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VITA CRISTIANA anno 88° Nerbini RIVISTA DI ASCETICA E MISTICA nuova serie 2019 / 1 Spediz. abbon. post. art. 2 c. 20/c l. 662/96 Provincia Romana di Santa Caterina da Siena Ordine dei Predicatori

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VITA CRISTIANA anno 88°

Sommario di questo numero

Claudio Nardini, Rivista di Ascetica e Mistica e Vita cristiana: cambiamenti significativi… nel segno della continuità

Rossano Zas Friz De Col, Dall’Ascetica e Mi-stica alla Vita cristiana. Novant’anni dopo

Alessandro Cortesi, op, Un percorso tra gli scritti di Timothy Radcliffe. Una proposta di spiritualità per il nostro tempo

Giovanni Palmitessa, La mistica cristiana tra conoscenza esperienziale e metafisica

Maria Cristina della Trinità, Lo Spirito San-to in santa Maria Maddalena de’ Pazzi

Spiritualità a più voci

Fraternità Monastiche di GerusalemmePetra Oregna, fmg, «L’opera delle nostre

mani rendi salda»: vita monastica e lavoro oggi

Vita cristiana. I testiSan Giovanni Eudes, Il Magnificat, con la

sua spiegazione

Nerbini

RIVISTA DI ASCETICA E MISTICA nuova serie

5 15,00 2019 / 1Sped

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Provincia Romana di Santa Caterina da SienaOrdine dei Predicatori

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VITA CRISTIANA

RIVISTA DI ASCETICA E MISTICA nuova serie

RIVISTA QUADRIMESTRALE

Anno LXXXVIIIN. 1 gennaio-aprile

2019

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2019, n. 1, gennaio-aprile

Direttore: Claudio NardiniComitato di redazione: Alessandro Cortesi, op; Wilem Doći, op; Gianni Festa, op.Direttore responsabile: Cinzia De Salvia

AbbonAmenti per il 2019: ordinario € 35,00 estero € 60,00 versione elettronica € 20,00 versione cartacea ed elettronica € 50,00

Fascicoli arretrati singoli € 15,00Fascicoli arretrati doppi € 30,00

per rinnovAre l’AbbonAmento:Privati: conto corrente postale n. 1015092776 intestato a: prohemio editoriAle srl, Via G.B. Vico, 11 – 50136 Firenze;

Istituti, biblioteche, ecc. che desiderano fattura:scriveteci a: [email protected].

per AbbonArsi lA primA voltA:scriveteci a: [email protected]

Vita cristiana è una rivista della Provincia Romana di Santa Caterina da Siena - Ordine dei Predicatori

Realizzazione editoriale: Prohemio Editoriale s.r.l., FirenzeEditore: Edizioni Nerbini – Prohemio Editoriale srl, Firenze – www.nerbini.itDirezione: [email protected] – Segreteria: [email protected] abbonamenti: [email protected]

ISSN 0394-0594

Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 3950 del 15-3-1990 (R.O.C. n. 17419).

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VITA CRISTIANA2019, n. 1, gennaio-aprile

SOMMARIO

ClAudio nArdini, Rivista di Ascetica e Mistica e Vita cristiana: cambiamenti significativi… nel segno della continuità 5

rossAno ZAs FriZ de Col, sj, Dall’Ascetica e Mistica alla Vita cristiana. Novant’anni dopo 9

AlessAndro Cortesi, op, Un percorso tra gli scritti di Timothy Radcliffe. Una proposta di spiritualità per il nostro tempo 33

GiovAnni pAlmitessA, La mistica cristiana tra conoscenza esperienziale e metafisica 55

mAriA CristinA dellA trinità, Lo Spirito Santo in santa Maria Maddalena de’ Pazzi 75

Spiritualità a più vociFraternità Monastiche di Gerusalemme

petrA oreGnA, FmG, «L’opera delle nostre mani rendi salda»: vita monastica e lavoro oggi 91

Vita cristiana. I testisAn GiovAnni eudes, Il Magnificat,

con la sua spiegazione (a cura di Claudio Nardini) 109

Recensioni 129

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CLAUDIO NARDINI

RIVISTA DI ASCETICA E MISTICA E VITA CRISTIANA: CAMBIAMENTI SIGNIFICATIVI… NEL SEGNO DELLA CONTINUITÀ

Come tutte le cose, anche la Rivista di Ascetica e Mistica si rin-nova. A partire da questo numero ci sono alcuni cambiamenti si-gnificativi, per tenere la rivista sempre in linea con le aspettative dei nostri lettori.

Prima di tutto, è cambiato il nome. Quando la rivista è nata, ormai ben 88 anni fa, era stato scelto il nome Vita cristiana, e così si è chiamata per alcuni decenni. È stato solo nel 1956 che l’allo-ra direttore, p. Innocenzo Colosio, decise di chiamarla Rivista di Ascetica e Mistica, sulla scia della prestigiosa (e più famosa) Revue d’Ascétique et Mystique. In quegli anni, anche nelle sedi delle uni-versità pontificie si parlava volentieri di ascetica e di mistica, distin-guendo i due concetti tra loro complementari. Eppure, quel titolo Vita cristiana aveva un respiro ben più ampio e, alla lunga, dimostra ancora la sua piena attualità. Ormai da tempo i corsi universitari di «Teologia mistica» hanno assunto il nome di «Teologia spirituale», dove la spiritualità assume quella centralità che le è propria nel suo essere soprattutto «vita». Ciò che si chiamava fino a qualche de-cennio fa «ascetica e mistica» è semplicemente «spiritualità», anzi, per dirla con maggiore precisione, «vita», «vita cristiana». E Vita cristiana sarà appunto il nome della nostra rivista a partire da que-sto primo numero del 2019, per indicare come ogni ricerca di teo-logia spirituale sia essenzialmente un perseguire il senso cristiano della vita.

Vita cristiana, anno LXXXVIII, n. 1, gennaio-aprile 2019

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A partire dal 2019, alla consueta forma cartacea si affianca an-che una versione digitale, per quei lettori che preferissero leggere la rivista su un apparecchio elettronico (computer, lettore digita-le, smart phone). Ognuno potrà scegliere se abbonarsi alla versione cartacea o se optare per quella elettronica. In questo modo, si è cer-cato di venire incontro alle esigenze di una parte dei lettori, senza per questo penalizzare chi preferisse continuare a leggere la rivista in modo più tradizionale.

Ogni anno saranno pubblicati 3 numeri, e non più 4. Di con-seguenza, anche il costo dell’abbonamento annuo è sceso: per il 2019 è di 35 euro per la versione cartacea e di 20 euro per la versio-ne digitale (l’abbonamento annuo rimane a 50 euro per chi invece volesse entrambe le versioni, cartacea e digitale).

Infine, è cambiato anche il direttore. Padre Fausto Sbaffoni, che ha diretto la rivista con grande competenza per quasi un tren-tennio, mi ha passato il testimone. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta la rivista si era quasi identificata con il suo direttore di allo-ra, quel p. Innocenzo Colosio che occupa un ruolo significativo nel-la storia degli studi sulla mistica della seconda metà del Novecento. A partire dagli anni Novanta, e per un periodo ancora più lungo, la rivista si è identificata con p. Fausto Sbaffoni. Tra i vari studiosi che hanno diretto la rivista, padre Colosio e padre Sbaffoni sono quelli che l’hanno guidata per più tempo, contribuendo in maniera esemplare al grande apprezzamento di cui la rivista ha sempre go-duto. Ora è il momento di un nuovo cambiamento, nella speranza di riuscire a rendere sempre più interessante la rivista, senza per questo stravolgerne la fisionomia. Il seme gettato da una rivista che si avvicina alla sua centesima candelina è ormai diventato punto di riferimento preciso nel panorama editoriale italiano di questo set-tore. Ci auguriamo che il cambiamento possa essere colto dai nostri lettori come segno di vitalità e di rinnovamento, sempre necessario in tutti i campi.

ClAudio nArdini

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Per quanto riguarda i contenuti, Vita cristiana rimarrà essen-zialmente una rivista di spiritualità. In una prima sezione troveran-no spazio alcuni articoli di spiritualità e di storia della spiritualità, tra i quali non mancherà un’attenzione particolare alla storia della spiritualità domenicana (su questo numero, un approfondimento sulla dimensione della gioia nelle opere di Timothy Radcliffe). In una seconda sezione, come già negli anni passati, verranno ospita-te riflessioni di Istituti religiosi o di Centri di studio, per dar luogo a quella “spiritualità a più voci” che vuole caratterizzare il nostro percorso. In una terza sezione, infine (e questa è una novità per la rivista), abbiamo scelto di proporre alcuni testi. Non è sufficiente parlare degli autori più significativi della storia della spiritualità: occorre soprattutto leggerne le opere. Spesso però, in modo parti-colare quando non si tratta degli autori più noti, è capitato a tutti di imbattersi nella citazione di qualche opera di cui non è disponibile un’edizione recente in lingua italiana; ecco allora che questa sezio-ne dedicata ai testi vuole venirci in aiuto, proponendo ogni volta alcune pagine di un’opera ingiustamente dimenticata, se non dagli studiosi, almeno dalle case editrici italiane. In questo modo, con il passare degli anni, Vita cristiana potrà anche diventare una prezio-sa miniera nella quale trovare, se non le opere complete, almeno alcune pagine esemplificative di testi importanti della storia della spiritualità che non sono altrimenti disponibili per i lettori italiani. Sperando, per questo, di poter rendere un piccolo servizio ai nostri lettori.

Rivista di Ascetica e Mistica e Vita cristiana

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«Rivista di Ascetica e Mistica» dal 2019 riprende il nome di

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Vita cristiana, anno LXXXVIII, n. 1, gennaio-aprile 2019

ROSSANO ZAS FRIZ DE COL, SJ

DALL’ASCETICA E MISTICA ALLA VITA CRISTIANA Novant’anni dopo

Nella pubblicazione degli Atti del Congresso Internazionale OCD sulla Teologia spirituale, organizzato dalla Facoltà di Teo-logia del Teresianum nell’aprile del 2000, Daniel de Pablo Maroto offre un articolo sull’evoluzione della teologia spirituale durante il XX secolo, precisando nel sottotitolo: Dalla teologia ascetica e mi-stica alla teologia spirituale.1 Oggi, ormai nella seconda decade del XXI secolo, bisogna precisare un altro passaggio: quello dalla teo-logia spirituale alla vita cristiana.

Trentasette anni prima dell’articolo citato, Giovanni Moioli, nel 1963, pubblica La vita cristiana come oggetto della teologia spiri-tuale.2 Di fatto, la sua proposta non trova eco tra gli studiosi e nem-meno lo stesso Moioli le diede seguito, centrandosi piuttosto sulla teologia spirituale. Tuttavia, lo stesso de Pablo Maroto, che nel suo articolo spezza una lancia in favore della teologia spirituale, afferma che è un termine ambiguo poiché, fino al momento in cui scrive, non ha ancora ben definito il suo oggetto formale e materiale e il metodo per analizzarli. Secondo l’autore, vi è la necessità di uscire al più presto da tale ambiguità per configurarsi in un trattato teo-logico che spieghi il processo di diventare cristiani nel dinamismo dello Spirito Santo: «cioè, costituirsi in una teologia della santità

1 D. de pAblo mAroto, Evolución de la teología espiritual. Siglo XX. De la Teolo-gía ascética y mística a la Teología espiritual, in La teologia spirituale. Atti del Congresso Internazionale OCD, Edizioni OCD-Edizioni del Teresianum, Roma 2001, 113-140.

2 G. moioli, La vita cristiana come oggetto della teologia spirituale, in G. Moioli, La teologia spirituale, Centro Ambrosiano, Milano 2014, 29-48; originariamente pub-blicato in La Scuola Cattolica 91(1963), 101-116.

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Rossano Zas FRiZ De Col, sj

cristiana, o una teologia della vita cristiana».3 Come mai la proposta di Moioli, che non trova successo, viene ripresa da de Pablo Maro-to, forse inconsapevolmente, e ancora oggi sembra attuale, dopo 56 anni dall’insinuazione originaria?

La ragione si trova in quello che il medesimo de Pablo Maro-to chiama il bisogno di cambiare paradigma spirituale: «Il cambio di titoli è segno di un cambiamento di paradigma spirituale».4 Un cambio che si tenta di avviare con la pubblicazione di una Teolo-gia della vita cristiana. Contemplazione, vissuto teologale e trasfor-mazione interiore.5 In questo articolo si propongono ancora alcune ragioni per proseguire e perseverare in quel tentativo, motivati dal fatto che la Rivista di Ascetica e Mistica si ripropone come rivista di Vita cristiana, riprendendo così il suo titolo originario del 1929. Certamente non è un tuffo nel passato, ma un appello profetico agli studiosi del vissuto cristiano. Nel presente articolo si giustifica una tale affermazione.

In effetti, un paradigma (παράδειγμα, paràdeigma)6 è uno sche-ma mentale che serve da punto di riferimento comune a un’associa-zione di persone che condividono principi, metodi e fini. Attraver-so di essi si determinano criteri con i quali prendere decisioni che riguardano tutti gli associati. Impossibile senza una cosmovisione condivisa che strutturi il quadro di riferimento comune, il paradig-ma appunto.

Affermare che c’è bisogno di una trasformazione di paradigma spi-rituale significa che i teologi spirituali dovrebbero trasformare il loro schema mentale, cioè, la loro prospettiva disciplinare condivisa – prin-

3 de pAblo mAroto, Evolución de la teología espiritual, 137.4 Ivi, 138.5 R. ZAs FriZ de Col, Teologia della vita cristiana. Contemplazione, vissuto teo-

logale e trasformazione interiore, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, che prosegue con Iniziazione alla vita eterna. Respirare trascendere e vivere, San Paolo, Cinisello Balsamo 2012, e con La presenza trasformante del mistero. Prospettiva di teologia spirituale, G&B Press, Roma 2015.

6 R. mAioCChi, Paradigma, in Enciclopedia Filosofica, IX, Bompiani, Milano 2006, 8287-8288.

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Dall’Ascetica e Mistica alla Vita cristiana

cipi, metodo e fini – con la quale riflettono sull’oggetto della loro ri-cerca, il vissuto della rivelazione cristiana. La giustificazione ultima è semplice: il cambio di cosmovisione esige di essere accompagnato da un cambio di paradigma disciplinare. In questo senso si propone che nel nuovo paradigma sia la parola vita la chiave di svolta, che vada a sostituire la parola chiave di quello vecchio: spiritualità. Come si mostrerà più avanti attraverso la proposta del metodo teologico-de-cisionale, risulta un concetto che abbraccia tutte le dimensioni della persona, e non soltanto quella spirituale.

Ovviamente, per spostare il nome di una disciplina bisogna non solo giustificare il cambiamento della cosmovisione, ma anche proporre principi, metodo e fini che si adeguino ad essa, in modo da dare una forma coerente alla nuova mentalità. Una forma che si deve mantenere in comunione con la tradizione d’appartenenza, cioè con quella teologia mistica proveniente dal primo millennio e che durante il secondo millennio ha assunto diverse facciate: teolo-gia ascetica e teologia mistica, teologia spirituale, spiritualità cristia-na. E che adesso si vorrebbe riproporre come riflessione sul vissuto cristiano, teologia della vita cristiana, appunto. Un cambiamento che implica la trasformazione dello schema mentale degli studiosi con cui ancora oggi si riflette sul vissuto della rivelazione cristiana.

L’itinerario con il quale giustificare la trasformazione suggerita è da percorrere in tre tappe, cominciando dal considerare il cam-biamento della cosmovisione da cristiana a postcristiana, per prose-guire riflettendo sul principio, metodo e fine del nuovo paradigma e concludere con le sue ricadute.

1. Dalla cristianità alla post-cristianità7

La mentalità della cristianità era caratterizzata dal fatto che il cristianesimo era, per default, nell’immaginario sociale dei paesi a

7 Riprendo, adattandolo, l’articolo: R. ZAs FriZ de Col, Contesto socio-religioso attuale e vissuto cristiano, in Ignaziana (www.ignaziana.org) 23(2017), 17-29; apparso

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maggioranza cattolica, l’orizzonte dentro il quale si dava senso alla vita. Di fronte ad esso c’erano le altre alternative, laiche, non reli-giose. Non le era contestata la sua primazia religiosa. Inoltre, l’isti-tuzione ecclesiale aveva un reale influsso sociale al punto da espri-mere a nome di Dio i comportamenti dovuti e indovuti.

Quella mentalità è andata in crisi in modo accelerato a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, aprendosi una nuova tappa nell’evoluzione storica del cattolicesimo in quei paesi. Una nuova tappa che si può denominare postcristianità, in quanto nell’immagi-nario sociale la dottrina e la morale cattolica non hanno più l’influsso che avevano nella situazione precedente, di cristianità. Senza dubbio la globalizzazione delle comunicazioni e la migrazione hanno con-tribuito in maniera rilevante a quella trasformazione. Tuttavia, non si può attribuire solo a questi due fattori il cambiamento avvenuto. Con le parole di Charles Taylor,8 la civilizzazione occidentale

ha conosciuto una trasformazione titanica. Non solo siamo passati da una condizione in cui la maggior parte delle persone viveva «ingenua-mente» entro una certa prospettiva (in parte cristiana, in parte legata a «spiriti» di derivazione pagana) come se fosse la pura e semplice realtà, a una in cui quasi nessuno fa più questa esperienza, mentre tutti considerano la propria posizione come una tra le tante. […] Ma siamo anche passati da una condizione in cui la credenza [cristiana] era l’opzione automatica non solo per le persone semplici ma anche per coloro che conoscevano, consideravano, discutevano l’ateismo, a una condizione in cui per un numero sempre crescente di persone le prospettive dei non credenti sembrano di primo acchito le sole plau-sibili (T 25-26).

Secondo Taylor, questa trasformazione è il cuore e l’origine della «secolarizzazione» moderna, nel terzo sen-so in cui ho utilizzato tale termine, quello cioè delle nuove condizioni

anche in M. rotsAert – r. ZAs FriZ de Col, Iniziazione alla vita spirituale, G&B Press, Roma 2017, 9-25.

8 C. tAylor, L’età secolare, edizione italiana a cura di P. CostA, Feltrinelli, Mila-no 2009; abbreviamo T seguito dal numero della pagina.

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Dall’Ascetica e Mistica alla Vita cristiana

in cui la credenza e la non credenza coesistono precariamente e spes-so entrano in conflitto nella società contemporanea (T 378).

Per avere un’idea della dinamica di quella trasformazione, si propongono a continuazione due caratteristiche dell’immaginario sociale attuale e, in seguito, una spiegazione di come si sia arrivati a tale situazione: dal predominio sociale della religione come isti-tuzione, e quindi della dottrina, al predominio attuale della spiri-tualità come esperienza; dallo stato solido della società durante la modernità, che coincideva con la cristianità, si è passati a uno stato sociale liquido, postmoderno, e perciò postcristiano; infine, si inter-pretano ambedue i passaggi come frutto del processo di secolariz-zazione avvenuto proprio all’interno del cristianesimo.

1.1. dAllA reliGione AllA spirituAlità

Secondo David Tacey,9 è in atto un modo nuovo di compren-dere la religione e la spiritualità. «Spiritualità» diventa sinonimo di spontaneità, apertura e disponibilità, sulla base di una comprensio-ne olistica dell’essere umano che promuove la democrazia, la pie-nezza e la completezza. La «religione», invece, è percepita come un’istituzione rigida, dottrinale, moralizzante, autoritaria, promo-trice di una «perfezione» irraggiungibile, con segni di unilateralità e fonte di disuguaglianza (cf. DT 31). Così, il vissuto religioso ha smesso di essere spirituale e quello spirituale di essere religioso, an-che se il fondamento antropologico della trascendenza rimane inva-riato. Tuttavia, si è trasformato l’immaginario sociale. Il fatto è che le energie vitali soggiacenti all’élan spirituale, nella ricerca di nuove formulazioni, tornano volatili, instabili, ambigue e complesse sotto il segno della critica delle forme simboliche precedenti e delle isti-tuzioni religiose, politiche, educative, ecc. (cf. DT 35).

9 D. tACey, The Spirituality Revolution. The Emergence of Contemporary Spiritua-lity, Brunner-Routledge, Hove-New York 2004. Abbreviamo DT, seguito dal numero della pagina.

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Rossano Zas FRiZ De Col, sj

Nell’immaginario attuale si riflette la crisi in cui viviamo: la nuova spiritualità della ricerca ha occupato il posto della stabilità religiosa e delle sue pratiche tradizionali. Si presenta disordinata, mutevole, perfino caotica e anarchica (cf. DT 37). Rifiuta qualsiasi gerarchia, ha un’impostazione democratica di fondo per un’acco-glienza paritaria di tutti, lontana dall’impostazione delle religioni tradizionali con il loro clero e le loro distinzioni. Ognuno si or-ganizza spiritualmente secondo la sua coscienza e alimenta la sua esperienza con letture, pratiche e attività diverse, scegliendo il guru che più gli conviene. Si tratta di un atteggiamento molto diffuso fondato sulla convinzione che qualsiasi scelta, se non è frutto dell’e-sperienza e del vissuto personale, non è autentica (cf. DT 38-39). È un nuovo paradigma.

La spiritualità non ha bisogno degli argomenti della religione, è sufficiente la presenza del mistero nel mondo, che è più impor-tante dei rituali e delle liturgie. La spiritualità è orientata verso un incontro interiore, intimo e intenso con il mistero della vita che si fa presente attraverso la realtà e la quotidianità. Un’esperienza olistica che non cerca la perfezione dell’anima, ma l’autenticità personale nell’integrazione del corpo, della mente e dello spirito nel vissuto armonioso della sessualità e del rapporto con la natura (cf. DT 128, 163-164). Per questa ragione la religione tradizionale non «tocca» più il cuore delle persone, si presenta distante e lontana dalla gente, irrispettosa della coscienza, perché presenta un Dio che sta agli an-tipodi dei valori della vitalità: un Dio dei filosofi, dei metafisici, dei teologi, delle formulazioni dottrinali.

Due paradigmi che si scontrano: quello vecchio, radicato nell’illustrazione, sostenuto dalla prospettiva accademica tradizio-nale e dai professionisti della religione, che non fomenta il vissuto spirituale, e quello nuovo, radicato nel vissuto di una fame di «qual-cosa di più» che cerca il contatto con il fondamento della realtà (cf. DT 203-205). Secondo Tacey, la principale differenza tra i due paradigmi risiede nell’importanza data all’interiorità e al coltivare e sviluppare la vita interiore. La spiritualità è ricerca e comprensio-

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Dall’Ascetica e Mistica alla Vita cristiana

ne di un viaggio interiore, invece la religione convenzionale rimane esterna al self e molto lontana dalla situazione storica (cf. DT 205).

Questa convinzione è la reazione a una diffusa alienazione, allo scoraggiamento, alla delusione, alla mancanza di relazionalità e connettività della vita attuale: «richiamare la spiritualità è richia-mare la salvezza e la connettività. È ammettere che siamo divisi e lontani dal diventare un’unità. È da riconoscere che le nostre vite sono frammentate e che speriamo in un mistero che metta assieme le parti» (DT 215).

1.2. dAllo stAto solido Allo stAto liquido

Le analisi di Zygmunt Bauman sono di aiuto per comprendere quella caratteristica attuale delle società sviluppate che egli qualifi-ca come liquidità, in contrasto con la solidità vissuta in precedenza. In effetti, l’incanto della cosiddetta modernità si è trasformato nel disincanto della postmodernità, dovuto alla consapevolezza che le promesse che la modernità aveva fatto, fondate sull’ottimistica spe-ranza di un progresso lineare dello sviluppo scientifico, culturale e morale della società, non si sono avverate.

Il mutamento nella percezione del tempo, dovuto ai cambia-menti tecnologici e culturali negli ultimi due secoli, è forse l’ele-mento più importante da considerare. Il vissuto attuale del tempo è inebriato dalla velocità che impedisce il consolidamento di abi-tudini e procedure, per cui la coscienza umana vive in uno stato di accelerazione costante, perciò liquido, non solido. Predomina la velocità sulla durata, il vissuto immediato su ogni possibile aspetta-tiva di permanenza. Il risultato è una percezione liquida del tempo, a cui si aggiunge un secondo elemento, la percezione globalizzata dello spazio.

La cultura della velocità produce il cambiamento senza sosta, che genera paura, perché si ignorano le conseguenze del cambia-mento stesso e il suo orientamento e la finalità di fondo. Tuttavia, la minaccia di arrestare il ritmo del cambiamento produce ancora

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più paura. In questo modo, paura e insicurezza si alimentano reci-procamente:

Contrariamente all’evidenza obiettiva, sono coloro che vivono in un agio mai conosciuto prima, che sono più coccolati e viziati di chiun-que altro nella storia, a sentirsi più minacciati, insicuri e spaventati, più facili al panico e più attratti da qualsiasi cosa abbia a che fare con la sicurezza e l’incolumità, rispetto alla maggior parte delle altre so-cietà del passato e del presente.10

In effetti, l’accelerazione del tempo, la globalizzazione dello spazio e le loro conseguenze nel quotidiano fanno sì che l’indivi-duo, più o meno consapevolmente, si senta minacciato dall’ambien-te circostante e difenda la sua individualità dinanzi agli altri, alla società e alle sue istituzioni. Un tale atteggiamento esige la ricer-ca dei mezzi per rassicurare la propria incolumità a tutti i livelli dell’esistenza, una ricerca spinta dalla convinzione che la sicurezza si possa comprare come un qualsiasi bene di consumo. E qui nasce il paradosso promosso dalla mentalità consumistica: il mercato of-fre i prodotti, materiali e spirituali, per combattere la paura della sicurezza e dell’identità minacciate. Quindi, gli individui devono acquistarli per sentirsi al sicuro. Ma in questo modo, l’offerta del mercato orienta i consumi, così gli individui si trovano a dipende-re da essa per risolvere la propria condizione umana. Il risultato è la massificazione degli individui dovuta alla loro dipendenza dalle offerte del mercato.

Secondo Bauman non resta che un’alternativa di fronte a que-sta situazione in cui i mali del capitalismo criticati da Marx si sono globalizzati,11 ed è quella che l’individuo si emancipi dalla massa inebriata dal consumismo, in cerca di una vera libertà, o sempli-cemente si arrenda e si lasci inebriare. Egli ha l’impressione che la gente voglia essere ingannata.

10 Z. bAumAn, Paura liquida, Laterza, Bari 2009, 162.11 Z. bAumAn, Vita liquida, Laterza, Bari 2009,158-161.

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In conclusione, secondo Bauman, si deve cercare l’emancipa-zione dell’individuo dalla cultura del consumismo attraverso un’e-ducazione critica verso di essa:

L’unico «nucleo d’identità» destinato sicuramente a emergere ille-so, e forse persino rafforzato, dal cambiamento continuo è quello dell’homo eligens – l’«uomo che sceglie», ma non «che ha scelto»! –, di un io stabilmente instabile, completamente incompleto, definitiva-mente indefinito e autenticamente inautentico.12

Bisogna potenziare (empowerment) l’individuo perché sia ca-pace di

compiere scelte e di agire efficacemente in base alle scelte compiute. Ciò a sua volta comporta la capacità di influenzare la gamma delle scelte disponibili e gli ambiti sociali nei quali le scelte vengono compiute e perseguite.13

Potenziare l’individuo significa dargli l’opportunità di riacqui-stare fiducia in se stesso attraverso la pratica di scelte critiche di fronte all’ideologia del consumismo. In questo modo si mantiene aperta la speranza alla meta-speranza, cioè l’individuo si apre alla possibilità di aspettarsi per sé un domani migliore: rende possibile l’atto stesso di sperare.14

1.3. il proCesso di seColAriZZAZione dellA spirituAlità CristiAnA

Il doppio passaggio accennato, dalla religione alla spiritualità e da un vissuto solido a uno liquido della vita, rivela la trasforma-zione che si è operata nell’immaginario delle società occidentali di antica tradizione cristiana. Una trasformazione che, secondo Char-

12 Ivi, 26.13 Z. bAumAn, Vite di corsa. Come salvarci dalla tirannia dell’effimero, Il Mulino,

Bologna 2009, 88 (corsivo dell’autore).14 Cf. bAumAn, Paura liquida, 219. «La nostra globalizzazione negativa, che oscilla

tra il togliere la sicurezza a chi è libero e l’offrire sicurezza sotto forma di illibertà, ren-derà la catastrofe ineluttabile. Se non si formula questa profezia, e se non la si prende sul serio, l’umanità ha poche speranze di renderla evitabile» (ivi, 220, corsivo dell’autore).

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les Taylor, si spiega analizzando il processo di secolarizzazione di quelle società, dai preamboli della Riforma protestante al secondo dopoguerra. Una situazione ancora in sviluppo, accelerato.

La Riforma e i suoi preludi

Per Taylor, i preludi della Riforma acquistano forma con l’ef-fetto del nominalismo e della nuova scienza rinascimentale sulla cultura europea: il cosmo cessa di essere una sinfonia da ammirare per diventare una macchina che bisogna comprendere per trasfor-marla grazie alla ragione di cui Dio ha dotato la condizione uma-na.15 Una nuova situazione che adesso «esige che lavoriamo su noi stessi, che non lasciamo le cose come stanno, ma le cambiamo alla radice: implica una lotta per riplasmarsi» (T 137). Dal sapere con-templativo si passa a quello trasformativo, sebbene rimanga ancora un umanesimo fondato religiosamente sul cristianesimo.

È importante rilevare che questo modo di pensare è patrimo-nio soltanto di un’élite intellettuale che poco a poco si stacca dalla religiosità popolare fin qui imperante, dando luogo a un divario cre-scente, anche se si rimane ancora in un contesto religioso-cristiano.

La Riforma protestante rompe il doppio binario proprio del mondo cattolico (religione d’élite e religione popolare), stabilendo l’uniformità tra i credenti, fondata sulla concezione teologica della salvezza mediante la sola fede: tutti sono chiamati ugualmente alla perfezione evangelica.

Di pari passo, nasce una nuova mentalità umanistica in cui la ragione strumentale si applica non solo in rapporto alla natura, ma anche alla vita sociale con lo scopo di stabilire una società ordinata. In questo modo la ragione esige, dal singolo e dalla società come

15 «Non si tratta più, infatti, di ammirare un ordine normativo, in cui Dio si è ri-velato mediante i segni e simboli. Dobbiamo piuttosto dimorare in esso come agenti della ragione strumentale che fanno funzionare efficacemente il sistema per realizzare gli scopi divini; poiché è tramite questi scopi e non tramite i segni che Dio si rivela nel suo mondo» (T 133).

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corpo, la pratica volontaristica della virtù in modo da raggiungere il benessere e la prosperità terreni, diluendosi poco a poco l’oriz-zonte dell’attesa escatologica propria della vita cristiana, perché il benessere va ottenuto già. Tuttavia, in queste circostanze, Dio non sparisce dall’orizzonte, è considerato ancora la fonte della ragione e l’uomo sua immagine e somiglianza.

Il deismo provvidenzialista del XVII secolo

Una conseguenza del nuovo impianto teologico proposto dalla Riforma è il considerare Dio come creatore e benefattore, che ha la-sciato però agli uomini la realizzazione del suo progetto, senza che questa realizzazione richieda un suo intervento speciale, miracolo-so. Bisogna cercare la prosperità, con i mezzi naturali dati da Dio, la ragione e l’operosità umana, per soddisfare il mutuo interesse dei cittadini nella ricerca del beneficio individuale e generale. A tale scopo basta avere fiducia nelle proprie forze umane per compiere la volontà divina, che spinge alla prosperità.

Come conseguenza va acquistando forma una concessione im-personale del rapporto con Dio, non più fondato su un rapporto personale e immediato con lui, ma mediato dall’ordine virtuoso del singolo e della società.16 Dio non è più necessario per reggere l’or-dine personale e sociale, perché c’è un ordine morale moderno fon-dato sull’abnegazione finalizzata alla prosperità generalizzata, ren-dendo superfluo ogni tentativo di trascendere la prosperità stessa (cf. T 317).

In una tale prospettiva, l’uomo è l’artefice della storia e del progresso per il profitto, la prosperità e il beneficio reciproco dei cittadini. Non c’è più bisogno di chiedere aiuto alla grazia divi-

16 «Ciò che avviene è in sostanza un progressivo distacco dalle concezioni cristia-ne ortodosse di Dio come agente che interagisce con gli uomini e interviene nella storia umana, è il passaggio a un’immagine di Dio come architetto di un universo operante secondo leggi immutabili, a cui gli esseri umani devono conformarsi oppure subirne le conseguenze» (T 346).

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na: il giudizio divino ricadrà sulla bontà delle realizzazioni stori-che. Si perde in questo modo il senso del mistero della provviden-za e dell’azione della grazia, considerati tradizionalmente come gli agenti fondamentali della trasformazione interiore, frutto del rap-porto personale con Dio in un orizzonte temporale metastorico, escatologico. Nasce così l’umanesimo esclusivista: «esclusivista» perché ha escluso Dio come interlocutore e fonte della trasforma-zione interiore.

I secoli XVIII e XIX

Durante il XVIII secolo la nuova mentalità ha maggiore diffu-sione, ma resta comunque ancora forte l’influsso del cristianesimo nell’immaginario sociale. La grande novità è che nel secolo succes-sivo, il XIX, questa nuova concezione dell’esistenza diventa l’orien-tamento predominante dell’immaginario sociale. Se nel secolo pre-cedente si conservano ancora le radici cristiane di una mentalità non cristiana, adesso si criticano lo stesso umanesimo esclusivista e il deismo da una prospettiva che rifiuta le radici religiose. Durante l’Ottocento l’io prende possesso di sé, si concepisce autosufficiente e sicuro, senza il bisogno di alcun riferimento implicito o esplicito a Dio. L’ordine sociale prescinde dalla religione, il tempo si secola-rizza, così come la cultura.

Paradossalmente, cresce al contempo un malessere interiore che Taylor interpreta come la perdita del senso della vita, promuo-vendo la ricerca di «fonti spirituali alternative» che compensi l’as-senza della dimensione della trascendenza (cf. T 385). È un feno-meno che emerge nella modernità avanzata, frutto di un malessere che penetra dappertutto, inavvertitamente, accompagnando la vita quotidiana come

priva di una risonanza più profonda […]; le cose che ci circondano possono apparire morte, brute, vuote, e il modo in cui le organizzia-mo, le plasmiamo, le sistemiamo per vivere [sembra] non abbia signi-ficato, bellezza, profondità, senso. Di fronte a questo mondo insensa-to può venire una specie di «nausea» (T 392-393).

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Questa è la grande svolta. La ricerca di senso si avvia adesso, per esempio,

progettando di creare un nuovo mondo di giustizia e prosperità. E analogamente, senza fare appello alla religione, si può cercare di fare risonanza alla vita quotidiana, alla natura e alle cose che ci circonda-no, facendo leva sul nostro più profondo senso interiore (T 394-395).

Alla fine dell’Ottocento, esclusa la religione e il suo mistero dall’immaginario sociale, l’attenzione si rivolge verso il mistero im-perscrutabile dell’interiorità umana, nel quale si pre-sente un’origi-ne e un fine comune a tutta l’umanità, come si evince, per esempio, dalla teoria freudiana dell’inconscio (cf. T 439). Questa nuova men-talità è considerata un segno di sviluppo verso una vera maturità umana in grado di superare l’ostacolo che pone l’infantilismo della credenza religiosa (cf. T 460-461). Il XX secolo perfeziona questo atteggiamento, che diventa patrimonio dell’immaginario sociale di milioni di persone.

Il XX secolo

L’ultimo sviluppo della secolarizzazione avanzata si tiene in quella che Taylor chiama la «cultura dell’autenticità»:

Devo scoprire la mia strada verso l’integrità e la profondità spirituale. L’attenzione è focalizzata ora sull’individuo e sulla sua esperienza. La spiritualità deve parlare a tale esperienza. La ricerca […] è quindi il modello fondamentale della vita spirituale. Una ricerca che non può prendere le mosse da esclusioni a priori o da punti di partenza ineludi-bili, che porterebbero a pre-giudicare questa esperienza (T 638-639).

La ricerca è «spirituale», non «religiosa», poiché questa impo-ne a quella scelte previe rispetto all’esperienza della ricerca stessa. Di conseguenza, la ricerca di senso è diventata un’avventura perso-nale legittimata dal vissuto individuale.17

17 In effetti le persone «stanno cercando una sorta di unità e di integrità del sé, una rivendicazione dell’importanza del sentimento contro la supremazia unilaterale della

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Tuttavia, l’opzione credente e quella non credente non riesco-no a imporsi l’una sull’altra, e nessuna appare come quella ovvia: è in atto la «ricomposizione della vita spirituale in nuove forme, e di nuovi modelli di esistenza sia all’interno sia all’esterno della relazio-ne con Dio» (T 551). Adesso non sono più le élite culturali a non credere, ma le masse.

Conclusione

In sintesi, il passaggio da una condizione di cristianità a un’al-tra di post-cristianità nelle società di antica tradizione cattolica è dovuto alla progressiva secolarizzazione della fonte della trasfor-mazione personale: non più il vissuto della rivelazione giudeo-cri-stiana, ma l’ascolto della rivelazione dell’interiorità dell’individuo stesso. L’idea di una spiritualità liberata dalla religione e quella di una concessione della vita sociale legata al consumismo autorefe-renziale e massificante, sono due prodotti raffinati della secolariz-zazione dell’interiorità. In essa non c’è più bisogno della rivelazione divina e del rapporto con Dio per avviare, sviluppare e raggiungere un processo di trasformazione che porti a un sempre maggiore be-nessere individuale.

2. Il nuovo paradigma

La situazione descritta nel paragrafo precedente muove a cer-care un ponte con essa, in modo da poter approfittare dei suoi van-taggi e superare i suoi svantaggi dinanzi a una concezione dello svi-luppo del vissuto cristiano. Il dialogo tra il vissuto della rivelazione e il suo contesto immediato è imprescindibile per la comprensione

ragione, e una riaffermazione del corpo e dei suoi piaceri rispetto alla collocazione subalterna e spesso tormentata dei sensi di colpa in cui era stato confinato nell’iden-tità disciplinata e strumentale. L’accento cade ora sull’unità, sull’integrità, sull’olismo, sull’individualità; il loro linguaggio spesso evoca “l’armonia, l’equilibrio, il flusso, l’in-tegrazione, la concordia, la concentrazione”» (T 638).

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vitale del vissuto stesso, ma anche per comunicarlo ai contempora-nei, come dimostra la tradizione missionaria della Chiesa.

Il bisogno di cambiare il paradigma, cioè l’approccio metodo-logico rispetto all’oggetto di studio, sorge precisamente da questa doppia necessità. Serve un nuovo punto di partenza che offra la possibilità di applicare un nuovo metodo per raggiungere il fine che la tradizione cristiana offre, cioè l’unione a Dio. C’è bisogno di un nuovo schema mentale per affrontare il vissuto cristiano nel nuovo contesto post-cristiano. A questo scopo, il nuovo punto di partenza si trova nell’esperienza, a cui si applica un nuovo metodo centrato nel prendere una decisione per chiarificare i passaggi con cui si rag-giunge il fine desiderato.

2.1. i prinCipi: l’esperienZA Come punto di pArtenZA e lA deCisione Come punto di Arrivo

La sensibilità post-cristiana profondamente segnata dal fare esperienza, si presenta oggi come il punto di avvio per qualsiasi di-scorso «spirituale», e, di conseguenza, dovrebbe esserlo anche per quello «religioso». Durante la cristianità degli ultimi decenni, di fatto, l’impostazione dottrinale della religione lasciava nell’ombra la sua dimensione esperienziale, dando così l’impressione che non fosse necessaria quanto la dottrinale. La post-cristianità inverte la situazione, come argomenta Tacey. Quali sono i presupposti che fondamentano l’esperienza come punto di partenza di una spiritua-lità religiosa/cristiana post-cristiana?

La risposta alla domanda si elabora a partire dalla riflessione stessa che sant’Ignazio di Loyola sviluppa nei suoi Esercizi spirituali (= ES). In effetti, gli Esercizi sono la sintesi personale del suo vissuto cristiano abbinato all’esperienza che va raccogliendo nella pratica di offrirli ad altri. Sono stati redatti nell’arco di più di vent’anni, dal 1521, quando convalescente inizia a prendere consapevolezza delle sue mozioni spirituali, fino al 1544, data in cui il testo è stato com-pletato, anche se per l’approvazione pontificia si devono aspettare

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ancora quattro anni. Si tratta di una riflessione sul vissuto che trova la sua giustificazione ultima nel medesimo vissuto biblico della tra-dizione cristiana.

Innanzitutto, bisogna mettere la base, come indica il numero 15 degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio: è lo stesso Creatore e Signore che si comunica alla persona per abbracciarla nel suo amore e di-sporla così verso la via in cui potrà servirlo meglio. Per questa ragio-ne, chi dà gli Esercizi deve mantenersi sempre da parte, senza prota-gonismi, lasciando che il Creatore operi immediatamente nell’eserci-tante e l’esercitante risponda direttamente al suo Creatore e Signore. A questa convinzione teologica, ne segue una antropologica.

Se Dio agisce sull’interiorità della persona, è perché essa è sta-ta creata da Dio e ha una finalità data nella sua stessa condizione creaturale: lodarlo, riverirlo e servirlo. Esercitarsi mentre vive nel raggiungere tale finalità significa esercitarsi nella sua salvezza. Con-seguentemente, le sue decisioni devono essere indirizzate a raggiun-gere il suo fine, allenandosi praticamente nella cosiddetta indiffe-renza ignaziana,

in modo che, da parte nostra, non vogliamo più salute che malattia, ricchezza che povertà, onore che disonore, vita lunga che breve, e così via in tutto il resto; solamente desiderando e scegliendo quello che più ci conduce al fine per cui siamo creati (ES 23).

Si apre così l’argomento della libertà personale indirizzata alla realizzazione di un fine che richiede di liberarsi di tutto quanto ostacoli il compimento della promessa di vita eterna.

Su questa base teologica e antropologica opera la dinamica del modo in cui Dio si comunica e si rivela personalmente. Essa si rea-lizza attraverso le mozioni spirituali che sono sempre di consolazio-ne spirituale. Il loro effetto può essere causato direttamente da Dio,18

18 «Solo Dio nostro Signore dà consolazione all’anima senza causa precedente; perché è proprio del Creatore entrare, uscire, suscitare mozione in essa, attirandola tut-ta nell’amore di sua divina maestà. Dico senza causa, senza nessun previo sentimento o conoscenza di alcun oggetto da cui venga quella consolazione, mediante suoi atti di intelligenza e di volontà» (ES 330).

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o prodursi attraverso una mediazione.19 Ma si tratta sempre di un tocco interiore mediante il quale

l’anima viene a infiammarsi nell’amore del suo Creatore e Signore; e, di conseguenza, quando nessuna cosa creata sulla faccia della terra può amare in sé ma solo nel Creatore di tutte. Così pure quando versa lacrime che muovono all’amore del suo Signore, ora per il dolore dei suoi peccati, ora della passione di Cristo nostro Signore, ora di altre cose direttamente ordinate al suo servizio e lode (ES 316).

Tuttavia, in contrasto, ci sono le desolazioni, descritte da sant’Ignazio come quelle mozioni interiori che producono

oscurità dell’anima, turbamento in essa, mozione verso le cose basse e terrene, inquietudine da agitazioni e tentazioni diverse, che portano a sfiducia, senza speranza, senza amore, e la persona si trova tutta pigra, tiepida, triste e come separata dal suo Creatore e Signore (ES 317).20

Come si evince dalle medesime citazioni, il rapporto tra per-cezione affettiva e risonanza cognitiva è strettissimo nelle mozioni, siano esse di consolazione o di desolazione. Precisamente, il con-trasto tra le mozioni orienta il cammino da seguire, che è sempre frutto di una decisione. Quindi, è nella decisione, non nel fatto di sentire le mozioni, che si gioca il rapporto con Dio.21 Il sentire è in

19 «Con causa può consolare l’anima tanto l’angelo buono come il cattivo per fini contrari: l’angelo buono per giovamento dell’anima, perché cresca e salga di bene in meglio; e l’angelo cattivo per il contrario, e per trascinarla ulteriormente nella sua dan-nata intenzione e malizia» (ES 331).

20 «Dio le permette per tre motivi: la prima è perché siamo tiepidi, pigri o negli-genti nei nostri esercizi spirituali, e così per le nostre colpe la consolazione spirituale si allontana da noi; la seconda, per farci provare quanto valiamo e quanto avanziamo nel suo servizio e lode, senza tanto sostegno di consolazioni e grandi grazie. La terza, per darci vera nozione e conoscenza, affinché sentiamo intimamente che non dipende da noi procurare o conservare grande devozione, amore intenso, lacrime, né alcun’altra consolazione spirituale, ma che tutto è dono e grazia di Dio nostro Signore; e affinché non poniamo nido in casa altrui, elevando il nostro intelletto in qualche superbia o va-nagloria, attribuendo a noi stessi la devozione o le altre parti della consolazione spiri-tuale» (ES 322).

21 «È proprio di Dio e dei suoi angeli, nelle loro mozioni, dare vera letizia e gioia spirituale, rimuovendo ogni tristezza e turbamento che il nemico induce; del quale è

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funzione del decidere. Tanto è così che nel titolo degli Esercizi spiri-tuali si afferma che sono «per vincere se stesso e ordinare la propria vita senza prendere decisioni in base ad alcun affetto disordinato» (ES 21). Per questa ragione il metodo adatto per sviluppare una mi-gliore comprensione della spiritualità deve partire dall’esperienza e centrarsi sul prendere una decisione. Perché nella decisione, come si vedrà, si concentra il vissuto.

2.2. il metodo teoloGiCo-deCisionAle

Il metodo che si presenta è una versione aggiornata di una pro-posta precedente di un solo momento (sincronico e diacronico) de-nominato metodo fenomenico-cognitivo.22 Adesso prende il nome di metodo teologico-decisionale e ha tre momenti: incorpora, nel primo, l’analisi sincronica e diacronica precedente, mentre nel se-condo si realizza un’analisi mistagogica, e nel terzo si compie una sintesi dei momenti precedenti per analizzarne le ricadute nel mo-mento attuale.23

Nel primo momento, fenomenologico, il rapporto con Dio si stabilisce, perché sia personale, attraverso una comunicazione mu-tua che si realizza nella mediazione del linguaggio delle mozioni spirituali di consolazioni e di desolazioni. Tuttavia, soltanto quando si prende una decisione la persona si autodetermina di fronte alla mozione ricevuta.

Una mozione non dipende da un atto di volontà di chi la rice-ve, ma è come un input che si riceve, senza intervento volontario del ricevente. Prendendo consapevolezza delle reazioni affettive e dei contenuti cognitivi che suscita si può riflettere su di essa per prendere una decisione. Quindi, l’esperienza del tocco-consapevo-lezza-riflessione della mozione è un’unità psicologica che precede il

proprio combattere contro tale letizia e consolazione spirituale, portando ragioni appa-renti, sottigliezze e continui inganni» (ES 329).

22 Cf. ZAs FriZ de Col, La presenza trasformante del mistero, 117-157. 23 In una prossima pubblicazione si offrirà una versione completa e aggiornata.

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prendere una decisione. Adesso, la decisione può avere due orien-tamenti, come risposta alla mozione: approfondire o meno il rap-porto con Dio. La conseguenza della decisione determina l’orien-tamento dell’atteggiamento teologale, cioè del vissuto della fede, speranza e carità.

Seguendo questo approccio, l’attenzione per l’esperienza si fo-calizza sulla mozione spirituale, ma in funzione di una decisione da prendere, anche se fosse quella di rimanere indifferenti alla mozio-ne stessa. Si tratta di un’analisi sincronica della singola esperienza, alla quale si deve aggiungere anche un’analisi diacronica.

In effetti, lo sviluppo della trasformazione cristiana è un sus-seguirsi di esperienze che, grazie a un orientamento che punta a un fine desiderato, consente di pensare a un itinerario diacronico che si sviluppa progressivamente nelle scelte sincroniche. L’analisi dell’itinerario di un credente, sulla base delle decisioni più impor-tanti prese da lui, permette di stabilire la sua trasformazione perso-nale alla luce del suo rapporto con la rivelazione cristiana di Dio. Si evidenzia in questo modo che entrambe le analisi sono in funzione della vita cristiana, per una doppia ragione.

La prima, se nel fatto della singola decisione si raccoglie l’in-tervento divino attraverso la mozione spirituale, la consapevolezza delle risonanze di quell’intervento e la riflessione sul suo senso nella propria vita, con l’obiettivo di prendere una decisione che risponda o meno alla mozione ricevuta, allora vi è implicata tutta la persona: la sua dimensione affettiva, cognitiva e comportamentale. Inoltre, e qui la seconda ragione, come ovviamente succede in qualsiasi rap-porto tra due persone, si tratta di una relazione che si protrae nel tempo e, quindi, che si prolunga successivamente in singole mozio-ni che si intrecciano costituendo la storia del rapporto. Per queste due ragioni che abbracciano tutte le dimensioni della persona, inse-rendole nello sviluppo della storia per evidenziare la trasformazio-ne personale, e riconsiderando i presupposti che reggono il metodo qui proposto, sembra più conveniente parlare di vita cristiana e non solo di spiritualità cristiana.

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Nel secondo momento del metodo, si prende consapevolezza di come la provvidenza di Dio sia alla base delle decisioni prese dal fedele, evidenziandosi così la pedagogia divina che orienta il fedele tramite il mistero della sua Presenza. Chiarita questa pedagogia, si mette in luce dopo come tale pedagogia abbia trasformato la vita del fedele, precisamente per l’influsso divino che sta alla radice del-le decisioni prese.

Infine, nel terzo momento, si analizza la situazione antropolo-gica e sociologica contemporanea per prendere consapevolezza di quali siano le sue caratteristiche più rilevanti rispetto alla ricezione della rivelazione cristiana. Un’analisi che permette di avanzare pro-poste desunte dalle analisi dei due momenti precedenti per aiutare a illuminare la realtà analizzata.

2.3. il Fine: lA vitA CristiAnA Come preludio dellA vitA eternA

Il metodo teologico-decisionale appena delineato per sviluppa-re una maggiore comprensione della relazione tra Dio e il creden-te trova la sua migliore formulazione nella parola vita, superando quelle utilizzate fino a ora, spiritualità (cristiana), o anche ascetica e mistica, senza dimenticare la teologia spirituale. Precisamente in questo cambiamento si formula il passaggio dal vecchio paradigma al nuovo. E si giustifica così anche il cambio di titolo della rivista: da Ascetica e Mistica a Vita cristiana.

La comunione/unione d’amore tra Dio e l’uomo, in una pro-spettiva escatologica, è la finalità a cui tende la rivelazione biblica di Dio. Abbraccia tutta la persona nel tempo della storia, ma la proiet-ta oltre, verso un tempo meta-storico, eterno. In questo senso la pa-rola vita connota più chiaramente gli elementi antropologici coin-volti e denota più ampiamente il suo raggio di significazione. Ha il vantaggio di prendere in considerazione, da una parte, i diversi aspetti umani circoscritti a una determinata coordinata spazio-tem-porale attraverso l’analisi di una singola decisione. E, dall’altra, considera lo sviluppo della trasformazione personale che si va pro-

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Dall’Ascetica e Mistica alla Vita cristiana

ducendo attraverso le decisioni prese in una prospettiva temporale, la cui realizzazione piena è progettata escatologicamente dopo la morte. Così esperienza singolare e vissuto storico/escatologico si abbracciano nella parola vita cristiana.

In questo senso si può affermare che la vita cristiana è alimen-tata dalle mozioni spirituali (esperienza), la cui consapevolezza por-ta a ragionare e a prendere una decisione per realizzare il suo fine, l’unione a Dio. Ovviamente, fino a qui si è accennato principalmen-te a un orientamento personale, individuale, della vita cristiana, ma essa è anche comunitaria. Perciò, si può anche parlare di una vita cristiana comunitaria, nella quale si ricevono delle mozioni che la riguardano, per poi prendere consapevolezza comunitaria del loro significato e rifletterci sopra per prendere una decisione che rispon-da, comunitariamente, alla volontà di Dio.

2.4. ConClusione

Il passaggio dalla cristianità alla post-cristianità evidenziato nella secolarizzazione della spiritualità cristiana, divenuta spiritua-lità tout court, obbliga a un cambio di paradigma rispetto alla pro-spettiva con cui approcciarla. Se il paradigma è lo schema mentale con cui la comunità dei teologi spirituali approccia il vissuto cri-stiano, condividendo principi, metodi e fini, la nuova situazione so-cio-religiosa chiede, precisamente, un cambio nel modo di approc-ciarlo. A questo scopo si è proposta una prospettiva diversa, espli-citando i suoi principi (l’esperienza e la decisione), il suo metodo (teologico-decisionale) e il suo fine (la vita eterna).

3. Le ricadute del nuovo paradigma

Avviare un’iniziazione al mistero cristiano, in tempi di post-cri-stianesimo, significa focalizzare l’attenzione sull’esperienza sincro-nica e sul vissuto diacronico. Cioè, educare a identificare e pren-dere consapevolezza delle mozioni spirituali per discernerle e così

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riflettere per prendere una decisione di fronte al Dio che si rivela personalmente nelle mozioni. Si tratta della versione cristiana cre-dente della proposta che Bauman rivolge a coloro che si vogliono emancipare dalle reti e dalle catene della società di consumo.

In altre parole, per sviluppare una pedagogia che introduca nel mistero (mistagogia), partendo dall’esperienza interiore e non da principi astratti, bisognerebbe educare alla percezione delle mozio-ni interiori attraverso la consapevolezza dell’alternanza delle con-solazioni e delle desolazioni per discernere da quale spirito pro-vengano (buono o cattivo), e su quella base riflettere per prendere una decisione nella quale si concretizzi il desiderio di compiere la volontà divina, presupposta l’indifferenza ignaziana.

In questa prospettiva, nella quale si abbraccia la vita nella sua unità grazie alla focalizzazione sulla decisione, unità che consente allo stesso tempo di distinguere i differenti livelli in essa implicati (percezione, consapevolezza e riflessione), si evince non solo l’unità dell’atteggiamento teologale nella sua triplice e tradizionale espres-sione (fede, speranza e carità), ma anche l’unità della teologia.

In effetti, se la teologia è, come affermano Alszeghy e Flick, «una attività della fede, [e] il teologo è un credente, uno che ha la fede, o meglio, è posseduto dalla fede»,24 intendendo per fede «un atteggiamento esistenziale e dialogico, che si radica in una opzio-ne fondamentale, e pervade tutta l’esistenza del credente, di fronte all’appello di un essere personale»,25 allora la teologia è la riflessio-ne su un vissuto che si esprime attraverso la fede, la speranza e la carità, di cui si prende consapevolezza e su cui si riflette in comu-nione con la tradizione di appartenenza, innovandola con prospet-tive nuove e rinnovandola nelle sue proposte perenni.

La rivelazione divina, che si fa sentire attraverso il vissuto teo-logale, implica la consapevolezza delle mozioni di fede, speranza e carità, la riflessione su di esse e il prendere una decisione mediante

24 Z. AlsZeGhy – m. FliCk, Come si fa la teologia. Introduzione allo studio della teologia dogmatica, Paoline, Alba 1974, 15 (corsivo dell’autore).

25 Ivi, 16.

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Dall’Ascetica e Mistica alla Vita cristiana

la quale il credente si autodetermina di fronte alla rivelazione che riceve. Tuttavia, la riflessione sul vissuto teologale può avere diversi oggetti, senza nuocere alla sua unità. Perciò si può parlare non di varie teologie, ma di distinti approcci teologici desunti dal vissuto teologale.

In questo senso, la riflessione che prende come suo oggetto i contenuti cognitivi della rivelazione è la teologia sistematica; quella che riflette sul modo in cui comportarsi alla luce dell’atteggiamento teologale, è la morale; mentre la cosiddetta teologia spirituale ri-flette sul processo di trasformazione personale come frutto del rap-porto affettivo con il Dio che si rivela. Inoltre, l’ascolto e l’adesione alla rivelazione divina «pur non essendo frutto di un ragionamento esplicito, può essere risolto e giustificato per mezzo di un ragiona-mento».26 Precisamente, ci sono diversi modi di ragionare sul vissu-to della rivelazione, a seconda che l’oggetto di tale riflessione siano i contenuti cognitivi, affettivi o comportamentali.

In ogni caso, per il fatto che la fede, la speranza e la carità con-sentono di percepire la presenza di Dio al di là della realtà sensibile e delle evidenze razionali, raggiungibili attraverso la pura ragione,27

lo studio della teologia è giustificato non dal desiderio di conoscere qualche oggetto (sia pure alla luce della parola di Dio), ma dall’aspi-razione ad ascoltare il messaggio divino della salvezza (sia pure in base all’ambiente culturale empiricamente conosciuto, in cui l’uomo deve operare).28

Nonostante ci siano diverse discipline teologiche che hanno come oggetto di riflessione aspetti distinti del vissuto teologale, la fede, la speranza e la carità sono alimentate nell’esperienza e nel vissuto della rivelazione che è ordinato alla vita eterna, alla salvez-za, all’unione a Dio. L’unità della teologia si trova nel vissuto teolo-gale e si ramifica nella riflessione, a seconda dell’oggetto scelto, ma

26 Ivi, 19 (corsivo dell’autore).27 Cf. ivi, 21.28 Ivi, 23.

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è una diversità che si unifica nella finalità comune, l’unione a Dio. Unione che implica il pensare la verità dei contenuti, degli affetti e dell’agire.

4. Conclusione

L’unità della vita cristiana è il fondamento dell’unità della teo-logia, nel senso che quella abbraccia il vissuto della rivelazione nella sua dimensione cognitiva, affettiva e comportamentale, e questa lo esprime riflessivamente. La riflessione distingue, nel vissuto, diver-si aspetti con differenti oggetti, ma il vissuto si fondamenta nell’e-sperienza della rivelazione, nella vita appunto. Per questo motivo, la nozione di vita cristiana dovrebbe superare non solo l’ascetica e mistica, la spiritualità o la teologia spirituale, ma la stessa teologia, in quanto mero momento riflessivo della vita cristiana.

Con l’appoggio del metodo teologico-decisionale, si eviden-zia come la vita cristiana abbia diversi momenti esistenziali e ogni aspetto possa essere frutto di una disciplina che sviluppa un parti-colare oggetto di studio. Tuttavia, l’unità della vita cristiana non è il frutto di una riflessione in grado di mettere insieme i pezzi, ma di un vissuto che riflette nella fede, nella speranza e nell’amore il mistero del rapporto personale con il Dio rivelato che trasforma la condizione umana per divinizzarla, ma che, comunque, rimane mistero.

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Vita cristiana, anno LXXXVIII, n. 1, gennaio-aprile 2019

ALESSANDRO CORTESI, OP

UN PERCORSO TRA GLI SCRITTI DI TIMOTHY RADCLIFFE Una proposta di spiritualità per il nostro tempo

In questo contributo desidero presentare alcune linee della proposta spirituale di Timothy Radcliffe, domenicano, che si ca-ratterizza per una capacità particolare di testimonianza significati-va della fede cristiana e per un linguaggio vicino alla sensibilità dei contemporanei, individuando alcuni snodi principali della spiritua-lità che emerge in particolar modo dai suoi scritti.

Timothy Radcliffe è una delle voci attualmente più ascoltate a livello internazionale nell’ambito della spiritualità e della vita re-ligiosa. Domenicano della provincia d’Inghilterra, biblista di for-mazione, ha insegnato sacra Scrittura presso Blackfriars Hall di Oxford, è stato provinciale della sua provincia religiosa ed eletto Maestro dell’Ordine domenicano dal 1992 al 2001. Durante il suo mandato ha scritto varie lettere all’Ordine trattando questioni lega-te alla vita religiosa nel mondo contemporaneo che, insieme ad altri suoi interventi, hanno avuto una rilevante risonanza e accoglienza nel mondo della vita religiosa e presso un pubblico molto più vasto. Dal 2002, rientrato al convento di Oxford, svolge attività di inse-gnamento, conferenze e predicazione in molti Paesi del mondo.1 Molti suoi testi sono stati tradotti anche in italiano e recentemente

1 Timothy Radcliffe presenta in prima persona la sua biografia nella lunga in-tervista a cura di Guillaume Goubert, corrispondente del quotidiano La Croix pub-blicata in italiano da Qiqajon nel testo T. rAdCliFFe, Testimoni del vangelo, Magnano (BI) 2004.

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AlessAndro Cortesi, op

la casa editrice EMI ha pubblicato il suo ultimo libro dal titolo Alla radice la libertà. I paradossi del cristianesimo.2

Così ne delinea il profilo Maria Pontara Pederiva, giornalista di Vatican Insider che ha curato alcune sue pubblicazioni in italiano.

Spirito libero fin dagli anni in cui, giovane frate, girava l’Europa in autostop, lontano da ogni schema precostituito all’infuori del vange-lo, da ogni regola che non fosse quella di Domenico, convinto soste-nitore di quel concilio i cui principi gli sono stati trasmessi dagli stessi protagonisti – «un momento di incredibile rinnovamento e contem-poraneamente un ritorno al vangelo e alla teologia della prima Chie-sa», dichiara a più riprese – è capace di infondere una straordinaria carica di coraggio a quanti lo incontrano talvolta in affanno tra no-stalgia e realtà.3

Una chiave per entrare nella sua proposta di lettura dell’espe-rienza della fede e della vita cristiana oggi è forse da individuare nella prefazione che egli scrisse per un libro intervista al teologo do-menicano Jean-Marie Roger Tillard. Riferendosi al suo confratello canadese, particolarmente impegnato nell’ecumenismo e testimone della generazione dei teologi del concilio Vaticano II, egli parlava anche un po’ di se stesso.

Ci sono delle inquietudini che sono creatrici e che generano cose nuove nella società e nella Chiesa, perché sono espressione di una profonda fiducia. «Sì, sono un cristiano inquieto. Deriva dalla mia vocazione domenicana. Siamo degli inquieti». È un’inquietudine che osa chiamare con il loro nome le crisi della Chiesa attuale: crisi di in-teriorità, di vuoto spirituale, crisi di ecumenismo, crisi di accoglienza delle intuizioni fondamentali del Vaticano II.4

2 T. rAdCliFFe, Alla radice la libertà. I paradossi del cristianesimo, EMI, Verona 2018.

3 M. pontArA pederivA, Un maestro spirituale per il nostro tempo: Timothy Rad-cliffe, blog editrice Queriniana: https://www.queriniana.it/blog/un-maestro-spiritua-le-per-il-nostro-tempo-timothy-radcliffe-144

4 T. rAdCliFFe, Presentazione, in J.-M.R. tillArd, Credo nonostante… Colloqui d’inverno con Francesco Strazzari, EDB, Bologna 2000, 5.

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Un percorso tra gli scritti di Timothy Radcliffe

Una delle ragioni per cui la proposta di Radcliffe suscita atten-zione e ascolto risiede nel particolare stile di leggerezza e ariosità del suo parlare. È il medesimo stile che si avverte nel suo rappor-tarsi con le persone: un atteggiamento di condivisione della propria esperienza, attento alla concretezza, pervaso di capacità di sorridere sulle cose e anche su se stesso, e capace di comunicare ad altri una profonda esperienza di libertà e gioia. Alla radice di quella libertà egli indica il vangelo e l’incontro con Gesù.

L’autorità di Gesù era la sua sorprendente gioiosità. Non si trattava semplicemente di un’emozione. Era una condivisione della vita di Dio. Poiché questa beatitudine è il vero essere di Dio, non possia-mo definirlo né capirlo, perché, come ha spiegato san Tommaso, noi non possiamo capire che cosa voglia dire per Dio essere Dio […]. Così naturalmente i predicatori come me non hanno nessuna autorità se non sono gioiosi. E, come dirò alla fine, questa gioia è perfettamente compatibile con la tristezza. Infatti non si può essere veramente felici se non si impara a lasciarsi toccare dal dolore del mondo.5

La gioia è la nota che ha accompagnato la sua esperienza, pri-ma nella sua famiglia. Così egli ricorda una figura cara della sua fa-miglia, lo zio Dick, monaco benedettino che aveva vissuto la prima guerra mondiale e che era presenza vicina nella sua infanzia:

Quello che davvero meravigliava noi bambini era la sua immensa gioia, nonostante fosse un venerabile vecchio monaco che era rima-sto gravemente ferito durate la prima guerra mondiale. Gli piaceva restare alzato fino a notte inoltrata, e talvolta si lasciava persuadere a salire in camera, al piano superiore, solo se mia madre metteva dei bicchieri di whisky sui gradini della scala.6

Anche il suo ingresso nell’Ordine è segnato dalla nota della gioia: «Quando arrivai a Blackfriars a Oxford, per prima cosa il maestro degli studenti mi strinse in un possente abbraccio da orso.

5 id., Il bordo del mistero. Aver fede nel tempo dell’incertezza, EMI, Verona 2016, 114.6 Ivi, 112. Cf. rAdCliFFe, Testimoni del vangelo, 226-227.

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AlessAndro Cortesi, op

Rimasi molto stupito. Fu la migliore introduzione alla vita dome-nicana».7 Poi nella sua prima visita al noviziato l’essere accolto da due frati vestiti in modo trasandato ma che lo accompagnarono a bere insieme una birra parlando liberamente di ogni cosa fu per lui motivo di immaginare una vita possibile in una comunità con quelle caratteristiche.8

Ciò che emerge dai suoi scritti è una disponibilità sincera e am-pia a un ascolto profondo dei percorsi e delle domande degli uomi-ni e delle donne di oggi. La conoscenza di diversi contesti culturali che gli deriva dall’esperienza di visita a comunità dislocate in tutto il mondo e la sua continua attività di conferenze in molti Paesi dei diversi continenti gli hanno permesso di maturare uno sguardo at-tento alle condizioni storiche e a porre l’ascolto del vangelo in rap-porto alle diverse realtà. Così nei suoi libri spesso sviluppa letture di pagine del vangelo unitamente al ricordo di situazioni ed espe-rienze vissute.

1. Una spiritualità dell’ascolto e della tenerezza

Il primo tratto che vorrei sottolineare della sua proposta è pro-prio quello riguardante una spiritualità dell’ascolto. Si tratta di un duplice ascolto, della Parola di Dio e di sensibilità biblica per il te-sto della Scrittura da un lato e di un ascolto rivolto all’esperienza umana dall’altro.

Sono sempre stato convinto che una parte essenziale della mia vita domenicana consiste nel dare tempo a Dio; semplicemente stare alla sua presenza ogni giorno, senza fare niente in particolare. Con gli

7 rAdCliFFe, Il bordo del mistero, 117.8 «Fui accolto da due uomini piuttosto trasandati, in jeans e col montgomery, che

mi portarono direttamente al pub. Erano il maestro dei novizi e il suo assistente. E la prima cosa che mi colpì fu la loro vitalità. Bevevano con piacere la loro birra, ridevano e scherzavano. Soprattutto mi colpì la loro libertà. Si poteva parlare di qualsiasi cosa. Dal momento che sembravano tanto vivi, potevo immaginare una vita con loro» (ivi, 119-120).

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Un percorso tra gli scritti di Timothy Radcliffe

amici si perde tempo volentieri. […] Pretendere di controllare to-talmente la propria vita è ateismo pratico. Dobbiamo affidare la no-stra vita a quel vento che soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene né dove va: così è chiunque sia nato dallo Spirito (Gv 3,8).9

Il primo movimento a cui egli rinvia è quello di scorgere una parola che precede l’esistenza, da accogliere e di cui scoprirsi grati nel silenzio.

Soltanto se impariamo a riposare nel silenzio di Dio possiamo scopri-re le parole giuste, parole che non siano né arroganti né vacue, parole che siano veritiere e insieme umili. Soltanto se il centro delle nostre vite è il silenzio di Dio, sapremo quando finisce il linguaggio e quan-do inizia il silenzio, quando proclamare e quando tacere […] È que-sta dimensione contemplativa a distruggere le false immagini di Dio che potremmo essere tentati di adorare, e a liberarci dalle trappole dell’ideologia e dell’arroganza.10

La sua predicazione si rivolge alle persone guardandole negli occhi, con senso di partecipazione e compassione ai loro cammini spesso complessi e colmi di sofferenza. Guardare negli occhi è im-magine che rinvia sia a una comunicazione personale e sincera, sia a uno stare di fronte all’altro senza pretese di superiorità e senza arroganza.

«Ma è proprio vero che la spiritualità è più dolce della religio-ne?» si chiede affrontando la questione del fatto che le persone oggi sono più attratte dalla spiritualità che dalla religione. E prosegue:

San Luca scrive: «Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo spirito nel deserto» (Lc 4,1). Lo Spi-rito Santo non offre a Gesù una tranquilla vita devozionale. Lo spin-ge nel deserto. Lo costringe a uscire dalla sicurezza del mondo re-ligioso del Tempio e della sinagoga per andare nel terribile deserto dove sembra che Dio non ci sia. Forse, quindi, la vita spirituale non è un ritiro in qualche bella nicchia religiosa foderata di pie devozio-

9 rAdCliFFe, Alla radice la libertà, 128.130.10 rAdCliFFe, Testimoni del vangelo, 147-148.

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AlessAndro Cortesi, op

ni, in cui proviamo sentimenti gradevoli, accendiamo candele e rico-nosciamo il nostro carattere nell’Enneagramma. Può essere tutto il contrario: lasciare che lo Spirito ci conduca nel deserto, dove Dio si perde e si ritrova… la vita spirituale ci porta fuori da ogni protezio-ne e sicurezza.11

L’attitudine di fondo del suo parlare è quella della vicinanza, di un ascolto condotto sapendosi coinvolto nella situazione di co-loro con cui dialoga. Il suo linguaggio manifesta la consapevolezza di condividere la condizione di uomini e donne di oggi, e che tutti nella Chiesa sono coinvolti in una condizione storica e culturale in-sieme agli altri:

Non è mia intenzione prendermela con la modernità. Il mio punto di vista è questo: con la quasi scomparsa della cultura cristiana, dob-biamo riuscire a entrare alla radice dei dubbi, delle perplessità e dei fallimenti dei nostri contemporanei, se vogliamo predicare una paro-la che abbia una qualche efficacia. Questo è un atto kenotico, un an-dare verso l’umanità che è così distante dal vangelo. Ma è un’azione che si rende oggi più che mai necessaria, perché la distanza è ormai incorporata nella cultura che non solo è universale ma è anche la no-stra. Dobbiamo affrontare questi dubbi prima all’interno di noi stes-si, perché anche noi siamo uomini e donne di oggi.12

Un aspetto tipico delle sue riflessioni sta nell’attenzione ai vol-ti: Radcliffe dimostra una particolare sensibilità nell’incontro con le persone:

Dobbiamo acquisire un volto umano, imparare a guardare alle perso-ne con amore, con tenerezza. Diventare un volto umano fa parte della nostra santificazione. I bulli, grandi e piccoli, usano i loro volti per dominare e prevaricare.13

11 rAdCliFFe, Alla radice la libertà, 124-125.12 T. rAdCliFFe, Parole di oggi. Un orientamento alla luce della Parola, Queriniana,

Brescia 2014, 127.13 rAdCliFFe, Il bordo del mistero, 92-93.

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Un percorso tra gli scritti di Timothy Radcliffe

2. Una spiritualità del dialogo

La proposta di spiritualità che sgorga da tale sguardo vede nel dialogo un momento rilevante ed essenziale. L’attitudine dialogi-ca non è intesa come strategia che nasconde l’obiettivo inespresso della conquista dell’altro alle proprie convinzioni. Non deve mirare infatti a cambiare l’altro. Piuttosto il dialogo è visto quale struttura fondamentale dell’essere umano, nel suo provenire dalla vita stessa di Dio Trinità. Con riferimento all’enciclica Caritas in veritate in cui si afferma che la verità è Logos che origina il dia-logos (n. 4) e quindi comunicazione e comunione afferma: «Il dialogo non è un’alterna-tiva alla predicazione: è la sola maniera di predicare».14

Il dialogo umano si radica nel dialogo intradivino dal modo in cui si attua la comunicazione di Dio nella storia. La rivelazione stessa è dialogo. Il dialogo si connota allora come accoglienza di un movimento di parola e di incontro che precede e rinvia a un farsi dialogo nell’imparare a parlare con l’altro, con chi la pensa diversa-mente, con lo straniero, accogliendo la sfida a entrare nell’avventu-ra dell’incontro che è luogo dell’incontro con Dio stesso.

Amiamo il fatto che san Domenico ha fondato l’Ordine in un’osteria! Per l’intera notte discusse con l’oste, un albigese che seguiva una re-ligione che negava la bontà della creazione. L’oste fu convertito, ma una buona conversazione implica che non solo tu condivida la tua fede ma anche che tu ascolti l’altro, e che tu sia aperto a ciò che lui o lei può insegnarti. Noi abbiamo autorità solamente se riconosciamo l’autorità delle persone con cui camminiamo.15

Approfondendo il significato di rivelazione come movimento di comunicazione, radice di ogni percorso della fede in contrasto con una visione della rivelazione come istruzione di tipo nozioni-stico, Radcliffe propone una lettura in cui sottolinea gli aspetti dia-logici: l’ascolto della Parola di Dio coinvolge diversi soggetti nel

14 T. rAdCliFFe, Essere cristiani nel XXI secolo, Queriniana, Brescia 2011, 25.15 T. rAdCliFFe, Introduction in L. verboven, The Dominican Way, Continuum,

London-New York 2011, 2-3 (traduzione mia).

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AlessAndro Cortesi, op

popolo di Dio e fa sorgere l’importanza di considerare diversi tipi di autorità:

Se […] pensiamo alla rivelazione come a un dialogo tendente a fare di noi degli amici di Dio, allora la dinamica è molto diversa. Allora la rivelazione richiama una risposta da parte nostra, anche quando resi-stiamo e ci nascondiamo. La domanda non è più «che cos’ha detto?», quanto piuttosto «che cos’è capitato?». Da un vero, buon dialogo si sprigionano riso, gioia, liberazione […]. La lingua della Parola di Dio non è una trasmissione radio celeste: quando irrompe nella nostra vita agisce da lievito.16

Dialogo è cura per la parola, custodendo la Parola di Dio e ri-trovando a partire da questo ascolto la via per pronunciare parole sincere e significative, capaci di tessere incontri e per accogliere le parole degli altri:

I monaci che nei secoli bui fuggirono verso la costa occidentale dell’Irlanda portarono con sé i testi dei vangeli, li copiarono e rico-piarono, adornandoli e venerandoli. Essi fondarono delle comunità che mantennero viva la narrazione per queste opere sante. Forse noi siamo chiamati a formare comunità dove si abbia venerazione per il linguaggio, per le parole sincere, per le parole che costruiscono la co-munione. Se la Chiesa è un luogo in cui possiamo riscoprire il senso profondo di ciò che significa essere umani, cioè di essere nella nostra più profonda identità una cosa sola con l’altro, allora dobbiamo di-ventare prima di tutto una comunità dove le parole sono usate con reverenza e responsabilità.17

La sfida è quella di diventare una Chiesa in cui esista davvero il desiderio di un ascolto della Parola, della storia e di un ascolto reci-proco: è l’autentico significato di obbedienza, ob-audire.18

E nella nostra lettura del testo biblico occorrerebbe in aggiunta guar-dare ad altre autorità, come per esempio i poveri. Essi sono Cristo in

16 rAdCliFFe, Parole di oggi, 117.17 T. rAdCliFFe, Jurassic Park e l’ultima cena (giugno 1994), in id., Cantate un can-

to nuovo. La vocazione cristiana, EDB, Bologna 2001, 21.18 Cf. ivi, 126.

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Un percorso tra gli scritti di Timothy Radcliffe

mezzo a noi e qualunque cosa facciamo agli ultimi dei nostri fratelli e le nostre sorelle, noi lo facciamo a lui. […] La vita della Chiesa è un dialogo senza fine tra gerarchia, studiosi, santi e popolo di Dio!19

Dialogare costituisce così un cammino per apprendere a parla-re e tale apprendimento si compie in particolare con chi è diverso, con chi parla un’altra lingua, con lo straniero:

Ogni impegno con la Parola di Dio ci spinge oltre le nostre ristrette tribù ecclesiastiche. Sovverte le tentazioni di superiorità settaria, ab-batte le difese erette intorno alla nostra tradizione. Le nostre omelie, e tutti i modi in cui condividiamo la fede, trasmetteranno l’«avveni-mento della grazia» soltanto se ci apriremo ad altri modi di essere cri-stiani e, in realtà, persone umane. San Domenico era in viaggio con fratel Bertrando, quando hanno incontrato un gruppo di pellegrini tedeschi. Domenico era deluso per il fatto di non riuscire a predicare, perché non capiva il tedesco. Allora disse a Bertrando: «Preghiamo perché possiamo capirli, così da condividere con loro la lieta novel-la». È interessante notare che Domenico non ha pregato perché i te-deschi capissero lui, ma perché lui potesse capire loro. Abbiamo bi-sogno di imparare altri linguaggi di fede, ampliare il nostro vocabola-rio: «Allarga lo spazio della tua tenda, distendi i teli della tua dimora senza risparmio! Allunga le tue corde» (Is 54,2). […] E se il nostro predicare vuol essere fertile, dobbiamo avere il coraggio di incontrare la differenza, di esporre noi stessi alle persone che hanno esperienze e idee religiose o politiche diverse. Aprirsi agli altri è estremamente doloroso, soprattutto se ci sono vicini, membri della nostra famiglia o della nostra comunità religiosa […] condividere la fede è molto più che enunciare le nostre convinzioni. È trovare il nostro posto nella conversazione iniziata.20

Radcliffe nelle sue conferenze e nei suoi articoli mette in prati-ca questo stile dialogico e invita a dialogare con voci diverse: sono le voci dei filosofi, dei poeti, di studiosi che offrono interpretazioni sulla realtà ma soprattutto con voci di persone che ha avuto occa-

19 Ivi, 124.20 T. rAdCliFFe, Perché andare in chiesa, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2009,

92-93.95-96.

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sione di incontrare e ascoltare, volti che lo aprono allo stupore di una comunicazione di Dio che si fa vicina nelle ricerche umane e nelle vite quotidiane e ordinarie.

Madre Teresa di Calcutta non lavorava per i poveri perché era un dovere, un obbligo penoso, ma perché in loro aveva la gioia di in-contrare Cristo. Mentre scrivo queste parole, mi accorgo che rischio di essere ancor più ipocrita del solito. Io non voglio che la mia co-moda vita sia disturbata dai poveri. Se mi chiamassero ad accogliere un barbone ubriaco non penserei: «Ecco qui un meraviglioso dono di Dio!». Solo in alcune occasioni ho intravisto questo dono. Ho già citato Maria, la donna del quartiere violento di Bogotà, la cui grati-tudine è stata un dono. In un’altra occasione sono rimasto sconcer-tato dal visitare, ai margini di Harare, la catapecchia di un uomo la cui casa era stata demolita da Mugabe. Raramente mi sono sentito così onorato dalla tranquilla dignità con cui mi ha offerto la sua birra fatta in casa. Ricordo anche di aver visto, durante una riunione della Famiglia domenicana in Pakistan, un mio confratello americano che si accovacciava a terra in mezzo a una folla di tribali, con indosso le loro vesti, uno di loro, e l’ho considerato beato. Questi sono i piccoli barlumi del dono che è dato in ogni comunione, e che prego di rice-vere un giorno in pienezza.21

3. Una spiritualità di gioia e speranza

Sing a new song. The christian vocation: così è intitolata una raccolta di scritti del 1999 in cui si richiama l’attitudine di gioia e libertà propria di san Domenico. Nella sua predicazione in Lin-guadoca aveva compiuto la scelta di andare a piedi e non a cavallo come i predicatori suoi contemporanei che godevano di mandati ufficiali. Domenico intendeva il suo andare e predicare innanzitutto come lode a Dio scaturente dalla vita nell’offrire una testimonianza contagiosa e rifuggendo dalle forme dell’imposizione.22 Un tratto della proposta spirituale di Radcliffe è la capacità di gioia e mitezza.

21 Ivi, 267.22 Cf. rAdCliFFe, Cantate un canto nuovo.

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La nostra sfida è quella di compiere gesti creativi che non solo parli-no della nostra speranza, ma siano anche segni del fatto che ciò a cui aneliamo è già germinalmente vivo in noi. Conservo dentro di me il ricordo della vigilia di Natale del 1996, a cui presi parte con il dome-nicano Pedro Meca, cappellano dei senzatetto di Parigi. Ogni Natale costruisce una grande tenda al centro di Parigi in cui celebra la veglia per un migliaio di persone, su un altare di cartone, per coloro che non hanno alcun altro riparo. La gioia di quella festa fu un pregusta-re il futuro, quel Regno in cui nessuno subirà umiliazione, miseria o sofferenza poiché saremo a casa in Dio. Abbiamo bisogno di imma-ginazione e coraggio per compiere gesti simili, che indicano la nostra speranza in qualcosa che va oltre le parole. La gioia di quella vigilia di Natale non fu soltanto una piacevole emozione: essere allegri si-gnifica essere umanamente vivi. Il termine spagnolo alegria deriva dal latino e pare che in origine fosse applicato agli animali, in particola-re ai cavalli: l’alacer equus era un cavallo vitale e vivace, traboccante di vita, abituato a correre e scalciare. La gioia cristiana è l’inizio del nostro condividere la vita divina. La gioia di Dio non è un’emozione divina: Dio è colui che è, è l’«Io sono» che Mosè incontrò nel deser-to. Non a caso Meister Eckhart descrive la gioia di Dio come l’esu-beranza di un cavallo al galoppo attorno al suo recinto. Questa gioia dovrebbe riversarsi nella nostra lode, come quando Davide danzò da-vanti all’arca: «Lodatelo con il suono del corno, lodatelo con l’arpa e la cetra. Lodatelo con tamburelli e danze, lodatelo sulle corde e con i flauti! Lodatelo con cimbali sonori, lodatelo con cimbali squillanti. Ogni vivente dia lode al Signore» (Sal 150,3-6).23

La gioia che egli indica non è ingenua indifferenza rispetto al buio e alle situazioni di sofferenza, né tentativo di fuga da un pe-sante presente, è piuttosto attitudine che si radica nella speranza, dono di Dio:

Così la mia speranza è che noi diventiamo portatori di speranza. Il futuro può sembrare buio, e possiamo domandarci dove saremo sulla

23 T. rAdCliFFe, Cristianesimo, speranza, gioia, in Teologi@internet, ed. Querinia-na, Brescia. Forum teologico diretto da R. Gibellini, 188, 15.04.2011, in https://www.queriniana.it/blog/cristianesimo-speranza-gioia-188. Tratto da T. Radcliffe, Il cristiane-simo fa la differenza?, in Concilium 2 (2011), 26-36.

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terra. Ciascuno di noi vive momenti di crisi in cui il domani ci sembra incerto. Ma ogni eucaristia ci ricorda il momento in cui sembrava che non ci fosse altro futuro eccetto la croce, sembrava che tutto fosse fi-nito, e invece Gesù fece quello straordinario atto di generosità e spe-ranza. Così noi non dobbiamo mai aver paura. Possiamo condividere con tutti la nostra speranza.24

Nei secoli passati la società occidentale è stata supportata dall’ottimi-smo illuminista, poi alimentato dai conseguimenti della Rivoluzione industriale. È come se fossimo stati trasportati da un’onda di inevi-tabile progresso. Questa fiducia fu scossa dalle due guerre mondiali del XX secolo, dall’orrore dell’olocausto e dall’atrocità delle bombe atomiche che uccisero centinaia di migliaia di civili innocenti a Naga-saki e Hiroshima. Quell’ottimismo ha avuto un’ultima provocatoria fioritura nei «favolosi» anni Sessanta, ma oggi i nostri giovani sono incerti del futuro e si trovano a dover affrontare le conseguenze po-tenzialmente catastrofiche dei cambiamenti climatici e dell’aumento di forme violente di fondamentalismo in ogni continente del pianeta. Forse, dai tempi della peste in Europa, mai una società è stata così bi-sognosa di speranza come lo è la nostra. L’Illuminismo era sostenuto dalla fiducia in un futuro che si poteva creare, ma sfociò nella brutali-tà dei regimi del XX secolo che piegarono gli esseri umani al loro vo-lere. […] La speranza cristiana spesso emerge quando quel progetto è tramontato e non scorgiamo più soluzioni. Il viaggio di Dante nel Paradiso ha inizio quando «la diritta via era smarrita» (Inferno, canto I). Personalmente, fui risvegliato a questa concezione della speranza al termine di una giornata in Ruanda, all’inizio del genocidio, dopo un terribile giorno di viaggio attraverso il paese in cui visitai un cam-po profughi e, soprattutto, mi imbattei in una corsia d’ospedale piena di bambini mutilati da mine antiuomo. Quando la sera raggiungem-mo le nostre sorelle domenicane, che cosa potevo dire? Quali possi-bili parole di speranza si potevano pronunciare? Tuttavia, qualcosa bisognava fare. Ricordammo quello che disse Gesù la notte prima di morire, quando sembrava non esserci più alcun futuro se non il Gol-gota. Pose un atto che rimandava a una speranza che non poteva es-

24 rAdCliFFe, Il bordo del mistero, 29.

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sere afferrata con parole, ma solo segnalata da gesti: «Questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi».25

4. Passione per la verità

Un ulteriore tratto della proposta spirituale di Timothy è la passione per la verità e il gusto per una ricerca che implica apertu-ra della mente e del cuore. Egli ne parla in rapporto a quella che analizza come crisi di verità presente nel mondo contemporaneo e delinea una passione per una verità che spinge sempre oltre la ricer-ca e apre alla relazione con chi è altro, diverso, straniero. Il dono di verità proveniente da Dio è motivo di cammino a un incontro per-sonale con la verità di Gesù stesso:

Una sorgente della nostra crisi di verità è data dal fatto che le nostre vite sono così convulse e frenetiche che ci manca il tempo di guardar-ci l’un l’altro, o di guardare alcunché come si conviene. La nostra pre-occupazione per la verità intesa in senso ragionieristico consiste nello spendere un sacco di tempo nella compilazione di moduli, stendere relazioni, elaborare statistiche, così che non ci resta più il tempo per aprire gli occhi e osservare […]. Quindi una spiritualità basata sulla verità dovrebbe invitarci a rallentare, a stare zitti, lasciando spalanca-ti i cuori e le menti.26

Per parlare della verità, richiama la sua lettura di Newman e quanto il grande teologo inglese affermava:

Noi apprendiamo, non per una visione semplice e diretta, non a pri-ma vista, ma, per così dire, a poco a poco e mettendo tutto insieme

e rifacendosi alla propria esperienza personale di biblista ricorda: Studiare vuol dire piuttosto insinuarsi furtivamente nel significato del testo, cercando ora un approccio ora un altro, facendosi strada a poco a poco verso la comprensione […]. Introdursi furtivamente nel-la verità di un testo, di una persona, vuol dire lasciarsi vincere dalla

25 rAdCliFFe, Cristianesimo, speranza, gioia.26 rAdCliFFe, Essere cristiani nel XXI secolo, 158.

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«superba sorpresa della Verità» (Emily Dickinson). Significa lasciarsi stupire, scoprendo che non si sapeva in anticipo ciò che sarebbe sta-to scoperto.27

Nell’occasione del conferimento del dottorato honoris causa nel 2004 alla Pontificia Università San Tommaso a Roma ha affron-tato il tema della crisi della verità oggi: in quell’occasione suggerì alcuni passaggi di superamento da attuare, oltre la cultura del so-spetto, nella ricerca di un atteggiamento di sincerità, oltre il para-digma dello scientismo per aprirsi a una dimensione contemplativa della vita, e nell’orientamento a costruire luoghi in cui sia possibile ripulirsi gli occhi, di misericordia reciproca. «La verità a cui i nostri occhi sono aperti deve essere quella che ci guida oltre i limiti del linguaggio, anche fino alla poesia».28

Passione per la verità significa anche assumere il coraggio di non evitare le domande scomode che si presentano nella vita e le in-quietudini che segnano l’esperienza delle persone oggi. In tal senso Radcliffe sottolinea l’importanza di un dialogo con gli occhi aperti:

Vincent de Couesnongle [Maestro dell’Ordine domenicano dal 1974 al 1983, n.d.r.] ha scritto: «Non vi può essere speranza senza aria fresca, o ossigeno, o una visione nuova. Non vi può essere speranza in un’atmosfera viziata». La nostra è stata sin dall’inizio una teolo-gia della città e della piazza del mercato. San Domenico inviò i suoi confratelli nelle città, luoghi di idee nuove, di esperimenti nuovi, go-vernati da organizzazione economica e democrazia, ma anche luoghi dove si raccoglievano i nuovi poveri. Abbiamo il coraggio di farci turbare dalle richieste della città moderna? Quale parola di speranza possiamo condividere con i giovani che devono affrontare la disoc-cupazione per il resto della loro vita? Come si può scoprire Dio nella sofferenza di una ragazza madre o di un immigrato atterrito? Anche questi sono luoghi di riflessione teologica. Che cosa abbiamo da dire a un mondo che sta diventando sterile a causa dell’inquinamento? Ci lasceremo provocare dalle domande dei giovani entrando nei campi

27 rAdCliFFe, Cantante un canto nuovo, 218-219.28 Ivi, 172.

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minati dei problemi morali, come l’etica sessuale, o preferiamo star-cene al sicuro? Perciò dobbiamo avere il coraggio di guardare ciò che è davanti ai nostri occhi; dobbiamo credere che dove Dio sembra più lontano e dove gli esseri umani sono tentati dalla disperazione, è là che si può fare teologia. Tuttavia è certo che, come domenicani, dobbiamo far valere un terzo requisito. Le nostre parole di speranza saranno autorevoli soltanto se radicate in un profondo studio del-la parola di Dio e in un’analisi della nostra società contemporanea […]. Non basta indignarsi di fronte alle ingiustizie di questo mondo. Le nostre parole saranno autorevoli soltanto se radicate in una seria analisi economica e politica per conoscere le cause dell’ingiustizia.29

Alla radice della compassione da coltivare verso coloro che sono oppressi e sofferenti egli individua la compassione stessa di Gesù:

In lui Dio abbraccia tutti coloro che si sentono abbandonati e traditi: quelli che soffrono la perdita di una persona cara, quelli che provano rabbia verso una malattia terminale senza senso, quelli che pensano che Dio li abbia scartati. In Gesù, Dio abbraccia l’assenza di Dio.30

5. Una spiritualità dell’incarnazione: il senso della corporeità

La riflessione spirituale di Radcliffe ha oggi risonanza per il fat-to di affrontare con coraggio le questioni aperte, le ricerche di sen-so, le domande che investono la vita. In particolare è significativa al riguardo la sua lettura dell’ambito affettivo che segna la vita umana e costituisce un momento fondamentale di maturazione anche nella vita religiosa. La sua originalità di approccio sta spesso nello spo-stare i punti di partenza nell’affrontare le questioni: così per parlare di sessualità e corporeità prende come punto di prospettiva l’evento dell’Ultima cena.

29 T. rAdCliFFe, La sorgente della speranza. Studio e annuncio della buona notizia, in id., Cantate un canto nuovo, 70-71.

30 T. rAdCliFFe, La via della debolezza, EMI, Verona 2016, 46.

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Io vorrei adottare qui un altro punto di partenza, partire dall’even-to che è al cuore del cristianesimo, l’Ultima cena. Quella notte, in quell’ultimo pasto, Gesù riunì attorno a sé i suoi discepoli, prese del pane, lo benedisse e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo, offerto per voi». Al cuore della nostra religione c’è il dono di un cor-po. Io penso che il modo migliore per intravedere qualcosa della pro-fondità e della bellezza della sessualità sia meditare sull’Ultima cena. Essa ci insegna che cosa significa donare il proprio corpo ad altri. E naturalmente la sessualità ci aiuta a comprendere quel pasto. Mi propongo dunque di mostrare come sia alla luce dell’eucaristia che si può comprendere meglio la sessualità e alla luce della nostra sessuali-tà che si può comprendere meglio l’eucaristia.31

Nel dare risalto alla bontà della creazione e della corporeità si risentono gli echi dell’insegnamento di Chenu, che Radcliffe ebbe come suo maestro a Parigi e che egli stesso ricorda:

Il mio maestro di un tempo, Marie-Dominique Chenu, metteva in evidenza due aspetti di san Domenico: l’alto apprezzamento della bontà del corpo, in opposizione agli albigesi, e l’amore per la Parola di Dio. San Domenico era un vir evangelicus, un uomo del vangelo. […] I nostri corpi sono doni: donati a noi dai nostri genitori e da in-numerevoli antenati e in definitiva da Dio. E sono doni da dare. Pen-so che la generosità dell’Ultima cena – questo è il mio corpo donato per voi – sia la base migliore per un’etica sessuale. Noi doniamo i no-stri corpi con generosità, fedeltà, vulnerabilità.32

Nell’esperienza umana dell’amore nelle varie forme in cui essa può attuarsi, nella vita matrimoniale o nella vita religiosa si attua uno spossessamento e un dono che non è mai pienamente compiu-to, ma è da apprendere continuamente e da portare avanti nel cam-mino dell’intera esistenza:

In primo luogo la nostra vocazione rivela qualcosa della vocazione umana mediante ciò che lasciamo. Noi rinunciamo a molte delle cose

31 T. rAdCliFFe, Conferenza a Parigi (14 gennaio 2006), in id., Amare nella liber-tà, 47-48.

32 rAdCliFFe, Il bordo del mistero, 84.86.

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che danno identità agli esseri umani nel nostro mondo: denaro, sta-to sociale, un coniuge, una carriera. In una società in cui l’identità è già così fragile, così insicura, noi rinunciamo al genere di cose a cui gli esseri umani mirano per avere la sicurezza, gli attrezzi del nostro senso incerto di ciò che siamo. Noi ci chiediamo continuamente «chi siamo?». Ma siamo quelli che rinunciamo ai segni comuni di identi-tà. Ecco chi siamo! Non c’è da stupirsi se abbiamo dei problemi. La nostra vita ha lo scopo di mettere in luce la vera identità e vocazione di ogni essere umano. Prima di tutto, dimostriamo che ogni identità umana è un dono […] in secondo luogo noi dimostriamo che l’iden-tità umana non ci viene donata definitivamente adesso. È l’intera sto-ria della nostra vita, dall’inizio alla fine e oltre, a rivelarci chi siamo.33

A fronte di una spiritualità della paura, Radcliffe propone una spiritualità segnata dalla fiducia e dall’amicizia che si fonda sull’a-micizia stessa di Dio.

È proprio la nostra corporeità che viene benedetta e santificata nell’incarnazione. Se dobbiamo essere i predicatori di una parola fat-ta carne, allora non possiamo rinnegare o dimenticare quello che sia-mo. Ci preoccupiamo del corpo dei fratelli, accertandoci che abbia-no cibo a sufficienza, curandoli quando sono malati, circondandoli di tenerezza quando sono vecchi? La base della nostra castità non può mai essere la paura, paura della nostra sessualità, della nostra corporeità, paura delle persone dell’altro sesso. La paura non è mai un buon fondamento per la vita religiosa. Infatti il Dio che si è fatto prossimo a noi ha osato divenire carne e sangue, anche se questo l’a-vrebbe portato alla crocifissione. Il nostro Dio è divenuto pienamen-te uomo e ci invita a fare altrettanto. Tommaso d’Aquino afferma una cosa che può sorprendere: che la nostra relazione con Dio è una re-lazione di amicizia. La «buona notizia» che predichiamo consiste nel fatto che siamo coinvolti nel mistero infinito costituito dall’amicizia tra il Padre e il Figlio, che è lo Spirito.34

33 T. rAdCliFFe, Vocazioni religiose. Abbandonare i segni comuni di identità, di-scorso alla Conferenza dei superiori maggiori USA (8 agosto 1996).

34 T. rAdCliFFe, Dare la vita per la missione, lettera del MO all’Ordine domenica-no (aprile 1994), in id., Amare nella libertà, 79-80.

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6. Una spiritualità della condivisione e dell’amicizia

Al centro del discorso di Radcliffe sta il riferimento al vange-lo come bella notizia, capace di dare orizzonte, di aprire futuro, di indicare una luce anche nelle situazioni più difficili e dolorose. Al cuore dell’esperienza di fede egli scorge la forza proveniente dall’a-micizia di Dio che dà nuova speranza.

L’insegnamento morale della Chiesa non deve mai consistere nel dire alle persone che non devono amare qualcuno, ma semplicemente nel cercare di aiutarle ad amare meglio. Non c’è amore umano che non abbia bisogno di guarigione, che non abbia bisogno di essere con-dotto alla maturità e alla pienezza. Questo vale anche per le coppie sposate. Se vogliamo far scoprire a tutte queste persone in che senso la dottrina morale della Chiesa è «buona notizia», dobbiamo andare loro incontro, frequentare le loro case, lasciarci coinvolgere nel loro affetto. Dobbiamo comprendere la loro visione del mondo, il modo che hanno di parlarne, imparare da loro. Allora troveremo il modo giusto per esporre loro la dottrina della Chiesa. L’amicizia di Dio per l’umanità è proprio al cuore dell’evangelo. Proprio per questo noi possiamo esprimere le nostre convinzioni solo in un contesto di amicizia.35

La condivisione e l’amicizia si attua nella disponibilità a met-tersi nelle mani degli altri: in questo movimento Timothy legge uno degli aspetti più profondi della vita comune, insieme ad altri in cui la disponibilità a condividere costituisce un aspetto fondamentale. L’incertezza nel vivere insieme si apre a una gioia inattesa nel mo-mento in cui si accetta il rischio di mettersi nelle mani degli altri. È un’osservazione che egli fa riguardo alla vita religiosa in particolare, ma che trova modo di essere estesa anche ad altri ambiti ed espe-rienze della vita:

Il segno centrale della speranza cristiana è l’Ultima cena. Gesù ha po-sto se stesso nelle mani di questi fragili discepoli. Dio ha il coraggio di diventare vulnerabile e dare se stesso alle persone che poi lo tra-

35 rAdCliFFe, Intervista, in id., Testimoni del vangelo, 95.

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diranno, lo rinnegheranno e fuggiranno via. Nella vita religiosa, noi accettiamo il medesimo rischio. Noi mettiamo noi stessi nelle mani dei nostri fragili fratelli e sorelle, e non conosciamo cosa faranno poi di noi. Ci mettiamo anche nelle mani di quanti non sono ancora nati e che un giorno diventeranno nostri fratelli e sorelle […] siamo chia-mati a vivere questa incertezza ma con gioia.36

Una linea di fondo del suo riflettere è costituito dalla doman-da sul senso della vita religiosa. Al di là della ricerca di complesse e articolate definizioni l’approccio di Radcliffe è diretto e teso a evi-denziare ciò che è essenziale alla vita religiosa, nel suo porsi come alternativa a rapporti di violenza e dominio e nella sua inutilità ri-spetto a criteri di efficienza e consumo.37

Perciò la vita religiosa può rispondere a questa sete di significato in-carnando un’altra storia, un’altra visione di ciò che significa essere umani, simboleggiata dalla nostra ancor più cara suora, che canta da-vanti al cero acceso nella notte. È una storia che offre un altro senso del tempo. Non è tanto la marcia inevitabile del progresso, quanto la storia di come noi incontriamo il Signore che ci chiama a sé. Ciò che mette in moto questa storia non è la competizione dei liberi, ma la inimmaginabile creatività di Dio, che fa risorgere i morti. E il pro-tagonista di questa storia non è l’eroe solitario dell’età moderna, ma il fratello e la sorella che trovano se stessi nella comunità e creano comunità per altri […] prima di tutto posso almeno condividere con i miei contemporanei una lotta per perdere la maschera dell’orso e acquistare un volto umano […] il religioso non è un essere celestiale che ha fuggito la modernità, ma uno i cui voti hanno reso ormai la lotta inevitabile, fatale. Noi dividiamo con gli altri il tormento della rinascita. Se siamo onesti nella nostra lotta, essi potranno condividere la nostra speranza […] allora dobbiamo realmente dedicarci alla co-struzione di comunità in cui questa nuova vita pasquale sia possibile.

Un elemento fondamentale della vita religiosa sottolineato in particolare è l’esperienza della fraternità. Egli parla della fraternità

36 rAdCliFFe, Essere cristiani, 230.37 Cf. T. rAdCliFFe, L’orso e la suora. Qual è il senso della vita religiosa oggi?, in

id., Cantate un canto nuovo, 193-210; 207-209.

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AlessAndro Cortesi, op

come dinamica non di tipo organizzativo, ma orientamento che se-gna i rapporti con gli altri e che attinge al mistero della comunione con Dio.

La fraternità della tradizione domenicana e la forma democratica del governo dell’Ordine – entrambe realtà a cui teniamo – non sono sol-tanto un modo per organizzare la nostra vita o per prendere le deci-sioni, ma esprimono qualcosa del mistero della vita di Dio.38

Un Ordine religioso è simile a un ambiente. Costruire una vita reli-giosa è come creare una riserva naturale su un vecchio terreno fabbri-cabile. Vi si devono piantare delle ortiche, si deve scavare uno stagno e così via. Cosa occorre ai nostri fratelli e alle nostre sorelle per fiorire sul loro cammino, quando rinunciano a carriera, ricchezza, stato so-ciale e alla sicurezza di un compagno di vita esclusivo? Cosa occorre loro durante il faticoso pellegrinaggio dal noviziato alla tomba? Ogni congregazione avrà le proprie esigenze, le proprie necessità ecologi-che, la propria identità.39

La stessa esperienza di superiore è occasione per rivivere l’av-ventura della chiamata e la libertà nell’ascolto della voce di Dio che giunge attraverso le dinamiche della vita comune:

Diventare un superiore non è un avanzamento di carriera. È accetta-re la voce dei propri fratelli che dicono «Vieni Timothy!». Mettersi nelle mani dei confratelli, alla professione, significa accettare di non avere in mano la propria identità. La fraternità è un’identità aperta. I fratelli e le sorelle dicono gli uni agli altri: «Vieni fuori alla luce del sole!».40

Queste parole non sono solo un invito teorico, ma nell’espe-rienza di Timothy Radcliffe sono state e continuano a essere lega-te all’esperienza. Egli stesso ne dà testimonianza quando racconta del suo modo di vivere la fraternità e di apprendere dall’altro il

38 T. rAdCliFFe, Dare la vita per la missione, in id., Amare nella libertà, 86.39 T. rAdCliFFe, Lazzaro vieni fuori (Gv 11,43). Discorso alla conferenza svizzera

dei religiosi (13 settembre 2003), in id., Testimoni del vangelo, 189.40 Ivi, 233-234.

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Un percorso tra gli scritti di Timothy Radcliffe

cuore della spiritualità domenicana come gioia. Introducendo il libro di Paul Murray dal titolo Il vino nuovo della spiritualità do-menicana: una bevanda chiamata felicità, esprime la sua sintonia con la lettura condotta da Murray che indica una spiritualità di profonda umanità, con i piedi per terra e piena di vita, di cui si ha particolare bisogno oggi «in una chiesa che a volte tende a esse-re troppo cupa e pessimista, introversa e piena di paure». E così continua:

Quando abitavo a Roma e dovevo preparare una lezione, o scrivere una lettera all’Ordine, invitavo sempre Paul a mangiare una pizza o a bere una bottiglia di vino, non comprendendo a quel tempo che que-sta fosse un’espressione della spiritualità domenicana!41

7. Una spiritualità della missione

Uno dei tratti che colpisce nell’approccio di Timothy Radcliffe è il senso di affidamento all’operare della grazia di Dio e il distac-co da forme di ripiegamento sullo sforzo e sulle capacità umane. Quando parla della missione ha ben chiaro che la missione non può essere ridotta alle attività missionarie e nemmeno si riduce a essere un movimento di espansione e proselitismo. Il suo parlare di mis-sione parte dalla presenza tutta rivolta a essere segno di una presen-za di Dio nella vita e nella storia.

Ho suggerito che l’inizio di ogni missione è la presenza; è essere lì, come segno del Regno, con coloro che sono maggiormente diversi, separati da noi per storia, cultura o fede. Questo, però, è solo l’inizio. La nostra missione ci spinge verso l’epifania, e in ultima istanza ver-so la proclamazione. La Parola diviene carne, e la carne diviene Pa-rola. Ciascuno stadio dello sviluppo della nostra missione richiede al missionario qualità diverse: fedeltà, povertà, libertà, veridicità, silen-zio. […] Ho suggerito inoltre che, in questo momento della missione della Chiesa, la cosa migliore per noi sarebbe pensare al missionario

41 T. rAdCliFFe, Prefazione, in P. murrAy, Il vino nuovo della spiritualità domeni-cana: una bevanda chiamata felicità, ESD, Bologna 2010, 16-17.

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come al futuro cittadino del Regno. Il nostro mondo in fuga è fuori controllo. Non sappiamo bene dove stia andando, se verso la felicità o la sofferenza, la prosperità o la povertà. Noi cristiani non abbiamo accesso a informazioni privilegiate. Crediamo, però, che alla fine il Regno verrà. Questa è la nostra sapienza che i missionari incarnano nelle loro vite.42

Parla così di missione come rischio. Prende a spunto le tesi del sociologo A. Giddens, che delinea il rischio quale dinamismo pro-prio della società moderna. Questa è segnata da un’economia lega-ta allo scambio nella determinazione del proprio futuro ed è tesa a determinare le scelte sottraendole al rifugio sicuro della religione o alla tradizione. Timothy prolunga la riflessione:

Chiaramente, [Giddens] considera la religione un rifugio dal rischio: ma la nostra missione ci invita a un rischio che va oltre ciò che egli im-magina. È il rischio dell’amore. È il rischio di vivere per un altro che potrebbe non volermi; il rischio di vivere per una pienezza di verità che non posso catturare; il rischio di lasciarmi scavare da un anelito per quel Dio il cui Regno verrà. È quanto vi è di più rischioso, e tut-tavia di più certo.43

In queste linee la proposta di Timothy Radcliffe fa risuonare il vangelo, offrendo motivi per ritornare all’essenziale, per scorgere il vangelo come via di umanizzazione della vita. La testimonianza di Gesù è chiamata ad aprirsi all’incontro con uomini e donne che anche senza saperlo stanno ricercando la verità. Ogni nostalgia di libertà, di tenerezza, di amicizia è luogo in cui incontrare una trac-cia per continuare la ricerca del volto di Dio. Le parole di Radcliffe sono cariche di gioia e del fascino che Gesù comunicò a coloro che lo seguirono accogliendo la sua bella notizia nella loro esistenza. E si fanno invito per seguirlo ancora come uomini e donne presi dalla gioia del vangelo.

42 t. rAdCliFFe, La missione in un mondo in fuga: futuri cittadini del regno, in id., Testimoni del vangelo, 148-149.

43 T. rAdCliFFe, La missione, in Id., Testimoni del vangelo, 150.

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Vita cristiana, anno LXXXVIII, n. 1, gennaio-aprile 2019

GIOVANNI PALMITESSA

LA MISTICA CRISTIANA TRA CONOSCENZA ESPERIENZIALE E METAFISICA

Ora, la diritta via umana nel mondo suppone l’ordinare l’uomo al suo fine ultimo,

che è sovrannaturale e può essere ottenuto solo mediante Cristo.

(J. Maritain, Primato dello spirituale)

Introduzione

In seguito a studi, ricerche, pubblicazioni, passati e recenti, la mistica cristiana sta vivendo oggi la stagione della primavera con grandi consensi e felice successo a tutti i livelli. Riteniamo, tuttavia, che occorre grande vigilanza e delicata sensibilità quando si entra nella «terra santa» della mistica cristiana. Si affronta un tema che ha come oggetto un «mistero personale», e per di più ineffabile in se stesso: il mistero delle relazioni più profonde che possano esistere in terra fra l’uomo e Dio, uno e trino. Teorizzare, quindi, in questa materia è veramente difficile, soprattutto perché l’esperienza della mistica cristiana sembra prescindere dalla normale strada cognitiva: sembra che passi direttamente al cuore, alle profondità dell’anima senza immagini e senza concetti.

È nostro intento, pertanto, in questo pur breve articolo, dare valore alla centralità della vita mistica nel cammino di fede del cre-dente cristiano. Anzi, la mistica, considerata in tutta la sua ricchez-za, è il nucleo centrale della fede cristiana, della spiritualità e se vo-gliamo della teologia. Riteniamo la vita mistica il vero percorso del cristianesimo, in quanto pone al centro dello stesso vissuto l’opera redentrice e santificatrice di Dio.

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Giovanni Palmitessa

La mistica intesa cristianamente, quindi, è uno svolgersi nella storia dell’incontro appassionante con il Dio rivelato in Gesù Cristo e che coinvolge le attività quotidiane del credente. Essa è propria della realtà misterica non intesa come qualcosa di irraggiungibile, ma come premessa di Dio che desidera venire incontro all’uomo. Difatti, i mistici cristiani vivono la centralità del mistero trinitario che manifesta la volontà del Padre di inviare il Figlio e lo Spirito Santo, per la salvezza e santificazione della creatura. Essi avvertono l’urgenza di dover sottolineare il valore soteriologico della fede. La salvezza viene sperimentata nella storia di uomini e di donne chia-mati dalla santissima Trinità a vivere la sua comunione. Ciò è frutto di un’uscita da sé per andare incontro a Dio.

L’aspetto soteriologico e la santificazione sono, in questo modo, la presenza oggettiva del Dio trinitario che tende una mano alla sua creatura.

1. La mistica nella visione cristiana

Dare un unico significato al termine «mistica», a parer nostro, non è possibile. Infatti, il termine ha assunto diversi significati nel corso del tempo. Diciamo subito, dunque, che questo termine non appare né nel Nuovo Testamento, né nei padri della Chiesa ed en-tra nel vocabolario cristiano a partire dal III secolo. Il termine mi-stica è entrato nel linguaggio cristiano in riferimento al mistero pa-squale di Cristo e ai misteri sacramentali che, per la potenza dello Spirito, lo dispiegano nel tempo della Chiesa e lo attualizzano nei credenti. «Mistica» significa, possiamo dire, esperienza dei miste-ri, partecipazione viva, seppur nascosta e percepita solo nella fede, alle realtà soprannaturali inaugurate dal Signore risorto e dal dono dello Spirito di Pentecoste, e comunicate nella Chiesa con la procla-mazione della Parola e la celebrazione dei sacramenti. Nel corso del tempo, tuttavia, il termine mistica, va ad assumere tre significati che giungono fino ai nostri giorni. In primo luogo, mistica designa il simbolismo religioso in generale e si applicherà al significato tipico,

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La mistica cristiana tra conoscenza esperienziale e metafisica

allegorico, della Scrittura da cui emana un senso spirituale o «misti-co», in contrapposizione a quello letterale. La seconda accezione, propria dell’uso liturgico, rimanda al culto cristiano e ai suoi vari elementi. In terzo luogo, mistica, in senso «spirituale-teologico», si riferisce alle verità ineffabili, occulte, del cristianesimo, le verità più profonde, oggetto quindi di una più intima conoscenza.1

Riteniamo la mistica il lievito di un cristianesimo attivo e con-templativo. L’orientamento di un cristianesimo proiettato nel fu-turo. Essa risponde non solo alla dinamica interna della fede, della spiritualità e della teologia, ma anche a quella diffusa esigenza di spiritualità che l’uomo contemporaneo sperimenta e si concretizza in una profonda aspirazione al divino.

Considerata in tutta la sua ricchezza e ampiezza, quindi, la mi-stica è il nucleo centrale della fede cristiana, della spiritualità e della teologia. Da ciò ricaviamo che la fede cristiana è mistica, la spiritua-lità è mistica, la teologia è mistica. La mistica, in più, è il punto di convergenza della fede cristiana, della spiritualità e della teologia, per il suo essenziale riferimento al «mistero» fondante, accolto per la fede, contemplato nella storia, sperimentato nella vita e riflettu-to nella teologia. In essa si assicura la circolarità tra la fides quae e la fides qua, nella quale il «mistero rivelato» raggiunge la sua piena espressione.2 «La mistica cristiana – scrive de Lubac – è dentro la logica della vita della fede. Non si nutre di altro: essa accoglie il mi-stero, non perché venga professato con le labbra, né perché venga

1 Cf. J.M. VelAsCo, Il fenomeno mistico. Antropologia, cultura e religione, vol. 1, Jaca Book, Milano 2001, 20; C. RoCChettA, La mistica del segno sacramentale, in E. AnCilli – m. pApAroZZi (a cura di), La mistica. Fenomenologia e riflessione teologica, vol. 2, Città Nuova, Roma 1984, 48. «Nell’uso linguistico cristiano mysticos (cioè nascosto) significa qualcosa che si riferisce al mistero dell’amore di Dio per noi, manifestatosi in Cristo, e ce lo rende accessibile. Lo sguardo è diretto non sull’esperienza dell’uomo, ma sul fatto “oggettivo”, sulla rivelazione di Dio in Gesù Cristo: la parola “mistico” nel senso originario significa scoperta dell’amore di Dio» (J. SudbrACk, Mistica, Piemme, Casale Monferrato [AL], 1992, 29).

2 Cf. J.M. GArCíA, Teologia spirituale. Epistemologia e interdisciplinarità, LAS, Roma 2013, 384, nota 15.

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compreso dalla sola intelligenza, ma, in senso proprio, perché sia vissuto».3

Possiamo dire, dunque, che la mistica cristiana non è una spe-culazione filosofica e/o teologica, atteggiamento questo che ha ca-ratterizzato e caratterizza il pensiero occidentale, ma una dimen-sione antropologica, un qualcosa che appartiene all’essere umano in quanto tale. Consideriamo potenzialmente ogni uomo un misti-co; e la mistica autentica non disumanizza, anzi ci fa vedere che la nostra umanità è qualcosa di più, e non di meno, della nostra pura razionalità. La mistica, quindi, è un vissuto che ci porta a percepire che l’uomo è l’essere che ha in cuore un mistero più grande di lui. Creato come un tabernacolo intorno a un sacro mistero.4 «La misti-ca – sottolinea ancora de Lubac – è l’interiorità della fede attraver-so l’interiorizzazione del mistero, ma a misura che il mistero viene interiorizzato, la fede in esso rinvia il mistico al di là di se stesso».5

Diciamo che l’attingimento di Dio non può accadere se non in quanto Dio, che comunica la fede, comunica se stesso. La mistica non è affermazione, ma solo attingimento di Dio: in effetti il mistico attinge Dio in quanto è attinto da Dio; la sua unione con Dio è l’u-nione di Dio con lui; stare o essere nell’attingimento di Dio equivale a stare o essere in quell’attingimento che Dio provoca, concedendo se stesso al mistico. Da ciò possiamo dedurre che la mistica esprime un fenomeno che poggia sull’esperienza del mistero, ossia della re-altà invisibile, che il pensiero non può afferrare, il sentimento non può dominare, il desiderio umano non può possedere. Essa costi-tuisce una forma peculiare e privilegiata dell’esperienza del mistero che comporta ogni realizzazione viva, effettiva, della dimensione teologale.6

3 H. de lubAC, Mistica e mistero cristiano, vol. 6, Jaca Book, Milano 1978, 20.4 Cf. R. pAnikkAr, L’esperienza della vita. La mistica, Jaca Book, Milano 2005,

16; P. riCCi sindoni, Filosofia e preghiera mistica, in Filosofia e Mistica, Tre-Press 1-2 (2016), 34-35.

5 de lubAC, Mistica e mistero cristiano, 24.6 Cf. A. molinAro, Tra filosofia e mistica, Città Nuova, Roma 2003, 39; J.M.

velAsCo, Il fenomeno mistico, vol. 2, Jaca Book, Milano 2003, 44; 239.

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La mistica cristiana tra conoscenza esperienziale e metafisica

La vita mistica cristiana, pertanto, si realizza come dono di Dio sulla base di un semplice abbandono a cui l’anima è ormai perve-nuta sotto l’azione dello Spirito Santo. Il vertice del suo itinerario è l’unione, ineffabile e transdiscorsiva, col mistero stesso della Tri-nità. E se non si supera l’egoismo, se non si muore all’ego, non si può «godere» di questa esperienza soprannaturale. L’anima, quin-di, guarita da ogni attaccamento e totalmente disponibile alla gra-zia, è condotta dallo Spirito nel deserto della pura fede e della con-templazione. La mistica indica, dunque, nella visione cristiana, l’a-morosa e misteriosa comunione con Dio, che causa nell’anima una speciale conoscenza. Essa è conoscenza sperimentale di Dio, è espe-rienza soprannaturale dell’unione con Dio. Esperienza non miraco-losa, ma soprannaturale, perché soprannaturale è lo stato storico dell’uomo, il cui fine ultimo è la visione diretta e immediata di Dio.7

2. L’essenza della mistica cristiana

L’essenza della mistica cristiana consiste, a parere di molti teo-logi, in una presenza di Dio operante nell’anima e di una conoscen-za di Dio non discorsiva, ma intuitiva.8 Questa conoscenza va oltre i limiti della finitudine e può sperimentare una conoscenza quali-tativamente diversa dalla conoscenza discorsiva perché è prodotta dalla realtà divina che si rivela entrando in contatto con il credente. I mistici, difatti, hanno testimoniato che nel più profondo centro

7 Cf. RoCChettA, La mistica del segno sacramentale, 72-73; GArCíA, Teologia spirituale, 395; E. AnCilli, La mistica: alla ricerca di una definizione, in E. AnCilli – m. pApAroZZi (a cura di), La mistica. Fenomenologia e riflessione teologica, vol. 1, Città Nuova, Roma 1984, 25.

8 Panikkar sottolinea che «l’intuizione mistica è un’esperienza tanto amorosa quanto conoscitiva – vale a dire che tocchiamo la realtà con la conoscenza e con l’amore. La mistica «scopre» che è un solo tocco. […]. Uno dei suoi effetti collaterali e, al contempo, un criterio della sua autenticità, è la liberazione da una delle angustie della ragione: che non può comprendere tutto. La ragione, infatti, tende all’intellezione. Il che significa che cerca un Principio che spieghi tutto» (pAnikkAr, L’esperienza della vita, 103).

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della loro anima hanno sperimentato l’angusta presenza della bea-ta Trinità intensamente operante in essi. È proprio l’attuazione dei doni dello Spirito Santo a costituire l’essenza propria della mistica cristiana. Infatti, quando un dono dello Spirito Santo comincia ad agire nell’anima, si verifica un atto mistico intenso. E quando l’at-tuazione dei doni è così frequente e ripetuta da predominare sull’e-sercizio delle virtù infuse, che operano in una maniera umana, l’ani-ma è entrata nello stato mistico.9

L’essenza della mistica cristiana è perciò intrinsecamente so-prannaturale, completamente agganciata all’ordine della grazia. I mistici, quindi, sperimentano in se stessi l’ineffabile realtà della vita della grazia, sono i testimoni della presenza amorosa di Dio in noi. I mistici sono pienamente consapevoli che quanto sperimen-tano non è opera loro: non sono loro a causare l’esperienza e non possono ritenerla più di quanto lo desidera chi la produce. Le de-scrizioni dei mistici rivelano, dunque, che una passività psicologi-ca dell’amore domina la loro vita. Essi hanno l’impressione, più o meno sensibile, di un intervento a loro esterno che scaturisce dalla profondità del loro essere per unirli a Dio e per goderne una certa fruizione.10

La grande peculiarità dell’essenza della mistica cristiana, infat-ti, è caratterizzata proprio dalla gratuità del dono mistico concesso da parte di Dio. «Si parte dalla gratuità di Dio che ha voluto visitare la storia dell’uomo. Nel dono di Dio offerto all’uomo si intreccia un racconto d’amore fatto di gratuità e gratitudine: l’esperienza misti-ca diventa così una tra le manifestazioni più alte della presenza di Dio in dialogo con la sua creatura».11

Possiamo affermare, dunque, che le testimonianze dei mistici sono unanimi nel ritenere che l’elemento costitutivo dell’esperienza

9 Cf. R. ZAs FriZ de Col, Teologia spirituale, mistica e filosofia. Il loro rapporto nella riflessione teologica di Charles André Bernard S.I., in Mysterion. Rivista di spiritualità e mistica 1/2(2008), 117; J. AumAnn, Teologia spirituale, Dehoniane, Roma 1980, 89; 145.

10 Cf. AumAnn, Teologia spirituale, 146.11 F. Asti, Per una lettura critica dell’esperienza mistica, in Asprenas 42(1995), 535.

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La mistica cristiana tra conoscenza esperienziale e metafisica

mistica è l’attuazione dei doni dello Spirito Santo in un modo divi-no o soprannaturale, che normalmente produce una passiva espe-rienza di Dio o della sua divina attività nell’anima e, per essi, la vita mistica poggia sulla «presenza» originante del mistero nella realtà e nel centro dell’uomo. L’effetto della nostra elevazione allo stato di grazia è un nuovo modo di presenza di Dio in noi, chiamato la missione delle Persone divine e l’inabitazione della Trinità nell’ani-ma. Dio è presente in noi, nel più intimo di noi, per la sua immen-sità, e in ragione della sua infinita efficienza, poiché in ogni istante ci dà l’essere e l’agire. Si tratta di una presenza speciale assoluta-mente propria dell’anima in stato di grazia. È una presenza reale e fisica (ontologica) di Dio nella nostra interiorità. È una presenza a titolo di oggetto, a titolo di termine verso il quale l’anima è inte-ramente volta, orientata, convertita, ordinata come a un oggetto di conoscenza d’amore. Non è una conoscenza e un amore qualsiasi, ma oggetto di una conoscenza e di un amore finitivi, sperimentali, che ci mettono in possesso di Dio, ci uniscono a lui non a distanza, ma realmente. Giacché se le Persone divine si donano a noi, è af-finché noi le possediamo, per essere nostre. Diciamo che lo stato di unione con Dio risulta da due elementi, uno negativo e l’altro po-sitivo: il primo consiste nel fatto che nell’anima non c’è più alcuna tendenza volontaria opposta alla volontà di Dio; il secondo invece consiste in questo, che la volontà umana riceve il suo impulso ad agire unicamente dalla volontà divina. Dunque, nello stato mistico si sperimenta una «presenza» d’essenza del divino. Ci si sente votati a perdersi nella totalità dell’immenso divino senza mai potervisi ap-pagare pienamente. L’essenza della mistica cristiana non è altro che la vita della grazia che diventa esperienza indubitabile, partendo dalla fede e nella fede. Ecco in qual modo la grazia, pur lasciandoci infinitamente distanti dall’atto puro, è un seme di Dio.12 «La gra-

12 Cf. AumAnn, Teologia spirituale, 144; J. mAritAin, Distinguere per unire. I gradi del sapere, Morcelliana, Brescia 2013, 302-305; E. AnCilli (a cura di), Ascesi cristiana, Pontificio Istituto di Spiritualità del Teresianum, Roma 1977, 5; id., La mistica: alla ricerca di una definizione, in AnCilli – pApAroZZi (a cura di), La mistica, I, 27.

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zia – sottolinea Maritain – ci ordina alla visione dell’essenza divina, della Deità stessa che sta al di sopra dell’essere, mentre per natura siamo ordinati soltanto alla conoscenza dell’essere in generale e in-nanzi tutto all’essere delle cose sensibili».13

Possiamo dire, pertanto, che quello che il mistico sperimenta nell’esperienza mistica è l’impronta dell’azione di Dio, il suo con-tatto sostanziale, e in quell’azione scopre «il volto dell’amato» che porta impresso nelle sue viscere. Il fuoco di Dio assolutamente tra-scendente abbraccia le facoltà e i sensi del mistico. Ma questo ab-braccio scolpisce in lui l’impronta in cui scopre la sua «presenza». L’essenza della mistica cristiana, quindi, si fonda sulla presenza on-tologica e sulla penetrazione attiva dello Spirito infinito nello spi-rito finito. Anche se, bisogna dire, per il mistico è impossibile cap-tare come oggetto l’assoluta trascendenza di Dio. La conoscenza che il mistico avrà di Dio, pur essendo vera, sarà sempre oscura. Il desiderio di Dio non è la brama di averlo come oggetto e non può essere saziato possedendolo. Nel mistico, il desiderio di Dio è il ri-sultato della previa presenza di Dio in lui, il segno che imprime nel mistico lo sguardo amoroso di Dio che lo rende letteralmente un essere-per-Dio. Il passaggio verso l’interiorità, pertanto, costituisce una costante del divenire della mistica cristiana e il ritorno della coscienza verso di sé è accentuato nella prospettiva cristiana in cui l’essenza della mistica mirata è Dio stesso presente nell’anima. In-somma, la forma più frequente per esprimere il livello ultimo della relazione mistica, la meta finale dell’itinerario spirituale, la forma più perfetta di esperienza mistica è l’unione. Il mistico cerca, ane-la, desidera, attraverso tutti i suoi passi l’unione con Dio. L’ultima tappa del processo mistico è, stando alla testimonianza della mag-gior parte dei mistici cristiani, la via unitiva.14 «La suprema mistica – scrive Maritain – realizza in questa vita il desiderio inscritto nel-

13 mAritAin, Distinguere per unire, 303.14 Cf. velAsCo, Il fenomeno mistico, II, 93-96; 147; C.A. bernArd, Teologia

mistica, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2005, 240.

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La mistica cristiana tra conoscenza esperienziale e metafisica

la natura della grazia santificante, di pervenire alla fruizione speri-mentale di Dio».15 E continua:

Come la nostra natura pensante ha quale oggetto proporzionato l’es-sere delle cose materiali come noi, come la natura angelica ha quale oggetto proporzionato le essenze spirituali, questo principio spiritua-le soprannaturale ha quale oggetto connaturale il Soprannaturale sus-sistente, e ci proporziona nella profondità dell’essere ad un oggetto essenzialmente divino.16

L’essenza della mistica cristiana si spiega, quindi, soltanto alla luce di ciò che è il mistero cristiano, ed è così perché è Gesù Cristo l’unico oggetto della mistica. Essa è una mistica trinitaria, poiché in Cristo tutta la Trinità si rivela e si dona. La mistica cristiana, de-finita essenzialmente esperienza di Dio nell’interiorità dell’anima, riteniamo sia in stretto rapporto con la cristologia. Gesù Cristo, in-fatti, è la mistica di ogni mistica, perché in lui mistero di Dio ed esperienza di Dio s’identificano e si armonizzano storicamente al più alto livello: nell’identità della sua persona divina e nella concretez-za della sua storia umana, il Gesù storico è, nello stesso tempo, sia mistero di Dio rivelato all’uomo, sia il mistero dell’amore di Dio in-contrato e corrisposto dall’uomo. La mistica cristiana, mistica della «rassomiglianza», dunque, è per se stessa orientata in avanti, verso un fine, verso Dio che ci chiama e ci attira al termine del cammino. Suppone un processo che non può mai dirsi compiuto. C’è in essa un elemento di speranza escatologica.17

3. Conoscenza esperienziale di Dio nella mistica cristiana

Siamo convinti che il cristianesimo rivela nella mistica la sua natura più profonda e la sua vocazione definitiva: incontro, posses-

15 mAritAin, Distinguere per unire, 311.16 Ivi, 301-302.17 Cf. G. mArChesi, L’intimità di Gesù con il Padre, in AnCilli – pApAroZZi (a

cura di), La mistica, II, 19; GArCíA, Teologia spirituale, 383; de lubAC, Mistica e mistero cristiano, 25; 31.

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so, visione di Dio, già realizzati sulla terra, quasi anticipo di eterni-tà, attraverso l’infusione di una fede pura e di un amore struggente. La mistica cristiana, infatti, è originata dalla rivelazione e dall’azio-ne di Dio, che assicura al mistico la possibilità di un’unione divina, realizzabile non per mezzo di capacità intellettive o processi natu-ralistici, ma mediante la donazione di un principio di vita sopran-naturale, la grazia, la quale, comunicata nel battesimo, viene dal mistico percepita a livello di coscienza, in una singolare esperienza assolutamente infusa e quindi gratuita. L’esperienza mistica cristia-na, infatti, è dono, accade per grazia e non per ascesi. Si vuol dire che l’intervallo tra Dio e il mistico è coperto da Dio e non dal misti-co. Ciò significa che, venendo l’iniziativa da Dio, il mistico può solo disporsi alla sorpresa, mai deducibile, del suo accadere. Il processo mistico, perciò, non va dall’uomo a Dio, ma nel senso inverso. La disponibilità del cristiano alla vita mistica è una possibilità dinami-ca nel senso che, per passare all’atto, richiede un libero intervento divino. È un’esperienza che può essere adeguatamente capita come epéxtasis, tensione mai risolta, perfezionamento in continuo pro-gresso, un movimento senza fine, poiché il suo termine è Dio, la realtà infinita, cuius regni non erit finis, la cui natura consiste nel non avere fine.18 De Lubac sottolinea con chiarezza questo concet-to scrivendo:

L’esperienza mistica del cristiano non è un approfondimento di Sé: essa è, al cuore del suo essere, approfondimento della Fede. L’inte-riorità cristiana non è mai, né può essere, interiorità pura: più essa si approfondisce, più comporta quel movimento intenzionale che con-duce il mistico al di là di se stesso, nella direzione della Sorgente che non cessa di colmare il suo vuoto.19

18 Cf. E. AnCilli, Premessa, in AnCilli – pApAroZZi (a cura di), La mistica, I, 12; G. pAttAro, Il linguaggio mistico, in AnCilli – pApAroZZi (a cura di), La mistica, II, 493; velAsCo, Il fenomeno mistico, II, 168.

19 de lubAC, Mistica e mistero cristiano, 22.

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Difatti, la più alta conoscenza di Dio consiste nello scartare – scrive Ancilli – il sensibile e l’intelligibile per unirsi, in una nescienza superiore ad ogni scienza e in un’estasi assolutamente libera e irresistibile, a colui che è al di sopra di ogni essenza e che ha preso le tenebre come nascondiglio. Essa presuppone, senza dubbio, la conoscenza della fede e l’accettazione della dottrina rivelata.20

Fino a che punto, dunque, la mistica cristiana è via di cono-scenza e di esperienza di Dio? E dove collocare la conoscenza e l’e-sperienza della mistica cristiana?

Innanzi tutto è nostra convinzione che nella mistica cristiana la dimensione conoscitiva e quella esperienziale di Dio si compenetra-no vicendevolmente. Ciò perché per la mistica cristiana il conoscere più approfonditamente i misteri divini comporta anche aver fat-to una particolare esperienza di Dio. Nella mistica cristiana, quin-di, l’elemento conoscitivo e quello esperienziale stanno insieme per esprimere l’unica realtà mistica: l’unione di grazia e di amore con Dio. Gli stati mistici, dunque, hanno, per chi li vive, una dimensio-ne esperienziale e una dimensione noetica, una qualità di conoscen-za. Grazie ad essi il mistico ha la possibilità di penetrare i misteri divini, oltre che con l’uso dell’intelletto discorsivo, anche con un rapporto in cui Dio ha assoluta superiorità nell’amore e priorità nella grazia. A questo punto, diciamo che, per arrivare a un’intel-ligenza più profonda della mistica cristiana, bisogna tener conto dell’incrociarsi continuo fra dati teologici e dati esperienziali: né i primi sono estranei ai secondi, né i secondi sono pure deduzioni dei primi. Ogni elaborazione, quindi, di una dottrina mistica deve tassativamente far riferimento all’esperienza.21

L’esperienza mistica, pertanto, permette al mistico di vivere nel modo più intenso la conversione del cuore, di prenderne chiara co-scienza e di fruirne facendo vibrare con massima intensità i propri

20 E. AnCilli, La mistica: alla ricerca di una definizione, in AnCilli – pApAroZZi (a cura di), La mistica, I, 31-32.

21 Cf. velAsCo, Il fenomeno mistico, II, 82; bernArd, Teologia mistica, 100; 155; 184.

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sentimenti. Questa esperienza pone il mistico in contatto con una realtà che i concetti non possono spiegare, a cui i sensi non hanno accesso e che i desideri umani non sono capaci di contenere. Qua-li che siano allora le forme particolari delle realtà interiori di cui il mistico prende coscienza, esse trovano giustificazione non soltan-to nella libera iniziativa di Dio, ma nelle disposizioni del soggetto. La mistica cristiana, difatti, si fonda sull’idea di un Dio di amore che prende l’iniziativa di instaurare un dialogo, offrendo se stes-so e creando uno spazio di comunione: la preghiera. Se dunque ci deve essere esperienza di Dio, questa implicherà innanzitutto che ci si collochi nell’ordine dell’amore e della fede. La vita mistica si sviluppa necessariamente nella fede e nell’amore, oltre i concetti. L’unione a Dio mediante la conoscenza e l’amore supera la perce-zione comune, certo, ma si appoggia sulle virtù teologali e sui doni dello Spirito Santo.22

«È un’illusione disastrosa – scrive Maritain – cercare l’esperien-za mistica al di fuori della fede, immaginare un’esperienza mistica affrancata dalla fede teologale. La fede viva, illuminata dai doni, è il principio di questa esperienza. Essa è il solo mezzo prossimo e proporzionato dell’unione mistica».23 Si potrebbe anche dire che l’esperienza mistica serve alla fede, esprime la fede, è regolata dalla fede. La conoscenza di fede, essendo un’anticipazione della cono-scenza faccia a faccia, può diventare una conoscenza sperimentale della visione di Dio. Un’esperienza mistica cristiana, quindi, non sarà mai un superamento della fede: né della fede oggettiva come conoscenza profonda dei doni dello Spirito Santo, né della fede soggettiva come grazia santificante della fede. Il criterio da seguire è quello dell’interiorità: più interiore è l’esperienza, più sicurezza c’è della sua autenticità, perché tende all’unificazione e alla trasfor-mazione della persona. L’esperienza mistica è, dunque, il percepire «a una profondità» e «da una profondità»: è come sentire che vi è

22 Cf. velAsCo, Il fenomeno mistico, II, 212; 244; bernArd, Teologia mistica, 86; 88; 126; 150.

23 mAritAin, Distinguere per unire, 317.

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La mistica cristiana tra conoscenza esperienziale e metafisica

un «centro», un «fondo», oppure un «vertice». Questa percezione indica questa regione privilegiata dove ha sede la presenza di Dio e da dove egli fa sentire la sua azione santificante.

Il mistico, quindi, mentre è posto in attenzione da una presen-za, fa esperienza della più profonda unificazione e della più pro-fonda semplificazione e, quanto più l’esperienza mistica procede, tanto più diventa semplice e viene unificato il percepire con tutto se stesso. Viene integralmente assorbito in un processo assolutamente semplice, al di là di ogni concettualità, di ogni idea, di ogni imma-gine. L’esperienza mistica previene, quindi, qualsiasi riflessione; in essa si scopre un modo misterioso di agire di Dio nell’anima. Il mi-stico viene totalmente preso nella sua unità profonda, in quella che viene chiamata l’esperienza di «centro dell’anima», della fine pointe de l’esprit.24 Perciò l’esperienza mistica del cristiano avviene, scrive Goffi, «al di là del profondo o sommità dell’anima e di ogni sua po-tenza; essa si attua se e in quanto tutto l’umano è stato trasformato in spirito risorto. Si esige il vuoto totale di tutto l’umano (anima e corporeità) dato che esso è una potenzialità crea ta terrestre».25

Possiamo dire, dunque, che nell’esperienza mistica cristiana emergono due tratti caratteristici, e cioè la certezza della presenza e l’oscurità della contemplazione. Sulla base di questa caratteriz-zazione dell’esperienza mistica come contemplazione, ossia come «avvertenza e notizia amorosa», possiamo precisare che essa ha va-lore noetico, conoscitivo, ma la conoscenza che ne deriva è oscura e confusa nella sua linea essenziale. È una conoscenza affettiva ge-nerale. Non è tanto la contemplazione di una verità, quanto l’espe-rienza di una realtà ottenuta tramite l’unione d’amore. Nell’espe-rienza mistica, pertanto, sentimento e conoscenza cessano di eser-citarsi ognuna nel proprio campo per rifluire verso la loro sorgente

24 Cf. bernArd, Teologia mistica, 105; 193; G. moioli, L’esperienza spirituale, Glossa, Milano 1992, 73; 77-78; ZAs FriZ de Col, Teologia spirituale, mistica e filosofia, 116; GArCíA, Teologia spirituale, 394-398.

25 T. GoFFi, La grazia e le strutture dell’anima, in AnCilli – pApAroZZi (a cura di), La mistica, II, 142.

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comune e manifestarsi come unico dinamismo spirituale nuovo. Quindi, l’esperienza mistica cristiana è innanzi tutto l’esperienza di un’alterità soprannaturale che si impone obiettivamente e che non può essere mai creata dal mistico: è una risposta dell’amore del mistico a un Amore, infinitamente grande, che si è fatto incontro preventivamente e liberamente in Gesù e nel dono del suo Spirito.

Bisogna riconoscere, dunque, che non vi è esperienza mistica cristiana se non sulla base della comunicazione della grazia del Cri-sto per mezzo dei sacramenti. L’esperienza mistica cristiana, quin-di, fondata sulla fede, sulla grazia, realizzata nella Chiesa, sotto la mozione dello Spirito Santo, non è soltanto partecipazione all’espe-rienza di Cristo, anche se dichiarata superiore, unica; essa è parte-cipazione alla «realtà del Cristo», che è la rivelazione definitiva del mistero di Dio e il realizzatore perfetto del cammino di salvezza dell’uomo.26

4. Tra mistica cristiana e metafisica

Per la loro natura, l’ambito della mistica cristiana e l’ambito della metafisica sono ambiti della pura immaterialità. Tuttavia, an-che se entrambe sono accomunate dall’ambito dell’immaterialità, bisogna specificare che l’immaterialità di entrambi appartiene a mondi differenti: quello della mistica al mondo del divino, quello della metafisica al mondo dell’essere in quanto essere.

Rifacendoci a Maritain, dunque, possiamo dire che tra l’espe-rienza mistica e la metafisica intercorrono relazioni vitali. Esse im-plicano a un tempo: a) un’aspirazione inefficace; b) una dipendenza di fatto, nel soggetto e in ragione del soggetto, della metafisica nei confronti dell’esperienza mistica. Nel senso che la metafisica aspi-ra in certo qual modo all’esperienza mistica. La metafisica ingene-ra in modo naturale nell’anima una velleità che non ha il potere di

26 Cf. velAsCo, Il fenomeno mistico, II, 114; p.127; roCChettA, La mistica del segno sacramentale, 57; mArChesi, L’intimità di Gesù con il Padre, 20.

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soddisfare un desiderio confuso e indeterminato di una conoscen-za superiore la quale di fatto non è autenticamente attuata se non nell’esperienza mistica.27

La metafisica, infatti, naturalmente, non ha luce propria da ap-portare su quanto concerne direttamente l’ordine della grazia. Ma in quanto riflessione sulla struttura dell’esistenza e su tutto ciò che essa implica, e in quanto la parola di Dio si rivolge a questa esisten-za così come è strutturata, può contribuire, per lo meno, a chiarire le condizioni di possibilità della sua ricezione in e per mezzo di que-sta esistenza. La mistica cristiana, invece, fondandosi sui principi della rivelazione, si sforza di giungere a un’intelligenza della fede sempre più ampia. L’oggetto particolare, quindi, della sua esperien-za non è soltanto la conoscenza di Dio, ma la situazione dell’uomo davanti a Dio: Dio, infatti, è creatore e salvatore e promette la sua eredità eterna. Tutte queste realtà sono appunto oggetto della testi-monianza dei mistici.

Il percorso metafisico, quindi, si colloca in questa stessa pro-spettiva, ma invece di fondarsi su certezze preliminari basate sulla fede e sulla rivelazione, ricerca una comprensione del reale a partire dal desiderio del vero e dell’assoluto e tenta di elaborare un’infor-mazione del sapere.28 Da ciò comprendiamo che la distinzione tra il sapere di modo sovrumano, che deve procedere secondo la regola-zione dello Spirito Santo, e il sapere di modo umano, che deve pro-cedere secondo la regolazione della ragione, è perfettamente netta: della pura ragione se si tratta della metafisica; della ragione elevata dalla fede se si tratta della mistica.

Il metafisico si eleva all’idea dell’essere che non considera come totalità degli essenti, ma come un’idea regolatrice che gli per-mette di pensare gli essenti nella loro unità, verità, bontà e bel-lezza. Tuttavia, gli basta porre fra l’idea di essere e gli essenti una relazione analogica, per assicurare il senso della trascendenza. Ma

27 Cf. mAritAin, Distinguere per unire, 333-334.28 Cf. J.-M. vAn CAnGh (a cura di), La mistica, EDB, Bologna 1992, 94; bernArd,

Teologia mistica, 90.

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appena pretende di attingere il fondamento dell’essere in se stes-so, si ritrova davanti al problema: esiste un’intuizione dell’essere, di Dio? Il mistico, invece, riconosce il limite del suo attingimento dell’Assoluto, di Dio: lo attinge meglio con la negazione che con l’affermazione. La differenza, quindi, tra esperienza del pensiero, la metafisica, ed esperienza della fede, la mistica, s’impone da sé. Per-tanto, quando diciamo esperienza del pensiero, vogliamo intendere l’evidenza della necessità della totalità assoluta dell’essere e della innegabilità della sua assoluta presenza nell’essere del finito: essa consiste nell’apparizione finita dell’infinito, quella per cui il finito appare come finito in quanto sospeso in e con tutto il suo essere all’Essere assoluto. Esperienza della fede, invece, significa oscurità del contatto, in cui il soggetto viene elevato, assorbito e immesso nel mistero di Dio, e la percezione sempre oscura della spropor-zionata e assoluta gratuità dell’accadimento, in cui si compie la sua fruizione del mistero: essa consiste nella rivelazione diretta del mi-stero come mistero.29

In altre parole, quello che la mistica cristiana esprime come testimonianza del suo attingimento – Dio è tutto e nulla –, la me-tafisica lo attinge per via di affermazione e lo esprime come puro pensiero speculativo. L’identità di struttura del momento filosofico e del momento mistico si dispone secondo due modalità differenti e, quindi, dà origine a due dimensioni di forma diversa: il pensiero afferma e attinge l’Assoluto in quanto pensiero; la mistica attinge Dio in quanto fede.

Per essere più espliciti, possiamo dire che per il pensiero me-tafisico l’affermazione e l’attingimento sono indisgiunti nel senso che l’Assoluto non è attingibile se non per via di affermazione: l’at-tingimento è il compimento dell’affermazione. Tale compimento è propriamente il momento speculativo, cioè appunto l’elevazione del pensiero all’Assoluto. La mistica cristiana, invece, dal canto suo non è affermazione, bensì diretto attingimento, e non dell’Assoluto,

29 Cf. bernArd, Teologia mistica, 136; molinAro, Tra filosofia e mistica, 31-32.

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ma di Dio, uno e trino. Sono due, quindi, gli elementi che caratte-rizzano distintivamente la mistica cristiana: il puro attingimento e il puro attingimento di Dio. L’assenza di affermazione dipende dal fatto che la mistica cristiana si situa entro l’ambito della forma della fede. La mistica cristiana, quindi, attinge Dio unendosi, nella forma della fede, nella forma di un’adesione e di un’affinità, che si suo-le chiamare esperienza, come contatto, come attingimento unitivo esperienziale di Dio.30 «La mistica – scrive Molinaro – è svincolata da ogni impegno dell’affermazione e, quindi, da ogni rigore della fondatezza, mentre il pensiero è interamente vincolato all’afferma-zione posta con il rigore della fondatezza».31 La linea, quindi, di demarcazione tra la metafisica e la mistica cristiana è appunto tra conoscenza speculativa e conoscenza esperienziale. La conoscenza dell’esperienza mistica cristiana supera ogni conoscenza speculati-va, poiché «le verità divine» non soltanto si conoscono, ma insieme «si gustano».

In altre parole la mistica cristiana è riferita al mistero, sorge dalla sua manifestazione nell’oscurità, vive nella sua presenza mai data interamente. E questo riferimento non si realizza nel sempli-ce prolungamento dell’interiorità abissale del soggetto, ma richiede invece il riferimento alla rivelazione, alla Parola con la quale questo mistero stimola la profondità dell’uomo e la spinge a quel «più in là» sempre irraggiungibile che risuona in esse, ossia nella profondi-tà del soggetto e nella Parola che la provoca.

Se, allora, si deve riservare il significato proprio di «mistica» all’esperienza del mistero, l’essenziale differenza che la distanzia dall’esperienza del pensiero non consiste tanto nel fatto di essere esperienza, quanto nel suo contenuto e nella modalità dell’appari-zione di questo contenuto: apparizione come evidenza della neces-sità di questa apparizione, che è l’apparizione della totalità assolu-ta dell’Essere (piano della metafisica); apparizione come fede nella

30 Cf. A. molinAro, Affermazione e attingimento, in A. molinAro – E. sAlmAn (a cura di), Filosofia e mistica, Studia Anselmiana, Roma 1997, 64-65.

31 molinAro, Tra filosofia e mistica, 62.

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gratuità della rivelazione del mistero, che ammette alla propria frui-zione (piano della mistica cristiana).32

La mistica cristiana, dunque, è totalmente nel quadro del mi-stero e, anzi, è autentica solo se è omogenea al mistero e non lo supera. L’aspetto oggettivo più decisivo, infatti, dal punto di vista della percezione del mistero, è la fede nell’incarnazione redentrice del Verbo. Nel Cristo, vero Figlio di Dio, si manifesta il Padre: «È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2,9).

Riteniamo, quindi, che la mistica cristiana trova la sua pienezza e il suo modello in Cristo, chiave che illumina la speculazione filo-sofica per mezzo del dato rivelato. Difatti, «la metafisica – eviden-zia Maritain – non è la porta della contemplazione mistica: questa porta è l’umanità di Cristo, per il cui mezzo grazia e verità ci furono donate»33 e nella Gaudium et spes si legge: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» (n. 22). Dunque, l’esperienza mistica cristiana si fonda sulla fede personale in Cristo e il credere nella Trinità divina. «Senza ancora – scrive Maritain – saper chiamare il Padre, il Figlio e lo Spirito, la metafisica deve giungere come a suo termine normale e necessario al riconoscimento della personalità divina».34 La mistica cristiana, quindi, situa la persona umana nella sua vera dimensione metafisi-ca. E come Maritain sottolinea:

Se è vero che l’esperienza mistica è la più alta vetta della vita dell’a-nima, dove conoscenza e amore danno il loro più nobile frutto, è ben certo che il filosofo, il metafisico, avrà, anche per il proprio oggetto, il più grande vantaggio se si interesserà allo studio di un’attività così trascendente. Ma non lo farà convenientemente se non ricorrendo alla luce teologica, l’unica proporzionata a tanto oggetto.35

32 Cf. velAsCo, Il fenomeno mistico, II, 218; molinAro, Tra filosofia e mistica, 32.33 mAritAin, Distinguere per unire, 32.34 Ivi, 278.35 Ivi, 338.

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La mistica cristiana tra conoscenza esperienziale e metafisica

Conclusione

I pensieri che sono stati delineati in questo pur breve percorso, non hanno altro scopo che di delimitare un certo spazio per ciò che viene trattato in una mistica cristiana.

Tracciando, dunque, alcune linee conclusive diciamo, citando de Lubac, che

la mistica propriamente detta è un’esperienza esclusivamente cristia-na. Come unione effettiva con Dio, essa non può realizzarsi che in forza di una grazia soprannaturale, il cui luogo normale è la Chiesa e le cui condizioni normali sono la vita di fede e i sacramenti. In questo senso soltanto nella Chiesa si incontra una vera mistica; fuori della Chiesa non c’è mistica.36

Il cammino della mistica cristiana, quindi, è l’itinerario ideale che l’anima compie in vita per arrivare, da una conversione totale, a un’unione sempre più perfetta con Dio, fino a essere da lui invasa e trasformata. La mistica cristiana è, infatti, originata dalla rivelazio-ne e dall’azione di Dio, che assicura al fedele la possibilità di un’u-nione divina, realizzabile non per mezzo di processi naturalistici, ma mediante la donazione di un principio di vita soprannaturale, la grazia, la quale, comunicata nel battesimo, viene dalla mistica percepita a livello di coscienza in una singolare esperienza assoluta-mente infusa e quindi gratuita.

Volendo precisare diciamo, pertanto, che il luogo dell’espe-rienza mistica sta all’interno della storia della salvezza e ne riflette il movimento proprio. Ciò significa che ogni sua valenza persona-le non è che una modalità di questa storia, interiorizzata secondo l’economia dell’alleanza pasquale, che è patto d’amore salvifico di Dio con tutti gli uomini e, in loro e con loro, con ogni uomo. Si vuol dire, quindi, che l’esperienza mistica è sempre e solo un «vissuto» di questa alleanza. La mistica cristiana, a conclusione, può allora rappresentare quella soglia da attraversare, per entrare in un luo-

36 de lubAC, Mistica e mistero cristiano, XVII-XVIII.

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Giovanni Palmitessa

go dove ragione e cuore, finito e infinito possano porsi in dialogo e dove la natura dell’uomo trovi il suo pieno senso alla luce della trascendenza divina.

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Vita cristiana, anno LXXXVIII, n. 1, gennaio-aprile 2019

MARIA CRISTINA DELLA TRINITÀ

LO SPIRITO SANTO IN SANTA MARIA MADDALENA DE’ PAZZI

Caterina de’ Pazzi è una santa fiorentina nata nel 1566 dalla nobile famiglia che nel 1478 prese parte alla congiura contro i Me-dici dove, durante la celebrazione eucaristica, al momento dell’e-levazione, fu ucciso Giuliano. Il fratello Lorenzo de’ Medici riuscì a fuggire e mise in atto una terribile vendetta: alcuni dei congiura-ti furono impiccati, i familiari adulti imprigionati, gli altri esiliati, mentre furono loro confiscati tutti i beni. Ma un secolo dopo ecco di nuovo la famiglia de’ Pazzi a Firenze, amica dei Medici, sebbene in posizione subalterna, muoversi nei posti di prestigio della città. La mamma di Caterina, Maria Buondelmonti, era molto devota e quando la piccola aveva 11 anni se la vide cascare tra le braccia mentre recitava il Credo; la bambina non era svenuta: aveva speri-mentato la sua prima estasi!

Caterina cresce sempre attirata dalle cose di Dio, specialmente dal mistero della Trinità e desiderosa di «mangiare Gesù».

A 16 anni Caterina affronta audacemente il padre Camillo, de-cisamente contrario alla sua vocazione, dicendo di essere disposta a farsi tagliare la testa pur di farsi monaca; di fronte a tanta determi-nazione crollano anche le resistenze del babbo, che si mise a pian-gere e le concesse il permesso.

La fanciulla entra nel primo Carmelo femminile fondato in Ita-lia, quello fiorentino di San Frediano sull’Arno, dove la comunione quotidiana era consuetudine mentre altrove si riceveva solo nelle feste e alla domenica: questo fu il motivo per cui la Santa scelse questo luogo. In monastero le fu dato il nome di Maria Maddalena

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e tutti si stupivano per la sua devozione e le sue virtù. Ben presto si ammalò gravemente e, dopo aver consultato tutti i medici di Fi-renze, mandati dal padre Camillo, le monache furono moralmente costrette a farle fare la professione solenne in articulo mortis. La giovane professa si riprende e per 40 giorni consecutivi, dopo la co-munione, viene rapita in estasi; si svela così il carisma straordinario di questa Santa, nota tra le più grandi estatiche.

Il primo giorno, subito dopo aver pronunciato i voti, viene ri-portata con la barella in infermeria dove chiede di essere lasciata a riposare. Sentendo che non tossiva come al solito, la sorella incari-cata si fece coraggio e andò a vederla.

Trovò che ben si riposava nel suo centro, cioè in Dio, poiché era alienata in tutto e per tutto dai sensi esteriori e rapita in Dio. Aveva fatto una faccia bellissima, con le carni vermiglie, e teneva gli oc-chi fissi al Crocifisso. Risplendeva in quel volto una maestà e grazia tanto grande che non pareva fosse lei stessa che per l’infermità era divenuta macilenta e smorta […] E questa fu la prima volta che la vedemmo astratta dai sensi e durò a questo ratto per spazio di due ore buone.1

Raccontò alla madre priora che si vedeva legata con i tre voti alle tre persone della Trinità: con la castità all’eterno Padre che è la purità medesima, col voto di obbedienza allo sposo Gesù e col voto di povertà allo Spirito Santo.

Lo Spirito Santo, poco noto nella devozione del tempo, diven-ta invece per la Santa il vero protagonista di tutta la sua esistenza.

Come era unito al Verbo nella sua incarnazione, così lo vede unito a Cristo nelle sue estasi e lei li chiama entrambi: «Amore»,

1 Cf. Breve ragguaglio della vita della Santa madre, in Tutte le opere di santa Ma-ria Maddalena de’ Pazzi, 1: I quaranta giorni, Firenze 1960, 92-93. Tutte le citazioni dai testi della Santa sono state leggermente ritoccate rispetto ai testi originali per adattarle all’italiano corrente. I manoscritti originali verranno pubblicati per la prima volta dal 1960 al 1966 da Bruno Nardini (CIL) a cura di sr. Paola Maria dello Spirito Santo, monaca del Carmelo di Firenze e fondatrice del Carmelo Mater Unitatis di Montiglio Monferrato.

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tanto che a volte è difficile capire, quando nomina l’Amore, se si rivolge a Gesù o allo Spirito Santo.

O, Amor puro, puro Amore. O Unità della Santissima Trinità. O Sa-pienza del Padre. O Benignità dello Spirito Santo. O, Amor mio, Jesu mio. Pazzo d’Amor sei, Jesu mio. Quando, Amor mio, mi unirò con te?2

La Santa non scrisse nulla, ma nelle estasi parla forte e quattro sorelle la seguono nei suoi spostamenti, trascrivendo ciascuna una frase, che poi mettono insieme, formando così i sette manoscritti delle Opere della Santa.

1. Lo Spirito Santo nella sacra Scrittura

Tutte le estasi prendono infatti avvio dalla Parola di Dio ascol-tata nella celebrazione della Messa e nell’Ufficio divino. E basta scorrere gli indici dei riferimenti biblici nelle Opere della Santa per constatare la quantità sterminata di citazioni della sacra Scrittura.

Nel 1585, dal giorno della solennità dello Spirito Santo per tut-ta l’ottava della Pentecoste, la Santa fu quasi sempre in estasi. Du-rante la liturgia le estasi vengono sospese e subito dopo ripartono, incalzate dalle parole della Scrittura proclamata o cantata.

Io devo bere il dolcissimo vino che è la pura, sincera e schietta laude tua, la quale si proferisce per onorarti e si conferisce per la salute del prossimo. E questo è il nutrimento della sposa anima.

Non solo vuole però che lo lodiamo con la bocca, ma che accompa-gniamo a essa il cuore; vuole che lo lodiamo di lode pura e bella, per-ché non est «speciosa laus in ore peccator».3

La Parola che scopre nel ritmo liturgico del Messale e del Bre-viario illumina e dirige giorno per giorno tutta la sua vita monastica, contemplativa ed estatica.

2 I quaranta giorni, 138. 3 Tutte le opere di santa Maria Maddalena de’ Pazzi, 4: Revelatione e intelligentie,

Firenze 1964, 48 e 90.

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Le citazioni bibliche fioriscono spontaneamente dalla sua boc-ca, anche in latino, e si susseguono nei suoi discorsi rivelando così la sua grande familiarità con la sacra Scrittura.

In questa ottava di Pentecoste santa Maria Maddalena riceve ogni giorno lo Spirito Santo in sette varie forme: come fiamma di fuoco, nuvola, dardo di amore, colomba, roveto ardente, colonna, fontana e tavole della Legge.

2. Lo Spirito Santo nella Trinità

O puro Dio, o eterno Verbo! Vorresti fare in noi un fonte d’acqua viva:4

una fonte inesauribile che incessantemente riconduce da Cristo al Padre, alla Trinità, nello Spirito Santo. Il mistero della Trinità ha sempre affascinato la ragazza fin da piccolina, quando andava a chiedere spiegazioni alla mamma, quando trova luce nella pre-ghiera di sant’Atanasio che parla delle tre Persone in un unico Dio, quando cade in estasi a 11 anni mentre recita il Credo.

Nelle sue meditazioni naviga dapprima nei rapporti intratrini-tari dove, attraverso il dono reciproco, si rinnova e continua eterna-mente la gioia del gioco amoroso che va dal Padre al Figlio e dal Fi-glio al Padre e che si attua nel «movente e manente Spirito Santo».5

Maria Maddalena, inondata dalla sua luce, considera il rappor-to per lo Spirito Santo in seno alla Trinità; sperimenta come lui sia dono per l’anima e scopre in maniera esatta e personale quale sia l’azione di questo Spirito nelle anime che in lui incontrano il Padre e si uniscono al Figlio.

Esso Spirito infondente nell’anima, vien con silenzio cantando […]. Vien narrando la verità per unire, descendendo in quelli che sono uniti a lui e a prossimi suoi.6

4 Ivi, 59. 5 Ivi, 168.6 Ivi, 104.

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Si infonde questo Spirito, procedente dal Padre e dal Verbo, in un modo tanto soave nell’anima […] e arreca la potenza del Padre e la Sapienza del Figliolo. E l’anima così potente e sapiente si rende atta a mantenere in sé questo abitatore, accarezzandolo con fare che esso in lei si compiaccia e non si parta.7

Accarezzare lo Spirito Santo! Incredibile! Come? Col cercare di fargli piacere… È questo Spirito che «arde e non consuma», che «restaura il consumato», cioè l’innocenza perduta per il peccato.

Poi il suo sguardo si fissa nelle effusioni divine ad extra e così afferma che ogni bene viene dal Padre per mezzo del Figlio suo Gesù Cristo, nello Spirito Santo che abita in noi.

Secondo la visione di sant’Agostino, vede anche nell’anima una «trinità creata», il riflesso di questo mistero: nella volontà il Padre, nell’intelligenza il Figlio, nella memoria lo Spirito Santo, così che l’anima compie le opere della Trinità increata con

un ansioso desiderio dei prossimi e influisce un forte volere che le creature tornino al loro Creatore8

da dove tutto era sgorgato.

3. Lo Spirito Santo nella storia della salvezza

Il tema preferito da S. M. Maddalena de’ Pazzi è quello della storia della salvezza iniziata nel consiglio fatto insieme nella Trinità.

Il tema di questo «consiglio» di salvezza, concepito in Dio, attuato in Cristo e continuato nella Chiesa è proprio una delle sintesi più bella di S. M. Maddalena. Ogni giorno vi ritorna come ad un motivo che innalza, unifica e determina la conoscenza che Dio le partecipa. Vi ritorna svolgendo di qui, come da un punto sicuro e chiaro, la sua contemplazione; e, nell’incontro con Dio, lo allarga, spazia nei miste-ri della Trinità, di Cristo, dello Spirito, nella visione della Madre di Dio; si sofferma negli elementi della sua ascesi carmelitana; mentre

7 Ivi, 61. 8 Ivi, 285.

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alla fine, in una «ricapitolazione» che luminosamente precisa tutta la sua visione, riaffermando a se stessa ciò che Dio le ha dischiuso, si affida al suo amore, al suo Spirito che la investe, perché la luce di-venti vita.[…]Contempla il «consiglio che si tenne in Dio, nella Trinità», ove dal-le Persone divine viene fissato il piano della creazione ed amorosa-mente deciso che l’uomo sia fatto ad immagine e somiglianza divina per poter ricevere in sé le comunicazioni dell’Altissimo. E poiché l’uomo ha deturpato tale immagine […], in un nuovo consiglio vie-ne decretata l’incarnazione del Verbo. Ne segue la fase preparatoria nell’Antico Testamento «acciò che essa creatura si movessi a chiede-re e desiderare esso Verbo», mentre le figure che preparano questa salvezza sono considerate ad una ad una: Adamo, il paradiso terre-stre, la colpa, Noè, il diluvio e l’arca, Abramo, la schiavitù dell’Egit-to, Mosè, il passaggio del Mar Rosso, i Profeti. E finalmente: l’incar-nazione e Maria.9

4. Lo Spirito Santo nella vita di Gesù

E «tanto fece» lo Spirito Santo «che levò il Verbo dal seno del Padre e lo piantò in Maria»10 nell’incarnazione.

La Santa ripercorre così tutta la vita di Gesù nella sua bi-unità con lo Spirito. Vedeva Gesù come un bambino di un anno… Vede-va poi la Vergine Maria che, tenendolo in braccio,

lo voleva dare a tutte, ma poche lo ricevevano. Gesù le baciava dolce-mente e mentre accostava la sua bocca alla loro vi soffiava il suo alito, con alcune per compiacersi di loro, con altre per dare e infondere loro il suo Spirito.11

Tutto passa per l’umanità di Gesù:

9 P. visentin, Introduzione, in Revelatione e intelligentie, 30-31. 10 Revelatione e intelligentie, 101. 11 Cf. Tutte le opere di santa Maria Maddalena de’ Pazzi, 2: I colloqui. Parte prima,

Firenze 1961, 137.

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Per essa Umanità c’è stato aperto il cielo, serrato l’inferno, per essa viviamo di vita vera, abbiamo la grazia di Dio, i doni dello Spirito Santo e ciò che c’è di bene.12

Cristo è l’incontro di quel consiglio divino che la Santa sembra non poter esaurire nella sua contemplazione e che, con lo Spirito Santo, incessantemente riprende e trasforma l’anima:

Vedo te Dio, Verbo e Spirito, e intendo che vai cercando con somma sapienza, con eterna bontà la tua creatura […] e questo Spirito è l’a-mo con cui vai cercando di pigliarla […].

E il Verbo piglia la sposa, e per mezzo dello Spirito Santo la conduce dinanzi a sé e le dà un nome nuovo.13

Molte sono le scene del vangelo che rivive parlando con Ma-ria e gli apostoli e per tre volte Maria Maddalena ripercorre tutta la passione, girando per tutto il monastero e rivivendola con Gesù e in persona di Gesù, nei luoghi dell’orto degli Ulivi, del Sinedrio, del pretorio e del Golgota.

Numerosissimi sono riferimenti al cuore di Gesù e della Ver-gine e soprattutto al sangue che, offerto per tutti, purifica la Chiesa e i suoi membri.

Nei Colloqui la Santa vede che Gesù dona lo Spirito proprio al termine della sua vita terrena:

Alle ore 21 vide Jesu spirare in croce e intese che volle spirare per mandare lo Spirito suo nelle creature […]. E le mostrò Jesu come le creature non ricevono il suo Spirito e quanti pochi lo ricevevano […]. E così vide che Gesù lo mandava al nostro monastero e che lo ri-ceveva chi più e chi meno e chi non lo riceveva affatto. E di ciò ne ebbe un grande dolore che disse forte queste parole: «Metti lo Spi-rito tuo in quelle…», voleva dire in quelle che erano disposte e lo desideravano.14

12 Ivi, 151. 13 Revelatione e intelligentie, 64 e 124. 14 I colloqui. Parte prima, 313-314.

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5. Lo Spirito Santo in Maria

Il 15 agosto 1599 la Santa guarda Maria assunta in cielo e poi esplode in una lode estatica:

In Maria è contenuto lo stesso Dio, tutto il cielo e tutte le creature; mediante il sangue tratto da Maria è salvato tutto il mondo. E se non c’era Maria, per me non c’era paradiso. Se non c’era Maria, per me non c’era Dio […] in Maria c’è tutto Dio.15

Nella Pentecoste Maria aspettava ancora la venuta dello Spiri-to Santo tante volte promesso.

Eppure l’aveva già ricevuto tante volte e per mezzo di lui aveva nu-trito in sé il Verbo; ma dava un esempio all’anima, la quale, sebbene abbia ricevuto lo Spirito e per mezzo suo porti dentro di sé il Verbo, lo deve bramare sempre di nuovo con amoroso desiderio.Maria stava con gli apostoli per confortarli e animarli a chiedere lo Spirito, ma non crederò certo che Maria ne fosse priva nei dieci gior-ni in cui stette ad aspettarlo. Non lo crederò mai. Anzi crederò che ad ogni momento lo Spirito si effondesse in lei con nuovi doni e grazie, benché non apparisse al di fuori …. Maria, mare amplissimo, aspet-tava l’effusione e l’infusione del mare inscrutabile […] aspettava di ricevere l’unione dello Spirito, ma siccome ne era già ripiena, rice-vette in sé una nuova sovrabbondanza dello Spirito che l’unì a sé in rinnovata unione.16

6. Lo Spirito Santo nella Chiesa

La Chiesa appare alla Santa come la Madre dei credenti, una madre che genera i propri figli alla gloria e che anticipa qui la Ge-rusalemme celeste, nella comunicazione della vita e della salvezza che deriva da Cristo suo capo e nella partecipazione all’amore dello Spirito che la anima.

15 Tutte le opere di santa Maria Maddalena de’ Pazzi, 6: Probatione. Parte seconda, Firenze 1965, 202.

16 Revelatione e intelligentie, 65-66.

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La sposa Chiesa e la sposa anima sono, nella meditazione del-la Santa, come nella tradizione patristica medievale, una il riflesso dell’altra: la Chiesa viene considerata nell’insieme dei fedeli mentre l’anima avanzata nell’amore assomiglia alla sposa per eccellenza che assomma in sé la Chiesa e diventa l’Ecclesia.

Vi ho promessi infatti a un unico sposo, per presentarvi a Cri-sto come vergine casta (2Cor 11,2), come dice san Paolo.

La sposa anima è concepita e nutrita alla tua sacratissima bocca e la sposa Chiesa è concepita e nutrita al tuo sacratissimo costato e nel costato riceve il distillamento di tutti i suoi santi membri. Pare che la sposa anima abbia meno della Chiesa […] ma non è così perché lo riceve in modo più intrinseco che non fa la Chiesa.17

In questa immagine si sente tutto l’impegno e la profondità della sposa anima per essere di aiuto alla sposa Chiesa: «Sì, Verbo, un membro è utile a tutto il corpo» e proprio perché la Santa si sen-te la Chiesa e non solo nella Chiesa, tutte le vicende e tutte le situa-zioni di questa sono rivissuti nell’anima «alcuni per partecipazione, altri per desiderio e volere».18

L’offerta dell’anima viene vivificata dallo Spirito cui è uni-ta, mentre è lo stesso Spirito che «coltiva l’ameno giardino della Chiesa».19

Ma non resta contento questo Spirito di questa sua operazione di trapiantare queste anime nel giardino della Chiesa, perché vuole tra-piantarle anche dal giardino della Chiesa nel giardino del paradiso.20

Lo Spirito Santo, con le sue ispirazioni, invita tutti alla Cena del Signore e immette l’uomo nella sfera divina dell’amore e lo di-vinizza.

Lo Spirito Santo svolge la sua azione salvifica nella Chiesa e M. Maddalena offre la sua vita per il rinnovamento della Chiesa. Dopo

17 Ivi, 47. 18 Ivi, 266. 19 Ivi, 100. 20 Ivi, 103-104.

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l’ottava della Pentecoste del 1585 infatti subirà cinque anni di pro-ve terribili e verso la metà di questo periodo, durante circa un mese di pausa, il Signore si fa di nuovo vivo e presente per chiederle di collaborare per la rinnovazione della Chiesa.

Suor Maria Maddalena ha appena 19 anni ed è monaca di clau-sura; scrive così, sotto l’influsso divino, dodici lettere: al papa, ai cardinali, ai generali degli ordini religiosi e a due monache, facen-doli partecipi del suo ardente desiderio di fare la volontà di Dio: let-tere che per la loro audacia non arriveranno quasi mai ai destinatari e saranno conosciute solo dopo secoli.

7. Lo Spirito Santo nella santificazione dell’uomo

Secondo la Santa è per lo Spirito che siamo resi conformi a Gesù, Verbo fatto carne, e per Gesù al Padre. Egli ci fa «cristi, dèi e verbi» riproducendo in noi l’immagine di Dio, e poiché egli chiude il ciclo della vita divina in seno alla Trinità, prolunga anche in noi questa stessa funzione:

Ci conferma nella sua grazia, ci dà il compimento della gloria, confer-ma in noi la Trinità. […] E lo Spirito essendo la terza persona viene a compiere in noi essa Trinità. […]Egli è il dispensatore dei tesori che sono nel seno del Padre e il teso-riere dei consigli che si fanno tra il Padre e il Verbo.21

L’opera di santificazione è precisamente opera dello Spirito Santo che agisce «intrinsecamente nell’anima e ci manifesta quelle cose che dobbiamo fare per piacere alla Trinità».22

Uno studio attento rivelerebbe che pochi autori mistici o spiri-tuali hanno una visione così chiara e profonda della parte che spetta allo Spirito Santo nell’economia della salvezza e nell’intima santifi-cazione cristiana.

21 Ivi, 95-96. 22 Ivi, 96.

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La Santa chiede al Verbo perché «il fruttificante Spirito» non può compiere nell’anima tutta la sua opera: «Egli è pure dolce e ameno!». Le pare impossibile che sia conosciuto solo da pochi e il Verbo le risponde che ci sono «vari e grandi impedimenti» tra cui la malizia, il proprio volere, il proprio vedere e sapere così che le ani-me vogliono servire Dio a modo loro e quando pare a loro; un altro motivo è la «maledetta tiepidità» per cui alcuni credono di servire il Signore, ma sono in grave pericolo perché si compiacciono di loro stessi, mentre Dio vuol essere servito «con sincerità e umiltà», con retta intenzione e con «amorosa carità».23

L’umiltà è essenziale all’anima, e qui un suo dire diventa poe sia:Lo Spirito mio fa come la saetta che scendendo dall’alto non si ferma mai fino a che non si posa giù nel centro della terra. Così lo Spirito mio non si posa se non in quell’anima che trova nel centro della pro-pria nihilità.24

Nulla essere, nulla intendere, nulla volere se non Dio solo: que-sto è il programma dettatole dallo «Sposo Jesu».

Il movente Spirito va partendosi dalla Trinità e […] vien come fonte diffondendosi nell’anima e l’anima si annega in lui. E come due fiumi sboccando si uniscono insieme in modo che il minore di essi lasci il suo nome pigliando quello del maggiore, così fa questo Spirito divi-no che viene nell’anima per unirsi con lei. Ma bisogna che essa che è la minore perda il nome e lo lasci allo Spirito e ciò deve fare con tra-sformarsi tanto in esso Spirito che divenga con lui una stessa cosa.25

Così l’incontro dell’umano col divino si compie nell’unità della persona che diventa possesso di Dio nel dono dello Spirito.

Nel 1594 la Santa vive un’estasi nella quale lo Spirito fortifi-ca le potenze della sua anima. L’azione dello Spirito è la seguente: agisce sulla volontà per infiammarla dell’amore di Dio e del prossi-mo; sull’intelletto per permetterle una conoscenza superiore; sulla

23 Cf. Ivi, 61-62; 64. 24 Ivi, 62. 25 Ivi, 200.

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memoria per ricordarle le opere del Verbo e le amorose relazioni intratrinitarie; sui desideri per rinnovarli e renderli puri e pieni di amore; sui sentimenti per orientarli alla lode e alla gloria di Dio; sul cuore per abitarvi stabilmente.

Lo Spirito agisce sulla Santa facendola partecipare all’unione col Padre e col Figlio, permettendole così di comprendere le loro ricchezze che servono per la sua trasformazione.

Una volta, essendo suor Maria Maddalena tentata da false ap-parizioni, coraggiosamente smaschera tutti gli inganni diabolici ri-affermando la veridicità della Santissima Trinità e l’azione dello Spirito Santo nell’anima:

O spiriti maligni né per minacce né per lusinghe mi vincerete! Non siete spiriti angelici voi, ma sì bene abitatori dell’inferno! Il mio Sposo non usa questi modi con me. L’eterno Padre è increato e invisibile; lo Spirito Santo è Sposo di bontà, purità e verità, e non appare in questi modi all’anima, ma fa molti effetti di bene in essa: ne illumina l’intel-letto, ne infiamma l’affetto, rasserena la memoria, purifica la volontà.26

Alla base di tutto c’è sempre l’amore trinitario che opera nell’a-nima:

Intendevo bene che questa rivelazione la faceva lo Spirito Santo, ma essendo lo Spirito Santo una cosa medesima insieme al Padre e al Figlio facevano anche insieme questo effetto. Vedevo lo Spirito San-to stare in continuo moto, non perché si muovesse da dove era, ma vedevo che continuamente mandava razzi, frecce e saette d’Amore puro nel cuore delle creature.27

Lo Spirito fa rivivere le anime morte per i peccati:Vedo lo Spirito come aquila volante pigliare sopra di sé e assumere [le anime morte], e col suo spirare, in un momento, farle rivivere.28

26 Tutte le opere di santa Maria Maddalena de’ Pazzi, 5: Probatione. Parte prima, Firenze 1965, 120.

27 I quaranta giorni, 213. 28 Tutte le opere di santa Maria Maddalena de’ Pazzi, 3: I colloqui. Parte seconda,

Firenze 1963, 145.

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Anche nei Revelatione e intelligentie paragona lo Spirito di amore all’aquila:

C’è ancora la rara e tanto volante aquila, e questa nell’anima è la cari-tà, non perché la carità è rara, ma perché da rari è posseduta. L’aqui-la vola in alto; la carità è grande tanto quanto esso Dio perché Dio è carità. Vola in alto tanto che se ne va al trono della Santissima Trinità, e quivi entra nel seno dell’eterno Padre e dal seno del Padre se ne va al costato del Verbo, e dal costato nel cuore, e quivi si riposa e cava il suo nutrimento.29

Così l’anima che ha la carità si nutre solo di Dio. Il giorno dopo la Pasqua del 1592 ebbe un eccesso di amore, invocando su di sé la pienezza dell’amore divino:

Vita vitale, dolce e amabile! O Amore, vieni ad abitare dentro il mio petto. Accendimi tutta di te, sì che amar ti possa. Vieni amore. O Amore, se tu ti riposi in quelli che cercano il tuo amore e l’onor tuo, che mai io cerco altro? Perciò affretta il passo, e vieni Amore! Se tu Amore, ti riposi nel sen del Padre, io fui ab eterno nella mente sua. Tu mi di-rai che sei l’istesso Dio e io sono fatta a tua immagine e similitudine tua. Se tu ti riposi nei vaselli puri, eccone uno che non ha mai deside-rato altro che purità. Ti concedo sì che l’ho macchiato, e dico «mea culpa», ma ricevo così spesso il Sangue del Verbo che leva via ogni macchia. Se tu abiti nelle spose sue, mi glorierò in questo, che lui mi chiamò e io udii la sua voce e risposi. Lui mi sposò, e io stesi il dito; e perciò vieni Amore! Amore tu dici che ti cibi di sangue, questo non te lo posso dare, ma ti offrirò quello del Verbo, e mi è testimone il mio Cristo chiovellato in croce che mi glorierei di lasciarmi tagliare ogni ora mille volte membro a membro per poter dare il mio sangue. E perciò vieni, Amore […] Che intendi tu Amore che io chieda quando ti chiedo di essere trasformata in te? Ti chiedo che tu mi porti sopra le tue ali e mi congiunga a quel Verbo divino.30

29 Revelatione e intelligentie, 236. 30 Probatione. Parte seconda, 99.

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In Dio l’anima si riposa mentre estende il suo amore anche ai prossimi

amandoli non soltanto come creature, ma come create da Dio a sua immagine e somiglianza.31

L’anima viene innalzata per mezzo dei raggi di sole dello Spi-rito Santo unito al Verbo, perché da sé non potrebbe mai elevarsi:

Mirabile sei, o Verbo, nello Spirito Santo a fare che esso infonda se stesso nell’anima, mediante il quale infondimento essa si viene a uni-re con Dio, la fa concepire Dio, gustare Dio, e non si dilettare d’altro che di esso Dio.32

8. Lo Spirito Santo maestro di empatia e creatore di relazione

Per parlare di Dio Maria Maddalena si serviva di un aggettivo: comunicativo. Attraverso l’infusione dello Spirito Santo l’anima si unisce a Dio che desidera comunicare Dio.

Come il Verbo è comunicante, ed è tanto comunicante che non ha nulla in sé che non comunichi, comunicando se stesso; così l’anima è comunicante perché comunica tutti i doni e le grazie a lei conferite, con desiderio di comunicare l’anima e il corpo suo per la salute dei suoi prossimi.33

La Santa desidera solo aiutare tutte le creature a essere rigene-rate per la gloria di Dio:

O Verbo, non ti ritrarre da me ti prego, conserva, Signor mio, quell’innocenza che mi desti un dì. Conserva il patto che tu conferisti in te per me. Conservami ti prego perché io posso effondere te nei miei prossimi, cioè l’amor tuo e il lume tuo nelle creature amate da te. Conserva te in me, e conserva anche tutte le creature che con labore e fatica vanno camminando per le vie tue. Conserva lo Spirito Santo

31 Revelatione e intelligentie, 236. 32 I colloqui. Parte seconda, 167. 33 Revelatione e intelligentie, 108.

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Lo Spirito Santo in santa Maria Maddalena de’ Pazzi

tuo in me, e conferma la sposa tua nella tua grazia, perché tu la possa coronare con la rigenerazione che hai operato in tutte le tue creature per condurle a te.34

Maria Maddalena sentiva l’importanza, la responsabilità e l’ur-genza di comunicare questo amore di Dio e della Chiesa alle sorel-le e di trasmettere il carisma della vita religiosa in una forma viva e creativa.

Il 17 maggio 1592 con una bellissima preghiera chiede ancora il dono dello Spirito Santo:

Tu sei fonte di purità, o Santo Spirito, per la qual cosa io non ardisco pregarti. […]Tu sei tanto comunicativo che vedo che continuamente vai aspirando di ispirarci. Prego voi tutti, o spiriti beati e anime gloriose, per quel continuo atto di amore che voi possedete, che preghiate che il San-to Spirito venga ad abitare in me e in tutte le altre figlie di Maria, e chiedendo che venga il divino Spirito intendo ricevere tutta la San-tissima Trinità. Venga quello che discendendo in Maria fece incarnare il Verbo, e faccia in noi per grazia quel che fece in lei per grazia e per natura!35

Suor Maria Maddalena vuole che le anime stesse, dopo aver ri-cevuto tanti doni, siano comunicative:

E qui sta il fatto, Dio mio, che quelle a cui tu dai il lume, siano co-municative perché poco è buona quella virtù che non aspira a essere comunicativa.36

Il 7 marzo 1594 lo Spirito Santo le si comunicò sotto forma di fuoco, infiammando la sua volontà, la sua intelligenza, la sua memo-ria, i suoi desideri e sentimenti di un grande ardore per l’onore e la gloria di Dio. Infine vide i santi da lei amati prendere la sua anima e offrirla in sacrificio a Dio, legarla e unirla a lui col legame dello Spirito Santo.

34 Ivi, 60. 35 Probatione. Parte seconda, 193-194. 36 Ivi, 45.

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Maria Cristina della trinità

Amava moltissimo le sue sorelle ed era illuminata da continue rivelazioni e grazie non solo per loro, ma anche per gli amici del monastero, tanto che la sua maternità spirituale si diffondeva e mol-ti esprimevano il desiderio di incontrarla per chiederle consiglio e affidarsi alle sue preghiere. Alle novizie raccomandava:

Abbraccia tutto il mondo in vincolo d’amore, amando sempre tutte le creature per pura carità, cioè senza il minimo attaccamento e affetto disordinato, ma solo perché Dio le ama e vuole che anche tu le ami.37

Anche se fisicamente separata dal mondo, se si è vicino a Dio si è vicino a tutti come lo è Maria:

La fede mia si fermi nella certezza che tu stesso comprendi di te stes-so. La speranza mia si certifichi e si confermi nell’eternità. La carità si dilati e si compiaccia nella grandezza tua, che in tutti tu sei; e poi quaggiù si dilati e attragga me a te, dico me, perché tutti sono in me e io in tutti.38

9. Lo Spirito Santo in tutta la creazione

È lo aspirante Spirito di una bontà tanto soave e somma, che ancor poi assume in sé tutte le cose che son create […] ne fa un compendio e le offre al Verbo, e fa che si rinnovi un compiacimento fra il Padre e il Verbo.39

Tutta la creazione è opera della Trinità e perciò compenetrata dallo Spirito, riconsacrata e presentata al Verbo che l’ha redenta, a lode e compiacimento del Padre, raggiungendo così il suo fine.

Così per la presenza di questo Spirito, per Gesù, il Verbo fatto carne, il Punto Omega, tutto ritorna al Padre e tutta la creazione diven-ta lode e gloria all’unità della Trinità dove Dio è tutto in tutte le cose.

37 Ammaestramenti, in Tutte le opere di santa Maria Maddalena de’ Pazzi, 7: Reno-vatione della Chiesa, Firenze 1969, 245.

38 I colloqui. Parte prima, 334. 39 Revelatione e intelligentie, 106.

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Vita cristiana, anno LXXXVIII, n. 1, gennaio-aprile 2019

Spiritualità a più voci. Fraternità Monastiche di Gerusalemme

PETRA OREGNA, FMG

«L’OPERA DELLE NOSTRE MANI RENDI SALDA»: VITA MONASTICA E LAVORO OGGI

Alle fonti del lavoro umano

Capita a tutti, un giorno o l’altro, di porsi una domanda appa-rentemente banale: il lavoro chi l’ha inventato? Perché bisogna lavo-rare? Ma chi me lo fa fare di lavorare? Naturalmente, forse in modo inconsapevole, sappiamo che la risposta abita già in noi. Riconoscia-mo che il lavoro fa parte, in qualche modo, della nostra umanità e che è insito nelle leggi della natura. Anche gli animali, a ben pensare, sono sempre in attività per difendersi o per procurarsi il cibo. Quan-to alle piante, sebbene l’aspetto del movimento non sia caratteristico della loro operosità, tuttavia sappiamo bene quanto esse siano pro-duttive. Eppure la domanda riemerge: il lavoro chi l’ha inventato?

In realtà, non l’ha inventato nessuno perché è nella natura stes-sa di Dio, dunque esiste dall’eternità. La sacra Scrittura ce ne dà testimonianza fin dai primissimi versetti del libro della Genesi, in cui Dio viene presentato proprio come colui che è all’opera, che porta all’esistenza le cose e le fa sussistere, le nomina, le ordina. Non si tratta di un lavoro fine a se stesso, che si riduce in una sor-ta di autocompiacimento, ma qualcosa che ha origine nel dono, in quel costante uscire da sé per dare vita e farla crescere. Un lavoro che è espressione dell’amore, di quello scambio infinito e sempre

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nuovo tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Di questo scambio, il frutto più bello è la creazione dell’uomo «a sua immagine», ca-pace quindi di collaborare, di lavorare con Dio, più che per Dio. Nell’atto di «soggiogare la terra» e «dominare […] su ogni essere vivente»,1 «l’uomo, ogni essere umano, riflette l’azione stessa del Creatore dell’universo»2 e in questo modo ritrova anche la propria immagine, la propria identità.

Così si esprimeva Giovanni Paolo II nell’enciclica Laborem exercens:

Diventando – mediante il suo lavoro – sempre di più padrone della terra, e confermando – ancora mediante il lavoro – il suo dominio sul mondo visibile, l’uomo, in ogni caso e in ogni fase di questo pro-cesso, rimane sulla linea di quell’originaria disposizione del Creatore […]. Questo processo è, al tempo stesso, universale: abbraccia tutti gli uomini, ogni generazione, ogni fase dello sviluppo economico e culturale, e insieme è un processo che si attua in ogni uomo, in ogni consapevole soggetto umano.3

In tutto questo processo l’uomo manifesta e conferma se stesso come colui che «domina». Quel dominio, in un certo senso, si riferisce alla dimensione soggettiva ancor più che a quella oggettiva: questa di-mensione condiziona la stessa sostanza etica del lavoro. Non c’è, in-fatti, alcun dubbio che il lavoro umano abbia un suo valore etico, il quale senza mezzi termini e direttamente rimane legato al fatto che colui che lo compie è una persona, un soggetto consapevole e libero, cioè un soggetto che decide di se stesso.4

Nel momento in cui l’uomo sceglie di non vivere più da «sogget-to», ma da «oggetto» di se stesso, volendo decidere da sé del bene e del male, tutto il suo rapporto con l’opera della creazione si guasta. Il suo «dominare» assume una dimensione competitiva e si troverà a dover lottare duramente per ottenere dalla terra quei frutti che pri-

1 Cf. Gen 1,28.2 GiovAnni pAolo II, lettera enciclica Laborem exercens (1981), n. 4.3 Ivi.4 Ivi, n. 6.

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Petra Oregna, fmg, Vita monastica e lavoro oggi

ma erano la sua naturale ricompensa. «Questo dolore unito al lavoro segna la strada della vita umana sulla terra e costituisce l’annuncio della morte: “Col sudore del tuo volto mangerai il pane; finché torne-rai alla terra, perché da essa sei stato tratto”».5 A causa del peccato, il lavoro umano diventa faticoso, gravoso, e nel perdere la relazione con Dio, l’uomo perde di vista anche il senso primo del suo operare. Tuttavia, è Dio stesso che si premura di sollecitargliene il ricordo. Se nell’Antico Testamento molto spesso il lavoro viene descritto come una pena e una necessità di sopravvivenza, d’altra parte viene anche esaltato il lavoro fatto con arte, a servizio di Dio, come ad esempio per la costruzione dell’arca di Noè (Gen 6,13-16.22) o per la costru-zione del tempio e della residenza di Salomone (1Re 5,16–7,51).

Con l’evento dell’incarnazione, la logica cambia. Anche il Fi-glio di Dio fatto uomo non può esimersi dall’attività che più ca-ratterizza l’essere umano e per la maggior parte della sua esistenza terrena si impegna nel mestiere di carpentiere, nel nascondimento e nella consuetudine quotidiana, come ogni uomo. Eppure, il sen-so del suo operare viene completamente trasformato dall’inizio del suo ministero di insegnamento, fino a compiersi nel mistero pa-squale. Il lavorare il legno nella bottega di Nazaret diventa sim-bolicamente preludio del suo cammino verso la croce, dove verrà cancellato il peccato e si rinnoverà l’opera della creazione. Il lavoro umano verrà così ad assumere un nuovo aspetto, quello redentivo di partecipazione all’opera della salvezza.

Dice ancora Giovanni Paolo II:Il sudore e la fatica, che il lavoro necessariamente comporta nella con-dizione presente dell’umanità, offrono al cristiano e ad ogni uomo, che è chiamato a seguire Cristo, la possibilità di partecipare nell’a-more all’opera che il Cristo è venuto a compiere. Quest’opera di sal-vezza è avvenuta per mezzo della sofferenza e della morte di croce. Sopportando la fatica del lavoro in unione con Cristo crocifisso per noi, l’uomo collabora in qualche modo col Figlio di Dio alla redenzio-

5 Ivi, n. 27.

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ne dell’umanità. Egli si dimostra vero discepolo di Gesù, portando a sua volta la croce ogni giorno nell’attività che è chiamato a compiere.[…] Nel lavoro umano il cristiano ritrova una piccola parte della cro-ce di Cristo e l’accetta nello stesso spirito di redenzione nel quale il Cristo ha accettato per noi la sua croce. Nel lavoro, grazie alla luce che dalla risurrezione di Cristo penetra dentro di noi, troviamo sem-pre un barlume della vita nuova, del nuovo bene, quasi come un an-nuncio dei «nuovi cieli e di una terra nuova», i quali proprio median-te la fatica del lavoro vengono partecipati dall’uomo e dal mondo. Mediante la fatica – e mai senza di essa. Questo conferma, da una parte, l’indispensabilità della croce nella spiritualità del lavoro uma-no; d’altra parte, però, si svela in questa croce e fatica un bene nuovo, il quale prende inizio dal lavoro stesso: dal lavoro inteso in profondi-tà e sotto tutti gli aspetti – e mai senza di esso.6

La fatica del lavoro, dunque, attraverso il mistero pasquale, di-viene un «bene nuovo» per l’umanità e per il cristiano in modo par-ticolare. L’impegno diligente nello svolgere la propria attività viene ad assumere un orizzonte più vasto di quello della propria gratifi-cazione personale o del compenso economico. È un posare, giorno dopo giorno, una «pietra» per l’edificazione del regno di Dio, che se ne sia consapevoli o meno. Qualunque sia il lavoro svolto, esso trova la sua dignità nell’essere «per» l’uomo e non contro di esso.

Lo scopo del lavoro, di qualunque lavoro eseguito dall’uomo – fosse pure il lavoro più «di servizio», più monotono, nella scala del comune modo di valutazione, addirittura più emarginante – rimane sempre l’uomo stesso.7

Rimane allora da porsi la domanda riguardo a quelle attività che hanno come obiettivo la distruzione dell’uomo, fisica o mora-le: possono anch’esse essere considerate dei «lavori»? C’è una dif-ferenza fra chi lavora sfruttato e sottopagato in una piantagione di pomodori e chi, in un laboratorio nascosto, elabora nuove sostanze

6 Ivi.7 Ivi, n. 6.

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chimiche stupefacenti da immettere sul mercato della droga? Anco-ra una volta, ci viene in aiuto Laborem exercens:

Il lavoro è un bene dell’uomo – è un bene della sua umanità –, perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, «diventa più uomo».8

Si può quindi forse parlare di vero lavoro, nonostante le condi-zioni drammatiche in cui esso viene svolto, quando questo non va a corrompere la radice della coscienza del soggetto che lo compie. Ad ogni modo, la questione si può considerare sempre aperta.

«Ora et labora»

Anche chi non conosce affatto la vita monastica, può citare il detto benedettino «ora et labora». Preghiera e lavoro costituiscono in qualche modo un binomio indissolubile per la vita del cristiano e più specialmente del monaco. Fin dalle origini della comunità cri-stiana ci si è preoccupati di avere nei confronti del lavoro un giusto rapporto. Gesù, nei suoi insegnamenti, ha spesso sottolineato che la salvezza dell’uomo non dipende dai suoi beni e che va ricercata sempre «la parte migliore, che non sarà tolta»,9 cioè quella parte che non è frutto della nostra opera e della nostra preoccupazione. Nondimeno, nelle sue parabole, egli usa un gran numero di esempi tratti dall’attività lavorativa proprio per parlare del regno di Dio. Il lavoro diventa perciò uno strumento pedagogico, qualcosa che non è la meta da raggiungere, bensì il cammino da percorrere. Nel-lo stesso senso vanno anche gli insegnamenti di Paolo,10 che non si esime dal presentare la propria esperienza come modello da imita-re. Fabbricante di tende, che ha imparato a bastare a se stesso per non essere di aggravio ad alcuno, egli ammonisce chi vive nell’ozio

8 Ivi, n. 9.9 Cf. Lc 10,42.10 Col 3,23; 1Ts 4,10b-12.

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e nella dissipazione.11 Così le comunità primitive vengono esortate al lavoro non per incrementare i propri guadagni e nemmeno tanto per la propria sussistenza, quanto piuttosto per sovvenire ai bisogni dei poveri e per rimediare ai propri peccati, come afferma la Di-dachè: «Se grazie al lavoro delle tue mani possiedi [qualche cosa], donerai in espiazione dei tuoi peccati».12 Il lavoro quindi acquista, per il cristiano, anche un valore sociale e morale, sempre comunque fondato sulle esigenze della carità.

Per tutte queste ragioni, anche agli albori della vita monastica, la questione del lavoro si è presentata a chiunque si sentisse attrat-to dalla vita solitaria e di preghiera. Chi pensava che il lavoro fos-se un’occupazione mondana e che solo la preghiera fosse degna di considerazione, aspirando esclusivamente alla vita angelica per ser-vire così Dio giorno e notte, si trovava ben presto a fare i conti con la propria umanità. Allo stesso tempo molti erano gli ammonimen-ti dei maestri della vita spirituale contro gli eccessi del lavoro, che comportavano il rischio di abbandonare la preghiera per rincorrere il profitto. Un equilibrio da trovare era necessario e ciò si realiz-zava nel considerare l’attività del monaco come uno scudo contro le dissipazioni dell’anima. Specialmente un lavoro manuale poteva favorire la preghiera continua, il «ruminare» la Parola di Dio e l’as-sociarsi al Creatore, nel suo operare incessante. Pur cercando di ri-vivere il rapporto paradisiaco con Dio e con il creato, il monaco fa-ceva esperienza della conseguenza del peccato di Adamo rispetto al lavoro e cioè della fatica. Tuttavia, questa veniva considerata come uno strumento di purificazione del corpo e dello spirito, una forma di ascesi da coltivare, anziché da fuggire. Anche il lavorare con zelo costante era considerato una forma di virtù del monaco, proprio perché – secondo quel che dirà più tardi Teodoro Studita – chi era diligente negli impegni corporali lo era anche in quelli spirituali.13

11 At 18,2-3; 20,34-35; 2Ts 3,7-12.12 Didachè 4,6.13 teodoro studitA, Catechesi I,5, in t. Špidlík, Il monachesimo secondo l’Oriente

cristiano, Lipa, Roma 2007, 223.

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In questo senso si esprimeva già san Benedetto nella sua Regola, di-cendo: «L’ozio è nemico dell’anima»,14 affermando in tal modo l’im-portanza del lavoro come rimedio contro gli attacchi del demonio e come stimolo per il monaco a mettere a frutto i vari talenti ricevuti dal Signore. Infatti – dice ancora Benedetto –, «se in monastero ci sono dei fratelli esperti in un’arte o in un mestiere, li esercitino con la massima umiltà, purché l’abate lo permetta».15 La propria abili-tà non deve diventare causa di vanagloria! Inoltre, all’abate spetta il compito di vigilare a che il lavoro assegnato a un fratello di salute fragile o malato non vada al di là delle sue forze, per evitare che ne venga oppresso.16 Da tutto questo si evince che il lavoro, nella vita monastica, ha sempre conservato un posto secondario rispetto alla preghiera.

Il lavoro del monaco, proprio in quanto produzione di un’opera ter-rena, deve sempre occupare un posto secondario nella sua vita. Non è la sua opera. Non è il suo compito precipuo tra gli uomini. Bisogna dunque che il monaco lavori come si deve, ma nello stesso tempo bi-sogna che conservi in sé il necessario distacco nei confronti dell’ope-ra che compie. Anche lavorando a un compito terreno, deve sempre guardare all’edificazione celeste.17

Il labora è dunque sempre a servizio dell’ora e anche quando la preghiera può essere fatta per svolgere meglio il proprio lavoro, questo torna sempre a vantaggio della preghiera stessa. Per questo motivo, si può considerare la preghiera come «l’opera» per eccel-lenza che il monaco è chiamato a svolgere.

Solo in apparenza san Basilio sembra dare maggior importanza al lavoro e alle opere di carità, ma lo fa soprattutto per contrastare quegli eccessi che facevano risultare la preghiera quasi un idolo, a discapito del servizio concreto verso i fratelli:

14 RB XLVIII,1.15 RB LVII,1.16 RB XLVIII,24-25.17 l. bouyer, Il senso della vita monastica, Qiqajon, Magnano 2013, 238.

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[La preghiera non deve] diventare un pretesto per sottrarsi all’obbe-dienza agli altri comandamenti del Signore e, in particolare, a quello di provvedere mediante il lavoro al proprio sostentamento e alla cari-tà nei confronti dei fratelli più poveri e bisognosi.18

Il lavorare del monaco per prendersi cura del prossimo ha come frutto naturale il mantenere vivo il ricordo di Dio, che si vede riflesso sul volto del fratello. Paradossalmente, il rischio contro cui Basilio vuole mettere in guardia i suoi monaci è quello di dimentica-re Dio dedicandosi a una preghiera troppo «spirituale», che li ren-derebbe così distaccati e insensibili nei confronti chi vive loro ac-canto.19 Egli si premura, nondimeno, di specificare bene, in seguito, quali siano i tempi e i modi opportuni per dedicarsi più particolar-mente alla preghiera e dunque quali siano i mestieri che andrebbe-ro evitati, per non incombere nel pericolo di troppe distrazioni o di incontri poco edificanti.

È da preferire, in particolare, la coltivazione dei campi poiché contie-ne già in sé ciò che le è necessario e libera quelli che lavorano la terra dal viaggiare a lungo e dal correre qua e là.20

Questo suggerimento poteva adattarsi benissimo a un’epoca in cui la maggior parte della gente viveva in ambienti rurali e, di fatto, questo quadro ha prevalso fino al secolo scorso, ma con lo sviluppo delle grandi metropoli moderne e in una prospettiva secondo cui esse tendono ad allargarsi a dismisura, quali sollecitazioni giungono a chi ha abbracciato la vita monastica, riguardo alla scelta del lavoro?

Il lavoro in «Gerusalemme»

Fondate nel 1975 a Parigi da p. Pierre-Marie Delfieux, le Fra-ternità Monastiche di Gerusalemme hanno come carisma quello di

18 l. CremAsChi, La vita comune secondo Basilio, in id., Basilio tra Oriente e Occi-dente, Qiqajon, Magnano 2001, 100.

19 bAsilio di CesAreA, Regole diffuse 37,1.20 bAsilio di CesAreA, Regole diffuse 37 e 38.

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vivere la vita monastica nel contesto urbano, per contemplare il vol-to di Dio sul volto dell’uomo, là dove egli maggiormente vive, e ri-cordare così al mondo l’urgenza di ristabilire la relazione con il suo Signore. Attingendo dalle grandi tradizioni monastiche d’Oriente e d’Occidente, il desiderio di p. Pierre-Marie era quello di vivere una forma di vita monastica che tenesse conto degli enormi cambiamen-ti che si stavano producendo nella società e nel mondo moderno, come anche nella Chiesa. Il concilio Vaticano II e la rivoluzione del maggio ’68, soprattutto in Francia, avevano portato a delle svolte che non potevano rimanere ignorate. Il mondo si stava sempre più concentrando nelle grandi città, ma questo comportava parados-salmente il rischio per i cittadini di perdersi in un anonimato e in una solitudine mortali e mortiferi. Come per secoli avevano fatto migliaia di monaci, era ancora necessario che ci fosse qualcuno che ricordasse all’uomo di oggi la sua vocazione primaria: essere santo, a immagine di Dio. Ciò che bisognava trovare era un linguaggio che fosse eloquente per chi aveva ormai perduto ogni riferimento con il divino. Dunque, vita monastica, sì, ma come fare perché questa potesse ancora parlare all’homo urbanus?

Una delle scelte fu perciò quella di vivere in solidarietà con il comune modo dei cittadini: casa in affitto, semplicità dei mezzi, lavoro salariato. L’esperienza dei preti operai, dei Piccoli Fratel-li di Charles de Foucauld o di figure straordinarie come quella di Madeleine Delbrêl avevano certo già lasciato un grande segno, ma l’idea era di ripresentare alla città, anche nell’esperienza lavorati-va, il modello monastico. Il lavoro non era pensato principalmente in vista dell’apostolato, ma del semplice sostentamento quotidiano della comunità e del sostegno ai poveri, così come lo proponeva san Basilio. «La carità sarà il movente del tuo lavoro», si legge nel Libro di vita,21 il tracciato spirituale delle Fraternità, scritto da p.

21 FrAternità monAstiChe di GerusAlemme, Monaci nelle città – Libro di vita, § 24, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2017, 33.

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Spiritualità a più voci. Fraternità Monastiche di Gerusalemme

Delfieux nel 1978. Lavorare non è solo una questione personale, ma comunitaria.

Ama. Prega. Lavora

Ama. Prega. Lavora. Questi tre verbi all’imperativo costitui-scono rispettivamente l’incipit dei primi tre capitoli del Libro di vita, «Amore», «Preghiera», «Lavoro». La sequenza non è casuale, ma riflette l’ordine di priorità che si intende seguire, volendo sotto-lineare come l’amore sia sorgente di tutto il resto. L’amore, dunque, fa nascere la preghiera e il lavoro, come si è visto, può diventarne uno strumento di eccezione. Tre dimensioni che nella vita del mo-naco sono inscindibili, perché fondamentalmente alla base della na-tura umana e del suo rapporto con Dio. Il lavoro non poteva essere considerato un elemento opzionale, ma diventava luogo di incontro con il Signore.

Poteva perciò diventare anche un’occasione di vicinanza con chi viveva una povertà non tanto materiale, quanto spirituale, e nel contempo un modo per venire incontro alle necessità dei più biso-gnosi. Essere accanto all’uomo-fratello nella sua fatica quotidiana si rivelava un modo di penetrare più in profondità il mistero dell’in-carnazione. Come il Figlio aveva vissuto in obbedienza al Padre anche nella sua vita nascosta a Nazaret, così anche nel lavoro si sceglieva di vivere nell’obbedienza, non avendo un impiego in pro-prio, bensì un impiego salariato come dipendenti, in un rapporto di «sottomissione» al datore di lavoro, senza cercare di fare carriera, ma volendo rispettare le regole e cercando di venire incontro anche alle esigenze degli altri.

D’altronde però, si voleva comunque lasciar trasparire la prio rità data alla vita di preghiera, in atteggiamento di «pacifica contestazione», perciò la scelta fu quella di lavorare solo a tem-po parziale, al mattino, dalle 8.00 alle 12.00. Inoltre, in contrasto con la logica del week-end di «evasione», ma anche con quella di una certa forma di sacralizzazione del lavoro, si voleva «lavorare

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quanto occorre, ma non più di quanto è doveroso».22 Per questo si pensò di designare il lunedì come giorno di «deserto», un tem-po cioè più specialmente dedicato al riposo e alla preghiera per-sonale, in solitudine nella propria cella, poiché «la città logora e tu devi resistere».23 Così facendo, si intendeva testimoniare anche l’importanza per l’uomo urbano di recuperare un sano equilibrio fra attività e riposo, senza il quale esso sarebbe caduto necessa-riamente nel pericolo dell’alienazione. «Infatti, quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?».24 In questa maniera, si tentava anche di incarnare quel-la dimensione profetica, caratteristica della vita monastica, volta a mostrare che le realtà terrestri, per quanto buone siano, sono passeggere, mentre il vero tesoro per l’uomo è la sua unione con Dio. Allo stesso tempo, come scriveva Louis Bouyer, «è importan-te rendersi conto che una comunità monastica, presente al cuore della società umana, non deve mai essere o apparire come paras-sitaria».25

Di conseguenza, non è che tutte queste opzioni fossero facili da assumere ed esse rivelavano fin da subito il loro aspetto «crocifig-gente». Per questo, p. Pierre-Marie scriveva:

Accetta con umiltà e coraggio di vivere così senza poterlo sempre giustificare o neppure dire; di viverlo nell’imperfezione e nella lacera-zione e forse fino alla sensazione di rinnegare te stesso: se vuoi vivere alla sua sequela, rinuncia a te stesso, prendi ogni giorno la tua croce e segui Cristo.26

Nell’ambiente di lavoro, certamente, queste scelte potevano apparire dei privilegi o delle scelte di comodo e in questo senso la chiamata alla solidarietà con il mondo poteva allora portare a una certa lacerazione interiore. Tuttavia, anche questo aspetto metteva

22 Ivi, 34 (§ 25).23 Ivi, 119 (§ 133).24 Lc 9,25.25 bouyer, Il senso della vita monastica, 236.26 Libro di vita, 35 (§ 26).

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in pratica in forma particolare la chiamata evangelica che si inten-deva vivere, quella di «essere nel mondo, senza essere del mondo»27 e, come Gesù stesso aveva detto, questo non poteva non portare qualche volta anche dei contrasti o delle incomprensioni e dunque un ulteriore invito alla preghiera e alla carità.

Sul genere di lavoro da svolgere, si volevano tenere presenti alcuni criteri dati già da san Basilio o da san Benedetto, cioè che il lavoro scelto consentisse di mantenere la pace e la tranquillità, che non comportasse troppe difficoltà tecniche o responsabilità e nemmeno «incontri pericolosi e non convenienti».28 Se possibile, si sarebbe potuto mantenere il lavoro che si svolgeva al momento dell’ingresso in comunità oppure uno per cui si avesse già una for-mazione specifica, chiedendo però le modifiche necessarie rispetto all’orario di lavoro. Qualora questo non fosse stato concesso, si op-tava semplicemente per un altro impiego, anche se meno redditizio o meno prestigioso.

Accetta con uguale gioia di lavorare fuori o dentro casa, in confor-mità a quanto conviene e ti è richiesto. Non trarre nessun motivo di vanità dal molto profitto, né di amarezza da un misero guadagno, sa-pendo che con i tuoi fratelli e le tue sorelle, tutti insieme, pregando, studiando e lavorando, dobbiamo con un cuor solo, con un’anima sola e nello stesso spirito, lavorare innanzitutto all’opera di Dio e, al di là di tutti i compiti necessari, scegliere insieme di vivere la parte migliore.29

Anche nella scelta del lavoro, dunque, non potevano mancare gli aspetti dell’umiltà e dell’accoglienza, così importanti nella vita monastica e così «fuori moda» nel mondo contemporaneo, soprat-tutto occidentale. Il guadagno di ciascuno non poteva rimanere su un conto personale, ma veniva versato in una cassa comune, sull’e-sempio della comunione dei beni che vivevano le prime comunità

27 Cf. Gv 17,15-16.28 Libro di Vita, 36 (§ 28).29 Ivi.

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cristiane. In tal modo, l’impegno di ognuno sarebbe andato a bene-ficio di tutta la comunità.

In sintesi, il lavoro svolto doveva rispettare alcune semplici ca-ratteristiche. Doveva essere

utile, fatto bene, povero, cioè dipendente, ridotto nel tempo e sen-za possibilità di arricchimento, vissuto come una testimonianza nel modo di svolgerlo, equilibrato e realistico, occasione di preghiera e di carità, fatto di cuore come per il Signore.30

Lavorare da monaci, oggi

Cosa significa per noi, monaci e monache di Gerusalemme, la-vorare nel mondo di oggi? Rispetto agli anni ’70, il mondo del lavo-ro è certamente cambiato così come lo è la società. Tutto va molto più veloce e anche i ritmi produttivi seguono lo stesso andamento. La domenica non è più necessariamente un giorno di riposo e gli straordinari rischiano di diventare «ordinari». Inoltre, tante altre difficoltà legate alle offerte di impiego o alla stabilità del contratto di lavoro si fanno sentire in modo più accentuato da vari anni. Vive-re il lavoro da monaci non esula da tutte queste difficoltà, anzi even-tualmente le accresce, proprio a motivo delle esigenze conseguenti a questo stato di vita.

In un contesto come quello italiano e, più precisamente, fio-rentino, in cui le nostre Fraternità sono stabilite, trovare un lavoro part-time oggi non è scontato. Spesso le proposte di tempo ridotto sono strutturate in modo diverso, concentrando, ad esempio, tutto l’orario di lavoro in tre giorni a settimana, compresa la domenica, per otto ore al giorno. Naturalmente, questo non si accorda mini-mamente con il ritmo regolato della vita monastica, in cui soprat-tutto la domenica deve preservare il suo carattere di dies Domini, senza parlare della possibilità di mantenere il lunedì come giorno di «deserto». Tanti aspetti che pongono sempre più interrogativi su

30 Ivi, 37 (§ 29).

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ciò che significhi lavorare nella vita monastica in un contesto urba-no. Come si è già affermato, la priorità spetta alla preghiera, ma se il lavoro è un mezzo per essere solidali con l’uomo-fratello, là dove si trova, e una strada che conduce anch’essa a contemplare il volto di Dio, come rimanere nel giusto ascolto di ciò che il Signore ci chia-ma a vivere? La risposta non è semplice.

Più concretamente, trovare un nuovo lavoro è sempre un mo-tivo di rendimento di grazie personale e comunitario, per l’oggi e per il domani, poiché non va dimenticato che un contratto di lavoro non è solo un apporto economico per il presente, ma implica anche quei contributi di previdenza sociale che verranno a sostegno in fu-turo. Rispetto ai generi di impiego, possono essere piuttosto vari: dall’insegnamento di materie scientifiche nella scuola pubblica, all’amministrazione per degli ambulatori medici, all’esercizio della professione odontoiatrica, al servizio di segreteria o all’impiego in una ditta di onoranze funebri. Un certo tipo di «lavoro in proprio» è quello della gestione di un piccolo negozio di prodotti monastici, che diventa anche, da una parte, un luogo di accoglienza per i clien-ti, spesso turisti, che magari si rivelano essere persone desiderose di ascolto o ignari cercatori di Dio, dall’altra, un’occasione di tessere legami di fraternità con altre comunità monastiche, che vivono an-ch’esse del lavoro delle proprie mani. Negli altri ambiti lavorativi, anche il rapporto con i colleghi, che inizialmente possono talvolta mostrarsi un po’ diffidenti, diventa facilmente terreno di dialogo autentico e di stima reciproca, anche quando l’altro si dichiara poco o per nulla credente.

Se il datore di lavoro lo permette o se il genere di attività lo consente, si mantiene l’abito monastico; altrimenti, si usa un comu-ne abbigliamento, ove non sia richiesta una divisa. Potrebbe sem-brare un aspetto secondario. In realtà, in paesi laicisti come la Fran-cia, in cui siamo nati e in cui risiede la maggior parte delle nostre co-munità, è improponibile lavorare in ambito pubblico mantenendo l’abito o il benché minimo segno religioso. Dover rinunciare all’abi-to diventa, allora, un’occasione per vivere quel nascondimento che

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Gesù stesso ha vissuto, facendo poi buon viso a cattivo gioco quan-do qualcuno esclama: «Signora, lo sa che ieri ho visto nel métro una sua sosia, vestita da suora?».

In certi casi, parlare del nostro lavoro con la gente, può aiuta-re anche a far cadere delle false idee sui religiosi. Così, alcune per-sone sono molto sorprese quando vengono a sapere che lavoriamo per guadagnarci da vivere come tutti e che non siamo «mantenuti dal Vaticano». Più difficile è far capire che la vita consacrata non è un «mestiere» in sé. Da qui la discussione di una sorella con l’impiegata dell’ufficio dell’anagrafe, per far scrivere sulla propria carta d’identità «Professione: medico» e non «Professione: religio-sa», benché nel secondo caso, non si trattasse comunque di falsa testimonianza. Piccoli esempi di vita quotidiana, che manifestano come la scelta di lavorare fuori casa porti sempre con sé un richia-mo a contemplare Cristo, anche là dove egli sembra non essere presente.

Se l’impegno lavorativo è esigente, non meno esigente è questo scrutare Dio nelle pieghe nascoste di ciò che siamo chiamati a rea-lizzare. Proprio la preghiera ci viene in aiuto per non farci dimenti-care che il primo «operaio» è Dio stesso.

Con il tuo lavoro imita il tuo Dio e unisciti a lui.Il Padre, che crea, giudica e sostiene il mondo, lavora.Il Figlio, che si è fatto falegname e con la sua Parola regge l’universo, lavora.Lo Spirito, che è instancabilmente all’opera, rinnovando i cuori e la faccia della terra, lavora.Sii lieto di vivere con il lavoro, a immagine di Dio.31

Mettendo in opera i nostri talenti possiamo scoprire le infinite sfumature con cui Dio-Trinità crea, ricrea e trasforma l’universo e far emergere l’espressione della nostra unicità, così come egli l’ha voluta, chiamandoci a essere suoi collaboratori.

31 Ivi, 32 (§ 23).

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Spiritualità a più voci. Fraternità Monastiche di Gerusalemme

I talenti che abbiamo sono […] l’alfabeto che Dio ci presta per intrat-tenere un dialogo con lui: l’artista con i suoi colori, il panettiere con il suo impasto, il professore con la sua lezione.32

Ogni giorno dobbiamo mettere a frutto questi talenti, ma ciò non è possibile pienamente senza l’aiuto della grazia, perciò prima di recarci al lavoro o al rientro, con il salmista, possiamo innalzare a Dio la nostra preghiera per noi e per il mondo:

Rendi salda per noi l’opera delle nostre mani, l’opera delle nostre mani rendi salda (Sal 90,17b).

32 A. d’AveniA, La carezza di Dio e la gioia del lavoro, in Avvenire, 6 gennaio 2015.

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Vita cristiana, anno LXXXVIII, n. 1, gennaio-aprile 2019

Vita cristiana I testi

a cura di Claudio Nardini

In questo primo numero dell’anno 2019 vogliamo presentare il Commento al Magnificat di san Giovanni Eudes (1601-1680). Il te-sto completo conta 14 capitoli; per ragioni di spazio, qui ne proponia-mo integralmente solo i primi 5. A sua volta, il Commento al Magni-ficat risulta inserito all’interno di un’opera di più ampio respiro, Le Coeur admirable de la Mère de Dieu, pubblicata postuma nel 1681.

San Giovanni Eudes era entrato fin da giovane nell’Oratorio di Pierre de Bérulle, e rimase sempre profondamente berulliano anche quando, nel 1643, uscì dall’Oratorio per fondare una nuova congre-gazione, la Congregazione di Gesù e Maria, che si proponeva il com-pito di occuparsi della formazione del clero attraverso la creazione di seminari. A san Giovanni Eudes viene fatto risalire «il culto liturgico dei Cuori di Gesù e di Maria» (così Leone XIII nel decreto di eroicità delle virtù del 1903).

Nel 2017 è stato presentato alla Congregazione delle cause dei santi un ampio dossier con la richiesta formale di iscrivere il santo nel novero dei dottori della Chiesa.

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SAN GIOVANNI EUDES

IL MAGNIFICAT, CON LA SUA SPIEGAZIONE

1. Pregi del cantico

Molti cantici delle sacre Scritture sono stati scritti da donne; per esempio da Maria, sorella di Mosè e Aronne, da Debora, da Giuditta e da Anna, la madre del profeta Samuele, per ringraziare il Signore degli straordinari favori della sua bontà. Tra questi cantici, il più santo e il più sublime è il Magnificat della Madre di Dio, sia a causa della dignità e della santità della sua autrice, sia per i gran-di misteri di cui si parla, così come per i miracoli che Dio stesso ha operato attraverso questo cantico. Non si legge da nessuna parte che Dio abbia fatto dei miracoli attraverso gli altri cantici, ma san Tommaso da Villanova, arcivescovo di Valencia, nota come sia sta-to proprio al momento della recita di questo cantico che lo Spirito Santo ha operato grandi opere sia nel santo Precursore del Figlio di Dio che nei suoi genitori.1 L’esperienza inoltre ci insegna che que-sto cantico è anche un prezioso strumento per cacciare i demoni dai corpi dei posseduti, e vari autori attendibili riferiscono di diversi miracoli accaduti durante la recita del cantico.

Sant’Anselmo scrive che una volta era afflitto da varie malattie che gli facevano patire dolori lancinanti; ne fu guarito completa-mente non appena recitò il Magnificat.2

Cesario di Arles racconta di un frate molto devoto alla beata Vergine Maria, e soprattutto alla recita di questo cantico; quando

1 tommAso dA villAnovA, Concio de Visit. B. Virg.2 Anselmo d’AostA, In lib. miraculis.

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San Giovanni EudES

fu quasi in punto di morte, gli apparve la Madonna che gli disse che sarebbe morto entro sette giorni e gli diede la sua benedizione. Dopo sette giorni, quando il frate era ormai in agonia, mentre era presente anche il priore del convento apparve di nuovo la Vergine, accompagnata da un nutrito stuolo di angeli e di santi, e rimase pre-sente fino a che il frate non ebbe reso l’anima a Dio, in una gioia indescrivibile.

Il cardinale Giacomo di Vitry scrive nella Vita di santa Maria d’Ognies che, quando la santa stava per morire e cantava questo cantico, le apparve la Madonna che le suggerì di accostarsi al sa-cramento dell’estrema unzione, e le ricomparve poco dopo al mo-mento della sua morte, accompagnata da vari santi e perfino dal suo Figlio Gesù, il Santo dei santi.

Tutto questo ci fa capire come sia una cosa molto gradita sia al Salvatore che alla sua Madre divina quando recitiamo con devozio-ne questo cantico.

Non sembra che la beata Vergine abbia recitato in pubblico questo cantico più di una volta, ma senza dubbio l’ha recitato o an-che cantato varie volte tra sé e sé. Alcuni autori riferiscono anche che molte volte, in varie chiese, al momento dei Vespri, la beata Vergine è stata vista mentre, circondata da una schiera di angeli, cantava questo cantico insieme ai sacerdoti e agli angeli stessi, in un modo così sublime che non è possibile esprimerlo a parole.

Ogni volta che canterete o reciterete questo cantico verginale, ricordatevi di abbandonarvi completamente allo Spirito Santo, così da unirvi alla devozione e alla disposizione interiore con cui è stato cantato e recitato dalla Vergine stessa e da un numero incalcolabile di santi e di sante.

2. Motivi per cui il Magnificat è stato anche chiamato Cantico del Cuore immacolato della beata Vergine

Ritengo che il Magnificat sia il Cantico del Cuore immacolato della beata Vergine per più motivi. Prima di tutto, perché è sgorgato

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Il Magnificat, con la sua spiegazione

dal suo Cuore immacolato e da lì è uscito ancor prima che venisse pronunciato.

In secondo luogo perché la sua bocca l’ha pronunciato solo per impulso del suo cuore: del suo Cuore corporale, spirituale e divino. Il cuore corporale della Vergine, colmo di una straordinaria gioia sensibile, ha indotto la sua bocca a cantare il Magnificat con un fer-vore fuori dal comune; il cuore spirituale, completamente rapito in Dio, le ha fatto pronunciare le parole estatiche: «E il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore» (Lc 1,47); il cuore divino, cioè il suo Figlio, già presente dentro di lei e nel suo stesso cuore, egli che è l’anima della sua anima, lo spirito del suo spirito, il cuore del suo cuore, è in fondo il primo autore del cantico. È lui infatti che pone nello spirito di sua Madre i pensieri e le verità che vi sono contenu-te ed è lui che pronuncia attraverso la bocca di lei gli oracoli di cui il cantico è colmo.

In terzo luogo il Magnificat è il cantico della Madre d’amore, cioè il cantico dello Spirito Santo, che è Spirito e cuore del Padre e del Figlio, e che è anche cuore e Spirito della Vergine, di cui lei è talmente colma che la sua presenza e la sua voce riempiono di questo Spirito Zaccaria, Elisabetta e il bambino che è nel seno di quest’ultima.

Infine, è il cantico del cuore e dell’amore della santa Vergine, perché è il divino amore di cui lei è rivestita che gli fa pronunciare tutte le parole di questo cantico mirabile che, secondo san Bernar-dino, sono altrettante fiamme d’amore che sgorgano dalla fornace ardente del divino amore che arde nel cuore della Vergine.

O cantico d’amore, o cantico verginale della Madre d’amore, che nasci nel cuore stesso del Dio d’amore che è Gesù, e nel cuore dell’amore in persona e increato che è lo Spirito Santo! La bocca della santissima Madre si è limitata a cantarti e a pronunciarti. I se-rafini stessi si reputano indegni di farlo; per quale motivo allora i miseri peccatori come noi hanno l’ardire di pronunciare le parole di cui tu sei composto e di far passare dalle loro bocche impure gli ineffabili misteri di cui tu sei composto?

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San Giovanni EudES

Con quale profondo rispetto e con quale venerazione dobbia-mo recitare e cantare questo cantico! Quale dovrebbe essere la pu-rezza della lingua e la santità della bocca che lo pronunciano! Quale grande fuoco e quali fiamme d’amore egli deve accendere nei cuori dei sacerdoti e delle persone religiose che lo recitano e lo cantano così spesso (cf. 1Cor 10,21)! Certo, per cantarlo e recitarlo in ma-niera appropriata e degna bisognerebbe essere solo cuore e amore e nient’altro.

O Madre diletta, rendici partecipi, ti prego, della santità, del fervore e dell’amore con cui tu stessa hai cantato sulla terra questo cantico mirabile che canterai in eterno in cielo insieme agli angeli e ai santi, e ottieni per noi (cf. Sal 35,9) dal tuo Figlio la grazia di poter essere tra quanti lo canteranno per sempre insieme a te, per rendere eternamente grazie alla santissima Trinità di tutte le gran-di cose che ha operato in te e per te, e per tutte le molteplici grazie che, per tuo tramite, ha elargito a tutti gli uomini.

3. Magnificat anima mea Dominum

Questo primo versetto conta solo quattro parole, me esse tra-boccano di grandi misteri. Misuriamole attentamente con l’unità di peso del santuario,3 cioè consideriamole con uno spirito di umiltà, di rispetto e di pietà, così da spronarci a magnificare Dio insieme alla beata Vergine per le cose grandi e meravigliose che egli ha ope-rato in lei, attraverso di lei e, per suo tramite, anche per noi.

La prima parola è: Magnificat. Che cosa vuol dire? Che cosa significa magnificare Dio? Come è possibile magnificare colui le cui grandezze e magnificenze sono immense, infinite e incompren-sibili? Ovviamente questo è impossibile anche a Dio, che non può farsi più grande di quanto già non sia. Noi non possiamo magnifi-care Dio, cioè farlo più grande in se stesso, dal momento che le sue

3 Il Tempio di Gerusalemme aveva stabilito l’unità di peso che faceva da parame-tro universalmente accettato (ndt).

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Il Magnificat, con la sua spiegazione

perfezioni, già infinite, non possono accrescersi ulteriormente: noi possiamo però magnificarlo in noi. Dice sant’Agostino:

Ogni anima santa può concepire il Verbo eterno in se stessa per mezzo della fede; lo può partorire nelle altre anime attraverso la predicazione della Parola divina; lo può magnificare amandolo ve-ramente, così da poter dire: «La mia anima magnifica il Signore».4

Magnificare il Signore, dice ancora sant’Agostino, significa adorare, lodare, esaltare la sua immensa grandezza, la sua sublime maestà, le sue perfezioni infinite.

Noi possiamo magnificare Dio in più modi:1) con i nostri pensieri, avendo un altissimo concetto di Dio e

di tutte le cose che gli appartengono;2) con i nostri affetti, amando Dio con tutto il nostro cuore e

sopra ogni cosa;3) con le nostre parole, parlando sempre di Dio e di tutte le

cose che lo riguardano con il più profondo rispetto, adorando ed esaltando la sua potenza infinita, la sua sapienza incomprensibile, la sua bontà immensa e tutte le sue perfezioni;

4) con le nostre azioni, facendole sempre soltanto per la gloria di Dio;

5) mettendo in pratica quanto lo Spirito ci insegna con queste parole: «Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai gra-zia davanti al Signore. […] Perché grande è la potenza del Signore, e dagli umili egli è glorificato» (Sir 3,18.20);

6) sopportando con coraggio, per amor suo, le croci che il Si-gnore ci manda, perché non c’è niente che gli renda più onore delle sofferenze, visto che il nostro Salvatore non ha trovato modo più sublime per glorificare il Padre della passione della morte in croce.

In conclusione, magnificare Dio significa preferirlo ed esaltarlo sopra ogni cosa con i nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre parole, le nostre azioni, le nostre umiliazioni e le nostre mortifica-zioni.

4 AGostino, Sermone sull’Ascensione.

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San Giovanni EudES

Ma, purtroppo, noi spesso facciamo esattamente il contrario: invece di esaltarlo, lo disprezziamo; invece di preferirlo a ogni cosa, noi preferiamo le creature al loro Creatore; invece di sce-gliere la sua volontà, il suo interesse, la sua gloria e la sua sod-disfazione piuttosto che la nostra volontà, il nostro interesse, il nostro onore e la nostra soddisfazione, noi facciamo il contrario, e scegliamo Barabba invece di Gesù. Non è forse questo che fan-no i peccatori tutti i giorni? Che cosa spaventosa! Con la sua in-carnazione, Gesù ha innalzato l’uomo alle più alte vette della sua gloria e della sua magnificenza; e l’uomo, ingrato e detestabile, abbassa e umilia Dio negli abissi più profondi. Proprio così: ne-gli abissi più profondi. Infatti, chi commette un peccato mortale dà la sua preferenza a un vano interesse passeggero, a un sordido piacere di un momento e al fumo di un onore effimero, piuttosto che al suo Dio e Creatore; come dice san Bernardo, se Dio fosse capace di morte, il peccato gli toglierebbe la vita. Chi commette un peccato mortale non ha altro dio che se stesso e le sue passioni sregolate.

Non è certo così che tu, o Vergine santissima, consideri Dio! Dal primo all’ultimo momento della tua vita, hai sempre magnifica-to sommamente Dio. L’hai sempre magnificato sopra ogni cosa con i tuoi pensieri, i tuoi sentimenti, le tue parole, le tue azioni, la tua profonda umiltà, le tue sofferenze, con la messa in pratica di tutte le virtù, il buon uso di tutte le facoltà della tua anima e di tutti i tuoi sensi sia interni che esterni. Infine, solo tu l’hai così grandemente magnificato più di tutte le altre creature messe insieme.

Eccoci alla seconda parola del nostro cantico, che è anima: «La mia anima magnifica il Signore». Notiamo come la beata Vergine non dica: «Io magnifico il Signore», ma: «La mia anima magnifica il Signore», per dimostrare che essa lo magnifica con la parte più intima del suo cuore e di tutte le sue facoltà interiori. Essa non lo magnifica solo con la sua bocca e la sua lingua, con le sue mani e i suoi piedi, ma impiega tutte le facoltà della sua anima, il suo intel-

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Il Magnificat, con la sua spiegazione

letto, la sua memoria, la sua volontà, e impiega tutte le sue forze per glorificare e magnificare il suo Dio.

La beata Vergine, inoltre, non magnifica il Signore solo per se stessa, né per adempiere agli obblighi che ha nei suoi confronti a causa degli immensi favori che ha ricevuto dalla bontà divina, ma essa lo magnifica a nome di tutte le creature, dal momento che lui si è fatto uomo per la salvezza di tutti, se solo ognuno vorrà corrispon-dere all’immenso disegno di amore che Dio ha per lui.

Ed eccoci giunti alla terza parola, mea: «La mia anima». Qual è questa anima che la beata Vergine chiama «mia anima»?

In primo luogo posso rispondere che trovo un grande autore che dice che quest’anima della beata Vergine non è che il suo stesso Figlio Gesù, che è l’anima della sua anima.

In secondo luogo, le parole anima mea comprendono l’anima propria e naturale che dà vita al corpo della beata Vergine, ma an-che l’anima del Bambino divino che essa porta dentro di sé, che è unita così strettamente alla sua al punto che le due anime formano in qualche modo un’anima sola, dal momento che il bambino che è dentro di lei è tutt’uno con la sua madre.

In terzo luogo, le parole anima mea racchiudono tutte le anime create a immagine e somiglianza di Dio che sono state, sono e saran-no nell’intero universo. Se san Paolo ci assicura che l’eterno Padre ci ha dato tutte le cose donandoci il suo Figlio («Cum ipso omnia nobis donavit», Rm 8,3), senza dubbio donandolo alla sua Madre divina ha donato anche a lei tutte le cose. Per questo motivo tutte le anime le appartengono. E dal momento che essa ne è consapevo-le, e che sa perfettamente che deve fare buon uso di tutto ciò che il Padre le dona, per il suo onore e la sua gloria, quando pronuncia le parole «La mia anima magnifica il Signore» mentre guarda tutte le anime che sono state, sono e saranno come anime che le apparten-gono, essa le abbraccia tutte, per unirle all’anima del suo Figlio e alla sua, per lodare, esaltare e magnificare tramite di esse colui che è disceso dal cielo e che si è incarnato nel suo seno verginale per portare a termine la grande opera della redenzione.

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San Giovanni EudES

Ed eccoci arrivati all’ultima parola del primo versetto, Domi-num: «La mia anima magnifica il Signore».

Chi è questo Signore che è magnificato dalla beata Vergine? È il Signore dei signori, il Signore che regna sul cielo e sulla terra. È il Padre eterno, ma è anche il Figlio e lo Spirito Santo: tre Persone di-vine che sono un unico Dio e Signore e che hanno una sola essenza, potenza, sapienza, bontà e maestà. La beata Vergine loda e magni-fica l’eterno Padre per averla associata a lui nella sua divina paterni-tà, rendendola madre di quello stesso Figlio di cui lui è Padre. Essa magnifica anche il Figlio, perché l’ha voluta scegliere come madre diventando suo vero figlio. Essa magnifica lo Spirito Santo perché ha voluto compiere in lei la più mirabile delle sue opere, il mistero adorabile dell’incarnazione. Essa magnifica il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo per le grazie infinite di cui hanno ricolmato e di cui ricolmeranno tutto il genere umano.

Impariamo da tutto ciò che uno dei primi doveri che Dio ci domanda nei confronti della sua divinità è quello di riconoscere le sue opere di amore, per cui dobbiamo rendergli grazie con tutto il cuore e con tutto il nostro affetto. Cerchiamo dunque di imitare in questo la beata Vergine, e di dire insieme a lei: «Magnificat anima mea Dominum», per ringraziare la Santissima Trinità non solo di tutte le grazie che noi stessi abbiamo ricevuto, ma anche di tutti i beni che ha elargito a tutte le creature. E dicendo anima mea, ricor-diamoci che l’eterno Padre, donandoci il Figlio, ci ha dato insieme a lui anche tutte le cose, per cui le anime sante di Gesù e della sua santissima Madre, così come tutte le altre anime, ci appartengono. Per questo noi possiamo e dobbiamo farne uso per la gloria di colui che ce le ha donate, per mezzo di un desiderio irresistibile di lodare e glorificare Dio con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze, comprendendo in queste parole tutti i cuori e tutte le anime dell’universo, che ci appartengono e che vo-gliono tenerci uniti per fare un solo cuore e una sola anima che lodi il nostro Creatore e Salvatore.

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Il Magnificat, con la sua spiegazione

4. Et exultavit spiritus meus in Deo salutari meo

Queste parole, pronunciate dalla Madre del Salvatore, rendo-no testimonianza della gioia ineffabile e incomprensibile di cui il suo cuore, il suo spirito, la sua anima e tutte le sue facoltà sono stati riempiti e quasi inebriati al momento dell’incarnazione del Figlio di Dio in lei, quando lei l’ha accolto e fatto crescere nel suo seno, e an-che durante tutta la sua vita, come ci dicono Alberto Magno e alcu-ni altri dottori della Chiesa. Questa gioia è stata veramente grande in lei, soprattutto al momento dell’incarnazione; quando la sua ani-ma si è separata dal corpo, nell’ultimo istante della sua vita, avreb-be potuto soccombere per la gioia in forza dell’amore che provava verso Dio e per l’abbondanza della sua felicità nel rendersi conto di essere sul punto di andare in cielo insieme al suo Figlio, e anche alla semplice vista delle bontà indicibili nei confronti suoi e di tutto il genere umano. La storia ci insegna come in qualche caso varie per-sone siano morte per la grande gioia procurata da qualche beneficio temporale ricevuto; è quindi perfettamente verosimile che anche la beata Vergine avrebbe potuto morire di gioia se non fosse stata sostenuta dalla virtù del Bambino che portava nel suo grembo, dal momento che nessuno mai ha avuto né avrà in futuro un motivo di gioia più grande del suo. Infatti:

1) Essa si rallegrava in Dio, in Deo, cioè del fatto che Dio è infinitamente potente, sapiente, buono, giusto e misericordioso, e anche dell’evento mirabile – il mistero dell’incarnazione e della re-denzione – in cui si sono manifestate la potenza, la bontà e tutte le altre virtù divine.

2) Essa si rallegrava in Dio suo salvatore in modo particolare perché è venuto nel mondo per salvarla e riscattarla, preservando-la dal peccato originale, colmandola di ogni grazia e di ogni favore con una tale pienezza che egli l’ha eletta a sua mediatrice e collabo-ratrice alla salvezza di tutti gli uomini.

3) Il suo cuore era colmo di gioia perché Dio l’ha guardata con occhi di benevolenza, l’ha amata e ha apprezzato l’umiltà della

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sua serva, nella quale lui stesso si è rallegrato in modo particolare. È questo, come dice sant’Agostino, il motivo della gioia di Maria, perché lui ha guardato l’umiltà della sua serva. È come se dicesse: è da lui che ho ricevuto il motivo di questa gioia, e io mi rallegro in lui perché amo i suoi doni per amore di lui.

4) Essa si rallegrava delle grandi cose che l’onnipotenza di Dio aveva operato in lei; si tratta delle più grandi meraviglie che Dio abbia mai fatto nei secoli passati e futuri, come vedremo tra poco quando spiegheremo il quarto versetto.

5) Essa si rallegrava non soltanto per le grazie che lei stessa ha ricevuto da Dio, anche per quelle che ha effuso su tutti gli uomini che si pongono nel giusto atteggiamento per riceverle.

6) Essa si rallegrava per la bontà di Dio nei confronti di quelli che non si oppongono a lui, ma anche per gli effetti della sua giusti-zia verso i superbi, che disprezzano i suoi doni.

Per di più, la beata Vergine si rallegrava di un’altra cosa molto particolare, veramente degna della sua bontà. È sant’Antonino5 che ne parla, e io riporto qui il suo pensiero perché ci possa stimolare ad amare e a servire colei che ha così tanto amore per noi. Ecco di cosa si tratta: sant’Antonino, spiegando le parole Exultavit spiritus meus, dice che bisogna interpretarle come quelle che il nostro Sal-vatore ha detto sulla croce: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46), che è come dire: «Ti raccomando tutti quelli che saranno uniti a me nella fede e nella carità». Infatti, chiunque aderisce a Dio, diventa un solo spirito con lui: «Chi si unisce al Si-gnore forma in lui un solo spirito» (1Cor 6,17). Allo stesso modo la Madre del Signore – è sempre sant’Antonino che lo dice –, colma di gioia e come rapita in Dio, quando pronuncia le parole Exulta-vit spiritus meus vede in spirito una moltitudine immensa di quanti avranno una devozione e un affetto particolare per lei e che saranno nel numero dei predestinati, e per questo essa è inondata di gioia.

5 Summa, parte IV, tit. 15, cap. 2, par. 29.

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Il Magnificat, con la sua spiegazione

Stando così le cose, chi mai non sarà indotto ad amare questa Madre così buona e amorevole, così colma d’amore per tutti quelli che l’amano, lei che li guarda e li ama come il suo stesso spirito, la sua anima, il suo cuore?

Sentiamo quello che dice Johann Gerecht Landsperger a ognu-no di noi, per farci arrivare a tanto:

Ti esorto, mio caro figlio, ad amare la nostra santa Madre. Se vuoi ga-rantirti da un’infinità di pericoli e di tentazioni di cui è piena la vita di questo mondo, se vuoi trovare consolazione senza venire sopraffatto dalla tristezza a causa delle immancabili avversità, se desideri di esse-re unito intimamente con il nostro Salvatore, devi avere una venera-zione e un affetto particolare per la sua purissima Madre, così ama-bile, dolce, fedele, colma di grazie e potente. Se l’amerai veramente, cercando con grande attenzione di imitarla, potrai sperimentare che essa sarà anche per te una Madre colma di dolcezza e di tenerezza, e che è così piena di bontà e di misericordia da non disprezzare nessu-no e da non negare il suo aiuto a quanti la invocano: il suo più grande desiderio è quello di elargire a tutti i peccatori le grazie che il suo Fi-glio le ha affidato. Chiunque ami veramente la Vergine immacolata, è casto; chiunque la onori, è devoto; chiunque la imiti, è santo. Nes-suno può amarla senza avvertire gli effetti del suo amore reciproco. Nessuno di quanti sono a lei devoti può perire. Nessuno di quanti cercano di imitarla non riuscirà a salvarsi. Quanti miserabili peccato-ri, in preda alla disperazione e immersi in ogni sorta di vizi, ha accol-to nel seno della sua misericordia! Essi avevano già, per così dire, un piede nell’inferno: eppure lei non li ha scacciati quando hanno fatto ricorso alla sua pietà, ma li ha anzi strappati dalle fauci della bestia in-fernale, riconciliandoli con suo Figlio e rimettendoli sulla strada ver-so il paradiso. È questa una grande grazia, un privilegio e una facol-tà che il Figlio le ha donato: quella di poter condurre alla penitenza quanti la amano, alla grazia quanti le sono devoti, alla gloria del cielo quanti si sforzano di imitarla.6

Se volete sapere che cosa occorra fare per amare e lodare il Figlio e la Madre, e per rendere grazie a Dio per tutte le gioie che

6 lAndsperGer, Epist. 23.

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le ha donato, sentite un po’ quello che lei stessa disse un giorno a santa Brigida:

Io sono la regina del cielo. Tu vuoi sapere in quale modo mi puoi lo-dare. Sii certa che tutte le lodi che vengono rivolte al mio Figlio sono lodi anche a me, e chiunque disonori lui disonora anche me. Perché io l’ho amato così teneramente, come anche lui mi ha amata così ar-dentemente, al punto che lui e io eravamo un unico cuore. Egli mi ha esaltata al di sopra degli angeli, io che ero solo una navicella stentata. Ecco dunque come mi devi lodare: benedicendo mio Figlio. Sii be-nedetto, mio Dio, creatore del cielo e della terra, che ti sei degnato di scendere nel seno della Vergine Maria! Sii benedetto, mio Dio, che ti sei degnato di prendere la carne immacolata e senza peccato dalla Vergine Maria, e che per nove mesi hai dimorato in lei senza procu-rarle alcun fastidio! Sii benedetto, mio Dio, che, dopo esserti immer-so in Maria nella tua ammirabile incarnazione ed esserne uscito nel-la tua mirabile natività, l’hai colmata interiormente ed esteriormente di una gioia indicibile! Sii benedetto, mio Dio, perché dopo la tua ascensione hai più volte riempito tua Madre, Maria santissima, con le tue celesti consolazioni, visitandola e consolandola in prima persona! Sii benedetto, mio Dio, per aver accolto nel cielo il corpo e l’anima della gloriosa Vergine, nel tuo trono accanto alla tua divinità! Per le sue preghiere e per il suo amore, abbi pietà di me!7

Una delle gioie della regina del cielo, quella che sorpassa di gran lunga tutte le altre, si apre con queste parole: «Il mio spirito esulta…». Molti Padri e santi dottori scrivono che la santa Vergi-ne, estasiata e rapita in Dio, al momento dell’incarnazione del suo Figlio in lei fu colmata di quelle gioie inconcepibili che i beati rice-vono in cielo, e che fu portata fino al terzo cielo, dove ha avuto la gioia di vedere Dio faccia a faccia e molto chiaramente. La prova di questo, dicono ancora i santi Padri, è che tutti i privilegi di cui il Fi-glio di Dio ha colmato ai suoi santi, li ha comunicati anche alla sua divina Madre. Sant’Agostino, san Giovanni Crisostomo, sant’Am-brogio, san Basilio, sant’Anselmo, san Tommaso e molti altri dico-

7 Revel. lib. 1, cap. 9.

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Il Magnificat, con la sua spiegazione

no senza mezzi termini che san Paolo, quando era ancora su questa terra, ha visto l’essenza di Dio quando fu rapito al terzo cielo. Come possiamo quindi dubitare che la Madre di Dio, che ha sempre vis-suto in uno stato di perfetta innocenza e che ha amato il suo Figlio divino più di tutti i santi messi insieme, non abbia potuto gioire di un uguale privilegio, e non una sola volta, ma ripetutamente, e in modo particolare nel felice momento del concepimento di suo Fi-glio? È quanto affermano anche san Bernardo, sant’Alberto Ma-gno, sant’Antonino e molti altri.

O beata Maria – esclama l’abate Ruperto –, sei stata inondata da un diluvio di gioia, una fornace d’amore e un torrente di delizie celesti; ne sei stata travolta e inebriata, e hai potuto gustare quello che mai occhio umano ha potuto vedere, né orecchio udire, né cuore com-prendere.

Possiamo così capire che i figli di questo secolo sono in un er-rore gravissimo se pensano che in questo mondo, per quanti servo-no Dio, non ci sia che tristezza, amarezza e afflizione. Che errore incredibile! Che bugia deprecabile, che può avere origine solo in colui che è padre di tutti gli errori e di tutte le falsità. Forse non sentiamo la voce della Verità eterna che grida: «Tribolazione e an-goscia per le anime che compiono il male! Ma gloria, onore e pace per tutti quelli che fanno il bene», e anche che il cuore dell’empio è come il mare, che è sempre agitato e turbato: «I malvagi sono come un mare agitato che non può calmarsi», mentre il timore di Dio muta i cuori di quanti lo amano in un paradiso, di gioia, di al-legrezza e di pace, colmo di appagamento e di delizie indicibili: «Il timore di Dio rallegrerà il cuore, e darà letizia e gioia». I veri servi-tori di Dio possiedono una felicità più solida, più vera e più grande, perfino in mezzo alle tribolazioni più grandi, dei piaceri che posso-no avere quanti invece seguono satana. Non avete forse sentito san Paolo, che dice di essere colmo di consolazione, pervaso di gioia in ogni tribolazione.

Volete conoscere queste verità con l’esperienza? «Gustate e vedete quanto è dolce il Signore». Se volete veramente farne espe-

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rienza, è necessario che rinunciate ai falsi piaceri e alle delizie in-gannevoli di questo mondo, e soprattutto ai piaceri illeciti che sono incompatibili con la salvezza eterna. Lo Spirito Santo dice chiara-mente: «Non potete bere il calice del Signore e il calice dei demo-ni; non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni».

Se dunque volete mangiare alla mensa del re del cielo e bere il suo calice, rinunciate del tutto alla mensa degli inferi e al calice dei demoni, così da sperimentare quanto siano vere queste parole di-vine: «Si saziano dell’abbondanza della tua casa: tu li disseti al tor-rente delle tue delizie».

O Vergine santa, imprimi nei nostri cuori quello stesso disprez-zo, quell’avversione e quel distacco che il tuo cuore verginale ha sempre avuto nei confronti dei falsi piaceri di questa terra, e ottieni per noi dal tuo Figlio la grazia di riporre tutto il nostro appagamen-to, la nostra gioia e le nostre delizie nell’atto di amare e glorificare lui, e a servirti e onorarti con tutto il nostro cuore, con tutta la no-stra anima e con tutte le nostre forze.

5. Quia respexit humilitatem ancillae suae: ecce enim ex hoc beatam me dicent omnes generationes

Per capire bene questo versetto, dobbiamo collegarlo a quello precedente, del quale è il naturale completamento, in questo modo: «Il mio spirito esulta di gioia in Dio mio salvatore perché egli ha guardato l’umiltà della sua serva; ecco che da ora in poi tutte le ge-nerazioni mi chiameranno beata».

Due sono i punti principali di questo versetto. Il primo: «Ha guardato l’umiltà della sua serva». Che cos’è questa umiltà di cui la santa Vergine parla? I santi Padri la interpretano in diversi modi. Alcuni dicono che l’umiltà è l’unica, tra tutte le virtù, che non guar-da e non conosce se stessa, perché altrimenti chi si crede umile sa-rebbe in realtà superbo. Ecco quindi che, quando la beata Vergine dice che Dio ha guardato la sua umiltà, essa in realtà non vuole fare

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riferimento alla virtù dell’umiltà, ma piuttosto alla sua piccolezza e alla sua abiezione. Altri Padri, invece, precisano che l’umiltà di un’anima non consiste nell’ignorare le grazie e le virtù che il Signo-re le ha donato, ma ad offrire a lui i suoi doni e a conservare per se stessa solo il niente e il peccato; ecco allora che lo Spirito Santo, parlando per bocca della santa Vergine, ci vuole far capire che tra tutte queste virtù egli ha guardato, amato e apprezzato soprattutto la sua umiltà perché, essendosi abbassata al di sotto di tutte le cose, questa umiltà ha indotto la maestà divina a elevarla sopra tutte le creature rendendola Madre del Creatore.

O vera umiltà – esclama sant’Agostino – che ha partorito Dio agli uomini e che ha donato la vita ai mortali. L’umiltà di Maria è la sca-la celeste attraverso la quale Dio è sceso sulla terra. Infatti, che cosa significa respexit, «ha guardato», se non approbavit, «ha approva-to»? Molti sono quelli che sembrano umili davanti agli uomini, ma la loro umiltà non è guardata da Dio; se fossero veramente umili, non si compiacerebbero per le lodi degli uomini e il loro spirito non si rallegrerebbe per l’approvazione di questo mondo, ma solo in Dio.8

Dice san Bernardo:Ci sono due tipi di umiltà. La prima è figlia della verità: è fredda e senza calore. La seconda è figlia della carità, e ci infiamma. La prima consiste nella conoscenza, la seconda nell’affetto. Attraverso la prima diventiamo consapevoli di essere un niente, e la impariamo da soli, dalla nostra miseria e infermità. Attraverso la seconda calpestiamo la gloria di questo mondo, e la impariamo da colui che ha disprezzato se stesso, e che è fuggito quando si è cercato di farlo re e che poi, in-vece di fuggire, si è offerto spontaneamente quando l’hanno cercato per crocifiggerlo e per sprofondarlo in un abisso di obbrobri e di ignominie.9

La beata Vergine possedeva la massimo grado entrambi i tipi di umiltà, e in modo particolare il secondo. Sant’Agostino, san Ber-

8 AGostino, Serm. 2 de Assuptione.9 bernArdo, Serm. 42 super Canticum.

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nardo, sant’Alberto Magno, san Bonaventura, san Tommaso e mol-ti altri ritengono che le parole che lo Spirito Santo ha pronunciato per mezzo di questa Vergine così umile, «ha guardato l’umiltà», facciano riferimento alla vera umiltà.

Se chiedete perché Dio abbia guardato l’umiltà della beata Vergine, e non piuttosto la sua purezza o qualche altra sua virtù, dal momento che le possedeva tutte in sommo grado, Alberto Ma-gno, insieme a sant’Agostino, vi risponderà che ha guardato la sua umiltà perché l’ha preferita alla sua purezza.10

La verginità è sicuramente da lodare – dice san Bernardo – ma l’umil-tà è fondamentale. La prima è un consiglio, la seconda un comanda-mento. Senza la verginità si può essere salvi, ma non esiste salvezza senza l’umiltà. Arrivo a dire che, senza l’umiltà, anche la verginità di Maria non sarebbe stata bene accetta a Dio. Se Maria non fosse stata umile, lo Spirito Santo non sarebbe sceso su di lei, e quindi lei non sarebbe diventata la Madre di Dio. Essa è piaciuta a Dio per la sua verginità, ma ha concepito il Figlio di Dio per la sua umiltà. Bisogna quindi pensare che è stata la sua umiltà a rendere gradita a Dio la sua verginità.11

O beata umiltà, sei tu ad averci donato un uomo-Dio e una Madre di Dio, e di conseguenza sei tu ad averci elargito tutte le grazie, tutti i favori, tutte le benedizioni, tutti i privilegi e tutti i tesori che possediamo sulla terra e anche quelli che speriamo di possedere un giorno nel cielo. Sei tu che hai distrutto tutti i mali e che sei sorgente di tutti i beni. Come dovremmo tenere in con-siderazione, amare e desiderare questa virtù! Con quale fervore la dovremmo domandare a Dio! Con quale ardore dovremmo cer-care e impiegare tutti i mezzi necessari per conseguirla! Chi non ha umiltà, non ha niente; e chi ha l’umiltà, ha anche tutte le altre virtù. Per questo, sentendo parlare lo Spirito Santo per mezzo del-la Chiesa, sembra che il Padre eterno abbia inviato il suo Figlio in

10 Alberto mAGno, Serm. 2 de Nativitate Domini.11 bernArdo, Hom. 1 super Missus est.

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questo modo per incarnarsi e per essere crocifisso allo scopo di in-segnarci l’umiltà con il suo esempio. È quanto la Chiesa dice a Dio in questa orazione della Domenica delle Palme: «Dio onnipotente ed eterno, che hai fatto sì che il nostro Salvatore assumesse la car-ne e subisse la morte sulla croce per darci esempio di umiltà […]. Ciò che il diavolo ha distrutto con superbia, Cristo lo innalzò con l’umiltà».12

Da ciò impariamo anche quanto sia detestabile la superbia. Come l’umiltà è la fonte di tutti i beni, l’orgoglio è il principe di tutti i mali: «l’inizio del peccato»; nella versione greca troviamo: «l’inizio di ogni peccato», e in quella siriaca: «la superbia è fonte di peccato». «L’inizio e il principio di tutti i peccati è la superbia», che lo Spirito Santo chiama «apostasia»: «allontanarsi (apostatare) da Dio» (cf. Sir 10,12). E dal momento che il peccato è la fonte di ogni male e di ogni sventura, tutti i mali e tutte le sventure hanno la loro origine nella superbia. Immaginatevi un numero sterminato di angeli che Dio aveva creato all’inizio del mondo, più belli e più splendenti del sole, che si sono tramutati in altrettanti orribili essere demoniaci, cacciati dal paradiso, precipitati all’inferno e condanna-ti a supplizi eterni. Qual è la causa di queste disgrazie? La superbia di questi spiriti apostati. Pensate a tutte le bestemmie che queste creature ribelli lanceranno dall’inferno contro Dio, con gli infiniti peccati che hanno fatto e faranno commettere agli uomini dell’in-tero universo fino alla fine del mondo attraverso le loro tentazioni. Qual è la causa di questi mali? La superbia. […]

Dice san Gregorio Magno:Gli altri vizi combattono solo le virtù che sono loro contrarie; ma la superbia, che è la radice di tutti i vizi, non si accontenta di distrugge-re una virtù; è una peste generale che le fa morire tutte.13

San Bernardo precisa:

12 CesArio di Arles, Hom. 18.13 GreGorio mAGno, Moralia in Job 34,18.

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La superbia è l’origine di tutti i crimini, e anche la rovina di tutte le virtù. L’ambizione è un male sottile, un veleno invisibile, una peste nascosta, un’esperta di inganni, fonte di ipocrisia, madre dell’invidia, origine dei vizi, culmine dei crimini, ruggine delle virtù, tigna della santità, accecamento dei cuori, che muta i rimedi in mali e la medi-cina in veleno. Quante anime sono state soffocate da questa peste? Quanti cristiani ha spogliato della loro veste nuziale per gettarli fuori nelle tenebre?

Quando la superbia ha preso possesso di un cuore, dice an-cora san Gregorio Magno, «lo abbandona ben presto al furore e al saccheggio dei sette vizi capitali, che sono i capitani della sua arma-ta».14 Ma soprattutto lo sottomette alla tirannia dell’impudicizia; lo Spirito Santo ci dice che la superbia è stata causa degli abomini e della perdizione dei sodomiti (cf. Ez 10,49).

Ogni persona superba porta in sé un demone: «Chi è superbo, è riempito da un demone».15 Quando vedrete un superbo, potete essere sicuri che è figlio di Satana; ma quando vedrete un uomo umile, potete essere certi che è figlio di Dio.

Se abbiamo timore di essere al livello degli schiavi di Satana e desideriamo invece essere nel numero dei figli di Dio, dobbia-mo avere orrore dell’ambizione, dell’orgoglio, della superbia, della presunzione, della vanità; dichiariamo una guerra senza quartiere a questi mostri infernali e non tolleriamo che abbiano mai alcun posto nei nostri pensieri, nei nostri sentimenti, nelle nostre parole e nelle nostre azioni, ma sforziamoci più che possiamo, con la gra-zia di Dio, per stabilire dentro di noi il regno della santa umiltà di Gesù e di Maria.

O Gesù, re delle persone umili, facci il dono di riuscire a capire bene la lezione divina che ci hai fatto con le parole: «Imparate da me, che sono mite ed umile di cuore» (Mt 11,29).

O Maria, regina delle persone umili, tu hai calpestato la testa del serpente, che è l’orgoglio e la superbia. Schiacciala del tutto nei

14 GreGorio mAGno, Moralia in Job 31,31.15 CesArio di Arles, Hom. 23.

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Il Magnificat, con la sua spiegazione

nostri cuori, e rendici partecipi della tua santa umiltà, così che pos-siamo cantare in eterno insieme a te: «Ha guardato l’umiltà della sua ancella», per rendere grazie alla santa Trinità, che si è così com-piaciuta nella tua umiltà che ti ha resa degna di essere la Madre del Salvatore dell’universo e di cooperare con lui alla salvezza di tutti gli uomini.

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RobeRt Cheaib, Il nascondiglio della gioia – Parabole sul mestiere di vive-re, Tau, Todi 2018, pp. 132, € 13.

Robert Cheaib, teologo, scrittore, saggista e blogger, già fecondo auto-re di testi profondi quali ricordiamo Un Dio umano o Oltre la morte di Dio, quest’anno regala ai suoi lettori un altro libro nel quale dona un in-sieme di contenuti forti ma al tempo stesso con un linguaggio semplice: quello della fiaba.Consapevole che «se non vi conver-tirete e non diventerete come i bam-bini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3), Cheaib struttura il libro proprio a partire da esperienze personali di trasmissione della fede in famiglia, in particolare ai propri figli. Sette storie, favole o parabole per sette capitoli che permettono anche al lettore adulto di entrare in profondità e meditare sui conte-nuti che queste narrazioni vogliono proporre. Perciò ogni capitolo a sua volta, dopo aver raccontato, ci aiuta anche a provare a vivere e a pregare su quanto scritto nelle pagine pre-cedenti mediante le sezioni Invera-mento e Preghiamo Insieme. I sette capitoli si leggono allora come una

ricerca di sette arti diverse: l’arte di cercare, riconoscere, desiderare, vo-lare, cadere, trasfigurare, risorgere.Alcuni passi sembrano fortemente fecondi anche per una meditazio-ne spirituale a partire dalla propria esperienza personale: innanzitutto l’autore ricorda cosa significa be-nedire. La benedizione «è l’arte di trasformare gli ostacoli in matto-ni per edificare la storia» (p. 24). Essa dunque ha un significato ben preciso. «Significa sapere che le imperfezioni contribuiscono alla definizione della particolarità della vita» (p. 25). Da ciò allora sappiamo che è bene avere un cuore d’aquila e di farfalla (p. 78), e al tempo stesso essere consapevoli che da soli non siamo in grado di fare nulla (p. 79). Lo stesso Gesù, ricorda Cheaib, con la sua grazia e la sua misericordia ci porta a esaudire «la pienezza dei nostri desideri, verso il Padre» (p. 79). Tutto ciò allora permette di ri-flettere anche della nostra azione, in cammino con Gesù, verso Dio: que-sto, secondo l’Autore, è riferito al concetto di conversione, in ebraico teshuva, o ritorno: infatti, conver-tirsi è innanzitutto un ritorno, un cammino attivo e non semplicemen-

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te pura passività. Questo cammino permette la conoscenza intima con la stessa persona di Gesù Cristo (p. 80). Cheaib, nella favola Il naufra-go e il lampo, descrive anche bene come in questo cammino di fede possano darsi anche dei momenti di crisi come appunto il naufrago protagonista che vive un momento di tempesta: non per questo però ci abbattiamo, e anzi lasciamo fare di nuovo tutto al Signore (pp. 87-90). Dio sa sempre trarre il bene dal male, come già san Tommaso d’Aquino aveva scritto nella Summa theologiae, dunque secondo Cheaib è importante che noi sappiamo leg-gere «i fatti negativi all’interno di una trama positiva e […] reagire concretamente per vincere il male con il bene» (p. 93).Ecco allora che vorremmo sottoli-neare uno dei punti più importanti e centrali, a nostro avviso, di tutto il testo: ricordare con l’autore che il cammino insieme al Signore è sem-pre un cammino di speranza. In ef-fetti, «il cammino col Signore cam-bia la nostra interiorità» (p. 109). Dunque, il sentimento di speranza è

sentire quella bellezza divina, quella grandezza trinitaria che cresce den-tro di noi e cammina. Davvero insie-me a Robert Cheaib ci sentiamo cer-ti di dire: «Sperare è specializzarsi nel realizzare sogni» (p. 109). La lettura di questo libro è vivamente consigliata per tutti coloro che sono in un cammino di fede e vogliono potenziarlo e approfondire diversi aspetti. Soprattutto perché siamo certi che ogni cammino necessiti, insieme a una sana vita sacramenta-le e di virtù morali, un continuo ap-profondimento delle verità di fede e anche della verità circa se stessi e le proprie potenzialità. Un cammino davvero può essere fecondato dalla forza della speranza umile. Infat-ti: «“Perché no?” è questo il passo umile della speranza» (p. 109). Con questo passo umile, davvero il cam-mino nella via del Signore può dare frutti di eternità per noi, per la Chie-sa e per le persone che amiamo: così da poter attingere a quel nascondi-glio della gioia che forse tutti non sanno di avere a pochi passi.

Gabriele Giordano M. Scardocci, op

Stampato a Firenze da Prohemio Editoriale nel mese di marzo 2019

LD

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