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IL RISORGIMENTO - La storiografia - Il termine viene usato, pare per la prima volta, da Saverio Bettinelli (1717-1808), in un'opera del 1775, Il Risorgimento d'Italia dopo il Mille, con riferimento però al periodo che siamo soliti chiamare "Rinascimento". - Anche altri autori dell'ultimo '700 usano il termine in questo senso; con Vittorio Alfieri il concetto si allarga, diventa la rinascita possibile dell'Italia "inerme, divisa, avvilita, non libera, impotente": il Risorgimento letterario in atto ne fa presagire uno civile e politico. Alfieri rappresenta - secondo Walter Maturi - la trasformazione del vecchio letterato italiano e dello scrittore al servizio del principe nell'intellettuale del Risorgimento, un uomo libero. - Nel primo Ottocento la cultura italiana elabora il tema del presente che deve e può rinascere, risorgere, rifacendosi ad alcuni momenti eroici della storia italiana (il Medioevo dei Comuni) e ad un patrimonio culturale ed etico importante come quello del cristianesimo, di cui l'Italia è centro. Si preferisce usare il termine Risorgimento, anziché Rinascimento, perché quest'ultimo richiama un'epoca di fioritura culturale ma anche di perdita dell'indipendenza. Cfr. "Il Risorgimento", il quotidiano "politico, economico, scientifico e letterario" fondato da Cavour con Cesare Balbo (1848-52). - Un primo dibattito sul R. si ha già all'indomani del biennio '48-'49, quando ci si interroga sulle ragioni del fallimento: durante il "decennio di preparazione" liberali moderati come Giuseppe La Farina (Storia d'Italia dal 1815 al 1850 ) sottolineano la funzione positiva del metodo riformistico e la necessità del contributo sabaudo, mentre democratici come Cattaneo e Pisacane avanzano critiche al metodo mazziniano, che privilegia l'unità rispetto alla questione sociale. Sono centrali, nel dibattito, questioni come la funzione del Piemonte, il ruolo di casa Savoia, l'influenza della rivoluzione francese e - più in generale - della Francia, le conseguenze della mancata partecipazione dei ceti popolari. A questo proposito sono interessanti le riflessioni di Ippolito Nievo (1831-1861; volontario nella spedizione dei Mille, morì al ritorno, durante un naufragio) nello scritto sulla Rivoluzione nazionale : i "letterati" dovevano rendersi conto - diceva - che l'apatia dei contadini dipendeva dalla loro condizione di miseria e dalla dipendenza dai padroni. - Dopo l'unità, poco ascoltati sono gli autori clerico-reazionari, che vogliono diffondere l'immagine dell'unificazione come sopraffazione. Prevale in seguito, soprattutto dopo il 1876, la visione ufficiale, nazionalista, del R., elaborata dai vincitori, le classi dirigenti moderate: si fa del R. un mito retorico, astorico e metastorico, dandone una rappresentazione edulcorata e concordista: è l'epoca dei ritratti agiografici, delle commemorazioni, dei monumenti, della "riconciliazione" che si vuole ad ogni costo raggiungere tra i diversi protagonisti del R., nascondendo i contrasti, che pure c'erano stati. Alessandro Manzoni, per esempio, parla esplicitamente di "concordia" degli Italiani, unanimi nel volere l'unità sotto la monarchia (Dell'Indipendenza italiana , 1873). Tuttavia, negli anni '60 ci sono anche intellettuali che, come il meridionalista Pasquale Villari (1827-1917) sottolineano il carattere ristretto e aristocratico del R. e la separazione tra "paese legale" e "paese reale", che rende fragile lo Stato italiano e spiega sconfitte militari come quella del 1866. - Negli ultimi anni dell'Ottocento il positivismo e la scuola economico-giuridica stimolano un intenso lavoro di ricerca documentaria (si pubblicano per es. tutti gli scritti di Mazzini e il carteggio di Cavour) e studi relativi agli aspetti economici, sociali, amministrativi; la semplice storia militare e diplomatica non è più considerata sufficiente. Nel 1892 esce il libro di Alfredo Oriani (1852-1909, intellettuale e giornalista di tendenze repubblicane), La lotta politica in Italia, che demitizza il R., definendolo il frutto del compromesso tra la monarchia sabauda e il movimento democratico, entrambi troppo deboli per agire da soli: questa doppia impotenza aveva dato vita ad uno stato debole, incapace sia di una politica democratica sia di una politica estera espansionistica (per queste ultime considerazioni Oriani venne poi molto letto nel secolo successivo e rivalutato dal fascismo). - Dopo la prima guerra mondiale la storiografia fascista tende ad esaltare il R., rivendicando una continuità con esso, ma non certo perché ha portato alla creazione di ordinamenti liberali, bensì come espansione

Risorgimento Storiografia

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IL RISORGIMENTO - La storiografia

- Il termine viene usato, pare per la prima volta, da Saverio Bettinelli (1717-1808), in un'opera del 1775, Il Risorgimento d'Italia dopo il Mille, con riferimento però al periodo che siamo soliti chiamare "Rinascimento".

- Anche altri autori dell'ultimo '700 usano il termine in questo senso; con Vittorio Alfieri il concetto si allarga, diventa la rinascita possibile dell'Italia "inerme, divisa, avvilita, non libera, impotente": il Risorgimento letterario in atto ne fa presagire uno civile e politico. Alfieri rappresenta - secondo Walter Maturi - la trasformazione del vecchio letterato italiano e dello scrittore al servizio del principe nell'intellettuale del Risorgimento, un uomo libero.

- Nel primo Ottocento la cultura italiana elabora il tema del presente che deve e può rinascere, risorgere, rifacendosi ad alcuni momenti eroici della storia italiana (il Medioevo dei Comuni) e ad un patrimonio culturale ed etico importante come quello del cristianesimo, di cui l'Italia è centro. Si preferisce usare il termine Risorgimento, anziché Rinascimento, perché quest'ultimo richiama un'epoca di fioritura culturale ma anche di perdita dell'indipendenza. Cfr. "Il Risorgimento", il quotidiano "politico, economico, scientifico e letterario" fondato da Cavour con Cesare Balbo (1848-52).

- Un primo dibattito sul R. si ha già all'indomani del biennio '48-'49, quando ci si interroga sulle ragioni del fallimento: durante il "decennio di preparazione" liberali moderati come Giuseppe La Farina (Storia d'Italia dal 1815 al 1850 ) sottolineano la funzione positiva del metodo riformistico e la necessità del contributo sabaudo, mentre democratici come Cattaneo e Pisacane avanzano critiche al metodo mazziniano, che privilegia l'unità rispetto alla questione sociale. Sono centrali, nel dibattito, questioni come la funzione del Piemonte, il ruolo di casa Savoia, l'influenza della rivoluzione francese e - più in generale - della Francia, le conseguenze della mancata partecipazione dei ceti popolari. A questo proposito sono interessanti le riflessioni di Ippolito Nievo (1831-1861; volontario nella spedizione dei Mille, morì al ritorno, durante un naufragio) nello scritto sulla Rivoluzione nazionale : i "letterati" dovevano rendersi conto - diceva - che l'apatia dei contadini dipendeva dalla loro condizione di miseria e dalla dipendenza dai padroni.

- Dopo l'unità, poco ascoltati sono gli autori clerico-reazionari, che vogliono diffondere l'immagine dell'unificazione come sopraffazione. Prevale in seguito, soprattutto dopo il 1876, la visione ufficiale, nazionalista, del R., elaborata dai vincitori, le classi dirigenti moderate: si fa del R. un mito retorico, astorico e metastorico, dandone una rappresentazione edulcorata e concordista: è l'epoca dei ritratti agiografici, delle commemorazioni, dei monumenti, della "riconciliazione" che si vuole ad ogni costo raggiungere tra i diversi protagonisti del R., nascondendo i contrasti, che pure c'erano stati. Alessandro Manzoni, per esempio, parla esplicitamente di "concordia" degli Italiani, unanimi nel volere l'unità sotto la monarchia (Dell'Indipendenza italiana , 1873). Tuttavia, negli anni '60 ci sono anche intellettuali che, come il meridionalista Pasquale Villari (1827-1917) sottolineano il carattere ristretto e aristocratico del R. e la separazione tra "paese legale" e "paese reale", che rende fragile lo Stato italiano e spiega sconfitte militari come quella del 1866.

- Negli ultimi anni dell'Ottocento il positivismo e la scuola economico-giuridica stimolano un intenso lavoro di ricerca documentaria (si pubblicano per es. tutti gli scritti di Mazzini e il carteggio di Cavour) e studi relativi agli aspetti economici, sociali, amministrativi; la semplice storia militare e diplomatica non è più considerata sufficiente. Nel 1892 esce il libro di Alfredo Oriani (1852-1909, intellettuale e giornalista di tendenze repubblicane), La lotta politica in Italia, che demitizza il R., definendolo il frutto del compromesso tra la monarchia sabauda e il movimento democratico, entrambi troppo deboli per agire da soli: questa doppia impotenza aveva dato vita ad uno stato debole, incapace sia di una politica democratica sia di una politica estera espansionistica (per queste ultime considerazioni Oriani venne poi molto letto nel secolo successivo e rivalutato dal fascismo).

- Dopo la prima guerra mondiale la storiografia fascista tende ad esaltare il R., rivendicando una continuità con esso, ma non certo perché ha portato alla creazione di ordinamenti liberali, bensì come espansione

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militare e diplomatica e come moto nazionale: il fascismo viene celebrato perché porta a compimento l'inserzione delle masse nello stato, solo iniziata dal R. Nel 1927 Gioacchino Volpe (1876-1971) scrive L'Italia in cammino, in cui il R. è interpretato in chiave nazionalista, come un "fatto di potenza" più che di libertà, anche se una vera consapevolezza del proprio ruolo verrà raggiunta dal popolo italiano soltanto sotto il fascismo. Gli storici fascisti tendono anche a ridimensionare il peso dell'Illuminismo europeo e della rivoluzione francese, considerati una brusca interruzione del processo di rinascita nazionale, avviato dai governi riformatori.

- Negli stessi anni la storiografia liberale tende a porre l'accento non tanto sulla politica in senso stretto, quanto sulle idee. Esercita su di essa una grande influenza lo storicismo idealistico di Benedetto Croce (Storia d'Italia dal 1871 al 1915, 1928): Croce considera il R. un momento dell'affermazione del liberalismo europeo e giudica positivamente sia l'Italia uscita dal R. sia la sua classe dirigente, che non è responsabile dell'avvento del fascismo (quest'ultimo è infatti solo una parentesi, un "bubbone" in un corpo sano).

L'impostazione crociana è ripresa da Adolfo Omodeo (1889-1946; L'età del Risorgimento italiano, 1931; L'opera politica del conte di Cavour, 1940), che cerca di inserire il R. nel liberalismo europeo, sottraendolo al nazionalismo fascista; le premesse vanno dunque cercate nel'Illuminismo e nella rivoluzione francese e si deve dare il giusto peso al Romanticismo e alle idee di Mazzini; polemizza con l'esaltazione agiografica di Carlo Alberto (ancora legato all'ideologia della Restaurazione) e critica il neoguelfismo di Gioberti (un semplice espediente per attirare i cattolici). Omodeo rivaluta invece con forza la figura di Cavour, per la sua fede nella libertà, per le sue battaglie contro i reazionari e la Corona e a favore del parlamentarismo). Secondo Omodeo il R. non rappresenta affatto un fallimento (come ha sostenuto Gobetti, cfr. infra), proprio perché si è concluso con il trionfo del liberalismo moderato impersonato da Cavour.

Un punto di vista anlogo è quello di Luigi Salvatorelli (1886-1974; Pensiero e azione del Risorgimento italiano, 1943): per comprendere il R. sono fondamentali il riformismo settecentesco, italiano ed europeo, che ha combattuto il dispotismo e il "fratismo", e il triennio giacobino, che ha rappresentato il momento dell'"azione", in cui per la prima volta si è avuta la partecipazione del popolo e si è tentato di dare uno sbocco costituzionale alla rivoluzione. Secondo Salvatorelli sono tre le correnti che hanno dato un contributo fondamentale al R.: il mazzinianesimo, il liberalismo moderato (Balbo, d'Azeglio, Gioberti), il liberalismo radicale e federalistico di Cattaneo e Ferrari.

- Durante il fascismo alcuni intellettuali approdano allo studio del R. perché si interrogano prima di tutto sulle ragioni per cui si è arrivati al crollo del regime liberale. Piero Gobetti (1901-1926; La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, 1924; Risorgmento senza eroi. Studi sul pensiero piemontese nel Risorgimento, 1926) riprende le idee di Oriani sull'insuccesso del R., ma non il suo nazionalismo. Il R. è stato un tentativo degli Italiani per conquistare la modernità e la libertà, ma l'immaturità delle minoranze, l'astrattezza di democratici come Mazzini e Ferrari, la mancata partecipazione popolare hanno portato solo ad un compromesso moderato e a nessuna rivoluzione della libertà, tanto più difficile da effettuarsi da parte di un popolo che non ha conosciuto la lezione responsabilizzante della Riforma protestante e che è stato abituato per secoli ad una prudente sottomissione ai potenti.

Nel quadro del R. come rivoluzione fallita, Gobetti salva due figure, rimaste immuni dalla retorica e dal compromesso: Cattaneo, realista, positivo, antiromantico e alieno dal demagogismo unitario, e Cavour, un vero uomo di stato, che sa mantenere gli impegni e che ha tentato di fare del Piemonte uno stato laico e liberale. Ma il primo era impopolare, il secondo è morto troppo presto. L'Italia non ha dunque ottenuto alcuna autonomia: non credendo alla libertà, gli Italiani hanno chiesto al nuovo stato privilegi e protezioni. Non meraviglia perciò che lo sbocco di uno stato liberale solo di nome sia stato il fascismo.

Anche Nello Rosselli (1900-1937) dà questa interpretazione del R., la cui sconfitta è quella delle componenti popolari, repubblicane e rivoluzionarie.

- Antonio Gramsci (1891-1937; Quaderni del carcere, in particolare il volume sul Risorgimento ) studia il R. per capire il presente e per sostenere le sue tesi politiche (la possibilità di una rivoluzione che veda uniti gli operai del Nord e i contadini del Sud); pertanto privilegia nella sua analisi la storia politica e sottolinea le insufficienze del R., da lui definito una «rivoluzione passiva» (dall'espressione usata da Cuoco a proposito

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dela rivoluzione napoletana del '99). Gramsci rifiuta infatti l'interpretazione del R. come fenomeno autoctono: sono stati essenziali il Settecento europeo e la rivoluzione francese, che ha permesso agli Italiani di fare l'esperienza della lotta politica, ha indebolito le forze reazionarie e rafforzato quelle nazionali, liberali e moderate. Il R. non è nemmeno da ridurre ad una semplice estensione dei confini, perché ha portato all'effettiva sconfitta delle forze più retrive, legate alla Chiesa; è stato dunque un fatto progressivo.

L'interesse dell'analisi di Gramsci sta soprattutto nell'attenzione alle componenti sociali: la direzione, l'egemonia del processo risorgimentale fu assunta dalle forze moderate, in grado di imporsi perché rappresentavano organicamente settori sociali realmente omogenei (la grande e media borghesia settentrionale e gli agrari meridionali), mentre i democratici (il partito d'azione) non rappresentavano nessuna classe specifica: avrebbero potuto creare un movimento popolare, ma allora l'obiettivo della loro lotta - come sostenevano Pisacane e Ferrari - avrebbe dovuto essere non l'unità, bensì quello economico-sociale della riforma agraria, cosa che però essi stessi non volevano (a differenza dei giacobini francesi, la cui "andata al popolo" si era concretizzata in una coerente politica di ridistribuzione delle terre). Il R. non ha perciò visto la partecipazione popolare, è stato una rivoluzione passiva sotto la guida della monarchia sabauda (la conquista regia) e, non avendo prodotto un'effettiva rivoluzione, è stato più che altro una restaurazione, una "rivoluzione senza rivoluzione".

Gramsci ritiene che il R. e l'unificazione abbiano significato, per l'Italia, una modernizzazione ma, poiché la direzione è stata moderata, il processo non è stato portato avanti fino in fondo: nelle campagne sopravvivono residui feudali, mentre le classi dirigenti premono per una politica autoritaria e rezionaria. Il risultato è uno stato corporativo, che poggia su una base sociale ristretta e difende i ceti possidenti.

L'interpretazione di Gramsci, che è poi stata ripresa da studiosi come Emilio Sereni (Il capitalismo nelle campagne ), Giuseppe Berti (I democratici e l'iniziativa meridionale ), Franco Della Peruta (I democratici nella rivoluzione italiana ), è stata anche schematizzata nei termini di una "mancata rivoluzione agraria", come se tale rivoluzione fosse prevista dal corso naturale delle cose. In realtà Gramsci voleva sottolineare che si trattò di una possibile scelta, che non venne realizzata sia per motivi economici (la disparità di condizioni tra Nord e Sud) sia per motivi politici (in particolare la chiusura di Mazzini a ogni ideologia socialistica).

- Le tesi di Gramsci hanno suscitato decise obiezioni da parte di storici come Federico Chabod (1901-60), il quale, in un articolo del 1952, afferma che Gramsci ha trasferito indebitamente nel secolo scorso problematiche emerse solo nel primo dopoguerra, e - soprattutto, Rosario Romeo (1924-87; Risorgimento e capitalismo, 1959. Romeo è anche autore di una monumentale biografia di Cavour, Cavour e il suo tempo, 1969-84, in cui sostiene l'interpretazione crociana del R. come "capolavoro" della borghesia italiana). Romeo osserva che, nei primi vent'anni dopo l'Unità, la produzione agricola italiana aumentò notevolmente, così da permettere, attraverso lo sfruttamento dei contadini, una "accumulazione originaria" di capitali utile a sostenere la costruzione di infrastrutture e l'industrializzazione e ad ottenere il pareggio del bilancio; ciò significò, è vero, sacrificare il sud a vantaggio del nord e le campagne a vantaggio delle città, ma era l'unica strada da seguire per superare l'arretratezza postunitaria: una riforma agraria avrebbe, al contrario, annullato i pochi elementi di capitalismo presenti nelle campagne e avrebbe aumentato i consumi contadini, contraendo i risparmi. Lo dimostra l'esempio francese, perché l'espansione della piccola proprietà ha rallentato, nel XIX secolo, lo sviluppo economico. Ciò che infastidisce Romeo, infine, è che si studi la storia chiedendosi che cosa si sarebbe potuto fare, anziché analizzare ciò che è accaduto.

- Le tesi di Romeo sono state da più parti criticate, ma hanno avuto il merito di stimolare studi che approfondissero gli aspetti economici, prima trascurati. Uno degli storici che hanno risposto a Romeo è Alexander Gerschenkron (1904-78, storico economico statunitense di origine russa; Il problema storico dell'arretratezza economica, 1962), che ha posto l'accento sulla diversità dei fattori dello sviluppo economico a seconda dei paesi: non c'è solo il caso classico della Gran Bretagna, in cui l'accumulazione di capitali nel settore agricolo ha permesso l'industrializzazione, ma anche quello dei paesi a sviluppo industriale tardivo (late comers ), in cui l'arretratezza dell'agricoltura e il basso livello dei consumi, soprattutto nelle campagne, hanno fatto sì che - per un decollo dell'industria - si facessero intervenire "fattori sostitutivi", come l'intervento dello stato (Russia) o quello delle banche miste (Italia e Germania). L'arretratezza italiana è spiegata dal fatto che i governi moderati, liberisti, non furono in grado di promuovere l'industrializzazione fino a quando, negli ultimi anni del secolo, non intervennero le grandi banche. Altri storici (Luciano Cafagna, Franco Bonelli) hanno invece messo in dubbio che - come sosteneva Romeo - ci sia stato un decollo industriale, perché lo sviluppo dell'economia fu lento e soprattutto dipendente dal commercio con l'estero e dalle rimesse

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degli emigrati; il ritardo del sud, inoltre, non diminuì.

- Uno storico contemporaneo, l'inglese Denis Mack Smith (Garibaldi e Cavour nel 1860, 1958; Storia d'Italia, 1959; Garibaldi. Una grande vita in breve, 1970; Da Cavour a Mussolini, 1968), ha sostenuto che, per l'Italia, un'evoluzione democratica sarebbe stata preferibile all'unificazione; la vittoria di Cavour e dei moderati rallentò i progressi della società italiana e fece sì che la vita politica fosse caratterizzata non dall'alternanza dei partiti al potere, bensì dal trasformismo, a partire dal "connubio" fino a Crispi, Giolitti e Mussolini. Anzi, tutta la storia dell'Italia unita è considerata da Mack Smith come una sorta di marcia di avvicinamento al fascismo. Per queste ragioni la sua interpretazione è stata spesso accostata a quella di Gobetti.

- Negli studi più recenti è spesso centrale il tema dello stato italiano, del suo carattere accentratore e della sua separazione dalla società civile, cui le classi dirigenti tentarono di ovviare trasportando nella sfera del mito il R. e i suoi protagonisti. Dei problemi relativi all'allargamento della base del consenso e al rafforzamento dell'identità nazionale degli Italiani si sono occupati Alfonso Scirocco (L'Italia del Risorgimento, 1990), Umberto Levra (Fare gli italiani. Memoria e celebrazione del Risorgimento, 1992), Mario Isnenghi (I luoghi della memoria, 1994), Massimo Baioni (sui monumenti e sui musei del R.), Simonetta Soldani (sulla patria insegnata a scuola), Ilaria Porciani (sulle feste patriottiche), Aldo Schiavone (Italiani senza Italia, 1998).