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5/12/2018 Richard Stark - Guardati Le Spalle, Parker - slidepdf.com
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IL GIALLO MONDADORI ¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯
Richard Stark
GUARDATI LESPALLE, PARKER!
Titolo originaleThe green eagle score
Traduzione di
Maria Luisa Bocchino
Copertina diCarlo Jacono
©1967 Fawcett Publications, Inc.
©1968 Arnoldo Mondadori Editore
S.p.A., Milano
Fusco è appena uscito dal carcere, ma non ha nessuna voglia di rigar
dritto. Anzi, sogna il colpo grosso e quando, per caso, gli capita l'occa-
sione è abbastanza astuto per rendersi conto che da solo non ce la farebbe.
Gli occorre un «grosso calibro», un uomo dal polso fermo, dai nervi
d'acciaio. Chi, se non Parker, il «bandito di ventura»? Fusco è amico di
Parker... ammettendo che qualcuno possa fregiarsi di questo titolo... e il
bandito di ventura ascolta la proposta. L'impresa è irta di difficoltà, ma
proprio per questo Parker accetta. Si tratta di rubare le paghe dei militari
di una caserma e tutto viene organizzato a puntino; ma qualcuno è a cono-
scenza del piano, un «lupo solitario» che non conosce neppure quella spe-
cie di codice d'onore che vige fra i ladri. Il colpo riesce, ma non senzaspargimenti di sangue, e i rapinatori superstiti saranno alla loro volta rapi-
nati. Come sempre, Parker lascia dietro di sé una scia di brutalità e di
violenza.
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Richard Stark
GUARDATI LE
SPALLE, PARKER!(The green eagle score 1967)
Personaggi principali:
PARKER
il bandito di ventura
MARTIN FUSCO
ladro di professione
ELLEN FUSCO
ex-moglie di Martin
FRED GODDEN
medico psicanalista
STAN DEVERS
aviere della base americana
JAKE KENGLE
PHILLY WEBB
BILL STOCKTONi ladri
PRIMA PARTE
1
Parker lanciò un'occhiata verso la spiaggia e vide un tizio vestito di nero,
circondato da un'infinità di corpi in costume da bagno. Se ne stava là, ritto
accanto agli abiti di Parker, senza aver l'aria di guardare niente di partico-
lare, formando come una nota stonata nel quadro d'insieme. L'albergo,
tutto bianco e costellato di finestroni, si ergeva dietro di lui e, mentre il so-
le portoricano picchiava sodo e le onde si frangevano schiumeggianti sulla
riva, lui stava lì, immobile, come un nostalgico impresario di pompe fu-
nebri.
Parker sapeva bene chi era: Fusco, si chiamava. Rotolandosi nell'acqua,
chiamò Claire che nuotava un paio di bracciate più in là e le gridò:
— Io esco.
— Perché? — domandò lei, poi, guardando verso la spiaggia, intuì di
non aver bisogno di risposta. Arrancando, si avvicinò a Parker e disse:
— Mio Dio! Che figura allegra! Chi è?
— Mah! Un affare, forse. Tu, aspettami, da qualche parte. Sapeva che lei
non aveva voglia di sentir parlare di affari.
— Cercherò di migliorare la mia tintarella — rispose la donna. — Torni?
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— Sì. Non prendere troppo sole. — Si lasciò trasportare dalle onde verso
la spiaggia, ma, quando uscì dall'acqua, Fusco era sparito. Avvicinatosi alla
sua sedia a sdraio, si asciugò, s'infilò i sandali e, con la salvietta sulle spal-
le, attraversò la spiaggia, dirigendosi verso l'ingresso posteriore dell'alber-
go.Alto, grosso e robusto, dotato di un fisico atletico, Parker aveva un modo
di camminare stranamente goffo. Prima di abituarsi all'oscurità dell'inter-
no, impiegò qualche istante. Rimase sulla soglia, finché riuscì a mettere a
fuoco la vista, poi s'incamminò per il lungo corridoio che conduceva nell'-
atrio. Mentre lo attraversava, Fusco si alzò da una grossa poltrona di pelle
nera e, passando davanti a Parker, si diresse verso la sala del bar. Parker
salì con l'ascensore fino al settimo piano e andò nella sua camera.
L'aria condizionata, in funzione, rendeva la stanza piacevolmente fresca.
Parker telefonò al bar, ordinò acqua tonica e ghiaccio e comincio n vestirsi.
Poi si piazzò davanti alla finestra e si mise a osservare l'andirivieni dei tu-
risti che passeggiavano lungo Ashford Avenue, finché non udì bussare alla
porta. La sua acqua tonica. Firmò il conto e, preso un bicchiere dalla stan-
za da bagno, e una bottiglia di gin da un cassetto, si preparò da bere. Il bic-
chiere era già mezzo vuoto, quando arrivò Fusco. Parker aprì la porta in
risposta al suo bussare e Fusco entrò, esclamando:
— Accidenti, fa un bel caldo, da queste parti!
— Piuttosto — rispose Parker, chiudendo la porta. — Serviti da bere.
— Che cos'è, gin? Non lo posso bere — Fusco scosse il capo e si tastò lo
stomaco. — E' una cosa buffa. Da quando sono uscito di laggiù, non riesco
più a ingollare roba forte: mi fa subito andare in cimbali.
Non c'era niente da rispondere. Parker si avvicinò alla poltrona accanto
alla finestra e si sedette.
Fusco continuò. — Magari, prendo un po' d'acqua ghiacciata.
— Fa' pure.
Di media altezza e magrissimo, Fusco aveva il viso segnato come se fos-
se un uomo dalle mille preoccupazioni. Erano dieci anni che Parker non lo
vedeva, ma non gli sembrava affatto invecchiato. La permanenza in pri-
gione aveva forse nuociuto al suo stomaco e magari lo aveva reso più timi-
do, più esitante, ma d'aspetto non era certo peggiorato. Parker attese che
Fusco si fosse servito di acqua ghiacciata, poi disse:
— Avresti potuto cercare di camuffarti un po' meglio da turista.
Fusco storse il viso e corrugò la fronte, come se fosse stato colto da un
forte mal di pancia. — Non sono il tipo, io. Se mi metto in pantaloncini
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corti e una macchina fotografica a tracolla, prendo subito l'aspetto del bor-
saiolo. Devo restare come sono.
Parker alzò le spalle. —. Comunque, eccoti qua.
— Ho avuto il tuo indirizzo da Handy.
Discorso inutile: Handy Mc-Kay era l'unico ad avere l'indirizzo di Par-ker.
Parker assaggiò la sua bevanda e attese.
— Non mi piace scrivere — riprese Fusco. — Telefonare, meno che mai,
dato che farlo è un affare maledettamente complicato, perciò, ho pensato di
venire personalmente a informarti della faccenda.
Parker tacque ancora, aspettando di essere informato.
Fusco assunse di nuovo un'espressione preoccupata.
— Handy mi ha detto che stai cercando lavoro. In caso contrario, non sa-
rei venuto.
Parker doveva pur dargli qualche segno di stare ascoltando, altrimenti
Fusco non sarebbe mai arrivato al nocciolo della questione, perciò disse:
— Sono disponibile.
Fusco s'illuminò di un breve sorriso di sollievo.
— Splendido — disse. — Mi fa piacere. — E tacque di nuovo.
Parker cercò di tastar terreno. — Avresti qualcosa da propormi?
— Già. Ti ricordi di mia moglie Ellen?
Parker ricordava vagamente di aver sentito dire che Fusco si era sposato,
ma questo era successo cinque o sei anni prima, molto tempo dopo il loro
ultimo incontro. Ma era più spiccio annuire.
— Sì, mi ricordo.
— Non so, però, se l'hai mai conosciuta.
— No.
— Già, non credo. Comunque, appena mi hanno cacciato in galera, lei
ha chiesto e ottenuto il divorzio. Poco più di tre anni fa.
Sapevi anche che ho una figlia?
Parker scosse il capo. Non gliene importava un fico secco.
— No, non lo sapevo — disse.
— Ha tre anni — fece Fusco. — Quattro in luglio.
Nel terrore che Fusco cominciasse a tirar fuori fotografie di bambini,
Parker si affrettò a dire:
— Cosa c'entra tutto questo con un eventuale lavoro?
— Ci sto arrivando. Dopo il divorzio, Ellen si è stabilita a Monequois,
una cittadina al confine dello Stato di New York. Sai, il confine canadese.
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Parker annuì, trattenendo a fatica la sua impazienza. L'unica cosa da fare
con quel tipo di persone che aprono la bocca e si lasciano andare a diva-
gazioni, era di aspettare: prima o poi finiscono per arrivare al sodo. Cer-
care di spronarli è come farli deragliare. Finisce sempre che dimenticano le
cose più importanti. — E' rimasta con i suoi per un po' di tempo — continuò Fusco. — Mi sa,
però, che quelli le abbiano fatto passare giorni neri. Per me e via dicendo.
Perciò li ha piantati e se n'è andata a vivere per conto suo. Arrivata là, si è
trovata lavoro in un bar, fuori città. Proprio vicino a una base militare
d'aviazione: un posto grandioso, Davanti al cancello principale di quella
base, dalla parte opposta della strada, c'è un'infinità di bar, mi segui? Par-
ker annuì.
— Dopo qualche tempo — continuò Fusco — lei ha cominciato a inten-
dersela con un tizio della base. Stan Devers, si chiama. Che diavolo, non lo
critico mica. Prima di tutto siamo divorziati, poi io ero in carcere... quindi,
che male c'è?
Dove voleva arrivare con tutti quei discorsi? Parker non riusciva a capire
come potesse scaturire un qualsiasi lavoro da tutte quelle chiacchiere, e la
faccenda stava diventando sempre di più una sciropposa slungagnata.
— Arrivo al dunque — esclamò Fusco. — Ma prima devi farti un'idea
dell'ambiente.
Parker si strinse nelle spalle. — E sta bene. Vediamo l'ambiente.
— La cosa più importante — proseguì Fusco — è questo tizio: Stan De-
vers. Si tratta di un ragazzo, capisci. Ventitré, ventiquattro anni al massi-
mo. Più giovane di Ellen. Ma in gamba. Appena sono uscito di carcere,
sono andato a trovare Ellen e la bambina. Quando ho visto quelle divise e
tutti i vari aggeggi dentro l'armadio, m'è venuto un diavolo per capello.
Piuttosto naturale, ti pare? Inoltre, mi trovavo un po' a corto, non ero riu-
scito a metter via niente, quando mi avevano beccato, sai. Allora ho tentato
di far scucire dei soldi a questo Devers. Ti assicuro che è stata per me una
vera sorpresa. Un ragazzo furbo, sa quel che vuole, lui. Non si è mai cac-
ciato in avventure come le nostre, ma è un duro.
— Con questo, vuoi dire che non sei riuscito a fregarlo.
Fusco si strinse nelle spalle, senza dar segno di afferrare la spiritosag-
gine della cosa.
— Comunque, valeva la pena di tentare — disse. — Ma con lui, niente
da fare. E così abbiamo cominciato a conoscerci, mi segui? Una Coca Cola
oggi, una partita domani, uno scambio di idee... bravo ragazzo.
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— Bene, così siete diventati amiconi — esclamò Parker. — E, a questo
punto, gli è venuta l'idea di fare un colpo.
— No, l'idea è stata mia — rispose Fusco. — Lui, al principio, nicchia-
va, ma io gliene ho parlato tanto che sono riuscito a convincerlo del tutto.
Penserai certamente a un affare da dilettanti, lo capisco, ma in questo casoti sbagli. Stan è bravo quasi come la maggior parte dei professionisti del
nostro ramo.
— E la maggior parte dei professionisti in questo ramo è dentro — os-
servò Parker.
— Bisogna che tu veda quel ragazzo con i tuoi occhi — disse Fusco. —
Poi, se crederai di non poter combinare niente, come non detto. Comun-
que, noi abbiamo bisogno di un organizzatore. Come ho fatto osservare
anche a lui, nessuno dei due riuscirebbe a organizzare questo colpo come
si deve e io non mi caccerò mai più in un'impresa, se non sarò più che
sicuro della buona riuscita. E' stato proprio per disorganizzazione che mi
hanno beccato; e non ci ricasco più. Ho detto a Stan che avrei cercato di
mettermi in contatto con te; gli ho detto che tu sei il miglior organizzatore
del ramo. E' lui che ha scucito centoventi sacchi per farmi arrivare in volo
sin qui. E' un bravo ragazzo, diritto, te lo dico io, e quest'affare andrà liscio
come l'olio.
— Per quale ragione hai bisogno di lui? — domandò Parker.
— Perché lui si trova dall'altra parte — spiegò, serio, Fusco. — Lavora
all'ufficio amministrativo della base e...
— Un momento. L'ufficio amministrativo della base?
Parlando rapidamente, Fusco rispose: — Parker, ci sono cinquemila uo-
mini in quella base, e vengono pagati due volte al mese: pagati in contanti,
la faccenda è...
Parker lo interruppe, dicendo: — Un momento, aspetta un momento. E
tu sei venuto apposta fin qui per offrirmi un affare simile? Vorresti propor-
mi di andare a rubare in un ufficio amministrativo dell'esercito?
— Ma non si tratta di esercito, Parker! Aviazione. Inoltre loro...
— Cosa intendi dire con ... non si tratta di esercito? Non c'è forse un'-
inferriata tutto intorno?
— E' una base. La chiamano base.
— Ce l'hanno l'inferriata intorno, sì o no? E dei cancelli? E sentinelle ai
cancelli?
— Parker, ascolta, si "può" fare. Ci sono più di quattrocentomila dollari,
là dentro, Parker. Due volte al mese. Pronti per essere presi, da noi.
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— Pronti per te — ribatté Parker. — Io non vado a rubare a cinquemila
uomini armati.
— Ma non esistono cinquemila uomini armati! Sai come la chiama Stan,
l'aviazione militare? "L'esercito civile della salvezza"! Sai che cosa si por-
tano dietro, quei tipi, alle prove di allarme? Carabine scariche. Non hannoneppure le cartucce!
— Qualcuno ce le avrà — ritorse Parker. — Da qualche parte, in quel
posto, in quella base o come diavolo si chiama, da qualche parte ci sarà pu-
re qualcuno che non permetterà che noi si prenda quei quattrocentomila bi-
gliettoni. E io, quel qualcuno, lo lascio in pace, ficcatelo bene in testa.
— Ma, Parker, noi abbiamo un aggancio in campo avverso!
— Benissimo. Così, se noi entriamo là dentro e ci portiamo via il mal-
loppo, chi sarà il primo a essere beccato dalla legge? Il tuo "aggancio"!
— Ma te l'ho già detto — insisté Fusco, parlando rapidamente. — Stan è
in gamba. Lui se la caverebbe benissimo, Parker. Ne sono sicuro.
— Non puoi sapere niente di lui, finché non supera la prova. E ciò signi-
fica che non si può sapere come reagirà, per la semplice ragione che non si
è mai trovato in una simile situazione.
Fusco allargò le mani.
— Cosa ti devo dire, Parker? Io ne ho la certezza.
Parker lo guardò. Fusco era certo, sta bene, e poi? Era l'esperto in lui ad
avere quella certezza, oppure l'uomo colto da quella specie di disperazione
che prende perfino i più solidi, i migliori, quando devono ricominciare a
farsi largo dopo un lungo periodo di prigione? La necessità di far soldi è
determinante, in queste circostanze, poiché, in genere, quelli che escono
freschi freschi di galera, hanno buttato tutti i loro quattrini in avvocati; ma
bisognava considerare anche la necessità morale di risalire in sella, per
provare a se stessi di essere ancora in gamba e per dimostrare che il loro
precedente infortunio è stato soltanto un caso scalognato, un caso su mille,
impossibile perciò a ripetersi. Quindi diventano impazienti e si attaccano
alla prima occasione che gli capita, per essere ricacciati subito dentro.
Ma Parker non era impaziente. Lui aveva ancora un discreto malloppo e
riserve nascoste qua e là, e nessun bisogno di provare niente a se stesso, e
tempo in abbondanza per aspettare l'occasione giusta.
I suoi fondi non erano proprio tanto cospicui da soddisfarlo eccessiva-
mente, e in modo particolare ora che aveva Claire con sé - era per quello
che cercava di fare qualcosa - ma la sua ricerca non aveva nessun sintomo
di urgenza. Claire era responsabile, in gran parte, di quella sua calma.
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Durante gli ultimi anni, prima di incontrarla, si era trovato sempre di più
nello stato d'animo di rubare tanto per rubare, di rubare tanto per scacciare
la noia di vivere, e quello era uno stato mentale tanto pericoloso quanto
può esserlo l'ansia di un ex carcerato. Aveva conosciuto Claire proprio du-
rante un colpo che aveva accettato d'intraprendere, pur sapendo che nonera molto buono: un colpo simile a questo che gli stava proponendo Fusco,
un colpo ideato da una mente uscita fresca fresca di prigione e da quella di
un dilettante dall'altra parte.
Quel colpo era andato male sotto moltissimi aspetti, ma almeno ne aveva
ricavato lei e con lei, finalmente, la tranquillità, quella tranquillità che gli
rendeva possibile di giudicare con mente obiettiva ciò che Fusco gli stava
offrendo in quel momento, e quella calma che gli permetteva di decidere se
fosse o meno il caso di lasciarvisi coinvolgere.
Finì di bere, si alzò e, avvicinandosi al mobile su cui stavano ghiaccio e
gin, si preparò un altro beveraggio. Dopo essersi nuovamente seduto, dis-
se:
— Parlami di questo tizio che ci dovrebbe aiutare.
— Un ragazzo — rispose Fusco. — Ventiquattro anni, neppure. Uno stu-
dente. Buttato fuori dall'esercito non so per quale ragione: ecco perché si
trova lì, arruolato. Lavora all'ufficio amministrativo.
— Ha le chiavi?
— Sicuro. Non dovrebbe averle, ma se le è fatte fare.
— Chi è a conoscenza del fatto che le ha?
— Io ed Ellen. E ora tu.
Parker scosse il capo. — E i suoi compagni della base?
— Non è un tipo simile, lui — disse Fusco. — E' un solitario. Ha un paio
di amici con i quali va al bar ogni tanto, tutto lì. Ma non parlerebbe mai di
queste cose, con loro.
— Ne sei sicuro? Magari vorrà infilarci anche quelli.
— Cribbio, no! — Fusco gridava, enfatico. — Parker, ti dico che quel ra-
gazzo è in gamba. Lui sa che facendo un colpo da professionisti esperti, si
diventa professionisti. Me l'ha già detto. Se quello che organizzeremo non
gli sembrerà attuabile, sia ben chiaro: lui non ci sta.
— E che cosa farà, quando la polizia gli darà addosso? — chiese Parker.
— Perché succederà, lo sai.
— Terrà duro.
— Come fai a saperlo?
Fusco gesticolò con le mani, vago. — Conosco il ragazzo. Lo capirai da
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te, appena lo vedrai.
— Non è detto che il colpo debba andare in fumo, qualora fossimo co-
stretti ad agire in altro modo — gli ricordò Parker.
Fusco era troppo preso dalle sue idee per afferrare subito il significato
della frase di Parker. — Quale altro modo?
— Se saremo costretti a buttare a mare il ragazzo, una volta fatto il col-
po.
— Vuoi dire farlo fuori? — Fusco aveva l'aria veramente scossa. — Ac-
cidenti, Parker, ti ho detto che è a posto.
— Nessun precedente?
— Non credo. E' solo un ragazzo.
— Anche i ragazzi hanno precedenti.
— Domandaglielo. Io non lo so.
Parker alzò le spalle. Disse:
— Va bene, lasciamo perdere. Che mi dici della tua ex moglie?
— Ellen? Cosa vuoi sapere?
— C'è anche lei, no?
— Sicuro — rispose Fusco, buttando la cosa là, come se non sapesse il
motivo per cui Parker ne parlava. — Lei sa della faccenda, se intendi que-
sto.
— Vi partecipa, o assiste soltanto?
— Oh, no! Lei non vorrebbe mai parteciparvi. Ma non ha importanza se
lo sa. Che diavolo, c'era abituata, quando stava con me. Sapeva sempre
tutto. Ci possiamo fidare, garantisco.
— Come stanno le cose fra te e lei?
Fusco scosse il capo. — Niente — disse. — Non mi vuole più. Va da una
specie di medico-stregone. Ne è come imbambolata. Dice che non avrem-
mo mai dovuto sposarci, prima di tutto. Non è colpa di nessuno, nessuno
deve prendersela con nessuno...
— E fra te e Devers?
— Non sono geloso, Parker. Mi conosci abbastanza.
— Te, va bene. Ma lui come reagisce con te, l'ex marito, sempre tra i
piedi?
Fusco si strinse nelle spalle. — Se ne frega. Perbacco, lui sa benissimo
come stanno le cose, sa che non tento di rompergli le uova nel paniere.
— Va bene. Parlami della base. Dicevi che si tratta di aviazione.
— Già. — Fusco si sporse in avanti, i gomiti sulle ginocchia, l'espressio-
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ne seria e attenta. — E' una specie di accademia: ci sono un sacco di scuole
e specializzazioni. C'è sempre un grande andirivieni. La maggior parte
degli allievi si ferma soltanto due o tre mesi.
— Che specie di aeroplani hanno?
Fusco parve sorpreso della domanda. — Non lo so — disse. — Vuoi fareil colpo in aereo?
— Come posso saperlo? Non so neppure se lo farò! Allora, sai qualcosa
di questa base, o no?
— Stan ti spiegherà bene tutto quanto. Io non m'intendo di cose militari.
— Non ti sei neanche preso la briga di andare a curiosare?
— Certo che l'ho fatto. — L'orgoglio professionale di Fusco era ferito.
— Sono entrato alla base un paio di volte. Stan mi ha procurato una carta
d'identità fasulla.
— Quanto dista l'ufficio amministrativo dal cancello?
— Be', i cancelli sono tre. Dal cancello principale è schifosamente lonta-
no, ma dall'altro, da quello a sud, c'è solo la distanza di due isolati. E' come
un'entrata posteriore.
— Quante sentinelle a ogni cancello?
— Due. Due ragazzetti.
— E questi stipendi ammonterebbero a quattrocentomila dollari.
— Circa. Certe volte di più, certe volte di meno.
— In che modo arrivano?
— In aereo, il giorno prima.
— Dimmi la sequenza — disse Parker.
— L'aereo arriva il giorno avanti, al mattino. I quattrini sono in due cas-
sette metalliche che mettono in una specie di camioncino e portano all'uf-
ficio. Poi...
— Che tipo di camion?
— Un regolare furgone blindato. Un osso duro, Parker.
— Bene. Poi?
— Fanno le buste paga per tutto il distaccamento. Sistemano il denaro,
con acclusa una lista di tutti gli stipendi, in piccole cassette di metallo, per
ogni distaccamento. Poi cacciano ogni cosa in una cassaforte blindata per
la notte. La mattina seguente caricano di nuovo tutto sul furgone blindato e
lo portano in giro per la base. In ogni distaccamento c'è un ufficiale che si
occupa delle paghe, firma la ricevuta e prende in consegna la cassetta.
Quindi, comincia a distribuire gli stipendi.
— Sorveglianza notturna?
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— Due A.P. nella stanza accanto a quella dove c'è l'armadio blindato che
funge da cassaforte.
— A.P.?
— Polizia aerea.
— Quanta gente lavora nell'ufficio amministrativo, durante il giorno? — Di preciso non lo so. Mi pare venti persone. Questo è proprio quello
che Stan ti saprebbe dire con esattezza.
— Potrebbe venire qua, magari.
Fusco sogghignò. — E tu daresti retta a un ragazzo che non conosci nep-
pure?
— Non so nemmeno se darò retta a te — ribatté Parker. — Comunque,
cosa vuoi da me, allora?
— Vieni con me. Parla con Stan. Da' un'occhiata generale e prendi una
decisione. Se la cosa non ti va, pace. Stan ti paga andata e ritorno. Anche
alla signora, se vuoi.
Parker vuotò il bicchiere e si alzò.
— Te lo farò sapere — disse, e si avvicinò al cassettone per prendere un
co-stume da bagno. Mentre si cambiava, proseguì. — Hai preso una came-
ra qui?
— No. Sono all'Holiday Inn, vicino all'aeroporto.
— Numero di stanza?
— Quarantanove.
Dopo aver indossato il costume, Parker andò in bagno a prendere un
asciugamano pulito. Quando uscì, disse:
— Torna al tuo albergò. Mi farò vivo io.
— E' una cosa seria, Parker. Ne sono sicuro.
— Beviti con calma la tua acqua ghiacciata, e quando te ne vai, assicura-
ti che la porta sia ben chiusa.
2
Claire stava allungata sulla sedia a sdraio a faccia in su, le braccia lungo
i fianchi, gli occhi chiusi, un ginocchio sollevato. Indossava un due pezzi
giallo, aveva la pelle dolcemente abbronzata e gli occhiali da sole rende-
vano anonimo il suo bel viso.
Gli uomini che la occhieggiavano lanciarono uno sguardo ostile a Parker
che, arrivando, le sedette accanto, dicendo:
— Eccomi di ritorno.
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Lei aprì un occhio, annuì, poi lo richiuse.
— E' un ometto buffo.
— Anche le sue idee sono buffe.
— Non voglio sapere niente — esclamò lei, e il suo corpo parve irrigi-
dirsi anche se, apparentemente, non aveva fatto alcun movimento. — Non te ne parlerò — rispose Parker.
Quell'unica volta in cui Claire era rimasta coinvolta in un colpo, le era
bastata. Perciò, avevano fatto un patto: lei non gli avrebbe mai chiesto in
che cosa trafficava, e lui avrebbe cercato di non parlargliene mai. E su que-
sto si trovavano perfettamente d'accordo.
Lei chiese di lì a poco:
— Vai via?
— Non lo so ancora — rispose Parker. Appoggiò l'asciugamano sulla
sdraio e riprese. — Vado a fare un bagno.
— Io ne ho fatti abbastanza. Resto qui al sole.
Parker s'incamminò verso il mare traversando la bollente spiaggia du-
nosa. Due donne abbronzatissime, in costume da bagno bianco, stavano
uscendo insieme dall'acqua e, mentre si toglievano la cuffia e scotevano i
biondi capelli, guardarono Parker tra le ciglia socchiuse, l'una cercando di
mettersi più in vista dell'altra. Ma lui le ignorò completamente.
Un tempo, le donne erano state un buon antidoto contro la smania di tor-
nare al lavoro, ma ora che aveva Claire, i brevi, anonimi incontri, non lo
interessavano più. Le oltrepassò ed entrò in acqua. A un certo punto, spor-
gendosi in avanti, si tuffò fendendo un'onda che si frangeva, poi si rialzò
per affrontare quella dopo, quindi si lasciò cullare dal mare. Teneva però
sempre d'occhio la spiaggia, per non perdere l'orientamento. L'oceano, in
quei paraggi, poteva ingrossare tutt'a un tratto, perciò, lui voleva sempre
rendersi conto di dove si trovava. Proprio il giorno prima due giovani era-
no stati colti in una specie di mulinello e le onde, invece di spingerli a riva,
li tenevano imprigionati, portandoli sempre più lontano, finché si erano
trovati costretti a gridare aiuto e alcuni esperti nuotatori avevano dovuto
tuffarsi per riportarli a riva.
Parker aveva un gran rispetto per il mare: quello stesso rispetto che ave-
va per ogni avversario potente, e non provava nessun desiderio di sfidarlo.
Si sarebbe unito a Fusco nella sfida contro le forze militari dell'aviazione
degli Stati Uniti? Così, di primo acchito, la cosa sembrava assolutamente
senza senso; comunque, ogni colpo pareva sempre impossibile, prima di
attuarlo. Questo, però, gli veniva presentato da un professionista che cono-
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sceva da anni, perciò, anche se Fusco era appena uscito di prigione, Parker
doveva valutare bene la sua proposta. Non poteva escluderla a priori.
Forse poteva esserci veramente qualcosa di buono. Fusco era pur sempre
un professionista, con l'esperienza e il cervello del professionista, quindi
poteva darsi che laggiù, in quel paese, a nord di New York, fra la sua exmoglie, l'impiegato di quell'ufficio dove pagavano gli stipendi, e l'aviazio-
ne degli Stati Uniti, saltasse fuori un buon colpo da effettuare.
E se davvero fosse stato possibile, se avessero potuto studiare tutti i par-
ticolari, ogni eventualità, calcolare tutti i pericoli e prepararsi a schivarli;
se davvero fossero riusciti a penetrare in quella base militare dell'aeronau-
tica e uscirne col malloppo degli stipendi, che meraviglioso colpo sarebbe
stato! Non gli costava niente andare a vedere di che cosa si trattava. Se poi
la cosa non gli fosse sembrata attuabile, nessuno lo avrebbe obbligato.
Claire sarebbe rimasta lì ad attenderlo e lui sarebbe ritornato da lei e si
sarebbe riposato ancora, rilassato ancora, mettendosi di nuovo ad aspettare
che arrivasse qualcun altro con una proposta migliore.
Bene. Cambiò direzione e si lasciò trascinare verso riva, poi si avviò
sulla sabbia, sotto il sole cocente, verso Claire che, in quel momento, era
sdraiata bocconi e, appoggiata ai gomiti, un libro di edizione tascabile.
Parker le andò accanto, inforcò gli occhiali e si stravaccò sulla sedia a
sdraio, il viso rivolto al sole. Poi disse: — Me ne vado per qualche tempo.
Senza alzare gli occhi dal libro, lei rispose: — Lo sapevo.
— Può darsi che stia fuori soltanto un giorno o due. Se non mi vedi tor-
nare entro due giorni, calcola che non ritornerò prima di due settimane,
almeno.
— Oppure mai.
Lui la guardò, ma lei teneva gli occhi chini sul libro. — Non ho alcuna
intenzione di lasciarti.
— Forse non di proposito — disse lei. — Ho conosciuto altri uomini co-
me te, prima d'ora.
Magari alludeva al marito, che era stato pilota di linea, e che si era sfra-
cellato contro la cima d'una montagna.
A Parker non andava quell'analogia.
— No, non hai mai conosciuto nessuno come me. Io cammino soltanto
nei punti dove so che il ghiaccio è spesso.
— Già. Proprio così. Cammini sul ghiaccio.
Non dirai di esserne sorpresa. Lo hai sempre saputo.
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— Sì.
E allora, perché mi parli così?
Lei lo guardò attraverso le lenti verdi degli occhiali da sole. Un istante.
Poi ritornò al suo libro, scuotendo il capo.
— Non lo so. Così, senza alcuna ragione. — Sta bene. — Parker rivolse di nuovo il viso al sole e disse: — Ti pa-
gherò la camera per un mese. Se per allora non sarò tornato, nella cassa-
forte dell'albergo c'è un pacchetto in cui troverai abbastanza per tirare
avanti parecchio tempo.
— Se non sarai tornato entro un mese, non dovrò più aspettarti, vero?
— Esatto.
— E non mi farai sapere niente?
— Forse no. Potrei farlo, se ci fosse un motivo, ma certamente non lo fa-
rò per dirti "ciao, che bel tempo fa."
— Capisco.
Parker si alzò in piedi. — Non prendere troppo sole — le raccomandò.
— Fra un poco rientrerò — rispose lei.
Parker prese l'asciugamano e si avviò verso l'albergo. Quando arrivò sul-
la porta, si voltò, ma Claire non lo guardava. Stava china sul libro, le mani
sulla faccia.
Parker entrò nella hall.
3
— Stan — disse Fusco. — Questo è l'amico di cui ti parlavo. Parker, ti
presento Stan Devers.
A New York pioveva e quell'acquerugiola sull'aeroporto sottolineava il
buio, il freddo e l'umido che facevano sembrare il caldo sole di Portorico
ancora più lontano.
Gente dal viso tirato si accalcava verso l'uscita, spingendosi l'un l'altro,
trascinando con aria seccata e frettolosa il proprio bagaglio. In mezzo al
salone brillantemente illuminato, Parker, Fusco e Devers formavano come
un isolotto attorno al quale turbinava una gran confusione e la folla indaf-
farata riusciva a non urtarli senza neanche rendersi conto della loro pre-
senza.
Devers tese la mano. — Ho sentito parlare molto di voi, signor Parker.
— Era piuttosto un bel ragazzo, muscoloso, sorridente e sicuro di sé, con i
tratti del viso marcati e biondi capelli ondulati. La sua stretta di mano era
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consapevolmente salda. Era in borghese, e il suo abito troppo di buon ta-
glio, perché lo si potesse supporre comprato con il misero stipendio dell'-
esercito.
Se quel ragazzo non fosse stato troppo giovane per una cosa del genere,
pensò Parker, sarebbe stato il tipico esemplare di quegli assicuratori che piazzano le loro polizze mentre giocano a golf.
— Ho la macchina, qua fuori — disse Devers.
In aereo, Fusco aveva spiegato a Parker che la maniera più rapida per ar-
rivare da New York a Monequois era viaggiare in automobile. C'era un ser-
vizio aereo locale, ma era lento e poco sicuro. Ecco perché avevano avver-
tito Devers di venire loro incontro all'aeroporto Kennedy. Si avviarono
verso l'uscita. Devers li precedette, dicendo, senza voltarsi: — Abbiamo
davanti a noi circa cinque ore di viaggio, perciò, se volete fermarvi per
qualche motivo, fatelo ora.
— Ci fermeremo durante il tragitto — rispose Parker.
— Bene.
Uscirono nell'aria piovigginosa. Nonostante che il piazzale fuori fosse
ricoperto, l'umidità rendeva tutto appiccicaticcio.
A sinistra, un autobus stava riempiendosi di viaggiatori, e una fila di tas-
sì avanzava piano piano su per la rampa, scaricando passeggeri e carican-
done altri. Devers aveva posteggiata irregolarmente la sua macchina, una
Pontiac marroncina di due anni, in una zona vietata sulla destra. Aprì il
baule e vi cacciò il bagaglio mentre gli altri due salivano dentro. Fusco
fece per sedersi davanti, ma Parker lo fermò.
— Siediti dietro. Voglio parlare con il tuo ragazzo.
— Ottima idea.
Per un istante, Devers si mostrò sorpreso quando, salendo in auto, vide
che Parker si era seduto accanto, a lui, ma tutto quel che disse fu:
— La faccenda più lunga e noiosa, ora, è uscire dal bailamme di questa
benedetta città. — Accese il motore, tagliò la strada a un tassì e condusse
la macchina giù per la rampa, verso la pioggia.
Devers era un ottimo guidatore anche se un po' troppo veloce e presun-
tuoso. Mentre giravano intorno all'aeroporto Kennedy e puntavano verso
l'autostrada di Van Wyck, sorpassarono una gran quantità di macchine e, da
quel momento in poi, Stan mantenne una media di centoventi, centotrenta
chilometri l'ora, superando il limite di velocità concesso.
Era passata da poco mezzanotte, una volta usciti dall'aeroporto, il traffi-
co risultò piuttosto scarso. Devers percorse ottime strade durante tutto il
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tragitto: la Gran Central Parkway, il Triborough Bridge, poi attraversò la
Major Deegan Expressway, e malgrado la pioggia impiegarono solo mez-
z'ora ad arrivare all'inizio della Thruway, un'altra autostrada al confine del-
la città di New York.
Parker attese fino a che Devers non ebbe infilato la Thruway e lanciatola macchina verso nord: le gomme sibilanti sull'asfalto bagnato, il tergi-
cristallo che andavano avanti e indietro. Poi domandò:
— Qual è il prezzo di ogni rata per una macchina come questa?
Devers restò sorpreso della domanda. Guardò Parker e, lì per lì, parve
che stesse per chiedergli che cosa gliene importava, poi si strinse nelle
spalle e tornò a guardare la strada.
— Non lo so, esattamente. Io ho pagato in contanti.
Parker annuì, e voltò il viso verso il finestrino e quando, poco dopo, De-
vers gli domandò se la musica lo disturbava, rispose di no. Devers trovò
una stazione di rock-and-roll, ma poiché tenne il volume basso, non risultò
spiacevole. Purtroppo, non sempre il ritmo della musica andava a tempo
col tergicristallo.
Si fermarono alla stazione di servizio Ramapo, vicino a Sloatburg.
Mentre stavano cenando, Parker osservò:
— Bello, quel vestito.
Devers sorrise compiaciuto, guardandosi l'abito.
— Vi piace?
— Dove lo hai comprato? Non certo a Monequois.
— Perbacco! No davvero. Da "Lord e Taylor", a New York.
Devers parlava col tono orgoglioso di un uomo che sa scegliersi i nego-
zi.
Parker annuì. — Ti ci servi spesso?
— Ho un conto aperto presso quella ditta — rispose Devers. — Fra "Lord
e Taylor" e "Macy", mi rifornisco di tutto ciò che mi abbisogna.
— Capisco — disse Parker, e riprese a mangiare.
Quando ritornarono all'automobile, la pioggia era cessata.
La Pontiac splendeva sotto il riflesso delle luci del ristorante e pareva
quasi nera. Questa volta, Parker fece sedere Fusco davanti, mentre lui si
accomodava sul sedile posteriore. Devers riportò l'auto sulla Thruway or-
mai quasi deserta, spinse la velocità oltre i centocinquanta, e riaccese la ra-
dio. Aveva trovato un'altra stazione radiofonica, ma la musica era sempre
la stessa. Nessuno parlò. Le luci del cruscotto erano verdi e la notte, al di
fuori, raramente punteggiata dai fari. Parker notò che, di tanto in tanto,
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Devers lo guardava nello specchietto retrovisivo: il ragazzo lo stava stu-
diando con curiosità, rispetto e una certa perplessità. Parker chiuse gli oc-
chi e ascoltò la notte lamentarsi sotto le gomme della macchina.
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Una luce fredda e chiara penetrò nella stanza, quando Parker apri la por-
ta. Con un gesto fece cenno a Fusco di passare e domandò:
— Fatto colazione?
— Sì.
Parker chiuse la porta. — Siediti — disse.
Si trovava nella stanza di un motel in una città chiamata Malone, a circa
venticinque, trenta chilometri da Monequois. Era il classico motel d'una
piccola città, con i muri in cemento dipinti di verde, i mobili moderni, imi-
tazione svedese, i soliti brutti tappeti e scarsità di asciugamani. Da molti
anni, Parker aveva imparato che non conviene stabilirsi sul luogo dove si
vuole fare un colpo, perciò quel motel sarebbe stata la sua residenza, fin-
ché il colpo non avesse avuto luogo o avesse deciso di non farne nulla.
Dato che Fusco abitava a Monequois già da qualche mese e cioè da
quando era uscito di prigione, per lui non c'era più niente da fare. Doveva
restare li. La sera prima, quindi, Fusco e Devers avevano lasciato Parker al
motel, con l'accordo che Fusco, prendendo a prestito la Pontiac, sarebbe
venuto a rilevarlo l'indomani.
Sedendosi sull'unica sedia della stanza, Fusco disse:
— Che cosa mi dici di Stan?
— O è molto in gamba... oppure non lo è affatto — replicò Parker. — Vo-
glio sapere quale delle due alternative risponde al caso.
— E' in gamba, Parker. Cosa ti fa pensare il contrario?
— Sarei curioso di sapere quant'è che frega quattrini in quell'ufficio.
Fusco parve sorpreso. — Frega quattrini?
— Dài — esclamò Parker. — Si è sistemato proprio bene in quell'ufficio
amministrativo, e tutti i mesi lo alleggerisce di un paio di centoni, forse
anche di più.
— Ti assicuro che non me ne ha mai parlato. Giuro!
— C'era bisogno che te lo dicesse? Se ne va a New York e si compra un
vestito da "Lord e Taylor", dove ha il conto aperto. Quanto credi che gli sia
costato quel vestito?
Fusco allargò le mani. — Non mi era neanche passato per la testa. Io non
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sono fatto così, Parker. Quando uno mi dice una cosa, ci credo.
— Sei venuto qui con la sua macchina?
Fusco si accigliò, strusciandosi la mascella con le nocche della mano. —
Bella, vero? Non ci avevo mai pensato. Sicché pensi che stia turlupinando
la compagnia? — Non te ne ha mai parlato — ribatté Parker. — Questa è una buona co-
sa. Pagare l'auto in contanti è stato un gesto sciocco, comunque, se sa te-
nere il becco chiuso, può darsi che sia un tipo a posto. Come vanno i rap-
porti fra te e quella tua ex moglie, come diavolo si chiama?
— Ellen. Seguita a farsi chiamare Ellen Fusco.
— Sei in buoni rapporti con lei?
— Naturale! Perché no?
— Buoni abbastanza per farle qualche domanda su Devers?
Fusco scosse il capo. — Non ne sono sicuro. Che genere di domande?
— Voglio sapere se le ha detto ciò che sta facendo.
— Vuoi sapere che sistema usa?
Parker scosse la testa con violenza. — No. Voglio sapere se ha vuotato il
sacco con lei.
— Ah! — Fusco annui. Disse: — Giusto. Posso cercare di scoprirlo. Ma-
gari non direttamente. Capisci cosa voglio dire?
— Tu cerca di saperlo. Come farai, non m'interessa. — Parker accese
una sigaretta e si avvicinò al comodino per buttare il fiammifero nel
portacenere che vi era sopra. Voltandosi nuovamente a guardare Fusco, ri-
prese: — Là, a San Juan, ti dissi che forse avremmo potuto fare il colpo
anche se Devers non era adatto. L'idea non ti piacque.
— Perché tanto io lo so che è adatto.
— Io invece non lo so — rispose Parker. Meditò un istante, poi disse: —
Quale importanza ha questo Devers per te?
— Importanza? — Fusco aveva l'aria confusa. — Che cosa vuoi dire?
— Voglio dire: cosa fai se io considererò Devers un impiccio? Cosa pen-
si se ti dirò che l'affare è buono, ma Devers, no? Cosa mi dici se deciderò
di fare il colpo eliminando Devers? A quel punto, cosa succede: si va avan-
ti o si abbandona l'idea?
Fusco allargò di nuovo le mani, annaspando per qualche istante, come
alla ricerca di una risposta. Poi disse, molto lentamente:
— Non verrà sollevata questa questione, Parker. Sono sicuro che non
succederà.
— La sto sollevando io, ora. Fusco scosse il capo, si guardò le mani
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aperte, poi si volse verso la finestra dove lame di sole filtravano attraverso
le veneziane. Finalmente disse:
— Ecco, ti dirò qual è il problema. Ellen. Si tratta di Ellen. lo non voglio
che Ellen... non vorrei che Ellen pensasse che lo faccio per lei... e magari
che ho combinato tutto quanto per far fuori Stan. Lei lo penserebbe subito. — E che importanza ha quello che pensa lei?
Fusco alzò le spalle, continuando a tener gli occhi fissi sulla finestra.
— Si vendicherebbe, mi darebbe addosso. Spiffererebbe ogni cosa.
Questo significa che non c'è da fare affidamento su nessuno ilei due. —
Parker scosse la sigari! la nel portacenere. Osservando Fusco, proseguì: —
Potremmo trattare anche lei allo stesso mollo.
A questo punto, Fusco piantò gli occhi in viso a Parker, l'espressione sor-
presa, sconvolta.
Per amor di Dio, Parker!
Lei ha la mia bambina, te l'ho già detto! Per amor di Dio, non puoi, non
puoi...
Parker annuì e si avviò verso la porta. — Era esattamente quanto volevo
sapere — disse. — Le regole del gioco.
— Non vorrai mica, Parker...
— Fusco era ancora agitato.
— No. Ma dovevo sapere quali erano i limiti. Ora li so. Se Devers non è
come vogliamo, non se ne fa niente.
Fusco lo guardò.
Parker scosse il capo. — Non ho nessuna intenzione di uccidere la ma-
dre della tua bambina — disse. — Ma devo sapere che cosa si può fare e
che cosa non si può fare. Cos'è che manderà in fumo il colpo e cosa, inve-
ce, lo terrà in piedi. — Aprì la porta e il sole penetrò dentro. — Andiamo.
— Mi hai spaventato a morte — disse Fusco, alzandosi, e sorridendo de-
bolmente. — Temevo che tu dicessi: sta bene, faremo fuori anche la bam-
bina.
— Non credo che ci saresti stato — rispose Parker.
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— Ellen — disse Fusco. — Ti presento Parker. Parker, questa è la mia ex
moglie.
Ellen Fusco disse: — Piacere.
Parker fece un cenno con la testa.
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Ellen Fusco era piuttosto diversa da come se l'era immaginata. Piccola di
statura, ossuta, sarebbe stata anche abbastanza graziosa, se non avesse avu-
to quelle profonde rughe verticali sulla fronte e quel modo di guardare il
mondo con aria di sfida rabbiosa. Aveva l'aspetto di chi si fa largo nella vi-
ta, tenendo sempre i pugni minacciosamente sui fianchi. La sua casarispecchiava quell'atteggiamento bellicoso. Era squallida, ma pulita, come
se né la polvere né fronzoli voluttuari osassero entrare lì dentro. I mobili
erano assolutamente banali, dal divano sfiancato al solito carrello per il te-
levisore, ma la libreria era forse un tantino più grande di quelle che si tro-
vano in ogni salotto di tipo medio, e i libri in essa contenuti erano per la
maggior parte piuttosto ponderosi: Sartre e De Beauvoir, i fratelli James,
Uwe Johnson, Edmund Wilson.
Il suo abbigliamento mostrava la stessa truculenta, anonima semplicità.
Indossava pantaloni neri, una maglia grigio scuro senza maniche, scarpette
marrone senza tacco, niente calze. Aveva i capelli neri, lunghi e lisci e li
portava legati con un nastro alla base della nuca. Non aveva il benché mi-
nimo trucco sul viso, né smalto sulle unghie, quasi come se l'impressione
che voleva dare di sé, pencolasse tra una bohemienne di Greenwich Villa-
ge e una fattoressa del Nebraska.
— E' già alzato Stan? — le domandò Fusco.
— E' nel bagno.
Parker guardò l'orologio. Le dieci e quaranta.
— Volete una tazza dì caffè? — chiese Ellen.
— Ottimo — rispose Fusco. — Che ne dici, Parker? — Pareva agitato,
nervoso, come se non sapesse se fosse il caso di comportarsi da padrone di
casa o meno. Era stato sposato con quella donna, aveva portato Parker nel-
la sua casa, ma nel bagno c'era un altro uomo.
— Sì, forte — rispose Parker, rivolgendosi direttamente a Ellen.
— Accomodatevi — fece lei, e si diresse, attraverso un arco, verso una
piccola cucina, bianca e gialla, stipata di roba. Quella cucina dava diretta-
mente nel salotto, così che la vedevano muoversi, mentre preparava il caf-
fè.
Parker si sedette nella poltrona vicina alla porta e Fusco disse, guar-
dandosi intorno:
— Pam sarà in giardino. Sai, la bambina.
Lanciò un'occhiata a Parker e parve voler aggiungere qualcosa, ma poi si
rese conto che non era né il luogo né il momento - né Parker il tipo, del
resto - di chiedergli se gradiva andare in giardino per vedere una bimbetta
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di tre anni. Si voltò con aria incerta, quasi volesse dirigersi verso la cucina,
o forse soltanto verso la finestra che dava sul giardino, poi, all'improvviso,
tornò indietro e si sedette nel centro del divano. Rimasero lì, in silenzio,
mentre Fusco cincischiava, guardando ora qua, ora là, e Parker, immobile,
aspettava.L'arrivo di Ellen col caffè fu simultaneo a quello di Devers dall'altra por-
ta, vestito con pantaloni da fatica e una maglietta. Era scalzo e aveva an-
cora l'aria insonnolita. Vedendo le tazze del caffè, domandò:
Una di queste è per me? Vai a prendertelo.
Devers, con un sorriso quasi di sofferenza, cercò di trovare qualcosa da
rispondere, mentre la donna metteva le due tazze davanti a Parker e a Fu-
sco, senza guardare in faccia nessuno, e Lisciava subito la stanza, per la
porla dalla quale era entrato Devers.
Devers rivolse quel sorriso mutilato verso Parker, dicendo:
— Le gioie familiari... Ma è soltanto uno scherzo fra noi.
Visto che Parker si limitava a guardarlo senza dir niente, Devers si strin-
se nelle spalle, e liberandosi di quel sorriso imbarazzante, andò a sedersi
sul divano, prese la tazza di Fusco, bevve un po' di caffè e, con una smor-
fia, disse:
— Sai che mi piace dolce. — Rimise giù la tazza e guardò Parker. —
Volete vedere la base, oggi, vero?
— Esatto.
— Ci faremo una scappata. Vi dispiace se mi preparo un po' di colazio-
ne?
Parker alzò le spalle. — Non abbiamo fretta. Comunque, prima, ho biso-
gno di sapere alcune cose.
— Dite.
— Quanto tempo è che sei distaccato qui?
— Undici mesi.
— Sempre all'ufficio amministrativo?
— Sì.
— Hai la sigla R.A. o U.S.?
Devers si rabbuiò. — Non capisco.
— Forse le cose sono cambiate — disse Parker. — Una volta R.A. signi-
ficava che uno si era arruolato, e U.S. che era stato richiamato.
— Ah! Nell'esercito. In aviazione non c'è leva.
— Allora, ti sei arruolato? — domandò Fusco. Stentava a crederlo.
Devers gli sorrise. — Sono in una botte di ferro, ti pare?
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— Quanti anni di ferma? — chiese Parker.
— Quattro.
— Quanti te ne mancano?
— Sette mesi. Prima di venire qui, sono stato un anno nelle Aleutine.
— Vuoi mantenerti questo posto fino al congedo? — domandò Parker. — Sarebbe opportuno. Se me ne vado, mi corrono subito dietro. Verreb-
bero immediatamente a cercarmi.
Parker annuì. Sapeva che Devers aveva ragione, ma voleva essere sicuro
che lui lo avesse capito.
— Perché non lasci le cose come stanno? Hai solo sette mesi.
— In ufficio ci sono due che se ne vanno prima di me. Uno fra tre mesi,
l'altro fra due.
— Così la polizia si butterebbe su di loro prima di venire a cercar te.
— Per lo meno, spero.
— Ma, prima o poi, arriverebbero anche a te — insisté Parker. Devers
annuì. — Ho pensato anche a quello.
— Quant'è che fai quei trucchetti in ufficio?
— Quali trucchetti?
— Quelli con i quali ti sei comprato la Pontiac.
Devers scosse il capo, sorridendo. — Ho risparmiato quand'ero alle isole
Aleutine.
— Hai dei conti in banca per provarlo?
— Sono necessari?
— Sì.
— Non tenevo i soldi in banca.
— Dove li tenevi?
Anche se cercava di stare calmo, era evidente che Devers si stava irri-
tando: il suo sorriso parve svanire dalle sue labbra.
— Be'? — domandò. — Stiamo parlando di furto, non di malversazione.
— La legge — replicò Parker. — Quelli della legge controlleranno tutto
e tutti, in quell'ufficio. E diranno: ecco qua un ragazzo con abiti costosi,
conti aperti a New York, macchina di gran lusso. Come farà a procurarsi
tutte queste cose con lo stipendio dell'aviazione militare? E verranno a ve-
gliarti attentamente, tanto per vedere che cosa salta fuori.
Devers si morse una nocca, accigliato, pensoso. Finalmente disse, in un
tono che sembrò quasi una domanda:
— Li teneva mia nonna.
— Tua nonna? Perché?
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— Andavo molto d'accordo con lei: più che con chiunque altro. Mio pa-
dre e mia madre sono divorziati e io non affiderei a mia madre neanche la
sorpresa trovata in un uovo di Pasqua. Perciò, davo tutti i soldi alla nonna,
e quando sono tornato alla ZI, me li ha restituiti.
Fusco interloquì: — Tornato dove? — Negli Stati Uniti — rispose Devers. — ZI: zona interna.
— E ritieni che la nonna ti coprirà — disse Parker.
Devers sghignazzò. — Garantito. E' morta in aprile.
— E se vanno a informarsi da tua madre?
— Quel che dice mia madre, non m'interessa. Direbbe sempre tutto a ro-
vescio, soltanto per lumi dispetto. Davvero? Devers esitò. — Ma con chi
sto parlandolo? Con Parker o con la polizia?
— Importa?
— No. No, avete ragione. Comunque, vi ho detto la verità.
Parker disse: — Hai un conto in banca?
— Certo.
— Fammi vedere il libretto degli assegni.
— Già. Capisco che cosa volete dire.
— Qual è il problema? — intervenne Fusco.
— I miei versamenti — spiegò Devers. — Per esempio, la settimana
scorsa ho versato centotrenta dollari. Da dove provengono?
Parker disse: — Da dove provengono?
— Datemi un attimo.
Parker aspettò, ma poiché Devers continuava a meditare, esclamò: —
Sei un bersaglio troppo facile, Devers. Non sei affatto coperto. Possono
mettere le mani su di te in qualunque momento.
— Non hanno mai avuto motivo di occuparsi di me.
— E che cosa succede se qualcuno del tuo ufficio tenta qualche scherzet-
to e gli va male? Appena scoprono che qualcosa va storto, cominciano a
guardarsi in giro, e tu salti fuori con l'evidenza dell'Empire State Building.
— Accidentaccio — Devers si morse la gota. — Bisogna che escogiti
qualcosa per mettermi al sicuro.
— Non tirare fuori la solita storiella delle vincite al gioco — disse
Parker. — Ti toccherebbe trovare una mezza dozzina di persone che dica:
sì, abbiamo giocato insieme e abbiamo perso. Troppa gente di mezzo.
— Lo so. Non lo farei mai. Lasciatemi pensare un poco, mentre faccio
colazione.
Parker finì di bere il caffè. — Sta bene. Saremo di ritorno alle dodici.
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— D'accordo.
Parker si alzò e Fusco balzò in piedi dopo di lui.
Uscirono nell'aria soleggiata e salirono sulla Pontiac di Devers. Fusco
domandò: — Da che parte?
— Stazione di servizio. Bisogna far benzina e procurarci una carta stra-dale.
— Benissimo.
Durante il tragitto, Fusco disse:
— Avevi ragione. Voglio dire, riguardo a Devers e ai suoi furterelli.
— Il problema è che Devers riesca a trovare un sistema per coprirsi le
spalle.
— E' un ragazzo in gamba, Parker.
— Speriamo.
Arrivati a una stazione di servizio, Fusco fermò la macchina accanto alla
pompa. Mentre l'inserviente riempiva il serbatoio, lui entrò nell'ufficio e
prese una carta stradale. La porse poi a Parker, già ripiegata sull'area che
circondava Monequois.
Si trovavano in una strada secondaria, a nord dello Stato di New York,
vicino al confine canadese, a circa venticinque chilometri da Malone, e a
nord della Route numero Undici. La città più vicina era Massena, verso
ovest, grande abbastanza da avere un aeroporto civile. Da quel punto al
confine c'erano circa venti chilometri, a nord. Il penitenziario dello Stato di
New York, Dannemora, si trovava a est, a sessantacinque chilometri da lì,
più o meno.
Mentre Parker studiava la carta, Fusco pagò la benzina. Usciti dall'area
della stazione di servizio, Parker disse:
— Andiamo a nord, verso il confine.
Fusco lo guardò con aria stupita. — Ma non ci sarà mica bisogno di pas-
sare nessun confine, vero, Parker?
— Lo so. Ma loro lo penseranno, perciò diamo un'occhiata alla strada.
Alzando le spalle, Fusco ricominciò a guidare.
Monequois era una piccola città, sbilanciata dalla grandezza della base
militare di aviazione che si trovava proprio al limite della città stessa. C'era
più gente alla base che a Monequois, quindi la sua influenza si evidenziava
in ogni cosa: nei nomi dei bar, dei ristoranti e dei motel; nella forte prepon-
deranza di divise azzurre per le strade del centro, nel numero dei caffè e
dei cinema. Se la maggior parte della gente dentro quella base fosse stata
fissa, invece che in transito, l'effetto sulla città sarebbe stato ancora più
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grande. Ma, stando cosi le cose, il luogo aveva l'inequivocabile aspetto
d'una città-campeggio.
Dopo aver attraversato il centro e oltrepassato la base, si diressero verso
la Ruote Novantacinque.
La campagna era povera, da quelle partì, circondata da basse colline bo-scose. Da quella strada, la base militare s'intravvedeva a malapena: sol-
tanto alcuni tetti obliqui sbucavano di tra gli alberi, poi, quasi all'improv-
viso, appariva la complessa struttura del cancello principale, come un
palcoscenico messo lì, alla piena luce del sole, con una grossa targa azzur-
ro scuro da un lato, su cui, in lettere dorate, stavano scritti i nomi delle or-
ganizzazioni militari del posto, in incomprensibili sigle e abbreviazioni.
Fusco svoltò nella Novantacinque, proseguì per Bombay e infilò una
strada senza nome, verso Fort Covington. Conveniva di più passare per
quella stradina stretta, dove il traffico era scarso, che proseguire fino a
Massena o attraversare il ponte St. Lawrence, che da Rooseveltown porta a
Cornwall, dalla parte canadese. Passarono Fort Covington, poi si ferma-
rono, prima di raggiungere il confine.
A questo punto, Parker disse: — Sta bene. Torniamo indietro.
Non gli piaceva. Non aveva visto nessun luogo adatto per nascondersi.
Tra una cittadina e l'altra, i boschi erano fitti, ma non deserti. C'erano un'-
infinità di cartelli di divieto di caccia, ma là dove mancavano, sarebbe sta-
to gremito di cacciatori. Non gli parevano luoghi adatti per nascondersi e
aspettare che le acque si fossero calmate, dopo aver effettuato il colpo. Na-
turalmente, non poteva esserne ancora sicuro, e, comunque, era come voler
cominciare dalla fine.
Se Devers non riusciva a trovare il modo di coprire i suoi scherzetti, non
ne avrebbero fatto niente. E se anche avessero deciso di farlo, c'era sempre
la base da esaminare a fondo. La faccenda poteva benissimo risultare im-
possibile di per se stessa, quindi era prematuro pensare al modo di cavarse-
la e di nascondersi.
Sulla via del ritorno, Fusco disse:
— Che si fa, se Devers non ci riesce?
— Quello che hai detto — rispose Parker. — Se Devers non è adatto, il
colpo va in fumo.
Fusco si rabbuiò. A Parker parve di sentirlo pregare, affinché Devers riu-
scisse a scovare qualcosa.
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6
Ellen aprì di nuovo la porta e li guardò con occhi corrucciati.
— Ah, siete voi — disse, traendosi da parte.
Parker e Fusco entrarono. Mentre Ellen richiudeva la porta, Parker ledomandò:
— Che c'è?
Senza guardarlo, voltandosi come per far qualcosa, lei rispose: — Che
c'è? Niente. Niente di niente. — E andò dall'altra parte del salotto.
Devers, seduto al tavolo di cucina davanti agli avanzi di una colazione a
base dì frittelle, agitò la forchetta e gridò: — Sono subito da voi.
Parker lo ignorò e si rivolse ad Ellen.
— E' per Devers? Che cosa vi frulla per il capo?
Lei seguitò a girellare e Fusco, con l'aria imbarazzata di chi tenta di evi-
tare una scena spiacevole, disse, la voce inquieta:
— Lascia perdere, Parker.
— No. — Parker tornò a guardare Ellen. — Fermatevi — le disse. — Vo-
glio sapere cosa avete nel gozzo.
Ellen girò intorno, si portò in fondo alla stanza e con un gesto del mento
e lo sguardo sprezzante, indicò Fusco. — Fatevelo dire da lui. — Ma non
uscì dalla stanza.
Parker si volse a guardare Fusco, che alzò le spalle e disse: — Le girano
le scatole, Parker. Nient'altro. Ma non ha nessuna importanza. Lei è fatta
così.
— Per via del colpo?
Fusco apparve spaventato. — Ti giuro, Parker, che lei non ci darà nessun
grattacapo. Il fatto è che lei vede sempre le cose dal lato peggiore e basta.
— Era così anche prima?
— Proprio per quello mi ha lasciato, quando mi beccarono. Perché aveva
ragione lei, quella volta.
Ellen arricciò le labbra, ma non disse niente.
Devers, che era entrato con una tazza di caffè in mano, disse:
— E ora è seccata, perché, questa volta, il suo ex marito ci ha tirato den-
tro me. E io potrei finire nei guai. — Trangugiò il caffè, mentre Ellen lo
fulminava con lo sguardo.
— Che cosa farà? — domandò Parker.
Ellen rispose, quasi sputando le parole:
— Niente. Non vi dovete preoccupare di me.
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— E' la verità, Parker — disse Fusco.
Parker li osservò: Fusco spaventato, Devers sicuro e tranquillo, Ellen ar-
rabbiata. Dopo averli esaminati un istante, si strinse nelle spalle e decise di
lasciar perdere. Per il momento, si sarebbe fidato della loro parola, ma
avrebbe tenuto gli occhi aperti. In tutti quegli anni era arrivato ad accettareil fatto che le persone coinvolte in un colpo non sono mai solide come
sarebbe necessario. Vengono sempre fuori con dei cavilli per una cosa o
per l'altra, hanno sempre problemi personali, noie della loro vita privata
che non riescono a fare a meno di mescolare col lavoro. L'unico sistema di
poter combinare qualcosa con quel tipo di persone, è di tenerle d'occhio, e
di cercare di sapere quali sono quei problemi per essere pronti, eventual-
mente, ad affrontarli per loro.
Se lui stava ad aspettare l'accordo perfetto, freddo, professionale, non sa-
rebbe mai arrivato a concludere niente.
— Sta bene — disse. — E' la vostra donna.
Sorridendo, Devers domandò:
— A chi di noi due state parlando?
Seccato, Fusco esclamò: — Stan!
Ellen disse, rivolgendosi a Parker: — Avete finito con me, ora? Posso
ritornare alle mie faccende?
— Finito.
— Grazie.
La donna lasciò la stanza e Parker disse, a Devers:
— Allora cosa mi dici di quel conto in banca?
Dal modo in cui Devers gli sorrideva, si capiva che aveva escogitato
qualcosa. Difatti disse:
— Conoscete quella canzone sulla scatoletta di latta?
— No. Di che si tratta?
— Non volevo mettere tutto il mio denaro in banca — disse Devers. —
Depositavo soltanto quanto bastava per coprire i miei assegni, tenendomi
costantemente una piccola somma. Ma la maggior parte di quello che pos-
siedo, la tengo qui, in una scatola, nell'armadio della mia camera da letto.
— Perché? — domandò Parker.
Devers sorrise e alzò le spalle con l'aria del ragazzino ingenuo. — Mi fa
sentire come il re Mida, o roba simile. Mi piace tenere il denaro dove pos-
so guardarlo. Al giorno d'oggi bisogna avere un conto corrente. Non si può
spedire banconote per posta, e i vaglia sono una gran seccatura, perciò, ac-
cidenti ai rompiscatole, ho dovuto aprire un conto in banca. Ma il denaro
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in banca non mi soddisfa quanto il tenerlo qui. Mi piace l'idea di poter
aprire la scatola e vedercelo dentro.
Fusco, tutto accigliato, lo guardava con l'aria di non capire cosa cavolo
Devers stesse dicendo, ma Parker, invece, capì. Si trattava di quella specie
di strano, allucinante approccio col denaro, che un ragazzo può benissimoavere. Sempre che ce la facesse a tener duro, con quella storiella.
— Vediamo quella scatoletta di latta — disse Parker.
Devers alzò una mano. — Datemi tempo — rispose. — Quando sarà il
momento l'avrò.
— Pensi di comprarne una? Nuova? Bella lucida, brillante?
— Porco Giuda, no! Avrò la piccola, vecchia scatola che mi sono portato
dietro sin da quando facevo le medie; la vecchia scatola tutta ammaccata
che mi ha seguito nel Texas, nel Nuovo Messico, alle Aleutine, e, final-
mente, qui. Non vi preoccupate, signor Parker, quella scatola sarà una per-
fezione.
— Non strafare.
— Avete paura che ci appiccichi sopra le etichette delle varie località?
— Devers scoppiò a ridere. — So essere anche furbo, signor Parker.
— Quanto ti sarebbe rimasto, in questa scatoletta?
Devers corrugò la fronte. — Non lo so, con esattezza. Non molto, dopo
tutto quello che ho comprato. Dipende da quando faremo il colpo. Se sarà
il prossimo giorno di paga, che scade di martedì...
— Troppo presto.
— Benissimo. Allora avrò sei, settecento dollari.
— Hai fatto bene i conti? In modo che se sommano entrate e uscite, il
conto torni?
— Certo, certo. Potrei arrivare a mille e due ed essere sempre dentro i li-
miti del possibile. Devers sorrise e continuò: — Ma preferisco lasciare
tutto quanto un po' più disordinato: è più credibile.
— Dammi una lista delle persone, nei diversi luoghi, che possano aver
eventualmente visto la scatola — disse Parker.
Devers parve sorprendersi ma si riprese subito.
— Nessuno. Non l'ho detto a nessuno che ce l'ho.
— Perché no?
— In aviazione, signor Parker, si può sempre intoppare in un ladro.
Parker considerò la risposta, poi annuì. — Sta bene. Può andare. Se
riesci a farla stare in piedi.
— Non dubitate — rispose Devers.
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— Anche con un poliziotto alle costole?
— Li ho avuti altre volte alle costole.
— Per una cosa importante come questa?
— No. Ma ce la farò.
La cosa peggiore di quel ragazzo era la sua sicurezza. Era furbo, sveglio,capace, ma lo sapeva, e questo poteva urtare. Comunque, bisognava consi-
derare che sgraffignava soldi dall'ufficio dell'amministrazione da quasi un
anno senza essere mai stato beccato, perciò, forse, quella sua sicurezza non
sarebbe stata una passività.
A questo punto, Parker era pronto a rischiare.
— Rispondi a una domanda. Ma voglio la verità.
Devers allargò le braccia. — Se posso.
— Ti sei organizzato abbastanza bene, in quell'ufficio amministrativo.
La faccenda, a quanto pare, è piuttosto redditizia e sicura. Questo colpo sa-
rà rischioso. Perché non ti accontenti di quanto sei già riuscito a combi-
nare?
— Prima di tutto — rispose Devers — perché, davanti a me, ho soltanto
sette mesi, di questo andazzo. Se rinnovo la ferma, magari mi trasferiscono
altrove e forse oltremare un'altra volta. Secondo, la vita di qui, in aviazio-
ne, non mi entusiasma troppo. Perciò, quando esco, a che punto mi trovo?
Ho un'automobile, dei vestiti, qualche centinaio di dollari e un sistema in-
gegnoso per mangiucchiare quel che mi capita all'ufficio amministrativo.
Non è poi questa gran pacchia. Dovrei trovarmi un lavoro da qualche altra
parte, magari in una banca o roba del genere e chissà quanto tempo mi ci
vorrebbe prima di organizzare un trucchetto simile anche lì. E forse
sarebbero più duri che alla base, anzi, è probabile che lo siano senz'altro;
così è facile che non riesca a combinare un bel niente. Per il momento,
quello che riesco a ricavare, è sufficiente, ma per il futuro?
— Che cosa ne farai della tua parte del malloppo?
— Ci vivrò — rispose Devers. — Non troppo vistosamente, ma con tutte
le comodità.
— E quando sarà finita? Stringendosi nelle spalle, Devers rispose:
— Ci penserò quando sarà il caso. Intanto, passerebbe un anno, o magari
anche due. Comunque, mi ritroverò sempre come mi sarei ritrovato uscen-
do da qui.
Parker sapeva di avere davanti a sé una nuova recluta della professione e
sapeva di esserne consapevole prima ancora di Devers stesso.
Devers aveva rubacchiato all'aviazione militare per un mese, poi per
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quello dopo e quello dopo ancora. Ora stava entrando nel "giro" per vivere
tranquillo per un anno, e quello successivo sarebbe ritornato a cercare Par-
ker o Fusco, oppure chiunque altro del ramo e avrebbe detto: "Se avete bi-
sogno di qualcuno, io sono disponibile".
Sempre se le cose andassero bene, naturalmente. Devers non si era an-cora cimentato, non al cento per cento. Poteva sempre sgonfiarsi, poteva
sempre mancargli il coraggio. Ma Parker pensava che tutte le probabilità
erano a favore del ragazzo.
— Sta bene — disse. — Avevi proposto di mostrarmi la base.
— Giusto. Aspettate, vado a prendervi un tesserino d'identità.
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Quello era il momento peggiore: camminare sull'asfalto verso il cancel-
lo. Devers andava avanti, precedendo di poco Parker e Fusco. Indossavano
tutti e tre l'abito borghese. Devers gli aveva assicurato che ciò non avrebbe
suscitato commenti. E aveva anche spiegato come, essendo la base piena
di scuole tecniche, dove davano lezione per turni, il veder circolare uomini
fuori servizio, a tutte le ore del giorno e della notte, fosse un fatto normale.
Entrarono dal cancello principale invece che da quello più vicino all'uf-
ficio amministrativo, perché il traffico lì era più intenso e c'era minore pro-
babilità di venire osservati attentamente.
Parker, specialmente, aveva un tesserino d'identità con una foto ben lun-
gi da essere somigliante, sebbene anche la parentela fra il viso di Fusco e
la tessera che aveva in mano, fosse molto vaga.
— Non le guarderanno — aveva assicurato Devers. — Basterà che le
tiriate fuori dal portafoglio e le sventoliate sotto il naso del poliziotto men-
tre si passa. — E aveva mostrato come dovevano fare, tenendo il portafo-
glio col braccio teso.
Parker aveva pensato di andare con l'auto di Devers, ma lui si era oppo-
sto.
— Ci noterebbero — aveva detto. — C'è un autobus che parte dal cen-
tro, sempre pieno di allievi. Prendiamo quello e attraversiamo il cancello
tutti imbrancati.
Così erano andati in centro con la macchina, l'avevano posteggiata un
isolato oltre la fermata ed erano saliti su un autobus che, guidato da un ci-
vile, andava verso la base. Non c'era troppa gente e, come aveva detto De-
vers, la maggior parte dei passeggeri era in borghese.
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Finalmente raggiunsero la base. Tutti e tre si trovarono mescolati a uno
sparpagliato gruppo di circa venticinque persone che, sotto il sole, si diri-
geva verso il cancello. I due della polizia aerea guardavano, attraverso i fi-
nestrini delle baracche, i tesserini che venivano loro mostrati, annuendo
con espressione annoiata.Si poteva passare soltanto in fila indiana. Devers entrò per primo, segui-
to da Fusco e, per ultimo, Parker.
Parker notò che quasi tutti, nel passare, lanciavano un'occhiata distratta
ai due poliziotti. Li imitò.
L'espressione annoiata sul viso dei poliziotti non cambiò mentre guarda-
vano la sua tessera: un istante dopo si trovava dentro. Mise via il portafo-
glio.
— Prenderemo questo pulmino — disse Devers. — La base è un acci-
dente di grandezza, l'ufficio è laggiù, a casa del diavolo.
— C'è un autobus speciale per l'interno della base?
— Sicuro. Gestito dall'aviazione militare. In questo momento ci sono tre
linee, che passano tutte da qui. A noi serve il numero uno.
— Funzionano tutta la notte?
— Già. — Devers si voltò a guardarlo. — Pensate a qualcosa?
— Solo curiosità — rispose Parker.
Era vero. Non aveva la più pallida idea se un autobus sarebbe potuto
rientrare nell'organizzazione del colpo, più di quanto sapeva se, avrebbe
usato un aereo - quella volta che Fusco glielo aveva chiesto, quando erano
ancora a San Juan. Ma voleva conoscere ogni mezzo di trasporto, sapere di
ogni veicolo, di ogni cosa che si muovesse, viaggiasse e avesse una spiega-
zione ragionevole per esistere, in quella base. Ciò che avrebbe adoperato o
meno, lo avrebbe stabilito più tardi.
Il primo autobus che arrivò non era il numero uno, ma molti di quelli che
aspettavano, insieme con loro, vi salirono.
— Questo autobus porta all'area dove sono le baracche di quelli in tran-
sito. Quelli lì sono tutti nostri allievi.
— Che razza di scuole ci sono?
Devers alzò le spalle. — Di tutto. Per tecnici e meccanici A ed E.
— Traduci.
— Okay — rispose Devers sorridendo. — Un tecnico è quello che di-
venterà il dattilografo della stanza degli impiegati; A e E significano rispet-
tivamente aviazione e motori. Lavoraccio da operai.
— E in quanto alla polizia militare? Ha una scuola, qui?
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Devers esclamò, con voce colma di sorpresa:
— Porca miseria! Quelli se la sono dimenticata!
— Bene.
Fusco disse: — Ecco il nostro autobus.
L'autobus, azzurro scuro, era tutto sgangherato, col motore davanti, co-me un camion. Il conducente indossava una tuta e sulla manica aveva i
gradi di aviere di prima classe. Dentro c'erano soltanto dieci persone sparse
qua e là. Parker si sedette accanto a un finestrino sulla destra, più o meno
al centro. Devers gli si mise vicino e Fusco sul sedile subito dietro, tutto
proteso in avanti per ascoltare.
Mentre procedevano, Devers illustrò loro tutto ciò che vedevano, indi-
cando la sala mensa, il circolo ufficiali di complemento, e via via, tutti gli
edifici. Erano tutti uguali, come se un unico progetto fosse servito per tutte
le costruzioni con solo qualche piccola variante a seconda dell'uso di cia-
scuno. Perfino il teatro della base era senza insegna e aveva soltanto una
fila di porte a vetri sul davanti per distinguerlo dagli nitri edifici che erano
tutti intonacati uniformemente di un verde grigiastro e circondati da picco-
le, ordinate strisce erbose e stretti marciapiedi in cemento.
L'autobus si fermava ogni momento per ripartire subito. Gente scendeva
e altra saliva, di cui Circa la metà in divisa e, generalmente, si trattava di
uniformi da campo.
Durante quel tragitto, soltanto due ufficiali salirono a bordo, e ambedue
parevano sentirsi a disagio. C'era un grande andirivieni di persone che
camminavano sui marciapiedi, entravano e uscivano dagli edifici, passava-
no in automobile o in camion. Agli incroci, nei punti in cui si trovavano le
baracche, si vedevano file di macchine posteggiate a lisca di pesce, altre
che avanzavano lentamente nel sole.
— C'è sempre questo movimento? — domandò Parker.
— Sì — rispose Devers. — Vedete, le scuole fanno tre turni. Il turno A
va dalle sei del mattino fino a mezzogiorno. Il B, da mezzogiorno alle sei.
E il C, dalle sei a mezzanotte. In questo modo, ci sono sempre due terzi de-
gli allievi fuori servizio e perfino alcuni di quelli dei turni permanenti sono
fuori servizio, ora.
L'ufficio dell'amministrazione si trovava a una grande distanza dal can-
cello principale; Parker contò sedici isolati, tra i quali l'autobus aveva svol-
tato una volta a destra e una a sinistra. Quando Devers disse, la voce im-
provvisamente più tesa: — Eccolo là. — Parker gli fece: — Proseguiamo
per altri due isolati, poi torneremo indietro.
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— D'accordo.
Due fermate dopo, scesero. Furono i soli a scendere e quando l'autobus
si rimise in marcia, Parker disse a Devers:
— Sarà meglio che tu resti qui. I tuoi amici, là dentro, potrebbero guar-
dare fuori dalla finestra e vederti con due tizi sconosciuti. — Già. Ci stavo pensando. Avete ragione. Allora, ascoltate, l'ufficio am-
ministrativo è al primo piano. Al piano terreno, sulla sinistra, c'è la Croce
Rossa, e sulla destra l'ufficio arruolamenti. L'ufficio del maggiore Creigh-
ton si trova su, salendo le scale di sinistra. La cassaforte è lì.
— Benissimo. Saremo di ritorno tra due o tre minuti.
Era una giornata limpida e piuttosto fresca. Pareva di passeggiare sul
marciapiede di una ridente cittadina, se si eccettuavano tutte quelle uni-
formi indossate dalla maggior parte dei viandanti. Circa un quarto di essi
erano donne, alcune con la divisa della WAF, altre in abiti civili.
L'ufficio dell'amministrazione era situato in un edificio uguale a tutti gli
altri, rettangolare, a due piani, intonacato. Sulle finestre fiancheggianti l'in-
gresso principale, che si apriva nel mezzo di un lungo muro, c'erano delle
targhe. Su quelle a sinistra c'erano delle croci rosse, su quelle a destra, la
parola "Bonus". Le ultime due finestre, a sinistra del primo piano, erano ri-
coperte da reti e sbarre verticali.
All'angolo, Parker e Fusco svoltarono, girarono intorno all'edificio, sen-
za notare alcunché di particolare tranne il fatto che anche le finestre del
primo piano erano ricoperte da reti e sbarre.
Tornando da Devers, Parker domandò:
— Fanno turni di lavoro anche all'ufficio amministrativo?
— Diavolo, no. Otto-diciassette. Otto-mezzogiorno, il sabato.
— E gli uffici del piano di sotto? La Croce Rossa è sempre aperta?
Devers scosse il capo, sogghignando.
— La Croce Rossa sta più chiusa che aperta. Ci lavorano soltanto due
persone là dentro: un vecchio e una ragazzetta discreta, e passano la mag-
gior parte del tempo allo snack bar a prendere caffè.
— L'ufficio arruolamenti?
— Lo stesso orario nostro.
Parker annuì, e rimase a guardarsi intorno. Quella parte della base si
estendeva in mezzo a un mucchio di strade, ogni isolato formava come un
quadrato con due lunghi edifici per lato.
Parker disse: — La base è disposta tutta in questo modo? Le strade sono
tutte uguali a queste?
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— Quasi tutte. Tranne quelle intorno alla pista di volo.
— Si può andare verso l'altro cancello?
— Si capisce! E' giù, da quella parte, a destra.
Il cancello sud si trovava a tre chilometri di distanza dall'ufficio dell'am-
ministrazione: bisognava andare un isolato in su e poi voltare. Era un can-cello più piccolo, meno pretenzioso dell'altro, senza targhe all'esterno. Si
fermarono a circa mezzo isolato di distanza e osservarono camion e auto-
mobili entrare e uscire. Nessun traffico di pedoni.
— Dove si sbuca da quel cancello? — domandò Parker.
— In una strada chiamata Hilker Road — rispose Devers. — Proseguen-
do da quella parte, s'incontra quella che abbiamo percorso con l'autobus
per arrivare qui. Dall'altro lato, invece, si va nei boschi. Si dovrebbe uscire
a Cooks Corner, credo.
— E là non vi sono bar, tavole calde o roba simile?
— Niente altro che boschi.
— Fermate d'autobus?
— Fuori, volete dire? Un autobus civile? — Devers scosse il capo. —
L'unico è quello che ci ha portato dal centro della città e che si ferma al
cancello principale.
— Quindi non vi sarebbe motivo che qualcuno passi da quel cancello per
uscire dalla base.
Devers guardò il cancello. — Penso di no — disse. — Comunque, non
ci ho fatto caso, ma credo che abbiate ragione. Uno uscirebbe da quel can-
cello soltanto se fosse in macchina e si trovasse più vicino a quello che al
cancello principale.
— E che mi dici di quei camion che stanno entrando?
— Saranno diretti in posti più vicini a questo che al cancello principale.
Forse c'è qualche scorciatoia sull'autostrada che porta direttamente qui,
non so.
— Be', bisogna saperlo. Bisogna sapere quali autocarri entrano, dove
vanno, quali sono quelli che vengono regolarmente, a che ora del giorno
arrivano. Bisogna sapere che strada fanno per venire qui.
— Basta mettersi in osservazione per qualche giorno e poi seguire un
paio di camion, quando escono — disse Devers.
— Difatti è quello che faremo
— disse Parker. Si guardò in giro.
— Non c'è nessun edificio da cui si possa osservare senza essere troppo
notati?
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Devers pensò un poco, poi indicò un edificio sulla sinistra, nella seconda
fila dalla cancellata. — C'è una specie di biblioteca tecnica, là dentro —
disse. — Ci si può andare senza destare alcun sospetto. Basta tenere un
libro in mano.
— Benissimo. Torniamo indietro.Si avviarono. Parker domandò:
— Quell'autobus numero uno non farà mica il giro? Dico, se vi saliamo,
possiamo fare il giro completo della base e ritornare ai punto di partenza?
— Sicuro. Tutti gli autobus fanno il giro della base.
— Voglio dare un'occhiata generale — disse Parker.
Tornarono alla fermata dell'autobus, nel punto dove erano scesi, e quan-
do ne arrivò uno che andava nella direzione giusta, vi salirono e si sedette-
ro esattamente come prima.
Mentre andavano, Devers, a bassa voce, spiegava tutto ciò che vedevano
e Parker, di tanto in tanto, faceva qualche domanda. Per ritornare al cancel-
lo principale, impiegarono venti minuti. Scesero.
— V'interessa di vedere altro?
— chiese Devers.
— Basta, per oggi. Torniamo a casa e parliamone un po'.
— Bene.
Ripassarono davanti al cancello principale senza noie e, sulla strada, tro-
varono subito un autobus civile che aspettava. Vi salirono e, di lì a poco,
l'autobus riparti per la città.
8
Quasi si scontrarono con Ellen Fusco sulla porta di casa. Era furiosa e
non lo nascondeva.
— Sapevi che ho la mia seduta all'una — brontolò, rivolta a Devers.
— Me n'ero dimenticato — rispose lui. — Mi dispiace, tesoro. Avevo al-
tro da pensare. Tieni le chiavi.
Lei le prese senza ulteriori commenti. — Pam è in giardino — aggiunse
e si avviò verso la macchina.
I tre uomini entrarono in casa; Devers chiuse la porta, e si rivolse a Fu-
sco.
— Se la tua ex moglie non cambia registro, io faccio a cambio con te.
— Ellen non ne vuol più sapere di me. Anche se lo volessi io — rispose
Fusco, andando in cucina. — Ho bisogno di mangiare qualcosa. Tu,
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Parker?
— Caffè.
— Ci dovrebbero essere degli hamburger — disse Devers. — Perché non
ce ne prepari qualcuno?
— Subito — rispose Fusco e spari in cucina. Un attimo dopo lo videromuoversi là dentro con un grembiule allacciato alla vita.
Devers disse, a Parker:
— Avrete altre domande da fare, immagino.
— Qualcuna. Più tardi ne avrò delle altre. Quando ci avrò rimuginato su.
— Naturale.
— Siediti — disse Parker, sedendosi a sua volta nella poltrona dov'era
stato poc'anzi.
Appena Devers si fu accomodato sul divano, Parker disse:
— Vorrei sapere cosa c'è nell'edificio accanto all'ufficio amministrativo,
di fronte a quelle finestre laterali con le sbarre.
— Il dipartimento legale — rispose Devers. - Si sono presi tutto il palaz-
zo e lavorano dalle otto alle cinque.
— Puoi procurarti una pianta della base?
— Sicuro. Ne danno una a tutti i nuovi arrivati, in cui sono segnate sol-
tanto alcune cose, come l'edificio postale e quello dei rifornimenti, ma noi
possiamo segnarci tutto ciò che c'interessa.
— Bene. Hai una Polaroid?
— Una macchina fotografica?
— Polaroid — insisté Parker. — Non daremo certo a sviluppare le nostre
negative.
— Io no — rispose Devers. — Ma conosco un paio di ragazzi che ce
l'hanno. Me la posso far imprestare per un giorno o due.
— Splendido. Voglio fotografie dell'edificio dell'amministrazione, preso
da ogni parte. E anche dell'interno, se ti riesce.
— Potrebbe essere pericoloso.
— Se dovesse mandare a monte ogni cosa, lascia fare.
— Vedrò. Altro?
— Forse. Te lo dirò.
Fusco arrivò con tre tazze di caffè su un vassoio. Le distribuì e disse:
— Se fossi te, smetterei di pagarle le sedute dallo psicanalista. L'unico
risultato è che ti tocca fare il bambinaio, mentre lei se ne sta laggiù.
Devers si strinse nelle spalle.
— Che diavolo, è nervosa per questa faccenda, tutto qui. Era sposata con
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te, quando ti hanno beccato. Lei non vuole che mi succeda la stessa cosa.
— Dovresti farle tu da psicanalista — esclamò Fusco. — Tra un minuto
vi porto gli hamburger.
— Dai un occhio alla bambina, ti dispiace?
— Già fatto. Se ne sta lì, buona buona.Fusco rientrò in cucina e Devers si rivolse a Parker.
— Sarò scalognato? Inciampo in una femmina con una bambina, mi tro-
vo l'ex marito sempre tra i piedi, m'ingolfo in Un maledetto furto con lui e
pago per lo psicanalista della femmina. Giuro che mai avrei pensato di
intrappolarmi in una cosa talmente complicata.
— La parte furto è semplice — rispose Parker. — Lo studiamo per bene,
vediamo se si può fare, escogitiamo il sistema migliore per attuarlo, lo fac-
ciamo e ci dividiamo il malloppo. Non permetteremo a nessun'altra cosa
d'intralciarci o crearci complicazioni.
— Ho capito. Non vi preoccupate, signor... scusate. Non ci saranno com-
plicazioni.
Tornò Fusco con gli hamburger.
— Ho sentito — disse. — Allora credi che sia possibile, Parker?
— Forse.
— Ma ti sembra buono?
— Per ora... — rispose Parker.
PARTE SECONDA
1
— Lo faranno — disse Ellen. — Lo so che lo faranno.
Con un brivido, si strinse le braccia intorno al corpo e scosse la testa.
— Da principio, credevo che fosse soltanto un sogno campato in aria, un
gioco che facevano tra loro. Credevo che mio marito avesse imparato la le-
zione, credevo che fosse troppo spaventato per riprovarci. Invece è vero,
succederà, e questa volta ci tira dentro anche Stan.
— Che cosa ve lo fa pensare? — domandò il dottor Godden.
— L'uomo che è arrivato — rispose Ellen. — L'uomo che mio marito si
è portato dietro da Portorico.
Era facile parlare col dottor Godden. Poteva stringersi le braccia sul pet-
to e, mentre fissava i complicati disegni del tappeto persiano, buttar fuori
tutto quello che la turbava. Lei non era mai stata capace di parlare con
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qualcuno in quel modo, mai, nell'intero corso della sua esistenza. Non cer-
to con i suoi genitori che, pieni di pregiudizi, l'ascoltavano solo per criti-
carla, per giudicare e sputar sentenze. E, certamente, non con Marty Fusco
che lei, ora l'aveva capito, aveva sposato semplicemente come un atto di
ribellione contro i suoi genitori e che non era mai stato il tipo da com- prendere e aiutare una persona come lei, con la sua sensibilità.
Non aveva nessuno, questa era la cruda realtà, nessuno, sulla terra, con
cui parlare, nessuno che le avrebbe prestato attenzione, cercando di capirla
e di aiutarla. Fino a che non aveva trovato il dottor Fred Godden.
Era stato un tizio, uno che le stava dietro prima di Stan, che le aveva
suggerito di andare a farsi psicanalizzare e naturalmente lei ci aveva riso
su, pensando che la psicanalisi andasse bene soltanto per nevrotici, dive
del cinema, famosi scrittori e gente dell'alta società o simili. Persone nor-
mali come lei non vanno dallo psicanalista. Ma Bert... così si chiamava
quel ragazzo, era andato da uno psicanalista, per una certa sua paura na-
scosta e profonda, e aveva consigliato a Ellen di andarci pure lei. Poco do-
po questo fatto, Bert si era trasferito a New York, al Greenwich Village,
per cercare di risolvere il suo problema, ma, a quel tempo, Ellen aveva già
capito quanto bene può fare uno psicanalista e da allora aveva seguitato ad
andarci.
Era stato il dottor Godden a liberarla dal suo complesso di colpa, che,
senza che lei se ne rendesse conto, l'aveva tormentata e avvilita, e l'aveva
spinta -l'aveva capito più tardi - a far cose senza senso, cose che avevano
solo il risultato di peggiorare il suo stato d'animo. Perché lei aveva "volu-
to" star peggio, ecco tutto. Tutte le colpe che i genitori le avevano addos-
sato, e la colpa che aveva sentito nell'abbandonare Marty Fusco, nel tra-
dirlo, quando aveva divorziato appena l'avevano cacciato in prigione. Ma
anche quella era stata l'unica cosa giusta da farsi. Perché lui non era stato
l'uomo adatto a lei: era stato soltanto il simbolo d'una ribellione che non
aveva più. ragione di esistere. Non aveva più bisogno di compiere atti ri-
belli contro i parenti, ora ne era finalmente libera.
Perciò, era stato giusto divorziare da Marty, e questa era la ragione per
cui era giusto, e la vera ragione per cui lo aveva fatto, sebbene sul momen-
to lei dicesse a se stessa di averlo fatto per Pam.
E anche lì si era sentita in colpa: in colpa verso Pamela, riconoscendosi
incapace e con la sensazione di averla come defraudata. E tutto era ancora
molto confuso, torbido, poco chiaro, ma ci avevano studiato sopra, ore e
ore, durante tre lunghe sedute ogni settimana: il lunedì, il mercoledì e il
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venerdì e si erano avvicinati sempre più alla radice di tutto quanto... finché
era sopravvenuta la faccenda del furto, buttando all'aria tutte le teorie
precedenti. E da quel momento, le pareva di non riuscire a parlare d'altro
col dottor Godden.
In modo particolare, durante quell'ultima settimana, e cioè da quandoMarty aveva scoperto che il suo cosiddetto famoso "organizzatore" si stava
riposando dei suoi furti, laggiù, a Portorico, e Stan si era offerto di pagare
il prezzo del volo fino là, perché Marty andasse a parlare con quell'uomo,
quel Parker, e se lo trascinasse dietro.
E ora lui era lì, ed era reale, e tutto sarebbe accaduto, ed Ellen sedeva da-
vanti al dottor Godden, le braccia conserte, fissando i disegni intricati di
quel tappeto e sentendo il peso dell'inevitabile tragedia gravare su di lei,
come una grossa nuvola nera. Perché l'uomo era venuto da Portorico e la
cosa sarebbe accaduta.
— Parlatemi di quest'uomo — disse il dottor Godden.
La sua voce, come sempre, era dolce e gentile. Non aveva quei toni
drammatici che hanno di solito gli ipnotizzatori nei film, come, del resto,
lei si era sempre immaginata la voce degli psicanalisti. Non aveva la barba
lunga, né un accento particolare. No, niente di simile. Era un uomo norma-
le, sui quarantacinque anni, forse, molto ben vestito, tendente alla calvizie,
con una zazzera di capelli neri sugli orecchi e sulla nuca. Portava occhiali
cerchiati di plastica quasi incolore e non prendeva mai appunti, e dietro a
quegli occhiali, gli occhi erano sempre simpatizzanti e, se talvolta capitava
che superassero l'ora di un poco, non le faceva mai fretta, non si lagnava,
non le troncava mai il discorso a mezzo. Disse, in risposta alla domanda di
lui:
— Si chiama Parker, non so quale sia il nome di battesimo. Non l'ho mai
sentito chiamare da nessuno, per nome. Non mi piace.
— Perché?
— E'... non so. Lo guardo e sento che lui è "il male". Ma non è vero
neanche quello, non è esatto. Non credo che lui sia veramente il male. Vo-
glio dire, non penso che potrebbe essere crudele o cose così, tanto per il
gusto di esserlo. Non mi preoccuperei di lasciare Pamela vicino a lui, per
esempio. Ma... so...
— Continuate.
— Non farebbe del male a Pam, ma non gliene importerebbe niente, se
le accadesse qualcosa, non ne sarebbe contento, ma non alzerebbe un dito
per aiutarla. A meno che non vi vedesse un profitto personale.
39
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— Volete dire che vi sembra un uomo freddo?
— Se ne frega. Non ha nessun sentimento emotivo, dentro.
— Be' — disse il dottor Godden, e anche se lei non lo stava guardando,
percepì come un sorrisetto nella sua voce. — Ognuno ha le proprie emo-
tività. Tutti le abbiamo. Voi, io, tutti. Anche questo Parker. Forse lui le tie-ne conficcate dentro più degli altri.
— Perciò, il risultato è lo stesso — disse lei. — Se le ha e se le tiene
dentro, è come se non le avesse affatto.
— E' molto vero. Ma, naturalmente, voi vedete quest'uomo al lavoro, se
così si può dire. Forse a Portorico sarà un uomo del tutto diverso. Forse
quando è laggiù si distende e dà via libera ai suoi sentimenti.
Lei scosse il capo.
— Non so immaginarmelo in preda a una qualunque emozione. Non so
immaginarlo piangere. E nemmeno ridere.
— Mi sembra — le disse il dottor Godden, molto gentilmente — che vi
siate costruita questo uomo come una figura leggendaria. Gli avete dato
troppa importanza.
— Non so. Può darsi. Forse sì. Perché ora la faccenda è divenuta reale,
lui la rende reale, e accadrà.
— Sarebbe lui, allora, l'organizzatore di cui mi parlavate lunedì.
Il fatto che lui ricordasse tutto ciò che gli diceva la sorprendeva sempre,
le faceva piacere. Il medico aveva altri pazienti, lei lo pagava per farsi
ascoltare e lui non aveva nessun obbligo di ricordare, invece era così.
— Sì, è lui — rispose. — E' arrivato da Portorico.
— Ha conosciuto Stan?
— Sì. Oggi Stan lo ha portato in giro per la base di aviazione. Ecco per-
ché sono venuta più tardi.
— Forse quell'uomo deciderà che il colpo è troppo difficile. Può darsi
che dica a Stan che è impossibile attuarlo.
Lei scosse la testa, ostinata. — Lo faranno — disse. — Lo sento. Glielo
leggo negli occhi.
— Anche in quelli del nuovo venuto?
— Nei suoi, in special modo.
— Che cosa leggete nei suoi occhi?
— Non lo so... è difficile da spiegare. Che lo farà, che niente gli impe-
dirà di farlo.
— Uhm. Per quanto avrebbero deciso di fare questo colpo?
— Non lo so. — Lei scosse il capo.
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— Be', sarà in un giorno di paga, no? O magari il giorno avanti. Quand'è
che pagano di nuovo, alla base?
— Il quindici. Martedì prossimo.
— Tra quattro giorni — disse lui. — Ce la faranno a organizzare tutto in
così poco tempo? — Non credo — rispose lei. — Mi ricordo che, ai tempi di Marty, ci vo-
leva sempre una o due settimane, talvolta anche di più. Non hanno ancora
neppure tutti gli uomini. Marty ha detto che loro tre non sarebbero bastati.
— Perciò, probabilmente, sarà per il giorno di paga dopo il prossimo —
disse il dottor Godden. — Il primo di ottobre. Vediamo: è un giovedì. Tre
settimane da ieri. Immagino che non vorranno farsi vedere in giro così a
lungo. Cioè, sempre che voi abbiate visto giusto e intendano davvero fare
il colpo.
— Lo faranno — ripeté lei, col tono di voce che avrebbe usato per dire:
"tutti dobbiamo morire".
— Abbiamo tre settimane di tempo, per scoprirlo — riprese il dottor
Godden. — Comunque, se sono ancora così all'inizio, non potete esserne
proprio sicura. Sapete cosa ne penso io?
— Sempre la stessa storia — rispose lei, sorridendo un po' timidamente
al disegno del tappeto, sapendo già quello che lui stava per dire.
— Ditelo voi — fece lui, spronandola dolcemente.
— Si tratta di quella sensazione di essere indegna. La sensazione che
provo di non meritarmi mai niente di buono e, perciò, non avrò niente di
buono. Sono sicura che lo faranno, perché sono sicura che li beccheranno e
io non avrò più Stan. Perché io non sono degna di Stan. — Gli sganciò
un'occhiata di sbieco, vide la sua faccia simpatizzante, la testa semicalva e
lustra sotto la luce. Riportando rapidamente lo sguardo sul tappeto con-
tinuò: — Lo so. So che fa parte di questo. Ma non è completamente così.
Voglio dire: Marty fu preso per davvero.
— Una volta — ribatté il dottor Godden. — E quanti furti ha commesso
senza essere beccato?
— Oh! Tanti! — rispose lei. Ora non si stupiva più di come le riuscisse
facile parlare col dottor Godden di furti e di criminali. Era quasi come par-
lare con un prete. Un po' diverso, ma sempre simpatizzante, senza mai giu-
dicare, mai condannare, mai cercare di costringerla a conformarsi con
quello che la società richiedeva. Con quante persone avrebbe potuto parla-
re di Marty, essere così sincera, confessare che il suo ex marito era un la-
dro, che tale era la sua professione? I più se ne sarebbero scandalizzati,
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avrebbero magari chiamato la polizia, o per lo meno, avrebbero cessato di
aver rapporti con lei. Invece il dottor Godden prendeva tutto allo stesso
modo: calmo, comprensivo, obiettivo. Lei gli poteva dire qualsiasi cosa:
sul sesso, su Marty o sui suoi genitori. Qualsiasi cosa al mondo, e non era
mai difficile.In quel momento, calmo come al solito, il dottor Godden le stava dicen-
do:
— Quindi non vedo perché li debbano beccare, questa volta. Dopo tutto,
Stan è l'unico fra loro a non essere un professionista di quel genere.
— Ma anche se non li prendono questa volta — replicò lei, andando più
in là col pensiero — non servirà a nulla. Stan vorrà riprovarci, vorrà di-
ventare come Marty. O come l'altro, quel Parker.
— Capisco. Avete paura che Stan finisca per essere un marito come il
primo.
Lei annuì, scotendo energicamente la testa, mentre, accigliata, seguitava
a fissare il tappeto.
— Non è cosa poi tanto strana, questa paura, per una ragazza nella vo-
stra situazione — disse il dottor Godden. — Ma, francamente, da quanto
mi avete detto di Stan, io ritengo più probabile che un assaggio di questa
vita sarà più che sufficiente, per lui. Chissà, può darsi che gli faccia bene,
potrebbe farlo diventare un marito migliore di quanto lo fosse prima di
provare quest'esperienza.
Era spettacoloso come il dottor Godden trovasse sempre una maniera
semplice di vedere le cose, una maniera più piacevole. E, in generale, ave-
va ragione lui e tutte le sue paure, i suoi dubbi e i suoi incubi finivano per
far parte, solo e sempre, della sua solita insicurezza, della sua solita in-
competenza e indegnità.
— Penso — disse con voce esitante — penso che l'unica cosa da fare sia
aspettare.
— Proprio così — convenne il dottor Godden.
2
Stan prese un'istantanea della cassaforte e strappò via la fotografia dal-
la macchina, poi, osservando che era riuscita bene come le altre, ritornò
alla sua scrivania.
Mise la foto in una busta che teneva nel cassetto di mezzo, la Polaroid in
quello laterale, e, quando il tenente Wormley rientrò dopo essere stato dal
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Capo, lui stava battendo a macchina come un forsennato.
— Non sprecate tanta energia — disse Wormley passando. — E' soltanto
sabato.
— Sì, signore — rispose Stan.
Wormley aveva un viso stranamente peloso e senza mento; era un sottot-enente dell'esercito, più giovane di Stan di due anni. Proseguì lungo la fila
di scrivanie, ed entrò nel suo cubicolo circondato da vetri, vicino all'ufficio
del maggiore Creighton e, come al solito, nascose la faccia dietro la rivista
"Scientific American". Tranne quella della cassaforte, Stan aveva scattato
tutte le foto proprio mentre Wormley era svanito dietro la sua rivista. Gli
era stato più difficile levarsi di torno il sergente Novato. Questi era un
ometto duro, tutto d'un pezzo, un tipo che non si sarebbe mai aspettato di
vedersi affidare un compito che richiedesse lavoro cerebrale. Prendeva le
sue mansioni in quell'ufficio in modo molto più serio di chiunque altro e il
sabato, quando c'era lui di servizio, otteneva molto più di quanto otteneva-
no tanti altri nelle otto ore di un qualsiasi giorno della settimana. Ma era
stata proprio la sua solerzia ad aiutare Stan a scattare le fotografie quasi
sotto il suo naso. Mentre Novato controllava gli schedari, aprendo un cas-
setto dietro feltro, prendendo una scheda e-rimettendone a posto altre, Stan
aveva preso le foto dall'altra estremità dell'ufficio. Poi, quando Novato era
ritornato alla sua scrivania e si era immerso nei conti, Stan aveva scattato
le foto dall'altra parte. Quelle dell'esterno e delle scale, le aveva prese pri-
ma, e con quella della cassaforte, scattata attraverso la finestra dell'ufficio
del maggiore Creighton, aveva completato la serie che voleva. Ora non gli
restava che aspettare mezzogiorno: ancora quarantacinque minuti intermi-
nabili, e poi avrebbe girellato in qua e in là per la base, in modo da prende-
re le altre foto che Parker gli aveva richiesto. Sarebbe tornato a casa per
l'una e mezzo al massimo. Era una bella cosa che Lang fosse stato d'ac-
cordo per lo scambio, altrimenti sarebbe stato molto complicato prendere
quelle foto per Parker. Ma Lang era parso proprio felice di fare quello
scambio di sabati con Stan, rimandando così il suo giorno di servizio.
Perciò Stan era lì, e le foto, scattate.
Nessuno capiva perché il sabato mattina avessero bisogno di tenere quel
personale ridottissimo, come del resto nessuno capiva mai niente di ciò che
l'aviazione militare faceva.
Si trattava semplicemente di un sistema, e basta. Il sabato mattina, un uf-
ficiale, insieme con uno di complemento e un aviere, dovevano essere di
servizio lì, dalle otto a mezzogiorno. Tra i ranghi più bassi, era molto meno
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noioso, poiché c'erano molti più avieri con cui dividersi il servizio, co-
munque, era sempre una bella scocciatura.
Il giorno di servizio di Stan sarebbe capitato soltanto cinque settimane
dopo, ma Jerry Lang era stato felice di scambiarlo con lui, e gli altri due di
servizio, quella mattina, erano risultati perfetti per ciò che Stan aveva inmente di fare.
Aveva scritto a macchina, aveva scattato fotografie... in conclusione, a
differenza di tanti altri schifosi sabati, considerava quella mattinata molto
ben spesa. Lui stava godendosi ogni cosa: tutta quella preparazione, le
conversazioni, le riunioni fra esperti professionisti, l'organizzazione per il
gran momento finale. Sin dal principio aveva sentito una grande affinità
con Marty Fusco, nonostante la differenza d'età, e quella sensazione era
ancora più forte con Parker.
Parker era un uomo che lui avrebbe imitato. Aveva subito intuito e com-
preso la sfiducia di Parker nei suoi confronti, appena si erano conosciuti,
ed era contento del graduale cambiamento dell'atteggiamento di Parker, sa-
pendo ormai di essere quasi completamente accettato da lui.
Il fatto di trovare il suo posto nel mondo, accanto a un uomo come Par-
ker, non lo sorprendeva. Da quanto poteva ricordare, lui era sempre stato
uno che amava andare controcorrente, un ribelle per amor di ribellione, un
anti-regole, anti-banalità, anti-ogni cosa di cui la semplice, normale società
era farcita. Era stato espulso da due licei e da un'università - era già stato, a
suo tempo, buttato fuori dall'esercito - era stato licenziato da qualsiasi la-
voro che si era messo a fare, e il fatto di essere sopravvissuto quattro anni
nelle file dell'aviazione militare, senza beccarsi una "cattiva condotta" o un
congedo per "indegnità", talvolta lo stupiva.
I suoi guai del passato erano cominciati con l'insubordinazione e le con-
tinue assenze, per finire col furto dell'automobile di un professore di liceo:
furto commesso per una banale gitarella di piacere. Che lui fosse riuscito a
controllare le sue tendenze naturali durante tre anni e mezzo di vita milita-
re non significava che si fosse ravveduto, ma che aveva subito capito come
in aviazione la disciplina fosse più dura che in qualunque altra scuola.
A cacciarsi nei guai con un maestro, il peggio che può capitare è di es-
sere buttati fuori di scuola. Ma con un ufficiale si rischia di essere schiaf-
fati in prigione per cinque anni. Sua madre aveva cominciato a prospet-
targli la galera da secoli, fin dai tempi in cui Devers era ancora al liceo.
Tutto ciò che Stan aveva raccontato a Parker a proposito di sua madre era
vero: non erano mai andati d'accordo e così sarebbe stato sempre. Lei do-
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veva essere al quarto marito, magari stava cercandosi il quinto: non gliene
fregava niente, a lui. Per quanto non avesse mai consegnato né alla nonna -
né a chiunque altro - il suo denaro da tenere, la nonna era stata realmente
l'unica parente verso la quale si era sentito attaccato da un'amichevole af-
fettuosa affinità, e la sua morte, avvenuta l'anno precedente, gli aveva cau-sato più dispiacere di quanto avrebbe mai creduto possibile.
Era un solitario, lui, in parte per elezione, in parte per fatalità e il suo le-
game con Ellen Fusco non cambiava neanche di una virgola quel suo stato
di solitario. Se Ellen pensava al matrimonio come a un qualcosa del loro
avvenire, non era stato certamente lui a incoraggiarla. Però quest'idea non
l'aveva nemmeno esclusa: ciò che la manteneva, in genere, piuttosto tratta-
bile.
Fino a quegli ultimi tempi. Fino a che non era saltata fuori la faccenda
del furto. Da allora lei si era comportata come una truculenta donnaccia,
incombendo su di lui come una sdolcinata Cassandra da tragedia, rompen-
dogli l'anima al minimo pretesto.
Se anche aveva avuto l'idea di portarsela dietro il giorno in cui fosse sta-
to congedato, dopo l'esempio delle due ultime settimane, aveva cambiato
parere. Aveva proprio sperato che la psicanalisi l'avrebbe fatta ragionare.
Meditando su tutte queste cose, Stan dimenticò di guardare l'orologio. A
un tratto, si trovò davanti il tenente Wormley, che, con la rivista arrotolata
in mano, sorridendo gli disse: — State diventando proprio un bravo solda-
to, Stan. Sé vi vedesse il Maggiore...
— Sì, signore — rispose Stan. — Sto allenandomi per tornare alla vita
civile.
Un tempo, chiamare "signore" un vermiciattolo, come Wormley, l'avreb-
be stomacato, ma ora la parola gli veniva spontanea. Faceva parte di una
delle tante, piccole cose indolori a cui uno si assoggetta per tirare avanti:
chiamare tutti i Wormley del mondo "signore". E se quella parola "signo-
re", per i vari Wormley aveva un significato e per Stan un altro, questo era
affar suo.
Wormley doveva chiudere la stanza a chiave, perciò rimase ad aspettare
sulla soglia che Stan e Novato fossero pronti. Stan mise la Polaroid e la
busta con le fotografie in un grosso sacchetto di carta e si avviò verso la
porta.
— Vi portate a casa i campioncini? — domandò Wormley, indicando il
pacco.
— Sì, signore.
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Sì, ci puoi scommettere, povero figlio d'un cane.
3
— Stan .ha scattato un mucchio di fotografie dell'ufficio — disseEllen, incrociando le braccia.
— Ah! — fece il dottor Godden, con voce educatamente interessata. —
E perché?
— Non lo so. Gliele ha chieste quel Parker. Un sacco di fotografie, e non
soltanto dell'ufficio.
— Che altro?
— Oh! Il cancello, l'esterno dell'edificio dove lavora, i camion e gli au-
tobus di passaggio e cose del genere.
— Be', be' — disse il dottor Godden. — Pare che facciano le cose sul
serio, no?
. — Io lo sapevo.
— Avevate ragione, a quanto sembra. E complottano di nascosto?
— No. Come potrebbero farlo? Sono in casa mia! Come se a me inte-
ressasse di sapere cosa stanno combinando!
— E non è così?
— No — rispose lei, rivolta al tappeto. — Appena cominciano a parlare,
io esco dalla stanza.
— Perché fate in quel modo?
— Perché non lo sopporto! — gridò lei, fissando i disegni del tappeto.
— Odio solamente pensarci, odio tutto quello che stanno facendo.
— E' solo perché temete che li prendano, o perché avete paura che Stan
continuerà a rubare finché lo prenderanno?
— Non lo so. Come posso saperlo? — Lei sentiva che stava eccitandosi
sempre più, ma non riusciva a controllarsi. — Odio di vedermeli lì e basta.
Odio di vederli fare tutto... tutto...
— Bene, pensiamoci un poco — disse lui. — Dite di odiare di vederli lì,
in casa vostra, ad organizzare tutti i preparativi. E' questo il punto? Il fatto
che lo facciano in casa vostra?
— Non lo so. Forse.
— Avete forse la sensazione che violino la vostra ospitalità? Oppure che
Stan, in certo qual modo, vi tradisca, partecipando a un complotto col
vostro ex marito?
— Non credo — rispose lei, aggrottandosi, sempre rivolta al tappeto,
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cercando di pensare, cercando di capire se ciò che il dottor Godden le stava
dicendo, trovasse una risposta dentro di lei.
Talvolta lui faceva quel giochetto, offrendole una soluzione dopo l'altra,
finché trovavano quella che aveva una corresponsione in lei, e, in genere,
era quella giusta. Anche se era negativa in sommo grado. Difatti, nove vol-te su dieci, se lei stava per dire un "no" ben deciso a qualcosa, alla fine
quel qualcosa risultava la vera ragione.
— Avete niente da obiettare — le domandò lui, d'un tratto — al fatto che
vostro marito stia in casa vostra? Oppure questi progetti non fanno che
rammentarvi il tempo in cui eravate sposata con lui e, in modo particolare,
il momento in cui fu cacciato in prigione?
— Sì — rispose lei. Lanciò una rapida occhiata, diretta, verso quegli oc-
chi intelligenti e comprensivi, poi distolse subito lo sguardo. — E' così —
disse, sapendo che era proprio vero. — Mi rende nervosa. Tutti lì, in sa-
lotto come un tempo... mi sento come intrappolata, come se niente fosse
cambiato, come se non fossi realmente libera da Marty.
— Naturale — convenne il medico. — Il ricordo è lì, presente; la simi-
litudine col passato. Però la situazione è ben differente, sapete.
— Sì, lo so.
— Voi "siete" libera del vostro ex marito. Lui si trova lì vostro malgrado.
Ed è una bella differenza, non vi pare?
— Certe volte ho voglia di dire a tutti quanti di andarsene altrove.
— No!
Lo disse con una veemenza tale che lei, sorpresa, alzò il viso per guar-
darlo un'altra volta. Per un istante il volto di lui parve come sconvolto, poi
si ricompose.
— Ellen — disse. — Non potete sfuggire agli eventi. Ne abbiamo già
parlato altre volte.
— Sì — rispose lei, tornando a guardare davanti a sé. — Lo so, avete
ragione.
— Dovete lasciarli stare. Dovete cercare di affrontare il problema tran-
quillamente, capirlo, vincerlo.
— Lo so.
— Quindi — proseguì lui — non dovreste andar via quando si riunisco-
no. Anzi, dovreste assistervi, finché ve lo permettono. Dovreste ascoltare
tutto ciò che dicono, e conoscere alla perfezione i loro progetti. — Tacque,
poi riprese: — E sapete perché?
— Per aiutarmi a capire di che cosa ho paura?
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— Anche per quello, naturalmente. Ma ancora di più: dovreste sapere
con esattezza che cosa complottano, perché se il piano "è" buono, vi rispar-
mierete un sacco di preoccupazioni inutili. Chissà, potrebbe darsi che, nel-
l'ascoltare i loro progetti, possiate rendervi conto che tutto andrà bene, e a
questo punto, una delle ragioni per cui siete sempre stata tormentata, nonavrebbe più alcuna ragione di esistere. Non vi pare?
Lei sorrise al tappeto. — Penso di sì.
— Potreste poi parlare dei loro progetti con me. E insieme cercheremo
di stabilire se, con quanto tramano, riusciranno a cavarsela.
— E cosa succede, se penseremo invece che non ce la faranno? —
domandò lei.
— Allora ne studieremo il perché. Discuteremo le loro idee, e se capi-
remo che le loro idee non funzionano, potrete sempre farlo presente a Stan
in modo che possano migliorare i piani o decidere di non farne niente.
— Io non oserei mai dire a Stan che ho parlato di queste cose con voi.
— E' comprensibile.
— Lui non crederebbe che io possa fidarmi di voi tanto da parlare di
qualunque cosa — rispose lei. Lo guardò, e sostenne il suo sguardo, questa
volta. — Qualunque cosa — ripeté.
Il sorriso che il medico le rivolse fu gentile, simpatizzante.
— Sono lieto che abbiate fiducia in me — disse.
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Fusco fermò la Pontiac sul vialetto ghiaioso accanto alla casa.
Non c'era garage. C'era soltanto quel viale che terminava in fondo a una
palizzata. Quella palizzata circondava completamente il giardino sul dietro
e ciò era un'ottima cosa per Pam. La bambina se ne stava là fuori, tutti i
giorni caldi e senza pioggia e aveva tutto il giardino a sua disposizione per
giocare. Molto più grande di quel pezzetto di terreno a Canarsie, dove ave-
va giocato Fusco da bambino.
Fusco chiuse lo sportello della Pontiac e s'incamminò verso la palizzata.
Là c'era Pam, in fondo al giardino come al solito, accovacciata nella po-
sizione di tutti i bambini, mentre scavava la terra con un cucchiaio che
Ellen le aveva dato.
Ellen era una buona madre, non lo si poteva negare. Già, ed era stata
anche una buona moglie. Era lui che non andava. Come marito era stato un
vero fallimento, e come padre era di quelli che una volta all'anno ti arri-
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vano con un pallone e una scatola di dolcini, ma oltre a ciò non aveva la
più pallida idea di che cosa doveva fare. Era magnifico per Pam, avere una
madre come Ellen.
L'unica cosa che Fusco non sapeva ben definire era il suo sentimento
verso Stan. Gli pareva che, in un modo o in un altro, avrebbe dovuto essereseccato che lui se la spassasse con Ellen, invece, quando gli capitava di
pensarci, si accorgeva che non gliene importava un fico secco. Che dia-
mine, non erano mica più sposati. E dopo tre anni di carcere, separato
completamente da lei, non provava più nessuna attrazione, né alcun senti-
mento per lei. Be', un po' sì, certo, comunque, pensava che ciò fosse dovu-
to al fatto che c'era la bambina e che era Ellen la responsabile dell'-
educazione della sua figliola.
Gli piaceva guardare Pam. Gli piaceva sapere che era lì. Ma ormai non
sarebbe rimasto molto più a lungo da quelle parti.
Senza chiamare la bambina o attrarre in alcun modo la sua attenzione,
Fusco si allontanò dalla staccionata, girò intorno alla Pontiac ed entrò in
casa dalla porta principale.
Erano passate da poco le sei. Ellen era in cucina a preparare la cena.
Parker, seduto sul divano, guardava le fotografie sparse sul tavolino. Stan
non c'era. Parker alzò il viso a guardarlo: — E' andata bene?
— Benissimo — rispose Fusco. — Mi sono seduto a un tavolo accanto
alla finestra da dove potevo vedere tutto ciò che succedeva al cancello.
Con un libro aperto davanti e un blocco, davo l'impressione di prendere
appunti su quello che leggevo. Nessuno mi ha guardato quant'ero lungo.
Stan arrivò dalla camera da letto, dicendo:
— Marty, domani rivoglio la mia macchina. Odio quell'autobus puzzo-
lente.
— Dovevo trattenermi là più a lungo di te — replicò Fusco.
— Lo so, lo so. — Stan si rivolse a Parker. — Volete esaminare quella
roba ora, o dopo cena?
— Appena è pronto Fusco.
— Due minuti — disse Fusco. Posando il blocco degli appunti su un an-
golo del tavolino, entrò nel bagno per lavarsi prima di andare a mangiare.
Non se ne spiegava il motivo, ma soltanto per essere stato seduto in quella
biblioteca tutto il giorno, gli sembrava di essere mezzo anchilosato. Difatti,
quando si chinò per lavarsi la faccia, sentì scricchiolare le ossa della schie-
na.
Quando tornò, Parker e Stan erano già seduti intorno al tavolo di cucina
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ed Ellen stava servendo la cena.
Parker e Fusco prendevano la maggior parte dei pasti in quella casa, ma
dormivano altrove. Fusco in un albergo sopra il Bar Checker in Front
Street e Parker al motel di Malone, venticinque chilometri da lì. Parker,
tutte le sere, prendeva la Pontiac e il mattino dopo la riportava a Stan cheusciva presto per andare alla base. A meno che, com'era successo quella
mattina, Parker e Fusco non ne avessero bisogno.
Fusco si sedette, ed Ellen, senza dire una parola, gli mise davanti un
piatto con un pezzo di polpettone, dei fagioli e alcune patate lesse. Affa-
mato, Fusco vi si buttò sopra, avidamente.
Dopo essersi seduta a sua volta, Ellen si rivolse a Fusco.
— Come è andata, oggi? — domandò.
— Bene — rispose lui. — Nessuna noia.
— Mi fa piacere.
Negli ultimi due giorni era molto migliorata, molto più trattabile. Quella
storia l'aveva scombussolata e resa parecchio nervosa, ma ora sembrava
proprio cambiata. Forse si era rassegnata, o forse cominciava a interessarsi
alla faccenda. Dal lunedì si era comportata benissimo, restando tranquilla
ad ascoltarli discutere senza metterci mai becco. Stan, logicamente, ne era
stato molto sollevato e, di conseguenza, anche lui era più disteso, più cal-
mo.
A Fusco piaceva la gente calma. Odiava sentirsi avvolto da quell'atmo-
sfera elettrica, tesa. Le cose, finalmente, sembravano infilate bene: eccoli
lì, tutti e quattro, intorno al tavolo di cucina, ad ascoltare Stan che raccon-
tava aneddoti comici su quel moccioso di sottotenente del suo ufficio.
Fusco si servì due volte di ogni cosa.
Poi, rientrati in salotto, Fusco parlò della sua giornata, fornendo nomi,
tempi, entrate e uscite dal cancello sud di ogni veicolo civile; del numero
delle automobili private, nelle diverse ore del giorno; degli automezzi della
base che usavano quel cancello per entrare e uscire. Infine disse:
— Ho visto uscire da quel cancello due camion, ma non li avevo visti
entrare, per lo meno mentre c'ero io. Il primo era un camion della nettezza.
Verde. Su un lato aveva la scritta "Servizio Nettezza", ed è uscito alle tre e
venti. L'altro, un furgoncino della Pepsi Cola, è passato alle quattro e
trentacinque. Secondo me, devono essere entrati tutti e due dal cancello
principale e, dopo aver fatto un giro prestabilito, sono usciti da lì.
— Che controllo subiscono questi automezzi civili? — domandò Parker.
— Io credo che abbiano un lasciapassare — rispose Fusco. — Si ferma-
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vano tutti, e dopo che il conducente aveva mostrato qualcosa alla senti-
nella, venivano fatti proseguire.
— Tanto all'entrata che all'uscita?
— Sì.
— Nessuno è stato fatto passare con un cenno? Nemmeno quelli che,evidentemente, ci vanno tutti i giorni? Le sentinelle dovrebbero conoscere
tutti i conducenti, o quasi.
Fusco scosse il capo. — Si sono fermati tutti quanti. Senza eccezione.
Stan spiegò, rivolgendosi a Parker:
— C'è in giro una combriccola di teppisti che si diverte a mettere in sub-
buglio la tranquillità delle basi di aviazione. Sono capitati qui tre o quattro
mesi fa e la faccenda si è subito divulgata per tutta la base.
"Uno di loro è riuscito a entrare, nascosto in un furgone della Coca Cola,
e a mettere un mattone rosso con la scritta 'Bomba' a caratteri bianchi, den-
tro a ogni distributore della Coca Cola. Poi ha telefonato alla polizia mi-
litare per informare che la base era saltata in aria."
— Benone! Così ora staranno più all'erta che mai. Tanto per renderci le
cose ancora più difficili.
— Comunque, non avremmo certo contato sulla loro negligenza, perciò,
non cambia niente — disse Fusco. Lui stava sempre in apprensione che
Parker, all'improvviso, decidesse che il colpo non si poteva fare e, dopo
essersi alzato, se ne uscisse per la comune. Parker era capacissimo di farlo,
se la faccenda non gli quadrava.
Ma non successe nulla. Parker si dimostrò d'accordo con quanto aveva
detto Fusco e, rivolgendosi a Stan, domandò:
— A che ora arrivano alla base questi quattrini per le paghe?
— Alla base o al nostro ufficio?
— Tutt'e due. Alla base, per cominciare.
— L'aereo atterra alle nove e venti. I quattrini arrivano all'ufficio ammi-
nistrativo non più tardi delle dieci meno un quarto.
— Quando cominciano a fare le buste paga?
— Immediatamente. Sei persone ci lavorano tutto il giorno.
— Facendo lo straordinario?
Stan sorrise. — No. Alle cinque è finito tutto. Lo so, perché una di quelle
sei persone sono io, e ti assicuro che facciamo di tutto per uscire da lì alle
cinque in punto.
— Dove ha luogo tutto questo?
Stan prese una fotografia dal tavolino e la porse a Parker.
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— Qua, nell'ufficio del Maggiore. Dove si trova la cassaforte. Vedete
questi due lunghi tavoli lungo la parete sinistra? Ecco, lavoriamo lì.
— E le due casse col denaro?
— Davanti. Accanto a quella vetrata.
— I vetri sono a prova di proiettile? — No, è vetro normale.
— Ma le finestre sul dietro hanno le sbarre.
Stan si strinse nelle spalle. — In aviazione fanno le cose così.
A questo punto, Ellen entrò silenziosamente nella stanza e andò a sedersi
in un angolo, con una tazza di caffè in mano.
Parker disse:
— Oltre ai sei uomini che preparano gli stipendi, chi altro c'è al primo
piano?
— Quelli che ci lavorano di solito — rispose Stan. — Una ventina di
persone circa.
— Nessun altro, nella stanza dove viene maneggiato il denaro?
— Il Maggiore. E il tenente Wormley. E il capitano Henley.
Questi ultimi due tirano fuori dall'armeria la 45, fin dal mattino, e girel-
lano attorno, giocando a fare le guardie.
— Descrivimeli.
— Chi, Wormley e Henley? — Stan alzò le spalle. — Wormley è un ver-
miciattolo, uscito fresco fresco dall'esercito. Una nullità.
— E di Henley cosa ne sai?
— Dicono che sia un alcolizzato — rispose Stan. — Personalmente, non
ne so nulla. Abita con la famiglia in una delle case per i dipendenti della
base; ha un monte di figlioli, è sulla quarantina. Pare che quando gli sareb-
be toccato, non sia stato promosso Maggiore; la cosa che lo diverte di più è
parlare dei suoi trascorsi in Europa durante la seconda guerra mondiale.
— Sa usare la pistola? Stan alzò di nuovo le spalle.
— Buio pesto. Comunque, tutti gli ufficiali dovrebbero saper sparare con
la 45. M'immagino che Wormley sia andato al poligono e, dopo aver chiu-
so gli occhi, abbia sparato, finché non gli hanno detto di smettere. Può an-
che darsi che Henley si sia davvero distinto in qualche modo, durante la
grande guerra, non lo so.
Fusco era rimasto ad ascoltare, cercando di immaginarsi gli uomini dalla
descrizione di Stan. Era piuttosto bravo, lui, a indovinare da sole descrizio-
ni un tipo d'uomo e come si comporterebbe in una data situazione. Di lì a
poco, difatti, disse:
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— Ecco l'uomo di cui dobbiamo diffidare: Henley.
Stan non comprese. Si voltò a guardare Fusco, dicendo:
— La guerra è passata da un pezzo.
— Non per quanto possa aver imparato in guerra — ribatté Fusco. — Ma
se è vero che si tratta di un Maggiore mancato, magari in servizio da ven-ticinque anni, con famiglia, semialcolizzato, può darsi che desideri buttarsi
fuori. Magari sogna di far qualcosa d'eroico per essere promosso Maggio-
re.
Stan lo guardò di sbieco, pensoso.
— Henley? Potresti aver ragione. Qualche volta diventa bellicoso.
— E il Maggiore? Che tipo è?
— intervenne Parker.
— Il Maggiore Creighton... una simpatica persona — rispose Stan.
— Fare paterno, cordiale. Porta dei bei baffetti bianchi. Le ragazze della
WAF dicono che spesso tenta di allungare le mani, ma per quel che ne so
io, se ne sta nel suo ufficio a sorvegliare che tutti facciano il loro dovere
anche se, a quanto pare, lui se ne frega in pieno.
— Nessun altro sorvegliante?H — domandò Parker.
— Durante il giorno, no. Arrivano alle cinque, quando noi smettiamo.
Credo che facciano due turni: dovrebbero darsi il cambio verso mezzanot-
te, o giù di lì. Non ne sono ben sicuro.
— Bene. A che ora fanno uscire le casse con i quattrini, il mattino se-
guente?
— Alle otto e cinque, otto e dieci, circa. Le portano giù, le caricano sul
furgone blindato e tanti saluti.
— La questione è: agiremo di giorno, e cioè il giorno prima, o aspettia-
mo la notte? — domandò Fusco.
— Non possiamo ancora stabilirlo — replicò Parker.
— Sì che possiamo. Bisogna per forza agire di giorno. Non possiamo ri-
schiare di andare in giro per la base durante la notte. Inoltre, durante il
giorno, non ci sono che Wormley ed Henley di guardia, e, per quanto sia,
Henley è soltanto un dilettante, mentre di notte c'è da affrontare la polizia
militare, esterna ed interna.
— Se lo facciamo di giorno — gli rispose Parker — non c'è dubbio
che tu dovrai comportarti come se non facessi parte della nostra squadra. E
noi anche, nei tuoi riguardi.
— Non ci sarà mica bisogno che mi spariate addosso — commentò Stan,
sorridendo.
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— Lo so. Ma ti va di trovarti là, in divisa, con venti testimoni attorno,
mentre noi facciamo il colpo?
— Io mi limiterò a stare con le mani in alto — rispose Stan, alzando le
mani per aria.
Fusco disse: — Ha ragione Stan. Di giorno è l'unica soluzione. Così la penso io, al-
meno.
Parker sembrava rimuginare la cosa. Prese in mano un paio di fotografie,
le guardò, le rimise sul tavolo.
— Un colpo alla luce del giorno è più difficile — disse. — Lasciamo per-
dere, per il momento. In ogni modo, che si agisca di giorno o di notte,
abbiamo bisogno di altri tre uomini, incluso quello che guiderà. Con loro
saremo sei e divideremo in parti uguali. Hai detto che ci sono quattrocen-
tomila dollari, nel conchino?
— All'incirca — disse Stan. — Un po' più un po' meno, ogni volta cam-
bia.
— Fa circa sessantacinquemila dollari a testa — rimarcò Fusco.
— Dobbiamo trovare degli ottimi elementi — continuò Parker, guardan-
do Fusco. — Nessuna idea?
Fusco ne aveva. — Ho conosciuto un tizio, in carcere — disse. — Era
dentro solo perché qualcuno aveva spifferato sul suo conto. Dovrebbe es-
sere già fuori. Pareva un tipo in gamba, deciso, e conosceva un sacco di
persone della nostra cerchia.
— Come si chiama?
— Jake Kengle.
Parker scosse il capo. — Non lo conosco. Sai come metterti in contatto
con lui?
— Quando sono uscito, mi ha dato un indirizzo.
— Provaci. Conosci Philly Webb?
— Sicuro — rispose Fusco. — Bravo ragazzo. Una volta, in un colpo
che feci nel Norfolk, guidò la macchina per me.
— A lui penso io — disse Parker.
Fusco riprese:
— Che ne dici di quel tipo straniero? Quel Salsa, ricordi? Sempre nel gi-
ro?
— Morto — rispose Parker. Dal suo angolo, Ellen disse, con gran sor-
presa di tutti:
— Billy Stockton è sempre in gamba.
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— Giusto! — esclamò Fusco. Si rivolse a Parker. — Ti rammenti di Sto-
ckton? Quello alto, secco come un chiodo, con quei capelli neri e lisci
sempre ritti sul capo? Un vero asso, con la pistola.
— Me ne rammento — disse Parker. — Te ne occupi tu, o devo pensarci
io? — Me ne occupo io. Tu pensa al finanziamento.
— Finanziamento? — fece Stan. — Che storia è questa?
— Ci saranno delle spese — spiegò Fusco. — Armi, forse. Una macchi-
na, altre cosette. Ci facciamo finanziare da un estraneo e se il colpo va, gli
restituiamo i suoi soldi raddoppiati.
— Perché non ci finanziamo da noi?
— Se quello che tira fuori i quattrini è coinvolto nel colpo — rispose
Parker — è facile che sollevi un sacco di grane. Comincia subito a sentirsi
importante. Perciò è meglio farsi finanziare da uno di fuori.
— Il motivo per cui ti ho chiesto di pensarci tu, Parker — disse Fusco —
sta nel fatto che i finanziatori non si fidano troppo di chi è stato dentro. Per
superstizione o chissà che altro.
— Ci penso io — rispose Parker, poi, a Stan: — Come possiamo fare per
metterci in osservazione al cancello sud, di notte, come ha fatto Fusco di
giorno?
— Semplice — rispose Stan. — Sto seduto dentro a una macchina. Nes-
suno si occuperà di me.
— Bisogna farlo dalle undici e mezzo di stasera fino alle quattro di do-
mattina, più o meno — disse Parker.
— Stasera? — Il sorriso di Stan si mutò in una smorfia. — Mi ero di-
menticato che non conviene mai offrirsi volontari.
Fusco disse: — Verrò con te, Stan, se vuoi compagnia.
Stan gli puntò un dito contro. — Ti sei offerto, amico.
— Uno di voi, però — disse Parker — deve portarmi al motel, prima, e
poi venirmi a riprendere domattina.
— Potreste restare qui, per stanotte — disse Ellen.
Non c'era nessun invito, nel suo tono di voce, o nell'espressione del suo
viso, quando Fusco si volse a guardarla. Niente, all'infuori di un piatto sug-
gerimento e di una faccia inespressiva. Ma Fusco sentì l'aria della stanza
vibrare, sentì la tensione di Stan, sentì se stesso irrigidirsi e rimase stupito
del sollievo che provò quando Parker rispose, con lo stesso tono piatto:
— Preferisco fare come ho fatto sempre, aderire alla routine.
Fusco balzò in piedi, improvvisamente ansioso di porre termine alla
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riunione.
— Ti accompagno io, Parker.
— Bene, arrivederci a domattina, Stan.
— Arrivederci — rispose Stan. Il momento era passato.
5
— Sapete cos'è che mi colpisce come un dato indicativo? — esclamò il
dottor Godden.
Durante gli ultimi due o tre minuti, Ellen era rimasta zitta: se ne stava
se-duta lì, semplicemente, stringendosi le braccia intorno al corpo, gli
occhi fissi su quei disegni del tappeto, sentendo il cervello vorticare frene-
ticamente, quasi cercasse un argomento qualunque e non trovasse niente,
niente in assoluto.
Il dottor Godden le diceva sempre di non preoccuparsi delle pause di si-
lenzio, di tacere pure quando aveva voglia di tacere e di parlare soltanto
quando si sentiva di parlare, ma lei odiava lasciar scorrere via il tempo e
star lì senza dirgli nulla, senza combinare niente con lui. Erano andati così
bene, fino a quel momento: lei era impaziente, anelava di proseguire in
quel modo, per poter arrivare alla migliore intesa possibile.
Quella era una delle rare volte in cui il dottor Godden rompeva il suo
silenzio e il fatto la sorprese talmente che si sentì spinta a guardarlo. Ma
riuscì a controllare in tempo quel moto spontaneo e, scuotendo il capo più
volte come per dire "no, no", rispose:
— Non lo so.
— Non riuscite a trovare niente da dirmi — disse, allora, lui. — Sarà, im-
magino, perché state disperatamente cercando di non pensare a un soggetto
particolare. Credete che possa essere questo?
— Non lo so — ripeté lei, sebbene quell'idea la facesse irrigidire. — Non
riesco a pensare a niente.
— Davvero? Be', eccoci arrivati a lunedì. Sapete quando è stata l'ultima
volta che mi avete parlato del furto? Esattamente una settimana fa. Lunedì
scorso. Da allora, neanche una parola. Mercoledì mi avete raccontato di
vostra madre, venerdì della vostra bambina e oggi non siete capace di aprir
bocca. Da qui al momento del furto mancherà soltanto una diecina di gior-
ni e, fino a lunedì scorso, pareva che consideraste la questione come molto
seria e importante. — Tacque, e questo significava che ora toccava a lei dir
qualcosa.
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Ellen annaspò in cerca di parole, poi, finalmente, borbottò:
— Non so, può darsi che non abbia più niente da dire, sull'argomento.
— Siete stata presente alle loro riunioni, come vi avevo suggerito?
— Sì.
— Avete ascoltato tutti i loro progetti? — Sì.
— E non avete niente da dirmi sui loro progetti?
— Penso di sì — si strinse nelle spalle, goffamente, il viso contorto dallo
sforzo di concentrazione. — Però, credo di non avere voglia di parlarne.
— Volete dire che non siete stata a sentire i loro progetti?
— Sì che li ho sentiti.
— Allora ne siete sempre interessata, ci pensate ancora. Ma non avete
voglia di parlarne. Come mai pensate questo?
— Non lo so.
Lui cominciò a buttar giù ipotesi, come faceva sempre.
— Forse è perché non vi fidate più di me? O perché pensate che quei lo-
ro piani funzioneranno a meraviglia e vi siete accorta di quanto eravate
sciocca a preoccuparvi tanto? Oppure perché vi sentite nuovamente attrat-
ta da vostro marito? O magari da quell'altro, da quel Parker?
— No! — esclamò Ellen, con tanta forza e così all'improvviso che lei
stessa ne restò stupita. Poi ammutolì, e rimase ad ascoltare quella parola
che le rintronava nel cervello, quasi rivelando il suo intimo perfino a se
stessa, e capì che, fino a quel momento, aveva fissato un angolo del tappe-
to, perché una linea, anzi, una serie di linee, le rammentavano vagamente il
profilo freddo, duro e arcigno di Parker.
— Che cosa rappresenta Parker per voi? — domandò il dottor Godden.
— Un genitore, forse? Il genitore severo? Vi ricorda il padre?
— Una sensazione di freddo — disse lei, senza avere l'assoluta certezza
se intendeva alludere a Parker o a se stessa, oppure a tutti e due, o anche ai
tanti modi diversi d'interpretare quella parola, in riferimento a ciascuno di
loro.
— ... la persona che sentite di non meritare?
— Mercoledì — cominciò lei, con voce monotona, quasi bisbigliando —
Stan doveva star fuori tutta la notte e io ho chiesto a Parker se voleva re-
stare a dormire. Non gliel'ho domandato in tono invitante. Gliel'ho sempli-
cemente chiesto. Non sapevo se lo desideravo veramente, ma mi è venuto
spontaneo. Non so nemmeno se lui lo ha capito.
— Ed è rimasto?
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— No, se n'è andato e io ne sono stata contenta. Mi ha fatto piacere che
non sia rimasto, ma non potevo fare a meno di chiederglielo.
— Siete stata contenta di scoprire di essere sempre indegna?
— Forse. Non ne sono sicura.
— E ora, che cosa provate per quell'uomo? — Credo di odiarlo — rispose lei. — Ho paura di lui.
— Perché sentite che sarebbe giustificato se vi punisse per il vostro odio
— suggerì il medico. — Perché lui non ha fatto niente, a voi personal-
mente, che possa giustificare l'odio che gli portate. Ecco perché ne avete
paura. La paura non è che la conseguenza di sentirsi colpevoli.
Certe volte le risposte del medico erano troppo complicate per lei. Scos-
se il capo. Non seppe fare altro.
— Forse mercoledì vi sentirete di nuovo in vena di parlarmi del furto.
Forse allora riuscirete a capire meglio i vostri sentimenti.
— Ve ne parlerò subito — esclamò lei. — Adesso capisco, ve ne voglio
parlare subito, davvero.
— Non c'è più tempo, ora — disse lui e la sua voce non aveva il solito
tono comprensivo. — Vedremo cosa succederà, mercoledì.
A questo punto lei sì sentì più colpevole che mai. Senza alcun motivo,
non aveva voluto parlare al dottor Godden di quei progetti, lasciandogli
credere di non fidarsi di lui, scavando così un piccolo baratro tra loro,
proprio nel momento in cui aveva più bisogno del suo aiuto.
— Mercoledì vi racconterò tutto quanto — promise.
— Se ne avrete voglia — rispose lui.
6
Norman Berridge osservò il cadavere e lo trovò perfetto. Il rossetto sulle
gote era forse un tantino troppo accentuato, specialmente per un uomo di
sessantatré anni, ma i parenti non guardano tanto per il sottile quando si
tratta di cose del genere. Sempre che le varie accomodature, cuciture ec-
cetera, non fossero troppo evidenti, qualsiasi applicazione di cosmetici ve-
niva pienamente accettata. E data la scarsità di assistenti sui quali uno do-
veva fare affidamento con i tempi che correvano, andava anche troppo
bene.
Be', non era il caso di far tante storie. Stava benissimo. Si espresse in tal
senso con l'assistente che se ne stava orgogliosamente accanto al cadavere.
Era un giovane apprendista portoricano, i portoricani erano ormai gli unici
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che accettavano salari da apprendisti in quest'epoca di boom per i giovani,
che accolse i complimenti alzando una mano e chinando il capo con un ge-
sto altamente compiaciuto, mentre le sue gote diventavano rosse come
quelle del cadavere.
Il telefono a muro, nell'angolo della stanza, squillò. Girando attorno acadavere e assistente, Norman Berridge andò ad alzare il microfono e udì
la segretaria che gli diceva:
— C'è qui un tale che chiede di voi, signor Berridge. Dice di chiamarsi
Lynch, dice che si tratta dei soliti vitalizi.
Berridge sporse le labbra. Riconobbe il nome e il segnale dalla parola
"vitalizi". Lynch era uno di quelli che capitavano di tanto in tanto a chie-
dere finanziamenti per le proprie attività. Era piacevole avere un certo giro
di offerte per investire quattrini, con un certo rischio finanziario, si
capisce, e un profitto del cento per cento, senza essere coinvolti in alcun-
ché, tranne lo sborso iniziale, ma gli uomini con i quali trattava questo
genere di affari gli urtavano maledettamente i nervi, e Lynch, se possibile,
era il più snervante di tutti. Era un uomo gelido, controllato e silenzioso
come una pantera e Berridge aveva sempre l'impressione di essere conside-
rato da lui con infinito disprezzo per il suo corpo flaccido, i nervi incon-
trollati e la mente confusa. Mentre Lynch era pulito, freddo e vuoto come
l'interno di una bara nuova.
Naturalmente Lynch non era il vero nome di quell'uomo. Una volta in
cui non era venuto a trovarlo da solo, aveva udito il tizio che era con lui
apostrofarlo con altro nome, ma non riusciva a rammentarsene: Porter,
Walker, Archer... qualcosa di simile.
Non aveva importanza. Non era il nome dell'uomo quello che contava,
ma l'occasione che gli si presentava per investire il suo denaro.
— Vengo subito — rispose Berridge al telefono, poi riappese e, voltan-
dosi, vide l'assistente cincischiare sulle gote del cadavere: evidentemente
anche lui aveva notato che erano troppo colorite per uno che non era stato
un "habitué" del Moulin Rouge.
— Benissimo — disse Berridge. — Benissimo.
Si distaccò dal sorriso raggiante di piacere dell'assistente e si avviò verso
l'ascensore, una piccola cabina appena sufficiente per due persone. Richiu-
dendone lo sportello, mentre saliva al primo piano, si ricordò dei reiterati
giuramenti fatti a se stesso di cominciare a usare le scale.
Esercizio, era quello che gli ci voleva, e in un baleno avrebbe riacquista-
to l'elasticità dei vent'anni. Esercizio e qualche piccolo sacrificio nella die-
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ta. Niente di più.
Ma ora non voleva arrivare ansimante nella stanza dove si trovava
Lynch. Sarebbe stato sempre in tempo a iniziare il nuovo regime alla prima
occasione di tornare giù nel sottosuolo. Per il momento, una respirazione
nor-male avrebbe agevolato il completo controllo dei suoi nervi davanti aLynch. Perciò, ascensore.
Lynch stava accanto alla finestra, quando Berridge entrò nel suo ufficio,
e guardava, senza alcuna espressione in viso, il giardinetto all'italiana che
la signora Berridge coltivava dietro la casa. Berridge aveva l'impressione
che Lynch non si sedesse mai, poiché nei loro rari incontri era rimasto
sempre in piedi, duro e diritto come un palo. Questa volta, si ripromise
Berridge, sarebbe rimasto in piedi anche lui: avrebbe rimediato un po' al
fatto d'aver preso l'ascensore.
— Oh! Lynch! — esclamò, quasi fosse lieto di vederlo. — Era molto
tempo che non ci vedevamo.
Quella falsa cordialità e quel modo untuoso di fare, cui si era abituato a
forza di trattare con i parenti dei morti, erano adatti in molte circostanze, e,
particolarmente, in questa. Nella sua voce o nel suo viso non era possibile
notare la benché minima traccia di pensieri contrastanti che la persona di
Lynch evocava in lui, come fonte di denaro e come fonte di disagio.
Lynch si voltò, salutò con un breve cenno del capo e disse: — Ho bi-
sogno di tremila dollari.
La conversazione spicciola con Lynch non attaccava, ciò che in genere
viene considerato "approccio socievole" con lui non aveva senso. Quell'-
uomo andava diritto allo scopo con la rapidità d'una macchina da corsa o
di un aereo da combattimento. Il che, in quel caso, andava benone.
L'ultima cosa, che Berridge desiderava, era di sapere in che maniera ve-
niva usato il suo denaro, e l'ultimissima era di conversare oziosamente con
quell'uomo su un argomento standard come, ad esempio, sul tempo che fa.
Perciò, Berridge, che di solito era espansivo, si adeguò alla laconicità di
Lynch, rispondendo:
— Nessun problema. Solita prassi?
— Esatto. Se va, avrete mie notizie entro dieci giorni.
— Diciamo verso il primo del mese?
— Subito dopo. Il due o il tre, più o meno.
— Benissimo. Li vorrete subito, immagino.
— Sì.
— Vi dispiace accompagnarmi alla banca?
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Lynch annuì e si staccò dalla finestra.
Berridge, compiaciuto con se stesso per non essersi seduto alla sua bella
scrivania di mogano, lo precedette fuori dell'ufficio fino al garage, dove
premette il pulsante che apriva una delle tre porte: quella in cui stava la sua
Toronado. Accanto c'era la Mustang di sua figlia e, dall'altra parte, la Ca-dillac e la Volkswagen di sua moglie. Il carro funebre e l'altro per le co-
rone, li teneva in un secondo garage dietro la casa.
Quand'era al volante della Toronado, Berridge si sentiva a suo agio: si
sentiva giovane e pieno di vitalità. Aveva notato che quasi tutti i guidatori
di Toronado erano come lui: di mezza età e piuttosto corpulenti, ma questo
non sminuiva l'illusione di giovinezza che quella macchina gli procurava.
Lui era capace di elasticità come chiunque altro.
Il suo denaro, per esempio. Lui si considerava un uomo onesto, integro,
patriottico: detestava i capelloni e i pacifisti e tutte le varie bizzarrie socia-
li, e se le sue denunce del reddito erano ogni anno notevoli capolavori di
fantasia letteraria, non era affatto una contraddizione, ma semplicemente
un altro aspetto del suo carattere, l'aspetto dell'uomo d'affari di prim'ordi-
ne.
Le famiglie più povere preferivano pagare i funerali in contanti; non la-
sciavano tracce; le entrate senza tracce le denunciavano soltanto i grulli, e
Norman Berridge non era davvero un grullo.
Se in quella cassetta di sicurezza di una banca del centro, si trovavano
pacchi di banconote spiegazzate, tali e quali come erano arrivate nelle sue
mani da quelle dei clienti, lo si doveva solamente al fatto che ogni persona
normale cerca di difendersi in qualche modo contro le usurpazioni del go-
verno. E se certe volte quel denaro veniva raddoppiato, o certe volte, anche
perduto, per averlo investito nelle attività non ben specificate di uomini
come Lynch... Be'? Da quando investire il proprio denaro era un delitto?
Durante il tragitto fino al centro, la conversazione lasciò molto a desi-
derare. Berridge era penosamente consapevole della presenza di Lynch sul
sedile accanto al suo, ma era ben certo di non dare a vedere quella consa-
pevolezza e quel disagio.
Guidava, un po' troppo lentamente e persino troppo cauto, in mezzo a un
traffico non eccessivamente pesante, data l'ora del mattino. Arrivato, po-
steggiò proprio davanti all'isolato dove si trovava la banca e disse: —
Torno subito.
Lynch non rispose: anche questo era tipico in lui.
Berridge ebbe un attimo di nervosa incertezza. Doveva o no introdurre la
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moneta nel parchimetro? Come l'avrebbe giudicato Lynch? Un vecchio pi-
gnolo, magari, se la metteva, oppure un tipo trasandato se faceva il con-
trario? Era facile venir considerato con disprezzo in ogni caso. Il dilemma
si risolse da solo, poiché, infilandosi la mano in tasca, si accorse di non
avere spiccioli. Passò oltre ed entrò in banca.Lui si beava di tutte le formalità che doveva attraversare prima di rag-
giungere la sua cassetta; i cancelli da varcare, le firme, il dignitoso osse-
quio del custode, e la necessità che, per aprire la cassetta, sia la chiave del
custode, sia la sua, dovessero essere inserite nella serratura, allo stesso
tempo. Tutto ciò lo faceva sentire importante, solido. E anche il valore
stesso conferito con tanta evidenza alla sua cassetta, lo dilettava, dandogli
la sensazione che la sua stessa persona fosse considerata di valore.
Comunque, tutto ciò era un piacevole antidoto contro i lunghi, pesanti
dieci minuti passati insieme con Lynch.
Berridge si fece dare una grossa busta e, portandosela dietro insieme alla
cassetta, entrò in uno sgabuzzino privato dove, seduto a un tavolo, contò
banconote da cinquanta, da venti e perfino qualcuna da dieci, fino a rag-
giungere la cifra di tremila dollari. I biglietti gonfiarono tanto la busta che
faticò a chiuderla. Poi dovette procedere alle formalità inverse, rimettere a
posto la cassetta e ritornarsene fuori.
Quando raggiunse l'auto, Lynch stava fumando, e l'aria, nell'interno, era
acre dell'odore del fumo. Cercando di non farsene troppo accorgere, men-
tre avviava il motore, Berridge aprì l'aria condizionata.
Nel frattempo Lynch prese la busta e cominciò a contare le banconote.
Durante tutto il tragitto di ritorno, Lynch seguitò a contare, senza mo-
strare di essere minimamente disturbato dal traffico della città.
I pacchetti, dopo che li ebbe contati, finirono, uno per volta, nelle tasche
di Lynch, finché la busta rimase vuota, il denaro sparito dalla vista e Lynch
identico a prima.
A un certo punto, quando Berridge si trovò costretto a fermarsi davanti a
un semaforo rosso, Lynch gli porse un biglietto accartocciato da venti
dollari e disse:
— Vi siete sbagliato a contare.
— Davvero?
Berridge prese il biglietto e fu tanta la sua sorpresa che non si accorse
del semaforo tornato verde, fino a che le macchine dietro la sua non co-
minciarono a sonare il clacson. Continuò a guidare col biglietto ripiegato
nella mano destra. Quando arrivarono davanti alla grande casa bianca, cir-
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condata da piante ben curate e da un prato dove avevano messo, con una
certa discrezione, un cartello nero su cui spiccava una scritta in lettere
color beige, Lynch disse:
— Lasciatemi qua.
Lynch se ne andò senza salutare. Berridge rimase ad osservarlo attra-versare la strada e salire su una Pontiac che portava la targa dello Stato di
New York. Rubata?
Appena Lynch fu partito, Berridge riportò la macchina dentro il garage,
la cui porta si aprì da sola al suo avvicinarsi.
Poi, vedendo la busta accartocciata sul sedile accanto, si lasciò andare a
un moto di stizza contro Lynch, contro quel suo silenzio, quella fredda ar-
roganza, quell'atto strafottente che lo aveva spinto a lasciar lì la busta spie-
gazzata. Guardò il biglietto da venti dollari che teneva in mano. Lynch
aveva contato il denaro una volta sola. Come poteva avere tanta sicurezza
che l'errore fosse stato suo?
Un'improvvisa voglia di vomitare sconvolse lo stomaco di Berridge.
7
— Parker non mi turba più — disse Ellen.— Ah! Benissimo.
— Ora non provo per lui che una forte antipatia — continuò lei, sapendo
che la sua voce aveva un tono calmo e sicuro.
— Sono lieto che le cose vadano meglio — replicò il dottor Godden. —
Qual è il motivo di questo cambiamento?
— Sono svariati — rispose lei. — Ora lo capisco. C'è stato un momento
in cui pensavo che fosse per un solo motivo, ma ora so che ce ne sono tanti
altri.
— E qual era quel motivo?
— Quello che ha fatto con le armi — disse lei. Poi, rendendosi conto di
aver cominciato a parlare di cose di cui il dottore non sapeva nulla e che,
perciò, non poteva capire a che cosa lei stesse alludendo, si affrettò ad
aggiungere: — Ricordate che mercoledì vi dissi che era andato da qualche
parte ed era ritornato con un monte di quattrini? Quattrini per il finanzia-
mento.
— Sì. Rammento anche di aver trovato la cosa molto interessante. I mo-
tivi per cui si fanno finanziare da terzi estranei e così via.
— Be', ieri ha portato le armi. Tutte dentro a scatole di giocattoli, come
automobiline da corsa e roba simile.
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— Quante armi?
— Due mitragliatrici e quattro pistole. E con l'aspetto così innocente,
impacchettate dentro a quelle scatole di giocattoli! Stan ha detto che le ha
prese da un tale che gestisce un negozio di articoli da "hobby" per coprire
la vendita illegale di armi. — E quelle armi vi hanno disturbato?
— Non le armi in se stesse, ma quello che ne ha fatto.
— Che cosa ne ha fatto?
— Le ha messe dentro l'armadio di Pam.
Ellen chiuse gli occhi, stringendosi più forte le braccia intorno al corpo.
Le vedeva là, sul ripiano dell'armadio nella stanza della sua bambina, in
mezzo a veri giocattoli innocenti: tutto quel metallo micidiale, involtato in
carte allegramente colorate con scritte e disegni infantili.
— Non capite? — domandò, seguitando a tenere gli occhi chiusi. — Lui
sta "usando" Pam. Non soltanto me, non soltanto la mia casa, o Stan, o
perfino Marty. Sta usando Pam, sta facendo in modo che l'innocenza della
bambina nasconda la sua... "immondezza".
— Vi sentite offesa, violata — suggerì il dottor Godden.
Lei aprì gli occhi e si mise a fissare il tappeto a disegni come se quelle
linee contorte potessero mutarsi in parole e frasi che lei riuscisse a inter-
pretare, come se il tappeto potesse dirle qualcosa di vitale importanza, si
da renderle tutto chiaro, semplice, comprensibile. Ma il disegno rimase
semplicemente un ammasso di linee contorte.
— Non violata — rispose. — Non esattamente violata. E' come se io non
contassi niente, come se il fatto che io viva o meno, non abbia alcun si-
gnificato. Lui se ne frega. Per lui, io sono un verme, meno di un verme.
Non sono niente per lui. Non mi considera nemmeno degna del suo di-
sprezzo.
— In altre parole — disse il dottor Godden — per la prima volta, avete
incontrato qualcuno che prova nei vostri riguardi ciò che provate "voi" per
voi stessa. Ed è proprio l'unica cosa che credete di meritare.
Lei corrugò la fronte, fissando il tappeto. — Ed è cosi?
— Certo — rispose lui. — Ma quando voi vi consideravate in quel mo-
do, sapevate di essere libera arbitra, sapevate di poter smettere di conside-
rarvi in quel modo in qualsiasi momento ve ne venisse la voglia. Il fatto
che quest'uomo vi dia lo stesso trattamento, è fuori del vostro controllo. E
questo non vi aiuta a espiare le vostre colpe. Perché lui non lo fa per quella
ragione. Le vostre colpe non c'entrano niente col suo atteggiamento.
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— Lui se ne frega di quello che penso io — esclamò lei. — Non gli im-
porta di niente. A ognuno di noi importa, invece. Si può odiare qualcuno e,
nello stesso tempo, ci può importare di sapere cosa pensa quel qualcuno,
anzi, lo vogliamo sapere.
Questa volta, il dottor Godden lasciò che il silenzio si prolungasse, e leiintuì che lo faceva appositamente per spronarla a scrutare dentro di sé e
così capire se c'era qualcos'altro, qualcosa che lei stesse nascondendo per-
fino a se stessa.
— Non è proprio per Pam che sono arrabbiata, vero? — disse. — E non
è neanche per me, non per quello che sono veramente io.
— No? — domandò lui gentilmente. — E allora, per che cosa?
— Per la maschera che porto. Maternità. Vedete, il ruolo della buona
madre, questo eterno sentirsi colpevole per tutti gli errori della mia vita,
capite? Ora io sono madre e mi nascondo dietro a questo. Ma Parker se ne
frega della mia maschera. Lui tira dritto e mette le pistole nell'armadio di
Pam, senza neppure chiedermene il permesso. La maschera materna non
gli dice proprio nulla, a lui.
— Credete che lui veda oltre quella?
— Sì — rispose lei. — E credo che non gliene importi un cavolo.
— E di Stan? Credete che gli importi qualcosa di Stan?
— Parker? Lui se ne frega di tutti, tranne che del suo adorato io.
Il dottor Godden disse:
— Allora forse organizzerà il furto in modo tale da essere il solo a
cavarsela.
— Credete? — domandò lei, subito agitata.
— Non lo so. Voi cosa ne pensate?
Lei considerò la cosa, cercando di essere obiettiva, infine disse:
— No, non credo che sia così. Lui è freddo e spietato e se ne frega di
tutti, ma è solo perché le cose "invece" gli importano. E non è neppure per
il denaro, penso. E' il piano in se stesso che gli interessa veramente. Fare il
colpo e farlo bene. Quindi non vorrebbe mai che qualcuno venisse beccato.
— Sarebbe disonorevole per un vero professionista.
— Sì. Ah! Hanno trovato un nascondiglio.
— Davvero?
— Fuori Hilker Road. Una casa da caccia, vicino al confine, quella che
crollò per un incendio, un paio d'anni fa.
— La casa di Andrew?
— Non so. Forse. Ci sono andati ieri, a vederla.
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— Allora i piani sono tutti pronti?
— Non completamente, non credo. Può darsi che nel cervello di Parker
sia già tutto prestabilito, ma ancora non ne hanno parlato. Io credo che
aspettino l'arrivo degli altri.
— Quanti sono quelli che devono arrivare? — Tre. Dovrebbero trovarsi qui lunedì notte. Perciò, penso che la prossi-
ma volta non avrò molto da dirvi. Ma tante cose mercoledì.
— Il giorno stabilito — osservò il dottor Godden.
Ellen rabbrividì.
8
Jake Kengle aprì la porta della sua camera ammobiliata, gettò la borsa
sul letto e tirò fuori la bottiglia del whisky dall'ultimo tiretto del cassetto-
ne. Poi andò nel bagno in cerca d'un bicchiere, ve ne versò una buona dose
e si sedette sul letto per riposarsi i piedi mentre beveva lentamente. La
borsa era accanto a lui, rigonfia e nera, invitandolo seriamente a tornare al
lavoro. All'inferno il lavoro! Allo stramaledettissimo inferno! Sorseggiò il
whisky, guardando nervosamente verso il cortile, un metro e mezzo più in
là, con quel muro di mattoni grigi, e al pensiero di chinarsi e di togliersi fi-
nalmente le scarpe, provò un istante di gioia.
I suoi piedi parevano già saltellare dentro le scarpe assaporando l'ago-
gnata libertà. Il liquore gli scendeva infuocato giù per la gola, facendogli
lacrimare leggermente gli occhi. Piano piano, la tensione delle spalle dimi-
nuì.
Quando infine si chinò per levarsi le scarpe, vide di nuovo, con la coda
dell'occhio, la borsa, sempre lì sul letto. Con furia improvvisa, la tirò su e
la fece volare attraverso la stanza, indirizzandola verso la finestra e quel
maledetto cortile.
Ma fece cilecca e la borsa urtò contro il cassettone piombando per terra
con un tonfo sordo. La lasciò dov'era. Quella borsa conteneva ciò che si
poteva chiamare la sua "presentazione". Un mucchio di fogli di carta luci-
da allegramente colorata, in due inserti dall'aspetto costoso, sui quali stava
scritto quanto fosse importante una certa schifosissima enciclopedia.
Perché mai qualcuno avrebbe dovuto comprare un'enciclopedia? Kengle
non lo capiva proprio. Dal martedì non aveva fatto altro che sonar cam-
panelli, andando di porta in porta, giorno e sera, per quel maledetto lavoro.
E ora era arrivato il sabato e lui non era riuscito ancora a trovare uno tanto
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fesso da cacciar fuori trecento sacchi per un mucchietto di libri. E la per-
centuale per nessuna vendita, significa nessun dollaro.
Era un modo assolutamente schifoso di guadagnarsi il pane, quello di
cercare di vendere su commissione, bussando a tutte le porte. Ma i buoni
sistemi per guadagnare qualcosa, i sistemi facili, lisci, non capitano troppospesso a un disgraziato con la fedina sporca. "Nel vostro curriculum, si-
gnor Kengle, non citate nessun datore di lavoro per ben cinquantadue me-
si. Come mai? ". "Sono stato in prigione." "Ah! Oh! Uh! "
Era uscito il primo settembre, eccolo arrivato già al ventisei e per ora
aveva provato due lavori. Col primo, doveva cercare di piazzare un nuovo
sistema di refrigeratore, e ora quest'affare dei libri. Col refrigeratore era
stato fortunato subito: il secondo giorno, difatti, aveva trovato una famiglia
che era appena arrivata in quella schifosa città e che, per l'appunto, aveva
degli amici già in possesso di quel refrigeratore, così erano, per modo di
dire, sul piede di comprare. Sessanta dollari di commissione.
Poi aveva passato i dieci giorni seguenti senza trovare nemmeno un pe-
sce che abboccasse, e dopo una stupida discussione con Nettleton, il diret-
tore delle vendite, tutto era finito.
Quanto sì crede che possano durare sessanta dollari a un povero figliuo-
lo? Lunedì avrebbero cominciato a scocciarlo per l'affitto della stanza, ma
lui non aveva un centesimo.
Il guaio stava nel fatto che lui non era un ladruncolo da strapazzo. Lui
poteva fare un furto in grande stile, senza batter ciglio, portandosi via dieci
o ventimila dollari, ma andare al parco a rubare la borsa a una povera vec-
chia e magari per sei dollari e trentasette centesimi, no! Non l'aveva mai
fatto, non gli piaceva e se l'avessero beccato per una cosa simile, se ne
sarebbe vergognato da morire!
A questo punto, perciò, pareva proprio destinato a restare in quella
stanza, o sulla strada, se lo buttavano fuori, e a morir di fame, visto che
non era capace di far saltar fuori un dollaro onesto e che mai si sarebbe ab-
bassato a prendere un disonesto centesimo.
La borsa giaceva per terra, a pancia all'aria, come una cimice senza
gambe.
Il direttore delle vendite, Smith, così si chiamava, un bastardo come e
peggio di Nettleton, gli aveva detto che i giorni di fine settimana erano
sempre i momenti più propizi per le vendile dei libri, poiché mariti e figli
sono in casa. Be', fino a quel momento era stata magra, ed erano già le tre
del pomeriggio. Doveva andare a tentare ancora? Chi diavolo lavora il sa-
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bato pomeriggio? E il sabato sera e tutto il giorno della domenica?
Soltanto gli ex carcerati per tirar fuori un dollaro di commissione, ecco
chi lavora.
Se quel bastardo d'un avvocato non gli avesse succhiato ogni centesimo
del suo gruzzolo in inutili appelli, ora non si sarebbe trovato in quelle pe-ste. Avrebbe potuto riposarsi, vivere magari con poco, ma comodamente in
attesa che qualcuno lo cercasse per proporgli qualcosa da fare. Ma no.
Doveva tentare di sbolognar libri come quegli attori con le braghe ciondo-
loni nei film comici.
Finì di bere e si alzò avvicinandosi al cassettone con i soli calzini ai
piedi. Stava per prendere in mano la bottiglia, quando udì bussare alla
porta.
Possibile che non potessero aspettare fino a lunedì? Già predisposto a
prendersi una sfuriata, si avviò verso la porta e l'aprì. Sulla soglia c'era un
ragazzino alto e magro in maglietta.
— Vi vogliono al telefono — disse, e trotterellò via.
Abitava proprio in un posticino delizioso! Un telefono a ogni piano, sul
pianerottolo, vicino all'ascensore, e per di più, anche a gettoni. Quando
squillava, il primo che lo sentiva andava a rispondere e passava la chia-
mata a chi di dovere. Esattamente il tipo d'intimità che piaceva a Kengle.
Chiuse a chiave la porta della sua camera e si avviò verso il telefono.
Forse era Smith che telefonava per controllare se era uscito per andare a
baccagliare quei suoi libercoli. Se era lui, che gli pigliasse un accidente.
Udì una voce che diceva: — Jake?
Kengle la riconobbe subito e gli parve di sentirsi sollevato, immediata-
mente, da un grosso peso. Quella voce apparteneva a Ed Dant, gestore di
un albergo, una specie di cimiciaio ad Atlanta. Quello era l'indirizzo per-
manente di Kengle. Chi del racket volesse mettersi in contatto con lui, sa-
peva di dover chiamare Ed Dant, il quale faceva la stessa cosa per un'altra
mezza dozzina di ragazzi.
Quando era arrivato lì, Kengle gli aveva subito telegrafato indirizzo e
numero di telefono, perché se c'era una possibilità, sarebbe venuta soltanto
attraverso la telefonata di Ed.
Cercando di controllare l'eccitazione della voce, Kengle disse: — Che
c'è di nuovo, amico?
— Niente di speciale. Ti telefono solo per salutarti, per dirti che sono
contento di saperti libero, e per sapere come ti va.
— Bene. Ho un lavoro fisso.
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— Mi fa piacere. Ho incontrato un tuo vecchio amico, l'altro giorno.
Rammenti Marty Fusco?
— Certo. Come se la passa?
— Lavoricchia. Pensava di fare una scappata da te per salutarti, domani.
Poiché non ero sicuro di avere il tuo indirizzo esatto, gli ho detto chel'avrei richiamato io.
Kengle gli ripeté l'indirizzo. Ciarlarono un altro poco, di niente, e la con-
versazione ebbe termine.
Mentre percorreva il corridoio per rientrare in camera, il sorriso di Ken-
gle arrivava da un orecchio all'altro.
In un angolo del suo cervello una vocina diceva: "E se la proposta non
fosse buona?". Ma lui rispose a voce alta:
— Sarà sempre meglio che fare il venditore ambulante di libri!
Fece una concessione al buonsenso: prima di gettare la borsa in cortile,
aprì la finestra.
9
— Forse dovrei andare a dirlo alla polizia — disse Ellen. Si stringeva
così forte che le braccia le dolevano.
— Non mi pare una buona idea — osservò il dottor Godden, cauto. —
Direi che, anche senza questo, vi portiate dietro un complesso di colpe già
abbastanza grosso.
— E' per stanotte — ansimò lei, tremante, tutta scossa da brividi, seb-
bene continuasse a tenersi stretta stretta con le braccia.
— Se Stan avesse potuto fare a modo suo — le ricordò il dottor Godden
— a quest'ora sarebbero già all'opera.
— Nessuno può fare come vuole, con Parker — scattò lei. — Lo odio!
— Lunedì abbiamo analizzato a fondo il pensiero di Stan, credo disse il
dottor Godden. — Lui voleva agire di giorno per non essere costretto a
partecipare attivamente al furto.
— Se andassi a dire alla polizia ciò che sta per succedere — ripeté lei —
senza nominare chi vi prenderà parte, e poi trovassi il modo di avvertire
Stan...
— Non potete farlo. Ne restereste coinvolta voi stessa. Con il risultato
che Stan finirebbe per odiarvi.
— Ma non c'è via d'uscita! Se li prendono, "è" terribile e se non li pren-
dono, lui vorrà continuare a rubare ed "è" ancora più terribile!
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— Be', non si può ancora sapere se vorrà cimentarsi di nuovo — osservò
il dottor Godden. La voce di lui la calmava, sebbene non riuscisse a smet-
tere di tremale. Dopo tutto — riprese lui — se questa volta non voleva par-
tecipare attivamente, significa che aveva già un secondo pensiero, Ohe
magari ha paura. Può darsi Che dopo quest'esperienza decida di non voler più fare niente di simile. Non possiamo prevedere nulla, in nessun senso,
finché non pi ha provato.
— Ma che cosa succederà se li beccano?
— Ripassiamo di nuovo tutto il piano — propose lui — e vediamo se riu-
sciamo a trovare qualche punto debole, una qualunque cosa che Parker e
gli altri possano non avere pensato. Abbiamo discusso spesso le varie parti
del piano, ma non l'abbiamo mai ripassato da cima a fondo. Proviamo a
farlo adesso.
— D'accordo — rispose lei. E la sua voce prese a parlare in un monoto-
no ronzio.
10
Il dottor Godden restò sulla soglia a osservare Ellen Fusco che usciva
dalla stanza adiacente al suo ufficio privato, poi, guardando uno snello gio-
vane, che stava comodamente seduto sul divano, gli fece cenno di passare.
Il giovanotto, il cui viso era letteralmente ricoperto di brufoli, balzò in pie-
di ed entrando nell'ufficio, disse, con voce acida:
— Ralph è in ritardo un'altra volta.
Anche lì si sedette sul divano e, dopo aver disteso le gambe e incrociato
le braccia, continuò:
— Ralph è sempre in ritardo.
Il dottor Godden chiuse la porta e, controllando l'impulso di rispondergli
per le rime, andò a sedersi sulla sua sedia abituale, posta in fondo al di-
vano.
— E' uno dei mali di Ralph — disse. — Può darsi che, piano piano, ne
guarisca.
— Presto saremo tutti perfetti — brontolò il giovane.
Cercava sempre di fare del sarcasmo, ma riusciva soltanto ad essere pe-
tulante. Si chiamava Roger St. Cloud, aveva ventidue anni ed era stato eso-
nerato dal servizio militare a causa di qualcosa nell'interno degli orecchi.
Figlio unico di genitori ricchi, suo padre era uno dei più forti azionisti
della banca di Monequois, Roger era il classico tipo di nevrotico, pieno di
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dubbi e di incertezze, che mascherava dietro a un modo di fare imperti-
nente e a una fastidiosa maniera di esprimersi. Tutto quello che indossava -
scarpe da tennis, sudici pantalonacci di cotone, niente calzini e un logoro
maglione a collo alto - era una continua sfida ai genitori.
E riusciva in pieno nel suo scopo. Il modo in cui quei genitori reagivanoalle provocazioni del ragazzo, rendeva il lavoro del dottor Godden ancora
più necessario, ma, nello stesso tempo, più difficile. Se avesse potuto psi-
canalizzare anche i genitori in regolari sedute, forse il suo intervento
avrebbe avuto qualche effetto sul figlio, ma, naturalmente, loro non erano
dello stesso parere.
Comunque, per lo scopo che si prefiggeva al momento, non c'era alcun
bisogno dei genitori, ma del ragazzo.
Per un certo ostinato senso del dovere, che in quegli ultimi tempi lo tur-
bava di. più del solito, il medico disse:
— Mentre aspettiamo Ralph, non hai niente da raccontarmi?
Roger rispose con una spallucciata strafottente e quella mossa, di solito,
significava un sì, significava, cioè, che nel suo intimo sentiva qualcosa in
maniera così forte da esserne imbarazzato e che quindi "doveva" negare.
— Ho fatto un altro sogno — disse.
— Il drago? — Era il sogno che riguardava la madre.
— No. Non i soliti sogni. Uno nuovo.
— Ah! E di che si trattava?
— Camminavo dentro la canna di un fucile. Era come un tunnel, capite?
Ma era la canna d'un fucile, e io camminavo verso le pallottole. Guardavo
dall'altra parte e, dal buco in fondo, vedevo la luce del giorno. Sembrava
proprio vero, reale, con quel metallo luccicante e tutto il resto. Ci faceva
freddo, là dentro. Poi mi voltavo e vedevo un occhio che mi osservava. Era
mio padre. Mi diceva: "Non riuscirai mai a uscirne". Ma lui era grosso, di
una grandezza normale e non poteva entrare dentro al fucile, così non
riusciva ad agguantarmi. Però, seguitava a osservarmi, con l'occhio fisso
sul buco, e io gridavo: "Levati! Levati! Se il fucile spara, morirai!". Ma lui
non mi credeva. Allora, tutt'a un tratto, udivo un "bum", forte come un'-
esplosione. Non come lo sparo di un fucile. Una vera esplosione. Guar-
davo e vedevo che una pallottola stava venendo verso di me. Sembrava un
treno dentro a una galleria, soltanto che la pallottola riempiva tutto lo spa-
zio e a me non restava più posto neanche per appiattirmi e lasciarla pas-
sare. La punta era tutta schiacciata e ammaccata. Allora cominciavo a cor-
riere, ma ero torpido, tutto si svolgeva come al rallentatore, capite. Anche
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la pallottola andava piano: mi stava dietro, ma non riusciva a raggiunger-
mi. E l'occhio di mio padre sempre là in fondo, dall'altra parte, non voleva
andar via. lo seguitavo a blaterare, ma lui non voleva andar via.
Mentre raccontava, la voce di Roger aveva perso il solito tono lamento-
so, l'espressione del viso si era distesa e aveva mostrato, a sprazzi, comeavrebbe potuto essere se le cose fossero state in altro modo. Ma, appena
finito il racconto, il suo viso tornò a contorcersi nella solita espressione, la
voce riprese il tono lamentoso. Alzò di nuovo le spalle con fare stanco,
dicendo:
— E così, mi sono svegliato.
— Non è difficile da interpretare — commentò il medico.
— Facilissimo. Ho paura che mi prendano e ho paura che mi uccidano.
— E hai anche paura, nel caso che ti prendessero, che la tua disgrazia ri-
cada sulle spalle di tuo padre.
Roger rispose con l'abituale mossa strafottente.
La porta si spalancò e Ralph entrò, strascicando i piedi.
Pur essendo alto, robusto, fortissimo e di soli trentadue anni, l'uomo ap-
pariva cosi flaccido e debole da ingannare chiunque.
La sua forza era mascherata dalla goffaggine; le spalle, che teneva sem-
pre curve e quel modo di trascinarsi pesantemente, alteravano il suo aspet-
to. Ma, dietro tali apparenze negative, c'era un fisico forte e capace che
aspettava soltanto di avere via libera.
— Ho corso — disse Ralph, ansimando e stravaccandosi sul divano, ac-
canto a Roger.
— Tu corri sempre — schernì Roger.
Ralph non si offendeva mai dei commenti di Roger. Perché avrebbe do-
vuto offendersi quando lui stesso riteneva di meritarli? Ralph credeva fer-
mamente di essere stupido e che la stupidità fosse un delitto. Qualunque
elemento positivo potesse mai avere, come un fisico forte e un bel viso, lui
sentiva di doverlo denigrare, poiché sarebbe stato improprio gioire di qual-
cosa, quando commetteva l'atroce delitto di essere stupido.
Era stata una ragazza a portarlo dal dottor Godden, quasi come una con-
dizione per la continuità della loro relazione, ma cosa fosse stato a ridurlo
in quello stato mentale, il dottor Godden non era ancora riuscito a
scoprirlo.
La causa prima doveva trovarsi negli anni dell'infanzia: difatti il vuoto di
Ralph, riguardante quel periodo, indicava fortemente come il dottor God-
den fosse sulla pista giusta.
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Per il momento, la risposta di Ralph alle parole di Roger si estrinsecò
soltanto in un timido sorrisetto.
— Io sono sempre in ritardo — disse, continuando ad ansimare.
Il medico li guardò: ecco qua i suoi assistenti! E si scoprì a invidiare
quell'uomo che Ellen conosceva sotto il nome di Parker. Quando Parker progettava un piano, sapeva che ogni minimo particolare sarebbe stato por-
tato a termine da veri professionisti, da uomini saldi, dei quali poteva fi-
darsi a occhi chiusi, uomini che facevano quelle cose per guadagnarsi da
vivere.
Anche il dottor Godden avrebbe preferito aver a che fare con veri profes-
sionisti, ma secondo quanto diceva Ellen, tra quella gente c'era molta lealtà
e, di regola, non avrebbero mai rubato a un altro ladro. L'onore fra ladri,
quindi, esisteva davvero.
Perciò, lui non aveva che Ralph e Roger. Il dottor Godden aveva esami-
nato scrupolosamente la lista dei propri pazienti, ne aveva anche saggiato
qualcuno con molto tatto, fino a che aveva dovuto ripiegare su Roger e
Ralph.
Roger era stato facile da convincere; forse, dal tono del racconto sul so-
gno della notte precedente, anche troppo facile.
Ma se Roger aveva qualche dubbio nascosto e delle apprensioni, il dottor
Godden era certissimo dì essere capace di dominarli, almeno fino alla fine
di quell'impresa.
Ralph, ingombrante e grosso e sempre titubante, era stato più duro da
persuadere, ma alla fine, la stima e la fiducia che provava per il dottor
Godden avevano avuto partita vinta e ora, finalmente, era pronto a fare
qualunque cosa.
Lo stesso argomento basilare era stato usato per tutti e due: sarebbe stato
come una cura.
A Ralph: "Eccoti un'occasione per dimostrare che sei capace di qualun-
que cosa. Con questa vittoria non si può nemmeno immaginare le cose che
riusciremo a tirar fuori dal tuo subcosciente ; quanto, di te, riusciremo a
liberare".
A Roger: "Non ti si offrirà mai una migliore opportunità per esprimere
tutta la tua indipendenza e la tua ribellione. Fallo, metti in questa impresa
tutta la tua aggressività, il tuo risentimento, cerca di riuscire e ti troverai
sulla strada di quell'indipendenza necessaria per la tua completezza e rea-
lizzazione".
I motivi del dottor Godden stesso erano invece più terra-terra. Aveva
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semplicemente un gran bisogno di quattrini. Tra una rapace ex moglie che
lo dissanguava con gli alimenti e il mantenimento dei bambini; una secon-
da moglie, che non aveva la più pallida idea di che cosa significasse la
parola economia, e Mary Beth, una paziente divenuta sua amante, la quale,
ogni mese che passava, diventava sempre più costosa, il dottor Godden sitrovava sull'orlo del caos finanziario da ormai più di un anno.
E, per colmo, era ricomparso quel Nolan che, per tenere il becco chiuso,
chiedeva quattrini, minacciandolo di riportare alla luce quella faccenda di
New York e cioè di far conoscere all'ordine locale dei medici come le sue
credenziali non fossero, quel che si suol dire, delle più perfette.
Fred Godden non aveva avuto mai l'intenzione di cacciarsi nei guai o di
infrangere le leggi: le cose erano venute da sé, così. In California, per
esempio, dove aveva iniziato il suo lavoro, il cognato di una paziente lo
aveva coinvolto in quell'affare dell'aborto. Lui, personalmente, non aveva
procurato nessun aborto, aveva soltanto fatto da intermediario. Ma quando
quella ragazza era morta, le indagini avevano pescato un mucchio di pe-
sciolini, e fra loro, il dottor Godden.
Le autorità non avevano mai voluto accettare l'idea che quella ragazza
morta - e altre tre che poi saltarono fuori - fossero arrivate a lui incidental-
mente, come pazienti psichiatriche poco prima dei loro aborti, però non
avevano potuto provare niente.
In ogni modo, era stato più saggio lasciare la California, e particolar-
mente quando la sua prima moglie aveva afferrato la scusa di quello scan-
dalo per divorziare da lui, proprio come se non Tosse stata la sua squinter-
natezza a trascinarlo nei pasticci.
A New York aveva iniziato di nuovo e aveva preso una nuova moglie,
ma, evidentemente, il suo l'usto in fatto di donne non era cambiato, poiché
la moglie numero due macinava quattrini con altrettanta frenesia della mo-
glie numero uno, così, quando una delle pazienti saltò fuori a chiedergli la
droga, lui era già maturo.
In che modo riuscivano a intuirlo - ci si scervellava - in che modo riusci-
vano a indovinare che lui sarebbe stato consenziente alle loro richieste,
così debole da accettare, sino a prestare il suo rispettabile nome per le loro
sporche mire?
Più d'una volta si era studiato a lungo il viso davanti allo specchio e, per
quanto si esaminasse, non gli sembrava di avere l'aria losca. Aveva ascol-
tato la sua voce al registratore: non gli pareva che suonasse losca. Allora,
come facevano?
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Eppure, lo capivano. Nella sua qualità di medico, lui poteva procurarsi
qualsiasi droga, specialmente quei nuovi tipi, gli psichedelici. Come medi-
co specializzato in psicanalisi, la sua posizione era perfetta per chi aveva
bisogno di qualcuno che gli fornisse la droga e potesse costituire una base
per la distribuzione.E se quello strampalato tipo barbuto che gli si era presentato per cercare
quelle capsule gialle non fosse risultato poi un poliziotto, uno del Diparti-
mento di Polizia della città di New York alla ricerca di spacciatori di dro-
ghe, lui sarebbe stato sempre là, nella città di New York, a esercitare il suo
mestiere redditizio con quell'addentellato ancor più redditizio, invece di
trovarsi in quel buco puzzolente.
Pure, se l'era cavata anche a New York, nonostante che avesse passato
nove giorni in carcere, alle Tombs, e ne fosse uscito senza le sue creden-
ziali e senza il permesso legale di esercitare sia come medico, sia come
psicanalista. Ma che altro poteva fare per guadagnarsi da vivere?
Ecco perché era venuto in quel paese dimenticato da Dio, dove la "bona
fides" d'un uomo era un po' più difficile che venisse spulciata attentamen-
te, ma dove il numero dei pazienti e le loro possibilità erano paurosamente
esigui.
A questo punto era comparso Nolan. Vecchio compratore di droga all'e-
poca in cui lui si trovava a New York, Nolan sapeva ogni cosa sul conto
del dottor Godden e dei suoi contatti con la ghenga, ed ora era lì, a Mone-
quois, e chiedeva quattrini come prezzo del suo silenzio.
Come Nolan fosse riuscito a scovarlo, il dottor Godden non lo sapeva,
come non sapeva dove mai avrebbe potuto trovare quel denaro per taci-
tarlo.
Ma subito dietro a Nolan era venuta l'improvvisa rivelazione da parte di
Ellen Fusco e, tutt'a un tratto, gli era baluginato per la mente che quella po-
teva essere una via d'uscita e che, in fondo a quel buio tunnel, sarebbe
finalmente riuscito a rivedere la luce.
Che cosa avrebbe poi fatto dopo quella notte, ancora non lo sapeva bene.
Avrebbe pagato Nolan e tutti gli altri debiti pressanti e dopo avrebbe con-
servato quel che gli restava per una futura crisi? Oppure avrebbe tagliato la
corda, lasciandosi dietro tutti quei pasticci, ricominciando da un'altra parte
ancora sotto falso nome, abbandonando mogli, figli, amante, ricattatore e
tutto quanto?
Denaro ce ne sarebbe stato in sovrabbondanza. Roger e Ralph, ai quali
non aveva detto il vero scopo di quella faccenda, si contentavano di gua-
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dagnare diecimila dollari ciascuno. Il che significava che lui si sarebbe
preso quasi tutto: l'intero malloppo, stimato da Ellen Fusco circa quattro-
centomila dollari.
Quattrocentomila dollari!
Per una simile cifra valeva davvero la pena di affrontare gente come Par-ker, Fusco, Devers e gli altri di cui gli aveva parlato Ellen, di rischiare il
precario equilibrio in cui brancolava, e rischiare inoltre di servirsi di quei
due poveri deficienti.
Ci aveva pensato molto. Valutava appieno il pericolo di questa sua ricer-
ca del San Graal... ne sapeva abbastanza lui, con tutti i pazienti che gli
erano passati sotto... "Se succede la tal cosa, tutto andrà bene..." Il credere
in un'unica, facile panacea portava di solito verso la rovina totale, molto
più che verso la salvezza. Perciò, non poteva permettersi di pensare alla
faccenda sotto aspetti completamente promettenti.
Anche con i quattrocentomila dollari in mano, sarebbe sempre rimasto
Fred Godden. Il dottor Fred Godden, con un losco passato e una clientela
da due soldi, con una moglie, una ex moglie, un'amante e una certa de-
solante consapevolezza delle sue tendenze strambe quando si trattava di
donne, e con un bagaglio di e nonni sbagli di valutazione, che lo avevano
sempre cacciato nei pasticci.
Niente sarebbe mutato dopo quella notte, tranne il suo stato finanziario.
Sarebbe diventato ricco, ma sarebbe rimasto sempre lo stesso uomo.
Sapendo tutto questo e sicuro di non riuscire a dimenticarsene, aveva
studiato il piano, le possibilità, i pericoli, il traguardo e il premio e, final-
mente, aveva finito col decidersi.
Un'occasione come quella non capita due volte nella vita. Sarebbe stato
pazzo a lasciarsela sfuggire.
Stanotte.
Il dottor Godden guardò di nuovo Roger e Ralph. La sua ciurma.
Dovevano bastare. Tirò un lungo sospiro.
— Ho registrato la seduta con la signora Fusco proprio ora — disse. —
Ci ha fornito i loro piani dal principio alla fine. Li ascolteremo e poi ripas-
seremo ancora una volta i nostri.
Ralph e Roger parvero ridestarsi, attenti. Il dottor Godden premette il
pulsante e la voce di Ellen
Fusco, leggermente metallica, cominciò di nuovo a ronzare.
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PARTE TERZA
1
Squillò il telefono. Parker si svegliò di colpo, accostò il ricevitore all'-orecchio e udì la signorina del centralino che diceva:
— Le undici, signor Lynch.
— Grazie.
Era mercoledì. Il colpo era per quella notte.
Parker scese dal letto e, tutto nudo, andò nella stanza da bagno. Fece la
doccia e si rasò, poi s'infilò delle scarpe nere, con la suola di gomma, pan-
taloni neri e una camicia bianca aperta sul collo.
Uscì, chiuse la porta dietro di sé e, attraversando la strada, andò nel ri-
storante dove aveva fatto colazione tutti i giorni da quando era arrivato.
Ormai conosceva quello che conveniva ordinare.
Ma anche la cameriera conosceva lui: difatti gli andò incontro sorriden-
do e quando si fu seduto gli disse:
— Buongiorno, signor Lynch. Vi siete alzato tardi, stamani.
— Parto, oggi — rispose lui. Avrebbe preferito una cameriera che si oc-
cupasse dei fatti suoi, ma per l'appunto, si trattava di una brava donna, cic-
ciona e sorridente, quindi non c'era niente da fare. Piuttosto che lasciarle lo
specifico ricordo di un cliente sgarbato, aveva chiacchierato con lei ogni
giorno, fingendo di essere il solito rappresentante di passaggio, che si gra-
tificasse di due settimane di riposo durante il suo giro. In quel modo, le
sarebbe rimasto meno impresso, e, se la polizia, dopo un giorno o due, fos-
se andata a chiederle qualcosa, la descrizione della sua personalità sarebbe
stata molto vaga.
— Mi dispiace che partiate — disse la cameriera. — Cosa vi porto sta-
mani?
Lui ordinò uova strapazzate, pancetta, succo d'arancio e caffè, poi restò a
guardare i camion che passavano sulla strada, davanti alla finestra. Man-
giò, lasciò la solita mancia, pagò la cassiera accanto alla porta, e attraversò
di nuovo la strada per rientrare al motel.
Entrò nell'ufficio e la donna al banco gli lanciò un'occhiata allegra.
— Desiderate, signore?
— Vorrei il conto.
— Sì, signore. Che numero di camera, prego?
— Undici.
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— La chiave?
— La lascerò nella stanza. Ho ancora il mio bagaglio, là dentro.
— Benissimo. — La donna aprì uno schedario e tirò fuori il conto di Par-
ker. — Niente da segnare di stamani? Telefonate, bar? ...
— No. — Benissimo. — Fece scivolare il conto sul banco verso di lui. — Cen-
toquaranta dollari.
Parker tirò fuori il portafoglio e, a sua volta, cominciò a farle scivolare
sul banco qualche banconota di Norman Berridge.
— Contanti? — esclamò lei sorpresa.
Questo era un momento pericoloso e lui lo sapeva, ma non c'era altro da
fare. Andar via senza pagare il conto, sarebbe stato come attirare l'atten-
zione dei poliziotti su di lui un giorno prima. E, oltretutto, li avrebbe messi
sulle piste della Pontiac di Devers che in quelle tre settimane era stata lì
abbastanza per essere notata. Ma non poteva portare carte di credito o un
libretto di assegni, per lo meno non legittimamente, ed era un brutto affare
quello di falsificare assegni nei giorni precedenti un grosso furto. Ciò porta
la polizia sulle tracce troppo presto e troppo facilmente. Quindi era co-
stretto a pagare il conto del motel, e l'unico modo di pagarlo era in con-
tanti. Alla sorpresa della donna, rispose con una alzata di spalle dicendo:
— La compagnia ci ha ordinato di far così, d'ora in poi, per via delle tas-
se, credo. Io preferivo il vecchio sistema. Si mostrava una tessera dell'-
American Express e via.
— Vorrete una ricevuta.
— E' l'unica maniera per ottenere il rimborso.
Lei stampigliò un "pagato" sul conto e glielo restituì.
— Grazie per la vostra preferenza, signore. Tornate presto.
Parker uscì. Era una bella giornata di sole, ma l'aria era fresca. Camminò
lungo la fila di casette fino alla sua ed entrò. Il carrello della ragazza delle
pulizie era due porte più in là. Entrò, lasciando la porta aperta e cominciò a
fare la sua unica valigia, senza includervi un maglione nero a collo alto e
manica lunga, una giacca sportiva e una tranquilla cravatta blu e nera. Cac-
ciò la cravatta nella tasca della giacca, mise la valigia chiusa per terra e si
sdraiò sul letto, ad aspettare.
A un certo momento, avvertì che la luce cambiava, e ciò gli fece capire
che c'era qualcuno sulla soglia. Aprì gli occhi e vide la ragazza delle pu-
lizie.
— Lascio la stanza a mezzogiorno e mezzo — le disse, e lei se ne andò.
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Erano le dodici e un quarto, quando udì le gomme della Pontiac scric-
chiolare sulla ghiaia davanti alla sua porta. Si levò a sedere e vide la Pon-
tiac che si fermava. Si buttò giù dal letto. Era Devers, fuori per l'ora di
colazione. Mentre Parker usciva nel sole, reggendo la valigia con la mano
destra e la giacca e il maglione con la sinistra, scese di macchina. — Volete guidare? — domandò Devers.
— Perché?
Devers scoppiò in una risata e scosse il capo.
— Vi dirò la verità. Sono un rottame nevrastenico. Oggi mi sento pro-
prio la tremarella.
Parker assentì. — Guiderò io. — Gettò la valigia e l'altra roba sul sedile
posteriore e si mise al volante mentre Devers faceva il giro e si sedeva poi
accanto a lui.
Devers aveva lasciato il motore acceso; Parker ingranò la marcia indie-
tro, girò, e si mescolò allo scarso traffico della strada.
— Ci si fa l'abitudine, dopo un po'? — domandò Devers.
— Dopo un po' — disse Parker. — A qualcuno la fifa prende prima, ad
altri dopo.
— A voi quando capita?
— A me non capita.
Non si vantava, era la verità. La situazione in cui si sarebbero trovati
quella notte, l'avrebbe soltanto reso sempre più freddo, sempre più duro,
sempre più sicuro. Sapeva di aver previsto ogni cosa, sapeva come sarebbe
dovuto riuscire tutto quanto, conosceva ogni passo del piano prestabilito:
era simile a un regista in una serata di "prima". Niente tremori, anzi, una
fredda sicurezza che tutto sarebbe andato come doveva andare. Sapeva che
gli altri, gli "attori", erano tutto un tremito. Ma lui no. I registi non trema-
no.
Nemmeno quando qualcosa andava male. Ecco il motivo per cui era là,
quella notte: lui e i suoi piani prestabiliti. Era là anche per essere pronto ad
affrontare l'imprevisto, per improvvisare, se qualcosa andava storto, affin-
ché l'azione riuscisse bene a tutti i costi.
Perciò, lui non poteva permettersi il lusso di farsi cogliere da tremori né
prima né durante e, dopo, secondo lui, non aveva senso. Quindi lui non
tremava.
Devers si asciugò, la bocca col dorso della mano.
— Ragazzi, non capisco! — esclamò. — Non capisco proprio come si
faccia ad abituarsi a una cosa simile.
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— Continuando a farlo — ribatté Parker.
— Già. Forse è vero.
Proprio da quella parte di North Bangor c'era una casa rivestita in legno.
Un cartello pendeva dal ramo d'un albero di fronte a essa, con scritto "Tu-
risti". Dietro, si vedeva una mezza dozzina di casette, copie in miniaturadella casa. Una giardinetta Buick, nera, era posteggiata accanto a una di
quelle casette. Facendo un gesto, mentre proseguivano, Devers notò:
— Sono ancora lì.
— Verranno — rispose Parker.
Alludevano agli altri tre uomini: Jack Kengle, Philly Webb e Bill Stock-
ton. Tutti e tre erano arrivati lunedì e, dopo essere stati ad ascoltare l'ab-
bozzo dei piani per il colpo, avevano deciso di parteciparvi.
La giardinetta era di Webb. L'unica cosa rimasta autentica di quella au-
tomobile era la marca: non avrebbe mai cessato di essere una Buick. Ma
era nera soltanto da una settimana, e, alla fine della prossima, avrebbe di
nuovo cambiato colore. E la targa del Maryland, che sfoggiava, non era
che una delle tante che aveva cambiato nel passato e avrebbe cambiato in
avvenire. Webb si vantava di avere una macchina impossibile a rintrac-
ciare, e, secondo Parker, Webb si divertiva un mondo a escogitare quei
camuffamenti. Abbordò una curva a destra e oltrepassò Monequois senza
entrare in città, avviandosi direttamente verso la base militare. Si fermò
davanti al cancello principale. Devers disse:
— Arrivederci a stanotte.
— Arrivederci.
Devers scese e s'incamminò verso il cancello e Parker voltò la macchina
e si diresse verso Monequois. Arrivò a casa Fusco all'una circa e parcheg-
giò l'auto accanto alla casa.
Entrò. Fusco, che stava seduto al tavolo di cucina mangiando un piatto
d'avena, gli gridò:
— Sto facendo la baby-sitter. Ellen è andata dal suo stregone. Ha detto
che tornerà poco dopo le due.
A Parker non interessava dove fosse andata la donna e quando sarebbe
tornata. Domandò:
— Hai preso le giacche?
— Sono nell'armadio, in camera.
— Bene.
Parker uscì dal salotto e percorse il breve corridoio che conduceva nella
camera da letto più grande. Tutto era lindo, squallido, funzionale e imper-
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sonale come il resto della casa. Era la camera di Ellen Fusco e lei aveva
fatto in modo che quella stanza non prendesse alcuna impronta dei suoi
occupanti. Il ripiano del cassettone era vuoto, sulla sedia accanto al letto
non c'era alcun indumento, sui comodini luccicavano dei lustri lumi di me-
tallo accanto a dei portacenere puliti, e il letto era rifatto in modo ordinatoe anonimo.
C'erano due armadi. Il primo che Parker aprì era pieno di vestiti da don-
na, rigidi e severi. Il secondo era di Devers e, in confronto all'altro, pareva
completamente in disordine, sebbene ogni vestito fosse appeso alla sua
gruccia. Ma le scarpe nel fondo non erano allineate paio per paio e lo
scomparto era zeppo degli oggetti più svariati.
Trovò le giacche nell'armadio di Devers. Erano tuniche, in realtà, come
le bianche divise chiuse che portano i dentisti e i barbieri. Ma queste non
erano bianche: erano lustre come l'oro, lucenti come la carta dorata dei
cioccolatini, e parevano scintillare, dentro quell'armadio, di luce propria.
Avevano le maniche lunghe, il collo alto e i polsini con l'elastico in fon-
do. Parevano giacche pronte per essere indossate da una squadra di acro-
bati cosacchi, in tournée alla televisione.
Parker ne tirò fuori una, la osservò sotto la luce e, annuendo soddisfatto,
la rimise a posto. Il viaggio che Fusco aveva fatto a New York era stato
proficuo. Quelle tuniche avevano proprio l'aspetto che ci voleva.
Ritornò in salotto. In cucina, Fusco stava sciacquando la ciotola. Parker
gli gridò:
— Vanno bene.
Fusco chiuse il rubinetto dell'acqua.
— Ti piacciono? Ho dovuto cercarle in tre posti. — Si asciugò le mani a
un canovaccio, ed entrò in salotto. — Avresti dovuto vedere cosa tentavano
di appiopparmi.
Parker si sedette sul divano. — Hai ritirato tutte le tue carabattole di
giro?
— Sicuro — rispose Fusco. — Non c'era molto. Ho fatto un pacco e l'ho
spedito espresso per ferrovia, stamani. — Era venuto via dal suo albergo
sin dalla domenica e da allora aveva dormito sul divano, tranne l'ultima
notte che aveva passato a New York.
— A quale indirizzo? — domandò Parker.
— Manhattan. Deposito.
— Bene.
— Vuoi un caffè? Qualcosa da bere?
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— Niente.
Parker chiuse gli occhi. Sapeva che la maggior parte della gente diven-
tava nervosa il giorno di un colpo ladresco e sapeva pure che la gente
nervosa ama chiacchierare. Ma lui non aveva voglia di sentir parlare e
l'unico sistema per evitarlo era di tenere gli occhi chiusi. Se stai con gliocchi chiusi ti lasciano in pace, anche se sanno che sei sveglio.
Restò là, cosi, senza quasi pensare a niente, lanciando vaghi pensieri a
Portorico, a Claire, finché Fusco l'avvertì:
— Eccoli.
Allora aprì gli occhi e si alzò in piedi.
La giardinetta era posteggiata davanti alla porta. Tre uomini stavano
venendo verso la casa. Jack Kengle, per primo. Dietro di lui Bill Stockton,
un tipo alto e magro, con i capelli neri e un modo snodato e goffo di cam-
minare. Subito dopo veniva Philly Webb, proprietario della giardinetta e
colui che avrebbe guidato, quella notte. Basso, grosso, di carnagione oliva-
stra, con un petto e delle braccia da sollevatore di pesi, aveva tutto l'aspetto
d'uno scimmione.
Fusco aprì la porta e quelli entrarono, vestiti come Parker, con camicia
bianca, pantaloni neri e scarpe dalla suola di gomma.
— Questo è il momento che aborro — disse Kengle. — Il "prima",
capite? Quando non c'è altro da fare che aspettare.
— Non ci sarebbe un mazzo di carte, in questa casa? — domandò Webb.
— Sicuro — disse Fusco. — Si può giocare sul tavolo di cucina. Torno
subito.
Parker rimase dov'era e gli altri quattro cominciarono a giocare a poker
per ammazzare il tempo. Giocavano con basse puntate, poiché vigeva la
superstizione che giocare con denaro non ancora rubato portasse scalogna.
Parker non si unì a loro. Preferì restare seduto in salotto senza far niente,
ripassando magari mentalmente ogni punto di ciò che stavano per fare,
cercando di vagliare bene tutto quanto per assicurarsi di non avere trascu-
rato qualcosa.
Ellen tornò alle due e venti circa. Dette un'occhiata al tavolo di cucina e
disse a Parker:
— Per quanto tempo ancora starete in questa casa?
— Poco — rispose lui.
Lei aveva l'atteggiamento di chi riesce a conservare la calma con grande
fatica. Girellò inquieta per il salotto, poi andò in camera. Parker la osserva-
va, la fronte corrugata. Non gli piaceva quel suo modo di fare, come non
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gli erano piaciuti i vari cambiamenti degli ultimi dieci giorni.
Tutto era cominciato con quella stupida, strana proposta che sembrava
non avere nessuna particolare intenzione di allettamento. Invece era stata
una vera proposta, non poteva essere stato altro, anche se lei gliela aveva
fatta in modo tale da far pensare che le fosse sfuggita suo malgrado.Comunque, lui era più che, sicuro che proprio quella fosse stata la sua
intenzione. Per un paio di giorni, lei aveva seguitato a lanciargli occhiate
invitanti alternandole con sguardi colmi di rancore, come se fosse stato lui
a tentare di sedurre lei. Poi, all'improvviso, tutto questo era finito ed era
sopravvenuta una nuova fase. La nuova fase era stata di odio, freddo odio
silenzioso e micidiale. Quando Parker si trovava in quella casa, lei gli sta-
va sempre alle costole, fissandolo, come se stesse in agguato di una qua-
lunque mossa da parte di lui che potesse darle la giustificazione di assalirlo
con un trinciante.
Ma quella fase era durata poco. Ogni volta che tornava da una di quelle
sedute col suo psicanalista, pareva avere una diversa visuale del mondo.
L'atteggiamento seguente era stato di una studiata indifferenza: lo aveva
ignorato, come se non esistesse. Ma non con arroganza, non con l'aria
d'una regina che ignora il vassallo: e quello è, in un certo senso, un modo
di confermare un'esistenza.
No, pareva che Parker avesse cessato completamente di esistere per lei,
come se avesse avuto davanti a sé un punto cieco e lui vi si fosse trovato
nel mezzo.
Quella fase era stata la più facile da sopportare, ma era cambiata presto,
e l'atteggiamento più recente era stato come se fosse in preda alla paura,
una specie di paura nervosa, piena di complessi di colpa che lo rendeva, in
sua presenza, quasi nervoso quanto lei.
Ne aveva chiesto spiegazioni sia a Devers sia a Fusco, e tutti e due gli
avevano risposto che lei non aveva certo fatto niente, come per esempio
spifferare tutto alla polizia, da giustificare quella paura o quell'aria colpe-
vole.
— E' soltanto che, ogni tanto, lei si riduce in quelle condizioni aveva
detto Stan. Il commento di Fusco era stato più conciso.
— Ellen non farebbe mai la spia, punto e basta.
Parker aveva dovuto accettare la loro parola, ma la cosa non gli piaceva
ugualmente: quando lei, nervosa e isterica, gli sgusciava intorno in quel
modo, gli faceva venire il torcibudella.
Comunque, ormai, erano arrivati alla fine. Nel pomeriggio, sarebbe usci-
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to per sempre da quella casa ed Ellen avrebbe potuto tirare avanti nella vita
a suo piacimento, senza di lui.
Ma ora c'era da passare l'ultimo incontro con lei.
Pochi minuti dopo le tre, lei rientrò in salotto e si sedette in fondo al di-
vano. Fumava, fumava e non faceva che scuotere nervosamente la sigarettasul portacenere. Aveva certamente qualcosa da dire, ma stava prendendose-
la comoda.
Parker restò in attesa. Finalmente, lei disse senza voltarsi:
— Che si fa se qualcosa va male?
Lui girò il capo. Ellen stava esaminando attentamente il portacenere sul
tavolino, continuando a scuotere la sigaretta.
— Per esempio?
Lei si strinse nelle spalle. — Non lo so. Qualsiasi cosa. L'allarme che
suona troppo presto. Qualcuno che vuol sapere cosa fate là dentro, al mo-
mento sbagliato... qualunque cosa.
— Ce la caveremo — rispose lui.
— Ma potrebbe succedere.
— Può sempre succedere.
— Non sarà sbagliato fare questo colpo?
Lui si voltò di nuovo a guardarla, aspettando che continuasse il discorso.
Ma lei restò li, a cincischiare la sigaretta, tutta ripiegata in se stessa men-
tre, con la mano destra, si agguantava il braccio sinistro come per abbrac-
ciarsi, e per quanto il terrore che aveva di lui sembrasse ormai cosa passa-
ta, la tensione nervosa pareva, se possibile, aumentata.
Era come una vecchia automobile col motore che casca a pezzi: si vede
il cofano vibrare, ma sotto c'è soltanto un mucchio di ferraglie in movi-
mento.
Poiché lui seguitava a tacere, senza rispondere a quel commento sul fur-
to sbagliato, lei gli scoccò una rapida occhiata, i suoi occhi erano grandi e
tondi e colmi di panico, poi tornò a fissare il portacenere e continuò:
— Oh! non per voi, forse. Forse a voi piace questo genere di cose. Ma
forse è per Stan che non va. E perfino per Marty. Ma più che altro per Stan.
— Nessuno ce l'ha costretto.
— Avrei preferito che non vi fosse coinvolto.
— Diteglielo.
— L'ho fatto. Tanto tempo fa.
Ma il punto è che... — tacque, scotendo il capo, come se non fosse più
tanto sicura di quale fosse quel punto. Poi riprese: — Il punto è questo.
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Che cosa succede a Stan se qualcosa va male? Lui non è un ladro di pro-
fessione, forse non è capace di cavarsela. E per lui vorrebbe dire molto,
capite? Per Marty non ha molta importanza: lui va in prigione, poi esce e
ricomincia daccapo. Anche Jack Kengle è stato in prigione, anche per lui è
la stessa cosa. Ma Stan non è così. Se lo cacciassero dentro, per lui sarebbeuna tragedia.
Parker si domandò come lei potesse credere che ci fosse qualcuno, sulla
terra, al quale non importasse niente essere schiaffato in carcere. Ma disse:
— Forse Stan spera di non andarci, in prigione.
— Lo so. Vale la pena di correre il rischio. Sono tutti d'accordo che ne
valga la pena.
— Forse è vero.
— Perché non...
Tacque di nuovo scotendo la testa con violenza, poi tirò una boccata alla
sigaretta e, con un'ultima scossa sul portacenere, si alzò in mezzo a una
nuvola di fumo.
— Perché non... che cosa?
— Niente — esclamò lei, voltandosi di scatto dall'altra parte.
— Perché non buttiamo tutto all'aria?
Lei agitò il capo e uscì dal salotto. Parker sapeva che quello era proprio
ciò che era stata per dire, e che, mentre aveva cominciato a dirlo, l'impos-
sibilità della cosa l'aveva colpita, interrompendola - le tuniche nell'arma-
dio, le armi nella stanza della bambina, quell'autobus lassù, il nascondiglio,
la ghenga riunita in cucina a giocare a poker... - e così si era chetata prima
di finire la frase. Ma era quello ciò che voleva, senza alcun dubbio. Che
non accadesse, che non dovesse accadere mai.
Non era la prima volta che Parker vedeva la donna di qualcuno farsi
prendere dagli isterismi all'ultimo momento e, forse, non sarebbe stata
neanche l'ultima.
Era bello avere una donna come Claire, così forte, così intelligente, così
sicura da volerne stare completamente fuori. Sarebbe stato bello rivedere
Claire, rilassarsi sulla riva del mare, passare qualche ora al casinò.
A Parker non importava niente del casinò: ci andava per Claire. A. lei
piaceva giocare, sempre che il suo si potesse chiamare gioco. Nei casinò di
San Juan non c'era quell'atmosfera disperata e ansiosa come a Las Vegas,
dove le sale da gioco non hanno né orologi né finestre, affinché i gonzi non
avvertano il passare del tempo. A San Juan i casinò erano semplicemente
un'appendice ai vari divertimenti organizzati per il turista, insieme alle
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spiagge, gli spogliarelli, e le corse in barca verso St. Thomas dove si pote-
va comprare il whisky di contrabbando.
I casinò degli alberghi stavano aperti soltanto otto ore al giorno, dalle
otto di sera alle quattro del mattino, e solo tre tipi di giochi erano permessi:
la roulette, il ventuno e i dadi.La vera passione di Claire erano i dadi. Invariabilmente, appena entrata
al casinò, si comprava cinquanta gettoni da un dollaro e si dirigeva verso il
tavolo di dadi meno affollato. Poi giocava lentamente i suoi cinquanta get-
toni, uno per volta, facendo solo puntate laterali e passando sempre la ma-
no ogni qualvolta i dadi arrivavano a lei, e vincendo una volta su tre.
Era la giocatrice più disinteressata del mondo, ma il giocare la divertiva
moltissimo, tanto che, mentre il mucchietto dei gettoni diminuiva inesora-
bilmente, gli occhi le diventavano sempre più lucenti, i movimenti più ela-
stici, il viso più eccitalo. E tutte le volte, dopo la perdita dell'ultimo get-
tone, si allontanava dal tavolo vibrante e allegra come se avesse sbancato il
casinò. Giocare le faceva l'effetto dell'alcool, la inebriava, la divertiva
immensamente. Dopo, se ne andavano di filato all'albergo e subito a letto
dove passavano momenti deliziosi. Sì, sarebbe stato bello tornare a San
Juan; bello rivedere Claire.
Si sorprese, nell'accorgersi che nei suoi pensieri stava insinuandosi il de-
siderio. Questo era un altro cambiamento che Claire aveva operato in lui.
Di solito, il bisogno di rapporti sessuali lui lo sentiva urgente, vitale, irre-
frenabile, subito dopo un colpo ladresco, bisogno che via via si attenuava
fino a non sussistere più. E questo significava che era pronto per un altro
colpo.
Ma ora, con Claire, tutto era diverso. Difatti, in quel momento, nel gior-
no stesso del colpo, si trovava lì con la mente colma dell'immagine di lei,
stretta fra le sue braccia nella penombra di quella loro stanza fresca di San
Juan, mentre il sole splendente, i turisti e gli indigeni del mondo esterno,
sparivano completamente dalla loro esistenza.
Rimase così, in quel salotto, lasciando che il pensiero vagasse lontano,
finché, a un tratto, si accorse che il suo orologio segnava le quattro.
Si alzò ed entrando in cucina, disse:
— E' ora di andare.
— Bene — rispose Webb, e poiché, in quel momento, non stava giocan-
do, balzò subito in piedi e, prendendo una manciata di banconote, se le
cacciò in tasca, poi si stirò e, sbadigliando, allungò quelle braccia che era-
no talmente lunghe in relazione al resto del corpo, da sembrare addirittura
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grottesche.
Gli altri tre finirono di giocare la mano che fu vinta da Jake con un tris di
fanti. Sorridendo, Kengle prese il piatto ed esclamò:
— A quanto pare, mi è tornata la fortuna. Era ora!
— Io preferisco che la mia mi assista stanotte — ribatté Stockton. — Come t'è andata? — chiese Fusco a Kengle.
— Ho vinto circa diciotto dollari.
— Io, tre — fece Webb.
— Io ho fatto un bagno — disse Stockton, alzandosi.
— Vengo subito, Parker — aggiunse Fusco. — Vado a salutare Ellen.
— Prendi le tuniche.
— Sarà fatto.
— Dove sono le armi? — domandò Stockton a Parker.
— Da questa parte. Stockton e Kengle seguirono
Parker lungo il corridoio fino alla camera della bambina, che era a letto
per il sonnellino pomeridiano, tutta avvoltolata in una sudicia coperta che
si portava sempre dietro.
Parker aprì l'armadio e porse le scatole ai due uomini, i quali, dopo aver-
le prese, si allontanarono in punta di piedi. Parker richiuse le ante dell'ar-
madio e li seguì.
Fusco era sempre nella camera da letto con Ellen. Kengle, ritto nel cen-
tro del salotto, con le braccia cariche di quelle scatole, che avrebbero do-
vuto contenere trenini e automobiline da corsa, indicò la camera con un
gesto del capo.
— Be'? Cosa fa Marty? Se la sta spassando un po' con la moglie?
— No — replicò Parker. — Starà facendo semplicemente l'ospite educa-
to, ringraziandola per i pranzi e tutto quanto.
Con una smorfia, Kengle annuì. — E' proprio da Marty — disse. —
Avresti dovuto vederlo, in gattabuia. Gentile perfino con gli sbirri.
Webb, la mano sulla maniglia, disse: — Ci vediamo là, Parker.
— Bene.
I tre uscirono, Webb avanti, mentre gli altri due lo seguivano portando le
scatole che misero nel baule posteriore della giardinetta. Un attimo dopo
partirono.
Parker restò accanto alla porta aperta, aspettando. Di lì a poco, Fusco
arrivò, il viso turbato, reggendo le grucce su cui stavano appese le tuniche.
— Ragazzi! — esclamò. — Accidenti, se è nervosa! A quanto pare, il
mio passato infortunio l'ha proprio sconvolta.
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— Sopravviverà — rispose Parker. — Bisogna che tu cacci le giacche in
una borsa o qualcosa di simile. Potrebbero vederci uscire di qui con quella
roba in mano.
— Da queste parti, nessuno si occupa dei fatti altrui — ribatté Fusco. —
Da quando siamo qui, non ci hanno neppure degnato di uno sguardo. — Perché pensano di sapere come stanno le cose, anche se sbagliano.
Ellen è una divorziata e noi siamo uomini. Ma ora si tratta di vistose giac-
che dorate e se le vedessero se ne ricorderebbero. Non vorrai mica che la
polizia domani piombi qui a domandare a Ellen dove se ne sono andati
quei tali con le giacche del pigiama dorate!
— ...e l'oro. Okay. Hai ragione. Aspetta un minuto.
Fusco andò in cucina e prese un grosso sacco di carta scura, poi tolse le
tuniche dalle grucce, ne fece dei rotoli e, uno per volta, li cacciò nel sacco.
Uscirono e si avviarono verso la Pontiac.
La valigia di Parker, il maglione e la giacca erano sempre sul sedile po-
steriore. Fusco vi aggiunse il sacco con le tuniche. Parker si mise al vo-
lante.
Si diressero fuori città, oltre la base militare, e puntarono verso Hilker
Road. Passarono anche davanti al cancello sud e continuarono verso nord
per altri sei chilometri circa, finché arrivarono a una strada sterrata che
portava sulla collina. Infilarono quella strada.
Parker cambiò marcia. La strada, tutta curve, saliva ripida. Non era altro
che un sentiero battuto, ricavato dalla collina con un "bulldozer". Eviden-
temente, non ci doveva essere passato più nessuno da almeno tre anni. L'ir-
ruenza delle piogge, che venivano giù dalle montagne verso valle, aveva
scavato come tanti piccoli sentieri sul fianco della collina. Di tanto in
tanto, lunghi e bassi rami d'albero strusciavano sul tetto dell'automobile e
su un lato della strada stavano ammucchiati grossi tronchi: erano quelli che
Parker, Devers e Fusco avevano spostato la prima volta che erano saliti
lassù.
Proseguirono lungo il sentiero strettissimo per circa cinque chilometri e
quasi sempre in salita, fino a che arrivarono a quella casa diroccata. Era
stata una grossa costruzione a due piani, in pietra e legno, e il fuoco l'aveva
completamente distrutta. Un garage sul dietro, che in origine poteva ospi-
tare dodici macchine, era stato solo parzialmente bruciato; difatti, ne re-
stava intatto un lato in cui potevano entrare tre automobili. Un'altra costru-
zione accanto, una grande baracca per gli attrezzi, non era stata neanche
toccata dalle fiamme.
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Dell'edificio originale erano rimasti in piedi soltanto i muri in pietra, che
si estendevano intorno all'area come a casaccio. Dentro a quei muri, un
guazzabuglio di tizzoni neri: i resti carbonizzati di travi e pareti resi lisci e
irriconoscibili da tre estati e tre inverni. L'erba cresceva a chiazze qua e là,
invadendo l'esterno e l'interno e formando come piccole oasi di verde.Diversi cartelli con la scritta "Vietato il transito" erano stati inchiodati
sugli alberi o sui muri rimasti, ma non c'era alcun segno che qualcuno fos-
se stato lì di recente per verificare se quell'ingiunzione fosse stata rispet-
tata.
Il garage e il padiglione di caccia erano spogli e vuoti e saltava agli oc-
chi che nessuno aveva fretta di ricostruire la casa di caccia Andrews.
C'era, anzi, da .dubitare fortemente che qualcuno avesse dato fuoco a
quell'edificio di proposito per prendersi l'assicurazione: cosa che, in gene-
re, non accade quando gli affari vanno bene. Il padiglione Andrews aveva
probabilmente perso molti dei suoi introiti a causa delle vicine riserve ca-
nadesi nelle quali, non essendo state molto frequentate da cacciatori, si
trovava ancora grandissima abbondanza di selvaggina.
La giardinetta non si vedeva da nessuna parte, ma, girando con la Pon-
tiac intorno alla casa, Parker vide Stockton, accanto a una porta aperta del
garage, che, gesticolando, gli faceva segno di avvicinarsi.
Parker portò la macchina dentro il garage e spense il motore, mentre
Stockton chiudeva le due porte. Scese dalla Pontiac seguito da Fusco, poi
prese la giacca e il maglione dal sedile posteriore. Nel garage non c'erano
pareti divisorie interne. La Pontiac era la più vicina alla parte bruciata;
dall'altro lato, la giardinetta Buick e, in fondo, l'autobus. Era un autobus
molto piccolo, più corto del normale, simile a quelli generalmente usati da
piccole scuole private per prendere e riportare i bambini a casa. Quando
Parker l'aveva visto per la prima volta in quel cimitero di ferraglie, era
giallo, ma da allora ne aveva fatti di cambiamenti!
Ora era di colore diverso: un bel blu royal che, dentro al garage, sem-
brava molto scuro mentre, fuori, avrebbe scintillato come l'acqua d'una pi-
scina sotto i raggi del sole. Anche il motore era diverso, più potente
dell'originale. Le targhe false del Maryland, con cui era arrivato sino a lì,
stavano proprio in quel momento per essere cambiate da Webb con altre di
New York, ugualmente false, ma per le quali avevano potuto ottenere una
registrazione fasulla.
Kengle stava attaccando, su di un lato, uno dei due grossi striscioni che
avevano preparato, su cui era scritto in grandi caratteri rossi "Ernie Settimo
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e il suo Quartetto".
Ecco dove avevano speso la maggior parte del denaro di Norman Ber-
ridge: in quel piccolo autobus e negli strumenti musicali che facevano
bella mostra di sé attraverso i finestrini posteriori. Parker girellò intorno
alla Buick e restò a guardare lo striscione. Kengle gli sorrise, dicendo: — Mi pare vada bene, no?
— L'importante è che sembri genuino.
— Allora non c'è discussione — ribatté Kengle. — Sembra proprio
genuino!
Parker fu d'accordo con lui. Un autobus tanto vistoso non poteva destare
sospetto.
Parker portò maglione e giacca dentro l'autobus e li mise su un sedile
dalla parte posteriore. Quando si voltò, vide che Fusco lo aveva seguito a
bordo ,e stava tirando fuori dal sacco di carta le tuniche dorate, scotendole,
lisciandone le grinze e sistemandole poi dietro ogni sedile.
Parker scese dall'autobus. Kengle si dava da fare all'altro lato, attaccando
il secondo striscione. Stockton stava applicandone un terzo, più piccolo,
ma altrettanto vistoso, sul dietro. Webb, che nel frattempo aveva finito di
rimettere a posto le targhe, ripose la cassetta degli arnesi nella parte po-
steriore della giardinetta.
Alle cinque meno dieci erano pronti per partire. Salirono tutti sull'auto-
bus, all'infuori di Stockton che restò giù" per aprire la porta del garage.
Avevano trovato quelle porte chiuse con i lucchetti, ma Parker e Fusco li
avevano segati, per poi sistemarli in modo che sembrassero sempre chiusi.
Intanto gli altri, sull'autobus, s'infilarono le tuniche e si sistemarono,
sedendosi tutti sui sedili anteriori. Webb si mise al volante, avviò il motore
che starnazzò forte e, dopo aver fatto marcia indietro, portò l'autobus sulla
strada chiazzata dal sole che filtrava tra gli alberi.
Mentre Webb girava l'automezzo, Stockton chiuse il garage, mise a po-
sto i lucchetti, e salì a bordo, senza però indossare ancora la sua tunica co-
me i compagni.
Il tragitto lungo la strada sterrata fu penosamente lento, anche perché
Webb cercava di non far sbatacchiale troppo tutto l'arsenale nell'interno
dell'autobus. Le scatole dei giocattoli stavano modestamente sul pavimento
dietro al sedile posteriore, nascoste in mezzo agli strumenti musicali: pic-
coli tamburi, chitarre elettriche, un altoparlante, un sassofono.
Arrivati alla fine della strada sterrata, prima d'imboccare Hilker Road,
Webb fermò, Stockton scese e continuò a piedi. Era quasi sparito dalla vi-
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sta quando lo videro fermarsi: allora attesero il suo segnale di via libera.
Rimasero ad aspettare quel segnale per due o tre minuti, poi Webb lasciò
scivolare la macchina per gli ultimi metri - che non erano pochi - arrivò
sulla strada asfaltata senza aver toccato i freni. Stockton risalì saltando su
per lo sportello aperto. Webb premette l'acceleratore e balzarono in avanti, puntando verso il cancello sud.
Fu una corsa di cinque minuti. Kengle, Stockton e Fusco chiacchierava-
no, ma quando Webb oltrepassò la curva e rallentò avvicinandosi al can-
cello, le ciarle dentro all'autobus cessarono come per incanto e la tensione
riempì l'aria come una densa nebbia.
Erano le cinque e dieci.
Webb fermò davanti al cancello, tirò giù il vetro del finestrino e gridò al
poliziotto là fuori:
— Dove si va per il Circolo Ufficiali?
Il poliziotto disse qualcosa. Webb, fingendosi idiota, fece: — Eh? — e il
poliziotto fu costretto a ripetersi.
Webb disse: — Un momento. E, voltando il capo, gridò a Parker, piut-
tosto ad alta voce, per essere sicuro di essere udito dal poliziotto: - Dice
che vuol vedere un'autorizzazione.
Parker tirò fuori una lettera dalla tasca interna della giacca sportiva che
aveva accanto, avanzò verso la parte anteriore, e porse la lettera a Webb
che, a sua volta, la dette al poliziotto. — Questa vi basta?
Doveva bastare per forza. La lettera era scritta su autentica carta intestata
proveniente dalla cancelleria del Circolo Ufficiali, che Devers aveva ru-
bato il venerdì precedente. Era indirizzata a Sheehan e Wilcox, un'auten-
tica agenzia di collocamento di New York, il cui indirizzo era stato trovato
nell'elenco telefonico; era firmata dal Maggiore J. Alex Cartwright, che era
l'autentico nome dell'ufficiale responsabile del Circolo Ufficiali della base
militare di aviazione di Monequois, e richiedeva, per una notte, la presen-
za di Ernie Settimo e del suo Quartetto al Circolo Ufficiali di Monequois,
per mercoledì trenta settembre, a un prezzo già convenuto in precedenti
accordi presi per corrispondenza. "Questa lettera" concludeva Io scritto
"servirà di autorizzazione al gruppo per entrare nella base alla suddetta
data. Il gruppo è atteso non oltre le cinque p. m.".
Osservando il poliziotto attraverso il finestrino, Parker attese, finché ri-
tenne che avesse più o meno finito di leggere, poi si sporse dietro a Webb e
gridò:
— Ehi! Amico, si fa tardi! Possiamo andare?
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Questa era la parte pericolosa. Se il poliziotto li lasciava passare, sarebbe
andato tutto bene. Ma se quello si fosse intestato a voler controllare presso
il Maggiore Cartwright, al Circolo Ufficiali, l'unica cosa da fare era voltare
il sedere e andarsene al più presto, e il più lontano possibile.
Il problema più importante era stato l'autobus. Avevano bisogno di unmezzo per trasportare il malloppo fuori della base, e se avessero usato la
Pontiac, avrebbero corso il rischio di mettere subito la polizia sulle tracce
di Devers. Le sentinelle sarebbero state interrogate a non finire, affinché
ricordassero quali veicoli avevano lasciato la base subito dopo il furto. Ru-
bare un camion dal centro macchine della base non sarebbe servito a nien-
te, a meno che non intendessero scappare a rotta di collo, cosa che voleva-
no evitare; avevano invece bisogno di una mezz'ora di tempo per poter
lasciare una falsa traccia e raggiungere poi il loro nascondiglio. Perciò,
avevano dovuto procurarsi un veicolo e dei documenti, naturalmente falsi.
Il che significava, prima di poter pensare a uscire dalla base con quel
veicolo, che dovevano entrarci in qualche modo. Ecco il perché di tutte
quelle storie.
Inoltre, secondo la lettera, erano già in ritardo di dieci minuti.
Avevano scelto quell'orario perché, dalla parte dell'uscita, il cancello sa-
rebbe stato affollato di uomini fuori servizio dalle cinque. Il poliziotto, per-
ciò, avrebbe avuto un sacco di cose da fare, e questo l'avrebbe spinto a
lasciarsi convincere da quella lettera, e il fatto che il gruppo fosse già in
ritardo, l'avrebbe forse spronato a farli passare alla svelta.
Forse.
Il poliziotto guardò la lettera con un brutto cipiglio, poi sbirciò Parker e
Webb nelle loro tuniche dorate, lanciò un'occhiata allo striscione sul fianco
dell'autobus, osservò gli strumenti musicali e quegli degli altri, anch'essi
con le tuniche dorate e finalmente disse, con fare riluttante:
— Non sono stato informato del vostro arrivo.
— Be', si tratta di un festino per i pezzi grossi, amico — rispose Webb.
Parker disse: — Volete vedere le nostre carte d'identità? La patente? Il li-
bretto di circolazione? — Lui aveva tutte quelle carte pronte, sotto il nome
di Edward Lynch. Facevano parte dei diversi documenti falsi che aveva
pizzicato qua e là attraverso tutti quegli anni.
Sempre accigliato, ancora esitante, il poliziotto tornò a guardare la lette-
ra.
Finalmente, dall'altra parte, l'altro poliziotto lo chiamò con aria impa-
ziente e senza rivolgersi a nessuno in particolare, disse: — Secondo me,
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sta bene.
— Sicuro che sta bene — rispose Webb. — A meno di non arrivare là
troppo tardi.
— Vi darò un lasciapassare — disse il primo poliziotto, ed entrò nella
garitta.Con aria indifferente, Webb ingranò la retromarcia, ma quando il poli-
ziotto tornò fuori, aveva in mano un cartoncino verde e rettangolare.
— Mettetelo sul parabrezza — disse, porgendolo a Webb. — All'uscita
dovete restituirlo.
Webb annuì. — D'accordo — fece e, sporgendosi in avanti, mise il car-
toncino verde sull'angolo del parabrezza.
— Questa è vostra — disse ancora il poliziotto porgendo la lettera a
Webb.
— Grazie, amico. Ora vogliamo sapere dov'è il Circolo Ufficiali.
Il poliziotto indicò loro la direzione. — Andate da questa parte fino, alla
strada G., poi a destra. E' impossibile non notarlo, è l'edificio più grande
della base ed ha una porta a vetri colorati sul davanti.
— Porta a vetri colorati. Che bello! Grazie di nuovo, amico.
Webb porse la lettera a Parker, mise l'autobus in marcia e, oltrepassando
il cancello, finalmente entrarono nella base.
Parker tornò al suo posto, nella parte posteriore. Webb proseguì, finché
raggiunse la strada G., poi voltò a destra come gli aveva indicato il poli-
ziotto. Dopo la svolta, Parker e gli altri si tolsero le tuniche, le rimpiaz-
zarono con le loro giacche normali e si misero la cravatta.
Webb tenne la tunica fino a che non posteggiò l'autobus all'incrocio della
strada dove, a destra, si trovava il Circolo Ufficiali di complemento, poi se
la tolse e mise anche lui cravatta e giacca, mentre Kengle e Stockton
scendevano a togliere lo striscione dalla parte posteriore.
Alcune persone passarono li vicino, chi in divisa, chi in borghese, ma
nessuno prestò la minima attenzione al gruppetto.
Appena Kengle e Stockton furono risaliti, Webb rimise in moto e guidò
fino al parcheggio del Circolo Ufficiali, sistemando l'autobus nella parte
più lontana, sotto l'ombra di un grosso albero, uno dei pochi rimasti alla
base.
Gli altri striscioni, legati con delle corde a dei piccoli ganci sporgenti sui
lati del veicolo, vennero rimossi dall'interno attraverso i finestrini. Li sle-
garono, e li tirarono su, arrotolandoli poi con cura in modo da non sciupare
le scritte. Dopo, uno per volta, scesero, e attraversando l'area del parcheg-
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gio, uscirono sulla strada. Parker fu il penultimo e Webb chiuse l'autobus
dietro di sé.
Cominciava a far buio, con quel rapido imbrunire particolare dell'autun-
no nel nord, e su ogni tre macchine, una aveva già i fari accesi. Parker tra-
versò la strada ed entrò nel Circolo Ufficiali di complemento. Devers ave-va detto che in quel circolo non richiedevano mai carte d'identità, poiché,
praticamente, c'era un errore di denominazione.
— Ogni base d'aviazione militare dovrebbe avere un circolo per avieri
— aveva detto Stan — ma io non ho mai visto una base dove ce ne sia
uno. Quindi, poiché quel circolo non esiste, quello, denominato per gli Uf-
ficiali di complemento, è aperto a tutti coloro che si trovano arruolati alla
base. Perciò, in un circolo dove perfino gli avieri semplici possono entrare,
è chiaro che l'ingresso è libero a tutti. Conclusione, alla porta non c'è nes-
suno.
Devers aveva ragione: non c'era nessuno. Parker entrò in un enorme sa-
lone tutto velluti rossi, che avrebbe potuto essere il ridotto di un teatro di
recente costruzione o di un piccolo albergo di una stazione climatica.
Devers gli aveva anche detto che il bar si trovava a sinistra e la sala da
pranzo a destra, perciò, si diresse a destra percorrendo un lungo corridoio -
il velluto rosso imperversava anche lì - per finire in una grande sala da
pranzo rettangolare, piena di tavoli apparecchiati con tovaglie bianche.
Dalla parte opposta, c'era un palco su cui stava un pianoforte ricoperto da
un telo.
Soltanto un quarto circa dei tavoli era occupato, più che altro da uomini
in borghese. Sedute intorno a uno, c'erano quattro donne che, con le loro
divise azzurre della Waf, parevano grassi autisti di camion.
Stockton e Kengle sedevano a un tavolo nel centro della sala, verso si-
nistra, e Fusco a uno più vicino, sulla destra. Parker andò a sedersi accanto
a Fusco.
— Niente menù, per ora. Che razza di servizio! — esclamò Fusco.
— Be', non abbiamo fretta — rispose Parker. Si era sistemato in modo
da tener d'occhio l'ingresso; infatti, un minuto dopo, vide entrare Webb che
si unì a Stockton e Kengle.
Webb non si voltò a guardare Parker e ciò significava che tutto andava
liscio. Se vi fosse stato qualche intoppo, avrebbe trovato il modo di av-
vertirlo.
La cameriera si fece un po' aspettare, poi arrivò con il menù, prese le or-
dinazioni e se ne andò via. Mangiarono con calma, poi indugiarono beven-
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do qualcosa. Bevevano lentamente e con moderazione, perché più tardi
avrebbero dovuto essere ben svegli e scattanti.
Verso le sei e mezzo arrivò Devers in borghese, con tre giovani della sua
età. Scelsero un tavolo d'angolo e, dopo aver ordinato birra, attaccarono
un'animata conversazione. Devers non si voltò mai a guardare Parker, nél'altro tavolo e bevve meno dei suoi amici. Poco dopo le otto, Parker pagò
il conto e, insieme a Fusco, lasciò la sala e prese la strada per arrivare al
cinema seguendo l'itinerario che Devers gli aveva mostrato sulla pianta.
Per entrare con l'autobus, avevano dovuto scegliere l'ora della confusio-
ne, verso le cinque; arrivando dopo le sette, avrebbero destato seri sospetti.
Perciò dovevano trovare il sistema di riempire le ore che li separavano dal
momento in cui avrebbero potuto arraffare il malloppo e svignarsela.
Parte di quel tempo l'avevano già perso a tavola e ora ne avrebbero perso
dell'altro al cinema. Le proiezioni al teatro della base avevano inizio alle
otto e un quarto e alle dieci e un quarto.
Erano le otto e dieci quando Parker e Fusco vi arrivarono. Si accodarono
a una lunga fila di persone per prendere i biglietti. Mentre entravano, no-
tarono che anche Stockton, Webb e Kengle erano in fondo a quella coda.
Prima di tutto, proiettarono un cartone animato. Poi venne il film. Si trat-
tava di una commedia musicale e Parker restò lì, seduto a guardare quei
colori allegri e ad ascoltare quella musica, senza prestarvi la benché mini-
ma attenzione. Alla fine del primo spettacolo, furono costretti a uscire, ri-
mettersi in coda e prendere un altro biglietto per assistere alla seconda
proiezione. Gli altri tre, questa volta, si trovavano in testa.
Parker aveva prestato così poca attenzione al film, che, pur rivedendolo,
gli sembrò del tutto nuovo.
Quando finì e si riaccesero le luci, il suo orologio segnava mezzanotte e
cinque. Per tornare all'autobus dovettero scarpinare lungo sei isolati. Par-
ker e Fusco, arrivati per primi, furono costretti ad attendere gli altri per sa-
lire sull'autobus ancora chiuso.
Al Circolo Ufficiali c'era un gran movimento e, a differenza di prima,
ora il parcheggio era pieno zeppo di automobili. L'autobus era quasi invi-
sibile: quell'azzurro che, alla luce del sole, era parso tanto vistoso, si amal-
gamava ora col buio.
Due o tre minuti più tardi, Webb aprì lo sportello e salirono tutti, senza
accendere le luci nell'interno.
Dopo essersi tolto giacca e cravatta, Parker s'infilò il maglione nero con
il collo alto e le maniche lunghe. Intorno a lui, anche gli altri si vestirono
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alla stessa guisa. A questo punto, Parker tirò fuori le armi: due mitraglia-
trici e due fucili mitragliatori Sten, che avevano smontato parzialmente per
farli entrare nelle scatole. Dopo averli rimontati al buio, ne porse uno a
Kengle e l'altro a Stockton, poi prese le pistole, tutte calibro 32 a canna
corta, due Smith e Wesson, una Firearms International e una Colt. Tenendo per sé la Colt, dette la Fireaems International a Fusco, una Smith e Wesson
a Webb, e l'altra la mise da parte per Devers.
Poi distribuì a tutti guanti di gomma, di quelli che le donne adoperano
per lavare i piatti. Si trattava di guanti azzurro chiaro e, perciò, meno visi-
bili, nell'oscurità, dei gialli o rosa in vendita nei negozi. Nella reclame c'e-
ra scritto che con quei guanti si poteva anche prendere una moneta da due
soldi. A maggior ragione potevano servire a reggere una pistola e a prende-
re quattrocentomila dollari!
Bussarono allo sportello. Webb andò ad aprire e Devers salì rapidamen-
te. Anche lui era vestito di nero e quando Parker gli porse la rivoltella e i
guanti di gomma, disse:
— Il panico del debutto è svanito!
— Benissimo — rispose Parker. Fu la volta dei cappucci di cotone
ricavati da federe tinte, a cui avevano praticato dei buchi per gli occhi.
Ognuno nascose il suo sotto il maglione per tirarlo fuori al momento
opportuno. Per ultimo venne il berretto e la giacca da campo per Webb,
che li indossò mentre gli altri si acquattavano sul fondo dell'autobus. Poi
Webb avviò il motore e uscì lentamente dal parcheggio.
Quando arrivarono davanti all'edificio dell'amministrazione, era l'una
meno dieci.
La strada era deserta e abbastanza illuminata. Dal primo piano dell'edifi-
cio filtravano delle luci, mentre un poliziotto militare passeggiava su e giù
lungo il marciapiede con la carabina in spalla.
Sbirciando dal finestrino, Devers sussurrò:
— Che razza di sistema! Far la guardia in quel modo! Se lo facessero
star fermo davanti alla porta, sarebbe molto più sensato!
— Non esiste far "cose sensate" nell'esercito, ragazzo — sussurrò, a sua
volta, Webb.
Ormai, si trovavano quasi all'altezza della sentinella. Quando la raggiun-
sero, Webb frenò di colpo. L'edificio e il poliziotto erano sulla destra dell'-
autobus. Webb aprì lo sportello dalla parte del volante e gridò:
— Ehi! Amico! Qual è la strada per andare al Deposito del centro mac-
chine?
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Era un luogo inesistente. La sentinella si voltò a guardare e vide un au-
tobus azzurro, simile a ogni altro veicolo della base di aviazione, magari
un tantino più brillante e più pulito, un autista con la tuta della base che si
sporgeva verso di lui reggendosi al volante per non cadere, e nulla che po-
tesse insospettirlo o spingerlo a far domande. Sempre con la carabina inspalla, si avvicinò un poco e disse: — Ma di che parli?
— Del Deposito del centro macchine — ripeté Webb, farfugliando le
ultime sillabe. — Devo consegnare questo benedetto coso, stanotte. Quella
puzzolente testa di neve al cancello mi ha dato l'indicazione sbagliata.
— Testa di neve? — Quella era un'espressione dispregiativa per i poli-
ziotti di aviazione, nata dagli elmetti bianchi che portavano e i poliziotti
non la gradivano molto. Togliendosi la carabina dalla spalla e tenendola
come in posizione di riposo, il poliziotto si fece più vicino, quasi sul bordo
del marciapiede, poi disse:
— Forse avrai sentito male tu, amico. Il centro macchine è lontano da
qui.
— Ma io non voglio il centro macchine — rispose Webb, fingendosi ar-
rabbiato. — Sei stupido come quello là? Voglio il Deposito del centro mac-
chine!
A questo punto, il poliziotto, che schiumava di rabbia, si avvicinò allo
sportello dell'autobus e scattò.
— Ce l'hai un ordine, furbone?
Parker, che era nascosto proprio dietro lo sportello, interloquì. — Ce l'ho
io. E se credi d'essere tanto furbo tu, sali. — Mentre parlava, tese la mano
fuori e il poliziotto si vide puntare una pistola sulla fronte. Sbatté gli occhi.
— Ma che succede?
— Monta e zitto — disse Webb, abbassando anche lui il tono di voce. —
Come se non succedesse niente.
— Non siamo mica in guerra, non hai bisogno di far l'eroe — aggiunse
Parker.
— Io non... — il poliziotto allungava lo sguardo, cercando di vedere
oltre il braccio che reggeva la pistola. — Cosa volete?
— Soltanto quattrini — rispose Webb. — Siamo venuti a prendere i
quattrini delle paghe. Non ti preoccupare, non siamo né spie, né sabotatori
o simili.
— I quattrini delle paghe? Siete matti?
— Provati ad alzare ancora la voce, e il tuo amichetto dall'altra parte del-
l'edificio sentirà soltanto il rumore d'uno scappamento. Sali.
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— Ma...
— Uno — cominciò Parker. — Due...
Il poliziotto non seppe mai quale fosse il numero finale, perché prima
che Parker dicesse tre, aveva già messo il piede sul predellino.
— Dammi il fucile — ordinò Webb.Il poliziotto entrò nell'autobus, mentre rabbia e paura si riflettevano nei
suoi occhi. Lo stavano umiliando e questo lui non lo sopportava, però sen-
tiva che se avesse tentato di fare qualcosa contro quell'umiliazione, ci
avrebbe rimesso la buccia e, pur odiandosi per la sua vigliaccheria, optò
per la collaborazione.
In quel momento, lui la considerava una vigliaccheria, invece non era al-
tro che una forma d'intelligenza.
Webb gli prese la carabina e Parker lo spinse dentro. Gli tolsero l'unifor-
me. Devers la indossò e, dopo aver preso la carabina da Webb, scese.
— Grazie, amico — gridò forte Webb e, richiudendo lo sportello piut-
tosto rumorosamente, partì.
Devers cominciò a passeggiare su e giù davanti all'edificio. Pareva più
voluminoso dell'altro, perché, sebbene fosse circa delle stesse dimensioni,
sotto l'uniforme presa a prestito, era completamente vestito e aveva, per di
più, una pistola calibro 32 a canna corta, nella tasca posteriore dei pantalo-
ni.
Ma per chi fosse passato di lì o quand'anche all'altro poliziotto, al primo
piano dell'edificio, fosse saltato il ticchio di guardare dalla finestra, non ci
sarebbe stata nessuna differenza.
Webb proseguì, guidando per un isolato e mezzo, poi girò a destra e con-
tinuò ad andare per un altro isolato, quindi svoltò ancora a destra e fermò.
Nel frattempo, il poliziotto, rimasto in mutande, era stato legato e imbava-
gliato.
Stockton, infilatosi il cappuccio, imbracciò lo Sten e scese dall'autobus,
allontanandosi nell'oscurità come un'ombra. Bastarono tre lunghi passi e
già era sparito di vista, poiché le strade laterali erano illuminate soltanto
dal chiarore della luce proveniente dalle lampade agli incroci con quelle
principali.
Dalla parte posteriore dell'edificio, c'era un'altra sentinella ed era proprio
quella che Stockton era andato a cercare. Tre minuti più tardi, riapparve
con un ragazzetto spaventato, il viso bianco come l'elmetto che portava.
Stockton teneva lo Sten con la destra, la canna appoggiata sul fianco, e
con la sinistra portava la carabina del ragazzo. Legarono e imbavagliarono
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anche il numero due, lo lasciarono dentro l'autobus insieme col primo, e se
se andarono tutti, tranne Webb che doveva restare sull'autobus per muo-
verlo in caso d'emergenza e far la guardia ai due poliziotti.
Parker avanzò nell'oscurità. Il cielo era limpido e zeppo di stelle, ma la
luna, nuova di appena tre giorni, era soltanto una sottile unghiata d'argento,come a segnare il punto in cui, entro poche notti, sarebbe stata visibile.
Arrivati all'edificio dell'amministrazione dal retro, si insinuarono tra
quello e l'edificio adiacente sullo stesso isolato sostando poi all'angolo.
Stavano tutti dietro a Parker, che osservava Devers camminare su e giù,
con lo stesso passo annoiato della sentinella di cui aveva preso il posto.
Parker oltrepassò l'angolo e si fermò davanti alla porta principale dell'-
edificio, stagliandosi come un'ombra a forma d'uomo contro il muro into-
nacato. Si era infilato il cappuccio e l'unica cosa chiara in lui erano le mani
guantate, che agitò a ventaglio davanti a sé.
Quando lo scorse, Devers smise di camminare, sbadigliò e, stirandosi, si
diresse verso la porta che si trovava al centro di un lungo muro. Là sostò e
accese una sigaretta: il segnale di via libera.
Con le chiavi che Stan si era fatto fare, Parker apri la porta ed entrò,
restando poi sulla soglia per tenerla aperta, finché non ebbe sentito i tre
compagni sgattaiolare dietro di lui.
Devers, che non aveva parlato e che, sotto l'elmetto, era pallido come un
morto, schiacciò la sigaretta e riprese a camminare su e giù per il marcia-
piede.
Poiché Devers li aveva forniti della pianta completa dell'edificio, Parker
e gli altri poterono spostarsi rapidamente nel buio e, senza il minimo
rumore, salire le scale metalliche. La metà superiore della porta a sinistra,
in cima alle scale, era di vetri, così Parker poté vedere, attaccati al soffitto,
due globi accesi. Ambedue si trovavano nella parte più lontana e cioè: uno,
dentro l'ufficio del Maggiore Creighton e l'altro, subito fuori, a destra.
I due poliziotti di guardia, seduti a un tavolo, giocavano a carte sotto il
secondo lume. Si trovavano a circa otto metri di distanza dalla porta dove
stava Parker e lo spazio in mezzo era occupato da due file di scrivanie,
allineate ai due lati della stanza ad angolo retto, con un alto banco che si
estendeva da una parete all'altra a due metri dalla porta.
A sinistra di quella porta, c'era una panca per eventuali visitatori. Parker
tirò fuori un'altra chiave e la introdusse nella serratura che si aprì con un
debole clic, tanto tempestivamente, che quel lieve rumore si confuse con
quello del mazzo di carte mescolate da uno dei poliziotti. Visto che sotto
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quella lampada i due avevano cominciato un altro ramino, Parker e gli altri
sgusciarono attraverso la porta e, quasi carponi, arrivarono sin dietro al
banco. Poi, lentamente, rimanendo immobili nel loro ordine sparso, si rad-
drizzarono: Kengle e Stockton, in fondo al banco, i fucili appoggiati sul
ripiano, puntati contro i due poliziotti; Parker e Fusco, nel centro con le pi-stole in pugno.
Davanti a loro, i poliziotti continuavano a giocare, assorti.
Parker vide penzolare un cordino al di sopra della sua testa: con la mano
libera l'agguantò, tirò e sul soffitto si accese un terzo globo, illuminando in
pieno tutto l'ambiente.
Sussultando, i poliziotti alzarono il viso a guardare.
— Mani in alto — intimò Parker.
Uno di loro avrebbe ubbidito subito, ma l'altro era un cowboy: e fece un
balzo verso il punto dove aveva appoggiato la sua carabina, ma lo Sten di
Kengle crepitò seccamente. Il poliziotto fece una giravolta, scivolò sulla
scrivania e cadde a terra, accartocciandosi. L'altro, che all'intimazione di
Parker aveva alzato le mani, si spaventò talmente degli spari che, all'im-
provviso, sparì dietro la scrivania.
Parker disse:
— Non fare lo stupido, figliolo. Non vorrai mica morire.
Niente.
Allora fece un cenno a Stockton che era il più vicino alla ribalta del
bancone. Questi, sollevandola, passò dall'altra parte e, rapido e silenzioso,
scivolando lungo la parete posteriore per non rischiare di essere visto dalla
strada, raggiunse il punto dove il secondo poliziotto era sparito, e da lì
agitò lentamente una mano per far capire ai compagni che potevano star
tranquilli.
Anche gli altri si avvicinarono e videro che il poliziotto numero due non
stava tentando affatto di fare qualche scherzetto, ma era semplicemente
svenuto. L'altro non era morto, ma respirava con difficoltà e il suo viso era
cianotico. Una pallottola lo aveva beccato sul fianco sinistro, proprio sopra
alla vita e un'altra era entrata dalla spalla destra e uscita di dietro, sopra la
scapola. Fusco gli strappò la camicia e gli fece una fasciatura di fortuna
per fermare il sangue: non ci tenevano per niente a beccarsi una condanna
per omicidio.
La legge crede di poter dar la caccia a ogni tipo di criminale alla stessa
maniera, ma non è così. Come l'assassino di un poliziotto è braccato con
più ferocia e implacabilità di un assassino comune, l'assassino comune, a
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sua volta, è braccato più ferocemente di un ladro.
Stockton usò la corda e il fazzolettone che aveva portato, per legare il
poliziotto numero due e, benché il numero uno sembrasse fuori concorso
per tutto il resto della notte, Fusco legò anche quello.
Nel frattempo Parker aiutò Kengle a liberarsi dal piccolo zaino che por-tava da quando erano scesi dall'autobus. Lo zaino conteneva gli arnesi:
trapani, ferri di vario tipo, cacciaviti, due martelli, uno scalpello e altri ag-
geggi. Mentre Stockton teneva d'occhio Devers e la strada, e Fusco, i due
poliziotti lì dentro, Parker e Kengle si accinsero a lavorare attorno alla cas-
saforte blindata con tutto quell'armamentario.
Chiamarla cassaforte blindata era forse un po' esagerato, ma d'altra parte,
chiamarla semplicemente cassaforte era troppo poco. Questa, difatti, con-
sisteva in un armadio metallico rinforzato, posto in un angolo della stanza,
con uno sportello rettangolare blindato. Cercare di arrivarci sfondando il
muro dal dietro, non aveva senso, perciò Parker e Kengle concentrarono i
loro sforzi sullo sportello, sulla serratura e sui cardini.
I cardini si rivelarono ben presto inespugnabili, nonostante ogni tentativo
a base di trapani vari. Il punto debole era la serratura. A forza di trafficare
con trapani e seghe, riuscirono a smantellarla completamente, ottenendo
così un bel foro attraverso il quale poter manovrare i congegni della serra-
tura dall'interno.
Impiegarono quarantacinque minuti ad aprire quello sportello. Dentro,
c'erano diversi scaffali metallici. Il piano dell'armadio era più alto del pa-
vimento dell'ufficio, perché era rinforzato: sopra a quel piano stavano due
grosse casse metalliche, una accanto all'altra, occupando tutta la larghezza.
Contenevano i quattrini per gli stipendi, arrivati quella mattina per aereo.
Le tirarono fuori e le aprirono. Collocate in vari scomparti, stavano cas-
sette di metallo verde simili a quelle solite per gli arnesi, e ciascuna di esse
conteneva gli stipendi relativi a ogni Dipartimento della base. Prenderle
tutte, in quelle condizioni, sarebbe stato impossibile, perciò, Kengle e
Parker decisero di spaccarle, cacciando poi tutto il denaro nelle casse gran-
di. In ogni cassetta, oltre a due o tre pacchetti di banconote fasciate con
elastici rossi, c'erano rotoli di monete, nonché una lista ciclostilata su cui
erano segnati i nomi degli uomini e quanto ognuno di essi doveva ricevere.
Parker e Kengle buttarono nelle casse grandi soltanto le banconote,
scartando, insieme alle cassette, le monete e le liste. Per svuotarle tutte
impiegarono un'altra buona mezz'ora, e quando ebbero finito, le due casse
risultarono piene per tre quarti circa.
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Erano le due e un quarto. Avevano lavorato per un'ora e un quarto.
Durante tutto quel tempo, Devers non si era mai fatto vivo. In quel punto
della base si trovavano solamente uffici, perciò, a quell'ora, la zona era
deserta. Inoltre, quella notte era particolarmente fiacca sia perché antece-
dente il giorno di paga, sia perché non festiva e gli uomini, senza quattriniin tasca, non avevano nessuna voglia di andare in giro.
Quel punto della base, perciò, era tutto a loro disposizione. Le casse, che
anche da vuote erano pesanti, essendo d'acciaio, piene com'erano di banco-
note, erano ora pesantissime e ci vollero due uomini per trasportarle.
Parker e Fusco ne presero una, Kengle e Stockton l'altra. Uscirono dall'-
ufficio e scesero al buio verso il piano terreno.
Arrivato sulla soglia del portone, Parker accese un fiammifero e Devers,
appena lo scorse, si fermò togliendosi la carabina di spalla. Restò impalato,
voltando la schiena all'edificio, e scrutando intorno, mentre Parker e gli al-
tri portavano fuori le casse e, più in fretta che potevano, si avviarono lungo
il muro, finché girarono l'angolo, inoltrandosi tra gli edifici, dove il buio
era ancora più fitto.
Là, misero giù le casse per riposare un attimo, e Devers riprese a far la
sentinella camminando su e giù.
Da lì, cioè dal fianco dell'edificio, fino al loro autobus, il tragitto fu bre-
ve e facile e si svolse nell'oscurità più completa. Webb aprì lo sportello e
gli altri issarono le casse a bordo, poi portarono fuori i due poliziotti e li
lasciarono dietro un folto di cespugli, a lato di un edificio dall'altra parte
della strada, dove era difficile che venissero trovati prima del mattino.
Quando tornarono, Webb aveva già ricollocato lo striscione sul dietro
dell'autobus. Sistemarono rapidamente anche quelli laterali e salirono.
Webb si era già tolto giacca e berretto militari e indossato di nuovo la tu-
nica dorata. Mentre l'autobus ripartiva, anche gli altri fecero lo stesso. Poi
Webb svoltò all'angolo, si fermò un istante e Devers balzò a bordo con un
sorriso che gli arrivava da un orecchio all'altro.
— Magnifico! — esclamò.
— Cambiati — fece Fusco. Non era ancora finita. Devers smise subito di
ridere. Si spogliò dell'uniforme, indossò la tunica, poi fece un grosso
fagotto della sua uniforme e di quella di Webb, compresi elmetti, carabina
e berretto. L'autobus si fermò in una stradina laterale, Devers scese e cac-
ciò quella roba in un cesto dei rifiuti. Poi ripartirono.
Quando arrivarono al cancello sud, le casse col denaro erano già siste-
mate in fondo, ben celate sotto gli strumenti musicali. Avevano nascosto
102
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anche le mitragliatrici là dentro, tenendo soltanto le quattro pistole in ta-
sca, a portata di mano. Quando Webb si fermò accanto alla garitta della
sentinella, la guardia che uscì fuori era giovane e insonnolita. Webb gli
porse il lasciapassare e quello lo guardò con insonnolito sospetto.
— Avete fatto piuttosto tardi — commentò. — Abbiamo avuto un gran successo, amico — rispose Webb.
— Non ci volevano più lasciar andare.
— Già. — Poi, facendo un gesto della mano, disse: — Okay, passate pu-
re.
— Grazie, camerata. Appena sulla Hilker Road, svoltarono a sinistra e
accelerarono. Non c'era traffico.
Il contachilometri segnava centocinquanta. Dopo tre minuti, Webb ral-
lentò per imboccare la strada sterrata. Questa volta correva quanto la strada
lo permetteva, senza curarsi se sballottava i passeggeri e tutto il resto. Par-
ker e gli altri si tenevano aggrappati ai sedili. Arrivato in cima, Webb si
fermò di fronte ai garage.
Dopo che Stockton fu sceso ed ebbe aperto una delle porte, Parker, Fu-
sco, Devers e Kengle scaricarono le due casse e le misero dentro il garage.
Nel frattempo, Webb girò l'autobus e Stockton aprì la porta dell'altro ga-
rage.
A questo punto, Devers li salutò:
— Arrivederci la settimana prossima. — Avevano combinato che dopo
dieci giorni si sarebbe incontrato a New York con Fusco per intascare la
sua fetta di torta.
— Ciao, Stan — rispose Fusco.
Devers salì sulla Pontiac, mentre Parker sgusciava al volante della giar-
dinetta di Webb. Intanto, Webb si era già avviato con l'autobus, giù per la
discesa.
Parker fu il secondo a partire, imboccando la strada sterrata, e Devers lo
seguì. All'incrocio, Devers ammiccò con i fari in segno di saluto e si di-
resse verso sud, mentre Parker voltava a nord dietro ai fanalini di coda
dell'autobus che stavano già sparendo in lontananza.
Quando furono a tre chilometri dal confine, Webb nascose l'autobus in
mezzo a un folto di alberi dove non sarebbe stato visto dalla strada. Ma le
tracce sì, le tracce sarebbero state visibili. La polizia avrebbe certamente
trovato l'autobus al mattino dopo, presto, probabilmente entro un'ora dall'-
allarme che sarebbe stato dato. Avrebbero creduto che i banditi si fossero
diretti in Canada, passando il confine.
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Parker girò la giardinetta e scivolò sull'altro sedile. Webb aprì lo sportel-
lo, si mise al volante e puntò verso sud.
— E' andata bene — disse.
— Sì.
Nessuno dei due era molto loquace, perciò, dette queste parole, tacquero.Webb piaceva a Parker, perché, come lui, non era chiacchierone. Molti
anni prima, avevano lavorato insieme un paio di volte e Parker sapeva solo
che questi era un ottimo guidatore, che il suo più gran divertimento era di
trafficare intorno alle automobili e che, in un momento d'emergenza, si po-
teva senza alcun dubbio contare su di lui. Era quanto gli bastava di sapere.
Passata la curva si fermarono e, alla luce rossa dei fanalini di coda, can-
cellarono le tracce dei pneumatici. Non volevano ridestare l'attenzione di
chi, eventualmente, capitasse da quelle parti, nei giorni seguenti.
Per la stessa ragione si fermarono di nuovo un po' più su, a cancellare
altre tracce, e trascinarono in mezzo alla strada un grosso tronco, lo stesso
che il giorno prima Fusco e Parker avevano rimosso.
Poi proseguirono. In cima alla strada, il buio era completo, rotto soltanto
dai loro fari.
Le porte dei garage erano chiuse. Webb e Parker scesero e. aprirono.
Non c'era nessuno. Kengle, Stockton e Fusco, spariti. E il denaro, pure.
PARTE QUARTA
1
Parker li trovò tutti e due in camera da letto, e quando girò l'interruttore
della luce, Devers balzò giù dal letto con quell'aria stupida che può avere
soltanto un uomo nudo. Ellen sbatté gli occhi alla luce, terrorizzata.
Parker le gettò un'occhiata e disse:
— E' ancora lì, quella!
Che succede, Parker? — fece Devers. Era ancora troppo spaventato per
essere capace di pensare.
Parker lo ignorò. Avvicinatosi ai piedi del letto, continuò, rivolgendosi a
Ellen:
— Non avevate pensato che avrei capito?
— Ma... che cosa... che cosa...?
— Parker — esclamò Devers. — Per amor di Dio...
— Sparito — disse Parker. — Webb e io siamo andati a nascondere
104
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l'autobus e quando siamo tornati alla casa, il malloppo era sparito.
Webb, ancora fermo sulla soglia, aggiunse, calmo:
— Tre morti, amico.
Devers sbatté le palpebre. — Morti?
— Fusco — rispose Parker. — E Stockton. E Kengle. — Li abbiamo trovati vicino al padiglione degli attrezzi. Li hanno messi
in fila e li hanno ammazzati — disse Webb.
Devers ed Ellen cominciarono a connettere: il loro cervello parve sneb-
biarsi.
Ellen agguantò una coperta per ricoprirsi e Devers gridò:
— Ci hanno rubato tutto? Sparito tutto?
— Ci hanno tradito per fregarci il malloppo — disse Parker. — Doveva-
no essere li ad aspettarci.
— Nel padiglione — aggiunse Webb.
— Non importa dove — continuò Parker, senza curarsi di lui. — Aspet-
tavano il nostro arrivo, poi hanno atteso che tu partissi e che noi due, Webb
e io, ce ne andassimo. Hanno aspettato fino a che, nel nascondiglio, non
restavano più che tre uomini.
— Sai cosa significa tutto questo, amico? — scattò Webb.
— Dovevano saperlo — disse Devers. Aveva il viso esangue, non c'era
un filo di forza nella sua voce.
— Dovevano essere al corrente di tutto il complotto — rincarò Webb.
— Anticipatamente, anche — fece Parker.
— Giusto — rimarcò Webb. — Dovevano essere al corrente non solo di
ciò che avevamo progettato per stanotte, ma anche di dove avevamo sta-
bilito di nasconderci, del momento in cui vi saremmo arrivati e di tutti i
nostri movimenti e cioè che Parker e io saremmo andati a liberarci del-
l'autobus e che tu saresti tornato a casa.
— Dev'essere stato qualcuno di là dentro. — Devers si sedette sul bordo
del letto, lasciandovisi cadere come se le gambe non lo reggessero più. —
Pensate che sia stato io. — Aveva l'espressione disperata e stravolta, come
se gli sembrasse impossibile che gli altri non pensassero che era stato lui, e
che quindi agissero in conseguenza.
Parker disse:
— Non ti reputo così idiota, Devers. Tu non ci tieni affatto a essere brac-
cato dalla polizia, e tantomeno da noi. Se tu ci avessi traditi, non saresti
qui, avresti dovuto tagliare la corda. E se tagli la corda, diventi un disertore
dell'aviazione. Se diserti il giorno dopo il furto, si rendono subito conto
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che c'eri impegolato. E non è questo che vuoi.
— Ti dirò la verità, Devers — disse Webb. — Io non sono così convinto
come Parker. Secondo me, sei giovane e presuntuoso. Magari ci hai prova-
to, magari t'immaginavi di poter restare qui e recitare la parte dell'innocen-
tino sbalordito, se fossimo venuti a cercarti... — Sessantacinquemila dollari sono abbastanza — rispose Devers. —
Questo è l'unico punto. Sessantacinquemila sono tanti. Se avessi sessanta-
cinquemila dollari, non sarei così affamato da dare addosso a voi cinque.
— Un punto a tuo favore — replicò Webb. — Inoltre, non credo che
saresti stato capace di far fuori quei tre tutto da solo. Ma perché ammaz-
zarli, se non era per paura di essere riconosciuto? Questo è l'interrogativo
che mi rode. Forse avevi un paio di amici della base nascosti là, per aiu-
tarti.
— Comunque, dovrei spartire con loro. Che differenza fa con chi divido,
se quello che ne ricavo è sempre la stessa cifra?
Webb agitò la mano libera, quella senza la pistola.
— Può darsi che tu sia pulito. Io dico solo che non ne sono convinto al
cento per cento come Parker.
— Sicuro — disse Devers, che stava riacquistando sempre più le sue fa-
coltà mentali. — Se non sono stato io, siete fritti. Non c'è rimasto nessun
altro.
Parker indicò Ellen con la pistola.
— Lei era qui, quando sei tornato?
Ellen aveva fissato Parker con occhi spalancati fino a quel momento,
stringendosi la coperta addosso con le mani convulse. Stava tutta raggomi-
tolata contro la testiera del letto, la bocca contorta dalla paura e non c'era
modo di capire se avesse udito e compreso sia pure una sola parola di
quanto era stato detto. Soltanto quando Parker mosse la pistola verso di lei,
come per indicarla, sussultò.
Devers si volse a guardare Parker con stupore, poi si volse a guardare
Ellen e di nuovo Parker.
— Certo che era qui. Non penserete mica che Ellen...
— E' stata lei — affermò Parker.
— Ma se era qui! E poi avrebbe mai fatto una cosa simile, Parker, per
amor del cielo! Uccidere Marty? E perché?
Ellen bisbigliò qualcosa, confusamente. Tutti e tre la fissarono e lei ri-
peté:
— Marty non è morto.
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— E' stata lei a combinare ogni cosa — disse Parker rivolto a Devers. —
Non so perché, forse non per denaro, forse perché tu non tornassi poi a
cacciarti in cose del genere, forse non ne ricava neppure niente. Ma è lei
che ci ha scagliato qualcuno contro, lei, che ha spifferato tutto quanto. Me
l'ha quasi detto, oggi: era nervosa, si comportava in modo strano, aveva paura di affrontare ciò che stava per accadere.
Parker parlava e Devers scoteva il capo. Poi quest'ultimo disse:
— Parker, Ellen non farebbe mai una cosa simile. Non è la donna che
credi, lei non farebbe mai la spia a nessuno.
Webb interloquì. — Ed è per questo che io non ti credo al cento per cen-
to, amico. Proprio perché anche io non credo che lei sarebbe il tipo da fare
la spia.
Parker si rivolse alla ragazza.
— Dove sono? Diteci dove sono e non vi torcerò un capello. Lascerò che
sia Devers a decidere cosa fare di voi. E non dovete aver paura, lui vi ama.
Dove sono?
— Marty non è morto — ripeté lei.
Parker disse. — Devers, tirale un ceffone. Voglio che si svegli.
— Perché dovrebbe farmi una cosa simile "lui"? — strillò Ellen, a que-
sto punto. Col viso sconvolto dall'ira saltò giù dal letto e cercò di fuggire
dalla stanza.
Parker l'afferrò e lei si contorse, si divincolò, cercando di sfuggirgli,
gridando:
— Devo andare a parlargli, devo sapere! Devo sapere perché l'ha fatto,
perché ha "fatto" una cosa così!
Con la mano libera, Parker la schiaffeggiò in pieno viso e lei si abbatté
su di lui, afflosciandosi improvvisamente.
Sostenendola in piedi, Parker le domandò: — Chi? Chi è stato?
— Credevo di potermi fidare di lui — disse lei, il corpo molle, disfatto.
Parker la scosse. — Chi?
Devers esclamò: — Accidenti, Parker! Non capite? Sta parlando del suo
psicanalista.
Al suono di quella parola, Ellen s'irrigidì, ma seguitò a tenere gli occhi
chiusi e ad appoggiarsi al petto di Parker.
Al di sopra della spalla di lei, Parker domandò:
— Perché?
— Gli ha raccontato tutto — disse Devers. — Non capite? Non per farci
del male, ma perché la cosa la tormentava. Lei credeva di poter fare affida-
107
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mento su di lui, la considerava una specie di confessione... ha raccontato
ogni cosa a quel figlio di cane.
— Sai dove abita?
— So dove ha lo studio.
— Dov'è l'elenco del telefono? — Non c'è, sull'elenco — disse Ellen. Parlò quasi sussurrando, quasi so-
spirando.
Parker l'allontanò da sé per poterle guardare meglio il viso e gli occhi
chiusi.
— Qual è l'indirizzo di casa? — domandò.
— Non lo so, non lo dice, non vuole che i pazienti lo disturbino, la notte.
Parker passò Ellen a Webb dicendo: — Legala. — Poi si volse a Devers.
— Vestiti.
— Cosa volete fare?
— Abbiamo ancora qualche ora, prima dell'alba. E se ci va bene, potre-
mo riprenderci il malloppo e sparire.
Devers cominciò a vestirsi.
2
Su una targa accanto alla porta stava scritto: "Edificio Studi professionali
di Monequois".
Dall'altro lato, c'era un'altra targa dipinta di bianco sulla quale, a caratteri
neri, si potevano leggere i nomi dei locatari fra cui medici, avvocati e una
ditta di contabilità.
Il nome di Fred Godden era il quarto cominciando dall'alto. Il palazzo
era di costruzione abbastanza recente, mattoni rossi e decorazioni bianche,
situato in un rione che andava facendosi sempre più di lusso.
I condizionatori d'aria sporgevano fuori dalla maggior parte delle fine-
stre; folti cespugli di piante e di fiori adornavano il davanti della casa e un
piccolo prato si estendeva fino alla strada. L'illuminazione era quasi esa-
gerata: oltre ai lampioni stradali che erano proprio di fronte, due grosse
lanterne - accese giorno e notte - pendevano ai lati dell'ingresso principale.
Un vialetto asfaltato girava tutto intorno.
Tre isolati prima, Webb aveva spento i fari dell'auto e quando arrivarono,
s'inoltrò, sempre a fari spenti, nel vialetto di fianco all'edificio. Si trovaro-
no un muro di mattoni a sinistra e un'altra siepe a destra che, nel buio, qua-
si non si vedevano.
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Quando le gomme della macchina, lasciando l'asfalto, scricchiolarono
sulla ghiaia, Webb frenò e spense il motore. Si erano messi tutti e tre sul
sedile anteriore, con Devers in mezzo. Parker aprì lo sportello e uscì dall'-
auto. Devers sgusciò fuori dietro di lui. Webb scese dall'altra parte. Fecero
in modo che, nell'aprire gli sportelli, non si accendesse alcuna luce: li la-sciarono aperti. Poi si avviarono, nella più completa oscurità, fino alla
parte posteriore dell'edificio e, a tentoni, cercarono la porta.
Se avessero dovuto preoccuparsi di non lasciar tracce, avrebbero perso
mezz'ora o anche di più, ma, date le circostanze, se ne fregavano delle trac-
ce: per loro contava solo il fattore tempo. In meno di tre minuti varcarono
la porta e corsero in fretta su per le scale, verso il secondo piano.
La parte superiore delle porte degli uffici era a vetri ghiacciati e, sopra di
essi, stava scritto il nome dell'inquilino. Dalla porta che portava la scritta
"Dr. Fred Godden", filtrava una debole luce giallognola. Appiattito contro
il muro, fuori del raggio di quella porta, Parker tentò la maniglia: cedette.
Non era chiusa a chiave.
Tutti e tre avevano la pistola in pugno. Devers aveva lasciato la sua nella
casa di caccia, perché venisse fatta sparire, ma Parker gliel'aveva riportata.
Parker spinse lievemente. Nessuna pressione dall'altra parte, però la porta
non si spalancò, forse i cardini erano arrugginiti. Si aprì, ma appena di uno
spiraglio. Spingendo ancora, Parker allungò il collo, finché riuscì a vedere
attraverso l'apertura. Vide una fetta del primo ufficio: un angolo del diva-
no, un pezzo di scrivania, un uscio socchiuso nella parete di fronte. La luce
proveniva di là.
Nessun rumore. Parker spalancò finalmente la porta, esitò, entrò. Nessu-
no. Nessuno in quella prima stanza. Devers e Webb lo seguirono. Con
estrema cautela, si avvicinarono all'altro uscio e di nuovo Parker si sporse,
restando dietro lo stipite, la pistola in pugno, l'altra mano appoggiata al
muro per bilanciarsi nell'eventualità di dover fuggire all'improvviso.
Un'altra fetta di stanza. Un'altra scrivania, questa più grande. Un tappeto
a disegni. Librerie a vetri. La luce proveniva da una lampada da tavolo
situata su un angolo della scrivania, con un paralume color arancione.
Silenzio, anche lì. Non si sentiva volare una mosca.
Parker entrò, cauto come prima. Non successe niente.
Ora vedeva tutta la stanza. Un divano e una poltrona lungo la parete
sinistra, altri due lumi, un tavolo grande, uno schedario.
E ora, un rumore. Da dietro la scrivania.
Parker si buttò a terra di scatto. Si sdraiò sul tappeto, gli orecchi tesi, e
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quando girò il capo per guardare, nel buio, sotto la scrivania, oltre quella
vide, vicino alle rotelle della sedia girevole, un paio d'occhi che si mo-
vevano mostrando il bianco.
Obliquamente. Qualcuno giaceva sulla schiena, col capo rivolto verso
quella parte e apriva e chiudeva lentamente gli occhi.Parker si alzò. A sinistra, dietro di lui, c'era un interruttore. Lo girò, e
una luce indiretta, proveniente da un solco che correva lungo la parte alta
delle pareti, inondò la stanza.
Mentre Webb e Devers entravano lui girò intorno alla scrivania.
L'uomo per terra era lungo, muscoloso, un po' troppo grasso. Portava
delle scarpe sportive marrone, grinzosi pantaloni pure marrone e pesante
maglione verde scuro, logoro in più punti. Quel maglione era macchiato,
incrostato da qualcosa di color marrone scuro in due posti: sul petto e sul
ventre. Un sottile rivolo scuro gli usciva dalla bocca, giù, lungo la gota,
per sparire tra i capelli dietro l'orecchio. Era evidente che, per un poco,
l'uomo aveva tenuto la testa voltata dall'altra parte. Forse, udendo entrare
Parker e gli altri, era riuscito a girare il capo. Ma ora non si moveva più.
Anche Devers era arrivato là, dietro la scrivania, e le sue scarpe stavano
vicine alla testa dell'uomo per terra.
— Morto? — domandò.
— Non ancora. Lo conosci?
— Mi pare di no. Non gli vedo bene il viso.
Parker s'inginocchiò accanto al ferito e, mettendogli la mano sotto il
mento, gli girò il capo affinché Devers potesse vederlo. Il sangue comin-
ciò a sgorgare dall'altra parte. Il ferito riaprì gli occhi. Le sue palpebre ri-
presero a tremolare, poi si richiusero e si riaprirono di nuovo. E lui conti-
nuò a sbatterle, leggermente, lentamente. Le apriva e le chiudeva. Quando
erano aperti, quegli occhi non si posavano su niente, fissavano lo sguardo
vuoto verso il soffitto. E continuarono a sbattere con lo stesso movimento
lento.
Devers aveva l'aspetto di chi si sente male. — No — disse, scotendo il
capo. — Non so chi sia.
— Non l'hai mai visto? Sicuro?
— Mai. Me ne ricorderei.
La testa del ferito non si mosse, quando Parker gli lasciò andare il men-
to. Parker si era macchiato di sangue il dito indice il ella mano sinistra:
strusciandolo contro il maglione dell'uomo, si pulì, poi spinse quel corpo
immobile da una parte per cercare il portafoglio nella tasca posteriore dei
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pantaloni. C'era. Lo aprì. Trovò una patente di guida e ne lesse il nome ad
alta voce.
— Ralph Hochberg. Ti dice niente?
— Niente — rispose Devers.
La testa di Hochberg si era spostata e ora stava dritta; gli occhi, che te-neva fissi sul soffitto, seguitavano a sbattere lievemente, ma senza inter-
ruzione. L'uomo cominciò a rantolare, con un suono gorgogliante, sordo.
— Sta soffocando nel suo sangue — osservò Devers.
Parker spinse il viso di Hochberg da una parte, affinché il sangue sgor-
gasse fuori, poi si alzò.
— Sono stati qui — disse, quasi parlando a se stesso. — Godden e que-
sto qua. Saranno stati solo in due? Devono aver cercato di fregarsi a vicen-
da.
— Godden non ci avrebbe mai provato, con un uomo solo — esclamò
Devers. — Non avrebbe mai rischiato di mettersi contro tre professionisti,
per quanto giocasse di sorpresa. Dovevano essere almeno in tre. E forse
anche di più, se era riuscito a trovarli. Credete che quello lì fosse un suo
paziente?
A questo punto arrivò Webb con una busta in mano. Mentre Parker e De-
vers osservavano il ferito, lui aveva frugato nella stanza e nello schedario.
Disse:
— Nessun altro. E gli schedari sono là, oltre il divano. Vuoti.
— Il malloppo se lo sono diviso qui — fece Parker.
— Ho trovato questa — aggiunse Webb, porgendogli la busta.
Parker la prese. Era indirizzata al Dr. Fred Godden, 16 Rosemont Road,
West Monequois, New York. E quello non era l'indirizzo dello studio.
Parker dette la busta a Devers, chiedendogli:
— Tu che conosci bene questa città: potrebbe essere una località residen-
ziale?
— Sì — rispose Devers. — West Monequois. Un rione di lusso.
— Andiamoci — suggerì Webb.
3
Rosemont Road si snodava in curve sinuose tra edifici dei più moderni
ed eleganti villini, ognuno col suo pezzo di prato intorno, un largo viale,
un garage, e un tetto inclinato con l'antenna della televisione.
Erano già quasi le tre e mezzo del mattino, tutte le finestre erano buie,
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tranne qualcuna, dalla quale filtrava la debole luce d'un lumino da notte.
Il numero sedici si trovava sulla destra di una casa modernissima a due
piani, con garage annesso. Come tutte le altre dei paraggi, era immersa
nell'oscurità. Era una casa bianca, costruita su una piccola altura, con un
giardinetto ben tenuto e un bel prato davanti, un largo viale d'accesso ches'inerpicava intorno e un aspetto innocente e addormentato.
Dopo aver oltrepassato la casa di Godden, Webb raggiunse la curva se-
guente, che li avrebbe nascosti alla vista, e si fermò. Scesero, tornarono in-
dietro lungo il marciapiede, e attraversarono il prato della casa accanto per
arrivare a quella di Godden dal di dietro, dalla parte del garage.
C'era una porta, sul retro, che conduceva dentro al garage. Senza fare il
minimo rumore, vi si avvicinarono, circondati da un buio nero e ovattato
come il velluto, mentre la casa incombeva davanti a loro come un'ombra
un poco più chiara. Avanzarono sull'erba, in silenzio, e, quatti, sgusciarono
verso quella porta.
Parker provò a girare la maniglia. Si udì un debole che, ma la porta non
si aprì: era chiusa a chiave.
Una voce chiamò:
— Roger?
Parker si appiattì contro il muro. La voce veniva dall'alto, sopra di loro.
Qualcuno chiamava dal primo piano.
— Non voglio farti del male, Roger. — Era una voce quasi femminea e
tremante di paura.
Parker aspettò.
La voce riprese: — Ho la pistola. Va' via, sarà meglio.
Movendosi lentamente, Parker girò il capo e si accorse che Webb non
era più dietro di lui. Buon segno. Devers, a pochi passi di distanza, si
teneva contro il muro come Parker.
La voce continuò: — Ti sei preso tutto il denaro. Che cosa vuoi ancora?
E' difficile individuare un bisbiglio. Cercando di rendere la voce un po'
stridula, Parker bisbigliò:
— Ralph è sempre vivo!
— Cosa posso farci, io? — Anche l'altra voce era diventata stridula: la
tensione la faceva vibrare come una corda di violino.
— Dovete aiutarlo — bisbigliò ancora Parker.
— Aiutarlo! Perché gli hai sparato? Che ti piglia?
— Ho bisogno del vostro aiuto — seguitò Parker. — Fatemi entrare.
— Perché tu uccida anche me?
112
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— E perché mai dovrei uccidervi?
— Perché hai sparato a Ralph? Mi dispiace, Roger, non posso fidarmi di
te. Forse domani. Cosa pensi di farne di Ralph? Credevo che fosse morto,
pensavo anzi di dover andare là, più tardi, a prenderlo per portarlo da qual-
che parte... Ma se è vivo... — con improvviso tono sospettoso, la vocegridò: — E' vivo? Come lo sai?
— Sono tornato là.
— Come facevi a sapere dove abito? Roger? C'è davvero Roger là sotto?
— Sì. — Se Devers aveva visto giusto, e i complici di Godden erano
davvero suoi pazienti, un pizzico d'isterismo non ci sarebbe stato male.
Tutt'a un tratto, Parker cominciò a scuotere la maniglia nervosamente, far-
fugliando: — Fatemi entrare! Ho gettato via la pistola, non voglio più uc-
cidere nessuno! Fatemi entrare! Ho bisogno del vostro aiuto!
— Tu non sei Roger!
Dove diavolo si era cacciato Webb?
— Aiutatemi! — continuò Parker, sempre bisbigliando, picchiando con-
tro la porta, scalpicciando come chi non riesce più a star fermo. O come
uno che cercasse deliberatamente di rendersi facile bersaglio.
Un'improvvisa luce piombò dall'alto. Parker vi si trovò proprio nel mez-
zo. La luce d'una torcia. Con un balzo, Parker schizzò di nuovo nel buio e
sopra di lui echeggiò uno sparo, forte, secco.
Parker si buttò a terra di spalla, rotolò su se stesso e si rialzò, e sempre
nel buio, mentre il raggio della torcia lo cercava più oltre, corse ad appiat-
tirsi di nuovo contro il muro. Tutt'a un tratto, la torcia cadde dalla finestra e
finì sul prato. Restò lì, accesa, illuminando ogni filo d'erba nel suo raggio.
Parker vide la sagoma di Devers, dall'altra parte della luce, muoversi
verso la torcia. A bassa voce gli intimò: — Levati di lì!
E Devers svanì di nuovo nell'ombra.
Poi, per un minuto circa, non accadde niente, finché la voce di Webb
giunse ai loro orecchi da lassù, dicendo in un bisbiglio: — Via libera.
Ci dev'essere qualcun altro nella casa — rispose Parker allo stesso mo-
do. — Tienli a bada.
— Bene. Son passato dalla finestra del garage, di fianco. Nessuno le
chiude mai, quelle.
Parker e Devers si portarono sul fianco della casa e trovarono una fine-
strina, ora spalancata. Si arrampicarono e atterrarono dall'altra parte, in
mezzo a un ammasso di attrezzi da giardino, girarono intorno a un'automo-
bile larga e lunga e, varcando una porta, arrivarono, dopo aver salito una
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breve rampa di scale, a una cucina.
Si vedeva una luce, ora, filtrare da un'altra parte della casa. Dirigendosi
verso quella luce, uscirono dalla cucina passando sotto una porta ad arco,
girarono a destra, e dopo aver percorso un piccolo corridoio, salirono un'-
altra breve rampa di scale. Si trovarono in un corridoio: la luce provenivada una porta sulla destra.
Era una camera in stile coloniale, con un letto a baldacchino. Webb stava
ai piedi di quel letto, la pistola in pugno. Seduto per terra c'era un uomo
quasi calvo, sui quarantacinque anni, in pigiama. Aveva uno squarcio su un
lato del capo che grondava leggermente e doveva esserselo toccato, poiché
aveva le mani macchiate di sangue. Sembrava spaventato e, allo stesso
tempo, dava l'impressione che il suo cervello lavorasse febbrilmente.
Quando Parker e Devers entrarono, Webb disse:
— Nessun altro in casa. C'è una stanza per bambini, di là, ma è vuota.
Parker si rivolse all'uomo per terra.
— Dov'è la vostra famiglia?
— Vivo con la seconda moglie. I bambini stanno con la prima.
— E la vostra moglie attuale? Dov'è?
— In visita da suo fratello. Non la volevo tra i piedi durante... — fece un
gesto vago.
Webb annuì, dicendo: — Già. Non volevi esser costretto a dirle dov'eri
alle due di stamani.
Parker chiese: — Siete Godden?
L'uomo assentì stancamente. — Certo.
— Ellen Fusco vi aveva parlato del colpo.
— Sì. E io ho tentato di fregarvi il malloppo — alzò il viso, sbirciando-
lo. — Ce l'avevo quasi fatta — aggiunse. — Ma Roger è impazzito.
— Roger chi?
— Roger St. Cloud. Un ragazzo di qui.
— Come Ralph?
— E' vero che è sempre vivo?
— Lo era, quando siamo andati là. Forse ora non lo è più. Erano vostri
pazienti?
— Sì. Io non ho niente a che fare con l'assassinio dei vostri amici.
— Ha fatto tutto Roger — disse Parker.
— Lui giura e spergiura che uno di loro stava per sparargli. Quello alto e
magro. Li stava tenendo a bada, mentre Ralph e io caricavamo le casse
sull'automobile. — Godden scosse il capo, corrugando la fronte. — Non so
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come avrebbe potuto tirar fuori una pistola... li avevamo perquisiti e le loro
pistole le avevamo noi.
— Cos'è accaduto allo studio? — domandò Parker.
— Avevamo cominciato a discutere lungo la strada. Io dicevo a Roger
che non avrebbe dovuto ucciderli tutti e tre, anche se uno di loro aveva ti-rato fuori la rivoltella. Siamo arrivati allo studio e ci siamo divisi il denaro.
Avevamo preparato delle valigie, ognuno di noi si era portato la sua per
quello scopo, e l'aveva lasciata allo studio. Tutto era andato a meraviglia
fino a quel momento, ma, a un certo punto, Roger ha riattaccato a discu-
tere, dicendo che lui aveva sostenuto la parte più dura, che io sapevo come
quegli uomini fossero pericolosi, che sapevo, inoltre, che avrebbero tentato
qualcosa, sì da essere costretto a ucciderli. Rimproverandomi, capite. Fino
a che è arrivato alla conclusione che io avevo premeditato tutto quanto per
denunciarlo alla polizia come omicida e poi dividermi con Ralph anche la
parte che spettava a lui. Tutto molto ovvio: con quelle lamentele e quei
rimproveri, stava cercando di giustificarsi per quanto stava per fare.
Devers disse: — Piantatela con le vostre chiacchiere da psicanalista, dot-
tore. Cos'è successo, poi?
— Già — rispose Godden annuendo di nuovo stancamente. — A quel
punto, Ralph ha detto qualcosa. Non so, qualcosa di innocuo. Ralph era
sempre innocuo. Qualcosa che voleva significare come Roger, certamente,
non poteva avere intenzione di dire tutte quelle cose. E Roger non ha ri-
sposto. Neanche una parola. Si è avvicinato al divano, cosi, senza tante
storie, ha imbracciato il fucile e ha sparato a Ralph. Ralph ha barcollato
fino alla scrivania, ancora in piedi, e Roger gli ha sparato una seconda vol-
ta. Ecco perché sono scappalo. Senza i quattrini.
Godden aveva l'aria disfatta. Parker lo spronò. — E poi?
— Ho preso la macchina e sono venuto a casa. Non credevo che Roger
sarebbe stato capace di scoprire dove abitavo, non subito, non stanotte.
Non sapevo se gli spari fossero stati uditi, così sono venuto a casa, ho mes-
so via l'auto e mi sono preparato per andare a letto. Nell'eventualità che mi
piombasse qui la polizia, capite, per avvertirmi che nel mio studio c'era un
morto. Avrei finto di non saperne niente. Ma non riuscivo a dormire e
continuavo a girare qua dentro, al buio, finché ho udito uno di voi sulla
porta del dietro. Ho creduto che fosse Roger.
— Ci avete proprio fregato in pieno, dottore, stanotte — disse Parker.
Godden lo sbirciò di nuovo. — Voi siete Parker, vero? Ellen vi aveva de-
scritto molto bene.
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— E' ora, invece, che ci descriviate voi questo Roger, adesso — lo inter-
ruppe Parker. — Voglio sapere qual è il suo aspetto, dove abita e che cosa
farà dopo.
— Come posso sapere cosa farà?
— Siete il suo psicanalista. Psicanalizzatelo.Godden sorrise, di un sorrisetto nervoso. — Non è così semplice.
Parker si rivolse a Webb. — Voi due andate a perlustrare di nuovo tutta
la casa. Non si sa mai, questo bel tipo potrebbe aver nascosto il malloppo.
— Vi assicuro di no.
Mentre Webb e Devers uscivano, Parker si sedette sul bordo del letto.
— Roger St. Cloud — disse. — Parlatemi di lui.
Godden si umettò le labbra, si toccò di nuovo la ferita sanguinante sulla
fronte, sospirò.
— Ventidue anni, alto circa un metro e ottantacinque, molto magro.
Acne sul viso, piuttosto grave. Il padre è un grosso banchiere della città.
— Indirizzo?
— Uhm. Centoventitré, Haines Avenue.
— Credete che sia andato a casa?
— Non lo so. E' molto strano, molto incontrollato. Avete potuto vedere,
stanotte, come io l'avessi giudicato male. Credevo di poterlo dominare, ma
non ci sono riuscito. Non aveva mai provato il "potere", prima d'ora. E in-
vece te lo vedo lì, col fucile spianato, e tre uomini davanti a lui, in sua
balia. Si è sentito come spinto a usare il fucile, doveva provarci.
— Voglio sapere se tornerà a casa — lo spronò Parker. — Cosa pensava
di farne della sua parte? Non avete parlato con lui?
— Ogni volta faceva dei progetti diversi. Pensava di andare a New York,
a Hollywood, o magari in Europa. Non lo sapeva neanche lui.
— Comunque, aveva deciso di lasciare la città.
— Non aveva le idee ben chiare. Per lui non era un fatto concreto — ri-
spose Godden. — Non sapeva che cosa avrebbe fatto.
— Ha una macchina?
— Una motocicletta.
— Ed era venuto in motocicletta, stanotte, allo studio?
— No, sono andato a prenderlo io, vicino a casa sua.
Parker restò in silenzio, cercando d'immaginarsi il quadro. C'erano tre
valigie piene di banconote. Quel Roger non avrebbe certo potuto caricarle
tutte su una motocicletta. Calcolando i tempi, non poteva essere uscito dal-
lo studio se non appena un quarto d'ora prima dell'arrivo di Parker e com-
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pagni. Ed era anche a piedi.
Con tre valigie? Non avrebbe certo potuto andar lontano...
— Il padre ha l'automobile? — domandò.
Quando si rese conto che Godden non rispondeva, si voltò a guardarlo e
gli vide una strana espressione in viso, un'espressione allarmata, assorta,come se stesse vedendo qualcosa a una certa distanza: qualcosa che non gli
piaceva affatto.
Parker disse: — Che c'è? Parlate, presto!
— Credo di sapere che cosa farà Roger.
4
— Il medico ci ha azzeccato — disse Devers.
Si trovavano in Haines Avenue; si erano fermati accanto al marciapiede,
un isolato prima della casa dove, secondo il dottor Godden, abitava Roger
St. Cloud.
Più in giù, all'altro isolato, proprio nel punto preciso in cui doveva essere
la casa numero centoventitré, c'era una luce fortissima, che contrastava con
l'oscurità in cui si trovavano Parker, Devers e Webb dentro alla loro
giardinetta, intenti a guardare, attraverso il parabrezza, verso tutto quel
trambusto.
C'era un gran movimento. All'incrocio fra il punto in cui stavano loro e
la casa dei St. Cloud, un agente in divisa, in mezzo alla strada, smistava e
bloccava il traffico. Oltre l'agente, tre camionette, di cui una nera della po-
lizia comunale e altre due bianche e nere della statale, si erano piazzate, a
lisca di pesce, al centro della strada, con gli sportelli aperti.
Inoltre, c'era un enorme riflettore, montato su un camion e puntato con-
tro la casa che doveva essere il numero centoventitré.
Dall'altra parte della strada, alcuni poliziotti in uniforme si davano un
gran daffare; di tanto in tanto si udiva l'isolato rumore d'uno sparo.
Nonostante che fossero le quattro del mattino, si era già formata sul mar-
ciapiede, prima dell'incrocio, una discreta folla che si accalcava e si spin-
geva per vedere meglio.
Dalle poche automobili parcheggiate lungo quel marciapiede e dal nu-
mero di persone in veste da camera, si poteva intuire che, per il momento,
doveva trattarsi soltanto di abitanti del vicinato, probabilmente di coloro
che erano stati fatti evacuare dalle case adiacenti a quella dei St. Cloud.
Qualche ora prima, ben altra moltitudine si sarebbe radunata intorno a
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quell'area dove si stava svolgendo il fattaccio, trasformando l'agonia mor-
tale di Roger St. Cloud in un vivo spettacolo televisivo.
Il dottor Godden aveva detto: — Ucciderà suo padre. — E al "perché? "
di Parker, aveva risposto: — L'unico motivo per cui Roger vuole il potere,
è per liberarsi di suo padre. Ci si è provato col vestiario, con la motoci-cletta, col sarcasmo: tutte forme limitate di potere e tutte puntate contro il
padre. Ora ha raggiunto il vero potere. L'ha provato e ha visto che funzio-
na. E' in possesso di trecentomila dollari, che è un'altra forma di potere,
quella del padre, e probabilmente vorrà staccarsi, prendere il volo, vorrà
tentare di usare anche lui quel potere, ma prima di tutto vorrà usarlo contro
il padre.
Parker aveva detto: — Il fucile.
— Sì. Prima di ogni altra cosa, andrà a casa e sparerà al padre. Posso
usare il telefono?
— No.
— Ma potrebbe esserci una possibilità di avvertirlo!
— Volete dire, metterlo in guardia.
— Ma io sto parlando del padre.
— E io del figlio — gli aveva risposto Parker, poi avevano legato il dot-
tor Godden ed erano usciti dalla sua casa. Erano arrivati li, e, un isolato più
in là, c'era un riflettore preso in prestito dalla base militare di aviazione che
inondava di luce la facciata della casa dei St. Cloud, mentre i poliziotti, ac-
covacciati dietro ai paraurti, sparavano contro una finestra in alto, circon-
dati da un centinaio di curiosi.
Webb disse: — E' qui.
— Stiamo a vedere — rispose Parker.
— Scendiamo, avviciniamoci — propose Devers.
— Vediamo benissimo anche da qui — replicò Parker.
— E nessuno vede noi — aggiunse Webb.
Qualcuno stava gridando con un altoparlante. Lo udivano bene, ma come
se fosse soltanto un rumore, non interrotto da parole. Comunque, non ave-
vano bisogno di sentire le parole per sapere cosa stavano dicendo a Roger
St. Cloud.
Quando erano arrivati, diverse finestre di quell'isolato erano illuminate,
ma ora che avevano messo in funzione l'altoparlante, se ne accendevano
via via tante altre. La polizia non poteva essere giunta lì che cinque minuti
prima di Parker e dei suoi due compagni.
Meglio così che al contrario.
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Rimasero a osservare per tre o quattro minuti ancora. L'altoparlante gri-
dava, poi taceva, poi gridava di nuovo. E così di seguito.
I poliziotti sgattaiolavano dietro ai paraurti, balzando di macchina in
macchina, senza alcuna apparente destinazione. Pareva che tutti quanti gi-
rassero a vuoto. — Vedrai che fra poco useranno il gas lacrimogeno — disse Webb.
Parker annuì. — Sarà già per strada.
Nel frattempo, si udivano spari sporadici seguiti da lunghe pause di si-
lenzio.
La legge usava diverse specie di armi, rivoltelle e fucili, fra cui un mitra,
che, per due volte, crepitò, sventagliando, con un fracasso infernale, le sue
cartucce attraverso la facciata della casa quasi disegnassero un ricamo.
Anche St. Cloud rispondeva agli spari. A un certo momento, si vide un
agente attraversare correndo a zig-zag uno spazio scoperto, e poi, dopo
aver fatto una specie di capriola, accasciarsi al suolo, gambe e braccia
spalancate. Sotto la protezione di una raffica di spari, due poliziotti si pre-
cipitarono ad agguantare il caduto per trascinarlo fuori della linea del fuo-
co.
A questo punto, seguì un'altra pausa di silenzio: ogni tanto si udiva uno
sparo, quasi come se sparassero tanto per mantenere le apparenze.
Webb disse: — Perché non spegne la luce?
— Lui non vuole scappare — ribatté Devers. — Lui vuole ammazzare
gente.
— Perché? — si accigliò Webb. Si udì ancora l'altoparlante.
Quando quello tacque, udirono un altro suono, acuto, teso, stridulo.
Devers mormorò: — E' lui.
— Non sembra una voce umana — disse Webb. Guardò Parker.
— Andiamo via di qui. Ci ha preso il nostro malloppo, è circondato dalla
polizia, non c'è più speranza.
— Guardate — disse Parker. Guardarono. Da una finestra di un piano al-
to della casa stava nevicando: neve di carta, che ciondolava e ondeggiava
come foglie, verdi foglie gonfie e tremule.
— I nostri quattrini! — esclamò Webb.
— Esattamente come ha detto Godden — fece Devers, quasi parlando a
se stesso. — Sta usando il potere.
— Ma cosa diavolo vuol fare? — scattò Webb. Ci si arrabbiava.
— Li sta comprando — rispose Devers. — E' matto da legare, sta usan-
do il suo potere tutto in una volta, ammazzando la gente, comprandola.
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Una valigia era volata fuori da quella finestra, versando quanto era rima-
sto delle banconote, e i biglietti svolazzavano, agitati dalla brezza.
La gente, trattenuta dalle forze di polizia, ancora non aveva capito di co-
sa si trattava, ma seguitava ugualmente a guardare.
Dalla finestra volò ancora denaro, seguito da una seconda valigia, apertacome la prima e scaraventata fuori come da una catapulta, rigirandosi su se
stessa nell'aria, sputando banconote a pacchi e sciolte.
Finché non accadde più nulla. Assolutamente nulla. La seconda valigia
cadde sulla strada, non lontano dalla prima, mentre alcuni biglietti fluttua-
vano ancora nell'aria. Poi tutto finì.
La voce stridula ricominciò a gridare parole incomprensibili come quelle
dell'altoparlante, ma una, che ora la superò, era chiara come il cristallo.
Era la voce di uno degli astanti che aveva gridato.
— Ma sono quattrini!
Allora ogni cosa parve perdere d'interesse. La voce stridula di lassù con-
tinuava a gridare, dicendo quel che aveva da dire, ma nessuno l'ascoltava
più.
Gli agenti, sparpagliati davanti alla casa, guardavano ormai in giù e da
una sola parte, verso la folla, e in quella luce cruda, i loro visi apparivano
pallidi, tesi, preoccupati.
— Ora vedrai che... — disse Webb.
La folla ruppe i cordoni.
Un istante prima, se ne stavano indietro, tranquilli, cercando magari di
avanzare, ma, comunque, restando sempre nello spazio permesso dalla po-
lizia; un attimo dopo, erano tutti in movimento, precipitandosi in avanti,
attraversando l'incrocio ed entrando nel bagno di luce. Camminavano car-
poni, afferrando manciate di banconote, invadendo il prato, il marciapiede,
il viale.
— Il nostro denaro — sospirò Webb, guardando con astio tutta quella
gente attraverso il parabrezza.
Devers indicò in alto. — Guardatelo!
Pareva una virgola nera, tutto sporto in fuori da una finestra del primo
piano, e quella linea verticale, accanto a lui, era il fucile. Stava sparando
sulla folla sotto di lui, a scatti, rapidamente ma metodicamente.
Si udirono delle grida, là sotto, e molti corsero a ripararsi fuori del fascio
di luce, ma la maggior parte restò a rincorrere le banconote, ignorando
ogni altra cosa.
Parker guardò dall'altra parte della strada e vide un agente in divisa col
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fucile spianato. Gli parve maledettamente pignolo, date le circostanze:
prendeva tempo per avere la certezza di mirare giusto.
In mezzo a tutta quella baraonda, Parker non poté udire lo sparo, ma vi-
de il fucile rinculare nelle mani del poliziotto. Tornò a guardare in su e
vide St. Cloud piombare giù, tra la folla. — Bene — disse. — Andiamo via di qui.
— D'accordo — rispose Webb, mettendo in moto la Buick, e dopo aver
fatto un giro a gomito, la diresse verso il punto di partenza.
Devers, la voce densa di delusione, disse: — E ora?
— Allo studio di Godden — rispose Parker.
Webb si sporse di lato per guardarlo, poi riportò l'attenzione alla guida,
chiedendo: — Perché?
— Perché dalla finestra sono volate soltanto due valigie — spiegò Par-
ker. — Ce n'erano tre. Lui era a piedi e più di due non poteva portarne. La
terza è certamente là nascosta da qualche parte, a portata di mano.
— Figlio d'una puttana! — esclamò Webb e premette sull'acceleratore.
5
— E' qui! — gridò Devers, e gli altri due arrivarono correndo.
Durante quel tragitto, non si erano preoccupati né del rumore, né della
luce dei fari. Il fattore tempo, a questo punto, era l'elemento più importante
di tutti.
Lasciando la Buick con i fari abbaglianti accesi, in mezzo al piazzale del
parcheggio dietro all'edificio degli Studi Professionali di Monequois, i tre
si erano scaraventati giù dalla macchina come dei partecipanti a una caccia
al tesoro, e avevano frugato prima dentro l'edificio stesso, poi tutto intorno,
e infine sul retro.
E fu Devers a trovarla, dopo quindici minuti di ricerca, cacciata dentro a
un grosso bidone di metallo per l'immondizia, piazzato contro il muro po-
steriore della casa, ricoperta di cartacce per nasconderla alla vista dei pas-
santi. Webb aveva cercato tra i mucchi di foglie fino al punto più lontano
di quel piazzale, Parker, nella siepe lungo il confine della proprietà. Am-
bedue corsero e trovarono Devers che, alla luce dei fari della Buick, sor-
rideva a una vecchia valigia di tela appoggiata sul coperchio di un bidone,
ora richiuso.
— E' quella? — domandò Devers.
— Vedremo — fece Parker. — Aprila.
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— Bene. — Non era chiusa a chiave. Devers fece scattare le serrature,
alzò il coperchio e si trovò davanti a un ammasso confuso di banconote.
— Bene. Mettila in macchina — disse Parker. — Spengi i fari e sali su,
allo studio. — Poi si volse a Webb. — Tu, vieni con me.
— D'accordo.La porta posteriore era sempre aperta dall'ultima volta che ci erano pas-
sati. Parker fece strada su per le scale, con Webb alle calcagna che, mentre
percorrevano il corridoio diretti allo studio di Godden, domandò:
— Cosa siamo venuti a fare qui?
— Il cadavere.
— Se è morto.
— Lo sarà — rispose Parker.
Avevano lasciato io studio come l'avevano trovato, luce accesa e porta
socchiusa, e quando vi tornarono, niente era cambiato. Ralph giaceva col
volto girato in posizione tale che pareva fissare un punto sotto la scrivania.
Parker s'inginocchiò accanto a lui e gli mise una mano sulla gola.
Webb, appoggiandosi alla scrivania, domandò:
— Vivo o morto? Parker non rispose subito. Aveva il braccio in tensione
come se stesse compiendo uno sforzo. Poi ritrasse la mano. — Morto —
disse. — Dobbiamo trovare qualcosa in cui avvolgerlo, per non lasciare
tracce di sangue.
— C'è un tappeto di là.
— Bene. Dammi una mano. Portarono il cadavere nell'altra stanza e lo
adagiarono sul tappeto che stava davanti alla scrivania della segretaria.
Quando ve lo avvolsero, le gambe di Ralph sporgevano dal ginocchio in
giù. Parker disse:
— Dobbiamo toglier di mezzo anche le casse del denaro.
Ritornarono nello studio, presero le due casse e le portarono nell'ingres-
so. Poi Parker ritornò dentro per vedere se tutto era in ordine. C'erano delle
macchie di sangue sul tappeto, ma non c'era niente da fare. A parte quello,
tutto era normale. Comunque, le macchie potevano essere notate soltanto
girando dietro la scrivania. Parker spense la luce, passò nell'altro ufficio e,
con Webb, portò il cadavere nell'ingresso. Chiusero la porta dietro di loro e
Devers andò loro incontro.
— Che c'è?
Webb rispose: — Stiamo trasportando uno stecchito.
— Ce la fai a prendere quelle due casse? — disse Parker. — Bada di non
sbatterle contro il muro.
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— Farò del mio meglio.
Parker e Webb ripresero il cadavere e lo caricarono sulla macchina. De-
vers li seguì portando una cassa per volta: ne portava avanti una per un
tratto, tornava indietro a prendere l'altra e così via, fino a destinazione. Da-
to che Parker e Webb andavano più lentamente di lui, Devers poté mante-nersi al passo con loro e perfino correre avanti per aprire il baule della
Buick. Il baule era stipato: c'erano la valigia, le casse metalliche e il cada-
vere.
Parker e i due compari salirono sul sedile anteriore.
— Dove si va, ora? — domandò Webb.
— Casa Godden.
6
Il medico era seduto sul pavimento dove l'avevano lasciato, sempre le-
gato e imbavagliato. Webb andò direttamente verso il cassettone e, mentre
Parker accendeva la luce, prese le chiavi di Godden, e uscì a scambiare le
auto di posto, mettendo la Buick nel garage e quella di Godden fuori, sul
viale.
Parker sedette sul letto.
— Ascoltatemi bene — disse. — Per causa vostra, tutto è andato in ma-
lora. Noi non possiamo più nasconderci nel posto che avevamo trovato,
non ce la facciamo più a tagliare la corda, perché ormai è quasi giorno. Tre
dei miei amici sono morti e due terzi del denaro, svaniti. Se non mi ser-
viste, vi farei fuori seduta stante col primo arnese che mi capitasse per le
mani. Ma mi potete servire, perciò avete una speranza di campare. Colla-
borate e vi andrà tutto bene. Cercate di fare di nuovo il furbo e per voi è
finita.
Godden annuì, scotendo il capo con vigore.
— Benissimo. — Parker gli si avvicinò e gli tolse il bavaglio. — Non
perdete tempo in chiacchiere. Limitatevi a rispondere alle mie domande.
Godden annuì di nuovo.
— D'accordo. — Aveva la voce roca, come arrugginita e, sulle gote, i se-
gni rossi lasciati dai cerotti. Il sangue sulla fronte si era seccato: non goc-
ciolava più.
Parker tornò a sedersi sul letto.
— Per quanto tempo ancora vostra moglie starà fuori città?
— Cinque giorni. Tornerà lunedì pomeriggio. Cioè, dovevamo ritornare
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tutti e due lunedì pomeriggio.
— Dovevate partire?
— Venerdì. Venerdì pomeriggio.
— Oggi dovevate andare allo studio?
— Volete dire domani? Cioè il giorno che sta per cominciare? — Sono le quattro e venti del mattino. Voglio dire oggi.
— Sì, certo.
— Quanti pazienti, in giornata?
— Quattro. Be', tre, dato che non possiamo contare Ralph Hochberg.
— E Roger St. Cloud?
— Sì. E'...?
— Perciò ne restano due — disse Parker. — A che ora è la prima seduta?
— Alle dieci. Ma era l'ora di Ralph. La seguente sarebbe stata alle un-
dici.
— In mattinata — disse Parker — chiamerete quei due pazienti e direte
che oggi non andrete allo studio.
— Sta bene.
— Ma prima aspettate che siano venuti quelli della legge.
Godden lo guardò con espressione stupita.
— La legge? Volete dire la polizia?
— Il vostro Roger si è barricato in casa e ha fatto alle fucilate con i poli-
ziotti.
— Mio Dio!
— Vi chiameranno. Se avrete modo di saperlo prima, in qualche maniera
legittima, allora telefonerete voi offrendo la vostra piena collaborazione.
Offritevi di parlare, dite loro tutto ciò che vogliono sapere. Ma fate di tutto
per non andare là. Invitateli a venire da voi.
— E se insistono?
— Insistete anche voi.
— Ma non si insospettiranno?
— No. Quando verranno, raccontate tutto quel che sapete di Roger. E
badate bene di non accennare a noi.
— E voi sarete qui? E' questo il luogo dove pensate di nascondervi?
— Se ci fate la spia — disse Parker — il minimo, che vi può capitare, è
che la polizia venga a sapere della vostra partecipazione nel furto alla base.
Il massimo, una pallottola in testa.
— Se riesco a salvare la buccia — rispose Godden — mi considererò
molto fortunato. Ellen Fusco mi ha parlato di voi, Parker, ma io vi avevo
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sottovalutato; in realtà, non avevo ascoltato bene quel che diceva. — Si
rannuvolò.
— Avevo sottovalutato anche Roger.
— Tenetelo bene a mente — disse Parker, alzandosi. — Ci vediamo in
mattinata. — Ve ne andate lasciandomi in questo modo?
Parker uscì, spegnendo la luce. Un debole chiarore proveniente dalla cu-
cina gli permise di girare per la casa al buio. Si diresse da quella parte e
trovò Webb accanto al frigorifero che, al suo ingresso, si voltò con una
bottiglia di latte in una mano e un pezzo di torta nell'altra.
— Morivo di fame — disse.
— Dov'è Devers?
— Qui — rispose Devers, entrando. Sorrideva, trascinandosi dietro la va-
ligia. — Pensavo che potremmo dividerci il malloppo, prima che io me ne
torni via.
Parker lo guardò. — Te ne torni dove?
Devers gli lanciò un'occhiata smarrita.
— Da Ellen. Dove volete che vada?
Parker disse: — Domani, a un'ora qualunque, la polizia troverà quei tre
cadaveri lassù, alla casa di caccia. Domani stesso, o al massimo dopodo-
mani, avranno il rapporto delle impronte digitali, e uno di quei cadaveri
verrà riconosciuto come appartenente a Martin Fusco. Si daranno da fare e
andranno a interrogare l'ex moglie di Martin Fusco, abitante in questa città.
Prima coincidenza. Parleranno a Ellen e verranno a sapere che, attualmen-
te, è l'amante di un tizio che lavora all'ufficio amministrativo della base di
aviazione. Coincidenza numero due.
Devers era diventato pallido. — Cristo! Come farò a cavarmela da que-
sto ginepraio? Io seguiterò a negare. Che cosa possono farmi? Negherò e
negherò. Se c'è una coincidenza, cosa possono farmi?
Webb, con la bocca piena di torta, disse:
— Ti daranno addosso, amico. Sarà dura.
— Saprò resistere.
— E Ellen? Ce la farà? Daranno addosso anche a lei — disse Parker.
— Ti direi di farla fuori — esclamò Webb, pensieroso. — Ma ti dareb-
bero addosso ancora di più. E poi, se ti pescassero, ti accollerebbero anche
quell'altro assassinio.
Devers guardava ora l'uno ora l'altro. — Cosa devo fare?
— Ti prendi i tuoi quarantamila dollari e tagli la corda.
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— Ma devo finire la ferma!
Parker scosse il capo. — Non più. Tra la tua donna e quello là, del piano
di sopra, ti hanno completamente fregato.
— Sì. Ma solo se trovano il cadavere di Fusco.
— Non ci pensare nemmeno a farlo sparire — fece Webb. — Ti può an-dare ancora bene se ti limiti a girare in città, ma provati a uscire e ti saltano
addosso. Non puoi neppure arrivare alla casa di caccia, senza passare per
la base.
— Be'? E se mi fermano? Io sono pulito.
— Impiegato all'ufficio amministrativo. In giro alle quattro del mattino.
Senza uno scopo preciso.
— Poi, se ti pescano mentre torni indietro, non lo sei più, pulito — ag-
giunse Parker. — Non certo con Fusco nella macchina.
Devers stava diventando nevrastenico. — Maledizione, ci deve pur esse-
re una via d'uscita! Cosa diavolo devo fare?
— Cercati il libretto di circolazione della macchina di Godden. Per il ca-
so che ti fermino. Poi prendi la sua macchina, vai a casa a raccattare Ellen
e la bambina. Se non vuol venire con te, l'ammazzi.
— Io non posso...
— Allora, se non puoi, telefonaci e dacci la possibilità di smammare alla
svelta.
Devers li guardò a lungo, prima l'uno, poi l'altro. — Sta bene. Vado a
prenderla. E poi?
— La porti qui. Se la polizia la trovasse, lei parlerebbe di Godden e noi
abbiamo bisogno che Godden sia al di fuori di ogni cosa per poter restare
nascosti qui. Perciò, deve venire qui anche lei.
— Per quanto tempo dovremo far buca qui?
— Due o tre giorni. Fino a che allenteranno un po'.
Devers fece un gesto d'ira, di sconforto. — E poi? Cosa farò io?
— Scegliti un nome nuovo, amico — disse Webb. — Stattene tranquillo
per un po' e spera per il meglio.
— Significa che dovrò scappare per tutto il resto della mia esistenza.
Webb sogghignò. — Come nei film? Dormire nei fienili, viaggiare nei
carri-merci... questo vuoi dire? — scosse il capo. — Io sono stato ricercato
col mio vero nome per quindici anni. Parker, qui, è stato ricercato sotto
tanti di quei nomi, che non se ne ricorda nemmeno più. Ma se la sai pren-
dere, non è poi tanto noioso.
Devers guardò Parker. Cominciava a vedere le cose sotto un altro aspet-
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to. — Voi eravate a Portorico — disse.
Webbe allargò le braccia. — Ecco, vedi? In fuga... a Portorico, all'Hotel
Hilton.
7
Quando i due agenti in borghese se ne andarono, Parker uscì dalla cuci-
na, e mise via la pistola.
— E' andata bene — disse.
Godden sudava, il cerotto sulla fronte pareva una macchia scura contro
la pelle lustra e pallida.
— Non ci passerei sotto una seconda volta — disse. — Neppure per un
milione di dollari.
Webb e Devers entrarono dall'altra parte. — L'avete fatto per molto me-
no — osservò Webb — e poi non siete nemmeno riuscito a trattenere quei
bigliettoni.
Devers non disse niente. Era ormai rassegnato all'impossibilità di tornare
indietro, ma odiava Godden che era la causa di tutti i suoi guai. Lo fissava,
tenendo i pugni stretti sui fianchi.
Godden si tastò nervosamente le fasciatura.
— Credete che l'abbiano bevuta?
— Hanno bevuto ogni cosa — rispose Parker. — Avete recitato bene.
La storiella, che Parker gli aveva consigliato di raccontare, legava ab-
bastanza bene, essendo piuttosto vicina alla verità. Quando, alle sette meno
dieci di quella mattina, il telefono aveva squillato, era andato Parker a ri-
spondere, dicendo di essere Godden. Era un giornalista che chiamava da
Syracuse in rappresentanza di una catena di giornali. Parker, sotto le vesti
di Godden, gli aveva detto che le notizie riguardanti Roger St. Cloud lo
avevano molto scosso e che, naturalmente, non poteva fare alcuna dichia-
razione, finché non avesse parlato con la polizia.
Poi Parker aveva svegliato Godden e lo aveva costretto a telefonare alla
polizia per informarli di aver ricevuto una telefonata da un cronista e di
aver saputo come Roger St. Cloud fosse stato colto da mania omicida.
Quando il poliziotto, dall'altra estremità del filo, gli aveva completato i fat-
ti, Godden si era offerto di raccontare quanto sapeva sulla situazione e sul-
lo stato mentale di St. Cloud, aggiungendo poi che avrebbe molto gradito
la visita della polizia a casa, perché, per andare a rispondere alla telefonata
di quel reporter, era caduto dal letto e si era ferito alla testa: ferita di cui
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ancora non sapeva la gravità. Inoltre, le spaventose notizie riguardanti un
suo paziente lo avevano veramente scombussolato.
Il poliziotto si era dimostrato molto comprensivo e aveva detto che
avrebbe mandato un paio di agenti a una qualche ora della mattinata.
Difatti, erano arrivati alle dieci e un quarto, già informati della ferita allatesta, gentili e deferenti e, evidentemente, senza alcun sospetto sul dottor
Godden. Per quale ragione avrebbero dovuto sospettarlo?
A questo punto, erano le undici meno un quarto. Durante quella mezz'-
ora, i due agenti si erano interessati unicamente al monologo del dottor
Godden su Roger St. Cloud. Al principio, Godden era stato nervoso, ma i
poliziotti ne avevano certamente compreso le ragioni, poi, nel descrivere
Roger si era via via scaldato e il nervosismo era sparito. Dopotutto, si era
trovato ingolfato a parlare di cose inerenti al suo mestiere. I due agenti non
avevano neanche accennato al fatto che Roger era coinvolto nel furto della
notte precedente alla base di aviazione, ma i due eventi erano stati collegati
insieme dalla trasmissione radio delle nove. E la radio non aveva ancora
parlato dei cadaveri trovati alla casa di caccia, ma il bollettino delle nove e
mezzo aveva diramato il ritrovamento dell'autobus:
"Può darsi che alcuni fra i banditi abbiano passato il confine canadese
approfittando delle tenebre."
Perciò, almeno per un po' di tempo, potevano considerarsi al sicuro.
Godden aveva già telefonato a quei pazienti che avrebbe dovuto ricevere
in giornata e in quella seguente, dicendo che, date le circostanze, non
sarebbe tornato allo studio prima della settimana ventura.
Dopo qualche altra telefonata da parte di giornalisti - lo psicanalista rim-
piazza il prete, come fonte di notizie di vita privata - nessuno avrebbe tro-
vato molto strano il fatto che Godden lasciasse il telefono staccato.
A quel punto, era rimasta la moglie di Godden. Parker disse:
— Chiamate vostra moglie. Lei vorrà tornare a casa, ma voi ditele di no.
Ditele che andrete da lei venerdì come avevate fissato, sempre che la po-
lizia non abbia bisogno di interrogarvi ancora, in quel caso ci andrete sa-
bato. Ditele di non tentare nemmeno di telefonarvi, perché i giornalisti non
vi danno pace e voi non avete più intenzione di rispondere al telefono.
— Sta bene — rispose Godden. Chiamò e, più che parlare, ascoltò, poi,
finalmente, riuscì a piazzare quanto gli aveva ordinato Parker. Quando
riagganciò, guardò Parker con aria esitante, poi:
— Dovrei fare un'altra telefonata — disse.
— A chi?
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— A una signora. Avrei dovuto vederla stasera.
— Qui?
— No. A casa sua.
— Chiamatela. Devers, ascolta dalla derivazione di cucina. Se qualcosa
non ti sembra chiaro, avvertimi. — Bene. — Devers andò in cucina e, dall'espressione, era evidente la sua
speranza che Godden tentasse di fare il furbo.
Ma Godden non ci pensò neppure. Chiamò là sua amica, le spiegò che
l'affare di Roger St. Cloud aveva mandato tutto a monte e le promise di
andarla a trovare la settimana seguente, martedì o mercoledì al più tardi.
Quando ebbe tolto la comunicazione e Devers fu rientrato in salotto sco-
tendo il capo con aria di disgusto, Parker disse: — Benissimo. Tornate in
camera.
Godden balzò in piedi, cercando di sorridere.
— Non c'è bisogno che mi leghiate di nuovo, sapete — fece.
Potete fidarvi di me. Come e quanto voi, non vedo l'ora di uscire da que-
sto pasticcio.
— Davvero, pezzo di bastardo? — esclamò Devers.
Godden si voltò a guardarlo, protendendo le mani aperte.
— Mi dispiace per quanto è accaduto a tutti voi, credetemi. Non volevo
che finisse così. Non desideravo la morte, né la rovina di nessuno. Volevo
soltanto impadronirmi dei vostri quattrini.
— Bastardo della malora! — ripeté Devers.
— Basta! — intervenne Parker. — Godden, andate di sopra. Webb, ac-
compagnalo. Devers, tu va' a dare un'occhiata alla tua donna.
Devers fece una smorfia. — La mia donna! — disse, con aria stomacata
e, girandosi, uscì dalla stanza.
Avevano sistemato Ellen e la bambina nella stanza che un tempo era
stata dei bambini di Godden. Da quanto aveva raccontato Devers, lei non
voleva venire con lui a nessun costo, quando era andato a prenderla, la not-
te precedente; lei si sentiva sicura di non lasciarsi intrappolare dalla poli-
zia. Stan le aveva spiegato che, essendo lei l'ex moglie di uno di coloro che
avevano fatto il colpo e, per di più, l'amante di un impiegato dell'ufficio
amministrativo della base, non le restavano molte probabilità di far fessi i
poliziotti. Inoltre, non aveva altra scelta se non quella di andare con lui o
essere fatta fuori, perché pericolosa per i pochi rimasti. Allora aveva final-
mente ceduto, sia pure con grande riluttanza.
Poi avrebbe voluto fare un monte di bagagli, ma Devers gliel'aveva im-
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pedito, spronandola a sbrigarsi, così era arrivata lì con la figlia e una vali-
getta riempita in fretta e furia delle cose più necessarie.
Appena arrivati, lei si era comportata in modo strano, fluttuando spaven-
tosamente fra panico e colpa, disperazione e rabbia, tanto che Parker aveva
deciso di non poter assolutamente fidarsi di lei e, da quel momento, l'avevatenuta sotto chiave.
Durante la visita degli agenti, Parker si era garantito il silenzio di lei, mi-
nacciandola di far pagare alla bambina il male che lei avrebbe eventual-
mente causato. E così, aveva ottenuto ciò che voleva.
Parker entrò in cucina e aprì la radio per ascoltare il bollettino delle un-
dici. Per il momento, avevano un attimo di respiro, e qualche speranza di
cavarsela, malgrado il futuro fosse incerto e complesso.
Il cadavere di Ralph Hochberg era giù, nello scantinato, nascosto sotto
un telo. Il denaro era ancora dentro la valigia vicino al frigorifero. Godden
si trovava prigioniero in una stanza, Ellen e la bimba in un'altra e, in giro,
non c'era più nessun altro cui la polizia potesse rivolgersi per informarsi
sul loro conto. Si erano premuniti contro le visite e le telefonate.
Se avevano un po' di fortuna, sarebbero potuti restare lì altri due giorni;
fino a sabato. E, se avevano fortuna, quei due giorni sarebbero bastati.
Quando Webb e Devers rientrarono in cucina e lo informarono che i pri-
gionieri erano tranquilli, Parker disse:
— Vediamo quella valigia. E' arrivato il momento di sapere quanto ci è
rimasto.
Si sedettero intorno al tavolo di cucina con la valigia aperta davanti e co-
minciarono a contare. Quando ebbero finito, avevano raggiunto un totale
di centoventiseimila e cinquecentottantatré dollari. Parker fece dei calcoli
con carta e matita, poi disse:
— Quarantaduemila centonovantaquattro dollari a testa, e un dollaro in
più.
Frugando nel mucchio sul tavolo, Webb pescò un biglietto da un dollaro,
lo accartocciò e lo gettò per terra.
— Ecco: ora il conto è pari — disse.
Devers cominciò a ridere. Quando la sua risata fu sul punto di diventare
isterica, Parker esclamò: — Finiscila!
Smettendo di colpo, Devers guardò fissamente Parker, con astio, poi si
alzò e andò in salotto.
— Che gli piglia? — fece Webb.
— Staremo a vedere.
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La radio era sempre accesa. Il bollettino dell'una annunciò la scoperta
dei cadaveri alla casa di caccia, per quanto senza alcun segno di ricono-
scimento, e continuò dicendo che le "autorità stavano ricercando Devers ed
Ellen Fusco". Nessuna accusa, nessun sospetto che avessero preso parte al
furto. Erano soltanto ricercati per informazioni. La descrizione data dall'-annunciatore si attagliava benissimo a Devers e a Ellen, ma si sarebbe po-
tuta attagliare a un altro milione di persone.
— Devono aver trovato i cadaveri nella casa di caccia, stamani disse
Webb. — La notizia non è stata diramata, finché non hanno avuto la cer-
tezza che Devers non tornava a casa.
Di lì a poco, Devers rientrò dal salotto. Aveva scovato il bar di Godden e
teneva un bicchiere pieno di Scotch liscio in mano.
— Dovreste venire a vedere la televisione — disse. — Hanno trasmesso
una mia fotografia.
— Davvero? — esclamò Webb. — Allora, sei una celebrità.
— Sono una celebrità. — Devers era già un po' ubriaco, quanto bastava
perché cominciasse a far discorsi idioti.
Webb aggiunse: — Una celebrità dovrebbe bere col ghiaccio. Permettimi
di procurartene un poco.
Devers restò in piedi in mezzo alla stanza, mentre Webb, trovato un sec-
chiello, vi vuotava dentro due strati di cubetti di ghiaccio.
Devers aveva l'espressione mogia della sbronza triste, lo sguardo torvo e
scontroso di chi sospetta di essere preso per il bavero.
Webb agguantò il secchiello e disse:
— Dai, Stan. Facciamo la gara a chi finisce prima sotto il tavolo. — E se
ne andò con Devers in salotto.
Più tardi, Parker lasciò uscire Ellen, perché preparasse da mangiare. An-
che lei era torpida nelle sue reazioni, docile ma immusonita, mentre Pam,
la sua bambina, sentendo nell'aria qualcosa che non funzionava, le stava
appiccicata alle sottane, guardandosi intorno con gli occhioni spalancati.
Pranzarono tutti insieme, fatta eccezione di Godden, al quale, dopo, por-
tarono un vassoio in camera. Parker sentiva che, attorno a quel tavolo, era-
no in troppi a odiare Godden, e non c'era proprio bisogno di cercarsi altre
rogne.
Devers risentiva ancora molto della sbronza. Poi, mentre Ellen tornava
nella sua stanza e Parker andava in salotto per guardare la televisione, De-
vers e Webb rimasero in cucina. Devers raccontava storielle piccanti e
Webb parlava di delitti. Ridevano come matti.
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Parker non bevve e restò davanti al televisore: durante il telegiornale
della sera vide le riprese che avevano girato alla casa di caccia. Vide ap-
parire sullo schermo la madre di Ellen Fusco che pregava la figlia di tor-
nare o, per lo meno, di portare la bimba a vivere con sua nonna. Vide le
fotografie di Devers e di Ellen.Alle due del mattino, Devers crollò. Webb andò da Parker vacillando
leggermente.
— Si riprenderà — disse. — Si comporterà benone, Parker. Deve soltan-
to farci l'abitudine.
— Ne sono convinto.
La giornata di venerdì fu lunga e noiosa. Per due o tre volte sentirono
qualcuno che suonava alla porta e poco dopo se ne andava, rinunciando.
Devers era ancora sotto i postumi della sbornia, quindi passò la maggior
parte del tempo in cucina tentando tutti i mezzi per smaltirla. Webb trovò
un mazzo di carte e cominciò a fare un solitario dopo l'altro. Ellen era più
calma, più ragionevole, e, poiché si rendeva conto di non poter andare in
nessun altro posto, permisero a lei e alla bambina di circolare per casa.
Godden era sempre in camera sua, legato. Parker girava come un leone in
gabbia, all'erta, aspettando.
Il venerdì notte, Devers e Webb si ubriacarono di nuovo, giocarono a ra-
mino e si raccontarono le stesse barzellette della sera prima. Ellen, dopo
aver messo a letto la bambina, tornò in salotto e disse a Parker:
— Stan non mi vuole più. Non lo biasimo. Ma non ho un soldo e non so
dove andare.
Parker la guardò. — Che cosa volete da me?
— Un po' di soldi. Non molto.
— Forse Devers vi darà qualcosa della sua parte. Chiedeteli a lui.
— Non ho un posto dove andare — ripeté lei e la paura ricominciò ad
affacciarsi nei suoi occhi.
Parker non voleva che riattaccasse con gli isterismi e le stramberie. Per
tenerla tranquilla, disse: — Ne parlerò con Webb. Cercheremo di trovare
una soluzione per il vostro problema. Domani.
— Grazie — rispose lei, con voce atona, e uscì dalla stanza.
Quella notte, Devers crollò all'una e Webb entrò in salotto per unire il
suo whisky in compagnia di Parker.
— Bravo ragazzo — disse. — Continuerà su questa strada? Che ne dici?
— Può darsi — rispose Parker.
Webb terminò di bere e appoggiò il bicchiere per terra, accanto alla pol-
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trona.
— Quando credi che potremo smammare da qui?
— Forse domani sera. Mi pare clic questi paraggi non siano più sorve-
gliati.
— Ci crederanno in Alaska, a quest'ora.Parker non rispose e, quando, un istante più tardi, si voltò per guardarlo,
Webb si era addormentato.
L'unica luce della casa proveniva dall'apparecchio televisivo. Parker vi
stava davanti e lo guardava, senza però porgervi alcuna attenzione e quan-
do il solito sermone e l'inno nazionale ebbero termine, e sullo schermo co-
minciò a "nevicare", lui non si prese neppure il disturbo di alzarsi per an-
dare a spegnerlo.
Di lì a poco, sempre col viso rivolto verso lo schermo, si addormentò.
8
Nel sentirsi toccare un braccio da Webb, Parker si svegliò. Sullo scher-
mo della televisione stavano saltellando alcuni cartoni animati. Una luce
grigia filtrava dalle tende che coprivano l'ampia finestra. Parker guardò
l'orologio: le sette e quaranta.
L'espressione di Webb era seria.
— Vieni a dare un'occhiata. Parker salì insieme con lui nella camera di
Godden. L'uomo, con le braccia e le gambe sempre legate, giaceva di fian-
co, sul letto. Aveva la gola tagliata. Il lenzuolo era inzuppato del suo san-
gue.
— La donna! — esclamò Parker.
— Sparita. Ha lasciato questo.
Poche parole erano state frettolosamente scribacchiate a lapis su di un
pezzetto di carta gialla, in grossi caratteri irregolari.
"Non dirò dove siete. Devo portare Pam a casa di mia madre. Scusate-
mi."
— E ora, che si fa? — domandò Webb.
— Mi piacerebbe sapere quando se n'è andata.
— Ho sentito chiudere la porta. E' quello, che mi ha svegliato. Neanche
cinque minuti fa.
— Dobbiamo squagliarcela.
Scesero in cucina, svegliarono Devers e gli mostrarono il biglietto, rac-
contandogli di Godden.
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Parker disse:
— Fatti passare la sbronza, figliolo. Ora dobbiamo tagliare la corda.
— Perché? Credete che parlerà?
— Non avrà bisogno di parlare. Una pazza che va in giro barcollando in
una città piccola come questa, alle sette e mezzo del mattino, dove crediche possa arrivare? Sei isolati? Dieci? La prenderanno e penseranno che,
probabilmente, i suoi compagni si trovano nelle vicinanze. Qualcuno dirà:
quel dottore che cura i cervelli abita da queste parti. Qualcuno dirà: vai a
darci un'occhiata, Joe.
Devers era completamente sobrio, ora.
— Quanto tempo abbiamo? — domandò.
— Il tempo che prenderanno per organizzarsi. Fino a che qualcuno si
renderà conto che Godden abita nei paraggi. Forse un'ora, forse meno.
— Accidenti! — Devers andò all'acquaio di cucina, fece scorrere acqua
fredda e si sciacquò il viso, asciugandosi poi con un canovaccio. — Dove
si va?
— Vieni con me per un tratto — rispose Parker.
Raccattarono la loro roba e salirono in macchina. Parker e Devers pre-
sero la Cadillac verde scuro di Godden. Cacciarono tutto quanto nel baule:
la valigia di Parker con la sua roba e la sua parte del malloppo, e una va-
ligetta di Godden in cui Devers aveva messo i suoi denari. Parker si mise
al volante. Si trovavano dalla parte est di Monequois, il che significava che
erano già sulla strada giusta per scappare. Infilarono la Route Undici e si
diressero verso ovest, puntando su Potsdam. La Buick di Webb li seguì per
un tratto, poi svoltò a sud di Moira. Parker proseguì fino a Lawrenceville,
poi, girando per una scorciatoia, traversò Buckton e Southville, e, arrivato
a Colton, prese la Cinquantasei. Puntò verso sud.
La radio era accesa. Le notizie del furto cominciavano a essere stantie,
poiché ormai era arrivato il terzo giorno, e non era più successo niente di
sensazionale.
Ancora nulla su Ellen Fusco.
— Presto questa macchina scotterà — osservò Devers. — Appena i poli-
ziotti arriveranno a casa di Godden.
— Lo so.
— Quali speranze abbiamo?
— Ci vuole una città — rispose Parker. — In una città si può sparire. Ma
qui non ci sono che montagne.
Nel cassettino del cruscotto c'era una carta stradale dello Stato di New
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York. Devers la esaminò a lungo. Finalmente disse:
— La nostra unica risorsa è Albany.
— Quanto disfa da qui?
— Dove siamo?
— Stiamo arrivando in un posto chiamato Sevey.Devers riprese a studiare la carta. — Circa duecentocinquanta chilome-
tri. E per un bel tratto, è strada buona. E' la stessa che ho percorso quando
sono venuto a prendervi — disse, con un sorriso triste.
9
Arrivò col bollettino delle undici, proprio mentre stavano passando Glen
Falls sulla Northway, a circa ottanta chilometri da Albany. "La signora El-
len Fusco, ricercata per la partecipazione al furto della notte di mercoledì
scorso, ai danni della base militare d'aviazione in Monequois, nello Stato
di New York, è giunta questa mattina presto alla casa dei suoi genitori, si-
gnori Atkinson di Monequois, stringendo la figlioletta Pamela tra le brac-
cia. Stordita e disfatta, la donna è incapace di raccontare alla polizia dove
ha passato gli ultimi tre giorni..."
— Bene — esclamò Devers. Guardò Parker. — Ce la farà.
— Se diramano questa notizia — disse Parker — è perché hanno già sco-
perto che Ellen viene da casa Godden. E' ora di abbandonare questa mac-
china. Dov'è l'uscita più vicina?
— Saratoga — disse Devers, dopo aver guardato la carta.
— Scaricheremo là.
Parker mantenne la velocità sul limite massimo concesso dalla legge fino
all'uscita di Saratoga, sorvegliando sempre lo specchietto retrovisivo. Il
traffico del sabato stava cominciando a congestionarsi e una Cadillac verde
scura non avrebbe dato troppo nell'occhio, ma non potevano osare di più.
Parker lasciò la macchina nel centro di Saratoga, davanti a un parchi-
metro. Camminò con Devers lungo tre isolati fino ad arrivare al deposito
degli autobus e là salirono sull'espresso delle undici e mezzo per Albany.
Quando vi giunsero, erano le dodici e cinque.
— Qui, ci separiamo — disse allora Parker. — Tu hai bisogno di
qualcuno che diriga i tuoi passi, ma io non ho tempo di farlo, ora. C'è un
amico mio, un certo Handy McKay, che si è ritirato dal giro e gestisce una
tavola calda in un paese chiamato Presque Isle, nel Maine. Vacci, digli che
ti mando io. Raccontagli pure tutto. Ti aiuterà.
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— Grazie — rispose Devers. — Non era esattamente questo il modo in
cui speravo che andasse a finire, ma... all'inferno!
— Così va bene — disse Parker.
10
Lei stava distesa su una sedia a sdraio, il viso al sole. Indossava un pren-
disole bianco e nero. Gli occhiali da sole che portava erano cerchiati di
bianco. L'asciugamano, il libro, le sigarette e la crema erano sulla sabbia,
accanto a lei. Pareva dormire.
Prima di andar lì, Parker era salito in camera e si era messo in costume
da bagno. Avanzò sulla spiaggia e le sedette vicino.
— Sei molto più abbronzata di quando ti ho lasciato.
Claire sussultò. Sollevando gli occhiali da sole, lo sbirciò.
— Sei tornato per davvero! — esclamò.
— Tornerò sempre.
— Fantastico! Dove si va a mangiare, stasera?
— Alla Mallorquina.
— Bene, mi piace. E mi porti al casinò, dopo?
— Sì.
FINE
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