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Report di ricerca di Cristiana Ottaviano e Laura Mentasti (C.R.I.S.U.S.M. Centro di Ricerca Interdisciplinare Scienze Umane Salute e Malattia - Università di Bergamo) Sicurezza sul lavoro dei migranti: infortuni e percezione del rischio (I fase) Giugno 2011

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Report di ricerca

di Cristiana Ottaviano e Laura Mentasti (C.R.I.S.U.S.M. Centro di Ricerca Interdisciplinare Scienze Umane Salute e Malattia - Università di Bergamo)

Sicurezza sul lavoro dei migranti:

infortuni e percezione del rischio

(I fase)

Giugno 2011

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Indice

Presentazione p. 5

1. Introduzione p. 7

1.1 Rischi e paure: la società dell’incertezza 1.2 L’evoluzione del concetto di rischio 1.3 Rappresentazione mediatica e percezione sociale della sicurezza 1.4 Migranti e sicurezza sul lavoro

2. La situazione internazionale e italiana degli infortuni sul lavoro p. 15

2.1 Il quadro internazionale 2.2 Il fenomeno infortunistico in Italia 2.3 La mappa italiana dei rischi

3. Gli infortuni dei lavoratori stranieri in Italia p. 25

3.1 Caratteri dell’occupazione immigrata in Italia 3.2 Il quadro infortunistico generale dei lavoratori stranieri 3.3 Dentro i settori economici. Costruzioni 3.4 Dentro i settori economici. Trasporti 3.5 Dentro i settori economici. Agricoltura 3.6 Dentro i settori economici. Personale domestico

4. Il quadro bergamasco della sicurezza sul lavoro per i migranti p. 33

4.1 Cenni sulla situazione occupazionale e infortunistica degli stranieri in Lombardia 4.2 Dati sugli occupati stranieri a Bergamo 4.3 La situazione infortunistica dei lavoratori migranti nel territorio bergamasco 4.4 L’attenzione dei migranti alla sicurezza sul lavoro

5. I lavoratori stranieri di fronte agli infortuni: p. 45

fattori di rischio e prospettive d’analisi

6. Bibliografia e sitografia p. 49

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Accettare il presente è il modo peggiore di costruire il futuro

(Tom Benettollo)

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Presentazione

Il presente Report rende conto della I fase della ricerca denominata “Sicurezza sul lavoro dei

migranti: infortuni e percezione del rischio”, commissionata dall’ASL di Bergamo al C.R.I.S.U.S.M. (Centro di Ricerca Interdisciplinare Scienze Umane Salute e Malattia) dell’Università di Bergamo. Tale fase della ricerca aveva come obiettivo quello di ricostruire un quadro generale riferito all’incidenza degli infortuni sulla forza lavoro non italiana nell’ambito della provincia di Bergamo. Le finalità più specifiche erano quelle di:

- acquisire dati del contesto territoriale bergamasco, suddivisi per settore di attività, relativi alla situazione occupazionale dei migranti in rapporto agli occupati italiani;

- verificare l’incidenza degli infortuni tra i lavoratori stranieri in rapporto agli italiani nel territorio bergamasco, operando un confronto con la situazione a livello internazionale, nazionale e regionale;

- approfondire il tema con riferimento ad alcune variabili, quali, ad esempio, settore economico, condizione lavorativa, Paese di nascita.

Tali finalità dell’indagine sono state perseguite attraverso un’analisi incrociata dei dati forniti da

varie istituzioni e organizzazioni internazionali, nazionali e locali, quali Ilo, Unione Europea, Istat, Censis, Inail, Ispesl, Fondazione Ismu, Ires-Cgil, Medici Senza Frontiere, Asl e Provincia di Bergamo1. La rilettura è avvenuta tramite una metodologia di ricerca sociologica quantitativa che consiste nella rielaborazione di dati secondari2.

Il lavoro di interpretazione dei dati è stato preceduto da un capitolo teorico introduttivo, nel

quale si è approfondito il concetto attuale di ‘rischio’ a partire dal dibattito sociologico sulla società dell’incertezza e la rappresentazione mediale del rischio e della sicurezza, per arrivare anche a determinare quale spazio abbia oggi nell’immaginario collettivo il tema della sicurezza sul lavoro.

Tale tema assume una rilevanza ancora più marcata nel caso dei lavoratori migranti che – come è stato confermato anche nel corso della indagine qui illustrata – si dimostrano essere soggetti particolarmente esposti al rischio di infortuni3.

Il quadro complessivo della ricerca, di cui questo lavoro rappresenta, come già detto, la I fase,

prevede altri step finalizzati a operare approfondimenti qualitativi all’interno di alcuni settori produttivi e realtà aziendali, attraverso un’indagine sul campo che mira a verificare le azioni e le iniziative intraprese per la diffusione della cultura della sicurezza tra i migranti, nonché ad esplorare direttamente la percezione del rischio da parte di tali lavoratori.

1 Si tenga conto che si è riscontrata una certa difficoltà di comparazione tra i dati, dovuta in alcuni casi all’assenza di criteri

omogenei di raccolta degli stessi e in altri casi alla mancanza di elementi per operare un raffronto. 2 Con l’espressione ‘dati secondari’ si intende quell’insieme di dati non raccolti direttamente dal ricercatore, ma acquisiti da fonti

statistiche già esistenti. 3 In questa ricerca non si è trattato del tema delle malattie professionali che, per le sue caratteristiche e implicazioni, merita

approfondimenti specifici.

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1. Introduzione

1.1 Rischi e paure: la società dell’incertezza

In questi ultimi anni, in particolare in Europa e nel nord America, una forte propensione alla paura e una marcata ossessione per la sicurezza sono tra i tratti più tipici di un contesto sociale che è, invece – secondo quanto osserva anche Castel (2003) – senza dubbio una delle società più sicure che siano mai esistite. Eppure, in contrasto con questo dato oggettivo, il “viziato, coccolato ‘noi’ si sente insicuro, minacciato e impaurito, più incline al panico, e più interessato a qualsiasi cosa abbia a che fare con la tranquillità e la sicurezza, dei membri della maggior parte delle altre società a noi note” (Bauman 2005, p. 3). Il mito dell’onnipotenza veicolato dalla modernità ci ha condotto alla convinzione che tutto potesse essere messo sotto controllo, programmato, assicurato: il constatare che ciò non sia davvero così, che rimangano ampi spazi di rischio e di insicurezza e, anzi, che queste aree negli ultimi anni tendano ad aumentare ha fatto sì che la tarda modernità esprima una delle sue cifre più qualificanti proprio nell’incertezza e, probabilmente, anche in una sovra-rappresentazione dei rischi.

Il dibattito antropologico e sociologico da tempo riflette su tali questioni e alcuni dei suoi massimi esponenti come Ulrich Beck (1986, 2008), Antony Giddens (1994) e Zygmunt Bauman (2000) sono stati individuati e definiti proprio come i ‘sociologi del rischio’ o ‘dell’incertezza’. Se pur con prospettive e sottolineature differenti, i tre studiosi restituiscono un’analisi della nostra società come segnata profondamente dalla percezione (non necessariamente sempre corrispondente alla realtà) dell’aumento dei rischi, che si presentano con caratteristiche diverse da quelli del passato, soprattutto perché di natura globale e sempre più difficili da quantificare, prevenire o evitare. Contrariamente alle epoche premoderne, infatti, l’incertezza trae origine proprio dalla sviluppo della conoscenza umana, anziché trovare in esso una risposta. “Perfino nei rischi caratteristici delle epoche passate – nelle epidemie di peste, inondazioni o carestie – di fatto si coglie oggi l’opera dell’uomo, quasi mai un atto dovuto al sovrannaturale (a divinità o demoni) o un semplice errore della natura. All’intervento umano viene assegnato, in sostanza, il ruolo prioritario: trattata con crudeltà e gestita in modo non appropriato, la natura sarebbe stata indotta a ‘rivoltarsi’” (Lupton 2003, p. 72). La promessa del controllo sul mondo rivela tutto il suo fallimento.

Ciò non solo a livello macro sociale, ma anche nel singolo concreto percorso di vita. Venuti meno i riferimenti e i vincoli tradizionali, gli attori sociali si trovano a costruire le proprie biografie scegliendo tra nuovi e sempre mutevoli modalità di vivere, arrivando a volte a inventare percorsi inediti e mai sperimentati; così la nostra vita dipende sempre più dalle scelte che facciamo, da ciò che escludiamo e ciò che comprendiamo nei nostri viaggi esistenziali, con un faticoso e continuo esercizio della riflessività (Beck, Giddens, Lasch 1999) che, a fronte di una maggiore libertà, produce ansia e insicurezza, e, dunque, una forte percezione di correre dei rischi.

Anche la necessità di affidarci a saperi esterni, specialistici e sempre rivedibili, piuttosto che alle certezze della tradizione, non fa che aumentare le possibilità di risposta (non necessariamente convergenti), e quindi, di fatto, suscitare preoccupazioni e sensazione di perdita di controllo sulla realtà. Tutto ciò, spesso, sapientemente governato o comunque sfruttato dai mezzi di comunicazione e, soprattutto, da una logica di mercato che agisce sulle nostre inquietudini: “l’ansia generata dall’incertezza è la materia prima che rende fertile la società individualizzata a scopi di consumo; necessita dunque di cure amorevoli e non si deve assolutamente permettere che si secchi o si impoverisca” (Bauman 2003, p. 218). Capitalismo contemporaneo (tecno-nichilista, lo definisce Magatti, 2009) e individualismo si giocano il loro reciproco coinvolgimento

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anche e soprattutto nella palude della paura e dell’incertezza, da compensare innanzitutto con lo shopping compulsivo.

Anche dal punto di vista del legame intergenerazionale e, quindi, dal punto di vista educativo, ciò provoca delle conseguenze. La società adulta (Rivoltella, 2011), invece di provare ad affrontare e rielaborare i vissuti di crisi generalizzata, li fissa in ‘un’ideologia della crisi e dell’emergenza’; oggi gli adulti “hanno interiorizzato il fallimento degli ideali connessi alla visione messianica del futuro e condividono la convinzione opposta, e ormai dominante, di un futuro pieno di minacce. Così, nella pratica quotidiana dell’educazione, si passa dall’invito al desiderio a una variante più o meno dura di quello che potremmo chiamare apprendimento sotto minaccia” (Benasayag, Schmit, 2007, p. 43). Il rischio di educare alla paura – e non alla ricerca di sicurezza – come dato imprescindibile c’è.

1.2 L’evoluzione del concetto di rischio

Se vogliamo aprire un piccolo approfondimento storico, ci paiono particolarmente rilevanti le notazioni di Deborah Lupton (2003), che sottolinea come nella Francia medievale il sistema di credenze con cui affrontare, dal punto di vista pratico e concettuale, rischi, insicurezze e paure fosse costituito sostanzialmente dalla magia, unita a un pizzico di cristianesimo. Dato che il soprannaturale era dato per scontato, per affrontare il male si ricorreva alla superstizione: la speranza di tener lontani pericoli e malattie, che si pensava venissero ‘dal di fuori’, era riposta nei segni premonitori, nei pellegrinaggi, negli amuleti o nelle offerte a Dio…

Nel tentativo di reagire, limitare e prevenire il pericolo, le società progressivamente hanno sviluppato sistemi di strategie e di credenze perché “mancare di un tale sistema significa arrendersi al fato, rinunciare a ogni idea di controllo” (ivi, p. 8). Nelle società occidentali contemporanee – contesti sociali nei quali l’aspirazione al controllo sulla propria vita ha acquisito una grandissima rilevanza – per spiegare le deviazioni dalla norma, la sfortuna o gli eventi spaventosi, in genere si fa ricorso al concetto di rischio, concetto nel quale è “implicita l’idea della responsabilità degli essere umani” (ivi, p. 9) e la convinzione che qualcosa si possa fare. Nonostante il sentire legato al pericolo e all’insicurezza sia ancora diffuso, oggi noi nutriamo paure piuttosto diverse da quelle del passato e – dato che le condizioni di vita, per esempio dal punto di vista della salute, sono decisamente migliorate – gli oggetti della nostre preoccupazioni sono naturalmente mutati: non temiamo più la mortalità infantile, ma abbiamo paura che i nostri figli non vadano bene a scuola o possano crescere infelici, la vita media si è decisamente allungata ma non ci rassegniamo alle malattie della vecchiaia, non cadiamo più da cavallo ma possiamo avere un incidente automobilistico, ecc… Eppure, sostiene ancora la Lupton (ibidem), “la base simbolica delle nostre incertezze è [ancora] l’ansia creata dal disordine, la perdita di controllo sui nostri corpi, sui rapporti con gli altri, il necessario per vivere e il grado di autonomia con cui possiamo godere nella vita quotidiana. Non solo. Come in epoca premoderna, non neghiamo la realtà delle minacce e tuttavia vogliamo credere di poter fare qualcosa”.

Tendenzialmente non si ricorre più ad amuleti o a formule magiche (anche se sappiamo che il business di maghi e guaritori non è certo in sofferenza…), ma mettiamo in atto strategie alternative (sottoscrivere assicurazioni, continui check-up medici, installare antifurti…) che, in realtà, rispondono al medesimo bisogno: il contenimento e la gestione dell’ansia di fronte ai pericoli e alle paure. Sono le strategie di reazione alle modalità tardo moderne di pensare e rappresentare il rischio.

Va sottolineato che il significato del termine, nel corso dei secoli, ha subito profondi mutamenti; il suo utilizzo si è allargato progressivamente e oggi viene applicato a una grande varietà di situazioni. Dal punto di vista storico, molti studiosi concordano sull’idea che la sua comparsa sia da collegare alle prime imprese marittime in epoca premoderna, a indicare i pericoli

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del viaggio, ma escludendo l’idea di un errore o di una responsabilità umana. Per ‘rischio’ si intendeva “un evento naturale, come una tempesta, un’alluvione, un’epidemia, più che un avvenimento determinato dall’uomo. Per parte loro, gli essere umani potevano fare assai poco: cercare di stimare in modo approssimativo la probabilità del verificarsi di tali eventi, e tentare per quanto possibile di ridurne l’impatto” (ivi, p. 11). È tra Seicento e Settecento, con l’avvento della modernità – fondata sull’idea illuminista che la chiave del progresso umano e dell’ordine sociale sia una conoscenza oggettiva del mondo da perseguire attraverso indagine scientifica e pensiero razionale – che si comincia ad affrontare anche il concetto di rischio in termini scientifici, sulla base di alcune idee relative al calcolo delle probabilità matematiche.

Nel corso del XIX secolo la nozione di rischio si estende ulteriormente: i fattori di pericolo non si nascondono più esclusivamente nella natura, ma anche negli esseri umani, con la loro condotta, la loro libertà, le modalità di relazionarsi reciprocamente. “Il concetto modernista di rischio ha introdotto un modo nuovo di vedere il mondo e le sue manifestazioni caotiche, contingenze e incertezze. Nel suo significato era implicita l’idea che i risultati potessero essere conseguenze dell’azione umana” (ivi, pp. 12-13), anziché esprimere significati nascosti della natura o intenzioni misteriose di una qualche divinità. Così facendo, il rischio sostituisce la fortuna o il fato e i moderni, di fatto, provano a eliminarne la naturale indeterminatezza o incertezza, grazie al mito della calcolabilità che trasforma il cosmo in qualcosa di maneggevole, alimentando un delirio di onnipotenza e di razionalizzazione del mondo e di ogni suo aspetto.

Così, in epoca moderna si è finito con l’utilizzare il concetto di rischio “nella sua accezione tecnica, esclusivamente in relazione agli eventi le cui probabilità fossero note o stimabili [per il resto si usa la parola ‘incertezza’+ *…+. Ricorrere a tali distinzioni significa presupporre che vi siano forme di indeterminatezza non assoggettabili al calcolo razionale, non riconducibili a possibilità alternative le cui probabilità siano stimabili” (ibidem); le nozioni moderniste, inoltre, lasciano ancora spazio alla distinzione tra rischi ‘buoni’ e rischi ‘cattivi’ (per esempio, nel gioco d’azzardo il rischio è ambivalente: si può perdere ma si può anche vincere, così come quando si investe in borsa…).

Oggi, nell’epoca tardo moderna (Giddens 1994), queste sottili distinzioni tra rischi e incertezze, rischi buoni e rischi cattivi tendono a perdersi. Oggi il rischio non è la probabilità che qualcosa accada (nel bene o nel male), ma lo si identifica con il ‘pericolo’ e lo si usa per riferirsi a esiti negativi o indesiderabili (certamente non a quelli positivi); nel linguaggio quotidiano indica minaccia, azzardo, pericolo o danno, con un utilizzo estremamente frequente (alcune indagini nei media, per esempio, dimostrano che il termine rischio si è definitivamente trasformato in una parola ‘ombrello’, che è andata a sostituirne altre).

Tutto ciò come probabile esito del fallimento della modernità nelle sue promesse di progresso continuo e di benessere generalizzato: la tarda modernità, infatti, si caratterizza per incertezze e ambivalenze connesse al continuo mutamento, alla frammentazione culturale, al dissolversi di norme e tradizioni e alla crescente sfiducia nelle istituzioni sociali e nelle autorità tradizionali, fenomeni che nell’insieme generano paure, tensioni, sensazioni che tutto sia precario, incerto e, dunque, in qualche modo ‘a rischio’. Inoltre, per Luhmann (1996), la consapevolezza del rischio si accompagna a un senso di attrazione per le circostanze più catastrofiche e meno probabili; non solo perché è possibile che si avverino, ma anche e soprattutto per la ragione che oggi è – o crediamo sia sempre – possibile identificare la causa ultima di ciò che temiamo nelle decisioni degli esseri umani, individui o istituzioni, e dunque nella possibilità di opporsi a tali decisioni per evitarne le tremende conseguenze.

Il concetto di rischio, dunque, ha “assunto importanza perché è aumentata la dipendenza del futuro della società dai processi decisionali” (Lupton 2003, p. 18). A questo universo un po’ sconvolto da cambiamenti e ambivalenze, si oppongono i significati e le strategie costruite intorno

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al rischio; essi traggono origine dalla stesse incertezze, ansie e imprevedibilità con l’obiettivo di dar loro una risposta, “sono tentativi di domare l’incertezza. E tuttavia, la stessa intensità di tali tentativi ha spesso l’effetto paradossale, non di placare le ansie, ma di eccitarle” (ivi, p. 19). Ne è un esempio efficace il paradigma securitario che appare una costante strategia politica adottata in Italia da qualche anno, soprattutto nei confronti dei migranti: quando si invoca insistentemente la sicurezza, in realtà ciò che si comunica davvero è che ‘c’è da aver paura’. Il circolo vizioso si completa poi nel meccanismo che ‘più si ha paura più si richiedono interventi di sicurezza’.

Ma quali sono le paure, i rischi che sono nell’agenda della contemporaneità? Definirli – scrive

ancora Deborah Lupton (ibidem) – vuol dire riconoscerne la rilevanza per la nostra soggettività e per il nostro benessere, dato che i fenomeni oggetto d’ansia variano da società a società, da epoca a epoca. Secondo la studiosa australiana, le preoccupazioni dei cittadini e delle istituzioni delle società occidentali contemporanee sono riassumibili in sei classi (ivi, p. 19):

- rischi ambientali (inquinamento, radiazioni, alluvioni, incendi…); - rischi dello stile di vita (cibo, droghe, vita sessuale, guidare in un certo modo, sport…); - rischi sanitari (terapie mediche, farmaci…); - rapporti interpersonali (relazioni sociali e sessuali, genitorialità…); - rischi economici (disoccupazione, prestiti, bancarotta…) - rischi della criminalità (attività illecite, crimini vari…). Appare forse un po’ curioso e allarmante rilevare che tra quelli nominati non compaiano i rischi

relativi al lavoro, che invece continua inesorabilmente (se pur le statistiche, in Italia, dicano che gli infortuni sono in diminuzione4) a essere un ambito in cui spesso si rischia se non la vita, certamente la salute. E una conferma, per quanto riguarda l’Italia, ci viene anche da quanto emerge nella Quarta Indagine sulla sicurezza in Italia e in Europa, realizzata da Demos, dalla Fondazione Unipolis e dall’Osservatorio di Pavia (2010): ‘essere vittima di un infortunio sul lavoro’ nella percezione degli intervistati è soltanto al 23° posto (cfr. tab. 1 p. 12), con una percentuale irrisoria a fronte di altre paure quali ‘la distruzione dell’ambiente’, ‘il futuro dei figli’, la ‘criminalità organizzata’ o ‘la sicurezza dei cibi’…

1.3 Rappresentazione mediatica e percezione sociale della sicurezza

Il lavoro dell’Osservatorio Europeo sulla sicurezza (2010), che indaga la rappresentazione sociale e mediale della sicurezza in Italia e in Europa, ci introduce a un ulteriore approfondimento, che riguarda il ‘livello del discorso’.

I fenomeni che selezioniamo e identifichiamo come rischi hanno uno statuto ontologico importante nell’interpretazione di noi stessi e dei nostri mondi sociali e materiali. L’accresciuta sensibilità al rischio, che indubbiamente c’è almeno in alcuni ambiti anche se non in tutti, è anche il risultato di un approccio al mondo altamente riflessivo. Per mezzo delle parole e delle immagini noi cerchiamo di dare un senso alla realtà, attraverso i discorsi noi diamo una certa collocazione e interpretazione degli eventi. Le narrazioni sui rischi “servono a organizzare i modi in cui li percepiamo e affrontiamo” (Lupton, 2003, p. 21) e tali narrazioni sono in continuo cambiamento, come le società. L’analisi dei discorsi sul rischio porta alla luce i mutamenti dei suoi significati e le discussioni che ne sono conseguite. I discorsi, soprattutto quelli mediali, portano in primo piano solo alcuni rischi, attraverso il meccanismo conosciuto fin dagli anni ’70 come ‘Agenda setting’, che si configura essenzialmente come un processo di selezione e gerarchizzazione della realtà attraverso la rilevanza data ad alcuni eventi piuttosto che ad altri (Marini, 2006).

4 Cfr. cap. 2.

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Ma come dunque i media ‘discorsivizzano’ il rischio o la sicurezza? Quali sono i temi che in Italia risultano più notiziabili e quali le percezioni sociali dei cittadini?

Uno spaccato molto interessante su questa questione ci viene proprio dal già citato lavoro di ricerca portato avanti in modo sistematico da Demos, dalla Fondazione Unipolis e dall’Osservatorio di Pavia, basato su due distinte indagini: la prima, attraverso sondaggi telefonici, è volta a rilevare la percezione sociale della sicurezza in Italia e in altri quattro Paesi Europei (Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna); la seconda consiste nell’analisi della notiziabilità del tema in base all’indicizzazione dei telegiornali e alla conseguente rilevazione delle notizie ansiogene, monitorando per l’Italia le edizioni del prime time di sette reti (Rai 1, Rai 2, Rai 3, Canale 5, Italia 1, Rete 4, La 7) e per la prospettiva internazionale le edizioni del prime time dei telegiornali di maggior ascolto del servizio pubblico (Rai 1, France 2, Tve, Ard, Bbc One).

A partire dal Quarto Rapporto (2010, p. 3) è interessante rilevare non solo l’andamento del 2010, ma anche le tendenze degli ultimi anni, con elementi di continuità e alcune novità significative.

Per ciò che concerne la percezione della sicurezza nei cittadini europei è evidente che in questa

contingenza storica i problemi segnalati sono soprattutto quelli di natura economica, anche se – sui dati aggregati per voci generali – ci sono chiare variazioni all’interno dei diversi contesti nazionali considerati, realisticamente correlate a un andamento dei mercati e delle performance dei sistemi economici (i cittadini della Germania, oggi ‘motore d’Europa’, sono molto meno preoccupati di quelli spagnoli…). Più nello specifico, le questioni che vengono segnalate prioritariamente sono il rischio legato al posto di lavoro, l’aumento dei prezzi, le dinamiche economiche, l’immigrazione, la qualità del sistema sanitario e della scuola pubblica (distribuite in graduatorie diverse da Paese a Paese). In Italia, alla domanda “quali sono i due problemi più importanti che il suo paese deve affrontare in questo momento?”, il primo posto in assoluto va alla disoccupazione (48,2%); seguono – ma a distanza – la situazione economica in generale (10,8), il costo della vita e l’aumento dei prezzi (6,4%), la qualità del sistema sanitario (5,4%) e, altri, tra cui la criminalità (solo) al 4,6%.

Dai precedenti rapporti si evince che il quadro nel nostro Paese si presentava in modo diverso, anche solo pochi anni fa; soprattutto per quanto concerne quest’ultimo aspetto: in particolare, alla fine del 2007, “quando l’attenzione al tema della criminalità, nel nostro Paese, aveva abbondantemente superato i livelli di guardia raggiungendo valori del tutto eccezionali, specifici rispetto a quanto osservato nel resto del continente e poco giustificati (o poco comprensibili, quantomeno) se incrociati con l’effettiva evoluzione dei reati” (Osservatorio Europeo sulla sicurezza, Demos, Fondazione Unipolis, Osservatorio di Pavia, 2010, p. 10), se pur anche allora i timori di tipo ‘economico’ e quelli di tipo ‘globale’, per quanto riguarda la dimensione quotidiana della vita5, generassero comunque maggiore preoccupazione della ‘criminalità’.

L’evoluzione delle liste delle ‘paure’ dal 2007 ad oggi, infatti, mette soprattutto in evidenza la progressione delle angosce di matrice economica, in parte riassorbite tra il 2008 e il 2009, ma in assoluta risalita nel 2010, come già osservato (tab. 1). E se la ‘criminalità organizzata’ arriva fino al 3° posto in graduatoria (dopo ‘distruzione dell’ambiente e della natura’ e i timori ‘per il futuro dei figli’), passando dal 40% del 2007 al 45% del 2010, altri timori per l’incolumità fisica sono molto meno opzionati, in particolare – come già osservato – quello per la sicurezza sul luogo di lavoro (meno del 12%).

5 In questo caso veniva richiesto di segnalare ciò che desta maggior preoccupazione per sé e per la propria famiglia.

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Tab. 1 – La graduatoria delle paure in Italia

Distruzione ambiente 54,6 Incidenti stradali 28,3

Per il futuro dei figli 48,5 Disastri naturali 27,9

Criminalità organizzata 44,8 Perdere i propri risparmi 24,7

Sicurezza dei cibi 42,2 Nuove epidemie 20,2

Perdita lavoro 40,5 Furto in casa 17,1

Problemi salute 38,5 Truffa bancomat o carta credito 15,7

Crisi borse e banche 37,5 Furto auto… 15,1

Globalizzazione 36,6 Scippi, borseggi 12,7

Problemi economici 34,5 Aggressione, rapina 11,6

Guerre nel mondo 32,6 Infortunio sul lavoro 11,7

Non avere/perdere la pensione 32,4 Mobbing 9,3

Avere un lavoro precario 31,3 Violenza o molestie sessuali 7,1

Atti terroristici 29,3

Fonte: Sondaggio Demos & PI per Fondazione Unipoli, dicembre 2010

Sull’altro fronte di ricerca, quello della notiziabilità6 dei reati, dai rapporti degli anni precedenti

emerge in modo netto quella che è stata definita ‘la grande bolla mediatica della criminalità’7, un andamento “a gobba tra il 2007 e il 2008 e che sembrava tornato a una sorta di normalità” (ivi, p. 35) nel 2009, mentre il 2010 propone una discontinuità rilevante, soprattutto nel secondo semestre, dove i dati fanno registrare un aumento notevole di notizie di reati rispetto alla media (2.973 vs. 2.100). Tuttavia, è necessario precisare che in questo periodo è avvenuto il ‘caso Scazzi’, che per molte ragioni si presenta con tutti gli elementi per essere al centro dell’opinione pubblica (assassinio di una ragazza da parte di famigliari): il caso di Avetrana ha debordato dal semplice fatto di cronaca “per invadere tutti i format televisivi, dal telegiornale al talk show, dal programma di approfondimento allo speciale giornalistico” (ivi, p. 36); i tg hanno sicuramente fornito la materia prima per alimentare tale circuito, o ‘circo’, mediatico. Infatti, i dati depurati dalle notizie di questo caso fanno registrare 2.074 occorrenze; dunque, in media.

Lo stesso trend di andamento delle notizie, cioè di leggera decrescita, si evidenzia anche per i reati commessi, di cui nel 2010 si stima una diminuzione del 5%; in Italia, quindi “il dato reale sulla criminalità, uno dei più bassi in Europa, è in costante diminuzione. La notevole visibilità della criminalità nei telegiornali è quindi una scelta giornalistica e comunque non di tutte le testate” (ibidem).

Anche il dato 2010 sulla percezione della criminalità sembra sostanzialmente in linea con quello del 2009. Alla domanda “secondo lei, c’è maggiore o minore criminalità nella zona in cui abita

6 La notiziabilità si può definire come l'attitudine di un evento a essere trasformato in notizia o il complesso delle caratteristiche che

rendono un evento particolarmente interessante per i media. 7 ‘Criminalità’ e ‘criminalità organizzata’ sono due opzioni distinte.

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rispetto a cinque anni fa” risponde ‘maggiore’ il 38,4% contro il 37,2% del 2009: un leggero incremento, ma ben lontano dai picchi 2007-2008 che facevano registrare valori superiori al 50%.

La questione interessante, tuttavia, non risiede soltanto in ciò che i telegiornali rappresentano

o sovra-rappresentano; è forse altrettanto – o ancor più – interessante provare a capire ciò che manca o viene comunque scarsamente narrato: nel nostro Paese la crisi economica “sembra non essere più al centro dell’attenzione già dal 2009 (6,7%8) e nel 2010 si conferma un dato (6,9%) che risulta straordinariamente lontano da quello del 2008 (26,8%). La notiziabilità della crisi economica è bassa a confermare l’idea diffusa di una situazione dei nostri ‘fondamentali’ che in realtà non sembra così solida. La rappresentazione delle difficoltà economiche nei telegiornali ha una dimensione limitata, rassicurante soprattutto se confrontata *…+ con altri paesi europei” (ivi, p. 38). Dunque, l’andamento della situazione in ambito economico così come viene ‘raccontato’ dall’informazione non corrisponde in alcun modo né al reale trend della crisi né alle percezioni dei cittadini.

Ci sono anche altre voci che risultano del tutto marginali: fa effetto la scomparsa dai tg degli incidenti stradali (0,8%) che invece avevano avuto una considerevole rappresentazione nel 2007 (11%) e la persistente bassa notiziabilità degli infortuni sul lavoro, fermi al 3% sul totale delle notizie ansiogene.

Proprio al tema della sicurezza sul lavoro il Rapporto di Demos, Fondazione Unipolis e Osservatorio di Pavia (2010) dedica una scheda di approfondimento, dalla quale emerge che nei primi dieci mesi del 2010 i casi di morti bianche sono stati 440 con il record negativo della Lombardia (13,9%), seguita dal Veneto (11,1%) e dalla Campania (8,9%); i settori maggiormente coinvolti sono quelli dell’agricoltura (36,6%) e delle costruzioni (28,2%).

I dati dunque rimangono drammatici, ma – forse anche a causa di una scarsissima notiziabilità dell’argomento – l’opinione pubblica non sembra percepire la gravità dei rischi. I dati rilevati da Demos, infatti, fanno registrare negli ultimi anni una significativa ascesa della percezione positiva della situazione: “quasi un italiano su due ritiene che la sicurezza sul lavoro sia aumentata: circa il 47%, con tre punti percentuali di incremento rispetto al 2009 e ben 12 nel confronto con il 2008. All’opposto, rimane stabile, rispetto al 2009, il numero di quanti affermano che la sicurezza sia diminuita” (ivi, p. 71). Si tratta di circa quattro intervistati su dieci (41%). “Rispetto al 2008, tuttavia, questa componente si è contratta di 6 punti percentuali” (ibidem).

Ancora una volta la presenza nei media e l’opinione diffusa non corrispondono al reale andamento dei fatti; inoltre, il livello personale di percezione del rischio nel proprio lavoro rimane piuttosto contenuto: il 49% del campione ritiene di non sentirsi mai minacciato per la proprio incolumità sul lavoro e solo il 12% lo è frequentemente. Da segnalare che mentre nel passato gli operai erano la categoria che si percepiva come più a rischio, oggi lo sono i lavoratori autonomi e gli imprenditori.

1.4 Migranti e sicurezza sul lavoro

La sicurezza sul lavoro, dunque, non è un tema particolarmente sentito dagli italiani; se ne sottovaluta la problematicità e si ha una percezione dei rischi lavorativi assolutamente sottodimensionata rispetto a quanto emerge dalle statistiche sugli infortuni: basti pensare che il timore di nuove epidemie viene dichiarato da una percentuale di persone quasi doppia (20,2 %) rispetto a quella di chi cita gli infortuni sul lavoro (11,7%)9, che pure provocano un numero di

8 Le percentuali si riferiscono all’incidenza delle notizie relative allo specifico argomento rispetto al totale.

9 Cfr. tab. 1.

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14

vittime enorme, soprattutto se paragonato a quello irrisorio delle pandemie periodicamente annunciate (con grande clamore).

Ancora meno avvertito dall’opinione pubblica o ripreso dai media è il tema della sicurezza sul lavoro degli stranieri che hanno un’occupazione nel nostro Paese, nonostante le statistiche denuncino da tempo come questa categoria di lavoratori sia ben più esposta e più soggetta agli infortuni rispetto agli autoctoni.

Sono ancora assai poche, nel panorama italiano, le azioni e le iniziative rivolte nello specifico a comprendere le ragioni di questo gap. Eppure, la crescita di una cultura della salute e della sicurezza nei posti di lavoro, elemento indispensabile per sviluppare efficaci politiche di prevenzione, non può prescindere dal coinvolgimento pieno di tutte le parti in causa, comprese perciò – o forse proprio a partire da – quelle fasce di lavoratori che si presentano come più deboli sul mercato del lavoro e, dunque, – in modo strettamente correlato, come vedremo – più a rischio di subire danni connessi all’attività lavorativa.

Il compito che ci siamo proposte, quindi, nel proseguo di questo lavoro è stato quello di entrare nel merito di tale tematica.

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15

2. La situazione internazionale e italiana degli infortuni sul lavoro

2.1 Il quadro internazionale

In occasione della Giornata mondiale per la sicurezza e la salute sul lavoro, che si è celebrata il 28 aprile scorso in oltre cento Paesi, il Direttore generale dell’Ilo – l’Organizzazione Internazionale del Lavoro – Juan Somavia10 ha ricordato i numeri di coloro che, ogni anno, subiscono nel mondo incidenti sul lavoro e di quelli che muoiono a causa di infortuni o malattie professionali: si tratta rispettivamente di 337 e di 2,3 milioni di persone. Sono numeri spaventosi, che danno la dimensione di un dramma vastissimo, di anno in anno tragicamente replicato. Al terribile costo umano si aggiunge il costo economico che, secondo le stime, è pari al 4% del Pil mondiale, se si considerano le assenze dal lavoro, le cure mediche, le indennità pagate…

Nell’ Europa a 15 (UE-15), che conta circa 175 milioni di occupati11, il numero degli infortuni in

complesso, secondo gli ultimi dati disponibili (riferiti al 2007), si attesta poco al di sotto dei 3,9 milioni di casi, di cui 3.782 mortali (tab. 2)12. Il confronto con gli anni precedenti mostra una progressiva diminuzione tra i primi e un calo appena più consistente degli eventi mortali. Rispetto al 2006, la diminuzione è stata, invece, assai differenziata, con valori rispettivamente dello 0,6% e dell’8,7% (Eurostat, 2010).

Tab. 2 - Infortuni sul lavoro nell’UE-15* - anni 2003-2007

Eventi 2003 2004 2005 2006 2007

Infortuni in complesso 4.176.286 3.976093 3.983.881 3.907.335 3.882.699

Casi mortali 4.623 4.366 4.011 4.140 3.782

* infortuni con assenza dal lavoro di almeno 4 giorni, esclusi quelli in itinere

Fonte: Eurostat, 2010

Secondo l’analisi operata dall’Ires (Istituto di Ricerche Economiche e Sociali della Cgil), “uno dei

principali fattori che ha determinato questa generale diminuzione è il cambiamento nella distribuzione della forza lavoro. Fin dal 1991 in Europa il trend è stato quello di una diminuzione della forza lavoro impiegata nell’agricoltura e nell’industria, cui ha corrisposto un aumento dei lavoratori dei servizi, settore nel quale è minore il tasso di infortuni” (Di Nunzio, 2010, p. 4).

Il confronto tra i tassi standardizzati di incidenza infortunistica (per 100.000 occupati) nell’area

UE-1513, con riferimento all’anno 2007, mostra – considerando gli infortuni in complesso – sei Paesi (Spagna, Portogallo, Francia, Lussemburgo, Germania, Belgio) collocati al di sopra della

10

Il discorso di Somavia è disponibile in italiano sul sito http://www.ilo.org/rome/risorse-informative/per-la-stampa/comunicati-stampa/WCMS_154758/lang--it/index.htm. 11

Dato riferito al 2007. 12

Eurostat (l’Ufficio Statistico della Comunità Europea), che promuove un processo di armonizzazione delle statistiche europee, attualmente assai disomogenee, considera infortuni sul lavoro quelli che comportano assenze dal lavoro di almeno 4 giorni ed esclusi quelli in itinere. 13

È necessario tenere presente che “la metodologia Eurostat di raccolta dei dati presenta alcuni limiti: vi sono dei ritardi nel processo di armonizzazione dei dati tra i differenti Paesi, dovuti alle differenze normative vigenti in ciascun Stato Membro; nelle statistiche Eurostat non sono considerati gli infortuni con assenza dal lavoro inferiore ai quattro giorni, che per l’Italia registrano un aumento costante; la presenza di lavoro sommerso e della relativa sottodenuncia del fenomeno infortunistico è differente tra i Paesi e i settori e inficia una corretta comparazione dei dati” (Di Nunzio, 2010, p. 3).

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media europea (pari a 2.859). I tassi più bassi si riferiscono a Svezia (997) e Gran Bretagna (1.085)14.

La media europea di 2,1 incidenti mortali ogni 100.000 occupati è, invece, superata da otto Paesi (tra i quali anche l’Italia); il Portogallo veste la “maglia nera”, con un tasso di 6,3 morti, seguito dall’Austria (3,8).

Nell’arco dei cinque anni presi in considerazione dalle statistiche Eurostat (2003/2007) (tab. 3.), in quasi tutti i Paesi UE-15 si è avuto un calo del numero degli infortuni in complesso, calo molto sensibile soprattutto in Gran Bretagna (-32,8%), Lussemburgo (-31,2%) e Spagna (-28,1%); la diminuzione è stata abbastanza consistente anche in Svezia (-20,4%), Italia (-18,2%), Austria (-17,8%), Francia (-15,2%), Germania (-14,9%). Alcuni Paesi hanno avuto, invece, un incremento degli infortuni: è il caso di Paesi Bassi (+150,1), Irlanda (+17,4%), Danimarca (+12,8%) e Portogallo (+8,8%).

Passando a considerare i soli casi mortali15, il calo ha interessato soprattutto Irlanda (-46,9%), Spagna (-37,8%) e Finlandia (-31,6%), mentre i tassi sono cresciuti in modo rilevante in Danimarca (+44,4%) e in misura minore in Gran Bretagna (+18,2%), Svezia (+16,7%) e Belgio (+4,2%).

Tab. 3 - Infortuni sul lavoro nell’UE-15 - tassi standardizzati di incidenza infortunistica (x 100.000 occupati)

anno 2007 e variazione % anni 2007/2003

STATI MEMBRI Infortuni in

complesso

Variazione %

2007/2003

STATI MEMBRI Casi

mortali *

Variazione %

2007/2003

Spagna 4.691 — 28,1 Portogallo 6,3 — 6,0

Portogallo 4.330 + 8,8 Austria 3,8 — 20,8

Francia 3.975 — 15,2 Grecia N.D. —

Lussemburgo 3.465 — 31,2 Danimarca 2,6 + 44,4

UE – area euro 3.279 — 13,3 Belgio 2,5 + 4,2

Germania 3.125 — 14,9 Italia 2,5 — 10,7

Belgio 3.014 — 12,8 Spagna 2,3 — 37,8

Paesi Bassi 2.971 + 150,1 Francia 2,2 — 21,4

UE – 15 2.859 — 14,1 UE – 15 2,1 — 16,0

Finlandia 2.758 — 3,1 Germania 1,8 — 21,7

Danimarca 2.755 + 12,8 Paesi Bassi 1,8 — 10,0

Italia 2.674 — 18,2 Lussemburgo N.D. —

Austria 2.160 — 17,8 Irlanda 1,7 — 46,9

Grecia N.D. — Svezia 1,4 + 16,7

Irlanda 1.481 + 17,4 Finlandia 1,3 — 31,6

Gran Bretagna 1.085 — 32,8 Gran Bretagna 1,3 + 18,2

Svezia 997 — 20,4

* v. nota 15.

Fonte: Eurostat, 2010

Dalle analisi effettuate a livello europeo allargato (UE-27) e riferite sempre all’anno 2007,

emergono alcune differenze significative in relazione al genere e all’età anagrafica.

14

Occorre considerare che i dati della Grecia riferiti all’anno 2007 non sono stati registrati nelle statistiche prese qui a riferimento e pubblicate in Eurostat, 2010, mentre, per quanto riguardo il Lussemburgo, non è disponibile il numero dei casi mortali. 15

Sono esclusi gli infortuni in itinere e quelli dovuti a incidenti stradali e a bordo di qualsiasi mezzo di trasporto nel corso del lavoro, in quanto non rilevati da tutti i Paesi.

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“Gli uomini sono maggiormente soggetti a incidenti sul lavoro (4%) rispetto alle donne (2,1%). Negli uomini, la frequenza di tali incidenti diminuisce con l’età” (Eurostat, 2010, p. 27).

Come si afferma nel sopra citato rapporto Eurostat, il calo in relazione all’avanzamento dell’età è riferito in particolare alla componente maschile: infatti, mentre per i lavoratori l’incidenza decresce in ogni fascia d’età, passando dal 5% tra i 14-24enni al 2,9% tra i 55-64enni, per le lavoratrici si assiste solo a una lieve diminuzione una volta superata la soglia dei 24 anni (al di sotto della quale la percentuale di incidenti è del 2,7%), con un’incidenza che si attesta per tutte le altre fasce d’età intorno al 2%.

Inoltre, chi ha un basso livello d’istruzione risulta essere maggiormente esposto agli incidenti sul lavoro.

Per quanto riguarda i settori occupazionali, il maggior numero assoluto di infortuni si riscontra nell’Industria manifatturiera, con il 24% dei casi, seguito dai settori delle Costruzioni (18%) e del Commercio (12%). La situazione è diversa quando si considerano gli eventi mortali: in questo caso, al primo posto compare il settore delle Costruzioni (28%), che precede l’Industria manifatturiera (17%), i Trasporti e Comunicazioni (16%) e l’Agricoltura (12%).

Considerando i tassi di incidenza degli infortuni in rapporto agli occupati (grafico 1), il settore più a rischio per gli uomini appare essere quello delle Costruzioni, seguito da Industria manifatturiera e Agricoltura. Tra le donne, quelle occupate nella Sanità, negli Alberghi e nella Ristorazione subiscono più frequentemente incidenti sul lavoro di coloro che lavorano in altri settori.

Grafico 1 - Lavoratori che hanno subito infortuni per settore economico e genere nell’UE 27 – anno 2007 (%)*

0% 1% 2% 3% 4% 5% 6%

agricoltura

ind. manifatturiera

costruzioni

commercio

alberghi e ristorazione

trasporti e comunicazioni

intermed. finanziaria e attività immobiliari

pubblica amministrazione e sicurezza sociale

istruzione

sanità

altri servizi

U

D

* mancano i dati riferiti alle donne nel settore Costruzioni

Fonte: Eurostat, 201016

16

V. nota 7.

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2.2 Il fenomeno infortunistico in Italia

Come si è potuto osservare nel precedente paragrafo, anche nel nostro Paese si assiste da alcuni anni a un calo degli infortuni sul lavoro, sia in generale, sia in riferimento agli eventi mortali. L’Italia si colloca17 al di sotto della media europea per quanto riguarda il primo dato, ma si mantiene ancora al di sopra del valore medio UE per incidenza di decessi. Inoltre, come avremo modo di approfondire in seguito, mentre siamo “al di sotto della media nei settori storicamente più rischiosi delle Costruzioni e Alberghi-Ristoranti, [siamo] al di sopra, invece, in Agricoltura, nei Trasporti e nel settore Elettricità, Gas e Acqua. Nella distribuzione per età l’Italia presenta tassi superiori alla media solo nelle classi estreme (fino a 17 anni e oltre 65)” (Veronico, 2010, p. 29).

I dati riferiti agli anni più recenti, non presi in considerazione da Eurostat, confermano per

l’Italia il trend di riduzione del fenomeno infortunistico: secondo le ultime informazioni disponibili, nel 201018 sono pervenute all’Inail circa 775.000 denunce di infortunio, con un calo dell’1,9% rispetto alle 790mila del 2009 (Bucciarelli, 2011, p. 9).

Prendendo a riferimento gli ultimi cinque anni (tab. 4), il calo è stato del 16,5% per gli infortuni in complesso e del 26,9% per i casi mortali. Relativamente a questi ultimi, nel 2010 è stato finalmente “abbattuto il muro dei mille morti sul lavoro” (Salvati, 2011, p. 10), scendendo, così, al disotto di quella che il presidente dell’Inail, Fabio Sartori, ha definito, presentando nel marzo scorso le stime preliminari 2010, ‘soglia psicologica’.

Tab. 4 - Infortuni sul lavoro denunciati in Italia - anni 2006-2010

Eventi 2006 2007 2008 2009 2010* Var.%

2010/2009

Infortuni in complesso 928.140 912.402 875.144 790.112 775.250 — 1,9

Casi mortali 1.341 1.207 1.120 1.053 980 — 6,9

* stima previsionale

Fonte: DatiINAIL, n. 3/2011

Anche riferendosi a un periodo di tempo più lungo, si conferma la tendenza alla netta riduzione

delle morti sul lavoro: “le statistiche storiche rivelano come enormi progressi siano stati fatti dai primi anni sessanta, quando si toccò – nel 1963, in pieno boom economico – il tragico record storico di 4.664 morti in un anno” (Inail, 2010b, p. 341).

Purtroppo, però, nel primo periodo del 2011 assistiamo, secondo l’Osservatorio indipendente di Bologna sulle morti bianche19, a un nuovo, allarmante aumento delle vittime. “Situazione dal 1 gennaio al 15 giugno del 2011: dall'inizio dell'anno ci sono stati 279 morti per infortuni sui luoghi di lavoro, ma si arriva a contarne 560 se si aggiungono i lavoratori deceduti sulle strade e in itinere. Erano 231 sui luoghi di lavoro il 15 giugno del 2010; l'aumento è del 17,3%”20.

Nell’operare una valutazione complessiva dei dati sul fenomeno infortunistico occorre, inoltre, tenere in considerazione almeno due fattori: da un lato, la crisi economica e occupazionale ha comportato negli ultimi due anni una riduzione del numero degli occupati e una contrazione delle

17

Il riferimento è sempre al 2007, ultimo anno per il quale, al momento della stesura del presente Report, sono disponibili i dati su base europea. 18

Al momento in cui scriviamo il presente Report, l’Inail non ha ancora diffuso i dati definitivi relativi all’anno 2010. Operiamo, dunque, sui dati previsionali. 19

L’Osservatorio Volontari di Bologna sulle morti per infortuni sul lavoro è nato il 1° gennaio 2008 in ricordo delle sette vittime sul lavoro della Thyssenkrupp. 20

http://cadutisullavoro.blogspot.com.

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ore lavorate21; dall’altro lato, il lavoro sommerso, che coinvolge una quota rilevante di lavoratori. Secondo le stime Istat sul volume di lavoro non regolare riferite al 2009, si tratta di una quota che sfiora i 3 milioni di unità; riguardo a questi lavoratori, anche la conoscenza della situazione infortunistica risulta particolarmente difficile, e possibile solo attraverso stime operate in primo luogo dall’Inail. “L’impatto del lavoro sommerso in termini infortunistici viene periodicamente analizzato dall’Inail che, partendo dai dati elaborati dall’Istat, utilizza i propri indicatori di rischio ed opportuni fattori correttivi per stimarne il numero. Per il 2009 sono stati valutati in circa 165.000 gli infortuni ‘invisibili’, rientranti in un range di gravità medio-lieve, a fronte dei 175.000 del 2006” (Campea, 2011, p. 11).

Passiamo ora a considerare la situazione disaggregata, in relazione ad alcune caratteristiche

specifiche22. In primo luogo, consideriamo la distinzione tra gli infortuni in occasione di lavoro e quelli in

itinere23: nel corso del 2009 i primi sono stati circa 697mila, l’88% di tutti i denunciati, con un calo di oltre il 10% rispetto all’anno precedente. I casi mortali sono stati 767 (diminuzione del 7,5% in rapporto al 2008). Gli infortuni in itinere hanno anch’essi subito un calo, seppur inferiore (-6,1%), ma nell’ultimo quinquennio (2005/2009) sono cresciuti del 4%.

La distinzione per sesso evidenzia forti differenziazioni. “Gli infortuni in occasione di lavoro interessano maggiormente gli uomini con il 72% dei casi denunciati e il 97% dei mortali. In termini relativi, ogni 100 denunce di infortunio 91 sono avvenuti in occasione di lavoro (9 in itinere) nel caso degli uomini contro gli 81 (19 in itinere) delle donne” (Brusco, 2010, p. 41).

I casi mortali in occasione di lavoro rappresentano, invece, il 77% del totale per i maschi e il 40% per le donne (grafico 2).

Grafico 2 - Lavoratori che hanno subito infortuni mortali per modalità evento e genere - Italia – anno 2009 (%)

Maschi

23%

77%

in itinere

in occasione di lavoro

Femmine

60%

40%

in itinere

in occasione di lavoro

Fonte: DatiINAIL, n. 11/2010

21

Secondo l’Inail (2010a, p. 1), “è possibile stimare che il tempo di lavoro e, quindi, di esposizione al rischio di infortuni abbia subito [nel 2009] una contrazione media generale di circa il 3%, con una forte variabilità a livello territoriale, settoriale e di dimensione aziendale”. 22

I dati qui considerati si riferiscono all’anno 2009, ultimo anno per il quale, al momento della stesura del presente Report, sono stati resi pubblici i dati disaggregati. 23

Si fa riferimento a quanto riportato da DatiINAIL n. 11, novembre 2010.

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20

Osservando più in generale, con riferimento al sesso, i numeri del 2009, si nota che il calo riscontrato rispetto all’anno precedente non è stato uniforme, ma molto più consistente per gli uomini (- 12,6%) che per le donne (- 2,5%). Sulle ragioni di tale scarto l’Inail osserva che “gli effetti della crisi economica si ravvedono anche nella diminuzione più evidente degli infortuni dei lavoratori maschi che nelle attività industriali rappresentano la componente lavorativa preponderante” (Inail, 2010b, p. 329). In ogni caso, il lavoro femminile è complessivamente meno rischioso, in quanto concentrato in particolare nei Servizi e in settori a bassa pericolosità: la quota di infortuni femminili, infatti, è del 30,9% rispetto al totale (e del 7% per i casi mortali)24, percentuale sensibilmente inferiore a quella delle donne occupate, che rappresentano il 40% circa del totale (ibidem).

Ciononostante, sono maggiormente le donne a denunciare la paura di conseguenze negative dell’attività lavorativa sulla salute e a dichiarare di non ritenersi sufficientemente informate sui rischi derivanti dal lavoro. “Da un sondaggio dell’Agenzia europea per la salute e sicurezza sul lavoro (EU-OSHA), svolto nel 2009, è emerso che, in Italia, gli uomini si considerano meglio informati delle donne sui rischi per la salute e sicurezza sul lavoro (77% degli uomini contro il 62%) e che sono maggiormente le donne a ritenere che una cattiva salute possa essere causata dal lavoro svolto (90% contro 84% degli uomini)” (Fizzano, 2011, p. 7).

Per quanto riguarda il fattore età, nel 2009 il calo maggiore ha riguardato gli under-35 per il

complesso degli infortuni e la fascia dei 35-49enni considerando i soli casi mortali, mentre negli over 50 – e soprattutto negli ultra-sessantacinquenni – si registra un incremento in entrambe le fattispecie (tab. 5).

Tab. 5 - Infortuni avvenuti negli anni 2008-2009 per classi di età

Classi di età

Infortuni in complesso Casi mortali

2008 2009 Var.% 2008 2009 Var.%

Fino a 34 320.706 262.233 — 18,2 321 295 — 8,1

35-49 367.267 339.897 — 7,5 456 398 — 12,7

50-64 167.759 168.472 + 0,4 285 299 + 4,9

65 e oltre 10.124 10.304 + 1,8 38 41 + 7,9

Totale* 875.144 790.000 — 9,7 1.120 1.050 — 6,3

* Il totale comprende i casi non determinati

Fonte: INAIL, 2010b

La diminuzione osservata nel 2009 in rapporto al 2008 ha interessato, secondo i dati riportati

dall’Inail (2010b, p. 332) tutte le ripartizioni territoriali e tutte le regioni, anche se è stata più rilevante nel Nord-Est (-12,8%) e nel Nord-Ovest (-9,3%), “maggiormente colpite dalla crisi economica”, mentre i cali sono minori al Centro (-8,2%) e nelle regioni del Sud (-6,8%). Le regioni in testa alla graduatoria per maggior decremento percentuale sono Veneto (-14,2%), Friuli V.G. (14%) e Marche (-13,7%); i territori in coda sono invece la Liguria (-1,1%) e la provincia autonoma di Bolzano (-1,7%) (Inail, 2010a).

È però necessario rilevare che gli infortuni mortali hanno subito un incremento nell’Italia centrale (+ 7,9%), “dovuto principalmente ad un incremento dei decessi nel Lazio” (Inail, 2010b, p. 332) e in alcune regioni di altre ripartizioni, tra le quali la Sicilia (+7,7%) e la Lombardia (+1,1%). Gli ambiti territoriali che hanno registrato una diminuzione più rilevante sono Calabria (-60%), 24

Si tratta in termini assoluti di 244.327 casi nel 2009, di cui 74 mortali.

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21

provincia autonoma di Bolzano (-44,4%), Basilicata (-35%), Veneto (-33%) e Piemonte (-30,3%) (Inail, 2010a).

L’analisi per settori produttivi mostra un calo degli infortuni più accentuato nell’Industria (-

18,8%), per le ragioni evidenziate anche dal Presidente dell’Inail nel luglio 2010, in occasione della presentazione dei dati 2009. “In generale, il calo degli incidenti presenta connotazioni riferibili prevalentemente alle attività industriali – quelle che più delle altre hanno risentito della crisi – interessando maggiormente le aree del Nord industrializzato e i lavoratori maschi che, dell’Industria, rappresentano la componente lavorativa preponderante. Non è casuale, quindi, che il 60% degli infortuni si sia concentrato nelle aree del Nord a maggiore densità produttiva e il crollo degli infortuni in comparti come l’industria manifatturiera e le costruzioni, più di altri colpiti dalla crisi economica con un calo occupazionale rispettivamente del 4,3 e del 16,2%, quasi triplo rispetto a quello medio generale” (Inail, 2010a, p. 2).

La tabella che segue (tab. 6) mostra – in termini assoluti ed evidenziando la variazione percentuale con riferimento agli anni 2009/2008 – la situazione relativa agli infortuni denunciati in complesso e con riferimento ai soli casi mortali, distinta per i rami e per i principali settori di attività economica.

Tab. 6 - Infortuni denunciati per rami e principali settori di attività economica- anni evento 2008-2009

Ramo/settore di attività

economica

Infortuni in complesso Casi mortali

2008 2009 Var.% 2008 2009 Var.%

Agricoltura 53.354 52.629 — 1,4 125 125 0,0

Industria

di cui:

Industria manifatturiera

Costruzioni

366.159

192.478

93.546

297.290

146.058

78.436

— 18,8

— 24,1

— 16,2

532

260

221

490

213

218

— 7,9

— 18,1

— 1,4

Servizi

di cui:

Trasporti

Commercio

455.631

68.466

76.696

440.081

59.903

69.737

— 3,4

— 12,5

— 9,1

463

150

97

435

125

98

— 6,0

— 16,7

+ 1,0

Totale 875.144 790.000 — 9,7 1.120 1.050 — 6,3

Fonte: DatiINAIL, n. 6/2010

2.3 La mappa italiana dei rischi

L’analisi del fenomeno infortunistico in rapporto ai livelli occupazionali consente di evidenziare l’esposizione al rischio nei singoli rami di attività. A tale scopo, l’Inail ha elaborato “specifici indici di incidenza, ottenuti dal rapporto tra il numero di infortuni e numero di lavoratori occupati (fonte Istat)” (Inail, 2010b, p.336). Da tale analisi, si evidenzia come l’Agricoltura sia il ramo con maggiore esposizione al rischio, sia considerando gli infortuni in complesso sia con riferimento ai solo casi mortali (grafico 3).

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22

Grafico 3 – indici di incidenza (totale infortuni denunciati x 1.000 occupati Istat) – anno 2009

infortuni in complesso

60,2

44,3

28,5

0

10

20

30

40

50

60

70

agricoltura industria servizi

infortuni mortali

0,143

0,073

0,028

0

0,02

0,04

0,06

0,08

0,1

0,12

0,14

0,16

agricoltura industria servizi

Fonte: nostra elaborazione grafica su dati Inail, 2010b.

L’Inail ha elaborato, inoltre, specifici indici di frequenza, calcolati sul rapporto tra infortuni

indennizzati (con assenze dal lavoro superiori a tre giorni) e addetti/anno; tali indici vengono costruiti con riferimento alla media dell’ultimo triennio consolidato25.

Sulla base di tali indicatori e disaggregando i singoli settori di attività economica (grafico 4), l’Agricoltura si conferma come un ambito lavorativo a rischio elevato, con un indice di frequenza pari a 52,51, di poco inferiore a quello della Lavorazione metalli (52,89). Seguono le Lavorazioni di minerali non metalliferi e del legno e il settore delle costruzioni. Quest’ultimo mostra un indice di frequenza di infortuni mortali (grafico 5) particolarmente elevato (0,20), inferiore solo a quello registrato nelle attività di Estrazione di minerali (0,36). Anche nell’ambito dei Trasporti e comunicazioni la frequenza di casi mortali è elevata (0,19) e sfiora il valore riscontrato nelle Costruzioni.

Grafico 4 – frequenza infortunistica totale per settore di attività (primi 13)*

0,00 10,00 20,00 30,00 40,00 50,00 60,00

lav.metalli

agricoltura

lav.minerali non metalliferi

lav.legno

costruzioni

estrazione minerali

ind.gomma e plastica

ind.mezzi trasporto

trasporti e comunicazioni

ind.meccanica

ind.alimentare

alberghi e ristoranti

sanità e servizi sociali

Infortuni indennizzati x 1.000 addetti, esclusi i casi in itinere-Media triennio consolidato (2005-2007)

Fonte: nostra elaborazione grafica su dati Inail, 2010b.

25

Al momento della stesura del presente Report, sono disponibili i dati relativi al triennio 2005-2007.

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23

Grafico 5 – frequenza infortunistica con morte per settore di attività (primi 13)

0,00 0,05 0,10 0,15 0,20 0,25 0,30 0,35 0,40

estrazione minerali

costruzioni

trasporti e comunicazioni

lav.minerali non metalliferi

agricoltura

lav.metalli

ind.petrolio

lav.legno

ind.gomma e plastica

ind.alimentare

ind.meccanica

elettricità,gas e acqua

ind.chimica

Infortuni indennizzati x 1.000 addetti, esclusi i casi in itinere-Media triennio consolidato (2005-2007)

Fonte: nostra elaborazione grafica su dati Inail, 2010b.

Considerando le frequenze per ambito territoriale, si nota come la regione con frequenza di

accadimento più alta sia l’Umbria (42,45), seguita dall’Emilia Romagna (37,48), dalla provincia autonoma di Bolzano e dal Friuli V.G. Le regioni che registrano le più basse frequenze sono invece Lazio (18,51), Campania (19,07) e Lombardia (24,97)26.

La più alta frequenza di casi mortali si riscontra nel territorio molisano (0,15), seguito da quattro regioni con un indice di 0,12: Umbria, Puglia, Basilicata e Calabria. Le frequenze più basse (0,05) si hanno in Lombardia, Valle d’Aosta, Toscana, Liguria e nella provincia autonoma di Bolzano.

L’analisi riferita ai settori di attività e ai contesti territoriali evidenzia come siamo in presenza di

quella che l’Ires definisce una “diseguale distribuzione dei rischi” (Di Nunzio, 2010, p. 6). Tale diseguaglianza si articola, come illustra l’Istituto di ricerca, con riferimento anche alla dimensione aziendale, all’età, al genere, alla tipologia contrattuale e alla nazionalità. “In Italia esistono delle diseguaglianze nella tutela della salute sul lavoro dovute alla diseguale ripartizione dei diritti, delle tutele e delle opportunità tra i lavoratori: esistono dei contesti più a rischio di altri (le piccole aziende, alcuni settori, alcune regioni) così come esistono dei lavoratori più a rischio di altri (le donne, i giovani, gli extracomunitari, i lavoratori con contratti temporanei e quelli irregolari)” (ibidem).

Per quanto riguarda la prospettiva di genere, ciò che afferma l’Istituto di ricerche della Cgil è che all’aumento occupazionale avvenuto tra il 2006 e il 2008 hanno corrisposto esiti diversi per uomini e donne: mentre “l’aumento degli occupati maschi si è tradotto in una diminuzione dell’8% nel loro numero d’infortuni, al contrario l’aumento del 3,2% del numero di occupati femmine si è accompagnato a un aumento dello 0,5% del numero di infortuni” (ivi, p. 9). Anche l’età è legata a

26

Secondo quanto riferisce l’Inail (2010b, p. 360), “uno dei motivi che giustificano l’ultima posizione del Lazio è la concentrazione di un elevato numero di impiegati in uffici della pubblica amministrazione centrale, soprattutto a Roma, e la presenza di numerose imprese operanti nei servizi e nel terziario avanzato, settori palesemente a basso rischio. Il primo posto dell’Umbria, invece, è spiegato dal tipo di imprese che svolgono la loro attività in tale regione: sono per lo più di piccole dimensioni e di tipo artigianale, con una maggiore presenza, rispetto al complesso nazionale, dei settori delle Costruzioni edili e delle lavorazioni di materiali per l’edilizia e produzione di ceramica. Si tratta quindi di un tessuto produttivo particolarmente rischioso”.

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24

diverse frequenze infortunistiche, che diminuiscono progressivamente passando da 45,1 negli under-34 a 33,6 in coloro che hanno 35-64 anni, a 25,6 per gli over 65 ( ibidem).

Con riferimento alla tipologia contrattuale, il maggior rischio esistente laddove vengono utilizzate forme di lavoro atipico e flessibile è testimoniato anche da ricerche condotte per conto della Commissione Europea27 e confermato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo-International Labour Organisation) in occasione della giornata mondiale della sicurezza sul lavoro 2010. “I rischi sul lavoro nuovi ed emergenti possono essere originati dalle innovazioni tecniche o da cambiamenti sociali o aziendali, ad esempio:

- Nuove tecnologie e processi di produzione, es. nanotecnologie, biotecnologie - Nuove condizioni di lavoro, es. carichi di lavoro più elevati, più lavoro a causa di una riduzione

del personale, cattive condizioni associate alla migrazione in cerca di lavoro, lavoro nell’economia informale

- Nuove forme di impiego, es. libera professione, esternalizzazione, contratti a termine” (Ilo, 2010, p. 2).

La condizione di diseguaglianza nei rischi sul lavoro coinvolge, come abbiamo già avuto modo di vedere affermato nei due brani sopra citati tratti da documenti dell’Ires e dell’Ilo, anche i lavoratori stranieri. Gli immigrati, infatti, “spesso sono più a rischio di sfruttamento, possono vedersi negato l’accesso ai servizi sanitari e previdenziali e spesso non sono tutelati dalle norme di salute e sicurezza sul lavoro. Essi tendono a svolgere mansioni ad alto rischio nell’economia informale e nella maggior parte dei casi non ricevono informazioni o formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Molti devono inoltre fare parecchie ore di straordinario per raggiungere un reddito sufficiente e probabilmente non godono di buone condizioni di salute in generale” (ivi, p. 5).

Sui caratteri del fenomeno infortunistico nei lavoratori stranieri in Italia ci soffermeremo nel prossimo capitolo, con l’intento di andare a verificare quali siano gli elementi che definiscono le collocazioni lavorative di questi soggetti e che li rendono vittime della ‘diseguale distribuzione dei rischi’.

27

Cfr. Haigh, Mekel, 2004.

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25

3. Gli infortuni dei lavoratori stranieri in Italia

3.1 Caratteri dell’occupazione immigrata in Italia

Secondo la Fondazione Ismu (Iniziative e Studi sulla Multietnicità), “la popolazione straniera presente in Italia è stimata al 1° gennaio 2010 in 5,3 milioni di unità, di cui circa 5,1 milioni provenienti dai cosi detti ‘Paesi a forte pressione migratoria (Pfpm)’28” (Fondazione Ismu, 2011, p. 29); di questi, coloro che non hanno un permesso di soggiorno valido sono valutati in circa 550mila.

Le donne rappresentano oltre la metà dell’insieme dei cittadini stranieri, mentre i minorenni superano il 20% del totale.

I principali Paesi di provenienza sono Romania (da cui proviene oltre un milione di immigrati), Albania e Marocco (entrambe con quasi 600.000 presenze in Italia), seguite da Cina e Ucraina (circa 200.000). Quote consistenti – al di sopra delle 100.000 unità – provengono anche da Filippine, Tunisia, Polonia, Moldavia e India (ivi).

Coloro che hanno un’occupazione superano ormai, secondo l’Istat29, i due milioni di unità; di questi oltre il 42% è costituito da donne.

La distribuzione degli stranieri nei settori di attività presenta alcune variazioni significative rispetto al totale degli occupati. Infatti, come mostra la tabella 7, i lavoratori maschi con cittadinanza non italiana si concentrano particolarmente – e pressoché equamente – nei settori industriali e nelle Costruzioni, che assorbono insieme quasi il 60% degli uomini (a fronte di un dato totale inferiore al 40%). Anche la presenza in Agricoltura è superiore al dato complessivo. Le donne sono invece, ancor più del totale delle occupate, concentrate nel settore dei Servizi, in cui lavorano quasi nove straniere su 10; di queste, circa la metà è occupata in lavoro domestici e di assistenza ad anziani e bambini.

Tab. 7 – Occupati stranieri e occupati totali per settore di attività e genere;

valori assoluti (in migliaia) e percentuali - 1° trimestre 2010

Ramo/settore di attività

economica

Uomini Donne

Occupati stranieri Occupati

totali

Occupate straniere Occupate

totali

v.a. % v.a. % v.a. % v.a. %

Agricoltura 54 4,9 599 4,4 20 2,4 220 2,4

Industria

(escluse Costruzioni)

319 28,8 3.362 24,7 66 8,1 1.226 13,4

Costruzioni 317 28,6 1.825 13,4 [2]* 0,2 116 1,3

Servizi 418 37,7 7.829 57,5 728 89,3 7.581 82,9

Totale 1.109 100,0 13.615 100,0 815 100,0 9.143 100,0

* il dato esatto si colloca a metà tra 1 e 2 (migliaia)

Fonte: Istat, 2010, in Fondazione Ismu, 2011

Ulteriori elementi di conoscenza riguardo alla condizione lavorativa degli immigrati ci vengono

offerti analizzando le professioni svolte (tab. 8): “quasi quattro immigrati su dieci sono inquadrati

28

“In tale ambito sono inclusi anche tutti i paesi confluiti nell’Unione europea successivamente all’allargamento di EU15, con l’unica eccezione di Malta” (Fondazione Ismu, 2011, p. 29). 29

http://dati.istat.it/. Dati riferiti all’anno 2010.

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26

come personale non qualificato *…+, quasi tre su dieci come artigiani, operai specializzati o agricoltori, ma meno di due su cento come impiegati. Se si sommano dirigenti e imprenditori, intellettuali, tecnici e impiegati si resta comunque sotto la soglia del 10%, laddove la corrispettiva quota sull’occupazione totale è pari al 45,7%” (ivi, p. 103).

Tab. 8 – Occupati stranieri e occupati totali per professione;

valori assoluti (in migliaia) e percentuali - 1° trimestre 2010

Occupati stranieri Occupati

totali

v.a. % v.a. %

Dirigenti e imprenditori 23 1,2 937 4,1

Professioni intellettuali 44 2,3 2.276 10,0

Professioni tecniche 83 4,3 4.716 20,7

Impiegati 34 1,8 2.486 10,9

Vendite e servizi personali 267 13,9 3.780 16,6

Artigiani, operai specializzati,

agricoltori

541 28,1 4.245 18,7

Conduttori di impianti 201 10,5 1.812 8,0

Personale non qualificato 730 37,9 2.257 9,9

Forze armate [0]*

0,0 248 1,1

Totale 1.924 100,0 22.758 100,0

* il dato si colloca al di sotto delle 500 unità

Fonte: Istat, 2010, in Fondazione Ismu, 2011

Assistiamo, dunque, a una maggiore presenza – rispetto agli italiani - dei lavoratori stranieri

(maschi) in settori a più elevata rischiosità (Industria e Costruzioni, Agricoltura), mentre la concentrazione delle donne nei Servizi merita un’analisi più approfondita, in relazione alla tipologia di attività svolte. Anche l’elevata concentrazione – in rapporto a quanto avviene per la generalità degli occupati – in mansioni non qualificate di carattere manuale evidenzia condizioni di presumibile maggiore esposizione al rischio.

Il raffronto dei dati occupazionali relativi agli ultimi due anni interamente disponibili – 2009 e

2008 – mostra una riduzione di 27mila posizioni assicurative degli stranieri all’Inail (2,8 milioni, pari allo 0,9% in meno rispetto all’anno precedente30), mentre dal 2005 si è avuto un incremento percentuale del 31,4% (Inail, 2010b). La diminuzione dei lavoratori stranieri sul territorio italiano è dovuta sia alla crisi economica internazionale, che ha colpito particolarmente questi soggetti, “più esposti a licenziamenti, anche e soprattutto per il tipo di attività svolta, meno qualificata e più manuale” (ivi, p. 348), sia all’adozione di politiche di ingresso più restrittive.

3.2 Il quadro infortunistico generale dei lavoratori stranieri

L’Inail (2010a) ha registrato nel 2009 un calo degli infortuni del 17% per i lavoratori stranieri: si passa, infatti, dai 143mila casi del 2008 ai 119mila del 2009, anche i decessi sono diminuiti, passando da 189 a 150 casi. Secondo quanto affermato dal Presidente dell’Istituto, Marco Sartori, “è la prima volta nell’ultimo decennio – da quando, cioè, il fenomeno ha assunto una rilevanza

30

Le posizioni assicurative sono in numero diverso rispetto al totale degli occupati, perché calcolate sul numero di lavoratori equivalenti, dato dalla somma dei mesi lavorati nell’anno diviso 12.

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27

statistica – che è stata registrata una flessione degli infortuni tra i lavoratori stranieri, sempre più presenti nel mercato del lavoro italiano. Il calo è da attribuire, in parte, alla riduzione complessiva delle opportunità di lavoro che ha interessato tutta la popolazione del Paese e, dunque, anche gli stranieri – colpiti, peraltro, da livelli di precarietà superiori agli italiani – ma, in parte anche consistente, al miglioramento delle loro condizioni per quanto riguarda prevenzione e sicurezza” (ivi, pp. 2-3).

In termini percentuali, gli infortuni dei lavoratori stranieri rappresentano il 15,1% del numero complessivo e il 14,3% considerando i soli casi mortali (tab. 9).

Tab. 9 – Infortuni sul lavoro per area geografica di nascita; valori assoluti e percentuali – anno 2009

Area geografica Infortuni complessivi Casi mortali

v.a. % v.a. %

Italia 670.807 84,9 900 85,7

Paesi esteri

di cui:

Paesi UE

Paesi extra UE

119.193

30.645

88.548

15,1

3,9

11,2

150

58

92

14,3

5,5

8,8

Totale 790.000 100,0 1.050 100,0

Fonte: Inail, 2010b

Se si tiene conto che sul totale degli occupati essi rappresentano circa il 9%, si evince che la

diseguaglianza nella distribuzione dei rischi, di cui già si è detto citando Ilo e Ires, colpisce pesantemente questa tipologia di lavoratori. Ciò si traduce in una più elevata incidenza infortunistica, espressa dal rapporto tra infortuni denunciati e lavoratori assicurati Inail, rispetto ai colleghi italiani: rispettivamente 42 e 38 casi denunciati ogni 1.000 occupati (Inail, 2010b).

Per gli immigrati, in misura ancora più accentuata rispetto al complesso degli occupati, la prevalenza degli infortuni (circa i tre quarti) riguarda gli uomini; essi sono inoltre protagonisti del 92% delle morti (per il complesso dei lavoratori le due percentuali sono rispettivamente del 69% e 93%). Anche tra gli stranieri la diminuzione degli infortuni in rapporto al 2008 ha riguardato maggiormente gli uomini (-20,3% e -21,6% per i decessi) rispetto alle donne (rispettivamente -4,9 e -7,7%).

La distribuzione per classi di età degli eventi infortunistici (tab. 10) rispecchia sostanzialmente quella delle forze di lavoro occupate: quasi il 45% degli infortunati ha meno di 35 anni e nove su dieci sono sotto i 50. La distribuzione degli eventi mortali è lievemente diversa: diminuisce nella fascia dei 35-49enni e vede un incremento in tutte le altre.

Tab. 10 – Infortuni occorsi a lavoratori stranieri per sesso e classe di età – anno 2009

Classe di età

Infortuni complessivi Casi mortali

Maschi Femmine Totale % Maschi Femmine Totale %

Fina a 34 anni 42.101 11.167 53.268 44,7 64 8 72 48,0

35-49 39.871 13.944 53.815 45,2 53 3 56 37,3

50-64 7.841 4.103 11.944 10,0 20 1 21 14,0

65 e oltre 100 66 166 0,1 1 - 1 0,7

Totale 89.913 29.280 119.193 100,0 138 12 150 100,0

Fonte: Inail, 2010b

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28

Con riferimento al genere, l’Inail rileva che “i maschi fino a 34 anni subiscono quasi la metà degli infortuni (contro il 38% dell’altro sesso), mentre per le donne la fascia d’età che vede la maggior concentrazione è quella tra i 35 e i 49 anni con il 47,6% delle denuncie di infortunio delle immigrate” (ivi, p. 354).

Le comunità nazionali che registrano il maggior numero di infortuni sul lavoro sono quelle rumena, marocchina e albanese, complessivamente interessate dal 40% degli eventi totali e da oltre il 50% di quelli mortali31. Seguono Tunisia e Svizzera, mentre Cina, Ucraina e Filippine, che pure risultano essere i Paesi collocati immediatamente dietro i primi tre per numero di immigrati in Italia32, non compaiono nella graduatoria dei primi 14 Paesi per numero di infortuni complessivi pubblicata dall’Inail (ivi, p. 356) e riportata in tab. 11. Con riferimento ai decessi, mentre Cina e Filippine si confermano al di fuori delle prime 14 nazionalità, l’Ucraina risulta concorrere – al pari con altri quattro Paesi – per il 2% al totale degli infortuni mortali; questo dato, comunque, risulta essere quasi dimezzato rispetto alla percentuale di ucraini sul totale degli stranieri presenti in Italia33.

Tab. 11 - Infortuni occorsi a lavoratori stranieri per Paese di nascita – anno 2009

PAESE DI NASCITA Infortuni in

complesso % PAESE DI NASCITA

Casi

mortali %

Romania 18.455 15,5 Romania 44 29,3

Marocco 16.908 14,2 Albania 17 11,3

Albania 12.527 10,5 Marocco 16 10,7

Tunisia 4.396 3,7 India 10 6,7

Svizzera 3.785 3,2 Egitto 4 2,7

Ex-Jugoslavia 3.526 3,0 Pakistan 4 2,7

Germania 3.401 2,9 Francia 3 2,0

Perù 2.754 2,3 Ex-Jugoslavia 3 2,0

India 2.745 2,3 Macedonia 3 2,0

Senegal 2.727 2,3 Senegal 3 2,0

Macedonia 2.488 2,1 Ucraina 3 2,0

Moldavia 2.398 2,0 Nigeria 2 1,3

Ecuador 2.316 1,9 Perù 2 1,3

Polonia 2.313 1,9 Polonia 2 1,3

Altri Paesi 38.454 32,2 Altri Paesi 34 22,7

Totale 119.193 100,0 Totale 150 100,0

Fonte: Inail, 2010b

La distribuzione territoriale degli infortuni occorsi a lavoratori stranieri segna alcune discrasie

rispetto alla presenza di occupati nelle macro-regioni (tab. 12): considerando gli infortuni in complesso, constatiamo che nel Nord ne avvengono percentualmente più di quanti il numero degli occupati farebbe prevedere34, mentre in quest’area sono relativamente meno (ma solo di poco) i casi mortali.

31

Occorre ricordare che questi tre gruppi nazionali rappresentano oltre il 40% del totale degli stranieri in Italia. 32

Cfr. Caritas, 2009. 33

Occorre tenere presente che gli immigrati cinesi e, soprattutto, ucraini e filippini sono collocati in prevalenza nel settore dei servizi, notoriamente a più basso rischio infortunistico rispetto ai settori industriale e agricolo. 34

Nel Nord Italia si ha una concentrazione di settori ad alto rischio infortunistico assai più elevata che nelle altre zone del Paese.

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29

Tab. 12 – Occupati stranieri e Infortuni occorsi a lavoratori stranieri per macro-regione – anno 2009

Macro-regione

Totale stranieri occupati (migliaia)* Infortuni complessivi Casi mortali

Maschi Femmine Totale % N. % N. %

Nord 704 467 1.172 60,9 89.022 74,7 88 58,7

Centro 277 239 516 26,8 21.772 18,3 33 22,0

Sud 127 108 236 12,3 8.399 7,0 29 19,3

Totale 1.109 815 1.924 100,0 119.193 100,0 150 100,0

* i dati si riferiscono al 1° trimestre 2010

Fonte: Istat, 2010 e Inail, 2010b

Le regioni con il maggior numero di infortuni sono Lombardia (24.539), Emilia Romagna

(22.557) e Veneto (18.846). Nel Centro, abbiamo in entrambi i casi un incidenza inferiore al peso degli occupati, mentre nel Meridione la frequenza dei decessi è particolarmente elevata, soprattutto in rapporto agli infortuni denunciati, “situazione che riconferma il persistere di livelli di sottodenuncia” (Inail, 2010b, p. 357).

3.3 Dentro i settori economici. Costruzioni

Il settore che conta il maggior numero di denunce (poco meno di 17mila) tra gli stranieri è quello delle Costruzioni, nel quale si verifica il 14% del totale degli infortuni dei non italiani e il 28% dei decessi (42 nel 2009).

Anche in questo settore il tasso di sottodenuncia è elevato, come affermano Fillea-Cgil e Ires nel Rapporto che presenta un’indagine condotta nel 2008 tra 450 lavoratori edili che hanno subito un infortunio (Di Nunzio, Galossi, 2009, p. 54). Nell’indagine si evidenzia come, accanto alla diffusa pratica del ‘lavoro nero’, vi sia un utilizzo dei lavoratori stranieri in mansioni particolarmente dequalificate e usuranti e una richiesta pressante di flessibilità che riguarda orari di lavoro e attività svolte.

“Al momento dell’incidente avevo un contratto a tempo indeterminato ed ero inquadrato al I livello. Più o meno guadagnavo 1.200 euro. Anche se avevo il contratto mi capitava di lavorare in nero. Lavoravo il sabato e ogni giorni facevo almeno 10 ore. Sul contratto c’era scritta una cosa ma in realtà la situazione era diversa” (ivi, p. 69).

“Svolgevo tutte le attività che mi chiedevano di fare. Ogni giorno poteva cambiare. È normale che quando ogni giorno fai una cosa diversa è più facile farsi male. Magari fai anche tre lavori diversi durante una giornata“ (ivi, p. 70).

L’indagine rileva, inoltre, come il mancato rispetto della normativa su salute e sicurezza sia una pratica diffusa in tutto il settore, così come l’assenza di una formazione specifica sui rischi e sulle misure di protezione.

Il Rapporto annuale 2010 Fillea-Cgil e Ires sui lavoratori stranieri nelle Costruzioni (Galossi, Mora, 2010) conferma come, “in una settore fortemente caratterizzato da fenomeni di irregolarità e illegalità, oltre ai problemi legati alla forma contrattuale, gli stranieri sono maggiormente vittime della dequalificazione professionale, dei differenziali retributivi e degli infortuni” (ivi, p. 4). Le elaborazioni Ires su dati Cnce35 rilevano, ad esempio, che il 61% degli stranieri è stato assunto nel 2009 con la qualifica di operaio comune, contro il 31% degli italiani, mentre gli operai specializzati e di IV livello rappresentavano solo il 10% della forza lavoro straniere, a fronte del 33% degli italiani (ivi, schede allegate).

35

Commissione Nazionale paritetica per le Casse Edili.

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3.4 Dentro i settori economici. Trasporti

Con 46 infortuni denunciati ogni mille addetti nel 2009, il settore dei Trasporti e Comunicazioni si evidenzia come ad alto rischio; ciò si conferma anche considerando i soli lavoratori stranieri, vittime di un numero elevato di infortuni: 8.855, pari al 7,4% del totale degli accadimenti a stranieri nel 2009. Anche in questo caso, la percentuale relativa ai decessi è decisamente superiore, attestandosi, con 18 casi, al 12% (Inail, 2010b, p. 352).

Analizzando il fenomeno per ora di accadimento, si nota che i migranti che lavorano in questo settore risultano più colpiti dagli infortuni notturni rispetto agli italiani: tra le 23 e le 6 del mattino denunciano 15 casi su 100 (a fronte dei 12 complessivi) e addirittura 19 infortuni stradali su 100 (Amatucci, 2011, p. 14).

3.5 Dentro i settori economici. Agricoltura

La percentuale di infortuni occorsi a lavoratori stranieri in Agricoltura (in numero assoluto, 5.741) è superiore a quella degli occupati in tale settore (rispettivamente sono il 4,8% e il 3,9%), ma il dato relativo ai decessi è ancora più preoccupante: nel corso del 2009 se ne sono verificati 20, pari a ben il 13,3 % del totale dei casi mortali occorsi agli stranieri (Inail, 2010b, p. 352).

Questi dati confermano ancora una volta come esista una vasta area di sommerso che viene allo scoperto solo quando eventi mortali non possono essere nascosti.

Del resto, le condizioni di lavoro degli stranieri in Agricoltura in alcune aree del Paese emergono periodicamente da relazioni e servizi: un’analisi dettagliata è stata svolta da Medici Senza Frontiere (2008), che ha documentato la drammatica situazione in cui si trovano gli stranieri impiegati come stagionali, in maggioranza uomini giovani provenienti da Paesi dell’Africa sub-sahariana, del Maghreb o dell’Est Europa. Dei 600 intervistati, si riferisce nel Rapporto di Msf, il 90% non aveva alcun contratto di lavoro e le condizioni di vita erano drammatiche. La possibilità di rivendicare diritti sul lavoro risulta, in queste condizioni, praticamente nulla e anche gli infortuni sul lavoro vengono nascosti e non compaiono in alcuna statistica ufficiale.

“M. ci racconta che mentre raccoglieva i pomodori è stato investito da un trattore. Il datore di lavoro si è rifiutato di portarlo al Pronto Soccorso e gli ha intimato di non menzionare l’incidente. M. si è recato in ospedale da solo e non potendo denunciare il datore di lavoro ha dichiarato di essere stato vittima di un incidente stradale. Al momento della visita di Msf, M. non stava lavorando poiché la contusione era dolorosa e la caviglia molto gonfia” (ivi, p. 10).

L’Inail valuta in 25mila gli infortuni totali occorsi nel 2009 nel lavoro sommerso in Agricoltura; di questi, circa 4mila sono riferiti agli stranieri: questa quota rappresenta oltre il 20% degli infortuni a lavoratori non italiani calcolati nell’ambito del sommerso (Campea, 2011, p. 11).

3.6 Dentro i settori economici. Personale domestico

Il comparto del personale domestico (colf e cosiddette ‘badanti’36) è, come abbiamo visto, caratterizzato da una altissima presenza di cittadini non italiani, di cui 9 su 10 sono donne. Il dato si rispecchia anche nell’andamento degli infortuni in questo comparto: il 74% riguarda proprio lavoratori immigrati, in stragrande maggioranza donne. Così, mentre all’interno della componente lavorativa femminile italiana la professione soggetta al maggior numero di infortuni è quella di infermiera professionale, tra le straniere sono collaboratrici e assistenti familiari a subire la

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Nel giro di poco tempo, è divenuto comune l’uso della parola ‘badanti’: “un termine diffuso, a volte stigmatizzante, in ogni caso riduttivo del lavoro di cura delicato e logorante di cui queste persone si fanno carico” (Boccagni, 2009, p. 45). Un’interessante riflessione sull’uso dei termini nella stampa italiana è contenuta nel volume di Guadagnucci 2010.

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percentuale maggiore di infortuni (8,5%) (Cipolloni, 2011, p. 6). La classe di età in cui si concentra il numero più elevato di episodi infortunistici è quella compresa tra i 35 e i 49 anni, che assorbe quasi la metà dei casi denunciati (Brusco, 2009, p. 21).

Anche in questo settore di lavoro si ha una vasta area di sommerso, come risulta anche dal Rapporto Censis (2010) sui rischi di infortuni per i lavoratori domestici, che dà conto di un’indagine condotta su 997 persone straniere e italiane distribuite su tutto il territorio nazionale. L’area dell’irregolarità totale è stata calcolata intorno al 40%, mentre il 22% degli intervistati ha un rapporto di irregolarità parziale. Secondo la Fondazione Ismu (2011, p. 137), “quest’ultimo dato spiega la condizione di incertezza e fragilità in cui queste donne possono trovarsi, e la situazione è resa ancora più precaria quando si esercita in pluricommittenza; in questo caso per la donna è ancora più difficile abituarsi al luogo di lavoro ed evitare così alcuni degli incidenti più banali. L’irregolarità è poi associata inevitabilmente all’assenza di copertura assicurativa; la lavoratrice infortunata quindi non può godere di alcuna forma di tutela, con il conseguente aumento del rischio di infortunio, visto che tenderà a non abbandonare il posto di lavoro o a riprenderlo dopo pochissimi giorni di assenza”.

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4. Il quadro bergamasco della sicurezza sul lavoro per i migranti

4.1 Cenni sulla situazione occupazionale e infortunistica degli stranieri in Lombardia

La caduta del numero di occupati che ha investito la Lombardia nel 2009 (-1,2%) ha riguardato in misura maggiore i lavoratori stranieri, che hanno registrato nel 2009 una percentuale d disoccupati pari all’11,3%, di ben 4,4 punti percentuali superiore a quella del 2008. il dato maschile è superiore a quello femminile (13,2% a fronte del 9,1%) (Blangiardo, 2010).

Gli occupati sono, all’inizio del 2009, quasi 600.000, su una popolazione residente non italiana che ha ormai superato le 900.000 unità (Caritas-Migrantes, 2009). Di essi, quasi il 60% lavora nei Servizi (tab. 13).

Tab. 13 – Occupati stranieri per settore di attività in Lombardia;

valori assoluti e percentuali – 31.12.2008

v.a. %

Agricoltura e pesca 14.296 2,4

Industria

(escluse Costruzioni)

125.890 21,5

Costruzioni 95.006 16,1

Servizi 342.034 58,0

Attività non determinate 11.719 2,0

Totale 589.867 100,0

Fonte: Caritas-Migrantes, 2009

La distribuzione per nazionalità nei vari settori vede sul versante maschile una presenza

preponderante di cinesi, egiziani e marocchini tra gli addetti alla ristorazione, mentre nei Trasporti sono rumeni (fortemente presenti anche nell’edilizia) e latino-americani ad avere attuato una “strategia di progressiva colonizzazione” (Inail Lombardia, 2010, p. 12).

Tra le donne, nel lavoro domestico le filippine si confermano saldamente presenti, mentre il profilo dell’assistente domiciliare è coperto da donne in gran parte provenienti dai Paesi dell’Est-Europa e dell’America latina.

Per quanto riguarda il quadro infortunistico, la situazione del 2009 si presenta più favorevole

rispetto a quella dell’anno precedente, con una riduzione dei casi totali pari a oltre il 17% (da 29.788 nel 2008 a 24.539 nel 2009); il numero dei morti è passato da 42 a 30 (ivi, p. 19). Marocco, Romania e Albania sono i Paesi d’origine che registrano il maggior numero di infortuni, totalizzando il 35,8% del totale dei casi occorsi a stranieri (quasi 9.000). Sopra la quota dei mille infortuni si collocano anche Egitto (1.241), Perù (1.099) e India (1.092). Il triste primato dei morti spetta all’Albania (8), seguita dall’India (6) (ivi, p.20).

Con riferimento ai settori di attività, nell’Industria e Servizi avviene la quasi totalità degli infortuni (96,6%); l’Agricoltura, che raccoglie il 2,4% degli occupati stranieri, ha avuto nell’ultimo anno una percentuale di eventi infortunistici pari al 3% e di eventi mortali che supera il 6% (2 su 30) (ibidem).

“L’Agricoltura registra un incremento (+20%) degli infortuni avvenuti nel 2009 rispetto all’anno precedente, in controtendenza con il dato nazionale che vede un aumento decisamente minore (+2,8) *…+ L’Industria e Servizi, in linea con la tendenza nazionale, registra, al contrario una

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diminuzione percentuale pari al 18,5%. Tra i casi mortali, la diminuzione riguarda principalmente l’Industria e Servizi (-11 casi), mentre in Agricoltura si registra solo 1 caso in meno” (ivi, p. 19).

4.2 Dati sugli occupati stranieri a Bergamo

Nelle anagrafi di Bergamo e provincia risultano iscritte oltre 120.000 persone di origine straniera (di cui quasi 18.000 residenti nel capoluogo), su una popolazione totale che supera il milione. Circa il 46% sono donne e oltre il 26% minori. Ai primi posti nella graduatoria provinciale delle nazionalità si inseriscono Marocco (18,3% sul totale della popolazione straniera), Romania (12,5%), Albania (11,4%), Senegal (8,4%) e India (7,4%). Nel capoluogo, però, sono i boliviani il gruppo nazionale più rappresentato, anche se è difficile quantificarne esattamente l’entità, dato l’alto numero di irregolari stimati (Fondazione Ismu, 2010, p. 15).

Sul versante occupazionale, gli stranieri hanno pesantemente risentito della crisi che ha colpito la provincia bergamasca con un calo occupazionale soprattutto nei settori manifatturiero ed edile. Rispetto al 2008, i disoccupati non italiani sono passati dal 6,7 al 15,6% ed è crollata la percentuale degli occupati regolarmente a tempo indeterminato (tab. 14)

Tab. 14 – Stranieri ultra-14enni per condizione lavorativa prevalente in provincia di Bergamo;

valori percentuali – confronto anno 2008-2009

Condizione lavorativa 2008 2009

Disoccupato 6,7 15,6

Occupato regolare tempo determinato 11,2 11,8

Occupato regolare tempo parziale 4,9 6,2

Occupato regolare tempo indeterminato 41,8 25,4

Occupato irregolarmente stabile 4,5 4,5

Occupato irregolarmente precario 3,3 3,8

Lavoratore parasubordinato 1,0 1,8

Autonomo regolare 6,5 6,4

Autonomo irregolare 0,8 1,3

Imprenditore 0,3 1,4

Socio lavoratore di cooperativa 0,8 0,7

Studente lavoratore - 2,7

Altre condizioni non lavorative 18,3 18,5

Totale 100,0 100,0

Fonte: Fondazione Ismu, 2010

Procedendo a una lettura di genere dei dati 2009 relativi alla condizione lavorativa, emerge che

le donne ultra-14enni assunte regolarmente a tempo intero indeterminato sono meno della metà degli uomini (15,1 contro 33,5%) e che complessivamente l’area del lavoro dipendente regolare coinvolge meno di una donna su 3, a fronte di più di un uomo su 2.

Sono occupati regolarmente in attività subordinate il 56% dei rumeni, il 47,6% dei boliviani, il 47,3% dei senegalesi, il 47% degli albanesi, il 36,4% degli indiani e il 34,9% dei marocchini (ivi, p. 72).

L’area dell’irregolarità nell’ambito del lavoro subordinato coinvolge invece il 22,3% dei boliviani, il 14% degli indiani, il 9,7% dei senegalesi, il 7,3% dei marocchini, il 5,3% dei rumeni e il 5% degli albanesi (ibidem).

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Per quanto riguarda le professioni svolte (tab. 15), la distribuzione nella realtà bergamasca conferma la presenza, già riscontrata a livello nazionale, di una vasta area di personale che svolge mansioni manuali non qualificate, a fronte di una presenza molto esigua – collocata al di sotto del 10% e dunque inferiore, oltre che alla media nazionale, anche a quella lombarda – in professioni di tipo impiegatizio, sociale e/o di carattere intellettuale. Il settore del lavoro domestico coinvolge il 12,5% degli immigrati bergamaschi, una quota sensibilmente più bassa di quella regionale, attestata oltre il 19%, mentre la presenza di operai stranieri in edilizia è più elevata della media regionale (17,2% contro l’11,2%).

Tab. 15 – Occupati stranieri per tipo di professione a Bergamo e in Lombardia; valori percentuali - 2009

Tipo di lavoro Bergamo Lombardia

Operai generici industria 14,1 13,5

Operai generici terziario 3,5 6,3

Operai specializzati 3,9 2,1

Operai edili 17,2 11,2

Operai agricoli e assimilati 5,4 3,3

Addetti alle pulizie 4,6 3,9

Impiegati esecutivi e di concetto 2,0 2,4

Addetti vendite e servizi 2,0 3,1

Addetti attività commerciali 5,6

5,3

Addetti ristorazione/alberghi 12,2 11,2

Mestieri artigianali 6,2 5,8

Addetti ai trasporti 3,1 3,8

Domestici fissi 2,1 2,9

Domestici a ore 4,4 7,2

Assistenti domiciliari 6,0 8,0

Baby sitter 0,1 1,1

Assistenti in campo sociale 2,1 1,7

Medici e paramedici 1,0 1,6

Mestieri intellettuali 2,7 3,4

Altro 1,9 2,2

Totale 100,0 100,0

Fonte: Fondazione Ismu, 2010

4.3 La situazione infortunistica dei lavoratori migranti nel territorio bergamasco

Nel 2009 gli infortuni occorsi a lavoratori stranieri nella provincia di Bergamo hanno rappresentato il 20,5% del totale degli eventi nel territorio (Inail Lombardia, 2010), a fronte di una popolazione straniera residente che rappresenta poco più del 10% del totale.

Comunque, il decremento in termini percentuali è risultato essere molto maggiore rispetto al dato totale (-26% contro -14,8%)37; inoltre, la situazione è decisamente migliore anche rispetto al dato nazionale e a quello lombardo; la percentuale relativa a quest’ultimo, peraltro, si discosta solo lievemente da quella italiana (tab. 16). Inoltre, si è dimezzato il numero dei casi mortali, che hanno riguardato, come nell’anno passato, esclusivamente il settore dell’Industria e Servizi. Anche il decremento del numero generale di infortuni che hanno coinvolto lavoratori stranieri nel territorio bergamasco è avvenuto totalmente in questo settore, mentre nell’Agricoltura si è passati da 72 infortuni nel 2008 a 73 nel 2009; invariato il dato dei Dipendenti Conto Stato (15).

37

Tale diminuzione è però da mettere in relazione con il forte aumento della disoccupazione, già esposto nella tab. 14.

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Tab. 16 – Infortuni sul lavoro occorsi a stranieri nel biennio 2008-2009 e denunciati all’Inail

Territorio Totale infortuni Infortuni mortali

2008 2009 Var.%

2009/2008

2008 2009

Bergamo 4.381 3.244 — 26,0 6 3

Lombardia 29.788 24.539 — 17,6 42 30

Italia 143.641 119.193 — 17,0 189 150

Fonte: Inail Lombardia, 2010

Considerando l’andamento infortunistico relativo al periodo 2000-2009 (grafico 6), notiamo

come il trend di crescita registrato nel decennio – legato all’incremento dei flussi migratori che ha interessato il territorio – si inverta proprio nell’ultimo anno preso in considerazione38.

Grafico 6 – Infortuni di lavoratori nati in Paesi esteri denunciati per anno evento-BG

1853

2562

2974

3513

3779

3653

4046

4335

4508

3435

1000

1500

2000

2500

3000

3500

4000

4500

5000

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009

Fonte: nostra elaborazione grafica su dati Inail, Ispesl, Regioni, 2010

Per quanto riguarda i Paesi d’origine (tab. 17), Marocco, Romania, Senegal, Albania e India sono

quelli dai quali proviene il maggior numero degli infortunati, coerentemente con la forte presenza di queste nazionalità sul territorio. Complessivamente, oltre la metà di tutti gli infortuni occorsi a stranieri coinvolge lavoratori originari di questi cinque Paesi.

38

I dati riportati nel grafico 6 e riferiti agli anni 2008 e 2009 si discostano leggermente da quelli in tabella 16, presumibilmente a causa delle diverse date di rilevazione e delle diverse fonti.

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Tab. 17 - Infortuni sul lavoro occorsi a stranieri nel biennio 2008-2009 nella provincia di Bergamo

e denunciati all’Inail per Paese di nascita – prime 10 nazionalità

PAESE DI NASCITA Infortuni in

complesso %

Marocco 585 18,0

Romania 341 10,5

Senegal 308 9,5

Albania 264 8,1

India 198 6,1

Svizzera 110 3,4

Bangladesh 98 3,0

Pakistan 93 2,9

Egitto 90 2,8

Tunisia 87 2,7

Fonte: nostra elaborazione su dati Inail Lombardia, 2010

Riguardo alla tipologia degli eventi, alcune informazioni interessanti ci vengono dal Rapporto

provinciale Inail 2007 (Inail, 2008)39, dal quale si rileva che la frequenza degli infortuni in itinere ogni 1.000 esposti a rischio è per i lavoratori extracomunitari pari a 9,90, mentre per gli italiani e comunitari risulta essere più che dimezzata (4,46)40.

Prendendo spunto da tale differenza, nel Rapporto vengono riportate alcune valutazioni. “Considerate le condizioni per l’indennizzo degli infortuni in itinere, non funzionalmente collegate all’esercizio dell’attività lavorativa, è ipotizzabile che questa maggiore incidenza sia da attribuire a più circostanze relative al contesto extralavorativo: la residenza in zone più disagiate dal punto di vista logistico e l’utilizzo di mezzi di trasporto meno sicuri per stato di manutenzione o per tipologia” (ivi, p. 51).

Considerando ora i soli infortuni in occasione di lavoro definiti positivamente41, analizziamo la distribuzione degli eventi infortunistici per classe di età e per sesso, con riferimento ai dati complessivi del periodo 2000-2009 (tab. 18).

Tab. 18 - Infortuni di lavoratori nati in Paesi esteri in occasione di lavoro definiti positivamente

per classe di età e sesso – anni 2000-2009 – provincia di Bergamo

CLASSI DI ETA’ Femmine % su totale

femmine

Maschi % su totale

maschi

Totale % su totale

generale

Da 15 a 17 anni 26 1,1 193 1,0 219 1,0

Da 18 a 29 anni 663 27,7 5.360 28,5 6.023 28,4

Da 30 a 40 anni 1.010 42,1 8.526 45,3 9.536 44,9

Da 41 a 50 anni 538 22,4 4.017 21,3 4.555 21,5

Da 51 a 60 anni 145 6,0 706 3,7 851 4,0

Da 61 a 65 anni 11 0,5 26 0,1 37 0,2

Oltre 65 anni 4 0,2 7 0,1 11 0,1

Totale 2.397 100,0 18.835 100,0 21.232 100,0

Fonte: nostra elaborazione su dati Inail, Ispesl, Regioni, 2010

39

Si tratta dell’ultimo Rapporto provinciale in ordine di tempo disponibile al momento della stesura del presente Report. 40

Il Rapporto Inail fa in questo caso riferimento ai soli infortuni denunciati e indennizzati, prendendo a riferimento il biennio 2005-2006. 41

Da questo momento in poi lavoreremo esclusivamente sugli infortuni in occasione di lavoro definiti positivamente, in quanto i dati forniti dall’Asl di Bergamo (Flussi Inail-Ispesl-Regioni 2010) qui analizzati considerano esclusivamente questa fattispecie.

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Dall’osservazione della distribuzione per classi d’età si rileva una concentrazione dei casi nella fascia dai 30 ai 40 anni e, a seguire, in quella immediatamente inferiore (18-29 anni). Complessivamente, coloro che si collocano nella fascia 18-40 anni rappresentano i ¾ del totale. Poco più di un quinto degli eventi infortunistici riguarda i 41-50enni, mentre i minori e gli over-60 insieme rappresentano una parte molto bassa (1,4%) dell’insieme degli stranieri infortunati.

Con riferimento al genere, nel corso del decennio preso in considerazione, le donne infortunate hanno complessivamente rappresentato l’11,3% del totale degli stranieri.

L’età delle donne che hanno subito infortunio in occasione di lavoro risulta essere leggermente più elevata di quella maschile: fino ai 40 anni si colloca il 70,9% delle femmine, a fronte del 74,8% degli uomini, mentre le over-50 sono il 6,7% (contro il 3,9%).

Sempre considerando il decennio 2000-2009, di seguito (tab. 19) sono riportati i primi venti comuni per numero di eventi infortunistici che hanno riguardato lavoratori stranieri nell’ambito territoriale di competenza. Come appare evidente, nell’elenco non compaiono Comuni che pure risultano essere tra i maggiori della provincia per popolazione residente: è il caso, ad esempio, di Romano di Lombardia, Caravaggio, Alzano Lombardo o Stezzano; si tratta, evidentemente, di realtà territoriali che, per le caratteristiche del loro tessuto produttivo, attraggono un numero relativamente basso di lavoratori stranieri, o che li occupano in settori, attività o realtà produttive a minore rischio infortunistico. Per contro, alcuni Comuni piccoli o, comunque, non collocati tra i più grandi, si trovano ai primi posti per quantità di infortuni di nati in Paesi esteri: il caso più eclatante è quello di Orio al Serio che, pur essendo un piccolo Comune ha sul proprio territorio, come è noto, un importante insediamento, quale la struttura aereoportuale.

Tab. 19 - Infortuni di lavoratori nati in Paesi esteri in occasione di lavoro definiti positivamente

per Comune evento – anni 2000-2009 – primi 20 Comuni

COMUNE EVENTO N.

infortuni COMUNE EVENTO

N.

infortuni

Bergamo 2.221 Osio Sotto 304

Orio al Serio 770 Mapello 295

Treviglio 585 Calcinate 291

Dalmine 515 Ciserano 273

Seriate 422 Bagnatica 270

Grassobbio 392 Lallio 254

San Paolo D’Argon 379 Curno 239

Castelli Calepio 362 Grumello del Monte 236

Albino 332 Pedrengo 236

Verdellino 306 Telgate 233

Fonte: nostra elaborazione su dati Inail, Ispesl, Regioni, 2010

Prendiamo ora in considerazione il settore Industria e Servizi che, come abbiamo visto, è stato

interessato dalla quasi totalità degli infortuni degli stranieri nel 2009 (97,3%) e dal 100% degli eventi mortali42.

All’interno di tale settore, da un’analisi per ambito produttivo (tab. 20) emerge che il comparto con il maggior numero di casi è quello dei Servizi (19,5%), seguito dalla Metalmeccanica (19%) e dalle Costruzioni (18%); questi tre comparti insieme sono interessati da più della metà degli eventi. Seguono a distanza i Trasporti, l’Industria chimica e petrolifera e quella dei metalli. Gli ambiti

42

Per quanto riguarda la generalità dei lavoratori, questo settore è stato interessato dal 94,3% degli infortuni e dalla totalità delle morti.

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produttivi nei quali, invece, si ha un numero assai limitato di eventi che coinvolgono nati in Paesi esteri sono l’Industria conciaria, il comparto Elettricità, gas e acqua, quello delle Estrazioni di minerali e l’Agrindustria.

Tab. 20 - Infortuni di lavoratori nati in Paesi esteri in occasione di lavoro definiti positivamente

Settore Industria e Servizi per comparto – anno 2009 – provincia di Bergamo

COMPARTI stranieri % su totale

stranieri

Missing 114 6,4

Agrindustria e pesca 3 0,2

Estrazioni minerali 2 0,1

Industria alimentare 23 1,3

Industria tessile 37 2,1

Industria conciaria 1 0,1

Industria legno 46 2,6

Industria carta 23 1,3

Industria chimica e petrolio 100 5,6

Industria gomma 20 1,1

Industria trasf. non metalliferi 49 2,8

Industria metalli 70 3,9

Metalmeccanica 337 19,0

Industria elettrica 22 1,2

Altre industrie 34 1,9

Elettricità, gas, acqua 1 0,1

Costruzioni 319 18,0

Commercio 33 1,9

Trasporti 125 7,0

Sanità 45 2,5

Servizi 347 19,5

Comparto non determinabile 26 1,5

Totale 1.777 100,0

Fonte: nostra elaborazione su dati Inail, Ispesl, Regioni, 2010

Operando, all’interno di ognuno dei comparti di attività economica, una comparazione tra gli

infortuni che hanno riguardato lavoratori stranieri e il totale degli eventi nel comparto, possiamo notare (grafico 7) come gli ambiti produttivi maggiormente interessati dal fenomeno degli infortuni di soggetti nati in Paesi esteri siano l’Industria della gomma, i Trasporti, l’Industria dei metalli e l’Industria di trasformazione dei materiali non metalliferi43. In ognuno di questi comparti la percentuale di infortuni che riguardano stranieri si colloca ben al di sopra del 20%. Seguono l’Industria chimica e petrolio, quella Metalmeccanica, le Costruzioni, l’Industria del legno e il comparto dei Servizi, tutti con percentuali sopra il 15%. I comparti nei quali, al contrario, avviene un numero percentualmente meno rilevante di infortuni che coinvolgono lavoratori nati in Paesi esteri rispetto al totale sono Elettricità, gas, acqua e il Commercio (nel quale ultimo, comunque, la percentuale di incidenza è quasi doppia rispetto al comparto elettrico).

43

È interessante notare come sia elevato il numero degli infortuni degli stranieri per i quali non è possibile alcuna collocazione precisa all’interno di un comparto (‘Missin’ e ‘Comparto non determinabile’), soprattutto se confrontato con quello generale. Questo aspetto conferma la situazione di maggiore indeterminatezza, anche sul piano statistico, che ci si trova ad affrontare prendendo in considerazione il quadro infortunistico relativo ai lavoratori non italiani.

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Grafico 7 – Infortuni di lavoratori nati in Paesi esteri in occasione di lavoro definiti positivamente

Settore Industria e Servizi per comparto – anno 2009 – provincia di Bergamo

6,4

0,2

0,1

1,3

2,1

0,1

2,6

1,3

5,6

1,1

2,8

3,9

19

1,2

1,9

0,1

18

1,9

7

2,5

19,5

1,5

100

37,5

7,1

10,5

12,6

11,7

6,7

15,6

10,8

19,7

29,4

22,8

24,6

14,5

14,2

3,2

5,9

27,1

8,6

25,7

16,9

15,1

17,6

17,9

0 20 40 60 80 100

Missing

Agrindustria e pesca

Estrazioni minerali

Industria alimentare

Industria tessile

Industria conciaria

Industria legno

Industria carta

Ind.chimica e petrol.

Industria gomma

Ind.trasf. non metalliferi

Industria metalli

Metalmeccanica

Industria elettrica

Altre industrie

Elettricità, gas, acqua

Costruzioni

Commercio

Trasporti

Sanità

Servizi

Comp.non determin.

Totale

% su totale

stranieri

% su totale

generale di

comparto

Fonte: nostra elaborazione grafica su dati Inail, Ispesl, Regioni, 2010

Un ulteriore elemento conoscitivo interessante ai fini di una disamina approfondita sugli

infortuni che coinvolgono i lavoratori stranieri nel territorio bergamasco è la forma di accadimento44 (tab. 21). Il primo aspetto da considerare è il numero rilevante di casi nei quali è stato impossibile risalire alla forma di accadimento: si tratta di quasi un evento ogni quattro. Tra le forme di accadimento conosciute, quella più ricorrente risulta essere la situazione in cui il lavoratore è stato colpito dall’agente materiale (25% delle forme conosciute), seguita dall’urto contro qualcosa (15%) e dalla fattispecie ‘si è colpito con’ (11,2%). Queste tre forme di accadimento coprono insieme più della metà del totale delle forme conosciute.

44

La forma di accadimento viene definita come il modo o la circostanza in cui la vittima e l’agente materiale (l’elemento che ha procurato la lesione) sono venuti in contatto.

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Tab. 21 - Infortuni di lavoratori nati in Paesi esteri in occasione di lavoro definiti positivamente

per forma di accadimento – anno 2009

FORMA ACCADIMENTO N.

infortuni FORMA ACCADIMENTO

N.

infortuni

Sconosciuta 434 Morso da 4

A contatto con 61 Punto da 6

Ha calpestato 2 Schiacciato da 92

Si è colpito con 157 Sommerso da 1

Ha ingerito 2 Urtato da 41

Si è punto con 8 Travolto da 1

Sollevando o spostando 23 Rimasto incastrato 12

Ha urtato contro 211 Ha inalato 7

Ha messo un piede in fallo 45 Esposto a 8

Movimento scoordinato 48 Caduto dall’alto 24

Impigliato o agganciato a 10 Caduto in piano su 110

Sollevando, spostando 130 Caduto in profondità 2

Afferrato da 23 Incidente a bordo di 0

Colpito da 351 Incidente alla guida di 5

Investito da 23 Totale 1.841

Fonte: nostra elaborazione su dati Inail, Ispesl, Regioni, 2010

4.4 L’attenzione dei migranti alla sicurezza sul lavoro

“Quando si chiede a un capocantiere come vede l’immigrato rispetto alla cultura della sicurezza sui luoghi di lavoro, le risposte che si ottengono si possono collocare agli estremi di un continuum. A un estremo emerge l’idea che l’immigrato sia un lavoratore a rischio in virtù di determinanti riconducibili a logiche economiche e politiche di sfruttamento e a condizioni di soggettiva precarietà e spaesamento *…+ All’altro estremo si consolida l’idea che l’immigrato edile sia un lavoratore modello, pienamente consapevole e rispettoso delle norme di sicurezza, attento e informato sui principali dispositivi di sicurezza individuali, necessari per le diverse lavorazioni presenti in cantiere” (Russi, 2010, p. 95).

Così si legge in un recente volume che dà conto di una ricerca condotta nei cantieri edili della provincia bergamasca. Secondo l’autrice del saggio di cui fa parte il brano citato, che riporta testimonianze di capicantiere, affrontando il tema della cultura della sicurezza da parte dei non italiani si incontrano elementi diversi: innanzitutto, occorre tenere conto del tipo di lavoro svolto dai migranti, spesso impiegati in mansioni dequalificate e caratterizzate da forte disagio e fatica. Inoltre, viene richiamata la logica di monetizzazione del rischio alla quale paiono sottostare, secondo alcuni capicantiere, più gli stranieri che gli autoctoni. Infine, entrano in gioco questioni di “spaesamento dell’immigrato” (ivi, p. 96), soprattutto nei primi periodi di permanenza in Italia, determinate da differenze culturali, difficoltà linguistiche, pesanti condizioni di vita quotidiana. D’altro canto, vengono individuati anche alcuni elementi la cui presenza garantisce la crescita di una buona cultura della sicurezza: “il possesso di alcune caratteristiche soggettive *il sapere pratico, attitudini e capacità istintive], una buona esperienza di lavoro in cantiere e una adeguata formazione” (ivi, p. 105). Non v’è dubbio, comunque, che le caratteristiche del rapporto di lavoro sono un elemento fondamentale per attivare i presupposti per la salute e sicurezza, come si ricorda anche nel saggio citato: “Il fattore per eccellenza che determina lo sviluppo, per il migrante, di alcune condizioni, piuttosto che di altre, è dato dalla presenza di un rapporto di lavoro sicuro che nello specifico significa: contratto di lavoro in regola, condizioni di lavoro sicure, tutela sindacale e garanzia sanitaria” (ivi, p. 115).

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Ma, più in generale, qual è il livello di conoscenza dei lavoratori stranieri rispetto all’esistenza di istituzioni e norme a tutela della sicurezza sul lavoro? Una significativa risposta alla domanda viene dagli esiti di un’indagine svolta in Lombardia nel 2008 dall’Orim45 (Zanfrini, 2009). Alla domanda sulla eventuale conoscenza dell’assicurazione obbligatoria Inail (tab. 22), quasi un immigrato lombardo su tre dichiara di non esserne a conoscenza, mentre oltre il 28% pensa che tale assicurazione garantisca solo i lavoratori regolari. La situazione si presenta un po’ migliore nel territorio bergamasco, ma la quota di chi ha un’informazione corretta rimane comunque ben al disotto della maggioranza.

Tab. 22 - Domanda rivolta a immigrati ultra14enni– anno 2008

È a conoscenza dell’assicurazione

obbligatoria Inail contro gli infortuni e le

malattie sul lavoro?

Bergamo Lombardia

Sì 45,9 39,7

Sì, ma pensavo garantisse solo i regolari 24,1 28,3

No 29,9 32,0

Totale 100,0 100,0

Fonte: Fondazione Ismu, 2009

La condizione lavorativa regolare o irregolare incide fortemente sulla risposta: a livello

lombardo, mentre tra i lavoratori subordinati occupati regolarmente risponde positivamente il 51,8%, la percentuale precipita al 18,2% tra gli irregolari (ivi, p. 111).

Anche lo status giuridico e l’anzianità migratoria si rivelano essere determinanti rispetto alla conoscenza dell’Istituto: i più informati risultano essere i naturalizzati o titolari di carta di soggiorno (51,3% di Sì) e coloro che sono in Italia da più di 10 anni (stessa percentuale); i meno informati sono coloro che non hanno un permesso di soggiorno (14,6% di Sì) e chi è immigrato da meno di due anni (18,5%). Riguardo al primo aspetto valutato, “la conseguenza paradossale – ma del tutto prevedibile – è che proprio i soggetti maggiormente interessati alla copertura offerta ai lavoratori sommersi finiscono col non esserne a conoscenza, circostanza che contribuisce a spiegare la diffusa ritrosia a denunciare gli incidenti che li vedono vittime” (ivi, p. 112).

Nell’ambito dell’indagine Orim, è stato verificata anche la frequenza – da parte degli stranieri –

di corsi di formazione in merito alla sicurezza sul lavoro (tab. 23). Se complessivamente si evidenzia che meno di tre lavoratori immigrati su 10 hanno frequentato

corsi di questo tipo, appare anche come esista una grande variabilità nell’ambito delle diverse categorie professionali. L’area più esposta – non considerando il campo della prostituzione, attraversato da problematiche assai complesse e qui non analizzabili – è quella del lavoro in ambito famigliare, seguita dagli addetti alle pulizie e alle attività commerciali. Venendo ai comparti più interessati al fenomeno infortunistico, possiamo notare come appena poco più di un operaio edile e di un addetto ai trasporti su tre abbia avuto l’opportunità di partecipare a percorsi formativi.

45

Osservatorio Regionale per l’integrazione e la multietnicità.

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Tab. 23 - Frequenza di corsi di formazione in merito alla sicurezza sul lavoro,

per tipo di lavoro svolto - Lombardia; valori percentuali - 2008

Tipo di lavoro Si No

Operai generici industria 48,0 52,0

Operai generici terziario 38,8 61,2

Operai specializzati 65,9 34,1

Operai edili 35,7 64,3

Operai agricoli e assimilati 24,4 75,6

Addetti alle pulizie 18,5 81,5

Impiegati esecutivi e di concetto 39,4 60,6

Addetti vendite e servizi 29,1 70,9

Addetti attività commerciali 18,6

81,4

Addetti ristorazione/alberghi 26,7 73,3

Mestieri artigianali 35,9 64,1

Addetti ai trasporti 36,2 63,8

Domestici fissi 1,6 98,4

Domestici a ore 2,8 97,2

Assistenti domiciliari 6,0 94,0

Baby sitter 8,1 91,9

Assistenti in campo sociale 59,5 40,5

Medici e paramedici 64,2 35,8

Mestieri intellettuali 28,1 71,9

Prostituzione 0,0 100,0

Professioni sportive 25,0 75,0

Altro 24,7 75,3

Non dichiara 10,2 89,8

Totale 29,8 70,2

Fonte: Orim, 2009

Inoltre, ancora una volta lo status giuridico appare determinante: il 44,7% degli immigrati che

dispongono di un diritto di soggiorno a tempo indeterminato ha frequentato corsi sulla sicurezza, ma solo il 4,1 % di chi non ha un permesso di soggiorno ha potuto parteciparvi (ivi, p. 114). Inoltre, “va segnalato un sensibile differenziale di genere, laddove la percentuale di donne che hanno seguito corsi di formazione (15,8%) non arriva neppure alla metà di quella degli uomini (34,1%)” (ibidem).

Il quadro qui esposto ci conferma la presenza di notevoli ‘buchi neri’ che riguardano il rapporto

tra i lavoratori stranieri e la sicurezza, che coinvolgono gli aspetti delle condizioni di vita e di lavoro, della conoscenza degli Istituti a tutela e delle norme e condizioni di sicurezza; questi elementi rappresentano altrettante importanti ‘piste di lavoro’ per i soggetti che operano nel campo ispettivo e della prevenzione. Traspaiono, tuttavia, anche caratteristiche potenzialmente importanti per lo sviluppo di una attenzione e sensibilizzazione al tema della sicurezza nell’ambiente lavorativo: in primo luogo, appare evidente la stretta connessione tra sicurezza del lavoro e sicurezza sul lavoro; a ciò si aggiunge – e ne è strettamente connessa – l’importanza di un buon livello di integrazione nel contesto di immigrazione, quale condizione che consente di presentarsi come soggetti portatori di diritti e di consapevolezze.

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5. I lavoratori stranieri di fronte agli infortuni:

fattori di rischio e prospettive d’analisi Nell’ultimo anno (2010) il trend di crescita degli infortuni occorsi a lavoratori stranieri si è

invertito, grazie soprattutto all’azione degli organismi territoriali preposti, ma la loro incidenza percentuale rimane decisamente superiore a quella degli occupati sul totale dei lavoratori. Quali le cause di tale divario?

Il lavoro degli stranieri in Italia è caratterizzato da alcuni elementi ricorrenti, che abbiamo avuto modo di rilevare anche nei capitoli precedenti. Si tratta innanzitutto di persone occupate per lo più in settori a rischio, quali ad esempio l’Industria manifatturiera, l’Agricoltura, le Costruzioni, i Trasporti e in attività per lo più manuali, con inquadramento in qualifiche medio-basse. Inoltre, l’area dell’irregolarità lavorativa o delle attività temporanee risulta assai estesa.

In sostanza, questi lavoratori svolgono quelli che Ambrosini (2005, p. 59) definisce i lavori “‘delle cinque P’: pesanti, pericolosi, precari, poco pagati, penalizzati socialmente”. Tutto ciò causa situazioni nelle quali si intersecano diversi fattori di maggiore esposizione al rischio e si moltiplicano, dunque, gli eventi infortunistici. Insomma, “la marginalità dell’individuo nel mercato del lavoro *…+ si traduce facilmente in una posizione marginale nel sistema di tutele” (Di Nunzio, 2010, p. 19).

La scarsa diffusione dell’informazione sui temi della sicurezza sul lavoro (si pensi a quell’estesa area di persone che in Lombardia non conosce – o conosce solo parzialmente – l’assicurazione obbligatoria Inail), nonché l’esclusione, per sette lavoratori stranieri su dieci, da percorsi formativi finalizzati a fornire le basi necessarie per svolgere la propria attività tutelando la propria salute e sicurezza, rappresentano un’ulteriore conferma del fatto che la debolezza di questi soggetti nel mercato del lavoro si traduce anche in maggiore vulnerabilità rispetto alla possibilità di essere coinvolti nei processi di sviluppo della sensibilizzazione e della consapevolezza in relazione al tema della sicurezza in ambito lavorativo.

Un ulteriore elemento che può intervenire a esercitare un’influenza negativa sull’approccio del lavoratore straniero alla propria sicurezza è rappresentato dall’elevata presenza, soprattutto in alcuni comparti, di persone straniere accumunate da precarie condizioni occupazionali e dall’“elevato turn-over di alcune mansioni, che non favoriscono l’apprendimento informale da lavoratori esperti a lavoratori neo assunti” (Peano Casavola, 2010, p. 154).

Riflettendo in merito al rapporto tra lavoratori stranieri e percezione del rischio, occorre tenere conto dell’esistenza di un altro importante aspetto, rappresentato dalle differenze culturali. “La varietà culturale che si osserva anche nei comportamenti e negli atteggiamenti si riflette anche sulla percezione del soggetto nel valutare i pericoli; ciò incide soprattutto sulla differente soglia di accettabilità del rischio e di riflesso sul concetto di benessere psicofisico” (Ispesl, 2008, p. 2).

Gli aspetti che influenzano l’atteggiamento dei soggetti di fronte a un potenziale rischio sono vari, cambiano da persona a persona e assumono caratteristiche specifiche a seconda della provenienza geografica del lavoratore: alla differente percezione del rischio presente nelle diverse culture e influenzata da vari fattori di carattere sociale, culturale, storico, ambientale… si aggiunge il fatto che l’inserimento nel contesto di immigrazione porta a individuare determinate priorità legate, ad esempio, alla necessità di risolvere problemi di ordine economico, di accettazione sociale, di insediamento abitativo… Ciò può comportare un ‘accantonamento’ o una marginalizzazione delle questioni attinenti la propria salute e sicurezza, in quanto l’analisi ‘rischi-costi-benefici’ porta e decidere che i vantaggi che derivano dall’accettazione di una situazione rendono tollerabili i rischi ad essa collegati.

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Non a caso, il raggiungimento del traguardo rappresentato dall’ottenimento di un lavoro regolare e dalla stabilizzazione all’interno di un determinato contesto socio-abitativo, accompagnati da una certa padronanza della lingua italiana, rappresentano spesso altrettanti elementi di ‘svolta’, che, oltre a testimoniare l’ingresso in un sistema di cittadinanza almeno parzialmente condiviso con gli autoctoni, consentono di acquisire livelli di consapevolezza – a volte superiori a quelli degli stessi italiani – anche rispetto alle procedure e ai dispositivi per garantirsi condizioni lavorative in sicurezza. Ciò è testimoniato anche dai seguenti brani di interviste a due capicantiere del bergamasco.

“Rispetto alle regole della sicurezza, utilizzo dei caschi, costruzione dei ponteggi, legarsi in quota? Sono consapevolissimi di quello che bisogna avere come minimo di sicurezza, anzi delle volte magari invece di andare a casa a mangiare si fermano con il loro bel panino con su i loro bei guantoni, nuovi, la loro bella cinghia *…+, per lo meno quelli che viaggiano nella regolarità, quelli che vogliono essere alla luce del sole si adeguano anche alle nostre normative, si adeguano forse con meno riluttanza di noi perché magari arrivano da condizioni meno restrittive prima” (Russi, 2010, p. 116).

“Forse sono più attenti dei nostri sinceramente. Prendono in mano il flessibile e gli unici che mettono gli occhiali sono quei ragazzi [immigrati]. I nostri muratori, per far mettere gli occhiali, o gli entra una scheggia al giorno o se no non li mettono” (ivi, p. 117).

Sulla necessità di contrastare le condizioni lavorative negative in cui si trovano molti lavoratori migranti interviene con insistenza anche l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, affinché la comunità internazionale, i governi e le rispettive parti sociali garantiscano “agli immigrati, ovunque lavorino, standard accettabili di salute e sicurezza del lavoro” (Ilo, 2010, p. 5).

Ciò rappresenta un esplicito invito ai vari soggetti politici e istituzionali; l’auspicio è, più in generale, come ha dichiarato il Direttore generale Ilo, Somavia, in occasione della celebrazione della Giornata mondiale per la sicurezza e la salute sul lavoro – 2011, che i governi modellino “politiche che riflettano il ruolo centrale del lavoro nella vita delle persone”46.

Per quanto riguarda i possibili ambiti d’azione in campo preventivo attivabili da parte degli organi preposti all’intervento e alla vigilanza sui posti di lavoro in materia di salute e sicurezza, per contribuire a colmare il deficit di tutela di cui sono spesso vittime i migranti, l’obiettivo è indubbiamente quello di diffondere la cultura della sicurezza agendo con iniziative – nel rapporto sia con le parti sociali sia all’interno delle realtà lavorative – che tengano conto anche della peculiare situazione dei lavoratori stranieri. Gli interventi di prevenzione, di rimozione del disagio, di promozione delle situazioni di benessere possono essere efficaci se mirati, per quanto riguarda l’intervento sui lavoratori, a diminuire il più possibile il divario tra il rischio oggettivo e una percezione soggettiva che, particolarmente con riferimento a soggetti provenienti da altri Paesi, è influenzata da una molteplicità di fattori. Il rischio, come abbiamo visto nella parte iniziale del presente Report, è il prodotto di una costruzione sociale; ne consegue che, accanto ai fattori individuali e a quelli oggettivi, i fattori socio-culturali (la cultura e i valori di riferimento, ma anche il livello d’istruzione e il contesto sociale) incidono significativamente sulla sua percezione.

A proposito dell’incidenza del livello d’istruzione, rappresenta, ad esempio, un elemento potenzialmente da considerare il fatto che molti migranti – soprattutto tra le donne – abbiano raggiunto nel loro Paese un elevato grado di scolarità, di frequente non spendibile sul mercato del lavoro italiano (per ragioni di carattere giuridico, economico o sociale), ma non per questo irrilevante in relazione alla capacità di sviluppare una positiva cultura della sicurezza e persino di divenire punti di riferimento per altri lavoratori su questi aspetti. Ricordiamo, al proposito, quanto esposto illustrando il quadro infortunistico internazionale, laddove si afferma, facendo riferimento

46

Cfr. nota 10.

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alle analisi di Eurostat, che i lavoratori con alto livello d’istruzione risultano essere meno esposti agli infortuni.

Ai fini dell’attivazione di interventi mirati quali quelli a cui si è qui potuto solamente accennare, rivestirebbe grande importanza poter disporre dei risultati di ricerche specifiche e approfondite, purtroppo ad oggi non disponibili nel panorama nazionale, rivolte a indagare in profondità, sia sul versante quantitativo che su quello qualitativo, la realtà del lavoro immigrato, dentro i settori e i contesti produttivi.

Il lavoro qui esposto rappresenta, comunque, un primo tentativo, a livello territoriale, per porre le basi conoscitive di un fenomeno che si articola in aspetti alquanto complessi e che presenta molte sfaccettature.

Pur nella difficoltà rappresentata dalla disponibilità di fonti sovente non omogenee, quanto emerge dall’indagine quantitativa ci ha consentito di individuare alcune interessanti piste sulle quali è possibile proseguire la ricerca.

In particolare, il tema della percezione del rischio da parte dei lavoratori stranieri necessiterebbe dell’avvio di un secondo livello d’indagine, con l’obiettivo di verificare, all’interno di singoli comparti e realtà produttive, la specifica condizione riferita all’effettivo coinvolgimento di tali lavoratori nelle azioni mirate a determinare condizioni di sicurezza e a sviluppare una cultura in tal senso, nonché di analizzare i loro concreti atteggiamenti, comportamenti e percezioni riguardo a questi aspetti.

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6. Bibliografia e sitografia

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47

Il sito Internet dell’Ispesl non è più in funzione, a seguito della soppressione dell’Istituto e dell’attribuzione delle sue funzioni all’Inail (legge 30 luglio 2010 n.122).

Page 51: Report di ricerca - UniBG · fosse costituito sostanzialmente dalla magia, unita a un pizzico di cristianesimo. Dato che il soprannaturale era dato per scontato, per affrontare il

51

Medici Senza Frontiere: www.medicisenzafrontiere.it Orim (Osservatorio regionale per l’integrazione e la multietnicità): www.orimregionelombardia.it Osservatorio Indipendente di Bologna sulle morti per infortuni sul lavoro:

http://cadutisullavoro.blogspot.com/ Osservatorio sulla sicurezza in Europa : www.osservatorio.it