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Rassegna bibliografica 113 Recensioni e schede Antifascismo e resistenza Vico F aggi (Alessandro O rengo), La morte di Lauro De Bosis, Premessa di L. Mercuri, « Quaderni della FIAP », 1971, pp. 47, sip. Alessandro Orengo, con la ben nota sensibilità e forza espressiva di autore drammatico con le quali affronta episodi significativi della storia dell’antifascismo e li fa rivivere nell’intima essenza della loro realtà, ha qui felicemente affrontato un tema difficile e nello stesso tempo affascinante: la storia della morte di Lau- ro De Bosis. Di questa pagina eroica della lotta contro il regime, poco conobbero i contemporanei e poco sanno oggi gli ita- liani; allora, per il silenzio che avvolgeva qualunque fatto che testimoniasse la pre- senza di forze attive contrarie alla ditta- tura; oggi, per una indifferenza, mista a pavidità, tanto più sorprendente in quanto nel caso specifico del De Bosis ci troviamo ben lontani da una cospirazione tale da suscitare sentimenti di violenza rivoluzio- naria. Il gesto di Lauro De Bosis fu ispirato dal desiderio tormentoso di far conoscere agli italiani la vera situazione del paese quale si presentava nel 1931, negli anni in cui le condizioni stesse dell’Europa sembravano favorire il successo stabile dell’esperimento totalitario italiano, quan- do non si erano ancora addensate ie nubi minacciose della guerra e Mussolini sem- brava toccare il vertice della popolarità internazionale. Nella primavera di quell’anno le dute condanne con le quali si era chiuso il dramma del processo ai cospiratori di Giustizia e Libertà pareva avessero stron- cato ogni velleità di ribellione; anche di questo più vasto e riecheggiato episodio il popolo aveva saputo poco, pago della triste quiete che il regime assicurava agli italiani. Lauro De Bosis, animatore di un movi- mento antifascista chiamato Alleanza Na- zionale, che intendeva scuotere alla oppo- sizione contro il dispotismo lg forze poli- tiche legalitarie a cominciare dalla mo- narchia, era per caso sfuggito ad una serie di arresti, che nel tardo autunno del 1930 avevano portato in carcere Mario Vinciguerra, Renzo Rendi e la madre stes- sa del De Bosis, di nazionalità inglese, e si era rifugiato all’estero. Di qui, nell’ot- tobre 1931 concepì il disegno di volare su Roma facendo cadere una pioggia, non di bombe, ma di volantini esortanti gli italiani a scuotersi dal giogo fascista, ri- svegliando e chiamando alla loro respon- sabilità il re complice e l’esercito stru- mento docile nelle mani del potere, non- ché quella classe politica della vecchia Italia liberale, ormai compromessa senza speranza. Il sogno di questo poeta, per- seguito con disperata tenacia, si avverò; il volo su Roma riempì le strade e le piazze della città di quegli innocenti fo- glietti, i cittadini capirono poco e quando capirono si spaventarono; l’aereo riprese il volo di ritorno verso la Corsica e si inabissò nel mare. Lauro De Bosis, presago, aveva lasciato dietro di sé un manoscritto, che fu pub- blicato dopo la Liberazione, nel quale egli narrava tutta l’impresa col titolo « Storia della mia morte ». Da questo libro Alessandro Orengo ha tratto con mano delicata e felice una bre- ve azione drammatica; la Radio televisione italiana gli aveva commissionato il testo; quando questo fu consegnato, la Televi- sione respinse il copione. Rinunciamo a fatica al desiderio di commentare l’episodio; sarà facile ai let- tori il farlo, secondo l’intelligenza di cia- scuno; non possiamo, tuttavia, sottrarci ad un moto di sdegno nel constatare come i migliori fra gli ascoltatori della TV, e soprattutto i giovani, siano troppo spesso privati della possibilità di conoscere pa- gine luminose della nostra storia, che ri- mangono così ignote e deserte. Bianca Ceva Enciclopedia dell’antifascismo e della Re- sistenza, vol. II, D-G, Milano, La Pietra, 1971, pp. XVI-721. All’apparire del primo volume dell’Ew- ciclopedia diretta da Pietro Secchia (vice- direttore Enzo Nizza) su questa rivista sono stati messi in luce i pregi e la novità delLiniziativa come pure i non facili pro- blemi non solo redazionali ma anche di impostazione di fronte ai quali si trova- vano i promotori (cfr. recensione di Mas- simo Legnani nel n. 94, pp. 124-126). La uscita di questo secondo volume, che è

Recensioni e schede Antifascismo e resistenza€¦ · il volo di ritorno verso la Corsica e si inabissò nel mare. Lauro De Bosis, presago, aveva lasciato dietro di sé un manoscritto,

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  • Rassegna bibliografica 113

    Recensioni e schede

    Antifascismo e resistenza

    Vico Faggi (Alessandro O rengo), Lamorte di Lauro De Bosis, Premessa diL. Mercuri, « Quaderni della FIAP », 1971, pp. 47, sip.

    Alessandro Orengo, con la ben nota sensibilità e forza espressiva di autore drammatico con le quali affronta episodi significativi della storia dell’antifascismo e li fa rivivere nell’intima essenza della loro realtà, ha qui felicemente affrontato un tema difficile e nello stesso tempo affascinante: la storia della morte di Lauro De Bosis. Di questa pagina eroica della lotta contro il regime, poco conobbero i contemporanei e poco sanno oggi gli italiani; allora, per il silenzio che avvolgeva qualunque fatto che testimoniasse la presenza di forze attive contrarie alla dittatura; oggi, per una indifferenza, mista a pavidità, tanto più sorprendente in quanto nel caso specifico del De Bosis ci troviamo ben lontani da una cospirazione tale da suscitare sentimenti di violenza rivoluzionaria.

    Il gesto di Lauro De Bosis fu ispirato dal desiderio tormentoso di far conoscere agli italiani la vera situazione del paese quale si presentava nel 1931, negli anni in cui le condizioni stesse dell’Europa sembravano favorire il successo stabile dell’esperimento totalitario italiano, quando non si erano ancora addensate ie nubi minacciose della guerra e Mussolini sembrava toccare il vertice della popolarità internazionale.

    Nella primavera di quell’anno le dute condanne con le quali si era chiuso il dramma del processo ai cospiratori di Giustizia e Libertà pareva avessero stroncato ogni velleità di ribellione; anche di questo più vasto e riecheggiato episodio il popolo aveva saputo poco, pago della triste quiete che il regime assicurava agli italiani.

    Lauro De Bosis, animatore di un movimento antifascista chiamato Alleanza Nazionale, che intendeva scuotere alla opposizione contro il dispotismo lg forze politiche legalitarie a cominciare dalla monarchia, era per caso sfuggito ad una serie di arresti, che nel tardo autunno del 1930 avevano portato in carcere Mario

    Vinciguerra, Renzo Rendi e la madre stessa del De Bosis, di nazionalità inglese, e si era rifugiato all’estero. Di qui, nell’ottobre 1931 concepì il disegno di volare su Roma facendo cadere una pioggia, non di bombe, ma di volantini esortanti gli italiani a scuotersi dal giogo fascista, risvegliando e chiamando alla loro responsabilità il re complice e l’esercito strumento docile nelle mani del potere, nonché quella classe politica della vecchia Italia liberale, ormai compromessa senza speranza. Il sogno di questo poeta, perseguito con disperata tenacia, si avverò; il volo su Roma riempì le strade e le piazze della città di quegli innocenti foglietti, i cittadini capirono poco e quando capirono si spaventarono; l’aereo riprese il volo di ritorno verso la Corsica e si inabissò nel mare.

    Lauro De Bosis, presago, aveva lasciato dietro di sé un manoscritto, che fu pubblicato dopo la Liberazione, nel quale egli narrava tutta l’impresa col titolo « Storia della mia morte ».

    Da questo libro Alessandro Orengo ha tratto con mano delicata e felice una breve azione drammatica; la Radio televisione italiana gli aveva commissionato il testo; quando questo fu consegnato, la Televisione respinse il copione.

    Rinunciamo a fatica al desiderio di commentare l’episodio; sarà facile ai lettori il farlo, secondo l’intelligenza di ciascuno; non possiamo, tuttavia, sottrarci ad un moto di sdegno nel constatare come i migliori fra gli ascoltatori della TV, e soprattutto i giovani, siano troppo spesso privati della possibilità di conoscere pagine luminose della nostra storia, che rimangono così ignote e deserte.

    Bianca Ceva

    Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, vol. II, D-G, Milano, La Pietra, 1971, pp. XVI-721.

    All’apparire del primo volume dell’Ew- ciclopedia diretta da Pietro Secchia (vice- direttore Enzo Nizza) su questa rivista sono stati messi in luce i pregi e la novità delLiniziativa come pure i non facili problemi non solo redazionali ma anche di impostazione di fronte ai quali si trovavano i promotori (cfr. recensione di Massimo Legnani nel n. 94, pp. 124-126). La uscita di questo secondo volume, che è

  • 114 Rassegna bibliografica

    opportunamente accompagnata anche dalla comparsa di un primo fascicolo di appendice che colma le principali lacune che era stato possibile riscontrare nelle voci dalla A alla C, offre l’occasione per verificare come siano stati affrontati i problemi ai quali accennavamo sopra.

    Non è il caso di ripetere quanto in questa e in altre sedi è stato detto intorno all’opportunità e all’utilità di un’opera come questa: simili strumenti di consultazione non saranno mai troppi, nel caso specifico poi del settore nel quale si colloca ciuest’opera pericolo di concorrenza non c’è certamente. Ma proprio perché partiamo dal presupposto dell’utilità di un’opera come questa ci siano consentite alcune osservazioni critiche, che non vogliono suonare ingenerose nei confronti dell’ampio corpo di redattori e collaboratori che gravita intorno all’iniziativa, ma semplicemente offrire qualche spunto e suggerimento per rendere uno strumento quale quello che ci viene offerto sempre meglio utilizzabile e sempre più rispondente alle aspettative che esso suscita. Scontato l’incrocio tra l’intento informati- vo-divulgativo e l’intento politico, anche se non sempre appare felicemente risolta la mediazione tra i due momenti, l’aspetto che a nostro avviso rimane meno convincente, e che d ’altronde incide sulla fisionomia generale dell’opera, è la costante oscillazione tra il campo specifico oggetto dell’Enciclopedia e la sua tendenza a sconfinare sul piano generale della storia contemporanea. Da questo punto di vista il richiamo iniziale a un maggior rigore di concetti avrebbe potuto offrire una guida abbastanza sicura, nel cui ambito operare la scelta delle voci con maggiore selettività.

    Si può criticare questa o quella voce, si possono notare dislivelli e squilibri tra l’una e l’altra voce, questo accade in qualsiasi enciclopedia e in qualsiasi opera collettiva; la nostra osservazione non concerne però il contenuto delle singole voci ma il criterio stesso d’impostazione redazionale dell’Enciclopedia. Sorge cioè l’impressione di un coordinamento redazionale piuttosto intermittente. Troppe voci si affollano nell’enciclopedia, non tutte necessarie e non tutte tra loro equilibrate né nella lunghezza né nella forma di elaborazione: del tutto insufficiente è ad esempio la voce Fuorusciti tanto più non esistendo una voce autonoma sull’emigra

    zione antifascista. Ma soprattutto troppe voci biografiche; in questo settore, dal momento che un obiettivo di completezza è comunque irraggiungibile, non sarebbe stato meglio procedere in partenza a. una selezione ragionata?

    Certamente più equilibrata è la parte relativa alle voci di località, particolarmente utile. Anche qui però vorremmo raccomandare un criterio unitario di redazione; se tutte le voci recassero un minimo di dati essenziali in comune (ad esempio, tutte la data dell’occupazione tedesca, tutte la data della liberazione e via dicendo) il carattere di indispensabilità dell’enciclopedia ne risulterebbe convalidato.

    Un settore al quale avremmo voluto veder dedicata maggiore attenzione è quello della stampa antifascista e clandestina, che è opportunamente presente con le maggiori testate. Ma data la carenza di organi di consultazione in proposito la elaborazione di schede più ampie, più analitiche e meno avare di dati precisi sarebbe stata estremamente preziosa e avrebbe sottolineato nell’opera il carattere di vero e proprio strumento di lavoro e non solo la sua utilità divulgativa. Osservazioni analoghe avanzeremmo per le bibliografìe in calce alle voci. Esse ricorrono occasionalmente o, come pare di capire, solo per le voci principali; e tuttavia c’è da notare che anche in questi casi rimangono non aggiornate o generiche, laddove andrebbero citate opere di volta in volta specifiche che arricchirebbero utilmente le voci.

    Un maggior numero di collaborazioni specialistiche e un più accurato coordinamento redazionale dovrebbero poter ovviare nei prossimi volumi alle osservazioni che ci siamo permessi di sottolineare anche ad evitare, non diciamo, gli errori di stampa (che pure ci sono) ma la ripetizione di altri curiosi errori (a p. 117 la didascalia in calce alla fotografia ci presenta Doenitz e Goring nella stessa immagine l’uno a Spandau e l’altro a Norimberga, vale a dire a centinaia di chilometri di distanza...), che danno un’impressione di approssimazione che un’opera come questa, condotta con tanto impegno da Pietro Secchia e dai suoi collaboratori, deve cercare di evitare, e per i contenuti civili che la ispira e per la giusta ambizione che ha di porsi, anche a livello degli strumenti di lavoro, come un indispensabile organo di consultazione.

    Enzo Collotti

  • Rassegna bibliografica 115

    Antonino Repaci, Duccio Galimberti ela resistenza italiana, Torino, Bottegad’Erasmo, 1971, pp. 672, L. 3.500.

    Se tutti gli uomini che furono i protagonisti più qualificati della lotta di liberazione in Italia dal 1922 al 1945 avessero avuto la ventura di incontrare un biografo appassionato e documentato, forse potremmo ricostruire una visione psicologica di certi motivi fondamentali che attraversarono in quegli anni la storia d’Italia, motivi che costituiscono il tessuto connettivo sul quale vennero ad intrecciarsi i fatti e le imprese degli uomini.

    Non che si pensi naturalmente che la storia sia solo storia di uomini; ben altre forze sopraffanno e piegano l’individuo, operando nel profondo della massa umana, tuttavia, il cogliere in tutti i suoi particolari la formazione intellettuale, il carattere, i moventi dell’azione di alcuni uomini che si trovarono a capo di correnti ideologiche o semplicemente diedero l’impronta della loro personalità ad un movimento o politico o militare e lo ispirarono e trascinarono dietro di sé la volontà e l’entusiasmo di un certo numero di seguaci, può conferire una maggiore chiarezza all’interpretazione di determinati aspetti o momenti della storia. Queste osservazioni furono suggerite dalla lettura del volume del Repaci su Duccio Galimberti, nel quale l’autore fa la storia del suo personaggio a cominciare da un rapido quadro della città in cui visse, e della famiglia da cui trasse i natali; lo accompagna poi, attraverso l’infanzia e la giovinezza, fino alla morte violenta per mano dei militi della brigata nera di Cuneo nel dicembre 1944.

    Non un momento, non un aspetto della vita di Duccio Galimberti è trascurato in queste pagine, che vanno a poco a poco preparando l’immagine tipica e tradizionale del combattente per la libertà, che si ispira, per indole e per educazione familiare, ai principi democratici e mazziniani del Risorgimento. Così vide e sentì la Resistenza Duccio Galimberti, non solo come il campo della lotta armata, ma come, e forse più, il campo ideale aperto alle sue meditazioni di studioso dei problemi della politica e del diritto.

    « Durante tutta la lotta partigiana, scrive il Repaci a p. 226, Duccio Galimberti fu uomo politico e come tale uomo di partito; ma la sua visione della lotta partigiana non fu mai quella dell’uomo di partito, bensì quella dell’uomo di stato.

    Egli fu sempre fin dal periodo preparatorio, uno dei più tenaci assertori dell’unitarietà della lotta ».

    Egli pensava, dunque, che il movimento di liberazione, oltre che affrontare il nemico tedesco dovesse porre dinanzi alla coscienza degli italiani il problema della loro formazione nazionale, la necessità di dare vita, attraverso una vasta opera di risanamento sociale, ad una realtà politica del tutto nuova, rispetto a quella dell’Italia prefascista. Erano i principi di Carlo Rosselli e del programma di Giustizia e libertà, gli elementi ispiratori della visione di un’Italia rinnovata ab imis fundamentis nel concerto delle nazioni libere.

    Di qui lo slancio con il quale Duccio Galimberti e i suoi nella primavera del 1944 accolsero la possibilità di un incontro con le forze del maquis francese, quell’ideale incontro tra credenti nella fratellanza dei popoli, che non conobbe mai una reale possibilità di iniziativa, travolto e sopraffatto nei suoi auspicati effetti dalla prevalenza orgogliosa dei rancori della nuova Francia gollista.

    La storia della vita e della morte di Duccio Galimberti occupa la maggior parte del volume, che è corredato da una ricca appendice documentaria, e da una serie di indici, elenchi di fonti, di pseudonimi, di testimonianze, nonché da una esauriente bibliografia, che ne fanno uno strumento utilissimo di ricerca per chi voglia ricostruire la storia degli anni dal 1943 al 1944 in una delie province più attive dello schieramento partigiano.

    A nostro giudizio, la parte più valida del grosso volume sta appunto nella raccolta documentaria, che si inizia col testo di quel « Progetto di costituzione » che il Galimberti e il Repaci stesero insieme dall’autunno 1942 alla primavera del 1943, mirando al futuro dell’Europa, ed in particolare dellTtalia, compilazione che, con l’altro progetto di sanzioni contro il fascismo, fu sospesa al prorompere tumultuoso degli avvenimenti politici e militari dell’estate e dell’autunno 1943.

    Ripeto che la ricca antologia di documenti che chiude il libro ne rappresenta forse l’aspetto più importante, poiché dobbiamo qui osservare che il ritratto pur vivo del protagonista tracciato nella prima parte in quel suo duplice volto, quello dell’uomo d’azione e quello dell’uomo di pensiero, è, purtroppo, appesantito a volte da un’eccessiva ricchezza di particolari secondari, che rendono qua e là confuso

  • 116 Rassegna bibliografica

    e frammentario il quadro d’insieme.La prima Appendice contiene per in

    tero il testo del « Progetto di costituzione » nelle due parti: « Dell’ordinamento confederale europeo » e « Dell’ordinamento interno dello stato », il tutto concentrato in 162 articoli.

    Segue una seconda Appendice con il carteggio di Duccio e poi una terza con documenti vari; chiude la serie il testo degli atti processuali contro gli esecutori dell’assassinio di Duccio Galimberti: esecutori poi graziati ed amnistiati dagli organi politici dell’Italia uscita dalla Resistenza, quell’Italia che, purtroppo, non conosce mai altra via che quella del fiacco compromesso accomodante e dal calcolo ipocrita.

    Il 7 settembre 1944, due mesi prima di essere ucciso, Duccio Galimberti scriveva ad un amico: « [...] devi pensare che a vittoria ottenuta non abbiamo ancora conseguito un bel nulla e siamo ben lontani dal sogno di poterci riposare! [...] Eppure è così. L’Italia liberata dimostra che c’è tutto da rifare e lo dobbiam fare proprio noi che più di loro abbiamo sofferto e lottato. La battaglia per la rivoluzione, come l’intendiamo noi, è quella decisiva e la dobbiamo scatenare il giorno stesso della vittoria militare. [...] Solo così salveremo l’Italia e renderemo utili questi nostri immensi sacrifici ».

    Così Duccio Galimberti si avviava alla morte, avendo dinanzi alla sua mente di giurista e di uomo politico la visione dei problemi più urgenti che i superstiti della lotta per la libertà avrebbero dovuto affrontare: l’unità europea per impedire il risorgere dell’imperialismo tedesco; una severa legislazione che punisse i responsabili del fascismo, il rinnovamento civile e morale del paese. Solo a queste condizioni la Resistenza poteva avere un significato, al di fuori e al di sopra delle ideologie politiche, ed il sacrificio un suo valore sociale. Questa concezione fu l’ultima essenza della vita e del pensiero di Duccio Galimberti come capo riconosciuto nella lotta armata e come interprete dei motivi più validi della Resistenza, intesa come rivolta a qualsiasi forma di oppressione nel nome della libertà e della dignità umana.

    Bianca Ceva

    Giuseppe Dozza e l’amministrazione comunale della liberazione, a cura dell’Uf

    ficio relazioni pubbliche del Comune diBologna, 1971, pp. 250, sip.

    Uscita nella ricorrenza del 70° compleanno di Giuseppe Dozza, questa pubblicazione intende rendere omaggio non tanto alla figura dell’antifascista e del resistente quanto piuttosto a quella del sindaco che cercò nel periodo postliberazione (e fino al 1966, anno nel quale si ritirò dalla vita pubblica) di realizzare quegli ideali di « democrazia progressiva » per i quali aveva combattuto. Da tale impostazione emergono i motivi di interesse dell’opera. I curatori infatti si sono limitati ad illustrare attraverso i documenti e la stampa del periodo compreso fra il 21 aprile del ’45, giorno della liberazione di Bologna, e il 9 aprile del ’46, giorno nel quale vengono a cessare le funzioni della prima giunta — l’attività che i nuovi organi amministrativi svolsero per affrontare e risolvere i problemi della ricostruzione. Ci sono, è vero, alcuni documenti del periodo clandestino che rivestono un certo interesse, quali la lettera di Secchia ad Amendola e la risposta di quest’ultimo (datate rispettivamente 8 e 12 settembre 1944), nelle quali entrambi manifestano la loro soddisfazione per la scelta di Dozza come sindaco di Bologna. Scrive fra l’altro Amendola sul posto che, a suo parere, occuperà Dozza nella vita pubblica del paese: «Credo che sarà molto utile [...] per elaborare un’impostazione regionale di una politica amministrativa, e più largamente di una politica dei nuovi poteri popolari, di una politica per lo sviluppo della democrazia progressiva ». Allo stesso modo è senza dubbio utile leggere lo « schema di un discorso per un compagno che ricopra cariche pubbliche al momento della liberazione », nel quale Dozza esprime in modo semplice e chiaro, tanto nella forma quanto nella sostanza, le proprie convinzioni sul rapporto nuovo che deve instaurarsi fra amministratori e cittadini.

    Tuttavia non è certo su di un’opera come questa, di carattere essenzialmente celebrativo, anche se mantenuta su un piano di scrupolosa documentazione, che può riprendersi il discorso sul tema della « democrazia progressiva ». Interessa piuttosto vedere quanto il volume ci offra su di un periodo che fino ad oggi non è stato ancora oggetto di una ricerca approfondita: il periodo della ricostruzione,dell’epurazione, dei rapporti fra il CLN e l’AMG. Le scoperte sono allora abba

  • Rassegna bibliografica 117

    stanza sorprendenti. Segnaliamo ad esempio il problema — non solo di carattere giuridico, bensì squisitamente politico (come giustamente si rileva a p. 41) — della coesistenza del governo militare alleato con gli organismi nati dalla resistenza. Il contrasto, che appare solo fra le righe e le formule burocratiche dei documenti, ci sembra notevole e si ricollega alle discussioni sorte un mese prima in seno al CLNRP e al CLNAI in seguito alla visita del delegato del governo. Si tratta nel caso di Bologna della prima applicazione pratica dell’accordo che era scaturito dai colloqui di Torino e di Milano e che tendeva a togliere ai CLN una vera e propria funzione deliberante. Solo che qui il tentativo abbastanza palese è di ribaltare il rapporto fra CLN e AMG («comando», non già governo alleato, come usava esprimersi Dozza) per lasciare al primo la sua naturale funzione.

    Gaetano Grassi

    Leone Cattani, S u alcune vicende del Comitato di liberazione nazionale, in Nuova antologia, dicembre 1971, fase. 2052.

    Chiunque si sia formata una pur mediocre intelligenza dei fatti e dei problemi della resistenza italiana, sa quale peso abbia avuto il Comitato nazionale — o centrale — di liberazione. Un peso fortemente condizionato dalla situazione di fatto e dai rapporti di forza esistenti nella capitale (basterà riferirsi agli studi del Piscitelli e del Caputo) e comunque mai tradottosi in impulso dirigente dell’intero movimento antifascista. Al di sotto e al di là di questa constatazione stanno sottesi molti problemi da chiarire e da indagare (a cominciare da quello, in certo modo riassuntivo, della mancata insurrezione a Roma già impostato dal Battaglia nella sua Storia), ma il modo scelto da Leone Cattani presenta, come dire, una sua propria singolarità metodologica che il lettore non mancherà di apprezzare. Cattani lamenta che di quel Comitato, a dispetto del suo essere nazionale e centrale, poco e male si sia parlato e si parli. Ma subito dopo prende ad elencare i motivi di tanta negligenza, fornendo notizie e valutazioni che si commentano da sole. Eccole. Anzitutto il Comitato è mal noto perché non stendeva verbali delle proprie sedute.

    « Per ovvie ragioni di prudenza », spiega Cattani. Il periodo clandestino rimane pertanto al buio e bisognerà accontentarsi dei resoconti delle riunioni avvenute dopo la liberazione di Roma. E invece no. Certo, mutando i tempi e le circostanze, mutano le giustificazioni della lacuna. In questa ultima fase i verbali mancano « non essendo mai esistita una segreteria » e, il lettore lo avrà già intuito, « meno che mai un archivio del Comitato ». Fin qui giocano dunque le ragioni funzionali. Ma il quadro viene completato, ed assai eloquentemente, da quelle politiche. Cattani ci informa infatti che il Comitato era stretto d’assedio da alcuni partiti che, come il repubblicano e il monarchico, « pur partecipando attivamente alla resistenza, non aderirono al CLN centrale ed anzi lo avversarono ». E’ da supporre, la frase lo lascia intendere, che anche dopo la liberazione queste forze non abbiano desistito dalla loro opera di sabotaggio. Non soddisfatte di averlo colpito da vivo, hanno continuato ad ucciderlo da morto per cancellarne anche la memoria. Ma non basta. A quelli già detti si aggiunge da ultimo un fattore interno che tutti li supera. Dice Cattani: « anche alcuni eminentiuomini politici, o perché non poterono o, per qualsiasi ragione, non vollero parteciparvi o perché vi parteciparono solo in certe fasi e talvolta non senza contrasti con il loro partito, hanno preferito non ricordare né il Comitato né la parte che vi ebbero ». Il quadro è completo. Chissà, forse l’autore non se ne è accorto, ma volendo disseppellire la memoria del CLN centrale ha conferito a questo organismo caratteri tali di velleità e di discontinuità da indurre a dubitare della sua stessa esistenza. Qui nasce il problema stoiico della « doppia clandestinità » del Comitato. Auguriamoci che altri sappia recare qualche più valido contributo.

    Massimo Legnanz

    Elio Bartolini, Il Ghebo, Udine, La Nuova Base, 1971.

    Scrittore friulano appartenente a quella generazione che iniziò la propria attività nel periodo dell’esaurimento — come temi e come stile — del neorealismo, per svolgerla successivamente nella duplice direzione di una ricerca in chiave morali

  • 118 Rassegna bibliografica

    stica sui temi della solitudine e della decadenza e di una sperimentazione stilistica, Elio Bartolini — autore di alcuni libri fortunati come Icaro e Petronio (1950), Due ponti a Caracas (1953), La bellezza di Ippolita (1955), La donna al punto (1963) e Chi abita la villa (1967), autore teatrale e soggettista cinematografico (ha lavorato per il regista Antonioni) — ha pubblicato recentemente un romanzo che, sia per il tema sia per le vicende della sua formazione e pubblicazione, propone dei problemi di notevole rilievo e interesse. Per stampare II Ghebo così si intitola il romanzo che prende il nome da una risorgiva della pianura friulana intorno a cui si svolgono i fatti narrati), Bartolini ha lasciato momentaneamente le grosse case editrici che avevano pubblicato le opere precedenti per una nuova collana di narrativa di una casa editrice udinese (La Nuova Base).

    Temi di romanzo sono il rapporto complesso di un giovane comandante partigiano, Andrea (incaricato di riunire in un comando unico alcune bande che operano nella zona della Bassa Friulana, nelle paludi, e che dovrebbe prendere posizione in un rettangolo situato tra la zo- no sottostante Udine e 0 mare: « a destra il Cormor, a sinistra il Tagliamento, in basso il mare, in alto la ferrovia e la Pontebbana »), con i membri dei gruppi che deve organizzare, i conflitti politici e militari e la problematica umana che deve affrontare per adempiere il suo mandato e per realizzare e conoscere se stesso e il mondo che lo circonda.

    Questa tematica invita a stabilire immediati e giustificati nessi con la matrice neorealistica di Bartolini e serve a datare in qualche modo l’origine del libro, senza far torto alla realtà. Come avverte infatti una nota sintetica alla fine del libro (« La prima stesura di questo romanzo — intitolato La Cartera — risale •al 1946 »), Il Ghebo fu concepito nel periodo immediatamente successivo alla fine della guerra: scritto nel 1946 (nel volume Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di E. F. Accrocca, si ritrova la seguente dichiarazione di Bartolini: « Il mio primo libro, che non pubblicai per varie ragioni, fu un romanzo sulla guerra partigiana alla quale avevo partecipato. Lo scrissi nell’inverno del 1947... »), venne rifatto intorno al ’50 per essere ripreso, più recentemente, prima dell’attuale pubblicazione. Di questo travaglio, il

    romanzo porta i segni e riflette, oltre ai ripensamenti dello scrittore, anche una nuova angolatura di giudizi sulla storia di quegli anni e sulla storia in genere, come ha documentato recentemente A. Giacomini nell’articolo Le tre stesure del Ghebo, apparso in La Panarie, settembre 1970, n. 3. Pur mancando la possibilità di una verifica diretta delle tappe successive di elaborazione del romanzo, è possibile coglierne la direttrice tenendo presenti da un lato il testo del romanzo ora pubblicato, dall’altro — come termine di confronto —• la restante produzione letteraria di Bartolini.

    Il protagonista del Ghebo è Andrea, giovane partigiano, intellettuale, di prima formazione cattolica, già studente a Padova dove ha conosciuto un amico che lo ha fatto incontrare con Marcus, del CLN, e quindi lo ha spinto ad arruolarsi nelle file della resistenza. Dopo un periodo in cui svolge mansioni da intellettuale, curando la stampa di un giornaletto, gli viene affidato — in seguito ai rastrellamenti che hanno ridotto i quadri dei reparti — un incarico di comando con il compito di coordinare quattro bande della pianura diverse tra loro come orientamento politico. Per compiere la sua missione, Andrea deve non solo cercare di mettere d’accordo due « comunisti » (il Monco e Ario, di cui emergono nel libro vaghi orientamenti ma non una precisa collocazione politica, al di là di un generico atteggiamento filojugoslavo che viene loro imputato dal cattolico Toti), un « anarchico » (Aramis) e un cattolico (Toti), ma soprattutto deve misurarsi da un lato con le personalità complesse e diverse degli altri partigiani da un altro con se stesso e con la necessità di affermare le proprie capacità di comando. Questo processo di autoanalisi (attraverso il confronto diretto con situazioni concrete) e di realizzazione abilitante della personalità costituisce uno dei nuclei tematici più rilevanti del romanzo e un elemento unificatore delle vicende narrate.

    Dapprima Andrea dovrà imporsi per farsi riconoscere come comandante e per vincere le diffidenze di chi lo considera o un intruso o troppo giovane e privo di esperienza politica e militare o un e- missario di quei « capi » che vorrebbero far combattere i partigiani anche « coi signori e coi preti »; dovrà confrontarsi poi in un duello rusticano con un coman

  • Rassegna bibliografica 119

    dante autorevole, il Monco, per affermare la sua autorità; quindi affronterà in un colloquio il cattolico Toti per fargli accettare la convivenza con i comunisti nel comando unico; andrà incontro a un’imboscata per catturare un delatore che egli vuole venga sottoposto a regolare processo; parteciperà a un’azione armata contro una postazione tedesca; promuoverà una azione per liberare cinque uomini che i repubblichini tengono prigionieri nella Villa Manin di Passariano; infine, accerchiato dai tedeschi nella sede del comando, sarà ucciso nel tentativo di coprire la ritirata degli altri partigiani. Nell’agonia, affermerà con forza la sua illusione di essere riuscito a far accettare agli altri la sua linea del comando unificato e della necessità di una coesistenza — in tutta autonomia e a fini operativi — dei diversi gruppi, cattolici e « comunisti ».

    Nella vicenda di Andrea, Bartolini intende rispecchiare simbolicamente la problematica del confronto dell’intellettuale ■con la realtà, della responsabilizzazione civile e politica degli intellettuali (quella stessa che trova una delle pagine più alte nell’ultima lettera di Giaime Pintor). Negli spirali del racconto e attraverso gli scorci di memoria, emerge a tratti la vita di Andrea precedente la sua nuova esperienza di comandante. La « routine » domestica con la madre maestra elementare — una donna dai solidi principi di perbenismo borghese che chiama i comunisti « sovversivi come le insegnarono nel ventidue » — che lo giudica « idealista » e « romantico »; il ritmo di esistenza da convalescente nei primi tempi dopo l’8 settembre; la vita universitaria a Padova; i primi contatti con l’antifascismo e la presa di coscienza della realtà della guerra; la sua prima attività di partigiano-giornalista: sono ricordi che,lontani dall’essere compiaciute esercitazioni della memoria, costituiscono dei punti fermi per prendere coscienza di se stesso e misurarsi con il presente. E se da un lato Andrea rimane sempre un intellettuale con velleità letterarie che sogna un po’ ingenuamente di scrivere, un giorno, « un romanzo sui sentimenti di un giovane intellettuale dentro le vicende della suerra partigiana » e vive le vicende del momento immaginando come le potrà raccontare nel libro, queste sue tendenze cederanno il posto o meglio si sostanzieranno nell’aspirazione reale del compi

    mento della sua missione. Così, prossimo alla morte dopo essere stato colpito da una raffica di mitra, penserà sì ancora al finale del libro (il Monco ha vinto la sua riluttanza a trattare con Toti; lo chiama a soccorso e questi arriva con i suoi cavalli e le carrette strappate ai cosacchi a liberarli dall’accerchiamento dei tedeschi); ma questo rappresenterà, nella proiezione della sua fantasia, il compimento simbolico di quelle ragioni per cui aveva scelto di entrare nella Resistenza e di combattere: « [...] una idea di libertà [...] e un’altra di democrazia dove stentano a starci o stanno male tutte le cose che vorrebbe farci stare, e l’avvio di un comando unico dove le ’divergenze ideologiche’ s’accontentano di comporsi [...] in più alte esigenze di lotta». Questa sua idea, «vecchia [...] come quarantottesca », espressa inizialmente in una « cauta fraseologia », egli verrà confermando a se stesso nella pratica del comando e nei contatti con gli altri partigiani.

    Il giovane «studiato » dovrà però calare le contraddizioni della propria condizione di borghese e di intellettuale in un mondo — com’è quello dei suoi partigiani — dove contano « la pazienza, la forza, un gesto mitico », alcune certezze, e a contatto con la storia in cui, più che le formule e le nostalgie, contano « la splendida barbarica certezza di un comandante », le capacità di non deludere i suoi uomini, che egli invidia al Monco, capace « di distinguere tra un gesto magari utile, ma non possibilie, e un altro soltanto clamoroso ». Posto di fronte alle sue responsabilità, Andrea si rende conto che altro sono ie teorie altro la pratica, si accorge che « in un tipo di guerra in cui tutto o quasi era affidato al gesto breve, deciso una volta per sempre e precluso d’ogni possibilità di ripensamento » sono necessarie soprattutto le testimonianze personali di coraggio e di decisione: per questo accetta il duello rusticano con il Monco e decide di andare ad arrestare personalmente una spia, ritenuta responsabile della uccisione di Aramis.

    La sua astratta idea di libertà e di democrazia viene messa alla prova nel confronto con le ragioni reali per cui quella guerra viene combattuta dagli uomini che egli dovrà comandare: la speranza di una rivoluzione; o « un’idea ridotta di paese, un’esaltazione del posto dove si è nati,

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    del dialetto che si parla e, rifacendosi solo a queste ragioni cristiane e friulane, il combattere quasi una guerra tribale »; o un gusto dell’avventura, una ironia rinnovata giorno per giorno nel provocare il pericolo, e sempre per parlarne poi cinicamente »; o « tutti questi sentimenti, dal dialetto alla rivoluzione, mescolati con la spavalderia, l’invenzione subitanea, anche la bravata anarchica » (pp. 56-57). Di fronte a queste ragioni (del rivoluzionario di sinistra che accusa i « capi » che dopo la prima guerra non hanno voluto fare la rivoluzione come in Russia e afferma che « gli antifascisti veri sono per la rivoluzione »; del cattolico che combatte per il Friuli cristiano, timoroso di essere messo in minoranza in una formazione costituita principalmente da « atei » e « comunisti » e preoccupato dell’integrità territoriale del Friuli e delle rivendicazioni degli sloveni; dell’intransigenza del Monco che male si adatta ad accettare gli ordini del CLN sull’organizzazione e sull’unità operativa al di sopra delle ideologie), Andrea costruisce un po’ per volta la sua linea di azione e sperimenta le sue capacità di persuasione politica e di dirigente militare. Impone un giornaletto ciclostilato — bocciando titoli come « Il Proletario » perchè « accentuare fin dal titolo una ’indicazione classista’ poteva essere equivoco » (p. 43) ■— in cui, accanto a un articolo sulla questione di Trieste, ce ne sarà uno sulla « indipendenza ideologica delle formazioni »; costringe Toti ad accettare l’ingresso nelle formazioni sostenendo, sulla questione territoriale, una posizione di accantonamento di essa a facendone un problema d’autodecisione popolare » e garantendogli la « massima indipendenza ideologica, sempre nei limiti dell’unità d’azione » e proponendo, per l’intitolazione della costituenda formazione, il nome di due caduti, uno di parte cattolica e un garibaldino; impone il comando unico, il raggruppamento delle formazioni in tre brigate e un abbozzo di struttura di comando delle brigate, scegliendo il cattolico come commissario corresponsabile delle decisioni militari e politiche.

    Ma questo complesso di decisioni verrà messo a dura prova prima dal parziale fallimento dell’azione contro la postazione tedesca, poi dai sospetti che gli vengono insinuati su Toti sia da un borsanerista arrestato da lui e dal Monco (che per salvarsi e per ingraziarseli tenta

    la strada della delazione) sia da cinque prigionieri salvati dalle mani dei repubblichini (la cui identità rimane — però— egnimatica), infine dall’accerchiamento, da parte dei tedeschi, del comando da dove sarebbero potuti fuggire e dóve rimangono invece per secondare il coraggio temerario del Monco.

    Fino all’ultimo Andrea non dispera, non tanto della sua salvezza quanto delle possibilità di compimento del suo disegno: vorrebbe mettere d’accordo Toti e il Monco, far capire loro che ambedue sono indispensabili e necessari alla lotta anche se rappresentano posizioni ideologicamente in opposizione. Il romanzo si chiude con una pagina in cui la speranza di avere realizzato i suoi propositi, di essere diventato un vero comandante prende — in lui che muore — la consistenza della realtà. Questa pagina, che un recensore ha definito « la sola pagina eroica di tutto il libro », pone un problema di interpretazione che riguarda l’atteggiamento ideologico di Bartolini scrittore. A conclusione di essa, rimane in Andrea morente una sorta di sicurezza per il futuro, la certezza che gli altri porteranno avanti la sua linea, ma egli, mentre gli altri combattono, rimane solo.

    La soluzione reale o probabile rimane in sospeso. La certezza del protagonista non certifica una soluzione nei fatti, neppure nella proiezione che si immagina come prolungamento degli eventi narrati. La situazione è diversa — poniamo— rispetto allo stesso noto finale di Primavera di bellezza di Beppe Fenoglio con cui presenta qualche analogia di superficie.

    In Fenoglio, la morte del protagonista sta a segnare, con la certezza rappresentata dal sorriso di Johnny alla bomba vendicatrice del compagno, l’inizio di una nuova lotta. Nel Ghebo, rimane la fiducia di Andrea nella promessa — fatta dai compagni — di tornare; ma la situazione attende uno scioglimento dagli accadimenti, che appare indipendente rispetto alla sicurezza del protagonista. Questo atteggiamento, come del resto tutta la linea del romanzo, può venire inteso in due modi che non si contraddicono: da un lato si ha l’affermazione, da parte di Bartolini, dell’autenticità e della validità della linea politica e ideologica rappresentata da Andrea (secondo cui, solo dalla realizzazione delle sue idee di libertà e di democrazia sarebbe poto-

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    ta uscire quella unità operativa che a- vrebbe portato alla soluzione di tanti problemi cruciali relativi ai rapporti tra le forze antifasciste in particolare sul confine orientale), da un altro la verifica dell’emarginazione e dell’isolamento dell’utopistico propugnatore di una linea che in quella situazione non avrebbe trovato immediata soluzione e realizzazione. Sfiducia nella storia? Piuttosto direi — tentativo di rappresentazione critica di questa problematica. Bartolini, che da un lato sostiene l’ideologia unitaria ciellenisti- ca come possibilità d’incontro di forze politiche diverse sotto il segno dell’autonomia e da un altro intende rappresentare il processo di chiarimento delle responsabilità dell’intellettuale nella società e nella storia, sembra voler assegnare alla sua narrazione e alla definizione della piattaforma politica del protagonista il valore di una utopia operativa.

    Una conoscenza diretta delle tre stesure del romanzo offrirebbe la possibilità di valutare meglio le direzioni di lavoro dello scrittore nell’elaborazione del testo. Le argomentazioni addotte nell’articolo citato sulle stesure successive del romanzo portano alla considerazione che alla fase attuale del Ghebo lo scrittore è arrivato partendo da una visione più e- pica e più fervorosa degli avvenimenti e della loro sostanza politica e ideologica, che si traduceva in una rappresentazione in termini di narrazione più cronachistica, legata ancora a modi tardonaturali- stici o neorealistici. La stesura attuale del romanzo (rappresentazione prospettica, ma disincantata e critica degli avvenimenti) risulta una narrazione sapientemente organizzata che rivela — anche da un confronto con l’opera più recente di Bartolini (Chi abita la villa, 1967) — il travaglio di revisione cui è stata sottoposta negli anni. Alcune parti del libro sono costruite con una tecnica che ricorda da vicino le pagine più recenti e tecnicamente più scaltrite di Bartolini: si vedano, come esempio, le pagine in cui descrive le reazioni e i pensieri di Andrea durante il percorso che compie per recarsi ad arrestare l’oste delatore; o le alternanze di piani narrativi del capitolo quarto in cui descrive la riunione con Toti, Ario e il Monco nella cappella con le tombe barocche di un’antica famiglia nobile friulana che gli si propongono come spunti di rapidi confronti tra il Friuli di un tempo e quello in cui vive, con una tec

    nica che ricorda l’inserimento nel testo di antiche cronache, documenti notarili medievali e iscrizioni dell’ultimo romanzo, qui però molto più contenuta e meno centrifuga; o l’inserimento nella narrazione di una digressione per rappresentare un eventuale finale di romanzo (nel racconto del trasferimento al comando del borsanerista prigioniero); o ancora il susseguirsi rapido di piani del racconto nel finale del libro. Altre parti si presentano invece impostate in maniera più tradizionale, secondo una tecnica più vicina a modi narrativi cronistici (come le pagine in cui racconta l’andata al casale dove si svolge un banchetto di nozze e il fermo del borsaneristica, pp. 92 sgg.), senza che peraltro il racconto scada mai nel piatto documentarismo o nella prolissità descrittiva. L’alternanza di queste tecniche (l’uso insistito del flashback, del monologo interiore, del discorso indiretto libero nella forma regolare come strumento di oggettivazione del racconto, o come strumento di sondaggio interiore della propria personalità; un discorso indiretto libero in cui si ritrovano inserti di discorso diretto; la mescolanza di piani linguistici e di tecniche per rappresentare il cumulo di pensieri al succedersi dei fatti, accanto alla lucidità descrittiva di una narrazione oggettivante) rappresenta il mezzo utilizzato efficacemente da Bartolini per rappresentare volta per volta la semplicità e linearità dei fatti e degli avvenimenti e il risvolto problematico delle interpretazioni ideologiche, psicologiche e morali che nascono dalla complessità storica del momento e dalla profondità umana del protagonista.

    Andrea diventa, in tal modo, il simbolo-chiave di una rappresentazione che riguarda non solo la resistenza ma i rapporti umani nel loro complesso e coinvolge sia il significato esistenziale del rapporto dell’uomo con la realtà e con la storia, sia il senso di relazione tra la perennità della natura e il ruit bora (così dice la scritta sotto la meridiana dell’edificio del comando che diventa motto simbolico della situazione di Andrea) del dover essere.

    Questa problematica e la vicenda cui essa dà corpo si concretizzano e localizzano anche nella rappresentazione del paesaggio friulano che non rimane mai cornice estranea al racconto, aderendovi in un gioco di corrispondenze e di risonan

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    ze sentimentali necessarie allo sviluppo della narrazione (come il motivo della Cartera, la casa colonica in cui si apre e si chiude il romanzo, della risorgiva del Ghebo, del greto del Tagliamento, della palude e delle bonifiche, della vecchia cappella nobiliare). Anche questo aspetto del romanzo fa pensare che, nell’ultima stesura del libro, l ’autore abbia effettivamente tenute presenti le osservazioni fatte da Vittoriani nel 1947 dopo aver letto la prima redazione « un libro che ha solo bisogno di diventare più friulano, e lei capisce in che senso: non più dialettale, ancor più indigeno se mai... ».

    Elvio Guagnini

    Fascismo

    Manfred Funke, Sanktionen uni Kano- nen. Hitler, Mussolini und der internationale Abessinienkonflikt 1934-36, Düsseldorf, Droste Verlag, 1970, pp. VIII- 220, sip.

    Si tratta di un diligente lavoro, il primo che approfondisca nel quadro della guerra d’Etiopia l’aspetto specifico dei rapporti italo-tedeschi sulla base soprattutto di materiali d’archivio tedeschi, recando alla conoscenza di questa fase della politica estera fascista fondamentale per la genesi dell’Asse Roma-Berlino taluni dettagli nuovi, che tuttavia non sembrano giustificare l’enfasi con la quale il prefatore H. A. Jacobsen annuncia « sorprendenti risultati nuovi ».

    Lo studio mira a chiarire principalmente quale nesso Hitler stabilì tra l’avventura etiopica del fascismo italiano e il suo disegno di liberarsi dai vincoli di Versailles: si conferma — e l’A. documenta puntualmente — l’interesse della diplomazia nazista di impegnare Francia e Inghilterra nello scacchiere africano, distogliendone l’attenzione dall’Europa, grazie all’occasione offerta dall’iniziativa italiana. Interesse che si spinse al punto da alimentare (almeno sino alla fine dell’estate del 1935) la fornitura di armi all’Abissinia per contribuire ad inasprire il conflitto con l’Italia, a rendere inevitabile la guerra e ad accrescere la resistenza abissina per prolungare la guerra stessa (specialmente capitoli I II e IV). Si trattò comunque di

    un aiuto militare modesto, anche perché Hitler doveva fare fronte a contrastanti esigenze: non ultima quella di non determinare un indebolimento eccessivo dell’Italia, la cui presenza in Abissinia era decisiva al fine di impegnare gli interessi africani dell’Inghilterra (p. 60).

    L’A., analizzando lo sviluppo delle relazioni italo-tedesche dopo le sanzioni, valuta nel complesso in termini modesti l’apporto dell’aiuto tedesco all’economia italiana, al punto da concludere che « l’atteggiamento tedesco durante le sanzioni non era stato affatto tale da impegnare il duce a gratitudine nei confronti di Hitler » (in particolare pp. 77-81); una osservazione di più a sostegno della tesi che dalla guerra d’Etiopia non doveva necessariamente scaturire l’Asse Roma-Berlino. Il V capitolo analizza l’influenza che l’episodio abissino ebbe nel seppellire il fronte di Stresa e nel garantire che l’Italia non avrebbe fatto blocco con Francia e Inghilterra contro eventuali misure revisioniste del Terzo Reich, creando così una delle premesse fondamentali per la rioccupazione della Renania smilitarizzata (capitolo VI). Quanto alla parte dell’Italia, si può convenire con l’A. che le riserve italiane nei confronti di una azione di condanna della rioccupazione della Renania non attestavano ancora una opzione definitiva a favore della Germania ma piuttosto una forma di pressione nei confronti dell’Inghilterra e della Francia per ottenere la liquidazione a favore dell’Italia del conflitto abissino.

    La ricerca conferma quanto la pubbli- cistica e gli studi precedenti avevano già anticipato: se in occasione della guerra d’Etiopia vi fu un primo accostamento tra le due dittature fasciste (non condividiamo in proposito la sottovalutazione dell’affinità ideologica nel determinare tale avvicinamento espressa dall’A.), dettato principalmente dalla possibilità di sfruttare a proprio vantaggio gli antagonismi creatisi tra Italia e Francia-Inghilterra da una parte e Germania e Francia-Inghilter- ra dall’altra, fu soltanto dopo la svolta del riarmo e la rioccupazione della Renania che Mussolini realizzò l’importanza di un accordo con la Germania, come copertura alle spalle delle sue mire mediterranee (p. 165). L’intesa sull’Austria dell’estate del 1936 liquidava il più forte ostacolo ancora esistente tra le due dittature, ma solo con la guerra di Spagna la collaborazione tra di esse sfociò in una consapevole e comune piattaforma.

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    Dal punto di vista metodologico ci pare opportuno avanzare almeno una osservazione critica: l’A. lavora prevalentemente su materiali d ’archivio tedeschi ma non sempre avverte i limiti di tale documentazione, soprattutto laddove riferisce dati e notizie relativi alla situazione economica italiana all’epoca delle sanzioni, nel senso che non sempre è chiaro dove si tratti solo di valutazioni dei diplomatici tedeschi, che come tali avrebbero bisogno di essere confrontate e verificate con fonti di provenienza italiana.

    Enzo Collotti

    La Chiesa e il fascismo. Documenti e interpretazioni, a cura di P ietro Scoppola, Bari, Laterza, 1971, pp. 415, lire 1.500.

    Si tratta di una nuova edizione di una parte del volume Chiesa e Stato nella storia d’Italia, edito nel 1967. Un’introduzione riepiloga chiaramente i precedenti della questione romana e dei rapporti tra stato e Chiesa; i documenti sono per la massima parte gli stessi; salvo alcune non disprezzabili aggiunte: per lo più documenti tratti daU’Archivio centrale dello stato, vale a dire rapporti di informatori, di funzionari di PS e documenti dell’antifascismo cattolico sequestrati dalla polizia. Se il movimento cattolico dall’Unità alla prima guerra mondiale è stato esplorato su versanti anche diversi da quello politico, non altrettanto si può dire per le vicende che seguono alla prima guerra mondiale. Un merito davvero rilevante di •questa antologia è invece quello di aprire, se pure nei limiti che le sono imposti dal tema del volume da cui deriva, qualche spiraglio anche in altre direzioni. Certamente Pietro Scoppola ha privilegiato, in questo lavoro, alcune componenti antifasciste che non ebbero poi — dopo la Liberazione — quel rilievo che ci si sarebbe dovuti aspettare dalla qualità del loro impegno antifascista; ma non si può certo attribuire a lui la responsabilità se gli insegnamenti di Pio XI hanno prevalso su quelli di don Primo Mazzolari. La documentazione qui raccolta finisce comunque ad essere ottimo stimolo a più ampie ricerche; soprattutto in quanto la raccolta, nella nuova distribuzione, sotto- linea con maggior vigore, rispetto al volume precedente, le fasi in cui occorre .articolare l’azione della Chiesa, e il cor

    rispondente orientarsi dei fedeli, nei confronti del regime: dall’adesione, ai contrasti, alle speranze di contribuire alla costruzione di uno stato cattolico-fascista, all’elaborazione di una nuova prospettiva, indirizzata ormai a raccogliere la successione.

    L. G.

    Varie

    M. Sai, I. Superti-Furga, L. T inelli,Il comune di Milano, coordinazioneG. F. Miglio, Milano, Giuffrè, 1970.

    Il terzo volume degli undici che comporranno la storia amministrativa delle province lombarde (dopo L'ordinamento comunale e provinciale in Italia dal 1862 al 1942 e La provincia di Milano) a cura dell’Istituto per la scienza dell’amministrazione pubblica - ISAP, è dedicato alle vicende del comune di Milano dal 1861 al 1961.

    L’opera si divide in cinque capitoli, che descrivono l’attività del consiglio comunale e della giunta, nonché, in quest’ambito, l’apporto dei sindaci e podestà, dei quali si tracciano brevi note biografiche.

    Non è una storia dei rapporti tra comune e popolo, e neppure dei rapporti, sempre di forte condizionamento e talvolta di netto dominio, tra comune e classe dominante. È piuttosto una raccolta coordinata di atti e documenti, non pubblicati integralmente, ma commentati nel corso della narrazione dei fatti; lavoro tanto più utile e interessante, in quanto, come è noto, siamo appena agli inizi di una storiografia municipale nel contesto della nostra recente storia civile.

    Gli autori non possono tuttavia sfuggire a una certa valutazione critica e ricostruttiva dei fatti. Da questo punto di vista, la narrazione è singolarmente appiattita e uniforme, ed uomini e fatti vengono per così dire allineati uno accanto all’altro, o uno dopo l’altro; prevale la formazione giuridica degli autori, i quali reputano evidentemente che gli operatori pubblici debbano osservare in primo luogo il cosiddetto onere di buona amministrazione. Ma i sindaci, consiglieri, commissari prefettizi, sono uomini di parte, esponenti di contrapposti interessi politici e di clas

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    se: rifiutarsi di giudicarli come tali in nome della massima oggettività comporta alcuni rilevanti errori.

    Primo: la periodizzazione. Ognuno dei cinque capitoli tratta un periodo, di varia ampiezza. Nella storia del comune ci sono però tre momenti di particolare rilievo e problematicità: la prima giunta radicalesocialista dal 1899 al 1904 (sindaco Mussi), l’amministrazione socialista dal 1914 al 1922, infine le giunte Greppi dal 1945 al 1949.

    Sarebbe quindi stato interessante distinguere autonomamente queste parentesi non moderate rispetto alle altre amministrazioni anteriori e posteriori, che furono appunto tutte in vario modo « moderate » o fasciste fino al 1961. Invece i tre episodi progressisti sono diluiti in ben più meccaniche ripartizioni, una delle quali per esempio inizia dal 1901 e termina al 1909, date di per sé non particolarmente significanti. In luogo della distinzione critica tra le diverse amministrazioni, c’è un susseguirsi di tempi al cui interno accaddero fatti politicamente ben staccati fra di loro.

    Gli autori riportano sempre, corretta- mente, le diverse posizioni nei confronti delle amministrazioni: ma sarebbe stato necessario, anche, individuare i valori ideali, gli interessi economici, e infine gli interessi generali della città, che la coscienza collettiva ha acquisito in misura sempre più chiara. La politica delle opere monumentali, la costruzione di un centro cittadino ad uso e consumo della speculazione edilizia, non possono, per oggettività, essere collocati sullo stesso piano di altri interventi amministrativi come la fondazione dell’azienda elettrica o l’edilizia popolare ai quali i fatti successivi e le stesse vicende di oggi attribuiscono importanza precorritrice e caratterizzante. Così, gli autori incappano in valutazioni che sono totalmente da respingere a proposito delle vicende, e soprattutto le ultime vicende, delPamministrazione socialista.

    Si ricordano (cfr. le pp. 228-233) le incredibili difficoltà finanziarie in cui ebbero a dibattersi le giunte Caldara-Filip- petti. Sono le pagine forse migliori per precisione di informazioni e di dati, ma sembra quasi che il capitale finanziario, locale, nazionale e anche internazionale, che rifiutava i mutui a questo comune, lo facesse quasi per caso o per difficoltà congiunturale o per « mancanza di fiducia nelle capacità amministrative » della giunta.

    Cacciata dalla violenza fascista la giunta Filippetti nell’agosto del ’22, i capitali affluirono dunque per miracolo? Era ovvio che il De Capitani D’Arzago, presidente della Cassa di risparmio, negasse i mutui per le costruzioni di case popolari in affitto o per una azienda annonaria pubblica, e li concedesse invece per l’edilizia di lusso e lo sventramento di quanto restava del vecchio centro urbano, ma un simile giudizio meritava di essere espresso chiaramente, e non lasciato, incerto, tra le righe: il non aver voluto inquadrare la storia del comune nel conflitto generale in atto in quel periodo si dimostra un errore metodologico che conduce all’incomprensione di fatti fondamentali.

    Ancora di più si sbaglia comparando meccanicamente i bilanci delle varie amministrazioni, e, nel caso, quelli della giunta socialista con quelli della giunta fascista immediatamente posteriori. Poiché è certo che un Istituto che s’intitola alla scienza dell’amministrazione conosce la teoria del deficit-spending, come mai non ne applica i principi anche all’interpretazione del passato?

    Come è possibile scrivere (a p. 286) che « La sintesi del lavoro compiuto nel primo decennio dalle amministrazioni fasciste poteva essere rappresentata dal passaggio dei 367 milioni di passivo, ereditati dall’amministrazione socialista, ai 77 milioni in attivo nel 1931 », senza essere sfiorati da dubbio che, al di là degli inevitabili errori di uomini, le giunte socialiste inaugurarono una politica amministrativa necessariamente in passivo per far fronte a enormi bisogni popolari insoddisfatti, e che invece i podestà fascisti accumularono un cospicuo risparmio pubblico (a parte eventuali lucri personali) trascurando proprio la soddisfazione almeno parziale di quei bisogni, allo scopo di proseguire più speditamente nella costruzione della città monumentale e borghese?

    Negli ultimi tempi sono state iniziate ricerche sulla storia urbanistica ed edilizia della città fra le due guerre, e una notizia da esse fornita ci assicura, data la fonte insospettabile, della verità di questa asserzione. Nel mese di febbraio del 1939 il podestà Gallatati Scotti dichiarò, dopo un colloquio sulla situazione milanese con Mussolini, che « la politica di raccoglimento [ossia la contrazione della spesa pubblica] ci ha obbligato a concentrare gli sforzi; ma per il PRG il programma relativo ai nuclei principali è stato mantenuto integrale, per cui saranno pro-

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    seguiti con ritmo fascista i lavori per la soluzione di piazza Duomo e cioè l’Arengario, il completamento di palazzo reale e la loggia Mengoni. Così pure saranno continuate le sistemazioni di piazza Diaz, S. Babila, piazza Cavour e via dei Giardini » (Corriere della Sera, 17.2.1939); era questo l’esito naturale di una scelta politica e amministrativa assunta dai grandi comuni e dal governo fin dai primi anni del fascismo, con conseguenze che paghiamo ancora oggi.

    Anche la narrazione della caduta del comune nelle mani fasciste è fiacca ed equivoca: sembra che l’amministrazionesocialista fosse un vecchio, malandato edificio, pronto a crollare al primo colpo. In realtà essa era una fortezza assediata, che lottava contro una coalizione di forze — il capitale, il governo, gli squadristi — che alfine la conquistarono, con la complicità tra l’altro, come documenta la ricerca (p. 218), di alcuni gruppi di dipendenti comunali che fiutarono a tempo il nuovo padrone.

    Da notare, infine, che pur riportando il testo tutti i nomi dei sindaci e dei commissari prefettizi, di alcuni (per es. il Negri, il Ponti, ecc.) si tracciano brevi biografie mentre non si tenta l’inquadramento delle figure di altri nelle vicende generali della loro epoca; eppure sarebbe stato opportuno tracciare un profilo, oltre che degli amministratori democratici, anche degli espropriatoti del legittimo potere popolare, come per es. il Lalli, commissario prefettizio al comune nell’agosto 1922, ossia collaboratore del capitano squadrista Forni che eseguì materialmente l’occupazione di palazzo Marino, alla quale il D’Annunzio diede una vernice retorica.

    Più brevi e sommarie le informazioni sul periodo posteriore alla guerra, sostanzialmente una traccia per una ulteriore ricostruzione documentaria e anche critica dei problemi che le amministrazioni, sia del CLN che elettive, affrontarono nell’immediato dopoguerra e successivamente fino alle soglie del centrosinistra.

    Emanuele Tortoreto

    Storia dell’artiglieria, a cura di Joseph J obé, Milano, Garzanti, 1971, pp. 216.

    Il volume risulta composto da una serie di cinque saggi curati da autori specialisti che coprono il periodo che va

    dalle prime rudimentali artiglierie del XIV secolo ai più recenti cannoni atomici del XX secolo.

    Erich Egg, direttore del Tiroler Lan- desmuseum Ferdinandeum di Innsbruck, ha curato il periodo che va dai primi vasi e bottiglie di ferro armati con frecce infuocate alla guerra dei trent’anni, presentando una significativa mole di materiale soprattutto per quanto riguarda l’origine delle armi, ma privilegiando, a parer nostro, le informazioni che gli provenivano da fonti austriache e tedesche rispetto a quelle reperibili presso autori olandesi, francesi, spagnoli e italiani.

    Joseph Jobé, coordinatore dell’opera e curatore della raccolta del materiale iconografico, tratta il periodo compreso tra la guerra dei trent’anni e la rivoluzione francese distinguendo, con notevole vantaggio per la chiarezza dell’esposizione, i materiali d’artiglieria dalla loro costruzione e dal loro impiego in battaglia.

    L’uso dei cannoni, mortai e altre bocche da fuoco durante la rivoluzione francese e nelle campagne napoleoniche è documentato da Henry Lachouque, esperto di guerre napoleoniche; l’estrema precisione ed accuratezza delle notizie che si riferiscono all’impiego dei pezzi in battaglia non è accompagnata tuttavia dalla descrizione dei pezzi impiegati e delle loro caratteristiche tecniche.

    A Philip E. Cleator è affidato il compito di seguire l’evoluzione dell’arma dal 1815 al 1870, che viene svolto con particolare attenzione alle invenzioni dovute al processo di industrializzazione e alle innovazioni dei mezzi produttivi: è il periodo forse più fiorente per l’artiglieria che vede i neocostituiti grandi complessi industriali (si pensi ai Krupp in Germania) attivamente impegnati nella costruzione di pezzi sempre più perfezionati e potenti.

    Daniel Reichel, colonnello dello stato maggiore svizzero, conclude il saggio con una rapida rassegna della storia dell’artiglieria dal 1871 al 1971: l’esposizione, sufficientemente appronfondita nelle prime parti, diviene fortemente carente per il periodo 1945-1971. Considerando la preparazione che l’autore manifesta nelle parti precedenti, sorge il dubbio che le armi più moderne, proprio per la complessa tecnologia che ne accompagna la costruzione e l’impiego, non solo abbiano procurato dubbi in merito alla loro collocazione nei corpi tradizionali delle forze

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    armate, quant’anche agli storici per la loro catalogazione.

    Conclude il volume un’appendice fotografica sulle bocche da fuoco più significative, appendice che, al pari del materiale iconografico presentato in tutto il volume. merita una segnalazione a parte per la cura nella ricerca dei documenti e la chiarezza delle riproduzioni.

    Sergio Bova

    Rosanna Emma - Marco Rostan, Scuolae mercato del lavoro, Bari, De Donato,1971, pp. 196.

    A distanza di tre anni dalla fase più attiva delle lotte studentesche e in una situazione politica e sociale ancora incerta per la scuola italiana, il saggio di Emma e Rostan ripropone in termini puntuali l’analisi delle strutture scolastiche italiane ed i problemi connessi al rapporto tra scuola e mercato del lavoro. Lo scopo propostosi dagli autori è quello di fornire un « primo organico contributo analitico all’interpretazione politica della funzione della scuola nell’attuale contesto economico e politico italiano ».

    Nella prima parte del saggio (L’evoluzione delle forze di lavoro in Italia negli anni 1959-1969) viene individuato l’elemento caratteristico del mercato del lavoro di quel periodo: alla diminuzione costante degli occupati non si è accompagnato, come era prevedibile, l’aumento dei disoccupati, bensì la loro diminuzione. Il paradosso viene spiegato nella seconda parte (Scuola e mercato del lavoro in Italia), dove si ipotizza la funzione di « parcheggio » che sarebbe assolta dalle strutture scolastiche: i giovani licenziati dalla scuola media o dagli istituti superiori, non avendo opportunità di lavoro, proseguono negli studi con la speranza di conseguire una qualificazione che li ponga in posizione privilegiata rispetto agli altri disoccupati. Da qui la spiegazione dell’incremento notevole di iscritti in alcuni istituti (soprattutto tecnici) e dell’aumento lento ma costante della scolarità superiore (la « scuola lunga »). Gli autori dimostrano successivamente, statistiche alla mano, che tale tipo di qualificazione superiore, seppur avviene, non trova una corrispondente richiesta sul mercato del lavoro perchè le mansioni

    del moderno processo produttivo non richiedono una grande specializzazione tecnica quanto piuttosto la capacità di compiere movimenti ripetuti. Da qui una conferma nelTindividuazione della funzione di « parcheggio » assolta dalla scuola pubblica.

    Nella terza parte (La ristrutturazione della scuola nel contesto capitalistico) vengono analizzati gli interventi governativi e le proposte parlamentari relativi alla scuola materna, all’università ed alle scuole intermedie tra queste due. I vari progetti di riforma, di parte governativa come della sinistra parlamentare, vengono considerati alla luce dell’ipotesi « scuola come parcheggio » e appaiono sotto nuova luce. Per la politica governativa al vecchio progetto di riforma Gui, tendente ad una razionalizzazione della preparazione dei tecnici, hanno fatto seguito decreti di legge che miravano a favorire l’immissione dei diplomati nell’università o che agevolavano la permanenza degli stessi (la cosiddetta «liberalizzazione»): ilcapitale, secondo gli autori, più che stabilire un nuovo tipo di struttura per la scuola, ha preferito adattarne via via l’ordinamento alle nuove esigenze, evitando del resto di assumere impegni finanziari precisi (una riforma dell’università deve necessariamente comprendere una previsione di spesa). La sinistra, d’altra parte, portando avanti la rivendicazione del « diritto allo studio » ha coperto involontariamente l’esigenza propria del capitale di una scuola-ricovero di manodopera inutilizzabile.

    Nell’ultima parte infine (Scuola e divisione sociale del lavoro) viene analizzato il modo attraverso il quale la scuola « concorre a mantenere la condizione di subordinazione e alienazione della classe operaia nella società » e quali siano i nessi tra la scuola e la gestione della stessa da parte del capitale da una parte e la scuola e la divisione sociale del lavoro dall’altra.

    Il saggio, che è corredato da un’interessante mole di materiale statistico e arricchito da opportune integrazioni ed elaborazioni dello stesso, merita più che una segnalazione una calda raccomandazione di lettura, non solo a chi sia interessato a riprendere le analisi fatte tempo addietro sulle strutture scolastiche, ma anche a chi, studente o docente, della scuola faccia parte integrante.

    Sergio Bova