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L’EDITORIA È UN CALABRONE, DICEVA UN EDITORE DEL SECOLO SCORSO, E IL CALABRONE NON POTREBBE VOLARE: SI SOLLEVA DA TERRA SFIDANDO LE LEGGI FISICHE E LA SUA STESSA STRUTTURA. LA VITTORIA SUL PESO È UN FATTO DI VOLONTÀ, DESIDERIO, IMMAGINAZIONE. IL CALABRONE IMMAGINA LA MUTAZIONE CHE LO MANTIENE IN VOLO. L’EDITORE È IL SUO LIBRAIO, E IL LIBRAIO È UN EDITORE: TESTIMONE DI UN’ESPERIENZA COMPLESSA E FRAGILE, CUSTODE DI UN’APERTURA, RESPONSABILE DI UN PASSAGGIO E DI UN RETICOLO DI RELAZIONI. PRESTA LA SUA VOCE AL DISCORSO DELL’EDITORE, PRONUNCIA LA PAROLA CHE SOTTRAE L’EDITORE AL SILENZIO. L’EDITORE È I SUOI AUTORI, E IL LIBRAIO È UN AUTORE: SCRIVE IL SUO LIBRO FATTO DI TUTTI I LIBRI, DESCRIVE PAESAGGI, IMMAGINA PERSONAGGI, COMPONE DIALOGHI. I PERCORSI DELLA LIBRERIA SONO UN CROCEVIA DI STORIE POSSIBILI. L’EDITORE È I SUOI LETTORI, E IL LIBRAIO È UN LETTORE: SI MUOVE TRA GLI SCAFFALI COME FOSSERO PAGINE, SCEGLIE E DECIDE, APPROVA, RIFIUTA, CRITICA, ABBANDONA, RIPRENDE. È SUO IL PRIMO SGUARDO CHE SI POSA SU OGNI LIBRO. L’EDITORE È L’INCONTRO TRA LE IDEE E CHI ATTENDE DI PENSARLE, E IL LUOGO DI QUELL’INCONTRO È LA LIBRERIA: NON IL “BUCO” NEL QUALE VA A CADERE IL LIBRO ALLA FINE DEL SUO PERCORSO, MA UNO SPAZIO SPALANCATO, DISPONIBILE AGLI ATTRAVERSAMENTI. L’EDITORE È LA LETTURA, E LA LETTURA È UNA CONDIVISIONE ORIZZONTALE: LA VOLONTÀ DI APPARTENERE A UN ARCIPELAGO DI COMUNITÀ IN CUI TUTTI, L’EDITORE, IL LIBRAIO, L’AUTORE, IL LETTORE, SONO IN ASCOLTO ED ESISTONO SOLTANTO NELLA RECIPROCITÀ. L’EDITORE È I SUOI PROGETTI E QUESTO REGISTRO È UN RACCONTO DI PROGETTI: CONDIVIDE UN LABORATORIO E DONA UNA MAPPA. CONVOCA UNA COMUNITÀ POSSIBILE, PERSONE E IDEE PER PROVARE A PENSARE INSIEME L’AVVENIRE, OVVERO LE DOMANDE DEL PRESENTE. NULLA È GIÀ DECISO, DOBBIAMO CONTINUARE A PROVARE: IL MONDO IN CUI VIVREMO, E QUINDI LEGGEREMO, SARÀ QUELLO CHE AVREMO COSTRUITO. Registro dei progetti editoriali

Registro dei progetti editoriali

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2000-2011 dieci anni di luca sossella editore

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Page 1: Registro dei progetti editoriali

L’EDITORIA È UN CALABRONE, DICEVA UN EDITORE DELSECOLO SCORSO, E IL CALABRONE NON POTREBBE VOLARE: SI SOLLEVA DA TERRA SFIDANDO LE LEGGI FISICHE E LA SUASTESSA STRUTTURA. LA VITTORIA SUL PESO È UN FATTO DI VOLONTÀ, DESIDERIO, IMMAGINAZIONE. IL CALABRONEIMMAGINA LA MUTAZIONE CHE LO MANTIENE IN VOLO.L’EDITORE È IL SUO LIBRAIO, E IL LIBRAIO È UN EDITORE:TESTIMONE DI UN’ESPERIENZA COMPLESSA E FRAGILE,CUSTODE DI UN’APERTURA, RESPONSABILE DI UN PASSAGGIO E DI UN RETICOLO DI RELAZIONI. PRESTA LA SUA VOCE AL DISCORSO DELL’EDITORE, PRONUNCIA LA PAROLA CHE SOTTRAE L’EDITORE AL SILENZIO.L’EDITORE È I SUOI AUTORI, E IL LIBRAIO È UN AUTORE: SCRIVE IL SUO LIBRO FATTO DI TUTTI I LIBRI, DESCRIVEPAESAGGI, IMMAGINA PERSONAGGI, COMPONE DIALOGHI. I PERCORSI DELLA LIBRERIA SONO UN CROCEVIA DI STORIE POSSIBILI.L’EDITORE È I SUOI LETTORI, E IL LIBRAIO È UN LETTORE: SI MUOVE TRA GLI SCAFFALI COME FOSSERO PAGINE, SCEGLIE E DECIDE, APPROVA, RIFIUTA, CRITICA, ABBANDONA, RIPRENDE.È SUO IL PRIMO SGUARDO CHE SI POSA SU OGNI LIBRO.L’EDITORE È L’INCONTRO TRA LE IDEE E CHI ATTENDE DIPENSARLE, E IL LUOGO DI QUELL’INCONTRO È LA LIBRERIA:NON IL “BUCO” NEL QUALE VA A CADERE IL LIBRO ALLA FINEDEL SUO PERCORSO, MA UNO SPAZIO SPALANCATO,DISPONIBILE AGLI ATTRAVERSAMENTI.L’EDITORE È LA LETTURA, E LA LETTURA È UNA CONDIVISIONEORIZZONTALE: LA VOLONTÀ DI APPARTENERE A UN ARCIPELAGO DI COMUNITÀ IN CUI TUTTI, L’EDITORE, IL LIBRAIO, L’AUTORE, IL LETTORE, SONO IN ASCOLTO ED ESISTONO SOLTANTO NELLA RECIPROCITÀ. L’EDITORE È I SUOI PROGETTI E QUESTO REGISTRO È UNRACCONTO DI PROGETTI: CONDIVIDE UN LABORATORIO E DONA UNA MAPPA. CONVOCA UNA COMUNITÀ POSSIBILE,PERSONE E IDEE PER PROVARE A PENSARE INSIEME L’AVVENIRE,OVVERO LE DOMANDE DEL PRESENTE. NULLA È GIÀ DECISO, DOBBIAMO CONTINUARE A PROVARE: IL MONDO IN CUI VIVREMO, E QUINDI LEGGEREMO, SARÀ QUELLO CHE AVREMO COSTRUITO.

Registro dei progettieditoriali

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Non bisogna permettere che la morte ci trovi già morti.L’unica resurrezione possibile avviene in vita, ed è unatrasformazione. Bisogna cominciare adesso a sentire lanostalgia per quello che non sarà piú. Questo Registrotestimonia quella nostalgia. E insieme la volontà, ferma,che dalla nostalgia non può farsi frenare, di superare tuttociò che non è già piú, per diventare ciò che non è ancora.

Il progetto grafico del Registro è di Ferruccio Montanari.Il patrimonio iconografico della casa editrice,le elaborazioni grafiche, le foto originali, sono frutto del lavoro di Alessandra Maiarelli.

La grafica è pensiero agito, indagine sul linguaggiocollocata all’interno dei segni. Il segno grafico si interrogasulla somiglianza, e sulla distanza, tra le parole e le cose. E il lavoro grafico è una forma di pedagogia sintetica:letteralmente, significa il progetto editoriale.

Il Registro è stato curato e compilato da Paolo Gervasi.Tutti i testi non firmati sono una sua riscrittura deimateriali e delle riflessioni che sono la casa editrice. Non solo una storia, ma uno spazio di compresenza deiprogetti e degli interrogativi che hanno segnato oltre diecianni di lavoro (2000-2011). Un unico discorso, presentatoattraverso un montaggio di segni, una scelta sintattica che organizza parole altrui, come tutte le parole: che nonci appartengono, ma ci riguardano e ci raccontano.

Dove non specificato diversamente, i contributi firmatisono inediti. L’editore e il curatore desiderano ringraziaretutti coloro che hanno contribuito, donando non solo testie materiali, ma anche suggerimenti, impressioni,incoraggiamenti. Impossibile nominare tutti: ognuno in cuor suo nomini il dono che sa di averci fatto.

Il compilatore del Registro vorrebbe ringraziare l’editore:perché non si è limitato a “commissionare” un lavoro, maha messo in movimento tutte le idee di cui questo lavoro è fatto. L’editore però rifiuterebbe il ringraziamento,perché ritiene tautologico affermare che un editore abbiamesso in movimento delle idee. Senza movimento di ideenon si dà editore, direbbe pensando a Piero Gobetti. Ha ragione: se fosse frequente incontrare degli editori tracoloro che stampano libri, allora questo ringraziamentosarebbe superfluo, e il lettore potrebbe non leggerlo.

Page 3: Registro dei progetti editoriali

GENEALOGIA5 Genealogia6 Una comunità da costruire8 Progettare9 A proposito del talento10 Gli idioti di famiglia11 Lei fra due anni sarà sparito

Intervista a Klaus Wagenbach a cura di Fabien Kunz

13 Lettera sulla gratuità14 Paradigma del rifiuto14 Che cos’è la peer review?16 Etica e tecnica della parola18 Libri perduti ed esemplari unici

Guido Vitiello

19 LA COMMEDIA DELL’INNOCENZA

NOSTALGIA DEL PRESENTE20 Nostalgia del presente21 Lo sguardo della scimmia21 LA GRANDE SCIMMIA

22 Dentro la mutazione Intervista a Giulio Blasi

23 Brevi istruzioni per continuare a leggere Gino Roncaglia

24 COSMOPOLITICHE

24 L’accadere dell’impossibile Piergiorgio Odifreddi intervista Jacques Derrida

26 La volontà di comprendere Piergiorgio Odifreddi intervista Noam Chomsky

29 DISCORSO SULLA DECRESCITA

29 Per una decrescita felice Francesco Dal Masintervista Andrea Zanzotto

31 Pensiero nomade31 TRASPOSIZIONI

32 NUOVI SOGGETTI NOMADI

33 Il secolo lungo33 IL FUOCO LIBERATORE;

IL TEMPO; L’ISTANTE ETERNO

34 AMANTE MARINA; LA PARTE DEL DIAVOLO; IL NUDO IMPOSSIBILE; IN CIELO E IN TERRA

VOCE35 Voce36 LA VOCE COME MEDIUM

36 Parla la Pizia nel nostro cd Marco Belpoliti

37 La parola disincarnata Intervista a Gabriele Frasca

39 ANTOLOGIA PERSONALEDI VITTORIO GASSMAN

39 Traghettare la poesia nel terzo millennio Luca Sossella

41 Poco prima del sipario Luciano Lucignani

42 Un ricordo Roberto Herlitzka

44 IL MINORE OVVERO PREFERIREI DI NO; VOCE DEI CANTI DI GIACOMO LEOPARDI; LECTURA DANTIS

45 PINOCCHIO; MANFRED

45 Peggio per noi Giancarlo Dotto

48 MEDITAZIONE ORALE

48 Testimonianza e profezia49 MEMORIA EX AUDITU

49 Incipit di incipit Aldo Busi

50 INCIPIT

51 IL RUMORE DEL CUORE, IL GATTO NERODI EDGAR ALLAN POE

52 Vocalizzare la pagina52 IL CASO SALGARI

53 IL CASO ARTUSI; IL CASO LOMBROSO

54 CHE COS’È LA POESIA?55 Che cos’è “Che cos’è?”55 COSTITUZIONE

56 GUSTO; CORPO; LEGALITÀ

57 LINGUAGGIO; LOGICA; POLITICA; GIUSTIZIA

58 ARCHITETTURA; FOLLIA; TEMPO

59 ECONOMIA; UNIVERSO; LINGUA

60 DAI CANCELLI D’ACCIAIO

61 Vere sustanze son ciò che tu vedi: su “Dai cancelli d’acciaio” di Gabriele FrascaPaolo Giovannetti

61 Per una Fondazione della voce Massimiliano Manganelli Aldo Mastropasqua

EDUCAZIONE62 Educazione62 Educare gli educatori

Bruno Munari

63 Stay Hungry. Stay Foolish Steve Jobs

63 LEZIONI D’EUROPA

64 Difendere la scuola Piero Calamandrei

67 STORIE INTERROTTE

68 La lotta con Platone. Michelstaedter come educatore Massimo Cacciari

69 PER ALBERTO ABRUZZESE

71 Lettera a un Ministro della Pubblica IstruzioneVittorio Gassman, Luca Sossella

INFOECONOSFERA72 Infoeconosfera73 DARK FIBER; L’ETÀ DELLA FINZIONE; IO?74 In pieno Medi@evo

Franco Berardi Bifo

76 IN CHE SENSO?; ARTIGIANI DEL DIGITALE

77 Sull’attualità del pensiero di Adriano Olivetti Dialogo tra Andrea Granelli e Giulio Sapelli

78 CROWDSOURCING

78 Impresa evolutiva79 CHE COS’È L’IMPRESA?

HAPAX LEGOMENON80 Hapax legomenon81 Non pubblico piú libri...

Roberto Roversi

82 Voci da gnessulógo Luca Sossella dialoga con Andrea Zanzotto

84 PAROLA PLURALE

85 ARTE POETICA

87 VIVAVOX, L'INFINITO MÉLO; ESERCIZI VECCHI E NUOVI

88 Benvenuti in un mondo che non può essere migliore Massimo Gezzi intervista John Ashbery

91 I COSTRUTTORI DI VULCANI; NON È UN GIOCO; POESIA E ISPIRAZIONE

92 Attrezzi agricoli e rutabaghe in un paesaggio John Ashbery

93 Sonetto della smemoratezza Moira Egan

93 Dieci domande a scelta multipla John Ashbery

94 POESIA CHE MI GUARDI

94 “Spiare cenni arcani di partenza”: silenzio e parola in Antonia Pozzi Davide Pugnana

96 Saba e la poesia onesta Massimo Raffaeli

97 EHI, MARK! SCUSA IL RITARDO, SCUSA IL RITARDO...

97 Quello che resta da fare ai poeti Umberto Saba

TRACCE DELLO SGUARDO100 Tracce dello sguardo102 LE TRACCE DELLO SGUARDO; SUL SIMBOLO

103 CARTAMODELLO; CONDIZIONE D’ASCOLTO

104 LA DISUMANIZZAZIONE DELL’ARTE

104 La ribellione delle arti Edmondo Berselli

105 LO SPAZIO CRITICO; ICONOGRAFIA DELL’AUTORE; IL RE È NUDO

106 DISPUTA COMETOFANTICA

106 "La duplice unità della luce"Flavio Ermini

108 Infiniti noiDialogo (a tre voci) traMaurizio Cattelan e Alighiero e Boetti

108 SHAMAN SHOWMAN. ALIGHIERO E BOETTI

109 NIENTE DA VEDERE NIENTEDA NASCONDERE; CHAT ROOM ROBERTO ROSSELLINI;SCENE ITALOAMERICANE

110 PAESAGGIO CON FRATELLO ROTTO

113 La democrazia grafica di AG FronzoniMarco Belpoliti

PAROLE D’ORDINE114 Parole d’ordine115 Amicizia

Alberto Abruzzese

118 Elogio del fallimento pentimento Dialogo tra Luca Sossella e Massimo Recalcati

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Indice

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Libreria Antiquaria Palmaverde, redazione della rivista "Officina",da sinistra: Angelo Romanò, Gianni Scalia, Franco Fortini, Pier Paolo Pasolini, Francesco Leonetti, Roberto Roversi, dicembre 1957.

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GENEALOGIA Siamo ignoti a noi medesimi, noi uominidella conoscenza, noi stessi a noi stessi:è questo un fatto che ha le sue buoneragioni. Non abbiamo mai cercato noistessi – come potrebbe mai accadere checi si possa, un bel giorno, trovare? Non atorto è stato detto: “Dove è il vostrotesoro, là è anche il vostro cuore”; ilnostro tesoro è là dove sono gli alvearidella nostra conoscenza.Friedrich Nietzsche

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Non siamo alla fine di un’epoca: siamo già nell’epoca successiva, senza riuscire a vederla. Gli isterismi diffusi portano ovunquei segni del trapasso. Tutto quello che sappiamo non esiste piú. La crisi non è la difficoltà passeggera di cui parlano i politici: è un momento che separa, e annuncia la trasformazione di tutti i paradigmi. Dentro questa trasformazione, l’editore deve cam-biare mestiere, per continuare a fare lo stesso mestiere.

Una comunità da costruireGenealogia

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L’editore deve attribuire un significato nuovo al concetto di libro. Il geniale oggettodi design che conosciamo ha poco piú di cinquecento anni di vita. Ma il “libro” è unsupporto per segni che ha una storia millenaria; ha assunto forme diverse nel tempoe nello spazio, perché vive oltre ogni singola forma, per mantenere la sua funzione:la trasmissione (propagazione) del pensiero.L’esistenza stessa di una casa editrice, la sua pratica e la sua sperimentazione, nasconocome una ricerca. Esserci, elaborare soluzioni, immaginare e realizzare progetti èun modo di porre problemi sul sistema dei saperi e sul suo funzionamento.

Il processo di digitalizzazione del sapere non è piú reversibile. Ma una digitalizza-zione irresponsabile rischia di consegnare all’umanità un archivio lacunoso, distorto,manomesso: mentre la memoria degli originali si va perdendo. Uno dei compiti principali dell’editore diventa quello di inserirsi dentro questo pro-cesso per istallare lí le proprie competenze e riposizionare la funzione editoriale.Gestire questa gigantesca, borgesiana trascrizione con attenzione: renderla rigorosa.E aggiungere valore, fare sí che i contenuti non siano soltanto trascritti, ma ricreati,arricchiti, criticati. Veicolati attraverso nuovi strumenti.

Bisogna riuscire a vincere le sordità del sistema culturale, la vischiosità della cartastampata, dominata da un’inerzia che sembra trattenere le intelligenze, frenarle,renderle pesanti. I media sono per lo piú amplificatori di rumore. La tv ha scelto di veicolare un’ideadella lettura perfettamente funzionale all’abbraccio mortale tra spettacolo, politicaed economia deviata. Il circuito attuale di comunicazione del libro è parte integrantedel circolo della ripetizione dal quale è necessario evadere. I discorsi sui libri nonsono che una fase del sistema di produzione, un passaggio della filiera: previsto eprevedibile, incapace di introdurre il quid di differenza che dovrebbe alimentare lapropagazione del pensiero.Il “libro” non deve essere comunicato. Il “libro” deve essere il nucleo di un sistemaintegrato che comunica se stesso: un flusso di idee dove prima stava un oggetto. È necessario pensare dispositivi che permettano ai contenuti di propagarsi su piúfronti.

La diseducazione è stata elevata a instrumentum regni, insieme alla disinformazione, mapiú e piú profondamente efficace e durevole di questa.Dobbiamo pensare progetti educativi permanenti. Non piú solo pedagogia ma an-drogogia (antropogogia): contro la diseducazione sistematica che passa anche attra-verso l’inflazione quantitativa dei “cari vecchi libri”, che si lasciano impilare einquadrare e vendere: ma le loro pagine sono bianche, o nere di segni offensivi.

La libreria è ormai soltanto uno dei luoghi in cui si può incontrare il libro. L’esclu-sività del rapporto libro-libreria è tramontata, nei due sensi: il libro si può incontrarefuori dalla libreria, e in libreria si possono incontrare molte cose che non sono libri. I contenuti viaggiano piú velocemente dei supporti. Superano i supporti, li eludonocercando altri canali di diffusione. L’editore non può piú rimandare l’esplorazionedi altri luoghi di incontro tra il “libro” e il lettore: il “libro” deve contenere anche illuogo dell’incontro, il canale.

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ωα7

L’editore non può farsi difensore corporativistico della persistenza di un supporto:il suo mestiere è difendere e diffondere il pensiero, non la carta. Se la libreria vorràrimanere un luogo di incontro tra i lettori e il “libro”, in tutti i formati che l’editoriaha il dovere di sperimentare, dovrà fare un lavoro di architettura degli interni: mo-dificare la forma e la disposizione dei propri spazi. Rinunciare a impilare best-seller,spezzare le simmetrie. Ricalibrarsi sui contenuti e sui loro nuovi strumenti di diffu-sione. I centri commerciali di adesso, luoghi di transito di libri perfettamente alli-neati, non hanno spazio per il “libro”, costretto a migrare verso altri luoghi, a cercarsialtri varchi.

Il “libro” deve nascere come critica ai sistemi consolidati di produzione, distribuzionee vendita. Negli ultimi vent’anni si è accentuata una deriva economicistica nel mondo dell’e-ditoria. Invece di occuparsi di prodotti interni puliti come la creatività e la cono-scenza, gli editori, in affanno, cercano disperatamente di saltare sul carro delprodotto interno lordo. La lettura rischia di essere condannata all’esilio dall’ideolo-gia del Pil, di essere accantonata come disvalore, quando e in quanto si sottrae allamisurazione, unico criterio di questa economia che pretende di quantificare la qua-lità. È la tentazione paneconomica: che risponde, riflesso condizionato, all’afferma-zione ubiqua della centralità del profitto. Il trionfo del contare sul raccontare siripercuote anche all’interno delle case editrici, nell’organizzazione del lavoro, nellestrategie, negli obiettivi, nell’articolazione delle aziende. La necessità di valutazionepuramente economica dei risultati si traduce nella preponderanza del settore com-merciale. La logica dei venditori finisce coll’imporsi dentro le redazioni. I promotoridettano tempi, temi, metodi. Portano l’ideologia paneconomica dentro le case edi-trici come il viandante che ha camminato nella bufera porta in casa la pioggia. La mediazione culturale è del tutto subordinata alla mediazione commerciale. Anche nel lavoro quotidiano dell’editore, anche in termini di tempo: singoli minutidella giornata rosicchiati alla progettualità e alla riflessione.

L’editore deve necessariamente “far tornare i conti”: per garantire la solidità e l’au-tonomia del progetto culturale. La necessità inderogabile è superare l’antagonismomercato/progetto: o almeno concepire l’antagonismo rispetto al mercantilismo daun’angolazione che non sia quella della nicchia, dell’ascetismo, dell’opposizione ir-riducibile qualità/quantità. Gli antagonisti disperati invocano la catastrofe, e in que-sto si trovano paradossalmente a coincidere con i conservatori: la vera catastrofe èlasciare le cose cosí come sono, ci ha insegnato Benjamin.Bisogna escogitare un nuovo modo di pensare al mercato, perché piú concrete estrategicamente spendibili siano le alternative.

“Si può possedere la poesia?”, si è chiesto Jean Starobinski. “Non è forse una fiammache corre senza mai fermarsi?” Poesia è come dire pensiero. La risposta dell’editoredeve coincidere con questa di Starobinski: “La stupidità degli uomini, dopo un mo-mento di fascinazione, consisterebbe allora nel non accettare la sua mancanza di so-lidità, di rifiutarla perché non è una cosa, di non indovinare che c’è un’essenza(Wesen) sotto la scorza di questa apparenza. [...] Comprendiamo che la poesia, ben-ché prodiga, non è fatta per essere aggiogata al carro della ricchezza, e per distribuireindistintamente i suoi tesori alla folla. Questo era già l’invito che Seneca, nellagrande immagine della Fortuna, che offre i giochi pubblici, rivolgeva al suo disce-polo, Lucilio: ‘Andiamocene!’. È al poeta che ora viene proposto lo stesso precettoetico. Ma non si tratta piú, questa volta, di allontanarsi dalla fortuna per votarsi allaascesi virtuosa: c’è un mondo da costruire per mezzo del linguaggio. Il bene dell’artenon può consistere nell’illusionismo della prodigalità. [...] Il compimento della poe-sia, l’attesa di un mondo luminoso, impongono una morale piú alta.”

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Progettare

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Genealogia

Caro M.,

tanti imbrogli della recente storia (monarco-fascista prima, democristiana-consumista poi, mediaste-

tizzata ora) hanno inaridito la creatività che ha “pensato” tanti capolavori che il mondo ci invidia?

L’Italia è ancora un distretto dell’Impero che ha talenti e intelligenze da premiare con vere realiz-

zazioni, anziché con inutili statuette?

Nell’anestesia generale riusciamo a provare il sentimento di generosità necessaria per salvaguardare

il pianeta, il nostro Paese, la nostra città, la nostra casa, il nostro cervello? O desideriamo soltanto,

in una pulsione di morte, abdicare all’umano?

Quali sono i dispositivi economico-ambientali che si possono attuare nelle aree produttive?

Quali sono le azioni possibili e concrete da farsi subito per salvarci dall’accanimento distruttivo?

Quali sono i progetti da incoraggiare e le ricerche di lungo periodo da promuovere?

Quali sono le riflessioni sull’ambiente da comunicare immediatamente ai bambini?

Il progetto che vorrei proporti consiste proprio in una “radiografia/censimento” di tutte le aziende,

i ricercatori, le intelligenti soluzioni e azioni che possano salvaguardare il pianeta, il nostro Paese,

la nostra città, la nostra casa, il nostro cervello... ma una radiografia/censimento con due facce, due

copertine: da una parte l’agenda delle cose da farsi subito, e dall’altra una riflessione di grande ca-

botaggio per le scuole di ogni ordine e grado.

Ci sono in Italia quasi sessantamila plessi scolastici e secondo me è da lí che bisogna iniziare. Non

dai supermercati o dalle edicole.

Inevitabilmente bisogna coinvolgere nella ricerca scientifica per l’ambiente le aziende che a essa pos-

sono attingere per produrre innovazione ambientale.

Insomma un “work in regress”, come diceva Carmelo Bene, che possa restituirci in un semestre una ra-

diografia/censimento (chi fa cosa e dove e perché) il piú completa possibile sulle capacità di ragionare,

progettare, determinare innovazione ambientale in questo Paese allo sbando. Indagando, giacché i media

si guardano bene dal renderli trasparenti e visibili, si troveranno progetti straordinari che il Paese,

in tutte le sue macchinazioni, ha difficoltà a riconoscere e consegnare al senso di valore comune, in

una indifferente amnesia interrotta dal teatro delle chiacchiere che sento “abbaiare” nei convegni,

sulla stampa, in tv e nelle sedi istituzionali e politiche.

È nostro compito leggere (intus legere) e pro-porre, idest: disegnare uno scenario di potenzialità con

valore e portata culturale internazionali. Le idee che desiderano salvaguardare l’essere (umano) hanno

sempre in sé l’energia (ergon) e la possibilità di una corsa di sopravvivenza, a prescindere dal tempo

(politico) e dallo spazio (ideologico). Ma l’applicazione attuativa ora, in questo sbandato periodo,

necessita di un sistema di organizzazione e di una voce chiara e forte. Senza piú timidezze intellet-

tualistiche: altrimenti nel frattempo la catastrofe verrà portata a compimento dai mediocri figli di,

mogli di, sorelle di.

Una visione grandangolare: dal sistema del credito finanziario, alla pianificazione (scolastica) dei

contenuti della conoscenza, dal territorio alla comunicazione, è indispensabile che si intervenga in

modo deciso, per il semplice motivo che chi lo sta facendo lo sta facendo male. Dobbiamo svolgere una

funzione di mediazione, come impresa della conoscenza, fra ricerca dei saperi e attività economiche e

imprenditoriali. L’incapacità di fare domande spesso è il tranello in cui cade chi ritiene di non poter

ricevere risposte.

Bisogna uscire da una (rassegnata) visione verticistica e parentale della politica e dire: Basta! Ma

dirlo a voce alta stavolta, con un’azione precisa.

Ho riletto recentemente un testo di Pier Paolo Pasolini che uscí su “Nuovi argomenti” nel 1968. È un

Manifesto per un nuovo teatro: il teatro della chiacchiera e il teatro del gesto e dell’urlo, che sono,

dice, le due facce della stessa medaglia, hanno in odio il teatro della parola. Appunto. La parola: il

nostro unico strumento di conoscenza e, se non temessi di essere retorico, direi di obbligatoria par-

tecipazione.

Page 9: Registro dei progetti editoriali

Caro M.,

l’altro ieri leggendo un testo di un amico ho pensato che i grandi talenti in

Italia ci sono stati lungo tutto il ventennio che abbiamo corso con ansia e

malata partecipazione. Ma come mai i migliori si sono sottratti?

Forse non volevano condividere con le istituzioni e le vuote burocrazie del-

l’immobilismo le statiche e corrotte congreghe e le fraterie camorristiche dei

mediatori, figure sempre piú presenti, perdona il mio mantra, con aggressività

da competizione, ma senza competenza. Figure, o meglio figuri, che “determi-

nano” il mercato culturale comportandosi, piccoli come sono, da infimi diavoli

(come sai bene Satana è colui che divide), che vogliono governare quella massa

informe e “anarchica” dei privi di talento, degli schiavi dell’opportunismo,

perciò dei soggetti “senza intenzione”.

Sono stati favoriti mediatori e agenti che possono produrre qualche nientità

solo seguendo le opportunità di soggetti privi di talento che, respinti dalla

comunità di coloro che vivono l’espressione artistica e culturale come una op-

pressiva e gioiosa necessità (una tigre che ti divora e ti salva), vengono

giocati e impiegati nei diversi ruoli dalle università delle arti e delle

scienze della comunicazione.

Questi mediatori hanno distrutto la critica e anestetizzato il pubblico (P.P.P.

aveva colto l’omologazione prima di tutti e gli insulsi della neoavanguardia

andrebbero letteralmente presi a schiaffi), hanno torto ogni “differenza” con

la forza della volgarità. Intendo con la squallida arma della notorietà.

La fragilità morale e la prepotenza emotiva degli “artisti” hanno fatto il

resto.

La situazione, fanghiglia e sirene omeriche della visibilità, è davanti agli

occhi di tutti, chi non la vede o partecipa al banchetto (quindi provo per

questi orrore e commiserazione) o non ha gli strumenti per partecipare a questa

supposta discussione.

Ora bisogna parlare solo di ciò che come un macigno si è depositato nella no-

stra consapevolezza, ma che spesso la maschera ipocrita, consolandoci, ci fa

dimenticare.

Ogni altro programma è chiacchiera, risentimento, vuoto a perdere. E io in

questi vent’anni di tempo, volevo dire di denaro, ne ho perso fin troppo.

Ora bisogna pronunciare solo una lunga serie di no, no, no. Siamo stanchi di

tutta questa merda, non possiamo piú deglutire perché, come diceva quello,

“abbiamo una gola che canta”.

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Ma il vostro parlare sia sí, sí; no, no;poiché il di piú viene dal maligno.Matteo, 5, 36-37

La vita richiede utilità, però concede ai suoi favoriti l’esperienzadella libertà dallo scopo. È da qui che nasce ogni civiltà. Hans Blumenberg

A proposito del talento

L’editore è ciò che progetta.L’editore è l’insieme dei suoitentativi e dei suoi fallimenti,delle sue proposte e dei suoirifiuti. Le coordinate dello spazioeditoriale sono la ricerca di unacomunità e il rigetto dellecongreghe, l’affermazione e la negazione. L’editore ècontinua mente chiamato a scegliere, a distinguere. I sí e i no non sono maiindifferenti. E si nutrono avicenda, come in queste duelettere: l’affermazione contenutanella stesura di un progetto è anche una ferma negazionedell’esistente e delle sue inerzie.La pronuncia netta, scandita, di tutti i no irrinunciabili, è la premessa necessaria perché i progetti futuri possano nascere,liberi dai condizionamentidell’autoinganno.

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Gli idioti di famigliaGenealogia

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“In Italia gli editori sono quasi tutti figli, piú bravi e meno bravi, bravi e senza tantigrilli come Garzanti, o bravi e sfortunati come Federico Gentile.” Lo scrive CesareGarboli, dentro una parentesi. In un articolo dedicato a Gian Giacomo Feltrinelli,confrontando il destino dell’editore milanese con quello di altri figli: Giulio Einaudi,figlio di Luigi, senatore del Regno prima ancora che Presidente della Repubblica; Alberto Mondadori, figlio dello squalo Arnoldo. Gian Carlo Ferretti ha dedicato ad Alberto Mondadori, ai suoi tentativi di usciredalla casa del padre, un saggio che si intitola Alla sinistra del padre. Seduto alla suasinistra, salvato (cioè dannato) dai soldi del padre, Alberto si è avviato verso l’auto-distruzione. Non prima però di aver inventato una casa editrice geniale e profetica,Il Saggiatore, gestita sempre sull’orlo del baratro economico, firmando cambiali “ababbo morto”, con l’obbiettivo preciso (inconscio) di uccidere il padre: cultural-mente, e politicamente.Del resto, i fatti dell’editoria avvengono (sono avvenuti forse, fino a ieri) dentro unacasa. È stata una faccenda di famiglia, oltre che di famiglie. Per intuire il destino diun figlio occorre capire ogni volta, dice Garboli, in che rapporto sta il nome rispettoal cognome. Se l’individuo aderisce al casato, o se sdirazza. Se sceglie l’ortodossia, osfida il rogo tentando l’eresia. Ogni famiglia ha il suo idiota: ma la balbuzie di Flau-bert e l’epilessia del principe Myskin possono essere una scelta. Gian Giacomo e Alberto hanno voluto anteporre, sempre, il nome al cognome. Hanno scelto la bal-buzie e l’epilessia, l’idiozia che li ha persi. Scrivere una genealogia significa scegliersi un posto nel mondo, e un ramo sull’alberodella famiglia. Alcuni “figli” dell’editoria italiana hanno tentato disperatamente diforzare le linee della genealogia (storica, non solo familiare) cui erano stati destinati.Alcuni ci sono perfino riusciti. Piero Gobetti, l’editore giovane, morto a Parigi quando aveva 25 anni, oppone alsoffocamento politico e civile una strategia editoriale. Libri come azioni, parole comefatti. Gobetti accoglie nella progettazione editoriale l’eresia del pensiero. Che fa esplo-dere le contraddizioni dentro il conformismo. Il potere disprezza la cultura e teme ilpensiero: è sempre violento. Le bastonate che uccidono Gobetti rendono fisica la vio-lenza latente. Gobetti ha scelto l’idiozia, rifiutando la sanità richiesta dal padre/patria.Mentre lascia l’Italia, ferito, malato, pensa di fondare una casa editrice europea. La immagina come uno strumento per combattere la minaccia di barbarie implicitain ogni chiusura, in ogni provincialismo. Sono passati piú di ottant’anni: e ancora silotta contro il provincialismo al potere. Ancora si attende che l’Italia comprenda lavisionaria lezione di Gobetti.Antonio Gramsci, l’editore imprigionato, immagina ogni progetto nella piú sterilesolitudine. Si dice parole inaudite. La sua tenacia intellettuale è la metafora di tuttii progetti impossibili: anche oggi che le galere non sono fatte soltanto di sbarre emura scalcinate. Anche oggi che il potere costruisce prigioni fatte di ostacoli econo-mici, di vincoli strutturali, di diseducazione e regressione culturale (letteralmente:analfabetismo). Si può diventare editori idioti attraversando il tempo dilatato di una libreria antiquaria,come quella di Roberto Roversi a Bologna. Un luogo in cui si distilla pazientemente,al riparo dai ritmi incomprensibili della produzione, il sapere trasmesso attraversouna lunghissima tradizione. Si ama il libro nella sua antica, sapiente perfezione ma-teriale. Il poeta Roversi rifiuta ogni compromissione con la grande editoria e distri-buisce le sue poesie gratuitamente, ciclostilandole in proprio. Insegna che i libri sonostrumenti della memoria, ma anche “descrizioni in atto”: chi li fa deve inventare formecapaci di liberare i contenuti da tutti i condizionamenti che minacciano di vincolarli.L’editore, uccidendo continuamente il padre, deve sentirsi orfano a oltranza, chedell’orfanità ha fatto una scala per il suo lavoro fatto di slanci e approssimazioni. Ogni nuovo progetto si costruisce su un’assenza, su un vuoto: individuale e collettivo,privato e pubblico.

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Genealogia

Nel ’64, lasciando “Fischer, fu Suhrkamp”, lei decide di fondare una casa editrice per contoproprio. I suoi ex-capi allora le dicevano: “Bene, Wagenbach, bene, ottima iniziativa. Mavedrà, la sua è un’impresa destinata a fallire.” E invece non avevano ragione [Wagenbachsi mette a ridere]...

“È uno matto”, dicevano di me...

I suoi conti infatti tornavano... Ma come ha fatto?Come ho fatto? Eh, non glielo so dire... non lo so. Era senz’altro, come dire?, una cosafolle... Avevo una professione, avevo un posto, da Fischer appunto, e avevodell’esperienza, conoscevo molti autori, anche perché facevo parte del Gruppo ’471

ecc. Erano delle condizioni di partenza buone insomma. Meno buone però erano lecondizioni finanziarie [ride]. Certo, avevo un padre, ma anche lui non aveva soldi. Mi aveva comunque lasciato in eredità un pezzo di terra che ovviamente avevo subitovenduto. E quel poco che ne avevo ricavato doveva bastarmi. Di rimando, avevo l’ideadi fondare una casa editrice che ristabilisse i rapporti tra est e ovest – un’idea cheallora mi pareva realizzabile soltanto a Berlino, dove poi sono anche andato. E tutti a dire di me: “è completamente impazzito”.

Nel bel mezzo della guerra fredda...Sí, il muro era stato, per cosí dire, appena appena imbiancato. Nel ’64 il muro esistevada tre anni. E niente, tutti a ripetermi che ero un matto da legare... E un po’ avevanoragione. Axel Springer2 dapprima mi abbracciava... [ride, ironico] Axel Springer, il mio amico... Poi quando si è accorto del tipo di progetto che avevo in mente,mi ha lasciato subito perdere... Da allora infatti, i giornali che fanno capo a Springernon hanno piú smesso di mettermi i bastoni fra le ruote... soprattutto negli anni ’70. E anche la Germania dell’Est... dapprima erano entusiasti. Pensavano: “toh, fantastico, un editore comunista”. Poi man mano scoprivano che ero un falsocomunista [ride] e che facevo i libri sbagliati...

Come? I libri sbagliati...Certo, [ride] i libri “sbagliati”... ho fatto i libri “sbagliati”... Biermann, Hermlin,3 perfare due esempi... Hermlin che allora non era pubblicato nella Germania dell’Est...Nella Germania dell’Est! un autore come Hermlin! Non so, si rende conto? La gentetende a dimenticare questo fatto... Ma anche Biermann non doveva essere stampato...

Lei ha per cosí dire pubblicato i “traditori”...Sí, o piú generalmente parlando, ho fatto degli errori strategici [ride]. Ho iniziato la mia carriera pubblicando due autori “sbagliati”... Ed ero solo agli inizi visto che ilmio era, in realtà, un progetto a lunga scadenza... Ma poi anche Bobrowski,4 uno deiprimi autori della mia casa editrice... non poteva considerarsi neanche lui un poeta“in linea” col partito. Era un poeta importante e che in fondo nella stessa Germaniadell’Est veniva trattato con molto riguardo e con molto rispetto... eppure, come dire?,ai funzionari dello Stato non stava bene quello che facevo. Di conseguenza mivietarono l’ingresso, il passaggio... per molti anni non riuscivo a partire da Berlino se non con l’aereo.

Si può dire allora che, almeno all’inizo, lei ha avuto una gran delusione per ciò che riguardaquesto progetto editoriale est-ovest...

Eh sí, proprio cosí...

Lei fra due anni sarà sparito

1 Gruppe ’47, una formazionecreata da Hans Werner Richter, dovesi raccoglievano letterati appartenentia quella generazione di giovani che sitrovava a confrontarsi con la ricostru-zione della vita culturale in un paesecompletamente distrutto, traumatiz-zato, una “Germania anno zero”. Par-tecipavano, o gravitavano attorno alGruppo ’47 autori importanti comeIngeborg Bachmann, Paul Celan,Heinrich Böll, Alfred Andersch e altri.

2 Axel Springer (1912-1985), edi-tore e imprenditore potente e contro-verso, fondatore del conglomeratomediatico Axel Springer Verlag a cuifanno capo numerosi giornali e rivistetedesche. Nel 1966 verrà costruito,quale sede principale della casa edi-trice, un edifico dai molteplici pianisituato in prossimità del muro di Ber-lino, in segno di provocazione e disfida alla Germania dell’Est.

3 Karl Wolf Biermann (1936, Am-burgo), cantautore e poeta. Suopadre muore ad Auschwitz per esserestato un attivista nella resistenza co-munista. A 17 anni Biermann decidedi trasferirsi nella Germania dell’Est.Dopo la pubblicazione con Wagen-bach di una raccolta di poesie dal ti-tolo Die Drahtharfe (L’arpa dal filometallico), il partito lo accusa di essereun nemico dello Stato e gli proibiscequalsiasi partecipazione alla vita cul-turale del paese. Stephan Hermlin (1915, Chemnitz-1997, Berlino), Grand seigneur della cul-tura socialista, “sfingeo fumatore dipipa”. Di famiglia ebraica, Hermlinvive in esilio fino al ’45. Dal ’47 in poivive e lavora a Berlino Est diventandopresto uno dei piú autorevoli autori-promotori della cultura ufficiale delpaese. Con Wagenbach, Hermlin pub-blica, dal ’66 fino agli anni ’90, varitesti di poesia, narrativa, saggistica.

4 Johannes Bobrowski (1917-1965), pur simpatizzando con la resi-stenza antifascista, parteciperà allaguerra e finirà prigioniero in Russia.Negli anni successivi al suo rilascio(1949) acquisterà fama di poeta “trale due Germanie”. B., considerandosi“tedesco” in senso lato, desiderava in-fatti che i suoi libri venissero pubbli-cati in entrambi i paesi.

Un estratto dal dialogo tra Marco Meier e l’editore tedesco Klaus Wagenbach, registrato l’11 febbraio 2007 per la trasmissionetelevisiva Sternstunde Philosophie dell’emittente svizzero-tedesca SF1.Trascrizione, traduzione e note a cura di Fabien Kunz.

Fabien Kunz (Basilea, 1978) hastudiato Letterature romanze alleUniversità di Basilea, di Ginevra e diPisa dove dal 2009 è perfezionandoalla Scuola Normale Superiore.Attualmente lavora come assistente al dipartimento di Italianistica della LMU di Monaco.

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D’altro canto, lei comunque ha resistito. Come è stato possibile? Com’è riuscito a evitare ilfallimento? Non le è mai capitato di perdersi d’animo?

Dunque. Lei mi fa la domanda che fino a oggi mi ha fatto ogni singolo intervistatore.Vale a dire: “ma come fa a esistere ancora? ma non è possibile tutto questo!” [mentre articola la domanda, scoppia a ridere, insieme al suo interlocutore]... e ogni volta rispondo: “ecco, sono la prova vivente del fatto che invece sí, è possibile. Perché vede, davvero, questa domanda... già quarant’anni fa mi si faceva questadomanda: [di nuovo interpreta l’atteggiamento scandalizzato di un intervistatoreipotetico] “come fa a esserci ancora?” Anzi, allora questa cosa veniva formulata intermini molto piú apodittici: “Lei fra due anni sparirà!” Ma lo dicevano anche i mieigentilissimi colleghi, Rowohlt, Montanos... grandi editori, non so se mi spiego.Insomma, entrambi quando capitava mi prendevano da parte e mi dicevano: senti caro, vedi un po’ di metterti con noi che sennò... Ora, Rowohlt nel frattempo ha venduto, Montanos idem... io no. Ci sono ancora.Mentre questi signori facoltosi, questi giganti... Vede, si tratta credo di una questione di atteggiamento. Da un certo momento, se uno è presente, se uno è partecipe, allora i lettori se ne rendono conto e si dicono:“ecco qualcuno che vuole, che ha in mente un’idea”. È che la stragrande maggioranzadegli editori semplicemente non ambisce, non vuole nulla. O meglio, vogliono farelibri e basta. Qualunque cosa. Invece, se i lettori si rendono conto che l’editore vuolequalcosa, che ha in mente un progetto e che questa idea piace ai lettori, allora glirimarranno affezionati. Vanno nelle librerie e – grazie a Dio – chiedono [ride]: “che ha combinato di nuovo quel matto di Berlino? Fa’ un po’ vedere.”

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Lei fra due anni sarà sparito

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Genealogia

Gentile addetto alla cultura,

nel renderci disponibili per l’invio delle copie omaggio richieste, approfittiamo dell’occasione per

condividere con lei, meritoriamente impegnato nell’ambito della promozione culturale, una riflessione

che turba da tempo una casa editrice come la nostra. Rispondiamo a lei per rispondere simbolicamente a

tutti quelli che ci hanno fatto richieste analoghe alla sua, supponendo che una persona attiva in campo

culturale possa recepire l’interrogativo e magari metterlo a frutto, approfondendo il problema.

Quello su cui ci interroghiamo, infatti, è il nesso tra la deriva economicistica che colpisce l’editoria

e la cultura e la frequente richiesta di prestazioni culturali gratuite (nel caso specifico la conces-

sione gratuita dei libri). Viviamo un momento nel quale la sola legittimazione pubblica e sociale del

lavoro editoriale è la sua produttività economica. Il plusvalore è l’unico fattore che redime l’editore

dalla “vergogna” di occuparsi di qualcosa di cosí antieconomico come la lettura. E questo complesso di

adeguamento all’ideologia corrente non può che ripercuotersi sull’impostazione del lavoro editoriale,

sui contenuti, sulle scelte.

Come scriveva Kant all’editore Christoph Friedrich Nicolai, l’inseguimento dell’effimero, del commer-

cialmente collaudato, sacrifica la selezione del valore, prerogativa principale della funzione edito-

riale: “Senonché l’editore per far prosperare il suo commercio non ha bisogno di prendere in

considerazione il contenuto e il valore intrinseco della merce da lui edita, ma deve tener conto del

mercato sul quale i prodotti sempre effimeri della libreria sono posti in circolazione a soddisfare i

gusti, altrettanto effimeri, del giorno e sul quale possono trovare se non durevole, almeno rapido

smercio.”

In questo contesto, chi invece, come noi ci sforziamo di fare, persegue un progetto, accetta le sfide

della ricerca, esplora gli incerti campi del sapere, rischia di rimanere soffocato dalla diseducazione

dei lettori che, assecondati nelle loro tendenze inerziali, gratificati nelle loro pigrizie intellet-

tuali, scelgono il noto e il conosciuto (i gusti effimeri del giorno), e non quello che secondo Sciascia

deve essere il terreno d’elezione di un editore: il poco noto, il mal noto e l’ignoto.

Esattamente speculare e complementare all’inerzia commerciale è quell’altra inerzia spesso alimentata

dalla piú solerte buona fede: l’inerzia del gratuito. Date le difficoltà che incontra sul mercato tutto

quanto è culturalmente valido, tutto quanto è animato da un lavoro serio e non ha come unico obiettivo

la massimizzazione del profitto, si crede che il solo strumento possibile di diffusione sia la gratuità.

In alcuni casi, prigionieri di un pregiudizio idealistico, si pensa che associare il denaro a libri

culturalmente significativi sia quasi offensivo, sacrilego. Questa impostazione purtroppo è il frutto

di un tic culturale, è l’ultima incarnazione dell’equivoco umanistico per eccellenza: l’estraneità

della cultura rispetto ai meccanismi sociali che regolano il funzionamento di tutte le altre attività.

Una malintesa superiorità che si trasforma in ghettizzazione, e che equivale alla neutralizzazione,

all’annullamento.

L’errore ricorrente è pensare che si possa opporre al dispotismo dell’economia il velleitarismo della

gratuità. Occorre al contrario dare solidità economica alle imprese editoriali che si ispirano a un

progetto culturale, perché esse possano prosperare e rafforzare la propria ricerca mantenendosi libere

e indipendenti. I debiti riducono in schiavitú. E i buoni libri che rimangono invenduti impediscono ad

altri buoni libri di nascere.

Scrive l’editore Donzelli nella prefazione al libro A scopo di lucro: “Un progetto editoriale, in una

società come la nostra, è qualcosa, vale qualcosa, solo se definisce un equilibrio con un proprio pub-

blico e dunque con un mercato: e quando i conti non tornano, si fa forte il sospetto che anche il pro-

getto editoriale sia caduco o incoerente o in declino. A meno di voler continuare a pensare che i debiti

degli editori siano piú ‘nobili’ di quelli altrui.”

La nobiltà della gratuità, la nobiltà dei debiti dell’operatore culturale, è un equivoco mortale. Solo

operatori culturali economicamente in salute possono realizzare i propri progetti, e attraverso quei

progetti incidere. Il mecenatismo ha coinciso troppo spesso con la perdita della libertà: beato quel

popolo che non ha bisogno di mecenati (e di copie omaggio).

Nella speranza che lo spirito di questa lettera, propositivo e non polemico, non sia frainteso, inviamo

i nostri migliori saluti

Lettera sulla gratuità

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Caro Giacomino,

ora giuoco una carta pericolosa per la nostra amicizia: ti dico cioè la verità

di quello che penso sulla tua poesia. Non posso nemmeno dire che non mi è pia-

ciuta, perché sarebbe già troppo, essa è semplicemente nulla. È nulla come

ritmo, nulla come immagine, nulla come pensiero, come sentimento, come tutto.

Se già non ti conoscessi, direi, a leggerla, che chi l’ha fatta non ha nemmeno

un’idea di che cosa sia una poesia: e se uso tanta crudezza (avrei potuto dirti

le stesse cose con termini meno precisi), è solo perché non voglio che tu

sciupi con essa una prima raccolta di novelle, le quali, se anche non dovessero

essere piú di Amedeo, sarebbero già in ogni modo una promessa, intesa questa

parola nel suo significato piú confortante. È possibile, caro Giacomino, che

non te ne sia accorto da te? Per un momento, ho pensato perfino che tu abbia

voluto farmi uno scherzo; ma poi, rileggendo, ti ho riconosciuto a qualche in-

ciso. Di una sola cosa ti prego: non è possibile che tu mi creda cosí di un

subito; ma lasciala almeno riposare per qualche tempo e poi rileggila ad alta

voce; vedrai che mi darai ragione. (Almeno lo spero). E pensa che, oltre a es-

sere cosa di cattivo gusto chiudere con una lirica un libro di novelle (pensa

all’opposto, che è la stessa cosa), gli occhi del lettore ci cadono fatalmente

sopra, prima ancora che sul resto del libro; e, pensa che effetto può fare,

quando quello che ti ho detto fosse – com’è – la verità. Una sola cosa voglio

ancora dirti e poi basta: quello che piú disgusta in essa è quella mancanza

totale di senso costruttivo che è propria della nostra Italia d’oggi, per la

quale, senza nemmeno accorgersene, si mescolano le cose piú eterogenee, cre-

dendo di creare un insieme, dove non si fa che dare una nuova testimonianza

miserabile di dissolvimento totale. Pensa, amico mio, pensa a non essere anche

tu uno dei tanti. Hai cominciato bene con Amedeo e con alcune delle tue cri-

tiche, sta in guardia contro le improvvisazioni del genere di questo tuo Con-

gedo; e non scrivere mai una riga che non sia assolutamente ispirata,

necessaria, fatale. Vedi che stima ho di te, se penso che tu possa capire il

significato della parola necessario in arte…

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Paradigma del rifiuto

Il 4 ottobre del 1924 Umberto Saba scrive a Giacomo Debenedetti: allora, un giovane critico e scrittore incerto sulla sua vocazione. Dalla lettera si intuisce che Debenedetti ha mandato a Saba una sua poesia, Congedo, che dovrebbe chiudere la raccolta di novelle alla quale Debenedetti sta lavorando. Il giudizio di Saba è spietato. Prescinde dalla pietas. Amico Giacomino (lo chiama cosí), sed magis amica veritas. La lettera di Saba è un paradigma del rifiuto. Una bussola per l’editore. Che non può avere amici: sola amica gli è la verità. Il rigore. La responsabilità del giudizio. Il compito dell’editore è quello di impedire che una sola parola che non sia “ispirata, necessaria, fatale” vada a ingrossare la glossolalia del mondo. Giacomo Debenedetti ha imparato la necessità di cui parlava Saba. È diventato il critico piú profondo della poesia di Saba, e uno dei critici piú importanti del Novecento. Né della poesia Congedo, né di nessun’altra poesia, resta traccia tra le carte debenedettiane.La speranza è che i rifiuti meditati e sofferti possano ancora, come nel caso di Saba e Debenedetti, produrre chiarezza e consapevolezza. Oltre la sterilità dei rancori. Solo per questo si allineano qui queste lettere. Perché mostrare la distanza che le separa, mostrare la distanza che ci separa dalla scelta incondizionata di ciò che è “ispirato, necessario, fatale”, rinnovi il desiderio di lavorare per colmarla.

Per una nuova idea della funzione editoriale

Che cos’è la peer review?*

Nell’ambito della comunicazionescientifica la selezione dei testi da pubblicare avviene tramiterevisione paritaria, revisioneparitetica o revisione dei pari(peer review): una valutazionefatta da specialisti, che verifica il valore scientifico dei testi ecostringe gli autori al confrontoe al dialogo con la propriacomunità disciplinare diriferimento. Pubblicazioni e premi che non siano passatiattraverso una revisioneparitaria sono guardati consospetto dai ricercatori e daiprofessionisti di molte discipline. Non esiste un testo perfetto. Ed è molto difficile per un singoloautore, o per un gruppo diricerca, riuscire a individuaretutti gli errori o i difetti di unostudio complesso. In un prodottointellettuale nuovo, e imprevisto,spesso solo chi ha conoscenzemolto specifiche riesce a vedereun possibile miglioramento.Sottoporre ad altri il propriolavoro aumenta la probabilitàche i difetti vengano identificatie, grazie a consigli eincoraggiamenti, corretti. Il compito di selezionare e far agire i revisori è quello della funzione editoriale. I revisori devono essere del tuttoindipendenti e, se possibile,anonimi: l’anonimatoincoraggia l’autenticità dellacritica, e previene la parzialitàriverente o interessata deigiudizi. I revisori non lavoranoin gruppo, non comunicano traloro e normalmente non sono a conoscenza delle identità gliuni degli altri. Allo stesso modo,nell’applicazione piú rigorosadella peer review, i revisori nonconoscono l’autore e, viceversa,l’autore non sa da chi saràrevisionato il suo testo. I revisorinon vengono scelti tra i colleghi,i parenti o gli amici dell’autore.In ambito scientifico, ci siattende che i revisori informinol’editore di qualsiasi possibileconflitto di interesse.

* Il testo è stato compilato elaborando e sintetizzando diversi materiali disponibili in rete sull’argomento, da wikipedia ai siti di rivistescientifiche come “Nature” e “Science”, che hanno dedicato al concetto di peer review dossier di approfondimento e discussione.

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Genealogia

Cara S.,

ho mandato oggi ad A. questa e-mail qui sotto. Desidero spedirla anche a te

perché so che la tua attenzione nei suoi confronti è una sincera

convinzione. Io credo invece che A. debba uscire da una specie di romanticismo

mortifero e un po’ presuntuoso, da una gabbia letteraria non sempre di prima

mano, intendo dire: non sempre l’eco che sento dentro il suo testo è di una

scrittura di prim’ordine.

Il talento è indubbio, e il finale notevole, ma non basta: non credi debba li-

berarsi dai giochi del Manfred? Perché anche Byron spesso (se letto male) è

appiccicoso e dolciastro come una seduta spiritica tenuta da un mago di pro-

vincia (con le unghie sporche e la tunica di raso).

La vecchiezza è una Roma senza burle e senza ciance, che non prove esige dal-

l’attore, ma una completa autentica rovina, diceva Pasternak (tradotto dal

grande e dimenticato Ripellino, certo, sono tempi questi che onorano l’immon-

dizia, maledizione!).

Ecco, toccare la morte e la merda (ho letto troppo Bataille per non dirlo) è

ancora piú difficile che toccare il corpo che invecchia.

La leggerezza della tua scrittura non può non sentirlo, la tua principesca

arte rabdomantica non può non saperlo.

Il rasoio del dolore deve tagliare, non può far altro che tagliare, tagliare

senza compiacimenti. E raccontare il proprio nulla nullificante (che desidera

il nulla) lascia il tempo che trova, un tempo infame, appunto. Come il nostro.

Caro A.,

sebbene sia un momento in cui non riesco nemmeno a telefonare a mia figlia, è

sempre troppo presto o troppo tardi per farlo, non dico a respirare che ho di-

simparato da un pezzo, ho letto il tuo testo, che mi hai inviato il 5 settem-

bre, e visto i video nel tuo sito.

Ho letto con trasporto il dattiloscritto (che ha scavalcato in nome dell’ami-

cizia otto bozze pronte da mesi di oltre duemila cartelle), e sebbene io l’ab-

bia letto con tanta convinzione, avvertendo una sorta di partecipazione, devo

dirti subito che non possiamo pensare, per quanto ci riguarda naturalmente, a

un progetto editoriale, né cartaceo né in dvd.

Prima ancora di definire una possibile linea di condotta d’ordine commerciale

con la nostra società di promozione, ho voluto condividere il tuo lavoro con

i “lettori”, i coordinatori della nostra collana, che hanno confermato la mia

intenzione, trasformandola pertanto in una ferma decisione.

Mi rincresce ovviamente doverti dare questa notizia, ma perlomeno sono soddi-

sfatto di averlo fatto subito come mi avevi chiesto, malgrado il mio dispiacere

per la tua inevitabile delusione. Preferisco comunque dolermi per una scelta,

piuttosto che praticare l’untuosa e molle e vile amicizia mandolinista ita-

liota.

Il risentimento, e talvolta il rancore in alcuni, che provoco con i miei sereni

“no” non mi migliorano, ma mi auguro possano arricchire le loro prove ulte-

riori, quelle che verranno.

I revisori riportano all’editore la loro valutazione del testo,insieme ai suggerimenti permigliorarlo. L’editore comunicai commenti all’autore, e intantoli analizza per decidere sepubblicare o meno la proposta.Quando un editore ricevecommenti molto positivi e moltonegativi sulla stessa proposta,spesso sollecita una o piúrevisioni aggiuntive persuperare l’incertezza.L’autore può replicare allecritiche dei revisori con unaconfutazione convincente. Se un editore non si sente sicuronel valutare la persuasività di una confutazione, può sollecitare una risposta al revisore che aveva mosso la critica. A volte autore erevisori si trovano a discuteresu un punto controverso deltesto: anche in questo caso,però, i revisori e l’autore noncomunicano direttamente. Alcune riviste mediche(seguendo il modellodell’accesso aperto) hannopubblicato in rete la genealogiadi ogni articolo: dallacandidatura originale ai rapporti dei revisori, ai commenti degli autori, ai manoscritti revisionati.La revisione paritariasottopone il lavoro o le idee di un autore allo scrutinio di uno o piú esperti delmedesimo settore. Consente a un’idea di crescere edi svilupparsi collettivamente.Spersonalizza il sapere, lo colloca in uno spaziorelazionale. Gli scienziatisolitamente attenuano l’ideaindividualistica di scoperta, o invenzione (l’inventore, del resto, etimologicamente,trova qualcosa che esiste già). Il progresso scientifico non è puntiforme, non avanza per esplosioni: è un processocomunitario, che si rafforza per sedimentazione.La revisione paritaria, e la suaattendibilità, si fondanosull’integrità della comunitàscientifica. La soggettività dei recensori non è eliminabile, cosí come non è eliminabile il ruolo dell’autore, in tutte lesue declinazioni. Ma le pratichedi condivisione devonorappresentare un orizzonteverso il quale tendere. In giococ’è una concezione del sapere.Un movimento: da un’ideaproprietaria, autoriale,privatistica del sapere, a un’idea comunitaria,plurale, condivisa, pubblica.Compito dell’editore, sempre di piú ora che la tecnologiarende i contenutimultidirezionali, sarà quello di incoraggiare, governare,garantire questo movimento.

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L’editore si è perso in questa vertigine plurale. Ossessionato, ha deciso che avrebbe dovuto pubblicare l’opera omnia di questo ignoto.Ma a nulla è valsa una ricerca accurata, che ha coinvolto anche i responsabili delle biblioteche nazionali e di diverse Università. L’autoresembra non essere mai esistito. In uno scatto di gioioso (e servile) opportunismo qualcuno ebbe l’idea di affiggere delle locandine inluoghi di aggregazione culturale e cultuale. Ma il numero di telefono dell’editore penzola ancora da quei fogli ciclostilati. Nessuno l’hastaccato. Questa è la nostra ultima preghiera.

Il contenuto del taccuino sembrava un racconto, mutilato da lacune e cancellature. Il personaggio principale di questo tormentatoracconto si chiamava Giuseppe Pontiggia, come lo scrittore. Talvolta parlava in prima persona, talvolta in terza. In alcune oc-casioni diceva “tu” e anche “noi”. Era stato imprigionato dentro un talent show, e doveva insegnare a scrivere a un gruppo digiovani aspiranti qualcuno, o qualcosa. Giuseppe Pontiggia, protagonista di questo racconto, insegna attenzione. I suoi (s)consiglidi scrittura sono frammenti di un’etica (tecnica) della parola.

SuperstizioniChi pensa che scrittori si nasce, sbaglia. Troppi libri, troppi giornali, ci dimostranoil contrario. Sembrerebbe allora che lo scrivere – come il suonare uno strumento oil disegnare – presupponga l’acquisizione di una tecnica. E anche un atteggiamento diverso rispetto alla parola.

Arrivano le ideeC’è un personaggio del mio ultimo romanzo, una donna anziana, che subisce una violenza inattesa da parte diun uomo con molti anni meno di lei. Violenza che la stupisce, ma alla quale non si ribella. Io ho scritto: “Perché era arrivata a quell’età in cui ci sirassegna non solo all’inevitabile, ma anche all’evitabile.” Che la vecchiaia sia l’età in cui ci si rassegna all’inevi-tabile è un luogo comune non molto vero, perché in realtà non ci si rassegna mai all’inevitabile. C’è l’episodiodi un grande oratore russo che, quando i medici gli avevano detto che doveva morire, si aggirava per Mosca di-cendo: “Come osano dire questo!”Quindi non è vero che con la vecchiaia ci si rassegna all’inevitabile, comunque si pensa questo. Ma l’altra idea,quella che ci si rassegna anche all’evitabile, mi è venuta dal costrutto retorico: “non solo, ma anche”. E, in effetti,a una certa età ci si rassegna anche all’evitabile. Perlomeno non ci si dà piú tanta importanza. Questo è uno deitantissimi casi in cui il gioco retorico serve non solo a rendere piú efficaci le idee, ma a trovarle. È come unarete che viene gettata.

Mi avevano chiesto, anni fa, un articolo sullo scrittore Jorge Luis Borges. Io avevo molta resistenza a parlarneperché lo consideravo proprio un grande autore, ma c’era in Italia la cosiddetta moda di Borges. E la cosa che

andavano ripetendo di lui è che meritava il premio Nobel. Ogni anno c’era questorito amplificato dai giornali: a Borges non viene dato il Nobel. Era considerataun’onta, non si capiva perché avvenisse. Vi dirò la prima idea che mi era venuta inmente. Tra l’altro, le prime idee sono in genere le piú deboli. Come diceva FranzKafka: “Le prime idee sono sbagliate.” Si affronta il problema con un’eredità di luo-ghi comuni che si affacciano alla memoria prima di ogni altra cosa. Quindi bisognametterli a distanza, lasciarli decantare. L’idea che mi era venuta subito era, appunto banalmente, che a Borges non si con-segnava mai il Nobel. Troppo ovvio. La retorica, allora, mi è venuta in aiuto. Scrissi:“Due sono ogni anno i premi Nobel della letteratura: uno è quello che viene asse-gnato al vincitore, l’altro è quello che non viene assegnato a Borges.” Ma andiamo a vedere i miei appunti. Come avevo cominciato?“Mi sono chiesto piú volte da cosa dipenda lo straordinario successo…” Cosa c’è chenon va in questo primo tentativo? “Mi sono chiesto…” non va bene perché al lettorenon interessa che io mi chieda. “… piú volte” è un’aggravante. E poi: “… da cosa di-penda lo straordinario successo…”.

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Etica e tecnica della parola

Da anni riceviamo lettere da un editore disperato, nostro collega (di editoria, e di disperazione).Insegue un autore di cui non conosce il nome, né il volto. In redazione (la sua) è arrivato un tac-cuino, graffiato, e dilavato. L’editore è stato folgorato da un incipit, la prima frase scarabocchiatasul taccuino: Io che ho tanti ii quando dico io intendo riferirmi al vostro, perché del mio meglionon parlarne. Casomai parlatene voi.

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Qui c’è un congiuntivo, tempo che già segmenta i lettori. Non per altro, il conduttore di una trasmissione te-levisiva una volta mi disse: “Io non uso mai un congiuntivo perché mi diminuisce l’ascolto.”Tornando a Borges, la mia prima versione continuava con: “… da che cosa dipenda lo straordinario successo…”.Se avessi cominciato con una disgrazia, avrei raccolto qualche interesse. Ma “lo straordinario successo” già al-lontana buona parte dei lettori. Vediamo un altro attacco che ho scartato: “La tenacia con cui l’Accademia Svedese nega ogni anno a Borges…”.Qui è una catastrofe perché inizio con “La tenacia…”. In Italia è una parola infausta, soprattutto dopo che VittorioAlfieri si legò alla sedia per imparare i classici. “… con cui l’Accademia Svedese nega ogni anno…”. Qui con una pa-rola poco simpatica (Accademia Svedese) porto il lettore in una problematica che gli è completamente estranea.

Terzo tentativo scartato: “Da almeno tre lustri sono due i premi Nobel della letteratura…”. Qui non va bene “Tre lustri”. “Lustro” è una parola di derivazione classicistica che sta per cinque anni, e ha una connotazionetroppo letteraria. Quindi è come una zaffata di gelido vento neoclassico che allontana incompetenti e compe-tenti. Perché i competenti, che sanno il significato di “lustro”, capiscono di trovarsi di fronte a un discorso dicerti scrittori classicheggianti. Quelli che passano l’estate in Sardegna e dicono: “Ho trascorso un’estate condue contubernali, sodali di gioventú.” Questo tipo di linguaggio piace a certe persone. È lontanissimo dai mieigusti, anche se sono innamorato dell’antichità classica. Questo linguaggio classicheggiante lo trovo comico.“Contubernale” per dire “compagno di tenda”. Sono cose scolastiche. In ogni caso, contrarie all’effetto che iovoglio ottenere.

A proposito degli effetti che si vogliono ottenere, un principio importante da acqui-sire è l’economicità dello stile. Lo stile deve essere proporzionato agli effetti che sivogliono perseguire. “Cielo” è meglio di “cielo azzurro”, perché cielo azzurro è uncliché. La parola nuda è meglio di un aggettivo cosí generico. Uno scrittore baroccoadopererà invece sei aggettivi. Ma la cosa che bisogna capire è che non ne può ado-perare sette.

Ma perché funziona la versione finale del mio articolo su Borges? Perché comincio:“Due sono ogni anno…”. Io comincio con un numerale (due). Si riferisce a cosa?Non si sa. Bisogna andare avanti per capire dove va a parare la frase. È una costru-zione a chiave, che si risolve al termine del percorso fraseologico, come facevanospesso i latini. Se dico “Due sono ogni anno i premi Nobel…”, uno non smette di leggere dopo“Due…”. Che cosa succede dopo “Due…”? “Due sono ogni anno…” anche qui offro un ulteriore incentivo ad andare avanti.“… i premi Nobel della letteratura:” qui il lettore prosegue perché trova il due punti.La prima frase gravita verso il due punti, come è tipico nella costruzione retorica.Lo si nota molte volte anche nel linguaggio orale. Per esempio, quello dei nostri po-litici, che hanno una forte educazione retorica. Purtroppo, molte volte, non sonoall’altezza di questa educazione.

Come espone la sua tesi un politico? Il problema si articola in tre punti: questo, questo e questo. E sono abba-stanza persuasivi perché quel due punti a cui segue una organizzazione cosí precisa, razionale, logica, asimme-trica, dà l’idea di una competenza che molte volte non hanno.

Avari di paroleL’aggettivo deve aggiungere. Se non aggiunge, toglie. Oltretutto, gli apparenti sinonimi si indeboliscono a vi-cenda. Se io dico: “È un uomo mite”, comunico qualcosa di molto forte. Se dico: “È un uomo mite e buono”banalizzo, diluisco l’idea. Perché buono è un aggettivo molto forte. Fëdor Dostoevskij quando ha scritto L’idiota dichiarò: “Avevo in mente di rappresentare un uomo positivamentebuono.” Questa era una sfida che sentiva con molta intensità. Cristo, quando gli hanno detto “buono”, ha risposto: “Perché usi buono? Buono è solo il Padre mio che è neicieli.”

Genealogia

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Libri perduti ed esemplari unici

Chi abbia anche solo sfogliato la Biblioteca di Fozio, “patriarca recensore” di Costan-tinopoli, o il catalogo ottocentesco dei Livres perdus et exemplaires uniques dei due bi-bliografi francesi Joseph-Marie Quérard e Gustave Brunet sa bene che tra gli “statimolteplici dell’essere” in cui può collocarsi un libro, il piú grossolano e vile è senz’al-tro quello dell’esistenza empirica. L’esser stampato, per un libro, equivale alla Cadutanel tempo: il codice Isbn è il marchio dei dannati. Un libro perduto è invece un libroredento, giacché è riconsegnato felicemente al mondo dei possibili. A quel mondoacquatico di pura potenza, d’altronde, si rivolgevano gli editori del Cinquecentoquando, per sfuggire alla censura ecclesiastica, indicavano Atlantide come luogo distampa. Ebbene, il continente sommerso è il luogo di stampa dei tre libri – perdutio sognati – di cui si fornisce, qui di seguito, una breve scheda bibliografica.

Noi però l’abbiamo talmente svilito che usiamo buon uomo per dire uomo innocuo,inoffensivo, di poco conto. Persona onesta ma di non grande valore. Dire invece“uomo buono” è forte. Dire “uomo mite” è abbastanza insolito e molto forte. Ma sediciamo “uomo mite e buono” è un disastro espressivo. A volte siamo suggestionati dai cliché, allora usiamo due aggettivi, tre aggettivi. Op-pure usiamo l’avverbio: “uomo estremamente mite e buono”. Questo è il crollo dellafrase, perché diluisco troppo il concetto. Gli avverbi “estremamente”, “assoluta-mente”, “incredibilmente”, sottraggono energie, spostano l’attenzione sulla loro ov-vietà. Ho provato a fare un calcolo, e ho visto che – se pure sono attentissimo allinguaggio – quando rileggo trovo che il 70% degli avverbi andrebbe eliminato. Dovremmo attenerci alla regola che l’avverbio è raramente funzionale. Ma quandolo è, diventa indispensabile. Altrimenti nuoce, perché distrae. Se dico: “È una gior-nata estremamente calda” l’accento cade su estremamente. Se dico: “È una giornataafosa”, si sente qualcosa. “Estremamente afosa” è una banalità. Perché già l’aggettivo“afosa” dice moltissimo. Non parliamo poi di aggettivi come “incredibile”. Noi siamo disposti a credere tutto.Quindi se ci dicono: “Sono andato in un ristorante incredibile”, il nostro interessecala subito. Oppure se sentiamo: “Ho passato delle vacanze incredibili”, pensiamoche sono state vacanze normalissime. E una frase come: “Ho conosciuto una donnaincredibile”, ci fa immaginare una donna con un fascino uguale a zero.

Ricordatevi che con questo uso drogato del linguaggio rischiate di ottenere l’effettocontrario. A volte droghiamo il linguaggio, come ai tempi dell’inflazione. Quantomeno conta la parola, tanto piú la si moltiplica ottenendo un ulteriore deprezzamento. Invece la parola va recuperata.Devo dire che i pubblicitari hanno un uso molto accorto della parola. Perché ci sonodi mezzo investimenti di soldi. C’è una verifica da parte del consumatore, ci sonodei riscontri. I letterati hanno di solito un certo gusto della parola, ma hanno ancheuna profonda insicurezza nei suoi confronti. Dunque sono molto verbosi, e hannobisogno di continue chiarificazioni. Le frasi, cosí, diventano pesanti. Manca loro laleggerezza tipica della prosa dei grandi scrittori. I quali – per dirla con Stanisław Lec– “costruiscono frasi provvisorie nell’eventualità di un terremoto.”

Guido Vitiello

Etica e tecnica della parola

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Guido Vitiello (Napoli, 1975) vive e lavora a Roma. Ricercatorepresso la facoltà di Scienze dellacomunicazione (La Sapienza),collabora con “Internazionale”, “Il Riformista” e “Il Foglio”. Ha scritto, tra le altre cose, La commedia dell’innocenza, editoda luca sossella editore nel 2007.Cura il blog UnPopperUno(www.unpopperuno.net).

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2008 Guido VitielloLa commediadell'innocenza.Una congettura sulla detective story

Sono tre operette satiriche sulla nostra vita culturale, e c’è da credere che si siano rifugiate loro stesse nei giar-dini della preesistenza, cosí da scampare all’orrore che ci circonda.Il primo pamphlet è un’allegoria in forma di racconto gotico, che s’intitola The Portage to San Cristóbal of M.H.La storia del pensiero del secolo scorso è qui letta sulla falsariga del Nosferatu di F.W. Murnau. Il nostro malin-conico e meditabondo vampiro, rettore a Friburgo, si unisce in tregenda a una genía di orride creature dellanotte – di Valpurga, dei lunghi coltelli, infine dei cristalli – e della nebbia. L’esorcismo arriva tardi ma arriva,e i mostri finiscono impalati a Norimberga. Non il nostro vampiro filosofo, che lascia il suo capanno nella Fo-resta Nera e su una nave altrettanto nera, dalla stiva carica di topi e di bare e di terriccio, vira alla volta di Parigi.Qui è accolto con grandi onori, e diffonde il suo contagio mordendo sul collo molti philosophes piú o menoscamiciati, i quali veleggiano a loro volta verso l’America, dove la peste si estende fino a coprire l’intero spettrodelle scienze umane. I sintomi sono stati piú volte elencati dalla semeiotica medica: chi è morso dal nostrovampiro prima discioglierà tutte le scienze e le dottrine nei vapori della filosofia; poi frantumerà ogni singolaparola sotto il pestello dell’etimologia; infine sarà incapace anche di scrivere “mamma” o “gatto” senza qualchetrattino allusivo – “m-amma”, “g-atto”: allusivo di cosa, neppure lui saprebbe dirlo piú. Non riveliamo al lettoreil grandguignolesco finale, ma ci pare giusto fargli sapere che l’anonimo autore del pamphlet, per sottrarsi alcontagio, si diede con grande soddisfazione al commercio dei grani.

Qualche notizia, invece, ci è pervenuta sull’autore dell’ultimo libro, un giovane ci-leno che ha fatto una brutta fine negli anni di Pinochet: desaparecido lui, desaparecidoil suo libro. Si tratta di una cupa fantasia profetica che lo tormentava ogni notte mache egli stesso censurava, ritenendola – forse a ragione – un incubo reazionario. Allafine, quasi di contraggenio, si risolse a metterla nero su bianco con il titolo La sombradel General. In essa, la vita culturale dell’avvenire è ridotta a una ripetizione spettralee senza vita dell’allegra e caotica bohème degli anni di Unidad Popular. Un carnevalecoatto e perenne, dove stuoli di ragazzi dagli occhi spenti – molto simili ai capelloni de-scritti in quegli anni da un poeta italiano – sciamano da un festival a un reading, da unreading a un book party, da un book party a un poetry slam, e da un poetry slam di nuovo a unfestival, senza mai passare per un libro. Tutto diviene evento, e nulla accade piú. Ebbene,nella truce fantasia il poltergeist del Generale – invisibile, come ogni spettro: segnalatoperò dal mantello nero svolazzante e dagli occhiali fumé – piomba su questi ritrovi e,come nelle retate dei suoi anni terribili, mette a soqquadro tutto. Salvo accorgersi chenon ci sono piú subversivos, e che quei pochi che c’erano sono morti piú di lui.

lucasossellaeditore

Guido VitielloLa commedia dell’innocenzaUna congettura sulla detective story

Il secondo libro che incontriamo nel mondo dei possibili è un terrificante raccontodi science-fiction, certo una variazione sul mito del Golem, ma il lettore avveduto vitroverà un’eco di capolavori del genere come The Day of the Triffids o The Body Snat-chers. Vi si descrive un circolo accademico, folto di bulgari e parigini, che dagli anniSessanta coltiva un’idea all’apparenza innocua: che i testi, cioè, abbiano poco opunto a che fare con il mondo al di fuori di essi, e alla fin fine nemmeno con il loroautore, dato per morto o per vacante. Questi apprendisti stregoni non immaginanonemmeno lo scenario apocalittico suscitato dalle loro teorie: romanzi e film, opered’arte e poesie, non appena apprendono che è stata loro concessa, per grazioso de-creto, l’autonomia ontologica, si sciolgono dai loro legacci e vagano impuniti per lestrade della grande città, divorando quel che resta del mondo reale, compresi i sud-detti accademici. I maestri delle scuole sottili finiscono orribilmente spolpati, chidalla Summa Theologiae, chi dalla Genealogia della morale, chi da Pinocchio. Il raccontoporta, per titolo, L’invasione degli Ultratesti ed è firmato con l’oscuro pseudonimo diFrank Morimondo.

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NOSTALGIA DEL PRESENTE In quel preciso momento l’uomo si disse:che cosa non darei per la gioia di stare al tuo fianco in Islanda sotto il gran giorno immobile e condividere l’adesso come si condivide la musica o il sapore di un frutto. In quel preciso momento l’uomo stava accanto a lei in Islanda.Jorge Luis Borges

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Onore a King Kong, il film di consumo che appena all’inizio degli anni Trenta delsecolo passato aveva spettacolarmente annunciato il punto di catastrofe della civiltàoccidentale, fissando in un’icona indimenticabile il rapporto tra miti e tecnologia:Kong – la “grande scimmia” delle origini preumane – precipita dall’Empire StateBuilding, il grattacielo piú alto del mondo, e celebra il suo lutto nella metropoli piúpotente della terra. Precipita abbattuto dal desiderio che lo ha umanizzato, civiliz-zato; desiderio in duplice forma: quella di corpo – che da aperto alla sessualità senzastoria, smisurata e disumana, si fa affettivo – e quella di tecnologia di guerra, che alpari della leggenda di Troia ha per pretesto la Bellezza. Crolla e muore nel vuoto,ma in questo atto non voluto si rigenera. Strappato al suo incredibile mondo origi-nario, si fa mondo credibile, appartenenza profonda e insieme superficiale all’ordi-nario, al quotidiano. Da finzione mitica a finzione mediale. L’animale – cadaverecircondato dalla folla metropolitana dei curiosi – scavalca l’umano nella propriamorte e si fa già post-umano. Si lascia davvero vedere, non piú come carne che muorema carne viva, un sentirsi da dentro, dentro l’agire comunicativo del mondo. Ecco il motivo del titolo da me scelto per questo saggio sul fantastico. Tuttavia, alloranon avrei mai potuto immaginare che – l’11 settembre 2001 – la scena si sarebbe ri-prodotta nella realtà contemporanea esattamente nello stesso luogo simbolico e conil medesimo olocausto di carne umana.

Se do uno sguardo alla mia evoluzione1 e alla mèta raggiunta finora, non mi lamento,né mi dichiaro soddisfatto. Con le mani in tasca, la bottiglia sulla tavola, me ne stomezzo sdraiato e mezzo a sedere sulla mia seggiola a dondolo guardando fuori dellafinestra. Se vengono visite, le ricevo come si conviene. Il mio impresario è nell’anti-camera; se suono, si presenta per sentire cosa ho da dirgli. La sera c’è quasi semprespettacolo, e io ho successi difficilmente superabili. Se a tarda notte torno a casa,dopo banchetti, riunioni scientifiche, cordiali trattenimenti con amici, una piccolascimpanzé, mezza addomesticata, mi attende, e io me la spasso con lei alla manieradelle scimmie. Di giorno non la voglio vedere perché ha negli occhi lo sguardo spi-ritato degli animali ammaestrati; io solo me ne accorgo e non lo posso sopportare.Nell’insieme sono comunque riuscito a ottenere quel che volevo. Non mi si dica chenon ne valeva la pena. Del resto non chiedo nessun giudizio umano, non voglio chedivulgare delle cognizioni, non faccio che riferire. Anche a voi, illustri signori del-l’Accademia, non ho fatto che una relazione.Franz Kafka, Una relazione per un’accademia

Nel 1979 Alberto Abruzzesetenta, attraverso il libro La grande scimmia,un’indagine sulle “produzionidel fantasticare”. Gli apparatidella grande industria si sonocollocati all’internodei processi di produzionedell’immaginario. Il fantasticoindustriale di massa si popoladi mostri che alludono al post-

umano e fanno riemergere la memoria atavica del pre-umano. L’incontro tra il passato ancestrale e il futurosul quale incombe il caosavviene con King Kong, lagrande scimmia. Nel 2007,ventotto anni dopo la primaedizione, il saggio di AlbertoAbruzzese torna nelle librerie.Gli occhi della grande scimmia

ci osservano dalla copertina.Ci interrogano. Ci avvertono cheil mostro, il disumano, è sempresul punto di riconquistare lospazio dell’uomo, che si credeal sicuro nelle fortezze illusoriedell’evoluzione. L’uomo cheaccelera ciecamente lungo la strada del progresso ritrova, alla fine della corsa, lo sguardoanimale della grande scimmia.

Nostalgia del presente Lo sguardo della scimmia

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2007 Alberto Abruzzese La grande scimmia. Mostri vampiri automi mutanti. L’immaginario collettivo dalla letteratura al cinema e all’informazione

1 Chi parla è una scimmia, al terminedel suo percorso di umanizzazione.

☛ Alberto Abruzzese

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Si parla molto del futuro del libro. Ma il libro, come scrive Jean-Luc Nancy, non è un oggetto:è una relazione complessa. Le trasformazioni tecnologiche rendono lo spazio di quella rela-zione sempre piú affollato di attori, di forze, di strumenti. Credi che sarà ancora possibilecontinuare a chiamare libro i nuovi tipi di relazione che si organizzeranno intorno all’attodella lettura? E come descriveresti il futuro di questa relazione?

Concordo con la definizione e penso tuttavia che sia necessario astenersi dal preve-dere il futuro, almeno in questa fase. Vedo due processi completamente diversi ingioco, con scarse relazioni reciproche: da un lato il processo di “digitalizzazione”dell’editoria libraria e dall’altro la ricerca sul futuro del libro come “dispositivo” (tec-nico, concettuale, paratestuale, multimediale ecc.). Il primo di questi due processiè una realtà, il secondo è una linea di ricerca che risale almeno ai primordi della di-scussione sull’ipertestualità. Ricordo, per esempio, il convegno su The Future of theBook da cui è venuto fuori il libro curato da Nunberg, diciassette anni fa...

Come descriveresti le caratteristiche del lettore che avrà attraversato la mutazione tecnologicae cognitiva in atto?

Anche in questo caso credo sia meglio declinare l’invito ad anticipare. Oggi sap-piamo molte cose sul pubblico dei social network, sui nativi digitali e sui barbari diBaricco. Ma che tutto ciò abbia a che fare con il “libro”, beh questo lo lascerei deci-dere ai processi di variazione, selezione, stabilizzazione dei prossimi anni/decenni.Oggi – come diceva Umberto Eco nel 1964 – riusciamo a fare al massimo la teoria digiovedí prossimo e io la trovo poco interessante.

In che modo deve organizzarsi un editore? Quali sono i compiti, le urgenze, le occasioni perun editore che si prepara ad affrontare la mutazione?

Per gli editori si tratta di una mutazione nella struttura produttiva e distributiva dellibro. E soprattutto si tratta di una differenza nel modo di progettare le strategie dimarketing (in senso largo) del prodotto editoriale. Giocando con Kotler, direi cheoggi il nocciolo della trasformazione è nelle ultime tre “p” della strategia di marke-ting: prezzo (che finalmente può aprirsi a formule nuove e creative), punto vendita(distribuzione), promozione (comunicazione in senso lato). Molto meno si potràagire sul lato del concetto di prodotto. Sebbene anche quest’ultima sia una frontierada tener viva con un po’ di ricerca, sperimentando con i nuovi device di lettura e conle loro potenzialità.

L’altro versante della lettura è la scrittura: la trasformazione della relazione-libro coinvolgerànecessariamente anche l’autore. In che modo? Con quali opportunità? Con quali rischi?

Già, come riscriverebbe oggi Foucault il suo saggio Che cos’è un autore? Davvero nonlo so... Volando molto piú basso, mi pare che oggi il dibattito sia tutto concentratosulla disintermediazione come strumento per aumentare i margini dell’autore.Credo si tratti di una svista colossale. Il nuovo mondo distributivo della rete eliminaun costo e ne crea molti altri che richiedono competenze e strategie creative nuove:la riproduzione digitale costa zero (il che non è poco), la distribuzione in un canale(vedi Amazon Store) con strumenti di raccomandazione automatici è invece un com-pito impegnativo. Certo, non è detto che la gestione delle strategie distributive digi-tali rientri nelle competenze dell’editore. Guardando al panorama italiano loescluderei. Questo piú che un’opportunità a me pare un problema per l’autore.L’autore italiano non può contare su competenze verticali profonde sul digitale daparte dell’editore. Come dice un mio collega editore, in Italia gli editori non hannopersonale che abbia studiato corsi di “digital publishing” alla Columbia University.Quindi partiamo svantaggiati nelle strategie di marketing.

Dentro la mutazione

? Intervista a! Giulio Blasi

Giulio Blasi (Bologna, 1964) è laureatoin Filosofia e ha conseguito undottorato di ricerca sotto la direzionedi Umberto Eco. È l’amministratore di Horizons Unlimited srl, società(attiva dal 1993) che ha lanciatoMediaLibraryOnLine. Insegnaoccasionalmente in alcune scuole dimaster ed è autore di saggi tra i quali:Semiotics and the Effects of MediaChange Research Programmes (1995);Internet. Storia e futuro di un nuovomedium (1999); The Future of Memory(2002); ha pubblicato una serie di articoli sulle biblioteche digitali tra 2009 e 2010.

Nostalgia del presente

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Gino Roncaglia

Gino Roncaglia (Roma, 1960) è docente di Informatica applicata alle discipline umanistiche e diApplicazioni della multimedialità allatrasmissione delle conoscenze pressol’Università degli Studi della Tuscia,dove dirige anche il masteruniversitario in e-Learning e un corsodi perfezionamento su futuro del libro,e-book ed editoria digitale.Ha conseguito la laurea in Filosofiaall’Università di Roma La Sapienza e il dottorato di ricerca in Filosofiaall’Università di Firenze. Oltre al recentissimo La quartarivoluzione. Sei lezioni sul futuro dellibro (2010), è autore o coautore di oltrecinquanta fra libri e pubblicazioni, fra cui una fortunata serie di manualisull’uso di Internet (6 volumi e oltre 20ristampe dal 1996 al 2004), il saggio Il mondo digitale (con Fabio Ciotti,2000), e un volume sul dibattito logiconella scolastica protestante tedesca(Palaestra Rationis, 1996).È coautore – con Mirella Capozzi – del capitolo dedicato alla Logicamoderna nel volume The Developmentof Modern Logic edito da OxfordUniversity Press.È socio fondatore e vicepresidentedell’associazione culturale Liber Liber,promotrice del Progetto Manuzio,biblioteca digitale gratuita in rete.Fortemente impegnato nel campo della divulgazione scientifica di qualità,è stato fra gli autori di alcunetrasmissioni televisive di RaiEducational. È consulente per Internete nuove tecnologie di Rai New Media.

Brevi istruzioni per continuare a leggere

Il mondo dell’e-book è relativamente giovane: dopo la cosiddetta “falsa partenza” acavallo fra 1999 e 2000, è solo dalla fine del 2007, con l’uscita negli Stati Uniti dellaprima versione del lettore Kindle prodotto e distribuito da Amazon, che i numeridel settore hanno cominciato stabilmente a crescere. Tre anni dopo, il Kindle è ormaiarrivato alla sua terza versione, il Nook di Barnes&Noble alla seconda, e a scompi-gliare almeno in parte la scena è arrivato l’iPad della Apple. Attorno a questi tre di-spositivi cresce poi una foresta di apparati di lettura provenienti da altri produttori,dalla Sony fino a una miriade di piccole aziende cinesi o coreane: lettori basati –come già il Kindle e il primo Nook – sulla tecnologia della carta elettronica, che nonemette luce e dunque stanca meno la vista, e lettori basati su varianti dei tradizionalischermi da computer (LCD). Né vanno scordati gli smartphone di ultimissima ge-nerazione, che pur nelle ridotte dimensioni, certo inadatte a una lettura prolungata,offrono a un pubblico ben piú vasto di quello rappresentato dagli acquirenti di di-spositivi dedicati una piattaforma portatile e multifunzione adatta anche alla visua-lizzazione di libri.

La crescita nell’offerta e nella qualità dei dispositivi di lettura – pur ancora lontanidal risultare pienamente soddisfacenti per gli utenti abituati alla leggibilità e alla ma-neggevolezza del libro su carta – costituisce la condizione di possibilità per l’espan-sione nell’offerta commerciale di contenuti in formato e-book. E, a differenza diquanto avvenuto nel caso della “falsa partenza” di un decennio fa, questa volta l’e-spansione nell’offerta di contenuti c’è effettivamente stata. Per quanto riguarda ilmercato in lingua inglese, il numero di e-book disponibili attraverso Amazon ha su-perato i 700.000 titoli, e per la prima volta anche in Italia qualche migliaio di titoli,compresa una quota abbastanza rilevante di novità editoriali, è oggi disponibile informato e-book. Negli Stati Uniti la quota di mercato rappresentata dagli e-book si at-testa ormai intorno all’8%, e nel caso delle novità e dei best-seller ha superato il 15%.

Ma perché il nuovo mercato degli e-book possa effettivamente affermarsi non ba-stano dispositivi di lettura e titoli: occorrono competenze e capacità di innovazioneda parte di tutti i protagonisti della filiera editoriale: dagli autori agli editori, dailibrai ai lettori. Autori ed editori devono certo affrontare problemi legati alla gestionedei diritti e ai modelli di vendita e distribuzione, ma anche – e forse soprattutto – lasfida rappresentata dal ripensamento del “formato” libro: la costruzione di contenutiinformativi che siano in continuità con la cultura del libro (un cui aspetto essenzialeè l’attenzione alla testualità e alla scrittura), ma sappiano integrarla attraverso unuso funzionale e non invasivo della multimedialità, attraverso link e rimandi, attra-verso strumenti che facilitino l’interazione sociale e di rete. I librai devono affrontareuna sfida certo non facile – quella di una progressiva riduzione delle quote di mer-cato del libro “oggetto fisico” – senza arroccarsi in una sterile difesa a oltranza delpassato, ma ripensandosi anche come fornitori di servizi qualificati di mediazioneculturale e di promozione del libro e della lettura, in un contatto sempre piú strettocon altre realtà, e in primo luogo con quella rappresentata dalle biblioteche e daibibliotecari. E i lettori devono poter trovare e riconoscere, nel nuovo mondo dellacomunicazione digitale, anche la forma libro, e continuare a capirne l’importanzae il valore.Sfide non facili, ma inevitabili se vogliamo – come vogliamo – continuare a leggerelibri anche nell’era della comunicazione digitale. Sfide che è essenziale affrontarecon intelligenza e curiosità: due qualità che per fortuna accompagnano, da sempre,la passione per il libro e per la lettura.

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Come si può attraversareil panorama discordante dei saperi nati dalle scienzemoderne? Quale coerenza è possibile scoprire tra visioni,ambizioni e percorsi che sicontraddicono e si svalutanogli uni con gli altri? La speranza riposta in unanuova alleanza è destinata arimanere un sogno? IsabelleStengers risponde a questedomande in sette tappe: settelibri riuniti in un unico volume,e presentati per la prima voltaai lettori italiani. Attraverso

l’esplorazione dei saperi laStengers invita a un percorsodi sperimentazione etica dove,in una trasposizionecosmopolitica, narra le speranze e i dubbi, i timori e i sogni di questo prodottodell’universo che siamo noi, i suoi descrittori. Il volume siapre con il problema delconflitto tra i saperi, e sichiude con la proposta di“farla finita con la tolleranza”:alla tolleranza, sempreasimmetrica e asettica, occorre sostituire l’incontro.

Lei deve aver avuto un certo interesse per la matematica, se il suo primo libro è statoun’introduzione alle Origini della geometria di Husserl. Come ci è arrivato?

Quand’ero studente, negli anni ’50, in Francia c’erano due approcci tradizionali allafenomenologia. Uno, dominato da Sartre e Merleau-Ponty, si concentrava sullepercezioni. L’altro, quello marxista, cercava di legare la fenomenologia alla politica.Io ero invece interessato alla scrittura, e nel suo libro Husserl affrontava precisamenteil problema di come la scienza e la matematica possano parlare e scrivere degli oggettiideali. Husserl pensava che solo attraverso il linguaggio gli oggetti ideali possanoessere prodotti storicamente, ed entrare a far parte della tradizione scientifica.

Oggetti ideali nel senso platonico?Questo è il punto. Husserl si opponeva a Platone, il quale non credeva affatto che le idee dovessero essere trascritte nel linguaggio, che per lui era soltanto un ausilio secondario. Per Husserl, invece, il linguaggio era essenziale per la stessaproduzione di teoremi matematici o teorie scientifiche. E io volevo appunto capire il ruolo centrale del linguaggio, nella letteratura e nella scienza.

E questo ruolo sarebbe ciò che lei chiama “logocentrismo”?Bisogna anzitutto distinguere il logocentrismo da un concetto vicino ma diverso, il fonocentrismo: l’idea, cioè, che l’oralità sia superiore alla scrittura, che la parolasia piú presente e piú vicina alla vita. Il fonocentrismo, che è universale, diventalogocentrismo con le scritture fonetiche, i cui segni rappresentano appunto dei suoni.Allora l’autorità del logos si trasferisce alla scrittura, in tutti i suoi significati: di parola,ragione, proporzione...

E qual è l’essenza della sua critica al logocentrismo, nella Grammatologia?Piú che un errore filosofico, il logocentrismo è una struttura culturale. Basta pensareal Vangelo secondo Giovanni: “in principio era la parola”. O al Fedro platonico, in cui il linguaggio diventa una rappresentazione di una rappresentazione, perché la parola scritta rappresenta la parola orale che rappresenta il pensiero. O a Sassure, in cui il linguaggio è il significante di un significante. Io ho cercato di elaborare un concetto di “traccia” completamente generale, che potesse adattarsi sia al linguaggio scritto che a quello orale.

L’accadere dell’impossibile ? Piergiorgio Odifreddiintervista

! Jacques Derrida

Piergiorgio Odifreddi (Cuneo, 1950) è un matematico, logico e saggista. Ha studiato Matematica pressol’Università di Torino, dove si è laureatoin Logica nel 1973. Si è poispecializzato negli Stati Uniti e nella ex Unione Sovietica. Ha insegnato Logica presso l’Universitàdi Torino, e dal 1985 al 2003 è statoVisiting Professor presso la CornellUniversity, dove ha collaborato conAnil Nerode, Richard Platek e RichardShore. Oltre all’attività accademica, ha intrapreso una fortunata attivitàdivulgativa, finora raccolta in quattrolibri: C’era una volta un paradosso(2001), Le menzogne di Ulisse (2004), In principio era Darwin (2009), Haivinto, Galileo! (2009). Cinquanta suoicolloqui con vincitori del Premio Nobelo della Medaglia Fields sono statiraccolti in Incontri con mentistraordinarie (2006). Ha organizzatodal 2007 al 2009 all’Auditorium diRoma il Festival della matematica. Molto noti sono i suoi libri chepropongono una interpretazione laicae razionalista di alcuni fatti religiosi: Il Vangelo secondo la Scienza (1999), e Perché non possiamo essere cristiani(e meno che mai cattolici), del 2007.

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Nostalgia del presente

2005 Isabelle Stengers Cosmopolitichetraduzioni di Federico Montanari, Lucio Spaziante, Monica Tommasi, Manuela Cumbo,Miranda Menga

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La traccia è ciò che rimane?No, no! Può anche essere cancellata. Semplicemente, la traccia è ciò che fa riferimento a qualcos’altro, senza mai essere presente autonomamente. Anzi, la decostruzione del logocentrismo non si può separare dalla decostruzione dell’autorità e del privilegio della presenza, sia spaziale che temporale.

Lei ha appena pronunciato la parola chiave della sua filosofia: “decostruzione”.La parola deriva da un’espressione di Heidegger, Destruktion, da intendersi come “destrutturazione” e non come “distruzione”. Io la uso nel senso di un’analisi dei diversi livelli in cui si stratifica la cultura.

E c’è anche un aspetto complementare, di ricostruzione?Preferirei parlare di affermazione di ciò che è rimosso, piú che di ricostruzione. Per sottolineare che la decostruzione è qualcosa di positivo, non di negativo.

Leggendo i suoi libri, mi è sembrato di vedere esempi di decostruzione lungo tutta la storia della matematica: Euclide decostruisce Pitagora, Cartesio decostruisce Euclide...

Certamente la decostruzione non è un fenomeno contemporaneo, si è sempre verificata. Quando un filosofocostruisce un sistema, c’è sempre qualcosa che rimane inconsistente e che finisce per decostruirloautomaticamente.

Gli informatici direbbero che ogni programma ha una backdoor insospettata.Non si tratta soltanto dell’inaspettato: la decostruzione è l’accadere dell’impossibile, o di ciò che sembravaimpossibile.

Uno dei motti del decostruzionismo è che “non c’è niente al di fuori del testo”.Bisogna stare attenti a non fraintenderlo, intendendo per “testo” un libro: dire “non c’è niente al di fuori del libro” sarebbe sciocco. Il testo va inteso in un senso generalizzato, che arriva a comprendere l’intero mondocome un insieme di tracce: in questo senso, non c’è nient’altro.

Sarebbe come dire che non c’è la metafisica?Se si trasforma la fisica in un “testo”, allora si può dire che “non c’è niente al di fuori del testo” significa che non c’è la metafisica.

E per quanto riguarda la matematica, che legami ci sono con il teorema di Gödel?Il teorema di Gödel, che ho citato fin dal mio primo libro su Husserl, tratta di un tipo di limitazione chepotremmo chiamare “omogenea”: qualcosa che potrebbe essere decidibile o calcolabile in linea di principio, non lo è in pratica. A me interessa una limitazione piú forte, di tipo “eterogeneo”: ciò che non è decidibile ocalcolabile nemmeno in linea di principio. E mi interessa per le applicazioni all’etica, o alla politica.

Nel senso che la libertà ha queste caratteristiche?In un certo senso, sí. Se sappiamo cosa fare, si tratta solo di realizzare un programma. È quando non sappiamocosa fare, che siamo costretti a prendere delle vere decisioni: ad esempio, quando due persone stanno annegandoe noi possiamo salvarne una sola. La responsabilità etica, giuridica o politica passa attraverso questa indecidibilità,che è di un tipo diverso da quello logico.

Mi sembra che lei abbia rivelato, anche in questo colloquio, di prendere seriamente la scienza e la matematica. Come mai la sua filosofia è invece divenuta una specie di anatema negli ambienti scientifici?

Ci sono anzitutto delle beghe accademiche causate dal ruolo che ho, o che si crede che abbia, negli ambientiumanistici americani. E poi c’è una giusta reazione all’uso sbagliato delle metafore scientifiche da parte degliumanisti. La cosa ridicola è che il bersaglio sia diventato proprio io, benché nella Mitologia bianca, in Margini dellafilosofia, abbia esplicitamente criticato questo uso. Il fatto è che coloro che mi attaccano non leggono i miei libri.

Non sarebbe meglio che umanisti e scienziati parlassero di piú fra loro, e si leggessero di piú a vicenda?Assolutamente. E sono convinto che dovremmo farlo da entrambi i lati, anche se temo di non aver fattoabbastanza io stesso.

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Suo padre era un famoso linguista, oltre che un cultore dell’ebraico. La sua vocazione scientifica arriva da lui?

È molto difficile razionalizzare gli effetti degli accidenti che costituiscono la vita. Mio padre mi ha insegnato un po’ di linguistica semitica quand’ero bambino, e io ho potuto usarla all’università. Ma quanto effetto abbia avuto la“predisposizione”, come si fa a sapere?

Quando ha iniziato, conosceva già il lavoro dei precursori matematici di inizio secolo della linguistica generativa?

Certamente! Li ho studiati negli anni ’50 sul libro di Martin Davis, e sono stato moltoinfluenzato dai sistemi di Thue e Post. Ho anche studiato il libro di Kleene sullametamatematica, e ho letto i classici: Gödel, Turing, Church, Herbrand, Hilbert e Bernays, Tarski, Carnap, Quine...

Dopo aver dato una classificazione dei linguaggi che oggi porta il suo nome, lei ne ha trovatouna descrizione alternativa in termini informatici. La cosa l’ha sorpresa?

All’epoca c’era grande entusiasmo per una classe molto ristretta di processi di Markov,dalla quale si aspettavano miracoli. Io feci vedere che anche classi molto piú riccheerano invece inadeguate, ma il mio interesse in queste cose era marginale: nonavevano molto a che fare con il mio progetto sulle grammatiche generative. Non neparlo nemmeno in La struttura logica della teoria linguistica, un enorme manoscritto del 1955 per uso privato che è stato pubblicato solo vent’anni dopo. Sono invece citatein Le strutture della sintassi, perché quello era un testo per studenti. L’unico risultatoche mi sembrò interessante per lo studio del linguaggio naturale fu l’equivalenza fra le grammatiche “context free” e gli automi “pushdown” non deterministici,specialmente il fatto che la dimostrazione di equivalenza fosse costruttiva: in teoria,tutti i programmi di parsificazione si basano su quel risultato. Le altre cose le hostudiate solo perché le trovavo stimolanti, ma non ci furono grosse sorprese.

Qual è il bilancio dei successi e delle sconfitte della linguistica generativa dei linguaggi naturali e artificiali?

Per i “linguaggi” artificiali, se vogliamo adottare questa terminologia usuale mainutile, io non ho mai avuto troppo interesse. Per quelli naturali ci sono stati enormiprogressi, soprattutto negli ultimi vent’anni. Sono stati scoperti princípifondamentali, i cosiddetti “universali linguistici”, di un tipo completamenteinaspettato. E si sono delimitati i possibili parametri, la cui variazione determina i particolari linguaggi: sorprendentemente, sembra che ce ne siano solo un numerofinito. La mia opinione, peraltro minoritaria, è che ormai possiamo affrontareseriamente problemi che alcuni anni fa non potevamo neppure formulare. Il piú importante di questi problemi, almeno per me, è la questione della “perfezione”del linguaggio umano. Cioè, quanto “ottimali” (nel senso dell’efficienza di calcolo)debbano essere le facoltà linguistiche del cervello, per poter generare il linguaggio. Il “programma minimalista” che è stato sviluppato negli ultimi anni ha ovvieimplicazioni per le tradizionali questioni biologiche, alcune delle quali sono stateoggetto degli ultimi lavori di Turing. Quanto alle “sconfitte”, risiedonosostanzialmente nei nuovi problemi insoluti che affiorano ogni volta che si raggiungeun certo livello di comprensione in una qualunque disciplina. Ma per essere piú preciso dovrei entrare in dettagli tecnici.

Molti anni fa lei ha partecipato a un famoso dibattito con Piaget sulla natura dell’appren-dimento linguistico, sostenendo la tesi del cosiddetto “innatismo”. Alla luce delle nuove sco-perte su macchine e animali, ha qualcosa da aggiungere alla sua posizione di allora?

Le ricerche sulle macchine non hanno detto niente di rilevante. E credere chepossano dirlo è solo un fraintendimento del lavoro di Turing, che tra l’altro non tiene

La volontà di comprendere

? Piergiorgio Odifreddi intervista

! Noam Chomsky

Nostalgia del presente

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conto dei suoi espliciti avvertimenti. Gli studi comparati potrebbero invece, in teoria, mostrarci quali elementi del linguaggio umano sono presenti nel regno animale. Finora i risultati sono stati scarsi, sostanzialmente soloqualche idea suggestiva, ma questi sono problemi difficili. Per quanto riguarda ciò che viene chiamato“innatismo”, un termine che io non uso e non capisco, i risultati maggiori derivano da una dettagliata ricercaempirica su quello specifico oggetto biologico che è il linguaggio umano. Ogni nuova scoperta sui princípi del linguaggio e sulle sue possibili variazioni modifica la nostra posizione sull’innatismo, che non è altro che ciòche guida il cervello di mia nipote a “sviluppare” un linguaggio in maniera analoga allo sviluppo di qualunquealtro sistema organico.

A partire dagli anni ’60, lei ha iniziato un’azione politica di dissidenza che continua ancor oggi. Quali difficoltà ha incontrato e incontra per far conoscere il suo messaggio?

In realtà ho cominciato l’attività politica sessant’anni fa, anche se la cosa è divenuta pubblica solo durante la guerra in Vietnam. A quei tempi era virtualmente impossibile raggiungere piú di una fascia ridottissima dipubblico. Le cose sono diventate piú facili con lo sviluppo di un movimento popolare di massa negli anni ’70, che ha avuto effetti profondi sulla società e la cultura: i diritti umani, il femminismo, l’ambientalismo, il terzomondismo, l’antinucleare, il no-global... Tutto questo ha portato a una prevedibile recrudescenza del potere, che ha cercato di scalzare quelli che percepiva e descriveva, molto francamente, come “i pericoli della democratizzazione”. Benché raggiungere un pubblico vasto sia oggi molto piú facile di quanto lo fossequarant’anni fa, o anche solo dieci, gli intellettuali (media e giornalisti compresi) cercano di emarginare le opinioni popolari, e spesso ci riescono. È una lunga storia.

Come mai, secondo lei, ci sono state cosí poche voci dissonanti nell’isteria collettiva successiva ai fatti dell’11 settembre,anche fra gli intellettuali di sinistra europei? È solo paura della reazione statunitense, o il sintomo di una piú profondauniformizzazione del pensiero occidentale?

Lei parte da un’ipotesi che io non condivido. La “élite”culturale è quasi sempre allineata a supporto della violenzastatale! Ci si fanno illusioni al proposito, perché dopo tutto sono gli intellettuali a scrivere la storia, e naturalmentepreferiscono presentare un’altra immagine del loro ruolo. Prendiamo la Prima guerra mondiale, ad esempio, che è abbastanza lontana da poterne parlare senza troppo coinvolgimento. Il numero degli intellettuali dissidentisu entrambi i fronti è cosí scarno, che possiamo addirittura elencarli: Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht,Bertrand Russell, Eugene Debs... E molti finirono in prigione. La sanguinosa guerra degli Stati Uniti nelleFilippine un secolo fa, che ha fatto centinaia di migliaia di morti, è stata criticata da Mark Twain, che certamentenon era uno sconosciuto. Ebbene, i suoi saggi antimperialisti sono stati pubblicati solo novant’anni dopo! La critica intellettuale delle guerre di Indocina è stata praticamente inesistente: la massima espressione didissenso fu che la “difesa” del Vietnam del Sud era un “errore” commesso con le migliori intenzioni, ma eradiventata troppo sanguinosa e costosa (per noi, soprattutto). Ancora adesso è difficile dire le cose piú ovvie sulVietnam, benché l’opinione pubblica la pensi diversamente: sondaggi molto precisi, effettuati dal 1969 a oggi,dicono che due terzi degli statunitensi hanno considerato e continuano a considerare quella guerrafondamentalmente sbagliata e immorale. Nel caso dell’11 settembre, l’opposizione pubblica alla guerra in Afghanistan è stata immediatamente moltomaggiore di quella contro gli interventi in Vietnam o in Centro America. Il che è particolarmente significativo: nonsolo per i tempi molto piú ristretti, ma anche perché è la prima volta nella storia che l’Occidente ha subíto ciò cheera solito infliggere. Ad esempio, una simile opposizione al Vietnam è maturata solo dopo cinque o sei anni diguerra, quando ormai centinaia di migliaia di vietnamiti erano stati uccisi e altrettanti statunitensi stavano al fronte.

Per vari motivi, dalla pena di morte al numero sproporzionatamente alto di carcerati (uno su centoquaranta abitanti:quindici volte superiore alla percentuale italiana), ho sempre pensato agli Stati Uniti come a un “fascismo dal voltoumano”. Non le sembra che alcune misure prese dopo l’11 settembre, quali i tribunali militari contro i sospetti di terrorismo,abbiano ora fatto cadere anche la maschera “umana”?

Certamente le sue premesse sono reali, ma le conclusioni mi sembrano sbagliate. Gli Stati Uniti rimangono moltopiú liberi e aperti dell’Europa, ad esempio nel campo della libertà di parola. È vero che in tutto il mondo i falchihanno sfruttato la paura dell’11 settembre per cercare di far passare programmi reazionari: negli Stati Uniti icosiddetti “conservatori” perseguono il loro obiettivo di costruire uno stato forte che trasferisca ancor piú risorse e potere ai ricchi e imponga disciplina e obbedienza, e lo stesso succede anche altrove. Ma io sospetto che questisforzi, almeno negli Stati Uniti, avranno soltanto un successo temporaneo e limitato. Bisogna tenere in mente,

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ancora una volta, che l’11 settembre è stato qualcosa di nuovo nella storia moderna. È la prima volta che l’Europa in senso lato, incluse cioè le sue ramificazioni, è statal’oggetto delle atrocità che gli europei hanno inflitto al resto del mondo per secoli.Non stupisce che gli europei trovino scioccante questa rottura della norma. Per contro, il fato degli afghani ha attratto poca attenzione perché è cosí normale,esattamente come la formula dei sedicenti “motivi umanitari”. In altre parti delmondo, ad esempio in America Latina, la vedono diversamente. Proprio a causa di questa radicale rottura col passato, dovrebbe sorprendere il fatto che ci sia stataun’opposizione cosí alta all’uso della forza. E una lettura attenta dei sondaggi, oltre che l’osservazione diretta, mostrano che effettivamente è stata molto alta.Naturalmente i titoli di giornali e telegiornali sono ben diversi. Lo stesso vale, non sorprendentemente, per le prese di posizione degli intellettuali.

Nel racconto Deutsches Requiem di Borges un gerarca dichiara che il nazismo ha vintola guerra, perché era un’ideologia cosí perversamente congegnata che si poteva batterla soloadottandone gli stessi mezzi. Che ne pensa?

La stessa osservazione fu fatta da Juan José Arévalo, uno dei padri della democrazia in Centro America. Riferendosi al colpo di stato organizzato dagli Stati Uniti inGuatemala, che distrusse il breve esperimento democratico che lui stesso aveva iniziato,Arévalo commentò che, guardando all’ideologia che aveva trionfato, si poteva dire che Hitler avesse vinto la guerra e Roosevelt (al quale lui si era ispirato) l’avesse persa.D’altronde è ben noto, o dovrebbe esserlo, che il primo compito degli alleati dopo la Seconda guerra mondiale, e in Italia anche prima, fu la restaurazione della societàtradizionale, incluse le tendenze filofasciste, e la distruzione della resistenzaantifascista. O, piú in generale, delle tendenze radicalmente democratiche. È anche ben noto, o dovrebbe esserlo, che il manuale di controinsurrezionestatunitense degli anni ’50 prese a modello l’analogo manuale nazista, e fu scritto conl’assistenza di ex-gerarchi. Il manuale fu applicato, con effetti tremendi, soprattutto inAmerica Latina da stati neonazisti di “sicurezza nazionale”, appoggiati dagli Stati Uniti.

Possiamo dire allora che gli Stati Uniti sono oggi il vero erede del nazismo, nel senso chedopo la caduta dell’Unione Sovietica sono l’unico stato che abbia la capacità militare e lavolontà politica di soggiogare l’intero mondo? Possono cantare: “Ieri l’Iraq, oggi l’Afghani-stan, und Morgen die ganze Welt”?

Nonostante ciò che abbiamo appena detto, non credo che questa sia una conclusioneaccettabile. Sarebbe una distorsione di ciò che è accaduto sia nelle democrazieindustriali, che nei paesi in cui sono stati eliminati brutali regimi coloniali, tipo l’India. Inoltre, benché la superiorità militare degli Stati Uniti sia schiacciante, in termini economici e sociali il mondo è sostanzialmente tripolare da molti anni, e la potenza economica degli Stati Uniti è dimezzata rispetto a cinquant’anni fa.

Tra il dominio di media onnipotenti da una parte, e il fanatismo politico e religioso dall’altra, che ruolo possono giocare gli intellettuali?

Io non sono un grande ammiratore degli intellettuali, sa? Ma se lo vogliono, possonocertamente giocare un ruolo costruttivo partecipando ai movimenti popolari di massache sono sbocciati in tutto il mondo, a volte in forme nuove e promettenti.

E la razionalità, sopravviverà o è destinata a soccombere?Non credo che sia in maggior pericolo che nel passato. Quanto al futuro, è largamente una questione di volontà e scelta. Io credo che le speculazioni nonabbiano molto senso: possiamo a mala pena predire il tempo di domani, figuriamociqualcosa cosí complesso e misterioso come gli affari umani!

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Nostalgia del presente La volontà di comprendere

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Considerare la decrescitacome una condizione felice può sembrare unacontraddizione, ma in realtà essa indica un nuovosistema di valori e unaprospettiva economicae produttiva finalizzataallo sviluppo di tecnologieche frenino la catastrofeambientale causata daiprocessi produttivi. La decrescita non è unarinuncia, una riduzione del benessere, un ritorno al passato. Piuttosto è una scelta consapevole, un

miglioramento della qualitàdella vita, una rispettosaattenzione per il futuro. E la sobrietà non è solo unostile di vita, ma una guidaper la ricerca scientifica.La decrescita è l’elogiodell’ozio, della lentezza e della durata.Le sirene dello sviluppocantano alle orecchie deipopoli poveri nell’interessedei popoli ricchi. Sono i popoli ricchi, e ilmeccanismo della crescitasu cui sono impostate le loroeconomie, ad aver bisogno di

un numero crescente dipersone che non possanofare nient’altro che venderee comprare per vivere, di un numero crescente di persone che abbandoninole loro specificità culturaliper uniformarsi ai valoridella crescita.Può sembrare un paradosso,ma non lo è: soloun’economia fondata sulladecrescita consentirà aipopoli poveri di uscire dallamiseria. Cos’è la decrescita?Un paradigma culturale perun rinascimento possibile.

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Condividere significa rispettare il volto dell’altro: un dono, infatti, non è l’oggetto donato, ma la relazione (il racconto) che la cosa donata determina fra chi propone l’offerta e chi siarricchisce di nuova accoglienza. Offrire e accogliere, ma liberi da ogni calcolo mercantile. Liberinell’atto del donare dagli obblighi di dare, di ricevere e di ricambiare. Uscire, nel ricevere, dall’obbligospettacolare della reciprocità. Rispettare il volto dell’altro significa impiegare il proprio presente persentire, condividere, la memoria del destinatario. Dedicare il proprio “presente”. La gratuità e la gratitudine del donare si fondano nel sentire la felicità di chi accoglie, in segreto esenza misura, l’incommensurabile valore del dono.Cosa puoi donare allora? E qual è il dono piú prezioso?Donami, e donandomi mi otterrai di nuovo.

2007 Maurizio Pallante Discorso sulla decrescita. Manifesto per una felice sobrietàun libro rilegato di 40 pagine e un cd audio di 70 minuti

“Vogliamo essere saggi? Cominciamo, dalle piccole cose, la decrescita felice.” Lo afferma il poeta Andrea Zanzotto mentre osserva la golena, lungo il fiume Soligo,che è riuscito a salvare dalla costruzione di un palasport. “In questo prato pianteremoi papaveri, il tarassacco, le piante care ad Andrea”, suggerisce la moglie Marisa.“Realizzeremo un miniparco di poeti e scultori; alcuni hanno già promesso le loroopere. Le famiglie e le scuole potranno portarvi i bambini per imparare la natura.”Ieri pomeriggio, a Mestre, Zanzotto ha partecipato alla presentazione della sua ultimafatica letteraria. “Eterna riabilitazione da un trauma di cui si ignora la natura.”

Come battezzerete il prato di via Mira, a Pieve, salvato dal cemento?Il nome lo sceglieremo attraverso un referendum.

Perché un poeta s’intromette in cose cosí terrene?Questi sono gli ultimi scampoli di natura. E trovo che pochi se ne rendono conto. E s’impegnano per salvarli.

Non riesce piú a trovare motivi naturali d’ispirazione. È questo il problema?Per fortuna l’ispirazione – che è una spinta fondamentale – scaturisce anchedall’interno. Io non l’ho persa. Però tanti luoghi cari sono andati perduti.

Per una decrescita felice

? Francesco Dal Mas intervista

! Andrea Zanzotto*

* “La Tribuna di Treviso”, 12 aprile 2007.

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Nostalgia del presente

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Le colline sono abbandonate oppure, al contrario, occupate da vigneti industrializzati.Ma lo sapete che la malversazione dell’ambiente arriva al punto di costringere unsindaco, come quello di Moriago, a ricorrere prima al Tar e poi al Consiglio di Stato,per salvare i Palú dai vigneti?

La sua prossima battaglia sarà contro i parcheggi sotterranei in piazza a Pieve? Non lo so, vedremo. Chi non ha piú nulla da arraffare sopra la terra, ci prova sotto. Madove vogliamo arrivare con questo sviluppo sempre piú sfrenato? Ha ragione MaurizioPallante quando afferma che rallentare la crescita è possibile. E lo è anche farequalche passo indietro.

In che cosa non riusciamo a fermarci?Ho letto sul vostro giornale che a Vittorio Veneto ci sono cinquecento appartamentisfitti e che si continua a costruire. A Conegliano mi risulta che siano ancora piú numerosi. E centinaia sono pure a Pievedi Soligo. Per non parlare dei capannoni industriali. Ce n’è uno chiuso ormai da annianche vicino a casa mia.

Dovremmo abbattere le fabbriche che non servono?Sí, bisogna raderle al suolo, se non possono essere recuperate ad altre funzioni. E invito la Provincia a fermarsi con le rotatorie. Ce ne sono troppe.

Però i trevigiani continuano a schiantarsi sulle strade.È un problema di cultura: dare senso alla propria vita.

Lei si è impegnato per salvare il brolo delle monache di clausura di San Giacomo.Non solo per quello. Anche per il bosco di Olmé, ultimo residuo di bosco primitivo.

Il vescovo di Vittorio Veneto, monsignor Zenti, ha sollecitato l’impegno per un monasteroche davvero sia tale, piú dignitoso anche per chi lo abita.

Comprendo le ragioni del vescovo, come anche quelle dei genitori di San Giacomo diavere una scuola dignitosa per i loro figli. Ma il primo problema, in quel quartiere, èliberarsi dalle 30 mila auto che vi transitano ogni giorno. Il brolo è dunque unsimbolo.

Lei cantò a suo tempo il Cansiglio...È la foresta meglio tenuta d’Italia. Ma non possiamo accontentarci. Gli strumenti disalvaguardia vanno consolidati.

La Vallata resta sotto il rischio di nuove cave, ancorché sotterranee.Sarebbe la morte di Revine, dei suoi laghi, e di tutta la Vallata. Sulla Pedemontana (manon solo) i segni dell’uomo vanno conservati al meglio, non trasformati in ville.Camminando per le colline ci s’imbatte in sempre nuovi recinti. Perfino i vignetihanno le reti di protezione.

La decrescita felice passa anzitutto per una rigenerazione culturale. A Pieve sta per chiudereuno storico luogo di cultura, il Balbi.

In questo istituto ci sono stato come scolaro e come insegnante. Mi dispiace se dovessechiudere. E mi chiedo perché non si trova il modo, anche da parte dei privati, ditenerlo aperto, magari ricorrendo a nuovi insegnamenti, piú utili alle esigenzedell’economia locale. Ecco, io ritengo che tutta la comunità, anziché occuparsi di cosemateriali, strumentali, dovrebbe impegnarsi per non consegnare alla morte i luoghidella cultura.

Per una decrescita felice

Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo,1921) ha lavorato come insegnante per le scuole medie inferiori e superiori.Ha pubblicato il suo primo libro dipoesia, Elegia e altri versi, nel 1954,seguito nel 1957 da Vocativo. Nel 1962 pubblica IX Egloghe. Nel 1968 esce La beltà, salutato comeun libro fondamentale da Pier PaoloPasolini, Franco Fortini ed EugenioMontale. Nel 1969 escono Gli sguardi, i fatti e Senhal. Del 1973 sono Pasquee l’antologia Poesie (1938-1972),a cura di Stefano Agosti. Nel 1978viene pubblicato Il Galateo in Bosco,con prefazione di Gianfranco Contini. Il libro formerà una trilogia con Fosfeni (1983) e Idioma (1986).Dieci anni dopo, nel 1996, esce Meteo,mentredel 2001 è il libro compositointitolato Sovrimpressioni, che siconcentra intorno al tema delladistruzione del paesaggio.I suoi saggi critici sono stati raccolti nei volumi Fantasie e avvicinamento(1991), e Aure e disincanti delNovecento letterario (1994). Ha tradotto testi fondamentali diBataille come il Nietzsche (1970) e La letteratura e il male (1973). Nel 1976 ha collaborato allarealizzazione del Casanova di Fellini,per il quale scrive alcuni testi che saranno poi raccolti in Filò. Con Fellini collaborerà anche per La città delle donne e E la nave va.Del 2009 è In questo progressoscorsoio, una conversazione conMarzio Breda. Nello stesso anno, in occasione del suo ottantottesimocompleanno, il poeta pubblicaConglomerati, raccolta poetica di scritti composti tra 2000 e 2009.

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Il passaggio di qualità necessario per produrre un’etica positiva della sostenibilità richiede un processo creativo,una prassi, una serie di atti. In effetti questa etica ha semplicemente bisogno di essere attuata: Just do it! (Fallo ebasta!) In che consiste un motto del genere, dopo tutto? Consiste in una dichiarazione o espressione del mio desiderio nel senso della potentia, affine al “Sí, lo voglio”della Molly Bloom di James Joyce. È anche un atto di fede nella nostra capacità di fare la differenza e in quantotale è un’espressione di generosità e di amore per il mondo. È anche un’implorazione, una domanda aperta,una tensione verso l’esterno, un invito alla danza (let’s do it). È un imperativo, un’ingiunzione a resistere sia nelsenso di durare sia in quello di sopportare la sofferenza, ma è anche una dichiarazione d’amore. Un atto disfida alle norme sociali e di resistenza contro l’inerzia delle abitudini e delle convenzioni consolidate. Ancorapiú importante, è un atto di autopoiesi, o di auto-creazione affermativa non di un sé atomizzato, o di un indi-viduo isolato, ma piuttosto di un soggetto nomade a diverse velocità e intensità di divenire. In quanto tale, è unrifiuto della posizione edipicizzata e un’asserzione di fermo distacco (“sei da solo/sola ora, quindi tira avanti,alla tua velocità e per il tempo che puoi resistere!”). È un’ingiunzione nella quale resistenza e sostenibilità si in-trecciano per produrre una modalità impersonale di singolarità; il tono deciso e imperativo la fa finita con ilsentimentalismo delle visioni dominanti del soggetto, cosí come l’autorità esagerata di quei leader il cui dog-matismo e la cui personalità sono fonti di culto. Sotto questo aspetto, l’ingiunzione a fare è all’opposto dei motsd’ordre degli slogan politici. Qui non c’è nessuna garanzia fornita da una traiettoria teleologicamente preordi-nata, solo l’urgenza di tirare avanti, di farlo e basta, anche se la destinazione finale può non essere molto chiara.Ciò che importa davvero è l’andare, il movimento. Capita cosí, nella perversa logica del capitalismo avanzato, che Just do it! sia anche lo slogan di punta della mul-tinazionale globale Nike. Il capitalismo avanzato, questo grande nomade, lancia sul mercato questo slogan comeincitamento al superamento di sé e alla costruzione di sé individuali. Il nomadismo filosofico, come critica aquesta logica, ha introdotto una diversa inflessione di questo imperativo, bloccandone il fine di lucro. Esso di-venta perciò anche una sfida alla temporalità perversa del capitalismo, battendosi contro l’appropriazione delpresente per costruire percorsi sostenibili di divenire. L’imperativo è rivolto a tutti, al generico chiunque (homotantum), che è l’opposto dell’altro universalizzato: cioè una singolarità in stretta interconnessione con gli altrinon in nome del profitto ma per mettere in atto la propria resistenza.

Il termine “trasposizioni”ha una doppia fonte di ispirazione: la musica e la genetica. Esso indica un trasferimentointertestuale che attraversaconfini incrociati o trasversali,un salto, cioè, da un codice, da un campo o da un asse, a un altro, non soltanto nel modo quantitativo delle moltiplicazioni plurali, ma anche, qualitativamente,delle molteplicità complesse. Non si tratta semplicemente di tessere insieme fili diversi,variazioni sul tema (testuale o musicale) ma di far risuonarela positività della differenzacome tema specifico in sé. Come termine musicale la trasposizione indica le variazioni e i cambi di scala

di un modello discontinuoeppure armonioso. Si tratta quindi di uno spaziointermedio di zigzag e incroci:non lineare ma neppurecaotico; nomade, eppureresponsabile e impegnato;

creativo ma anchecognitivamente valido,speculativo e allo stesso temporadicato materialmente –coerente senza però caderenella razionalità strumentale.

2008 Rosi BraidottiTrasposizioni. Sull’etica nomadea cura di Anna MariaCrispino. Traduzioni di Daniela Attanasio, Silvia Bre,Maria Leonardi, SandraPetrignani, Silvia Pellegrini,Valeria Viganò

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Nostalgia del presente

Proviamo a connettere l’imperativo Just do it! al processo del divenire-impercettibile, o della fusione con l’am-biente circostante. Si delinea allora una sequenza temporale diversa, un mutamento qualitativo di coordinateche si configura come un processo vero e proprio del divenire. E il presente viene inondato da futuri possibili,con un taglio netto rispetto al passato, se per passato intendiamo una sedimentazione di abitudini, un’accumu-lazione istituzionalizzata di esperienza la cui autorità è garantita dalla memoria dominante o molare e dalleidentità che essa produce. Divenire-impercettibile è una sorta di trascendenza che ci immerge nell’impossibile,nell’inaudito: un presente affermativo. È ciò che Deleuze chiama “un evento” – ovvero l’esplosiva realizzazionedi un futuro sostenibile. Gli ambienti acustici nel nostro mondo controllato dalla tecnologia hanno la capacità di avvicinare ed evocarel’infinito. Hanno una qualità “postumana” che ricorda gli insetti per quanto riguarda la velocità, l’intensità ditono e variazione che essi producono. Spaziando dall’inaudibile all’inaudito, la musica techno estende le fron-tiere della nostra percezione collettiva fino all’estremo. La musica contemporanea attua il de-centramento delsoggetto umano e produce di conseguenza suoni che riflettono la struttura eterogenea dei soggetti nomadi.Facendo una mappa acustica dei cambiamenti e delle mutazioni di intensità e molteplicità, la musica rizomaticasostituisce l’ideale platonico di armonia, o il modello rappresentativo modernista, con una piú coraggiosa ricercadi improbabili sincronizzazioni con forze umane e non umane. Mi sembra una buona rappresentazione dellosforzo etico che ci impegna a creare le condizioni di possibilità per trasposizioni sostenibili nell’era dell’ege-monia del bios/zoe. Rosi Braidotti

2002 Rosi Braidotti Nuovi soggetti nomadi. Transizioni e identità postnazionalistea cura di Anna Maria Crispino

Ecco che cos’è la scrittura:diventare poliglotti nellapropria lingua madre. Lo stato nomade, piú che dall’atto del viaggiare, è definito da una presa di coscienza che sostiene il desiderio del ribaltamentodelle convenzioni date: è una passione politica per ildivenire, per la trasformazione

o il cambiamento radicale. La carta geografica delsoggetto nomade è di naturaintrinsecamente transitoria,implica la necessità di scriveree riscrivere, leggere e rileggere.Segnala i luoghi di sostatemporanea nel procedere diun percorso di ricerca teoricache si muove su un arco teso: a un estremo, il riconoscimento

che le identità sono sempremutevoli, dunque contingentie retrospettive – quello chesiamo già stati/e – e all’altro estremo il lavoro per prefigurare quelle formedel soggetto che possiamodiventare.

Coi nomadi non si può parlare. Non conoscono la nostra lingua, anzi non ne hanno neppure una propria. Tradi loro s’intendono come le cornacchie. Di continuo risuona il loro gracchiare. Il nostro modo di vivere, le no-stre istituzioni sono loro incomprensibili quanto indifferenti. Perciò rifiutano anche qualsiasi tentativo di in-tendersi a segni. Puoi slogarti le mascelle e lussarti le mani, ma loro non ti capiscono, né mai ti comprenderanno.Spesso fanno delle smorfie, si muove allora il bianco degli occhi, mentre la bocca si gonfia di bava; ma con que-sto non voglion né dir qualcosa e neanche spaventare; ma fanno cosí, perché è loro abitudine. Non si può direche usino violenza. Dinanzi a un loro intervento ci si fa da parte e si cede tutto. [...]“Come andrà a finire?” ci chiediamo tutti. “Quanto sopporteremo ancora questo peso e tormento? Il palazzoimperiale ha attirato i nomadi, ma non riesce ad allontanarli. Il portone resta chiuso; la guardia che prima en-trava e usciva marciando solennemente, se ne sta dietro le inferriate. A noi è affidata la difesa della patria, manon siamo all’altezza della situazione; né ci siamo mai vantati di esserlo. È un malinteso, ed è quello che cimanda in rovina.”Franz Kafka, Un vecchio foglio

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Doveva essere il secolo breve. Le guerre dovevano durare il tempo di un lampo. C’era un orizzonte, raggiunto ilquale l’umanità sarebbe stata redenta. E invece il secolo non smette mai di finire, prigioniero degli ex e deipost. I conflitti si spostano, mutano, si smaterializzano: ma continuano a sanguinare. E l’orizzonte non si è av-vicinato nemmeno di un passo. Una foschia densa, irrespirabile, lo ha sottratto alla vista. Per cambiare di segno a questa fine che si trascina nel suo finire, occorre cercare indizi di inizi. Idee capaci dicollocarsi dopo. Uno sguardo sul fuori, verso l’alterità irriducibile. Per disegnare lo spazio di un altro presente.Per sostituire un’affermazione a tutte le negazioni della modernità. Approfondire la crisi della razionalità e del-l’individuo fino a spalancarla. Fino a rovesciarla. Fino a vedere nuove forme di socialità, nuove opportunità peril pensiero, laddove si pensava ci fossero solo il deserto e la barbarie.

Il secolo lungo

2000 Pierre LévyIl fuoco liberatorecon la partecipazione di Darcia Labrossetraduzione di Davide Cova

La porta apertaAll’età di dieci anni andavo a scuola conla chiave di casa, perché tornavo primadei miei genitori, che a volte lavoravanofino a tardi. Una sera d’inverno, arrivatodavanti alla porta di casa, cercai la chiavesenza trovarla. La casa era isolata. Scen-deva la notte. Non avevo la chiave.Aspettai davanti alla porta. Un’ora, dueore, tre ore. I miei genitori non tornavano.Iniziai a pensare che non sarebbero maipiú tornati. Mi misi a piangere. Mi sentivomolto solo, abbandonato, esiliato, sven-turato. Alla fine arrivarono i miei genitori.“Perché piangi?” mi chiesero; “siccomeabbiamo visto che avevi dimenticato lachiave, abbiamo lasciato apposta la portaaperta.” Spinsi la porta. Era aperta. Nonmi era nemmeno passato per la testa diprovare ad aprirla senza la chiave.Pierre Lévy

2002 François JullienIl tempo. Elementi di una filosofia del viveretraduzione di Massimiliano Guareschi

Sulla base della mia strategia filosofica, hotentato, passando per il pensiero cinese, diuscire dalla grande piega del tempo. LaCina, infatti, ha pensato il momento sta-gionale e la durata, ma non un involto cheli contiene entrambi, ossia il tempo omo-geneo e astratto. Come può essere, ci sichiede immediatamente, un pensiero chenon ha pensato il corpo in movimento, dacui ci deriva la concezione del tempo fisico,come numero del movimento, che non op-pone il temporaneo all’eterno o l’essere aldivenire, origine della metafisica, e il cuilinguaggio, infine, essendo privo di coniu-gazione non offre la possibilità di opporredifferenti tempi, futuro, presente, passato?Esiste allora un’alternativa al pensiero deltempo? Il tentativo di dispiegarla ci portaa considerare, a proposito del tempo, checosa possa essere la stagione, cosí come,in riferimento alla dis-tensione temporaleche permette un’estensione nel tempo,quale sia la transizione continua che co-stituisce il processo delle cose.François Jullien

2003 Michel Maffesoli L’istante eterno. Ritorno del tragico nel postmodernotraduzione di Piermaria Chapus e Monica Tommasi

Il grande cambiamento di paradigma cheè in corso d’opera rappresenta, in fun-zione di un nuovo presenteismo, lo slitta-mento da una concezione del mondoegocentrizzata verso un’altra lococentriz-zata. Nel primo caso, cioè la modernitàche si chiude, il primato è accordato a unindividuo razionale che vive in una so-cietà contrattuale; nel secondo caso,ossia la postmodernità nascente, la postain gioco è rappresentata da gruppi, daneotribú, che ricoprono degli spazi speci-fici con cui entrano in accordo.Nel dramma moderno troviamo la pre-tesa ottimista alla totalità: di me stesso,del mondo, dello Stato. Nel tragico post-moderno, al contrario, troviamo tensioneverso l’interezza, che induce alla perditadel piccolo me in un Sé piú vasto, quellodell’alterità naturale o sociale. Il narcisi-smo individualista è drammatico, mentreil primato del tribale, questo sí, è tragico. Michel Maffesoli

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2003 Luce IrigarayAmante marina di Friedrich Nietzschetraduzione di Luisa Muraro

Battesimo dell’ombraE bisognava che tutti voi mi aveste persadi vista perché, verso di voi, io ritornassicon un altro sguardo. E, certo, il piú pesante è stato di acco-stare, per amore, le labbra. Di richiuderequesta bocca che sempre voleva scorrere.Ma, senza quel ritiro, non vi sareste mairicordati che esiste pure qualcosa che hauna lingua diversa dalla vostra.

Che, dalla sua prigione, qualcuno chie-deva di ritornare all’aria. Che le vostreparole risuonavano tanto meglio inquanto una voce vi era prigioniera. Am-plificando i vostri dire di una risonanzasenza fine.Luce Irigaray

2003 Michel Maffesoli La parte del diavolo. Elementi di sovversione postmodernatraduzione di Isabella Pezzini

Questo libro vuole indicare una tendenzadi fondo della vita postmoderna: il legameorganico del bene e del male, del tragicoe dell’esultanza. Stupefacente paradosso,è accettando il male nelle sue diverse mo-dulazioni, che si può trovare una certagioia di vivere. Amor fati nietzschiano chediventa un “amore del mondo” per quelche è. Amore della necessità empirica-mente vissuto e che dunque bisogna ado-perarsi a pensare. La vita empirica, che deve essere il nostroreferente ultimo, “sa” tutto questo perfet-tamente. Non vi è nulla di originale nellepagine che seguono: queste idee sono intutte le teste. Ma bisogna avere il corag-gio di formularle. Niente di originale in ciòche è originario. Forse è proprio quel chevoleva sottolineare Heidegger notando laprossimità che c’è in greco tra il dolore eil linguaggio (Algos, Logos). Nei nostri ter-mini, diremo che il dolore della “parolaperduta” incita a dare la parola al doloreritrovato, e in questo modo a (ri)tornare aun umanismo integrale. Quello che sa ri-conoscere la parte del diavolo.Michel Maffesoli

2004 François JullienIl nudo impossibiletraduzione di Monica Tommasi

Quando si raffigura un uomo vestito sicerca di rendere l’essere umano inquanto persona, colta nella sua indivi-dualità; ma quando si rappresenta uncorpo nudo, si vuole impossessarsi diun’essenza. O piuttosto, lo si voglia o no:è il nudo che fa l’essenza.Inversamente, se la Cina non ha dipintoné scolpito dei nudi, è proprio, in fin deiconti, per una ragione “teorica”: perchénon ha concepito – separato e promosso– un piano che consista di essenze e lasua immaginazione, pertanto, non si ècompiaciuta delle incarnazioni di essenzeche sono, per noi, le figure mitologiche.La lingua cinese può astrarre, ma incompenso, non personifica; l’arte lette-rata esprime di sbieco, ma senza allego-rizzare. François Jullien

2006 Jean-Luc NancyIn cielo e in terra. Piccola conferenza su Diotraduzione di Antonella Moscati e Valeria Piazza

Volevo chiedere: dove comincia il cielo?Questo me l’hanno appena spiegato,poco prima che iniziassimo. È stato unastronomo, Daniel Kunth: è lui che mel’ha detto. Mi ha raccontato che gli ave-vano detto: “Il cielo comincia rasoterra”.Trovo quest’espressione straordinaria.Vuol dire che il cielo è rasente la terra.Parlo usando delle immagini, in manierasimbolica. Vuol dire che non appena fi-nisce la terra comincia il cielo, cominciaquesta dimensione di apertura. “Ra-sente” significa però anche: sempre, inogni posto, a stretto contatto con laterra, c’è il cielo.Jean-Luc Nancy

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VOCEdial. sard. boze; rum. boce, bocesci gridare;prov. votz; fr. voix; sp. e port. voz;lat. voc-em, acc. di vox, dalla rad. indo-europ. vak-, che è nel sscr. vac’-mi,vi-vac’mi, con raddoppiamento di radice,dico, chiamo, vac’as, zendo vâcs, parola,canzone, vâc’, vac’-anam discorso,linguaggio; e anche l’a. ted. ga wah-an,mod. er-wäh-nen, menzionare, gi-wah-t,menzione, l’ant. pruss. en-wack-è-mai =lat. invocàmus, invochiamo; wackis, grido,l’a. slav. vyk-anije = sloven. e bulg. vik-aclamore, il serb. vik-ati vociferare; gr. ‘èposper *Fèpos, *Fèk-os, parola, discorso, canto,carme, ‘ops per *Fòps *Fòks voce, canto,discorso (cfr. Convito, Epico, Epopea,Invitare, Ortoepia). Suono che esce dallalaringe umana e anche dalla gola deglianimali, e fig. il suono degli strumentimusicali. Vale anche Parola, Vocabolo; fig. Opinionedella gente; Voto, Suffragio. “Voce incapitolo” = Frase presa ai capitoli deicanonici e degli ordini monastici, che significa Avere autorità in qualchenegozio. Deriv. Vocale, onde Semivocale;Vocerèlla; Vociàccia-ina-one; Vociare,popolarmente Bociare = Gridare; Vociolína;comp. Equivoco; Vociferare. Comp. daVocàre Vocàbolo; Vocativo; Vocazione;Avocare; Avvocato; Convocare; Evocare;Invocare; Provocare; Revocare. Cfr.Invitare; Preconizzare.

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Se la mia voce è uno degliattributi che permettono la mia identificazione, come il colore dei miei occhi,dei capelli e della pelle, o come il mio portamento, il fisico e la punta delle dita,essa è però diversa dagli altri miei attributi per il fattoche non mi appartiene e che non è attaccata a me.Io produco la mia voce in un modo in cui non possodire di produrre quegli altriattributi. Parlare è eseguire

un lavoro, e a volte – comequalunque attore,insegnante o predicatore sa – è un lavoro veramentearduo. Il lavoro ha la voce o le azioni della voce comesuo sviluppo e prodotto;dare voce è il processo che simultaneamente crea un suono articolato e fa sí che il mio essere si auto-produca. Qui, adesso, sono io cheparlo; ora, di nuovo, sonosempre io. Se quando parlo

do la sensazione a voi e a me stesso di essere piú intimamente ecostantemente là rispetto ad altre volte, se la voce mifornisce una persistenzaacustica, ciò non avvieneperché espello o depositome stesso tramite la miavoce nell’aria, come la codadi vapore di un aeroplano. È l’espressione di me stesso,cioè la rinnovata e continuaazione di produrre me stessoin quanto agente vocale e

Steven ConnorLa voce come mediumStoria culturale del ventriloquio

lucasossellaeditore

La voce, ha scritto uno psicoanalista, Guy Rosolato, è il piú grande potere di emana-zione del corpo, come sperimentiamo nel pianto dei bambini; il linguaggio per laprima volta nasce nella bocca dolorosamente vuota. Il pianto, scrive Steven Connorin La voce come medium, è la forma piú pura dell’accordo tra voce e potere. Il XX secolo appare come dominato dal pianto mediato e amplificato dai mezzi tec-nologici, da quello che lo studioso inglese definisce l’uso “aggressivo-sadico dellavoce”. Il suo libro, uno dei piú originali pubblicati negli ultimi anni da un editoreitaliano, ricostruisce la storia culturale del ventriloquio, ovvero di come si siano persecoli prodotte voci attraverso ciò che non è esattamente una bocca, bensí, comedice l’etimo della parola “ventriloquio”, il ventre.Connor parte da un asserto: non solo le voci sono prodotte dai corpi, ma possonoesse stesse produrre corpi. La prima figura di questa voce è quella della Pizia, l’ora-colo delfico, voce estatica attraverso cui s’inventa l’idea della profezia come effettodel corpo femminile sconvolto per mezzo di una voce inumana, delirante, violenta:la voce del dio. L’oracolo di Delfi è il punto di contatto e di distinzione tra il paganoe il cristiano, l’irrazionale e il razionale, il femminile e il maschile, il corporeo e lospirituale. Origene e San Giovanni Crisostomo sostenevano che la sacerdotessa si ac-covacciasse su una fessura della roccia e che il demone – cosí era interpretato il diopagano – entrava in lei attraverso gli organi genitali e mediante questi stessi organiparlava. “Parlare con la pancia”, detto del ventriloquio, non è altro che una metaforadel sesso.

Parla la Pizia nel nostro cd*Marco Belpoliti

* Ringraziamo l’autore per averci concesso questo testo, riproposto conlievi modifiche dopo essere stato pub-blicato su “Tuttolibri”, 1 marzo 2008.

Marco Belpoliti (Reggio Emilia, 1954) si è laureato in Semiotica con Umberto Ecopresso la facoltà di Lettere e Filosofiadell’Università di Bologna nel 1978. InsegnaSociologia della letteratura e Letteraturaitaliana presso l’Università di Bergamo. Nel 1981 ha fondato, insieme ad altri, larivista “In forma di parole” e la casa editriceElitropia. Ha collaborato a “NuoviArgomenti” durante gli anni Ottanta. Dal 1981 collabora stabilmente alle pagineculturali de “il manifesto”, e in particolareall’inserto “Alias”. Dal 1991 è condirettoredella rivista “Riga”. Dal 1998 collabora alle pagine culturali del quotidiano “LaStampa”. Dal 2000 collabora al settimanale“L’Espresso” con una rubrica di recensionilibrarie. Nel 1997 ha curato l’edizione criticadelle opere di Primo Levi, e successivamente,dello stesso autore, una serie di volumi. Ha collaborato alla sceneggiatura di un filmdi Davide Ferrario sul ritorno a casa di Levi(La strada di Levi, 2006). Nel 2009 hapubblicato Il corpo del capo. Del 2010 sonoSenza vergogna e Pasolini in salsa piccante.

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Voce

2007 Steven Connor La voce come medium. Storia culturale del ventriloquiotraduzione di Luciano Petullà con Massimo Gezzi e Alessandro de Lachenal

La mia voce viene e va. Mentre per voi proviene da me, io la sento fuoriuscire da me. In questo“venire da” e “andare verso” risiedono tutti i problemi e le meraviglie della voce dissociata. La mia voce, innanzitutto, proviene da me in senso corporeo. È prodotta per mezzo dei mieiapparati vocali – il respiro, la laringe, i denti, la lingua, il palato e le labbra. È la stessa voce chesento risuonare nella testa, amplificata e modificata dalle ossa del mio cranio, nello stesso istantein cui vedo e ascolto i suoi effetti sul mondo. Il fatto che le emozioni – almeno in Occidente –siano comunemente ritenute localizzate non nella testa ma nel cuore, deve avere senz’altroqualcosa a che vedere con il fatto che la voce è emessa dallo sterno tramite il respiro dei polmoni.

produttore di segni e suoni, che afferma questa continuità e questa sostanza. Ciò che una voce, qualsiasi voce,dice sempre, qualunque sia ilparticolare e parziale significatodelle parole che emette, è questo: questa voce, non è soltanto una voce, una particolare combinazione di toni e timbri; è la voce o il farsi voce. Ascoltate, sembra dirci: qualche essere sta emettendo una voce. Steven Connor

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Attraverso il libro di Steven Connor, La voce come medium, abbiamo imparato che il po-tere è una voce dissociata. Che l’uomo, prima ancora di parlare, è parlato. In che modo unastoria della parola, che è una storia del potere, “inaudita” (è il caso di dirlo) come quella diConnor, può parlare al presente e del presente?

Prendiamola cosí, convocando in prima battuta Lacan: il linguaggio è un parassita,vale a dire un agente patogeno esterno che ci viene inoculato. C’è poco da girarciintorno: siamo condannati a trascorrere tutta la vita con un estraneo, che come se nonbastasse si arroga anche il diritto di parlare i nostri pensieri, sotto i quali confonde unaspecie di nota continua, tecnicamente un ostinato, che ripete senza tregua: “vai, vai,vai...”. Lo diceva con la solita encomiabile orchestrazione di sussurri Beckett: “donde /la voce che dice / vivi // da un’altra vita”. Facile che, alla prima cosa che non va, si finisca col sentire le voci. È un po’ la nostra condanna, certo; solo che, se questa non ci venisse com’è giusto comminata, non ci sarebbe in realtà nemmeno ominazione. Chi aspetta il cyborg per un po’ di postumano, dovrebbe rileggere Darwin e darlo per avvenuto. Ecco perché quando suona disincarnata, la parola ha tanto potere.

La parola disincarnata

? Intervista a! Gabriele Frasca

Gabriele Frasca (Napoli, 1957)è autore di romanzi, raccolte poetiche e saggi critici, nonché traduttore di Samuel Beckett e Philip K. Dick. Per luca sossella editore ha pubblicatoPrime. Poesie 1977-2007 (2007), il romanzo Dai cancelli d’acciaio (2011)e, con il gruppo musicale i ResiDante, il cd Il fronte interno (2003). Insegna Letterature comparate e Media comparati all’Università per gli Studi di Salerno.

Voce

Solo a partire dalle capacità riproduttive della voce, evidenziate dalle tecnologie dell’amplificazione, dal telefonoal microfono, noi possiamo capire cosa sia stato nel passato remoto il ventriloquio. Gli ultimi capitoli del libro,i piú interessanti, mostrano come la nascita del telefono sia parallela alla diffusione dello spiritismo nell’Otto-cento, e come il grammofono, padre dei riproduttori moderni, si relazioni con il nostro passato dimenticato.“Il corpo isterico-ventriloquo della concezione arcaica – scrive – è intrappolato nell’apparecchio tecnologicodel telefono.”Nell’Ulisse Leopold Bloom riflette sui mezzi per preservare la memoria dei morti e questo lo porta a ipotizzarel’uso del grammofono per mantenere le relazioni tra vivi e morti: un grammofono in ogni tomba. Se il telegraforappresentava “le ossa asciutte della corrispondenza”, il telefono appare un medium “miracolosamente umido”con cui trasmettere sospiri, colpi di tosse, tutte le inflessioni della voce umana: la sessualizzazione estrema dellavoce. Qualcosa di inanimato e insieme di fortemente animato, un aspetto su cui non riflettiamo quasi piú,avendo trasformato la comunicazione telefonica in un sostituto del colloquio face to face. Connor ci fa riflettere su moltissime cose, inattese e sorprendenti, come il rapporto tra “l’immaginario vocalico”della cultura americana e la sua forma democratica: le qualità performative della parola vivente; sulla voce comepotente mezzo sia sovversivo sia di dominio. Anzi, leggendo La voce come medium si capisce come questi dueaspetti siano strettamente intrecciati. Noi moderni, e postmoderni, diffidenti verso ogni cosa, laicizzati e cosípoco propensi alla superstizione, in realtà di fronte alla voce del ventriloquo siamo spaesati. Connor ci spiegaperché: la voce dissociata è la vera dominatrice della società attuale attraverso radio, televisione, dischi, cd. Ilventriloquio rende evidente come l’arcaico non sia scomparso ma si trovi ancora in mezzo a noi, e ci dominiampiamente. Se nelle culture alfabetiche le parole sono pensate come forme di registrazione, capaci di racco-gliere i segni delle esperienze e di depositarli in un luogo, nelle culture auditive le parole sono eventi e nonsolo oggetti mnemonici. È facile vedere qui uno degli aspetti del ritorno dell’oralità di cui ci hanno parlato McLuhan e Ong. La nostra so-cietà è tanto auditiva quanto scritta. Una società abitata da eterne voci che echeggiano nelle nostre orecchie at-traverso le cuffie di un iPod, oppure risuonano negli spazi aperti riprodotte da un microfono di un leader cheparla. Senza il microfono e la radio Hitler non ci sarebbe stato. Nella nostra epoca il conquistatore è sempre “alto-parlante” e, come conclude un vecchio aneddoto riferito da Connor, Stalin è solo Gengis Khan con un telefono.

Parla la Pizia nel nostro cd

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Fruscia un cespuglio quattro chiacchiere di vento, e si finisce ginocchioni.Connor ha scritto un’appassionante “storia culturale del ventriloquio”, partendo dagli oracoli per finire alla tragedia delle possessioni e alla farsa dei pupazzi. In realtà, un capitolo dopo l’altro, sono le tecniche con cui si scorpora la parola che il suo saggio analizza, mettendo a giorno il modo in cui funzionano i media, tutti.L’alfabeto, la radiotrasmissione, il digitale non hanno altra funzione che disincarnare la parola, fino a sublimarlain uno spirito che possa incarnarsi di nuovo. La voce che risuona senza corpo ha del miracoloso, perché è comeimbattersi direttamente nel parassita, ma è un trucco (e di grandi conseguenze, se è cosí che avviene fra noi iltransito dell’informazione); e a nessuno, messo nelle condizioni estatiche di un tale incontro, viene da pensareche in realtà, scorporato dal suo ospite, il parassita nemmeno vivrebbe. Senza contare che un simile sospetto, se fossimo tanto sani da nutrirlo (come Fedro dopo l’equivoco tête à tête con Socrate), ne ingenererebbe subitoun altro: se senza corpo la voce risuona, non è che per caso sta utilizzando la mia carne come cassa di risonanza? È l’aspetto politico, e attuale, della storia del ventriloquio: una voce disincarnata diviene facilmente potere, His Master’s Voice, ma solo a patto che, per essere veramente sottratta al corpo, sia spinta ancora piú dentro nella carne, dall’apparato fonatorio (che è il nostro continuo contatto con l’esterno, che neanche a dirlo è solo aria) alle remote profondità del ventre. Qualcosa ci parla dentro. E mica è un problema. Se è per questo,surriscalda Socrate il suo ragazzino incantato, ci scrive pure.

Hai parlato spesso della necessità di “fare le orecchie alla pagina”. Che porta con sé la necessità di “ri-fare le orecchie” al lettore, che da oltre cinquecento anni è “tutt’occhi”. Quali sono secondo te le forme (format, formati) che possono permetterealla voce di evadere dalle gabbie tipografiche, per risvegliarci dal “sortilegio” mediale che ci ha ipnotizzato?

Tutte quelle che slatentizzano la voce, costringendo a sentirsi, all’unisono, un corpo e un parassita. Il file audio è quello che funziona alla perfezione (ha liberato ai suoi albori persino la musica, come notò per tempoArnheim), ma anche un libro può esserlo (perché in verità lo è stato). L’udito, lo sappiamo, è con l’olfatto il sensodei sensi dei mammiferi: se una massa di carne appetitosa (quale siamo) aspettasse di imbattersi faccia a faccia con il suo predatore, sarebbe bell’e spacciata. Lo deve invece sentire, facendolo persino risuonare dentro. Il simbolico nasce all’origine fra orecchie e muso, e quanto all’origine stessa, beh è proprio con il muso che ha ache fare, riprogrammando la bocca (os) che in noi diventa viso. È la viseità di cui parlavano Deleuze e Guattari. Da questo punto di vista, come specie, abbiamo fatto del nostro meglio (non staremmo altrimenti nemmeno qui a raccontarcelo). Ci siamo evoluti... nel superuomo? No, in due mezze cose, con l’interfaccia. Siamo tutti poveri diavoli, due-in-uno, e per fortuna.Il pericolo che corriamo non è ascoltare o parlare le parole degli altri (quali altre parole potremmo mai parlare?),è ritenere invece nostre, e del nostro sprofondo, le parole che sono in superficie, e sono di tutti. Un qualsiasipsicanalista, gira e gira, lí finisce. Ecco perché ci giochiamo tutto fra langue e parole. Non è un passatempo l’arte, è l’ominazione. Quando ascolto una voce, o tiro fuori la mia per leggere un testo, sento quanto è mio (un appartenere), e quanto non lo è eppure in quel momento è ciò che per davvero mi appartiene (e mi faappartenere). Compio l’arte, che è la congiunzione di due tecniche: quella dell’ascolto e quella del discorso. Cioè sento me e sento l’altro (in me). È il senso del “comandamento nuovo” del vangelo di Giovanni: “amatevil’un l’altro” (allelus), consapevoli che non ce n’è uno, fra di noi dico, che non sia già di suo un “l’un l’altro”.

La cultura tipografica, hai scritto, ha denarrativizzato il sapere, rinchiudendo il racconto nel ghetto dell’intrattenimento.Dobbiamo ritornare a “raccontarci delle storie”, per riappropriarci del sapere?

Le lunghe emissioni di silenzio prodotte dalla catena di montaggio tipografica, che ci hanno imposto la letturasilenziosa con cui in realtà mettiamo a nanna i pensieri, servivano al progetto individuale, e individuante, della cultura borghese, tutta proprietà privata ed economia (domestica). C’era insomma bisogno che si contasseper uno, uno e uno e uno, per chiamare all’appello una classe che letteralmente non contava, e aveva l’imperativodi distinguersi dagl’innumerevoli innominabili (mettendo nelle condizioni ogni “eletto” di essere uno, e dunqueun valore di variabile). Si è fatta la “sfera pubblica” cosí, con la letteratura da ruminare in proprio, non certo l’arte.L’arte, lo ripeto, si fa solo se si congiungono due tecniche. Ed è con l’arte che si fa comunità, non certo classe (o schiera in uniforme, o ronda o squadra incamiciata). Devo insomma essere messo nelle condizioni diaccorgermi che ho l’extracomunitario in casa, anzi dentro di me, se voglio per davvero appartenere a unacomunità. Se non si è in grado di fare questo lavoro, facendo toccare le due mezze cose che siamo attraverso l’artedella voce, rischiamo di diventare lo spettro del nostro cadavere insepolto, alla ricerca della terra che lo contenga.Che ci piaccia o meno, abbiamo invece un corpo, e ne traiamo profitto facendolo schizzare via nel cosmo, solo seseppellito nella voce.

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Il diciannove aprile del millenovecentonovantanove abbiamo iniziato la registra-zione delle voci. Avevamo già scelto e ricomposto in un collage i testi di alcuni poetidell’Otttocento e del Novecento: l’idea, all’origine del progetto, subito dopo ilprimo incontro con Vittorio Gassman a Trieste, era di scrivere un libro nuovo contesti già scritti: una forma di ars combinatoria che disponeva i testi in un cielo rico-noscibile per i lettori di poesia a venire.

A Genova, secondo incontro, si era deciso di procedere a ritroso dal Novecento alle origini della lingua italiana.A Bologna, terzo incontro, eravamo consapevoli che solo l’amore per l’iperbole cipermetteva di inserire alcuni poeti, provocatoriamente, ed escluderne altri. Segui-rono incontri settimanali, e a fine settembre tutte le voci erano registrate. Ora dob-biamo togliere, diceva. Togliere, levare. Dovrà essere un’opera lieve.Non è un’antologia. È una nuova poesia lunga due secoli. Una tecnica letterariafra le tante, ripresa dalla storiografia ottocentesca, prossima all’ambizione di WalterBenjamin di scrivere un libro fatto solo di citazioni.

La tendenza del teatro della chiacchiera è di dar voce, disse Vittorio, la nostra operazione invece vorrà, in fugadalla volgarità, subtrahere piuttosto che deducere. Giurammo sulle nostre spade (poetiche) che la metafora alche-mica avrebbe dovuto essere il decanthare.

Voce

Traghettare la poesia nel terzo millennio

Luca Sossella

2000 Antologia personale di Vittorio Gassman. Poesia italiana dell’Ottocento e del NovecentoQuattro cd audio a cura di Luca Sossella; prefazione di Mario Luzi; musica di Nicola Piovani. Voci: Vittorio Gassman, Franca Nuti, Roberto Herlitzka, Lina Sastri, Franco Giacobini, Ludovica Modugno, Paola Pavese, Paolo Giuranna

L’arte – sosteneva Leopardi –accresce la vitalità dell’uomo.E in Mario Luzi, cheringraziamo per il viaticodonato a questa nostrainiziativa, riecheggia lo stessopensiero quando dice: “La poesia aggiunge vita allavita. Una vita al quadrato.” Bastano queste premesse epromesse di felicità, di vitalità,a innamorarci della poesia, a sentirne – direi – la necessitàin tempi duri e cupi comequelli che viviamo.In quanto alla mia modestaesperienza personale, posso dire di aver spessotrovato nella poesia elementi di consolazione, dichiarificazione e di stupore,perché i veri poeti ci

stupiscono sempre un po’. I poeti realizzano il piccolomiracolo laico invocato da Dostoevskij: d’accordo,sappiamo che due piú duefa quattro, ma quanto piú bello sarebbe se almenouna volta facesse cinque. Da tutto questo risultaevidente – io spero – il sensoniente affatto professorale,anzi, tutto privato, che mi ha deciso a realizzare questa antologia, e lo stesso dicasi dei criteri seguitinella scelta dei testi e deicollaboratori. Infatti, salva la personalità e libertà stilistica di ciascuno,credo che si sia imparentatifra noi da alcune convinzioni comuni che sintetizzo.

Primo: se un’opera è scritta in versi un motivo c’è e va rispettato. Secondo: in ogni testo di un vero poetasi celebra la conciliazione tra Apollo e Dioniso, razionale e irrazionale. Quindi la passione vaaccompagnata dalla tecnica.Quanto all’annoso e uggiosoquesito se la poesia sia o norecitabile, io non scorderò mai il senso di gioiosa libertàche emanava dalle recite di alcuni grandi dicitori che ho ascoltato, e nonscorderò mai i tanti poeti concui mi sono alternato nelladizione pubblica dei loro versi,da Pasolini a Evtusenko, daRafael Alberti a Pablo Neruda. Vittorio Gassman

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E in quel momento, scherzando, ma la voe mi tremava, gli recitai, si fa per dire,imitandolo, l’epigramma di Marziale: “I versi che declami sono miei / Fidentino:ma se li dici male / ecco, diventano tuoi.” “Ma se li dico bene, ecco diventano miei”, concluse Vittorio. “Sai perché stiamo facendo questa operazione?” mi chiese un giorno, mentre stavamoregistrando il quarto cd – la chiamava operazione. Banalmente gli dissi che credevodi saperlo. “Te lo dico io perché: siamo obbligati a farlo dal disgusto per ciò che siamo costrettia pensare e a dire.”Vittorio era abitato da un angelo che aveva in odio la volgarità.

Dopo la traversata dell’assenza mi trovo nella tranquilla malinconia del silenzio: po-tresti anche sostituire i termini: sono intercambiabili – è sempre il vuoto. Ho attesouna tua telefonata. Scusa Vittorio, non volevo disturbarti. Non importa, so bene che piuttosto che parlare del disgraziato quotidiano è megliorimanere in silenzio. Il silenzio sollecita mille risposte e pone mille domande. La senti la voce, le notti insonni. Ognuno possiede l’inferno che si è guadagnato.L’inadattabilità è una costante oltre la storia, di tutta la storia. Il dolore è privilegio.E io sono privilegiato. Moltissimo. Mi sembra di aver doppiato la sofferenza, e lodico senza preoccuparmi degli idioti che hanno fatto della sofferenza un esercizioletterario, ma, vedi, non esiste una gradazione del male: non ci sono i minimi e imassimi dolori: il dolore copre uno spazio e lo copre sempre tutto.

La separazione da sé è davvero indicibile.Io non ho paura dell’ovvio, di sembrare banale, e non lo sono se ti dico che ho as-sistito alla mia rinascita. Ho visto nel suono buio dell’acqua la descrizione dell’ansia. Come una scrittura.Una scrittura. Un alfabeto non mio, ma a me comprensibile, però senza corrispet-tivo: intraducibile. Mi sono ascoltato, senza menzogne e senza ragione, con pocooro, tutto il mio oro.Dopo non avrai piú bisogno di tradurre, di descrivere in una lingua che non ci ap-partiene, nella lingua di nessuno.

La partitura era composta. A maggio del duemila (dopo la decantazione) sono state tolte alcune interpretazioni,riascoltate, corrette, tolte definitivamente. Bisogna essere puntuali, diceva.Alla fine gli dissi: “Questo era un mio sogno. E si è realizzato.”

Dicono male che il tal desiderio è stato soddisfatto. Non si soddisfano i desideri,conseguito che ne abbiamo l’oggetto, ma si spengono, cioè si perdono e abbando-nano per la certezza acquistata di non poterli mai soddisfare.- Leopardi?- Bravo, Leopardi, sí.Era l’ultima volta che vedevo Vittorio. L’ho sentito ancora al telefono, due volte, eogni volta che mi parlava della sua fragilità, mi sento fragile, gracile, diceva, avver-tivo il senso dell’eredità nel contenuto dell’operazione e il lascito di un mandato.Controluce, nell’inferno della volgarità del quotidiano, vi era la passione puntualedi traghettare la poesia per i lettori a venire.

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la quale Vittorio volle stabilire la durata di ciascun pezzo, in modo che alla fine ognicd avesse la lunghezza prevista.L’esecuzione dai vari brani non comportò particolari difficoltà.A parte alcune defezioni, del resto previste (Giovampietro con proble mi di salute,Manfredi con precedenti impegni di lavoro televisivo) tutto andò nel migliore deimodi. Vittorio fece la parte del leone, com’era, del resto, nei piani, e sia la Nuti cheHerlitzka furono al meglio delle loro qualità (l’ascoltatore può rendersene conto daal cuni brani di Pascoli e di Saba detti dalla Nuti, e da quelli di Leo pardi interpretatida Herlitzka).In accordo con Sossella chiedemmo a Mario Luzi di dettare una breve introduzionealla nostra scelta.Tutto era dunque pronto per passare all’edizione, quando sopravvenne la malattiache impedí a Gassman di partecipare a quelle pratiche pub blicitarie necessarie in si-mili occasioni.Fino all’imprevista, repentina fine del nostro grande attore, il 29 giugno 2000.

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L’autunno del 1997. Un tempo cosí vicino, e ormai cosí lonta no. Eravamo a Bologna,in una tappa della tournée di Anima e corpo.Seduti a un caffè non distante dall’Arena del Sole, il teatro do ve recitavamo, pren-devamo un gelato.A un tratto Vittorio allontanò da sé il bicchiere ormai vuoto, det te un’occhiata all’o-rologio e ruppe il silenzio: “Dobbiamo andarcene. Alle sette abbiamo un appunta-mento.”“Abbiamo?”, dissi io. “C’entro anch’io?”“Tu soprattutto.”Mise una banconota sul tavolo, poggiandoci sopra il bicchiere perché non volassevia, e si alzò.“Andiamo al mio albergo.”“Potrei sapere qualche cosa di piú?”, azzardai.“Ne so poco anch’io. Comunque... Mi ha telefonato un giovane editore. Di qui, diBologna. Vuole fare una serie di dischi sulla poesia italiana. O meglio dei compactdisc, dei cd, insomma.”“È un lavoro che riguarda te. Tu dici i versi, io no.”“Certo. Ma c’è tutto un lavoro da fare. Scegliere i poeti, trovare gli interpreti, prepa-rare le note biografiche. Insomma, tutto quel lo che c’è da fare. Io voglio occupar-mene. Ho il tempo. E la voglia. Ma vorrei che tu mi aiutassi in questa operazione.”

Incontrammo il nostro futuro editore nella hall dell’Hotel Roma, dove Vittorio abitava. Luca Sossella, un giovanealto, gioviale e severo, camicia bianca e impeccabile vestito scuro.Su invito di Vittorio Sossella espose il suo piano. Pubblicare una serie di cd audio che avrebbero dovuto conte-nere una scelta della poesia italiana, dalle origini fino a oggi. Suggeriva di cominciare con la poesia moderna,da Foscolo in poi, per coinvolgere piú facilmente gli eventuali acquirenti. Vittorio avrebbe avuto la direzionedel l’impresa e avrebbe inciso una parte delle poesia scelte.“Avrò bisogno di alcuni collaboratori”, disse Vittorio, quando Sossella ebbe terminato la sua esposizione. “Lui”,e accennò a me, “per tutta la parte organizzativa, poi altri dicitori di versi. Ce ne sono alcuni bravissimi, peresempio Franca Nuti e Roberto Herlitzka. Ma possiamo aggiungerne altri, per certe cose speciali: Lina Sastriper le poesie in dialetto napoletano, Paolo Giuranna, Renzo Giovampietro, forse anche Nino Manfredi...”La serata finí in un tripudio d’entusiasmo; tutto lasciava prevede re che presto ci saremmo messi all’opera.Invece non fu cosí. Era difficile lavorare durante la tournée, e ri mandammo tutto al nostro ritorno a Roma.La scelta degli autori e delle poesie non fu difficile. Ma impiegò piú tempo del previsto per la precisione con

Poco prima del sipario

Luciano Lucignani

Luciano Lucignani (Roma, 1922-2008). Dopo la maturità classica si iscrive all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma. Suoi compagni del periodo sonoVittorio Gassman, Luciano Salce,Vittorio Caprioli, Adolfo Celi, Mario Landi. Nel dopoguerra,impegnato culturalmente nel PCI, oltre alla recitazione si occupa di regia teatrale, critica, sceneggiature,allestimento di spettacoli. Nel 1955 è coregista del film Kean, di Gassman, mentre nel 1968 è coautore insieme a Celi e Gassmandella pellicola L’alibi, nella quale i tre amici sono contemporaneamenteautori, registi e attori.

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Non vorrei fare come quegli attori che, parlando di un grande collega scomparso,finiscono per citare e lodare soprattutto se stessi, ma forse oggi proprio quel grandemi induce a farlo, perché ha cominciato lui, prima additandomi pubblicamente, in-sieme a pochi altri, come buon lettore di Dante, e chiamandomi poi a recitarlo ac-canto a sé, con Ugo Pagliai e Paola Gassman, auspice Antonio Calenda, sul palco delteatro Rossetti di Trieste, dove, dopo quarant’anni e piú che lo incontravo soltantoda spettatore, condividemmo gli applausi, il mare di pubblico e anche giornate incui sentii tutto il fascino privato dell’uomo di cui conoscevo soltanto quello scenico.Mi ha dato ancora quest’altra occasione, che avrebbe dovuto iniziare una collabora-zione e invece purtroppo la conclude, lasciandomi e risvegliandomi ricordi preziosie riflessioni che vorrei riferirvi. Comincio raccontando un episodio minimo e perso-nale, che mi sarebbe parso impensabile un giorno divulgare, e che ho confidato soloa mia moglie, un anno dopo che era successo. Non sono neanche sicuro di far bene,ma lo faccio lo stesso, intanto perché, se permettete, me ne voglio vantare, e poi per-ché, ripensandoci, mi ha fatto capire una cosa importante. Eravamo seduti accanto nello studio di registrazione, e stavamo ascoltando o aspet-tando o ragionando, non ricordo di preciso, e lui mi ha detto: “io ti voglio tantobene”, con un tono fraterno, antico e adolescenziale, come di chi ha scoperto uncompagno di scuola, con cui sente di condividere, o di aver potuto condividere qual-cosa di essenziale.

Non so come reagii, certo balbettando qualche inadeguata fesseria; immaginate un po’ di sedervi accanto alMosè di Michelangelo e sentirlo che vi dice: “ti voglio bene”. Uno ci rimane, si domanda: “Ah ma allora parla,perché gli hanno chiesto perché non parli?”Ma Gassman era un Mosè che parlava, e io ho capito il perché: eravamo immersi nella poesia, e lui ha sentitoche io, come lui, sulla poesia fondavo tutta la mia vita di attore. Per Gassman la poesia, intendo la poesia comeletteratura, era la materia viva, da cui nasce il nostro lavoro, o se vogliamo chiamarlo col suo nome, la nostraarte. Certo ci sono poi le mille sacrosante escursioni in tutte le forme di spettacolo, ma la base, la radice vera èquella e beato chi lo sente e lo capisce. Gli attori italiani, con tutto il rispetto e fatte le debite eccezioni, consi-derano i versi come un ramo collaterale, opzionale del loro repertorio, nel quale eventualmente esibirsi grati-ficando gli uditori. Io credo che Gassman si sia sentito un po’ isolato in questo campo, e non solo per la suaeccellenza, e forse ha riconosciuto in me un connivente.E a proposito di versi, concludo con due o tre ricordi che lo riguardano. Tantissimi anni fa ascoltai un suo disco in cui recitava un sonetto di Foscolo, Alla sera. All’ultimo verso dovedice “dorme” fece uno scarto di tono inobliabile che dava tutto il senso della gravità fatale di quella poesia. Ba-sterebbe quel “dorme” a dimostrare che la poesia non va semplicemente letta, ma interpretata, esattamentecome il teatro, esattamente come la musica, per trasmettere agli altri anche una sola delle infinite cose che cia-scuno vi può trovare.Tant’è vero che quando la leggiamo internamente, se ne siamo colpiti ne facciamo, dentro la nostra mente,una rappresentazione senza risparmi. All’attore il compito, difficilissimo ma legittimo, di comunicare le suescoperte in modo efficace e credibile per tutti, o almeno per qualcuno.E ancora di quel tempo lontano ricordo il modo in cui disse: “l’anima stanca accogli” nel finale dell’Adelchi diManzoni. Oggi si tende ad appianare la recitazione, con risultati spesso indiscutibili perché plausibili; ma gli at-tori che hanno provato, e ancora provano, a toccare tutti i tasti del loro strumento, e a estenderne la portata,possono sbagliare piú facilmente, ma quando non sbagliano raggiungono lo spirito di chi ascolta in modo benpiú che plausibile. Un ultimo ricordo: quando eravamo a Trieste Gassman disse il XXXIII del Paradiso, durante il quale ebbe nondico qualche mancamento ma qualche sospensione di memoria. Non penso affatto che il pubblico lo abbia av-vertito, ma che abbia sentito qualcosa di simile a quello che io, sperando che la mia notazione gli suonasse,come era, un complimento estremo, poi gli dissi: “Tale era la tensione cosmica della tua recitazione, che quellepause, invece che allentarla, vi entravano come spazi siderali.”

Un ricordo

Roberto Herlitzka

E dopo tanta celebrazione poetica, se ci fosse Gassman sarebbe arrivato il momentodi qualche giocoso sberleffo; ma lui non c’è piú e senza di lui ci è un po’ passata lavoglia di giocare.

Roberto Herlitzka (Torino, 1937) è un attore teatrale e cinematografico.Di origine ceca, è stato allievo di OrazioCosta all’Accademia d’Arte DrammaticaSilvio D’Amico. Nel 2004 si è aggiudicatoun Nastro d’Argento e un David di Donatello come miglior attore per la sua interpretazione di Aldo Moronel film di Marco Bellocchio Buongiorno,notte (che gli è valso anche il PremioHorcynus Orca quattro anni dopo), e ha ricevuto un Premio Gassman comemiglior attore per gli spettacoli teatraliLasciami andare madre e Lighea. Vittorio Gassman lo ha voluto al suofianco per interpretare alcuni testipoetici all’interno della Antologiapersonale di Vittorio Gassman,pubblicata da luca sossella editore nel 2000.

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Alla fine Carmelo Bene è arrivato a coincidere con il proprio desiderio. Essere pura voce. Risuonare, e basta, dentro ognuno deisuoi ascoltatori. La sua voce è un fantasma sempre ritornante, che ci fa eco dentro per dirci, per dire che ci riguarda: riguardanoi, “vivi a casaccio”, che sputiamo sulla vita che è stata, noi che non saremo mai, perché “solo è chi manca, e perciò ritorna”.

“Meglio non veder niente ma sentire come si deve”raccomandò Carmelo Bene a chi assisteva all’eventomemorabile Voce dei Canti, di cui fu protagonista nel 1998,nel bicentenario della nascitadi Giacomo Leopardi. Un documento videostraordinario di tre ore e mezza,per la prima volta in dvd. Un laboratorio orale in divenire,proprio una scuola necessaria,

giacché “non insegnandosi piú il verso, da noi, il calo diqualità e di talento è ormaiirrimediabile. L’orecchio se n’èandato”, disse Carmelo Bene. La voce è scritta per esserecantata e la fierezza fragile eonnipotente del piú grandepoeta moderno, il suo deliriocosmico, vengono restituiti da Bene a pura oralità, “unterzo orecchio dell’inconscio”.Come dice Franco Quadri “Voce

dei Canti è uno spettacololabirintico e risonante d’arcanirinvii come un sogno, e non perché Il sogno necostituisce un capitolo, ma inquanto permette d’intravederedietro modulazionimomentaneamente distaccatel’Altro, cioè il Bene d’allora,mentre per ciascuno è in atto il recupero privato del proprioLeopardi, amato, appropriato,sofferto in ogni adolescenza”.

Una lettura che corre lungol’arco di una immaginaria“giornata tipo” di EnnioFlaiano. Secondo la traiettoriache Flaiano stesso descrive in un frammento de La solitudine del Satiro:“Cambio di umore e di ideeseguendo il corso del sole. La mattina odio la società, la sera l’amo. Al mattino,leggendo i giornali, tutto mi è di peso: la commozione delleclassi medie, l’insolenza degliestremisti, la beatitudine dei

governanti. Col trascorreredelle ore mi sento piú portato a comprendere gli altri punti di vista, persino a tollerare e asorridere. Scende infine la sera:ma sí, tutto va meglio, l’Italia è il mio paese, gli italiani sonosimpatici con tutti i loro difetti,la rivoluzione può essererinviata. L’indomani sonodaccapo: solitudine totale,rinuncia, o tuffo nella realtà?Dovrò compiere altrerivoluzioni attorno al mio asse, in ventiquattro ore.”

La lettura, suddivisa in tre atti,attraversa l’opera di Flaiano,decostruendo i testi ericostruendoli secondo il ritmoscandito da una rotazioneindividuale: da mezzogiornoalla notte. Tre luoghi simbolicie rappresentativi dellaquotidianità di Ennio Flaianofanno da sfondo al monologodel protagonista (detto daRoberto Herlitzka), che parlae ricorda e scrive e riscrive fra sé e sé: il caffè (la rivolta),luogo dei frammenti “civili”,

Il minore ovvero Preferirei di no una lettura in tre atti dell’opera di Ennio Flaiano, con RobertoHerlitzka, a cura di Luca Sossella, regia di Jacopo Gassmann. Dvd dello spettacolo andato inscena mercoledí 21 settembre 2005 all’Auditorium Parco della Musica di Roma

2003 Voce dei Canti di Giacomo Leopardi un dvd di quasi tre ore

del profondo e lucido disagio di fronte alla stupiditàorganizzata della società; ilristorante (la pacificazione),luogo dell’ironia aforistica,lapidaria e dissacratoria, neiconfronti del mondo deiletterati e degli intellettuali,“minoranza di intelligenti”dominata da una “maggioranzadi imbecilli”; infine il residence(il dolore), luogo della distanzadagli inutili dibattiti e banchetti,confronto con l’intimità piú segreta e sofferta.

“Io mi scuso, per il vento che ha turbato questa dizione,questo canto, e sebbeneringrazi gli astanti ricordo un po’ a tutti che ho dedicatoquesta mia serata,

da ferito a morte, non ai morti, ma ai feritidell’orrenda strage.” Cosí terminò Carmelo Bene,a Bologna, il 31 luglio 1981, dalla Torre degli Asinelli

davanti a un oceano di persone(misteriosamente silenziose)quella notte che, un anno dopo la strage, cantò,dominato dalla grazia, la sua Lectura Dantis.

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Carmelo BeneLectura Dantis

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2004 Lectura Dantis un testo di 32 pagine e un cd audio di 46 minuti

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È stato di parola. Ha messo in scena la sua morte. Lo ha fatto con il perfezionismodi sempre, la cura maniacale dei dettagli. Questa volta ha scelto anche il pubblico.Pochi intimi. Nessuna replica. Per la sua ultima impresa d’attore ha rinunciato alprediletto Beyer, il microfono con cui faceva all’amore. Non c’era piú nulla da am-plificare. Gli avevano inciso, insieme al colon e al peritoneo, anche un pezzo di dia-framma e la sua voce non era piú la sua voce. “Non ha piú le armoniche”, sidisperava con chi provava a consolarlo. Aveva urlato notti intere, come un lupo in gabbia. Spellato dall’orrore ancora primache dal dolore. Con quella poca voce che gli restava. Aveva invocato la morfina, ilcianuro, l’eutanasia. “Che devo fare? Ditemi cosa devo fare?” Un giorno ha smesso di invocare. Ha smesso di lamentarsi. Delle fitte atroci, deicani che abbaiavano là fuori, dello stomaco che perdeva i pezzi. Ha smesso con leallucinazioni. Che altro erano quei bambini che in giardino cantavano Tu scendidalle stelle, tra agli angeli di gesso dell’Hamlet Suite? Ha fatto sistemare una paginadi giornale sullo specchio in camera da letto per non vedere piú riflessa la sua im-magine agonizzante, ha oscurato la stanza, spento il suo Sony 34 pollici acceso dauna vita, lasciando solo una luce fioca da tela fiamminga sul suo viso sfinito, la barbalunga e alle spalle il quadro dell’amico Marotta, Amore e Psiche.

Peggio per noi*

Giancarlo Dotto

Giancarlo Dotto (Valdagno, 1952) èstato per molti anni l’assistente allaregia di Carmelo Bene, col quale haallestito, tra le altre cose, Pinocchio o lospettacolo della Provvidenza,distrazione a due voci tra scena e quinta(1981). Con Carmelo Bene ha scrittoSono apparso alla Madonna (1983) eVita di Carmelo Bene, pubblicato nel2005. Per anni inviato de “L’Espresso”,ha collaborato con “Panorama”, “LaStampa”, “Il Foglio”, e attualmentescrive per “Sette”, magazine del“Corriere della Sera”, “Wired”, “Max” e“Gioia”. Grande esperto del mondo delletelevisioni locali durante il cosiddettoFar West televisivo, ha scritto, insieme aSandro Piccinini, giornalista sportivo, illibro Il mucchio selvaggio. Lastrabiliante, epica, inverosimile ma verastoria della televisione locale in Italia,pubblicato nel 2008.

Pinocchio s’immerge nellemeraviglie di Alice edall’incontro dei due mondivien fuori una lezione crudele.Insostenibile per gli adulti.Necessaria per i bimbi. Lospettacolo è dedicato a chi èancora capace di spavento e distupore. Il debutto mondiale èper l’“innocenza”. Non si può

invitare a teatro l’infanzia,lusingarla con la promessadella favola, sottrar loro lafavola, e pretendere untrionfo. Un trionfoequivarrebbe in quel caso a unmiracolo.Il miracolo è puntualmenteavvenuto. Al Teatro Verdi diPisa i bimbi hanno applaudito

a lungo, e quell’applausoaveva qualcosa di molto caroa me perché affermava senzaequivoco nell’assenza di ogni“Pescecane” l’unica verapossibilità di commozione. Che sarà di voi adulti? Abbiatel’umiltà di abdicare almenocome spettatori. Carmelo Bene

Grazie alla veggenza “uditiva”e divinatrice di Carmelo Bene,l’orchestrazione del Manfredbyroniano di Schumann,accompagnata dal coro dellaScala, è restituita nel suocarattere di oratoriovaticinante – mentre gliaccordi di Schumann fannoeco alla sfida di Byron, simile aun esorcismo delle proprieossessioni, di cui Carmelo

Bene e Lydia Mancinelliscandiscono le varie fasi con laloro voce. Tra l’orchestra e ilcoro, Carmelo dà vita allafisionomia di Manfred agitatodal desiderio furioso di abolirel’immortalità della propriaanima, mentre si dibattecontro i démoni e le potenzecelesti che di volta in voltal’assalgono – egli stessosimula talora i loro sussurri

insinuanti – oppure sorgono alegioni con tutto il coro, perpoi sparire di nuovonell’ombra. L’impenitenzafinale di Manfred terminacomunquenell’attualizzazione dellospazio degli spiriti di cuiCarmelo Bene si rivela qui,ancora una volta, l’evocatoreeccezionale. Pierre Klossowski

2005 Pinocchio un testo di 22 pagine e due cd audio per 93 minuti

2006 Manfred. George G. Byron – Robert Schumann un fascicolo di 32 pagine, con testi di GiorgioManganelli e Gilles Deleuze, e un cd audio di 75 minuti. Orchestra e coro del Teatro alla Scala.Registrazione dal vivo effettuata al Teatro alla Scala di Milano il 1 ottobre 1980 luca

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Carmelo BeneManfred

cd audioCon testi di Giorgio Manganelli e Gilles Deleuze

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* Ringraziamo l’autore per averci concesso questo testo, riproposto con lievi modifiche dopo essere stato pubblicato su “L’E-spresso” nel 2002, dopo la morte di Carmelo Bene.

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Mi ha chiesto in fin di voce di aggiustargli la coperta di lana sulle gambe. “Le gambe, non le sento piú.” Di pie-gare i quattro orli, tutti allo stesso modo, simmetrici. L’ho fatto senza chiedermi perché, era tempo perso conlui chiedersi perché. Solo dopo aver controllato che tutto fosse al suo posto, si è abbandonato con le mani in-trecciate sul petto. “Adesso voglio dormire”, le ultime parole rivolte a Luisa, la compagna insostituibile degli ul-timi anni. E si è preparato a morire. Somigliando impeccabile ai comatosi che aveva tante volte spiato nellefoto di guerra di David Harali, nelle poesie di Gozzano, nei Cristi di Mantegna, nei racconti di Poe e nei manualidi anatomia di Krafft-Ebing. La morte migliore possibile, vegliato dal brusio delle donne che lo amano e che lohanno amato, la femminile disattenzione che da sempre scortava i suoi eroi morenti di scena.

L’aveva detto agli amici piú intimi. Il suo ultimo spettacolo sarebbe stato una veglia funebre. Del manichinostremato che restava in lui, in fondo a tutti i suoi Pinocchi, a tutti i Lorenzacci e gli Amleti, in fondo ai siparistrappati, le pellicole bruciate, gli infarti e le emicranie, il fegato che fa acqua, bottiglie e farmaci scolati, ilbisturi e il verso, tutto precipitato, tutto in apnea e il monaco insonne, migliaia di notti bianche, pagine e pagine,una scorribanda che lo ha lasciato, che ci ha lasciato, senza fiato. Il cancro era tornato. Era già in metastasi e non lo sapeva quando leggeva Dante nel castello di Otranto, loscorso agosto, l’ultima esibizione pubblica davanti alla sua gente. Memorabile, raccontano i presenti. Era stancoCarmelo. Se ne infischiava del mondo che lo adorava o lo detestava, del tempo che gli restava o non gli restava.Era deciso a conquistarsi una lucida follia alla Friedrich Nietzsche. Il suo “depensamento”. Non usciva piú dicasa. Cantava arie di Rossini e farfugliava fitto mentre scriveva con la pazienza dei monaci amanuensi. “Ognitanto mi viene di buttarmi giú dal terrazzo”, mi diceva nella sua casa di Otranto, “ma poi ci ripenso, sarebbeuna volgare piazzata.” Mille volte spacciato e miracolato. Anche stavolta sembrava potercela fare. Nonostante200 metastasi, infezioni, ernie, versamenti, l’addome che si apriva, la carne marcia. Per l’ennesimo massacroda bisturi aveva scelto un chirurgo, Husher, che gli ricordava le rovine della casa del suo prediletto Edgar AllanPoe. Deliri sempre illuminanti, i suoi. Perdeva budella e pezzi d’intestino ma questo non gli impediva di darelezioni notturne in francese su Céline all’infermiere che lo vegliava. Una delle ultime notti, gli tornò la vogliadi scrivere, ma le mani erano cosí deboli che non riusciva piú nemmeno a reggere il suo pennarello di china. Carmelo Bene era troppo per chiunque di noi. E, adesso che non c’è piú, ognuno si porta via il pezzo preferitodella sua sconfinata biografia. L’attore sublime, l’intellettuale aforistico, il cineasta, lo scrittore, il poeta, la voce,il performer televisivo. Lo scandaloso e il solitario, l’incantatore e il serpente, il vampiro e la ferita sempreaperta. Un orco impastato di tenerezza. Non era possibile stargli al fianco piú di qualche tempo senza patire leustioni, senza dover cercare tregua altrove, nel mondo dei normali, dove non tutto precipita contro il limite.Piú che una vita, un’impresa di demolizione la sua. Aveva il carisma di un divo rock e lo dimostrò quella nottea Bologna, ammaliando i duecentomila con la lettura di Dante. “Tanto gentile e tanto onesta pare la donnamia quand’ella altrui saluta”, salutata con un boato come un riff di Jimi Hendrix. La lettura di Jacques Lacan (che gli rese omaggio a Parigi in camerino), le amicizie con Gilles Deleuze e conPierre Klossowski orientarono dagli anni ’80 tutta la sua opera contro l’impostura del soggetto parlante. Scopríle grandi macchine del suono e se ne invaghí perdutamente. Affabulava notti intere di Svetonio e di Elliot, diArtaud e di Cioran, ma era la rassicurante bellezza dell’inorganico la speculazione preferita dei suoi ultimi anni. Era nato lo stesso giorno, la stessa ora, lo stesso minuto, 15 anni dopo, di Vittorio Gassman, l’amico rivale chelo applaude in piedi all’Olimpico nel buio di platea, dopo un Adelchi, poco prima di morire. Tutto era un ringper lui. Disumano per eccesso di umanità, combattente feroce per quanto consapevole della disfatta. Ogni cosauna sfida. Come quella notte, lui come sempre mollemente sdraiato sul gomito sinistro, a curiosare nel dormi-veglia dell’insonne un film sulla vita di John Holmes. Holmes che dice “Ho avuto quattordicimila donne” e luiche riemerge stizzoso “Ma se persino io non sono arrivato a cinquemila”. Lo stesso che si commuoveva fino allelacrime quando parlava all’amico della grandezza di Von Masoch. Ora posso solo dire che la sua mancanza ci brucia le tempie. E a nulla ci serve recitare la storiella del genio mainato e dunque mai morto. Che mille gradi Celsius sono bastati a ridurlo in cenere. Ma non a riscaldarlo. Avevasempre freddo, Carmelo. E odiava l’idea di diventare un mucchio di gelatina in fondo a una bara. “Delle mie ce-neri fate quello che volete”, ripeteva, “magari una bella crostata per colazione.” Abbiamo smesso da tempo dichiederci da dove sia mai piovuto questo essere cosí speciale che ora qualunque starnuto può disperdere nellavolgare polluzione del pianeta. Non è solo l’amico che manca, ma quella voce, chissà dove è andata, quella voceche ci dava calma e forza, quella voce che era la nostalgia di tutto ciò che abbiamo perduto senza avere maiavuto. Che solo a sentirla ci spediva in paradiso. Lui, quella creatura speciale, lui non c’è piú. Peggio per noi.

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Se provassimo invece a dire che Pasolini è un testimone? Che cosa vuol dire testimone? Testimone e testimonianzahanno una risonanza religiosa cristiana, legata a “martire”. Il senso è di chi attesta, e attesta perché vede con ipropri occhi e ascolta con le proprie orecchie. Testimone oculare e auricolare (come direbbe Canetti). E che sifa trasmettitore di questa testimonianza. Testimone nel suo tempo, non soltanto del suo tempo. In un certo sensoPasolini è “inattuale”. Testimone, e profetico. Pasolini ha avuto, sappiamo, premonizione della sua morte, ha avutopresagi di ciò che sarebbe potuto accadere, ha anticipato situazioni a venire lungo la sua decifrazione del tempo.Profeta, in senso biblico, non è colui che predice il futuro, è colui che, apocalitticamente (nel senso etimologicodi disvelamento) svela nel presente ciò che altri non vedono, o non vogliono vedere, occultato dall’ignoranzadelle cause profonde, dall’indifferenza morale e civile, dalla complicità.Gianni Scalia

Pretendo che tu ti guardi intorno e ti accorga della tragedia. Qual è la tragedia? La tragedia è che non ci sono piú esseri umani,ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso,o di dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non passano di lí, e come mai sono andati a fracassarsi inquel modo? O il macchinista è impazzito o è un criminale isolato o c’è un complotto. Soprattutto il complotto ci fa delirare. Cilibera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina stafacendo i piani per farci fuori.Non scherziamo sul sangue, il dolore, la fatica che allora la gente ha pagato per “scegliere”. Quando stai con la faccia schiacciatacontro quell’ora, quel minuto della storia, scegliere è sempre una tragedia. Però, ammettiamolo, era piú semplice. Il fascista diSalò, il nazista delle SS, l’uomo normale, con l’aiuto del coraggio e della coscienza, riesce a respingerlo, anche dalla sua vita in-teriore (dove la rivoluzione sempre comincia). Ma adesso no. Uno ti viene incontro vestito da amico, è gentile, garbato, e “collabora”(mettiamo alla televisione) sia per campare sia perché non è mica un delitto. L’altro – o gli altri, i gruppi – ti vengono incontroo addosso – con i loro ricatti ideologici, con le loro ammonizioni, le loro prediche, i loro anatemi e tu senti che sono anche minacce.Sfilano con bandiere e con slogan, ma che cosa li separa dal “potere”?Pier Paolo Pasolini

Profezia è la capacità di percepire l’evidenza della situazione, della realtà, passata, presente e futura, e di esprimerlae renderla pubblica senza paura per ciò che tale rivelazione potrà comportare. La viltà spesso lascia il velo sopra l’ac-cadere, non svela. Dunque la profezia è la capacità di leggere il passato e il presente, e non solo il futuro. Lo strumentoprincipale del profeta è l’uso della parola. Commentando il verso “Lodino Dio dalle loro gole, e una spada a doppiotaglio (chever pipiot) nelle loro mani”, Rabbi Nachman di Brezlav fa notare che pipiot deriva da Peh, “bocca”. La spadaa doppio taglio è la lingua, la capacità di parlare in modo giusto e alle persone giuste. Parola e comunicazione sonoalla base della profezia, nevuhà. In ebraico Nevuhà contiene i due suoni principali N-BAH. Tale radice, con lo scambiodelle componenti, diventa il greco PH-N. Phánai è “parlare”, phonè è “voce”. La radice indo-europea per “parlare” è BHA

e in ebraico PEH è “bocca”. B e P sono intercambiabili. La Nun che si trova davanti al suono Bha indica le CinquantaPorte dell’Intelligenza, raggiunte dal piú grande dei Profeti. L’unione delle due lettere Nun e Beit in aramaico significa“portare frutto, germinare”. Profetare, quindi, è parlare, insegnare, produrre frutto.Luca Sossella

2005 Pier Paolo PasoliniMeditazione oralecon una nota di Gianni Scalia e un ricordo di Sergio Bardotti, un testo di 24 pagine e un cd audio di 50 minuti

Cinque testi poetici scritti e dettida Pier Paolo Pasolini. I primiquattro sono stati registrati nel 1962, il quinto nel 1970. Sono frammenti di un progettodella Rca e del suo direttore

artistico, Nanni Ricordi, che avevaaffidato a Sergio Bardotti, allievodi Lanfranco Caretti, la creazionedi una collana di “letteraturaparlata”, dal titolo: La loro voce, la loro opera.

Testimonianza e profezia

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Voce

Pasolini offre una lettura senza enfasi, senza effetti interpretativi attoriali, solo il ghiaccio d’acciaio del dolore: una ferita senzalacrime, una scrittura inesprimibile che corre sotto i corpi vivi e i corpi morti del reale. Un documento vocale sotto il quale si intravede la forza disarmata della profezia, la tenacia fragile della testimonianza. La sua voce è la migliore introduzione alla poesia di Pasolini. La ricerca di una parola che possa lacerare il sipario dellarassegnazione: al di là dello stile vi è una pronuncia sacrale, asciutta. La tensione verso una nuova pedagogia. Una lezione di misura:metrica, passione, civiltà. La forza della lealtà che ritorna, come in sogno, in questo tempo stanco e opaco.

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Voce

Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, nep-pure una reminescenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo a unrisolino di stupore, stupore di essercela tanto presa per cosí poco, e anch’io ho creduto fatale quanto si è poi rivelato letale solo per la noia che mi viene a pensarci. A pezzi o interi, non si continua a vivere ugualmente scissi? E le angosce di un tempoci appaiono come mondi talmente lontani da noi, oggi, che ci sembra inverosimileaver potuto abitarli in passato.Seminario sulla gioventú

Quand’è che si è vecchi? Quando non ci si piace piú e il pensiero di piacere a qualcuno, tu che non ti piaci piú,ti riempie di sgomento, e di orrore, per te e l’improvvida creatura, segnata dai fulminanti traumi della sua cre-scita sentimentale, alla quale potresti far gola perfino tu, perché, suvvia, se non fosse un magma di poco dibuono non si accontenterebbe perfino di te e in modo cosí chiaro e disteso, con tanta semplice semplicità; si èdiventati vecchi quando ti svegli nel cuore della notte, una notte senza cuore e né capo né coda, diciamo allatre e dieci del mattino, accendi la prima sigaretta e cominci a riempire l’annaffiatoio al lento rivolo del rubinettodel bagno di sotto, dove la pressione stamattina non potrebbe essere piú bassa e piú snervante l’attesa del pienoa filo del tettuccio, e vai avanti e indietro dieci volte dai vasi di geranio del balcone e dalle aiuole col gelsominorampicante e la rosa e il cespuglio di trifoglio rosa incastonate nelle scale dell’entrata e i due pungitopo nellegiare calabre, e quando dopo un’ora di zelo riparatore guardi soddisfatto il tuo operato e fai per rientrare, sentiun rumore strano alle tue spalle, come di denti del giudizio o monetine scroscianti su un tamburo, ti giri abocca beante e in quell’istante è cominciato a piovere. Seminario sulla vecchiaia. Romanzo (interrotto e interrato)

Giuditta trascina una bambolina di pezza e guarda fisso davanti a sé. Angelo guida a passo d’uomo, gira la testaverso di lei. La bimba non si scompone. Cammina a piedi nudi nel suo costumino blé e la strada polverosa hale sinuosità di un ruscello essiccato. Giuditta incede come una bagnante tradita ma fiera sul carbone ardentedel catrame. Angelo le sorride, invano. Giuditta, dopo la faccenda dei suoi tre carnefici mancati coi quali avevastretto il patto di sangue, non vuole piú saperne di lui. Oh, portarla con sé al lago, vederla di nuovo fare la trot-

Incipit di incipit

2007 Fabio Mauri Memoria ex audituun poemetto iconografico di 44 pagine e un cd audio di 72 minuti

Come se fosse dentro unadelle opere di Fabio Mauri, lavoce di Fabio Mauri vieneproiettata su un fondale nero,buio. Sul quale inizia a tremareuna luce, debole, chiara: è lamemoria, che faticosamentecerca. Lentamente, come unachiazza che si espande, sidelinea un profilo. Ma nessunopuò dire di chi sia quel volto.Se il volto dell’artista, o quellodell’opera. Probabilmente,entrambi.

La voce ricostruisce una seriedi stanze dell’ascolto, entro cuivengono rievocati, comefossero progetti, i ricordi. Un“poemetto iconografico”ripercorre gli itinerari artisticidi Mauri, come una guida(rigorosamente incongrua)attraverso la quale seguire ipercorsi della voce. Leimmagini si sovrappongonoalle parole, in una dissolvenzaincrociata che è il vero metododi questa memoria chescaturisce dall’ascolto:memoria ex auditu.

Non si può scrivere una storiasenza date. Lo sto facendo.Devo controllare. Ho diciottoquaderni, non piú aperti dacinquant’anni, legati da unospago. Per ora il tempo irresponsabiledella memoria vaga, tra frontee sopracciglio, con mezzeimmagini, e per metà nelflusso di altri tempi imprecisi,simulando unacontemporaneità abituale euna connivenza di senso.Fabio Mauri

Aldo Busi

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tola nell’acqua, asciugarla, pettinarla, metterla davanti al banco dei gelati. Giuditta si ferma a un vaso, armeggia,scompare giú per una discesa; voci di grandi che si levano a chiamarla.La bambolina infilzata nell’aculeo di una foglia di agave. Sarebbe questa la fine riservata a un “puttano” come lui?Vita standard di un venditore provvisorio di collant

Da tempi placentari Teodora sognava palloncini colorati, dalla superficie coriacea, infissi in un cielo senza co-lore, un fondale vago come qualcosa d’incerto se esistere o no. E tenuti per il nodo stesso dell’imboccatura,non svolazzanti, perché non c’era spago allentato da una mano che si disavvinghiasse da un fuso. Erano pallon-cini infinitesimali, capocchie simili a gocce d’acqua nera appena sghembe, in cima a pali della luce appuntiti,matite giganti o guglie di chiesa. Queste luminescenze di aria dura vibravano orizzontali come tante teste reciseche neghino con il mento. Poi uno dei palloncini prendeva a enfiarsi e lei viveva la meraviglia di vederlo au-mentare sempre piú e ogni istante era quello dello scoppio rimandato all’istante ulteriore e sempre piú dilagavala massa dalla pelle sempre piú sottile e tesa nello spazio immaginifico dove lei aveva preso a rincorrere a per-difiato la goccia nera perché s’era accorta che quella vescica aveva l’imboccatura nel suo stesso ombelico e dalí suggeva il polposo gas che la stava svuotando per proiettarla verso incomprensibili galassie.La delfina bizantina

Sarei cosí denso da amare: per esempio dalle labbra mieteresti grappoli di sferee umidità vocali e con il battitodattilografico del vecchio organo potresti trascorrere molte notti ad ascoltare concerti di pura retorica non dis-simili da temporali di primavera. E pensa cosa questi globuli assenti potrebbero per te focalizzare sulla carta in-cendiando l’accademia della lontananza, l’arcadia delle tristezze pratiche nell’attesa che nuove architetture dicispa crollino sotto il rubinetto aperto d’improvviso da ogni risveglio. Non ti parlerei semplicemente d’amore,non si tratta solo d’amore: è coinvolto in questa storia il fluire circostanziato del sangue che si fa inchiostro elui si racconterebbe attraverso la pressione dei polpastrelli sulla carne di cellulosa.Io, in questa bella storia d’amore che devasta tanto piú quanto meno c’è, c’entro sempre meno e non di piú odi meno di tutti quanti, inclusi gli esclusi.Sodomie in corpo 11

2004 Aldo Busi Incipit un testo di 36 pagine e un cd audio

Il 1 ottobre 2004 all’Audito-rium di Roma, Aldo Busi leggeun brano inedito e sette inci-pit di sette suoi romanzi. Laletteratura avviene. Gli incipit– vale a dire i cominciamentiche contengono di un’operalo svolgimento e l’epilogo –vengono letti dallo Scrittoreche riproduce il flusso psi-chico della voce narrante concui sono stati scritti. Una festaorale della lingua italiana perscoraggiare i “giovani autori”,un manuale di scrittura per inon lettori di ogni età. Unospecchio d’artista: una rifles-

sione, una presa della parolache equivale a un prendere ledistanze dagli scriventi alsoldo del nulla o, peggio, delmolto poco.

a te, che mi stai leggendo tracent’anni e ti meravigli dellebanalità senza importanzaqui e ora chiamate contutt’altro nome e con un’en-fasi per te, graziato fra i molti,felicemente incomprensibile, ea te, disgraziato piú di tutti,che non mi hai mai letto némai mi leggeraiAldo Busi

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Voce

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Io sí.Il primo cazzo lo intravedo appena, ma lo intravedo in tutta la sua magnificenza tendere la stoffa sdrucita deijeans di lui che si è steso nella sezione centrale del jumbo semivuoto destinazione finale Sidney. Dorme il gio-vanotto biondo scuro e non ha l’espressione del finto sonno, dorme proprio, e sogna. Io me ne sto in piedi efumo, sbircio in lungo e in largo in questo corpo umano che non potrebbe essere in questo momento e inquesto modo piú nudo e indifeso. Nel sonno mi regala un gesto insperato: il braccio sinistro si sposta da sottoil fianco e lui, corrugando appena la fronte, dirige la mano possente sulla cerniera, la manipola e con essa l’in-gombro duro che c’è sotto, come a liberarlo da peli impigliati. Avevo infatti sentito dire che le ultime generazionianglosassoni non vengono piú circoncise e che il filetto è tornato a piacere.Cazzi e canguri (pochissimi i canguri)

Il padre per quanto imperfetto di un perfetto Scrittore è costituito da tutti gli altri Scrittori, anche forestieri,che lo Scrittore si sceglie (unico fra gli umani, Egli si sceglie la paternità), ma la madre o è quella che si ritrovao meglio che sia orfano del tutto. La mia è quella. E artistica per eccellenza, come la mia vera lingua madre:dialettale e non codificata, senza letteratura – senza passato – che non sia orale.Nudo di madre. Manuale del perfetto Scrittore

... qualcuno di scollegato dal resto del sangue in circolo sul pianeta, ecco chi farebbe per me, uno non collega-bile a una madre, a un padre, a dei fratelli, a dei nonni, a degli zii, a dei cugini, a mogli o amanti del passato odel presente... del presente men che mai... qualcuno che non mi causi schifo di già per le sue origini irrimedia-bilmente umane, organiche, organicamente parentelari, e schifo anche per i suoi attuali legacci carnali cui pre-sentarmi con esagerata disinvoltura o, previo appuntamento, da farmi vedere di nascosto seduti alla terrazza diun bar mentre mangiano un gelato perché fa famiglia, contesto, curriculum del cazzo socializzato e ottempe-ranza alla messa della domenica santificata insieme, una bara che avvolge una bara dentro una bara con l’ultimoche scava per tutti quanti meno uno, che già sta scavando per lui, e quindi per me che non c’entro niente.Bisogna avere i coglioni per prenderlo nel culo

2006 Marco Baliani e Stefano Bollani Il rumore del cuore, Il gatto nero di Edgar Allan Poea cura di Lisa Ginzburg, un testo di 12 pagine e un cd audio di 65 minuti

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Poe

lucasossellaeditore

cd audio

Due organismi viventi, uncuore e un gatto, vengonooccultati, creduti morti; manella loro tragica vitalità,entrambi danno segnali dellaloro esistenza. Un cuore battesotto un tappeto, e la sua ecorimbomba terribile nelleorecchie di chi vi camminasopra. Soffocata tra la calce diuna parete, la carogna di ungatto lancia i suoi temibili

anatemi. La fervida, cupafantasia di Poe concepisce perentrambi i racconti un identicodispositivo letterario, per cui èil segnale di sopravvivenzalanciato dai suppostiorganismi soppressi, la levache non soltanto smascheragli artefici dell’occultamento,ma scardina la facciata dellastoria, mettendone a nudo ilnocciolo di verità, la natura

spaventosamente violenta epulsante che si nascondedietro qualsiasi apparenza. Due apologhi inquietanti sucosa possa significaresopprimere, nascondere: efallire. Due metafore dellacruda realtà con cui si ècostretti a fare i conti, qualesia stato il tentativo dirimozione.Lisa Ginzburg

Lo spettacolo che abbiamo costruito mi ha ricordato il modo in cui lavorano certi scrittori ebrei: Kafka,Benjamin, Bloch; rappresentanti di una cultura in grado anche di dissacrare, di divertirsi con ciò chedovrebbe sembrare tragico. Siamo stati irriverenti, intendo dire, capaci di restituire qualcosa ditenebrosamente ironico. Questo genere di eventi dovrebbe servire a sviluppare una nuovadrammaturgia dei testi, che non significa solo leggere, o solamente suonare, ma mettere in piedi unavera e propria jam session, uno spazio di improvvisazione a misura di una particolare sintonia artistica.Marco Baliani

A tratti, è molto piú importante il suono del significato. In uno dei due racconti, a un certo punto, Poescrive la frase: “come un orologio avvolto nell’ovatta”. Non ho neanche pensato a cosa la frase volessedire: mi sono fatto prendere dal suono delle parole, e ho immaginato la musica attenendomi a quello.Stefano Bollani

Incipit di incipit

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Vocalizz are la pagina

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In tempi di sordo consenso, non resta che “vocalizzare” la pagina, utilizzando le stesse risorse dei media elet-tronici e mettendo in crisi il concetto di autore unico. In un’epoca post-tipografica, pervasa dal rimbombo tal-volta insultante della comunicazione, pensare alla letteratura come un oggetto estetico e volatile legato allavoce è l’unico rimedio contro la marginalità, imposta dal profitto, di ogni forma d’arte che non sia immediata-mente riconducibile a merce (e moneta) d’intrattenimento spettacolar-culturale. Autore e fruitore si incon-trano, le due figure si contaminano. Come ha scritto Zumthor ne La presenza della voce, l’ascoltatore “fa parte”dell’esecuzione, e la orienta: la lettura accade. La parola detta non esiste in assenza, richiede la presenza di unuditorio, la invoca, anche polemicamente. La voce è testimonianza di una tradizione, e invenzione di un genere letterario nuovo, anzi antichissimo: la let-teratura d’ascolto. L’arte del discorso è confinata nel piombo del libro da solo cinquecento anni: per millenniha utilizzato come medium la voce, la forza dell’espressione orale. “Pubblicare” un’opera, per i latini, significavadeclamarla ad alta voce e la scrittura funzionava come semplice “partitura” del testo da interpretare.

A tutti i nietzscheani salgariani,a tutti coloro che un giornohanno pensato di riscrivere lapropria vita, e poi si sonoaccorti che erano senza carta(e senza metaforicoinchiostro). A tutti coloro a cuialmeno una volta è venuto inmente di cancellare per semprela finzione d’esserci. A tuttiquelli che vorrebbero scrivereper non dire null’altro che laconoscenza di quanto èsconosciuto. A tutti coloro chescrivono, in vista della verità,una parola che non c’è e forsenon ci sarà nemmeno domani.A tutti quelli che scrivendo“domani” si illudono che vi siala possibilità di iniziare unnuovo corso. A tutti coloro che(non) hanno il privilegio dicomprendere il destino. A tuttiquelli che hanno compreso chenon si esce (e sono comunque

altrettanto vuoti e ignari etristi) da questo eterno circolo: Tu sei quel che è il tuoprofondo, stimolantedesiderio. Com’è il tuo desiderio, cosí è la tua volontà. Com’è la tua volontà, cosí è la tua azione. Com’è la tua azione, cosí è il tuo destino. (Brahadaranyaka Upanisad IV, 4.5)E anche a tutti coloro cheabitano la sventura di sfruttareil talento altrui senza il frenodel dolore. A tutti i mercanti. A tutti quelli che imbroglianose stessi indossando unamaschera uguale al loro volto. A tutti coloro che rispettano il volto dell’altro. L’editore

2005 Massimo Popolizio Il caso Salgari lettere alla moglie, ai figli e agli editori. Un testo di 24 pagine e un cd audio

Un triplice esperimento di archeologia ottocentesca. Fantasmi vocali, che provengono e ritornano da esperienze culturali checolloquiano coi margini e si collocano al confine con l’ombra. Massimo Popolizio raccoglie quelle voci e le restituisce al pubblico.Nel punto esatto in cui si incontrano la scienza e la letteratura, la ragione e la vertigine dell’abisso, nascono Il caso Salgari,Il caso Artusi e Il caso Lombroso, tre cd audio che riproducono gli eventi realizzati all’Auditorium di Roma, a cura diClaudio Longhi, con la partecipazione di Lino Guanciale e il coordinamento di Claudia Di Giacomo. Le copertine sono il-lustrazioni originali di Cemak, realizzate appositamente per questo progetto.

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“Cammina, cammina,cammina”, “sul far della sera”,il Gatto, la Volpe e Pinocchioarrivarono all’Osteria delGambero Rosso; si posero atavola, “ma nessuno di loroaveva appetito”. Il poveroGatto, travagliato di stomaco,“non poté mangiare altro chetrentacinque triglie con salsadi pomodoro e quattroporzioni di trippa allaparmigiana”; la Volpe, poi,ridotta a “grandissima dieta”,“dové contentarsi di unasemplice lepre in dolce e fortecon un leggerissimo contornodi pollastre ingrassate e

galletti di primo canto. Dopo lalepre si fece portare pertornagusto un cibreino dipernici, di starne, di conigli, diranocchi, di lucertole e d’uvaparadisa e poi non volle altro.”Nell’intemporale Ottocento diPinocchio emerge unaimmagine badiale, selvatica, daBoch dialettale, del mangiareitaliano, anzi toscano;immagine mostruosa edomestica, come quell’osteriaarchetipica, campita nel mezzodi una campagna allegorica,pedagogica e maremmana. Sinoterà come, da quella mensaspropositata e burlevole, uscita

dalla fantasia eternamenteaffamata di un Pulcinellavisionario, sia assente la pasta;il che, nella ideologiagastronomica italiana,significa che i personaggi concui abbiamo a che fare sonosolo perifericamente umani.Pesci e selvaggina, poi,tengono dell’abissale e delsilvano, e in ogni modoconnotano una terra soloavaramente umana. Ove nonsiano né zite, né pappardelle,né bucatini, saremo per certoin paese cimmerio, simbolico eirto.Giorgio Manganelli

Se dal numero delle edizioni si può trarre un criterio delvalore o almeno del successodi un’opera, è certo che questoGenio e follia, edito ora per la quarta volta in breve giro di anni, il che non è poco ove si abbia riguardo alla suaqualità di libro scientifico e all’analfabetismo italiano, si incammina a gran passi alla celebrità.Le opere di Cesare Lombroso,seguono, nel loro sviluppo, la via tenuta dalla maestranatura per le proprie.Presentatesi, in generale,

la prima volta, con breviconcetti, vigorosi, arditi,spesso anche nelle apparenzetemerari e tali da sembrare piúdivinati che dedotti – concettiabbigliati di fretta in qualcheprolusione universitaria – le opere di Lombroso, sotto il calore della assiduameditazione e col confortodello sperimento severo, si organizzano, si arrotondano,ingrandiscono a poco a poco,cosicché, dopo due o treedizioni, ci ritornano innanzinel rigoglio della perfettasalute e colle armoniche

proporzioni delle cosecomplete. A simili lavori, pensati eripensati, mal si addice unfuggitivo cenno di annunzio.Ma intanto consigliamo i nostri egregi lettori aprocurarselo. È una lettura chepuò essere utile a tutti, poichétutti hanno un grano, se non di genio, di follia: aggiungiamoche è una lettura anchedilettevolissima – e ciò per le gentili signore, avide di romanzo criminale e di cronaca ergastolina.Carlo Dossi

2005 Massimo Popolizio Il caso Artusi con un testo di Giorgio Manganelli. Un testo di 24 pagine e un cd audio

2005 Massimo Popolizio Il caso Lombroso con un testo di Luigi Pirandello e una nota di Carlo Dossi.Un testo di 24 pagine e un cd audio

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Che cos’è?

lucasossellaeditore

Valerio MagrelliChe cos’è la poesia?

autore barbarismo calligramma dramatis persona explicit

figura retorica gnarus hapax impegno lettore musica

non-sense onomatopea paronomasia quaesitio ritmo

strofa tematica urgenza virgola zeppa

Musiche composte ed eseguite da Carlo Boccadoro cd audio

registrato dal vivoall’Auditorium Parco della Musica di Roma il 13 maggio 2005. Musiche composte ed eseguiteda Carlo Boccadoro. Un testodi 32 pagine e un cd audio

In italiano esiste un vocabolo,di origine toscana, per indicarelo sterco della selvaggina e ingenere degli animali: la “fatta”.Ebbene, come resistere allatentazione di accostare questa parola al verbo greco “poiein”,da cui deriva il termine“poesia” e il cui etimo significa“fare”? Una proposta simile(paragonare la poesia a una“fatta” umana) potrà sembrarerivoltante o scandalosa,eppure tradisce una profondapietas per le creature viventi,amate in ogni aspetto, anche il piú umile, della loro indifesa, trepida fragilità.

2005 Valerio Magrelli Che cos’è la poesia?

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Che cos’è? È la volontà di progettare una piccola enciclopedia in cd audio e dvd. Unamappa, un’ampia esposizione delle competenze e dei saperi piú evoluti della nostraepoca, disegnata grazie ai ragionamenti di scienziati e progettisti della cultura. Un’esperienza che si fonda sulla memoria del passato per dare risposte comprensibilie responsabili su temi decisivi per il presente e per il futuro. Testimonianze: di chi hadedicato la vita a una ricerca, per chi vuole continuare a interrogarsi, e costruire unproprio laboratorio di trasformazione.

Che cos’è? non è solo un oggetto, o un prodotto editoriale. È qualcosa che accade.Prima di essere registrate su cd e dvd, le lezioni sono un incontro tra i protagonisti eil pubblico. Tra chi parla e chi ascolta. Sono spazi, luoghi, pieni di persone. Pieni divolontà di sapere e di non arrendersi all’anestesia, ai ricatti del consenso, alla minacciasempre ritornante dell’analfabetismo, metaforico e letterale.

Le istituzioni culturali sono chiamate ad affrontare un’importante fase evolutiva sintetizzabile nel passaggio dallacondizione conservativa, rappresentativa e spettacolare a una dimensione responsabile del processo formativo.In questo panorama le scuole svolgono, naturalmente, un ruolo decisivo, e necessitano di scelte didattiche inno-vative per edificare nuove forme pedagogiche. Che cos’è? nasce in dialogo con le forme di sperimentazione pedagogica, indica la strada per confrontare diversipercorsi di studio umanistici e per approfondire la discussione scientifica. Creare una mappa per un interscambiodi competenze significa analizzare i problemi che l’apprendimento sarà chiamato ad affrontare. Attraverso,anche, la progettazione di nuovi strumenti, dei quali Che cos’è? può rappresentare un prototipo. In questo momento (della verità per molte persone e istituzioni) è necessario inviare segnali forti e chiari, ingrado di comunicare (in modo non equivoco e incerto) la propria vocazione culturale, affermando con decisioneil proprio ruolo. Bisogna ridefinire alcune parole fondamentali. Ogni libro, del resto, è una pedagogia destinataa formare il suo lettore, diceva Derrida: Che cos’è? dispiega le potenzialità di questa relazione pedagogica, racco-gliendo le voci di coloro che hanno attraversato gran parte della loro vita con l’ansia e il desiderio di determinareun orizzonte nuovo. Voci sintetiche, semplicemente complesse, per condensare senza banalizzare. I temi sono ambiziosi ai limiti della superbia e in grado di coinvolgere il pubblico per il loro interesse immediato.Margherita Hack, giustamente, chiese: “Ma si può ragionare dell’universo in un’ora?”. No, evidentemente, macreare la curiosità intellettuale sí. “Certo, per quello basta un minuto”.

Che cos’è “Che cos’è?”

Quando si dice la verità si è sicuri, prima o poi, di essere scoperti. Oscar Wilde

Quanta verità può sopportare, quanta verità può osare un uomo?Friedrich Nietzsche

Per chi desidera ascoltareun’ora chi si interrogasul tema da una vita

Art. 1 L’Italia è una Repubblicademocratica, fondata sullavoro. La sovranità appartieneal popolo, che la esercita nelleforme e nei limiti dellaCostituzione.

Art. 2 La Repubblica riconoscee garantisce i diritti inviolabilidell’uomo, sia come singolo sianelle formazioni sociali ove sisvolge la sua personalità, e

richiede l’adempimento deidoveri inderogabili disolidarietà politica, economicae sociale.

Art. 3 Tutti i cittadini hannopari dignità sociale e sonoeguali davanti alla legge, senzadistinzione di sesso, di razza, dilingua, di religione, di opinionipolitiche, di condizionipersonali e sociali. È compito

della Repubblica rimuovere gliostacoli di ordine economico esociale, che, limitando di fattola libertà e l’eguaglianza deicittadini, impediscono il pienosviluppo della persona umanae l’effettiva partecipazione ditutti i lavoratoriall’organizzazione politica,economica e sociale del Paese.

2010 Oscar Luigi Scalfaro Che cos’è la Costituzione?registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 3 febbraio 2008. Un fascicolo con laCostituzione della Repubblica italiana e un dvd

Che cos’è la Costituzione? Non solo una raccolta di “leggi” destinate a regolare la vita di una società.Constitutionem, dal latino constituere, e cioè “stabilire”, “ordinare”, “dare stabile assetto”;letteralmente “il modo in cui una cosa è stabilita”.

lucasossellaeditore Oscar Luigi Scalfaro

Che cos’è la Costituzione?

dvd

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Bisogno e libertà: e in mezzol’inesausto interrogarsidell’uomo intorno al bene e almale. In questo spazioDostoevskij organizza ildialogo tra Ivan Karamazov esuo fratello Alëša, dentro ilquale si inserisce il monologo(una requisitoria contro Gesú,tornato tra gli uomini) delGrande Inquisitore: cos’è beneper l’uomo? Provvedere ai suoibisogni, materiali e morali,oppure, come ha fatto Gesú,lasciarlo solo al cospetto delmale, in balía della piú

annichilente libertà?Ivan, l’intellettuale destinatoalla follia, ossessionato dalproblema della sofferenzadegli innocenti, spinge labestemmia, l’estremanegazione, fino alla visione diuna tirannide metafisica,indiscutibile e sovrumana. Ilparricidio lo riconduce allanecessità di avere un padreche dispensi la legge e regolil’infrazione. Alëša, il puro dicuore, come Gesú, tace. Baciail bestemmiatore. Da dentrol’ortodossia, continua a

sperare nella libertà. ComeGesú, continua a credere nellacapacità dell’uomo di rifiutare,se il prezzo è la libertà, ilmiracolo della soddisfazione ditutti i bisogni (e quindi lagiustizia?).Tra soddisfazione dei bisogni easpirazione alla libertà sicolloca la legalità, che è quellostesso interrogarsi sul bene esul male che spalanca l’abisso:verso il basso per Ivan, versol’alto per Alëša.

2010 Gherardo Colombo Che cos’è la legalità?registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 14 ottobre 2008.Un testo di 32 pagine e un cd audio

2010 Stefano Rodotà Che cos’è il corpo?registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 18 maggio 2008. Un testo di 32 pagine e un cd audio

La gastronomia è laconoscenza ragionata di tuttociò che si riferisce all’uomo inquanto egli si nutre; serve ascegliere perché serve a capireche cos’è la qualità. Fa sí che sipossa provare un piacere dottoe imparare una conoscenzagaudente. L’uomo in quanto sinutre è cultura: la

gastronomia è cultura, primamateriale e poi immateriale. Lascelta è un diritto dell’uomo: lagastronomia è libertà di scelta.Il piacere è un diritto di tutti ein quanto tale deve essere ilpiú responsabile possibile: lagastronomia è un fattocreativo, non distruttivo. La conoscenza è un dirittto di

tutti, ma anche un dovere: lagastronomia è educazione. La gastronomia è una scienzache studia la felicità. Tramite ilcibo, linguaggio universale eimmediato, elementoidentitario e oggetto discambio, essa si configuracome una delle piú potentiforme di diplomazia della pace.

I corpi si interrogano sul lorodestino. Non è una forzaturaparlare dei corpi attribuendoloro una specifica autonomia.Ci domandiamo perché ilcorpo femminile rimangaoggetto di violenza, diininterrotti tentativi diimpossessarsene da parte deipiú diversi poteri, eterno“luogo pubblico”. Ciinterroghiamo sullasuperfluità del corpo: ancora

di quello femminile, di fronteall’utero artificiale; ma pure diquello maschile, per esempioquando si parla di clonazione;del corpo come apparatomuscolare, quando sisperimentano le “braincomputer interfaces”, lacomunicazione diretta tra ilcervello e un computer. Cichiediamo se il corpo vengasempre piú imperiosamentepercepito e utilizzato come il

luogo d’una continuarappresentazione pubblica,tramite delle relazioni con ilmondo. Ci inquieta il rapportotra corpo fisico e corpoelettronico. Ci appare semprepiú evidente la percezione delcorpo come sede del conflittotra artificio e natura. E nel corpo, in definitiva,s’incarna (è il caso di dirlo) il progetto del sé.

2010 Carlo Petrini Che cos’è il gusto?registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 30 marzo 2008. Un testo di 32 pagine e un cd audio

Voce

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2007 Franco Cordero Che cos’è la giustizia?registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 28 ottobre 2006. Un testo di 32 pagine e un cd audio

lucasossellaeditore Franco Cordero

Che cos’è la giustizia?

cd audio

Esiste un vocabolo indoeuropeo“yeus” o “yewes”: nel latinoarcaico “ioves”, col derivato“iovestos”; donde “ius”, “iustus”,“iustitia”. Il lessico normativo hadue modelli elementari. Unoespone figure geometriche. Adesempio, “nomos” da “nemein”,spartire: la “nomothesía”costituisce rapporti nel mondo

umano e divino; sopra Zeus,legislatore celeste, vigononorme fondamentali, perché nelcosmo regna la Moira, unequilibrio impersonale. Variecatene semantiche, dalsanscrito “dharma” a “themis”,“thesis”, “thesmós”, significanoregola, limite, misura: aggettivi-nomi quali “recht”, “right”,

“droit”, “diritto”, indicano ladistanza minore tra due punti.L’altra idea, involuta nel famosotesto d’Anassimandro, è che le cose, animate o no,escano dalla matrice e viriaffondino, scontandoreciproche ingiustizie secondoritmi battuti da Kronos.

2010 Andrea Moro Che cos’è il linguaggio?registrato dal vivo all’Università di Bologna il 19 aprile 2010. Un testo di 32 pagine e un dvd

lucasossellaeditore

Piergiorgio OdifreddiChe cos’è la logica?

cd audio

Walter VeltroniChe cos’è la politica?

lucasossellaeditore

Noi non vediamo la luce.Vediamo solo gli effetti cheessa ha sugli oggetti.Sappiamo della sua esistenzasolo perché viene riflessa daciò che incontra nel suocammino, rendendo cosí

visibili gli oggetti, chealtrimenti non vedremmo. Cosí un nulla, illuminato da unaltro nulla, diventa qualcosa.Allo stesso modo funzionanole parole: non hannocontenuto in sé, ma se

incontrano qualcuno che leascolta diventano qualcosa.Analizzare il linguaggio è comeanalizzare la luce, ci si trovanella stessa condizione.

La logica è lo studio del logos:cioè, del pensiero e dellinguaggio. O meglio, delpensiero come esso si esprimeattraverso il linguaggio. Il chesignifica che, per capire lalogica, bisogna anzituttoincominciare a capire illinguaggio, che almeno nelle

sue versioni indoeuropee sibasa su una tripartizione delleparole in tre categoriefondamentali: i sostantivi, gliaggettivi e i verbi, che servonoa indicare oggetti, proprietà eazioni (o stati), come nellafrase “l’homo sapiens parla”.Ciascuna categoria

corrisponde a un particolaremodo di guardare e vedere il mondo, e ha dato origine a generi letteraricomplementari: l’epica, la lirica e il dramma, che siconcentrano rispettivamentesui personaggi, i sentimenti e gli eventi.

All’origine della storiadell’umanità – dice Platone –Zeus incarica due fratelli,semidei, Prometeo edEpimeteo, di distribuire a tuttele specie viventi le “qualità”che consentano loro disopravvivere. Ma gli uominivivono ancora dispersi, senza

aggregarsi tra loro. E cosírestano vulnerabili,continuano a subireaggressioni, e muoiono.Questo accade, continuaPlatone, perché essi nonposseggono ancora l’artepolitica, politiké téchne.Occorre a questo punto – cosí

si conclude il mito – unintervento straordinario di Zeus, che dona agli uomini pudore e giustizia,consentendo loro di riunirsi e di fondare città, dalle quali scaturiscel’esercizio dell’arte politica.

2007 Walter Veltroni Che cos’è la politica?registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 12 dicembre 2006. Un testo di 32 pagine e un dvd

2006 Piergiorgio Odifreddi Che cos’è la logica?registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 28 settembre 2006. Un testo di 12 pagine e un cd audio

Che cos’è?

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Al mio discorso sulla follia,considerata nei suoi aspettipsicopatologici efenomenologici, siaccompagnano (qui) questemie riflessioni sulla follia,sorella sfortunata della poesianella definizione di ClemensBrentano, il grande poetaromantico tedesco, nel suonascere e nel suo manifestarsiin malinconia, in angoscia e in

dissociazione psicotica, chehanno (certo) connotazionicliniche radicalmente diverse(la malinconia non essendomalattia), nel contesto delleopere poetiche di EmilyDickinson, di Georg Trackl e di Sylvia Plath.Queste riflessioni miconsentono di seguire ilcammino misterioso dellafollia nel cuore di splendide

testimonianze creative chedalla follia non sono statecausate ma riformulate neiloro modi di essere e nei lorocontenuti. L’immaginazionecreatrice è qualcosa che si puòalleare alla malattia nelle sueforme di espressione ma chenon può essere dalla malattiadeterminato, e realizzato.

2007 Eugenio Borgna Che cos’è la follia?registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 28 marzo 2007. Un testo di 28 pagine e un cd audio

2007 Edoardo Boncinelli Che cos’è il tempo?registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 17 aprile 2007. Un testo di 28 pagine e un cd audio

Il fatto è che non c’è lostrumento, l’organo. Non haiun occhio, non hai un naso,non hai una lingua per sentireil tempo. Hai solo la memoriache, ricollegando certe cose,permette l’invenzione deltempo. Tra l’altro la parolatempo non c’è in tutte lelingue, effettivamente è unacosa estremamente artificiosa.Mentre prima si favoleggiavadi un terzo occhio – si parlavadella pituitaria – si è visto cheesiste una popolazione di

cellule gangliari della retina –poche, non piú di una su mille– che invece di vederemisurano grosso modo lalunghezza della giornata diluce.Il ritmo ce l’hanno dentro lesingole cellule. Non solo ilcervello, come si pensava, male singole cellule, anche lecellule del fegato, hanno unritmo di ventiquattr’ore.Però non c’è un marcatempo,non c’è un orologio che tipermetta di dire un giorno,

due giorni, tre giorni, quattrogiorni. Ti permette solo discandire un giorno, un giorno,un giorno.La teoria psicologica deltempo, del presente, delpresente dinamico, dice chel’atomo di coscienza dura daun quarto di secondo a venti-trenta secondi, con una mediadi tre secondi. Noi viviamo ilmondo a flash che durano tresecondi.

L’architettura è il racconto del tempo, della memoria,della natura e del corpo fusocon il desiderio di trasformarela faccia del mondo. La costruzione degli oggettimescola il tempo nello spazio.

Lo spazio che ci ospita ci fadimenticare il tempo, ognispazio è memoria e futuro. Il tempo quotidiano, dellanatura e degli anni cheverranno sono dentro lospazio cosí come “l’oblio –

scrisse Borges – è una delleforme della memoria, il suoremoto sottosuolo, rovesciosegreto della medaglia.”

2007 Renzo Piano Che cos’è l’architettura?registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 7 febbraio 2007. Un testo di 32 pagine e un dvd

Voce

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2008 Margherita Hack Che cos’è l’universo?registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 10 luglio 2007. Un testo di 16 pagine e un cd audio

lucasossellaeditore Margherita Hack

Che cos’è l’universo?

cd audio

lucasossellaeditore Tullio De Mauro

Che cos’è una lingua?

cd audio A

2008 Giorgio Ruffolo Che cos’è l’economia?registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 26 giugno 2007.Un testo di 28 pagine e un cd audio

Non è necessario né èassolutamente prevedibile cheil capitalismo abbia i giornicontati, ma i secoli contati sí.Essendo una formazionestorica, sta affrontando unadelle svolte piú vertiginosedella sua storia e della suaevoluzione, unatrasformazione qualitativa enon soltanto quantitativa dellasua struttura.Né da destra né da sinistra,quindi, viene proposta una

soluzione reale al problema“che tipo di crescita?”, anzi,“che tipo di sviluppo?”. Larisposta che per ora darei è chela crescita dovrebbe basarsi sutre elementi fondamentali. Ilprimo è l’equilibrio ecologico,ovvero la giusta proporzionetra quantità e qualità dellerisorse. Il secondo è quello chechiamo correlazione sociale, ecioè un tipo di società che nonsia disgregata negli elementi diegoismo e di aggressività che

sono insiti nello sviluppoeconomico. Il terzo elemento,infine, è quello piú importante,quello che io chiamo latrascendenza e cioè: fino a chepunto l’economia è un mezzoper realizzare dei fini e di chefini culturali soprattutto edetici si tratti, e fino a che puntoinvece è tutta costretta dentrole sue maglie, dentro la suaprigione e nella suaautoreferenza.

2008 Tullio De Mauro Che cos’è una lingua?registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 27 maggio 2007. Un testo di 32 pagine e un cd audio

Che cos’è una lingua? Saussureha detto una volta che quandocerchiamo di rispondere aquesta domanda “siamoabbandonati da tutte leanalogie del cielo e della terra”.Cento anni dopo, saremmotentati di smentire il grandeteorico. In effetti, circolanooggi diverse risposte alladomanda inziale. La teoriamatematica dellacomunicazione ci dice che la

lingua è un sistema dicomunicazione. La semiotica osemiologia ci dice che è unasemiotica. La teoria dellegrammatiche ci dice che è undispositivo per descrivere comegrammaticali o come nongrammaticali frasi di numeroinfinito. L’etologia ci dice che èuno dei tanti innumerevolilinguaggi delle specie viventi.Dunque, analogie ci sono, aquanto pare. Ma, una per una,

le risposte appaiono generiche.Non ha niente di specifico unalingua? Se cerchiamo didescrivere meglio questestranezze, ci accorgiamo cheforse Saussure non aveva tutti itorti e che una lingua, unaqualunque lingua, è unoggetto altamente specifico.Cerchiamo di capire una linguanella sua specificità: questo è ilcammino che vorremmopercorrere.

Dalle stelle a noi vicine fino alle piú lontane galassie,dall’uniformità dell’universoprimordiale all’odiernastruttura complessa fino alla sua possibile evoluzione.Con Galileo (1564-1642) inizial’era moderna dell’astronomia.Tramite le sue concezioniscientifiche, basatesull’esperimento e sulla suaripetibilità, e non piú su astruseelucubrazioni filosofiche

o religiose, è nata la cosmologiache si fonda sulla conoscenzadelle stelle, delle galassie e dellefamiglie di galassie: le celluleche costituiscono l’universo.Oggi si cerca di “conoscere”l’universo delle origini, un acceleratore di enormepotenza e, studiandol’espansione di questo nucleoprimordiale, l’astronomia cercarisposte a interrogativi insoluti.Due grandi domande aspettano

una risposta: che cos’è lamateria oscura? E cos’è l’energia oscura? Oggi ci rendiamo conto che la materia che si “vede”, che emette cioè una qualche forma di radiazioneelettromagnetica, rappresentasolo il 4%; il resto fa sentire la propria presenza grazie alla sua forza di attrazionegravitazionale, ma nonsappiamo cosa sia...

lucasossellaeditore Giorgio Ruffolo

Che cos’è l’economia?

cd audio

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Voce Che cos’è?

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Voce

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Dai cancelli d’acciaio è un dantesco (e ster-niano) “viaggio presenti-mentale” attraverso quelgroviglio di corpi e poteri,reali e virtuali, che è lacontemporaneità. Scritto e letto “in diretta”da Gabriele Frasca, che sifa narr-attore e registra lasua voce in formato mp3.Per un pubblico di sotto-scrittori che via internethanno prenotato il ro-manzo e lo hanno ricevutoa casa: nella sua veste materiale, a fascicoli, e nell’immaterialità dellavoce, veicolata dai fileaudio. Alla fine, i sotto-scrittori hanno ricevuto un raccoglitore per “rile-gare” i fascicoli, arricchitoda una “copertina mobile”

d’autore, un’opera origi-nale di Massimo Bucchi. I sottoscrittori sono anchesotto-scrittori, perché attraverso un blog elabo-rano reazioni e interazioni,partecipano al processocreativo insieme all’autore,che diventa, di conse-guenza, il loro sotto-sot-toscrittore (ma anche:sotto sotto-scrittore). La mediazione editoriale(del sotto-editore, ovvia-mente) si “deterritoria-lizza”, collocandosi neinuovi snodi creati da que-sto farsi dell’opera, e indi-cando cosí un destinopossibile per il “libro” nel-l’era post-gutenberghiana. Nel 2011 Dai cancelli d’ac-ciaio esce in volume. Viene racchiuso, ironizza il

suo autore, nella bara tipografica dalla quale ha tentato di evadere. Ma non riposa in pace.Continua a risuonare:come nella visione di Leopold Bloom, dalla tomba tipografica ci giungono, diffuse dal grammofono mediale,le voci che non smettonodi attraversarci.

Dal sito della casa editriceè possibile acquistare i file mp3 con la voce di Gabriele Frasca che dice il romanzo, e scari-care gratuitamente il pdf Il compagno d’acciaio(con i primi saggi criticisull’opera e tutti i disegnidi cyop&kaf, autori della copertina).

Frrr, tshhh. Attraverso la pressione rugosa di quel lembo di,cos’era? Pensa, frusciò fosco il brusio nella testa, e la scenasi compose. Garza? No, stoffa, grezza, ruvida, e inutilmentetanta, di qua dai nodi che la ravvolgevano all’occipite, daessere stata infilata dentro il saio, fin quasi a sfiorargli lenatiche. L’aveva sentita dondolare a ogni passo, quandol’avevano sospinto fra tenebre e bisbigli, come una codarigettata dal cranio sulla schiena nuda. Fu dunqueattraverso la stretta di quella stoffa nera che gli serrava ilvelo delle palpebre contro l’umida cavità in cui, sporti avuoto, pulsavano i bulbi degli occhi, ma anche sulla boccalivida con cui succhiava i grumi dolciastri di colla cherilasciava aderendo alle labbra il nastro, e persino sotto itappi di gomma che gli orchestravano nel cerume ilmugliare con cui il sangue informa e vive come un fiato ilfango, che sentí d’un tratto il vento freddargli il sudore che,inzuppata la benda, colava dalle tempie sulle mascelle e sulcollo. Gli avevano cavato via il cappuccio, allora, ma conquale delicatezza. Da quanto tempo era stato ridotto a compitare,imbudellato come una salsiccia, soltanto la risacca di sestesso? Frrr tshhh, frrr tshhh.

Gabriele FrascaDai cancelli d’acciaioromanzo

lucasossellaeditore

Una storia che non fa prigionieri. Li libera.

La notte tra il 26 e il 27 settembre descrittanell’arco di quattro ore. La società drogata tra chirurgia esteticaed eccessi del corpo (e della mente), e unrimosso che torna dalla fine degli annisettanta.Che cosa succede la notte fra il venerdí e il sabato nellamegadiscoteca Il Cielo della Luna, sorta in un niente, comeun bubbone o un fungo, a Santa Mira...Ma non vi converrà entrare, se non si sa come uscirne. Restate, badando di evitare le ronde dei buttadentro, al diqua della recinzione a sbirciare ciò che s'intravede daicancelli d'acciaio.

30,00 euro

ISBN 978-88-89829-76-9

Page 61: Registro dei progetti editoriali

Nulla, in letteratura, reca le tracce dell’oralità piú della poesia. È come se la poesia,in sostanza, non avesse mai dimenticato del tutto le origini della letteratura, che pre-cedono quelle della scrittura. Se cosí non fosse, non potremmo spiegarci altrimentiquella sorta di impulso necessario che spinge il lettore di poesia, anche il piú co-mune, a pronunciare ad alta voce i versi che ha sotto gli occhi. Ma non sarebbe al-trettanto spiegabile il ritorno alla vocalità della poesia cui si assiste in tempi, i nostri,fortemente contrassegnati dalla scrittura.

Massimiliano Manganelli Aldo Mastropasqua

Di una discoteca curiosamente dantesca, chiamata il Cielo della Luna, racconta Daicancelli d’acciaio di Gabriele Frasca, e di quanto vi capita nella notte tra il 26 e il 27settembre 2008 nell’arco di circa quattro ore. Entrare nel Cielo della Luna, “fungoo bubbone” che incombe su Santa Mira, significa cogliere con il massimo raccapric-cio che gli schermi (gli schermi dei media nelle loro molteplici declinazioni) instau-rano con lo spettatore un rapporto ipocrita ma necessario, costringendolo aconfrontarsi con domande affatto primarie: realtà o finzione? e: ha (ancora) sensodistinguere fra le due? In gioco è innanzi tutto l’ossessione “modernista” dello snuffmovie; e un verso dantesco – “vere sustanze son ciò che tu vedi”, Pd, III, 29 – dovrebbeidealmente accompagnare ed eccitare il lettore in tutto il suo percorso.

Voce Vere sustanze son ciò che tu vedi: su “Dai cancelli d’acciaio” di Gabriele Frasca

Paolo Giovannetti

Davanti al nuovo romanzo di Gabriele Frasca, siamo insomma – ancora una volta – costretti a ragionare intornoal modo in cui la letteratura, la “lettera che muore”, riesce a rimasticare, assaporare e risputare l’altro da sé deimedia. Il cui censimento pregresso è dall’autore qui integrato con l’occorrenza, oltre che appunto della disco-teca (unico vero excessus mentis – e corporis – consentito dalle pratiche di massa contemporanee), anche del vi-deogioco, come parte del grande ludus detto Internet. L’interattività sinestetica della Rete, la costruzione diidentità “mostruose”, l’avatar che in fondo siamo noi, la ricerca di una fuga narcisistica: in Dai cancelli d’acciaioquesti fuochi teorici divengono carne e sangue della storia, motori della narrazione. Insieme, magari, a due grandi speranze: quella di ritrovare il senso liberatorio di un Vangelo perduto (il Pro-tovangelo di Giovanni), e di riscoprire quanto sopravviva dell’utopia che un gruppo di giovani santamiresi avevapraticato alla metà degli anni Settanta. E insieme, ahimè, anche a diverse paure: da quella di incontrare alcunidei tanti morti viventi che attraversano la recente storia d’Italia (magari un qualsiasi Gerardo Quagliarone, ca-pace però di decidere delle sorti di tutti noi), a quella di avere a che fare con i troppi disperati pronti ad arruo-larsi nelle fila di un terrorismo divenuto global, oscenamente postmoderno.Certo, l’auspicio che attraversa il romanzo è che il segno artistico ben formato prima o poi possa tornare a cir-colare virtuosamente nel mondo. Ma, a scanso di ogni facile chimera, il Cielo della Luna sta lí a ricordarci cheanche minimi errori, minimi fraintendimenti possono avere conseguenze disastrose e forse irreversibili; chetante antiche consapevolezze sono sí necessarie, ma del tutto insufficienti.

La poesia, insomma, ha bisogno di una voce. Scaturisce da qui, allora, l’idea di una Fondazione della voce, unospazio virtuale nel quale la poesia prenda corpo, dove le venga restituita la sua fisicità originaria. E se esiste unavoce primaria, non può che essere quella dell’autore stesso, primo interprete della propria parola poetica. Negliarchivi audiovisivi il materiale da disseppellire e rimettere in circolazione è moltissimo, giacché quasi tutti ipoeti del Novecento hanno lasciato testimonianza delle proprie interpretazioni su nastro o su vinile. Natural-mente le fonti principali da cui attingere sono la radio e il disco, strumenti che hanno svolto a lungo un ruoloessenziale nella diffusione della vocalità poetica.Oggi abbiamo a disposizione uno strumento in piú, il web, il quale, oltre a possedere maggiori potenzialità ri-spetto a quelli tradizionali, consente una fruibilità e una interattività senza precedenti. La Fondazione dellavoce, dunque, vuole costituirsi come il luogo di questa fruizione immediata della parola poetica. Via via che sa-ranno esplorati i principali archivi sonori – da quello della Rai all’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audio-visivi, fino alla Radio Svizzera Italiana – la Fondazione della voce metterà online i risultati di queste ricerche.

Per una Fondazione della voce

Paolo Giovannetti (1958) insegnaLetteratura italiana all’Università Iulmdi Milano. I suoi ultimi libri sono: Dalla poesia in prosa al rap (2008) e La metrica italiana contemporanea(2010, con Gianfranca Lavezzi).

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Page 62: Registro dei progetti editoriali

EDUCAZIONEChe cos’è l’educazione? È il risultatodella volontà di “condurre fuori” dallostato della rozzezza che ignora. L’educazione ci consegna la capacità discegliere, poiché determina la possibilitàdi discernere la qualità. In una parola ciaiuta a “distinguere” e in questo giudiziorisiede la volontà politica dell’umano.

Educare gli educatori.

Tutto quello che un bambino impara nei primi anni di vita, gli re-

sterà nella mente per sempre. È questa una affermazione di un grande

studioso di come si forma la mente umana: Jean Piaget.

E dipende dagli educatori se questa nostra società potrà migliorare

o peggiorare. Nelle scuole materne giapponesi si insegna a comunicare

e a stare con gli altri (che poi siamo sempre noi). Si dice ai bam-

bini che ognuno deve esprimere il proprio impegno ma non imporlo. In

questo modo si sommano in un unico corpo tutte le nozioni che formano

il sapere. La collettività cresce e ci si trova in un mondo civile.

Quando invece qualcuno impone il proprio pensiero a tutti si forma

la dittatura con tutte le sue conseguenze.

Una persona vale per quello che dà e non per quello che prende (pen-

siero difficile da capire in un paese di furbi) per cui se ognuno dà

il meglio di sé alla collettività , questa si sviluppa e cresce. Se

invece ognuno tenta di rapinare gli altri perché lui è il piú furbo,

ci si trova allo stato in cui siamo noi adesso. Ma il problema è:

che cosa insegnare ai bambini perché si formino in modo giusto, crea-

tivo e non ripetitivo? Occorre insegnare come si fa a fare, a espri-

mersi, a comunicare per immagini, a progettare. Tutte le tecniche

possono essere trasformate in gioco per facilitarne l’apprendimento,

e siccome ogni gioco ha le sue regole, ecco che l’apprendimento viene

facilitato, alleggerito, desiderato dai bambini.

L’importante è lo sviluppo delle varie personalità, i bambini sono

tutti diversi ed è sorprendente per un operatore vedere lo sviluppo

delle personalità individuali.

Non si devono quindi dare ai bambini soluzioni già fatte, ma inse-

gnare a risolvere i problemi. Non suggerire temi da svolgere ma in-

segnare a scrivere con proprietà di linguaggio. Per un operatore è

molto importante conoscere ciò che un bambino può capire e ciò che

non può capire. Non trasformare tutto in favola, ci sono mille modi

per interessare e comunicare.

Un bambino educato forma una società civile. Un bambino creativo è

un bambino felice.

Bruno Munari

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Page 63: Registro dei progetti editoriali

Stay Hungry. Stay Foolish*

Steve Jobs

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Educazione

2009 Lezioni d’Europa. Pensare oltre i confiniL’Europa è ancora soltanto un’espressione geografica? È soltanto, oggi, un eterogeneo campo diforze? Perché si possa fare compiutamente l’Europa dal punto di vista istituzionale, è necessario faregli europei. Educare i cittadini dei diversi paesi a sentire viva e attiva l’idea di una cittadinanzaeuropea. Educare a pensare oltre i confini: come ha tentato di fare il progetto Lezioni d’Europa.L’identità europea, il mercato, la sicurezza alimentare, la salute, il clima: cinque temi connessiall’Europa, affrontati attraverso cinque conferenze, tenute in un ambiente insieme reale e virtuale da cinque personalità che hanno messo a disposizione la propria esperienza e le propriecompetenze: Emma Bonino, Mario Monti, Giorgio Calabrese, Paola Testori Coggi, Corrado Cini.

Lezioni d’Europaè un format pensato percoinvolgere un pubblicocomposto da giovani, studentimedi e universitari, ma ancheda adulti, da chiunque vogliainterrogarsi sul destino delneonato, vecchio continente. Con l’obiettivo di portare i cittadini di oggi e di domani a contatto con alcuni dei problemi “europei” di maggior interesse. Un format multimediale perampliare la possibilità dipartecipazione attraverso i social media e, piú in generale,la e-communication. Un format in grado di superarei limiti fisici imposti dal luogo.

In un mondo sempre piúproiettato verso il virtuale, ilformat di Lezioni d’Europa haconsentito di coniugarepassato e futuro, uomini etecnologia, creando unpalcoscenico digitale apertoall’ascolto, al dialogo e alconfronto. Grazie alla rete ilpubblico (compreso quello deglistudenti di undici universitàche hanno partecipato alprogetto svolgendo lezioniparallele sui temi proposti) hapotuto non solo assistere allesingole conferenze mapartecipare, in diretta e indifferita, e interagire con irelatori, inviando domande,osservazioni, interventi.

Lezioni d’Europaè un esperimento, un laboratorio editoriale, che ha indicato una direzione:sempre di piú l’editoria dovràtentare la traduzione dei saperi,e la creazione di ambienti diconvergenza e compresenzamediale. Creare occasioni di incontro e di collisione dei discorsi, strumenti di amplificazione e conduzione delle parole, da riversare continuamente in formati sempre diversi. Lezioni d’Europa è unesperimento di futuro: dentro e fuori; nei contenuti, e nelle modalitàche ha scelto per veicolarli.

* Un estratto dal discorso tenutoda Steve Jobs il 12 giugno del 2005 a un gruppo di neolaureati dellaStanford University di Palo Alto.

Quando ero giovane, c’era una bella pubblicazione chiamata Il catalogodel mondo intero, era una delle bibbie della mia generazione. Era stata creata da Stewart Brand, che gli aveva dato vita con il suo toccopoetico. Questo accadeva negli anni ’60, prima dei personal computer e dell’editoria digitale, quando si lavorava soltanto con macchine per scrivere, forbici e polaroid. Una specie di Google in formato tascabile,35 anni prima della nascita di Google: era idealista, e piena di indicazionichiare e importanti nozioni. Stewart e il suo gruppo pubblicarono diversinumeri de Il catalogo del mondo intero, e quando arrivarono alla fine del loro percorso, pubblicarono l’ultima uscita. Era piú o meno la metà degli anni Settanta e io avevo la vostra età. Nell’ultima pagina del numero finale c’era una fotografia di una strada dicampagna di prima mattina, il tipo di strada dove potreste trovarvi a fare l’autostop se siete dei tipi abbastanza avventurosi. Sotto la foto c’e-rano le parole Stay Hungry. Stay Foolish: siate affamati, siate folli. Era il loro messaggio di addio. Stay Hungry. Stay Foolish. Io me lo sono sempre augurato per me stesso. E adesso che vi laureate per ricominciare da capo, lo auguro a voi.

Stay Hungry. Stay Foolish.

Page 64: Registro dei progetti editoriali

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Discorso pronunciato da Piero Calamandrei nel 1950 al III Congressodell’Associazione a difesa della scuola nazionale.

Difendere la scuolaEducazione

Siamo qui riuniti in questo convegno che si intitola alla Difesa della scuola. Perchédifendiamo la scuola? Forse la scuola è in pericolo? Qual è la scuola che noi difen-diamo? Qual è il pericolo che incombe sulla scuola che noi difendiamo? [...] Difen-diamo la scuola democratica: la scuola che corrisponde a quella Costituzionedemocratica che ci siamo voluti dare; la scuola che è in funzione di questa Costitu-zione, che può essere strumento, perché questa Costituzione scritta sui fogli diventirealtà [...].La scuola, come la vedo io, è un organo “costituzionale”. Ha la sua posizione, la suaimportanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione. Se sidovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si do-vrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umanohanno la funzione di creare il sangue [...].

La scuola, organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema cen-trale della democrazia: la formazione della classe dirigente.

La formazione della classe dirigente, non solo nel senso di classe politica, di quellaclasse cioè che siede in Parlamento e discute e parla (e magari urla) che è al verticedegli organi piú propriamente politici, ma anche classe dirigente nel senso culturalee tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, chescrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la crea-zione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oli-garchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, laclasse dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto deglielementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie. Ogni classe, ogni categoriadeve avere la possibilità di liberare verso l’alto i suoi elementi migliori, perché cia-scuno di essi possa temporaneamente, transitoriamente, per quel breve istante divita che la sorte concede a ciascuno di noi, contribuire a portare il suo lavoro, lesue migliori qualità personali al progresso della società [...].A questo deve servire la democrazia, permettere a ogni uomo degno di avere la suaparte di sole e di dignità. Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il com-plemento necessario del suffragio universale. La scuola, che ha proprio questo ca-rattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola puòaiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali.

Vedete, questa immagine è consacrata in un articolo della Costituzione, sia purecon una formula meno immaginosa. È l’articolo 34, in cui è detto: “La scuola èaperta a tutti. I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di rag-giungere i gradi piú alti degli studi.” Questo è l’articolo piú importante della nostraCostituzione. Bisogna rendersi conto del valore politico e sociale di questo articolo.Seminarium rei pubblicae, dicevano i latini del matrimonio. Noi potremmo dirlo dellascuola: seminarium rei pubblicae: la scuola elabora i migliori per la rinnovazione con-tinua, quotidiana della classe dirigente. Ora, se questa è la funzione costituzionaledella scuola nella nostra Repubblica, domandiamoci: com’è costruito questo stru-mento? Quali sono i suoi princípi fondamentali? Prima di tutto, scuola di Stato. LoStato deve costituire le sue scuole. Prima di tutto la scuola pubblica. Prima di esaltarela scuola privata bisogna parlare della scuola pubblica. La scuola pubblica è il prius,quella privata è il posterius. Per aversi una scuola privata buona bisogna che quelladello Stato sia ottima. Vedete, noi dobbiamo prima di tutto mettere l’accento suquel comma dell’articolo 33 della Costituzione che dice cosí: “La Repubblica dettale norme generali sull’istruzione e istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.”Dunque, per questo comma [...] lo Stato ha in materia scolastica, prima di tutto unafunzione normativa. Lo Stato deve porre la legislazione scolastica nei suoi principigenerali. Poi, immediatamente, lo Stato ha una funzione di realizzazione [...].

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Lo Stato non deve dire: io faccio una scuola come modello, poi il resto lo facciano gli altri. No, la scuola è apertaa tutti e se tutti vogliono frequentare la scuola di Stato, ci devono essere in tutti gli ordini di scuole, tante scuoleottime, corrispondenti ai principi posti dallo Stato, scuole pubbliche, che permettano di raccogliere tutti coloroche si rivolgono allo Stato per andare nelle sue scuole. La scuola è aperta a tutti. Lo Stato deve quindi costituirescuole ottime per ospitare tutti. Questo è scritto nell’articolo 33 della Costituzione. La scuola di Stato, la scuolademocratica, è una scuola che ha un carattere unitario, è la scuola di tutti, crea cittadini, non crea né cattolici,né protestanti, né marxisti. La scuola è l’espressione di un altro articolo della Costituzione, dell’articolo 3: “Tuttii cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lin-gua, di religione, di opinione politica, di condizioni personali e sociali”. E l’articolo 151: “Tutti i cittadini possonoaccedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dallalegge.” Di questi due articoli deve essere strumento la scuola di Stato, strumento di questa eguaglianza civica,di questo rispetto per le libertà di tutte le fedi e di tutte le opinioni [...].

Quando la scuola pubblica è cosí forte e sicura, allora, ma allora soltanto, la scuolaprivata non è pericolosa. Allora, ma allora soltanto, la scuola privata può essere unbene. Può essere un bene che forze private, iniziative pedagogiche di classi, di gruppireligiosi, di gruppi politici, di filosofie, di correnti culturali, cooperino con lo Statoad allargare, a stimolare, e a rinnovare con varietà di tentativi la cultura [...]. Ma rendiamoci ben conto che mentre la scuola pubblica è espressione di unità, dicoesione, di uguaglianza civica, la scuola privata è espressione di varietà, che puòvoler dire eterogeneità di correnti decentratrici, che lo Stato deve impedire che di-vengano correnti disgregatrici [...].

Ci siano pure scuole di partito o scuole di chiesa. Ma lo Stato le deve sorvegliare, le deve regolare; le deve tenerenei loro limiti e deve riuscire a far meglio di loro. La scuola di Stato, insomma, deve essere una garanzia, perchénon si scivoli in quello che sarebbe la fine della scuola e forse la fine della democrazia e della libertà, cioè nellascuola di partito. Come si fa a istituire in un paese la scuola di partito? Si può fare in due modi. Uno è quellodel totalitarismo aperto, confessato. Lo abbiamo esperimentato, ahimè. Credo che tutti qui ve ne ricordiate,quantunque molta gente non se ne ricordi piú. Lo abbiamo sperimentato sotto il fascismo. Tutte le scuole di-ventano scuole di Stato: la scuola privata non è piú permessa, ma lo Stato diventa un partito e quindi tutte lescuole sono scuole di Stato, ma per questo sono anche scuole di partito. Ma c’è un’altra forma per arrivare atrasformare la scuola di Stato in scuola di partito o di setta. Il totalitarismo subdolo, indiretto, torpido, comecerte polmoniti torpide che vengono senza febbre, ma che sono pericolosissime. Facciamo l’ipotesi, cosí astrat-tamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare laCostituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggia-mento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsidelle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno ildifetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’èstata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci).

Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, a impoverirle. Lascia che sianemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Lescuole del suo partito, di quel partito. E allora tutte le cure cominciano ad andare aqueste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliarei ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori, si dice, di quelledi Stato.

E magari si danno dei premi, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare iloro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Gli esami sono piú fa-cili, si studia meno e si riesce meglio. Cosí la scuola privata diventa una scuola privilegiata.

Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato inscuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle suescuole private.

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E poi c’è un altro pericolo forse anche piú grave: il pericolo del disfacimento moraledella scuola. Questo senso di sfiducia, di cinismo, piú che di scetticismo che si vadiffondendo nella scuola, specialmente tra i giovani, è molto significativo. Il tramontodi quelle idee della vecchia scuola di Gaetano Salvemini, di Augusto Monti: la serietà,la precisione, l’onestà, la puntualità. Queste idee semplici. Il fare il proprio dovere, ilfare lezione. E che la scuola sia una scuola del carattere, formatrice di coscienze, for-matrice di persone oneste e leali. Si va diffondendo l’idea che tutto questo è superato,che non vale piú. Oggi valgono appoggi, raccomandazioni, tessere di un partito o diuna parrocchia. La religione che è in sé una cosa seria, forse la cosa piú seria, perchéla cosa piú seria della vita è la morte, diventa uno spregevole pretesto per fare i propriaffari. Questo è il pericolo: disfacimento morale della scuola. Non è la scuola dei pretiche ci spaventa, perché cento anni fa c’erano scuole di preti in cui si sapeva insegnareil latino e l’italiano e da cui uscirono uomini come Giosuè Carducci.

Quello che soprattutto spaventa sono i disonesti, gli uomini senza carattere, senza fede, senza opinioni. Questiuomini che dieci anni fa erano fascisti, cinque anni fa erano a parole antifascisti, e ora son tornati, sotto svariatinomi, fascisti nella sostanza cioè profittatori del regime.

E c’è un altro pericolo: di lasciarsi vincere dallo scoramento. Ma non bisogna lasciarsivincere dallo scoramento. Vedete, fu detto giustamente che chi vinse la guerra del1918 fu la scuola media italiana, perché quei ragazzi, di cui le salme sono ancora sulCarso, uscivano dalle nostre scuole e dai nostri licei e dalle nostre università. Peròguardate anche durante la Liberazione e la Resistenza che cosa è accaduto: è acca-duto lo stesso. Ci sono stati professori e maestri che hanno dato esempi mirabili, dalcarcere al martirio. Una maestra che per lunghi anni affrontò serenamente la galerafascista è qui tra noi. E tutti noi, vecchi insegnanti abbiamo nel cuore qualche nomedi nostri studenti che hanno saputo resistere alle torture, che hanno dato il sangueper la libertà d’Italia. Pensiamo a questi ragazzi nostri che uscirono dalle nostrescuole e pensando a loro, non disperiamo dell’avvenire. Siamo fedeli alla Resistenza.Bisogna, amici, continuare a difendere nelle scuole la Resistenza e la continuità dellacoscienza morale.

Educazione

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FrancescoCrispi

Franco Bassanini

Lucio Caracciolo

Giuseppe Giarrizzo

Giuseppe Astuto

Claudio Di Palma

Paolo Patui

Raffaele Romanelli

con

tien

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aud

io

lucasossellaeditore

Difendere la scuola

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Storie interrotte. Il Sud che ha fatto l’Italia è l’idea per un manuale didattico multiforme. Un esperimento che diventa un archetipo per la progettazione di sistemi educativi integrati. Libro, supporto audio, supporto video, rivista, trasmissione radiofonica, spettacolo teatrale, dif-fusione in rete: un continuo lavoro di traduzione delle diverse scritture, per un processo di spo-stamento e arricchimento del significato, per una integrazione dei saperi che grazie alla lorodisponibilità alla trasformazione mediale favoriscono una fruizione diversificata, e una diffusionecapillare e imprevedibile.

“Il paese ove tutti fanno il loro dovere, il paese ove la solidarietà è grande, non ha eroi. Può averegrandi tecnici, grandi condottieri, politici avveduti, uomini insigni per scienza: non ha eroi”: eraquesto il paese ideale che Francesco Saverio Nitti immaginava in Eroi e briganti. Questo paese èpresente nella nostra storia, ma è debole nella nostra memoria. Storie interrotte nasce dalla con-sapevolezza che l’oblio attorno a cinque “padri fondatori” come Francesco Crispi, Francesco Sa-verio Nitti, Donato Menichella, Luigi Sturzo e Giuseppe Di Vittorio, rischia di diventare un buconella coscienza del paese.Nei ruoli istituzionali che hanno ricoperto, questi personaggi hanno esplorato forme originali diintervento nella società, hanno attuato soluzioni di governo nei rapporti tra pubblico e privatoche sfuggono a ogni schematizzazione, hanno posto interrogativi cruciali sui rapporti tra dimen-sione locale, nazionale, internazionale, ricchi dell’esperienza nelle regioni meridionali d’origine enella consapevolezza della loro missione nazionale. La storia (le storie) di questi “padri” che hannocreato le premesse determinanti per l’attuale modernità nazionale, può essere ancora necessariaal dibattito che ne accompagna il presente o ne discute il futuro.

LuigiSturzo

Luciano D’AlfonsoBruno DenteSalvatore LupoSergio Zoppi

con

tien

e cd

aud

io

lucasossellaeditore

Anna Lucia DenittoSalvatore LupoPaolo Patui

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Storie interrotte è stato promosso dal Dipartimento per le Politiche di Sviluppo del Mini-stero dello Sviluppo Economico e realizzato da Studiare Sviluppo srl, con la partecipazionedel Ministero della Pubblica Istruzione, in collaborazione con ANART, Editori Laterza, lucasossella editore, Radio3 Rai. A cura di Fabrizio Barca, Leandra D’Antone e Renato Quaglia.

Storie interrotte è un lavoro articolato su una pluralità di livelli, che attraversa ambienti diversi eprende forma sfruttando tutte le opzioni comunicative. Il progetto coincide con il processo delsuo declinarsi. ● Cinque spettacoli teatrali allestiti da 6 compagnie del Mezzogiorno, con 28 repliche in pochimesi e 60 attori e tecnici coinvolti. Lo spettacolo su Menichella è stato rappresentato per duevolte negli Stati Uniti: alla St. John’s University e alla New York University, costituendo l’occasioneper incontri internazionali di approfondimento sulla storia italiana.● Un volume edito da Laterza distribuito nelle librerie in 6000 copie: dialoghi e monologhi immaginari,ricostruiti con rigore di riferimenti bibliografici e documentari da un gruppo di storici ed esperti. ● Progetti didattici assorbiti nei programmi di 90 istituti superiori del Mezzogiorno, con oltre20 docenti e 2400 studenti coinvolti, e 10.000 copie del volume editoriale destinato alle scuoleper un totale di 20.000 lettori.● Cinque speciali radiofonici per 5 puntate di Radio3 Suite, registrati all’Auditorium Rai di Napoli,con 2213 spettatori intervenuti alle registrazioni, 450.000 ascoltatori e 20 personalità invitate.● Cinque “audiodispositivi” editi da luca sossella editore, prodotti e distribuiti in 15.000 copie,con i dialoghi, gli interventi, i documenti sonori, gli speciali radiofonici con le interviste, i branimusicali e alcuni frammenti tratti dalle pièce teatrali.

Autori, curatori, registi che hanno partecipato alla realizzazione del progettoGiuseppe Astuto Università di Catania,Storia contemporaneaMarco Balsamo Nuovo TeatroFabrizio Barca Ministero dell’Economia e FinanzeGiuseppe Berta Università Bocconi di Milano, Storia contemporaneaAntonio Cassina Studiare SviluppoMichele Dall’Ongaro Radio3 RaiLeandra D’Antone Università di Roma“La Sapienza”, Storia contemporaneaAnna Lucia Denitto Università di Lecce, Storia contemporaneaGianpiero Francese regista

Francesco Giasi Università di Teramo,Storia del movimento sindacaleAlfredo Gigliobianco Banca d’Italia, Ufficio ricerche storicheMaria Teresa Imbriani Università degliStudi della Basilicata, Critica letterariaAnnamaria Leuzzi Ministero della Pubblica IstruzioneSalvatore Lupo Università di Palermo,Storia contemporaneaLuigi Masella Università di Bari, Storia contemporaneaAnnamaria Mastrovito Ministero della Pubblica IstruzioneStefano Michetti Ministero della Pubblica IstruzioneMonica Nonno Radio3 Rai

Paolo Patui scrittoreLorenzo Pavolini scrittore e registaRenato Quaglia Teatro Festival Italia,Fondazione Campania dei FestivalRaffaele Romanelli Università di Roma “La Sapienza”, Storia contemporaneaMaurizio Scaparro regista

Compagnie teatraliOpera (Melfi) Scena Verticale (Castrovillari) Set Artisti Associati (Palermo) Teatro Kismet OperA (Bari) Compagnia Teatroscalo (Modugno) Vesuvio Teatro (Napoli)

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Massimo Cacciari

* Un estratto dal testo di MassimoCacciari accolto nella Festschrift alle-stita nel 2002 per festeggiare i ses-sant’anni di Alberto Abruzzese.

La lotta con Platone. Michelstaedter come educatore*Educazione

“Io penso al Gorgia”, scrive Michelstaedter: all’attualità perfetta della sua “anima nuda”,dis-velata: fattasi uno col Vero-Bene. “Io penso” a quel mythos che Socrate narra a coronamento del dialogo anti-sofistico pereccellenza – a quel mythos che Socrate ritiene tanto straordinario da esporlo come fosseun lógos, come fosse alethê. La “voce sacra” di quest’opera è indimenticabile per colui chel’ha intesa: “essa sola basta a salvarlo per sempre da ogni inadeguata sufficienza.”

Il denudarsi dell’anima difronte al giudice inesorabile in cui essa stessa deve trasformarsi, esprime quella supremaesigenza individuale di assoluto, di liberazione (ab-solversi) da ogni relatività da parte dell’individuo persuaso, esi-genza che indica l’Impossibile della Vera Vita (la Vita sulla Vera Terra, di cui parla il mythos del Fedone – la Vitache “gode dell’altezza raggiunta” al seguito del proprio dio, ammirata, stupefatti, nel Fedro).Tanto essenziale è questa voce del Gorgia per Michelstaedter, che egli la pone a motto di La Persuasione e la Ret-torica tra quelle di Luca e Matteo – come un proprio vangelo.Opera di un éntheos, il Gorgia (akmè di una “famiglia” cui appartengono l’Apologia, il Fedone, il Fedro, ilTeeteto), di un entusiasta, la cui vita corrisponde perfettamente al dio che la abita, ed è dunque perfettamentepadrona di sé. La scelta di Michelstaedter è decisa, senza chiaroscuro: “Io penso” al Platone che si inizia alla morte– che si inizia sempre alle perfette iniziazioni (“teléous teletàs”) e diviene cosí perfetto (“téleos”); “io penso” alPlatone che combatte i “non iniziati”, gente che crede non vi sia al mondo “se non ciò che possono afferrare etener stretto in pugno [...] e tutto ciò che è invisibile non lo ammettono, perché non partecipa, dicono, dell’essere”(Teeteto); “io penso”, insomma, al Platone che in sé conosce il dono divino della mania e fa-segno alla bacchicamania dello stesso filosofo, nel momento stesso che inesorabilmente ne distingue la “parola viva” dalle capacitàdel lógos discorsivo e dalla “potenza” dello scritto (Settima Lettera: è evidente come queste siano le fonti essenzialidella polemica di Michelstaedter contro la rettorica filosofica – rettorica versus mania! Ma – si badi, ancora – maniadel filosofo, malgrado tutto, e, dunque, mania impossibile, poiché chi è veramente éntheos non può essere insiemeénnous, émphronos, e non potrà perciò neppure giudicare – krineîn – delle apparizioni e delle parole che luistesso vede e dice. Quest’aporia, che Platone indica con chiarezza nel Timeo, domina, in vario modo, tutto il pen-siero di Michelstaedter).A questo Platone – che Michelstaedter immagina “giovane”, come quei giovani cui dedica Il dialogo della salute – sicontrappone (ed è vera stásis, vera guerra civile!) il Platone dei grandi dialoghi dialettico-sistematici e politici, delParmenide e della Repubblica. La Triste storia narrata ne La Persuasione e la Rettorica e illustrata nell’Appendice II spiegai motivi di questo dissolversi o tradirsi del platonismo che inizia con Platone stesso – e costituisce perciò il veroperno teoretico dell’intera opera (rivelandone, insieme, l’aporia radicale). Le idee, che prima fondavano la vitapersuasa di chi tiene lo sguardo rivolto “soltanto verso l’alto”, si trasformano in “sapienza di nomi astratti”, nell’ar-tificio di un mondo che continua a pretendersi assoluto e che, invece, altro non esprime se non l’assolutizzazionedelle nostre parole e dell’ordine del loro correlarsi. Le due vie di Parmenide si confondono; la dialettica tragicache ne stabiliva l’abissale differenza si “tradisce” nella dialettica rettorica che indaga le forme possibili del lororeciproco parteciparsi. Cosí Aristotele (la Mente, tra tutti gli allievi di Platone!), nel fatale dialogo immaginario colmaestro ne La Persuasione e la Rettorica, vuole stabilire il nesso tra la leggerezza della contemplazione e la gravità diquella “terra sicura sotto i piedi” (l’antica, ben fondata Terra goethiana!), cui anelano ormai, stanche di tanto“ardite speranze”, di tanta “vertiginosa solitudine”, le anime intorpidite dei discepoli. Gli ultimi dialoghi, e spe-cialmente il Parmenide, sono, per Michelstaedter, tutti animati da questo “spirito aristotelico”, dissolvente il “mondodelle idee nella infinita trama della forme” (impressionante il “tono” lukácsiano di quest’espressione!), “nella neb-bia delle mutazioni correlative.” Il compito stesso della filosofia (affatto ormai dimentica del suo étymon: essereamore di quella sophía, assolutamente para-dossale, di cui nel Teeteto si tesseva l’indimenticabile elogio, e la cuivoce salva da ogni “inadeguata sufficienza”) diviene la determinazione del medio, del metaxy, della forma che con-nettendo gli opposti ne mostra con ciò stesso l’apparente oppositività. Ciò che rende impensabile autentica deci-sione, e, dunque, ogni in-dividualità perfettamente persuasa. Ciò che rende inevitabile lo “sdoppiamento rettoricodel sapere e della vita”. Il peccato originale del platonismo consiste nel fingersi “una vita assoluta nell’elaborazione del sapere”, nell’illudereche il “lavoro oscuro del sistema e del metodo” possa essere “via di salvezza”. Il platonismo riduce l’idea di Vitafelice all’“organismo fittizio del sistema”, fa, insomma, coincidere intellettualisticamente felicità e bíos theoretikòs.Il platonismo è costretto a ricercare l’attualità, l’enérgheia della persona nella stessa costitutiva “miseria” del suo pen-sare, del suo meditare, del suo rammemorare: l’anámnesis, l’augusta dea orfico-pitagorica venerata sempre da Pla-tone, è per Michelstaedter il segno di un’impotenza, di una malattia: “trovate un albero che dimentichi come sifanno i fiori in primavera!”. Il modo inadeguato, intellettualistico, in cui Platone pone l’esigenza della Vita assoluta,della felicità e del Bene, finiscono cosí col “condannarlo” al tradimento aristotelico. La stessa anima nuda del Gor-gia, nel momento che pure affermava “dolce è sapere”, continuava a indossare la maschera della rettorica filosofica– non era veramente libera, non era assoluta.68

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Educazione

2002 Per Alberto Abruzzese a cura di Valeria Giordano, Isabella Pezzini, Luca Sossella, Luisa Valeriani

Una Festschrift su misura perAlberto Abruzzese. Un donoofferto a un maestro, perdescriverne il pensiero anche apartire dalla forma: prendendoa modello il quadrato logico, i testi si organizzano secondouna costruzione grafica cheforza la bidimensionalità e lalinearità del libro suggerendouna compresenza giàipertestuale. Una festadell’intelligenza, con oltre centocontributi, tra i quali anche

quelli di Alberto Asor Rosa,Nanni Balestrini, Franco BerardiBifo, Emanuele Bevilacqua,Anna Camaiti Hostert, FulvioCarmagnola, Paola Colaiacomo,Franco Cordelli, Derrik deKerckhove, Cesare De Michelis,Umberto Eco, Paolo Fabbri,Gabriele Frasca, Roberto Grandi,Wilma Labate, Pierre Lévy,Giorgio Manacorda, FrancoMoretti, Giovanni Ragone,Paolo Taggi, Oliviero Toscani,Mario Tronti, Ugo Volli ecc.

Ciriaco Campus, Do it yourself, copertina e frontespizio.

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Educazione

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Vittorio GassmanLuca Sossella

Lettera a un Ministro della Pubblica Istruzione*

Caro Ministro della Pubblica Istruzione

ricordati di quando eri bambino.

Caro Ministro della Pubblica Istruzione

ricordati di quando “due piú due faceva cinque”.

Ricordati quando la parola fuoco bruciava.

E la parola fulmine impauriva.

Caro Ministro della Pubblica Istruzione

cerca di non prestare ascolto,

ma di donarlo – l’ascolto.

Quest’opera l’abbiamo realizzata

orgogliosi della nostra paura.

E con la superbia dell’umiltà.

Come superbi e umili sanno essere i bambini:

per loro ci siamo decisi a realizzarla.

Per i bambini che non sanno che farsene

della poesia, perché la abitano ancora.

La poesia che traduce la parola morte

in volontà e la parola dolore in santuario.

E la parola perdono in scommessa

e la parola fine in inizio.

Caro Ministro della Pubblica Istruzione

ci vuole coraggio per traghettare

la poesia nel terzo millennio.

Ci vuole coraggio per guardare

i figli negli occhi, caro Ministro della Pubblica Istruzione,

e nei figli tutti i figli.

Abbiamo fatto quello che (ci dicono)

siamo capaci di fare,

adesso fai quello che sappiamo

puoi fare.

Dona l’ascolto.

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* Questa epistola poetica, datatamaggio 2000, è una prefazioneideale all’Antologia personale di Vittorio Gassman. Luca Sossella lastringeva tra le mani il giorno dellapresentazione dell’Antologia, il 22novembre 2000. Il giorno successivoè stata resa pubblica da “l’Ansa”.

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INFOECONOSFERAAl passaggio del secolo, e del millennio, il sistema deimedia, sempre piú complesso, ha subito trasformazionitravolgenti e difficilmente decifrabili. Il millennium bug haacceso febbri millenaristiche. Ma era una metafora: nonstava finendo il mondo, stava finendo un’epoca. E necominciava un’altra: questo era il senso della catastrofe. Il“libro” si decostruiva a contatto con un universo di segniormai completamente raddoppiato nella rete. E la rete allostesso tempo diventava strumento di lavoro, punto diosservazione, luogo di conflitto, territorio strategico. Ametà degli anni Novanta la società “Mediaevo” haanticipato in Italia l’esplorazione delle relazioni comunicativee dei rapporti di forza socio-economici legati alleinnovazioni tecnologiche. I convegni Cibernauti (1994) eNell’info-econo-sfera (1995), organizzati a Bologna,sollevavano interrogativi che avrebbero invaso ilquotidiano di tutti. Da quell’esperienza, da quelle idee, daquelle persone, è nata un’indagine, che si è prolungatanella pratica editoriale, sull’infoeconosfera, sullo spaziocomplesso in cui comunicazione, economia e culturadiventano un unico ambiente. Un’indagine che ha sfidatola precarietà di un ambito di ricerca in cui gli oggetti sonogià invecchiati nel momento stesso in cui li si descrive.

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Geert Lovink è il fondatore el’animatore di “nettime”, unadelle principali liste didiscussione virtuale: nel corsodegli anni Novanta ha seguitole attività culturali di numerosiambienti della reteinternazionale, e questo libro sipresenta come una sintesi delleesperienze della netcultura ditutto il mondo. Scritto nell’arcodi diversi anni a contatto con illavoro di collettivi di artisti,animatori politici, mediattivistiamericani, asiatici, nordeuropei,il libro ha previsto, seguito,analizzato la crisi della neweconomy e dell’ideologia legataall’economia delle dot.com.

Bruno Pellegrini è il fondatoredi NessunoTv e di TheBlogTv:esperimenti di televisionefatta dagli utenti.

Controllata da tutti: quindi danessuno. Un luogo condivisoin cui si prepara latrasformazione dellospettatore in spett-attore.

Ognuno è un medium, se decide di svegliarsi daltorpore dell’ipnosimassmediatica e tornare adire, con consapevolezza, io!

2007 Bruno Pellegrini Io? Come diventare videoblogger e non morire da spettatorecon interventi di Franco Berardi Bifo, Derrick de Kerckhove, Giorgio Gori, Gabriele Gresta

Infoeconosfera

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Le tecnologie, oggi, fannoconcorrenza alle religioni e alle filosofie ricomponendoil tempo e lo spazio. I media strutturano il nostrotempo quotidiano, stagionalee annuale. La vita politica,artistica, sportiva non può piú essere concepitasenza il circuito dei media. Essi modificano la nostrarelazione con lo spazio e il tempo imponendociattraverso la forza delleimmagini una certa idea del bello, del vero e del bene e anche una certa ideadell’abituale, del normale e, in fin dei conti, della norma,cioè, oggi, una certa idea del consumo, che essi non smettono di riprodurreperché sono essi stessi dei beni di consumo. Come le altre cosmologie, lacosmotecnologia aliena coloroche la prendono alla lettera. Marc Augé

2006 Massimo MelottiL’eta della finzione. Arte esocietà tra realtà ed estasiprefazione di Marc Augé

Nell’epoca contemporanea, limitare il dissenso attraverso il controllo della comunicazione risultaessere una strategia molto piú efficace per mantenere il potere di quanto lo siano metodi violenti e coercitivi, come dimostrano la Russia di Putin o l’Iran di Ahmadinejad. Regimi totalitari osemitotalitari sono però solo la punta dell’iceberg e anche nei paesi piú liberali le forze che cercanodi condizionare e manipolare l’opinione pubblica attraverso i mezzi di comunicazione sono sempreattive. Questo avviene per opera non solo di apparati politici (come dimostra la lottizzazione dellaRai e il partito-azienda berlusconiano) ma anche di imprese private (come le major discograficheche impongono al mercato i loro prodotti a danno di quelli, spesso piú meritevoli, di etichetteindipendenti). In tutti i casi vi è un tentativo di ridurre le alternative limitandone la visibilità,favorendo cosí il mantenimento dello status quo e di tutti i privilegi. La storia dell’uomo e le storie degli uomini ci insegnano però come la diversità dei punti di vista siaun ingrediente fondamentale per lo sviluppo: è, infatti, dal confronto con opinioni e culturediverse che ci si migliora e dall’incontro di idee differenti che nascono le innovazioni. Sostenere il pluralismo nell’ambito dei mezzi di comunicazione significa quindi avere a cuore i principi didemocrazia e di progresso ed è il migliore antidoto verso qualsiasi deriva autoritaria e immobilista. Bruno Pellegrini

2002 Geert Lovink Dark Fiberprefazione di Franco Berardi Bifotraduzione di Nazzareno Mataldi

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Da poco tempo la barbarie si era istallata in Italia. Non si trattava di una breve pa-rentesi, bensí di una mutazione destinata a corrompere l’ambiente stesso della nostravita per un tempo lunghissimo. Ma non lo sapevamo, non potevamo saperlo.Andammo insieme a New York, io Luca Sossella e il nostro comune amico AndreaGropplero, per cercare ascolto presso intellettuali americani. Andavamo per avvertirlidel fatto che la peste fascista stava ritornando, e stava mettendo radici nel paese chegià una volta ne era stato la culla.Avevamo preso alloggio all’Hotel Chelsea, e stavamo distesi sui tre letti della nostracamera, quando Luca parve illuminarsi o rabbuiarsi forse, comunque sbigottirsi. Làfuori in alto sui tetti, tra i neri cilindri dei contenitori e i lampeggianti slogan pub-blicitari, gli parve di vedere un’enorme scritta: Mediaevo. La vide davvero? Davverogli apparve per poi scomparire nel cielo iroso del tramonto? In ogni caso, come Co-stantino si convertí quando una croce apparsa in cielo gli indicò la strada su cui con-durre il mondo, cosí Luca lesse quella scritta come un annuncio.E tutti e tre, in quel momento, riconoscemmo che quella scritta conteneva ciò che ilnostro intuito percepiva intorno: si stava aprendo un orizzonte nuovo all’universodella comunicazione umana, ma nel nostro quell’orizzonte sembrava subito oscurarsi.Nel cielo settembrino di New York la scintillante promessa delle tecnologie di comu-nicazione sembrava preannunciarsi indissolubilmente unita all’incombere di barba-rie antiche.Al ritorno da quel viaggio americano, a metà del primo decennio della Internet,Luca mise in rete mediaevo.com.In quello spazio nacque la prima versione di tempòs, una rivista online che interrogavai segni del futuro inquietante della tecnomutazione, dell’etnomutazione, della bio-mutazione.Occorreva un editore visionario per compiere quel gesto neuromantico. Il futuroche allora interrogammo si vede oggi largamente dispiegato.

Nella primavera di quello stesso anno avevo lavorato con Luca alla preparazione ealla comunicazione del convegno Cibernauti.Cibernauti radunò a Bologna, sotto gli auspici del Consorzio Università Città direttoda Oscar Marchisio, coloro che, in giro per il mondo stavano immaginando il futurodella rete.Parteciparono a quell’incontro Pierre Lévy, l’annunciatore della intelligenza collet-tiva, e lo storico dell’arte Kim Veltman, il sociologo Alberto Abruzzese e il mediologoDerrick de Kerckhove, il fisico Franco Piperno e lo scrittore Norman Spinrad, autoredi un romanzo intitolato Bug Jack Barron che già negli anni ’60 aveva prefigurato unadittatura mediatica e biotecnica.Ma c’era anche Antonio Caronia, matematico, e scrittore visionario, la ciberfemmi-nista Sadie Plant, il filosofo Mario Perniola, il critico letterario Philippe Quéau, l’in-gegnere elettronico umanista e dadaista Piero Lo Sardo e la psicoanalista guattarianaDanielle Sivadon. C’era Marco Jacquemet, semio-antropologo, e Franco Bolelli, im-maginatore di mondi, e Paolo Virno, uno dei filosofi piú importanti del nostrotempo.E per finire due grandi bolognesi che conosco fin da ragazzo: il filosofo Stefano Bo-naga, e Roberto Grandi, sociologo e a quell’epoca assessore alla cultura del comunedi Bologna. La città di Bologna, in quegli anni ’90 non era ancora definitivamentespenta, qualche residuo barlume di vitalità culturale la agitava ancora, e in quel climanacque infatti Iperbole, la prima rete civica europea.I cibernauti convenuti parlarono ai cinquecento ragazzi che per due giorni affolla-rono la sala. Tutti insieme guardammo nella sfera di cristallo che il computer con-nesso materializzava, e in quella sfera vedevamo meraviglie e orrori.

Infoeconosfera In pieno Medi@evo

Franco Berardi Bifo

Franco Berardi Bifo (Bologna, 1949) è scrittore e media-attivista. Negli anni ’70 partecipò alla redazionedi Radio Alice e fondò la rivista“A/traverso”. Partecipò al ’68bolognese, alle attività del gruppoPotere operaio, e nel 1977 fu uno degli animatori della rivolta degliautonomi desideranti bolognesi. Nei decenni successivi ha collaborato a diverse riviste, come “Semiotexte”(New York), “Chimeres” (Parigi),“Musica 80” (Milano) e “Archipielago”(Barcellona). Attualmente scrive per il mensile “Loop” (Roma) e per larivista argentina “Crisis” (Buenos Aires).Ha pubblicato articoli e libri sulrapporto tra comunicazione estetica e movimenti sociali, tra i qualiMutazione e ciberpunk (1996) e, per luca sossella editore, Felix (2001) e Un’estate all’inferno (2002).Nel 2010 ha pubblicato The Soul atWork e pRecarious Rhapsody. Ha fondato e animato per dieci anni il net magazine www.rekombinant.org.Insegna all’Accademia di Belle Arti di Milano. Il prossimo libro, After theFuture, uscirà nel 2011.

FelixNarrazione dell’incontro con il pensierodi Guattari, cartografia visionaria del tempo che viene

Franco Berardi Bifolucasossellaeditore

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L’anno successivo, cioè nel 1995, io e Luca Sossella, col sostegno logistico ed econo-mico del Consorzio Università Città, e grazie alla collaborazione preziosa della si-gnora Elda Antinori, organizzammo un secondo convegno dedicato alle nuovetecnologie. Lo chiamammo: Nell’Infoeconosfera. Anche questo incontro, cui parteci-parono soprattutto esperti di pubblicità e di economia finanziaria, cercava di prefi-gurare poeticamente l’immensa trasformazione che stava iniziando, e si apprestavaa sfidare e sconvolgere il linguaggio della letteratura e della politica, e soprattutto lacomunicazione e l’economia. In quegli incontri io vedo la radice dell’impresa editoriale che nel decennio succes-sivo ha saputo coniugare il futuribile e il classico, l’acrobazia tecnologica della retee la perfetta eleganza stilistica e grafica. Questa infatti mi pare la cifra dell’impresasosselliana.

Qualche anno piú tardi, precisamente al volgere del millennio, cominciarono auscire i primi libri della casa editrice. Chissà perché nella vita mi è capitato tantevolte di partecipare all’avvio di imprese editoriali di vario genere, barche un po’ in-certe, ma trepidanti, che sfidano i flutti. Non so perché mi piace vederle partire perpoi lasciarle quando hanno preso il largo.Alla fine del secolo collaborai a un libro sul Millennium bug. Si facevano ipotesi ca-tastrofiche sul bug che avrebbe dovuto bloccare tutti i computer del mondo allo sca-dere della mezzanotte dell’anno 2000, e invece non provocò nessun effetto. Fu unabbaglio, ma anche una premonizione: l’immaginario collettivo si stava sintoniz-zando su un nuovo scenario. Dopo il decennio ’90, innovativo progressivo illumini-sta, ora veniva il decennio zerozero.L’apocalisse annunciata del Millennium bug fu come un sogno premonitore. La veraapocalisse giunse quattro mesi piú tardi col crollo finanziario dei titoli tecnologici,e con il dotcomcrash che avviò, nella primavera 2000, la rottamazione del generalintellect e la precarizzazione della vita cognitaria. Poi l’apocalisse si insediò stabil-mente nella psicosfera globale: fu l’11 settembre del 2001.Nel 2000 la barbarie italiana venne confermata a furor di popolo. Per la secondavolta la media-dittatura conquistava la maggioranza elettorale.Era il giugno dell’anno 2000 quando Luca venne a trovarmi per portarmi la primacopia di Felix, il libro dedicato al pensiero e alla figura di Guattari. Ci sedemmo in ter-razza e sfogliando quelle pagine che la sapienza grafica di Luca ha saputo rendere ele-gantissime, parlammo della tirannide che pochi giorni prima era stata riconfermata.

Nel corso di quest’ultimo decennio un esercito precario e nomadico di lavoratoridella conoscenza è andato crescendo: la nuova generazione compra libri su Amazone studia a Londra e Berlino.Per il popolo italiano i libri sono oggetto di scherno. La rozzezza e il cinismo sonoal posto di comando anche nell’industria editoriale. Le librerie espongono in pilegigantesche libri di Bruno Vespa. Negli anni di questa miseria la barca editoriale Sos-sella solca il mare della poesia. Non perché la poesia consoli l’animo nella visionedell’intollerabile, ma piuttosto perché nei covi della poesia trova clandestino rifugioil linguaggio del possibile e la speranza di un futuro umano.30 dicembre 2010

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2007 In che senso? Che cosa sono le relazioni pubblicheun cofanetto con un libro di 224 pagine e tre dvd con le riprese di sei sessioni per oltre dieci ore di visione. Realizzato con il patrocinio Assorel e Ferpi

Negli anni ’60 Pasolini denuncia una progressiva tecnicizzazione del linguaggio che, omologandosi e appiattendosi sui codici comunicativi del neocapitalismo, si impoverisce, perdendo espressività. E creando un mostruoso latinorum post-umanista, opaco e incomprensibile quanto l’antico.Parallelamente, Calvino si batte contro la deriva “burocratica” della lingua, intrappolata in un nuovo,grottesco e perverso, ermetismo. Oggi, è il linguaggio della comunicazione pubblica ad avercolonizzato i discorsi. L’economia, la politica, la cultura parlano con la sintassi e con il lessico delle relazioni pubbliche. La descrizione delle azioni precede le azioni, e le determina. Il come, e il dove, prevalgono sul cosa: il referente è sempre di piú il centro vuoto della comunicazione. E l’emittente, e la ragione profonda del suo messaggio, non sempre sono rintracciabili in superficie. Per questo occorre interrogarsi su un vettore: in che senso? In che direzione si muovono leinformazioni? Come agiscono, e chi le agisce? In definitiva: che cosa sono le relazioni pubbliche?

Le relazioni pubbliche occupano oggi nel mondo oltre 3 milioni di professionisti, con un indottoeconomico prodotto ogni anno stimabile attorno ai 300 miliardi di euro. In Italia indagini recentihanno stimato fra i 90 e i 100 mila operatori, con un impatto economico che si aggira dai 12 ai 15miliardi di euro. Una professione labour intensive che si basa sul prevalente apporto di energie eimpegno dei propri operatori piuttosto che sull’investimento di capitali, come succede per altreprofessioni capital intensive quali la pubblicità. A questo ingente – quanto sconosciuto – impattoeconomico (e umano) si devono aggiungere i numerosi corsi universitari e para-universitari dedicatialle relazioni pubbliche, cui si iscrivono sempre piú studenti.

Il progetto In che senso? vuole favorire la crescita della consapevolezza rispetto al ruolo dellerelazioni pubbliche nella vita sociale ed economica del nostro Paese, trasferendo ragionamenti,stimoli e conoscenze che permettano lo sviluppo di un comportamento competente a riguardo di un’attività divenuta fondamentale per ogni organizzazione pubblica e privata.

Dietro ogni informazione, notizia, commento, scandalo, pettegolezzo o proposta che appareall’interno del nostro sistema dei media e che tanto peso ha sulle opinioni, sui comportamenti e sulle decisioni degli italiani è quasi sempre possibile scorgere un portavoce, un addetto stampa, un comunicatore… insomma un relatore pubblico che opera per un’impresa privata,un’amministrazione pubblica o un’organizzazione no-profit. Sono quasi centomila oggi nel nostroPaese i professionisti delle relazioni pubbliche che, per oltre il 50% del tempo sono impegnati a orientare e indirizzare il lavoro del giornalista. È necessario essere consapevoli di questa realtàpervasiva e capire come queste due professioni si relazionano fra di loro.

lucasossellaeditore

Andrea GranelliArtigiani del digitale

Come creare valore con le nuove tecnologiePrefazione di Patrizia Grieco e un dialogo con Giulio Sapelli

PRIMO DVD Lo scenario dellaprofessione con ChiccoTesta e Furio Garbagnati.

SECONDO DVD Laprogettazione el’attuazione con PaoloIammatteo e Anna Martina.

TERZO DVD L’analisi e lavalutazione con StefaniaRomenti e GiampaoloAzzoni.

IL LIBRO Lo specchioinfranto. Come i relatoripubblici e i giornalistiitaliani percepiscono lapropria professione equella dell’altro, a cura diChiara Valentini e Toni MuziFalconi. Lessico delle relazionipubbliche, di Toni MuziFalconi e Fabio Ventoruzzo.

L’economia post-industrialeha sempre piú bisogno della “materia digitale”, in tutte le sue articolazioni:dispositivi, sensori, algoritmi,contenuti e interfacce. Quando si parla diterziarizzazione dell’economianon vuol dire che stascomparendo la dimensionefisica della produzione, ma

semplicemente che il virtuale è sempre piú importante e interagisce con ladimensione fisica, siinterconnette. In questodialogo le due dimensioni non si limitano a giustapporsie a complementarsi, ma siavvicinano e si modificanoreciprocamente: la materiacerca leggerezza e significati

e il virtuale corporeità e concretezza. L’obiettivo di questo breve saggio è suggerire un percorso versoil digitale per i progettisti e gli operatori del settore che tenga però presentecon attenzione il punto di vista e le esigenze autentiche(anche quelle meno manifeste)degli utilizzatori.

2010 Andrea Granelli Artigiani del digitale. Come creare valore con le nuove tecnologieprefazione di Patrizia Grieco e un dialogo con Giulio Sapelli

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Qual è la tua prima reazione avvicinando la parola artigianato alla parola digitale?In effetti i due concetti potrebbero andare molto bene insieme. La matrice culturaledella Olivetti di Adriano è artigianale in quanto derivava direttamente dalla prece-dente attività di meccanica di precisione. Costruire una macchina per scrivere eraun’attività certamente di tipo artigiano e Adriano si è portato dietro questa sensibilità,questa attenzione ai dettagli e alla qualità. Anche la straordinaria avventura della rivista

“Civiltà delle macchine” diretta dall’ingegnere-poeta Leonardo Sinisgalli è un omaggio alla cultura artigiana. Larivista nasceva infatti dal grande amore di Sinisgalli per le botteghe artigiane dove lavoravano i maniscalchi, peri meccanismi, gli ingranaggi, i congegni. Egli usava dire “Io non amo le macchine come Oggetti, le amo comeCongegni”. Va anche ricordato che, agli albori dell’industrializzazione, gli operai specializzati si costruivano i propri utensiliche poi utilizzavano in fabbrica per produrre “meglio” – con una maggiore precisione (e quindi qualità) e conminore fatica. È stato quando l’impresa si è messa a produrre i propri utensili e a imporli agli operai, che è mortala specializzazione, che il lavoro si è standardizzato e ha spento la creatività (e la dignità umana). La Olivetti siera organizzata per la produzione su commessa, un modo di produrre che rispetta i tempi dell’uomo; in questosenso era ancora una produzione artigiana. È stata la produzione di massa che ha ucciso il tempo dell’uomo im-ponendogli i tempi della macchina.

In effetti anche nel mondo del software è molto frequente che i programmatori si costruiscano i propri utensili, dei programmiper generare piú velocemente procedure standard, delle collezioni di applicazioni già sviluppate da riutilizzare con semplici

Sull’attualità del pensiero di Adriano Olivetti

Dialogo tra ? Andrea Granelli e ! Giulio Sapelli

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procedure di adattamento. Anche il concetto di “software riusabile” va in questa direzione: non è tanto un approccio ecologicoper non buttare via nulla quanto piuttosto una serie di utensili per aumentare la produttività dei programmatori. Un altroaspetto che diviene ogni giorno piú importante è la centralità dell’utente. Quanto era importante l’utilizzatore per Adriano?

Adriano Olivetti era ossessionato dall’uomo in quanto persona, dalla sua forza – spesso inespressa –, dai suoi bi-sogni. Le sue letture sul personalismo, il suo pensiero fortemente religioso, il suo interesse per la psicologia e lapsicoanalisi, avevano messo l’uomo al centro dei suoi pensieri e della sua agenda di imprenditore – e poi di po-litico. La tecnologia doveva essere un modo per liberare l’uomo. Egli da giovane si era specializzato nel tagliodei metalli e aveva studiato con grande profondità le modalità di lavoro degli operai. E proprio grazie a questeanalisi approfondite aveva compreso che il lavoro aveva spesso al suo interno una dimensione irrazionale, che siesplicitava nella fatica spesso inutile. Dopo il suo viaggio negli Stati Uniti del 1928 egli tornò con una compren-sione profonda del metodo scientifico del lavoro – il cosiddetto taylorismo – e intravide in tale metodo la possi-bilità di portare razionalità nel lavoro e quindi ridurre la fatica inutile e creare un maggior senso di piacere eappartenenza all’azienda, elementi essenziali sia per la qualità dei manufatti sia per la coesione sociale. Il taylo-rismo visto quindi non come uno strumento del padrone per rendere efficiente la produzione, ma come unaiuto agli operai per ridurre la loro fatica e migliorare nel contempo la qualità dei manufatti. L’“uomo” che considerava era piú l’operaio che non l’utilizzatore, perché era nel lavoro in fabbrica il vero rischiodell’alienazione tecnologica. Oggi di operai ce ne sono sempre di meno ed è l’utilizzatore che rischia di esseremanipolato, alienato, trasformato dalle tecnologie – soprattutto quelle digitali – ogni giorno piú potenti e perva-sive. Pertanto è probabile che oggi Adriano si dedicherebbe con maggiore attenzione anche all’utilizzatore finale. Oltretutto egli considerava l’uomo sia come persona sia come membro di una comunità. La coesione sociale eraper Adriano una vera ossessione. Di fatto la convivialità diventò uno degli aspetti della cultura olivettiana. Eglitemeva che la tecnologia – innanzitutto quando introdotta in maniera massiccia nelle fabbriche – potesse isolare,distruggere la coesione sociale. E probabilmente se ne avesse avuto il tempo, avrebbe notato lo stesso rischionegli strumenti elettronici. Ma era un inguaribile ottimista nei confronti della tecnica, capace secondo lui di ge-nerare gli antidoti che avrebbero curato i mali da lei stessa generati. Sarebbe quindi stato un grande paladinodei social network e delle comunità virtuali.

Anche sul concetto di proprietà Adriano aveva un punto di vista “rivoluzionario”.Sí. Adriano infatti prospetta una diversa allocazione dei diritti di proprietà della sua stessa fabbrica. Egli vuoletrasformarla in una fondazione posseduta un terzo dai lavoratori, un terzo dall’Università di Torino, un terzodal Comune di Ivrea. Una vera e propria rivoluzione che anticipa il dibattito odierno sui beni pubblici. Conquesta visione viene ribadito anche il ruolo e la centralità dell’Università e della ricerca pubblica. In questo caso– ahimé – oggi in Italia siamo molto distanti da quel pensiero.

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2010 Jeff Howe Crowdsourcing. Il valore partecipativo come risorsa per il futuro del businessprefazione di Riccardo Luna; introduzione all’edizione italiana di Bruno Pellegrini; traduzione di Nazzareno Mataldi

Infoeconosfera

Il valore partecipativo come risorsa per il futuro del businessPrefazione di Riccardo Luna e introduzione di Bruno Pellegrini

Jeff HoweCrowdsourcing

lucasossellaeditore

Impresa evolutiva

La rete ha resomultidirezionale lacircolazione delle idee.Produttori e consumatoritendono a coincidere nellafigura del prosumer. Gli emittenti chiedono agliutenti feedback, commenti,interazioni. E le aziendechiedono ai consumatori dipartecipare all’ideazione deiprodotti. È la creatività dellafolla: crowdsourcing. JeffHowe, collaboratore di“Wired”, esperto di media e diindustria dell’intrattenimento,indaga l’impatto delle nuovepratiche di condivisione sui

processi economici. Scoprendoche la partecipazione generavalore: la comunità, il tutto, è maggiore della somma delle sue parti. La filosofiadell’open source rendepossibile il superamentodell’economia classica fondatasulla massimizzazione delprofitto. Costringe le aziende a cambiare l’organizzazionetradizionale del lavoro. La meritocrazia totale el’intelligenza collettivarappresentano un’alternativaai sistemi di produzione basatisui principi del fordismo: lasimultaneità degli apporti

dislocati nello spazio agiscecontro la linearità della catena di montaggio. Il potenziale “democratico” del crowdsourcing potrebbeinnescare meccanismi dicontagio ed estendersi oltrel’economia, influenzando la politica. Superando i limitidell’individualismo l’umanitàpuò superarsi, può essere piú di se stessa. Sempre che chi gestisce la transizione sia in grado di prevenirne i rischi: il rischio di eroderel’occupazione e il rischio di un livellamento medio(mediocre) dei contenuti.

Un’impresa supera i limiti biologici imposti ai singoli individui: è un’idea, e un’ideapuò eludere la morte. Il potere, del resto, è la mancanza d’idee. Chi non ha idee vuole bloccare l’esistente.Chi detiene il potere teme le idee capaci di cambiare: potrebbero eliminare le ra-gioni che determinano il comando.Ma alimentare l’inerzia, oltre a essere dannoso, è inutile: tutto ciò che può accadereaccadrà. Se la civiltà è il noto e la barbarie è l’ignoto, l’atto “barbarico” è quello checi distacca dal passato.

Il XXI secolo creerà innovazioni la cui portata sarà pari a quella dei progressi fattinei precedenti ventimila anni di storia. La rete globale che sta per connettere ilmondo intero lavora all’autoconsapevolezza del genere umano. Si va verso la cefa-lizzazione della terra. Non sono le macchine a essere connesse, ma le menti. Gli in-gegni. Le intelligenze. A chi teme che lo sviluppo tecnologico favorisca un processo di deumanizzazione, iltrionfo dell’indifferenza fredda delle macchine, risponde la creazione di network uma-nizzanti. Che non annullano le relazioni umane, ma le potenziano. Mentre la naturadiventa tecnologica, la tecnologia sta diventando organica. L’espansione della sferasensoriale, percettiva, cognitiva, offre un’occasione di miglioramento dell’umano.

La miniaturizzazione della tecnologia procede a ritmo esponenziale. Macchine sempremeno ingombranti lasciano spazio alle idee. La conoscenza si istalla su una quantità sem-pre piú ridotta di atomi. Lo spazio di cui un’impresa ha bisogno per agire si riduce. Si riduce la quantità di materiafisica che è necessario mobilitare. È possibile fare sempre di piú con sempre di meno.

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Il progresso tecnologico si muove lungo un vettore che va dal materiale all’astratto.Tempo, spazio, materia ed energia si comprimono, mentre aumenta la quantità delleinformazioni da cui tempo, spazio, materia ed energia sono attraversati, e determinati.Quello che si scambia, quello che crea valore, non è piú l’atomo, ma il bit. Non èpiú l’oggetto, ma il flusso e la sua elaborazione.

Un’azienda può vivere e innovare solo se è in grado di trasformare il proprio lavoroin collaborazione. Di trasferire il lavoro da un piano verticale a un piano orizzontale. Non si può piú controllare tutta la catena di creazione del valore. È in atto una mu-tazione irreversibile: dall’impresa che impiega dipendenti a tempo pieno si sta an-dando verso un’impresa senza persone. Il compito di un imprenditore (di un editore) diventa quello di sviluppare connes-sioni. Collocarsi nei nodi strategici di una rete di collaborazioni. Per creare un pro-cesso che non umili il lavoro dell’uomo, ma ne liberi il potenziale, valorizzando lecompetenze.

Il futuro è un gatto. Si avvicina lentamente, poi nel tempo di un balzo ci supera, ece lo ritroviamo davanti. Durante questi anni pieni di rumore, era impossibile sentirei suoi passi sempre piú vicini. Ora è saltato davanti a noi. Viviamo in un mondo che non esiste già piú. Si può tentare di conservare la necrosi,come fa chi gestisce il potere. Oppure accettare la sfida della generatività: iniziare,tentare, aprire. Coltivare la volontà di costruire oltre il limite individuale della morte.Immaginare progetti dei quali non possiamo vedere, né prevedere, la fine e l’esito.Pensare la durata della specie, e accordare il nostro lavoro al ritmo di quella durata,liberandolo dalle pastoie dell’adesso.

Dobbiamo abituarci al cambiamento, a forti cambiamenti, e se i cambiamenti cheincontreremo per strada cisembreranno impossibili,ricordiamoci di una sempliceregola: tutto quanto èfisicamente possibile, seconveniente, sarà realizzato. Innestandosi sulle fortidiscontinuità che ci aspettano,e approfittando dell’inerziadelle imprese che si sentonogià arrivate, nuove impresenasceranno e prospereranno.Le cose accadono piúvelocemente di quanto sipossa immaginare. Questaaccelerazione è consentitadall’evoluzione di Internet:

con il web 2.0 e le tecnologiedel Cloud ci stiamoaddentrando sempre piúrapidamente nel futuro in maniera collettiva. Grazie alla globalizzazionedelle intelligenze possiamosalire sempre piú facilmentesulle spalle dei giganti ecompiere passi di progressosempre piú lunghi. Prendo inprestito un’analogia daBuckminster Fuller: stiamopilotando tutti insiemel’astronave Terra e ci stiamopreparando all’atterraggio in un luogo vasto e alieno, ilmondo tecnologico di domani.Non abbiamo grandi poteri perinvertire il corso degli eventi,visto che siamo sotto una forte

spinta gravitazionale che ci porta dal passato al futuro,dal lento al veloce, dal sempliceal complesso, dall’esternoall’interno. Abbiamo lapossibilità di scegliere il nostropunto di atterraggio o lasciareche l’universo lo scelga per noi.Io spero che continueremo aimparare, per poter capire qualisono le forze irresistibili che ci coinvolgono e quali liberescelte abbiamo a disposizione,e che avremo il coraggio e lasensibilità necessari per creareil futuro che meritiamo. E questo futuro, il nostro futuro, in una maniera onell’altra sarà creato dalleimprese che sapranno innovare.Roberto Siagri

2010 Roberto Siagri Che cos’è l’impresa? un testo di 32 pagine e un dvd di 90 minuti

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HAPAX LEGOMENON“Hapax”, da “hapax legomenon”, ossia “dettouna sola volta”, è una parola di cui si pos-siede un’unica attestazione all’interno di unsistema linguistico o di un dato corpus. Ognipoesia è un hapax, in quanto è sempre unica,sola, eccezionale. Un testo poetico può dirsitale perché, letteralmente, senza eguali. Inassimilabile a medie, statistiche, diagrammicaratteristici della produzione in serie, l’operad’arte, commovente fossile, giace raccoltanella sua aura come l’insetto dentro la suaambra, impronta digitale, prodotto indivi-duale fatto a mano, e fatto per passare di mano in mano. Valerio Magrelli

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Roberto Roversi ci ha donato questa poesia tratta dal suo lavoropoetico “in atto” L’Italia sepolta sotto la neve.

215. Non pubblico piú libri dice il giocatore di calcioperché non voglio che qualcuno tagli le pagine del mio librocon un coltello sporco di burro.Non saprei sopportarlo né da vivo né da mortonon importano le critiche non l’indifferenza non l’arroganza dei piccoli gnomi della forestama lo sfregio dell’atto volgare contro l’umile cuore di un libro appena stampato fragile come l’agnello giovane. Un bosco di alberi parole chiede che l’occhio non si chiuda prima che sia accontentato. La parola ha sempre in serbo una sorpresa o un soprusoper il lettore che non ha strappato la pagina. Un lenzuolo di fuocoha preso il cuore del pesce navigatoree l’ha coperto d’amianto. 

(vv. 3 e 4 citazione mnemonica da un testo di cui non ricordo l’autore). 

Roberto Roversi (Bologna, 1923) ha svolto l’attività di libraio antiquariodal 1948 al 2006, gestendo a Bologna la Libreria Palmaverde.Nel 1955 ha fondato con FrancescoLeonetti e Pier Paolo Pasolini la rivista“Officina”. Nel 1961 ha dato alla luce “Rendiconti”. Di entrambe le riviste è stato anche editore.Attorno alla metà degli anni Sessantaha smesso di pubblicare con i grandieditori, limitandosi esclusivamente afogli fotocopiati distribuiti liberamentee a collaborazioni con piccole rivisteautogestite. Negli anni Settanta hascritto numerosi testi di canzoni perLucio Dalla (per gli album Il giornoaveva cinque teste, Anidride solforosa e,sotto pseudonimo, Automobili), esuccessivamente altri per il gruppodegli Stadio. Recentemente sono statiristampati tre dei suoi testi teatrali(Unterdenlinden, Il Crack e La macchinada guerra piú formidabile) sotto la cura del professor Arnaldo Picchi, ed è stato pubblicato per la prima voltaLa macchia d’inchiostro. Nel 2008 lucasossella editore ha pubblicato Tre poesie e alcune prose. Testi 1959-2004, antologia curata da MarcoGiovenale. Il suo ultimo lavoro poeticoin atto è L’Italia sepolta sotto la neve.

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Ungaretti aveva intravisto benissimo che quel paesaggio, anche fin daiprimi momenti, che erano quelli che io descrivevo, aveva dentro dellevenature terribili. Un’arcadia in cui c’è il teschio, tema che in fondoho sviluppato nel Galateo in bosco, in cui la guerra ha tanta parte. Sepenso a una poesia che sia una poesia totale, e che dice tutto anchedi me, del me di adesso, devo scegliere San Martino del Carso. Io ho insegnato alle medie, al liceo e ho avuto tanti rapporti anchecon l’università, ma sempre l’idea di portare un esempio di poesia as-solutamente riuscita, necessaria in ogni sua sillaba, in ogni suo suono,mi conduceva proprio a San Martino del Carso.

Ungaretti dava veramente l’impressione di un contatto profondissimocon un’innocenza originaria dell’essere. Anche se, leopardianamente,l’essere appare terribilmente misto fin dall’origine di orrori e di esal-tazioni, esiste un tramite nascosto, piú o meno nascosto, segreto, l’in-canto di poter rigenerare nel momento inevitabile delle crisi che

Il 7 ottobre del 2006 alla Scuola grande di San Rocco, a Venezia, all’interno dellarassegna “Fare pace” accade lo spettacolo Variazioni babeliche, a cura di Luca Sossella.Roberto Herlitzka legge testi di Gabriele d’Annunzio, Alessandro Haber legge testidi Giovanni Papini, Roberto Roversi, Giorgio Caproni, Franco Fortini e Primo Levi;Franco Buffoni, Jolanda Insana e Gabriele Frasca leggono testi propri e di VittorioSereni, Giovanni Raboni, Amelia Rosselli.In quell’occasione Luca Sossella incontra a Pieve di Soligo Andrea Zanzotto. Racco-glie la sua voce, per poi diffonderla a Venezia nello spazio pieno di risonanze dellaScuola di San Rocco, all’inizio di Variazioni babeliche. Questa che segue è la trascrizione di quel dialogo. Sul sito lucasossellaeditore.it èpossibile ascoltare l’audio con le voci di Zanzotto e di Giuseppe Ungaretti: voci cir-condate da un alone magnetico, che emergono dal fondo magmatico di una co-scienza sovrapersonale. Voci che provengono dal gnessulògo dell’inconscio.

Hapax legomenon

Come questa pietradel San Michele

cosí freddacosí dura

cosí prosciugatacosí refrattariacosí totalmente

disanimata

Come questa pietra è il mio piantoche non si vede

La mortesi scontavivendo

Filò uscí nelle edizioni del Ruzzante nel 1976, giusto trent’anni fa. Oggi siamo a Pieve di Soligo, ma siamo anche a Ve-nezia, cioè siamo in gnessulógo (nessunlogo): sí perché siamo a Venezia, in ascolto, nella Scuola di San Rocco. Bene,Venezia non può che evocare in me il ricordo dell’emersione di quella misteriosissima testa di donna: quell’enorme polenache emerge, mostrando solo gli occhi, dal Canal Grande, all’inizio del Casanova di Federico Fellini, per cui lei scrissealcuni testi in vecio parlar, in dialetto, poi raccolti in Filò. Bene, quella testa che riemerge, io l’ho sempre vista come larappresentazione di una forza sciamanica, che abita dentro il mare-mostro del quotidiano, nascosta: ed è lo sguardo fissodel poeta, quella polena che mostra gli occhi, il poeta che cerca di sciogliere il nodo radicale e indistricabile, inscioglibile,delle profonde matrici della lingua, connesse con la stessa Terra Madre.

In Un’altra poesia dei doni, Borges formula diversi ringraziamenti: per il linguaggio chepossiamo dare alla sapienza, per l’oblio che annulla o modifica i passati. A un certo punto,formula il ringraziamento piú particolare: al mattino, che ci procura l’illusione di un prin-cipio. Lei, parafrasando Al di là del principio di piacere di Freud, una volta ha raccon-tato della possibilità di instaurare un piacere del principio. Io interpreto tutta la suapoesia attraverso questa volontà di rinnovamento e di trasformazione.

Per me, effettivamente, c’è sempre stata una continuità, ma con delle cesure, che poi si rivelavano connesse,tra un libro e l’altro. Anche per esempio in un libro come Pasque, che segna proprio un passaggio molto netto,in realtà sono tutte riprese, ma non cosí evidenti, di temi che avevo già trattati. Perché, in fin dei conti, io,adesso che sono ormai fuori gioco, penso che ho fatto anche male a rimaner sempre qui. Non è che non mi siamosso, ho girato per l’Europa abbastanza, anche come emigrante, tra l’altro, in Svizzera. Ma direi che questodistretto, che comprende la zona del Montello, va verso Asolo, verso nord magari fino in Cadore, e a orienteverso il Friuli, per me è l’unico posto dove riesco a mettere a fuoco le cose.

? Luca Sossella dialoga con

! Andrea Zanzotto

Voci da gnessulógo

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Può esprimere anche la tristezza della vecchiaia questa poesia, pur essendocosí legata al tema della guerra. Perché la vita è una guerra. Oggi poi chesi sta distruggendo il paesaggio, si può ben dire: di queste case / non è rimasto/ che qualche / brandello di muro. Di questo paesaggio non è rimasto che qual-che brandello, perché hanno fatto di tutto per distruggerlo. Non parliamopoi del fatto che di tanti / che mi corrispondevano / non è rimasto / neppure tanto.Ricordiamo si sta come sui rami degli alberi le foglie [sic]: a una certa età pur-troppo gli amici vengono a mancare. Si raccoglie, nella parte finale, questa idea di memoria salvatrice: nel cuore/ nessuna croce manca. Ma è una salvezza che costa, è una croce: il mio cuore èil paese piú straziato, è la conseguenza di tutto quanto. Io la trovo straordinariamente viva, una tra le piú belle poesie che siano maistate scritte.

Abbiamo ascoltato Ungaretti leggere Sono una creatura. Una ferita immedicabiledel tessuto umano è quella che ci mostra poi Zanzotto leggendo San Martino delCarso: le due poesie sono state scritte a Valloncello dell’albero isolato, il 5 e il 27agosto del 1916, da Giuseppe Ungaretti. E sono i testi sempre presenti nel libro, perme piú significativo, piú importante, di Zanzotto, che è il Galateo in bosco. Il boscoè il Montello, dove i corpi di decine di migliaia di morti rappresentano, come luiscrisse, “la tragedia che è rimasta nella terra e nella gente.”Mi pare che ci sia poi una sorta di sovrapposizione...

capitano alle persone, che possono essere tutte riportabili all’idea di un mancamento, come un terreno chemanca sotto i piedi. Si regredisce fino, appunto, a quella solidità strana che ha il fascino dell’infanzia. Possiamobenissimo parafrasare, in un certo senso, il tema del principio del piacere con quello del piacere del principio.Cioè di questo perenne ricominciare dopo ogni batosta. Però, devo dire, a esser sincero, che ci credo sempre meno. Perché tutti gli spifferi sinistri che confondono larealtà attuale ci portano piuttosto a pensieri che deprimono sempre piú, a ondate, in un quadro terribile, di di-struzione del vecchio tessuto umano. Queste fibre non sono piú tali da poter essere tanto docili. Una dissonanzasempre piú scriteriata appare anche là dove dovrebbe farsi sentire di piú, invece, questo gusto del rivelare e delcreare cose nuove, che può coprire tutto l’arco del sapere umano e della creatività umana.

San Martino del CarsoValloncello dell’albero isolato27 agosto 1916

Di queste casenon è rimastoche qualchebrandello di muro

Di tantiche mi corrispondevanonon è rimastoneppure tanto

Ma nel cuorenessuna croce manca

È il mio cuoreil paese piú straziato

Per un certo periodo, mentre lavoravo a Filò, soprattutto all’appendice in prosa di Filò, sulle teorie del dialetto,dell’evoluzione delle lingue, un’appendice abbastanza consistente del libro, intanto nelle mie passeggiate avevogià accentuato i giri nel Montello, perché da sempre, da quando ero bambino, ne sentivo parlare. Qua c’eranoparecchi mutilati di guerra, anche tra i bambini, perché fino al ’25-’26 chi si inoltrava nel greto del Piave, potevaincappare in proiettili inesplosi. Qua siamo proprio a ridosso del fronte. L’idea del confronto tra galateo e boscoè venuta anche dal fatto che per un certo periodo ho ripreso in mano lí la casa e anche là è un galateo di pazzieo stupidaggini dell’uomo, elencate.

C’è un altro testo che io ritengo proprio fondamentale, almeno nella mia esperienza di lettore, di suo lettore, che è Filò, soprat-tutto il componimento in cui compare il verso Ma ti, vecio parlar, resisti. Li sovrappongo, i lavori che compongono la pseudo-trilogia, che poi si è costituita come trilogia. Nel Galateo in bosco, con questa particolare propensione, vedo sempre infiligrana quei testi lievissimi che sono in Filò: sono quelli che incantano e anche commuovono di piú, perché ci sono dellescommesse con quel nodo radicale della lingua e lí si vede secondo me la grandezza della sua poesia.

Il galateo in bosco è stato scritto dal ’76 al ’78, nel giro di quei tre anni. Poi ha dato anche luogo all’idea di unatrilogia, che si riferiva al territorio in cui vivo. E quindi, il sud col Montello e le guerre, il nord con Fosfeni, imonti che vanno sempre piú in alto, e Idioma, il paese, dove si sta, con il dialetto anche fortemente rappresen-tato. Ecco, questo è il disegno che è venuto fuori da sé. In un primo tempo ho parlato di pseudo-trilogia, ma difatto si è rivelata una trilogia, nel senso che i vari pezzi stanno accostati bene... bene?, non posso dirlo io...

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La poesia non serve a niente.Nel frastuono dei media, non solo nessuno la ascolta:nessuno, neanche chi lovorrebbe, riesce a sentirla. Il pubblico della poesia, è un’intuizione ormai classica,sono i poeti stessi, che scrivono senza leggersi:letteralmente. La Forma si è disgregata.L’alluvione ha sommerso e ha disperso la tradizione. Ha travolto ogni segnoriconoscibile della specificitàpoetica. La critica è disarmata:non esiste il soggetto chepossa dominare, discernere,giudicare la marea di paroleallineate sul margine sinistrodel foglio. Ecco perchéè necessario continuare a leggere la poesia, continuare a criticarla. Sforzarsi ancora di comprenderla.

La risposta agli apocalittici è un cambio totale diprospettiva. La molteplicitànon è piú la vertigine cheparalizza. È il presupposto dal quale ricominciare. Lo sguardo non è piú aereo,è rasoterra: non localizza punti nello spazio, li incontra. Nel tempo, percorre unperiodo coestensivo alpresente. Collega i fatti chenon soltanto sono il presente,ma lo producono. Facendo un’antologia, non siprogetta un’ennesima mappadall’alto, non si opera piú sullabase di astrazioni, di modellicartografici desunti da quellipassati (“generazioni”,“gruppi”, “linee”...); ma lo sipercorre in lungo e in largo –questo territorio.Empiricamente – al tracciare lo spazio nell’attraversarlo –nascono opzioni di senso,possibilità di orientamento.

Parola plurale è un’antologiacollegiale: non ha coordinatori né collaboratori.La sua immagine-guida non è dunque la bottega, bensí(semmai) l’officina. Un’officinanon duramente tayloristica,ma frequentata da operatoriautonomi e autosufficienti,all’interno di un organismoche non risulta semplicementedalla loro somma. I curatori si sono divisi laresponsabilità della scelta deitesti e dell’introduzione criticadei sessantaquattro autoriantologizzati: ogni inclusione(e di conseguenza ogniesclusione) è stata decisacollegialmente, sulla base della lettura incrociata dei testi proposti, e di una loro discussionearticolata e puntuale. Parola plurale è un’antologiache rifiuta di farsi museo, ma che vuole evitare anchel’univocità del manifesto:vuole somigliare aun’assemblea, che convocaintorno a un problema (il problema) una comunitàermeneutica.

2000 Antologia personale di Vittorio Gassman

2005 Parola plurale2010 arte poetica

2005 Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli a cura di Giancarlo Alfano,Alessandro Baldacci, Cecilia Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Massimiliano Manganelli, Raffaella Scarpa, Fabio Zinelli e Paolo Zublena

Hapax legomenon

Parola pluraleSessantaquattro poetiitaliani fra due secoli

a cura di Giancarlo Alfano •Alessandro Baldacci • Cecilia BelloMinciacchi • Andrea Cortellessa •Massimiliano Manganelli •Raffaella Scarpa • Fabio Zinelli •Paolo Zublena

testi di Cesare Viviani • GiuseppeConte • Maurizio Cucchi •Michelangelo Coviello • VittorioReta • Patrizia Cavalli • Milo DeAngelis • Biancamaria Frabotta •Michele Sovente • PaoloPrestigiacomo • Vivian Lamarque• Gianni D’Elia • Valerio Magrelli• Patrizia Valduga • TommasoOttonieri • Gabriele Frasca •Francesco Scarabicchi • FerruccioBenzoni • Mario Benedetti • BeppeSalvia • Claudio Damiani • DarioVilla • Remo Pagnanelli • RiccardoHeld • Fabio Pusterla • UmbertoFiori • Eugenio De Signoribus •Franco Buffoni • Enrico Testa •Pietro Tripodo • Alessandro Fo •Giuliano Mesa • Marcello Frixione• Lorenzo Durante • Lello Voce •Mariano Bàino • PaoloGentiluomo • Marco Berisso •Rosa Pierno • Antonio MariaPinto • Aldo Nove • Rosaria LoRusso • Franca Grisoni • EmilioRentocchini • Luciano Cecchinel• Nino De Vita • GiovanniNadiani • Gian Mario Villalta •Stefano Dal Bianco • AntonellaAnedda • Paolo Febbraro •Giacomo Trinci • Vito M. Bonito •Edoardo Zuccato • Nicola Gardini •Andrea Inglese • Fabrizio Lombardo• Elisa Biagini • Giovanna Frene• Paolo Maccari • FlorindaFusco • Flavio Santi • MarcoGiovenale • Massimo Sannelli

gerliester

meervoud

lamaluvksanjval

katajamak

daudzskaitlis flertalsord

meervoudigwoord

fjalë nëshumës

hitzanitz

parolaplurale

lucasossellaeditore

palabraplural

mitmusliksõna

paròlîplurèlî

paraulaplural

WortPlural

woëd èn ‘tmeervoud

mnozina verbumplurale

pluralword

gairlluosog

pluralavorto

parolapluàle

palavraplural

paroleplurielle

ISBN 88-87995-91-5

9 788887 995916

20,00 euro

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2007 Gian Mario VillaltaVedere al buio

2007 Michel DeguyArresti frequenti. Poesie scelte 1965-2006traduzione di Mario Benedetticon un saggio di Martin Rueff

2007 Gregorio Scalise Opera-opera. Poesie scelte 1968-2007

arte poetica

2008 John Ashbery Un mondo che non può essere migliore. Poesie scelte 1956-2007a cura di Damiano Abeni e Joseph Harrisontraduzione di Damiano Abeni con Moira Egan

2008 Andrea Inglese La distrazione

2008 Roberto Roversi Tre poesie e alcune prose. Testi 1959-2004a cura di Marco Giovenalecon una nota di Fabio Moliterni

2008 Jorie Graham L’angelo custode della piccola utopia.Poesie scelte 1983-2005a cura di Antonella Francinicon la collaborazione di Jorie Graham

2008 Geoffrey Hill Per chi non è caduto. Poesie scelte 1959-2006cura e traduzione di Marco Fazzini

2009 Massimo Gezzi L’attimo dopo

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2007 Gabriele FrascaPrime. Poesie scelte 1977-2007

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Hapax legomenon

Arte poetica è una collana nata per strappare la poesia al dilettantismo e alla clande-stinità. Una collana di poesia nata proprio perché la poesia non ha lettori. Il lettoreideale è quello che non esiste: che non esiste ancora. Va inventato insieme al libro:come e piú del libro. Arte poetica ha immaginato un nuovo sguardo per la poesia a partire dalle soglie.L’immagine estesa della copertina spalanca il libro, lo rovescia, lo mette di traverso.Critica la prevedibilità del formato. Scardina la visione frontale e inventa una nuovavisione. La forma del libro si dilata. Dentro, i versi fanno lo stesso con il linguaggio: lo spalancano, lo rovesciano, lo criti-cano. Forzano la convenzionalità del pensiero inventando nuove relazioni tra le cose:nuove visioni. Lavorano per smentire l’inesorabilità dell’esistente. Scoprono nessi chepossano rappresentare un’alternativa al reale.

Nel 1832, di fronte all’ipotesi di fondare una rivista, Leopardi descrive la fatica della nominazione del nuovo: “èmolto difficile a definire che cosa debba essere il loro Giornale. Essi medesimi non lo sanno: cioè, diciamo meglio,ne hanno un certo concetto cosí nella mente, ma quando si viene a volerlo determinare per esprimerlo con pa-role, nasce una gran confusione. Non si trova altro che idee negative: Giornale non letterario, non filosofico,non politico, non istorico, non di mode, non d’arti e mestieri, non d’invenzioni e scoperte, e via discorrendo.Ma un’idea positiva, e una parola che dica tutto, non viene.”

Arte poetica ha scelto i testi da pubblicare con severità e rigore. Ha proposto dieci volumi in due anni: sei operedi poeti italiani e quattro di poeti stranieri. Tutte le uscite sono state pensate sulla base di un lavoro collettivo dicritici e poeti coordinati da Alberto Casadei e Guido Mazzoni.Fra i poeti italiani la collana ha privilegiato (con ragionate eccezioni) gli autori che attendevano una consacra-zione definitiva. Quanto ai poeti stranieri, arte poetica ha presentato al pubblico italiano autori che, nei loropaesi, sono considerati dei maestri. Negli ultimi decenni gli editori italiani hanno tradotto pochissima poesia; al-cuni autori ormai celebri, che hanno ottenuto numerosi riconoscimenti e sono da anni candidati al Nobel, eranoquasi del tutto sconosciuti in Italia. Arte poetica ha proposto antologie dei loro testi migliori. Le traduzioni, contesto a fronte, sono state precedute da brevi saggi introduttivi.Oltre a lavorare sulla costruzione del catalogo, si è tentato di distribuire la collana affinché fosse visibile nelle mi-gliori librerie. Nulla come la circolazione semiclandestina dei libri allontana i lettori dalla poesia. Chi entra in li-breria deve sentire che la poesia non è un genere residuale o minore, ma una forma d’arte in cui l’editore crede.

La collana arte poetica doveva necessariamente trasformarsi: dieci titoli sono già unapiccola storia, da raccontare e da interpretare. Nella comprensione di questa storiacerchiamo le energie per il prossimo progetto.

In questo momento in cui un’epoca si sta chiudendo, c’è bisogno di uno scatto evolutivo, a cominciare dalleforme e dai metodi. Abbiamo provato a cambiare le letture, e forse anche la scrittura, del pubblico della poesia.Ma c’è bisogno di cambiare gli strumenti di comunicazione, e quindi il pubblico, della poesia: allargare, oltre ilsupporto cartaceo, la diffusione della poesia.

Il futuro ha bisogno di noi, anche se il presente non sa che farsene. Nei momenticome questo, di profonda incertezza, bisogna trarre la forza non già dal passato (ri-fugio debole) ma dall’avvenire che ha in custodia i nostri desideri (e progetti). Anche se non vi saranno che epoche della crisi dobbiamo agire come se seguirà aquesta epoca della crisi un’epoca “organica”. La crisi, etimologicamente, separa, edecide: noi vogliamo attraversare la separazione e affrontare la decisione.

Bisogna selezionare le energie piú vive, gli individui piú preparati, le idee piú innovative. Non c’è spazio per levolontà incomplete: depongano pure l’arco, come suggeriva Nietzsche, quelli che non sono sicuri di fare centro.C’è bisogno di un censimento critico costante, severo, da pubblicizzare e condividere. Gli eventi e gli spazi legati alla poesia devono diventare centri in cui la parola poetica si fa allo stesso tempo am-biente e azione, tornando ad accompagnarsi e a legarsi al gesto e alla voce, suoi compagni di culla.

Serve una “cosa” che possa riaprire i discorsi e gli spazi. Una cosa che non ha ancora un nome.

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2011 Giovanna Bemporad Esercizi vecchi e nuovi a cura di Valentina Russi

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Classico e non classicista: su Giovanna Bemporad*[...] Misura, riserbo, certezza delvalore, di contro al bollore, altellurico, agli spasimid’indefinitezza delle nascentipoetiche romantiche: Hegel [...]dice del classico già come d’unfantasma o d’un fossile, di unatonalità adempiuta e non piùrevocabile se non pereccezione, per un inopinatocongiurare del singolo coitempi. [...] Eppure, in alcuneopere, più spesso in singoleparti di opere, pari al riflesso diun’utopia rovesciata, il classicotorna a manifestarsi nel rilievo(equilibrio, esattezza, necessitàd’un esserci) d’una forma cheAdorno altrimenti definivaastanza, [...] respiro vivo dellaforma che pulsa, oltre enonostante l’eventualecamuffamento classicista. Ed èil caso delle liriche di GiovannaBemporad [...].

Petrarchesco, e piùgeneralmente di derivazioneelegiaca, è il tema o meglio ilcatalizzatore metaforico dellaraccolta, in assenza di altritopoi rilevanti, anzi rilevabili: lafuga temporis, il trapassaredell’attimo e nell’attimo, il mitodafnèo che si compie nel ciclodi slancio e limite ovvero dipulsione e delusione. Lacarenza di determinazionionomastiche e di precisazionitopografiche, la preponderanzadei nudi dati primordiali (aria,acqua, terra, fuoco) dannoluogo a una dialettica dicontrari, di figure dellaluminosità/fluidità e,all’opposto, di siccità/opacità.Una dialettica che non conoscesoluzione ma semmai costantetensione, continuospostamento delle antitesi. Da un lato la luce, non quellaonnipotente del sole ma il lumebagnato della luna, che trepido

consola, ridà naturalezza alpensiero dominante dellamorte [...]. Dall’altro, il crudofreddo di cose inerti, fisse nelcono d’ombra in cui lo stesso iosi fa cosa, si disfa man manoessicando [...].Se ancora nel Petrarca l’attimoveniva colto nella lacerazionetra passato e presente, nel fittoalternarsi di tempi verbalistatici e dinamici, tra euforia elutto, nel verso invece dellaBemporad tutto accade e sicompie al presente, quandol’istante dice il puro comparire einsieme il suo dileguare [...].Gli smalti funebri, la pietra duradel Petrarca, lì sempre rimossao in appiombo catastrofico, quiè la sabbia (minuscoli atomi disabbia) che brillando transitanel metro come se questo fosseuna clessidra di continuorovesciata, ritmata dalloscorrere del tempo. Tempo cheè flusso e distruzione, in sé

remoto ai sensi e alla parola,mostro sbadato la cui ecorisuona, si disperde con la vocedel vento [...].Massimo Raffaeli

* Ringraziamo l’autore per averciconcesso questo estratto da un suosaggio pubblicato per la prima volta su“Lengua”, 14, 1984.

Intendo la pratica della dizione,e degli intrecci tra poesia e musica – anche quandoMahler, disordinato da vari

dolori nel suo estremo ritirodolomitico, mise in musicaalcune liriche cinesi e ciapparecchiò Il canto della terra– come una “messa in scena”della poesia, un’artespettacolare, cosa diversa dalla poesia e magari, come ho suggerito, suo antiveleno,luogo dove i lineamenti della poesia appaiono escompaiono a favore dipubblico dietro le belle treccedella parola-con-musica. Ma da questi gesti rituali puòsuonare la eco ultrasonica e sottilissima che vibra da

tutta la poesia e presuppone la rarefazione dell’io. Alloraforse possiamo osservare nella vera carne degli uomini ilmiracolo tanto immaginatodella compassione.La compassione che nei fatti è la poesia, che la poesia ha richiesto per essere scritta, è stata calata dentro il fatto di una voce e di un corpo – che sia o meno quello del suo autore – che si espone a un pubblico. Se quel corpo si apre e scompare insieme alle sue contingenze

per suonare davvero di quelsuono bianco fino alle sueincurabili fondamenta e se,insieme a quel corpo-strumento-di-poesia, anche il pubblico suona di quella stessa radiazione, si manifesta il nostrolegamento esangue, il nessun grado di separazione, il nostro essere fratelli e basta. Eppure, la poesia è un oggettofatto di parole e basta.Maria Grazia Calandrone

2011 Maria Grazia Calandrone Vivavox poesie edite e inedite lette da Maria Grazia Calandrone; L’infinito mélo pseudoromanzo

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? Massimo Gezzi intervista

! John Ashbery

* Ringraziamo l’autore per averci concesso questo testo, riproposto con alcune modifichedopo essere stato pubblicato su “Poesia”, 234, gennaio 2009.

L’antologia curata da Damiano Abeni e Joseph Harrison per luca sossella editore – la primain assoluto, in Italia, a presentare testi scelti in collaborazione con lei – esce cinquanta annidopo la prima apparizione di sue poesie in lingua straniera. Anche allora si trattava diun’antologia italiana, ovvero Poesia americana del dopoguerra, a cura di Alfredo Riz-zardi. Cosa rappresenta per lei l’Italia e il pubblico italiano?

Non saprei dire come le mie poesie siano andate a finire nell’antologia di Rizzardi,dato che a quell’epoca ero piuttosto sconosciuto persino in America. Negli anni Set-tanta il mio libro Autoritratto in uno specchio convesso attirò molta attenzione, vinse di-versi premi letterari e fu tradotto in Italia da Aldo Busi. Speravo che la cosa fosseseguita dalle traduzioni delle mie poesie successive, ma fin qui non era mai successo,anche se un editore italiano aveva opzionato un’altra mia raccolta, rinnovando ripe-tutamente l’opzione ma senza pubblicare mai il libro. Come spiegare quello che l’I-talia e i lettori italiani rappresentano per me? Sono tremendamente importanti,ovvio, come lo sarebbero per chiunque. Sono molto soddisfatto della generosa sele-zione del mio lavoro operata da Abeni ed Egan. Il mio italiano va bene per leggereun giornale, non certo per giudicare la qualità della poesia. Ma dalle conversazionicon i traduttori e da altri commenti, credo che abbiano fatto un lavoro eccellente.

Hapax legomenon Benvenuti in un mondo che non può essere migliore*

A proposito della ormai proverbiale difficoltà della sua poesia: in un saggio del 1991, unpoeta e intellettuale italiano, Franco Fortini, ha distinto tra poesia difficile (comunque com-prensibile da parte di un lettore volenteroso) e poesia oscura (in ogni caso incomprensibile,anche a chi la scrive). Condivide questa distinzione? E su quale versante collocherebbe lasua produzione poetica?

Non saprei immaginare un poeta che si siede e sceglie tra poesia “difficile” e poesia “oscura”. Come si fa a saperecosa sarà “comprensibile” da parte di un “lettore volenteroso” e cosa sarà “comunque incomprensibile, anche achi scrive”? Chiedere a me se la mia poesia sia piú difficile o piú oscura è come chiedermi quale veleno scegliereiper mettere fine alla mia vita. Non ho mai programmato di essere né l’una né l’altra cosa. In ogni modo, i mieigusti letterari si sono formati durante quella che ora sembra la lontana era del modernismo del XX secolo, cioèl’età di Proust, Joyce, Kafka, Henry James, Gertrude Stein e i Surrealisti, per citare solo alcuni scrittori che hannocontribuito alla formazione della mia sensibilità di scrittore. Ovviamente alcuni di questi scrittori sono difficili,e io sono stato sempre attratto da quello che Yeats definiva “il fascino del difficile”, perché avevo l’impressioneche dopo aver letto qualcosa di difficile sarei diventato piú sapiente. Ora sembra che i lettori non la pensino piúcosí, per lo meno in America, dove la “leggibilità” è tenuta in gran conto, ma io continuo a pensare che la migliorepoesia e arte spesso richiedano un certo sforzo per essere apprezzate.

Durante un’intervista lei ha dichiarato che nessuno, in una poesia, vorrebbe trovarsi a leg-gere di guerra, perché è già abbastanza triste che la guerra esista. In un passaggio di A Wave(1984), poi, si legge: “Le sorprese / Che la storia ci riserba non sono nulla paragonate /Alle violente emozioni che ricaviamo gli uni dagli altri”. La poesia, secondo lei, deve partiresolo dalla microstoria individuale, ignorando quella generale?

Ovviamente mi sbagliavo quando dicevo che a nessuno piace leggere di guerra inuna poesia, dal momento che a molte persone piace (nelle interviste si dicono unsacco di cose di cui poi ci si pente...). Non credo che la poesia dovrebbe “partire solodalla microstoria individuale, ignorando quella generale”. D’altro canto, non credoche la poesia “debba” (o “non debba”) fare qualcosa.

Che rapporto ha avuto e ha con l’arte e la letteratura italiane? Come è noto, il titolo del suo libro piú premiato, Self-Portrait in a Convex Mirror, allude a un dipinto di Parmigianino, mentre The Double Dream of Spring (1970)traduce Il doppio sogno di primavera di Giorgio De Chirico...

Non sono sicuro di avere una vera relazione con la letteratura italiana... Certamente amo la pittura del Rinasci-mento italiano, come tutti. Detto questo, c’è qualche artista italiano isolato la cui opera mi attrae particolar-mente. Uno è il Parmigianino. Una volta ho fatto un viaggio in Italia per vedere quanti piú suoi quadri potevo

Massimo Gezzi (Sant’Elpidio a Mare,1976) ha pubblicato due raccolte di poesia: Il mare a destra (2004) eL’attimo dopo (luca sossella editore,2009, Premio Metauro, finalista PremioPalmi e Premio Il Ceppo), di prossimapubblicazione in Spagna. I suoi testisono stati tradotti in inglese, francese,tedesco, spagnolo e croato. Come studioso ha curato il volumeL’autocommento nella poesia italianadel Novecento: Italia e Svizzera italiana(2010) e l’edizione commentata delDiario del ’71 e del ’72 di Montale(2010). È traduttore letterariodall’inglese, e attualmente lavora comeassistente alla cattedra di Letteraturaitaliana dell’Università di Berna.

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(l’Autoritratto naturalmente è a Vienna, l’ho visto lí). Sassetta, Perugino, Piero di Cosimo, Moretto da Brescia,Moroni, Ceruti, Tiepolo, Morandi, di cui attualmente è in corso una mostra al Metropolitan Museum, sonoaltri miei pittori preferiti (non ho volutamente espresso preferenze per Piero, Leonardo, Michelangelo ecc.).Quanto ai film, al contrario, conosco e mi piacciono soprattutto i piú famosi, come Fellini, Pasolini, Antonioniecc., anche se una volta al Museum of Modern Art ho visto un bellissimo film muto intitolato I topi grigi. Conservoun caro ricordo del Cappotto, basato sul racconto di Gogol e interpretato da Renato Rascel, ma non so chi sia ilregista. Non sono troppo esperto, ahimé, di letteratura italiana, a parte Dante, Leopardi, Svevo e Montale, per-ché non posso prescindere dalle traduzioni inglesi. De Chirico, com’è noto, scrisse in francese, e il suo romanzoHebdomeros è un capolavoro, al pari di molti dei suoi primi quadri. Lei non ha menzionato i compositori, mapotrei citarle Monteverdi, Scarlatti, Busoni (è italiano, vero?), Casella, Scelsi, Donatoni e Gorli. Non mi piacetroppo l’opera – ho qualche problema con la voce umana.

Un imperativo costante della sua scrittura sembra essere quello di non ripetersi, di combatterel’establishment letterario e il poetic decorum, di trovare qualcosa che non abbiamo an-cora scoperto e di non soffermarsi su quello che sappiamo già, forse sull’esempio di un poetache lei stima molto come Raymond Roussel. Un’arte che comunica quello che sappiamo già,ha sostenuto lei, non comunica niente. Quali sentieri inediti sta percorrendo, dopo gli ot-tant’anni, la poesia di John Ashbery?

Sí, direi che è tutto vero, e continua a esserlo anche oggi che ho raggiunto la ridicolaetà di ottantuno anni.

Uno dei suoi traduttori italiani, Nicola Gardini, in un articolo su “Poesia” (152, 2001),ha scritto che lei gli ha confessato di non riuscire a capire perché mai Montale sia consideratocosí importante. Mi conferma questo dubbio?

Non ricordo di aver fatto questa confessione. Se mai l’ho fatta no, non lo penso piú.

Si sente dire spesso che lei ama piú la poesia minore che quella dei “maggiori”. È vero?Probabilmente no, ma posso capire come sia potuta nascere questa impressionedalla scelta di poeti poco noti che ho fatto per le mie Norton Lectures di Harvard.Mi interessava presentare degli autori che avessero avuto un’influenza sulla mia scrit-tura, e ho omesso i maggiori (tra i quali avrebbero potuto esserci Auden e WallaceStevens) perché hanno già ricevuto molta attenzione critica.

Anche nel campo dell’arte, lei sembra piú affezionato all’arte outsider di Trevor Winkfield o di Henry Darger, da cui haliberamente tratto Girls on the Run (1999), che ai maestri di prima grandezza. Cosa la attrae di questi artisti?

Di nuovo, ho sempre scritto di artisti che non sono troppo conosciuti solo per riportarli all’attenzione dei lettori.Certo, la fama è soprattutto una questione di casualità, e ora gli artisti outsider come Darger spesso sono piú fa-mosi degli artisti “insider”...

Un critico americano, John Emil Vincent, ha sostenuto che lei, da April Galleons (1987) e soprattutto da Your NameHere (2000) in poi, avrebbe messo in atto una strategia di avvicinamento al lettore, considerandolo con piú amore e at-tenzione di prima. Le sembra un’intuizione giusta? Se sí, si tratta di un mutamento intenzionale?

Preferisco pensare di essere stato sempre affezionato ai lettori, persino nei giorni in cui non ne avevo. Per qualealtro motivo si dovrebbe scrivere, altrimenti?

Sia Damiano Abeni che Joseph Harrison ritengono che Houseboat Days (1977) sia il suo libro migliore. C’è una raccoltache lei predilige, per motivi artistici o personali? E perché?

È interessante che entrambi pensino che Houseboat Days sia il mio libro migliore. Secondo me è stato sempre sot-tovalutato, essendogli toccato in sorte di seguire da vicino il molto piú noto Self-Portrait in a Convex Mirror. I mieipreferiti potrebbero essere A Worldly Country, solo perché è recente (2007) e io tendo ad amare piú di tutti illibro piú recente, ma anche Three Poems (1972), che è stato un esperimento di scrittura di una prosa che speravopotesse avere lo stile esuberante della poesia. Non sono sicuro di esserci riuscito, ma mi sono divertito a provarci.

John Ashbery

Un mondo che non può essere migliorePoesie scelte 1956-2007

traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan

arte poetica

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La Library of America ha appena pubblicato il primo volume dei suoi Collected Poems: lei è il primo poeta vivente inassoluto a essere pubblicato da questa prestigiosissima collana. D’altra parte, la sua opera è molto apprezzata anche dallacultura pop: l’anno scorso, per esempio, lei è stato nominato primo poeta laureato del canale musicale MTV. Che impressionele fanno queste due prime assolute, piuttosto diverse l’una dall’altra?

Ne sono molto felice. La pubblicazione della Library of America è un onore sorprendente e piacevolissimo. Èproprio come vedere la propria opera pubblicata in Francia dalla Pléiade. Ed è bello sapere che sono stato ilprimo MTV Poet Laureate, anche se non saprei dire con certezza cosa vuol dire, dato che sono troppo vecchioper guardare MTV. Spero comunque che voglia dire un possibile allargamento del pubblico della poesia.

Lo scorso settembre lei ha fatto il suo debutto come artista visivo, con una mostra di due dozzine di piccoli collages espostialla Tibor de Nagy Gallery di New York. Prima di tutto, com’è andata la mostra? E poi un’altra domanda: molti criticiripetono che lei usa il collage come il linguaggio e il linguaggio (o la letteratura) come il collage. Crede che sia giusto, e checi sia davvero una relazione tra la sua scrittura e la sua arte visiva? Nella prefazione alla sua antologia italiana, peresempio, Joseph Harrison paragona le poesie di The Tennis Court Oath (1962) a dei collages....

La mostra è stata una sorpresa, tanto per me quanto per i visitatori della galleria. Avevo quasi dimenticato diaver prodotto dei collages, quando il mio amico, il pittore Trevor Winkfield (la cui mostra ha occupato granparte della galleria, durante la mia esposizione) me ne ricordò, incoraggiando i proprietari della galleria a rin-tracciarli (Winkfield usa giustapposizioni di immagini simili al collage, nei suoi quadri, che sono fortementeinfluenzati da Raymond Roussel). La mostra ha ottenuto buone recensioni sul “New York Times” e su qualchealtra pubblicazione. Sarei propenso ad ammettere che c’è stato sempre un fattore collage nella mia poesia, ov-vero l’uso di improbabili giustapposizioni di parole e idee al fine di produrre strani e – spero – significativi ri-verberi. Harrison ha ragione nel collocare questa tendenza specialmente all’altezza di The Tennis Court Oath,quando ero particolarmente legato al collage come modo di sperimentare nuove tecniche di scrittura.

Molti interpreti della sua opera hanno usato, per descriverla, delle metafore di tipo pittorico, teatrale, cinematografico omusicale. Qualcuno ha parlato, per esempio, di “tele verbali”, ricordando la sua predilezione per l’espressionismo astratto;altri hanno sostenuto che un lettore, per poter esplorare la nuova geografia disegnata dalle sue parole, deve prima imparareuna sorta di nuova scala musicale. Anche lei, del resto, ha sostenuto che quando scrive pensa prima di tutto alla musica(e d’altronde titoli come And the Stars were Shining, o Andante misterioso sono piuttosto eloquenti, in fatto di mu-sica), e ha ammesso il probabile influsso di alcuni registi (Guy Maddin, David Lynch – forse anche Luis Buñuel, ipotizzoio...) sulla sua scrittura. È come se la sua poesia possa essere esplorata e recepita solo tenendo presente la sua profonda in-tersezione con le altri arti. Cosa ne pensa?

Beh, spero che non sia vero e che la mia opera possa esere considerata indipendente da qualsiasi forma d’arteabbia contribuito a ispirarla.

Una volta lei ha sostenuto che l’America le è sempre sembrato un paese straniero, e che vivere all’estero fa comprendere dadove veniamo. È sempre di questa opinione? L’America è ancora un paese straniero per lei? Quali sono i poeti o gli scrittoriamericani che apprezza e frequenta di piú?

L’America continua a sembrarmi un paese straniero, forse ora piú che mai. D’altra parte, nei dieci anni che hopassato in Francia ho scoperto che sentirmi straniero mi piace. È stata Gertrude Stein a notare per prima chevivere a Parigi la faceva sentire piú consapevole della sua identità americana. Una lista di poeti e scrittori ame-ricani che apprezzo sarebbe molto lunga, se dovessi inserire i contemporanei, inclusi i piú giovani, i cui nominon direbbero nulla ai lettori italiani. Tra i piú “vecchi” includerei Whitman, Stevens, Marianne Moore, Eliza-beth Bishop, Jane Bowles e anche T.S. Eliot e Auden, anche se a questi due non si sa che nazionalità assegnare.

Un’ultima curiosità. Lei ha piú volte dichiarato di considerare molto importanti i titoli, aggiungendo che spesso cominciaa scrivere a partire dalla suggestione di un bel titolo. Le piace il titolo scelto dai curatori della sua antologia italiana?Anche la copertina le è piaciuta, vero?

Sí, tendo a pensare ai titoli per prima cosa. Mi sembrano come un’apertura, un’indicazione rispetto alla dire-zione che la poesia prenderà. Forse in questo mi ha influenzato Wallace Stevens. I suoi titoli spesso determinanoil modo in cui vanno interpretati i testi, per esempio la sua Mrs. Alfred Uruguay: se il poeta non ci avesse dettoche la poesia parla di una donna che ha il nome di una nazione, noi leggeremmo quel testo in modo diverso.Sí, il titolo della mia antologia italiana mi piace, e mi piace anche il fatto che la poesia da cui è tratto non com-paia nel libro. E la copertina è splendida.

Hapax legomenon Benvenuti in un mondo che non può essere migliore

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L’ispirazione poetica oggi cisembra un’idea quanto maifuori moda, contro cui è facilelanciare accuse di misticismooppure di antiscientificità.Viceversa, facendo ricorso alle teorie delle scienzecognitive, è ormai importanteindagare sulle possibilispiegazioni della sua specificitàe della sua a-razionalità,caratteristiche rilevate daPlatone e per lungo tempogovernate secondo i canoniaristotelico-oraziani.Fondamentale risulta laconnessione fra poiesise nuovepotenzialità ermeneuticheindicate dalla linguistica, dalla

cognitivepoeticse in generaledagli studi su mente e cervello:se si ipotizza una via particolaredella biologia umana nel crearesinapsi e metafore, si puòleggere da un’angolaturainconsueta anche la tendenzadella lirica moderna allosgretolamento delle regole ingenere, e di quelle sintattiche inparticolare. Questo non implicail rifiuto dell’elabora-zioneconscia, e anzi le analisi distilistica storica che quiverranno proposte serviranno adeterminare in concreto quantopossiamo capire in piú deigrandi testi poetici, soprattuttoromantici e postromantici,

tenendo conto della loro forma:la quale, di fatto, si determina inrapporto all’emersionedell’esperienza profondadell’individuo, ma anche,insieme, in rapporto allatradizione letteraria e culturale.Almeno in prospettiva, allora, lespiegazioni del “poetico” comefunzione della lingua (oaddirittura del Linguaggio) oespressione dell’inconsciopossono trovare un quadro diriferimento diverso rispetto alleteorie novecentesche. E infine, la marginalità stessadella poesia nel campo di forzedella cultura attualerisulterebbe superabile,

se alla sua peculiaritàgnoseologica venisse attribuitoun nuovo valore, non anti-bensí extra-scientifico. Alberto Casadei

Lo leggo come un ampioracconto, meglio: resoconto, epico in versi. Un progressivo testamentosteso con una rabbia quasi feroce, però dentro a una luce forte. Posso dire: a cuore aperto? I vulcani, il loro misteriosocratere che sembra freddo e indifferente e cheall’improvviso esplode,avvampa. Fuoriescono ceneri e fuochi, balzano a chilometri,in alto? Un Empedocle che cigira intorno e si lascia, perfame di conoscenza, bruciare? Il racconto, cioè la poesia, sialza si abbassa, respira forte.Sfoglio (e leggo) le pagine; allevolte sembra di strisciare le

mani sul tronco di un alberoche trasmette il brivido del passare del tempo; che ha trapassato e ha resistitoa cento naufragi di inverni, alle tempeste (della nostraesistenza turbata). Altre volte la pagina (le pagine)si apre e si ripiega docile, comeun ramo nella fioritura diprimavera, poi torna adistendersi, improvvisa, in un canto di qualchemelodia; come fosse toccata(sfiorata) dalla memoria chesopravviene e adagio la esalta.I buoni volumi di poesia hannosempre, a mio parere, un contenuto esplosivo;perciò, sempre a mio parere,vanno maneggiati (letti, riletti)

con cura, con lo scrupolo di una attenzione costante per ogni dettaglio. Per arrivareal fondo, a percepirne il respirointerno, il mormorio (appunto)delle acque, il fuoco deitramonti (appunto) il fiumePecos e i bisonti che bivaccanovicino e osservano il cielo e non sanno che stannoaspettando la morte. Eppuresono scossi da un tremito.Ripeto: il volume è buono nel senso pieno e autentico di portatore di umori, di valori,di rabbie e furori autentici(introiettati e distesi).Aiuta, nella lettura, l’empito(trascinante) quasi eroico nei termini della pazienza e dell’infinita resistenza

e insistenza sugli inestricabili (e affascinanti) lacci e legamiche compongono (confortanoo addolorano) una esistenzaumana. Una vita vissuta.Direi proprio che questo libro è una autobiografia infrenetico dettaglio. Lo è; come i libri che contano e cheparlano. Facendosi ascoltare.Roberto Roversi

2009 Alberto Casadei Poesia e ispirazione. Percorsi fra miti letterari e neuroscienze

2008 Carlo Bordini Non è un gioco. Appunti di viaggio sulla poesia in America Latina

Siamo convinti che non ci saranno presente né avvenire possibili senza la poesia. La poesia è la vita di tutti, misteriosa e aperta, che ci invita a immergerci in noi stessi e negli altri, che siamo anche noi. Fernando Rendón

2010 Carlo Bordini I costruttori di vulcani. Tutte le poesie 1975-2010

La inquieta e affascinante follia della parolaDico intanto che è un fiume. Un fiume che va e viene e si ripercuote, scorrendo, fra le rive. Ascolto il frusciare deciso delle parole (dell’acqua) sull’erba (le righe del testo, le parole che si apronoe si chiudono, si rinchiudono, scosse dal fiato dell’autore che le alimenta e non le lascia). Il fiume, cosí, delle parole non lo posso rallentare con le mani degli occhi; posso solo inseguirlo.

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Il primo dei messaggi indecifrati diceva: “Braccio di Ferro stava nel tuono,impensato. Da quella scatola di scarpe di un appartamento,da una tinta livida di tenda, emerge un tangram: un paese.”Intanto la Strega del Mare si rilassava su un divano verde: “Quant’è piacevolepassare la vacanza en la casa de Popeye”, e si grattavail pelo solitario sul mento biforcuto. Si ricordò degli spinaci

e stava per chiedere a Poldo se aveva comprato gli spinaci.“Pupa bella”, intervenne lui, “le pianure sono addobbate di tuonooggi, e sarà come desideri.” Si grattòla testa sotto al cappello. L’appartamentopareva rimpicciolirsi. “Ma che succede se nessuna piacevoleispirazione ci sprofonda alle stelle? Perché questo è il mio Paese.”

D’improvviso si sovvennero che era piú a buon mercato in paese.Poldo pensoso apriva una scatola numero 2 di spinaciquando la porta si aprí e Pisellino entrò gattoni. “Com’è piacevole!”Ma Pisellino pareva affranto. Aveva un foglietto spillato al bavaglino. “Tuonoe lacrime sono vani”, diceva. “D’ora innanzi l’appartamentodi Braccio di Ferro sarà solo spazio ricordato, tossico o salutare, intero o grattato.”

Olivia a rotta di collo entrò dalla finestra, la coscia lunga grattatadai gerani. “Ho novità!” ansimò. “Braccio di Ferro costretto come sapete a lasciare il Paese,una sera muffita e ventosa, dalle trame dell’avvizzito padre duplicato, invidioso dell’appartamentoe di tutto quello che c’è dentro, me e gli spinacispecialmente, lancia saette d’amorevole tuonoal proprio attonito divenire, dispiegando il piacevole

arpeggio dei nostri anni. Mai piú i raggi piacevolidel sole rinfrescheranno la vostra sensazione di invecchiare, né i tronchi graffiatie il fogliame muscoso, solo tenebra immacolata e tuono.”Lei afferrò Pisellino. “Porto il moccioso al paese.”“Ma non puoi – non ha finito gli spinaci”,incalzò la Strega del Mare, guardandosi attorno impaurita nell’appartamento.

Ma Olivia già non la poteva piú sentire. Adesso l’appartamentosoccombeva a un silenzio nuovo e arcano. “Però è piuttosto piacevolequi”, pensò la Strega del Mare. “Se è tutto qui ciò che si deve temere dagli spinaciallora non mi dispiace poi tanto. Forse potremmo invitare Alice” – si grattòpensosa un seno pendente – “ma Poldo è un tale sempliciotto di paese,che rutta sempre a quel modo!” Dapprima minuscolo, il tuono

presto riempí l’appartamento. Era domestico il tuono,color degli spinaci. Braccio di Ferro rise sotto i baffi e si grattòle palle: era davvero piacevole passare un giorno al paese.

Traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan

Hapax legomenon Attrezzi agricoli e rutabaghe in un paesaggio da The Double Dream of Spring, 1970

John Ashbery

John Ashbery (Rochester, 1927) hapubblicato numerose raccolte di poesia, a cominciare dal 1953 con Turandot andOther Poems. Il suo Self-Portrait in aConvex Mirror (1975) ha ottenuto i tremaggiori riconoscimenti americani: il premio Pulitzer, il National Book Award,e il National Book Critics Circle Award. La prima antologia delle sue opere intraduzione italiana, Un mondo che nonpuò essere migliore. Poesie scelte 1956-2007, è stata pubblicata da luca sossellaeditore nel 2008, a cura di Damiano Abenie Joseph Harrison, per la traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan. Si è occupato di arti figurative per “Art News”, “New York Magazine” e“Newsweek”. Ha tradotto dal franceseopere di Raymond Roussel, Max Jacob,Alfred Jarry, Antonin Artaud, PierreReverdy, Stéphane Mallarmé, e diverseraccolte di poesia di Pierre Martory (la piú recente è The Landscapist. SelectedPoems, 2008). Le sue opere sono statetradotte in piú di venti lingue. Ha ricevutoinnumerevoli premi e riconoscimentiufficiali. Dal 2006 è membro stranierodell’Accademia Nazionale dei Lincei.

Damiano Abeni (Brescia, 1956)è un epidemiologo, e dal 1973 traduce in italiano poesia anglo-americana. Ha pubblicato volumi di Bidart, Bishop,Bukowski, Ferlinghetti, Ginsberg, Strand,Simic, C. K. Williams, e molti altri. Con Mark Strand ha curato West of YourCities (2003), antologia bilingue di poetiamericani contemporanei. Le sue traduzioni sono accolte in numerose riviste italiane, ed è tra i responsabili di “Nuovi Argomenti”. Con Moira Egan ha pubblicato traduzionida John Barth, Mark Strand, JosephineTey e John Ashbery, la cui raccolta Un mondo che non può essere migliore.Poesie scelte 1956-2007 (luca sossellaeditore, 2008) si è aggiudicata un riconoscimento speciale al Premio Napoli (2009). È stato Literature Fellow al Liguria Study Center of the BogliascoFoundation, e Fellow al RockefellerFoundation Bellagio Center. È docente di Tecnica della traduzioneletteraria alla John Cabot University.

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(per Linda: ehm, ti spiacerebbe ricordarmi come ti chiami di cognome?)

Dove sei sparita Dea della Memoria?Non trovo neanche un po’ di Riso in questo Oblio, né so concepire che cosí debba essere per l’essere nella sua storia.La lista dei nomi sulla punta della lingua è un crescente affastellio:

la giunzione dove comunicano cellula e cellula nervosa;il fumo profumato di mela di Istanbul;la parte con altare e cupola in fondo alla chiesa;non se ne pronuncia il nome invano in Donegal;la bella attricetta sorella di Jackie Onassis;la città del Sudafrica dove meglio si distilla;i colori autunnali delle foglie giallo-cassis;quella cosa ne La Baia della Bishop fatta di calce e argilla;

Una Notte sul Monte Calvo spaventò da morire mio fratello.Non ho parole. E lo so che c’è un nome anche per quello.

Traduzione di Damiano Abeni

Sonetto della smemoratezza dai Sonetti delle vampate di caloreMoira Egan

1. Il pensare può contribuire a risolverei problemi perché

A) i problemi esistono solo nella mente B) i problemi devono essere presi sul serioC) la mente trionfa sulla materiaD) non pensare equivarrebbe a ignorare il

problemaE) comunque nessun problema può essere

risolto del tuttoF) è nostro dovere pensare un modo

nostro per cavarci dai problemi

2. Nella frase “Ho passato le vacanze inmontagna” la parola “montagna” è il

A) soggettoB) predicatoC) sostantivoD) verboE) gerundio F) nessuna delle precedenti

3. Cristoforo Colombo si serví di unuovo per provare che la terra èrotonda perché

A) l’uovo è rotondoB) un uovo dà un senso di rotonditàC) le uova non sono rotonde ma

ellissoidaliD) l’uovo è un oggetto familiareE) le uova si possono reperire sulle naviF) l’uovo è venuto prima

4. Una falange èA) un gruppo di uominiB) un idolo egizioC) un termine che denota forza militareD) un partito politicoE) una pianta che si trova in zone

paludoseF) una promessa che si fa a se stessi

5. In democrazia il presidente è elettoA) per chiamata nominaleB) dalla volontà del popoloC) dalla Corte SupremaD) con un voto di maggioranzaE) per estrazioneF) con il metodo della pagliuzza piú corta

6. Libertà di religione significa cheA) Dio non esisteB) Dio è mortoC) l’individuo è libero di venerare Dio

come meglio credeD) si deve andare in chiesa solo di

domenicaE) si può fare come pare e piaceF) non c’è vita dopo la morte

7. L’antiquario è un romanzo diA) Charles DickensB) William Makepiece ThackerayC) Henry Wadsworth Longfellow

D) Sir Walter ScottE) OuidaF) Edna Saint Vincent Millay

8. Il proverbio “Non svegliare il can chedorme” significa che

A) i cani comunque non dicono la veritàB) i cani sono buoni fintanto che

dormonoC) i cani spesso si fingono mortiD) i cani si arrabbiano se li si svegliaE) i cani dormono con un occhio apertoF) un cane da guardia non dorme mai

9. Un senso d’orgoglio ci viene instillato alla vista

A) della bandiera del nostro paeseB) del Monumento a WashingtonC) della Valley ForgeD) della Statua della LibertàE) della Constitution HallF) dell’Empire State Building

10. Le “bande del laudano” si riferisce aA) una famosa taverna londineseB) una dose fatale di una potente drogaC) un’antica danza paesana ingleseD) un tumore che risponde ai farmaci se

trattato per tempoE) un thriller spionistico di Edgar WallaceF) un’antica canzone popolare inglese

Dieci* domande a scelta multipla John Ashbery, nella versione di Damiano Abeni con Moira Egan

* Il testo completo, di cui si da qui un estratto, è composto da Cento domande a scelta multipla.

Moira Egan (Montréal) hapublicato Cleave (2004); La Setadella Cravatta / The Silk of the Tie (2009); Bar Napkin Sonnets(2008) e Spin (2010). Le suepoesie sono state pubblicate indiverse riviste e antologie, comeBest American Poetry 2008. Con Damiano Abeni hapubblicato traduzioni da JohnBarth, Mark Strand, JosephineTey e John Ashbery, la cuiraccolta Un mondo che non puòessere migliore. Poesie scelte1956-2007 (luca sossella editore,2008) si è aggiudicata unriconoscimento speciale al Premio Napoli (2009). È stata Mid Atlantic Arts Fellow al Virginia Center for the CreativeArts; Writer in Residence al St. James Cavalier Centre forCreativity, Malta; Writing Fellowal Civitella Ranieri Center eFellow al Rockefeller FoundationBellagio Center. Lavora per laJohn Cabot University, dove è responsabile dei workshoppoetici e docente di Tecnica della traduzione letteraria.

Mnemosine, secondo la mitologia

Milan Kundera

Ontologia

Anafora

Sinapsi

Narghilè, detto anche Hookah

Abside

Il maligno folletto celtico, Pooka

Lee Radziwill

Paarl, capitale dell’arte vinaria

Xantofille

Marna, roccia sedimentaria

Walt Disney: Fantasia

Afasia

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Anche perché l’anima dell’opera non è poi cosí diversa dal soffio vitale dell’artista, la cui pulsazione di respiro trapassa nel-l’enunciato. Tale soffio articola cioè una forma, crea una voce, piú voci. L’opera riesce, quando ricrea nel silenzio della parolascritta il suono della vita che l’ha generata. Nadia Fusini

Mentre la materia prima da cui viene ritagliata la letteratura è la parola, il mistero della poesia è costituito da silenzi che le parolesi limitano a circoscrivere e valorizzare. Il mistero non è però mai nebuloso. Esso comincia al di là, non al di qua della trasparenza.

Ana Blandiana

Sulla soglia dell’ultima e piú organica raccolta di scritti di Antonia Pozzi, Poesia chemi guardi, troviamo una nota in corsivo che tocca un punto nodale della storiografialetteraria: invita a riflettere intorno alla presenza di un “catalogo delle rimozioni”,una galleria di figure deraciné che conta un numero altissimo di agnelli sacrificali pro-prio sul terreno della ricerca lirica femminile. Questo oscuramento dei percorsi poe-tici femminili si fa visibile soprattutto a partire dall’esclusione sistematica dellepoetesse italiane durante la formazione del canone poetico novecentesco, cristalliz-zato dalle due antologie piú famose, quella di Pier Vincenzo Mengaldo (che includeun manipolo di testi di Amelia Rosselli) e quella di Edoardo Sanguineti. Nel corso diquesto processo di periodizzazione e di sistemazione delle poetiche del Novecento,i nomi delle poetesse italiane sono totalmente assenti. Un accenno a questa produ-zione marginale si colloca all’altezza del 1951, allorché Giacinto Spagnoletti pubblicò

Davide Pugnana “Spiare cenni arcani di partenza”: silenzio e parola in Antonia Pozzi

Prima di uccidersi, il 3 dicembre 1938, Antonia Pozzi ha lasciato un’ultima lettera ai genitori. Dopo averla bruciata, il padre l’ha“ricostruita” a memoria. L’autografo contiene questa frase: “fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressioneche si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite...”Fa parte di questa disperazione mortale la crudele oppressione che un’Italia gretta, meschina, conformista, violenta nella sua viltà, ha esercitato sulla vita intellettuale (e fisica) di Antonia Pozzi. “Scrivi il meno possibile”, le avevano detto i suoi amici, letterati e filosofi. Il 4 febbraio 1935 Antonia appuntava nel suo diario “Ma che diritto ho io di parlare dei miei versi?” Una oppressione ambientale, tanto piú soffocante quanto piú inerziale, “involontaria”. Il pensiero poetico di Antonia Pozzi erainfinitamente altro. Pensiero poetico consapevole e pieno, non culturalmente disarmato come troppo a lungo ci hanno fatto crederequei nani che azzoppano i giganti per sembrare piú alti. Il pensiero di una donna, in Italia, negli anni Trenta, che diceva lo scandalo dell’esistenza. Troppe forze si sono affrettate a normalizzare la sua voce. Troppi rifiuti sono arrivati a strozzare la sua domanda, a negare la validità del suo interrogativo. A frustrare la ricerca di un “realismo umano” (ancora dal diario del 4 febbraio 1935) che “vorrebbe nascere e non può, in nessunaforma della realtà può esprimersi, come un pianto che non trova gli occhi per cui sgorgare, un sorriso che non ha volto in cui aprirsi. Rifiuti, da tutta la realtà, a ogni passo. E a ogni passo, nuove ricerche per una foce che non esiste.E che non deve esistere. Di questo la coscienza mi avvisa. Donarsi è abdicare alla propria personalità.”

2010 Antonia Pozzi Poesia che mi guardi a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino

Hapax legomenon

La piú ampia raccolta di poesiedi Antonia Pozzi finorapubblicata, l’intero diario,un’importante scelta di letteree alcuni saggi (dalla tesi dilaurea su Flaubert a unintervento su Aldous Huxley). I testi sono stati rivisti suimanoscritti, a cura di Graziella

Bernabò e Onorina Dino. In appendice approfondimenticritici di Fulvio Papi, DinoFormaggio, GabriellaScaramuzza, Eugenio Borgna,Giovanna Calvenzi, GoffredoFofi e un intervento di Robertade Monticelli. Il libro ci guardaattraverso le fotografie

scattate a e da Antonia Pozzi:un elemento figurativoimprescindibile percomprendere lo sguardodella poetessa.

Poesia che mi guardi è ancheun film di Marina Spada,allegato al libro in dvd.

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Davide Pugnana (Carrara, 1984) ha frequentato il Liceo Artistico“Artemisia Gentileschi”, diplomandosiin Tecniche pittoriche e plastiche, e si è iscritto alla facoltà di Letteredell’Università di Pisa, grazie a una parallela istruzione classica inprivato, sotto la guida del professorRoberto Greco, suo primo maestro.

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l’antologia Poetesse del Novecento, che segnò l’avvio di carriera della giovanissima Alda Merini. Questa zona di si-lenzio, e, di riflesso, questo “catalogo delle rimozioni” letterarie femminili, è oggi colmata dalla pubblicazionedell’antologia L’altro sguardo, dedicata alle poetesse del Novecento, con testi che coprono piú di un secolo distoria letteraria mondiale. È utile segnalare questo testo non solo perché la sua presenza potrebbe innescareuna rilettura, o un allargamento, del canone poetico novecentesco, quanto perché al suo interno, tra Elsa Mo-rante e l’americana Muriel Rukeyser, compare Antonia Pozzi con otto liriche. Accanto a queste poetesse della scena mondiale, Antonia Pozzi si arricchisce di sfumature nuove; affiancata adaltri percorsi, la sua direzione di ricerca si dilata e partecipa all’alterità di uno “sguardo” poetico tutto votatoallo scavo del dolore e alla ricerca di una parola assunta su di sé, sul proprio corpo, come scheggia nella carne.Come le altre poetesse, sebbene diverse per contesto e formazione, Antonia crea testi viscerali che spaventanoper la loro radicalità conoscitiva; per quel sottosuolo, oscuro e doloroso, che una parola crudele interroga espinge verso scenari notturni e perturbanti, attraversati da presenze, voci, figure, luoghi, ma anche da un sensodella perdita e della precarietà, da una presenza del tempo interno, a cui Eugenio Borgna ha dedicato paginedi estrema acutezza, intrecciando queste tensioni sotto la luce nera della malinconia.Si offre, tuttavia, la possibilità di una comparazione che – per la sua forza teorica e la sua affinità di registro conlo scavo poetico di Antonia Pozzi – permette di illuminare trasversalmente alcuni punti forti dell’uno e dell’altroprocesso creativo. A riprova di quanto sosteneva Madame de Staël circa l’utilità feconda della traduzione – percui l’immissione di una voce poetica eccentrica rispetto al contesto avrebbe la capacità di rinnovarlo di linfenuove e nuove prospettive di visione – ecco che lo spunto interpretativo si appoggia proprio allo scritto in prosadi una poetessa rumena, Ana Blandiana, dal titolo La poesia, tra silenzio e peccato. Non è raro, leggendo i testi diAntonia, trovare la dimensione del “silenzio”: un silenzio restituito per figurazioni metaforiche e simboliche; inscenari ctoni e spazi nudi; attraverso certe fratture di ritmo che staccano le pause del dialogo amoroso tra l’io eun tu fantasmatico, muto e lontano; oppure nel recupero memoriale di luoghi d’intensità (la piccola stazione diTorre Annunziata dove “a tratti parole si frangevano / in sfumature lunghe di silenzio”); fino a toccare soluzioniopposte, meno intimiste e piú aperte, come lo slancio di certi vocativi modulati sotto la notte o davanti a orizzontimarini; o, sul piano stilistico, con la scelta dell’esilità strutturale di certi versicoli, dal profilo di guglie eleganti. Della natura di questo “silenzio” connaturato alla poesia, e cosí costante nel timbro di Antonia, cosa ci può direla riflessione di Ana Blandiana? Prima di tutto che esso è un silenzio pieno, prossimo all’ascolto, o, meglio, aun’attesa carica di tensione, porosa e assorbente verso i segnali del mondo esterno e dell’interiorità. In questaattenzione fluttuante prende corpo la parola poetica. Come nelle liriche di Ana Blandiana, cosí nella poesia diAntonia il silenzio agisce per circoscrivere e valorizzare il mistero, per rivestire la parola di funzioni poetiche,ossia dotarla di significati e polivalenze, ambigue e trasparenti a un tempo. Il silenzio da cui prende le mosselo “sguardo” di Antonia è un margine sottile sul quale le percezioni si raccolgono a fascio: gli steli di tulipani“inarcati sul vuoto pesantemente”; il suono delle campane che riempie l’aria e incurva i pioppi; il “singhiozzo/ rattenuto, incessante della terra”; le grandi negazioni delle latitudini umane e metafisiche (“Non avere unDio / non avere una tomba / non avere nulla di fermo / ma solo cose vive che sfuggono”), o quei gouffres daibordi sfrangiati che incrinano l’orizzonte di senso di tanti testi. Tutti questi elementi configurano e tematizzanoquesto “silenzio” di fondo. Basti pensare a un testo esemplare come Novembre, nel quale il silenzio si asciuga neltono fermo e desolato dell’io lirico, vicino a diventare allegoria della precarietà esistenziale: “E poi – se accadràche io me ne vada – / resterà qualche cosa / di me / nel mio mondo – / resterà un’esile scia di silenzio / inmezzo alle voci – / un tenue fiato bianco / in cuore all’azzurro.” Le affinità tra Ana Blandiana e Antonia si stringono. Scrivere versi, per entrambe, significa trovare “toni chiarie parole chiare”; lavorare affinché quell’oscurità, corteggiata da tanta poesia moderna, sia tradotta in un dettatodi alta politezza formale, piano e comunicativo, ma, nel contempo, cosí dentro le cose da evitare il rischio dipizzicare corde ingenue e sentimentali. L’istanza del silenzio, intesa dunque da Ana Blandiana come molla generativa della parola poetica, ritornainfine in un verso emblematico di Antonia: “spiare cenni arcani di partenza”. Un verso che, per la sua potenzae la sua densità figurale, si impone come la piú efficace definizione del suo pensiero poetante. È come se inquesta catena di parole, Antonia fosse riuscita a chiudere la sua piú lucida dichiarazione di poetica. Immersoin una porosità silenziosa, lo sguardo “spia”, si colloca nei tagli della realtà e guarda fissamente, pronto a fermarei segni misteriosi, le cose latenti, a trovare i legami lontani; i “cenni” sono definiti, con aggettivo leopardiano,“arcani”, vengono da un loro corso naturale, segreto, talvolta incifrato, vengono da un fondo oscuro, intermit-tenti, scheggiati. Sembrano aver concluso il loro viaggio, prossimi a disperdersi nel mondo, vengono raccoltiper una nuova “partenza”, un viaggio conoscitivo che intende dimostrare qualcosa, dando ascolto al pensieropoetante che scova nessi profondi ed eleva le cose piú semplici e quotidiane a poesia.

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Hapax legomenon

Viviamo in tempi cosí calamitosi che un prerequisito individuale e morale vieneormai ritenuto dal senso comune un tratto elettivo, decisamente raro, d’ordine cul-turale e politico. Nel paese della retorica piú smaccata e bugiarda, l’onestà si ricaricainfatti del suo valore etimologico connettendosi al pregio della onorabilità. Cos’èdunque degno d’onore, qui e ora? Probabilmente quanto si sottrae alla finzione pro-grammatica e non meno rovinosa (dittatura del mercato, rescissione del legame so-ciale, Pensiero Unico, lotta darwiniana per l’esistenza, esproprio della politica eideologia del capo) che da almeno vent’anni scorre nella nostra vita quotidiana allastregua di un mainstream.Tutto ciò si avvalora procedendo da una metafisica del “nuovo” che condanna pre-ventivamente a morte qualunque alterità e si vanta, viceversa, come stato di naturaintegerrimo, intangibile e persino fatale.Che la metafisica del “nuovo” non fosse né innocua né innocente lo scrisse un secolofa un poeta triestino, Umberto Saba, tacciato per decenni di provincialismo e ana-cronismo da averne intaccata la psiche e avvelenata l’esistenza. Quello che resta da fareai poeti se può essere scambiata per una dichiarazione di poetica investe tuttavia ilcomplesso della cultura e ne parla con semplicità assoluta dalla zona profonda e piúreattiva, che è appunto la poesia. Al di là delle apparenze, si tratta di un discorso ri-volto all’Italia e allo stato di miseria civile che trent’anni dopo Saba coglierà ramin-gando per le vie di Milano all’annuncio dei risultati elettorali del 18 aprile ’48: unacelebre poesia di Vittorio Sereni lo coglie nella consueta silhouette (berretto, pipa,bastone) mentre va gridando disperato al suo paese l’epiteto di porca, porca…Educato su Petrarca e Leopardi, amante dell’opera di Verdi (benché lettore silen-zioso di Nietzsche e attratto dalla psicoanalisi), questo poeta inedito di ventisetteanni, ma di rango europeo, manda nel febbraio del 1911 le sue paginette a una rivistad’avanguardia, “La Voce”, che gliele respinge. Et pour cause. Saba vi traccia una lineasecolare dalla quale non c’è via di scampo: da un lato, sofisticata e artificiosa, vi siannuncia la poesia del “nuovo”, la pirotecnica dannunziana (che “scambia la cosacon l’ombra della cosa” dirà nelle meravigliose Scorciatoie), vale a dire il succedaneolinguistico e stilistico della ambizione, la glaciale indifferenza che intrama un virtuo-sismo molto piú vicino di quanto non si giurerebbe ai “cartelli stradali” (è cosí cheli chiama) e agli strepiti di Filippo Tommaso Marinetti e dei suoi camerati; dall’altro,vi si manifesta l’austera umiltà di un Manzoni, la ricerca faticosa e persino spietatadi una verità che è tale soltanto se pagata in prima persona. Va da sé che agli occhiaddolorati, costernati, del giovane Saba il poeta di Alcyone rappresenta la regola eanzi il campione di un esercizio secolare il quale sovrabbonda di alibi e di infingi-menti: quello degli Inni Sacri, all’opposto, è l’eccezione isolata, sempre sottovalutatae volentieri, sottotraccia, diffamata. Il futuro firmatario del Canzoniere, colui che am-bisce “al cuore delle cose, al centro arroventato della vita” (sono parole del maestrofra i lettori di Saba, cioè Mario Lavagetto) ha già scelto da che parte stare. O la poesia sarà un atto di necessità interiore (Saba scrive la parola in rilievo) e dun-que un gesto integralmente motivato dal profondo o sarà solamente vanità, ambiguoornamento, estetica della malafede. Il secolo che sopravanza Quello che resta da fare aipoeti lo conferma appieno. Sappiamo, da ex cittadini divenuti utenti e sudditi delmondo “nuovo”, che la difesa della parola onesta non spetta oggi in esclusiva allapratica poetica ma al discorso fra esseri umani come tali, in quanto essa prefigurauna divisa etica e, forse, un principio di resistenza politica.

Saba e la poesia onestaMassimo Raffaeli

Massimo Raffaeli (Ancona, 1957)scrive su “il manifesto”, “La Stampa”e i relativi supplementi letterari, “Alias” e “Tuttolibri”. Collabora anumerose riviste (“Nuovi Argomenti”, “Il Caffè illustrato”, “Lo Straniero”) e ai programmi di Radio3 Rai. Ha curato opere di autori italianicontemporanei e ha tradotto a lungo dal francese. La sua produzione è raccolta in unadecina di volumi, fra cui Novecentoitaliano (luca sossella editore, 2001) e Don Chisciotte e le macchine. Scritti su Paolo Volponi (2007).

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Un documento che tenta un varco fra le opposizioni di sacro e profano, interiore ed esteriore, esterno e interno: la voce, un tempo esperienzasacrale e di comunione delladiversità, conosce in questolavoro, in mezzo al caoticoappiattimento, nell’anestesiagenerale di una città,un’utilizzazione volta allatrasmissione della poesia

di uno dei piú significativi poetial mondo. I testi vengono detti nel ritmo del quotidiano:il poeta (sempre in anticipo) e il traduttore (in ritardo)entrano nei luoghi di unaRoma-pretesto rappresentatada sei vie d’uscita: la piazza, le rovine, la porta, la scala, la stazione e il giardino. Come nella tradizione la voce(sacra) fa tendere il quotidiano

al simbolico, ma questo è un quotidiano sofferto comeuna preghiera dell’interiorità,una consapevole resaall’impossibilità di dire se stessi.Strand e Abeni riescono però a dare voce a un “fronteinterno” attraverso la poesia e il suo doppio, la traduzioneimpossibile, sempre in ritardo.E ci si trova di fronte a unanuova disarmata armonia,

che altro non alimenta senon il dubbio diportarsi a compimento. La voce ci arriva dallo spiragliodi un video dove si può sentirel’urlo o il sussurro degliinvisibili. Si desiderava che il metronomo dell’eternoritorno fosse il tic-tac del cuore materno.

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Quello che resta da fare ai poeti

C’è un contrapposto, che se può sembrare artificioso, pure rende abbastanza bene il miopensiero. Il contrapposto è fra i due uomini nostri piú compiutamente noti che megliosi prestano a dare un esempio pratico di quello che intendo per onestà e disonestà lette-raria: è fra Alessandro Manzoni e Gabriele d’Annunzio: fra gli Inni Sacri e i cori dell’Adelchi,e il secondo libro delle Laudi e la Nave: fra versi mediocri e immortali e magnifici versiper la piú parte caduchi. L’onestà dell’uno e la nessuna onestà dell’altro, cosí verso lorostessi come verso il lettore (perché chi à un candido rispetto per l’anima propria, lo àanche, all’infuori della stima o disistima, per quella cui si rivolge) sono i due termini cuipuò benissimo ridursi la differenza dei due valori.

Umberto Saba

A chi sa andare ogni poco oltre la superficie dei versi, apparisce in quelli del Manzoni la costante e rara cura di nondire una parola che non corrisponda perfettamente alla sua visione: mentre vede che l’artificio del d’Annunzio nonè solo formale ma anche sostanziale, egli si esagera o addirittura si finge passioni e ammirazioni che non sono maistate nel suo temperamento: e questo imperdonabile peccato contro lo spirito egli lo commette al solo e ben meschinoscopo di ottenere una strofa piú appariscente, un verso piú clamoroso. Egli si ubriaca per aumentarsi, l’altro è il piúastemio e il piú sobrio dei poeti italiani: per non travisare il proprio io e non ingannare con false apparenze quellodel lettore, resta se mai al di qua dell’ispirazione. Questa austerità, in lui innata, era poi accresciuta da motivi religiosi;perché certo egli credeva che Dio che gli aveva dato il genio, gli avrebbe chiesto conto di ogni parola, direi quasi diogni interpunzione. Ne viene che quando a uno dei due manca con la perfetta espressione la perfetta opera d’arte,se questi è il Manzoni, non per tanto egli ci diventa antipatico, come uno che erra per imperizia o per paura di derogareda quello che in buona fede ritiene sia il giusto e il vero; se invece è il d’Annunzio egli ci irrita e disgusta come un in-dividuo che spenda la sua ammirevole eloquenza meridionale per imporci una mercanzia sospetta. E se gli imitatorio i minori danno un’idea ancor piú precisa di una tendenza, come quelli che o la esagerano o non la superano uni-versalizzandosi, si vede che mentre la lirica del Manzoni, anche immiserita in quella dei seguaci, dà pur sempre qua elà alcune strofe degne di  essere apprese con rispetto, le Laudi si gonfiano ed esplodono nei manifesti stradali del Fu-turismo. Da un manzoniano, anche di non altissimo ingegno, si poteva sempre attendersi qualcosa di buono, perchéaveva appreso dal maestro non la necessità di essere un grand’uomo, né uno scrittore originale a ogni costo: ma quelladi essere, nella vita come nella letteratura, un uomo onesto.

Chi non fa versi per il sincero bisogno di aiutare col ritmo l’espressione della sua passione,ma à intenzioni bottegaie o ambiziose, e pubblicare un libro è per lui come urgere una decorazione o aprire un ne-gozio, non può nemmeno imaginare quale tenace sforzo dell’intelletto, e quale disinteressata grandezza d’animo oc-

corra per resistere a ogni lenocinio, e mantenersi puri e onesti di fronte a se stessi: anchequando il verso menzognero è, preso singolarmente, il migliore. E come la nobiltà del-l’atteggiamento cosí ignora l’estrema rarità del successo, o è capace d’illudersi d’averlapienamente raggiunta, senza nemmeno sapere in che consista, perché non c’è per crederedi saper tutto che chi non sa niente. Ma quei pochi che m’intendono e riconoscono nelmio travaglio il loro travaglio, e nella mia speranza la loro speranza, quelli riconosceranno

2011 Ehi, Mark! Scusa il ritardo, scusa il ritardo... Una passeggiata (da mezzogiorno a mezzanotte) di Mark Strand con Damiano Abeni. Un video di Alessandra Maiarelli e Luca Sossella

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con me che ben pochi passi sono stati ancora fatti in questa che è la via eterna dell’arte, e in questo momento anchela piú ardita e la piú nuova. Nuova! Ecco la parola che se fa trasalire gli artisti fa tremare i poeti, perché in nessun’artele inconscie reminiscenze sono piú frequenti che in poesia, dove vengon favorite dalla natura stessa e dall’inevitabilevirtú del suono, che le imprime indelebilmente nella memoria. Di una poesia non resta solo, come di una prosa, lospirito che l’animava, ma anche la materia in cui s’è incarnato; non è la commemorazione dei protestanti, ma l’ostiadel rito cattolico; tutto il corpo e tutta l’anima del Signore. Quando parlando di un romanzo, di una novella, di un’o-pera d’arte o di pensiero, si riportano solo i fatti o i sentimenti o le idee che vi sono espressi, di un poeta si ripetonoaddirittura i versi. E quanto piú son facili le involontarie imitazioni tanto piú necessaria diventa la loro medicina, cheè quello che ò chiamato onestà letteraria: che è prima un non sforzare mai l’ispirazione, poi non tentare, per meschinimotivi di ambizione o di successo, di farla parere piú vasta e trascendente di quanto per avventura essa sia: è reazione,durante il lavoro, alla pigrizia intellettuale che impedisce allo scandaglio di toccare il fondo; reazione alla dolcezza dilasciarsi prendere la mano dal ritmo, dalla rima, da quello che volgarmente si chiama la vena. Benché esser originalie ritrovar se stessi sieno termini equivalenti, chi non riconosce in pratica che il primo è l’effetto e il secondo la causa;e parte non dal bisogno di riconoscersi ma da uno sfrenato desiderio dell’originalità, per cui non sa rassegnarsi,quando occorre, a dire anche quello che gli altri ànno detto; non ritroverà mai la sua vera natura, non dirà mai alcun-ché di inaspettato. Bisogna – non mi si prenda alla lettera – essere originali nostro malgrado. E infatti, quali artisti losono meno che quelli in cui è visibile lo sforzo per diventarlo? Essi non riescono il piú delle volte a essere nemmenopersonali: e vanno tanto piú famosi per la spudoratezza dei furti e la vastità dei saccheggi: in quanto che nello stessotempo che compiono una rapina la condannano, e si affermano miliardari che vivono del proprio. Anche mi appariscedannosa la paura di ripeter se stessi: quando un sentimento è innato ed è innato il bisogno dell’espressione, è naturaleche fino a che l’uomo non può uscire dal proprio io, quel sentimento e quell’espressione si ripetano, con l’ossessionedi chi sente qualcosa che la parola e il suono e tutte le arti e tutti i mezzi esteriori non possono mai rendere alla per-fezione: quindi l’inappagamento dopo ogni opera e la speranza di dir meglio la prossima volta. Sono pieni di ripetizioniil Canzoniere del Petrarca e quello del Leopardi e la parte piú sublime della Commedia, il Paradiso; perché questi poeticercavano di sfogare una loro grande passione e non di sbalordire come dei giocolieri, che guai se ripetono due voltelo stesso numero.E se l’ispirazione è sincera, e subisce quindi l’influenza del particolar momento in cui nasce, c’è sempre, per quantevolte si ripeta, qualcosa che la contradistingue; una inaspettata freschezza o una piú grande stanchezza, uno scorciodi spettatore o di paesaggio, una diversa stagione od ora del giorno; qualcosa che dà al verso il suo colore unico e chesolo l’occhio del profano può confondere con l’impressione antecedente. Né questa onestà è possibile che in chi à lareligione dell’arte, e l’ama per se stessa e non per la speranza della gloria, ma il paradiso del successo o il purgatoriodell’insuccesso, se non lo lasciano del tutto indifferente, non menomano il suo amore e non lo fanno, per avidità dibattimani, volgere né a destra né a sinistra. Cosí egli si guarda bene dallo sforzare l’ispirazione anzi, per il dubbio d’in-gannarsi, resiste a essa, e non le cede che quando à acquistato la violenza dell’istinto. Ma proprio allora è piú che maidifficile e necessario questo studio di non oltrepassarsi, di non verseggiare sopra una falsariga d’altri; è nei momentipiú impetuosi che si corre il rischio di perdere la propria strada, come un cavallo lanciato a un galoppo troppo sfrenato.È pertanto che bisogna con lunga disciplina prepararsi a ricevere la grazia con animo proprio; fare un quotidianoesame di coscienza, rileggersi in quei periodi di ristagno in cui è piú possibile l’analisi, cercando sempre di ricordarsilo stato d’animo che à generato quei versi e rilevando con eroica meticolosità la differenza fra il pensato e lo scritto.Vorrei si facesse per l’arte quello che i modernisti ànno fatto per la religione, senza paura di distruggere quello cheamavano dall’infanzia: cade una chiesa e un’altra ne sorge: se dopo la vivisezione alcuno si accorgesse che ben pochidei suoi sentimenti richiedono la poesia, che faccia solo quel poco o magari niente, e ricerchi in un laborioso ozioquello che può sostituire per lui la poesia in versi. È solo con questo metodo che potrà una buona volta esser messoin chiaro quanto è rimasto di vivo della piú antica forma di espressione letteraria, contro la quale oggi ci son tante ein parte cosí giustificate prevenzioni: solo quando i poeti, o meglio il maggior poeta di una generazione, avrà rinunciatoalla degradante ambizione propria – purtroppo! – ai temperamenti lirici, e lavorerà con la scrupolosa onestà dei ri-cercatori del vero, si vedrà quello che non per forza d’inerzia, ma per necessità deve ancora essere significato in versi.Tolgo dalla mia esperienza personale (come dalla sola possibile) un esempio, che meglio d’una nuda affermazione,può dimostrare la difficoltà che c’è a non introdurre prima e a espellere poi gli elementi estranei alla nostra visione.Una notte, in sogno, avevo sorpreso in me sentimenti di cui mi credevo guarito da anni, avevo e sfogavo beatamentebrame di cui nella veglia mi sarei almeno provato a respingere la tentazione.

Il giorno, vedendomi in uno specchio assai diverso da come, senza di esso, la mia imagi-nazione mi rappresenta, mi ricordai a un tratto del sogno; e dal paragone fra quello cheera stato per la mia anima il sogno e per il mio corpo lo specchio presi lo spunto a unabreve poesia, di cui ecco la prima quartina, come mi venne fatta di getto.

Hapax legomenon

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Quello che resta da fare ai poeti

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Credevo sia un gioco sognare;ma il sogno è un temibile Iddioè il solo che sa smascherarel’animo mio.

Rileggendo, dopo alcuni giorni questa strofa, che pure non à nulla di apparentemente falso, io solo avvertivo alcunchédi diverso, di discordante dal mio pensiero; e dopo studiato alquanto riuscii a determinare la discordanza nella simi-litudine fra il sogno e il temibile Iddio. Quando mai avevo pensato di paragonare il sogno a una divinità vendicatrice?Era certo una reminiscenza letteraria, insinuatasi di furto per qualche sottile legame di pensiero o di ritmo. Cercai dirimediarci alla meglio, sostituendo al Dio un semplice giudice.

Credevo sia un gioco sognare:ma un giudice è il sogno...

Peggio. Originariamente io non avevo pensato affatto a giudici. Mi provai a ritornare indietro, a rifare il processo psi-cologico da cui era nata la poesia, e fu solo pensando a quelle circostanze che potevano parere le piú trascurabili; acircostanze di luogo e di tempo; che mi sovvenne dello specchio e del paragone da cui erano derivati i versi, doveinvece esso non appariva cambiato in un Dio o in un giudice.

Credevo sia dolce sognare;ma il sogno è uno specchio, che interomi rende, che sa smascherarel’intimo vero.

Respirai. Fu come se un bruscolo mi fosse uscito dall’occhio, o un nervetto slogato fosse ritornato al suo posto. Eppure,a rileggere le tre quartine con le tre diverse similitudini non so quale, letterariamente, sia la piú efficace. Ma è un caso.E se non si stabilisce come principio che non si può, per il piú bel verso di una letteratura, falsare consciamente o nola propria visione, e fare di uno specchio un giudice o un temibile Iddio, per uno in un certo senso piú bello, centosaranno di cattiva lega; e il risultato complessivo la morte della personalità.A questa maggiore onestà nel metodo di lavoro, deve necessariamente corrispondere un piú austero programma divita. Il poeta deve tendere a un tipo morale il piú remoto possibile da quello del letterato di professione, e avvicinarsiinvece a quello dei ricercatori di verità esteriori o interiori, le quali, salvo forse la piú alta forma di intellettualità cheoccorre per investigare le seconde, sono tutt’una cosa. Alcuni poeti della vecchia generazione furono come dei con-templativi, che per nausea dell’antica aspirazione, o per impotenza a raggiungere per quella via l’estasi, vollero diven-tare una specie d’uomini d’azione. Allora scambiarono l’abito claustrale per l’uniforme soldatesca, e partirono peruna guerra dove il loro eroismo diventò vigliaccheria mascherata di temerarietà: dove il loro gesto di comando, tantopiú elegante quanto piú sbagliato, suscitava il turpiloquio o la giusta indignazione dei commilitoni, cosí pieni nei lorocombattimenti, di un facile buon senso e di un abbominevole senso pratico. Essi disprezzarono la loro alta femminilitàper esaltare la virilità abbietta dei conquistatori di mercati e d’imperi. Cercarono i loro modelli e le loro similitudinifra gli eroi dell’armi, quando avrebbero dovuto cercarli fra quelli ben piú nobili del pensiero e del sentimento. Al dilà del mondo del poeta non c’è che quello dei santi e forse quello dei filosofi; essi, per uscire dalla vecchia cerchia, en-trarono in un girone inferiore, fra anime piú volgari e aspirazioni piú meschine. Ivi essi apparirono al confronto ancorpiú meschini: e non riuscirono che a sciupare le energie personali e il patrimonio della tradizione.Ai poeti della generazione presente resta da fare quello che dovrebbero fare i figlioli, i cui genitori furono malamenteprodighi di averi e di salute: una vita di riparazione e di penitenza, senza la preoccupazione di essere essi o i posteri acogliere il frutto dell’attività riparatrice. Essi si possono anche confrontare a dei malati, lontani dalla loro patria, la cuiultima speranza di guarigione è l’aria nativa. Cosí resta a essi, per condurre un’esistenza utile e generare figli sani, unritorno alle origini: con un’opera forse piú di selezione e di rifacimento che di novissima creazione: resta a essi quelloche finora fu solo raramente e parzialmente compiuto, la poesia onesta.Trieste, febbraio 1911

Scritto come articolo per la rivista fiorentina “La Voce”, definita da Saba in una lettera a Slataper come la “sola rivista possibile”, mapoi rifiutato, il testo non è piú stato pubblicato sotto forma di articolo giornalistico.Ora in Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara, con un saggio introduttivo di Mario Lavagetto, Mondadori, Milano 2001,pp. 674-681.

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TRACCE DELLO SGUARDOEtica ed estetica sono legate a doppio filoperché entrambe affondano le radici nellanostra storia personale ed evolutiva e nesono un rispecchiamento: l’estetica è il sen-timento soggettivo dell’immersione armo-nica nell’ambiente; l’etica è il sentimentosoggettivo, e poi intersoggettivo, di azionearmonica con l’ambiente di cui facciamoparte. Cosí l’etica ci consente di mantenere l’estetica e l’estetica ci serve da guida nel-l’operare etico. Giuseppe O. Longo

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Tracce dello sguardo

2001 Giuseppe Varchetta Le tracce dello sguardocon testi di Fulvio Carmagnola, Aldo Giorgio Gargani, Giuseppe O. Longo

Un libro di immagini, risultatodi un reportage all’interno di musei, gallerie, sedi di mostre d’arte figurativacontemporanea in Italia, in Europa e negli Usa. Le immagini sono centratesullo sguardo, sulla relazione

tra gli osservatori e le opered’arte immerse nei diversicontesti espositivi. Sono la riproduzione fotografica di un rapporto, di un’apertura.Pino Varchetta, formatore epsicologo dell’organizzazione,traduce in un’immagine

l’essenza della missioneeducativa: la capacità di individuare lo spazio che rende possibile una relazione, e laresponsabilità di difenderlo, di mantenerlo libero.

Viviamo in un’epoca di ibridi, in quella che io personalmente definisco un’ibridazione dei codicisimbolici. Tropi del discorso figurato, metafore e metonimie, penetrano nella scienza e attivanonuovi paradigmi di ricerca; la letteratura, le arti, i discorsi, gli ordini retorici delle emozioni, deisentimenti e degli affetti rivelano nuclei cognitivi rimossi, marginalizzati a lungo e misconosciuti inomaggio a una forma tradizionale di razionalità astratta. Siamo entrati nell’epoca in cui gli uomini si spostano uscendo dai loro ambiti professionali perentrare in un reticolo flessibile di interessi, concezioni, prospettive differenti, flessibili, alternative eautocorrettive, in cui l’unica direzione è segnata dall’amore per la verità, ossia per quella percezionedi una realtà altra, sospesa, filtrata attraverso un’attenzione fluttuante e una memoria onirica,palesata a ciascuno di noi in una condizione di ambiguità semantica. Da quell’amore per la verità eper la realtà che è il motore della nostra esistenza affettiva e simbolica, per continuare a esserepersone, individui, soggetti e non esseri inerti destinati soltanto a sopravvivere e a durare nel tempoche resta. Aldo Giorgio Gargani

2004 Sul simbolo. Confronti e riflessioni all’inizio del millennioa cura di Massimo Melotti, con i contributi di MichelangeloPistoletto, Michel Maffesoli, Walter Santagata, Ugo Volli, BrunoCorà, Sergio Boidi, Paola Bacchi

L’opera d’arte acquisisce una chiara fisionomia etica ed estetica. Per essere effettivala proposizione etica deveandare oltre la forma o l’azione puramentepercettiva, critica edemblematica: deve attivarsidirettamente nellamanipolazione etrasformazione della materiasociale. Questo non significatendere a uno scollamento tra l’intuizione e l’espressione,tra la teoria e la pratica, tra il concetto e la sostanza,anzi significa proprio portare il simbolo a coincidereperfettamente con l’azione.

L’azione stessa entra inperfetta simbiosi con il suosignificato simbolico. I due paradigmi, simbolo e azione, diventano speculari,cioè reversibili. L’opera d’arte si allarga,praticamente, superando ogni confine senza sconfinaredalla sua intrinseca proprietà.Michelangelo Pistoletto

Il nuovo segno di infinito, simbolo de Il Terzo Paradiso, tracciato sulla sabbia da Michelangelo Pistoletto, 2003, fotografia di J.E.S.

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2000 Paola Colaiacomo, Vittoria Caterina CaratozzoloCartamodello. Antologia di scrittori e scritture sulla moda

Alcuni, molti, fra i piú grandipoeti, romanzieri, saggisti, e specialmente in epocamoderna, scrivono di moda,anzi di Moda. Il progetto di questo libro è nato dall’ideadi raccogliere alcune fra le piú significative di questescritture, e di farle “parlare” traloro. Cosí ricavando, da quellodei classici, altro e parassitariodiscorso. Il motore della modamuove insieme presente e

passato; lavora inserendopassato a ogni pulsazione di presente, cosí per la modacome per la poesia. E sta a testimoniarlo lasemplicità, l’assenza diautocompiacimento, con laquale, ragionando sulle foggedel vestire, Giacomo Leopardiarriva a dire degli “scrittori”.Dei poeti. E cosí, per lo stilista,studiare un taglio, unmateriale, persino uno scarto,

della moda, è strapparlo al falso continuum storico che postula la neutralitàdell’osservatore. È lavorare tra le leopardiane“opinione” e “assuefazione”: la stessa cosa che fa il criticodinanzi all’opera d’arte. Solo percepito il presente èveramente Presente. Una voltapercepito il tempo è semprepresente e passato assieme.Non piú Tempo cioè, ma Moda.

2007 Enzo Cucchi Condizione d’ascolto Alberto Abruzzese La grande scimmia

L’opera di Enzo Cucchi,Condizione d’ascolto, è statarealizzata in edizione specialein 500 copie numerate piú 100fuori commercio. Ognimultiplo (formato 18 x 28 cm)in ABS (acrylonitrile butadienestyrene) è dipinto a manodall’artista ed è la copertina dellibro-scultura La grandescimmia di Alberto Abruzzese.L’artista, con quest’opera, si èinterrogato sul concetto didono. Quindi sulla volontà diporsi in ascolto dell’altro erendergli omaggio.

Il bianco volto umano (o pre-umano?) è segnato da tre fonti di rossa energia: il pensiero, l’ascolto e il luogodella relazione necessaria tra la possibilità di dire e lapossibilità di ascoltare.Ogni “omaggio” tende asvanire subito, perché appenauna persona l’ha ricevuto e lotiene in mano o lo guarda davicino, pensa a comericambiare e cosí brucia ilpiacere del dono e lo trasformanella cenere dello scambio.Sembrano somigliarsi scambio

e dono e invece sono formerelazionali opposte. Nelloscambio c’è la reciprocità delpassare, qualcosa passa dallemani di qualcuno a quelle diun altro. Il dono, invece, no. Il dono è una separazione da ciò che non può tornare. Può donare solo chi non hapaura. Ci vuole coraggio per fareun dono. L’esperienza del dono èuna forza che agita nel profondoil nostro comportamento e ci lascia intuire la strutturadivina dell’intenzione e deldesiderio.

Foto di copertina di Goldiechiari.

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La disumanizzazione dell’arte, il “trionfo sull’umano” come supremo piacere dell’ar-tista, la fabbricazione di “ultraoggetti” stilizzati e de-realizzati rendono praticabile unapproccio alla realtà in cui lo sguardo individuale è una componente essenziale del-l’esperienza estetica. Il punto di vista diventa ovviamente decisivo. Le cose esistonoin quanto vengono osservate, da angolature diverse. Ortega non lo dice, ma proba-bilmente l’esperienza parziale, il frammento valgono quanto la totalità, oppure, comedirebbe Walter Benjamin, rimandano a una “totalità morta”, a un’utopia infranta, insostanza all’impossibilità di ricostruire narrativamente il mondo, dopo che è stato ri-dotto a disiecta fragmenta dalla scienza e dalla psicologia. [...]Ortega aveva individuato uno stigma profondo dell’arte novecentesca, ossia “l’intra-scendenza”. Se l’arte si è ripiegata su se stessa, se non rimanda a nessun aldilà, a nes-sun codice ulteriore, basta un niente a far saltare le ultime paratie, e a trasformare diconseguenza il mondo dell’estetica in un politeismo senza nemmeno divinità, in “par-chi” tematici popolati da piccoli idoli senza importanza.Il destino della disumanizzazione si situa fra Disneyland e l’iPod. Forse Ortega y Gassetaveva intuito, e deliberatamente lasciato cadere, l’idea che alla fine della grande tra-sformazione dell’arte non sarebbero sopravvissute, a un rilievo sociologico appro-priato, due “caste”, una capace di comprendere l’avanguardia e l’altra a essa ostile.Sarebbe restato invece un solo pubblico, un unico target, uno share, un’audience.Sarebbero restati reticoli di mercato, microcollisioni di domanda e offerta, conse-guenze cristallizzate di processi economici. Immagini reificate, merci come feticci,avrebbero detto Adorno e Marcuse; residui di imprinting disciplinari per Michel Fou-cault; emersioni linguistiche sintomatiche secondo Roland Barthes. Ma anche i fac-cia-a-faccia di un sociologo come Ervin Goffman, vale a dire interazioni sociali ognivolta diverse, ogni volta in grado di produrre significati o almeno indizi di routinedifferenti e diversamente vissute o interpretate. Sicché potrebbe darsi che alla fine di una traiettoria che si è disegnata sul secolo nonci siano piú le caste, e neppure le classi, ma soltanto un flusso non governato di espe-rienze. Una nuova oggettività, per gli ottimisti. Oppure, piú prevedibilmente, ilmondo alla McDonald’s, cioè la calcolabilità totale enunciata dal sociologo americanoGeorge Ritzer; ma piú probabilmente la vita a caso, come nel paradigma pubblicitariodella Apple, “Life is Random”. Un esito integrale, che potrebbe far considerare otti-mistici, o fin troppo cauti, anche i dualismi di Ortega y Gasset.

Edmondo Berselli

Tracce dello sguardo

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2005 Josè Ortega y Gasset La disumanizazzione dell’arte. Per un ragionamento sull’artecontemporanea con una nota introduttiva di Edmondo Berselli e un intervento di Elena del Dragotraduzione di Salvatore Battaglia

Il poeta comincia dove l’uomofinisce. Il destino dell’uomo è di vivere il suo itinerarioumano; mentre la missione del primo è d’inventare ciò che non esiste. In questo solo

modo si giustifica la funzionedella poesia. Il poeta aumentail mondo, aggiungendo alreale, che già esiste per sestesso, un continente irreale.Autore deriva da “auctor”,

colui che aumenta. I latinichiamavano cosí il condottieroche conquistava per la patriauna nuova provincia.Josè Ortega y Gasset

La ribellione delle arti

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2011 Federico Ferrari Il re è nudo. Aristocrazia e anarchia dell’arte

Un’insofferenza sempre piú grande si è impadronita dei nostri pensieri di fronte al panorama desolante dei maggiori fenomeni artistici contemporanei. I diversi tentativi diteorizzazione di quella che non saprei come altro definirese non arte di corte del tardo-capitalismo postmodernosono diventati sempre piú insopportabili, per lavacuità che li caratterizzava.Nel mondo dell’arte, al di fuori degli “ideologi-senza-ideologia”, che ne sancivano il successo a suon di trovatepubblicitarie e di eventimediatici, si faceva sempre piú frequente lo sconcerto.

Quasi nessuno osava, però,dire pubblicamente la vacuitàdi un simile spettacolo. Troppo grandi erano,ovviamente, gli interessieconomici in gioco, ma anchesempre piú forte era una sortadi autocensura critico-teoricache, in nome di unfondamentalismoconsumistico-democratico-populista, impediva una presadi posizione forte econtestatrice, capace quantomeno di affermare, con unacerta semplicità e onestà, che ilre era nudo. Il vestito che gliultimi cortigiani avevanoinventato per soddisfarel’appetito ormai bulimico di uncapitalismo sempre piú

ignorante e cieco era davverotroppo imbarazzante perchéqualcuno non sentisse ilbisogno di gridare questoscandalo della ragione e dellosguardo. Siamo alla fine diun’arte di regime, la cuivolgarità e povertàintellettuale e visiva èsconcertante. È necessario,affinché qualcosa d’altropossa apparire, che questaillusione ottica sia smascheratae sia rivendicato con forza,senza paure e senza sottostarealle censure dell’ideologiadominante, un altro modo di fare arte, un altro modo di frequentare l’atto creativo,un altro modo di fruire l’opera.Federico Ferrari

2004 Federico Ferrari Lo spazio critico. Note per una decostruzione dell’istituzione museale con i contributi di Johannes Cladders,Rosalind Krauss, Federico Nicolao, Hans Ulrich Obrist, Giulio Paolini, Claudio Parmiggiani, Harald Szeemann

Lo spazio espositivo èessenzialmente lo spazio in cui un gesto critico siesercita su un corpo compostodall’insieme – organico,disorganico o post-organico –delle opere (nel loro rapportomutuale e nel rapporto cheesse intrattengono con lospazio che le ospita). Lo spazio espositivo, quindi,risponde in modo essenziale

alla vocazione primaria di ogni critica: mostrarsi,mostrare il proprio gestoinstauratore, lasciando chealtro venga alla visione. Al suo interno la critica si espone come quel sapere e quella pratica che aspira a una visione condivisa. Nello spazio la critica si rende visibile, si mostra nella sua nudità e, nello stesso

movimento, sospendendosi,mandandosi in crisi, mostra ilmistero del visibile e i modidella visione. Per giudicaredella bontà della criticadovrebbe sempre valere ildetto di Oscar Wilde, “sonosolo le persone superficiali anon giudicare dalle apparenze.Il vero mistero del mondo è ilvisibile, non l’invisibile.”Federico Ferrari

Da quando l’autore è morto, non facciamo che inseguirne l’ombra. E riprodurne il feticcio: la faccia, non il volto. Lo scrittore offreall’obiettivo il palmo della mano aperta. Nega il proprio viso, maoffre un’altra identità,scritta nelle linee della

mano. Sceglie di coincidereinteramente con il gesto della sua scrittura. Lo scrittore insegue un tirannofantasmatico e plurale,padrone, editore, lettore,sovrano, che manca semprel’appuntamento decisivo. Ma il tiranno ineffabile è lui stesso, l’autore. Trasmigra, imprendibile.

Il suo volto è vertiginosamenteriflesso negli specchi che crea. Il suo corpo, il corpo pesante e opaco che lo ossessiona, è in continua dissoluzione. Si fa liquido, come l’inchiostro,e poi si rapprende sulla pagina.È quella impressa nel profilodelle parole l’unica fisionomiapossibile dell’autore.

2006 Federico Ferrari, Jean-Luc Nancy Iconografia dell’autoretraduzione di Matilde Tobia e Federico Ferrari

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“Come salire la scala di cui non si conosce né l’inizio né la fine?” (144. 504. 864). È questo il compito al quale siamo chiamati nella lettura di Disputa cometofantica, nel-l’affidarci allo stretto intreccio di nominazione e numerazione proprio dell’opera.Disputa cometofantica si articola in tre parti. La prima è composta da 1080 frasi e coprel’intero arco del libro. La seconda si sovrappone alla prima a iniziare dalla frase 370.La terza si sovrappone alle prime due rispettivamente alle frasi 721 e 361.Detto altrimenti: la prima parte nasce dal silenzio; la seconda parte non attende ainiziare quando la prima termina, ma a essa si congiunge; e cosí accade anche allaterza parte, dando origine a una sorta di stratificazione, che sembra obbedire alleleggi generali della stratigrafia geologica.Che cosa ci indica questa struttura? Ci segnala che la vicenda si svolge su piú piani so-vrapposti. La prima parte copre l’arco temporale comprendente passato, presente efuturo; la seconda parte riguarda il presente e il futuro. La terza parte si svolge nelfuturo.La narrazione di Saffaro è una forza che non retrocede fino al punto in cui la storiadiventa per la prima volta accessibile, ma va oltre: verso il non-luogo e il non-tempodell’origine: verso la pre-storia e verso il non-vissuto.Attraverso questi punti di insorgenza “percorriamo dunque la doppia spirale deglieventi” (352) che sembra spingerci verso il fuoco della conoscenza, verso l’inarrivabilesuo fondo (45. 405). Scrive Saffaro: “L’incendio, che ogni notte sembra allontanarsiun poco di piú, forse è la parte piú misteriosa della notte stessa” (117. 477).Talvolta l’inconosciuto si presenta attraverso indizi lasciati cadere a caso, attraversosegni consegnati alla nostra interpretazione. Quanto fallace possa essere tale inter-pretazione ce lo conferma Saffaro alla fine dell’opera: “L’attesa si è spezzata in treparti: due sono state calate nell’aureo sepolcreto del caso, la terza sarà innalzata sul-l’asta gentilizia come effimero trofeo” (343. 703. 1063).Ma sarà solo con l’ultima frase che Saffaro giungerà a indicare la possibilità venturadi un nuovo inizio, ulteriore rispetto al primo inizio del pensiero, destinandoci cosía una via che porterà il pensiero dell’essere a quell’inizialità che il pensiero stesso ri-chiede per l’altro inizio: “Nominatemi sempre” (360. 720. 1080)Flavio Ermini, La duplice unità della luce

Tracce dello sguardo

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2011 Lucio Saffaro Disputa cometofantica

La Verità metafisica, 1965, china su carta, 3,9x5 cm.,Coll. Fondazione Saffaro, Bologna.

Studio per la XII Colonna o Studio per il 793, 1972, china nera su cartoncino, 25,3x22,4 cm., Coll. Fondazione Saffaro, Bologna

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2 Non si falsifica l’altura, poiché non dimenticai pegni del caso. Cosí si accresce la loro ricchezza: quasi fosse un flusso iridiscenteche termina ma non discerne.

3 È caduto l’alloro, appena pervenuto al centro della disfatta del pensiero, e la coscienza, in attesa, si perde tra le stasi sempreverdi del passato.

10.370 È così vasta la distesa dell’attesa che nessun labirinto potrà esaurirla.

11. 371

12. 372

1. 361. 721

Oltrepassare la grande spira dell’infinito, questo sí che è il culminedi un’appassionata apostasia.

Lo steccato di fondazionenon era altro che l’estrema difesa del teneroterreno dello spirito.

Sezionarono la superficie indipendente e ne ricavarono le leggi triangolari che reggevano la profondità del caso.

2. 362. 722 Nell’anfratto del nulla scopersi un tesoro simile a se stesso, che contenevale sue infinite ripercussioni.

3. 363. 723 Ogni oggetto possiede un prolungamento di proprietà che ne definisce il destino.

1Prima che la vela del tempo raccorci il simulacro vivente, tentiamo di salire sugli spalti del caso, dove ancheun solo pensiero è ombra di Dio.

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Lucio Saffaro nel portico di San Luca, Bologna 1975, foto di Nino Migliori.

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2006 Annemarie SauzeauShaman showman. Alighiero eBoetti con interventi di Jonathan Monk e Maurizio Cattelan

A volte lo scrivere è l’unico mezzorimasto per abitare certi luoghicom’erano, l’unico mezzo rimastoper amare certe personecom’erano. A meno che nonesista per mantenere la loropresenza anche un altro mezzo:la filiazione in arte, ovverol’artista “plurale” inaugurato da Boetti stesso. Esiste una suaopera fatta di undici fogli coloratia biro blu, intitolata I sei sensi. Vi si possono effettivamentedecrittare, nei sei primi fogli, i cinque sensi piú il sesto ovverol’intelligenza; gli ultimi cinquerimangono muti, in perfettamonocromia, in attesa dellascoperta o riscoperta di ulterioridoti sensoriali umane. Per esempio la telepatia perduta e altre facoltà virali propizie alla propagazionedell’intelligenza, all’infiltrazionecapillare dell’attività neuronale.Annemarie Sauzeau

Tracce dello sguardo

La prima volta che ho visto una tua opera era firmata Alighiero e Boetti. Per nonso quanto tempo ho pensato che tu fossi due persone diverse. E poi c’era quella foto,con due gemelli che si tenevano per mano... Mi piaceva questa confusione. Eri tued eri un altro. Adesso è un po’ strano sedersi e parlare solo con Boetti. È come semancasse qualcosa. Dove è Alighiero?

Io sono io, lui è lui. Alighiero sono io e Alighiero è me. Boetti è metà Ali-ghiero e metà me. Alighiero è la parte piú infantile, piú esterna, che dominale cose familiari. Boetti è piú astratto, appunto perché il cognome rientranella categoria. È una gerarchia. L’ordine delle cose mi ha sempre affasci-nato, il modo in cui le nostre società si fondano su strutture irremovibili.Pensa anche solo all’ordine alfabetico.

Quando hai deciso di sdoppiarti?Non lo so. Non mi ricordo, e forse non è nemmeno importante. Potremmoscegliere una data qualsiasi. Le date sai perché sono importanti? Perché se scrivi sul muro 1970, sembra niente, proprio niente, ma fra trent’anni...Ogni giorno che passa questa data diventa piú bella: è il tempo che lavora, è soltanto quello che lavora. Le date hanno proprio questa bellezza: piúpassa il tempo e piú divengono belle. Cosí potremmo far finta che il 16 di-cembre 1970 è il giorno in cui Alighiero e Boetti vennero e videro la luce a Torino. Un giorno avevo fatto un disegno e l’avevo firmato Alighiero e Boetti, quando è arrivata in studio una signora che non sapeva niente e mi disse: “Chi sono questi due?”. Io ero a posto, capisci. Sono piccole conferme di realtà, come un segno. Da allora, penso di essere diventatobravo a inventare i rebus, ma poi non sono capace di risolverli.

Hai scelto di diventare artista o è l’arte che ti ha scelto?Mi sembra una cosa assurda la tradizione dell’artista. Io non ho fatto scuoleartistiche e mi sembra assurdo che uno debba andare al liceo artistico. Il problema è di sopravvivere, di vivere in modo decente, di riuscire a soddisfare tutte le cose. Il problema nuovo di essere artisti oggi è di avere una base, che non sia il prodotto artistico ma l’idea. L’idea la puoi attuare con tanti mezzi, che puoi prelevare da quelli che esistono già e che ti vanno bene.

È la comunicazione che ti interessa...Sí, moltissimo. Non capisco perché non si possa tro-vare proprio qui uno spazio per la comunicazione.C’è un mio amico, un designer, che quando vede il suo marchio di venti metri per venti al neon su un palazzo di Milano, soffre a non sentirlo firmato.Per me il problema è opposto, magari si potrebbe risolverlo con la pubblicazione in giornali semprepiú maneggevoli e con l’anonimia... Oggi non riesco piú a immaginarmi un Füssli, un Raffaello o un Ingres, anche se li amo molto: non si può restare legati al privilegio della mano.

Infiniti noiDialogo (a tre voci) tra ? Maurizio Cattelan e! Alighiero e Boetti

Maurizio Cattelan (Padova,1960) inizia a lavorare a Milano,realizzando oggetti nonfunzionanti, in sintonia con le tendenze del concettuale. Il debutto espositivo è nel 1991, alla Galleria d’Arte Moderna diBologna, dove presenta Stadium1991. Del 1986 è Untitled: unatela squarciata in tre pezzi allamaniera di Lucio Fontana,creando però la Z di Zorro. In unaperformance a Milano, Cattelanattacca al muro con lo scotch ilsuo gallerista Massimo De Carlo.

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2006 Emidio Greco Niente da vedere niente da nascondereun film di sessanta minutisull’opera di Alighiero Boettie un testo di Stefano Chiodi

Seduto, un uomo guarda un grande telaio vuoto, unquadro appoggiato a un murobianco, con la tela sostituitada un vetro trasparente. Un titolo – Niente da vedereniente da nascondere – un nome dalla singolarecongiunzione – Alighiero eBoetti – vi appaiono comebianche iscrizioni maiuscole.Dodici quadrati, trentadue e poi sedici lettere.

Questa l’immagine secca ed enigmatica, annuncio di simboli e numerologie piú complicate, posta inapertura al film dedicato nel 1978 da Emidio Grecoall’opera del grande artistatorinese. La finestra, il quadrato magico dell’arterinascimentale, spalancata di fronte all’occhio di un osservatore famelico e paziente, qui è ridotta a puro scheletro, a quadratura,a diaframma sottile cherimanda solo il tenue riflesso, ilfantasma di chi la fronteggia(piú avanti, al termine di unalenta zoomata, su quellostesso vetro vedremo

rispecchiarsi le sagomedell’operatore e del regista).Niente da vedere, alla lettera,perché l’occhio non penetra ilmuro che chiude lo spazio, non può procedere oltre; ma anche, dato altrettantoimportante, niente danascondere, appunto, perchéla trasparenza qui non è piúsolo metaforica, ingannevole,ma lampante e incolpevole.Stefano Chiodi

2002 Renzo Rossellini, Osvaldo Contenti Chat room Roberto Rosselliniinterventi di Carlo Lizzani, Marcella De Marchis Rossellini e Silvia D’Amico; postfazione di Vittorio Giacci

Carissimo Renzo, sonosettimane che ruoto intornoa queste poche righe di biografia, ma i vuotisovrastano i pieni, e piúconosco e piú sottraggorighe e parole, perché la complessità di una vita, di quella vita, non si puòcomprimere né in un profiloné in una monografia.

Serve un dialogo, mi sondetto, come quelli in cuiaveva creduto lo stessoRoberto: un dialogo conqualcuno che ne abbiaseguito molta parte dellaparabola umana e artistica. È cosí che ho deciso diinviarti questa schedabiografica decurtata dei suoianni migliori, degli anni che

muovono dalla vera nascitadi Roberto, che io colloconell’alba di Roma “cittàaperta”. E se Renzo è lontano,come già sapevo da amicicomuni, che importa, la tecnologia ci aiuterà:allestiamo una confortevolechat room, la lontananza ci farà essere piú obiettivi,meno emotivi.

Se sei disposto ad affrontarequesto dialogo, caro Renzo, cominciamo subito,con passione e metodo, a colmare il vuoto che si apre a partire da una Roma occupata da neri aguzzini, nei giorni della paura, delle macerie e della vicina Liberazione.Osvaldo Contenti

2002 Scene italoamericane. Rappresentazioni cinematografiche degli italiani d’Americaa cura di Anna Camaiti Hostert e Anthony Julian Tamburri

Spaesamento, ibridazione,marginalità che si fa forzad’interpretare il mondo,come capacità diabbracciarne la complessitàeterogenea: sono terminiche, estrapolati da una

condizione specifica, quelladell’italoamericano del XXsecolo, si affacciano a questoterzo millennio comeelementi fondamentali della globalizzazione. Etnicità e progresso,

criminalità e repressione,razzismo e contaminazione,queste le fondamentalipolarità che preludono a un’identità sociale eindividuale da reinventare,facendo della frammentazione

una suggestiva moltiplicazionedelle possibilità umane. La grande forza dei registiitaloamericani è legataappunto a questo anticipovissuto sui tempi dellacontemporaneità.

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Non facciamo che udire parole funebri.L’assillo quotidiano sull’orroredel mondo e dell’uomo suonaalle mie orecchie come solfa del malaugurio. Basta, mi dico.Ringrazio chiunque mi portiuna parola luminosa. So quanto sia difficile farlosenza cadere in un’Arcadia diretorica e miele. Ma, mi pare,non si può piú fare a meno diquesta nominazione del bene.Non si può piú rimandare. C’è attesa di una parola che si immerga nei temi piú misteriosi, senza logorarli né logorarsi, che arrivi a chi ascolta come forza che risveglia altra forza, come solvente di ogni incrostoduro, di ogni meccanismoghiacciato. Sono stanca di vedere fotografata l’ira, la nostra faccia lurida, la nostramiseria umana sempre sbattutain primo piano. Sono stanca diun’arte che inscena tragediesenza catarsi. Troppo facile,

mi dico, sostare cosí a lungo nel lato d’ombra della specie. Ora l’impresa piú alta e rischiosa è parlare della gioia,pronunciare la parola “amore”.Ritrarre la bellezza del mondo, o almeno tentare di riconciliare gli aspetti ora cosí polarizzati del principiospirituale e della forza vitale cieca e animalesca, e sentirli come manifestazionedi un’unica fonteonnicomprensiva. Non dovremo aspettare di essere nel pieno di unnaufragio, o in altre situazioniestreme, per accorgerci che le nostre ultime parole, se potessimo in quel tempoconsegnarle, sarebbero semplicimodeste e vere parole d’amore. Qui ho tentato dunque, insieme al mio regista e grazie al suo potente contrappunto, di nominare il bene. Mariangela Gualtieri

Tracce dello sguardo

2007 Teatro ValdocaPaesaggio con fratello rottoscritto daMariangela Gualtieri per la regia di Cesare Ronconi

Paysage avec frère romputraduit par Jean-Paul Manganaro

Landscape with BrokenBrother translated byDavid Verzoni

Interventi di Antonio Audino, Emanuela Dallagiovanna, Milo De Angelis,Marco De Marinis, Rodolfo Di Giammarco, PiergiorgioGiacchè, Maria Grazia Gregori, Franco Loi, Gianni Manzella,Massimo Marino, Sabrina Mezzaqui, Antonio Moresco,Tommaso Ottonieri, Alfredo Pirri, Oliviero Ponte di Pino, Paolo Ruffini, Elena Stancanelli, Ferdinando Taviani,Emanuele Trevi, Valentina Valentini.

Apparato fotograficoPaolo Rolando Guerzoni, Roberto Biatel.

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chi e di neri. Gli studiosi del settore hanno sottolineato come i suoi lavori siano sempre monocromatici. Nonin bianco e nero, come verrebbe da dire, ma proprio in monocromo: “Nella monocromia del nero il sensoesteriore delle due campiture possibili non è mai il risultato di una colorazione elementare: è piuttosto la so-luzione finale di una complessità del segno forte dell’inchiostro” (Franco Achilli). Fronzoni, nato nel 1923 aPistoia, veniva dalla tipografia, dal gesto preciso ed essenziale del disegno e della composizione dei caratteri.Insieme alla funzionalità e al rigore, queste sono anche le caratteristiche delle sue opere, spesso assimilabilinon solo alla grafica ma all’intervento artistico vero e proprio. Nel 1966, per la mostra di Lucio Fontana allaGalleria La Polena di Genova, mette in verticale il cognome dell’artista, della galleria, il luogo e la data, e litaglia come se fosse una tela di Fontana stesso. Ma non è solo un fatto mimetico. Fronzoni cerca di usare,come si fa in tipografia, il minor numero di caratteri, corpi, lettere, parole. Si oppone al rumore di fondodella comunicazione contemporanea sottraendo, fino a risultare aniconico. Nello stesso tempo, quello chesottrae con una mano – la comunicazione, la leggibilità – lo restituisce con l’altra: ogni suo intervento graficotenta la terza dimensione. Usa l’alternarsi di pieni e vuoti, bianchi e neri, per alludere a un’altra dimensione,ulteriore rispetto alla superficie del foglio, della copertina, del manifesto. Si situa, in modo inquieto, tra laseconda e la terza dimensione. È la ricerca della spazialità sempre in potenza nello spazio bianco del foglio,che il razionalismo occidentale di norma ha delegato al disegno prospettico, o meglio: alle tecniche dellarappresentazione che fanno intuire o percepire ciò che non c’è nello spazio del foglio. Come recita il testodel filosofo giapponese: “la realtà in sé non è un segno, e non lascia tracce”. Nel rigore, a tratti persino mo-nacale dell’uomo e del grafico, Fronzoni ha cercato la via d’accesso a quella dimensione ulteriore che sapevabenissimo di non poter mai raggiungere – il foglio è il limite e il confine – e che tuttavia si ostinava sempre aperseguire. Elidendo le parole, scrivendole sui margini, cancellando tratti orizzontali o verticali delle lettere,diminuendo i corpi (sino al limite dell’indecifrabilità), facendo apparire i segni dal nero del fondo o anne-gando i tratti neri nel bianco della pagina, Fronzoni cercava di dirci che l’essenza del reale ci sfugge sempre,per quanto la inseguiamo con ogni mezzo. In questo senso, il suo è stato una sorta di misticismo grafico, allaWittgenstein. Eppure i suoi oggetti grafici non sono silenziosi, ma parlano. Lo fanno in modo sommesso, ato-nale, icastico. L’effetto sui lettori è decisamente provocatorio: ci costringe a “vedere”, mentre di solito, difronte all’universo della comunicazione grafica, noi “guardiamo” senza vedere. Fronzoni, autore di opere im-portanti, è stato un paradosso vivente: cercava la democrazia della visione e della lettura attraverso il gestoaristocratico, la razionalità della comunicazione mediante l’assolutezza mistica. Tra i suoi meriti, di maestroe insegnante – la pedagogia era essenziale nella sua coerenza di vita – c’è anche quello di non essersi assog-gettato ai compromessi del sistema commerciale, come ha scritto a suo riguardo Giorgio Fioravanti (La graficain Italia, Leonardo Arte). Poche opere, ma indimenticabili.

Robert Bringhurst, poeta, tipografo e storico della cultura, in epigrafe a un suo bel-lissimo volume dedicato alla tipografia (Gli elementi dello stile tipografico, Edizioni Syl-vestre Bonnard) ha posto una citazione: “Qualunque cosa i segni scritti possanoevocare è già passata. Essi sono come le orme lasciate dagli animali. Ecco perché imaestri della meditazione rifiutano di accettare che la scrittura sia la soluzione defi-nitiva. L’intenzione è quella di raggiungere l’essenza attraverso queste orme, questelettere, questi segni – ma la realtà in sé non è un segno, e non lascia tracce. Non civiene incontro per mezzo di lettere e parole” (Kimura Kyuho, Kenjutsu Fushigi Hen,1768). Sono parole molto belle, soprattutto perché dette all’inizio di un testo cheaiuta a ripensare in modo meticoloso alla tipografia nell’epoca elettronica e digitale(“Ritmo e proporzione”, “Armonia e contrappunto”), e a osservare la forma dellelettere, delle pagine, gli spazi vuoti che stanno intorno alle lettere e ai testi. Sono si-curo che questo libro sarebbe piaciuto ad AG Fronzoni, uno dei maestri della graficaitaliana del secondo Novecento che a Milano aveva lavorato e insegnato a partiredagli anni Cinquanta. La prima cosa che salta agli occhi nei lavori di Fronzoni (ma-nifesto, libro, marchio ecc.) è infatti il continuo alternarsi di vuoti e di pieni, di bian-

Tracce dello sguardo La democrazia grafica di AG Fronzoni*

Marco Belpoliti

* Ringraziamo l’autore per averciconcesso questo testo, ripropostocon lievi modifiche dopo essere statopubblicato su “Alias” il 2 marzo 2002.

AG FronzoniMarchio Mediaevo, 1999

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PAROLE D’ORDINEIl linguaggio non è la vita, dà ordini allavita. L’unità elementare del linguaggio è laparola d’ordine, scrive Deleuze nei Postulatilinguistici. Tutto è discorso indiretto: il lin-guaggio non ci appartiene, gli apparte-niamo. Non lo possediamo, ci possiede.Non è uno strumento: ci domina. L’unica opposizione possibile a questodominio è tracciare vie di fuga: organiz-zare evasioni per le parole chiuse nelleprigioni del discorso indiretto.

Un desiderio che è già un progetto edi-toriale: estrarre parole d’ordine dalle pa-role d’ordine, fare in modo che la fugaagisca contro la necrosi. Sotto le parole d’ordine esistono parole“lascia passare”, componenti di passag-gio che possono produrre smottamentinelle composizioni stratificate, organiz-zate, delle parole d’ordine. La stessa pa-rola ha una doppia natura: bisognaestrarre l’una dall’altra, trasformare lecomposizioni d’ordine in componenti dipassaggio. Sostituire un passaggio(un’evasione) a un arresto.Ogni sostantivo, ogni verbo, ogni agget-tivo va liberato dall’ordine e messo infuga, restituito al suo significato origi-nario o destinato a un significato nuovo.Per creare un dizionario non alfabeticoe non lineare, organizzato dall’urgenzadi riappropriarsi delle parole, mettendoledi traverso contro il concatenamentodella glossolalia diseducante.

Il dizionario delle parole d’ordine nascerànecessariamente da un progetto collet-tivo: io, dice ancora Deleuze, è già unaparola d’ordine. Occorre convocare una comunità. Ricer-catori, poeti, blogger, scrittori, scienziati,saggisti, critici, insegnanti, filosofi, pro-gettisti della cultura: ognuno dovrà sce-gliere una parola d’ordine da liberare,una parola lasciapassare da estrarre dalflusso delle parole che ci parlano. In untesto che abbia la consistenza di unavoce enciclopedica.

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Ci chiediamo se l’amicizia, questo tipo di relazione umana di cui ci sembra di saperetutto perché da sempre celebrata, sia oggi ancora la stessa. Oppure se si stia trasfor-mando e anzi si sia trasformata nel rapido trascorrere di qualche decennio. E perchéquesto stia accadendo. Dove, riguardo all’amicizia, siamo trascinati e cosa possa si-gnificare questo dove verso cui andiamo.L’amicizia è una dimensione che riguarda la persona e questa consiste in un corpo,in una lingua, in una memoria, in bisogni, in desideri. E questi desideri si accen-dono in un ambiente, l’ambiente in cui la persona abita, lo spazio e il tempo in cuivivono la nostra carne e il nostro spirito. Ora, nel definirci post-moderni, noi nonassecondiamo una moda filosofica, un vezzo accademico, un gergo da “colti”, ma –pescando nella nostra personale esperienza quotidiana – ammettiamo che il nostroambiente è diventato piú nuovo del nuovo, piú moderno del moderno, insommasta vivendo una straordinaria trasformazione. Tanto straordinaria, potente,profonda, da gettarci al di là di ogni passata tradizione. Lo dobbiamo ammettere,non possiamo fare altrimenti. Infatti nell’ambiente a cui apparteniamo tutto si stafacendo diverso da ciò che ci hanno raccontato e insegnato: la percezione del nostrocorpo, i modi in cui ci esprimiamo e comunichiamo, il rapporto quotidiano che in-stauriamo tra passato e presente, le necessità che sentiamo e i modi che abbiamoper soddisfarle, le cose che appassionano il nostro immaginario, le forme di tra-sgressione e conflitto con cui costruiamo la nostra individualità, il tempo e gli spazidi cui disponiamo. Ciascuna di queste trasformazioni ha una sua possibile spiega-zione. Nell’insieme possiamo dire che sono proprio le innovazioni tecnologiche ametterne in evidenza l’intensità. E sotto l’impeto di tanto intense metamorfosi l’a-micizia come potrebbe restare immutata?Proviamo a elencare alcune emergenze del presente. Dividiamole tra sfera collettivae sfera individuale. Sul primo versante, quello collettivo, assistiamo a una progressivafrantumazione dei grandi legami sociali che hanno caratterizzato le società di massa.I linguaggi della televisione sono stati lo spazio in cui – per un lungo tratto, daglianni Cinquanta sino quasi ai giorni nostri – le relazioni umane hanno trovato ilmodo di far convivere la sfera privata degli affetti quotidiani con la sfera pubblicadella società civile. Ma questo processo, giunto alla sua fase culminante, ha datosempre piú forza espressiva alla quotidianità dei bisogni e dei desideri della persona,alla sua vita ordinaria, quella di “ogni giorno”. La sfera privata è entrata in conflittocon quella pubblica.

Amicizia*

Alberto Abruzzese

Alberto Abruzzese è un sociologo,scrittore e saggista. Ha scritto diletteratura, cinema, sociologia dellacomunicazione e della pubblicità,storia sociale dell’industria culturale e delle innovazioni tecnologiche,mediologia. Ha insegnato Sociologiadell’arte e della letteratura, Sociologiadella conoscenza e Sociologia dellecomunicazioni di massa pressol’Università Federico II di Napoli. Dal 1992 al 2005 è stato professoreordinario di Sociologia dellecomunicazioni di massa presso il corso di laurea in Scienze dellacomunicazione della facoltà diSociologia dell’Università La Sapienzadi Roma, di cui è stato presidente tra il 1995 e il 1999. Luca sossellaeditore ha pubblicato nel 2008 la seconda edizione del suo libro La grande scimmia. Mostri, vampiri,automi, mutanti (1979).Dal 2005 è professore ordinario di Sociologia dei processi culturali ecomunicativi e direttore dell’Istitutodi comunicazione presso l’UniversitàIulm di Milano, dove è anche prorettoreper l’innovazione tecnologica e le relazioni internazionali.

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Metteremo le parole d’or-dine una dopo l’altra, inven-tando classificazioni checonfondano le superfici or-dinate del sapere, comel’enciclopedia cinese di Bor-ges. I contributi sarannoospitati in una sezione del sitowww.lucasossellaeditore.it, e poi diffusi attraverso i cir-cuiti della rete. Se e quandoil glossario sarà cresciuto asufficienza, potrà diventeràun libro: un manuale, unbreviario, un’enciclopediaprovvisoria.

* Alberto Abruzzese ha scritto que-sto testo nel 2002, prima dell’affermarsitravolgente dei social network, e primache Facebook risemantizzasse potente-mente il concetto di amicizia. La data testimonia tutta la forza diun’intuizione, che ha consentito all’au-tore di vedere lucidamente, in anticipo,come la pervasività dei nuovi mediastesse per stravolgere proprio i livellimeno istituzionalizzati dell’interazioneumana, creando rischi sconosciuti esconosciute opportunità.

Foto di Aris Accornero

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Le innovazioni basate sull’informatica – il personal computer, Internet ma in modomassivo, popolare, soprattutto il “telefonino” – hanno allora cominciato a offrirenuovi strumenti espressivi a individui sempre meno disposti a essere inquadrati inidentità collettive uniformi e sempre piú inclini invece a costruire un propriomondo personale. Sempre piú desiderosi di ricorrere a ogni oggetto di consumoe mezzo tecnico in grado di espandere il loro corpo al di là di ogni barriera socialee farlo penetrare in nuove sfere simboliche e relazionali. Una lettura troppo su-perficiale di questo slittamento dal pubblico al privato ci porterebbe a valutarlo intermini del tutto negativi. Cosí, per quanto riguarda l’amicizia, saremmo di conse-guenza costretti a collocarla nello spazio di riflusso e frustrazione dei grandi valoricivili, di crisi della solidarietà sociale, di rarefazione della sfera pubblica, di dege-nerazione delle istituzioni e della politica.Sarebbe un grave errore pensare l’amicizia come rifugio, quando essa potrebbe in-vece diventare luogo di sperimentazione di nuove forme di vita, proprio quellenate sulle rovine della modernità, sul crollo di quella società industriale di massacaratterizzata da stati e sistemi economici che si sono fondati sulla tragica opposi-zione amico-nemico per dare senso alle loro politiche e alle loro guerre. Se vo-gliamo scoprire ciò che oggi può esserci di nuovo nell’amicizia dobbiamo allorapensarla – e trovarne le tracce già esistenti – partendo dal rifiuto dell’idea pilotainfissa col sangue in quel binomio: l’asservimento della quotidianità, della nudavita delle persone, alle leggi esclusive del conflitto sociale, là dove la sfera dell’ami-cizia come esperienza di una relazione profonda tra esseri umani viene sottopostaad amputazione, svuotata di ogni effettivo significato sociale, privata di libertàespressiva e legata dentro confini normativi in tutto estranei ai processi di auto-or-ganizzazione che sono propri dei linguaggi inclusivi del sentire amicale.In altre parole: i territori dell’esperienza contemporanea si prestano a mettere in ra-dicale discussione il dispositivo dell’amicizia nella sua dimensione moderna, dimen-sione in cui, non a caso, “frammenti di amicizia” possono essere trovati tanto nelleaggregazioni civili quanto in quelle piú anomale e perverse, come sette, mafia, mas-sonerie, gruppi lobbisti. Qui l’amicizia è gettata in reti di relazione che fanno ricorsoa codici segreti, a norme non scritte e tuttavia ancora piú vincolanti. A interessi chefanno tutt’uno con l’amicizia, assecondando la straordinaria miscela che i regimi mo-derni hanno saputo realizzare tra passioni e funzioni. Ma, del resto, le storie di ami-cizia ordinaria, privata, legittima, in apparenza puramente affettiva, non sono forsetutte ritagliate proprio intorno a legami che si instaurano e si spezzano passando traun ambiente e l’altro, un insieme di interessi e un altro? Ecco, accettando questoquadro interpretativo e il senso da assegnare alle trasformazioni ambientali di cuisiamo al tempo stesso invasori e invasati, le riflessioni da far maturare nello spaziodell’amicizia dovrebbero fare perno sulla urgente necessità di uscire da sistemi di in-teresse che non ci aiutano piú a vivere e anzi ci feriscono sempre di piú.Per capire questo transito epocale bisogna passare dagli strumenti interpretatividella sociologia a quelli dell’antropologia e della psicologia. La sociologia è nataquando è nata la società moderna avanzata e dunque hanno preso forma prepon-derante le identità collettive a scapito dei linguaggi emotivi e dei desideri della per-

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sona. Solo la psicanalisi lesse allora il mondo in modo radicalmente diverso, scen-dendo nell’inconscio individuale e mettendo a nudo pulsioni che nulla avevano ache vedere con il “platonismo” delle astrazioni sociali dello stato, delle classi, delleprofessioni. L’antropologia è una forma di sapere che, un tempo dedicata alle societàprimitive, si sta sempre piú indirizzando verso lo studio di forme espressive del pre-sente che sfuggono alle regole della modernità (emergenza di linguaggi del corpo,tendenza ad aggregazioni tribali e neocomunitarie). La psicologia, scienza dell’in-dividuo a lungo tempo messa a servizio delle norme vigenti nella sfera collettiva, haora la possibilità – insieme all’antropologia culturale – di scoprire il senso dei muta-menti che stanno nascendo dal profondo dell’esperienza umana.Siamo ancora portati a immaginare l’amicizia come un sentimento che riguarda lasfera privata degli affetti, non solo un moto d’animo ma anche un trasporto senso-riale – amicizia ha pur sempre la stessa radice semantica di amore – verso un’altrapersona che non appartenga all’ambito familiare, in cui il vincolo è invece prestabi-lito dalla natura (la procreazione) e dalla società (il matrimonio). Ma sappiamo benequanto la sempre piú evidente artificializzazione della natura – si pensi al quadrobiotecnologico delle manipolazioni genetiche – si sia spinta ben oltre ciò che untempo definivamo natura. Si pensi a quanto le distinzioni di genere siano state scon-volte da forme di sessualità in via di sempre piú forte legittimazione e a quanto l’ideastessa di legame familiare abbia infranto le regole imposte dalla religione e dallostato. Le parole amante e amatore – che servono a individuare una specifica tensioneistintiva per l’altro da sé, sia esso un corpo o un oggetto o una situazione – ci diconola forza del sentimento amicale. L’attrazione che esso mette in campo. La sua naturadesiderante, di per sé trasgressiva. Tuttavia, come si è detto, l’amicizia può farsi vin-colo volontario non perché natura e società non prevedano per essa la stipula di nes-sun contratto: il fatto che essa non sia stata governata da contratti palesi, fondati sunorme giuridiche, istituzionali, pubbliche non ha impedito che essa stessa abitassein quello spazio non detto, quella “microfisica del potere”, di cui la società modernasi è piú servita per sorvegliare e punire. La società, infatti, ha stretto ogni rapportoamicale dentro un confine invalicabile, picchettato da una serie di saperi, luoghi co-muni, norme comportamentali, e tabú, come ad esempio l’interdizione delle prati-che omosessuali. Ecco quindi che la nostra attenzione, nel parlare di amicizia,dovrebbe innanzi tutto rivolgersi verso quali interessi oggi ne condizionino una liberaespressione, ne blocchino la capacità creativa, la portata innovativa. Quale sia l’im-patto psicologico che tali interessi esercitano in noi e quali nuovi interessi si possanogenerare in quest’epoca di disagio nei confronti del già vissuto. Le relazioni interpersonali – in atto dal vivo attraverso la telefonia mobile e attraversole varie forme di intrattenimento personale su Internet: videogiochi, siti, chat, blog,ecc. – costituiscono le zone e i nodi di un’esperienza che non si fonda piú sulle regolefrontali e unidirezionali dello spettacolo ma sull’esperienza diretta di se stessi. Questoè forse il luogo piú fertile per innovare la qualità dei legami di amicizia, per ridise-gnare le loro attitudini ancor prima del loro ruolo. Per cogliere quanto essi possanosconfinare al di là dei valori e degli scopi che la società si è data.

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Alla fine degli anni cinquanta John Huston prospetta a Jean-Paul Sartre di scrivere una sceneg-giatura per un film che racconti la vita professionale di Sigmund Freud. Dopo due versioni, e ri-spettivi rifiuti di Huston, Sartre abbandona il progetto fallimentare. Bene: mi è tornata alla mentequesta vicenda quando in treno, tornando da Roma, lei mi raccontò della sua tesi di laurea in fi-losofia, su Freud e Sartre, e dell’abbandono (che coincise con la presentazione della tesi) della carrieracome professore di filosofia. Non si può non ricordare l’elogio del fallimento di Lacan e la straordi-naria definizione di atto mancato, cioè “il solo atto riuscito possibile”. Due domande in una: fuun fallimento a farle incontrare Lacan o specularmente Lacan le fece incontrare il fallimento?

Sono inciampato sui miei sintomi nel momento in cui stavo per avviarmi, dopo essermilaureato in filosofia, verso una carriera universitaria. L’inconscio si mise di traverso einfranse la mia vocazione di filosofo. Fu proprio in quel contesto, nell’estate del 1985,che iniziai a leggere Lacan. Prima arrivarono i miei sintomi e poi Lacan che rappre-sentò per me la possibilità di decifrare la lingua straniera con la quale il mio inconscioparlava. Fu, dunque, l’inconscio ad avvicinarmi a Lacan e non viceversa. Anche perchéavevo scoperto l’esistenza dell’inconscio a sedici anni attraverso Freud, leggendo avi-damente L’interpretazione dei sogni. Indubbiamente però l’incontro con Lacan rese l’in-contro con i miei sintomi carico di aspettative, se posso dire cosí. Quello che mi colpíimmediatamente nella prima lettura degli Scritti fu il rilievo attribuito alla dimensionedella verità. Si trattava di una verità molto diversa da quella che avevo incontrato neltesto della filosofia. Una verità spuria, contaminata con l’esistenza, che non parlavacon la voce eterea del logos ma che si incarnava nella mia sofferenza nevrotica. Ed esi-geva che il suo grido fosse ascoltato.

Paolo di Tarso nella seconda lettera ai Corinzi presenta il suo modo necessario di mettere in pratica la parola con “semplicitàe trasparenza”; il sostantivo greco eilikríneia deriva dal termine heile che indica la luce del sole e dal verbo krínein che significagiudicare, discernere. La sua capacità di parlare alla luce del sole (ex eilikríneias), la sua volontà di chiarezza nell’esporreuna lingua labirintica come quella di Lacan (spesso senza la gioia del significato), è un progetto didattico, un atteggiamentoetico o una sfida linguistica?

Io sono stato considerato un bambino ebete. Sono stato considerato, per citare una grande opera di Sartre, l’idiotadella famiglia. Qualcosa in me si rifiutava di apprendere. Non intendevo, non assimilavo il sapere che mi propo-nevano. Questa resistenza era probabilmente legata all’assenza di parole di mio padre. Mi aspettavo che mi parlasse,ma lo fece molto, molto raramente... Non avevo deficit cognitivi. Anzi, avevo dimestichezza con il linguaggio –imparai a leggere e a scrivere con grande anticipo –, ma rifiutavo la sua dimensione pubblica, scolastica, collettiva.Rispetto agli altri bambini, restavo indietro, non capivo. Quella chiarezza che oggi molti riconoscono come unavirtú speciale del mio stile di insegnamento ha questa origine precisa: io mi rivolgo, quando parlo, a quel bambinoebete che restava indietro, a quel bambino idiota che sono stato. Penso a lui, lo rivedo nel suo banco con il broncioe l’aria annoiata. Per questo torno sugli stessi concetti, li frammento, li spremo, li semplifico, li riprendo… Voglioche quel bambino possa seguirmi, voglio che non resti piú indietro. Insomma, faccio per lui quello che avrei de-siderato mio padre facesse per me… Tutto questo oggi viene riconosciuto come una certa generosità che caratte-rizza il mio modo di insegnare.

Freud ha due grandi debiti, nei confronti di Dostoevskij e di Nietzsche. Lacan verso chi è debitore?Direi soprattutto nei confronti del trio Hegel-Heidegger-Kojève e dello strutturalismo linguistico di Saussure eJakobson. Dai primi Lacan riprende la questione del soggetto e del desiderio; dai secondi la nozione di grandeAltro e l’idea del linguaggio come sistema sovra-individuale, che sono i due elementi cui viene subordinato l’esseredel soggetto. Evidentemente non considero Freud perché con Freud non è in gioco solo un debito teorico, ma ilproblema stesso della psicoanalisi e della sua origine. Penso che in questo caso ci sia un problema di eredità. Dicome Lacan sia erede dell’identità freudiana della psicoanalisi…

Maître significa sia maestro sia padrone: quando Lacan dice che il soggetto isterico è uno schiavo/a che cerca un maître sulquale regnare, cosa intende? Cosa cerca il soggetto, un padrone o un maestro?

Quell’affermazione si trova nel Seminario XVII titolato Il rovescio della psicoanalisi. Lí Lacan riprende un tema cen-trale della sua lezione sull’isteria: l’isterica ricerca il padrone, il maître, perché ricerca un sapere possibile in gradodi dirle chi è veramente, un sapere che suppone sia contenuto dal maître, ma il suo godimento è quello di lasciareil maître in braghe di tela, come si dice; il suo godimento è quello di castrare, di far cadere il maître dopo averlocostituito come maître… Come dire che la manovra isterica è sempre finalizzata ad aprire una mancanza nell’Altroanche e soprattutto laddove vi sia un Altro che pare totalmente privo di mancanza…

Elogio del fallimento pentimento

La versione integrale del dialogotra Luca Sossella e Massimo Recalcati è pubblicata in Che cos'è Lacan?, un fascicolo di 32 pagine e un dvd di 90 minuti, registrato il 29 giugno 2011 alla Bibliotecad'Arte e di Storia di San Giorgioin Poggiale a Bologna.

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Vignetta di Renato Calligaro tratta dal libro pubblicato in occasione del compleanno di Alberto Abruzzese, edizione numerata.

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