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Ricerche Storiche 2006

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RS Anno XXXX

RICERCHE STORICHE N. 101 aprile 2006

DirettoreEttore Borghi

Vice DirettoreMirco Carrattieri

Direttore ResponsabileCarlo Pellacani

Coordinatore di Redazione ed editing

Glauco Bertani

Comitato di Redazione:Lorenzo Capitani, Mirco Carrattieri, Alberto Ferraboschi,

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N.14832422

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Editore proprietarioISTORECO

Istituto per la Storia della Resistenza

edella Società contemporaneain provincia di Reggio Emilia

cod. fisco 80011330356Registrazione presso il Tribunale di

Reggio Emilia n. 220 in data 18 marzo 1967

Rivista semestrale di Istoreco(Istituto per la storia della resistenzae della società contemporanea inprovincia di Reggio Emilia)

Foto di copertina:Le foto si riferiscono al 22 maggio 1949,

manifestazione regionale dei giovanicomunisti con la presenza di PalmiroTogliatti.

gF g t i ~ ~ 1 2 ~ E

__I REGGIO EMILiA

__PIETRO MANODoRI

Con il contributo della Fondazione Pietro Manodori

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Indice

EditorialeMassimo Storchi, Un altro 25 aprile 5

Ricerche

Philip Cooke, Da partigiano a quadro di partito: l'educazione degli emigratipolitici italiani in Cecoslovacchia 9

Mario Frigeri, Il caso Disteso: la mancata rivolta dei carabinieri contro Salò.Rapporto su una ricerca in corso 39

Ugo Pellini, Temistocle Testa 45

Memorie

Ettore Borghi Ca cura di), L'autonomia al lavoro: comune e infanzia. Intervi-sta a Loretta Giaroni su Scuole e nidi comunali 57

Teresa Vergalli, Claudio Truffi, un reggiano trapiantato per I1talia.Un percorso di vita 65

Didattica

Lorena Mussini, Un territorio nel tempo. Sassuolo e le traiformazioni del '900.Giornata di studi - Sassuolo 29 maggio 2005 103

Strumenti

Amos Conti, Gli Albi della Memoria: le tecnologie informatiche, supporto es-senzialeper la ricerca storica eper la conservazione attiva della memoria 119

Massimo Storchi, La Memoria della città-Polo Archivistico. Un progettoper lacomunità reggiana del XXI secolo 139

Note & Rassegne

Enzo Grappi, Immigrazione, flessibilità del lavoro e lavoro nero. Il nuovoprofilo sociale di Reggio Emilia 147

Gian Franco Riccò, ''Modello emiliano ": lavoro e coesione sociale a ReggioEmilia 161

Francesca Bellti, Ecolinguistica dell'italiano negli Stati Uniti. Dinamiche delprocesso di perdita linguistica tra gli emigrati italiani nel territorio statuni-tense 169

Francesco Paolella, Il problema delle fonti nella ricerca sulla deportazionedall'Italia, 1943-1945. Museo della Deportazione di Prato, 7-8 dicembre2005 179

Alberto Ferraboschi, La Grande guerra raccontata in tre libri189

Recensioni 193

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Un altro 25 aprile

Massimo Storchi

Scrivo questa breve nota una ventina di giorni prima delle elezioni politiche

del 9 aprile che spero significheranno la fine del periodo peggiore del

dopoguerra italiano, un periodo che lascia dietro di sé macerie istituzionali,economiche, etiche e culturali.

Di queste macerie culturali chi si occupa di ricerca e divulgazione storica ha

dovuto prendere coscienza giorno per giorno pur nella condizione favorita dal

vivere in terra d'Emilia, dove un forte tessuto democratico ha retto meglio agliurti e limitato gli effetti più devastanti dell'azione di governo, pur ricevendoneugualmente danni non trascurabili fino ad uscirne parzialmente indebolitosotto numerosi punti di vista.

In questo contesto si è trattato di proseguire in un percorso sempre più

difficile dove l'uso politico della storia, giunto ai minimi livelli di dignità eticae culturale, è stato purtroppo un elemento quasi consueto.

Il successo di operazioni editoriali (di cui l'episodio Vespa e sodali è soloil segnale più clamoroso di una situazione di grande confusione e degrado

non soltanto mediatica); il tentativo, fortunatamente fallito, di equipararei collaborazionisti di Salò ai combattenti delle formazioni partigiane e del

ricostituito esercito italiano; l'introduzione strumentale di una festa come

la Giornata del ricordo; il periodico riproporsi in terra reggiana di vicendelegate ad episodi di violenza della guerra di liberazione e dei suoi immediatie successivi dintorni, sono soltanto alcune delle tappe di questo conflitto orastrisciante ora esaltato dai mezzi di comunicazione che ha segnato questo

difficile periodo. Un periodo che ha evidenziato soprattutto un paradosso

sul quale ritengo opportuno riflettere in maniera più meditata nell'immediatofuturo. Il paradosso costituito dal progressivo allargarsi di una frattura fra

nuove acquisizioni della ricerca storica e consolidarsi di una percezionediffusa nell'opinione pubblica. Una spaccatura fra risultati delle ricerche esenso comune.

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Un paradosso che in qualche modo ha superato anche le polemiche un

po' stantie contro il revisionismo storiografico della destra, un revisionismoche si è sostanziato, nei fatti, non con la proposizione di nuove fonti e nuove

interpretazioni, ma semplicemente con la negazione delle fonti e delle ricercheche in questi anni sono state condotte. Un revisionismo che si è fondato sullacreazione di un preteso "anno zero" sul quale poter imbastire, ogni volta, una

campagna di rivelazioni clamorose, di silenzi "finalmente" svelati, di misteriche potevano finalmente essere sottratti ad una "congiura del silenzio" operata

da occulte (ma non tanto nella propaganda sgangherata che è riecheggiataanche prima degli eccessi della campagna elettorale) forze riconducibili allaschieramento articolato della sinistra storica italiana.

Questa frattura fra ricerca e senso diffuso della propria storia costituisceun fenomeno di grande interesse sul quale si stanno interrogando anche

ricercatori e storici esteri sia per le sue componenti di irrazionalità, che per lepossibili conseguenze nel medio/lungo periodo, su come questa sostanziale"fuga dalla realtà" possa influenzare un'identità nazionale ed europea già cosìtraballante e discussa. La domanda che viene fatta sull'Italia dopo il 2001 è

«come è possibile?», una domanda che ci coinvolge profondamente tutti come

cittadini, prima ancora che come storici.

In questa prospettiva il prossimo 25 aprile si pone come un occasione non

rituale di riflessione, non solo nella speranza di aver superato la fase più criticama anche, e soprattutto, su come ripartire, sulle prospettive future da costruire

dovendo tener conto proprio di quelle macerie cui abbiamo accennato. Eallora sarebbe ipocrita non rivolgere anche al nostro interno un invito ad una

autocritica serrata, alla apertura di una riflessione che in questi anni è statatroppo spesso latitante quando, in una fase di scontro frontale, di attaccopolitico, culturale ed etico, ogni richiesta di apertura, di una visione più laica eaderente proprio a quanto la ricerca stava mettendo in evidenza, poteva venireinterpretata come un cedimento, suscitando la richiesta della "opportunità" dimostrare all'avversario lati "deboli" di una costruzione politica e culturale che,in realtà, proprio nel suo chiudersi al confronto, maturava giorno per giornonuovi elementi di criticità.

La stessa debolezza storica del 25 aprile come data celebrativa, come

epifenomeno di una Resistenza che rimane «psicologicamente, culturalmente,politicamente remota» (Rusconi, 1995), senza riuscire a diventare un elemento

condiviso della cittadinanza ma sempre di più un segnale di quella crisidell'antifascismo che è probabilmente il nocciolo critico di una debolezza divalori e contenuti di una buona parte della sinistra italiana.

Avere scelto e/o accettato nel tempo di privilegiare la Resistenza armata,lasciando ai margini o nel silenzio le altre Resistenze (quella dei seicentomilaIMI in Germania, quella dei combattenti nel ricostituito esercito italiano, quelladei lavoratori coatti, quella silenziosa e non violenta dell'assistenza, del rifiuto,del salvataggio di ebrei, perseguitati e prigionieri) ha costituito un elemento

di debolezza e di fragilità che ha contribuito, non in piccola misura, ad isolare

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proprio il fenomeno complesso e ricchissimo sotto il profilo etico, culturalee politico che fu la opposizione, diffusa e condivisa, al progetto di dominionazista e fascista.

La mitizzazione del partigiano combattente, la sua elevazione a figuraintrinsecamente superiore sul piano etico, ha impedito di confrontarsi propriocon la complessità di una guerra che ha avuto anche caratteri di guerracivile, di ferocia, di violenza subita e agita durante e immediatamente dopo

la sua conclusione. Lasciando sullo sfondo le altre Resistenze si è impeditoche si costruisse un sentimento comune di appartenenza che consentisse un

riconoscimento diffuso di quanti erano approdati all'antifascismo o anche al a-fascismo e che si sono trovati, nel dopoguerra, senza un quadro di riferimentoche permettesse di inserire anche la loro esperienza nel contesto della storianazionale. Nella impossibilità di arrivare ad una storia condivisa si è maturata la

incapacità di confrontarsi, per troppo tempo, con memorie diverse e memoriedivise che hanno progressivamente e silenziosamente eroso il terreno delconfronto conquistando, anche attraverso l'uso spregiudicato del "mercato"culturale e dei mass media, un ruolo progressivo di egemonia. Ci si è cosìtrovati troppo spesso in posizioni difensive, costretti ad inseguire l'onda

ricorrente delle polemiche strumentali di cui il reggiano è stato, e resta, terradi aperto confronto.

In questo quadro, che richiederebbe spazi di discussione più ampi, alcunescelte compiute da Istoreco mi sembrano di rilevanza non trascurabile. La

realizzazione di Albi della memoria aperti a tutti gli attori della storia nazionale

(attraverso la dimensione locale), la ricerca aperta su tutti gli aspetti dellavicenda resistenziale, l'avvio di programmi di ricerca in collaborazione con

l'Università sul dopoguerra reggiano e nazionale (con la prossima Giornatadi studi del 28 aprile, dedicata ai primi anni della ricostruzione), sono alcunisegnali importanti che vanno incoraggiati e adeguatamente sostenuti, proprioper l'occasione di riflessione e analisi che, attraverso di essi, viene offerta atutta la comunità locale.

Bibliografia

R.Chiarini, 25 aprile. La competizione politica sulla memoria, Marsilio, Venezia 2005.S.Luzzatto, La crisi dell'antifascismo, Einaudi, Torino 2004.S.Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 2004.G.E.Rusconi, Resistenza e postfascismo, Il Mulino, Bologna 1995.

P.Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 1995.

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Da partigiano aquadro di partito:

l'educazione degli

emigrati politici italiani in

Cecoslovacchia1

Introduzione

Philip Cooke*

Quando nel 1944 Palmiro Togliatti decise che il PCI doveva entrare a far parte

del governo (la cosiddetta "svolta di Salerno"), il partito si pose il problema

di come educare i propri membri. Fu aperta a Roma una scuola centrale di

partito (più tardi nota come "Le Frattocchie") e scuole regionali furono aperte

a Milano, Bologna e in altre città. Alla scuola centrale gli allievi seguivano corsi

dettagliati sulla storia del PCI, sulla storia del Partito bolscevico, sul Manifesto

comunista e così via. In seguito, furono offerti corsi brevi e presto divenne

possibile seguire anche corsi per corrispondenza. In alcuni rari casi gli allieviche dimostravano meriti particolari alla scuola di partito di Roma potevano

ottenere di studiare all'Istituto Lenin di Mosca2 .

Oltre ai propri iscritti in Italia, il PCI prese in considerazione anche la

necessità di formare i suoi emigrati politici in Cecoslovacchia. Questi erano,

nella maggior parte, ex partigiani costretti ad abbandonare l'Italia perché

*Philip Cooke è Senior Lecturer di Italian Studies presso l'Università di Strathclyde

(Glasgow).È

l'autore di diversi saggi sulla cultura e sulla storia italiana. Attualmentelavora su un libro sull'emigrazione politica in Cecoslovacchia, da cui è tratto questosaggio.

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lO

accusati di atti di violenza nel dopoguerra3. Inizialmente, agli emigrati politici

fu dato qualche insegnamento di base, ma poco dopo divenne evidente la

necessità di organizzare corsi di formazione sulla falsariga della scuola centrale

del partito di Roma.

In questo saggio mi occuperò esclusivamente della scuola di partito diDobrichovice vicino a Praga che funzionò per tre anni dal 1950 al 1952, e fu

di gran lunga la più importante iniziativa di formazione politica condotta dal

PCI in Cecoslovacchia.

Prima di esaminare la scuola è necessario analizzare, in alcuni dettagli, la

interpretazione che della scuola di Dobrichovice ha recentemente fornito il

sociologo italiano Rocco Turi nel suo libro Gladio Rossa. La tesi centrale del

libro di Turi si fonda sull'esistenza di un "filo rosso" che passa dal partigiano

della Resistenza, ai partigiani fuggiti in Cecoslovacchia, e da lì alle Brigate

rosse degli anni 1970. Franceschini e altri, così si sostiene, sono stati addestratiin Cecoslovacchia e così, in una catena assai discutibile di anelli causali, è

possibile in definitiva attribuire al movimento della Resistenza la responsabilità

della morte di Aldo Moro. La scuola di Dobfichovice ha giocato, nella visione

di Turi, una parte vitale in questo processo.

Sotto il titolo Le scuole di sabotaggio e terrorismo e il tentativo di putschin Italia Turi descrive come la scuola, assiduamente frequentata da italiani

che erano fuggiti in Cecoslovacchia, fu aperta a Praga nel marzo/aprile del

1950. Il nome ufficiale della scuola era «scuola politica del compagno Synka»,

un giornalista ex-combattente ceco.Le

informazioni di Turi derivano da unrapporto spedito da Vanni D'Archirafi della ambasciata italiana a Praga al

ministero degli Affari esteri a Roma nel settembre 1950. Secondo il rapporto,

basato su informazioni fornite da informatori cechi, la scuola era frequentata

da circa cinquanta attivisti che erano nel complesso italiani, bulgari e rumeni.

L'esatta collocazione della scuola era la cittadina di Dobrichovice, a sud di

Praga. Il r ~ p p o r t o di Archirafi indusse il ministero della Difesa e il ministero

dell'Interno a richiedere ulteriori indagini e ulteriori informazioni.

Altre informazioni arrivarono: secondo la ambasciata uno degli italiani che

aveva frequentato la scuola di partito fin dall'inizio era un certo Luigi Chiappa

che intendeva ritornare in Italia all'inizio di dicembre 1950. Nella scuola

prestavano servizio tre insegnanti, un russo, un ceco e un italiano. Altre fonti

indicavano che un gran numero di cittadini italiani era arrivato a Dobfichovice

dalla Francia. Inoltre, parecchi dei famigliari degli studenti vivevano in alloggi

vicino alla scuola. Le misure di sicurezza erano chiaramente molto strette e gli

italiani venivano tenuti lontano dai residenti cechi. Ciò nonostante, la moglie

di uno studente rivelò all'informatore che un certo numero di insegnanti erano

russi e che il progetto degli allievi era di ritornare in Italia nel febbraio del 1951

allo scopo di realizzare un putsch.

Le informazioni riguardanti il putsch arrivarono al ministero degli Esterinell'ottobre 1950 dove furono accolte «come una bomba»5. Entrarono in

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vigore provvedimenti per affrontare ogni tentativo insurrezionale e le misure

anticomuniste, già attivate nei mesi precedenti, furono inserite nei piani

generali di difesa dello Stato italiano. I servizi segreti tentarono di scoprire

chi fosse Chiappa. Frattanto il primo corso di formazione in Cecoslovacchia

stava giungendo al termine e un nuovo gruppo d'italiani stava per arrivarein Cecoslovacchia allo scopo di seguire, come afferma senza mezzi termini

ancora Turi, "i corsi terroristici,,6.

Questi nuovi arrivati alloggiavano alla "pensione Stejzkal» a Dobfichovice e,

ipotizza Turi, erano anche mandati a lavorare in fabbrica in varie località della

Cecoslovacchia "per coprire la loro vera attività,,7. Quelli fra loro che avevano

famiglia alloggiavano in ville vicino alla scuola. Quando se ne andarono

rimasero solo due famiglie, quella di un certo Guglielmo Secondo e di un

signor Gabetta.

Seguirono ulteriori richieste d'informazioni. Il capo della scuola eraun certo Jurko Stefano Keudic e buona parte degli allievi erano iugoslavi

antititoisti. Il ministero dell'Interno chiese informazioni su chi si nascondesse

dietro il complotto. Furono forniti altri nomi ma le investigazioni procedevano

lentamente e con difficoltà. La maggior parte delle prove raccolte sulle diverse

persone nominate nella richiesta di informazioni risultarono inconcludenti.

Quanto al putsch, Turi prosegue col dire, sebbene non citi la fonte, che esso

fu sospeso dalla dirigenza comunista a causa di una fuga di notizie.

L'indagine di Turi è certamente ampia (ci racconta che è il frutto di oltre

un decennio di lavoro) ma non è completamente convincente, soprattutto

quando descrive proprio il presunto colpo di stato del 1951 (elemento chiave

della sua tesi nel libro), per i l quale la sola fonte è a quanto pare la moglie

di uno degli studenti. In genere le informazioni che raccoglie sulla scuola

sono estremamente vaghe e basate su alcuni presupposti piuttosto ingenui

delle sue fonti. In primo luogo, la tesi di Turi è basata sull'interpretazione di

informatori sulle cui credenziali e intenzioni non abbiamo alcuna informazione.

Secondariamente, le informazioni compilate dagli informatori sono trapelate

a Roma dalla Ambasciata italiana a Praga. In terzo luogo, non è presa affatto

in considerazione l'isteria creata dalla situazione della Guerra fredda a cui

possiamo facilmente attribuire il "colpo di stato" del 1951. Ma soprattutto,Turi non ha avuto a sua disposizione l'ampia documentazione disponibile

all'Archivio di Stato di Praga riguardo gl'italiani in Cecoslovacchia e sulla quale

il presente lavoro è in gran parte basato. Come vedremo, questo materiale

fornisce prove convincenti che indicano come la scuola di Dobfichovice non

fu una specie di campo di formazione per sedicenti terroristi di sinistra, bensì

una normale scuola di partito che seguiva un modello già esistente.

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La scuola di partito a Dobnchovice: 1950-1952

1. Origini

L'idea di organizzare una scuola di partito per emigrati politici si fece strada

nel 1949, sulla base di una proposta fatta dal Partito comunista ceco (d 'ora inpoi KSC)9. A quel tempo il numero di coloro che erano fuggiti dall'Italia versola Cecoslovacchia cresceva ogni giorno, così che non ci sarebbe stata carenzadi potenziali allievi. Una lunga lettera di Roberto Dotti (allora responsabiledegli emigrati politici), datata 31 ottobre 1949, al comitato centrale del KSC

e alla dirigenza del pcr fornisce una grande quantità di informazioni moltointeressanti. In questo periodo non era ancora stata stabilita la sede dellascuola (Dotti parla di una scuola di partito in o vicino a Praga), ma il processodi scelta degli allievi era già avviato. Il criterio per la selezione degli allievi

era così concepito: «Attaccamento al partito, maturità politica, disciplina.Attaccamento allo studio, durante i collettivi. Rendimento sul lavoro, durantei collettivi".

Usando questo principio, unito alle notizie biografiche su ogni compagno

cui era stato proposto di frequentare i corsi, la CCDL (Commissione centrale per

l'emigrazione, con sede a Praga) aveva provvisoriamente redatto un elencodi due gruppi: uno elementare, l'altro costituito da «i più elevati". Segue poi

un elenco di ventinove «compagni" che erano compresi nel primo gruppo esedici nel secondo. Pressoché in ogni caso venivano espresse alcune riserve

suognuna

di queste persone. Tuttavia, queste riserve, Dotti era fiducioso,potevano essere superate e i soggetti, si prevedeva, avrebbero impiegato inmodo proficuo il loro tempo nella scuola di partito.

Esaminando alcuni casi significativi, l'allievo numero diciannove di questalista Oreste Bianchi (pseudonimo di Natale Burato, uno dei protagonistidell'organizzazione della Volante rossa a Milano) è così descritto: «Operaio. Èun giovane compagno che ha cominciato ad occuparsi seriamente di questionipolitiche da quando si trova al collettivo ed ha progredito rapidamenteeliminando in buona parte la sua mentalità partigiana. Desidera studiare ene ha tutte le qualità per una buona riuscita. Attaccato al partito e disciplinato

malgrado i suoi precedenti (corsivo mio)".I riferimenti alla cancellazione della mentalità partigiana di Burato ed ai suoi

«precedenti", un eufemismo per il suo comportamento estremamente violento,sono decisivi qui per la comprensione di uno dei ruoli chiave della scuola:plasmare i quadri del partito e utilizzare la loro intelligenza piuttosto che laloro forza bruta per raggiungere gli scopi del partito.

Burato non è il solo ad arrivare in Cecoslovacchia con seri «difetti". AntonioBaffi (Giulio Paggio), uno dei compagni di Burato nella Volante rossa, risultòavere i requisiti richiesti per il gruppo più avanzato. E come per Burato il suo

passato partigiano veniva evidenziato come un problema da lui contrastatocon successo: «All'inizio aveva tutti i difetti del comandante partigiano che non

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ha mai curato molto la sua preparazione politica (corsivo mio)>>. Malgrado la

mancanza di preparazione politica, che riceverà solo alla scuola di partito, le

attività di Paggio nel collettivo forestale furono elogiate. Riusciva a spronare

i suoi compagni di lavoro fino al punto da essere tutti proclamati udarniki,

l'equivalente ceco di stakanovista. In effetti, come ulteriore prova dell'idoneitàdi Paggio per i corsi, chiese di restare nel collettivo forestale oltre il periodo

stabilito per potersi preparare meglio per lo studio. Alla fine, è descritto come

«di origine operaia e molto intelligente».

L'ultimo esempio è Dante Landi (Raul Ballocci). Ballocci era stato un capo

partigiano che operava nella provincia di Arezzo l l . Si sottolineava che, al

suo arrivo in Cecoslovacchia, si erano verificate «diverse incomprensioni» ma

che aveva una «preparazione politica notevole quantunque sconclusionata».

Era, comunque, migliorato moltissimo a aveva «superato le nostre previsioni».

Ballocci faceva parte di un piccolo gruppo di emigrati politici che avevano giàun certo livello di istruzione di base.

Verso la fine del novembre 1949 i rapporti tra i due partiti vennero

convenientemente formalizzati. Il 21 novembre Pietro Secchia, a quel tempo

responsabile del PCI per le relazioni estere, scrisse al suo omologo Bedrich

Geminder12 affermando che la direzione del PCI approvava la proposta fatta dal

KSC di fondare una scuola di partito. L'iniziativa, dunque, sembra essere venuta

dai cechi, piuttosto che da parte degli italiani. Lo scopo della scuola era di

introdurre gli emigrati politici nella vita ceca affinché potessero svolgere «un

lavoro politico» nei centri dell'immigrazione italiana. In altre parole, appenafinito il corso, i quadri avrebbero svolto la funzione di attivi missionari del PCI

fra i lavoratori emigrati, elevando la loro coscienza di classe. In totale saranno

circa una cinquantina e la metà di loro continuerà a fare il lavoro appena

descritto. Non è chiaro quali compiti avrebbe avuto la parte rimanente. Sia PCI

che KSC avrebbero collaborato nella scelta degli allievi per il corso. La lettera

precisava procedure e responsabilità nell'operazione:

1 - Il primo corso durerà un anno e rifletterà quello presentato dalle scuole centrali del

PCI; ma vi sono molte importanti aggiunte al programma: diversi aspetti della storia ceca

così come la lingua ceca.2 - Il KSC dovrà procurare gli insegnanti per trattare la materia ceca, un funzionario che

manterrà i contatti tra la scuola e il KSC, un interprete, e altro personale vario.

3 - Il PCI dovrà procurare un direttore della scuola e altri due compagni in grado di

insegnare le materie italiane del corso. Questi saranno Secondo Villa (che si occuperà

dell'organizzazione iniziale oltre che dell'insegnamento); Dotti dovrà anche insegnare e

dovrà essere mandato in fretta un direttore, prima dell'apertura. IL PCI invierà libri e materiale

didattico. Invierà inoltre 15 compagni attualmente residenti in Italia per frequentare la

scuola.

Con l'inizio del gennaio - 1950, il numero complessivo degli allievisembrerebbe essere di sessanta allievi, quarantacinque dalla Cecoslovacchia

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e quindici dall'Italia13. Poiché quattro o cinque di loro non erano in grado

per diverse ragioni di partecipare, Dotti propose cinque sostituti e fornì vari

dettagli su queste persone. Erano: Fedele Proni, Pietro Moretti, Carlo Ravizza,

Ermanno Polacci eAntonio Chiappa. Quest'ultimo (in realtà Luigi Guitti) è con

tutta probabilità il Luigi Chiappa citato da Turp4. Qualche giorno dopo seguivaun'altra lettera di Dotti a Geminder per annunciare che Edoardo D'Onofrio (il

responsabile quadri nella segreteria del pcr) e Secchia lo avevano informato

sul fatto che i due insegnanti sarebbero arrivati nei prossimi giorni, i quindici

allievi dall'Italia, con ogni probabilità, non sarebbero venuti, i libri e i testi

italiani sarebbero arrivati entro pochi giorni e, si sperava, la scuola avrebbe

potuto presto iniziare15 .

Con la fine del mese il direttore della scuola fu scelto e arrivò in

Cecoslovacchia16 . Domenico Ciufoli (che assunse lo pseudonimo di Paolo

Belli) era un veterano del pcr con credenziali di antifascista di vecchia data. Peril breve periodo in cui Ciufoli rimase in Cecoslovacchia (circa un anno) fu sia il

direttore della scuola che il responsabile degli emigrati politici. Nella lettera di

presentazione del Ciufoli a Geminder, Secchia spiegò di essere assolutamente

soddisfatto delle prestazioni di Dotti, ma che Ciufoli, come membro del

Comitato centrale del partito, aveva diritto all'incarico in questione.

A questo punto, quindi, erano disponibili sia gli allievi che il direttore, ma

non l'edificio della nuova scuola. La mancanza di riferimenti negli archivi circa

la sede si può spiegare con la necessità di mantenere il segreto. Qualunque sia

il motivo, il luogo prescelto perla

scuola era evidentemente già stato deciso.A circa trenta chilometri a sud di Praga, si trova la cittadina di Dobfichovice.

Attraverso un p o n t ~ c'è una strada stretta che conduce nel bosco. L'ultima

casa è una «bella e comoda villa» che era già stata usata come scuola di partito

dai cechi17. La villa fu completamente riadattata per gli italiani, fu dotata di

personale oltre che di guardie di sicurezza, gli allievi furono dotati di lenzuola

nuove e (persino) di pantofole. La cerimonia d'inaugurazione ebbe luogo

sabato 11 febbraio 1950 alle ore 15, con una breve presenza di Geminder e di

numerosi funzionari del partito18.

2. Organizzazione

La scuola iniziò quindi la sua attività dal febbraio 1950. Nella seconda parte

esamineremo come era organizzato l'insegnamento, quale il programma dei

corsi, e come in generale funzionasse la scuola.

A Secondo Villa venne dato l'incarico di organizzare la scuola per il primo

anno. Villa (Silvio Bertona) era già stato insegnante alla Scuola centrale del

partito a Roma. La sua «Relazione sull'organizzazione delle scuole di partito»

è una fonte fondamentale di informazioni. Bertona afferma che, in base ad

un accordo tra D'Onofrio e la commissione centrale della scuola di partito, i

corsi da far seguire agli allievi in Cecoslovacchia si dovevano basare sul giàesistente programma di sei mesi usato in Italia. Ciò secondo le proposte fatte

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da Secchia di cui abbiamo già accennato.

Con alcune modifiche per le condizioni locali (niente lavoro pratico e nessun

esame) i corsi dovevano svolgersi per cinque mesi (ma, in effetti, il primo corso

del 1950 durò nove mesi con esami). Vi doveva essere un elemento aggiuntivo

che comportava l'insegnamento della lingua ceca, ma Bertona sottolineava ilfatto che l'italiano sarebbe rimasto la lingua obbligatoria delle lezioni.

Dopo aver discusso il programma Bertona continuava poi con la lista dei vari

materiali, libri di testo e libri destinati a ciascun allievo. Questi comprendevano

le note fornite dalla scuola centrale di partito oltre gli appunti forniti a quegli

allievi che seguivano il corso di corrispondenza in Italia. Si richiedevano libri di

Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Marx, Engels, Stalin (l'onnipresente Breve

corso di storia del PCB) e Dimitrov. In effetti, erano compresi nell'elenco di

Bertona tutti gli scritti di Togliatti, i testi di tutti i suoi discorsi, i suoi opuscoli,

e anche quelli della dirigenza del pcr. Veniva inoltre richiesta, per la biblioteca,una copia dei classici del marxismo-leninismo, in versione italiana.

Bertona, poneva poi il problema della scelta degli insegnante. Il pcr

avrebbe inviato un terzo insegnante da aggiungere ai due emigrati politici

già in Cecoslovacchia (Dotti e, naturalmente, Bertona stesso). L'insegnante in

questione era Vittorio Gambetti (Vittorio Gombi) arrivato da qualche settimana

in Cecoslovacchia (tra il 23-25 gennaio 1950). Gombi era bolognese ed era

stato partigiano. Un mandato di cattura lo aveva costretto a fuggire dal paese20.

Un altro insegnante, Giulio Foschi, sembra essere arrivato da Mosca a un certo

punto nel 195021 . Bertona continuava dicendo che il KSC avrebbe procurato un

insegnante per i Corsi specifici sulla storia della Cecoslovacchia e del Partito

comunista ceco.

Alla fine della relazione, Bertona fornisce alcuni interessanti dettagli

statistici sui quarantacinque emigrati politici nel corso del 1952: ventun operai,

nove braccianti, cinque contadini, cinque impiegati, tre piccolo-borghesi, un

borghese, ventiquattro sposati e ventuno scapoli. Dodici di loro hanno età

comprese tra venti e venticinque anni, ventiquattro sono fra ventisei e trenta,

e sette fra trentasei e quarantasei. Dal punto di vista della loro istruzione,

due avevano frequentato la terza elementare, due la quarta, ventinove la

quinta, tre la scuola media inferiore, tre la scuola media superiore, cinqueavevano frequentato scuole professionali e uno aveva un diploma di laurea in

ingegneria.

Dei quarantacinque, quarantatré erano stati partigiani, e fra questi

trentaquattro partigiani combattenti. Tutti i quarantatré erano fuggiti a causa di

«fatti inerenti alla guerra partigiana». Gli altri due erano in esilio per avvenimenti

connessi all'attentato a Togliatti e per «lotte sindacali». Undici erano stati in

carcere per «ragioni politiche»22.

La composizione del gruppo nel 1951 era molto simile a quella del 1950.

Ancora una volta, c'erano in totale quarantacinque allievF3. Di questi però, iquattordici appartenenti alla categoria superiore erano indicati come «aspiranti».

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Gli aspiranti erano, o allievi che precedentemente non avevano nemmeno

frequentato il corso, ma possedevano i requisiti necessari, o, in cinque casi,

che avevano già frequentato il corso ed erano stati promossi al corso di

aspirante per l'anno seguente24 . Fra questi vi fu Natale Burato. In modo del

tutto indipendente dai loro studi, gli aspiranti, che erano stati per un anno allascuola, continuarono ad occupare un importante ruolo nelle attività formative.

Erano in grado di assistere gli allievi normali nel processo di adattamento che

incontravano durante le prime settimane. In questo periodo di transizionedavano una mano nelle varie «commissioni». In alcuni casi eccezionali, come

per Argante Bocchio, gli aspiranti potevano diventare insegnanti nella scuola.Il successo del «sistema aspiranti», unito alla difficoltà di trovare allievi

capaci a causa della continua diminuzione del gruppo, portò la direzione della

scuola ad un ripensamento su come affrontare il corso del 195225 . I corsi si

articolarono in blocchi di quattro mesi e alla fine del primo periodo di studio(piuttosto che alla fine dell 'anno accademico) un certo numero di allievi veniva

promosso al grado di aspirante, mentre altri meno capaci venivano rimandati

ai vari collettivi da cui provenivano. L'elenco degli studenti per il primo corso

del 1952 comprendeva trentanove allievi e tre aspiranti26 . Per il secondo corso

del 1952 erano iscritti ventitré allievi e ventisette aspiranti, la maggior parte dei

quali già allieva del corso precedente27 .

Sia allievi che aspiranti, mentre frequentavano la scuola dipartito, dovevano

sottostare a regole molto severe. Queste erano indicate in un documento

distribuito a tutti i nuovi allievF8. Il documento [vedi documento 3] era diviso

in cinque sezioni separate che trattavano i contatti con l'esterno, la funzione

del comitato direttivo, i rapporti tra allievi e la direzione, lo studio e la pulizia29 .

Il motto della scuola era: «Il Collettivo è responsabile per il successo della

scuola».

Se le regole fossero o no seguite alla lettera è una questione che riprenderemo

in seguito. Dal punto di vista dell'organizzazione quotidiana e della gestione

della scuola, tuttavia, era decisiva l'esistenza del «Comitato direttivo». Il

Comitato direttivo si divideva in sei sezioni separate, o «commissioni». Ogni

«commissione» aveva un «responsabile» scelto dagli allievi fra di loro, insieme

ad un numero limitato di altri membri, sempre scelti fra gli allievi. Nel 1951i responsabili erano: Ciro Nasi (Politica); Mario Martini (Organizzazione);

Amadio Lancellotti (Economico); Arturo Bernardi (QuadrO; Argante Bocchio

(Accademica); Andrea Calano (Stampa e propaganda). Il Comitato direttivo,

quindi, dirigeva il collettivo. Era, in effetti, sotto il diretto controllo della

direzione scolastica, ma la sua esistenza dimostrava, in un certo senso, che gli

allievi dovevano essere coinvolti nello svolgimento dell'attività.

La funzione di ogni commissione era abbastanza logica. La commissione

economica, per esempio, aveva come principale incarico quello di controllare

il bilancio alimentare. Il cibo scarseggiava e gli allievi dovevano tenere uno stiledi vita piuttosto spartano. Un documento del 1951 elenca il cibo consumato

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per un periodo di tre settimane. Non stupisce che le due voci più popolari

siano carne (356,6 chili) e patate (500 chili). Nell'elenco c'è un'allarmante

carenza di verdura e niente pesce, ma è bene ricordare che esisteva un orto

che forniva una limitata quantità di ortaggPo.

3. Programma accademico pergli allievi

Nella relazione di Silvio Bertona che abbiamo precedentemente analizzato,

vi sono alcune discussioni sul programma di studio che gli allievi seguirono

nel corso del 1950. Senza contare i corsi linguistici, Bertona prevedeva almeno

un centinaio di corsi incentrati su alcuni blocchi tematici fondamentali: la storia

d'Italia, il movimento operaio italiano e la storia del PCI (dall'inizio del XIX secolo

fino al momento attuale); la storia del movimento operaio internazionale (dalla

rivoluzione industriale al COMINFORM); la storia del Partito comunista sovietico

(XVIII congresso, Grande guerra, dopoguerra); economia politica, compresolo studio dell'imperialismo; i fondamenti del marxismo-leninismo; «geografia

economia politica italiana», «politiche e problemi organizzativi del partito e

dell'organizzazione di massa». Ogni blocco tematico doveva essere diviso in

una serie di lezioni. Per ogni lezione era prevista un'introduzione, lo studio

privato, lo studio di gruppo (<<studio di brigata») oltre alla conversazione. Ogni

lezione avrebbe avuto una durata dalle otto alle sedici ore al giorno in base al

metodo d'insegnamento usato.

Il programma delle lezioni per la scuola risulta essere abbastanza simile

a quello descritto a grandi linee da Bertona31 . L'insegnamento si svolgeva

da lunedì a sabato e l'orario poteva essere molto lungo. La settimana dall'8

al 13 Maggio 1950 non deve sembrare atipica32 • Ogni mattina dalle 8 alle 9

si faceva un'ora di lettura collettiva dei giornali33 . Lunedì questa era seguita

da due ore di studio individuale di economia politica. Dalle Il alle 12,30 gli

allievi ascoltavano una lezione introduttiva alla storia del partito bolscevico il

cui tema centrale era il concetto di partito nel marxismo-leninismo. Seguiva

il pranzo. Dalle 3 alle 4 c'erano lezioni di lingua ceca seguite da un'ora di

studio privato di economia politica e quindi un'ulteriore ora e mezza di studio

di gruppo sullo stesso argomento. C'era poi una pausa, presumibilmente per

cena, a ancora un'ora di italiano dalle 8 alle 9. Da martedì a sabato si seguivauno schema molto simile. Ma buona parte del martedì sembra dedicata alle

riunioni (la riunione del collettivo durava dalle 3,00 alle 6,30) e il venerdì sera

ad una conferenza su un argomento da stabilire.

Nonostante alcuni cambiamenti nei corsi del 1952, le materie trattate erano

essenzialmente le stesse. In una dettagliata relazione completa di dati statistici,

per il secondo corso del 1952, erano previste misure circa il numero di lezioni

e il numero complessivo di ore da dedicare a ciascuna lezione: «Manifesto

dei comunisti» (30 ore), storia del Partito comunista sovietico (118.5 ore),

economia politica (115 ore), storia del PCI (6 lezioni per oltre 64 ore, circa lOore al giorno), «Movimento Operaio Internazionale» (51.5 ore), «Politica attuale»

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(98 ore - compreso "Strategia e tattica PCI nel periodo attuale. Lotta per la pace

a la democrazia» di GombO, KSC (19 ore), Marxismo-Leninismo (76 ore), 19 ore

per la lingua ceca34.

Un aspetto particolare del programma era l'attenzione riservata alla storia

della Cecoslovacchia a del KSC 35 • Questo aspetto è enfatizzato da Giulio Foschinel suo rapporto della fine del 195036 . Foschi rileva che il programma era

molto vasto considerando il livello di istruzione degli allievi. Così, benché

gli allievi che studiavano a Dobhchovice mostrassero una conoscenza meno

dettagliata rispetto a quelli che studiavano in Italia, essi avevano una maggior

comprensione generale dei due paesi.

In aggiunta al programma descritto c'era una serie di lezioni supplementari

d'italiano e matematica e tredici "giornate politiche», da svolgersi il giovedì.

Abbiamo meno dettagli sul programma accademico degli aspiranti. Il

corso da luglio a novembre del 1952 era così strutturato: Marxismo-Leninismo(114 ore), "Storia d'Italia a Movimento Operaio Italiano» (130 ore), "Problemi

internazionali» (62.5 ore) [per esempio Gombi: "Il significato a importanza del

movimento partigiani per la pace», "Economia politica» (48.5), "Politica attuale

(205)>> gli argomenti comprendevano i rapporti peI/psI, la conquista dei "ceti

medi", il problema del neofascismo, come organizzare una riunione di partito,

tattica a strategia, gli scritti di Stalin sull'economia.

Considerando il programma piuttosto denso descritto sopra, è sorprendente

come gli allievi trovassero il tempo e la voglia di fare molto altro. Tuttavia fu

trovato il tempo per lo sport e per un'ampia serie di attività culturali. Il calcio

fu, e non stupisce, l'attività sportiva più richiesta. Una volta gli allievi e gli

insegnanti si sfidarono l'un l'altro in una partita di pallavolo con esiti, sembra,

piuttosto disastrosi [vedi documento 6].

La gamma delle attività culturali era notevole. Nel 1950, per esempio,

Giulio Foschi annotava: letture serali su temi politici, scientifici e culturali.

Le letture serali erano tenute dagli allievi stessi per colmare lacune nella loro

conoscenza riguardo importanti paesi, come India, Cina, Germania, Corea;

letture su singole regioni italiane quali Sardegna, Emilia, Lazio e Toscana;

cinquantasei spettacoli cinematografici, per lo più film di guerra sovietici; un

"Giornale murale» ogni quindici giorni; gli allievi pubblicavano quattro bollettiniper occuparsi di numerose questioni e per far pratica nel realizzare insieme

simili pubblicazioni; tre spettacoli teatrali scritti e rappresentati dagli allievi;

visite ai musei di Praga, Brno (dove un tempo era stato imprigionato Silvio

Pellico), Karlstein; una gara di lettura di poesia, con assegnazione di premi

per la miglior declamazione del Partito di Mayakovsky; e, per finire, verso

la fine del corso, con l'aiuto di Francesco Moranino, vi furono vari scambi

su esperienze partigiane. Gombi e Bertona discutevano delle differenze tra

la guerra partigiana in città e in campagna. Moranino aggiunse un'analisi su

specifici problemi strategici nelle aree di Biella e Modena, spiegando le sueparole con un modello topografico di sabbia37 • La maggior parte di queste

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attività furono ripetute negli anni successivi. Nel 1951 vi furono due mostre di

pittura con quadri prestati dalla galleria Tretyakov.

In aggiunta al lavoro accademico, alle attività culturali e allo sport che fino

qui abbiamo visto, si richiedeva agli alunni di partecipare anche ad attività

di tipo manuale. Non sorprende çhe queste fossero organizzate dal collettivodi base e conosciute come «brigate di lavoro». Occasionalmente i «brigatisti»

lavoravano nell'orto della scuola dove si coltivavano le verdure. Ma di solito

le attività si svolgevano fuori dalle mura scolastiche. Nel 1950, per esempio,

ogni domenica circa trenta «brigatisti» erano impegnati nella costruzione di

una fabbrica di cemento a Beroun. La giornata iniziava alle 5:30 del mattino

e terminava soltanto verso sera. In una relazione del 1951 sull'attività delle

brigate si suggeriva di spostare il giorno lavorativo dalla domenica al sabato

cosicché gli alunni potessero avere per lo meno una giornata intera di ripos038.

Lo scopo di queste «brigate.. non era semplicemente di aiutare i cechi nellaricostruzione del loro paese ma anche di favorire buone relazioni tra lavoratori

cechi e italiani.

Nel 1950 la polizia uccise a Modena sei lavoratori nel corso di una

manifestazione sindacale e i cechi fecero, così pare, una colletta per aiutare

le famiglie in lutto. Gli italiani della scuola ringraziarono con una lettera i

cechi per il loro aiuto e promisero di impegnarsi ancora di più nello studio

della storia d'Italia, del Manifesto dei comunisti, della lingua italiana, e di

quella ceca, e in più di superare gli obiettivi prefissati nel giorno di lavoro alla

fabbrica di cement039 .

Tuttavia mantenere la «vigilanza rivoluzionaria» era importante, e ciò

significava che non era opportuno che italiani e cechi avessero troppe occasioni

di contatto, cosa che avrebbe potuto procurare dei problemi. Le misure di

sicurezza erano arrivate al punto di tentare di impedire che gli italiani, di

ritorno in camion alla scuola, cantassero poiché questo avrebbe potuto svelare

la loro identità.

Oltre alla «brigata di lavoro» della domenica, per tre settimane durante il

mese di giugno, gli allievi partecipavano al collettivo agricolo di Oleksovice e

si univano ai loro compagni emigranti per aiutarli nella raccolta in campagna.

Nel 1951, quegli allievi che partecipavano alla raccolta, distribuirono un

volantino fra i loro compagni cechi e italiani. Il volantino prometteva che i«brigatisti» avrebbero lavorato sodo per la realizzazione del piano quinquennale

di Gottwald. Nel volantino erano frequenti i riferimenti a Stalin, descritto comeil «primo partigiano della pace». La partecipazione ai lavori di raccolta non

era totalitaria, studenti rimanevano in sede mentre ad altri furono richieste

di svolgere unicamente mansioni leggere. Per l'anno 1950 i «brigatisti» di

Dobnchovice complessivamente diedero un contributo di circa diecimila ore

di lavor042.

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4. Metodi di insegnamentoAbbiamo precisato quali erano le materie di studio degli allievi e degli

aspiranti. Di seguito analizzeremo come studiassero gli allievi. Venivano usati

diversi metodi di insegnamento, ma sostanzialmente erano quattro i sistemi

differenti di studio: testo introduttivo, studio privato, studio di gruppo econversazione. Un aspetto centrale della filosofia dell'insegnamento era quello

che in Gran Bretagna si definisce come student-centred learning, ma che nel

1950 era chiamato «iniziativa mentale»43. Gli allievi venivano incoraggiati a

cercare di sviluppare le loro capacità di studiare da soli, così portandoli ad uno

stato di autonomia didattica. Dovevano anche migliorare la loro conoscenza

generale e continuare a lavorare alla loro comunicazione orale e scritta, così

da imitare i grandi autodidatti del passato.

Per ogni lezione, quindi, veniva tenuta un'introduzione dall'insegnante

prescelto. Durante l'introduzione gli studenti erano scoraggiati dal prendereappunti, ma dovevano ascoltare attentamente per poter capire al volo la natura

dei problemi e le questioni a loro rivolte. Seguiva quindi un'ora di studio

privato, durante la quale gli allievi erano incoraggiati a prendere appunti.

Le ore di studio privato seguivano un piano prestabilito: gli alunni ricevevano

un «questionario» per ogni lezione con una serie di domande alle quali si

chiedeva di rispondere. Il «questionario» per il corso in storia ceca consegnato

agli aspiranti nel 1952 poneva domande di questo tipo: «Come avevano

combattuto i popoli cechi a slovacchi durante la Prima Guerra Mondiale per

guadagnare la loro indipendenza?»;»In

che modo la borghesia ceca ottenneil controllo della lotta per la liberazione nazionale?»; «Quale situazione

internazionale aveva portato alla nascita della Repubblica Cecoslovacca?».

Il problema della qualità degli appunti presi preoccupava costantemente

insegnanti a commissione accademica. Nelle relazioni per i tre anni accademici

sono frequenti le osservazioni sulle difficoltà che gli allievi avevano nel prendere

buoni appunti. Si impantanavano nei dettagli e sfuggiva loro la comprensione

dei punti salienti. In alternativa, c'era fra gli allievi una tendenza a trascrivere

meccanicamente le lunghe domande senza realmente capirne il significato. Gli

alunni non sempre si dedicavano sufficientemente allo studio, e con cadenza

troppo frequente lasciavano la sala di studio per "consultare" i dizionari.

Il gruppo di studio richiedeva agli allievi di partecipare alla discussione

dell'argomento. In questi casi, per ogni gruppo c'era un capogruppo che

assumeva la direzione ed era noto come «capobrigata». I problemi incontrati

sono fin troppo noti. Numerosi studenti non contribuivano abbastanza a

queste discussioni, mentre altri prendevano il controllo e monopolizzavano

la situazione. Come per i problemi del prendere appunti, la direzione della

scuola affrontò concretamente queste difficoltà, incoraggiando gli allievi che

presiedevano i gruppi di discussione a persuadere gli allievi eccessivamente

loquaci a trattenersi ed i reticenti a parlare. Questi ultimi furono sollecitati ariassumere ciò che altri compagni avevano appena detto, nella speranza che,

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infine, sarebbero riusciti ad intervenire spontaneamente.

Abbiamo meno informazioni sulle «conversazioni», ma queste sembravano

destinate a un dibattito limitato. C'erano di nuovo problemi per far intervenire

gli studenti e dopo un anno i dirigenti li indirizzarono verso un nuovo sistema

chiamato gli «attivisti del dibattito». Gl'insegnanti si resero inoltre disponibili a"ricevere" gli allievi individualmente se un determinato problema non fosse

stato abbastanza chiarito.

Su ogni tematica del corso si imponeva un esame finale mentre veniva

proposto il ripasso delle lezioni. Non è chiaro se questi esami fossero orali o

scritti. Sembra che ci fosse solo un numero limitato di temi scritti. Alla fine del

1950 a del 1951 agli allievi dei corsi fu richiesto di scrivere un saggio sul tema:

Che cosa mi ha dato la scuola? Nondimeno, il limite relativo ai temi scritti

sembra essere stato compensato dal fatto che gli allievi erano stati sollecitati a

scrivere per il «giornale murale» e per il «bollettino».Il giornale murale era gestito dalla «commissione stampa e propaganda".

Aveva una molteplicità di funzioni, soprattutto quella di essere parte vitale

nella vita del collettivo. In un certo senso rappresentava una bacheca, che

forniva agli allievi l'informazione quotidiana sulle attività. Ma ancora più

importante, procurava agli allievi una tribuna in cui "pubblicare" i propri articoli.

Sfortunatamente negli archivi non sono stati conservati questi "giornali", così

possiamo averne una idea solo attraverso le relazioni annuali dei dirigenti.

Nel 1950, per esempio, erano state realizzate oltre venti edizioni del giornale

stesso incentrate sia su tematiche internazionali (Corea, crisi economica deipaesi capitalistici) che italiane (l'economia in particolare). L'ultima edizione

era stata particolarmente apprezzata dai nuovi studenti, appena arrivati, per le

notizie utili alloro inserimento. Anche per questa attività uno dei problemi era

rappresentato dal mancato coinvolgimento di tutti gli studenti presenti.

Il bollettino della scuola si intitolava "La nostra bandiera", la collezione in

archivio è lacunosa (sono conservati alcuni degli anni 1950-51) ma pare chiaro

che non fu possibile mantenerne la scadenza bimensile45. Il primo numero del

1951 è della prima quindicina del marzo 1951 e fornisce un'ottima idea sulla

natura della pubblicazione. L'editoriale annuncia una nuova «veste tipografica"

e un nuovo titolo: La nostra bandiera: Ilio Barontini-Dario. Barontini veniva

indicato come il modello per tutti gli allievi, un esempio che li avrebbe stimolati

a migliorare il proprio impegno.

Gli obiettivi principali della pubblicazione erano così sintetizzati:

1 - Deve essere un efficace supplemento del »giornale murale». Quindi conterrà articoli

che il »giornale murale» non può ospitare, oltre agli articoli che i compagni scrivono apposto

per questo.

2 -Il

giornale e la versione murale hanno la funzione specifica di aiutare i compagniad esprimere le loro opinioni scrivendo su diversi argomenti: la vita nel collettivo, la

situazione politica nazionale e internazionale, iniziative da prendere, e così via.

21

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3 - Inoltre l'occasione offre ai compagni, per il periodo alla «scuola di partito",l'opportunità di imparare, ma soprattutto imparare a scrivere con «metodo", «con le dovuteformulazioni» .

Il giornale avrebbe dovuto affrontare una notevole ampiezza di argomenti,era necessaria quindi la collaborazione più ampia all'insegna della «buonavolontà e dell'intento di riuscire". Nella presentazione la redazione esprimevaun «saluto al nuovo comitato direttivo" che si era appena insediato, ora che il

«comitato direttivo provvisorio" aveva terminato il proprio lavoro.Uno dei primi articoli (Per una organizzazione migliore) sottolineava come

la vita del collettivo fosse un'esperienza nuova che richiedeva uno sforzo diadattamento, sforzo che poteva portare risultati solo grazie l'organizzazione,metodo fondamentale da applicarsi in ogni momento, nella zona di studio,in camera da letto, nella sala da pranzo, all'interno e all'esterno della scuola.L'attenzione al dettaglio era considerata decisiva: «Ogni piccola cosa, trascurataapre sempre la strada alle infrazioni, che potrebbero influire molto sul buon

funzionamento del Collettivo". Anche la puntualità era vista come disciplinafondamentale e gli allievi erano invitati a non rimandare i loro impegni. Questicambiamenti nei modelli comportamentali non solo avrebbero permesso alcollettivo di funzionare al meglio, ma erano parte integrante nella creazionedel «nuovo uomo" comunista: «Ricordiamoci queste regole che significanoanche trasformare le nostre abitudini ricevute da una società in putrefazione eimpadronirci del nuovo modo di vivere comunista, condizione indispensabileper diventare dei futuri quadri temprati alla maniera bolscevica".

Molte delle tematiche discusse nella scuole erano il soggetto dell'articoloDisciplina a metodo di studio. «Un mese è ormai trascorso e molti progressi sono

stati fatti. Ma ci sono ancora parecchie possibilità di miglioramento, soprattuttoper quanto riguarda l'organizzazione. È necessaria maggior disciplina durante

lo studio privato, il baccano disturba gli altri studenti".In realtà anche l'attività dei gruppi di studio andava migliorata: troppe

interruzioni nei dibattiti (soprattutto per colpa di due allievi - Lucia e Scarlatti),mentre i «capi brigata" esitavano ad intervenire, nonostante le sollecitazioni ad

un maggior rigore nel sanzionare i comportamenti scorretti.Come abbiamo visto da La nostra bandiera gli allievi erano sottoposti a

regolari critiche. Nella pratica ogni tecnica di insegnamento prevedeva lapratica comunista della «critica" e «autocritica" [vedi documento 7]. Questapratica era destinata a guidare ogni aspetto delle attività di allievi e insegnanti,anche nella vita di tutti i giorni. La scuola riusciva a promuovere la «critica" el' «autocritica" in una molteplicità di nuove direzioni.

Il «giornale murale" fu utilizzato come una "palestra" in cui gli allievi potevano

indicare chi tra i loro compagni avesse un comportamento «insufficiente".

Questa pratica della denuncia dei compagni portò a qualche scontro fra gliallievi, come quando le poesie satiriche di Cesare Zerbini indirizzate a Ennio

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Castiglione degenerarono dalla critica in insulti. Zerbini fu ammonito e il

caso discusso in una riunione nel corso della quale fu messa in evidenza la

differenza fra critica costruttiva a distruttiva. I contendenti si riappacificarono

e, alla fine del corso, furono destinati a collaborare a «Oggi in Italia» nella sede

di Praga.In un'altra occasione, gli allievi parteciparono ad un esercizio di «autocritica»

inventato da compagni cinesi. Gli allievi scrissero un saggio sul ruolo dell'Unione

Sovietica e poi, a turno, ne fecero un'autocritica in pubblico. La discussione

che ne seguì non fu sul saggio, ma sulla capacità di ciascun allievo di fare

autocritica. Nelle relazioni si sottolinea come la capacità di autocritica fosse

migliore fra gli allievi con minor istruzione tradizionale ma maggiore sensibilità/

coscienza di classe, rispetto ai compagni più colti, ma, evidentemente, meno

disposti a riconoscere i propri errori. L'esercizio fu, a quanto pare, accolto con

entusiasmo e ammirazione nei confronti delle tecniche pedagogiche usate daicompagni cinesi.

ProblemiInevitabilmente, la scuola di Dobrichovice, durante i suoi tre anni di attività,

andò incontro a numerosi problemi di varia natura, oscillanti tra le difficoltà

con la scarsa produttività del personale di servizio ceco, alle difficoltà dei

trasporti, ai problemi personali dei singoli allievi dovuti all'isolamento e alla

separazione dalla famiglia.

Questi problemi in alcuni casi portarono a misure disciplinari finoall'espulsione. Nel 1951 un allievo si tolse la vita.

Il funzionamento quotidiano della scuola poneva piccoli e grandi problemi

capaci di influenzare fortemente la normale conduzione dell'istituzione.

All'inizio si trattò di conflitti fra il personale italiano e ceco delle cucine. La

causa fu dovuta alla scorrettezza di una coppia (fratello e sorella) cecoslovacca

in vario modo oziosa e corrotta.

La sorella non voleva sottostare agli orari, sostenendo che i cuochi italiani

dovevano fare più turni. Si rifiutava di lavorare di domenica. Suo fratello che

era il responsabile dei viveri, emise delle ricevute false per derrate che non

erano mai state usate all'interno della scuola, ma erano passate agli agenti

della polizia ceca. Alto stesso modo, diversi beni alimentari semplicemente

sparivano dalla dispensa. Questa situazione portò ad un'inchiesta della

commissione economica che consigliò il licenziamento della sorella, conosciutacome Fanny46.

Alla fine del 1950 i problemi erano ancora molti. L'edificio fu affidato a dei

sorveglianti cechi che, così sembra, erano tutt'altro che scrupolosi, asportando

a loro uso attrezzature della scuola (letti in partciolare). Foschi di passaggio alla

scuola per ritirare alcuni libri scoprì questo spiacevole stato di cose che egli

poi descrisse in una lettera a Rohlenova, il funzionario ceco che manteneva irapporti tra gli emigrati politici a il KSC. Foschi sollecitò allora regolari ispezioni

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all'edificio così che non si potessero accusare gli italiani stessi per i danni

provocati47.

Con il 1951 queste difficoltà erano state largamente appianate. Ma sorsero

altri problemi. L'autista della scuola, Arrigo Pioppi, in una lunga relazione

descrisse con minuzia lo stato in cui versavano le auto a disposizione (Skodae Mercedes). Richiese interventi di manutenzione a sterzo e freni per una di

esse, ma l'intervento richiese ben sei mesi, impedendo l'uso della vettura in

occasione della visita di importanti membri del PCI alla scuola medesima48 .

Ma anche per gli allievi la vita non era facile. Nell'aprile 1950 la direzione

della scuola mandò una relazione sullo stato delle cose al PCI e al KSC.

Sfortunatamente, non c'è traccia di questa relazione negli archivi. E' stata

reperita, pero, una lettera di accompagnamento di Domenico Ciufoli dedicata

ai problemi sollevati nel rapporto in cui tentava di «ammorbidire il colpo,,49. La

prima parte della lettera è un abile esercizio di diplomazia e descrive i pregidell'edificio e le visite regolari che hanno fatto i funzionari del KSC. I controlli

medici erano eseguiti regolarmente, era stato aumentato e migliorato il cibo, e

le lezioni in lingua ceca erano iniziate. La seconda metà della lettera affronta

i problemi e le preoccupazioni sollevate nella relazione, e tratta ben sette

argomenti correlati. La qualità di apprendimento degli allievi sembrava essere

stata scarsa, ma Ciufoli spiega che alcuni degli allievi potenzialmente più capaci

erano stati mandati a fare importanti lavori altrove (programma radiofonico,

circoli di Democrazia popolare, e il giornale «Democrazia popolare,,). Ciufoli

continua col dire che la conoscenza della situazione politica italiana da partedegli allievi era buona, ma vi erano carenze quando si trattava di capire in

che modo i partiti dei due Paesi stanno combattendo per creare una «società

nuova". Erano stati fatti tentativi per rimediare ma il livello di ignoranza si

poteva spiegare con il «basso livello ideologico" degli allievi, oltre che alla loro

limitata esperienza del partito in Italia, e alle difficoltà che avevano incontrato

per inserirsi nella «vita politica cecoslovacca". Viene descritto come fattore

aggiuntivo il fatto che la vita di un immigrante fosse una vita con una «infinità

di piccole beghe". Come rimedio si proponeva lo svolgimento di escursioni

e la regolare lettura del giornale del KSC, "Rude Prave". Ciufoli si sposta poi

sul problema della «morale» e della «coscienza del collettivo» che era da

attribuire principalmente alla lontananza di ogni allievo dalla propria famiglia.

Ma la «nostalgia di casa" diminuiva quanto più ogni allievo «si irrobustisce

ideologicamente". Ciufoli conclude affermando che:

Complessivamente il Collettivo N. 1 è un collettivo sano. Composto di ex paJ;tigiani in

maggioranza operai o comunque proletari. Il forte spirito partigiano che essi hanno ancora

non è elemento negativo. Per molti. di loro la lotta partigiana racchiude tutta o quasi tutta

l'esperienza concreta e viva del loro lavoro a della loro lotta di rivoluzionari. La vita del

collettivo irrobustirà la loro coscienza di classe e di Partito e li abituerà a vedere ed aesaminare i problemi politici ed il lavoro di Partito in un modo critico a autocritico.

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Ancora una volta si sottolineava come la scuola fosse costituita da partigiani

rimasti ancora partigiani. Per Ciufoli, ma non necessariamente per le figure più

autorevoli sia del pcr che del KSC, questo non era da considerarsi negativamente

nella misura in cui la scuola, tuttavia, avrebbe eliminato tale mentalità per

sostituirla con qualcosa di più produttivo e adatto alle esigenze del tempo.I problemi che Ciufoli discuteva non erano scomparsi. La questione

della separazione dalla famiglia in Italia non venne mai superata. Mentre gli

insegnanti furono raggiunti da mogli e figli, gli allievi non godettero mai di

questo privilegio. Le visite di vari capi del partito dall'Italia, quali D'Onofrio,

Secchia, Amadesi, Leone; Roasio e Fedeli, citate alla fine del 1950 nella relazione

annuale del Foschi come fonte di incoraggiamento per gli allievi, furono solo

di modesto aiuto. A peggiorare la situazione, nel 1951 le lettere spedite a casa

dagli allievi furono limitate a una al mese. Fu una decisione presa dal KSC e

indusse Moranino a scrivere a Rohlenova per chiedere un parere su questoregolamento. Per rafforzare la sua tesi Moranino citava brani estratti dalle

lettere (che venivano aperte dalla direzione della scuola} «Riguardo al fatto

che in avvenire mi scriverai solo una volta 25 o 30 giorni ti dico questo: fallo

pure, ma io non ti scriverò più ... ma dimmi un po', in Cecoslovacchia lo devi

fare te tutto il lavoro ... tu stesso non mi racconti la verità»50.

In modo analogo, la separazione degli italiani dalla realtà ceca rimase una

fonte costante di preoccupazione. All'«accentuato isolamento dall'ambiente

cecoslovacco, dalla vita e dalla lotta della classe operaia del pCC», come definito

da Foschi, si pose in parte rimedio permettendo agli allievi di uscire il sabatosera, ma vi fu la tendenza degli· allievi a frequentare alcuni elementi della

società ceca non fra i più indicati.

Come per le lettere a casa, questo indusse ben presto il KSC a limitare a

una volta al mese la «libera uscita» degli allievi. Di nuovo Moranino chiese un

parere su questo regolamento, sostenendo che aveva un effetto dannoso sugli

allievi più giovani. Ma anche quando gli italiani potevano uscire e incontrarsi

con i cechi non avevano la necessaria conoscenza della lingua. Malgrado i

numerosi riferimenti ai corsi di lingua ceca, sembra che questi non avessero

dato un buon risultato.

Nella relazione del 1950 FOschi introduce un altro problema ancora esistente:

l'antagonismo regionale. Nel 1950 la maggior parte degli allievi era dell'Emilia

Romagna (diciotto), quattro i toscani, quattro dal Veneto, due dall'Umbria,

cinque dalla Lombardia, due dal Piemonte e uno di lingua tedesca (Trento).

I conflitti erano tra toscani ed emiliani, con i primi, così si sosteneva, in gran

parte responsabili dei problemi per la loro «spiccata tendenza anarcoide e

anche spirito di gruppo tra di loro». In questo contesto si inserisce una dura

critica rivolta a Raul Ballocci, espulso dal corso dopo essere stato uno degli

allievi più promettenti.

Ma anche l'alto numero di emiliani era un problema. Nel 1952 Foschiannotava che «verso la fine del corso la Direzione ha dovuto organizzare

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una vera campagna contro l'uso abituale del dialetto emiliano nella vita

quotidiana degli allievi". L'abuso del dialetto impediva il miglioramento della

comunicazione orale e scritta e, allo scopo di combatterlo, Foschi organizzò

una lezione sulle opere di Stalin sulla linguistica, durante la quale citò anche

le riflessioni di Gramsci sull'argomento, un intervento che, come emerge dallesue relazioni, diede buoni risultati.

ConclusioneIn una lettera a Bedrich Geminder, datata 31 gennaio 1951, Domenico Ciufoli

scriveva che lo scopo della scuola era quello di procurare «à nos camerades

[sic] partisans la préparation idéologique qu'ils n'ont pas eu le temps d'avoir à

la montagne" [ai nostri compagni partigiani la preparazione ideologica che non

hanno avuto o il tempo di avere in montagna]51. Quanto la scuola fosse in grado

di realizzare il suo scopo dichiarato, è aperta la discussione. Effettivamente,vi furono alcune storie di successo. Argante Bocchio progredì da allievo ad

«aspirante" e giunse a fare l'insegnante nel 1952. Successivamente lasciò la

Cecoslovacchia per l'Unione Sovietica dove studiò all'Istituto Lenin. Mario

Olivieri restò in Cecoslovacchia per diversi anni e successivamente completò

il suo corso di laurea. Non sappiamo se, in seguito, altri allievi della scuola

abbiano lavorato tra i lavoratori emigrati in Cecoslovacchia, come prevedeva

il programma. Mentre su questo argomento restiamo all'oscuro, c'è in ogni

caso una conclusione chiave a cui possiamo giungere riguardo alla scuola

e ai motivi del PCI per fondarla: all'inizio degli anni cinquanta il tempo dellarivoluzione armata e violenta era stato superato e il tema dell'istruzione era

all'ordine del giorno. Nel disegno di Togliatti per la V'ia Italiana al Socialismo

la penna poteva molto più della spada.

l L'articolo viene anche pubblicato in lingua inglese in "Italian Studies" val. 61, 2006/1,pp. 64-84. ( ... ) La ricerca è stata finanziata dalla British Academy e dall'University ofStrathclyde (Glasgow), alle quali sono molto grato. Mi fa anche piacere ringraziarei miei assistenti Giovanni Focardi (Italia) e Vitek Prosek (Repubblica ceca) e ilgentilissimo personale dell'Archivio Centrale Statale di Praga. Infine sono grato ad

Argante Bacchio, Mario Olivieri e a Giovanni Padoan per avermi fornito di dettagliatiresoconti delle loro attività alla scuola.2 La letteratura sulle scuole di partito non è molto ampia: per una buona recentevisione d'insieme delle scuole italiane nel dopoguerra vedi F. CELLAI, Le scuole dipartito del PC! tra il 1945 e il 1956, "Quaderno di storia contemporanea", 25-26/1999,1-17; sulla "formazione" dei comunisti italiani in questo periodo è assai utile lo studiodi G.c. MARINO, Autoritratto del PC! staliniano 1946-1953, Editori Riuniti, Roma 1991.3 Il fenomeno dell'emigrazione politica in Cecoslovacchia è stato poco studiato, sia perl'apparente mancanza di fonti archivistiche, sia per la (anche comprensibile) riluttanzadella maggior parte dei pochi emigrati tuttora vivi di uscire dalla clandestinità. Cosìtroppo spesso il vuoto è stato colmato da libri e articoli di discutibile attendibilità come

G. STELLA,

Rifugiati a Praga: Ipartigiani italianiin

Cecoslovacchia,So.

Ed.E.,

Faenza1993, e, più recentemente, di Rocco Turi (vedi sotto). Un decisivo salto di qualità è ilromanzo di G. FroRI, Uomini ex Einaudi, Torino, 1993, ma è importante sottolineare

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che si tratta, appunto, di un romanzo. Si possono anche trovare brevi commenti sulfenomeno in G. GOZZINI, R. MARTINELLI, Storia del Partito comunista italiano. Vol. VII.

Dall'attentato a Togliatti all'VIII Congresso, Einaudi, Torino 1998, pp.152-154.4R. TURI, Gladio Rossa, Marsilio, Venezia, 2004. Ringrazio Massimo Storchi dell'lsToREcoper l'indicazione bibliografica e per il suo gentile aiuto nel corso delle mie ricerche.5 TURI, Gladio Rossa, p. 125.6 Ibidem.7 Ibidem.8 I materiali si trovano in due fondi diversi: Fond 100/3 (KSe mezinarodnf oddeleni1945-62) e 19/7. Riferimenti dettagliati nell'articolo saranno dati seguente il formato:100/3 (fondo), 56 (busta), 264 (fascicolo), f.12 (numero di pagina). Nei documenti sitrovano quasi senza eccezione i nomi falsi degli emigrati politici. In quest'articolo inomi falsi vengono indicati in corsivo. In alcuni casi è stato possibile scoprire i nomiveri degli emigrati politici, e in questi casi i nomi compaiono in caratteri normali.9 C'erano anche corsi organizzati per lavoratori emigrati, sparsi su un ampio raggio dilocalità. Per i dettagli relativi al 1949 vedi 100/3 56, 264, f.12 a per il 1950 19/7, 196:

1, ff.37-42.10 100/3, 56, 265, ff.33-39.11 Sulla carriera di Ballocci da partigiano vedi G. CONTINI, La memoria divisa, Rizzoli,Milano, 1997.12 100/3, 56, 265, f.41.13 100/3, 56, 265, f.52.14 In realtà Guitti non ritornò in Italia nel dicembre 1950 come indicato dai servizisegreti, ma nel 1965. Aveva sposato una donna ceca dalla quale aveva avuto quattrofigli. Guitti, di Brescia, fu attaccato da una banda di neofascisti nel Novembre 1968 esubì un mortale attacco di cuore.15 100/3, 56, 265, f.56.16 100/3, 56, 264, f.17.

17 19/7, 196:1, ff.27-28 (lettera da Ciufoli alla segreteria del PCI di 21/041950).18 100/3, 56, 265, f.57 (lettera di Dotti alla segreteria del KSC datata 9/021950).19 19/7, 198, ff.9-11 (relaZione datata 25/01/1950).20 Ulteriori informazione su Bertona a Gombi si possono trovare in 19/7, 196:2, f.99(Lettera del 28/7/1950). Bertona aveva studiato a Mosca e Gombi insegnò alla scuolaregionale di Bologna. La lettera chiede anche che alle mogli degli insegnanti sia permessoraggiungerli - richiesta che fu accolta. In alcuni casi le mogli lavoravano nella scuola(la moglie di Gombi era segretaria). Altri documenti rivelano che i figli degli insegnantistavano in un locale della scuola: 19/7, 196:2, f:98 (Lettera del 6/12/1951) che chiedese le figlie di Bertona, Giovanni Padoan a Arrigo Pioppi possano frequentare la scuola.Gli insegnanti erano tutti pagati dal KSC -19/7. 196:1, f.32 -lettera di Favaro a Novotnadel KSC (datata 6/11/51) che richiede che la posizione salariale di Enzo Bruni siaregolarizzata. La stessa richiesta viene fatta per Bertona e Padoan.21 Foschi passò la maggior parte della sua vita a Mosca ed aveva una moglie russa. Perun breve ed affascinante ritratto di Foschi vedi S. SOGLIA, 1956: Clandestino a Mosca,Teti, Milano 1987, pp.13-18.22 Come è evidente i dati forniti da Bertona non quadrano, ma nella versione ceca deldocumento la matematica è stata corretta (100/3, 56, 264, ff.21-22).23 100/3, 56, ff.86-89 (elenco in lingua ceca dei partecipanti alla scuola nel 1951).24 Gli allievi che frequentarono il corso nel 1950 ma non furono promossi o tornaronoai collettivi in cui erano stati prima del corso, o furono mandati a nuove destinazioni.Vedi 19/7, 195, ff.40-41 (lettera in lingua francese di Dotti a Rohlenova del 26/10/1950).La lettera descrive la destinazione di trentatré allievi nei posti seguenti - Oleksovice,

Chqmutov, Ostrava, Kladno, Teplice, Radio Praga (Castiglione, Zerbini, Bortolotti,Orsini, Bruni) e alla "Commission de Travail" (Socrate Minelli).25 19/7, 195, ff.19-21 rapporto datato 29/09/51. Il rapporto è in francese.

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26 19/7,196:2, f .98.27 19/7, 194:3, 153-159.28 19/7, 197.1, ff.106-107.29 Sulla pulizia vedere 100/3, 56, 266, ff.10-11 in data 18/11/1951 (Rapporto firmato da

Marco Biagi). Il documento descrive dettagliatamente il regime di scrupolosa puliziache si doveva seguire. Particolare enfasi e data ai lavandini del dormitorio: "Pensateche tutti, o quasi, si soffiano il naso e sputano nei lavandini lasciando moccoli econtorni attaccati al lavandino stesso e non curandosi di pulirlo nemmeno un poco

alla meglio. È un dovere, credo, di ogni buon comunista di tenersi pulito almeno leproprie porcherie».30 19/7, 197.2, f.176.31 100/3, 56, 265, ff.13-17 «programma per la scuola») il documento fornisce uno

spaccato dettagliato delle singole lezioni.32 19/7, 195, ff.48-51 (orario del maggio 1950).33 Come prova dell'importanza di questa attività, un documento statistico del 1952000/3, 56, 267, fOO-47) dimostra che, per un periodo di quattro mesi, gli allievi gli

dedicavano 106 ore e gli aspiranti 112.34 100/3, 56,267, ff.30-47 (dati statistici per luglio-novembre 1952).35 19/7, 195, f.46 descrive ventiquattro lezioni dedicate alla storia della Cecoslovacchia.La maggior parte delle lezioni sono sul periodo dopo la prima guerra mondiale. Unanota, alla fine di questo documento, dichiara che i dirigenti del collettivo hanno toltodalla biblioteca il materiale sospetto (quello che era stato scritto dai dirigenti del KSC

recentemente screditati).36 19/7 196:1, ff. 1-15 (per il testo del documento vedi appendice).37 È istruttivo che Moranino abbia chiesto il permesso di Lampredi, un membro dellasegreteria del PCI di grado più elevato, prima di poter tenere le sue lezioni sulla guerrapartigiana per il corso del 1951 (vedere 19/7, 198, f.29). Sulle vicende giudiziarie diFrancesco Moranino si veda: R. GREMMO, Il processo Moranino. Tragedie e segreti della

Resistenza biellese, Storia Ribelle, Biella, 2005.38 19/7 196:1, ff.34-35.39 100/3, 56, 267, 3.40 100/3, 56, 226, f.101.41 100/3, 56, 264, f.59.42 19/7, 196:1, ff.1-15.43 19/7, 196:1, ff.1-15.44 100/3, 56, 264, ff. 85-86 (relazione su "Gli attivisti del dibattito» del 3/9/1951)45 100/3, 56, 267, ff.59-99 per i numeri del 1951.46 19/7, 196:1, ff.29-31.47 19/7, 196:1, f.17 (Lettera di Foschi a Rohlenova datata 15/12/1950) .48 100/3, 56, 265, f.92. Lettera datata 18/5/1951 scritta da Enrico Parisini (Arrigo

Pioppi).49 19/7, 196:1, ff.27-28.50 19/7,197.1, ff.78-79.51 100/3, 56, 265, f.90.

Documenti

I documenti che seguono (tutti inediti) sono stati scelti allo scopo di fornireun idea dello sviluppo della scuola. Si pubblicano due lettere di Pietro Secchia

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mandate al suo equivalente nella sezione esteri del KSC, Bedrich Geminder.Queste lettere risalgono al periodo in cui erano in corso i vari preparativi

per la scuola. Segue il «regolamento interno" della scuola e due resoconti chetestimoniano delle difficoltà affrontate nel primo anno accademico (1950). Per

dare un idea delle attività degli allievi seguono poi due brevi articoli presi dalgiornale della scuola (1951). Infine un resoconto finale per uno degli allievidella scuola (1952).

Doc. 1) 100/3, 56, 265, ff.41-42

Cari compagni,

Roma, lì 21 Novembre 1949

Al Comitato Centrale del Partito Comunista Cecoslovacco

Compagno GEMINDER

PRAGA

La segreteria del PCI approva le conclusioni a cui siete arrivati con il compagno D'Onofrio

circa l'istituzione di una scuola pe r i comunisti italiani in Cecoslovacchia e vi ringrazia per

questa nuova prova di fraternità verso il nostro partito.

Resta inteso che lo scopo della scuola è di inserire nella vita cecoslovacca i quadri del

PCI emigrati in Cecoslovacchia preparandoli a svolgere un lavoro politico nei centri della

immigrazione italiana. In pari tempi la scuola servirà a formare un certo numero di quadri

che rientreranno in Italia per mettersi a disposizione del PCI.Il numero degli allievi sarà di 50 di cui almeno la metà da destinarsi al lavoro nei centri

di immigrazione economica italiana in Cecoslovacchia. La scelta degli allievi sarà fatta di

comune accordo dalle Segreterie dei due Partiti restando al PCC la decisione definitiva della

accettazione degli allievi soprattutto per quanto riguarda i quadri immigrati.

Il trattamento degli allievi sarà quello ordinario di cui godono gli allievi delle scuole del

Pce.

La durata del primo corso della scuola dovrebbe essere di un anno (pensiamo che i corsi

debbano avere una durata di almeno un anno). Il programma verrà stabilito in base a quello

delle scuole centrali del PCI aggiungendo lo studio della storia del movimento operaio in

Cecoslovacchia e delPCC,

della costruzione del socialismo in Cecoslovacchia, della linguaceca per gli allievi che restano in Cecoslovacchia, della lingua italiana per tutti gli allievi.

Il PCC si impegna a dare alla scuola un insegnante di storia del movimento operaio

e del PC in Cecoslovacchia; un insegnante pe r i temi del materialismo dialettico e del

materialismo storico, un insegnante di lingua ceca; un organizzatore di Partito responsabile

della scuola e dei collegamenti con il CC del PCC; un traduttore dal ceco in italiano; il

personale per i servizi.

Il PCI si impegna a inviare il direttore della scuola ed altri due compagni capaci di

insegnare il complesso dei temi contenuti nel programma delle scuole centrali del PCI -

In base a questa decisione noi abbiamo deciso di:

1 - inviare a Praga il comp. Villa perché inizi la organizzazione della scuola e lavori in

essa come insegnante;

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2 - utilizzare il comp. Dotti che si trova già a Praga come insegnante della scuola;

3 - Inviare il direttore della scuola appena essa starà pe r cominciare;

4 - Iniziare l'invio di testi del marxismo-Ieninismo in italiano per la biblioteca dell;:!

scuola;

5 - Iniziare la scelta di una quindicina di quadri del PCI, attualmente residenti in Italia,da raccomandare come allievi della Scuola

Per quanto riguarda la scelta degli altri allievi vi preghiamo di farci pervenire al più

presto possibile l'elenco completo dei comunisti italiani residenti in Cecoslovacchia con

relativi dati biografici e caratteristiche.

In tal modo, saremo in grado di proporvi rapidamente i nominati dei 50 allievi del primo

corso.

I! primo corso potrà cominciare appena esisteranno le condizioni perché esso si svolga

regolarmente secondo i criteri qui indicati. Intanto si potrebbe organizzare un corso

preparatorio di lingua ceca per i compagni italiani immigrati in Cecoslovacchia che, dopo

aver partecipato alla scuola, resteranno nel Paese.

Impegnandoci a fare tutto il possible perché la nuova scuola funzioni regolarmente e dia

i risultati che se ne attendono vi inviamo i nostri fraterni saluti.

Doc. 2) 100/3, 56,264, f.17

Cari compagni,

p. LA SEGRETERIA DEL PCI

Pietro Secchia

Roma, li 30 gennaio 1950VIA DELLE BOTTEGHE OSCURE

Al Comitato Centrale del

Partito Comunista Cecoslovacco

PRAGA

Per il comp. Geminder

I!latore della presente è il compagno DOMENICO CIUFOLI, membro del Comitato

Centrale del Partito Comunista Italiano il quale viene inviato dalla Direzione del nostro

Partito a Praga con l'incarico di, dirigere la Scuola da voi organizzata per gli emigrati politici

italiani, d'accordo col Comitato Centrale del Partito Comunista Cecoslovacco.

I! comp. Ciufoli resterà in Cecoslovacchia per alcuni mesi e cioè sino a quando il primo

corso sia praticamente ben avviato e no n sia più indispensabile la sua presenza.

Durante tutto il periodo in cui il comp. Domenico Ciufoli resterà a Praga, noi lo

consideriamo il rappresentante del Comitato Centrale del Partito Comunista Italiano presso

il Comitato Centrale del Partito Comunista Cecoslovacco, ed è incaricato da parte nostra

non solo di dirigere, d'accordo con voi, la scuola, ma di essere anche il responsabile

dell'emigrazione politica italiana, e di tutta l'attività ad essa inerente.

Sarà cioè il comp. Ciufoli che dovrà essere direttamente a contatto con il vostro Comitato

Centrale dal quale riceverà le direttive per il lavoro da svolgere.

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Noi siamo soddisfatti dell'attività del comp. Dotti ed abbiamo stima di lui, però il periodo

in cui Ciufoli sarà in Cecoslovacchia, essendo egli membro del Comitato Centrale del nostro

Partito ed avendo ricoperto da molti anni incarichi di direzione nel Partito, è evidente che

egli dev'essere il responsabile del lavoro.

Ricevete, cari compagni, i nostri più fraterno saluti

Doc. 3) 19/7, 197:1, ff.106-107

R E G O ~ E N T O I N T E R N O

p. LA SEGRETERIA DEL PCI

Pietro Secchia

Gli allievi sono tenuti ad osservare scrupolosamente queste regole e disposizioni della

Direzione.

1. Contatti con l'esterno

Ogni contatto con amici ed altre persone che soggiornano in Cecoslovacchia deve essere

interrotto. La Direzione prenderà in considerazione i casi eccezionali che saranno portati

a sua conoscenza.

Riguardo alle relazioni con le famiglie, devono essere osservate le regole seguenti:

a - scrivere a casa una volta al mese;

b - le lettere devono essere consegnate alla direzione ancora aperte;

c - non si deve fare nessuna menzione di questo collettivo né scrivere in modo da poter

diminuire la vigilanza che deve essere osservata da tutti gli allievi;d-Le lettere spedite dai parenti devono essere indirizzate ai vecchi indirizzi.

Anche queste saranno consegnate ai destinatari in busta aperta

2. Contatti interni

a - Nessuno può uscire dalla sede del collettivo senza permesso della direzione e neppure

può rivolgersi a passanti sconosciuti dal giardino.

b - Tra compagni deve regnare uno spirito di mutua comprensione e di fratellanza. Tutti

devono osservare scrupolosamente la vigilanza.

c - I compagni sono tenuti anche ad osservare una disciplina severa quotidiana.

3. Rapporti tra allievi, le commissioni e la direzione

Gli allievi devono eseguire le disposizioni della Direzione.

Per facilitare i rapport i tra gli allievi e la direzione viene costituito per designazione della

direzione il comitato Direttivo del collettivo composto di un segretario e dei responsabili di

varie commissioni di lavoro: organizzativa, accademica, stampa e propaganda, economica

e culturale.

Gli allievi devono rivolgersi alle commissioni pe r tutte le loro richieste o al segretario

del Comitato Direttivo e in casi urgenti e importanti dal punto di vista di principio, alla

direzione .

4. Ordine e nettezza

a - Invitiamo i compagni ad osservare il massimo rispetto e la massima economia pe r i

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mobili e per i generi di consumo offerti ai compagni collettivamente e individualmente, a

non sperperare l'acqua, la luce elettrica, ecc.

Gli allievi devono in tutti i modi rendere più facile il lavoro del personale di servizio.

b - Nelle camerate, nelle sale di studio, nei corridoi, nei gabinetti ecc. deve essere

mantenuta la pulizia più scrupolosa. I compagni devono inoltre mantenere l'ordine e la

pulizia personale.

Nelle sale di studio e da pranzo, come anche nelle camerate, non si fuma. Le camerate

debbono essere adibite esclusivamente al riposo.

5. LO STUDIO

Il calendario giornaliero di studio è fissato dalla direzione.

a - Gli allievi devono osservare con diligenza le ore di studio e approfondire con

coscienza il complesso delle materie. Nel caso che un allievo non riesca a capire il materiale

di studio oppure senta il bisogno di essere aiutato, ha diritto di consultare un professore

del corpo insegnante.

b - Oltre allo studio del materiale gli allievi sono tenuti anche a perfezionare la loro

capacità di farsi comprendere oralmente e per scritto e ad elevare il loro livello di cultura

generale oltre che allargare il loro orizzonte politico.

c - La parola d'ordine della scuola è: "IL COLLETTIVO E' RESPONSABILE PER IL

SUCCESSO DELLA SCUOLA". Questa parola d'ordine impegna i singoli allievi ad aiutarsi

reciprocamente.

Per infrazioni a queste norme del regolamento interno la direzione richiamerà l'allievo

alla sua responsabilità ed applicherà le sanzioni che crederà necessarie.

La direzione ha il diritto di modificare questo regolamento.

Doc. 4) 19/7196:1, ff.27-28

Per conoscenza:

Al compagno Geminder

alla compagna Thelenova

al compagno Setlich

Cari compagni,

LA DIREZIONE DEL COLLETTIVO N.l

Praha,21

aprile 1950ALLA SEGRETERIA

DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO ROMA

Vi rimetto un rapportino che i compagni dirigenti del Collettivo N. 1 hanno scritto in

questi giorni,

Ritengo che qualche rigo di commento sia necessario per maggiore chiarezza e per poter

valutare la possibilità di sviluppo degli allievi. Prima di sottolineare qualche aspetto particolare

del contenuto del rapporto è necessario rilevare l'assiduo e fraterno interessamento che il

Partito Cecoslovacco ha avuto ed ha per l'organizzazione e per assicurare al Collettivo un

normale funzionamento.

Il partito fratello ha messo a disposizione del Collettivo N.l una bella e comoda villa

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che dista una trentina di chilometri da Praga. La casa è situata ai limiti di un grandebosco ed è attrezzata modernamente. Prima che il collettivo fosse portato sul posto lavilla era già fornita di tutto l'occorrente perché già adibita a scuola politica. Pur tuttavia il

Partito ha voluto cambiare tutto il materiale adibito alla precedente scuola sostituendolo

con materiale completamente nuovo. Tutti gli allievi sono stati forniti di pigiama, pantofoleed altra biancheria necessaria.

All'inaugurazione del Collettivo era presente, oltre alla compagna Thelenova, al compagno

Scedich, una compagna della Commissione Centrale Culturale ed il compagno Geminder inrappresentanza del c.c. del KSC.

Successivamente la compagna Thelenova si è recata tre volte al Collettivo per accertarsipersonalmente che il Collettivo avesse tutto il necessario. Lo stesso Geminder seguita ad

interessarsi assiduamente dell'andamento del Collettivo e tutte le richieste della Direzionesono sempre state concretamente prese in considerazione e soddisfatte.

Attualmente la visita medica è assicurate periodicamente, il vitto è stato aumentato emigliorato, l'insegnante della lingua ceca ha già fatto due lezioni, il barbiere va regolarmenteal Collettivo. La riunione della Direzione ha luogo due volte alla settimana. lo vi parteciporegolarmente ed in mia assenza vi partecipa il compagno Dotti. La Direzione è omogenea

e segue il lavoro accademico, politico e di Partito del Collettivo con attenzione e senso diresponsabilità.

In quanto all'aspetto concreto dei giudizi che si danno nel rapporto sul funzionamentodel collettivo e sulle capacità accademiche e politiche degli allievi, ritengo necessario farealcuni rilievi:

1. La scelta dei 45 allievi - attualmente sono 46 - è stata fatta su un totale di un centinaio dicompagni emigrati politici che si trovavano in Cecoslovacchia nel periodo di preparazionee di organizzazione del Collettivo. Il criterio di scelta, oltre che a tener conto dell'attività

partigiana, politica e di Partito svolta nel Paese, ha tenuto conto del comportamentopolitico e del lavoro materiale compiuto dai compagni nella loro permanenza ai collettivi diproduzione nel periodo da essi trascorso in Cecoslovacchia.

2. Va inoltre rilevato che per assicurare il lavoro di direzione politica dell'emigrazione eper altre branche di attività, d'accordo con il Partito Cecoslovacco, alcuni dei compagni più

qualificato non hanno potuto partecipare a questo primo collettivo di studio. Il compagno

Dotti perché vice-responsabile politico, il compagno Marinoni perché a quel tempo eraresponsabile della trasmissione italiana di Radio Praga e del lavoro sindacale, il compagno

Tognotti perché responsabile del giornale "Democrazia Popolare", il compagno Nadaluttiperché dirigente dei circoli di Democrazia Popolare. Altri compagni hanno dovuto essere

inviati, sempre d'accordo col Partito Cecoslovacco, a dirigere l'emigrazione ne centri piùimportanti.

3. Nell'insieme il Collettivo ha un orientamento politico soddisfacente sulla situazionepolitica italiana. I compagni del Collettivo discussero, per esempio, sulla situazione politicadel nostro Paese in base ad un articolo del compagno Togliatti che fu commentato da un

allievo. La discussione fu abbastanza buona e concreta, tanto che io mi limitati a tiraresoltanto delle brevi conclusioni.

4. La stessa non si può dire invece dell'orientamento degli allievi in riferimento aiproblemi di fondo concernerti la lotta che il Partito ed il popolo cecoslovacco conducono

per costruire la nuova società. È stato necessario discutere a varie riprese nel Collettivoper portare chiarezza su tali problemi. Attualmente il Collettivo ha fatto degli indiscutibiliprogressi. Questa grave lacuna che ha preoccupato e continua a preoccupare seriamentela direzione del Collettivo, si spiega in primo luogo con il basso livello ideologico dei

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compagni, la limitata vita di Partito da essi fatta nel nostro Paese, le difficoltà da essi

incontrate per inserirsi concretamente nella vita politica cecoslovacca, eccetera. Oltre al

fatto che la vita dell'emigrato, anche in un paese di democrazia popolare, è impregnata

di cento piccole cose e di una infinità di piccoli problemi. La Direzione del Collettivo ha,

dicevo, costantemente presente questa debolezza basilare e si sforza di porvi rimedio siacon lo studio della lingua cecoslovacca sia con la lettura di RudePrave, sia con rapporti ed

informazioni sulla situazione politica del Paese.

5. Sul problema del morale e sulla coscienza del Collettivo, almeno nelle sua prime

settimane di vita, è necessario tener presente la particolarità del tipo del Collettivo. In primo

luogo va rilevato che tutti gli allievi hanno la famiglia lontana. Preoccupazioni quindi anche

dal punto di vista finanziario in cui si trova la famiglia, oltre al fatto che la prospettiva della

sua utilizzazione politica, una volta terminato lo studio, resta incerta ed imprecisa. Tutti

questi elementi di disagio morale son però piano piano superati a misura che l'allievo

si irrobustisce ideologicamente, cose che gli permetteranno qui od in Italia di essere un

dirigente. Pur tuttavia anche l'elemento preoccupazione famigliare è di notevole importanza

nel determinare moralmente e negativamente la coscienza dell'allievo.

6. È ancora troppo presto per dare un giudizio concreto sulle capacità accademiche

e politiche di ogni singolo allievo. Ciò potrà essere fatto successivamente, nei prossimi

rapporti, ma fin d'ora la Direzione segue attentamente l'andamento del Collettivo nel suo

complesso e cura anche, nella misura del possibile, ogni singolo allievo prendendo anche

della misure concrete per aiutare i deboli.

7. Complessivamente il Collettivo N. l è un collettivo sano. Composto di ex-partigiani

in maggioranza operai o comunque proletari. Il forte spirito partigiano che essi hanno

ancora non è elemento negativo. Per molti di loro la lotta partigiana racchiude tutta o quasi

tutta l'esperienza concreta a viva del loro lavoro a della loro lotta di rivoluzionari. La vita

del collettivo irrobustirà la loro coscienza di classe a di Partito a li abituerà a vedere ed aesaminare i problemi politici ed il lavoro di Partito in un modo critico a autocritico. Queste

le osservazioni che ho creduto opportuno fare a guisa di complemento al rapporto della

Direzione.

Saluti fraterni

Paolo Belli

Doc. 5) 19/7, 196:1, ff.1-3

5/l2/1950

RELAZIONE SULLO SVOLGIMENTO DEL CORSO PER EMIGRATI ITALIANI IN

CECOSLOVACCHIA FEBBRAIO-NOVEMBRE 1950

L .lIl corso è stato terminato da 44 allievi in seguito all'espulsione per indegnità morale e

politica di Landi Dante avvenuta alla fine di maggio. Su di esso è stata consegnata relazione

apposita e caratteristica supplementare. Inoltre l'allievo L .l è degente all'ospedale. Bisogna

notare che su i 44 che hanno terminato il corso, 2 L . l non sono stati in grado di fare gli

esami. L .l per anormali condizioni di mente che si notavano fin dall'inizio ha dovuto

essere passato al lavoro tra il personale. Il secondo L l sebbene abbia fatto molti sforzi,

non ha potuto piegarsi al lavoro mentale che produceva grandi disturbi al suo sistema

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nervoso e non è stato in grado di dare gli esami.

Rispetto alla provenienza regionale gli allievi erano in massima parte emiliani (18) con

solo 4 toscani, 4 veneti, 2 umbri, 5 lombardi, 2 piemontesi, e uno di origine tedesca, di

Trento.

Ciò ha prodotto durante il corso qualche accenno di antagonismo regionale ma ècaratteristico il fatto che esso si è verificato quasi esclusivamente da parte dei toscani verso

gli emiliani, mentre da parte dei veneti, lombardi, piemontesi ed umbri questo sentimento

non si è verificato quasi affatto.

Ciò si spiega con la circostanza che i toscani, presi uno per uno hanno dimostrato una

spiccata tendenza anarcoide e anche spirito di gruppo tra di loro. Uno di essi, il Landi, ha

rappresentato un caso estremo e ha dovuto essere espulso.

Tuttavia anche tra gli emiliani vi era un certo numero che non dimostrava abbastanza

comprensione.

Questo antagonismo era già antecedente all'inizio del corso dovuto alle circostanze

particolari della vita dell'emigrazione. Salvo questo antagonismo limitato quasiesclusivamente ai toscani per il resto il corso ha dimostrato una buona compattezza che si

è andata sempre elevando.

Dal punto di vista dell'attività politica precedente, solo pochi degli allievi avevano avuto

funzioni politiche come dirigenti di Sezione e la massima parte erano venuti al Partito

durante e dopo la guerra di liberazione in seguito all'attività partigiana.

Nella formazione mentale di molti allievi si notava uno squilibrio tra la scarsa maturità

politica e la poca conoscenza del Partito da una parte e le funzioni di comando che essi

avevano avuto nel movimento partigiano durante la guerra di liberazione (Baffi, Palacci,

Bavieri, Castigliani, Chiappa, Freganara, Marchi Maria)

Questo squilibrio ha avuto per effetto che in alcuni di essi all'inizio del corso si creava

una delusione verso se stessi con effetti deprimenti (Freganara, Chiappa, Castigliani) in

altri un'autosufficienza mascherata o insolente che creava difficoltà all'influenza formativa

del corso (Baffi, Palacci, Bavieri, Marchi Maria).

Come conseguenza della debole conoscenza del Partito e della mancanza di attività

politica precedente, si comprendono le difficoltà per gli allievi di capire le questioni della

vigilanza rivoluzionaria in un Paese dove essi sapevano la classe operaia è al potere.

Questa mentalità esponeva gli allievi anche a pericoli morali specialmente a contatto con

una emigrazione economica che presenta lati deteriori.

Queste circostanze erano aggravate dal fatto che un buon numero di allievi (10) era

composto di elementi anziani oltre i 30 anni di età. Alcuni allievi erano venuti al corso

contro la propria volontà (Freganara, Nardi, Martelli) e con scarsissima fiducia nelleproprie forze.

Le differenze dovute al diverso grado di istruzione generale e di cultura erano molto

marcate, assai più di quello che si osserva nelle scuole di Partito in Italia.

È evidente che la possibilità di scelta nel reclutamento degli allievi erano molto limitate

nelle condizioni dell'emigrazione.

Ciò nonostante il corso è giunto alla sua fine avendo realizzato un alto grado di

collaborazione e di solidarietà nello studio. Le condizioni fisiche degli allievi erano

prevalentemente precarie sia per le precedenti sofferenze e privazioni subite nella lotta

in Italia, sia per le privazioni sofferte dagli allievi nello stadio iniziale dell'emigrazione in

Cecoslovacchia.Sta di fatto che, dopo la prima visita fatta dal dottor Herald, ottenuta nell'aprile, dopo

già due mesi di corso, il dottore rimase allarmato delle condizioni di denutrizione e di

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avitaminosi degli allievi che comunicò le sue preoccupazioni alla compagna Thelenova

dopo di ché si ottennero i supplementi di vitto.

CAPITOLO SECONDO

- Condizioni di ambiente del corso sulla vita interna e contatti con l'esterno.Come è stato rilevato nella relazione precedente in data 20 settembre la caratteristica

generale dello svolgimento del corso è stata un accentuato isolamento dall'ambiente

cecoslovacco, dalla vita a dalla lotta della classe operaia del Partito comunista

Cecoslovacco.

All'inizio questo isolamento era completo. In seguito fu permessa l'uscita serale del

sabato. Quest i contatti accidentali e non organizzati con la città di Praga avvenivano con gli

elementi deteriori della società cecoslovacca e presentavano pericoli morali e politici che

sono stati rilevati insistentemente. Il luogo di residenza non era adatto a stabilire rapporti

normali con la popolazione e a coprire dal punto di vista della vigilanza l'attività degli

allievi.

Altra caratteristica generale dello svolgimento del corso è stata data dalle gravi

preoccupazioni farp.iliari di molti degli allievi, preoccupazioni che in molti casi distoglievano

la loro mente dallo studio. La direzione della scuola ha controllato la posta in arrivo e in

partenza degli allievi ed ha segnalato i casi più preoccupanti al compagno Belli.

Inoltre la direzione della scuola si è preoccupata di superare gli effetti deprimenti di queste

circostanze cercando di creare nell'ambiente della scuola una vita ideologica intensa anche

per gli allievi meno preparato e creando un'atmosfera di ottimismo e di fiducia. In questa

opera ci hanno validamente coadiuvato, oltre al compagno Belli i compagni dirigenti di

passaggio per Praga che ci hanno visitato come in compagni D'Onofrio, Secchia, Amadesi,

Leone, Roasio, Fedeli che hanno dato brio e coraggio all'attività della scuola L . l.

Doc. 6) 100/3, 56, 267, f.64 - La nostra Bandiera - Ilio Barontini (Dario)

SPORT

Allievi battono aspiranti 15-11 e 15-8

Per iniziativa della Commissione sportiva Giovedì 1 c.m. si è svolta la partita di Palla a

Volo fra allievi ed aspiranti, arbitrata dal compagno Recanzone.

Per gli allievi giocavano: Barbieri, Lucia, Comellini, Cavallari, Scotti, Ghiacci; per gli

aspiranti: Burato, Campani, Papa, Nadalutti, Pasqualini, Bernardi.

È stato sufficiente il lancio della palla per la scelta del campo per rendersi conto dellaincompetenza che vi era in ogni giocatore verso questo sano gioco.

I compagni che si sono distinti fa i neo-giocatori sono: Barbieri, buon realizzatore, Lucia

fantasioso, il suo gioco pecca di individualità, Scotti, uno dei più disciplinati assieme a

Cavallari; Ghiacci si è distinto per i suoi falli, Comellini irruento molto irregolare.

Per gli aspiranti si è distinto per prendere storte alle mani Papa, Nadalutti è quello che

ha fatto più volte corpo con la terra inoltre non ha smentito Darwin, quando non era per

terra era attaccato alla rete come un pesce. Pasqualini emerse nel colpire poco la palla.

Campani ha realizzato dei punti dando prova in molte occasioni che non ha il senso della

misura, molti palloni li ha mandati alle stelle; Burato, il sorridente, è stato il cervello della

squadra, malgrado le sue gaf. Bernardi è scusabile se colpiva il pallone a metà, tutti sanno

il perché ..

Come è stato detto sopra si può scusare la nostra famigliarità scarsa con la parte tecnica

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e la nostra obbligatoria incapacità in questo gioco.

Quello che è innammissibile ed è criticabile, è l'indisciplina e la confusione dando colpi

alla palla con i piedi, gridando scorrettamente, quell'entrare e sortire dal campo durante

il gioco.

Nello sport in generale e in particolare nelle partite che giochiamo in questa scuola, nondevono riflettersi soltanto le qualità atletiche del singolo: ma lo spirito collettivo, il nostro

carattere, la nostra educazione generale e politica.

Eliminiamo queste deficienze comunemente riconosciute, facciamo sì che questo gioco

collettivo sia collettivo ed elemento supplementare alla nuova educazione che il PCI sta

dando.

Doc. 7) 100/3, 56, 267, f.76 - La nostra Bandiera - Ilio Barontini (Dario)

ESAME AUTOCRITICO DEL MIO PASSATO

In questo articolo ho l'intenzione di fare un esame degli errori commessi nel passato, ma

forse ancora non vi riuscirò in modo esauriente e sufficientemente autocritico.

Fin dai primi giorni della mia appartenenza al Partito, pe r la mia ignoranza politica,

debbo riconoscere di avere fatto più male che bene sia al Partito che alla classe operaia.

Ricordo che quando partecipavo alle riunioni facevo molta confusione ed ero sempre

in disaccordo con tutti; la politica del Partito la vedevo a modo mio e peccavo di due

mali: di opportunismo e di anarchismo. Alla linea del Partito non mi sottomettevo mai

e dicevo - ma quella no n è la linea del Partito! Per me i comunisti sono quelli che sono

capaci di sparare, macché analizzare la situazione bisogna incominciare subito a fare la

rivoluzione, altroché aspettare, ecc. ccc. Compagni, forse voi non crederete a quello che

dico in questo mio articolo ma invece purtroppo è la verità e questi esempi che elencheròvi dimostreranno come lavoravo e di quale genere era il contributo che portavo.

Nel 1948 il Partito mi diede la carica di capo cellula giovanile e il mio segretario di

sezione mi disse le testuali parole - devi svolgere in fabbrica un lavoro di persuasione

verso i giovani - io a quel tempo lavoravo in una fabbrica tessile dove vi erano molti

giovani e ragazze e quindi quello era il compito più delicato da svolgere.

lo dovevo avvicinare al nostro Partito questi giovani. Come facevo? Lavoravo bene?

Senz'altro no! perché li avvicinavo e parlavo in questo modo - sarebbe meglio che tu ti

iscrivessi al Partito; se non ti iscrivi guarda che te la passi male, ecc. - Come poteva il

Partito andare avanti se fossero stati tutti come me? Non comprendevo che era necessario

agire in modo differenziato, fare opera di persuasione spiegando che cosa èil

capitalismo,chi è la causa di tutte le guerre e tante altre cose.

Altri errori li commisi durante le elezioni del 18 aprile; mi ricordo che in una riunione

mi dissero - siamo vicini alle elezioni e bisogna svolgere un'attività particolare concreta e

politica, di persuasione, in modo di far capire agli operai, specialmente a quelli che sono

incerti e che credono che se viene il comunismo o se vince il Fronte Popolare la terra viene

tolta ai contadini, bruciate le chiese e così via, che queste sono menzogne, ecc. ecc. -

Quale era la politica che facevo io in mezzo alle masse? La mia politica grosso modo

era questa - se riusciamo a vincere le elezioni ce lo diamo noi, le chiese le eliminiamo

tutte, macché chiese noi non le vogliamo - agivo forse come era la politica del Partito?

Certamente no, commettevo errori madornali e credevo che il comunismo si doveva fare

in quel modo.

Questi errori da me commessi li commettevo perché ero incosciente e non comprendevo

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niente. Adesso mi sono forse levato tutti i difetti? No, qualcosa rimane ancora in me. Però inquesta scuola marxista-leninista sono sicuro che riuscirò a eliminare molti dei miei difetti ea liquidare il bagaglio che porto con me. È questo un impegno che con l'aiuto del collettivopotrò realizzare.

Adesso un poco mi sono formato però non sono ancora un vero comunista, un marxista,ma sono certo che non commetterei più gli errori di prima. Invito i compagni a cercare difarsi un esame autocritico e di non aver paura di esprimere i loro difetti. In questo modo

riusciremo reciprocamente a correggerci per non commettere più altri errori che sarebberoun male per il nostro Partito.

BARBIERI MARIO

Doc. 8) 19/7, 194:3, 216

ZUPPIROLI CELESTINO!

7 Dicembre 1952

Anni 28 - Modena ongme operaia, garzone macellario, V elementare, partigianocombattente nel Partito dal 1945. In Jugoslavia dal 1946 al 1949 in Cecoslovacchia dalGiugno 1950 - Nel collettivo capo gruppo

Temperamento e carattere

Serio, socievole sebbene un po' timido, laborioso, di sana moralità

Caratteristica politicaAttaccato al Partito, modesto, si lega bene ai compagni. In generale si orienta bene nelle

questioni fondamentali. Assolve con impegno i compiti affidatigli. Deve sviluppare una

maggiore iniziativa politica. Non ha dato luogo a rilievi per motivi di vigilanza.

Caratteristica accademica

Si è applicato con diligenza allo studio lottando [, ..1contro difficoltà derivanti dal bassolivello di cultura generale.

Ha ottenuto discreti risultati nell'assimilazione del materiale di studio. Deve acquistaremaggiore sicurezza di sé e senso critico.

Espone con difficoltà.

Prospettive

Ha discrete possibilità di sviluppo politico e ideologico a condizione di essere ben guidatoe orientato. Può essere utilizzato in un lavoro organizzativo come attivista di sezione.

1 Si tratta in realtà di Alberto Ternelli

F.to Giulio FoschiSecondo Villa

Vittorio Gambetti

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Il caso Disteso: la mancata rivoltadei carabinieri contro Salò.Rapporto su una ricerca in corso 1

Mario Frigeri

Ricerca eprime conclusioni sull'uccisione di Armando Disteso, Luigi Lelli eNatale Romagnoli, da parte di militi dell'Ufficio polizia investigativa (UPI) della

GNR di Reggio Emilia, avvenuta la sera del 30 maggio 1944.

Cronologia dei fatti

Febbraio - marzo 1944

Il carabiniere Armando Disteso, originario di Castelmaggiore (BO), classe 1923, presta

servizio presso la stazione dell'arma di Montefiorino (Ma). Conosce una ragazza, Nelia

Serradimigni2, staffetta della Resistenza che mette Armando in contatto con il locale CLN.

Aprile 1944Disteso viene trasferito da Montefiorino a Reggio Emilia; i militi appartenenti all'Arma dei

Reali carabinieri vengono incorporati nella Guardia nazionale repubblicana.

18 aprile 1944

Sono arrestati dalla GNR a Vezzano sul Crostolo i membri della locale cellula comunista

clandestina, fra essi Silvio Brevini, Giuseppe Coluccio ed altri antifascistP. Gli arrestati sono

rinchiusi al carcere dei Servi per esservi interrogati.

30 aprile 1944

Il comandante generale della GNR Renato Ricci decreta che tutti gli appartenenti

all'Arma incorporati nella GNR debbano vestire la camicia nera, suscitando le proteste dei

carabinieri.

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2 maggio 1944

Riorganizzato il comando provinciale della GNR, agli ordini del colonnello Giuseppe

Onofaro, con sede in Viale Timavo presso la caserma Mussolini.

8 maggio 1944Il capitano della GNR Cesare Pilati viene posto al comando dell'Ufficio di polizia investigativa

(UPI) con il compito specifico della lotta antipartigiana e gli viene affidato l'interrogatorio di

Brevini e dei suoi amici.

lO maggio 1944

Armando Disteso, che no n approva l'ordinanza del console Ricci, si mette in contatto

con la Resistenza reggiana che lo spinge ad organizzare una rivolta contro il comando della

guardia nazionale repubblicana. Fra gli ex carabinieri che Disteso cerca di aggregare alla

sua iniziativa ce n'è uno che lo denuncia al capitano Pilati. Armando Disteso viene tratto

in arresto.

9 maggio

Viene arrestato a Leguigno di Casina il diciottenne Natale Romagnoli4, trovato armato

ed accusato di furti ed estorsioni. Condotto a Reggio Emilia, venne messo nella medesima

cella nella quale era già Disteso e dove sarebbe arrivato un altro prigioniero: un vecchio

antifascista che nel 1932 era stato condannato dal Tribunale speciale per la sua attività

politica, il 19 maggio è arrestato perché accusato di furto: Luigi LellP.

Nel frattempo continuano gli interrogatori di Brevini, Coluccio, e altri da parte del Pilati,

con la collaborazione dei militi Nello Zanichelli, Alfio Berti, Angiolino Manzini, Giovanni

Paterlini e del vice brigadiere Filippo Cocconi, unitamente al v. brigo Luigi Di Fusco.

15-30 maggio 1944

La ragazza di Armando Disteso, appreso del suo arresto si reca al carcere dei Servi

pe r avere un colloquio con lui; è lo stesso Zanichelli, che ha conosciuto la ragazza a

Montefiorino, a riceverla, promettendole il suo interessamento in favore del fidanzato.

Questi invece la denuncia e la fa seguire, nella speranza che la donna porti la polizia

investigativa ad una base partigiana di Reggio Emilia.

30 maggio 1944, sera

Secondo il rapport06 del Comando provinciale GNR di Reggio Emilia i tre pnglOmen

Armando Disteso, Natale Romagnoli e Luigi Lelli sono uccisi durante un tentativo di fuga.

Nel rapporto viene precisato che il Disteso era stato ucciso in via Guasco a pochi metri dai

Servi, il Lelli fra Villa Cadè e Villa Gaida e il Romagnoli a Vezzano sul Crostolo.

Considerazioni

Nel 1969 su "Ricerche storiche"? venne pubblicata la testimonianza di Oriele

Leodirpi che vide il mattino del 31 maggio 1944 la salma di Natale Romagnoli

in località Braglie di Vezzano sul Crostolo. La signora Leodirpi affermava che

il corpo del giovane era stato barbaramente scempiato, constatando che era

stato evirato e sventrato e che non era stato ucciso da colpi di arma da fuoco,smentendo la versione fascista della sua tentata fuga.

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Perché una tale barbarie contro un diciottenne? Perché fu ucciso Disteso?

Perché il Lelli fu trucidato fra Gaida e Cadè?

Armando Disteso, dopo il decreto di Renato Ricci, aveva manifestato,

come molti carabinieri, aperto dissenso a trasformare l'Arma da una forza di

polizia usata contro i criminali comuni ad una milizia di partito usata contro

la Resistenza, per la quale non pochi carabinieri simpatizzavano; i fascisti

volevano dare un esempio agli ex carabinieri per convincerli ad accettare la

forzata fusione con la Guardia nazionale, in caso .contrario, come avvenne,

sarebbe stata offerta loro l'alternativa di essere inviati in Germania come

polizia militare nelle divisioni italiane che colà di addestravano.

Luigi Lelli, 47 anni ed una condanna del Tribunale speciale sulle spalle,

ufficialmente di professione pescatore, ma di fatto il suo girovagare per la

bassa reggiana era funzionale a tenere i contatti fra i resistenti delle campagne

e quelli di città. Perché fu ucciso fra Gaida e Cadè? Il capitano Pilati era statouno degli autori dell'arresto dei fratelli Cervi ed era consapevole dell'esistenza

di un vero e proprio corridoio clandestino che serviva a portare in montagna i

renitenti alla leva fascista e i rifornimenti per i distaccamenti partigiani. Questo

corridoio partiva da Poviglio e attraversava Castelnuovo Sotto, Campegine,

Cella (nei pressi di Cadè e Gaida, sulla via Emilia), Cavriago e San Polo. In

zona agivano i sostenitori dei partigiani garibaldini, comandati da Ivano Curti

e quelli di estrazione cattolica, legati al parroco di Cella don Pallai. L'omicidio

del Lelli, ma soprattutto il luogo della sua esecuzione, possono far pensare

ad una sorta di monito alla popolazione delle ville a non collaborare coipartigiani.

Come detto in precedenza fra i detenuti dei Servi vi erano in quel momento

gli arrestati di Vezzano e il capitano Pilati, nonostante la brutalità degli

interrogatori, non era riuscito a ricavare da loro tutte le informazioni desiderate.

Pochi giorni dopo la barbara uccisione di Natale Romagnoli, precisamente

il 7 giugno, Brevini, Coluccio e gli altri detenuti vennero trasferiti dai Servi

al carcere di San Tommaso. In un documento recante quella data, firmato

dal solito colonnello OnofaroB, si denunciano al Procuratore del Tribunale

straordinario Brevini, Coluccioed

altre diciottopersone

in stato di arrestocon

le accuse di insurrezione armata, propaganda clandestina, organizzazione di

scioperi, ecc.

Evidentemente la notizia della tragica fine del Romagnoli era giunta ai

prigionieri che, temendo giustamente di subire la stessa sorte, si erano decisi

a dare al capitano Pilati le informazioni richieste.

Chi furono gli esecutori dell'omicidio dei tre pretesi evasi?

Al processo contro l'ex federale Guglielmo Ferri e la sua banda9 vennero

fatti i nomi di Angiolino Manzini e Giovanni Paterlini per l'uccisione del Lelli,

ma i due non potevano aver agito da soli, per di più senza l'approvazione del

Pilati e del suo vice Filippo Cocconi. Per quanto riguarda Nello Zanichelli,

fu probabilmente il maggior responsabile dell'arresto di Armando Disteso,

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essendo anch'egli un ex carabiniere che Armando probabilmente considerava

amico dai tempi del servizio prestato insieme a Montefiorino lO•

Appreso dell'arresto di Armando Disteso, il padre del carabiniere, ferroviere

sulla linea Bologna-Milano, si recò a Reggio Emilia ed ottenne dal comando

della GNR di poter incontrare il figlio. Questo accadde il 24 o il 25 maggio.

Probabilmente la GNR gli aveva accordato questo incontro con la speranza che

convincesse Armando a denunciare, per salvarsi, coloro che si erano dichiarati

disponibili a rivoltarsi contro i militi favorevoli alla Repubblica sociale. Ma

Armando ribadì al padre il suo assoluto rifiuto a collaborare con i fascisti,

nonostante le percosse subite (era quasi irriconoscibile per le ferite subite al

volto) e il rischio di una tragica fine.

La sera del 30 maggio Disteso e i suoi compagni di cella furono uccisi e,

com'è noto, la versione ufficiale dei fascisti parlò di un fallito tentativo di

fuga.Avvenuta la tragedia, il padre del carabiniere si recò nuovamente al comando

reggiano della Guardia nazionale repubblicana, chiedendo questa volta di

poter dare una sepoltura dignitosa al proprio figlio, ma venne dirottato presso

il parroco di Santo Stefano, don Torquato Jori che era ignaro dell'accaduto.

Da Santo Stefano al Vescovado dove però non riuscì ad essere ricevuto dal

vescovo ma ebbe un breve colloquio con il professor Silvio Giuseppe Mercati,

fratello del cardinale Mercati, che, pur partecipando del suo dolore, non era

nelle condizioni di fornirgli alcun aiuto.

Terminata la guerra il padre di Armando tornò ancora una volta a ReggioEmilia, sempre con la speranza di rintracciare finalmente il luogo di sepoltura

del figlio, ma tutti gli sforzi risultarono vani. Un altro padre che non ha potuto

mettere un fiore sulla tomba del figlio.

A ricerca ormai conclusa è stata acquisita una dichiarazione del 25 maggio

1945, rilasciata dal capitano Cesare Pilati al pubblico ministero Ernesto Dardani,

nel carcere dei Servi (dove Pilati era stato rinchiuso dopo la sua cattura a

Guastalla il 23 aprile 1945), in preparazione del suo processo, apertosi il

6 giugno e conclusosi con la sua condanna a morte (eseguita il 3 ottobre

successivo).Il

Pilati confermava, nell'interrogatorio,il

reale svolgimento deifatti:

Di Fusco era un milite della GNR di Reggio Emilia avente il grado di brigadiere. Egli era

in contatto diretto col comandante della GNR reggiana colonnello Onofaro. Di Fusco diceva

di me che ero troppo buono.

I verbali degli interrogatori di Disteso e Romagnoli furono redatti dai militi Angelo

Turchetti e dal già citato Berti. Verbali che sono stati da me recapitati ad Onofaro alla sera. Il

colonnello mi rispose che dovevano essere passati per le armi. Ho obiettato che dovevano

essere inviati al Tribunale militare. Egli replicò di no «Bisogna fare alla svelta» e mi incaricò

di mandareil

brigadiere Di Fusco ad uccidere i due facendo figurare che stavano perevadere. lo risposi che, se mai si dovevano fucilare davanti al suo reparto il Disteso, e il

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Romagnoli avrebbe dovuto essere fucilato appena preso.

Il colonnello disse ch'era inutile seguire la procedura "Le forme sono forme, ma è il

risultato che conta".

lo portai l'ordine a Di Fusco dicendogli che il colonnello aveva dato il via all'esecuzione

dei tre (c'era anche il Lelli, accusato di aver ammazzato un milite e che era stato trovato conarmi). Il Di Fusco se ne andò, non so con chi, ed eseguì l'ordine di Onofaro. Poi redasse il

verbale del 30 maggio 1944 che vedo allegato agli atti. Mi pare di ricordare che fu redatto

in seguito ad un rilievo del Questorell .

1 Da segnalare come, dall'autunno 2005, sulla vicenda sia stata aperta una inchiestadalla Procura della Repubblica di Reggio Emilia, condotta dal sostituto procuratore

dottoressa Maria Rita Pantani.2 Nelia Serradimigni, di Giuseppe, nata a Montefiorino il 19 maggio 1924, defunta aLivorno il 3/06/2000.3 Per la vicenda legata all'arresto dei membri della cellula di Vezzano si veda: G.FRANZINI, L'evasione dei detenuti politici dalle Carceri Giudiziarie di San Tommaso,"Rs-Ricerche Storiche", 7-8/1969.4 Natale Romagnoli, di Giuseppe, nato a Bessano (CR) , classe 1926, residente aFirenze.5 Luigi Lelli, nato a Modena il 17 luglio 1897 di NN e Lelli Adegonda, residente a ReggioEmilia, vicolo del Mondo.6 Comando Provinciale GNR, 30.5.1944, n. 2212/B3 in Archivio ISTORECO, B.14D, f.l.7 FRANZINI, L'evasione dei detenuti, cit.8 Comando provinciale GNR, 7.6.1944, in Archivio ISTORECO, b.14D, f.5-9 La sentenza è pubblicata in P. CALESTANI, Guglielmo Ferri fascista integrale, "Rs

Ricerche Storiche", 89/1995, pp. 39-56.10 Fra le accuse mosse allo Zanichelli ancora latitante dopo la Liberazione figuravaanche la sua diserzione dalle fila partigiane. Si veda il documento della Commissioneprovinciale di Giustizia del 12 maggio 1945 in Archivio ISTORECO b.9I, f.3.11 Interrogatorio di Cesare Pilati (25 maggio 1945), Atti Corte di Assise StraordinariaReggio Emilia, Archivio Tribunale Reggio Emilia.

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Temistocle Testa

Ugo Pellini

La proposta di accordo e pacifìcazione dell'Eccellenza TestaIl 24 marzo del 1945 il Comando Unico dei partigiani reggiani rilascia un

lascia passare in bianco perché è in atto una trattativa con i fascisti per uno

scambio di prigionieri. Scrive Guerrino Franzini nel suo Storia della Resistenza

Reggiana:

Si ebbe il sentore che uno di essi sarebbe stato un pezzo grosso. L'incontro è fissato in

montagna, presso la canonica di Baiso; si presenta S.E. Testa, dirigente del servizio generale

dell'approvvigionamento per i tedeschi in Italia, accompagnato dall'interprete della SD di

Reggio Emilia, chiamato Franco. La presenza dell'autorevole inviato appare subito come

una conferma delle intenzioni nemiche di stipulare coi partigiani, non un semplice scambio,

ma un compromesso. Egli comincia vantando le proprie benemerenze quale salvatore

della capitale e dichiarando di nutrire propositi pacificatori. Dice pure di essersi offerto

di condurre personalmente le trattative coi "simpatici partigiani del Reggiano". Fa quindi

allontanare l'interprete per poter avvalorare con più libertà le sue affermazioni di simpatia;

si scuce la fodera della giacca e ne trae un pezzo di seta recante un timbro del CLN AltaItalia e la· scritta: "Il latore è elemento conosciuto e collaboratore di questo comando. Si

pregano i comandi partigiani di dargli aiuto ed assistenza". Quindi, di fronte alla freddezza

dei rappresentanti partigiani, fa appello alloro sentimento patriottico, maledice lo straniero

e fa, a conclusione, la proposta di un accordo coi nazi-fascisti come unico modo per salvare

il resto dell'Italia .

I due comandanti partigiani Aldo COsvaldo Salvarani) e Franceschini

Si ringrazianoper la collaborazione e i consigli Michele Bellelli, Mario Frigeri e MassimoStorchi.

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(Pasquale Marconi) propongono, come premessa ad un eventuale accordo,

lo scambio di prigionieri. Testa accetta e promette che ritornerà al più presto

di persona per concludere. Il giorno dopo però i tedeschi fanno una puntata

armata a Baiso e, continuando le operazioni militari, i contatti sono interrotti

per una decina di giorni.

Il 7 aprile, normalizzatasi la situazione, Testa ricompare a Baiso, sempre accompagnato

dall'interprete; dichiara di avere discusso con il Comando superiore della 5D di Parma, ma

di aver ottenuto il consenso a trattare solo lo scambio di qualche prigioniero; per di più

a condizioni che per i partigiani sono considerate inaccettabili. L'Eccellenza si dichiara

desolato e si riserva di compiere un ultimo tentativo presso il generale delle 55, Karl Wolff. Il

secondo incontro si conclude con un nulla di fatto e Testa torna solo in città perché Franco,

l'interprete, che è salito con lui, approfitta dell'ottima occasione: chiede ed ottiene di

consegnarsi ai partigiani e viene inviato oltre le linee insieme ad altri prigionieri tedeschF.

Il 16 aprile monsignor Rabotti, il prelato che fa da intermediario tra fascisti

e partigiani, riferisce al Comando partigiano che Testa il giorno 9 è andato

a Milano per incontrarsi con il generale Wolff per ottenere l'appoggio per

uno «scambio totale" e che richiede quindi un nuovo incontro con Aldo e

FranceschinP. Il 20 aprile i partigiani Monti ed Eros rispondono a Testa che,

se ha veramente qualche proposta da avanzare, «a netto vantaggio della nostra

Organizzazione", può comunicarla in via amichevole attraverso il professor

Marconi o salire personalmente a Toano, usufruendo di un lasciapassare che

i due capi accludon04

.

Siamo alla vigilia della liberazione di Reggio: naturalmente non avverrà più

nessun incontro.

Il fascista della prima oraVediamo allora chi è questo importante "eccellenza" fascista, che esibisce

un documento del CLN Alta Italia in cui si afferma che è conosciuto e ha

collaborato con i partigiani, che chiama «simpatici" i partigiani di Reggio e che

vuole trovare con loro un'intesa per la salvezza dell'Italia. Il suo passato non

è dei più esemplari.

Temistocle Testa è nato a Grana Monferrato (AT) 1'11 novembre 1897; suo

padre è un notaio molto conosciuto in tutta la zona. Combatte nella guerra

mondiale con il grado di sottotenente. Agli inizi degli anni Venti si trasferisce

a Modena per seguire il fratello Ulisse, libero docente presso la clinica di

Neuropatologia dell'Università di Modena, e si laurea in Giurisprudenza

all'Università di Modena. Squadrista della primissima ora, s'iscrive al Partito

fascista il lO febbraio 1921; un anno dopo, nel gennaio del '22, nel corso

dell'assemblea che designa i componenti del nuovo direttorio del Fascio

cittadino, viene eletto vicesegretario. In questo periodo non si contano le

aggressioni e i pestaggi a dirigenti e militanti socialisti e comunisti. A giudizio

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del Questore, Ercole Schiavetti, queste aggressioni non sono frutto di scelte

individuali, ma la conseguenza di disposizioni impartite dai dirigenti del

Fascio. "Per questo, con una lettera al Procuratore del Re, Schiavetti denuncia

per istigazione a delinquere i componenti del direttorio del fascio cittadino, il

federale Zanni e il vicefederale Testa»5.Per tutta la primavera e l'estate del '22 si susseguono episodi di violenza

squadristica contro persone e cose; alcuni assumono l'aspetto di veri e propri

atti di barbarie, come a Quartirolo di Carpi, dove gli squadristi irrompono in

una casa colonica, dove si svolgeva una festa danzante di giovani minorenni,

uccidendone uno e ferendone gravemente un altro. A San Venanzio di

Maranello i fascisti uccidono nell'osteria del paese due inermi cittadini.

Comandante delle Legioni modenesi nella marcia su Roma, due mesi dopo

l'istituzione della MVSN (gennaio '23) assume il comando della 73a legione

"Boiardo" di Mirandola. Passa indenne da una tempesta che scuote la legionein seguito alla barbara uccisione, ad opera di alcuni militi da lui dipendenti, di

un inerme barrocciaio di Medolla6.

Nel 1928 diventa segretario federale del Fascio di Modena: "Vanta una lunga

esperienza politica militare e grazie al suo carattere deciso ed autoritario è

ritenuto capace di fare rispettare la disciplina di partito anche agli iscritti più

irrequieti e litigiosi», scrive di lui Pietro Alberghi inModena nelperiodo Fascista.

Per le sue origini piemontesi e il suo tardivo inserimento nell'ambiente fascista

modenese, non risulta legato a nessun gruppo di potere e può disporre di

piena libertà d'azione. La sua prima mossa è di rinnovo dei dirigenti federali e

sezionali. Il giovane e intraprendente Testa costituisce presto una Commissione

federale di disciplina che epura le file fasciste degli elementi ritenuti indegni e

inserisce nei punti chiave uomini di sua completa fiducia. Il federale acquista,

per la sede del partito, il palazzo Coccapani-D'Aragona, in Corso Vittorio

Emanuele e mette ordine tra le varie fazioni fasciste in lotta. Nel maggio 1929

convoca un'assemblea del Fascio nel capoluogo e davanti a mille fascisti

radunati, nella sua relazione, richiama i convenuti al fervore, agli slanci delle

origini, soffocati dai fascisti dell'ultima ora che, dopo aver occupato posizioni

nevralgiche del partito e dei vari settori dell'amministrazione statale, hanno

tentato di ridurre il fascismo ad un mero apparato burocratico ed ad uno

strumento per la salvaguardia dei ceti privilegiati. Il "ritorno alle origini" è

però solo di facciata; anche Testa, dopo le accese critiche rivolte ai vecchi

dirigenti della segreteria federale, dirige la federazione ricorrendo più o meno

ai metodi già largamente applicati dai suoi predecessori e si circonda di uomini

disponibili ad assecondare in tutto e per tutto le sue direttive. Anche i fascisti

della prima ora, che hanno salutato con sollievo la sua nomina, non tardano

a rendersi conto che la situazione è rimasta praticamente immutata, che, anzi,

i suoi metodi autoritari e il suo protagonismo hanno finito per soffocare ogni

residua forma di dibattito all' interno del partit07. All'Archivio di Stato di Modenarisulta che Testa è stato denunciato, nel 1929, per truffa da Angelo Gozzi e

Francesco Malavasi.

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Il Federale diventa PrefettoIl 16 febbraio 1931 il Testa è nominato prefetto a Perugia, dove rimane

fino al 16 ottobre del '32; in questa data viene trasferito ad Udine e, fino al 20

febbraio del '38, riveste la carica in questa città. Viene a questo punto trasferito

a Fiume, dove rimarrà fino al fino al 1 febbraio del '438 .

A Fiume si dimostra part icolarmente ligio nell'applicare il Regio Decreto del

5 settembre 1938, quello delle leggi razziali. La comunità ebraica di questa città

conta millecinquecento persone e si ingrossa man mano che passano i giorni

per l'arrivo in città di profughi ebrei dalla Croazia e dalla Galizia, ove per loro

la vita è ancora più difficile9.

Pochi giorni dopo l'entrata i guerra dell'Italia al fianco dei tedeschi, nella

notte tra il 17 e 18 giugno 1940, Testa ordina una retata di tutti i residenti

ebrei, di sesso maschile e di età superiore ai 18 anni di Fiume ed Abbazia, che

vengono trasportati nella scuola elementare di Torretta1o

. Questa retata saràcriticata dalla stesso Ministero dell'Interno ll .

Secondo diverse testimonianze di imprigionati i fermati sono circa

cinquecento, metà sono rilasciati dopo due o tre settimane senza alcuna

formalità, l'altra metà è inviata nei campi di concentramento in varie località

d'ltaliaI2 . Per disposizione di Testa, che funge pure da Commissario di Stato

per i territori jugoslavi aggregati alla provincia di Fiume, anche gli ebrei che

fuggono dalla Croazia devono essere arrestati, se presi in territorio italianol3 .

Temistocle Testa, un funzionario che dell'antisemitismo ha fatto una bandiera,

scrive algabinetto del

ministero dell'Interno il 21ottobre

1940: "Fiume è forsel'unica provincia che non permette la chiusura al sabato e alle altre feste, oltre

ad aver chiuso definitivamente tutti i negozi ebraici di Abbazia, ma ha anche

il primato di 200 ebrei internatV4.

Proprio con questo prefetto di Fiume deve fare i conti il vice-commissario di

polizia Giovanni Palatucci, che pagherà con la morte a Dachau il suo impegno

per salvare gli ebrei di tutta la zona. Palatucci, per il quale è stata avviata la

causa di beatificazione, riesce ad inviare a Campagna, sotto la protezione

dello zio Vescovo, un consistente numero di ebrei istriani, che avrebbe dovuto

invece arrestare e deportare. I suoi interventi, indiretti e nascosti, sono volti

a rendere inoperanti le disposizioni che vengono dalla Questura e in modo

particolare dal prefetto Testal5 .

Le "imprese" inJugoslaviaAnche con la popolazione slava Testa non si dimostra molto tenero; queste

le sue considerazioni sugli sloveni: "Sono un popolo che ogni giorno di più

sta dimostrando di essere quello che è sempre stato, cioè una razza inferiore,

che deve essere trattata come tale e non da pari a pari»16.

Nelle regioni della Croazia annesse all'Italia dopo il 6 aprile '41 si ripete

quanto avvenuto in Istria dopo la Grande guerra: si ricorre ad ogni mezzo perla snazionalizzazione e l'assimilazione, provocando inevitabilmente l'ostilità

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delle popolazioni. Nella toponomastica, per cominciare da questo aspetto non

cruento dell'occupazione, viene recitata una vera e propria tragicommedia,

avendo come regista il prefetto della provincia del Carnaro e dei Territori

aggregati del Fiumano e della Kupa Temistocle Testa. Con un suo decreto

dell'8 settembre 1941 viene ordinato di: «adottare senza indugio i nomi italianidi tutti quei luoghi (comuni, frazioni, località) che erano da secoli italiani e

che la ventennale dominazione jugoslava ha trasformato in denominazioni

straniere". Così località del profondo territorio interno lungo il fiume Kupa

e nel Gorski Kotar diventano: Belica = Riobianco, Bogovic = Bogovi, Brtiic

= Brissi, Buzdohanj = Buso, Crni Lug = Bosconero, Cabar = Concanera,

Glavani = Testani, ]elenje = Cervi, Kacjak = Serpaio, Koziji Vrh= Montecarpino,

Medvedek = Orsano, Orehovica = Nocera Inferiore, Padovo = Padova, Pecine

= Grottamare e via traducendo o inventando. Trinajstici, presso Castua, diventa

Sassarino in onore della divisione «Sassari" che vi tiene un reparto.Ben presto però, dopo aver battezzato città, comuni, villaggi e frazioni, si

passa a distruggere col fuoco quelli, fra di essi, che non tollerano l'italianizzazione

né l'occupazione.

Il 30 maggio 1942 il prefetto Testa rende noto, con pubblici manifesti, di

aver fatto eseguire l'internamento nei campi di concentramento in Italia di

un numero indeterminato di famiglie di ]elenje, dalle cui abitazioni si erano

allontanati giovani maggiorenni senza informarne le autorità. Ma non si limita

alle deportazioni. «Sono state rase al suolo le loro case, confiscati i beni e

fucilati20 componenti

di dette famiglie estratti a sorte,per

rappresaglia".La

rappresaglia continua; il 4 giugno gli uomini del II Battaglione squadristi di

Fiume incendiano le case dei villaggi: Bittigne di Sotto (Spodnje Bitinje),

Bittigne di Sopra (Gornje Bitnje), Monte Chilovi (Kilovce), Rattecevo in Monte

(Ratecevo). A Kilovce sono fucilate ventiquattro persone; non c'è villaggio

sul territorio di quelli che sono chiamati Territori aggregati e/o annessi a

contatto con l'Istria e la regione del Quarnaro, che non abbia case bruciate o

sia interamente raso al suolo; non c'è una sola famiglia che non abbia avuto

uno o più membri deportati oppure fucilati.

. Ancora più terribile è la sorte toccata agli abitanti della zona di Grobnico,

a nord di Fiume. Per ordine del prefetto Temistocle Testa, dopo l'uccisione

in questo paese di due maestri italiani, reparti di camicie nere e di truppe

regolari, ir rompono nel villaggio di Pothum all'alba del 13 luglio 1942. L'intera

popolazione, rastrellata, è condotta in una cava di pietra presso il campo di

aviazione di Grobnico; il villaggio è prima saccheggiato e poi incendiato. Oltre

mille capi di bestiame grosso e milletrecento di bestiame minuto sono portati

via; ottocentottantanove persone finiscono nei campi di internamento italiani:

più di cento maschi sono fucilati nella cava: il più anziano ha 64 anni, il più

giovane 13 anni.

Con un telegramma spedito a Roma Testa informa:

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Ieri sera tutto l'abitato di Pothum nessuna casa esclusa est raso al suolo et conniventi

et partecipi bande ribelli nel numero 108 sono stati passati pe r le armi et con cinismo si

sono presentati davanti ai reparti militari dell'armata operanti nella zona, reparti che solo

ultimi dieci giorni avevano avuto sedici soldati uccisi dai ribelli di Pothum stop Il resto dellapopolazione e le donne e bambini sono stati internati stop.

Nel solo Comune di Castua subiscono spedizioni punitive diciassette villaggi;

sono passate per le armi cinquantanove persone, altre duemilatrecentoundici

deportate17.

È sempre Testa a firmare, insieme al generale Coturni, il proclama del 15

luglio 1942, che riportiamo per intero:

COMANDO VO CORPO D'ARMATA

E R. PREFETTURA DEL CARNARO (PER I TERRITORI ANNESSI)

PROCLAMA ALLE POPOLAZIONI DEL GORSKI KOTAR (TERRITORI ANNESSI ALLA

PROVINCIA DEL CARNARO E TERRITORI CROATI COMPRESI ENTRO IL PERIMETRO

HRELJN-LIC FERROVIA LIC-DELNICE -BRODNA KUPIN).

(LOCALITA' COMPRESE).

Considerata la necessità di adottare provvedimenti di carattere eccezionale pe r il ripristino

ed il mantenimento dell'ordine pubblico nei territori predetti

DISPON IAMO

l°) a partire da oggi, nei territori sopradetti: sono soppresse tutte le tessere di frontiera

e qualsiasi permesso di circolazione dei nuovi territori (territori annessi alla provincia del

Carnaro); sono soppresse tutte le autocorriere; è vietato il movimento con qualsiasi mezzo

di locomozione, fra centro abitato e centro abitato; è vietata la sosta ed il movimento,

tranne che nei centri abitati, nello spazio di un chilometro dai due lati delle linee ferroviarie.

(Sarà aperto senz'altro il fuoco sui contravventori); - continueranno soltanto i movimenti

e i lavori in corso che si svolgano pe r conto e sotto la protezione dell'Autorità Militare o

degli organi di polizia (territori annessi alla provincia del Carnaro); sono soppresse tutte le

comunicazioni telefoniche e postali, urbane ed interurbane.

2°) a partire da oggi nei territori sopradetti, saranno immediatamente passati per le

armi: coloro che faranno comunque atti di ostilità alle autorità e truppe italiane; coloro

che verranno trovati in possesso di armi, munizioni ed esplosivi, coloro che favorirannocomunque i rivoltosi; coloro che verranno trovati in possesso di passaporti, carte di identità

e lasciapassare falsificati; i maschi validi che si troveranno in qualsiasi atteggiamento, senza

giustificato motivo, nelle zone di combattimento.

3°) a partire da oggi nei territori sopradetti, saranno rasi al suolo: gli edifizii da cui

partiranno offese alle autorità e truppe italiane e croate; gli edifizii in cui verranno trovate

armi, munizioni, esplosivi e materiali bellici; le abitazioni in cui i proprietari abbiano dato

volontariamente ospitalità ai rivoltosi o si siano comunque allontanati (anche in parte) per

unirsi ai ribelli.

Sapendo che fra i rivoltosi si trovano individui che sono stati costretti a seguirli nei

boschi, ed altri che si pentono di aver abbandonato le loro case e le loro famiglie, il Prefettodella Provincia del Camaro e il comandante del V Corpo d'armata garantiscono salva la

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vita a coloro che, prima del combattimento, si presentino alle truppe italiane e consegnino

loro le armi.

Le popolazioni che si manterranno tranquille, e che avranno contegno corretto rispetto

alle autorità e alle truppe italiane e croate, non avranno nulla a temere, nè per le persone,

nè pe r i loro beni.Addì 15 luglio 1942 - XX

Per i territori annessi provincia del Camaro, Il prefetto, f.to Temistocle Testa

Per la rimante zona, Il comandante del V corpo d'armata, f.to Gen. Renato Coturri. 18

La guerra volge alpeggio, la Repubblica di SalòIl lO febbraio 1943 Testa è sostituito come prefetto di Fiume e collocato a

disposizione; in seguito viene nominato Alto commissario in Sicilia: lo sarà fino

all'arrivo degli Alleati. Scrive di lui Alfio Caruso: «Nonostante la presenza di

un energico Alto Commissario, il prefetto Testa, fino al 9 luglio si registrarono

gelosie e ripicche tra autorità fasciste e autorità militari,,19.Che Testa sia un alto gerarca del regime ormai in crisi è testimoniato da

un altro importate personaggio della seconda guerra mondiale: il Colonnello

delle ss Eugen Dollmann, interprete degli incontri tra Hitler e Mussolini e

uomo di fiducia in Italia di Himmler. Scrive, infatti, Dollmann:

Ai primi di aprile del '43 alla stazione Tiburtina di Roma, il Duce che sta per partire per

un famoso incontro con Hitler, è avvicinato dall'inatteso e nervoso ex prefetto di Fiume

Temistocle Testa armato di una borsa gonfia di documenti, che volle parlargli d'urgenza.

Quando il treno fu in moto, trapelarono dettagli, più tardi integrati dallo stesso Testa,

secondo i quali la conversazione aveva avuto lo scopo di esortare il duce a non tornare

ancora una volta a mani vuote dall'incontro con Hitler, e ad insistere affinché si concludesse

con la Russia l'armistizio o la pace, altrimenti rientrando in Italia non avrebbe più lasciato

da uomo libero, come lo zar Nicola, il treno speciale, non potendosi assumere garanzie20 •

Con la caduta del fascismo del 25 luglio il "dinamico e intraprendente

Testa"21 non si perde d'animo: «non è passata mezz'ora dall'annuncio del

capovolgimento - scrive Silvio Bertoldi - e già telegrafano Ricci, Bottai, ...

Temistocle Testa, pregando di poter restare ai loro posti,,22.

Solo quattro giorni dopo lo storico giorno, Testa avvicina Dollmann e glichiede di incontrarsi con il generale Giuseppe Castellano, uomo di fiducia

del Capo di stato maggiore, generale Vittorio Ambrosia. L'incontro si svolge

lo stesso pomeriggio all'albergo Ambasciatori: Castellano assicura Dollmann

che la caduta del fascismo è una faccenda interna italiana e esorta i tedeschi

a non trarre da questo avvenimento deduzioni allarmanti. È sempre Testa a

combinare un altro incontro tra i due: questa volta Castellano prende l'iniziativa

del colloquio e chiede conto degli scopi e della ragione dei movimenti delle

truppe tedesche in Italia. Il tedesco propone che si incontrino Keitel e Ambrosia

e conclude chiedendo se l'affermazione di Badoglio che «la guerra continua» hasubito modifiche; l'italiano nega. Testa entra nelle grazie dei tedeschi; «Dopo

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l'incontro - è Dollmann a raccontarlo - chiesi a Testa una garanzia esplicita

dell'attendibilità delle parole del generale e siccome il prefetto si disse pronto

a garantire con la propria vita, si rafforzò in me la convinzione che quanto

aveva detto Castellano fosse vero,,23. Sarà poi lo stesso Castellano, per conto

del Governo Badoglio, a firmare a Cassibile, il 3 settembre 1943, l'armistiziodell'Italia con gli Alleati.

Dopo poche settimane ritornano i fascisti e, nella neonata Repubblica di

Salò, Testa diventa Capo dell'ufficio intendenza del ministero dell'Intèrno; per

dirla ancora con le parole di Dollmann: "dittatore dei trasporti, con alle sue

dipendenze i convogli automobilistici vaticani,,24.

Nell'ambiente romano si muove benissimo, ha ottimi rapporti con i tedeschi,

in modo particolare con il colonnello Dollmann, è in contatto con il Vaticano ed

è l'uomo di fiducia del ministro dell'Interno, Guido Buffarini Guidi. Dollmann,

tramite il questore Pagnozzi chiede a Buffarini Guidi: "la nomina dell'ecc. Testaa governatore di Roma, che sarebbe gradita alle autorità germaniche. Solo così

a Roma potrebbe cambiare la situazione,,25. Testa viene subito nominato.

Da intercettazioni telefoniche effettuate dai tedeschi risulta anche una

conversazione di Testa con Mussolini, dopo l'attentato di via Rasella: "Testa:

qui risulta che per ogni tedesco morto devono essere giustiziati trenta italiani!

Vogliono applicare la legge del taglione!". Mussolini: farò il possibile per evitare

un ulteriore spargimento di sangue, ma credo che sia molto difficile ottenerequalcosa, dati i momenti attuali,,26.

Nella riunione del 12 febbraio 1944 del Consiglio dei ministri della RSI viene

decretato il collocamento a riposo del prefetto di la classe a disposizione

Temistocle Testa.

Che Testa sia un personaggio importante lo dice anche Elena Curti, figlia

naturale di Mussolini, che dice di lui:

Il Dr Testa, credo sottosegretario agli interni, uomo serio, poco cordiale, con un certo

sussiego professionale. Non mi aveva fatto alcuna impressione particolare, però qualche

tempo dopo a Gargnano, in visita a Mussolini, quando gli feci il nome di Testa il duce

sbottò: «non pronunciarlo neppure questo nome, solo a sentirlo mi prudono le mani come

avessi la scabbia". Non osai chiedere spiegazioni, commentai solo che potevo capirlo perchésuccedeva anche a me con certe persone, che si rivelavano poi particolarmente false. Il

nome di Testa sarebbe comparso poco dopo fra quelli degli aspiranti successori del Duce,

in un momento critico per la RSI. Si trattava allora di una semplice questione di rivalità?27.

La guerra volge al peggio per i nazi-fascisti, Testa non è più l'uomo inflessibile

ed energico che tutti conoscono, ma diventa disponibile e ragionevole. Un

suo braccio destro è il capitano Giuseppe Cancarini Ghisetti, specializzato,

scrive D ollmann in salvataggi particolarmente delicati di prigionieri di origine

ebraica; Ghisetti è un agente dell'oss, che diventerà fondamentale per la sorte

di Testa e Dollmann. Testa ha dei problemi con un fanatico capitano delle

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55, Wenner, che lo manda in via Tasso; anche il ministro Buffarini Guidi per

qualche ora è imprigionat028 .

Con la Liberazione di Roma Testa segue Dollmann a Firenze; qui il tedesco

chiede a Buffarini Guidi, tornato in auge, di avere come "fiduciario", l'ex

prefetto di Fiume. Dollmann lo vuole al suo fianco affinché lo metta in contattocon il cardinale di Bologna, Nasalli Rocca, e con il clero dell'Emilia Romagna.

"Certe sue amicizie agevolarono i miei interventi, evitando in numerosissimicasi esecuzioni e crudeltà,,29. Testa interviene a favore dell'impiego degli operai

italiani in lavori di fortificazione e di carattere militare e propone di reclutare

nella zona di Ferrara circa trentamila operai civili.

La sua nuova attività a Reggio Emilia

Testa arriva a Reggio il 21 luglio 1944, sempre con Dollmann; i due si

insediano nella villa Brazzà di Roncina. Le cose si stanno mettendo male peri nazi-fascisti e Dollmann e il suo "fiduciario" cominciano a pensare al loro

futuro; il 14 ottobre 1944 è Testa in persona a recapitare al colonnello delle 55

il documento del cardinale di Milano Ildebrando Schuster, considerato inizio

delle trattative di resa dei tedeschi agli alleati. A consegnarlo a Testa è stato

il "suo" capitano Ghisetti, agente 055, che ha seguito i due in Alta Italia per

ordine dei servizi segreti; Ghisetti lo ha a sua volta ricevuto da monsignor

Bicchierai, segretario di Schuster. In questo documento si chiede ai tedeschi di

salvare le industrie del Nord, in cambio di una tregua da parte dei partigiani;

questo accordo non va in porto, ma è la premessa per l'avvio dei rapporti che

porteranno Dollmann e il Generale Wolff a Zurigo a trattare direttamente aLugano, con Allen Dulles, la resa dell'esercito tedesco in Italia30 .

Anche a Reggio Dollmann, sempre servendosi di Testa, cerca di acquisire

dei meriti nei confronti dei partigiani e degli alleati; evita la fucilazione dei

partigiani del Comando di Piazza di Reggio, catturati dai fascisti e condannati

a morte. Convoca, infatti, una riunione a Parma dove impone ai fascisti la

sospensione della pena per Calvi di Coenzo, Prandi e Ferrari; solo il comunista

Zanti sarà fucilato. Questi saranno trasferiti prima a Parma, poi, grazie sempre

a Ghisetti, a Verona dove saranno rilasciati con tante scuse pochi giorni prima

della fine della guerra31

. In questi giorni anche Testa cerca "benemerenze"ed evita la fucilazione per un altro partigiano, Sergio Ghinolfi, che diventerà

l'autista di Dollmann. Salva dalla brigata nera anche il capitano inglese Tuckler

e don Giovanni Barbareschi, che avevano in animo di coinvolgere il Maresciallo

Graziani nella resa degli italiani. Li fa ricevere da Wolff che farà passare in

Svizzera l'emissario alleat032 .

Siamo nella primavera del '45 e Testa, come abbiamo visto all'inizio di

questo lavoro, si incontra a Baiso con i partigiani; in realtà è davvero in

contatto con il generale delle 55 Karl Wolff e con il cardinale Schuster e forse

ha in animo di ottenere qualche cosa per un eventuale accordo. L'incontro tra

i Wolff e il Cardinale, fissato per il 12 aprile, viene rinviato al 21, ma ormai ètardi perché la guerra in Italia finisce proprio in questi giorni.

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L'arresto e la morteNei primi giorni dell'insurrezione Testa si costituisce spontaneamente

alla Questura di Milano; arrestato e consegnato alla camera dei detenuti è

in seguito inviato alle carceri di San Vittore. Come si legge dalla cronaca del

giornale "L'Unità democratica" del 10 agosto 1945 i signori Malavasi e Vaccarilo prelevano da San Vittore, ma non lo traducono alle carceri di Modena, città

che invoca la sua presenza per i crimini commessi, lo trattengono invece in

un locale privato. Per questa violazione della legge si rende necessario un

accertamento: da questo il loro fermo e il conseguente rientro del Testa a San

Vittore.

Successivamente la questura provvede, con i suoi agenti, alla sua traduzione

a Modena e alla consegna alla Corte di Giustizia33 .

A Modena però non verrà processato; il 17 novembre 1945 il prefetto di

Modena, Zanetti, risponde alla Commissione dell'epurazione del ministerodell'Interno che: "il dr Testa "a quanto risulta a questo ufficio sarebbe

attualmente rinchiuso nelle carceri di "Regina Coeli",,34.

Sicuramente anche il governo Jugoslavo ha richiesto la sua estradizione

per i crimini commessi in Istria; sappiamo però che nessuno dei circa

settecentocinquanta criminali di guerra italiani richiesti è stato consegnato alle

autorità jugoslave.

Temistocle Testa nell'elenco dei nominativi sottoposti alla commissione

inchiesta per i presunti criminali di guerra italiani è inserito tra i ventinove

deferiti (situazione al 23 marzo 1948); centotrentatré sono i discriminati, sei isospesi35 .

Di Testa sappiamo che è morto il 17 luglio 1949, suicida, come riferisce nelsuo libro Elena CurtP6.

l G. FRANZINI, Storia della Resistenza reggiana, ANPI RE, Reggio Emilia 1982, p. 707.2 IVI, p. 708.3 Lettera Mons. Rabotti del 16 aprile 1945 al Comando unico di zona, ArchivioISTORECO.

4 Corpo Volontari della Libertà, Comando unico di zona del 20 aprile 1945, ArchivioISTORECO.

5 P. ALBERGHI, Modena nel periodo fascista 0919-1943), Mucchi e SIASS, Modena 1998,pp. 23.ALBERGHI, op. cit., p. 151.

7 IVI, P 155.8 M. MISSORI, Governo, alte cariche dello Stato, alti magistrati e prefetti del Regno d Italia,Istituto grafico tiberino, Roma 1989.9 T. MARRONI, Meglio non sapere, Laterza, Bari 2003.lO L. ROBUFFO, Giovanni Palatucci, Dipartimento polizia di Stato, Roma 2002.II M. COSLOVICH, "Il Piccolo", giornale di Trieste, 20 novembre 2000.12 P. VANZAN, M. SCATENA, Giovanni Palatucci il Questore giusto, Pro Sanctitate, Roma

2004, p. 41.13 A.L. lAMINI, Il salvataggio degli ebrei a Fiume, Il Movimento di Liberazione in Italia,1955, p. 45.

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14 A. MARzo MAGNO, Diario, WWW.ISTRIANET.ORG.15 VANZAN, SCATENA, op. cit., p. 67.16 As 1769. Collezione prigioni e campi di concentramento delle forze di occupazione,

scatola 1, Sezione II. Archivio di Stato repubblica Slovena.

17 G. SCOTTI, "Il Manifesto", 4 febbraio 2005.18 Fondo Gasparotto b.10, f.38, presso archivio Fondazione ISEC (Istituto per la toria

dell'età contemporanea), Sesto San Giovanni (MI).

19 A. CARUSO, Arrivano i nostri, Longanesi, Milano 2004, p. 158.20 E. DOLLMANN, Roma nazista, Milano, 1948, p. 118.21 ALBERGHI, op. cit., p. 58.22 S. BERTOLDI, Colpo di Stato, Rizzoli, Milano 1996, p.246.

23 DOLLMANN, op. cit., p. 150.24 IV!, p. 194.

25 G. BOCCA, La Repubblica di Mussolini, Mondadori, Milano 1994, p. 149.26 Acs, Fascicolo intercettazioni telefoniche ufficio informazioni tedesco. Trascrizione

nastro registrato 23-24 marzo 1944.27 E. CURTI,

Il chiodo a tre punte,Iuculano editore, Pavia 2002, p 118.

28 DOLLMANN, op.cit., p. 225.29 IV!, p. 23l.

30 F. LANFRANCHI, La resa degli ottocentomila, Milano, 1948, p. 43.31 DOLLMANN, op . cit., p. 237-238.32 IV!, p. 339.33 "L'Unità democratica", lO agosto 1945.34 Archivio di Stato di Modena. Gabinetto della prefettura 1945 b.710.

35 Fondo Gasparotto b.10, f.38 presso Archivo Fondazione ISEC, Sesto San

GiovanniCMI) .36 CURTI, op. cit., p. 118.

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L'autonomia al lavoro:

comune e nfanzia.

Intervista aLoretta Giaroni

su Scuole enidi comunali

acura di Ettore Borghi

Tu entri nella giunta comunale di Reggio nel gennaio 1967. Qualiesperienze formative avevi alle spalle? Che cosa, soprattutto, aveva prima

d'allora maggiormente contribuito ad orientare i tuoi interessi verso i servizi

sociali alla persona?Prima di entrare nella giunta del Comune di Reggio sono stata coordinatrice

dell'Unione donne italiane provinciale per dieci anni e, prima ancora, delle

donne del Partito comunista italiano. Quindi le mie esperienze formative sono

soprattutto collegate alle teorie e alle politiche, alle lotte per l'emancipazione

femminile, essenziali per liberare un intero genere ancora discriminato e percambiare la società.

Si può dire che il momento in cui assumi questa responsabilità coincidacon una fase di svolta nella politica e italiana per quanto riguarda il ruolodelle autonomie locali e/o nella specifica situazione politico/amministrativa

reggiana?Nel 1967 il Partito socialista italiano è al governo del Paese alleato con la

Democrazia cristiana per la prima volta dal '47, e a livello locale il PSI esce dalla

Giunta comunale, cui fa da contrappeso l'alleanza tra il PCI e il PSIUP per effetto

della scissione che aveva investito il PSI. Sono fatti rilevanti, specialmente se

considerati insieme al cambio del Sindaco nel 1962 che coincise con l'apertura

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di un dibattito in Emilia la cui prima conclusione fu quella "di considerare non

più sostenibile, ed anzi dannoso l'obbligo di subordinare l'attività del comune

al pareggio del bilancio e di rispettare la distinzione tra spese obbligatorie

e spese facoltative. Si decise che le funzioni e gli indirizzi dei poteri locali

dovevano essere ricostruiti in relazione alle esigenze e alle priorità che larapida e massiccia industrializzazione del Paese richiedeva e di contrastarne

alcuni indirizzi e correggerne le distorsioni». È in questa "impresa" che mi sono

trovata fino al '75.

Gli anni del miracolo economico (1958-1963) e del dopo boom vedono una

crescente richiesta di scuole pubbliche per l'infanzia, sorretta anche da una

crescente consapevolezza psico-pedagogica sulla rilevanza dell 'età 3/6 anni

per lo sviluppo successivo della personalità. Reggio, come altre città governate

dalla sinistra, puntò sulle scuole comunali. Mi sembra di ricordare però chevoci anche di primo piano della stessa sinistra si espressero a favore di una

generalizzazione della scuola statale. Come puoi riassumere le ragioni chevi SPinsero sulla vostra strada, fra l'altro dijjicile per le forti resistenze chedovevate superare?

A Reggio, come in altri comuni reggiani, abbiamo scelto le scuole

comunali dell'infanzia innanzi tutto perché a rivendicarle nei confronti delle

Amministrazioni comunali erano le donne e l'um in nome del diritto al lavoro

per le donne quale fattore di arricchimento della personalità e per favorire la

conciliazione tra compiti familiari e lavoro extra domestico.In seguito queste motivazioni generarono quella del bambino come soggetto

e fonte di diritto nella famiglia e nella società. L'altra ragione fondamentale è

che la Giunta si era data un deciso indirizzo autonomistico come prescrive la

Costituzione, allo scopo di rispondere alle esigenze della comunità.

È vero che nel dibattito che ha preceduto l'uscita della legge 444 del '68

istitutiva della "scuola materna statale", c'era anche a sinistra chi sosteneva la

generalizzazione della scuola materna statale.

È stato un confronto che qualcuno ha definito astratto, perché in Italia non

esisteva una struttura pubblica di scuole per bambini dai tre a sei anni, non

c'era la scuola statale e la comunale era molto limitata quantitativamente.

Esisteva, come esiste tuttora, una fitta rete di scuole private, ora paritarie, in

grande maggioranza gestite dalle parrocchie o da organizzazioni confessionali

sovvenzionate dal ministero dell'Interno. Quindi, era certamente positivo volere

una legge che avocasse direttamente allo Stato il dovere di provvedere ai bisogni

educativi dell'infanzia in termini di diritto e non soltanto di assistenza.

Ma il contenuto della legge si è rivelato deluden.te.

Dopo cinque anni, non si era costruito nessun edificio di scuola materna

statale e quelle istituite sono state aperte in locali messi e disposizione daiComuni, sui quali sono cadute tutte le spese di gestione tranne quella per il

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personale insegnante. Come contributi di gestione, per una lira che lo Stato

dava ai Comuni, tre lire dava ai privati. Positivo l'obbligo delle spese dei

Comuni per istituire e mantenere scuole proprie, (art. 25 l. 444)

Ricordo però, che quando abbiamo aperto la scuola "Diana" nel marzo

1970, erano già passati due anni dalla legge 444 e la GPA (Giunta provincialeamministrativa) non ci aveva ancora dato il benestare che non arrivò mai.

Negli anni Settanta è mai accaduto che sui temi delle politiche versol'infanzia si formasse in Consiglio comunale, in città o in provincia, un siapur momentaneo schieramento trasversale fra donne di diverso orientamento

politico?I temi delle politiche verso l'infanzia sono stati a lungo il vero punto di frizione

e di conflitto soprattutto nel Consiglio provinciale, per le ampie competenze

della amministrazioni provinciale in materia di assistenza all'infanzia.Nel Comune capoluogo, malgrado l'inclinazione a preferire le scuole

materne statali e a richiedere finanziamenti comunali per le materne private,

il gruppo consiliare DC dopo osservazioni e proposte, ha votato in Consiglio

comunale a favore dei piani di sviluppo quantitativo delle scuole comunali

e del regolamento del '72, che riconosce la forza culturale dell'esperienza

fissandone le caratteristiche dell'organizzazione logistica e pedagogica.

Gli anni a cavallo fra i Sessanta e i Settanta vedono il movimento degli

studenti occupare le facoltà e denunciare l'autoritarismo imperante nel mondouniversitario, nelle leggi vigenti (per lo Più residuo dell'epoca fascista) e negliapparati che ne imponevano l'applicazione.

Indubbiamente con le scuole comunali di Reggio volute dalla giunta

presieduta da Renzo Bonazzi e animate da Loris Malaguzzi sorgeun esperienza

collettiva che è agli antipodi dei metodi autoritari tanto nella gestione diattività scolastiche quanto nelle procedure educative adottate. Invero almenoqui lo slogan dell'immaginazione al potere ha trovato un'effettiva attuazione!

Quello che avvenne ai due estremi della scala scolastica C'materne", comesi diceva allora, e atenei) correva su piani distinti e separati o, per comelo ricordi, la consapevolezze dei fatti ((scandalosi" verifìcatisi nelle scuole

secondarie superiori ( i l caso del processo ai redattori del giornalino scolastico((La Zanzara", per esempio) e nelle università (non solo italiane) contribuiva a

conferire senso e incoraggiamento alla vostra azione?

Direi piani distinti e autonomi ma tutt'altro che separati. In quegli anni di

grande fermento e partecipazione, la Giunta comunale ha sostenuto il diritto

allo studio contro la selezione soprattutto a livello della scuola per l'infanzia,

in quanto la possibilità di eliminare i dislivelli dovuti alle differenze sociali è

molto maggiore quanto minore è l'età del bambino.

Ha inoltre rivendicato il dovere per lo Stato di finanziare e generalizzarela scuola pubblica dai tre ai sei anni gratuita e gestita dai Comuni insieme alle

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famiglie, agli insegnanti, ai lavoratori ausiliari e alle espressioni organizzate

della comunità. Contemporaneamente, la Giunta comunale molto unita ha

deciso di investire in proprio nelle scuole comunali.

Nel! 'esplosiva successione di aperture di nuove scuoleodi municipalizzazionedi altre preesistenti, avvenuta fra la fine dei Sessanta e iprimi anni Settanta, cifu indubbiamenteun concorso di SPinte rivendicative "dal basso)) e di autonomedecisioni istituzionali. In un certo senso la tua storia personale ti faceva

partecipe di entrambi questi fattori, quindi tipone nella posizione migliorepervalutarne sia il peso specifico, sia il reciproco rapporto. Puoi parlarne?

All'inizio del '67 esistevano solamente due scuole comunali che avevano

cominciato a farsi conoscere ed apprezzare in città anche attraverso "uscite"

come la rassegna del disegno infantile realizzata sotto i portici del Teatro

Municipale. Loris Malaguzzi ne era l'animatore con impegno appassionato, suo,delle insegnanti e del personale ausiliario. Ma la metà dei bambini residenti

dai tre ai sei anni, circa duemila, non frequentavano alcuna scuola.

Il problema era di aprirne altre tanto più che le cinque scuole materne

gestite dall'uDI (delle otto aperte nell'immediato dopoguerra) e alcune scuole

materne parrocchiali, rischiavano di chiudere per difficoltà economiche.

Elaborammo un primo programma che prevedeva quattro scuole: "Diana",

"Crocetta", "PEEP" e "Via Veneri" e l'assunzione di tutte le scuole materne private

che lo chiedevano.

Presentammo il programma attraverso incontri con i genitori nei Quartieri enella Sala del Tricolore. Per accelerare, ci orientammo a cercare edifici costruiti

per altre destinazioni ma adattabili per scuole dell'infanzia.

Si formarono "Comitati di iniziativa per le scuole comunali" autorganizzati

che si rilevarono efficentissimi nel promuovere iniziative, raccogliere firme,

segnalare edifici, organizzare la manifestazione provinciale del "trenino" (nel

giugno 1969) che inviò al Parlamento una delegazione di cinquantaquattro

persone. Quattordici su venti scuole comunali aperte al 1975 sono nate in

locali adattati dall'Amministrazione comunale di Reggio Emilia, con il lavoro

volontario ed entusiasta di tanti genitori.

L'idea e la scelta di puntare su edifici riciclabili, oltre a favorire l'accelerazione

quantitativa, ha avuto effetti positivi anche sul piano pedagogico, come tu

stesso hai rilevato in occasione di un recente corso di formazione organizzato

da Reggio Children «svincolati dai parametri rigidi dell'edilizia scolastica il cui

modello isolava le aule rispetto gli altri spazi la ristrutturazione ha consentito

di lavorare di inventiva utilizzando l'esperienza maturata nelle prime scuole

. comunali. Per esempio, le modifiche allo spazio ambiente per l'aula atelier per

il lavoro di gruppo dei bambini, una delle conquiste più originali delle scuole

comunali reggiane».

Quello che ha fatto la differenza del periodo 1967-1975, a mio parere,oltre al contesto generale più favorevole, sta nell'avere promosso come

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Amministrazione comunale una politica per l'infanzia che ha tenuto insieme

idealità e concretezza, quantità e qualità.

Sta nel metodo adottato che ha funzionato da moltiplicatore di risorse d 'idee

e forme di mobilitazione originali ed efficaci.

Sta nella concertazione tra le spinte rivendicative - prevalentemente digenere ma non solo - e l'intervento istituzionale. Una pratica che ha esteso

e collegato il movimento su tutto il territorio comunale e oltre, che ha creato

rapporti di stima e solidarietà tra le persone. "Tutto questo sta prima e costituisce

l'originale nutrimento del progetto pedagogico". Molti visitatori domandano,

perché proprio a Reggio queste scuole? La risposta più facile è: "Perché qui

c'era Malaguzzi".Vero, com'è vero che Malaguzzi era anche a Modena in qualità di coordinatore

e consulente pedagogico delle scuole dell'infanzia comunali dal 1968 al 1974.

A Modena Malaguzzi ha dato un contributo fondamentale per qualificare lescuole, non senza momenti conflittuali. Non riuscì, diversamente da Reggio,

a introdurre la figura dell'atelierista e a salvaguardare l'esperienza nevralgica

della cucina in ogni scuola. Sulla rivista "Zerosei" ha scritto: "Si taglia perché

c'è la crisi, si industrializzano e si anonimizzano i pasti dei bambini ... ma qual

è il giusto allorché si risparmia sui bambini?".

E quando l'Amministrazione comunale modenese decide nel 1974 di

eliminare le cucine per un servizio centralizzato, abbandona l'esperienza di

Modena, non potendo sopportare la rinuncia qualitativa all'identità del sistema

che difende e sta costruendo in quegli anni. La tesi "meno qualità per piùquantità e in fretta" è stata smentita dalla storia concreta delle scuole comunali

di Reggio, dove si sono tenute saldamente e consapevolmente unite quantità e

qualità. Qui a Reggio le amministratrici e gli amministratori hanno ritenuto che

il giusto sia investire sui bambini, anche in periodi di crisi, ossia sul futuro.

Tu eri in prima linea anche nel momento del varo di una legge nazionale

sui nidi, che fra altro comporto il superamento della limitata concezioneigenico-sanitaria delle istituzioni rivolte alla primissima infanzia, offrendo

nel nostro caso la possibilità di estendere al nido la visione educativa aperta,sperimentale e collaborativa propria delle scuole dell'infanzia malaguzziane.

Come puoi rievocare la posta politica allora in gioco in questo campo, e le

difficoltà del momento?Fino all'approvazione della legge 1044 nel 1971, gli asili-nido in Italia erano

pochi e gestiti dall'oMNI, un Ente pubblico finanziato dallo Stato, istituito dal

regime fascista nel 1925 per la "proteZione della maternità e dell'infanzia".

L'OMNI aveva poteri di vigilanza e di controllo su tutte le istituzioni pubbliche

e private per l'infanzia e la maternità (collegi, istituti, orfanotrofi, colonie,

asili, ecc.). In realtà questo Ente è stato al centro di ignobili scandali ai danni

dell'infanzia.Con la legge n. 860 del 1950 sulla tutela della lavoratrice madre, l'Italia

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ha la prima legge sociale che impone ai datori di lavoro con mano d'opera

femminile l'obbligo di istituire camere di allattamento o asili nido aziendali.

Significativo che nel dibattito parlamentare fin da allora sia emerso il problema

della liquidazione dell'oMNI e di un rapporto nuovo tra famiglia e società.

A metà degli anni Sessanta con un record di natalità il più alto dal dopoguerra

(una delle conseguenze del miracolo economico) era tempo ormai di passare

dalla tutela delle madri, lavoratrici a carico dei datori di lavoro, alla tutela della

maternità per tutte le donne chiamando in causa l'intera società.

La posta in gioco era dunque il riconoscimento della funzione sociale

della maternità da tradurre in precise norme di legge all'interno della riforma

sanitaria e della riforma dell'assistenza.

L'iniziativa legislativa dei sindacati CGIL., CISL, UIL tendeva a modificare il

vecchio rapporto lavoratrici-datori di lavoro sancito dalla legge n. 860 mentre

la proposta di legge d'iniziativa popolare presentata dalle deputate dell'uD!andava oltre.

Da parte sua, il governo, nel programma di sviluppo economico per il

quinquennio 1965-1969 al titolo della sicurezza sociale aveva inserito l'obiettivo

di duemilaottocento asili nido residenziali affidandone la costruzione e la

gestione, con il contributo dello Stato, agli Enti locali.

A questo punto, per non restare fermi ad attendere una nuova legislazione,

ma anzi per sollecitarla anticipandola concretamente, l'Amministrazione

provinciale e otto Comuni compreso il Capoluogo istituiscono un «consorzio

provinciale per nidi d'infanzia» allo scopo di avviare la costruzione e gestionedi nidi residenziali gestiti dai Comuni, da finanziare con i contributi di tutti i

datori di lavoro, dello Stato e degli Enti locali.

L'area delle ceramiche diventa presto l'epicentro del movimento, i sindacati

e i lavoratori (a grande maggioranza donne) strappano accordi aziendali sino

a un punto percentuale sul monte salari e il comune di Scandiano nel febbraio

1969 apre il primo nido della provincia a gestione diretta finanziato da tutti i

datori di lavoro e dal Comune. In città, l'obiettivo della Giunta è di costruire un

nido ad un tempo aziendale e territoriale per affermare il diritto del Comune

di dare risposte non solo alle proprie dipendenti ma a tutte le madri.

L'iniziativa è assunta immediatamente come obiettivo di lotta dalle

dipendenti comunali con il sostegno del Circolo UD! e dei sindacati aziendali.

Si sceglie un'area a edilizia economica e popolare comprendente lo spazio

per attrezzature collettive di carattere scolastico, già approvata con decreto dal

ministero dei Lavori pubblici.

Viene così superata la consueta opposizione della GPA. Cioè l'avvio dei

lavori di costruzione dell'edificio cominciano nel 1969 e l'apertura del nido ai

bambini avviene il 13 dicembre 1971 a pochi giorni dall'approvazione della

legge nazionale sugli asili-nido. L'unità di indirizzo pedagogico con le scuole

comunali dell'infanzia è esplicitata nel «regolamento per la gestione dei nidicomunali» approvata dal Consiglio comunale nel luglio 1971, dopo il passaggio

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nella Consulta e un intenso lavoro di consultazione e di pubblico confronto.

Lo scioglimento dell'oNMI, decretato dal Governo un mese prima, trova ilComune preparato al trasferimento dei due nidi ONMI alla gestione comunale.

In questa fase la novità più rilevante è l'entrata in funzione dell'Ente regione,

in Emilia-Romagna particolarmente tempestivo ed efficace nel coordinareComuni e Province di fronte al trasferimento di nuovi poteri e compiti (ONMI,

beni ex GIL, riforma dell'assistenza ecc.).

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Claudio Truffi, un reggiano

trapiantato per l'Italia.Un percorso di vita

Reggiani da non dimenticare

Teresa Vergalli*

Penso che Reggio Emilia abbia dato un bel contributo all'Italia in campo

politico, che è quello in cui possiamo essere collocati sia io sia mio marito,

Claudio Truffi. lo molto di meno, perché ho lasciato la vita politica attiva

nel 1962. Claudio, invece, ha dedicato tutta la sua esistenza agli interessi dei

cittadini.

Mi viene spontaneo ricordare tanti nomi di reggiani, donne e uomini che ho

conosciuto e ai quali ho voluto bene, che hanno avuto destini simili al nostro.

Non voglio riferirmi ai grandi nomi conosciuti, cioè Nilde lotti o Romano

Prodi, ma ad altri più in ombra, addirittura modesti, come quello di Nadina

Azzarri, da Fabbrico, che era a Novara negli anni 1950-1953 a fare lavorosindacale tra le mondine.

Tra i più noti c'è Giannetta Magnanini, che le sue lotte e i suoi sacrifici in

giro per l'Italia li ha già raccontati e che, a differenza di noi, è poi ritornato nella

sua città. Tra quelli che non sono tornati ricordo con commozione Carmen

*Ringrazio i miei figli Alberto e Corrado per alcune consulenze e ricordi. Grazie anchea mio fratello Orio per i consigli.Un

ringraziamento va anche a Mirella Fiorini ed Andrea Gianfagna per notizie sulsindacato degli alimentaristi; a Virginia Cristofari, Tonino Panucci e Carla Cantoneper la storia del sindacato dell'edilizia.

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Zanti e con affetto Carlo Pagliarini, col quale ho fatto in tempo a collaborare

qui a Roma in anni non lontani. Altro reggiano da ricordare è Giacomo Tosi,l'ex comandante partigiano Matteotti, di San Polo d'Enza, che è stato per

lunghi anni alla direzione nazionale della CGIL con incarichi operativi speciali

e che, attorno e dopo gli anni Ottanta, è stato Consigliere d'amministrazioneall'INPs quando mio marito Claudio ne era vice presidente. E ancora qui a Romavoglio ricordare Leda Colombini, che non solo è stata eletta al Parlamento, ma

è diventata talmente romana che è stata assessore alla Regione Lazio ove ha

diretto l'importante settore dei servizi sociali.

In missioneper un ideale laico

Proposte a cui non si voleva dire di no. Ecco la nostra storia d'inviati

comunisti in missioneMio marito, Claudio Truffi, nel 1948 è stato destinato a Novara per voleredella direzione nazionale del Partito comunista,su richiesta dei dirigenti locali di quel partito.

Questa decisione non era nata per caso.Bisogna fare un passo indietro.

Claudio si era distinto a Reggio Emiliasubito dopo la liberazione come indipendentenell'organizzazione giovanile del Fronte della

Gioventù. Era poi entrato nel PCI e, nel 1947,

chiamato a dirigere la commissione stampa epropaganda della federazione provinciale. In

questa veste, a suo merito è ricordato il primogrande Festival dell'Unità al Parco Terrachini,dove venne anche Togliatti. Nell'autunno del '47,

fu inviato alla scuola nazionale del PCI, vicino a

Claudio Truffi nel 1971. Roma, alle Frattocchie. Era una scuola convittoprestigiosa che doveva durare sei mesi. Secondo gli

orientamenti di allora, le scuole di partito intendevano creare una forte schiera

di dirigenti preparati, cioè la nuova classe politica.Vi

si studiava seriamente,soprattutto vi si imparava a studiare.

Claudio in quella scuola si è distinto,' tanto che ha avuto i giudizi piùalti. Prima della scadenza dei sei mesi, vennero indette le elezioni politiche,quelle del 18 aprile '48. Perciò gli allievi di quella prestigiosa scuola furonomandati in varie parti d'Italia a dare manforte agli attivisti del posto. Quella

battaglia era giustamente ritenuta importantissima ed ottimisticamente credutavincente. A Claudio venne assegnata Novara, una provincia veramente grande,che andava dalle risaie alle Alpi. Comprendeva ancora l'attuale provincia del

Verbano Cusio Ossola, i laghi D'Orta e Maggiore e le valli fino alla Svizzera.

L'impegno di Claudio in quella battaglia è stato grandissimo, e non soloper quantità.

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Quella campagna elettorale fu molto dura ed anche avventurosa. Mi è stata

descritta da lui e da altri. Erano gli anni della guerra fredda. In Italia, dopo

l'esclusione dei comunisti dal governo nel 1947, sia la Democrazia cristiana che

la Chiesa conducevano una lotta durissima contro le sinistre. Era la stagione

del Fronte popolare, comunisti e socialisti uniti sotto il simbolo di Garibaldi.In quella campagna elettorale Claudio aveva percorso in lungo e in largo

tutta la provincia, fino a Domodossola. Tutti i paesi, paesini e frazioni avevano

dovuto ascoltare i suoi appassionati comizi. Mi raccontava di quelli buoni, nei

grandi e bei paesi di fondovalle, quelli dove era stata vissuta l'epopea della

Resistenza, quelli delle grandi fabbriche metallurgiche o tessili, dove c'erano

tradizioni e persone di sinistra. Lì c'era folla, entusiasmo e attivismo. Altrove,

nei centri minori o nelle campagne, potevi trovare un grigiore depresso, poca

gente o addirittura nessuno. Lì ci andavi col camioncino e gli altoparlanti,

facevi gli annunci e attaccavi i manifesti, poi qualche ora dopo, mettevi untavolo nel punto migliore oppure salivi sul camioncino e facevi il comizio

alla piazza vuota, sperando che da dietro le finestre o le porte ti ascoltassero

ugualmente, a dispetto del prete, del signorotto e dei loro anatemi.

Claudio non soltanto era bravo a parlare, ma sapeva trascinare e

soprattutto sapeva organizzare, sfruttare tutte le opportunità e mobilitare

gli altri. Conseguenza logica, quindi, che i dirigenti del posto, dopo averlo

visto all'opera, facessero di tutto per tenerselo, per strapparlo via da Reggio,

specialmente dopo la batosta di quel 18 aprile. La direzione del partito accolse

la richiesta e iniziarono le trattative.

Trattative, accordi ed entusiasmiFurono trattative, perché Claudio sollevò il problema mio e nostro.

Avevamo già deciso di sposarci, non prestissimo, ma entro l'anno. In quel

momento io insegnavo a Vaglie di Ligonchio, sull'alto Appennino reggiano. In

precedenza, dopo aver fatto la guerra partigiana con tutta la mia famiglia, ero

stata eletta negli organi dirigenti provinciali del partito e avevo organizzato e

diretto l'associazione delle ragazze, l'ARI, che a Reggio era la più forte d'Italia.

Mi ero fatta conoscere anche in campo nazionale. Così la richiesta di sradicare

Claudio da Reggio coinvolse anche me. Si disse che mi si recuperava alla

politica.

Mi fu fatta la proposta allettante, forse sollecitata da Claudio, di affidarmi

la redazione del giornale settimanale della federazione, "La Lotta". Fu così

che nel giro di qualche mese, terminato l'anno scolastico, ci siamo sposati e il

giorno stesso ci siamo trapiantati in quella città, che allora ci sembrava tanto

lontana.

Le inevitabili sofferenze del distacco e i disagi della realtà nuova

Il nostro emigrare non è stato privo di dolori. Non solo nostri, ma anche

delle famiglie d'origine. Il 12 giugno del 1948, dopo la cerimonia di matrimonio

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in Municipio a Bibbiano e dopo il pranzo in casa, i l comandante Ciro e il

segretario "Wil1y" Schiapparelli, ci hanno portato a Novara con la macchina

della federazione comunista. Ciro, cioè Eraldo Gastone, già eroe della resistenza

in Valdossola, guidava un po' distrattamente, per strade statali interminabili

Posso dire che ero felice, piena di entusiasmo e di speranze per quelpercorso nuovo di vita che ci aspettava. Ma pensavo ai miei e a mia madre.

L'avevo lasciata in lacrime. Non era solo un pianto di commozione, tipico di

ogni madre, ma anche carico di preoccupazione per le inevitabili difficoltà e

le incertezze del clima politico generale. Inoltre, quello era per la mia famiglia

un periodo di particolari difficoltà economiche. Questo nuovo distacco era

l'ultimo per lei di una serie di dolori e tensioni. Dopo aver tanto sacrificato per

farmi studiare, dopo tutte le sofferenze della guerra, dopo essersi impegnata

lei stessa con tutti noi in famiglia nella Resistenza, mi vedeva andar via quando

avrei potuto restare avendo la prospettiva sicura dell'insegnamento. Invece,sia lei che mio padre hanno condiviso da subito le nostre decisioni. Non

hanno sollevato obiezioni e tanto meno divieti, anche se avrebbero potuto, dal

momento che per la legge ero ancora minorenne.

Che a Novara ci aspettassero sacrifici lo sapevamo anche noi. Ma un conto

è pensarlo, altro conto è viverlo.

Accampati in due stanze in coabitazione con altre due famiglie, avevamo

solo i mobili della camera da letto, acquistata a rate da un artigiano di Novellara,

ancora da pagare. Per cucina un vecchio tavolo e due sedie traballanti, un

fornellino elettrico e un piccolo scaffale da ufficio. Il bagno assegnato a noiera piccolissimo con un minuscolo lavabo e un water. Era il bagno destinato

alla donna di servizio in quel grande signorile appartamento.

Mangiavamo spesso alla mensa dell'UNRRA, che era una specie di mensa dei

poveri, da dopoguerra.

Dopo un po' di anni siamo passati alle stanze vicine, sempre due, ma una

era la cucina, con un vero lavandino, un fornello a gas e un armadio a muro.

Però, grande passo avanti, il bagno aveva la vasca, ma niente riscaldamento,

ne' acqua calda. Infatti, l'appartamento signorile, grandissimo, che andava

fino all'ala opposta, aveva una caldaia e un impianto autonomo, ma noi non

avevamo mezzi e permessi per metterlo in funzione. D'inverno si moriva di

freddo, quasi come a Bibbiano, col solo vantaggio di buoni muri e di piccole

stufe elettriche da usare con parsimonia.

Altrettanto di fortuna era il trattamento economico. Per lunghi periodi si

andava avanti ad acconti di cinquecento o mille lire, senza sapere quando se

ne poteva ricevere altri. Era festa grossa se l'acconto superava le cinquemila

lire. A questo quadro logistico assomigliavano molto anche le condizioni di

lavoro.

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Subito al lavoro coi nuovi compagni

Eravamo arrivati a Novara di sabato. La domenica l'abbiamo trascorsa a

conoscere compagni e a regalare confetti. Il lunedì eravamo già in federazione

a darci da fare col lavoro.

Il sabato e la domenica successivi siamo andati ad Omegna e Domodossolain treno. C'era un convegno e siccome avevamo dormito in albergo, ho

scritto a casa che mi serviva un certificato di matrimonio, per evitare future

contestazioni.

Claudio è stato nominato quasi subito vice segretario della Federazione.

Segretario era Stefano Schiapparelli, "Willy", personaggio notevole,

simpaticissimo, straripante e molto autoritario. "Willy" aveva un biografia

sorprendente, di cui però non si vantava. A otto anni era stato a lavorare in

Novara - 1949. In piedi da sinistra: Sergio Scarpa, Palmiro Togliatti, Stefano "Willy" Schiapparelli, Carlo Truffi; accosciati da sinistra: Eraldo Gastone, Fernando Zampieri.

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fornace, a tredici era operaio tessile a Biella, poi, dal '23, esule o fuoruscito in

Francia, in Belgio ed anche Olanda, ove collezionava lotte, arresti ed espulsioni,

fino ad approdare a Mosca nel '34 e '35 e infine a Marsiglia e Cannes nella

guerra nel Maqui.

Non era facile lavorare con questo dirigente, attivissimo, p1etorico, facile agliattacchi di collera e dal linguaggio colorito e dissacrante. Claudio era riuscito

a conquistarlo, forse perché come carattere era tutto l'opposto. Claudio era

sempre calmo, riflessivo, corretto e molto determinato. Le sue intuizioni e le

sue iniziative avevano alla fine il consenso e il sopravvento sull'attivismo un

po' caotico e improvvisato di "Wi11y".

Devo dire che in quella città Claudio era molto in sintonia con altri dirigenti

del posto. Direi che chi gli assomigliava di più come personalità, era Eraldo

Gastone, Ciro. Anche Vincenzo Moscatelli, il comandante Cino, era una bella

persona. Entrambi erano al Parlamento, deputati o senatori. Poi c'era SergioScarpa, detto "Geo", anche lui ex ufficiale partigiano e deputato.

Ci siamo affezionati ben presto non solo a questi personaggi di primo

piano, ma anche a persone umili, che costituivano l'apparato, come un certo

Paglino, che era portiere o custode, uomo molto modesto ma molto rispettato,

per i lunghi anni di carcere che si era fatto assieme a quasi tutti i capi del

partito, Pajetta, Terracini e non so chi altro. O anche il "vecchio" Filopanti,

molto male in arnese, che aveva una ugualmente gloriosa aureola di carcerato

politico di lungo corso, che sorrideva sempre e raccontava barzellette.

lo ero molto affezionata a Gisella F1oreanini, bellissima donna, valorosaministro della Repubblica partigiana di Domodossola, prima donna in Italia

a ricoprire tale carica, quando ancora il voto alle donne era di là da venire.

Gisella, partigiana, quando si sentì proporre il ministero "della carità" si

arrabbiò per quel termine avvilente e pretese che quel ministero fosse chiamato

ministero dell' Assistenza. Coerentemente impostò l'opera di assistenza secondo

solidarietà, cioè coinvolgendo i Comuni e la popolazione, con le associazioni

dei Gruppi di difesa e anche con la Croce rossa, che riceveva dalla Svizzera

patate, medicinali e latte e organizzava l'invio di bambini oltre confine.

Tra le donne devo ricordare con affettuosa riconoscenza la dottoressa

Marcella Balconi, deputata a furor di popolo, e pediatra, che si è occupata

anche dei miei figli. Da noi spesso veniva anche mamma Pajetta, Elvira, che

era zia di Marcella, donna di grande fascino personale e politico. Elvira aveva

incarichi di partito nella regione Piemonte e veniva a farci appassionanti

riunioni. I partigiani di Novara le volevano molto bene, anche in ricordo del

suo giovanissimo figlio Gaspare, morto in battaglia in quelle valli, compianto

e ammirato. Per tutti noi, Elvira aveva anche il prestigio di essere la madre di

Giancarlo e Giuliano, così estrosi e amatissimi.

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L'attività politica in una provincia vasta e difficile

L'attentato a TogliattiAppena un mese dopo il nostro arrivo, a metà luglio, c'è stato l'attentato a

Togliatti, che a Novara ha visto imponenti manifestazioni e l'occupazione ditutte le principali fabbriche. lo sono stata poco in piazza, soltanto per dare

un'occhiata e poi correre a scrivere e mettere insieme i numeri straordinari del

giornale della Federazione, raccogliere notizie per telefono o con portanotizie

in bicicletta. In Federazione avevamo soltanto un telefono, perciò si stava in

contatto con la Camera del Lavoro che aveva la sede nella stessa casa del

popolo e si utilizzavano i pochi telefoni di casa dei dirigenti. Poi mi aspettavano

le nottate in tipografia o alla macchina da scrivere e le telefonate all"'Unità".

Sono state giornate campali per Claudio che aveva la responsabilità

dell'organizzazione e si è anche assunta la fatica di contenere certe esasperazioniinsurrezionali a imitazione di alcune vicende della vicina Milano. Questo

drammatico avvenimento è stato per Claudio l'occasione per farsi conoscere

ed apprezzare anche al di fuori del partito, attraverso i contatti con le autorità

e con esponenti di campo avverso.

Togliatti ha poi scelto di passare la convalescenza a Toceno, in Val Vigezzo,

insieme a Nilde lotti. La federazione di Novara ha organizzato e assistito questo

soggiorno con molto affetto e molte visite. Nei tre anni seguenti Togliatti, con

Nilde e la piccola Marisa, ha scelto per le vacanze le valli del Monte Rosa,

chiedendo che i compagni della federazione novarese fossero sul posto percompagnia e vigilanza. In quelle circostanze anche noi, sia io che Claudio,

abbiamo avuto la possibilità di una stimolante vicinanza e gite in comitiva.

I grandi Festival dell'UnitàAltro impegno importante per Claudio, è stato il primo grande Festival

dell'Unità in settembre. Vi ha trasferito tutta la sua esperienza e la sua inventiva

per un avvenimento che non s'era ancora visto da quelle parti. Al Parco dei

Bambini e sui grandi viali detti dell'Allea sono sorti tutti gli stand possibili

immaginabili ad opera delle cosiddette "brigate di lavoro" inventate già a Reggio

l'anno prima. Fu un avvenimento imponente durato un'intera settimana, che si

ripeté in tutti gli anni successivi. Ne ricordiamo uno particolarmente riuscito,

un po' disturbato dalla pioggia, con un enorme concerto di Rita Pavone, allora

poco più che adolescente ma già molto popolare. Claudio ci disse che la

cosa fu possibile perché si ottenne un ingaggio particolarmente favorevole

per intercessione del padre della cantante, allora iscritto o simpatizzante del

partito. Le feste dell'Unità, che erano un vero avvenimento, si ripetevano negli

anni non solo a Novara, ma anche in provincia, perché, secondo le direttive,

tutto settembre era definito «mese della stampa comunista».

Gli anni seguenti sono stati per Claudio, e per tutti i funzionari comunisti diNovara, gli anni della costruzione del partito e dell'ampliamento del consenso

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politico. Il contributo di Claudio è stato determinante proprio per il suo incarico

di organizzatore e per il suo impegno senza limiti. Aveva il dono di rasserenare

tutti e infondere fiducia, trascinare con l'esempio. Era infaticabile.

I risultati sono arrivati nel 1951, quando è stato rotto il monopolio politico

della Democrazia Cristiana. Con le elezioni amministrative del 27 maggio lesinistre hanno conquistato cinquantasei comuni della provincia mentre la DC

perdeva oltre quarantamila voti. Le città di Novara e Domodossola sono andate

alle destre soltanto grazie alla legge degli apparentamenti, ma con il sorpassonumerico dei voti di sinistra. .

Gli anni della guerra fredda e l'arrivo di Eisenhower

In quello stesso anno ci fu l'arrivo in Italia del generale Eisenhower che

veniva a comandare il patto Atlantico. A Novara e provincia ci furono scioperi

e grandi manifestazioni, non solo perché Ike era visto come messaggero diguerra, ma anche per il concomitante arrivo nelle case di molti giovani di

centinaia di cartoline precetto, motivo di allarme e costernazione.

Si era acceso il conflitto in Corea e il Governo italiano aveva fatto questo

passo delle cartoline precetto preventive che oggi ci sembra assurdo. Si era nella

guerra fredda che rischiava di diventare calda. Il governo italiano, schierato

con l'America, voleva mostrare il polso di ferro contro l'opposizione.

Ci fu in Novara e in provincia un'ondata di arresti pretestuosi. Fu arrestato

anche Claudio, insieme a Schiapparelli e altri dirigenti. Li arrestarono

preventivamente la sera prima mentre erano intenti a preparare la manifestazionedi protesta. Arresti preventivi, proprio come si faceva negli anni del fascismo ai

danni dei noti antifascisti quando un maggiorente del regime veniva in visita

in una città.

lo non ero accanto a lui in quel momento e non posso descrivere la scena.

Naturalmente noi rimasti liberi ci mobilitammo al massimo e la manifestazione

riuscì grandissima. Solo il giorno dopo, a calma ristabilita, ottenemmo la

scarcerazione di tutti loro, che, quindi, dovettero rimanere in carcere senza

nessuna accusa plausibile fino a quasi notte.

Certo non fu una bella esperienza. La prigione era ancora nel vecchio

Castello sforzesco, al centro della città, ora monumento archeologico. Con fatica

Claudio mi ha raccontato l'umiliante procedura dell"'accoglienza", completa

di esplorazioni corporali, nonché l'orrore di quelle celle, appunto degne del

termine archeologia. Rifuggiva, però per natura dal vittimismo e dalla vanteria

di presunti eroismi. Anni dopo, quando veniva rievocato quell'episodio, lo

volgeva in ironia, ricordando le donne del sindacato e del partito, anch'esse

arrestate, che avevano cantato per tutta la notte canzoni di lotta, impedendogli

di dormire.

In provincia gli arresti erano motivati come «istigazione a respingere le

cartoline precetto" ma per lo più avevano lo scopo di frenare non solo lemanifestazioni di piazza, ma soprattutto le lotte in fabbrica. C'era in atto,

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infatti, un'offensiva padronale di massicci licenziamenti o chiusure totali. Alla

SIAI Marchetti di Sesto Calende erano in pericolo quattromilacinquecento posti

di lavoro. Se ne salvarono soltanto mille. L'anno seguente alla Valle Ticino di

Cerano si minacciavano trecentocinquanta licenziamenti. A Omegna furono

chiuse la De Angeli, la Cardini e la Piemontesi. Altra ondata di novecento

licenziamenti alla Sant'Andrea di Novara. Con vari pretesti vennero licenziati

dirigenti di commissioni interne, arrestati attivisti comunisti e sindacali,

collettori di firme per la pace oppure tutti quelli che diffondevano volantini

non autorizzati o stampa di opposizione.

In quegli stessi anni molti comunisti ex partigiani furono incriminati per

fatti di guerra definiti delitti o crimini. Per sfuggire al carcere dovettero riparare

all'estero Moranino e Angin, Fernando Zampieri, già valorosi partigiani

e dirigenti comunisti. Due giovani compagni novaresi, Menghi e Galassi,

colpevoli di aver lottato per la pace, cioè istigato a respingere e far respingerequelle famigerate cartoline precetto, tornarono liberi dopo aver sofferto

ventotto mesi nel carcere di Gaeta.

Per le elezioni del 1953 il governo De Gasperi tentò di introdurre un

premio di maggioranza per la coalizione vincitrice, la famosa «legge truffa»,

che non scattò grazie ai risultati ottenuti dall'opposizione. Probabilmente lo

scopo era soprattutto quello di consolidare la maggioranza e ridurre il potere

di interdizione al governo dei partiti minori. Il PCI temeva però che attraverso

questa modifica alla legge elettorale si tentasse un'ulteriore marginalizzazione

dei comunisti o addirittura, in prospettiva, la messa fuorilegge del partitocomunista, come era già avvenuto nella Germania Ovest, dove però il locale

partito comunista aveva un seguito modestissimo.

Come nel resto dell'Italia, anche a Novara e provincia il Partito comunista

organizzò una forte mobilitazione. In provincia il PCI tenne oltre milleseicento

comizi, più di tutti gli altri partiti messi insieme. Dopo i risultati, ad Omegna

la polizia caricò la popolazione festante e il Prefetto destituì il Sindaco di

Castelletto Ticino colpevole di aver fatto suonare le campane a festa.

Dalla parte delle donne

Il mio percorso di moglie impegnata

Anche a me i novaresi volevano bene, ma, essendo donna, sul piano

professionale ho dovuto soffrire numerosi spostamenti. Le dirigenti donne

erano sempre troppo poche per consentire che io, donna, facessi un lavoro

da uomo.

Ho cambiato lavoro non so quante volte.

Come promesso, all'inizio, ho avuto la redazione della "Lotta", il settimanale

della federazione comunista. Contemporaneamente mandavo tutte le sere le

notizie alI"'Unità" di Torino, tanto che avevo ottenuto il tesserino di giornalista.

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Novara - 1954. Claudio Truffi, al congresso CGIL del 1954, a fianco di Giuseppe Di Vittorio.

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Andavo regolarmente in Questura e alle conferenze stampa importanti.

Naturalmente ero la sola donna. I giornalisti anche avversari mi rispettavano

e qualcuno mi aiutava, forse commosso dalla mia poca esperienza e dalla mia

grande volontà.

Poi, dopo un anno, al primo intoppo di salute, anche se passeggero, sonostata sfrattata dal giornalismo, sostituita da un compagno maschio, poi mandata

alla «stampa e propaganda» con un piede nel lavoro femminile, quindi, a

seguire, ai partigiani della pace, al lavoro femminile del partito e per un po'

ancora a dirigere la commissione «stampa propaganda».

Erano anche gli anni della caccia alle streghe e dell'esecuzione, negli Stati

Uniti, dei coniugi Rosenberg con l'accusa di spionaggio.

Il Partito comunista era impegnato intensamente nel movimento dei

partigiani della pace, nel quale mi furono affidate responsabilità provinciali.

Fu un impegno enorme e capillare. A Novara e provincia si raccolsero più diduecentomila firme. Le donne sono state bravissime e sempre in prima fila. In

quella occasione mi sono legata di stima e di affetto con molte di loro da un

capo all'altro della provincia.

Per quell'impegno sono stata mandata anch'io a Parigi al Congresso

Internazionale dei Partigiani della Pace, dove abbiamo incontrato Pablo

Picasso, Dolores Ibarruri, Paul Eluard, il fisico Joliot Curie e tanti altri.

Poco dopo, fine 1950, ho frequentato un prestigioso corso di formazione

politica, cioè la scuola nazionale femminile di Partito a Milano, corso

residenziale, di studio intensissimo, duranteil

qualeho

avuto tra gli insegnantiMiriam Mafai e tra le compagne di studi la cara Anita Malavasi, Laila, di Reggio

Emilia.

Un anno a Roma

C'è stato poi un fortunoso e importante anno a Roma all'uDI nazionale e a

"Noi Donne".

Nei primissimi tempi ho fatto parte della commissione stampa e propaganda

dell'uDI dove in concreto ho curato la realizzazione di un calendario illustrato,

molto apprezzato, che è stato diffuso in tutta Italia a migliaia di copie. Inoltre

ho curato la realizzazione di una serie di diapositive che raccontava per

immagini la storia dell'uDI e quella di "Noi Donne", la rivista settimanale che,

dall'antico color seppia, stava per diventare rotocalco a colori. Era una specie

di video promozionale che i circoli UDI potevano usare nelle riunioni mediante

un proiettore. In quell'occasione ho avuto la fortuna di lavorare con Baldina

Berti, figlia di Di Vittorio, donna dolcissima e saggia, forse troppo modesta nel

gruppo agguerrito di quelle dirigenti che poi l'Italia non ha saputo abbastanza

apprezzare e valorizzare. Ho avuto vicina e in sintonia anche Luciana Viviani,

vivace e attivissima, con quel piglio napoletano tanto affascinante. Meno stretti

ma molto buoni sono stati i rapporti con le altre, come Maria Maddalena Rossi,allora dirigente nazionale, o con le socialiste Giuliana Nenni e Rosetta Longo.

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Mi è stata molto amica Adriana Garbrecht, che avevo conosciuto nei due mesi

di scuola femminile di partito a Milano. Ricordo bene anche Marisa Cinciari

Rodano, che in quegli anni era sempre tra una gravidanza e un allattamento e

tuttavia sempre presente.

All'inizio di novembre del 1951 ero a Vicenza per una serie di riunionie mi ci sono fermata fino a Natale per incarico dell'uDI Nazionale, a causa

della grande alluvione del Po. Avevo il compito di organizzare l'assistenza

in quella tragedia. Anche questa fu occasione di incontri preziosi, come con

Simona Mafai, dolce e preparata o Mirella Alloisio di Genova. A Padova in

quell'emergenza terribile sono stata accolta e inserita in un gruppo meraviglioso

di dirigenti sindacali veneti e di tutta Italia, che avevano preso la guida di

quella azione che era di assistenza ma anche di lotta contro le sderotiche

inadeguate strutture istituzionali.

Al ritorno a Roma sono stata inserita nella redazione di "Noi Donne", cheera diretta da Antonietta Macciocchi. La redazione era un punto d'incontro di

personaggi preziosi, uomini e donne. Primo fra tutti Gianni Rodari, ma anche

Aristarco critico cinematografico e Battaglia che era impaginatore, poi due

giovani fotografi, Pinna e Tano D'Amico, ora molto conosciuto e famoso. E

ancora: la scrittrice Fausta Terni Cialente, Miriam Mafai, Giuliana Dal Pozzo

e la poetessa Sibilla Aleramo che mi dimostrò una particolare simpatia. Una

capo redattrice di Trieste che mi voleva bene era Carmen ]acchia. Segretaria

di redazione era la giovanissima Lietta Tornabuoni. Tra le redattrici c'era Carla

Barberis, - così si firmava - cioè Carla Voltolina, moglie di Sandro Pertini,simpaticissima e intraprendente.

Ritorno a Novara e la nascita dei figli

Nella primavera successiva, nel '53, essendo sfumata la prospettiva per

mio marito di essere chiamato anche lui a Roma, ho scelto di ritornare a

Novara, dove mi è stata data la responsabilità della «stampa e propaganda»

nella federazione comunista. Quell'incarico è durato per tutta la campagna

elettorale contro la legge truffa, che ho affrontato in gravidanza, e dopo, fino

alla nascita del primo figlio Alberto e poi del secondo, Corrado.

Dalle difficoltà familiari e dalle conseguenti inevitabili interruzioni di quegli

anni, 1954-1957, ne è venuto altro cambio di lavoro. Coi bimbi e con un

marito così intensamente impegnato nella dirigenza sindacale, con risorse

economiche limitate, nonostante la buona volontà di entrambi, non mi era

possibile svolgere bene un lavoro politico che richiedeva pieno tempo, sere e

domeniche comprese. Ho rimediato lavorando da casa, per poche lire. Facevo

tre cose. La redazione del notiziario mensile del Comune, una raccolta di

pubblicità, e la correzione delle bozze di libri per la tipografia Stella Alpina,

che stampava per Einaudi e Feltrinelli.

Quando i bambini un po' cresciuti l'hanno reso possibile, ho ripresol'impegno politico, accettando di dirigere l'Unione donne italiane.

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L'esperienza non è stata negativa, ma particolarmente faticosa e fortunosa,

proprio per la difficoltà di conciliare le esigenze e i tempi dei figli con quelle

dell'organizzazione. Non avevamo risorse economiche sufficienti per aiuti

esterni e nemmeno una famiglia di nonni o fratelli alle spalle che potesse

compensare le nostre assenze. Soltanto amici e compagne, a loro volta gravatida problemi.

All'um ricordo tuttavia buoni risultati nell'aumento delle adesioni e della

presenza dei circoli in provincia, nelle lotte per la creazione di asili e per i

doposcuola, per l'appoggio alle rivendicazioni delle lavoratrici nelle fabbriche

tessili e alimentari sui turni notturni, ed anche molte belle manifestazioni e

iniziative culturali per 1'8 marzo e per i bambini. Sono abbastanza fiera di aver

raccolto e fatto lavorare attorno all'um diverse donne di ogni parte politica

ed anche di ceti sociali e professionali diversi. Tra queste voglio ricordare

Rosanna Lampugnani, socialista, Egle Cominoli del sindacato, Rosita Bruni,Angela Corini Bighinzoli, Maria Bergamini, le mogli dei professori Razzano

e Muratori e dell'architetto Meneghetti, una professoressa di origini nobili

albanesi dal cognome famoso: Castriota Scandeberg. Erano molto impegnate

anche Laura Gastone, moglie di Ciro e le donne del Senatore Lazzarino; e tante

altre, operaie, infermiere, braccianti e mondine, delle quali non ricordo i nomi.

Della provincia voglio citare due belle figure di madri di partigiani caduti, fiere

e attivissime: a Verbania Amelia Maccarinelli, ad Omegna mamma Bariselli,

che di figli partigiani ne aveva perduti due.

Non bastavano però sforzi, fatiche e capriole organizzative a colmare

le esigenze dell'impegno, così che alla fine ho deciso di lasciare il lavoro

politico. Senza dirlo a nessuno per non rischiare il prestigio che comunque

mi ero guadagnata, ho affrontato l'esame di concorso magistrale e, a risultato

ottenuto, ho chiesto la sostituzione.

Negli ultimi mesi, non ricordo quanti ma non molti, dall'um Nazionale mi

arrivava un assegno come stipendio. Mi sembra che fosse di quarantamila lire.

Per non lasciare debiti alle mie compagne, gli ultimi assegni li ho adoperati

per saldare tutti i conti con la tipografia, con le agenzie d'affissione, coi teatri

e col telefono.

Anni di peni tenza e finalmente la scuolaPrima però di arrivare all'insegnamento come sognavo, ho dovuto fare

gavetta, anzi penitenza, perché è arrivato quasi subito il trasferimento a Roma di

Claudio, che per me ha complicato le cose. Non avendo abbastanza punteggio

per ottenere una sede d'insegnamento a Roma, ho dovuto accettare di essere

assegnata agli uffici, e precisamente al ministero della Pubblica istruzione dove

per dodici anni sono stata nella segreteria dei tre direttori generali che si sono

succeduti all'Istruzione tecnica.

Per fortuna gli ultimi quindici anni della mia vita lavorativa li ho dedicati allascuola nel mio quartiere, Cinecittà, con grande impegno mio e soddisfazione

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professionale. In parte il mio lavoro è riportato nel libro "Il giornalino scolastico

in Italia" dell'editore Giunti Lisciani, ma più validamente è gratificato dall'affetto

che i miei ex alunni, ora adulti, e le loro famiglie mi dimostrano tuttora con la

loro perdurante e solida frequentazione.

Vita di militanti

Gli spaziper il privato nella realtà novarese fino agli anni '60

Prima della nascita dei bimbi - e sono stati sei anni - io e Claudio non

abbiamo quasi avuto spazi per il privato. Il nostro ritmo di vita era a dir poco

caotico. Uno andava e l'altro veniva. Tutto il nostro tempo era destinato al

lavoro. Abbiamo vissuto come se fossimo fidanzati, senza orari e senza regole,

con molta fantasia e improvvisazione per ritagliarci piccoli spazi nostri.Un ripiego per stare vicini era di tipo organizzativo. Cercavamo di convocare

le riunioni in provincia in modo di fare il viaggio insieme. Si andava con una

macchina carica di almeno cinque persone da seminare in luoghi diversi, da

raccogliere poi a notte fonda, con ritardi inevitabili tra una tappa e l'altra.

Nessun divertimento, all'infuori di qualche film. Niente feste o balli o musica.

La radio l'abbiamo comprata a rate nel '50, ma non potevamo attardarci ad

ascoltarla, anche perché dovevamo dare spazio alla lettura di giornali e libri,

essenziale al nostro lavoro.

Quando Claudio andava nei paesi, nelle attese e nei ritagli di tempo, qualche

volta riusciva a fare una partita a bocce. Era bravo in quel gioco. Succedeva

quando le riunioni erano convocate nei circoli, cioè associazioni ricreative poi

divenuti ARCI, che avevano sempre i campi da bocce. Ricordo anche che in

quei circoli ci si poteva cimentare, tanto uomini che donne, nel gioco della

rana. Su una specie di tavolo erano fissate delle belle rane metalliche con

la bocca spalancata. Non ricordo le regole, ma bisognava lanciare un disco

dentro a quelle bocche. Per pochi minuti tornavamo bambini, in quelle sfide.

Altri momenti allegri erano le cene collettive, sempre promosse da "Wil1y",

attorno ai fornelli della bagna cauda o al vassoio dell'anitra alla grappa. Erano

grandi e festose tavolate, che spesso si concludevano con le partite a scopa oa scopone scientifico, altra arte nella quale Claudio era molto bravo. Noi mogli

e donne, assistevamo ammirate e silenziose.

A Novara c'era una specie di tradizione per uomini soli. Ogni inverno

qualcuno organizzava la cena che ora io chiamo delle animelle. Era la cena

dove si gustavano le «palle del toro», cioè i testicoli di bovini. Claudio vi

partecipava un po' riluttante, e non mi riferiva granché, perché immagino che

la conversazione in quelle tavolate fosse piuttosto pesante e allusiva.

Quando aspettavo mio figlio Alberto eravamo in piena battaglia elettorale

contro la legge truffa. Ricordo che avevamo paura di un colpo di mano sequella legge fosse passata. Temevamo la messa al bando del nostro partito

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e di finire tutti in galera. Non so se il nostro timore fosse fondato, ma allora

l'abbiamo patito veramente.

In quello stesso anno Claudio prendeva su di sé i l gravoso compito di

dirigere il Sindacato CGIL. Un anno veramente rivoluzionario a casa nostra.

lo sono tornata al lavoro in Federazione che il bimbo aveva quaranta giorni.Era il più piccolo del nido ed andavo, di corsa, ad allattarlo. Pochi mesi dopo,

in quell'estate del '54, ho dovuto staccare per un po' ed approdare a Reggio

Emilia dai genitori di Claudio. È stato il loro medico a risolvere la mia mastite

con un ricovero lampo alla clinica Villa delle Rose.

Poi di nuovo al lavoro, sempre con l'aiuto del nido. Claudio mi aiutava

sempre, nonostante l'accresciuto impegno del suo lavoro al sindacato. Era un

padre felice e affettuoso. Quando poi è nato Corrado, se c'era da stare svegli,

ci dividevamo la notte, un primo turno e un secondo turno. Uno stava alzato

e sveglio, l'altro poteva dormire.

Roma - 1975. Truffi insieme a Luciano Lama alla manifestazione unitaria degli edili, dettadei duecentomila, svoltasi a Roma nell'ottobre 1975.

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Al sindacato nella grande provincia di Novara

La complessa realtà del mondo del lavoro

Il passaggio di Claudio alla direzione della Camera provinciale del Lavoro

ha significato un cambiamento e un avanzamento molto importante. Come hogià detto era il 1954.

La sua elezione è stata la conseguenza naturale del prestigio c h ~ si era

guadagnato anche come consigliere alla Provincia, senza contare che nel partito

si era molto dedicato ai problemi dello sviluppo industriale ed agricolo di quel

vasto territorio. C'è una bella foto con Giuseppe Di Vittorio alla presidenza del

congresso nel quale Claudio è stato nominato a quell'incarico.

Per una provincia così grande dirigere il sindacato era un'impresa enorme.

lo le ho viste da vicino le sue fatiche. Significava alzarsi prima delle quattro

per andare alle cinque davanti alle fabbriche se c'era uno sciopero o unalotta in corso, magari in Valdossola. Questo succedeva spesso, ma la giornata

normale di lavoro era di almeno dodici ore. C'erano industrie a Domodossola,

Omegna, Villadossola, Intra, Crusinallo, Trecate, Romagnano Sesia, Prato Sesia,

Castelletto Ticino e Novara città.

In quella provincia erano presenti i principali gruppi monopolistici italiani.

Il settore chimico contava la Montecatini, la Bemberg e la Rumianca con dieci

aziende e più di quattromila occupati, più le fibre tessili artificiali con tre aziende

di circa cinquemila occupati. Nel settore elettrico nella sola provincia di Novara

esistevano trentaquattro centrali idroelettriche e tre centrali termoelettricheper una produzione totale 544.000 kilowattore. Il tessile contava centrotrenta

aziende con i gruppi Riva-Albergg, Furter, Rossari e Varzi, SNIA Viscosa, Crespi,

Cucirini Cantoni Coats, Cotonificio Wild, Filatura Cascami Seta, Cotonificio

Valle Ticino, Manifattura Rotondi, Filatura di Grignasco. In questo settore gli

addetti erano più di cinquantamila, in maggioranza donne.

A questi gruppi vanno aggiunte anche le aziende medie con un totale di

circa venticinquemila dipendenti e quelle piccole con altri circa diecimila, più

le piccolissime e le artigianali per altri ventiduemila circa addetti.

Molto importante era poi il settore agricolo e agroalimentare, con la

risicoltura, il lattiero-caseario col tipico gorgonzola, il dolciario con la Pavesi.

L'Istituto geografico De Agostini e alcune cartiere. In montagna molte cave

di marmo e a Pestarena una miniera d'oro. Sui laghi e in alta montagna si

profilava lo sviluppo del turismo.

Questo lungo elenco credo renda l'idea del gravoso compito che Claudio

aveva sulle spalle con la responsabilità del sindacato CGIL, rimasto largamente

maggioritario nonostante le scissioni degli anni precedenti.

Gli anni '50 videro gli attacchi più duri sia in campo politico che nei luoghi

di lavoro contro le sinistre. Si licenziavano o si declassavano i membri della

commissioni interne, i collettori delle quote sindacali e i diffusori della stampaavversa. Nel '53 si inventavano alla Fiat i "reparti confino".

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Proprio per garantire le libertà previste dalla Costituzione, iniziava la lotta

per lo Statuto dei diritti e delle libertà dei cittadini nelle aziende, lanciata dal

congresso CGIL a Napoli e affrontato in una specifica conferenza a Milano

nel giugno del '54. Si dovrà aspettare e lottare fino al 1970 per vedere la

trasformazione in legge dello Statuto dei lavoratori.

La battaglia per la sede del sindacato in una vera Casa del Popolo

Contro il sindacato e i movimenti di sinistra, si inventavano in quegli anni

anche azioni persecutorie. Lo scontro si materializzò a Novara con lo sfratto

dalla Casa del Popolo - ex casa del fascio - di tutte le organizzazioni che vi

avevano preso sede, in primo luogo la CGIL e il Partito comunista. Agli inizi del

'51 si era preteso il pagamento dei mobili, sopravvalutati vessatoriamente con

un sopraluogo-inventario dell'intendenza di finanza. Superato lo scoglio con

una sottoscrizione tra i lavoratori, arrivò il vero e proprio sfratto, precedutoe accompagnato da una campagna dei giornali locali di destra e governativi,

"Corriere di Novara" e "Gazzetta di Novara".

Il Partito trovò in affitto dal dottor Achille Lampugnani una serie di stanze

in via Canobbio, dietro al tribunale.

La Camera del lavoro, invece, decise coraggiosamente di avere una sede

propria. Il merito, riconosciuto da tutti, fu proprio di Claudio, che diede fiducia

ed organizzò le iniziative per la raccolta dei fondi necessari all'acquisto.

Enrico Sacchi, che dopo Claudio divenne segretario responsabile di quella

Camera del Lavoro, scrive (2 aprile 1987): "Con l'arrivo di Claudio Truffi alla

Camera del Lavoro, che, senza far torto a nessuno ritengo sia stato il dirigente

sindacale più positivo che operò a Novara, cominciò a prendere corpo l'idea

di acquistare il fabbricato di via Mameli 7, nel quale era alloggiato il circolo

Archimede .. ».

Operativamente fu creata la Cooperativa Casa del Popolo, con il

coinvolgimento personale di Gianfranco Bighinzoli che dirigeva il movimento

delle cooperative. A furia di quote sottoscritte, si raggiunsero i primi quattordici

milioni necessari all'acquisto, concluso tra la fine anno 1956, inizio 1957.

Furono poi necessari altri interventi di restauro e ampliamento, poiché nella

struttura, divenuta veramente Casa del Popolo, oltre alla Camera del Lavoro,trovò posto non solo il preesistente Circolo Archimede, ma anche l'INCA e

altre associazioni. Con una valanga di azioni da cinquecento lire e con un

opportuno mutuo, si arrivò nel '63 alla costruzione di un nuovo corpo di

fabbricato su progetto dell'architetto Ludovico Meneghetti. Claudio Truffi è

stato in prima linea in questa impresa ricoprendo anche il ruolo di presidente

della cooperativa stessa, dal '58 al '60.

Nel 1960 ci sono stati i grandi scioperi per i contratti, tra i quali quelli

dei metallurgici che, in ottobre, sfociarono in grandi manifestazioni cittadine

di piazza, una delle quali, particolarmente importante si svolse a Novara. Eancora, alla fine dell'anno, contro l'offensiva padronale nel clima politico

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caratterizzato dal governo Tambroni, Novara si distinse con un grande sciopero

e la sospensione degli straordinari.

Alla Camera del Lavoro Claudio si era circondato di molti collaboratori che

lo stimavano, compresi quelli che operavano nel sindacato già prima della sua

venuta. C'era molto affetto, anche sul piano personale, tanto che ne ricordomolti, di questi amici e compagni. Oltre ad Enrico Sacchi che dirigeva il settore

Federterra, ricordo Rolando di Prato Sesia, Maulini di Omegna, il capitano

Bruno, cioè Albino Calletti, poi Mario Caccia e Diego Fortina ed altri, anche

non comunisti, come Cornelio Masciadri ed Ernesto Licari. Alcuni di loro ci

facevano anche regali curiosi e preziosi, come un grosso pesce pescato nel

lago Maggiore, una lepre presa in riserva, un fagiano pieno di pallini.

Radici familiari tipicamente reggiane

I Vergalli e i TruffiNel mio libro Storie di una staffetta partigiana1 ho raccontato ampiamente

della mia famiglia contadina, di mio padre Prospero perseguitato politico nel

ventennio, poi membro del primo CLN della nostra zona, quindi sindaco della

Liberazione a Bibbiano. E anche di noi tutti nella Resistenza compreso mio

fratello Orio, allora ragazzino e delle mie radici parentali ben inserite nell'Emilia

Rimini - 1973. Truffi insieme a Lama all'VIII Congresso fillea-cgil tenuto si a Rimini da121al 24 maggio 1973.

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agricola, con ideali progressisti risalenti al primo '900. Di mio padre e di noi

hanno scritto anche il professor Renzo Barazzoni e Cesarino Faietti nel libro

Bibbiano, la gente, le vicende e, sempre di Barazzoni, Val d'Enza in armi e

Bibbiano immagini e vicende sulfilo della memoria.

Claudio invece, ha una storia e delle radici un po' più complesse.I suoi genitori avevano un negoziq di alimentari a Santa Croce, all'inizio

di Mancasale, quindi appena fuori di Reggio Emilia. Negli anni prima della

guerra e fino al '45-46, il negozio era sufficiente alle necessità della famiglia e

poco più. Soltanto nel dopoguerra, negli anni '60, col contributo dei fratelli di

Claudio si sviluppò e diventò un piccolo supermercato. Nel libro La memoriadei rossi2, Claudio racconta di loro e del padre, Alberto, fervente socialista

prampoliniano e convinto pacifista. Era stato lunghi anni nei bersaglieri

nella prima guerra mondiale. I figli raccontarono che, al ritorno, in un gesto

improvviso di ribellione, aveva buttato la pistola d'ordinanza nel canale,avendone poi inevitabili guai.

lo aggiungo qui, perché mi sembra giusto, che nei lunghi mesi

dell'occupazione delle Reggiane il loro negozio ha venduto a credito ai clienti

operai, riempiendo libretti e libretti di note. Alla fine della lotta, abbiamo

saputo che quei libretti sono stati messi via e il saldo dei conti mai preteso. Èstato il contributo concreto e silenzioso che la famiglia Truffi, certamente non

ricca, ha voluto dare a quella gloriosa e importante battaglia sociale.

La madre di Claudio, Giuseppina Gambarelli, figlia di contadini di Montericco

di Albinea (RE) aveva trovato lavoro giovanissima come governante presso una

ricca signora svizzera tedesca che viveva sola in una villa con podere a SantaCroce. La villa c'è ancora. Il podere è ora zeppo di costruzioni.

La signora si affezionò tanto a Giuseppina, che la tenne con sé da sposata

col marito e poi da madre, così che Claudio e i suoi fratelli - Guido e Davide

- sono nati e cresciuti lì, quasi famiglia unica, fino alla morte della signora. Ci

ha raccontato dei giocattoli straordinari e antichi coi quali avevano il privilegio

di giocare, ma anche di una grande enciclopedia sulla quale lui passava giorni

e giorni in appassionate letture. Certo è da quelle pagine che Claudio ha

tratto tantissime nozioni e conoscenze, ma anche alcuni termini ed espressioni

lessicali inconsuete ed efficaci di cui sorprendentemente si serviva anche dopomolti anni. A questa fase, che per lui si è protratta fino all'adolescenza, risale

l'educazione di stampo tedesco, orientata al migliore senso del dovere e ad un

forte rigore etico, che l'ha accompagnato in tutto il suo percorso di dirigente

sindacale e politico e, un poco, anche a casa.

Di quella signora svizzera a noi rimane un libro di favole educative tedesche

di fine '800, Pierino PorcosPino, che intendevano insegnare le buone maniere

ai ragazzi con metodi molto diretti e spicci. Un libro che è poi passato ai miei

figli che lo leggevano già con ironia e distacco, ma che abbiamo visto con

sorpresa ristampato in questi ultimi anni, divenuto ormai un classico.

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Le apprensioni ingigantite dalla distanzaAnche la famiglia Truffi, come la mia, era inserita negli ideali progressisti

e certo non contraria al nostro impegno. Entrambe accompagnarono con

aiuti morali e materiali il nostro percorso di vita, ma anche con qualche non

immotivata preoccupazione ed apprensione, soprattutto nei periodi più duridella guerra fredda.Nel nostro mondo di oggi, nel quale le comunicazioni sono diventate

talmente facili che le distanze sembrano annullate, è difficile pensare che un

tempo le comunicazioni possano essere state un problema. In quei primi annieravamo impiccati soprattutto a lettere e telegrammi. Eppure le distanze non

erano enormi. Molte volte mio fratello Orio è venuto da Bibbiano a Novara inbicicletta. Era un buon ciclista, ma in fondo si trattava di attraversare soltantotre regioni!

C'era anche il telefono, ma senza teleselezione si doveva chiamare al posto

pubblico, gestito da persone poco zelanti e poco riservate, delle quali miamadre diffidava. Il gestore doveva andare a chiamarli a casa, loro andare

a quel telefono, quindi aspettare a lungo la linea libera e alla fine parlaresapendo di essere ascoltati. Una pena, più che una comodità. Fino a quando,

dopo molti sforzi e addirittura a metà degli anni Sessanta, siamo riusciti aottenere l'installazione del telefono in casa loro.

Sotto le armi negli anni di guerra e la passione pergli aereiClaudio era del 1922, quindi di leva all'inizio del conflitto, proprio come

era successo a mio padre e a suo padre nel 1914. È andato sotto le armiin zona dichiarata in stato di guerra all'inizio del '42, sette mesi prima dicompiere vent'anni. Era stato arruolato in aviazione, marconista, come si dicevaallora, sugli aerei cacciabombardieri, quindi addetto alle telecomunicazioni,radiotelegrafia e radar, probabilmente grazie alla sua istruzione relativamenteelevata per l'epoca. Aveva, infatti, frequentato le scuole professionali a indirizzoeconomico, acquisendo una buona preparazione di base ed anche una discretaconoscenza della lingua francese, che gli sarebbe divenuta utile negli annidegli scambi internazionali del sindacato ed anche dell'INPs, di cui parlo più

avanti. In più aveva una precoce passione per la tecnica, tanto che da ragazzo

era riuscito a costruire e far funzionare una radio insieme al suo amico EnzoDella Scala, avventura di cui ci parlava con un certo orgoglio.

Nonostante la durezza della esperienza di guerra, in quegli anni Claudiosviluppò una vera passione per l'aeronautica. Parlava volentieri dei cacciabombardieri Savoia-Marchetti sM-79, principali mezzi da combattimentodell'aviazione italiana di quegli anni, della loro maneggevolezza ed affidabilità.Rimase sempre un appassionato di aerei. Un suo divertimento negli anni diNovara era portare la famiglia e soprattutto i bambini in gita all'aeroportodi Malpensa, che non era lontano, a veder partire gli aerei per i voli

intercontinentali. Spiegava ai figli i vari modelli, che ancora erano ad elica, eraccontava i particolari del volo.

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Negli anni dell'impegno sindacale avrebbe poi avuto la possibilità di volarefin troppo, con ogni tipo di aereo e di tempo, sino ad un imprevisto atterraggiodi fortuna in un aeroporto militare della Siberia durante un viaggio in URSS, inmezzo ad una spianata enorme piena di caccia militari.

In guerra è stato in Africa quattro mesi, dal dicembre '42 alla fine di aprile'43, certamente i più duri e cruciali. Sappiamo dal suo foglio matricolare che viè andato in volo dall'aeroporto del Littorio e arrivato ad un certo scalo "CastelBenito", poi «rimpatriato in volo da Tunisi e giunto in volo a Castelvetrano».

La sconfitta delle armate tedesche e italiane l'ha colto proprio in quell'apriledel '43, che segnava una delle prime battute d'arresto per l'Asse. La prospettivaper i soldati italiani era di finire nei campi di prigionia inglesi in Africa centraleo in India. Non so se temendo questo, o per orgoglio o sp'irito di avventura,l'equipaggio di Claudio decise di tentare la fuga verso l'Italia con quel caccia

bombardieresM-79

decollando sotto i bombardamenti dall'aeroporto africano.Ci sembra che Claudio parlasse di Libia, ma nel foglio matricolare è scrittoTunisi. Ha ricordato però con emozione che, volando a pelo d'acqua, a non

più di dieci, venti metri, l'aereo esponeva solo la parte superiore ai caccianemici, così che il pilota riuscì fortunosamente a riportare l'aereo in Sicilia.

L'armistizio lo trovò in una caserma di Treviso, da dove, come fecero moltigiovani in quell'8 settembre '43, per sfuggire alla prigionia in Germania oall'arruolamento coatto nella neonata Repubblica sociale italiana, scelse lafuga avventurosa verso casa, in Emilia.

Gli importanti impegni a Roma. Alla guida del sindacato nazionale

degli alimentaristi

Da Novara siamo venuti a Roma con tutta la famiglia nel '64Dall'anno prima Claudio era stato chiamato al sindacato degli alimentaristi,

che allora si chiamava FILZIAT (Federazione italiana lavoratori zuccherificiindustrie alimentari e tabacco) divenendone quasi subito segretario generale.

È stato il primo reggiano a ricoprire un incarico sindacale a livello nazionale

di grande rilievo.Come si intuisce dalla denominazione, la FILZIAT era uno dei sindacati più

numerosi e importanti. Vi confluivano gruppi professionali differenziati, tantoche nel '64 esistevano nel settore addirittura ventitré diversi contratti di lavoro.Claudio ha portato il sindacato a lottare contro questa frammentazione finoa giungere all'accorpamento dei ventitré contratti, conquistando così le basiper il contratto unico nazionale. Fu una grande intuizione, non solo perché in

tal modo si rafforzava il potere contrattuale del sindacato, ma anche perché

ha potuto essere intrapresa la lotta per annullare la disparità dei trattamenti

salariali, disparità che era addirittura del 30 percento tra il livello più basso equello più favorevole. Ci volle tempo, addirittura molti anni, ed altre lotte, ma

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alla fine si arrivò al contratto nazionale portando tutti al livello salariale più

alto.

Sotto la direzione di Claudio, nella FILZIAT si mette a fuoco fin dal 1968 il

problema del collegamento con i produttori agricoli, che doveva confluire in un

sistema agroalimentare più avanzato. In quegli anni si intraprende l'intesa conla Federterra, che in seguito, vent'anni dopo nel 1988, porterà alla fusione dei

due sindacati nell'attuale FLAI (Federazione lavoratori agroalimentari italiani).

Pasquale Cascella sull"'Unità" del 30 marzo '86 scrive: «Se gli alimentaristi

possono compiere il salto di qualità verso il sindacato dell'agro-industria, ciò

è dovuto al contributo di idee, di passione e di valori di uomini dalla tempra

di Claudio Truffi».

Undici anni alla FILLEA. Con i lavoratori delle costruzioni e del legno,

i contratti ele

grandi manifestazioni

Nel settembre 1969, Claudio è chiamato a dirigere la FILLEA (Lavoratori legno,

lapidei, edilizia e affini) con la qualifica di segretario generale.

Se il sindacato degli alimentaristi era particolarmente frammentato come

professionalità, questo degli edili, cioè lavoratori delle costruzioni, del legno e

delle cave, era ancor più frammentato come dislocazione dei posti di lavoro,

oltre che come varietà di qualifiche professionali. Quindi maggiori difficoltà

per il sindacato di raggiungere i lavoratori e di trovare le forme organizzative

per rappresentarli. Qui non c'erano luoghi di grande concentrazione produttiva

come ad esempio nell'industria metalmeccanica. Qui c'era da lavorare innanzi

tutto cantiere per cantiere, cava per cava, mobilificio per mobilificio, quasi tutti

medio-piccoli.

Tra il '69 e il '70 sotto la guida di Claudio è stato siglato un vero contratto

nazionale fondato su diritti e salario, un secondo livello contrattuale, ilriconoscimento dei delegati come agenti contrattuali. Inoltre, per la prima

volta, si metteva fine alla divisione tra operai e impiegati. Ma la novità vera

fu, allora, l'eliminazione dei contratti di zona, cioè delle gabbie salariali. Il

contratto, che entrava in vigore dallo gennaio 1970, fu siglato il 3 dicembre

1969 per gli operai e il 19 successivo per gli impiegati del settore, cioè solo tremesi dopo l'arrivo di Claudio in FILLEA.

Con Claudio segretario generale il sindacato FILLEA non si è limitato a

difendere i diritti della categoria, ma si è giustamente aperto ai problemi

generali dell'Italia e della sua economia. In quegli anni il sindacato FILLEA è

stato assoluto protagonista della battaglia per la legge sulla riforma della casa,

cioè per il diritto alla casa, che è culminato nello sciopero unitario e nella

grande manifestazione a Roma del 19 novembre 19703.

Non solo. Nelle relazioni di Claudio ai congressi FILLEA e alle conferenze

a tema, hanno grande spazio argomenti ancor oggi tremendamente attuali.Entrano i problemi della scuola, cioè l'indicazione del necessario adeguamento

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del patrimonio edilizio scolastico in funzione della formazione delle nuove

generazioni. In quelle relazioni Claudio dà inoltre notevole spazio alla necessità

della tutela del territorio e dell'ambiente, del recupero e della ristrutturazione

dei centri storici, della pianificazione urbanistica, del riequilibrio tra città e

campagna e tra nord e sud, nonché della conservazione dei beni architettonicie culturali.

Altra grande tappa di lotta di cui Claudio era giustamente orgoglioso è stata

l'imponente manifestazione del '72 a Reggio Calabria insieme ai metalmeccanici

e ai braccianti per le rivendicazioni salariali e lo sviluppo economico. Si era

scelta quella città significativa per il mezzogiorno e in risposta democratica

ai disordini fascisti dei "boia chi molla». La manifestazione fu unitaria per i

sindacati degli edili e per quelli dei metalmeccanici. Per i braccianti aderì

soltanto il sindacato CGIL.

A questo proposito debbo correggere quanto scritto a suo tempo circal'iniziativa di quella scelta. Si è scritto e detto che l'idea partiva dai sindacati

metalmeccanici. Invece mi si è confermato da coloro che erano a fianco di

Claudio nella FILLEA, e che ci risulta anche dai nostri ricordi, che l'idea iniziale

partì proprio da Claudio, che coinvolse le organizzazioni parallele CISL e UIL,

conquistando poi subito l'adesione e mobilitazione delle strutture sindacali dei

metalmeccanici.

Un altro momento importante è stato quello della manifestazione - che

abbiamo chiamato dei duecentomila - del 1975, quando, unitariamente, tutti

i sindacati edili d'Italia si riversarono a Romacon

la loro varietà di cartelli ebandiere, in lotta per il rilancio dell'edilizia e per il contratto nazionale. Dopo

quella della casa, che aveva coinvolto i diversi settori produttivi, questa volta

una sola categoria riempiva e straripava oltre la grande Piazza di San Giovanni.

Il contratto poi, fu siglato nell'aprile del 1976.

Nel suo ultimo congresso in FILLEA, e siamo nel 1977, Truffi afferma che "per

gli edili il contratto di categoria è insostituibile, mentre il contratto di secondo

livello - cioè nel territorio e nei cantieri - è indispensabile per affrontare i temi

degli orari, dell'organizzazione del lavoro e della sicurezza». E aggiunge che

bisogna impedire ai singoli costruttori di sfruttare i lavoratori attraverso offerte

di salario individuale peggiorative dei contratti che sono stati sottoscritti.

Inoltre dice che occorre definire regole precise sul mercato del lavoro e sul

collocamento pubblico per sconfiggere la piaga del caporalato e del ricorso al

sistema degli appalti e dei subappalti.

Come si vede, sono problemi tuttora più che mai sul tappeto.

In quell'anno 1977, la CGIL superava i quattro milioni di iscritti e la FILLEA

rasentava il mezzo milione, era cioè uno dei più numerosi sindacati di

categoria.

Nella primavera del 1979 si stava lottando e trattando per il nuovo

contratto degli edili. Gli accordi erano abbastanza vicini, quando a fine marzo,nell'imminenza della Pasqua, Claudio è stato colto da infarto. Superata la fase

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critica, stava ancora in convalescenza quando finalmente gli altri dirigenti

raggiungevano l'accordo con la controparte.

Naturalmente, pur costretto al riposo, era sempre rimasto in contatto con gli

altri dirigenti e coinvolto nei problemi e nelle decisioni.

Si era arrivati all'estate, giugno, credo. Di solito, definito il testo del nuovo

contratto, anche se è notte, i contraenti mettono la firma, cioè siglano l'accordo

che diventa definitivo. Quella volta la consuetudine non fu rispettata. Quando

Valeriano Giorgi, insieme a Carlo Cerri, doveva siglare per la FILLEA, chiese di

sospendere, perché - disse - quella firma doveva essere messa da Claudio

Truffi. Prese le carte e il mattino seguente insieme agli altri dirigenti del

sindacato, si precipitò a Fiuggi, dove Claudio riprendeva le forze lontano dalla

calura estiva della città. Soltanto allora, con quella firma, il contratto divenne

definitivo.

lo ero presente e ricordo l'episodio come la prova del grande affetto edella grande considerazione conquistata da Claudio nel suo ambiente. Un atto

non obbligato, perché Giorgi e gli altri avevano tutti i titoli per fare e decidere

senza di lui. Un atto che Claudio stesso non si aspettava e soprattutto non

pretendeva.

Un aiuto ai lavoratori spagnoli contro il regime di FrancoUn aspetto poco conosciuto dell'impegno di Claudio in quegli anm e

l'appoggio dato alla classe operaia spagnola per uscire dal regime franchista.

Sanchez Tranquillino, Maria Lorente e Manuel Burgos, al congresso dell'aprile1977 affermano che non sarà mai dimenticato dai lavoratori spagnoli l'appoggio

costante e la grandiosa solidarietà dei lavoratori italiani e della FILLEA per uscire

dalla lunga notte del fascismo.

L'impegno in aiuto agli spagnoli risaliva in verità al periodo in cui Claudio

dirigeva il sindacato degli alimentaristi. Quando ancora il dittatore Franco era

al potere, la FILZIAT aveva rapporti frequenti col movimento operaio spagnolo,

rapporti tenuti anche attraverso numerosi viaggi a Barcellona di Andrea

Gianfagna, che in seguito ha preso il posto di Claudio alla guida di quel

sindacato.

Per l'unità sindacale

Tanto cammino insieme, dagli alimentaristi agli ediliClaudio è rimasto alla guida della FILLEA dal settembre 1969 fino al dicembre

1980, cioè per undici anni consecutivi, un record di permanenza a tutt'oggi,

per quel sindacato.

Questo record è stato sottolineato in tempi recenti, quando, nell'ottobre

del 1999, la FILLEA, inaugurando la sua nuova sede nazionale a Roma in via

Morgagni, ha intitolato a Claudio Truffi una delle sale di riunione.In quella occasione Sergio Cofferati ha affermato che Claudio è stato un

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segretario generale importante per tutta la CGIL, uno dei segretari che hanno

fatto la storia stessa del sindacato. Ne ha parlato con affetto ricordando il suo

impegno nel formare e valorizzare giovani dirigenti e soprattutto per il suo

contributo alla causa dell'unità sindacale.

Fin dal suo arrivo a Roma Claudio ha messo in primo piano l'obiettivodell'unità sindacale, tanto che nell'ottobre del '67 annunciava che al prossimocongresso nazionale degli alimentaristi, FILZIAT-CGIL avrebbero partecipatoanche la CISL e la UIL non come osservatori ma come organizzazioni invitate.Evidentemente si trattava di un passo avanti, di una novità.

Alla prima conferenza consultiva nazionale della CGIL tenuta da Ariccia dal5 al 7 ottobre '67, nel suo intervento si soffermava a lungo sul tema dell'unitàsindacale da collegarsi, secondo lui, a quello dell'autonomia. "Autonomia dalgoverno, dai partiti e dai padroni, autonomia che è sinonimo, certamente

di unità. Non solo di unità di azione. È qualche cosa di più ... di molto piùrilevante, di molto più avanzato».Si trattava di tagliare i legami ancora abbastanza stretti coi partiti, che

condizionavano le tre confederazioni sindacali e che ovviamente costituivanoun ostacolo all'unità sindacale. Erano gli anni in cui si tentava di arrivare non

soltanto all'unità di azione ma anche ad una unità organica, più stretta.Gli sforzi di Claudio in questo senso continuano e si intensificano alla FILLEA.

C'è una foto che documenta un convegno unitario dei sindacati dell'ediliziadal titolo "Unità, riforme, contratti" svolto a Montecatini Terme dal 3 al 5marzo 1972, con Claudio accanto ai dirigenti nazionali della FENEAL (UIL), e dellaFILCA (CISL).

Molti altri incontri e partecipazioni reciproche ai diversi congressi hanno

caratterizzato quegli anni. Nel maggio del 1975 la federazione unitaria dei

lavoratori delle costruzioni FLC, organizzava a Roma un convegno sui lavoratoriedili migranti con la partecipazione di tutti i corrispondenti sindacati europei,aperto con un discorso di Claudio. In quella sede si partiva dai dati numericisugli emigranti. Per chi l'avesse dimenticato, i lavoratori italiani all'estero nel'73 risultavano essere 5.247.261, cifra che nel '75 si stimava accresciuta di500.000 unità. Pur con una possibile approssimazione, si calcolava che la

presenza italiana nel settore delle costruzioni fosse in Europa di 350.000 unità,di cui 100.000 nella sola Svizzera.

A quel convegno faceva il discorso d'apertura Claudio Truffi, indicato con

la qualifica di Segretario Generale della FLC, a cui seguivano le relazioni diGiancarlo Pelachini e di Enrico Kirschen, indicati con la qualifica di SegretariNazionali della FLC.

Nasce la FIe e si trasloca in una sede comune

Non solo i tre sindacati lavoravano insieme. La unitaria FLC, era stata fondata

subito dopo l'analoga Federazione FLM dei metalmeccanici. Ma i tre sindacatiedili, fecero un passo più avanti di ogni altro. Per rendere materialmente

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più vicina la collaborazione, scelsero di trasferirsi tutti in una sede comune,

e precisamente in un palazzo in via dei Mille, davanti alla filiale della Banca

d'Italia. Al primo piano erano collocati i servizi unitari, come l'ufficio stampa

e quello per la formazione. La FILLEA occupava due piani e la FENEAL e la FILCA

avevano un piano ciascuna.Sicuramente di questo passaggio Claudio fu protagonista e - mi si dice

- promotore. Ricordo che anche tra gli stessi dirigenti si era creato un clima di

reciproca fiducia ed amicizia. Gli altri segretari nazionali edili di CISL e UIL erano

rispettivamente Stelvio Ravizza e Giovanni Mucciarelli.

Gli impegni in campo internazionale

Devo anche sottolineare gli impegni e gli incarichi che Claudio ha ricoperto

in campo internazionale.

Negli anni dellaFILZIAT

faceva parte del Comitato direttivo del sindacatointernazionale dei lavoratori alimentaristi. Il comitato mondiale di

quell'organismo - la Federazione internazionale sindacati lavoratori industrie

alimentari - aveva sede a Sofia, in Bulgaria, dove Claudio si recava spesso per

le numerose riunioni. Presidente era un cubano, segretario era un italiano,

Alessandro Scuk, bolognese, dislocato in quella capitale con la famiglia. Molto

stretta in quegli anni è stata la collaborazione col parallelo sindacato francese,

diretto da Julian Livi - fratello dell'attore Ives Montand - insieme al quale è

stata appoggiata, tra l'altro, la lotta dei lavoratori spagnoli per la caduta del

franchismo.

Ancora più impegnativo è stato il contributo di Claudio in campo

internazionale per la categoria degli edili, la cui struttura era la UITBB (Unione

internazionale lavoratori costruzioni e legno) che aveva sede in Finlandia a

Helsinky.

Da notare che proprio su pressione di Claudio, la UITBB che in precedenza

come sede internazionale era collocata a Mosca, venne trasferita in quel paese

nordico. Questo passo era significativo di una volontà di indipendenza dall'uRss,

poiché la Finlandia, pur così vicina all'Unione Sovietica, secondo gli accordi di

Yalta rimaneva pariteticamente sotto l'influenza dei due blocchi e quindi non

aderiva né alla NATO né al Patto di Varsavia e poteva godere di libere elezioni.In questa organizzazione internazionale Claudio ha ricoperto per molti anni

il ruolo di vice presidente. Presidente era Lothar Lindner, un tedesco dell'Est.

La Finlandia è un paese straordinario che Claudio ha molto amato. Aggiungo

un ricordo di quel paese. Nel 1977 quel sindacato delle costruzioni insieme

al suo governo impostava già i nuovi insediamenti abitativi secondo criteri di

razionalità ecologica. In occasione di una nostra visita ci è stato mostrato con

orgoglio un quartiere nuovo di Helsinky interamente dotato di pannelli solari

e di serre condominiali sui tetti. Loro affermavano che con i sei mesi di sole e

luminosità l'impianto risultava conveniente sui costi energetici. Gli appartamentiperaltro erano minimi, ma con tutti gli spazi e gli arredi razionalmente godibili,

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dotati anche di sauna individuale, di piccoli alloggiamenti per l'attrezzatura da

sci e da neve e di box per le auto.

Un sindacato straniero con cui Claudio è stato molto in contatto era quello

giapponese. Molte volte è stato invitato in Giappone, dove lo affascinava la

natura e lo emozionava la visita ad Hiroshima, straziante. Del Giappone l'avevaimpressionato la moltitudine alienata e muta nelle sale dei video giochi, ma

anche l'efficienza dei trasporti e la ordinata disciplina del traffico. I confronti

con quei sindacati si incentravano sulle innovazioni tecnologiche, come i

processi del prefabbricato in edilizia e il treno ultraveloce su monorotaia.

Altra stranezza giapponese era che le conquiste salariali, ottenute con le lotte,

avevano efficacia soltanto per gli iscritti al sindacato. Altra stranezza riguardava

la pensione, erogata dal datore di lavoro limitatamente agli ex dipendenti

dopo un certo numero di anni di fedeltà lavorativa.

Un buon rapporto si era creato anche sul piano personale coi sindacatipolacchi e di paesi non europei, tra cui l'Egitto, Israele e del Centro Africa.

Queste relazioni internazionali nascevano dall'adesione della CGlL alla

Federazione sindacale mondiale (FSM), che raccoglieva, assieme ai sindacati

di ispirazione comunista dei paesi occidentali, le organizzazioni sindacali dei

paesi del campo non occidentale e non allineato, inclusi quindi i sindacati

di regime dei paesi del socialismo reale. Un retaggio quindi della scelta di

campo della sinistra italiana negli anni '50, che divenne progressivamente

ingombrante negli anni dell'unità sindacale (la ClSL e la UIL aderivano alla

ClSL internazionale, che federava le organizzazioni dei paesi occidentali non

comuniste), e che inevitabilmente venne superata alla fine del decennio con

la uscita della CGlL, durante la gestione di Luciano Lama, dalla FSM.

Claudio era un convinto assertore del distacco dall'Unione Sovietica e del

gradualismo, politicamente vicino a quella che allora era la cosiddetta "destra"

del PCl; i cui principali rappresentanti erano Napolitano ed Amendola, ma

in quella occasione ebbe qualche perplessità, che condivideva in famiglia.

Pur riconoscendo il passo come inevitabile nel nuovo scenario, riteneva una

perdita per il sindacato l'interrompersi dei contatti con tutti quei paesi non

allineati, soprattutto del terzo mondo ex-coloniale, e la limitazione del raggio

d'azione al campo occidentale. Probabilmente incideva nella sua valutazioneanche la grande passione che aveva sempre avuto per questa dimensione

internazionale del suo lavoro.

Infatti, questa attenzione ai problemi del mondo e agli scambi reciproci di

esperienza, Claudio l'ha conservata anche all'lNPs, con incontri in Inghilterra

e in Grecia. Dall'lNPs un viaggio negli USA gli è saltato all'ultimo minuto per

una urgente pretesa dell'allora ministro del Lavoro Gianni De Michelis. Altri

importanti contatti erano già previsti in Argentina e America del Sud per i mesi

successivi alla sua morte.

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Gli anni dell'/NPs

La lotta contro i ritardi nell'erogazione delle pensioniDal dicembre del 1980 Claudio Truffi, su proposta di Luciano Lama, viene

nominato all'INPs con l'incarico di Vice Presidente. Presidente era RuggeroRavenna, nominato dalla urL.

In base alla riforma degli anni '70, infatti, l'ente era co-gestito dalle parti

sociali, con una preminenza del sindacato ed una partecipazione della

CONFINDUSTRIA. Tra i tre sindacati vigeva un patto non scritto di rotazione e in

quel mandato la presidenza toccava alla urL, dalla quale proveniva Ravenna,

e la vice presidenza alla CGIL. Essendo però la CGIL il sindacato maggiore,

il peso della vice presidenza era evidentemente comparabile a quello della

presidenza.

L'Istituto di Previdenza era in quegli anni veramente nell'occhio del ciclonedelle polemiche.

Prima fra tutte quella sul ritardo nell'erogazione delle pensioni di vecchiaia,

ritardo che in certi casi raggiungeva addirittura i cinque anni. Ma già a poco

più di un anno dal suo arrivo all'INPs, Claudio affermava: "Il 50% delle sedi

liquida tutti i tipi di pensione entro due tre mesi. Il problema è per nove sedi

di grandi città nelle quali i tempi rimangono lunghi. In queste città i ritardi si

sono ridotti da 1.500.000 casi agli attuali 700.000» ("Il Messaggero", Roma 25

gennaio 1982).

Seconda polemica era quella del disavanzo tra entrate e uscite, che venivaimputato all'Istituto e alla supposta cattiva gestione, di cui erano corresponsabili

i sindacati chiamati ai massimi livelli dirigenziali.

Su questo disavanzo, che lo Stato doveva poi colmare, Claudio ha dovuto

in molte sedi, interviste, articoli e trasmissioni chiarirne la natura e le origini.

Con diverse leggi il governo e il parlamento avevano assegnato all'INPs precisi

obblighi che erano di natura assistenziale, più che di natura previdenziale.

In un'intervista Claudio ricorda che "l'Ente, il cui bilancio di oltre 100.000

miliardi è il secondo dopo quello dello Stato, è regolato dalle leggi, sia sul

versante delle entrate, sia su quello delle uscite» (Intervista di Giovanni Pavone

su "La Sicilia" (Catania 6 marzo 1985).

L'INPS in quegli anni aveva diciotto milioni di assicurati ed erogava tredici

milioni di pensioni, mentre doveva provvedere alla Cassa integrazione

guadagni, al sussidio di disoccupazione e all'indennità di malattia. Claudio

aggiungeva poi che "la riforma dell'Ente necessita di tre punti fondamentali:

l'unificazione dei fondi fatte salve le condizioni acquisite, l'unificazione delle

aliquote, il riordino dell'INPs» ("Il Giornale d'Italia", 12 novembre 1981).

Fin dal suo arrivo a quell'incarico, Claudio ha sostenuto che occorreva

separare i due bilanci, quello delle prestazioni previdenziali e quello degli

obblighi assistenziali, separazione indispensabile per avere chiarezza e percercare soluzioni.

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Le sedi decentrate e la informatizzazionePer migliorare l'efficienza ed accorciare quei ritardi in quegli anni Claudio

è stato l'artefice di uno sforzo di riorganizzazione radicale di quell'Ente. Si è

trattato di una profonda riforma strutturale dell'INPs programmata per un arco

temporale di quattro anni. S'intraprendeva, da una parte la creazione delle sedidecentrate di zona, e dall'altra, anzi in contemporanea, la riorganizzazione del

lavoro mediante l'estensione della informatizzazione.

Fu una vera battaglia, contro il tempo, le inevitabili resistenze interne,

intrecciata con gli interessi dell'industria informatica. L'INPS aveva già avviato la

informatizzazione, iniziando ovviamente dagli archivi centrali, ed aveva scelto

di intraprendere questa strada avendo come partner la IBM, allora indiscusso

numero uno mondiale nei computer. Era così diventata uno dei principali

clienti della multinazionale americana, probabilmente il primo cliente a livello

europeo.Ora la sfida era portare la informatizzazione anche nelle sedi INPS della

periferia, al servizio dei processi di preparazione e distribuzione delle pensioni

e di assistenza agli utenti. Qui poteva avere ancora un ruolo la industria

nazionale, ormai uscita da tempo dai grandi calcolatori, e in particolare questo

ruolo poteva averlo la Olivetti, allora amministrata da Carlo De Benedetti.

Truffi fu uno degli sponsor di questa operazione, anche perché il settore

della automazione d'ufficio e della cosiddetta informatica dipartimentale

era quello dove la IBM era allora più debole. La forte reazione di IBM, che

evidentemente voleva presidiare un cliente strategico, e una offerta non ancora

matura da parte di Olivetti, nonostante l'impegno personale nella iniziativa di

De Benedetti, non consentirono però di creare questa seconda partnership.

Quella dell'informatizzazione fu una battaglia difficile, con delle discrepanze

iniziali tra le sedi di zona e la struttura centrale, ma in seguito si è dimostrato

che quella era la strada giusta. L'informatizzazione e il decentramento delle

sedi è stata la condizione per il progressivo accorciamento dei ritardi nelle

corresponsioni delle pensioni.

Voglio ricordare due serie di problemi che Claudio ha incontrato in quella

fase. Appena costruite queste sedi decentrate si trattava di trasferirvi gli

impiegati. Per Roma, Claudio propose che vi si destinassero quei dipendenti

che abitavano nella zona di quelle sedi. Sembrava una scelta logica. Invece

ci fu una sollevazione ostile. Quasi nessuno voleva schiodarsi dalla nicchia

piccola o grande che si era creato nel grande palazzo dell'EuR in via Ciro il

Grande. Fu una lotta, alla fine mediata a lungo e infine vinta con l'impegno

personale di Claudio, che aveva la delega sul personale .

Altra battaglia fu quella degli orologi.

All'INPS, come in molti ministeri e uffici pubblici, in quegli anni, i controlli

sull'entrata e sulle presenze erano quanto mai elastici. Nel Consiglio di

amministrazione fu approvata la scelta di un controllo più serio, con orologiper l'entrata e l'uscita. Tra l'altro questa era anche una battaglia contro il diffuso

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assenteismo, che imperversava non solo all'INPs. Anche qui contestazioni a

non finire, assieme a quelle contro una certa regolamentazione delle pause

e dell'accesso allo spaccio interno e bar. Per questi sacrosanti provvedimenti

Claudio ha subito addirittura delle minacce da parte di estremisti di sinistra,

comitati di base, probabilmente affini alle BR, così come si diceva in una cassettaregistrata fattagli recapitare misteriosamente.

Le polemiche giornalistiche e le precisazioni

Altre contestazioni molto nette arrivavano alla gestione INPS da parte del

giornale della CONFINDUSTRIA "24 Ore", e di tutti i giornali della destra. Basta

trascrivere alcuni titoli: tutti del 5 febbraio '85. "Il Giornale": Le disastrose

previsioni per 1'85 - L'INPS verso un disavanzo di oltre 54.000 miliardi;

"L'Avvenire": Nel baratro INPS si sono persi 66.000 miliardi; "Il Sole 24 Ore": L INPS

sfonda il deficit '84 di circa 4000 miliardi. Tutti allarmi che non prendevanoin considerazione la puntuale analisi di Truffi che già dal 6 novembre '84

aveva scritto e spiegato che «Il deficit dell'INPs si sana con la legge di riordino»,

("l'Unità", 6 novembre '84) Sul "Manifesto" del 25 settembre '85, Truffi precisa

quali sono le voci che compongono il tanto sbandierato deficit dell'INPs,. «Da

quei 31.000 miliardi bisogna sottrarre circa 10.000 miliardi di fiscalizzazione

degli oneri sociali, poi altri 2 o 3000 miliardi degli sgravi fiscali per le aziende

e altri 1500 miliardi per le indennità di disoccupazione. Infine ci sono 5000

miliardi per un solo anno di cassa integrazione guadagni. Tutti oneri che non

riguardano la previdenza». Aggiungeva poi che gli sgravi fiscali per le aziende

erano appunto a favore delle aziende e non dei lavoratori.

Ancora il 17 marzo '84, il "Sole 24 Ore" accusava Claudio Truffi di essere

responsabile di uno scandaloso contratto di lavoro flessibile riservato ai

dirigenti dell'Istituto. Si trattava in realtà di un tetto orario settimanale che

aiutava anche a scavalcare le pretese inaccettabili degli avvocati che volevano

essere considerati liberi professionisti senza alcun controllo di orario, ma con

retribuzione da dirigenti pubblici. Entrava in questa vicenda anche l'ostilità dei

funzionari verso quei famosi orologi.

Oggi di orario flessibile e di contratti flessibili si soffre fin troppo, ma bisogna

riconoscere che, anche in questo, Claudio è stato un innovatore.Altra battaglia decisiva di quegli anni ancora più che mai irrisolta, ha riguardato

la lotta all'evasione contributiva. C'era da ottenere un provvedimento di legge

per rendere efficace l'opera degli ispettori e da avviare adeguati controlli

incrociati. Il parziale risultato legislativo della legge 638, frenato da ritardi del

necessario decreto attuativo, è stato affrontato direttamente dall'INPs con corsi

di aggiornamento professionale per novecentotrenta ispettori di vigilanza, ma

ne sarebbero serviti almeno duemila.

Per avere una idea delle dimensioni del fenomeno, nel settembre dell'85

l'INPs aveva un credito per contributi dalle aziende di dodicimilacinquecentomiliardi, senza contare il sommerso.

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Claudio Truffi nel 1979.

Coraggiose proposte per strade tropponuove

Claudio Truffi ha affrontato anche i

problemi di prospettiva in modo innovativo.

Si evidenziava già il problema del crescentedivario tra· giovani lavoratori e pensionati,

a causa dell'andamento demografico e

dell'allungamento della vita. Incombeva poi il

problema dello sviluppo tecnologico portatore

di una progressiva riduzione della mano

d'opera.

In proposito su varie interviste e articoli

Claudio ha ripetutamente avanzato una

proposta che sembrò provocatoria, ma sullaquale si potrebbe ancora riflettere. In data 27

aprile 1985 così scriveva su "Paese Sera": «poiché

. .. si andrà sempre pm verso processi di concentrazione produttiva con

diminuzione dell'occupazione ma non sicuramente dei profitti, non è forse

venuto il momento di affrontare il tema della trasformazione - inizialmente

parziale - del sistema contributivo, attualmente fondato sul numero degli

occupati, in sistema correlato al valore aggiunto? ... potrà essere, tale scelta,

essenziale al risanamento dei bilanci previdenziali senza scalfire il problema

del costo del lavoro ... ".

1972. Manifestazione sindacale unitaria.

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Il 27 settembre dello stesso anno aggiungeva: «Il sistema di contribuzione

pro-capite non regge più. Tutti contestano il sistema: difficile scovare qualche

altro marchingegno. I fondi previdenziali potrebbero essere creati sulla base

del sistema fiscale... base del nuovo sistema contributivo non sarebbe più

solo il lavoratore dipendente, ma il valore aggiunto creato. Vengono in mentele socialdemocrazie europee, ma qui da noi ci sono troppe anomalie, come

l'evasione contributiva da parte delle aziende, che è la regola quotidiana» ("Il

Manifesto" 28 settembre 1985).

Si parlava allora assai poco di pensioni integrative, un fenomeno limitato

a pochi e ristretti settori, ma le compagnie private di assicurazione iniziavano

l'assalto a questo nuovo mercato, anche sull'onda di quella campagna che

metteva in dubbio la solvibilità futura dell'istituto pubblico di previdenza.

In proposito Claudio scriveva: «Non sono d'accordo quando si sostiene che

bisognerebbe puntaresu

unagenerale privatizzazione e

una nonmeglioidentificata legge di mercato». «L'errore sta soltanto nel prevedere, come

qualcuno fa, che questo campo sia interamente appaltato alle compagnie

private. L'INPS ha tutti i numeri per essere concorrenziale» ("La Sicilia", 8 marzo

1984).

Da queste citazioni traspare la posizione di Claudio, condivisa peraltro dalla

delegazione CGIL, sul tema più grande, quello della riforma delle pensioni che

stava fin da allora drammaticamente sul tappeto.

L'INPS stesso in quegli anni aveva presentato alcuni progetti di legge, rimasti

non accolti, perché in quell'epoca definita come «giungla pensionistica», non

si voleva affrontare il problema degli squilibri esistenti tra le varie categorie di

pensionati e nemmeno l'incongruenza dei vari fondi pensionistici di categoria

con i relativi diversi trattamenti e diverse norme sull'età del collocamento a

riposo. C'era poi l'anomalia delle integrazioni al minimo concesse giustamente

a molti lavoratori privi del numero sufficiente di contributi, spesso a causa

dell'evasione dei loro datori di lavoro ma che, come lui ricordava di frequente,

concorrevano in misura importante al disavanzo dell'INPs, essendo i trattamenti,

pur se bassi, molto superiori a quanto sarebbe stato dovuto in proporzione ai

versamenti. Altro problema era quello delle pensioni di invalidità, dilatate negli

anni da una politica governativa clientelare, e addirittura estese ad una sorta disussidio di disoccupazione con il concetto di «inabilità al lavoro» collegato alla

zona di origine, e poi corretta da migliori regole e con la novità dei controlli

periodici.Claudio riaffermava con forza la difesa e l'ampliamento del welfare state

come principio irrinunciabile e concludeva: ,<Dobbiamo conservare il concetto

della pensione come salario differito, proiezione del contratto di lavoro».

Fino all'ultimo Claudio ha partecipato anche alla elaborazione della linea

politica del Partito comunista. Di questo impegno sorprende che pochi giorni

prima della sua morte sia comparso un suo articolo sulla rivista "Rinascita".Nell'imminenza del 17° Congresso del Partito, Truffi affrontava con un articolo

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dal titolo I contenuti dell'alternativa democratica i temi di prospettiva per ilPaese, sostenendo la necessità di «un programma di azione e di lotta fondato

sulla alleanza delle forze che puntano realmente al progresso». La data è il 16

marzo 1986.

Epilogo

Sulla strada verso Reggio

Siamo così approdati al 1986. La direzione dell'INPs era passata a Giacinto

Militello, designato dalla CGIL, col ruolo di presidente. Claudio conservava

nell'Istituto tutti i precedenti incarichi relativi all'organizzazione e al

personale.

Stavamo per strada, diretti a Reggio dove ci aspettava mio padre che

quell'estate avrebbe compiuto i novant'anni. Ad urta sosta a Bologna, Claudioha avuto un malore. Ricoverato all'Ospedale Maggiore in osservazione,

sembrava non grave. Nonostante gli interventi sanitari di protezione, verso

sera c'è stato un secondo collasso, tragico, che si è concluso all'alba con

l'arresto cardiaco.

Era la vigilia di Pasqua, 29 marzo.

Stranamente era accaduto in un'altra Pasqua, sette anni prima, che un primo

infarto, poi superato, l'aveva messo a terra. Si era fermato soltanto lo stretto

necessario per la convalescenza. Anche allora era stanchissimo - era ancora

alla FILLEA - e aspettava quella festività per riprendere fiato. Stavolta venivamo

per la Pasqua per stare un po' con mio padre, ma in calendario c'era anche

una riunione INPS a Modena per il martedì successivo.

Dalla città di Reggio e dai lavoratori venuti da tutta Italia, Claudio ha

avuto un saluto di addio grandioso. Molti ricorderanno i funerali che hanno

riempito la città. Sono venute colonne di autobus da ogni regione, comprese

Sicilia e Sardegna. Partito dalla sede dell'INPs, dallo storico palazzo di Piazza

Del Monte, il corteo è confluito a Piazza Prampolini, dove hanno parlato dal

loggiato del Municipio Giacinto Militello e Manlio Spandonaro, Presidente e

vice Presidente INPS, il segretario nazionale degli edili Roberto Tonini, Otello

Montanari e il sindaco di Reggio, il più appassionato, che era Ugo Benassi,l'attuale presidente dell'Istituto "Alcide Cervi".

Tutti i giornali, e non solo quelli locali, ma anche le radio e le televisioni

hanno dato notizia di quell'evento.

Ho sempre detto che Claudio è caduto in piedi, in piena attività, come lui

stesso si augurava. Sentiva di essere pieno di energie e di avere ancora tanto

da dare, niente affatto timoroso, anzi felice, di confrontarsi coi giovani.

Come era nei suoi desideri, abbiamo deciso di tumularlo al cimitero di

Mancasale, vicino alla casa della sua giovinezza, dove riposano i suoi genitori.

Per chi lo volesse salutare, è ancora là, nella celletta a destra dell'entrata.Anche dopo molti anni, sia al sindacato che all'INPs tutti coloro che l'hanno

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conosciuto lo ricordano con rispetto, ammirazione e rimpianto. Noi della

famiglia con dolore.

Ritorno ideale a Sant'Ilario

Nell'ottobre del 2001 è stata intitolata a Claudio Truffi a Sant'Ilario la nuovasede del sindacato CGIL della zona Val D'Enza, che comprende otto comuni e

che quell'anno contava 12.788 iscritti su una popolazione di oltre cinquantamila

abitanti.

Il valore di quella intitolazione è stato sottolineato con una bella cerimonia

festa di inaugurazione, durante la quale ha parlato Carla Cantone, già segretaria

nazionale degli edili e ora segretaria nazionale della CGIL. In quella occasione

hanno parlato anche il segretario Provinciale della Camera del Lavoro Franco

Ferretti, il segretario nazionale degli edili Franco Martini, il sindaco di Sant'Ilario

Sveno Ferri. I lavori erano iniziati con una bella introduzione della "padrona di

casa", la responsabile CGIL di zona Marzia Dall'Aglio. .

Con quella intitolazione, si può dire - come ha osservato Carla Cantone

- che Claudio Truffi è tornato a casa, nella sua terra, a testimoniare anche il

sacrificio di tanti reggiani che hanno trasmigrato per un ideale

Piccolo ritratto

La figura di Claudio Truffi descritta esclusivamente nella qualità di dirigentesindacale e di uomo politico è come vista a metà. Conoscere l'altra parte,

quella privata, può far comprendere che non vi può essere disarmonia tra i

due aspetti. Anzi l'una parte giustifica e completa l'altra.Claudio ci è mancato molto. Ci manca molto.

Cofferati nel parlare di lui all'inaugurazione della sede nazionale di via

Morgagni, ha ricordato che i dirigenti sindacali hanno ben poco tempo per se

stessi e per le famiglie. Ha aggiunto che le mogli e i figli portano sempre una

buona parte del peso di quell'impegno.

Ciò è stato certamente vero anche per noi. Eppure Claudio ha sempre

trovato margini di tempo e attenzione per i figli e per me. Non ha mai mancato

di ritagliarsi spazi per la famiglia, sia nei primi anni coi figli bambini, che dopo.

Riusciva a parlare di tutto, ad interessarsi ai loro studi, a mandare una lettera

di ringraziamento ad un maestro supplente particolarmente bravo, ed anche

a interessarsi del mio lavoro, discutere di politica, di scuola e di università.

Esigeva il massimo da tutti noi. Ricordiamo ancora con un sorriso la sua frase

abituale quando uno dei figli tornava da un esame universitario e diceva di

aver preso trenta, lui, invece di complimentarsi, ribatteva: ..E la lode?» E intanto

sorrideva.

Spesso era serio; sembrava severo. In realtà era un timido ma sapeva anche

essere allegro. Scherzava volentieri, specialmente con Cinzia, la moglie di mio

figlio Alberto, che con la sua verve romana lo stuzzicava e ne era ricambiata.

Ne nascevano gustose botte e risposte, a suggello di un reciproco affetto e dimolta stima.

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Quando c'era un po' di tempo le sue passioni erano - oltre alla lettura

- il cinema e le bellezze di Roma e dell'Italia: musei, monumenti, chiese.

Teneva in gran conto anche la musica. Dai viaggi nei paesi dell'Est portava

quasi esclusivamente dischi di musica classica. Probabilmente grazie a quella

assiduità e metodicità di acquisto, i ragazzi sono entrambi diventati in materiaattenti e appassionati cultori.

Devo a lui e alla sua segretaria e mia cara amica Virginia Cristofari, se ho

potuto realizzare i miei primi giornalini scolastici, quando non erano ancora

disponibili le attrezzature a scuola, raccolti poi nel volume dell'editore Giunti4•

Virginia si fermava fuori orario alla fotocopiatrice e talvolta mi sistemava ifascicoli. .

Non voglio far credere che tutto sia stato rose e fiori. Mi è capitato di

dire che con Claudio non sono mai riuscita litigare. Infatti, i miei scatti, la

mia permalosità, la mia impazienza si scontravano con la sua calma e ilsuo autocontrollo. Poi, a qualche distanza di tempo, a volte di giorni, mi

chiedeva se mi era passata, perché in quel caso si poteva affrontare seriamente

l'argomento.

Gli anni dell'INPs, cioè dall'80 al 1986 credo siano stati i più duri per lui.

L'atmosfera e i rapporti di lavoro, la struttura burocratica para-ministeriale

era certamente molto diversa dall'ambiente e dal tipo di rapporti che

caratterizzavano il sindacato. Credo che abbia lottato con tutte le sue forze per

smuovere quel pachiderma di incrostazioni funzionali e di ritardi, di confronti

coi ministri, di scontri nel consiglio di amministrazione e con la dirigenza.Mi sento un po' responsabile per averlo incoraggiato ad accettare

quell'incarico. Quando Lama glielo propose, Claudio non ne era molto

convinto. Aveva avuto l'infarto l'anno prima, ma ne era uscito bene e si sentiva

nel pieno delle sue energie. La prospettiva di affrontare un terreno nuovo e

difficile, però, lo preoccupava molto. Avendo io passato dodici anni in un

ministero soffrendone ogni giorno le carenze e le inefficienze, mi sembrava

bellissimo e pieno di prospettive che qualcuno di sinistra passasse dall'altra

parte della scrivania, non più dove si lotta, si contesta e si chiede, ma dove

si può concretamente "fare". Nemmeno io pensavo che sarebbe stata una

passeggiata, ma conoscevo la cocciutaggine le capacità e le idee chiare di

Claudio. Non so se i miei argomenti siano stati determinanti nel portarlo ad

accettare. Credo che abbia deciso da solo, ma di questo mio parere mi sono

rammaricata in seguito, quando ho dovuto constatare la portata della fatica e

delle sofferenze vere e proprie che quell'incarico e quell'ambiente gli hanno

provocato Anche perché quella sofferenza non è stata certo estranea alle cause

della sua morte.

Sono stata due volte soltanto nella sede dell'INPs nazionale di via Ciro il

Grande. Una volta con Claudio, una vigilia di Natale. L'ultima dopo la sua

scomparsa.Era una vigilia di Natale e stavamo in giro per commissioni quando Claudio

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si è accorto di aver dimenticato quella mattina in ufficio la busta dello stipendio.

Per la prima volta ho visto dove lavorava il vice presidente di un istituto che

aveva un bilancio appena inferiore a quello dello Stato. Lo studio era vasto,

con arredamento normalissimo, di legno chiaro. La busta la ritrovammo sul

bordo del lavandino nel bagno. Voglio ricordare, per chi non lo sapesse, che

lo stipendio glielo corrispondeva la CGIL in continuità con quanto percepiva

in precedenza al sindacato degli edili, mentre il compenso che gli spettava

dall'INPs andava al sindacato. Di queste staffette contabili era portatore Giacomo

Tosi, membro del consiglio d'amministrazione che in precedenza era stato

amministratore alla CGIL.

Una seconda volta sono andata all'INPs per le inevitabili pratiche, dopo

diversi mesi dalla sua scomparsa. All'entrata ho dovuto dire chi ero e da chi

andavo. Ho visto i visi cambiare e fu come se volessero mettermi un tappeto

su cui passare. Diverse persone mi avvicinarono rivolgendomi parole nonobbligate di apprezzamento e di rimpianto per Claudio. Tutto il mio percorso

- non breve - andata incontri e ritorno, è stato avvolto da questa atmosfera di

cui sono ancora grata e commossa.

Qualche anno fa, forse cinque o sei, mio figlio Alberto è andato alla sede INPS

di via Amba Aradam per una sua pratica e dopo aver detto all'impiegato il suo

nome si è sentito chiedere se ci fosse relazione con l'ex vice presidente dell'INPs.

A conclusione del tutto, l'impiegato - o funzionario che fosse - tirò fuori da

un cassetto una lettera nella quale Claudio lo elogiava personalmente per il

suo ruolo avuto nel processo di decentramento. Dice Alberto che quel signoreera commosso, felice di constatare che il figlio dell'ex vice presidente andava

normalmente allo sportello a chiedere informazioni. Aveva evidentemente

nostalgia di quel tempo e di quella gestione e teneva quella lettera come una

reliquia.VuoI dire che anche all'INPS non tutto è andato perduto, se dopo tanti anni

ci sono lettere nei cassetti conservate come conforto e incoraggiamento.

l T. VERGALLI, Storia di una stajjetta partigiana, Editori Riuniti, Roma 2005.2 N. CAITI, R. GUARNIERI, La Memoria dei "rossi", Fascismo, Resistenza e ricostruzione aReggio Emilia, EDIESSE, Roma 1996.3 "Il sindacato era dunque in quel momento un fronte granitico nei confronti dellecontroparti pubbliche e private e lo sciopero generale del 19 novembre per la casa,che registrò una partecipazione notevolissima, ne fu la dimostrazione più evidente;mai, infatti, sciopero generale riuscì con tanta efficacia e il paese tutto ebbe modo

di constatare come il movimento sindacale riuscisse a mobilitare e a interessare nonsolo l'intera classe operaia ma anche a scuotere l'opinione pubblica». CA. BONIFAZI. G.

SALVARANI, in Dalla parte dei lavoratori, Storia del movimento sindacale italiano, FrancoAngeli, Milano 1983, voI. IV p. 61).

4E.

DETTI,M.

D I RrENZO,T.

VERGALLI, Il giornalino scolasticoin

Italia, Giunti e LiscianiEditori, 1982. p. 1 di 27.

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BIBLIOGRAFIA- Per la rinascita della provincia di Novara, Quaderni della "Lotta", 16 giu. 1954.- G. VERMICELLI, Babeuj, Togliatti e gli altri, Edizioni TA.RA.RÀ, Omegna, apro 2000.- M. BEGOZZI Ca cura dO, Tre volte trent'anni. Albino Calletti il Capitano Bruno, IstitutoStorico "Piero Fornara" di Novara, ott. 1998.- Prima conferenza consultiva nazionale della CGIL, atti, Ariccia 5, 6, 7 ottobre 1967,Editrice Sindacale, Roma 1968.- FILZIAT-CGIL, 1944-1984, Atti del Convegno 40° anniversario FILZIAT, Roma 10-11dicembre 1984.- Convegno Lavoratori edili migranti, FLC, Federazione Lavoratori Costruzioni, Roma,7, 8, 9 maggio 1975, Nuove edizioni operaie, Roma 1978.- A. BONIFAZI, G. SALVARANI, Dalla parte dei lavoratori, VolI III e IV, Franco Angeli,Milano 1976.- L. BORTOLOTTI, Storia della politica edilizia in Italia, Editori Riuniti, Roma 1978.- B. BEZZA, Lavoratori e movimento sindacale in Italia, - Morano editore, Napoli1972.

- FILLEA CGIL, VIII Congresso Nazionale, Rimini 21-24 maggio 1973, Edizioni Sindacali,Roma 1973 .. - S. OLEZZANTE, G. MOSER, Costruzione di un sindacato. Le organizzazioni dei lavoratori

delle costruzioni dalle società di mutuo soccorso alla FILIEA-CGIL, EDIESSE, Roma 1998....: IX Congresso nazionale FILIEA-CGIL, Roma EUR Palazzo dei Congressi 26, 27, 28, 29aprile 1977, Edizioni Sindacali. Roma 1977.- Previdenza integrativa, Arnoldo Mondatori editore, Milano 1983.- "Sistema Previdenza" 1982, Raccolta della rivista mensile dell'INPS dal n. 1 al n. Il.

- "Sistema Previdenza", 1983, Raccolta della rivista mensile dell'INPs dal n. 1 al n. 11,più numero monografico.- Registrazione dell'inaugurazione della sede di zona CGIL di Sant'Ilario d'Enza, in viaCoventry, del 20 ottobre 2001.

- Pagine di Rassegna Stampa dell'INPs, anni 1980, 1986.- "La Stella Alpina" settimanale dell'ANPI provinciale, Novara, a. 1946.- "La Repubblica dell'Ossola", Edito dal Comune di Domodossola nel 40° anniversario,ottobre 1984.

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Un tempo nel tempo.Sassuolo e e trasformazioni del '900.Giornata di studi - Sassuolo 29 maggio 2005*

Lorena Mussini

Presentiamo in questa sede, anche se un po' di tempo è trascorso, la rassegna

di un interessante seminario che si è svolto a Sassuolo nell'Aprile dello scorso

anno, sia per la sostanziale novità e l'estremo interesse delle tematiche trattate,

(la storia locale vista da una prospettiva geo-storica cioè di analisi urbanistica

e socio-economica del territorio) sia per le forti implicazioni che riteniamo

possa avere anche per la storia di diverse zone del reggiano ormai inglobate

nel distretto industriale delle ceramiche.

Questa Giornata di Studi, collocata non a caso fra le iniziative previste per

il 25 aprile dal comune di Sassuolo, dal Laboratorio di didattica della storia

degli Istituti superiori sassolesi, dall'Istituto storico di Modena e dall'Istituto

Gramsci di Sassuolo ha visto numerosi relatori avvicendarsi ed offrire, coi lorointerventi, un panorama molto ricco di spunti e sollecitazioni sia sul piano

storiografico o di ricerca storica vera e propria, sia sul piano di una lettura

pluridisciplinare delle problematiche che un territorio può presentare, in

un'analisi che ha saputo incrociare sguardi diversi e contributi provenienti da

vari ambiti di ricerche e di studio.

E d'altra parte la forte presenza fra gli Enti promotori ed organizzatori del

Convegno di tutte le Istituzioni impegnate a promuovere memoria, ricerca

*Organizzato da: Comune di Sassuolo- Laboratorio di didattica della storia di Sassuolo- Istituto storico della Resistenza di Modena -Istituto Gramsci di Sassuolo.

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storica ed innovazione didattica a Modena e Provincia1 sta ad indicare una

volontà precisa e concorde di fareicostruire memoria percorrendo anche strade

"altre" rispetto all'approfondimento di temi inerenti i totalitarismi del '900 e

l'esperienza resistenziale delle passate generazioni, di cui chiaramente qui non

si vuole porre in discussione la rilevanza educativa rispetto ai giovani per laformazione di una coscienza civile, ma relativamente alla quale va detto che

da molti, nel più recente dibattito storiografico e didattico, è stato evidenziato

il rischio di un eccesso di memoria provocato da una ridondanza di espressioni

celebrative e di operazioni di rielaborazione rituale rispetto a periodi o eventi

del nostro passato che, per quanto cruciali e fondanti siano stati, rischiano, per

effetto di queste forme di monumentalizzazione, di suscitare soprattutto nei

giovani più un senso di rifiuto che non un'efficace trasmissione di memoria.

La memoria sembra invadere oggi lo spazio pubblico delle società occidentali. Il passatoaccompagna il nostro presente e si radica nell'immaginario collettivo, fino a suscitare quella

che alcuni commentatori hanno definito "un'ossessione commemorativa" amplificata con

forza dai media ... La sacralizzazione dei ..luoghi della memoria" dà luogo ad una vera

"topolatria" e la rivisitazione permanente del passato recente produce inevitabilmente un

effetto di "saturazione della memoria"2.

Dunque, la scelta di fare geo-storia per costruire memoria è scaturita anche

da queste considerazioni e si è concretizzata in questa giornata di studi che si

è voluta proporre anche come un invito a percorrere strade nuove di ricerca

storiografica e progettazione didattica, nella consapevolezza che esiste unaforte necessità di dare risposte adeguate a bisogni formativi e di orientamento

molto diffusi nei giovani, anche se latenti o a volte espressi in modo confuso o

improprio. Bisogni di un sapere storico che riesca ad incrociare le domande di

senso che ciascuno di loro formula rispetto al tempo presente ma anche (forse

soprattutto) rispetto al territorio di appartenenza, al suo passato e ai processi

che lo hanno caratterizzato e modificato.

Un territorio che _spesso risulta ai loro· occhi sconosciuto nelle sue

stratificazioni storiche o peggio che si configura come un non-luogo, cioè come

orizzonte geografico privo di rilevanze storiche, indifferenziato nel suo tessutosociale ed economico, semplice sfondo di itinerari e spostamenti abituali, una

sorta di terra di nessuno che l'anomia dei dettagli e l'incomprensibilità delle

trasformazioni socio-ambientali rendono estranea e non riconoscibile come

luogo di appartenenza.

Ed ecco che l'intersezione dello spazio con il tempo agisce a livello

didattico come potente snodo tematico per una serie di percorsi decisamente

innovativi sia per l'intreccio pluridisciplinare che li caratterizza sia per l'elevata

possibilità di utilizzare linguaggi diversi, creando zone molto interessanti di

contaminazione fra saperi affini e contigui o, a volte, molto diversi.Ma è soprattutto a livello storiografico e metodologico che la storia ha molto

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da guadagnare dall'incrocio con la geografia, perché - per usare le parole di

Teresa Insenburg - porta ad «una maggiore attenzione agli aspetti spaziali,

cioè al significato relazionale dello spazio sociale, alla valenza qualitativa della

diversità di scale, al vincolo temporale che le strutture orizzontali introducono

come elemento di inerzia e di condizionamento,,3.E non si tratta ovviamente di giustapporre uno all'altro i vari aspetti studiati

dalle singole analisi parziali: la loro somma non può restituire l'intero oggetto

d'indagine o la complessità del quadro.

Il problema rimane quello di porre questo filone di ricerca alla confluenza

di diversi intrecci disciplinari, intersecando non solo lo spazio e il tempo ma

anche metodologie di lavoro diverse e complementari: ad esempio, da un

lato l'uso di scale temporali e spaziali diverse per creare legami significativi

fra macrostoria e microstoria e il ricorso all'analisi critica delle fonti e dei

documenti in un approccio storiografico o di contestualizzazione dell'ipotesiinterpretativa che sono propri dell'indagine storica; dall'altro l'attenzione ai fatti

spaziali considerati come reti relazionali, l'insistenza sulle interconnessioni fra

quadri ambientali e le loro trasformazioni antropiche, basata sull'osservazione

di comportamenti concreti dei gruppi umani in un territorio, ed infine il dato

essenziale che un territorio non esprima nelle sue caratteristiche naturali un

"mondo chiuso" o "a sé stante", tutti elementi questi propri della geografia

storica.

Sul ritardo che la geografia storica ha fatto registrare in Italia come ambito

di ricerca con uno status disciplinare riconosciuto, molto ci sarebbe da dire,come sul perché in Italia questa disciplina abbia patito il pregiudizio culturale

di «disciplina scomoda" o peggio relegata quasi a un esercizio di erudizione,

al contrario della Francia che ha avuto la "lezione storica" di Fernand Braudel

e di altri dopo e prima di lui, come Lucien Febvre, ma non possiamo qui

dilungarci sulla questione. Così come non possiamo discutere le ragioni che

hanno determinato o determinano una certa marginalità del filone di ricerca

geo-storica nelle linee di sviluppo della storiografia italiana e della progettualità

didattica, per la quale rimandiamo ai contributi di Lucio Gambi riuniti nel

testo Una geografia per la storia, testo forse un po' datato che però racchiude

considerazioni ancora molto attuali sullo status della disciplina, a partire dalla

distinzione fondamentale fra "paesaggio" e "territorio" e ancora fra paesaggio

naturale (cioè non modificato dall'uomo, dunque estremamente limitato) e

paesaggio agrario (quasi tutto il paesaggio conosciuto, in quanto modificato)4.

Una bella sintesi efficace, più recente, delle questioni epistemologiche,

metodologiche e culturali legate alla disciplina si può ritrovare nel bel saggio

di David Bidussa La geografia storica come antimito5.

Così come vale la pena qui solo di accennare alla questione della scarsa

permeabilità della scuola italiana e dei programmi alla definizione, nei vari

assetti curricolari di studio, di un'area geo-storico-sociale che permetterebbe disuperare (forse) la separatezza che dalle elementari alle superiori, nell'ordine,

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esiste fra storia, geografia, studi sociali, educazione civica, economia, diritto,

caratterizzando le diverse materie "di separatezze, divergenze, identità

confuse, sovrapposizioni, interferenze selvagge, gerarchie rigide fra i vari

insegnamentiche alimentano negli allievi forme di confusione, gerarchizzazione

opportunistica, dispersione. Nel caso particolare gli insegnamenti geo-storicosociali sembrano spesso ridotti al ruolo di materie di "serie B", aggiogate al

carro delle materie di "serie A" (italiano, latino, greco, filosofia, scienze naturali)>>

come bene ha sottolineato Maurizio Gusso in un suo saggi06 che risulta ancora

fondamentale per chi voglia progettare sul piano didattico-educativo percorsi

di geo-storia, grazie al significativo contributo dato dall'autore alla definizione,

all'interno del curricolo, di questa area di innovazione non solo didattica ma

anche di ricerca storiografica. Gusso ha discusso ed evidenziato con efficacia

anche alcuni aspetti culturali ed educativi in senso lato strettamente connessi

all'area geostorico-sociale , come l'educazione socioambientale ed ecostorica,l'educazione interculturale, l'educazione ai diritti,civica e politica; aspetti che

la pratica didattica, la progettualità e le esperienze di molti insegnanti e la

ricerca successiva hanno ampiamente confermato.

Si tratta dell'indiscutibile valenza che riveste la conoscenza del territorio

per un'educazione interculturale o in senso più ampio per la costruzione di

una cittadinanza attiva e consapevole, poiché contribuisce potentemente a

destrutturare stereotipi e pregiudizi e, grazie alla lettura della complessità di

memorie e culture di cui è portatore un territorio o tramite le domande poste

ai saperi territoriali che lo compongono,interviene a perseguire quelle finalitàformative fondamentali, come l'educazione alla pace, alla cittadinanza, alla

solidarietà, allo sviluppo, al rispetto dell'ambiente e del patrimonio paesaggistico,

che spesso ritroviamo declinate nelle varie aree di progettazione educativa e

ricerca-azione didattica oppure diffusamente riportate in quei lunghi elenchi

di obiettivi educativi che, puntualmente, corredano i programmi ministeriali.

Dunque questa Giornata di Studio dedicata all'analisi del territorio di

Sassuolo ed alla sue trasformazioni ha risposto ad esigenze culturali, educative

e didattiche molto forti e dopo una prima parte della mattinata, coordinata in

rappresentanza del Laboratorio di storia di Sassuolo dalla preside Rosanna

Rossi, IPSSCT "E. Morante", interamente dedicata alla presentazione del volume

Comprendere la Contemporaneità-Itinerari di storia dal '900 ad oggi, frutto

di un interessante Corso di Aggiornamento sulla storia del Novecento per

insegnanti ed alunni, promosso qualche tempo prima dal Laboratorio di

Didattica della Storia di Sassuolo, in collaborazione cogli Enti sopra ricordati, i

lavori sono decisamente entrati nelle tematiche principali del seminario.

Moderatore e coordinatore delle due relazioni centrali della mattina è stato

Fausto Ciuffi - Fondazione Villa Emma di Nonantola - che non ha mancato

di ricordare l'impegno degli enti organizzatori nel promuovere aggiornamento

ed innovazione didattica, sottolineando sia l'importanza di fare formazionemisurandosi con aspetti non marginali della storia del '900, ma con i nodi

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fondativi di quella storia e soprattutto con le ricognizioni storiografiche che

l'hanno interpretata; sia anche, come nel caso specifico, sostenendo fortemente

lo studio della storia locale e più in generale di un'analisi geo-storica del

territorio come piattaforma operativa per concrete sperimentazione didattiche

e per ulteriori momenti di formazione simultanea per insegnanti e studenti.Egli ha richiamato la necessità di intrecciare sempre di più il discorso

nazionale o mondiale dei processi storici con la dimensione locale che può

diventare così lo studio di un caso rispetto a fenomeni più ampi o globali

ed ha insistito sui contributi fondamentali che discipline come l'architettura,

l'urbanistica, la geografia, storica ed economica, possono dare ad un

ragionamento complesso e capace di restituire le potenti trasformazioni in atto.

Ciuffi ha ricordato anche che, a suo tempo, studiosi di geografia importanti

come Lucio Gambi invitassero a non utilizzare mai come sinonimi termini

come territorio e paesaggio, perché è solo nel paesaggio che agisce la storiaed agiscono le presenze umane e lo sguardo che noi gettiamo sul paesaggio

non è pura immagine o un dato naturale ma è un dato che restituisce il portato

complesso di un processo storico, a volte anche di lunga durata.

I lavori si sono aperti con l'intervento di Vincenzo Vandelli, architetto con

una particolare vocazione per l'urbanistica, che nella sua relazione dal titolo

Sassuolo: "centro didiscreta industria». Letrasformazioni urbanisticheededilizie

ha ripercorso appunto le modificazioni intervenute a Sassuolo, nell'ambiente

urbano e nel paesaggio circostante, a partire dalla fase ottocentesca del

proto-capitalismo dell'industria ceramica fino al secondo conflitto mondiale,

individuando in particolare tre momenti cruciali: 1) il periodo post unitario di

fine ottocento, quando però c'è già un assetto industriale che si sta muovendo;

2) il momento della grande pianificazione nel primo decennio del '900,

quando lo sviluppo economico interviene a modificare gli spazi,definendo

gli agglomerati industriali e i connessi quartieri abitativi,delineando itinerari e

traiettorie di un'espansione che porterà, anche nel periodo seguente, alcuni

tratti costanti e ben riconoscibili nell'impronta determinata dall'uomo sul

paesaggio circostante; 3) il piano del 1935 che è alla base di quanto a livello

urbanistico a Sassuolo si è vissuto fino agli anni '60 e '70.

Questo excursus, iniziato con una bella citazione di Antonio Gramsci che

recita così "La toponomastica è l'ultimo baluardo dell'ideologia», si è avvalso,

oltreché di un ricco repertorio di foto, di cartoline d'epoca e di filmati, anche

del racconto di aneddoti ed episodi curiosi, come il primo consiglio comunale

di una Sassuolo post-unitaria, del 1862, in cui si dà l'incarico ad uno storico

locale di redigere un elenco di nomi locali per conferire, attraverso i nomi, una·

nuova veste al centro urbano e insieme rievocare identità storiche o personaggi

ritenuti fondamentali, in quel fervore di patriottismo post unitario in cui si

riecheggiano ancora i fermenti di un Risorgimento locale. Oppure, quando

si avvia nel 1865 la ricostruzione del castello di Montegibbio e si sceglie lostile matildico,anziché bolognese, con l'intento di riconfigurarsi in un territorio

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con la stessa identità storica e a questo scopo Matilde è percepita come un

emblema importante non solo a livello locale, come colei che dato un' impronta

fondamentale a queste zone, ma anche a livello nazionale come colei che ha

raffigurato un baluardo contro l'invasore germanico ed è stata sostenitrice della

Chiesa di Roma. Così come è risultato estremamente interessante sapere che unodei primi provvedimenti della nuova amministrazione post-unitaria sassolese,

liberale, composta dai maggiori possidenti locali e dai tre rappresentanti delle

tre industrie ceramiche presenti, fu quello di costruire il ponte sul fiume Secchia,

riunendo forze economiche del versante sassolese e reggiano, perché il ponte

era ritenuto fondamentale per lo sviluppo del territorio. Vandelli precisa anche

un aspetto forse inedito ma molto importante: i proprietari delle ceramiche

di questo periodo sono attenti a quello che succede all'estero,conoscono le

lingue, hanno un'ottima biblioteca in casa e posseggono un Museo nella loro

fabbrica. Questa attenzione per la tecnologia, questa curiosità per ciò chesuccede fuori, fa sì che Sassuolo abbia in questi anni, tecnicamente parlando,

una produzione ceramica avanzata e diventi effettivamente il centro ceramico

più importante in Italia, con un passaggio di produzione fondamentàle: dalla

ceramica ornamentale e di stoviglieria alla ceramica di maiolica o piastrella a

pressatura a secco.

Il relatore riporta anche alcune notazioni in merito alla popolazione sassolese,

per far comprendere di che cosa si parla quando si parla della realtà post

unitaria e del grado di partecipazione alle decisioni amministrative o politiche,

precisando un particolare illuminante: a Sassuolo alle prime votazioni che ci

furono, su cinquemila abitanti, il dato comprende anche i borghi circostanti,

votarono in cinquanta.

Per lo sviluppo urbano della città c'è però un provvedimento importante

dell'amministrazione locale del 1902, quando una coalizione, detta progressista,

radicale e democratica, con un programma molto preciso che punta su alcuni

aspetti, attua la prima divisione della città in poli: le strutture amministrative, le

zone annonarie,gli apparati industriali e i nuovi borghi residenziali. Infine, va

ricordato che l'immagine prevalente di Sassuolo dagli anni '20 fino al piano del

1935, e forse oltre, è quella di Centro termale. Anche Modena, come Bologna

e Parma, vuole le sue terme, quindi c'è una forte promozione delle terme dellaSalvarola, con un deciso sviluppo residenziale sulle zone collinari. Le cartoline

e le litografie del tempo ci restituiscono un'immagine patinata di Sassuolo,

proprio in quegli anni drammatici del primo dopoguerra e dell'affermazione

del fascismo, viene così propagandata da queste propagandata l'immagine di

un luogo ameno, di benessere, in deciso contrasto con il resto del paese.

Dal 1935 in poi fino agli anni '60 due fenomeni risultano essenziali nelle

trasformazioni del territorio:

a) il forte legame fra lo sviluppo industriale ed economico di alcune zone

e la configurazione complessiva del territorio, con una forte modificazione delpaesaggio e con conseguenze a vari livelli: socio-ambientale, paesaggistico,

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viario,urbanistico ecc.;

b) alcune caratteristiche del territorio sassolese, cioè variabili e costanti

delle trasformazioni territoriali, sono estendibili al versante reggiano, sia per

contiguità geofisica sia per gli stretti legami socio-economici fra le due sponde

del fiume Secchia che assumono via via una fisionomia simile e tratti distintiviomogenei. Soprattutto quando si configura il distretto industriale vero e proprio

che ingloberà anche le zone limitrofe, creando quella sorta di "nebulosa"

che caratterizza quel territorio in un susseguirsi indifferenziato ed altamente

concentrato di industrie- abitazioni-infrastrutture.

La seconda relazione della mattina, dal titolo "Identità, memoria e

modernità nella transizione post-nazionale della città italiana contemporanea"

è stata tenuta da Mario Neve (Università di Bologna, sede di Ravenna) che ha

analizzato il quadro generale delle trasformazioni della realtà urbana come

sfondo dell'identità, della memoria e della modernità, allargandoil

discorsoalla scala nazionale, evidenziando però un approccio particolare e un po'

inusuale, in quanto non urbanistico, né architettonico, né artistico ma attento

alle strutture fondamentali della città italiana che possono (o riescono) ad

incidere sulla sensibilità delle persone nel lungo periodo, cioè formano intere

generazioni. In questa prospettiva il relatore ha sottolineato una qualità dello

spazio urbano, dimostrabile nel lungo periodo, che è di tipo estetico, nel

senso più lato del termine, cioè in grado di determinare una particolare

sensibilità nei cittadini che, di fatto, usano lo spazio della città ma lo usano

in modo abitudinario, riconoscendone percorsi e itinerari che interiorizzano.

Ed è proprio questa abitualità, questa interazione con gli spazi e i percorsi a

creare quella coscienza urbana, quella sensibilità urbana di cui si parlava poco

fa e che è ancora poco indagata perché poco appariscente.

Negli anni '60 lo studioso ricorda che a Sassuolo circolava un detto

popolare che recitava così: «Quando i sassolesi si trovano ad un bar, se sono in

quattro fanno una partita a poker, se sono in tre fanno un'impresa ceramica».

Egli osserva che, a parte il fatto che si parla di poker e non di «briscola» o

«tressette» e cioè siamo già nella fase di "americanizzazione" della società del

secondo dopoguerra, c'è un altro elemento importante che è quello del gioco

e dei luoghi di aggregazione. Si sa che il gioco è, ad esempio, per i bambiniun fattore importante di apprendimento dello spazio urbano. Così come lo

sono tutti i luoghi di aggregazione nella città. Ma il fatto davvero rilevante

per la storia urbana della città italiana è il grosso ritardo con cui si compie

questa urbanizzazione, conseguente al ritardo dell'industrializzazione. Perché

l'industrializzazione comporta la gestione di grosse masse di popolazione e la

gestione di problemi su scala urbana mai visti in precedenza. C'è un fenomeno

in particolare cui dedica una certa attenzione Neve ed è quello dell'adozione

di un «passato non vissuto». Chi entra a far parte di una comunità, scuola o

città - secondo Neve - adotta un passato di cui non ha esperienza diretta.Ad esempio, chi studia storia, studia che «il papà» del suo passato nazionale

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è Mazzini. Ma chi ha mai conosciuto Mazzini? Si potrebbe obiettare che ciò

è banale, ma in realtà di tratta di un fenomeno importante cioè del fatto

che ognuno di noi deve educarsi all'idea che quel passato Ca livello locale,

nazionale) è tutto il proprio passato, compreso quello individuale e la propria

storia biografica.La città resta ed è il principale elemento di costruzione di questo passato

non vissuto, perché esso si trova dentro lo spazio urbano come elemento

imprescindibile e lo determina a tal punto da farlo diventare il principale

e più forte veicolo di trasmissione di ciò che appunto si definisce "passato

non vissuto». Questo elemento determinante entra anche nel processo di

costruzione di un'identità individuale e collettiva che, storicamente parlando,

si definisce come risultato di un processo storico e sociale e non come fatto

naturale o spontaneo, ed entra comunque a far parte del vissuto individuale e

biografico, interagendo a tratti potentemente col processo identitario che restasempre il frutto di un'operazione culturale e sociale.

Neve prosegue osservando che la storia della città italiana comunque

parte tutta quanta dall'opera degli ingegneri, prima idraulici, poi degli altri.

Infatti, nella fase ottocentesca di sviluppo urbano, quando lo spazio urbano

si definisce in contrapposizione alla campagna, la città si sviluppa a partire

dall'ambito di gestione delle acque e poi si estende agli altri servizi. Poi viene

importata l'idea della Parigi del secondo impero, per cui l'ambiente urbano

deve essere essenzialmente un ambiente di mobilità, cioè un ambiente che

favorisca la circolazione delle persone e delle merci e che si dovrà adattare al

traffico destinato ad aumentare e ad incrementarsi. Un altro aspetto importante

è che la città comincia ad avere il problema dell'espansione urbana e questa

risulta sempre più connessa alla rete ferroviaria e ai servizi. Le aree cominciano

ad avere valore per la vicinanza a questi servizi o a determinate infrastrutture.

Nascono anche i servizi di sottosuolo che poi condizioneranno il soprasuolo,

perché buona parte dei servizi fondamentali sono sotterranei ed è questa rete

di servizi e di infrastrutture che condizionerà l'espansione dell'agglomerato

urbano. Nascono nuovi luoghi di aggregazione: i parchi pubblici, i giardini,

il grande magazzino. Si profila anche un contrasto insanabile fra architetti ed

ingegneri. E nonostante l'archeologia come scienza risalga al '400-500 finoall'800 non ci si è mai posti il problema della conservazione dei centri storici.

Infatti, solo alla fine dell'800 nascono le Soprintendenze. Ma nella diatriba fra

abbattimento e conservazione dei centri storici, nelle città italiane prevarrà in

generale la conservazione di quegli scorci che richiamano vedute paesaggistiche

o di pittori o di artisti, cioè prevarrà il "bello" secondo lo sguardo dei vedutisti

del '600 e '700.

Il pomeriggio ha visto, dopo l'introduzione da parte del moderatore Paolo

Pantoni (Istituto Gramsci di Sassuolo) due interventi estremamente interessanti

di storia locale ed analisi del territorio sassolese. Il primo, tenuto da TullioSorrentino CITCG "A. Baggi"), ha affrontato aspetti della storia economica

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di Sassuolo e dello sviluppo industriale, con particolare riguardo per laformazione del distretto industriale ceramico. Il secondo, curato da AntonioCanovi (Università di Modena e Reggio) ha trattato la questione dell'identitàdistrettuale, con particolare attenzione per le trasformazioni sociali e la mobilità

migratoria della popolazione.Pantoni, nel presentare i due relatori, ha richiamato l'importanza di questa

dialettica fra macrostoria e microstoria e la necessità di operare, sia a livellodi ricerca sia a livello di insegnamento, soprattutto nell'ottica di un confrontosistematico fra storia locale e storia nazionale o storie più ampie o diverse,perché solo una cultura ed una conoscenza storica seria e rigorosa possono dare

una base concreta e fondata alla coscienza civile e alla partecipazione politica,non solo dei giovani, ma anche degli adulti. La motivazione fondamentaleè che - come ha osservato Pantoni - la storia locale crea uno spazio del

vissuto e permette un significativo dialogo fra generazioni e, pur sollevandoil problema dell'uso corretto delle fonti e delle metodologie investigative,risulta estremamente importante nella costruzione di memorie e di identitàcollettive.

Tullio Sorrentino ha iniziato la sua relazione sulla storia economica diSassuolo, dal titolo Il distretto industriale ceramico verso la globalizzazione,partendo dall'analisi del fenomeno del proto-capitalismo italiano, quello dimanzoniana memoria per interderci, parlando delle prime industrie tessili osetifici della Lombardia o comunque nella zona alto-padana e riprendendo datie riferimenti relativi a questo processo dal testo di R. Nazario, Il capitalismonelle montagne, di cui non ha mancato di sottolineare l'importanza.

Il relatore ha ribadito che anche a Sassuolo si ha questa fase di protocapitalismo seicentesco e settecentesco perché, mentre la corte trasferisce lasue "delizie" nel palazzo ducale, compare un diploma di nobilitazione, una

certificazione della qualità della ceramica, che è insieme una concessioneesclusiva dell'area per questo tipo di produzione ed anche una liberalizzazionedelle dogane al flusso di queste merci (ius privativo dell'area con annessie connessi delle stoviglierie ducali). La nascita della ceramica a Sassuolo,collocabile fra il 1600 e 1700, è legata a questo diploma di abilitazione, di

liberalizzazione, di qualità.Dunque Sassuolo non è "giovane" all'industria e se nell'area padana già

lavorano migliaia di addetti fissi nei setifici o in altre industrie (a Bologna,Venezia, Mantova, Modena) anche nelle stesse industrie ceramiche sassolesisono molti gli addetti alla produzione e i meccanici revisiona ori dei macchinariche in quel periodo sono molto complicati e richiedono una particolaremanutenzione. La meccanica era complementare alla ceramica e la costruzionedei macchinari per la produzione ceramica andava di pari passo con il resto.

Dopo il lungo "incunabolo" del '600 e '700, si ha un incremento decisivo

dell'industria ceramica dopo l'unità d'Italia, con uno sviluppo complementaredell'industria meccanica per la ceramica. È del 1903 un'importante Officina di

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meccanica ceramica a Sassuolo, nota con il nome del suo impresario, certo

Ceppelli.

Per i primi quarant'anni del '900 ci si sviluppa in questo modo, cioè ci si

specializza in due settori essenziali per la produzione ceramica: quello chimico

e quello meccanico. Nel Censimento del 1938 il numero dei lavoratori addettiall'industria supera di poco il numero degli addetti all'agricoltura e questo ci

fa dire che l'industrializzazione italiana non è tutta concentrata nel secondo

dopoguerra. Sorrentino utilizza, a questo punto, una foto per visualizzare lo

sviluppo industriale di Sassuolo e l'impatto sul territorio, una foto scattata

nel 1944 da un ricognitore della Royal air farce che mostra un agglomerato

industriale fortemente concentrato nella zona intorno al ponte sul fiume

Secchia, snodo fondamentale al punto che in questo periodo bellico, subirà

dodici incursioni ufficiali e decine di mitragliamenti e puntualmente verrà

ricostruito dai tedeschi. C'è ancora molta campagna intorno a Sassuolo, ma ilnucleo generativo industriale sassolese è ben visibile. Sempre nella medesima

foto si vede che Sassuolo è già uno dei centri industriali di punta nella pianura

padana (la foto è in scala 1 a 500). C'è un centro urbano ben fatto e il centro

storico risulta ancora più o meno coincidente con quello dei primi del '900,

che non era di molto più grande dell'area di decastellamento dell'età moderna.

Ci sono già industrie a ciclo completo di produzione, cioè sotto lo stesso tetto

di una fabbrica si fa tutto il prodotto.

Un'altra foto del 1976, scattata con una scala tre volte più alta, ci mostra

la campagna intorno a Sassuolo ormai invasa, assediata dall'espansione

industriale e abitativa: l'abitato raggiunge e satura gli spazi intorno al fiume;

l'industria sta mangiando il fiume. Gli urbanisti chiamano questo tipo di

espansione «a macchia d'olio». Avevamo cioè una rete urbana chiusa, ricalcata

di fatto sul centro urbano più antico o poco più. Ora invece abbiamo «una

nebulosa urbana» e verso Reggio Emilia, cioè nel territorio limitrofo verso

Ovest, abbiamo lo stesso fenomeno, senza soluzione i continuità. Siamo

davanti al processo di formazione del distretto industriale ceramico. Le

imprese che sono presenti nel territorio sono oramai stabilimenti molto

grandi, per una grande produzione di massa. C'è già la monocottura e queste

ceramiche sono qualcosa di assolutamente diverso rispetto alle ceramicheprecedenti che erano molto più simili alle smalterie o alle vecchie ceramiche

tradizionali dell'800 o alle mattoniere, anche se c'erano macchinari complessi.

Sono ceramiche in rete, sono «le piccole corazzate» di cui parla Aldo Bonomi,

cioè le imprese distrettuali, de-territorializzate, <<multinazionali tascabili» che

possono competere con colossi internazionali. Nascono legami economici fra

le ceramiche sassolesi ed altre industrie straniere. Questa crescita gigantesca,

che ha portato alla creazione del distretto industriale, si registra soprattutto

a partire dagli anni '60 ed è in gran parte determinata dall'incontro fra la

tradizione produttiva della ceramica con un alto livello di maturità tecnologica,dovuto al fatto che a partire da quegli anni fino ad oggi ci sono in questo

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settore industriale forti investimenti tecnologici. Qualche dato per capire

questa incremento vertiginoso: nel 1946 ci sono quattro imprese ceramiche

a Sassuolo; nel 1957 ce ne sono sessantacinque. Si tratta, il riferimento è

ad un master del 1966 di Romano Prodi, di un modello di sviluppo di un

settore in rapida crescita, in un territorio e un tempo piuttosto concentrato. Unsettore che resta complessivamente omogeneo, pur con la forte immigrazione

che richiama, perché c'è anche un capitale-lavoro molto importante, cioè c'è

un'umanità molto competente o per usare altri termini, gli addetti al settore

sviluppano e portano competenze professionali molto elevate.

L'intervento dello storico Antonio Canovi conclude i lavori del pomeriggio

con una relazione dal titolo Sassuolo nel '900: riflessioni su identità

distrettuale, trasformazioni sociali, mobilità migratoria e prende le mosse

da un'affermazione di Edmondo Berselli curiosa ed interessante: "Sassuolo

- dice Berselli - è in realtà un frammento di Emilia, è in una situazionestrana, né pianura né montagna, città e terra di confine, di vita e di soglia»

perché appunto, riprende Canovi, ciò che colpisce di questa città è la sua

collocazione geografica e la sua conformazione come distretto industriale.

Come collocazione geografica in realtà, come osserva il relatore, Sassuolo ha

in effetti questa posizione strana, quasi una sentinella nella vallata del Secchia;

né sopra, rispetto alla montagna, né sotto rispetto alla via Emilia, considerando

l'Appennino e la via Emilia come due posizioni geografiche ben precise. In

realtà Sassuolo sta anche al di là e al di qua del Secchia e questo forte legame

che ha conReggio Emilia lo si

vede anchesoltanto ripercorrendo la storia delponte sul Secchia o la storia della ferrovia. La prima ferrovia nel reggiano è

quella che va verso Sassuolo, prima che verso altri luoghi della provincia; la

rete ferroviaria che si determina alla fine dell'800 nei dintorni di Sassuolo è

già molto ricca ed articolata, e la vede al centro di una fitta rete di percorsi,

ma la prima tratta è quella che va verso Reggio. Quindi, Sassuolo ha già e

conserverà un legame forte con Reggio Emilia. Anche nello sviluppo e nella

formazione del distretto ceramico, il ponte è fondamentale, perché serve a

fare le stesse cose, sia di qua che di là. Una percezione chiara dell'espansione

della realtà distrettuale di Sassuolo si ha anche dall'excursus demografico,

il cui andamento colpisce perché, se ancora nel 1861 Sassuolo risulta più

piccolo di Formigine, poi diventa "polo di attrazione" per lo spostamento

della popolazione e lo diventa senz'altro già negli anni '20 e '30 del '900.

Infatti, durante il periodo del fascismo si assiste ad un consistente sviluppo

della produzione ceramica, tanto che nel 1936 a Sassuolo l'industria è al primo

posto fra le attività produttive; mentre tutti gli altri paesi intorno, che non sono

percepiti ancora come distretto e neanche come comprensorio, sono totalmente

diversi nelle loro attività economiche prevalenti. Anche l'Emilia Romagna

stessa non è una regione che negli anni '20 e '30 ha questo passaggio di forte

industrializzazione, perché lo avrà, in maniera visibile e diffusa, negli anni '50o meglio a metà degli anni '50. Sassuolo, quindi, ha una sua eccentricità, non

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solo geografica, ma anche rispetto ad una lettura macroregionale dell'industria

lizzazione. È anche evidente, come ha osservato Canovi, che non si tratta solo

di un problema di pionierismo industriale ma che si tratta anche del problema

di come si fa, a Sassuolo, a mantenere e conservare questa fisionomia, questa

identità distrettuale di industria delle ceramiche, per quel forte intreccio cheesiste fra capitale umano, investimenti tecnologici e specializzazione di un

filone produttivo "tradizionale" (come vocazione di un territorio) di cui si è

già ampiamente discusso.

Sassuolo, dunque, ha questa fase industriale precoce rispetto a quello che

sta intorno. E la prima immigrazione a Sassuolo si ha, negli anni '20 e'30,

dalla vallata del Secchia e dalla montagna. Si scende a valle e poi si riparte per

altri paesi. Infatti, molte persone sono di Sassuolo, ma sono nate in Francia,·in

Svizzera, in Belgio: c'è un consistente flusso migratorio fra Sassuolo e questi

paesi ed anche verso l'Argentina, per motivi economici, di lavoro o motivipolitici. Quindi, dentro a questa identità c'è anche l'esperienza di un viaggio,

l'esperienza di vita e culturale di uno spostamento che ti porta o riporta a

casa. Non si dà, infatti, storia del tempo presente che non scambi qualcosa di

importante con l'identità, con la storia delle memorie con le storie individuali

e con le storie dei luoghi.

I dati del secondo dopoguerra mostrano una Sassuolo in forte crescita

demografica. Ci sono tassi molto elevati di crescita di popolazione, specie

immigrata dal Sud, negli anni che vanno dal '51 al '61 e Sassuolo mostra di

possedere già una scarsa vocazione emigratoria rispetto ai Comuni circostanti,

perché a Sassuolo, in quegli anni, la gente arriva più che andarsene; invece

negli altri comuni la popolazione emigra anche, oltre che immigrare.

Questo respiro distrettuale è molto evidente negli anni '60, quando ormai

la formazione ed anche la configurazione geografica del distretto industriale

delle ceramiche si è accentuata ed è diventata molto chiara. Canovi ha anche

precisato che negli anni '73-75, gli anni della crisi energetica, la prima vera

grande crisi industriale che abbiamo conosciuto, c'è un mutamento dei

comportamenti nella realtà demografica e migratoria, perché a Sassuolo si

assiste ad un rientro di emigranti meridionali che dalla Germania o dal Nord

Europa ritornano in Italia a e non tornano a Taranto o alloro paese di origine,ma si fermano in Emilia, a Sassuolo che diventa così un grossa bacino di

manodopera.

Stiamo parlando anche di memoria e di identità. Come riconoscere, dunque,

le memorie e le culture che abitano un territorio? È evidente che la storia ha a

che fare con i confini, qualunque storia, a qualunque livello, anche nazionale.

La storia ha bisogno di confini, ha bisogno della geografia, ha bisogno di un

mondo in cui fissarsi. La storia delle memorie e delle culture che stanno in

un territorio è qualcosa di importante. Altrettanto importante è un racconto di

questo processo, anche pubblico.Il relatore ha sostenuto che facciamo fatica a rappresentare la complessità.

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Che non vuoI dire chiedersi che cosa succede in Cina, ma che significachiedersi che cosa succede a chi fa parte di una realtà locale e ha una storiache non sta dentro ad un certa tradizione. Cercare delle risposte in questadirezione - ha aggiunto Canovi - sarebbe un obiettivo importante. Così come

sarebbe interessante recuperare un discorso di geo-storia fra le due spondedel Secchia, risalire alle forme di relazione che hanno intessuto legami moltoforti fra le due sponde dal punto di vista dei saperi territoriali, delle formedi relazione, delle reti, della costruzione di un'identità che va al di là delledivisioni amministrative e territoriali.

La fine dei lavori ha visto alcuni interventi conclusivi di docenti che

hanno fatto parte per diverso tempo del Laboratorio di didattica della storiadi Sassuolo, per la condivisione di riflessioni a vari livelli, storiografico,didattico, progettuale ed anche di memoria o testimonianza rispetto alla storia

del territorio sassolese oltre ad alcune richieste di precisazioni da parte deipresenti in merito alle relazioni pomeridiane.Qualche rapida considerazione in conclusione solo per sottolineare che

la buona riuscita dell'iniziativa è dipesa certamente dalla ricchezza delletematiche e dalla capacità dei relatori di affrontare discorsi complessi,ricorrendo anche all' ausilio di supporti multimediali, ma probabilmente l'esitopositivo del seminario è dovuto al fatto che le problematiche trattate sono

risultate estremamente attuali, non soltanto sul piano della ricerca storiograficao dell'insegnamento del '900 e, più in generale, della disciplina storia, ma

proprio sul piano della nostra esperienza di appartenenza ad un territorio, delnostro senso di sentirci o meno cittadini del territorio in cui viviamo e rispettoal quale poco importa che sia quello che ha visto la nostra nascita o quelladei nostri nonni, perché questo territorio si è già profondamente trasformatoe continua a farlo ad una velocità piuttosto elevata, al punto che rischiamodi non saperlo più comprendere o leggere. Così come è evidente che la geostoria risulta, allo stessO tempo, importante e "problematica" perché ha a che

fare con una delle questioni più spinose ed irrisolte che il '900 ci abbia lasciatoin eredità: quella dell'appartenenza e dell'identità. È il caso di riprendere leparole di Bidussa che, qualche anno fa, scriveva preoccupato di «una carta

geografica che sembra essersi rimessa pericolosamente in movimento negliultimi anni, nuovamente carica di simboli, in cui le coordinate di ciò che

abbiamo storicamente assimilato come confine si presentano come territoriodi contesa,,7.

Per questo il discorso geo-storico può diventare fondamentale per una

storia che sappia instaurare un rapporto, il meno ideologico e il più apertopossibile, con la storia dei gruppi umani in relazione agli spazi da essi abitati.In altri termini, la grande valenza storiografica e formativa della geo-storiarisiede proprio nel fatto di essere un potente antidoto ad una geografia politica

intesa come etnicizzazione dello spazio e antropizzazione del paesaggio. Edessere altresì un potente correttivo metodologico per usi falsificanti sul piano

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ideologico della storia locale. Rispetto alla quale va detto, sia pure brevemente,

che non solo permane una sorta di ambiguità educativa e disciplinare insenso stretto nei nostri programmi scolastici e piani di studio individuali o di

istituto, ma anche che questa, come la geo-storia, ha patito spesso gli effetti

di una dichiarata diffidenza da parte di certa storiografia ufficiale che l'harelegata spesso alle cronache o alle ricerche degli eruditi. Della storia locale

invece ribadiamo che va recuperato e potenziato il contributo fortemente

educativo e formativo perché favorisce una visione problematica e critica dei

fenomeni storici e perché, paradossalmente ma non tanto, la delimitazione

geografica e spaziale che la caratterizza, cioè la scala locale, favorisce e facilita

la comprensione di fenomeni più ampi, cioè di processi storici in atto a livello

mondiale.

Infine risulta chiaro, anche alla luce di quanto emerso sia dalle relazioni che

dalle riflessioni qui prodotte, che va depotenziata una storia locale fortemente

intrecciata all'identità, quasi ne fosse il "cemento" o fosse assunta come unico

collante per un'identità avvertita come debole o che si sta sfaldando. Va invece

incentivata una storia locale che contribuisca in senso critico e problematico

alla riedificazione di un'identità consapevole della complessità e delle questioni

che si stanno muovendo.

Vorremmo concludere queste osservazioni utilizzando ancora le parole di

Bidussa perché molto illuminanti e significative, anche a proposito delle realtà

che stiamo vivendo, quando egli afferma, ricordando lo scarso seguito della

lezione di Lucien Fevbre e parafrasando Hannah Arendt, che:

La carta geografica in questa fine secolo si è messa rapidamente in moto, spesso secondo

un criterio che tende a sacralizzare lo spazio in nome di una ritrovata o rifondata identità

collettiva.

Lo spazio, allora, divenuto sacro, sembra non sopportare vincoli o ibridazioni in quanto

supposto specchio e luogo depositario dell'anima. Lo spazio sintetizza così individui

associati, anzi meglio, li rappresenta e li sostanzia nella loro identità. Parla per loro, al

posto loro. Così a uno spazio omogeneo si chiede che corrisponda uno omogeneo. Non è

la paura dell'altro, o almeno non solo. È la trasformazione della società in gruppi di identici.

La geografia diviene così il segno di una rinnovata ansia di tribalismo. [, .. 1

Ma chiediamoci: la geografia è solo fondamento territoriale? Oppure l'ambiente ha una

storia? E questa storia è solo di tipo tribale o è anche il risultato di scambi?8.

Crediamo che una delle sfide culturali più impegnative e difficili del

tempo presente sia proprio questa: quella di depauperare, destrutturare la

presunta, spesso mitizzata, identità fra individuo e suolo, fra etnia e territorio,

problematizzando la relazione fra cultura e spazio. Una sfida ancora tutta

da giocarsi sia sul piano didattico-educativo sia sul piano della ricerca

storiografica.

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l Fra i promotori della Giornata di studio ricordiamo: il comune di Sassuolo-Servizioattività culturali; il Laboratorio di Didattica della storia-Rete degli Istituti superioridi Sassuolo; l'Istituto storico di Modena, l'Istituto Gramsci di Sassuolo e il CSA diModena.

2 E. TRAVERSO, Storia e memoria. Gli usi politici del passato, "Novecento", rivistadell'Istituto storico della Resistenza di Modena, 2004/10, p. 9, cui rimando per l'estremaricchezza delle questioni, anche metodologiche, trattate. Sulle problematiche inerentila trasmissione della memoria e l'uso delle testimonianze ricordo che anche ISTORECO el'Istituto storico di Modena hanno dato, nel corso degli ultimi anni, numerosi contributiimportanti attraverso convegni, seminari e pubblicazioni, anche accolte nelle proprie

riviste. Per brevità qui richiamo due iniziative davvero interessanti: i l Convegnopromosso da ISTORECO ed altri soggetti nell'ottobre 1999 col titolo Sulle tracce di AnnaFrank: persecuzioni, giovani, memoria e, più recentemente, il Convegno svoltosi aCarpi nel dicembre 2005, a cura dell'Istituto storico di Modena, della FondazioneFossoli e Fondazione Villa Emma, dal titolo "Il racconto del testimone dopo il '900:parole della memoria e discorso storico".3 Presentazione di T. ISENBURG in M. RONCAYOLO, Storia e Geografia. 1Fondamenti di unacomplementarità, "I Viaggi di Erodoto", 1999/37, p. 33.4 L. GAMBI, Una geografia per la storia, Einaudi, Torino 1973.5 D. BIDUSSA, La geografia storica come antimito, "I Viaggi di Erodoto", 1996/30, p.98.6 M. Gusso, Area Geostorico-sociale, Quaderno n. 8, supplemento a "I Viaggi diErodoto", 1994/24. Riedito nel testo pubblicato dall'Associazione Clio 92 "Oltre laStoria", Edizioni Polaris, Ravenna 2000.7 BIDUSSA, La geografia storica come antimito, cit., p. 98.

8 Ivi, p.105; cfr. H. ARENDT, Le origini del totalitarismo, Comunità, Milano 1989, p. 317e sgg.

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Gli Albi della Memoria:le tecnologie informatiche,supporto essenziale per la ricerca storicaeperla conservazione attiva della memoria

Amos Conti*

Introduzione

Il progetto di realizzazione e messa in rete degli Albi della Memoria è stato

attuato presso ISTORECO come naturale prosecuzione e completamento diuna più

ampia attività svolta negli anni 2003-04 per la formazione e l'informatizzazione

degli Albi relativi ai Caduti e Decorati delle due guerre mondiali, sia militari

sia civili.

Si riscontrava ancora, infatti, una certa carenza di quadri d'insieme, che

offrissero al tempo stesso un'evidenza nominativa e numerica complessiva

del "tributo" di vite umane pagato dalla collettività della provincia reggiananei due grandi conflitti. Ciò nonostante che, in pratica, ogni Comune, frazione

o piccola località abbia nel tempo fatto la conta dei concittadini caduti,

fissandone la "contabilità" e la "memoria" su pubblicazioni di carattere locale

e sui monumenti, lapidi e cippi sparsi nel territorio1.

L'attività svolta nel periodo indicato ha rappresentato una ricerca di fonti

dettagliate idonee a costruire dei quadri d'insieme, ricerca pertanto mirata

*Un ringraziamentoparticolareper a collaborazione all'iniziativa a: Massimo Storchi,Michele e Marcello Bellelli, Nazzaro Benati, Giovanni Fontanesi, Eva Lucenti, Lella

Vinsani. Flavio Iori, Anna Fava.

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alla raccolta di archivi od elenchi nominativi di chiara attendibilità già

formati presso sedi ed organismi istituzionali od associazioni riconosciute per

legge. L'opportunità di avvio di questa particolare ricerca è stata offerta dal

capitolo relativo alle Vittime civili della guerra 1940-45. Una realtà poco nota

nella sua ingente consistenza, seppure oggetto di alcuni approcci di primaapprossimazione in passato2 •

Sulla scorta della promettente acquisizione intervenuta in tale campo, meglio

descritta oltre, si è poi delineata una serie di archivi di possibile acquisizione

ed informatizzazione, così definita:

- Vittime civili guerra 1940-45

- Caduti militari guerra 1940-45

- Caduti partigiani guerra 1940-45

- Caduti militari guerra 1915-18

- Caduti nelle guerre d'Indipendenza, Africa orientale, Libia, Spagna- Decorati di tutte le guerre

- I Civili deportati della guerra 1940-45

- I Militari internati della guerra 1940-45.

Le Vittime Civili 1940-45

La fonte fondamentale è stata rinvenuta con una ricerca presso l'Associazione

vittime civili di guerra di Reggio Emilia, che ha collaborato attivamente alla

stessa. Il risultato è stato il reperimento, fra materiale d'archivio d'incerta

destinazione, di una serie completa di elenchi manoscritti, con numerosi dettaglipersonali e distinti per lettera alfabetica, formati nel ravvicinato dopoguerra.

Gli elenchi contengono i nominativi sia dei Caduti che dei Feriti vittime di

eventi bellici diretti o riconducibili alla guerra (esempio scoppio di ordigni in

tempi successivi). In accordo con l'Associazione si è prodotta copia di tutti gli

elenchi, avviando quindi il lavoro di archiviazione informatizzata, conclusa a

fine 2003.

Nella sostanza la fonte può essere considerata ampiamente attendibile ed

esaustiva poiché l'Associazione costituiva per i famigliari delle vittime il canale

di assistenza quasi obbligato per dar corso alle pratiche di risarcimento o di

pensione presso gli enti preposti, agli eventuali ricorsi e così via. Ciò non

esclude che qualche nominativo non sia compreso negli elenchi, o che alcune

delle informazioni riportate siano imprecise od incomplete. Ovviamente

la rilevazione di errori, o l'omissione di nominativi o di dati, da parte di

chiunque vi abbia interesse, darà luogo a conformi aggiornamenti dell'archivio

informatizzato, mentre per parte propria Istoreco terrà conto di eventuali

elementi di riscontro ed integrazione emergenti da ogni altra attendibile ricerca

o fonte.

Un cenno particolare si rende opportuno per la suddetta Associazione,

oltre che per la sua meritoria attività, anche per la sua storia. Essa venne

costituita con Foglio disposizioni, per ordine del duce (Benito MussolinO,

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NAZIONALE FA'SCISTAARTITO A N N OXXIOMA. SEDE LITT0R1A(Eoro,Mussolini) -,Ro.IVIA19 4 :3

FlIìLIDBI POSlltoNI I ~ 1i9•

A.SSOCIAZIONE NAZIONALE 'fì\MIGUE CADUTi! MUTiLATI'

E. INVALIDI CIVIUPER,

\ , i H O M B ~ R D i M E N l I NEMICI

, \ . ~ appl!ovato i l ilaguente $ t ! l . t ~ t . o dell'i. ~ ~ 6 c i l l . z i o n e u ~ f o l v l l e t a t c i g l i e Caduti, mmi·

~ a t i e in\"alidi civili !?er r ' b o t n . ~ l l r d a m e n . t i ~ ~ ì n i c Ì l > . ' ; '" .

DENOMlNAZ:1GN$ .;";SEDE ~ ,SCOPIAH;:,(:t,'

Peio ol'ùiue !.faI DUCE è costituita.l'A$$POI.:\.ZIONE ) ; . u W ~ U . L J : : lt.\MIGLIT.

CADUTI. 1!UTILATI E ThvAL!D! a ~ k l ' P E R TBOM:l3.Uitt\,\IE:\'TI NE1ITOL, " -j'>;'''. '

Art. ~ . L' .\:>''lo(·,iu.ziolle ha' !ielle iu. H,cJUUl. C si. prOlJime i ~ Q g u ù l l l i alli:

',:tt", ballare vivo Ilegl I italiani il seutimen!,cl d e l l l ~ l'icotlof:!(:elll!.ll. 1 1 ~ ( z i o u ... e verlSO

culo1'O ~ ' h e , Italla tJ:l,m:eE.l del fronte ìHlemo, l:iol'[rollo le ( ' ( ) l I g ~ g u e n r . e delle 1;'\.1'b'\.l:è Rggl"e.'i·

5ìoni COl!l.I'O h.\-. vita. el! i 1.10111 delle P\lflUhll1iulli I"h"m, p ~ r p e t m ~ l \ t l o in e!-lso, 11ft! tamplIl'oLlIO' e i l , ditlvrezzo v G r ~ ( J l'l.UUInl:1.11U nemko;

Decreto istitutivo Associazione vittime civili (parte).

con la denominazione di "Associazione nazionale famiglie caduti, mutilati einvalidi civili per i bombardamenti nemici". La data istitutiva, 26 marzo 1943,seguiva alle prime devastanti incursioni aeree alleate sulle città italiane, forsenel tentativo di attenuare la rabbia popolare per le immani conseguenze

portate dalla guerra anche sulle popolazioni inermi.A fine conflitto, con vari provvedimenti normativi, l'Associazione assumerà

l'attuale denominazione (da ultimo con Decreto CPS. 19 gennaio 1947), con la

parallela estensione delle competenze a favore delle Vittime civili di guerra indipendenza di qualunque tipo di evento bellico.

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Figura 1

La sintesi numerica dei soggetti memorizzati per la provincia di ReggioEmilia è riportata alla Figura 1. Il dato di 1594 Caduti civili in pratica conferma

quello di 1220, che Guerrino Franzini, nell'opera citata in nota, stimava pari

all'80 percento circa del reale.

I Caduti militari della guerra 1940-45Allo stato attuale, pur trascorsi oltre sessant'anni dalla fine del conflitto, non

risulta effettuata alcuna pubblicazione nominativa ufficiale per l'intero territorio

nazionale. In tema di puri dati numerici la pubblicazione più accreditata è

quella del 1957 edita dall'rsTAT3, costruita tramite una raccolta dati effettuata

presso i comuni italiani. A confronto con la fonte successiva i dati complessivi

rSTAT per la provincia di Reggio Emilia risultano comunque sottostimati (2900

Caduti contro oltre 3100).

La sede istituzionale competente in materia di Albi dei Caduti militari è

esclusivamente il ministero della Difesa, tramite la Divisione dell'Albo d'oro.

Come accennato nessuna pubblicazione è stata sin qui effettuata, per ragioni

non tutte intuibili ma da ritenere in maggior parte riconducibili alla controversa

questione della qualificazione combattentistica dei Caduti nelle file della

Repubblica sociale italiana (Rsr altrimenti detta Repubblica di Salò).

A fronte di una formale richiesta il suddetto dipartimento ministeriale ha

comunque fornito ad rSTORECO un elenco nominativo dei Caduti militari della

provincia contenente numero 3130 soggetti con i relativi dati segnaletici, ivi

compresi numero 435 Partigiani in quanto equiparati ai combattenti inquadrati

per effetto del D. LGS. LGT. n. 518/1945 eD. LGS. CPS n. 93/1946.

Tale elenco è stato integralmente ripreso, creando uno specifico Albo

informatizzato. Considerata la funzione e l'ufficialità della fonte è legittimo

ritenere che l'elencazione fornita sia sostanzialmente completa e corretta nelle

singole informazioni. Tuttavia anche in questo caso valgono le riserve di

aggiornamento dei dati che risultassero carenti od errati a seguito di ricerche oconfronti su eventuali fonti locali, nonché per effetto di eventuali provvedimenti

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di legge che dovessero estendere le categorie di soggetti riconoscibili come

belligeranti.

I caduti partigiani 1943-45Per questo capitolo la Fonte assunta è costituita dall'Albo d'Oro dei Partigiani

della Provincia di Reggio Emilia4 . Esso comprende numero 616 caduti, con

relativa foto ed un breve profilo biografico. Al fine di assicurare l'integraletrasposizione della fonte, nonché i confronti con essa nel tempo, tutti i relatividati sono stati memorizzati in apposito Albo, evidenziando con specificheannotazioni le reciproche compresenze in quello ministeriale precedente.

All'elenco ripreso sono poi stati aggiunti ulteriori 54 nominativi di Caduticombattenti con le forze partigiane reggiane, ma originari di altre province e

di altri stati (in particolare russi ed inglesi), reperiti da annotazioni in calce

all'Albo d'oro suddetto, raggiungendo così una consistenza di 669 soggetti.

I caduti militari della guerra 1915-18Rappresentano il capitolo di più imponente consistenza fra tutti i conflitti.

La formazione del relativo Albo provinciale è avvenuta recuperando tutti inominativi, con tutti i relativi dati presenti, dall'Albo d'oro edito dal ministerodella Guerra nel 19265.

In materia sono stati pure reperiti elenchi redatti dai Comuni nel 1937,su richiesta dell'autorità militare, elenchi di cui si dirà oltre e che, ad un

primo sommario esame, evidenziano qualche discrepanza con i dati

emergenti dall'albo ministeriale, opportunamente raggruppati. Non essendo

nell'immediato possibile individuare tutte le discordanze e le relative ragioni,con ogni probabilità dipendenti anche da criteri diversi seguiti dalle due

sedi nella formazione dei rispettivi elenchi, si è scelto di utilizzare la fonteministeriale, richiedendo anche la collaborazione dei Comuni reggiani per

un'operazione di confronto capillare tramite il quale effettuare gli eventualiaggiornamenti necessari. Analoga collaborazione è stata richiesta relativamente

agli altri Albi qui descritti.

Nel complesso sono stati memorizzati numero 6032 Caduti. Un numero

davvero imponente, a testimonianza delle caratteristiche di vero e propriomassacro assunto dalla forma di guerra allora dominante, la cosiddetta "guerradi posizione". La "contribuzione" dei civili alla contabilità di morte risultò allora

nel complesso modesta, a confronto del secondo conflitto mondiale 1940-45, che, "grazie" alla "guerra di movimento" ed all'uso massiccio dell'offesaaerea, ha registrato una crescita ingente con numeri finali di Vittime civiliparagonabili a quelli dei caduti militari.

Il dato numerico reggiano dei caduti della grande guerra evidenzia a primavista un rapporto di circa 1 a 100 con quello complessivo nazionale, pari a circa600.000 caduti. Tale rapporto risulta proporzionale ai dati di popolazione, con

una "equità" di carico attribuibile anche al fattore della coscrizione obbligatoriaallora vigente.

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Su base locale il dato complessivo appare in tutta la sua sconvolgente atrocità.

I 6000 caduti reggiani costituivano quasi il2 percento della popolazione di allora.

Considerando però che essi erano tutti maschi e per oltre 1'80 percento giovani

di età comprese fra i 19 ed i 33 anni, ben- si evidenzia come la percentuale

della popolazione di quella giovane fascia di età sacrificata sia valutabile nel

16 percento. In pratica 3 giovani su 20 morirono ed una famiglia reggiana su

lO subì delle perdite, a cui si devono aggiungere le migliaia di feriti ed invalidi

permanenti. Un tributo umano, ed evidentemente anche economico, destinato

a pesare in seguito su intere generazioni di cittadini.

I Caduti nelle guerre d1ndipendenza, Africa orientale, Libia,Spagna

Alla formazione di questo Albo si è pervenuti recuperando un fondo

documentale di rilevante valore per la memoria locale, fondo praticamentetrascurato se non quasi dimenticato, oltre che molto esposto a rischio di

deterioramento. Trattasi del materiale conservato presso il Sacrario militare

di Reggio Emilia, costituito da elenchi di caduti e decorati per ciascun

Comune della provincia e da fotografie di gran parte dei medesimi (circa 3000

complessivamente). L'operazione di recupero dei dati e del materiale si è resa

possibile grazie alla fattiva collaborazione delle Associazioni d'arma reggiane,

che hanno in custodia i predetti locali e la documentazione (locali ora inagibili

e materiale trasferito in sede provvisoria).

La storia relativa merita di essere brevemente descritta. La realizzazionedel Sacrario, avvenuta nel 1937 ad iniziativa delle autorità politiche e militari

cittadine, si proponeva di «consacrare e onorare le glorie militari reggiane"

in ossequio ad una concezione politica tendente a suscitare "ardente fede

ed entusiasmo guerriero" [vedi foto 1 e 2], ... i cui nefasti risultati sarebbero

purtroppo ricaduti sulle spalle delle popolazioni di li a poco tempo.

Il complesso sacrale fu ricavato all'interno della caserma "Rainero Taddei,,6

(Via Emilia San Pietro, Reggio Emilia), allora sede anche del Distretto militare

e raccoglieva cimeli bellici, gli elenchi dei caduti e decorati delle guerre

d'Indipendenza, di Africa orientale, Libia e Spagna, oltre ad un ragguardevole

corredo di ritratti fotografici. Giova ricordare come in effetti la formazione

degli elenchi e la raccolta delle fotografie personali sia stata opera esclusiva

dei Comuni. L'inaugurazione avvenne il 24 maggio 1937, in coincidenza con

la celebrazione del 22° anniversario dell'entrata dell'Italia nella grande guerra

1914-18, con ampio sforzo di propaganda e di iniziative collaterali, oltre alla

dedica di tre vie a caduti in Africa orientale: Calderini, Franzoni e FranchettF.

L'iniziativa sembra sia stata di tipo esclusivamente locale, non risultando

reperite in materia norme od istruzioni su scala nazionale.

Su questo materiale di documentazione ISTORECO ha potuto attuare alcuni

importanti interventi conservativi, quali:- la duplicazione degli elenchi mediante fotocopiatura;

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Foto 1. Pagina giornale "Il Solco Fascista" 25 maggio 1937 (parte).

- la memorizzazione di tutti i dati

ivi contenuti, mediante creazione

degli Albi informatizzati dei caduti

guerre diverse e dei decorati;

- la riproduzione in fotografia

digitale del materiale fotografico

(riproduzione effettuata a blocchi

e richiedente ulteriori passaggi di

elaborazione e di abbinamento

ai nominativi - attività in pratica

conclusa).

Le risultanze numeriche si

riassumono in numero 290 soggetti

per i caduti guerre diverse, 409 per

i decorati, oltre 6000 per i caduti

della guerra 1915-18, tenendo però

presente che per la costruzione

dell'Albo informatizzato di questiultimi si è preferito utilizzare l'Albo

Foto 2. Il Sacrario militare nel1937 (ingresso - porta a destra)

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d'oro ministeriale come già detto. Da notare anche che la documentazione

predetta comprende le rilevazioni fino alla primavera del 1937, guerra di

Spagna ancora in corso, senza alcun seguito di aggiornamenti od integrazioni,

anche dopo la guerra 1940-45. Sono state quindi attivate ulteriori ricerche che

hanno sin qui permesso di portare a 316 il numero dei caduti guerre diverseed a 601 quello dei decorati.

I Decorati di tutte le guerre (al v.M.)Anche questo Albo è stato costruito memorizzando le informazioni tratte

dai relativi elenchi custoditi presso il Sacrario militare, di cui si è detto al

precedente paragrafo. La fonte contiene un elemento di straordinario interesse,

ossia le motivazioni per la maggior parte dei decorati in elenco. La lettura di

questi testi offre un coinvolgente spaccato del contesto di svolgimento dei fatti

d'arme in cui furono compiuti gli atti di valore oggetto di decorazione.Va ricordato che il criterio di base per la concessione delle decorazioni

al valor militare è costituito dalla volontarietà degli atti, che il militare (o

un civile) potrebbe non compiere senza perciò ledere la sua onorabilità o

trasgredire ordini. Ovviamente, spesso e particolarmente in certi periodici

storici, le motivazioni sono cariche di notevole enfasi e di richiami a ideali di

abnegazione, altruismo, patriottismo, spirito di conquista particolarmente cari

ai regimi dittatoriali e tendenti a suscitare ammirazione, spirito combattivo e ...

bellicoso. Ciò tuttavia nulla toglie alla sostanza degli atti compiuti e gratificati

con decorazione.

Il progetto prevedeva l'inserimento in Albo del testo integrale di tutte le

motivazioni disponibili. Nella prima fase del lavoro si è comunque optato

per l'inserimento del solo incipit dei testi, trattandosi di un'operazione

molto laboriosa e pesante, in quanto implicante la completa trascrizione

delle motivazioni stesse, in massima parte manoscritte. Questa attività è

stata completata a fine 2005, verificando che per circa 200 decorati non era

disponibile il testo integrale delle motivazioni. Si è quindi avviata una ricerca

presso l'Istituto del Nastro azzurro di Torino (Associazione dei decoratO, che

dispone delle motivazioni relative a tutta l'Italia.

Da notare infine che è in corso un'ulteriore ricerca che dovrebbe permetteredi completare il relativo Albo con tutte le decorazioni relative alla guerra 1940-

45 ancora mancanti.

I Civili deportati della guerra 1940-45L'Albo mette in risalto la consistenza del capitolo relativo alla deportazione di

civili attuata dalle truppe di occupazione tedesche in Italia, con la collaborazione

attiva della RSI, capitolo che ha visto coinvolti più di 1000 cittadini della provincia

di Reggio. Scopo essenziale di questa massiccia operazione era l'acquisizione

di mano d'opera a costo zero, per sopperire alle esigenze della produzioneagricola ed industriale della Germania. Non secondari certamente anche degli

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intenti punitivi per taluni soggetti ritenuti pericolosi per gli occupanti, oltre allo

scopo di affievolire il supporto della popolazione alle attività di resistenza.

L'entità del dato reggiano mette in evidenza un triste primato, se si considera

che rappresenta quasi il 12 percento sul complesso dei circa 10.000 civili

italiani deportati8 . Il trattamento riservato ad essi fu in generale caratterizzatodalla completa privazione della libertà personale, da denutrizione e condizioni

di "lavoro" disumane, al punto di causare la morte di alcuni e l'invalidità di

altri.

La creazione dell'Albo, comprendente 1169 soggetti, è avvenuta utilizzando

integralmente il "prodotto" del lavoro di Egidio Baraldi ed Antonio Zambonelli

sull'argomento e pubblicato sul n. 94 della rivista "Ricerche Storiche"9.

I Militari internati della guerra 1940-45

Questo Albo raccoglie le schede di oltre 7300 militari reggiani che dopol'armistizio dell'8 settembre 1943 furono internati in campi di concentramento

in Germania, o territori occupati, avendo essi rifiutato l'arruolamento nella

RSI a fianco dell'esercito germanico. La consistenza evidenziata è rilevante e

proporzionale al dato nazionale di oltre 600.000 internati. Anch'essi subirono

condizioni di internamento identiche a quelle dei civili.

La formazione dell'Albo è avvenuta utilizzando schedari ed elenchi messi

a disposizione e custodia di ISTORECO da parte dell'Associazione nazionale

combattenti e reduci di Reggio Emilia.

Gli Albi informatizzati, efficace supporto per la ricerca storicaLa creazione degli otto Albi informatizzati descritti nei paragrafi precedenti,

frutto essi stessi di un'attività di ricerca, ha in realtà permesso di configurare un

vero e proprio sistema di database di notevole utilità per ricercatori, storici o

studiosi che intendano sviluppare temi di ricerca e di analisi storica sui conflitti

avvenuti dagli inizi del 1800 fino al 1945 in rapporto alla popolazione della

provincia di Reggio Emilia.

In generale i "prodotti" che un sistema informatizzato può fornire al

ricercatore ed allo storico sono a prima vista essenzialmente di tipo numerico

e statistico. Appare del resto innegabile che anche tali elementi sono quasisempre di notevole importanza per l'approfondimento dei temi oggetto di

analisi, essendo impensabile prescindere dalle "consistenze" che, pur esprimibili

con dati numerici, contribuiscono ad esplorare in tutti i risvolti il tema trattato,

quali ad esempio gli effetti indotti da un evento sul tessuto umano, sociale ed

economico delle collettività coinvolte.

L'utilizzo dei sistemi automatizzati, come strumento ed ausilio di lavoro,

offre ormai in effetti un'impressionante capacità di gestione e trattamento di

informazioni, non necessariamente espresse in dati numerici, in particolare nelle

situazioni di ingenti masse di informazioni, in pratica ingestibili e difficilmenteesplorabili con mezzi tradizionali. Questa capacità è stata ampiamente descritta

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nel saggio di Davide Leoni, pubblicato sul numero 99 della rivista "RicercheStoriche"10.

Nello specifico degli Albi in esame risultano enfatizzati due principali

aspetti. Un primo concerne la funzione assolta in tema di conservazione e

riproducibilità delle fonti e delle relative informazioni, a fronte della ben notavulnerabilità del mezzo cartaceo nel tempo. Un secondo riguardante le attività

di ricerca selettiva, aggregazione, estrapolazione e condivisione nell'ambito

delle informazioni "immagazzinate", con il risultato di "produrre conoscenza",

che in definitiva costituisce il valore aggiunto di un sistema informatizzato.

Alcuni significativi elementi di conoscenza ottenibili operando sul Sistema,

con strumenti standard di filtro e ricerca parametrica (c.d. query) , offrono un

quadro nutrito seppur non esauriente di risultanze di ricerca, che possono

poi essere mirate in base ai quesiti conoscitivi dell'utente. Per gli esempi si

fa riferimento ai database/Albi dei caduti di guerra, ove, con immediatezza

ed in tempi trascurabili, è possibile produrre in forma tabulare o di grafico le

evidenze indicative che seguono:

- Caduti per Classe;

- Caduti per Anno di morte;

- Caduti per Età alla morte;

- Caduti per Grado;

- Caduti per Arma;

- Caduti per Località morte (più significative o note, esempi: Custoza, Adua,

Carso, fronte russo);

- Caduti per Causa di morte;- Caduti per Comune;

- Ricerca per singoli nominativi, per decorazioni od altre annotazioni, ecc.

Altri ennesimi filtri di ricerca possono essere proposti sulla base delle

esigenze conoscitive dei ricercatori e studiosi per supportare od affinare

ricerche particolari. A questo scopo, eventuali elaborazioni finalizzate possono

essere svolte con la collaborazione di ISTORECO.

La prosecuzione del lavoro implicherà ovviamente un'attività di

aggiornamento continuo dei dati eventualmente carenti od errati, attraverso

una forma di ricerca permanente, attingendo a pubblicazioni, saggistica,

documenti d'archivio reperibili o forniti da terzi.

Il Sito INTERNET "Albi della Memoria"

Il progetto di creazione di un sito INTERNET, nel quale installare gli Albi

realizzati, è stato sviluppato nel corso dell'attività di creazione degli stessi, in

origine pensati ad uso essenzialmente interno. La collocazione di archivi su

Internet, con accessibilità incondizionata, in gergo messa on line, costituisce

una forma di vera e propria pubblicazione del materiale, che diventa così di

pubblico dominio.

Gli obiettivi principali di questa iniziativa possono essere riassunti comesegue:

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- onorare la Memoria dei Caduti di tutte le guerre, proprio nel 2005 in

occasione del 60° anniversario della fine della seconda guerra mondiale;

- creare un "Libro della Memoria" aperto;

- rendere la Memoria dei Caduti più viva e più forte, sia come onoranza

che come monito per le nuove generazioni.Con la definizione di libro aperto si è voluto identificare un luogo di

memoria, un luogo di incontro tra famigliari, discendenti e cittadini tutti con i

propri caduti negli eventi bellici che hanno segnato la storia nazionale, quanto

quella locale. Ciò non va quindi inteso come un semplice cimitero virtuale o

una lapide digitale, poiché in questo luogo si realizza in pratica uno scambio

attivo:

- da un lato il sito offre un "servizio" di divulgazione relativamente ai

Caduti, servizio che gratifica famigliari e discendenti in funzione della maggiore

visibilità data ad essi, in pratica universale;- dall'altro la possibilità di arricchire la "pagina" del caduto o decorato da

parte dei famigliari o di chiunque vi abbia interesse, con fotografie, copia

di documenti personali, lettere, testimonianze od altro, così contribuendo a

perpetuare e condividere la memoria fra le generazioni, così come il monito.

Su questo piano il sito già realizza un importante recupero consentendo di

abbinare in modo diretto alle schede dei singoli caduti e decorati l'imponente

blocco di fotografie (circa 3000) conservate presso il Sacrario militare su

pannelli, separatamente dagli elenchi, oltre alle foto reperite su pubblicazioni

e presso i Musei civici. Una valorizzazione concreta quindi dello stesso

patrimonio documentale li conservato, grazie ad un'attività tuttora in corso

e che comunque ha già permesso di avere on line e di poter visualizzare

circa 3000 abbinamenti. Anche numerosi famigliari dei caduti già si sono

attivati inviando materiale, che viene immediatamente inserito, e cercando

informazioni sui propri cari ancora sconosciute. Questo riscontro di sensibilità

enfatizza l'esigenza di iniziative di più vasta e mirata informazione, ad esempio

verso la popolazione studentesca, così come l'esigenza di offrire ai richiedenti

una certa assistenza nelle ricerche presso gli organismi pubblici competenti

(Difesa, Archivi di Stato).

Per sua stessa natura, la creazione ed apertura di un sito INTERNET in generalenon rappresenta un prodotto finito e chiuso, bensì un "lavori in corso" in

continuo aggiornamento, integrazione e crescita, che si adegua anche alla

domanda dell'utenza. Utenza qui costituita da privati cittadini che ricercano

tracce o notizie relative a caduti o decorati di propria famigliarità o conoscenza,

che desiderano arricchire il "corredo" iconografico degli stessi od ottenere

a distanza, mediante ricerche in piena autonomia, informazioni aggregate,

statistiche o soddisfare semplici curiosità; così dicasi per ricercatori e studiosi.

Un esempio: quanti reggiani morirono in combattimento sul Carso nella guerra

1915-18? la risposta immediata sarà di 596 con relativo elenco (ilIO percentodi tutti i 6032 reggiani caduti in quella guerra!). E potrebbero essere molti

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in più, potendo considerare quelli che risultano deceduti per "malattie", in

generale contratte a causa delle ferite riportate nei combattimenti.

Le caratteristiche di questo sito sono ovviamente di tipo "contabile" e

non "tematico". Ciò d'altra parte evidenzia un obiettivo non secondario che

. con esso si persegue, ossia quello di suscitare curiosità ed interessi culturalie didattici sui temi e sulla storia delle guerre. Un effetto indotto quindi di

notevole valore che si cerca di trainare offrendo indicazioni per accedere ad

idonee fonti con semplici collegamenti (c.d. links) , quali: siti INTERNET tematici,

bibliografie, editori specializzati e fonti similari.

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La configurazione del sito (www.albimemoria-istoreco.re.itJLa configurazione attuale, come da prima apertura ad inizio aprile 2005, è

stata realizzata con l'obiettivo di facilitare accesso e ricerca, in particolare per

l'utenza meno esperta. I dati contenuti ed accessibili sono quelli riportati intutti gli otto Albi descritti nei paragrafi precedenti, con un numero complessivo

di 20.847 soggetti memorizzati con le relative informazioni, costituite da circa

250.000 dati (vuoto per pieno - posto che nelle fonti alcuni dati elementari

talora non sono presenti). Il quadro complessivo delle Schede inserite è

riportato in Figura 2. Lo schema funzionale del Sito in Figura 3.

Stabilita la connessione al Sito, viene presentata all'Utente una pagina di

accesso (homepage) contenente un "Menù" con le diverse opzioni praticabili,

oltre ad una serie di informazioni generali riguardanti le fonti dei dati, le

finalità ed i criteri di costruzione della banca dati, privacy e criteri di ricerca

on line.

Figura 2

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SChema funzionale del ··SlTO IfttemetALBI. MIiiMQRIA

Figura 3

Ricerca e stampa delle evidenzeL'effettuazione della ricerca da parte dell'Utente avviene tramite l'accesso alla

pagina "Cerca negli Albi" entro cui scegliere l'Albo al quale accedere. Questa

operazione determina la presentazione di una griglia di ricerca contenente

delle caselle vuote relative a tutti i singoli dati caratteristici d'archivio. Per

attuare la ricerca l'utente deve semplicemente impostare anche uno solo dei

dati previsti (o parte di un dato) in relazione al proprio obiettivo. E così se la

ricerca è su di un nominativo è sufficiente inserire il cognome (o cognome e

nome), mentre per una ricerca per luoghi - esempio Comune di residenza - è

necessario inserire il nome del Comune su cui operare.

L'invio della Richiesta, ottenuto agendo sul comando Cerca, determina

la presentazione all'utente di un elenco di schede trovate, nell'ambito del

quale, agendo su Scheda, viene visualizzata la scheda di dettaglio relativa al

nominativo desiderato. In calce alla scheda presentata è riportato i l corredo di

eventuali fotografie od altri documenti relativi al soggetto, che potranno essere

visualizzati con semplice azione sulle singole descrizioni (c.d. click). Per le

ricerche tendenti ad ottenere un aggregato, esempio nominativi di un Comune,

viene presentato l'elenco di tutti i nominativi trovati. Tutti i risultati di ricerca,

quali elenchi o singole schede o foto possono essere stampati utilizzando le

funzioni di sistema.

L'utilizzo contemporaneo di diversi termini di ricerca consente poi di

effettuare indagini più complesse e mirate, esempio: la ricerca dei nominativi

dei caduti in un determinato evento potrà essere attuata impostando la datadell'evento ed il comune relativo, e così via. L'invio della ricerca senza alcun

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GLI ALBI DELLA

CtztI#tì1ltilitantfèl14gum 1915-18

~ t ì ~ d i 1 l i J ~ 1 H 0 . 4 S " ~ i J i •.~ l ~ J t J : f 4 i ; ~ 6 f l f ! m . 4 i l ~ ~ . · , . ~ 6t1Jf4lilifid#. Renr·.. . , ,A6... " ' 4 ' ~ · Q f l { f l I i t f è l 1 i s a . ··.194lNl......,,""'. .'. .' '. .. ...,#.IfITlI." .. ..., J

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Pagina attivazione ricerche INTERNET su Albi.

parametro ottiene in risposta l'elenco completo dei soggetti presenti nell'Alboindagato.

Da notare altresì la possibilità di una ricerca generica sui nominativi.

Avviando la ricerca dalla voce "Albo generale", che di fatto è virtuale e costituito

dall'insieme di tutti gli Albi, si otterranno elenchi di schede corrispondenti ai

nominativi cercati, con l'indicazione del singolo Albo di riferimento e con

la possibilità di accedere direttamente alla relativa scheda senza ulterioripassaggi.

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lII!III!!liWi:ÌIIII b n o i ~ ~ i I __ _.......

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Pagina ricerca di un caduto.

Gli Albums fotografici

GLI ALBI DELlA MEMORIAI

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Sono costituiti da aggregati di fotografie di caduti e decorati che offrono

la possibilità di scorrere e visualizzare vere e proprie gallerie di ritratti, in

gran numero risalenti a quasi un secolo fa (es.: i Caduti della grande guerra).

Questi albums riprendono tutte le foto associate alle schede individuali, con

aggregazione per eventi bellici, o categorie, o singoli soggetti che dispongono

di un corredo fotografico numeroso o che può risultare di generale interesse.

Sono già presenti albums personali messi a disposizione da discendenti, da

associazioni d'arma ed altri.

Statistiche, contatti e collegamentiGli Utenti del Sito possono inoltre consultare una serie di quadri e grafici

statistici ritenuti significativi e pertanto già "confezionati" dalla Redazione

del Sito sulla base della consistenza numerica degli archivi nel tempo. Ad

essi si accede tramite le pagine Cerca negli Albi - "Statistiche". Qualsiasi

"Utente" peraltro potrà ottenere evidenze statistiche in base a propri obiettivi,

impostando congrui parametri di ricerca. In ogni caso, come detto, privati o

ricercatori che abbiano necessità di effettuare od affinare ricerche particolari,

non ottenibili direttamente online, possono visionare direttamente le fonti ed

effettuare eventuali elaborazioni finalizzate presso ISTORECO.

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GU ALBI DELLA MEMORIA

i : ~ : : : ; ~ ~ ~ ..

Esito ricerca: Scheda caduto.

La pagina Contatti mette a disposizione dell'utente gli indirizzi della

Redazione del Sito e di alcune sedi istituzionali presso cui ottenere informazioni

relativamente ai propri caduti, quali, ad esempio: luoghi di sepoltura in Italia

e all'estero, integrazione di dati mancanti o correzione di errori. A questi scopi

ISTORECO assicura la propria collaborazione per i contatti con dette sedi.

Una serie di collegamenti Clinks) consente infine all'utente di accedere

automaticamente ad altri siti, in particolare alcuni di carattere tematico idonei

a soddisfare interessi culturali e didattici sui temi e sulla storia delle guerre.

Attività in corso e sviluPPi

Oltre alla continua attività di aggiornamento ed integrazione dei dati degli

Albi, frutto di una ricerca di fatto continua, è ormai in fase di completamento

il recupero e l'abbinamento dell'intero patrimonio fotografico raccolto accanto

agli elenchi presso il sacrario militare, realizzando l'obiettivo della concreta

valorizzazione di tutto quel patrimonio documentale già accennata.

Inoltre viene assicurata in tempi rapidi l'acquisizione e la messa on line, su

richiesta di famigliari ed associazioni d'arma, di tutte le fotografie e documenti

inviati, quali decorazioni e simili.

A conclusione delle prime fasi di lavoro si è effettuata un'analisi di risultatoe di riscontro delle eventuali carenze, ritenendo complessivamente positivo il

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Quadro statistico on line.

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giudizio sulla valenza dell'iniziativa, che non pare avere riscontri della specie

numerosi, almeno nel panorama nazionale. Al tempo stesso, oltre allo studio

di iniziative divulgative, si sono ipotizzati alcuni importanti sviluppi del sistema

Albi/sito INTERNET e poste le basi per realizzare tali sviluppi, costituiti in sintesi

dai seguenti:- ricerca dei decorati della guerra 1940-45 non ancora rilevati;

- ricerca ed acquisizione delle motivazioni di decorazione non ancora

reperite;

- associazione ai caduti e decorati delle fotografie dei monumenti o lapidi

sui quali essi sono ricordati, ubicati in territorio provinciale, attingendo in

particolare dal volume Le Pietre dolenti l1 ;

- associazione analoga delle intitolazioni individuali e collettive nella

toponomastica urbana;

- individuazione e attivazione di nuovi collegamenti a siti tematici in materiadi guerre.

Sono infine in fase di preparazione due nuovi Albi, che potranno

conseguentemente essere inseriti in rete in tempi relativamente brevi, ossia

quelli relativi alle seguenti categorie:

- Albo dei Perseguitati politici italiani antifascisti (circa 900)12;

- Albo dei Benemeriti reggiani del Risorgimento.

L'Albo dei perseguitati risulta ormai completato e potrà essere messo in

rete a breve, corredando le schede individuali con le immagini dei decreti di

riconoscimento ministeriale.

Infine, il lavoro di creazione del database relativo ai benemeriti del

Risorgimento è già in corso, attingendo i dati da una serie di pubblicazioni

locali edite nella seconda metà del 1800. I soggetti rilevati sono i cittadini

reggiani distintisi per la loro partecipazione agli eventi risorgimentali, perché

perseguitati e condannati, volontari garibaldini.

Il perfezionamento dell'inserimento di questi ulteriori Albi porterà ad oltre

25.000 le schede individuali on line, per un complesso di circa 300.000 dati

memorizzati ed accessibili.

Conclusioni

La fase di lavoro sinora attuata evidenzia un primo risultato consistente nel

fatto di aver messo a disposizione dei ricercatori e dei cittadini uno strumento

ritenuto utile tanto per lo sviluppo di ulteriori ricerche, su singoli soggetti o

categorie, quanto per la conservazione e l'arricchimento della Memoria dei

Caduti di tutte le guerre, preservandola dall'oblio. Ogni giudizio sulla qualità

del lavoro e sulla sua concreta utilità viene ovviamente rimesso all'Utenza

del "servizio", giudizio che rappresenterà anche una linea guida ai fini dello

sviluppo del Sistema.

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Glossario:

Dato = ogni singolo elemento informativo relativo ad una persona od oggetto.Informazione = in questa sede, sinonimo di Dato.PC- Personal Computer = strumento automatico di calcolo, elaborazione, trattamentoe conservazione di Dati.

Digitalizzazione = (dall'inglese digit = cifra) conversione Dati a formato numericoidoneo al trattamento con computers.Database = base di dati, archivio, insieme di Dati organizzato in formato numericotrattabile su pc.Memorizzazione = salvataggio di dati in formato numerico su Database.Record = (registrazione) insieme di Dati relativi ad un soggetto, costituente un elemento

di un Database.Software = programmi e funzioni di lavoro su personal computer.Internet = sistema automatico di Archivi accessibili in rete, via computer e telefonia.Sito internet = sistema di Dati od Archivi, da chiunque messi in rete INTERNET edaccessibili da terzi utenti.On-line = connessione diretta ad archivi tramite computer e telecomunicazione.Link = collegamento o connessione a Database e Siti INTERNET.

Query = interrogazione, quesito o ricerca automatica su Archivi tramite Parametri (o

filtri) scelti dall'utente.Parametri di ricerca = termini per l'attivazione di una ricerca automatica (parola intera,parte o gruppo di parole).Privacy = complesso di criteri e norme di legge da osservare per la protezione dei

dati personali.

1N. BRUGNOLI,

A.CANOVI, Le Pietre dolenti, Rs-Libri, Reggio Emilia 2000.2 G. FRANZINI, Storia della Resistenza reggiana, ANPI Reggio Emilia, p. 883.

3 Morti e Dispersi per cause belliche negli anni 1940-45, Edizioni ISTAT (Istituto centralestatistica), Roma 1957.4 Albo d'oro dei partigiani della provincia di Reggio Emilia caduti nella guerra di

liberazione 1943-1945, ANPI, Reggio Emilia 1951.5 Albo d'oro dei Militari Caduti nella Guerra nazionale 1915-18, voI VIII Emilia(province di MO, PR, pc e RE), Edizione ministero della Guerra, 1926.6 Rainero Taddei, volontario garibaldino, Spedizione dei Mille. Caduto e decorato dimedaglia d'argento battaglia di Custoza (24-6-1866 III guerra d'indipendenza).7 Delibera del Podestà 24 maggio 1937n. 346, "Il Solco Fascista" - edizione 25 maggio1937.8 L. KLINKHAMMER, L'occupazione tedesca in Italia, Bollati Boringhieri, Torino 1993. Vedianche "Rs-Ricerche Storiche", 2002/94, p. 93.9 E. BARALDI, A. ZAMBONELLI, I 1170 Civili deportati in Germania dalla provincia di

Reggio Emilia, "Rs-Ricerche Storiche", 2002/94.lO Davide Leoni, I quadri del Partito nazionale fascista, federazione di Reggio Emilia,"Rs-Ricerche Storiche", 2005/99.11 Le Pietre dolenti, op. cito

12 Fonte: Antifascisti nel Casellario politico centrale, Quaderni dell'AssociazioneNazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (ANPPIA).

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La Memoria della città-Polo ArchivisticoUn progetto per la comunità reggiana

del XXI secolo

Massimo Storchi

L'idea

Nel novembre 2000, il Comune - riorganizzando il Servizio istituzioniculturali, con l'obiettivo di adeguarne l'assetto organizzativo al mutato quadro

di riferimento generale - prevedeva che, accanto agli ambiti più consolidati

d'intervento culturale, si affiancasse un nuovo filone di attività da ricondurre alla

creazione di un Istituto culturale, La Memoria della città-Polo archivistico, che

consentisse di dotare Reggio di uno strumento essenziale per la conservazione

e la valorizzazione della memoria storica della nostra comunità.

La Memoria della città-Polo Archivistico si pone come un unico centro

archivistico sulla storia reggiana in cui stanno confluendo i materiali storicamente

significativi di proprietà pubblica e privata.Un Istituto culturale che risponda all'esigenza di preservare e promuovere la

memoria storica della città nel Novecento deve essere in grado di rappresentare,

con le diverse componenti, la pluralità delle istituzioni, delle forze sociali e

delle tradizioni politiche che hanno segnato la dinamica storica del territorio:

presso La Memoria della città-Polo Archivistico sono depositati, solo per

citarne alcuni, i fondi storici del comune di Reggio Emilia, della Camera del

Lavoro territoriale, della CISL, del Comitato provinciale dell'um, del CIF, della

Federazione provinciale del PCI, della FEDERCOOP-LEGA, di ISTORECO.

L'attivazione de La Memoria della città-Polo Archivistico si pone anche

come strumento nuovo e scientificamente avanzato per ricordare le origini

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della democrazia nel paese, e il contributo che gli uomini e le donne reggiani

hanno portato alla sua costruzione ed al suo sviluppo.

Questa pluralità di memorie e di documenti è il valore aggiunto del

progetto, che non si limita alla conservazione, al salvataggio, alla tutela (azioni

fondamentali per proteggere i documenti e tramandarli ai posteri) ma con lasua stessa struttura spinge il ricercatore di storia (che sia un professionista,

uno studente o un semplice curioso) al confronto tra angoli visuali diversi dei

diversi problemi.

La Memoria della Città-Polo Archivistico vuole essere un Istituto culturale

in grado di rappresentare, con le diverse componenti, la pluralità delle

istituzioni, delle forze sociali ed economiche e delle tradizioni politiche che

hanno segnato la dinamica storica del territorio e di chi lo ha costruito, vissuto

e amministrato nel corso del secolo XX.

La Memoria della Città-Polo Archivistico è un progetto che costituisce unosservatorio di primo piano a livello nazionale ed europeo sul tema della

trasmissione della memoria e della sua fruizione pubblica, determinando le

condizioni per l'assunzione della città e del territorio di Reggio Emilia come

caso altamente esemplificativo della nostra storia nazionale.

l/percorsoIl percorso che ha condotto all'apertura al pubblico il 2 maggio 2002 del

Polo Archivistico ha origine nella riflessione condotta dal gruppo di lavoro

e ricerca creato all'epoca fra assessorato Cultura del Comune di Reggio

Emilia e ISTORECO in occasione delle celebrazioni del 50° della Resistenza e

coordinato dall'indimenticabile Marco Paterlini. Tale riflessione portò nel 1996

alla prima bozza di progetto Comune-IsToRECO, discusso l'anno seguente con

la SovraIntendenza archivistica regionale per l'erogazione di finanziamenti.

Il tutto mentre proseguivano i lavori di ristrutturazione della possibile sede

della nuova istituzione identificata all'interno dei Chiostri di San Domenico.

Nel 2000 ISTORECO presentava i proprio progetto operativo e scientifico in

coincidenza con la decisione del Comune di Reggio Emilia di istituire il Polo

archivistico come Istituto culturale (Del. n.25353/294 del 20/11/2000). Nella

primavera 2002 ISTORECO si aggiudicava l'appalto-contratto per la gestione delPolo Archivistico che veniva ufficialmente inaugurato dal sindaco Antonella

Spaggiari e dall'ono Antonio Bassolino il 25 aprile 2002.

Il patrimonio documentarioAlla data del 31 dicembre 2005 il patrimonio documentario depositato

presso il Polo Archivistico era così articolato:

Archivi ordinati e dotati di strumenti di consultazione:

- Archivio Storico Comune di Reggio Emilia- Archivio Camera del Lavoro Territoriale di Reggio Emilia

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- Archivio Unione Donne Italiane di Reggio Emilia- Archivi di ISTORECO e ANPI

- Archivio Lega-Federazione delle Cooperative di Reggio Emilia- Archivio arch. Antonio Pastorini

- Archivio Fabbrica Agazzani- Archivio CIF (Centro italiano femminile)

Archivi in via di riordinamento:- Partito comunista italiano-Federazione provo di Reggio Emilia- Archivio Latterie coop. "Giglio"

Archivi da riordinare:- OSL (con Archivio Pippo Morelli)

- Archivio Corrado Corghi- Fondi documentari personali

L'attività

Raccolta e salvaguardiaObiettivo preliminare de La Memoria della città-Polo Archivistico è quello

della salvaguardia e tutela di ogni materiale pubblico o privato afferente allastoria del territorio reggiano nel corso del Novecento.

ConsultazioneIl Polo archivistico svolge attività di apertura al pubblico per 30 ore

settimanali. I materiali in consultazione (ex d.p.r. 30 settembre 1963, n. 1409,

in parte modificate dal d.p.r. 3 dicembre 1975, n. 805 e recentemente dalCodice per i beni culturali e il paesaggio, D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42) sonoa disposizione nella sala di studio con la consulenza di uno specialista storicoarchivista e di un documentarista. Si svolgono attività interne di riordinamento

di materiali archivistici e di redazione di strumenti di consultazione.

Servizio Archivio Storico ComuneIl Polo Archivistico mantiene un rapporto operativo e di coordinamento

con l'Archivio corrente e di deposito del Comune di Reggio Emilia (via

Mazzacurati), sia sul piano di ricerche di atti che di passaggio e archiviazionedi documenti afferenti all'archivio storico.

Documentazione e tutoraggioViene svolto servizio gratuito di consulenza per la ricerca, in cui uno

storico/documentalista assiste l'utente nella progettazione di un percorso diricerca attraverso i diversi fondi archivistici con funzione di tutor nel corso

della ricerca. Si compie anche funzione di tutoraggio per tesi di laurea (incollaborazione col docente)

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RiproduzioneI documenti sono riproducibili (riproduzione fotostatica, fotografica,

digitale) secondo i vincoli di legge dei documenti per finalità di studio, dietro

la corresponsione del costo: i documenti riprodotti possono essere ritirati,

inviati per posta o per via elettronica.

ValorizzazioneSono progettate mostre per la valorizzazione dei materiali documentari,

secondo percorsi tematici e didattici. Sono possibili visite guidate, pubblicazioni

e iniziative di promozione della conoscenza storica della città, anche in

rapporto con i proprietari degli archivi depositati.

Informazione e consulenzaLa

Memoria della città-Polo Archivistico svolge anche un ruolo di consulenzae informazione nei confronti di privati ed enti nei settori della ricerca storica

e della promozione didattica attraverso la messa a disposizione di materiali

documentari contenuti negli archivi depositati.

Bilancio di attività

Polo Archivistico-utenti 2002-2005

2002 (mag-dic) 2003 2004 2005

Anni

Totale utenti 2002-2005: n. 1301

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10 Il •

IIIo

Utenti/mese 2002-2005

I

I

mese

Tesi di laurea 2002-2005 (35)

3

11

Iii) Bologna

• Parma

D Ma_Re

Daltre

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Le prospettive

Il progetto La Memoria della Città-Polo Archivistico all'approssimarsi del

quarto anno di attività può riflettere sul percorso fin qui realizzato e può

riconoscere i punti fermi consolidati. Una utenza in continuo aumento (al

31 dicembre 2005 oltre 1230 unità), una collaborazione con le Università perla collaborazione/tutoraggio di tesi di laurea che ha superato le 40 unità,

un aumento ancora più sostenuto nell'utenza che richiede consulenze ed

informazione sulla storia contemporanea locale e nazionale (nel solo 2005 346

presenze). Al momento di stesura di queste brevi note (febbraio 2006) è stato

consegnato l'Archivio delle carte relative all'attività parlamentare dell'ono Elena

Montecchi (1983-2006), mentre sono in programma per il corrente anno nuovi

versamenti di fonti documentarie di grande rilevanza.

Si può dire quindi che il progetto La Memoria della Città-Polo Archivistico

sia uscito dalla fase di avvio e collaudo e si ponga ora la necessità di unariflessione ampia e condivisa sulle linee programmatiche per il suo futuro.

Considerata la conferma della validità dell'idea fondante, la concentrazione

delle fonti documentarie relative alla storia del Novecento in terra reggiana,

uno dei punti di massimo interesse per il futuro si pone nella effettiva

apertura a tutti gli attori della vicenda storica del novecento reggiano, in

campo sociale, economico e politico disponibili a mettere a risorsa i propri

patrimoni documentari sia con la consegna fisica a La Memoria della Città-Polo

Archivistico sia attraverso una messa in rete degli strumenti di consultazione

dei medesimi fondi documentari.

Per la gestione di questa mole in continua crescita si pone quindi la necessità

di dotare La Memoria della Città-Polo Archivistico di un organismo di gestione

e progetto (nelle forme che saranno individuate dagli attori coinvolti) in grado

di indirizzare e promuovere, con prospettive pluriennali, l'attività futura che

dovrebbe essere volta verso alcuni obiettivi prioritari:

Conservazione

a - Pianificazione acqUlslzlone nuovi fondi documentari, attraverso un

censimento-ricognizione relativo ai materiali esistenti;

b - Pianificazione programmi di inventariazione e catalogazione nuovimateriali;

c - Interventi tecnici sulla struttura per migliorare le condizioni di

conservazione;

d-Reperimento nuovi spazi per depositi e strutture di servizio.

Promozione

a. Promozione attività La Memoria della Città-Polo Archivistico con il

coinvolgimento enti proprietari dei fondi documentari;

b. Realizzazione di un piano di comunicazione integrato per divulgazioneattività La Memoria della Città-Polo Archivistico;

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c. Incentivazione rapporto con istituzioni scolastiche con realizzazione di

percorsi didattici;d. Proseguire il rapporto con Istituzioni Universitarie con realizzazione di

corsi di formazione e stage.

Progettazionea. Avvio della progettazione coordinata fra La Memoria della Città-Polo

Archivistico e la istituzione di un Museo della città che possa colmare l'attuale

mancanza di una riflessione museografica e comunicativa sulla vicenda

reggiana nel XX secolo.

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Immigrazione, flessibilità del lavoro e

lavoro nero. Il nuovo profilo sociale di

Reggio Emilia*

Enzo Grappi

Il mio compito è quello di esaminare i mutamenti avvenuti nel mercato del

lavoro. Partirò da quando ho cominciato a lavorare, dal 1974. In quell'anno,

girando, si vede un fenomeno nuovo: dappertutto a Reggio, a Mancasale, nelle

ceramiche, anche nella Bassa (che era negli anni Sessanta inserita per legge tra

le "aree depresse") si vedono cartelli con la scritta: "cercasi operai".

Per la prima volta nella storia di Reggio, a Reggio c'è la piena occupazione.

Ricordiamo che fino al 1966 da Reggio si emigrava: non solo la montagna

aveva perso ventimila abitanti, ma il bilancio demografico di Reggio era

negativo perché da Reggio la gente andava via. Ce lo dimentichiamo troppo

facilmente, magari con atteggiamenti di chiusura verso coloro che a Reggio

arrivano cercando lavoro.

Comincia anche, alla fine degli anni Settanta, la prima immigrazione

extracomunitaria che è stata quella degli egiziani nelle fonderie. C'erano a

Reggio più fonderie di quante ce ne siano oggi, per la verità, però non si

trovavano più reggiani disponibili a fare questo lavoro, neanche meridionali.E comincia questa immigrazione di extracomunitari, che erano circa mille, e

due giovani fecero uno studio su questa presenza, sulla prima presenza di

egiziani a Reggio!.

Era una delle prime ricerche in Italia e questo studio è venuto a presentarlo

l'allora presidente dell'IRI, professor Prodi. La presenza di extracomunitari è

poi enormemente cresciuta, basti dire che oggi abbiamo ventiseimila stranieri

*Relazione tenuta il 29 aprile 2004 a Casalgrande nell'ambito del ciclo di seminari sulmodello emiliano organizzato dall'Associazione ''Aprile per la sinistra" Reggio Emilia.

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presenti a Reggio, che corrispondono al 5,4 percento della popolazione,

con una crescita, l'anno scorso, del 12 percento. Se pensiamo che a Reggio

abbiamo avuto, l'anno scorso, un saldo migratorio - cioè un dato positivo - tra

coloro che sono andati ad abitare fuori provincia e coloro che sono venuti ad

abitare a Reggio di 7500 persone, di cui 2600 extracomunitari, abbiamo l'ideadel cambiamento che è intervenuto nonché della presenza e crescita massiccia

della popolazione che abbiam02 • Che si riflette anche in buona parte, poi, sulla

crescita dell'edilizia e sui cambiamenti territoriali.

Si comincia in quegli anni a parlare e a scrivere di "sviluppo zero". Si dice

che c'è la piena occupazione e che bisogna arrestare questo tipo di sviluppo

quantitativo. Si parla di blocco degli insediamenti sulla via Emilia. lo ricordo di

avere partecipato ad un convegno concluso dall'allora presidente della Regione

Guido Fanti, a cui partecipavano tutti i sindaci del reggiano e soprattutto quelli

della zona delle ceramiche e quelli che stanno sulla via Emilia, e luili

redarguìseveramente dicendo: "Sono venuto apposta in auto lungo la via Emilia e non

lungo l'autostrada e ho visto dappertutto cantieri e io avevo detto blocco degli

insediamenti sulla via Emilia!".

Vedendo lo sviluppo urbanistico di adesso ci rendiamo conto dei

cambiamenti che sono intervenuti, rispetto al dibattito di allora.

A Reggio la situazione di pieno impiego, al di là delle singole crisi aziendali

anche gravi, come quella della Bloch che ha portato alla chiusura della fabbrica

e che è stata senza dubbio la più grave - c'è stato anche un periodo di crisi nel

1982-83 - sostanzialmente dura fino ad oggi.

Però negli anni Novanta c'è un cambiamento profondo nel mercato del

lavoro: sono gli anni della flessibilizzazione del mercato del lavoro, uno dei

titoli del dibattito di questa sera.

Prima della flessibilizzazione come funzionava? Funzionava, sostanzialmente,

che c'erano i contratti, c'era il periodo di prova e dopo il periodo di prova uno

o veniva assunto o restava a casa.

C'erano anche delle assunzioni a termine in agricoltura e in pochi altri casi.

Nel 1992 gli assunti a tempo determinato erano il 21 percento del totale degli

assunti in quell'anno. Vorrei spiegare che quando uno viene assunto ci deve

essere una comunicazione presso quelli che erano allora gli Uffici del lavoro eche adesso si chiamano Centri per l'impiego. E gli uffici del lavoro rilevavano

tutti gli anni il numero di contratti che venivano fatti; il che non vuole dire

soltanto nuovi posti di lavoro, ma anche gente che aveva un lavoro e che lo

cambiava o che cambiava lavoro due o tre volte nell'anno.

Nel 1992, comunque, gli assunti a tempo determinato sul totale erano il

21 percento. Poi un po' nella contrattazione fra le parti sociali, e molto con

l'approvazione nel '97 del cosiddetto "pacchetto Treu", vengono introdotte in

Italia tutte queste misure di flessibilità che erano già presenti in buona parte

non solo negli Stati Uniti e in Inghilterra, ma anche in altri Paesi europei.Vengono introdotti così il part-time, i contratti di formaZione/lavoro; si

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amplia notevolmente la possibilità di assunzione con i contratti a termine e

quell'anno la percentuale di assunti a tempo determinato sale al 60 percento e

non si ferma più. Oggi, nel 2003, le assunzioni rilevate per il 71 percento sono

a termine3. Anche se, come vedremo, questo non vuole dire che rimarranno a

termine per sempre.E qui bisogna fare qualche considerazione. La prima è che la flessibilità

non è stata introdotta dal governo Berlusconi: questo bisogna dirlo. Il governo

Berlusconi ha aggravato molto le cose, però non è stato lui a introdurre la

flessibilità.

Secondo: il "pacchetto Treu" fu fatto, è vero, come frutto di una intesa

con le parti sociali, tutte, compresa la CGIL, al contrario di quanto farà poi il

centrodestra sia con l'attacco sull'articolo 18, che con la cosiddetta "Legge

Biagi" che sta entrando in pratica attuazione in queste settimane.

Nel 2000 l'Ulivo cerca un po' di correggere qualche impostazioneeccessivamente flessibile. Diventa ministro del Lavoro Salvi che tenta di

mitigare alcune norme sulla flessibilità in ingresso introducendo un bonus

consistente di 800.000 lire al mese per chi trasforma i contratti di lavoro da

tempo determinato a tempo indeterminato. Ad un certo punto questo bonus

viene usufruito per 230.000 occupati; una cifra consistente, quindi; bonus che

è stato completamente cancellato dal successivo governo Berlusconi.

La flessibilità, quindi, il lavoro a termine diviene la modalità normale di

ingresso dei giovani nel mercato del lavoro.

Nel 1998 il presidente della Lombardini, il proprietario, che era allora

Guidalberto Guidi - che poi è stato successivamente, per tanti anni,

vicepresidente di CONFINDUSTRIA - viene invitato al liceo Moro per parlare agli

studenti all'interno di quelle conferenze di orientamento in cui si dovrebbe

consigliare ai giovani quale indirizzo scegliere per entrare nel mondo del

lavoro, eccetera.

Quando mi capita di parlare di questi argomenti mi porto sempre dietro

questo resoconto apparso sulla "Gazzetta" il 28 novembre del '98 dove

Guidalberto Guidi spiega bene ai giovani qual è la situazione:

La realtà che avrete di fronte vi darà zero certezze, ma più opportunità. Il cambiamentosarà il nostro pane quotidiano. Il modello è l'America dove è altrettanto facile essere

licenziati quanto trovare una nuova occupazione nel giro di una settimana. Dove un neo

assunto, se vuole evitare di essere scavalcato dai colleghi ed espulso, deve farsi vedere in

ufficio anche il sabato e la domenica e prolungare sistematicamente di qualche ora il tempo

di lavoro quotidiano.

Per fortuna l'allora Preside del Moro, Gino Molini, commenta: «La via degli

Stati Uniti mi fa venire qualche brivido. Spero che si arrivi ad una soluzione

europea che non subordini tutto alle esigenze del capitale».

Questa, diciamo, in modo un po' brutale era la situazione spiegata ai

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giovani, senza tante reazioni perché non ho visto nei giorni successivi alcuna

reazione. Questo è quella che veniva indicata come la via al lavoro.

La flessibilità quindi è stata introdotta negli anni Novanta. Ad un certo

punto si sono contati più di trenta tipi di contratto di ingresso nel mondo del

lavoro, però la flessibilità nell'economia italiana come anche nell'economiareggiana c'era già prima.

Vorrei fare solo due accenni. Intanto, sotto i quindici dipendenti, la libertà di

licenziamento c'era e c'è. Poi noi abbiamo una struttura di piccole, piccolissime

imprese: a Reggio abbiamo 55.000 imprese, iscritte alla Camera di commercio,

di cui 32.000 individuali e quindi non c'è solo la flessibilità produttiva, cioè

una capacità di adattamento della nostra impresa al mercato e alla richiesta di

prodotti, ma c'è anche una flessibilità occupazionale: queste imprese nascono,

crescono, muoiono, chiudono.

Una presenza di piccole imprese così non ha paragoni né in Europa nénegli Stati Uniti. Come sappiamo, noi siamo il regno della piccola e media

impresa. In certi casi, per la verità, questa presenza di imprese è anche un po'

patologica, come vedremo poi nell'edilizia.

E poi c'è da dire che c'era - e c'è ancora - un forte turn aver nel senso

che anche prima di questa flessibilità i lavoratori, come libera scelta, come

occasione per migliorare la propria condizione lavorativa, per ottenere un

salario superiore, cambiavano lavoro.

Tra il 1983 ed il '94 sostanzialmente, secondo i dati che ci comunica la CNA e

che noi pubblichiamo regolarmente sull'''Osservatorio Economico", il turn aver

dei dipendenti artigiani raggiunge circa il 40 percento all'anno! Il 40 percento

dei dipendenti, compresi quelli a termine eccetera, cambia cioè lavoro.

La flessibilità c'era dunque già prima ma aveva queste caratteristiche.

Nello stesso tempo in questi anni aumentano di molto le esigenze di

manodopera dell'economia locale che non sono soddisfatte dai reggiani, sia

per carenze demografiche, perché cominciano ad andare in pensione delle

classi di età che sono più numerose delle classi di giovani che prendono illoro posto, sia per orientamenti di studio e di rifiuto a svolgere certe mansioni.

Quindi cresce l'afflusso di manodopera dal sud e dall'estero.Gli assunti non residenti, quelli cioè che stipulano un contratto di lavoro

nel reggiano ma che non risiedono qui, vengono da fuori, nel 1992 erano

il 20 percento. Nel 2003 sono il 42 percento: cioè su ogni cento contratti

stipulati il 17 percento viene dal sud ed il 21 percento viene dall'estero. E gli

altri, per arrivare a 42, sono coloro che risiedono in altre province in Emilia

Romagna4.

Questi a me sembrano dati eclatanti e io cerco di sottolinearlo ogni volta

che mi capita o quando facciamo le conferenze stampa di presentazione

dell"'Osservatorio Economico". Però mi sembra che a livello politico il datonon sia molto colto e credo che qui - ma lancio solo un messaggio - ci sia

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da fare una riflessione sul modello di sviluppo così come sulle problematiche

della delocalizzazione.

Noi, cioè, a Reggio abbiamo dei settori dove esportiamo moltissimo: la

meccanica agricola, ad esempio, o ceramica. Esportiamo il 70 percento del

prodotto. E quindi credo che il tema di non continuare a Reggio un modello disviluppo in parte quantitativo, che attira flussi di manodopera non qualificata,

creando anche un certo tipo di problematiche, credo che questo problema

vada posto.

Ad esempio, anche se al proposito ci sarebbe da discutere, la provincia di

Treviso, l'industria di Treviso ha praticamente creato un distretto trevigiano a

Timisoara, in Romania. L'assemblea della CONFINDUSTRIA di Treviso di due anni

fa si è tenuta a Timisoara; hanno preso l'aereo e sono andati là, in Romania,

perché là hanno un distretto con centinaia di imprese.

Non dico che si debba andare nei Paesi solo dove il costo della manodoperaè inferiore eccetera, però il tema della delocalizzazione, secondo me, per

l'economia reggiana si pone in termini consistenti.

E vorrei anche dire, dato che siamo sull'argomento, che l'anno scorso le

esportazioni sono andate male e ci si lamenta della perdita di competitività

per il rafforzamento dell'euro, però c'è anche il rovescio della medaglia: se si

vuole investire all'estero in investimenti produttivi, acquisizione di impianti e

reti commerciali, negli Stati Uniti e in Cina costa oggi il 30 percento in meno

di due anni fa.

Allora, abbiamo visto che l'afflusso di extracomunitari negli ultimi anniè consistente, però naturalmente questo s'inserisce sullo stock manodopera

presente, accumulata in tutti gli anni precedenti.

L"'Osservatorio Economico" conduce tutti gli anni un'indagine, insieme

all'Associazione piccole e medie imprese, sulla presenza di extracomunitari.

Negli addetti all'industria gli extracomunitari sono il 7,6 percento degli addetti.

Però se guardiamo alla presenza, ad esempio, nelle scuole vediamo che i figli

di extracomunitari sono il lO percento nelle scuole medie, il 5 percento nelle

superiori. E in alcuni istituti professionali, come la Lombardini, sono il 16

percento e alla Filippo Re sono il 22,4 percent05.

Una presenza quindi che comincia ad essere notevole.

Nel 2001 la CGIL ha commissionato ad un professore dell'Università di

Parma, il professor Serravalli, uno studio sui mutamenti e l'evoluzione del

mercato del lavoro nella provincia di Reggio Emilia6 . Il professor Serravalli ha,

sostanzialmente, detto questo: è vero che c'è una forte flessibilità in entrata,

e che le imprese utilizzano questa flessibilità come elemento di selezione;

però nel giro di tre o cinque anni vi sono buone probabilità che questo tipo

di lavoro si stabilizzi e cioè che questi contratti, che siano formazione lavoro,

apprendistato o interinale, che servono all'azienda per prendere una persona

a prova, siano trasformati in contratti a tempo indeterminato. Serravalli hachiamato questo percorso con il nome di "carriera esterna" al lavoro stabile.

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lo sono d'accordo con il professar Serravalli, però faccio alcune osservazioni

che gli ho già rivolto anche in occasione della presentazione della ricerca, alla

CGIL.

Intanto, tre o cinque anni sono molti. Adesso i contratti di formazione/

lavoro sono stati cancellati dalla Legge Biagi eccetera, però in pratica sonoancora in vigore quelli che erano in atto.

Intanto si può essere assunti con un contratto di formazione/lavoro fino a

trentadue anni. A trentadue anni io lavoravo con lavoro stabile da otto anni,

ero sposato da sei anni e avevo già un figlio, eccetera. Magari ci sono poi altri

tre-cinque anni di carriera esterna e cominciamo ad andare un pachino in là

con gli anni.

Per un laureato ci si laurea - ci sono i dati ufficiali - a ventisei/ventisette

anni. È stato fatto uno studio, per la prima volta, anche a Reggio quest'anno da

parte di un consorzio universitario che si chiama Alma Laurea su che tipo dilavoro fanno i diplomati e laureati dopo tre anni dal diploma o dalla laurea7 .

Ed è saltato fuori che i dati di Reggio sono buoni, sono molto buoni nel

panorama nazionale, però il 37 percento dei laureati a tre anni dalla laurea,

quindi dai trent'anni in su, fa ancora un cosiddetto "lavoro atipico". Poi mi

si dirà che una parte di questi fa questo lavoro per scelta perché fa il libero

professionista eccetera, però il 37 percento a Reggio non è una percentuale

bassa.

Tra l'altro, en passant, questa indagine ha rilevato in modo molto interessante

anchele retribuzioni:

il

reddito medio mensile netto diun

diplomato, a treanni dal diploma, è di 847 euro per le femmine e di 982 euro per i maschi, con

una differenza quindi di genere di 135 euro, il che non è poco.

Quella di Reggio è la prima indagine che è stata fatta e quindi non ci sono

termini di paragone.

A livello nazionale, dove invece l'indagine veniva fatta anche in anni

precedenti, si è visto che le retribuzioni medie dei diplomati e dei laureati nel

2003 rispetto al 2002, sono diminuite del 7 percento. Abbiamo dunque visto

che in questi anni la modalità d'ingresso nel mercato del lavoro per i giovani

di gran lunga prevalente è il lavoro cosiddetto flessibile, quindi a termine. Però

questi che vengono assunti con questo lavoro flessibile, vanno a lavorare in

azienda accanto a tutto il personale che è stato assunto negli anni precedenti.

Diciamo per semplificare che il turn aver completo del personale interno ad

un'azienda avviene in trentacinque anni, cioè uno viene assunto da giovane e

se lavora sempre lì va in pensione dopo trentacinque anni. Quindi si inserisce

su uno stock di manodopera precedente.

Allora, sullo stock di manodopera e quindi sulla presenza totale di coloro

che lavorano, il lavoro atipico oggi pesa per circa il 13 percento. Quindi: 70

percento al momento dell'assunzione, poi pian piano si trasforma in lavoro

stabile e sul totale pesa per il 13 percento.Oggi possiamo stimare, a Reggio, circa ventottomila persone che fanno

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lavoro atipico, di cui dodicimila collaboratori coordinati continuativi. Circa

settemila sono a tempo determinato; circa tremila con contratto di formazione/

lavoro e circa seimila apprendisti.

A questi il professor Serravalli aggiunge un 8 percento di lavoro nero, che

sono circa diciottomila persone. Non è un dato particolarmente elevato seteniamo conto che il Fondo monetario stima per l'Italia un peso dell'economia

sommersa del 27 percento, naturalmente molto nel Sud, però anche da noi in

taluni settori il peso del lavoro nero e dell'economia sommersa è notevole.

Diciamo quindi che tra il lavoro atipico - 13 percento - e il lavoro nero

- 8 percento - abbiamo il 21 percento degli occupati, che sono pari a

quarantaseimila persone, che sono una cifra notevole.

La flessibilità indebolisce e segmenta il mondo del lavoro, questo basta

vederlo quando ci sono, ad esempio, gli scioperi. lo lavoro all'Amministrazione

provinciale e quando ci sono gli scioperi nel mio corridoio ci sono cinque esei tipologie di dipendenti e collaboratori. In genere, fanno sciopero soltanto

quelli che hanno il lavoro regolare, perché gli altri: co.co.co, quelli che hanno

la partita Iva e quant'altro, gli assunti a termine non fanno sciopero.

La flessibilità e la segmentazione del mercato del lavoro rischiano di mettere

in crisi uno dei capisaldi del modello reggiano: la coesione sociale.

Anche a sinistra, la fine del posto fisso, la flessibilità è stata esaltata un po'

come un valore, come uno spazio di libertà nel quale la gente, soprattutto

i giovani, preferiscono vivere, con periodi di lavoro alternati a periodi di

formazione, di svago, a viaggi, eccetera.

lo credo che la sinistra di governo abbia avuto una subalternità culturale al

pensiero unico neoliberista. Basti ricordare, ad esempio, il documento firmato

da Blair e D'Alema quando D'Alema era presidente del Consiglio sul tema

delle politiche del lavoro.

In realtà rispetto alle attività lavorative più tradizionali, più lineari e

prevedibili, vi è - per dirla con Ulrich Beck - un processo di individualizzazione

e precarizzazione del rischio che la gente vive con ansia. E giustamente, con

ansia.

Non parliamo poi della situazione degli immigrati per i quali l'instabilità è

esistenziale perché con la Legge Bossi-Fini se una persona, per un qualche

motivo, perde il lavoro o ne trova uno entro sei mesi oppure c'è l'espulsione

dal nostro Paese.

In questo decennio di applicazione, in quasi tutti i Paesi occidentali,

del pensiero unico neoliberista secondo le direttive del Fondo monetario

internazionale, sono anche cresciute le ingiustizie sociali e la polarizzazione

della ricchezza. lo vorrei attirare la vostra attenzione su questo punto.

Nello sviluppo economico del dopoguerra, del miracolo economico

eccetera, non è che non ci fossero i ricchi e i molto ricchi, però il reddito

nazionale cresceva a dei ritmi notevoli e una parte di questa ricchezza prodottaandava a vantaggio di tutte le categorie, anche delle categorie più basse, anche

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per gli operai e per coloro che facevano lavoro manuale.Oggi non è più così. Secondo i dati dell'Ufficio delle statistiche americano,

come il nostro ISTAT, nel 1980 il 20 percento più povero possedeva il 4,3percento del reddito; nel 2001 possiede il 3,5 percento del reddito; quindi è

sempre il 20 percento, ma possiede meno reddito mentre un 5 percento piùricco, che possedeva il 15,8 percento del reddito, ora possiede il 22,4 percento

del reddito. Un enorme spostamento di reddito, quindi, dai ceti più poveri avantaggio dei ceti più ricchi!

Molti di voi conosceranno il sindaco di New York, Mario Cuomo, che è statoil governatore di New York ed in predicato per essere candidato democraticoalle Presidenziali americane. Ebbene, Mario Cuomo ha dichiarato di recente:«Siamo polarizzati come non lo siamo mai stati; sono stati i Repubblicania cominciare la guerra di classe che ha diviso il Paese". L'intervistatore gli

chiede: «Guerra di classe?, parola un po' forte". È Cuomo gli dice: «Comealtro si può chiamare un taglio alle tasse di tremila miliardi di dollari di cuimille miliardi a favore dei due milioni e mezzo di americani più ricchi? Oggi icapi di azienda hanno un reddito che è cinquecentotrentadue volte quello dilavoratori che è, in media, di quarantaduemila dollari l'anno. È una differenzaquasi impensabile. Quando ero giovane, questo rapporto era uno a dodici.Che cosa è questa se non guerra di classe?".

lo ho citato Cuomo perché in Italia se qualcuno si azzarda a dire che

c'è una guerra di classe nel senso che i ricchi fanno la guerra ai poveri. ..nemmeno Bertinotti si attenta a dirlo, però la sostanza è questa. In Americaquesti processi sono esasperati, però io credo che - lo diceva anche Aristotele- la democrazia, senza un certo livellamento delle fortune, è vuota. Non dicodi andare ad un livellamento totale, nessuno lo vuole, però effettivamente aquesto punto - e anche su questo vorrei chiamare la vostra attenzione - lapercentuale di aumento del reddito nazionale assume un significato relativo:che cosa può interessare ai lavoratori che il reddito in Italia l'anno scorso èaumentato dello 0,3 percento?

Certamente, se aumenta il reddito di un Paese in teoria tutti quanti sono

interessati e poi dovrebbero anche beneficiarne, pure se in modo diverso. I

dati della Banca d'Italia - della Banca d'Italia, che non è un organismo tantodi sinistra! - dicono che tra il 2000 e il 2002 il reddito reale degli operai e degliimpiegati è calato dell'1,8 percento e il reddito reale dei lavoratori autonomi ècresciuto del 4,4 percentd.

lo ricordo che a Reggio Emilia, ad esempio, i lavoratori dipendenti sono il

74 percento degli occupati! È vero che il mondo del lavoro si è frammentato,però la percentuale di occupati dipendenti è cresciuta, non è diminuita.

E cito sempre la Banca d'Italia: «La fascia dei più poveri ha subìto in due

anni una decurtazione del reddito del 4,4%,. Quindi io credo anche che

bisogna cominciare a riflettere sul fatto che l'aumento del reddito, l'aumentodel cosiddetto PIL non è più un indicatore così importante come era prima; e,

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ad esempio, un grande economista premio Nobel come Amartya Sen, rettore

del Trinity college di Cambridge, propone di assumere, come indicatore di

giustizia sociale, di quanto aumenta il reddito reale del 20 percento più povero

della popolazione.

In sostanza questo decennio ha messo in discussione la «stratificazionesociale poco polarizzata» e la coesione sociale che sono tratti essenziali del

modello emiliano.

E questo ce lo ha detto anche uno studioso americano che si chiama Putnam

che ha scritto nel 1993 un libro; dall'Università di Princeton è venuto in Emilia

dove ha studiato il modello emiliano. Ed ha detto che una delle caratteristiche

di questo modello è la stratificazione sociale poco polarizzata e la coesione

sociale9.

La coesione sociale ha voluto dire, nel modello emiliano, lotte anche aspre,

ma anche un reciproco riconoscimento di ruolo: una composizione dei conflittiai fini dello sviluppo.

E qui lasciatemi dire che non possiamo dimenticare quanto è avvenuto con

il governo Berlusconi e con la presidenza D'Amato della CONFINDUSTRIA. Prima

con la presidenza D'Amato della CONFINDUSTRIA, che è venuta prima, e poi con

il governo Berlusconi.

Forse qualcuno ricorderà che quando D'Amato fu eletto presidente della

CONFINDUSTRIA, uscendo dall'assemblea che lo aveva eletto, Agnelli commentò:

«Hanno vinto i berluschini». E fu veramente profeta in questo. Tra l'altro era

stato sconfittoil

candidatoche

lui sosteneva,che era

Carlo Callieri,un uomo

della FIAT.

La Presidenza D'Amato e il governo Berlusconi hanno portato avanti

un gigantesco tentativo di emarginazione e sconfitta frontale del maggiore

sindacato italiano. Hanno puntato alla individualizzazione del rapporto del

lavoro e in buona parte, poi, ci sono riusciti con l'approvazione della cosiddetta

Legge Biagi di cui ancora non abbiamo percepito le conseguenze, ma che si

sta sviluppando in questo periodo.

E non possiamo neanche evitare di fare una riflessione sul ruolo della

CONFINDUSTRIA a Reggio. La CONFINDUSTRIA di Reggio ha sostenuto, fin dall'inizio,

D'Amato e si è legata alla cordata di Tognana, che è questo industriale del nord

est. Ha continuato a sostenere la candidatura di Tognana contro Montezemolo

anche in occasione dell'ultima elezione del presidente di CONFINDUSTRIA, unica

CONFINDUSTRIA in Emilia-Romagna.

Credo che questo elemento debba essere tenuto presente perché poi

questa Confindustria ha avuto un rapporto per molti versi privilegiato con le

forze che governano l'Ulivo a Reggio. La CONFINDUSTRIA ha avuto ad esempio

un ruolo molto importante che a volte e parso egemone nella impostazione e

nella gestione della cosiddetta "Cabina di regia" e della Conferenza economica

e sociale O mentre la CGIL fin dall'inizio si è rifiutata di entrare in questa Cabinadi regia.

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lo non dico che la CGIL abbia ragione in tutto, me ne guardo bene dal dirloanche perché negli anni scorsi ho avuto più di un motivo di critica, però credo

che questo fatto sia molto significativo, che ci spiega bene la rottura del bloccosociale di consenso che costituiva invece uno degli elementi fondamentali del

modello emiliano. Una cosa, questa, che sarebbe stata del tutto inconcepibilenegli anni Settanta.

lo non ho voluto dare una rappresentazione troppo negativa. È chiaroche a Reggio nessuno vuole negare l'alto livello di vita e di sviluppo: siamola nona provincia in Italia come reddito medio; abbiamo un reddito che èsuperiore del 22 percento alla media italiana; i l tasso di disoccupazione, il 2,6percento, è tra i più bassi in Italia; il tasso di occupazione è forse il più altodel Paese. Quindi alto livello di vita, alto livello di sviluppo: ci troviamo in una

situazione di privilegio. Però occorre, secondo me, riflettere ancora seriamente

sui segnali di pericolo. Siccome questo seminario riflette sul modello emiliano,sulle sue caratteristiche e la sua evoluzione, ecco noi abbiamo degli elementidi pericolo: è aumentato, anche in Emilia-Romagna, nell'ultimo decennio il

tasso di povertà. L'ISTAT stima nel 2002 in Emilia-Romagna un 4,5 percento difamiglie povere e un 5 percento della popolazione povera: sono duecentomilapersone!

Anche da noi ci sono i poveri che lavorano: i cosiddetti working poors,parola inventata in America per definire quelli che lavorano e che fannomagari un lavoro interinale, con un periodo medio di lavoro che va sui dieci

quindici giorni. E quandoL'ISTAT

gli va a chiedere:"Ma

voi avete fatto un'oradi lavoro retribuito nella settimana precedente?», rispondono di sì e quindirisultano come occupati. Però, alla fine dell'anno, il reddito che portano a casaè molto scarso.

Si amplia una fascia di destrutturazione e di degrado del mercato dellavoro, favorita anche dalle politiche di esasperazione della flessibilità,a partire dall'edilizia. A Reggio le nostre piccole e medie imprese sono un

orgoglio, molte esportano ed hanno capacità imprenditoriali. Non discutoquesto, però undicimila imprese nell'edilizia - undicimila imprese nell'edilizia!- gran parte delle quali individuali, non mi sembrano un esempio di qualità edi tecnologia.

Magari, poi, si esalta il fatto che a Reggio c'è un alto tasso di crescitaimprenditoriale, però nel 2003 su mille nuove imprese, ottocentosettantasono state edili! Quindi ci sono degli elementi di riflessione nel senso che

effettivamente il modello precedente è in crisi, ci sono elementi anche didestrutturazione. Non voglio neanche dare un giudizio completamentenegativo della flessibilità perché ci sono anche tanti accordi aziendali etanti contratti in cui si sono conciliate le esigenze produttive delle impresecon le esigenze, anche individuali, dei lavoratori per il part-time, eccetera.

Però, nel complesso, le politiche della flessibilità hanno avuto un segno diprecarizzazione e compressione dei diritti.

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E questi segni negativi vi sono anche a Reggio. Vorrei fare due citazioni.

Non citerò nessun pericoloso sovversivo italiano, come Cofferati o Bertinotti,

eccetera.

Vorrei citare Robert Reich che è stato ministro del Lavoro di Clinton, il

quale dice: "La massima flessibilità del mercato del lavoro ha avuto un effettoperverso, ha creato i working poors, cioè i poveri con impiego, una sorta di

nuovo sottoproletariato. I salari fluttuano troppo, la gente viene licenziata

troppo facilmente. Non c'è redistribuzione del reddito. L'Unione europea lo

deve evitare"l1.

E l'altro è]oseph Stiglitz, premio Nobel nel 2001, che è stato vice-presidente

della Banca mondiale, che dice, con la franchezza con la quale si esprimono

gli americani che sono molto diretti quando parlano e quando scrivono: "Il

Fondo monetario ha lottato per quella che eufemisticamente viene definita la

flessibilità del mercato del lavoro. Che detta così sembra una espressione cheindica un migliore funzionamento del mercato del lavoro, ma in parole povere

significa stipendi più bassi e minori tutele per i lavoratori»12.

Ora, io non so se abbia ragione un altro studioso inglese, Colin Crouch,

che ha di recente scritto un libro, molto bello, che si chiama Postdemocrazia13 ,

nel quale sostiene che attualmente sono rimesse in discussione non solo la

democrazia - da qui il titolo del suo libro - ma le conquiste dello stato sociale

che sono venute prima della democrazia, sono cominciate centoquaranta

anni fa, con Bismark. Certo, il pensiero unico neoliberista, dalla Tatcher fino

ai neoconservatori americani, ha condotto un attacco senza precedenti alle

condizioni dei lavoratori.E qui faccio alcuni esempi. Uno è questo recentissimo della Fiat di Melfi.

Francamente, pur essendo un attento studioso dell'economia, non sapevo che

ci fossero dei lavoratori che facevano dodici notti dietro fila! Non lo sapevo.

E non credo neanche che fosse possibile negli anni Settanta fare dodici notti

di fila.

E l'altro è una dichiarazione del presidente della Siemens, Von Pierer, che

è una grande azienda elettronica, una delle più grandi aziende multinazionali

tedesche, il quale commentando un accordo fatto nella fabbrica di Bokolt, in

Germania, dove molte aziende hanno ancora un accordo per trentacinqueore di lavoro, in questa fabbrica della Siemens hanno contrattato di riportare

l'orario a quaranta ore di lavoro. E lui ha commentato: il mio motto: "Più

lavoro per lo stesso stipendio» è realizzabile. Lo ha dichiarato apertamente.

Credo che sia ora, dato che ci chiamiamo Aprile per la sinistra, di dire

che è ora di smettere di parlare di mercato del lavoro rigido per cui ci vuole

più flessibilità. E deve smetterla anche la Commissione europea, guidata da

Romano Prodi. Certamente la Commissione europea non fa solo quello che

dice Prodi, però è ora di smetterla di scrivere anche nei documenti della

Comunità europea che ci vuole maggiore flessibilità.Perché a questo punto invocare una maggiore flessibilità vuole dire solo

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una cosa: invocare la libertà di licenziamento nel senso che, in effetti, poi

questo tentativo di attacco sull'articolo 18 ha voluto dire questa cosa. E bisogna

cominciare a parlare dei problemi veri dell'Italia.

Faccio solo due brevi accenni su quali sono, secondo me, i problemi veri

dell'Italia.Primo: esiste un Ufficio europeo dei brevetti che si chiama European

patent office. Questo Ufficio nel 2001, l'ultimo dato che ho è questo, ci dice

che la Finlandia ha registrato 337 brevetti per milione di abitanti; la Svezia

366, la Germania 309 e l'Italia 74! Dodicesimo Paese su quindici, dell'Unione

europea!

La seconda cosa è questa: va bene che siamo il Paese - e la provincia

soprattutto - delle piccole e medie imprese che tante volte fanno dei miracoli, è

vero, sui mercati esteri. Ci sono artigiani con quindici dipendenti che vendono

all'estero. Conosco uno che si chiama Bronzoni e che produce a Ramiseto deimotori elettrici che vende in Australia, tanto per dire. Però, un Paese che vuole

essere la settima potenza industriale del mondo, non può stare senza grandi

imprese perché sono le grandi imprese che fanno la ricerca e l'innovazione.

Non può. Noi abbiamo una bella industria della meccanica agricola, però

tutte le nostre macchine agricole l'accensione Bosch la vanno a prendere in

Germania, magari il pezzo che costa di più e che è quello su cui la Bosch

guadagna anche di più.

C'è una rivista americana, "Fortune", che tutti gli anni compila l'elenco delle

prime cinquecento aziende industriali del mondo, e l'Italia ne ha una sola ed

è la FIAT.

Credo che anche per Reggio non dobbiamo quindi perseguire la strada

della ulteriore flessibilità, che è una di quelle parole malate di cui ha parlato

Cofferati, e di ulteriore precarietà e compressione dei salari, ma la strada volta

alla ricerca, volta all'innovazione, ad una qualità sociale ed ambientale, alla

solidarietà.

1 Amministrazione Provinciale di Reggio Emilia, Gli stranieri a Reggio Emilia, a curadi E. GRAPPI e P. SPAGNI, 1981.2 Amministrazione Provinciale di Reggio Emilia, La popolazione reggiana nel 2003, acura di L. MELLONI e C. TAGLIAVINI, 2004.3 Provincia di Reggio Emilia, "Osservatorio Economico", 2004/82.4 Provincia di Reggio Emilia, "Osservatorio Economico", 2004/82.5 Centro Studi Amministrativi di Reggio Emilia-Provincia di Reggio Emilia, Annuariodella scuola reggiana, a cura di L. BONACINI, dicembre 2002.6 CGIL, Sviluppo Economico e mercato del lavoro a Reggio Emilia, a cura del prof. G.SERRAVALLI, Dipartimento di Economia dell'Università di Parma.7 Provincia di Reggio Emilia, Osservatorio sugli sbocchi occupazionali della scuolasecondaria, dell'Università e dI sistema della formazione professionale in provincia diReggio Emilia, 2004.8 Banca d'Italia, I bilanci delle famiglie italiane nel 2002.

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9 R.D. PUTNAM, La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondatori, Milano 1996.lO RE Regia, Conferenza sull'Economia e la Società nella Comunità di Reggio Emilia,5-6 marzo 2004.II Cito da C. SALVI, La rosa rossa, Mondadori, Milano 2000, p. 88.12 ].E. STIGLlZ, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino 2002, p. 83.

13 C. CROUCH, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003.

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"Modello emiliano": lavoro ecoesionesociale aReggio Emilia

Gian Franco Riccò

Per molti anni la classe dirigente di Reggio Emilia ha vantato la coesionesociale della sua popolazione, giudicando le relazioni sociali un punto diforza assoluto assieme alla fiducia espressa verso quelle stesse classi dirigenti.Oggi la minor enfasi di questi discorsi sembra tener conto che la società èdiventata instabile, più fragile di quanto pensavamo. Del resto la caduta dellarappresentatività politica dei cittadini ha reso più visibile in questi ultimianni quei cambiamenti in corso da circa un quarto di secolo. Nel saggio diEnzo Grappi vengono individuate alcune importanti variazioni del lavoroe nell'occupazione, le quali si riflettono anche nella convinzioni politiche.lo mi propongo di approfondire la conoscenza della parte meno visibiledell'occupazione, quella del lavoro nero e irregolare, per vederne i riflessinella società reggiana.

La maggior fragilità della coesione sociale a Reggio Emilia deriva daicambiamenti della popolazione, immigrata ed autoctona, che vive e lavoracon pochi diritti, è sprovvista di una prospettiva economica a cui guardarecon sicurezza, non ha nemmeno organizzazioni di tutela alla sua portata. Chi

lavora al nero non si fa tutelare dal sindacato se non quando finisce il rapportodi lavoro, prima si tutela da sé come può, cioè adeguandosi alla legge del più

forte, a volte non conosce neppure la lingua italiana. Sono lavoratori che inlarga parte non hanno nessun peso politico, anzi in certi casi si nascondono

perché sono clandestini. Negli Stati Uniti d'America ed in Inghilterra queste

persone sono chiamate "lavoratori invisibili". Esistono, ma non si vedono.

E sono anche quelli che in genere fanno le attività più neglette, faticose esovente mal pagate, sostanzialmente povere. È personale che fa le puliziedi notte, quando gli uffici sono chiusi, lavora nelle case per l'assistenza agli

anziani, è occupato nei servizi, nella logistica, in agricoltura, nei laboratori esui cantieri edili. Tutte cose che permettono di affermare che nel territorio di

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Reggio, come nel resto del paese, è insediato un pezzo di "terzo mondo".Non v'è dubbio che questa presenza gradualmente sia diventata importante

in molti settori dell'economia e dei servizi pubblici attraverso le pratichedei subappalti, delle esternalizzazioni decise da imprenditori privati e dalle

amministrazioni pubbliche, dando un rilievo nuovo alla storia del modelloemiliano. Locuzione che uso per riferirmi alla organizzazione del potere dellasinistra, la quale ha governato gran parte dei comuni reggiani dall'inizio del1900 e, dopo l'interruzione del ventennio fascista, dal 1945 ai giorni nostri.Un potere molto ramificato nato dalle coalizioni dei lavoratori per esercitarela solidarietà con le amministrazioni municipali, le camere del lavoro, lecooperative, le associazioni contadine, artigiane, delle piccole imprese, delledonne ecc. Un sistema in larga parte superato e che vive alle prese con i forticambiamenti della globalizzazione economica, la quale significa competizione

con la riduzione di salari, stipendi, pensioni, notevole evasione fiscale e deglioneri sociali, impoverimento del tesoro pubblico e crisi del welfare. Questo èil contesto in cui diventa fragile la coesione sociale di Reggio Emilia, da lì sivede nitidamente come i fatti planetari rincorrono quelli locali e viceversa.

Quanto lavoro nero ed irregolare c'è a Reggio Emilia? Alcuni anni fa il

professor Gilberto Serravalli dell'Università di Parma ipotizzò 1'8 percento ditutti gli occupati. Avendone centocinquantacinquemila di occupati l'operazionearitmetica dà la cifra di dodicimilacinquecento. Una stima che oggi appare

distante dalla realtà. Ovviamente trattandosi di lavoro nero, cioè sconosciutodalle istituzioni pubbliche, non permette a nessuno di sostenere con certezzaquanto sia, tanto più che sono molteplici le tipologie di lavoro irregolare (dalleirregolarità retributive alle mancate assunzioni e fino al doppio lavoro non

regolarizzato). A quanto è dato sapere per Reggio Emilia non esistono dellestime locali fatte dalla Direzione provinciale del lavoro. È possibile prendere

come riferimento alcune cifre elaborate da istituti nazionali sull'Italia, per averepoi un raffronto con la provincia e con la regione Emilia-Romagna. I dati ISTAT

per il 2003 valutano che in Italia ci fossero tremilionicinquecentomila lavoratoriin nero su ventitremilioni di unità di lavoro (pari al 15 percento circa). I datiISTAT però non sono considerati del tutto attendibili perché ricavati da interviste

e non è ragionevole presumere che qualcuno dicesse che lavorava in nero.I rapporti INPS sono più accreditati perché elaborati sulla base delle verificheche l'istituto ha compiuto sui luoghi di lavoro, anche se non sono attendibiliper la loro disomogeneità e casualità. Non si possono confrontare di anno inanno. L'INPS ipotizzava che in Italia nel 2003 vi fossero più di sei milioni dilavoratori irregolari, il che corrispondeva a quasi il 20 percento degli occupatiregolari. Per quanto riguarda la provincia di Reggio Emilia è possibile fareriferimento ad una ispezione della task force del ministero del Lavoro che

nel 1999 visitò cento aziende. Venne invitata dalle organizzazioni sindacali,

particolarmente scandalizzate da ciò che accadeva nel settore dell'edilizia,e non solo. Su centonove aziende ispezionate 1'86 percento era irregolare.

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Irregolare non significa al nero, ma considera un insieme di cose che vanno

dalle inadempienze amministrative, contributive, salariali, della sicurezza, fino

al lavoro nero. Irregolari erano centossessantaquattro lavoratori: il 42 percento

di loro, quelli completamente al nero una trentina, cioè 1'8 percento dei

dipendenti. Altre indicazioni provengono dalla Vigilanza regionale dell'Inps.Nel loro elaborato purtroppo non compaiono molti dati disaggregati per

provincia e non è sempre agevole capirli. E poi anche questo documento non

si trova facilmente. Le persone non regolari a Reggio Emilia, dalle ispezioni

INPS del 2003, sono state il 14 percento, che tradotto in unità corrisponde a

circa ventiduemilioni di lavoratori dipendenti. Si tratta di vedere se fossero

completamente al nero o solo parzialmente. I dati aggregati del rapporto INPS

per tutta l'Emilia-Romagna riferiscono che delle aziende ispezionate più del 66

percento è irregolare. Hanno pescato 10.569 lavoratori con irregolarità, però

non è dato sapereil

numero dei lavoratori dipendenti delle aziende ispezionate.Di questi ne hanno trovati 8346 in nero. Aziende totalmente al nero, cioè non

conosciute, sono state milleseicentosedici. Di queste millecentodiciannove

erano costituite da lavoratori autonomi non iscritti.

Il settore dell'edilizia a Reggio Emilia per l'anno 2003 contava 19.250 occupati;

di questi circa novemila erano dipendenti e più di novemila artigiani. La parte

maggiore degli artigiani, come hanno messo in rilievo diverse ispezioni, la

task force del ministero del Lavoro, forniva esclusivamente manodopera. I

sindacati denunciarono l'esistenza dei finti artigiani senza professionalità,

senza organizzazione da consentirgli l'acquisizione di ordini dal mercato.

Lavoratori dipendenti con partita IVA perché così volevano e ancora vogliono

i padroni delle imprese per le quali lavorano. In realtà sono dipendenti

impiegati in lavorazioni guidate da un impresario che li ingaggia per lavorare

nelle squadre di cottimisti. Un fenomeno tipicamente meridionale, del tutto

simile al caporalato, e che si è ben insediato nel territorio reggiano. Fenomeno

interessante per le imprese che acquisiscono appalti pubblici o promuovono in

proprio delle attività immobiliari perché si tengono distanti dalle irregolarità da

cui traggono vantaggio, e delegando ad altri il lavoro "sporco". Larga evasione

contributiva, evasione fiscale, norme disattese nella sicurezza, completa

flessibilità, pochissimi dipendenti nelle aziende maggiori. Le imprese artigianevere e proprie esistono senz'altro, con molte probabilità oscilleranno dallO al

20 percento del totale delle imprese edili registrate dalla Camera di commercio.

Un fenomeno unico e che non ha eguali in altre province.

Altro settore esposto al lavoro nero è quello tessile-abbigliamento. La

diffusione di laboratori gestiti da cinesi, descritta sovente dalle cronache

giornalistiche, l'abbiamo scoperta con le incursioni dei carabinieri dentro le

fabbrichette tessili situate nelle campagne reggiane. Le cose cominciarono

a venire a galla dal 1990. Nel 1990 ci fu la prima sanatoria dei clandestini

immigrati dalla Repubblica popolare cinese. Da allora si hanno le primepresenze conosciute dalle istituzioni perché i lavoratori della Repubblica

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popolare cinese cominciano a regolarizzare la loro posizione. Un libro del

1994, scritto da Francesco Sisci con Patrizia Dionisio (Piovra gialla, casa

editrice Liber internzionale) esordiva con l'inizio fulminante della irruzione

dei carabinieri in un laboratorio tessile nella campagna di Reggio Emilia. Erano

cose sorprendenti, oggi non più, l'abitudine ha fatto la sua strada. La metà deicinesi immigrati, è scritto nel libro, aveva passaporti e permessi di soggiorno

falsi. Li pagano molto cari con un anticipo, poi fanno il viaggio, di solito

terribile. Infine sono inseriti al lavoro qui in Italia fino alla estinzione del

debito. Lavorano come schiavi perché nella condizione in cui si trovano non

hanno la libertà di potersi licenziare né reclamare diritti. Quelli che prendono

i soldi da questi cinesi non stanno in Italia, stanno in Cina. L'organizzazione

della emigrazione cinese è piuttosto complessa, riesce a coprire grandi distanze

geografiche e riesce a disporre di molto danaro. Oggi si nota anche la presenza

della prostituzione di ragazze cinesi, segno che l'economia della criminalità siva estendendo di pari passo al denaro acquisito.

Per il settore alimentare non ci sono stime sul lavoro nero, però nel 2002

venne alla ribalta con in fatto di cronaca nera, l'omicidio di un operaio albanese.

La vicenda di una cooperativa, la Dimac, portò alla luce una situazione molto

allarmante, quella dei piccoli macelli. Qualche anno prima un dirigente al

personale confidava che "la spinta verso il lavoro nero è enorme a tal punto

che se a Carpi non arrivi con tre milioni al mese non li tieni, ci portano via

la gente». Si trattava dei macellai che non volevano guadagnare di meno dato

che c'era chi era disponibile a darne di più. Aggiunse che "il bisogno di soldi

dei lavoratori aiuta le imprese ad ottenere quello che vogliono. Li pagano

per trattenerli». In questo contesto, confermava l'interlocutore, "le cooperative

spurie sono il festival del lavoro nero». Eravamo nel 1999. La Dimac era una

cooperativa di facchinaggio e la sede non era a Poviglio ma a Castelnovo

Rangone, essa formava una o più squadre di facchini che si spostavano sul

territorio, era una cooperativa spuria che raschiava prosciutti di importazione

illecita, li marchiava nuovamente per metterli in commercio con altro vestito

ed il prezzo gonfiato. In molti macelli coloro che lavoravano regolarmente

dichiaravano salari netti bassissimi mentre quelli reali erano molto più alti. Per

questo l'appalto è una pratica diffusa. Appaltando la lavorazione concordano

il costo del servizio con un'altra impresa. L'irregolarità formale viene messa

fuori dalla responsabilità della impresa titolare.

Logistica facchinaggio e trasporti non costituiscono una filiera unica, non

sono un settore la cui omogeneità sia confrontabile perché sono quasi sempre

al servizio per spostare produzioni di altri. In molti casi sono talmente integrati

con le imprese che servono da essere in simbiosi. Per dare l'idea basterebbe

ricordare che le produzioni flessibili sono state un fattore di alta competizione

commerciale perché sono evolute con il just in time col quale si è raccordata

la produzione con i tempi reali della vendita. A questo ha provveduto lalogistica arrivata dal 1960 al 2000 attraverso la generazione di tre modelli.

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La logistica, facchinaggio movimentazione merci non dispone di statistiche

del tutto aderenti alla evoluzione del comparto, comunque dirigenti della

Camera del Lavoro valutano che a Reggio, nel 2003, vi fossero occupati dai

tremila ai quattromila addetti. Nel facchinaggio il futuro previdenziale dei

lavoratori è legato a contributi calcolati su salari convenzionali di ottocentoeuro, vale a dire piuttosto bassi. Questo incentiva accordi tra le parti per

denunciare il minimo del salario ed elevare la quantità delle trasferte esenti

dalla contribuzione. I salari convenzionali sono una modalità che trae origine

dal lavoro avventizio dell'agricoltura di altre epoche. Il lavoro irregolare lo

si riscontra più facilmente nelle duecento piccole cooperative con meno di

nove lavoratori, tanto la nuova legislazione sulla cooperazione ne consente la

costituzione con almeno tre soci.

Il settore dell'autotrasporto è composto soprattutto da artigiani. Nella

provincia di Reggio Emilia nel 2004 erano milleottantotto quelli adibiti allemerci, ottanta quelli del trasporto persone. Con la esternalizzazione dell'attività

fatta dalle imprese più strutturate verso il lavoro autonomo, tutti questi

artigiani hanno dovuto caricarsi sulle spalle l'immobilizzo del capitale. Questo

popolo dell'autotrasporto denuncia le difficoltà che incontra ogni giorno per

la inefficienza della viabilità, per la concorrenza sleale di altri autotrasportatori,

per il prezzo delle assicurazioni e dei carburanti. Il Presidente regionale della

FITA-CNA (28 marzo 2004) ha sostenuto che «non siamo competitivi ... abbiamo

dal 20 percento al 50 percento di spese in più rispetto al resto d'Europa, e il

risultato è che da noi otto aziende su dieci lavorano illegalmente, con gravi

danni sulla sicurezza. La CNA nel maggio 2002, attraverso il suo Presidente

provinciale, sottolineava la situazione di crescente irregolarità nell'autotrasporto.

Citava, ad esempio, che la Polizia stradale su trentadue mezzi controllati

ne trovò quindici sovraccarichi ma non solo, nove conducenti lavoravano

completamento in nero».

I comparti dei servizi sono per eccellenza quelli in cui alberga lavoro nero e

clandestino: ristoranti, pizzerie, bar, imprese di pulizia dove esercitano diverse

cooperative spurie, lavoro domestico e servizi alla persona. Tra questi è da

segnalare il fenomeno del "badantato", il più rilevante di questi ultimi anni. La

definizione di badantato deriva dall'assistenza notturna, dietro pagamento alnero, fatta negli ospedali da tantissimo tempo. La novità sta nella esplosione vera

e propria della immigrazione di donne provenienti dai paesi dell'est europeo,

le quali assicurano l'assistenza tra le mura di casa alle persone parzialmente

o totalmente disabili, solitamente anziani. Questi i numeri dell'INPs per Reggio

Emilia: mille quattrocento lavoratrici di cui oltre ottocento assunte regolarmente

alle quali sono da aggiungere altre che possiedono i requisiti per l'assunzione

ed il permesso di soggiorno. Il numero di queste lavoratrici indicato dalla

Camera del lavoro di Reggio Emilia per il 2005 è di circa diecimila persone. Se

le stime del sindacato sono veritiere il volume del lavoro nero nell'assistenzafamiliare alla persona è superiore alle ottomila unità.

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La descrizione dei settori al nero non sarebbe compiuta se trascurassi il

sommerso economico, vale a dire tutto quello che viene prodotto, scambiato

e guadagnato in modo tale da evitare gli obblighi derivanti dalla imposte.

Lavoro irregolare e sommerso economico sono solidali nella competizione

con la legalità. Se i servizi pubblici sono strumenti di reciprocità tra i cittadiniin quanto tutti contribuiscono secondo le p o s ~ i b i l i t à e tutti fruiscono secondo i

loro bisogni, si pensi a servizi fondamentali che garantiscono la soglia minima

di benessere a tutti i cittadini nei campi dell'istruzione, sanità, previdenza e

assistenza, il sommerso economico sovverte questo ordine. Sottrae al bene

comune una parte della ricchezza prodotta impoverendo le disponibilità

collettive, il tesoro pubblico diventa più povero. Immaginare da questo punto

la spirale che crea non è difficile. Minori risorse conducono a tagli della spesa

pubblica, con minori prestazioni pubbliche aumenta anche la tendenza a pagare

ilmeno possibile le tasse.

Ilsommerso economico costituisce quindi un danno

ingente al sistema di sicurezza sociale basato sulla mutualità collettiva garantita

nel tempo e per il suo funzionamento dalla Stato. Il sommerso economico è

pertanto un fattore importante di indebolimento della coesione sociale.

Nel rapporto annuale 2003 della Guardia di finanza si evincono due

cifre sugli evasori totali (sommerso d'azienda) che si commentano da sole.

Scoperti seimilacinquecentodue casi nel 2003, l'anno prima (2002) erano

stati seimilaottocentoventotto. Questo per quanto riguarda tutto il territorio

nazionale, ma per farsi una idea sulla pervasività del fenomeno dovrebbero

bastare le parole del comandante della GDF di Reggio Emilia: «Nonostante

il condono, che pure alle aziende è costato molti soldi, abbiamo accertato

numerose violazioni». La GDF di Reggio Emilia ha accertato nel 2003 che la.

propensione a comportamenti illegali si è fatta più elevata nelle imprese di

medie e grandi dimensioni, cosa che non può meravigliare più di tanto perché

nella realtà è sempre esistita. Si prendano tre aspetti rilevanti nella vita nazionale

delle medie e grandi imprese: la loro finanziarizzazione, che significa gestione

finanziaria non più come supporto alla produzione materiale ma destinata ad

attività speculative; il ricorso normale al segreto bancario dei paradisi fiscali; la

contabilità al nero. La propensione era già stata notata nei primi quattro mesi

del 2002, il 95 percento dei controlli su grandi imprese aveva accertato evasionefiscale nelle classi di impresa medie e grandi. Lo dichiarava l'Agenzia delle

entrate. La CGIL ha denunciato per il 2002 un sommerso economico oscillante

fra il 15,6 percento ed il 17,1 percento del Prodotto interno lordo. EURISPES nel

2000 sostenne che l'economia nera produceva cinquecentotrentamila miliardi

di lire. Sempre per l'anno 2000 l'INPS ha calcolato che su millecinquecento

miliardi (in lire) evasi in contributi millecentodue erano da ricondurre al lavoro

nero.

Con il lavoro nero e il sommerso economico si coprono attività illegali

e criminali che sfruttano il flusso degli immigrati in arrivo. Fatti che nonpermettono alle istituzioni ed a tutta la società civile nessuna superficialità.

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La mafia cinese conduce il traffico di clandestini ed è ben presente anche

a Reggio come uno dei nodi della fitta rete costruita in Italia, lo dimostrano

le indagini della Questura reggiana. Indagini fatte tra il 2001 ed il 2002 hanno

scoperto ad esempio che la mafia voleva obbligare un artigiano cinese a

prendere lavoratori cinesi clandestini. Lui si è rivolto alla polizia e questa hascoperto una grande organizzazione, ovviamente cinese, con il negozio di

rappresentanza a Bari con la missione di collocare i lavoratori importati come

la merce. I clandestini cinesi li formavano a blocchi, venduti e ricomprati

da altre organizzazioni. Col viaggio la proprietà passava di banda in banda,

da mafia a mafia. Ci sono stati arresti di boss a Trieste collegati a Reggio.

Mafia cinese presente nel campo della prostituzione, dei laboratori tessili e

del racket. Il riferimento indistinto all'etnia cinese non permette di distinguere

come si dovrebbe tra le vittime ed i carnefici. Si narra comunque che cinesi

acquistano interi quartieri, si inseriscono gradualmente e poi colonizzano iluoghi. È già un gran dire fra la gente del mercato coperto di Reggio: rischia

di cadere in mani cinesi! Stanno acquistando tutto! Questo si dice tra i

commercianti, «stanno rilevando le licenze degli ambulanti, gradualmente, non

è un fenomeno che si vede da una settimana all'altra, ma piano piano vedrete

che avranno una presenza cospicua nei mercati». A Roma hanno comperato

gran parte del quartiere Esquilino. Gli investimenti di denaro sono dettati dalla

necessità di investire il denaro ricavato dall'attività illecita. Il libro di Sisci e

Dioniso portava, e non a caso, un sottotitolo inquietante: La mafia cinese alla

conquista del mondo.La criminalità organizzata a Reggio è anche criminalità calabrese, la

'ndrangheta e si muove nella palude dell'edilizia. I Procuratori della Repubblica

hanno più volte citato nelle loro relazioni che a Reggio esiste una cosca di

Cutro che fa attività di usura, di spaccio di droga, di riciclaggio di denaro di

provenienza illecita, di false fatturazioni, di racket, di estorsione ad imprenditori

edili. Da tutto questo ha preso vita il processo "Edilpiovra" che ancora non

si è concluso. La presenza di una folta popolazione proveniente da Cutro,

la predominanza di imprenditori cutresi in un segmento del ricco mercato

immobiliare reggiano, cantieri nei quali è normale la diffusione del lavoro

irregolare, una 'ndrina cutrese come filiale in territorio reggiano, l'omertàcome forma di autodifesa popolare dalla violenza mafiosa, è una frattura nella

società civile reggiana.

Esiste il sospetto che l'autotrasporto sia stato penetrato dalla criminalità

organizzata, la CNA ha denunciato l'esistenza di una concorrenza sleale di

autotrasportatori che viaggiano con carichi eccedenti la possibilità normativa,

elusione dei riposi obbligatori, offerta generosa di tariffe sottocosto. Concorrenza

che avrebbe origine dall'ingresso nel settore di denaro riciclato e mostrerebbe

una notevole disponibilità di mezzi.

La presenza di pratiche illegali potrebbe portare nel tempo alla fratturadelle normali relazioni civili. In discussione ci sarebbero anche la libertà delle

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persone, e il rispetto dei loro diritti e il rischio di una democrazia vuota perché

apparente, e come tale distante dai cittadini. Guai però ad indulgere a posizioni

e manifestazioni ostili agli immigrati, e non solo per un doveroso sentimento

di solidarietà umana, ma perché molti di questi, soprattutto i loro figli, sono i

reggiani di oggi e quelli di domani. Il campo della coesione sociale si estendecon tutti i suoi problemi davanti ai nostri occhi.

Tra i fattori che mettono a rischio la coesione sociale a Reggio Emilia il più

importante è la diversa struttura dell'occupazione che risulta dal confronto

con il passato. Fatto 100 con 156.520 lavoratori dipendenti per l'anno 2003, la

rilevazione NIDIL-CGIL ha indicato (anno 2004) 33.187 co.co.co, 10.000 lavoratori

interinali circa, professionisti con partita IVA 1851. Si aggiungano a questi circa

9000 falsi artigiani dell'edilizia. La stima porta ad una platea di 50.000 lavoratori

con rapporti di lavoro instabili o se si vuole precari.

L'occupazione edil

lavoro sono state una componente importante neldeterminare la fragilità della coesione sociale, in essa troviamo l'enorme

fenomeno della immigrazione, l'attacco al sistema di mutualità fra le diverse

generazioni che si prefiggeva la protezione degli individui nell'età della

vecchiaia. Si aggiungano la carenza di abitazioni per le famiglie più povere,

i risparmiatori traditi dal comportamento BIBOP-CARIRE ed il distacco crescente

tra vita politica istituzionale e tanta parte della popolazione, e si avrà la

percezione che nella nostra provincia è notevolmente aumentato il carico

della sofferenza sociale. Questo aspetto sembra congiunto con la mancanza

di fiducia nel futuro. Molti cittadini si aspettano sgradite sorprese nei prossimi

anni. Un fatto universale, accade in Europa e negli Stati Uniti. A Reggio Emilia

si è cominciato un lavoro di integrazione che ha riguardato l'accoglienza degli

immigrati stranieri, l'alfabetizzazione, la presenza nelle scuole dei bambini,

la presenza nei sindacati, ma questi sono processi che hanno richiesto molti

anni e possono entrare in difficoltà ad ogni ondata immigratoria. Difficile la

soluzione di altri problemi quali l'elevato costo della vita, le abitazioni troppo

costose, il lavoro scarsamente tutelato. Problemi analoghi a quelli che vivono

molti reggiani e connazionali immigrati dal sud. Da quasi dieci anni è stato

fatto un patto per il controllo sul lavoro negli appalti pubblici senza risultati.

Probabilmente le questioni del lavoro sono state dimenticati per troppi annidalla politica fatta a Reggio Emilia.

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Ecolinguistica dell'italianonegli Stati Uniti.Dinamiche del processo di perdita linguisticatra gli emigrati italianinel territorio statunitense

Francesca Bellù

Introduzione

Perché su quasi sedici milioni di itala-americani residenti negli Stati Uniti

solo il 2 percento parla italiano? Come mai la maggioranza degli italiani edei loro discendenti emigrati in Australia, in Canada e in Gran Bretagna ha

conservato meglio e più a lungo la lingua etnica? Lo scopo principale di questo

studio, condotto negli Stati Uniti nell'arco di tre anni, è quello di tentare di

fornire possibili risposte a tali domande. A partire da una ricerca sul campo

svolta nella contea di Schenectady, NY, e attraverso lo studio approfondito dello

scenario economico, socio-storico, politico e culturale del contatto linguistico

tra italiano e inglese, cerco di spiegare perché gli Stati Uniti, meta storica

dell'emigrazione italiana, sono il paese anglofono in cui la lingua italiana è

stata abbandonata più rapidamente dagli emigrati.

L'approccio secondo il quale ho inteso impostare l'indagine è noto nella

letteratura linguistica come ecologia della lingua o ecolinguistica. Secondo

questo indirizzo di ricerca il comportamento linguistico non può essere

compreso pienamente senza l'esame della totalità delle relazioni tra la lingua

e il suo ambiente, l'ecologia appunto. Lo studio dell'ecologia di una lingua è

dunque lo studio delle caratteristiche del contesto storico, economico, sociale,

culturale, politico, psicologico e religioso dei suoi parlanti, nonché l'indagine

degli effetti che l'interrelazione tra questi aspetti produce sulle loro scelte

linguistiche. Solo alla luce di queste osservazioni è possibile formulare delle

ipotesi sul come e il perché le persone usano le lingue in un dato modo.L'ancoraggio di una lingua alla sua particolare ecologia è fondamentale

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proprio quando è necessario spiegare la perdita di una lingua in un determinato

contesto, e il mantenimento della medesima in un altro contesto. È tramite

il confronto delle differenti ecologie che è infatti possibile individuare quei

fattori che accelerano o rallentano, nell'uno o nell'altro caso, un fenomeno

come la perdita linguistica.L'esame della peculiare ecologia della lingua italiana nel territorio

statunitense ha permesso di rilevare una situazione particolarmente sfavorevole

al mantenimento della lingua etnica da parte degli emigrati. Confrontando i

differenti contesti dell'emigrazione italiana nei paesi anglofoni, è stato infatti

possibile individuare due fattori ecologici che, negli Stati Uniti, sembrano

aver contribuito in modo significativo alla rapidità ed estensione della perdita

linguistica: la discriminazione razziale subita dagli emigrati e la forte pressione

assimilante imposta dalla società statunitense.

Discriminazione razziale

Dei fenomeni discriminatori subiti dagli emigrati negli Stati Uniti poco si

è scritto e ancor meno si è discusso, in Italia. Anche negli USA, forse per ilgenerale sentimento di benevolenza di cui sono attualmente oggetto gli italiani

e il diffuso apprezzamento per le loro tradizioni (specie quelle culinarie),

si dimentica spesso che, almeno per tutta la prima metà del ventesimo

secolo, gli italiani hanno subito una severa ed estensiva discriminazione

razziale. Per comprendere l'impatto che la discriminazione può aver avuto

sul comportamento linguistico degli emigrati, ho ritenuto importante illustrare

il fenomeno in modo approfondito, portando alla luce alcuni degli aspetti

più dolenti, e forse per questo maggiormente taciuti, della storia degli italiani

emigrati nel "Nuovo mondo".

Non molti sanno che il processo di "razializzazione" cui sono stati sottoposti

gli italiani - soprattutto i meridionali - negli Stati Uniti, ha avuto in realtà inizio

in Italia, prima dell'emigrazione. Verso la fine dell'Ottocento, i primi scritti

degli antropologi positivisti avevano infatti diffuso la convinzione, fondata

su "prove scientifiche", che l'arretratezza socio-economica del Meridione

fosse radicata nell'irrimediabile inferiorità razziale dei suoi abitanti. Sulla

base dell'analisi dei crani umani, gli antropologi Giuseppe Sergi e AlfredoNiceforo cercarono di dimostrare di avere scoperto prove dell'esistenza di

una razza "mediterranea" di origine africana, preponderante nel Sud del

paese, e di una razza "germanica" o "celtica" dominante al nord. Secondo

Sergi e Niceforo le due "varietà" di popolazioni, oltre che per le differenze

nella costituzione fisica, si distinguevano anche per alcuni tratti psicologici

"congeniti". Mentre i "germanici" mostravano «una naturale disposizione

all'ordine e all'organizzazione, e uno spiccato senso di coscienza sociale", i

"mediterranei" manifestavano invece «una tendenza selvaggia nell'individualità

che portava a delitti di sangue e all'associazione a delinquere"l. In pratica,Sergi e Niceforo attribuivano tale presunta diversità nei tratti comportamentali

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delle due popolazioni alla loro natura antropologica, cioè alla loro razza, come

fatto essenziale, e ad essa attribuivano l'''antagonismo'' delle condizioni sociali

ed economiche tra il nord e il sud del paese. Queste credenze, che godevano

all'epoca di ampia considerazione in ambito scientifico, vennero rapidamente

diffuse anche da una larga parte della produzione culturale di massa italiana,e rapidamente, l'Italia meridionale divenne metafora di anarchia, ignoranza e

barbarie ben al di là del mondo accademico. Proprio a quell'epoca, all'acme

dell'assalto popolare e scientifico contro gli italiani del sud, centinaia di migliaia

dei tanto denigrati meridionali sbarcavano sulle coste americane.

Gli Stati Uniti in cui arrivarono gli emigranti erano una nazione profondamente

fratturata da gerarchie di disuguaglianza basate sulla razza. Le ideologie razziali

sui meridionali vennero dunque prontamente assorbite dagli americani,

soprattutto dai bianchi di origine anglosassone. Allarmati dall'eccezionale

flusso migratorio proveniente dall'Italia, le istituzioni e i cittadini americanifecero ampio uso delle credenze sulla razza diffuse dai positivisti italiani. Nel

1911, la Commissione Dillingham sull'Immigrazione pubblicò un rapporto

in quarantadue volumi che alcuni anni più tardi divenne il fulcro delle

nuove leggi sull'immigrazione negli Stati UnitF. Il rapporto sostanziava una

categorizzazione già introdotta 1899 dal United States Bureau of Immigration,

che classificava tutti gli immigranti come appartenenti a quarantacinque

razze diverse, incluse le due razze degli Italiani del Nord e del Sud. Citando

direttamente gli scritti di Giuseppe Sergi e Alfredo Niceforo, la Commissione

asseriva che «gli italiani del Nord e del Sud differivano materialmente gli uni

dagli altri nella lingua, nella costituzione fisica e nel carattere» e che mentre

i settentrionali erano «freddi, riflessivi, pazienti e in grado di ottenere grandi

progressi nelle organizzazioni sociali e politiche delle moderne civiltà», i

meridionali erano «eccitabili, impulsivi, privi di senso pratico e scarsamente

adattabili alle società altamente organizzate,,3. Il Dizionario delle Razze o

dei Popoli, allegato al rapporto, aveva inoltre sollevato la congettura che gli

immigranti provenienti dall'Europa meridionale potessero introdurre invisibili

gocce di sangue africano nella nazione americana. Gli italiani del Sud erano

particolarmente sospetti, giacché, stando alle osservazioni di Sergi e Niceforo

riportate dalla Commissione, potevano discendere da una stirpe «negroide".In un paese già ossessionato dal colore della pelle, la pubblica ruminazione

di studiosi circa la possibilità che i «mediterranei" fossero portatori di sangue

nero, provocò intensi ed allarmati dibattiti. La Commissione per l'Immigrazione

mise apertamente in questione l'appartenenza degli italiani del Sud alla razza

"caucasica" (la razza bianca) e i meridionali scontarono pesantemente le

ripercussioni del dibattito circa· il loro status di less than white (bianchi "non

puri"); subirono infatti quel tipo di discriminazione generalmente "riservato"

agli africani-americani, come il linciaggio, la ghettizzazione, l'esclusione da

determinate scuole, teatri e ristoranti, la pubblica avversione e derisione4.

Che agli italiani non fosse automaticamente garantito lo status di bianchi viene

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mostrato in modo esemplare nel caso giuridico di <:Jim Rollins contro lo Stato

dell'Alabama» riportato da Matthew Jacobson nel libro Whiteness oJa Different

Color(1998)5. Nel 1922, una Corte d'Appello del Circuito dell'Alabama capovolse

la sentenza di colpevolezza inflitta a Jim Rollins, un africano-americano reo

del crimine di «commistione tra razze» (miscegenation) sulla base del fatto chelo Stato non aveva prodotto elementi sufficienti a dimostrare che la donna in

questione, Edith Labue, fosse bianca. Edith Labue era un'immigrata siciliana,

un fatto che, secondo la Corte, «non poteva dimostrare in modo conclusivo

che fosse bianca, O escludere che fosse nera, o di origine negroide». Sebbene

sia importante segnalare che la Corte non stabilì che un siciliano fosse a priori

un non-bianco, essa decretò che non era parimenti possibile definire in modo

conclusivo che un siciliano fosse necessariamente bianco. Se dunque la Corte

lasciò l'aula ventilando l'ipotesi che Edith Labue potesse essere bianca, stabilì

anche chiaramente che non era quel tipo di donna bianca la cui "purezza"doveva essere protetta tramite quel baluardo della supremazia bianca, lo

statuto che proibiva la commistione delle due razzé

Anche il vocabolario razziale americano rifletteva le condizioni materiali

e le relazioni di potere che si stabilivano su base quotidiana nei posti di

lavoro e nelle comunità. Le espressioni discriminatorie non erano solamente

il mezzo attraverso il quale i «nativi» bianchi marchiavano i nuovi immigrati

come inferiori, ma anche il mezzo attraverso il quale gli emigrati imparavano

a collocare se stessi e quelli simili a loro nella gerarchia razziale della nazione.

Gli italiani venivano chiamati «guinea», un termine che venne lungamente usato

dai bianchi per riferirsi agli africani e ai loro discendenti, o «dago», una variante

di «white nigger». Questi termini suggerivano una connessione tra gli africani e

gli italiani, in modo che quest'ultimi potessero posizionarsi correttamente nella

scala gerarchica delle razze degli Stati Uniti.

A sottolineare lo status anomalo degli italiani tra i bianchi e i neri, provvedeva

la stessa documentazione necessaria ad acquisire la cittadinanza americana.

Coloro che presentavano istanza di naturalizzazione dovevano sottoscrivere

una descrizione delle proprie caratteristiche fisiche che veniva redatta dagli

addetti dell'ufficio di immigrazione. Se per entrambe le "razze" degli italiani

del Nord e del Sud l'appartenenza alla varietà "caucasica" veniva stabilita inmodo automatico, una specificazione differente veniva riservata al colore della

pelle (significativamente, anch'esso richiesto nella descrizione). I meridionali

erano costretti a certificare che il colore della loro pelle era scuro (complexion

«dark»). In questo modo, paradossalmente, sottoscrivevano di divenire cittadini

statunitensi bianchi, ma dalla pelle scura.

I supposti fondamenti scientifici della discriminazione razziale negli Stati

Uniti si dissolsero lentamente nella seconda parte del secolo, e sebbene le

convinzioni popolari circa la diversità razziale perdurino fino ai nostri giorni,

la razza cessò di essere considerata come una categoria scientifica solo intornoagli anni Cinquanta.

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La severa discriminazione razziale subita dagli italiani può essere considerata

come un fattore che ha contribuito ad accelerare l'abbandono. della lingua

etnica negli Stati Uniti perché l'identificazione con il "Nuovo mondo", la sua

lingua e la sua cultura, costituiva, per gli italiani emigrati all'epoca di massima

intensità dei fenomeni discriminatori, l'unico strumento di emancipazionedallo stato di inferiorità in cui li aveva collocati la società americana. Gli

italiani erano infatti pienamente consapevoli che, tra i diversi individui della

loro origine, quelli che venivano considerati come più simili agli americani

erano avvantaggiati sugli altri nel conseguimento delle posizioni lavorative

più desiderabili e quindi, delle maggiori gratificazioni economiche. La lingua,

evidente marchio etnico per gli italiani, era uno dei tratti che potevano Ce

dovevano) essere eliminati con maggiore rapidità nella seconda generazione.

L'atteggiamento degli emigrati nei confronti della propria lingua non è tuttavia

stato modellato da particolari sentimenti di rifiuto della propria identità, odi slealtà nei confronti del proprio paese, ma dalla necessità di migliorare

le proprie condizioni economiche e sociali, un'esigenza che, va ricordato,

costituiva la ragione fondamentale dell'emigrazione. Il rapido abbandono del

dialetto per l'inglese sembra pertanto configurarsi come il risultato di una

scelta obbligata da parte degli italiani: essa offriva contemporaneamente il

beneficio di migliorare le loro condizioni economiche e di cancellare uno

degli indicatori più espliciti della loro stigmatizzata identità.

La pressione uniformante imposta dalla società statunitense

L'altro fattore che sembra aver maggiormente contribuito al rapido

abbandono dell'italiano da parte degli emigrati è la pressione assimilante e

uniformante imposta su di essi dalle istituzioni e dalla società statunitense. Il

supporto che la lingua originaria di un gruppo emigrato ottiene nel contesto

di un'altra lingua, è un importante fattore da considerare in relazione agli esiti

del loro contatto. L'attuazione di politiche che preservino la cultura etnica

può infatti favorire tassi più alti di mantenimento linguistico, mentre politiche

di tipo assimilante promuovono più frequentemente la perdita linguistica.

Quest'ultime sono senza dubbio le politiche che le istituzioni statunitensi

hanno esercitato nei confronti delle lingue e delle culture degli emigrati per

la maggior parte del ventesimo secolo. Il sistema scolastico è stato individuato

come uno dei più potenti agenti dell'anglicizzazione e del monoculturalismo

tra i gruppi immigrati.

Negli anni compresi tra la fine del diciannovesimo e la prima decade

del ventesimo secolo, i programmi scolastici e gli educatori assegnati alle

scuole pubbliche statunitensi maggiormente frequentate dagli immigrati, non

forniscono elementi che indichino che i dirigenti scolastici giudicassero le

esigenze culturali dei nuovi venuti, o dei loro figli, diverse da quelle degli altri

studenti. Al contrario, l'eredità culturale degli immigrati veniva considerata,nel migliore dei casi, come un fardello quotidiano da parte degli educatori,

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che si adoperavano energicamente per sopprimerla il prima possibile. La

scuola veniva concepita come il mezzo principale tramite il quale insegnare

ai figli degli immigrati le «virtù americane» e gli standard americani in fatto di

maniere, igiene e dieta. Ogni bambino veniva educato a pensare in una sola

lingua, e ad apprendere gli stili di vita e i valori morali americani. Secondo leistituzioni americane tale processo di "americanizzazione" doveva considerarsi

come un fatto del tutto desiderabile da parte degli immigrati, poiché era nel

loro interesse assimilare quanto più e meglio possibile, la lingua, la cultura e i

principi del loro nuovo paese.

Con l'inizio della prima guerra mondiale, la classe media americana si

trovò tuttavia ad affrontare una dimensione del problema immigrati che in

precedenza non aveva destato grandi preoccupazioni. Uno degli effetti shock

della guerra fu di portare alla luce l'esistenza di sentimenti nazionalistici

diversi tra la grande popolazione "straniera" degli Stati Uniti.Se

infatti i "veri"americani erano già da lungo tempo consapevoli della minaccia rappresentata

dagli immigrati, essa era sempre stata contemplata in termini razziali, religiosi

e sociali, ma non in termini politici. Gli stessi Reports della Commissione per

l'Immigrazione del 1911, che consideravano i nuovi immigrati come un pericolo

per la purezza razziale dello "stock" americano, non avevano espresso alcun

particolare timore a proposito di una loro significativa resistenza al processo

di americanizzazione.

Il fatto che la nuova percezione degli immigrati come «alieni» anche dal

punto di vista della lealtà nazionale fosse emersa soprattutto nel contesto della

guerra in Europa, spiega molto del movimento che si sviluppò in seguito. La

guerra conferì all'americanizzazione un carattere febbrile. La diversità divenne

sinonimo di slealtà e l'americanizzazione divenne una parte integrante della

cultura politica di quegli anni. Dal 1916la diversità culturale iniziò a configurarsi

come una crisi nazionale.

Il fondamentalismo nel campo dell'educazione raggiunse l'apice durante

il decennio successivo allo scoppio della prima guerra mondiale, quando

numerosi gruppi politici si mobilitarono per richiedere leggi a sostegno della

cosiddetta «americanizzazione dell'America». La «Commissione Nazionale per

l'Americanizzazione» esortò ad eliminare tutte le forme di slealtà, a sopprimerele condizioni che favorivano lo sviluppo di influenze «anti-americane» e a

dissolvere le culture minoritarie. La Commissione chiese l'internamento degli

immigrati laddove si potesse provare l'esistenza di sentimenti di «simpatia

anti-americana», e propose che tutti gli stranieri fossero obbligati ad imparare

l'inglese e richiedere la cittadinanza entro un massimo di tre annF.

Nel 1921, trentacinque stati e centinaia di città avevano emanato leggi

per l'americanizzazione. Le leggi per l'«istruzione patriottica» assunsero varie

forme; dall'istituzione di corsi obbligatori di storia americana, cittadinanza e

patriottismo, all'imposizione di esercizi con la bandiera degli Stati Uniti. Unnumero crescente di stati decretò che tutta l'istruzione fosse impartita in inglese,

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sovvertendo le leggi e le usanze precedenti che consentivano ai gruppi etnici

di insegnare la propria lingua originaria nelle scuole pubbliche e private, e

avviando una propaganda contro l'uso delle lingue straniere che venne ripresa

con vigore durante la seconda guerra mondiale e che si attenuò in modo

significativo solo dopo la metà degli anni sessanta8.

La campagna condotta dalla "Lega per la Sicurezza Nazionale" per vietare

l'insegnamento del tedesco conseguì un successo straordinario: il numero di

studenti che studiava il tedesco alle scuole superiori scese dal 24 percento nel

1915 a meno dell'l percento nel 1922. L'uso pubblico del tedesco venne vietato

con un decreto d'emergenza in molti stati del Midwest, e le pubblicazioni e le

associazioni culturali tedesche vennero attaccate dalle istituzioni e dall'opinione

pubblica americana.

Durante la convention dei sovrintendenti scolastici del 1916, Raymond

Fowler Crist, alto funzionario del United States Bureau of Naturalization dal1919 al 1933, e compilatore del libro di testo federale per la preparazione

degli immigrati al conseguimento della cittadinanza, dichiarò che «l'elemento

straniero" era una «minaccia soprattutto nelle grandi città", dove «l'influenza

delle sovranità, delle istituzioni, delle idee e degli ideali stranieri sono più

forti,,9. L'«invasione" degli immigrati nelle metropoli del nord-est rappresentava

effettivamente un'autentica sfida per le forze assimilatrici statunitensi, e in

particolare per le scuole pubbliche. Nel 1909, a New York il settantuno

percento degli studenti aveva almeno un genitore nato all'estero, a Chicago il

sessantasette percento e a Boston il 64 percento. Questa situazione contribuiva

a rafforzare l'idea che il compito della scuola non fosse solo quello di preparare

i giovani ad affrontare la vita nella nuova società industriale, ma anche quello,

altrettanto indispensabile, di infondere loro la devozione per le istituzioni e

gli ideali americani. La spoliazione dei caratteri etnici dei figli degli immigrati

veniva considerata come una parte integrante del processo di ammaestramento

ai principi della cultura patriottica che doveva realizzarsi nelle scuole.

Per quanto riguarda l'educazione degli adulti, i programmi di

americanizzazione conferivano particolare importanza a specifici «modi

americani" di svolgere incombenze quotidiane, come cucinare o pulire. Nei

libri di testo sull'americanizzazione si enfatizzavano la pulizia e l'igiene inmodo ossessivo, e gli immigrati appresero che c'era un modo americano di

lavarsi i denti, un modo americano di pulirsi le unghie, un modo americano

di fare illetto1o. Se ciò oggi può apparire grottesco, all'epoca non lo era per

nulla. Il legame tra il patriottismo e lo spazzolino da denti convogliava infatti

in modo efficacissimo il messaggio cruciale degli americanizzatori, ossia, che

l'essere americani «al cento per cento» comportava l'adozione di uno stile di

vita totalmente nuovo. Agli emigrati veniva insegnato che diventare americani

significava, in un certo senso, tornare ad essere bambini per apprendere l'abc

della cultura.

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Nei programmi di assimilazione degli stranieri predisposti dalle istituzioni

americane, l'enfasi maggiore venne in ogni caso conferita all'apprendimento

dell'inglese. La lingua divenne il fulcro del movimento di americanizzazione in

quanto si riteneva che il grado di integrazione degli emigrati - e quindi della

loro comprensione e acquisizione dei costumi e degli ideali americani - fossedirettamente legato alla loro competenza nella lingua inglese. Si instaurò presto

un collegamento ideologico tra parlare un buon inglese ed essere un «buon

americano». La lingua venne tuttavia sostanzialmente usata come strumento per

colpire dei bersagli non-linguistici nascosti. L'apparente urgenza di salvaguardare

la lingua nazionale mostrata da molti americanizzatori, mascherava infatti

un'ostilità essenzialmente razziale e politica nei confronti dei parlanti delle altre

lingue. Dato che le questioni linguistiche potevano essere caricate di elementi

che da un punto di vista prettamente politico sarebbero apparsi "scorretti", il

movimento di americanizzazione riuscì a trasformare l'inglese da scudo contro

il caos linguistico a spada contro differenze sostanzialmente non linguistiche.

La scomparsa delle lingue etniche dai programmi scolastici e la propaganda

politica (soprattutto durante le due guerre mondiali) che associava l'uso delle

lingue straniere al tradimento della nazione, sono i fattori che, nell'ambito del

grande movimento di americanizzazione, sembrano aver contribuito in misura

decisiva alla perdita linguistica tra gli emigrati. Le comunità non-anglofone

iniziarono a svilupparsi nuovamente solo dopo la fine della seconda guerra

mondiale e soprattutto dopo il 1965, in seguito all'abolizione delle restrizioni

razziali sull'immigrazione.

1 A. NICEFORO, L'Italia Barbara Contemporanea, Remo Sandron Editore, Palermo 1898,pp. 123-25, 238-43.2 Le leggi del 1917, 1921 e 1924 stabilirono l'esclusione di alcune categorie di immigranti,regolarono le nuove funzioni dell'Immigration Service ed istituirono i test di lettura.In particolare, l'Immigration Restriction Act del 1924 fu intenzionalmente disegnatoper arrestare l'immigrazione degli italiani e degli ebrei, considerate come popolazioni«disgeniche», ossia portatrici di degenerazioni. Le leggi stabilirono che le quote diimmigranti assegnate a ciascun paese fossero proporzionali alla composizione etnica

della popolazione americana rispetto al censimento del 1890 - quando la maggioranzadegli emigrati proveniva dall'Europa del nord e dell'ovest (www.eugenicsarchive.org/html/eugenics/essay9text.htmD.3 United States, Reports oj he Immigration Commission, Dictionary ojRaces or Peoples,61" Congress, no. 662, Government Printing Office, Washington, 1911, pp. 81-82(Ristampato da: Gale Research Company, Detroit 1969).4 Cfr. S.M. TOMASI, M.H. ENGEL (a cura di), Tbe Italian Experience in the United States,Center for Migration Study, New York 1970, p. 50.5 M.F., ]ACOBSON, Whiteness oja Different Color: European Immigrants and the Alchemy

ojRace, Harvard University Press, Cambridge 1999, p. 4.

6 Alla fine della guerra civile, dopo la revisione dello statuto giuridico dei neri, la

legislatura dello stato dell'Alabama e di molti altri stati del Sud, si mosse velocemente perripristinare la penalizzazione della cosiddetta «commistione tra razze» (miscegenation),

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mettendo a punto la forma basilare dello statuto che sarebbe rimasto in vigore fino al1970. Se qualunque persona bianca e qualunque nera, o discendente da neri, contraevamatrimonio, o viveva in adulterio o in fornicazione l'una con l'altra, ciascuna delledue parti veniva arrestata o costretta ai lavori forzati per non meno di due anni e non

più di sette. La natura dello status di un bianco non veniva specificata, ma lo statuto

stabiliva che una persona con sette antenati bianchi per linea diretta (nonni, bisnonni,bisavoli, ecc.) doveva definirsi nera se l'ottavo avo fosse stato nero (cfr. J. NOVJwv,

RaGial Construction: 1be LegaI Regulation oJ Miscegenation in Alabama 1890-1934,Law and History Review, 20, Summer 2002, pp. 225-277).7 J. HIGHAM, Strangers in the Land: Patterns oJ American Nativism, 1860-1925, RutgersUniversity Press, New Brunswick 1955, p. 249.8 B.J. WEISS (a cura di), American Education and the European Immigrant, 1840-1940, University of Illinois Press, Urbana 1982, p. 98.9 Ivi, p. 99.lO W. SHARLIP, A.A. OWENS, Adult Immigrant Education: Its Scope, Content, andMethods,McMillan Co., New York 1925.

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Il problema delle fonti nella ricerca sulladeportazione dall'Italia, 1943-1945.Museo della Deportazione di Prato,

7-8 dicembre 2005

Francesco Paolella

A pochi chilometri da Prato, è nato da qualche tempo il museo della

Deportazione. L'esposizione permanente pone in primo piano le condizioni

di vita dei deportati nei campi della galassia concentrazionaria. Diversi fra glioggetti esposti (indumenti, attrezzi da lavoro, effetti personali), sono stati donati

alla struttura museale da parte di deportati pratesi a Mauthausen (Austria), e,

in particolare, al sottocampo di Ebensee.

Nel settembre 1987, grazie al contributo degli ex-deportati dell'ANED

provinciale, guidati da Roberto Castellani, fu siglato un gemellaggio fra le

municipalità di Prato e di Ebensee. La collaborazione fra i due comuni fu

determinante per la creazione del museo. Proprio sopra il museo, si trova il

Centro di Documentazione della Deportazione e della Resistenza, una struttura

curata da Camilla Brunelli e dedicata soprattutto alla didattica degli studenti.

Alla progettazione delle attività del Centro contribuiscono studiosi come Enzo

Collotti.Il Centro ha ospitato, il7 e 1'8 dicembre 2005, un seminario sulle deportazioni

dall'Italia, nell'ambito del progetto, diretto da Nicola Tranfaglia e Bruno Mantelli,

dell'università di Torino. L'incontro di Prato è stato il quarto della serie, dopo

i due di Torino e quello di Asti. Tre ricercatori, Francesco Cassata, Giovanna

D'Amico e Giovanni Villari, sono impegnati da ormai tre anni nell'elaborazione

di una banca dati (o database), che conterrà gli elenchi e le biografie dei

deportati dall'Italia. Lo stesso Mantelli, inquadrando, in apertura dei lavori, il

contesto in cui il seminario di Prato doveva essere inserito, ha così sintetizzatoil progetto: «Vogliamo rappresentare un quadro, il più ragionevolmente

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fondato, delle deportazioni dall'Italia (non sono degli italiani) e dai territori

occupati. Il nostro obiettivo è di permettere ad ogni comune d'Italia di avere a

disposizione, entro il 2006, i nomi e le biografie dei propri cittadini deportati».

La ricerca del gruppo torinese, il cui lavoro si avvia ormai alla conclusione,

è stata resa possibile dai contributi dell'ANED e della Compagnia di San Paolo.E' prevista la pubblicazione completa del database, ma anche di più volumi

contenenti saggi dedicati sia alla metodologia della ricerca, sia allo studio delle

diverse realtà locali.

Assieme ai ricercatori torinesi, gli organizzatori del seminario hanno invitato

i responsabili delle Gedenkstdtten, i memoriali presso i campi nazisti, le cui

banche dati risultano essere più importanti per la ricerca (mancava solo un

rappresentante di Auschwitz).

Le fonti, dunque. I lavori sono stati aperti dalla relazione di Francesco

Cassata, che ha parlato a nome del gruppo di Torino. La nuova banca datiè stata creata a partire dall'elenco di deportati creato da Italo Tibaldi, elenco

che contiene quarantaquattromila nominativi, di cui, però, circa seimila

ripetuti. Primo obiettivo è stato quello di accumulare più elementi possibili, in

modo da integrare, ripulendoli e validandoli, gli elenchi parziali già esistenti:

oltre al Tibaldi, l'elenco contenuto, con circa quindicimila nomi, nel libro di

Valeria Morelli, I deportati italiani in campi di sterminio: 1943-1945 (Milano

1965), o ancora le serie di nominativi pubblicati sulla "Gazzetta Ufficiale" (per

disciplinare gli indennizzi).

Sono soprattutto tre i campi dove giunsero i deportati dall'Italia: nell'ordine,

Dachau, Mauthausen, Auschwitz. Le fonti principali sono due: da una parte,

i database prodotti dai Gedenkstdtten; dall'altra, il supporto proveniente dal

Centro di documentazione della Croce rossa internazionale (CRI), sito ad

Arolsen, nei pressi di Francoforte sul Meno, in locali che, durante il regime

nazista, ospitavano uffici SS.

Il Centro di Arolsen accoglie la maggior banca dati al mondo sulla galassia

concentrazionaria. Il servizio di ricerca per le DP (Displaced persons = persone

scomparse) fu istituito nel 1947 dalle Nazioni Unite e fu affidato all'uNRRA

(United nations relief and rehabilitation administration). Nel 1951 l'Istituto

passò sotto la responsabilità dell'Alta commissione alleata di controllo dellaGermania occupata. Fu nel 1955 che un accordo fra dieci paesi (fra cui Stati

Uniti, Gran Bretagna, Germania occidentale, Francia, Italia, Israele, ma senza

l'URss) affidò alla CRI l'incarico di stabilire l'identità dei sopravissuti, ma anche di

comprendere come, dove, perché i dispersi erano diventati tali. Risultato: un

patrimonio di quarantacinque milioni di schede personali, una ricchezza infinita,

ma anche - inevitabilmente - colpita da errori, alterazioni, refusi, oppure da

informazioni volutamente sbagliate (si pensi alle identità di copertura), tutti

"danni" ben noti ai filologi e agli storici.

Cassata ha poi riassunto i principali problemi interpretativi. Al primo posto,è emerso il bisogno di conoscere quali fonti sono confluite negli elenchi

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prodotti dalle Gedenkstatten. Ogni Gedenkstatte ha una banca dati diversa.Ci si è chiesti anzitutto perché esistono (come nel caso di Mauthausen) più

versioni del database. Perché, ancora, la professione dei deportati è statariportata solo in alcuni casi? Perché, in moltissimi casi, non è riportata la data

di morte? Perché, nei database prevalgono gli elenchi di uomini rispetto aquelli di donne?

Cassata ha voluto riferire anche di questioni più specifiche, ma non

meno interessati per una fenomenologia delle fonti. Perché esistono casi disostituzione di nazionalità? Perché capita che di deportati sono segnate più

residenze? Cosa si deve pensare, quando si legge solo la data di morte, ma non

è specificato il luogo? Si tratta, ovviamente, di questioni legate direttamente

alla gestione e all'interpretazione dei dati, ma anche alla ricostruzione dellarealtà nei singoli campi.

I dati, provenienti dai database dei campi principali, sono stati inseriti nelnuovo database e poi controllati con verifiche incrociate (un ricercatore ha

riletto i dati inseriti da un altro e reciprocamente), per eliminare errori di lettura,di battitura, ecc. Si è poi passati ai campi numericamente meno significativi ed

ancora si è svolta una prima verifica. In seguito, sono state inserite le schede

contenute negli elenchi della "Gazzetta Ufficiale" ed i quindicimila nominativicontenuti nel libro della Morelli. La vera crux di questa fase del lavoro èrisultata l'individuazione dell'esatta dicitura dei comuni di appartenenza. Per

ottenere ciò, ci si è affidati (specie per le località dell'lstria e della Dalmazia)a siti internet e a motori di ricerca geografici. Giunti a questo punto, e dopo

la ripulitura dai doppioni, è stata la volta dell'inserimento delle informazionidi Arolsen. Il centro tedesco sta attualmente verificando circa quarantamila

nominativi inviati da Torino.L'ultimo punto toccato da Cassata ha riguardato il problema della gerarchia

fra le fonti. La fonte iniziale, il database Tibaldi, non è stato mai cancellato. Ilgruppo torinese ha attribuito ad ogni fonte un numero cardinale identificativo(nO 1 è il ministero dell'Interno dell'Austria). Altra decisione presa è quella

di non cancellare i refusi, gli errori, anche se macroscopici, rintracciati neglielenchi (il nome Francesko è rimasto tale).

Passando, infine, dalla descrizione del metodo adottato ad un giudiziodi merito, Cassata ha definito migliore la fonte Arolsen, perché "dinamica".Essa si è, in altri termini, mostrata l'unica in grado di seguire i movimenti, itrasferimenti dei deportati fra i campi di concentramento. È anche vero, però,

che le banche dati delle singole Gedenkstatten, anche se più "statiche", sono

più precise sul luogo e sulla data di nascita dei deportati, nonché sul loro

numero di matricola. La "Gazzetta Ufficiale" si è rivelata efficace soprattutto per

l'accertamento del nome e del cognome. Le informazioni ricavate dalle realtàlocali (istituti storici, singoli ricercatori) servono massimamente per chiarire le

condizioni di vita al momento della cattura. Il libro della Morelli, infine, si èmostrato utile per la conferma della data e del luogo di morte. Tutte queste

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fonti daranno quindi origine alle biografie individuali. In caso di difformità,

saranno comunque mantenute le diverse versioni.

Sempre a proposito del database torinese, è emerso un altro, annoso,

problema: come considerare gli ebrei nel complesso della deportazione?

Bruno Mantelli ha insistito sulla necessità di rifiutare sia la logica assimilatoria(per la quale ogni deportato è solo un deportato), sia quella opposta,

discriminatoria (con elenchi separati fra ebrei e politici). Il gruppo torinese,

in questo affiancato da Liliana Picciotto del CDEC (Centro di documentazione

ebraica contemporanea) di Milano, ha deciso per una soluzione innovativa:

costruendo un doppio elenco parallelo, evidenziare i legami, i rimandi, ma

anche le peculiarità, degli ebrei deportati, in quanto ebrei o in quanto politici

(pensiamo ai partigiani, come Primo Levi).

Sono seguiti gli interventi di due ricercatrici toscane, che si sono occupate

delle fonti per la storia delle persecuzioni antisemite durante l'occupazionetedesca a Firenze e in tutta la regione. La prima, Francesca Cavarocchi, ha

parlato di Soccorso agli ebrei e fonti diocesane: le relazioni dei parroci. Anche

dopo l'armistizio del settembre 1943, fra i sacerdoti toscani restò una minoranza

chiaramente filofascista, ed altrettanto minoritaria era la parte dei sacerdoti che

avevano preso decisamente la strada dell'antifascismo, partecipando ad una

forma "passiva" di Resistenza o, ancor più raramente, entrando nella lotta

armata. La maggioranza prese una "terza via", mantenendosi in una posizione

di attesa e di autodifesa.

Questo tipo di ricerche è complementare rispetto a quella del gruppo di

Torino. Si ha, con tutta evidenza, a che fare con un tipo diverso di fonti. Le

fonti parrocchiali sono importanti anzitutto per il loro carattere capillare. Nei

documenti diocesani non può, ovviamente, che prevalere il punto di vista

ecclesiastico, che pone al centro le attività pastorali e il ruolo del parroco

rispetto alla comunità.

Con quali fonti, dunque, si ha a che fare? Anzitutto va detto che ci si imbatte

in alcune, gravi, lacune geografiche, a causa di archivi distrutti o ancora

inaccessibili. Si può accostare, invece, un folto repertorio di lettere di parroci

ai propri vescovi (su richiesta di questi ultimi o spontanee).In particolare, la

Cavarocchi ha ricordato un questionario, inviato nel luglio 1944 a tutti i parrocidella diocesi di Firenze dal vescovo Dalla Costa. Le domande riguardavano la

presenza di sfollati, i danni causati dai bombardamenti, ecc. Altro questionario

fu quello voluto dalla Santa sede, dopo il passaggio del fronte. Si trattava in

totale di diciotto domande: le prime tredici erano dedicate ai danni materiali

di chiese e canoniche. Più interessanti risultano essere le ultime domande,

in particolare la quindicesima, in cui si chiedeva del numero di vittime nella

parrocchia e del comportamento dei sacerdoti durante lo svolgimento delle

operazioni belliche. Gli ultimi tre quesiti erano riservati al periodo successivo

alla Liberazione, e riguardavano specialmente i problemi di ordine "morale"(già in chiave anticomunista). La Cavarocchi ha citato, infine, le memorie,

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raccolte fra i parroci, in occasione del convegno toscano del 1975 su Clero eResistenza.

Venendo alle persecuzioni antiebraiche ed ai casi di aiuto da parte dei

parroci, è emerso che solo in rarissimi casi si ebbero delle esplicite direttive

ves covili sul tema (fu ancora il caso del Dalla Costa a Firenze). Di norma, ivescovi si limitavano ad appoggiare e a finanziare iniziative nate da singoli

preti. Inutile dire che le ricerche fanno emergere non pochi casi in cui le

fonti memorialistiche trascendono nell'esaltazione dei sacerdoti, in una vera

mitizzazione del loro operato.

Marta Baiardi si è occupata proprio di Fonti memorialistiche e persecuzioniantiebraiche a Firenze. Le sue ricerche hanno portato a rastrellare ventiquattro

scritti editi su Firenze, anche se non è possibile escludere che ve ne possano

essere degli altri (semmai pubblicati in anni lontani e su bollettini sperduti).

La

Baiardi, volendo fornire qualche coordinata metodologica, ha insistitosulla nozione di survivor, secondo l'uso della Shoah Foundation, nozione che

sarebbe da preferire a quella, più angusta, di ex-deportato. I sopravvissuti sono

stati allora suddivisi (riprendendo gli studi di Guri Schwarz) per generazione,

individuandone quattro: coloro che nel 1939 erano già anziani, coloro che

avevano fra i trenta e cinquanta anni,i nati negli anni Venti e coloro che erano

solo bambini. Di quei ventiquattro memorialisti fiorentini, l'esatta metà era nata

negli anni Venti. Tre, invece, i testi di coloro che all'epoca delle persecuzioni

erano bambini. Va poi anche considerato il caso della scrittura da parte di

figli dei deportati: si tratta spesso di testi letterari che mettono al centro le

vicende della deportazione e che segnano in molti casi il ritorno degli autori

all'ebraismo, in una riconciliazione postuma con le generazioni ·precedenti.

Ritornando alla memorialistica fiorentina, un altro dato interessante ci dice

che diciannove di quei ventiquattro testi sono autobiografie ebraiche pubblicate

nell'ultimo ventennio. Questo è un segno evidente della nuova attenzione

rivolta alla memoria ebraica delle persecuzioni e, più latamente, alla vita degli

ebrei (non solo in Italia). La memorialistica è prosperata perché ha perso lo

status di "minorità" nel racconto dello sterminio. Gli ebrei stessi hanno iniziato

a leggere la propria biografia attraverso il prisma della Shoah. Si tratta spesso

di un vero e proprio kaddish laico. Per la Baiardi, la memorialistica non deveessere pensata come "fonte succedanea". Essa va vagliata e criticata come un

qualsiasi documento, ma senza dimenticare che qualsiasi fonte è già di per

sé un'interpretazione. In conclusione, bisogna sfatare il luogo comune che

i ricordi "a caldo" siano i migliori. Se questo può esser vero nelle aule dei

processi, non è così per la memorialistica.

Johannes Ibel lavora presso la Gedenkstiitte di Flossenburg, i l secondo

campo della Baviera, dopo Dachau, con oltre cento sottocampi e con circa

centomila prigionieri tra il 1938 e il 1945. Flossenburg è stato destinazione di

prigionieri di guerra, soprattutto polacchi (il 30 percento della popolazione delcampo), sovietici (20 percento), ungheresi (11 percento).

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La Gedenkstatte è nata nel 1997 e già nel 2000 si è iniziato a metter mano

al database, grazie al lavoro di circa cinquanta studenti-praticanti, fatti venire

dagli stessi paesi di provenienza dei deportati, per facilitare l'interpretazione

delle carte. Per il sessantesimo della Liberazione, è stato prodotto un libro con i

nomi dei prigionieri. Il progetto del database è terminato. Attualmente, quattrooperatori si stanno occupando della creazione di un'esposizione permanente.

La pubblicazione del database è un volume di millecinquecento pagine, con

dati puntuali: nome, cognome, matricola, data di nascita, data di morte.

Ibel ha spiegato i problemi di carattere contenutistico incontrati

nell'elaborazione degli elenchi: come indicare, ad esempio, la nazionalità

dei deportati, rimanendo fuori dall'ideologia nazista che considerava

l'identità nazional-razziale? Il gruppo tedesco ha dovuto distinguere allora fra

l'appartenenza attribuita dai nazisti, la nazione reale di allora, e il nome dei

territori oggi.Altra questione è, come sempre, è la possibilità di accesso alle fonti. Nel

2001, le fonti principali sono state ricuperate sotto forma di microfilm ed

oggi sono disponibili su supporti diversi. Molti errori "smascherati" durante le

verifiche, sono stati causati dalla cattiva leggibilità dei documenti. Le ss, alla

fine della guerra, poterono distruggere soltanto una piccola parte degli archivi.

Il resto fu recuperato dall'esercito americano ed oggi si trova negli Stati Uniti.

Fra le fonti primarie, Ibel ha anzitutto ricordato gli otto libri contenenti i

numeri di matricola (anche se un problema è sorto per il fatto che fino al

marzo 1944, i numeri di matricola erano attribuiti più volte, anche dieci o

dodici), volumi che oggi si trovano ai National Archives di Washington e, daglianni Sessanta, al Bundesarchiv di Berlino.

Ha ricordato inoltre gli elenchi, in ordine alfabetico, del vestiario e degli

effetti personali dei prigionieri (in questo elenco si trovano i nomi di coloro che

non compaiono - circa quattordicimila persone - nei volumi delle matricole).

Vi sono anche documenti (anche personali) appartenuti a deportati poi

deceduti. Abbiamo poi liste di trasporto (almeno cinquemila pagine) da Gro13-

Rosen, i negativi delle fotografie di prigionieri, più documenti di ss (soprattutto

corrispondenza burocratica).

Dove sono rimaste le altre fonti? Per Ibel si tratta di una vera «tomba deidati», un occultamento contro la ricerca storica. Risultato paradossale di questa

situazione è che gli storici tedeschi sono costretti ad andare all'estero per fare

delle copie di documenti inaccessibili in Germania.

Il database di Flossenburg contiene 76.035 voci, comprese le righe cancellate

o incomplete. Ve ne sono poi 89.065 (anche se ci sono doppioni), provenienti

dalla documentazione americana. Sono conservati anche gli atti personali dei

deportati, più le richieste di informazioni da parte di loro familiari (risalenti

soprattutto al periodo in cui si accordavano rimborsi) o di ricercatori. In sintesi,

esistono oggi schede biografiche di circa novantamila persone, al netto dellerevisioni; soltanto di pochi deportati si ha l'intero percorso. Tra tutti i deportati,

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4544 sono risultati essere italiani: tremilacento furono deportati a Flossenburg,

mentre gli altri giunsero là in seguito alle "marce della morte". Vi è compreso

anche il numero di italiani trovati nel cimitero di Flossenburg.

La seconda giornata si è aperta con l'intervento di Gabriele Hammermann,

Vice-direttrice della Gedenkstatte di Dachau. Il memoriale di questo campo,dove furono deportati circa novemilacinquecento italiani, non è in possesso

dei dati originali, così come a Flossenburg. Esiste un registro alfabetico dei

deportati a Dachau, registro completato negli anni Cinquanta dall'Ufficio

riparazioni di Monaco e che per ogni deportato comprende la data di nascita,

l'ultimo indirizzo, la matricola, la data d'ingresso. Non se ne conoscono, però,

le fonti.

Esistono diversi libri delle baracche, scritti dai rispettivi capi, con la

descrizione dei trasferimenti fra blocchi, dei turni di lavoro o delle malattie

dei deportati.Il

memoriale è anche in possesso di una lista, composta da unex-deportato, di quei prigionieri sottoposti a esperimenti medici (ad esempio,

esposti alla malaria). Vi figurano sei italiani. Si trovano nomi di italiani anche

nelle liste del lazzaretto e nella lista di quei prigionieri che tentarono la fuga.

Dei quasi diecimila internati italiani, solo centotrentaquattro furono donne.

L'87 percento degli italiani erano deportati politici, la massima parte partigiani.

Negli ultimi mesi di guerra ci fu un trasporto di circa centosessanta italiani (in

questo gruppo era la maggioranza delle donne italiane deportate a Dachau).

Disponiamo inoltre di molte fotografie di nostri connazionali, prese subito

dopo maltrattamenti da parte della Gestapo e poi deportati.

La maggioranza degli italiani a Dachau proveniva dalla città centro

settentrionali (Trieste è la città di provenienza più frequente). Molti erano prima

transitati dai campi di Bolzano, o di Fossoli, o dalla Risiera triestina. L'età media

degli italiani era fra i venti e i trenta anni. Il lO percento dei deportati aveva

un'età compresa fra i quindici e i diciannove anni. Più della metà proveniva

da altri campi. Gli italiani erano il sesto gruppo più numeroso a Dachau.

Quasi mille ottocento giunsero nel settembre 1943. Circa seicento arrivarono

il mese successivo. Ci furono trasporti significativi anche nei mesi di gennaio,

giugno e ottobre 1944. Nella terribile gerarchia degli internati, gli italiani erano

subito sopra i sovietici e gli ebrei. Con i russi condividevano il disprezzo(e la violenza) da parte delle ss. Gli italiani, «Badoglio», «voltagabbana», non

ricevano alcuna assistenza della Croce rossa e non avevano diritto ad alcuna

comunicazione postale con l'Italia.

Gli italiani erano i più insubordinati nel Lager. Dovevano subire la ferocia

degli stessi compagni: per i sovietici erano sospetti, perché già alleati con

la Germania, mentre ai francesi non potevano che ricordare il giugno 1940.

Bisogna anche ricordare che raramente gli italiani comprendevano il tedesco

(e quindi gli ordini). Si trovavano meno peggio gli italiani provenenti dalle

regioni nordordientali: essi conoscevano spesso una lingua slava e potevanocosì entrare in contatto con i deportati dei paesi dell'est, meglio organizzati.

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Non era raro che italiani si spacciassero per jugoslavi. Fra gli italiani, la mortalità

fu del 25 percento circa (morirono circa milleseicento persone).

È stata quindi la volta di Christian Diirr, collaboratore del ministero austriacodegli Interni e che lavora presso l'archivio della Gedenkstatte di Mauthausen.

Il campo di Mauthausen fu liberato dagli americani il 5 maggio 1945 e venneconsegnato ai sovietici nel luglio dello stesso anno. Due anni più tardi il

campo passò sotto il controllo del ministero degli Interni della repubblicaaustriaca. A Mauthausen e nei suoi sottocampi, furono internati tra il 1938 e

il 1945 circa duecentomila prigionieri e ci furono tra il novantacinquemila e icentomila morti.

Al memoriale si lavora da molti anni alla creazione di un database che

comprenda tutti i deportati, anche se i risultati, ad oggi, non possono - ha

sottolineato lo stesso Diirr - essere parificati a quelli raggiunti a Flossenburg.I primi passi verso un database di Mauthausen si sono fatti una decina di anni

fa, ma si iniziato a lavorare solo sulle donne e su qualche lista di trasferimento.I lavori per il database generale sono iniziati alla fine degli anni Novanta. Le

schede del database sono divise in tre parti: la prima è riservata all'identitàdel deportato, la seconda alle attribuzioni (tipo di lavoro, trasferimenti, ecc.),mentre la terza si occupa del destino (morte, liberazione). Per ogni parte della

scheda esiste una gerarchia ad hoc delle fonti. Per alcuni deportati, esistonoben dodici o anche quattordici fonti.

Il sistema di Mauthausen era fortemente centralizzato, pur con quasi cinquantasottocampi. Quello di Gusen era il solo ad avere un sistema autonomo Ci

deportati vi giungevano direttamente e c'era un "libro dei morti» staccato).Come in altri campi, anche qui i numeri venivano attributi più volte: il numero

più alto attribuito a Mauthausen è il 139.317. Come si giunti allora a stabilirein duecentomila il numero complessivo dei deportati? Si è tenuto conto di altrifattori e di altre fonti: oltre al già citato caso di Gusen, bisogna considerarei prigionieri di guerra sovietici, che continuarono ad avere il numero avuto

come prigionieri di guerra, così come quei sovietici trasferiti a Mauthausensolo per essere uccisi e che non furono registrati. Diirr ha parlato anche dialtri gruppi là trasferiti solo per l'eliminazione (come la resistenza ceca nel1942, con quasi mille persone). Il gruppo più numeroso fra i non registrati è

sicuramente quello degli ebrei ungheresi: si tratta di circa ventimila persone

dalla zona di Budapest.

Bisogna anche considerare la fonte delle schede personali, che, però, sonostate portate via subito dopo la guerra ed oggi si trovano in Francia e ad

Auschwitz. Là si trovano pressoché tutte le schede di chi venne liberato. Il

"libro dei morti» di Mauthausen, ottenuto dagli americani, è stato impiegato inmolti processi. Per il sottocamp0 di Gusen, esistono il "libro dei morti», delleliste di strasporto, gli elenchi (per nazione) fatti dagli americani, dai qualirisultano tremilanovecentoventi italiani. Per quanto riguarda Mauthausen, gli

italiani noti ad oggi sono seimilasettecentottantuno, di cui centoventisettedonne.

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L'ultimo intervento è stato quello di Wolfgang Quatember, direttore del

memoriale di Ebensee. Come si accennava, il campo di Ebensee era uno dei più

importanti fra i sottocampi di Mauthausen, al pari di quelli, più noti, di Gusen

e di Melk. Il progetto iniziale per Ebensee prevedeva la costruzione, in gallerie

dentro la montagna, di un centro di ricerca e di collaudo per la produzione

di missili, al riparo dai bombardamenti aerei. In realtà, nelle gallerie iniziò la

produzione di componenti per carri armati e per una raffineria petrolifera.

I morti a Ebensee furono più di ottomilacinquecento, provenienti da venti

nazioni. Molti deportati furono selezionati, perché stremati e ormai inservibili,

e furono inviati a Mauthausen o direttamente al castello di Hartheim, centro di

eutanasia. Ebensee fu liberato dall'esercito americano, il 6 maggio 1945.

Tra le fonti a disposizioni per la ricerca, Quatember ha ricordato sia il ..libro

dei morti", sia il Lagerstandbuch, un registro garantito dallo scrivano del campo.

La fonte fondamentale resta, però, il Zugangsbuch di Mauthausen. Gli elenchidelle persone morte erano inviati a Mauthausen. Gli originali si trovano oggi a

Zagabria, perché furono portati via da un ex-deportato croato.

Particolarmente interessanti sono le richieste, compilate da parte di industrie

private, per ottenere manodopera schiava. Vi si trova scritta anche la somma

pattuita da pagare alle ss. Nel Gedenkstatte si trovano anche serie di documenti

sui premi attribuiti ai Kapos: essi sono importanti soprattutto perché vi troviamo

segnato il numero degli internati presenti ad una certa data. Ci sono elenchi

del personale ss e molti fascicoli di processi, intentati negli anni anche contro

Kapos ebrei.Il database di Ebensee è nato fra il 1998 e il 1999. Ad oggi esso contiene

23.694 nomi, di cui 1131 di ebrei. Il numero complessivo dei deportati dovrebbe

attestarsi sui 26.000. Il 5 percento erano italiani. Il tasso di mortalità fra gli

italiani si attesta al 53 percento, ma se consideriamo gli italiani che lavorarono

ad Ebensee ma che morirono altrove (Hartheim, Gusen, Melk) si sale al 64

percento. Furono due i trasporti più importanti di italiani, entrambi nel 1944.

Ad Ebensee finirono centouno ebrei italiani: fra loro, la mortalità fu altissima

(circa il 70 percento). Ciò si spiega anche con il fatto che molti di questi ebrei

italiani erano stati nei Sonderkommandos di Auschwitz.

Il numero dei morti italiani calò molto nel giugno 1944, quando giunsero

gli ebrei trasportati da Auschwitz: questi arrivi comportarono che gli italiani

non rappresentassero più, specie agli occhi delle ss, il punto più basso nella

gerarchia del campo. Quatember ha voluto anche riconoscere il contributo

degli italiani (specie degli ex-deportati pratesi) nella stessa realizzazione della

Gedenkstatte di Ebensee.

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La Grande guerra raccontata in tre libri

Alberto Ferraboschi

- G.E. RUSCONI, L'azzardo del 1915. Come 11talia decide la sua guerra, Il

Mulino, Bologna 2005, pp. 199, 12 euro;

- A. VENTRONE, Piccola storia della grande guerra, Donzelli, Roma 2005,

pp. 210, 13,90 euro;

- M. ERMACORA, Cantieri di guerra. Il lavoro dei civili nelle retrovie delfronte italiano (1915-1918), Il Mulino, Bologna 2005, pp. 211, 18,50 euro.

All'interno della storiografia italiana novecentesca, la vicenda della prima

guerra mondiale è rimasta a lungo ancorata all'immagine oleografica della

quarta guerra di indipendenza, riconducibile principalmente alle mitizzazioni

nazional-fasciste e nazional-democratiche. Solo a partire dagli anni Settanta del

'900 grazie all'operato di studiosi come Mario Isnenghi e Giorgio Rochat (che

nel 2000 hanno portato a sintesi la loro più che trentennale attività di studio

nel fondamentale volume La Grande Guerra. 1914-1918, Milano, La Nuova

Italia) le chiavi d'accesso alla Grande guerra hanno superato il tradizionaleapproccio etico-politico, per lasciare spazio ad una prospettiva innovativa

capace di recepire i metodi di ricerca della storiografia internazionale più

accreditata. Ciononostante, all'interno del panorama italiano, al di là di alcuni

luoghi comuni (dalla rotta di Caporetto all'epopea della resistenza sul Piave)

le vicende della Grande guerra stentano ancor oggi a far parte del patrimonio

comune delle conoscenze, diversamente dall'esperienza della guerra civile

1943-45, la cui memoria continua a rappresentare il nucleo di un partecipato

e animato dibattito pubblico.

In questo contesto, la recente ricorrenza del novantesimo anniversario

dell'ingresso dell'Italia nella prima guerra mondiale ha consentito di riportare

l'attenzione sulla Grande guerra, incentivando una ripresa di studi e ricerche

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su questo fondamentale capitolo del novecento. Peraltro, il "risveglio" degli

studi non ha prodotto soltanto pubblicazioni celebrative o d'occasione ma ha

portato alla luce anche significativi lavori di ricerca in grado di documentare

ancora una volta come il conflitto del 1915-1918 si incastoni nel cuore

dell'identità italiana e della sua riflessione storiografica. Tra questi studi è da

segnalare per la sua rilevanza il lavoro di Gian Enrico Rusconi, L'azzardo del

1915. Come l'Italia decide la sua guerra con il quale l'autore ha affrontato

il cruciale problema dei meccanismi e delle dinamiche che determinarono

l'ingresso dell'Italia nel conflitto mondiale. Allungo, tormentato, imbarazzato

e insieme spregiudicato processo decisionale che segnò la partecipazione

italiana al conflitto europeo, dieci mesi dopo che era scoppiato, nel maggio del

1915 è, infatti, dedicato 10 studio del docente torinese, già autore diversi anni

fa di Un bel volume dedicato alla congiuntura internazionale dell'estate del

1914 (Rischio 1914, Bologna, Il Mulino, 1987). Nei sei densi capitoli del libro,incentrati sulla dinamica politica e diplomatica nonché sul nesso tra la politica

interna italiana e la politica internazionale, viene ricostruito 10 sperico1ato

negoziato diplomatico destinato a sfociare nell'azzardo dell'ingresso dell'Italia

nella prima guerra mondiale. In effetti, l'autore evidenzia come la crisi del

1915 mise allo scoperto alcuni nodi prob1ematici, dei veri e propri dilemmi,dell'Italia liberale: dall'insicurezza nell'identificare i grandi interessi geopolitici

internazionali all'opportunità o necessità di rompere precedenti alleanze,

dalla forzatura dall'alto per vincere contrasti interni fino all'inadeguatezza

strategico-militare di fronte alla guerra. Inoltre, secondo Rusconi come riflessoa questa condizione si venne a creare nella psicologia italiana la "sindrome

1915" destinata a ripresentarsi nuovamente in modo drammatico nella

congiuntura 1939-1940: «L'angoscia d'essere tagliati fuori dalla grande politica

internazionale, la rimessa in discussione delle alleanze con la prospettiva

dell'accusa infamante di "tradimento" e la consapevolezza della conflittualità

interna sono gli ingredienti della "sindrome del 1915" che investe il gruppo

dirigente italiano. In tutto questo la questione dell'irredentismo gioca un ruolo

relativamente subordinato. L'irredentismo tanto è essenziale sul piano della

giustificazione idealequanto è poco

determinante nella dinamica decisionale.La funzione primaria dell'irredentismo è la 1egittimazione popolare di una

scelta governativa che risponde ad altri criteri" (p. 185).

Se il lavoro di Gian Enrico Rusconi riprende e rivisita i paradigmi classici

della storia politica e diplomatica per ripercorrere i l processo decisionale

che portò l'Italia dentro la "catastrofe originaria" del secolo passato, il lavoro

di Angelo Ventrone, Piccola storia della grande guerra, allarga 10 sguardo

alla dimensione soggettiva ed esistenziale dell'esperienza dell'orrore e del

non-senso della guerra. Pur trattandosi di un lavoro di sintesi, il saggio di

Ventrone mantiene un notevole spessore interpretativo offrendo un suggestivo

affresco "a tutto tondo" del primo conflitto mondiale; saldando la tradizionale

dimensione politico-diplomatica con quella socio-economica ed intellettuale,

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senza trascurare i caratteri innovativi della "guerra totale" derivanti dal

rapporto tra guerra e società della tecnica, nei cinque capitoli del libro l'autore

fornisce un quadro complessivo del primo conflitto mondiale con particolare

attenzione alle vicende italiane: dopo aver illustrato le origini strutturali del

conflitto connesse all'avvento della società di massa (dalla crisi dell'egemoniaeuropea all'impatto della tecnologia sulla vita quotidiana, dalle trasformazioni

sociali al processo di secolarizzazione) Ventrone nel secondo capitolo

ricostruisce il fallimento del "concerto europeo" che portò nell'estate del 1914

allo scoppio di un conflitto generalizzato; a questo proposito particolarmente

innovative sono le osservazioni sul ruolo decisivo assunto dalla comunicazione

tecnologica (telegrafo e telefono) nel condizionare ed imporre i ritmi della

crisi fino a farla precipitare nella spirale del conflitto mondiale. Lo scenario

della "guerra combattuta" dominato dalla "morte anonima" di massa e seriale

prodotta dall'impatto devastante della tecnologia è invece efficacementedescritto nelle pagine centrali del volume: il logoramento della vita di trincea,

l'uscita per l'assalto, le potenzialità distruttive della tecnologia bellica, la

repressione nell'esercito, i rapporti con la società civile e la vita nelle retrovie

presentano efficacemente nel loro insieme i tratti fondamentali della prima

"guerra totale" del XX secolo. Questo aspetto viene ripreso e sviluppato nel

capitolo dedicato al cosiddetto "fronte interno", la parte probabilmente più

riuscita ed originale del libro, nel quale l'autore evidenzia con lucidità la

valenza totalizzante del conflitto in termini di mobilitazione di risorse militari,

politiche, economiche, sociali ed ideologiche; in particolare, nel ricostruireil

noto processo di militarizzazione e nazionalizzazione della società innescato

dallo sforzo bellico, l'autore documenta la molteplicità di esperienze, progetti

ed iniziative a sfondo nazional-patriottico fiorite nel corso della prima guerra

mondiale le quali «non solo resero possibile immaginare la costruzione di un

sistema che anticipava alcuni caratteri fondamentali dei futuri regimi totalitari,

ma costituirono anche una ricchissima riserva a cui il regime fascista avrebbe

con facilità attinto per cercare di rendere permanente, definitiva, l'unità moraledella nazione raggiunta con la resistenza del Piave e il trionfo di Vittorio

Veneto» (p. 172). Altrettanto pregnanti risultano le riflessioni e gli stimoli che

Ventrone offre nel capitolo conclusivo dedicato alle conseguenze di lunga

durata prodotte dalla Grande guerra sulla cultura e la psicologia delle masse;

riprendendo temi e motivi di un fecondo filone di ricerca rivisitato di recente

dallo stesso Ventrone (La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenzapolitica, Donzelli, Roma, 2003) lo studioso infatti individua proprio nella prima

guerra mondiale il fattore scatenante di profonde trasformazioni nel rapporto

tra stato e società (dalla demonizzazione del nemico alla visione manichea della

lotta politica fino all'ampliamento del controllo repressivo dello stato), che

avrebbero finito per favorire la comparsa e poi l'arrivo al potere di movimenti

politici totalitari.Il carattere totalizzante del primo conflitto mondiale trova una significativa

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conferma anche in una recente monografia di Matteo Ermacora, Cantieri di

guerra. Il lavoro dei civili nelle retrovie del fronte italiano (1915-1918), ilprimo studio organico dedicato ai circa seicentocinquantamila operai civili

reclutati dall'esercito italiano nel corso della Grande guerra per lavorare nelle

retrovie del fronte e sottoposti al regime di militarizzazione. In effetti, l'intera"zona di guerra" diventò un enorme cantiere e le necessità belliche imposero

una fortissima accelerazione delle costruzioni infrastruttura i non solo verso

le prime linee ma anche nelle retrovie determinando una delle più rilevanti

ridislocazioni di risorse umane innescate dall'evento bellico. Nonostante le

notevoli dimensioni, il fenomeno di migliaia di operai impegnati durante

la guerra nella costruzione di linee difensive, strade, ponti, baraccamenti e

magazzini rappresenta una pagina di storia rimasta fino ad oggi sostanzialmente

ignorata che la pregevole ricerca di Ermacora contribuisce finalmente ad

illuminare. Nei sette capitoli in cui si articola la ricerca tornano alcuni deinodi centrali riguardanti il pervasivo sistema di irregimentazione che investì la

società italiana durante il conflitto; dalla mobilitazione e pianificazione dello

sforzo bellico (in virtù della creazione dell'apposito organismo preposto al

reclutamento degli "operai borghesi", il Segretariato generale per gli Affari

civili) passando attraverso il disciplinamento sociale degli operai e la deriva

autoritaria del mondo del lavoro, fino all'impiego di manodopera femminile

e minorile nei cantieri operai, il lavoro dello studioso friulano contribuisce ad

offrire uno spaccato significativo della società italiana nei quattro lunghi anni di

guerra: «Giovani e donne sostennero un importante ruolo tra fronte e retrovie;la loro presenza evidenzia come la Grande guerra possa essere definita a

pieno titolo "guerra totale", caratterizzata da una mobilitazione in grado di

rimodellare profondamente la struttura economica del paese, i ruoli sociali,

la stessa mentalità collettiva» Cp. 195), Ma la vicenda degli "operai borghesi"

appare particolarmente significativa anche alla luce dei mutamenti introdotti

dal conflitto nelle modalità migratorie dei lavoratori, aprendo nuove frontiere

nella storiografia relativa al fenomeno migratorio; se da un lato infatti l'arresto

dei tradizionali flussi migratori verso l'estero e la creazione del fronte come

nuovo "orizzonte migratorio" per i lavoratori delle regioni meridionali innescò

una fortissima mobilità interna, dall'altro lato il tentativo di disciplinare i flussi

migratori e di gestire le problematiche dell'impiego degli operai al fronte

da parte del Segretariato generale contribuì alla trasformazione dell'opzione

migratoria da evento individuale a movimento organizzato.

In conclusione, la vicenda delle "maestranze borghesi" ricostruita da Matteo

Ermacora, insieme ai saggi di Gian Enrico Rusconi ed Angelo Ventrone, offrono

nel loro insieme un nuovo e stimolante contributo all'interno del dibattito sul

carattere "moderno" e di rifondazione nazionale della Grande Guerra destinata

a creare, con il suo altissimo prezzo di sangue, «un enorme potenziale di

identificazione nazionale».

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Recensioni

G. MAGNANINI, Un borghese socialista. FrancescoLolli 1885-1925, Tecnograf,

Reggio Emilia 2005, pp. 160, 12 euroNegli ultimi anni sono venuti dalla storiografia locale diversi segnali di un rinnovato

interesse per figure non di primo piano del socialismo reggiano d'inizio novecento lacui memoria, spesso trascurata dalla storiografia maggiore del movimento socialista,era rimasta relegata entro i ristretti confini della comunità di appartenenza. Il volume diGiannetto Magnanini dedicato a Francesco Lolli, dunque, aggiunge un nuovo tasselload un filone storiografico che, rifuggendo da uno sterile agiografismo, contribuiscead illuminare di nuova luce la galleria dei personaggi artefici del socialismoprampoliniano.

Nato a Vezzano sul Crostolo nel 1885 da un'antica famiglia della borghesia dellamontagna reggiana e formatosi nell'ambiente culturale del tardo positivismo, FrancescoLolli si presenta come un uomo principalmente d'azione, orientato alla realizzazionedel processo emancipatorio di classe e della comunità di appartenenza; aderentegiovanissimo al partito socialista, rivestì un ruolo pubblico di rilievo nelle vicendepolitico-amministrative locali contribuendo al consolidamento del "modello reggiano"nei primi lustri del novecento. Peraltro, se «nelle sue prese di posizione potevasembrare prevalentemente un tecnico, una figura di rincalzo», - come ha scritto FrancoBojardi nell'introduzione - dalla biografia emerge il ruolo «fermamente prampolinianodi Lolli nei settori della politica, della casa e della previdenza sociale, della sanità e dellavoro»; in effetti, tenendo insieme il piano della rievocazione biografica con quellodelle principali vicende politico-amministrative reggiane, Magnanini ricostruisce lapersonalità e l'attività politica di una figura destinata ad attuare nella prassi del governo

locale l'approccio gradualistico e pragmatico del riformismo reggiano.Avvocato, appartenente all'entourage dei massimi dirigenti del socialismo reggiano,Lolli fu iniziato alla carriera politica in occasione delle elezioni del luglio 1910 quandovenne eletto consigliere provinciale nelle fila del partito socialista; l'anno successivoentrò nella «giunta degli avvocati» del sindaco di Reggio, Luigi Roversi, ed a seguitodella rielezione del 1914 fu riconfermato assessore. Mentre si delineava la rotturaall'interno del PS! tra massimalisti e riformisti, nel corso della Grande guerra il giovaneavvocato vezzanese fu richiamato alle armi, venendo impegnato in zona di guerradapprima in Trentino (in Val di Ledro) e quindi, nella primavera del 1918, sul frontefrancese nell'area della Marna. Rientrato a Reggio dopo la conclusione del conflitto,Francesco Lolli continuò un'intensa attività amministrativa nel capoluogo rivestendodiversi incarichi (membro della commissione per i ricorsi contro le tasse sugli esercizi,

segretario della deputazione provinciale e di membro del comitato provincialeper le case popolari); nel contempo, reinterpretando nell-a prassi politica socialistal'archetipo liberaI-borghese dell'investitura pubblica del proprietario nella comunitàdi appartenenza, Lolli fu eletto sindaco a Vezzano in occasione della consultazioneelettorale dell'ottobre del 1920, allorché i socialisti conquistarono per la prima volta il

comune. Tuttavia, la parabola del «borghese socialista» conobbe una svolta nel climadi violenze e di attacco alle amministrazioni socialiste del convulso pr imo dopoguerra:aggredito e bastonato da una squadra fascista nel giugno del 1921, Lolli continuò asvolgere la sua funzione di sindaco fino all'estate del 1922 quando, nel quadro didecomposizione delle organizzazioni socialiste e di appoggio (o di benevola neutralità)delle forze dell'ordine alla violenza fascista, fu costretto a rassegnare le dimissioni. Eral'epilogo della vicenda politica del giovane avvocato socialista il quale, minato nellasalute dall 'aggressione subita, dopo aver assunto la direzione dell'Istituto di Previdenzasociale a Reggio, Modena e Parma, morì repentinamente nel luglio del 1925.

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Nel ripercorrere le tappe principali del percorso biografico dell 'esponente socialista,Magnanini si sofferma in particolare sulla partecipazione di Lolli alla Grande guerra.In effetti, l'indagine ha trovato un punto di partenza privilegiato nella possibilità diutilizzare le lettere inviate dal fronte alla famiglia nel biennio 1917-1918, circostanza cheha permesso di restituire la posizione di Lolli nel suo peculiare contesto di «borghesesocialista». Fedele interprete della linea socialista del «non aderire e non sabotare», nel

suo carteggio Lolli non palesa tracce di quell'acceso nazionalismo diffuso presso largaparte degli ufficiali, evidenziando invece una prevalente attenzione alla sfera privataed in particolare alla cura del patrimonio familiare di Montalto, gestito tramite una fittacorrispondenza con le donne della famiglia; dalla documentazione emerge lo spaccatodi un immaginario familiare dominato da una concezione mezzadrile segnata da unradicato senso di responsabilità sociale e fortemente permeata dell'umanitarismosocialista.

Ma l'episodio più noto Ce drammaticamente decisivo) della biografia di FrancescoLolli rimane l'aggressione subita nell'estate del 1921 ad opera di una squadrafascista e sulla cui vicenda Magnanini si sofferma nelle ultime pagine del volume; in

particolare, l'autore ricostruisce l'ambiente edil

contesto politico-amministrativo incui maturò l'aggressione al «borghese socialista», preceduta da intimidazioni e da una

torbida campagna di stampa volta ad attaccare il sindaco per alcune discusse scelteamministrative (l'aumento delle «tasse sulla proprietà» e l'affidamento del servizioannonario ad una cooperativa socialista). Ricostruendo la vicenda Magnanini, oltrea suggerire analogie e punti di contatto con il delitto Matteotti, evidenzia l'onestàintellettuale e la ferma coerenza di Lolli con le posizioni socialiste, distinguendolo cosìda altre figure del socialismo reggiano d'estrazione borghese, come Alberto Borcianie Adelmo Borettini, destinate ad essere attratte nell'orbita nazional-fascista nel corsodel primo dopoguerra.

Suggestivi infine l'apparato fotografico e l'appendice con l'analisi grafologica dellascrittura di Lolli che narrano con immediatezza gli aspetti privati e pubblici di una figura

per diversi aspetti emblematica del socialismo riformista reggiano d'inizio secolo.Alberto Ferraboschi

M. STORCHI Ca cura di), Venti mesiper la libertà. La guerra di Liberazione dalCusna al Po, Bertani editore, Cavriago 2005, 25 euro

Non vi è periodo della nostra vicenda di popolo e di nazione che sia stato percorso,esplorato e descritto come e quanto quel terribile quinquennio della seconda guerramondiale che va dal 1940 al 1945 e che coincide con la fase più eroica della Resistenzaantifascista.

Prima in chiave celebrativa e poi con più smagata riflessione critica, storiografidi vaglia o scrittori i m p r ~ W i s a t i , comandanti o fanti di quel singolare esercito allamacchia che fu il Corpo Volontari della Libertà, hanno consegnato a futura memoriaun'enorme mole di testimonianze, di documenti, di volumi e di diari che da soliformano una ricca biblioteca. A riempirne gli scaffali hanno concorso, in notevolemisura, le estese ricerche sulla Resistenza reggiana, tra le quali spicca ed eccelle laponderosa opera di Guerrino Franzini. In essa sembra narrato ed esaurito ogni più

minuto dettaglio sulla lotta di liberazione. Eppure, suolo e sottosuolo di quel periodo

non è stato ancor tutto scavato. Nel corso del sessantennio nuovi studi, altri saggi,altri interventi hanno proposto nuovi aspetti e nuove fasi del pianeta Resistenza:valga a conferma il prezioso contributo di Teresa Vergalli Annuska con le sue Storiedi una staffetta partigiana e valga soprattutto la più importante impresa editoriale

del 2005 che va sotto il titolo Venti mesi per la Libertà. Si tratta di un volume di 430pagine che si impone a prima vista per il pregevole impianto tipografico, per la ricca

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documentazione fotografica, per l'originale impaginazione, merito dell'editore Bertanidi Cavriago.

Se poi si considera il contenuto, non è certo con una modesta recensione che se ne

può rendere l'ampiezza dei temi e delle informazioni. Basti dire che all'elaborazionedei testi hanno concorso, nell'ordine: Antonio Zambonelli, Michele Bellelli, Glauco

Bertani, Giuseppe Giovanelli, Lella Vinsani ed Enrico Galavotti.Questa serie di autori e la successiva appendice che comprende memorie inedite e

le vicende resistenziali riassunte in ordine cronologico, sono già in grado di anticipareil disegno di vasto respiro che costituisce una nuova e più aggiornata "Summa» dellastoriografia reggiana su quei venti mesi di fame, di dolore e di sangue. In essa sirivelano "le basi della nostra identità nazionale e democratica» come afferma GiannettoMagnanini nella sua illuminante prefazione; basi costruite non solo con le armi inpugno ma fin dai lontani primordi della Resistenza antifascista, nella clandestinità,nelle carceri, nell'esilio. Inoltre, nuova luce viene proiettata sulla deportazione dimilitari e civili italiani nei lager nazisti; sulle leggi razziali e sul calvario degli Ebrei;sui feroci eccidi perpetrati dai nazifascisti, tanto più estesi e feroci, quanto più andavacrescendo la presenza di comunisti, socialisti e cattolici nelle file della resistenza, ivicompresa la partecipazione oscura ed eroica delle donne in prima linea o nelle retrovie.Vi sono capitoli che rimandano a vicende e protagonisti in parte noti. Altri, invece,descrivono ambienti e situazioni inedite, come i crudeli "retro scena» della occupazione

nazista dei centri di potere a Reggio, con la sanguinosa complicità delle Brigate nere apartire dalla strage dei Fratelli Cervi .. C'è infine una sezione del volume che in modo

spregiudicato e veritiero affronta "Memorie dolore e vendette» che hanno fatto seguitoal 25 aprile 1945. Con quella assenza di rettorica celebrativa, con quel rigorosodistacco che costituisce la novità più esemplare del discorso storico sui venti mesi per

la libertà, l'rsToREco non ha esitato ad affrontare la vessata questione delle vendette

consumate nell'immediato dopoguerra, ancora rovente di furore, di disperazione, dimemorie disumane che hanno indotto alcuni irriducibili e isolati partigiani a sparare

ancora, a far giustizia sommaria nei casi in cui la criminalità nemica sembrava rimanereimpunita. Vedi in proposito quante stragi di civili rimasero segrete per decenni, nel

famigerato armadio della vergogna. E per concludere queste nostre note a margine,riportiamo una frase di Massimo Storchi che con efficacia riassume il senso e lo scopo

della nuova impresa storiografica sulla Resistenza nel Reggiano: un'opera a più voci"che entri finalmente a far parte di quella storia condivisa di cui abbiamo bisognocome comunità e come cittadini perché nessuno, per misero calcolo politico o per

desiderio di rivalsa, possa negare o ridiscutere un percorso storico che ha costruitola democrazia del nostro Paese». Il volume dell'rsToREco può degnamente adempiere

questo mandato se verrà accolto e letto soprattutto da giovani e meno giovani che diResistenza hanno udito parlare in modo reticente o fazioso o che addirittura hanno

rimosso la cognizione stessa di quel nostro secondo Risorgimento.

Renzo Barazzoni

M. DEL BUE, L'apostolo e il ferroviere. Vite parallele di Camillo Prampolini eGiuseppe Menada, Aliberti, Reggio Emilia 2005, pp. 320, 16 euro

Quello delle "vite parallele" costituisce un luogo classico della storiografia, con

illustri ascendenze letterarie fin dai tempi di Plutarco. Anche e soprattutto quando

ci troviamo di fronte a personalità molto diverse tra loro, come nel caso di CamilloPrampolini e di Giuseppe Menada, due figure destinate a segnare in profondità lavicenda storica reggiana dell'età contemporanea. Proprio a questi protagonisti della

nascita del "mondo nuovo" a Reggio Emilia, autentiche incarnazioni del socialismoriformista e del moderno capitalismo industriale, Mauro Del Bue ha dedicato il suo

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ultimo volume, individuando nei due percorsi biografici Ce nel loro controversorapporto) un filo conduttore per rileggere la vicenda storica reggiana tra la finedell'Ottocento e i primi decenni del Novecento.

A partire da un comune background borghese, il tracciato di vita di Menada ePrampolini prese precocemente direttrici differenti. Camillo Prampolini 0859-1930),

nato da una famiglia della buona borghesia reggiana, frequentando le aule della facoltàdi Giurisprudenza dell'Università di Bologna e le lezioni di Enrico Ferri sotto l'influssopositivista approdò al socialismo evoluzionista e riformista. Giuseppe Menada 0858-1931), di origini piemontesi e borghesi, si presenta invece come un outsider impegnato

in società di gestioni ferroviarie nell'Italia ottocentesca che muoveva i primi incertipassi verso l'industrializzazione. Nonostante la diversità degli itinerari biografici,Prampolini e Menada avrebbero incrociato i loro destini a Reggio Emilia nel tardoOttocento quando parteciparono attivamente, sia pure con compiti e ruoli diversi, alprocesso di modernizzazione politica e socio-economica della comunità locale. Se,infatti, Prampolini fin dagli anni '80 attraverso l'imponente processo di acculturazionepolitica dei ceti subalterni delle campagne reggiane si impose come leader carismaticodell'emergente partito socialista e del movimento cooperativo, Menada, ben inseritonelle reti creditizie che sorreggevano le iniziative industriali, già sul finire del secolosi distinse per il sicuro intuito imprenditoriale che lo avrebbe portato nel 1901 aimpiantare nel cuore della "provincia contadina" il primo moderno stabilimentoindustriale: la fonderia Righi, trasformatasi nel 1904 in Officine meccaniche reggiane.

Nel frattempo, con l'avvento del nuovo secolo e la conquista da parte delle forzesocialiste del Comune di Reggio, Menada aveva iniziato un'altra "carriera", impegnandosinelle vicende politico-amministrative locali come grande sponsor della "Grandearmata", l'associazione clerico-moderata che sconfisse i socialisti nei confronti elettoralidel biennio 1904-1905; si apre così la stagione della dura sfida politica e ideologica0900-1909) durante la quale Prampolini e Menada si fronteggiarono non solo peril controllo del governo locale ma anche per la costruzione della linea ferroviaria

Reggio-Ciano, la prima ferrovia costruita da una cooperativa. Con la sconfitta dellacoalizione antisocialista e l'abbandono della vita politica attiva di Menada si schiude ilperiodo 1909-1920 durante il quale si instaurò una sorta di concordia discors tra i dueche portò l'imprenditore piemontese a collaborare attivamente con Prampolini nellacreazione di importanti e innovative attività socio-assistenziali, tra le quali la Croceverde e l'Istituto Autonomo delle case popolari. La terza e ultima fase è la stagionedella "discordia", segnata dall'eredità politica del turbolento primo dopoguerra e daldiverso epilogo politico dei due protagonisti, accomunati tuttavia «negli ultimi annidi vita da un calvario che li vedrà morire a soli sette mesi di distanza l'uno dall'altro»Cp. 296); infatti, il caos politico del dopoguerra e l'eclissi del socialismo riformistacoincisero con l'abbandono di Reggio da parte del leader socialista il quale, pur esclusooramai dall'attività politica, negli anni del tramonto dell'esilio milanese mantenne viva

la sua fede nella religiosità laica incarnata dagli ideali dell'umanitarismo socialista;per contro, con l'ascesa al potere del fascismo Menada trovò la propria legittimazionealla guida del governo locale, assurgendo agli onori della vita politico-amministrativareggiana nelle vesti di sindaco Ce poi di podestà) dal 1925 fino al 1929, quando sidimise per motivi di salute.

Scritto con scorrevolezza e con sostenuto ritmo narrativo, il volume di Mauro DelBue nel ricostruire le traiettorie di vita dell'''apostolo'' e del "ferroviere", in dieci densicapitoli intreccia il vissuto quotidiano e il ruolo pubblico di due personalità che, aldi là delle divergenze ideologiche, politiche e professionali, appaiono accomunateda significative affinità. In effetti, l'autore rileva come sia possibile individuare inentrambi i protagonisti la capacità d'intuire con grande anticipo orientamenti esviluppi successivi, mobilitando le energie modernizzanti della società reggiana difine Ottocento: «La particolare intelligenza dei due stava proprio nella loro capacitàdi prevedere il futuro: Prampolini aveva individuato nella cooperazione un'occasione

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concreta per la costruzione di una nuova società senza la violenza e col riformismo,Menada sapeva che la ferrovia sarebbe stata fondamentale per pervenire ad una societàindustriale moderna» Cp. 131). In effetti, al di là di questa lungimiranza, l'essenzaprofonda che unisce le figure di Prampolini e Menada è rinvenibile nella sostanzialeestraneità dei due uomini all'universo ideologico e culturale delle classi dirigenti della

Reggio di fine Ottocento, fondato sulla conservazione dell'assetto politico e socioeconomico ed ascrivibile essenzialmente al patrimonio culturale liberaI-moderato dellaborghesia agraria e professionale locale. Se, infatti, il giovane Prampolini dei primi anni

Ottanta entrò a far parte di "quell'ambiente da bohémien [, ..1di giovani scapestrati daiquali la borghesia reggiana si teneva alla lontana, temendoli come fossero banditi" Cp.

32), l'imprenditore Menada, di origine "forestiera» e con un passato sui generis lontanodalle élites dirigenti tradizionali, non mancò di suscitare diffidenze e cauti sospettiall'interno del mondo nobiliar-borghese reggiano, egemonizzato dal notabilato dellaterra e delle professioni. Nel contempo, il rapporto tra Prampolini e Menada, al di làdelle diverse opzioni politiche, affondava le sue radici nel comune richiamo ad una

cultura del progresso e ad una concezione modernizzante basata su un pragmatismoalieno da astrazioni dottrinarie, destinato a tradursi in un'innovativa progettualità sulterreno politico e socio-economico. In questo senso, la cifra identitaria che accomuna

un "imprenditore della politica» del primo socialismo ed un "imprenditore prestatoalla politica» del nascente capitalismo industriale appare identificabile in un comune

habitus mentale modernizzante destinato a trasfigurare Camillo Prampolini e Giuseppe

Menada in due vere e proprie icone della trasformazione politica e socio-economicadell'Italia d'inizio Novecento.

Alberto Ferraboschi

E. CAPPELLINI, Memorie di storia e di vita, Guiglia Editore, Modena 2004, pp.

148, 16,00 euro

" .. senza la memoria e il riflesso del passato sarebbe come camminare al buio".Inizia con questa riflessione il libro di Emidia Cappellini Memorie di storia e di vita: unviaggio difficile e faticoso nella memoria della sua storia e di quant i le sono stati vicininell'attraversare il '900, secolo segnato dalla violenza del fascismo, dalla guerra e dallesperanze di pace, dall'impegno nella resistenza e dai lutti, dal dopoguerra con "il librodei conti del fornaio sempre gonfio» fino ai giorni nostri. Ricordare comporta sempre

un grande sforzo, l'autrice si rammarica di non aver tenuto un diario, come le avevaspesso, suggerito la madre: allora lo riteneva inutile, ora le sarebbe stato di grande

aiuto. E comunque fortunata, Emidia, ha ancora una buona memoria e ha voglia diraccontare, per non dimenticare e perché non si dimentichi ciò che è successo nellasua Bagnolo e nelle campagne emiliane, casa per casa. E poi, alcuni avvenimentisegnano indelebilmente l'esistenza ed è impossibile dimenticarli.

Comincia così a raccontare il viaggio della sua vita in una famiglia di antifascisti inun'Italia dove invece il fascismo cominciava a fare la voce grossa.

" .. quando sarai Più grande .. capirai" le disse un giorno il padre dopo aver gettatovia il ritratto del duce che Emidia, bambina, aveva vinto a scuola componendo unbel tema. Era una bambina, non capiva, il suo mondo erano i compiti, i giochi con leamiche, ma anche il lavoro fatto nei campi con la madre ed i fratelli, che non le pesava

però più di tanto.Poi la guerra, i fratelli lontani, la presa di coscienza e la scelta di collaborare con

la resistenza, il coraggio di sfidare la paura e la paura che il suo coraggio venisse

scoperto, anche dai propri familiari. L'incontro con l'amore, quello bello, quello chesconvolge il cuore per la prima volta. La guerra però è crudele e questo amore non

glielo lascia vivere, perché a San Valentino può esserci una rappresaglia e possono

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morire tanti giovani e fra di loro anche colui che le fa battere il cuore. In guerrasuccede.

Arriva il 25 aprile, la "Resurrezione" come la chiama lei. È felice, Emidia, ma sa che

non è finita, c'è la ricostruzione, c'è ancora molto da lavorare. E non si tira di certoindietro, continua la sua attività nell'uD! e nel partito comunista. Si riunisce la famiglia,ma la vita è ancora molto dura e qualcuno vive disperatamente certe situazionid'incertezza. Altri lutti, stavolta che ti strappano il cuore perché si fatica ad accettarela morte di un fratello stanco di vivere. Ma si ricomincia ancora. Fino i giorni nostri,quando scopre che lo stesso partito a cui lei ha dedicato la sua vita aveva espulso lasua famiglia dopo che essa gli aveva rivolto accuse, giuste o sbagliate che fossero,per non aver saputo evitare la morte del giovane fratello. Forse è delusa, Emidia,forse è anche arrabbiata, ma non lo trasmette nel suo racconto. lo la immagino,questa signora emiliana, bella, sicura, determinata, una di quelle donne che hanno

uno spiccato senso del dovere. Nonostante la vita non sia stata gentile con lei e nonle sia nemmeno stato riconosciuto il suo impegno nella Resistenza, nelle sue memorienon c'è una sola parola di rimpianto per quello che ha fatto.

La lettura scivola via ed il racconto così preciso nei passaggi cronologici e così riccodi particolari non trasmette angoscia e amarezza per tutto ciò che in esso è descritto,ma il coraggio, la fermezza e la capacità di affrontare consapevolmente gli eventi chehanno scritto le pagine più nere della storia d'Italia degli ultimi anni.

Anna Fava

G. AMAINI, La battaglia di Fabbrico: 26-27 ebbraio 1945, La Rapida, Verona

2006, pp. 131, 15,00 euro

Molti libri, articoli, saggi e anche polemiche hanno da sempre accompagnato iricordi e le ricostruzioni della battaglia di Fabbrico e, nonostante l'interesse suscitato,

alcuni avvenimenti di quei giorni erano rimasti fino ad oggi poco conosciuti, se noninediti.Arnaini chiarisce in questo libro che, strano a dirsi, è il primo mai scritto dedicato

esclusivamente ed espressamente alla battaglia di Fabbrico, alcuni di questi puntivalendosi dei risultati di un'ampia ricerca svolta sia in loea, negli archivi comunali e diISTORECO, sia in Germania dove ha potuto consultare gli archivi militari tedeschi. Cosìoltre agli eventi, sostanzialmente noti, del pomeriggio del 27 febbraio con lo scontro incampo aperto fra fascisti e partigiani, emergono anche le trattative condotte da GianniLandini e da don Igino Artoni il giorno successivo, nella sede del Platzkommandantur,per convincere il maggiore Frase a non ordinare a sua volta una rappresaglia pervendicare i tre soldati tedeschi uccisi in due giorni. Altro inedito portato alla lucedall'autore sono proprio i nomi e le mansioni dei militari della Wehrmacht.

Viene fatta chiarezza anche sul numero esatto dei morti, fonte in passato di vivacipolemiche. Diciotto in totale, fra i quali un civile, tre partigiani, tre tedeschi e undicifascisti. Di questi ultimi, soprattutto per il giorno 27, si evidenzia la giovanissima età ela conseguente inesperienza militare.

ArIche gli antefatti che portarono all'imboscata del giorno 26 e al combattimentodel 27 sono ampiamente descritti; ed anzi l'autore li ritiene quasi parte integrante deglieventi di quei due giorni.

Né sono stati dimenticati i testimoni oculari della "giornata più lunga di Fabbrico":l'introduzione al volume è di Agostino Nasi Cesare che il 27 febbraio comandò il

distaccamento sappista di Rolo che sostenne l'urto principale dell'azione partigiana.In appendice al volume poi viene riproposta la ricerca promossa dalla scuola

elementare di Fabbrico nell'anno scolastico 1979/80 aventecome

obiettivonon

solola famosa battaglia, ma Resistenza di un paese intero.Michele Bellelli

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R. ROBIN, IJantasmi della storia. Il passato europeo e le trappole della memoria,

Ombre corte, Verona 2005, pp. 175 pagine, 16,50 euro

Questo libro offre una pluralità ben composta di idee a proposito del vero sanctasanctommdella società contemporanea: la memoria. Robin, Autricecanadesesconosciutain Italia, avvicina questo tema, declinandolo attraverso la giustapposizione di diversediscipline (storiografia, scienze sociali, estetica, critica letteraria), evidenziandoneanzitutto le difficoltà e i rischi: «lungi dal voler mettere in discussione la legittimità delnostro rapporto con il passato, è giunto tuttavia il momento di mostrare le ambiguitàe le trappole della memoria nell'epoca in cui essa è assunta a moda, prendendo inconsiderazione il difficile rapporto che le nostre società intrattengono con il propriopassato e i pericoli di [una] memoria satura, una memoria strumentalizzata, rivista infunzione delle necessità del momento, che ha i tratti di una forma distorta dell'oblio"(11, corsivo nel testo).

Ecco il pericolo di annegare nel mare di troppe informazioni, impressioni superficiali,che segnano questa «era del testimone". Proprio mentre la memoria si apprestava a

divenire di moda, gli ultimi decenni sono stati quelli del revisionismo montante, inun'Europa con sempre meno risorse per resistergli. Robin, oltre a citare la parità pretesaper i ragazzi di Salò o il passato sconveniente del colonialismo francese, si concentrasoprattutto sul caso tedesco, vero paradigma della progressiva «vittimizzazione" che

quella società (già nazista) si è scelta. Dopo lunghi anni di silenzio, quando il passatosi presenta di nuovo, esso viene riletto e travolto dal presente. Si tenga anche conto

che, ormai già da diverso tempo, gli storici di professione «hanno perduto il monopolio

della parola sul passato, anche di quella specialistica. Quello dello storico non è che

uno dei discorsi che si mescolano nel vortice del discorso sociale sul passato" (24-25).Le società investite dal loro passato, con tutte le debite questioni della colpa che vanno

ad esso connesse, tendono a rielaborare (collettivamente, così come capita al singolo)gli eventi "sgradevoli", in modo da uscirne con un'immagine inigliore, annacquando

le responsabilità, innalzando a dovere universale e primario la pratica della pietàtout court. Così, ad esempio, tutti sono stati egualmente vittime delle "sofferenze"causate dalla guerra. A loro volta la memoria delle guerre, in primis quella delle guerrecivili, conosce il fenomeno catastrofico dell'equiparazione forzata degli opposti. Adesempio, la guerra di Spagna «perde così la sua caratteristica di guerra fra fascismo eantifascismo, per diventare una guerra fra fascismo e comunismo, e Franco appare più

come il visionario che aveva previsto, ben prima di ogni altro, la vera sfida dell'epoca"(15).

La Germania ha visto l'istituzione di un unicum astorico, senza più poter sostenereil peso di un discrimine fra le responsabilità. Sulla «storia della memoria tedesca" hannosenza dubbio pesato le politiche ed i gesti di Adenauer, di Brandt e di Schroeder, cosìcome la via giudiziaria alla memoria (il processo Eichmann, i processi di Francofortenegli anni Sessanta), ma non vanno dimenticati anche il movimento studentesco,nonché la produzioni culturali (si pensi ad Heimat, del 1984, vero manifesto control'onnipresenza hollywoodiana nella memoria collettiva e difesa un po ' nostalgica dellavita premoderna). Volendo sintetizzare: quale la via tedesca per divenire un "paesenormale"? Bisogna assumere il passato o buttarlo via del tutto? La caduta del Muro,poi, ha rimescolato tutte le carte. Ecco raccontare (tributo postumo alla propaganda diGoebbels) i crimini dei liberatori: gli stupri dell'Armata Rossa a Berlino, i 400.000 raidaerei, simbolo dell'indifferenza alleata. Non più solo Auschwitz come nome-simbolo,ma anche, e in sostanza alla pari, Stalingrado e Dresda.

Molto opportuni i riferimenti assunti dalla Robin: noi qui vogliamo ricordarnealmeno due. Anzitutto, I. Kertész, nobel e sopravissuto alla Shoah, che si è chiesto:

a chi appartiene Auschwitz? Lo scrittore ungherese sferza il conformismo ed ilsentimentalismo di una memoria ormai apertamente kitsch (La vita è bella). Egli stesso,però, non si nasconde le complicazioni proprie al passare del tempo: per il futuro

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possiamo aspettarci ad un tempo rappresentazioni innovatrici e rappresentazioni disemplice cattivo gusto. È già postmemoria.

Il secondo esempio che vogliamo ricordare è il recente romanzo di G. Grass, Ilpasso del gambero (2002), nel quale si racconta di una nave, carica di 7000 profughidai territori orientali del Reich, in fuga dall'Armata Rossa, e colpita da un sottomarino

sovietico. Grass riesce a mostrare la stratificazione progressiva delle mentalità dellediverse generazioni, esprimendo - almeno a detta di Robin - questa "morale": ..lamemoria è un fenomeno complesso e occorre diverso tempo prima che si possa

scrivere "la vera storia" del passato L .] e proprio per questo è necessario dar voce aidiversi punti di vista» (70).

La seconda parte del libro è dedicata alla controversia estetica sulla ..rappresentabilità»dell'evento passato. Come è ovvio, ci riferiamo (ma non solo) alla Shoah. Robindedica un saggio a Berlino, vero cantiere della rammemorazione (con Benjamin).Essendo che la memoria è naturalmente legata ad uno spazio, ed essendo che i nazistihanno cercato e sono, almeno in parte, riusciti a sottrarre alla memoria i luoghi dellosterminio, aprendo all'alternativa terribile fra le rovine ed il vuoto (ossia, la mortedella stessa memoria), la questione è, allora, quella ..di dar corpo all'assenza, più che

di rendere presente ciò che dovrebbe sostituire quell'assenza» (89). In altri termini,in un'epoca di memoria satura, ma che dice poco o nulla, il problema è capire ..se visiano, per tentare di trasmettere la memoria dolorosa, dei modi di rappresentazionealternativi, un fare altro rispetto ai pieni della rappresentazione, della fotografia, delsimulacro, del percorso pedagogico» (90). L'obiettivo è far emergere la parte d'ombra,sempre ricordandosi che l'indicibile non coincide di per sé con l'inesplicabile ol'inintelleggibile.

Robin si dedica ad illustrare i contro-monumenti, sorti a Berlino soprattutto, ma

anche altrove in Germania (ad esempio, il Memoriale contro il fascismo di Jochen

Gerz ad Amburgo). Si tratta di installazioni, spesso temporanee, che non sono statededicate all'evento in sé, ma al rapporto fra l'evento e la sua memoria. Si punta allora

sull'invisibilità, proprio per poter rendere visibile l'assenza. Altrimenti, ci si dedicaad esaltare una memoria di prossimità, come, ad esempio, nel voler ripercorrere lepersecuzioni antiebraiche quartiere per quartiere, vittima per vittima. Ciò nonostante,resta, alla fine, insoluta una questione di non poco conto: ..Un rapido giro d'orizzontedovrebbe essere sufficiente per convincerci di quanto sia difficile trovare un luogo

dove si stia costruendo realmente una "giusta memoria"» (147).Francesco Paolella

R. ROSSANDA, La ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino 2005, pp. 386,

18 euro

Il libro di Rossana Rossanda: è un libro complesso, con più chiavi di lettura e offreinnumerevoli spunti di riflessione. Qui si potranno cogliere solo alcuni aspetti di unracconto di vita e di un percorso intellettuale e politico che si snoda nell'arco di oltreottant'anni.

L'autrice riesce a rendere in modo sapiente, coinvolgente, appassionante l'intreccioinscindibile che lega la sua vicenda personale e le sue scelte di vita con l'esperienzacollettiva del PCI e con le tragedie, le contraddizioni, le passioni, gli ideali che hanno

caratterizzato e resa irripetibile la storia del '900.Rossana Rossanda pone nell'introduzione la domanda cruciale cui il libro vuole

rispondere: ..Perché sei stata comunista, perché dici di esserlo, che intendi?»La risposta arriva, via via che il racconto si dipana, nel suo percorso di vita, nella

sua formazione, nelle vicende che la portano, nel dramma della guerra, da giovanestudentessa erroneamente convinta di essere al riparo dagli eventi rinchiusa nellebiblioteche di Milano e di Padova, a dover, nel '43, compiere una scelta, a entrare nella

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Resistenza, a scoprire il PCI. (<<Era allora la forza più decisa,.).I capitoli dedicati all'infanzia e all'adolescenza, alla formazione culturale ed umana,

agli studi universitari di Milano e di Padova, sino all'invevitabile incontro con laResistenza ed i comunisti, sono, ad avviso di chi scrive, tra i migliori del libro edoffrono una prima chiave per comprendere molte delle scelte future della Rossanda e

del suo particolare stare negli eventi.L'autrice nasce e passa i primi anni della vita in Istria, a Pola, in una famiglia della

media borghesia colta, aperta e tollerante. Il padre, notaio, tolstoiano ed anticlericalele ricorderà presto «Si può fare quello che si vuole, ma bisogna pagarne il prezzo».Viene educata all'amore per lo studio, la lettura, l'arte, in una città di frontiera ove

culture, usi, costumi, si mischiano, oscillando tra il perbenismo e la rigidità piccoloborghese e l'apertura e l'inquietudine intellettuale della gente di confine.

Nel '39, a causa della rovina della famiglia, Rossanda dovrà andare a vivere a Venezia,ospite degli zii, poi a Milano, ove coi genitori e la sorella conoscerà una dignitosapovertà, che non le peserà più di tanto: «Eravamo intellettuali e frequentavamo i libri.Questo bastava: la febbre di sapere, sapere davvero». All'Università di Milano studiacon docenti prestigiosi: con il suo amato maestro Banfi (,l'apritore delle porte,.), con

Marangoni, Manaresi, all'Università di Padova, «vera comunità di studenti e docenti,già politica, dei colti contro gli incolti». Incontra Concetto Marchesi, Valgimigli, Valeri.

Di quegli anni, gli anni della guerra e quelli che la preparano, dice che «era presa

più dal fragore della mente che della guerra», che tuttavia incombe ed arriverà, con ibombardamenti, i morti, lo sconvolgimento della vita quotidiana.

Leggere, conoscere, chiusa nelle biblioteche di Brera, del fondo Beltrami è anche

una difesa, un riparo dalla tragedia e dalle scelte che ormai incombono.E, comunque, prima e durante la guerra, troppo grande è la "zona grigia" degli

indifferenti, di chi non sa e non vuole sapere, di chi «bisogna che abbia l'acqua allagola per ammettere l'irreparabile». Eppure non erano fascisti.

Ma nel '39 non si chiederanno, lei e neppure le sue compagne e gli insegnanti,

perché una loro compagna ebrea non potrà tornare a scuola. «Sono le omissionii veri peccati mortali», scriverà in pagine importanti di riflessione sul contesto diinconsapevolezza, indifferenza, rifiuto della realtà, in cui ha potuto vivere, proliferareil fascismo, il nazismo sino all'immane tragedia della guerra mondiale.

Il crollo del regime (<<un afflosciarsi senza decenza,.) la coglie così quasi di sorpresa,furente, come «tradita dai silenzi altrui e dall'opacità mia». Le arrivano allora le primevoci non badogliane di Giustizia e Libertà, s'interroga su una frase sibillina del professorVincenzo Errante «Non giova l'ala a chi non abbia artigli»; poi arriverà 1'8 settembre, lanecessità di scegliere.È a quel punto che scopre i comunisti, «i più sicuri di quello che facevano», andrà

da Banfi, il suo maestro, anche lui comunista, a chiedere che fare. Banfi le farà leggereMarx, altri autori. Sarà una lettura febbrile. «Era una presa d'atto senza rinvii possibili,

era l'addio all'innocenza».Così entrerà nella Resistenza, col nome di Miranda e agirà con vari incarichi tra

Milano e Como.Di quella scelta dirà, senza enfasi: «Non me ne pento, non me ne vanto. lo mi ci

sono trovata. Se non ti tirano per i capelli, non vedi, non senti, non dici».Dalla presa di coscienza della Resistenza inizierà un percorso che la porterà, nel

fervore del dopoguerra e della ricostruzione, ad accettare per conto del PCI varieresponsabilità, e ad accettare di entrare come funzionaria nella federazione comunistamilanese, esperienza che le farà "scoprire" la classe operaia, le grandi fabbriche, lalotta di classe sino ad allora studiata sui libri di Marx.

Rossanda racconta con pagine appassionanti la «frenesia» e «l'allegria bellissima» del

primo dopoguerra a Milano, la vivacità della vita culturale, la scoperta della letteraturaeuropea, americana, russa, la sua passione per l'arte, i primi confronti e,scontri tradiverse idee della cultura e della politica: quella milanese e quella romana. E la Milano

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di Banfi e della Statale, di La Malfa, Scalfari, Vittorini e il "Politecnico" di Einaudi,Pavese, Calvino.

Sono gli anni in cui inizia la costruzione del Partito comunista nella democraziaappena conquistata, «una rete faticosa ma vivente», nascono le sezioni, le cellule,il lavoro verso le fabbriche, tra gli operai e le donne operaie «dal volto grigio, la

permanente ferrosa, i lineamenti tirati, sempre di corsa». E «una grande acculturazionecollettiva», un vero processo democratico e partecipato, che in tanti abbiamo vissutociò che ha fatto grande e diverso il peiMa arriveranno presto tempi più difficili, la rottura dell'unità antifascista, la

sconfitta del fronte Popolare del '48, l'isolamento del PCI, l'inizio della discriminazioneanticomunista. A Rossana Rossanda viene chiesto di «tirare la mitica Casa della Culturafuori dalle rovine del '48», di ricucire il rapporto con gli intellettuali, con i socialisti,con le diverse correnti culturali. La federazione le dà carta bianca e riuscirà, con l'aiutodi Musatti, Fortini, Banfi, Vittorini, Antonicelli, Calamandrei, e tanti altri a rifarne uncentro vivo e prestigioso di dibattito e produzione di idee, aperto alla cultura europeae internazionale.

Sono gli anni che preludono alla vittoria contro la legge truffa nelle elezioni del '53,gli anni in cui escono anche, dopo Le lettere dal carcere, i Quaderni dal Carcere diGramsci, che tanto peseranno nel determinare l'influenza del PCI sulla cultura italiana.E chi era giovane in quegli anni sa quanto Gramsci, le Lezioni sul fascismo abbiano

contato nella formazione culturale e politica di quella generazione.Ma sono anche gli anni dello zdanovismo e del realismo socialista in URSS, che

influenza anche il gruppo dirigente nazionale del PCI, ne rivela le contraddizioni e leambiguità.

E arriva il '56, il XX Congresso, i l rapporto di Kruscev, la destalinizzazione, l'Ungheria,la bufera che si scatena nel movimento comunista e nel PCI.

Qualcosa si spezza definitivamente nel rapporto di fiducia con l'uRss, con il gruppo

dirigente del PCI, per le cose non dette, le reticenze. Scrive Rossanda: "Il non dire fu

l'errore più grande» e, a proposito dell'Ungheria: "l'età dell'innocenza era finita; quelgiorno a 32 anni mi vennero i capelli bianchi».Dopo il '56 nascono anche le tante domande sul che fare. Andarsene? "Nessun

disastro dell'uRss cancellava le iniquità del capitalismo» e Rossanda sceglie di restarenel PCI e di battersi, nell'VIII Congresso e nei successivi, per il rinnovamento della sua

linea politica, nel solco della via italiana al socialismo.Nel '65 il severo Longo la convincerà, seppur recalcitrante, a trasferirsi a Roma per

dirigere la Commissione Culturale nazionale e sarà anche deputata al Parlamento.A Botteghe Oscure, sulle degenerazioni del socialismo reale, sull'invasione della

Cecoslovacchia, sul movimento studentesco del '68 e le lotte operaie nel '69, e nel

tentativo contrastato di rinnovare profondamente il lavoro culturale, maturerannoi primi profondi contrasti e l'inevitabile scontro politico e culturale con il gruppo

dirigente nazionale, che porterà lei e Lucio Magri, Aldo Natoli, Luigi Pintor, LucianaCastellina ad assumere posizioni radicalmente alternative, alla decisione di fondare i l"Manifesto" e alla conseguente radiazione dal partito.

Alla commissione culturale Rossanda prepara due importanti Convegni. Uno sulcapitalismo italiano, e l'altro su "Famiglia e società nell'analisi marxista" che fannomolto discutere, non sono apprezzati dal gruppo dirigente, ma rappresentano

indubbiamente uno sforzo di aggiornare svecchiare l'elaborazione culturale del PCI.

Personalmente ricordo che Luciana Castellina venne a presentare quello sulla famigliaalla Sezione Togliatti di via Guido da Castello in una sala affollata di giovani.

Nella ricostruzione, appassionante e dolorosa, del suo travagliato stare nel partitosino al triste distacco, molti sono gli episodi inediti ed i dirigenti del PCI che Rossandaci racconta spesso in una luce nuova (da Togliatti a Longo,da Ingrao ad Amendola,daPaietta a Napolitano, a Berlinguer).

Rivaluta, ad esempio Togliatti (<<cortese, conversevole e lontano») per la scelta

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di restare in Italia e di rifiutare la richiesta di Stalin di dirigere l'internazionale; loriaccredita «una volta accertato che il suo obiettivo non fu di rovesciare lo stato dellecose, ma di garantire la legittimità del conflitto».

Rossanda ripercorre il '900, la sua vita, il suo tormentato rapporto col PCI ricostruendosituazioni, eventi, contesti, personaggi in modo lucido e laico, con indubbia capacità

di analisi critica e di autoanalisi, riconoscendo onestamente le proprie ed altruicontraddizioni ed errori, ma anche con l'orgogliosa rivendicazione delle sue posizionie delle ragioni che l'hanno portata ad essere comunista e che la portano a confermareanche oggi quella scelta.

Nel suo eccezionale percorso politico-culturale e nei suoi tanti viaggi nelle capitalieuropee, nei paesi dell'Est, in URSS, a Cuba (ove incontra più volte Castro), Rossandaconosce i nomi più prestigiosi della politica e della cultura del '900, con loro discute esi confronta: Sartre e Althusser, J.S. Karol (suo compagno di vita dopo Rodolfo Banfi) ,Anna Akmatova, Semprun, Jorge Amado, Aragon, Colette, Marguerite Duras, Calvino,Pasolini, Einaudi, e tanti altri ancora.

Con alcuni intellettuali italiani costruirà legami e affinità intellettuali profonde, inparticolare con Foa, Trentin, Garavini, Reichlin, nelle interminabili discussioni dellenotti romane.

Il libro è denso di riflessioni anche su aspetti esistenziali (ad esempio, sul rapporto

con i l sentimento di maternità, sul modo di essere donna nella politica; confessa di non

avere mai capito il separatismo delle Commissioni femminili, di avere scoperto troppo

tardi le ragioni del femminismo): «L'essere donna non era l'essenziale ... Bisognavaridurre il danno. L'emancipazione allora era questo».

Ma gran parte del libro è dedicata all'evoluzione del contrastato rapporto, suo e delgruppo a lei vicino, con il PCI, sino alla radiazione. Una dolorosa amputazione, bisognariconoscerlo, perché sui temi della democrazia interna e della legittimità del dissensoe sul giudizio dell'irriformabilità dei regimi dell'est europeo Rossanda ed i compagni

del Manifesto sostennero allora posizioni giuste che si rivelano oggi lungimiranti ed

anticipatrici.Molti di noi che allora eravamo giovani e affascinati dalle loro idee e dalle loro

personalità, soffrimmo e subimmo la decisione di radiarli, ma, in nome di una malintesadifesa dell'unità del partito, non abbiamo avuto il coraggio, la capacità e la forza dicontrastarla.

Era e resta una nostra responsabilità e il PCI ha pagato con la sua fine i ritardi e lecontraddizioni su questi punti nodali.

Più complesso i l giudizio da dare sulle posizioni di Rossanda riguardo alla strategiada seguire in Italia.

Emerge dal suo racconto, in particolare sul '68-69, una visione nettamente alternativaalla linea del gruppo dirigente del PCI, di formazione storicistico-crociana da lei ritenuta

arretrata ed incapace di capire ciò che stava cambiando nella società italiana.Contesta l'analisi, giudicata arretrata, sul capitalismo italiano, l'incapacità di coglierele istanze rivoluzionarie che nascono dai movimenti sociali, la scelta di "frenare" lelotte studentesche ed operaie, di privilegiare i rapporti politici e il parlamento, la"subalternità" di fatto alle classi dominanti. Prevale, in sostanza, una scelta nettamenteanticapitalistica, non chiara nei suoi passaggi e nei suoi possibili sbocchi, basata sullacentralità del ruolo della classe operaia e dei movimenti antisistema e sulla democraziadal basso.

E, come ha acutamente ossservato Angelo Guglielmi nella sua recensione ("l'Unità"del 28 febbraio 2006), Rossanda non riesce a spiegare, dando quel giudizio drastico,come sia stata possibile la grande influenza politica del PCI degli anni '70, la grande

avanzata nelle elezioni del '76, che segue proprio l'esplodere di quei movimenti e le

grandi conquiste sociali e civili di quel decennio. Dice Guglielmi «L'adesione al PCI o ilsemplice votarlo esprimeva un bisogno di modernità, di liberazione da costumi e stili

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di vita invecchiati. .. i più avvertivano il PCI come l'avamposto, seppure troppo cauto,verso il nuovo».

Sono e restano, questi, punti controversi, su cui si continua e si continuerà adiscutere, come del resto sul giudizio tranciante della "svolta" di Occhetto dell'89 esulla decisione di "liquidare" il pC! e di dare vita ad un nuovo partito.

Ma al di là di ciò, il valore e il messaggio del libro di Rossanda sta nell'essenza dellarisposta che ella dà alla domanda: perché sei stata e resti comunista?Una risposta onesta ed orgogliosa. Rossanda del PCI riconosce la grande funzione nella

Resistenza e nella conquista della democrazia e della Costituzione, nell'acculturazionee nell'educazione alla democrazia delle grandi masse sino ad allora escluse, il rigoremorale ed il disinteresse personale che caratterizzavano la militanza, la severa selezionedei dirigenti: «Era come a scuola, dovevi aver passato gli esami».

Dice ancora dei comunisti e del suo essere comunista: «I comunisti sono stati il saledel '900; erano i soli a negare l'inevitabilità del non umano», «il fare per e con gli altriè stata ed è per me la più grande gratificazione».

Per concludere: se certo nel libro si respira l'amaro sapore delle tante sconfitte edella fine di una grande esperienza politica ed umana, ne sono tuttavia riconosciuti e

rivalutati da Rossanda le ragioni ed i valori di fondo.Dal suo libro viene dunque una sollecitazione in più ad uscire dal «silenzio dei

comunisti», a ripensare criticamente e a ricollocare storicamente l'esperienza del PCI,

aldilà delle facili liquidazioni e delle "abiure" dettate dalla contingenza pòlitica odalla tentazione nostalgica di coloro che hanno condiviso nel bene e nel male quellaesperienza intensamente vissuta, ma irripetibile.

Chi, come è auspicabile, leggerà questo libro, potrà condividere o no le posizioni ele scelte compiute dall'autrice, ma non potrà non avvertire il fascino di una personalitàstraordinaria, coraggiosa e coerente, e il messaggio etico e politico di una vitainteramente spesa per un ideale di autentico riscatto umano.

Eletta Bertani

A. D'ORSI, I chierici alla guerra, Bollati Boringhieri, Torino 2005, pp. 331, 18euro

L'idea di dedicare una ricerca alla «seduzione bellica sugli intellettuali da Aduaa Bagdad» ha il suo primo humus - per confessione dell'autore - nell'esperienzaprivata delle due guerre mondiali: membri della «grande famiglia patriarcale» rimastisui campi di battaglia, o ritornati a casa «offesi nel corpo e nella mente». Ma altre, e più

complesse ragioni di questa approfondita rassegna della trahison des clercs, ricorrenteper tutta la durata del (lungo?) Novecento, risiedono nella qualità etica che D'Orsi esigedal mestiere di storico, e in genere dalla professione intellettuale: essere voce della

ragione, portatore del compito inderogabile di fornire un'informazione documentata,non facendo certo mistero delle proprie categorie interpretative, ma senza far sì che

il diritto ad un punto di vista si confonda con la disinvolta, o addirittura entusiasticapartecipazione ad operazioni di propaganda, allo stesso tempo conseguenza ed escadi funeste accensioni emotive di massa.

Se gli anni più recenti (dalla prima guerra del Golfo ad oggi) hanno messo inparticolare evidenza la propensione dei «gruppi dirigenti delle nazioni belligeranti»ad essere disonesti e bugiardi, e dei popoli da loro governati ad essere ciecamenteingannati, chi, se non i filosofi, gli storici, i giornalisti, aveva il compito di «salvare iconcittadini dalle tenebre dell'ignoranza», e di «guidarli a districarsi nei meccanismi diun'impietosa e gigantesca macchina tritatutto, in cui corpi e anime, speranze e idee,

informazione e deformazione vengono mescolati, incessantemente»?Non si pensi, tuttavia, di trovarsi di fronte ad una lunga invettiva, contingentemente

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legata alla situazione attuale, di cui l'Autore mette in evidenza la natura catastrofica(e dall'ultimo capitolo, "Guerra e Catastrofe" appunto, sarebbe bene partisse la letturadel libro). L'opera è frutto, al contrario, di una prolungata meditazione, arricchita daprecedenti confronti pubblici. Piuttosto, siamo ancora una volta a comprovare la validitàdel vecchio adagio, secondo cui l'anatomia dell'uomo spiega l'anatomia della scimmia:

gli esiti estremi di oggi (iniziativa monopolare, neo-lingua, gravi compromissioni dellademocrazia e negazione di fatto del diritto internazionale ... ) rendono ragione delleidee e delle pratiche avviate nel primo Novecento, le definiscono come inizi di unlungo processo, che D'Orsi ricostruisce con una fortissima capacità di individuarnegli snodi principali, di chiamare in causa gli attori, di scoprire insospettabili affinitàfra posizioni apparentemente diverse o, secondo collaudati schemi storiografici,addirittura opposte.

Lungo tappe che culminano di volta in volta nella Grande guerra, in Hiroshima,nel Vietnam e poi in Iraq, Kossovo, Afganistan, ancora Iraq, s'intensifica il carattereterroristico ed allo stesso tempo interminabile della guerra. Sempre più connotatacome guerra ai civili e al territorio, guerra, dunque, "alla civiltà", in quanto realizzadanni permanenti ad un paese, alla sua flora, alla sua fauna e permane nei corpi dellasua popolazione, anche in quella non ancora nata.A dispetto del vertiginoso variare dei contenuti concreti (sproporzione nei mezzid'offesa, "bersagli" indiscriminati, irreversibilità ed enormità dei danni, pacificazionisenza pace effettiva, guerra agli stati come reazione ad attacchi non da loro nemmeno

indirettamente derivanti. .. ) il dispiegamento propagandistico a favore della guerra(svolto alla luce di una sua nozione astratta fuori dal tempo, valutabile in altrettantoastratti termini "etici", politici, giuridici) mantiene nel corso del secolo una sua sostanzialeripetitività. Si confronti, è solo uno dei tanti esempi, il legame, nel Manifesto futurista,fra guerra "sola igiene del mondo" e disprezzo della donna, con la recente metaforadella maschia America ("Marte") contrapposta sprezzantemente alla femminea Europa("Venere").

L'analisi di D'Orsi si rivolge alla cultura europea e, solo in parte, americana. Accademia,giornalismo, lettere e arti sono tutte realtà attentamente scandagliate. E quanto pochi

i riluttanti, le teste che mantengono freddezza e continuano a ragionare, le volontàcapaci di dichiararsi «al di sopra della mischia»! Quanto pochi, e vituperatissimi, iericome oggi, i R. Rolland, i B. Russell!

È invece imponente la schiera dei fautori, siano essi di stile che potremmo definirerealistico o invece d'impronta prevalentemente retorica. Vi sono i retorici esaltatoridel valore in sé della guerra (principale artificio: si enfatizza l'eroismo di chi è pronto

a morire, si occulta la sgradevole verità che si è in guerra per uccidere). Guerra,dunque, come momento della verità, per i singoli come per i popoli; rimedio controla decadenza e contro il piatto materialismo "borghese" (termine opposto ovviamentenon a "proletario", ma a "guerriero"), soprattutto contro i patteggiamenti "mercantili"

della politica e del parlamentarismo. Una guerra, suggerisce D'Orsi, come antipolitica,non già come prosecuzione della politica con altri mezzi.Vi è poi l'insidiosa retorica della guerra "giusta", che la pretende necessaria

nella lotta contro il Male o a favore di altrettanto astratte categorie (tale la stessaDemocrazia, merce invero non esportabile con atti di imperio, ma usatissima foglia difico, come già la Civilizzazione d'epoca coloniale). Pur essendo diverse le circostanze,le appartenenze ideologiche e la stessa personalità di ogni protagonista, risultanoalla fine sorprendentemente simili i moduli argomentativi. In questo caso D'Orsiaccompagna il lettore ad una sofferta «uccisione del (di un) padre»: l'interventismo«democratico», di ieri e di oggi. È un'analisi non riassumibile, il capitolo espressamentededicato all'argomento è uno dei più interessanti, il più improntato al magis amicaveritas.

Più netta appare la diversità fra i molti atteggiamenti improntati a "realismo". Visono posizioni sofferte, rassegnate al ricorso alla guerra (nell'auspicio della sua brevità

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e .moderazione) come ad una extrema ratio contro quelle che appaiono (e, ahimé,spesso più sugli schermi televisivi che nella realtà scrupolosamente studiata) palesiviolazioni del diritto. Errori di valutazione, in questo caso, possono essere compiutianche da grandi maestri, grandissimi poi nei ripensamenti e nella disponibilitàall'ascolto delle critiche (fra tutti, Bobbio).

Di altro tenore, e sostanzialmente ripetitive, si manifestano le posizioni del"realismo" riconducibile a una interpretazione superomistica o darwiniana dei rapportiinternazionali: dall'asserzione dello Zarathustra di Nietzsche, secondo cui "è la buona

guerra che santifica ogni causa», passando per i nazionalismi di inizio secolo, (da

noi, i Corradini e i D'Annunzio) e per le più o meno equivoche teorie "geopolitiche",collegandosi infine agli attuali teo o neo-cons, allo stesso tempo attori, consiglieridel principe e diffusori di una pedagogia di massa capace di ricorrere con cinicadisinvoltura alla storia, intesa come serbatoio di materiali disponibili à la carte, perciòfonte inesauribile di stereotipi e di suggestive quanto infondate analogie, da dare inpasto al pubblico in forma di (presunti) "precedenti" giustificativi.

La documentazione offerta di D'Orsi di questo ricorso al "supermercato dellastoria" è estremamente vasta ed allarmante, tanto più che esso non appare una (fra

le tante) strategia propagandistica, ma il nucleo portante di ogni propaganda bellica:"A ben pensarci, senza il ricorso al gigantesco magazzino della Storia l'operazione dipropaganda insita nelle premesse di un conflitto, nella sua genesi, nel suo scatenamento,non sarebbe possibile e forse neppure pensabile».

Purtroppo la nutrita rassegna di intellettuali-propagandisti offerta da D'Orsicomprende, accanto ai molti filosofi ed esteti (quasi regolarmente dalla par te sbagliata),anche una foltissima schiera di storici di professione (per non dire di giornalisti colpallino della storia). Nel loro caso senza la giustificazione (a differenza dei primi) diabitare mondi diversi dalla nostra empirica Terra.

Ettore Borghi

E. SAVINO, "Lo Stato Moderno" - Mario Boneschi e gli azionisti milanesi,Franco Angeli, Milano 2005, pp. 240, 21,00 euro

Nel 1955 un volume laterziano a più voci, Dieci anni dopo, presentava un bilanciomolto critico delle occasioni mancate e delle speranze deluse: restaurazione moderata

in corso, Costituzione inattuata, persistenza, nelle forme e nella prassi, di pesantiaspetti del vecchio e non vinto stato autoritario. Comune la provenienza azionistadegli autori principali (Calamandrei, Lussu, Valiani. .. ), che s'incontravano, al di làdella diaspora subita dalla combattiva formazione antifascista, nel giudizio di fondosulla serietà della situazione presente. Nello stesso torno di tempo, catalizzato dal"Mondo" pannunziano, nasceva il partito radicale, frutto dell'incontro fra sinistra

liberale (Villabruna, Libonati, Carandini, Cattani) e, appunto, reduci dall'esperienzadi "Giustizia e Libertà", del liberalsocialismo, del Partito d'azione (Guido Calogero,Ernesto Rossi, Mario Boneschi, Mario Paggi). Era il generoso tentativo di affermarel'esigenza di un sostanziale rinnovamento civile la cui attuazione, a dispetto dellaCarta costituzionale, sembrava a quegli uomini bloccata dal reciproco neutralizzarsidei due maggiori partiti. L'esito deludente delle elezioni del 1958 s'incaricò ben prestodell'esecuzione sommaria di quell'aspirazione ad una "terza via", che non intendevaessere semplicemente la strada di una sinistra moderata o, come si sarebbe detto allora"borghese". Rispetto alla sinistra "di classe" la differenza va piuttosto cercata nei temie nelle priorità, per alcune delle quali la linea dell'azionismo, e in particolare di quellomilanese di cui erano espressione Paggi e Boneschi, presentava fortissimi rifiuti del

compromesso e intransigenti proposte di rottura. Sul tema dello Stato, innanzitutto, che

socialisti e comunisti avrebbero trascurato, oscillando tra l'illusione che la Resistenzaavesse assunto come tale il carattere di una rivoluzione compiuta ed il rinvio sine die di

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questo tema "sovrastrutturale" ad un secondo e conclusivo passaggio rivoluzionario.Laboratorio di questa visione critica fu la rivista "Lo Stato Moderno", la cui

pubblicazione iniziò già nel periodo clandestino (944) e si protrasse sino al marzo1949.

Il volume di Elena Savino ci consente di ricostruirne la vicenda attraverso uno

studio esaustivo, che ne inquadra il profilo avendo d'occhio particolarmente la figuradel più longevo fra i suoi protagonisti: Mario Boneschi. Di grande utilità risultano poi

gl'indici 1944-49 e una antologia di scritti retrospettivi di Boneschi stesso.Vaccinati da ogni "mentalità mitizzante" da vent 'anni di retorica fascista, la pattuglia

dei collaboratori (fra gli altri Gaetano Baldacci, Arrigo Cajumi, Vittorio Albasini Scrosati)si posero in continuità con la linea lombarda degli illuministi e di Cattaneo, sia inquanto fautori del principio di autonomia contro lo Stato accentratore-burocratico, siacome propugnatori del progetto di una "rivoluzione concreta". L'antifascismo, in altritermini, doveva assumere il compito di impadronirsi della «macchina dello stato ...rifacendola pezzo per pezzo», attraverso «un'opera di riforma tenace, lenta, paziente einstancabile delle vecchie strutture». L'allarme, condiviso da pochi all'indomani dellaLiberazione, che «sotto la cappa di una costituzione democratica» avrebbe resistito«pressoché intatta la legislazione illiberale del fascismo», si rivelerà purtroppo un'amara

quanto realistica previsione. La sottovalutazione di quella insidia avrebbe consentitoal fascismo di rimanere «capillarmente annidato come una tenia nelle viscere delloStato».

Fra le proposte inascoltate (già elaborate nel corso della lotta clandestina) molterivestono oggi grande interesse e rivelano aspetti di persistente attualità: abrogazionedel codice Rocco e ritorno con ritocchi al codice Zanardelli; legislazione socialesecondo le linee di Beveridge; leggi urbanistiche «sui modelli inglesi e olandesi»;«ritorno alla nazione delle acque privatizzate nel 1917»; «immediata riorganizzazione epotenziamento dell'lRI .. . come uno dei principali strumenti di politica economica».

Espressione fra le più significative del "vento del Nord", l'azionismo lombardo -

che non s'illudeva che «la cacciata dei nazifascisti fosse la vittoria dell'antifascismo»- avrebbe poi dovuto fare i conti con gli aspetti reali del nostro Paese, su cui la sua

stessa analisi antiretorica aveva gettato tanta luce. Come osserva Boneschi nel suobilancio retrospettivo: «Nel contrasto trionfò la forza opposta, l'astuzia elementare, il

realismo freddo, la conservazione pura».Ettore Borghi

E. FICARELLI, B. DOMENICHINI, Eper questo resisto. Bambini e bambine in tempi diguerra, Equilibri, Modena 2005, pp. 144, 13,00 euro

I bambini appunto. Quando s'immagina e si pensa alla guerra e alle sue inevitabili

conseguenze la prima immagine che ci viene in mente è quella della sofferenza di chicon questa guerra non c'entra nulla, di chi la subisce senza nulla sapere e senza nullacomprendere. I bambini appunto. E la guerra vista con gli occhi dei bambini appare

agli adulti in tutta la sua semplice e scontata atrocità. Più di tanti discorsi, più di tanteimmagini di torture o di riprese di distruzioni sono le semplici parole di bambinicome Alex, Misha (ebrei), Harry (inglese), Asmir 0ugoslavo) e Parvana (afgana) ad

illustrarci le ingiustizie che tutte le guerre portano inevitabilmente con sé. Ed è propriola convinzione che temi come la disumanizzazione dell'individuo, le sofferenze, leprivazioni dei diritti più elementari e tutto quello che di più drammatico si accompagna

ad ogni conflitto, trovi una privilegiata forma di espressione nella letteratura perragazzi che sta alla base di questo progetto e delle intenzioni delle curatrici del libro.«Le parole le frasi e i racconti dei protagonisti delle pagine dell'antologia vanno dritteal cuore del lettore e imprimono emozioni forti che fanno riflettere: il ragazzo lettoresi immedesima facilmente con il ragazzo protagonista e siamo certi che quando si

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chiuderà il libro, qualcosa di quella storia rimarrà nella sua mente e nel suo cuore».Così è se si leggono i dialoghi di Jurek e Kazik, bambini protagonisti del dramma

autobiografico dello scrittore per ragazzi Uri Orlev, ebreo sopravvissuto a BergenBelsen, riportato nelle prime pagine del libro. Nella Varsavia occupata dai tedeschi idue bambini ebrei polacchi vivono nascosti nella soffitta di un palazzo passando il

tempo a giocare alla guerra mentre la guerra vera è solo pochi piani sotto di loro.Il Vento Giallo è il titolo del saggio di David Grossman che spazia dal luogo realedel campo profughi palestinese di Deheisha ad un'analisi dei sogni di bambini ebrei

e palestinesi. La prima parte del volume si conclude con una riflessione di SarahKaminski «sull'impatto eterno che gli orrori della guerra hanno sul bambino» non soloin termini di effetti traumatici ma anche di perpetrazione della violenza. Ancora unavolta, dunque, la letteratura rivolta ai più giovani può essere quella «lanterna magicache proietta e filtra il male» raccontando «che la vita umana ha sempre, in tutte lacircostanze, un significato».

La seconda parte del libro è costituita da una variegata sezione antologica che

riporta significativi e commoventi stralci di racconti aventi come protagonisti bambininelle più varie situazioni di guerra, dalla seconda guerra mondiale all'Afghanistan,dalla ex-Jugoslavia al Cile. Il volume si conclude con una ricca bibliografia dellaletteratura che vede bambini ed adolescenti protagonisti dei conflitti nei più diversiscenari bellici.

Flaviolori

Storia della Shoah. La crisi dell'Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XXsecolo, UTET, Torino 2005, volI. 5, sip.

Con un'opera voluminosa ed estremamente dettagliata, nonché suddivisa in cinquedifferenti volumi, si è voluto ricostruire !'intera storia della Shoah, non solo nei suoi

aspetti più noti durante la seconda guerra mondiale, ma analizzando anche le sueorigini passate, individuate nel colonialismo ottocentesco e metodi e stili del suoricordo nei decenni del dopoguerra. Ogni volume raccoglie una serie di saggi storicie fotografici che ripercorrono le varie tappe che portarono l'Europa dal colonialismoad Auschwitz: il primo La crisi dell'Europa: le origini e il contesto riguarda propriol'ambiente culturale, sociale e politico nel quale venne tracciata attraverso i secoli lastrada che portò ai campi di sterminio. Il secondo volume La distruzione degli ebreiricostruisce gli anni della dittatura nazista e della guerra visitando anche i suoi aspettipoco noti quali i collaborazionisti filonazisti nei paesi occupati o la gestione burocraticaed amministrativa della soluzione finale. La terza e la quarte parte, intitolate Riflessioni,luoghi della memoria, risoluzioni ed Eredità, rappresentazioni, identità si occupano

di far conoscere ai lettori tempi, modi e luoghi coi quali il ricordo dei lager è stato

trasmesso alle generazioni cresciute dopo la caduta del nazismo. L'ultimo volumeinfine è una collezione di Documenti storici, questo il suo titolo, delle epoche trattatenell'opera che corredano i precedenti tomi, come una sorta di nota a piè di pagina.L'importanza del lavoro svolto è attestata anche dagli autori dei numerosi saggi che

compongono questa storia della Shoah: Nicola Labanca, Saul Friedlander, Ian Kershawsolo per citarne alcuni fra i più noti.

Un ulteriore e moderno strumento di corredo ad un'opera tanto voluminosa quanto

importante sono tre DVD ed un CD-ROM di ipertesto, preparati per far conoscere più davicino alcuni eventi ed istituzioni inestricabilmente legati allo sterminio degli ebrei: il

processo di Norimberga, il processo Eichmann ed il tribunale dei Giusti.Attualmente sono già disponibili presso ISTORECO i primi due volumi e il DVD del

processo di Norimberga.Michele Bellelli

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H. ARENDT, Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino 2004, pp. 238, 22 euro

Quando ci si riferisce al nazionalsocialismo ed, in particolare, alle politichedi sterminio verso gli ebrei e verso tutte le altre vittime, è impossibile individuareun'unica «chiave di lettura». L'eredità della Shoah non ci permette di seppellire il

passato: Auschwitz è ancora un'urgenza etica, oltre che politica. L'opera di HannahArendt ha nell'orrore nudo del Lager il suo riferimento costante e più sofferto. Isaggi «americani» (lezioni, conferenze, discorsi), risalenti agli anni Sessanta e Settanta eraccolti in Responsabilità e giudizio, non sono sempre direttamente rivolti ai fenomenilegati allo sterminio, ma, non v'è dubbio, che essi li sottendono sempre, mostrando

anzi una fortissima passione intellettuale: il problema della responsabilità del singoloin condizioni di crisi, in una realtà eccezionale, dove tutto è sconvolto e travolto, il

problema di vivere in uno Stato totalitario, è l'urgenza che il nazionalsocialismo ci ha

lasciato.La tensione più profonda, che emerge da questi saggi, è quella fra persona e politica,

fra la libertà interiore e la libertà esterna. Ogni termine del nostro patrimonio etico,dalla necessità del ricordo alla libera volontà, dalla capacità di giudizio alla funzionedel senso comune, viene discusso attraverso i motivi e i movimenti fondamentali dellafilosofia morale.

Chi già conosce il pensiero arendtiano, troverà in queste pagine conferma ai suoitesti più significativi, Le origini del totalitarismo e La banalità del male. La figura diAdolf Eichmann emerge tanto spesso, da poter affermare che è la vita del burocratedel Reich a rappresentare, per Arendt, la base, o l'antimodello, su cui ingaggiare unconfronto con la tradizione morale occidentale. Ci riferiamo qui soprattutto allo scrittopiù consistente e più elaborato della raccolta, Alcune questioni di filosofia morale0965-1966), nel quale sono ripercorse e poste in questione, da Socrate a Heidegger,le vicende concettuali e storiche della morale. In estrema sintesi, mettendo in risaltoalcuni fra i tanti motivi presenti, emergono il pensiero e la volontà, come chiavi per

aprirsi all'universo della responsabilità. Vediamo.Anzitutto, Arendt non può che iniziare con la questione del nichilismo e del

relativismo etico. La crisi di valori, che è esplosa nei primi decenni del Novecento, ha

coinvolto tutto e tutti. Non si può per questo prescindere dalla lezione (dalle leZioni)di Nietzsche, con cui Arendt mostra di avere un'intima comunanza - di "spirito", più

che di argomenti e soluzioni. «A lui va senz'altro un grande merito, quello di averosato denunciare la pochezza e l'insensatezza della morale dei nostri tempi» (p. 43).La questione, esplosa soprattutto dopo il '45, non è tanto e ancora quella di adeguarsialla morale, intesa come mores, costumi, tradizione, ma di considerare il fallimentodei sistemi di morale.

Ormai soltanto nei tribunali è rimasta viva l'idea della responsabilità umana,dell'autonomia del giudizio, della coscienza libera. La più grande meraviglia verso le

diverse condotte dei tedeschi durante e dopo il nazismo non riguarda tanto i pochi,autentici sadici (che ovunque si trovano e che trovarono in quelle condizioni un"paradiso" per poter compiere i propri crimini), ma i pochi che dissero «Non posso»davanti alla possibilità del delitto, i pochissimi che resistettero al male. Il totalitarismosovverte a tal punto i riferimenti della morale, che diventa più facile compiere il maleche il bene. La maggioranza fece una doppia capovolta, divenendo nazista in unmomento e in un momento mostrando di aver dimenticato quella ideologia e quellaviolenza. .

Per Arendt, i filosofi hanno troppo spesso eluso il problema del male, che è poi il

problema stesso dell'attività del pensiero. Laicamente - ma senza ignorare il peso dellareligione e, soprattutto, della filosofia cristiana sull'etica - la filosofa tedesca vede nelpensiero e nel ricordo i veri bastioni che possono ancora "salvare" la responsabilità.La coscienza, l'essere due-in-uno, il luogo del dialogo interiore del sé con se stessoè ciò che permette di ricordare ciò che si è fatto, è ciò che impedisce, come invece

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avviene nel tipo Eichmann, di perdere contatto con il proprio agire, di rimaneresulla superficie dell'esistenza, di acquisire una naturale anestesia per il peso dellaresponsabilità. È Socrate, con quel suo "Meglio patire che infliggere il male», ad esserel'ispiratore insuperato di questa funzione, certo ancora soltanto negativa, del pensiero.La coscienza costringe il malfattore a vivere continuamente in compagnia di sé, di

ricordare ciò che ha fatto, e ciò avviene specialmente nella solitudine, che non è, fral'altro, il mero isolamento che si può provare in mezzo ad una folla. Per Arendt, ed inciò avvicinandosi ed anticipando il più recente dibattito sulle questioni di biopolitica(si pensi all'eugenetica), l'uomo non è di per sé una "persona». Per il "personalismo"arendtiano, "l'espressione "personalità morale" è, a ben vedere, un'espressioneridondante» (p. 81).

Cosa resta, dunque, della morale? Ad esempio, cosa resta dell'imperativo categoricodi Kant? Non si dovrà forse abbandonare ogni tentativo di fissare i l male in tutta lasua forza? No, il male, anzi, il peggiore male, è ancora coglibile. Esso non consiste nel"male radicale", ma - e qui è chiaro l'eco del processo Eichmann - nel male senzaradici, nel male che non si ricorda di sé. Non si può, però, pensare di affidarsi ancorauna volta ad una morale degli obblighi, confondendo, come in fin dei conti ha fattoKant, legalità e moralità e, soprattutto, ad una morale come verità universale.

Se la coscienza, come divisione interiore, è una barriera, l'unica, contro lasvalutazione morale in condizioni eccezionali, è all'idea di volontà che bisognarivolgersi per recuperare l'altruismo, il bene, il lato positivo dell'etica. Anche qui

emerge l'importanza di Nietzsche. La volontà, "creatura" del cristianesimo, non vaconsiderata come arbitro fra la ragione ed i desideri, fra il pensiero e le passioni. La

volontà è spontaneità iniziale ed "iniziante". Si può far del bene, solo se non si pensa

ad esso. A questo proposito, Arendt scorge una contraddizione fra Gesù, che afferma"Non sappia la tua mano sinistra ciò che fa la tua mano destra» e Paolo, che dice "C'è inme la volontà del bene, ma non la capacità di attuarlo». È la stessa contraddizione fraquei tedeschi che si r i t r a s s ~ r o davanti alla violenza, con un semplice <Non posso» e chi

dice (giustificandosi) «Io-voglio-ma-non-posso» (p. 102). La volontà non èi l

pensiero,la volontà non tollera divisioni al suo interno, non è libero arbitrio.Non c'è, dunque, niente che ci possa sostenere durante la prova del giudizio

morale? Se è vero che la morale oggi non può prescindere da una continua autocriticae da un continuo rinnovamento, «c'è qualcosa cui il senso comune può aggrapparsi,quando si innalza al livello del giudizio, e questo qualcosa è l'esempio» (p. 124). Si

pensi che i vizi e le virtù politici vengono solitamente rappresentati attraverso deicasi individuali (reali e meno). Gli esempi sono <<i principali cartelli stradali in campomorale» (p. 125).

Questa idea morale dell'esempio ha, infine, una significativa declinazione nel

problema della scelta delle persone, con cui si vuoI condividere l'esistenza. <Nel

malaugurato caso che qualcuno venisse a dirci che preferisce la compagnia di Barbablù,

prendendolo ad esempio, la sola cosa che potremmo fare sarebbe di assicurarci che cistia lontano» (p. 126). Questo non è, però, il caso più pericoloso. Il rischio più graveper la vita morale e politica rimane l'indifferenza, o addirittura la scelta di non volergiudicare. «LÌ si nasconde l'orrore e al tempo stesso la banalità del male» (ibidem).

Francesco Pao/ella

S. CAVAZZA, Dimensione massa. Individui, folle, consumi 1830-1945, ilMulino, Bologna 2004, pp. 347, 24 euro

Viviamo in una società di massa, ed abbiamo, pur in una perenne celebrazione

dell'individualismo, consumi di massa, divertimenti di massa, idee politiche di massa.Il libro, opera di un contemporaneista di Bologna, cerca di uscire dal luogo comune

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del Novecento come secolo della nascita delle «masse» (nel bene come nel male),ponendosi in una prospettiva di lungo periodo, andando a ricercare alle origini dellamoderni tà i diversi (a volte ambigui) significati di «massa» e «folla» nel pensiero e nellapolitica europea dalla fine del Settecento alla seconda guerra mondiale. Facciamoqualche riferimento. Anzitutto, spicca la ricchezza e, per certi versi, l'«inattualità»

storiografica del capitolo dedicato alla nascita della psicologia sociale, della «psicologiadelle folle». Non c'è stato solo Le Bon. La cultura europea (quella francese e quellaitaliana su tutte) si è progressivamente concentrata sullo studio dei comportamenticollettivi, ed in particolare sulle valenze politiche di quelli. Cavazza ha ripreso in mano

studi di autori ormai dimenticati, ma che hanno contato tanto nei dibattiti sulle «folle

criminali» e sui pericoli legati ad esse (pensiamo agli «anarchici»).Altro argomento è quello dei consumi. L'autore riporta le grandi rivoluzioni del

commercio (l'affermazione dei grandi magazzini, dei nuovi metodi di vendita come

anche i cambiamenti, altrettanto rivoluzionari, nella domanda dei consumatori. Aquesto proposito, emerge anche l'interessante posizione dell'autore verso ciò che è «di

massa»: Cavazza, contro ogni facile moralismo e pur riconoscendo le contraddizioni diun processo non lineare, afferma che, a partire dall'Ottocento, «non esiste più nessuna

barriera che impedisca ad una persona di acquisire i beni». E poco prima si legge: «Non

va dimenticato che il successo del grande magazzino dovette superare l'opposizionedei moralisti che vedevano in esso una potenziale minaccia alla moralità femminile,mentre per le donne esso rappresentava un ampliamento della propria sfera di libertà»(pp. 196-197).

L'ultima parte del libro è quella più propriamente politica. Riferendosi alla politicadel Novecento ed all'inedita presenza in essa delle masse, il riferimento non può che

andare anzitutto al fascismo e, pur con importanti differenze, al nazionalsocialismo.Il fascismo è efficacemente definito come «rivolta di massa contro le masse» e non

va sommariamente ricondotto alla reazione di vecchie élite. La novità propria delfascismo è nell'idea di nazione, in quanto massa organicamente unitaria. «L'idea di

nazione consentiva di collegare l'ideale aristocratico del fascismo alla sua base dimassa, rifiutando, da un lato, l'egualitarismo della tradizione socialista e, dall'altro il

primato dell'individuo della tradizione liberale» (pp. 316-317). Il fascismo non ha certorespinto la «massa» in quanto tale, ma il principio di maggioranza. Lo storico timoreverso le folle è divenuto rifiuto della loro scelta democratica. Democrazia significa solodemagogia e mediocrità. Il fascismo (specie gli intellettuali) ha voluto imporsi comereazione dei migliori, anche se poi, come si è preso visto, non è riuscito a produrre una

nuova classe dirigente degna di questo nome. La massa totalitaria non è più la massadi individui isolati, ma la massa riunita in un unico corpo, quello della nazione, dicui lo Stato è simbolo efficace. Qui è il significato del Plebiscito, espressione massimadell'identificazione autoritaria fra Stato e masse: «È però significativo che fascismo enazismo sentissero il bisogno di legittimare simbolicamente il loro potere attraverso il

rito della votazione plebiscitaria, atto con il quale la massa-nazione si riconosceva nelregime che la dominava» (p. 320).

Francesco Paolella

G. MARRAMAO, Messianismo senza attesa. Sulla teologia politica di WalterBenjamin, in "Aut Aut", il Saggiatore, Milano, 2005/6, 328, pp. 119-134

Marramao ha inteso in questo saggio «rifocalizzare» le tesi benjaminiane Sul concettodi storia (1940). Già il titolo spiega il pensiero dell'autore: in Benjamin il messianismodeve essere spogliato di ogni traccia di attendismo e di passività. Messianismo è

appello all'azione; è, anzi, l'azione stessa, effrazione del tempo omogeneo e vuoto,idea di tempo, quest'ultima, fatta propria dall'ideologia del progresso. Messianismo è,

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massimamente, passaggio dallo jetztzeit (il tempoora) all'Augenblick (l'attimo). Talepassaggio si compie attraverso l'intersecazione fra il messianismo ed il materialismostorico. Benjamin pensa ad un «salto dialettico», che faccia esplodere il continuum delprogresso. Il riferimento è ovviamente al salto rivoluzionario, marxianamente inteso.Benjamin si riferisce al Marx della Darstellung, capace di fare una sintesi di scienza

e redenzione, de «l'analisi "spettroscopica" del mondo dominato dal feticismo dellamerce con la tensione messianica latente in ogni agire autenticamente rivoluzionario»(p. 133). Marramao cita la tesi XVII: «Nell'idea della società, Marx ha secolarizzatol'idea del tempo messianico. Ed era giusto così. La sciagura sopravviene per il fattoche la socialdemocrazia elevò a "ideale" questa idea» (W. Benjamin, Sul concetto distoria, Einaudi, Torino 1997, p. 53). Ovvero: da Vorstellung marxiana ad IdeaI (puro

asintoto), frutto di una disattivazione neokantiana (il «compito infinito»), della caricapolitico-messianica. Chiosa Marramao: «Il carattere passivo dell'attesa non è, allora,una prerogativa del messianico, ma piuttosto di un concetto indifferenziato del tempo

storico, incapace di cogliere la costellazione insieme singolare e "vertebrata" del

presente» (qui, p. 127).Marramao insiste sull'influenza ebraica, nella fattispecie cabalistica (meglio

ancora, lurianica) ma anche della filosofia della storia di Hermann Cohen, sull'ideabenjaminiana della «ricomposizione dell'infranto» della tesi IX. Altrettanto ebraica èl'idea, massimo paradosso ripreso appieno da Benjamin, secondo la quale l'Originenon si pone mai all'inizio, ma essa viene sempre compiuta dopo, mai prima. È possibile,quindi, e riprendendo Isaia, affrettare il compimento dell'Origine. Solo gli uominipossono salvare Dio (contra Heidegger). Benjamin si pone su un piano pienamente

storico, collocandosi sulla via tracciata dal messianismo rabbinico: «Il Meshìac dellatradizione rabbinica può virtualmente sopraggiungere in ogni momento, non èpreparato da alcuna plenitudo temporum: né da un'escatologica "pienezza dei tempi",né da un'apocalittica "fine del tempo". Il Messia ebraico è figura umana, umanissima:"generato da uomini"» (pp. 125-126).

Benjamin, come è noto, ha riletto il messianismo alla luce del tempo passato, contro«ogni "simbolica" infuturante dell'attesa» (pp. 128-129). Il fascismo, poi, nell'analisibenjaminiana non è romantica nostalgia del passato, ma manifestazione potente del"tecnocraticismo", proprio del concetto moderno di progresso. Ecco la tesi XI: «Nonc'è nulla che abbia corrotto i lavoratori tedeschi quanto la persuasione di nuotare

con la corrente» (W. Benjamin, cit., p. 39). Per questo rispetto, non esiste semplicealternativa fra fascismo e movimento operaio.

Quale spazio resta per veder esplodere la storia? Uno spazio piccolo (la «piccolaporta» da cui può entrare il Messia), spazio instabile per giunta pericoloso. Tutto è inequilibrio precario, specie alla luce della radicale contingenza e pochezza della storiaumana (qui soprattutto alla luce di Blanqui).

Concludiamo ricordando quale sia, per Marramao, la cifra più piena del messianismo

politico di Benjamin: «il suo corrispondere all'appello del passato, anziché aun'ingiunzione del futuro» (p. 133). Riprendiamo la tesi II: «Allora noi siamo stati attesisulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione prima di noi, è stata consegnatauna debole forza messianica, a cui il passato ha diritto. Questo diritto non si può

eludere a poco prezzo. Il materialista storico ne sa qualcosa» (W. Benjamin, cit., p.23). È la responsabilizzazione del presente, affinché esso sia messianico. È il caratterepotenzialmente rivoluzionario della memoria (dei vinti, dei «sommersi» a dirla con

Levi). Dobbiamo essere mossi dalla consapevolezza che neanche i morti sono alriparo dal nemico.

Francesco Paolella

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A. ALES BELLO, P. CHENAUX Ca cura), Edith Stein e il nazismo, Città Nuova,Roma 2005, pp. 120, 9,00 euro

Tutto il libro ruota attorno ad un documento per molti versi eccezionale. È la letterache Edith Stein (1891-1942), filosofa tedesca, di origine ebraica, appartenente alla

scuola fenomenologica, convertitasi nel 1922 al cattolicesimo, deportata e sterminataad Auschwitz, scrisse a Pio XI nel 1933, pochi mesi dopo la presa del cancellierato daparte di Hitler. Si tratta di una lettera, di cui già gli specialisti erano a conoscenza, ma

che è stata resa nota nel 2003, nell'ambito dell'apertura degli archivi relativi ai rapportifra Santa sede e Germania negli anni fra le due guerre mondiali. Ne vogliamo citaregli elementi essenziali.

"Padre Santo! Come figlia del popolo ebraico, che per grazia di Dio è da Ilanni figlia della chiesa cattolica, ardisco esprimere al Padre della cristianità ciòche preoccupa milioni di tedeschi. Da settimane siamo spettatori, in Germania, diavvenimenti che comportano un totale disprezzo della giustizia e dell'umanità, pernon parlare dell'amore del prossimo. [...J Tutto ciò che è accaduto e ciò che accade

quotidianamente viene da ungoverno

che si definisce "cristiano". Non solo gli ebrei,ma anche migliaia di fedeli cattolici della Germania e, ritengo, di tutto il mondo, da

settimane aspettano e sperano che la Chiesa di Cristo faccia udire la sua voce controtale abuso del nome di Cristo. L'idolatria della razza e del potere dello Stato, con laquale la radio martella quotidianamente le masse, non è un'aperta eresia?".

Edith aveva programmato in quel periodo anche un viaggio a Roma (a cui poi

rinunciò) per un'udienza privata con il pontefice, al fine di ottenere una condanna

dottrinale dell'antisemitismo.I primi due saggi, dei quattro che compongono il volume, sono dedicati ad

inquadrare storicamente questa epistola, sia con il saggio La Santa Sede e la questionedell'antisemitismo sotto il pontificato di Pio XI di Philippe Chenaux, sia con quellodi Hugo Ott sui rapporti fra Edith, "filosofa e pubblicista cattolica", e l'intellettualità

tedesca negli anni del nazismo trionfante. In quest'ultimo contributo emerge lastoria della protagonista, le sue difficoltà nel mondo accademico, ma anche il suo

attaccamento patriottico (da liberale) e, soprattutto, lo choc determinato dalla vittoriadel nazionalsocialismo, assieme alle ben note ripercussioni di tale vittoria nel mondo

intellettuale: ci riferiamo, ovviamente, all'adesione di Heidegger al nazismo ed alsuo discorso per il rettorato del 27 maggio 1933, L'autoaffermazione dell'Universitàtedesca. Questo ed altri episodi, assai penosi per Edith, come, ad esempio, il congedo,ricevuto da Husserl (egli pure era di origini ebraiche), influirono certo non poco sullasua decisione di "ritirarsi" nella clausura del Carmelo.

I due saggi successivi, quello di Angela Ales Bello (curatrice del volume, nonché

direttore del Centro italiano di ricerche fenomenologiche) su Edith Stein, la Germaniae lo Stato totalitario e quello, conclusivo, di Vincent Aucante, Lo statuto paradossaledella fil iazione in Edith Stein: popolo eletto, razza, nazione, indagano la possibilità distabilire un'interpretazione steiniana del fenomeno del totalitarismo e, in particolare,di quello nazista. Merita - crediamo - attenzione soprattutto il lavoro della Ales Bello,la quale, alla luce degli scritti di filosofia politica e di "fenomenologia dello Stato" diEdith*, mette in luce la ricchezza degli studi della Nostra sui rapporti fra comunità,società e massa (alla luce, certo, anche della lezione scheleriana), così come sulla"struttura ontica dello Stato".

Francesco Paolella

·Cfr. di E. STIIN soprattutto Una ricerca sullo Stato (Roma 1993), Psicologia e scienze dello spirito- Contributi per una fondazione filosofica (Roma 1996), e La struttura della persona umana

(Roma 2000).

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M. SARFATII, La Shoah in Italia: la persecuzione degli ebrei sotto il fascismo,Einaudi, Torino 2005, pp. 165, 8,50 euro

Le leggi razziali del 1938 aprirono la strada alla persecuzione fascista degli ebreianche in Italia che, durante gli anni della Repubblica sociale mussoliniana, vennero

deportati a migliaia nei campi di sterminio nazisti. Poiché la Shoah non è stata unfenomeno esclusivamente italiano o tedesco, ma ha interessato di fatto tutti le nazionied i popoli del vecchio continente vi è un'ampia premessa che spiega le origini el'evoluzione della Shoah a cominciare anche dal termine stesso, da qualche tempo

utilizzato al posto di quello tradizionale di "Olocausto".Una seconda parte introduce sia i l periodo storico fra le due guerre mondiali, con un

particolare riferimento agli anni trenta e alle leggi di Norimberga volute da Hitler, siagli anni della seconda guerra mondiale nei quali venne attuato lo sterminio. Sebbene

la guerra sia iniziata nel 1939 Michele Sarfatti inizia l'analisi del genocidio dal 1941,quando con l'operazione Barbarossa i nazisti invasero l'Unione sovietica. L'ultimae più consistente parte del saggio è quella riguardante le persecuzioni antisemiteattuate dai fascisti che l'autore ipotizza suddivise in due distinti periodi cronologici:la persecuzione della mente (dalla promulgazione delle leggi razziali all'armistiziodel 1943) e quella delle vite (attuata dalla Repubblica sociale italiana). Del primosono ricordati i principi ideologici e quelli cosiddetti scientifici che furono alla base

della legislazione antisemita quale il documento ufficiale denominato "Il fascismoe i problemi della razza", più noto come i l "Manifesto degli scienziati razzisti" dalquale scaturì l'aberrante idea dell'antisemitismo biologico. Nella persecuzione dellevite è ampiamente ricordata l'attività delle autorità repubblichine che operarono fiancoa fianco con quelle naziste (ss, forze armate e polizia) nel portare a compimentola Shoah degli ebrei italiani (che al famigerato congresso di Verona del PPR furonodichiarati appartenenti a nazionalità nemica).

In appendice una serie di cartine geografiche e di documenti d'epoca riprodotti

illustrano la realtà razzista del fascismo, repubblichino e non: i l fascismo e i l problemidella razza, Dichiarazione sulla razza del Gran consiglio del fascismo, i l Regio decretolegge 17 novembre 1938 n. 1728, una circolare del comandante della Gestapo, generaleMuller, successiva all'8 settembre 1943, Manifesto programmatico del Partito fascistarepubblicano.

Michele Bellelli

P. ALLEGRI, Il viaggio di un resistente. Per un mondo fraterno senza armi erispettoso del creato, a cura di Giovanna Boiardi, Diabasis, Reggio Emilia 2005,pp. 320, con DVD allegato, 20 euro.

Paride Allegri, il partigiano Siria, comandante della 76a Brigata SAP di ReggioEmilia. Siria l'utopista. Ma, badate bene, "utopia" non intesa nella comune accezionedi progetti o scopi irraggiungibili, ma, kantianamente, di idee che, realizzandosi nellastoria (mondo fenomenico), tendono a sostituire i l diritto alla forza, la pace universaleallo stato di guerra fra gli uomini (Hobbes). 0, ancora, utopia che agisce come stimoloper la storia (E. Bloch).

Per capire l'Allegri della gioventù bisognerebbe leggere la sua autobiografia dallafine, da quando dà vita alla comunità di Ca' Morosini, a Montalto di Vezzano sulCrostolo, negli anni '70 del secolo scorso, e a tutte le iniziative a favore della naturae del disarmo. Solo così, credo, si può comprendere il candore (alle volte, confesso,un poco "disturbante"), che lo fa attraversare la lotta al nazifascismo come un insieme

casuale di eventi, a seconda del loro esito, fortunati o sfortunati; che lo fa calare connonchalance nel ruolo di "agente segreto" infiltrato nei nuclei comunisti reggiani in

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odore di eresia, come, ad esempio, i "Magnacucchi"; che gli fa rivelare che le armimigliori, i partigiani, le avevano nascoste per ogni eventualità ... Ma la sua lotta futuraper un mondo migliore e senza armi sgombra il campo da qualsiasi ombra: il suobattersi per la costituzione della scuola convitto "Rivaltella", rivolta alla formazioneprofessionale degli ex partigiani e non solo; il suo "battagliero" scandalizzarsi per la

deriva capitalistica di alcune aziende nate come cooperative e per l'''imborghesimento''del PCI, che si sarebbe sempre più allontanto dagli ideali che lo avevano fondato; la sua

resistenza nonviolenta. E, qui, forse, ritorna in filigrana la sua formazione giovanilenel volontariato della San Vincenzo, quando frequentava l'oratorio di San Rocco. Il«comunismo - cita Zambonelli nella prefazione che a mia volta riporto - come i princìpicristiani, sono la base per l'unità e la convivenza fra gli uomini, perché comunismovuoI dire equità e solidarietà ... I principi del comunismo sono ancora validi e nonfiniranno mai, perché i beni della terra sono a disposizone di tutti gli uomini e di tuttigli esseri viventi".

L'autobiografia di Sirio, risultato di lunghi colloqui con Giovanna Boiardi, puòoffrire una prospettiva diversa, che può piacere o no, della storia di Reggio dalla finedegli anni '50 agli anni '90; di una storia, cioè, dello sviluppo socio-economico visto

con gli occhi di chi quel tipo di sviluppo "troppo realistico" contrastava non con spiritoreazionario, ma con gli occhi dell'utopista che pone domande al mondo fenomenicoe "vede" avanti, sintonizzandosi con un sentire ecologista che diverrà, solo in questiultimi anni, patrimonio di una più vasta minoranza.

Gli spunt i per una riflessione sul nostro modo di vivere sono tanti, come sono tantii documenti in appendice che tracciano l'attività politica (da intendersi in senso pieno)

di un uomo oggi ultraottantenne, che ha attraversato il Novecento con le sue utopiee le sue tragedie, dal fascismo al nazismo al crollo della "patria del socialismo", l'uRSs.

Una dissoluzione, quest'ultima, fissata nella memoria collettiva mondiale con la cadutadel muro di Berlino nel 1989, che per Allegri non è stato il de prufundis dell'idealecomunista. «Sono morti loro - dice - nella loro coscienza. Sapevano e sanno bene chenell'uRss il comunismo non è stato mai realizzato".

Non sta certamente al vostro recensore andare oltre ciò che ha scritto Sirio, però

vuole chiudere queste chiose con una frase che è anche una speranza per tutti. «Sarebbebello - dice - se, invece che rumori di morte, si udissero solo le voci dei bambini. .. ".

Parole che Allegri ha rivolto al sindaco di Reggio Emilia nel corso della manifestazionedi inaugurazione del Parco della Resistenza. Lì, a pochi passi, c'è il tiro a segno ... deiCervi, di don Borghi e di tanti altri ammazzati. ..

Da leggere.Glauco Bertani

A. GIBELLI, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a

Salò, Einaudi, Torino 2005, pp. 412, 25 euro

L'opera affronta il tema dell'educazione dell'infanzia da parte del regime fascistapuntualmente inserito dall'autore in un quadro cronologico più ampio, che rimandaalle origini di questo processo, databile nei primi anni del Novecento e, in particolare,negli anni della Grande guerra. Questo è un terreno di studi ben conosciuto dall'autore,che può vantare diversi interessanti studi e ricerche sulla prima metà del :xx secolo euna cattedra di insegnamento di Storia contemporanea all'università di Genova.

Gibelli, nel suo saggio, affronta diversi aspetti, che vanno dall'inquadramento nelleformazioni balilla alle tecniche di convincimento utilizzate per trasformare bambinie adolescenti in fedeli adoratori della patria e potenziali soldati, ricostruendo una

visione soggettiva dell'infanzia che è passata attraverso quel tipo di formazione. Unlavoro reso possibile dall'utilizzo di fonti scritte dagli stessi bambini, quali esercizi

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di scrittura, lettere ai combattenti e diari, e di fonti inusuali come cartoline illustratee copertine dei quaderni di scuola, veri veicoli di propaganda capaci di colpire conimmagini mirate la fantasia e i desideri infantili.

L'ampiezza della visione dell'autore ci permette di inserire il fenomeno all'internodel processo di forte disciplinamento e nazionalizzazione delle masse, che caratterizza

soprattutto gli Stati totalitari, "ossessionati" dalla propria funzione formativa. Unprocesso che affonda le radici nell'affermazione progressiva della formazione nelloStato moderno, con la progressiva appropriazione di competenze, come, ad esempio,l'educazione tradizionalmente controllata da istituzioni quali la Chiesa e la famiglia. Èda sottolineare che l'attenzione statuale all'età infantile si è sviluppata solo all'iniziodel XX secolo - si pensi allo scoutismo, ed è da qui che inizia l'analisi di Gibelli.

Siamo di fronte, secondo l'autore, all'ennesima dimostrazione storica di quanto

lo Stato totalitario non sia una casuale patologia dello Stato di diritto ma una sua

continuazione. Infatti, l'interesse all'infanzia è dimostrato in tutti i regimi del Novecento,anche da quelli democratici. È tuttavia indubbio che questo fenomeno assume nel

regime mussoliniano Ce ovviamente anche negli atri regimi totalitari) livelli mai visti.Attingendo a piene mani dal fenomeno dello scoutismo sia laico sia cattolico, che vede

la luce nei primi anni del secolo scorso, il Partito fascista ha creato il suo originalemodello di inquadramento dei giovani. Il balillismo, ad esempio, si basava sullo spiritodi corpo e sull'indubbio fascino di una vita comunitaria e avventurosa, da "adulto",che i gruppi scout offrivano, ma inserita in un contesto fortemente militarizzato, incui l'aspetto rituale, con le sue parate e le sue marce, era preponderante. L'aspettopedagogico si fondeva così con una precoce leva militare, in grado di fornire, con

maggior velocità, soldati alla vorace macchina bellica statale, affamata sempre più di"carne da macello".

L'opera approda al tragico epilogo di questo processo: è la particolare congiunturastorica della seconda guerra mondiale, con le bombe che cadono sulle città, che

porterà all'infrangersi delle fantasie infantili sulla guerra, fatto che non si era verificatodurante la prima guerra, dove i combattimenti si svolgevano nelle trincee, lontano dailuoghi abitualmente frequentati dall'infanzia. Inevitabilmente il risveglio dal sognoofferto dalla propaganda di regime sarà traumatico, in modo particolare per giovanieducati fin dall'infanzia all'ideale della patria e al culto del duce: la guerra distruggeràinsieme agli uomini e alle città tutte le convinzioni che con estrema cura lo Stato avevainstillato in loro.

Il saggio - dotato di un buon apparato di note, sempre puntuale nei rimandia fonti documentarie e bibliografiche senza intaccarne la scorrevolezza - si mostrainteressante sia all'occhio esperto dello storico, in particolare a chi si cimenta con lastoria sociale e/o politica, sia all'occhio inesperto, di chi, cioè, si interessa di storia persemplice curiosità.

MarcoMarzi