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Remo Altavilla e le streghe di Malevento

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di Domenico D'Alessandro, ragazzi Remo è un ragazzo dalla vita anche troppo normale, quasi noiosa se non fosse per qualche insopportabile compagno di scuola. In un giorno solo tutto cambia e l’incredibile diventa realtà. Maghi e rapimenti, streghe e passaggi segreti, sibille indovine e infusi portentosi, tutto un mondo magico e pericoloso si materializza tra le strade e le case di Benevento. Con una pattuglia di personaggi improbabili, Remo parte alla scoperta dell’universo sotterraneo e di un antico mistero da cui dipende il destino del mondo.

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DOMENICO D’ALESSANDRO

REMO ALTAVILLA E LE STREGHE DI MALEVENTO

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REMO ALTAVILLA E LE STREGHE DI MALEVENTO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-618-9 Copertina: immagine di Gennaro Nortoro

Illustrazioni interne: Gennaro Mortolo

Prima edizione Novembre 2013 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

Questo romanzo è opera di fantasia, ogni riferimento a fatti o personaggi è da ritenersi puramente casuale.

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A Ciro, mio padre, che fece la magia di

restare ragazzo tutta la vita.

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Strattoni e tazze di tè Sentì una brusca frenata, e una grossa auto gli si parò davanti bloccandogli il passaggio. Lo sportello si aprì con violenza e una voce dura dall’interno ordinò: «Ecco il ragazzino. Prendetelo!» In un attimo due mani gli strinsero i polsi e Remo cominciò a gri-dare, puntare i piedi e scalciare, poi trovò con le dita il bordo del marciapiede e si buttò per terra, mentre due uomini vestiti di nero cercavano di farlo entrare a forza nella vettura. Si aggrappò alla ruota di un’auto in sosta e continuò a dimenarsi senza lasciare la presa, a colpi di reni e di gambe, mentre si sforzavano di trasci-narlo via. Riuscì a rimanere lucido e si mise a gridare con quanto fiato ave-va in gola, nella speranza che in tutta Benevento ci fosse anche un solo passante disposto a dargli una mano. Dopo quella che gli sembrò un’eternità, sentì qualcuno accorrere, gridando parole incomprensibili. Chiuse gli occhi e si concentrò sulle mani che cominciavano a perdere la presa e a fargli male. “Non lasciare, non lasciare” si ripeteva stringendo il pneumatico più con l’anima che con le dita. Ci fu uno scambio di battute con-citate tra gli aggressori e il nuovo arrivato, uno sbattere di portie-re e poco dopo la grossa vettura filò via sgommando. Remo si ri-trovò per terra, con i piedi liberi e il cuore che gli batteva in gola. Sentiva la bocca amara per i gas di scarico dell’automobile, ormai lontana. Le mani rosse e graffiate gli bruciavano e la felpa, inau-gurata quella mattina, era ormai da buttare, macchiata e strappata com’era. Rimase così, seduto per terra proprio al limite della città vecchia, senza trovare la forza di alzarsi e fissando stupidamente il selciato.

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Gli ci volle un po’ per capire che qualcuno l’aveva tirato su per un braccio e gli stava chiedendo: «Come va? Tutto sano? Ce la fai ad arrivare a quella porta? Quel-la più piccola, la vedi?» Remo annuì e la voce continuò: «È il mio negozio. Vieni, ti faccio bere qualcosa di caldo.» L’uomo aveva barba e capelli bianchi. Aiutò Remo a camminare e l’accompagnò lungo la viuzza che s’inoltrava nel centro storico. C’era un portoncino di legno verde, più piccolo delle altre porte sulla strada, con la vernice scrostata e incassato sotto un arco di pietra, quasi all’angolo di un vecchio palazzo. Dietro ci si poteva immaginare al massimo una rampa di scale o un magazzino pol-veroso. Per un attimo Remo pensò che dopo quanto era successo non avrebbe dovuto infilarsi là dentro con un perfetto sconosciu-to, ma tanto non aveva più energie per opporsi. Voleva sistemarsi su una sedia a tutti i costi e quell’uomo elegante che gli sorrideva non dava l’idea di un bandito. Entrò con qualche esitazione e si ritrovò in un ambiente fresco, senza finestre. Era una grande stanza quadrata, con decine di scaffali che riempivano tutto lo spazio dal soffitto al pavimento, stipati di barattoli colorati ed etichettati. Le targhette erano scritte a mano, in gran parte in latino o qualcosa di simile. Per quanto Remo riusciva a capire, là dentro c’erano erbe, tè e tisane. Sulla parete opposta alla porta troneggiava un lungo bancone di legno dall’aspetto antico, pieno di graffi e segni circolari lasciati da ge-nerazioni di tazze e bicchieri. Il ripiano era ingombro di teiere panciute e colorate, bollitori, lattine, brocche di vetro, bilance e tazzine impilate che stavano su per miracolo. Una nuvola di va-pore saliva da un punto oltre il bancone e rivelava la presenza di acqua in ebollizione, nascosta dietro ai mucchi di stoviglie. Remo fu colpito dagli odori penetranti delle erbe secche chiuse nei barattoli. Era figlio di un fioraio, allenato a riconoscere i pro-fumi delle piante fresche, dei terricci e dei concimi; ma nella bot-tega l’aria era carica di aromi più intensi, che davano alla testa.

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Guidandolo con una mano sulla spalla, il proprietario del negozio lo fece finalmente sedere su uno sgabello zoppicante. «Ti ho sentito gridare» gli disse «per fortuna il negozio è a due passi dall’incrocio.» Remo lo ringraziò con il fiato ancora grosso e poi gli chiese: «Che posto è? Un’erboristeria?» «Una specie. È la mia bottega, la chiamano tutti così. Adesso ri-posati un po’, che ne hai bisogno.» Remo sentiva ancora un battito forte e accelerato alle tempie e le mani gli tremavano. Voleva soprattutto tornare a casa, ma quando provò ad alzarsi le gambe malferme lo indussero ad aspettare an-cora qualche minuto prima di avventurarsi in strada. Immaginò di essere più pallido del solito, condizione quasi impossibile per chi già normalmente è bianco come un vampiro di Halloween. Intanto l’uomo, che era sparito dietro al bancone, riapparve reg-gendo un vassoio su cui ondeggiavano pericolosamente una teiera piena di liquido fumante e una tazzina a fiori gialli e rossi. Il va-pore che usciva dal bricco profumava di muschio e di terra ba-gnata. «Bevilo piano» gli disse riempiendo una tazza «se non ti piace prendilo lo stesso; bastano due o tre sorsi.» «Che cos’è?» «Tè, naturalmente» rispose l’uomo e aggiunse sorridendo: «Non uno qualunque, però.» «Vuol dire che è più buono di quello normale?» «Provalo e vedrai.» Con un cenno d’incoraggiamento offrì di nuovo la tazzina a Re-mo, che osservò preoccupato il fumo che saliva denso davanti a-gli occhi azzurri del suo soccorritore. L’uomo colse l’esitazione: «Puoi aspettare qualche minuto, però bevilo caldo. I benefici di-pendono anche dalla temperatura.» Remo non aspettò affatto, e già che c’era non si accontentò nep-pure di qualche sorso; trangugiò tutto in un colpo solo. Ne ricavò

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la precisa impressione di un’ustione di terzo grado alla bocca e alla gola, ma strinse i denti e fece finta di nulla. «Conoscevi quella gente?» gli chiese l’uomo. Remo non rispose subito, troppo stupito dall’effetto della bevan-da; in pochi secondi la tremarella alle gambe e alle mani, l’accelerazione dei battiti, la respirazione troppo rapida e tutti i postumi dello spavento erano scomparsi. Si sentiva tranquillo e sicuro di sé, una sensazione che gli riusciva nuova. Gli scappò un “Caspita!” che fece ridacchiare il bottegaio. Poi si ricordò della domanda. «Quelli che mi volevano portare via, vuoi dire? Mai visti. È stra-no, si saranno sbagliati.» Ma mentre ne parlava, già non credeva all’idea dell’errore; ricor-dava fin troppo bene le parole del tipo che era rimasto in macchi-na: “Ecco il ragazzino. Prendetelo!”. Il suo soccorritore si grattò le labbra. «Certo che si erano organizzati bene. Il posto era ideale, non troppo frequentato e stretto, con una strada larga a due passi per filare via.» «Tornavo da scuola» spiegò Remo «taglio spesso per i vicoli, si fa prima.» L’uomo cambiò espressione e argomento. «Meglio che torni a casa, adesso. Ah, aspetta. Visto quello che ti è capitato oggi, ti regalo un portafortuna.» «Va bene» rispose Remo meravigliato. Non era superstizioso, ma rifiutare un regalo gli sembrò scortese, soprattutto verso chi l’aveva salvato. Il bottegaio aprì un cassetto sotto il bancone, frugò qualche se-condo e alla fine ne tirò fuori un dischetto di coccio decorato con un complicato fregio. «Per attivarlo» disse «ci devo incidere la tua data di nascita.» «Oh sì, certo. Sono nato il sedici agosto.» «Conosci anche l’ora? Funziona meglio.» «Alle otto di sera, così mi hanno detto.»

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Il bottegaio lavorò qualche minuto con un punteruolo, incidendo e soffiando via la polvere, poi consegnò il portafortuna a Remo. «Ecco fatto. Sono sicuro che questo qui e il tè che hai bevuto ti calmeranno. Vieni a trovarmi qualche volta che passi di qua.» Remo annuì senza troppa convinzione e riprovò ad alzarsi, riu-scendoci subito. Con l’effetto-bomba dell’infuso - se quello era un normale infuso - la paura per la brutta avventura era diventata un ricordo sbiadito. Ormai era ben fermo sulle gambe e rifiutò con decisione l’offerta dell’uomo di accompagnarlo. Lo salutò ri-badendo l’intenzione di tornare a trovarlo, intascò la medaglia di coccio e si sentì come il vincitore del duello alla fine di un film western. Con il mezzo sorriso del cowboy sui titoli di coda, ripre-se la strada di casa. Al posto del fucile, a tracolla aveva lo zaino con i libri di scuola, un po’ malconcio dopo la disavventura. Avrebbe preferito evitare di raccontare ai suoi quello che era suc-cesso; li conosceva, avrebbero vinto i campionati mondiali di an-sia patologica, che per fortuna non esistevano. Manco a dirlo, a sua madre bastarono cinque secondi netti per capire che qualcosa non andava. Sperando di evitare un interrogatorio di terzo grado, a tavola riferì tra una forchettata e l’altra tutta la storia, tranne i dettagli dell’amuleto e della bevanda miracolosa. Il pallore del padre e il mezzo svenimento della madre gli parvero fuori luogo e giudicò eccessiva anche la visita ai carabinieri, decisa tra il se-condo piatto e la frutta e attuata con il boccone ancora in gola. Pensandoci in seguito a mente fredda, Remo concesse ai suoi ge-nitori l’attenuante generica, perché in fondo non tutti i giorni ti aggrediscono il figlio all’ora di pranzo. La famiglia abitava ai confini del centro storico, non lontano dal Duomo, al secondo piano di un palazzetto antico appena ristruttu-rato dotato di un ascensore di ultima generazione che costituiva il vanto dei condomini. Da quando l’avevano montato, suo padre e sua madre lo prendevano anche per scendere, soprattutto se c’era un ospite con loro, con cui commentavano orgogliosi il silenzio, il comfort e la velocità della cabina. Quella volta invece tutti e tre

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scesero le scale di corsa perché i signori Altavilla giudicarono l’attesa dell’ascensore un’intollerabile perdita di tempo. E pa-zienza per il comfort. I militi, raggiunti in tempi da record olimpico, non parvero im-pressionati dal racconto di Remo, anzi diedero segni evidenti d’incredulità. Il comandante Guerra, che aveva comprato proprio nel negozio degli Altavilla le piantine esposte all’ingresso del suo ufficio, con la malizia del mestiere chiese ai denuncianti: «La vittima del tentato rapimento, vostro figlio insomma, non vi ha mai raccontato prima cose strane, anche innocenti?» I coniugi negarono, ma ammisero che nessun malvivente avrebbe avuto interesse a rapire il loro erede, vista la situazione economi-ca della famiglia, a mala pena ordinaria. «Forse c’è stato un errore, uno scambio di persona» azzardò la si-gnora Anna guardando il figlio come un gelato che sta per scio-gliersi. «Può darsi» disse il comandante con aria scettica. Grattandosi il mento si rivolse direttamente al protagonista del fattaccio «quanti testimoni hanno assistito all’evento delittuoso?» «Non lo so, sicuramente il vecchio dell’erboristeria, quello che mi ha aiutato.» «Erboristeria? Quale erboristeria?» gli chiese Guerra aggrottando le sopracciglia e spingendosi in avanti sulla scrivania. «È un negozietto in via De Vita, quasi alla fine della strada, sotto una specie di ponte. Vende tè, tisane, roba del genere. Ma fuori non c’è scritto niente.» «Non ci ho mai fatto caso» considerò il carabiniere guardando verso il soffitto «ci passo per andare all’ufficio postale e non mi ricordo nessun negozio. Verificheremo in loco.» Seduto dietro alla sua scrivania, un appuntato trascriveva tutto, facendo volare le dita sulla tastiera del computer e ripetendo a bassa voce le parole del comandante. Alla fine lo ricontrollò me-ticolosamente e lo sottopose ai denuncianti per la firma. Prima di

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congedare la famigliola, Guerra poggiò il braccio sulle spalle di Luigi Altavilla e lo scortò alla porta. «Non escludo niente, sia chiaro, ma la presunta vittima è un po’ troppo tranquilla per essere reduce da un’aggressione. Non dico che dovrebbe tremare, però abbiamo spesso a che fare con la fan-tasia degli adolescenti. È un’età complicata» e con la voce ridotta a un sussurro aggiunse: «Un’età di crisi.» A quel punto, ostentando un sorriso carico di sottintesi, lasciò u-scire dall’ufficio una coppia di sconcertati genitori. Il ritorno a casa fu silenzioso e molto più lento dell’andata.

L’effetto del tè svanì durante la notte, e la mattina seguente Remo si ritrovò con la sua solita quantità di impacci e insicurezze. Inol-tre c’era da mandare giù un’altra giornata di scuola, un posto che gli piaceva sempre meno, per le ore di matematica e anche per l’ingombrante presenza in classe di Bruno Scalise, di professione bullo e studente a tempo perso. Da quando se l’era ritrovato a qualche banco di distanza, Remo Altavilla aveva affinato l’arte di tenere le distanze. Se durante un’ora di supplenza il tipo si avvicinava pericolosamente al suo posto, lui se ne andava in bagno; se il figuro chiedeva a sua volta di uscire, Remo rientrava. Per completare il quadro, c’era anche Peppe Boffa, sempre pronto a sostenere Bruno e dotato di una ri-sata così fastidiosa da mandare in bestia un santo. Quel mattino la coppia, come al solito, era in forma smagliante. Dal suo metro e settanta di riccioli neri e muscoletti abbronzati, Bruno offrì una raffinata selezione dei soliti apprezzamenti: «Siamo più pallidi del solito, Remino? Che è successo stanotte? Forse la pancia…»

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Peppe apprezzò la sortita con la sua risata stridente. Come faceva sempre, Remo finse di non aver sentito, ma l’altro non mollò la presa: «Vuoi piangere? Povero biondino, un fazzoletto? No, meglio la carta igienica.» Qui Peppe si esibì in una risatina di mezzo minuto netto, che ri-cordava una cerniera arrugginita. Dopo una notte passata a ripen-sare all’assalto del giorno prima e anche alla visita in caserma, Remo non ce la fece più e tirò sul ghigno di Peppe la prima cosa che gli capitò sotto mano. Si trattava purtroppo della custodia di un compasso, con plastica e metallo a sufficienza per lasciare tracce anche sulla faccia più tosta. Poiché le disgrazie non vengo-no mai da sole, il lancio coincise con l’ingresso in classe della professoressa di matematica, la temutissima Barone. «Ci alleniamo per il tiro a segno, Altavilla?» chiese con un sorri-so maligno. «Io…» «Tu avrai notizie scritte dalla segreteria. Anzi, le avranno a casa tua e saranno notizie interessanti.» «È lui che…» provò a reagire Remo. «Boffa non ha usato le mani, per quello che ho visto.» Peppe lanciò uno sguardo di trionfo al suo assalitore e continuò ad accarezzarsi la mascella colpita. I danni fisici erano limitati, giusto un graffio sul mento, ma l’impresa era finita sul giornale di classe con lo sgradito bonus della convocazione minacciata. E la prof Barone era donna da mantenere le promesse. Ciliegina sulla torta, le minacce di ritorsione di Peppe e di Bruno, autonominato-si avvocato d’ufficio della parte lesa. I “ci vediamo fuori” si spre-carono per tutta la mattina a voce bassa, con un contorno di squi-siti apprezzamenti. Tutto questo tra i ghigni e i commenti del re-sto della classe, che aveva gradito molto il fuori programma. L’uscita da scuola fu un capolavoro di strategia. Di solito Remo filava via da solo, scegliendo le traiettorie meno frequentate, ma questa volta gli vennero in mente una decina di dubbi:

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«Cos’è che ha assegnato la prof?» E poi: «Domani si porta grammatica o antologia?» E perfino: «Com’è finito il posticipo di campionato, ieri?» In questo modo riuscì a coprire il tragitto dal cancello al primo incrocio restando nel cuore del gruppo, mentre Bruno e Peppe si accarezzavano i pugni a qualche metro di distanza. Remo aveva pensato di tagliare la corda appena attraversata la strada, infilan-dosi di corsa nel dedalo di viuzze del centro storico, ma questa parte del piano di fuga non fu necessaria. Suo padre era lì ad a-spettarlo, ancora in ansia per l’episodio del giorno prima e non del tutto rassicurato dallo scetticismo del comandante Guerra. In una situazione diversa quella premura avrebbe mandato Remo in bestia, ma quel giorno non se ne lamentò. «Sai» gli disse poco dopo il genitore «volevo passare a ringrazia-re quel vecchio che ti ha aiutato ieri, ma non ho trovato nessun negozio di tisane in via De Vita.» «Non si vede subito» spiegò Remo con pazienza «da fuori non si capisce che è un negozio. È una porta di legno come le altre, anzi è più piccola.» «Sono tutte porte di abitazioni private e tutte uguali, più o meno. Ho chiesto anche a qualcuno che ci abita e nessuno ne sa niente. E poi…» «Poi che?» «Non l’hanno trovato nemmeno i carabinieri» disse Luigi Altavil-la con un tono più deciso «ho sentito il comandante Guerra, che ha indagato in loco.» «Non me lo sono inventato» scattò Remo. Improvvisamente si ricordò dell’amuleto che gli aveva dato il bottegaio, ma scartò l’idea di presentarlo come prova. Non era il caso di rendersi ancora più ridicolo, quindi si limitò a insistere.

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«Il negozio c’è per forza, non sono impazzito. È proprio sotto quella specie di ponte. Ci passo io oggi pomeriggio e vi faccio vedere se lo trovo.» «Non importa. Dopo quello che è successo non devi uscire da so-lo. Non sappiamo chi…» «Vuoi vedere che devo rimanere chiuso in casa per sempre?» alzò la voce Remo facendo voltare una decina di passanti. «Ma se non esci mai» mormorò il padre fra i denti. Non ci furono altri scambi di idee fra i due fino a casa. Remo s’intestardì e uscì comunque in cerca della bottega, chiudendo la porta su una grandinata di ammonimenti e la minaccia di sigillar-gli il computer. Doveva dimostrare e difendere la sua versione dei fatti. Questa cominciò a vacillare anche nella sua testa quando, percor-sa la stradina tre o quattro volte, fu costretto a concludere che del vecchio e del suo negozietto non c’era la minima traccia. Il posto dove ricordava di aver visto la porta era costituito da un muro perfettamente compatto, che aveva tutta l’aria di essere rimasto così negli ultimi tre secoli. “Del resto” pensò Remo con amarezza “perché avrebbe dovuto esserci?” Era passato di là chissà quante volte e quel portoncino se lo sa-rebbe ricordato, proprio perché era così piccolo e in un posto un po’ strano. Tornò a casa con la coda tra le gambe, attraverso i vicoletti pitto-reschi del centro. Di solito gli piaceva passare di là, ma quel gior-no la strada gli sembrò interminabile. Non si prese il disturbo di raccontare ai suoi com’era andata la ricerca e nessuno dei due glielo chiese. Remo notò qualche sorriso di troppo e accanto al telefono sbirciò un foglietto con un appunto scritto in fretta: Do-mani ore 9.30 - prof.ssa Barone. La segreteria della scuola aveva colpito, meglio limitarsi a commentare le notizie del telegiornale e mangiare in fretta. Quanto alla bottega, ormai anche Remo co-minciava a temere che fosse il frutto di una crisi di crescita dai

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risvolti creativi. Restava la questione del tentato rapimento, che - almeno quello - non se l’era inventato. Al momento era troppo stanco per pensarci.

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Ci si mette pure la voce Nei giorni successivi la crisi, vera o presunta, precipitò e dopo il mistero della bottega venne quello della voce. Remo cominciò a sentirla quando ancora cercava di digerire l’inutile ricerca del ne-gozio. Era lontana, appena percettibile nel rumore di fondo della città, eppure fastidiosa. Gli capitava soprattutto nel primo pome-riggio, quando voleva concentrarsi sulle parentesi tonde e quadre del compito di matematica. «Stai studiando o perdi tempo?» gli gridava la madre dalla cuci-na, mentre risistemava in fretta i piatti per raggiungere il marito in negozio. Intensità e frequenza dei rimbrotti erano cresciute dopo la convo-cazione a scuola per il lancio del compasso. La professoressa Ba-rone aveva fornito una descrizione raccapricciante dell’avvenimento, stile cronaca nera, che aveva completato un quadro familiare già fosco. Ormai gli Altavilla spiavano ogni mossa del loro erede, forse temendo un gesto inconsulto, e Remo scoprì che le forbici e altri oggetti aguzzi o taglienti erano miste-riosamente scomparsi dai cassetti in cui riposavano da anni. «Studio, studio» rispondeva alla madre, e intanto la voce tornava a farsi sentire. Il fenomeno diventava assillante, anche se Remo cercava d’ignorarlo. Sommando questa storia a quella della bottega scomparsa, ormai non scommetteva un centesimo sulla propria salute mentale. Per giorni aveva evitato di comunicare la novità ai genitori, che ne avrebbero fatto la causa scatenante di una nuova tragedia. La voce non si manifestava fuori casa e quindi, nonostante pro-fessori e bulletti da sopportare, la scuola aveva il merito d’interrompere quel brusio e di offrire una pausa alle preoccupa-

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zioni di Remo. Fu proprio il collegamento fra la voce e la casa che alla fine lo persuase a confidarsi con la madre, visto che, se proprio era pazzo, almeno lo era solo a domicilio. La decisone maturò per tappe successive. Dapprima si disse che forse la voce esisteva davvero e magari anche i genitori la sentivano. Quindi pensò che poteva essere una nuova vicina di casa o un televisore con altoparlanti di ultima generazione e si illuse che il disturbo avesse una causa banale, tanto evidente che nessuno gliene aveva parlato. Doveva sapere con urgenza se le cose stavano così e to-gliersi il dubbio di essere un mentecatto. Così alla fine parlò. Non l’avesse mai fatto. La confidenza non dissipò le incertezze di Remo e, quel che è peggio, gli Altavilla sposarono le tesi meno rassicuranti. Sconvolta dalla novità, la signora Anna rischiò di rovesciarsi addosso la pentola dell’acqua bollente in cui stava buttando gli spaghetti. Suo marito prese a torturarsi i capelli e non riuscì a tirarseli solo perché li portava a spazzola. Così Remo, ol-tre la voce sconosciuta, fu costretto a sorbirsi anche quelle cono-sciute dei genitori, che s’interrogavano sulla disgrazia toccata allo sfortunato ragazzo e con lui all’intera famiglia. «Uno psicologo in gamba ci vuole» ripeteva il padre dieci volte al giorno, sempre con le mani in testa. «Sarà solo un problema di orecchio, domani chiamo l’otorino» ribatteva la madre, un po’ perché ottimista di carattere e molto per calmare il marito, che da anni ingoiava due pillole al giorno per abbassare la pressione arteriosa. «Prima s’inventa l’aggressione, poi il vecchio, adesso le voci. È grave, ti dico» decretò Luigi Altavilla. Il fioraio angosciato non sospettava che anche suo figlio stava ar-rivando alle stesse conclusioni. Solo quel pezzo di coccio con la data di nascita incisa dal misterioso soccorritore lo legava alla re-altà della bottega, ma era un filo fragilissimo, che comunque non spiegava la voce misteriosa. Rassegnato al ruolo di caso clinico, Remo si preparò mentalmente alla misera successione di sale d’attesa, esami e consulti già in

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programma per i giorni a seguire. Dopo un increscioso fine setti-mana e un lunedì costellato di ulteriori telefonate ai luminari del Sannio, le ultime energie psichiche di Remo si esaurirono davanti alle volgarità di Bruno e alle risatine di Peppe, sparate a raffica durante la partitella in cortile. «Ma guarda come si muove, ‘sta femminuccia! Non sa nemmeno dare un calcio al pallone. Perché non giochi con le bambole, in-vece di venire a scuola?» Masticando veleno, Remo rinunciò alla risposta e soprattutto a nuovi lanci di materiale scolastico contundente. Per colmo di sfortuna, le battute di Bruno risvegliarono la patologica curiosità di Lina Cioffi, una biondina armata di lingua tagliente e incapace di sorridere con entrambi i lati della bocca. Accompagnata da un paio di compagne, Lina si piazzò a due passi da Remo, pronta a intervenire con salaci commenti o almeno a godersi lo spettacolo in prima fila. Per quella volta la campanella evitò il peggio, ma la mattinata non aveva esaurito il suo carico di sventure. Da buona docente di matematica, la professoressa Barone aveva un’insana passione per i numeri di ogni tipo. Così, da quando a-veva scoperto sul giornale di classe che Remo e Bruno Scalise e-rano nati nello stesso giorno, li interrogava sempre insieme. «Siete nati contemporaneamente e dovete soffrire contemporane-amente» diceva di solito, aggiustandosi gli occhiali con una risa-tina da chioccia. Lo fece anche quel giorno, offrendo a Bruno l’occasione per un gustoso siparietto di gesti e bisbigli, particolarmente gradito dal pubblico tra i banchi. Il ragazzone aveva l’abilità diabolica di tor-nare serio appena l’insegnante si girava a guardarlo. Molti altri, tra cui Peppe e Lina, rischiarono di strozzarsi nel tentativo di fare altrettanto, ma la prof li beccò inesorabilmente. Nell’ora succes-siva, l’ultima della giornata, la professoressa Barone si dedicò al-la spiegazione dei grafici, riempiendo la lavagna di diagrammi crescenti e decrescenti. Il morale di Remo precipitò al punto più basso di quelle curve.

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Sulla strada di casa, però, la scena cambiò all’improvviso. Se-guendo il solito cammino, Remo attraversò la via che costeggia le mura longobarde per entrare nella città vecchia. Giunto nella fati-dica via De Vita, sentì come un calcio alla bocca dello stomaco; la porta della bottega era lì, anche troppo vera. Rimase a studiarla per qualche tempo, con il cuore che batteva a mille. Ricordava benissimo di esserci passato davanti cento volte pochi giorni prima, perlustrando ogni metro quadrato dei muri di quell’arco su cui aveva trovato solo intonaco scrostato e polvere. Deciso a chiarire una faccenda che gli stava cancellando l’autostima, entrò spingendo il portoncino quasi con rabbia. Il suo soccorritore era dietro al banco e gli sorrise seminascosto dalla pila di oggetti da tè e da un bollitore sotto pressione. La barba, corta e curata, era ancora più candida del vestito. Aveva arrotolato le maniche della giacca, probabilmente per non farle finire sulla torre di tazzine sistemate dappertutto in equilibrio precario. «Sto provando una nuova miscela» disse come se si fossero la-sciati cinque minuti prima «siediti, vediamo se ti piace.» Remo prese posto sullo stesso sgabello sgangherato della prima volta e cominciò: «Sono passato un sacco di volte, ma…» «Non hai visto la bottega, eh?» l’interruppe l’altro «le preoccupa-zioni ci impediscono di vedere le cose più semplici.» «Non l’ha vista neanche mio padre.» «Scommetto che non era sereno neanche lui» sorrise l’uomo por-gendo la tazza al suo ospite, che la prese per riflesso condiziona-to. «Aspetti, aspetti, c’è qualcosa che non va. Le porte non scom-paiono, il comandante dei carabinieri mi ha preso per pazzo e… e poi…» aggiunse Remo guardando la tazzina che teneva in mano «cos’è questa roba? Quella che ho bevuto l’ultima volta ha fatto un effetto… non era tè, vero?»

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«Calma, ragazzo, calma. Facciamo una domanda alla volta. Anzi, prima ancora; se non ricordo male, l’ultima volta non ci siamo neanche presentati. Io sono Bernardo.» «Remo, mi chiamo Remo Altavilla.» «Altavilla» ripeté Bernardo guardando pensoso il soffitto «non ce ne sono molti a Benevento. Devi essere il figlio di Luigi, il fiora-io. Sì, gli assomigli.» «Conosce mio padre?» «Anche suo padre, tuo nonno buonanima, e qualche altro della famiglia. La città non è così grande. Ho fatto altri mestieri, ho conosciuto un po’ di gente.» A parte la micidiale abilità di Bernardo nello schivare le doman-de, Remo si sentiva stranamente a suo agio nella bottega, anzi non era mai stato così bene in vita sua. Quello strano personaggio e il suo negozio pieno di scatole e di odori gli erano già diventati familiari. Istintivamente toccò l’amuleto di coccio che portava sempre in tasca, ricordo della prima visita al negozio. Il bisogno di capire quello che era successo gli rodeva dentro e tornò alla ca-rica. «Parlavo della porta; prima c’è e poi scompare. L’ho detto a casa, come uno scemo, così adesso mi fanno girare tutti i dottori. Sono convinti che dipenda dalla mia testa e lo pensa anche il coman-dante Guerra, quello dei carabinieri.» «Un controllo non fa mai male» rispose Bernardo divertito. «Già, ma le cose che scompaiono non sono normali.» «Non capita spesso, è vero» ridacchiò Bernardo «lo fanno anche in televisione. Però lì usano trucchi da quattro soldi. Qui è diver-so.» «Una magia, come nei film? E magari dopo un poco arrivano an-che le fate, i maghi e le streghe.» «Questa è bella» sbottò l’uomo facendo tremare le tazzine sul bancone «siamo a Benevento o mi sbaglio? Qui tutti parlano di streghe, stregoni e sortilegi. Con le fattucchiere ci decorano i cioccolatini, i liquori, le vetrine dei negozi. Ci sono le leggende

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più assurde. Praticamente la città è famosa in mezzo mondo per questo, e tu adesso ti meravigli della porta.» Remo fece per protestare, ma l’uomo corresse il tiro. «Intendiamoci, ragazzo; la fantasia popolare ingigantisce le cose, le esagera, aggiunge la cornice, ma…» «C’è qualcosa di vero?» Bernardo non rispose subito. Sfoderò un sorriso e tornò ad ar-meggiare con teiere e tazzine. Poi si girò verso il suo ospite. «Non c’è niente di miracoloso, sai? Questa è l’Italia, mica Hol-lywood. Un po’ di vecchi matti che si divertono a bere il tè fuori orario e a fare qualche stramberia.» «La stramberia della porta funziona anche troppo bene. Ma allora c’è anche il noce, quello famoso delle streghe?» chiese Remo e mandò giù in un sorso il tè, che aveva un bel gusto di menta. Bernardo rise. «Ah, ma allora qualche storia la conosci anche tu! Basta così. So-no un semplice miscelatore, anzi molti mi chiamano così e il mio nome non lo ricordano più.» «Miscelatore?» «Passo il tempo a selezionare erbe secche e a riempire le mie bel-le teiere. Non sono uno studioso, ma so questo: la gente confonde la magia con gli effetti speciali. La magia vera - se vuoi chiamar-la così - è un’altra.» «Cioè?» chiese Remo. «Conoscenza del mondo, ricerca dell’equilibrio. Sì, ecco, equili-brio è la parola giusta. Il tè che hai bevuto l’altra volta ti ha dato un po’ di equilibrio, per esempio.» L’uomo rimase un attimo in silenzio, quindi aggiunse a voce più bassa: «Ormai siamo pochi a crederci davvero e se va avanti così, sare-mo sempre di meno.» «E perché?» chiese Remo. Bernardo si morse il labbro.

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«È una storia lunga. Ti ho già confuso con tutte le sciocchezze che ti ho raccontato. Così poi ti mandano da qualche altro specia-lista. Ne riparliamo, se ti va di tornare.» Remo si chiese perché non potevano parlarne subito. Non sarebbe più andato via, aveva tanto da chiedere, troppo da sapere da quel-lo strano tipo. Anche se gli dispiaceva ammetterlo, l’uomo aveva schivato quasi tutte le sue domande e le poche risposte erano quanto meno improbabili. Un’occhiata all’orologio lo riportò alla realtà; ancora cinque minuti e i suoi, come minimo, avrebbero chiamato la polizia o telefonato a “Chi l’ha visto?”. Prima di an-dare, doveva assicurarsi di ritrovare la bottega senza troppi pro-blemi. Vagare alla ricerca di una porta che non c’è e fermarsi per strada a fissare un muro era il modo migliore per entrare in pianta stabile nel reparto psichiatrico. «E se non trovo più la porta?» chiese allora a Bernardo. «Se l’hai vista due volte, allora puoi rifarlo. Non farti prendere dalla paura di fallire.» Remo riprese la via di casa poco convinto. Però del suo cattivo umore non c’era più traccia, e questa volta era merito di una tazza di tè.

Nonostante i buoni propositi e la voglia di continuare i discorsi rimasti in sospeso, Remo non riuscì a tornare alla bottega per di-versi giorni. Le visite specialistiche furono tanto fastidiose quanto inutili. Nei loro studi medici, con le pareti coperte di lauree e di-plomi, i dottori si mostrarono comprensivi con i genitori e sfac-ciati con lui. Alcuni lo visitarono da capo a piedi, molti gli chie-sero le cose più strane e imbarazzanti, tutti riscossero sostanziosi onorari. Il paziente - di nome e di fatto - si faceva forza pensando che prima o poi i suoi si sarebbero tranquillizzati e la vita sarebbe tornata quella di prima. Nell’ipotesi peggiore non si sarebbero

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tranquillizzati più e l’avrebbero internato in una clinica. Anche così la sua vita si sarebbe stabilizzata. Restava la questione della voce che lo tormentava e che i dottori avevano rifiutato di considerare un fatto reale. Perché non ne a-veva parlato a Bernardo? Magari il fenomeno non dipendeva da una follia galoppante, poteva esserci dietro qualcosa di misterio-so, di magico. Proprio il genere di fatti su cui l’originale miscela-tore sapeva molte cose, ma le chiacchiere dell’uomo gli avevano fatto dimenticare tutto. Un po’ per ripicca e un po’ per scaramanzia aveva deciso di non parlare a casa della sua seconda visita alla bottega, e questa volta non cambiò idea in corso d’opera. Solo la prospettiva di tornare prima o poi da Bernardo gli diede l’energia per affrontare medici, scuola e famiglia. Pensando al miscelatore, alla porta che spariva e al tè miracoloso, vedeva una luce alla fine del tunnel e il morale risaliva un poco. La bottega stava diventando il suo personale e segreto Paese delle Meraviglie, e Remo scoprì con sorpresa che negli ultimi giorni i voti a scuola avevano seguito l’andamento positivo del suo umore. C’era di più: quel posto strano gli dava la forza di ignorare le provocazioni di Bruno Scalise, Peppe Boffa e compagnia. Anzi, l’indifferenza con cui le accoglieva, aggiungendoci pure qualche sorriso di compatimento, cominciò a indebolire la sicurezza dei suoi persecutori, che in certi momenti restavano a corto d’idee. Perfino Peppe, rivolgendosi al compagno di banco, osò esprimere un dubbio, il primo della sua carriera di gregario: «Ti stai ripetendo, Bruno. Non vedi che ti piglia in giro?» A giudicare dall’espressione che fece, Bruno ci pensò su. Proprio la scuola favorì i progetti di Remo. Un corso pomeridia-no, di quelli che gli insegnanti presentano con entusiasmo non condiviso a una platea di alunni sonnacchiosi, gli diede il motivo ufficiale per restare fuori all’ora di pranzo. Chi aveva compilato il calendario delle lezioni era stato così generoso da lasciare un’ora “buca” per consumare la colazione. Un’occasione rara per correre

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al misterioso negozio, visto che per i suoi Remo era ancora un sorvegliato speciale. Così un piovoso lunedì di novembre Remo si fermò davanti al famoso palazzo dov’era la bottega. Come aveva temuto, trovò un muro desolatamente compatto, della porticina non c’era neanche l’ombra. Questa volta non poteva permettersi il lusso di andare via. “Calma” si disse “niente panico e massima calma.” Poggiò lo zaino a terra, chiuse gli occhi, diede un respiro lento e profondo come aveva visto fare in una trasmissione sullo yoga, poi guardò di nuovo. Niente da fare. A quel punto diede un’occhiata in giro per vedere se c’era qual-cuno lungo la strada. Se proprio doveva fissare il muro come un rimbambito, voleva almeno evitare sguardi curiosi e battute idiote da parte dei passanti. Vista l’aria che tirava a casa, quello non era il momento giusto per essere scoperto in atteggiamento sospetto da qualche conoscente o - peggio ancora - da una comare del suo quartiere. Infatti stava arrivando qualcuno. Da una traversa laterale era sbu-cato un uomo sui trent’anni, alto e magro come una mazza di scopa. Indossava qualcosa di simile al saio di un frate francesca-no, ma se si trattava di un monaco usciva dal più originale dei conventi. Aveva la testa coperta da un berretto rosso fuoco, stesso colore delle scarpe lucide che facevano bella mostra di sé sotto la veste. Poiché la strada era in discesa, lo strano frate procedeva a tutta velocità e Remo notò che i suoi passi erano perfettamente silenziosi. Giunto alla sua altezza l’uomo si fermò e gli parlò con l’aria di chi riconosce un vecchio amico. «Riprova, stavolta ce la fai» disse, e aggiunse pure un mezzo in-chino teatrale a mo’ di saluto. Remo non riuscì a rispondere per la sorpresa e in un attimo il pre-sunto religioso scomparve oltre l’angolo della strada, sulla via che costeggia le mura del centro. Ripreso il controllo di sé, Remo si precipitò nella stessa direzione, ma l’uomo non c’era più. In

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quel punto la strada esterna disegnava una curva, ma anche dal marciapiede opposto, raggiunto di corsa e schivando due auto di passaggio, del personaggio non c’era traccia. C’erano invece due colombi sui tetti e un gatto che li osservava interessato, proprio davanti all’ufficio postale. “Se non impazzisco adesso, non impazzisco più” si disse Remo, e tornò a sfidare il suo impenetrabile muro. Tirò un respiro profondo e si disse: “Riproviamo.” Tentò di pensare ad altro, anzi, di non pensare affatto. Accovac-ciato sotto l’arco, appoggiò la testa al muro dietro di sé e poi, con studiata noncuranza, fissò di nuovo l’impertinente parete opposta. Bingo! Adesso la porta c’era e ci s’infilò di corsa, senza preoccu-parsi dello sguardo stupito di una signora che scendeva la strada con i sacchetti della spesa. «Sei scomparso tu questa volta» lo prese in giro Bernardo, in un completo blu aviatore. «Il tempo» si scusò Remo mentre l’altro teneva d’occhio l’acqua fumante alle sue spalle «devo parlarle di una cosa, signor Bernar-do. Anzi, di due.» «Oh, signor Bernardo! Nessuno mi chiama così. Non c’è bisogno di darmi del lei.» «Va bene» concesse Remo «io non so come dire. Forse stavolta la magia non c’entra niente, ma non so a chi chiederlo.» «Ti ringrazio per la preferenza, allora. Che è successo?» Remo tirò un respiro e tutto d’un fiato disse: «Sento una voce. Solo a casa, però. E poi c’era un tipo qui fuori che…» «Vogliamo andare per ordine?» propose Bernardo giungendo le punte delle dita «a quanto vedo hai una vita piuttosto movimenta-ta.» «Solo di recente. OK, una cosa alla volta. Qui fuori è passato un tipo strano mentre cercavo la bottega.» «Quanto strano?»

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«Era vestito come un frate.» «E come niente aveva un cappello rosso» l’interruppe il miscela-tore. «Sì, anche le scarpe» disse Remo. Un istante dopo si rese conto che qualcosa non quadrava: «Ma come lo sai? Lo conosci?» «Di vista. A dire il vero non si mostra facilmente. Non lo incontro da anni, ora che mi ci fai pensare.» Bernardo si pizzicò il labbro e rimase qualche istante con lo sguardo perso nel vuoto, quindi si riscosse. Per la prima volta Remo lo vide farsi serio. «Be’, ha detto qualcosa? Si è fermato?» «Sì, forse ha capito che cercavo la bottega e mi ha detto di ripro-vare, che questa volta ci sarei riuscito.» «Molto gentile da parte sua» disse l’uomo riprendendo il suo tono abituale. «Insomma, chi è?» chiese Remo, deciso a non lasciar cadere l’argomento senza una risposta plausibile. «Hai incontrato una leggenda» disse Bernardo scegliendo con cu-ra un barattolo di tè «lo chiamano in molti modi, compare e scompare, qua e là, però nessuno sa chi sia veramente.» «Un fantasma?» chiese Remo pensando al passo felpato del sup-posto frate. «Molti lo considerano una specie di folletto» rispose Bernardo togliendo un bollitore dal fornello «quanto a me, so solo che esi-ste da molto tempo, anche se forse non come esistiamo noi. Di solito evita la gente, ma a volte s’interessa a qualcuno e allora si fa vedere. Insomma, ti faccio i complimenti, Remo; sei entrato in un club esclusivo.» «Ma è un bene o un male?» «E chi lo sa? C’è chi lo ritiene un buon augurio, chi un cattivo presagio. Quando compare il Mazzamauriello…»

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«Chi? Il Mazzamauriello? Ma è un’invenzione per fare paura ai bambini» esclamò Remo «è come… come l’Uomo Nero o il lupo cattivo!» «Giochiamo a capirci, ragazzo» disse Bernardo versando il tè in due tazzine «l’hai visto tu questo Mazzamauriello, mica io. Io non vado in giro a chiacchierare con i frati dalle scarpe rosse.» Remo non seppe cosa rispondergli e incassò la battuta. Prese ner-vosamente la tazzina fumante mentre il miscelatore gli chiedeva: «Non c’era anche un’altra cosa che volevi dirmi? Una voce, hai detto. E cosa dice di bello, questa voce?» «Non lo so, non si capisce, è come un sussurro. La sento solo a casa e mi dà fastidio. Ne ho parlato anche ai miei, ma loro non la sentono e pensano che sto peggiorando.» «Capisco» fece Bernardo fissando la sua tazza già vuota. Si ap-poggiò al bancone e guardò il ragazzo negli occhi. «Tu e i tuoi abitate in una casa nuova?» «Be’, non proprio nuova, ristrutturata.» «In centro, vero?» «Dalle parti del Duomo» rispose Remo senza capire la ragione di quelle domande. Dopo un attimo di riflessione, Bernardo si raddrizzò e passò in rassegna le file di contenitori, di ogni forma e colore, che tappez-zavano le pareti. Ne prese un paio, esaminò le etichette e le scar-tò, prima di emettere un mormorio di approvazione: «Ti serve un orecchio più potente, figliolo. Questo ti aiuterà.» Gli mostrò una grossa scatola di legno, scelta dallo scaffale più lontano. Ci si leggeva sopra, in grafia chiara: Tè-lefono. Versò un paio di cucchiai del contenuto in un sacchetto di tela, che offrì a Remo. «Portalo a casa. Prepara questo tè in una tazza di acqua bollente e bevilo ancora caldo. Lascialo scaricare almeno cinque minuti, mi raccomando, e poi va’ a letto e prova ad ascoltare; la voce sarà più chiara. Sempre se non è un’invenzione della tua testa.»

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«Grazie» disse Remo infilandosi il sacchetto in tasca. L’ultima battuta del miscelatore, però, l’aveva toccato sul vivo. Si girò mentre apriva la porta per uscire. «Secondo te dipende dalla mia testa?» «Le diagnosi le fanno i medici» tagliò corto Bernardo «ma forse questa volta non servono. Bevi e lo sapremo.» Remo annuì e quella sera tornò a casa pieno di un’energia che i genitori attribuirono al progetto scolastico. Visto l’effetto che le lezioni aggiuntive avevano avuto sul malato di famiglia, i due si riproposero di ringraziare personalmente i professori non appena possibile. Prima di lasciarli compiaciuti davanti a un telefilm poliziesco, Remo preparò l’infuso come consigliato da Bernardo. Lo bevve di getto, scottandosi le labbra pur di mettersi subito in ascolto. L’orario era quello in cui di solito la voce si faceva più insistente. «Si sta facendo un tè caldo» sentì suo padre sussurrare «bene, be-ne. Ha capito che si deve curare.» Sorridendo tra sé, Remo concluse l’operazione e con la tazza fu-mante in mano annunciò: «Stasera vado a letto un po’ prima, il progetto è stato faticoso» e si preparò alla sua notte speciale. Steso sul letto, spense subito la luce e tenne gli occhi serrati, nel tentativo di escludere la luminosità che filtrava attraverso i vetri smerigliati della porta. Ignorò il battito alle tempie e il brusio o-vattato del televisore in cucina e iniziò l’attesa, senza muovere un mignolo. Per la prima, interminabile mezz’ora, non sentì niente e cominciò a dubitare dell’effetto del tè, anche perché il suo udito era quello di sempre. Si illuse che l’intruglio di Bernardo l’avesse guarito con chissà quale potere e che non avrebbe più sentito la famosa voce. Proprio allora, beffardo, il sussurro ricominciò. Non era più forte del solito, ma chiaro, libero dal rumore di fondo che l’aveva reso incomprensibile per tutto quel tempo. Stavolta Remo afferrò tutte le parole e scoprì che il messaggio si ripeteva sempre uguale, come una cantilena. Ne prese nota al buio con una

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matita, sull’ultima pagina del quaderno d’italiano che aveva piaz-zato già aperto sul comodino. La voce, di certo femminile, andò avanti poco meno di un’ora. Quando tacque, Remo rilesse i suoi appunti. Per fortuna aveva imparato a memoria il messaggio, altrimenti avrebbe avuto seri problemi a interpretare i suoi stessi segnacci. Scoprì che nel testo c’erano delle rime e lo divise in versi, come una poesia. Ci mise anche qualche segno di punteggiatura, seguendo l’intonazione e le pause della voce. Nonostante i suoi sforzi, però, si ritrovò tra le mani un vero e proprio rompicapo: A Torreascosa sale come un’onda La nebbia nera, Nardo mi circonda. Fatemi uscire da quest’inferno Per Roccaguzza, Cardine e Perno! “Nardo, Torreascosa, Cardine e Perno, nebbia nera. Che diavolo significa?” si chiese mettendo via il foglio. Chissà se Bernardo sarebbe riuscito a decifrarlo. Più probabil-mente, avrebbe guardato il suo autore con l’espressione che si ri-serva ai malati gravi. Se la voce era frutto della sua immaginazio-ne, doveva proprio averne una malata. Si concentrò sulla visita a Bernardo, sforzandosi di non pensare ad altro. In fondo non gli restava che aspettare quarantotto ore, fino al nuovo appuntamento con il progetto didattico. Si sentiva preda della confusione e girò lo sguardo verso la parete più scura, nella speranza di trovare il sonno e qualche ora di pace. Non era destino; nella luce pallida che filtrava dal vetro della porta, vide il profilo di un uomo magro e alto fin quasi al soffitto, con i contorni luminosi. “Ora basta” si disse “devo reagire, sennò divento pazzo.” La forza di volontà ottenne il suo scopo; la figura cominciò a sfaldarsi, ma prima di sparire si arricchì di un particolare inquie-tante: un paio di occhi troppo grandi, che lampeggiarono e poi si

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spensero, mentre l’ombra si scioglieva piano nel buio della stan-za. “OK” pensò Remo “almeno questa se n’è andata.” Finalmente si addormentò, e se sognò qualcosa dimenticò tutto con il suono della sveglia

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Quattro passi a Malevento Terminate le lezioni del mattino, Remo si precipitò alla bottega divorando la colazione al sacco lungo la strada. Trovò la porta al primo tentativo ed entrò sventolando il foglietto con la trascrizio-ne del messaggio, ma se lo rimise in tasca perché notò una cliente ferma davanti al bancone. E che cliente; vestita d’arancione dalla testa ai piedi, portava un cappello sgargiante a tesa larga, tutto piume e velette. Le scarpe avevano un bordino di merletto e ver-tiginosi tacchi a spillo. Tutto l’insieme sembrava uscito da un tea-tro di varietà, tranne il cespuglio di capelli ricci e brizzolati che straripava come zucchero filato dal grosso cappello. La donna, che dimostrava una sessantina d’anni e molti più chili, stava mettendo a ferro e fuoco la bottega. Senza smettere un i-stante di parlare, inseguiva Bernardo ai quattro angoli del nego-zio, toccava tutto ciò che le capitava a portata di mano, spostava scatole e tazzine e minacciava a ogni passo di franare dai tacchi trascinando nella rovina tavolo e scaffali. Stupefatto, Remo tentò di seguire la raffica di parole dell’eccentrica signora: «Bernardo, Bernardo… il tuo negozio è uuunico. Mi chiedo sem-pre come faremmo senza, noialtre. E poi c’è tanta allegria qua dentro, tanta fantasia. Mi porterei tutto a casa, anche questa me-ravigliooosa teiera rossa. Ti ho detto che ne avevo una così, tonda e cicciona? Ma sì, sì che te l’ho detto! Era della nonna, pace all’anima sua, ma l’ho rotta qualche anno fa. Rompo sempre tut-to, sai, è perché sono troooppo sbadata. Anche quegli occhiali da sole che mi hai visto la settimana scorsa. Com’erano belli, vero? Così fiiini, ma che vuoi, mi ci sono seduta sopra.» Poi fece caso a Remo, che si era sforzato di non ridere fino a quel momento, e proseguì con rinnovata foga:

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«Ah, ma guarda che clientela giovane che hai! Braaavo ragazzo, si vede subito dagli occhi. Io li so leggere gli occhi, sì, li leggevo già da bambina. Sono lo specchio dell’anima, lo sapevi ragazzo? Hai visto che c’è un ragazzo, Bernardo? Poi dicono che i tuoi prodotti interessano solo alle vecchie svampite come me!»

«Buonasera signora» disse Remo, subito travolto dal fiume in piena di chiacchiere che continuava la sua corsa. «Mi hai messo tutto nella borsa, Bernardo? Troooppo gentile! Abbiamo una delle nostre riunioni di lavoro domani sera al corte-

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o, ci vieni? È anche il compleanno di Matteuccia, te la ricordi Matteuccia? Sì, sì, è la sorella di Agatina. Ormai vive da sola, si è isolata, poverina. Non ha nemmeno novant’anni e già si sente pronta per la pensione. Ah, io no, no, no, no; la vita è così bella e va vissuta fiiino in fondo. Ma già, inutile dirlo a te che sei d’esempio per tutti. E nemmeno a questo bel giovanotto biondo, che comincia solo adesso, beato lui.» Improvvisamente la donna si rannuvolò, come colta da un terribi-le dubbio, e si rivolse a Bernardo abbassando la voce: «Non è che viene dal corteo di Violante, quella rinsecchita?» Al pronto cenno negativo del miscelatore si rianimò: «No? Meno male, meno male. Ma poi è così simpaaatico, non a-vrei dovuto nemmeno pensarlo.» E cominciò a scompigliare i capelli dell’imbarazzatissimo Remo, che ebbe la fermezza di sorridere per i successivi quindici minuti di monologo della spumeggiante signora. Alla fine l’uragano infi-lò la porta, che si richiuse con un botto e un allarmante tintinnio di porcellane. Remo mormorò: «Simpatica.» «Molto» commentò Bernardo «è molto in tutto, a dire il vero.» «È una buona cliente?» «Ottima. Alcina è un’arcistrega, cioè il capo di uno dei due cortei di streghe che ancora esistono a Benevento, quello delle “janare”. Per non fare preferenze, ti dico subito che l’altro è il corteo delle “zoccolare”. Se non ci fossero loro, chiuderei bottega. Ma venia-mo a noi, hai qualcosa da raccontarmi.» Remo stava ancora digerendo l’idea di streghe a piede libero a Benevento e impiegò qualche secondo per tornare al suo proble-ma. Poi, trionfante, presentò al miscelatore l’incomprensibile quartina.

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«Il tè ha funzionato, sono riuscito a scrivere tutto, leggi. Se sono pazzo, dimmelo subito. Secondo me è in versi, una specie di poe-sia.» Bernardo inforcò un paio di occhiali e osservò il foglietto. «È in versi, sì. Perciò chi parla potrebbe essere un poeta, oppure una sibilla.» «Una che?» «Le sibille sono streghe che vedono il futuro, o almeno così dico-no» aggiunse sorridendo «si esprimono sempre in versi. Anzi, come dicono loro, in nenia. È rimasta una sola sibilla in città, che io sappia, e non la vedo da un pezzo.» «Ma che dice?» «Non è facile» mormorò Bernardo concentrato sul messaggio «perché alle sibille piace essere complicate. Comunque non sem-bra una predizione.» «A me pare una richiesta di aiuto» osservò Remo. «Hai ragione, dice: fatemi uscire da quest’inferno.» «Però non ci capisco niente» disse Remo scuotendo la testa. «Procediamo con ordine. Comincia così: A Torreascosa sale co-me un’onda / La nebbia nera…» «Non c’è nebbia in questi giorni» osservò Remo. «Ma la “nebbia” è anche un prodotto della magia, avresti dovuto usare la maiuscola. C’è quella bianca, che è buon segno, ma c’è anche quella nera, che assorbe e distrugge.» «Allora è questa che vede la sibilla?» «Possibile. Infatti la poverina vuole uscirne e paragona la sua si-tuazione all’inferno. Inoltre nomina Nardo, un soggetto poco rac-comandabile.» «Un bandito?» «Il capo incontestato degli stregoni maligni.» «Non mi dire che gira per Benevento anche lui» s’informò Remo. «Non credo, sta in un altro posto. Stando alla tua sibilla, però, non deve essere troppo lontano.» «E il perno che c’entra?»

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Bernardo esitò: «Non è un perno qualunque, che s’infila nel bullone.» «Ah, no?» «È quasi una leggenda. Fa parte di una coppia di oggetti magici di enorme valore, insieme al “Cardine”. Janare e zoccolare li cer-cano da un pezzo. Qui comunque mi sembra solo un’esclamazione, piuttosto comune tra streghe e affini. Mmmh… leggo anche un riferimento a Roccaguzza.» «È un posto, vero?» «È il palazzo in cui si riuniva il governo magico, il Supremo Consiglio. Era formato da dodici streghe e stregoni. Quel Nardo di cui ti parlavo era il “Secundus” del Consiglio, una specie di vi-cepresidente, e si portò via più della metà dei consiglieri.» «E perché?» «Il tipo è convinto che streghe e stregoni debbano vendicarsi del-le persecuzioni subite per tanti secoli. Quelli che l’hanno seguito si sono rifugiati nel Tetro, una dimensione ai confini della realtà materiale, e lì preparano l’attacco al nostro mondo. Almeno, così si dice.» «Ma che fine ha fatto la parte buona del Consiglio?» domandò Remo. «Beato chi lo sa. Anche il Primus, il capo, è scomparso. Si chia-mava Ascanio.» «Mi fai venire la pelle d’oca» commentò Remo, che preferì torna-re al suo messaggio «insomma, questa sibilla ci chiede aiuto?» «Per saperne di più dovremmo andare a Torreascosa.» «Perfetto. Dov’è?» «Non troppo lontano, perciò senti la voce.» «Quando ci andiamo?» «Mi chiedo se sia il caso di portarti là.» «Il messaggio è arrivato a me» protestò Remo «ho il diritto di sa-pere chi lo manda.» Bernardo esitò ancora qualche secondo e poi disse: «Va bene, puoi passare più tardi?»

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«Ho un progetto a scuola, finisco alle cinque.» «Perfetto» approvò il miscelatore fregandosi il mento. «Un’ultima cosa…» disse Remo. «Parla pure.» «Quella gente che ha cercato di rapirmi.» «Vuoi sapere se c’entrano Nardo e i suoi?» «Be’, sì» ammise Remo. «Temo che sia possibile» rispose Bernardo guardandolo dritto negli occhi «ma non provare a farmi altre domande, devo prepa-rare tre miscele di erbe per una cliente e ho anche l’acqua che bolle.» * * * Remo trovò il progetto interessante, ma forse era il suo stato d’animo a fargli vedere tutto positivo. In più, Bruno era meno pimpante del solito e Peppe sonnecchiava. Di tanto in tanto i due osservavano la loro vittima preferita con sospetto. Una volta o due Bruno lanciò le solite frecciatine, ma con poca convinzione, quasi con prudenza. La smorfia sul viso restava quella di chi cova qualche diavoleria e Remo lo vide anche manovrare qualcosa sot-to il banco, ma a quel punto pensò di essere in piena mania di persecuzione. Lina Cioffi continuò a ronzare intorno agli ultimi banchi in attesa di uno scontro all’ultimo sangue, e i suoi sorrisi a mezza bocca spinsero Bruno ad avvicinarsi a Remo verso la fine della lezione. «Stai attento, biondo!» Ma il biondo ormai ci aveva fatto il callo e non ci pensò più di tanto, perché aveva altri pensieri per la testa. Lina incassò quest’altra delusione e Peppe rinunciò all’ultima risatina sgan-gherata del giorno. Quando finalmente la campanella si decise a squillare, Remo fu il primo a lasciare la scuola e abbandonò senza ritegno il quaderno sotto il banco con l’intenzione di recuperarlo il mattino dopo. In-

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filò a razzo le stradine del centro, scegliendo con cura le scorcia-toie tra i vicoli e sotto gli archi della città vecchia. I suoi erano al negozio, di solito li raggiungeva appena finiti i compiti. Stavolta li chiamò per avvisarli che sarebbe rimasto ancora un po’ con gli alunni del progetto prima di tornare a studiare. Così ricavò il tempo per l’avventura promessa da Bernardo. Anche questa volta la bottega si mostrò al primo tentativo e senza incontri con personaggi leggendari. All’interno c’era un’altra cli-ente, che aveva in comune con Alcina solo l’età. Per il resto ap-parteneva a un’altra razza: alta, magra, vestiva di nero e aveva un viso lungo e stretto, con i capelli ancora scuri legati in una croc-chia. Remo fu colpito soprattutto dall’espressione severa della donna, che per tutto il tempo in cui rimase nella bottega misurò le parole con il contagocce e non mosse un solo muscolo della fac-cia. Stava ritirando il sacchetto che Bernardo le aveva riempito. «Grazie» gli disse quasi a fatica «per il resto passerò domani alle cinque in punto.» Dopo di che uscì dalla bottega a passi piccoli e svelti, guardando dritto davanti a sé. Al momento di richiudere la porta lanciò uno sguardo furtivo al nuovo arrivato, poi sparì oltre la soglia. «Questa signora almeno non ci ha fatto perdere tempo» disse Remo. «Violante non perde mai tempo» confermò Bernardo. «È quella che gestisce l’altro circolo di streghe?» «Esatto, è l’arcistrega delle zoccolare e dato che hai già visto Al-cina, adesso conosci la crema della stregoneria beneventana» ri-spose l’uomo riponendo un paio di scatole negli scaffali. Quindi aggiunse con un sorriso malizioso: «Devo sempre sperare che non s’incontrino qui dentro, per evita-re una rissa. Oh, a proposito; si chiamano “cortei” e non circoli. Se ti sentono ti trasformano in un rospo smeraldino, che fa anche chic.» Vista l’espressione di Remo aggiunse:

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«Scherzo, naturalmente. Quelle due hanno terrore dei topi, figura-ti dei rospi.» Mentre parlava si sistemò addosso una giacca pesante, afferrò un borsone di pelle appoggiato sul bancone e disse: «Andiamo, forza!» Remo osservò che Bernardo non si dava il disturbo di chiudere a chiave la porta della bottega e stava per chiedergli se l’aveva di-menticato. Poi, ripensando ai suoi problemi per entrarci, capì che non occorrevano tante precauzioni. Lungo il cammino scoprì quanto fosse faticoso tenere il ritmo dell’uomo, che procedeva spedito a dispetto dell’età e del borsone messo di traverso sulla spalla. Continuarono così per una decina di minuti. Scesero lungo corso Garibaldi e superarono il Duomo d’infilata. Era pratica-mente buio quando arrivarono in piazza Pacca, non lontano dalla casa di Remo e proprio ai limiti del centro storico. Superate le poche automobili in sosta, raggiunsero il vecchio muro parallelo alla strada principale che chiudeva il lato interno del piazzale. Il freddo umido novembrino si faceva sentire e quando l’uomo tirò fuori una bottiglia termica piena di tè caldo, Remo lo bevve vo-lentieri. «È quello che serve per sentire?» chiese, ormai abituato agli in-trugli del miscelatore. «L’hai riconosciuto, bravo. Sì, è il nostro vecchio tè-lefono» con-fermò Bernardo spostandosi lentamente verso il lato della piazza delimitato da un gruppo di vecchie case restaurate di recente. Quella degli Altavilla era a pochi passi da lì. Remo si appoggiò al muro, sforzandosi di assumere l’aria di un passante che si concedeva un momento di sosta. Aveva notato, non senza imbarazzo, che più d’uno scrutava con curiosità la strana coppia in cerca di un angolo silenzioso dove ascoltare la presunta sibilla. Da parte sua, Bernardo agiva senza preoccuparsi della gente intorno a loro e si spostava avanti e indietro, chinando ogni tanto la testa su un lato e socchiudendo gli occhi.

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Dopo qualche minuto d’attesa il messaggio si fece sentire, nono-stante il rumore delle auto sulla strada. Il testo era sempre lo stes-so, anche se con qualche pausa in più. Alla fine della solita quar-tina, però, la misteriosa voce aggiunse una strofa che Remo non aveva ascoltato in camera sua: «Sono incastrata in una cantina, Non mangio più da ieri mattina. La nebbia avanza umida e scura, Questa prigione mi fa paura.» «Questa volta è tutto chiaro» si sorprese Remo. «In caso di emergenza, anche le sibille rinunciano agli enigmi» disse Bernardo con una smorfia divertita. «Certo che ha una bella energia a ripetere il messaggio venti-quattr’ore su ventiquattro» osservò Remo, sinceramente ammira-to per quella costanza. Bernardo lo guardò sorridendo. «Le sibille non replicano i messaggi, hanno un sistema tutto loro per farli ripetere. Lo chiamano Econenia, se non mi sbaglio.» Remo incassò l’informazione. «Allora che si fa, andiamo? Ormai sappiamo che è in pericolo.» «Certo» rispose l’uomo «ma ci vuole un po’ di tempo; la Collina Cava non è aperta a tutti.» «Collina Cava?» si meravigliò Remo. Bernardo alzò gli occhi al cielo e sospirò: «Chissà che v’insegnano a scuola! Le Colline Cave non sono tan-to rare, dopotutto. Adesso non c’è tempo per le spiegazioni, tanto la vedrai con i tuoi occhi. Per fortuna è buio e non c’è neanche troppa gente in giro. Dovremo usare un paio di trucchi.» «Trucchi? Ma io non sono uno stregone.» «Molti beneventani diventerebbero streghe o stregoni, con un mi-nimo di pratica; l’abbiamo nel sangue. Tu vedi la porta della bot-tega e anche il nostro amico Mazzamauriello, per cui un po’ di talento devi averlo per forza. Comunque stasera ai trucchi ci pen-so io.»

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Bernardo continuò a scendere il corso con passo deciso. Remo lo seguì senza parlare e con una strana sensazione di vuoto all’altezza dello stomaco. «Dobbiamo passare per il sentiero» spiegò il miscelatore, accele-rando il passo e seguito a stento da Remo. «Sentiero?» «I sentieri sono strade tracciate da generazioni di streghe e stre-goni erranti» spiegò Bernardo senza rallentare «portano a luoghi magici, come la nostra Collina Cava.» «Allora bisogna conoscere questo sentiero per scendere là sotto?» chiese Remo con il fiatone. «C’è qualche altra via, ma alla fine questa è la più semplice.» Dopo qualche istante, superata la curva che usciva dal centro sto-rico, si ritrovarono in via Posillipo, una strada che, costeggiando un angolo delle antiche mura di Benevento, domina dall’alto i quartieri nuovi della città, il ponte Vanvitelli e il lungo viale che conduce alla stazione ferroviaria, sul quale era anche il negozio dei genitori di Remo. Sotto di loro scorreva il fiume Calore, di cui si sentiva gorgogliare l’acqua resa abbondante e fangosa dalle piogge autunnali. Remo rabbrividì e forse non solo per il freddo; da dove partiva questo famoso sentiero? Tra le automobili, i semafori e il parapet-to a strapiombo sul fiume non riusciva a immaginare passaggi se-greti o porte fatate. Ma Bernardo procedeva sicuro e si fermò in corrispondenza di un piccolo spiazzo che interrompeva il muretto di protezione sporgendo a picco sul letto del Calore. Remo cono-sceva il posto; accanto a loro sorgeva, spettrale nella penombra, una torretta abbandonata in posizione di guardia sul ciglio della scarpata. «Non mi dire che dobbiamo entrare là dentro» disse Remo «dico-no che è pericolante.» «Non preoccuparti» rispose Bernardo «va bene qui sul terrazzino, ma non allontanarti.»

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Il miscelatore si avvicinò alla torretta e ci appoggiò le mani aper-te. Cominciò a recitare parole incomprensibili a bassa voce e il suo mormorio era coperto dalle auto di passaggio. Per fortuna il posto era poco illuminato e i guidatori distratti non fecero caso alle manovre dell’uomo. Remo era rimasto un passo indietro e vide il profilo della torre tremare e sbiadire contro il cielo scuro. L’edificio si fece sempre più trasparente, fino a sparire del tutto nel giro di pochi secondi. Allora Remo sentì un suono come un grido soffocato provenire da qualche parte intorno a loro. Diede uno sguardo intorno ma non vide nessuno, anche se era sicuro di aver sentito il rumore in direzione di una stretta traversa sull’altro lato della strada. Non osò comunque interrompere Bernardo e si concentrò sulla torre scomparsa. Al posto della torretta si era materializzato un piccolo stagno, profondo e circolare come un pozzo, pieno di una nebbia chiara e luminescente che si disperdeva nell’aria in volute di gas. «Ma è fumo» esclamò Remo indietreggiando. «È solo nebbia bianca, ancora un attimo e ci entriamo.» «Cosa?» disse Remo alzando la voce. Poi si girò intorno come in cerca di aiuto, ma le auto continuavano a passare senza rallentare al cospetto delle spirali di foschia densa che salivano dalla pozza. Un passante sul marciapiede opposto si era girato all’esclamazione di Remo, poi aveva continuato il suo cammino. «Non meravigliarti» disse Bernardo «tranne che per noi, qui c’è la solita torretta. Le vie magiche sono visibili solo a chi deve en-trarci e si chiudono subito dopo il loro passaggio. Sarebbe bello averle quando fai la coda all’ufficio postale, non trovi?» Remo sorrise per pura educazione, poi si ricordò del grido che aveva sentito. «C’era qualcuno qui quando è scomparsa la torre, ho sentito una specie di urlo.» Bernardo l’interruppe: «Poco importa. Chi non deve entrare, non entrerà. Allora, vo-gliamo procedere? La serata è troppo umida per stare qui fermi.»

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Remo osservò ancora le volute biancastre che salivano dall’apertura sotto i suoi piedi. «Avevi parlato di un viaggio, non di un suicidio.» Il miscelatore sorrise e fece segno di seguirlo. «Fidati di me, la nebbia bianca non distrugge» e avanzò deciso verso le nuvole di foschia. Remo decise che non sarebbe stata quella nebbia a impedirgli di vivere la sua prima vera avventura da quando, da bambino, era rimasto chiuso nel ripostiglio di casa. Si bloccò stupito solo un istante, quando Bernardo sfiorò la nebbia con le dita e tutto co-minciò a cambiare. I riccioli di bambagia si solidificarono come una colata di gesso, diventando lucidi e compatti, assumendo una forma ben definita. Davanti agli occhi sgranati di Remo, la nebbia bianca si dispose a spirale e lasciò uno spazio libero al centro. Di fronte ai due viaggiatori c’era, adagiata fra due pareti chiare, una rampa inclinata, tanto liscia da sembrare metallica, che sprofon-dava sotto il piano stradale. «Non ho più l’età per questo esercizio» disse Bernardo «ma si sa che i vecchi tornano un po’ bambini.» Si chinò all’inizio della rampa fino a sedersi proprio dove prima era la torretta, e fece spazio a Remo che si accomodò al suo fian-co, non senza qualche esitazione. Il miscelatore gli appoggiò il braccio sulla spalla, e proprio mentre passava un uomo meravi-gliato diede un colpo al giovane compagno di avventura e tutti e due scivolarono giù per il piano inclinato. Remo si chiese se il povero passante sarebbe corso difilato a comprarsi un paio di oc-chiali, poi ebbe altro da pensare. L’effetto fu quello di uno scivolo, uno di quelli a tortiglione che Remo aveva visto qualche volta al parco giochi e aveva sempre rifiutato di provare. Presero velocità, scendendo un giro dopo l’altro sotto al marciapiede e alla strada, sempre più giù nelle vi-scere della terra. Se non fosse stato così buio e se avesse saputo dove stava precipitando, forse si sarebbe divertito. Nella sua si-

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tuazione, invece, si concentrò sull’atterraggio, chissà quando e chissà dove. Quando questo arrivò, dopo pochi secondi, fu morbido e piacevo-le. I due erano usciti da un varco circolare nel muro di conteni-mento della strada, venti metri sotto la torretta, e si ritrovarono seduti sull’erba a due passi dal Calore, in mezzo ai cespugli e agli alberi che ne bordavano la riva. Remo non aveva mai visto nes-suno scendere là sotto, specialmente di sera e con il fiume gonfio d’acqua. Del resto, che lui sapesse, da quelle parti non c’erano scale per raggiungere la riva. Sopra le loro teste la città continua-va a luccicare e ronzare. Bernardo non perse tempo. Si rialzò, scostò i cespugli che copri-vano l’uscita del passaggio e si diresse veloce un po’ più a monte, seguendo la riva e senza allontanarsi dal muro di protezione dell’argine, alto e nero alla sua sinistra. Sul lato opposto il fiume scorreva rumoroso. Remo seguì il miscelatore con difficoltà fra le erbe, gli alberi e le piante spinose. Quando sentì un rumore in lontananza, una specie di tonfo, si costrinse a tacere per non fare la figura del coniglio. Si girò solo un attimo, non vide niente e continuò sulle tracce di Bernardo. Quest’ultimo si fermò di colpo e disse: «Lo vedi?» indicando un punto indefinito dell’alta scarpata. «Cosa?» «L’ingresso del sentiero, naturalmente, a destra del cespuglio. Fa’ come quando cercavi la porta della bottega.» E Remo trovò il famoso ingresso. Dove prima aveva visto solo il muro, solido e compatto, uno stretto passaggio triangolare si di-schiudeva e penetrava nella collina. Non era buio come la parete in cui si apriva, lo rischiarava una foschia biancastra. Mentre tra i rami si alzava un vento fastidioso, Bernardo entrò deciso nel pas-saggio e Remo lo seguì con riluttanza, chiedendosi cosa sarebbe successo se il varco si fosse richiuso alle loro spalle. “Dopo lo scivolo” pensò “c’è pure il tunnel del terrore.”

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Il sentiero cominciò a scendere e presto la pendenza costrinse Remo ad appoggiarsi alle pareti del cunicolo, interamente scavato nella roccia. Gradini molto larghi e irregolari, ricavati nella pietra viva, permettevano la discesa. La luce pallida sospesa nell’aria permetteva di distinguere il profilo della galleria e faceva brillare gli spigoli di pietra sporgenti e umidi. Remo si sentiva inquieto, lo spazio angusto intorno a lui, l’odore di muffa e il silenzio asso-luto gli comunicavano una sensazione di pericolo imminente. Gli sembrava anche di sentire rumori di passi e pietre smosse alle sue spalle. Più volte si girò all’improvviso, convinto di essere seguito, ma non vide nessuno e ormai aveva deciso di non parlarne più a Bernardo. Gli venne in mente, comunque, che una simile galleria era il posto ideale per un agguato. Se gli uomini di quel Nardo lo tenevano d’occhio, adesso avevano a disposizione un’occasione d’oro per riuscire dove avevano fallito qualche giorno prima. Con un sussulto di dignità scacciò questi pensieri e chiese: «È ancora lungo?» «Un po’» gli rispose Bernardo senza voltarsi «ma tra poco sarà più facile.» La promessa del miscelatore si realizzò quasi subito; il cunicolo selvaggio e scosceso lasciò il posto a una galleria più larga e il-luminata da una luce perlacea e soffusa, che usciva da nicchie scavate a intervalli regolari sui due lati del percorso. La pendenza era meno sensibile e si procedeva su una pavimentazione regolare a grandi lastre scure di pietra. Le pareti, perfettamente a filo, era-no ricoperte di mattoncini sui quali risaltavano, più chiare, le ra-gnatele. Remo osservava tutto con un misto di meraviglia e timo-re, convinto di aver visto un posto del genere in qualche film di avventure archeologiche. Quello che scoprì alla fine della galleria gli tagliò letteralmente il respiro. Superato l’arco che segnava l’uscita dal tunnel, i due si ritrovaro-no su un terrazzo protetto da basse mura merlate, dal quale lo sguardo si perdeva in un’enorme caverna. La luce crepuscolare era appena sufficiente per cogliere le dimensioni dell’antro, che si

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estendeva per chilometri sotto i loro piedi. Molto più in basso del terrazzo, proprio al centro della grotta, sorgeva un’alta collina a punta, su cui s’arrampicavano le strade e le case di una città forti-ficata dall’aspetto medievale.

Non c’erano segni di vita, ma lo spettacolo era grandioso. Si di-stinguevano i tetti e le torri della cittadella e i riflessi delle pietre che lastricavano le strade. Il borgo era dominato dalla massa scu-

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ra di una rocca dalle torrette appuntite. Quella fortezza, che occu-pava la cima del colle proprio al centro dell’abitato, nella semio-scurità dello sfondo presentava un profilo delicato e sinistro. Tut-to intorno scendeva un dedalo di viuzze in forte pendenza, le cui curve s’incontravano formando incroci irregolari e piazzette di tutte le forme, che s’intuivano lungo il pendio e raggiungevano le porte della cinta muraria. A tratti diroccate, le mura erano ancora imponenti e interrotte da torri diverse per forma e per altezza. In lontananza, ai margini della grotta, sorgevano altri rilievi, al-cuni dei quali, come quello da cui Remo guardava la caverna, e-rano addossati direttamente alle pareti di roccia. Un paio di quelle colline ospitavano altre case, minuscole in lontananza. Remo rimase per alcuni minuti ad ammirare il panorama della cit-tà sotterranea, poi si girò verso Bernardo e gli chiese: «È la Collina Cava, vero?» Il miscelatore annuì. Poi indicò la cittadella. «E quella è Malevento, un tempo capitale delle streghe.» «È disabitata?» «Quasi.» «L’hanno costruita le streghe?» domandò Remo. «Nel Medioevo davano la caccia a streghe e stregoni. Scendendo nella Collina Cava, hanno evitato di finire bruciati sul rogo.» «Però» riprese Remo «scavano dappertutto sotto la città per le fo-gnature, gli scavi archeologici. Non hanno mai trovato questa grotta.» Bernardo non si scompose. «Troppo profonda. Ci sono diversi strati geologici tra qui sotto e la città di sopra. E poi gli abitanti hanno preso qualche precauzio-ne nel corso dei secoli. Ora però scendiamo. Più tardi avremo tempo per le informazioni turistiche.» Il miscelatore superò un varco nel parapetto malandato che bor-dava il terrazzo e imboccò una stretta scala con gradini alti e scomodi in pietra grezza, che scendeva ripida verso il fondo della caverna. Remo lo seguì in silenzio, reggendosi con le mani alle

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pareti di roccia per non cadere, ancora incredulo che un posto si-mile potesse esistere proprio sotto casa sua. L’odore di antico che saliva dalle crepe nei muri non era spiacevole, ma sottolineava l’estraneità del luogo. La penombra dominante aggiungeva un co-lore inquietante. Arrivati alle porte del borgo, Bernardo indicò una delle torri della cinta muraria. Remo comprese che quella era la Torreascosa del messaggio, ma si rese conto che c’era qualcosa che non andava. La torre appariva spezzata in due metà; tra il terrazzo merlato, con i livelli più alti della poderosa struttura, e la base, che pog-giava direttamente sulla roccia, si vedeva uno spazio nero. Fra i due tronconi della torre c’era un nulla buio e dai contorni incerti, una zona in cui gli occhi non riuscivano a penetrare. Bernardo stava guardando nella stessa direzione. «È la nebbia nera, sta ingoiando la torre.» «Si muove?» domandò Remo sentendo un brivido nelle ossa. «A ondate successive. La magia dell’essere difende la città, ma cede poco a poco, centimetro dopo centimetro.» Bernardo incrociò lo sguardo interrogativo di Remo. «Ora non abbiamo tempo per una lezione di magia teorica. Ci so-no due forze complementari: la magia dell’essere e la magia del fare. La prima agisce nelle cose senza cambiarne la forma, mentre la seconda le sposta o le trasforma. In pratica, la magia del fare di Nardo sta spostando la povera Torreascosa nel Tetro.» «Allora la magia del fare è cattiva e la magia dell’essere è buo-na?» «Tutte e due le forze possono essere usate per il bene o per il ma-le» rispose il miscelatore. «E la sibilla…» «È lì sotto da qualche parte.» Remo pensò che il problema era arrivarci, “lì sotto”, con la neb-bia che isolava la base della torre. «Questa nebbia si può attraversare?»

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«Ci puoi entrare senza problemi» rispose Bernardo «il difficile è venirne fuori. La nebbia nera è la porta del Tetro; se sei dentro, ci resti.» «Ma allora Nardo e i suoi non possono uscire» osservò Remo. «Se sei parte del Male la nebbia nera non ti trattiene più.» «Come non detto. C’è un altro modo per passare?» Il miscelatore ci pensò sopra un attimo. «Qualche incantesimo c’è» disse poggiando la sacca a terra «ma non è il mio campo. Mettiamo la teiera sul fuoco, piuttosto.» Fine anteprima. CONTINUA...