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PSICOTERAPIA PSICOANALITICA E MUTAMENTI SOCIALI Visioni simultanee, Umberto Boccioni I PORTICI HOTEL – BOLOGNA - Via Indipendenza, 69 Con il patrocinio di: Programma Venerdì 4 Dicembre Ore 14.00 Ore 14.15 Ore 14.30 Ore 15.45 Ore 16.00 Ore 17.15 Ore 19.15 Ore 20.45 Iscrizione partecipanti Chairman Rutilia Collesi (SIPP) Apertura del convegno Vincenza Laurora (Presidente SIPP) La psicoanalisi in un mondo che cambia Stefano Bolognini (SPI, Presidente IPA) Coffee break Nuove frontiere nella psicoterapia psicoanalitica Vincenza Laurora Discussione con la sala Conclusioni della giornata Cena sociale Ore 9.00 Ore 13.00 Ore 14.30 Ore 15.30 Ore 16.45 Ore 18.15 Coordinamento e discussione all’interno dei panel Chairman Rutilia Collesi Panel e Coordinatori a) Psicoterapia e relazionalità virtuale Olga Cellentani (SIPP) e Mariangela Villa (SIPP) b) Psicoterapia tra istituzioni assediate e frammentazione del soggetto, Raffaele Caprioli (SIPP) e Marta Vigorelli (SIPP) c) Psicoterapia nella contrazione di tempo e di risorse Paola Borsari (SIPP) e Silvia Grasso (SIPP) d) Psicoterapia e nuove declinazioni identitarie Gianluca Biggio (SIPP) e Giampaolo Sasso (SIPP) e) Psicoterapia fra possibili e impossibili integrazioni plurietniche Maria Mosca (SIPP ) e Anna Sabatini Scalmati (SIPP, SIPsIA) Pausa pranzo Prosecuzione dei panel: elaborazione del contributo alla Tavola Rotonda Tavola rotonda con Stefano Bolognini, Vincenza Laurora e un rappresentante per ogni panel Discussione con la sala Conclusione dei lavori Sabato 5 Dicembre Membro della Sezione Italiana della E.F.P.P. (European Federation for Psychoanalitic Psychoterapy in the Public Sector Istituo di Fomazione in Psicoterapia Psicoanalitica Riconosciuta dal MIUR ai sensi della L. 56/89 CONVEGNO NAZIONALE 4 - 5 DICEMBRE 2015

Relazioni del convegno nazionale SIPP di Bologna

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PSICOTERAPIA PSICOANALITICA E MUTAMENTI SOCIALI

Visioni simultanee, Umberto Boccioni

I PORTICI HOTEL – BOLOGNA - Via Indipendenza, 69

Con il patrocinio di:

Programma Venerdì 4 Dicembre

Ore 14.00

Ore 14.15

Ore 14.30

Ore 15.45

Ore 16.00

Ore 17.15

Ore 19.15

Ore 20.45

Iscrizione partecipanti

Chairman Rutilia Collesi (SIPP)

Apertura del convegno

Vincenza Laurora (Presidente SIPP)

La psicoanalisi in un mondo che cambia Stefano Bolognini (SPI, Presidente IPA)

Coffee break

Nuove frontiere nella psicoterapia psicoanalitica

Vincenza Laurora Discussione con la sala

Conclusioni della giornata

Cena sociale

Ore 9.00

Ore 13.00

Ore 14.30

Ore 15.30

Ore 16.45

Ore 18.15

Coordinamento e discussione all’interno dei panel

Chairman Rutilia Collesi Panel e Coordinatori

a) Psicoterapia e relazionalità virtuale

Olga Cellentani (SIPP) e Mariangela Villa (SIPP)

b) Psicoterapia tra istituzioni assediate e frammentazione del soggetto, Raffaele Caprioli (SIPP) e Marta Vigorelli (SIPP)

c) Psicoterapia nella contrazione di tempo e di risorse Paola Borsari (SIPP) e Silvia Grasso (SIPP)

d) Psicoterapia e nuove declinazioni identitarie Gianluca Biggio (SIPP) e Giampaolo Sasso (SIPP)

e) Psicoterapia fra possibili e impossibili integrazioni plurietniche Maria Mosca (SIPP ) e Anna Sabatini Scalmati (SIPP, SIPsIA)

Pausa pranzo

Prosecuzione dei panel: elaborazione del contributo alla Tavola Rotonda

Tavola rotonda con Stefano Bolognini, Vincenza Laurora e

un rappresentante per ogni panel

Discussione con la sala

Conclusione dei lavori

Sabato 5 Dicembre

Membro della Sezione Italiana della E.F.P.P. (European Federation for Psychoanalitic Psychoterapy in the Public SectorIstituo di Fomazione in Psicoterapia Psicoanalitica Riconosciuta dal MIUR ai sensi della L. 56/89

CONVEGNO NAZIONALE 4 - 5 DICEMBRE 2015

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Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica

Convegno nazionale

‘Psicoterapia psicoanalitica e mutamenti sociali’

Bologna 4-5 Dicembre 2015

Enza Laurora

NUOVE FRONTIERE NELLA PSICOTERAPIA PSICOANALITICA

Frontiere originarie e domande attuali.

La psicoterapia psicoanalitica è da sempre applicazione dei principi della psicoanalisi nella pratica clinica di frontiera, anzi nasce dalla priorità della cura sulle finalità conoscitive. Prende a svilupparsi, non a caso, fra professionisti impegnati in contesti istituzionali di cura, dove, sia per la natura del contesto che per la tipologia delle sofferenze psichiche trattate, era fuori discussione l’applicazione dei criteri che l’istituzione psicoanalitica riteneva indispensabili per condurre una cura fatta con il metodo psicoanalitico. Nata come psicoanalisi a setting modificati, la psicoterapia psicoanalitica ha guadagnato una sua specificità approfondendo i significati psichici inconsci del setting, sviluppando la capacità di metterli al lavoro in stretta congiunzione con la relazione analitica, come altro luogo della vita inconscia della coppia analitica, e dispositivo di trasformazione psichica. Non solo, ha maturato una visione profondamente intersoggettiva e gruppale dello sviluppo della vita psichica, del mantenimento dell’equilibrio psichico nel corso della vita e delle condizioni che ne permettono la trasformazione nel lavoro della cura. Già caratterizzata da una particolare attenzione al mutuo rapporto fra realtà interna e realtà esterna, oggi è particolarmente attenta alla necessità di mantenere una ‘visione binoculare’ che non ci faccia mai dimenticare che l’organizzazione intrapsichica è anche frutto dell’esperienza di essere uomini del proprio tempo. Le domande che oggi ci attraversano non riguardano più solo la possibilità di offrire cura e promuovere crescita psichica in quadri patologici lontani dalle organizzazioni nevrotiche, nelle varie età del ciclo di vita e in contesti diversi da quello individuale, sono più radicali, richiedono ulteriori passi di sviluppo sia clinico che teorico. I cambiamenti che viviamo configurano una situazione epocale di particolare criticità perché incrinano le strutture sociali e culturali che, garantendo la differenziazione degli spazi, offrono le cornici necessarie allo sviluppo e al mantenimento della vita psichica individuale e intersoggettiva. Come dice Kaes (2012),

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‘minacciano le condizioni stesse che ci consentono di divenire soggetti della propria vita psichica e attori della vita sociale e culturale’. Siamo obbligati quindi a tenere ben presente nella nostra mente che la pratica clinica, le costruzioni teoriche e il senso dello stare al mondo oggi sono strettamente intrecciati e il nostro impegno su un fronte implica contemporaneamente anche quello sugli altri. Cercare risposte a queste nuove domande comporta coraggio nella pratica clinica, ricerca teorica ed impegno etico.

Essere psicoterapeuti psicoanalitici nel tempo della dismisura

I cambiamenti sociali della postmodernità, globalizzata, iperconnessa e insieme iper e iporeale, esercitano potenti pressioni centrifughe sull’integrità del nostro sentimento di esistenza e sui processi integrativi che sostengono funzioni di pensiero, a tutti i livelli: individuale, gruppale, istituzionale. A livello individuale, i nuovi stili di vita, all’insegna dell’accelerazione temporale, della indifferenziazione interno-esterno e dell’onnipotenza ubiquitaria alimentata dalla realtà virtuale, tendono a frammentare e a destrutturare l’esperienza vitale. Inoltre l’eccesso sia nell’intensità che nella frequenza delle stimolazioni sensoriali ed emozionali da cui siamo bombardati, stabilizzano nel soggetto risposte difensive di carattere dissociativo. Alla maniera di vere e proprie esperienze traumatiche, non consentono di ‘apprendere dall’esperienza’. L’inevitabile restrizione di coscienza che ad esse si accompagna rafforza a propria volta il funzionamento dissociativo. Risposte di scarica agita, dipendenze di vario genere, deindividuazione, abbattimento dei limiti e altro ancora, attivano un circolo vizioso maniacale-depressivo, stabilizzano funzionamenti sociali di massa e dispersioni di identità. In breve ci portano in aree di sofferenza di tipo narcisistico e borderline, dove ampie irruzioni di funzionamenti mentali primitivi, ci immergono in una materia emozionale che preme da tutte le parti. La prima forma con cui sperimentiamo questi mutamenti, nella nostra pratica clinica, è la potenza con cui la realtà esterna irrompe, lacerando gli involucri. Da quella speciale membrana creata dal setting garante della coesistenza di livelli multipli di realtà, alla pellicola psichica nella mente del terapeuta che sta alla base dell’ascolto psicoanalitico. Vi concorrono l’horror vacui degli attuali stili di vita, l’individualismo sfrenato, il consumismo, la precarietà delle fonti di reddito, la mobilità delle destinazioni di lavoro, la vita in rete. Ne risultano: riduzione della frequenza settimanale, difficoltà di mantenere il setting sia a livello di presenza concreta che di pagamento, moltiplicazione dei canali di comunicazione. Penso in particolare all’uso del cellulare, divenuto ormai ‘normale’ nella comunicazione fra paziente e terapeuta e alle richieste di proseguire la psicoterapia via skype o via telefono nel caso di spostamenti geografici o richiesta di psicoterapie via skype tout court. Inoltre la diffusione di identità del paziente sbarca nella stanza di analisi alla stregua di una folla di migranti e la dispersione del suo essere ci investe come l’onda di risucchio di uno tsunami che ritorna portando a riva quel che resta dopo l’impatto di emozioni senza forma. Per non parlare di quegli eventi che ci fanno sentire in forma assoluta la precarietà dello stare al mondo. Non dimenticherò mai una seduta con una ragazzina ventenne. Arrivò tremante, erano poco più delle 17 dell’11 settembre, aveva appena saputo del crollo delle torri gemelle. Lei usava il lettino all’epoca perché non osava guardarmi, ma quel giorno entrò

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con il terrore negli occhi e restò in piedi guardandomi fissa: era appena tornata da un anno di studio a New York e usava andare in una biblioteca proprio lì, a studiare. Rimanemmo entrambe impietrite, il silenzio rotto dal pianto, brandelli di immagini viste in tv, brandelli di ricordi. Le tenni la mano, ma la sua mano teneva anche la mia.

Tornando alla vita quotidiana, esperienze di troppo pieno e di troppo vuoto, ci espongono ad un continuo traumatismo del ritmo endogeno naturale proiettivo-introiettivo che rende possibile costruire la propria identità e legami stabili con gli altri. Siamo nati e cresciuti sulla frontiera sviluppando capacità di ‘vedere’ il senso del lavoro della cura, di coglierne la portata strutturante in contesti diversi, ma oggi la frontiera diventa a tratti una trincea. Ma c’è davvero una guerra, di quale guerra si tratterebbe e chi sarebbero gli alleati, chi i nemici? Forse la guerra è quella contro i limiti, la finitudine, la morte.

Viviamo nell’epoca della dismisura e dell’indifferenziazione ed è all’interno di questa che continuiamo ad avvicinarci alla vita dei nostri pazienti, alle modalità con cui ce la raccontano, sempre più cimentati ad andare contro l’evoluzione entropica della vita psichica e ad andare incontro allo smarrimento dell’essere. Ci confrontiamo ogni giorno con la mancanza di forma che sembra essere alla base delle sofferenze psichiche in cui si organizza il malessere dei tempi moderni. Ma non soffriamo solo quella che il paziente immette nel campo analitico, soffriamo anche la pressione deformante che l’esperienza clinica quotidiana esercita sul nostro assetto mentale, a partire dalla cornice stessa che ci consente di lavorare. Ad un estremo di un ipotetico continuum troviamo quelli che rispondono alle sollecitazioni centrifughe della postmodernità mantenendo una adesione talvolta rigida alle cornici teoriche in cui si riconoscono. Essi sono costretti ad operazioni di semplificazione attraverso il restringimento dell’osservazione del campo esperienziale in cui sono comunque immersi. Per così dire resistono alla pressione mantenendosi aggrappati a cornici teoriche collaudate, ma necessariamente conservano in forma muta il turbamento di ciò che è rimasto fuori, di ciò che la persona dello psicoterapeuta comunque vive ma che rimuove o dissocia, per bisogni di sicurezza.

All’altro estremo troviamo coloro che privilegiano l’adesione all’esperienza clinica e a partire da essa cercano creativamente soluzioni soffrendo una quota di dolore mentale perché i pensieri sollevati dalla pratica non trovano nelle cornici teoriche a disposizione, un contenitore adeguato. Essi soffrono il turbamento di verità da cui si lasciano attraversare e di cui portano testimonianza nei loro resoconti clinici ma a cui non sanno dare un senso pieno in relazione alla storia e allo sviluppo del pensiero psicoanalitico. Tra i due estremi coloro che utilizzano molti modelli dello sviluppo psichico e della psicopatologia a seconda delle necessità imposte dal lavoro clinico. E anche questa posizione non è esente da costi, si accompagna spesso ad un fondo emotivo inelaborato, una sensazione intima di tradimento nel passaggio da un modello ad un altro. Ma in tutti i casi, una nuova quota di pensieri non elaborati è esportata nel corpo stesso delle associazioni scientifiche, e rimessa in gioco nella dimensione gruppale dell’istituzione. Può rimanere incistata in forma di scissione e conflitto o, divenire spinta allo sviluppo

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trasformativo dell’eredità dei padri fondatori nella misura in cui le istituzioni scientifiche stesse se ne assumeranno il carico. Un compito allo stesso tempo etico e scientifico. Sta a noi. L’incontro di oggi è nel novero delle possibilità che possiamo darci di pensare insieme per scrivere un’altra pagina dell’evoluzione del pensiero psicoanalitico e dei modi in cui la psicoterapia psicoanalitica la invera.

Un aneddoto. Questa estate, mentre ero in vacanza, mi è capitato di leggere di un nuovo ristorante dove uno chef stellato, propone, per la modica cifra di 1600 euro a persona un’esperienza sensoriale globale in cui gli ospiti, ovviamente in numero ridottissimo, siedono tutti attorno ad uno stesso tavolo e degustano eccellenti piatti immersi in una realtà virtuale a tre dimensioni che li trasporta, attraverso la rete, grazie al potere evocativo di immagini, profumi, giochi di luce e musica nell’ambiente naturale da cui origina il piatto, e una portata dopo l’altra, alla fine, in tutto il mondo. Quando ho letto questa notizia, non ho provato il desiderio di sperimentare una situazione di quel genere, ma ho pensato alla tavolata della domenica a casa mia, quando ero ragazzina. Tra figli, genitori e nonni, eravamo su per giù tanti quanti gli ospiti che potevano partecipare alla cena del Sublimotion di Ibiza, ma il cibo di cui ci nutrivamo non ci portava in tutto il mondo, piuttosto la fusione dei sapori, ci riavvicinava al centro della madre terra in cui eravamo nati e di cui ci saremmo portati dentro tanti misteri, incluso quello delle preparazioni, che non sarebbe bastata un’intera vita per catturarli. E intanto si chiacchierava, si pensava e si sognavano altri mondi da scoprire, alimentati dall’esperienza di un luogo capace di farci ritrovare il sentimento di esistenza. Beninteso, non ho nessuna nostalgia per la cultura della provincia italiana del sud degli anni cinquanta, piuttosto l’accostamento di queste due immagini, la prima stimolata da una notizia e l’altra ripescata dalla memoria, mi ha portato a pensare ai due stati mentali fra cui ci troviamo ad oscillare oggi mentre viviamo e mentre facciamo il nostro lavoro. Ho pensato al rovesciamento dei contenitori psicosociali, a questi spazi psichici concavi parassitati da pseudopensieri, aperti sull’infinito verso una rarefazione del sentimento di esistere, verso un tempo immobilizzato nell’orgia della fruizione sensoriale. E di contro ho sentito il bisogno di attingere alla memoria. Nel frattempo mi si raffreddava il piatto che avevo davanti per il pranzo. Quante volte finiamo al sublimotion e quante volte ritorniamo con la memoria alla casa originaria? Sul piano metaforico non possiamo evitare una cena al sublimotion, né rimanere sempre nei luoghi originari, ma dobbiamo difendere spazi psichici in cui sostare, che ci consentano di pensare e di continuare ad arricchire la nostra esperienza. Mai come oggi, il cuore del lavoro relazionale della psicoterapia psicoanalitica sta nel ripristinare la convessità dello spazio psichico che delimita la superficie di confine tra la realtà interna e la realtà esterna, ma allo stesso tempo a non rimanere intrappolati in esso. Questa acquisizione primaria del nostro sviluppo rimane la risorsa di base per mantenere integrità ed equilibrio psichico per tutto il resto della vita e soprattutto la condizione per cogliere fatti nuovi e pensare.

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Esperienze cliniche e fatti analitici: alcune proposizioni

Con la pratica clinica a frequenza ridotta, e spesso in vis-a-vis, l’emergere della nevrosi di transfert non getta più sulla scena analitica luce sufficiente per illuminare la strada da seguire. Dopo un primo smarrimento, abbiamo imparato ad osservare fatti nuovi nonché a riconoscere dettagli significativi di fatti clinici già ampiamente accolti nel loro complesso. Nonostante gli aspetti soverchianti della realtà odierna prima accennati, il nostro lavoro è ricco e produttivo, e più che mai adatto a dare risposte strutturanti alla sofferenza psichica. A volte siamo colti dallo stupore per il nuovo che si forma sotto i nostri occhi, mentre lavoriamo, magari ad una sola seduta alla settimana con un paziente difficile. Anche se manteniamo ferma nella nostra mente a guidarci la bussola interna del movimento transfert/controtransfert e dei nostri modelli teorici, dobbiamo constatare che accadono congiunzioni psichiche che allargano gli orizzonti della coscienza, tracciano nuovi percorsi psichici e costruiscono nuovi ambienti mentali abitabili, anche quando abbiamo l’impressione di non sapere bene su quale strada ci stiamo muovendo e per dove. E invece accadono, quasi a nostra insaputa. Ci chiediamo: come si è potuta costruire con quel paziente, quella strada se tante volte siamo usciti dalla seduta con la sensazione di un buon lavoro che tuttavia non avremmo saputo descrivere se non nei termini di una conversazione ordinaria o se, altre volte siamo rimasti con la sensazione di esserci parlati senza sapere dove fosse l’uno e dove fosse l’altro per scoprire, magari dopo, che la conversazione aveva costruito un tunnel di connessione, una strada nuova, uno ‘sviluppo urbanistico’ del suo mondo interno?

La faccenda è che la pratica clinica oggi contribuisce più che mai a sviluppare in noi, duttilità, creatività, capacità di osservare configurazioni e ci permette di raccogliere una ricca messe di fatti analitici nuovi. Gli incontri clinici fra Colleghi sono una testimonianza di questa ricchezza e insieme luogo di condivisione e successiva elaborazione di quanto raccogliamo direttamente sul campo. Tuttavia non disponiamo ad oggi di un modello teorico che renda pienamente ragione dei fatti analitici che osserviamo, mentre sono vivi e condivisi gli interrogativi che essi pongono. Ognuno dei modelli teorici che abbiamo a disposizione ne raccoglie solo una parte. Se è vero che la pratica sopravanza sempre la teoria, è anche vero che l’esperienza clinica deve produrre teorie in grado di consentire una maggiore leggibilità di classi di fenomeni osservabili nella relazione analitica, fatti analitici, e dunque accrescimento della nostra competenza dell’azione terapeutica.

Per altro, come molti hanno osservato, i pazienti di oggi non si possono permettere di fare molte sedute alla settimana un po’ per mancanza di risorse economiche e un altro bel po’ perché possono accettare di dipendere da tutto salvo che da una relazione oggettuale. A proposito di quest’ultimo aspetto, penso che il trattamento a frequenza ridotta consenta un lavoro psichico fruttuoso proprio perché, pur rispondendo a sofferenze riguardanti gravi mancanze di integrazione o di sviluppo psichico, può evolversi favorendo allo stesso tempo il mantenimento di un certo equilibrio in corso d’opera. Anzi spesso osserviamo che le difese si trasformano per così dire dal di dentro, come effetto di un lavoro psichico

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capace di mobilitare contemporaneamente più livelli, senza che, almeno per un po’, divengano esplicitamente oggetto della comunicazione fra paziente e terapeuta. A volte, bisogna dire, si tratta di veri e propri equilibrismi con pazienti ai quali, a pensarci a mente fredda, verrebbe da proporre quattro o cinque sedute alla settimana.

Per quanto brevemente detto prima circa le forme della sofferenza più diffuse, i pazienti di oggi convivono con sofferenze primarie del Sé derivanti da una strutturazione povera o lacunosa che rende l’Io debole e incapace di sostenere adeguatamente la vita emozionale del soggetto. Ci troviamo sempre più spesso ad offrire nelle nostre psicoterapie funzioni di ambiente psichico strutturante, lavoro in aree primarie dello sviluppo psichico che trova nel vis-a-vis il setting ottimale per la tessitura del Sé e della relazione con l’altro attraverso la sintonizzazione affettiva. Questa comporta ed elicita l’unità mente-corpo a livello primario e insieme pone le basi della regolazione emozionale. Anzi il cuore della nostra risposta terapeutica ai bisogni di oggi, non riguarda più tanto la risoluzione dei conflitti inconsci che bloccano le risorse psichiche, ma sta a monte della possibilità di vivere il conflitto, si colloca in quell’area primaria che fonda il sentimento di valore del Sé e dell’altro, consente la nascita della coscienza e lo sviluppo del narcisismo sano. Questa dimensione, che risponde ai bisogni più urgenti di cura, si impone sempre più all’attenzione. Essa trova nella qualità dell’ascolto psicoanalitico, nel ritmo dell’interazione intersoggettiva, nel contenimento emozionale e nelle parole che toccano, la via per raggiungere e curare nella ‘carne psichica’ quelle ferite che i nuovi stili di vita infliggono a chi cresce e riaprono in chi non trova più nella struttura familiare e sociale adeguati appoggi difensivi. Un primo fatto analitico deducibile è che un fattore importantissimo e molto profondo della cura è affidato alla molteplicità di livelli della vita psichica che lo scambio analitico sintonizzato può mettere in moto congiuntamente, avviando integrazione.

Questa ricchezza esperienziale preme per una riconcettualizzazione psicoanalitica e ci risospinge verso lo studio delle forme dell’inconscio e insieme delle caratteristiche della coscienza, nonché del transito inconscio-preconscio-coscienza (Sasso, 2011). La coscienza è tornata alla ribalta dell’interesse di alcuni psicoanalisti che hanno sentito l’esigenza di ripensare il rapporto fra inconscio, preconscio e coscienza, non tanto lungo il vettore che rende conscio l’inconscio, quanto nell’area delle connessioni fra inconscio, preconscio e coscienza, vero motore della trasformazione psichica e della creatività. Queste considerazioni spostano il vertice da cui vedere la trasformazione psichica ed è proprio nella pratica clinica che troviamo ragioni per immaginare in un modo più ampio il significato dell’azione terapeutica, il significato e insieme il valore della psicoterapia psicoanalitica. Ma questo cammino non lo possiamo fare da soli e in modo autoreferenziale, vale a dire solo dall’interno del nostro sapere. Come dice Lichtenberg (2014) ‘…nel tentativo di sostanziare le nostre teorie dobbiamo cercare concordanze fra l’esperienza clinica, la ricerca e l’osservazione dello sviluppo, e le acquisizioni delle neuroscienze’. Il metodo psicoanalitico si fonda sull’osservazione soggettiva, è una scienza a statuto speciale, e tuttavia quanto risulta dalle scienze oggettive deve essere

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patrimonio della nostra cultura, tanto quanto l’arte, la filosofia, la letteratura, il linguaggio. La psicoterapia psicoanalitica è nata e rimane una cura parlata, che penso debba riservare attenzione agli studi sul linguaggio. Ognuno di noi intuisce, quando legge una poesia, quanto poco astratta possa essere la parola e quanto sono ricche le sue connessioni con l’inconscio, il serbatoio originario di ogni creazione della mente umana.

Tornado alla pratica clinica, un altro importante fatto analitico estraibile da essa è l’ubiquitarietà dei meccanismi dissociativi mobilitati a fronte della generale traumaticità della nostra vita quotidiana, amplificata dalle fonti interne di traumatismo derivanti da debolezze strutturali e mancanza di risorse per elaborare le emozioni. Abbiamo bisogno di imparare a lavorare con la dissociazione perché non è la stessa cosa della rimozione e della scissione. Essa richiede di trovare vie di accesso agli spazi tra le aree dissociate, capacità di abitare i luoghi della non esistenza psichica che il traumatismo crea, per gettare ponti di connessioni psichiche e condizioni di transitabilità.

Nuovi spazi di espressione della vita psichica e del lavoro della cura

Viviamo nella società tecnologica. Ne siamo ampiamente beneficiati perché affranca dalla fatica fisica, protegge da pericoli, amplia enormemente gli effetti della nostra opera, abbatte il muro della distanza, favorisce lo scambio culturale, rende tutto più sicuro, più veloce e più possibile. Il fatto è che la rapidità con cui lo sviluppo tecnologico ci mette a disposizione strumenti sempre nuovi e più efficaci, è di gran lunga superiore alla capacità della mente umana di appropriarsene per meglio esprimere i suoi bisogni, e portare a compimento la sua natura, ovvero per renderli funzionali al vivere bene e preservare le condizioni generali che ci consentono la vita. Penso in particolare alle possibilità che la rete offre alla comunicazione umana e allo spazio virtuale in cui si sviluppa. Perché è facile sentirsene scavalcati, posseduti, trovarsi ad utilizzarli in maniera meccanica per l’immediato ritorno pratico, ben prima di essere riusciti ad umanizzarli. Umanizzarli significa immetterli in una struttura di senso che ci mantenga in armonia con tutte quelle dimensioni di base della vita psichica che hanno bisogno, da sempre, di tempo per crearsi e ricrearsi. Questo gap mette a rischio soggetti in crescita e soggetti adulti fragili perché alimenta la scissione mente-corpo. Il corpo diventa il luogo psichico del limite invalicabile, delle differenze, della finitudine, del tempo che passa. Un corpo che può essere condotto a ragione da manipolazioni di vario genere e dalla chirurgia estetica. La mente può utilizzare le tecnologie in modo protesico per imboccare derive onnipotenti negli spazi virtuali. Ne risulta che oggi di fronte ad un passaggio difficile della vita, un soggetto umano vulnerabile può attingere a strategie difensive nuove, imboccare strade apparentemente facili per lenire o addirittura negare la sofferenza. Di fatto pericolose trappole che creano nuove e a volte drammatiche forme di dipendenza e di perdita di significato della vita. Anche di queste nuove organizzazioni patologiche stiamo facendo esperienza clinica, impegnati a trovare modi per risalire verso la pensabilità. Ma ancora di

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più ci troviamo a fare, giorno dopo giorno, lavoro di umanizzazione, a dare significato, insieme al paziente alle ragioni per cui ricorre ad una soluzione tecnologica e al modo in cui lo fa. Ma le questioni aperte sono molte: che ruolo giocano le nuove vie create dalla tecnologia nello sviluppo della nostra mente? Quale il significato degli spazi intersoggettivi virtuali per la nostra economia psichica? Come influiscono sulla formazione della nostra identità?

Ed eccoci ad un’altra nuova frontiera: l’irruzione di strumenti tecnologici nel nostro lavoro quotidiano. La prosecuzione via skype della psicoterapia con pazienti che hanno necessità di trasferirsi in sedi di studio o di lavoro lontane e non vogliono interrompere la psicoterapia, è entrata quasi da sè nella prassi clinica, sotto la pressione del bisogno di privilegiare la continuità dell’esperienza anche a scapito della perdita della presenza fisica. Per la maggioranza di noi prima che avessimo pensato di farne un dispositivo di cura e sicuramente molto prima di averne compreso bene le implicazioni, ma con il coraggio di osare nuove pratiche e la fedeltà allo spirito di ricerca che caratterizza il metodo psicoanalitico.

Auguro a tutti noi un convegno fecondo, appassionato e gioioso.

Bibliografia

Kaes, R. (2012) Il malessere. Borla, Roma 2013

Lichtenberg, J.D. (2014) Credo. Psychoanalityc Dialogues, 24, 2. 2014.

Sasso, G. (2011) La nascita della coscienza. Astrolabio, Roma

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Stefano Bolognini

“2015: PSICOANALISI IN UN MONDO CHE CAMBIA”

La complessità dei cambiamenti in corso nella vita degli esseri umani, dovuti ai processi politici e sociali, alle evoluzioni culturali, e alle nuove forme di comunicazione rese possibili dalle tecnologie, oltre a riconfermare la ben nota imprevedibilità del futuro, rende comunque difficile perfino descrivere il presente con sufficiente realismo: una “visione d’insieme”, sia pure limitata al nostro campo, è senz’altro un obiettivo molto ambizioso.

Ciononostante, la mia posizione come presidente dell’International Psychoanalytic Association mi mette nella speciale condizione (e in dovere) di presentarvi un quadro complessivo da un punto di vista “inter-regional”, per via dei miei viaggi e dei miei scambi costanti con i colleghi e con le società psicoanalitiche di tutto il mondo; e di aggiungervi una prospettiva “inter-generational”, per altre mie inclinazioni personali.

Per limiti di tempo vi proporrò delle considerazioni schematiche e sommarie, invitandovi ad esplorarne ed approfondirne riflessivamente la veridicità e le possibili implicazioni attraverso il successivo dialogo tra colleghi; sono consapevole del fatto che alcune di queste considerazioni potrebbero non accordarsi con i desideri di tutti, ma credo che possano ugualmente meritare di essere pensate e discusse.

LO STATO DELL’ARTE

Il livello scientifico generale (conoscenze teoriche, capacità clinica, mobilità mentale) della media degli psicoanalisti è stato secondo me avvantaggiato dalla crescente intensità dei nostri scambi, dovuta prima di tutto alle nuove tecnologie.

Anche se la facilità di diffusione dei lavori psicoanalitici attraverso Internet e attraverso la miriade di convegni organizzati un po’ dappertutto può aver creato qualche effetto di iper-saturazione e di scoraggiamento (è frustrante per i nostri ideali narcisistici sapere che nessuno riesce a leggere neanche un decimo di ciò che viene prodotto a livelli di eccellenza), pure la diffusione delle idee e delle esperienze ha innegabilmente trasformato e arricchito, anno dopo anno, la mentalità e il bagaglio teorico della maggior parte degli analisti.

Sono convinto che il modello della “crossed fertilization” con scambi internazionali e inter-continentali simboleggi bene il cambiamento in corso presso le nuove generazioni di analisti, aperti al nuovo e alla conoscenza verso il lavoro dei colleghi di altre nazioni e regioni; una maggiore conoscenza delle lingue straniere rispetto al passato (particolarmente dell’inglese e dello spagnolo, mentre la conoscenza del francese sembra in calo) ha facilitato questo processo e – pur rispettando i legittimi timori di coloro che temono effetti di confuso imbastardimento teorico e di eclettismo superficiale – credo di poter dire che la realtà pluralista descritta da Robert Wallerstein (1988) – in polemica all’epoca con André Green - oltre ad essere una realtà storica oggi evidente, sta producendo un sostanziale arricchimento dello strumentario degli analisti.

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Ce ne accorgiamo soprattutto nei gruppi internazionali di discussione clinica, nei quali certe componenti “teologiche” di rigida fedeltà transferale alle teorie di origine (che entrano in tensione massima nei dibattiti esclusivamente teorici e li condizionano talvolta in modo restrittivo) si allentano, si stemperano e lasciano spazio ad associazioni, fantasie, sviluppi emotivi e scambi intersoggettivi tra colleghi che creano, alla fine, qualcosa di nuovo: ciò che io semplicemente riassumo nel fatto che dopo quella esperienza “non si torna a casa esattamente uguali a prima”.

Del resto, sappiamo ormai bene come eclettismo e imbastardimento teorico altro non siano che gli esiti poco felici di mancati processi metabolici e integrativi, dovuti per lo più al fatto che teorie, concetti, contributi supervisivi e perfino esperienze analitiche personali siano stati oggetto di incorporazione o di internalizzazione, ma non di introiezione profonda: quando gli oggetti/esperienze rimangono “nello stomaco”, indigeriti, occupano spazio, sostituiscono il Sé dell’analista (il quale “diventa” questi oggetti per identificazione proiettiva con un oggetto internalizzato) ma non si rendono effettivamente disponibili per fornirgli autentici elementi di crescita (Bolognini, 2008.

Il più facile accesso ai lavori scientifici attraverso Internet e attraverso la moltiplicazione delle traduzioni e delle produzioni editoriali si accompagna all’accresciuta mobilità geografica (pur con gli alti e bassi delle ricorrenti crisi economiche) e, come dicevo, alla crescente conoscenza da parte di molti colleghi di almeno un’altra lingua straniera oltre alla propria: il che significa maggiori possibilità di partecipazione allargata e di dialogo paritario.

Le associazioni internazionali come l’IPA e, in Europa, la FEP, lo EPI e la EFPP svolgono una funzione insostituibile in questo senso, e proprio per questo loro ruolo contribuiscono a rendere gli analisti capaci di conoscere davvero altre realtà culturali, scientifiche e oserei dire “psichiche”: mondi interni, stili relazionali, codici interpretativi, configurazioni fantasmatiche prevalenti (come la scena primaria per gli psicoanalisti francofoni, la dimensione diadica per molti anglofoni, la specularità confermante della Self-Psychology, l’interazione intersoggettivista, ecc.).

Il risultato non è una omogeneizzazione della psicoanalisi, bensì una articolazione informata in cui ognuno di noi mantiene il proprio DNA familiare di origine, ma “ha viaggiato” (concretamente o simbolicamente) di più, arricchendo il nostro mondo interno e – di ritorno e per osmosi – le nostre “case psicoanalitiche” nazionali e locali.

Mi spingo a dire che per quanto riguarda la conoscenza autentica, teorica ed esperienziale, della materia specifica, la psicoanalisi non è mai stata meglio di oggi; e se dovessi fare il famoso “final test” che si riassume nella domanda: “da chi manderesti un tuo famigliare per un trattamento analitico?” aggiornato in: “lo manderesti (a parità di livello e di esperienza) da un analista del passato o da uno contemporaneo?”, io lo manderei ad un collega di oggi, proprio perché può usufruire del lavoro delle generazioni analitiche del passato, perché “ha viaggiato” (sempre in senso simbolico) di più e perché sa che ci possono essere diversi modi di trattare le diverse difficoltà e le diverse persone, al di là delle rigidità ideologiche dovute a transfert idealizzanti residui.

Page 12: Relazioni del convegno nazionale SIPP di Bologna

REMOTE ANALYSIS

La questione è complessa e mi limiterò a qualche cenno sulla Remote Analysis come problema istituzionale.

Sappiamo bene come questo strumento tecnologico sia una nuova, innegabile realtà nell’attività clinica di parecchi psicoanalisti, e mentre scrivo queste note ho in mente i molti autorevoli colleghi che sono convinti sostenitori di tesi rispettivamente pro- o contro l’uso di Remote Analysis in psicoanalisi; così come sono bene informato della crescente diffusione di questa pratica.

Contribuiscono a questo nuovo sviluppo sia fattori potenzialmente positivi (come il trattamento in aree geografiche remote in cui una analisi “in person” è materialmente impossibile per mancanza di analisti); sia fattori francamente resistenziali (il paziente che occasionalmente non ha voglia di fare qualche chilometro e chiama l’analista da casa); sia fattori economici molto basici (l’analista che ha pochi pazienti in loco e deve sopravvivere “pescando” in aree poco fornite di specialisti, come la Cina; o il paziente che non può assentarsi per varie ore dal lavoro quattro volte alla settimana con rischio di licenziamento); quel che è certo, è che l’uso di Remote Analysis si va diffondendo rapidamente.

Come forse sapete, l’IPA, sollecitata a prendere ufficialmente posizione su ciò, ha finora stabilito pochi punti fermi, che non si sono tradotti in veri e propri aspetti normativi, per quanto riguarda la formazione, ma piuttosto in indicazioni di massima riguardanti situazioni estreme (aree prive di analisti, tipo la Siberia): vi è l’indicazione di almeno un anno di analisi in person, e poi di periodi alternati.

In generale, sembra esservi un consenso sulla valutazione della apprezzabile differenza tra un trattamento “in person” e un trattamento via Remote Analysis: non è certo la stessa cosa, vi sono rilevanti differenze che non possono sfuggire all’osservazione finissima dei dettagli propria di chi svolge il nostro lavoro.

E’ stato anche ipotizzato che probabilmente l’uso di Remote Analysis svilupperà in modo compensativo e in senso lamarckiano alcune funzioni (come quelle visive e auditive) per sopperire alla mancanza delle sensazioni olfattive e prossemiche della seduta in person.

Per adesso l’IPA, nella rappresentanza del suo Board, ritiene che la materia debba ancora essere studiata a fondo: in sostanza dobbiamo saperne di più, a livello di esperienza riportata, di follow-up e di successiva discussione epicritica.

Si ritiene che nella pratica privata post-associatura ogni analista si regoli come crede, “secondo scienza e coscienza”; ma per quanto riguarda la formazione analitica essa viene mantenuta al di fuori dell’area Remote Analysis.

La discussione si è quindi appena aperta, e già si annuncia vivace e controversa.

CAMBIAMENTI SOCIO-CULTURALI

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Questo è il capitolo al quale ho dedicato più riflessioni ad ampio raggio durante il mio mandato, per effetto degli scambi sinceri ed intensi con i colleghi di molte nazioni; per brevità, condenserò in poche osservazioni il risultato di questi scambi.

Va tenuto conto preliminarmente del fatto innegabile che vi sono paesi ricchi e paesi poveri; ma soprattutto che vi sono paesi in cui il National Health Service e/o le assicurazioni provvedono al pagamento di parte della cura (particolarmente nell’area germanica e scandinava), e altri in cui ciò non avviene; se da un lato questa opportunità non è priva di complicazioni contrattuali (cosa cambia nel lavoro analitico se il paziente non paga integralmente di tasca sua il trattamento?), è innegabile che da un altro lato essa cambia considerevolmente le condizioni di affrontabilità dell’impegno economico della cura da parte del paziente.

Ma al di là dei pur importanti fattori economici concreti che condizionano lo svolgimento dei trattamenti psicoanalitici (e che comunque non vanno ignorati se pensiamo che il riconoscimento della realtà esterna debba integrare sensatamente l’attenzione alla realtà interna, per non cadere dal polo nevrotico in quello francamente psicotico), si stanno delineando nuove tipologie ricorrenti di organizzazione mentale che sembrano porre nuovi problemi alla pratica della psicoanalisi così come noi siamo tradizionalmente abituati a concepirla.

L’osservazione comune e per noi dolorosa è che la frequenza piena delle quattro sedute risulta sempre più spesso impraticabile, per lo meno all’inizio del trattamento, e che la semplice iniziale prescrizione di tale frequenza provoca il più delle volte un fermo rifiuto della proposta e l’allontanamento del paziente.

L’aspetto veramente analitico di questo fenomeno è dato dal fatto che esso riguarda non solo coloro che non hanno il denaro sufficiente o che non possono assentarsi dal posto di lavoro quattro volte alla settimana (evenienza peraltro sempre più frequente, piaccia o no, dato che i nostri attuali pazienti non provengono più soltanto da classi economicamente agiate o molto agiate, e che ogni impiegato sa che fuori dalla porta del suo datore di lavoro c’è una lunga fila di persone pronte a prendere il suo posto…), ma riguarda anche persone che avrebbero le risorse economiche per affrontare la cura.

Certo: in tali casi è all’opera una classica resistenza; e del resto sembra che ormai una consistente parte del lavoro sia appunto quella di “creare il paziente analitico”, come hanno verificato alcuni working groups dedicati allo studio del fenomeno. Ma quali sono le radici di questo mutamento così imponente su larga scala?

Io credo che il cambiamento del mondo in cui viviamo stia innegabilmente condizionando il nostro lavoro, e che – limitatamente alla sfera delle relazioni umane – non si possa insistere ad affermare categoricamente che “l’essere umano è sempre lo stesso”; lo è, sì, in buona parte, ma non lo è più per certi specifici aspetti.

Molti pazienti di oggi, infatti, rigettano l’idea di dipendere intensivamente e dichiaratamente da qualcuno.

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Per ragioni complesse ma non necessariamente misteriose essi sembrano recare i segni di una sostanziale sfiducia e/o disabitudine riguardo alla presenza e alla costanza dell’oggetto, alla affidabilità sostanziale di esso e alla conseguente dipendenza da esso.

In una ideale linea che congiunge il soggetto all’oggetto, il baricentro degli investimenti sembra in molti casi oggi mantenersi preventivamente e implicitamente spostato verso il soggetto stesso, che si guarda bene dal mettere il proprio capitale libidico e narcisistico nelle mani dell’altro, almeno finché l’altro non abbia superato col tempo le barriere di diffidenza e di salvaguardia del Sé che presumiamo si siano costituite precocemente.

Molti individui sembrano impostare il loro assetto relazionale in base ad una implicita dichiarazione soggiacente: “NON MI AVRETE!”

Se pensiamo alla necessaria fusionalità primaria tra madre e bambino e alla successiva necessità di una solida continuità nell’organizzazione famigliare, potremmo chiederci – con la piena consapevolezza dei rischi di questa domanda così poco “politically correct”… - se gli analisti non stiano ereditando nei loro studi almeno una parte delle conseguenze di una serie di circostanze tipiche della nostra contemporaneità: le interruzioni precoci del maternàge per ragioni professionali delle madri, chiamate subito al lavoro da legislazioni e da logiche aziendali eccessivamente demanding; il ricorso confondente alla rotazione di caregivers privati e istituzionali nell’allevamento di bambini molto piccoli, nelle famiglie “nucleari” prive di nonni, che vivono spesso molto lontano; le ubiquitarie rotture famigliari per separazioni e divorzi, oltretutto con l’ingresso frequente di nuove figure che “devono” essere accettate, a volte in un’atmosfera di diniego o almeno di negazione delle profonde e molteplici difficoltà connesse; le organizzazioni narcisistiche genitoriali autocentrate, favorite dai modelli culturali contemporanei tendenzialmente individualistici; la perdita del grande contenitore delle “famiglie allargate”, e in generale di tutte quelle circostanze che condizionano oggi l’ambiente psichico di crescita dei bambini, molto migliore oggi rispetto al passato dal punto di vista alimentare e sanitario, ma probabilmente meno dal punto di vista relazionale vero e proprio.

Non abbiamo più – almeno per ora – grandi e devastanti guerre mondiali, ma infinite micro-fratture nella diade iniziale e nella famiglia che possono dissuadere istintivamente il soggetto dal “consegnarsi alla relazione”; e qui non posso non menzionare il caso clinico estremo ed emblematico di quel bambino, seguito da un collega italiano, che si allontanava dagli altri bambini per andare ad abbracciare e a baciare un televisore.

Sia chiaro: non sto dicendo qui che le madri non dovrebbero tornare al lavoro, che bisognerebbe co-abitare con i nonni, che le baby-sitter dovrebbero essere vincolate contrattualmente per lunghi periodi o che le coppie infelici non dovrebbero potersi separare, e così via.

Sto dicendo che gli psicoanalisti non dovrebbero negare le conseguenze epocali di questi enormi cambiamenti, e che non dovrebbero nemmeno stupirsi delle loro ricadute sugli stili e le possibilità relazionali di questa nuova umanità, quando un paziente che si sente proporre quattro sedute settimanali da subito si dilegua senza alcuna trattativa.

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EVOLUZIONI CLINICHE, TEORICHE E FORMATIVE

Gli analisti dovrebbero anche elaborare con sufficiente libertà di pensiero le adeguate riflessioni a livello clinico-teorico, comprendendo cosa è davvero possibile e cosa è utile nel nostro lavoro oggi, date queste nuove realtà in evoluzione, mantenendo un atteggiamento interno mobile e responsabilmente creativo, consapevole delle nostre eredità teoriche ma liberamente esplorativo verso il nuovo.

Ci sono segni di disagio in questo senso, nella nostra comunità, che vengono espressi confidenzialmente “nei corridoi” o nei colloqui personali, ma che stentano ad emergere negli incontri ufficiali, là dove l’Ideale la fa da padrone rispetto al Sé reale dello psicoanalista.

Ma credo che le comunità psicoanalitiche non dovrebbe ignorare o minimizzare questi problemi, così come un medico non dovrebbe chiudere troppo presto la sua riflessione clinica di fronte ai sintomi, liquidandoli con facile disinvoltura: una febbre insistente può essere dovuta ad una banale influenza, ma a volte non è così.

E anche i possibili rimedi dovrebbero essere frutto di riflessione e non di entusiastica adesione a priori a stereotipe guidelines che appagano un sentimento di conformità agli standards di categoria.

La famosa frase del chirurgo: “L’intervento è perfettamente riuscito, anche se il paziente è morto” dovrebbe essere tenuta in mente nella nostra pratica quotidiana, al di là delle rigide fedi dottrinarie, che rivelano più un transfert irrisolto verso oggetti interni devozionali idealizzati che un reale amore verso questa “arte/scienza a statuto speciale” che ha cambiato (questo sento di poterlo affermare) prima di tutto le nostre personali esistenze.

E giungo a dire che nell’ideale triangolazione tra l’analista, la teoria e il paziente (una equivalente riproposizione della condizione famigliare interna) l’analista contemporaneo dovrebbe organizzare un Edipo equilibrato e il più possibile armonico, conscio dei bisogni e delle possibilità di tutte e tre queste componenti, da congiungere in modo adatto e creativo.

Ovviamente va tenuto presente anche il rischio opposto: quello di un desiderio iconoclasta verso la nostra tradizione scientifica e formativa, un desiderio che potrebbe essere frutto invece di pesanti residui transferali negativi non riconosciuti, a prescindere dalla valutazione di queste complesse realtà in trasformazione.

Alcune conseguenze di questa prospettiva?

Senz’altro la consapevolezza della odierna necessità in molti casi, più che in tempi passati, di “costruire il paziente analitico”, che non può non riguardare le modalità e i tempi del Training formativo degli analisti: se vogliamo futuri analisti che sappiano costruire il paziente analitico dovremo consentire ai giovani di includere questo aspetto nella già difficile tempistica del loro training, probabilmente rivedendone alcuni criteri finora ritenuti indiscutibili.

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Il fenomeno sempre più preoccupante dell’”ageing”, l’invecchiamento percentuale medio della nostra membership, e la mancata crescita di alcune delle nostre società è innegabilmente connesso a questi cambiamenti psico-socio-culturali diffusi, e noi dobbiamo essere capaci di riflettere su tutto ciò.

In secondo luogo, dobbiamo proseguire nel processo già avviato di studio, conoscenza e riconoscimento di forme ulteriori specifiche di trattamento, includendole come specializzazioni anche ufficiali nel nostro ambito; il Training Integrato Bambini/Adolescenti va in questa direzione, come pure l’istituzione da parte dell’IPA del Mental Health Field Committee per il trattamento integrato delle Patologie Gravi, l’attività scientifica dedicata a “Couples and Families”e al grande campo della Group Analysis.

Queste estensioni non sostituiranno affatto la formazione e le attività psicoanalitiche di base, ma non saranno nemmeno più considerate con sufficienza come “derive” o come sottoprodotti di rango inferiore: la valutazione riguarderà altri criteri come il percorso formativo ed esperienziale e la qualità di ciò che viene prodotto.

Sta a noi, alla nostra comunità scientifica e professionale, non perdere di vista il valore “nucleare” dell’esperienza di analisi come punto di partenza ineludibile per le ulteriori estensioni del metodo e dei criteri di fondo della nostra competenza.

CONCLUSIONI

Riusciremo ad essere inclusivi verso queste articolazioni della pratica analitica senza perdere i nostri valori specifici?

Sapremo riflettere con vera libertà di pensiero sulle conseguenze dei cambiamenti generali sulla nostra pratica professionale e formativa?

E sul piano dell’evoluzione teorico-clinica, sapremo conservare l’inestimabile ricchezza dell’eredità freudiana, vero tronco del nostro albero genealogico e scientifico, senza doverne temere le ramificazioni ulteriori e senza “potarle” prematuramente per timore di deviazionismo? Potremo pensare che dopo Freud anche altri pensatori abbiano prodotto idee fertili, apparentemente diverse ma di fatto arricchenti?

Io dico che una componente transferale idealizzante irrisolta sembra in certi casi impedire al fantasma di Sigmund Freud di “diventare nonno”, e sembra rivendicarne l’esclusiva di un diritto di unicità teorica passata, presente e futura che rischia di risultare più fallica che genitale, quando si pensi che nessun altro dopo di lui possa contribuire sostanzialmente all’evoluzione della psicoanalisi con idee nuove e con creatività originale; così come, all’opposto, il mancato riconoscimento della validità anche attuale della maggior parte dei suoi contributi sembra rivelare in certi casi perlomeno una certa ingratitudine di fondo.

In definitiva, voglio auspicare che la comunità psicoanalitica internazionale sia prima di tutto la “casa” in cui gli psicoanalisti possono confrontarsi con le loro difficoltà, differenze e nuove ispirazioni sia riguardo al mondo che cambia, sia riguardo alla psicoanalisi che può

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cambiare e che di fatto cambia: una casa vivibile, aperta al pensiero e allo scambio, al confronto anche complesso e alle trasformazioni se necessarie ed autentiche, sia negli individui che nei gruppi societari.

Una casa di adulti rispettosi delle eredità ma aperti al nuovo, e capaci di confrontarsi con i cambiamenti del mondo e con le conseguenti difficoltà senza negarle, per paura e/o per idealizzazioni auto-rassicuranti.

Quello che dovrebbe contraddistinguerci almeno un po’, rispetto al resto dell’umanità che non ha la nostra formazione e che non svolge quotidianamente il nostro lavoro, dovrebbe essere un insieme di consapevolezze a volte dolorose: in fondo, una nostra forza è proprio la consapevolezza depressiva della nostra umana fragilità, così spesso negata dagli altri, che in analisi ci idealizzano.

E’ fondamentale disporre di un sufficientemente buon lavoro di riflessione tra colleghi: la nostra capacità di “pensare insieme” può essere esercitata fin dal tempo della formazione analitica, integrando il classico “tripode” (analisi-supervisione-seminari) con il quarto elemento della elaborazione gruppale dell’esperienza teorico-clinica (“Quadripartite Training Model”, Bolognini 2015), come alcune società dell’America Latina stanno già progettando di fare nei loro programmi di training.

Dovremo infine aiutarci nell’affrontare le nostre inevitabili tensioni gruppali e istituzionali (ed è anche per questo, ad esempio, che in IPA abbiamo istituito la “Task Force on Institutional Issues”, che studierà questa dimensione conflittuale per migliorare la nostra conoscenza di essa).

In conclusione, come vedete, il mio messaggio vuole suggerire di mantenerci aperti al pensare insieme, al non voler cambiare solo per il gusto estetico-narcisistico di “cambiare per cambiare”, ma neppure di essere chiusi “a priori”, per motivi fondamentalmente “teologici”, alle evoluzioni del mondo e della psicoanalisi stessa.

La ragione per cui vi comunico questi pensieri risiede proprio nella dolorosa consapevolezza della potenza e della rigidità dei nostri meccanismi difensivi interiori, da cui nessuno di noi individui è esente, e nemmeno le nostre istituzioni (IPA compresa) lo sono.

Vi auguro un fruttuoso, soddisfacente e liberamente creativo Congresso.

BIBLIOGRAFIA

Bolognini S. (2008) :-“A famìlia institucional e a fantasmatica do analista”. Jornal de Psicanalise – Instituto de Psicanalise – SBPSP, San Paulo, vol. 41, n.° 74, 197-216, 2008.

Wallerstein R. (1988): “One Psychoanalysis or Many?”. Int. J. Psychoanal. , 69:5-21.

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Gianluca Biggio

PSICOTERAPIA E NUOVE DECLINAZIONI IDENTITARIE

PANEL D Psicoterapia e nuove declinazioni identitarie La relazione che vi propongo vuole essere uno stimolo alla discussione più che una relazione

scientifica, contributo che potrà nascere in seguito allo scambio che oggi riusciremo ad intessere

grazie anche ai contributi che seguiranno.

Come sappiamo, il focus del nostro convegno riguarda i mutamenti sociali; credo quindi che sia

doveroso tenere conto del clima generale che in queste settimane stiamo vivendo dopo gli attacchi

terroristici in Francia e altrove da parte di persone esponenti di una forma evidente di fanatismo.

Ricordo a questo proposito l’intuizione che proprio la SIPP ebbe nell’organizzare, a Catania nel

2005, un convegno titolato: “Fanatismo. Dalle origini psichiche al sociale”.

Bene, molte delle cose allora discusse si sono purtroppo avverate anche se credo sia giusto

contenere le comuni apprensioni considerando che il fanatismo è sempre esistito e non ci troviamo

oggi di fronte a una novità. Piuttosto credo che questo attacco violento, paragonabile nella fantasia

collettiva alla banda delinquenziale tipica dei sogni di narcisismo distruttivo descritti da Kernberg

(1975, 1987), ci porti a riflettere su uno degli elementi chiave del mutamento sociale e delle sue

conseguenze psichiche di cui oggi discuteremo; ovvero i garanti psichici e sociali. Di fronte ad una

aggressività maligna che risveglia le ansie psicotiche primarie, il fanatismo ci induce

momentaneamente a rispolverare l’importanza dei pur declinanti garanti meta-sociali descritti da

Kaes (2013a, 2013b). Nell’autoimmagine che la società occidentale sta ridisegnando in queste

settimane mediatiche, l’ansia derivante dalla distruttività fanatica viene contenuta dalla

sottolineatura costante dei valori forti, dai valori ideali che caratterizzano le nostre comunità. L’inno

della Marsigliese cantato istintivamente dai francesi subito dopo gli attentati rivela quanto siano

importanti questi valori, e in particolare certi valori ideali, nel contrastare in noi le ansie profonde. Il

rinnovato slancio della Marsigliese mette però anche in luce la delicatezza del mutamento sociale

che stiamo vivendo; non è infatti inneggiando a internet o al web che si placano le angosce. Al

contempo però ci troviamo in una società che sta facendo declinare i valori ideali del secolo scorso

per abbracciare dei valori non ideali ma materiali, seppure tecnologicamente e intellettualmente

raffinati. Cosa dice la psicoanalisi su questo? Potrebbe aiutarci ? Credo di sì.

Come afferma Andrè Levy (2000), l’uomo moderno è più che mai individuo isolato, solo a reggere

le ansie sociali, e al tempo stesso quanto mai bisognoso di uno spazio transizionale che lo sostenga.

Di qui l’attualità e la forza che la psicoanalisi possiede, come pratica che permette di sperimentare il

Page 19: Relazioni del convegno nazionale SIPP di Bologna

contatto con una forma di trascendenza. Ciò avviene nella relazione transferale psicoanalitica

secondo Levy (2000), ma anche nella epistemologia propria della psicoanalisi secondo Bollas

(2014), pur nella consapevolezza del carattere non concreto e se vogliamo, effimero, di questa

esperienza.

L’uomo tragico di Kohut (1976), frammentato e desideroso di nutrimento del Sé alla ricerca di

nuovi garanti non ancora consolidati, sembra con attualità affiancarsi all’uomo colpevole di Freud

in lotta con le limitazioni impostegli dai garanti tradizionali.

Questa premessa di carattere generale rischia di essere però suggestiva ed emotiva se non integrata

da una descrizione più focalizzata in termini psicoanalitici del tema delle declinazioni identitarie

nella società moderna.

Esporrò quindi uno schema di riferimento la cui logica segue alcune linee di sviluppo;

- Il tema delle declinazioni identitarie viene inquadrato in un approccio olistico che procede per

livelli interconnessi dai garanti meta-sociali, a quelli meta-psicologici, alla psicologia

individuale.

- I modelli di formazione identitaria sono visti coe macro-modelli psicosociali che producono

declinazioni gruppali le quali hanno riflessi individuali profondi.

- Di fronte all’osservazione che l’inconscio individuale non muta al variare della cultura sociale

possiamo dire che, pur non avendo ricerche scientifiche sull’inconscio, verifichiamo attraverso

la letteratura e l’antropologia culturale certamente una continuità empatica dell’uomo nel

tempo. Però, oltre la tematica delle influenze sociali e transgenerazionali sottolineate da molti

autori in riferimento alla formazione della pulsione soggettiva come prova di una influenza della

dimensione intersoggettiva sull’identità profonda dell’individuo, possiamo dire che

storicamente cambiano di certo le forme di espressione del disagio e l’estetica conversazionale

delle persone. Si desume quindi che, essendo la psicoanalisi anche una tecnica narrativa, è

importante capire come le forme della narrazione moderna influiscano e possano essere

utilizzate nella tecnica psicoterapeutica.

SCHEMA DI SINTESI

Psicoterapia e nuove declinazioni identitari

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HINSHELWOOD (2012) FREUD (1921) “LA REALTA’ E’ UN MITO” DETERMINAZIONE SOCIALE DELLA REALTA’ LA PSICOLOGIA INDIVIDUALE COME PSICOLOGIA DI GRUPPO (1921)

VISIONE PSICOANALITICO GRUPPALE ANTROPOLOGICA

REALTA’SOCIALE COME NARRAZIONE MITOLOGICA / COSMOLOGIA PSICO ANTROPOLOGICA

KAES (2013) “ GARANTI METASOCIALI E METAPSICOLOGICI” PENSIERO SIMBOLICO ISTITUITO CHE PERMETTE LA CREAZIONE DI UN TERRITORIO MENTALE COLLETTIVO

ENTRO CUI SCRIVERE LE STORIE IDIVIDUALI MA SOCIALIZZABILI

I GARANTI PERMETTONO UNA COSTRUZIONE SIMBOLICA SOCIALE E NE SONO A LORO VOLTA INFLUENZATI ANDRE LEVIN (2000) “ IDENTITA’ COME PROCESSO AMBIGUO COMPRESO TRA RAZIONALITA’ SOCIALE E SOGGETTIVITA’

CHE COSA “GARANTISCE” UN GARANTE ? CONTENIMENTO DELLE ANSIE PRIMARIE SENTIERI DI SOGGETTIVAZIONE SOCIALMENTE LEGITTIMABILI JAQUES (1955) E IN GENERALE LA SCUOLA SOCIOANALITICA INGLESE E PSICOSOCIOLOGICA FRANCESE (BIGGIO, 2011)

QUALI ERANO I GARANTI DELLA PRIMA MODERNITA’ ? (SECOLO XX E PERIODO DELLA NASCITA DELLA PSICOANALISI)

VALORI DI RELIGIONE PATRIA/NAZIONE FAMIGLIA AUTORITA’ LAVORO/SACRIFICIO + LA STABILITA’ COME ELEMENTO

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METAVALORIALE

QUALI CAMBIAMENTI ATTUALI?

TENDENZA A VEDERE UN INDEBOLIMENTO DI QUESTI VALORI (BAUMAN, KAES E ALTRI (DI CHIARA, 2011) EVAPORAZIONE DEL PADRE FRAZIONAMENTO IDENTITA’ LIQUIDA SOFFERENZA NELLA SOGGETTIVAZIONE EMOTIVA A-MORALITA’ EDONISMO “ CAPACITA’ OPERATIVE” IMMEDIATEZZA DELLA REALIZZAZIONE INSTABILITA’ CONCRETEZZA EDONISTICA

IN UNA VISIONE PSICOANALITICA ANTROPOLOGICA

Sasso (Sasso, 2015)

DA UNA NARRAZIONE ETICA A UNA NARRAZIONE MATERIALE ( SOCIETA’ DEL CONSUMO) TECNOLOGIA COME REGOLATORE DELLE RELAZIONI SOCIALI SOCIAL NETWORK SEDUZIONE UBIQUITARIA PERCEZIONE VALORIALE IMPLICITA NELLA FRUIZIONE INFORMATIVA SELFY TOUCH FEELING VIDEOGAMES IPERVALORIZZAZIONE DELLA PERCETTIVITA’ FORMATTAZIONE NEURALE COGNITIVA ( vedi BENASAJAG concetto di “HOMME ADGUMENTE” VIDEOGAMES MULTI TASKING WORK MULTIMEDIALITA’ RAPPORTO SPAZIO TEMPOIPERSATURAZIONE DIMINUZIONE DEL VALORE DELLE EMOZIONI E AFFETTI TIME IS MONEY (SOCIETA’ DEL CONSUMO)

ESISTONO GARANTI NELLA POSTMODERNITA’ ? MITO DEL CONSUMO MITO DELLA TECNOLOGIA MITO DELLA POSSIBILITA’ VIRTUALE ( GLOBALIZZAZIONE/MANIPOLAZIONE ILLIMITATA DI IMMAGINE E DATI E COMUNICAZIONE) RELAZIONI INTERPERSONALI INFLUENZATE DALLA TECNOLOGIA (IMMEDIATEZZA, MOLTEPLICITA’, SUPERFICIALITA’, AUTOSUFFICIENZA)

DOMANDE VI E' UN POSSIBILE NUOVO APPRENDIMENTO? ATTRAVERSO I NUOVI GARANTI? SU IDENTITA’ PLASTICITA’ EMOTIVA COGNITIVA DIMENSIONE NARCISISTICA DIPENDENZA DALLA IMMAGINE SE UNITA ALLA CONSAPEVOLEZZA DEL DEL LIMITE DIPENDENZA

Interazione di ruoli multipli Interazione normativa Interazione socio educativa

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RESILIENZA SU MODALITA’ TERAPEUTICHE CONTRATTO TERAPEUTICO COME GARANTE DEVE ESSERE PIU’ SINTONICO CON LA DINAMICITA’ DEI GARANTI SOCIALI ATTUALI (ANCORAGGIO FLESSIBILE ALLA REGOLA VEDI DIBATTITO SU SKYPE OPPURE SULLA FREQUENZA) LA VENATURA NARCISISTICA RENDE PIU’ COMPLESSO IL PROCESSO TRADIZIONALE DISSOCIAZIONE → PRE- INTEGRAZIONE→ RIMOZIONE → PULSIONALITA’ INTEGRAZIONE ADATTAMENTO (KOHUT,1997) POSIZIONE DEL TERAPEUTA

CURA FORTE RAPPRESENTAZIONE EMPATICA → CORPOREA→ DA IDEALITA’ VERSO LA SIMBOLICA DELLA CURA (SIMMETRIA CON LA CULTURA CONTEMPORANEA) ( LEVIN, 2000) ESTETICA DELLA COMPLESSITA’ SOLITUDINE DELL’INDIVIDUO ←→ CONFORTO DEL LEGAME RINFORZO DELLA INDIVIDUALITA’ PER INTERAZIONI PIU’ VITALI EROS E THANATOS ( FREUD 1920) Riferimenti bibliografici − Biggio, G. (2011), “Osservazione e cambiamento nella dinamica istituzionale” In Psicoterapia

Psicoanalitica Anno VIII- Numero 2.

− Bollas, C. (2014), La mente orientale, trad. it. Raffaello Cortina Editore, Milano (2014).

− Di Chiara, G. (1999), Sindromi psicosociali. La psicoanalisi e le patologie sociali, Raffaello Cortina,

Milano

Page 23: Relazioni del convegno nazionale SIPP di Bologna

− Freud, S. (1920), Al di là del principio di piacere, OSF, vol. 9.

− Freud S. (1921), Psicologia delle masse e analisi dell’Io, OSF. Vol. 9, “La contrapposizione tra

psicologia individuale e psicologia sociale o delle masse, contrapposizione che a prima vista può

sembrarci molto importante, perde, a una considerazione più attenta, gran parte della sua rigidità…

Nella vita psichica del singolo l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come

soccorritore, come nemico, e pertanto in quest’accezione più ampia ma indiscutibilmente legittima, la

psicologia individuale è al tempo stesso, fin dall’inizio, psicologia sociale.” (pp.261- 62).

− Hinshelwood, R. (2012), “Prefazione” in ( a cura di ) A. Ferruta, G. Foresti, M.Vigorelli Le Comunità

Terapeutiche Psicotici, borderline, adolescenti, minori. Raffaello Cortina, Milano.

− Kaës, R. (2013), “Malessere sociale e malessere individuale: alleati o nemici?” relazione presentata al

Seminario AFPP CSMH - AMHPPIA SIPP SPI Cosa può la psicoanalisi di fronte al malessere psichico

nelle civiltà ipermoderne? Firenze, 13 Aprile 2013.

− Kaës, R. (2013), Il malessere, trad.it Edizioni Borla , Roma (2014).

− Kernberg, O.F. (1975), Sindromi marginali e narcisismo patologico. Trad. it Bollati Boringhieri, Torino.

− Kernberg, O. F. (1987), Disturbi gravi della personalità. Trad. it Bollati e Boringhieri, Torino .

− Jaques E. (1955) “Sistemi sociali come difesa contro l'ansia persecutoria e depressiva”. In M. Klein, P.

Heimann, R. Money-Kyrle (a cura di), trad.it. Nuove vie della psicoanalisi. Il Saggiatore, Milano, 1966.

− Kohut H. (1971), Narcisismo e analisi del Sé, trad.it Bollati Boringhieri, Torino, 1976.

− Kohut, H. (1997), Lezioni di tecnica psicoanalitica, Astrolabio-Ubaldini, Roma.

− Levin, A. (2000), “Le devenir d’une a-civilisation: la psychanalyse conmme virtualitè du corps primitif”,

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− Sasso, G. (2015), “Psicoterapia e nuove declinazioni identitarie” relazione presentata al Convegno

Nazionale SIPP, Psicoterapia Psicoanalitica e Mutamenti Sociali, 4/5 Dicembre 2015, Bologna.

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Raffaele Caprioli UN DIFFICILE PERCORSO: ARIANNA E LE ISTITUZIONI

PANEL B Psicoterapia tra istituzioni assediate e frammentazione del soggetto Mi sono sempre chiesto se le differenti esperienze formative in un equipe di operatori psichiatrici costituisca una ricchezza o un conflitto. La domanda non ha una risposta semplice dal momento che apre il discorso sul più vasto argomento dell’Istituzione o meglio delle Istituzioni Possiamo collocare l’equipe territoriale in un’area intermedia dove i bisogni e la sofferenza del singolo, che esigono una risposta, si intersecano con il gruppo rappresentante l’insieme sociale. Come operatori ci troveremo sempre nella condizione che la risposta data alla domanda rimanderà ad un’altra domanda e quindi dobbiamo accettare la delusione di non avere mai una risposta esauriente e onnipotente. Può essere banale dire che l’attività che svolgiamo è un’ attività molto stressante perché abbiamo a che fare con un flusso di tensioni tra noi e i pazienti ( identificazioni proiettive e controidentificazioni) entrambi parte dell’Istituzione di cura. Kaes definisce l’Istituzione o le Istituzioni, che assicurano silenziosamente la continuità della nostra vita psichica, come lo zoccolo culturale complementare della roccia biologica su cui si appoggia lo spazio della psiche. “L’Istituzione ci precede, ci assegna e ci iscrive nei suoi legami e nei suoi discorsi; ma se questo è una ferita del nostro narcisismo noi scopriamo pure che l’Istituzione ci struttura e noi traiamo con essa dei rapporti che sostengono la nostra identità. Più radicalmente siamo posti di fronte al pensiero che una parte del nostro Sé è “fuori di sé” e che quello stesso qualcosa che è “fuori di sé” è la parte più primitiva, più indifferenziata, lo zoccolo del nostro essere, ovverossia tanto ciò che ci espone alla follia e allo spossessamento, quanto ciò che fomenta la nostra capacità creativa”. ( L’Istituzione e le Istituzioni, Borla AA.VV,1991) Ognuno di noi è soggetto dell’Istituzione che svolge una doppia funzione psichica: di strutturazione e di ricettacolo dell’indifferenziato. “L’istituzione tende quindi a costituire il naturale deposito dell’Io sincretico (indifferenziato) di ciascuno e le sue vicissitudini (dell’istituzione) incidono profondamente su questo aspetto primitivo e fondante della personalità dei singoli membri appartenenti all’istituzione stessa” . (Il campo istituzionale, A. Correale 1999, Borla) Freud per primo ha dimostrato come la stessa vita psichica supponga l’Istituzione e che questa è parte della nostra vita psichica. In Totem e tabù Freud sostiene la tesi che l’inconscio è costituito in parte dalla formazione intergenerazionale di formazioni e di processi psichici che passano attraverso le Istituzioni sociali vigenti nella società nella quale l’individuo nasce. L’ipotesi della psiche di massa spiega non soltanto la continuità della vita psichica, ma la stessa formazione dell’inconscio: “ Anche la repressione più violenta è costretta a lasciare spazio a moti sostitutivi deformati e alle reazioni che ne conseguono. Ma se le cose stanno così possiamo formulare l’ipotesi

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che nessuna generazione sia in grado di nascondere alle generazioni successive processi psichici di una certa importanza”. (L’ipotesi della psiche di massa, Freud, Opere,1923,vol. 7) In Psicologia delle masse e analisi dell’Io Freud ammette l’Istituzione come un dato primario dell’identificazione e della formazione dell’Io: “ Lindividuo conduce effettivamente una doppia vita, come fine a se stesso e come anello di una catena di cui è strumento, contro, o comunque indipendentemente dal suo volere”. (Freud, Opere vol. 7). Se, come Freud afferma, curare governare educare sono compiti impossibili, allora l’Istituzione che si pone come compito la cura delle psicosi si colloca ai confini di questa impossibilità. I percorsi formativi, patrimonio di ogni operatore appartenente ad un Istituzione di cura dovrebbero rappresentare le linee guida per riflessioni operative coerenti e terapeutiche; spesso, però, diventano un campo in cui linee di forza frammentano ulteriormente il paziente trascinandolo nella direzione della nostra teoria -che mette in campo rigidità inconsce della Istituzione formativa di appartenenza- e spingendolo in un malessere ancora peggiore. Paradossalmente possiamo affermare che se spesso ci sentiamo assediati dai pazienti, i pazienti si sentono assediati dalle nostre teorie. Qualcuno ha detto: “Dogmatizziamo le idee rivoluzionarie e la rivoluzione finisce”, perciò non dando spazio al dubbio e all’ascolto finiamo col cristallizzare le nostre teorie annullandone il valore euristico e mummificandole. Bion in “Esperienze nei gruppi”, a proposito dello “spirito di corpo” osserva che ogni gruppo o sottogruppo nella sua continuità acquisisce una esperienza umana e affettiva che se cristallizzata trasforma questo patrimonio propulsivo in fanatismo e intolleranza con la conseguente chiusura a qualsiasi forma di dialogo e di crescita. Tenendo conto che tutte le teorie hanno in sé un limite, i diversi orientamenti teorici dovrebbero essere utilizzati da noi come vertici di osservazione: un paesaggio visto da diverse angolazione ci dà modo di integrare visioni parziali e quindi la possibilità di dare un respiro più ampio e un significato più intellegibile a ciò che abbiamo osservato. Allora la domanda da porci è la seguente: “Che cosa mettiamo in gioco quando lavoriamo a costruire un progetto che tenga in conto le nostre differenti teorie?”. Operare nell’Istituzione significa operare in un setting allargato e questo comporta necessariamente un adattamento culturale e scientifico che richiede uno sforzo di ricerca e di studio continuo. Operando in un campo allargato, facilmente rischiamo, e questa è l’esperienza di tutti i gruppi di lavoro, una confusione di lingue e di modelli. Mettendo da parte, invece, la pretesa di un presunto sapere assoluto determiniamo una apertura dello spazio come “ulteriorità di significazione” (Psicopatologia generale, K. Jaspers, Il pensiero scientifico editore). L’Istituzione in quanto tale si presenta come un Giano bifronte: si offre da un lato come alleviamento delle angosce e soluzione dei conflitti e, al tempo stesso, realizza delle concretizzazioni inesorabili dei conflitti stessi. Essa è un potente amplificatore di istanze prim

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arie disgreganti ( invidia, rappresaglia rivendicativa, esasperata conflittualità, manipolazione) e personifica stati di impotenza, persecuzione, inaffidabilità; conterrebbe, quindi, nella sua struttura degli elementi derivati dalla pulsione di morte. Enriquez e Bleger hanno sottolineato maggiormente questo aspetto. Se quanto detto viene misconosciuto e non elaborato l’operatività di un servizio si organizza in modo caotico e destrutturante; mettendo in atto una negazione difensiva il gruppo genera ambiguità e un malessere pervasivo blocca le capacità di pensiero e quindi la creatività stessa del gruppo. Lavorando in Istituzioni psichiatriche dobbiamo considerare, inoltre, che il microcosmo familiare nel quale è confusamente invischiato il paziente induce nell’equipe un campo in qualche modo corrispondente. E’ utile, a questo punto definire meglio il concetto di campo. Esso deriva da Kurt Lewin che nello studiare la vita dei piccoli gruppi ritenne fosse proficuo non partire dai caratteri dei singoli membri ma dalla risultante delle forze emergenti nel gruppo. Bion ha sviluppato le intuizioni di Lewin “ descrivendo nel gruppo non le relazioni tra membri ma complessi ideativo-rappresentativi… molto potenti, collegati a comportamenti collettivi. L’assunto di base, secondo Bion, è al tempo stesso un comportamento collettivo transindividuale e una costellazione ideo-rappresentativa comune, che ne rappresenta in certo qual modo una controparte –la coppia, la lotta, la nutrizione sottomissione- entrambi, il comportamento e la corrispondente costellazione ideativo-emotiva, hanno un forte radicamento nella realtà biologica condivisa” (Correale 1999). Se questo stato di confusione non riesce a trovare soluzione in una rappresentazione e quindi in un pensiero si forma un amalgama indifferenziata, curanti curato, potenzialmente esplosiva. Un buon equilibrio dell’Insieme Istituzionale è fondamentale perché mostra ai pazienti il modello collettivo di un Io funzionante che può servire loro come elemento di identificazione. L’equipe, quindi, deve avere cura di evitare di operare sulla base di scelte ideologiche, e deve cercare di costruire e integrare gli interventi sulla base della non sempre facile comprensione delle dinamiche intrapsichiche e relazionali del paziente. Quando, poi, un paziente è in trattamento psicoterapeutico nell’istituzione, può accadere che la coppia al lavoro diventi un nucleo “incistato” nell’istituzione se nella fantasia del curante sorge la convinzione di essere l’unico al mondo in grado di capire veramente l’altro. Si opera una scissione: da un lato la coppia buona dall’altro l’Istituzione cattiva dalla quale il paziente va difeso. Questa convinzione spinge ad essere illusoriamente ipercomprensivi e iperoblativi, ma l’ipercomprensione e l’oblatività nascono, dalla proiezione nel paziente di esigenze proprie: ingorde, regressive e distruttive che non vogliamo accettare e vivere come nostre. Il gioco è fatto: come terapeuti finiamo con l’essere non terapeutici. Più complesso diventa il discorso se un Istituzione di cura deve interagire con altre Istituzioni nella gestione di una situazione complessa. In tal caso bisogna tener conto dell’incontro-scrontro tra il narcisismo e le rigidità che ogni Istituzione mette in campo. Allora è l’Istituzione deputata alla cura che deve cercare di formulare un pensiero terapeutico facendosi da contenitore di parti di Sé che il paziente mette fuori di sé (nelle

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istituzioni) nella speranza di una ricomposizione che abbia il suo avvio attraverso un percorso duale -paziente terapeuta- da poter definire “psicoterapeutico”. Un proverbio giapponese così recita “Nessuno di noi è così intelligente come tutti noi insieme”. Un caso clinico L’incontro dell’ “Istituzione” con Arianna, una ragazza diciottenne, avviene in seguito ad una richiesta telefonica di visita domiciliare urgente da parte della Polizia intervenuta a sua volta su richiesta dei familiari. Il collega che effettua l’intervento così descrive ciò che osserva: “ il padre, alcolista cronico, con toni accesi chiede che si intervenga sulla figlia per scompensi comportamentali esitanti in crisi pantoclastiche ed aggressività fisiche verso i familiari (padre madre e fratello). La ragazza è oppositiva e rivendicativa. Riferisce un infanzia difficile per le forti conflittualità esistenti in famiglia. Per circa un anno e mezzo avrebbe inalato droghe leggere e pesanti ma al momento non pensa di aver bisogno di aiuto”. Il “caso” viene discusso in equipe, si programma un incontro dell’assistente sociale con la famiglia, incontro mai realizzato perché giudicato inutile dai familiari in quanto considerano la figlia “irrecuperabile” Si susseguono frequenti interventi domiciliari su richiesta, sempre concitata, da parte del padre che allerta anche le forze dell’ordine. Sembra che l’aggressività di Arianna sia una risposta ai comportamenti provocatori del padre. Infatti la cosa che colpisce ogni collega che effettua l’intervento è che le forze dell’ordine (polizia o carabinieri) presenti, non si esprimono mai a favore dei familiari né spingono l’Istituzione curante ad un ricovero forzato. Nel gruppo di lavoro si fa strada l’idea che il bisogno del padre di “psichiatrizzare” la figlia sia un modo per difendersi dalle accuse di abusi subiti da bambina formulate da Arianna in una denuncia ai Carabinieri tempo prima. Tale informazione ci viene fornita dai carabinieri quasi in forma di segreto. Dopo un ennesimo intervento, letto dal gruppo come la modalità confusa di Arianna di chiedere aiuto per sé, la ragazza con molta diffidenza, accetta di essere presa in carico dal servizio, in particolare dal collega più giovane. Ciò che ella esprime allo psichiatra è il timore che il padre voglia farla ricoverare in un reparto psichiatrico per poter dimostrare che lei è “pazza”. Riferisce, inoltre, pensieri riguardanti l’impulso a dare pizzicotti alle persone che le stanno vicino; ai pensieri segue l’atto e questo le sta procurando problemi relazionali di esclusione dal gruppo di coetanei. Lo psichiatra le propone una terapia farmacologica e una psicoterapia più strutturata. Arianna accetta malvolentieri la terapia farmacologica perché la sente come una “vittoria” dei suoi familiari e rifiuta la psicoterapia.

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Dopo la morte del padre per cirrosi epatica, Arianna comunica al curante che non ha più intenzione di assumere farmaci e di avere contatti con il servizio. Trascorsi alcuni mesi ritelefona e chiede che sia io a prenderla in cura dal momento che il precedente terapeuta si è trasferito. Ho conosciuto Arianna durante uno degli innumerevoli interventi domiciliari la sera di un 23 dicembre. Una casa squallida, porte divelte, disordine, lesioni sulle pareti, segni delle crisi pantoclastiche; una giovane ragazza di 18 anni, bruna dai lineamenti delicati mi guardava, seduta in cucina, con un tono di sfida. Uno dei tre poliziotti presenti cercava di rassicurarla dicendole di fare la brava e che io non l’ avrei ricoverata ma solo ascoltata. C’era stato un violento litigio col fratello che al mio arrivo si era chiuso nella camera da letto. Il Natale alle porte strideva fortemente con la scena che avevo davanti: una bambina arrabbiata perché disperata e sola. Al primo colloquio viene accompagnata dalla madre: una donna esile, vestita di nero che evidenzia maggiormente il pallore di un volto scolpito in una triste rassegnazione; mi saluta appena, con distacco. Arianna, entrata nella stanza, indugia, poi rompe il silenzio e riferisce un profondo malessere: è angosciata e preda di idee ossessive di cui al momento rifiuta di parlare. Ha incubi notturni centrati sulla figura paterna ma non ricorda le scene. Lamenta di essere sola, di non riuscire a mantenere le amicizie e di vivere sempre in conflitto con la madre e il fratello che non capiscono il suo malessere. E’ preoccupata, però, per la salute della madre, teme di poterla perdere e rimanere sola senza più un sostegno economico. Non vuole assumere farmaci ma solo avere dei colloqui con me. Salta degli incontri, ha difficoltà a venire al sevizio perché vede “i pazzi” e per lei è doloroso: “Non sono come loro”. Arianna non può avvicinarsi ancora al suo dolore e saltando le sedute regola la distanza da me. Come avremo modo di vedere ogni legame dà sempre luogo a una delusione troppo difficile da tollerare. Mi parla del padre idealizzandolo: le voleva bene, ricorda che da bambina giocava con lui non con la madre. Ogni qualvolta riusciamo a toccare argomenti che possono contribuire, con sofferenza, a costruire una storia Arianna si allontana. Non avendo notizie per più di un mese le telefono. Dice che è molto impegnata e anche contenta, sta facendo il servizio civile come ausiliaria presso l’ospedale Monaldi. Fu il padre a presentare la domanda presso l’ospedale dove lui lavorava in amministrazione. Nel reparto a cui è stata assegnata ha conosciuto un’infermiera con la quale ha stabilito un contatto affettivo molto intenso. Trascorre un mese e Arianna mi telefona chiedendo di incontrarmi. Ha chiuso il rapporto di amicizia con l’infermiera che le ha rimproverato di essere troppo “adesiva”. Arianna è delusa ma per confermare le sue capacità di relazionarsi ha scritto su face book di questa esperienza e ora ha “400 nuovi amici”...virtuali. Con il lavoro e la chat Arianna cerca riempire il suo vuoto interiore. Segue all’incontro descritto una lunga assenza. Le telefono. Mi comunica la decisione di sospendere i colloqui perché è in grado di farcela da sola: è una ragazza forte e riuscirà a

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superare le difficoltà con la sua volontà. Dopo il servizio civile progetta di partire per andare in cerca di lavoro in un'altra regione. Prenderà contatto con me se ne sentirà il bisogno. Purtroppo riprendono violente le conflittualità familiari di Arianna e, su richiesta del fratello che nelle modalità si sostituisce al padre, gli interventi domiciliari. Il gruppo di lavoro, questa volta, vive una forte insofferenza per queste “urgenze domiciliari” e ferito nel suo narcisismo si scinde. Gli infermieri esprimono la loro rabbia perché si sentono manipolati proponendo, come soluzione, un ricovero coatto e accusano i medici e le forze dell’ordine ( che si rifiutano di intervenire) di eccessiva tolleranza. Dopo una vivace discussione l’equipe decide di mantenere questa tolleranza evitando il ricovero. Credo di aver potuto mantenere un assetto mentale “psicoterapeutico” grazie al sostegno ricevuto dai colleghi che hanno funzionato come un Io osservante aiutando da un lato Arianna, durante le visite domiciliari, non già a spiegarsi ed a ricercare le motivazioni dell’accaduto ma solo a raccontare l’accaduto e me nel contenimento dell’ angoscia e dell’impotenza. Arianna mi richiama per riprendere i colloqui, durante i quali io cercherò di fare collegamenti, richiamare fatti simili, fare da memoria nella speranza di poter accedere a qualche interpretazione. C’è un acuirsi di un sintomo ossessivo: vedere un bambino di pochi mesi la eccita e le fa avere “pensieri sessuali”, non riesce a prenderlo in braccio, teme di essere pedofila. Penso che queste esperienze sensoriali eccitanti esprimano il tentativo di colmare gravi lacune del Sé. Muore la madre di Arianna dopo alcuni mesi di ricovero ospedaliero per uno stato di progressivo deperimento organico che i medici non riescono a spiegarsi data la normalità dei parametri biologici. Ora si sente veramente sola anche perché si sono acuiti i conflitti col fratello. I colloqui si svolgono con più regolarità; Arianna riesce a parlare dei sentimenti contrastanti che nutre nei confronti della madre, sentimenti che oscillano tra la rabbia e l’affetto. Più che il contenuto delle parole è il sottofondo emotivo di esse che mi fa sentire il vuoto e la desolazione. Le manca sia un riferimento affettivo che un sostegno economico. Non ha soldi per pagare bollette di luce, gas e pigione. L’assistente sociale si mette in contatto con i servizi sociali del comune che l’aiutano per qualche mese; la mancanza di fondi non consente un ulteriore sostegno. Emerge la rivendicatività rabbiosa di Arianna verso le Istituzioni: pretende un posto di lavoro. Il suo è un innegabile diritto che noi come UOSM e le Istituzioni Sociali abbiamo il dovere di soddisfare. I colloqui sono turbolenti e mettono a dura prova la pazienza mia e dell’equipe. Viviamo una posizione simmetrica: lei è arrabbiata con me e i colleghi perché come rappresentanti delle Istituzioni non le garantiamo un posto di lavoro adesso che è orfana. Il gruppo di lavoro prova rabbia nei confronti di lei perché non apprezza tutti gli sforzi che si fanno per aiutarla e non fa “la brava paziente”. Arianna se ripete con me e col gruppo di lavoro le dinamiche familiari mette anche in gioco le sue capacità di agire in

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autonomia: si inserisce in un comitato elettorale di un politico del quartiere. Viene molto apprezzata per il suo impegno e le vengono fatte promesse alle quali lei crede ciecamente. Le promesse non mantenute determinano una delusione profonda che Arianna mi porta in seduta con un pianto disperato. Sono quei rari momenti in cui vedo una bambina bisognosa di affetto e di contenimento, ma soprattutto di affidarsi completamente ad un oggetto che sia buono. Provo anche io rabbia verso le Istituzioni. Un collega, conoscendo il parroco del quartiere chiede aiuto per Arianna e grazie all’intervento di quest’ultimo viene collocata in un istituto di suore . Il gruppo si interfaccia con un Istituzione ecclesiale. Intanto Arianna è rimasta in contatto con una segretaria dell’uomo politico. La idealizza: è una persona che la capisce e le vuole bene. C’è un nuovo allontanamento dalla terapia. Ben presto la segretaria non risponde più alle sue telefonate e al suo bisogno di vicinanza le dice che “è troppo adesiva”; la stessa motivazione dell’infermiera conosciuta durante il servizio civile. E’ difficile per Arianna riflettere su questa modalità di porsi in relazione alle figure femminili più adulte che incontra. Cerco di fare un collegamento tra le due esperienze ma nella mente di Arianna rimangono fotogrammi separati che non costruiscono una continuità e un significato. Intanto lascia l’istituto di suore perché non tollera le regole che le impongono, e torna a casa. Dopo molto tempo dall’inizio dei colloqui Arianna, per la prima volta, riconosce di avere, “un malessere nella mente, psichico”. Si sente molto angosciata, soprattutto di notte ed è spaventata dal cuore che le batte forte. Per diversi mesi si rende irreperibile. Più volte cerco di contattarla ma invano. Il gruppo di lavoro è sorpreso ma anche soddisfatto; io vivo un senso di smarrimento e di abbandono. Un pomeriggio viene al servizio un frate francescano che mi dice di aver conosciuto Arianna grazie al parroco e mi riferisce che intende inserirla presso una comunità, in Calabria, che ospita soprattutto giovani con disagi psichici. Dopo circa quattro mesi e il frate mi contatta telefonicamente avvertendomi che Arianna in crisi per problemi affettivi con un’ operatrice; vuole essere riaccompagnata a Napoli ma non rivedermi. Intanto lui si è messo già in contatto con un’altra comunità, presso Roma, che accoglie giovani pazienti borderline. Com’era prevedibile Arianna rifiuta di andare in comunità. Il frate esasperato mi dice che deve prendere le distanze perché si sente impazzire. Arianna chiede di vedermi. E’ molto depressa per l’assenza del frate e l’abbandono nel quale si sente, ma è oppositiva e rivendicativa nei miei confronti e verso i colleghi in quanto Istituzione. Che facciamo per lei, per farle esprimere le sue capacità?. Tutto le sarebbe possibile se solo noi riuscissimo ad aiutarla. Non mi lascia alcun margine di intervento. Un nuovo allontanamento durante l’estate. A settembre ritorna non nell’orario e nel giorno consueto. E’ arrogante e provocatoria. In vacanza ha incontrato una psichiatra dirigente di un consultorio di una ASL di Milano (un’altra Istituzione) che saprò dal frate essere membro di un Istituto di laici consacrati (altra Istituzione ancora) che, dire di Arianna, si è molto meravigliata del fatto che come

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Istituzione di cura non riusciamo a fare niente per lei “che ha tante qualità” e intende trovarle una sistemazione al nord. Arianna, è presa nell’attesa della partenza per Milano. Mi telefona la dott.ssa di Milano. E’ esasperata dalle continue telefonate della ragazza perciò pensa che sia preferibile rimanga nel suo ambiente seguita dal nostro centro riconoscendoci un ruolo terapeutico. Credo di vivere i sentimenti di Arianna e li condivido in equipe: delusione rabbia e impotenza. Faticosamente, nei colloqui, riporto questi vissuti all’esperienza di un infanzia tormentata dai conflitti familiari e dall’ alcolismo del padre. Ho la sensazione di aver cominciato a percorrere una strada dolorosa ma ancora non percorribile per la paziente. Arianna manca a tre sedute e alla quarta viene insieme al frate. E’ evidente il forte legame che ha stabilito con lui. Il frate è il suo salvatore, la riporterà via da Napoli dove non intende più restare né essere curata. Nella seduta seguente rimane in piedi, gira per la stanza perché non vuole sedere sulle sedie dove siedono “i pazzi”. Sa di non star bene e non esclude eventuali cure farmacologiche e l’ aiuto psicologico, sulla cui necessità io ho sempre insistito, ma non a Napoli né in Campania. Attende di essere ospitata in qualche struttura che il frate sta cercando attraverso i suoi contatti ecclesiastici. E’ l’ultimo colloquio che fa con me, “non per mancanza di stima”, ma perché non gradisce le soluzioni che noi come Istituzione possiamo offrirle per poter realizzare i suoi desideri: laurearsi, magari diventare una scienziata, suonare il violino, scrivere romanzi, diventare medico… Una settimana dopo il frate mi informa che Arianna è in Calabria presso una comunità gestita da uno psichiatra e una psicologa. Sembra che, depositando parti di Sé nelle persone appartenenti alle Istituzioni con le quali ha avuto contatto, Arianna abbia sperimentato una possibilità di integrazione attraverso un dialogo certamente difficile ma non impossibile tra le stesse Istituzioni grazie all’Istituzione di cura che, supportando me terapeuta da lei scelto, con tenacia ha tenuto il filo sottile che legava le varie parti cercando di dare una continuità e una speranza ad un difficile percorso Concludo con una riflessione sull’uso del gruppo istituzionale come fattore terapeutico. il gruppo istituzionale, se funziona in modo sufficientemente integrato, rappresenta quella costanza d’oggetto che questi pazienti supponiamo non abbiano mai avuto. Un oggetto che resista agli attacchi distruttivi, ma che sappia riconoscere sia i bisogni regressivi che le spinte verso l’autonomia senza pregiudizi. La scelta di Arianna di entrare in una comunità gestita da uno psichiatra e una psicologa è sicuramente frutto del lungo e faticoso impegno del gruppo di lavoro consapevole delle proprie capacità ma soprattutto dei propri limiti.

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Olga Cellentani

PANEL A

Psicoterapia e relazionalità virtuale

_Internet dunque come una grande ragnatela di comunicazioni e di possibilità di informazioni e conoscenze. Ma spesso, nella ragnatela il ragno cattura la mosca che resta imprigionata e difficilmente riesce a liberarsi. Una metafora che ci permette di introdurre la problematica che sembra investire vieppiù il mondo giovanile ( ma non solo) e che vede aumentare, in tutto il mondo occidentale, il numero dei giovani ritirati, che chiusi nelle loro stanze interrompono qualunque contatto con la vita sociale ed affettiva, ogni contatto col mondo. Fenomeno nato in Giappone, è stato definito “Sindrome Hikikimori” (alla lettera reclusi) Sono i cosidetti “giovani ritirati socialmente”;

_ fino al 2008 in Italia i casi di ritiro sociale in adolescenza erano pochi e solitamente venivano inclusi all’interno dei quadri psicotici, anche se era evidente che ne differivano poiché di questi ultimi non presentavano i tratti caratteristici: delirio, derealizzazione, episodi allucinatori ecc… Il fenomeno è andato via via crescendo, i casi di ritiro sociale acuto sono aumentati mentre si è fatta strada l’ipotesi che la sindrome fosse direttamente collegata alla dipendenza da Internet.

_ Molte le ricerche effettuate in questo campo, interessante al riguardo quella effettuata da alcuni esperti del gruppo “Minotauro”( Di Lorenzo et al…) che hanno indagato la relazione fra l’abuso di Internet e lo sviluppo di importanti disturbi psichici, dove emerge tuttavia che soltanto una piccola percentuale del campione presenta evidenti problematiche psichiche, mentre una larga fascia, circa il 50% si colloca in una situazione borderline, rendendo l’associazione fra uso eccessivo della rete e ritiro sociale, non automatica.

_ Ma cosa hanno in comune i nostri giovani ritirati sociali e gli Hikikomori giapponesi? Tre in particolare i punti di contatto: la fobia scolare, il rapporto con la figura materna e l’interesse per un mondo immaginario che ingloba i giochi virtuali e l’universo dei Manga e degli Aime. (A.Piotti 2015).

1) Come emerge da recenti indagini condotte in Italia sulle interruzioni scolastiche, la Fobia Scolare non appare collegata a nessuno smacco o deficit del rendimento scolastico, ma sembra piuttosto connessa ad un angoscia sociale in seguito alla quale questi ragazzi sono letteralmente impossibilitati a varcare la soglia dell’edificio scolastico. Se i genitori riescono in qualc he modo a condurli a scuola vengono assaliti da manifestazioni di angoscia incontenibile accompagnata da un corteo di espressioni somatiche (/nausea, vomito, brividi di freddo…) che scompaiono al rientro in casa.

2)La relazione con la madre presente molti punti di contatto con la cultura giapponese, là dove il legame tra la madre e il figlio ritirato socialmente non si riferisce a quadri di

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simbiosi che non includono la possibilità di Separarsi ed emanciparsi del figlio, quanto piuttosto ad una condivisione di un sontuoso e grandioso progetto narcisistico rispetto al quale ogni fallimento è intollerabile e può dar luogo ad un tracollo narcisistico dominato dal sentimento della Vergogna. (Piotti 2012, Pietropolli Charmet, 2013). Ciò che costringe al ritiro, dunque, non è qualche esperienza non elaborata che si annida nel passato del soggetto, ma si colloca piuttosto nel Futuro, quando un inevitabile smascheramento drammatico mostrerà che il Piano narcisistico a lungo coltivato da madre e figlio, è destinato ad infrangersi di fronte alla realtà. (es di un caso clinico di un adolescente)

3) Infine, altro aspetto interessante che i giovani ritirati in Italia e in Giappone condividono, è la forte adesione a Modelli Immaginari. Questo complesso processo, dove l’immaginazione gioca un ruolo fondamentale,, evita il contatto con il mondo reale e, almeno nella fase iniziale del disagio del giovane, consente comunque una significativa attività relazionale con altri soggetti via Internet sia, in senso intrapsichico, fra le varie parti del Sé adolescenziale. Questo spiega perchè inizialmente e per lungo tempo, funziona in modo sintonico rispetto al disagio che sperimenta l’adolescente e risulta difficile da modificare attraverso interventi esterni. I ragazzi in hikikomori, attraverso le loro esperienze virtuali ricche e coinvolgenti, maturano così sentimenti, emozioni percorrendo un cammino evolutivo che non possono percorrere attraverso la strada principale. La dimensione immaginaria sembra favorire dunque una serie di esperienze affettive che consentono ai giovani reclusi di accedere ad una dimensione evolutiva.

_ Ciò che manca tuttavia, in questa esperienza, è il Corpo. E’ questo il prezzo che il giovane ritirato deve pagare quando decide di percorre il proprio cammino sulla via dell’immaginario. Del virtuale. Internet permette tutto ma bisogna rinunciare ALL’USO CONCRETO DEL CORPO. Una rinuncia che tuttavia per questi giovani, ma non solo, non è vissuta in modo troppo sofferto, perchè per questi soggetti il Corpo è quella cosa goffa, impacciata e orribile che li fa sentire tanto inadeguati e pieni di vergogna. Non è il luogo dove si può esperire il desiderio e la sua realizzazione ma un ostacolo inaffrontabile che si oppone alla realizzazione del desiderio stesso. Una volta rinunciato al proprio corpo il soggetto in hikikimori può abbandonarsi al mondo delle sue fantasie senza incontrare ostacoli. E questo vale anche per molti adulti che, bloccati sin dalla loro adolescenza, si sono ritirati per buona parte della loro vita quotidiana, in un mondo immaginario dove, le chat sessuali, i siti porno, le esperienze sessuali via skipe ecc.. consentono di sentirsi illusoriamente liberi di vivere qualunque esperienza relazionale e, soprattutto, sessuale senza affrontare lo smacco, che avvertono come ineluttabile, se affrontano l’esperienza di “uscire allo scoperto” nel corpo a corpo con l’altro. (es di un caso clinico di un adulto)

-Così, sembra che l’esperienza del “ritiro”, che Internet non necessariamente provoca ma sicuramente aiuta e sostiene, permette a giovani e meno giovani “ritirati” di evitare la dolorosa esperienza della vergogna. Vergogna per la propria certa e sicura inadeguatezza, per i propri sicuri fallimenti, per la propria opprimente fragilità. Per il panico che, ogni volta che tentano di affrontare il mondo e l’incontro con l’Altro, li investe. Internet è il “nascondimento”, è la possibilità di nascondere a se stessi e agli altri la propria vergogna di persone destinate, nella realizzazione di se stessi, ad un sicuro fallimento.

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Ma Internet permette anche di “nascondere” altre fragilità. O altre passioni. Come quella che riguarda il gioco d’azzardo on-line. Problematica questa che accomuna giovani, adulti, anziani, uomini e donne indifferentemente. Recenti sondaggi su campioni di adolescenti hanno evidenziato che ogni adolescente conosce alla perfezione le regole di almeno un gioco e la metà gioca d’azzardo. Sono giovani tra i 16-17 anni che praticano sport, frequentano la scuola e gli amici, ma spendono in scommesse e ai gratta e vinci somme significative. Fra i diversi giochi il Poker è il più cliccato. In Italia si giocano circa 12000 tornei ogni 24 ore e vengono spesi in media 600 euro al giorno per un volume d’affari che nel 2010 si aggirava sui 4,2 milioni di euro. Tutto avviene dentro le mura di casa, ci si può illudere che tutto resti nascosto e che nessuno scopra ciò che sta accadendo ad ognuno di queste persone. La vergogna di essere scoperti ancora una volta è illusoriamente evitata.

Ciò che interessa noi psicoterapeuti è il fatto che, dopo mutamenti che si sono verificati attraverso decenni di trasformazioni e innovazioni tecnologiche e culturali, il contesto sociale è passato da un Campo edipico ad un Campo narcisistico. Se nel primo dominava la Colpa e la rinuncia, la rimozione del desiderio, l’osservanza della Legge, nel secondo il Super-Io nella sua versione di Io ideale intima al soggetto di non accettare i limiti sociali, quanto piuttosto di oltrepassarli, mentre domina una cultura dell’esibizione che costringe, tuttavia, ad un confronto immediato con i propri limiti. La cultura narcisistica impone l’esibizione del corpo che, deve essere perfetto sia dal punto di vista fisico che relazionale. Non vi è spazio per corpo goffi e inadeguati. Dal punto di vista delle emozioni, il posto della colpa viene occupato dal sentimento intollerabile e devastante della Vergogna, la cui costellazione psichica parte da una sensazione di angoscia insostenibile e inemendabile perché a differenza della colpa non è connessa a nessun evento traumatico, psichico o reale, conscio o incoscio, ma ad una dimensione costitutiva del soggetto. E’ il soggetto in sé ad essere mancante ed incompleto, portatore di una lacuna che non può essere sanata. Si tratta allora di una questione intrapsichica che, viene ad essere alimentata dal contesto culturale e, in particolare, dalla struttura delle Relazioni Virtuali.

Per lo psicoterapeuta si tratta di accogliere l’idea che la Rete incarna tre aspetti:

- La gabbia dentra la quale si è racchiuso il corpo di un soggetto fobico - Un rifugio immaginario nel quale viene consumata una fuga difensiva dal mondo

reale - Un mondo parallelo nel quale è possibile esperimentare esperienze compensative

La sfida per ognuno di noi è quella di riuscire ad entrare in contatto con le costruzioni immaginarie del soggetto e di condividerle finchè non rappresenteranno una base relazionale sicura da cui proseguire per aiutare il soggetto a trasferire nuovamente verso l’esterno i contenuti delle esperienze vissute durante il ritiro.

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Giampaolo Sasso

NUOVE DECLINAZIONI IDENTITARIE PANEL D Psicoterapia e nuove declinazioni identitarie 1. Lo schema di riferimento Il foglio che è stato distribuito è lo schema che ho preparato per favorire la discussione sul tema delle

nuove declinazioni identitarie. Lo schema sintetizza diversi punti su cui riflettere, e sul quale probabilmen-te ciascuno di noi ha opinioni-valutazione differenti, che proprio questo schema dovrebbe aiutare a dibatte-re, essendo il tema proposto molto ampio e riferibile, a seconda delle nostre preferenze clinico-teoriche, a concetti non sempre facilmente integrabili. Lo schema perciò ne indica molti, che mi auguro siano di sti-molo – anche molto personale – alla discussione e, tra questi stimoli, ve ne sono anche alcuni strettamente legati ai miei studi, su cui rifletto continuamente nel lavoro clinico e su cui naturalmente, se ce ne sarà l'oc-casione, mi piacerà sentire l'opinione del gruppo.

Nel suo scopo principale, lo schema serve a ricordarci – in modo semplificato – come intendiamo lo svi-luppo del bambino dall'infanzia fino al suo ingresso sociale, processo sintetizzato dai due box in alto (A1 e A2) e come, dal punto di vista più strettamente psicoanalitico, lo differenziamo in tre passaggi, B1 (dello sviluppo più strettamente infantile), B2 (quello della pubertà-adolescenza) e B3 (della maturità, cioè dell'ingresso attivo nella società). Nei box C sottostanti vengono riassunte le caratteristiche più tipiche che, in questi tre passaggi, possiamo ritenere influenzino-determinino lo sviluppo del bambino e dell'adolescen-te che porta alla individuazione e sfocia nella identità dell'adulto quale si manifesta nell'interazione più complessa, quella sociale.

Assai sinteticamente, nel primo di questi passaggi, C1, possiamo ritenere che sia determinante la prima fase di accudimento, studiata accuratamente nella Infant Research inaugurata da Stern (1985) e nella teoria dell’Attaccamento di Bowlby (1969, 1973) temi riassunti in interazione bambino-madre. Dal punto di vista più strettamente psicoanalitico questa prima fase però comprende il tema classico dello sviluppo edipico, trattato originariamente come sviluppo pulsionale, che si forma nell’interazione materna e familiare, (temi perciò qui riassunti in interazione edipica). Questa prima fase già comprende le più fondamentali intera-zioni che propongono o stabiliscono, dalla madre prima e dalla costellazione parentale appena più avanti, comportamenti di tipo normativo, cioè conformi a aspettative o regole dell'ambito familiare, ma che in que-sto si costituiscono non indipendentemente dalle relazioni con l'ambito sociale: tutti questi aspetti sono riassunti in interazione normativa, il tema che si può supporre cruciale per valutare bene i successivi pas-saggi che sfociano nella complessità dei ruoli sociali. L'ampiezza del tema è sottinteso nella precedente fra-se "interazioni che propongono o stabiliscono", cioè la qualità aperta o chiusa di questo sistema di intera-zioni: questo tema ad esempio interessa, con il concetto di "elaborazione della contingenza" ( DeCasper, Carstens, 1981; Gergely, Watson, 1999) , l'effettivo nesso di causa-effetto che regola in modo ottimale l'in-terazione della madre col bambino, e costituisce lo sviluppo,fin dal quarto mese (Leslie (1987, 1991) della mentalizzazione, cioè la struttura mentale in grado di comprendere e valutare le intenzioni altrui (Baron-Cohen, 1995; Bartsch, Wellman, 1995; Fonagy et al., 1995, 2002).

Il secondo passaggio, C2, caratterizza lo sviluppo – e l'eventuale modificazione – di questo sistema di interazioni nella pubertà-adolescenza. Nell'ottica psicoanalitica (ormai sostanzialmente condivisa da tutti) l'influenza del primo sviluppo è ritenuta determinante, cioè tende a fissare sia in senso intrapsichico che comportamentale lo sviluppo successivo, e tanto più quanto più è risultato "costrittivo" il sistema di queste prime interazioni, che formano la base relazionale affettiva-cognitiva dell'identità del bambino e poi può aprirsi o meno al sistema più complesso delle relazioni successive. Nel passaggio C2, perciò, noi assistia-mo in genere a uno sviluppo caratteristico. In modo naturale il bambino diviene in grado di rapportarsi a ruoli non più caratterizzati strettamente da quelli familiari, quali le prime amicizie sia scolastiche che extra-scolastiche, divenendo quindi gradualmente esperto di diversi tipi di interazione, tema riassunto in intera-zioni di ruoli multipli. Ciascuno di questi ruoli però comporta una accurata diversificazione della interazio-ne normativa che rende possibile la compresenza identitaria di questi ruoli, e caratterizza in genere la pro-

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blematica riorganizzazione – spesso tipicamente conflittuale – dei precedenti ruoli familiari e le relative precedenti interazioni normative. In genere fa da tramite a questa differenziazione l’influenza determinante della interazione socio-educativa, che definisce alcune proprietà tipiche dei ruoli e delle norme che garanti-scono, sia per l'adolescente che per la famiglia, l'adeguatezza-correttezza di questo sviluppo in modo che prepari alle fasi più complesse dell'ingresso nella società degli adulti. Una grande varietà di combinazioni può formarsi perciò, nel passaggio bambino-adolescente, tra le caratteristiche originarie degli ambiti fami-liari e quelle potenzialmente differenzianti dell'ambito sociale, dando luogo alla riconosciuta variabilità del processo che porta all'individuazione della propria identità.

La progressione di questa differenziazione produce quanto caratterizza, in C3, l'ordinario passaggio nel-la maturità, cioè la mobilità dei ruoli dell'adulto riassunta in interazione dei ruoli sociali, che hanno come base i numerosi tratti identificatori derivanti, lungo questo iter, dai processi multipli di identificazione che confluiscono nell'identità di una personalità adulta. La complessità e mobilità di questo tipo di personalità è stata ben sintetizzata, ove si formi in modo duttile, dalla riuscita espressione di Bromberg (1996), "saper stare negli spazi tra i diversi stati del Sé". Ma questo concetto, il Sé, ci riporta appunto all'origine di questo processo di sviluppo, per interrogarci del perché nell'attuale, recente, complessificazione sociale, appaiano ora in modo così evidente tante nuove "declinazioni identitarie", in particolari sessuali.

2. Lo sviluppo classico e attuale. L’interazione familiare-sociale Senza dubbio la spiegazione risiede in alcune caratteristiche mutate nell'ambiente familiare di C1 e in

quello adolescenziale di C2. Il primo, se ne rapportiamo la descrizione a quella classica di un secolo fa, implica ancora l’Edipo, ma il semplice fatto che si sottolinei dal punto di vista sociologico "l'assenza del padre", sottintende un mutamento nel suo vertice classico. L'interazione normativa sembra perciò essere stata delegata ora maggiormente alla madre, divenendo una proprietà implicitamente connaturata già nelle prime fasi dell'interazione madre-bambino. Queste osservazioni vanno intese in senso generico, essendo al-trettanto evidente che in alcuni strati sociali privilegiati le cure paterne di accudimento caratterizzano una "nuova presenza del padre", sottintendendo quindi un viraggio della costellazione edipica meno differen-ziato. In termini generali, l'aspetto classico della normatività edipica, il vertice dell'autorevolezza-potere as-segnato al padre, risulta però attenuato, pur con notevoli diversità tra gli strati sociali meno educati cultu-ralmente (e perciò tradizionalmente ancorati all'autorità paterna) e quelli sensibilizzati, nei decenni scorsi, dalle nuove tematiche educative.

Si può perciò ritenere che l'attenuarsi della costellazione edipica produca nel bambino una meno eviden-te differenziazione dei contenuti affettivi e cognitivi relativi alle due principali figure familiari, la madre e il padre e, contemporaneamente, una ridistribuzione tra queste due figure del "carico normativo" che impo-ne al bambino l'apprendimento delle norme familiari e le modalità di "contrattazione" che gli permettono di esercitare la propria volontà. Non c'è dubbio, da quest'ultimo punto di vista, che in generale il bambino ab-bia oggi un assai maggiore potere contrattuale, e cioè sia assai più libero di soddisfare i propri bisogni, e sia quindi in genere meno limitato nell'esprimerli (ed esigerli come diritti). Ciò comporta sia l'aspetto virtuoso della contrattazione, se i genitori ne traggono l'occasione per una educazione raffinata dei diritti-doveri, sia l'aspetto dannoso, della delega data per disamore-indifferenza all'iniziativa del bambino, che deve muoversi da solo nella ricerca di una regolazione. Tutti questi aspetti moltiplicano una tipologia di potenziali tratti dell'identità, sia dello sviluppo edipico che di quello normativo, che possiamo ritenere più "liberi e duttili" nelle situazioni virtuose, mentre più "instabili e confusi" in quelle meno equilibrate o addirittura traumati-camente dannose: a questo secondo tipo di tratti noi attribuiamo in genere, e in modo vario a seconda dei nostri modelli, gli aspetti narcisistici della personalità.

Nel secondo passaggio, C2, possiamo vedere come al mutamento delle condizioni ambientali familiari corrisponda un pari mutamento delle condizioni ambientali che nella pubertà-adolescenza possono con-tribuire a favorire o a sfavorire tutti questi aspetti. L'ampliarsi dei tratti di identità disponibili all’origine nell'ambiente familiare ha oggi molto più numerose linee correttive o amplificatrici offerte da altre figure di riferimento, quali le amicizie scolastiche o extra scolastiche, o adulti che assolvono alle carenze geni-toriali, o semplicemente le funzioni stesse delle istituzioni scolastiche o parascolastiche con cui l'adole-scente interagisce. Credo che risulti evidente la complessificazione ulteriore che ne deriva, e quindi l'am-piezza della disponibilità identificatoria offerta. Il passaggio tra C1 e C2 determina quindi l'ampiezza po-

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tenziale delle combinazioni-ricombinazioni cui possono andare incontro lungo la maturazione le disponi-bilità dei tratti di identità che il bambino mette già in gioco nell'ambiente familiare, e che si formano sia dalla sua dotazione nativa personale sia dalle influenze identificatorie (e le relative difese) della costella-zione familiare. In che modo questo processo, però, si manifesta nella particolare virulenza dell'attuale sviluppo sociale e quali ne sono le ragioni?

Il problema è sintetizzato, nello schema, dalle frecce tratteggiate tra i passaggi C1, C2, C3, che vanno in senso inverso rispetto alle frecce piene. Questo andamento a ritroso dà una particolare interpretazione della diversità tra la concezione psicoanalitica dello sviluppo concettualizzato nel secolo scorso e quella che oggi dobbiamo provare a concettualizzare se ci riferiamo a una società, come quella attuale, in così rapida evo-luzione. L'andamento delle frecce piene caratterizza quella che potremmo definire (in una prima approssi-mazione) l'andamento lineare-progressivo di una concezione "stazionaria" – tendenzialmente astorica – delle forze libidiche e antilibidiche che guidano lo sviluppo iniziale e ne influenzano il modo determinante quello successivo. Il riferimento mitico ad Edipo simbolizza questa dimensione atemporale, che ha segnato l'enorme influenza della psicoanalisi, sia dal punto di vista clinico che culturale, nella concezione della psi-cologia umana, nel senso di trascendere le diverse epoche e società.

Questa visione tendenzialmente atemporale è andata incontro a diverse valutazioni e modificazioni già nel secolo scorso, insieme al modificarsi della stessa concezione psicoanalitica nei numerosi modelli che gradualmente sono più entrati nel merito dell'interazione madre-bambino, fino a confluire negli odierni modelli più tipicamente relazionali dell'interazione paziente-analista. Le frecce tratteggiate indicano perciò quella particolare interazione tra ambiente sociale e familiare, in genere inavvertita quando i movimenti so-ciali sono tendenzialmente stazionari, che però modifica lo stesso ambiente familiare, in particolare nelle caratteristiche relazionali che la madre mette in gioco fin dall’inizio nell'interazione col bambino. Quando il tempo sociale è stazionario, e i movimenti sociali non vanno incontro a grosse modificazioni, il mondo interno di coloro che accudiscono il bambino tende a sua volta a rimanere stazionario: mentre quando il tempo sociale è particolarmente mobile, il mondo interno di coloro che accudiscono il bambino viene rapi-damente influenzato, agendo appunto a ritroso nel verso dalle frecce tratteggiate, radicandosi in tutti i livel-li normativi che fin da subito entrano a far parte delle dinamiche familiari.

3. La fluidità iniziale dei tratti d’identità e la determinazione di genere È questo punto particolarmente delicato che spiega la nascosta, inavvertibile virulenza della disponibili-

tà dei tratti identificatori iniziali, le cui costellazioni non sono visibili e solo successivamente entrano a far parte delle nuove potenziali declinazioni identitarie. La disponibilità innata del bambino – quindi anche il nucleo originario edipico della concezione classica – rimane certamente a costituire un elemento essenziale dello sviluppo; ma poiché la visione pulsionale classica non è oggi da sola ritenuta determinante, accompa-gnandosi e accoppiandosi con quella relazionale, ogni influenza sociale sul campo relazionale familiare comporta una modificazione nelle attitudini materne a regolare le forze interne al mondo del bambino. Ciò però presuppone una "fluidità" delle forze maturative che guidano lo sviluppo del bambino ben maggiore di quanto abbiamo supposto in passato, fluidità che rimane silente solo quando le relazioni dell'ambiente ma-terno sono sostanzialmente confermate da quelle che il bambino poi incontra nell'ambiente regolatore della pubertà-adolescenza. Quando invece le regolazioni normative dell'ambiente familiare si allentano, questa fluidità diviene disponibile alle sollecitazioni più complesse dei ruoli multipli o delle interazioni normative divergenti tipiche dell'ambiente sociale frequentato nella pubertà-adolescenza, e quindi produce l'amplia-mento- differenziazione nei ruoli sociali della maturità, e la loro regolazione mantenuta dai processi molte-plici di identificazione.

Le frecce piene e tratteggiate indicano dunque la naturale ricorsività di questo processo, già presente nel periodo classico dei primi modelli psicoanalitici, ma inavvertibile nella sua lentezza, a conferma apparente quindi di una sostanziale invariabilità dello sviluppo primario. È questa attuale intensa ricorsività (caratte-rizzata dall’accorciarsi del salto generazionale) che produce l’inaspettata accelerazione del manifestarsi di questa fluidità iniziale. Se però pensiamo alla difficoltà incontrata negli ambienti psicoanalitici dagli studi della Infant Research che sottolineano la complessità stessa dell'interazione materna, e se ricordiamo la pari difficoltà incontrata dalla Teoria dell'attaccamento nell'evidenziare quanto gli stili materni influenzino lo sviluppo del bambino, riconosciamo che solo lentamente una visione "esterna", attenta a rintracciare tipi di

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regolazione materna non concettualizzati dalla prima psicoanalisi, è entrata a far parte delle teorie dello svi-luppo infantile.

Come servirsi, quindi, di queste osservazioni per comprendere meglio l'attuale declinazione delle identi-tà? Il tema più appariscente è la determinazione di genere (riquadro in grassetto). Se ci riferiamo a una struttura fluida iniziale di tratti di identità, la freccia tratteggiata che giunge nel riquadro da C1 indica ora l'effetto davvero complesso della costellazione sociale che dobbiamo supporre si rifletta nell'ambiente fa-miliare introducendo modelli identificatori della sessualità ora assai meno vincolanti del passato. Nel mo-mento in cui la regolazione delle norme familiari è meno intenzionata a definire categorie rigide di compor-tamento ed è più diretta ad aspetti generali di guida-educazione (anche se ambiguamente permissive) deca-de – presumibilmente – il nucleo superegoico che sotterraneamente agiva reprimendo la fluidità dei tratti di personalità agganciabili in modo vario a scelte di genere diverse da quelle solo eterosessuali. In modo ben più complesso (e complicato) di quanto supposto da Freud, la potenziale bivalenza sessuale di ogni essere umano si sfrangia non tanto in una banale moltiplicazione delle identità sessuali, ma in caratteristiche-tratti di personalità che possono differenziarsi ampiamente a partire dai due generi anatomicamente distinguibili. L'identità di genere, nelle sue controverse e nuove manifestazioni, definisce perciò l'evidenza di una ricerca strettamente personale di tratti specifici d’identità, piuttosto che una semplice diversificazione di compor-tamenti eterosessuali-omosessuali.

Mi auguro che questo tema diventi meglio comprensibile se non lo si isola dallo sviluppo più generale dei tratti di personalità che emergono da questo sistema fluido iniziale. Le osservazioni che ora farò non hanno perciò come scopo di definire con precisione questa straordinaria complessità, ma di suggerire so-prattutto un nucleo dello sviluppo iniziale che può darci un quadro utile per riflettere su alcuni temi genera-li dell'attuale declinarsi delle identità e, se possibile, di intuirne i possibili sviluppi, in modo da essere me-glio preparati ad affrontarne i problemi clinici.

4. Lo sviluppo corporeo e mentale del confine del Sé nell’interazione madre-bambino Ciò che mi sembra permetta di trattare in modo unitario alcuni aspetti del narcisismo e della fusionalità

coinvolti da questi temi, sono alcune caratteristiche dell'interazione della madre col bambino che riguarda-no un nucleo fondamentale della sua sicurezza, che può essere così sintetizzato: una interazione ottimale materna aiuta il bambino a definire, tramite la ripetuta esperienza della generale regolazione che essa esercita su di lui, un concetto di confine del Sé particolarmente ricco, elastico, ed unitario. Questo concet-to di confine riguarda sia aspetti corporei della distinzione interno-esterno, sia della regolazione emotiva diretta al mondo interno e a quello esterno, sia di quella più direttamente esperenziale che permette di di-stinguere il mondo delle fantasie da quello della realtà effettivamente praticabile. In ogni istante e in ogni situazione la madre, quando è in una buona sintonizzazione col bambino, rappresenta il limite corporeo della vicinanza amorosa che dà sicurezza o della distanza che il bambino può ricercare quando avverte il bisogno della propria autonomia, confidando che la regolazione di questa vicinanza-lontananza rimanga sempre possibile con l'aiuto della madre.

Questa esperienza elastica di limite corporeo segna la vicenda complessa dell'amore fusionale, che noi osserviamo nell'incessante muoversi, incontrarsi, separarsi di due corpi. Contemporaneamente questa esperienza però segna la compenetrazione-distinzione di due menti, che oltre a amarsi, apprendono a far convivere due mondi diversi, che gradualmente si rispettano e si accettano imparando a definire due spa-zi mentali in quel confine che si muove incessantemente dalla unione alla separazione. Perciò, quando la madre sa regolare con accortezza questo confine, dota il bambino di uno strumento straordinario, l'espe-rienza di sicurezza che si forma nella regolazione attenta di come transitare nel difficile spazio della vi-cinanza-lontananza tra esseri umani. Quanto più il bambino ha esperienza elastica di questo confine, tan-to più si amplia lo spazio mentale della propria individuazione e, contemporaneamente, dei diversi tragit-ti mentali che permettono di colmare la distanza fisica tra due corpi e la distanza tra il proprio mondo in-terno e quello esterno. È questo tipo di esperienza, a mio parere, che preserva in genere il bambino da sviluppi di tipo narcisistico, preparandolo fin da subito a una maturazione armoniosa.

Le tracce che in lui rimangono del primo, più profondo, contatto col corpo della madre sono però quelle che Freud avrebbe chiamato delle fonti sensoriali erogene, il deposito fusionale che si forma dall'incontro di due amori, e fornisce poi l'alimento dello sviluppo sessuale. Ciò che perciò noi possiamo ora supporre è

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che questo deposito si definisca tramite un confine assai più ampio e fluido di quanto potessimo immagina-re: propende per la distinzione di genere, ma non necessariamente, ed è sensibile soprattutto alla natura qualitativa del confine che si sta formando. Segue, presumibilmente, alcune direzioni classiche delle tra-sformazioni di identità indagate dai modelli psicoanalitici, ma più presumibilmente segue alcune direzioni native del bambino che guidano a una particolare maturazione di alcuni tratti costitutivi del suo futuro ge-nere, ma non di tutti quelli che, tradizionalmente, definiscono il genere.

5. Lo sviluppo del confine del Sé nell’interazione ottimale madre-bambino Questo sviluppo ottimale è ciò che individua nel riquadro D1 il primo tipo di sviluppo, della interazione

normale ottimale, e dei confini essenzialmente mobili, di cui il riquadro D2 descrive le caratteristiche prin-cipali e il riquadro D3 i relativi effetti nell'ambito sociale. Su queste caratteristiche mi soffermo brevemente poiché fanno da guida alla comprensione delle caratteristiche diverse dei punti successivi.

È questo tipo esperienza del proprio confine che produce, sinteticamente, la sicurezza del proprio nucleo identitario e, per il tema oggi così attuale della scelta di genere, la sostanziale autodeterminazione della propria distinzione sessuale dall'ampio repertorio delle forme possibili descritte prima. Questa autodeter-minazione riuscita porta nel riquadro D3* (con la linea piena), alla identità sicura di genere, che ora non sta a indicare solo le scelte di genere che implicano relazioni eterosessuali, ma anche le altre che implicano relazioni omosessuali. La sicurezza del proprio nucleo identitario psicologico è cioè tale da permettere al bambino di seguire con altrettanta sicurezza le proprie propensioni di genere, anche omosessuali, senza problematizzarle con strutture difensive che poi risultano inadeguate ad affrontare i diversi tipi di pressione sociale della pubertà-adolescenza-maturità che potrebbero indirizzarlo a scelte di genere per lui non conge-niali. Questo tipo di identità sicura contraddistingue perciò caratteristiche psicologiche che rivelano la so-stanziale egosintonicità di una scelta di genere, cioè la forma che avvertiamo "naturale" della identità ses-suale, sostanzialmente priva di ambivalenze (ma non necessariamente di forti sofferenze in ambienti ostili), e quindi senza forti elaborazioni difensive di tipo narcisistico.

Da un punto di vista più generale, questa specifica mobilità-espansione ottimale dei confini produce le caratteristiche del quadro D3, cioè una adattabilità-plasticità mentale che comporta una scelta mobile (cioè non condizionata da stereotipi) tra le disponibilità di ruolo offerte dall'ambiente sociale. Se ci atteniamo al modello strutturale classico, questa adattabilità-plasticità integrativa caratterizza una specifica capacità di transizione Sé/Io, cioè la capacità di attingere alle risorse più profonde del Sé (quelle del nucleo identitario originario), ma mettendole a disposizione di quelle funzioni dell'Io che sono in contatto continuo con la realtà. Un derivato di questa mobilità è inoltre la potenzialità creativa delle proprie risorse sia nei rapporti di lavoro che in quelli affettivi. Gli aspetti creativi sottintendono invece la particolare mobilità che riguarda la transizione Es/Sé/Io, negli aspetti non patologici dei derivati originari delle scissioni comunque presenti nell'ambiente familiare (e nella stessa mente della madre) che il bambino ha dovuto imparare a fronteggiare creando un opportuno spazio transizionale (questi derivati originari costituiscono lo "stare tra gli spazi" di cui parla Bromberg).

Pur apparendo evidente, in questa descrizione, una sorta di configurazione idealizzata del benessere psi-chico derivante da un'identità sicura, questa tipologia aiuta a comprendere, per contrasto, il significato degli altri tipi di confine, che qui provo a delineare rapidamente per suggerire altri elementi utili alla discussione.

A mio parere possiamo differenziare, per comodità, tre tipi di confine corporeo-psichico non ottimale.

Poiché il tema è straordinariamente complesso, ne fornirò solo alcune indicazioni che mi auguro aiutino il dibattito.

6. Lo sviluppo del confine del Sé nell’interazione drasticamente carente Il primo tipo di disregolazione riguarda la madre che tende a trascurare drasticamente il bambino (cui si

accompagna un ambiente familiare altrettanto inadeguato), che quindi caratterizza una sintomatica carenza-assenza di interazione. Attenendoci al precedente concetto di confine corporeo-mentale, è la transizione dentro-fuori che risulta gravemente carente, e ciò fornisce una chiave interpretativa di diversi processi che si manifestano in modo patogeno. Semplificando molto, questo tipo di relazione materna fa da fondamento all’ampia area dei disturbi psicotici-schizoidi, sia meno gravi che molto gravi. Quest'area incerta non fon-

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da, in questo caso, la dimensione della ricerca amorosa-fiduciosa della vicinanza e, insieme, la dimensione del pensiero che si articola (man mano che il bambino cresce) nella sicurezza che consente la separazione e si appoggia al consenso mentale della madre all'autonomia.

Questa dimensione della inconsistenza dell'amore verso l'altro e verso il pensiero stesso, caratterizza – ove ci riferiamo all'esperienza clinica– la riconosciuta difficoltà del tranfert, della comunicazione-elaborazione affettiva, della organizzazione-funzione del pensiero. Nella corrispondente riquadro D2 sono però sottolineate, più che queste caratteristiche, quelle che più significativamente appaiono confluire nelle nuove manifestazioni dell'identità sessuale o in più particolari scelte-selezioni di ruoli sociali. Dal punto di vista sessuale, la carenza nell'area fiduciosa-amorosa della vicinanza corporea e affettiva suggerisce con la linea che porta al quadro D3* due declinazioni identitarie che si manifestano oggi in modo crescente e che appaiono appunto riferibili a questa carenza: la caduta di investimento relazionale-affettivo indicata dalla iposessualizzazione di genere e l'incertezza-indistinzione che si radicalizza nella assenza-indifferenza di genere.

Questo sviluppo carente della propria identità e della dimensione ben articolata del pensiero comporta però più in generale diversi tratti che indirizzano, nell'ambito sociale, a ruoli in genere assimilabili a quelli di un difetto del Sé, nel senso di appoggiarsi a dipendenze più o meno conflittuali, di cui propongo gli aspetti che a mio parere mi sembrano i più attinenti a questa difficile area dello sviluppo primario: latenti forme di depersonalizzazione, o difese arcaiche con ritiri assimilabili a quelli autistici, incapacità-negazioni di dati di realtà; ma anche tratti meno riconoscibili, come l'adesione parassitaria dall'oggetto, derivante dal-la sfiducia nella propria identità, oppure l'ostilità verso la dipendenza suscitata immediatamente dall'ogget-to che permane come nucleo della propria diffidenza relazionale. Tutti questi aspetti caratterizzano, sempli-ficando, modalità evolutive-difensive di tipo narcisistico che oggi tendiamo a interpretare come carenze di un buon apporto narcisistico materno, derivante appunto dalla precarietà del suo rapporto relazionale col bambino.

Queste propensioni difensive sono gli aspetti che mi appaiono più evidenti della elusività di queste iden-tità a poter stabilire un rapporto percepibile come responsivo o adeguatamente affettivo-emotivo, o sincero (ad esempio nei momenti di crisi della cura). Tale elusività caratterizza diversi ruoli sociali scelti da queste declinazioni identitarie, in cui permane un difetto fondamentale del rapporto Sé-Io, e in cui si avverte che il Sé non è "ben presente", ma "parla" solo attraverso una certa inadeguatezza del proprio Sé-sociale. Se però mettiamo in conto, nella dotazione originaria del bambino, una certa quota di aggressività-violenza, che prende consistenza proprio per la carenza delle cure materne (il bambino quindi avverte l'ingiustizia dell'i-solamento-solitudine in cui è lasciato affettivamente), il bambino può investire di forza antagonistica so-pravvivenziale il proprio nucleo identitario. Questa trasformazione è molto complessa, e ne accenno perché mi sembra poter spiegare un particolare ruolo di Sé conflittuale facilmente assimilabile in alcuni ambiti so-ciali che hanno tendenza ad autoemarginarsi. Questo tipo di bambino assume quindi su di sé la funzione mancante nella madre, ma nella idealizzazione di una mancanza avvertita come ingiusta. Tale funzione ap-pare perciò in un aspetto narcisistico, ma fragile, le cui forme di idealizzazione sono essenzialmente insuf-ficientemente ancorate dalla realtà, in genere quindi destinate a non integrarsi in un ambito sociale.

Per certi aspetti questo tipo di Sé caratterizza alcune modalità comuni della transizione adolescenziale a un Sé più maturo, ma senza la strumentazione di pensiero che lo guidi ad acquisire dall'ambiente il tipo di relazione che può aiutarlo a correggere-rimodellare questo tipo di istanza. Per queste ragioni appare un'area ubiquitaria della difficoltà-impossibilità alla integrazione-cooperazione nel mondo complesso delle rela-zioni sociali, in genere connotato nel ritiro o nella velleità, un'area che appare in crescente diffusione in tut-te le società moderne. Di questa sorta di difficolta-impossibilità la iposessualizzazione o assenza-indifferenza di genere appare perciò simbolizzare l’ampia area sostanzialmente deprivata di affetti e inve-stimenti che connota la latente devitalizzazione percepibile in diversi settori sociali e si riversa ricorsiva-mente nell’ambito materno e familiare che poi tende a riprodurla e, addirittura, ad amplificarla.

7. Lo sviluppo del confine del Sé nell’interazione drasticamente instabile Alcuni tratti di identità diversi caratterizzano il secondo tipo di relazione difficile, della madre il cui

principale difetto relazionale consiste nella drastica instabilità della sua presenza, cui si accompagnano per-ciò contraddittoriamente marcate assenze-distanze nella relazione col bambino. Tale tipo di instabilità ca-

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ratterizza la forte discontinuità dei confini affettivi e delle elaborazioni di pensiero che la madre inaugura ben presto con il bambino, e spiegano la natura dolorosa e patogena per il bambino di una discontinuità per lui essenzialmente incomprensibile. Sia la natura della fiducia amorosa che si accompagna a una relazione materna prevedibile perciò si attenua fortemente e, in modo simile, la capacità del pensiero di apprendere ad elaborare con sufficiente coerenza un esame attendibile della realtà e, soprattutto, di previsione-immaginazione del rapporto di causa-effetto tra le proprie intenzioni e i loro effetti.

Assai sinteticamente, questo tipo di relazione aiuta a cogliere il senso dello sviluppo che noi designiamo come border, caratterizzato tipicamente da una carenza della mentalizzazione, cioè la capacità di prevedere il comportamento altrui proprio in conseguenza della profonda contraddittorietà della relazione materna. Inoltre aiuta a valutare l'origine della aggressività-distruttività che permea sotterraneamente le relazioni af-fettive di quelle declinazioni identitarie che hanno origine da questo primo impatto con una relazione ma-terna imprevedibile, tanto conclamate nei tipici casi border, che più tipicamente attribuiamo agli aspetti narcisistici più gravi. Dal punto di vista sessuale questa sorta di "permeabilità-ambiguità" della propria identità appare perciò condurre, nel quadro D3*, alle forme complesse della insicurezza-ambivalenza di genere, ricche di aspetti misti, improntate alla difesa aggressiva e richiedente, che caratterizzano gli aspetti più manifesti di questo tipo di personalità, essendo derivati del lascito di intimità eccessive (paraincestuo-se), distanziamenti improvvisi e abnormi, incomprensioni le cui eventuali riconciliazioni risultano comun-que incongruenti, separazioni avvertite nella lontananza mentale della madre anche quando si mostra appa-rentemente presente.

Se si esula dalla scelta di genere, e si entra nel merito delle declinazioni di identità che caratterizzano i ruoli sociali, è la ricca sfumatura dei tratti derivati da questo tipo di interazione materna e familiare che ap-pare intuitivamente prevalere nella nostra società, caratterizzandone la diffusione di tratti narcisistici. Qual-siasi madre, anche quella sufficientemente buona, non è esente da contrasti-contraddizioni, e quindi le for-me sfumate di queste componenti tendono ad essere ubiquitarie, e ben avvertibili come lo sfondo dei carat-teri nevrotici. Alcuni di queste componenti interessano più precisamente alcuni ruoli sociali dell'ambiente adulto che forniscono un contenitore spesso a sostegno-giustificazione di questi tratti. Un aspetto che mi sembra particolarmente interessante sono le caratteristiche di ambiguità-intolleranza all'incertezza che pos-sono virare, quando il bambino riesce a sopperire alle mancanze materne, in alcune modalità compensative che confluiscono in alcuni tipi di falso Sé lideristico-autoritario. Se ne può avvertire una patologia crescen-te, nel nostro sistema sociale, nella capacità a mentire, intesa come sistema di suggestioni-credenze che hanno lo scopo di un occultamento della angoscia della verità psichica. Diversamente da come intendiamo la sistematizzazione personale di un delirio, questa sistematizzazione acquisisce oggi un rilevante ruolo so-ciale che attrae molte declinazioni identitarie, poiché agisce sulla rassicurazione delle incertezze-ambivalenze, e caratterizza perciò diversi ruoli-guida accettati in modo consensuale (tipicamente nei leader politici, o in coloro che assolvono a una funzione di leader comunicativo-persuasivo, o semplicemente di-rettivo-manageriale). Quest'area fortemente ambigua si accompagna con una certa frequenza a comporta-menti sessuali insospettabili (sorprendentemente in alcuni ambienti religiosi, anche carismatici), che però caratterizzano nell'ambito più ampio della risonanza sociale gli aspetti confusi, in genere privati e inelabo-rati, della sofferenza border alla ricerca di una propria conferma d'identità.

Ma si può notare anche l'intolleranza all'incertezza, l'impossibilità a risolvere la natura complessa degli affetti, insieme alla carenza di una formazione adeguata di uno spazio mentale dei confini dentro-fuori. Propongo un esempio particolare. Se consideriamo la crescita dei fenomeni di anoressia, potremmo inter-rogarci se essi non derivino da una sotterranea intellettualizzazione-astrazione dell'accudimento alimentare, che fin da subito sottrae un'area affettiva dallo spazio psichico primario del contatto della madre col bam-bino. Il nucleo di una astrazione mentale rinunciataria verso il cibo, la cui privazione volontaria è avvertita come replica conflittuale di un successo nella relazione affettiva con la madre, sembra chiaramente conflui-re nella disposizione dell'anoressica all'astrazione intellettuale, in uno spazio mentale la cui estensione è complementare alla restrizione relazionale-emotiva. Ciò segnala, a mio parere, come in generale sia mutata – e presumibilmente sia destinata ad altri mutamenti – la disposizione mentale naturale della madre, anche in diretto contrasto con le sue più appariscenti manifestazioni d’accudimento, e come quindi le tematiche border si stiano ampliando, ma non necessariamente negli aspetti patogeni già conosciuti, bensì in quelli più sottili di una latente diffusione di alcuni loro tratti meno distinguibili, che si combinano con altri tratti d'identità generando una sorta di ubiquità inavvertibile di processi border.

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8, Lo sviluppo del confine del Sé nell’interazione dominante Il terzo tipo di relazione materna patogeno riguarda l'eccesso di interazione materna col bambino, e

quindi un vincolo eccessivo nella formazione dei confini, affettivi e mentali, descritti prima. In questo terzo tipo, il concetto di confine è forse più facilmente comprensibile, poiché corrisponde a nuclei di identità che vengono limitati nella loro potenziale dimensione relazionale affettiva e, insieme, nella espansione-elaborazione di forme individuali di pensiero. Gli elementi più semplici sono quelli che, tradizionalmente, danno luogo nella prima infanzia ai legami fusionali caratterizzati da separazioni impossibili o difficili e, clinicamente, ai residui imitativi più forti o alle individuazioni meno carenti. La dotazione innata del bam-bino può favorire questi specifici attaccamenti adesivi che in modo conclamato danno luogo, nello svilup-po, a quanto è stato definito nella psicoanalisi il tipico falso Sé.

Qui intendo però suggerire l'area ampia che può formarsi dai diversi tratti d'identità che caratterizzano questo sviluppo. Ove il bambino è lo specchio proiettivo di una personale solitudine o depressione della madre, la complicità di un'appartenenza inizialmente unica non fonda più l'area della sicurezza, che apre alla curiosità e al potere attrattivo della diversità, ma fonda invece quella della chiusura diffidente, della ri-cerca della conformità e, sottilmente, della ubbidienza acritica, timorosa. Mi sembra utile far notare che l'appartenenza originaria a un nucleo proposto come forte, amorevolmente autoritario, tendenzialmente esclusivo, fonda anche l'esperienza della unicità ideale, e della indifferenza o aggressività lecite verso ciò che non garantisce questo tipo di appartenenza. In questo senso negativo opera la contrazione di un confi-ne, la concentrazione della costellazione emotiva che, ordinariamente, la madre armoniosa non unifica dogmaticamente, ma rende invece percepibile al bambino come la risorsa più utile di un'elasticità affettiva e mentale. Questo contrarsi di un confine è, nei fatti, anche letteralmente corporeo, con i rischi che ciò comporta nella sottile erotizzazione dello spazio mentale: questo, invece di espandersi nella esplorazione e nella curiosità, rimane ancorato non semplicemente alla presenza mentale materna, ma più direttamente in quella corporea.

Qui potremmo, a mio parere, comprendere meglio il destino precoce di una sessualità che fin dall'inizio si àncora alla presenza dell'altro nel suo significato di dipendenza sottilmente impositiva, che solo dopo emerge nei suoi nascosti derivati conflittuali, dovuti all'ancoramento a una presenza interna sovrastante, che si è offerta come centro di un universo assoluto. Un'ampia collezione di tratti può formarsi, nella matu-razione successiva, da questa sorta di contrazione iniziale del confine fisico e mentale, con diverse traietto-rie seguibili potenzialmente dal bambino. Dal punto di vista della scelta identità di genere, la forma ideale del confinamento corporeo appare giustificare, nel riquadro D3*, le due forme più appariscenti della ses-sualità nell'ambito sociale, la iperdeterminazione e la ipersessualizzazione di genere, che a mio parere di-stinguono due diversi processi maturativi.

Il primo caratterizza non la semplice scelta di genere, eterosessuale o omosessuale, ma il significato par-ticolare che questa assume nel suo emergere da una situazione relazionale iniziale tendenzialmente esclusi-va, connotata nell'efficacia e nella forza con cui limita il campo relazionale e, quindi, anche quello specifi-co della identità sessualità in sviluppo del bambino. Il bambino quindi assume il suo tratto nativo di identità sessuale nella implicita perentorietà della relazione privilegiata con la madre, che lo garantisce della sua appartenenza a una esclusività ideale. Sia quindi la scelta eterosessuale, sia quella omosessuale, vengono connotate in quella perentorietà che traspare nella iperdeterminazione di genere, cioè non nella semplice assunzione del genere sessuale, ma nella forza ideale (e ideologica) che la connota come scelta non sempli-cemente personale, ma necessaria e privilegiata. Sociologicamente questa forma di iperdeterminazione è ben riconoscibile nelle società autoritarie, e in genere si manifesta nel versante ipergarantito socialmente della sola scelta eterosessuale, e nella violenza invece della stigmatizzazione-condanna di quella omoses-suale. Ma nella società attuale, permeata di istanze rivendicative, la iperdeterminazione di genere traspare direttamente anche nella scelta omosessuale, ed agganciata ad alcune forme di organizzazione sociale che ne garantiscono la visibilità e anche l'influenza socioeconomica: è ben riconoscibile, ad esempio, (in modo crescente soprattutto negli ultimi anni) nella radicalizzazione delle élite omosessuali maschili dal forte po-tere economico mentre è meno appariscente la distribuzione più omogenea delle élite omosessuali femmi-nili, proprio per ragioni inerenti alla disparità sociale del potere.

L'aspetto soggettivo, fortemente individuale della propria scelta di genere, traspare invece negli aspet-ti personali di ipersessualizzazione, cioè l'assegnazione di un valore intrinseco della attività sessuale con-

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seguente alla scelta del genere, che traspare in molti modi sia nelle scelte eterosessuali che omosessuali, e a mio parere ha come spiegazione, dal punto di vista psicodinamico, due aspetti concomitanti: il primo è l'eredità della erotizzazione primaria che alimenta intensamente i primi nuclei della sessualità, prima che questa si differenzi nella pubertà-adolescenza lungo le direzioni native della eterosessualità o omo-sessualità; il secondo è l'eredità di una sotterranea conflittualità conseguente allo spazio mentale sottil-mente coartato dalla madre, che mantiene l'individuazione sessuale in un piano di necessaria continua au-toconferma, sottilmente polemica (e perciò in genere connotata da una iperdeterminazione) verso l'ordi-nario apparato sociale.

Quest'ultimo punto permette però di valutare la reale complessità dell'influenza materna in questo terzo tipo di relazione col bambino, e di riflettere a ritroso alle altre scelte di genere prima presentate. La ridu-zione dei confini mentali è in genere percepita dal bambino, dapprima, come una fonte di sicurezza, per la limitatezza stessa delle esperienze iniziali, confinate nello spazio fisico e mentale del rapporto primario. Ma ben presto il bambino intuisce la complessità del mondo circostante, e pertanto l’ancoramento alla sicu-rezza-autorevolezza della forte guida materna produce, nel bambino vitale e tendenzialmente autonomo, un'area conflittuale silente, il prezzo della garanzia materna all'unicità.

Il conflitto originario include l’enorme difficoltà a interiorizzare-introiettare una dimensione ampia, ela-stica, dei confini fuori-dentro e dei relativi spazi mentali che ne caratterizzano le sofisticate elaborazioni necessarie all'adulto. Da ciò deriva sostanzialmente una limitatezza del Sè, una intolleranza dell'Io a una comprensione realmente ampia delle dinamiche sociali, fino all’evidenziarsi di nuclei protettivi così forti da rasentare quelli autistici. Questi aspetti deficitari permeano in misura più o meno ampia alcuni tratti d’identità dei ruoli relazionali sociali dell'adulto, quali l'attitudine ad adottare aspetti imitativi del contesto sociale, in modo da manipolarlo, e ad assumere modalità affettive moralistiche tipiche del falso Sé, che hanno anch'essi scopo manipolatorio, e ne rivelano l'ascendenza dogmatica nell'ambito primario dell'edu-cazione materna.

Ma ove il conflitto originario è molto forte, compaiono scissioni funzionali, che rasentano la depersona-lizzazione, e si manifestano nelle sottili modalità di identificazione proiettiva che anche in questo caso ca-ratterizzano ruoli lideristici, ad impronta perversa, tramite cui il nucleo insicuro che permane nell'adulto viene a mascherarsi nell'ambito apparente di una socializzazione. Tutti questi aspetti caratterizzano an-ch'essi tratti di identità che noi attribuiamo al falso Sé (principalmente quelli in cui è rilevabile la fragilità dell'Io e il suo aggrapparsi a modalità imitative, che risuonano meccaniche e stereotipate). Un'ampia serie di problematiche che qualifichiamo anch’esse come narcisistiche caratterizza dunque questi aspetti, offren-doci un panorama davvero ampio delle difese narcisistiche che possono articolarsi dalla relazione primaria. Diversamente da quelle precedenti, l'accesso all'area di sofferenza mi pare per diversi aspetti più difficile, poiché si radica nella estraneità dell'esperienza elastica che la sotterranea violenza della relazione primaria ha impedito al bambino, ma di cui lui avverte oscuramente l'angoscia, e che connota nella durezza l'aspetto difensivo che in genere impedisce di entrarvi in contatto.

9. Carenze del Sé e omologazione. Nuove identità di genere e nuove genitorialità Il quadro D3 sottintende perciò, quando ne riassumiamo gli effetti nei vari tipi di relazione primaria de-

scritti prima, molti aspetti assimilabili al falso Sé (alcuni dei quali non trattati in questa breve presentazio-ne), che provengono da modalità però diverse della originaria relazione della madre col bambino. Se si do-vesse sintetizzare intuitivamente questo quadro, la diversificazione delle nuove declinazioni identitarie sot-tintende una disponibilità crescente alla combinatoria di tratti di identità che caratterizzano molti difetti-assenze alla propria potenziale dotazione affettiva e psichica, e guidano ad interrogarsi sulle risorse ancora disponibili per ovviarne le carenze: il quadro, se ci riferiamo al concetto di confine dentro-fuori sia nel suo significato affettivo che di elaborazione mentale, tende perciò a evidenziare una diffusione di problemati-che assenze di confini, cioè una generale carenza di individuazione della propria identità.

Sociologicamente questa diffusione viene descritta col termine di omologazione, ciò che però nasconde le declinazioni realmente complesse delle nuove identità, che tendono a variare più nell'ambito della caren-za-patologia di individuazioni della propria identità che nell'accesso a identità semplicemente omologabili. È la diffusione dei mezzi di comunicazione, il confronto continuo delle varie identità e la numerosità degli accessi disponibili ai ruoli sociali, che stimola a un adattamento reciproco alla consensualità-somiglianza

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delle identità, ma certamente con la sotterranea angoscia a non sapersi-potersi individuare: e perciò, all'op-posto della omologazione, produce correnti di ribellioni e antagonismi diretti proprio a salvaguardare le possibilità di una individuazione, anche se comunque sottilmente implicati, nel piano identificatorio, con le carenze di individuazione offerte dall'ambiente sociale.

Gli aspetti intuitivamente più problematici di questi processi si manifestano, probabilmente, nei modi con cui oggi le varie coppie di genere aspirano alla genitorialita, e quindi declinano le tradizionali identità di padre e madre proprio nelle nuove identità di genere. I ruoli paterni e materni, da questo punto di vista, appaiono diventati più direttamente percepibili nella loro variabilità-instabilità, vedendo assunti come fun-zioni genitoriali di particolari costellazioni di tratti di identità, di cui le scelte di genere aspirano a riassu-mere le caratteristiche una volta dipendenti dalla sola distinzione sessuale. Può quindi apparire in un certo senso rivelatore dell'entità di questi problemi che il difficile tema della relazione della madre col bambino, che secondo le precedenti osservazioni è la fonte delle diverse identità di genere, abbia oggi come corri-spettivo proprio il desiderio di maternità assunto come diritto naturale dalle nuove coppie di genere. Se adottiamo un ottica transgenerazionale, il nucleo originario di una difficile relazione madre-bambino dà luogo al desiderio, avvertito come legittimo (e forse inconsciamente autoriparativo), di generare una nuova relazione madre-bambino, presumibilmente idealizzata rispetto al suo ruolo tradizionale. Ciò esemplifica forse nel modo più evidente lo scenario psicologico davvero complesso di come possiamo concettualizzare oggi la funzione materna e di come vi concorrono, nel mantenerne la funzione nella nostra società, tutte le nuove identità di genere.

Tutto ciò segna una evidente problematicità del modo con cui possiamo concettualizzare la struttura dell'identità nella sua potenzialità di tratti identificatori disponibili. Appare quindi un compito davvero ne-cessario formulare ipotesi e verificarle studiando attentamente le relazioni nel mondo primario del bambino e quelle che la madre contribuisce a regolare, in modo da rimanere attenti alla natura complessa e spesso indecifrabile delle nuove forme di identità, e poter intervenire dal punto di vista clinico per aiutare a risol-vere nel modo più efficace le situazioni di sofferenza.

10. Nuove declinazioni identitarie: cambiano le modalità terapeutiche? Per ultimo, cambia qualcosa nei presupposti psicoanalitici del lavoro clinico, se ad esempio adottiamo

alcune delle ipotesi proposte? Conviene riflettere che vi è un potenziale circolo vizioso di autoconferma tra modello della cura psicoanalitica-psicoterapica e il tipo di paziente che chiede a noi aiuto, in genere già predisposto a esplorare in prospettivamente la propria carenza affettiva o di elaborazione mentale. Di tutte le nuove declinazione identitarie, dunque, è presumibile supporre che si presentino a noi coloro che hanno già una dotazione introspettiva aperta al lavoro psicoanalitico-psicoterapico. Questa implicita selezione può dare perciò l'idea di una sorta di invarianza della modalità di lavoro clinico, una tesi che comporterebbe una visione pericolosamente atemporale del modello psicoanalitico, separata dalla necessità di confrontarsi con l'ampio spettro dei mutamenti d'identità che comunque questo nuovo tipo di paziente porterebbe, esoneran-doci quindi dagli approfondimenti utili coglierne le potenzialità di cura e tradurle delle migliori pratiche cliniche.

Si potrebbe obiettare orgogliosamente che le altre pratiche cliniche estranee a quella psicoanalitica cor-rispondono a falsi Sé o Sé psicoterapici carenti in cui si riflettono semplicemente i Sé sociali che ne richie-dono solo una cura superficiale, ma ciò non eliminerebbe il problema di una rischiosa visione elitaria della cura psicoanalitica e di quella psicoterapica che ne è improntata. Se vi è un'etica umana nella cura, sarebbe bene supporre che questa avrebbe vantaggio dallo spaziare con interesse nell'intero paesaggio umano, an-che quello meno disposto a curarsi, e dal saperlo attrarre a una miglior conoscenza di se stessi, restituendo-gli il valore che è andato perso. Le nuove declinazioni identitarie sottintendono a mio parere una sofferenza e una perdita rilevanti del tradizionale assetto identitario. Ciò riguarda presumibilmente anche noi, che av-vertiamo una perdita latente della identità psicoanalitica, proprio perché già nel secolo scorso si è sfrangiata in innumerevoli identità teorico-cliniche, e oggi ci pone di fronte alla loro problematica eredità. Qualcosa di simile quindi accomuna in profondità questi due percorsi di ricerca della propria identità, di noi terapeuti e dei nostri potenziali pazienti, invitando all'approfondimento attento di queste nuove declinazioni identita-rie proprio per migliorare la capacità teorica-clinica delle risorse psicoanalitiche e psicoterapiche che ne possono accogliere la sofferenza.

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Sviluppo primario e ambientale familiare Sviluppo secondario ambientale-sociale

Attaccamento infanzia Pubertà-Adolescenza Maturità

DETERMINAZIONE DI GENERE

Identità sicura di genere Iposessualizzazione di genere Aassenza-indifferenza di genere Insicurezza-ambivalenza di genere Iperdeterminazione di genere Ipersessualizzazione di genere

Interazione bambino- madre Interazione edipica Interazione normativa

Interazione dei ruoli sociali Processi multipli di identificazione

Interazione di ruoli multipli Interazione normativa Interazione socio educativa

Instabilità-confusione fuori-dentro Diffusività-influenzamento di genere Ambiguità-intolleranza all’incertezza Permeabilità sessuale

Depersonalizzazione-difese arcaiche Sconfinamento-controllo parassitario Angoscia- labilità del nuc identiario Indistinzione-indifferenza sessuale

INTER-MADRE-BAMBINO Interazione normale Confini mobili Assenza d’interazione Non controllo dei confini Difetto-instabilità d’interazione Difetto-instabilità di confini Eccesso d’interazione Eccesso di confini

Conflitto introiettivo fuori-dentro Limitatezza del Sé: intolleranza dell’Io Nuclei autistici, difese proiettive Sessualizzazione difensiva dell’identità

Adattabilità-plasticità (integrazione mobile: Sé/Io) Scelta mobile di ruoli sociali Creatività (derivato funzionale/scissione: Sé-Es-Io)

Difetto del Sé: Io instabile Inconsapevolezza adattativa (passività dei ruoli sociali: Io-Sé debole) Depersonalizzazione opportunistica Falso-Sé passivo-adattativo Falso-Sé conflittuale Falso-Sé lideristico Imitazione manipolatoria (identificazione proiettiva: isterica) Mobilità disidentificatoria Trasformismo (cinismo adattativo: psicopatico) Moralismo manipolatorio Scissione funzionale (identificazione proiettiva: Sé-Superio) Scissione proiettiva a guida sociale

Interazione introiettiva proiettiva Dinamica espansa dentro-fuori Sicurezza del nucelo identitario distinzione sessuale autodeterminata

A2

B1 B2 B3

C1

D1

C3

A1

C2

D3

D2

D3*

D3

narcisismo

attaccamento

fusionalità

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Psicoterapia Psicoanalitica e mutamenti socialiConvegno Nazionale SIPP Bologna 4-5 dicembre 2015

Panel b) Psicoterapia tra istituzioni assediate e frammentazione del soggetto

Come tener viva la funzione psicoanaliticadella mente nelle istituzioni curanti in tempi di riduzione delle risorse

Marta Vigorelli

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Psicoterapia nei servizi in via di estinzione?Psicoanalisi e istituzioni: Incontrarsi o dirsi addio? (Rossi Monti, Psiche , 2013)

• nei consultori pubblici…• nei centri di salute mentale…• nelle residenze con varie protezioni…

Come ci poniamo?• Come tener viva la funzione psicoanaliticadella mente ?

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Come ci poniamo?• gli orientamenti socio-culturali prevalenti, oltre alla

congiuntura economica , autorizzano ad una certa preoccupazione, se non ad un franco pessimismo, circa l'organizzazione dell’istituzione curante in generale, ancor prima delle intersezioni tra psicoanalisi e psichiatria.

• il senso del mio intervento non sta nell’unirci al coro delle lamentazioni o “ in una deprecatio apocalittica dei tempi attuali (ridotti nel personale e negli spazi per pensare) ” e tanto meno nell’ “l'invito ad una eroica resistenza”. (Barale, L’inconscio all’epoca dell’aziendalizzazione 2003)

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Ma…nel recupero di alcuni valori e caposaldi del patrimonio storico

che riguarda il lavoro con il paziente grave, elaborati dalla cultura

psicodinamica in questi ultimi cinquant’anni di esperienza

Page 50: Relazioni del convegno nazionale SIPP di Bologna

… fecondo connubio internazionale

• sono state realizzate alcune importanti esperienze innovative in contesto istituzionale, avviate a partire dagli anni ‘40 da psicoanalisti e psichiatri, orientati analiticamente, che hanno concorso a promuovere una graduale ma profonda trasformazione dei metodi terapeutici, un’estensione dell’oggetto di indagine, dall’individuo e dal setting duale classico verso il gruppo, la famiglia e soprattutto quel tipo di patologia grave che richiede un setting allargato.

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L’area inglese

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Esperienze pilota realizzate a livello internazionale

• Area Inglese: esperimenti di Northfield con Bion e Foulkes (‘42 e44-45); Main e il Cassel Hospital (’47); Jones e l’Henderson Hospital(46); Tavistock Institute e la socioanalisi

• Area Statunitense: Chestnut Lodge Hospital (1933-2001);Menninger Clinic & Foundation (1925) Austin Riggs (1919)

• Area Argentina: i gruppi operativi di Pichon Riviere (1946);l’istituzione come socialità sincretica di Bleger; la comunità terapeuticapsicoanalitica di struttura multifamigliare di Badaracco (’68)

• Area Francese: la psichiatria di settore (dal ’60); la Velotte diRacamier (1968); Villeurbanne di Sassolas (’68); il CEFFRAP di Anzieu eKaes

• Area Italiana: numerosi gruppi di lavoro (Roma, Venezia, Verona,Padova, Pavia, Milano, Bologna, ecc. )

Page 53: Relazioni del convegno nazionale SIPP di Bologna

La sperimentazione di Northfield

(1942-1945) Bion, Foulkes, MainLa gruppalità è intrinseca allo psichismo individuale Il gruppo ha una sua mentalità di gruppo;cioè funziona come unità, benché i suoi membri non se lo propongano e non ne abbiano coscienza non esiste gruppo senza un compito consapevole, cioè un obiettivo dichiarato, in forza del quale delle persone si riuniscono gli individui, riuniti in gruppo, si trovano, sotto la pressione dei processi regressiviindotti, ad agire per “valenza”, cioè a condividere e a operare in modo istantaneo e involontario secondo gli assunti di base

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Cassel Hospital & Tom Main (1948)

“culture of inquiry”: autosservazionedell’intero sistema

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Tavistock House

Modello Tavistock: paradigma ecletticosocio-analisi + teoria dei sistemi aperti

Utile per la cornice istituzionale del management attuale

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L’area statunitense

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Chestnutlodge

Il modello integrato e la ricerca per contrastare i processi di cronicizzazione “The mental Hospital” (Stanton e Schwartz,1954)

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Modello bio-psicosociale, approccio interdisciplinare, formazione e ricerca

The MENNINGERCLINICWALLERSTEIN, GLEN GABBARD,

OTTO KERNBERG

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Austen Riggs la cura dei pazienti resistenti ai trattamenti

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L’area argentina

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Pichon – Rivière Josè Blegergruppo operativo istituzione

come totalità

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L’area franceseRacamier e la psicoanalisi senza divanoComunità La Velotte

Marcel Sassolas:l’importanza di un sistema di cura integrato

Le comunità di Villeurbanne

Page 63: Relazioni del convegno nazionale SIPP di Bologna

In Italia dopo la riforma della legge 180

Page 64: Relazioni del convegno nazionale SIPP di Bologna

1976 Franco Fornariil mistico e l’istituzione (Bion)

Page 65: Relazioni del convegno nazionale SIPP di Bologna

1987 De Martis e Petrella clinica di Paviaprima integrazione tra psicoanalisi e psichiatria

Page 66: Relazioni del convegno nazionale SIPP di Bologna

1988 Zapparoli e il modello integrato

Page 67: Relazioni del convegno nazionale SIPP di Bologna

1991 Correalel’istituzione come isomorfa alla complessità

del campo mentale

Page 68: Relazioni del convegno nazionale SIPP di Bologna

1994 Vigorelli infanzia- adolescenza- età adulta

organizzazione della continuità evolutiva delle cure

Page 69: Relazioni del convegno nazionale SIPP di Bologna

1996 Berti Ceronisetting ambulatoriale e lavoro di équipe

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1997 La psicosi come laboratorio di modelli di comprensione e trattamento: campo e empatia

Page 71: Relazioni del convegno nazionale SIPP di Bologna

1999 Berti Ceroni, Correaleil gruppo nelle patologie gravi: ambulatorio, reparto, centri

diurni, residenze, lavoro con le famiglie, supervisione

Page 72: Relazioni del convegno nazionale SIPP di Bologna

2003 Rinaldila psicoanalisi fuori «dalla nicchia ecologica» a

contatto con le patologie gravi

Page 73: Relazioni del convegno nazionale SIPP di Bologna

2004 Vigorelliesperienze psicoanalitiche

pilota internazionali

una mappa dei servizipubblici e privati

dall’infanziaall’età adulta

Organizzazione e formazione

degli operatori

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2006 Correale

l’area traumatica è quell’area dell’esperienza che, per la sua potenzialità negativa , è in grado di far precipitare nella crisi acuta lo psicoticoe il borderline. Se il campo istituzionale riesce a individuare e leggere l’area traumatica del paziente ed è in grado di restituirla gradualmente , riesce ad avviare i complessi processi di integrazione

Page 75: Relazioni del convegno nazionale SIPP di Bologna

2007 Perinila dimensione inconscia dell’organizzazione istituzionale

e la funzione della leadership

Page 76: Relazioni del convegno nazionale SIPP di Bologna

2014 Neri et al.La rete dei servizi orientati psicoanaliticamente a

trent’anni dalla 180

Page 77: Relazioni del convegno nazionale SIPP di Bologna

1994 Ferruta, T. Galli, Loiacono

Una struttura intermediaA orientamento psicoanalitico e comunitario a Milano, precursore..

Page 78: Relazioni del convegno nazionale SIPP di Bologna

La comunità terapeutica come metodo globale di cura

Page 79: Relazioni del convegno nazionale SIPP di Bologna

1998, l’inizio del movimento italiano delle comunità terapeutiche…

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gruppo di CT in auto-osservazione...

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2012 Mito&RealtàRete di 57 comunità residenziali con alti standard di qualità verificati con il Visiting :processo di valutazione comeaccreditamento alla pari

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CT Il PortoMoncalieri - Torino

Tempo 1Invio report autovalutazione

Tempo 1Invio report

autovalutazione

Tempo 2Visita della prima comunità

da parte delle altre due

CT Cascina CantalupaMilano

CT Villa Santa MariaCampomorone - Genova

Esempio: Tre cicli - Nord

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CT L'AironeOrvieto - Terni

Tempo 1Invio report autovalutazione

Tempo 1Invio report

autovalutazione

Tempo 2Visita della prima comunità

da parte delle altre due

CT Passaggi Oricola - L'AquilaCT Marica

Minturno - Latina

Tre cicli - Centro

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CTA Dipartimento Salute Mentale

di Agrigento

Tempo 1Invio report autovalutazione

Tempo 1Invio report

autovalutazione

Tempo 2Visita della prima comunità

da parte delle altre due

CT Cristo PantocratoreBorgetto - Palermo

CTA Sant'AntonioEnna

Tre cicli - Sud

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Presupposto per l’invio in Comunità:alleanza e costruzione condivisa del progetto tra ospite, famiglia,

inviante e gruppo CT

FAMIGLIA

INVIANTEDSM: CSM,

SPDC

COMUNITA’Pazienti eoperatori

OSPITE

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relativamente agli aspetti valoriali il modello della Comunità terapeutica propone: • la condivisione di progetti e obiettivi / nell’età del narcisismo

individualistico• costruzione di legami/ nell’età della frammentazione• l’educazione alla legalità /nell’età del caos antisociale.

..in controtendenza con la nostra epoca..

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Le diversità come forza promotrice di un fine comune

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Mariangela Villa

PANEL A

Psicoterapia e relazionalità virtuale

Quando ho incominciato a pensare a come impostare queste note iniziali relative alle varie trasformazioni epocali a cui stiamo assistendo mi è venuto in mente un testo che lessi anni fa mentre preparavo l’esame di Storia della Filosofia Morale: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica nella quale Benjamin, negli anni ’30, si interroga sul futuro della creazione artistica all’epoca dello sviluppo di nuove forme di comunicazione: la fotografia e il cinema. Benjamin prende spunto dall’opera di Valéry dal titolo quanto mai significativo oggi, La conquista dell’ubiquità: secondo i due Autori le nuove tecnologie avrebbero consentito di “trasportare o ricostituire in ogni luogo il sistema di sensazioni – o più esattamente il sistema di eccitazioni – provocato in un luogo qualsiasi da un oggetto o da un evento qualsiasi”.

Parole attuali più che mai nell’epoca che stiamo vivendo, un’epoca in cui il mondo delle informazioni, attraverso gli immensi archivi di Google e non solo, è reso istantaneo dalle reti globali, è a portata di mano, come uno sterminato deposito a cui attingere. Ognuno di noi è un IP connesso agli altri IP attraverso e-mail, MUD, SN. FB riporta che trascorriamo in media 55 minuti al giorno sui SN, apparteniamo a 13 gruppi (ai quali a volte non abbiamo neanche chiesto di appartenere), ogni mese inviamo 8 richieste di amicizia, commentiamo 24 volte, diventiamo fan di 4 pagine, riceviamo almeno 3 inviti ad eventi.

Un’ubiquità di tal portata che, forse, neanche Valéry e Benjamin s’apettavano, per quanto l’accogliessero con piacere nell’epoca del materialimo storico e della socializzazione della cultura; ciò che però mi ha colpito, ripensando a queste opere oggi è il fatto che i due pensatori parlassero di un’ubiquità che si sostanzia di un sistema di eccitazioni più che di sensazioni.

Allora come ora: Recalcati ci suggerisce che proprio nell’epoca in cui tutto sospinge verso l’apologia del consumo e dell’appagamento immediato di un non-bisogno (“una volta una paziente mi ha detto: ‘vado al supermercato a vedere che cosa mi manca’”), abbiamo ormai assistito a quella che lui definisce “l’evaporazione del padre”, che è andata gradualmente impedito sia l’esperienza del limite, sia il trasferimento al figlio del significato del desiderio, poiché “un padre non si limita a frenare il godimento, ma autorizza anche al desiderio". Tutto ciò grava sulla psicoanalisi la quale si trova di fronte all’evaporazione socio-culturale più che del Padre edipico, dei due pilastri su cui Freud ha costruito l’intera economia dell’apparato psichico: l’inconscio e il desiderio; e si confronta con individui che sono sempre più protagonisti di quelle che la Kestemberg chiama ‘’psicosi fredde’’, dove non c’è delirio, ma “un comportamento coattivo che aderisce all’imperativo ‘Godi!’”

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Crisi dell’autorità, dunque, riduzione del controllo delle pulsioni, di conseguenza, declino dei desideri, tempo e spazio che si perdono nella contemporaneità e nella decontestualizzazione: ubiquità ed eccitazione, appunto, che circolano vorticosamente per la rete.

Per riprendere le parole di Longo: “Per analizzare le dinamiche della rete occorre tener conto del tipo di situazione mentale poliedrica, polisemica e collettiva in cui si trova immerso e coinvolto chi si collega a Internet…una situazione in cui è dominante la sensazione di entrare, in un secondo, con un click, in una dimensione relazionale globale e onnicomprensiva, al contempo schiacciante ed eccitante, perché fantasticata come capace di condurre ben al di là degli stretti limiti spazio-temporali della corporeità e, volendo, persino della usuale identità”. Schiacciante, eccitante, a tratti disinibita. Secondo Suler esistono due tipi di disinibizione: una disinibizione benigna per la quale le persone riescono ad essere più se stesse, rivelando emozioni, paure, desideri che altrimenti terrebbero per sé; una disinibizione tossica che le porta ad utilizzare senza ritegno un linguaggio scurrile, a formulare dure critiche, ad esprimere rabbia, odio, minacce verso persone anche sconosciute. I fattori che facilitano questo genere di comportamento relazionale sono: innanzitutto l’anonimato dissociativo (tu non mi conosci), che ci porta a convincerci che quei comportamenti non hanno niente a che fare con noi; poi l’invisibilità (tu non puoi vedermi), che consente sia di visitare luoghi e fare cose che altrimenti non faremmo, sia di non confrontarci con le reazioni dell'altro, dato che non lo guardiamo in faccia; l’asincronismo (ci vediamo dopo): il non dover trattare con la reazione immediata dell'altro può essere disinibitivo; l’introiezione solipsistica (è tutto nella mia testa), per cui l'interlocutore online diventa un personaggio del mondo interno; l’immaginazione dissociativa (è solo un gioco), poiché la vita online può essere vista come un genere di gioco con regole e norme che non si applicano nella vita quotidiana; infine la minimizzazione dell'autorità (noi siamo uguali): in una relazione alla pari le persone si sentono autorizzate a dire quello che pensano e a comportarsi anche in modo sconveniente.

Ma se da un lato questa sorta di narcisismo di massa, questa compulsione alla rappresentazione pubblica di sé, questa forma di socialità orizzontale che rende tutto paritario, rischia la patologizzazione della relazione, come vedremo con gli hikikomori, dall’altro risponde, forse, anche a un bisogno di ricondivisione di significati che, se ben utilizzato, può andare ad incidere anche nella realtà reale.

Questa immediatezza e presa in diretta ha creato, infatti, nuove comunità di appartenenza che non hanno più confini territoriali. Si tratta di comunità digitali, che sono definite dal fatto che c’è un comune accesso alle tecnologie multimediali; in esse si creano legami molto intensi e invisibili, aggregazioni di svariata natura nelle aree di lavoro, sociali, di gioco, di svago, di acquisti, di ricerca di coppia fino ai veri e propri movimenti di opinione politica, se pensiamo alla campagna elettorale di Obama, o di antitesi alle istituzioni tradizionali come la primavera araba nel 2011 o al recente movimento politico 5 stelle.

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Citando Elle Corin e Cécil Rousseau, che escono dal coro della diffidenza della psicoanalisi francese nei confronti di questo nuovo mondo: la “questione del virtuale si trova al centro dell’approccio psicoanalitico nei confronti della realtà. Così la scoperta dell’importanza del fantasma nella vita psichica mette in rilievo l’esistenza di una realtà, la realtà psichica che è sfalsata rispetto alla realtà materiale e che per il soggetto possiede una concretezza che la rende determinante per la vita psichica. La scoperta freudiana della realtà psichica rimette in questione la stessa nozione di realtà e partecipa d’altra parte, all’interno della cultura, a un tempo e a uno spazio segnato da un movimento più ampio di interrogativi sui criteri di realtà come ad esempio è avvenuto con la fisica quantistica. Il virtuale è intimamente legato all’approccio freudiano della rappresentazione e della sua emergenza, a partire dall’allucinazione primaria dell’oggetto, un oggetto che resterà non più trovabile e irrimediabilmente perduto. Così come possiamo notare la similitudine tra virtualità e processo primario, attivo nelle immagini del sogno. La libertà associata al virtuale ricorda quella legata alla rivincita del desiderio. Anche Winnicott ha riformulato a suo modo la questione dell’importanza del virtuale nello sviluppo della vita psichica e nella cultura, con le nozioni di spazio e oggetto transizionale al contempo oggettivo e soggettivo, mediatori tra mondo interno e mondo esterno”.

Riprendendo alcune considerazioni tratte da un articolo scritto con Marta Vigorelli: “Dal nostro osservatorio possiamo avanzare l’ipotesi che ci sia stato un cambiamento della natura del rapporto con la realtà: il virtuale è reale come il reale, e si tende a vivere più nella rappresentazione della realtà che nella realtà; reale e virtuale possono però completarsi, si tratta solo di stabilire un equilibrio dinamico tra i due regni, in modo tale che l’uno non si annulli nell’altro e consenta invece un’evoluzione della coscienza individuale e collettiva”.