a pagare la sua quota parte delle spese di gestione del Centro in proporzione alla superficie dell'alloggio occupato a cui si aggiunge il costo relativo alle utenze personali. La Fondazione, essendo una Onlus, non percepisce alcun guadagno. Gli alloggi vengono consegnati completamente arredati, la loro superficie è commisurata alle varie tipologie di persone che li occupano: gli appartamenti per i disabili vengono assegnati a tempo indeterminato, quelli destinati alle giovani coppie alle madri e ai padri separati vengono assegnati per un periodo massimo di 4 anni, gli alloggi a breve periodo vengono assegnati ai lavoratori stagionali per un periodo massimo di 9 mesi, mentre, per i familiari che assistono i loro cari degenti negli ospedali di Mestre, l'alloggio è assegnato per il tempo previsto per la durata della cura ospedaliera. Nulla, dunque, è stato lasciato al caso. Anche in quest'occasione, la Fondazione ha messo in campo i collaudati “bond Paradiso”, le azioni a favore del Don Vecchi, di cui in questi anni è sempre stato dato conto nel settimanale “Incontro” distribuito in città. I moduli per le domande di ammissione devono essere ritirati e consegnati, dopo accurata compilazione, alla segreteria del Centro don Vecchi di Carpenedo, in via dei 300 Campi, aperta dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 12.30 e dalle 15 alle 18 (tel. 041 5353000). La Fondazione non offre assistenza, ogni persona cui verrà assegnato un alloggio deve provvedere a essere autosufficiente in modo autonomo o, eventualmente, usufruendo di aiuti da parte della famiglia o dei servizi sociali. Agli assegnatari, si legge nella nota che della Fondazione, è richiesta un'assoluta moralità, rispetto per l'ambiente e per gli spazi comunitari, osservanza delle regole necessarie ad una serena convivenza, regolarità nel pagamento dei costi condominiali. Tra i servizi offerti, c'è la pulizia degli spazi comuni, la gestione degli impianti idraulici, elettrici, telefonici, ma anche la presenza all'interno della struttura di un paio di referenti che rappresentano la Fondazione per quanto riguarda la gestione e la risoluzione delle questioni relative alla convivenza. Chi, invece, vivrà al Don Vecchi, provvisoriamente o per un periodo più prolungato dovrà invece tenere pulito l'alloggio. Pag 26 Il presidente delle Acli a Lampedusa Immigrazione Mestre. Viaggio a Lampedusa per il nuovo presidente delle Acli. “Voglio vedere per capire, capire per agire”. È con questo spirito che Paolo Grigolato, eletto il 29 febbraio nuovo presidente delle Acli provinciali di Venezia, si recherà a Lampedusa da domani al

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25 aprile insieme ad un gruppo di Treviso guidato da un sacerdote. «Il dramma dei migranti, tanto caro a Papa Francesco», spiega, non può non toccare la nostra Associazione che è chiamata, come da indicazione dello stesso pontefice, ad essere fedele ai “poveri”. È un fenomeno di proporzioni gigantesche che interesserà il nostro paese e il nostro continente ancora per moltissimi anni. È una nostra precisa responsabilità, come cittadini, mettere in atto tutte le azioni in nostro potere per garantire il rispetto del diritto internazionale sull'accoglienza dei rifugiati. Ma come cristiani siamo chiamati a porgere la mano a questi fratelli e ad agire, anche a livello politico, proponendo soluzioni concrete per la gestione responsabile di questa situazione, lontano da ogni populismo e da coloro che vogliono solo costruire muri, a partire dalla soluzione dei conflitti che sono la causa di queste migrazioni di massa». Grigolato incontrerà le comunità di cittadini lampedusani, che si confrontano da anni con l'emergenza e che meglio di chiunque possono testimoniare quali siano gli strumenti migliori e più efficaci per un'accoglienza responsabile. «Sarà un'occasione preziosa», aggiunge Grigolato, «per vedere con i miei occhi questo luogo simbolo e cogliere spunti utili a sviluppare anche nel nostro territorio delle riflessioni condivise sulle azioni da mettere in atto». Il presidente offrirà un reportage completo della visita, in tempo reale sulla pagina Facebook dell'associazione www.facebook.com/aclivenezia. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VI “La burocrazia frena gli sponsor per l’arte” di Filomena Spolaor L’arte e la cultura hanno bisogno di sponsor. E, in tempi di crisi, sempre di più. Se ne è parlato ieri al Centro Candiani di Mestre, in un incontro organizzato dall'Università Popolare. Enrico Bressan di Fondaco Srl, intervistato dal capo dell'edizione di Venezia e Mestre del Gazzettino, Tiziano Graziottin, ha illustrato l’operato della sua società, fondata nel 2004 a Venezia, diventata "un cuscinetto operativo tra pubblico e privato". Ovvero, va alla ricerca di aziende che decidono di sostenere interventi di restauro e valorizzazione di importanti opere d'arte. «È un metodo di gestione che riguarda tempi e costi certi» precisa Bressan, che a Venezia ha già all'attivo tre partecipazioni alla Biennale, cinque mostre, 53 restauri e centinaia di eventi. Ma Fondaco è attiva anche a Milano e Firenze, fino a Cittadella. «Abbiamo portato a Roma la Bonduelle, creando una linea di insalate lavate e il marchio "Orti per l'arte". Anche la Rigoni di Asiago, in occasione dell'Expo di Milano, ha aperto un negozio monomarca, sostenendo il restauro dell'Arco dei Gesuiti nel palazzo di Brera» racconta Bressan. Insomma, Fondaco contatta l'azienda, si occupa della conservazione e del restauro di un'opera d'arte, seguendo anche tutto l'iter burocratico (dal reperimento delle autorizzazioni al rilascio delle fideiussioni), curando la comunicazione e il rapporto con le istituzioni. Ma, anche qui, è la burocrazia a creare problemi. «La legge dell’"Art bonus" è difficile da realizzare, perché tratta tutto sotto l'egida dell'erogazione liberale, concetto non contemplato nello statuto di un'azienda in Italia. Quando faccio un'erogazione liberale, significa che dò un euro per fare qualcosa, ma non posso comunicarlo all'esterno e devo fare un atto di mecenatismo. Ma l'imprenditore ha bisogno di comunicare» spiega Bressan. Insomma, l'azienda che sfrutta l'Art bonus ha una detrazione fiscale del 65%, ma non può farsi pubblicità davanti al Fisco. Su questo Bressan si è già confrontato con il ministro Franceschini, proponendogli di attivarsi sulla legge delle sponsorizzazioni, in quanto permetterebbe contributi fino a 40mila euro e un controllo pubblico sulle aziende. Graziottin ha ricordato le polemiche nate dai lavori sponsorizzati con enormi depliant e cartelloni a Venezia. «Renzo Rosso non ha bisogno di una gigantografia sul ponte di Rialto, ma di tecnologia. Il 3 maggio inaugurerò il restauro del Leone sulla Scala dei Giganti a Palazzo Ducale e per la prima volta in Italia, abbiamo ripreso con webcam i restauratori al lavoro». Su Mestre, a Bressan piace molto l'idea che l'area di Forte Marghera sarà utilizzata per la prossima Biennale. Pag XV Paritarie a rischio, Ferrazzi attacca di m.fus. Il capogruppo del Pd rilancia le “convenzioni triennali” «La soppressione delle convenzioni triennali è un errore ingiustificato e grave». Dopo l’allarme lanciato dalla diocesi per il rischio chiusura di molte scuole paritarie, il

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consigliere del Pd Andrea Ferrazzi accusa il Comune di fare un passo indietro, mettendo pericolosamente in crisi il sistema scolastico. «Da assessore - spiega Ferrazzi - avevo personalmente voluto, con il sostegno del Consiglio comunale, che queste scuole fossero finalmente riconosciute nel ruolo pubblico, come la legge da tempo sostiene. Per la prima volta, attraverso le convenzioni triennali il Comune garantiva sostegno economico, certezza pluriennale delle risorse, tempi di trasferimento anticipati rispetto l'inizio dell'anno scolastico». Ferrazzi presenterà un'interrogazione su questo tema, per chiedere a sindaco e giunta di tornare sui propri passi. «Senza il rinnovo delle convenzioni triennali - conclude il consigliere - si mette a rischio il delicato equilibrio su cui si regge questo sistema scolastico, talvolta gestito da associazioni di genitori. Già attraverso la riduzione del sostegno economico questa amministrazione fa fare un negativo passo indietro. A rimettercene saranno le famiglie di tutta la città». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 13 Scoperti i “veleni” nel sangue. Ora esami per 250mila veneti di Alda Vanzan Inquinamento da Pfas, presentati i risultati dell’Istituto superiore di sanità. Interessati 31 comuni tra Vicenza, Padova e Verona Le sostanze perfluoroalchiliche usate per produrre le pentole antiaderenti, la carta da forno o il Goretex degli indumenti e sversate per trent’anni in natura senza nulla temere perché limiti di legge sugli scarichi non ce n’erano e ancora non ce ne sono, non hanno contaminato solo le falde e i pozzi di 31 Comuni del Veneto. Quei Pfas prodotti della fabbrica Miteni di Trissino sono finiti anche nel sangue dei cittadini. Su un campione di 507 veneti dei Comuni di Montecchio Maggiore, Lonigo, Brendola, Creazzo, Altavilla, Sovizzo, Sarego (i più esposti), Mozzecane, Dueville, Carmignano, Fontaniva, Loreggia, Resana, Treviso (la cosiddetta area di controllo) circa la metà - quelli della prima fascia - è risultata positiva alle analisi e da oggi i singoli saranno contattati dalle strutture sanitarie. Cosa rischino, non si sa. I Pfas sono potenzialmente cancerogeni, anche se i test finora eseguiti hanno dato esiti negativi, compreso il tumore al testicolo che secondo i sanitari è quello più correlabile all’accumulo di queste sostanze. In ogni caso il Registro tumori ha deciso di tenere sott’occhio l’area contaminata. I Pfas potrebbero far aumentare il colesterolo piuttosto che causare disturbi renali. Ergo, i 507 veneti - soprattutto quelli dell’Ulss 5 risultati maggiormente esposti - dovranno essere nuovamente controllati almeno per i prossimi 2 se non 4 anni, visto che è questo il tempo necessario per "ripulire" il sangue. Non solo: tutti i cittadini dell’area contaminata - erano 31 Comuni tra le province di Vicenza, Padova, Verona, ora scesi a 29 perché nell’ultimo aggiornamento sulla contaminazione di acque potabili sono stati tolti Trissino e Montebello - saranno sottoposti a uno screening, oltre 250mila persone saranno invitate dalle rispettive Ulss a sottoporsi a esami del sangue e marcatori tumorali. Non pagheranno un centesimo di ticket, l’esenzione avrà un preciso nome: "codice Pfas". Tutto questo è stato spiegato ieri a Palazzo Balbi, in una conferenza stampa cui hanno partecipato l’assessore regionale alla sanità Luca Coletto, il direttore generale della sanità Domenico Mantoan, Francesca Russo dell’Igiene e sanità pubblica, Loredana Musmeci dell’Istituto superiore di sanità, Marco Martuzzi dell’Organizzazione mondiale della sanità, il direttore del Registro tumori del Veneto Massimo Rugge, il commissario dell’Arpav Alessandro Benassi. Posto che il problema Pfas è esploso nel luglio 2013 quando a Venezia sono piombati i dati di uno studio del Cnr di cui nessuno sapeva niente, tutti - a cominciare dall’Oms - ieri hanno sottolineato che la Regione Veneto si è attivata immediatamente mettendo in sicurezza gli acquedotti e che c’è stata collaborazione tra gli enti. Lo stato dell’arte al momento è il seguente: 1) gli acquedotti sono considerati sicuri con i filtri al carbone, ma Arpav non esclude di valutare sistemi alternativi; 2) anche per gli animali deve essere usata acqua potabile; 3) sull’acqua per irrigare campi e serre non c’è ancora una decisione; 4) c’è l’ipotesi di una sperimentazione su base volontaria per smaltire i Pfas dal sangue (e tra i volontari

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potrebbe esserci Domenico Mantoan: il big manager della sanità regionale, che abita a Brendola, non solo è tra i 507 del biomonitoraggio, ma ha detto di essere pure risultato positivo: 25 nanogrammi per grammo di siero quando il valore base è 1). Ma la domanda che i sindaci dei Comuni interessati - convocati ieri in Regione - hanno rivolto è stata di natura economica. Ossia: chi paga? Su questo Coletto è stato chiaro: «La Regione, i Comuni, le aziende acquedottistiche, i cittadini residenti nelle aree interessate da un inquinamento le cui responsabilità non sta a me ma alla magistratura indicare, sono la parte lesa». «La materia non è normata», ha ammesso Martuzzi dell’Oms. E, infatti, a mancare sono i limiti per lo scarico nelle acque: l’Iss e il ministero della Salute hanno dato parametri per l’acqua da bere, ma il ministero dell’Ambiente - grande assente in questa vicenda - non ha fatto altrettanto per gli scarichi. Paradossalmente la Miteni oggi e la Rimar ieri quando la fabbrica era dei Marzotto, ha fatto tutto "in regola", mancando limiti sugli sversamenti. Tant’è che a Verona, mancando il reato, un esposto è stato archiviato. Adesso, assicura Arpav, la Miteni si è adeguata alle prescrizioni regionali, anche se - ha sottolineato Benassi - la competenza in materia è statale. Resta la domanda: chi paga? A Palazzo Balbi stanno prendendo corpo due ipotesi. Una è di ventilare il danno da avvelenamento di persone. L’altra, confermata da Coletto, è non solo di avviare una azione giudiziaria, ma anche di far dichiarare l’area contaminata Sito di interesse nazionale (Sin) per le bonifiche: «Faremo una valutazione in giunta con il presidente Zaia anche per questo ambito, è sicuramente un inquinamento di interesse nazionale non trascurabile». Da registrare, infine, le proteste dei gruppi di minoranza in consiglio regionale per non essere stati informati. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag II Aperta ad Annone la prima vera moschea. Con un convertito di Monica Andolfatto E a Jesolo gli islamici invitano il Patriarca, domani il taglio del nastro del Centro che fa discutere La loro moschea l'hanno inaugurata sabato scorso, proprio nel giorno in cui è entrata in vigore la nuova legge regionale sulle moschee: una grande festa che ha richiamato nella zona industriale di Annone Veneto oltre trecento fedeli anche da fuori regione. La suggestiva cerimonia è stata scandita dalla presenza del grande Imam d'Egitto Amara di San Donà di Piave e soprattutto dalla conversione di un trentenne trevigiano. Si tratta di Walter B., ingegnere informatico, che dopo aver studiato il Corano ha deciso di abbracciare il credo di Allah, prendendo il nome di Said ed entrando a pieno titolo nella famiglia del Profeta. Il suo ingresso è stato salutato con entusiasmo da tutti i presenti: il suo è il terzo caso di conversione registrato nella comunità musulmana annonese. Il taglio del nastro dello scorso fine settimana è stato atteso per quattro anni, il tempo necessario a raccogliere, grazie alle offerte dei fedeli, i soldi per comperare il capannone al civico 10 di via Pertini, diventato punto di ritrovo per il sermone del Venerdì con l'obiettivo di acquisirlo per trasformarlo appunto in moschea. La prima di proprietà in provincia di Venezia, la prima che può chiamarsi tale, superando la mera definizione di centro culturale islamico che indica i vari luoghi di preghiera sparsi sul territorio. A firmare l'atto di acquisto dello stabile dal notaio è stato Tanji Bouchaib, presidente dell'associazione Assalam (pace) di Annone, e al vertice della Federazione Islamica del Veneto, al quale a febbraio è stata conferita la cittadinanza italiana a Cinto Caomaggiore, comune dove risiede da oltre vent'anni. Assalam è attiva nel Veneto orientale dal 2008 e da sempre, oltre che a coagulare attorno a sé i musulmani della zona, si è distinta per le numerose iniziative tese a promuovere il dialogo e l'integrazione, rifiutando l'integralismo e il radicalismo religioso condannando senza alcuna ambiguità i fondamentalisti dell'Isis e la loro "guerra santa". «Questa moschea - spiega Bouchaib - è fatta per l'incontro, per la preghiera di ogni giorno e quella del venerdì. Abbiamo tante idee per il futuro, continueremo con la scuola araba e anche con il gemellaggio con le altre associazioni. Fra i prossimi appuntamenti la grande preghiera serale del Ramadan che inizia il 6 di giugno con l'Imam governativo del Marocco». Jesolo - Mentre l’allarme della "Bild" sui presunti kamikaze sulle spiagge venete fa ancora discutere, a Jesolo la comunità islamica ribadisce l’intenzione di aprirsi e

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stringere rapporti solidi con la comunità cittadina e con il mondo cattolico. L'inaugurazione del centro culturale islamico è prevista per domani alle 12.30. Ma sul taglio del nastro potrebbero incidere all'ultimo momento le valutazioni dell'ufficio tecnico comunale che non ha ancora completato tutte le verifiche sull'immobile. Proprio per questo oggi il sindaco Valerio Zoggia - che è stato formalmente invitato alla cerimonia assieme al Patriarca di Venezia Francesco Moraglia - incontrerà i tecnici del Comune per valutare la situazione nel suo complesso. «In Comune è arrivata una lettera di invito - ha spiegato il sindaco - ma l'ufficio tecnico deve ancora completare le verifiche del caso. Proprio per questo oggi incontrerò i dirigenti dell'ufficio per fare tutte le opportune valutazioni». L'idea del gruppo islamico "Incontro", che rappresenta la comunità musulmana del litorale, è comunque quella di ufficializzare domani l'apertura della propria sede che sorgerà in via Aquileia, in un locale di 130 metri quadrati alle spalle di piazza Mazzini. Il programma della cerimonia prevede il taglio del nastro alle 12.30 mentre alle 13 ci sarà la preghiera collettiva. Anche per questo in città le polemiche non mancano, soprattutto sull'opportunità di aprire o meno questo centro visto che in molti temono che da centro culturale possa trasformarsi in moschea. «Come eravamo contrari alla concessione del Pala Arrex per la preghiera di fine Ramadan - dicono Christofer De Zotti e Lucas Pavanetto - adesso siamo scettici rispetto all'apertura di un centro islamico in pieno Lido. Non vogliamo restringere la libertà di nessuno, ma ci chiediamo perché nei paesi islamici non è possibile in piena libertà e sicurezza professare la propria confessione religiosa per chi non è musulmano». A difendere l'apertura del centro è invece Salvatore Esposito di Sinistra Italiana, che ha annunciato l'adesione da Jesolo per il ricorso alla Corte Costituzionale contro la legge regionale che vieta l'apertura delle moschee nei centri urbani e che è pronto ad organizzare delle manifestazioni invitando musulmani da tutta Italia. LA NUOVA Pag 1 Una piazza per cambiare il Veneto di Paolo Possamai La drammatica vicenda delle banche popolari venete porta con sé alcune riflessioni, che non riguardano affatto solo i soci, i clienti e i correntisti. Non è in questione anche altro da una furiosa distruzione di patrimoni familiari, aziendali, di comunità. Il disgraziato itinerario di due istituti - Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca - tra i maggiori dieci a livello nazionale è una partita che chiama in causa anche la capacità riformista e la capacità di leadership del Veneto (o se preferite: del Nordest). Se alla fine di quest’anno il Veneto avrà perduto il controllo di tutte le banche di territorio, e se i centri decisionali saranno altrove emigrati - includo in questo ragionamento anche il Banco popolare, poiché l’asse post fusione con Bpm slitterà su Milano - non dipenderà da un destino cinico e baro. Sarà invece l’effetto di una incapacità e di un’attitudine ciecamente conservativa. Che è - per l’appunto - l’inverso del riformismo di cui il Veneto è stato portabandiera dagli anni ’90 in avanti e che è andato progressivamente perdendo, con l’esaurirsi - in particolare - della spinta di una formidabile leva di sindaci, imprenditori, leader dell’associazionismo (cattolico e non), intellettuali. Occorre puntualizzare il senso di questa tesi. Intendo dire che le storture del sistema banche popolari erano del tutto note anche alle nostre latitudini. Che fosse una patologia grave la permanenza ai vertici delle stesse persone lungo un quarto di secolo, non poteva sfuggire. Ma il ceto dirigente delle banche medesime, che era a propria volta un pezzo fondamentale del sistema a livello nazionale, non ha proposto alcun processo di auto-riforma. Pura conservazione espressa da chi era seduto nei posti di comando, così come nessuna voce di critica dal resto del corpo sociale. Esito finale di tale parabola: le banche sono andate incontro alla crisi economica truccando le carte, e dando a Roma e al governo il punto di leva per un intervento di riforma radicale, e dando alla Bce la chance di destrutturare totalmente l’assetto bancario a Nordest (e non solo). La vicenda delle banche, insomma, indica con evidenza come il ceto dirigente veneto abbia smarrito lo slancio al cambiamento, abbia perso di vista un progetto di lungo periodo. Parlo di ceto dirigente e non restrittivamente solo di ceto politico. Il tiro al bersaglio verso la politica, infatti, è addirittura ovvio tenendo conto del livello espresso da parte significativa dei rappresentanti eletti nei vari ambiti istituzionali. Ma la questione è di portata più larga, più pervasiva. Perché in effetti è come se fossimo tutti prigionieri di una sorta di collettiva disillusione (per i troppi

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investimenti in speranza andati falliti negli anni passati), come se fossimo preda di un flusso di corrente negativa (perché ci pare impossibile pensare che domani non sarà peggio di oggi, e di sicuro inattingibile la ricostruzione di ciò che è stato ieri). Ipotizzare una nuova stagione di federalismo, per esempio, può strappare un sorriso sardonico, scetticismo, incredulità. Perché abbiamo dato eccellenti ragioni alla burocrazia romana per un processo di neo-centralismo che ha consegnato le amministrazioni locali a una sorta di camicia di forza. Siamo stati con-causa di questa avvilente condizione. Quando avremo preso consapevolezza dei nostri limiti e dei nostri errori, e se la piantiamo di dare la colpa di tutto a Roma, Francoforte e Bruxelles, saremo in grado di collocare la pietra angolare di un edificio nuovo. I mattoni non mancano, di questo dobbiamo essere altrettanto persuasi che delle nostre passate gravi inadempienze e lentezze e insufficiente e ignavie. I mattoni sono i tantissimi attori – più o meno nascosti – della società veneta che ne hanno consentito la salvezza nonostante tutto. Parlo di un ceto dirigente diffuso, che sta sotto alla crosta malata. Parlo di docenti universitari, industriali, operatori dell’associazionismo, professionisti che hanno saputo – ciascuno nel proprio ambito – perseguire obiettivi di rinnovamento e di rilancio, che non si sono impigriti e ripiegati. Parlo di una generazione nuova, cui gli ottantenni dovrebbero dare spazio. E riguardo ai temi, è possibile iniziare a guardare dentro per davvero e seriamente al negoziato Stato/Regione che dovrebbe assegnare competenze nuove all’autogoverno di territorio? È possibile farlo senza proclami e pragmaticamente spiegando obiettivi, tempi, modi? Il giornale che state leggendo di questi fermenti di rinnovamento andrà in cerca. Vuole essere una piazza in cui la parte più dinamica del Veneto possa incontrarsi, riconoscersi, coltivare progetti e speranze. Perché senza speranze a malapena è possibile traguardare domani e cinicamente giocare a sopravvivere. Troppo poco, per un Veneto che può legittimamente coltivare ben altre ambizioni e che appena una manciata di anni fa era luogo di studio apparentato alle regioni più avanzate d’Europa. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le ragioni di un duello inevitabile di Massimo Gaggi America e voto Hillary Clinton vince con ampio margine nel suo Stato e chiude, di fatto, la partita per la «nomination» democratica. Le primarie di New York, mai decisive dall’era di Franklin Delano Roosevelt, stavolta incoronano il candidato progressista alla Casa Bianca. Bernie Sanders lamenta il meccanismo penalizzante del voto, riservato ai democratici iscritti alle liste elettorali, con gli indipendenti esclusi. Amarezza comprensibile, ma questo risultato fa emergere una delle (varie) vulnerabilità del senatore socialista del Vermont: un indipendente che ha indossato la casacca democratica solo per partecipare alle presidenziali. Il voto di New York è un punto di svolta anche per i repubblicani: la vittoria di Donald Trump era scontata e il miliardario, a differenza di Hillary, probabilmente non arriverà al quorum necessario per garantirsi la nomination. Ma lui nell’«Empire State» ha cambiato marcia su tre fronti: intanto non solo ha vinto, ma ha stravinto conquistando 89 dei 95 delegati in palio. Inoltre Trump negli ultimi giorni ha cambiato tono e linguaggio: forse vuole chiudere il «circo Barnum» degli insulti e delle affermazioni mozzafiato, clamorose o agghiaccianti, che gli hanno garantito l’attenzione continua dei «media», per darsi un’immagine più presidenziale. Così ieri «lyin’ Ted» (Ted il bugiardo) è diventato «il senatore Cruz». Trump ha, infine, approfittato di giorni meno tesi (qui giocava in casa) per riorganizzare la squadra elettorale trasferendo la guida della campagna dall’irruento Corey Lewandowski allo «stagionato» Paul Manafort: un super professionista della politica con molto pelo sullo stomaco. Non è detto che queste correzioni di rotta durino e abbiano successo: Trump è sempre imprevedibile e la scelta dei mesi scorsi di straparlare, sicuramente studiata a tavolino, è, però, conforme alla sua indole. Senza contare che i «nuovi repubblicani» radicali che sono andati a votarlo pendono proprio dalla sua lingua di carta vetrata. Quanto al team elettorale, voci

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anonime dall’interno della campagna parlano di un clima da guerra civile con Lewandowski, ridimensionato ma non esautorato, che tiene duro, mentre Manafort - uno che in vita sua ha consigliato tre presidenti conservatori (Gerald Ford, Ronald Reagan e Bush padre), ma anche Viktor Yanukovych, il presidente filo-russo dell’Ucraina deposto in seguito alla «Orange revolution» - già si comporta da padrone assoluto: piazza i suoi uomini nei centri nevralgici e incalza il «campaign manager» uscente anche spulciando le sue note spese. Né quello di ieri può essere considerato un knock out definitivo per Cruz, arrivato qui da sicuro sconfitto, visto che si era «suicidato» in anticipo coi suoi attacchi alla «cultura di New York». Ma New York l’ha ripagato dandogli un misero 14% e zero delegati. A questo punto il senatore del Texas è quasi matematicamente fuori dalla gara per il quorum dei rappresentanti repubblicani: per farcela dovrebbe conquistare 678 dei 734 delegati in palio nelle primarie delle prossime settimane, lasciando a Trump solo le briciole. Impensabile. Gli rimane, quindi, solo la guerra d’interdizione sperando che nemmeno Trump tagli il traguardo dei 1237 delegati e che, quindi, quella di Cleveland sia una convenzione «contestata», aperta a ogni sorpresa. È questo lo scenario coltivato nelle settimane scorse dall’ establishment repubblicano che teme di vedere il proprio partito smantellato dalla leadership di un tycoon populista chiaramente pronto a gettare alle ortiche gran parte del bagaglio ideologico del Grand Old Party. I sismografi repubblicani, però, indicano che, dopo la vittoria a valanga di Trump a New York, molti oppositori del miliardario si stanno chiedendo se, assente un candidato alternativo valido, sia davvero possibile negargli la nomination senza traumi (o, peggio, rivolte) qualora «the Donald» mancasse il quorum solo per qualche decina di delegati. Quanto ai democratici, la prospettiva della prima donna presidente è da ieri molto più concreta, mentre l’amarezza di Sanders è temperata dal fatto che Bernie, partito dal 3% dei primi sondaggi è riuscito non solo a insidiare la royal family della sinistra, ma anche a spostare l’asse della politica americana. Pag 25 L’allargamento, cintura di sicurezza per l’Europa di Ricardo Franco Levi Lotta all’Isis Mentre l’Austria medita di alzare una barriera al Brennero, in Olanda due milioni e mezzo di cittadini respingono l’accordo commerciale tra l’Unione Europea e l’Ucraina. È un nuovo, doppio no a un’Europa aperta e larga. Al fondo, sempre più spesso, sempre più diffusa, si è sentita e si sente la critica all’allargamento dell’Europa all’Est e al Sudest: alla Polonia, all’Ungheria, ai Balcani. Soprattutto ai Balcani. Un allargamento improvvido, troppo veloce, prematuro, fatto mettendo il carro avanti ai buoi: questo dicono ormai in tanti. A tutti loro, perché sono tanti e perché le loro posizioni rischiano di trasformarsi in senso comune, è doveroso rispondere, difendendo e rivalutando il progetto, il significato, i risultati dell’allargamento. Potremmo parlare di economia e sottolineare come i nuovi Paesi dell’Est e del Sudest - basta chiedere agli imprenditori italiani cosa rappresenti oggi per loro la Romania - siano rapidamente diventati parte integrante e preziosa delle catene di produzione dell’industria europea. O, ancora potremmo ricordare come da loro, più in grado e più pronti a sfruttare il calo del prezzo del petrolio, sia venuto negli ultimi anni il maggior contributo alla crescita europea, con tassi di sviluppo che vanno dal 3,1 della Bulgaria al 4,8 per cento della Repubblica Ceca. Ma, per difendere l’allargamento, parlare di sola economia sarebbe riduttivo. A fronte delle paure dell’Europa è per la nostra sicurezza che l’anello che abbiamo costruito verso l’est in direzione della Russia e verso il Sudest in direzione del Medio Oriente e dell’Asia è stato ed è prezioso. Quali tensioni avremmo alle nostre porte se l’Ucraina confinasse non con Paesi membri a pieno titolo dell’Unione Europea (Polonia, Ungheria, Slovacchia, Romania) ma con territori abbandonati in un vuoto politico tra Russia ed Europa? Ma guardiamo più in là, ai Paesi che nell’Unione ancora non sono entrati ma che all’Unione guardano come al loro porto di approdo. Di fronte alla pressione dell’immigrazione dalla Siria e dal Mediterraneo orientale e, ancora peggio, della minaccia e degli attacchi dell’Isis, cosa sarebbe stato dei e nei Balcani? Dopo le guerre nell’ex Jugoslavia, Serbia, Montenegro, Bosnia, Macedonia, Albania, Kosovo sono diventati l’arsenale di kalashnikov e di ogni altro genere di armi da cui tutti, proprio tutti, attingono: dai terroristi islamici per gli attentati di Parigi agli americani per rifornire i Peshmerga curdi che combattono l’Isis nell’Iraq settentrionale. Se queste terre, teatro di conflitti e di orrori lungo i secoli, non si sono

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trasformati in una gigantesca polveriera, se abbiamo evitato che anche qui, sull’altra sponda dell’Adriatico, si insediasse il Califfo, è solo per l’ombrello politico che su di esse l’Europa, imparata la lezione dei massacri degli anni Novanta compiuti sotto i suoi occhi distratti, ha saputo e voluto stendere riconoscendone la «vocazione europea». Nell’estate del 2014, prima ancora di diventare presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker disse che nei suoi cinque anni di mandato non ci sarebbe stato alcun altro allargamento dell’Unione. Fatta per ingraziarsi un pubblico spaventato, fu una dichiarazione vuota di contenuto concreto, perché nessuno dei Paesi balcanici sarebbe comunque stato in condizione di diventare così presto membro dell’Unione, e sbagliata, perché trasmetteva il messaggio che, quali che fossero i loro sforzi, la porta dell’Europa sarebbe rimasta chiusa. Ci vorrà molto tempo prima che tutti i Balcani possano entrare a far parte a pieno titolo dell’Unione Europea superando, tappa dopo tappa, gli esami a cui tutti i Paesi si dovranno sottoporre per procedere nel cammino verso la possibile ammissione. Ma, se li vogliamo come alleati per la nostra difesa e la nostra sicurezza - e il pensiero di noi italiani va innanzitutto all’Albania - a tutti loro noi dobbiamo garantire che la strada verso l’Europa rimane aperta. AVVENIRE Pag 2 Ma la disumanità si vince con l’umanità di Mario Chiavario Il ricorso vinto dallo stragista Breivik e un principio-cardine Ci sono sentenze che di primo acchito non possono non lasciare sconcertati e persino increduli. Così si può dire di quella pronunciata ieri da una Corte norvegese, in risposta a un ricorso presentato da Anders Breivik, squallido epigono della ferocia nazista e colpevole della strage sull’isola di Utoya che nel 2011 costò la vita a decine di persone, sorprese e massacrate nel corso di una pacifica manifestazione politica. Ma come? Un individuo del genere osa accusare, proprio lui, di disumanità il trattamento che gli tocca subire come sanzione per l’orrendo crimine commesso? Osa lamentarsi dell’isolamento in cui è stato tenuto per meno di cinque dei 21 anni (salvo possibili proroghe) cui venne condannato? Non è, questo, un ulteriore sfregio alla memoria delle vittime innocenti di un crimine tanto enorme? Sono domande che hanno un senso. E sono del tutto comprensibili, dunque, i commenti sferzanti e le reazioni di rabbia di fronte alla notizia, così come viene immediatamente percepita: tanto più che, a quanto pare, le condizioni in cui Breivik si è trovato recluso non sono propriamente quelle degli ospiti del Castello di If, come tratteggiate dalla penna di Alexandre Dumas. Ma è proprio inevitabile fermarsi lì? D’accordo. Quanto al caso di specie, è probabile che nelle loro conclusioni i giudici di Oslo abbiano ecceduto in rigore nei confronti dell’apparato penitenziario, finendo in tal modo con l’eccedere, al contrario, in “buonismo” verso una persona che ai nostri occhi già appare trattata con notevole indulgenza quanto alla misura della pena inflittale. Ma altra cosa sarebbe coinvolgere, nella ripulsa, un principio che invece dovrebbe essere un caposaldo di ogni società civile: è quello secondo cui le pene non possono mai tradursi in qualcosa di inumano: principio che anche la nostra Costituzione ha fissato (all’articolo 27) e che la Convenzione europea dei diritti umani ha sottratto a qualsiasi deroga, persino in relazione ai casi di guerra o di pericolo che minacci la vita di una nazione (articoli 3 e 15). Per certi versi, e con più di una sfaccettatura, il problema dei riflessi di quel principio ha traversato anche gli “Stati generali dell’esecuzione penale”, le cui indicazioni sono state riassunte e discusse a Roma nei giorni scorsi. Due, tra tante, le questioni che ne discendono, particolarmente scottanti e dai più spessi riflessi concreti: quella del cosiddetto “ergastolo ostativo”, che tuttora impedisce di scalfire la regola della perpetuità della pena per una parte di coloro che vi sono assoggettati, negando loro la possibilità – ad altri concessa – di fruire della liberazione condizionale dopo 26 anni di “buona condotta”; e quella della fisionomia da assegnare alla misura prevista dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario (sacrosanto strumento per recidere pericolosi contatti tra i boss della criminalità organizzata con i loro adepti, interni ed esterni al mondo delle prigioni, o “carcere duro” di mero inasprimento della detenzione, con aspetti privi di qualunque rapporto con finalità di tutela della sicurezza collettiva?). Più in generale, si tratta di una problematica che specialmente dei cristiani non dovrebbero respingere con fastidio, come pure sono tentati di fare adeguandosi al cosiddetto sentire comune. Quello secondo cui i criminali

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estremi “non hanno diritti” e per loro non può valere nessuna legge di umanità, trattandosi – quante volte lo abbiamo udito... – soltanto di belve. Oppure è questo uno dei punti su cui si preferisce ignorare gli stessi richiami alla misericordia, forti, e non retorici, da parte di papa Francesco, dove c’è spazio anche per ben diverse risposte specifiche a questioni come quelle? A una misericordia, beninteso, non cieca e sorda alle istanze autentiche di giustizia. Pag 3 La Francia ha perso l’egalité tra nuovi ghetti e precarietà di Daniele Zappalà Disuguaglianza al top e calo delle nascite. E’ allarme Attorno alle 21, Marwen Belkaid, studente universitario con radici familiari maghrebine, è entrato in scena e si è seduto davanti al presidente socialista François Hollande, piuttosto rigido di fronte alle telecamere della recente trasmissione speciale concepita per permettere a un panel di francesi di dialogare con il capo dello Stato. A un certo punto, il giovane 'di sinistra' ha squadrato l’interlocutore, spiegando perché si è unito alle proteste parigine non stop di Nuit Debout (notte in piedi), gli indignados alla francese che fanno le ore piccole a Place de la République per denunciare le 'oligarchie' di ogni tipo, finanziarie o politiche: «Signor Presidente, sono cresciuto a Marsiglia e ho avuto la fortuna di frequentare un buon liceo, prima di essere ammesso all’università. Ma rispetto a quelli che frequentavo da bambino, mi rendo conto di essere un’eccezione». Di questi tempi, nelle grandi città d’oltralpe, si possono incrociare tanti giovani come Marwen, pronti a ingrossare proteste di ogni tipo: da quelle sindacali contro la bozza di legge El Khomri (voluta dall’esecutivo per rendere assunzioni e licenziamenti più 'flessibili'), fino a quelle meno convenzionali 'contro il sistema', di vaga ispirazione sessantottesca, già al centro di numerosi scontri con la polizia antisommossa (Crs) e di furori vandalistici contro commissariati, facoltà e altri simboli istituzionali. Tanti editoriali prevedono altri mesi agitati, dati i malcontenti che ribollono nella 'generazione Y' con gli auricolari sempre innestati ad apparecchi vari (donde il nome), in mezzo a una Francia che stenta a onorare 'l’ascensore sociale' evocato fra le righe pure dallo studente Marwen. Ma con un rapporto intitolato «La frattura territoriale», è stata la Caritas francese (Secours Catholique) a realizzare la fotografia più precisa degli squilibri sociali dietro questa tensione, particolarmente avvertita nella regione parigina. Fissando l’attenzione proprio sui 12 milioni di abitanti che vivono nella capitale e nella sua vasta banlieue, il rapporto denuncia l’accrescersi continuo di disuguaglianze d’ogni tipo: alloggi, istruzione, sanità, redditi, capacità di rialzarsi dalle 'cadute'. Statistiche e testimonianze alla mano, lo studio denuncia «un forte aumento delle persone in situazione di precarietà nei comuni e nei dipartimenti più sfavoriti, dov’erano già maggioritari». È il caso, in particolare, nei quartieri del cosiddetto '93', il dipartimento Seine-Saint-Denis (a nord di Parigi) dove la popolazione ha spesso radici familiari nei Paesi arabo-musulmani. Proprio lo stesso dipartimento da anni al centro della cronaca più inquietante: dai roghi giovanili notturni dell’autunno 2005, fino agli ultimi fermi ed arresti di giovani sospetti da parte dell’antiterrorismo, nella fosca scia delle stragi jihadiste. L’orrore del 13 novembre era cominciato attorno allo Stade de France, in pieno '93'. E qualche giorno dopo, nelle immediate vicinanze, un impressionante blitz delle teste di cuoio ha portato all’uccisione del ventottenne Abdelhamid Abaaoud, 'cervello' delle stragi. Anche se gli analisti sottolineano che esiste sempre pluralità di fattori dietro i reclutamenti di giovani da parte delle sigle jihadiste, pare da tempo innegabile la forte correlazione delle derive giovanili criminali e terroristiche con 'l’apartheid territoriale' alla francese, come l’ha definita lo stesso premier socialista Manuel Valls, a capo di un esecutivo che spera di contrastarla facendo leva sulla scuola. Ma in proposito, al di là degli auspici ufficiali, un intero capitolo del rapporto della Caritas denuncia le «disuguaglianze crescenti del sistema educativo», già evidenziate a livello internazionale pure dall’Ocse. Nel rapporto, la testimonianza di un preside del '93' è eloquente: «Nel nostro istituto il 95% della popolazione scolastica appartiene alla categoria C, sfavorita, o D, molto sfavorita. Non abbiamo nessuna famiglia di categoria A, agiata. Sono in questa scuola dal 2003. Con gli anni, si può dire che la situazione delle famiglie è peggiorata. Siamo nella miseria sociale». La regione di Parigi (Ile-de-France) è di gran lunga la più ricca del Paese (31% del Pil nazionale), ma pure quella con i comuni dove la povertà è più intensa e concentrata. E la convivenza di ricchi e poveri negli stessi

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quartieri pare spesso quasi un’utopia d’altri tempi, tanto è evidente il continuo ingrossarsi di fitti grappoli di quartieri e comuni 'chic' sempre più ricchi, contrapposti a dei 'ghetti sociali' sempre più poveri, come sottolinea il rapporto. Da decenni, i sindaci e altri amministratori dei primi preferiscono pagare multe salate, pur di non rispettare la legge che imporrebbe di costruire alloggi popolari in tutti i comuni del Paese. Per la Caritas, è innegabile l’approfondirsi di una «tendenza che, senza un intervento decisivo dei poteri pubblici nella politica di pianificazione del territorio dell’Ile-de-France, proseguirà fino alla rottura del tessuto sociale della regione». Ma in proposito, molti osservatori s’interrogano sui margini futuri di manovra dello Stato, oberato da un debito pubblico lievitato in fretta negli ultimi anni e ormai vicino al 100% del Pil. Secondo il rapporto, le categorie che rischiano di ritrovarsi maggiormente senza reti di protezione in caso di caduta sono soprattutto due: i giovani e le numerosissime famiglie monoparentali (quasi sempre, madri sole con figli). Queste ultime risultano ancor più concentrate nei territori fragili: nei 10 comuni più poveri del '93', esse rappresentano quasi un quarto del totale (23,9%), contro una media del 17,4% nella regione parigina. E per molte di queste famiglie, i sussidi statali o le agevolazioni fiscali rappresentano risorse vitali. Di fronte a simili picchi di fragilità nei legami familiari, un eventuale giro di vite nel welfare a causa dei conti pubblici in rosso potrebbe generare effetti pesanti. Persino sulla demografia, finora uno dei maggiori punti di forza del Paese. I n proposito, il noto demografo Gérard-François Dumont, docente alla Sorbona, ha appena analizzato il 'doppio allarme' contenuto negli ultimi dati sulla popolazione: in un solo anno, un calo del 2,5% delle nascite e un aumento dei decessi del 7% (senza considerare i territori dell’Oltremare). Accanto ad altri fattori, argomenta lo studioso, potrebbe trattarsi di una spia delle disuguaglianze di un sistema sanitario «segnato da lacune in certi territori». Proprio ciò che il rapporto Caritas, su scala regionale, denuncia come «un cattivo equilibrio nell’accesso alle cure». Accanto al dramma dei ventenni francesi attirati a centinaia nelle reti jihadiste, così come sullo sfondo dell’alta statua bronzea di Marianna, in Place de la République, dove bivaccano gli 'indignati' di Nuit Debout, c’è pure una Francia che scopre sempre più due dolorosi talloni d’Achille chiamati segregazione territoriale e sfaldamento delle famiglie. Pag 3 La gita mancata e i “lager” nella testa di Ferdinando Camon Il caso serio nella vicenda della bimba autistica Possiamo tirare una conclusione provvisoria, in attesa di quel che diranno gli ispettori, sul caso della bambina di Legnano, alunna di terza media, a quanto pare rifiutata dai compagni (e dai professori), che dovevano andare in gita a Mauthausen, perché è autistica. Così fu lanciata la notizia, che adesso di giorno in giorno cambia un po’. Più cambia, meglio è. Ci leva un peso. Tutti ne abbiamo parlato, appena arrivò. Anch’io. Ti chiamano radio, tv, giornali, e dici la tua, a tamburo battente. Poi ti arrivano le email di risposta, a decine. Molte sono d’accordo con te, ma alcune vanno più avanti. E ti devi spostare su nuove posizioni. Da queste nuove posizioni, torno sul caso. Il caso continua a parermi sgradevole per molte ragioni, tra cui: l’iniziale unanimità della decisione di escludere la bambina, il pieno accordo tra i compagni di classe, che da due mesi si scambiavano messaggini. A quanto pare, nessuno voleva dormire in camera con quella compagna. I ragazzi di terza media sono ancora immaturi, ho argomentato, non capiscono la gravità delle decisioni che prendono, a volte fanno del male senza rendersene conto. «Sbaglia – mi risponde un docente –, io insegno nella media inferiore, e le assicuro che sono sveglissimi, sanno molto più dei loro coetanei di una volta, ma sono egoisti». Nella notizia, quello che stupisce di più è che eran d’accordo anche i professori: meglio andare in gita, che prevede una nottata in albergo, senza la piccola autistica. Meno problemi, più allegria. Io, personalmente, non capisco come si possa pensare una gita a Mauthausen come una scampagnata. Per me, Mauthausen era ed è un problema, un angoscioso problema. Quel lager è noto come il più crudele di tutti. Fa parte della città. La collina a ridosso della città è coronata da una cinta muraria ampia, e i casamenti dentro le mura erano il lager. Sicché il lager lo si vede da chilometri di distanza. Eppure, quando ci sono arrivato per visitarlo, e chiedevo a tutti dov’era il lager, tutti mi rispondevano: 'Quale lager? Mai sentito, non c’è, vada via'. Ne avevo tratto l’impressione che i residenti non solo fossero stati complici una volta, ma fossero

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complici ancora. Errore, del quale chiedo scusa. È uscito un libro in Francia, tradotto in Italia da Marsilio col titolo All’ombra della morte, in cui due giornalisti francesi interrogano le persone del luogo su come mai non si accorgessero dei prigionierischiavi. Apprendiamo così che gli abitanti che passavano davanti alle cave dovevano scendere dalla bicicletta e avanzare a testa bassa, senza alzare gli occhi. Le SS li controllavano. Di sera le SS andavano all’osteria e si ubriacavano. Le ragazze del paese si allontanavano. Quelli le fermavano e chiedevano: 'Ti faccio paura?', 'Sì', 'Cos’è che ti fa paura?', 'Questo', e indicavano il teschio da morto sul frontino del berretto. Un lager era un luogo di logoramento e di eliminazione dei cosiddetti inferiori, ebrei, prigionieri, zingari, omosessuali, ma anche disabili e imperfetti. Un luogo di selezione della razza. E cosa fanno, scolari e insegnanti di quella terza media, escludendo la bambina autistica? Fanno una selezione, scelgono i perfetti della loro classe. Se la selezione è una strada molto lunga, in fondo alla quale sta il lager, questa terza media percorre il primo metro. Così ho scritto e dichiarato. Errore, mi fa osservare un interlocutore: non è il problema di una classe, se fosse così si potrebbe risolverlo in fretta, è un problema d’impostazione generale della società. Genitori e professori (non solo di quella scuola) insegnano che la vita è competizione, chi si ferma (magari per raccogliere un compagno caduto) è sconfitto, non vincerà. Il problema non è una scuola. È una cultura, anzi una civiltà. «I nostri figli non sono dei mostri», dichiara una madre. Credo voglia dire che non sono tanto diversi dagli altri, non fanno eccezione. Temo che abbia ragione. Aggiungo: purtroppo. IL GAZZETTINO Pag 1 Giustizia, Renzi ora non si deve fermare di Carlo Nordio Rincuorato dall’esito del referendum, e stimolato dalla balbettante reazione degli sconfitti, il presidente Renzi ha affondato la lama nella piaga dei processi penali, e ha detto quello che nessun leader di sinistra aveva mai osato dire: che negli ultimi venticinque anni il paese ha assistito a momenti di “barbarie giustizialista”. Ha citato, opportunamente, l’uso strumentale delle intercettazioni e dell’informazione di garanzia. Avrebbe potuto continuare a lungo. Magari concludendo che, in un paese normale, non è affatto normale che i magistrati che hanno indagato i politici si presentino alle elezioni per prendere il loro posto. Ma dopo l’infelicissima uscita del governatore della Puglia - ex pubblico ministero – che ha sostenuto di aver vinto dopo aver sonoramente perso, forse non ha voluto infierire. Ma è possibile che si riservi l’argomento per una prossima occasione. Chi, come noi, auspica da sempre una coraggiosa reazione del potere politico davanti alle storture di un sistema giudiziario invadente e anomalo, non può che rallegrarsi davanti a una presa di posizione così netta. Con l’auspicio, va da sé, che alle parole seguano i fatti, e che il premier non si intimidisca davanti alle prevedibili reazioni della anime belle del giacobinismo forcaiolo, come già avvenne anni fa ad alcuni suoi predecessori. Ricordiamo che persino il roccioso presidente D’Alema rinunciò alla sua riforma bicamerale su pressione dell’associazione magistrati. Ma i tempi mutano, e così le persone. Forse questa è la volta buona. Potrebbe esser la volta buona perché la sortita del primo ministro ha trovato consensi diffusi, anche in ambienti sino a ieri impermeabili all’analisi razionale delle distorsioni dei rapporti tra giustizia e politica. Persino un’esponente grillina ha ammesso che un’informazione di garanzia non è un buon motivo per l’ineleggibilità a una carica o per l’ esclusione da essa. E’ una cosa ovvia. Ma non lo era fino a ieri. Quindi, come dice il poeta, forse la ragione riprende a parlare, e la speranza a rifiorire. C’è tuttavia un paradosso in queste novità. Il paradosso risiede nell’atteggiamento di un centrodestra che, dopo aver predicato per anni un garantismo talvolta esasperato, retrocede ora in un prudente attendismo che sconfina nell’ambiguità. Invece di applaudire il premier, incoraggiandolo con una convergenza di intenti, sembra oscillare tra esitazioni e silenzi, rischiando di legittimare il sospetto, che vogliamo ripudiare con orrore, che le precedenti battaglie fossero ispirate, più che dalla nobiltà dei principi, da calcoli di interessi personali. E’ vero, e possiamo concederlo, che la politica – come il cuore - ha delle ragioni che la ragione non conosce, e che le ragioni dell’avversario possano essere avversate per opportunismo tattico, a prescindere dalla loro validità. Questo del resto lo abbiamo visto in occasione del referendum, dove il centrodestra ha incoraggiato il voto principalmente in odio al governo, senza peraltro

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considerare che l’eventuale successo degli abrogazionisti sarebbe stato monopolizzato dai grillini e dall’estrema sinistra. Più o meno come quaranta anni fa avvenne con il referendum sul divorzio, dove la vittoria di una legge firmata da un socialista e da un liberale spianò la strada al successo comunista e al successivo compromesso storico. Tuttavia vi sono argomenti sui quali vorremmo che il calcolo politico cedesse davanti all’importanza del principio. E la giustizia è uno di questi. La libertà personale vulnerata dall’eccesso di custodia cautelare; la dignità calpestata dalle intercettazioni generalizzate e diffuse; il pretesto dell’informazione di garanzia come strumento di estromissione degli avversari politici; l’andirivieni di magistrati dai tribunali al parlamento, e viceversa; ecco, questi, e tanti altri argomenti analoghi, sono così essenziali alla dignità dello stato che non possono essere asserviti e piegati alle convenienze elettorali. Perché, come ricordò in una solenne occasione Benedetto Croce, accanto a persone per le quali Parigi val bene una messa ve ne sono altre per le quali una messa conta molto più di Parigi: perché, ammonì il filosofo, “è questione di coscienza”. Pag 1 Dalle primarie le inquietudini degli americani di Massimo Teodori Con le primarie dello Stato di New York il gioco è quasi fatto per entrambi i candidati che a novembre si contenderanno la presidenza degli Stati Uniti. Hillary Clinton sarà probabilmente la candidata dei Democratici avendo superato, se pure con fatica, l’avversario di partito Bernie Sanders; e Donald Trump, che ha sbaragliato gli altri candidati Repubblicani, da Jeb Bush a Marco Rubio, da Ted Cruz a John Kasich, potrà essere il candidato dei Repubblicani a meno che si arrivi alla Convenzione nazionale del 18 luglio senza una maggioranza precostituita e si mettano in moto sconvolgimenti imprevedibili. A partire dalle ipotesi di nomination nei due partiti, i sondaggi prevedono che al voto finale dell’8 novembre prevarrà la ex First Lady sul tycoon di New York. Così, dopo il primo Afroamerican President entrerebbe alla Casa bianca la prima Woman President della storia americana, un’altra prova del potenziale di novità insito nel sistema elettorale presidenziale iscritto nell’antica Costituzione del 1787. Al di là dei risultati di New York, le primarie hanno fin qui trasmesso un messaggio di trasformazione della scena politica e dei caratteri dei partiti Democratico e Repubblicano. Le singolari affermazioni di Trump e Sanders, del tutto impreviste, hanno un significato analogo non tanto perché sono state etichettate “populismo” di destra e di sinistra, quanto perché hanno rivelato la diffusa inquietudine insita nella società americana. Si sono indirizzate a Trump quelle sezioni della classe media impoverita che costituiscono il principale bacino dell’elettorato bianco. La molla che ha mosso il trumpismo è stata la rabbia contro l’establishment di Washington, intendendo con questo termine l’elite conservatrice del potere politico che non avrebbe saputo difendere a sufficienza l’American Way of Life e l’orgoglio del “Credo americano” dei bianchi a fronte dell’avanzata politica e sociale dei non bianchi. Dall’altra parte, tra i Democratici, hanno votato per Sanders le masse giovanili insicure del futuro dimostrando uno slancio che ha messo in pericolo la stessa candidatura della Clinton sostenuta da massicci finanziamenti e dall’apparato di partito. L’anziano senatore del Vermont, con un messaggio “socialdemocratico” all’europea, in contrasto con la cultura individualista e antistatalista dell’America, ha sostenuto un maggiore intervento pubblico nel welfare e una più decisa lotta alla diseguaglianza sociale che tuttora getta un’ombra sulla più ricca nazione del mondo. E’ difficile dire quel che farà il futuro Presidente: chi arriva al vertice degli Stati Uniti - e del mondo - muta spesso convincimenti e obiettivi rispetto al passato. Il curriculum politico di Hillary Clinton non è affine a quello di Obama specialmente in politica estera dove ha seguito la tradizione dell’interventismo democratico mentre l’attuale presidente si è attestato, soprattutto nell’ultimo anno, sulla strategia del dialogo mettendo da parte la supremazia della forza militare americana. Nonostante le incertezze, su un aspetto della futura politica presidenziale si può tuttavia avanzare una previsione. Non potranno essere ignorate le istanze che si sono manifestate attraverso i candidati “populisti”. Con Trump è emersa la rabbia anti-establishment della classe media impoverita e l’ostilità dei bianchi conservatori verso l’immigrazione per cui il partito Repubblicano non sarà più quello del passato. Con Sanders sono balzati in primo piano i problemi del futuro dei giovani e le aspirazioni dei più poveri a un maggiore benessere, istanze che difficilmente il presidente Democratico potrà rigettare.

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