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Rivista di temi di Critica e Letteratura artistica Rivista di temi di Critica e Letteratura artistica Rivista di temi di Critica e Letteratura artistica numero 10 – 30 dicembre 2014 Copyright © 2010 teCLa – Tribunale di Palermo – Autorizzazione n. 23 del 06-10-2010 ISSN 2038-6133 – DOI: 10.4413/RIVISTA

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Rivista di temi di Critica e Letteratura artisticaRivista di temi di Critica e Letteratura artistica

Rivista di temi di Critica e Letteratura artisticanumero 10 – 30 dicembre 2014Copyright © 2010 teCLa – Tribunale di Palermo – Autorizzazione n. 23 del 06-10-2010ISSN 2038-6133 – DOI: 10.4413/RIVISTA

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Direttore responsabile: Giovanni La Barbera

Direttore scientifico: Simonetta La Barbera

Comitato Scientifico: Claire Barbillon, Franco Bernabei, Silvia Bordini, Claudia Cieri Via, Rosanna Cioffi, Maria Concetta Di Natale, Antonio Iacobini, César García Álvarez, Simonetta La Barbera, François-René Martin, Emilio J. Morais Vallejo, Sophie Mouquin, Giuseppe Pucci, Massimiliano Rossi, Alessandro Rovetta, Gianni Carlo Sciolla, Philippe Sénéchal, Giuliana Tomasella

Redazione: Carmelo Bajamonte, Francesco Paolo Campione, Roberta Cinà, Nicoletta Di Bella, Roberta Priori, Valentina Di Fazio

Progetto grafico, editing ed elaborazione delle immagini: Nicoletta Di Bella e Roberta Priori

issn: 2038-6133 - doi: 10.4413/rivista

Copyright © 2010 teCLa Tribunale di Palermo – Autorizzazione n. 23 del 06-10-2010

www.unipa.it/tecla

© 2010 Università degli Studi di Palermo

Università degli Studi di Palermo

Scuola delle Scienze Umane e del Patrimonio Culturale

Dipartimento Culture e Società

Società Italiana di Storia della Critica d’Arte

Rivista di temi di Critica e Letteratura artisticanumero 10 – 30 dicembre 2014

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Mario Alberto Pavone San Sossio di Miseno: da seguace a protagonista

Priscilla Manfren Archeologia e simboli della “romanitas” nella pubblicistica e nella grafica fascista: il caso de “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” (1923-1943)

Giada Centazzo Leonora Carrington e Remedios Varo. Due artiste surrealiste tra Europa e Messico

Michele Sbacchi Distruzione/costruzione/decostruzione. Il flusso continuo dell'architettura contemporanea

Laura Pellicelli «The raw visual feel». L’esperienza dell’opera d’arte nella prima formazione di Michael Baxandall

Rivista di temi di Critica e Letteratura artistica

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Proprietà artistica e letteraria riservata all’Editore a norma della Legge 22 aprile 1941, n. 663. Gli articoli pubblicati impegnano unicamente la responsabilità degli autori. La proprietà letteraria è riservata alla rivista. I testi pubblicati non possono essere riprodotti senza l’autorizzazione scritta dell’Editore. Gli autori debbono ottenere l’autorizzazione scritta per la riproduzione di qualsiasi materiale protetto da copyright. In riferimento al materiale iconografico fornito dagli autori a corredo dei testi, la Redazione si riserva il diritto di modificare, omettere o pubblicare le illustrazioni inviate. I lavori sono pubblicati gratuitamente. È possibile scaricare gli articoli in formato pdf dal sito web di “teCLa”. È vietata qualsi-asi riproduzione totale o parziale anche a mezzo di fotoriproduzione, Legge 22 maggio 1993, n. 159.

numero 10 – 30 dicembre 2014

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San Sossio di Miseno:da seguace a protagonista

Mario Alberto Pavone

La riaffermazione dell’iconografia di San Sossio in ambito napo-

letano, a partire dal Seicento,1 transita inizialmente attraverso la raf-

figurazione delle scene della vita di San Gennaro. Seguendo tale trac-

cia è possibile individuare immagini del santo nei diversi contesti

che vedono protagonista il patrono di Napoli. Fungono da momenti

cardine, pertanto, gli episodi che vedono San Gennaro condotto al

martirio, o dinanzi alle belve nell’anfiteatro, o soggetto a decapita-

zione insieme ai suoi compagni. Rispetto a questi ultimi due episodi,

risultano indicative le due lastre d’argento poste nel 1609 alla base

del busto reliquiario di età angioina (realizzato dagli orafi di corte

Maestro Etienne Godefroy, Milet d’Auxerre e Guillaume de Verdelay;

Napoli, Museo del Tesoro di San Gennaro), che costituiscono un

riferimento cardine, anche per ragioni di devozione, al quale si ricol-

legheranno i pittori per le successive interpretazioni, ma soprattutto

Lorenzo Vaccaro nel suo bassorilievo in marmo per la chiesa di San

Gennaro alla Solfatara a Pozzuoli. L’opera relativa alla scena del mar-

tirio, che risulta documentata al 1697 2 ed eseguita su commissione

del cardinale Cantelmo, arcivescovo di Napoli, viene pertanto a

porsi al culmine delle esperienze maturate all’interno del secolo e

sigla il determinante passaggio dallo schematismo controriformato

alla visione tardobarocca, legata alle suggestioni del Solimena. Dal

confronto con la lastra argentea, di stampo tardocinquecentesco,

emergono notevoli varianti, indicative del profondo cambio di rotta

operato dal noto scultore napoletano. Se in ambedue è possibile regi-

strare la presenza sullo sfondo dei seguaci (tra i quali San Sossio),

le note maggiormente caratterizzanti sono date dall’eliminazione

della mitra sul capo di San Gennaro nel momento del martirio e

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dall’intervento operativo del

martirizzatore che gli recide

il capo, secondo un rituale

che riattualizza il Martirio

di san Giovanni Battista del

Caravaggio nella Cattedrale

de La Valletta attraverso

un’accentuazione naturali-

stica.3 L’impianto chiaroscu-

rale, inoltre, che acutizza la drammaticità della visione in primo

piano, conferma la «franchezza» espressa dall’artista in quell’occa-

sione, secondo quanto sottolineato dal De Dominici.4

Volendo pertanto rivolgere attenzione alle scene che contemplano

ambedue i santi al loro interno (San Gennaro e San Sossio), andrà

ripresa senz’altro la traccia segnata inizialmente dal Pacelli 5 e poi

dal Leone De Castris 6 in merito al percorso dell’iconografia di San

Gennaro per l’ambito cronologico seicentesco, sia sotto il profilo del

riferimento agli artisti, sia in merito ai momenti principali che ne

segnarono la riaffermazione, quali l’eruzione del Vesuvio del 1631

e la peste del 1656. Una partenza d’obbligo risulta pertanto il

riferimento a Battistello Caracciolo, il quale, in parallelo alla decora-

zione della cappella dedicata al santo patrono nel Duomo di Napoli,

realizzò gli affreschi e le tele per la cappella eponima della Certosa di

San Martino. Esaminando i bozzetti per le scene della volta, attual-

mente al Museo di San Martino, almeno in tre di essi risulta evidente

la presenza del diacono di Miseno: sia nella scena che vede il gruppo

dei prigionieri legato al carro di Timoteo, sia in quella dove com-

paiono a giudizio, sia in quella in cui sono presenti nell’anfiteatro.

Confrontando i citati bozzetti con gli affreschi, realizzati tra il 1632 e

il 35, risultano evidenti alcuni passaggi nodali, in quanto Battistello

nella fase preparatoria sceglie un timbro chiaroscurale di forte inten-

sità, sì da caratterizzare in maniera incisiva i volti, addensando le

ombre nelle pieghe della pelle, in modo da far risaltare la sofferenza

patita. Nella trasposizione della scena ad affresco, l’intento appare

quello di conciliare l’effetto della lezione emiliana con gli esempi

dello Stanzione, per

cui, attraverso una

luminosità chiara

e distesa, si con-

segue un risultato

Ignoto argentiere (xvii sec.), Martirio di San Gennaro (lastra anteriore) Napoli, Duomo, Cappella del Tesoro di San Gennaro

◆ ◆ ◆

◆ ◆ ◆Lorenzo Vaccaro, Martirio di San Gennaro, Pozzuoli, Chiesa di San Gennaro

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di alleggerimento dei toni naturalistici,

funzionale a sottolineare l’esemplarità del

martirio e la conseguente sottomissione del

santo e del suo seguito.

Alle tele laterali della medesima cappella

della Certosa viene invece affidato il compito

di dare risalto all’atrocità dei martiri, per cui

nella scena del martirio finale, che vede San

Sossio illuminato di riflesso in secondo piano,

il sondaggio luministico dell’atmosfera not-

turna, da cui affiorano presenze abbaglianti,

accentua la visione della decollazione e del

conseguente fiotto di sangue che sgorga dal

collo del primo martire decapitato, lasciando

in evidenza l’espressione dei volti dei martiri

disposti in successione.

L’esperienza battistelliana fissa pertanto i

termini interpretativi destinati a lasciare il

segno nelle successive interpretazioni matu-

rate in area napoletana, rivolte a sottolineare

l’atrocità del martirio.

Alla considerazione di tali esiti da parte

dei maggiori protagonisti della scena pit-

torica napoletana, si contrappone netta-

mente la visione classicistica introdotta dal

Domenichino, in forza dell’autorevole tradi-

zione carraccesca, il quale tra il 1632 e il 40

intervenne ad affresco, e in parte su rame,

nell’ambito della decorazione della Cappella

del Tesoro. Momenti in cui si registra la

comune presenza dei due santi risultano

quelli relativi alle raffigurazioni ad affresco

con San Gennaro che abbraccia San Sossio e San

Gennaro e compagni nell’Anfiteatro di Pozzuoli,

oltre che il rame finale con l’esecuzione del

santo patrono. Quest’ultima scena, che dal

punto di vista stilistico racchiude il messag-

gio finale dell’artista, trova nella figura del

carnefice l’elemento di divisione tra i due

santi, che interviene quasi a scandire il ritmo

degli eventi in successione. Proprio il filtro

disegnativo viene a rafforzare la differente

condizione dei santi: mentre San Gennaro,

preso per i capelli, è condizionato nei suoi

movimenti, San Sossio è colto nel suo abban-

dono estatico ed esemplato sulle tipologie

del Reni. L’estrema pulizia formale, che

◆ ◆ ◆Battistello Caracciolo, San Gennaro e compagni condotti al martirio, Napoli, Museo di San Martino

Battistello Caracciolo, San Gennaro e compagni nell’Anfiteatro, Napoli, Museo di San Martino

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valorizza il risalto cromatico,

rende percepibili nei primi

piani i preziosismi materici

e l’accurata definizione delle

forme regolari.

Sempre al Domenichino è stato riferito di recente un disegno, 7 pre-

sente negli ambienti attigui alla Cappella del Tesoro, che risulta pre-

paratorio per una composizione di ampie dimensioni e che intende

registrare la fase immediatamente precedente la decollazione di

San Gennaro e del suo seguito, dove però va osservato che il santo,

bendato, ha un momento di incertezza, in quanto è colto piuttosto

in bilico, come se perdesse l’equilibrio, per cui non assume il tono

remissivo, sviluppato in altre composizioni relative al medesimo

soggetto. In un complesso figurativo, nel quale predominano ele-

menti di compostezza, di simmetria e di ordine complessivo, oltre

che di raffinata eleganza, riguardo agli addobbi dei cavalli e agli

abiti che rivestono le armature dei soldati, gli unici elementi discor-

danti, che alterano l’atmosfera statica di fondo, appaiono sia la figura

del protagonista, che i piccoli angeli in alto, in caduta libera verso

il basso. Elementi questi che già di per sé, senza entrare nel merito

delle componenti stilistiche, 8 inducono ad una interpretazione pro-

blematica del soggetto.

Prima di passare alla sequenza di scene del martirio, che vedono

sempre presente San Sossio in raffigurazioni ampiamente scenografi-

che, va considerato il rame di Leonaert Bramer, 9 dove, pur in assenza

del riferimento a San Gennaro, è stata ipotizzata la presenza dei suoi

“compagni”, siglata da una cupa atmosfera al cui interno si registra

una insolita condizione di attesa, tipica della linea interpretativa del

pittore olandese (documentato a Roma nel 1627), del quale in col-

lezione Roomer a Napoli, secondo il Capaccio, risultavano presenti

ben quaranta dipinti. 10

Domenichino, San Gennaro abbraccia San Sossio (part.), Napoli, Duomo, Cappella del Tesoro di San Gennaro

◆ ◆ ◆

In alto: Ignoto (prima metà xvii sec.), Martirio di San Gennaro, Napoli, Duomo, Cappella del Tesoro di San Gennaro

A sinistra: Domenichino, Martirio di San Gennaro, Napoli, Duomo, Cappella del Tesoro di San Gennaro

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Una particolare attenzione merita, poi, la tela di

Artemisia Gentileschi (Museo di Capodimonte),

realizzata tra il 1635 e il 37, che vede San Sossio

assistere nell’anfiteatro al Miracolo di San Gennaro

che ammansisce le belve. Nell’opera, che fece parte

del gruppo di dipinti commissionati dal vescovo di

Pozzuoli Martín de León Cárdenas e che testimo-

nia la piena affermazione della pittrice in ambito

napoletano, anche a seguito del conferimento

dell’incarico per la tela del Casón del Buen Retiro, 11

«sopravvivono nessi con l’attività di Artemisia

anteriore al periodo napoletano nel nitore dei bian-

chi delle vesti sacerdotali e nella corposità materica

della dalmatica rossoviolaceo del diacono Sossio

inginocchiato dinanzi al vescovo». 12

Sempre per il Duomo di Pozzuoli, e precisamente

per l’altare maggiore, Agostino Beltrano realizzò

nel 1636 la Decollazione di San Gennaro , ponendo

alle spalle del santo il gruppo dei compagni, dispo-

sti a semicerchio e in ginocchio. Va osservato come

la figura del carnefice che fa ruotare la scimitarra

diverrà ricorrente nelle scene di martirio, che tro-

veranno seguito da Micco Spadaro a Solimena: «A

Pozzuoli anzi, nel quadro più antico (‘paesaggio’

di ruderi architettonici a parte, ispirato alle vedute

di un Viviano Codazzi) l’atteggiarsi ad accademica

monumentalità di alcuni tra i personaggi princi-

pali – il carnefice ad esempio, tutt’altro che brutale

o ferocemente “bestiale”, com’era nella tradizione

caravaggesca, ma atteggiato in una posa eroica da

antico guerriero – mostra di nuovo un’attenzione

non episodica al classicismo ‘romano’, tra Poussin

e Lanfranco, che nel 1635 eseguiva proprio nel

duomo di Pozzuoli affreschi oggi perduti».13

Su un diverso registro appaiono strutturati i per-

sonaggi all’interno di un’altra composizione del

Beltrano,14 dove al

martirio del santo

protagonista sta

per seguire quel-

lo di San Sossio.

Ad un medesimo

ambito andrà rife-

rita anche la tela

Leonaert Bramer, I compagni di San Gennaro, Napoli, Collezione privata

Artemisia Gentileschi, San Gennaro ammansisce le belve, Napoli, Museo di Capodimonte

◆ ◆ ◆Agostino Beltrano, Decollazione di San Gennaro, Pozzuoli, Duomo

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di collezione privata,15 che intende celebra-

re questo secondo martirio e fa ancora leva

sull’incalzante presenza del carnefice.

Anche Paolo Finoglio, nella tela destinata

alla chiesa dei Santi Cosma e Damiano a

Coversano, ebbe modo di intervenire in

merito al tema iconografico del martirio

finale di San Gennaro, sulla scorta delle espe-

rienze stilistiche e iconografiche maturate

in occasione della decorazione del Duomo

di Pozzuoli, alla quale aveva partecipato

insieme ai due artisti precedentemente

citati. Diversamente da quanto prodotto in

tale circostanza, con il dipinto raffigurante

San Pietro che consacra vescovo Sant’Aspreno,

ancorato alla rivisitazione naturalistica di

Battistello, la tela di Conversano presenta

elementi innovativi dal punto di vista croma-

tico, che intervengono nel sondaggio lumi-

nistico a rivelare le proprietà degli oggetti e

la preziosità dei tessuti, ancora memori della

lezione di Ippolito Borghese. Dal punto di

vista iconografico il mutamento di prospet-

tiva, siglato dalla fase in cui viene ultimata

la preparazione del martire e quindi ante-

cedente la decapitazione (compresa l’ap-

posizione della benda sugli occhi), gioca a

favore di una inattesa riconsiderazione di

Da sinistra:

Paolo Finoglio, Decollazione di San Gennaro, Conversano, Chiesa dei Santi Cosma e Damiano

Agostino Beltrano, Decollazione di San Gennaro, Napoli, Collezione privata

Ignoto (xvii sec.), Decollazione di San Gennaro, Napoli, Collezione privata

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San Sossio, il quale trova una collocazione autonoma al centro della

scena ed è colto nel medesimo atteggiamento (anche se in posizione

invertita) del San Domenico, realizzato negli stessi anni per la cappella

eponima della medesima chiesa, del quale condivide la posa «statua-

ria».16 Nel San Gennaro che ammansisce le belve, di formato ridotto, non

concordemente attribuito al Finoglio,17 riemerge la figura del dia-

cono alle sue spalle, interpretato sempre in chiave estatica e pertanto

restituito alla sua funzione di comprimario, in alternativa all’esito

della Gentileschi a Pozzuoli. Proprio questa interpretazione auto-

noma conforta nel ritenere tale soluzione ideata dal Finoglio.

Sempre nella prima metà del secolo diviene ricorrente il riferimento

al martirio di San Gennaro e del suo seguito in un ambito spazial-

mente dilatato per accogliere gruppi di armati e di spettatori, che

trova conclusione nelle fumose rocce della solfatara. Per tale serie di

opere il modello di riferimento dovette essere il dipinto realizzato da

Aniello Falcone per Gasparo Romer:

[…] gli dipinse in tela di otto palmi per traverso il Martirio di S. Gennaro, così bene ideato, e dipinto, che ne meritò straordinaria lode, imperciocchè in esso vedeasi sì gran quantità di figure, cavalli, soldati, ed altro, ch’era uno stupore, avendovi effigiato al naturale il luogo della Solfatara, dove il Santo con suoi compagni fu decollato. […] Solo il quadro descritto del Martirio di S. Gennaro, e compagni, ei volle ritenere appresso di se, per essere cosa molto singolare in pittura. Di esso fa menzione il Sandrart […].18

La proposta di identificazione di tale dipinto con una tela di colle-

zione privata a Napoli 19 non trova adeguata conferma sotto il pro-

filo iconografico, data la presenza nei primi piani di un solo cavallo.

Aniello Falcone e Carlo Coppola, Decollazione di San Gennaro, Napoli, Pio Monte della Misericordia

Niccolò De Simone, Decollazione di San Gennaro, Napoli, Museo di San Martino

Carlo Coppola, Decollazione di San Gennaro, Napoli, Collezione privata

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Non sono inoltre riconducibili al Falcone né la sigla apposta sul

retro a quest’ultimo, né l’eccessiva ricercatezza delle vesti dei mar-

tiri. In tale dipinto il protagonista è piuttosto Sossio, collocato al

centro della scena e colto nell’atto della decapitazione, dato che a

San Gennaro è offerto un ruolo non primario. Un più sicuro riferi-

mento all’opera indicata dalle fonti si riscontra, invece, nella tela

del Pio Monte della Misericordia, finora assegnata a Niccolò De

Simone, al cui interno risultano presenti numerosi cavalli in diverse

pose, che testimoniano peculiarità tipiche del Falcone, come la sua

decisa impronta naturalistica, quale emerge soprattutto dal rilievo

assunto dalle lucide armature. In tale composizione, che trova più

opportuna collocazione nell’ambito della collaborazione con Carlo

Coppola, San Gennaro ha un ruolo primario, legato al culto del

sangue, mentre San Sossio, di poco arretrato e bendato, è in attesa

del colpo fatale. A quest’ultimo santo rivolge particolare atten-

zione Niccolò De Simone, nella tela del Museo Nazionale di San

Martino,20 dove è collocato di spalle e con il capo rasato, mentre

prega in ginocchio dinanzi al corpo ormai tronco di San Gennaro.

L’opera, caratterizzata da un maggiore affollamento delle figure che

emergono dal fondo, è siglata da un’atmosfera incandescente, soste-

nuta in forza di una materia sanguigna diffusa per l’intera compo-

sizione, che altera le vivide espressioni facciali, imponendo un tim-

bro fortemente caratterizzante al dipinto. Più legato alle soluzioni

estratte dall’esempio del Falcone, anche per il ricorso alla quadriga

In alto: Scipione Compagni, Decollazione di San Gennaro, Nantes, Musée Des Beaux Arts

Sopra: François De Nomé, Decollazione di San Gennaro, Sarasota, J. e M. Ringling Museum

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sullo sfondo, appare il Coppola

nelle successive rielaborazioni

tematiche, testimoniate da due

composizioni di collezione pri-

vata,21 dove procede ad una

codificazione del messaggio,

rivolto a ridare centralità a San

Gennaro, oltre che a sottoline-

arne la presenza, facendo ricorso ad un lussuoso manto vescovile. La

scelta poi del momento che precede la decapitazione non lascia spa-

zio a momenti sanguinari, quanto piuttosto ad un armonioso con-

trollo formale, memore degli esiti dello Stanzione.

Percorsi alternativi a tali esiti si individuano sia nel Maestro dei

Martiri, di cui sono state rese note numerose versioni del medesimo

tema (Duomo, San Paolo Maggiore, Marianella e due in collezioni

private),22 contraddistinte da una spiccata ampiezza spaziale, che vani-

fica le presenze, sia nelle soluzioni adottate da Scipione Compagni nelle

tele dei Musei di Nantes, Perigueux, Vienna, oltre che di collezione

privata, 23 dove le rovine monumentali danno solennità alle scene, con-

tribuendo a neutralizzare i toni macabri e a trasporre l’episodio in una

dimensione irreale. Mentre il primo artista estremizza la componente

sanguinaria, in quanto ancora memore degli esempi del passato, legati

ad una visione di stampo controriformato rivisitata in chiave natura-

listica, Scipione Compagni lega il singolare abbinamento di rovine

monumentali e piccole figure disseminate nel paesaggio alla lezione

di François De Nomé (Monsù Desiderio). In ambedue le tele (oggi in

Francia) al San Gennaro decapitato corrisponde la sequenza dei suoi

compagni, che nell’esemplare di Perigueux offre risalto a San Sossio,

soprattutto per la sua integrità corporea. L’esempio del De Nomé

risulta vincolante, anche se depurato dal fantasmagorico luminismo

in chiave notturna, che ritroviamo nella tela

di Binningen (collezione R. Dreyfus),24 dove

è indubitabile l’identificazione con il Martirio

di San Gennaro e del suo seguito, anche per

◆ ◆ ◆In alto: François De Nomé, Decollazione di San Gennaro, Raleigh, Northon Carolina Museum of Art

A sinistra: Micco Spadaro, Martirio di San Gennaro, Napoli, Collezione privata

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la presenza in primo piano del vaso e della donna che si prodigherà

a raccogliere il sangue; e poi in quella di collezione Della Vecchia a

Napoli,25 dove predomina una sovrabbondante concentrazione di archi-

tetture fantastiche sui termini nodali della rappresentazione. Un più

luminoso sondaggio paesaggistico caratterizza il dipinto del Ringling

Museum of Fine Art di Sarasota,26 realizzato intorno al 1621, nel quale

la sequenza degli abiti bianchi orienta verso il luogo del martirio, col-

locato sulla destra, dove sono percepibili sul capo di San Gennaro sia

la mitra che la benda. Anche nella tela di Raleigh (Northon Carolina

Museum of Art) 27 si registra il medesimo andamento della composizione

da sinistra verso destra, con un’ampia panoramica della solfatara e la

presenza di soldati romani alternati ad uomini abbigliati secondo la

moda dell’epoca: originale appare

la sostituzione dei cavalli del carro

di Draconzio con il gruppo dei

seguaci di San Gennaro tenuti

insieme da un cordone.

Certamente la serie di suggestioni determinate dagli esiti di Monsù

Desiderio, di Scipione Compagni e Cornelio Brusco furono alla base

della reinterpretazione in chiave barocca operata da Micco Spadaro

in risposta alle tendenze classicizzanti che erano venute prevalendo

in ambito napoletano, soprattutto con Carlo Coppola e Andrea de

Lione. Una testimonianza basilare è fornita dalle tele di collezione

privata a Napoli, in una delle quali, siglata,28 il martirio di San Sossio

risulta operato in precedenza rispetto a quello del santo patrono,

mentre nell’altra il medesimo santo è colto nel momento della deca-

pitazione, che segue quella di San Gennaro, espressa in termini di

estrema crudezza, anche per lo scorrimento del sangue sulla spada

del carnefice.29 Non è stato possibile identificare il dipinto al quale si

Luca Giordano, Martirio di San Gennaro, Londra, National Gallery

Giacomo Del Po, Martirio di San Gennaro, Napoli, Museo Duca di Martina

Nicola Malinconico, Martirio di Sant’Antimo, Sant’Antimo, Chiesa dello Spirito Santo

◆ ◆ ◆

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riferisce il De Dominici, quando cita il «bel quadro del Martirio di

san Gennaro, con la veduta al naturale della Solfatara, che possiede il

principe di Avellino»,30 mentre la seconda delle due opere ora citate

è stata messa in relazione alla tela venduta nel 1670 dal pittore a

Giuseppe Pandolfo.31

In linea di continuità con il fluido pittoricismo dello Spadaro si pone

il Martirio di San Gennaro del Giordano per la chiesa romana dello

Spirito Santo dei Napoletani (1702-1703),32 il cui bozzetto (Londra,

National Gallery), già in collezione Ruffo, 33 conferma la colloca-

zione del santo in una posizione soprelevata, alla quale corrisponde

in basso la distribuzione dei corpi decapitati dei compagni. A tale

soluzione si richiama anche il dipinto di Giacomo Del Po del Museo

Duca di Martina a Napoli, 34 dove è palese l’interscambio con le scelte

cromatiche del Peresi, nel vibrante luminismo che accompagna gli

squillanti effetti dei rossi, specie in relazione al fluire del sangue dei

martiri in primo piano.

Con tali esempi dovette confrontarsi Francesco Solimena nel formu-

lare la sua proposta iconografica per il Martirio di San Sossio, ricordato

dal De Dominici 35 e destinato alla zona centrale del soffitto della

navata della chiesa di Frattamaggiore, dedicata al santo di Miseno.

Attualmente non abbiamo la possibilità di confermare tale attribu-

zione, data la distruzione della tela a seguito dell’incendio del 1945,

che coinvolse anche gli altri dipinti del soffitto, raffiguranti la Predica

del santo (dove era presente tra gli ascoltatori anche il committente, il

parroco Tommaso Pio De Angelis) 36 e San Sossio esposto alle fiere nell’an-

fiteatro di Pozzuoli, nonché quelli del transetto (San Sossio e l’angelo,

San Sossio e la Vergine),37

assegnati all’ambito del

Giordano. Tuttavia, circa

la datazione del dipinto va

senz’altro considerato quale

◆ ◆ ◆Nicola Malinconico, Martirio di San Sossio, Frattamaggiore, Basilica

Nicola Malinconico, Martirio di San Sossio, Montecassino, Museo

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anno limite il 1703, data la richiesta espressa dai responsabili della

chiesa dello Spirito Santo di Sant’Antimo, committenti del Martirio

di Sant’Antimo a Nicola Malinconico,38 che il «quadro debbia essere in

conformità e del modo istesso che sta fatto il quadro dell’intempiatura

della parrocchiale chiesa di Frattamaggiore ed in conformità del lavoro

di quella…».39 In effetti il collegamento con la tela del Malinconico

(autore per il soffitto della medesima chiesa di Sant’Antimo di una

Incoronazione della Vergine, 1708),40 lascia subentrare il dubbio che

le tele di ambedue le chiese fossero state realizzate dal Malinconico,

dato che nel contratto non viene esplicitato il riferimento ad un

diverso autore della tela di

Frattamaggiore. Al momento,

anche se non possiamo basarci

che sulla testimonianza delle

fonti e su riproduzioni fotografi-

che antecedenti l’evento distrut-

tivo,41 dobbiamo considerare che

proprio dal confronto con le foto

riprodotte in sede locale emerge

con chiarezza che Malinconico

per la tela di Sant’Antimo operò

una sintesi tra le prime due tele che decoravano la navata della chiesa

sansossiana di Frattamaggiore. Passando pertanto all’esame del boz-

zetto del Martirio di San Sossio attualmente presente nella medesima

Basilica, che il Bologna, pur giudicando copia dal bozzetto originario,

ha posto in relazione ad una ripresa di interessi del Solimena verso

il Preti,42 maturata tra il 1701 e il 1702, dobbiamo considerare la

possibilità che si tratti di un primo abbozzo di Nicola Malinconico

per la tela centrale del soffitto. La piccola tela, che probabilmente

recupera un’idea originale del Solimena, affidata probabilmente ad

una semplice stesura grafica, lascia percepire, proprio attraverso l’im-

pronta tenebristica di supeficie, come sia la struttura, che le compo-

nenti cromatiche siano strettamente legate all’esperienza cassinese del

Solimena, impegnato alla fine del secolo, nel Martirio di San Placido

◆ ◆ ◆Giuseppe Simonelli, Martirio di San Sossio, Somma Vesuviana, Chiesa di San Sossio

Giuseppe Simonelli, Gloria di San Sossio, Somma Vesuviana, Chiesa di San Sossio

◆ ◆ ◆

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(noto attraverso il bozzetto del Museo di Budapest),43 ma anche nella

Decollazione di San Giovanni Battista, nota attraverso il disegno di

Darmstadt (Landesmuseums).44 Sebbene in abbozzo, lo schema del

dipinto consente in primo luogo di constatare una netta inversione

dei ruoli dei due santi principali dell’eccidio della Solfatara, con lo

scatto di San Sossio a protagonista nella scena della decapitazione,

dal momento che il santo di Miseno, riconoscibile dalla fiammella

sul capo, è posto al centro della scena, mentre sullo sfondo, in atto

di procedere verso il medesimo luogo, è collocato San Gennaro, in

posizione arretrata. A conferma dell’ipotesi di attribuzione dell’opera

al Malinconico interviene utilmente un bozzetto, acquisito di recente

dal Museo di Montecassino, che consente di considerare la scena nella

sua definitiva composizione,

ampliata ai lati con la figura di

un soldato con corazza dorata e

due cavalieri sulla destra, mentre

sulla sinistra sono state aggiunte due figure di anziani e un uomo

con barba, con lo sguardo rivolto verso lo spettatore, che induce a

pensare ad un autoritratto del pittore. Anche nella parte superiore

risulta l’aggiunta di due angeli tra le nubi. Attraverso tale recupero

si intende fornire un decisivo elemento di chiarificazione in merito

all’intervento che segnò la fase culminante della decorazione del sof-

fitto della chiesa di Frattamaggiore, nel momento in cui il Solimena

dovette rinunciare all’incarico per i consueti motivi conflittuali con

il più giovane artista.45

Nel medesimo Museo si conservano altre due tele, di recente acquisi-

zione, con il Martirio di San Lorenzo e il Martirio di Santo Stefano, che spet-

tano alla fine degli anni ’90 e si inseriscono nel percorso di allineamento

Gennaro Abbate, Martirio di San Gennaro, Napoli, Gesù Vecchio

Giovan Battista Lama, Martirio di San Gennaro, Vettica Maggiore, Chiesa di San Gennaro

Andrea D’Aste, Madonna con bambino tra San Gennaro e San Sossio di Serino, Chiesa del Corpo di Cristo

◆ ◆ ◆

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del Malinconico

sul tenebrismo

solimeniano.

Successivamente

anche a Giuseppe

Simonelli, allievo

del Giordano,46 venne offerta l’occasione di interpretare il tema del

Martirio di San Sossio nella tela, firmata, dell’altare maggiore della

chiesa eponima di Somma Vesuviana (consacrata nel 1712 dal car-

dinale Vincenzo Maria Orsini), dove affrescò anche, sulla lunetta del

portale d’ingresso, la Gloria del santo , anch’esso collocabile agli inizi

del Settecento, in quanto in linea con le tele realizzate per l’Annunziata

di Aversa (1702-1703). L’artista,

seguendo un processo di vertica-

lizzazione, legato ad uno schema

ascensionale, distribuisce l’e-

vento su tre piani, nei quali,

partendo dal basso, colloca in

successione il corpo decapitato di San Gennaro, cui segue la scena

della decapitazione di San Sossio, per culminare nell’angelo che regge

la palma, allineato al trono dove è posto il giudice Draconzio.

L’influenza del Simonelli si registra inoltre nella tela di un suo disce-

polo, Gennaro Abbate,47 il quale dovette essere a conoscenza della

tela del soffitto di Frattamaggiore, dal momento che nel Martirio di

San Gennaro per la cappella eponima al Gesù Vecchio carica di una

più decisa impronta chiaroscurale il volto del carnefice. In tale com-

posizione San Sossio viene posto sul margine sinistro ed è riconosci-

bile dalla fiammella che appare sul capo, nonostante la posa laterale.

Un processo di idealizzazione, connesso ad una accurata selezione

disegnativa, sigla invece la soluzione adottata da Giovan Battista

Domenico Antonio Vaccaro, Martirio di San Sossio, Napoli, Chiesa di Santa Maria di Montecalvario

Nicola Maria Rossi, San Gennaro e compagni con-dotti al martirio, Collezione privata

◆ ◆ ◆

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Lama nel suo Martirio di San Gennaro per la chiesa eponima di Vettica

Maggiore (Praiano),48 dove l’immagine di San Sossio affiora sullo

sfondo a sinistra, in lontananza, circoscritta tra la gamba del carnefice

e la custodia insanguinata della spada. La tela del Lama testimonia

la fase di passaggio dell’artista dall’ambito del Giordano, al quale si

riferiscono sia le figure sullo sfondo che la definizione del paesaggio

avvolto in densi vapori dorati, a quello del De Matteis, ricordato dal

De Dominici.49 Mentre con la tematica sansossiana venivano cimen-

tandosi molti allievi

del Solimena, da parte

degli specialisti di pit-

tura di paesaggio, agli

inizi del Settecento, si

individua un tentativo

di ripresa della lezione

seicentesca, rivolta

all’inserimento della

scena sacra in un paesag-

gio d’invenzione. Così

Gaetano Martoriello,

nella tela del Museo

di San Martino, riporta l’attenzione sulla definizione del paesaggio

sullo sfondo, riducendo a brevi pennellate la presenza figurativa del

martire decapitato e del suo seguito.

Tra i primi allievi del Solimena ad introdurre riferimenti al santo di

Miseno troviamo Andrea d’Aste, nella Madonna con Bambino tra San

Gennaro e San Sossio per la chiesa del Corpo di Cristo a San Sossio di

Serino (1704),50 realizzata nello stesso anno della tela di Santo Spirito

ad Atri e con la stessa impostazione compositiva, recuperando tra l’altro

la figura di san Gennaro

dall’esemplare solime-

nesco di Milwaukee

(Art Center). 51

Anche Nicola Maria

Rossi ebbe modo di

intervenire in merito a

tale tematica, riallac-

ciandosi in parte all’in-

terpretazione battistel-

liana, ma evidenziando i

rilievi anatomici appresi

presso l’Accademia del

◆ ◆ ◆Francesco Solimena, San Gennaro in prigione, Londra, Courtauld Institute

◆ ◆ ◆Francesco Solimena, San Gennaro in prigione, Rohrau, Collezione Harrach

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Solimena, in occasione del San Gennaro condotto al martirio per Palazzo

Gaetani a Piedimonte Matese: «dove l’episodio ‘eroico’ del martirio

del santo diventa argomento per la descrizione di un fatto di ‘cro-

naca’, malgrado il tentativo di rendere le figure dei ‘carnefici’ con

l’intensità tipica del Solimena».52 Tale opera, degli inizi degli anni

trenta, va identificata con la tela, già in asta presso Blindarte (Napoli,

11/12/2008, lotto 64), dove San Sossio, al centro della composizione,

appare compresso tra il manigoldo in atto di spingerlo e la figura

colonnare di San Gennaro, il cui sguardo è rivolto verso l’alto.

In anticipo rispetto a tale soluzione, in quanto collocabile nella

seconda metà degli anni venti, troviamo il dipinto di Santa Maria

di Montecalvario di Domenico Antonio Vaccaro,53 il quale si avvale

dell’uso dei grigi per frenare l’emergenza delle tinte, nel momento

in cui delinea una netta contrapposizione tra il corpo decapitato di

San Sossio, disteso in primo piano e quello di San Gennaro in piedi,

che il carnefice aiuta a liberarsi degli abiti più solenni, secondo modi

e ritmi che richiamano il teatro metastasiano.

Un ritorno alla tematica sansossiana da parte del Solimena è evidente

anche nella scena, oggi a Rohrau, commissionatagli da Aloys Thomas

Harrach,viceré di Napoli dal 1728: «Per questo viceré fece in tela di

4 e 5 palmi un San Gennaro nella prigione, visitato da’ santi Proculo

e Sossio martiri che gli bacian la mano».54 San Sossio è riconoscibile

alle spalle del santo, in quanto su di lui un angelo solleva la fiamma

identificativa. Del dipinto, che risulta inviato da Napoli a Vienna

nel 1731,55 e il cui schema venne riutilizzato per il frontespizio del

volume del padre carmelitano Girolamo Maria di Sant’Anna, Istoria

della vita, virtù e miracoli di San Gennaro (1733),56 è stato reso noto

un disegno (Londra, Courtauld Institute Galleries, Witt Collection),

che testimonia una delle fasi di elaborazione del progetto grafico.57

Va osservato che in tale contesto, diversamente da quanto accade nel

dipinto, la figura di San Gennaro è rappresentata in piedi, mentre

impugna il pastorale con la sinistra e offre la destra alla devozione di

due soli santi, in assenza delle belve, che compariranno in un secondo

momento, per richiamare l’attenzione sull’ambiente descritto, relativo

all’anfiteatro. La fiamma sollevata in

alto, pertanto, appare sul capo del

giovane santo inginocchiato.

Successivamente gli interventi di

Francesco De Mura in merito alla

specifica iconografia di San Sossio

possono essere circoscritti a due

importanti momenti della sua pro-

duzione pittorica. Il primo è rela-

tivo alla fase di decorazione della

chiesa benedettina dei Santi Severino

◆ ◆ ◆Francesco De Mura, San Sossio in gloria, Napoli, Pio Monte della Misericordia

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e Sossio (1740), e in particolare agli affreschi della controfacciata:

«Allato al finestrone vi sono le figure di san Sossio e san Severino,

dipinte ne’ spicoli laterali…».58 Questa preziosa informazione ha

permesso di collegare a tale esito il bozzetto del Pio Monte della

Misericordia, con la Gloria di San Sossio,59 che non ha trovato adeguata

identificazione nel Causa,60 né giusta collocazione cronologica nello

Spinosa,61 che lo ha messo in relazione al più tardo ciclo di trenta tele

con papi benedettini, presente nella medesima chiesa. Attraverso tale

raffigurazione il santo di Miseno, con la fiamma sul capo (in ricordo

della visione avuta da San Gennaro) riacquista la sua autonomia dal

contesto gennariano, sulla scorta di quanto già avvenuto, ad opera del

Simonelli, sulla facciata della chiesa eponima di Somma Vesuviana.

Il secondo intervento si riferisce alla tela (distrutta), eseguita nel

1758 per l’altare maggiore del Santuario di Frattamaggiore,62 dove il

santo era presente, insieme a Santa Giuliana, ai piedi della Madonna

con Bambino, in una composizione che trova adeguato parallelo in

quella realizzata nello stesso anno per la cappella napoletana del

Palazzo del Monte Manso di Scala, che seguì alla decorazione della

cappella dell’Assunta per la Certosa di San Martino (1757). Alla

realizzazione del citato dipinto, rivolto alla celebrazione dei santi

patroni di Fratta, fa riferimento un documento di pagamento del

30 ottobre 1759 al falegname Giuseppe Iaconangelo, per «un telaro

di legname di pioppo per il quadro di palmi sedici per sedici, for-

mato nella chiesa parrocchiale di detto casale di Fratta Maggiore da

Francesco De Mura» (Archivio Storico Banco di Napoli, Banco del

Popolo, giorn. cassa matr. 1542, p. 572).63

In una fase immediatamente successivavenne realizzata anche un’al-

tra tela del De Mura, raffigurante la Trinità, anch’essa perduta, che

sormontava il suddetto dipinto. Il bozzetto va senz’altro identificato

con la tela presente nei depositi di Palazzo Barberini a Roma, in

quantosul retro vi è indicato «Macchia di un quadro sopra l’altare

maggiore della parrocchiale chiesa di Frattamaggiore. Francesco de

Mura P. Marzo An. 1763».64 Il tenero impasto che interviene nella

definizione delle pur limitate presenze all’interno della composizione,

Francesco De Mura, Trinità, Roma, Palazzo Barberini

◆ ◆ ◆

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conferma la continuità del suo metro operativo, spinto ad accogliere

le più moderne proposte di ambito europeo e a conciliarle con le

esperienze giovanili, al fine di neutralizzare definitivamente la com-

ponente chiaroscurale. La tela si viene a collocare negli anni in cui il

pittore intese riprendere i rapporti con la corte dei Savoia e in par-

ticolare con Carlo Emanuele III, da cui scaturì la commissione delle

otto tele allegoriche per Palazzo Chiablese a Torino.65

In conclusione ritengo che questa breve sintesi iconografica abbia

permesso di recuperare la continuità di una presenza significa-

tiva, ma a lungo passata sotto silenzio per dare maggiore risalto al

patrono napoletano, peraltro investito in maniera crescente di ruoli

primari sia in ambito miracolistico, che in eventi promossi in difesa

del popolo napoletano.

NOTE

Il presente lavoro, che ha inteso dare una prima sistemazione critica al percorso dell’iconografia di San Sossio professori Francesco Abbate, Donato Salvatore, Almerinda Di Benedetto), organizzata per conto della negli anni della mag-giore affermazione della pittura napole-tana in età moderna, è stato sviluppato a seguito della partecipazione alla seconda giornata di studi dell’evento Dalla croce al martirio: la testimonianza del diacono

Sossio, tenutasi presso la Sala consiliare del Comune di Frattamaggiore il 7 mag-gio 2013 (alla quale hanno partecipato il vescovo di Aversa Angelo Spinillo e i Parrocchia di San Sossio dal dott. Antonello Ricco, che ha curato anche i volumi: Il Museo Sansossiano e la sua città. Guida breve, Frattamaggiore, 2013; Museo Sansossiano. Frattamaggiore, Napoli, 2013.

1 Cfr. R. Lattuada, Il Barocco a Napoli e in Campania, Società Editrice Napoletana, Napoli 1988; S. Causa, La strategia dell’attenzione. Pittori a Napoli nel primo Seicento, Dante & Descartes, Napoli 2007.

2 G.B. D’addosio, Documenti inediti di artisti napoletani del xvi e xvii secolo, in “Archivio Storico per le Province Napoletane”, 1918, p. 154.

3 G. Rispoli, A proposito dello “Sgozzamento” del Battista di Malta, in Caravaggio tra arte e scienza, a cura di V. Pacelli, G. Forgione, Paparo, Napoli 2012, pp. 49-55.

4 B. De Dominici, Vite de’ pittori, scul-tori ed architetti napoletani, Ricciardi, Napoli 1742-1745, iii, p. 471.

5 V. Pacelli, L’iconografia di S. Gennaro dalle origini al Settecento, in “Campania Sacra”, 1989, 20, pp. 401-475.

6 P. Leone De Castris, San Gennaro e l’arte napoletana, in San Gennaro tra Fede, Arte e Mito, catalogo della mostra (Napoli, dicembre 1997- aprile 1998), a cura di P. Leone De Castris, de Rosa, Napoli 1997, pp. 49-91.

7 P. Leone de castris, San Gennaro…, pp. 172-173.

8 Cfr. G. Porzio, Pittura e devozione nella Napoli del Seicento. Ricerche su Giuseppe Piscopo, in Ricerche sull’arte a Napoli in età moderna, Arte’m, Napoli 2013, p. 102.

9 W. Prohaska, in Micco Spadaro. Napoli ai tempi di Masaniello, catalogo della mostra (Napoli, 20 aprile - 30 giugno 2002), Electa Napoli, Napoli 2002, p. 174.

10 G. C. Capaccio, Il Forastiero, Roncagliolo, Napoli 1634, pp. 863-864, cfr. anche R. Ruotolo, Mercanti-Collezionisti fiamminghi a Napoli. Gaspare Roomer e i Vandeneynden, Scarpati, Massa Lubrense 1982, pp. 5-12.

11 R. Lattuada, Artemisia a Napoli, Napoli e Artemisia, in Orazio e Artemisia Gentileschi, catalogo della mostra (Roma, 20 ottobre 2001 - 20 gennaio 2002) a cura di K. Christiansen, J. W. Mann, Skira, Milano 2001, p. 380.

12 N. Barbone Pugliese, in Paolo Finoglio e il suo tempo, catalogo della mostra (Conversano, 18 aprile - 30 set-tembre 2000), Electa Napoli, Napoli 2000, p. 173.

13 F. Abbate, Storia dell’arte nell’Ita-lia meridionale. Il secolo d’oro, Donzelli, Roma 2002, p. 77.

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14 N. Spinosa, La pittura napoletana del ‘600, Longanesi, Milano 1984, tav. 42; L. Ambrosio, in Micco Spadaro…, p. 172.

15 N. Spinosa, Pittura del Seicento a Napoli: da Caravaggio a Massimo Stanzione, Arte’m, Napoli 2010, p. 202-278.

16 M. D’Elia, in Mostra d’Arte in Puglia dal Tardoantico al Rococò, catalogo della mostra (Bari, dicembre 1964), Roma 1964, p. 148.

17 V. Pacelli, L’iconografia di S. Gennaro..., p. 415, fig. 25.

18 B. De Dominici, Vite…, iii, p. 74. Nell’edizione a cura di F. Sricchia Santoro, A. Zezza, viene indicato da V. Farina (I, p. 132) il testo di riferimento (Academia nobilissimae Artis Pictoriae, 1683, cxxi, p. 191): «Inter alia autem tabulam quandam pinxit multis imaginibus refartam, in qua decollationem Januarii neapolita-nor. Patroni magna cum laude exhibuit. Quod opus Neapoli ad huc apud Gasparum Romerum mercato rem Belgam in palatio ejus magnifico, cum aliis arti-ficis hujus operi bus spectare licet».

19 Cfr. F. Bologna, in Battistello Caracciolo e il primo naturalismo a Napoli, catalogo della mostra (Napoli, 9 novembre - 19 gennaio 1992), Electa Napoli, Napoli 1991, pp. 155, 158, 314-315; nonché G. Sestieri, B. Daprà, Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro paesaggista e ‘cronista’ napoletano, JandiSapi, Milano-Roma 1994, p. 170; B. Daprà, in San Gennaro tra Fede, Arte e Mito..., p. 148; N. Spinosa, Pittura del Seicento..., p. 244. Cfr. inoltre S. Causa, Battistello Caracciolo. L’opera completa, Electa Napoli, Napoli 2000.

20 B. Daprà, San Gennaro tra Fede, Arte e Mito…, pp. 152-153.

21 V. Pacelli, Pittura del ‘600 nelle collezioni napoletane, Grimaldi, Napoli 2001, p. 94, fig. 146; P. Leone De Castris, San Gennaro…, p. 71, fig. 46.

22 Ibid., pp. 71-72.

23 Ibid., p. 71; N. Spinosa, Pittura del Seicento…, pp. 202-276.

24 M.R. Nappi, François De Nomé e Didier Barra, Jandi-Sapi, Milano-Roma 1991, pp. 96-101.

25 Ibid., p. 119/A58.

26 Ibid., p. 147/A77.

27 Ibid., pp. 159-160/A83.

28 Cfr. B. Daprà, in Micco Spadaro…, p. 139.

29 B. Daprà, in San Gennaro…, pp. 150-151.

30 B. De Dominici, Vite…, iii, p. 199.

31 Cfr. B. Daprà, in Micco Spadaro…, pp. 169-170.

32 Cfr. O. Ferrari, G. Scavizzi, Luca Giordano, Electa Napoli, Napoli 1992, I, p. 357/A702.

33 Cfr. G. Wiedmann, Luca Giordano e Tommaso Ruffo a Roma, in “Ricerche sul ‘600 napoletano”, 1991, pp. 263-269.

34 F. Petrelli, Giacomo del Po, Decollazione di San Gennaro, in San Gennaro…, p. 154.

35 B. De Dominici, Vite…, iii, p. 593.

36 Cfr. P. Ferro, Frattamaggiore Sacra, Tip. Cirillo, Frattamaggiore 1974, p. 134: dove viene ripresa la memoria ottocentesca di F. Ferro, contenuta nel mano-scritto conservato presso la Biblioteca dell’Istituto di Studi Atellani.

37 Cfr. D. Marchese, Guida al complesso basilicale di San Sossio levita e martire, in Museo Sansossiano. Frattamaggiore, Di Mauro, Sorrento 2013, p. 39.

38 Cfr. C. Di Giuseppe, Nicola Malinconico a Sant’Antimo, in “Rassegna storica dei Comuni”, 2008, n. 150-151, pp. 66-70.

39 Cfr. A. Ricco, In deposito dal territorio: note sulla movimentazione delle opere d’arte in parrochia, in Museo Sansossiano…, p. 94: dove viene fatto riferimento al contratto stipulato in data 24 gennaio 1703 dal notaio G.M. Di Donato (Archivio di Stato di Napoli, Fondo Notai del ‘600, scheda 671/ix, c. 5r).

40 Cfr. M.A. Pavone, Pittori napoletani del ‘700. Nuovi documenti, Liguori, Napoli 1994, pp. 21, 76-77 (Appendice documentaria di U. Fiore).

41 Cfr. F. Pezzella, Note d’archivio sul perduto patrimo-nio artistico della chiesa di San Sossio di Frattamaggiore in seguito all’incendio del 1945, in “Rassegna storica dei Comuni”, 2003, n. 118-119, pp. 73-74, dove è riportato il commento espresso da O. Ferrari in occasione della schedatura dell’opera da parte della Soprintendenza: «Il colore vivace e impastato, il modellato risentito, l’impostazione tradizionale delle figure e le caratteristiche tiponomie fanno ritenere

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quest’opera di stretta orbita solimenesca, nei primi decenni del sec. xviii. Un’inconsueta fluidità composi-tiva e, soprattutto la non alta qualità, non permettono di attribuire il dipinto al Maestro stesso».

42 Cfr. F. Bologna, Francesco Solimena, L’Arte Tipografica, Napoli 1958, p. 285.

43 Cfr. M.A. Pavone, Pittori napoletani del primo Settecento. Fonti e documenti, Liguori, Napoli 1997, pp. 22-24.

44 J. Simane, Neapolitanische Barockzeichnungen in der Graphischen Sammlungdes Hessischen Landesmuseums Darmstadt, catalogo della mostra (Darmstadt, 18 dicembre 1994 - 19 febbraio 1995), Landesmuseums Darmstadt, Darmstadt 1994, pp. 97-98.

45 Cfr. M.A. Pavone, Pittori napoletani…, 1997, pp. 112-121.

46 Ibid., pp. 103-108.

47 Ibid., pp. 108-109.

48 M.A. Pavone, Presenze napoletane tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, in La Costa di Amalfi nel secolo xvii, atti del convegno di studi (Amalfi, 1-4 aprile 1998), Centro di cultura e storia amalfitana, Amalfi 2003, p. 346, fig. 27.

49 Cfr. B. De Dominici, Vite…, iii, p. 451; nonché M.A. Pavone, Pittori napoletani…, 1997, pp. 212-214.

50 Cfr. M.A. Pavone, Riconsiderando Andrea d’Aste, in “Prospettiva”, 40, 1985, p. 38; S. Carotenuto, Pittori napoletani del Sei e Settecento nel territorio di Serino, Paparo, Napoli 2008, pp. 115-116.

51 Cfr. N. Spinosa, Pittura napoletana del Settecento. Dal Barocco all’Arcadia, Electa Napoli, Napoli 1986, p. 106.

52 Cfr. C. Siracusano, Nicola Maria Rossi e la cultura artistica napoletana del primo Settecento, in “Quaderni dell’Istituto di Storia dell’arte medievale e moderna della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Messina”, 4, 1980, pp. 51-52: «Nello stesso arco di tempo intorno al ’32 il Rossi è impegnato in una serie di importanti commissioni per varie chiese e per il palazzo Gaetani, a Piedimonte d’Alife […]. Si tratta […] di altre cinque tele aventi per soggetto La decollazione di S. Gennaro, un’altra Natività, un S. Francesco di Paola, La decollazione di S. Marcellino e infine un Arcangelo, tutte facenti parte della collezione del marchese Gaetani». In proposito si veda inoltre: R. Marocco, Memorie storiche di Piedimonte d’Alife, La Bodoniana, Piedimonte d’Alife 1926, p. 202; A. Barbiero, Arte e Storia nel Palazzo Ducale di Piedimonte d’Alife, Banca Capasso Antonio, Piedimonte Matese 2000, pp. 40-44.

53 Cfr. N. Spinosa, in Settecento napoletano. Sulle ali dell’aquila imperiale 1707-1734, catalogo della mostra (Vienna, 10 dicembre 1993 - 20 febbraio 1994 – Napoli, 19 marzo - 24 luglio 1994), Electa Napoli, Napoli 1994, pp. 284-285.

54 B. De Dominici, Vite…, iii, p. 603.

55 Cfr. H. Benedikt, Das Königreich Neapel unter Kaiser Karl VI. Eine Darstellung auf Grund bisher unbekannter Dokumente aus den österreichischen Archiven, Manz, Wien-Leipzig 1927, p. 614.

56 Cfr. W. Prohaska, in Settecento napoletano…, pp. 270-271.

57 Cfr. R. Muzii, in Settecento napoletano…, p. 341.

58 B. De Dominici, Vite…, iii, p. 699.

59 Cfr. G. D’Alessio, Francesco De Mura pittore napo-letano, Università degli Studi di Napoli, Facoltà di Lettere e Filosofia, tesi di laurea, relatore Giovanni Previtali, a.a. 1986-87, pp. 197, 239.

60 R. Causa, Opere d’arte nel Pio Monte della Misericordia, Di Mauro, Cava de’ Tirreni 1970, pp. 112-113; cfr. inoltre L. Gazzara, Note e documenti inediti per lo stu-dio delle collezioni della Quadreria del Pio Monte della Misericordia, in “Napoli Nobilissima”, maggio-giugno 2008, p. 175, n. 138.

61 N. Spinosa, Pittura napoletana del Settecento…, p. 160.

62 Cfr. S. Capasso, Frattamaggiore. Storia, chiese e monu-menti, uomini illustri, documenti, Studio di propaganda edi-toriale, Napoli 1944, pp. 149-150, nonché F. Pezzella, Note d’archivio…, p. 74; D. Marchese, Museo Sansossiano Frattamaggiore, Di Mauro, Sorrento 2013, p. 39.

63 G. D’Alessio, Francesco De Mura…, p. 329.

64 Ibid., pp. 329-330.

65 G. D’Alessio, Nuove osservazioni sulle committenze reali per Francesco De Mura tra Napoli, Torino e Madrid, in “Prospettiva”, 69, 1993, pp. 78-80.

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Archeologia e simboli della “romanitas” nella pubblicistica e nella grafica fascista:

il caso de “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” (1923 -1943)

Priscilla Manfren

Ancora una Rivista? Sì ancora una Rivista bella, ricca, varia, armo-nica che rappresenti un tentativo di convogliare lo spirito nostro inquieto verso le forme pure e serene della bellezza. Dalla fucina ardente del “Popolo d’Italia” tutti i tentativi editoriali sono stati coronati dal successo più lusin-ghiero. Quel peccato magnifico che è l’orgoglio ci fa presentire che anche in questo campo saremo all’altezza del nuovo compito.1

Così Arnaldo Mussolini 2 presenta, in una lettera manoscritta ripro-

dotta nella prima pagina del primo numero della rivista, l’ultima

creazione editoriale della giovane, ma già forte, stampa fascista.

La “Rivista Illustrata” nasce come allegato de “Il Popolo d’Ita-

lia”, importante quotidiano politico italiano fondato nel 1914 da

Benito Mussolini; a tale giornale collabora, sin dai primordi, Manlio

Morgagni,3 a cui viene affidata la direzione amministrativa; nel 1919

l’incarico passa ad Arnaldo Mussolini, mentre Morgagni si dedica

alla raccolta pubblicitaria. Dal 1922, quando Benito Mussolini

diviene Presidente del Consiglio, il fratello Arnaldo eredita la dire-

zione del quotidiano che, da quel momento, diviene il principale

organo comunicativo del Partito Nazionale Fascista. Fra il 1923 e

il 1927 Arnaldo Mussolini si dedica, pur continuando a dirigere

“Il Popolo d’Italia”, all’attività di giornalista e a varie iniziative

editoriali, tra le quali spicca, per l’appunto, “La Rivista Illustrata

del Popolo d’Italia”,4 che egli fonda in collaborazione con lo stesso

Manlio Morgagni.

La testata viene da subito presentata come una «rivista di vita»,5

eclettica e pensata per dare al popolo italiano «coscienza di quello

che esso vale e di quello che esso è, in casa, fuori di casa, davanti

alla sua passata civiltà e davanti alla civiltà delle altre genti»;6 essa

dovrà presentare «valori reali e sostanziali, studiati e colti nei campi,

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numero 10 - dicembre 2014

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nelle officine, sul mare,

nelle arene dello sport, nei

laboratori della scienza,

nelle più alte sfere dello

spirito libero e creatore»;7

tale compito, sottolinea

Manlio Morgagni, sarà

affidato a studiosi compe-

tenti nelle varie materie

che, attraverso le singole

rubriche, permetteranno

alla rivista di essere «il

quadro fedele e la voce

vittoriosa»8 dell’epoca fascista, definita «storico e magnifico tempo

del rinnovamento nazionale».9

Fonti e strumenti indispensabili, al fine di mettere in evidenza e

restituire ai lettori un’immagine della vita nazionale e dell’epoca

contemporanea, sono le numerose fotografie che, viene detto, saranno

assai presenti nella testata, rivelandosi così «documenti di inconfu-

tabile realtà».10 L’illustrazione svolge parimenti un ruolo importante

nella rivista, che già dalla copertina, spesso realizzata da nomi cono-

sciuti del panorama artistico italiano, lascia intravedere il rilievo e

l’ufficialità della testata.11 L’importanza data alla veste grafica collima

con la volontà della direzione di creare una rivista «sontuosa nella

forma»12 in quanto, sottolinea Morgagni, lo spirito nuovo del fasci-

smo è «spirito altamente artistico, produttivo».13 Le illustrazioni,

come si evince dal nome della rivista che rimarca il fatto che essa sia,

per l’appunto, illustrata, svolgono dunque un ruolo di assoluta centra-

lità, presentandosi come

accattivante e fascinoso

strumento di propaganda,

capace di una comunica-

zione forte e immediata

nei riguardi dei lettori

italiani visto che, come

dice lo stesso direttore

Morgagni, «la bellezza è

una delle leggi morali più

capace di essere intesa dal

popolo nostro».14

Mario Sironi, La Marcia su Roma, tavola, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. II, n. 10, ottobre 1924, tra p. 8 e p. 9.

◆ ◆ ◆

◆ ◆ ◆Fortunato Depero, copertina, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. II, n. 7, luglio 1924

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Il periodico si presenta dunque come un poliedrico specchio della

vita contemporanea, inoltre, sin dal primo numero, la sua imposta-

zione eclettica è ben evidente; le prime pagine sono spesso dedicate

alla politica contemporanea e ai suoi protagonisti: qui vengono ana-

lizzate, con toni spesso retorici, le problematiche nazionali e inter-

nazionali. Vari corrispondenti dall’estero contribuiscono alla rivista

con articoli relativi ai loro viaggi, firmando pezzi di stampo tal-

volta artistico, talvolta paesaggistico, talaltra etnico-culturale. La

testata dedica poi alcune pagine al teatro, al cinema e ai loro artisti,

riportando le ultime novità sia italiane che internazionali; un certo

rilievo, sin dal primo numero,

viene poi concesso alla moda,

da subito utilizzata in chiave

nazionalistica e poi autarchica.15

Il periodico si occupa anche di

sport, con pezzi spesso caratte-

rizzati da quell’enfasi tipica del periodo inneggiante alla prestanza

fisica e ad una regolare attività ginnica. Numerose sono poi le pagine

culturali: un’apposita rubrica presenta le novità letterarie del mese,

fornendo un breve riassunto corredato dall’immagine della copertina

delle opere; spesso sono presenti pagine dedicate a letterati e perso-

naggi di rilievo del panorama culturale nazionale e non solo. La rivi-

sta dà poi voce alla letteratura e alla novellistica contemporanea ospi-

tando in ogni numero, salvo rarissime eccezioni, un racconto breve:16

quest’ultimo è illustrato, il più delle volte, da Mario Sironi 17 che, sin

dai primordi della testata, si presta al ruolo di disegnatore, divenendo

Mario Sironi, copertina, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. VIII, n. 6, giugno 1930

Damiano Damiani, L’Italia di Mussolini, tavola, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. IV, n. 11, novembre 1926, p. 18

Damiano Damiani, La Marina d’Italia nel mondo, tavola, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. V, n. 10, ottobre 1927, p. 8

◆ ◆ ◆

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27

una delle firme più pre-

senti all’interno della rivi-

sta, non solo come grafico,

ma anche come autore di

alcuni interessanti articoli

di argomento artistico.18

Nel campo specificamente

artistico è da sottoline-

are che gli scritti presenti

nella rivista abbracciano

un arco cronologico ampio, spaziando dall’antico al contempora-

neo. Ai recenti sviluppi dell’arte, intesa in tutte le sue manife-

stazioni, viene dato ampio rilievo: si ritrovano articoli su mostre

italiane ed estere,19 sul gruppo Novecento ed i suoi componenti,20

mentre pezzi su Biennali,21 Triennali,22 e Quadriennali,23 danno una

visione d’insieme del panorama artistico presente in Italia durante

il Ventennio; a questi si aggiungono poi alcuni scritti monogra-

fici dedicati a importanti artisti della scena nazionale quali, ad

esempio, Felice Casorati,24 Carlo Carrà,25 Fortunato Depero,26 non

tralasciando poi di ricordare alcuni tra i più importanti esponenti

della recente arte italiana, prematuramente scomparsi, quali i

futuristi Antonio Sant’Elia 27 e Umberto Boccioni.28 La rivista, che

con l’aumentare delle avvisaglie dell’imminente guerra dà mag-

gior risalto alle tematiche utili alla propaganda in vista del con-

flitto, concede spazio anche agli eventi e alle opere degli artisti più

mediocri, ma funzionali alla retorica di regime e stilisticamente

in linea con essa quali, ad esempio, le manifestazioni del Premio

Cremona 29 o le sculture di Ferruccio Vecchi.30

Se da un lato la testata pare essere rivolta all’apprezzamento degli

autori contemporanei, rappresentativi di quel nuovo stile italiano in

bilico tra dinamica modernità e ricordi solenni del passato, dall’al-

tro essa pubblica articoli, di lunghezza assai variabile, riguardanti

artisti di stampo tradizionalistico e, in sostanza, rappresentanti di

un’arte di matrice tardo ottocentesca; a titolo esemplificativo si

vedano i testi relativi ai pittori Mosè Bianchi,31 Angelo Dall’Oca

Bianca,32 Lino Selvatico,33 Emilio Gola,34 Antonio Mancini,35

Silvestro Lega e i macchiaioli,36 Giuseppe Casciaro 37 ed Emilio

Longoni.38 Particolare rilievo assumono poi gli scritti dedicati all’o-

pera dei grandi italiani del passato, apprezzati perché fonti di glo-

ria e d’ispirazione per il presente: a tale proposito sono rappresen-

tativi i testi su Antelami,39 Nicola e Giovanni Pisano,40 Masaccio,41

Beato Angelico,42 Melozzo da Forlì,43 Perugino,44 Mantegna,45

Correggio,46 Parmigianino.47 Venezia, come di consueto, offre

Damiano Damiani, La porta, il chia-vistello e… l’invidia, tavola, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Ita-lia”, a. VII, n. 3, marzo 1929, p. 12

◆ ◆ ◆

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molteplici occasioni per volgere lo sguardo al passato, come ad esem-

pio nel caso della mostra del Settecento italiano,48 l’inaugurazione

del nuovo museo del Settecento veneziano a Palazzo Rezzonico,49 i

tesori artistici di Palazzo Ducale,50 la mostra del Tintoretto.51

Altro tema, che scaturisce in parte da ragioni politiche e in parte da

ragioni artistiche, è poi quello del Vicino Oriente. L’attenzione posta,

in particolar modo, nei riguardi della penisola anatolica è documen-

tata da una serie di testi, molti dei quali firmati dalla sigla S. B.,

che intrecciano indagini

su reminiscenze bizan-

tine col recente passato

del sultanato ottomano,

giungendo alla modernità

della nuova Repubblica

Turca osservata, per certi

versi con interesse, dal

regime fascista.

Per quanto concerne

invece i testi dedicati

all’arte antica, si nota

come la loro presenza sia direttamente connessa alla politica di pro-

paganda del regime che, incentrata su una rinnovata visione roma-

nocentrica, va di pari passo con l’incremento degli studi e degli scavi

archeologici, mirando a promuovere un’immagine di nuova Italia

fascista quale rediviva incarnazione dell’antico impero romano;52 ciò

avviene in parallelo alla crescente attenzione riservata dal regime ai

possedimenti coloniali e, a maggior ragione, in seguito alla proclama-

zione dell’Impero nel 1936. Molteplici sono gli elementi culturali che

determinano e favoriscono

nella sua ascesa la visione

politica fascista, ma certa-

mente il più rilevante tra

essi è quello della ripresa

dell’antico, considerato

soprattutto nella sua acce-

zione latina. Gli ideali di

forza e potenza imperiale

della Roma caput mundi

vengono utilizzati dal

regime in molti campi

◆ ◆ ◆Enzo Bifoli, copertina, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. X, n. 4, aprile 1932

◆ ◆ ◆Enzo Bifoli, copertina, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. X, n.

11, novembre 1931

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della vita italiana. Sul fronte politico tale strumentalizzazione della

romanità ha, inizialmente, un duplice scopo: a livello nazionale

essa mira ad un accrescimento dell’unità spirituale e dell’orgoglio

popolare, inneggiando alla comune nobiltà di stirpe degli abitanti

di tutte le regioni italiane; in campo internazionale, invece, essa ha

il fine di ottenere un miglioramento dell’immagine e del prestigio

della nazione, la quale si presenta come rinata custode della missione

pacificatrice che un tempo era stata di Roma. In un secondo momento,

una volta consolidata la situazione politico-economica interna, scossa

in parte dalla crisi del ‘29, il

culto della romanità, nella

sua più spiccata tradizione

imperiale, viene accentuato,

e gli antichi ideali della

Roma augustea vengono

riproposti come motivo e

giustificazione per intrapren-

dere una politica espansio-

nistica militare. Il regime,

in netto antagonismo con

Francia e Inghilterra nella

corsa ai domini d’oltremare,

mistifica l’aggressività del

proprio operato nell’ambito

delle vicende belliche su suolo

etiope, adducendo il pretesto

di una politica di civilizza-

zione delle popolazioni afri-

cane; in tal senso il colonia-

lismo italiano sosteneva di

differenziarsi da quello delle

altre nazioni europee, le quali, a detta del regime, avevano perse-

guito una politica per lo più orientata allo sfruttamento delle risorse

e dei territori conquistati. Mussolini, che nella sua imitatio Augusti

si riallaccia idealmente alla politica della Roma imperiale, cerca di

presentare l’Italia come futura guida dell’Europa e realizzatrice di

una rinnovata pax romana nel Mare nostrum.53

Ciò premesso, è facile comprendere quale importante ruolo assu-

mano, nell’ambito della propaganda di regime, gli studi a carat-

tere archeologico dedicati all’arte antica; essi hanno come scopo

Enzo Bifoli, Dopo la vittoria il lavoro, tavola, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XIV, n. 6, giugno 1936, p. 7

◆ ◆ ◆

◆ ◆ ◆Damiano Damiani, Hic manebimus optime, tavola, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Ita-lia”, a. XIV, n. 5, maggio 1936, p. 11

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principale, attraverso la rivalorizzazione o la

vera e propria scoperta di resti archeologici

romani, di testimoniare l’onnipresenza della

matrice latina sia nel passato artistico delle

varie regioni italiane che, più in generale,

in alcune aree del continente europeo e del

bacino mediterraneo.54. Per il settore di studi

dedicato alle terre d’oltremare e alle colonie

la questione viene gestita seguendo due fili

conduttori che corrono paralleli: da un lato

si punta sull’esaltazione del periodo romano

dell’area considerata, dall’altro si opera una

svalutazione e una risemantizzazione nega-

tiva di quanto compiuto dalle dominazioni

successive. Gli scavi archeologici e gli studi

ad essi correlati, essendo fondamentale per la

propaganda supportare il mito della Roma

imperiale con prove oggettive e rinveni-

menti, continuano sia nel periodo immedia-

tamente precedente alla guerra che durante

il conflitto; anche nel caso in cui le scoperte

siano frammentarie, ad esse viene comun-

que data rilevanza in quanto fenomeni tan-

gibili dell’antica unità europea facente capo

all’Urbs.55

“La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”

propone la tematica della romanità, e quella

dell’archeologia ad essa correlata, a livello

macroscopico, operando sinergicamente su

due diversi piani: se per quanto riguarda

i testi essa presenta, come si è detto,

◆ ◆ ◆Guido Marussig, copertina, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. I, n. 3, novembre-dicembre 1923

Guido Marussig, copertina, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. II, n. 5, maggio 1924

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teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica

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numerosi scritti di

argomento stori-

co-archeologico,56

anche dal punto di

vista illustrativo la

testata propone, in

più occasioni, coper-

tine e tavole ispirate

a simbologie e icone

tratte dall’antichità

imperiale.

Dall’osservazione del

corpus di articoli, e

da una loro suddivisione secondo un criterio geografico, si possono

evidenziare le seguenti aree di interesse: per il nord della penisola,

a parte alcune notizie relative all’area lombarda,57 risulta evidente

un certo interesse per importanti centri antichi dell’area e del lito-

rale veneto, friulano e istriano,58 con estensione a città adriatiche

della costa e dell’entroterra di Dalmazia,59 Albania,60 e Grecia;61

particolare risalto viene poi dato alle scoperte avvenute nella zona

emiliano-romagnola, patria natale del duce, dalla quale talvolta ci

si spinge sino ad arrivare in aree toscane e marchigiane, non dimen-

ticando tra l’altro di fare accenni all’arte etrusca, considerata come

parte del bagaglio artistico della latinità;62 un argomento a sé è poi

da considerarsi la città di Roma con i suoi dintorni;63 infine, a rap-

presentare il sud Italia vengono deputati alcuni importanti siti cam-

pani e siciliani.64

La «grande poesia della monumentalità»65 delle vestigia romane

presenti nel Mare nostrum e in certe zone del Vicino Oriente diventa,

nelle mani del regime, uno strumento politico a doppio uso: tali evi-

denze archeologiche, in primo luogo, sono esibite come prove indi-

scutibili dell’antica presenza romana in un’area, al fine di motivarne

e consolidarne lo status di colonia all’interno del Regno d’Italia e,

successivamente, dell’Impero; in secondo luogo, esse vengono uti-

lizzate come indizi per giustificare eventuali mire e interessi espan-

sionistici in fieri o ancora da attuarsi. Così per esempio, a proposito

di Gerasch, in Giordania, si ricorda il suo ruolo di «scoglio di antica

ed illustre romanità nella desolata marea dell’Islam»;66 Baalbeck

o Heliopolis nell’odierno Libano, divenuta colonia di Roma nel I

secolo, viene esaltata per l’imponente eppure elegante insieme di

architetture dell’acropoli romana, definita «grandiosa, solenne,

sconcertante».67 Ciarlantini, sempre parlando dell’area dell’antica

Siria romana, scrive:

Guido Marussig, copertina, “La Rivista Illustrata del Popolo d’I-talia”, a. II, n. 10, ottobre 1924

◆ ◆ ◆

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Ancora una volta, di fronte a questi documenti del nostro passato impe-riale, si deve constatare che dovunque Roma si piazzava con le sue legioni e le sue leggi, solidificava nell’architettura i suoi caratteri, che sono quelli del comando, caratterizzati da una espressione di forza e di decisione. Ben di rado Roma è venuta a patti con l’atmosfera locale, o con la storia, o con i gusti preesistenti nel paese dove portava le insegne […], dovunque si scorgano rovine di Roma, splende la grande poesia della monumentalità. Quel senso cioè della grandezza, che rende l’edi-ficio superbo, tramite quasi tra la terra e il cielo. L’amore della materia si nobilita nella grandiosità delle linee, si esalta nella solidità e impo-nenza della costruzione. Si penserebbe, a Baalbeck e a Palmyra e nelle altre località dell’Asia Minore, che Roma si fosse posto il compito di affermare la sua potenza nei confronti di altri grandi paesi dell’Oriente e dell’Africa, e specie dell’Egitto. Ecco perché alcune sue costruzioni sono forse più maestose di quelle che si trovano in Italia.68

Numerosi articoli vengono dedicati, come si è anticipato, all’ar-

cheologia nelle colonie italiane della sponda mediterranea dell’A-

frica. Cirene ed i suoi scavi sono oggetto di due brevi scritti,69

nei quali toni retoricamente altisonanti, volti a esaltare l’operato

della Roma antica e del fascismo, si alternano a frasi in cui traspare

un certo sdegno razzista nei confronti delle popolazioni indigene;

tra queste ultime bisogna probabilmente ricercare gli «specula-

tori orientali» che «alienarono ignominiosamente opere rare, per-

mettendo ad incettatori dei resti della bellezza antica, di frugare

le viscere provvide di questa terra romana»;70 l’autore inoltre, per

sottolineare la pochezza di tali popolazioni in confronto alla gran-

dezza dell’Impero e delle sue vestigia, sottolinea come esse «col

loro brulicare cencioso»71 non rovinino comunque la bellezza del

luogo, pur essendo tali indigeni dei «parassiti del passato», che

«abitano le tombe scoperchiate, le grotte arcaiche, le minuscole

catacombe della città naufragata».72

Particolare rilevanza assume poi un gruppo di articoli dedicati alle

sistemazioni e agli scavi nell’area della Tripolitania italiana e riguar-

danti, in particolare, i siti archeologici di Leptis Magna, Ghirza,

Sabratha e Gadàmes; anche in essi la storia e la celebrazione della

Roma antica, nonché del moderno operato italiano, si alternano a

note denigratorie sulla precedente dominazione turca e sulla popo-

lazione locale. Particolarmente

esemplificativo in proposito

è il lungo articolo redazio-

nale del febbraio del 1924:

infatti, se da un lato Tripoli

risorta 73 vuole essere un elogio

dell’allora Governatore Conte

Giuseppe Volpi di Misurata

che, avvalsosi in parte della

collaborazione dell’architetto

◆ ◆ ◆Reggio, Nel segno di Roma l’Italia costruisce, tavola, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XI, n. 5, maggio 1933, p. 14

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Armando Brasini, aveva attuato un complesso programma di opere

pubbliche volto a risanare la capitale della Tripolitania, dall’altro

tale scritto si rivela pregno, in vari punti, di una forte componente

razzista, caratterizzata peraltro da luoghi comuni tardo ottocen-

teschi di vena orientalista. L’affascinante esotismo della città pare

nascere da un misto di pigrizia e superficiale bellezza, sotto le quali

si nascondono in verità sporcizia fisica e morale. Si legge infatti:

Nulla all’infuori delle rovine ricorda la grandezza di questa terra che vide poi la sua più bassa decadenza sotto il dominio ottomano […]. Quando l’Italia, il 5 ottobre 1911, mise piede su queste sponde, non trovò che una borgata africana con tutte le impronte di un oriente sudicio e medievale, con tutte le malsane incrostazioni edilizie dell’epoca barbaresca che i tur-chi non seppero o non vollero distruggere. Non esisteva che l’effimero, illusorio biancore esterno delle case e sopra di esso il verde delle eleganti cupole stambuline. Dentro c’era il marcio d’una città chiusa gelosamente ad ogni soffio di benessere civile, c’era l’oscuro mistero d’un popolo mus-sulmano che vegetava nella sua accidia secolare, rintanato nelle casupole senza sole, e in giro per le viuzze buie, cintate e protette da un formidabile muraglione.74

Il testo prosegue, secondo uno stereotipo ampiamente utilizzato

nella letteratura di stampo narrativo-etnografico relativa alle città

orientali,75 descrivendo Tripoli come una sorta di meretrice, una bel-

lissima ma immorale odalisca pronta ad irretire i suoi visitatori:

Suggestiva e ingannatrice, Tripoli invitava con la lucentezza candida del suo volto incastonato nella corona smeraldina delle sue oasi e disilludeva con la laidezza del suo ventre.76

Mentre un breve articolo redazionale del marzo del 1924 informa

i lettori in merito alla particolare conformazione dei resti di alcuni

mausolei con iscrizioni romane presenti a Ghirza,77 località sita

a sud-ovest di Leptis Magna, Corrado Zoli, uomo di spicco della

politica coloniale italiana,78 scrive un testo per l’appunto dedicato

ai reperti archeologici ritrovati in quest’ultima città,79 fiorita in par-

ticolar modo sul finire del II secolo, quando l’imperatore Settimio

Severo, leptitano d’origine, l’aveva arricchita di numerosi edifici. Lo

stesso Zoli dà notizia degli scavi italiani a Sabratha,80 sito che, insieme

a Leptis Magna e Oea,

formava la Tripolis che

aveva poi dato il nome alla

regione: l’autore sottoli-

nea l’importanza di questa

località in quanto unica

a possedere un anfiteatro

ancora visibile in quella

regione. Mentre un arti-

colo redazionale a carattere

◆ ◆ ◆Damiano Damiani, Roma ponte di civiltà tra i popoli, tavola, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XI, n. 1, gennaio 1934, p. 7

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etnografico, non privo tuttavia di accenni archeologici, è dedicato

nell’agosto del 1924 alla cittadina tripolitana di Gadàmes,81 nel

corso del 1925 vengono nuovamente date notizie in merito agli

scavi a Leptis Magna e Sabrata;82 se della seconda vengono messi in

risalto il tempio lì ritrovato e, nuovamente, l’anfiteatro, della prima

colpisce soprattutto il folto gruppo di statue rinvenute nell’area

delle Terme, sculture a cui infatti vengono successivamente dedi-

cate due pagine di illustrazioni, corredate da un brevissimo reda-

zionale 83 in cui si sottolinea l’importanza della campagna di scavi

svolta a Leptis dal professor Bartoccini, avente «valore di afferma-

zione nazionale»,84 nonché la romanità delle statue, tutte risalenti

all’epoca imperiale. È da ricondursi probabilmente allo stesso

Renato Bartoccini, Sopraintendente agli scavi in Tripolitania, l’arti-

colo siglato “r.b.” che, nel 1928, fa nuovamente il punto a proposito

delle scoperte avvenute a Leptis Magna:85 in esso lo studioso sotto-

linea, tra le tante notizie, che i resti di quello che precedentemente

era stato ritenuto il Palazzo Imperiale fatto realizzare da Settimio

Severo, secondo quanto detto dallo storico bizantino Procopio, sono

invece da attribuirsi all’area del foro, realizzato probabilmente da un

imperatore della dinastia degli Antonini; particolare risalto viene

dato inoltre ai resti della basilica severiana, di cui si ricordano i pila-

stri scolpiti ad alto rilievo collocati ai lati dei tribunalia. Interessante

riscontrare che all’Esposizione

Internazionale Coloniale di

Parigi del 1931 l’Italia è pre-

sente con tre padiglioni, uno dei

quali realizzato dal già citato

architetto Armando Brasini.

◆ ◆ ◆Autore non identificato, copertina, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XII, n. 4, aprile 1934

Damiano Damiani, Il destino d’Europa, tavola, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XIV, n. 6, giugno 1936, p. 15

Damiano Damiani, Difesa della razza, tavola, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XVI, n. 8, settembre 1938, p. 7

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A proposito di quest’ultima struttura, che appare come una ripro-

duzione della stessa basilica romana di Leptis Magna, viene scritto:

Di tutti i padiglioni sorti all’Esposizione, eccettuato il tempio di Angkor Vat della Francia, quello dell’Italia è il più originale, perché tutte le altre nazioni hanno adattato uno stile coloniale alle loro costruzioni anziché riprodurre fedelmente un insieme architettonico già esistente nelle loro colonie.86

Una trilogia di articoli, firmata “E. M.” e apparsa nel 1938, mira

invece a sottolineare con evidenti scopi propagandistici l’antica pre-

senza romana in Tunisia, stato rientrante tra le mire espansionistiche

italiane ma all’epoca soggetto al protettorato francese. Il primo di

tali articoli è dedicato all’anfiteatro di El-Djem,87 l’antica Thysdrus

prima cartaginese, poi romana; lo stato di rovina e di degrado del

monumento, causato da varie vicissitudini, offre all’autore l’occa-

sione per scrivere alcune righe di stampo razzista: tacciando di paras-

sitismo le costruzioni arabe successive, l’articolista riesce ad esaltare

per contrasto il rudere romano che, sopravvissuto alle varie epoche,

risulta così un esempio ancor più valido dell’eterna e onnipresente

forza dell’antico impero; si legge infatti:

Un bey di Tunisi, nel secolo xvii volle radere al suolo il Colosseo; ma tanta è la saldezza di quella costruzione che tutti i suoi sforzi si ridussero ad aprirvi non altro che una larga breccia. Così esso rimase: e tuttora si leva con la sua imponente mole sul villaggio che lo circonda, costruito quasi interamente con materiale tratto dalle sue mura. Quelle misere casupole son come piccoli funghi parassiti sorti alla base d’una quercia annosa e forte che sfida i tempi e le tempeste, meravigliosa opera, degna veramente di portare il sigillo di Roma.88

Il secondo articolo è invece riservato alle rovine dell’antica Sufetula,89

cittadina romana ora non più esistente, poco distante dalla località

araba di Sbeitla; di tale sito archeologico vengono ricordati l’Arco

di trionfo in onore dei tetrarchi Diocleziano, Massimiano, Costanzo

e Galerio, di cui si sottolinea la «sobrietà dotata d’una particolare

fierezza che è propria delle costruzioni romane migliori»,90 quello di

precedente fattura innalzato per l’imperatore Antonino, e tre templi,

rispettivamente dedicati a Minerva, Giove e Giunone; il testo pre-

senta una retorica conclusione inneggiante alla romanità del luogo.

Il terzo ed ultimo scritto ha

invece come oggetto i resti di

Thaenae,91 antica città vicina

all’importante località tuni-

sina di Sfax; della presenza

romana sono testimoni, in

particolar modo, la necropoli

e i mosaici rinvenuti nell’area

delle terme, ricordati dallo

scrittore come alcuni dei più

belli allora conosciuti.

◆ ◆ ◆Buzzi, Sintesi, tavola, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XII, n. 6, giugno 1934, p. 37

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Anche in Marocco, soggetto all’epoca all’influenza francese, si pale-

sano, attraverso le vestigia dell’antica Volubilis, le tracce di Roma: un

breve articolo del 1935,92 ricordando i resti della basilica e dell’Arco

di Caracalla, sottolinea l’ideale valore del sito, posto non nella fascia

costiera ma nel «cuore del selvaggio paese che nessuno prima di

Roma aveva mai domato».93

Passando ora alla presenza della romanitas e del dato archeologico nella

grafica del periodico si nota che, tra i soggetti delle moltissime illu-

strazioni ispirate al recupero dell’immaginario collettivo sulla Roma

antica, primeggiano quelli del fascio littorio e della personificazione

dell’Italia. A proposito di

quest’ultima, è bene ricordare

come essa sia particolarmente

presente nelle tavole realiz-

zate da Mario Sironi,94 come ad

esempio in quella dedicata a La

Marcia su Roma,95 pubblicata

nell’ottobre del 1924 a commemorazione dell’impresa mussoliniana

svoltasi due anni prima: qui una gigantesca figura alata, con aspetto

di statua dai tratti vagamente muliebri, plana al di sopra di un’a-

nonima miriade di uomini, piccolissimi in confronto a lei e recanti

un’asta con un grande tricolore; l’essere monumentale, puntando

l’indice della mano destra, pare guidare la folla verso la meta, Roma,

la cui presenza, appena accennata nel basso orizzonte, viene sim-

bolicamente espressa da una piccola forma semiellittica verticale,

rappresentante con ogni probabilità la cupola di San Pietro. Questa

è la prima di una lunga serie di illustrazioni aventi come soggetto

Ruggero Michahelles, copertina, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XV, n. 11, novembre 1936

Bramante Buffoni, copertina, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XV, n. 3, marzo 1937

Luigi Broggini, copertina, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XV, n. 8, agosto 1937

◆ ◆ ◆

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la personificazione dell’I-

talia,96 figura allegorica

che, già impostasi nelle

vignette satiriche realiz-

zate dallo stesso artista

per “Il Popolo d’Italia”,97

diverrà un vero e pro-

prio leit-motiv sironiano 98

e non solo, materializ-

zandosi sul foglio come

una figura femminile alla

quale, di volta in volta,

vengono assegnati vari attributi, ciascuno dei quali legato a una sim-

bologia e a una volontà comunicativa precisa. Gli elementi essenziali

che la caratterizzano sono, come nel caso appena ricordato, la corona

muralis, ossia una corona avente la forma di una cinta muraria, tal-

volta munita di torri,99 e la stella Veneris, una stella a cinque punte 100

posta anch’essa sul capo della figura.101 La tradizione iconografica

di tali elementi è antica e risale in parte all’epoca romana, tuttavia

il primo caso in cui i due simboli vengono insieme accostati alla

figura allegorica dell’Italia, creandone così la versione moderna e tra-

mandata sino al Novecento, è rintracciabile nell’edizione del 1603

dell’Iconologia di Cesare Ripa.102 È poi da aggiungere che, talvolta,

l’iconografia dell’Italia turrita e stellata viene contaminata da quella

di altre personificazioni come quelle di Roma, armata di spada,103

e della Vittoria, creazione allegorica anch’essa di derivazione clas-

sica, raffigurata con sembianze di giovane donna recante vari oggetti

caratteristici, quali ad esempio una corona d’alloro o di ulivo, e

dotata di ali;104 proprio l’illustrazione sopra descritta rappresenta un

caso di contaminazione tra

Italia e Vittoria, attraverso

la quale l’autore pare voler

sottolineare l’esito trion-

fante dell’impresa.105

L’altro indiscusso prota-

gonista della grafica della

testata è, come si accen-

nava, il fascio littorio,106

ripreso anch’esso dalla tra-

dizione romana e presente

Autore non identificato, copertina, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XVII, n. 6, giugno 1939

◆ ◆ ◆

◆ ◆ ◆Marcello Dudovich, copertina, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. I, n. 1, agosto 1923

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nelle illustrazioni sia come attributo dell’allegoria dell’Italia che

come soggetto dotato di una certa autonomia,107 seppur sempre

inserito in costruzioni iconologiche più complesse. La volontà di

far coincidere l’Italia con il fascismo viene visivamente veicolata, di

tanto in tanto, attraverso un simbolico accostamento, ossia quello

del tricolore nazionale e del fascio littorio: tale accoppiata si ritrova,

ad esempio, nella copertina futurista di Depero108 del luglio 1924, in

cui i colpi delle asce dei fasci generano scie di tricolore;109 la mede-

sima accoppiata, reinterpretata secondo una visione ben più sintetica

e astratta, viene riproposta da Sironi in una copertina del 1930.110

Damiano Damiani 111 è invece autore di tre tavole in cui il fascio

Da sinistra in alto:

Mario Sironi, La pace è all’ombra delle spade, tavola, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. VI, n. 6, giugno 1928, p. 6

Bramante Buffoni, Balilla, tavola a colori, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XVII, n. 10, novem-bre 1938, p. 39

Bramante Buffoni, Giov. Fasciste, tavola a colori, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XVII, n. 10, novembre 1938, p. 47

Bramante Buffoni, Avanguardisti Giov. Fasc., tavola a colori, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XVII, n. 10, novembre 1938, p. 51

Franco Rognoni, copertina, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XXI, n. 1, gennaio 1943

◆ ◆ ◆

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littorio diviene protagonista, nonché vera e propria metafora dell’Ita-

lia fascista: nella tavola L’Italia di Mussolini 112 un imponente fascio fa

le veci di una polena sulla prua di un’imbarcazione dai tratti antichi,

la quale si impone monumentale su barchette di carta che, come si

evince dalle scritte su di esse apposte, simboleggiano l’inconsistenza

e l’irrilevanza delle «egemonie straniere», della «coalizione antita-

liana» e delle «gelosie straniere»; La Marina d’Italia nel mondo 113 è

invece rappresentata da una gigantesca ancora, in cui il fascio lit-

torio diviene la parte

del fuso, che con la sua

catena avvolge un map-

pamondo. In La porta,

il chiavistello e…l’invi-

dia,114 tavola satirica

che celebra la firma

dei Patti Lateranensi,

il fascio è raffigurato

con funzione di pode-

roso chiavistello; esso

permetterà alla piccola

Italia, presente questa volta sotto forma di personificazione, di chiu-

dere un portone, sbattendo letteralmente fuori un altro personaggio.

Osservando con attenzione la scena si nota che sulla grande porta è

impresso uno dei simboli dello stemma pontificio, ossia le due chiavi

incrociate, mentre la figura che sta per essere cacciata ha nella destra

un viluppo di serpenti, dato che la caratterizza come personificazione

dell’Invidia; inoltre, volendo azzardare un’ulteriore ipotesi di let-

tura, è da notare che l’Invidia parrebbe indossare un berretto frigio,

tipico accessorio connesso alla simbologia della Rivoluzione fran-

cese e solitamente attribuito alla Marianne, la personificazione della

Francia rivoluzionaria spesso presente anche nella grafica d’impronta

satirica. Dunque, si potrebbe vedere in questa figura non la sem-

plice rappresentazione di un Vizio, ma quella di una piccola Francia

che, divenuta laica in nome dei principi rivoluzionari e rimasta così

distante dalla Chiesa, cede all’invidia per il successo diplomatico

mussoliniano e per il ritrovato accordo italiano con la Santa Sede.

Fasci littori accuratamente delineati sono poi ritracciabili in due

copertine dei primi anni Trenta realizzate da Enzo Bifoli;115 nella sua

grafica per il numero di novembre del 1931 116 un gigantesco fascio,

in cui sono ben distinguibili ascia, verghe e nastri, sorge sulla sagoma

dell’Italia proprio sopra al punto in cui si trova Roma, facendo scatu-

rire una sorta di fascio luminoso sul quale campeggia la sigla romana

S.P.Q.R.: l’immagine vorrebbe dunque simboleggiare l’ideale conti-

nuità tra la Roma antica e quella fascista, entrambe investite di una

◆ ◆ ◆Ruggero Michahelles, copertina, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XII, n. 11, novembre 1933

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missione civilizzatrice e illuminante nei riguardi delle altre popola-

zioni, soprattutto africane per quel che riguarda la Roma mussoli-

niana, verso le quali il fascio sembra appunto diretto. Una rappresen-

tazione di fasci marmorei è invece presente nella copertina che Bifoli

realizza per il numero di aprile del 1932,117 ove il simbolo romano

si sostituisce agli elementi colonnari di una facciata architettonica la

quale, con la sua slanciata struttura marmorea, fa da sfondo ad una

svettante Italia personificata che, riconoscibile dalla corona muralis,

alza le braccia al cielo

esibendo nella sinistra

una scure. Sempre di

Bifoli è un’opera pitto-

rica riprodotta in bianco

e nero nel numero di

giugno del 1936: Dopo

la vittoria il lavoro 118 è

evidentemente dedi-

cata al recente successo

italiano in Etiopia e

alla conseguente nascita

dell’Impero, bisognoso

in quei luoghi di uomini

per la realizzazione di

infrastrutture e opere

di ammodernamento;

nell’immagine una sta-

tuaria personificazione

dell’Italia, impugnante

un gladio nella sinistra,

pare incitare con gesto

perentorio un gruppo di

uomini in camicia nera

che, muniti di badili, si avviano al lavoro protetti dalla luce emanata

da un grande stellone d’Italia e dalla presenza di un enorme fascio

stilizzato.

La resa grafica della romanitas e dei suoi simboli appare dunque

stilizzata e moderna in alcuni casi, mentre in altri si fa necessaria-

mente più descrittiva e aderente al reale, ispirata in maniera assai

più concreta e puntuale al dato mitico-archeologico, sia esso un

oggetto, un frammento o l’intera sagoma di un monumento. Molti

Alberto Salietti, copertina, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XV, n. 5-6, maggio-giugno 1937

◆ ◆ ◆

◆ ◆ ◆Bruno Munari, copertina, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XIV, n. 4, aprile 1936

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disegnatori inoltre, seguendo in ciò l’i-

dea mussoliniana di Roma fascista quale

erede della Roma imperiale, cercano di

abbinare e conciliare nelle loro tavole ele-

menti ripresi dall’antico, siano essi statue,

strutture architettoniche o personaggi,

con soggetti della moderna era fascista.

Simboli dell’impero, o di un più vago

passato antico, sono poi utilizzati all’in-

terno delle illustrazioni che glorificano

le moderne conquiste del fascismo, ide-

ali o militari che siano. Insegne romane

si ritrovano, ad esempio, in grafiche cele-

branti le contemporanee vittorie belliche;

così, su una porzione di mappamondo

richiamante il Corno d’Africa, Damiano

Damiani, a conclusione della campagna in

terra etiope, allegorizza il successo fasci-

sta raffigurando un’insegna con un’aquila

imperiale e un serto di lauro. Essa, dotata

fra l’altro di un vessillo sul quale si legge il noto motto hic manebi-

mus optime, appare piantata su una pelle di leone e viene accompa-

gnata da un gladio, posto a terra quasi nell’atto di mozzare il capo

dell’animale: la Roma mussoliniana ha dunque conquistato l’Etiopia

negussita, il Leone di Giuda, emblema

ed emanazione ferina di Hailé Selassié, è

stato vinto dal gladio, arma simbolo della

potenza latina.119

Già in alcune copertine del primo anno

di stampa della testata, firmate da Guido

Marussig 120 e improntate ancora al gusto

secessionista, si innesta un certo classi-

cismo di immagini e simbologie latine.

Nella copertina del numero di novem-

bre-dicembre del 1923 121 l’artista, con una

fine ed essenziale scelta cromatica, crea un

disegno privo di mezzi toni e basato su

una linea che, per quanto sintetica, ne

riflette l’accattivante stile decorativo.122

Su fondo bianco campeggiano, oltre al titolo della rivista realizzato

in marrone purpureo, alcuni simboli della Roma imperiale, realizzati

con uno squillante giallo dorato: due sottili e alte colonne corinzie

inquadrano un fascio littorio che, a sua volta, funge da colonna atta

Mario Sironi, Senza titolo [celebrazione del 21 aprile], tavola a colori anteposta alle pagine numerate, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XXI, n. 5, maggio 1943

◆ ◆ ◆

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ad innalzare una Vittoria alata che, con entrambe le braccia, solleva

al cielo serti di alloro. La stessa rappresentazione della Vittoria,

poggiante questa volta su un globo, è presente in una copertina

realizzata da Marussig nel 1924:123 la statuetta benaugurante è qui

però sorretta dalla mano destra di una monumentale dea Roma;

tale figura, dotata di lancia, scudo ed elmo attico sormontato da

una sfinge centrale fiancheggiata da due grifi, sembra ispirarsi in

parte a quella presente nell’edicola centrale dell’Altare della Patria,

posta a vegliare la tomba del Milite Ignoto, in parte alla famosa

statua crisoelefantina di Fidia, di cui si hanno notizie solamente

tramite la descrizione di Pausania nella Periegesi e attraverso alcune

modeste copie.

Anche la Lupa, altro emblema della romanità particolar-

mente ripreso durante il Ventennio, ricorre più volte nella rivista,

sia in riproduzioni fotografiche che in illustrazioni; per esempio

in un’altra copertina, realizzata da Marussig nel 1924,124 campeg-

gia una nave da guerra romana, riconoscibile dal rostro bronzeo e,

soprattutto, dalla vela recante l’immagine della Lupa capitolina.

Nella tavola intitolata Nel segno di Roma l’Italia costruisce 125 e firmata

da Reggio,126 l’antico bronzo è posto su uno sfondo di capannoni

industriali sui quali svettano altissime ciminiere, ognuna delle

quali funge da asta per il tricolore italiano: il disegnatore riesce

così a comunicare l’idea di un’armonica congiunzione dei concetti

di antica nobiltà latina e moderno progresso italiano. In Roma ponte

di civiltà tra i popoli,127 del 1934, Damiani innalza la Lupa sul mare

e, appoggiandola su due blocchi tra loro distanziati recanti cia-

scuno una raffigurazione di parte dell’Eurasia, la trasforma proprio

in un “ponte” che unisce i due continenti. Invece, in una coper-

tina 128 del medesimo anno, la Lupa è posta a segnalare Roma sulla

sagoma della penisola, facendo da sfondo alla lunga fila di cami-

cie nere che marciano verso la Sicilia e, più genericamente, verso

sud, quasi a suggerire ancora una volta la forte vocazione espansio-

nistica del regime nei riguardi dei territori africani. Nella tavola

Il destino d’Europa 129 di Damiani, realizzata poco dopo la procla-

mazione dell’impero per il numero di giugno del 1936, la Lupa

appare come decorazione di un portone blindato, la cui massiccia

struttura è emblema della neopotenza coloniale italiana a cui tutta

l’Europa sanzionista dovrà piegarsi, al pari della sua misera perso-

nificazione che mestamente bussa al poderoso uscio. La figura ha

gli occhi coperti da una benda, stante forse ad indicare la ‘cecità’

europea dinnanzi alla forza italiana 130 o, più semplicemente, uti-

lizzata come elemento volto ad accentuarne il malconcio aspetto

causato dai postumi della battaglia; il personaggio reca inoltre con

sé una spada usurata e sbeccata, a simboleggiare la sua sconfitta, e

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un’asta su cui è montata la sagoma di una colomba, che allude alla

resa e alla volontà di intraprendere un’azione pacificatrice, lascian-

dosi alle spalle la questione delle sanzioni, il cui atto di proclama-

zione appare gettato al vento in mille pezzi. Sempre Damiani uti-

lizza infine la sagoma della Lupa come simbolo della stirpe latina

in una tavola a forte contenuto razzista: Difesa della razza 131 è pub-

blicata nel numero di settembre del 1938, esattamente un mese

dopo l’uscita del primo numero dell’omonima rivista di Interlandi;

nell’immagine si vede un braccio nerboruto che sostiene uno scudo

per difendere la Lupa e i gemelli, simbolo della razza italiana e dei

suoi nascituri, dall’attacco di un pipistrello, animale che all’epoca

veniva continuamente associato, specie nelle tavole e nella satira a

sfondo razzista, alla popolazione ebrea.

Il frammento archeologico, evocativo di una vaga classicità romana,

è parimenti un soggetto presente in alcune copertine e tavole della

rivista, specie negli anni Trenta. Particolarmente interessante è

un’illustrazione realizzata da Buzzi 132 per il numero di giugno del

1934: in Sintesi 133 il disegnatore immagina che in mezzo a resti di

colonne e capitelli antichi si innalzi, solida e possente, una sorta

di moderna colonna istoriata che, al pari di quanto avviene sulle

colonne imperiali di Traiano e di Marco Aurelio, commemori i trion-

fali successi di Roma e di Mussolini. Partendo dalla base del pila-

stro sono riconoscibili alcuni simboli riecheggianti l’antica capitale,

quali i Fori, le insegne militari dell’Urbs, la statua di Augusto nelle

vesti di pontifex maximus, il Colosseo, l’Arco di Costantino, la Lupa

Capitolina, la statua vaticana di Cesare Augusto e la statua equestre

di Marco Aurelio; nella zona superiore della colonna sono invece raf-

figurati emblemi e imprese della Roma fascista, quali, per esempio,

la fondazione della città di Sabaudia, il varo del transatlantico Rex,

l’obelisco dedicato a Mussolini-dux nell’allora Foro Mussolini, oggi

Foro Italico, gli aerei dell’aviazione italiana, il profilo a tre quarti

del duce, il fascio littorio, una Vittoria alata e la facciata princi-

pale della Mostra della Rivoluzione Fascista, progettata nel 1932

dagli architetti De Renzi e Libera e caratterizzata, come ricorda

Margherita Sarfatti, dalle «linee verticali – linee di ascensione, linee

di dominio, di audacia, d’impero e d’azione – dei giganteschi fasci

in metallo fra cui si apre la lucida volta metallica dell’ingresso».134

Il messaggio che l’autore vuole far trasparire è, ancora una volta,

quello della continuità tra passato e presente: le vittorie del regime

poggiano sui miti e sulle conquiste dell’antico impero, e Mussolini

è il nuovo capo che, avendo guidato la nazione verso tali successi,

merita di vedere narrate le proprie imprese al pari di un princeps

della Roma imperiale. Un frammento di trabeazione, istoriato con

motivi georgici e bucolici, riaffiora invece dal terreno del tranquillo

paesaggio campestre di Ruggero Michahelles,135 posto a copertina

del numero di novembre del 1936;136 stilizzate colonne dal fusto

scanalato appaiono, come vestigia in attesa di essere riscoperte, sulla

spiaggia di una costa che sta per essere raggiunta da navi militari,

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probabilmente italiane, nella copertina di Buffoni 137 del marzo del

1937;138 Broggini,139 per la copertina dell’agosto del 1937, imma-

gina resti di abbozzate colonne ioniche in attesa di essere scoperte

e apprezzate, al pari della nuda figura femminile adagiata vicino ad

esse, da un paracadutista che sta per poggiare i piedi su un’azzurra

pianura, forse un mare;140 un arco di trionfo, sopra al cui unico for-

nice si libra una figura femminile con un serto di alloro in mano,

interpretabile quindi come una Vittoria, riceve un corteo di antiche

insegne romane: questa copertina, realizzata per l’edizione di giu-

gno del 1939,141 è forse un omaggio alla recente vittoria italiana in

Albania, il cui territorio era stato annesso all’impero fascista appena

due mesi prima.

Antichi romani, legionari e soldati fascisti si alternano, in un continuo

gioco di scambi e rimandi tra passato e presente, in varie immagini:

per il primissimo numero della rivista, quello dell’agosto del 1923,

Marcello Dudovich 142 crea una copertina 143 che, in primo piano,

mostra la possente e protettiva figura di un centurione che sostiene

una donna, forse l’Italia, mentre sullo sfondo si intravvedono, in pic-

colo, moderne ciminiere fumanti; il profilo di un legionario si affac-

cia invece da una cortina di spade nel disegno sironiano dedicato alla

frase mussoliniana la pace è all’ombra delle spade.144 Anche

Buffoni nelle sue tavole dedicate alla gioventù fascista inserisce, gra-

zie all’uso del collage, generiche figure della romanità, affinché siano

di monito alle nuove leve del regime e ispirino loro i valori etici del

mos maiorum: così nella tavola intitolata ai balilla introduce, oltre

ad un’insegna militare romana, una piccola scena di sapore classico,

quasi una miniatura tratta da un antico cammeo, in cui giovani nudi

si esercitano nella lotta;145 per la grafica dedicata alle giovani fasciste

l’artista riprende, invece, la sagoma della statua di una matrona latina,

mentre in quella dedicata agli avanguardisti inserisce un centurione

armato di scudo e protetto dall’insegna dell’aquila imperiale.146 Un

centurione romano,

i cui piedi poggiano

sulle coste africane,

è anche il soggetto

della copertina rea-

lizzata da Franco

Rognoni 147 per il

numero di gennaio

del 1943.148

I monumenti princi-

pali dell’Urbs, come

◆ ◆ ◆Mario Sironi, Senza titolo [ritratto a mezzo busto di Benito Mussolini], tavola a colori anteposta alle pagi-ne numerate, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XXI, n. 5, maggio 1943

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il Colosseo, l’Arco di Costantino e le colonne imperiali, sono pari-

menti soggetti fondamentali per i disegnatori della rivista. Ruggero

Michahelles, nel 1933, raffigura un soldato fascista nello scenario di

una surreale Roma antica:149 la camicia nera, resa di spalle, è intenta

ad onorare col saluto fascista non il dux contemporaneo, ma l’effige

scultorea di un imperatore romano il cui disegno, probabilmente, si

ispira alla statua bronzea di Traiano posta in Via dei Fori Imperiali;

fa da sfondo alla scena una sintetica ma ben identificabile versione

dell’Arco di Costantino, dal cui fornice centrale si intravede parte

del Colosseo. Risulta evidente il tono allusivo della composizione:

Mussolini non viene direttamente raffigurato ma, essendo egli l’i-

deale continuatore moderno della lunga serie di imperatori-duces, la

sua presenza è comunque evocata dalla statua raffigurante un suo

predecessore; ancora una volta viene così sottolineata la continuità

tra la Roma latina e la Roma fascista. Bruno Munari 150 rende invece

omaggio all’Anfiteatro Flavio nella copertina dell’aprile del 1936:151

essa, come parte della rivista, pare essere dedicata al cosiddetto

Natale di Roma, festività laica ricollegabile al mito della fondazione

dell’Urbs che la tradizione vuole sia avvenuta il 21 aprile del 753

a.C.;152 durante il Ventennio, nel medesimo giorno, viene celebrata

anche la Festa dei lavoratori. La copertina di Munari sintetizza le

due ricorrenze con una semplice ma efficace simbologia: su un cielo

azzurro, puntellato da nuvolette, si delinea la grigia sagoma del

Colosseo, evocativo della Roma antica, mentre in primo piano si

staglia un’alta ciminiera in mattoni rossi sulla quale, oltre ad essere

presente un piccolo fascio stilizzato, sventola il tricolore italiano.

Sembra quasi che la costruzione in laterizi venga qui utilizzata non

solo come simbolo della moderna Italia lavoratrice, ma anche come

emblema della rinnovata forza della nazione, imponendosi essa nella

composizione quasi come una stele dell’era contemporanea, alludendo

così alla prassi imperiale romana dell’uso degli obelischi a simbolo

di potenza e di grandezza. Risulta poi particolarmente esemplare

dell’intreccio tra romanità, colonialismo ed archeologia la copertina

che Alberto Salietti 153 realizza per il numero di maggio-giugno del

1937;154 anch’essa ha un evidente scopo celebrativo, volto a festeg-

giare il primo anniversario della proclamazione dell’impero: mentre

un’indistinta miriade di persone sbandieranti dei tricolori si ammassa

sul lato destro dell’immagine ai piedi dell’Anfiteatro Flavio, pre-

sente ancora una volta sullo sfondo, quasi in primo piano si affaccia,

nuovamente, l’Arco di Costantino, il cui fornice centrale incornicia

piccolissime sagome umane. Queste ultime, divise in squadroni,

marciano in una parata militare: tra i gruppi è ben distinguibile

quello degli ascari, i soldati eritrei con fez rosso e uniforme bianca

che nella guerra di Etiopia avevano affiancato le truppe coloniali

italiane.155 Ciò che invece si impone in primissimo piano è la slan-

ciata raffigurazione di un obelisco: l’immagine di questa stele, però,

potrebbe non riferirsi a una delle tante già presenti a Roma, bensì

alludere all’ultima conquista dell’esercito mussoliniano; osservando

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con attenzione, è possibile scorgere nel disegno una raffigurazione

semplificata, e arbitraria per quanto riguarda la sommità, dell’obe-

lisco di Axum che, ritrovato dai soldati italiani in terra etiope sul

finire del 1935, fu sezionato, trasportato e poi rimontato nella capitale

d’Italia nell’ottobre del 1937 per commemorare il xv anniversario

della Marcia su Roma.156 L’illustrazione pare dunque alludere alla

potenza dell’impero fascista che, al pari di quello romano, testimonia

la propria vittoria esibendo pubblicamente un bottino di guerra che

è, al tempo stesso, un reperto archeologico.

Il mito di Roma e della sua fondazione permangono sino all’ultimo

nella rivista che, nel numero di maggio del 1943, festeggia la già

citata ricorrenza del 21 aprile iniziando la sua terzultima edizione

con un breve e anonimo articolo dedicato a due simboli del potere

imperiale, la Colonna Traiana e la Colonna Antonina, o di Marco

Aurelio.157 A proposito dei bassorilievi delle due opere vengono messi

in evidenza due specifici soggetti, ossia l’imperatore e il suo esercito.

La scelta di riferire in merito alle scene belliche è evidentemente det-

tata dalla situazione contemporanea: così, parlando dell’imperatore

Marco Aurelio, che ha sempre «un atteggiamento di nobiltà sovrau-

mana», e del suo esercito, che è «valoroso e magnanimo»,158 l’ano-

nimo articolista sembra volersi riferire, velatamente, a Mussolini

e all’esercito italiano. Tale parallelismo tra presente e passato pare

essere ancor più avvalorato da un gruppo di tavole sironiane 159 che,

anteposte all’articolo, sembrano ispirarsi al suo contenuto; esse sono

dedicate alla duplice

ricorrenza avvenuta

nel mese precedente

l’edizione, ma in que-

sto caso il mito della

fondazione di Roma e

la Festa del Lavoro si

mescolano alla tema-

tica della guerra: sotto

la scritta 21 aprile

stilizzate sagome di

lavoratori, riconoscibili dai martelli che recano con sé, appaiono

schierati in riga nella parte superiore della pagina illustrata, mentre

sotto di loro è raffigurato uno scuro cannone; nella tavola seguente,

ove ricorre il simbolo del martello su cui è inoltre apposta una

sottile fascia con i colori della bandiera nazionale, si impone un

interessante ritratto del duce che, in divisa nera, scruta con sguardo

corrucciato il lettore. È da notare che l’immagine di Mussolini, pur

Mario Sironi, Senza titolo [cavalieri romani alla carica], tavola a colori anteposta alle pagine numerate, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XXI, n. 5, maggio 1943

◆ ◆ ◆

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apparendo severa e autoritaria nella parte del volto, richiamando

dunque la «nobiltà sovraumana» degli imperatori, sembra mostrare

i segni di debolezza e progressiva perdita di potenza nella resa del

corpo, piccolo ed esile rispetto al capo, e della postura della figura,

ove il gesto di chiusura delle braccia comunica un senso di attesa e

quasi di difesa. L’ultima tavola, relativa a una scena equestre, rap-

presenterebbe il trait d’union tra il gruppo di illustrazioni sironiane

e l’anonimo testo relativo alle colonne imperiali, riprendendo essa il

medesimo soggetto, ossia dei cavalieri romani, di una delle fotogra-

fie a corredo dello scritto, raffigurante un particolare della Colonna

Antonina con equites in battaglia.

Da quanto si è potuto osservare risulta evidente, ancora una volta,

il fondamentale valore comunicativo dell’immagine e la sua attenta

strumentalizzazione da parte del fascismo. Come osserva Laura

Malvano «la ripetitività, e la frequenza dell’immagine-simbolo faceva

sì che, al di fuori di una lettura culturale, fasci, aquile, colonne, archi

trionfali, agissero sul pubblico con un rapporto percettivo imme-

diato e primario, analogo a quello dello slogan pubblicitario».160 Il

regime dunque, sfruttando il mezzo della carta stampata, diffonde

i simboli e i valori della romanitas, trasformando talvolta i periodici

illustrati in veri e propri bacini iconografici per una cultura popo-

lare dell’antico, rivisitato e riproposto attraverso modalità rappre-

sentative più accessibili e pedagogiche, ma non per questo prive di

fascino e suggestione.

NOTE

1 A. Mussolini, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. I, n. 1, agosto 1923, p. 1.

2 Diplomatosi alla scuola agraria di Cesena, Arnaldo Mussolini (Dovia di Predappio, 1885 - Milano, 1931) diviene insegnante e segretario comu-nale di Predappio. Al termine del primo conflitto mondiale, al quale partecipa, si trasferisce a Milano dove, succedendo a Manlio Morgagni, diviene direttore amministrativo de “Il Popolo d’Italia”, quotidiano fondato dal fratello. Nel 1922, con l’ascesa di Benito alla carica di Presidente del Consiglio, eredita la direzione del quotidiano rimanendo fedele alle linee politiche del fratello, che asseconda totalmente pur miti-gandone alcuni eccessi. Fra il 1923 e il 1927 si dedica all’attività di gior-nalista e a varie iniziative editoriali, dando vita ad un giornale per i Balilla, a “La Domenica dell’Agricoltore”, a “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, che fonda con Manlio Morgagni, alla “Illustrazione Fascista”, a “Il Bosco” e “Historia”, pur mantenendo il proprio ruolo di direttore de “Il Popolo d’Italia”. Nel 1930 fonda a Milano la scuola di

mistica fascista, con l’obiettivo di far rivivere l’anima del Fascismo dei primi anni del movimento per consegnarlo idealmente alle generazioni successive. Muore improvvisamente a Milano, per un attacco cardiaco, a soli 46 anni. Cfr. G. Albanese, ad vocem Mussolini Arnaldo, in Dizionario biografico degli italiani, vol. lxxvii, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2012, pp. 549-554. Per un approfondimento sulla vita di Arnaldo Mussolini, trattata in relazione alla figura del fratello Benito, si veda M. Staglieno, Arnaldo e Benito. Due fratelli, Mondadori, Milano 2003.

3 Manlio Morgagni (Forlì, 1879-Roma, 1943). Manifesta le proprie inclinazioni politiche dapprima verso il socialismo sindacale, schierandosi poi nel 1914 a favore dell’ala interventista, convinta della necessità della partecipazione italiana all’evento bellico. Intraprende la carriera giornalistica iniziando nel quotidiano “Il Popolo d’Italia”, fon-dato da Benito Mussolini, con il quale intrattiene forti legami di amicizia e stima. Successivamente diviene diret-tore amministrativo del quotidiano. Nel 1919, essendo a lui subentrato Arnaldo

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Mussolini in qualità di direttore, Morgagni si dedica alla raccolta pubblicitaria. A Milano ricopre le cari-che di consigliere comunale (1923-1926) e vicepo-destà (1927-1928), nonché quella di presidente della Commissione per l’abbellimento della città. È cofonda-tore, con Arnaldo Mussolini, e direttore, della “Rivista illustrata del Popolo d’Italia”; fonda inoltre la rivista agraria “Natura” (1928). È soprattutto noto come pre-sidente e direttore generale dell’Agenzia Stefani, da lui rinvigorita e potenziata durante il Ventennio. Si toglie la vita, nel 1943, alla notizia dell’arresto del Duce. Cfr. M. Forno, ad vocem Morgagni Manlio, in Dizionario biografico degli italiani, vol. lxxvi, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2012, pp. 748-750. Per quanto riguarda la figura di Manlio Morgagni, i suoi rapporti con Mussolini e il suo ruolo all’interno del regime si veda R. Canosa, La voce del duce. L’agenzia Stefani: l’arma segreta di Mussolini, Mondadori, Milano 2002. Si veda inoltre Manlio Morgagni fotografo: l’uomo e il gerarca, a cura di B. Micheletti e G. Ragusini, Grafo, Fondazione Luigi Micheletti, Brescia 2004.

4 Il primo numero della rivista esce nell’agosto del 1923, seguito successivamente da altri due numeri che ricoprono, rispettivamente, il bimestre settem-bre-ottobre e il bimestre novembre dicembre. Dal 1924 la rivista diviene mensile. La pubblicazione de “Il Popolo d’Italia” viene sospesa il 26 luglio1943 e, di conseguenza, anche la rivista ad esso collegata cessa di esistere in tale data.

5 M. Morgagni, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. I, n. 1, agosto 1923, p. 2.

6 Ibidem.

7 Ibidem.

8 Ibidem.

9 Ibidem.

10 Ibidem.

11 Tra i disegnatori di copertine si possono ricor-dare, a titolo d’esempio, i nomi di Mario Bazzi, Enzo Bifoli, Luigi Broggini, Gigi Brondi, Bramante Buffoni, Erberto Carboni, Dario Cella, Damiano Damiani, Fortunato Depero, Marcello Dudovich, Bepi Fabiano, Paolo Garretto, Guido Marussig, Giaci (Giacinto) Mondaini, Bruno Munari, Negrin, Marcello Nizzoli, Mario Pompei, Pino Ponti, Enrico Prampolini, RAM (Ruggero Alfredo Michahelles), Franco Rognoni, Alberto Salietti, Santambrogio, Aligi Sassu, Primo Sinòpico (Raoul Chareun), Mario Sironi, Atanasio Soldati, Sto (Sergio Tofano), Nino Strada, Tato (Guglielmo Sansoni).

12 M. Morgagni, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, p. 2.

13 Ibidem.

14 Ibidem.

15 Dal luglio del 1927 sino al luglio del 1941 viene dedicata alla moda una vera e propria rubrica, dal titolo La pagina delle signore, firmata da Mantica Barzini. Anche queste pagine seguono, il più delle volte, la condicio sine qua non della rivista, ossia il fatto di essere illustrate; se agli inizi le firme e gli stili degli

illustratori sono assortiti, si trovano infatti prima la firma di Elisa Dudovich, ritracciabile sino all’aprile del 1924, e poi quella di Nina Orlandini, presente sino all’agosto del 1926, già nell’ultimo numero del 1924 appare la grafica di Bepi Fabiano, che con i suoi rapidi disegni accompagnerà stabilmente la rubrica sino all’ottobre del 1937, lasciando poi il posto ad altri quali, ad esempio, Nino Strada, Franco Rognoni, Spartaco Greggio, Emma Barzini.

16 Molti sono gli autori di tali novelle, tuttavia, anche se a causa della loro fama sarebbe ovvio citare solamente nomi come quelli di Margherita Sarfatti, Massimo Bontempelli, Filippo Tommaso Marinetti, Giovanni Comisso, Ada Negri, Fortunato Depero e Lorenzo Viani, si desidera menzionare, in questa sede, anche i nomi di autori che, pur non essendo altrettanto noti, risultano in verità essere i più presenti e prolifici nell’ambito delle pagine riservate dalla rivista alla novellistica; a titolo d’esempio, rimarcando il fatto che le firme sono ancor più numerose di quelle qui elencate, si ricordano i nomi di Rodolfo Gazzaniga, Valentino Piccoli, Attilio Rovinelli, Dante Dini, Ezio Camuncoli, Bino Sanminiatelli, Arrigo De Angelis, Daisy di Carpenetto, Fulvia, Pia Rimini.

17 Sironi sembra avere una quasi totale esclusiva, tranne in sporadici casi in cui si possono trovare i nomi di altri illustratori, alcuni dei quali di evidente rilievo, quali ad esempio Fortunato Depero, che scrive e illustra alcune novelle, come nel caso di Realtà ed irrealtà del sogno nel numero di gennaio del 1932; nell’ultimo periodo della rivista si fa poi sempre più

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presente l’opera di Franco Rognoni, il quale va ad affiancare Sironi soprattutto per quanto concerne la grafica satirica e di argomento politico, anche se la sua firma si ritrova talvolta nell’illustrazione dei racconti, come nel caso della novella di L. Piccoli, L’annuncio, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. xix, n. 3, marzo 1941, pp. 30-32. Altri illustratori di novelle sono, ad esempio, Mario Vellani Marchi, Nino Strada, Luigi Bompard.

18 Per quanto riguarda gli scritti d’arte è da precisare che Sironi li firma in tre modalità diverse, utilizzando talvolta la sigla “S.”, talaltra la sigla “M. S.”, anche se nella maggior parte dei casi la firma viene posta per esteso, evitando così la confusione generata dalle sigle abbreviate. Per i testi sironiani si veda il fondamentale volume Mario Sironi. Scritti editi e inediti, a cura di E. Camesasca, Feltrinelli, Milano 1980. Si riportano qui di seguito, in ordine cronologico, gli articoli di Sironi presenti nella rivista: M. Sironi, Il padiglione italiano alla “Pressa” di Colonia, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. vi, n. 8, agosto 1928, pp. 12-16; Idem, Arte ignota, ivi, a. xii, n. 3, marzo 1934, pp. 27-34; Idem, Mal sottile, ivi, a. xii, n. 6, giugno 1934, pp. 25-32; Idem, Pittura in mostra, ivi, a. ii, n. 7, luglio 1934, pp. 27-32; Idem, Uno scultore. Arturo Martini, ivi, a. xii, n. 8, agosto 1934, pp. 33-40; Idem, Cattedrali italiche, ivi, a. xii, n. 9, settembre 1934, pp. 49-56; Idem, Monumentalità fascista, ivi,a. xiii, n. 11, novembre 1934, pp. 84-93; Idem, II Quadriennale d’arte nazionale, ivi,a. xiii, n. 2, febbraio 1935, pp. 31-39; Idem, Racemi d’oro, ivi, a. xiii, n. 3, marzo 1935, pp.

33-41; Idem, Tiziano, ivi, a. xiii, n. 5, maggio 1935, pp. 41-48; Idem, Correggio, ivi, a. xiii, n. 6, giugno 1935, pp. 31-39; Idem, Terra di Pisa, ivi, a. xiii, n. 8, agosto 1935, pp. 27-35; Idem, Templi, ivi, a. xiv, n. 12, dicembre 1935, pp. 31-39; Idem, Antelami, ivi, a. xiv, n. 2, febbraio 1936, pp. 39-47; Idem, Secolo undecimo, ivi, a. xiv, n. 9, settembre 1936, pp. 31-39; Idem, Melozzo, ivi, a. xv, n. 3, marzo 1937, inserto tra p. 44 e p. 45; Idem, Arte e tecnica alla mostra “Schaffendesvolk” a Düsseldorf, ivi, a. xvi, n. 11, novembre 1937, pp. 79-85; Idem, Affreschi del Battistero di Castiglione Olona, ivi, a. xvi, n. 12, dicembre 1937, pp. 33-41; Idem, Il volto, ivi, a. xvi, n. 3, aprile 1938, pp. 33-42; Idem, La terza Quadriennale d’arte di Roma, ivi, a. xvii, n. 3, marzo 1939, pp. 42-49.

19 Nel primo biennio è presente, seppur in maniera discontinua, una sorta di rubrica dal titolo Movimento artistico all’estero; essa è per lo più dedicata all’arte ita-liana all’estero ed è firmata da Armando Giacconi; nel numero di giugno del 1924 il titolo diviene Arte all’estero, mentre nel febbraio del 1925, ultimo numero in cui compare la firma di Giacconi, varia in L’arte italiana all’estero. Si vedano poi altri esempi dedicati al panorama estero, sia presente che passato, quali: F. Ciarlantini, Visita al Mauritshuis, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. ix, n. 5, maggio 1931, pp. 39-43; Idem, Fratellanza d’arte italo fiamminga, ivi, a. ix, n. 8, agosto 1931, pp. 37-41; Idem, Città olandesi: Amsterdam, ivi, a. x, n. 2, febbraio 1932, pp. 51-57; Idem, Impressione di Delft, ivi, a. x, n. 4, aprile 1932, pp. 50-53; Idem, Il “Contrabbandiere” di Franz

Hals, ivi, a. xi, n. 6, giugno 1933, pp. 44-45; Idem, Vita d’arte nel nord America, ivi, a. xi, n. 4, aprile 1933, pp. 51-56; A. Cottafavi, Il Giappone artistico, ivi, a. vi, n. 7, luglio 1928, pp. 31-38; Idem, L’esposizione delle pitture giapponesi a Roma, ivi, a. vii, n. 7, luglio 1930, pp. 49-53; S. B., La moderna pittura turca, ivi, a. xv, n. 1, gennaio 1937, pp. 38-41.

20 M. G. Sarfatti, Artisti nuovi: Ubaldo Oppi, ivi, a. ii, n. 11-12, novembre-dicembre 1924, pp. 36-40; Eadem, Pittori d’oggi. Achille Funi, ivi, a. iii, n. 12, dicembre 1925, pp. 36-40; Eadem, Mario Sironi, ivi, a. ix, n. 3, marzo 1931, pp. 35-40.

21 M. G. Sarfatti, Dove va l’arte d’Italia, ivi, a. II, n. 4, aprile 1924, pp. 46-51; Eadem, Gli stranieri alla xiv Biennale di Venezia, ivi, a. ii, n. 6, giugno 1924, pp. 30-34; Eadem, Alla xv Biennale di Venezia, ivi, a. iv, n. 6, giugno 1926, pp. 44-49; Eadem, La xvi Biennale di Venezia, ivi, a. vi, n. 6, giugno 1928, pp. 38-48; Eadem, Gli stranieri alla xvi Biennale. Scuola di Parigi e pittori francesi a Venezia, ivi, a. vi, 8 agosto 1928, pp. 36-40; Eadem, La diciottesima Biennale a Venezia, ivi, a. x, n. 6, giugno 1932, pp. 37-45; M. Sironi, Pittura in mostra…, pp. 27-32 (relativo alla xix Biennale); A. Maraini, Il ritorno dell’arte alla vita nella xx Biennale di Venezia, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Ita-lia”, a. xiv, n. 6, giugno 1936, pp. 31-36; F. Pertile, La Biennale di guerra, ivi, a. xx, n. 8, agosto 1942, pp. 41-45.

22 Si danno qui gli estremi degli articoli dedicati sia alla Biennale di Monza che alla Triennale di Milano,

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essendo la prima il punto d’inizio per la seconda: M. G. Sarfatti, La sincerità, lo stile e l’arte, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. i, n. 1, agosto 1923, pp. 33-35; Eadem, Le Arti Decorative a Monza, ivi, a. iii, n. 7, luglio 1925; Eadem, Le Mostre di Monza e Como. 1927-Anno quinto, ivi, a. v, n. 9 settembre 1927, pp. 32-39; Eadem, Triennale e pittura murale a Milano, ivi, a. xi, n. 6, giugno 1933, pp. 31-39; D. Dini, La Mostra storica del giornalismo alla Triennale, ivi, a. xi, n. 10, ottobre 1933, pp. 35-41; F. Francavilla, L’arte della nuova Italia alla sesta Triennale, ivi, a. xiv, n. 6, giugno 1936, pp. 37-45; E. Prampolini, Scenotecnica nazionale e internazionale alla Triennale, ivi, a. xiv, n. 7, luglio 1936, pp. 37-40; La vii Triennale di Milano, ivi, a. xviii, n. 5, maggio 1940, pp. 81-85.

23 Si danno, anche in questo caso, gli estremi degli articoli dedicati sia alle Biennale di Roma che alla suc-cessiva Quadriennale, essendo la prima l’incipit della seconda: M. G. Sarfatti, Gli stranieri alla Biennale di Roma, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. ii, n. 3, marzo 1924, pp. 39-41; Eadem, Pittori e scultori alla terza Biennale in Roma, ivi, a. iii, n. 4, aprile 1925, pp. 39-43; Eadem, La pittura alla Quadriennale di Roma, ivi, a. ix, n. 1, gennaio 1931, pp. 38-50; M. Sironi, II Quadriennale d’arte nazionale…, pp. 31-39; G. Ruberti, Lo sport nell’arte dei giorni nostri alla ii Quadriennale romana, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. xiii, n. 4, aprile 1935, pp. 36-41; M. Sironi, La terza Quadriennale d’arte di Roma…, pp. 42-49.

24 M. G. Sarfatti, Pittori d’oggi. Felice Casorati, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. iii, n. 3, 15 marzo 1925, pp. 30-34.

25 Eadem, Carlo Dalmazzo Carrà, ivi, a. iii, n. 5, 15 maggio 1925, pp. 39-43.

26 F. T. Marinetti, Depero, ivi, a. iv, n. 5, maggio 1926, pp. 52-57.

27 Un precursore: Antonio Sant’Elia, ivi, a. ix, n. 11, novembre 1930, pp. 49-52.

28 F. Depero, Umberto Boccioni, ivi, a. xi, n. 7, luglio 1933, pp. 35-42.

29 M. Tortora, Il premio Cremona, ivi, a. xvii, n. 7, luglio 1939, pp. 39-44; Idem, Il secondo Premio Cremona, ivi, a. xviii, n. 6, giugno 1940, pp. 39-45; Artisti del Premio Cremona alla mostra di Hannover, ivi, a. xviii, n. 10, ottobre 1940, pp. 50-51.

30 G. Guida, Lo spirito e la carne, ivi, a. xviii, n. 3, marzo 1940, pp. 35-41.

31 R. Giolli, Mosè Bianchi, ivi, a. ii, n. 5, maggio 1924, pp. 37-39.

32 E. Dalla Porta, Dall’Oca rinnovato, ivi, a. ii, n. 3, marzo 1924, pp. 43-45; Idem, Dall’Oca… macchia-iuolo, ivi, a. ii, n. 11-12, novembre-dicembre 1924, pp. 50-51.

33 R. Giolli, Lino Selvatico, ivi, a. ii, n. 7, luglio 1924, p. 37. In questo caso si tratta di un breve ma incisivo articolo in onore dell’artista appena scomparso.

34 M. G. Sarfatti, La figura e l’arte di Emilio Gola, ivi, a. viii, n. 1, gennaio 1930, pp. 30-34.

35 A. Lancellotti, Antonio Mancini, ivi, a. ix, n. 4, aprile 1931, pp. 33-36.

36 M. G. Sarfatti, La Mostra d’Arte di Modigliana. Silvestro Lega e i macchiaioli, ivi, a. iv, n. 9, settembre 1926, pp. 32-37.

37 G. Guida, Giuseppe Casciaro, ivi, a. xx, n. 12, dicembre 1941, pp. 37-41.

38 G. Mussio, Il pittore Emilio Longoni, ivi, a. xiii, n. 7, luglio 1935, pp. 44-45.

39 M. Sironi, Antelami…, pp. 39-47.

40 Idem, Terra di Pisa…, pp. 27-35.

41 C. Giacchetti, Nel v centenario della morte di Masaccio, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. VII, n. 1, gennaio 1929, pp. 43-47.

42 G. Basevi, Il Beato Angelico decoratore, ivi, a. ix, n. 9, settembre 1931, pp. 35-38.

43 M. Sironi, Melozzo…, inserto tra p. 44 e p. 45.

44 M. Tortora, Pietro Vannucci detto il Perugino, ivi, a. xviii, n. 5, maggio 1940, pp. 41-49.

45 G. Pazzi, Isabella d’Este e Mantegna, ivi, a. ix, n. 10, ottobre 1931, pp. 35-37.

46 P. Cottafavi, Correggio ed il suo “Antonio laetus”, ivi, a. xii, n. 12, dicembre 1933, pp. 40-41; M. Sironi, Correggio…, pp. 31-39.

47 M. Tortora, Il Parmigianino, ivi, a. xviii, n. 2, feb-braio 1940, pp. 38-45.

48 G. Rocca, La mostra del Settecento italiano a Venezia. Pace e Guerra, ivi, a. vii, n. 8, agosto 1929, pp. 33-35.

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49 A. Cipollato, Il palazzo Rezzonico e il nuovo museo del ‘700 veneziano, ivi, a. xiii, n. 9, settembre 1935, pp. 39-45; G. Silvestri, Venezia del Settecento nel Palazzo Rezzonico, ivi, a. xiv, n. 5, maggio 1936, pp. 36-42.

50 A. Cipollato, Sale nuove nel Palazzo Ducale, ivi, a. xiv, n. 10, ottobre 1936, pp. 37-44.

51 Idem, La mostra del Tintoretto, ivi, a. xv, n. 4, aprile 1937, pp. 35-45.

52 In merito alla politicizzazione fascista del mito di Roma si segnala, per esempio, il breve ma denso articolo di J. Nelis, Imperialismo e mito della romanità nella Terza Roma Mussoliniana, in “Forum Romanum Belgicum”, e-reveu de l’Institut historique belge de Rome, 2012 (http://kadoc.kuleuven.be/bhir-ihbr/doc/3_forum_nelis.pdf).

53 Un’analisi relativa alle matrici culturali del fasci-smo e del suo colonialismo è rintracciabile, ad esempio, in M. Cagnetta, Antichisti e impero fascista, Dedalo, Bari 1979. Si segnala invece, per il suo intreccio di studi dedicati al tema della strumentalizzazione della classicità da parte fascista nell’ambito della questione razziale, M. Giugman, C. Parodo, Nigra Subucula Induti: immagine, classicità e questione della razza nella propaganda dell’Italia fascista, CLEUP, Padova 2011.

54 Si veda in proposito, per quanto riguarda ad esempio il caso libico, il testo di M. Munzi, L’epica del ritorno. Archeologia e politica nella Tripolitania italiana, «L'Erma» di Bretschneider, Roma 2001. L’autore

accenna, tra le altre cose, al tema delle riviste arche-ologiche, divise tra rigore scientifico e propaganda politica, e alla questione della colonizzazione antica e moderna nella pubblicistica di regime. Sempre per la Libia, si veda S. Altekamp, L’azione archeologica fra indirizzo scientifico e intervento politico: il caso dell’archeo-logia libica 1911-1943, in “Quaderni di Storia”, n. 41, gennaio-giugno 1995, 101-113; Idem, Italian Colonial Archaeology in Lybia 1912-1942, in Archaeology under dictatorship, edited by M. L. Galaty, C. Watkinson, New York 2004, pp. 55-72. Per la specifica zona tri-politana di Sabratha si veda il recente contributo di M. Munzi, Quarant’anni di archeologia coloniale a Sabratha, 1911-1951, in Il museo di Sabratha nei disegni di Diego Vincifori. Architettura e archeologia nella Libia degli anni Trenta, a cura di L. Musso, L. Buccino, All’insegna del giglio, Borgo S. Lorenzo 2013, pp. 203-213. Più in generale, per gli intrecci tra archeologia mediterranea e politica italiana del primo Novecento, si veda inoltre M. Petricioli, Archeologia e Mare nostrum. Le missioni archeologiche nella politica mediterranea dell’Italia, 1898-1943, V. Levi, Roma 1990.

55 Per una visione generale del mito fascista dell’im-pero, nonché della tematica archeologica ad esso cor-relato, si veda per esempio A. Argenio, Il mito della romanità nel ventennio fascista, in Il mondo classico nell’im-maginario contemporaneo, a cura di B. Coccia, Apes, Roma 2008, pp. 81-178.

56 A proposito di tali articoli, tuttavia, è necessa-rio tenere in considerazione sia il fatto che gli stessi

vengono scritti per la pubblicazione in una rivista di regime, sia il fatto che tale rivista era pensata per una tipologia di pubblico molto ampia e variegata. Detto ciò, non stupirà di incontrare nei testi ampollosità retoriche sulla storia romana, mitologia e resoconti romanzati sulle fondazioni e sulla presenza romana in questa o quella regione. Articoli di carattere sto-rico-narrativo talvolta persino inclini a descrizioni più liriche che oggettive, certamente adatti anche a lettori non esperti in campo archeologico, si alternano a più seri testi informativi, anch’essi talvolta farciti di accenni storico-mitologici, redatti non da semplici articolisti o scrittori letterari, ma dagli stessi archeo-logi che avevano diretto ricerche e scavi.

57 G. Giulini, Le colonne e la basilica di San Lorenzo in Milano, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. viii, n. 11, novembre 1929, pp. 58-61; F. Pertile, A Brescia si scava la città romana, ivi, a. xix, n. 5, maggio 1941, pp. 71-78.

58 A. Cipollato, Nel xiii centenario della cattedrale di Torcello, ivi, a. xvii, n. 9, settembre 1939, pp. 33-41; Idem, Colonizzazioni romane: Aquileja, ivi, a. xviii, n. 8, agosto 1940, pp. 47-54; A. Nicotera, Storia e chiese di Grado, ivi, a. xix, n. 4, aprile 1941, pp. 34-41; Idem, La Basilica di Trieste: San Giusto, ivi, a. iv, n. 6, giugno 1926, pp. 50-55; Idem, Il colle di San Giusto, ivi, a. xiii, n. 10, ottobre 1935, pp. 32-37; Idem, Il Teatro Romano di Trieste, ivi, a. xvii, n. 10, novembre 1938, pp. 76-83; B. M., Il restauro della Basilica Eufrasiana di Parenzo, ivi, a. xv, n. 10, ottobre 1937, pp. 39-44;

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F. Pertile, Romanità di Pola, ivi, a. xix, n. 12, dicembre 1940, pp. 35-40.

59 A. Pica, Italianità della Dalmazia, ivi, a. xix, n. 5, maggio 1941, pp. 64-70. L’articolo qui menzionato è di Agnoldomenico Pica (Padova 1907-Milano 1990) architetto, critico e storico dell’architettura, nonché figura di spicco della pubblicistica italiana; egli è noto per i suoi numerosi saggi sulla storia e sugli sviluppi più recenti dell’architettura, come nel caso di Architettura moderna in Italia del 1941 e di Architettura italiana ultima del 1959, ma anche per testi dedicati ad artisti contemporanei come Mario Sironi, con il quale intrat-tiene tra l’altro un rapporto di amicizia, nonché per la sua collaborazione a riviste quali “Domus”, “Le Arti” e “Casabella”, solo per citarne alcune. Per un appro-fondimento sulla sua figura si vedano Agnoldomenico Pica (1907-1990): premesse per uno studio critico, a cura di L. Roncai, Guerini Studio, Milano 1993; M. V. Capitanucci, Agnoldomenico Pica, 1907-1990: la critica dell’architettura come mestiere, Hevelius, Benevento 2002. Lungo e denso di notizie è l’articolo in questione, in cui Pica fa una veloce disamina di alcuni importanti monumenti siti in diverse città della Dalmazia. Il testo è redatto nel maggio del 1941 e il suo titolo, Italianità della Dalmazia, ne rende evidenti gli scopi: giustificare la recentissima annessione dell’area all’Italia, moti-vandola come una naturale riappropriazione di terri-tori che, sin dall’epoca romana, erano stati fortemente influenzati dalla cultura e dalla tradizione artistica italiana. È da notare come in questo caso Pica miri veramente a sottolineare ‘l’italianità’ della Dalmazia, intendendo con italianità non un sinonimo di roma-nità, come solitamente avveniva, ma un complesso

insieme di esperienze dell’Italia peninsulare che, sep-pur aventi nell’arte romana il loro sostrato costitutivo, si presentano con proprie caratteristiche. Di tali pecu-liarità peninsulari l’autore ricorda quelle di Venezia, dell’Esarcato di Ravenna, della marca anconitana con «la sua nitidissima eco d’arte pisana», la Puglia con il suo romanico «ricco e fantasioso ove si mescolano in novità germi lombardi, siculi e musulmani», ma anche le «note lombarde» e le «suggestioni cosmate-sche del Lazio». Tra le opere citate per i loro influssi variamente ‘latini’, siano essi derivati dall’arte romana, dall’architettura esarcale dell’occidente bizantino o dal romanico medievale, emergono per esempio il Palazzo di Diocleziano a Spalato, le chiese di Sant’Anastasia e di Sant’Antonio (poi San Grisogono) a Zara, il chiostro di S. Eufemia in Arbe, il portale di Radovano per la cattedrale di Traù, il chiostro dei francescani a Ragusa realizzato da Michele ‘petraro’ di Antivari, i basso-rilievi del Duomo di Spalato. Come esempi dell’in-fluenza veneziana trecentesca e quattrocentesca l’autore menziona, invece, il cortile del palazzo del Comune di Traù, il palazzo dei Palladini e il duomo di Lesina, il palazzetto comunale di Spalato. Scrive Pica a p. 65: «La romanità di Spalato e di tutto il litorale dalmatico spiega con parole romane, dedotte con provinciale fran-chezza dall’eloquio dell’Urbe, talune delle più fervide linfe che vivificheranno le splendenti frasi bizantine, dall’altra parte si riallaccerà – attraverso quel mirabile gioiello ch’è il S. Donato di Zara – alla fioritura esarcale dell’alto Adriatico, ricollegandosi così, anche nella filiazione indiretta, a una gloria interamente latina e inequivocabilmente italica. All’arte esarcale che irradia prestigiosi fulgori da Ravenna, da Venezia, da Grado, da Parenzo, dovettero appartenere la primitiva

S. Anastasia e il S. Antonio (poi S. Grisogono) di Zara, così come vi appartengono il mirabile organismo cen-trale triabsidato del S. Donato, e pure quel chiostro di S. Eufemia in Arbe dove il ritmo pesante, solenne e rattenuto delle basse arcate, le tese superfici delle mura di pietra, l’inconsuetudine della loggia quasi a feritoia orizzontale, richiamano con insistenza uno scenario che direi “prepolentano” ripensando alla Romània sull’altra sponda adriatica, se già dalle esaltate mura della solare Parenzo non rispondessero anche più prossimi echi mediterranei. L’architettura romanica della Dalmazia, contrariamente a quanto accade nell’alto Adriatico con la fioritura veneto-bizantina che nasce dall’arte esarcale, postula modelli, non dirò più italiani (che dire non lo potrei) ma più peninsulari: l’architettura lombarda e quella pisana. E per la prima, che in effetti dominò l’Europa intera, il fenomeno è ovvio, mentre per la seconda che si espande dalla Sardegna – per Pisa, Lucca e Ancona – sino appunto alle Dinariche, il fatto riesce più singolare e più circonstanziatamente italiano».

60 L. M. Ugolini, Gli scavi di Butrinto, ivi, a. vii, n. 8, agosto 1930, pp. 44-49. È da intravedere un certo interesse geopolitico, ancor prima che scientifico, nella missione archeologica che il governo mussoliniano invia in Albania alla metà degli anni Venti. La spedi-zione, guidata dall’archeologo Luigi Maria Ugolini, viene motivata, in parte, con i festeggiamenti per il secondo millenario di Virgilio: nell’Eneide, infatti, l’antico scrittore mantovano narra, nel terzo libro, l’episodio della sosta di Enea nella città di Butrinto, sita appunto in Albania, dove Eleno, figlio di Priamo scampato alla caduta di Troia, era divenuto re.

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61 A. Cipollato, I venti secoli di dominio italiano su Corfù, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. xix, n. 6, giugno 1941, pp. 35-41. Un’implicita giu-stificazione dell’annessione dell’isola di Corfù all’Italia è quanto sembra animare lo scritto che, nel giugno del 1941, viene realizzato da Angelo Cipollato per la testata; l’articolo è dunque paragonabile a quello di Pica relativo all’area dalmata, dal quale tuttavia si distingue per alcune differenze: mentre quello del critico padovano punta sulle influenze e le affinità artistiche tra Italia e Dalmazia, il testo di Cipollato sottolinea principalmente le vicissitudini storiche che avevano intrecciato i destini dell’isola greca a quelli della penisola italiana. Secondariamente, si noti che in questo caso non è la storia romana a predominare, bensì quella veneziana: qui, infatti, la città della laguna veneta è totalmente insignita del titolo di erede di Roma, visto che lo scrittore, citando una frase altrui, scrive che Venezia «aveva compreso di essere l’erede della potenza navale romana e mirò sempre ad essere la Metropoli Cattolica e la Roma Cristiana del mare».

62 S. Aurigemma, Scoperte nella patria di Plauto, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. vi, n. 9, settembre 1928, pp. 37-44; Idem, Gli ultimi scavi di Sarsina, ivi, a. viii, n. 2, febbraio 1930, pp. 36-42; A. Colasanti, La necropoli di Spina, ivi, a. vi, n. 11, novem-bre 1928, pp. 34-44; S. Aurigemma, Nuovi mosaici emiliani, ivi, a. x, n. 11, novembre 1931, pp. 41-48; Idem, Rimini e il suo museo, ivi, a. xii, n. 3, marzo 1934, pp. 35-39; Idem, L’Arco di Augusto a Rimini, ivi, a. xiv, n. 10, ottobre 1934, pp. 49-53; P. Domenichelli,

L’Arco di Augusto a Fano e il suo ripristino voluto dal Duce, ivi, a. xiv, n. 5, maggio 1936, p. 47; S. Aurigemma, Romanità di Velleia, ivi, a. xv, n. 2, febbraio 1937, pp. 33-41; Idem, Città romane dell’Emilia: Claterna e Forum Cornelii, ivi, a. xvii, n. 9, settembre 1939, pp. 47-51; L. Ugolini, Heba la misteriosa, ivi, a. xv, n. 7, luglio 1937, pp. 45-57; G. G. Mannucci, Chiusi etrusca e romana, ivi, a. xviii, n. 10, ottobre 1940, pp. 39-44; G. M., Misa etrusca risorge dal silenzio dei secoli, ivi, a. xx, n. 9, settembre 1942, pp. 40-43.

63 R. Papini, Il Tempio della Fortuna Virile, ivi, a. iii, n. 12, dicembre 1925, pp. 42- 47; M. Corsi, Un teatro di duemila anni fa, ivi, a. v, n. 8, agosto 1927, pp. 40-44; C., L’ “Emporio” trajaneo, ivi, a. vi, n. 10, ottobre 1928, pp. 49-52; I restauri ai mercati del Foro Traiano, ivi, a. viii, n. 12, dicembre 1929, pp. 44-47; M. Corsi, Il Circo Massimo torna alla luce, ivi, a. vii, n. 2, febbraio 1929, pp. 45-48; O. Dinale, Via dell’Impero, ivi, a. xi, n. 9, settembre 1933, pp. 38-39; Idem, La Mole Adriana, ivi, a. xii, n. 6, giugno 1934, pp. 33-36; G. Calza, Il cimitero del porto di Roma Imperiale, ivi, a. ix, n. 6, giu-gno 1931, pp. 46-51; Idem, I nuovi scavi di Ostia, ivi, a. xviii, n. 5, maggio 1940, pp. 7-14.

64 M. Novelli, Un trittico: Caserta vecchia - La reggia - L’anfiteatro romano, ivi, a. iv, n. 12, dicembre 1926, pp. 40-48; F. Stocchetti, Le catacombe di Cimitile e quelle di Napoli, ivi, a. viii, n. 9, settembre 1930, pp. 38-42; L. Rusticucci, Gli ultimi scavi di Paestum, ivi, a. ix, n. 4, aprile 1931, pp. 42-45; A. Maiuri, La Villa dei Misteri, ivi, a. x, n. 12, dicembre 1931, pp. 37-50; E. Gabrici, Un decennio di scavi e di scoperte a Selinunte, ivi, a. iii, n.

4, 15 aprile 1925, pp. 25-31; F. L. Belgiorno, Ispica: la città sotterranea, ivi, a. viii, n. 1, gennaio 1930, pp. 35-40; Idem, Sciacca, la città delle terme, ivi, a. x, n. 2, febbraio 1932, pp. 45-50; S. Aurigemma, Scoperte nella patria di Plauto, ivi, a. vi, n. 9, settembre 1928, pp. 37-44.

65 F. Ciarlantini, Resti romani in Siria, ivi, a. xi, n. 5, maggio 1933, pp. 39-43.

66 O. Pedrazzi, La frontiera di Roma in Oriente: Gerasch, ivi, a. vi, n. 1, gennaio 1928, pp. 43-49.

67 G. G., Siria romana: le rovine di Eliopolis, ivi, a. xii, n. 1, gennaio 1934, pp. 41-43.

68 F. Ciarlantini, Resti romani in Siria…, p. 43.

69 U. Ajelli, Cirene, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. iv, n. 2, febbraio 1926, pp. 52-53; Idem, Scavi a Cirene, ivi, a. xi, n. 12, dicembre 1932, pp. 46-47.

70 U. Ajelli, Cirene…, p. 52.

71 U. Ajelli, Scavi a Cirene…, p. 46.

72 Ivi, p. 46-47.

73 Tripoli risorta, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. ii, n. 2, febbraio 1924, pp. 23-29.

74 Ivi, p. 23.

75 Si veda, per esempio, quanto scrive De Amicis nella sua Costantinopoli del 1878: «l’edera e le macerie coprono le fondamenta delle regge, sul suolo degli anfiteatri cresce l’erba dei cimiteri, e poche iscrizioni

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calcinate dagli incendi o mutilate dalle scimitarre degl’invasori rammentano che su quei colli vi fu la metropoli meravigliosa dell’Impero d’Oriente. Su que-sta immane rovina siede Stambul, come un’odalisca sopra un sepolcro, aspettando la sua ora» (citazione tratta da M. Bernabò, Ossessioni bizantine e cultura arti-stica in Italia, Liguori, Napoli 2003, p. 49).

76 Tripoli risorta…, p. 23.

77 Vestigia romane fra le sabbie del deserto, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. ii, n. 3, marzo 1924, pp. 24-25.

78 Egli fu infatti governatore negli anni Venti sia dell’Oltregiuba somalo che, successivamente, dell’Eritrea.

79 C. Zoli, Città romane che risorgono dalle spiagge tri-politane, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. ii, n. 5, maggio 1924, pp. 20-23.

80 Idem, La terza città della ‘Tripolis’. Gli scavi archeolo-gici di ‘Sabrata’, ivi, a. ii, n. 6, giugno 1924, pp. 21-23.

81 La Tripolitania sconosciuta. Gadàmes bianca città del silenzio e del mistero, ivi, a. ii, n. 8, agosto 1924, pp. 19-22.

82 Z. V., Gli ultimi scavi di Leptis Magna e Sabrata, ivi, a. ii, n. 3, 15 marzo 1925, pp. 40-43.

83 Le statue delle Terme di Leptis Magna, ivi, a. iii, n. 5, 15 maggio 1925, pp. 44-45.

84 Ivi, p. 44.

85 R.B., La città che risorge dalla sabbia: Leptis Magna, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. vi, n. 8, agosto 1928, pp. 23-27.

86 S. Guida, L’Italia all’Esposizione Internazionale Coloniale di Parigi, ivi, a. ix, n. 8, agosto 1931, pp. 21-26.

87 E.M., Antichità romane nella Tunisia, ivi, a. xvi, n. 3, aprile1938, pp. 43-47.

88 Ivi, p. 44.

89 E. M., Antichità romane della Tunisia, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. xvi, n. 7, agosto 1938, pp. 47-51.

90 Ivi, p. 48.

91 E. M., Antichità romane in Tunisia, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. xvii, n. 11, dicembre 1938, pp. 51-55.

92 A. Salvo, Monumenti di Roma sulle frontiere del mondo, ivi, a. xiii, n. 1, gennaio 1935, pp. 39-41.

93 Ivi, p. 39.

94 Mario Sironi (Sassari, 1885-Milano, 1961). Artista eclettico, studia a Roma presso la Scuola Libera del Nudo dell’Accademia di Belle Arti dopo aver abbando-nato la facoltà di ingegneria nel 1902; dapprima aderi-sce al futurismo, poi, entrato in contatto con Margherita Sarfatti, è nei primi anni Venti tra i fondatori del gruppo

dei Sette pittori del Novecento. Prolifico pittore e illustratore di quotidiani e riviste, di cui si ricorda la sua collaborazione con “Il Popolo d’Italia” iniziata nel 1922, negli anni Trenta si dedica all’arte murale, realizzando grandi cicli celebrativi pittorici, musivi e scultorei, quali per esempio l’Aula Magna dell’Univer-sità di Roma, il Palazzo di Giustizia a Milano, l’Aula Magna dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, il Palazzo dei Giornali di Milano. Nel dopoguerra, con la forzata rinuncia all’attività connessa alla committenza pub-blica, Sironi continua a lavorare in posizione appartata riprendendo i temi delle periferie urbane e realizzando tele improntate ad una certa monumentalità. Negli anni Cinquanta, caratterizzati dalle nuove soluzioni della serie Moltiplicazioni, ottiene vari riconoscimenti, come la medaglia d’oro per i «benemeriti della cultura» dal Ministero della Pubblica Istruzione. Cfr. F. Dogana, ad vocem Sironi Mario, in Dizionario biografico degli artisti, in La pittura in Italia. Il Novecento/1. 1900-1945, t. ii, Electa, Milano 1992, pp. 1072-1073; E. Pontiggia, Biografia breve di Mario Sironi, reperibile nel sito della Associazione per il Patrocinio e la Promozione della Figura e dell’Opera dell’artista (http://www.mariosi-roni.org/biografia.html). Molto ampia è la bibliografia specifica relativa all’artista; per quanto riguarda la sua attività di illustratore, spesso connessa all’ambito della politica, si vedano per esempio Mario Sironi. L’Italia illustrata, catalogo della mostra (Rapallo, Antico Castello sul Mare), a cura di M. Margozzi e P. Rum, Milano 2007; Mario Sironi. L’arte della satira, catalogo della mostra (Milano, Fondazione Piero Portaluppi),

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a cura di A. Negri, M. Sironi, Milano 2004; Mario Sironi. Illustrazioni per “Il Popolo d’Italia” edite e ine-dite, catalogo delle mostre (Sassari, Museo Campoleno; Cagliari, Castello di San Michele), a cura di C. Gian Ferrari, Charta, Milano 2002; F. Benzi, A. Sironi, Sironi illustratore. Catalogo ragionato, De Luca edizioni d’arte, Roma 1988; E. Braun, Illustrations of Propaganda: The PoliticalDrawings of Mario Sironi, in “The Journal of Decorative and Propaganda Arts”, V, 3, Winter 1987, pp. 84-107; Mario Sironi, disegni politici 1916-1940, catalogo della mostra (Torino 31 ottobre-13 novembre 1964), a cura di M. De Micheli, Galleria d'arte moderna Viotti, Torino 1964.

95 M. Sironi, La Marcia su Roma, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. ii, n. 10, ottobre 1924, tavola tra p. 8 e p. 9.

96 Per un approfondimento sulla storia e sull’evolu-zione iconografica di tale soggetto si veda, per esem-pio, N. Bazzano, Donna Italia. Storia di un’allegoria dall’antichità ai nostri giorni, Colla, Costabissara 2011. L’autrice tuttavia, riferendosi alla simbologia e ai temi più apprezzati in ambito artistico durante il regime, sostiene che ci sia stato un «sostanziale inutilizzo dell’allegoria di Italia durante il Ventennio fascista».

97 A tale proposito si veda l’interessante repertorio di immagini, corredato da un breve testo introdut-tivo, presente in Mario Sironi. L’arte della satira…, pp. 124-135.

98 Per altri esempi di tavole e copertine sironiane presenti nella rivista e connesse a tale personificazione

si vedano: M. Sironi, L’incubo di ieri, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. iii, n. 3, 15 marzo 1925, p. 7; Idem, Italia Imperiale, ivi, a. iv, n. 4, aprile 1926, tavola tra p. 16 e p. 17; Idem, Il cuore della Patria è salvo, ivi, a. iv, n. 9, settembre 1926, p. 13; Idem, Sul Brennero c’è in piedi, con i suoi vivi e con i suoi morti, tutta l’Italia, ivi, a. vi, n. 3, marzo 1928, p. 10; Idem, L’augurio che non passi nel 1931, ivi, a. ix, n. 12, dicem-bre 1930, tavola tra p. 12 e p. 13; Idem, La grandezza di una Nazione è misurata dalla vastità degli interessi da difendere e anche dall’importanza e dalla nobiltà dei doveri da compiere, ivi, a. ix, n. 3, marzo 1931, tavola allegata tra p. 8 e p. 9; Idem, L’Italia fa da sé, ivi, a. x, n. 4, aprile 1932, tavola tra p. 12 e p. 13; Idem, L’Italia è in linea, ivi, a. xiii, n. 9, settembre 1935, p. 6; Idem, Copertina, ivi, a. iv, n. 11, novembre 1926; Idem, Copertina, ivi, a. viii, n. 11, novembre 1929; Idem, Copertina, ivi, a. xix, n. 5, maggio 1941.

99 Caratteristica da cui deriva la dicitura “Italia turrita”.

100 Per un approfondimento relativo al macrotema della stella, analizzato in correlazione alla sua impor-tanza all’interno della simbologia nazionale italiana, si veda G. Lista, La Stella d’Italia, Mudima, Milano 2011.

101 La quale viene detta, in questo caso, “Italia stellata”.

102 In cui però, si noti, la rappresentazione mostra una stella a sei punte.

103 Nelle varie illustrazioni presenti nella rivista tale arma talvolta varia, presentandosi sia come una lunga spada, sia come un gladio, spada di più piccole

dimensioni, o infine come un parazonio, corta spada a lama triangolare che prende il nome dal cinturone a cui l’appendevano i tribuni militari e gli ufficiali superiori dell’esercito romano. Del parazonio come attributo tipico della personificazione di Roma discorre ancora nel 1603 Cesare Ripa il quale, descrivendo l’iconografia del Lazio in cui compare non solo un barbuto Saturno seduto in una grotta ma anche una figura femminile armata, dice: «Vedrassi per il Latio l’antico Saturno, cioè un huomo con barbalonga, folta et canuta, in una grotta, tenendo in mano la falce esopra la detta grotta si rappresenta una donna a sedere sopra d’un mucchio di diverse arme et armature. Terrà in capo un celatone guarnito in cima di belle penne et nella destra mano una corona, overo un ramo di lauro, et nella sinistra il parazonio, il quale è spada corta, larga et spuntata […]. Per la donna sedente sopra della grotta si dimo-stra Roma, la quale, essendo posta sul Latio, non solo come cosa famosissima singularmente dichiara questo paese, ma li fa commune tutto il suo splendore et la sua gloria, oltre che per altro vi sta bene la detta figura, percioché Roma anticamente hebbe nome Saturnia […]. Nella guisa che si è detto si rapresenta Roma, come hoggi di lei si vede una nobilissima statua di marmo antica negl’horti degli illustrissimi Sig. Cesi nel Vaticano. Il ramo di lauro, overo la corona del medesimo, oltre il suo significato, che è di vittoria et trionfi, che per segno di ciò si rapresenta sopra l’armi già dette, denota anco la copia di lauri di che abonda questa Provincia […]». Si segnala qui l’utile progetto di biblioteca virtuale on-line, a cui si è fatto riferi-mento per il testo di Ripa, nato dalla collaborazione tra

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l’Istituto di Studi sul Rinascimento e Signum-Centro di ricerche informatiche per le discipline umanistiche della Scuola Normale di Pisa, e avvalsosi della colla-borazione del Department of History della Harvard University (http://bivio.filosofia.sns.it).

104 Si veda, anche in questo caso, l’Iconologia di Ripa e le varie descrizioni che egli dà dell’allegoria in que-stione, alcune delle quali derivate dalla medaglistica antica.

105 Per quanto riguarda la personificazione dell’Italia non vanno tuttavia scordati la funzione e l’apporto dato alla sua iconografia dalla tradizione romanti-co-risorgimentale, di cui tuttavia gli illustratori della rivista, Sironi in primis, sembrano evitare gli aspetti più femminei, sentimentali e malinconici; l’allegoria viene spesso disumanizzata e, talvolta, mascolinizzata, acquisendo di fatto i caratteri di una massiccia statua vivente dall’aspetto androgino.

106 Per una veloce panoramica sull’iconografia del fascio littorio, le sue origini antiche, il suo riutilizzo e le modalità della sua diffusione durante il Ventennio, si vedano gli interessanti saggi di P. S. Salvatori, Romanità e fascismo: il fascio littorio, in “Forma Urbis”, a. xviii, n. 6, giugno 2013, pp. 6-13; Eadem, Liturgie immaginate: Giacomo Boni e la romanità fascista, in “Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci”, a. liii, n. 2, aprile-giugno 2012, pp. 421-438; Eadem, L’adozione del fascio littorio nella monetazione dell’Italia fascista, in “Rivista italiana di numismatica e scienze affini”, a. cix (2008), pp. 333-352. Sul rapporto tra fascismo e

antichità romana, si veda inoltre della stessa autrice il recente articolo Fascismo e romanità, in “Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci”, a. lv, n. 1, gennaio-marzo 2014, pp. 227-239. Si segnala che i testi qui menzionati sono reperibili anche on-line in “Academia.edu-share research” nella pagina dell’au-trice (https://scuola.academia.edu/PaolaSSalvatori).

107 Una caratteristica che incide nel determinare il protagonismo ed il carattere più o meno autonomo del fascio nei riguardi dell’allegoria dell’Italia, nel caso in cui siano entrambi presenti in un’immagine, è certamente quella delle maggiori o minori dimensioni del primo nei riguardi della seconda.

108 Fortunato Depero (Fondo/TN, 1892-Rovereto/TN, 1960). Dopo un’iniziale suggestione per il sim-bolismo Jugend si trasferisce a Roma sul finire del 1913, entrando così in contatto con i futuristi Balla e Boccioni. Nella seconda metà degli anni Venti, in seguito alla commissione per la scenografia de Le chant du Rossignol dei Balletti Russi di Diaghilev, progetto poi non realizzato, si assiste ad un progressivo distacco dell’artista dalle problematiche del dinamismo pla-stico-futurista e la frequentazione dell’ambiente dei pittori cubo-costruttivisti russi conduce la sua pittura verso una singolare sintesi del clima delle avanguardie figurative. Attirato dalla sperimentazione teatrale, di cui si ricordano I Balli plastici, è attento anche alla sperimentazione nell’ambito delle arti decorative e applicate, il cui centro di propulsione è la sua Casa d’Arte di Rovereto, aperta nel 1919. Un viaggio a New

York, sul finire degli anni Venti, lo porta a contatto con suggestioni di tipo metropolitano, oltre che offrirgli la possibilità di approfondire le sue ricerche nel campo della grafica pubblicitaria; lavora nel frattempo per le maggiori riviste dell’epoca, quali “Vogue” e “Vanity Fair”. Varie le sue partecipazioni a Mostre Sindacali d’Arte nella seconda metà degli anni Trenta. Sul finire degli anni Quaranta trascorre nuovamente un periodo a New York, mentre negli ultimi anni Cinquanta apre la Galleria Museo Depero, dedicata al futurismo ita-liano. Cfr. G. Barbera, ad vocem Depero Fortunato, in Dizionario biografico degli artisti, in La pittura in Italia. Il Novecento/1. 1900-1945, t. ii, Electa, Milano 1992, p. 861. In particolare, sulla collaborazione di Depero con la rivista in esame, si veda M. Sironi, Fortunato Depero e “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, in Forme e modelli del rotocalco italiano tra fascismo e guerra, atti del convegno (Milano, Università degli Studi di Milano-Facoltà di Lettere e Filosofia, 2-3 ottobre 2008), a cura di R. De Berti e I. Piazzoni, Cisalpino, Cesano Boscone 2009, pp. 625-644.

109 F. Depero, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. ii, n. 7, luglio 1924. A proposito di tale copertina, Marta Sironi scrive: «non si tratta più di una semplice illustrazione, quanto di un complesso disegno dell’intera pagina che si presenta alla fine come un ‘oggetto’ autonomo di sorprendente impatto visivo. Emerge un senso di appartenenza nazionale (il fascio littorio viene reiterato dando il senso di un giocoso e festante sventolare), senza però che l’immagine sia forzatamente sfacciata […]». Cfr. M. Sironi, Fortunato

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Depero e “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”…, p. 627. Nello stesso saggio, inoltre, l’autrice presenta un bozzetto ideato dallo stesso artista per la copertina di dicembre 1924 della rivista in esame; tale bozzetto, conservato al Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, presenta, come nota Marta Sironi, un fascio littorio in qualità di nuovo Gesù Bambino; il simbolo fascista è posto al centro del disegno, attor-niato da collinette su cui sventolano bandiere e tricolori nazionali, il tutto sormontato da tre stelle comete. Il bozzetto, non accettato per la copertina natalizia proba-bilmente in relazione alla sua estrema vena dissacrante, viene però riutilizzato nella sua impostazione generale per la copertina del gennaio 1925, in cui tuttavia il fascio viene sostituito dalla scritta in verticale delle cifre del nuovo anno. Cfr. M. Sironi, Fortunato Depero e “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”…, p. 629.

110 M. Sironi, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. viii, n. 6, giugno 1930.

111 A proposito di tale artista, la cui figura non va confusa con quella più celebre del regista Damiano Damiani nato negli anni Venti quando il nostro è già attivo, non è stato purtroppo possibile reperire alcuna nota biografica. Paola Pallottino, nella sua Storia dell’illustrazione italiana, ricorda un Damiano Damiani “pubblicista italiano”, informazione che a sua volta trae da La paraletteratura. Il melodramma, il romanzo popolare, il fotoromanzo, il romanzo poliziesco, il fumetto, a cura di N. Arnaud, F. Lacassin, J Tortel e M. Rak per l’ed. ital., Liguori, Napoli 1977, p. 102 (cfr. P. Pallottino, Storia dell’illustrazione italiana. Cinque secoli di immagini

riprodotte, Usher Arte, Firenze 2011, p. 210). Nello stesso volume, nell’indice degli illustratori, vi sono altri due riferimenti connessi al nome di Damiano Damiani, l’uno in relazione alla rivista in esame (cfr. P. Pallottino, Storia dell’illustrazione italiana..., p. 342), l’altro connesso al fumetto “L’Asso di Picche”, nato nella seconda metà degli anni Quaranta (cfr. P. Pallottino, Storia dell’illu-strazione italiana..., p. 448); quest’ultima notizia va però ricollegata al Damiani regista, e non all’autore delle tavole della Rivista Illustrata. Nel testo Eia, Eia, Eia, Alalà! La stampa italiana sotto il fascismo 1919/1943, a cura di O. Del Buono, Feltrinelli, Milano 1971, viene riprodotto in copertina un disegno a colori realizzato a sua volta dal nostro per la copertina del febbraio del 1926 della rivista in esame; l’artista, in tale volume, viene citato nell’indice degli illustratori, che rimanda ad alcune sue immagini utilizzate nel testo; esse sono tratte rispettivamente da “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, da “Il Popolo d’Italia”, da “Il Bargello” e dal “Vademecum dello stile fascista”. Considerando dunque la continuità del lavoro di tale autore per la testata in esame, nonché la presenza della sua firma nelle altre riviste e opere sopra citate, si può supporre che all’epoca egli fosse conosciuto e certamente attivo all’interno del settore dell’illustrazione. Probabilmente, prima di arrivare a firmare le pagine della rivista illustrata egli faceva già parte, come Sironi, dell’entourage artistico utilizzato da Mussolini per il quotidiano.

112 D. Damiani, L’Italia di Mussolini, ivi, a. iv, n. 11, novembre 1926, p. 18.

113 Idem, La Marina d’Italia nel mondo, ivi, a. v, n. 10, ottobre 1927, p. 8.

114 Idem, La porta, il chiavistello e… l’invidia, ivi, a. vii, n. 3, marzo 1929, p. 12.

115 Enzo Bifoli (Firenze 1882-Genova 1965). Architetto, pittore e disegnatore tendente al monu-mentale e incline a un certo gusto tardo secessionista. Giovanni Costanzi, nella sua Prefazione al volume che l’artista stesso dedica ai propri Progetti e schizzi architet-tonici e decorativi, scrive che Bifoli è «asiatico nella dovi-zia, nell’imponenza delle imagini» e che «la moderna corteccia del suo cervello rinchiude una midolla lus-suriosamente orientale», e continua asserendo che «tutto è grandioso, tutto è enorme, tutto è fantastico in lui». Antonietta Maria Besssone-Aurelj, nel suo Dizionario dei pittori italiani, lo dice di nascita genovese e lo segnala come disegnatore particolare di S.A.R. il Duca d’Aosta; la stessa Bessone-Aurelj scrive: «[…] sue opere furono acquistate per la gall. D’Arte Moderna di Genova. Decorato di medaglia d’oro del municipio di Genova alla Mostra Umoristica Nazionale. Illustratore del Secolo di Milano. Vice Direttore Architettonico e pittore dell’Esposizione Internazionale di marina di Genova (1914). Decorò col De Alberti l’Odeon; decorò il palazzo Celesia e fece molte opere di architettura». Cfr. ad vocem Bifoli Enzo, in K. G. Sauer, Allgemeines Künstlerlexikon, München-Leipzig 1999, vol. ii, p. 5; ad vocem Bifoli Enzo, in A. M. Bessone-Aurelj, Dizionario dei pittori italiani, ii edizione ampliata, Albrighi, Segati e C., Città del Castello 1928, p. 160; G. Costanzi, Prefazione, in E. Bifoli, Progetti e schizzi architettonici e decorativi, C. Crudo, Torino 1915.

116 E. Bifoli, Copertina, ivi, a. x, n. 11, novembre 1931.

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117 Idem, Copertina, ivi, a. x, n. 4, aprile 1932.

118 Idem, Dopo la vittoria il lavoro, ivi, a. xiv, n. 6, giugno 1936, p. 7.

119 D. Damiani, Hic manebimus optime, ivi, a. xiv, n. 5, maggio 1936, p. 11.

120 Guido Marussig (Trieste 1885-Gorizia 1972). Dal 1897 studia pittura alla scuola industriale triestina e, nel 1900, alla Accademia di Belle Arti di Venezia, dove frequenta il corso di decorazione di A. Sezanne e quello di figura di E. Tito; tali studi gli forniscono le basi per le sue principali attività future, ossia la scenografia e la grafica da un lato, e la pittura dall’al-tro. Nel periodo veneziano ha la possibilità di fruire di numerose opportunità di scambio culturale negli ambienti della Biennale, della giovane Ca’ Pesaro e dell’Opera Bevilacqua La Masa, venendo così a con-tatto con artisti inclini allo stile secessionista viennese. Sul finire del 1916 si trasferisce a Milano, dove avvia diverse collaborazioni come illustratore editoriale (per riviste come “La Sorgente”, “Emporium”, “La Lettura”, “Lidel”, “La Trincea”, “L’Italia sul mare”, “Il primato artistico italiano”, “L’Ardita”) e scenografo, come nel caso della messa in scena di La Nave, opera tratta dalla tragedia di D’Annunzio, personaggio con cui, a partire da questo periodo, avvia una stretta collaborazione, che lo porterà, nei primissimi anni Venti, ad essere fra i decoratori delle stanze del Vittoriale dannun-ziano di Gardone. Oltre alle numerose partecipazioni alla Biennale veneziana e alla Triennale milanese, Marussig ricoprì vari incarichi di docenza: insegnò

all’Accademia di Belle Arti e all’Istituto d’Arte di Parma (di cui fu direttore per una quindicina d’anni), per poi passare a Brera. Fu accademico dell’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze e della parmense Accademia di Belle Arti. Cfr. P. Pistellato, ad vocem Marussig Guido, in Dizionario biografico degli artisti, in La pittura in Italia. Il Novecento/1. 1900-1945, t. ii, Electa, Milano 1992, p. 961; ad vocem Marussig Guido, in A. M. Comanducci, Dizionario illustrato di Pittori, Disegnatori e Incisori italiani Moderni e Contemporanei, vol. i, L. Pattuzzi, Milano 1970, pp. 438-439.

121 G. Marussig, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. i, n. 3, novembre-dicembre 1923.

122 È da notare che le prime copertine della rivista risentono ancora della grafica decorativa e tardo seces-sionista dei primi anni del secolo; inoltre, per quanto riguarda Guido Marussig, si riscontra che certi suoi stilemi ben si adattano al clima decadentista dannun-ziano, con cui l’artista era stato a contatto in varie occasioni, quale, per esempio, la decorazione di alcuni ambienti per il Vittoriale iniziata nel 1921.

123 G. Marussig, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. ii, n. 5, maggio 1924.

124 Idem, Copertina, ivi, a. ii, n. 10, ottobre 1924.

125 Reggio, Nel segno di Roma l’Italia costruisce, ivi, a. xi, n. 5, maggio 1933, p. 14.

126 Non si è purtroppo riusciti a reperire notizie su tale autore, peraltro presente in maniera assai sporadica nella rivista.

127 D. Damiani, Roma ponte di civiltà tra i popoli, ivi, a. xi, n. 1, gennaio 1934, p. 7.

128 Copertina, ivi, a. xii, n. 4, aprile 1934. In que-sto caso la copertina, della cui firma non si è riusciti a decifrare la grafia, è il frutto di disegno e collage: l’immagine del simbolo romano è infatti una fedele riproduzione fotografica.

129 D. Damiani, Il destino d’Europa, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. xiv, n. 6, giugno 1936, p. 15.

130 In questo senso si potrebbe vedere nella figura femminile bendata un richiamo all’allegoria della Sorte, cattiva in tal caso, soprattutto per la ripresa del tema della cecità; la donna sarebbe dunque la personi-ficazione dell’Europa a cui è stato aggiunto l’attributo tipico di tale allegoria. Tuttavia, questa condizione di oscurità è per l’Europa temporanea e facilmente reversibile (la benda infatti si può togliere, accettando ovviamente il nuovo stato di cose imposto dall’Italia), diversamente dalla cecità che caratterizza la Sorte, che Ripa descrive, ancora nell’Iconologia del 1603, come una «giovanetta cieca». Il titolo stesso della tavola potrebbe indirizzare verso tale lettura, se non fosse che lì si utilizza il termine «destino» e non «sorte».

131 D. Damiani, Difesa della razza, ivi, n. 8, settem-bre 1938, p. 7.

132 Nei vari numeri del 1934 compaiono più imma-gini attribuite a un artista col cognome Buzzi, tutta-via parrebbe che esse si riferiscano a due disegnatori

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diversi, in quanto mentre tre presentano la medesima grafia nella firma, e sotto ad uno di questi tre disegni la rivista specifica che l’illustratore è R. Buzzi, sotto una quarta immagine, priva però di firma, la testata specifica che il disegno è di B. Buzzi. Non è dunque dato comprendere se si tratti di un errore di stampa della rivista per l’attribuzione dell’ultima immagine o se, effettivamente, si parli di due artisti distinti. L’illustrazione qui presa in considerazione fa parte del gruppo di disegni firmati dalla stessa mano, ove la grafia lascia appunto incertezze sulla lettera del nome anteposta al cognome; da qui dunque l’equivoco tra “R” e “B”. Si veda però in proposito quanto ripor-tato in Bruno Munari, futurismo e oltre…. Avvenimenti e scritti 1926-1940, testo presente nel ricco sito dedi-cato a Bruno Munari (http://www.munart.org/doc/bruno-munari-futurismo-versione-12.pdf), in cui si accenna ad un elenco di alcuni disegnatori attivi per il numero di novembre 1935 della rivista tra cui è citato un certo Rinaldo Buzzi, con il quale si potrebbe dunque identificare l’autore del disegno qui trattato.

133 R. Buzzi, Sintesi, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. xii, n. 6, giugno 1934, p. 37.

134 M. G. Sarfatti, La Mostra della Rivoluzione, ivi, a. xi, n. 11, novembre 1932, pp. 38-53; si veda inoltre O. Dinale, La Mostra della Rivoluzione. Visioni d’arte, ivi, a. xi, n. 6, giugno 1933, pp. 40-43.

135 Ruggero Alfredo Michahelles, in arte RAM (Firenze, 1898-1976). Nato da famiglia benestante e cosmopolita, discendente dallo scultore neoclassico sta-tunitense Hiram Powers, manifesta sin dall’adolescenza

un forte interesse per la pittura e già nel 1914 espone, ancora giovanissimo, a Firenze e in altre città italiane una nutrita varietà di opere, spaziando dal ritratto al paesaggio, dalle acqueforti alle sculture, interessandosi anche di scenografia. È ricordato insieme al fratello Ernesto, eclettico pittore e scultore futurista noto in arte come Thayaht, per l’invenzione e la promozione della ‘tuta’, l’abito universale futurista. Si laurea in chi-mica nel 1923 e, sempre nei primi anni Venti, aderisce al Gruppo Toscano Futurista e a tutte le manifestazioni del movimento coniando lo pseudonimo di RAM. Dalla seconda metà degli anni Venti collabora con varie riviste, quali “Illustrazione Toscana”, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, “Natura”, per le quali realizza copertine e illustrazioni. Nel 1927 si trasferisce a Parigi, ma non vi dimora mai stabilmente; qui si intrattiene con numerosi colleghi stranieri e italiani e matura la tendenza ad uno stile d’ispirazione metafi-sica, realizzato nei termini di una moderna e singolare classicità. Espone in personali e collettive in Italia, Svizzera, Inghilterra e Francia, dove nel 1937 vince il Prix Paul Guillaume. Cfr. G. Ginex, ad vocem Ram (Ruggero Alfredo Michahelles), in Dizionario biografico degli artisti, in La pittura in Italia. Il Novecento/1. 1900-1945, t. ii, Electa, Milano 1992, p. 1036; ad vocem Micaelles Ruggero, in A. M. Comanducci, Dizionario illustrato di Pittori, Disegnatori e Incisori italiani Moderni e Contemporanei, vol. iii, L. Pattuzzi, Milano 1970, p. 2005.

136 R. Michahelles, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XV, n. 11, novem-bre 1936.

137 Bramante Decio Buffoni (Milano, 1890 - Castelvecchio, 1965). Cartellonista attivo in ambito milanese a cavallo del secondo conflitto mondiale con uno stile sintetico-razionalista che guarda agli esiti di Bruno Munari e Luigi Veronesi. Di lui si ricordano alcuni lavori per pagine pubblicitarie. Nel dopoguerra crea alcuni cartelli con linee meno impegnate, come per esempio Borse per acqua calda Pirelli del 1952. Cfr. ad vocem Bramante Decio Buffoni, in G. Dadati, Biografie degli artisti, in L’arte della pubblicità. Il mani-festo italiano e le avanguardie 1920-1940, catalogo della mostra, (Forlì, Musei di San Domenico, 21 settem-bre-30 novembre 2008), a cura di A. Villari, Silvana, Cinisello Balsamo 2008; Dadati in questo caso cita come fonte delle notizie relative all’artista il Catalogo Bolaffi del manifesto italiano. Dizionario degli illustratori, G. Bolaffi, Torino 1995. Si guardi tuttavia anche ad vocem Buffoni Bramante, in K. G. Sauer, Allgemeines Künstlerlexikon, vol. ii, Saur, München-Leipzig 1999, p. 323, dove si segnala tale figura come pittore, grafico e illustratore nato nel 1912 a Giulianova (Teramo); si guardi anche ad vocem Buffoni Decio, in Panorama bio-grafico degli italiani d’oggi, a cura di G. Vaccaro, vol. i, A. Curcio, Roma 1956, p. 241, in cui tale personaggio è segnalato in qualità di giornalista, nato a Milano nel 1890 e ancora vivente nell’anno in cui è stato stampato il volume.

138 B. Buffoni, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. xv, n. 3, marzo 1937.

139 Luigi Broggini (Cittiglio/VA, 1908 - Milano, 1983). Avviato agli studi classici dal padre, nel 1925

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lascia il liceo classico di Varese per iscriversi al liceo artistico di Milano. Nel 1928 frequenta l’Accademia di Brera, seguendo inizialmente il corso di pittura di Aldo Carpi, per passare l’anno successivo a quello di scultura tenuto da Adolfo Wildt. Il suo stile, tuttavia, si differenzia notevolmente da quello del maestro: Broggini mostra un orientamento chiaramente anti-novecentista, caratterizzato da uno modo inquieto e vibrante; l’autore intrattiene rapporti sia con i chia-risti che con il gruppo di artisti che poi si riunirà in Corrente. Per quanto riguarda l’arte straniera, egli guarda all’operato di autori quali Degas e Despiau, mentre per quanto concerne gli italiani egli predilige l’arte di autori come Medardo Rosso. Cfr. F. Dogana, ad vocem Broggini Luigi, in Dizionario biografico degli artisti, in La pittura in Italia. Il Novecento/1. 1900-1945, t. ii, Electa, Milano 1992, pp. 777-778. Per un approfondimento sull’artista, si vedano per esempio L. Cavallo, Luigi Broggini. Opere 1929-1945, Galleria Il Mappamondo, Milano 1990; Broggini e il suo tempo. Uno scultore nell’Italia degli anni ‘30 tra chiarismo e Corrente, catalogo della mostra (Civitanova Marche Alta, Chiesa di S. Agostino, 5 luglio-27 settembre 1998), a cura di E. Pontiggia, Skira, Milano 1998.

140 L. Broggini, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. xv, n. 8, agosto 1937.

141 Copertina, ivi, a. xvii, n. 6, giugno 1939. L’illustrazione non sembra essere firmata, ma come stile si richiama ad altre copertine, sempre non firmate, presenti in vari numeri del periodo bellico. Per certi aspetti il disegno, molto fluido e sbrigativo, si richiama

a quello di alcune grafiche realizzate da Broggini e Rognoni.

142 Marcello Dudovich (Trieste, 1878 - Milano, 1962). Pittore, illustratore, cartellonista italiano. A Milano studia presso Metlicovitz, notevole cartello-nista. Ben presto si distingue per l’abilità nel sinte-tizzare l’idea pubblicitaria in un’immagine di forte richiamo e immediata leggibilità. Collabora inoltre con varie riviste, tra cui il “Simplizissimus” di Monaco di Baviera, il “Travaso”, il “Pasquino”, il “Secolo X”, il “Guerrin Meschino”. Lavora anche come illustratore di libri. Coltiva inoltre la pittura, dedicandosi spe-cialmente ai ritratti di gusto descrittivo e gentilmente ironico. Cfr. G. Ginex, ad vocem Dudovich Marcello, in Dizionario biografico degli artisti, in La pittura in Italia. Il Novecento/1. 1900-1945, t. ii, Electa, Milano 1992, p. 875; ad vocem Dudovich Marcello, in Dizionario enci-clopedico Bolaffi dei pittori e degli incisori italiani, vol. iv, Bolaffi, Torino 1972, p. 225; G. Vergani, ad vocem Dudovich Marcello, in G. Vergani, Dizionario della Moda, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2010, p. 360-62.

143 M. Dudovich, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. i, n. 1, agosto 1923.

144 M. Sironi, La pace è all’ombra delle spade, ivi, a. vi, n. 6, giugno 1928, p. 6.

145 B. Buffoni, Balilla, tavola a colori, ivi, a. xvii, n. 10, novembre 1938, p. 39.

146 Idem, Giovani Fasciste, tavola a colori, ivi, p. 49; Idem, Avanguardisti Giov. Fasc., tavola a colori, ivi, p. 51.

147 Franco Rognoni (Milano, 1913-1999). Studia ai corsi serali della Scuola Superiore d’Arte del Castello Sforzesco e si presenta, per la prima volta, con una mostra personale a Milano nel 1938. Oltre all’opera pittorica, svolge quella incisoria (acquaforte, punta-secca, xilografia); si cimenta inoltre nella realizzazione di scenografie e costumi per opere teatrali; esegue illu-strazioni per libri e periodici, presentandosi in questo campo con disegni di satira e di costume. La sua arte, le cui immagini paiono affiorare da un subconscio infantile, guarda sia ad artisti italiani quali Modigliani, Sironi e Licini, che ad autori stranieri come Picasso, Chagall, Rouault, Grosz, Klee e Kokoschka. Cfr. ad vocem Rognoni Franco, in Dizionario enciclopedico Bolaffi dei pittori e degli incisori italiani, vol. ix, Torino 1972, p. 440; ad vocem Rognoni Franco, in A. M. Comanducci, Dizionario illustrato di Pittori, Disegnatori e Incisori ita-liani Moderni e Contemporanei, vol. iv, Milano 1970, p. 2755.

148 F. Rognoni, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. xxi, n. 1, gennaio 1943. A tale proposito è interessante ricordare un’altra coper-tina realizzata da Rognoni per il numero di marzo del 1942; anche in quell’occasione l’immagine celebrava la prodezza di un antico guerriero ma non romano, bensì giapponese: con lo stringersi dei rapporti creatisi con l’Asse Roma-Tokyo-Berlino celebrare gli alleati, la loro storia e la loro forza diventa un altro compito della stampa periodica. Ecco dunque che sulla copertina del 1942 si impone, in sella ad un cavallo dai tratti spet-trali, la nera figura di un minaccioso samurai, sorta di versione nipponica dei mortiferi cavalieri apocalittici,

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che sembra librarsi in aria sullo sfondo di un grigio orizzonte marino segnato dalla presenza di navi da guerra del Sol Levante. Cfr. F. Rognoni, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. xx, n. 3, marzo 1942.

149 R. Michahelles, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. xii, n. 11, novembre 1933.

150 Bruno Munari (Milano, 1907-1998). A vent’anni aderisce al Movimento Futurista milanese della seconda generazione. Dal 1927 partecipa alle più importanti mostre futuriste e alle principali manifestazioni arti-stiche italiane. Nel dopoguerra è particolarmente attivo nel campo del design, concependo “l’arte come mestiere” destinata a migliorare l’ambiente privato e pubblico in cui viviamo. Cfr. M. Montanari, ad vocem Munari Bruno, in Dizionario biografico degli artisti, in La pittura in Italia. Il Novecento/1. 1900-1945, t. ii, Electa, Milano 1992, p. 992.

151 B. Munari, Copertina, ivi, a. xiv, n. 4, aprile 1936.

152 In questo numero è presente un inserto di ripro-duzioni fotografiche di statue e particolari di bassori-lievi tratti da varie opere della Roma imperiale: appare così il particolare dei gemelli della Lupa Capitolina, un particolare di una statua marmorea di Giulio Cesare, una statua di Augusto seduto e col capo cinto da una corona d’alloro, la statua bronzea di Traiano, particolari dell’Ara Pacis e alcune scene della fondazione della capitale tratte dall’Ara Casali.

153 Alberto Salietti (Ravenna, 1892-Chiavari/GE, 1961). Nel 1904 si trasferisce a Milano, dove si dedica alla pittura frequentando i corsi dell’Accademia di Brera dopo un biennio di studi ginnasiali. Dopo aver combattuto durante la prima guerra mondiale ini-zia ad essere presente a esposizioni e manifestazioni d’arte, nazionali e internazionali; si lega al gruppo del Novecento italiano e diviene segretario del Comitato direttivo del movimento, partecipando alle varie ras-segne organizzate dal gruppo. È inoltre membro del Consiglio superiore per le Antichità e le Belle Arti dal 1933 al 1936. Cfr. L. Selleri, ad vocem Salietti Alberto, in Dizionario biografico degli artisti, in La pit-tura in Italia. Il Novecento/1. 1900-1945, t. ii, Electa, Milano 1992, pp. 1054-1055. Per un approfondimento sull’artista si veda ad esempio Alberto Salietti un artista di Novecento, a cura di G. Giubbini e F. Ragazzi, Skira, Milano 1997.

154 A. Salietti, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. xv, n. 5-6, maggio-giugno 1937.

155 A tali soldati la rivista dedica la copertina del marzo del 1935, ove uno di essi è ritratto di profilo con il caratteristico copricapo rosso. Cfr. B. Buffoni, Copertina, in “La Rivista illustrata del Popolo d’Italia”, a. xiii, n. 3, marzo 1935.

156 L’ipotesi dell’identificazione dell’obelisco raffigu-rato nella copertina della rivista con la stele di Axum è avanzata nel saggio di L. Acquarelli, Sua altezza impe-riale. L’obelisco di Axum tra dimenticanza e camouflage storico, in “Zapruder”, n. 23, settembre-dicembre 2010,

pp. 59-73. Si segnala che il testo è reperibile anche nel sito di “Storie in Movimento” (http://www.storieinmo-vimento.org/articoli/zapruder_n23_p058-073.pdf).

157 Colonne di Roma, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. xxi, n. 5, maggio 1943, pp. 2-5.

158 Ivi, p. 5.

159 M. Sironi, Senza titolo, tavole a colori antepo-ste alle pagine numerate, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. xxi, n. 5, maggio 1943.

160 L. Malvano, Fascismo e politica dell’immagine (1988, Torino), Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 153.

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di Giada Centazzo

Hay en México dos artistas admirables, dos hechiceras hechizadas: jamás han oído las voces del elogio o reprobación de escuelas y partidos… Insensibles a la moral social, a la estética y al precio, Leonora Carrington y Remedios Varo atraviesan nuestra ciudad con un aire de indecible y suprema distracción. ¿A dónde van? Adonde las llaman imaginación y pasión.

Octavio Paz 1

Nelle vibranti parole del premio Nobel per la Letteratura Octavio

Paz – che fu loro amico nel Messico degli anni ’50 – si risolve bril-

lantemente tutta la singolare parabola umana ed artistica di Leonora

Carrington e Remedios Varo, pittrici europee per nascita, latinoa-

mericane per adozione, surrealiste loro malgrado.

Nate in famiglie altolocate, conservatrici e ultracattoliche, figlie di

padri ambiziosi e madri repressive, Leonora Carrington (Lancaster

1917 – Città del Messico 2011) e Remedios Varo (Anglès 1908 – Città

del Messico 1963) crescono con una spiccata immaginazione che nutre

fin dall’adolescenza i loro primi cimenti artistici, in aperta reazione

alle costrizione di classe e di genere loro imposte. Entrambe sono

attratte dal mitico e dal mistico, dal soprannaturale e dallo spirituale.

Nonostante la disapprovazione delle rispettive famiglie di prove-

nienza, le due giovani ricevono una solida formazione accademica

in istituzioni di prestigio. Carrington si forma a Londra prima alla

Chelsea School of Art e poi nel 1935 presso la neonata Accademia

londinese del purista Amedée Ozanfant.2 Varo invece si diploma

alla prestigiosa Accademia di Belle Arti di San Fernando a Madrid,

la stessa in cui studia Salvador Dalì. 3 Ambedue le artiste fin dagli

esordi sono però istintivamente attratte dalle avanguardie parigine

e dalle più rivoluzionarie correnti dell’arte contemporanea. In par-

ticolare le affascina il surrealismo con cui si sentono istintivamente

Leonora Carringtone Remedios Varo.

Due artiste surrealistetra Europa e Messico

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in consonanza e sulla cui

falsariga orientano le loro

prime opere giovanili.

Per una serie di coincidenze

fortuite, ben presto Leonora

e Remedios si ritrovano

catapultate nel cuore pul-

sante degli eventi, in quella

Parigi tanto sognata, al

seguito di due dei fondatori

del movimento surrealista.

Carrington incontra l’eclettico Max Ernst nel 1937, in occasione di

una sua personale alla Mayor Gallery di Londra, curata da Roland

Penrose. 4 Aveva già scoperto ed amato le opere di Ernst nel volume

di Herbert Read Surrealism del 1936, regalatole dalla madre. Contro

il parere dei familiari, quello stesso anno Carrington abbandona

l’Inghilterra per trasferirsi nel di lui appartamento parigino in rue

Jacob, divenendone la compagna.

Remedios Varo conosce invece il ‘grande inquisitore’, il poeta

Benjamin Péret, nel 1936 durante la Guerra Civile Spagnola a cui

il francese era accorso per sostenere i repubblicani al fianco delle

Brigate Internazionali. 5 Varo e Péret, divenuti amanti, scampano

alle violenze franchiste riparando su suolo francese.

Giunte a Parigi sul finire degli anni Trenta, al fianco di due delle più

prominenti figure del gruppo surrealista, Carrington e Varo gravi-

tano nell’orbita di Breton, nel ruolo iconico di muse e amanti, fem-

mes enfants, conformandosi perfettamente ai più comuni clichés della

donna che sono al cuore della poetica del movimento e dell’immagi-

nario degli artisti uomini. 6

Parallelamente si dedicano però intensamente ad una propria atti-

vità pittorica, alla ricerca

di un’identità creativa

autonoma. L’analisi delle

loro opere giovanili molto

sembra rivelare del com-

plesso rapporto con gli

aderenti del movimento,

ma soprattutto della loro

personalità artistica in

divenire. Più disinvolta e

Leonora Carrington in un ritratto foto-grafico di Kati Horna del 1956

◆ ◆ ◆

◆ ◆ ◆Remedios Varo fotografata da Kati Horna nei primi anni Sessanta

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sicura Leonora, con una personalità spiccata. Decisamente defilata ed

incerta, Remedios.

Fin dagli esordi Leonora Carrigton dimostra una propria autonomia

ed una certa resistenza a lasciarsi imbrigliare nel ruolo che i surrealisti

vorrebbero cucirle addosso. Nelle tele degli anni trascorsi appartata

con Ernst nel Midi, a Saint-Martin-d’Ardèche, 7 proprio come accade

nei suoi coevi racconti gotici, si ravvisa già una visione coerente, con

un marcato senso dell’humor, un tratto di ironia dissacrante unito ad

una forte coscienza di sé. Ne sono dimostrazione opere come l’auto-

ritratto ed il ritratto del compagno realizzati in questi anni.

In Autoportrait à l’auberge du cheval d’Aube (1936), Carrington è

seduta, al centro di una stanza vuota. Accanto a lei è raffigurata una

laida iena. Alle sue spalle, appeso al muro, troviamo invece un gra-

zioso cavallo a dondolo bianco. Sulla parete di fondo si apre una

finestra che affaccia su uno scorcio di verde smeraldo: ben visibile

attraverso di essa, un poderoso cavallo bianco libero è al galoppo.

L’interno scorciato – che inevitabilmente rimanda, con la sua fine-

stratura sul fondo, a quella pittura Quattrocentesca tanto amata da

Carrington e scoperta durante un soggiorno fiorentino 8 – ci pare

asfittico e claustrofobico, come le dimore dove Leonora è cresciuta.

Il carattere accogliente e sicuro dello spazio domestico è contrad-

detto decisamente dall’irruzione dell’animale selvatico, la iena, con

la sua energia ferina. Per contrasto l’ambiente esterno sembra il

centro dell’attrazione. Su di esso si convogliano le fughe dell’im-

pianto prospettico quanto l’attenzione delle figure in scena. È ad

esso che anela il cavallo a dondolo sopra la testa di Carrington. Il

cavalluccio è si un oggetto immoto ed inanimato, ma sembra pronto

a prendere vita. Osserva il cavallo vero, libero nella natura. Pronto

ad imitarlo. Appare evidente come in questa tela due siano i centri

focali di sviluppo: da un lato la coppia Leonora/iena; dall’altra il

Leonora Carrington, Autoportrait, Metropolitan Museum of Art, New York, (The Pierre and Maria-Gaetana Matisse Collection)

◆ ◆ ◆

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numero 10 - dicembre 2014

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binomio cavallo libero/cavallo a dondolo. La

prima diade, orientata in direzione dell’os-

servatore mentre la seconda rivolta con il

corpo e lo sguardo nella direzione opposta,

verso l’infinito. Attraverso questo stringente

sistema di mirroring tra i soggetti del qua-

dro, Carrington sembra inscenare una com-

plessa rappresentazione di sé, alludendo alla

propria controversa condizione identitaria.

La iena – la stessa che appare nel suo rac-

conto La debutante (1937) incluso da Breton

nell’Antologie de l’humor noire nel 1956 – con

i prominenti capezzoli e il volto umano, è

l’incarnazione della dimensione più pulsio-

nale, dell’istintualità più profonda e contro-

versa, materializzazione di una femminilità

animalesca. Questa bestia così connotata

sessualmente, contrasta con la tenuta andro-

gina da fantino di Leonora che può essere

letta come disruptive performance of gender 9

rinviando ad un’ambiguità od incertezza del

proprio genere. Ma la iena può essere anche

considerata come un simbolo della pro-

pria passione artistica, un’energia liberato-

ria che l’ha portata ad evadere dal castrante

ambiente domestico, come il cavallo bianco

è un chiaro rimando alla cultura celtica, a

quella dea-guerriera Epona, le cui gesta la

nanny irlandese di Carrington cantava da

piccola nella nursery. 10

Denso di significati e simboli ci appare anche

il ritratto di Max Ernst realizzato nel 1940

e che molte affinità possiede con opere coeve

dell’artista di Colonia, quali La toilette de la

mariée (1941) e The Anti-pope (1943). Portrait

of Max Ernst (1940), ci mostra l’artista tede-

sco di profilo, canuto e con occhio brillante,

il naso aquilino, mentre sta andando incon-

tro ad una trasmutazione zoomorfa. Indossa

un bizzarro mantello rosso piumato e sem-

bra avere una coda di sirena o di rondine.11

Ai piedi porta calzari gialli a righe. Avanza

in una terra ghiacciata rilucente, sovrastata

da uno sfondo di cielo iridescente. Regge

Leonora Carrington, Portrait of Max Ernst, collezione privata

◆ ◆ ◆

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una lanterna sferica di vetro, all’interno della quale – in un liquido

verde viscoso – intravediamo un cavalluccio nero in un galoppo

trattenuto. Dietro di lui riconosciamo un possente cavallo bianco,

completamente congelato. Ernst è ritratto come uno sciamano –

in un chiaro riferimento al suo avatar, o animale totemico, Loplop

the Bird Superior – con i calzari che ricordano zampe d’uccello e il

mantello che sembra un piumaggio. Quest’opera è stata alternati-

vamente letta come celebrazione dell’amante saggio che ha guidato

Carrington fuori dalle pastoie della sua vita borghese o come rap-

presentazione del senso di limitazione creativa e imprigionamento

che l’artista britannica iniziava a provare negli ultimi anni della loro

relazione amorosa.12

Visivamente, come risulta da queste tele prese in analisi, l’universo

di Carrington ci appare dunque possedere già una propria coerenza

interna ed un’autenticità ed originalità notevoli, come dimostrato

ad esempio dal ricorrere insistito della figura del cavallo, soggetto

assai caro all’artista in questa fase e presente anche in altre opere di

questo periodo.

Per contro, i coevi lavori di Remedios Varo risultano decisamente più

incoerenti, eterogenei e non ancora dotati di un’individualità precisa.

Varo sperimenta tecniche e temi, mutuandoli spesso e volentieri dagli

artisti uomini del movimento. Atmosfere asettiche alla de Chirico e

incongruenze ludiche à la Magritte caratterizzano ad esempio l’enig-

matico El agente doble, del 1934, una tela molto evocativa del livello di

adesione e interiorizzazione del surrealismo raggiunto da Remedios. In

un ambiente cubico, asettico e claustrofobico, si dispongono elementi

apparentemente incongrui. Una figura ermafrodita, con una grossa ape

sulla schiena, se ne sta col viso schiacciato contro la parete sinistra.

Alle sue spalle una superficie muraria interrotta solo da una minuscola

finestrella attraverso la quale si allunga una mano gommosa che regge

un ovoide codato. Da una grossa crepa nel pavimento compare l’apice

di una testa e strani filamenti serpeggianti. Sulla parete di fondo agget-

tano misteriose entità

globulari – forse seni,

forse occhi. La stanza

sembra non avere vie

di fuga, poiché anche

l’apertura del fondo è

stretta, impervia: sem-

plicemente imprati-

cabile. Inquietudine,

straniamento, inintel-

liggibilità: questo qua-

dro è già nella cifra del

◆ ◆ ◆Remedios Varo, L’agent double, Collezione Daniel Filippachi, Paris

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miglior surrealismo francese. Ne Las almas de los montes (1938), Varo

applica la tecnica del fumage – recentissima scoperta dell’austriaco

Wolfgang Paalen – che le ispira corpose nubi addensate intorno ad

aguzze montagne da cui spuntano sinistre teste umane. Nello stesso

modo è composto il paesaggio urbano futuribile Modernidad (1936).

Titeres vegetales (1938), è invece una variazione creata a partire dallo

sgocciolamento della cera su una lamina di triplay, eleggendo il caso

a principio compositivo. La pur consistente produzione artistica della

pittrice spagnola in questi anni manca però palesemente di coerenza

interna: benché già siano presenti ed identificabili alcuni vocaboli

iconografici che ritroveremo nella produzione matura, le tele sembrano

quasi non appartenere nemmeno alla stessa mano. Forse intimidita

dalle personalità maschili che la circondano, appiattita nel ruolo di

amante e musa di Péret, sua propaggine, Remedios sembra esitare

nel ruolo di pupilla. Come se priva di una identità propria e definita

all’interno del gruppo surrealista, Varo non possedesse ancora uno

stile riconoscibile, né una linea tematica originale.

Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Leonora Carrington

e Remedios Varo si troveranno di fronte ad una svolta drammatica.

Abbandonata la Francia sotto la minaccia nazista, Leonora giunge

in Spagna dove viene internata per un anno in un manicomio e sot-

toposta ad elettroshok farmacologico. Scampata alla segregazione,

nel 1942 ripara in Messico. Anche Remedios Varo, in fuga con

Péret, dopo l’estenuante cattività marsigliese a Villa Air-Belle con

altri surrealisti,13 riesce a

lasciare l’Europa e a tro-

vare asilo politico in terra

messicana.

Il Messico che accoglie

Leonora Carrington e

Remedios Varo – come

molti altri europei, esuli

per motivi politici, scam-

pati alla Guerra Civile

Spagnola e al secondo

conflitto mondiale – è

un paese modernizza-

tosi dopo le sanguinose

vicende della Rivoluzione.

Artisticamente, il Messico del periodo tra le due guerre non è più solo

la nazione del muralismo. I tres grandes – Rivera, Orozco e Siqueiros

– hanno già scritto le più importanti pagine di questo movimento,

cantore del nazionalismo e dell’anticolonialismo messicano. Dopo aver

esaltato le gesta rivoluzionarie, celebrato l’indipendenza e la costitu-

zione di uno stato equo e all’avanguardia, recuperando la cultura e le

Remedios Varo, Las almas de los montes, Messico, Museo d’Arte Moderna

◆ ◆ ◆

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tradizioni pre-colombiane e la storia della mesoamerica arcaica, i mura-

listi sono diventati artisti di Stato, eroi della conservazione. Primo

fra tutti quel Diego Rivera, uomo simbolo del Messico post-rivolu-

zionario, ora allineato a uno stalinismo di regime sempre più solido.

Il tramonto del muralismo – con le sue componenti di mexicanidad e

machismo – vede l’affermazione di nuove correnti artistiche e movi-

menti di respiro smaccatamente modernista. Gli echi dell’arte euro-

pea contemporanea, rafforzati dagli intensi flussi migratori del corso

degli anni ’20 e ’30, hanno lentamente penetrato la società messicana,

portando in superficie un sentire più cosmopolita e internazionale.

È ciò che ritroviamo nelle tele di pittori e artisti del cosiddetto

realismo magico – sorta di surrealismo spontaneo precedente alla

venuta di Breton nel 1938 e alla successiva esposizione alla Galleria

di Ines Amor – di Antonio Ruiz, Augustin Lazo, Orozco Romero,

Guillermo Meza, Carlos Mérida, negli scatti del fotografo Manuel

Alvarez Bravo, nelle poesie degli estridentisti come Maples Arce. Ma

anche nei quadri intimisti di piccolo formato di Maria Izquierdo

e Frida Kahlo.14 Un sottobosco artistico vivo e pulsante, che nella

persona di Rufino Tamayo troverà l’iniziatore di quella ruptura degli

anni ’50 che è la base dell’arte messicana contemporanea. È in que-

sto particolare ambiente – il paese surrealista par excellence decantato

da Breton ed Artaud che aveva già accolto altri surrealisti, tra cui

Wolfgang Paalen con la moglie Alice Rahon, animatori della rivista

Dyn 15 – che giungono Varo e Carrington.

Nei loro occasionali incontri a Parigi, sul finire degli anni Trenta,

quando entrambe presenziavano silenziose ed iconiche alle riunioni

dei surrealisti, Leonora Carrington e Remedios Varo non avrebbero

mai potuto immaginare di diventare un giorno le migliori amiche.

Le loro strade, come le loro vite, erano trascorse parallele, tra mille

Leonora Carrington, Les distractions de Dagobert, collezione privata

◆ ◆ ◆

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assonanze. Una volta giunte in Messico, Leonora e Remedios,

divennero complici nella ricerca artistica come nella vita.

In quanto esuli in Messico, straniere ed estranee per la loro pro-

venienza, origine e cultura, le due pittrici si trovano escluse dal

contesto locale proprio come dalla cultura europea contempora-

nea. Rimangono decisamente appartate rispetto alla realtà artistica

locale, non frequentando per esempio il circolo riunito intorno a

Diego Rivera e Frida Kahlo. Altrettanto distanti diventano anche

i surrealisti kosher, come li chiama Carrington, esiliati a New York.

A Colonia Roma, il quartiere di stranieri alla periferia di Città

del Messico che diventa la loro casa, Leonora e Remedios costru-

iscono un tessuto di relazioni che compensa al senso profondo di

sradicamento che vivono. Insieme all’amica fotografa Kati Horna

creano un’allegra comunità di surrealisti, cui fanno parte anche

i pittori messicani Gunther Gerzso e Agustin Lazo. Se Leonora

Carrington sposa il fotoreporter ungherese Chiki Weisz dal quale

avrà due figli,16 Remedios Varo, dopo la fine del matrimonio con

Benjamin Péret, trova la serenità accanto ad un esule australiano,

Walter Gruen.17 In contrasto con l’immaginario del movimento

surrealista e l’ideale dell’amour fou bretoniano, è proprio nella sere-

nità coniugale e nella maternità che Varo e Carrington trovano le

energie per la loro attività artistica.

Dopo essersi affrancate dalle pagine complesse e dolorose del

loro passato, smarcatesi dal soffocante ambiente parigino, Varo e

Carrington entrano nella fase matura del loro itinerario e trovano

l’una nell’altra l’appoggio necessario alla realizzazione piena della

loro creatività. Già nel corso degli anni ’50, infatti, superando i

retaggi di machismo e mexicanidad del muralismo ancora imperante,

riusciranno entrambe ad ottenere un importante riconoscimento di

pubblico e di critica entro i confini messicani. Consenso che cul-

minerò addirittura negli anni ’60 con delle commesse per la realiz-

zazione di murales in luoghi pubblici, a fianco di nomi importanti

dell’arte messicana come Juan O’Gorman e Carlos Merida.18

Nei lunghi ed assolati pomeriggi messicani, le due amiche

usano trascorrere la maggior parte del tempo insieme, tra chiac-

chiere ed esperimenti culinari. Più intenso diviene negli anni il

legame affettivo che le lega, più radicali le differenze tra le loro

opere. Remedios Varo da un lato – con la sua pittura cristallina,

luminosissima, precisa e meditata – Leonora Carrington dall’al-

tro – con un approccio più viscerale, visionario e istintivo. Linea e

colore, ragione e sentimento.

Per Carrington, lo studio dal vero e l’accuratezza del disegno – il

principale insegnamento di Ozanfant – sono sacrificati all’istinto.

Sappiamo che Leonora predilige l’uso della tempera all’uovo,

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innanzitutto perché le garantisce un

impasto confacente alla sua pennel-

lata rapida e nervosa e colori lucenti,

brillanti; ma anche per le affinità che

la preparazione del pigmento – pro-

prio come era per i maestri italiani

da lei apprezzati – richiama sia al

lavoro nel laboratorio alchemico che

alla cucina, le sue grandi passioni.

La palette di Carrington è caleido-

scopica, con colori accesi, violenti,

spesso anche per gli accostamenti

arditi scelti, quasi espressionistici.

Le pennellate di Leonora sono disin-

volte, libere, imprecise.19 Anche

Varo approda a una tecnica propria,

con un colore a resina che ben si pre-

sta al suo lavoro certosino e che ha

nella tavola il supporto d’elezione. La sua tavolozza è molto più limi-

tata di quella di Carrington, prediligendo colori caldi, soprattutto

nei toni del rosso e del giallo, ma anche chiari e naturali come il

verde e l’azzurro: i colori della terra e del cielo. A volte Varo opta

per il monocromatico o per nuance di colore. Sempre e comunque

le sue sono tonalità molto luminose e traslucenti. Il tocco è assai

minuzioso, accurato. Partendo da

schizzi preliminari ben meditati,

Remedios lavora come un miniatore,

con pennellate studiate, che tendono

a valorizzare il disegno sottostante.20

Essendo una persona posata, medi-

tabonda, Varo trova un rifugio nel

perfezionismo della sua tecnica.21

Ciò che è importante sottolineare

è che entrambe le artiste, nella fase

della maturità e dunque dopo essere

giunte in Messico, si emancipano

completamente dall’esempio dei

pittori surrealisti conosciuti in gio-

ventù. Il rapporto con il surrealismo, a livello di prassi, per entrambe,

riguarda più il contenuto che la forma, soprattutto nel caso di Varo.

Decalcomanie, grattage, fumage ed altre tecniche automatiche, assu-

mono un valore strumentale, mentre la surrealtà prende forma nei

temi e nei modi di inscenare i soggetti. Le loro opere possiedono

ormai un vernacolo proprio ed indipendente.

Remedios Varo, Visita inesperada, Messico, collezione privata

◆ ◆ ◆

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Pur nelle differenze marcate, di tecnica e stile, molte sono le affinità

che legano Leonora Carrington e Remedios Varo. I temi, le figure, il

cifrario fantastico, ma anche le fonti di ispirazione sono comuni. In

primis, i primitivi fiamminghi.

Essendo il maestro dell’invenzione grottesca e della fantasia alluci-

nata, è inevitabile che Bosch diventi un riferimento importante per

entrambe, anche se elaborato in maniera assai differente. L’incontro

folgorante di Carrington con Bosch avviene in età già adulta, durante

la breve e drammatica permanenza di Leonora in Spagna. Bosch

incrocia perfettamente il sentire di Carrington: il suo gusto per il

grottesco, l’inclinazione allo humor

nero, l’atteggiamento visionario. Lo

dimostra un’opera come The Temptation

of St. Anthony (1947), ripreso dall’omo-

nima tela. Leonora mutua molteplici

elementi della composizione da Bosch,

tra cui la posizione seduta dell’ere-

mita, in un lembo di terra, circondato

dall’acqua. Ma soprattutto i salti di

scala e l’attenzione ossessiva ai dettagli

con cui crea figurette intente in attività arcane.22 Il bestiario assurdo

della pittrice inglese prende spunto proprio da quello di Bosch, sem-

pre popolato da un fantasmagorico caravanserraglio. Anche l’amore

per gli esseri ibridi, zoomorfi, dai corpi fantastici che sembrano usciti

dal trittico de Il giardino di delizie del Prado hanno la stessa matrice.

Ma soprattutto è Bosch che ispira a Carrington l’idea della compre-

senza nelle sue tele di visione del vicino e del lontano, di fusione del

microscopico e del macroscopico, proprio come li vediamo in Chiki

Your Country (1945) o in Les distractions de Dagobert (1945). Con il

maestro nordico Leonora condivide infine il gusto per i banchetti

Leonora Carrington, The House Opposite, United Kingdom, Edward James Foundation

◆ ◆ ◆

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crapulonici, per i festini dionisiaci dove si disvelano gli appetiti ani-

maleschi dell’uomo.23 Carrington si impossessa quindi pienamente

dello spirito più allucinato e demoniaco delle visioni di Bosch che

percepisce come perfettamente affini con il suo modo di sentire.

Ma Bosch è artista che solletica anche l’immaginazione di Varo fin

dalla tenera età, quando bambina era condotta dal padre al Prado.

Remedios ne reinterpreta la lezione differentemente da Leonora,

facendo proprio tutto il ricco patrimonio di soluzioni bizzarre ed

invenzioni fantasmagoriche, epurandolo dal macabro senso del

grottesco che lo caratterizza. In alcuni casi le citazioni di partico-

lari dell’opera di Bosch si fanno piuttosto palesi. È soprattutto nella

progettazione delle macchine volanti ibride e zoomorfe e degli altri

strani mezzi di locomozione che popolano le sue tele che Varo evoca

Bosch: è il caso ad esempio del vascello fantastico del Pilota explo-

rador (1960) che rimanda alle Tentazioni di Sant’Antonio. Ma anche

alla testa che sbuca improvvisamente dal posto più impensato in

Visita inesperada (1958) citazione palese di un disegno preparatorio

di Bosch per la sua Nave dei folli 24 conservato a Vienna. Molte delle

figure volanti di Varo, ibride e fantastiche, sembrano uscite da un

quadro del genio olandese. Col pittore quattrocentesco, tanto amato

dai suoi conterranei, Remedios condivide inoltre l’ossessione per i

dettagli e l’accuratezza del disegno.

Altro punto di riferimento imprescindibile per entrambe le artiste

sono i maestri del Rinascimento italiano, gli stessi che Carrington

ha potuto studiare da vicino nel suo soggiorno a Firenze e Varo ha

invece potuto vedere nei musei di Parigi e Madrid. Come è già acca-

duto per altri surrealisti figurativi – come Dalì o Magritte – anche

per Varo e Carrington, la pittura dei primitivi italiani è il punto di

partenza essenziale per la messa in scacco della pittura retinica.

Per l’orchestrazione delle sue ampie scene, in cui abilmente coniuga

più focali tra gli opposti antitetici – micro e macroscopico – Carrington

Remedios Varo, Armonía, Usa, collocazione privata

◆ ◆ ◆

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si rifà apertamente a pittori come il Sassetta, Matteo di Giovanni o

Francesco di Giorgio che ha scoperti durante un precoce soggiorno

fiorentino.25 Leonora è affascinata dall’ideale, tutto rinascimentale,

dell’ut pictura poesis oraziano, che ha avuto nei cassoni dipinti con i

racconti morali e nelle predelle con storie dei santi i suoi massimi

esempi. La pittrice inglese è affascinata dalla pittura rinascimentale

italiana proprio per la sua intrinseca qualità narrativa, che offre la

possibilità di dispiegare ampie pagine di historiae anche in spazi angu-

sti. È proprio ai modi d’impaginazione tipici dell’arte trecentesca e

quattrocentesca che Carrington attinge a piene mani. In The House

Opposite (1945) – dove articola interno ed esterno senza soluzione

di continuità, utilizzando le pareti ‘sfondate’ per creare molteplici

scomparti a diverse profondità, componendo così una scena interdi-

pendente proprio come avviene in molte opere giottesche e post-giot-

tesche – lo schema compositivo richiama alla mente La nascita di

Giovanni Battista di Matteo di Giovanni e la Vita di San Francesco del

Sassetta – ma con esiti tra l’illusionismo fiabesco e l’irreale.

Orchestrazione delle luci, attenzione al dettaglio, impaginazione

delle figure entro spazi architettonici ben scorciati, riconducono

invece l’opera di Varo alla pittura di Antonello da Messina, come

accade ad esempio per Armonia (1956), che fa pensare al San Girolamo

nello studio della National Gallery.

Come parte integrante della sua eredità spagnola, Remedios Varo

non manca di integrare nella sua pittura l’esempio di Goya e di

El Greco. Pur stemperando e di molto il tono di satira grottesca,

riprende alcune invenzioni linguistiche di Goya, cui l’avvicina ovvia-

mente il talento bozzettistico. Il Personaje alato e cornuto del 1958

riecheggia le incisioni con figure mostruose del maestro spagnolo

dei Disastri della guerra (1817).26 Il motivo dei panneggi avvolgenti

e drappi svolazzanti, molto presente nelle tele della pittrice spa-

gnola, è invece direttamente desunto dall’amato El Greco, con cui

Varo sente un’affinità particolare dovuta anche agli echi tra le loro

biografie: entrambi esuli che trovano fortuna in terra straniera.

Ma ad unire più di tutto l’opera di Leonora Carrington e Remedios

Varo, è la comune volontà di declinare la propria arte in temi e generi

tradizionalmente appartenuti alla pittura maschile o che hanno lun-

gamente visto la donna protagonista estatica, oggetto alla mercè

dello sguardo altrui, per darne una rilettura personale e certamente

irriverente, non rinunciando mai a confrontarsi con una riscrittura

ironica ed antiretorica del femminile.

E proprio come proposto dalla filosofa e psicanalista belga Luce

Irigaray nei suoi saggi, Varo e Carrington sembrano aver adottato

la strategia di mimicry, per inserirsi nel discorso enunciativo, tutto

maschile (sul femminile), per sgretolarlo, sovvertirlo, metterlo in

scacco, dall’interno, giocando con i suoi stessi mezzi.

È ormai comune opinione della critica che l’autoritratto rappre-

senti il genere d’elezione nella produzione delle cosiddette sur-

realiste di seconda generazione e l’opera di Leonora Carrington e

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Remedios Varo in tal senso non fa ecce-

zione. Le pittrici surrealiste fanno del loro

corpo la loro tela trasformandolo in terreno

di esplorazione continua della liminalità

tra categorie antinomiche – reale/immagi-

nario, sogno/veglia, interno/esterno, uomo/

donna, soggetto/oggetto, singolare/plurale

– e del loro travalicamento in senso surrea-

lista. Attraverso l’autoritratto, re-imposses-

sandosi dell’immagine del proprio corpo,

le donne surrealiste hanno così riscritto un

tropo culturalmente connotato, disvelan-

done aspetti equivoci, inquietanti. Sovente

la rappresentazione mette in scena anche

palesemente la dialettica esistente tra la

Donna e le donne, tra natura e cultura, tra

sessualità anatomica ed identità di genere,

problematizzandola con le armi della reto-

rica – quali l’ironia e l’humor – come per

gli altri ambiti della loro vita.

The Giantess/Baby Giant (1950 ca.) eseguita

da Leonora Carrington nei mesi precedenti

alla nascita del secondogenito Gabriel è da

molti letta come un autoritratto, una rap-

presentazione di sé come latrice di una nuova

vita. Ciò che deve essere rilevato in quest’o-

pera è la capacità di Carrington di reinterpre-

tare il tema della procreazione associandolo a

quello dell’alchimia, appropriandosi quindi

di un immaginario maschile fortemente con-

notato e riproponendolo in termini nuovi e

personali in relazione ad un’esperienza pret-

tamente femminile. L’immagine proposta

da Leonora, infatti, è quella della custode

dell’uovo alchemico, simbolo di creazione.

La poderosa creatura si innalza verso il cielo,

stagliandosi contro l’azzurro turchino; ma ha

i piedi saldamente ancorati al terreno della

vallata abitata che ricorda certi paesaggi di

Brueghel.27 Proprio come nelle pagine in cui

Swift narra dei viaggi di Gulliver, così ritro-

viamo un popolo minuscolo che invano tenta

di scacciare il mostro. Dal pesante man-

tello di broccato bianco aperto sul davanti

Leonora Carrington, The Giantess, Messico, collezione privata

◆ ◆ ◆

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si intravedono glifi ricamati dal significato misterico. Il capo della

gigantessa è incorniciato da capelli ramati che cingono un viso pal-

lido e aggraziato mentre le mani candide e minuscole proteggono

un uovo screziato. Le messi dorate cosi come l’uovo sono richiami al

tema della fertilità ma ci sono altri riferimenti. Mentre un mondo

di piccoli uomini inferociti accerchia la mostruosità, gli animali

sembrano in simbiosi con essa.

Carrington ci mostra pertanto

in questa tela una totale ade-

sione con l’alterità. C’è un’as-

sunzione deliberata di uno

status di Altro che è però in

empatia con il mondo natu-

rale, abbracciando e ribaltando

i comuni stereotipi sull’ac-

cordo sinistro tra la donna e le

arcane forze naturali.

Molte delle tele di Remedios

Varo possono essere intese

come autoritratti. Il ricorso

frequente ad una fisionomica

caratteristica – il volto a forma

di cuore dai grandi occhi

sognanti – è un primo indizio.

In altre opere l’artista dissimula la propria identità attraverso l’ela-

borazione di personaggi ibridi. Nell’olio Creación de las aves (1957),

Varo raffigura una donna-uccello, dalla testa di gufo, seduta ad un

tavolo da lavoro, intenta a disegnare con tratti rapidi degli uccelli

su un foglio di carta bianca. Tutto ciò che la circonda è magico:

i colori sono distillati da un alambicco che è in collegamento con

l’esterno tramite una finestra

circolare sullo sfondo. Con la

mano sinistra invece la crea-

trice impugna una lente d’in-

grandimento che catalizzando

un raggio stellare, trasferi-

sce energia ai disegni, i quali

prendono vita. Degli uccel-

lini appena disegnati, infatti,

si librano in aria ed escono

dalla finestra. La creatrice è

un’alchimista, intesa nella sua

◆ ◆ ◆Remedios Varo, Creación del los aves, Messico, Museo d’Arte Moderna

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capacità di fondere la propria arte con le forze della natura per cre-

are la vita, trasformando la materia inerte in entità pulsante. Come

ricorda Georgiana M.M. Colvile, il gufo è per Remedios Varo

una sorta di animale totemico, di emblema personale, insieme al

gatto.28 Simbolo presso molte civiltà antiche, tra cui gli egizi, di

saggezza e chiaroveggenza (per via della visione notturna), il gufo

è anche legato, nell’accezione junghiana, alla trascendenza.29

Spesso le donne surrealiste, nell’inscenamento di se stesse si sono

avvalse di intermediari, di personaggi fittizi, di alterego come

mezzo proiettivo con cui costruire una propria identità rinnovata.

Questa strategia, che Miwon Kwon ha definita come self-Othering,

ovvero ‘farsi altro’, si chiarisce nella logica proiettiva femminile.

Laddove l’uomo ha nella donna il proprio Altro su cui investire

aspetti di sé ambivalenti o fantasmatici – come avviene ad esempio

nelle opere di Dalì o Bellmer – la donna costruisce delle iden-

tità terze con finalità proiettiva. L’individuazione meditata di un

bestiario esprimerebbe inoltre la volontà delle artiste surrealiste di

ricollegarsi ad epoche pre-storiche, precedenti alla civilizzazione,

quando in società primitive come quella celtica ad esempio, esi-

steva un sistema matriarcale in cui la religione consisteva nel culto

di una divinità femminile, una dea (Great Goddess) e non di un dio

al maschile (God). Queste divinità femminili – come ampiamente

illustrato da Robert Graves nel suo studio sui miti europei The

White Goddess (1948) – spesso andavano incontro a metamorfosi

o trasformazioni assumendo fattezze animali. La scelta di anima-

li-simbolo assume dunque un valore speciale.

La pittura di interni è altro genere in cui Carrington e Varo

danno corpo al loro immaginario. Come afferma la studiosa mar-

xista Lilian S. Robinson in Sex, Class and Culture (1985) 30 – la

pittura d’interni celebra le donne come perfette icone muliebri o

filiali totalmente conformi al loro sesso, ambientate in degli scri-

gni densi di simbolismo che le custodiscono ed imprigionano.

Nell’immobilità dello spazio domestico, l’uomo sembra proiettare

il proprio desiderio di cristallizzare l’elemento femminile percepito

come destabilizzante. Fissando ciò che è monoliticamente conside-

rato ordine naturale, determinato e senza tempo, l’interior costitu-

isce una sorta di forma apotropaica, un sigillo ad eterna garanzia

del potere maschile. Nella logica transitiva patriarcale, la donna si

deve identificare con la casa, essere incarnazione del domestico. Ha

nella casa la propria naturale sistemazione e viene identificata con

essa e con tutto ciò che in essa ha luogo. Non c’è possibilità fuori

da questa logica stringente. La casa determina il ruolo sociale della

donna e il suo spazio vitale: l’accudimento dell’ambiente dome-

stico che deve essere preservato. Come si suol dire, safe as houses

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ovvero accogliente e sicura, porto

cui fare ritorno, ad uso e consumo

dell’uomo quindi, perché la casa è

imago mundi.

Un’equazione questa, che le arti-

ste surrealiste hanno messo pro-

fondamente in discussione, inscenando tutto un nuovo modo di (in)

abitare lo spazio domestico, un modo spesso disturbante e destabi-

lizzante per l’uomo, facendo della casa una realtà anamorfica, capace

di far coesistere contemporaneamente due condizioni oppositive e

contrastanti: il familiare (homely) e lo straniante (l’uncanny).

In tal senso, la soluzione più ricorrente nell’opera di Varo e Carrington

è quella della casa infestata, abitata da presenze

magiche o oscure – che però della donna sono

complici – luogo dell’esperimento alchemico,

della magia, del Sabba. Questo modo di raffi-

gurare il domestico pone inoltre l’attenzione su

cosa accade nella casa quando l’uomo è essente,

su ciò che l’uomo non sa, ciò che non vede. Se

la casa è metafora della donna e del femminile,

quello che le artiste surrealiste propongono è un ribaltamento radi-

cale, un’immagine di sé inquietante, destabilizzante di un femmi-

nile che sfugge al controllo, animato da forze impreviste, proprio

come accade per la dimora. È ciò che ci appare in tele come Visita

inesperada (1958) di Varo o in Night Nursery Everything (1947) di

Leonora Carrington.

Custode del focolare domestico, la donna è sovente ritratta tra le

mura di casa mentre cucina e cuce, attività rassicuranti che conso-

lidano l’immaginario legato al suo ruolo, che assicurano la conti-

nuità e la stabilità sociale. Nell’opera di Leonora e Remedios, però,

sono proprio queste attività e questi spazi, tipicamente femminili,

destinati ad essere sovvertiti e sovversivi. Da luogo di oppressione

Remedios Varo, El alquimista (Ciencia inútil), 1955, Messico, collezione privata

Leonora Carrington, Pastoral, 1950, collezione privata

◆ ◆ ◆

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e reclusione femminile, la casa diviene

quindi luogo segreto ove, all’oscuro degli

uomini, si compie qualcosa di magico.

Pensiamo ad esempio ad opere come

The House Opposite (1947) di Carrington.

In quest’ultima tela, la pittrice inglese

rappresenta simultanei accadimenti che

hanno luogo in stanze e anticamere dello

stesso edificio e di quello vicino. Gli

ambienti sono in contatto tra loro, senza

soluzione di continuità spaziale e per-

tanto temporale. Le figure femminili,

guizzanti e affusolate, si spostano da

un luogo all’altro mentre vanno incon-

tro a delle trasformazioni che le rende

zoomorfe, antropomorfe, fitomorfe. È

un universo tutto femminile, ginocen-

trico quello qui rappresentato. Da tea-

tro dell’accudimento della prole e di servizio reso al marito, la casa

diviene così centro propulsore di tutta una vita segreta e magica,

in cui si compiono arcani rituali. È questo il potere sovversivo del

domestico. Carrington fa della cucina il sito eletto del Sabba, ove

collocare addirittura il calderone, trasformandola così in laboratorio

alchemico dove compiere esperimenti. La cucina in Carrington non

è più luogo di oppressione della donna,

in cui essa è relegata e annichilita, ma

luogo ove il femminile ha la sua mas-

sima possibilità di realizzazione, e que-

sto sembra possibile in una dinamica di

sorellanza con altre donne.

Lo stesso discorso può essere fatto nella

pittura di Remedios Varo per quanto

riguarda il cucito. L’antica pratica del

cucire diventa, per l’artista catalana,

attività tramite la quale suggerire una

sorta di liberazione femminile. Donne

che cuciono popolano molti quadri di

genere, soprattutto nella tradizione

fiamminga. Esse sono ritratte nell’in-

terno ovattato dei loro boudoirs, chine sui lavori d’ago, concentrate

a dare punti per il corredo proprio o altrui. Il cucire è sovente visto

dunque come simbolo della continuità, della tradizione, emblema di

un destino di genere.31

Attività consona alla necessità della donna, freudianamente parlando,

di costruire vesti ed orpelli capaci di camuffare e oscurare all’occhio

Remedios Varo, La tejedora de Verona, collezione privata

◆ ◆ ◆

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maschile la grave mancanza del

fallo, il cucito è inteso come

trompe l’oeil, come inganno, dissi-

mulazione del difetto del proprio

sesso. Varo trasforma questa com-

plicità mortificante in termini

positivi. Le donne delle opere di

Remedios, infatti, tessono trame,

ordiscono e l’oggetto del loro tra-

mare sono loro stesse, le loro vite.

O per meglio dire un’alternativa

di vita. Ecco allora che il cucito,

l’emblema dell’immobilismo a

cui la donna è costretta, diviene

rivalsa e possibilità di riuscita ad

esempio in Tejedora roja (1956)

o in La tejedora de Verona (1956).

Trasfigurando in termini posi-

tivi l’immagine delle parche, la

filatrice di Varo tesse il proprio

anelito di libertà. Dalle sue veloci

mani che sferruzzano, si anima

Remedios Varo, Naturaleza muerta resucitando, Valencia, collezione privata

Leonora Carrington, AB EO QUOD, collezione privata

Leonora Carrington, The Flying Ur Jar, 1953, collezione privata

◆ ◆ ◆

una figura che spicca il volo e che

contrasta fortemente con la con-

dizione di isolamento e solitudine

dell’ambiente in cui è inserita.32

Un mezzo convenzionale come il

cucito, diviene il tramite per un

messaggio di anticonvenziona-

lità. Varo sovverte la concezione

stereotipata della donna come

quella dello spazio domestico a

lei associato, trasformandolo in

luogo di scoperta trascendente

e di creazione magica. Ed ecco

che l’assunzione dei tradizionali

ruoli femminili, delle attività

domestiche diviene mascherata,

mascheramento intenzionale,

consapevole e irriverente, proprio

come ipotizzato nei suoi scritti da

Luce Irigaray.

Varo e Carrington non mancano

poi di declinare il loro tocco

dissacrante e femminile, anche

nella natura morta. L’olio su

tela di Remedios Varo dal titolo

Naturaleza muerta resucitando

(1963) ha un carattere assai pro-

vocatorio. Una tavola riccamente

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imbandita, all’interno di un salone di sapore vagamente romanico,

prende vita. Il titolo è ironico. Varo riprende tutti gli stilemi tipici

della pittura fiamminga di questo genere e non solo. Ma ecco che

le stoviglie e la frutta sembrano essere prese in un turbine energe-

tico e gravitano a spirale intorno alla fiamma della poderosa can-

dela centrale che sembra stare per trascinare presto nel mulinello

anche i lembi della tovaglia, come in una seduta spiritica.33 Anche

nel quadro AB EO QUOD (1956) di Leonora Carrington, la natura

morta ‘mistica’ 34 sembra assai vivificata dalla presenza di farfalle

che si librano nell’aria insieme ad altri insetti, mentre luminoso

risplende nel desco il candido uovo alchemico, che giganteggia

tra un calice di vino ed un grappolo d’uva, pronto da un momento

all’altro a schiudersi e lasciar uscire l’omuncolo androgino.

La still life sembra genere storicamente atto a dare sfogo alla volontà

dell’uomo di immortale i propri beni terreni: beni che possono

essere posseduti, scambiati, consumati. Mettendo in quadro la pro-

prietà privata, la merce, la ricchezza, in accattivante trompe l’oeil,

con una precisione epidermica ed un’ossessione veristica totale,

l’uomo celebra se stesso, il suo potere, la sua capacità di dominio

della realtà. Più o meno velatamente la natura morta non è quindi

esente da logiche di genere, proprio come accade per la pittura di

interni. Ciò che viene effigiato sulla tela, non solo appartiene all’u-

niverso domestico, ma è spesso il prodotto del lavoro della donna

o ad esso concernente; a prescindere che si tratti di ceste di frutta,

vasi di fiori, pietanze gustose, preziose tovaglie. Per proprietà tran-

sitiva, se l’uomo possiede ciò che la donna dispone per lui, possiede

quindi la donna che le ha disposte. Non stupisce dunque che le

donne surrealiste si siano appropriate di questo genere mettendolo

al servizio delle loro rivendicazioni, sconfessando i luoghi comuni

maschili. Ed ecco che trasformano una realtà eminentemente fem-

minile, il domestico, in qualcosa di perturbante, disturbante ed

alieno, a tratti minaccioso per l’identità dell’uomo.

È interessante notare che Varo e Carrington – come risulta

dai loro interni e dalle nature morte – restituiscano al lavoro della

donna un valore magico, un tratto di unicità. Il loro interesse per

le dottrine esoteriche si declina sempre nel quotidiano.35 Si tratta

di una ricerca ermetica condotta nell’ambito più improprio ed ina-

spettato, ovvero nel contesto domestico. Leonora e Remedios creano

pertanto un linguaggio visuale e verbale adatto a ciò e riprendono

in tal senso la tradizione delle fiabe, delle favole, per trasmettere e

codificare il sapere occulto e sovversivo dissimulandolo.

Nel dispiegarsi della loro opera, Remedios Varo e Leonora Carrington

hanno declinato in maniera irriverente e nuova alcuni aspetti del

femminile nei diversi generi in cui si sono cimentate, sovvertendo,

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come si è precedentemente illustrato, luoghi comuni e clichés stori-

camente legati all’essere donna. Nella loro personale ri-scrittura del

canone surrealista, rispetto a quella densa fenomenologia che ha nel

femminile il nucleo pulsante della propria poetica, è sicuramente nel

tema dell’alchimia e della magia che le due artiste surrealiste hanno

proposto le immagini più forti, più rivoluzionarie. In particolare è

soprattutto la rilettura dell’argomento alchemico, smarcato dalla logica

surrealista di Breton e compagni,36 che diviene metafora non solo della

condizione della donna ma anche della creazione artistica al femminile.

Giocando sul tema della donna come strega, maga o fattucchiera,

con il suo legame speciale e malefico con il mondo animale, con la

natura, il dialogo esclusivo e pericoloso con la dimensione ferina,

Remedios Varo e Leonora Carrington hanno costruito un universo

femminile potente, includente, ecumenico. Ed è proprio nell’ambito

del contesto messicano che questa opportunità si rende possibile.

Come si è accennato in precedenza, l’opera di Leonora Carrington

e di Remedios Varo è pressoché esente da contaminazioni di arte,

folklore e cultura messicana. In contrasto però, non si può negare

tutta un’influenza, che potremo definire come indiretta, dell’am-

biente messicano sulla loro arte. Si direbbe che è l’atmosfera partico-

lare del Messico a ispirarle, come dichiarato dalle stesse due artiste.

Carrington ricorda un avvertimento particolare una volta attraver-

sata la frontiera ed entrata in quel paese dalle tradizioni ancestrali,

con una storia di sangue, violenza, magia e scienza.37 Le antiche

vestigia Incas e Maya, i retaggi della cultura mesoamericana ancora

percepibili, il sincretismo religioso dei messicani, la convivenza di

modernità e tradizione, quella sintesi degli opposti – vita e morte,

giorno e notte, magia e scienza, naturale ed antropico, divino e ter-

reno – così profondamente insito nella società messicana, quella

naturale surrealtà tanto decantata da Breton, è una koinè perfetta per

solleticare l’immaginazione di queste due artiste, con la loro natu-

rale inclinazione per l’occulto, il magico, il misterico.

Remedios e Leonora frequentano abitualmente il coloratissimo mer-

cato di Sonora per acquistare spezie e pozioni, si rivolgono con curiosità

ai guaritori locali; ammirano le pratiche cultuali messicane come il

suggestivo Giorno dei Morti.38 La loro passione giovanile per la magia

bianca, l’occultismo, l’alchimia, la stregoneria, i tarocchi aveva tro-

vato già delle conferme nella passione dei surrealisti per questi temi.

Le due donne cominciano ben presto, nei loro incontri quotidiani, a

esplorare le più disparate fonti di sapere occulto. Le teorie degli esote-

risti russi Georg Ouspensky ed Hélèna Blavastsky, la teologia medie-

vale di Meister Eckhart, i Sufi, le varie leggende legate al Sacro Graal,

la geometria pitagorica sacra, la psicologia junghiana, I Ching.39 Ma

anche gli scritti di Marsilio Ficino, Tommaso Campanella e Giordano

Bruno, pensatori rivoluzionari che hanno poi ispirato i pittori del

Rinascimento tanto cari alle due donne. Tutte queste dottrine diven-

tano fonti da cui attingere, in un sincretismo vorace ed onnivoro.

Leonora Carrington ricorda come una folgorazione la lettura dell’opera

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di Robert Graves The White Goddess: a Historical Grammar of Poetic

Myth (1948), definendola come la più grande rivelazione della sua

vita. Questo studio monumentale sulle dee delle religioni arcai-

che, diventerà un riferimento molto importante per Carrington.40

L’affermazione del monoteismo patriarcale, a suo avviso, non ha sol-

tanto cambiato il genere della presenza divina, ma ha privato tutto

l’universo delle divinità femminili. Per Leonora la donna è infatti

stata costretta, nelle società patriarcali, a rifiutare la sua natura ani-

male, a rinnegarla, denegando così anche la propria natura divina

quale era adorata nelle civiltà primitive e pre-patriarcali, in cui ad

esempio era istituito il culto della Grande Madre. La natura animale

della donna è intimamente legata al suo status di creatrice in quanto

è declinazione singola della Dea Madre, come creatrice universale.

Il mondo femminile per Carrington, deve perciò ritrovare il pro-

prio contatto trascendente con le forze universali. È questo che ispira

l’arte, spesso definita ginocentrica, di Leonora Carrington.41 Tutta la

sua opera può essere vista pertanto come un apprendistato di facoltà

visionarie, una iniziazione ai modi della percezione simbolica ed eso-

terica finalizzato a rivelare la preminenza del principio femminile

nascosto dietro il velo delle icone patriarcali. Rinnovando il contatto

con la natura, la donna di Carrington diventa alchimista, sacerdo-

tessa, druidessa ma anche surrealista potremmo dire.

A partire dagli anni ’50 l’opera di Leonora si incentra proprio sulla

resurrezione della figura archetipica della Grande Madre o Dea Bianca

e sulla rivelazione dell’esistenza di un universo matriarcale come

quello che popola molte delle sue tele. In tal senso molto esplicativo è

il ciclo dedicato alla dea Tuatha dè Danaan, la Divina Danaan, la divi-

nità femminile di Sidhe, il popolo delle Colline della tradizione cel-

tica, tanto decantata da Carrington. 42 Nella tela Sidhe, the White People

of Tuatha dé Danaan (1954) un gruppo di figure bianche iridescenti

Leonora Carrington, Sidhe, the White People of Tuatha dé Danaan, collezione privata

◆ ◆ ◆

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dall’aria spettrale, sono riunite attorno ad un

grande mensa. Sulla tavola spiccano un pen-

tolone, frutti ed erbe. Una figura stante sem-

bra promanare una strana energia luminosa

dalle mani, mentre per la stanza si aggirano

animali emblematici, come un gallo ed un

gatto. Carrington propone in un’ambienta-

zione dall’apparenza domestica rassicurante –

un convivio di donne che preparano un piatto

– tutta una simbologia che richiama i riti

magici, rinviando ad operazioni alchemiche

presiedute da entità femminili. La figura in

piedi infatti ha una mimica sacerdotale, agi-

sce come un officiante.

Remedios Varo dal canto suo, studia appro-

fonditamente le teorie del filosofo Gurdjieff

nelle cui opere – come Incontri con uomini

straordinari o Racconti di Belzebù ai suoi nipoti,

definite come esoterismo cristiano – fonde

la dottrina sufi con temi e simboli di altre

religioni. Queste dottrine vengono portate

per la prima volta all’attenzione di Varo da

Eva Sulzer, amica di Alice Rahon e Wolfgang

Paalen. La Sulzer, nella sua intensa ricerca

spirituale, frequentava regolarmente il

gruppo di Gurdijeff in Messico, in un eser-

cizio costante per l’autoconsapevolezza.43

Varo, proprio come Carrington, è assai lon-

tana da qualsiasi tipo di fanatismo o adesione

acritica a sette e non si unirà mai al gruppo,

pur essendo assai affascinata delle teorie di

Gurdjieff e studiandole approfonditamente.

Il mistico armeno avanza una teoria non

distante dalle speculazioni surrealiste di

Breton e compagni affermando che la vita

dell’uomo è come uno stato di veglia ai limiti

del sonno e del sogno e per trascendere que-

sto stato e raggiungere la consapevolezza, è

essenziale compiere un percorso dentro di sé.

Gurdjieff coniuga l’autoanalisi allo studio

del mondo circostante come mezzo di accre-

scimento spirituale. Questa prospettiva si

riflette ampiamente nell’approccio alla pit-

tura di Remedios Varo, sia nei soggetti che

Remedios Varo, La llamada, Messico, collezione privata

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nella tecnica certosina utilizzata. In Varo è pregnante il tema della

ricerca di sé, della conquista della consapevolezza e dell’illumina-

zione, che si ripresenta in maniera insistita nelle diverse opere. In

La llamada (1961), una figuretta femminile avanza con sguardo

assente, circondata da un’aura fiammante. In mano regge un’am-

pollina di vetro mentre al collo ha un piccolo mortaio alchemico.

Sembra sorda e indifferente alle figure addormentate che sporgono

dai muri che la circondano, completamente in balia di un’energia

che porrebbe derivare dalla luce della luna che splende nel cielo.

Il più importante insegnamento di Gurdjeff però rimane

quello della sintesi perfetta tra microcosmo e macrocosmo, che è

uno dei dati più lampanti dell’opera dell’artista spagnola, come

osservato da Beatriz Varo.44 Remedios fa propria la convinzione

secondo la quale ogni essere vivente, anche il più piccolo, ogni

entità vegetale o minerale, contribuisce con la sua esistenza alla

stabilità del cosmo tutto, alla creazione e alla conservazione

del mondo, in uno stretto rapporto di reciprocità e sinergia.

Lo scopo dell’uomo sulla terra, la finalità della sua esistenza,

secondo il mistico armeno, è portare energia necessaria per l’e-

voluzione dell’universo. Allo stesso tempo però l’universo stesso

riverbera nelle piccole cose. È proprio questa idea di creazione

che anima le sue opere. Varo traduce i concetti proposti da

Gurdjieff in opere come Música solar (1955), dove una figura

femminile avvolta in un mantello che è un manto erboso, suona

con un archetto dei raggi solari; in corrispondenza del cono di

luce prodotto, prendono vita dei fiori. Come a dire che attraverso

l’energia cosmica l’uomo può creare; ma un’energia cosmica di

cui egli stesso è costituito. Anche in Varo, la fascinazione per le

tradizioni esoteriche, per il misticismo e l’alchimia, è coniugata

al potere creativo della donna. L’immagine forse più emblema-

tica e rappresentativa in tal senso ci appare nell’olio su masonite

già citato, dal titolo Armonia (Autorretrato sugerente) del 1956. In

un ambiente che ricorda uno studiolo medievale, una figura dai

tratti androgini, ma che potremo identificare come femminile,

è assorta in un lavoro alchemico. Con l’aiuto di uno spirito che

si protende dalla parete, dispone su di un pentagramma degli

elementi vari – solidi, piante, cristalli, carta, foglie, fiori. Come

i Pitagorici – che ricercavano l’armonia tra matematica, musica

e natura – questo strano compositore si sforza di dare un ordine

attraverso la sintesi di tutti gli elementi, generando una melodia

perfetta, metafora dell’armonia universale.

Come si è fin qui argomentato, Remedios Varo e Leonora Carrington

hanno condotto nel corso della loro vita, una ricerca – artistica, spi-

rituale ed intellettuale – in cui sono diventati centrali il processo

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numero 10 - dicembre 2014

teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica

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di trasformazione dell’alchimia e dell’occulto, il potere creativo delle

donne e la relazione delle stesse con la natura. Questo le ha portate a

ricostruire un universo al femminile, come dei modelli creativi che

sono ben evidenti nella loro produzione pittorica.

La visione di Carrington rispetto alla natura divina della donna,

il recupero della sua dimensione magica – secondo quanto teo-

rizzato da Graves in The White Goddess – le consente uno statuto

peculiare di creatrice. Strega, maga, fattucchiera, guaritrice che

sia, Carrington mette in scena una donna che si è reimpossessata

del suo ruolo creativo, il quale si compie attraverso la magia e l’al-

chimia. Come sottolineato da Urzula Szulakowska, in Carrington

la donna usurpa il ruolo di magus e se ne appropria.45 In tal modo

l’artista britannica propone un modello creativo ben definito,

rielaborando un cliché sul femminile. Allo stesso modo Remedios

Varo delinea un modello creativo non dissimile – partendo dalle

teorizzazione del mistico Gurdjieff – che ha sempre l’occulto e

l’esoterico come riferimento. Strega, sacerdotessa, dea – come in

Carrington – alchimista, maga o divinatrice – come in Varo – è

la donna che è posta al centro di una mitologia pensata ex-novo

a partire da un luogo comune assai frequentato dai surrealisti

uomini. Ecco che le donne diventano protagoniste ed attrici di un

atto di mitopoiesi – proprio come suggerito da Estella Lauter nel

suo studio Women as Mythmakers (1984) – contrapponendo arche-

tipi femminili rivitalizzati agli stereotipi ed ai luoghi comuni

sul femminile.46 Le donne, scrive Lauter, possono adottare una

strategia di deliberata identificazione con l’Altro, con l’alterità,

aderendo specialmente a quegli aspetti della femminilità che sono

considerati più marginali e tabù, e procedere a quello che definisce

come spostamento (displacement) ovvero alla ri-costruzione in prima

persona delle visione dell’‘altra metà’, attraverso la creazione – in

una trama ben nota, quella patriarcale fallocentrica potremmo

dire – di nuovi archetipi femminili. Varo e Carrington attraverso

e loro opere, re-introducono la donna nel mito collettivo.

Come emerso da questa breve e non esaustiva ricostruzione della

loro vita e della loro opera, contando solo sulle proprie forze

Remedios Varo e Leonora Carrington sono riuscite brillantemente

in quell’impresa che, ripensando agli scritti di Luce Irigaray, con-

siste nella capacità di inscriversi nel discorso maschile, imposses-

sandosi tanto dei mezzi che dei temi, sovvertendolo dall’interno,

praticando delle falle, mettendo in scacco i più comuni costrutti

inerenti il femminile ed al contempo rivelando una visione pro-

pria, autonoma ma non per questo necessariamente in contrasto

con il segno dell’uomo. Riuscendo così ad articolare il femminile

all’interno di un discorso patriarcale, fallocentrico, recuperando il

proprio luogo in esso ma senza mantenere l’indifferenza sessuale.

E proprio questa prospettiva, insieme al particolare sodalizio che

le ha legate, fa di queste due pittrici scrittrici un caso emblema-

tico tra le surrealiste di seconda generazione.

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NOTE

Il presente saggio prende le mosse dalla mia tesi di laurea specialistica in Storia dell’Arte, dal titolo Leonora Carrington e Remedios Varo: due artiste surrealiste tra Europa e Messico, Università degli Studi di Trieste, Dipartimento di Studi Umanistici, a.a. 2012-2013, relatore prof.ssa Nicoletta Zanni.

1 «Vi sono in Messico due streghe stregate: non hanno mai ascoltato voci d’elogio o di biasimo, di scuole o di partiti e molte volte hanno riso del padrone senza faccia. Indifferenti alla morale sociale, all’estetica e al prezzo, Leonora Carrington e Remedios Varo attraversano la nostra città con un’aria di indicibile e ineffabile legge-rezza. Dove andranno? Dove le chiama l’immaginazione e la passione» [T. d. A.].

2 Cfr. J. Moorhead, Leonora Carrington, in Surreal Friends. Leonora Carrington, Remedios Varo and Kati Horna, catalogo della mostra (Pallant House Gallery 19 giugno – 12 settembre 2010), a cura di S. Van Raay, J. Moorhead, T. Arcq, Lund Humphries, Farnham 2010, p. 36. Si veda inoltre G. Ingarao, Leonora Carrington. Un viaggio nel Novecento. Dal sogno surrealista alla magia del Messico, Mimesis, Sesto San Giovanni 2014.

3 Cfr. J. Kaplan, Unexpected Journey. The Art and Life of Remedios Varo, Virago, London 1988, p. 26.

4 Cfr. S.L. Aberth, Leonora Carrington. Surrealism, Alchemy and Art, Lund Humphries, Farnham 2010, p. 25.

5 Cfr. E. De Diego, Remedios Varo, Fundación Cultural Mapfre, Madrid 2007, p. 52.

6 La donna è, fin dalle prime fasi del movimento sur-realista, la vestale di un progetto di trasformazione sociale, posta al centro dell’estetica del gruppo, in un vero e proprio paradigma. Modello ed esempio per gli aderenti al movimento sono la folle, l’isterica, la don-na-bambina, la ribelle, considerate da Breton e compagni come perfette incarnazioni di quell’alterità ritenuta vincente per scardinare la realtà borghese precostituita. Ma se nessun altro movimento – contemporaneo e non – ha mai dato così tanta importanza al femminile, tanto da assurgerne a vero centro propulsore, a questo posto d’elezione garantito alla donna nella teoria, sembrano non corrispondere fatti concreti. Non una sola donna è, di fatto, tra i firmatari dei manifesti programmatici del gruppo. Quando alcune di esse compaiono nelle gloriose riviste – da “Littérature” a “Minotaure” – o nei saggi dei fondatori, gli accenni sono puntualmente ingenerosi, stereotipati, riduttivi. Si pensi ad esempio alla menzione che Breton fa di Frida Kahlo nel suo Il surrealismo e la pittura definendola «bomba infiocchettata». Il resto sono silhouettes, ombre, eteree figure incorporee, appa-rizioni sull’emulsione fotografica. Un’immagine piatta ed iconica, controversa, ci appare dalla pur ampia mole di testi redatti dagli aderenti al movimento. Se nei loro testi poetici Desnos, Eluard, Aragon, Breton – degni eredi dei poeti romantici o dello stilnovismo toscano – le esaltano, nelle pitture di Dalí, Magritte, Masson, nei collage di Ernst o nelle fotografie di Man Ray e Hans Bellmer si sprigiona invece una violenza verso il corpo della donna, ridotto a feticcio, disarticolato, reificato. L’immagine che emerge da questi testi è comunque una sola: quella di una donna come oggetto del desiderio altrui. La storia ufficiale del movimento surrealista può apparire come una storia tutta al maschile. Una storia di uomini, del loro immaginario, delle loro ossessioni.

7 Si veda a tal proposito J. Roche, Max et Leonora. Récit d’investigation, Le temps qu’il fait, Cognac 1997.

8 Cfr. S.L. Aberth, Leonora Carrington…, p. 18.

9 Ivi, p. 34.

10 Cfr. M. Cottonet-Hage, The Body Subversive: Corporeal Imagery in Carrington, Prassinos and Mansour, in Surrealism and Women, a cura di M.A. Caws, MITT Press, Cambridge 1991, p. 78.

11 Si veda in tal proposito e riguardo al sodalizio amicale e creativo tra Leonora Carrington, Max Ernst e Leonor Fini a Saint-Martine-d’Ardéche W. Chadwick, D’un jour à l’autre. A Tale of Love, War and Friendship, in “Papers of Surrealism”, Issue 9, Summer 2011. Citazione tratta da http://www.surrealismcentre.ac.uk/papersofsurrealism/journal9/acrobat_files/Whitney%20Chadwick.pdf.

12 Cfr. S.R. Suleiman, Risking Who One Is: Encounters With Contemporary Art and Literature, Harvard University Press, Cambridge (Mass) 1994, pp. 89-121.

13 In merito alla “cattività marsigliese” del gruppo surrealista si veda M. Sawin, Surrealism in Exile: and the Beginning of the New York School, MITT Press, Cambridge (Mass) 1995, pp. 104-147.

14 Per un approfondimento sulle tendenze dell’arte messicana nei primi decenni del Ventesimo secolo, si vedano: E. Lucie-Smith, Latin American Art of the 20th Century, Thames and Hudson, London 1993; I. Rodriguez-Prampolini, El surrealismo y el arte fantástico de Mexico, Universidad Nacional Autonoma de México, México 1993; H. MacKinley, Mexican Painters. Rivera, Orozco and Siqueiros and Other Artists of the Social Realist

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School, Dover Publ, New York (NY) 1989; M. Sartori, Arte latinoamericana contemporanea. Dal 1825 ai giorni nostri, Jaca book, Milano 2003.

15 Per un’adeguata ricostruzione della vicenda del pittore Wolfgang Paalen in Messico e della rivista Dyn si veda A. Leddy, D. Cowell, Farewell to Surrealism. The Dyn Circle in Mexico, Getty Research Institute, Los Angeles 2013.

16 Cfr. S. Van Raay, Surreal Friends, in Surreal friends..., p. 13.

17 Cfr. J. Kaplan, Unexpected Journey…, 1988, p. 119.

18 Ibid.

19 M. Warner, Leonora Carrington’s Spirit Bestiary or the Art of Playing Make-Believe, in Leonora Carrington: Paintings, Drawings and Scultures, 1940-1990, catalogo della mostra (Serpentine Gallery 11 dicembre – 26 gen-naio 1992), a cura di A. Schlieker, Serpentine Gallery, London 1991, p. 16.

20 Cfr. T. Arcq, Mirror of the Marvellous, in Leonora Carrington: Paintings…, 1991, p. 101.

21 Cfr. J. Kaplan, Unexpected Journey…, p. 147 e sgg.

22 Cfr. S.L. Aberth, Leonora Carrington… p. 70.

23 Cfr. M. Warner, Leonora Carrington’s Spirit Bestiary; or the Art of Playing Make-Belief, in Leonora Carrington. Paintings…, p. 19.

24 Cfr. J. Kaplan, Unexpected Journey…, p. 196.

25 Cfr. M. Warner, Leonora Carrington’s Spirit Bestiary; or the Art of Playing Make-Belief, in Leonora Carrington. Paintings…, p. 14.

26 Cfr. J. Kaplan, Unexpected Journey…, pp. 205 e sgg.

27 Cfr. W. Chadwick, Pilgrimage to the Stars. Leonora Carrington and the Occult Tradition, in Leonora Carrington. Paintings…, p. 18.

28 G.M.M. Colvile, Beauty and/Is the Beast: Animal Symbology in the Work of Leonora Carrington, Remedios Varo and Leonor Fini, in “Dada/Surrealism”, 18, 1990, pp. 159-181: p. 163.

29 Cfr. W. Chadwick, Women Artists and the Surrealist Movement, Thames and Hudson, New York 1997, p. 202.

30 L.R. Robinson, Sex, Class and Culture, Muthuen, London 1978, p. 41.

31 C. Garcia, Remedios Varo, peintre surréaliste. Création au féminin: hybridations et métamorphoses, L’Harmattan, Paris 2007, p. 126.

32 Ivi, pp. 128-129.

33 Cfr. E. De Diego, Remedios Varo…, p. 114.

34 Cfr. S.L. Aberth, Leonora Carrington…, p. 82.

35 C. Classen,The Colours of Angels: Cosmology, Gender and the Aesthetics, Routledge, London 1998, p. 133.

36 Affascinato dal Rosarium philosophorum e dalle sue allusioni a unione, sesso, nascita e morte, Breton si avvale della mitologia della tradizione rosacruciana per ribadire ancora una volta la propria convinzione della necessità di superamento di un sistema patriarcale che deve essere rimpiazzato dai valori della coscienza femminile. Riprendendo Eliphas Levi, Breton ritiene che le donne abbiano una speciale connessione con le forze irrazionali e con la natura. Le loro qualità intu-itive e i loro tratti isterici, possono servire da stimolo alla creatività maschile. Il tema dell’alchimia diventa quindi parte integrante dell’estetica surrealista, nella sua fenomenologia basata su amore-desiderio-donna. In

tal senso essi si inscrivono nel discorso alchemico storico che si è sempre basato sul concetto del femminile come magico, alieno, selvaggio, instabile e incontrollato. Per un approfondimento si veda N. Choucha, Surrealism & the Occult, Mandrake of Oxford, Oxford 2010.

37 Cfr. S.L. Aberth, Leonora Carrington…, p. 62.

38 Cfr. J. Kaplan, Unexpected Journey…, 1988, p. 90.

39 Ivi, p. 164.

40 Nel suo famoso testo, Robert Graves ipotizza l’esi-stenza di un’unica divinità femminile, una Dea Bianca, che era alla base di società matriarcali quali sarebbero state quelle euro-asiatiche arcaiche. Tale ipotesi è svi-luppata proprio a partire dallo studio di miti e leg-gende celtiche dell’Irlanda e del Galles, tanto cari alla Carrington, con ampi riferimenti all’alfabeto runico, alla poesia bardica e ai druidi. The White Goddess rap-presenta inoltre il primo testo a esplorare una spiritua-lità antica tutta centrata su una divinità al femminile. Cfr. S.L. Aberth, Leonora Carrington…, p. 79.

41 Cfr. W. Chadwick, Pilgrimage to the Stars, in Leonora Carrington. Paintings…, p. 33.

42 Cfr. S.L. Aberth, Leonora Carrington…, p. 80.

43 Cfr. J. Kaplan, Unexpected Journey…, p. 172.

44 B. Varo, Remedios Varo: en el cientro del microcosmo, Fondo de Cultura Economica, Mexico 1994, pp. 111-113.

45 Cfr. U. Szulakowska, Alchemy in Contemporary Art, Ashgate, Burlington 2011, p. 93.

46 Cfr. E. Lauter, Women as Mythmakers. Poetry and Visual Art by Twenty Century Women, Indiana University Press, Bloomington 1984, p. 9.

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distruzione/costruzione/decostruzioneIl flusso continuo dell’architettura contemporanea

di Michele Sbacchi

Lo spazio urbano contemporaneo si rileva – molto più di quanto

ci si aspetterebbe – come ‘teatro della distruzione’. L’esperienza abi-

tativa quotidiana non porta certo ad imbatterci nelle città ideali,

dalla metafisica e assoluta perfezione, come quelle evocate dalle

enigmatiche tavole prospettiche rinascimentali. Né possiamo dire

che ci accada sempre di attraversare insiemi omogenei, ben composti

e perfettamente conservati.

Piuttosto, molto spesso, ci confrontiamo con spazi incompiuti,

edifici ibridi, stratificati, frammenti di parti complesse, lavori in

corso, vuoti definiti o totalmente indefiniti, edifici in costruzione,

in demolizione, complessi da completare, squarci, giustapposizioni

sanate o insanate, ma anche siti archeologici, tracce, rovine più o

meno distrutte di costruzioni precedenti. Questo è lo scenario che si

dispiega sotto gli occhi dell’uomo contemporaneo: uno scenario in

cui costruzione e distruzione sono continuamente interrelate, se non

addirittura fuse una con l’altra, sia come effetti che come processi.

Risulta difficile – ed inutile forse – definire dove la distruzione fini-

sca e dove la costruzione cominci: si delinea, piuttosto, la concezione

che l’intervento antropico stia in un flusso continuo distruzione-co-

struzione, e talvolta decostruzione. In questo saggio si vuole inda-

gare la condizione contemporanea del progetto di architettura come

fase di questo processo.

C’è chi ha acutamente riflettuto sugli spazi indefiniti della città e

del territorio, i terrains vague secondo il termine coniato da Ignasi de

Solà-Morales.1 In quella prospettiva essi non sono più visti come delle

lacune da colmare nell’ineluttabile processo costruttivo della fabbrica

della città. Il vuoto piuttosto è stato indagato da Solà-Morales come

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elemento fondante della

metropoli contemporanea.

Ancora, c’è chi, come Marc

Augé,2 ha notato la connes-

sione che lega spazi vuoti e

cantieri e come negli spazi

in divenire dell’abbandono,

della distruzione e del can-

tiere si celi la speranza della

modificazione, si celi la

forza del progetto.

Ancora, c’è chi ha definito la condizione della città contemporanea

come quella di un collage – la collage city di Colin Rowe,3 insieme

di utopie frammentarie, che fa sua l’estetica dell’as found elaborata

negli anni ’50 – e traccia un parallelo con la società aperta di Popper.

La città, cioè, risulta l’assemblaggio, nel corso dei secoli, di fram-

menti di utopie che riescono a definirne pezzi – è la città per parti,

altrimenti definita la ‘città delle forme composite’.

Nonostante queste elaborazioni, però, le immagini dell’indefinita

e frammentaria città contemporanea sono spesso rimosse da una

coscienza che separa l’ambito del compiuto da quello dell’incompiuto.

Ancora più spesso l’incompleto e il distrutto sono liquidati sotto l’e-

tichetta del degrado se non ancora in quello del debris, del rifiuto.

Peraltro non si vuole qui negare che esistano, sia in città che in

campagna, anche oggetti compiuti, edifici immacolati, parti consi-

stenti dal disegno e soprattutto dallo stato omogeneo. Ma lo sguardo

attento ci rivela che esse sono sempre in commistione con elementi

che appartengono al dominio, tutt’altro diverso, della scomposizione,

del degrado, della frammentarietà. L’edificio perfetto, eterno, mono-

litico risulta raro, impossibile, vicino alla astrazione da cui deriva.

Non è diverso per l’ambiente ‘naturale’: il paesaggio idilliaco, concluso

e intoccabile, è un’utopia inattingibile: il corso delle stagioni, le modi-

ficazioni meteoriche, le fisiologiche trasformazioni, la nascita e crescita

vegetale, i movimenti geologici contaminano la ‘natura’ inevitabil-

mente. Essa è in costante divenire, è un cantiere continuo, esattamente

come la città. Ed

è sintomatica

l’inversione di

senso attuata dal

termine picture-

sque, che riporta

Charles-Louis Clérisseau, Antiche terme, John Soane's Museum, London

◆ ◆ ◆

◆ ◆ ◆Gordon Matta-Clark, Splitting, foto dell'artista durante la performance

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la realtà all’astrazione della sua rappresentazione, e non viceversa.

La rovina assurge in ogni epoca a fattore d’ispirazione per le arti

figurative, sia nel divenire distruttivo della catastrofe (i dipinti del

seicentesco Monsù Desiderio ne sono interessante prova), sia nella

rappresentazione dell’architettura ormai corrosa dai secoli. Lo spazio

naturale o artificiale – ed in questa ottica la distinzione è poco rile-

vante – disvela come suo elemento irrinunciabile la trasformazione,

il divenire e, di conseguenza, l’incompiutezza. La città, la natura,

lo spazio o, meglio ancora, l’ambiente in toto è teatro dell’intreccio

tra parti compiute, composte e definite e l’azione scomponente del

tempo, degli eventi che trasformano le parti in frammenti.

Eppure un pensiero tenace e diffuso permane: quello che vorrebbe

piuttosto un’azione dell’uomo sull’ambiente tesa a perseguire questa

granitica, improbabile, perfezione. L’azione artificiale sarebbe quella

che aggiunge oggetti compiuti e definiti alla indefinitezza fisiologica

della natura o, addirittura, interviene regolarizzando e rettificando la

natura stessa. L’azione dell’uomo sull’ambiente, sia essa agricoltura,

ingegneria o architettura, sarebbe un’azione di scontro tra artificio e

natura ma anche di messa in scena di questo scontro. L’architettura

è costruzione, e come tale si deve rivelare. L’antropomorfismo plato-

nico-pitagorico, che costituisce la base fondativa della teoria classica

dell’architettura, espletato nell’architettura greca e romana, e ripreso,

tramite Vitruvio, dai trattatisti rinascimentali ha dominato il pen-

siero sull’architettura per due millenni. Esso era basato sulla teoria

delle proporzioni numeriche, che riflettendo l’armonia del macroco-

smo e del microcosmo garantivano, nella loro assolutezza, la bellezza.

I solidi platonici erano un

caposaldo costante. Ciò

era fondato sull’idea – ma

a sua volta la trasmetteva

◆ ◆ ◆François de Nomé, Il re Asa che distrugge gli idoli, Fitzwilliam Museum, Cambridge.

Alex MacLean, B-52 Bombers being syste-matically destroyed, Tucson area, Arizona, da Alex MacLean, Designs on the Land. Exploring America from the air, Thames and Hudson Press, London 2003.

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– di un corpo proporzionale ma soprattutto definito. L’homo ad circu-

lum di Vitruvio, illustrato da Leonardo, implicava la stessa astratta

sublimazione della definitezza di una villa di Palladio, o di un tem-

pio greco. L’idea di contesto, di frammento, di degrado ma anche di

indefinito non potevano avere spazio in questa ideologia.

Ma la questione, con tutt’altra genesi e percorsi, è fondativa dell’i-

deologia produttivistica e positivista, che si afferma nell’industrial

design, e nell’architettura razionalista degli anni ’20. Tralasciando il

design, di cui è facile intuire l’enfasi sulla compiutezza dell’oggetto,

sublimata in maniera esponenziale dalla perfezione della produzione

industriale, vogliamo qui soffermarci sulla componente ‘perfezioni-

sta’ dell’architettura del cosiddetto Movimento Moderno. In quel

contesto – di cui siamo eredi diretti – la casa era spesso equiparata

ad un oggetto industriale e notoriamente ad una macchina – una

machine à habiter. Ebbene questa machine doveva necessariamente

essere nuova, funzionale, moderna ma anche, e conseguentemente,

pulita, sana, astratta, candida e quindi bianca. L’estetica del bianco,

colore atemporale e pulito, di cui fu grande portavoce Le Corbusier

fu epitomizzata nel famoso quartiere laboratorio progettato a

Stoccarda dal gotha dell’architettura moderna, che si chiamava per

l’appunto Weissenhof. L’intonaco bianco che copriva volutamente

come una ‘tonaca’ tutto quanto stava sotto: struttura, giunti, mate-

riali, impianti, texture divenne la ‘divisa’ asettica dell’architettura

moderna, come ha ampiamente dimostrato Mark Wigley.4 Le case

dovevano essere realizzate ex-novo con la nuova prodigiosa tecnica

del cemento armato, dovevano essere bianche e trasparenti ed alli-

neate secondo esigenze di soleggiamento nelle nuove Siedlungen.

Allo stesso modo le città dovevano essere ricostruite da zero, facendo

piazza pulita dei vecchi quartieri. Non bastava più il taglio del

vecchio tessuto con boulevards dai bordi nuovi e rimarginati alla

Haussmann, bisognava fare tabula rasa – distruzione e ricostruzione

così come nel Plan Voisin di Le Corbusier.

Tabula rasa e machine à habiter andavano a braccetto: ma vale la

pena riportare la critica di Heidegger a questo macchinismo:

Parliamo di costruzione di una macchina. Ma non tutto ciò

che può e deve venir costruito, è una macchina. Dunque ecco un

altro segno dell’odierna mancanza di fondamento del pensiero e

della comprensione, quando ci si presenta la casa come una mac-

china per abitare e le sedie come una macchina per sederci. Ci sono

persone che persino in tale follia vedono una grande scoperta e i

presagi di una nuova cultura.5

Bernard Tschumi, architetto ascrivibile per certi versi alla cor-

rente del decostruttivismo, alcuni anni addietro pubblicò alcune

foto delle celebre Villa Savoye di Le Corbusier, allora in stato di

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teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica

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notevole degrado. L’immacolato intonaco bianco a brandelli metteva

a nudo mattoni e cemento sottostanti, la vegetazione aveva invaso

ogni giunto. Tschumi scriveva a margine provocatoriamente: «La

cosa più architettonica di questo edificio è lo stato di degrado in cui

si trova».6 Lasciando da parte la critica del modernismo, che non

ci riguarda in questa sede, l’aforisma di Tschumi trasmette l’im-

portante riconoscimento della condizione fenomenica dell’architet-

tura. Del suo essere temporale, circostanziale e, conseguentemente,

soggetta al degrado. Il degrado, così provocatoriamente riammesso

nell’ambito dell’architettura, diviene l’aspetto più eminentemente

architettonico dell’edificio. Esso diventa, per Tschumi, sulla scorta

di Bataille, elemento di sensualità ed anche di erotismo.

Risulta quindi evidente che l’azione dell’uomo sull’ambiente – sia

essa agricoltura, ingegneria o architettura – vive di un paradosso

fondativo: il disegno organizzatore si scontra con la disarticolazione

e l’indeterminatezza della fenomenologia degli eventi. Per quanto

si possa aderire vuoi alla nozione di un’architettura astratta, vuoi a

quella di un’architettura contaminata, ci si muoverà sempre a par-

tire da questa sorta di ‘peccato originale’.

Ma andiamo a ritroso: che l’architettura non fosse una accademica

‘pura creazione’ o mera composizione del bell’oggetto o del bell’e-

dificio ma piuttosto un’attività più complessa, fortemente radicata

nel contesto, era stato magistralmente intuito già alla fine dell’800

da William Morris nella sua arcinota definizione di architettura:

«L’architettura è l’insieme delle modifiche ed alterazioni introdotte

sulla superficie terrestre… eccetto il puro deserto».7

In una accezione estremamente dilatata, architettura è quindi qua-

lunque azione attuata sulla superficie terrestre. Scompare la distin-

zione tra azioni puramente funzionali ed azioni più propriamente

volte alla creazione dell’oggetto. Il divenire e la contaminazione

contestuale sono dunque riconosciuti da Morris, aprendo quindi

il varco alla nozione fondamentale della rinuncia alla compiutezza

intesa come scopo unico e ultimo dell’architettura.

Gordon Matta-Clark, foto dell'artista durante una performance della serie Building cuts.

◆ ◆ ◆

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teCLa - Rivista temi di Critica e Letteratura artistica

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Ma il pensiero del Novecento ha formulato

questo tema con varie sfumature. Il concetto

di totalità impossibile – e la conseguente

rinuncia alla compiutezza – è stato sondato

per esempio da Jacques Derrida,8 per il quale

la condizione di rovina è residente nella strut-

tura stessa dell’opera d’arte.9 Il frammento e

la rovina non alludono quindi a un insieme

assente o mutilato ma sono forme autonome.

Ciò a partire dalla considerazione che qual-

cosa come lo spazio fisico, qualcosa quindi

dotata di consistenza fenomenica e sensibile

non si dà nella universalità «ma piuttosto

nella verifica del sentire determinato e con-

tingente».10 Esiste quindi per il frammento

architettonico o urbano una verità dell’espe-

rienza che si manifesta nella presenza parziale

del frammento ma anche nella eloquente

assenza della totalità dell’opera. Anzi come

dirà Derrida «la rovina è l’esperienza stessa».

Peraltro a favore della potenzialità insita nel

degrado del frammento si era espresso Walter

Benjamin: «dalle macerie delle grandi costru-

zioni, l’idea del loro progetto parla in modo

più impressionante che non dai particolari

che se ne potrebbero conservare».11

A una profonda riflessione sulla natura

frammentaria dell’architettura è stata dedi-

cata l’opera dell’artista-architetto Gordon

Matta-Clark. Utilizzando la «distruzione»

come procedura artistica Matta-Clark ha

lavorato tagliando materialmente edifici sia

verticalmente che orizzontalmente (la serie

Splitting), sia con tagli conici che attraversano

tutto l’edificio (la serie Conical Intersections),

sia asportandone parti. Pezzi di edifici tagliati

si trovano oggi in vari musei e collezioni. Il

suo lavoro è proprio nella linea degli argo-

menti qui affrontati, esso è teso a denunciare

ogni possibile antagonismo tra costruzione

e distruzione e costituisce una notevole

riflessione sul frammento architettonico.

Certamente Matta-Clark fa tesoro delle ope-

razioni precedenti, e più note, di Burri che

attraverso incisioni e combustioni ha indagato

le tecniche di distruzione creativa in senso più

Gordon Matta-Clark, Conical Intersect.

Giovan Battista Piranesi, Rovine di una Galleria di statue in Villa Adriana a Tivoli, da Vedute di Roma, Roma 1746.

◆ ◆ ◆

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assoluto. Ma altri artisti potrebbero essere citati: i manifesti strappati

di Rotella e più recentemente Christian Daeger o Loredana Longo.

Più di ogni altro però vanno qui richiamate tutte le elaborazioni

di Gustav Metzger, il teorico dell’arte distruttiva e autodistrut-

tiva e soprattutto le attività che si sono svolte intorno al Simposio

Destruction in Art del 1966 a Londra. In quel consesso, a partire dallo

shock subito dalle violenze della guerra, gli artisti intuirono che la

distruzione poteva essere rivoltata nel suo opposto, la costruzione:

distruzione creativa.12

Metzger in apertura al convegno così dichiarava: «In the context of

the possible wipe-out of civilization, the study of aggression in man,

and the psychological, biological and economic drives toward are

possibly the most urgent work facing man». Il simposio Destruction in

Art era stato concepito «to isolate the element of destruction in new

art forms, and to discover any links with destruction in society».13

La rovina quindi si confi-

gurava in modo antitetico

alla tradizione romantica.

Ma la città degradata e

frammentaria alla quale

abbiamo fatto riferimento non è una città dove le rovine alludono

ad un grandezza perduta, sono ciò che ha resistito agli eventi. Esse

non vanno intese entro la categoria delle rovine romantiche proprio

perché queste ultime rimandano con la loro melanconica solitudine

alla totalità assente e quindi ripristinabile. Come è stato osservato:

«Rovina diventa su que-

sta base un frammento di

esistenza, di pensiero, di

oggetto che si offre all’espe-

rienza esibendo in primo

luogo il dissolvimento del

Ed Ruscha, The Los Angeles County Museum on Fire, 1965-68, Hirshhorn Museum and Sculpture Garden.

◆ ◆ ◆

◆ ◆ ◆Monica Bonvicini, Hurricanes and Other Catastrophes #27, 2008, Collezione dell'ar-tista, Berlino.

◆ ◆ ◆Archizoom, Demolizione a Bologna, 1969.

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legame che ne faceva la parte di un tutto».14

A ciò potrebbero aggiungersi le note di

Benjamin. Il frammento infatti rivela di

più di quanto non faccia la ‘parte’, con il

suo semplicistico rimando alla totalità. Il

frammento, quindi, non è un ‘particolare

sopravvissuto’. Così Benjamin, citando pro-

prio l’architettura intesa come costruzione:

«Dalle macerie delle grandi costruzioni,

l’idea del loro progetto parla in modo più

impressionante che non dai particolari che

se ne potrebbero conservare».15

Ma come questa estetica dell’incompleto,

del distrutto, del parziale si è fatta strada

nella nostra cultura? Abbiamo visto come

sia solo episodicamente riconosciuta dagli

architetti e totalmente bandita dal pen-

siero degli ingegneri. Essa invece ha avuto

risonanza tra artisti e fotografi, oltre che

tra filosofi e personaggi della cultura più in

generale. A tal proposito non c’è dubbio che

il meticoloso reportage che Joel Meyerowitz

ha portato avanti sui rottami delle torri

gemelle a Manhattan 16 si spinga ben al di là

della ideologia politica o culturale, pur con

tutta la componente giudaica sullo sfondo.

Esso, piuttosto, costituisce una significativa,

sperimentale e profonda riflessione sulla

nozione di distruzione, a nostro avviso ben

più interessante di certe più epidermiche

manifestazioni della cosiddetta architettura

decostruttivista. Meyerowitz indaga meti-

colosamente il risvolto fisico della distru-

zione nel particolare del singolo elemento

distrutto andando al di là della trappola di

attuare una documentazione del ‘reperto’, o

della ‘testimonianza’ del frammento. Simili

note potrebbero essere fatte sulle fotografie

di Alex MacLean, il quale spinge invece l’in-

dagine sulla distruzione a scala territoriale.

Tra le sette categorie nelle quali ha suddi-

viso le sue splendide foto aeree del territo-

rio americano ritroviamo significativamente

Jeff Wall, The Destroyed Room, 1978, Glenstone

Gustav Metzger, South Bank demonstration, London, 3 Luglio 1961.

Raphael Montañez Ortiz e Paul Pierrot, Piano Destruction Concert, performance in occasione del Destruction in Art Symposium, Londra 1966.

◆ ◆ ◆

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«destruction» che comprende tutti gli accumuli di manufatti

distrutti, ma anche infrastrutture o città.

Ancora diverso è l’approccio di Gabriele Basilico in particolare nelle

foto sulla Beirut sfregiata dalla guerra. Lo stesso potrebbe dirsi sulle

foto di Detroit di Marchand e Meffre o del Belice di Sassano,17 o,

ancora della Finlandia di Erola ed altri. In esse emerge la nozione di

abbandono che connota le rovine architettoniche divenute tali emi-

nentemente in quanto deprivate dell’espletamento della funzione.

Gli esempi fin qui proposti si spingono, a nostro avviso, più avanti

della mera operazione estetizzante di chi ha ampliato il reperto-

rio dei suoi riferimenti artistici con la

inclusione del reperto. Questo è il caso

di John Chamberlain, lo scultore ame-

ricano, non a caso amico dell’architetto

decostruttivista Frank Gehry. Chamberlain ha lavorato con le car-

casse delle automobili, fondendole in interessanti organismi mul-

ticolori, dove tutti i modi della ‘trasformazione’ vengono messi in

gioco: fusione, compressione, etc.

Distruzione e costruzione si manifestano quindi come un intrec-

cio complesso e variegato e non certo come una pura opposizione.

Ciò, come abbiamo visto, produce notevoli ricadute sul piano della

concezione dell’ambiente e della definizione di arte e architettura.

Strettamente connesso a questa tematica è invece il legame tra distru-

zione e costruzione attuato nella cosiddetta architettura decostrut-

tivista, manifestatasi alla fine degli anni ’80 a partire dal sodalizio

tra Peter Eisenman e Jacques Derrida e ufficializzata in una ben nota

mostra al MOMA nel 1988. In essa, senza dubbio, l’estetica della

distruzione viene platealmente inclusa nell’architettura con una spet-

tacolarità che la avvi-

cina a certi esperimenti

manieristi ma anche

alla sublimità della

◆ ◆ ◆John Chamberlain, Debonaire Apache, 1991.

Peter Eisenman, Uffici Nunotani, Tokyo, 1990-92

Gabriele Basilico, Beirut 1991.

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catastrofe, in senso kantiano. Le strutture in bilico

di Zaha Hadid o dei Coop Himmelblau riman-

dano alla instabilità strutturale, già messa in scena

a Bomarzo così come la simulazione del crollo esco-

gitata da Eisenman ricorda le infrazioni di Giulio

Romano come architetto e come pittore. A simili

risultati perturbanti giungono le distruzioni “vir-

tuali” di Ed Ruscha,Jeff Wall, Monica Bonvicini, o

quelle fotografiche di Joel Meyerowitz, nelle quali

la tragedia epocale è ormai coperta dal sudario del

silenzio. Più complesso, ed accidentato, ci appare

invece il percorso che vedrebbe l’architettura deco-

struttiva come corrispondente architettonico del

decostruttivismo filosofico e letterario. Possiamo

però affermare che se il decostruttivismo vuole

svelare il meccanismo complesso che sta dietro

le cose certamente la rivelazione di costruzione e

distruzione come componenti della azione edifica-

toria è pertinente. Architettura distruttiva certa-

mente oltre che decostruttiva.

Bernard Tschumi, Architecture and Transgression, in Oppositions, 7, pp. 56-63, 1976.

Joel Meyerowitz, Pit Looking North, 2002, Collection Miami Art Museum.

Giulio Romano, particolare dalla Caduta dei Giganti, Palazzo Te, Mantova.

◆ ◆ ◆

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NOTE

1 Ignasi de Solà-Morales (Barcellona, 1942 – Amsterdam, 2001) ricoprì la cattedra di Composizione architettonica presso il BIArch (Barcelona Institute of Architecture) e insegnò presso le Università di Princeton, Columbia, Torino e Cambridge. Tra i suoi studi si ricordano Rubió i Bellver y la fortuna del Gaudinismo (1975), Eclecticismo y vanguardia (1980), Diferencias: topografía de l'arquitectura contemporánea (1996).

2 M. Augé, Les temps en ruines, Editions Galilée, Paris 2003 (ed. it. Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2004).

3 C. Rowe, F. Koetter, Collage City, MIT Press, Cambridge (Ma.) & London 1967.

4 M. Wigley, White Walls, Designers Dresses. The Fashioning of Modern Architecture, MIT Press, Cambridge (Ma.) & London 1995.

5 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica (1938), Il Melangolo, Genova 1983, p 278.

6 B. Tschumi, Architecture and Transgression, “Oppositions”, 7, 1976, pp. 56-63: «The most archi-tectural thing about this building is the state of decay in which it is».

7 W. Morris, The Prospects of Architecture in Civilization, in Hopes and Fears for Art, Ellis & White, London 1882, pp. 169-217.

8 J. Derrida, Mémoires d’aveugle. L’autoportrait et autres ruines, R.M.N., Paris 1990; trad. it. di A. Cariolato e F. Ferrari, Memorie di cieco. L’autoritratto e altre rovine, Abscondita, Milano 2003.

9 E. Tavani, Il frammento e la rovina: su alcune eredità dell’estetica del ’900, in La nuova estetica italiana, a cura di L. Russo, Aesthetica Preprint. Supplementa, 9, dicembre 2001, pp. 215-225, a p. 224: «Per Derrida il carattere di “rovina” è “originario” dell’evento e della struttura dell’opera d’arte, giacché il suo farsi reale che la costruzione del tratto che delinea la figura non possono che essere ellittici, citazioni di una totalità impossibile e di una identità ipotetica».

10 Ivi, p. 225.

11 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco (1928), Einaudi, Torino 1999, p. 253.

12 K. Stiles, The Story of the Destruction in Art Symposium and the “DIAS affect”, in Gustav Metzger. Geschichte Geschichte, a cura di S. Breitweiser, Generali Foundation and Hatje Cantz Verlag, Vienna & Ostfildern-Ruit 2005, pp. 41-65.

13 G. Metzger, estratti del discorso introduttivo al DIAS symposium, “Studio International”, 174, 1966, p. 238.

14 E. Tavani, Il frammento e la rovina…, 217.

15 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco…, p. 253.

16 J. Meyerowitz, Aftermath, Phaidon Press, New York, 2006.

17 M. Sbacchi, Distruzione e costruzione, in Armonia e distruzione nella fotografia di Franco Sassano, Libridine, Mazara del Vallo 2011, pp. 4-5. Per ulteriori approfon-dimenti sulla questione, rimando inoltre a N. Emery, Distruzione e progetto. L’architettura promessa, Christian Marinotti, Milano 2001; L. Fernández-Galiano, Terremoto e terapia, in “Lotus International”,104, Electa, Milano 2000, pp. 44-47; D. Gamboni, The Destruction of Art: Iconoclasm and Vandalism since the French Revolution, Yale University Press, New Haven 1997; A. Wilson, A Poetic of Dissent: Notes on a Developing Counterculture in London in the Early Sixties, in Art & the Sixties. This was Tomorrow, a cura di C. Stephens, K. Stout, Tate Publishing, London 2004, pp. 92-111.

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«The raw visual feel».L’esperienza dell’opera d’arte nella prima

formazione di Michael Baxandall

di Laura Pellicelli

Tra gli “episodi” raccontati da Michael Baxandall nel suo

libro postumo di memorie, Episodes. A Memory Book,1 ve ne è uno a

cui si deve sostanzialmente l’importante contributo dell’autore alla

storia e alla critica d’arte del nostro tempo. Mi riferisco al momento

in cui, dopo aver conseguito l’English Tripos al Downing College

di Cambridge (1954),2 egli decide di non proseguire la formazione

letteraria per dedicarsi allo studio delle arti visive. I fatti che cor-

redano questo snodo decisivo meritano un’attenzione speciale, in

quanto rivelano le possibili origini di alcuni tratti caratteristici

dell’opera successiva dello studioso. In particolare, ci occuperemo in

questa sede del suo profondo interesse per la ricezione visiva dell’o-

pera d’arte. Un esempio significativo, in questo senso, è offerto dalle

memorie relative al 1955-56, anno che Baxandall trascorre in Italia

grazie a una borsa di studio ottenuta dopo l’iscrizione al Courtauld

Institute come studente esterno in storia dell’arte. In esse l’incontro

giovanile con la pittura italiana è descritto come un momento fon-

dante in cui, posto di fronte all’opera, Baxandall si interroga per la

prima volta sul valore di ciò che descriverà come «the raw visual feel

of the pictures», ovvero la “grezza” sensazione visiva delle imma-

gini, «and the immediate sense of human quality and mood».3

Nel presente contributo si intende ricostruire come il precoce inte-

resse dello studioso per quel particolare genere di esperienza, che

è l’osservazione dell’opera, prenda corpo attraverso alcuni passaggi

della sua formazione. In primo luogo si analizzeranno gli apporti che,

in questo senso, gli provengono dalla critica letteraria e in partico-

lare da F. R. Leavis.4 A testimonianza di questo insegnamento vi sono

alcune carte appartenenti al fondo Baxandall: quattro pagine datti-

loscritte, intitolate Leavis on critical theory (1953),5 in cui Baxandall

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cerca di distillare un pensiero critico attraverso i termini usati cor-

rentemente dal maestro. Questo “breve glossario”, come è descritto

nelle memorie, acquista un’importanza fondamentale alla luce delle

riflessioni che accompagnarono la fine degli studi a Cambridge:

Supposing one had tried to do a Leavis on visual art, on pictures and sculptures and so on, what would it have been like? I was occasionally thinking about this at that time.6

Attraverso un confronto mirato tra le voci del glossario e alcuni luo-

ghi selezionati dell’opera di Leavis, si cercherà di comprendere come

tale lezione sia stata assimilata da Baxandall nel momento del pas-

saggio alla storia e alla critica d’arte. Non si analizzeranno, quindi,

integralmente gli sviluppi che l’intenzione di “fare un Leavis nelle

arti visive” può assumere nell’opera successiva dello studioso; né, è

bene specificare, si pretende di rendere giustizia alla complessità e

all’originalità della critica leavisiana. L’autore comparirà piuttosto

in questa sede come singolare rappresentante di una pratica analitica

con cui viene comunemente identificata la Scuola di Cambridge: 7 il

cosiddetto close reading. Si sonderà, dunque, il modo in cui la “let-

tura ravvicinata” e attenta del testo venga concretamente e speci-

ficamente praticata da Leavis all’interno di brani di critica in atto

(practical criticism).8 In questo modo sarà forse possibile avvicinarsi

allo “specifico di Leavis” nell’esperienza di Baxandall, ricordato nelle

memorie, come segue:

Perhaps it should still be stated clearly that “close reading” was not what was specific to Leavis, though he did it or something like it. What were specific to Leavis, in my experience, were a temperament and a set of stances and a set of values. The stances were something between impli-citly principled positions and postures from which one could effectively launch oneself, and they were embodied in certain critical performances by himself or others. The values were established in exemplary pieces of literature, often good sections out of a mixed whole, read in his way.9

Se tali critical performances costituiscono il tratto distintivo di Leavis

secondo il racconto di Baxandall, nel glossario il discorso a esse sot-

teso interseca parzialmente quello di I.A. Richards 10 e la critica non

accademica di T.S. Eliot.11 Non si cercherà, dunque, in questa sede,

di separare le voci dei singoli autori, ma si ricostruirà, piuttosto, la

sintesi personale che Baxandall può averne tratto. Tale acquisizione,

come vedremo, si rivelerà fondamentale nel momento in cui il gio-

vane studioso dirotterà la propria attenzione sui “testi visivi”. Ciò

che egli cercherà nelle sue prime letture di argomento storico-arti-

stico sarà, appunto, l’“osservazione ravvicinata” delle immagini.

Nel quadro della formazione critico-letteraria di Baxandall, e della

sua transizione alle arti visive, si inserisce poi un’altra circostanza

che vorrei prendere in considerazione: l’ambizione giovanile di

diventare un romanziere.

In my last year at Cambridge I had decided, or at least discovered the firm intention, not to commit to a trade or profession for ten years: I was twenty and could have till thirty before settling […] One ambition I had

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was to write novels. To find out if I could write novels would take time, not just for writing, but for living: I was aware I lacked experience of life, out of which good novels are known to be written […]. The ambition was not realized because I did not have real narrative vitality, but it underlay a zigzag self direction in the next half-dozen years.12

Sebbene Baxandall non scriva alcun romanzo negli anni immedia-

tamente successivi a Cambridge, egli continuerà a coltivare questo

suo proposito, che porterà alla pubblicazione postuma (2010) di A

Grasp of Kaspar, romanzo poliziesco di ispirazione autobiografica.13

La parziale sovrapposizione di finzione e autobiografia è suggerita,

già a una prima lettura, dall’impianto narrativo del libro. Le vicende

di A Grasp of Kaspar portano infatti il protagonista ad attraversare a

ritroso gli stessi luoghi della peregrinazione giovanile (perambulation)

raccontata da Baxandall nelle memorie, che lo vede in Italia nel 1955-

56 e a Monaco nel 1957-58, con una tappa intermedia in Svizzera

(1956-57), dove insegna presso l’Institut auf dem Rosenberg di San

Gallo. Tra le bozze e le carte preparatorie per il libro, datate comples-

sivamente dal 1955 al 2005, si trova un quaderno 14 catalogato come

diario personale dell’anno italiano. Le annotazioni registrano impres-

sioni e attività relative al periodo trascorso al Collegio Borromeo

di Pavia e presentano una certa somiglianza con alcuni brani del

romanzo, soprattutto con le descrizioni degli ambienti e dei paesaggi

attraversati durante il suo soggiorno. Queste sovrapposizioni fanno

pensare che vi possa essere una stretta correlazione tra il quaderno e

il romanzo. Una prima ipotesi è che le note giovanili siano state regi-

strate originariamente come materiale da utilizzare per la scrittura;

alternativamente, Baxandall potrebbe esservi tornato al momento

della stesura di A Grasp of Kaspar.15 Qualunque sia la relazione che

intercorre tra il manoscritto e il libro, tali annotazioni presentano un

vivido interesse rispetto al nostro argomento, in quanto denotano in

chi scrive una acuta attenzione nel registrare l’esperienza visiva dei

luoghi e degli ambienti descritti, soprattutto dal punto di vista delle

qualità atmosferiche che li pervadono. In esse, come si argomenterà

in seguito, si può intravedere un’ulteriore e diversa manifestazione di

quella “sensazione visiva grezza” che a queste date informa lo sguardo

del giovane studioso sull’opera d’arte.

Avendo fin qui tratteggiato le tappe del presente discorso, pare

opportuno tornare ai fatti, partendo dal momento in cui Baxandall

fa il suo ingresso al Downing College di Cambridge.

L’ammissione alla «Downing English School» avviene in seguito a

un colloquio con Leavis: si tratta probabilmente del primo incontro

con un autore che, da lì in avanti, diventerà un modello imprescin-

dibile.16 Egli si trova così immerso in un campo di studi poco fami-

liare,17 con la difficoltà di doversi confrontare con un maestro non

incline alle indicazioni esplicite di metodo. In verità, in tal senso,

Leavis da tempo preparava un testo rimasto incompiuto.

It took me time to adjust to Leavis’s unwillingness to describe procedures and criteria in general terms: I would have liked an explicit method with

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precepts and procédés, and would have given much for the ghostly book “Authority and Method” he never finished – though the bits of it that emerged later in essays make it clear that this would not have been the sort of neat driver’s manual I thought I wanted.18

Nonostante il manuale non abbia mai visto la luce, tra il 1945 e

il 1952 appaiono su “Scrutiny” 19 tre articoli, aventi come sottoti-

tolo comune “Notes in the analysis of poetry”, 20 frutto della rifles-

sione metacritica di Leavis.21 Essi confluiscono successivamente nella

sezione “Judgment and Analysis” 22 di The Living Principle: English

as a discipline of thought (1975). L’impianto generale dei tre saggi

conferma l’osservazione di Baxandall per cui sarebbe stato inutile

aspettarsi un’esposizione in termini generali delle procedure e dei

criteri della critica: essi sono infatti offerti sotto forma di dimostra-

zioni pratiche o come commenti finali all’esegesi del testo. Leavis

procede, cioè, attraverso l’analisi concreta e dettagliata di versi o

brani di prosa, scelti in quanto esemplificativi di aspetti di interesse

generale: «the method of exploration by concrete analysis – analysis

of judiciously assorted instances».23 Il metodo rispecchia la struttura

tipica dei suoi seminari, descritta da Baxandall nelle memorie:

He taught us through seminars conducted around cyclostyled reading sheets with anything from a couple to half-a-dozen text extracts on them; the texts, verse or prose, were unidentified (though not always unreco-gnized) and the group attributed them to authors or moments, on the basis of legitimate kinds of point drawn from alert reading. This stage was a sort of high connoisseurship. Then Leavis would expand on a more

general issue the texts on the sheet were calculated to raise: impersonality, movement, or whatever it might be.24

Impersonality e movement rientrano tra le questioni generali che non

possono avere una formulazione astratta, ma che emergono dall’a-

nalisi di brani assortiti di prosa o poesia. Esse si impongono a una

lettura attenta del testo e ne determinano la valutazione critica. Ne

consegue che per comprendere la lezione di Leavis sarà necessario

confrontarsi, almeno parzialmente, con i versi da cui emergono le

questioni fondamentali del suo pensiero. Il nostro punto di vista

privilegiato, in tutto ciò, è rappresentato dal glossario, che riassume

la “teoria critica di Leavis” in quattro voci: standards, moral judg-

ment, art and morality e impersonality. Non intendo in questa sede

analizzare interamente il contenuto del dattiloscritto, quanto trarne

alcune osservazioni a proposito della funzione attribuita da Leavis

alla critica, dalla quale dipende strettamente l’analisi dei testi. A

questo proposito, si farà riferimento a un secondo gruppo di scritti

leavisiani, pubblicati tra il 1953 e il 1965;25 sulla base della loro

stretta somiglianza con gli argomenti del glossario, anche le ultime

pubblicazioni possono essere lette come stralci della sopramenzio-

nata riflessione metodologica.

Tra le funzioni che Leavis attribuisce alla critica, ve ne sono due

di carattere essenziale, tra loro strettamente connesse. La prima è

contribuire a formare la sensibilità pubblica al fine di mantenere

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vivo l’interesse collettivo per la letteratura;26 parte di questo com-

pito consiste nel giustificare e mantenere aggiornati gli standard di

giudizio.27 La seconda è dare un fondamento a tale interesse per la

letteratura, che per Leavis è di tipo “morale”. L’aggettivo descrive

la funzione più importante della poesia, che egli, adattando la for-

mula di Matthew Arnold 28 contenuta nel saggio The study of poe-

try (1880), definisce come «criticism of life». L’espressione serve a

connettere i concetti di “arte” e “morale” e a motivare l’importanza

della letteratura per la “vita”.

It is when we feel that the radical kind of criteria are notably chal-lenged that the term “moral” comes up; it comes up because they are challenged […] significant art challenges us in the most disturbing and inescapable way to a radical pondering, a new profound realization, of the grounds of our most important determination and choices. Which is what Arnold meant by saying […] that literature is to be judged as “criticism of life.29

Quanto riportato ha delle immediate conseguenze sul piano dell’a-

nalisi del testo, come si può leggere nel glossario: «Analysis is a

process of re-creation. Involving discipline in relevance».30 Quello

di rilevanza è un criterio cui Baxandall attribuisce un’importanza

fondamentale nel bilancio retrospettivo della lezione del mae-

stro. 31 Esso emerge in un articolo del 1953 – The responsible critic:

or the function of criticism at any time – in cui Leavis, rispondendo

alle osservazioni di F.W. Bateson circa lo scarso rigore scientifico

di “Scrutiny”, affronta la questione della “responsabilità” della

critica. Secondo Bateson, le analisi di Leavis erano caratterizzate da

un’eccessiva disinvoltura nell’esprimere giudizi di valore, non sup-

portati da un’adeguata considerazione del contesto storico e lette-

rario cui il testo appartiene. A questa critica “irresponsabile”, egli

oppone una più affidabile “lettura contestuale” o “storica” dell’o-

pera (“contextual reading”), metodo rappresentato dalla rivista, da

lui diretta, “Essays in criticism”. La polemica offre a Leavis l’occa-

sione per affermare un presupposto essenziale della sua posizione

critica: irresponsabile è lo studioso che rifiuta un confronto diretto

e personale con la poesia, preferendo una più rassicurante “lettura

storica”, il cui effetto è quello di allontanare il testo dal lettore e di

nasconderne il significato umano dietro circostanze esteriori. Una

lettura sensibile, al contrario, non mancherà certo di riconoscere

«the period peculiarities of idiom, linguistic usage, convention,

and so on […]» 32 e altri aspetti necessari alla comprensione della

poesia come prodotto storico; l’“intelligenza” critica, tuttavia, si

manifesterà proprio nella selezione accurata delle informazioni

rilevanti,vale a dire che restituiscono la vitalitàdel testo poetico nel

presente. Il criterio di rilevanza è così posto a fondamento dell’at-

tività critico-letteraria, nel momento in cui essa è consapevole di

aver a che fare con il risultato di un lavoro creativo.

The critic, by way of his discipline for relevance in dealing with created work, is concerned with life.33

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Una ricostruzione esatta del contesto storico, non solo non è possi-

bile, ma può inficiare la comprensione della rilevanza della poesia

per la vita: «How does one set to work to arrive at this final inclusive

context, the establishment of which puts the poem back in “its ori-

ginal historical setting”, so that “the human experience in it begins

to be realized and re-enacted by the reader?”».34 La domanda, evi-

dentemente retorica, non può trovare una risposta positiva, poiché

l’esperienza umana che il lettore realizza e ricrea si trova all’interno

del testo, non al di fuori. La conoscenza del contesto storico è dun-

que necessaria solo nella misura in cui affina la comprensione delle

qualità linguistiche e delle convenzioni stilistiche; ma non è in que-

sto tipo di informazioni che si esaurisce il valore di una poesia.

Chiarito così quale sia secondo Leavis il compito della critica, e la

sua responsabilità nei confronti della letteratura, passiamo a con-

siderare un tema centrale nel pensiero dell’autore, l’impersonalità,

che compare come lemma conclusivo del glossario di Baxandall.

Nell’affrontare la questione ci porremo il duplice obiettivo di com-

prendere perché l’impersonalità del testo ne riveli il valore morale e

come essa si manifesti concretamente nel linguaggio poetico.

In Thought and emotional quality (1945), Leavis confronta coppie di

poesie dal punto di vista espressivo, dimostrando come l’emozione

possa essere esibita in modo diretto, oppure possa svilupparsi in

modo impersonale, ovvero attraverso una situazione presentata all’in-

terno del testo con distacco. Alcuni esempi possono forse aiutare a

capire la differenza tra i due tipi di poesia. Confrontando alcuni versi

di Wordsworth 35 e Tennyson,36 Leavis dimostra come soltanto nel

primo autore l’effetto emotivo sia reso tramite il ricorso all’imper-

sonalità, ovvero sia affidato alla struttura del testo e alle situazioni

concrete che essa presenta. Egli si concentra, in particolare, su quello

che accade trale stanze.

The emotional power is generated between the two stanzas, or between the states represented by the stanzas: “she was, she is not” – the statement seems almost bare and simple as that. But the statement is concrete, and once the reading has been completed the whole poem is seen to be a complex organization, charged with a subtle life. In retrospect the first stanza takes on new significance: “A slumber did my spirit seal;/I had no human fears”- the full force of that “human” comes out: the conditions of the human situation are inescapable and there is a certain hubris in the security of the forgetful bliss. Again, the “human” enhances the ironic force of “thing” in the next line: “She seemed a thing that could not feel/The touch of earthly years”. In the second stanza she is a thing – a thing that, along with the rocks and stones and trees […] cannot in reality feel the touch of earthly years and enjoys a real immunity from death.37

Wordsworth “oggettiva” l’emozione personale in una situazione

concreta, creata dalla struttura temporale della poesia («she was, she

is not»), la quale ha un’esistenza indipendente dalla presenza del

poeta e può essere percorsa mentalmente ed emotivamente dal let-

tore. In Tennyson, al contrario, l’emozione non è realizzata nel testo,

ma fluisce in superficie, come un lamento uniforme che si impone

alla lettura: 38 l’emozione è esibita sulla pagina - «the emotion seems

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to be out there on the page» - ed è priva di “sostanza poetica”. Ora,

l’impersonalità della poesia di Wordsworth ne decreta la superiorità

nel momento in cui l’analisi del testo, in Leavis, cede il passo ad

una sua valutazione critica, che comporta l’attribuzione di un valore

“morale”: la poesia di Tennyson è inferiore a quella di Wordsworth,

non soltanto per i suoi aspetti formali, ma per l’atteggiamento e il

comportamento che incarna.

“Inferior in kind” – by what standards? Here we come to the point at which literary criticism, as it must, enters overtly into questions of emo-tional hygiene and moral value – more generally (there seems no other adequate phrase), of spiritual health.39

«As it must» dà la misura della componente morale nella critica di

Leavis: l’analisi del testo, nel rispetto dei suoi propri fini, valica ine-

vitabilmente il confine di un giudizio sull’atteggiamento incarnato

dalla poesia. Una riposta critica appropriata alla poesia è, dunque,

quella che si rapporta con l’ethos veicolato dal testo. Tutto ciò è con-

densato da Baxandall nel glossario, laddove egli chiarisce la natura

“morale” dei criteri che presiedono al giudizio critico.

Moral judgements. The criteria of a value judgment: One cannot distin-guish between moral and critical considerations. The critic should not necessarily base his moral-critical judgments on any particular ethic; he offers them with the same appeal for agreement as in other critical judge-ments, an appeal to the moral-critical sense-response of the reader. Moral as a word is used in criticism for emphasis on relevance to “criticism of life”. Significant art challenges (moral) habit and with acquaintance

changes it. Failure to challenge it implies pejorative judgement. (Then the points of reference, the standards by which we judge, are nothing more than our sense of life, the contemporary sensibility).40

Tornando agli esempi, si è già detto come Wordsworth comunichi

la sua esperienza con un tale distacco che sfiora effetti ironici su un

tema drammatico come la perdita degli affetti; e come, per contrasto,

Tennyson si abbandoni a un esibito sentimentalismo. Nel giudicare

la prima poesia come superiore alla seconda, Leavis sta contempo-

raneamente prendendo posizione rispetto all’atteggiamento rappre-

sentato dai due testi. Il giudizio critico chiama in causa la sensibilità

morale del lettore e comporta un’assunzione di “responsabilità” che

Baxandall ricorda di aver sperimentato personalmente.

Here [ovvero nel giudizio critico-morale] a person was in an exposed posi-tion with Leavis. The famous pattern of exchange – “This is so, isn’t it? Yes, but…” – involved a reciprocal declaration of identity, tacit in one’s own case, of course, but stark and agonistic: it was his human response or yours. In fact, it was him or you…A critical crux – an inability genuinely to share his feeling about a text – might be a moment in learning to read but it might be an irreducible difference in that judgment about life. This exposure was exciting.41

Al momento di tracciare un bilancio a posteriori della lezione del

maestro, Baxandall parlerà nelle memorie di una convinzione matu-

rata in lui per cui in arte gli aspetti “tecnici” e quelli morali non

possano essere isolati gli uni dagli altri.42

In conclusione alla discussione sugli aspetti appena trattati, vorrei far

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notare come nella voce del glossario, citata poco sopra, si affermi che

il giudizio critico-morale non possa fondarsi su alcuna convinzione

etica particolare. In altre parole, la critica non deve cadere in ciò che,

alla voce Art and Morality, è definito come moralistic fallacy. Tra i

moralisti è interessante notare di passaggio la presenza di uno degli

autori a cui Baxandall si rivolge nel momento della “transizione alle

arti visive”: John Ruskin. In particolare egli ricorda di aver letto con

interesse le Seven lamps of architecture (1848; 1880) «for the confidence

with which it locates plain values immanent in art».43 Nel glossario,

l’autore compare tuttavia in una posizione liminare, ovvero in veste di

rappresentante di un versante particolare della “fallacia moralistica”:

The moralistic fallacy: Ruskin shows one side of it in the didactic (which is in itself not one) fallacy – the idea that moral content must be expli-cit…not just enacted.44

A Ruskin viene affiancato, sotto questo punto di vista, il Tolstoj

di What is art? (1897). È interessante notare come il riferimento

bibliografico contestualmente indicato per il trattamento del pro-

blema, ovvero i Principles of literary criticismdi Richards (1924), offra

un preciso termine di confronto per comprendere l’intera voce e,

soprattutto, una proposta di soluzione al moralismo nella critica.

Pare opportuno soffermarsi brevemente sul pensiero di Richards, per

far emergere come il concetto di impersonalità possa essere collegato

a quello di immaginazione.

Nel capitolo “Art e morals”, l’autore si sofferma sulla manifestazione

del valore morale nelle opere d’arte:

What value is and which experiences are most valuable will never be understood so long as we think in terms of those large abstractions, the virtues and the vices […] Instead of recognizing that value lies in the “minute particulars” of response and attitude, we have tried to find it in conformity to abstract prescriptions and general rules of conduct. The artist is an expert in the “minute particulars” and qua artist pays little or no attention to generalizations which he finds in actual practice are too crude to discriminate between what is valuable and the reverse.45

Cercando manifestazioni dirette di norme generali di comporta-

mento, il “moralista”, secondo Richards, perde di vista dove risieda

il valore dell’arte; Ruskin, cade parzialmente in questo “errore”:

The extent to which the arts and their place in the whole scheme of human affairs have been misunderstood, by Critics, Moralists, Educators, Aestheticians […] is somewhat difficult to explain. Often those who most misunderstand have been perfect in their taste and ability to respond, Ruskin for example.46

Più severo è il giudizio su Tolstoj. Partendo dal presupposto che il

valore dell’opera risieda nel suo contenuto, l’autore russo elegge a

giudice delle arti la “coscienza religiosa” dell’età cui l’opera appar-

tiene; è essa, infatti, a garantire la massima comprensione del signi-

ficato della vita, il quale risiede nell’unione universale degli uomini.

Secondo Richards: «Tolstoj […] denied the value of all human ende-

avours except those which tend directly to the union of men […] All

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other things are of value only in so far as they tend to promote this,

and art shares the general subordination».47

Directly è la spia per comprendere l’intero problema e,

insieme, un primo suggerimento circa la sua soluzione. Tutto ciò è

riportato da Baxandall nel glossario:

There is also Tolstoi, who is the moralistic fallacy and in whom the word “directly” is the key […] The answer to Tolstoi’s “directly” is in Shelley – “The chief agent of moral good is the imagination, and poetry ministers to the end by acting on the cause”.48

La citazione interna al brano riportato è estratta da un passo di

Shelley (Defence of poetry, 1821). Lo stesso testo è citato da Richards

come correttivo alle tesi di Tolstoj, in quanto vi si trova, non solo

un più ampio e più completo senso dei valori, ma anche una con-

cezione più sottile della funzione morale della poesia. Come nota

Elio Chinol nella sua introduzione all’edizione italiana dei Principles:

«secondo il Richards la poesia non adempie ad una funzione morale

impartendo principi morali e canoni di condotta, ma allargando la

sfera della sensibilità umana, maturando una maggiore compren-

sione dell’esperienza e delle possibilità della vita».49 Per spiegare

in che modo avvenga tale allargamento della “sfera della sensibilità

umana”, Richards ricorre a Shelley:

Ma la poesia opera in maniera più divina [rispetto alla “scienza etica”]. Essa risveglia e allarga la mente stessa facendone il ricettacolo di mille scono-sciute combinazioni di pensieri. Tutto ciò che rafforza e purifica gli affetti, che allarga l’immaginazione e anima i sensi, è utile…Il grande segreto della morale è l’amore, o un uscire dalla nostra natura e un identificarci con il bello che esiste in pensieri, azioni e persone fuori di noi. Un uomo, per essere molto buono, deve immaginare intensamente e comprensivamente, deve immaginare se stesso nella situazione di un altro e di molti altri: i dolori e le gioie dei suoi simili devono diventare suoi. Il grande strumento del bene morale è l’immaginazione; e la poesia contribuisce all’effetto agendo sulla causa […]La poesia rafforza la facoltà che è lo strumento della vita morale dell’uomo nello stesso modo in cui l’esercizio rafforza un organo.50

Attraverso il punto di vista di Shelley, cui Richards si allinea, la

questione della funzione morale della poesia viene sottratta alla con-

trapposizione tra autonomia ed eteronomia dell’arte. La dicotomia

tra estetismo e moralismo è infatti superata, laddove si afferma che

la funzione morale non minaccia il valore specifico dell’arte: la poe-

sia non è abbassata a mezzo per un fine morale a essa esterno, perché

tale fine è affidato all’azione che essa esercita sulle possibilità imma-

ginative del lettore.

Particolarmente interessante, a questo punto, è la relazione tra il

concetto di immaginazione, emerso attraverso Richards, e quello di

impersonalità sotteso alla critica leavisiana. Quest’ultimo è, infatti,

lo strumento necessario affinché la poesia possa suscitare l’imma-

ginazione del lettore, offrendogli la possibilità di riviere e ricreare

l’esperienza in essa racchiusa. Riprendiamo dunque l’analisi degli

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aspetti tecnici del linguaggio poetico in Leavis, focalizzando l’at-

tenzione sull’idea di poesia come mezzoche comunica un’esperienza

facendo appello all’immaginazione e svolgendo, al contempo, una

funzione morale. L’esercizio credo possa aiutare a identificare le

specificità del linguaggio poetico su cui Baxandall allena la pro-

pria ricettività, al punto da volerne poi trovare degli equivalenti

all’interno dei testi visivi.

Tornando alla voce impersonality del glossario – «Impersonality.

Impersonal: not direct address from the poet; self effacement,

disinterestedness, detachment» 51 – troviamo un riferimento biblio-

grafico che ci può aiutare in questa direzione: «Eliot’s Tradition

and the Individual Talent (reaction against Romantic confusion

of autobiography and art)».52 Nel famoso saggio del 1917, Eliot

descrive il modo in cui opera la mente del poeta, paragonandola a

un filo di platino che, immerso in un ambiente di ossigeno e bios-

sido di zolfo, agisce come catalizzatore di una reazione chimica.

Il poeta è necessario alla nascita della poesia come il catalizzatore

lo è affinché i reagenti si trasformino in composti, ma, al pari del

filo di platino, non deve lasciare traccia di sé nel risultato finale.

Come il filo è immerso nei gas, così il poeta, in quanto individuo,

è immerso nelle passioni che sono il suo materiale poetico. La sua

mente «is in fact a receptacle for seizing and storing up numberless

feelings, phrases, images, which remain there until all the particles

which can unite to form a new compound are present together».53

Questo composto è il testo poetico, al cui interno l’autore avrà tra-

sferito e trasfigurato la propria esperienza in una complessa orga-

nizzazione di parole.

The poet has, not a personality to express, but a particular medium, which is only a medium and not a personality, in which impressions and experiences combine in peculiar and unexpected ways. Impressions and experiences that are important for the man may take no place in the poetry, and those which become important in the poetry may play quite a negligible part in the man, the personality.54

Ecco, dunque, la presa di posizione contro la confusione tra autobio-

grafia e arte riportata da Baxandall e insieme l’idea di una spersona-

lizzazione dell’esperienza nel medium. Richiamando il confronto tra

Wordsworth e Tennyson visto sopra, la differenze rilevate da Leavis

possono ora essere descritte attraverso le parole di Eliot: «For it is

not the “greatness”, the intensity of the emotions, the components,

but the intensity of the artistic process, the pressure, so to speak,

under which the fusion takes place, that counts».55 Ciò che più

ci interessa in Eliot è la rilevanza che viene data al medium come

risultato della trasformazione poetica di materiali desunti dall’e-

sperienza (“sensazioni, frasi, immagini”). Concentriamoci perciò

su tale “processo artistico” – la trasformazione dell’esperienza in

linguaggio poetico – e introduciamo un nodo problematico che si

nasconde dietro le analisi del verso, ovvero ciò che Leavis chiama

«visualist fallacy in criticism».56

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Siamo di fronte a un possibile errore della critica, ovvero quello di

ritenere che la qualità specifica del linguaggio poetico sia di natura

squisitamente visiva, risieda cioè nella capacità di evocare immagini.

Esso deriva dalla comune abitudine a considerare la visione chiara e

distinta come modello di “oggettività”, dunque come ciò che nella nostra

esperienza interiore offre una naturale analogia con il pensiero logico.

L’attribuzione di qualità visive al pensiero è fonte di errori nella critica

letteraria, laddove essa ingenera una predisposizione a considerare gli

elementi “particolari” (oggettivanti) della poesia come immagini visive.

Di contro, Leavis riporta prepotentemente l’attenzione sul tessuto ver-

bale del testo, il quale agisce sul lettore primariamente attraverso una

complessa organizzazione di parole, in cui gli effetti di suono interagi-

scono con il significato letterale. Le immagini visive hanno certamente

un ruolo in questa interazione, ma sono da considerarsi come un tipo

possibile di diversi effetti locali che concorrono al risultato finale; non

rappresentano, dunque, la qualità essenziale del linguaggio poetico. La

vitalità della poesia come medium dipende, infatti, dalla compresenza

di movimento – definito come «that vital organization which makes

collections of words poetry» – e immaginazione, da cui scaturiscono

effetti sinestetici. Analizzando alcuni versi di Keats,57 ad esempio, Leavis

rileva come il poeta combini elementi visivi, sonori e di significato

in un composto che descrive come un’“immagine tattile” («a tactual

image»). In questo caso, il mezzo poetico produce nel lettore un’espe-

rienza di tipo sensoriale che è descritta di seguito in termini generali.

So elsewhere, in reading poetry, one responds as if one were making a given kind of movement or a given kind of effort: the imagery the analyst is concerned with isn’t (to reiterate the point) merely, or even mainly, visual […] For images comes somewhere between full concrete actuality and merely “talking about” as poems do – their status, their existence is of the same order; the image is, in this respect, the type of the poem. In reading a successful poem it is as if […] one were living the particular action, situation or piece of life.58

As if (come se) – è la formula che ci aiuta a comprendere come la

poesia, con le qualità di suono e movimento che le sono propri, possa

simulare una situazione realmente vissuta, un pezzo di esperienza. In

questo senso, essa sta a metà tra l’esperienza reale e il semplice talking

about, ovvero il riferimento a qualcosa che non si è concretamente

esperito.59 È qui all’opera un’idea di poesia come analogical enactment,

una sorta di immedesimazione attivata dalla recitazione del verso:

a pervasive action of the verse – or action in the reader as he follows the verse: as he takes the meaning, re-creates the organization, responds to the play of sense-movement against the verse structure, makes the succes-sion of efforts necessary to pronounce the organized words, he performs in various modes a continuous analogical enactment.60

Ne consegue che la completa ricezione della poesia richiede una par-

ticolare sensibilità nella comprensione dei suoi aspetti formali, in

particolare quelli che attivano l’immaginazione sensoriale appena

descritta. Siamo così giunti a isolare alcune caratteristiche specifiche

del medium da cui dipende il grado di concretezza e “realizzazione”,

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dunque di “impersonalità”, del testo. Esse ci interessano in par-

ticolar modo perché si può presumere che siano le stesse su cui

Baxandall allena la propria sensibilità critica e di cui egli cercherà

degli equivalenti al momento del passaggio alle arti visive. Come

si ricorderà, infatti, il quesito principale che segna la formazione è

come trasporre sui testi visivi una prassi analitica appresa a contatto

con i testi letterari («to do a Leavis on visual art»).61 Di seguito

vorrei proporre delle possibili e parziali risposte a tale interroga-

tivo, mostrando alcuni punti di tangenza tra la critica di Cambridge

vista sin qui e la storia dell’arte, in particolare attraverso la figura di

Bernard Berenson. Come si vedrà, l’autore rientra nell’orizzonte di

letture di Baxandall nel periodo preso in esame.62

Nel 1930 esce The Italian Painters of the Renaissance, in cui

sono raccoltii quattro libri sui pittori rinascimentali italiani, pub-

blicati da Berenson in una prima versione tra il 1894 e il 1897. Nel

libro dedicato ai pittori fiorentini, l’autore affronta il problema fon-

damentale della “pittura di figura”, ovvero la rappresentazione della

terza dimensione. Egli osserva come la sola vista non sia sufficiente a

fornire un senso preciso della forma delle cose e come, fin dall’infan-

zia, impariamo ad associare le nostre impressioni visive alle sensa-

zioni tattili e a quelle muscolari che provengono dal movimento del

corpo nello spazio. Solo attraverso questo processo, percepiamo la

profondità spaziale e la forma tridimensionale degli oggetti: «every

time our eyes recognize reality, we are, as a matter of fact, giving

tactile values to retinal impressions».63 A fronte di questa evidenza,

la pittura, nel suo tentativo di offrire un’immagine convincente

della realtà nelle due dimensioni, deve essere in grado di risvegliare

il nostro senso tattile:

I must have the illusion of being able to touch a figure, I must have the illusion of varying muscular sensations inside my palm and fingers corre-sponding to the various projections of this figure, before I shall take it for granted as real, and let it affect me lastingly.64

L’essenziale nella pittura di figura risiede, dunque, nella capacità di

simulare le sensazioni del tatto, di «stimolare l’immaginazione tat-

tile». Maestro in quest’arte è, ovviamente, Giotto, capostipite dei pit-

tori fiorentini. Il piacere provato davanti ai dipinti di Giotto, secondo

Berenson, non dipende soltanto dalla somiglianza delle sue figure con

la realtà, bensì dal fatto che “li sentiamo intensamente reali” grazie

alla sensazione creata dall’attivazione simultanea del senso della vista e

del tatto. Si tratta di un piacere “genuinamente artistico” che investe

i modi della rappresentazione, ovvero il livello della “decorazione”,

distinto da Berenson dal soggetto rappresentato (“illustrazione”). Esso

differisce inoltre dal piacere prodotto dall’illusionismo mimetico: i

“valori tattili” hanno il fine di accrescere la nostra capacità vitale,

provocando una sensazione più intensa rispetto a quella della realtà

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stessa. La “forma pittorica”, infatti, presta agli oggetti un “più alto

coefficiente di realtà”, che esalta i comuni processi psichici. Alcuni

esempi potranno forse aiutare a chiarire questi concetti.

Ciò che separa le tavole di Cimabue e di Giotto agli Uffizi, dal

punto di vista della resa pittorica del soggetto, è una differenza che

Berenson chiama di “realizzazione”. Per sentire le figure di Cimabue

come se fossero reali «we have had to make many times the effort

that the actual objects would have required, and in consequence our

feeling of capacity has not only not been confirmed, but actually put

in question». Di fronte alle immagini vitali di Giotto, invece, la

nostra immaginazione tattile è subito attivata: «Our palms and fin-

gers accompany our eyes much more quickly than in presence of real

objects, the sensation varying constantly with the various projections

represented, as of face, torso, knees; confirming in every way our

feeling of capacity for coping with things – for life, in short».65

Ne consegue che le figure giottesche, ad esempio le allegorie agli

Scrovegni, non vadano lette come simboli, in quanto realizzanoil

significato spirituale all’interno di forme visibili (tratti e attitudini):

«No need to label them: as long as these vices exist, for so long has

Giotto extracted and presented their visible significance».66 Ulteriori

aspetti dell’immaginazione tattile emergono nelle descrizioni degli

affreschi masacceschi in Santa Maria del Carmine a Firenze:

Dust-bitten and ruined though his Brancacci Chapel frescoes now are, I never see them without the strongest stimulation of my tactile

consciousness. I feel that I could touch every figure, that it would yield a definite resistance to my touch, that I should have to expend thus much effort to displace it, that I could walk around it.67

Le figure di Masaccio suscitano un’immaginaria sensazione di sforzo

data dalla resistenza fisica che il loro peso opporrebbe al tentativo di

smuoverle, così come la “sensazione ideata” del nostro movimento

attorno ai loro volumi nello spazio. Si tratta di tipi fisici che anche

in questo caso incarnano valori spirituali: «How quickly a race like

this would possess itself of the earth, and brook no rivals but the

forces of nature! Whatever they do – simply because it is they – is

impressive and important, and every movement, every gesture, is

world-changing». Altro esempio di atteggiamenti realizzati nelle

figure di Masaccio, è fornito da Berenson attraverso la puntuale

descrizione della Cacciata: «Masaccio’s Adam and Eve stride away

from Eden heartbroken with shame and grief, hearing, perhaps, but

not seeing, the angel hovering high overhead who directs their exi-

led footsteps».68 In poche righe, l’autore ci restituisce con precisione

il sentimento della vergogna, infondendo nelle figure dei due pecca-

tori un senso fisico di paralisi.

Mi pare che, in tutto ciò, vi sia una significativa somiglianza con

l’analisi leavisiana della poesia come simulazione della realtà, ovvero

come mezzo in grado di stimolare delle reazioni di tipo sinestetico

(tactual image) e un senso fisico di azione attraverso la lettura e la reci-

tazione del testo (analogical enactment). I concetti di immaginazione

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tattile (tactile imagination) e di sensazioni ideate (ideated sensation of

touch and movement), esposti sopra, offrono delle possibilità analoghe

nella ricezione del testo visivo. In effetti, come si è detto, gli Italian

Painters rientrano tra le letture di Baxandall nel momento in cui

inizia a profilarsi la sua “conversione” alle arti visive; queste com-

prendono anche Meaning in the visual arts di Erwin Panosfky, la cui

prima edizione esce nel 1955. Se il primo testo riceve un giudizio

molto freddo, il secondo è accolto con entusiasmo e viene ricordato

da Baxandall come un punto di inizio del suo interesse per la storia

dell’arte.69 Ciò che apprezzò particolarmente in Panofsky era la pre-

cisione con cui l’autore “osservava da vicino” le immagini, sebbene

non vi riconosca il tratto della critica di Cambridge. A confronto

con l’iconologia panofskiana, i concetti di Berenson emersi prece-

dentemente costituiscono, a mio avviso, degli strumenti più pun-

tuali per descrivere la relazione diretta dell’osservatore con il piano

formale dell’immagine («the raw visual feel») e presentano una forte

somiglianza con il close reading praticato da Leavis. Si può avanzare

un’ipotesi di spiegazione per la diversa reazione di Baxandall ai due

autori e per lo scarso successo riscosso da Berenson. Ciò di cui egli

sembra essere in cerca è una lettura dell’immagine che connetta

direttamente qualità visive e valori di ordine sociale o culturale:

«What I wanted was a short cut directly between visual properties

and social values».70 È possibile che la chiarezza e sistematicità

di Panofsky rispondessero più efficacemente a tale esigenza. Mi

riferisco, ad esempio, al saggio Iconografia e iconologia,71 in cui l’au-

tore scompone il contenuto dell’immagine in tre strati (soggetto

primario o naturale, soggetto secondario o convenzionale, e signifi-

cato intrinseco o contenuto), cui corrispondono tre diversi livelli di

lettura. Non mi pare, tuttavia, che i due discorsi debbano escludersi

reciprocamente. Credo, invece, che le interpretazioni più erratiche

di Berenson possano essere cautamente avvicinate all’interesse gio-

vanile di Baxandall per l’osservazione ravvicinata delle immagini.

Esse, inoltre, non sono incompatibili con alcuni sviluppi succes-

sivi della storia dell’arte baxandalliana. Si pensi alle indagini sulle

abitudini e le abilità dell’occhio quattrocentesco.72 Interrogandosi

sulla presenza di un padiglione nella Madonna del parto di Piero della

Francesca e sul fatto che quel tipo di forma era utilizzata negli eser-

cizi di misurazione, contenuti nei manuali di matematica commer-

ciale; o ancora, mettendo in relazione la descrizione geometrica dei

volumi con l’uso quotidiano dei barili come strumenti per valutare

la quantità delle merci; in tutti questi casi, a mio avviso, Baxandall

stabilisce una continuità percettiva tra l’immagine e la realtà, e

chiama in causa la possibilità di immaginare sensazioni di tipo tat-

tile o di movimento associate alla visione. Suscitando «l’occhio del

misuratore», ad esempio, Piero sfrutta il senso della vista «nelle sua

speciale qualità di immediatezza e di forza», al fine di avvicinare

fisicamente lo spettatore al soggetto della rappresentazione: «La

precisa e spontanea valutazione che il fruitore dà del padiglione è

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ciò che gli consente di passare dalla sua dimensione quotidiana al

mistero della immacolata concezione della Vergine».73 Il padiglione,

in altre parole, è l’espediente pittorico che consente di concretizzare,

di rendere vicino e reale per lo spettatore, un contenuto spirituale.74

In tutto ciò è doveroso specificare che il discorso sulle abilità visive,

che Baxandall svolge nel famoso testo del 1972, riguarda gli “stili

cognitivi” o “conoscitivi” quattrocenteschi. Esso presuppone, cioè,

una forte componente di attività intellettuale, e un grado variabile

di condizionamento culturale, interni alla percezione visiva. Questo

aspetto non mi sembra tuttavia incompatibile, da un punto di vista

psicologico, con le reazioni di tipo più immediato di cui si è parlato

finora; i due livelli della percezione possono infatti essere presenti

simultaneamente nella comprensione dell’immagine.75

Questo tipo di reazioni agli stimoli offerti dalla pittura è descritto

anche nei già citati Principles of Literary Criticism di Richards, testo

in cui Baxandall può aver presumibilmente trovato ulteriori sugge-

rimenti su come applicare la “lettura ravvicinata” del testo alle arti

visive. Riprendiamo dunque in considerazione l’opera del critico let-

terario, cercando di mostrare la vicinanza tra la sua teoria estetica e

le “sensazioni ideate” di Berenson. Sotto questo punto di vista, essa

presenta un vantaggio fondamentale, in quanto l’autore dedica alla

pittura una parte della sua riflessione.

Oggetto della critica, secondo Richards, sono quelle esperienze che

si verificano ogni qualvolta si apre un libro, si guarda un quadro o si

ascolta della musica. Il primo requisito del buon critico è il seguente:

«He must be an adept at experiencing, without eccentricities, the

state of mind relevant to the work of art he is judging».76 Egli neces-

sita allora della psicologia generale, per analizzare l’esperienza dell’o-

pera d’arte, e di una teoria del valore, per giudicarla. Concentriamoci

sul primo aspetto. Punto di partenza di Richards è la critica all’idea

di esperienza estetica come qualcosa di unico e separato dalla vita

quotidiana; di contro, egli stabilisce una relazione di continuità tra

esperienza delle opere d’arte ed esperienza ordinaria.

When we look at a picture, or read a poem, or listen to music, we are not doing something quite unlike what we were doing on our way to the Gallery or when we dressed in the morning. The fashion in which the experience is caused in us is different, and as a rule the experience is more complex and, if we are successful, more unified. But our activity is not of a fundamentally different kind.77

La differenza non è cioè sostanziale, ma sta nell’organizzazione

dell’esperienza riprodotta in un’opera d’arte, che è inoltre con-

dizione necessaria alla sua comunicazione.78 Quest’ultimo punto

è affrontato da Richards all’interno di una teoria psicologica che

prende le mosse dalla constatazione della separazione delle menti:

poiché non vi può essere trasmissione della stessa esperienza tra

due individui, la comunicazione avviene quando una mente agisce

sull’ambiente circostante, in modo che un’altra possa avere un’e-

sperienza simile alla prima e in parte causata da essa. Ora, per far

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rivivere un’esperienza, non basta nominarla; è necessario creare una

situazione in cui si verifichino impulsi simili a quelli della situa-

zione originaria. La prima condizione di questa riviviscenza è il

controllo dell’immaginazione del fruitore nella direzione desiderata

dall’artista, affinché essa non sia lasciata agli elementi accidentali

della ripetizione soggettiva. Richards distingue, a questo proposito,

tra “immaginazione ripetitiva”, che ripete cioè l’esperienza passata

individuale, e “immaginazione formativa”, per la quale l’elemento

presente – gli stimoli forniti dall’opera – è tanto importante quanto

l’esperienza soggettiva passata. «As a basis for every art, therefore,

will be found a type of impulse which is extraordinarily uniform,

which fixes the framework, as it were, within which the rest of the

response develops».79 Tali “impulsi uniformi” sono quelli forniti

dalle qualità formali delle opere:

In poetry, rhythm metre and tune or cadence; in music, rhythm pitch timber and tune; in painting, form and colour; in sculpture volume and stress; in all the arts, what are usually called the formal elements are the stimuli, simple or complex, which can be most depended upon to produce uniform responses […] What communication requires is responses which are uniform, sufficiently varied, and capable of being set off by stimuli which are physically manageable. These three requisites explain why the number of the arts is limited and why formal elements have such impor-tance. They are the skeleton or scaffolding upon or within which the fur-ther impulses involved in the communication are supported. They supply the present dependable part of the experience by which the rest, the more erratic, ambiguous part of the imaginative development, is controlled.80

L’esperienza poetica è successivamente sezionata da Richards nelle

sue componenti psicologiche fondamentali, ovvero le reazioni agli

impulsi appena descritti. Esse vanno dal livello più elementare delle

sensazioni visive e delle “immagini associate” («auditory images –

the sound of the words in the mind’s ear – and the image of articu-

lation – the feel in the lips, mouth, and throat, of what the words

would be like to speak»),81 a quello più complesso degli atteggia-

menti (attitudes): azioni immaginarie o “incipienti”.

This aspect of experiences as filled with incipient promptings, lightly stimulated tendencies to acts of one kind or another, faint preliminary preparations for doing this or that, has been constantly overlooked by criticism. Yet in terms of attitudes, the resolution, inter-animation, and balancing of impulses […] that all the most valuable effects of poetry must be described.82

Gli atteggiamenti di Richards possono essere letti come la tradu-

zione, in termini più strettamente psicologici, dell’analogical enact-

ment di Leavis: anch’essi sono infatti strettamente legati agli effetti

di suono e di movimento che la poesia impone alla lettura. Il comune

riferimento a un’attività immaginativa, che accompagna la perce-

zione sensoriale dell’opera, risulta inoltre un significativo punto di

tangenza con le “sensazioni ideate” berensoniane. Vediamo dunque

come Richards proponga di applicare l’analisi psicologica all’espe-

rienza visiva della pittura.

La comparazione tra le arti è resa possibile dal fatto che, per quanto

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diverse dal punto di vista del medium, poesia, pittura, scultura e

musica – per i citare i generi artistici presi in considerazione da

Richards – agiscono in modo simile sul fruitore.

The fundamental features of the experiences of reading poetry and of appreciating pictures, the features upon which their value depends, are alike. The means by which they brought about are unlike, but closely ana-logous critical and technical problems arise, as we have seen, for each.83

La visione di un quadro è dunque scomposta da Richards in tre

livelli, corrispondenti a tre stadi successivi della percezione delle

sue qualità formali e tonali. Il livello inferiore è costituito dalla

percezione della superficie dipinta, ovvero delle qualità materiche

dell’opera; quello intermedio è l’immagine registrata dalla retina,

ancora priva di significato; infine, si ha la percezione dello “spa-

zio pittorico”. È solo a questo terzo stadio che la sensazione visiva

si accresce di ulteriori “immagini”, elementi aggiuntivi, che pos-

siamo pensare essere dovuti all’attivazione dell’immaginazione.

Ne sono esempi le “immagini cinestesiche” (kinaesthetic imagery,

dovute a sopravvivenze di movimenti oculari), “immagini tattili”

(«tactile images giving the appearance of texture to surfaces», rela-

tive alle qualità materiche delle superfici rappresentate), o ancora

“immagini muscolari” («muscular images giving hardness, stiff-

ness, soedness, flexibility and so on to the volumes imagined»,

che conferiscono consistenza fisica ai volumi rappresentati sulla

base della nostra esperienza passata). Quanto al comportamento

del colore sui tre livelli, Richards ne mette in luce tanto i caratteri

spaziali e formali (ovvero il modo in cui il colore interagisce con

il disegno nella determinazione delle forme e dello spazio pitto-

rico),84 quanto i più complessi valori di tipo emotivo, dovuti cioè

alle reazioni organiche suscitate nell’osservatore.

Le conclusioni di Richards circa l’apporto della psicologia alla

critica delle arti visive sono estremamente importanti per il pre-

sente discorso. L’autore denuncia infatti il cattivo stato della critica

coeva, che oscilla tra la posizione estetizzante di chi guarda alla

forma come un fine in sé e quella di chi attribuisce alle opere un

valore puramente “illustrativo”, coincidente cioè con il contenuto

della rappresentazione. Per converso, Richards invoca una critica

in grado di comprendere e giudicare gli aspetti formali, per il tipo

di esperienza complessa e stratificata che essi provocano nell’osser-

vatore. Queste riflessioni possono essersi riverberate nella forma-

zione del pensiero critico di Baxandall. Non è da escludere infatti

che, in base alla conoscenza dei Principles testimoniata nel glossario,

egli possa aver scorto in Richards un primissimo suggerimento,

maggiormente chiaro dal punto di vista metodologico rispetto alle

osservazioni corsive di Berenson, su come trasporre ai testi visivi

una prassi analitica appresa sul testo letterario. La psicologia della

percezione, d’altra parte, sarà uno degli strumenti privilegiati da

Baxandall nell’analisi dell’esperienza dell’opera d’arte, soprattutto

dopo il suo incontro con la figura di maestro che segnerà la fase

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storico-artistica della sua formazione: Ernst H. Gombrich.85 Lo scopo

del presente contributo ci impone, tuttavia, di fermarci ben prima

dell’incontro con Gombrich, attestabile intorno al 1959-60, e di tor-

nare al momento in cui, conclusi gli studi a Cambridge, Baxandall

ottiene un finanziamento per trascorrere un periodo di studi in Italia.

Alla luce di quanto emerso rispetto alla formazione critico-lette-

raria, si intendono rintracciare nel periodo italiano alcune manife-

stazioni di una particolare sensibilità ricettiva verso le opere d’arte,

allenata, in prima istanza, attraverso la “critica pratica” della poesia.

Il glossario dei termini tecnici di Leavis, analizzato in prima istanza,

ha dischiuso un pensiero critico focalizzato sull’esperienza del testo

letterario; in esso si tratteggia l’inestricabilità tra le componenti for-

mali dell’opera, comprese attraverso l’esercizio di una facoltà imma-

ginativa o di immedesimazione, e una risposta di tipo personale

e morale. L’esperienza dell’opera d’arte diventerà in sé un motivo

di interesse centrale negli studi di Baxandall, come traspare dalle

pubblicazioni maggiori degli anni Settanta - Giotto and the Orators

(1971) e Painting and Experience in Fifteenth century Italy (1972) –

in cui essa diventa oggetto d’indagine storico-culturale. Una prima

traccia di tale interesse è rinvenibile, seppur in una fase embrio-

nale, nel periodo qui in esame e del quale rimangono testimonianze

nelle memorie e nel quaderno presentato in apertura. In esse, il tema

dell’esperienza estetica assume una connotazione fortemente perso-

nale, in quanto affiora dal racconto memorialistico dell’incontro con

le opere d’arte. Un medesimo sguardo sarà riconoscibile nell’osser-

vazione dell’ambiente e del paesaggio italiano, soprattutto, come si

è detto, per quanto riguarda le sue qualità atmosferiche. Anche in

questo caso un tema che si era delineato attraverso gli studi di critica

letteraria (Richards), quello della continuità tra esperienza ordinaria

ed esperienza estetica, diviene, prima ancora che oggetto di studio,

una situazione concretamente esperita.

Siamo dunque nell’autunno del 1955 quando Baxandall arriva

a Pavia con l’intento di frequentare i corsi universitari durante l’in-

verno, e di visitare il resto del paese all’arrivo della primavera. La

borsa di studio comprendeva l’alloggio presso il Collegio Borromeo,

al tempo diretto da don Cesare Angelini e frequentato da un’ottan-

tina di studenti. Tra le persone a lui più care, Baxandall ricorda Dane

Martin Berg, scrittore e traduttore danese, con il quale condivide

alcune riflessioni in merito all’attività letteraria; l’argomento doveva

di certo rivestire un interesse particolare per il giovane studioso, che

aveva carezzato l’idea di diventare un romanziere.

I was struck by how often these were questions about the precision of our memory of common experience. For instance, in hot summer woodlands would a short shower of rain bring out the scents or suppress them for a time? You might say, if the writer does not immediately know, better leave

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it out […] But it interested me that the realization of a novel should depend so much on writer’s and readers’ common unstrained access to organized observation of the everyday: that this should be, so to speak, a medium.86

Un’attenzione analoga verso i dettagli dell’esperienza quotidiana

la si può ritrovare sfogliando le pagine del quaderno italiano, pre-

sentato in apertura. In esso Baxandall annota principalmente parti-

colari relativi alla sua percezione dei luoghi frequentati durante il

soggiorno pavese, come dimostrano i frammenti di cui propongo la

seguente trascrizione:

Immaculate conception and mist. Out of…cinema and into the back streets. The mist lifts in the bright, crowded narrower streets but not in the back ones. Noise of those folding flexible blinds being pulled down, after a woman had looked out of the solitary bright window high up in one of the houses. One of those cowed, furtive cats looks up to see, and then goes off, too fast to be walking comfortably but not running – just the usual fear uneasiness. The duomo e the great cupola disappearing up into the mist; one is not quite sure where it disappears exactly as the dark of the cupola gradually turns into the less dark of the mist and darkness. The empty market square, no stalls, no cars, no people, only the newspaper kiosk with dirty yellow light, browny-yellow light, and the little window closet. The woman outside the crowded noisy men’s bar, trying to see in, but not daring to enter to see if her husband is there. Then the young communists, 15 upwards but not much, coming out of the local headquarters, which is in an old…brick building – formerly Broletto? – one beard and generally a slightly naive flavour of emanci-pation e decorous non-conformity. A “much better type” than the street wanderers, more intelligent and eager to think and be among ideas – as many girls as men. The street-wandering young yobs. Hair so carefully

brushed behind and oiled. Aimless, of course, and self-conscious, whist-ling e shouting at girls […] Some as in Cambridge, but probably less U.S. crazy – its Italian light music they sing. The older poorer men in their rather tall hats and black short cloaks wrapped several times round – as when all the country people came to market on wednesdays; but only the older, less progressive ones. Pity.

I suppose this fog has settled down all over the Po plain – North to Milan and the industrial circle, perhaps even to the lakes and foothills, South to the Appenines, East to the Adriatic west to the Alps Meritimes, rubbing out everything as far as heaven is concerned, and pressing life down to a few feet above ground level so that its [it’s] all on one slim plane. I won-der if one could get above it in a building, a tower.

Later. Between 9 e 10 the fog dispersed. Looking out it was clear except for one patch…or cloud, in the centre of the town, which was made lumi-nous by the lights in the streets in it, so that it was a lighter grey than the clear sky.87

Traspare da queste annotazioni una spiccata sensibilità nei confronti

dell’ambiente e delle condizioni atmosferiche, che ricorre quasi

identica, sia nel libro di memorie, che nel romanzo postumo A

Grasp of Kaspar. In particolare, l’insistita attenzione nei confronti

della nebbia, diviene elemento costante nella descrizione del pae-

saggio lombardo.

That year the Lombard autumn soon gave way to winter, in fact, a period of snow and ice and coarser fog. Pavia, a town of brick and towers […] was mysterious, perhaps even poetic in this fog.88

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Ed ecco la nebbia di Pavia raccontata in terza persona in A Grasp of

Kaspar:

Lombard fog was subtler than the fat mist of St. Gallen, not misplaced cloud but an expiration of the plain. Where it had made Milan a nine-teenth century city, it turned these old brick houses and towers into something purely medieval.89

Così nel romanzo si ritrova anche la nebbia che ricopre la valle del

Po, incontrata più sopra nelle note del quaderno:

At Como […] the autostrada began, but so did the Po valley fog and as he (Briggs) drove to Milan it was already dusk – making the town a great theatrical set for a grim realist opera.90

Vi è un punto di questa convergenza tra appunti giovanili, memorie

e romanzo su cui vorrei porre l’accento. Nei frammenti riportati,

Baxandall si sofferma ripetutamente sulle condizioni atmosferiche

(mist, fog) in cui avviene l’incontro con i luoghi descritti. Queste

osservazioni ci inducono a pensare che, a queste date, l’Italia non

rappresenti soltanto il luogo di un nascente interesse per le arti

visive, ma al contempo un ambiente in sé degno di interesse visivo e,

in questo senso, ricco di possibilità. Esse denotano insomma un tipo

di attenzione analoga a quella riversata sulle opere d’arte e descritta

da Baxandall come «the raw visual feel». Quando A Grasp of Kaspar

prenderà vita, le vicende ambientate nei luoghi della peregrinazione

giovanile saranno intrise di questa stessa “qualità visiva”.91

Nel quaderno non si trovano, invece, annotazioni e appunti che per-

mettano di individuare i singoli monumenti e le opere d’arte visi-

tati. Eppure, è proprio al periodo italiano che Baxandall fa risalire la

sua decisione di diventare uno studioso di arti visive:

Half way through the previous year in Italy I had realized that for me – novelist or not – art would be a thing to study, but for that I should need money. I also felt I should need German. It seemed rational to invest a year in acquiring both by teaching in Switzerland.92

Questa circostanza può essere messa in relazione alle visite a diverse

città italiane che Baxandall intraprende a partire dal marzo del 1956.

La prima meta è Venezia, cui seguono centri minori del Veneto, della

Lombardia e delle Marche, per poi proseguire alla volta di Roma e

Firenze. Si tratta di vere e proprie esplorazioni capillari di intere

regioni, guidate dalla lettura di Development of the Italian Schools of

Paintingdi Raymond Van Marle (1923-38).

I lived frugally – lunch in a diary, often, and perhaps a room in a widow’s house learned of at the bus station. Small-town bus station were a social amenity and I found the world of dusty blue buses going to remote small places very romantic indeed. On the whole evening were solitary and spent on my notes, maps and timetables, and presumably some sort of aesthetic digestion. I now found these trips mysterious and yet I am also sure they were foundational for me. I had travelled in Italy before – a long-vacation trip with two Cambridge friends in a landrover – but not in this way. I now quartered regions and combed cities with lists of what I wanted to see.93

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L’esperienza fondante dell’incontro con le opere d’arte è così ricordata:

When I found the piece I wanted I just looked at it and waited for enli-ghtenment. Or rather I attended my own response. It seems to me strange now that I should have had such confidence in sustained direct address to so much art. I had practically no knowledge or information about it, since I read so little […] But this encounters either set or met problems that engaged me for years after. Did one need to conceptualise about the character of these objects in order to get a grasp of them? Probably, but with what concepts? Their concepts? Was knowledge of the historical frame – art history but also cultural history – properly to be sought as a condition of their understanding? Surely: their strangeness was hair-rai-sing and insisted on questions about their circumstances. What then was the standing of the raw visual feel of the pictures and the immediate sense of human quality and mood? 94

Nella citazione è possibile rinvenire un tipo di atteggiamento cri-

tico in cui si avverte l’eco della lezione di Cambridge. Come negli

insegnamenti di Leavis si richiedeva una reazione “morale” alla let-

tura del testo, così Baxandall si pone di fronte alla materia visiva

cercando di ri-creare e rivivere un atteggiamento e una disposizione

d’animo, incarnati nelle forme e nei colori che sottopone all’esame

autoptico. Allo stesso tempo, le parole riportate dimostrano la con-

sapevolezza della distanza che separa l’osservatore attuale dal conte-

sto originario dell’opera, la quale impone di correggere la sensazione

immediata, ponendola in una prospettiva storico-culturale. In altre

parole, assistiamo alla presa di coscienza del fatto che l’occhio ha

una sua storicità e che la comprensione di quegli oggetti estranei,

che sono le opere d’arte, non possa prescindere dallo studio delle

“circostanze”, che in esse furono registrate e trasfigurate. È noto che

Baxandall dedicherà buona parte della sua attività successiva alla

ricerca lenticolare delle esperienze quotidiane di cui le opere d’arte

sono i documenti visibili. Ciò che preme sottolineare è che il suo

interesse per tali circostanze sarà costantemente improntata dalla

disciplina, trasmessagli da Leavis, per la rilevanza («discipline in

relevance») della conoscenza storica ai fini della critica.95

In effetti, nell’opera matura dello storico e critico d’arte, il momento

del primo incontro con l’opera non viene spogliato di una sua pro-

pria funzione conoscitiva, né viene interamente soppiantato dalla

ricerca storico-culturale. Credo invece che la relazione tra i due piani

del discorso possa di diritto rientrare tra quei problemi che hanno

impegnato la riflessione di Baxandall del lungo periodo. Un possi-

bile punto di approdo è rappresentato dalla definizione di ciò che

egli intende per critica: «il pensare e dire sui quadri alcune cose

adatte ad affinare le possibilità di legittimo godimento che possiamo

trarre da essi»,96 dove la legittimità è data dalla misura in cui l’e-

sperienza dell’“osservatore”, estraneo alla cultura cui l’opera appar-

tiene, si avvicina a quella del “partecipante”.97 L’analisi del Battesimo

di Cristo di Piero della Francesca, che conclude Patterns of Intention

(1985), ne è una dimostrazione. Vorrei tuttavia terminare il presente

contributo, concentrandomi su un altro testo dedicato a Piero e più

vicino al periodo qui esaminato. Si tratta della breve monografia

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pubblicata nel 1966 all’interno della collana The Masters. In essa si

possono separare le due sensibilità che animano lo studioso.

Il saggio presenta sinteticamente lo stile dell’artista nei termini

quattrocenteschi di delineazione, commensuratio e colore: la linea è

funzionale a descrivere la forma esatta della figura e ad affermarne

solidamente la posizione nello spazio; le variazioni di tono e l’uso

modellante della luce concorrono a questo stesso effetto. Baxandall

passa dunque in rassegna le qualità matematiche della pittura di

Piero, concentrandosi sui particolari in cui vede all’opera la descri-

zione geometrica della realtà; in particolare, individua nella rappre-

sentazione dei cappelli di uomini illustri sotto forma di solidi regolari

(ad esempio nel ciclo della Leggenda della Vera Croce) un momento di

divertimento privato, degli “scherzi geometrici”. Per scongiurare il

pericolo che l’opera di Piero venga letta come un’arida applicazione

di regole matematiche, l’autore integra infine un’analisi della luce in

cui gli aspetti tecnici si tingono di sfumature atmosferiche; l’effetto

prodotto dalla luce bianca e dall’illuminazione laterale sull’osser-

vatore è descritto come «the atmosphere of bright early morning

before rain».98 Questa qualità della luce pittorica è ulteriormente

sottolineata nel momento in cui Baxandall sposta l’attenzione dagli

effetti luministici locali alla luce diffusa che pervade le immagini;

luce che è qui intesa come «the medium in which things exist»:

«Piero in effect floats his figures and buildings and trees in white

light, warming the severity of his linear space and softening the

somewhat rigid effect of his geometrical plan».99 Il risultato di que-

sta “immersione” delle figure e degli oggetti nella luce risponde,

secondo Baxandall, a un gusto quattrocentesco che avrebbe rifiu-

tato l’effetto troppo deciso e rigido, derivante dalla combinazione di

volumi geometrici e contrasti marcati.

Fino a questo punto, possiamo constatare come l’“occhio di Baxandall”

si sovrapponga all’“occhio del periodo”. Nella conclusione del testo,

invece, ci imbattiamo in un punto in cui i due tipi di percezione

possono essere più facilmente separati. Nel tentativo di descrivere

l’intensità della risposta personale che le immagini dell’artista

suscitano nell’osservatore, Baxandall ricorre infatti ad equazioni tra

aspetti formali ed emotivi, appellandosi a una facoltà che può essere

forse ricondotta alle forme di immaginazione o immedesimazione

viste sopra. L’autore esprime in questi termini la sensazione comuni-

catagli dai virtuosismi di Piero, in particolare, dalla cura che l’artista

dedica all’equilibrio delle sue figure.

If one looks at any group of real people in movement, few will be exactly in balance: even the actions of walking or opening a door involve moments out of balance, of a kind we have learned to assess entirely without thin-king. Piero’s figures are not like this; their centre of gravity is always where, according to the laws of statics, it should be. Paradoxically, the effect of their balance is to remind us of the possibility of precariousness and vulnerability. Piero’s figures have something of the conscious balance of very young children learning to walk, and we respond to them with a little of the same attentiveness and even tenderness.100

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L’analisi delle sofisticate qualità tecniche di Piero lascia spazio alla

ricca gamma di risposte emotive che le sue immagini sono in grado

di suscitare nell’osservatore, ad esempio, l’apprensione con cui si

possono guardare i bambini che imparano a camminare. Questo

tipo di risposta, per quanto “impropria” o lontana dalle “intenzioni”

dell’artista, non deve essere messa a tacere.101 Essa costituisce infatti

un tassello fondamentale, ma soprattutto ineliminabile, nella com-

prensione dei fenomeni artistici. Ed è esattamente questa la prin-

cipale convinzione critica che Baxandall ricorda di aver maturato

durante gli anni di Cambridge.

The main critical conviction I had developed independently at Cambridge was the very general one that it was no use denying or excluding elements in our response to a work, as inappropriate or improper […] They were intrinsic to one’s own energy. They probably would not be suppressed anyway.102

NOTE

1 M. Baxandall, Episodes. A Memory Book, Frances Lincoln, London 2010. Nel libro Baxandall racconta la pro-pria vicenda personale e di studioso, coprendo un periodo che va dall’infanzia all’inizio della sua prima attività didat-tica al Warburg Institute (1965).

2 Le tappe della formazione sono pre-cisate in un curriculum vitae redatto

nell’ottobre del 1980 e conservato tra i Baxandall Papers: Cambridge University Library, Department of Manuscripts and University Archives, The Papers of Michael Baxandall, MS Add. 9843/1/12.

3 Baxandall, Episodes…, 2010, p. 86.

4 Per studi completi sulla figura e la critica di Frank Raymond Leavis si

rimanda a: R.P. Bilan, The literary criti-cism of F.R. Leavis, Cambridge University Press, Cambridge 1979; I. Mackillop, F.R. Leavis: A Life in Criticism, Allan Lane, The Penguin Press, London 1993; G. Singh, F.R. Leavis: a literary biography, Duckworth, London 1995.

5 Cambridge University Library, Department of Manuscripts and University Archives, The Papers of Michael Baxandall, MS Add. 9843/7/2/5/1.

6 Baxandall, Episodes…, 2010, p. 71. “To do a Leavis on visual art”: the place of F.R. Leavis in Michael Baxandall’s intellectual formation è il titolo del con-tributo del Professore Jules Lubbock agli atti (di prossima pubblicazione) della conferenza Visual interests. The intellectual legacy of Michael Baxandall, tenutasi al Warburg Institute il 24 e 25 maggio 2012. Il saggio, di cui ho potuto leggere una bozza forni-tami gentilmente dall’autore, fornisce un’ampia ricostruzione del portato di Leavis sulla formazione intellettuale di Baxandall, ripercorrendo le tappe che da Cambridge conducono lo studioso alle prime importanti pubblicazioni degli anni Settanta. Il presente contributo si concentrerà miratamene su un aspetto

specifico della formazione critico-let-teraria, vale a dire l’assimilazione di una particolare sensibilità critica, cer-candone successivamente gli influssi nel primo approccio di Baxandall allo studio delle arti visive, soprattutto per quanto concerne il momento dell’osser-vazione dell’opera.

7 Cfr. G. Cianci, La Scuola di Cambridge. La critica letteraria di I.A. Richards – W. Empson – F.R. Leavis, Adriatica Editrice, Bari 1970, pp. 9-28.

8 Con “practical criticism” Leavis defi-nisce «the analysis of prose and verse». Cfr. F.R. Leavis, D. Thompson, Culture and environment. The training of critical awareness (1933), Chatto & Windus, London 1962, p. 6. Practical criticism è inoltre il titolo di un famoso testo di Richards, nato da un esperimento didat-tico, tenuto dall’autore nel 1925 all’in-terno di un ciclo di lezioni cui Leavis assistette. Esso era incentrato sull’analisi dei giudizi dati dagli allievi a gruppi di poesie selezionate e presentate loro da Richards a questo scopo. (I.A. Richards, Practical criticism. A study of literary judg-ment, Routledge & Kegan Paul, London 1929). Alla luce della frequentazione tra i due autori, “practical criticism” assume anche in Leavis la connotazione

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di una risposta personale e soggettiva che accompagna l’analisi della poesia. Cfr. I. Mackillop, F.R. Leavis…, 1993, p. 74 e segg.

9 Baxandall, Episodes…, 2010, p. 65. Il corsivo è della scrivente.

10 Su Richards si vedano I.A. Richards and his critics: selected reviews and critical articles, a cura di J. Constable, Routledge, London 2001; J. Needham, The completest mode: I.A. Richards and continuity of English literary cri-ticism, Edinburgh University Press, Edinburgh 1992.

11 È bene precisare che nel glossario Eliot è citato per l’attività critica, mentre non se ne considera l’opera poetica. Il testo cui si farà principalmente riferimento è Tradition and the individual talent (1917), pubbli-cato in T.S. Eliot, The sacred wood. Essays on poetry and criticism (1920), Butler & Tanner, London 1976, pp. 47-59. Sulla figura di Eliot come critico si vedano T.S. Eliot. Critical Assessments, a cura di G. Clarke, vol. iv, The Criticism and General Essays, Christopher Helm, London 1990. Quanto alla fortuna del concetto elio-tiano di “tradizione” si veda T.S. Eliot and the concept of tradition, a cura di G. Cianci, J. Harding, Cambridge University Press, Cambridge 2007. Per uno studio comparato del metodo critico in Leavis, Richards e Eliot si rimanda invece a P. Mccallum, Literature and method: towards a critique of I.A. Richards, T.S. Eliot and F.R. Leavis, Gill and MacMillan, Dublin 1983.

12 Baxandall, Episodes…, 2010, p. 73.

13 M. Baxandall, A Grasp of Kaspar, Frances Lincoln, London 2010. Trama: A Grasp of Kaspar è un romanzo

poliziesco il cui protagonista è uno storico di nome Briggs che, nell’autunno del 1956 a Monaco, viene incaricato di fare indagini sui vertici di un’industria tessile del sud della Germania, e in particolare di mettersi sulle tracce di un certo Kaspar. Le ricerche portano Briggs in Svizzera, a San Gallo, dove vi è un distaccamento dell’industria tedesca. Scoperto in possesso di informazioni segrete a proposito di riserve d’oro dei nazisti, egli prosegue l’indagine a Pavia, dove, tra il ’44 e il ’45, tale Kaspar prestò servizio presso un’unità dell’esercito tedesco. Dimessosi dall’incarico di investigatore e ormai mosso solo dalla curiosità di storico, Briggs persevera nella sua missione, volta ora a scoprire il crimine di guerra di cui Kaspar è sospettato. La soluzione finale del mistero sarà molto lontana dalle sue ipotesi. Il libro, improntato sul parallelismo tra l’attività dell’investigatore e quella dello studioso, è attraversato da una riflessione generale sul problema della verità storica.

14 Cambridge University Library, Department of Manuscripts and University Archives, The Papers of Michael Baxandall, MS Add. 9843/7/4/1.

15 L’ipotesi che le note contenute nel quaderno siano memorie stese durante la composizione del romanzo è meno convincente; la precisione e l’immediatezza con cui Baxandall riporta le attività svolte durante il soggiorno italiano, così come le impressioni ricevute, suggeriscono che il quaderno sia stato iniziato all’al-tezza del periodo trascorso in Italia.

16 In un’intervista rilasciata a Allan Langdale il 3 feb-braio 1994, Baxandall dichiara: «When I am writing he’s still one of the people peering over my shoulder,

trying to keep me honest». Cfr. G. A. Langdale, Art history and intellectual history: Michael Baxandall’s work between 1963 and 1985, University of California at Santa Barbara, PhD, 1995, UMI Microform, 1955, p. 335. In una lettera a Ian MacKillop, datata 11 luglio 1991, Baxandall scrive: «I am sure he had a deeper effect on me than any other teacher I had; I would say that two others, art historians, had the same order of intellectual effect, but Leavis’s was also what I have to call moral, for want of more focused term». Cfr. I. Mackillop, F.R.Leavis…, 1993, p. 9.

17 Per la formazione superiore di Baxandall, incen-trata prevalentemente sullo studio delle lingue clas-siche, si veda Baxandall, Episodes…, 2010, pp. 62-63.

18 Ivi, p. 65.

19 “Scrutiny” è la rivista di critica letteraria fondata da Leavis nel 1932 e pubblicata fino al 1953. Una selezione di articoli a cura dello stesso Leavis viene ripubblicata in due volumi, cui si farà qui riferimento: F.R. Leavis, A selection from Scrutiny. Compiled by F.R. Leavis, Cambridge University Press, Cambridge 1968. Per la storia delle origini e della fortuna della rivista si rimanda a I. Mackillop, F.R. Leavis…, 1993, p. 143 e segg. e p. 279 e segg.

20 I primi due, dal titolo Thought and emotional qua-litye Imagery and movement compaiono nel 1945 sul “Scrutiny”, vol. xiii; il terzo, Reality and sincerity, appare nel 1952 sul vol. xix della stessa rivista. Qui si farà riferimento alla loro riedizione in F.R. Leavis,

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A selection from Scrutiny, vol. 1, Cambridge University Press, Cambridge 1968, pp. 211-248, dove sono riu-niti all’interno della sezione “Judgment and Analysis: notes in the analysis of poetry”.

21 A proposito della relazione tra gli articoli e “Authority and Method” si veda I. Mackillop, F.R. Leavis…, 1993, p. 182 e segg.

22 R. Hayman mette in relazione la stessa di arti-coli con un altro libro in preparazione a metà degli anni Quaranta dal titolo “Judgment and Analysis” e anch’esso incompiuto. Cfr. R. Hayman, Leavis, Heinemann, London 1976, p. 89.

23 Leavis, A selection…, 1968, p. 214.

24 Baxandall, Episodes…, 2010, p. 66. Il corsivo è della scrivente.

25 The responsible critic: or the function of criticism at any time, in “Scrutiny”, vol. xix, 1953; Valuation in criticism, in “Orbis Litterarum”, xxi, 1966; Standards of Criticism, lezione tenuta alla York University, pro-babilmente nel 1965. Qui si farà riferimento alla loro riedizione in F.L. Leavis, G. Singh, Valuation in cri-ticism and other essays, Cambridge University Press, Cambridge 1986.

26 «The critic helps to form the contemporary sensi-bility. And the contemporary sensibility is “there” in a responsive educated public, which is the presence in the total community, in our civilization, of literature as a power – if it is one». Leavis, Singh, Valuation…, 1986, p. 247. Per uno studio sulla stretta relazione tra critica

letteraria e critica sociale in Leavis si veda A. Samson, F.R. Leavis, Harvester Wheatsheaf, New York 1992.

27 Per il trattamento della questione degli standard si rimanda a Leavis, Singh, Valuation…, 1986, p. 246 e segg.

28 A proposito della relazione tra poesia e morale in Arnold e Leavis si rimanda a V. Buckley, Poetry and Morality. Studies on the Criticism of Matthew Arnold, T.S. Eliot and F.R. Leavis, Chatto & Windus, London 1968. Per un giudizio complessivo di Leavis rispetto alla critica arnoldiana si veda F.R. Leavis, Arnold as critic, in “Scrutiny”, Vol. vii, 1938, ripubblicato in Leavis, A selection…, 1968, pp. 258-267.

29 Leavis, Singh, Valuation…, 1986, p. 281.

30 Cambridge University Library, Department of Manuscripts and University Archives, The Papers of Michael Baxandall, MS Add. 9843/7/2/5/1. Il corsivo è della scrivente.

31 «For instance I am sure it is due to Leavis that I regularly worry about relevance – about whether some thought about an object, veridical though it may be, is likely to sharpen or just encumber its vitality». Baxandall, Episodes…, 2010, p. 70.

32 Leavis, Singh, Valuation…, 1986, p. 185.

33 Ivi, p. 200.

34 Ivi, p. 196.

35 A slumber did my spirit seal;/I had no human fears:/ She seemed a thing that could not feel/ The

touch of earthly years.//No motion has she now, no force;/She neither hears nor sees;/ Roll’d round in ear-th’s diurnal course,/ With rocks, and stones, and trees.

36 Break, break, break,/ Oh thy cold gray stones, O sea!/ And I would that my tongue could utter/ The thoughts that arise in me.// O well for the fisherman’s boy,/ That he shouts with his sister at play!/ O well for the sailor lad,/ That he sings in his boat on the bay!//And the stately ships go on/ To their haven under the hill;/ But O for the touch of a vanishe’d hand,/ And the sound of a voice that is still!// Break, break, break,/ At the foot of thy crags, O sea!/ But the tender grace of a day that is dead/ Will never come back to me.

37 Leavis, A selection…, 1968, p. 212.

38 Ciò che più di ogni altra cosa può dimostrare effica-cemente la differenza tra le due poesie, in questo caso, è la lettura ad alta voce che ne rivela immediatamente le qualità di tono e movimento: «If we read the poem aloud, the emotion, in full force from the opening, asserts itself in the plangency of tone and movement that is compelled upon us». Leavis, A selection…, 1968, p. 213. Per la concezione leavisiana della lettura ad alta voce come strumento critico a tutti gli effetti, spesso più potente della penna e talvolta in anticipo su di essa, si rimanda al saggio Reading out poetry (1972) contenuto in Leavis, Singh, Valuation…, 1986, pp. 253-275. L’importanza della recitazione del testo e il ruolo attivo che essa svolge all’interno della critica di Leavis è ricordato da Baxandall nelle memorie: «I felt that behind almost all his best criticism there was an

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extraordinary actor sustaining at once distinct stylized voices […] He must himself have habitually read like this, I think, sitting silent with a book, voices compe-ting or twining in his mind. It was clearly part of his extreme sensitivity to movement in language […] In an odd way the intensity of his moral response to litera-ture seemed driven partly by the same impulse. If you act out text, character, author and reader you are going to find yourself having to inhabit people you will have strong feelings about having had to be – “judgments about life” indeed». Baxandall, Episodes…, 2010, p. 69.

39 Leavis, A selection…, 1968, p. 214. Il corsivo è della scrivente.

40 Cambridge University Library, Department of Manuscripts and University Archives, The Papers of Michael Baxandall, MS Add. 9843/7/2/5/1.

41 Baxandall, Episodes…, 2010, p. 69. A proposito del giudizio critico come scambio collettivo di opinioni qualificate nella formula «Yes, but…» si veda Leavis, Valuation…, 1986, pp. 277-278.

42 «For instance, I am sure it is due to Leavis […] that I also feel that in art the technical and the moral fuse into one, and that to try and isolate either is likely to be frustrating and may turn destructive». Baxandall, Episodes…, 2010, p. 70.

43 Ivi, p. 72.

44 Cambridge University Library, Department of Manuscripts and University Archives, The Papers of Michael Baxandall, MS Add. 9843/7/2/5/1.

45 I.A. Richards, Principles of literary criticism, Routledge & Kegan Paul, London 1970, p. 46-47.

46 Ivi, p. 22.

47 Ivi, p. 50.

48 Cambridge University Library, Department of Manuscripts and University Archives, The Papers of Michael Baxandall, MS Add. 9843/7/2/5/1.

49 Si veda l’introduzione di E. Chinol a I.A. Richards, I Fondamenti della critica letteraria, Einaudi, Torino 1961, p. xv.

50 Ibid. Come si può notare, la frase che riporto in corsivo è la stessa citata nel glossario di Baxandall.

51 Cambridge University Library, Department of Manuscripts and University Archives, The Papers of Michael Baxandall, MS Add. 9843/7/2/5/1. Delle quattro voci che costituiscono il glossario, questa è l’unica riportata da Baxandall nelle memorie. Cfr. Baxandall, Episodes…, 2010, p. 66.

52 Richards, I fondamenti…,1961, p. xv.

53 Eliot, The sacred wood…, 1976, p.55.

54 Ivi, p. 56.

55 Ivi, p. 55.

56 Imagery and movement (1945), in Leavis, A selection…, 1968, p. 228: «The seeing elements of our inner experience as clearly defined objects involves, of itself, something we naturally call “thought”. And it will be noted by the way how inevitably we sleep into the visual analogy, the type and model of objectivity being the thing seen (there are bearing here on the visualist fallacy in criticism)».

57 Riporto di seguito i versi di Keats, estratti da Ode on melancholy: «Then glut thy sorrow on a morning rose,/ Or on the rainbow of the salt sand-wave/ Or on the wealth of globed peonies». E questa è l’analisi di Leavis:«The “globed” gives the sensation of the hand voluptuously cupping a peony, and it might be argued that this effect can be explained in terms of the isola-ted word. But actually it will be found that “globed” seems to be with so rich a palpability what it says, to enact in the pronouncing so gloating a self-enclosure, because of the general co-operation of the context. Most obviously, without the preceding “glut”, the meaning of which strongly reinforces the suggestive value of the alliterated beginning of “globed”, this latter word would lose a very great deal of its luxurious palpability». L’effetto di palpabilità che la parola “glo-bed” acquista, nel contesto in cui è inserita, è descritto come un’immagine tattile, la cui azione sul lettore non è quella di richiamare semplicemente un’imma-gine visiva ma di fargli sentire l’azione concreta di racchiudere il fiore tra le mani: «The palpability of the “globed” – the word doesn’t merely describe, or refer to, the sensation, but gives a tactual image. It is as if one were actually cupping the peony with one’s hand». Leavis, A selection…, 1968, p. 235.

58 Ibid.

59 Cfr. Reality and Sincerity (1952) in Leavis, A selection…, 1968, p. 252. L’espressione “talking about” vi è usata (in senso negativo) per descrivere un tipo di poesia che parla di emozioni e sentimenti senza ricrearli poeticamente; è come se il poeta si atteggiasse in un

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sentimento che non ha esperito e che, di conseguenza, non è in grado di ricreare attraverso la poesia.

60 Ivi, p. 237. Il corsivo è della scrivente.

61 A proposito dello scarto “linguistico” che separa la critica letteraria dalla critica artistica, Baxandall scrive nelle memorie: «An overriding difference is that literature registers consciousness of life and the world in the same medium as the critic uses: language. Literary criticism is verbal behaviour all the way, object and subject. There are all sorts of qualifications to be made, about literary language being distinct from critical language […] but the fact remains that visual art is behaviour in shapes and colours, and […] art criticism’s language is in a different relation to visual art». Baxandall, Episodes…, 2010, pp. 71-72

62 Cfr. Substance, sensation and perception. Michael Baxandall interviewed by Richard Cándida Smith, Art History Oral Documentation Project, Getty Research Institute for the History of Art and Humanities, The J. Paul Getty Trust, 1998, p. 21, http://archives.getty.edu:30008/getty_images/digitalresources/spcoll/gri_940109_baxandall_transcript.pdf.

63 B. Berenson, Italian painters of the Renaissance, Vol. ii Florentine and Central Italian Schools, Phaidon, London 1968, p. 2. Per studi recenti su Berenson si veda Bernard Berenson: formation and heritage, a cura di J. Connors, l.A. Waldmann, Villa I Tatti, The Harvard University Centre for Renaissance Studies, Florence 2014.

64 Berenson, Italian painters…, 1968, p. 2.

65 Ivi, p. 6.

66 Ivi, p. 8.

67 Ivi, p. 14.

68 Ivi, p. 15.

69 Cfr. Substance, sensation and perception…, 1998, p. 21.

70 Baxandall, Episodes…, 2010, p. 72.

71 Pubblicato originariamente come Introduzione a E. Panofsky, Studies in Iconology: Humanistic Themes in the Art of Renaissance, Oxford University Press, New York 1939, pp. 3-31.

72 M. Baxandall, Painting and Experience in Fifteenth Century Italy. A primer in the social history of pictorial style, Oxford University Press, 1972; trad. it. Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Rinascimento, Einaudi, Torino 2000.

73 Baxandall, Pittura ed esperienze…, 2000, pp. 87-88.

74 All’“occhio morale” (moral eye), ovvero ai possibili significati teologici dei motivi e delle qualità pitto-riche dello stile quattrocentesco, è dedicato l’ultimo paragrafo del capitolo sull’occhio del Quattrocento (The period eye). Cfr. ivi, p. 95 e segg.

75 Uno schema dei livelli della percezione visiva, con particolare riferimento alla distinzione tra rea-zioni innate e uniformi (livello fisiologico) e abilità interpretative acquisite attraverso l’esperienza (livello

cognitivo), è offerto da Baxandall in apertura al capitolo sull’“Occhio del Quattrocento”. Cfr. ivi, pp. 41-43. Con riferimento alle scienze cognitive, Baxandall distinguerà successivamente in Ombre e lumi processi percettivi discendenti e ascendenti. Nei primi prevale la componente cognitiva della percezione, per cui la forma nota dell’oggetto (conservata nella memoria visiva) si impone sullo stimolo visivo (ovvero, su un campo variabile di valori luminosi); nei secondi, invece, lo schema di ombra e luce prevale sulle nostre pre-co-noscenze relative all’oggetto e si impone all’attenzione visiva. Cfr. M. Baxandall, Shadows and Enlightenment, Yale University Press, New Haven 1995; trad. it. Ombre e lumi, Einaudi, Torino 2003, pp. 60-65.

76 Richards, Principles…, 1970, p. 87.

77 Ivi, p. 10.

78 Ivi, p. 59: «The world of poetry has in no sense any different reality from the rest of the world and it has no special laws and no other-worldly peculiarities. It is made up of experiences of exactly the same kinds as those that come to us in other ways. Every poem, however, is a strictly limited piece of experience, a piece which breaks up more or less easily if alien ele-ments intrude. It is more highly and more delicately organized than ordinary experiences of the street or of the hillside; it is fragile. Further it is communicable. It may be experienced by many different minds with only slight variations. That this should be possible is one of the conditions of its organization».

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79 Ivi, p. 150.

80 Ivi, pp. 150-151.

81 Ivi, p. 91.

82 Ivi, p. 86.

83 Ivi, p. 122.

84 Richards fa riferimento al comportamento del rosso e del blu rispetto alla percezione dello spazio (il rosso protende, il blu si ritira). Baxandall farà uso di osser-vazioni analoghe per spiegare il comportamento per-cettivo della teiera e del tavolo nell’analisi della Donna che prende il tè di Chardin. Cfr. M. Baxandall, Patterns of Intention. On the Historical Explanation of Pictures, Yale University Press, New Haven 1985; trad. it. Forme dell’intenzione. Sulla spiegazione storica delle opere d’arte, Einaudi, Torino 2000, p. 118 e segg. La coincidenza può servire a rafforzare l’idea che Baxandall possa aver trovato in Richards un possibile primissimo suggeri-mento per l’utilizzo della psicologia come strumento per lo studio delle arti visive. La figura che può fungere idealmente da tramite in questo caso è E.H. Gombrich, il quale fornisce peraltro una sua lettura della poetica di Richards in E.H. Gombrich, The Necessity of Tradition. An Interpretation of the Poetics of I.A. Richards, in Tributes. Interpreters of our cultural tradition, Phaidon, Oxford 1984; trad. it. La necessità della tradizione, in Custodi della memoria, Feltrinelli, Milano 1985.

85 Nel 1959-60 Gombrich sostituisce Gertrud Bing come supervisore delle ricerche di Baxandall al

Warburg Institute. Il testo di Gombrich che segna per Baxandall l’inizio di un interesse esplicito per la psi-cologia della rappresentazione è Arte e Illusione (1960). Cfr. A. Langdale, Art history and intellectual history…, 1995, p. 345.

86 Baxandall, Episodes…, 2010, p. 77.

87 Cambridge University Library, Department of Manuscripts and University Archives, The Papers of Michael Baxandall, MS Add. 9843/7/4/1. I corsivi sono della scrivente.

88 Baxandall, Episodes…, 2010, p. 85.

89 Baxandall, A Grasp…, 2010, p. 88.

90 Ivi, p. 86.

91 In A Grasp of Kaspar il ricorso insistito alla descri-zione della nebbia, e alle situazioni di scarsa visibilità che essa determina, può anche essere letto come meta-fora del mistero che si infittisce con lo sviluppo della trama e che impedisce una chiara comprensione (grasp, appunto) delle vicende.

92 Baxandall, Episodes…, 2010, p. 91.

93 Ivi, p. 86.

94 Ibid.

95 Si veda, a questo proposito il terzo dei criteri con cui Baxandall propone di verificare l’attendibilità della spiegazione storica dei quadri in Forme dell’intenzione,

vale a dire la «necessità (o fecondità) a fini critici»: «Non si introducono nella spiegazione elementi di tipo inferenziale se non arricchiscono l’esperienza del qua-dro come oggetto di interesse visivo». Cfr. Baxandall, Forme dell’intenzione…, 1985, p. 175.

96 Ivi, p. 7.

97 “Osservatore” e “partecipante” sono i termini con cui Baxandall distingue, rispettivamente, la posizione dello storico culturale, che guarda il suo oggetto di stu-dio dall’esterno, e di colui che fa parte e vive all’interno di una data cultura. Cfr. ivi, pp. 159-163.

98 M. Baxandall, Piero della Francesca, The Masters (No. 60), Purnell & Sons, Paulton 1966, p. 4.

99 Ibid.

100 Ivi, p. 6.

101 Ho trovato conferma di questo aspetto nel già citato saggio di Lubbock (“To do a Leavis on visual art”: the place of F. R. Leavis in Michael Baxandall’s intellectual formation). L’autore, che di Baxandall fu allievo, riporta la questione nei termini utilizzati dallo studioso nelle sue lezioni della fine degli anni Sessanta; la relazione diretta dello spettatore odierno con l’opera è descritta come “anacronistica” e allo stesso tempo irrinuncia-bile: non è infatti possibile, né desiderabile, rispondere all’opera esclusivamente secondo i parametri di un osservatore ad essa coevo.

102 M. Baxandall, Episodes…, 2010, p. 87.

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