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RECYCLE DIDIER RUEF CASAGRANDE

Recycle - Didier Ruef

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Didier Ruef Recycle - ed Casagrande Una grande narrazione fotografica composta da più di duecento immagini che, meglio di tanti richiami formali alla protezione dell’ambiente, muovono alla presa di coscienza e all’azione, nel rispetto degli altri, delle generazioni future e, in definitiva, di noi stessi.

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R E C Y C L ED I D I E R R U E F

C A S A G R A N D E

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R E C Y C L E

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Con il sostegno diMit Unterstützung von

a mia madre, Claude Ruef, l’amore, la fi ducia e il sostegno della quale mi hanno dato la forza necessaria per essere fotografofür meine Mutter, Claude Ruef, deren Liebe, Vertrauen und Unterstützung mir die Kraft gaben, Fotograf zu sein

a Carla, Micaela e Nicolafür Carla, Micaela und Nicola

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D I D I E R R U E FR E C Y C L E

Testi|Texte

Matthieu RicardJean-Michel CousteauBertrand Charrier

E D I Z I O N I C A S A G R A N D E

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SommarioInhaltsverzeichnis

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6 — 11Matthieu RicardUna necessaria presa di coscienza altruistaSelbstloses Bewusstsein schaffen

12 — 19Didier RuefL’uomo e i rifi utiDer Mensch und die Abfälle

92 — 101Francia, Chalon-sur-SaôneFrankreich, Chalon-sur-Saône

102 — 113Cina, GuiyuChina, Guiyu

114 — 127Italia, Mutoid Waste CompanyItalien, Mutoid Waste Company

128 — 139USA, Deseret Chemical DepotUSA, Deseret Chemical Depot

140 — 153 AlbaniaAlbanien

154 — 155Jean-Michel CousteauL’oceano Der Ozean

156 — 159Bertrand CharrierElogio degli escrementi Lob der Exkremente

20 — 35Svizzera, GinevraSchweiz, Genf

36 — 47Filippine, ManilaPhilippinen, Manila

48 — 61Italia settentrionaleNorditalien

62 — 75Brasile, San PaoloBrasilien, São Paulo

76 — 91India, AlangIndien, Alang

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Sommario |Inhaltsverzeichnis

160 — 173Angola Angola

246 — 259Azerbaigian, BakuAserbaidschan, Baku

260 — 273Polonia, KatowicePolen, Kattowitz

274 — 295Ucraina e Bielorussia, Chernobyl e le zone contaminateUkraine und Weißrussland,Tschernobyl und die verstrahlten Zonen

296 — 315Kazakistan, Semipalatinsk Kasachstan, Semipalatinsk

316 — 317RingraziamentiDank

318 — 319Biografi eBiografi en

Le legende delle fotografi e si trovano nel quaderno allegato in fondo al libro.Die Bildlegenden befi nden sich im Begleitheft hinten im Buch.

174 — 189IraqIrak

190 — 201Repubblica di Nauru Republik Nauru

202 — 211MozambicoMosambik

212 — 225Kazakistan, lago d’AralKasachstan, Aralsee

226 — 245USA, Louisiana e MississippiUSA, Louisiana und Mississippi

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Dal dominio degli utensili preistorici allo straripare di prodotti e rifi uti...

Alcuni animali hanno imparato a utilizzare, e talvolta a fabbricare, utensili rudimentali. L’Homo habilis ha reso la creazione di uten sili una pratica diffusa, e l’Homo sapiens l’ha portata a livelli di sofi sticazione quasi inimmaginabili. La quantità, la potenza e la complessità di questi utensili sono tali da far sì che le loro ripercussioni sulla vita dell’uomo, sulle altre specie viventi e sull’intero pianeta siano esponenzialmente maggiori di quelle che l’uomo avrebbepotuto causare con le sue mani.

Questi utensili hanno permesso all’uomo di costruire cattedrali, solcare i mari e lanciare razzi sulla luna. E hanno permesso a me, mentre annaspavo nelle acque del lago Kokonor, al nord-est del Tibet, unico essere umano nel raggio di chilometri, di discutere con mia madre ottantacinquenne che si trovava nelle campagne della Dordogna, e questo grazie a un oggettino metallico stipato di complicati meccanismi che nel Medio evo mi avrebbero senz’altro fatto passare per stregone con il rischio di fi nire sul rogo.

La costruzione di un utensile consisteva nel modifi care e poi nell’assemblare degli oggetti naturali, con lo scopo di aiutare l’uomo a fare meglio e più in fretta quel che già faceva a mani nude. Quando cessavano di essere utili, tanto gli utensili quanto i prodotti che questi avevano permesso di realizzare venivano gettati o dimenticati, e tornavano in natura. A migliaia d’anni di distanza, solo i materiali duri come la pietra hanno lasciato tracce. Li riconosciamo per via della forma o del luogo in cui vengono reperiti.

In seguito l’uomo ha imparato ad accendere il fuoco, a estrarre i metalli dai minerali grezzi, a mescolare sostanze e farle reagire tra loro e a produrre composti dotati di nuove proprietà. Questi fi nivano per venir abban-donati nella natura che contribuivano a trasformare in vari modi, spesso impre ve dibili, con a volte conseguenze nocive a corto o a lungo termine.

Non tanto tempo fa, al largo delle coste del Messico, ho avuto l’occasione di nuotare in mezzo a una trentina di squali balena. Ma nel fascio di raggi cangianti che illuminavano l’oceano e gli squali tutt’intorno a noi

fl uttuavano anche, come grandi bolle di acqua minerale, sacchi in plastica, altri rifi uti di varie dimensioni e perfi no il tagliando di registrazione di un bagaglio aereo.

L’uso di utensili da parte dell’uomo si è sviluppato a tal punto che oggi, per la prima volta nella storia dell’umanità, la miriade di manufatti è in grado di creare danni irreversibili al nostro ecosistema.

Di fatto, i vantaggi desiderati hanno effetti secondari sulle nostre condizioni di vita e sul nostro ambiente naturale. Gli oggetti e i rifi uti prolifi cano, le reazioni a catena sono provocate da sostanze liberate in natura, cambiamenti nella superfi cie e nell’atmosfera del pianeta derivano da questa dissemina zio ne e dagli utensili complessi e potenti di cui si fa uso al giorno d’oggi.

Dai rifi uti di plastica di cui pullula l’oceano (c’è del plancton composto fi no al 30 % del suo peso di microparticelle di plastica, assor-bite a loro volta dai cetacei) alle rica dute radioattive delle 468 esplosioni nucleari che hanno avuto luogo nel Kazakistan ai tempi dell’Unione sovietica, senza alcun riguardo per le popolazioni locali (il numero di cancri e di leucemie presso gli adulti e i bambini è terrifi cante e continuano a nascere neonati mostruosi), oggi i rifi uti hanno un effetto globale sulla nostra esistenza.

Venticinque anni dopo la catastrofe chimica di Bhopal, in India, decine di migliaia di sopravvissuti soffrono ancora delle conse-guenze dei pesticidi liberati dall’esplosione industriale che uccise più di 10’000 persone (di cui 3500 sul colpo) e non hanno ricevuto che miserabili indennizzi da parte della grande multinazionale americana Union Carbide, tuttora totalmente indifferente alla tragedia umana che ha generato a grande distanza da casa sua.

Come scrive Didier Ruef, «mentre il riuso, la valorizzazione del rifi uto è parte integrante del quotidiano nelle società dette in via di sviluppo, la nostra società dei consumi ha trasformato il rifi uto in schifezza, privandolo del suo valore economico».

Matthieu Ricard Una necessaria presa di coscienza altruista

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Io stesso sono stato testimone di questa trasformazione in una società che solo venti cinque anni fa non aveva mai visto una bot tiglia di Coca-cola. Quando in Tibet apparvero le prime bottigliette in plastica, buttarle via era fuori discussione. Ingurgitato rapidamente il liquido, l’involucro, leggero com’era, veniva conservato con cura. Le bottiglie, intere o tagliate, servivano da tazza o da contenitore per il latte, da giara per il burro, ricettacolo di oggettini, vaso per i fi ori sull’altare del Budda, riparo per proteggere le cose dalla pioggia, ecc. Se per caso un viaggiatore negligente gettava una bottiglia in plastica lungo la strada, i bambini nomadi erano rapidi a raccogliere il prezioso bottino.

Venticinque anni più tardi, in Tibet le botti-gliet te in plastica non sono più né rare né preziose; sono disseminate nei prati in mezzo ai fi ori selvatici. I Tibetani non vi attri-buiscono più nessun valore, ma non hanno ancora realizzato che non sono fatte di stoffa, né di cuoio, né di qualsiasi altro materiale naturale che, una volta gettato via, sparirà in fretta, mangiato dagli animali, sciolto dalle piogge, consumato dalle intemperie.

Tuttavia, in una delle valli dove l’associazione di cui mi occupo ha aiutato a costruire un dispensario e fi nanzia una scuola, un uomo notevole, esperto di medicina tradizionale, ma anche scrittore e artista, per un anno si è preso la briga di spiegare ai contadini e ai nomadi che tra un secolo quei rifi uti saranno ancora lì a lordare i prati e i fi umi, a pertur-bare la geografi a sacra e a nuocere alla salute degli esseri viventi. E ha fatto installare un po’ dappertutto dei container per la raccolta di quelle immondizie un tempo sconosciute. Dopo un anno la valle era pulita come un parco svizzero.

In principio gli utensili ci hanno aiutato a sopravvivere, ma il loro sviluppo sfrenato e i rifi uti che producono rappresentano ormai una minaccia per la nostra sopravvivenza. Siamo passati da un mondo in cui si produceva per fare fronte a bisogni autentici, a una società in cui ci si fa in quattro per «creare» artifi cialmente dei bisogni. Così è nata la società dei consumi.

Didier Ruef sottolinea che «è arrivato il momento di modifi care i nostri comportamenti e le modalità di funzionamento sociale».

Il prezzo elevato dei valori materialisti

Uno psicologo americano, Tim Kasser, e i suoi colleghi dell’Università di Rochester, grazie a studi svolti nel corso di una ventina d’anni su un campione signifi cativo della popolazione, ha mostrato che gli individui che focalizzano la propria vita sulla ricchezza, sull’immagine, sullo statuto sociale e gli altri valori materialisti promossi dalla società dei consumi, sono meno soddisfatti della propria vita.

Sono più depressi e più ansiosi, soffrono di mal di testa e di stomaco. Bevono più alcol e fumano più sigarette. Preferiscono la compe-tizione alla cooperazione, contribuiscono meno all’interesse pubblico (dato che sono centrati principalmente su loro stessi), e si preoccupano poco delle questioni ecologiche. Le loro relazioni sociali sono deboli e hanno meno amici. Mostrano meno empatia e compassione per chi soffre, sono più manipo-latori e hanno la tendenza a usare gli altri per i loro fi ni. Anche la loro salute è più precaria di quella del resto della popolazione.

Nel nostro mondo contemporaneo, veniamo trattati più frequentemente come consu ma tori che come cittadini, il che implica comportamenti molto diversi.

Questi studi suggeriscono che chi consuma di più è meno sensibile alla quantità di rifi uti che produce e all’impatto di questi rifi uti sulla vita delle diverse popolazioni e sull’ambiente. Allo stesso modo, è meno interessato alle soluzioni che richiedono una visione d’insieme dei problemi e uno spirito di cooperazione.

Il cieco egoismo

Immaginate una nave in avaria che dovrebbe usare tutta la forza delle macchine per pompare l’acqua fuori dalla stiva. Ma i passeg-geri di prima classe non vogliono rinunciare all’aria condizionata e ad altre comodità, e quelli di seconda classe si preoccupano solo di fare il cambio di classe e fi nire in prima. Ben presto affondano tutti, dopo aver utilizzato l’aria condizionata per qualche ora in più, invece di essere tutti in salvo. Su una nave normale, il capitano prende le misure neces-sarie per evitare il naufragio. In questo caso invece i passeggeri si sono impuntati per fare di testa loro.

Matthieu Ricard

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L’equilibrio tra le forze che affrontano i problemi ambientali e altre sfi de urgenti della nostra epoca è paragonabile a quello tra diversi clan che si contendono l’usufrutto di una nave che affonda, di una foresta in fi amme e di una bomba a scoppio ritardato.

Di recente un uffi cio di studi ingegneristici inglese ha annunciato che non si riuscirebbe a rallentare il riscaldamento globale del pianeta nemmeno se tutti gli ingegneri del mondo si dedicassero esclusivamente allo sviluppo di tecnologie che permettono di produrre fonti di energia rinnovabile.

Un deputato dei verdi inglese ha riassunto così la questione sulle onde della BBC: «Il problema del cambiamento climatico è che esso viene discusso in linea puramente teorica da persone che vivono in città in cui non c’è niente che non sia artifi ciale. A questa gente manca l’esperienza diretta dei cambiamenti che avvengono nella realtà. Al momento, miliardi di esseri umani vivono in maniera sconnessa dai cicli naturali; non sono dunque in grado di rendersi conto del processo in corso. Ma se invece andate a discuterne con i membri delle comunità che abitano nelle foreste pluviali o con le popo lazioni più bisognose che cercano di coltivare cereali in Africa, vi diranno che il cambiamento climatico è drammatico, che sta accadendo molto in fretta, e che ha conseguenze gravi sulla natura e sui mezzi di sussistenza» (BBC World Service, «Newshour», 13 novembre 2009). La stessa identica cosa si può dire della proliferazione dei rifi uti.

I problemi mondiali devono essere affrontanti da istituzioni transnazionali. In un mondo globale i capi di stato dovrebbero svolgere il ruolo di governatori di provincia, che ammi-nistrano gli affari locali ma lasciano nelle mani di un’autorità transnazionale le sorti del pianeta.

L’avvenire non fa male... nell’immediato

Sua santità il Dalai Lama ha sottolineato spesso come l’interdipendenza sia una nozione essenziale del buddismo che sfocia in una profonda comprensione della natura della realtà e in una presa di coscienza della responsabilità universale di cui siamo tutti portatori. Se si considera

che tutti gli esseri sono strettamente legati e che tutti, senza eccezione alcuna, vogliono evitare la sofferenza e aspirano alla felicità, si creano le basi per l’altruismo e la compas-sione, e si è condotti spontaneamente alla pratica della non violenza verso tutti gli umani e gli animali, così come al rispetto dell’ambiente.

Le persone sono molto reattive se confrontate con un pericolo immediato, ma hanno diffi -coltà a farsi coinvolgere emotivamente da un problema che si verifi cherà tra dieci o venti anni. Di rado sentono il bisogno di modifi care comportamenti i cui effetti saranno percepi-bili solo in futuro, o che concernono le generazioni successive. Si dicono: «Si vedrà quando sarà il momento». Aborriscono l’idea di doversi privare dei piaceri immediati in nome degli effetti disastrosi che questi avranno a lungo termine. Le loro azioni sono guidate dalla volontà di sottrarsi a qualsiasi tipo di obbligo nell’immediato.

Tutto ciò deriva dalla tendenza incallita a non curarsi di un pericolo che non minaccia il nostro egoismo nell’istante presente. Il futuro non fa male, per lo meno non ancora. Dobbiamo dirci soddisfatti della nostra ignoranza, o dobbiamo ricorrere alla saggezza e all’altruismo al fi ne di avere più consi-derazione per chi soffre della proliferazione dei rifi uti e per chi rischia di soffrirne ancora di più, molto di più, nel corso delle generazioni che verranno?

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Vom Einsatz vorzeitlicher Werkzeuge bis zur Produkt- und Abfallschwemme

Manche Tiere haben gelernt, rudimentäre Werkzeuge zu benutzen und in einigen Fällen auch selbst herzustellen. Beim Homo habilis war die Anfertigung von Werkzeugen allgemein verbreitet, und der Homo sapiens brachte dieses Können auf ein nahezu unvorstellbares Niveau. Unsere Werkzeuge sind heute so zahlreich, leistungsfähig und komplex, dass ihre Nutzung sich um ein Vielfaches stärker auf das Leben der Menschen, auf die anderen Lebewesen und auf den Planeten auswirkt als das, was der Mensch mit bloßen Händen zu leisten imstande ist.

Diese Werkzeuge machten es möglich, Kathe-dralen zu errichten, die Meere zu durch schiffen und Raketen zum Mond zu schicken. Sie haben es mir möglich gemacht, mich mit meiner 85-jährigen Mutter zu unterhalten, als sie sich gerade in einem Dorf in der Dordogne befand, während ich selbst im Wasser des Kokonor-Sees im Nordosten des tibetischen Hochlands planschte und außer mir weit und breit keine Menschenseele zu sehen war – dank eines kleinen Gegenstands aus Metall, der voller komplizierter Mechanismen steckt und mich im Mittelalter wohl als vermeint-lichen Hexer auf den Scheiterhaufen gebracht hätte. Zunächst bestand die Herstellung eines Werkzeugs darin, natürliche Gegenstände zu modifi zieren und zusammenzubauen, mit dem Zweck, Arbeiten besser und schneller verrichten zu können. Wurden diese Werk-zeuge und die damit erzeugten Produkte nicht mehr gebraucht, ließ man sie liegen oder warf sie weg, woraufhin sie wieder Teil der Natur wurden. Nur von Gegenständen aus harten Materialien wie etwa Stein, die sich anhand ihrer besonderen Form oder ihres Fundortes identifi zieren lassen, fi nden sich Jahrtausende später noch Spuren.

Danach lernte der Mensch, Feuer zu machen, aus Erzen Metalle zu gewinnen, Stoffe zu mischen und miteinander reagieren zu lassen und neue Verbindungen mit spezifi schen Eigenschaften zu erzeugen. Wenn jene Produkte in der Natur zurückgelassen werden, wirken sie in vielfacher Weise auf diese ein, häufi g mit unvorhersehbaren Folgen, die sich kurz- oder langfristig als schädlich erweisen können.

Vor einer Weile hatte ich das Glück, vor der Küste von Mexiko in einem Schwarm von rund dreißig Walhaien zu schwimmen. Doch in dem glitzernden Lichtbündel, das den Ozean und die Haie um uns herum erleuchtete, schwebten wie große Blasen in Mineralwasser Plastiktüten, Abfälle in allen erdenklichen Größen und absurderweise auch ein Flug-gepäck-Anhänger.

Der Gebrauch von Werkzeugen ist inzwischen so weit fortgeschritten, dass die Unmenge unserer Erzeugnisse erstmals in der Geschichte der Menschheit das Ökosystem irreversibel zu schädigen droht. Denn dieser Fortschritt bringt nicht nur die erwünschten Vorteile, sondern auch Neben effekte für unsere Lebensverhältnisse und unse re natürliche Umgebung mit sich. Produkte und Abfälle nehmen überhand, bestimmte Substanzen lösen bei ihrer Freisetzung Ketten reaktionen aus, und die Ausbreitung dieser Stoffe führt ebenso wie die Komplexität und Wirkungsmacht der heutigen Werkzeuge zu Veränderungen an der Erdoberfl äche und in der Erdatmosphäre.

Vom Plastikmüll im Meer (die in manchen Planktonarten enthaltenen Kunststoff- Mikropartikel machen bis zu 30 % ihres Gewichts aus und werden von den Walen mitgefressen) bis hin zum radioaktiven Niederschlag der 468 Kernexplosionen, die die Sowjetunion in völliger Missachtung der Folgen für die einheimische Bevölkerung in Kasachstan durchführen ließ (die Zahl der Leukämie- und anderer Krebserkrankungen bei Erwachsenen und Kindern ist dort weiterhin erschreckend hoch, und immer noch werden Kinder mit Missbildungen geboren), wirken sich Abfälle heutzutage weltweit auf unsere Existenz aus.

25 Jahre nach der Chemiekatastrophe im indischen Bhopal leiden noch immer Zehn-tausende Überlebende unter den Folgen der bei dem Unglück freigesetzten Giftgase, an denen über 10 000 Menschen starben (darunter 3500 schon beim ersten Kontakt). Der amerikanische Großkonzern Union Carbide leistete nur geringe Schadenersatz-zahlungen; die Verantwortlichen ließ die mensch liche Tragödie, die sie fernab ihres Heimatlandes ausgelöst hatten, völlig kalt.

Didier Ruef schreibt: »Während die Wieder-verwertung – und damit Aufwertung – von

Matthieu Ricard

Matthieu Ricard Selbstloses Bewusstsein schaffen

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Abfall in den sogenannten Entwicklungs-ländern gang und gäbe ist, hat unsere Konsumgesellschaft ihre Abfälle in Müll verwandelt, der keinen wirtschaftlichen Wert mehr besitzt.«

Diese Entwicklung konnte ich mit eigenen Augen in einer Gesellschaft beobachten, die bis vor 25 Jahren noch nie eine Coca-Cola-Flasche zu Gesicht bekommen hatte. Als in Osttibet die ersten Plastik fl aschen auftauch-ten, wäre niemand auf den Gedanken verfal-len, sie wegzuwerfen. Kaum hatte man den Inhalt hinuntergestürzt, wurde das wasser-dichte und wundersam leichte Behältnis gehütet wie ein Schatz. Man verwendete es ganz oder mit abgeschnit tenem Hals als Trinkgefäß, als Milchkrug, als Buttertopf, als Schale für allen möglichen Kleinkram, als Blumenvase für den dem Buddha geweihten Altar, zum Schutz verschiedener Gegenstände vor der Witterung und so weiter. Wenn es doch einmal vorkam, dass ein achtloser Reisender eine leere Plastikfl asche an den Straßenrand warf, stürzten sich die Nomaden-kinder sogleich auf die wertvolle Beute.

Heute, 25 Jahre später, sind Plastikfl aschen in Tibet weder eine Seltenheit noch einkostbarer Schatz: Überall in den Steppen liegen sie zwischen den Wildblumen herum. Für die Tibeter haben sie keinen Wert mehr, aber sie haben noch nicht begriffen, dass die Flaschen weder aus Stoff, Leder, Holz noch aus irgendeinem anderen natürlichen Mate-rial bestehen, das nach seiner Entsorgung von Tieren aufgefressen oder von der Witterung zersetzt wird.

In einem der Täler, in dem die von mir ge grün-dete Hilfsorganisation beim Bau einer Krankenstation und der Finanzierung einer Schule geholfen hat, klärte ein bemerkens-werter Mann – ein Spezialist für traditionelle Medizin und zudem Schriftsteller und Künstler – die einheimischen Bauern und Nomaden geduldig darüber auf, dass diese Abfälle auch noch in hundert Jahren in der Steppe oder im Wasser liegen werden und so die heilige Geografi e stören und die Gesund-heit der Lebewesen beeinträchtigen. Er ließ überall im Tal Tonnen aufstellen, in den sie den bis dahin unbekannten Müll werfen konnten. Nach einem Jahr war das Tal so sau-ber wie ein Schweizer Park. Ursprünglich dienten Werkzeuge dazu, unser Überleben zu sichern, aber ihre ungezügelte

Entwicklung und die Abfälle, die sie verur-sachen, sind längst zu einer Bedrohung geworden. Aus einer Welt, deren Erzeugnisse der Befriedigung von Grundbedürfnissen galten, ist eine Gesellschaft geworden, in der man sich alle Mühe gibt, Bedürfnisse künstlich zu erschaffen. So wurde die Konsum gesell-schaft geboren.

Wie Didier Ruef betont, ist es höchste Zeit, »unser Verhalten und unsere gesellschaft-lichen Mechanismen grundlegend zu ändern«.

Der hohe Preis materialistischer Werte

Der amerikanische Psychologe Tim Kasser und seine Kollegen von der Universität Rochester haben in einer auf rund 20 Jahre angelegten Studie anhand eines repräsenta-tiven Bevölkerungsquerschnitts festgestellt, dass Menschen, die ihr Leben auf Reichtum, Imagegewinn, sozialen Status und andere von der Konsumgesellschaft geförderte materialistische Werte ausrichten, weniger zufrieden mit ihrem Leben sind.

Sie neigen eher zu Depressionen und Ängsten, leiden häufi ger unter Kopf schmerzen und Magenbeschwerden, rauchen und trinken mehr. Konkurrenzkampf ist ihnen wichtiger als Kooperation, sie tragen weniger zum Gemeinwohl bei (da sie stärker ichbezogen denken) und beschäftigen sich kaum mit ökologischen Fragen. Ihr soziales Netzwerk ist weniger ausgeprägt, und sie haben weniger Freunde. Sie zeigen weniger Empathie und Mitgefühl für das Leiden anderer Menschen und tendieren dazu, andere für ihre eigenen Interessen zu instrumentalisieren und zu manipulieren. Selbst ihre Gesund heit ist schwächer als in der übrigen Bevölkerung.

In der Welt von heute werden wir häufi g eher als Konsumenten betrachtet denn als Bürger, was gänzlich andere Verhaltens-weisen impliziert. Diese Untersuchungen legen nahe, dass ausgerechnet diejenigen, die am meisten konsumieren, den von ihnen produzierten Abfällen und deren Auswir-kungen auf die Lebensqualität der verschie-denen Völker und auf die Umwelt besonders gleichgültig gegenüberstehen. Zudem zeigen sie weniger Interesse an Lösungen, die eine globale Sichtweise auf die bestehenden Probleme und einen Geist der Zusammen-arbeit voraussetzen.

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Blinder Egoismus

Man stelle sich ein havariertes Schiff vor, in dem eigentlich die gesamte Maschinen-kraft benötigt würde, um das Wasser aus dem Schiffsraum abzupumpen. Doch die Passagiere der ersten Klasse wollen die Klima anlage und andere technische Einrich-tungen weiterbenutzen, und die Passagiere der zweiten Klasse haben nichts anderes im Sinn, als in die erste Klasse hochgestuft zu werden. Statt gerettet zu werden, gehen schließlich alle unter, nachdem die Klima-anlage noch ein paar Stunden weitergelaufen ist. Auf einem richtigen Schiff würde der Kapitän die notwendigen Maßnahmen ergreifen, um Passagiere und Besatzung zu retten. In unserem Beispiel bestehen die Passagiere darauf, ihr eigener Herr zu sein. Das Gezerre zwischen den mit Umwelt-problemen und den mit anderen dringlichen Herausforderungen unserer Zeit beschäftigten Kräften erinnert an einen Streit zwischen verschiedenen Clans über die Nutzungs-rechte an einem kenternden Schiff, einem brennenden Wald oder einer tickenden Bombe.

Selbst wenn alle Ingenieure der Welt sich der Entwicklung von Technologien zur Nutzung erneuerbarer Energien widmen würden, ließe sich die globale Erderwärmung nicht verlangsamen, erklärte kürzlich ein englisches Ingenieurbüro.

Vor einer Weile sagte ein Abgeordneter der britischen Grünen im Radio der BBC: »Das Problem des Klima wandels besteht darin, dass es auf intellektuellem Niveau von Menschen diskutiert wird, die in Städten leben, wo alles künstlich ist. Diese Leute erleben die Veränderungen, die sich real ereignen, selbst nicht mit. Milliarden Menschen sind als Stadtbewohner mittlerweile von den Kreisläufen der Natur abgeschnitten; daher können sie sich auch nicht vor Augen führen, was auf dem Spiel steht. Spricht man dagegen mit Gemeinschaften, die im Regenwald leben, oder mit den bitterarmen Bauern, die in Afrika Getreide anzubauen versuchen, bestätigen diese sofort, dass der Klimawandel dramatisch ist, dass er sehr schnell abläuft und dass er fatale Folgen für die Umwelt und unsere Lebensgrundlagen hat« (BBC World Service, »Newshour«, 13.11.2009). Gleiches gilt für die Zunahme der Abfälle.

Weltweite Probleme können nur von trans-nationalen Institutionen angegangen werden. In einer globalen Welt sollten die Staatschefs die Rolle von Provinzgouverneuren über-nehmen, die sich um die lokalen Angele gen-heiten kümmern und das Schicksal der Erde einer transnationalen Instanz anvertrauen.

Die Zukunft tut nicht weh … noch nicht

Wie Seine Heiligkeit der Dalai Lama wieder-holt betont hat, ist wechselseitige Abhängig-keit ein zentraler Begriff des Buddhismus, der mit einem tiefen Verständnis des Wesens der Wirklichkeit und einem Bewusstsein für die universelle Verantwortung, die wir alle tragen, einhergeht. Der Gedanke, dass alle Lebewesen eng miteinander verbunden sind und ausnahmslos alle Leid vermeiden wollen und nach Glück streben, ist die Grundlage für Selbstlosigkeit und Mitgefühl und führt uns ganz selbstverständlich zur Praxis der Gewaltlosigkeit gegenüber allen Menschen und Tieren sowie zur Achtung der Umwelt.

Die Menschen schrecken sofort auf, wenn sie mit einer unmittelbaren Gefahr konfrontiert werden; von einem Problem, das in zehn oder zwanzig Jahren akut wird, fühlen sie sich hingegen kaum emotional angesprochen. Wenn eine Situation erst irgendwann in der Zukunft eintreten wird oder die nächste Generation betrifft, spüren sie selten die Notwendigkeit, ihre Einstellung zu ändern. »Das sehen wir dann, wenn es so weit ist«, heißt es gern. Es widerstrebt ihnen, hier und jetzt auf Annehmlichkeiten zu verzichten, nur weil diese Befriedigung langfristig kata-strophale Folgen haben wird. Sie lassen sich in ihrem Handeln von dem Wunsch leiten, allen Zwängen aus dem Weg zu gehen.

All das rührt von dem unverbesserlichen Hang zur Gleichgültigkeit gegenüber einer Gefahr, die unseren Eigennutz nicht unmittel-bar bedroht. Die Zukunft tut nicht weh, zumindest noch nicht. Sollen wir froh darüber sein, dass wir noch sorglos sein können, oder sollen wir Weisheit und Selbstlosigkeit walten lassen und damit mehr Rücksicht auf jene Menschen nehmen, die bereits jetzt unter der explosionsartigen Zunahme der Abfälle zu leiden haben und in den kommen-den Generationen noch stärker darunter leiden werden?

Matthieu Ricard

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Vedere signifi ca unire il mondo all’uomo, e l’uomo all’uomo.

Vedere signifi ca comprendere, giudicare, traformare, immaginare, dimenticare e dimenticarsi, essere o scomparire .

Paul Eluard

A ventiquattro anni ho deciso di diventare fotografo. Da allora, non ho smesso di cercare di cogliere la condizione umana nei quattro angoli della terra. Un giorno nel mio mirino sono riapparsi i rifi uti, come una reminiscenza degli anni di gioventù. Perché? Perché sono ovunque, nascosti come la morte? Brulicanti come i ratti? Perché, affi orando appena – o a malapena – nel nostro quotidiano, come ad esempio la mafi a, costituiscono il rifl esso al negativo del nostro modo di vivere, del nostro ordine sociale? Perché, in una parola, i rifi uti sono una metafora del nostro mondo?

Da bambino sognavo spesso di camminare in lungo e in largo su un’immensa discarica che sembrava non avere fi ne. Da adolescente, nel 1976, alla televisione ho assistito alla fuga di diossina a Seveso, a due passi da Milano. Un incidente senza precedenti, la prima catastrofe ecologica nell’Europa occidentale da quando questo termine era apparso nel linguaggio corrente. Davanti al mio piccolo schermo scoprivo l’impatto delle attività economiche e i rischi di contaminazione ambientale che comportano.

E all’epoca Milano era ancora lontana da Ginevra, dove abitavo. Ci separavano le Alpi, non c’erano né treni ad alta velocità né voli low-cost, e del resto neanche altri tipi di voli. La tragedia di Seveso esisteva, certo, ma apparteneva quasi a un’altra realtà, come più tardi Bhopal: l’Italia, come l’India, era lontana. Jacques Chiarac dirà la stessa cosa dieci anni dopo Seveso, giunto il momento di Chernobyl, quando ha affermato serissimo che la nuvola radioattiva si era fermata alle frontiere francesi.

Nell’impossibilità di negare la realtà, bisogna va tenerla a distanza.

Che piaccia o meno a Chirac, l’immagine, il reportage e le testimonianze mi avevano aperto le porte della comprensione di una dinamica moderna, di cui il mio sogno era forse la traduzione poetica.

Nel 1978 il naufragio della petroliera Amoco Cadiz e la marea nera che ne seguì mi aprirono defi nitivamente gli occhi sul trattamento che infl iggiamo al nostro pianeta.È stato l’ecologista in me a essere toccato? O, più profondamente, è il mio proprio sguardo

che mi impone un’immagine di decadenza, perdizione, frantumi? Sono sempre stato colpito dalla mancanza di rispetto per sé e per gli altri degli esseri umani, dall’impazienza, dalla cecità verso quel che è vitale sia a livello individuale sia a livello collettivo. Impregnano la mia visione del mondo.

Ho studiato economia politica e ho dedicato la mia tesi di laurea all’impatto dei rifi uti e al costo economico dell’inquinamento trans-frontaliero. La teoria economica applicata ai rifi uti: eccolo il nodo della questione. Proprio lì si incrociano la produzione industriale, l’accumulazione capitalista e la generazione costante di rifi uti.

Proprio così: per me, i rifi uti sono la metafora della nostra società, ce ne raccontano la parabola. Tutto il gas liberato nell’atmosfera; i metalli che fi niscono nella spazzatura; i residui; i milioni di tonnellate di «catture accidentali» dei pescatori, come sono defi niti quei milioni di tonnellate di crostacei, mammiferi e uccelli marini uccisi dalle enormi reti, tirati a secco e poi buttati a mare perché privi di «valore»; gli imballaggi gettati via; gli oli minerali dispersi in natura; i divani lasciati nel bosco; le munizioni abbandonate dopo un confl itto; le radiazioni sfuggite ai loro edifi ci di contenimento; queste tracce ingombranti scartate, disperse, espulse, rimosse o ignorate raccontano un mondo di disattenzione, indifferenza, mancanza di rispetto, di dominio del corto termine, assenza di visione, pulsioni di morte.

Come reagire di fronte a queste constatazioni se non con la rivolta? (Prima di scrivere questo testo non avevo mai compreso fi no a che punto i termini «rivolta» – quell’impulso che l’ordine sociale spesso ci suscita – e «rigetto» – ciò che si può provare davanti a uno scenario di immondizia – potessero essere legati).

Rabbia dunque, contro la stupidità di compor-tamenti che calpestano la vita, negano il sacro, la fi amma che si spegne con ogni indivi-duo ma brilla senza sosta sull’umanità. Rivolta, come quella di Flaubert quando scrive Bouvard e Pécuchet o il Dizionario dei luoghi comuni ricevute, rabbia mista a satira, gioia e comprensione, poiché in fondo siamo tutti abbastanza simili per poter riconoscere in noi i difetti degli altri. Ma siamo tutti abbastanza onesti da farlo veramente?

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Didier Ruef L’uomo e i rifi uti

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Una volta diventato fotografo, nei miei lavori documentaristici e sociali ho unito la passione per l’uomo all’interesse per i rifi uti. Questa pratica si inscrive in una lunga tradizione fotografi ca che verso la metà del ventesimo secolo è stata defi nita concerned photography, che in genere si traduce con «fotografi a impegnata». Fotografi a «coinvolta», per tra dur -re più letteralmente, coinvolta e preoccupata per le condizioni del mondo e dell’umanità; fotografi a impegnata a fi anco degli individui, apparecchio fotografi co tenuto ad altezzad’uomo per essere testimone dell’umano, fotografi a che si confronta con il reale.

Allo stesso tempo la mia pratica si inscrive in una seconda tradizione fotografi ca, quella che documenta l’uomo al lavoro, la diversità dei mestieri, delle professioni e il mondo della fatica.

Queste due tradizioni sono vecchie quanto la fotografi a stessa, sono nate con la fotografi a e si sono sviluppate man mano che gli apparecchi si facevano più leggeri e le lastre, poi le pellicole, più sensibili. Le loro radici affondano nel desiderio dell’uomo di raccon-tarsi e nel suo desiderio, la sua speranza, di cambiare la propria condizione grazie alla parola e alla testimonianza. Dato che come arte minore – così almeno era percepita in origine – non poteva aspirare alle sfere poetiche in cui si librava la pittura, la fotografi a avrebbe raccontato il quotidiano.

Siamo ciò che mangiamo, dicono i dietisti. E se invece fossimo quel che rigettiamo? Cosa ci dicono al riguardo i rifi uti della nostra epoca? Invisibili, inodori, incolori, le radiazioni, ma anche la diossina di Seveso e quella che fuoriesce dai nostri impianti di incenerimento dei rifi uti – ironia del veleno prodotto dall’eliminazione dei rifi uti –ci portano in una nuova dimensione, che sfugge a qualsiasi calcolo economico. Nel termine «rifi uto» è insita l’idea di rigetto, ripudio. La necessità, combinata al genio dell’uomo, è sempre riuscita a riutilizzare questi scarti per chiudere il cerchio, internalizzare le esternalità, come si dice in gergo economico.

Mentre il riuso, la valorizzazione del rifi uto è parte integrante del quotidiano nelle società dette in via di sviluppo, la nostra società dei consumi ha trasformato il rifi uto in schifezza, privandolo del suo valore economico. E dal momento in cui ha perso il suo posto nel ciclo

produttivo, nella catena della vita, è diventato scoria, rigetto o inquinamento. Etichettato in questo modo, poteva sparire, venir relegato in un mondo parallelo, un mondo di speciali-sti, al di fuori della razionalità ordinaria.

Questo sotterfugio del rifi uto ha fatto sì che accettassimo la produzione di scorie chimiche e radioattive, letali in sé e ancora più letali in quanto impercettibili. Queste radiazioni mortali sono squalifi cate agli occhi della teoria economica, questo alfa e omega del nostro mondo moderno, in quanto non sono né valorizzabili né monetizzabili, e costitui-scono esternalità impossibili da reintegrare nel ciclo produttivo. Queste esternalità minacciano così l’intero sistema produttivo, e accidentalmente anche la vita sulla terra.

In tutti e venti i reportage di questo libro ho concentrato lo sguardo su una comunità alle prese con i rifi uti. In una successione di reportage indipendenti ma complementari, ho voluto documentare una casistica suffi cientemente ampia e rappresentativa. Questi saggi fotografi ci si incastrano come i pezzi di un puzzle; l’insieme forma una successione di strati di uomini e di rifi uti, il condensato delle loro relazioni e delle loro interazioni. Come nella psicologia della percezione, anche qui il tutto è più della somma delle parti.

Questo lavoro mira a una presa di coscienza dell’uomo e dello stato del suo pianeta, la terra, ricoperta di moltitudini di scarti. È arrivato il momento di modifi care i nostri comporta-menti e le modalità di funzionamento sociale al fi ne di ridurre la massa di rifi uti che se continua a crescere come ha fatto fi nora fi nirà per soffocarci. In fondo, in questa rifl essione «rifi uto» potrebbe essere sinonimo di «inquinamento». Che brutta fi ne per qual-cosa che in origine era un resto, una materia prima, quasi un surplus!

Come fotografo, non pretendo di indicare una soluzione, ma solo di mostrate chei rifi uti costituiscono un problema per l’uomo.

Polonia, Katowice (1991) Questa regione della Slesia Superiore è vittima di un forte inquinamento dovuto a un’industria vetusta e obsoleta. I metalli pesanti emessi nell’atmosfera intossicano la popolazione.

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Svizzera, Ginevra (1991)La realtà quotidiana del Service Voirie, servizio pubblico incaricato di raccogliere ed eliminare l’immondizia e di tenere pulita la città.

Filippine, Manila (1992)Smokey Mountain, la Montagna fumante, al tempo della mia visita era la più grande discarica della città. Emetteva perpetuamente fumo per via della fermentazione dei rifi uti. Trentamila persone ci vivevano e lavoravano come straccivendoli. La discarica garantiva la loro sopravvivenza.

India, Alang (1992)Una spiaggia di sabbia fi ne nello stato del Gujarat su cui vengono ad arenarsi e a morire le navi. Migliaia di ferrivecchi vivono dello smembramento dei battelli, il metallo viene riciclato e rivenduto sul mercato indiano.

Italia settentrionale (1993)La Fiat è promotrice di uno dei primi program mi di riciclaggio sistematico delle auto mobili in fi n di vita. La carcassa di un’automobile è un tesoro economico da sfruttare. Smantellata, triturata, frantumata, fatta a pezzettini, l’automobile si presta a ogni tipo di riciclaggio, dalle materie prime all’energia. Sia la salvaguardia dell’ambiente sia la logica economica contemporanea spingono ormai l’industria al riciclaggio dei rifi uti.

Brasile, San Paolo (1994)La quotidianità dei catadores, gli uomini e le donne che percorrono con dei carretti le strade della capitale economica dell’America latina alla ricerca di carta, vetro o metalli per rivenderli. Gli scarti della megalopoli sono la loro unica fonte di guadagno.

Francia, Chalon-sur-Saône (1996)La fabbrica Kodak-Pathé è il centro europeo di riciclaggio degli apparecchi fotografi ci denominati «usa e getta». Gli apparecchi recuperati, privi di pellicola, sono smontati, riciclati, rimessi in sesto e preparati per essere rivenduti sul mercato mondiale.

USA, Deseret Chemical Depot (1998)Situato a qualche chilometro da Tooele, nello Utah, l’inceneritore di Deseret è unico al mondo. È stato costruito per distruggere la più vasta concentrazione di armi chimiche del pianeta, 13’600 tonnellate di gas da combattimento (agenti VX e GA, gas mostarda,

Sarin, ecc.). Un arsenale infernale e fortu-natamente inutilizzato accumulato nel corso di mezzo secolo di guerra fredda.

Repubblica di Nauru (1999)L’isola di Nauru ha costruito la sua ricchezza sul fosfato che si estrae dal guano depositato dagli uccelli marini. In modo analogo a quanto avvenuto con l’estrazione del petrolio, anche l’estrazione del fosfato ha provocato la distruzione ecologica di quest’isola di ventun chilometri quadrati, ormai sprofon-data nella povertà. Più del 90 % del paesaggio insulare è stato distrutto. Lo sfruttamento minerario è accantonato. Ritratto di un para-diso distrutto in Micronesia.

Italia, Mutoid Waste Company (1999)La Mutoid Waste Company, un gruppo di artisti di varia provenienza, realizza performance e spettacoli usando una pano-plia di oggetti e veicoli riciclati.

Angola (2000)Per trent’anni un confl itto fratricida ha messo gli angolesi l’uno contro l’altro. Il loro paese, devastato, è lordato dai residui della guerra. Città dagli edifi ci danneggiati, gli immobili incendiati e i villaggi rasi al suolo. Carri e veicoli militari distrutti, mine antiuomo assassine. Persone handicappate e mutilate, famiglie separate e sfollate a seconda delle svolte nei combattimenti costi-tuiscono oggi il lascito della guerra.

Mozambico (2000)In seguito alle forti piogge, il fi ume Limpopo è uscito dagli argini e ha inondato la città di Chokwe, nella provincia di Gaza. Questo saggio fotografi co documenta il ritorno alla vita di una regione sinistrata, gli impatti dell’acqua sulla città e sulle case, la vita quotidiana della popolazione e i problemi di salute pubblica.

Iraq (2003)La caduta del regime di Saddam Hussein ha segnato la fi ne di trent’anni di dittatura e la scomparsa di un sistema politico auto-ritario, assassino e torturatore, basato sul culto del tiranno.

Albania (2003)In piena guerra fredda, per premunirsi contro i rischi di aggressione, il dittatore albanese Enver Hoxha ha ricoperto il suo paese di centinaia di migliaia di bunker. Cosa ne è

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oggi di queste strutture inutili di cemento armato? Fienili, bar sul litorale o rovine. Dal nord al sud del paese, un viaggio in un passato ancora molto recente, ma che tende a scomparire sotto la spinta dell’urbanizzazione galoppante e dello sviluppo economico.

Cina, Guiyu (2004)La città di Guiyu si trova a quattrocento chilometri da Hong Kong. Più o meno centomila persone, uomini, donne e bambini, lavorano a disossare montagne di vecchi computer, senza alcuna precauzione né protezione contro sostanze nocive quali il mercurio, il piombo e l’arsenico.

USA, Louisiana e Mississippi (2005)L’uragano Katrina ha colpito da New Orleans a Biloxi. Città inondate, abitazioni distrutte, economia devastata, posti di lavoro persi, popolazioni costrette a cercare rifugio in altri stati.

Ucraina e Bielorussia, Chernobyl e le zone contaminate (2006)La catastrofe di Chernobyl ha contaminato immensi territori con una radioattività che rimarrà attiva per millenni, rendendo impossibile viverci. Azerbaigian, Baku (2007)Lo sfruttamento intensivo del petrolio nel mar Caspio ha provocato un disastro ecologico. Malgrado la portata dell’inquinamento, una foresta di torri di trivellazione continua a estrarre petrolio. Il terreno è contaminato dai rifi uti di uno sfruttamento petrolifero vecchio di un secolo. Il materiale vetusto e obsoleto marcisce sul posto.

Kazakistan, lago d’Aral (2008)All’epoca dell’Unione sovietica, la spartizione degli incarichi tra le repubbliche sovietiche e i «paesi fratelli» ha imposto al Kazakistan la monocultura del cotone. Questa richiede enormi quantità d’acqua e di pesticidi. Il lago d’Aral è stato vittima di un pompaggio intensi vo e dello scarico dei pesticidi, due azioni che combinate hanno contribuito alla sua scomparsa. Poi per la popolazione kazaka, e soprattutto per i pescatori del nord, si è verifi cato un miracolo sotto forma di una diga. Finanziata in parte da un prestito della Banca mondiale, la diga di Kokaral è stata costruita nel punto più stretto del lago, diviso in due bacini dal prosciugamento: il Piccolo Aral al nord, il Grande Aral al sud. Grazie

alla diga, l’acqua è tornata e i pesci hanno ripopolato il Piccolo Aral. Il saggio fotografi co documenta questa fase di transizione ambientale.

Kazakistan, Semipalatinsk (2008)All’epoca dell’Unione sovietica, la regione di Semipalatinsk ospitava la più importantezona di esperimenti nucleari militari a cielo aperto. Le conseguenze della radioattività sulla popolazione locale sono state enormi. Tra il 1949 e il 1989, in questo poligono hanno avuto luogo 468 esplosioni nucleari. Ora è ridotto a un immenso deserto conta mi na to dalla radioattività. La città di Semipalatinsk ha mantenuto le infrastrutture scientifi che e tecnologiche legate al suo statuto di città-laboratorio. La città e le zone limitrofe hanno ancora tassi di radio attività estremamente inquietanti. Il numero di tumori e di leu cemie tra gli adulti e i bambini è terrifi cante. Nei villaggi della regione le donne parto riscono tuttora neonati mostruosi, veri e propri mutanti genetici.

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Sehen heißt, die Welt mit dem Menschenund den Menschen mit dem Menschen zu vereinen.

Sehen heißt verstehen, urteilen, verwandeln, ersinnen, vergessen oder sich vergessen,sein oder nicht mehr sein.

Paul Éluard

Mit vierundzwanzig Jahren beschloss ich, Fotograf zu werden. Seither reise ich unaufhörlich um die Welt, um die Lebens-welten der Menschen mit der Kamera zu dokumentieren. Und so sind eines Tages die Abfälle in meinem Sucher aufgetaucht wie eine ferne Erinnerung aus meiner Jugendzeit. Warum?

Weil sie allgegenwärtig sind und unsichtbar wie der Tod? Weil sie sich überall breit machen, wie die Ratten? Weil sie in unserem Alltag, wenn überhaupt, nur am Rande vorkommen, wie die Mafi a – als negatives Spiegelbild unserer Lebensweise, unserer Gesellschafts-ordnung? Weil Abfälle, kurz gesagt, eine Metapher für unsere Welt sind?

Als Kind träumte ich oft, dass ich über eine gigantische Müllhalde stapfe, die kein Ende zu nehmen scheint. Als Jugendlicher verfolgte ich 1976 die Berichte über den Dioxin- Austritt in Seveso in der Nähe von Mailand. Ein Chemieunfall ungekannten Ausmaßes, die erste Umweltkatastrophein Westeuropa seit Aufnahme dieses Begriffs in den allgemeinen Wortschatz. Die Fern seh bilder machten mir klar, welche Umweltgefahren die Industrie wirtschaft mit sich bringt.

Dabei war Mailand zu jener Zeit weit weg von Genf, meinem Wohnort. Die Alpen trennten uns, es gab weder Schnellzüge noch Billig-fl ieger; wahrscheinlich gab es überhaupt keine Flugverbindung zwischen den beiden Städten. Die Tragödie von Seveso war zwar geschehen, aber sie schien einer anderen Wirklichkeit zu entstammen, wie später die Katastrophe von Bhopal: Italien war ein fernes Land,ebenso wie Indien. So ähnlich sah das auch Jacques Chirac zehn Jahre nach dem Seveso-Unglück, als er nach Tschernobyl allen Ernstes behauptete, die radioaktive Wolke sei an der französischen Grenze stehen geblieben.

Die Realität ließ sich nicht leugnen, aber auf Distanz halten. Ob es Chirac nun genehm war oder nicht: Die Bilder, Berichte und Zeugenaussagen hatten mir die Tür zum Verständnis einer Dynamik der Moderne aufgestoßen, von deren poetischer Überset-zung ich zu träumen begann.

1978 öffneten die Havarie des Öltankers Amoco Cadiz und die dadurch verursachte Ölpest mir endgültig die Augen über unseren

verantwortungslosen Umgang mit dem Planeten. War es der Umweltschützer in mir, der da geweckt wurde? Oder ist es auf einer tieferen Ebene mein ganz persönlicher Blick, der mich Bilder von Zersetzung, Verschwen-dung und Unrat wahrnehmen lässt? Der mangelnde Respekt der Menschen vorein -ander und vor sich selbst, ihre Ungeduld, die Blindheit für die lebenswichtigen Heraus-forderungen, vor denen der Einzelne und die Allgemeinheit stehen – all das hat mich schon immer beschäftigt und meine Welt-sicht geprägt.

Ich studierte Wirtschaftswissenschaften und schrieb meine Abschlussarbeit über Abfälle und die wirtschaftlichen Kosten grenz-überschreitender Umweltverschmutzung. Im Kern ging es darum, das Thema Abfall wirt schaftstheoretisch zu untersuchen. Industrielle Produktion, Kapitalanhäufung und fortwährende Abfallerzeugung sind eng verknüpft.

Denn ja, für mich ist Abfall eine Metapher, ein Gleichnis für unsere Gesellschaft. All jene Gase, die in die Atmosphäre entweichen, die in die Mülltonne beförderten Metalle, die Rückstände, die unzähligen Tonnen »Beifang« der Fischer – wie man die Millionen von Krustentieren, Säugetieren und Seevögeln nennt, die in den riesigen Treibnetzen umkommen und als »wertlos« ins Meer zurückgekippt werden –, die weggeworfenen Verpackungen, die Mineralöle, die ungehin-dert in die Natur fl ießen, die Sofas, die im Wald entsorgt werden, die nach bewaffneten Konfl ikten zurückgelassene Munition, die aus Sicherheitsbehältern entweichende Strahlung, all jene lästigen Überreste, die abgestoßen, fallen gelassen, ausgeschlossen, beseitigt oder ignoriert werden, erzählen von einer gleich-gültigen, respektlosen, kurz sichtigen Welt, der jede Vision fehlt und die tödlichen Impul-sen folgt.

Kann man darauf anders als mit Wider stand reagieren? (Erst beim Schreiben dieser Zeilen bemerke ich, wie eng die Wörter »Widerstand« – zum Beispiel gegen eine Gesellschaft s-ordnung – und »Widerwille« – etwa angesichts des Mülls – miteinander verbunden sein können.)

Wut also, ein Aufbegehren gegen das dumme und achtlose Verhalten gegenüber dem Leben, dieser Flamme, die mit jedem Einzelnen

Didier Ruef Der Mensch und die Abfälle

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erlischt und dennoch immerfort über der Menschheit leuchtet. Das Aufbegehren eines Flaubert, als er Bouvard und Pécuchet oder Das Wörterbuch der Gemeinplätze schrieb; eine Wut, in die sich Spott, Freude und Verständnis mischen, denn im Grunde sind wir einander ähnlich genug, um die Schwäche der anderen in uns selbst erkennen zu können. Aber sind wir auch so ehrlich, uns das einzugestehen?

Nachdem ich Fotograf geworden war, setzte ich meine Leidenschaft für den Menschen und mein Interesse am Thema Abfall in meinen sozialdokumentarischen Arbeiten um. Dieses Genre der Fotografi e knüpft an eine lange Tradition an, die Mitte des 20.Jahr-hunderts unter dem Schlagwort concerned photography oder auch humanistische Foto-grafi e bekannt wurde. Ein Genre, bei dem das Engagement, das Interesse am Zustand der Welt und der Menschheit im Mittelpunkt stehen; ein Genre, das sich den Menschen widmet, das die Kamera auf den Einzelnen richtet, um die ganze Menschheit abzubilden, und das die Konfrontation mit der Realität nicht scheut. Mein Ansatz folgt außerdem auch der fotografi schen Tradition, Menschen bei der Arbeit, die Vielfalt der Gewerbe und Berufe, die Welt von Handwerk und Industrie zu zeigen.

Diese beiden Traditionen sind so alt wie die Fotografi e selbst; sie wurden mit ihr geboren und entwickelten sich stetig weiter, je leichter die Apparate und fotografi schen Platten und je lichtempfi ndlicher die Filme wurden. Sie wurzeln in dem Wunsch des Menschen, von sich selbst zu erzählen, und zugleich in seiner Sehnsucht und Hoffnung, durch Wort und Zeugnis die eigene Lage zu verändern. Da die Fotografi e zumindest in ihren Anfängen eher als niedere Kunst galt und sich damit nicht in die poetischen Höhen aufschwingen konnte, in denen sich die Malerei bewegte, nahm sie sich die Schilderung des Alltäglichen vor.

Man ist, was man isst, sagt der Ernährungs-experte. Warum nicht: Man ist, was man wegwirft? Was verraten die Abfälle unserer Zeit über uns? Unsichtbar, geruchlos, farblos sind die atomaren Strahlen, aber auch das Dioxin von Seveso und die toxischen Abgase unserer Müllverbrennungsanlagen – die ironischerweise durch die Beseitigung von Abfällen erzeugt werden. Sie läuten eine

neue Dimension ein, die sich jeder wirt-schaftlichen Kalkulation entzieht.Das französische Wort für Abfall, déchets, kommt von dem Verb déchoir, was so viel bedeutet wie absinken, tiefer sinken. Und da der Mensch in der Not immer erfi nderisch ist, hat er solche Sinkfl üge seit jeher dazu genutzt, den Kreis zu schließen, oder Externalitäten zu internalisieren, wie die Ökonomen sagen würden.

Während die Wiederverwertung – und damit Aufwertung – von Abfall in den sogenannten Entwicklungsländern gang und gäbe ist, hat unsere Konsumgesellschaft ihre Abfälle in Müll verwandelt, der keinen wirtschaft-lichen Wert mehr besitzt. Seither sind Abfälle vom Produktionskreislauf, von der Kette des Lebens ausgeschlossen und haben die Gestalt von Unrat, Schadstoffausstoß oder Umweltverschmutzung angenommen. In dieser Form konnten sie ungesehen in eine hochspezialisierte Parallelwelt ver-bannt werden, die nicht den herkömmlichen Gesetzen der Vernunft gehorcht.

Indem die Abfälle sozusagen unter den Teppich gekehrt wurden, ließ sich die Produktion von chemischen und radioaktiven Schadstoffen besser akzeptieren, so tödlich sie auch sind – umso tödlicher zumal, da unsere fünf Sinne sie nicht wahrnehmen können. Diese lebensgefährlichen Strahlen haben keinen Platz in der Wirtschaftstheorie, dem A und O der modernen Welt, weil sie weder verwertet noch zu Geld gemacht werden können und zu den externen Effekten zählen, die sich nicht wieder in den Produktions kreislauf integrieren lassen. Aus diesem Grund gefährden sie das gesamte Produktionssystem, und natürlich alles Leben auf der Erde.

Bei jeder der zwanzig Reportagen in diesem Buch habe ich mich auf eine Gruppe von Menschen konzentriert, die in irgendeiner Form mit Abfällen zu tun hat. Mit der vorliegenden Zusammenstellung eigen-ständiger, aber einander ergänzender Serien wollte ich eine möglichst breite Palette von Situationen dokumentieren. Die einzelnen fotografi schen Essays greifen ineinander wie die Teile eines Puzzles; schichtweise fügen sich die Themen Mensch und Abfall zusam-men und wirken in enger Wechselbeziehung aufeinander ein. Wie in der Wahrnehmungs-psychologie gilt auch hier: Das Ganze ist

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mehr als die Summe seiner Teile. Dieses Buch will das Bewusstsein für den Zustand unserer Erde, dieses mit Abfällen übersäten Planeten, wecken und schärfen. Es ist an der Zeit, unser Verhalten und unsere gesell-schaftlichen Mechanismen grundlegend zu ändern, um die Unmengen von Abfall zu reduzieren, die uns irgendwann ersticken werden, wenn sie weiter so zunehmen wie heute. In dieser Hinsicht könnte man Abfall mit Umweltverschmutzung gleichsetzen. Was für eine traurige Entwicklung, wenn man bedenkt, dass Abfall ursprünglich ein Rest war, ein Rohstoff, ja fast ein Überschuss!

Als Fotograf behaupte ich nicht, Lösungen aufzeigen zu können, aber zumindest kann ich auf die Problematik aufmerksam machen.

Polen, Kattowitz (1991) Im oberschlesischen Industriegebiet ist die Umweltbelastung durch veraltete Industrie-anlagen extrem hoch. Die freigesetzten Schwermetalle vergiften die einheimische Bevölkerung. Schweiz, Genf (1991)Der Alltag der Stadtreinigung, die für die Müllabfuhr und -entsorgung sowie für die Sauberkeit der Stadt zuständig ist.

Philippinen, Manila (1992)Smokey Mountain, der »rauchende Berg«, war zur Zeit meines Besuchs die größte Müll-deponie der Stadt. Wegen gärender Abfälle stieg unablässig Rauch auf. 30 000 Menschen lebten und arbeiteten hier als Müllsammler. Die Deponie sicherte ihr Überleben.

Indien, Alang (1992)Ein feiner Sandstrand im Bundesstaat Gujarat, an den die Schiffe zum Sterben geschickt werden. Tausende von Schrott-händlern leben von der Abwrackung der Schiffe; die Metalle werden recycelt und auf dem indischen Markt weiterverkauft.

Norditalien (1993)Der Autohersteller Fiat entwickelte eines der ersten Programme zur systematischen Wiederverwertung von Altfahrzeugen. Ein Autowrack ist wirtschaftlich gesehen eine wahre Goldgrube. Nachdem es auseinander-genommen, gepresst, geschreddert und in Einzelkomponenten zerlegt worden ist, können seine Bestandteile in verschiedenster

Weise als Rohstoff oder zur Energie gewin nung wiederverwendet werden. Umweltschutz und die Logik unserer heutigen Wirtschaft bringen die Industrie dazu, ihre Abfälle wiederzuverwerten.

Brasilien, São Paulo (1994)Der Alltag der catadores, jener Männer und Frauen, die in der größten Wirtschaftsmetro-pole Lateinamerikas mit ihren Karren durch die Straßen ziehen, um Papier, Glas oder Altmetalle aus dem Müll zu suchen und weiterzuverkaufen. Die Abfälle der Megastadt sind ihre einzige Einkommensquelle.

Frankreich, Chalon-sur-Saône (1996)Die Fabrik Kodak-Pathé ist das europäische Recyclingzentrum für Wegwerfkameras, auch Einwegkameras genannt. Die leeren Apparate werden auseinandergenommen, recycelt, wieder instand gesetzt und erneut auf dem Weltmarkt verkauft.

USA, Deseret Chemical Depot (1998)Wenige Kilometer von Tooele im Bundesstaat Utah befi ndet sich eine einzigartige Verbren-nungsanlage zur Entsorgung der größten Chemiewaffenvorräte der Welt: 13 600 Tonnen Kampfgas (die Stoffe VX und GA, Senfgas, Sarin usw.). Ein teufl isches Arsenal, das im Laufe des Kalten Krieges aufgebaut wurde und glücklicherweise nicht zum Einsatz kam.

Republik Nauru (1999)Der Inselstaat Nauru verdankte seinen Wohlstand dem Phosphat, das aus dem Guano der Seevögel gewonnen wurde. Doch wie die Gewinnung von Erdöl führte die Ausbeutung der Phosphatvorkommen zu einem verhee-renden Raubbau an der Natur, der das nur 21 km2 große Land in Armut stürzte. Die Landschaft ist zu 90 % zerstört. Die Minen werden nicht mehr ausgebeutet. Porträt eines zerstörten Paradieses in Mikronesien.

Italien, Mutoid Waste Company (1999)Die Mutoid Waste Company, eine Gruppe von Künstlern unterschiedlichster Herkunft, inszeniert Performances und Kunstaktionen mit diversen Objekten und Altfahrzeugen.

Angola (2000)Dreißig Jahre lang herrschte in Angola Bürgerkrieg. Das verwüstete Land ist mit Kriegsabfällen übersät. Beschädigte oder niedergebrannte Häuser in den Städten und

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dem Erdboden gleichgemachte Dörfer. Zerstörte Panzer und Militärfahrzeuge, mörderische Antipersonenminen. Behinderte und verstümmelte Menschen, Familien, die bei den Kämpfen auseinandergerissen und willkürlich vertrieben wurden – das ist das immer noch sichtbare Vermächtnis des Krieges.

Mosambik (2000)Nach starken Regenfällen trat der Fluss Limpopo über die Ufer und überschwemmte die Stadt Chokwé in der Provinz Gaza. Dieser Essay dokumentiert, wie in dem Katastrophen gebiet das Leben zurückkehrt, was die Wassermassen in den Straßen und Häusern angerichtet haben, wie der Alltag der Bevölkerung aussieht und mit welchen Gesundheitsproblemen man zu kämpfen hat.

Irak (2003)Der Sturz von Saddam Hussein beendete eine 30-jährige Diktatur und ein mörderisches Folterregime, das auf der Verehrung des Tyrannen gründete.

Albanien, Bunker (2003)Mitten im Kalten Krieg ließ der albanische Diktator Enver Hoxha Hunderttausende von Bunkern bauen, um sein Land vor etwaigen Angriffen zu schützen. Was ist aus diesen heute überfl üssigen Stahlbetonkonstruktionen geworden? Scheunen, Strandbars oder Ruinen. Eine Reise von Norden nach Süden, in eine noch allgegenwärtige Vergangenheit, die jedoch durch die zunehmende Verstäd te rung und die wirtschaftliche Entwicklung nach und nach verschwindet.

China, Guiyu (2004)Die Stadt Guiyu liegt 400 Kilometer von Hongkong entfernt. Rund 100 000 Menschen – Männer, Frauen und Kinder – zerlegen Berge von alten Computern in ihre Einzel teile, ohne dabei in irgendeiner Weise vor deren gefährlichen Komponenten wie Quecksilber, Blei oder Arsen geschützt zu sein.

USA, Louisiana und Mississippi (2005)Von New Orleans bis Biloxi schlug Hurrikan Katrina zu. Städte unter Wasser, zerstörte Häuser, eine vernichtete Wirtschaft, verlorene Arbeitsplätze und Hunderttausende umgesiedelte Menschen.

Ukraine und Weißrussland, Tschernobyl und die verstrahlten Zonen (2006)Durch die Katastrophe von Tschernobyl wurden riesige Gebiete auf Jahrtausende radioaktiv verseucht und damit unbewohnbar gemacht.

Aserbaidschan, Baku (2007)Die intensive Erdölförderung im Kaspischen Meer hat zu einer ökologischen Katastrophe geführt. Trotz der enormen Umweltver-schmutzung gibt es weiterhin einen ganzen Wald von Bohrtürmen. Der Boden ist von den Abfällen eines ganzen Jahrhunderts der Ölförderung kontaminiert. Die überalterten Geräte rosten vor sich hin.

Kasachstan, Aralsee (2008)Zu Zeiten der Sowjetunion sah die Aufgaben-verteilung unter den Sowjetrepubliken und ihren »Bruderstaaten« für Kasachstan den Baumwollanbau in riesigen Mono-kulturen vor. Dafür wurden gewaltige Mengen Wasser und Pestizide benötigt. Durch das Abpumpen der Zufl üsse und den fl ächen-deckenden Einsatz von Pestiziden wurde der Aralsee nahezu vernichtet. Doch für die kasachische Bevölkerung, insbesondere für die Fischer im Norden des Sees, geschah ein Wunder in Form eines Staudamms. Der zum Teil durch einen Kredit der Weltbank fi nanzierte Kokaral-Damm wurde an der schmalsten Stelle des Sees errichtet, wo sich das Gewässer durch die zunehmende Verlan-dung in zwei Becken getrennt hatte: den Kleinen Aralsee im Norden und den Großen Aralsee im Süden. Dank des Staudamms sind Wasserpegel und Fisch bestand im Kleinen Aralsee wieder angestiegen.

Kasachstan, Semipalatinsk (2008)Zu Zeiten der Sowjetunion beherbergte die Region Semipalatinsk das weltgrößte Atomwaffentestgelände. Der Fallout über der einheimischen Bevölkerung war gewaltig. Zwischen 1949 und 1989 fanden im Polygon von Semipalatinsk insgesamt 468 Kern ex-plosionen statt. Seither ist das Gebiet eine einzige radioaktiv verseuchte Wüste. Die Strahlenbelastung sowohl in der Stadt als auch in den angrenzenden Zonen ist weiterhin extrem hoch. Die Zahl der Leukämie- und anderer Krebserkrankungen ist erschreckend. In den benachbarten Dörfern bringen die Frauen immer noch Kinder mit schrecklichen Missbildungen, regelrechte genetische Mutanten, zur Welt.

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Svizzera, GinevraSchweiz, Genf

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Filippine, ManilaPhilippinen, Manila

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Lo scheletro nell’armadio di gran parte delle nostre civilissime vite moderne risiede nel fatto che i rifi uti sono lontani dagli occhi, lontani dal cuore, ma esistono. Ci siamo concessi il lusso di ignorare un fatto occulto che ben presto potrebbe iniziare a sommer-gerci – stiamo affondando nei rifi uti. In Recycle Didier Ruef posa un occhio da artista, da fotografo, su questo fattaccio e ci invita a farci i conti.

Di soluzioni, come già il titolo del libro sugge risce, ce ne sarebbero, ma innanzitutto bisogna accettare che il problema è reale.

Da tempo mi occupo delle conseguenze delle attività umane sull’oceano. L’uomo ha sempre ponderato sulla vastità dei mari e delle loro profonde fosse sottomarine, ha sognato mostri e mondi alieni. Ma quelle distese acquatiche pullulanti di forme di vita che ancora non abbiamo scoperto sono ormai invase da vecchi spazzolini da denti, fl aconi di shampoo e tazzine da caffè in styrofoam. La realtà è che tutto giunge al mare, attraverso i fi umi, le fognature e le caditoie. Non ce ne accorgiamo fi no a quando qualcosa non torna a noi, con piglio vendica-tivo, abbandonato su una spiaggia dopo una tempesta o un’inondazione. Ma la gran parte dei rifi uti oceanici fl uttua al largo.

Nel 2003 insieme alla mia équipe dell’Ocean Future Society ho attraversato l’arcipelago di isolette del Pacifi co chiamato Isole Hawaii nordoccidentali, lembi di terra tra i più remoti del pianeta contornati da migliaia di chilometri d’acqua. Ci aspettavamo di trovare le pristine spiagge di un tempo che fu, e ne abbiamo trovata qualcuna. Abbiamo anche trovato spiagge remotissime eppure dissemi-nate di bottigliette di bibite, pezzi di sedie da giardino, frammenti di styrofoam, vecchi giocattoli, galleggianti da pesca, reti ingarbu-gliate e schermi televisivi. Tutti questi rifi uti provenienti dal Nord America e dall’Asia sono raccolti da una corrente chiamata Vortice subtropicale del Pacifi co e trasportati attraverso questo enorme oceano per fi nire a lordare le spiagge praticamente in eterno. Abbiamo anche trova to gli scheletri di magni-fi ci albatros ridotti a una disordinata massa di ossa e piume aggrovigliate attorno a una pila di accendini di plastica e pezzi di giocat-tolo che gli uccelli hanno scambiato per cibo e ingerito con conseguenze mortali.

Nel 2006 il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente ha reso noto che secondo studi svolti al centro dell’oceano Pacifi co in ogni miglio quadrato galleggiano 46’000 pezzi di rifi uti plastici. E per ogni chilo di plancton ci sono fi no a sei chili di scorie marine. Il peggio però non lo si vede dagli aerei né con i satelliti, poiché la plastica si è frantumata in miliardi di frammenti grandi come coriandoli che fl uttuano appena sotto la superfi cie dell’acqua.

Questi bocconcini di plastica posseggono pure la proprietà di agire come spugne per una varietà di sostanze chimiche tossiche presenti nell’acqua, per esempio il DDT, i PCB e, ultimamente, i PBDE. La plastica concentra queste sostanze in involtini che vengono ingeriti dai pesci e che gli scienziati temono possano entrare nella catena alimentare. Le affermazioni riguardo alla dimensione della Grande chiazza di immondi-zia del Pacifi co variano per via dell’intensa dinamicità dell’oceano, ma si stima che sia grande come due volte il Texas.

Le soluzioni non richiederebbero nessun colpo di genio, sono anzi piuttosto ordinarie – utilizzare plastica biodegradabile, bandire alcuni prodotti chimici, imporre l’uso di involucri rispettosi dell’ambiente, modifi care l’atteggiamento dei consumatori. Riutilizzare, ridurre, e riciclare, riciclare, riciclare. Quel che manca è la volontà. Forse le fotografi e di questo libro sapranno spingere qualcuno di noi un po’ più vicino all’azione.

Nel frattempo, la situazione è la seguente: immagina che a partire da oggi non fossi più in grado di sbarazzarti di niente. Che aspetto avrebbero la tua casa e il tuo uffi cio se dovessi tenerti e gestirti tutto quel che compri – ogni imballaggio, involucro, pacchetto regalo, spazzolino da denti, fl acone di shampoo, giornale, computer, cd e contenitore di cibo? Niente camion dell’immondizia, niente discariche, niente cestini della spazzatura. I tuoi rifi uti sono tuoi per sempre, casa tua come unico ricettacolo.

E in fondo, è proprio così – la casa di noi tutti è questo sfavillante pianeta blu pieno di meraviglie e di vita, ed è la nostra unica casa.

Fai la tua parte.

Jean-Michel Cousteau L’oceano

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Aus den Augen, aus dem Sinn, lautet der schmutzige kleine Trick, mit dem viele von uns den Müll aus ihrem modernen, zivilisierten Leben verbannen. Wir gönnen uns den Luxus, eine Wahrheit zu ignorieren, die uns vielleicht schon bald anspringen wird: Wir ertrinken in Müll. In Recycle nimmt Didier Ruef diese hässliche Tatsache mit dem Blick des Fotografen ins Visier und lädt uns ein, uns damit zu befassen. Wie schon der Titel dieses Buches nahelegt, gibt es Lösungen, aber dazu müssen wir das Problem erst einmal wahrhaben wollen.

Meine Sorge gilt seit langem den Auswir-kungen des Müllproblems auf die Ozeane. Seit Urzeiten bewundern wir die Weite des Meeres und seine Tiefseewelten, träumen von Seeungeheuern und fremden Reichen. Doch in diesen Gewässern voller unerforschter Lebensformen schwimmen jetzt auch Zahn-bürsten, Shampoofl aschen und Kaffeebecher aus Plastik. Fakt ist, dass alles, was ins Wasser gelangt, sei es in Flüsse, Abwasser-kanäle oder durch Gullys, irgend wann im Meer landet. Wir sehen es nur nicht, bis es umso deutlicher wieder in unser Blickfeld rückt, wenn die Flut oder die sturm gepeitschte See den Müll ans Ufer spülen. Dabei treiben die meisten Abfälle weit draußen vor den Küsten.

2003 bereisten mein Team von der Ocean Futures Society und ich die Nordwestlichen Hawaii-Inseln, ein Archipel im Pazifi k, das zu den entlegensten Gegenden der Welt gehört; auf Tausende von Kilometern gibt es ringsum nichts als Wasser. Wir erwarteten die unberührten Strände einer anderen Ära und wurden fündig. Aber wir fanden – buchstäblich am Ende der Welt – auch Strände, die mit Flaschen, kaputten Garten-stühlen, Styroporstücken, altem Spielzeug, Mascara-Bürsten, Angelschwimmern, verhedderten Fischernetzen und Fernseh-geräten übersät waren. Dieser Müll aus Nord amerika und Asien wird von der als Nordpazifi kwirbel bezeichneten Strömung über den gewaltigen Ozean an ferne Strände getragen, wo er für eine halbe Ewigkeit liegen wird. Wir fanden auch die Skelette stolzer Albatrosse, ein Durch-einander von Knochen und Federn um einen Haufen von Kunst stoff-Feuer zeugen und Überresten alter Spiel sachen, die die Vögel mit Futter verwechselt und gefressen hatten – ein tödlicher Irrtum.

2006 veröffentlichte das Umweltprogramm der Vereinten Nationen eine Studie, wonach sich im zentralen Pazifi k pro Quadrat-kilometer 46 000 Plastikteilchen im Wasser befi nden. Und auf jedes Kilo Plankton kommen bis zu sechs Kilo Meeresmüll. Doch das eigentliche Ausmaß des Problems lässt sich aus der Luft gar nicht sehen, weil das Plastik in Milliarden konfettigroßer Teilchen zerfallen ist, die knapp unter der Oberfl äche treiben. Obendrein haben diese Plastikstücke die Eigenschaft, eine ganze Reihe von in Wasser nahezu unlöslichen Giftstoffen, etwa DDT, PCB und inzwischen auch PBDE, wie Schwämme aufzusaugen. So enthalten die Plastikhäppchen eine hochkonzentrierte Mischung aus Chemikalien, die von den Fischen gefressen wird und so, wie Wissenschaftler befürchten, in die Nahrungskette gelangt. Da der Ozean immer in Bewegung ist, lässt sich nur schwer sagen, wie weit sich der sogenannte Great Pacifi c Garbage Patch ausdehnt, aber man geht von einer Fläche aus, die doppelt so groß ist wie der US-Bundesstaat Texas.

Die Lösungen sind keine Zauberei, sondern liegen auf der Hand: biologisch abbaubare Kunststoffe nutzen, bestimmte Chemikalien verbieten, umweltfreundliche Verpackungen vorschreiben, das Konsumverhalten ändern. Wiederverwenden, reduzieren und recyceln, recyceln, recyceln. Allein, es fehlt der Wille. Vielleicht veran lassen die Bilder in diesem Buch den einen oder anderen dazu, aktiv zu werden.

Denn das ist die pure Realität: Stellen Sie sich vor, Sie könnten vom heutigen Tag an nie wieder irgendetwas wegwerfen. Wie würde es bei Ihnen zu Hause oder im Büro aussehen, wenn Sie alles, was Sie kaufen – jede Schachtel, Verpackung, Geschenktüte, Zahnbürste, Shampoofl asche, Zeitung, CD, Konservendose und Computerhardware –, behalten und irgendwo bei sich unterbringen müssten? Keine Müllwagen, keine Abfall-deponien, keine Mülltonnen weit und breit. Sie können nirgendwohin mit Ihrem Müll; er bleibt für immer bei Ihnen zu Hause.

Und im Grunde ist es tatsächlich so – wir sind alle auf diesem strahlenden blauen Planeten voller Wunder und voller Leben zu Hause. Ein anderes Zuhause haben wir nicht.

Bitte tun Sie, was Sie können.

Jean-Michel Cousteau Der Ozean

Jean-Michel Cousteau

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Escremento, mut, Scheiße, pox, shit, merde, Kot, excrement, ekskrementer, stercus…

Questi termini nelle varie lingue qualifi cano la stessa sostanza, la stessa produzione natu-rale, quella che esce dalle viscere di qualsiasi forma di vita animale, fi no agli esseri umani, una sostanza che prende sembianze assai diverse a seconda delle specie. A volte è così piccola che nemmeno la si vede, a volte così grande che ci si diverte, a volte si trova nel punto sbagliato e ci si mette dentro il piede con esclamazioni incollerite. Questa sostanza è spesso maleodorante, per non dire di peggio. Tutti gli animali la depositano per strada, la ignorano, se la lasciano dietro, è naturale. Solo l’uomo le presta un po’ di attenzione: che abbia qualcosa contro questa sostanza? Questa sostanza è forse più imba-razzante per l’uomo che per gli altri animali? Vero è che la sua posizione eretta non favorisce l’evacuazione che riesce così bene agli animali. Inoltre l’uomo è coperto di vestiti che deve quindi togliersi per secernere questa sostanza. Per espellerla dal corpo deve accovacciarsi, e allora che fare di questo rifi uto, una volta che è lì in terra? Rapido, l’uomo si organizza per far sparire la sostanza, lontana dagli occhi, dal naso, dal passaggio. Poiché è una sostanza fastidiosa, impuzzolentisce, appiccica, è molliccia. L’uomo però ha notato che al sole si secca, e dopo un certo lasso di tempo scompare. L’uomo ha anche notato che gli insetti, e le mosche in particolare, la prediligono per riprodursi, la sostanza ama la vita. L’uomo ha anche osservato che ci crescono dei funghi, ci cresce l’erba, e in modo più rapido che dove non ce n’è. Allora si è messo a racco glierla per usarla sei campi e migliorare il rendimento della sua produzione agricola.

Quel che si poteva fare in campagna, diven ta va impossibile nei borghi, nelle città. Come, e dove, depositare la sostanza? La posizione accovacciata non è delle più eleganti, ma soprattutto in quella posizione l’uomo è vulnerabile, vicino al suolo è alla mercé di chi sta in piedi. I gesti e le contorsioni che deve fare per liberarsi della sostanza sono spesso ridicole e sempre imbarazzanti. Dunque, l’uomo cerca un luogo dove isolarsi per svolgere questa azione. A casa organizza uno spazio specifi co a cui darà perfi no il nome di ritirata.

Una volta compiuto l’atto, depositata nuova-mente la sostanza, non si poteva lasciarla lì, bisognava espellerla il più lontano possibile. I canaletti di scolo, i ruscelli e i fi umi

diven nero i ricettacoli della sostanza. Avanti marsch, lontana dagli occhi e dal naso, e in fretta. E poi l’uomo si è reso conto che la presenza della sostanza poteva causare malattie. Se i bambini entravano in contatto con la sostanza, direttamente o indirettamente, gli veniva la diarrea o prendevano una febbre spesso letale. L’espulsione della sostanza non poteva avvenire in condizioni qualunque. Allora l’uomo si è messo all’opera e ha escogitato numerose soluzioni per fare sparire la sostanza, espellerla, trattarla e talvolta riutilizzarla, sempre nei modi più rapidi e nelle condizioni migliori. Ma senza ottimi risultati.

Al giorno d’oggi, nel mondo sono circa due miliardi e mezzo le persone (il 41 % della popolazione mondiale) che non hanno accesso a servizi igienici decenti e devono usare i bagni pubblici, recarsi in luoghi poco salubri o perfi no alleggerirsi in natura. La gran parte di questa gente vive nell’Asia meridionale o in Africa. Tale situazione, qualifi cata come crisi sanitaria, ha enormi conseguenze sulla salute pubblica, la dignità umana e le stesse condizioni economiche delle persone che la subiscono.

L’accesso limitato all’acqua potabile e alla depurazione incrementa le disuguaglianze in maniera spropositata, e in particolar modo nei confronti delle donne, poiché per loro l’accesso limitato ha impatti più gravi sulla sanità, sull’integrità fi sica e psicologica, sulla vita privata e sull’educazione. In diversi paesi, la raccolta e il trasporto dell’acqua, un fardello che in genere tocca alle donne e alle ragazze, spiega lo scarto importante tra i sessi a livello di frequenta zione scolastica. Le ragazze vengono spesso discriminate in modo spropositato anche se gli impianti sanitari nella scuola sono inadeguati. Quando ragazze e donne devono appartarsi per compiere quell’atto tanto naturale, l’evacuazione delle feci, sono vulnerabili, a rischio di molestie e di aggres sioni. In nome della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discrimina zione nei confronti della donna, gli stati hanno l’obbligo di combattere le discriminazioni, e quindi anche le cause e le conseguenze dell’ineguaglianza.

Ma allora perché i dirigenti dei paesi interes-sati non si organizzano per ottenere maggiori risultati, per rendere universale l’accesso a dei servizi igienici anche basilari? C’è bisogno

Bertrand Charrier Elogio degli escrementi

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di fare ricorso al diritto? Di tirare in ballo la giustizia? Si constata che l’accesso alla depu-razione, come all’acqua, ma anche alla salute, all’alloggio e al cibo, sono bisogni umani primari ed essenziali per il benessere. Allora l’espressione di questi bisogni implica un diritto? Esiste un diritto alla depurazione? I trattati e le convenzioni internazionali relativi ai diritti dell’uomo sono particolar-mente silenziosi per quanto concerne gli obblighi degli stati nei confronti della depurazione.

Uno dei motivi più importanti deriva dal fatto che in numerose culture defecare e orinare, al contrario di mangiare e bere, sono azioni tabù. L’acqua è vita, simbolo di bellezza e di natura selvaggia, di sicurezza, l’acqua è la felicità e il divertimento, l’acqua è riparti-zione. La maggior parte delle religioni la considera sacra. L’acqua occupa un luogo speciale nell’immaginario umano. Lo stesso non si può dire dell’urina e degli escrementi, quei rifi uti prodotti dalla macchina biologica umana. Nei paesi sviluppati, gli escrementi sono demonizzai, negati. I water muniti di sciacquone sono collegati direttamente alle acque di scarico in modo da minimizzare il tempo in cui l’utente può vedere i suoi escre-menti. I water sono concepiti per dimenticarsi degli escrementi. Parlare di defecazione è indecente.

L’acqua è bellezza, la depurazione è bruttura.L’acqua è purezza, la depurazione è impura. L’acqua è pulizia, la depurazione sporcizia.

La defecazione all’aperto pone un problema di dignità e di rispetto della privacy. Nel 2006, circa il 18 % della popolazione mondiale era costretta a defecare all’aperto, in natura e perfi no in città. La percentuale raggiunge il 28 % nell’Africa subsahariana, e balza al 48 % nell’Asia meridionale, in particolare in India. Certe culture vietano alle donne di defecare dove possono essere viste. Le donne sono quindi costrette a compiere questo atto natu ra le la mattina presto prima del levar del sole, o alla fi ne della giornata, dopo il tramonto.

Mi ricordo di quando Anna Tibaijuka, direttrice generale del Programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani, presentò ai circa 3000 delegati di un forum mondiale dell’habitat la foto di un uomo intento a defecare accovacciato nel

mezzo della folla di Nuova Delhi. Per non essere visto, si era posato un pezzo di stoffa sul capo. «Non vedo, dunque non mi vedono», doveva essersi detto. Quell’uomo era sopraffatto dalla vergogna. Il malessere provato da qualcuno che defeca in pubblico, siccome non ha la possibilità di accedere a un minimo di intimità, modifi ca i suoi com-portamenti e può avere notevoli conseguenze fi siologiche, comela costipazione, le cistiti, le infezioni urinarie, alcune delle quali posso degenerare in gravi infezioni renali.

La Cina e l’India hanno realizzato ambiziosi progetti per equipaggiare le città di bagni pubblici che assicurino una separazione soddi sfacente tra escrementi e utenti. Si stima che l’8 % della popolazione mondiale utilizzi i bagni pubblici. Anche se in genere questi impianti garantiscono un minimo di igiene, è diffi cile sapere se offrano sicurezza e privacy suffi cienti. La pulizia e il manteni-mento rappresentano un problema enorme, ovunque, nei paesi sviluppati come in quelli in via di sviluppo. L’accesso a un bagno pubblico pulito è un servizio pubblico che richiede il coinvolgimento costante degli utenti.

I poveri e gli esclusi, che già sono gli sconfi tti delle crisi fi nanziarie, economiche, ecologiche, saranno doppiamente penalizzati se i loro bisogni fondamentali e i loro diritti fonda-mentali non verranno rispettati. Chi ha potere decisionale e chi ha responsabilità politica deve considerare l’accesso all’acqua potabile e alla depurazione altrettanto prioritario dell’accesso all’educazione, alla sanità, all’alimentazione. Finché questi bisogni e diritti fondamentali non saranno universali, non ci sarà legame sociale, né rispetto della dignità umana, né civiltà.

Bertrand Charrier

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Kot, escremento, mut, pox, shit, merde, Scheiße, excrement, ekskrementer, stercus…

In den verschiedensten Sprachen bezeichnen diese Wörter den gleichen Stoff, die gleiche natürliche Substanz, die aus den Eingeweiden jedes Tiers und Menschen ausgeschieden wird und bei jeder Spezies eine andere Form annimmt. Manchmal ist sie so klein, dass man sie nicht sieht, manchmal so groß, dass man sich darüber amüsiert, und manchmal landet sie so ungünstig, dass man aus Versehen hineintritt und lautstark fl ucht. Dieser Stoff riecht, gelinde gesagt, oft streng. Alle Tiere entfernen sich davon, schenken ihm keine Beachtung mehr, lassen ihn zurück; das ist ganz natürlich. Nur der Mensch widmet ihm mehr Aufmerksamkeit, als hätte er etwas gegen diesen Stoff. Ist er ihm unangenehmer als den anderen Tieren? Gewiss, seine aufrechte Haltung erschwert es, sich seiner so unbekümmert zu entledigen wie die Tiere. Obendrein trägt er Kleider am Leib, die er erst ablegen muss, um den Stoff auszuscheiden. Er muss sich hinkauern, um seinen Darm zu leeren, und wenn dieser Abfall dann heraus ist, wohin damit? Schon bald suchte der Mensch nach Mitteln, den ausgeschiedenen Stoff aus seinem Blickfeld, aus seiner Nase, aus seinem Weg zu verbannen. Denn das Zeug stört, es stinkt, es klebt, es ist wie Brei. Der Mensch erkannte, dass es in der Sonne trocknet und nach einer Weile sogar verschwindet. Der Mensch erkannte außerdem, dass Insekten, vor allem Fliegen, sich gern darin fortpfl anzen, dass der Stoff das Leben liebt. Und der Mensch beobachtete, dass auf diesem Stoff Pilze und Gras wachsen, und zwar rascher als anderswo. Also begann er, den Stoff zu sammeln, um ihn zur Verbesserung der Ernteerträge auf seinen Feldern zu verteilen.

Was auf dem Land möglich war, ging in den Siedlungen und Städten nicht mehr. Wie und wo sollte man den Stoff loswerden? Die Hocke ist nicht gerade die eleganteste Körperhaltung, zumal man dabei sehr verletzlich ist und von der Gnade desjenigen abhängt, der im Stehen natürlich größer ist. Die Gesten und Verren-kungen, die man dabei ausführen muss, sind zuweilen lächerlich und immer peinlich. Also suchte der Mensch einen Ort, an dem er allein sein konnte, um sein Geschäft zu erledigen. Zu Hause richtete er einen eigenen Bereich dafür ein, den er bezeichnen-derweise auch das »stille Örtchen« nannte. War der Akt vollzogen und der Stoff ausgeschieden, konnte man ihn nicht einfach liegen lassen, sondern musste ihn möglichst

weit fortschaffen. Gossen, Bäche und Flüsse wurden zu Auffangbecken. Nichts wie weg damit, damit ich nichts mehr sehe und nichts mehr rieche, und zwar schnell. Schließlich erkannte der Mensch auch, dass man in Gegenwart dieses Stoffes krank werden kann. Kamen Kinder damit direkt oder indirekt in Berührung, erkrankten sie an Durchfall oder Fieber, das nicht selten zum Tod führte. Die Ausscheidung des Stoffes durfte also nur unter bestimmten Bedingun-gen erfolgen. Einfallsreich, wie der Mensch ist, fand er bald zahlreiche Lösungen, wie sich der Stoff so schnell wie möglich und unter Idealbedingungen entsorgen, auf-bereiten und manchmal gar wiederverwenden ließ. Doch an der Umsetzung dieser Lösungen hapert es.

Heutzutage haben weltweit rund 2,5 Milliarden Menschen (41 % der Weltbevölkerung) keinen Zugang zu hygienischen Toiletten und müssen verdreckte Latrinen benutzen oder ihre Notdurft gar im Freien verrichten. Die Mehrheit von ihnen lebt in Südasien oder Afrika. Wir haben es mit einer sanitären Krise zu tun, die dramatische Folgen für die öffentliche Gesundheit, die Menschenwürde und die wirtschaftlichen Bedingungen der Betroffenen hat. Der eingeschränkte Zugang zu Trinkwasser und sanitären Einrichtungen verschärft die Ungleichheiten drastisch; insbesondere bei Frauen wirkt er sich negativ auf die Gesundheit, die physische und psychische Unversehrtheit, die Privatsphäre und den Bildungszugang aus. Die Bürde des Wasser-holens wird in der Regel den Frauen und Mädchen auferlegt, was die geschlechts-bedingten Unterschiede beim Schulbesuch in vielen Ländern erklärt. Sind zudem die Sanitäranlagen in den Schulen unzureichend, sind die Mädchen weitaus stärker benach-teiligt als die Jungen: Wenn Mädchen und Frauen sich für den ganz natürlichen Vorgang der Defäkation entfernen müssen, setzen sie sich Belästigungen und Angriffen aus. Kraft des UNO-Übereinkommens zur Beseitigung jeder Form von Diskriminierung der Frau sind die Vertragsstaaten verpfl ichtet, gegen Diskriminierungen vorzugehen, also auch gegen Ursachen und Folgen von Ungleichheit. Warum also tun sich die Regierungen der betroffenen Länder nicht zusammen, um für Abhilfe zu sorgen und allen ihren Bürgern Zugang zu sanitären Einrichtungen gleich welcher Art zu verschaffen? Muss

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Bertrand Charrier Lob der Exkremente

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man sie erst per Gesetz dazu zwingen? Sie vor Gericht zerren? Die sanitäre Versorgung ist ebenso wie der Zugang zu Wasser, Gesundheitsversorgung, Unterkunft und Nahrung ein Grundbedürfnis und eine Voraussetzung für das menschliche Wohl-befi nden. Bedeutet die Äußerung dieser Bedürfnisse auch ein Recht darauf? Gibt es ein Recht auf sanitäre Grundversorgung? Die internationalen Menschenrechtsabkom-men und -konventionen schweigen sich über diesen Punkt aus.

Dies liegt vor allem darin begründet, dass die Kot- und Urinausscheidung im Gegen-satz zu Essen und Trinken in vielen Kulturen tabuisiert ist. Wasser ist Leben, es steht für die Schönheit und Unberührtheit der Natur, für Sicherheit, für Glück und Vergnügen, für geselliges Miteinander. In den meisten Religionen ist Wasser heilig. In der mensch-lichen Fantasie hat Wasser einen besonderen Platz. Mit Urin und Kot verhält es sich anders: Es sind Abfälle, die von der biologischen Maschine Mensch produziert werden. In den entwickelten Ländern werden die Exkremente verteufelt und verdrängt. Die meisten WCs mit Spülung sind direkt an die Kanalisation angeschlossen, damit der Benutzer seinen Kot nicht oder nur möglichst kurz sehen muss. Toiletten dienen dazu, den Kot zu vergessen. Über den Stuhlgang zu sprechen gehört sich nicht.

Wasser ist Schönheit, Sanitäranlagen sind hässlich. Wasser ist Reinheit, Sanitäranlagen sind unrein. Wasser ist Sauberkeit, Sanitär-anlagen sind schmutzig.

Öffentlich defäkieren zu müssen beeinträch-tigt die Menschenwürde und die Achtung der Privatsphäre. Im Jahr 2006 mussten rund 18 % aller Menschen ihre Notdurft in freier Natur oder gar mitten in der Stadt verrichten. In Subsahara-Afrika beträgt der Anteil 28 %, in Südasien – insbesondere Indien – 48 %. In einigen Kulturen ist es Frauen streng verboten, an einem Ort zu defäkieren, an dem sie gesehen werden können, sodass sie diesen natürlichen Akt frühmorgens vor Sonnen-aufgang oder abends nach Sonnenuntergang erledigen müssen.

Ich weiß noch, wie Anna Tibaijuka, General-direktorin des Programms der Vereinten Nationen für menschliche Siedlungen (UN-HABITAT), den fast 3000 Delegierten

beim Weltsiedlungsgipfel das Foto eines Mannes zeigte, der in Neu-Delhi mitten in der Menschenmenge am Boden kauert, um zu defäkieren. Um nicht gesehen zu werden, hat er sich ein Stück Tuch über den Kopf gelegt, das seine Augen bedeckt. »Ich sehe nichts, also werde ich auch nicht gesehen«, denkt er wohl. Dieser Mann schämt sich zutiefst. Die Scham eines Menschen, der in der Öffentlichkeit defäkieren muss, weil ihm selbst ein Minimum an Intimsphäre verwehrt ist, wirkt sich auf sein Verhalten aus. Sie kann seine Gesundheit beeinträchtigen und etwa Verstopfung, Blasenentzündungen oder Harnwegsinfekte hervorrufen, die in manchen Fällen zu schweren Nieren-entzündungen führen.

China und Indien haben große Fortschritte gemacht bei der Ausstattung der Städte mit Gemeinschaftstoiletten, bei denen die Ausscheidungen ausreichend von den Toilettengängern getrennt sind. Schätzungen zufolge benutzen 8 % der Weltbevölkerung öffentliche Toiletten. Auch wenn diese Einrichtungen in der Regel hygienischer sind als primitive Latrinen, lässt sich nur schwer feststellen, ob sie auch Sicherheit und Schutz der Intimsphäre bieten. Die Reinigung und Instandhaltung der Sanitäranlagen ist überall ein großes Problem, in den entwickelten Ländern ebenso wie in den Entwicklungs-ländern. Saubere öffentliche Toiletten sind eine Einrichtung, die auch die Benutzer in die Verantwortung nimmt.

Die Armen und die Ausgeschlossenen, die ohnehin zu den Verlierern der Finanz-, Wirtschafts- und Umweltkrisen der Gegen-wart gehören, sind doppelt benachteiligt, wenn ihre Grundbedürfnisse und Grundrechte nicht respektiert werden. Die politischen Entscheidungsträger müssen dem Zugang zu sauberem Trinkwasser und sanitären Einrichtungen absoluten Vorrang einräumen, ebenso wie dem Zugang zu Bildung, Gesundheitsversorgung und Nahrung. Der gesellschaftliche Zusammen-halt, die Achtung der Menschenwürde und unsere Zivilisation beruhen darauf, dass diese grundlegenden Bedürfnisse und Rechte universelle Gültigkeit haben.

Bertrand Charrier

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Didier Ruef ringrazia:

La Fondation Hans Wilsdorf per il sostegno fi nanziario alla pubblicazione di quest’opera.

Matthieu Ricard, Jean-Michel Cousteau e Bertrand Charrier, che generosamente mi hanno offerto i loro testi e le loro rifl essioni.

Le seguenti istituzioni e i seguenti sponsor pubblici e privati, che hanno facilitato la realizzazione delle foto qui pubblicate:Dipartimento dell’istruzione pubblica della Repubblica e Cantone di Ginevra, Fondo per la fotografi a della Città di Ginevra, Ilford Imaging Switzerland GmbH, Kodak SA, WWF Ginevra e Medici Senza Frontiere (Svizzera e Belgio).

I seguenti giornali e riviste hanno pubblicato per intero o in parte i reportage di questo libro:Airone, Azione, D (La Repubblica), Der Alltag, Collectif – Collectives Nº2, L’Echo Magazine, Enjeux Internationaux, Io Donna, Facts, Femme Aujourd’hui, Galatea, Le Courrier, Le Matin Dimanche, L’Hebdo, Neue Zürcher Zeitung, Photo Raw, Profi l Femme, Revue, SonntagsBlick Magazin, Süddeutsche Zeitung Magazin, The Independent on Sunday, The Observer Magazine, Tribune de Genève, Die Zeit.Alcune immagini sono anche nei libri: Didier Ruef, Afrique Noire, Infolio Editions (Svizzera, 2005); Ulrich Ladurner, Tausendundein Krieg, NP Buchverlag (Austria, 2004); Weltenblicke. Reportage fotografi e und ihre Medien, Fotomuseum Winterthur e Offi zin Verlag (Svizzera, 1997).

Voglio inoltre ringraziare per il loro sostegno:

Mia moglie Carla e i nostri fi gli Micaela e Nicola.

Mia madre Claude Ruef e Pierrette Thomas, come pure mia nonna Ariane Behles.

Michel Chevallier, amico d’infanzia, per i consigli riguardo ai testi.

Juan Aguiriano, Jean-Pierre Ballenegger e Simone Lachavanne, Silvana Bassetti Chevallier, Christian Bernhart, Giusi Boni e Howard Burns, Annie Boulat dell’agenzia Cosmos, Luigino Canal, Federico Cattaruzza dell’agenzia Luz Photo, Toni Caushi, Dominique Cerutti, Nicolas Crispini, Anne Delaite, Jean-Patrick Di Silvestro, Nicolas Faure, Michel Favre e Fabiana De Barros, Charles-Henri Favrod, Michele Fazioli, Jean-François Furrer, Alain Grandchamp, Enrico Gastaldello, Christian Güntlisberger, Stefan Kolumban Hess, Bernard Imhasly, Jean-Pierre Jost, Walter Keller, Thomas Kern, Jurg Klotz, Ulrich Ladurner, Yves Leresche, Christoph Lingg, Christan Lutz, Milena, Jacques, Lorenzo e Julien Menoud, Isabelle Meister, Pierre-André Michel, Pierre Mottu e Serge Bednarczyk della Fondation Hans Wilsdorf, Valentino Mueller, Grazia e Michele Neri, Laurent Nicod, Miroslav Nortik, Thérèse Obrecht Hodler, Claudio Ponti, Fausto Pluchinotta, Jean-Marie e Anita Riat, Christiane Rochon, Joseph Rodriguez, Bernard Sabrier, Roger Salem, Beba Sasic, Patrick Schranz, Sylvain Savolainen, Didier Segui e Isabelle Segui-Bitz, Adriano Sigg, Urs Stahel, Toni Srdanovic, Stéphane Vandam, Helen Van Pernis, Antonio Vegezzi e Aleksandra Vegezzi-Boskov, Gilbert Vogt, Dana Zolkina.

Didier Ruef

Ringraziamenti

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Didier Ruef dankt:Der Fondation Hans Wilsdorf für die fi nanzielle Unterstützung der Publikation dieses Buches.

Matthieu Ricard, Jean-Michel Cousteau und Bertrand Charrier, die mir alle großzügig ihre Texte und Gedanken zur Verfügung gestellt haben.

Den folgenden Institutionen und öffent lichen und privaten Sponsoren für ihre Unter-stützung der Fotografi en für dieses Buch: Erziehungsdepartement des Kantons Genf, Fonds für Fotografi e der Stadt Genf, Ilford Imaging Switzerland GmbH, Kodak SA, WWF Genf und Ärzte ohne Grenzen Schweiz und Belgien.

In folgenden Zeitungen und Zeitschriften wurden ganze Reportagen aus diesem Buch oder Auszüge davon publiziert:Airone, Azione, D (La Repubblica), Der Alltag, Collectif – Collectives Nº2, L’Echo Magazine, Enjeux Internationaux, Io Donna, Facts, Femme Aujourd’hui, Galatea, Le Courrier, Le Matin Dimanche, L’Hebdo, Neue Zürcher Zeitung, Photo Raw, Profi l Femme, Revue, SonntagsBlick Magazin, Süddeutsche Zeitung Magazin, The Independent on Sunday, The Observer Magazine, Tribune de Genève, Die Zeit.Und in folgenden Büchern: Afrique Noire. Didier Ruef, Infolio Editions, Schweiz, 2005. Tausendundein Krieg. Ulrich Ladurner, NP Buchverlag, Österreich, 2004. Weltenblicke. Reportagefotografi e und ihre Medien. Fotomuseum Winterthur & Offi zin Verlag, Schweiz, 1997.

Ich möchte auch folgenden Personen für ihre Unterstützung danken:

Meiner Frau Carla und unseren beiden Kindern Micaela und Nicola.

Meiner Mutter Claude Ruef und Pierrette Thomas, ebenso meiner Großmutter Ariane Behles.

Michel Chevallier, meinem Jugendfreund. Deine Kenntnisse der französischen Sprache verleihen meinen Texten Sinn, Intelligenz und eine große Menschlichkeit. Herzlichsten Dank.

Juan Aguiriano, Jean-Pierre Ballenegger und Simone Lachavanne, Silvana Bassetti Chevallier, Christian Bernhart, Giusi Boni und Howard Burns Annie Boulat von der Agentur Cosmos, Luigino Canal, Federico Cattaruzza von der Agentur Luz Photo, Toni Caushi, Dominique Cerutti, Nicolas Crispini, Anne Delaite, Jean-Patrick Di Silvestro, Nicolas Faure, Michel Favre und Fabiana De Barros, Charles-Henri Favrod, Michele Fazioli, Jean-François Furrer, Alain Grandchamp, Enrico Gastaldello, Christian Güntlisberger, Stefan Kolumban Hess, Bernard Imhasly, Jean-Pierre Jost, Walter Keller, Thomas Kern, Jurg Klotz, Ulrich Ladurner, Yves Leresche, Christoph Lingg, Christan Lutz, Milena, Jacques, Lorenzo und Julien Menoud, Isabelle Meister, Pierre-André Michel, Pierre Mottu und Serge Bednarczyk von der Fondation Hans Wilsdorf, Valentino Mueller, Grazia und Michele Neri, Laurent Nicod, Miroslav Nortik, Thérèse Obrecht Hodler, Claudio Ponti, Fausto Pluchinotta, Jean-Marie und Anita Riat, Christiane Rochon, Joseph Rodriguez, Bernard Sabrier, Roger Salem, Beba Sasic, Patrick Schranz, Sylvain Savolainen, Didier Segui und Isabelle Segui-Bitz, Adriano Sigg, Urs Stahel, Toni Srdanovic, Stéphane Vandam, Helen Van Pernis, Antonio Vegezzi und Aleksandra Vegezzi-Boskov, Gilbert Vogt, Dana Zolkina.

Didier Ruef

Dank

Ringraziamenti|Dank

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Didier Ruef è nato a Ginevra nel 1961. Dopo la laurea in economia politica all’Università di Ginevra, ha studiato fotogiornalismo presso l’International Center of Photography di New York.I suoi reportage di ampio respiro riguardano l’uomo nel suo ambiente di vita, con particolare riguardo ai problemi ecologici.Le sue foto e i suoi reportage sono stati pubblicati in numerosi giornali e riviste svizzeri e internazionali, tra cui: Time, The Independent Magazine, The Observer Magazine, Le Monde, El Pais Semanal, Geo (Corea del Sud), Rhythms Monthly (Taiwan), Discovery (Hong Kong), Marie Claire (Italia), D (La Repubblica), Ogonyok (Russia), Der Spiegel, Die Zeit, Das Magazin, Neue Zürcher Zeitung, ecc.Tra i premi ricevuti, si ricordano: lo Yann Geoffroy, King Albert Memorial Foundation, e lo Swiss Press Photo per il reportage internazionale (2003, 2004 e 2006). Il suo lavoro è stato esposto al Musée de l’Elysée di Losanna, al Fotomuseum Winterthur, al Völkerkundemuseum di Zurigo, al Museo d’arte Mendrisio, al Centro Culturale Svizzero di Milano, alla Bibliothèque Municipale di Bordeaux, al Museo da Imagem e do Som di San Paolo, alla Jordan National Gallery of Fine Arts di Amman, alla Substation di Singapore e in diverse altre sedi.Ha già pubblicato tre libri: Vita di montagna (Edizioni Casagrande, Bellinzona, 1998; trad. fr. Paysans de nos montagnes, Editions Monographic e trad. ted. Bauern am Berg, Offi zin Verlag); Afrique Noire (Infolio Editions, 2005) e, nel 2007, Enfants Prison-niers, con la Fondation DiDé (Dignité en détention, Ginevra).www.didierruef.com

Matthieu Ricard fi glio della pittrice Yahne Le Toumelin e del fi losofo Jean-François Revel, nel 1967 intraprende il suo primo viaggio in India, dove incontra alcuni infl uenti maestri spirituali tibetani. Dopo aver concluso la sua tesi in genetica cellulare presso l’Istituto Pasteur, sotto la direzione del prof. François Jacob, decide di stabilirsi nell’Himalaya, dove vive ormai da quasi 40 anni, dedito allo studio e alla pratica del buddismo. Dal 1989 è l’interprete francese del Dalai Lama.Matthieu Ricard è autore, insieme a suo padre, del dialogo Il monaco e il fi losofo (Neri Pozza, 1997); insieme all’astrofi sico Trinh Xuan Thuan del volume Dal big bang all’illuminazione (Amrita, 2009); e, insieme al Dalai Lama, di I consigli del cuore (Mondadori, 2009). Tra gli altri suoi libri: Il gusto di essere felici (Sperling e Kupfer, 2009), La cittadella delle nevi (idem, 2006) e L’arte della meditazione (idem, 2009). È anche autore di libri fotografi ci, tra i quali: Il viaggio immobile. L’Himalaya contemplata da un eremo (L’ippocampo, 2009) e Tibet. Viaggio nel cuore di una cultura secolare (Mondadori Electa, 2008).Matthieu Ricard vive oggi nel monastero di Shechen, nel Nepal, e consacra la totalità dei suoi diritti d’autore a una quarantina di progetti umanitari nel Nepal, in India e in Tibet (ospedali, scuole, orfanotrofi , ponti).www.karuna-shechen.org

Jean-Michel Cousteau, da quando suo padre, l’esploratore degli oceani Jacques Cousteau, l’ha «gettato a mare» all’età di sette anni armato solo di uno scafandro autonomo di recente invenzione, non ha mai smesso di esplorare il regno marino a bordo del Calypso e dell’Alcyone. Esploratore, ambientalista, educatore e produttore cinematografi co, Jean-Michel Cousteau si dedica da più di quarant’anni a trasmettere, forte della sua vasta esperienza, l’amore e l’interesse per il mondo acquatico. Per onorare la sua eredità, nel 1999 ha fondato l’Ocean Futures Society allo scopo di dare continuità al lavoro pionieristico di suo padre. Questa organizzazione intende avvalersi di ogni mezzo di comunicazione per diffondere la «voce degli oceani», ricordare il legame essenziale che intercorre tra l’uomo e il mare e promuovere una politica ambientale consapevole e responsabile.www.oceanfutures.org

Bertrand Charrier, dottore in fi sica, è dal 2009 il responsabile dei partenariati presso la direzione strategica dell’Agence française de développement (AFD). È stato direttore generale della Fondation Chirac (2008–2009) e dirigente del Consiglio mondiale dell’acqua (2003–2009). Direttore esecutivo della ONG Green Cross International dal 1996, ne è poi stato il vicepresidente a partire dal 2003 (presidente: Mikhail Gorbaciov). In precedenza Bertrand Charrier ha lavorato per più di quindici anni con il comandante Cousteau,di cui è stato uno dei più stretti collaboratori. Ha partecipato a più di 25 missioni a bordo del Calypso e dell’Alcyone, nave a turbovela di cui è uno degli inventori, insieme al professor Lucien Malavard e allo stesso Jacques Cousteau. Bertrand Charrier è autore di decine di articoli e del libro Bataille pour la Planète (Economica, 1997); ha inoltre collaborato a numerose opere collettive.

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Biografi e

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Didier Ruef wurde 1961 in Genf geboren. Nach seinem Abschluss in Wirtschafts-wissenschaften an der Universität Genf studierte er Fotojournalismus am International Center of Photography in New York. In seinen langfristig angelegten Reportagen geht es ihm darum, Menschen in ihrem Lebensumfeld zu zeigen und die vom Menschen verursachten Umweltprobleme zu dokumentieren. Seine Fotos und Reportagen erschienen in zahlreichen Schweizer und internationalen Zeitungen und Zeitschriften, darunter Time, The Independent Magazine, The Observer Magazine, Le Monde, El País Semanal, Geo (Südkorea), Rhythms Monthly (Taiwan), Discovery (Hongkong), Marie Claire (Italien), D (La Repubblica, Italien), Ogonek (Russland), Der Spiegel, Die Zeit, Das Magazin, Neue Zürcher Zeitung u. v. m. Er wurde mit dem Yann Geoffroy Award, der Medaille der King Albert Memorial Foundation sowie 2003, 2004 und 2006 mit dem Swiss Press Photo-Preis für die beste Auslandsreportage des Jahres ausgezeichnet. Seine Arbeiten waren u. a. im Musée de l’Elysée in Lausanne, im Foto museum Winterthur, im Völkerkundemuseum in Zürich, im Museo d’arte Mendrisio, im Centro Culturale Svizzero in Mailand, in der Bibliothèque Municipale de Bordeaux, im Museu da Imagem e do Som (MIS) in São Paulo, in der Jordan National Gallery ofFine Arts in Amman und in The Substation in Singapur zu sehen. Von Didier Ruef liegen bisher drei Bücher vor: 1998 erschien Paysans de nos montagnes bei den Éditions Monographic (Sierre), das unter dem Titel Bauern am Berg (Offi zin Zürich Verlag) in deutscher Übersetzung sowie unter dem Titel Vita di montagna (Edizioni Casagrande, Bellinzona) auf Italienisch vorliegt; 2005 publizierte er Afrique Noire (Éditions Infolio, Schweiz) und 2007 Enfants Prisonniers (Fondation DiDé – Dignité en détention, Genf).www.didierruef.com

Matthieu Ricard, Sohn der Kunstmalerin Yahne Le Toumelin und des Philosophen Jean-François Revel, bereiste 1967 zum ersten Mal Indien und begegnete dort bedeutenden tibetischen spirituellen Meistern. Nach Beendigung seiner Doktor arbeit in Zellular-genetik am Institut Pasteur in Paris beschloss er, sich im Himalaya niederzulassen. Dort lebt er seit beinahe 40 Jahren, befasst sich mit dem Buddhismus und praktiziert ihn. Seit 1989 dolmetscht er für den Dalai Lama auf Französisch. Matthieu Ricard ist zusam-men mit seinem Vater Autor des Dialogs Der Mönch und der Philosoph (Kiepenheuer und Witsch, 1999), und verfasste zusammen mit dem Astrophysiker Trinh Xuan Thuan Quantum und Lotus – Vom Urknall zur Erleuchtung (Goldmann, 2001). Weitere Bücher: Glück (2007), Die Schneepagode (2006), Meditation (2009), alle Nymphenbur-ger Verlag, und Chemins Spirituels (NiL Editions 2010). Außerdem publizierte er mehrere Bildbände, u. a. Buddhismus im Himalaja (Knesebeck, 2002), Tibet: mit den Augen der Liebe (Frederking und Thaler, 2006), Un voyage immobile (Editions de La Martinière, 2007) und Bhutan. Buddhistische Kultur und spiritueller Alltag im Reich der Könige (Knesebeck, 2009). Heute lebt er im Kloster Shechen in Nepal und lässt alle seine Einkünfte und Tantiemen rund vierzig humanitären Projekten in Nepal, Indien und in Tibet zukommen (Kranken-häuser, Schulen, Waisenhäuser, Brücken). www.karuna-shechen.org

Jean-Michel Cousteau erforscht, seit ihn sein Vater, der Ozeanologe Jacques Cousteau, als Siebenjährigen mit einer damals neu-artigen Taucherlunge am Rücken »über Bord geworfen« hat, an Bord der Calypso und der Alcyone die Meere. Der Forscher, Umweltschützer, Erzieher und Film-produzent widmet sich seit über vier Jahr-zehnten seinem Interesse an unserem Wasserplaneten und der Sensibilisierung der Menschen aller Generationen und Länder. 1999 gründete er die Ocean Futures Society mit dem Ziel, diese Pionierarbeit weiterzuführen. Die Non-Profi t-Organisation für Umwelterziehung und den Erhalt des Meeres fungiert als »Stimme des Ozeans«, die über alle möglichen Kanäle auf die grundlegende Beziehung zwischen Mensch und Meer und die Notwendigkeit einer klugen Umweltpolitik aufmerksam macht.www.oceanfutures.org

Bertrand Charrier, Doktor der Physik, leitet seit Sommer 2009 den Bereich Partner-schaften im Strategiezentrum der Agence française de développement (AFD). 2008–2009 war er Geschäftsführer der Fondation Chirac, 2003–2009 Abgeordneter des Weltwasserrats. Ab 1996 arbeitete er als Geschäftsleiter, ab 2003 als Vizepräsident der NGO Green Cross International unter dem Vorsitz Michail Gorbatschews. Zuvor arbeitete er während 15 Jahren eng mit »Le Commandant«, Jacques Cousteau, zusammen und nahm an über 25 Missionen an Bord der Calypso und der Alcyone teil. Er entwickelte zusammen mit ProfessorLucien Malavard und Jacques Cousteau das Turbovoile-Schiff Alcyone. Bertrand Charrier hat zahlreiche Artikel sowie das Buch Bataille pour la Planète (Economica, 1997) publiziert und Beiträge für mehrere Sammel bände geschrieben.

Biografi en

Biografi e|Biografi en

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Produzione e distribuzioneEdizioni Casagrande SAvia del Bramantino 36500 BellinzonaSvizzerawww.edizionicasagrande.com

Didier Ruef RECYCLE Prima edizione 2011 Stampato in Svizzera

Un’edizione speciale di 25 esemplari, in cofanetto, contenente una stampa

originale, è numerata e fi rmata dall’autore. RECYCLE© 2011 Didier Ruef e Edizioni Casagrande Fotografi e© Didier Ruef

Testi e legende© Matthieu Ricard, Jean-Michel Cousteau, Bertrand Charrier, Didier Ruef

Traduzioni dal francese Vanni Bianconi Progetto grafi co Laurent Nicod e Didier Ruef

Grafi ca Laurent Nicod, Bitdesign, Montagnola

Trattamento immagini Patrick Schranz, Ginevra

Fotolito Valentino Mueller, Prestampa Taiana, Muzzano Stampa Entreprise d’arts graphiques Jean Genoud SA, Le Mont-sur-Lausanne

ISBN 978-88-7713-579-7

Copyright Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con

qualsiasi mezzo elettronico o meccanico (compresi fotocopie, fi lm, registrazioni video, condivisione su internet o qualsiasi altro mezzo di registrazione e raccolta dati) senza l’autorizzazione scritta

dei proprietari dei diritti e dell’editore.

Didier Ruef RECYCLE 1. Aufl age 2011 Gedruckt in der Schweiz

Eine Sonderedition von 25 Exemplaren im Schuber ist signiert und nummeriert

und enthält einen Originalabzug.

RECYCLE© 2011 Didier Ruef und Edizioni Casagrande

Fotos© Didier Ruef

Texte und Bildlegenden© Matthieu Ricard, Jean-Michel Cousteau Bertrand Charrier, Didier Ruef Übersetzung aus dem Französischen Nadine Püschel

Grafi sches Konzept Laurent Nicod und Didier Ruef

Herstellung Laurent Nicod, Bitdesign, Montagnola

Bildbearbeitung Patrick Schranz, Genf

Photolitho Valentino Mueller, Prestampa Taiana, Muzzano Druck Entreprise d’arts graphiques Jean Genoud SA, Le Mont-sur-Lausanne

ISBN 978-88-7713-579-7

Copyright Alle Rechte vorbehalten. Weitergabe und

Vervielfältigung dieses Buchs oder von Teilen daraus sind, zu welchem Zweck und in welcher Form auch immer (inklusive Fotokopie, Film, Video, Internet und alle anderen Datenspeicherungs systeme), ohne die schriftliche Genehmigung durch den Verlag oder den Fotografen nicht gestattet.

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È da vent’anni che Didier Ruef percorre il pianeta per indagare con la sua macchina fotografica la questione dei rifiuti e del loro smaltimento o riciclaggio. In Svizzera, in Cina, nel Kazakistan, negli Stati Uniti, nella Repubblica di Nauru o in Iraq, Didier Ruef ha fotografato situazioni in cui l’umanità si svela attraverso i rifiuti che produce e di cui si trova a gestire – o a subire – le conseguenze, non di rado tragiche.

Una grande narrazione fotografica composta da più di duecento immagini che, meglio di tanti richiami formali alla protezione dell’ambiente, muovono alla presa di coscienza e all’azione, nel rispetto degli altri, delle generazioni future e, in definitiva, di noi stessi.

Didier Ruef pubblica regolarmente le sue fotografie su varie testate internazionali. Presso le Edizioni Casagrande ha pubblicato il volume Vita di montagna (1998).

Seit zwanzig Jahren bereist Didier Ruef unseren Planeten, um mit seiner Kamera das Thema Abfall, seine Beseitigung und Wiederverwertung zu erforschen. Unterwegs in der Schweiz, in China, Kasachstan, den USA, auf Nauru oder im Irak fotografierte Didier Ruef Situationen, in denen sich hinter den Abfällen, die wir produ zieren, wiederverwerten und mit oft tragischen Konse-quenzen ertragen müssen, das menschliche Antlitz offenbart.

Eine große fotografische Erzählung, die aus über 200 Fotos besteht und mehr erreicht als manche ökologischen Mahnrufe: Sie schärft unser Bewusstsein und regt dazu an, anderen Menschen, zukünftigen Generationen und letztlich auch uns selbst mit mehr Respekt zu begegnen.

Didier Ruef veröffentlicht seine Fotos regelmäßig in internationalen Zeitungen und Zeitschriften. Bei Casagrande erschien Vita di montagna (1998).

Testi|Texte

Matthieu RicardJean-Michel CousteauBertrand Charrier

ECA

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