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RASSEGNA STAMPA di venerdì 5 maggio 2017 SOMMARIO Dal resoconto dell’Osservatore Romano sulla Messa del Papa ieri mattina a S. Marta: “Una Chiesa che «non resta seduta», che «sa ascoltare» l’«inquietudine della gente» e che come una «madre» genera i suoi figli «senza proselitismo» testimoniando «la gioia di essere cristiani». È la missione ecclesiale delineata da Papa Francesco nell’omelia della messa celebrata a Santa Marta la mattina di giovedì 4 maggio. Una missione che riguarda non solo la Chiesa di oggi ma la Chiesa di ogni tempo, come si evince dalla lettura dei primi capitoli degli Atti degli apostoli proposta dalla liturgia in questo periodo immediatamente successivo alla Pasqua. Apostoli che - ha sottolineato il Pontefice - per prima cosa hanno ricevuto da Gesù una promessa: «Io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo». Conferma si trova nel Vangelo di Marco, dove si legge «che quando gli apostoli predicavano il Signore agiva con loro e confermava la parola con i segni miracolosi». Quindi, ha detto Francesco: «il Signore, testimone di obbedienza, è presente nella predicazione; dall’inizio, accompagna i discepoli, mai li lascia soli, neppure nei momenti più brutti. Mai». Su questa base ha inizio la storia della Chiesa che, ha spiegato il Papa, si trova ben riassunta nei «primi otto capitoli del libro degli Atti degli apostoli». Qui, infatti, «c’è la predicazione, il battesimo, le conversioni, i miracoli, le persecuzioni, la gioia e anche quel brutto peccato di quelli che si accostano alla Chiesa per fare i propri affari, quei benefattori della Chiesa che poi alla fine truffano la Chiesa». Ad esempio, in questi primi capitoli, si ritrovano le vicende di Anania e Saffira. Nella liturgia del giorno è presentato un passo (Atti degli apostoli 8, 26-40) nel quale si parla della «conversione di un “ministro dell’economia”», un funzionario eunuco della regina di Etiopia, dal quale «lo Spirito dice a Filippo di andare». Papa Francesco, invitando i presenti a leggere personalmente l’intera lettura - «tre minuti: leggetelo tranquilli, vi farà bene» - si è soffermato su «tre parole» chiave. Innanzitutto ha notato come «lo Spirito, l’angelo, a Filippo disse: “Alzati e va’”». Si tratta, ha spiegato, del «segno dell’evangelizzazione, è un segno della Chiesa». E ancora: «la vocazione della Chiesa è evangelizzare; è la grande sua consolazione: evangelizzare». Ma come? «Alzati e va’». Ha spiegato il Pontefice: «Non dice: “Rimani seduta, tranquilla, a casa tua”. No! La Chiesa sempre per essere fedele al Signore deve essere in piedi e in cammino: “Alzati e va”». Infatti, «una Chiesa che non si alza, che non è in cammino, si ammala e finisce chiusa con tanti traumi psicologici e spirituali, chiusa nel piccolo mondo delle chiacchiere, delle cose... chiusa, senza orizzonti». L’invito invece è chiaro: «Alzati e va’, in piedi e in cammino». Continuando nel racconto emerge la seconda parola. Lo Spirito infatti invita Filippo ad accostarsi al carro del funzionario «che era un proselito giudeo. Dall’Etiopia era venuto a Gerusalemme ad adorare Dio». Dal testo emerge «che il suo cuore era inquieto perché leggeva le Scritture mentre andava sul carro». E - ha notato il Papa - lo Spirito non dice a Filippo: «predica a lui», ma: «accostati, ascolta». Ecco l’altra parola chiave, il «secondo passo»: quello della «Chiesa che sa ascoltare, la Chiesa che sa che in ogni cuore c’è un’inquietudine: tutti gli uomini, tutte le donne hanno un’inquietudine nel cuore, buona o brutta, ma c’è l’inquietudine. Ascolta quell’inquietudine». Bisogna ascoltare, ha aggiunto, «cosa sente la gente, cosa sente il cuore di questa gente, cosa pensa». Anche se pensa «cose sbagliate», perché occorre «capire bene dove è l’inquietudine». Infatti «tutti abbiamo l’inquietudine dentro» e la Chiesa deve «trovare l’inquietudine della gente». Una dinamica ben raccontata nel passo in cui si legge che il funzionario, avvicinato da Filippo, «ha avuto l’ispirazione di fare una domanda: “Ma dimmi, questo, di che persona parla?” - “Il profeta”. E lo ha fatto salire sul carro». Filippo «incominciò a predicare, a spiegare con mitezza. E quella inquietudine trovava una spiegazione che riempiva la speranza di quel cuore». Tutto ciò, ha spiegato il Pontefice, «è stato possibile perché Filippo si è accostato lì e ha ascoltato». E ha ribadito: «Ascoltare, conoscere l’inquietudine

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RASSEGNA STAMPA di venerdì 5 maggio 2017

SOMMARIO

Dal resoconto dell’Osservatore Romano sulla Messa del Papa ieri mattina a S. Marta: “Una Chiesa che «non resta seduta», che «sa ascoltare» l’«inquietudine della gente» e che come una «madre» genera i suoi figli «senza proselitismo» testimoniando «la

gioia di essere cristiani». È la missione ecclesiale delineata da Papa Francesco nell’omelia della messa celebrata a Santa Marta la mattina di giovedì 4 maggio. Una missione che riguarda non solo la Chiesa di oggi ma la Chiesa di ogni tempo, come si

evince dalla lettura dei primi capitoli degli Atti degli apostoli proposta dalla liturgia in questo periodo immediatamente successivo alla Pasqua. Apostoli che - ha sottolineato il Pontefice - per prima cosa hanno ricevuto da Gesù una promessa: «Io sarò con voi

tutti i giorni fino alla fine del mondo». Conferma si trova nel Vangelo di Marco, dove si legge «che quando gli apostoli predicavano il Signore agiva con loro e confermava la parola con i segni miracolosi». Quindi, ha detto Francesco: «il Signore, testimone di

obbedienza, è presente nella predicazione; dall’inizio, accompagna i discepoli, mai li lascia soli, neppure nei momenti più brutti. Mai». Su questa base ha inizio la storia

della Chiesa che, ha spiegato il Papa, si trova ben riassunta nei «primi otto capitoli del libro degli Atti degli apostoli». Qui, infatti, «c’è la predicazione, il battesimo, le

conversioni, i miracoli, le persecuzioni, la gioia e anche quel brutto peccato di quelli che si accostano alla Chiesa per fare i propri affari, quei benefattori della Chiesa che poi alla fine truffano la Chiesa». Ad esempio, in questi primi capitoli, si ritrovano le vicende di Anania e Saffira. Nella liturgia del giorno è presentato un passo (Atti degli

apostoli 8, 26-40) nel quale si parla della «conversione di un “ministro dell’economia”», un funzionario eunuco della regina di Etiopia, dal quale «lo Spirito

dice a Filippo di andare». Papa Francesco, invitando i presenti a leggere personalmente l’intera lettura - «tre minuti: leggetelo tranquilli, vi farà bene» - si è

soffermato su «tre parole» chiave. Innanzitutto ha notato come «lo Spirito, l’angelo, a Filippo disse: “Alzati e va’”». Si tratta, ha spiegato, del «segno dell’evangelizzazione, è un segno della Chiesa». E ancora: «la vocazione della Chiesa è evangelizzare; è la grande sua consolazione: evangelizzare». Ma come? «Alzati e va’». Ha spiegato il

Pontefice: «Non dice: “Rimani seduta, tranquilla, a casa tua”. No! La Chiesa sempre per essere fedele al Signore deve essere in piedi e in cammino: “Alzati e va”». Infatti,

«una Chiesa che non si alza, che non è in cammino, si ammala e finisce chiusa con tanti traumi psicologici e spirituali, chiusa nel piccolo mondo delle chiacchiere, delle cose... chiusa, senza orizzonti». L’invito invece è chiaro: «Alzati e va’, in piedi e in

cammino». Continuando nel racconto emerge la seconda parola. Lo Spirito infatti invita Filippo ad accostarsi al carro del funzionario «che era un proselito giudeo.

Dall’Etiopia era venuto a Gerusalemme ad adorare Dio». Dal testo emerge «che il suo cuore era inquieto perché leggeva le Scritture mentre andava sul carro». E - ha notato il Papa - lo Spirito non dice a Filippo: «predica a lui», ma: «accostati, ascolta». Ecco

l’altra parola chiave, il «secondo passo»: quello della «Chiesa che sa ascoltare, la Chiesa che sa che in ogni cuore c’è un’inquietudine: tutti gli uomini, tutte le donne

hanno un’inquietudine nel cuore, buona o brutta, ma c’è l’inquietudine. Ascolta quell’inquietudine». Bisogna ascoltare, ha aggiunto, «cosa sente la gente, cosa sente

il cuore di questa gente, cosa pensa». Anche se pensa «cose sbagliate», perché occorre «capire bene dove è l’inquietudine». Infatti «tutti abbiamo l’inquietudine dentro» e la Chiesa deve «trovare l’inquietudine della gente». Una dinamica ben

raccontata nel passo in cui si legge che il funzionario, avvicinato da Filippo, «ha avuto l’ispirazione di fare una domanda: “Ma dimmi, questo, di che persona parla?” - “Il profeta”. E lo ha fatto salire sul carro». Filippo «incominciò a predicare, a spiegare

con mitezza. E quella inquietudine trovava una spiegazione che riempiva la speranza di quel cuore». Tutto ciò, ha spiegato il Pontefice, «è stato possibile perché Filippo si

è accostato lì e ha ascoltato». E ha ribadito: «Ascoltare, conoscere l’inquietudine

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della nostra gente». Vi è, infine, una terza parola, ed è «gioia». Il Papa, ripercorrendo il brano, ha evidenziato l’evoluzione della scena: «Quel ministro ascoltava e la fede,

lo Spirito, lavorava dentro; il Signore lavorava lì. Ascoltava e ha capito che quella profezia era di Gesù e la fede in Gesù è cresciuta in lui al punto che», arrivati vicino all’acqua, «è stato lui a chiedere il battesimo, perché lo Spirito aveva lavorato nel cuore». Quindi «lasciamo lavorare lo Spirito nel cuore della gente», ha invitato il Pontefice. Da qui l’importante finale: dopo aver battezzato il funzionario, Filippo

venne condotto dallo Spirito «da un’altra parte, ad Azoto», e l’eunuco «pieno di gioia, proseguiva la sua strada». Ecco dunque la terza parola: «La gioia del cristiano». Nel

terminare la sua riflessione, Papa Francesco ne ha riassunto i passaggi principali: innanzitutto «la Chiesa in piedi, che esce: “Alzati e va!”»; quindi «la Chiesa sorella,

madre, che ascolta per trovare l’inquietudine e con la grazia dello Spirito Santo, con il Signore che è lì che conferma la parola con i segni, trova la parola da dire»; e poi «la Chiesa madre che dà alla luce tanti figli» con un «metodo che non è proselitista», ma

«è il metodo della testimonianza all’obbedienza». Una Chiesa «che oggi ci dice: “Gioisci!”». E la «gioia di essere cristiani», ha concluso il Pontefice, si vive «anche nei

brutti momenti». Infatti «dopo la lapidazione di Stefano scoppiò una grande persecuzione e i cristiani si sparsero dappertutto, come il seme che porta il vento. E

sono stati loro a predicare la parola di Gesù»” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 7 Per comunicare a tutti il Vangelo della misericordia Il Papa spiega la logica della riforma del sistema informativo della Santa Sede Pag 8 Mai seduti Messa a Santa Marta AVVENIRE Pag 21 Il sì di Francesco a cinque nuovi beati di Mimmo Muolo e Andrea Fagioli Tra i 7 venerabili il cardinale italiana Dalla Costa (il pastore di Firenze che si oppose a Hitler) e quello vietnamita Van Thuan (il coraggio del vangelo nelle carceri del regime) CORRIERE DEL VENETO Pag 9 Il cardinale Dalla Costa “venerabile”. Salvò 300 ebrei e snobbò Hitler di Antonio Passanese Vicentino, fu vescovo di Padova IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XI Frate mestrino venerabile: “Ora la beatificazione” di Fulvio Fenzo Le testimonianze sulla vita di Padre Raffaele in Vaticano 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ LA NUOVA Pag 12 Nel Veneto crolla il consumo di farmaci di Filippo Tosatto Ricette mediche in flessione del 10,6% mentre la spesa regionale per i medicinali scende dal 814 a 731 milioni (-10,2%) 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 24 Bengalesi senza sede in vista del mese sacro di Marta Artico Verso il Ramadan Pag 39 “VivaVivaldi”, il prete rosso come non l’avete mai ascoltato Al Museo diocesano

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… ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 I doveri di uno Stato di Pierluigi Battista Pag 3 Marine Le Pen: “Io, mio padre e il Papa” di Aldo Cazzullo “Sono come Davide come Golia. Quell’uomo è arrogante. E oscuro” Pag 19 Una provocazione all’Ue. Sbarchiamo i naufraghi anche a Nizza e a Malta di Milena Gabanelli Perché servirebbe l’azione dimostrativa delle associazioni Pag 26 La scelta di Theresa May e le ragioni dell’Unione di Sergio Romano AVVENIRE Pag 1 La difesa sia comune di Giuseppe Anzani Altro che fai-da-te in casa Pag 2 Rischioso alimentare la divisione “noi” – “loro” di Andrea Lavazza “Caccia alle Ong”, conseguenze attuali e future Pag 2 I tagli boomerang della Mole pentastellata di Enrico Lenzi A Torino ridotti i fondi alle materne paritarie Pag 3 La politica in crisi di valori riscopra l’arte di “convenire” di Luca Diotallevi Saper “fare insieme”, sfida di responsabilità per i cattolici IL GAZZETTINO Pag 1 Un passo avanti ma per le vittime cambia poco di Carlo Nordio LA NUOVA Pag 1 Pastrocchio molto ambiguo di Gianfranco Bettin Pag 9 Quelle gaffe principesche del fanciullo che è in noi di Fabrizio Brancoli

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 7 Per comunicare a tutti il Vangelo della misericordia Il Papa spiega la logica della riforma del sistema informativo della Santa Sede La necessità di «studiare criteri e modalità nuovi per comunicare il Vangelo della misericordia a tutte le genti» è stata indicata dal Papa ai partecipanti alla prima plenaria della Segreteria per la comunicazione, ricevuti in udienza nella mattina di giovedì 4 maggio, nella Sala del Concistoro. Signori Cardinali, cari fratelli e sorelle, sono molto lieto di accogliervi in occasione della Prima Assemblea Plenaria della Segreteria per la Comunicazione, che vi vede impegnati nell’approfondire la conoscenza reciproca e nell’esaminare i passi finora compiuti dal Dicastero, che ho voluto per un nuovo sistema comunicativo della Santa Sede, oltre che nel riflettere su un tema quanto mai attuale e suggestivo quale quello della cultura digitale. Ringrazio il Prefetto Monsignor Viganò per la sua introduzione e desidero esprimere la mia riconoscenza a lui e a voi qui presenti e anche a quanti hanno contribuito in vari modi alla preparazione del lavoro di questi giorni. L’argomento

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trattato nella Plenaria è uno di quelli che mi stanno molto a cuore; l’ho già affrontato in diverse occasioni. Si tratta di studiare criteri e modalità nuovi per comunicare il Vangelo della misericordia a tutte le genti, nel cuore delle diverse culture, attraverso i media che il nuovo contesto culturale digitale mette a disposizione dei nostri contemporanei. Questo Dicastero, che compirà due anni il prossimo 27 giugno - due candele - si presenta in piena riforma. E non dobbiamo avere paura di questa parola. Riforma non è “imbiancare” un po’ le cose: riforma è dare un’altra forma alle cose, organizzarle in un altro modo. E si deve fare con intelligenza, con mitezza, ma anche, anche - permettetemi la parola - con un po’ di “violenza”, ma buona, della buona violenza, per riformare le cose. È in piena riforma dal momento che è una realtà nuova che sta muovendo ormai passi irreversibili. In questo caso, infatti, non si tratta di un coordinamento o di una fusione di precedenti Dicasteri, ma di costruire una vera e propria istituzione ex novo, come scrivevo nel Motu proprio istitutivo: «L’attuale contesto comunicativo, caratterizzato dalla presenza e dallo sviluppo dei media digitali, dai fattori della convergenza e dell’interattività, richiede un ripensamento del sistema informativo della Santa Sede e impegna ad una riorganizzazione che, valorizzando quanto nella storia si è sviluppato all’interno dell’assetto della comunicazione della Sede Apostolica, proceda decisamente verso un’integrazione e gestione unitaria. Per tali motivi - proseguivo -, ho ritenuto che tutte le realtà, che, in diversi modi fino ad oggi si sono occupate della comunicazione, vengano accorpate in un nuovo Dicastero della Curia Romana, che sarà denominato Segreteria per la Comunicazione. In tal modo il sistema comunicativo della Santa Sede risponderà sempre meglio alle esigenze della missione della Chiesa». Questo nuovo sistema comunicativo nasce dall’esigenza della cosiddetta “convergenza digitale”. Infatti, nel passato ogni modalità comunicativa aveva i propri canali. Ogni forma espressiva aveva un proprio medium: le parole scritte il giornale o i libri, le immagini le fotografie e quelle in movimento il cinema e la televisione, le parole parlate e la musica la radio e i CD. Tutte queste forme di comunicazione oggi sono trasmesse con un unico codice che sfrutta il sistema binario. In questo quadro, dunque, «L’Osservatore Romano», che dal prossimo anno entrerà a far parte del nuovo Dicastero, dovrà trovare una modalità nuova e diversa, per poter raggiungere un numero di lettori superiore a quello che riesce a realizzare in formato cartaceo. Anche la Radio Vaticana, da anni diventata un insieme di portali, va ripensata secondo modelli nuovi e adeguata alle moderne tecnologie e alle esigenze dei nostri contemporanei. A proposito del servizio radiofonico, mi preme sottolineare lo sforzo che il Dicastero sta compiendo nei confronti dei Paesi con poca disponibilità tecnologica (penso ad esempio all’Africa) per la razionalizzazione delle Onde Corte che non sono state mai dismesse. E questo voglio sottolinearlo: non sono state mai dismesse. Tra qualche mese anche la Libreria Editrice Vaticana, l’antica Tipografia Poliglotta Vaticana e, come dicevo, «L’Osservatore Romano» entreranno a far parte della grande comunità di lavoro del nuovo Dicastero, e questo richiederà la disponibilità ad armonizzarsi con un nuovo disegno produttivo e distributivo. Il lavoro è grande; la sfida è grande, ma si può fare, si deve fare. La storia è, indubbiamente, un patrimonio di esperienze preziose da conservare e da usare come spinta verso il futuro. Diversamente essa si ridurrebbe a un museo, interessante e bello da visitare, ma non in grado di fornire forza e coraggio per il proseguimento del cammino. In questo orizzonte di costruzione di un nuovo sistema comunicativo, va collocato inoltre l’impegnativo sforzo di formazione e di aggiornamento del personale. Cari fratelli e sorelle, il lavoro che vi aspetta è ampio e articolato. Con il contributo di ciascuno, si porterà a compimento questa riforma che, «valorizzando quanto nella storia si è sviluppato all’interno dell’assetto della comunicazione della Sede Apostolica», è ordinata a «una integrazione e gestione unitaria» (Statuto della Segreteria per la Comunicazione, 6 settembre 2016). Vi incoraggio pertanto a lavorare nelle commissioni di studio, con analisi dettagliate e, una volta individuati i percorsi, a decidere e procedere coraggiosamente secondo i criteri scelti. Vi chiedo inoltre che il criterio-guida sia quello apostolico, missionario, con una speciale attenzione alle situazioni di disagio, di povertà, di difficoltà, nella consapevolezza che anche queste oggi vanno affrontate con soluzioni adeguate. Così diventa possibile portare il Vangelo a tutti, valorizzare le risorse umane, senza sostituirsi alla comunicazione delle Chiese locali e, al tempo stesso, sostenendo le comunità ecclesiali che più hanno bisogno. Non lasciamoci vincere dalla tentazione dell’attaccamento a un passato glorioso; facciamo invece un

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grande gioco di squadra per meglio rispondere alle nuove sfide comunicative che la cultura oggi ci domanda, senza paure e senza immaginare scenari apocalittici. Mentre vi rinnovo la mia gratitudine per aver accettato di lavorare in questo ambito tanto importante e delicato della missione della Chiesa, voglio far giungere il mio saluto e la mia gratitudine anche ai Consultori da poco nominati. Vi esorto a dare testimonianza di collaborazione e di condivisione fraterna, mentre invoco su tutti voi la benedizione del Signore, per intercessione di Maria Santissima Madre della Chiesa, che, con la sua tenerezza, veglia sempre su di noi. Pag 8 Mai seduti Messa a Santa Marta Una Chiesa che «non resta seduta», che «sa ascoltare» l’«inquietudine della gente» e che come una «madre» genera i suoi figli «senza proselitismo» testimoniando «la gioia di essere cristiani». È la missione ecclesiale delineata da Papa Francesco nell’omelia della messa celebrata a Santa Marta la mattina di giovedì 4 maggio. Una missione che riguarda non solo la Chiesa di oggi ma la Chiesa di ogni tempo, come si evince dalla lettura dei primi capitoli degli Atti degli apostoli proposta dalla liturgia in questo periodo immediatamente successivo alla Pasqua. Apostoli che - ha sottolineato il Pontefice - per prima cosa hanno ricevuto da Gesù una promessa: «Io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo». Conferma si trova nel Vangelo di Marco, dove si legge «che quando gli apostoli predicavano il Signore agiva con loro e confermava la parola con i segni miracolosi». Quindi, ha detto Francesco: «il Signore, testimone di obbedienza, è presente nella predicazione; dall’inizio, accompagna i discepoli, mai li lascia soli, neppure nei momenti più brutti. Mai». Su questa base ha inizio la storia della Chiesa che, ha spiegato il Papa, si trova ben riassunta nei «primi otto capitoli del libro degli Atti degli apostoli». Qui, infatti, «c’è la predicazione, il battesimo, le conversioni, i miracoli, le persecuzioni, la gioia e anche quel brutto peccato di quelli che si accostano alla Chiesa per fare i propri affari, quei benefattori della Chiesa che poi alla fine truffano la Chiesa». Ad esempio, in questi primi capitoli, si ritrovano le vicende di Anania e Saffira. Nella liturgia del giorno è presentato un passo (Atti degli apostoli 8, 26-40) nel quale si parla della «conversione di un “ministro dell’economia”», un funzionario eunuco della regina di Etiopia, dal quale «lo Spirito dice a Filippo di andare». Papa Francesco, invitando i presenti a leggere personalmente l’intera lettura - «tre minuti: leggetelo tranquilli, vi farà bene» - si è soffermato su «tre parole» chiave. Innanzitutto ha notato come «lo Spirito, l’angelo, a Filippo disse: “Alzati e va’”». Si tratta, ha spiegato, del «segno dell’evangelizzazione, è un segno della Chiesa». E ancora: «la vocazione della Chiesa è evangelizzare; è la grande sua consolazione: evangelizzare». Ma come? «Alzati e va’». Ha spiegato il Pontefice: «Non dice: “Rimani seduta, tranquilla, a casa tua”. No! La Chiesa sempre per essere fedele al Signore deve essere in piedi e in cammino: “Alzati e va”». Infatti, «una Chiesa che non si alza, che non è in cammino, si ammala e finisce chiusa con tanti traumi psicologici e spirituali, chiusa nel piccolo mondo delle chiacchiere, delle cose... chiusa, senza orizzonti». L’invito invece è chiaro: «Alzati e va’, in piedi e in cammino». Continuando nel racconto emerge la seconda parola. Lo Spirito infatti invita Filippo ad accostarsi al carro del funzionario «che era un proselito giudeo. Dall’Etiopia era venuto a Gerusalemme ad adorare Dio». Dal testo emerge «che il suo cuore era inquieto perché leggeva le Scritture mentre andava sul carro». E - ha notato il Papa - lo Spirito non dice a Filippo: «predica a lui», ma: «accostati, ascolta». Ecco l’altra parola chiave, il «secondo passo»: quello della «Chiesa che sa ascoltare, la Chiesa che sa che in ogni cuore c’è un’inquietudine: tutti gli uomini, tutte le donne hanno un’inquietudine nel cuore, buona o brutta, ma c’è l’inquietudine. Ascolta quell’inquietudine». Bisogna ascoltare, ha aggiunto, «cosa sente la gente, cosa sente il cuore di questa gente, cosa pensa». Anche se pensa «cose sbagliate», perché occorre «capire bene dove è l’inquietudine». Infatti «tutti abbiamo l’inquietudine dentro» e la Chiesa deve «trovare l’inquietudine della gente». Una dinamica ben raccontata nel passo in cui si legge che il funzionario, avvicinato da Filippo, «ha avuto l’ispirazione di fare una domanda: “Ma dimmi, questo, di che persona parla?” - “Il profeta”. E lo ha fatto salire sul carro». Filippo «incominciò a predicare, a spiegare con mitezza. E quella inquietudine trovava una spiegazione che riempiva la speranza di quel cuore». Tutto ciò, ha spiegato

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il Pontefice, «è stato possibile perché Filippo si è accostato lì e ha ascoltato». E ha ribadito: «Ascoltare, conoscere l’inquietudine della nostra gente». Vi è, infine, una terza parola, ed è «gioia». Il Papa, ripercorrendo il brano, ha evidenziato l’evoluzione della scena: «Quel ministro ascoltava e la fede, lo Spirito, lavorava dentro; il Signore lavorava lì. Ascoltava e ha capito che quella profezia era di Gesù e la fede in Gesù è cresciuta in lui al punto che», arrivati vicino all’acqua, «è stato lui a chiedere il battesimo, perché lo Spirito aveva lavorato nel cuore». Quindi «lasciamo lavorare lo Spirito nel cuore della gente», ha invitato il Pontefice. Da qui l’importante finale: dopo aver battezzato il funzionario, Filippo venne condotto dallo Spirito «da un’altra parte, ad Azoto», e l’eunuco «pieno di gioia, proseguiva la sua strada». Ecco dunque la terza parola: «La gioia del cristiano». Nel terminare la sua riflessione, Papa Francesco ne ha riassunto i passaggi principali: innanzitutto «la Chiesa in piedi, che esce: “Alzati e va!”»; quindi «la Chiesa sorella, madre, che ascolta per trovare l’inquietudine e con la grazia dello Spirito Santo, con il Signore che è lì che conferma la parola con i segni, trova la parola da dire»; e poi «la Chiesa madre che dà alla luce tanti figli» con un «metodo che non è proselitista», ma «è il metodo della testimonianza all’obbedienza». Una Chiesa «che oggi ci dice: “Gioisci!”». E la «gioia di essere cristiani», ha concluso il Pontefice, si vive «anche nei brutti momenti». Infatti «dopo la lapidazione di Stefano scoppiò una grande persecuzione e i cristiani si sparsero dappertutto, come il seme che porta il vento. E sono stati loro a predicare la parola di Gesù». AVVENIRE Pag 21 Il sì di Francesco a cinque nuovi beati di Mimmo Muolo e Andrea Fagioli Tra i 7 venerabili il cardinale italiana Dalla Costa (il pastore di Firenze che si oppose a Hitler) e quello vietnamita Van Thuan (il coraggio del vangelo nelle carceri del regime) A prima vista i nomi che saltano più agli occhi sono quelli del cardinale vietnamita Francesco Saverio Nguyen Van Thuan e del porporato italiano Elia Dalla Costa. I quali compiono un decisivo passo avanti verso la beatificazione, insieme con altri 10 tra venerabili e servi di Dio, dei quali ieri il Papa ha autorizzato la Congregazione delle cause dei santi a promulgare vari decreti riguardanti l’attribuzione di un miracolo (in quattro casi), il riconoscimento del martirio (in un caso) e le virtù eroiche (nei restanti sette casi, compresi naturalmente i due cardinali già citati). Per il presidente del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace (a lungo imprigionato in odium fidei nella sua patria) e per il coraggioso arcivescovo di Firenze negli anni della II Guer- ra mondiale (di cui pubblichiamo a parte i profili) il decreto emanato ieri significa in pratica che alla beatificazione manca solo il riconoscimento del miracolo attribuito alla loro intercessione. Un traguardo raggiunto anche da altri cinque candidati agli altari, tra i quali quattro sono italiani e tre sono figure laicali di grande spiritualità. Si tratta in particolare di Giovanna Meneghini, fondatrice della Congregazione delle Suore Orsoline del Sacro Cuore di Maria, nata il 23 maggio 1868 e morta il 2 marzo 1918; di Vincenza Cusmano, prima superiora generale della Congregazione delle Serve Povere, nata il 6 gennaio 1826 e morta il 2 febbraio 1894; di Alessandro Nottegar, laico, padre di famiglia, fondatore della Comunità Regina Pacis, nato il 30 ottobre 1943 e morto il 19 settembre 1986; di Edvige Carboni, laica; nata il 2 maggio 1880 e morta il 17 febbraio 1952; e di Maria Guadalupe Ortiz de Landázuri y Fernández de Heredia, laica della Prelatura personale della Santa Croce e dell’Opus Dei; nata il 12 dicembre 1916 e morta il 16 luglio 1975. Notevole la vicenda umana di Edvige Carboni, una sorta di «san Pio da Pietrelcina» al femminile. Piena di premure per tutti, ben inserita nella comunità parrocchiale, ottima catechista, disponibile anche ai servizi più umili in chiesa (dove lavava anche per terra), era anche una autentica mistica. I fenomeni soprannaturali nella sua vita furono numerosissimi (bilocazioni, estasi, visioni di santi, persecuzioni diaboliche, misteriosi profumi) e culminarono quando, all’età di trent’anni circa, ricevette le stimmate mentre pregava davanti a un crocifisso ligneo regalatole dal parroco don Carta. Gesù le chiese se voleva soffrire con Lui. Edvige accettò per suo amore ed ebbe impressi nelle mani, nel costato e nei piedi, i segni della Passione del suo Signore. Lei li custodì in segreto come un tesoro prezioso. Il Papa ha autorizzato anche la pubblicazione del riconoscimento di miracoli attribuiti all’intercessione di quattro futuri beati: Francesco Solano Casey (al secolo: Bernardo), sacerdote professo dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, nato il 25

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novembre 1870 e morto il 31 luglio 1957; Maria della Concezione (al secolo: Adelaide de Batz de Trenquelléon), fondatrice delle Figlie di Maria Immacolata, nata il 10 giugno 1789 e morta il 10 gennaio 1828; Chiara Fey, fondatrice dell’Istituto delle Suore del Povero Bambino Gesù, nata l’11 aprile 1815 e morta l’8 maggio 1894; Caterina di Maria (al secolo: Giuseppa Saturnina Rodríguez), fondatrice della Congregazione delle Suore Serve del Sacratissimo Cuore di Gesù, nata il 27 novembre 1823 e morta il 5 aprile 1896. Un decreto, infine, concerne il riconoscimento del martirio di Luciano Botovasoa, laico e padre di famiglia, del Terzo Ordine di San Francesco; ucciso a Vohipeno (Madagascar) in odio alla fede il 17 aprile 1947. Per questi ultimi cinque la beatificazione è ormai prossima. Il cardinale Elia Dalla Costa, arcivescovo di Firenze dal 1931 al 1961 e prima ancora vescovo di Padova dal 1923, è stato dichiarato venerabile: sono state riconosciute le virtù eroiche professate in vita. Ieri papa Francesco, dopo aver ricevuto in udienza il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi (che si era riunita in plenaria il 25 aprile), ha autorizzato la promulgazione del decreto. L’esame della Commissione teologica era stato superato alla fine del 2016, mentre il processo diocesano di beatificazione era stato aperto il 21 dicembre 1981 in occasione del ventennale della morte, avvenuta il 22 dicembre 1961. Nel novembre 2012 Dalla Costa era stato inoltre riconosciuto “Giusto tra le nazioni” per avere offerto rifugio a oltre trecento ebrei durante la seconda guerra mondiale. L’attuale arcivescovo di Firenze, il cardinale Giuseppe Betori, ha subito espresso «profonda gratitudine al Santo Padre per il riconoscimento» inteso come «punto di arrivo di un lungo cammino per approfondire la figura e la presenza di Dalla Costa tra noi, in cui hanno offerto il loro contributo la sezione delle cause dei santi del nostro Tribunale diocesano e poi soprattutto la Congregazione delle cause dei santi, cui va la gratitudine della Chiesa fiorentina». Betori ha inoltre auspicato che il cammino possa continuare fino alla beatificazione e poi alla canonizzazione. Il decreto del Papa costituisce – a giudizio dell’arcivescovo di Firenze – «un ulteriore invito alla maggiore conoscenza della vita e dell’azione del cardinale che ora riconosciamo con il titolo di venerabile, in particolare nella sua dedizione alla gente di Firenze, nella testimonianza di alta spiritualità, nella illuminata guida pastorale offerta alla nostra diocesi, nella difesa della dignità delle persone nella tragedia della guerra e delle persecuzioni razziali». Di origini vicentine (era nato a Villaverla il 14 maggio 1872), Dalla Costa è stato un maestro di spiritualità è un’autorità morale per la diocesi e la città di Firenze soprattutto negli anni difficili dell’occupazione tedesca. Famosa la sua decisione di lasciare chiuse porte e finestre del palazzo arcivescovile al passaggio di Hitler in visita a Firenze nel 1938 e di non partecipare alle celebrazioni ufficiali. Un gesto che trova motivazioni anche nella Lettera pastorale per la Quaresima di quell’anno quando definisce «contrarie alla dottrina della Chiesa le teorie di coloro che a Dio sostituiscono la stirpe, lo stato o qualsiasi ideologia politica e pretendono che l’individuo e persino la Chiesa debbano servire a queste pretese deità». Di più recente scoperta è invece la collaborazione con il grande ciclista e amico personale Gino Bartali, che portava nascosti nella bicicletta, d’accordo con lo stesso Dalla Costa, documenti falsi agli ebrei. Alla sua morte, prima del funerale nel Duomo di Santa Maria del Fiore, Dalla Costa fu definito un «grande vescovo», un «profeta», «padre e pastore di eccezionale tempra». «Firenze e la sua Chiesa – dice oggi Betori – gli devono molto. Poterne fare memoria, riassaporarne la presenza, riascoltarne la parola è un dovere che non solo ci è chiesto dal ricordo di lui, ma anche dal bisogno che abbiamo di radicarci sempre più profondamente nel terreno buono della nostra tradizione per produrre anche oggi frutti di santità e di servizio all’umanità tutta». La prima impressione che ne ricevevi, avvicinandolo, era di una estrema serenità. Sguardo limpido, bonario e arguto al tempo stesso, voce che non aveva bisogno di ricorrere a toni alti, modi sempre pacati. Il cardinale vietnamita Francesco Saverio Nguyen Van Thuan trasudava pace interiore a prima vista. E mai avresti potuto supporre – non conoscendone la vicenda personale – che per tredici lunghi anni era stato in carcere solo perché aveva avuto la ventura di essere nominato arcivescovo coadiutore di Saigon pochi giorni prima che la capitale del Sud cadesse sotto il controllo delle truppe del Nord. «Pensarono che io fossi una spia degli imperialisti – confidò ad Avvenire in una

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intervista negli anni ’90 – e mi arrestarono senza tanti complimenti ». Da quel giorno del 1975 cominciò il suo calvario, lui che del resto veniva da una famiglia con molti martiri (del ramo materno sopravvisse solo il nonno, tutti gli altri furono trucidati nell’incendio del villaggio abitato da cristiani). Una “Via Crucis” che si sarebbe protratta fino al 1988 e le cui “stazioni” furono le diverse prigioni in cui veniva di continuo trasferito per impedirgli di diventare amico di quanti dovevano controllarlo. Il tentativo del regime risultò vano, se è vero che alcuni carcerieri furono da lui convertiti e che uno di loro, Pham Van Cong, il 23 ottobre 2010, giorno in cui si aprì il processo di beatificazione era in prima fila, con gli occhi lucidi per la commozione, nell’Aula della Conciliazione in Vicariato a Roma. «Tanti anni fa – disse – quando ero a guardia di quest’uomo accusato di aver complottato con il Vaticano e gli imperialisti contro la rivoluzione comunista, mai avrei immaginato di essere qui». E il cardinale vicario Agostino Vallini aggiunse: «La sua bontà conquistava di volta in volta i suoi carcerieri e questo faceva irritare le autorità superiori». A tutti gli effetti, dunque, il porporato nato il 17 aprile 1928, ordinato sacerdote l’11 giugno 1953 e nominato vescovo di Nha Trang il 13 aprile 1967 (prima di essere trasferito a Saigon) può essere considerato un “quasi martire”, dato che i tredici anni di prigionia dura li passò per gran parte in isolamento, con angherie di ogni tipo. In carcere comunque l’allora arcivescovo Van Thuân non si perse mai d’animo e anzi non smise per un solo momento di compiere la sua missione episcopale. Celebrava la Messa tenendo in mano alcuni pezzetti di pane e poche gocce di vino, custodite in una boccetta con la scritta “Medicina per il mal di stomaco”, che i fedeli gli facevano arrivare eludendo i controlli. Era riuscito a fabbricarsi una croce in legno e a forgiarsi una croce pettorale con il semplice filo di ferro. Infine scrisse su pezzi di carta raccattati nei modi più diversi i suoi pensieri e oltre 300 frasi del Vangelo, poiché non poteva disporre di una Bibbia. Grazie a un bambino di 7 anni quei messaggi venivano portati all’esterno e diffusi. Saranno successivamente raccolti in alcune pubblicazioni anche in italiano, il cui filo conduttore è la speranza. Nel 2000, quando Giovanni Paolo II (che due anni prima lo aveva nominato presidente del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace e che nel 2001 lo avrebbe creato cardinale) lo chiamò a predicargli gli esercizi spirituali, nel discorso di ringraziamento disse: «La sua sofferta prigionia ci rafforza nella consolante certezza che quando tutto crolla attorno a noi e forse anche dentro di noi, Cristo resta indefettibile nostro sostegno». E questa è anche la grande eredità del porporato vietnamita morto a Roma il 16 settembre 2002. «L’essere stato – disse appunto Vallini all’incipit della causa di beatificazione – soprattutto un testimone di speranza». CORRIERE DEL VENETO Pag 9 Il cardinale Dalla Costa “venerabile”. Salvò 300 ebrei e snobbò Hitler di Antonio Passanese Vicentino, fu vescovo di Padova Chissà se il cardinale Elia Dalla Costa, percorrendo le strade e le mulattiere in sella a un asino per la sua prima visita pastorale in Mugello (correva il 1932), immaginava che un giorno sarebbe stato proclamato «Venerabile». A lui, uomo semplice, schivo e riservato, arcivescovo di Firenze dal 1931 al 1958, amico di Giorgio La Pira e figura di spicco del Novecento, va il merito di aver fatto rifiorire la vita spirituale della diocesi e di aver avvicinato alla Chiesa intellettuali e uomini di cultura. Ieri Papa Francesco ne ha riconosciuto le virtù eroiche firmando il decreto con cui la Congregazione delle cause dei Santi lo eleva agli onori degli altari, preludio (in caso di miracolo) della beatificazione e della conseguente santificazione. Da parroco di Schio – dove rimase per 12 anni -, in provincia di Vicenza dove nacque, fu in prima linea nei soccorsi organizzando l’accoglienza di feriti, profughi e soldati di ritorno dal fronte. Per quest’opera gli venne conferita la Croce di Cavaliere della Corona d’Italia e, il 23 maggio 1923, fu nominato vescovo di Padova, dove fece riparare oltre 50 chiese parrocchiali e canoniche, distrutte o danneggiate dagli eventi bellici. La berretta color porpora arrivò il 19 dicembre del 1931, allorquando Papa Pio XII gli affidò la sede metropolitana di Firenze. Il cardinale non si compromise mai con il nazifascismo, anzi durante la storica visita di Hitler a Firenze del 1938 fece lasciare le finestre del palazzo arcivescovile chiuse e non partecipò alle celebrazioni ufficiali, spiegando a chi gli era vicino che non poteva accettare che si venerassero «altre croci che non quella di Cristo», alludendo, evidentemente, a quella

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uncinata. Scese nelle strade bombardate per soccorrere i feriti e per pregare per i morti e fece di tutto per salvare 300 ebrei, opera che, nel 2012, gli è valso il riconoscimento di «Giusto fra le Nazioni»: Elia Dalla Costa fu l’artefice di una rete clandestina, insieme a Gino Bartali, che nel 1944 evitò a 300 giudei i campi di concentramento. Morì la mattina del 22 dicembre 1961, lasciando vari scritti. Nel gennaio del 1981, a vent’anni dalla morte, la diocesi di Firenze ha avviato la causa di beatificazione che con il riconoscimento delle virtù eroiche da parte di Papa Francesco segna un nuovo passo. «Il decreto del Papa - afferma il cardinale Giuseppe Betori, vescovo di Firenze - costituisce un ulteriore invito alla maggiore conoscenza della vita e dell’azione di Dalla Costa nella testimonianza di alta spiritualità e nella difesa della dignità delle persone nella tragedia della guerra e delle persecuzioni razziali che gli ha valso il titolo di “Giusto tra le nazioni”». In festa anche il paese natale di Dalla Costa, Villaverla, da dove il sindaco Ruggero Gonzo si dice «onorato dal fatto che il Santo Padre abbia riconosciuto la sua grandezza». E anticipa che «quando il cardinale Betori celebrerà la messa di ringraziamento io e tanti altri compaesani saremo a Firenze, con il nostro gonfalone». E ieri nella sua Vicenza la notizia ha colto di sorpresa anche Elia Dalla Costa, pronipote ed omonimo dell’arcivescovo: «È una notizia bellissima - ha detto -. Erano tanti anni che se ne parlava. La memoria del cardinale Elia è sempre con me e nella nostra famiglia, ma questo è un giorno speciale, di gioia e commozione». IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XI Frate mestrino venerabile: “Ora la beatificazione” di Fulvio Fenzo Le testimonianze sulla vita di Padre Raffaele in Vaticano Un beato per Mestre. Sabato 13 maggio si chiuderà il Processo diocesano per la beatificazione di padre Raffaele da Mestre, dell'Ordine dei Frati minori Cappuccini, quindi tutta la pratica passerà al Vaticano. Ma intanto padre Raffaele, al secolo Ferruccio Spallanzani, nato a due passi da piazza Ferretto il 15 marzo 1922 e morto il 5 dicembre 1972 a Pavullo, in Emilia Romagna, sarà ufficialmente venerabile. È dal 2008 che l'Arcidiocesi di Modena-Nonantola ha aperto il processo per la beatificazione, un percorso lungo la cui prima fase si era chiusa il 17 luglio 2013 con la raccolta di tutti gli atti e la documentazione relativa all'opera e all'azione pastorale del sacerdote, dando poi il via all'iter religioso di venerabile (con cerimonia solenne il 13 maggio, alle 11, nel Duomo di Modena), cui seguirà quello di beato in sede vaticana, una volta che sarà riconosciuta l'eroicità delle sue virtù. Ferruccio Spallanzani era figlio di Noè e Argia Bergamini. Il padre era un noto commerciante di formaggi e latticini, con parecchi negozi nel centro di Mestre, uomo violento e superficiale - si legge nelle biografie -, anticlericale e fascista della prima ora che aveva partecipato alla marcia su Roma. Quando gli affari vanno a rotoli, la famiglia è costretta a ritornare nella città d'origine, Modena. Nel 1933 Ferruccio entrò in seminario e nel 1938 assunse il nome di Raffaele da Mestre, e poi nel 1943 i voti solenni, fino all'ordinazione a sacerdote nel 1945. Ma un momento drammatico che condizionerà sempre la vita di Padre Raffaele, avverrà nel 1948 quando durante il trasferimento di una statua della Madonna Pellegrina per una processione nella diocesi di Reggio Emilia venne sbalzato da una jeep in corsa cadendo rovinosamente sul selciato con gravi danni alla schiena e ad una gamba. Cominciò così il suo calvario: come sacerdote e come malato peregrinò per parecchi ospedali tra i quali anche l'Ospedale al Mare del Lido di Venezia. Dalla metà degli anni Sessanta, pur continuando a svolgere la sua attività pastorale, fu costretto a vivere su una sedia a rotelle ma, nonostante il male, si impegnò in numerose parrocchie, dedicandosi ad una serie di pellegrinaggi, tra i quali quello a San Giovanni Rotondo nel quale incontrò Padre Pio. Nei suoi 50 anni di vita e 27 di sacerdozio, ben 28 furono segnati dalla malattia, subendo sette pesanti interventi chirurgici. «La sua giornata era scandita dalle preghiere, dalla messa e dalle visite continue di persone che, da ogni parte d'Italia, cercavano da lui sollievo e serenità - scrive di lui Paolo Bertolani -. Personaggi famosi del mondo dello spettacolo, dell'imprenditoria, della cultura e della scienza salgono la collina del Santuario Beata Vergine della Salute di Puianello per avere un colloquio con lui e per confessarsi». Il santuario modenese dove si trova la tomba di Padre Raffaele. «La trama della mia vita è molto semplice e lineare: l'amore mi ha prevenuto e guidato per farmi piccolo e poter entrare nel regno di coloro che amano eternamente. E questo amore è Maria», diceva

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Padre Raffaele da Mestre, fra una decina di giorni nominato venerabile nella speranza dei frati di vederlo presto beato. «Anche se i tempi non saranno brevi - dicono dal Santuario di Puianello -. Per Padre Pio ci sono voluti 40 anni». Torna al sommario 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ LA NUOVA Pag 12 Nel Veneto crolla il consumo di farmaci di Filippo Tosatto Ricette mediche in flessione del 10,6% mentre la spesa regionale per i medicinali scende dal 814 a 731 milioni (-10,2%) Venezia. Nell’etimologia greca originaria, il vocabolo farmakòn indica sia la medicina che il veleno, a significare la linea sottile che separa il rimedio dall’abuso. Tuttavia, non è il tributo alla sapienza classica ma, più prosaicamente, l’obiettivo di eliminare gli sprechi e di contenere i costi a determinare il nuovo corso della sanità del Veneto che nell’ultimo quinquennio evidenzia una vistosa flessione nel volume di ricette (-10%) e un’ancor più marcata riduzione della spesa farmaceutica (-12,2% al netto dell’inflazione), tale da collocarla in coda alla classifica nazionale del consumo di medicinali. Nel dettaglio, dal 2013 ad oggi, l’entità del ricettario è scesa da 40,18 a 35,93 milioni di prescrizioni annuali, circostanza che ha consentito alla Regione di ridurre l’esborso lordo dagli 814 milioni di euro di partenza (anno 2012) agli attuali 731, con tendenza all’ulteriore contrazione. La dinamica emerge con chiarezza dal nuovo dossier di Federfarma (l’associazione delle imprese di settore presieduta da Annarosa Racca) che radiografa con precisione la dinamica in atto, assegnando al Veneto la quartultima posizione in Italia nel rapporto spesa-abitante: 20,5 euro pro capite a fronte di una media nazionale di 30,5; soltanto Liguria, Provincia autonoma di Bolzano ed Emilia-Romagna (regione più “risparmiosa” in assoluto con i suoi 15 euro) scendono sotto la soglia nostrana. Come si è giunti a questo e quali effetti si prevedono sul versante delle cure? L’inversione di tendenza è iniziata cinque anni fa, quando l’assessore Luca Coletto e il direttore generale della sanità Domenico Mantoan concordarono con i medici nuove regole in materia di “appropriatezza prescrittiva” nel rapporto con i pazienti. Il primo passo riguardò la scelta dei farmaci, con l’indicazione esplicita di privilegiare - a parità di “principio attivo degli enzimi”, cioè di efficacia terapeutica - l’adozione di medicinali generici (cioè a brevetto scaduto) rispetto a quelli “griffati”, il cui marchio comporta una raddoppio medio del prezzo. Ancora, la scelta di dosare nel tempo il ricorso ai farmaci innovativi (particolarmente onerosi), non più prescritti sistematicamente nella fase iniziale della cura, quando è possibile invece impiegare prodotti di uso corrente, ma concepiti come “asso nella manica” da calare in presenza di patologie davvero aggressive e persistenti ai rimedi tradizionali. Non bastasse, è giunta la decisione di “aggirare” il circuito delle farmacie (con i relativi costi aggiuntivi) attraverso la fornitura diretta, in ospedale, delle medicine destinate alle categorie sensibili: malati cronici, pazienti reduci da interventi delicati, trattamenti di lungo periodo. Tant’è. La manovra (monitorata costantemente da Giovanna Scroccaro, dirigente e “mastino dei conti” molto apprezzata in Regione) ha prodotto risultati rapidi e concreti, con un risparmio consistente di budget. Un dubbio: non sarà che il taglio di spesa finirà per penalizzare i pazienti? E ancora: la crisi economica e la caduta dei redditi non freneranno i ceti più deboli dall’acquistare medicinali gravati da ticket costosi? «Lo escludo», ribatte Mantoan «anzitutto, queste procedure non sono state calate dall’alto ma concordate con le associazioni dei medici. Per noi, governare la sanità d’intesa con i clinici è un motivo di vanto e di garanzia verso la comunità. Sono i medici, non altri, a prescrivere i prodotti farmaceutici, la loro autonomia professionale non è mai stata in discussione e i risparmi che realizziamo non finiscono in cassaforte ma contribuiscono a finanziare il programma di investimenti nell’innovazione tecnologica ospedaliera e nei nuovi servizi ai pazienti del sistema pubblico. Meno abbienti penalizzati? No, perché pensionati al minimo, disoccupati e persone indigenti sono già esonerati dal ticket, così come i pazienti cronici, penso agli oncologici, costretti a ricorrere a cure prolungate». Tornando al rapporto di Federfarma, quest’ultima riassume in cifre la congiuntura sottolineando che «in Italia nel 2016 il

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mercato farmaceutico ha chiuso con un andamento a valori più che dimezzato rispetto all’anno precedente (6% contro 13,3%)»; ciò perché «il canale ospedaliero ha significativamente rallentato la crescita con l’indebolirsi del contributo dei farmaci Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 24 Bengalesi senza sede in vista del mese sacro di Marta Artico Verso il Ramadan Il Ramadan si avvicina e i bengalesi di via Fogazzaro sono ancora senza una sala di preghiera. Non manca molto all’inizio del mese sacro, quello in cui fu rivelato il Corano e in cui è indispensabile pregare comunitariamente il più possibile tutti i giorni. Il Ramadan, infatti, mese di digiuno e di purificazione, anche se sarà la luna come sempre a dichiarare il fischio d’inizio, dovrebbe iniziare il 27 maggio e durare per i successivi trenta giorni. La comunità islamica bengalese di Mestre, quella che fa capo all’ex moschea di via Fogazzaro oggi chiusa al culto, non ha ancora trovato una sede. Il sito definitivo, quello che verrà acquistato o affittato, è ancora in fase di trattativa, ma non sarà certo pronto entro una ventina di giorni. Anche perché il tempo stringe e una volta chiuso l’affare, il centro culturale va allestito e se del caso, potrebbe servire una variante. In questi venerdì la comunità ha affittato il Palaplip di via San Donà, che oltre a costare, non è sempre libero. Serve una sala di preghiera che possa essere utilizzata continuativamente tutti i giorni quanto meno per tutto il mese. Il che è un problema da non sottovalutare che sta dando un bel grattacapo al responsabile e al presidente della comunità. «In questo periodo ci siamo arrangiati», spiega Kamrul Syed, portavoce della comunità, «ma tra poco c’è il Ramadan, sono preoccupato perché non abbiamo ancora trovato un luogo per la preghiera». In questo periodo, tra l’altro, molti bengalesi si sono un po’ dispersi. Parecchi sono andati a Marghera, nella moschea di via Monzani, che però è abbastanza fuori mano per la comunità, che si sposta prevalentemente con in mezzi pubblici o in bici e preferisce luoghi più centrali. In tanti hanno continuato a pregare a casa, da soli, ma specialmente nel periodo del Ramadan, la preghiera collettiva verso la Mecca, è ancora più importante. Pag 39 “VivaVivaldi”, il prete rosso come non l’avete mai ascoltato Al Museo diocesano Non è la scoperta di una partitura rimasta nascosta per tre secoli: è invece un nuovo modo di ascoltare Vivaldi. Cioè una fusione di brani del “prete rosso”, secondo un percorso musicale originale, con “zone di cesura inedite” appositamente composte da Cristian Carrara. Con un obiettivo: quello di raccontare, grazie ai suoi suoni, chi fu l’uomo famoso al mondo per le sue Quattro Stagioni. Il testo musicale che da sabato 13 maggio si dipanerà nelle sale del Museo diocesano di Venezia è suo. Al Museo, infatti, aprirà al pubblico una grande e innovativa opportunità culturale: quella di conoscere la musica e la vita del grande musicista veneziano Antonio Vivaldi. Le tre sale su cui è imperniato “VivaVivaldi” sono un tutt’uno, musicalmente parlando: il visitatore incontra 15-20 frammenti di brani vivaldiani – per circa 35 minuti di ascolto - che sono però collegati fra loro come fossero un unico lavoro, un’unica musica. Lo scopo della mostra non è solo quello di fare conoscere la produzione musicale, ma di connetterla con la persona di Vivaldi. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 I doveri di uno Stato di Pierluigi Battista

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La legge sulla legittima difesa votata dalla Camera dei deputati, malgrado lo show da fanatici delle armi orchestrato da Salvini e i dubbi a sorpresa di Renzi, è equilibrata e risponde positivamente alla sacrosanta esigenza di sicurezza dei cittadini. Allarga con più nettezza la nozione di «legittima difesa», rafforza il principio che l’irruzione violenta nelle case e nelle proprietà dei cittadini manifesti una minaccia reale per la vita delle persone, evitando di lasciarli soli di fronte al peso, anche economico, delle incombenze processuali. Non modificare la legge, che peraltro già prevedeva la legittimità di una risposta anche armata quando la vita di chi sta nelle case violate viene messa in pericolo, avrebbe conservato un’atmosfera di incertezza giuridica sentita come un’ingiustizia da chi ha già vissuto il trauma di ladri senza scrupoli capaci di forzare porte e finestre per raggiungere il loro obiettivo delinquenziale. Dare carta bianca alla reazione armata delle vittime, viceversa, avrebbe significato introdurre senza limiti il principio della giustizia sommaria, del Far West in cui la difesa si fa criterio assoluto, senza nessuna attenzione di legittimità, di proporzione, di inevitabilità. Una legge giusta e proporzionata è la migliore risposta sia all’immobilismo di chi non sente l’urgenza del problema, sia di chi vuole dare soluzioni urlate, propagandistiche a un problema reale. Però bisogna ricordare che non è con la disciplina della «legittima difesa» che si può dare una cornice legale stabile al tema della sicurezza e dell’incolumità dei cittadini. E serve poco anche ricordare che le statistiche parlano di una sia pur lieve diminuzione dei reati che rientrano nella fattispecie di cui si sta parlando. La percezione di insicurezza non è infatti solo una distorsione psicologica. È un comprensibile stato di allarme che avvelena la vita delle persone quando sai che un vicino di casa ha conosciuto un’irruzione notturna di ladri, quando in intere zone della città ti muovi con circospezione e apprensione perché si avverte un’atmosfera minacciosa o perché si sa di numerosi episodi di cui i cittadini sono state vittime, quando si vive in quartieri che hanno conosciuto reati in una misura superiore alle medie statistiche, che poi alla fine sono numeri e i numeri non esauriscono la complessità delle vite delle persone. Non bisogna sottovalutare questo stato di malessere, liquidarlo come se fosse una reazione isterica o addirittura meschina. Anzi, bisogna ricordare che gli Stati moderni nascono proprio da questo patto con i sudditi che poi diventeranno cittadini titolari di diritti inalienabili: ti sottometti alla maestà della legge, perché la legge è la garanzia della tua sicurezza. Lo Stato garantisce secondo questo patto la protezione delle persone, si arroga il monopolio della violenza, si dota di un apparato repressivo e di un sistema giudiziario proprio per tutelare e difendere la vita e la proprietà di chi fa parte di una comunità nazionale regolata dalle leggi. Ma proprio per questo la risposta al senso di insicurezza che serpeggia in Italia deve muoversi in più direzioni. La prima è che le forze della sicurezza e dell’ordine non debbano conoscere tagli e mortificazioni. La percezione dell’insicurezza diminuisce quando vedi lo Stato presente, i territori presidiati, la tutela delle persone avvertita anche fisicamente grazie a una polizia a cui non lesini risorse e aiuto. La seconda è la sempre ricercata certezza della pena, che impedisce a chi delinque di tornare a delinquere e di seminare paura e anzi terrore in chi si sente, indifeso, alla mercé dei violenti, con uno Stato impotente. Se non si imboccano queste due strade il tema della sicurezza resterà per forza un tossico destinato a inquinare lo spirito pubblico e dare spazio a demagoghi e violenti. E la disciplina della legittima difesa si rivelerà fragile e inefficace. Pag 3 Marine Le Pen: “Io, mio padre e il Papa” di Aldo Cazzullo “Sono come Davide come Golia. Quell’uomo è arrogante. E oscuro” Marine Le Pen ha chiuso la campagna elettorale in un villaggio di 227 abitanti dove i cellulari non prendono. Case dal tetto a punta, campanile, balle di paglia. Ora è in municipio, in mano un bicchiere di champagne. Signora Le Pen, che impressione ha avuto di Macron nel dibattito tv? «Inquietante. È inquietante il pensiero che la Francia possa essere governata da un uomo di cui non si sa nulla. L’ha detto anche il Papa». Cosa c’entra il Papa? «Non solo ha rifiutato di prendere posizione contro di me. Ha detto testualmente: “L’altro non lo conosco, non so da dove viene”. E sa cosa dice il Vangelo? (Marine Le Pen prende il suo tablet e cerca la citazione) . Ecco qui: Luca 13, 25: “Quando il padrone di

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casa si alzerà e chiuderà la porta, comincerete a bussare, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete”. È scritto proprio così, due volte: “Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d’iniquità!”. Ora, io non credo che il Papa parli a caso. E non credo si riconosca nel candidato ultraliberale, che sostiene la precarizzazione del lavoro e la distruzione della coesione sociale. L’uomo della grande finanza. Proprio ciò che Francesco combatte». Ma lei Francesco l’ha criticato. «Ho detto che da credente rispetto il suo richiamo spirituale alla solidarietà con chi soffre, all’attenzione all’altro. È giusto che il Papa dica queste cose. Ma il Papa è anche un capo di Stato. E non può imporre ad altri Stati di accogliere persone che arrivano in Europa non invitate, violando la legge, sovraccaricando un welfare che già scoppia». Perché definisce Macron inquietante? «Perché è freddo, rigido, cinico. Lui certo il problema della fila al pronto soccorso, della casa popolare, del dumping sociale non se lo pone. Non conosce la Francia, non la sente, non la capisce. Scommetto che in questo posto non c’è mai stato. Probabilmente non sa neppure che esiste». Eppure lei non ha vinto il duello televisivo. «I sondaggi dicono che ho perso un punto. Ma venivo da un periodo in cui ne guadagnavo due al giorno. A me interessava ribadire che Macron a 39 anni è un uomo del passato. Del sistema. Delle élites. Di Hollande». Non ha nulla da rimproverarsi? «Alla fine ero indignata. Ma ho preferito sorridere piuttosto che fare la faccia feroce. Però ero davvero furibonda. Quell’uomo è arrogante. Maleducato. Mi ha detto dieci volte che dico “stupidaggini”, poi che dico “grosse stupidaggini”. Ma come si permette? Così gli ho risposto che il gioco del professore e dell’allieva non mi diverte». «Le Parisien» ha scritto che è stata un’allusione maliziosa al suo amore con la professoressa di liceo. «Non è assolutamente così. Non mi permetterei mai di attaccarlo nel privato. Non l’ho mai fatto. È lui che mi ha attaccato sul piano personale. Continuava a citare mio padre». Che rapporto ha lei ora con Jean-Marie Le Pen? «Zero. E zero resterà. Ogni volta che ha potuto danneggiarmi, l’ha fatto. Quanti neonazisti ci saranno in Francia? Trenta? Li tira fuori in ogni momento. Ha dato un’arma ai miei avversari: non a caso è stato invitato in tv in questi giorni più che in tutta la sua carriera». Lei ha davvero rotto del tutto con il passato antisemita e xenofobo? «Io non ho mai giudicato in tutta la mia vita una persona per il nome che porta, per la religione che professa, per il colore della sua pelle. E le ricordo che “En Marche”, il nome del partito di Macron, era uno slogan di Vichy. Il candidato oscuro è l’altro». Fillon però, invitando a votare il suo avversario, ha parlato della «violenza» e dell’«intolleranza» del Front National. Perché? Marine Le Pen sbuffa. Cerca un’espressione, un ragionamento. Poi esplode: «Perché sono delle merde. Mi scusi, ma non mi viene un altro termine». Mélenchon invece non sostiene Macron. «Questo è molto interessante. Non solo perché abbiamo oggettivamente punti in comune nel programma: la rinegoziazione dei Trattati europei, l’uscita dal comando integrato della Nato, la pensione a sessant’anni. Ma perché Mélenchon ha rilanciato il discorso nazionale. Ha tolto la bandiera rossa e ha sventolato il tricolore». E lei ha citato de Gaulle. Siete pur sempre gli eredi di un partito che de Gaulle lo voleva uccidere. «Non sono erede di nulla. Mi capita di citare de Gaulle perché il suo pensiero è più che mai attuale: la difesa della sovranità nazionale nel contesto europeo e mondiale». Ma lei l’Europa la vuole distruggere. «Al contrario. La voglio salvare. E rifondare su basi del tutto diverse». Nel dibattito lei ha parlato di «Alleanza europea di Stati liberi e sovrani». Cosa vuol dire? «È il modello dell’Airbus. O di Ariane. Ha presente l’aereo e i missili spaziali frutto della cooperazione? Un gruppo di Paesi si mette d’accordo su un progetto, e lo realizza. Ma nessun Paese deve imporre qualcosa a un altro. Bruxelles non può stipulare i Trattati di libero scambio e imporli agli Stati sovrani».

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Lei propone di limitare l’euro alla Banca centrale e alle grandi imprese, e di reintrodurre il franco per la vita quotidiana. Come può funzionare? «Non solo il franco. Tutte le monete nazionali; alcune, ad esempio la sterlina, non hanno mai cessato di esistere. Del resto c’è stata una fase in cui l’euro — non solo l’Ecu come dice Macron; l’euro — era la moneta delle transazioni internazionali, mentre in Francia ci scambiavamo franchi e in Italia lire». Che rapporto ha con Grillo? «Non lo conosco. So che il suo movimento condivide la critica a Bruxelles e alla moneta unica. Ma nel Parlamento di Strasburgo con loro è impossibile lavorare: sono tutti pro-immigrazione». La linea dei Cinque Stelle però è un’altra. «Speriamo. Intanto in Italia ho diversi interlocutori. Il primo è Matteo Salvini. Gli ho detto molte volte: fai una lista sovranista, per la dignità nazionale. Tu sei forte al Nord; trova un alleato al Sud». Berlusconi non è su queste posizioni. «Berlusconi è un uomo d’affari. Ma dentro il suo partito molti la pensano come me. Daniela Santanché è una cara amica. Il movimento di Giorgia Meloni è interessante. Anche se, quando vengo da voi, ho l’impressione che ogni italiano fonderebbe il suo movimento». Pensa davvero di poter vincere domenica? «Siamo Davide contro Golia. Una divina sorpresa è possibile. Ma è stata una campagna durissima. Non c’è un’associazione che non si sia schierata contro di me. Tutte, pure il club dei giocatori di bocce, la compagnia dei cuochi della domenica... Scherzi a parte, i presidi delle facoltà mandano mail minatorie agli studenti, i sindaci sono scatenati. I giornali poi non hanno vergogna. Non ce n’è uno, dico uno, che mi sostenga». In effetti il «Figaro», storico quotidiano della destra francese, è molto duro con lei. «Perché difende il sistema. Vede, i giornali non hanno compreso appieno la portata del cambiamento in corso qui in Francia e in Europa. La frattura non è più tra destra e sinistra; è tra il sopra e il sotto della società. Tra i vincitori e i vinti del mondo globale. Lei è mai stato in una banlieue?». Molte volte. Sempre di passaggio, però. «Allora lei non può sapere cosa prova una ragazza che si sente insultare perché è uscita di casa con una gonna. Un francese che attende una casa da anni e si vede passare davanti l’ultimo arrivato. Un pensionato che deve piegare il capo davanti al capetto della gang». Qui nella campagna piccarda l’immigrazione non mi pare un’emergenza. «Ma è un’emergenza la salvezza dell’identità. Sono venuta qui perché questo villaggio rappresenta la Francia eterna. Guardi il campanile qui fuori. I contadini che i salotti di Parigi disprezzano. I campi. Ci sono voluti secoli per costruire la nostra civiltà. Qui vicino passa la Somme, dove infuriò la Grande Guerra. Noi non possiamo sciogliere tutto questo in un’Europa federale. Per fortuna la storia va tutta da un’altra parte». Da quale parte? «Dicevano che dopo la Brexit agli inglesi sarebbe caduto il cielo in testa; invece l’economia va bene e la May si prepara a vincere le elezioni, e con lei potrei avere un ottimo rapporto. Con Trump e Putin di sicuro mi troverei meglio di quanto non si troverebbe Macron. E lo stesso vale per Modi, che guida una grande potenza su basi nazionali e identitarie; e gli indiani seguono con attenzione il voto francese. L’avvenire dura a lungo; e un giorno tutto può succedere. Lo diceva de Gaulle, no?». Pag 19 Una provocazione all’Ue. Sbarchiamo i naufraghi anche a Nizza e a Malta di Milena Gabanelli Perché servirebbe l’azione dimostrativa delle associazioni Torniamo ad aprile 2015: al largo delle coste libiche si ribalta un peschereccio con più di 700 migranti. Si solleva l’indignazione generale e nel Mediterraneo viene messa in campo l’operazione Triton, sotto il controllo di Frontex, l’agenzia della guardia di frontiera e costiera europea. Cosa fa Frontex: definisce modelli dell’immigrazione clandestina e delle attività criminali transfrontaliere ai confini esterni, inclusa la tratta di esseri umani. Condivide i suoi dati con i Paesi dell’Ue e la Commissione Europea, e li usa

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per operazioni congiunte inviando mezzi di rinforzo nelle zone che ne hanno necessità. Dispone di 1.500 esperti. In italia le strutture operative fanno riferimento al Viminale e alla Guardia di Finanza. Triton (che oggi si chiama Eunavfor Med o «Sophia») fa attività di pattugliamento marittimo e aereo, di soccorso e investigazione per il contrasto dei traffici migratori illegali dal nord Africa. La priorità è il soccorso di vite umane fino a 70 miglia dalle acque libiche, ed è coordinata, su mandato di Bruxelles, dalla nostra Guardia Costiera, che dipende dal ministero delle Infrastrutture. Operano 11 imbarcazioni, 3 aerei, 2 elicotteri. Il 2015 è un anno cruciale: l’Europa da un lato monitora, dall’altro prende le distanze, e a fine anno si chiudono tutte le rotte via terra; mentre l’instabilità libica consente il via libera ai trafficanti di uomini. Fra il 2015 e il 2016 il numero delle organizzazioni umanitarie che affittano imbarcazioni battendo bandiera panamense, del Belize, olandese, e partono verso le coste libiche, si impenna, e continua a crescere nei primi mesi del 2017. Più navi e più morti - Tutte operano con donazioni private e fino a prova contraria del loro spirito umanitario non si può dubitare. Il dato è che non ci sono mai state tante barche per salvare vite nel Mediterraneo, e mai tanti morti: 4.500 nel 2016, contro i 2.800 del 2015. Dal primo gennaio 2017 a fine aprile i dispersi sono 849. Il pensiero rozzo è: più navi sono pronte a soccorrere e più i trafficanti stipano anime in mare su imbarcazioni improbabili. Allora la risposta civile potrebbe essere: organizziamo più soccorsi! L’85% dei migranti irregolari verso l’Italia parte dalla Libia e proviene dall’Africa Subsahariana. Si sta aggiungendo un fenomeno nuovo: un flusso dal Bangladesh che arriva in aereo al Cairo, poi scende verso il Sudan e rientra in Libia da sud. Il rapporto di Frontex e l’audizione del suo direttore al Senato sono noti: «Gli uomini libici che controllano la migrazione irregolare, il traffico di droga e armi, sarebbero in contatto con le Ong durante l’operazione di soccorso. Abbiamo evidenze che alcune imbarcazioni spengono per alcune ore il sistema automatico di identificazione». Il rapporto riservato delle audizioni rese dai migranti dice inoltre «…Navigarono per circa 8 ore, quando una nave di Medici senza frontiere venne loro in soccorso. L’interrogato afferma che la lancia con i facilitatori libici rimase sul posto durante l’evacuazione e parlarono coi soccorritori. Dopo che tutti i migranti furono salvati, i facilitatori libici distrussero la barca di legno. Prima avevano smontato il motore, che portarono con sé…». In un’altra audizione: «…fu messo in mare un gommone con circa 140 persone a bordo, scortato da un gommone ad alta velocità, con 4 guardie armate in uniforme. Dopo poco più di un’ora, fecero una chiamata, nella quale il testimone li sentì dire: “Abbiamo già lasciato qui la gente, potete venire”». Ancora: «…Al crepuscolo, la barca di legno lasciò la costa libica, guidata per 2 km da un libico armato, che istruì due africani sulle manovre da compiere. Dopo circa tre ore lo skipper africano, che aveva ricevuto dal libico un satellitare, lanciò una richiesta di soccorso… Poco prima del salvataggio, gettò in mare il telefono e una bussola. I migranti furono portati, dalla nave Aquarius, a Pozzallo…». Tsunami umano - Le testimonianze sono tante, ma dimostrano poco. I numeri di telefono delle navi di soccorso e la loro posizione non sono segreti, si trovano su internet. E comunque di fronte ad un gommone alla deriva non è compito delle Ong occuparsi degli scafisti. Mentre le Procure di Catania e Trapani cercano la mela (o le mele) marcia, sul nostro Paese il nastro trasportatore scarica disperati a ritmo continuo. Lo tsunami umano si è messo in moto, l’Europa si è girata dall’altra parte, noi siamo rimasti l’approdo più facile. Come ne usciamo? Allestendo i corridoi umanitari nei Paesi d’origine. Ma quanti sono i Paesi d’origine, e chi ci deve pensare? Il ministro dell’Interno Minniti le sta provando tutte per far dialogare le fazioni libiche a suon di milioni ottenuti dall’Europa. Paghiamo le tribù del sud per limitare i flussi; addestriamo le guardie costiere libiche e gli forniamo imbarcazioni per impedire le partenze; paghiamo le organizzazioni internazionali perché allestiscano i campi d’accoglienza in Libia dove fare la ricognizione di chi ha diritto alla protezione. Paghiamo i Paesi d’origine perché si riprendano i loro migranti economici. Ma fino a quando? Azioni dimostrative - Nella più complessa situazione geopolitica della storia recente, le Ong, oltre a salvare persone, potrebbero fare un’altra cosa: contribuire a far esplodere il problema sui tavoli dell’Europa. Per esempio Médecins Sans Frontières, la cui dedizione alla causa è totale, che utilizza navi attrezzate di tutto, non potrebbe tentare un’azione dimostrativa, sbarcando un carico di migranti a Nizza? Si rifiuterà la civile Francia di

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soccorrere uomini, donne e bambini? La Fondazione Moas, degli imprenditori milionari Catambrone con sede a Malta, con la loro nave Phoenix, perché non provano ad attraccare almeno una volta nel più vicino porto sicuro della Valletta, come prevede la convenzione di Amburgo? L’isola è piccola, ma qualche centinaio di persone ogni tanto, potrebbe anche gestirle, in fondo stiamo parlando dello Stato europeo più ricco. Costringa il Paese che in questo momento ha la presidenza di turno dell’Ue ad allestire centri degni di questo nome, o al contrario, ad esporre al mondo la propria viltà. Magari si innesca l’urgenza di rivedere gli accordi di Dublino, e anche quella di obbligare la Tunisia, che ha firmato la Convenzione di Amburgo, a raccogliere e accogliere i naufraghi, essendo geograficamente il porto più sicuro. Oltre alla consapevolezza che il mondo sta cambiando per tutti. Pag 26 La scelta di Theresa May e le ragioni dell’Unione di Sergio Romano Al primo ministro britannico, quando accusa l’Unione Europea di trattare il suo Paese con minacciosa durezza, ricorderei una vicenda che appartiene alla storia dei popoli di lingua inglese. Fra il gennaio e il maggio 1861, alcuni membri del grande Stato nordamericano (Mississippi, Florida, Alabama, Giorgia, Louisiana, Texas, Virginia, Arkansas, Tennessee e Carolina del Nord) decisero di imitare la Carolina del Sud, uscita dalla Federazione nel dicembre dell’anno precedente. In aprile, dopo un primo scontro militare nel porto di Charleston, il presidente Lincoln chiamò alle armi 75.000 uomini. Scoppiò un conflitto che si sarebbe protratto sino all’aprile del 1865 e sarebbe stato uno dei più sanguinosi del XIX secolo. Quella non fu la prima «guerra di secessione». Poco meno di venti anni prima, sette cantoni della Svizzera cattolica avevano formato una lega (il Sonderbund) e si erano battuti contro i cantoni protestanti sino alla pubblicazione di una nuova Costituzione nel settembre del 1848. I due episodi dimostrano che la rottura di un legame federale è sempre un evento traumatico e pericoloso. L’Unione Europea non è, formalmente, una Federazione, ma ha due caratteristiche che sono proprie degli Stati federali. Ha più leggi comuni e politiche unitarie di quante ne avessero gli Stati Uniti e la Svizzera alla vigilia dei loro conflitti; è stata costruita sulla base di un progetto federale a cui i suoi Stati fondatori, anche quando appaiono esitanti e tardivi, non intendono e non possono rinunciare. Non è difficile, quindi, comprendere le sue reazioni. Per una Federazione l’uscita di un membro, soprattutto quando ha l’importanza del Regno Unito, non è un semplice incidente di percorso. Può essere, agli occhi di molti, la prova di uno scacco, una implicita dimostrazione della fragilità dell'Unione. In un momento in cui ogni Paese della Ue ha nel proprio sistema politico partiti e movimenti euroscettici, se non addirittura ostili alla integrazione europea, la decisione britannica può diventare il primo scricchiolio di un edificio destinato a crollare su se stesso. Il ricorso alla guerra, come nel caso della Svizzera e degli Stati Uniti, appartiene ad altri tempi ed è fortunatamente, fra europei del XXI secolo, inimmaginabile. Ma l’Unione, per sopravvivere, non ha altra scelta fuor che quella di dimostrare al socio dimissionario e al resto dell’Europa che l’uscita sarà laboriosa e costosa. Questo spiega perché l’Ue pretenda dalla Gran Bretagna il pagamento di tutti gli impegni e debiti contratti quando era membro dell’Unione per una somma che potrebbe avvicinarsi a cento miliardi di euro. E spiega perché Bruxelles rifiuti di aprire negoziati per un nuovo partenariato prima che Londra abbia interamente saldato le spese del divorzio. Il Primo ministro britannico, nel frattempo, ha deciso di rendere il rapporto ancora più teso e imbrogliato. Per rafforzare se stessa all’interno di un Parlamento in cui la componente europeista è ancora considerevole, Theresa May scioglie la Camera dei Comuni e s’impegna in una campagna elettorale in cui i temi dominanti saranno inevitabilmente nazionalisti. Spiegherà ai suoi elettori che soltanto un forte mandato le permetterà di battersi efficacemente con i burocrati di Bruxelles. Ma alla fine della campagna elettorale avremo assistito alla riapparizione di una Inghilterra «gingoista», come erano chiamate le folle scioviniste in epoca vittoriana. E la Manica diventerà molto più larga di quanto fosse negli anni in cui la Gran Bretagna sacrificava almeno in parte la sua insularità per avvicinarsi al continente con la costruzione di un tunnel sottomarino. AVVENIRE Pag 1 La difesa sia comune di Giuseppe Anzani

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Altro che fai-da-te in casa Toccare il codice penale in alcuni punti specifici è come infilare un cacciavite negli ingranaggi di un orologio, con voglia di mettere a registro il bilanciere e cambiare la misura del tempo. Bisogna sapere cosa si sta facendo, cosa si sta toccando, per non fare più guasto che rimedio. Non dico del codice penale in generale, come catalogo dei delitti e delle pene; dico dei princìpi fondamentali, dei criteri di giustizia e di ragione che reggono il sistema e che sono radicalmente imparentati con l’etica. La relazione fra colpa e pena, per esempio; il rilievo della coscienza e della volontà; il peso delle circostanze che aggravano o attenuano la responsabilità soggettiva, e via. In particolare le 'cause di giustificazione': quelle che tolgono a una condotta materialmente delittuosa il suo profilo illecito, e la rendono 'non punibile'; tipica, fra le pochissime altre, la legittima difesa. Quando un concetto è chiaro, poche parole bastano a sbozzarlo: «Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa». Che cosa manca alla completezza di questo orizzonte? Non è la varietà delle circostanze (la strada o la casa, il giorno o la notte), la qualità o il nome del diritto difeso (la vita, le cose), il tipo di offesa (la violenza o l’inganno) ciò che disegna il paradigma della difesa legittima, ma i criteri essenziali e costanti: l’attualità del pericolo, l’ingiustizia dell’offesa e la proporzione della reazione difensiva. Giudicare questi tre criteri è discernimento, mestiere d’intelligenza. È quella che manca? L’equilibrio di questo bilanciere non dipende dal censimento dei delitti, o dalla insicurezza sociale; vale sempre, fronteggia anche le situazioni insidiose che le cronache ci mettono sotto gli occhi, e che sono pugnalate di paura. C’era già una spinta emozionale di paura nella riforma fatta nel 2006 che diceva proporzionato l’uso di armi contro un intruso in casa o in bottega, per difendere l’incolumità (o anche solo i beni, se quello non desisteva e c’era pericolo di aggressione). E così cercava di intercettare in anticipo il giudizio processuale sulla proporzionalità della reazione difensiva, quasi a ripararla dal rischio di accuse scandalose di eccesso colposo. In certo modo premasticando il lavoro ai giudici. E forse sono ancora le storie tragiche narrate dalle cronache che hanno indotto la Camera dei deputati ad approvare un nuovo mutamento, che sembra resettare il giudizio tout court sulla legittimità della difesa per chi reagisce a un’aggressione notturna, o a una intrusione violenta in casa o bottega; senza peraltro poter estromettere le esigenze di proporzione e di attualità del pericolo. Di nuovo avendo di mira più le vicende processuali che quelle sostanziali, come dimostra la scriminante per chi sbaglia nel reagire (magari sparando) se il suo errore è conseguenza di un grave turbamento psichico, causato dall’aggressore, in situazioni di pericolo per la vita o l’incolumità personale o sessuale. Una legge fatta per incidere sui giudizi? Non dimentichiamo che le leggi penali incidono anche, primariamente, sulla condotta. L’obiettivo di aprire un ombrello più largo agli aggrediti in casa, o di notte, nei giudizi per la loro reazione (se fuori misura), e pagargli l’avvocato quando sono assolti è un conto; la suggestione al grilletto facile che può scaturire da questo riparo legale è un altro conto. Già si sentono slogan come 'a casa mia mi difendo come dico io', che restano insensati, e la sicurezza sociale non se ne giova. C’è invece una difesa comune da mettere a punto, insieme, meglio del fai-da-te delle armi in casa col colpo in canna; una difesa sociale, preventiva, fatta di contiguità e attenzione reciproca; e tecnologicamente sapiente. Le videocamere sono meglio dei mitragliatori. Pag 2 Rischioso alimentare la divisione “noi” – “loro” di Andrea Lavazza “Caccia alle Ong”, conseguenze attuali e future Ciascuno tende a prestare attenzione e a credere a quello che conferma le proprie idee già cristallizzate. Tanta ricerca psicologica conferma la presenza in noi di processi mentali che favoriscono la separazione tra 'noi' e 'loro', in tribù contrapposte, all’interno delle quali i membri sono leali e solidali, ma pronti a mostrare ostilità verso gli estranei. Dalla preistoria a oggi abbiamo fatto progressi nell’allargare il cerchio morale sino all’universalismo che per primo il cristianesimo ha predicato. Ma gli schemi settari sono sempre pronti a riaffacciarsi. Saperlo aiuta a non alimentare la contrapposizione noi-loro, ma permette anche di fomentarla se l’obiettivo è allargare il fossato fra 'tribù'.

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Tutto questo sta avvenendo con la chiarezza esemplare di un esperimento nel caso della 'caccia alla Ong' che aiutano i migranti in mare. Per fomentare le divisioni tra noi e loro e corrodere la fiducia tra tribù, non vi è nulla di più sottilmente efficace di questo: instillare il sospetto che persino nel nobile impegno altruistico di salvataggio vi sia qualcosa di interessato, di scorretto, di tenuto nascosto e messo in atto per secondi fini. Se anche i 'buoni', se anche i 'pontieri', se anche coloro che dimostrano che le barriere si possono superare sono membri di una tribù, pronti a imbrogliare per i propri scopi, allora non c’è motivo di provare a resistere al settarismo. Ed ecco allora che sospetti montati ad arte, voci senza fondamento, generalizzazioni spurie diffuse come quasi certezze vengono recepiti con estrema facilità, sintetizzati nell’immagine di un’'invasione organizzata ai nostri danni'. Una falsità colossale dietro la quale, però, si può di nuovo scatenare la guerra fra tribù. A diversi livelli di intolleranza, ma facilmente si può passare a quella aperta e violenta. Come ha fatto ieri Forza Nuova a Roma con un blitz xenofobo e intimidatorio presso la sede dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni che, pur non essendo una Ong, costituiva un simbolo dell’accoglienza facilmente raggiungibile. Siamo convinti che non assisteremo a un’esplosione di razzismo e di vili aggressioni, ma le 'rispettabili' esternazioni di funzionari della Ue e di esponenti delle istituzioni italiane, da parlamentari a procuratori della Repubblica, stanno forse inconsapevolmente (qualche volta scientemente) diffondendo parole d’ordine che catturano l’attenzione e portano conferme ai pregiudizi che si alimentano facilmente di tutto ciò che va nella loro direzione. Nessuna istigazione. Basta assecondare quello che molti vogliono sentire. E il fossato tra 'noi' e 'loro' non potrà che allargarsi. Come il mare che i migranti devono attraversare, nel quale spesso, tragicamente, annegano. E, nel quale, forse, senza Ong e senza umana solidarietà, annegheranno ancora di più. Pag 2 I tagli boomerang della Mole pentastellata di Enrico Lenzi A Torino ridotti i fondi alle materne paritarie Sulle materne paritarie il consiglio comunale di Torino segna un clamoroso autogoal, confermando il taglio di 750mila euro ai fondi loro destinati. Non solo sconfessa l’operato della giunta guidata dal sindaco Chiara Appendino – che aveva assunto l’impegno di ridurre il taglio a 500mila (comunque oneroso per gli istituti) – ma conferma anche un antico pregiudizio che in diversi settori della politica italiana si mostra nei confronti della scuola paritaria, dal 2001 diventata parte integrante dell’unico sistema scolastico nazionale con la legge 62. Ancora una volta, facendosi scudo delle necessità di bilancio, si colpiscono i fondi per questi istituti considerandoli luogo di istruzione soltanto per le famiglie 'ricche'. Una visione ideologica, antica e non veritiera come abbiamo dato conto molte volte nelle nostre pagine. E a rendere ancora più stridente questa posizione è il voler ignorare che le stesse materne comunali torinesi sono anch’esse paritarie, alla pari di quelle che questi tagli oggi colpiscono. Ma oltretutto è davvero una scelta economicamente valida? No. Le paritarie non comunali di Torino senza quei fondi sono messe a rischio chiusura. E per non farlo saranno obbligate ad aumentare le rette. Risultato? Ad essere colpite saranno ancora una volta le famiglie, che già, in nome della libertà di scelta in campo educativo, si sobbarcano l’attuale retta. Per molte di loro sarà il colpo finale a questo diritto costituzionale. E dove andranno i bambini di queste famiglie? Chi potrà cercherà soluzioni in ambito familiare (magari coinvolgendo i nonni, immaginiamo), ma nella quasi totalità dei casi, richiederà questo servizio al Comune, quello stesso che ha tagliato i fondi alle scuole da cui provengono. Ecco così che quel «risparmio» di 750mila euro potrebbe essere presto non solo vanificato, ma addirittura aggravato da un aumento dei costi per le materne comunali. Davvero una scelta lungimirante e di grande respiro quella compiuta dalla giunta e dalla maggioranza pentastellata del Comune di Torino. Ecco che il boomerang lanciato con questo taglio – che alla fine avrà danneggiato principalmente le famiglie – sarà così tornato a chi l’ha lanciato: il Comune. Pag 3 La politica in crisi di valori riscopra l’arte di “convenire” di Luca Diotallevi Saper “fare insieme”, sfida di responsabilità per i cattolici

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Dopo le prossime elezioni politiche ci aspetta un Parlamento frammentato come mai prima: una miscela esplosiva di politiche urgenti e stallo della politica. Lo sarà comunque, e ancor più se non verrà còlta a dovere l’opportunità costituita dal pressante appello del presidente Mattarella a dar forma a una nuova e sensata legge elettorale. Quella italiana è una società nella quale non si sa più convenire. Quasi non si sa più come fare cose insieme. E, facendone sempre meno, si finisce per dimenticare la ragione per cui fare cose insieme è importante tanto quanto lo è darsi pena delle proprie cose. In questa società la politica non fa eccezione, anzi riflette e accelera la deriva di frammentazione. Le leadership e le organizzazioni politiche si moltiplicano e si parcellizzano, le attenzioni politiche, focalizzandosi su singoli temi, evitano accuratamente di cimentarsi con la costruzione di un vero programma di governo. I populismi (digitali e predigitali) sguazzano nella palude della politica che si destruttura. I populisti hanno buon gioco a coltivare il mito della immediatezza. L’opinione pubblica abbocca, provata com’è da lustri di crisi e disgustata da infiniti frammenti politici dediti solo a interessi particolarissimi. La democrazia diretta (mito che occulta il potere irresponsabile di pochi) non è l’ideale, ma le negazione della democrazia. J.J. Rousseau, padre di tutti i totalitarismi moderni, lo aveva insegnato apertamente. Il convenire non è compito solo politico, ma che la politica spinga nella direzione giusta invece che in quella sbagliata può fare la differenza. Settanta anni fa, all’indomani della dittatura fascista, della Seconda guerra mondiale e della guerra civile, la politica spinse nella direzione giusta: la differenza si vide e ancora ne godiamo i vantaggi. Oggi invece, e da decenni, la politica riflette e moltiplica il frammentarsi dell’intera società italiana. Da oltre trenta anni il Paese ha tentato di darsi forme politiche che incentivassero il convenire, innanzitutto semplificando e responsabilizzando l’agire politico. Pochissimo è stato ottenuto e quasi tutto è stato poi pian piano smontato. Lo smantellamento di gran parte delle poche riforme che si era riusciti a ottenere non azzera l’urgenza del riformismo, rende 'solo' maledettamente più complicato affrontarla. È questa la ragione che obbliga a guardare anche all’altro lato della frammentazione politica: l’incapacità a convenire della società italiana in generale e della sua dimensione politica in particolare. La disabitudine a convenire è alimentata dalla inadeguatezza delle strutture e delle culture del convenire. Le strutture di ieri (ad esempio, i vecchi 'corpi intermedi') e le culture di ieri (il consociativismo) risultano oggi inutilizzabili: non riconoscono la realtà di una più lucida e diffusa coscienza degli interessi. D’altra parte, né aver assolutizzato né aver demonizzato gli interessi, a partire da quelli individuali, aiuta a rinnovare le prassi e le idee del convenire. La coscienza degli 'interessi', infatti, ha un grande valore: innanzitutto tiene lontana la frode ideologica. Quando però gli interessi sono complessi (e la politica si occupa di interessi complessi), le azioni con cui li si persegue debbono essere altrettanto complesse e i risultati non possono essere immediati. È esattamente questo il momento in cui riappare la funzione dei valori. Perseguire interessi complessi richiede la cooperazione di molti individui e più in generale di molti attori sociali. Il loro associarsi deve resistere per un tempo non breve, durante il quale ancora non si dispone dei risultati attesi. Per questa ragione l’associarsi, e in particolare l’associarsi politico, richiede tra l’altro anche la condivisione di valori. I valori non sono mai sufficienti, ma sono sempre necessari a sostenere catene di azioni lunghe e complesse e a orientare la costante vigilanza su ciascuno dei loro elementi. I valori sono frutto di elaborazione sociale, come gli interessi, e sono altrettanto indispensabili. Se mancano i valori, si possono fare solo cose molto piccole. Per questa ragione la politica, che certo non vive mai di soli valori, senza valori perde efficienza. E non solo la politica: ormai c’è consenso tra gli analisti sul ruolo giocato dallo short termism (attenzione esclusiva al brevissimo termine) tra le cause della crisi economica esplosa circa dieci anni fa. L’invecchiamento delle culture e delle strutture del convenire e il sommarsi di demonizzazione e assolutizzazione degli interessi ci hanno reso oggi poveri di valori. Questo avviene mentre una società più libera e aperta avrebbe bisogno di più valori, non di meno, e di molto più numerose e varie forme di convenire, anche in politica. Crisi di riforme e crisi di valori fanno perdere efficienza alla politica, e oltre una certa soglia si alimentano reciprocamente. Che fare? Il convenire non può essere oggetto di prescrizioni o di comandi. Le strutture e le culture del convenire possono rigenerarsi solo se si rinnova quel poco che ne è rimasto. È per questa ragione che i cattolici italiani si trovano oggi a portare una responsabilità grande e drammatica. Sulla quale saranno giudicati. I cattolici

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italiani, sia chiaro, non detengono né la ricetta né il monopolio del convenire. Tra di loro vi sono però molti dei non molti che nel nostro Paese ancora coltivano prassi, strutture e culture del convenire. Come cattolici italiani, la responsabilità che in questo caso ci inchioda non è quella dei princìpi, ma quella dei fatti: le scuse possono a volte funzionare con i primi, mai con i secondi. Qualsiasi siano le intenzioni individuali, è difficile negare che uno scarto enorme permane tra la sfida e la risposta di cui si è stati capaci sinora. In politica, poi, questo scarto è ancora maggiore che nel resto della società. Centocinquanta anni fa i cattolici italiani non erano così. Questo e altro l’hanno appreso dalle dure lezioni della storia, che li ha obbligati a riconoscere anche mancanze e contraddizioni. Hanno dovuto 'fare i compiti' e spesso più di una volta. Forse proprio per questa ragione sembrano oggi dimenticare la lezione un po’ meno in fretta di quanto non la dimenticano altri. Non basta. Le trame del convenire che attraversano il cattolicesimo italiano non includono solo élite illuminate, ma raggiungono luoghi sociali nei quali prevale – e non senza ragione – la rabbia, o la disperazione, o la rassegnazione. Queste trame sono alcune delle poche leve di cui il Paese ancora dispone per guadagnare alla causa riformista proprio quelli (la grande maggioranza) che di riforme avrebbero più bisogno e che invece, comprensibilmente, di riforme e di riformisti non vorrebbero più sentir parlare. I valori non vanno mai sacralizzati: come gli interessi sono meri costrutti sociali. I valori non sono la fede, ma la fede dà il proprio contributo alla civitas solo se sa anche elaborare ed istituzionalizzare valori (magari largamente condivisi) e, soprattutto, se sa farne manutenzione. Di conseguenza, l’investimento politico del residuo capitale di valori non può avvenire per strade come quella della unità politica, del centrismo, dell’impegno individuale, della retorica identitaria, o del purismo politico. Infatti: lo stesso capitale di valori può essere interpretato politicamente in modi diversi e concorrenti; il trasformismo è la negazione dei valori; l’impegno individuale in politica può rendere economicamente, non politicamente: la politica si fa in tanti, non in pochi, o è organizzata o non è politica; il ritrovarsi da soli, a volte inevitabile, è una sconfitta: la politica democratica è cultura della alleanza e cultura della competizione leale; per i cristiani la politica deve concorrere a una civitas abitabile da quanti più possibile (secondo la lezione paradigmatica del decreto conciliare sulla libertà religiosa). A valle di tutti questi indispensabili filtri, la responsabilità dei cattolici italiani di innestare in una politica che si frammenta il residuo capitale di valori non risulta attenuata, ma esaltata: questa responsabilità appare ancora più limpida e urgente. Questo capitale è in quantità sufficiente? A questa domanda è impossibile rispondere 'prima'. Questo capitale può ancora rivelarsi fecondo? A questa domanda, invece, è possibile abbozzare una risposta anche 'prima'. Perché l’abbozzo di risposta sia utile però, il test va condotto su questioni della massima urgenza e gravità. Quella del futuro della Unione Europea certamente lo è. IL GAZZETTINO Pag 1 Un passo avanti ma per le vittime cambia poco di Carlo Nordio Con il provvedimento di ieri, governo e parlamento hanno compiuto l’ennesimo tentativo di riformare le norme sulla legittima difesa. Le prime reazioni negative sono arrivate da chi sperava in un allargamento di tutela per le vittime, che resteranno ancora esposte al rischio di doversi difendere in tribunale, dopo essere state costrette a farlo davanti ai banditi. Per di più la tecnica redazionale è, ancora una volta, discutibile. E molti staranno già domandandosi se la norma sia applicabile in una notte di luna piena, dove la visibilità è buona, e non durante un uragano diurno, quando invece non si vede a tre metri. Il fatto è che, per quanto si lavori con i verbi e gli aggettivi, con la grammatica e la sintassi, i due paletti entro i quali si gioca la partita sono sempre gli stessi: l’attualità del pericolo e la proporzione della reazione. E poiché questi due elementi dovranno pur sempre esser accertati dal giudice, in sostanza non cambierà nulla: chi si difende continuerà a essere indagato, e tra un po' di tempo riprenderanno le polemiche. Perché resterà tutto sostanzialmente uguale? Per la semplice ragione che la legittima difesa è inserita in un quadro che la riforma non tocca minimamente. E' il quadro disegnato dal nostro codice penale fascista, firmato da Mussolini e dal Re Vittorio Emanuele, dove questa causa di non punibilità,come ambiguamente la chiama il codice, è una sorta di concessione benevola da parte dello Stato che indica i limiti entro i quali l'aggredito può

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reagire. E che, laddove vengano rispettati, esonera l'imputato dalla responsabilità con la formula ancora più ambigua che il fatto non costituisce reato. Vuol dire che il reato c'è, ma non lo si considera tale. Come abbiamo scritto più volte, un codice liberale avrebbe un'impostazione logica e sistematica completamente opposta, che suonerebbe così: poiché in caso di aggressione il primo responsabile è lo Stato, che non ha saputo impedirla, la legge non deve indicare i limiti entro cui il cittadino può difendersi, ma quelli entro cui lo Stato può punire chi si è sostituito alla sua inerzia. I termini del problema sarebbero ribaltati, e cambierebbe tutto. A cominciare dal fatto che, durante le indagini, il cittadino sarebbe realmente considerato presunto innocente, e non come adesso un mezzo colpevole; e che la formula assolutoria sarebbe quella, più radicale e liberatoria, che il fatto non sussiste. Detto questo, va riconosciuta al progetto approvato alla Camera una duplice novità. La prima, di soccorrere finanziariamente l'aggredito, costretto a sobbarcarsi non solo le noie di un processo ma anche le cospicue spese legali, che saranno pagate dallo Stato in caso di proscioglimento. La seconda, di costringere il giudice a un esame più serrato delle condizioni psicologiche della vittima, dalla quale non si può pretendere l'animo freddo e pacato nell'interpretare la reale portata di una minaccia che successivamente, a tavolino, può anche rivelarsi meno grave. Ricordando comunque sempre, come insegnava il filosofo, che è meglio avere una legge stupida e un giudice saggio piuttosto del contrario. LA NUOVA Pag 1 Pastrocchio molto ambiguo di Gianfranco Bettin La nuova legge sulla legittima difesa, approvata in prima lettura alla camera, è una specie di pastrocchio che non può soddisfare nessuna delle istanze, strumentali o genuine, da cui è scaturita. “Sentinella, a che punto è la notte?”: per secoli le parole di Isaia hanno interpretato il bisogno di sentirsi vegliati nella notte e, nel contempo, di sapere a che punto si fosse, nello scorrere delle tenebre. Ecco, precipitando dal Vecchio Testamento al nuovissimo testo appena licenziato, ci si trova invece in una situazione in cui la sentinella non sembra affidabile nemmeno per dirti esattamente se è notte o se è giorno, stabilendo tuttavia per legge che è la notte la condizione per essere sicuro che la tua difesa è proprio legittima. Le “sentinelle”, si badi, in questo caso non sono certo le guardie, gli agenti in campo. È il legislatore, è lo Stato. Stabilire che si è più legittimati a reagire di notte (senza neanche dire a che ora comincia e finisce), derubricando quindi i reati diurni indipendentemente dalla loro natura e portata, evocare un’altra circostanza legittimante nel “grave turbamento psichico” subito dalla vittima (chi lo misura, e quando?) a fronte del pericolo per la “incolumità fisica” e dei “beni” (chi decide il livello di rischio subito?) e della “violenza” dell’offesa (ancora, chi la valuta?): tenere tutto ciò nell’indefinitezza, ammiccando all’opinione pubblica più allarmata “ma anche” evitando di procedere verso il far west, non rende nessuno più sicuro. Non aiuta a evitare la logica tipo “occhio per occhio” (che può renderci tutti ciechi, alla lunga) né ad acquisire una razionale capacità di motivata, misurata autodifesa se il caso purtroppo lo richiede. La nuova legge, insomma, resta molto ambigua su punti cruciali. A cominciare dalla scelta culturale che compie, cioè quella di dare una risposta al problema mescolando sensibilità troppo diverse senza comporle in una sintesi superiore. Lo Stato deve porsi dalla parte delle vittime, senza esitare. Non può rispondere a una diffusa inquietudine, certo anche alimentata dagli imprenditori politici e mediatici della paura, semplicemente raccomandando nervi saldi e moderazione e citando statistiche che vedono i reati in calo. L’impatto dei reati predatori è molto più profondo e devastante della loro realtà statistica. Qualche anno fa, studiando per un’indagine narrativa un efferato delitto nel profondo nordest, a Gorgo al Monticano (“Gorgo. In fondo alla paura”, Feltrinelli), è stato possibile appurare come un solo delitto di questa portata sconvolga a lungo e in modo inaudito non solo la comunità che lo subisce direttamente ma l’intero paese che lo vede accadere e che lo “sente” su di sé. Aver sottovalutato quel caso costò carissimo - giustamente - ai governanti di allora. Ma questa nuova legge non risolve il problema. Di fatto, la sola (relativa) novità riguarda l’introduzione del principio che chi si difende legittimamente quando fosse indagato e assolto avrebbe ripagate dallo Stato le spese legali. Non è una cosa da poco, ma non basta, a fronte della vaghezza di tutto il resto, che si spera il Senato cambi radicalmente. Per ora, l’impianto della legge è chiaramente

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volto soprattutto a togliere spazio elettorale a chi fa delle campagne d’ordine il cuore della predicazione politica. Ma questo è un limite in più, che rende ideologica, anche se goffamente, e più attenta ai sondaggi di stagione, anche se velleitariamente, una legge che dovrebbe invece essere pragmatica e lungimirante. Da statisti e non da politicanti o, peggio, da demagoghi. Da sentinelle a cui affidarsi davvero, specie quando la notte o il giorno ci portano il pericolo. Pag 9 Quelle gaffe principesche del fanciullo che è in noi di Fabrizio Brancoli Olusegun Obasanjo è stato per circa tredici anni a capo della Nigeria. Militare e politico di lunga data, prima premier e poi presidente, processato e venerato come solo certi leader di quel continente, è citato persino in un famoso film di fantascienza. Oggi ha ottant’anni e ancora è al centro della storia del suo Paese, tra adunate politiche e udienze penali. Eppure nel resto del mondo è famoso per una sola cosa: il giorno in cui incontrò Filippo di Edimburgo, il consorte della Regina. Quest’ultimo, serafico come sempre, lo colpì al cuore con una gaffe clamorosa. Perché Filippo è così, è un Re Mida delle sciocchezze: quello che tocca, diventa automaticamente un aneddoto. Era il 2003 e la Regina Elisabetta era ospite ad Abuja, la capitale nigeriana, per un vertice del Commonwealth. Obasanjo era nella sua piena fase presidenziale, l’incontro era il massimo dell’ufficialità e il leader africano indossava una lunga tunica, ricamata, color panna, e un copricapo tradizionale. Con Elisabetta, come sempre, c’era il nostro eroe. Quando il presidente e il Duca di Edimburgo entrano in rotta di collisione, si fa la storia. Filippo fissa il suo interlocutore, sorride e lo apostrofa così: «Ma... lei è vestito come se stesse per andare a dormire!». Imbarazzo generale. La Regina, in realtà disperata, assume un’espressione lodevolmente impenetrabile. È una delle innumerevoli prodezze di quello che è stato definito il Principe delle Gaffe. I giornali inglesi ne contano a centinaia ed elencarle è un esercizio tanto divertente quanto incompleto. Ma come si fa a non cedere alla tentazione? Nel 1969 commenta la crisi delle finanze britanniche: «L’anno prossimo andremo in rosso... va bene, magari rinuncerò a giocare a polo». Nel 2010 incontra un cadetto diciassettenne mutilato, che ha perso la vista a causa di una bomba e non trova meglio che dirgli: «Lei non deve vederci molto bene, a giudicare dalla cravatta che indossa». Lui è così: danza pericolosamente sul crinale che divide l’inconsapevolezza dalla crudeltà. Un campione mondiale del “politicamente scorretto”. Cardiff, 1999, visita della Regina ai bambini dell’associazione britannica non udenti: «Se state così vicini all’orchestra, non c’è da meravigliarsi che siate sordi». Kenya, 1984, un’aborigena gli consegna un omaggio: «Lei è una donna, vero?». Offensivo senza prenderne coscienza, maleducato con garbo, feroce a sua insaputa. Icona globale del disimpegno, alleggerisce e depotenzia ogni situazione con un talento che gli consente di pronunciare ogni volta la frase più inadatta. Filippo è come i personaggi di John Cleese, uno dei frombolieri dei Monty Python. O come quelli di Leslie Nielsen, il detective maldestro della Pallottola Spuntata. È l’ispettore Clouseau della diplomazia internazionale. Attraversa il mondo con noncuranza, spargendo frasi agghiaccianti, ma superandone le conseguenze grazie al fatto che ci sta irrimediabilmente simpatico e vorremmo consegnargli le chiavi della nostra città. Ipse dixit: «Notoriamente non sono mai reticente nell’esprimere la mia opinione su argomenti di cui non so assolutamente nulla». Traditore impenitente, seduttore tenace, viaggiatore rilassato, un ippopotamo ubriaco che irrompe in una cristalleria di Boemia. Ma in qualche modo lo amano, lo amiamo. E quando cammina un passo dietro Sua Altezza La Regina, come impone il protocollo, è l’idolo di ogni marito che segue la moglie all’Ikea. È talmente ignaro, insofferente, errante e catapultato da altri pianeti, che consola la tua inettitudine e in qualche modo la autorizza, la nobilita. Se lo fa lui, puoi farlo anche tu. Ogni volta che dice qualcosa che non si dovrebbe dire, ti senti meno solo. Dunque, il suo ritiro dalle scene appesantirà il mondo. Ha novantasei anni ma è il bambino che ancora resiste in ognuno di noi. Quello che combina un guaio ma viene sempre perdonato. Infatti gli vogliono tutti bene. Filippo ha un’arma segreta: qualsiasi cosa faccia, non l’ha fatto apposta. Torna al sommario