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G. Giappichelli editore – torino

Comitato di direzione

Fabrizio amatucci, Massimo Basilavecchia, roberto cordeiro Guerralorenzo del Federico, eugenio della Valle, Valerio Ficari

Maria cecilia Fregni, alessandro GiovanniniMaurizio logozzo, Giuseppe MariniSalvatore Muleo, Franco paparella

livia Salvini, loris tosi

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Tax Law Quarterly

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© copyright 2012 - Amici della Rivista Trimestrale di Diritto Tributarioregistrazione presso il tribunale di torino, 5 aprile 2012, n. 22

Direttore responsabile: eugenio della Valle

Direzione e Redazionec/o Giuseppe MariniVia dei Monti parioli n. 48 - 00197 romatel. [email protected]

G. Giappichelli editore - 10124 torinovia po, 21 - tel. 011-81.53.111 - Fax 011-81.25.100http://www.giappichelli.it

iSBn/ean 978-88-348-2726-0iSSn 2280-1332

Stampatore: Stampatre s.r.l., di a. rinaudo, G. rolle, a. Volponi & c., via Bologna 220, 10123 torino

le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volu-me/fascicolo di periodico dietro pagamento alla Siae del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633.

le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da clearedi, centro licenze e autorizzazioni per le riproduzioni editoriali, corso di porta romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

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Comitato di direzioneFabrizio amatucci, Massimo Basilavecchia, roberto cordeiro Guerra, lorenzo del Federico, eugenio della Valle, Valerio Ficari, Maria cecilia Fregni, alessandro Giovannini, Maurizio logozzo, Giuseppe Marini, Salvatore Muleo, Franco paparel-la, livia Salvini, loris tosi

Comitato scientifico dei revisoriniccolò abriani, Jacques autenne, pietro Boria, andrea carinci, Giuseppe cipolla, Silvia cipollina, Gianluca contaldi, daria coppa, Giacinto della cananea, augu-sto Fantozzi, andrea Fedele, luigi Ferlazzo natoli, alfredo Garcia prats, daniel Gutman, Manlio ingrosso, enrico laghi, Salvatore la rosa, carlos lopez espa-dafor, raffaello lupi, enrico Marello, Gianni Marongiu, enrico Marzaduri, Salvo Muscarà, Mario nussi, carlos palao taboada, leonardo perrone, raffaele perrone capano, Francesco pistolesi, Gianni puoti, claudio Sacchetto, Salvatore Sammar-tino, angelo Scala, roman Seer, Maria teresa Soler roch, paolo Stancati, dario Stevanato, Giuliano tabet, Francesco tesauro, Giuseppe tinelli, antonio Uricchio, Giuseppe Zizzo

Comitato di redazioneantonio Viotto (coordinatore), ernesto Bagarotto, Gianluigi Bizioli, Susanna can-nizzaro, pierluca cardella, annarita ciarcia, Marco di Siena, Stefano dorigo, anto-nio Marinello, pietro Mastellone, Michele Mauro, annalisa pace, damiano peruzza, Federico rasi, laura torzi, caterina Verrigni

Tutti i contributi pubblicati nella Rivista sono stati sottoposti alla valutazione colle-giale da parte del Comitato di direzione e alla revisione anonima da parte di uno dei componenti del Comitato scientifico dei revisori, in base all’apposito Regolamento (consultabile sul sito www.giappichelli.it/Home/riviste.aspx?codice=R10)

Amministrazione: presso la casa editrice G. Giappichelli, via po 21 – 10124 torino

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INDICE-SOMMARIO

pag.

Gli Autori e i Revisori IX

Editoriale XI Dottrina F. Amatucci, Frodi carosello e “consapevolezza” del cessionario IVA

(Carousel frauds and “knowledge” of transferees in VAT system) 3 R. Cordeiro Guerra, I limiti alla potestà impositiva ultraterritoriale

(The limits to extraterritorial exercise of taxing power) 31 E. Della Valle, Transfer price: l’esimente relativa alla rettifica del va-

lore normale (Transfer price: the justification in normal value adjust-ments) 65

V. Ficari, La “fiscalità” dell’acqua tra “federalismo” fiscale e privatiz-zazione della disciplina e della gestione (The “tax regime” of water between fiscal “federalism” and privatisation of its discipline and management) 79

A. Giovannini, Fondato pericolo per la riscossione ed esazione stra-ordinaria nell’accertamento esecutivo (Founded danger for tax collection and extraordinary exaction in the executive assessment) 119

C.M. López Espadafor, Situación actual de la prohibición de confisca-toriedad en materia tributaria: la experiencia española en el contexto de la Unión Europea (Situazione attuale del divieto di confiscato-rietà in materia tributaria: l’esperienza spagnola nel contesto del-l’Unione Europea – Current state of the prohibition of confiscatory taxes: the Spanish experience in the context of European Union) 137

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INDICE-SOMMARIO RTDT - n. 1/2012

VIII

pag.

G. Marini, Note in tema di rilevanza ai fini dell’imposizione sui red-diti del maggior valore dell’avviamento definito in sede di impo-sta di registro (Some notes on the relevance for income taxation of the increased value of goodwill as determined for stamp duty tax purposes) 189

Giurisprudenza

Corte di Giustizia UE, sez. I, 8 settembre 2011, cause riunite da C-78/08 a C-80/08 – Pres. Tizzano, Rel. Kasel, con nota di A. Ma-rinello, Regimi impositivi differenziati e società cooperative se-condo la Corte di Giustizia UE (Different tax regimes and coopera-tive societies according to the Court of Justice of the European Union) 207

Corte cost., 25 luglio 2011, n. 247 (udienza del 5 luglio 2011) – Pres. Quaranta, Rel. Gallo, con nota di L.P. Murciano, Raddop-pio dei termini per l’accertamento, potere impositivo e tutela del contribuente (Tax assessment’s duplication of terms, taxing power and taxpayer’s protection) 234

Cass., sez. I, 4 novembre 2011, n. 22931 (udienza del 12 ottobre 2011) – Pres. Proto, Rel. Zanichelli, con nota di P. Mastellone, La non falcidiabilità del credito IVA nel concordato preventivo pre-scinde dalla presenza della transazione fiscale (The full payment of VAT in the pre-bankruptcy agreement is necessary also without “fiscal transaction”) 260

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GLI AUTORI E I REVISORI

Fabrizio Amatucci Professore ordinario di Diritto tributario, Seconda Università di Napoli

Roberto Cordeiro Guerra Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Firenze

Eugenio Della Valle Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Roma “Sapienza”

Valerio Ficari Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Sassari

Alessandro Giovannini Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Siena

Carlos María López Espadafor Catedrático de Derecho financiero y tributario, Universidad de Jaén (E)

Antonio Marinello Ricercatore di Diritto tributario, Università di Siena

Giuseppe Marini Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Roma Tre

Pietro Mastellone Dottorando di ricerca, Università di Bergamo

Luigi Murciano Dottore di ricerca, Università di Siena La revisione dei contributi pubblicati è stata effettuata da: Enrico Marello (Pro-fessore ordinario di Diritto tributario, Università di Torino); Enrico Marzaduri (Professore ordinario di Diritto processuale penale, Università di Pisa); Mario Nussi (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Udine); Raffaele

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GLI AUTORI E I REVISORI RTDT - n. 1/2012

X

Perrone Capano (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Napoli “Federico II”); Francesco Pistolesi (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Siena); Claudio Sacchetto (Professore ordinario di Diritto tributa-rio, Università di Torino); Salvatore Sammartino (Professore ordinario di Dirit-to tributario, Università di Palermo); Francesco Tesauro (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Milano Bicocca); Giuseppe Zizzo (Professore ordinario di Diritto tributario, Università LIUC - Castellanza).

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Editoriale

La Rivista Trimestrale di Diritto Tributario nasce per iniziativa di un gruppo di studiosi che, confrontando i propri diversi percorsi, hanno avver-tito tutti la comune esigenza di trovare, offrendolo alla comunità scientifica, un più ampio e ponderato spazio di riflessione, destinato in prospettiva ad occuparsi delle questioni di fondo che investono il mondo dei tributi; spazio nel quale ciascuno potesse apportare l’esperienza formativa e scientifica ma-turata. Il diritto tributario, senza alcun dubbio, è disciplina che come nes-sun’altra ha un imprescindibile legame interdisciplinare, che lo pone a con-tatto con tutte le altre materie giuridiche e con quelle economiche e azien-dali, che spesso toccano gli stessi oggetti; di qui l’intenzione di creare le con-dizioni per un dialogo con gli studiosi che operano in tali ambiti.

Storicamente, l’esperienza della rivista nasce con il diffondersi dei meto-di di valutazione della ricerca, che costringono la comunità scientifica ad in-terrogarsi sul senso del proprio lavoro e sulle forme di diffusione della cultu-ra giuridica; di qui un progetto culturale unitario, che investe sia la rivista, sia la collana di opere monografiche che accompagnerà la prima.

Concepire una rivista trimestrale dedicata al diritto tributario, disciplina tradizionalmente condizionata dal contingente e dalle novità che si susse-guono con frequenza quasi quotidiana, è operazione senza dubbio in con-trotendenza.

Eppure l’ampio gruppo di studiosi che ha dato vita al progetto, non ha avuto dubbi, anche alla luce delle esperienze di ciascuno nel campo dell’edi-toria di taglio più divulgativo, circa la opportunità di dare vita a una rivista che, appunto senza l’assillo del quotidiano, cercasse di trovare risposte alle questioni di fondo; solo episodicamente emergenti nel panorama attuale.

Perché è la riflessione ponderata che in definitiva risulta veramente utile anche alla crescita dell’operatore professionale della materia, nella misura in cui, pur non ignorando l’attualità, da questa non si fa condizionare.

Dunque, grande attenzione ai profili interdisciplinari e alla riflessione al-largata agli ordinamenti europei; netta prevalenza della parte di “dottrina”, con rigorosa selezione dei materiali da proporre con commenti di ordine si-stematico; rigido referaggio sulla generalità dei contributi; documentazione

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EDITORIALE RTDT - n. 1/2012

XII

sull’attualità affidata agli insuperabili strumenti dell’on line. Equilibrio tra i profili dedicati al mondo dei tributi e quelli dedicati alle regole giuridiche che presiedono alla produzione delle norme e alla loro applicazione.

Con la convinzione che, integrando l’apporto di grande spessore che l’attuale panorama delle riviste tributarie già fornisce, la nuova Trimestrale possa costituire oggetto di attenzione da parte della comunità scientifica e di tutti gli operatori del settore.

I fondatori/direttori

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DOTTRINA

SOMMARIO: F. Amatucci, Frodi carosello e “consapevolezza” del cessionario IVA (Carousel

frauds and “knowledge” of transferees in VAT system) R. Cordeiro Guerra, I limiti alla potestà impositiva ultraterritoriale (The limits

to extraterritorial exercise of taxing power) E. Della Valle, Transfer price: l’esimente relativa alla rettifica del valore norma-

le (Transfer price: the justification in normal value adjustments) V. Ficari, La “fiscalità” dell’acqua tra “federalismo” fiscale e privatizzazione del-

la disciplina e della gestione (The “tax regime” of water between fiscal “federa-lism” and privatisation of its discipline and management)

A. Giovannini, Fondato pericolo per la riscossione ed esazione straordinaria nell’accertamento esecutivo (Founded danger for tax collection and extraor-dinary exaction in the executive assessment)

C.M. López Espadafor, Situación actual de la prohibición de confiscatoriedad en materia tributaria: la experiencia española en el contexto de la Unión Europea (Situazione attuale del divieto di confiscatorietà in materia tributaria: l’e-sperienza spagnola nel contesto dell’Unione Europea – Current state of the prohibition of confiscatory taxes: the Spanish experience in the context of Euro-pean Union)

G. Marini, Note in tema di rilevanza ai fini dell’imposizione sui redditi del maggior valore dell’avviamento definito in sede di imposta di registro (Some notes on the relevance for income taxation of the increased value of goodwill as determined for stamp duty tax purposes)

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DOTTRINA RTDT - n. 1/2012

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Fabrizio Amatucci

3

Fabrizio Amatucci

FRODI CAROSELLO E “CONSAPEVOLEZZA” DEL CESSIONARIO IVA

CAROUSEL FRAUDS AND “KNOWLEDGE” OF TRANSFEREES IN VAT SYSTEM

Abstract L’Amministrazione finanziaria sempre più spesso effettua accertamenti in mate-ria di IVA nei confronti di società cessionarie definite “società-filtro” o “buffers” presupponendo che tali soggetti che abbiano intrattenuto rapporti con società definite “cartiere”, hanno partecipato ad una frode carosello finalizzata all’evasio-ne delle imposte e realizzata mediante l’impiego di fatture per operazioni sogget-tivamene inesistenti. Per tale ragione l’Agenzia delle Entrate rifiuta di concedere a tali soggetti la de-traibilità dell’IVA relativa a tali operazioni. La fittizietà dell’operazione si desume dal fatto che i soggetti passivi sono diversi da quelli che realmente hanno posto in essere le operazioni imponibili. Per dimostrare il coinvolgimento del cessiona-rio nella frode carosello sarebbe necessario accertare la consapevolezza della par-tecipazione di quest’ultimo ad un’attività illecita. L’Agenzia delle Entrate e il giu-dice tributario hanno una competenza e strumenti a disposizione limitati per ve-rificare tale conoscenza del cessionario relativa alle altrui precedenti attività frau-dolente. La recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, uniformandosi agli orien-tamenti della Corte di Giustizia UE, considera correttamente la consapevolezza, non come un stato soggettivo del contribuente, ma come una idoneità a cono-scere l’illiceità delle operazioni poste in essere da altri soggetti sulla base degli strumenti (giuridici) disponibili nel sistema fiscale in cui opera. Parole chiave: consapevolezza, detraibilità, frode, affidamento, indeducibilità, IVA Tax authorities frequently carry out VAT assessments towards transferees (i.e. com-

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DOTTRINA RTDT - n. 1/2012

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panies which receive the goods) defined “filters” or “buffers”, considering that, having entertained commercial relationships with “missing traders” companies, they are part of a carousel fraud aimed at evading taxes and realised with fictitious invoices for non-existent companies. For these reasons, tax authorities deny traders involved in carousel frauds the right to deduct the input VAT. The fictitiousness of the operation shall be implied from the fact that taxpayers involved are different from those which effectively supply and receive the goods. In order to prove the involvement of the trans-feree in the carousel fraud, it is necessary to demonstrate its consciousness in partici-pating in such unlawful operation. Tax authorities and tax courts have limited com-petence and instruments aimed at verifying transferee’s acknowledgement concerning previous fraudulent operations. Recent case law of the Supreme Court, which aligns to CJEU’s decisions, correctly con-siders that such acknowledgement is not a subjective status of the taxpayer, but an ob-jective capacity to know the unlawfulness of operations carried out by other companies exploiting legal instruments offered by the national tax system. Keywords: knowledge, deducibility, fraud, VAT, legitimate, expectation

SOMMARIO: 1. Il variegato quadro normativo in materia di frodi carosello. – 2. L’utilizzo degli artt. 60 bis e 14, comma 4 bis, nell’ambito dell’accertamento analitico induttivo. – 3. Elementi in base ai quali è possibile dimostrare il coinvolgimento da parte del cessionario nella frode carosello. – 4. Ripartizione dell’onere della prova. – 5. Tutela dell’affidamento ed impossibile valutazione dell’elemento psicologico che caratterizza la consapevolezza. – 6. Indeducibilità dei costi e ille-gittima estensione dell’art. 14, comma 4 bis, L. n. 537/1993 ai fini dell’indetraibilità dell’IVA.

1. Il variegato quadro normativo in materia di frodi carosello

Sempre più spesso l’Agenzia delle Entrate opera induttivamente per di-mostrare che alcune società cessionarie (definite società filtro o buffers in quanto creano un filtro idoneo ad occultare la connessione tra cartiera e ces-sionario reale) che abbiano intrattenuto rapporti commerciali con società cartiere o missing trader, siano coinvolte “all’interno di un carosello fiscale”, finalizzato all’evasione delle imposte e realizzato mediante l’impiego di fattu-re per operazioni soggettivamene inesistenti ed indebite dichiarazioni di in-tento. Ciò al fine di disconoscere la detraibilità dell’IVA e l’indeducibilità dei costi relativi a tali operazioni. La società cartiera, vendendo ad un prezzo in-feriore rispetto a quello praticato in quanto non gravata da IVA, attira una

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serie di altri soggetti che acquistano solitamente sottocosto le merci e le in-troducono nel mercato interno alimentando la distorsione alla concorrenza

1. Si sconvolge in tal modo la logica del mercato in quanto, invece di aumentare i costi per il legittimo guadagno dell’intermediario, si abbassano artificiosa-mente a danno dell’erario. Tale valutazione è effettuata dagli accertatori su di una serie di elementi come la mancanza di strutture idonee allo svolgimento di attività della cedente o cartiera, la mancanza di dipendenti di quest’ultima, la vendita di beni al di sotto del valore di mercato ecc. L’operazione viene considerata in tali casi dal punto di vista sanzionatorio ai fini IVA soggettiva-mente insistente

2 e rientrante tra i reati previsti dagli artt. 2 e 8 del D.Lgs. n. 74/2000. Talvolta si è ipotizzato il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato sensi dell’art. 640 c.p., comma 2

3-4. In altri casi ancora, oltre al reato connesso alla partecipazione alla frode carosello, si contesta quello di omesso versamento IVA ex art. 10 ter, D.Lgs. n. 74/2000 da parte di quei soggetti fa-centi parte della filiera fraudolenta che rispondono di concorso

5.

1 Attraverso la vendita sottocosto il prezzo ottenuto consente agli operatori economici coinvolti comunque di aggredire il mercato a svantaggio di quelli onesti che non fanno parte della filiera del marcato fraudolento per i quali il gioco delle regole del mercato diventa impari. Per un quadro ricostruttivi delle problematiche inerenti le frodi carosello v. TOMA, La frode carosello nell’IVA (parte I), in Dir. prat. trib., 2010, 1385 e Parte II, Dir. prat. trib., 2011, 836.

2 Nelle “operazioni soggettivamente inesistenti”, una prestazione od una cessione è stata compiuta, esiste, e tale “esistenza” contribuisce a distinguerle dalle “operazioni oggettiva-mente inesistenti”; ciò che cambia rispetto ad una “inesistenza oggettiva” è l’insieme dei pro-tagonisti dell’operazioni, laddove figurano in fattura soggetti che, in luogo di altri, o non hanno eseguito l’operazione, o non l’hanno ricevuta. La riunificazione tra i due tipi di “opera-zioni inesistenti”, avviene alla fine sul versante dei “vantaggi” ottenuti dal compimento di tali pratiche, principalmente riconnessi (ma altri se ne potrebbero enumerare) all’esercizio “abu-sivo” del diritto di detrazione dell’IVA ed alla conseguente deduzione di costi ai fini delle im-poste dirette. V. LOVISOLO, Operazioni soggettivamente inesistenti ed, “inerenza soggettiva”: la Cassazione ribadisce la propria “giurisprudenza del disvalore”, in GT-Riv. giur. trib., n. 5, 2010, p. 419, LOGOZZO, IVA e fatturazione per operazioni inesistenti, in Riv. dir. trib., 2011, 288; AR-DITO, Emissione di fatture per operazioni inesistenti e Iva, in Rass. trib., 2006, 642.

3 Controverso è il rapporto tra i reati di truffa aggravata e frode fiscale. V., in proposito, Cass. sez. un. pen., 19 gennaio 2011, n. 1235 che ha considerato speciali tali ultime due norme e dunque rispetto al delitto di truffa aggravata previsto dall’art. 640 c.p. L’elemento specializzante sarebbe secondo l’orientamento delle sez. un. rappresentato dall’utilizzazio-ne in dichiarazione ovvero dall’emissione di fatture relative ad operazioni inesistenti.

4 COALOA, Frodi carosello le sezioni unite escludono il concorso tra i reati, in Riv. dir. trib., 2011, II, 79, ARDITO, Le sez. un. escludono il concorso tra frode fiscale e truffa aggravata, in Rass. trib., 2011, 541.

5 CARACCIOLO, Omissioni e frodi nella fase di riscossione delle imposte, in Riv. dir. trib., 2011, III, 68.

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DOTTRINA RTDT - n. 1/2012

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L’ipotesi di fittizietà soggettiva si caratterizza per il fatto che la vendita è riferibile a soggetti diversi da quelli che l’hanno realmente posta in essere. La falsità ideologica in tali casi, seppure riferita ad una transazione realmen-te effettuata, riguarda dunque diversi contraenti. Tuttavia essa presuppor-rebbe l’effettività dell’acquisto dei beni nella disponibilità patrimoniale del-l’impresa che ha utilizzato le fatture false e la simulazione soggettiva ossia la provenienza della merce da ditta o soggetti diversi da quelli figuranti sulle fatture

6. Tale simulazione non può prescindere da alcuni elementi fonda-mentali caratterizzanti le frodi carosello e rilevabili in sede penale come la consapevolezza e la connivenza del soggetto terzo cessionario coinvolto in tali operazioni. L’identificazione di questi ultimi elementi risulta partico-larmente complessa in sede di verifica e di accertamento fiscale (da parte della Guardia di Finanza e dell’Agenzia delle Entrate) ed in sede valutativa da parte del giudice tributario considerati i limitati poteri e competenze di tali organi, da un lato, e l’inammissibilità di alcune prove nelle diverse fasi procedimentale e processual-tributaria dall’altro.

La procedura ai fini accertativi, volta al recupero dell’IVA non versata anche nei confronti del terzo cessionario acquirente, pur seguendo gli or-dinari parametri dell’accertamento analitico induttivo, si basa essenzial-mente sull’art. 60 bis D.P.R. n. 633/1972 che è stato emanato secondo quanto disposto dall’art. 21, par. 3, VI Direttiva IVA

7 a seguito dell’invito della Commissione UE rivolto agli Stati membri a introdurre forme di re-sponsabilità solidale per l’imposta evasa dal venditore al cessionario e con-sentire il coinvolgimento di quest’ultimo nelle frodi carosello

8. Esso pre-vede, attraverso una presunzione legale relativa in generale, una solidarietà tra cedente e cessionario IVA in caso di mancato versamento dell’imposta relativa a cessioni a prezzi inferiori al valore normale. Tale norma è tutta-via applicabile ad una serie di situazioni anche diverse dalla frode carosello

6 In tal senso Cass., sez. trib., 17 dicembre 2008, n. 29467 e Cass., sez. trib., 24 luglio 2009 (11 giugno 2009), n. 17377.

È evidente dunque che l’elemento probatorio a sostegno dell’interposizione fittizia di un diverso soggetto nell’operazione di cessione di beni è indispensabile a dimostrare l’esi-stenza del reato.

7 Tale norma comunitaria che prevede la possibilità per gli Stati membri di considerare un soggetto responsabile per il pagamento in solido con un altro, va attuata in osservanza dei principi di proporzionalità e certezza del diritto. V. in tal senso Conclusioni Avv. Gen. Causa Corte di Giustizia 11 maggio 2006, causa C 384/04.

8 DE GIROLAMO, L’evoluzione della giurisprudenza comunitaria in tema di responsabilità del cessionario nelle frodi iva, in Il Fisco, 2007, p. 4571.

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Fabrizio Amatucci

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in cui la frode può anche essere del tutto assente. Sebbene la lotta a tali operazioni appare il motivo ispiratore dell’art. 60

bis, quest’ultima disposizione non fa alcun riferimento a fattispecie intraco-munitarie e alla riconducibilità anche indiretta del fenomeno fraudolento interno a tale tipologia, né richiede la sussistenza di elementi soggettivi o oggettivi o di fattispecie criminose da cui soltanto essa emergerebbe

9. In tale contesto merita particolare attenzione l’art. 14, comma 4 bis, della

L. 24 dicembre 1993, n. 537 in materia di tassazione di proventi illeciti ope-rante ai fini della imposte dirette ed in base al quale non sarebbe consentita a soggetti terzi acquirenti da società cartiere la deduzione dei costi e delle spese riconducibili a fatti qualificabili come reato, ma che si ritiene in grado di operare anche ai fini dell’indetraibilità IVA nelle frodi carosello

10. Altra norma considerata di riferimento in tale contesto, è l’art. 21, com-

ma 7, D.P.R. n. 633/1972 che prevede l’obbligo di versamento per intero dell’imposta da parte del soggetto che ha emesso fattura per operazioni ine-sistenti. Da tale norma, anche se non espressamente previsto, scaturirebbe il divieto di recupero di rimborso e di detrazione dell’IVA versata da parte del cessionario destinatario della fattura

11. Tale interpretazione estensiva delle disposizioni esaminate che presuppongono la dimostrazione dell’inesisten-za dell’operazione (Cass. n. 10505/2008), non sembra tuttavia tenere conto della loro diversa ratio rispetto all’art. 60 bis

12 e del fatto che esse in ogni ca-

9 MONDINI, La nuova responsabilità solidale del cessionario IVA e la sua compatibilità con il diritto comunitario, in Rass. trib., 2005, p. 755.

10 V. Cass. 17 novembre 2006, n. 24471, 19 luglio 2006, n. 16504, 11 settembre 2003, n. 1335 ove è stato affermato che l’art. 14, comma 4 bis rappresenta una norma di principio generale valida sia ai fini delle imposte dirette che dell’IVA.

11 La Cass. nella sent. n. 12353 del 10 giugno 2005 ha affermato che «se viene emessa fattura per operazioni inesistenti l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o cor-rispondente alle indicazioni della fattura – da un lato incide direttamente sul soggetto emittente la fattura, costituendolo debitore d’imposta sulla base dell’applicazione del solo principio di cartolarità, e, dall’altro, incide indirettamente, in combinato disposto con gli artt. 19, primo comma, e 26, terzo comma, dello stesso d.P.R., anche sul destinatario della fattura medesima, il quale non può esercitare il diritto alla detrazione o alla variazione dell’imposta in totale carenza del suo presupposto, e cioè dell’acquisto (o dell’importazio-ne) di beni e servizi nell’esercizio dell’impresa, arte o professione». V. FICARI, Indetraibilità dell’imposta ed operazioni oggettivamente inesistenti, in Rass. trib., 2001, p. 222, il quale esa-mina l’art. 21, comma 7, D.P.R. n. 622/1972 e l’interpretazione giurisprudenziale sul di-sconoscimento della detrazione IVA. Cass. 19 ottobre 2007, n. 21953 condiziona la rico-struzione induttiva ex art. 54, D.P.R. n. 633/1972 in tali casi all’esibizione di prova dell’ine-sistenza di alcune operazioni.

12 La Cass., nella sent. n. 13482 del 26 maggio 2008 chiarisce che lo scopo specifico

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so sembrano più garantire la coerenza del sistema IVA essendo riferibili alle operazioni oggettivamente inesistenti in cui si è in presenza di una fittizia cessione di beni o prestazione di servizi.

Tali ultime norme esaminate operanti in fase di accertamento nei con-fronti di soggetti terzi rispetto agli autori del reato come le società c.d. filtro, non prevedono espressamente l’indetraibilità dell’IVA, da parte del cessio-nario, né consentono di qualificare frodi le operazioni definite carosello perché prescindono completamente dagli elementi del reato e dalla conni-venza tra cedente e cessionario. Le norme sanzionatorie penali esaminate previste dal D.Lgs. n. 74/2000 risultano in ogni caso inadeguate ai fini del contrasto del fenomeno in esame ed è dubbio se il carattere criminale di tali operazioni possa provocare automaticamente la indetraibilità del IVA in ca-po ad altro soggetto

13.

2. L’utilizzo degli artt. 60 bis e 14, comma 4 bis, nell’ambito dell’accerta-mento analitico induttivo

Uno dei maggiori problemi procedurali in fase di accertamento delle frodi carosello riguarda la possibilità di operare unicamente sulla base di al-cune disposizioni esaminate come l’art. 60 bis, D.P.R. n. 600/1973 e l’art. 14, comma 4 bis, L. n. 537/1992 che consentono l’utilizzo di presunzioni legali ai fini della determinazione del coinvolgimento di soggetti terzi nella attività fraudolenta, pur essendo l’accertamento analitico-induttivo basato su presunzioni semplici ex art. 2697 c.c. ai sensi degli artt. 39, comma 1, lett. d) e 54 I comma 2, D.P.R. n. 633/1972

14. Né l’art. 32, D.P.R. n. 600/1973, comma 1, n. 2), né l’art. 51 comma 1 n. 2), D.P.R. n. 633/1972 prevedono in tali casi la possibilità per l’Ufficio di porre a base degli accertamenti (sin- dell’art. 21, comma 7, infatti, in presenza di talune patologiche fattispecie, è di ricondurre a coerenza il sistema impositivo dell’IVA, fondato sui principi della rivalsa e della detrazione (artt. 18 e 19), secondo cui, siccome l’emissione della fattura legittima il suo destinatario ad un credito d’imposta nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, è necessario che il sog-getto che la emette sia debitore, nei confronti della stessa, della corrispondente imposta.

13 DE SIENA, Operazioni soggettivamente inesistenti e detraibilità IVA, in Rass. trib., 2007, p. 211, rileva come il vincolo di causalità necessaria che genera la indetraibilità IVA in capo al soggetto del documento ideologicamente falso determina l’applicazione di una sanzione impropria difficilmente compatibile con il principio di legalità.

14 La sentenza della Cass. n. 21953/2007 condiziona la ricostruzione induttiva ex art. 54, D.P.R. n. 633/1972 in tali casi all’esibizione di prova dell’inesistenza di alcune operazioni.

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tetico, analitico e induttivo) i dati ed elementi individuati attraverso presun-zioni legali se il contribuente non fornisce prova contraria.

Con riferimento all’utilizzo dell’art. 60 bis nelle frodi carosello, va osserva-to che tale norma non può consentire all’A.F. di riconoscere implicitamente il carattere fraudolento dell’operazione effettuata tra cartiera e società filtro a prescindere da qualsiasi altro accertamento, sollevando l’Agenzia delle En-trate dall’onere di provare gli elementi costitutivi della frode. Attraverso un solo indizio come quello del prezzo inferiore al mercato, si presume che il cessionario sia consapevole e compartecipe all’evasione posta in essere da un altro soggetto e si nega la detraibilità dell’IVA. In tal modo si va dunque ben oltre la responsabilità solidale perché non si chiede il pagamento in via soli-dale, ma si comprime a fini sanzionatori il diritto alla detrazione.

La giurisprudenza tuttavia considera in proposito necessario l’utilizzo da parte dell’Ufficio accertatore di validi elementi di prova per affermare che vi sia stata emissione di fatture per operazioni inesistenti

15-16 ed anche la Corte di giustizia UE in diverse sentenze attribuisce, come si esaminerà, rilevanza all’inaffidabilità del cedente

17 e alla consapevolezza del cessionario. In tali casi si ricorre al principio della buona fede e dell’affidamento, escludendo dal coinvolgimento il contribuente diligente che non sapeva e non poteva conoscere la natura fraudolenta delle operazioni precedentemente poste in essere dal cedente.

Tali orientamenti giurisprudenziali inducono a farci ritenere che l’art. 60 bis da solo non è in grado di semplificare l’attività accertativa dell’Ag. Entrate e non consente di integrare i presupposti di gravità, precisione e concordanza tipici delle presunzioni legali

18. Tale norma è dunque insufficiente a dimo-

15 In proposito, va considerato che la giurisprudenza di merito tende ad utilizzare una serie di elementi diversi da quelli indicati dall’art. 60 bis e ritiene mancanti gli ele-menti probatori ai sensi dell’art. 2697 c.c. Inoltre, in assenza di prova contraria, «non possono riconoscersi addebitabili a carico della società acquirente/cessionaria respon-sabilità ad essa non imputabili, a causa di violazioni eventualmente accertate in riferi-mento ad irregolarità commesse da parte del cedente» (CTR Lazio, sez. VI, 30 marzo 2010, n. 37).

Inoltre si è affermato che la produzione del solo p.v.c. non può ritenersi sufficiente a provare né la frode carosello né la partecipazione consapevole di una s.p.a. alla frode stessa (CTR Venezia, sez. XXIV, 19 febbraio 2010 n. 1419).

16 V. Cass. n. 17377/2009 e n. 6943 del 25 marzo 2011. V. oltre par. 5. 17 Ad es. mancanza di partita iva., mancanza di mezzi patrimoniali sufficienti, frequente

cambio di forma commerciale oltre al prezzo inferiore a quello di mercato (MARELLO, Og-gettività dell’operazione Iva e buona fede del soggetto passivo, in Riv. dir. fin., 2008).

18 Ciò è stato affermato con riguardo agli studi di settore ove la Suprema Corte, nel-

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strare l’esistenza di elementi costitutivi del coinvolgimento in attività fraudo-lente del cessionario. È pertanto quanto mai opportuno che l’Ufficio operi in presenza di frodi carosello nel pieno rispetto degli artt. 39, comma 1, lett. d) e 54, comma 2, D.P.R. n. 633/1972

19 che consentono l’utilizzo di una pluralità di elementi indiziari e di presunzioni dotate di gravità, precisione e concor-danza, tra cui anche l’antieconomicità o vendita al di sotto del valore normale introdotta dall’art. 60 bis, necessaria a rendere più verosimile il coinvolgimen-to del cessionario e la realizzazione di un indebito vantaggio.

La Legge Finanziaria per l’anno 2005, nell’introdurre il principio di so-lidarietà per il pagamento dell’IVA, ai sensi dell’art. 60 bis, D.P.R. n. 633/1972, al fine di rispettare il principio di proporzionalità, ha comunque previsto la sua esclusione in caso di dimostrazione della vendita al valore normale. Ed infatti, dopo aver previsto che «in caso di mancato versamento dell’imposta da parte del cedente relativa a cessioni effettuate a prezzi infe-riori al valore normale, il cessionario, soggetto agli adempimenti ai fini del presente decreto, è obbligato solidalmente al pagamento della predetta im-posta» ha stabilito che, «l’obbligato solidale di cui al comma 2 può tuttavia documentalmente dimostrare che il prezzo inferiore dei beni è stato deter-minato in ragione di eventi o situazioni di fatto oggettivamente rilevabili o sulla base di specifiche disposizioni di legge e che comunque non è connesso con il mancato pagamento dell’imposta».

La ratio di tale ultima disposizione è quella di evitare, attraverso l’inver-sione dell’onere della prova a carico del cessionario nel rispetto della pro-porzionalità

20, di addossare in capo a quest’ultimo, il mancato versamento dell’IVA da parte del cedente attraverso arbitrari disconoscimenti del diritto di detrazione IVA, trattandosi solitamente di soggetto del tutto estraneo a frodi intracomunitarie e di tentare di rendere il parametro dell’antieconomi-

l’ord. n. 15905 depositata il 6 luglio 2010 e con la sent. n. 16055 del 7 luglio 2010, ha af-fermato che tali indici devono essere qualificati mere presunzioni semplici.

19 Il richiamo a tale tipo di presunzioni è ben evidenziato nella sentenza della Cass. 25 marzo 2011 n. 6943 ove è affermato che l’accertamento non è sorretto da presunzioni gra-vi, precise e concordanti secondo gli artt. 39, D.P.R. n. 600/1973 e 54, D.P.R. n. 633/1972 giacché non è dato comprendere in quale modo debba desumersi il ruolo della società fil-tro per acquisti in nero. In altra sentenza (Cass. 23 febbraio 2010, n. 4306) inoltre si consi-derano le presunzioni basate su deduzioni logiche dotate di ragionevole probabilità.

20 MONDINI, La nuova responsabilità solidale, cit., p. 258, in proposito osserva che la mancanza di convenienza economica viene elevata attraverso l’art. 60 bis a fulcro del mec-canismo presuntivo per consentire di presumere che la frode esiste e che il cessionario ne era consapevole. Emerge l’irrazionalità e la sproporzione della norma.

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cità maggiormente condivisibile e legittimo costituzionalmente. L’art. 14, comma 4 bis, L. n. 537/1993 sulla indeducibilità dei costi do-

cumentata da fatture soggettivamente inesistenti presenta difficoltà relati-vamente all’identificazione del momento in cui è rilevabile l’illiceità dell’o-perazione. In tale caso l’onere di fornire la prova che l’operazione non è sta-ta mai posta in essere può, secondo parte della giurisprudenza della Cassa-zione, essere adempiuto dall’Ufficio accertatore anche ricorrendo a presun-zioni gravi, precise e concordanti non ostandovi il divieto di doppia presun-zione il quale attiene alla correlazione di due presunzioni semplici e non può ritenersi violato se da un fatto noto si risalga ad uno ignoto che costitui-sce base per una presunzione legale

21. Tale ultimo orientamento che non collega la verifica dell’illiceità su cui si

fonda la presunzione legale ad una fase investigativa rilevante extratributaria come quella che avviene in sede civile o penale, non appare condivisibile e risulta in contrasto con il principio di proporzionalità.

Pur non giungendo alla conclusione che è necessario condizionare l’ac-certamento tributario a quello penale per dimostrare la natura illecita delle operazioni poste in essere in quanto ciò vanificherebbe il senso di disposi-zioni come l’art. 14 in materia di tassazione dei proventi illeciti, sembra tut-tavia necessario stabilire con maggiore precisione possibile gli elementi do-tati di un elevato grado di attendibilità in base ai quali si può qualificare rea-to la partecipazione all’operazione fraudolenta da parte del cessionario e di-sconoscere la detraibilità dell’IVA e la deducibilità dei costi sostenuti.

In ogni caso, da quanto esaminato, è possibile ritenere che le presun-zioni legali stabilite dagli artt. 60 bis e 14, comma 4 bis da sole non posso-no essere considerate sufficienti ai fini della dimostrazione del coinvolgi-mento di soggetti terzi nelle frodi carosello e della loro consapevolezza e che la sussistenza dei requisiti dell’antieconomicità o dell’illiceità dell’ope-razione contemplati da tali norme, rappresentano ai fini probatori soltanto dei meri indizi.

3. Elementi in base ai quali è possibile dimostrare il coinvolgimento da parte del cessionario nella frode carosello

L’insufficienza probatoria, ai fini del coinvolgimento di un soggetto terzo nelle frodi IVA degli elementi previsti attraverso presunzioni legali della nor-

21 V. Cass. 18 febbraio 2008, n. 1023 e Cass. 20 maggio 2011, n. 11231.

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me esaminate nel par. precedente, si evince chiaramente dall’esame della re-cente giurisprudenza.

Talvolta lo stesso Ufficio accertatore si serve di elementi indiziari e pro-batori ulteriori non sempre necessari a dimostrare la compartecipazione della c.d. società filtro nell’operazione fraudolenta.

Va osservato in proposito che non può sorgere l’automatica correspon-sabilità della cessionaria nella frode qualora quest’ultima abbia svolto in to-tale buona fede – il ruolo di semplice acquirente (nelle operazioni contesta-te dall’ufficio) di merci da società cartiere intrattenendo con queste ultime rapporti commerciali, ma che forse è l’entità o l’esclusività di tali rapporti che dovrebbe assumere maggiore rilevanza nel quadro degli elementi indi-ziari

22. Per quanto riguarda la correttezza e regolarità degli adempimenti conta-

bili del cedente, il mancato pagamento delle imposte o le irregolarità conta-bili da parte delle società cartiere non dovrebbe essere considerato quale elemento utile ai fini probatori per dimostrare la fittizietà dell’operazione intercorsa con la società acquirente, giacché, in caso contrario, il contri-buente cessionario verrebbe gravato da obblighi investigativi fiscali senza avere alcun potere d’indagine e strumenti idonei a tale scopo

23. D’altra par-te, è difficile negare che non è semplice per una società acquirente avere contezza dell’effettività dei versamenti e del rispetto degli adempimenti contabili da parte di altre società cedenti.

Allo stesso modo sono ritenuti spesso determinanti dall’A.F. ai fini della sussistenza della fittizietà dell’operazione e della consapevolezza della frode altre circostanze, altri elementi quali la inesistenza di strutture adeguate o ad es. la solvibilità del cedente, unitamente all’assenza di dipendenti o la con-fessione da parte dell’emittente

24, anche se talvolta risulta non facile dimo-strare la conoscenza di alcuni di tali elementi indiziari da parte del cessiona-rio.

Particolare rilevanza assumono invece le dichiarazioni rese da vari sog-

22 La CTR Veneto con sent. n. 36 del 3 giugno 2008, in tal senso ha affermato che la frequenza con cui una ditta ha intessuto rapporti con altri soggetti che si astenevano dal versamento dell’IVA va valutata come indizio di una scelta volta ad ottenere vantaggi deri-vante dalla possibilità di ottenere i medesimi nelle frodi carosello.

23 V. in tal senso Corte di Giustizia 3 marzo 2004, causa C-395/02. 24 È stato inoltre chiarito in giurisprudenza, difatti, che «la prova della inesistenza sogget-

tiva o oggettiva delle operazioni fatturate può essere ricavata da elementi di fatto di vario tipo (come la mancata copertura finanziaria, la confessione dell’utilizzatore o dell’emittente, la manifesta non genuinità della fattura e così via)…» (v. Cass. 17 dicembre 2010, n. 25617).

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getti sul coinvolgimento del terzo nelle frodi in fase di verifica della Guardia di Finanza o di altro organo di controllo e la sentenza passata in giudicato in sede penale

25 che rappresentano elementi significativi per consentire all’A-genzia delle Entrate di contestare fondatamente le risultanze delle fatture e di invertire a carico del contribuente l’onere probatorio

26. Non vi è dubbio infatti che a tal fine, i dati provenienti da verbali nell’am-

bito di indagini svolte dalla PG rappresentano prove presuntive e non un semplice indizio ai fini accertativi fiscali

27. Nel processo tributario il giudice può tuttavia legittimamente fondare il

proprio convincimento sulle prove acquisite nel giudizio penale le quali posso-no, quantomeno, costituire fonte legittima di prova presuntiva, anche nel caso in cui questo sia stato definito con una pronuncia non avente efficacia di “giudi-cato opponibile”. È necessario tuttavia procedere ad una propria ed autonoma valutazione della condotta delle parti e del materiale acquisito agli atti28, secon-

25 Sulle dichiarazioni e informazioni acquisite nel processo penale v. Cass. 15 maggio 2000, n. 6215 e Cass. 7 settembre 2001, n. 11512.

Diverso è il vincolo, derivante dal giudicato penale che è circoscritto da numerosi limiti riguardando soltanto i fatti materiali che devono essere gli stessi da cui dipende il ricono-scimento del diritto o interesse cui si controverte. Infine deve trattarsi di fatti rispetto a cui la legge civile non pone limitazione di prova. Tale vincolo, derivante dal giudicato penale come osservato da TESAURO, La prova nel processo tributario, in Riv. dir. fin., 2000, 73, 91, vale solo nei confronti dell’imputato, della parte civile e del responsabile civile costituito nel giudizio penale.

26 V. Cass. 21 maggio 2010, n. 12554. La giurisprudenza di merito (CTR Lombardia, sent. 1° febbraio 2011 n. 16) ha ritenuto necessaria l’esibizione in sede processuale del p.v.c. della Guardia di Finanza al quale rinviava per relationem l’avviso di accertamento, del cui contenuto, altrimenti, non se ne può, dunque, tener conto. Ciò vale anche con riguar-do alla copia delle dichiarazioni rese sulla vicenda da terzi in sede di indagini penali, dalle quali dovrebbe desumersi (a dire dell’Ufficio) la frode fiscale cui avrebbe partecipato la società terza.

27 Le dichiarazioni del terzo raccolte dalla polizia tributaria e trasfuse nel processo ver-bale di constatazione, nel concorso di particolari circostanze, ed in particolare qualora ab-biano valore confessorio, possono costituire una prova presuntiva, ai sensi dell’art. 2729 c.c., idonea da sola ad essere posta a fondamento e motivazione dell’avviso di accertamen-to in rettifica, da parte dell’amministrazione finanziaria (Cass. 5 maggio 2011, n. 9876).

28 Nella sentenza della Cass. 24 maggio 2005, n. 10945, è affermato che nessuna auto-matica autorità di cosa giudicata può più attribuirsi nel separato giudizio tributario alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati tri-butari, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente. Pertanto, il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza definitiva in materia di reati tributari, estendendone automaticamente gli effetti con riguardo all’azione accertatri-

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do la regole proprie della distribuzione dell’onere della prova nel giudizio tributario.

Tali ulteriori elementi rilevanti per l’A.F. determinano un ampliamento degli strumenti probatori che si riflette sull’equa ripartizione dell’onere della prova con conseguente disparità di trattamento nei confronti del cessiona-rio che dovrebbe a sua volta, in relazione alle dichiarazioni di terzi in fase procedurale e processuale, poter dimostrare la inconsapevolezza e la estra-neità alla frode derivante dal fatto che non sapeva e non avrebbe potuto sa-pere dell’esistenza del meccanismo di frode. Su tale punto risultano interes-santi le considerazioni svolte dalla giurisprudenza della Cassazione sulla in-colpevole ignoranza riconducibile alla situazione giuridica oggettiva che ver-ranno successivamente esaminate nel par. 5.

Uno dei pochi elementi giuridicamente certi in tale contesto è rappre-sentato come esaminato dalla antieconomicità (acquisto sottocosto) previ-sta dall’art. 60 bis, D.P.R. n. 600/1973 che, oltre ad avallare la consapevolez-za del cessionario (Cass. n. 867/2001) attraverso presunzione legale relati-va, inverte l’onere della prova su tale ultimo soggetto passivo il quale dovrà dimostrare l’estraneità alla frode carosello, provando che i prezzi indicati a corrispettivo delle cessioni effettuate nei suoi confronti, non contestati, non erano inferiori al valore normale di mercato.

Infine, mentre non sempre è considerata rilevante, ai fini della inconsa-pevolezza e della mancanza di falsità ideologica del cessionario su cui è ri-baltato l’onere della prova, la dimostrazione dell’effettività dell’operazione attraverso la prova della sussistenza di rapporti economici tra le società de-sumibile dal ricevimento o della consegna della merce e dal versamento del corrispettivo

29, è ritenuto sufficiente ai fini dell’affidamento e dunque del ce del singolo ufficio tributario, ma, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazio-ne della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c.), deve, in ogni caso, verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui esso è destinato ad operare.

29 Con. sent. n. 6620 del 19 marzo 2009, la Corte di Cassazione ha considerato la rile-vanza della buona fede sganciata dalla dimostrazione della reale effettuazione delle opera-zioni. In tal senso Cass. 24 luglio 2009, n. 17377 ove tali elementi sono considerati incon-cludenti e 30 gennaio 2007, n. 1950. In quest’ultima sentenza venivano richiesti riscontri precisi sul proprio stato soggettivo in ordine all’altruità della fatturazione che non si esau-riscano nella prova dell’avvenuta consegna della merce e del pagamento dell’IVA.

Viene affermato dalla Cassazione in tali sentenze che il cessionario ha l’onere di prova-re di non avere avuto consapevolezza della falsità ideologica della fattura rilasciata a fronte dell’operazione e tale prova non può essere validamente fornita soltanto dimostrando che la merce è stata effettivamente ricevuta e ne è stato versato il corrispettivo, trattandosi di

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mancato coinvolgimento questa volta del cedente nella frode IVA posta in essere dal cessionario, l’emissione di apposita “dichiarazione d’intento” da parte dell’esportatore (art. 1, comma 1, lett. c) delle cessioni effettuate nei confronti degli esportatori abituali (c.d. esportazioni indirette), prevista dall’art. 8, comma 1, lett. c), D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.

Il soggetto cedente, una volta riscontratane la conformità alle disposi-zioni di legge, non è infatti tenuto ad eseguire alcun altro controllo, rima-nendo totalmente a carico di chi emette tale dichiarazione la responsabili-tà, anche penale, derivante da un’eventuale falsità. Ne consegue che, quando la dichiarazione stessa esista e non sia ideologicamente falsa o, comunque, il cedente non sia consapevole di tale falsità (cioè non abbia la consapevolezza che l’operazione non è destinata realmente all’esportazio-ne, ma ha una destinazione nazionale), l’operazione deve ritenersi non imponibile, a prescindere dalla prova dell’effettiva avvenuta esportazione della merce

30.

circostanze non concludenti, la prima in quanto insita nella stessa nozione di operazione soggettivamente inesistente e la seconda perché relativa ad un dato di fatto inidoneo di per sé a dimostrare l’estraneità alla frode.

È stato in oltre affermato che il meccanismo dell’operazione e gli scopi che la stessa si propone (acquisizione di materiali a prezzi più contenuti al fine di praticare prezzi di ven-dita più bassi, con alterazione a proprio favore del libero mercato) fanno presumere la pie-na conoscenza della frode e la consapevole partecipazione all’accordo simulatorio del be-neficiario finale, con la conseguenza che, in applicazione del relativo principio sancito dal-l’art. 17 della Direttiva 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, l’IVA assolta dal medesimo bene-ficiario nelle operazioni commerciali con la società filtro non è detraibile ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, anche se le predette operazioni siano state effettiva-mente compiute e le relative fatture, al pari dell’intera documentazione contabile, sembri-no perfettamente regolari (si veda anche Cass. n. 867/2010 e n. 30055/2008). V. in tal senso anche Cass. 29 luglio 2011, n. 16663.

30 V. Cass. 27 ottobre 2010, n. 21956. Sulla dichiarazione si è affermato (CTP Treviso, sent. n. 142/2006) che il “soggetto dichiarante”, titolare di impresa commerciale, è perso-nalmente ed esclusivamente responsabile di quanto dichiara in relazione al possesso dei requisiti soggetti e oggettivi per poter usufruire della non imponibilità iva sui beni destinati all’esportazione; “lettere di intento”, non veridiche o mendaci, che attestino lo “status” di “esportatore abituale”, escludono, comunque, anche in via di coobbligazione solidale, qualsiasi ipotesi di recupero Iva da parte dell’Amministrazione finanziaria in capo al ce-dente, tenuto al solo controllo delle procedure formali, amministrative, cartolari delle di-chiarazioni stesse e non già alla verifica della sussistenza o meno dei presupposti che legit-timano il contenuto dei documenti ricevuti.

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4. Ripartizione dell’onere della prova

Per quanto riguarda il profilo della ripartizione dell’onere probatorio è opportuno evidenziare che, attraverso una recente evoluzione giurispruden-ziale, è stato affermato che «grava previamente sull’amministrazione l’onere di fornire validi elementi di prova a sostegno dell’affermazione che le opera-zioni, oggetto delle esposte fatture, in realtà non sono mai state poste in es-sere» (v. Cass. 7 febbraio 2008, n. 2847 e 25 marzo 2011, n. 6943). Solo ove l’amministrazione (e solo in questo caso) fornisca validi elementi e si basi su deduzioni logiche dotate di ragionevole probabilità, il contribuente sarebbe onerato di fornire la prova contraria

31. Inoltre, come è stato anche chiarito ai fini delle imposte dirette dalla re-

cente giurisprudenza che verrà di seguito esaminata «il committente/ces-sionario conserva il diritto alla deduzione dell’imposta pagata qualora dalle circostanze del caso risulti che egli non sapeva e non poteva sapere di parte-cipare con il proprio acquisto ad un’operazione che si iscriveva in frode al-l’imposta

32. Pertanto, si afferma in tal modo un principio fondamentale in base al

quale sul cessionario inconsapevole non incombe l’onere della prova e non spetta compiere controlli (che oltretutto fuoriescono dalla sua capacità

33), sulla presunta identità di società cartiera salvo qualora siano forniti validi elementi probatori da parte dell’A.F., ed in tal caso è possibile dimostrare la mancanza di negligenza e la incolpevole ignoranza.

Laddove dunque l’ufficio finanziario, a seguito di una verifica di carattere generico riguardante una società, riscontri l’emissione, da parte di quest’ul-

31 Più precisamente, è stato evidenziato che «in materia di IVA, in ipotesi di fatture che l’Amministrazione ritenga relative ad operazioni inesistenti, grava su di essa l’onere di pro-vare che le operazioni, oggetto delle fatture, in realtà non sono state mai poste in essere. Ma, se l’amministrazione fornisca validi elementi – alla stregua del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 2 – per affermare che alcune fatture sono state emesse per opera-zioni (anche solo parzialmente) fittizie, passerà sul contribuente (solo in tal caso) l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate …» Cass., sez. trib., 24 luglio 2009, n. 17377, 4 febbraio 2011, n. 2692; v. Cass. 25 marzo 2011, n. 6943.

32 Corte di Giustizia CE 6 luglio 2006, causa C-439/04 e12 gennaio 2006, causa C-354/03. V. Cass. 24 luglio 2009, n. 17377.

33 DORIGO, op. cit., 1256. MARELLO, Oggettività dell’operazione iva e buona fede, in Riv. dir. fin., 2008, III, p. 31, osserva che «Non può essere richiesto un costante monitoraggio da parte del cessionario della posizione iva della controparte. L’indagine sulla solvibilità ha dimensioni tautologica ed è indice dell’avvenuto giudizio prognostico normalmente effet-tuato».

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tima e nei confronti di altra, di fatture relative ad operazioni soggettivamen-te inesistenti con conseguente avviso di accertamento, l’onere della prova grava sulla stessa amministrazione. Pertanto, la produzione del solo p.v.c. senza altre argomentazioni probatorie non dovrebbe ritenersi sufficiente a dimostrare, né la frode carosello, né la partecipazione di una società filtro alla frode stessa

34. Inoltre è stato evidenziato che l’A.F. non può limitarsi ad una generale ed

apodittica non accettazione della documentazione del contribuente, essen-do suo onere quello di indicare specificamente gli elementi, anche indiziari, sui quali si fonda la contestazione mossa ed il giudice di merito deve pren-dere in considerazione tali elementi, senza limitarsi a dichiarare che essi esi-stono e sono tali da dimostrare la falsità delle fatture

35. Più precisamente «spetta all’Amministrazione finanziaria che adduce la falsità delle fatture la prova dell’inesistenza dell’operazione commerciale da cui deriva l’emissione delle fatture stesse»

36.

5. Tutela dell’affidamento ed impossibile valutazione dell’elemento psicologi-co che caratterizza la consapevolezza

La svolta in materia di accertamento delle frodi carosello e soprattutto nei confronti delle c.d. società filtro è avvenuta ad opera della giurispruden-za della Corte di Giustizia UE quale organo in grado di interpretare autenti-camente la VI Direttiva IVA nella sentenza Optigen (cause C-354/03 e C-355/03 del 12 gennaio 2006), ove è stato affermato in casi analoghi che «Il diritto di un soggetto passivo che effettua simili operazioni di dedurre l’im-posta sul valore aggiunto pagata a monte non è pregiudicato dal fatto che, nella catena di cessioni in cui si inscrivono tali operazioni, senza che il me-desimo soggetto passivo lo sappia o lo possa sapere, un’altra operazione, precedente o successiva a quella realizzata da quest’ultimo, sia inficiata da frode all’imposta sul valore aggiunto» 37. Il diritto di detrazione dell’IVA da parte del soggetto passivo viene garantito dalla neutralità e della certezza del

34 CTR Venezia, sez. XXIV, 19 febbraio 2010, n. 1419. 35 Cass., sez. trib., 19 ottobre 2007, n. 21953; Cass. 26 gennaio 2007, n. 1727. 36 Cass., sez. trib., 19 ottobre 2007, n. 21953; Cass. 19 ottobre 2007, n. 21953 e 21

maggio 2010, n. 12554. 37 DE GIROLAMO, L’evoluzione della giurisprudenza comunitaria in tema di responsabilità

del cessionario nelle frodi iva, cit., p. 4571.

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diritto 38 indipendentemente dalla conoscenza o conoscibilità da parte del

soggetto operatore che entra nella catena di cessioni, dell’esistenza della na-tura fraudolenta di un’altra operazione precedente

39. La stessa Corte, con la successiva sentenza del 6 luglio 2006 (casi Axel

Kittel Computime e Recolta Recycling cause riunite C-439/04 e C-440/04), dopo aver chiarito che il diritto alla detrazione IVA non può essere soggetto a limitazioni, ha ribadito tale concetto ed ha precisato (al p. 51) che: «gli operatori che adottano tutte le misure che si possono loro ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che le loro operazioni non facciano parte di una frode, che si tratti di frode all’IVA o di altre frodi, devono poter fare af-fidamento sulla liceità di tali operazioni senza rischiare di perdere il proprio diritto alla deduzione dell’IVA pagata a monte»

40. Spetta in ogni caso secondo la Corte di Giustizia UE al giudice nazionale

negare il beneficio del diritto alla deduzione qualora risulti acclarato, alla lu-ce degli elementi oggettivi, che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con il proprio acquisto partecipava ad un’operazione che si iscri-veva in una frode all’IVA.

La irrilevanza dell’elemento soggettivo ai fini della tutela dell’affidamen-to è stata ulteriormente chiarita nella sentenza Teleos, causa C-409/04 del 27 settembre 2007

41 laddove è stato riscontrato che l’obbligo dell’A.F. di

38 Sarebbe secondo la Corte di Giustizia in contrasto con gli obiettivi di certezza del di-ritto e di neutralità dell’IVA, l’obbligo dell’amministrazione fiscale, allorché deve accertare se una data operazione costituisca una cessione effettuata da un soggetto passivo che agi-sce in quanto tale e un’attività economica, di tenere conto dell’intenzione di un operatore diverso dal soggetto passivo di cui trattasi, che intervenga nella stessa catena di cessioni e/o dell’eventuale natura fraudolenta, della quale il detto soggetto passivo non aveva e non poteva avere conoscenza, di un’altra operazione facente parte di tale catena, precedente o successiva all’operazione compiuta dal detto soggetto passivo.

39 MARELLO, Prove impossibili e repressioni nelle frodi IVA …, in Giust. trib., 2009, ID., Oggettività dell’operazione IVA e buona fede del soggetto passivo, cit., p. 26, rileva un muta-mento della Corte di Giustizia con le sentenze Optigen e Axel Teleos in quanto il diritto di detrazione non è più collegato esclusivamente al verificarsi degli elementi oggettivi (che non scompaiono ma non sono più sufficienti) ma anche all’assenza di conoscibilità di una frode (quale elemento soggettivo).

40 V. anche sent. C-384/04 del 11 maggio 2006. 41 Nella sent. Teleos la Corte precisa inoltre che è necessario che sia provata dal sogget-

to coinvolto nella frode carosello la mancata partecipazione alla frode e che siano state adottate tutte le misure ragionevoli in suo potere per potersi assicurare che la cessione non implicasse la partecipazione alla frode IVA. Secondo una giurisprudenza della Corte appli-cabile in via analogica alla causa principale, inoltre si ritiene che ciò non sarebbe contrario al diritto (v., quanto alla frode di tipo «carrousel», le citate sentenze Federation of Techno-

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effettuare indagini per accertare la volontà del soggetto passivo, sarebbe con-trario agli scopi del sistema comune dell’IVA che attribuisce rilevanza alla natura oggettiva dell’operazione di cui trattasi.

Anche nella sentenza della Corte di Giustizia Netto Supermarkt 42 si pone

l’attenzione sulla rilevanza probatoria in relazione alla diversa fattispecie del riconoscimento dell’esenzione IVA affermando che «il soggetto passivo po-terebbe non rendersene conto del comportamento fraudolento posto in esse-re da altro soggetto, anche utilizzando tutta la diligenza di un commerciante avveduto, a seguito della falsificazione della prova dell’esportazione presenta-ta dall’acquirente». In tal modo, se pur in relazione ad una precisa fattispecie, tuttavia è messo in crisi il riconoscimento anche della natura oggettiva dell’af-fidamento che in alcuni casi non può trovare riscontri probatori indiziari con-creti.

Con queste ultime decisioni la Corte ha comunque il merito di riporta-re nell’ambito della ordinaria diligenza la buona fede e la tutela dell’affida-mento ed attribuisce rilevanza assoluta ad alcuni principi fondamentali come quello della proporzionalità collegata all’onere probatorio ricadente sul soggetto passivo e della neutralità dell’IVA

43 che hanno sempre garan-

logical Industries e a., punto 33, nonché Kittel e Recolta Recycling, punto 51). V. MONDINI, Falso materiale ed ideologico nelle frod Iva, in Rass. trib., 2008.

42 Il caso C-271/06 del 21 febbraio 2008, in Rass. trib., 2008, p. 1810, riguardava il rim-borso dell’IVA versata dai viaggiatori non residenti a seguito di presentazione di un modu-lo predisposto dall’ufficio doganale e l’eventuale responsabilità del fornitore in caso di fal-sità dei documenti utilizzati. La corte afferma che un fornitore deve poter fare affidamento nella legittimità dell’operazione che effettua senza rischiare di perdere il suo diritto all’e-senzione dall’IVA qualora, come nella causa principale, sia impossibilitato di rendersi con-to, pur facendo prova di tutta la diligenza di un commerciante avveduto, che in realtà non erano soddisfatte le condizioni per l’esenzione, a causa della falsificazione della prova del-l’esportazione presentata dall’acquirente. Secondo MONDINI, Falso materiale …, cit., p. 1811 la correttezza e la diligenza si verificano quando la ignoranza del contribuente sia incolpe-vole e non imputabile a negligenza nella misura in cui avrebbe potuto rendersene conto adottando le normali precauzioni ragionevolmente esigibili nei confronti di un operatore commerciale.

43 La Corte di Giustizia (sent. C-439/04 del 2006) ha affermato, in applicazione del-l’art. 17 della VI Direttiva 77/ 388/CEE del 17 maggio 1977 in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sul fatturato, che disciplina il di-ritto alla deduzione dell’imposta, che: il diritto alla deduzione previsto dal citato art. 17 della VI Direttiva costituisce parte integrante del meccanismo dell’iva e, in linea di princi-pio, non può essere soggetto a limitazioni, essendo inteso a sgravare l’imprenditore dall’o-nere dell’iva dovuta o pagata nell’esercizio della sua attività economica, in applicazione del principio della c.d. neutralità dell’imposta.

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tito a livello UE la detraibilità di tale imposta 44.

Tuttavia restano problemi ancora irrisolti riguardanti la individuazione ai fini probatori di un comportamento diligente da parte di soggetti terzi ri-spetto all’autore della frode come il cessionario IVA che non può che deri-vare come esaminato (al par. 3), da riscontri immediati riguardanti le moda-lità di esecuzione dell’operazione o transazione commerciale posta in essere e soprattutto dalla struttura e dall’organizzazione della società cedente. Ciò risulta coerente con altro orientamento della stessa giurisprudenza comuni-taria, secondo il quale in materia fiscale non può essere addossato sul con-tribuente un onere probatorio eccessivamente gravoso riguardo la propria inconsapevolezza

45, essendo necessario adottare le normali precauzioni al

Parte della dottrina (DE GIROLAMO, op. cit., p. 4572), osserva che l’estensione della re-sponsabilità per la frode oltre chi l’ha promossa che può giungere a coinvolgere coloro che hanno partecipato attraverso una serie di stati soggettivi come l’ignoranza fino alla conni-venza (che implica la consapevolezza e la realizzazione di un vantaggio) trovano un osta-colo insormontabile nel principio di neutralità.

Secondo altra parte (BEGHIN, Le frodi Iva e il malleabile principio di neutralità, in Corrie-re tributario, 19, 2010, p. 1511) invece, garantire la neutralità in sede di accertamento non vuol dire “non accertare” o, quel che è peggio, rinunciare al potere di accertamento. Ga-rantire la neutralità significa, invece, adottare schemi operativi conformi all’impianto gene-rale del tributo così come desumibile dal D.P.R. n. 633/1972. La soluzione standard che il legislatore individua per le situazioni di frode caratterizzate da formali venditori che non versano l’IVA e da sostanziali acquirenti che pretendono di detrarla non è affatto quella dell’indetraibilità dell’imposta assolta sugli acquisti, bensì quella della riscossione coattiva dell’imposta non versata sulle vendite.

44 Infatti, il diritto a deduzione previsto dagli artt. 17 ss. della VI Direttiva costituisce parte integrante del meccanismo dell’IVA e, in linea di principio, non può essere soggetto a limitazioni. Tale diritto va esercitato immediatamente per tutte le imposte che hanno gravato sulle operazioni effettuate a monte (v., in particolare, sentt. 6 luglio 1995, causa C-62/93, BP Soupergaz, Racc. I-1883, punto 18, e 21 marzo 2000, cause riunite da C-110/98 a C-147/98, Gabalfrisa e a., Racc. I-1577, punto 43). Il sistema delle deduzioni è inteso a sgravare interamente l’imprenditore dall’onere dell’IVA dovuta o pagata nel-l’ambito di tutte le sue attività economiche. Il sistema comune dell’IVA garantisce, in tal modo, la neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipenden-temente dallo scopo o dai risultati delle dette attività, purché queste siano, in linea di principio, di per sé soggette all’IVA (v., in particolare, sentt. 22 febbraio 2001, causa C-408/98, Abbey National, Racc. I-1361, punto 24, e 21 aprile 2005, causa C-25/03, HE, Racc. I-3123, punto 70).

45 La Corte di Giustizia ha affermato infatti più di una volta un principio fondamentale di salvaguardia del diritto alla prova in materia tributaria stabilendo che non può essere escluso a priori che il contribuente sia in grado di produrre validi documenti probatori che consentono allo stato una verifica in chiara e precisa (caso Baxter del 1999 C-254/97) e che una normativa nazionale non può escludere automaticamente un vantaggio fiscale

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fine di garantire a tale soggetto di svolgere la propria attività 46.

I precedenti orientamenti della nostra Cassazione non avevano prima degli interventi della Corte di Giustizia, considerato la tutela dell’affidamen-to a garanzia del cessionario IVA ai fini della sua estraneità alla frode e dun-que la inconsapevolezza di quest’ultimo come limite al disconoscimento della detrazione IVA

47. La congruità del prezzo pagato dal cessionario (con-siderata nel nostro ordinamento dall’art. 60 bis, cit.) costituisce in ogni caso una delle prove liberatorie per il cessionario che non consentono di disco-noscere la detraibilità IVA.

La Corte di Giustizia sembra attribuire rilevanza in tali casi all’esigenza di preservare il principio del legittimo affidamento in senso oggettivo basato sulla mancanza di consapevolezza e dell’effettiva conoscenza da parte del cessionario

48 dell’attività fraudolenta svolta da altro soggetto la cui esistenza non può pregiudicare diritti e garanzie di quest’ultimo. Diversa è comunque in tali casi la sfera applicativa del principio di affidamento e di buona fede al quale la giurisprudenza europea fa riferimento e che non riguarda più solo atti dell’A.F., norme e giurisprudenza sui quali riporre fiducia, ma per i sog-getti passivi IVA può essere rappresentata dal comportamento non anomalo o meglio dalla correttezza dell’attività svolta precedentemente dal cedente venditore attraverso l’utilizzo di tutte le misure ragionevoli in suo potere. Tali misure sono ovviamente valutabili e dunque proporzionate alla normativa in vigore. In alcuni casi è sufficiente come esaminato la dichiarazione di in-tento presentata al cedente dal cessionario che effettua esportazioni

49. Ciò dimostra la rilevanza e la portata espansiva di tale principio in materia tribu-taria.

La Corte Suprema di Cassazione e quella di merito 50 si sono finalmente

senza alcuna possibilità per il contribuente di dimostrare la sussistenza dei requisiti (caso Persche del 2009, causa C-318/07, p. 72).

46 V. Conclusioni Avv. Gen. Corte di Giustizia al caso C-384/04 del 7 dicembre 2005. 47 LOGOZZO, op. cit., p. 311. 48 La dimensione comunitaria dell’affidamento coinvolge solitamente interessi (ma non

solo) economici e finanziari come la lotta all’evasione e all’elusione fiscale compatibili con gli obiettivi del Trattato e determina un difficile bilanciamento con le garanzie del contribuente. G. TESAURO, Diritto comunitario, Padova, 2008, p. 130; LORELLO, La tutela del legittimo affi-damento tra diritto interno e comunitario, cit., p. 196.

49 V. retro par. 3. 50 Anche la giurisprudenza di merito (CTR Reggio Emilia, 10 giugno 2009, n. 117 e

CTR Puglia, 23 febbraio 2010, n. 37) evidenzia la importanza della consapevolezza del cessionario ai fini del coinvolgimento del cessionario, riprendendo le argomentazioni della

2.

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uniformate a tale orientamento riconoscendo che «l’acquisto di merci reim-portate con regolare corresponsione dell’IVA, non comporta una necessaria consapevole partecipazione da parte dell’acquirente all’evasione IVA po-sta in essere dalla venditrice»

51 ed il contribuente ha l’onere di dimostrare la sua incolpevole ignoranza di aver partecipato alla frode

52. È pertanto ne-cessaria una verifica degli elementi volti a dimostrare che il contribuente non conosceva, né era in grado di conoscere la provenienza fittizia delle fatture

53. Esistono tuttavia diversi modi di concepire la consapevolezza o il ricono-

scimento di essa da parte della nostra giurisprudenza. La Corte Suprema ha attribuito particolare rilevanza ad un elemento fondamentale che riguarda la sfera soggettiva e rilevabile in sede penale come quello della “connivenza” o collusione

54 nella frode carosello del cessionario. Tuttavia, nelle più recenti pronunce ha affermato che ciò dovrà tuttavia essere dimostrata dall’ufficio non necessariamente con prova certa, bensì con presunzioni semplici ma che siano gravi, precise e concordanti

55. Corte di Giustizia UE (cause C-439/2004, C-440/2004, C-354/2003 e C-355/2003), sta-tuisce che, «per negare al soggetto acquirente il beneficio della deduzione dell’I.V.A. assol-ta a monte per rivalsa sugli acquisti, occorre che risulti acclarato che la cessione sia stata effettuata nei confronti di un soggetto passivo che sapesse o avrebbe dovuto sapere di parteci-pare, con il proprio acquisto, ad un’operazione che si iscriveva in una frode all’imposta sul valore aggiunto. E che appare necessario nelle controversie relative ad operazioni ritenute soggettivamente inesistenti, da parte dell’Amministrazione finanziaria fornire la prova concreta circa la c.d. malafede e la presunta connivenza tra i soggetti ritenuti artefici del comportamento (prova insussistente nel caso di specie) illecito e consistente nelle opera-zioni poi contestate dal fisco. V. CTR Napoli, sez. Salerno, sez. II, del 22 gennaio 2009, n. 47 ove si evidenzia l’elemento soggettivo ossia la malafede o connivenza come prove con-crete dell’A.F.

51 Cass. 13 marzo 2009, n. 6124. 52 Cass. 21 gennaio 2011, n. 1364. 53 Cfr. Cass. 24 luglio 2009, n. 17387 e 20 gennaio 2010, n. 867 ove, con riferimento

all’acquisto a prezzi ridotti rispetto a quelli di mercato, la Corte Suprema considera tali elementi idonei ad avallare la presunzione della conoscenza della frode e la consapevole partecipazione del cessionario. V. BASILAVECCHIA, Sulla prova della responsabilità del ces-sionario nelle frodi IVA, in Corr. trib., 2007, p. 1625.

54 Nella sentenza della Cass. n. 17377/2009 riguardante la deducibilità delle spese (v. par. 6) si fa riferimento alla collusione con gli altri soggetti dell’operazione e si richiede ne-cessaria una indagine appropriata sulla inesistenza soggettiva con riguardo alla non consa-pevolezza del cessionario. Si impone un certo grado di collaborazione al fine della repres-sione del fenomeno delle frodi gravando il contribuente dell’onere di dimostrare la sua estraneità.

55 V. Cass. 12 maggio 2011, n. 10417. Si è ravvisata la necessità di elementi oggettivi

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In altri casi la Cassazione (sentt. 21 gennaio 2011, n. 1364 e 11 aprile 2011, n. 8132), dopo aver alla luce della giurisprudenza comunitaria, condi-viso il riparto dell’onere probatorio tra contribuente e A.F.

56, e ritenuto che «il contribuente committente-cessionario, al quale sia contestata la detra-zione dell’IVA, anche se pagata, relativa ad operazioni soggettivamente ine-sistenti, ha l’onere di conoscere che il venditore-prestatore è autore di un’operazione in frode all’IVA e, se vuole vedersi riconosciuto il diritto di detrarre l’IVA, ha l’onere di dimostrare che è incolpevole la sua ignoranza di aver partecipato ad una operazione in frode dell’IVA», ha fornito anche al-cuni spunti interessati per valutare la buona fede del contribuente. È neces-saria infatti primo fra tutti, «la dimostrazione di non essersi trovato nella si-tuazione giuridica oggettiva di conoscibilità dell’oggetto della conoscenza da acquisire e la circostanza che quest’ultimo, in possesso di una capacità cognitiva adeguata, non fosse in grado di abbandonare lo stato di ignoranza del carattere fraudolento dell’operazione degli altri soggetti collegati all’ope-razione»

57. Si riconosce in tal modo che lo stato di ignoranza sulle attività del cedente è la situazione di normalità in cui versa il terzo soggetto passivo IVA cessionario che può, tuttavia, in alcuni casi essere abbandonata. Ma per verificare ciò è necessario dunque porre in stretta relazione la capacità co-gnitiva del contribuente (così come riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE) con le normali misure che si possono richiedere ra-gionevolmente a quest’ultimo per assicurare la sua estraneità alla frode e che

precisi che possono porre sull’avviso qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto sull’inesistenza sostanziale del contraente il quale la deve rilevare per il dovere di accortez-za e diligenza insito nell’esercizio di un’attività imprenditoriale qualificata.

Non sono inoltre mancati orientamenti di segno opposto volti a sminuire l’aspetto soggettivo e la rilevanza della consapevolezza da parte della stessa Cassazione che in alcu-ne occasioni precedenti aveva negato che ai fini della prova dell’interposizione fittizia fosse necessaria la dimostrazione di un accordo tra cessionario reale cedente e cartiera (sent. n. 15396 dell’11 giugno 2008). DORIGO, op. cit., 1255, osserva che in una simile situazioni si finisce per penalizzare il cessionario anche da un punto di vista probatorio. La possibilità di fornire una serie di elementi presuntivi e la inversione onere della prova rischiano di tra-sformarsi in probatio diabolica.

56 Per invertire l’onere della prova si ribadisce nella sent. n. 1364/2011 che è necessario che l’Amministrazione contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, in quanto relativa ad operazioni inesistenti, e fornisca attendibili riscontri indiziari sulla inesistenza delle operazioni fatturate.

57 Si precisa in proposito ciò nonostante il possesso della capacità cognitiva adeguata all’attività professionale svolta in occasione dell’operazione contestata e nonostante la sua esplicazione volta ad adottare un comportamento cognitivo idoneo.

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non possono che coincidere con gli strumenti giuridici 58. Alcuni dei più re-

centi orientamenti della Cassazione meritano pertanto particolare attenzio-ne in quanto sembrano in tal modo superare ogni (impossibile) valutazione riguardante lo stato psicologico soggettivo cognitivo del cessionario terzo che non sia riconducibile alla situazione giuridica. Non esistendo nel nostro ordinamento poteri di controllo attraverso cui un soggetto passivo da eser-citare nei confronti di altri soggetti passivi, l’onere che incombe sul primo non può che riferirsi ad elementi indiziari che in quanto tali possono solo generare sospetti sulla correttezza e genuinità delle altrui operazioni.

Deve in proposito precisarsi che non sempre tuttavia l’affidamento ri-guardante la partecipazione ad un reato è considerato dalla nostra giuri-sprudenza in senso oggettivo. Ciò risulta chiaramente in alcune sentenze (Cass. n. 29467/2008 e n. 30210/2010) ove, nonostante gli uffici, tendono a riconoscere automaticamente l’inesistenza soggettiva delle fatture emesse da contribuenti che hanno commesso una serie di violazioni fiscali (omessi versamenti, omessa dichiarazione) associate a comportamenti sospetti (ces-sazione dell’attività), colpendo poi il cessionario per l’indebita detrazione, è ritenuta necessaria una simulazione soggettiva, cioè che il fornitore della mer-ce sia differente da quello apparente risultante dal documento, non essendo pertanto sufficiente che quest’ultimo abbia omesso una serie di adempi-menti fiscali o che abbia cessato l’attività dopo poco tempo.

Conformemente a quanto affermato dalla giurisprudenza UE dovrebbe ritenersi non condivisibile la posizione della giurisprudenza della Cassazio-ne apparentemente più garantista, ma che ha interpretato talvolta restrittiva-mente il riferimento all’elemento soggettivo considerandolo un ampliamento dell’onere della prova a carico del contribuente (dunque a suo sfavore) il quale per invocare la detrazione IVA pur non avendone gli strumenti, deve fornire riscontri precisi in ordine al proprio stato soggettivo sull’altruità del-la fatturazione

59. Appare dunque che, qualora non venga considerato adeguatamente e

correttamente lo stato di consapevolezza del cessionario di partecipazione

58 Secondo la Cass. nella sent. n. 1364/2011: «Ogni vincolo di conoscere, anche quel-lo che appartiene alla specie dell’onere, è sottoposto ad un regime giuridico che si articola in due elementi strutturali: la situazione giuridica oggettiva di conoscibilità, nella quale il soggetto vincolato si deve trovare, ed il suo processo cognitivo, il quale a sua volta si artico-la nella capacità cognitiva del soggetto e nel suo comportamento volto ad acquisire la co-noscenza, o comportamento cognitivo».

59 V. Cass. 30 gennaio 2007, n. 1950 in Boll. trib., 2008, p. 511, con commento di Ce-rioni.

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alla frode sulla base di tali orientamenti, sia commessa da parte dell’Ammi-nistrazione Finanziaria, una grave violazione del principio di tutela dell’affi-damento da parte del contribuente. Tale affidamento non può privilegiare l’elemento o lo stato cognitivo psicologico dell’esistenza di frodi all’IVA in-tracomunitaria in quanto tale valutazione fuoriesce dalla sfera di verificabili-tà in materia tributaria (non penale) e finisce per basarsi unicamente su pre-sunzioni legali e semplici in mancanza di strumenti giuridici procedimentali e processuali idonei a tal fine (interrogatori, testimonianze orali, ecc.).

Si utilizzano dunque inevitabilmente dati oggettivi conoscibili attraverso misure ragionevoli ed immediatamente verificabili da parte del cessionario e dell’A.F. (comportamenti e situazioni sospette del cedente ad es. assenza di una struttura e di un’organizzazione idonea e vendita a valore notevolmente al di sotto di quello di mercato) per dimostrare la consapevolezza della fro-de carosello ed evitare che venga violato il principio di neutralità che preve-de il diritto di detrazione ex art. 19, D.P.R. n. 633 del 26 ottobre 1972

60.

6. Indeducibilità dei costi e illegittima estensione dell’art. 14, comma 4 bis, L. n. 537/1993 ai fini dell’indetraibilità dell’IVA

Problemi particolari si pongono qualora il disconoscimento della detra-zione IVA effettuata dal cessionario che ha acquistato beni da società cartie-re si estende ai costi e determina la ripresa a tassazione ai fini IRES di tali oneri legittimamente sostenuti, anche se documentati da fatture ai sensi dell’art. 21 del D.P.R. n. 633/1972 e regolarmente contabilizzati nel conto economico.

L’inesistenza soggettiva delle operazioni poste in essere in generale, come rilevato dalla giurisprudenza, comunque non dovrebbe inficiare il diritto alla deducibilità di tali costi. La sent. n. 19353/2006 della Suprema Corte ha af-fermato che a fronte di un dato soggettivamente falso, ma di operazioni fiscali realmente avvenute e, pertanto costi effettivamente effettuati, si deve ricono-scere la loro deducibilità se inerenti alla produzione del reddito nella misura in cui risultino contabilizzati ed imputati al conto dei profitti e delle perdite relativo all’esercizio di competenza. Con la sent. n. 15395/2008 la Cassazione

60 La norma stabilisce che «per la determinazione dell’imposta dovuta (…) è detraibi-le dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, il valore dell’imposta as-solta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione».

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ha anche affermato che l’inesistenza di una determinata operazione deve esse-re provata da parte dell’Amministrazione finanziaria, quale parte attrice so-stanziale del rapporto tributario. D’altra parte, si ritiene che, «anche i costi re-lativi ad operazioni soggettivamente inesistenti possono essere dedotti, pur-ché il contribuente ne dimostri l’effettiva sussistenza, l’ammontare e l’ineren-za ...» precisando altresì che la prova può «essere fornita anche con mezzi diversi dalle scritture contabili, purché costituenti elementi certi e precisi, come prescritto dal comma 4 dell’art. 75 d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917»

61. Relativamente alle sole frodi carosello è stata attribuita rilevanza alla

consapevolezza della falsità ideologica e ai riscontri precisi da parte del ces-sionario IVA sullo stato soggettivo di quest’ultimo riguardo l’altruità della fatturazione (Cass. n. 17377/2009). In tal modo la deducibilità dei costi non è più subordinata al requisito dell’inerenza (oggettiva) delle spese so-stenute all’attività compiuta, ma è condizionata alla verifica della sussistenza dell’“inerenza soggettiva”

62. Tale diversità di requisito, oltre a non essere giustificata, ripropone ai fini delle imposte dirette le stesse problematiche già esaminate con riferimento alla detraibilità IVA riguardanti l’esame della consapevolezza dal punto di vista soggettivo.

Norma di riferimento in tale contesto è la presunzione legale relativa in-trodotta dall’esaminato art. 14, comma 4 bis, L. 24 dicembre 1993, n. 537

63, in base alla quale non sarebbe consentita la deduzione dei costi e delle spese riconducibili a fatti qualificabili come reato. Attraverso l’interpretazione estensiva di tale norma tuttavia non si consentirebbe neanche il riconosci-

61 In tal senso Cass. 22 gennaio 2010, n. 1147 ove si precisa che l’abrogazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, comma 6, ad opera del D.P.R. 9 dicembre 1996, n. 695, art. 5, ha comportato (Cass. 11 febbraio 2009, n. 3305), un ampliamento del regime di prova dei costi da parte del contribuente (prova che può essere fornita anche con i mezzi diversi dalle scritture contabili purché; costituenti elementi certi e precisi, come prescritto dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, comma 4) – suppone che il contribuente dimostri l’effettiva sussistenza nonché l’ammontare e l’inerenza di quegli specifici costi.

62 V. LOVISOLO, op. cit., 420, evidenzia che la metamorfosi di tale principio di inerenza de-riva dall’idea che il soggetto che ha posto in essere l’operazione soggettivamente inesistente non può avvantaggiarsi deducendo i costi relativi all’operazione configurata come reato.

63 La norma stabilisce che «Nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, com-ma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Re-pubblica 22 dicembre 1986, n. 917 , non sono ammessi in deduzione i costi o le spese ri-conducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti co-stituzionalmente riconosciuti». V. MOSCATELLI, Considerazioni sui costi da illecito nella de-terminazione del reddito imponibile, in Riv. dir. trib., 2001, p. 1177.

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mento del credito IVA qualora sia rilevabile un illecito penale. Tale disposi-zione, introdotta con la L. 27 dicembre 2002, n. 289, rappresenta tuttavia una deroga alle regole sulla tassabilità dei proventi illeciti previste dai com-mi precedenti in quanto operante solo nel caso in cui gli stessi integrino gli estremi di un reato.

In pratica il legislatore, ferma restando l’imponibilità dei proventi deri-vanti da attività illecite, ha predisposto un doppio binario per i costi illeciti: la deducibilità, se riconducibile ad illeciti civili o amministrativi; la indedu-cibilità, nel caso di illeciti penalmente rilevanti.

Ciò determina alla luce dell’indipendenza dei procedimenti e dei proces-si (tributario e penale) una irragionevole disparità di trattamento fiscale tra soggetti responsabili di un illecito civile o amministrativo e i soggetti re-sponsabili di illeciti penali con profili di incostituzionalità ai sensi degli artt. 3, 53 Cost.

È tuttavia necessario chiarire che la norma operante nella sfera delle im-poste dirette e riguardante i soli reati, dovrebbe essere applicabile esclusi-vamente all’autore di tale tipologia di illecito e non nei confronti di altri soggetti (cessionari IVA) in virtù del principio della personalità che regola il diritto penale tributario, al fine di evitare che si determinino conseguenze che appaiono inaccettabili, quale il recupero a tassazione di costi sostenuti dalla persona che non ha posto in essere comportamenti riconducibili a fat-tispecie di reato. L’estensione interpretativa dell’art. 14, comma 4 bis a tali fattispecie operata dalla giurisprudenza determina il coinvolgimento auto-matico nelle operazioni fraudolente di soggetti terzi che non è accettabile.

Le contestazioni concernenti la rilevanza penale delle operazioni poste in essere riguardano molto spesso soltanto le società c.d. cartiere autrici del reato con le quali la cessionaria ha avuto rapporti economico-commerciali nella piena inconsapevolezza di partecipare a tali operazioni. Inoltre, la po-tenziale qualifica di reato non ancora accertata nel caso di procedimento pe-nale parallelo che sarebbe in grado di rendere applicabile l’art. 14, comma 4 bis, non è certo riferibile a soggetti terzi nei confronti dei quali talvolta esiste unicamente qualche elemento indiziario a disposizione dei verificatori come ad es. l’acquisto sottocosto di alcuni prodotti dalle società cartiere.

Non convincenti appaiono i tentativi 64 di anticipare l’applicazione del-

l’art. 14, comma 4 bis considerando l’illiceità al momento della trasmissione della notizia di reato al Pubblico Ministero. È evidente che tale orientamen-

64 In tal senso v. la posizione dell’Agenzia delle Entrate nella Circolare Min. del 26 set-tembre 2005, n. 42/E.

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to risulta, palesemente, in contrasto con l’art. 27 della Costituzione. Secon-do l’Amministrazione finanziaria, infatti, l’indeducibilità dei costi operereb-be prima ancora che la fattispecie penale venga accertata con sentenza di condanna, in aperto contrasto con il principio di presunzione di innocenza sancito dalla Costituzione

65. È inoltre inaccettabile il tentativo di estendere la portata dell’art. 14,

comma 4 bis citato per il riconoscimento dell’indetraibilità ai fini IVA. La disposizione richiamata, infatti, per volontà del legislatore, si applica esclusi-vamente alla «determinazione dei redditi di cui all’art. 6 co. 1 del T.U.I.R. di cui al DPR 22.12.1986 n. 917». Tra l’altro, l’esigenza degli Stati membri di dotarsi di appropriati strumenti preventivi e repressivi delle frodi IVA non può giungere, attraverso una interpretazione estensiva dell’art. 14, com-ma 4 bis, a forzare i principi fondamentali di funzionamento di un’altra im-posta come quello della neutralità garantita dal diritto alla detrazione del-l’IVA a livello comunitario

66. In tale ottica, il coinvolgimento di un operato-re in buona fede in una catena di cessioni, facenti parte di un carosello fisca-le, non consente all’Amministrazione di uno Stato di espellere dal campo di applicazione dell’imposta ai fini IVA l’operazione posta in essere dal sogget-to inconsapevole, né di negare a quest’ultimo il diritto alla detrazione del-l’imposta assolta a monte.

Inoltre, secondo una corretta interpretazione dell’art. 14, comma 4 bis costituzionalmente orientata, i costi riconducibili a reati sono indeducibili soltanto se concernono attività da cui derivano ricavi illeciti

67 e ciò nel caso del terzo cessionario IVA, appare spesso difficilmente dimostrabile.

La ratio sottesa all’art. 14, comma 4 bis è di evitare che i proventi di attivi-tà illegali (in primis corruttiva o concussiva) possano sfuggire alla tassazione proprio sul presupposto della loro illiceità. Per evitare questo rischio, e per

65 La questione di costituzionalità comma 4 bis dell’art. 14 della L. 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica) è stata esaminata con ord. della Corte cost., 2 marzo 2011, n. 73 con riferimento agli artt. 3, 27, comma 2, e 53 della Costituzione, la quale ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per «mancanza di autosufficienza» del-l’ordinanza di rimessione. Su tale ordinanza v. GIOVANNINI, Principi costituzionali e nozione di costo, in Rass. trib., 2011, p. 611, secondo il quale i costi riconducibili ad attività lecite possono conseguire rilievo fiscale. Tale prospettiva è corretta soltanto laddove il costo seb-bene riconducibile alla fattispecie di fonte penale, non trova in questa la sua causa specifica e non si distingue come suo elemento costitutivo. Sul tema v. MARCHESELLI, Indeducibilità dei costi illeciti, in Riv. dir. trib., 2009, p. 644.

66 In tal senso Corte di Giustizia 6 giugno 2006, cause riunite C-439/04 e C-440/04. 67 CTR Lombardia, sentt. nn. 102 e 103 del 15 novembre 2010.

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giuste ragioni erariali, venne introdotta dalla Finanziaria 2003 (con effetto dal 1° gennaio 2003) una norma che scongiurava questa eventualità, consi-derando indeducibili «i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato». Per dare coerenza interpretativa alla norma in e-same, si deve necessariamente concludere che l’indeducibilità si riferisca ai costi sostenuti in relazione alle stesse attività che sono diventate assoggetta-bili ad imposte dirette in quanto ricomprese nelle categorie di reddito previ-ste dall’art. 6 TUIR, a seguito dell’introduzione nel nostro ordinamento del comma 4 della stessa disposizione

68. In sostanza l’indeducibilità dei costi dovrebbe essere diretta conseguenza

ai sensi dell’art. 14, comma 4 della natura illecita dei redditi prodotti dal ces-sionario attraverso l’acquisto e la rivendita al dettaglio della merce e dunque non sarebbe accettabile l’applicazione disgiunta di tale norma rispetto a quella della tassazione dei proventi illeciti.

Non dovrebbe dunque essere applicabile tale disposizione anche ai casi in cui non è ancora accertato che i beni acquistati dalla cessionaria sono ri-conducibili ad un reato e che rappresentino in tal senso proventi illeciti, in quanto non è rilevabile la connivenza o l’elemento psicologico come la falsi-tà ideologica ai fini personali o il dolo specifico che costituiscono in tale ca-so i veri ed unici elementi che caratterizzano le attività per le quali il Legisla-tore ha inteso escludere la deducibilità dei relativi costi.

Una distinzione importante è quella che riguarda ancora una volta la sfe-ra penale delle imposte dirette rispetto all’IVA. Secondo i giudici di legitti-mità (Cass., sez. pen., n. 3210/2010 e n. 41444 del 14 novembre 2011) nel-l’ipotesi di fatture soggettivamente inesistenti, diversamente da quelle og-gettivamente inesistenti, il costo è effettivamente sostenuto in quanto l’ope-razione è realmente avvenuta. Il fatto che il cedente sia differente rispetto a quello indicato nel documento non è rilevante ai fini della deduzione del costo da parte del cessionario e non consente nei suoi confronti l’operatività dell’art. 14, comma 4, ma potrebbe esserlo, se supportato da adeguati ele-menti probatori, solo ai fini della detraibilità dell’IVA.

68 Questa interpretazione, oltre che coerente con i principi costituzionali, trova riscon-tro anche sul piano interpretativo. Infatti, vi è perfetta sovrapponibilità tra le due locuzioni utilizzate dal Legislatore nei due commi in quanto nel comma 4 (tassazione proventi illeci-ti), per individuare le attività che vanno ritenute tassabili si usa la locuzione «proventi de-rivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile penale o amministrativo». I-noltre la stessa che utilizza il Legislatore al comma 4 bis per individuare le attività in rela-zione alle quali scatta l’indeducibilità dei relativi costi, considera quelli riconducibili a fatti o attività qualificabili come reato.

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Roberto Cordeiro Guerra

I LIMITI ALLA POTESTÀ IMPOSITIVA ULTRATERRITORIALE

THE LIMITS TO EXTRATERRITORIAL EXERCISE OF TAXING POWER

Abstract Il tema dei limiti alla potestà degli stati di tassare fattispecie prive di ragionevole collegamento, oggettivo o soggettivo, con il territorio è da sempre oggetto di dibat-tito tra gli studiosi di diritto tributario internazionale. L’approccio classico distin-gue tra territorialità materiale (ambito nel quale si verificano i fatti presupposti del tributo) e formale (spazio entro il quale la legge tributaria ha effetto e può trovare attuazione) e sostiene che nessun limite si pone agli Stati sotto il primo profilo, os-sia quello dell’emanazione della norma, con conseguente libertà di ciascun ordi-namento di colpire presupposti privi di collegamento col territorio. Eventualmen-te, solo allorché lo Stato pretendesse di esercitare all’estero la propria potestà coer-citiva sorgerebbero problemi. Questa impostazione tradizionale merita di essere tuttavia ripensata alla luce di quegli orientamenti, maturati in diversi settori del di-ritto internazionale, secondo i quali possono prospettarsi limiti alla libertà degli Stati di regolare fenomeni privi di un sufficiente attacco, oggettivo o soggettivo, con l’ordinamento dal quale promana la disciplina. Nel campo del diritto tributa-rio, i criteri in grado di limitare la libertà degli Stati sotto il profilo della territorialità materiale potrebbero essere estrapolati dai connotati fondamentali della nozione di tributo, come desumibili dalle moderne costituzioni delle c.d. nazioni civili. Parole chiave: imposizione, extraterritorialità, limiti, ragionevole collegamento, diritto tributario, concetto di tributo In literature there has always been a great debate concerning the existence of limits to States’ taxing power on situations without a reasonable link (subjective or objective) with the territory. The traditional approach makes a distinction between material territoriality (i.e. territorial context where taxable objects are realised) and formal

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territoriality (i.e. territorial context where tax law applies and produces its effects): therefore, States are in principle free to impose taxes also on situations not linked with their jurisdiction. Problems will probably arise only when a State tries to start a forced tax collection in the territory of another State. Such approach needs to be revisited in the light of certain interpretative trends of pu-blic international law, according to which States are not free to regulate facts not sho-wing a genuine link, subjective or objective, with their national legal system. In tax law, the criteria capable of limiting States’ taxing power from the material territoriali-ty perspective need to be reconstructed from the fundamental characters of the concept of tax, as laid down in modern constitutions of the so-called civilized nations. Keywords: taxing power, extraterritoriality, limits, reasonable link, tax law, concept of tax

SOMMARIO: 1. La querelle sull’esistenza di limiti alla potestà impositiva sul piano del diritto internazionale: spunti critici all’impostazione tradizionale. – 2. Le teorie fondate sull’elaborazione dei “ragio-nevoli” criteri di collegamento idonei a giustificare il prelievo: opportunità di un loro inqua-dramento nell’ambito della dottrina in tema di giurisdizione extraterritoriale. – 3. Dottrina e giurisprudenza in tema di giurisdizione extraterritoriale. – 4. Esercizio dei poteri sovrani e ge-nuine connection. – 5. L’evoluzione del principio di territorialità in materia tributaria quale ri-flesso del mutamento della nozione di tributo. – 6. Il principio di territorialità quale corollario della funzione di ripartizione delle spese pubbliche propria del tributo: spunti sulla sua sussu-mibilità tra i c.d. principî generalmente riconosciuti delle nazioni civili.

1. La querelle sull’esistenza di limiti alla potestà impositiva sul piano del di-ritto internazionale: spunti critici all’impostazione tradizionale

Un tema da sempre dibattuto nel panorama del diritto tributario inter-nazionale è quello concernente la possibilità di individuare dei limiti, nel di-ritto internazionale, alla libertà dello Stato di decidere quali fattispecie sot-toporre al proprio potere impositivo

1. Si tratta, in sostanza, di chiedersi se lo

1 Sul problema dei limiti alla potestà impositiva sul piano del diritto internazionale: BAGGIO, Il principio di territorialità ed i limiti alla potestà tributaria, Milano, 2009, p. 45 ss.; BIZIOLI, Il processo di integrazione dei principi tributari nel rapporto tra ordinamento costitu-zionale, comunitario e ordinamento nazionale, Padova, 2008, p. 131; CORDEIRO GUERRA, I limiti territoriali alla definizione dei presupposti imponibili: a) sul piano del diritto internazio-

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Stato sia del tutto libero, potendo, perciò, estendere tale potere anche a si-tuazioni prive di qualsiasi collegamento con il proprio ordinamento, oppure se ciò risulti condizionato dal rispetto di regole vigenti, appunto, in ambito internazionale.

Per meglio affrontare la questione è utile tener presente la distinzione tra estensione (c.d. territorialità materiale) ed efficacia (c.d. territorialità forma-le) della legge nello spazio

2. Semplificando, si può dire che l’estensione ri-guarda l’ambito territoriale nel quale si verificano i fatti che la legge regola; mentre l’efficacia concerne lo spazio entro il quale la legge ha effetto, e per- nale, in CARPENTIERI-LUPI-STEVANATO, Il diritto tributario nei rapporti internazionali, Mila-no, 2003, p. 100 ss.; CROXATTO, L’imposizione delle imprese con attività internazionale, Pa-dova, 1965, p. 38 ss.; FRANSONI, La territorialità nel diritto tributario, Milano, 2004, p. 165 ss.; GARBARINO, Manuale di tassazione internazionale2, Milano, 2008, p. 10; GAFFURI, La tassazione dei redditi d’impresa prodotti all’estero. Principi generali, Milano, 2008, p. 330 ss.; TOSI-BAGGIO, Lineamenti di diritto tributario internazionale, Padova, 2011, p. 2 ss.

2 Sul principio di territorialità delle norme tributarie v. BAGGIO, Il principio di territoria-lità ed i limiti alla potestà tributaria, cit.; BISCARETTI DI RUFFÌA, (voce) Territorio dello Stato, in Enc. dir., vol. XLIV, Milano, 1992, p. 333 ss.; BISCOTTINI, Diritto amministrativo interna-zionale, in Trattato di diritto internazionale, diretto da Balladore Pallieri, Morelli e Quadri, sez. II, vol. VI, tomo II, La rilevanza degli atti amministrativi stranieri, Padova, 1966, p. 427 ss.; A. BERLIRI, Corso istituzionale di diritto tributario, Milano, 1985, p. 137 ss.; BÜHLER, Prinzipien des internationalen Steuerrechts. Ein systematischer Versuch, Amsterdam, 1964; CROXATTO, op. cit., p. 119 ss.; FRANSONI, La territorialità nel diritto tributario, cit.; GARBA-RINO, La tassazione del reddito transnazionale, Padova, 1990; GARELLI, Il diritto internazio-nale tributario, Torino, 1899; LÓPEZ ESPADAFOR, Fiscalidad internacional y territorialidad del tributo, Madrid, 1995, p. 70 ss.; LUPI, (voce) Territorialità del tributo, in Enc. giur., Ro-ma, vol. XXXI, 1994, p. 1 ss.; MANGANELLI, (voce) Territorialità dell’imposta, in Dig. disc. priv., sez. comm., vol. XV, Torino, 1998, p. 366 ss.; MARESCA, Conformità dei valori e rile-vanza del diritto pubblico straniero, Milano, 1990; MARTINO, (voce) Territorio, in Il Diritto – Enciclopedia giuridica, vol. 15, Milano, 2008, p. 612 ss.; MICHELI, Problemi attuali di dirit-to tributario nei rapporti internazionali, in Dir. prat. trib., vol. 36, n. 2, 1965, Parte I, p. 216 ss.; MICHELI, Profili critici in tema di potestà di imposizione, in Riv. dir. fin. sc. fin., vol. 23, n. 1/1964, p. 3 ss.; MICHELI, Corso di diritto tributario8, Torino, 1989, p. 69 ss.; PUOTI, Il prin-cipio di capacità contributiva nel pensiero di Gian Antonio Micheli, in Studi in memoria di Gian Antonio Michel, Napoli, 2010, p. 32 ss.; RUSSO, La territorialità, in SACCHETTO (a cura di), Principi di diritto tributario europeo e internazionale, Torino, 2011, p. 81 ss.; SACCHET-TO, Tutela all’estero di crediti tributari dello Stato, Padova, 1978; SACCHETTO, (voce) Terri-torialità (diritto tributario), in Enc. dir., vol. XLIV, Milano, 1992, p. 303 ss.; SACCHETTO, L’evoluzione del principio di territorialità e la crisi della tassazione mondiale nel Paese di residen-za, in Riv. dir. trib. int., vol. 5, n. 2/2001, p. 35 ss.; SCARLATA, (voce) Territorialità del tributo, in Il Diritto – Enciclopedia giuridica, vol. 15, Milano, 2008, p. 608 ss.; UCKMAR, La tassazione degli stranieri in Italia, Padova, 1955; UDINA, Diritto internazionale tributario, in Trattato di diritto internazionale, a cura di Fedozzi e Romano, vol. X, Padova, 1949; VOGEL, Der räumli-che Anwendungsbereichs der Verwaltungsrechts norm, Frankfurt am Main-Berlin, 1965, p. 2 ss.

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ciò può trovare attuazione attraverso l’esercizio, per quanto concerne la no-stra materia, dei penetranti poteri di accertamento ed esecuzione attribuiti dalle norme al soggetto attivo del tributo.

La problematica della sussistenza di un’eventuale delimitazione di diritto internazionale alla potestà legislativa tributaria nei confronti di quei presup-posti d’imposta privi di collegamento col territorio dello Stato si pone, per l’appunto, sul versante della territorialità materiale, attinente allo spazio nel quale si verificano i fatti regolati dalla legge, e dunque, nel campo del diritto tributario, la fattispecie impositiva. Sul piano, invece, della territorialità for-male (i.e. spazio nel quale la legge può trovare attuazione) è pacifica l’esi-stenza di limiti all’esercizio nel territorio altrui di poteri autoritativi finaliz-zati a dare esecuzione alla pretesa tributaria di altro ente sovrano, di talché gli aspetti problematici investono semmai la portata effettiva di tale divieto.

Volendo esemplificare, laddove venga tassato in Italia un reddito deri-vante da attività svolta all’estero da un soggetto residente, la legge domesti-ca si estende fino a sottoporre a prelievo un fatto (i.e. la produzione di un reddito) verificatosi oltreconfine. Ovviamente, in ipotesi di mancato adem-pimento spontaneo da parte del contribuente, la legge italiana potrà trovare concreta attuazione all’interno del territorio dello Stato tramite l’aggressio-ne, in via coattiva, dei beni appartenenti al soggetto passivo e ivi localizzati. Non sarà, invece, possibile, in omaggio al principio secondo il quale ciascu-no Stato non può pretendere di esercitare la propria sovranità nel territorio altrui, portare a esecuzione la propria pretesa fuori dai confini nazionali, e, dunque, aggredire eventuali cespiti, mobiliari o immobiliari, che il contri-buente possiede nello Stato estero di produzione del reddito, salvo l’esisten-za con il medesimo di accordi che esplicitamente lo consentano.

Orbene, la querelle sull’esistenza di limiti alla potestà normativa tributaria dello Stato è stata tradizionalmente impostata proprio prendendo le mosse dalla distinzione dei due profili menzionati, l’uno relativo alla posizione astrat-ta della norma e l’altro alla relativa concreta attuazione. Quanto al primo profi-lo (c.d. emanazione della legge tributaria), si è sostenuto che nessun limite sa-rebbe ravvisabile, con conseguente libertà di ciascun ordinamento di colpire presupposti d’imposta anche del tutto privi di collegamento col territorio del-lo Stato; eventualmente, solo con riguardo al secondo profilo (c.d. territoriali-tà formale) l’esercizio concreto extraterritoriale degli atti di esazione del tribu-to potrebbe dar luogo a una violazione del diritto internazionale

3.

3 Così CROXATTO, op. cit., p. 47, Su questa distinzione, v. altresì STEVE, Sulla tutela in-

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In altre parole, la norma tributaria recante la fattispecie impositiva rap-presenterebbe un programma di eventuali e future azioni (i.e. attuazione ol-tre i confini), il verificarsi delle quali soltanto potrebbe integrare la violazio-ne del diritto internazionale allorché lo Stato, in sede attuativa, pretendesse effettivamente di esplicare la propria potestà coercitiva nel territorio altrui.

Questa impostazione ha avuto senz’altro il pregio di discernere con ap-prezzabile rigore sistematico i differenti profili di rilevanza della questione; tuttavia, la conclusione alla quale perviene appare eccessivamente rigida.

L’idea che l’emanazione della norma impositiva non incontri alcun limite, infatti, riecheggia il pensiero secondo il quale la norma giuridica in generale è valida sempre e ovunque, potendo in linea di principio disciplinare fattispecie anche del tutto estranee a collegamenti materiali o personali con l’ordinamen-to dalla quale promana. Oggi, tuttavia, l’evoluzione della dogmatica nel campo del diritto internazionale mette in discussione questo assunto, quantomeno nei termini assoluti in cui è stato originariamente formulato.

Non solo. Ferma la distinzione concettuale dei due piani (emanazione e concreta attuazione della norma tributaria), è pure dubbio l’assioma secon-do il quale i problemi attinenti al profilo dell’attuazione non possono reflui-re sulla validità e/o legittimità di un precetto normativo.

In quest’ottica, ad esempio, parte della dottrina ha sostenuto che la non attuabilità nel territorio dello Stato di una norma tributaria che colpisse fat-tispecie prive di collegamento costituirebbe essa stessa motivo di contrarie-tà della disposizione al diritto internazionale.

Segnatamente, poiché esiste una norma di diritto internazionale secondo la quale uno Stato non può esercitare la propria potestà d’imperio nel terri-torio di un altro Stato sovrano

4, quella disposizione che colpisse fatti privi di collegamento oggettivo o soggettivo con l’ordinamento impositore richie-derebbe, per la sua attuazione, l’esercizio del potere di supremazia laddove risiede il titolare della manifestazione di forza economica gravata dal tributo o è localizzato il patrimonio aggredibile del soggetto passivo

5. Di conseguen- ternazionale della pretesa tributaria, in Riv. dir. fin. sc. fin., vol. 4, n. 3, 1940, Parte I, p. 246 ss.; A. BERLIRI, Principi di diritto tributario, Milano, 1952, p. 103; GIANNINI, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 1952, p. 39; GARBARINO, La tassazione del reddito transnazionale, cit., p. 103; SACCHETTO, (voce) Territorialità (diritto tributario), cit., p. 303 ss.; LUPI, op. cit., p. 1 ss.; MANGANELLI, op. cit., p. 366 ss.

4 Tale norma è pacificamente riconosciuta anche dalla migliore dottrina internazionali-stica. Per tutti, si veda la monografia di POCAR, L’esercizio non autorizzato del potere statale in territorio straniero, Padova, 1974.

5 Assai interessante, anche se non del tutto sviluppata nelle sue implicazioni, la posi-

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za, norme siffatte, proprio per essere insuscettibili di attuazione fuori dal ter-ritorio dello Stato, sarebbero semplici precetti politico-morali

6 o dichiarazioni a sfondo universalistico. Sempre in relazione a questa esigenza, si è di recente evidenziato che l’assenza di limiti territoriali alla definizione dei presupposti d’imposta provocherebbe arbitrio e incertezza nei rapporti tributari interna-zionali, poiché il tributo non potrebbe essere in via ordinaria attuato coatti-vamente e, quand’anche lo fosse, ciò avverrebbe in presenza di circostanze fortuite e casuali.

In effetti, stride con il concetto di ripartizione delle pubbliche spese, co-stituente la funzione tipica del tributo, l’idea che nello stesso momento in cui la norma è posta vi sia consapevolezza che esiste una categoria di sogget-ti nei confronti dei quali essa non potrà mai trovare attuazione, sicchè pro-prio il fine di riparto risulterebbe frustrato.

Norme del genere finirebbero per prestarsi a una duplice forma di di-scriminazione tra contribuenti. Sotto un primo aspetto, pur essendo sotto-posti a tassazione sia i soggetti rispetto ai quali sussiste una connessione con l’ordinamento impositore, sia quelli estranei, solo i primi sarebbero effetti-vamente gravati dal prelievo, dal momento che, nel caso di inadempimento, zione di UDINA, op. cit., p. 57 ss., ove si legge tra l’altro che «caratteristica essenziale della potestà d’impero è che i comandi in cui essa si concreta possono essere attuati, se occorre, coercitivamente. Ciò può avvenire entro certi limiti. Il primo e fondamentale tra questi li-miti è costituito dall’ambito territoriale proprio di ogni singolo Stato. Il territorio, infatti, oltre ad essere elemento essenziale per la stessa esistenza di ciascuno Stato, costituisce lo spazio entro il quale può esplicarsi la potestà d’impero insita nel rispettivo ordinamento giuridico. I comandi dello Stato possono dirigersi eccezionalmente anche oltre, o soltanto oltre, i limiti territoriali che gli sono propri quando essi, pur avendo tale destinazione ultra-territoriale, sono destinati comunque ad aver attuazione soltanto entro il territorio – e so-no congegnati a tal fine – oppure quando lo Stato estero liberamente consente, o è tenuto a consentire secondo ai principi del diritto internazionale generale, che essi abbiano attua-zione nel proprio territorio o anche in questo; diversamente, essi non sono più comandi giuridici, bensì dei semplici precetti politico morali, delle dichiarazioni a sfondo universali-stico, che non possono considerarsi espressione della potestà d’impero. Tutto ciò vale an-che e soprattutto per la potestà tributaria che è una delle più importanti manifestazioni della potestà d’impero statuale».

Secondo CROXATTO, op. cit., p. 46, nt. 99, da tali affermazioni potrebbe estrapolarsi la conclusione che Udina (nello scritto prima citato) ritiene che una norma possa disciplina-re fattispecie che si verificano all’estero solo se essa è destinata ad avere attuazione all’in-terno dello Stato e che la violazione di tale limite costituisca un illecito internazionale. In realtà, il punto centrale evidenziato dall’Autore sembra un altro, ossia quello che una nor-ma del genere, più che in contrasto con il diritto internazionale, non possederebbe i requi-siti di un comando giuridico quanto piuttosto quelli di una semplice esortazione.

6 Vedi il passo di UDINA, op. cit., p. 57 ss.

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il potere coercitivo sarebbe esercitabile pienamente nei loro confronti e solo casualmente rispetto all’altra categoria di contribuenti. Per questi ultimi, in sostanza, l’adempimento del tributo finirebbe per costituire una scelta vo-lontaria e non coercibile.

Da una diversa prospettiva d’osservazione, la possibilità di aggredire, tra i soggetti privi di connessione stabile con l’ordinamento, soltanto quelli che casualmente si trovassero, magari perché di passaggio nel territorio dello Stato, esposti all’esercizio del potere coercitivo dell’ente impositore, finireb-be per trasformare il tributo in una sorta di prelievo casuale sui soggetti più “sfortunati” o “sprovveduti”

7. Questa considerazione, in quanto legata a un profilo (i.e. quello attuati-

vo) della norma tradizionalmente sottovalutato nella nostra cultura giuridi-ca, potrebbe apparire tendenzialmente irrilevante in sede di astratta valuta-zione della conformità ai principî fondamentali di una disposizione di legge siffatta.

In realtà, in tali ipotesi la discriminazione non viene in considerazione quale mero “incidente di percorso” in sede di applicazione concreta della di-sposizione, ma come inevitabile conseguenza del suo modo d’essere, impu-tabile non ad inefficienze degli organi preposti all’accertamento, quanto di-rettamente al legislatore che l’ha concepita.

L’ordinamento tedesco, che esalta la natura distributiva del prelievo e, di conseguenza, il profilo dell’uguaglianza impositiva

8, ha compiuto un cam-

7 Così LUPI, op. cit., p. 3. 8 Come è noto, nell’ordinamento tedesco non esiste nella Costituzione Federale un’e-

splicita formulazione del principio di capacità contributiva analoga a quella contenuta nel nostro Paese nell’art. 53, comma 1, Cost., e, di conseguenza, le regole base dell’imposizio-ne sono state estrapolate e sviluppate sulla base del principio di uguaglianza. Significativo, in proposito, quanto si legge in JACOB-PALMISANO, Diritto tributario e diritto impositivo in Germania. Dialoghi con la dogmatica tedesca sulla Costituzione finanziaria federale ed il proce-dimento impositivo, Roma, 1994, p. 137: «Lo Stato impositivo odierno deve essere basato sull’uguaglianza dei carichi impositivi. Questo vale per la portata soggettiva dell’obbligo impositivo come per la scelta del suo oggetto, della base imponibile e dell’aliquota. La mi-sura dell’uguaglianza e della giustizia impositiva dovrebbe essere molto più significativa che in altri settori del diritto; mentre, per esempio, nel diritto civile o nel diritto penale una regola normativa può essere sentita come giusta in sostanza – per esempio la punibilità o l’obbligo del risarcimento – l’idea della legge d’imposta è per il cittadino spesso molto me-no comprensibile. Il pagamento di un’imposta di 10.000 marchi è perciò – diversamente rispetto al pagamento di una sanzione o di un risarcimento di 10.000 D.M. – solamente sopportabile e giusto se un contribuente comparabile è gravato di un uguale pagamento. Il diritto di imposta da questo punto di vista prende una posizione speciale nel contesto del diritto tributario, perché nel diritto delle tasse e dei contributi c’è una causa di imposizione

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mino evolutivo approdato a risultati particolarmente interessanti in relazio-ne a tale specifico aspetto. In particolare, la Corte costituzionale Federale tedesca (Bundesverfassungsgericht)

9, proprio sulla scia della dottrina in tema di uguaglianza impositiva, ha ritenuto contrarie al principio di uguaglianza alcune disposizioni emanate dal legislatore federale sulla tassazione degli in-teressi, in considerazione dell’impossibilità di un effettivo controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria circa l’attuazione di un prelievo siffatto. Di conseguenza, i giudici di Karlsruhe hanno esortato il legislatore federale ad adoperarsi al fine di una più efficace attuazione di tali disposizioni; monito a seguito del quale è stata introdotta una ritenuta alla fonte del 30% per tipo-logie di redditi in precedenza soggetti a un semplice obbligo di dichiarazio-ne facilmente eludibile

10. Tirando le fila delle precedenti osservazioni, ci sembra che la tesi secon-

do la quale la potestà normativa tributaria non incontrerebbe limiti spaziali di sorta, comportando, se del caso, solo problemi in sede di attuazione del prelievo, non risulti appagante sotto un duplice punto di vista.

In primo luogo, perché l’assunto iniziale (potestà impositiva priva di li-miti spaziali) costituisce affermazione da verificare alla luce dell’attuale modo d’essere del diritto e della comunità internazionale. In seconda battuta, per-ché neppure è certo che i problemi attuativi siano privi di riflessi sulla legit-timità della norma che li implica a regime. riconoscibile, rispettivamente la concessione di un vantaggio da un pubblico potere e l’imputabilità individuale di un costo pubblico. L’uguaglianza dei carichi impositivi è un’uguaglianza interna (Binnerngleichhneit): essa considera un singolo contribuente co-me uno tra tutti. Quest’uno non rileva in quanto singolo ma in quanto membro di un gruppo delimitato sulla base di elementi di caratterizzazione».

9 BVerfG 27.6.91., BStBl II, 1991, 654. 10 Ai nostri fini, particolarmente interessante è il passaggio della motivazione di tale de-

cisione ove si sostiene che «il principio di uguaglianza richiede nel diritto tributario il fatto che i contribuenti siano ugualmente gravati da una legge d’imposta di diritto e di fatto. L’u-guaglianza dell’imposizione ha cioè come suoi componenti l’uguaglianza dell’obbligo impo-sitivo normativo altrettanto come l’uguaglianza nella sua realizzazione nella riscossione. Da ciò segue che la legge impositiva materiale deve essere collocata in un ambiente normativo che garantisce l’uguaglianza dell’onere principalmente dal punto di vista del risultato di fat-to. Fondamenti di economia complessiva non possono giustificare costituzionalmente una rinuncia del legislatore su un sufficiente controllo delle dichiarazioni dei contribuenti nel procedimento di accertamento. Se una modalità di riscossione si ripercuote su una fattispe-cie impositiva in modo strutturalmente negativo, ed il diritto all’imposta non può essere at-tuato continuativamente e sussistono i presupposti tali che il risultato è imputabile al legi-slatore, la contrarietà dell’uguaglianza che deriva da ciò porta all’incostituzionalità della nor-ma impositiva sostanziale». Così JACOB-PALMISANO, op. cit., p. 139.

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Conviene, dunque, ulteriormente indagare, prendendo le mosse da quel-le teorie che hanno approfondito l’aspetto della connessione tra presuppo-sto del tributo e ordinamento che lo impone.

2. Le teorie fondate sull’elaborazione dei “ragionevoli” criteri di collegamento idonei a giustificare il prelievo: opportunità di un loro inquadramento nel-l’ambito della dottrina in tema di giurisdizione extraterritoriale

Da sempre sono stati compiuti sforzi per mettere a fuoco un nesso o col-legamento minimo suscettibile di giustificare l’assoggettamento alla contri-buzione da parte di un determinato Stato.

Specialmente nel momento storico in cui numerosi Paesi hanno adottato imposte personali finalizzate a colpire l’intera capacità contributiva di cia-scun soggetto ed è emersa la tendenza all’espansione ultraterritoriale della potestà impositiva, la dottrina è stata stimolata, similmente a quanto avve-nuto in altri settori, ad approfondire il tema dei limiti che ciascuno Stato può incontrare allorquando pone norme che assoggettano a prelievo fatti verificatisi fuori dal suo territorio.

In questo contesto, si è sviluppata la c.d. teoria della economic allegiance, la quale cerca, per l’appunto, di cogliere ed elaborare quei ragionevoli nessi di collegamento (c.d. reasonable links) tra fattispecie imponibile e ordina-mento impositore che consentano in qualche modo di limitare l’universalità della potestà impositiva.

In realtà, quest’indirizzo di pensiero utilizza, con specifico riferimento al-la materia tributaria, idee e orientamenti maturati rispetto al problema ge-nerale dei limiti che ciascuno Stato incontra allorché intenda disciplinare at-traverso norme fatti verificatisi fuori dal suo territorio o, comunque, attri-buire efficacia ai propri atti oltre i confini materiali

11. È opportuna, perciò, prima di concentrarsi sulla materia tributaria, una

11 Secondo BIANCHI, L’applicazione extraterritoriale dei controlli all’esportazione. Contri-buto allo studio dei fenomeni di extraterritorialità nel diritto internazionale, Milano, 1995, p. 8, «il quesito fondamentale cui occorre dare risposta rimane ancora se ed in che misura, secondo il diritto internazionale generale ed in assenza di obblighi convenzionali di conte-nuto particolare, lo Stato regolatore possa imporre obblighi a carico di soggetti stranieri – siano esse persone fisiche o giuridiche – ovvero pretendere di regolare condotte e/o eventi che abbiano luogo al di fuori del proprio ambito territoriale o che, comunque, non presen-tino con esso connessioni significative».

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breve ricognizione del dibattito sorto in proposito tra gli studiosi di diritto internazionale pubblico

12. Una parte cospicua delle elaborazioni fino ad oggi concepite ha radice

nella dottrina anglosassone in tema di jurisdiction. Come concetto adottato nell’ambito del diritto internazionale, la giuri-

sdizione è stata definita come la potestà dello Stato di regolare affari di non esclusiva rilevanza domestica

13, con ciò sottintendendo che, nell’ambito di una comunità internazionale composta da entità sovrane e indipendenti, il diritto internazionale intervenga a tutelare il potere di regolamentazione di uno Stato determinandone anche i limiti di esercizio.

All’interno della generica nozione di giurisdizione, si sono poi introdotte specificazioni e distinzioni, dapprima tra jurisdiction to prescribe (la compe-tenza normativa) e jurisdiction to enforce (la competenza ad assicurare l’at-tuazione in via coattiva) e, in seguito, più in dettaglio, tra jurisdiction to pre-scribe, jurisdiction to adjudicate e jurisdiction to enforce

14. Sulla scorta di tali premesse minime, tentiamo di sintetizzare l’evoluzio-

ne conosciuta dalla dottrina nell’approccio al problema della giurisdizione ultraterritoriale

15.

12 Per un’accurata e lucida indagine in proposito v. FRANSONI, La territorialità nel diritto tributario, cit., p. 170 ss.

13 La definizione (in lingua originale: «the right under international law to regulate con-duct in matters not exclusively of domestic concern») è di MANN, The doctrine of jurisdiction in international law, in Recueil des Cours, vol. 111, n. 1, 1964, p. 9.

14 Si veda in tal senso BIANCHI, op. cit., p. 21, il quale puntualizza come questa catego-rizzazione, per quanto accettabile sul piano logico e forse anche utile ai fini pratici, costi-tuisce un’innovazione non solo rispetto alla soluzione adottata dai redattori del precedente Restatement – il riferimento è al Restament (second) of the foreign relations law of the United States – ma, soprattutto, rispetto alla predominate tradizione dottrinale che riteneva di do-ver distinguere solo tra jurisdiction to prescribe, cioè la capacità dello Stato di emanare norme, e jurisdiction to enforce, cioè la capacità di assicurarne anche in via coattiva l’effet-tiva applicazione.

15 Su giurisdizione extraterritoriale e “ragionevoli” criteri di collegamento: AKEHURST, Jurisdiction in international law, in British Year Book of International Law, vol. 46, 1972-1973, p. 145 ss.; BOWETT, Jurisdiction: changing patterns of authority over activities and resources, in British Year Book of International Law, vol. 53, 1982, p. 3 ss.; BIANCHI, op. cit.; BREWSTER, Antitrust and American business abroad, New York, 1958, p. 301 ss.; GRIZIOTTI, L’imposition fiscale des étrangers, in Recueil des Cours, vol. 13, n. 3, 1926, p. 1 ss.; JACKSON-DAVEY, Legal problems of international economic relations: cases, materials and text on the national and international regulation of transnational economic relations2, St. Paul (Minnesota), 1986, p. 401 ss.; KEGEL-SEIDL-HOHENVELDERN, On the territoriali-ty principle in public international law, in Hastings International and Comparative Law Re-

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3. Dottrina e giurisprudenza in tema di giurisdizione extraterritoriale

Il punto di partenza è tradizionalmente rappresentato dal caso Lotus, de-ciso nel 1927 dalla Corte Permanente di Giustizia Internazionale

16. In det-taglio, la questione concerneva una controversia tra Francia e Turchia in merito all’esercizio della giurisdizione penale da parte della Turchia nei con-fronti di un cittadino francese che era l’ufficiale di sentinella al momento della collisione tra un vaporetto francese e uno turco, nella quale avevano perso la vita otto cittadini turchi. Pronunciandosi in ordine all’asserita viola-zione delle norme internazionali che presiedono all’esercizio della giurisdi-zione da parte degli Stati, la Corte ha affermato che non possono essere pre-sunte restrizioni alla sovranità degli Stati e ha concluso che la Francia non a-veva provato l’esistenza di un divieto posto dal diritto internazionale all’e-sercizio della giurisdizione da parte della Turchia

17.

view, vol. 7, n. 5, 1982, p. 245 ss.; MACCHINI, Economic allegiance. Un’introduzione, in Fi-scalia, vol. 3, n. 2, 2002, p. 226 ss.; MACCHINI, Economic allegiance tra criteri di apparte-nenza personali e territoriali, in Fiscalia, vol. 3, n. 4, 2002, p. 378 ss.; MANN, The doctrine of jurisdiction in international law, cit., p. 1 ss.; MANN, Further studies in international law, Oxford, 1990; MANN, The doctrine of international jurisdiction revisited after twenty years, in Recueil des Cours, vol. 186, n. 3, 1994, p. 9 ss.; NORR, Jurisdiction to tax and internatio-nal income, in Tax Law Review, vol. 17, n. 3, 1962, p. 431 ss.; PICONE, L’applicazione ex-traterritoriale delle regole sulla concorrenza e il diritto internazionale, in CAPOTORTI-DI SA-BATO-PATRONI GRIFFI-PICONE-UBERTAZZI (a cura di), Il fenomeno delle concentrazioni di imprese nel diritto interno e internazionale, Atti e documenti del Convegno di Napoli del 29 aprile 1988, Padova, 1989, p. 171 ss.; WEIL, International law limitations on state juri-sdiction, in OLMSTEAD (a cura di), Extraterritorial application of laws and responses there-to, Oxford, 1984, p. 32 ss.

16 Corte Permanente di Giustizia Internazionale, 7 settembre 1927, caso Lotus, in P.C.I.J., Ser. A, No. 10, p. 20.

17 Conviene riportare per esteso il passo più rilevante della sentenza: «Now the first and foremost restriction imposed by international law upon a state is that – failing the existence of a permissive rule to the contrary – it may not exercise its power in any form in the territo-ry of another State. In this sense jurisdiction is certainly territorial; it cannot be exercised by a State outside its territory except by a virtue of permissive rule derived from international custom or from a convention. It does not however follow that international law prohibits a State from exercising jurisdiction in its own territory, in respect of any case which relates to acts which have taken place abroad, and in which it cannot rely on some permissive rule of international law. Far from laying down a general prohibition to the effect that States may not extend the application of their laws and the jurisdiction of their courts to persons, prop-erty and acts outside their territory, it leaves them a wide measure of discretion which is on-ly limited in certain cases by prohibitive rules, as regards other case, every state remains free to adopt the principles which it regards best and most suitable».

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Da questo decisum 18, che per anni ha rappresentato un punto di riferi-

mento in materia 19, è stata estrapolata, forse fin troppo semplicisticamente,

la constatazione che con riguardo all’esercizio della giurisdizione uno Stato deve presumersi libero, salvo l’esistenza di limiti espressamente posti dal di-ritto internazionale. In altre parole, la sovranità preesisterebbe all’ordina-mento internazionale che potrebbe intervenire a limitarne il contenuto solo attraverso prescrizioni normative alle quali gli stessi Stati abbiano consentito.

La dottrina ha in seguito inteso superare questa impostazione in negativo (i.e. assenza di limiti posti dal diritto internazionale all’esercizio della giuri-sdizione), ricercando in positivo l’esistenza di collegamenti tra Stato regola-tore e fattispecie tali da giustificare la pretesa giurisdizionale

20. In questa chiave, si è legata la liceità della pretesa giurisdizionale alla pos-

sibilità di fondare quest’ultima su criteri riconosciuti dal diritto internazio-nale. Senza entrare nella diversità e nelle specificazioni degli orientamenti espressi al riguardo, tali principî sarebbero da individuare prevalentemente nella territorialità oggettiva e nella nazionalità, o, ancora, nella universalità e nel principio di protezione

21.

18 Sulla rilevanza del caso Lotus ed il significato da attribuire all’indirizzo con esso espresso dalla CPGI v., con varietà di argomentazioni, KUYPER, European Community law and extraterritoriality. Some trends and new developments, in International and Comparative Law Quarterly, vol. 33, n. 4, 1984, p. 1013 ss.; KOSKENNIEMI, From apology to utopia. The structure of international legal argument, Helsinki, 1989, p. 220 ss.; PICONE, op. cit., p. 171 ss.; WEIL, International law limitations on state jurisdiction, in OLMSTEAD (a cura di), Extra-territorial application of laws and responses thereto, Oxford, 1984, p. 32 ss.; BRIERLY, Règles générales de droit de la paix, in Recueil des Cours, vol. 58, n. 4, 1936, p. 146; FITZMAURICE, The general principle of international law considered from the standpoint of the rule of law, in Recueil des Cours, vol. 92, n. 2, 1957, p. 55; BIANCHI, op. cit., p. 41 ss.

19 In verità, l’idoneità della decisione in esame a rappresentare un effettivo punto di ri-ferimento in materia è stato messo in dubbio sotto molti aspetti. Si è per esempio sottoli-neato che il dibattito all’interno della CPGI fu assai acceso, tanto che alla decisione finale si pervenne, in presenza di due opposti e paritetici schieramenti, solo con il voto decisivo del Presidente della Corte; e si è altresì evidenziato che nonostante la sua “apparente chia-rezza”, il caso Lotus è stato interpretato in modi assai diversi. Così BIANCHI, op. cit., p. 44.

20 Secondo BIANCHI, op. cit., p. 58, mentre la prima concezione sostiene che in materia di esercizio della giurisdizione uno Stato deve presumersi libero, salvo indicare i limiti espres-samente posti dal diritto internazionale, per la seconda ai fini della determinazione dell’esi-stenza di un potere di esercizio della giurisdizione occorre prima rintracciare una norma dell’ordinamento internazionale che consenta tale esercizio. Nella prima ipotesi il concetto di sovranità preesiste all’ordinamento internazionale che può intervenire a limitarne il con-tenuto solo attraverso prescrizioni normative cui gli stessi stati abbiano consentito.

21 V. sul punto HARVARD RESEARCH IN INTERNATIONAL LAW, Draft Convention on juris-diction with respect to crime, in American Journal of International Law, vol. 29, Supplement

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All’interno di tali orientamenti, particolare vigore riveste il principio se-condo il quale uno Stato gode della competenza a esercitare il proprio potere di comando anche in via coattiva nel proprio ambito territoriale, con il corol-lario che esso non può invece esercitare il suo potere coattivo nel territorio altrui, salvo che una norma permissiva di diritto internazionale glielo consen-ta

22. Non solo. La stessa territorialità è talvolta indicata come elemento pre-valente nel concetto di sovranità e, quindi, da privilegiare rispetto ad altri cri-teri di collegamento espressivi di interessi statali di minore rilievo

23. Un ulteriore passo in avanti viene compiuto allorquando, preso atto che i

suddetti principî generali si rivelano inidonei a garantire un soddisfacente livello di certezza rispetto a una prassi fattuale sempre più complessa e arti-colata, si tenta, attraverso la c.d. teoria della “stretta connessione”, di distac-carsi da criteri aprioristici e formali nell’individuazione delle situazioni che legittimano gli Stati all’esercizio della propria giurisdizione.

Sebbene con diversità di sfumature e accenti, si tende a teorizzare l’esi-stenza di una close connection tra l’evento e/o la condotta che si intende re-golare e lo Stato regolatore quale elemento cui subordinare la valutazione di liceità internazionale della pretesa giurisdizionale

24. Nella ricostruzione di uno dei più autorevoli sostenitori di tale orienta-

mento 25, rispetto al diritto che uno Stato ha di emanare norme, il diritto in-

ternazionale imporrebbe un limite sostanziale, ricavabile sia dalla prassi che dalla dottrina, e consistente in ciò che uno Stato può accampare una pretesa giurisdizionale «if its contact with a given set facts is so close, so substantial, so direct, so weighty, that legislation in respect of them is in harmony with 1935, p. 439 ss.; LAUTERPACHT (a cura di), Oppenheim’s international law, vol. I, Peace8, London, 1955, p. 286 ss.; JENNINGS, Extraterritorial jurisdiction and the United States anti-trust laws, in British Year Book of International Law, vol. 33, 1957, p. 153; SCHWARZEN-BERGER, International Law, vol. I, International law as applied by international courts and tri-bunals3, London, 1957, p. 183 ss.; CASTEL, Extraterritoriality in international trade, Toron-to, 1988, p. 10 ss.

22 «In altri termini il territorio è l’ambito dell’attività coercitiva “esclusiva” dello Stato: gli altri Stati debbono astenersi dal mettere a contatto con il territorio i loro organi coerci-tivi o dall’esercitare una qualsiasi attività suscettiva di disturbare l’esercizio esclusivo della coercizione da parte del Stato locale». Così QUADRI, Diritto internazionale pubblico, Napo-li, 1968, p. 635.

23 KEGEL-SEIDL-HOHENVELDERN, On the territoriality principle in public international law, in Hastings International and Comparative Law Review, vol. 7, n. 5, 1982, p. 245 ss.

24 Il principale sostenitore di questa tesi è senz’altro ravvisabile nel MANN, op. ult. cit., p. 5 ss.

25 MANN, op. ult. cit., p. 13.

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international law and its various aspects (including the practice of states, the principles of non interference and reciprocity and the demands of interde-pendence)»

26. Ebbene, quegli orientamenti che hanno postulato la necessità dell’esi-

stenza di un nesso ragionevole (c.d. reasonable link) per legittimare l’impo-sizione di una fattispecie da parte di un determinato ordinamento

27, altro non sono che la trasposizione in materia tributaria di questo più ampio filo-ne di pensiero, sul quale, dunque, è interessante soffermarsi ulteriormente.

Il punto di contatto tra fattispecie e ordinamento, quantomeno nell’ori-ginaria idea di Mann, è concepito come un elemento di natura materiale, piuttosto che con riguardo agli interessi perseguiti dallo Stato attraverso la posizione delle norme; d’altra parte, anche nell’identificazione e valutazione di tali nessi significativi continuano a rivestire rilievo preminente la territo-rialità e la nazionalità, mitigate da significative eccezioni.

Ad esempio, la mera presenza temporanea di un individuo nei confini non dà titolo allo Stato di esercitare la giurisdizione nei suoi confronti, per-ché il collegamento con l’entità statale regolatrice sarebbe da considerarsi fortuito o, comunque, non sufficientemente stretto da giustificare una pre-tesa autoritativa di tale intensità.

L’applicazione di tale dottrina in tema di rapporti societari conduce a rite-nere che lo Stato nazionale della società madre ha, di regola, titolo ad esercita-re la giurisdizione nei confronti di filiali estere della società nazionale, mentre non potrebbe estendere la propria giurisdizione nei confronti di sussidiarie alle quali sia stata riconosciuta un’autonoma personalità giuridica nello Stato estero, anche se interamente possedute o controllate dalla società madre.

Peraltro, concentrando lo sforzo ricostruttivo sull’individuazione di quel-

26 Come è stato osservato, l’identificazione di tutti i punti di contatto tra una fattispecie ed i vari ordinamenti e la localizzazione del rapporto giuridico ai fini dell’individuazione dell’ordinamento competente alla regolazione del singolo caso evoca tecniche di soluzione di conflitti di legge elaborate nella prassi giurisprudenziale di alcuni ordinamenti federali-sti, ed in particolare negli Stati Uniti ad opera della dottrina americana. La circostanza – come rileva BIANCHI, op. cit., p. 66, nota 9 – è confermata dallo stesso MANN, op. ult. cit., p. 13, nota 31, che fa riferimento al problema della ragionevolezza dell’esercizio della giurisdi-zione da parte di uno degli Stati federali nel contesto del fenomeno statunitense affrontato da REESE, Legislative jurisdiction, in Columbia Law Review, vol. 78, n. 8, 1978, p. 1587 ss.

27 V. al riguardo, GARBARINO, La tassazione del reddito transnazionale, cit., p. 123 ss.; NORR, Jurisdiction to tax and international income, in Tax Law Review, vol. 17, n. 3, 1962, p. 431 ss.; JACKSON-DAVEY, Legal problems of international economic relations: cases, materials and text on the national and international regulation of transnational economic relations2, St. Paul (Minnesota), 1986, p. 401 ss.

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le close connections che giustificano l’esercizio della giurisdizione, nessun cri-terio viene elaborato per la soluzione di eventuali conflitti nell’ipotesi che, in base agli stessi criteri indicati come di regola rilevanti (territorialità e na-zionalità), due o più Stati appaiono legittimati ad esercitarla in relazione alla medesima fattispecie.

Quest’ultimo aspetto, ossia la necessità di dirimere i conflitti di giurisdi-zione, è invece il fulcro di quelle tesi che, in una ulteriore tappa del percorso ideologico che stiamo tentando di sintetizzare in tema di extraterritorial juri-sdiction, suggeriscono di valutare gli interessi rilevanti nella regolamentazio-ne delle fattispecie al fine di ponderarne la valenza rispetto a quelli propri di altri ordinamenti che del pari pretendono di esercitare la “giurisdizione” in-tesa nel senso già precisato.

L’idea ispiratrice di questa nuova trama di pensiero affonda le proprie radici nell’evoluzione conosciuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza statu-nitense in materia di diritto internazionale privato, rispettivamente in tema di esercizio della giurisdizione e di determinazione della legge applicabile.

Sotto il primo profilo (giurisdizione), una tappa rilevante è rappresentata dal passaggio dalla visione affermata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso Pennoyer v. Neff

28, tipicamente incentrata sul potere dello Stato di sottoporre alla propria autorità persone o cose che si trovino nel proprio ambito territoriale, alla concezione affatto diversa proposta dalla stessa Cor-te nel caso International Shoe Co. v. State of Washington

29. In questa seconda decisione, la costituzionalità dell’esercizio della giuri-

sdizione viene subordinata alla possibilità di determinare l’esistenza di un minimo di connessioni materiali tra la fattispecie e lo Stato regolatore

30, sul-

28 Supreme Court of the United States, sentenza 13 maggio 1878, Pennoyer v. Neff, in 95 U.S. 714 (1878). Il testo della sentenza è accessibile su http://supreme.justia.com/us/ 95/714/case.html.

29 Supreme Court of the United States, sentenza 3 dicembre 1945, International Shoe Co. v. State of Washington, in 326 U.S. 310 (1945). Il testo della sentenza è accessibile su http://supreme.justia.com/us/326/310/case.html.

30 Come osserva BIANCHI, op. cit., p. 101, «entrambi i casi facevano riferimento alla ri-levanza del XIV Emendamento della Costituzione americana, altrimenti noto come “due process clause”, ai fini dell’individuazione di limiti costituzionali all’esercizio della giurisdi-zione da parte dei tribunali statali. Mentre in Pennoyer tali limiti venivano identificati in due principi di diritto internazionale pubblico che, secondo la Corte Suprema, rispettiva-mente riconoscerebbero l’esclusività del potere giurisdizionale dello Stato territoriale su persone e cose che si trovino nel proprio territorio ed escluderebbero tale potere in rela-zione a persone o cose che si trovino al di fuori del proprio ambito territoriale, in Interna-tional Shoe la Corte Suprema ritenne che il XIV Emendamento permettesse ai tribunali

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la base dei concetti di «fairness and substantial justice», categorie concettua-li che si basano sull’analisi empirica della pretesa giurisdizionale alla luce delle circostanze del caso e ne commisurano la legittimità alla stregua di pa-rametri di definizione giurisprudenziale.

Sotto il secondo aspetto (individuazione del diritto applicabile), si è assi-stito a un’evoluzione per certi versi analoga.

Dalla codificazione del Restatement (First) of the Conflict of Laws del 1934, incentrata sull’individuazione dell’ordinamento in cui hanno avuto o-rigine i diritti delle parti, ovvero dove queste ultime sono divenute titolari di tali diritti, si è poi passati a tecniche di interest analysis che hanno profonda-mente mutato i criteri di soluzione dei conflitti di legge

31. Dal punto di vista metodologico, secondo il Restatement (First), l’indivi-

duazione del diritto applicabile avveniva attraverso un metodo del tutto si-mile a quello invalso nel sistema italiano di diritto internazionale privato, cioè attraverso una prima qualificazione finalizzata alla riconduzione della fattispecie concreta in una categoria giuridica astratta e, successivamente, con l’individuazione, attraverso criteri di collegamento, dell’ordinamento il cui diritto si deve applicare.

Tale tecnica, fondata su criteri meccanicistici in grado di assicurare un certo grado di semplicità e prevedibilità, fu poi superata attraverso il diffon-dersi della policy analysis, ossia di un metodo più sensibile alla circostanza che molto spesso una determinata fattispecie presenta plurimi collegamenti con altrettanti ordinamenti.

In particolare, la c.d. teoria della “connessione più significativa” fu codifica-ta nel Restatement (Second) of the Conflict of Laws (1971); essa, in contrasto alla soluzione meccanicistica del singolo criterio di collegamento proposta dal Restatement (First), si proponeva di prendere in considerazione, ai fini della determinazione della legge applicabile, sia gli indirizzi politici sottesi alle norme degli ordinamenti interessati alla regolamentazione di una certa fattispecie, sia gli interessi che gli Stati coinvolti hanno nella realizzazione di tali indirizzi

32. statali di esercitare la propria giurisdizione anche nei confronti di persone che non si trovi-no nel proprio ambito territoriale purché queste abbiano con il foro dei “minimum contacts”. In questo caso l’esercizio della giurisdizione non contravverrebbe a quelle “traditional no-tions of fair play and substantial justice”, il cui rispetto il XIV Emendamento impone».

31 Sulla posizione della dottrina statunitense in relazione al fenomeno dell’extraterrito-rialità della legge federale, si veda per tutti BRILMAYER-NORCHI, Federal extraterritoriality and Fifth Amendment due process, in Harvard Law Review, vol. 105, n. 1, 1992, p. 1217 ss.

32 Si rileva che la teoria in questione ha trovato anche applicazione nell’ordinamento

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Attraverso una ponderazione di questi interessi e di altri elementi sarà poi possibile risalire all’ordinamento che con la fattispecie presenti la con-nessione più significativa.

Tornando al diritto internazionale pubblico, il ricorso alla tecnica del bi-lanciamento di interessi come criterio di valutazione per l’applicabilità ex-traterritoriale del diritto interno fu proposta dal Brewster negli anni Cin-quanta

33 in materia di regole di concorrenza. L’Autore suggerì di seguire una «jurisdictional rule of reason» nell’applicazione del diritto antitrust sta-tunitense

34; ciò, peraltro, non in applicazione di una norma di diritto inter-nazionale, ma semplicemente come una linea di prudenza giurisprudenziale che i giudici avrebbero dovuto applicare per prevenire il rischio di tensioni internazionali.

A criteri sostanzialmente analoghi si ispirava anche il Restatement (Se-cond) of the foreign relations law of the United States, prevedendo che in caso di legittime pretese giurisdizionali concorrenti ogni Stato dovesse, secondo il diritto internazionale, considerare in buona fede di limitare l’esercizio del-la jurisdiction esecutiva alla luce di una serie di fattori, tra i quali gli interessi vitali degli Stati interessati, la natura e la portata delle conseguenze sfavore-voli che la sottoposizione a comandi confliggenti poteva comportare per gli individui interessati, la nazionalità di quest’ultimi, la misura in cui la condot-ta richiesta avrebbe dovuto aver luogo nel territorio di un altro Stato e, infi-ne, la misura in cui sarebbe stato ragionevole attendersi che l’esecuzione coattiva del comando avrebbe comportato l’effettiva osservanza delle nor-me in questione

35. La giurisprudenza statunitense abbracciò per la prima volta questo orien-

tamento negli anni Settanta tramite la decisione nel noto caso Timberlane 36,

cinese. Sul punto, v. da ultimo YU-XIAO-WANG, The closest connection doctrine in the conflict of laws in China, in Chinese Journal of International Law, vol. 8, n. 2, 2009, p. 423 ss.

33 V. BIANCHI, op. cit., pp. 97-98. 34 BREWSTER, Antitrust and American business abroad, New York, 1958, p. 301 ss. 35 Così BIANCHI, op. cit., p. 103, il quale osserva altresì che «i requisiti richiesti dal par.

40 del Restatement non potevano farsi risalire ad alcuna norma internazionale né di natura consuetudinaria né di convenzionale. Essi sembravano piuttosto inglobare concezioni quali quelle di reasonableness, nell’esercizio della giurisdizione alla luce degli interessi gene-rali dell’ordinamento, e di fairness, nei confronti delle parti coinvolte, già sviluppatesi nel contesto della dottrina internazional-privatistica». Per la posizione della dottrina statunit-ense, v. MASSEY, How the American Law Institute influences customary law: the reasonableness requirement of the Restatetment of Foreign Relations Law, in Yale Journal of International Law, vol. 22, n. 2, 1997, p. 419 ss.

36 U.S. Federal Court, 9th Circuit, sentenza 27 dicembre 1976, Timberlane Lumber Co.

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indicata come il momento di passaggio dall’accettazione delle teorie classi-che del diritto internazionale della giurisdizione all’adozione di tecniche di policy analysis, ossia di bilanciamento degli interessi e di ragionevolezza per risolvere la questione dell’applicazione extraterritoriale del diritto interno statunitense in materia economica.

A fronte della novità del metodo adottato, rimane ambiguo il suo fon-damento, nel senso, più precisamente, che la Corte sembra ritenere che il criterio di ragionevolezza, più che imposto dal diritto internazionale, sia da applicare sulla base di un principio di cortesia e correttezza internazionale.

Successivamente, una diversa posizione sul punto è accolta nel Restate-ment of the law (third) of the foreign relations law of the United States

37 che, come è stato osservato

38, costituisce il tentativo di raccogliere e presentare in maniera sistematica gli indirizzi prevalenti in materia internazionalistica.

Con specifico riguardo alla jurisdiction to prescribe, si richiede l’esistenza di una base ritenuta legittima dall’ordinamento internazionale, ravvisabile nei principî generalmente accettati nella prassi internazionale, quali quello di territorialità, di nazionalità, dell’effetto sostanziale nel territorio dello Sta-to regolatore e di protezione. Oltre a ciò, si reputa necessario l’ulteriore re-quisito della ragionevolezza della pretesa, inteso come limite imposto dal di-ritto internazionale. Infine, in caso di conflitto di pretese giurisdizionali tra due o più Stati, ciascuno di essi dovrebbe valutare, alla luce di tali criteri, l’importanza dei propri interessi rispetto a quelli sottesi alle concorrenti pre-tese ed, eventualmente, rinunciare alla giurisdizione a favore dello Stato che manifesta un interesse più rilevante per la regolazione della fattispecie.

v. Bank of America, N.T. & S.A., in 549 F.2d 597 (c.d. Timberlane I), così come modificata su Denial of Rehearing and Rehearing En Banc il 3 marzo 1977, accessibile su http:// law.justia.com/cases/federal/appellate-courts/F2/549/597/342332/. V. anche U.S. Court of Appeal, 9th Circuit, sentenza 27 dicembre 1984, Timberlane Lumber Co. v. Bank of Amer-ica, N.T. & S.A., in 749 F.2d 1378 (c.d. Timberlane II), accessibile su http://law.justia.com/ cases/federal/appellate-courts/F2/749/1378/359283/ e con nota di LEIGH, Extraterritorial jurisdiction – antitrust violations – application of jurisdictional “rule of reason”, in American Journal of International Law, vol. 79, n. 3, 1985, p. 735 ss. Il caso riguardava l’applicazione extraterritoriale di alcune Sezioni dello Sherman Act e del Wilson Tariff Act rispetto ad atti-vità in parte svolte all’estero e tendenti ad escludere dal mercato del legno in Honduras la società americana Timberlane. Sul punto, v. amplius BIANCHI, op. cit., p. 104 ss.

37 Per un commento sui vari argomenti trattati dal documento v. HIXSON, Extraterrito-rial jurisdiction under the Third Restatement of foreign relations law of the United States, in Fordham International Law Journal, vol. 12, n. 6, 1988, p. 127 ss.

38 Così BIANCHI, op. cit., p. 112.

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4. Esercizio dei poteri sovrani e genuine connection

Al termine di questo breve excursus dottrinario è utile rammentare alcuni recenti episodi che, sebbene in un contesto diverso rispetto al nostro (non si trattava, infatti, di casi in cui era in discussione l’estensione del potere im-positivo di uno Stato), hanno posto in evidenza come uno Stato possa eser-citare taluni poteri sovrani solo in presenza di un sufficiente “attaccamento” della situazione considerata con il proprio ordinamento.

Un settore nel quale si rinvengono indicazioni utili anche ai nostri fini è quello della protezione diplomatica. Si tratta, come noto, del diritto dello Stato nazionale di un individuo o di una persona giuridica di agire a loro tu-tela nei confronti di uno Stato terzo che abbia violato nei confronti dei me-desimi le norme internazionali sul trattamento degli stranieri

39. Tale diritto rappresenta, come è facile comprendere, una delle più esplicite manifesta-zioni di sovranità di uno Stato, avendo ad oggetto la protezione, al di fuori dei confini del proprio territorio, dei soggetti – persone fisiche o giuridiche – a esso sottoposte per effetto del legame di cittadinanza o nazionalità.

In proposito, è da sempre oggetto di vivace dibattito il legame che deve sussistere tra lo Stato ed il soggetto da tutelare al fine di giustificare l’interven-to in protezione diplomatica del primo. Tradizionalmente, infatti, si adottava un approccio formalistico, basato sulla sussistenza di un legame di cittadinan-za, per le persone fisiche, o di nazionalità, per le persone giuridiche, con quel-lo Stato. Si reputava, in altri termini, che il diritto di agire in protezione diplo-matica spettasse allo Stato del quale il soggetto era formalmente cittadino o nazionale, indipendentemente dalla verifica dell’ulteriore circostanza che tale legame formale avesse o meno sostanza effettiva.

Un mutamento di prospettiva è stato, in seguito, adottato dalla Corte In-ternazionale di Giustizia con la sentenza nel caso Nottebohm

40. La vicenda ri-

39 Secondo la definizione recata dal recente Progetto sulla protezione diplomatica degli Stati, elaborato dalla Commissione di diritto internazionale dell’ONU e approvato, in sec-onda lettura, nel 2006, «diplomatic protection consists of the invocation by a State, through diplomatic action or other means of peaceful settlement, of the responsibility of another State for an injury caused by an internationally wrongful act of that State to a natural or legal person that is a national of the former State with a view to the implementation of such responsibility». Così, art. 1, Draft Articles on Diplomatic Protection, UN Doc. A/61/10, in Yearbook of the International Law Commission, 2006, vol. II, Part Two.

40 Corte Internazionale di Giustizia, 6 aprile 1955, Liechtenstein v. Guatemala (caso Not-tebohm), in 1955 I.C.J. Reports, p. 4 ss. La sentenza è accessibile su http://www.icj-cij. org/docket/files/18/2674.pdf.

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guardava l’esistenza di un diritto dello Stato di cittadinanza di una persona fi-sica, il Liechtenstein, ad agire in protezione diplomatica nei confronti di un altro Stato, il Guatemala, il quale obiettava che tale cittadinanza non era effet-tiva ed era stata acquisita solo per motivi di convenienza

41. La Corte Interna-zionale di Giustizia, investita della questione, pur riconoscendo la libertà di ciascuno Stato di definire i criteri per la concessione della propria cittadinan-za, negò tuttavia che potesse essere esercitata la protezione diplomatica nel caso in cui mancasse la prova di una «genuine connection» tra il cittadino ed il proprio Stato

42. L’indicazione, come si può ben intuire, si rivela assai utile an-che ai nostri scopi. Essa rivela, infatti, l’esigenza nel diritto internazionale di limitare l’esercizio dei poteri sovrani dello Stato alle sole situazioni che pre-sentino un legame effettivo e stabile con l’ordinamento dello Stato.

Si osservi che siffatta interpretazione è stata, più di recente, confermata – sebbene con qualche apparente incertezza – dalla Commissione di diritto in-ternazionale, organo sussidiario dell’Assemblea generale dell’ONU con il compito di contribuire alla codificazione del diritto consuetudinario, nel cor-so del ricordato studio sulla protezione diplomatica. Sebbene, infatti, il re-quisito della genuine connection sia stato reputato non indispensabile con rife-rimento alla protezione diplomatica delle persone fisiche

43, indicazioni nel

41 Il signor Nottebohm era, infatti, originariamente cittadino tedesco. Avendo molti in-teressi economici in Guatemala, Stato tradizionalmente vicino agli Stati Uniti, e temendo che lo scoppio del Secondo Conflitto Mondiale avrebbe comportato il suo internamento, in quanto cittadino di uno Stato nemico, egli chiese ed ottenne la cittadinanza di uno Stato neutrale, il Liechtenstein, pur non avendo mai avuto alcun legame con quel Paese.

42 Secondo la Corte, «a State cannot claim that the rules it has thus laid down are enti-tled to recognition by another State unless it has acted in conformity with this general aim of making the legal bond of nationality accord with the individual’s genuine connection with the State which assumes the defence of its citizens by means of protection as against other States. [...] According to the practice of States, to arbitral and judicial decisions and to the opinion of writers, nationality is the legal bond having at its basis a social fact of at-tachment, a genuine connection of existence, interests and sentiments, together with the existence of reciprocal rights and duties».

43 L’art. 4 del Progetto, infatti, stabilisce che «for the purposes of the diplomatic pro-tection of a natural person, a State of nationality means a State whose nationality that per-son has acquired, in accordance with the law of that State, by birth, descent, naturalization, succession of States, or in any other manner, not inconsistent with international law». Nel commentario a questa norma, la Commissione ha espressamente dato atto dell’irrilevanza della verifica dell’effettività della cittadinanza, secondo quanto invece richiesto dalla sen-tenza Nottebohm, ma ha giustificato tale soluzione con ragioni di carattere generale, in par-ticolare con l’esigenza di non restringere troppo la possibilità di avere protezione per quel-le persone che, nell’era della globalizzazione, hanno tenui legami con il proprio Stato di

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senso della persistenza di un tale requisito si colgono sia con riferimento alle persone giuridiche

44, sia con riferimento al caso – che presenta non poche analogie con quello dell’esercizio contemporaneo del proprio potere impositivo da parte di due Stati nei confronti del medesimo soggetto – del-la protezione diplomatica nei confronti dei soggetti aventi multipla cittadi-nanza

45. Non solo. Nel diritto internazionale, un’ulteriore conferma dell’impor-

tanza del criterio del legame effettivo con l’ordinamento di uno Stato, quale giustificazione e limite all’esercizio di poteri sovrani da parte di quest’ul-timo, si può rinvenire nel diritto del mare. L’art. 91 della Convenzione di Montego Bay del 1982 – la quale ha codificato le norme internazionali con-suetudinarie in materia – stabilisce che ogni Stato è libero di determinare le regole per la concessione della propria bandiera alle navi, ma aggiunge che there must exist a genuine link between the State and the ship. L’analogia con quanto si è visto in materia di protezione diplomatica è evidente e torna a rammentare la rilevanza nel diritto internazionale generale del principio del genuine link quale, a un tempo, fondamento e limite dell’esercizio dei poteri sovrani da parte di uno Stato. cittadinanza ma non acquistano neppure legami effettivi con qualsiasi altro Stato (v. par. 5 del Commentario all’art. 4 del Progetto). Una ragione, dunque, difficilmente estensibile ad altri settori, quale quello ad esempio del potere impositivo dello Stato.

44 L’art. 9 del Progetto stabilisce che per Stato di nazionalità di una persona giuridica deve intendersi lo Stato di incorporazione (c.d. criterio formale), ma aggiunge che, qualora elementi sostanziali indichino un legame con un altro Stato («when the corporation is controlled by nationals of another State or States and has no substantial business activities in the State of incorporation, and the seat of management and the financial control of the corporation are both located in another State»), allora è quest’ultimo a poter esercitare la protezione diplomatica (c.d. criterio sostanziale). Si osservi che, nel formulare questa norma, la Commissione si è richiamata alla sentenza resa dalla CIG nel caso Barcelona Traction (Corte Internazionale di Giustizia, 5 febbraio 1970, Barcelona Traction, Light and Power Company, Ltd., in I.C.J. Reports, 1970, par. 71, accessibile su http://www.icj-cij.org/docket/ files/50/5387.pdf), nella quale la Corte ebbe a sottolineare l’esigenza di una «permanent and close connection» tra la società e lo Stato esercente la protezione diplomatica. Significa-tivo, ai nostri fini, che in quel caso la Corte abbia fatto riferimento, tra gli altri fattori di connessione effettiva, alla circostanza che la società Barcelona Traction, formalmente in-corporata in Spagna, fosse inserita nell’elenco dei contribuenti del Canada.

45 L’art. 7 del Progetto afferma che «a State may not exercise diplomatic protection in respect of a person against a State of which that person is also a national, unless the na-tionality of the former State is predominant, both at the date of injury and at the date of the official presentation of the claim». Il concetto di “predominanza” è inteso dalla Com-missione con riferimento a fattori di effettività, tra I quali sono ricordati «participation in social and public life […], taxation […]» (v. art. 7, par. 5 del Commentario).

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5. L’evoluzione del principio di territorialità in materia tributaria quale ri-flesso del mutamento della nozione di tributo

L’inquadramento della problematica tributaria in un più vasto ambito concettuale di riferimento fornisce proficui spunti per il suo approfondi-mento. Come già accennato, è palese la riconducibilità di quelle teorie che hanno prospettato un limite all’esercizio della potestà impositiva ultraterri-toriale – evidenziando la necessità di un genuine o reasonable link tra fatti-specie imponibile ed ordinamento impositore – nell’alveo degli orienta-menti sopra individuati in tema di extraterritorial jurisdiction. Allorquando si afferma che «tax laws can be applied only against people who have a close con-nection with the state concerned», aggiungendo che gli elementi che integrino tale nesso variano da contesto a contesto (nationality, domicile, long residen-ce)

46, altro non si fa che trasporre nella nostra materia idee elaborate con ri-guardo al problema generale della giurisdizione dalla dottrina di diritto in-ternazionale. Del resto, anche quando si parla di economic allegiance, allu-dendo a un sorta di fedeltà o appartenenza economico-giuridica dell’indivi-duo all’ordinamento, si tenta di definire quella “connessione stretta” che le-gittimerebbe l’esercizio della giurisdizione extraterritoriale in materia fisca-le.

Come emerge dalla sua etimologia il termine «allegiance» 47 è nato per

indicare il legame di fedeltà e obbedienza che univa il vassallo al suo signore nell’epoca medioevale ed è stato poi usato, in senso più generale, quale si-nonimo di un rapporto tra governati e governanti, nel contesto del quale i primi forniscono sostegno e approvazione in vista di benefici concessi dal-l’autorità politica.

Secondo la giurisprudenza statunitense, l’allegiance costituisce una «obligation of fidelity and obedience to governement in consideration for protection that government gives»

48: una definizione che, dunque, incor-

46 V. AKEHURST, Jurisdiction in international law, in British Year Book of International Law, vol. 46, 1972-1973, p. 145 ss. Nello stesso senso MANN, op. ult. cit., p. 9 ss.

47 Sulla nozione di “economic allegiance”, v., senza pretesa di completezza, BRUINS-EINAUDI-SELIGMAN-STAMP, Rapport sur la double imposition présenté au Comité financier, Economic and Financial Commission, League of Nations, Genéve, 3 aprile 1923, i quali individuavano quattro criteri per la distribuzione della potestà impositiva fra più Stati: a) l’origine della ricchezza, b) l’ubicazione della ricchezza, c) l’esercizio dei diritti su tale ric-chezza e d) la residenza o domicilio della persona che dispone di tale ricchezza.

48 District Court of New York, 18 marzo 1943, U.S. v. Kuhn, in D.C.N.Y. 49 F.Supp. 407 (S.D. N.Y. 1943), accessibile su http://www.uniset.ca/naty/maternity/49FSupp407.htm.

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pora in sé un evidente riferimento non solo alla fedeltà (loyalty), ma anche al mutuo vantaggio che sta alla base del legame. In maniera ancor più sugge-stiva, secondo un accreditato dizionario giuridico inglese, allegiance indicava tradizionalmente «such natural or legal obedience which every subject owes to his prince»

49. Orbene, tentando di stilare un primo bilancio di questo pur sommario

excursus, emerge ad evidenza come il riferimento, anche in materia tributa-ria, alla necessità dell’esistenza di ragionevoli criteri di collegamento, costi-tuisca, così come genericamente formulato, poco più di un’indicazione di massima, come tale ancora insuscettibile di dar corpo a un limite giuridica-mente apprezzabile e, dunque, a un metro sul quale misurare l’eventuale illi-ceità di norme impositive che colpiscano presupposti extraterritoriali.

Stimolante, e perciò da sviluppare, è tuttavia l’idea che, alla stregua di quanto va consolidandosi in altri settori (dalla protezione diplomatica

50 al diritto del mare

51), possa essere colto un limite non evanescente anche con specifico riguardo alla nostra materia.

Un tentativo in tal senso è stato compiuto valorizzando il principio di territorialità. In particolare, individuato il nucleo di tale principio nella ne-cessità, quale condizione legittimante il prelievo, di un legame oggettivo (luogo di svolgimento dell’attività) o soggettivo (residenza o cittadinanza) con il territorio, se ne è poi sostenuta la riconducibilità al novero dei c.d. principî generali riconosciuti dalle nazioni civili, suscettibili di costituire fonti del diritto internazionale

52. In verità, sulla connotazione di tale categoria di fonti del diritto inter-

nazionale il dibattito è vivace 53; per quanto ci riguarda, tuttavia, il primo e

49 Così CURZON-RICHARDS, The Longman Dictionary of Law7, Harlow, 2007, p. 25. 50 Sulla rilevanza del “genuine link” come presupposto necessario per l’esercizio della

protezione diplomatica, si veda BROWNLIE, Principles of Public International Law5, London, 1998, p. 412. Si veda anche la proposta del co-relatore speciale per il Comitato sulla prote-zione diplomatica delle persone e della proprietà dell’International Law Association, prof. Orrego Vicuña, il quale ha sostenuto che costituisce una regola ormai consolidata quella secondo cui «the link of nationality to the claimant State must be genuine and effective» (“The changing law of nationality of claims”, Final Report submitted to the International Law Association Committee on Diplomatic Protection, London, 2000, p. 27).

51 V. sul tema WEFERS BETTINK, Open registry, the genuine link and the 1986 Convention on conditions for registration of ships, in Netherlands Yearbook of International Law, 1987, p. 69 ss.

52 In questo senso UDINA, op. cit., p. 25.

53 Tale categoria, secondo parte della dottrina internazionalistica, comprenderebbe quel-le norme di diritto internazionale generale non aventi natura consuetudinaria.

3.

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fondamentale punto da affrontare è proprio quello della verifica dell’esi-stenza di un principio di territorialità dei tributi negli ordinamenti degli Sta-ti civili.

Non v’è dubbio che gli Stati di regola impongono tributi dotati di un col-legamento oggettivo (i.e. luogo nel quale si verifica il presupposto del tribu-to) o soggettivo (i.e. residenza o domicilio del soggetto passivo) con il loro territorio: un comportamento siffatto potrebbe, però, essere spiegato con semplici ragioni di opportunità, rivelandosi velleitario il tentativo di battere moneta rispetto a fatti o soggetti nei cui confronti lo Stato si troverebbe poi privo di poteri di controllo

54. Si tratta allora di capire, approfondendo il livello di analisi, quale relazio-

ne giuridica sia dato cogliere tra tributo e territorio. In effetti, la territorialità è un connotato strettamente connesso all’idea

stessa di tributo e che si è nel tempo modificato in sintonia con l’evoluzione del prelievo.

In origine, il problema della estensione del prelievo si appiattiva su quel-lo della sovranità, della quale il potere impositivo rappresentava l’espressio-ne più immediata. Ancora all’inizio del Novecento

55, le sistematizzazioni dogmatiche del fenomeno impositivo ponevano al centro la sovranità tribu-taria intesa come il potere originario dello Stato, insito nella sua stessa esi-stenza, di imporre i tributi. All’interno di questo schema teorico la sovranità tributaria costituiva espressione di un potere soggetto esclusivamente alle limitazioni che esso stesso, per il tramite della legge, poneva; sul versante del soggetto passivo, in particolare, il dovere tributario altro non era che un profilo del rapporto di soggezione che legava l’individuo allo Stato

56.

54 Peraltro, nel contesto di accesa concorrenza fiscale potenziato dalla crisi economica mondiale, accade da ultimo che qualche Stato ad economia sviluppata emani disposizioni finalizzate a tassare fattispecie il cui collegamento territoriale è piuttosto evanescente.

55 V. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996, p. 123 ss.

56 Tale ricostruzione richiama ad evidenza la teoria dei diritti pubblici soggettivi, nata nel-l’ambito della dottrina tedesca e sviluppata in Italia dall’Orlando. In sintesi, essa distingue tra posizioni giuridiche che trovano il loro fondamento in rapporti di diritto privato e posizioni giuridiche correlate a rapporti di diritto pubblico, caratterizzati dal fatto che di essi è parte lo Stato nella sua posizione di sovranità. La conseguenza è che qualunque posizione giuridica riconosciuta ai membri della collettività altro non è che un aspetto della relazione fra sogget-to e Stato, e più precisamente o un diritto pubblico dello Stato persona o un dovere dello Sta-to verso i membri della collettività scaturente da una autolimitazione dello Stato stesso. Sul punto v. ORLANDO, Nota dell’autore del 1925 all’autore del 1885, in ORLANDO, Diritto pubbli-co generale. Scritti varii (1881-1940) coordinati in sistema, Milano, 1940, p. 27 ss.

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In questo contesto dogmatico, il dovere di pagare le imposte altro non è che un obbligo generale conseguente alla natura del rapporto giuridico che lega il cittadino allo Stato e, dunque, una manifestazione, un aspetto specifico di quel rapporto organico di soggezione che è il cuore della teoria in esame.

Il potere di pretendere il tributo trova giustificazione nell’essenza della sovranità, come una sorta di diritto naturale dello Stato di cui questo è tito-lare in forza delle stesse ragioni che giustificano la sua esistenza

57. Sul piano dei limiti territoriali, consegue un immediato corollario: l’imposizione dei tributi deve seguire quel principio immanente a ogni ordinamento secondo il quale il potere sovrano non può che esplicarsi con riguardo a fatti che si verificano nel territorio dello Stato. In altre parole, se il tributo incarna la manifestazione più tipica del potere di supremazia, non può che ricalcarne fedelmente l’ambito di applicazione.

Nei suoi successivi sviluppi, questa impostazione ha conosciuto la stessa evoluzione della nozione di “supremazia”, riferita inizialmente, in senso og-gettivo, a tutti i fatti che si verificano all’interno del territorio ed evolutasi poi fino ad abbracciare, oltre alle ipotesi di collegamento oggettivo, pure quelle di connessione soggettiva, in virtù della quale il liason è rappresentato dall’appartenenza alla comunità del soggetto che pone in essere un determi-nato fatto.

Ora, è evidente che queste affermazioni sono il retaggio di un impianto giuridico concettuale poi superato all’epoca dell’introduzione delle moder-ne costituzioni.

Attraverso il fondamentale contributo di Kelsen si era, infatti, sgretolata la concezione formalista autoritaria dello Stato che non può essere vincolato da istanze superiori e, dunque, può solo autolimitarsi; e si era piuttosto fatta strada l’idea del primato del momento normativo nell’ordinamento giuridico.

La nozione di sovranità statale è superata dall’evoluzione giuridico-istitu-zionale che, sotto l’azione di vigorose forze corrosive, demolisce la concet-tualistica giuridica che aveva ideato lo Stato come struttura nella quale iden-

57 Coerentemente, la legge che istituisce il tributo si limita a fissare i termini dell’eser-cizio di un potere preesistente, fino ad arrivare, seguendo la medesima logica, alla qualifica della legge tributaria come solo formale, in quanto non crea il diritto dello Stato, ma sem-plicemente interviene a rimuovere, secondo lo schema tipico dell’autorizzazione, limiti all’esercizio di un diritto di cui lo Stato stesso è già titolare. Così ANTONINI, op. ult. cit., p. 29, che opera peraltro una più ampia ricostruzione del pensiero dell’Autore tedesco e, in particolare, dei motivi che lo inducono a qualificare come formale la legge tributaria.

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tificare l’unità politica di una nazione 58.

Nella costituzione, in effetti, ogni potere dello Stato trae legittimazione da un’apposita previsione, espressione della sovranità popolare sancita nel momento costituente. Di conseguenza, anche la potestà d’imposizione – e, correlativamente, il dovere tributario – non è endogena allo Stato, ma ad es-so attribuita da una disposizione che assolve alla funzione di disciplinare uno degli aspetti fondamentali della convivenza comune

59. In questo nuovo contesto

60, concepire il tributo quale primaria espres-sione di una supremazia statale precedente al momento normativo e misu-rarne di conseguenza i limiti, anche territoriali, sullo stesso metro, sarebbe anacronistico al tempo della c.d. costituzione senza sovrano

61. Nel quadro sinottico così evolutosi, occorre dunque capire se i tratti fon-

danti e caratterizzanti l’obbligo di concorrere alle spese pubbliche negli attuali assetti costituzionali rechino in sé limiti giuridicamente apprezzabili nell’indi-viduazione dei soggetti (e/o dei presupposti) che ciascun legislatore può far assurgere a presupposto di ripartizione delle pubbliche spese.

Se questa indagine dovesse risultare feconda, potrebbero allora sussi-stere i presupposti per la formulazione di un principio generalmente rico-nosciuto e come tale suscettibile di costituire fonte del diritto internazio-nale.

58 V. BORIA, L’interesse fiscale, Torino, 2002, p. 49, ove si osserva altresì che da un lato il pluralismo politico dovuto alla formazione di centri di potere alternativi e concorrenziali al potere statale, capaci di operare nei settori della politica, dell’industria, dell’economia, delle professioni, della cultura e delle religioni, e dall’altro lato l’attribuzione ad entità sovranazio-nali dei poteri decisionali in ordine all’assetto regolamentare di una serie sempre più ampia di fattispecie, ha portato ad una sostanziale attenuazione della funzione principale dello Stato quale detentore del monopolio della decisione politica.

59 V. FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2002, p. 10. 60 Evidenzia efficacemente INGROSSO, Tributo e sovranità, in L. PERRONE-C. BERLIRI (a

cura di), Diritto tributario e Corte Costituzionale, Roma, 2006, p. 149 che «è del tutto paci-fico che sul tributo si imprime la struttura costituzionale dello Stato di diritto, con i conse-guenti limiti posti all’esercizio della sovranità tributaria. Per quali finalità e con quali mezzi può esplicarsi?, ci si chiede. Sul tributo si staglia anche il riconoscimento e la garanzia delle libertà (negative o positive) e delle autonomie. Dunque si aggettano i limiti (quando e come?) entro i quali il contribuente deve il tributo. Egli non appare più il semplice destina-tario della sovranità tributaria, ma il titolare di diritti di libertà ed occupa una posizione solidale. Anche l’immagine dello Stato cambia, non più quella delle autorità che prendono prestazioni (tributarie), ma anche delle autorità che danno prestazioni (sociali)».

61 KIRCHHEIMER, Costituzione senza sovrano. Saggi di teoria politica e costituzionale 1928-1933, traduzione italiana a cura di Bolaffi, Bari, 1982.

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6. Il principio di territorialità quale corollario della funzione di ripartizione delle spese pubbliche propria del tributo: spunti sulla sua sussumibilità tra i c.d. principî generalmente riconosciuti delle nazioni civili

Il fenomeno tributario è oggetto di disciplina nella quasi totalità delle co-stituzioni moderne

62 e del pari cospicua è l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria in ordine ai principî cardine della materia.

Come è stato felicemente osservato, ogni forma di organizzazione collet-tiva implica modalità e criteri per il riparto degli oneri per servizi prestati od opere eseguite nell’interesse comune. Laddove la collettività assume rile-vanza politica, il riparto dei carichi pubblici, aspetto necessario dell’organiz-

62 Può essere utile, al riguardo, la comparazione con le formule letterali utilizzate dalle Costituzioni di alcuni paesi in materia di concorso agli oneri pubblici. Così, ad esempio:

– art. 3 della Costituzione greca del 1951: «I cittadini greci contribuiscono senza di-stinzione agli oneri pubblici, in proporzione alle loro possibilità»;

– art. 42 della Costituzione Jugoslava del 1946: «L’obbligo di pagare le imposte gene-rale e proporzionato alle possibilità economiche di ciascun cittadino»;

– art. 94 della Costituzione Bulgara del 1947: «Gli oneri fiscali sono suddivisi tra tutti i cittadini proporzionalmente alle loro possibilità economiche»;

– art. 145, comma 1 della Costituzione del Brasile del 1988: «Sempre que possivel, os impostos terao carater personale e sarao graduadas segundo a capacidade economica do contribuente»;

– art. 182 della Costituzione dell’Ecuador del 1966: «Le imposte devono essere stabi-lite in proporzione alla capacità economica del contribuente»;

– art. 242 della Costituzione del Venezuela del 1947: «Il regime nazionale delle entra-te sarà organizzato è funzionerà sopra basi di giustizia e di uguaglianza tributaria al fine di attuare una ripartizione delle imposte e contribuzioni progressiva e proporzionale alla ca-pacità economica del contribuente, la elevazione del livello di vita ed il potere di acquisto dei consumatori e la protezione nonché l’incremento della produzione nazionale»;

– art. 28 della Costituzione Argentina del 1946: «L’equità e la proporzionalità sono al-la base delle imposte e degli oneri pubblici»;

– art. 25 della Costituzione della Siria (1950) dispone che «Le tasse sono imposte mediante basi giuste e progressive che assicurano i principi di uguaglianza e di giustizia so-ciale»;

– art. 31, comma 1 della Costituzione spagnola del 1977: «Tutti contribuiranno alla copertura delle spese pubbliche in ragione della loro capacità economica mediante un si-stema tributario ispirato a principi di uguaglianza e progressività che, in nessun caso, avrà effetti confiscatori»;

– art. 19 della Costituzione del Cile: «La Constitucion asegura a todas las personas la igual reparticion de los tributos en proporcion a las rentas o en la progresion o forma que fije la ley y la igual reaparticion de las demas cargas publicas. En ningun caso la ley podrà establecer tributos manifestamente desproporcionados o injustos»;

– art. 30 della Costituzione del Giappone: «Il popolo è soggetto alle imposte secondo le modalità stabilite dalla legge».

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zazione collettiva, è coessenziale alla sua stessa esistenza 63.

La rilevanza di questo profilo organizzativo della comunità ha conosciu-to un’importanza esponenziale con l’ampliarsi dei compiti affidati allo Sta-to; di pari passo con l’intensificazione del sacrificio richiesto a ciascuno, si sono elaborate e affinate le regole e i principi cardine che devono governare la corretta distribuzione delle spese pubbliche tra i consociati

64. Uno sguardo d’insieme alle carte fondamentali di ciascun Paese consente

di enucleare più di un punto comune 65.

Un primo profilo sta nel legame imprescindibile tra imposizione e spese pubbliche

66, posto che «qualunque sia il grado di sofisticazione dell’orga-

63 V. sul punto FEDELE, Concorso alle pubbliche spese e diritti individuali, in Riv. dir. trib., 2002, p. 31 ss..; ID., Gli incrementi “nominali” di valore nell’invim ed il principio di capacità contributiva, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1982, I, p. 57 ss.; ID., Appunti dalle lezioni di diritto tribu-tario, Torino, 2002, p. 10; ID., La funzione fiscale e la capacità contributiva nella Costituzione italiana, in L. PERRONE-C. BERLIRI (a cura di), Diritto tributario e Corte Costituzionale, Ro-ma, 2006, p. 1 ss. Dalla considerazione che il riparto dei carichi pubblici, in quanto aspetto necessario dell’organizzazione collettiva, è coessenziale alla sua esistenza, si è tratto poi il corollario che la partecipazione alle spese pubbliche si prospetta come necessità ancor prima che come dovere. In altre parole, l’essenza della fiscalità, ed i suoi criteri definitori minimi, risultano oggettivamente a prescindere da interventi normativi, anche a livello co-stituzionale: v’è una nozione di sistema tributario, e di tributo, in qualche modo a monte della disciplina positiva, anche delle norme costituzionali, che la presuppongono.

64 Secondo Falsitta l’imposta ha la funzione di ripartire tra i consociati una spesa co-mune, sicché ogni legge che ne istituisce una enuclea, oltre al soggetto passivo, l’indice di riparto, cioè dei fatti o situazioni dai quali si fa dipendere la determinazione della quota di contribuzione facente carico a ciascun singolo ed alla quale corrisponde il debito indivi-duale di imposta di costui. Fatti e situazioni che non tanto hanno la funzione di risolvere il conflitto esterno fra Stato e contribuente, quanto il conflitto interno tra contribuenti e contribuenti, determinando appunto il rapporto relativo di partecipazione individuale alla comune contribuzione. Ancora, si è sostenuto nella stessa logica, distribuire con l’imposta il costo dei servizi generali dello Stato non è diverso che ripartire il costo dei servizi di vigi-lanza forestale o campestre, organizzati da un consorzio di proprietari, oppure il costo delle opere di pubblicità e propaganda di una stazione climatica organizzata da un consor-zio di albergatori, o di fabbricanti un prodotto industriale, del riparto delle spese e danni incontrati per il servizio di una nave durante la navigazione. Per ciascuno dei cointeressati a questi servizi comuni non è irrilevante che gli altri cointeressati paghino o non paghino la loro quota, né è indifferente che il riparto sia corretto o scorretto. V. FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale, 2010, p. 23; ID., I condoni fiscali tra rottura di regole cos-tituzionali e violazioni comunitarie, in Il Fisco, 2003, p. 1799.

65 Per una lucida e completa indagine sulle disposizioni costituzionali concerenti la ma-teria tributaria comuni a più Stati v. UCKMAR, Principi comuni di diritto costituzionale tribu-tario, Seconda edizione aggiornata, Padova, 1999.

66 Per l’evidenziazione della rilevanza, nella nozione di tributo delineata dalla nostra giurisprudenza costituzionale, nello scopo di finanziamento delle spese pubbliche, v. FRAN-

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nizzazione dell’ente pubblico, l’imposta è sempre consustanziale alla nozio-ne di Stato e questa sua giustificazione costituisce lo zoccolo duro che tra-scende i secoli, i regimi politici e le mode»

67. Al riguardo, talune costituzioni prevedono la soggezione dei cittadini al

pagamento delle imposte; altre utilizzano espressioni che echeggiano una connotazione dell’obbligo non in termini esclusivamente passivi (di mera soggezione) quanto piuttosto attivi, ossia come partecipazione, concorso, contribuzione ai bisogni della collettività.

La dottrina tedesca suggestivamente parla al riguardo del diritto tributa-rio non solo come diritto di intervento unilaterale da parte dello Stato, ma come diritto di partecipazione mutuato dal principio della cooperazione

68. Un secondo aspetto può essere sintetizzato nel brocardo «no taxation

without representation», figlio del pensiero di Locke, secondo il quale le im-poste sono necessarie, ma non possono essere prelevate senza il consenso della maggior parte dei componenti la società, ovvero di coloro che li rap-presentano o che sono stati scelti da essi

69. Detto in termini più attuali, ciascun soggetto partecipa al finanziamento

di spese pubbliche che è, altresì, in grado di orientare con l’espressione del proprio consenso, secondo un rapporto biunivoco tra dovere e libertà che è tratto tipico della composizione del potenziale dissidio tra individuo e co-munità nella moderne carte costituzionali.

Infine, identificano un altro tratto pregnante della fiscalità maturato a partire dall’esperienza della rivoluzione francese, la generalità della contri-buzione – nel senso che tutti i membri della collettività vi sono tenuti – e l’e-quità del riparto, inteso quale suddivisione fondata su metri e criteri non di-scriminatori. SONI, La nozione di tributo nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in L. PERRONE-C. BERLIRI (a cura di), Diritto tributario e Corte Costituzionale, Roma, 2006, p. 123 ss.

67 Così GROSCLAUDE-MARCHESSOU, Diritto tributario francese. Le imposte – le procedure, traduzione italiana a cura di De Mita, Milano, 2006, p. 6.

68 «Il diritto tributario è, nonostante le prime apparenze, non solo diritto di intervento, che è coniato da un atto amministrativo unilaterale, ma diritto di partecipazione, che viene mutuato dal principio della cooperazione». «L’idea che l’Amministrazione finanziaria possa far valere, se necessario anche da sola, le giuste pretese fiscali legislative, con conseguente tutela dei diritti di verifica, è estranea alla realtà … L’Amministrazione finanziaria potrà accertare sempre e solo in collaborazione con il contribuente la giusta posizione da pren-dere come base per l’imposizione». Così BIRK, Diritto tributario tedesco, traduzione a cura di De Mita, Milano, 2006, pp. 19-20.

69 In proposito v. UCKMAR, Principi comuni di diritto costituzionale tributario2, Padova, 1999, p. 9 ss.

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A nostro avviso questi, e non altri, sono i tratti comuni del tributo che possono essere estratti attingendo al patrimonio comune di idee, nozioni e valori giuridici presenti negli ordinamenti dei “Paesi civili”.

Diversamente, se pur restando a livello di caratteristiche di fondo del prelievo ci si inoltra nell’analisi delle peculiarità di ciascun sistema tributa-rio, diventa difficile estrapolare principî uniformemente riconosciuti. Ogni Stato, ad esempio, di fronte alla necessità di ripartire tra i consociati i carichi pubblici e di imporre loro la partecipazione ad essi, elabora metri di riparti-zione tali da soddisfare al tempo stesso canoni di equità e ragionevolezza da un lato, ma anche esigenze e finalità (e.g. solidaristiche, redistributive, extra-fiscali, etc.) ritenute più confacenti al proprio ideale di collettività.

La scelta, a livello ordinamentale, di realizzare tali finalità atteggiando in senso solidaristico la partecipazione del singolo agli oneri collettivi concerne un aspetto importante del fenomeno, ma non assorbente: l’obbligo di contri-buire trae fondamento dalla circostanza che l’essere membro della collettivi-tà significa essere causa delle spese pubbliche e, al tempo stesso, potenziale destinatario delle stesse, sicché il sacrificio nel quale si sostanzia l’adempi-mento dei tributi non ha comunque natura esclusivamente altruistica

70. Un aspetto fondamentale ed in qualche modo prioritario da mettere a

fuoco laddove si tratta di distribuire la spesa pubblica sulla collettività è il perimetro della collettività stessa: qualunque ripartizione operata secondo criteri in se e per se equi finirebbe per risultare iniqua se distribuita tra sog-getti estranei alla comunità o privi di un legame effettivo con essa.

In altre parole, rispetto ad un fenomeno che, come quello tributario, tro-va nella ripartizione delle pubbliche spese il suo scopo fondamentale, e di conseguenza nella giustizia distributiva uno dei suoi cardini equitativi, è esi-genza primaria l’enucleazione di un metro di selezione dei potenziali sogget-ti passivi della partecipazione alla spesa pubblica.

Il problema, seppure congenito a qualsiasi sistema, emerge in tutta la sua evidenza solo in tempi recenti, allorquando la tradizionale forma di collega-mento tra soggetto passivo e territorio o comunità tende a diventare, da stabi-le, durevole e tendenzialmente unica, a plurima, mutevole e temporanea

71,

70 FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., p. 15, ove si evidenzia che l’essenza e i tratti distintivi della fiscalità esprimono un livello minimo di solidarietà, corrispondente al mero riconoscimento dell’interesse comune e dell’esigenza di una distribuzione degli oneri connessi fra gli appartenenti alla collettività. Sul rapporto tra dovere tributario e doveri di so-lidarietà v. FRANSONI, La territorialità nel diritto tributario, cit., p. 208 ss.

71 Così, efficacemente, SACCHETTO, Il diritto internazionale tributario tra norme del si-

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nel contesto di una società e di un’economia aperta che agevolano la mobili-tà, la comunicazione o, addirittura, l’aterritorialità. Ogni individuo non va più pensato come collocato in modo esclusivo in un unico spazio o territo-rio– quello storico di uno Stato nazionale dove il confine definiva il luogo– ma come un soggetto plurilocalizzato che vive contemporaneamente in più spazi o territori dove si svolge la sua unica esistenza economica e sociale

72. Orbene, ricollegandoci alle precedenti riflessioni, è dato chiedersi in pri-

mo luogo se è possibile elaborare un minimo comune denominatore del concetto giuridico di “tributo” come maturato nell’esperienza moderna del-le c.d. nazioni civili; ed in secondo luogo se tale nozione comune possa essere utilizzata per risolvere il problema – sempre più urgente nel contesto attuale – dei limiti alla potestà impositiva di ciascuno Stato. Va da sé, infatti, che nel rapporto tra enti sovrani, quali gli Stati, un limite giuridicamente apprezza-bile, sul piano del diritto internazionale, all’imposizione di tributi privi di at-tacco sufficiente con l’ordinamento impositore può essere ravvisato solo se ed in quanto un prelievo siffatto violi quel nucleo di regole fondamentali in tema di ripartizione delle pubbliche spese a tal punto condivise nella tradi-zione giuridica degli Stati civili da poter costituire principi generalmente ri-conosciuti dalle nazioni civili.

Uno sforzo ricostruttivo in tal senso può essere proficuamente intrapre-so, purché ovviamente ci si arresti a una dimensione essenziale secondo la quale il tributo è uno strumento di ripartizione delle pubbliche spese tra tut-ti i membri di una collettività, adottato con il loro consenso e fondato su cri-teri equi e non discriminatori. Altri connotati del prelievo, pur rilevantissimi e fondamentali all’interno di ciascun sistema nazionale, non si traducono stema costituzionale italiano, effettività ed utopia, in L. PERRONE-C. BERLIRI (a cura di), Di-ritto tributario e Corte Costituzionale, Roma, 2006, p. 320.

72 Volendo puntualizzare l’ambito del problema, esso riguarda le prestazioni di natura contributiva e non invece quelle cosiddette commutative. Mentre le prime, infatti, in ra-gione della funzione di ripartizione delle pubbliche spese che ne connota la causa pongono un problema, per così dire, di preventiva e astratta selezione del novero dei soggetti suscet-tibili di essere sottoposti all’obbligo contributivo, un analoga necessità non sussiste in rela-zione alle seconde. Invero, la causa delle prestazioni riconducibili in senso lato alla corri-spettività o onerosità, siccome richieste a fronte del godimento di beni o servizi, reca in sé il criterio esclusivo di selezione del soggetto passivo della prestazione, da identificare in colui che intende fruire dello specifico beneficio, tenuto di conseguenza al pagamento in-dipendentemente dal grado di inserimento e radicamento nella comunità il cui ente espo-nenziale eroga la prestazione. Qui, altrimenti detto, non si tratta di ripartire tra più soggetti l’entità complessiva di una pubblica spesa quanto piuttosto di far pagare ad ognuno di essi il costo della prestazione loro erogata, o che comunque li avvantaggia.

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invece in un livello di omogeneità di disciplina tale da potersi parlare di re-gole comuni.

In quest’ottica, la funzione ed i caratteri essenziali del tributo come rico-struiti dall’esame delle moderne carte costituzionali potrebbero integrare un principio generale di diritto riconosciuto dalle nazioni civili, idoneo ad assurge-re a fonte internazionale, secondo la previsione dell’art. 38 dello Statuto del-la Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite

73. Tale fonte com-prende infatti principî riconosciuti ed applicati nell’ordinamento interno di numerosi Stati e, come tali, aventi una funzione integratrice delle fonti del diritto internazionale pubblico

74. Nella sua dimensione comune all’esperienza dei paesi civili, il tributo po-

trebbe essere dunque identificato come strumento di ripartizione delle pub-bliche spese tra tutti membri di una collettività, adottato con il loro consen-so secondo criteri equi e non discriminatori.

Così enucleati gli aspetti essenziali dell’istituto, un tributo imposto da uno Stato in assenza di un legame ragionevole con l’ordinamento finirebbe per rivelarsi in contrasto con l’essenza stessa del prelievo.

Ad esempio, imporre la partecipazione alle pubbliche spese a un sogget-to non residente in relazione ad attività svolta fuori dal territorio, equivar-rebbe al tentativo di ripartire spese di una comunità sul membro di un’altra comunità, senza che quest’ultimo si trovi ad essere, neppure episodicamen-te, causa delle medesime. La ripartizione travalicherebbe, in sostanza, in una velleitaria vessazione, per definizione iniqua e imposta in difetto di rappre-sentazione del soggetto inciso.

Il problema non riguarderebbe, dunque ed esclusivamente, l’eventuale fa-se di attuazione del tributo (che identifica le c.d. fattispecie ad estraneità proce-dimentale o sopravvenuta), quanto la causa dell’imposizione (andando a inte-ressare le c.d. fattispecie ad estraneità sostanziale od originaria), contraria all’es-senza dei moderni tributi come configuratisi negli ordinamenti degli Stati ci-vili.

73 Sui c.d. principi generali riconosciuti dalle nazioni civili: STROZZI, I principi dell’ordina-mento internazionale, in La Comunità Internazionale, vol. 47, n. 1-2, 1992, p. 162 ss.; DE-GAN, Sources of international law, The Hague, 1997. SALERNO, (voce) Principi generali del diritto (diritto internazionale), in Dig. disc. pubbl., vol. XI, Torino, 1996, p. 524 ss.; GAJA, (voce) Principi generali di diritto (diritto internazionale), in Enc. dir., vol. XXXV, Milano, 1986, p. 533 ss.

74 Di fatto, si può sostenere che i principî generali sono particolari norme consuetudi-narie derivanti dalla ripetizione costante del medesimo principio in molti ordinamenti le-gislativi statali.

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Si tratta di una prospettiva suggestiva, e che vale la pena coltivare anche perché idonea alla maturazione, come avvenuto in altri settori, di forme di protezione dell’individuo di fronte all’arroganza impositiva di singoli Stati che intendono proiettare le proprie velleità impositive oltre il limite di un reasonable link.

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Eugenio Della Valle

TRANSFER PRICE: L’ESIMENTE RELATIVA ALLA RETTIFICA DEL VALORE NORMALE

TRANSFER PRICE: THE JUSTIFICATION IN NORMAL VALUE ADJUSTMENTS

Abstract Con la introduzione dell’esimente relativa alle rettifiche da transfer price che ri-guardano la valorizzazione dei beni o dei servizi scambiati, esimente fondata sulla tenuta di una documentazione conforme agli standard OCSE e al Codice di Con-dotta, il quadro normativo italiano relativo al transfer price può dirsi allineato a quello delle giurisdizioni fiscali più evolute. Le Guidelines dell’OCSE, già indiretta-mente valorizzate dall’istituto del ruling internazionale, fanno così il loro ingresso ufficiale nell’ordinamento tributario passando per la finestra di una esimente anziché per la porta della norma sostanziale di cui all’art. 110 del TUIR. Dubbi sulla costitu-zionalità dell’esimente si pongono in ragione del fatto che la sua concreta applicazio-ne finisce con il dipendere dalla valutazione da parte dell’Amministrazione finanzia-ria circa la idoneità della documentazione prodotta dal contribuente: solo una docu-mentazione “idonea”, infatti, fa scattare l’operatività della esimente in oggetto. Parole chiave: transfer pricing, rettifica del valore normale, documentazione, Guidelines OCSE, ruling internazionale Following the introduction of a justification related to transfer price adjustments regar-ding the appraisal of goods or services supplied, which is based on the maintenance of a documentation complying to both OECD standards and the Code of Conduct, the Ita-lian legal framework concerning transfer price shall be now considered aligned to those of the most developed tax jurisdictions. The OECD Guidelines, which have been already indirectly enhanced with the tool of international ruling, make their official entry in the national tax system passing through the “window” of a justification rather than through the “door” of the substantial discipline of Art. 110, Income Tax Consolidation Act. This justification arises doubts of constitutionality, since its concrete enforcement is subject to

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the previous approval of tax authorities on the correctness of the documentation shown by the taxpayer: only the “appropriate” documentation will lead the taxpayer to bene-fit from such justification. Keywords: transfer pricing, normal value adjustment, documentation, OECD Guide-lines, international ruling

SOMMARIO: 1. L’esimente relativa alle rettifiche da transfer price e l’impatto sulla disciplina previgente. – 2. Il contenuto del comma 2 ter dell’art. 1 del D.Lgs. n. 471/1997: il raggio di operatività dell’esi-mente. – 3. L’“idoneità” della documentazione. – 4. La rilevanza delle Guidelines dell’OCSE e l’onere della prova nelle rettifiche da transfer price.

1. L’esimente relativa alle rettifiche da transfer price e l’impatto sulla disci-plina previgente

Con l’introduzione, ad opera dell’art. 26 del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (conv. con modificazioni dalla L. 30 luglio 2010, n. 122) e del provvedimen-to direttoriale attuativo del 29 settembre 2010, di un’apposita esimente rela-tiva alle rettifiche dei prezzi di trasferimento infragruppo, esimente fondata sulla consegna nel corso dell’attività istruttoria di una idonea documenta-zione di supporto la tenuta della quale sia stata comunicata all’Amministra-zione finanziaria, il nostro ordinamento si è di fatto allineato alle giurisdi-zioni fiscali più evolute in tema di transfer price completando l’iter avviatosi con l’art. 8 del D.L. n. 269/2003 concernente il ruling internazionale

1. Tale ultimo istituto nasceva avendo come “principale riferimento”, tra

l’altro, il regime dei prezzi di trasferimento ed ha finito per fornire indiret-tamente copertura normativa interna, anche mercè il provvedimento diret-toriale attuativo del 28 luglio 2004, alle Guidelines dell’OCSE sui prezzi di trasferimento, l’ultima versione delle quali è del luglio del 2010. Com’è no-

1 Si legge nella Circolare dell’Agenzia delle Entrate 15 dicembre 2010, n. 58/E, conte-nente chiarimenti sul funzionamento dell’esimente, che la novità in oggetto «si pone qua-le ulteriore, decisivo passo evolutivo verso una globale normazione a fini fiscali delle rela-zioni tra imprese residenti e imprese associate non residenti, rivolgendosi implicitamente a tutti quei contribuenti che, trovandosi in taluna delle condizioni elencate all’art. 110, comma 7, T.U.I.R., non hanno tuttavia deciso di avvalersi dell’istituto del ruling interna-zionale».

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to, costituisce argomento tradizionalmente dibattuto quello dei rapporti tra le norme sulla determinazione del valore normale di cui all’art. 9 del Tuir e le previsioni in tema di prezzo di libera concorrenza di cui alle sud-dette Guidelines, per alcuni autori le seconde non trovando ingresso nel no-stro ordinamento, se non forse per il metodo del confronto del prezzo, il c.d. CUP (Comparable Uncontrolled Price)

2, o, al limite, per i metodi tradiziona-li, quantomeno senza il filtro di un trattato bilaterale conforme al modello OCSE

3. A ben vedere in senso opposto a tale orientamento si poneva già l’intro-

duzione di una procedura di ruling di standard internazionale quale quella di-sciplinata dal suddetto art. 8 del D.L. n. 269/2003, ispirata agli advance pricing agreements (unilaterali) contemplati nelle citate Guidelines dell’OCSE

4, pro-cedura volta alla determinazione concordata del valore normale (rectius: dei metodi per calcolarlo) nelle transazioni soggette all’applicazione del settimo comma dell’art. 110 del Tuir. Ed invero una procedura siffatta se non può certo giustificarsi in funzione dell’applicazione delle scarne previsioni dedi-cate alla determinazione del valore normale contenute nel terzo comma dell’art. 9 del Tuir

5, assume ben altra utilità quando rapportata alla comples-sa gestione delle Guidelines dell’OCSE e della pluralità di metodi di determi-nazione del prezzo di libera concorrenza ivi contemplati.

Con la disciplina attuativa dell’esimente introdotta con il citato art. 26 del D.L. n. 78/2010 le Guidelines dell’OCSE irrompono definitivamente nel-l’ordinamento interno giacché il contenuto della documentazione su cui si fonda l’esimente medesima, quale risulta dal provvedimento del Direttore

2 Così Cass., sez. trib., 31 marzo 2011, n. 7343, in Big Unico, Ipsoa. 3 Tra gli altri v. CORDEIRO GUERRA, La disciplina del transfer price nell’ordinamento ita-

liano, in Riv. dir. trib., 2000, I, p. 421 ss. (spec. pp. 438 e 439) e TOSI, Transfer pricing – di-sciplina interna e regime convenzionale, in Il Fisco, 2001, p. 2184 ss. (spec. pp. 2190 e 2191).

4 V. ROMANO, Il ruling internazionale, in AA.VV., Imposta sul reddito delle società (IRES), a cura di Tesauro Bologna, 2007, p. 990 ss.

5 Sul quale v. da ultimo la citata Cass. n. 7343/2011, secondo cui «le c.d. “remise”, ov-verosia le riduzioni percentuali del prezzo praticate nei soli rapporti economici (“opera-zioni”) con società considerate nell’art. 110, comma 7, del cit. T.U.I.R., non costituiscono gli “sconti d’uso” contemplati dall’art. 9, comma 3, del medesimo T.U.I.R. perché le ridu-zioni percentuali del prezzo di “listino” e/o di “tariffa” che la norma prende in considera-zione quali “sconti d’uso” sono unicamente quelle usualmente praticate dal “soggetto” sui propri “listini” o sulle proprie “tariffe” (se esistenti) per le operazioni concluse “in condi-zioni di libera concorrenza”, ovverosia per le operazioni economiche concluse con soggetti estranei al proprio gruppo economico».

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dell’Agenzia delle Entrate del 29 settembre 2010, risente fortemente delle predette direttive.

Ma procediamo con ordine. Con il citato art. 26 del D.L. n. 78/2010 è stato inserito, all’interno del-

l’art. 1 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, concernente le violazioni relati-ve alla dichiarazione delle imposte dirette, un nuovo comma, il 2 ter, nel qua-le si prevede che, «In caso di rettifica del valore normale dei prezzi di trasfe-rimento praticati nell’ambito delle operazioni di cui all’art. 110, comma 7, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 da cui derivi una maggiore imposta o una differenza del credito», la sanzione relativa al caso di infedele dichiara-zione dei redditi «non si applica qualora, nel corso dell’accesso, ispezione o verifica o di altra attività istruttoria, il contribuente consegni all’Amministra-zione finanziaria la documentazione indicata in apposito provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate idonea a consentire il riscontro della con-formità al valore normale dei prezzi di trasferimento praticati»; e ciò sem-preché della tenuta della documentazione sia data comunicazione all’Am-ministrazione finanziaria secondo le modalità ed i termini indicati nel pre-detto provvedimento («In assenza di detta comunicazione», si legge anco-ra nell’ultimo periodo del nuovo comma 2 ter dell’art. 1 del D.Lgs. n. 471/1997, «si rende applicabile il comma 2»).

Trattasi di previsione che esplica effetti anche per i periodi d’imposta an-teriori a quello in corso alla data di entrata in vigore del decreto-legge in questione e per tali periodi la comunicazione circa la tenuta della documen-tazione andava fatta entro il 28 dicembre 2010 ossia entro novanta giorni dalla pubblicazione del sopra citato provvedimento del Direttore dell’Agen-zia delle entrate (pubblicazione avvenuta il 29 settembre 2010) ovvero an-che successivamente ancorché prima dell’inizio di accessi, ispezioni, verifi-che o altre attività amministrative di accertamento delle quali il soggetto ab-bia avuto formale conoscenza.

La ratio della previsione in oggetto, come si legge nella relazione illustra-tiva al decreto-legge, consiste in ciò che la tenuta di una documentazione sui prezzi di trasferimento infragruppo standardizzata consente di incrementare l’efficacia dell’azione di controllo dell’Amministrazione finanziaria sulle operazioni infragruppo cui si riferisce l’art. 110, comma 7, del Tuir, control-lo reso oggi difficile, «in mancanza di un’adeguata collaborazione da parte del contribuente, essendo caratterizzato da elementi di rilevante complessi-tà, anche tecnica». La previsione medesima, si legge ancora nella relazione illustrativa, «costituisce una efficace leva motivazionale nei confronti di tut-te le imprese residenti appartenenti a gruppi multinazionali per adeguarsi

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all’onere imposto per legge, senza attendere il momento del controllo o del-la verifica» ed è «in linea con i principi fondamentali che disciplinano il rapporto tra Fisco e contribuente».

Per quanto riguarda specificamente l’obbligo di comunicare all’Ammini-strazione finanziaria la tenuta della documentazione, la relazione illustrativa lo giustifica nel senso di «consentire all’Amministrazione fiscale, di proce-dere ad una più efficace analisi preliminare dello specifico rischio fiscale, so-prattutto con riferimento a quei soggetti privi della stessa»

6. In altri termini, non tenere la documentazione aumenta le possibilità di innesco del control-lo.

2. Il contenuto del comma 2 ter dell’art. 1 del D.Lgs. n. 471/1997: il raggio di operatività dell’esimente

Come opera l’esimente? Per quanto riguarda i soggetti cui la stessa si rivolge, trattasi evidente-

mente di tutte le imprese residenti che rappresentano il polo interno degli scambi infragruppo transnazionali soggetti alla regola di cui all’art. 110, com-ma 7, del Tuir (sono dunque fuori le imprese minori cui tale disposizione non risulta applicabile). Nel concetto di impresa residente dovendosi peral-tro ricomprendere anche la stabile organizzazione italiana del soggetto non residente

7. L’inserimento dell’esimente nell’art. 1 del D.Lgs. n. 471/1997 consente

innanzi tutto di affermare come essa operi con riferimento alla sola sanzione amministrativa (inclusa quella relativa all’infedele dichiarazione IRAP

8 lad-

6 Un’espressione analoga si rinviene nel par. 1 della sez. 1 dell’Allegato del Codice di Condotta relativo alla documentazione su prezzi di trasferimento UE approvato con riso-luzione del Consiglio del 27 giugno 2006 (2006/C 176/01).

7 È interessante notare come l’Amministrazione finanziaria ritenga applicabile l’art. 110, comma 7, del Tuir anche al caso di operazione infragruppo che intervenga tra società (una residente ed una non residente) entrambe controllate da una persona fisica laddove, diversamente, la predetta disposizione fa riferimento alla sottoposizione a comune con-trollo da parte di società (ossia il comune controllante deve essere una società): in tal senso v. il par. 4.1 della Circolare dell’Agenzia delle Entrate 21 giugno 2011, n. 28/E.

8 Come chiarito dalla citata Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 58/E del 2010: il chiarimento, tuttavia, desta qualche perplessità giacché, per effetto dell’art. 1, comma 50, della L. n. 244/2007, la determinazione dell’imponibile IRAP delle società di capitali e de-gli enti commerciali residenti si basa oggi quasi integralmente sui dati del bilancio d’eser-

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dove, invece, la rettifica del valore normale ai sensi dell’art. 110, comma 7, del Tuir, secondo l’opinione che prevale in dottrina, parrebbe poter assu-mere rilevanza penale (quantomeno ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il quale prevede come delitto, al superamento di certe soglie di imposta evasa ed imponibile occultato, il fatto di chiunque indichi in dichia-razione annuale «elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effet-tivo od elementi passivi fittizi»)

9. Trattasi di un profilo che probabilmente non va sopravvalutato conside-

rato che le ipotesi di reato di cui all’art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000 che possono venire in considerazione nella specie sono delitti punibili a titolo di dolo specifico e che, in presenza di una documentazione sui prezzi di trasferi-mento che non sia artatamente volta all’ottenimento di un determinato ri-sultato reddituale (perché, ad esempio, fondata su comparables inesistenti), l’elemento soggettivo (l’aver agito al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto) dovrebbe normalmente difettare. Oltretutto vi è in dot-trina chi, valorizzando la funzione di supporto per l’esatta comprensione del valore di taluni componenti del conto economico di fatto svolta dalla do-cumentazione cui fa riferimento il nuovo comma 2 ter dell’art. 1 del D.Lgs. n. 471/1997, ritiene possa trovare applicazione nella specie l’art. 7, comma 1, del D.Lgs. n. 74/2000 secondo cui non costituiscono fatti penalmente sanzionabili «le rilevazioni e le valutazioni estimative rispetto alle quali i cri-teri concretamente applicati sono stati comunque indicati in bilancio»

10. Coprendo la sola rettifica «del valore normale dei prezzi di trasferimen-

to», l’esimente in questione non trova applicazione nel caso in cui il prezzo di trasferimento non sia deducibile per l’impresa residente in ragione vuoi del difetto di inerenza, vuoi della mancanza di effettività della stessa

11. Il che evidentemente diminuisce molto l’appeal dell’esimente se si considera che molte rettifiche concernenti i prezzi di trasferimento riguardano casi di ser-vizi infragruppo in cui i verificatori contestano l’utilità ovvero il beneficio cizio onde non dovrebbe applicarsi in tale ambito impositivo la previsione di cui all’art. 110, comma 7, del Tuir (il chiarimento andrebbe pertanto letto nel senso che il riferimen-to all’IRAP riguarda i periodi d’imposta ante 2008).

9 Sugli eventuali effetti sanzionatori penali della violazione dell’art. 110, comma 7, del Tuir, v., da ultimo, VALENTE-CARACCIOLI, Rischi penal-tributari potenzialmente configurabili nel “transfer pricing”, in Corr. trib., 2011, p. 2616 ss.

10 In questo senso v. GAFFURI, La nuova disciplina in tema di documentazione sui prezzi di trasferimento, in corso di pubblicazione in Rass. trib., 2011, p. 18 ss. del dattiloscritto.

11 Nel senso della non applicazione dell’esimente nel caso di deduzione di costi non inerenti v. il par. 4.5 della citata Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 28/E del 2011.

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dagli stessi ritraibile onde disconoscere l’inerenza dei relativi costi. L’esimente in questione, inoltre, non esclude che vengano in considera-

zione, in materia di rettifiche da transfer price, altre cause di non punibilità, ad esempio quella contemplata nell’art. 6, comma 1, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 per cui «non si considerano colpose le violazioni conseguenti a valutazioni estimative ... se differiscono da quelle accertate in misura non ec-cedente il cinque per cento» (alla quale corrisponde nel D.Lgs. n. 74/2000 la previsione contenuta nell’art. 7, comma 1, secondo cui «non danno luogo a fatti punibili a norma degli artt. 3 e 4 le valutazioni estimative che, singolar-mente considerate, differiscono in misura inferiore al dieci per cento da quelle corrette»). Può darsi infatti il caso del contribuente non munito di documen-tazione che, nel determinare erroneamente il prezzo di trasferimento dell’o-perazione infragruppo transnazionale, non superi la soglia di tolleranza pre-vista nella causa di non punibilità da ultimo citata

12. La non applicazione della sanzione di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs.

n. 471/1997 risulta peraltro condizionata non solo alla consegna della do-cumentazione al personale ispettivo previamente comunicata all’Ammini-strazione finanziaria ai militari della Guardia di Finanza)

13, ma anche alla sua «idoneità». Il nuovo comma 2 ter del suddetto art. 1, infatti, prevede che il contribuente debba consegnare all’Amministrazione una documentazione che risulti «idonea a consentire il riscontro della conformità al valore nor-male dei prezzi di trasferimento praticati». Dunque non una documenta-zione purchessia funge da esimente, ma una documentazione che in concre-to appaia dotata di un certo grado di affidabilità, tale essendo, almeno sotto un profilo formale, quella individuata nel citato provvedimento direttoriale attuativo.

12 A ben vedere anche l’esimente dell’obiettiva incertezza della normativa tributaria, di cui agli artt. 6, comma 2, del D.Lgs. n. 472/1997, 10, comma 3, della L. n. 212/2000 ed 8 del D.Lgs. n. 546/1992, potrebbe venire in considerazione in materia di rettifiche ex art. 110, comma 7, del Tuir: si pensi ad esempio alla violazione di tale norma determinata da un’errata interpretazione del concetto di controllo cui si fa ivi riferimento.

13 Che la predisposizione della documentazione debba precedere la comunicazione al-l’Amministrazione finanziaria effettuata con la dichiarazione annuale diversamente risul-tando inapplicabile l’esimente è sostenuto, tra gli altri, da v. GAFFURI, op. loc. cit., 6 del dat-tiloscritto (è chiaro che in questa prospettiva occorre porsi il problema di come provare la predisposizione anteriore alla comunicazione); una soluzione alternativa, meno rigida, po-trebbe essere quella di ritenere che la predisposizione della documentazione possa avveni-re anche dopo la “comunicazione” purché nel termine di dieci giorni dalla richiesta di con-segna da parte dell’organo ispettivo.

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3. L’“idoneità” della documentazione

Il provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate del 29 settem-bre 2010, in conformità a quanto previsto dal comma 2 ter dell’art. 1 del D.Lgs. n. 471/1997, prende posizione sul set di documentazione astratta-mente idonea a consentire il riscontro della conformità al valore normale dei prezzi di trasferimento praticati nonché sulle modalità e sui termini della comunicazione all’Amministrazione finanziaria relativa alla tenuta della do-cumentazione medesima

14. Il modello di riferimento relativo al set di documentazione ed al relativo

contenuto è quello di cui alla Sezione 1 dell’Allegato del Codice di Condot-ta sulla documentazione sui prezzi di trasferimento UE approvato con la ri-soluzione del Consiglio dell’Unione Europea del 27 luglio 2006 composta dal c.d. Masterfile e dalla Documentazione nazionale (country specific docu-mentation).

Il primo documento riguarda le informazioni generali relative a tutte le imprese del gruppo multinazionale (descrizione generale del gruppo, struttu-ra organizzativa, strategie generali, flussi delle operazioni, operazioni infra-gruppo, funzioni svolte, beni strumentali impiegati e rischi assunti, transfer pricing policy e APA o ruling ottenuti: v. il punto 2.1. del provvedimento), mentre il secondo quelle relative all’impresa residente coinvolta dall’appli-cazione dell’art. 110, comma 7, del Tuir (descrizione generale della società, settori in cui opera, struttura operativa, strategie generali, operazioni infra-gruppo con l’indicazione dell’analisi di comparabilità e del metodo di de-terminazione del prezzo di trasferimento adottato e gli accordi per la ripar-tizione di costi cui la società partecipa: punto 2.2. del provvedimento). È chiaro che è quest’ultimo documento quello destinato a contenere le infor-mazioni più direttamente attinenti al processo di formazione dei prezzi pra-ticati nelle transazioni infragruppo in cui è parte l’impresa residente control-lata

15. L’onere documentale varia, secondo quanto previsto dal provvedimento,

in funzione del tipo di impresa residente che viene volta a volta in conside-

14 Sul funzionamento della nuova esimente v., tra gli altri, FERRANTI, Finalità ed effetti degli oneri documentali per il transfer pricing, in Corr. trib., 2011, p. 173 ss.; VALENTE, Valu-tazioni sulla comunicazione sul possesso della documentazione nel “transfer pricing”: casistica, ivi, 2011, p. 2124 ss.; CORDEIRO GUERRA-DORIGO, La documentazione dei prezzi di trasfe-rimento, ivi, 2010, p. 2732.

15 Come rileva GAFFURI, op. cit., 2 del dattiloscritto, nota 2.

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razione e questo in ragione del fatto che il livello di informazioni richiesto deve tener conto della capacità di accesso alle stesse da parte della singola impresa. Ed invero il polo domestico dell’operazione attratta nel raggio di applicazione dell’art. 110, comma 7, del Tuir può consistere, a seconda dei casi, in una holding residente, in una sub-holding residente, in una partecipa-ta residente ovvero ancora in una stabile organizzazione italiana di un sog-getto non residente (la definizione di tali soggetti è contenuta nell’art. 1 del provvedimento).

Ebbene, per la partecipata residente documentazione formalmente «idonea» è solo quella nazionale laddove per la holding, la sub-holding e la stabile organizzazione italiana di un soggetto non residente, a sua volta qua-lificabile come holding o sub-holding, entrambi i suddetti documenti rilevano ai fini dell’applicazione dell’esimente; nel caso della sub-holding, peraltro, il Masterfile può contenere le sole informazioni che interessano il sotto-grup-po al cui vertice è posta la sub-holding medesima ed è ammessa la produzio-ne (anche in lingua inglese) del Masterfile relativo all’intero gruppo cui ap-partiene la sub-holding predisposto da altro soggetto non residente (e resi-dente nella UE o, comunque, in un Paese con il quale esiste un trattato con-tro le doppie imposizioni ovvero un accordo per lo scambio di informazio-ni

16 in conformità ai contenuti del Codice di condotta (salvo integrarlo qua-lora rechi minori informazioni relative al sotto-gruppo facente capo alla sub-holding rispetto a quelle desumibili dallo schema di Masterfile contenuto nel provvedimento).

Il contenuto dei due documenti che rilevano ai fini dell’applicazione del-l’esimente (Masterfile e Documentazione nazionale) ricalca sostanzialmente quello indicato nell’Allegato del Codice di condotta e risulta arricchito da una serie di «istruzioni» sulla relativa confezione.

Per quanto attiene alla Documentazione nazionale, centrale è il ruolo de-stinato ad essere svolto dall’analisi di comparabilità con i cinque fattori che assumono rilevanza nella confrontabilità tra operazioni infragruppo ed ope-razioni effettuate tra parti indipendenti (trattasi dei seguenti fattori: a) Ca-ratteristiche dei beni e dei servizi, b) Analisi delle funzioni svolte, dei rischi assunti e dei beni strumentali utilizzati, c) Termini contrattuali, d) Condi-zioni economiche ed e) Strategie d’impresa) e dalla selezione del metodo a-dottato per la determinazione del prezzo di trasferimento. In proposito è in-teressante notare come condivisibilmente l’Agenzia delle Entrate, nella cir-

16 V. il par. 6.1. della citata Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 58/E del 2010.

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colare esplicativa dei nuovi oneri documentali, abbia chiarito che «l’even-tuale sindacato in sede di verifica della scelta del metodo e/o delle ragioni addotte dal contribuente a difesa delle proprie scelte, in nessun caso costi-tuisce presupposto autonomamente idoneo all’esclusione dal regime pre-miale stabilito dalla norma». Ragionando diversamente ossia escludendosi l’operatività dell’esimente sol perché sia discutibile la selezione del metodo adottato dal contribuente, infatti, diminuirebbe enormemente l’appetibilità del nuovo regime.

Quanto all’aspetto relativo alle modalità ed ai termini della comunicazio-ne all’Amministrazione finanziaria concernente la documentazione in que-stione, questa, secondo quanto prevede il provvedimento direttoriale attua-tivo, va redatta annualmente per singolo periodo d’imposta relativamente alle operazioni poste in essere dal contribuente che siano soggette alla citata regola del valore normale (piccole e medie imprese, tuttavia, possono non aggiornare alcuni dati), nonché comunicata all’Agenzia delle entrate con la presentazione della dichiarazione dei redditi

17. Per i periodi d’imposta ante-riori a quello in corso al 31 maggio 2010 la comunicazione per via telema-tica, ove non effettuata entro il 28 dicembre 2010, può sempre essere effet-tuata sempreché preceda l’inizio di accessi, ispezioni, verifiche o altre attivi-tà amministrative di accertamento (relative al comparto impositivo cui si riferisce il regime in oggetto

18 delle quali il soggetto abbia avuto formale co-noscenza

19. La documentazione in oggetto va redatta in lingua italiana e, come detto,

è ammessa la lingua inglese nel solo caso della sub-holding residente nel no-stro Paese che esibisca, non il Masterfile del gruppo che ad essa faccia capo,

17 La predisposizione con cadenza annuale della documentazione non risulta in linea con il divieto comunitario di imporre al contribuente oneri di compliance eccessivamente gravosi (ex plurimis v. la sent. della Corte di Giustizia UE SGI del 21 gennaio 2010, causa C-311/08), né con il contenuto del Codice di condotta il quale non contempla alcun one-re preventivo limitandosi a prevedere la messa a disposizione della documentazione su ri-chiesta, indipendentemente dal momento e dalle modalità concrete con le quali essa sia stata predisposta (in questi termini CORDEIRO GUERRA-DORIGO, La documentazione dei prezzi di trasferimento, cit., i quali notano come anche le Guidelines dell’OCSE lascino al contribuente ampia discrezionalità in punto di storage della documentazione in oggetto).

18 Così la citata Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 28/E del 2011, par. 4.3. 19 V. il punto 9.2 del provvedimento attuativo (per «formale conoscenza» dovrebbe

intendersi «notifica»: sul punto v., ex plurimis, circolare 1° ottobre 2001, n. 85/E, par. 9, in Banca Dati BIG, Ipsoa; Id. 10 ottobre 2009, n. 43/E, par. 10, ivi); uno speciale regime transitorio è delineato nella citata Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 58/E del 2011 quanto a verifiche in corso e ad accertamenti già notificati.

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ma quello relativo all’intero gruppo. Sia il Masterfile che la Documentazione nazionale devono essere siglati in ogni pagina dal legale rappresentante del contribuente onerato o da un suo delegato e firmati in calce all’ultimo foglio dal medesimo o autenticati mediante firma elettronica

20. Quanto poi alle modalità di consegna della documentazione, il provve-

dimento direttoriale di settembre 2010 (v. punto 8) prevede innanzi tutto che la documentazione vada consegnata entro e non oltre dieci giorni dalla richiesta con la possibilità di fornire informazioni supplementari entro una settimana dalla relativa domanda e che «decorsi i suddetti termini, l’am-ministrazione … non è vincolata all’applicazione» dell’esimente. Il che apre le porte all’interrogativo di cosa accada nel caso in cui la documentazione venga presentata oltre il termine, ma prima che si concludano le operazioni investigative; una lettura nel senso che in tal caso l’amministrazione, qualo-ra non concordasse con i risultati cui è pervenuto il contribuente in punto di determinazione dei prezzi di trasferimento infragruppo, possa decidere di-screzionalmente se irrogare o meno la sanzione, presenta invero profili di dubbia legittimità costituzionale

21. La documentazione va inoltre presentata in formato elettronico ossia è

richiesta la presentazione di un documento digitalizzato in formato non mo-dificabile, sebbene l’esibizione in formato cartaceo non escluda l’applicazio-ne dell’esimente ove la documentazione sia resa disponibile entro un termi-ne congruo assegnato dagli incaricati del controllo.

Fermo quanto sopra relativamente agli aspetti formali, il set documentale in oggetto, rende applicabile l’esimente ovviamente solo se anche “sostan-zialmente idoneo”. Al riguardo il punto 8.3. del provvedimento direttoriale attuativo non elimina del tutto le perplessità relative alla conformità a Costi-

20 Il punto 8.1 del provvedimento prevede che, «Nel caso di Masterfile prodotto da so-cietà appartenente ad un gruppo multinazionale con capo-gruppo residente in un Paese dell’Unione europea che ha adottato il Codice di condotta, la firma del rappresentante le-gale del contribuente onerato fa fede della conformità della copia esibita all’Autorità fiscale nazionale all’originale del documento».

21 V. GAFFURI, op. loc. cit., 4 del dattiloscritto, secondo cui la decisione dell’Amministra-zione, discrezionale, andrebbe assunta «tenendo conto presumibilmente e prioritariamen-te dell’entità del ritardo e delle cause di giustificazione addotte»; la mancata tempestiva consegna della documentazione pone l’ulteriore problema, per il quale si rinvia ancora ad GAFFURI, op. loc. cit., dei rapporti con l’art. 32, comma 4, del d.P.R. n. 600/73 secondo cui «le notizie ed i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio non possono essere presi in considerazione a fa-vore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa. Di ciò l’ufficio deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta».

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tuzione di un’esimente la cui applicazione implica una previa valutazione di congruità del contenuto della documentazione da parte dell’Amministrazio-ne finanziaria.

Ed invero, secondo quanto previsto dall’anzidetta disposizione del prov-vedimento, la presentazione della documentazione non vincola l’Ammini-strazione e l’esimente non viene dalla stessa applicata allorquando, pur es-sendo rispettata la struttura formale di cui ai punti 2.1. (Masterfile) e 2.2. (Documentazione nazionale), i contenuti informativi non risultino comple-ti e conformi alle disposizioni del provvedimento ovvero le informazioni fornite non corrispondano in tutto o in parte al vero.

Ed anche se è precisato che «omissioni o inesattezze parziali e tali da non pregiudicare l’analisi dei verificatori e la correttezza degli esiti di detta analisi e l’omissione degli allegati indicati nel punto 2.2. non costituiscono causa ostativa all’applicazione dell’esimente»

22, rimane il fatto che l’applica-zione dell’esimente e, quindi, l’irrogazione o meno della sanzione viene co-munque a dipendere da un giudizio, quello sulla idoneità sostanziale della documentazione, espresso dall’Amministrazione finanziaria. L’unica inter-pretazione possibile della norma in questione è, dunque, quella che consen-te al giudice tributario, allorquando venga impugnata l’irrigazione della san-zione, di sindacare l’eventuale valutazione di inidoneità della documenta-zione.

4. La rilevanza delle Guidelines dell’OCSE e l’onere della prova nelle rettifi-che da transfer price

Come si è sopra anticipato, dalla disciplina dell’esimente in questione e-merge la centralità delle Guidelines dell’OCSE sui prezzi di trasferimento, metodi inclusi. La rilevanza delle direttive OCSE così, passando per l’appli-cazione dell’esimente, si estende indirettamente alla determinazione dell’im-ponibile dell’impresa residente coinvolta dalla regola del valore normale di cui all’art. 110, comma 7, del Tuir.

Potrebbe in effetti dubitarsi circa la legittimità di una siffatta rilevanza. La norma sostanziale relativa alla determinazione del valore normale dei beni e dei servizi scambiati nelle transazioni infragruppo transnazionali ossia l’art.

22 Gli allegati cui fa riferimento il punto 8.3. del provvedimento sono quelli relativi al diagramma di flusso destinato a descrivere i flussi delle operazioni e la copia dei contratti scritti in base ai quali le operazioni di cui ai capitoli 5 e 6 sono regolate.

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9 del Tuir (cui rinviano i commi 2 e 7 dell’art. 110 del medesimo Tuir) non è cambiata con l’introduzione dell’esimente e dunque i criteri di determina-zione del suddetto valore normale dovrebbero essere solo quelli ivi indicati (salvo forse il caso in cui i metodi OCSE trovino ingresso per l’operare della copertura di un trattato contro la doppia imposizione tipo OCSE).

Si potrebbe insomma sostenere che un conto è la funzione esimente del-la documentazione conforme agli standard OCSE, altro imporre al contri-buente le previsioni di cui alle Guidelines dell’OCSE che impattano sulla de-terminazione dell’imponibile e tra queste anche quelle contenute nel nuovo capitolo IX relativo alle Business Restructurings. Una tale imposizione non potendo realizzarsi, né operando sulla concreta disciplina dell’esimente, né a livello di ruling internazionale, bensì con una diretta modifica vuoi dell’art. 110, comma 7, del Tuir, vuoi dell’art. 9 dello stesso Tuir.

Quale invece l’impatto dell’esimente sul tema dell’onere della prova nelle rettifiche da transfer price che riguardano la determinazione del valore nor-male? La tentazione di ricavarne l’effetto di invertire l’onere della prova, nel caso che ne occupa ordinariamente ricadente sull’Amministrazione finan-ziaria

23, è forte. Ed invero documentare l’analisi di comparabilità e la sele-zione del metodo di determinazione del prezzo di trasferimento in effetti rappresenta molto in termini di assolvimento dell’onus probandi. Non direi, tuttavia, che lo esaurisca ove si ponga mente al fatto che l’onere della prova nella materia che ne occupa, in cui si ha a che fare con valori, va inteso come onere argomentativo. In presenza della documentazione esimente spetta dunque all’Amministrazione finanziaria argomentare lo scostamento tra va-lore normale e dichiarato allegando eventuali vizi nel percorso logico che ha condotto alla selezione del metodo di determinazione del prezzo di trasferi-mento ed alla individuazione di determinati comparables.

Il tema è comunque sfuggente giacché la regola del valore normale nelle

23 V. Cass. 19 gennaio 2007, n. 11226 e Cass. 13 ottobre 2006, n. 22023, entrambe in Big Unico, Ipsoa (la fattispecie su cui si è espressa la Suprema Corte è quella dei costi so-stenuti da una società italiana per l’acquisto di autovetture da una propria “consorella” estera); tuttavia nel senso che «la determinazione del valore normale dei singoli beni, ne-cessario per la valutazione dei ricavi relativi alle vendite alle società estere consociate, è compito del contribuente» v. Comm. trib. prov. di Milano, sez. XXXI, 13 marzo 2009, n. 87, in Big Unico, Ipsoa. Sull’opzione interpretativa secondo cui nel caso il prezzo di trasfe-rimento rilevi come costo per l’impresa residente, questa debba dimostrane la congruità, sia consentito rinviare al mio Art. 110, commi 2 e 7, in TINELLI (a cura di), Commentario al Testo Unico delle imposte sui redditi, Padova, 2009, p. 1022 ss., cui da ultimo adde MARCHE-SELLI, “Transfer price” e differenze inventariali: le garanzie dei contribuenti, in Corr. trib., 2011, p. 1594 ss.

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transazioni infragruppo transnazionali è rivolta al contribuente prima anco-ra che all’Amministrazione finanziaria. Trattandosi di regola sostanziale sul-la determinazione dell’imponibile, è il contribuente che alla stessa deve uni-formarsi nel momento in cui redige la dichiarazione dei redditi, ciò da cui è logico dedurne che dovrebbe essere in grado di dare a sé la prova dell’osser-vanza della regola; senza considerare il fatto che un problema di osservanza della regola si potrebbe porre già a livello di bilancio d’esercizio se è vero come è vero che, da un lato, l’art. 2427 c.c. prevede al n. 22 bis che la nota integrativa debba indicare «le operazioni realizzate con parti correlate, pre-cisando l’importo, la natura del rapporto e ogni altra informazione necessa-ria per la comprensione del bilancio relativa a tali operazioni, qualora le stesse siano rilevanti e non siano state concluse a normali condizioni di mer-cato» e, dall’altro, la delibera CONSOB 12 marzo 2010, n. 17221, nel disci-plinare le operazioni con parti correlate, prevede, tra l’altro, che il documen-to informativo relativo a dette operazioni debba «descrivere le modalità di determinazione del corrispettivo dell’operazione, nonché le valutazioni sul-la congruità dello stesso rispetto ai valori di mercato di operazioni simili».

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LA “FISCALITÀ” DELL’ACQUA TRA “FEDERALISMO” FISCALE E PRIVATIZZAZIONE

DELLA DISCIPLINA E DELLA GESTIONE

THE “TAX REGIME” OF WATER BETWEEN FISCAL “FEDERALISM” AND PRIVATISATION

OF ITS DISCIPLINE AND MANAGEMENT

Abstract L’acqua può essere considerata sia quale elemento strutturale di una fattispecie tribu-taria sia quale “bene pubblico” da proteggere attraverso strumenti fiscali disincenti-vanti sia, infine, come oggetto di cessioni e prestazioni rese da un ente societario. Il ruolo del “federalismo fiscale” espresso nella L. n. 42/2009 e nei successivi de-creti, da un lato, consente alle Regioni di istituire nuovi tributi locali con forti ca-ratteristiche ambientali e territoriali e con una peculiare destinazione del paga-mento ma, dall’altro, i Comuni possono istituire tasse ad orientamento ambien-tale solo previa legge statale o regionale; in entrambi i casi la tassazione locale potrebbe soddisfare esigenze di tutela ambientale così come essere un supporto per l’implementazione del principio europeo “chi inquina paga”. La frequente gestione diretta degli acquedotti da parte di società partecipate sia da privati che da enti pubblici non esclude la natura tributaria della somma paga-ta per l’erogazione in assenza di un regime di concorrenza e nonostante la forma societaria nell’erogazione dei beni e servizi. Parole chiave: fiscalità locale, acqua, ambiente, prezzo, bene pubblico, chi in-quina paga Water shall be considered a structural element of a tax, a “public good” deserving le-

Lavoro svolto nell’ambito del Progetto di ricerca di base finanziata dalla L.R. Sarde-gna n. 7/2007.

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gal protection through fiscal disincentives, and the object of private companies’ eco-nomic activities. The function of “fiscal federalism” provided by Law No. 42/2009 and subsequent de-crees, on one hand, allows the Regions to introduce new local taxes with strong envi-ronmental and territorial characters and a peculiar destination of their revenue and, on the other hand, Municipalities shall establish environmental taxes only if provided by State or Regional laws. In both cases, local taxation will achieve the goal of envi-ronmental protection and enforce the European “polluters pay principle”. The frequent direct management of aqueducts by public or private owned companies does not exclude the fiscal nature of the amount paid for water supply, in absence of a competition law framework and notwithstanding the corporation form in supplying goods and services. Keywords: local taxation, water, enviroment, price, public good, polluters pay principle

SOMMARIO: 1. L’acqua e il diritto tributario. Le possibili relazioni con un presupposto tributario e con le diver-se modalità di “gestione”. La necessaria delimitazione dell’indagine. – Parte I. Il quadro generale. – 2. L’acqua e la fiscalità locale nel “federalismo” fiscale. L’autonomia tributaria delle Regioni, delle Province e dei Comuni alla luce della legge delega n. 42/2009 e dei decreti delegati. Le diverse de-clinazioni del concetto di “fiscalità” regionale e la pluralità dei riferimenti verbali nella legge delega n. 42/2009. – 3. Brevi cenni al coordinamento tra i diversi livelli di governo tra Titolo V della Co-stituzione e legge delega. – 3.1. Le indicazioni ritraibili dal Titolo V della Costituzione e dalla sent. n. 102/2008 della Corte costituzionale. – 3.2. (Segue) I diversi livelli del coordinamento e i limiti all’autonomia normativa tributaria regionale contenuti nella legge delega n. 42/2009. – 4. La di-stinzione tipologica tra tributi propri derivati e tributi propri in senso stretto. I tributi propri deri-vati. Il ruolo del criterio della territorialità. – 5. I tributi propri in senso stretto e i criteri di distin-zione interna tra imposte e tasse regionali proprie. – 6. Fiscalità regionale, fiscalità di vantaggio ed agevolazioni fiscali; il criterio dell’insularità e le indicazioni ritraibili dalla giurisprudenza comuni-taria. – 7. La fiscalità delle Regioni a Statuto speciale. – 8. Fiscalità regionale e autonomia degli en-ti locali territoriali diversi dalle Regioni (Province e Comuni e città metropolitane). – 9. Indica-zioni dal D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23 in materia di “federalismo fiscale municipale” e dal D.Lgs. 6 maggio 2011, n. 68. L’imposta di scopo comunale, provinciale e delle città metropolitane. – 10. Cenni agli elementi caratterizzanti il prelievo di natura tributaria rispetto a quelli dell’erogazione di natura privatistica corrispettiva. – Parte II. Federalismo fiscale e fiscalità dell’acqua. – 11. Le im-plicazioni dell’autonomia normativa tributaria delle Regioni e degli enti locali sulla “fiscalità” loca-le dell’acqua. – 12. (Segue) Imposta di scopo e “fiscalità” dell’acqua. – 13. Gestione ed erogazione dell’acqua, servizio idrico e qualificazione del “prezzo” ai fini tributari: profili sostanziali e procedi-mentali. – 13.1. Il quadro normativo e la rilevanza dell’esito referendario. – 13.2. (Segue) Alcune indicazioni dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, dalla prassi ministeriale e da espe-rienze normative contigue. – 13.3. La qualificazione tributaria del “prezzo” ai fini Iva; il principio “chi inquina paga” non esclude la natura tributaria del pagamento.

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1. L’acqua e il diritto tributario. Le possibili relazioni con un presupposto tri-butario e con le diverse modalità di “gestione”. La necessaria delimitazione dell’indagine

L’acqua, nella comune percezione, è quanto di più importante e scarso si possa rinvenire nell’ambiente.

In quanto “bene” essa è suscettibile di essere valutata economicamente e, quindi, di costituire oggetto di scambio e di apprezzamento da parte del le-gislatore (anche) tributario; più in particolare, da un lato, al pari degli altri “beni” trasferibili nel godimento è assoggettata alle disposizioni che regola-no il prelievo erariale sugli scambi nelle imposte sul reddito e sul valore ag-giunto; dall’altro, può assumere (un maggior) rilievo nella sua tutela come “bene” ambientale prezioso e nella sua gestione ed erogazione come “bene” di consumo di massa.

In questa sede intendiamo dedicare attenzione alla rilevanza che essa può avere quale elemento di una “fattispecie tributaria” locale relativa ad un prelievo locale (i) “a favore” dell’acqua alla stregua di un tributo ambientale (ii) e/o “sull’“acqua quale oggetto di uno scambio tra imprese o tra imprese e consumatori finali.

a) In ordine al primo aspetto essa può essere assunta all’interno di un tri-buto locale (per ora genericamente inteso, senza distinguere fra tributo de-rivato e tributo proprio) quale bene alla cui tutela sia destinato il gettito (se-condo il modello del tributo a destinazione ambientale) o quale bene il cui “consumo” in termini di inquinamento costituisca presupposto del prelievo (secondo il modello del tributo ambientale in senso stretto).

Sia nell’uno che nell’altro caso, la definizione dell’autonomia normativa tributaria risultate dalla legge delega 5 maggio 2009, n. 42 e dai decreti dele-gati ben consente di individuare gli spazi di “valorizzazione” dell’acqua at-traverso forme di imposizione locale ambientale.

b) In ordine, invece, al secondo aspetto dell’indagine, l’attuale assetto della governance della gestione ed erogazione dell’acqua presenta profili di interesse gius-tributario circa la forma soggettiva adottata per l’esercizio di tale forma di impresa, le modalità con cui ed il “mercato” in cui l’erogazione viene fornita quali elementi di qualificazione della remunerazione dell’ero-gazione.

Più nel dettaglio, infatti, la privatizzazione della forma soggettiva attra-verso l’affidamento della gestione ed erogazione del servizio idrico a società commerciali di diritto privato di per sé non dovrebbe essere sufficiente, co-me vedremo, ad espungere in termini automatici dall’ambito dei tributi quan-

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to pagato dai consumatori, ove si apprezzino, al fine di tale qualificazione, alcune caratteristiche del fenomeno (il monopolio del soggetto erogante, la procedimentalizzazione della formazione del prezzo, gli strumenti di accer-tamento e di riscossione).

PARTE I. IL QUADRO GENERALE

2. L’acqua e la fiscalità locale nel “federalismo” fiscale. L’autonomia tributa-ria delle Regioni, delle Province e dei Comuni alla luce della legge delega n. 42/2009 e dei decreti delegati. Le diverse declinazioni del concetto di “fi-scalità” regionale e la pluralità dei riferimenti verbali nella legge delega n. 42/2009

Come anticipato, l’assunzione dell’acqua all’interno di una “fattispecie tributaria” locale non può prescindere dall’analisi dell’assetto normativo che si è ora delineato in materia di federalismo fiscale.

Di qui l’opportunità di alcune riflessioni generali e preliminari. Il concetto di “fiscalità” regionale, di per sé atecnico ma efficacemente e-

spressivo, può essere meglio compreso ove lo si intenda rispetto a quello, questa volta tecnico, di autonomia normativa tributaria la quale, diversa dal-la contigua fattispecie dell’autonomia finanziaria, si concretizza nello spazio di intervento che le Regioni hanno nel (solo) istituire o (anche) prevedere tributi propri così come, dapprima, definito dall’attuale Titolo V della Co-stituzione modificato dalla L. cost. 18 ottobre 2001, n. 3 e, quindi, ora me-glio fissato dalla legge delega 5 maggio 2009, n. 42 (da ora legge delega).

a) Nel Titolo V, l’art. 117 Cost. riferisce allo Stato la competenza in ma-teria di definizione del «sistema tributario» (comma 1) e dei relativi princi-pi fondamentali mentre rende pari ordinati Stato e Regioni nel «coordina-mento della finanza pubblica e del sistema tributario» (comma 2)

1, residual-mente attribuendo alle Regioni quanto non espressamente attribuito allo Stato (comma 3).

Egualmente, in base all’art. 119 Cost. «in armonia con la Costituzione»

1 Su cui anche per riferimenti si rinvia a RIVOSECCHI, Il federalismo fiscale tra giurispru-denza costituzionale e legge n. 42/2009 ovvero: del mancato coordinamento della finanza pub-blica e del sistema tributario, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 49 ss.

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e nel rispetto dei «principi di coordinamento della finanza pubblica e del si-stema tributario» le Regioni, Province, Comuni e città metropolitane «sta-biliscono ed applicano tributi ed entrate propri».

b) La legge delega, invece, è doviziosa di riferimenti all’autonomia norma-tiva tributaria delle Regioni, ricorrendo a plurime forme verbali, non sempre sinonimiche e, spesso, espressive dei diversi modi in cui si può atteggiare il rapporto tra i livelli di governo e la disciplina del tributi locali

2. Il “prevedere” sembra, infatti, collegarsi al ruolo della legge (statale o regio-

nale) di configurare una fattispecie tributaria mentre l’“istituire” e lo “stabilire” evocano il momento specifico in cui il singolo ente titolare di potestà (Stato e Regione) esercita la propria autonomia, individuando e regolamentando il tributo in tutti i suoi aspetti sostanziali e procedimentali; l’“applicare” ed il “gestire”, infine, richiamano il momento della mera attuazione di una facoltà aliunde disciplinata, comportamento, questo, nel quale si esauriva e, come ve-dremo, si esaurisce ancora l’autonomia degli enti territoriali c.d. minori.

3. Brevi cenni al coordinamento tra i diversi livelli di governo tra Titolo V del-la Costituzione e legge delega

3.1. Le indicazioni ritraibili dal Titolo V della Costituzione e dalla sent. n. 102/2008 della Corte costituzionale

Nel Titolo V della Costituzione emerge un assetto bilivello con due siste-mi equiordinati e una posizione subordinata della fiscalità provinciale, co-munale e delle città metropolitane, prive di autonomia nell’“istituire” e “sta-bilire” tributi regionali e comunali e limitate al solo “applicare” gli stessi, seb-bene anche con finalità agevolative.

Prima della legge delega e a seguito degli indirizzi della Corte costituzio-nale

3, si dubitava se l’intervento pari ordinato delle Regioni fosse effettiva-mente realizzabile in assenza di una legge statale di coordinamento, assenza che, in base ad una delle due possibili tesi, avrebbe reso difficile, se non im-possibile, l’introduzione di veri e propri tributi regionali

4.

2 Per tutti AMATUCCI I principi e le competenze degli enti locali in materia tributaria, in AA.VV., Il nuovo sistema fiscale degli enti locali, a cura di F. Amatucci, Torino, 2010, p. 1 ss.

3 Per tutte si ricorda la sent. n. 37/2004. 4 Così AMATUCCI, I principi, cit., p. 13 e nota 36 il quale, però, resta convinto della ne-

cessità attuale di una legge statale di coordinamento consentendo all’autonomia regionale solo interventi di dettaglio o in sede di regolamentazione di agevolazioni fiscali regionali

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La stessa Corte costituzionale, nella sent. n. 102/2008 5

ha, però, circo-scritto l’esigenza del coordinamento al solo caso in cui le Regioni intenda-no, con tributi propri, colpire presupposti di tributi erariali, ammettendo l’autonoma iniziativa per tributi dai presupposti nuovi, purché in armonia con la Costituzione e nel rispetto dei principi del sistema erariale.

L’equiordinazione fra Stato e Regione ha, pertanto, mosso i suoi passi sin dal novellato Titolo V a seguito del quale si è definita un’esclusività dello Stato nella disciplina del sistema tributario erariale e una coabitazione tra Stato e Regioni tale per cui al primo spetterebbe l’individuazione dei princi-pi fondamentali e il «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tribu-tario» ed alle seconde il resto

6. Se il limite positivo stabilito dall’art. 119 della Cost. per la previsione ed

istituzione di tributi regionali era (ed è ancora) l’«armonia con la Costitu-zione» ed il rispetto dei «principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», restava dubbio, da un lato, se il coordinamento riser-vato ad una legge statale dovesse comprendere i tre diversi sottoinsiemi del sistema tributario (e, cioè, quello statale, regionale e quello locale) o solo quello regionale e locale e, dall’altro, se la disciplina dei tributi delle regioni,

speciali (p. 19 ss.). Sul punto la Corte cost., 28 ottobre 2011, n. 280 ha dichiarato l’illegitti-mità costituzionale di una prestazione di natura tributaria introdotta con una legge regio-nale in assenza dell’espressa attribuzione alla Regione ordinaria della relativa potestà.

5 Da ultimo, si segnala la perplessità avanzata da STEVANATO (I “tributi propri” delle Re-gioni nella legge delega sul federalismo fiscale, in Dir. prat. trib., 2010, I, p. 399) sulla poca chiarezza della distinzione operata dalla Corte costituzionale, nella citata sent. n. 102, quanto ad esigenza di una legge di coordinamento, tra tributi regionali nuovi e tributi re-gionali in sovrapposizione. ANTONINI, Una importante sentenza sul federalismo fiscale inno-vativa oltre il caso di specie, in Riv. dir. fin., 2008, I, p. 96 ss. individua nell’interpretazione data dalla Corte costituzionale all’art. 119 Cost. una apertura nel senso della possibilità di un’imposta ambientale o di scopo anche in assenza della legge di coordinamento ma sem-pre nel rispetto dei principi di coordinamento “incorporati” nel (e, quindi, desumibili dal) sistema tributario erariale.

Sui plurimi profili di rilevanza della sentenza si vedano, senza pretesa di esaustività, i diversi contributi in AA.VV., L’autonomia tributaria delle Regioni e degli enti locali tra Corte Costituzionale (sentenza n. 102/2008 e ordinanza n. 103/2008) e disegno di legge delega. Un contributo giuridico al dibattito al federalismo fiscale, a cura di Ficari, Milano, 2009, passim, cui si aggiungano DE MITA, Le basi costituzionali del “federalismo fiscale”, Milano, 2009, p. 41. La posizione della Corte trova una precedente ipotizzazione già in GALLO, Prime osser-vazioni sul nuovo art. 119 della Costituzione, in Rass. trib., 2002, p. 595.

6 Per tutti e da ultimo anche BORIA, I rapporti tra ordinamenti autonomi: finanza statale e finanza locale, in AA.VV., Federalismo fiscale e autonomia degli enti territoriali, a cura di Scala, Torino, 2010, spec. p. 72 ss.

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non essendo espressamente attribuita allo Stato, potesse costituire oggetto di legislazione esclusiva delle Regioni

7.

3.2. (Segue) I diversi livelli del coordinamento e i limiti all’autonomia normati-va tributaria regionale contenuti nella legge delega n. 42/2009

Nell’art. 1 della legge delega si legge che essa è attuativa dell’art. 119 Cost. e reca «disposizioni volte a stabilire in via esclusiva i principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario»; il succes-sivo art. 2, nel ricordare che la finalità della legislazione delegata è quella di assicurare l’autonomia finanziaria delle Regioni e degli altri enti locali, di-spone che tale scopo deve essere raggiunto «attraverso la definizione» (nella futura legislazione delegata se non erriamo) «dei principi fondamentali del coordinamento».

In questa sua veste autoproclamata la legge delega individua i limiti alla previsione e istituzione dei tributi regionali nei:

(i) principi fondamentali del sistema tributario, (ii) principi di coordinamento, (iii) principi comunitari. Per quanto tutti o, almeno, una parte dei menzionati principi ben fossero

già desumibili in via interpretativa da sedi normative diverse da quelle della legge delega – non essendo risolutiva l’autoqualificazione nella stessa legge n. 42

8 – si osserva come dal combinato disposto del Titolo V e della legge delega emerga un quadro assai articolato, definito da tre caratteristiche.

a) la ricaduta sul concreto esercizio dell’autonomia normativa tributaria del principio (anche) politico della corrispondenza tra la responsabilità di spesa e di entrata (tributaria);

b) l’affermazione del principio della riserva di legge relativa come ele-mento fondamentale della nozione bipolare di legge (statale e regionale);

c) il ruolo primario del principio di continenza e del legame tra l’autono-mia tributaria e la competenza legislativa esclusiva delle Regioni.

Per meglio cogliere la natura anche di coordinamento della legge delega

7 Per tali problemi v. PERRONE, La sovranità impositiva tra autonomia e federalismo in Riv. dir. trib., 2004, spec. p. 1176 ss.

8 Più diffusamente, per tutti, DEL FEDERICO, Il rapporto tra principi del sistema tributario statale e principi fondamentali di coordinamento, in AA.VV., L’autonomia tributaria delle re-gioni e degli enti locali tra Corte costituzionale, cit., p. 9; RIVOSECCHI, Il federalismo fiscale, cit., p. 54 ss.

4.

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può essere utile distinguere, nella lettura delle sue singole disposizioni ed in via preliminare, due diversi modi di essere del coordinamento: quello giuri-dico-formale volto ad ottimizzare la ripartizione dei tributi nei diversi livelli di governo e quello sostanziale inteso ad evitare effetti confiscatori.

Ciò detto, una legge contenente “principi di coordinamento” formale/ sostanziale dovrebbe:

a) dedicarsi più intensamente al coordinamento giuridico-formale in quan-to quello sostanziale si rapporta direttamente alle caratteristiche della capa-cità contributiva ex art. 53 Cost.;

b) ben distinguere due livelli di coordinamento – quello tra tutti i diversi livelli di governo e quello tra uno specifico livello regionale e quelli dei sin-goli comuni di una regione – nella piena consapevolezza dell’equiordinazio-ne tra Stato e Regioni.

La legge delega n. 42/2009, nel riconoscere tale equiordinazione, ammette un ruolo di coordinamento anche della singola Regione la cui legge (regio-nale di coordinamento, per l’appunto), potrebbe performare la fiscalità sia regionale che degli enti provinciali e comunali appartenenti alla singola Re-gione, enti, questi ultimi, il cui spazio di intervento è restato, come in passa-to, molto limitato

9. Nei confronti degli enti locali privi di potestà legislativa

10, quindi, la Re-gione potrà:

i) prevedere tributi locali la cui concreta istituzione sia rimessa alla scelta di ciascun ente sub regionale nei limiti, di una predeterminazione degli ele-menti essenziali della fattispecie tributaria locale

ii) oppure prevedere e istituire il tributo locale, lasciando agli enti locali una limitata autonomia

11.

9 Ad avviso di TOSI, La fiscalità delle città d’arte. Il caso del Comune di Venezia, Padova, 2009, p. 64 per questi Enti si assisterà, probabilmente, alla sola maggiore compartecipa-zione salva l’ipotesi del trasferimento delle entrate derivate a favore delle istituende città metropolitane.

10 Sulle problematiche specifiche delle istituende città metropolitane vedi TOSI, La fi-scalità delle città d’arte, cit., passim.

11 V. tra gli altri, CIPOLLINA, La riserva di legge in materia fiscale nell’evoluzione della giu-risprudenza costituzionale, in AA.VV., Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006, p. 181. Egualmente, nel senso della necessaria previa “autorizzazione, tra gli altri, ANTONI-NI, sub Art. 23, in AA.VV., La Costituzione italiana, Commento agli artt. 1-54, a cura di Biful-co, Celotto e Olivetti, Torino, 2006, p. 497; da ultimo DI SIENA, Note minime (problemati-che) sulle entrate tributarie degli enti sub-statali nella recente legge delega sul federalismo fiscale, in Riv. dir. trib., 2009, I, p. 968.

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Tale funzione performativa della legge regionale non è comunque, esen-te dal condizionamento dei principi fondamentali (non solo di coordina-mento ma anche) del sistema tributario erariale rispetto ai quali l’intervento regionale dovrebbe, pur sempre, dimostrarsi rispettoso in termini quanto-meno di armonia.

In questo senso, allora, i “principi e criteri direttivi generali” di cui alla lun-ga elencazione del comma 2 dell’art. 2 della delega sono da intendersi for-malmente come criteri di delegazione ma, sostanzialmente, anche come principi che, nel venir riprodotti nella legislazione delegata, potranno acqui-stare ex post una più completa veste di principi di coordinamento, come pre-vede l’art. 119 Cost.

4. La distinzione tipologica tra tributi propri derivati e tributi propri in senso stretto. I tributi propri derivati. Il ruolo del criterio della territorialità

La lunga esperienza della Corte costituzionale permette di giungere ad una definizione di tributo regionale proprio che valorizza l’effettività dell’au-tonomia normativa dell’ente regionale

12. La legge delega, dal canto suo, nel contenere espressioni verbali quali

“stabilire”, “individuare”, “istituire” e “applicare”, all’art. 7, comma 1 attribui-sce un contenuto alla nozione di tributo regionale proprio ed alla sua inter-na specificazione, enfatizzando il criterio della titolarità del potere di istitu-zione, più volte sottolineato dalla giurisprudenza costituzionale e sminuen-do la rilevanza della destinazione soggettiva del gettito.

A) I tributi propri derivati sono quelli «istituiti e regolati da leggi statali, il cui gettito è attribuito alle Regioni»

13. La natura derivata, nell’esprimere una subordinazione del livello norma-

tivo regionale rispetto a quello statale, è esplicitata da una serie di mere pos-sibilità per la Regione che la legge delega individua in quella:

– di modificare solo le aliquote;

12 Si leggano, tra le altre, Corte cost., 24 febbraio 2006, n. 75, 23 dicembre 2005, n. 455, 25 ottobre 2005, n. 335, 27 luglio 2005, n. 335, 19 luglio 2004, n. 241, 26 settembre 2003, nn. 296 e 297, 15 ottobre 2003, n. 311, tutte approfonditamente analizzate da FREGNI, Au-tonomia tributaria delle Regioni e riforma del Titolo V della Costituzione, in AA.VV., Diritto tributario e Corte costituzionale, cit., p. 485 ss.

13 V. per tutti e da ultimi PERRONE, I tributi regionali propri derivati, in Rass. trib., 2010, p. 1597 ss. e GIOVANARDI, La fiscalità delle Regioni a statuto ordinario nell’attuazione del fe-deralismo fiscale, ivi, 2010, p. 1617 ss.

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– di disporre esenzioni, detrazioni e deduzioni in ossequio ai limiti e criteri fissati dalla legge statale nonché, più in generale, dal diritto comunitario;

– di godere del gettito del tributo regionale derivato anche in base al “principio di territorialità”, regola fissata dalla legge delega per l’attribuzione delle risorse (art. 2, comma 2, lett. e) della legge delega) nonché del tributo regionale in quanto tale («territorialità dei tributi regionali e locali», art. 2, comma 2, lett. hh) della legge delega).

La legge delega è, quindi, chiara: in una logica centralistica sui tributi propri derivati la Regione non ha spazi di intervento entro cui esprimere va-lutazioni soggettive di politica fiscale ed economica in assenza di una pre-ventiva autorizzazione statale

14. B) Nella prospettiva dei tributi propri in senso stretto, la legge delega fis-

sa in capo allo Stato, alle Regioni e agli altri enti locali alcuni divieti ed alcu-ni poteri.

a) I divieti sono quelli: – di doppia imposizione, – di irrazionalità e incoerenza nell’esercizio dell’autonomia normativa

tributaria, – di intervenire su basi imponibili ed aliquote che non siano riferibili a

tributi del proprio livello di governo, – di intervenire su elementi dei tributi propri derivati senza una previa

autorizzazione nella legge statale. I poteri sono, invece, costituiti dalla possibilità di “occupazione” di pre-

supposti non già disciplinati da norme tributarie statali. Si riconosce, così, la coesistenza di due livelli di normazione (statale e re-

gionale) modificando l’originario disegno (verticale: Stato, Regioni, Provin-cie e Comuni) per definirne uno nuovo (con Stato e Regioni in posizione sovraordinata rispetto agli enti territoriali minori), probabilmente già de-sumibile dal nuovo novellato Titolo V della Costituzione.

La pluralità dei livelli corrisponde alla diversità sia di spese pubbliche de-gli enti che dei loro relativi mezzi di sostenimento.

Le spese per le funzioni fondamentali sono finanziabili con i tributi pro-pri derivati oltre che con addizionali e quote del fondo perequativo; quelle delle Province e Comuni, peraltro, non saranno mai finanziabili con tributi propri in senso stretto in ragione dell’assenza di qualsiasi loro autonomia normativa tributaria.

14 Per tutti GIOVANARDI, Il riparto delle competenze tributarie tra giurisprudenza costitu-zionale e legge delega in materia di federalismo fiscale, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 36 ss.

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Le spese per funzioni non fondamentali anche con tributi in senso stretto oltre che con addizionali.

C) Nella differenziazione tipologica che consegue all’assetto bilivello, il criterio della territorialità, già presente nell’art. 119 Cost. e richiamato nella legge delega, può rendere più agevole il coordinamento c.d. orizzontale

15 e costituire un razionale criterio di attribuzione del gettito del tributi istituiti con legge dello Stato.

Ciò accadrebbe valorizzando quei profili della territorialità che la stessa legge delega individua come potenzialmente rilevanti e, cioè, a seconda del presupposto del tributo, il luogo di consumo, il luogo dove si trova il bene assunto nel presupposto, il luogo di svolgimento dell’attività produttiva e il luogo di percezione in ragione di quello di residenza del percettore.

Ne consegue che le modalità di attribuzione del gettito dei tributi regio-nali derivati e le compartecipazioni, in base al principio di territorialità, do-vranno tenere conto:

– per i tributi sul consumo del “luogo del consumo”, – per i tributi patrimoniali della “localizzazione dei cespiti”, – per i tributi basati sulla produzione (peraltro ancora da definire a livel-

lo teorico) del “luogo di prestazione del lavoro” – e, infine, per i tributi diretti alle persone fisiche (ma resta da chiarire se

anche per i tributi diretti a soggetti diversi dalle persone fisiche) della “resi-denza del percettore” (art. 7, lett. d) della legge delega).

5. I tributi propri in senso stretto e i criteri di distinzione interna tra imposte e tasse regionali proprie

Premesso che il tributo è proprio in senso stretto qualora istituito da una legge regionale in virtù dell’autonomo potere di istituzione e di applicazione riconosciuto alla singola Regione, rispetto alla nota distinzione tra imposta e tassa, la legge delega sembra lasciare aperta la scelta tipologica, individuan-do, accanto a criteri generali di normazione, criteri, invece, specificamente indirizzati ad ipotesi di imposte e tasse regionali proprie.

A) In ordine ai criteri generali è possibile svolgere alcune riflessioni. a) La legge delega è chiara nel condizionare l’istituzione ad opera della

15 Così anche RAGUCCI, La legge delega per l’attuazione del federalismo fiscale (L. 5 mag-gio 209 n. 42), in Rass. trib., 2010, p. 746 ss.

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Regione di «tributi regionali e locali» solo in presenza di «presupposti non assoggettati ad imposizione da parte dello Stato» (art. 2, comma 2, lett. q)).

Ne consegue la possibilità di una doppia imposizione (solo) economica intendendo per tale il fenomeno in cui il secondo prelievo attribuisca rilievo ad un fatto, atto o attività economicamente già apprezzato ma giuridica-mente non già assunto in un identico presupposto

16. Il divieto, da considerarsi immanente all’ordinamento ed al sistema e

non solo conseguente all’assenza di una legge di coordinamento che lo ra-zionalizzi

17, potrebbe anche venir meno: si pensi all’ipotesi in cui uno stesso fatto (es. possesso di un immobile) fosse già presupposto di un’imposta era-riale diretta sul reddito preesistente a quella locale (es. Irpef) e di un’impo-sta locale indiretta in cui es. il rapporto tra possesso di un immobile ed am-biente venisse assunto come mero criterio di riparto.

Tale limite è, da intendersi in senso biunivoco e, quindi, anche come li-mite allo Stato di istituire tributi propri derivati ove la Regione abbia legife-rato per prima, a condizione che si tratti di imposte aventi identica qualifi-cazione (es. dirette o indirette).

Di qui l’impressione che una doppia imposizione sia vietata nella pro-spettiva non solo, ex art. 53 Cost., di una capacità contributiva sufficiente a sostenere il duplice prelievo ma anche di una razionalità e logica del siste-ma

18, fermo restando un certo spazio alla luce della distinzione fra fatto giu-ridicamente rilevante e manifestazione economia assunta.

b) Un secondo elemento intrinsecamente legato all’istituzione dei tri-buti regionali propri nonché alla previsione di nuove o maggiori comparte-cipazioni è la territorialità menzionata espressamente dall’art. 2 della legge delega.

Con riguardo al tributo regionale proprio quale piena espressione di au-tonomia tributaria regionale, la territorialità costituisce un limite alla c.d. e-sportabilità del tributo e, quindi, dovrebbe indurre le Regioni ad apprezzare nei presupposti dei loro tributi il legame al territorio (anche) in termini di rapporto tra il beneficio ed il prelievo, valorizzando la caratteristica territo-riale (regionale) del prelievo

19; evidente, da subito, la ricaduta sulla “valo-

16 Per interessanti richiami storici FRANSONI, Il presupposto dei tributi regionali e locali. Dal precetto costituzionale alla legge delega, in Riv. dir. trib., 2011, I, p. 267 ss. con particolare attenzione agli studi di Fedele.

17 In quest’ultimo senso, invece, Corte cost.,15 aprile 2008, n. 102. 18 In senso diverso BIZIOLI, Il divieto di doppia imposizione, cit., p. 199. 19 V. anche FRANSONI, Il presupposto, cit., p. 280 ss.

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rizzazione” dell’acqua nel contesto del federalismo fiscale. La territorialità, inoltre, permetterebbe, se correttamente apprezzata, di

realizzare una selettività territoriale virtuosa, differenziata Regione per Re-gione e non necessariamente presente in tutte le Regioni; tale selettività sa-rebbe più facile rispetto a quella che si realizzerebbe se l’istituzione del tri-buto regionale fosse derivata o, addirittura, se il tributo fosse erariale seppur con sovraimposte, addizionali o destinazioni vincolate a favore delle Regio-ni

20. B) Quanto, invece, ai criteri specifici, si distinguono a seconda della spe-

cie di tributo proprio cui essi intendono riferirsi. B1) In ordine ad eventuali imposte regionali proprie, la legge delega, nel

rivolgersi al legislatore delegato, individua nel principio di capacità contribu-tiva una regola di coordinamento che il legislatore regionale dovrà rispettare (solo) laddove intenda introdurre tributi aventi natura di imposta rispetto ai quali la capacità, nelle declinazioni che la dottrina e la giurisprudenza costi-tuzionale le hanno dato, dovrà essere rispettata qualora tributi regionali sembrino sovrapporsi, nel presupposto, a loro antecedenti erariali o a prelievi che, nel loro complesso, intacchino la reale disponibilità del contribuente

21. Lo spazio disponibile e, quindi, l’intervento vietato dovranno essere de-

finiti rispetto all’elemento discriminante non del “tipo” – ovvero ritenendo vietata l’istituzione di un’imposta regionale sul reddito – ma della priorità temporale tale da consentire di colpire, all’interno di una imposta erariale sul reddito, quelle manifestazioni reddituali non ancora (o non più) coperte dall’intervento statale.

Si tratta, in altri termini, di tenere distinto il “fatto” che assume rilevanza giuridica dalla manifestazione economica che sia (stata già) assunta, nel tempo, ad oggetto dell’imposizione a livello sia erariale che locale

22: si pen-si, nel settore dell’imposizione immobiliare, alle vendite ultraquinquiennali escluse dalla categoria dei redditi diversi

23. L’intervento che coprisse manifestazioni non ancora conosciute al legi-

20 V. CARINCI, I vincoli comunitari all’autonomia tributaria di Regioni ed Enti Locali, in AA.VV., L’autonomia tributaria delle Regioni e degli enti locali tra Corte costituzionale, a cura di Ficari, cit., p. 80.

21 V. RAGUCCI, La legge delega, cit., p. 742 ss. 22 V. BIZIOLI, Il divieto di doppia imposizione contenuto nella legge delega in materia di “fe-

deralismo fiscale”: elementi ricostruttivi e profili costituzionali, in AA.VV., Federalismo fiscale e autonomia degli enti territoriali, cit., p. 195.

23 Così GALLO da ultimo in Prefazione a TOSI, La fiscalità delle città d’arte, cit.

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slatore erariale non dovrebbe pregiudicare la “razionalità” e “coerenza” che il singolo tributo regionale dovrebbe avere rispetto al “sistema tributario nel suo complesso” come dispone l’art. 2 della legge delega; a queste condizioni, peraltro, potrebbero trovare anche più compiuta attuazione i principi della territorialità e della continenza.

Il riferimento alla capacità contributiva perderebbe la sua fondamentale importanza nella prospettiva di tributi aventi natura paracommutativa la cui introduzione sarebbe più agevole nei casi di contiguità di presupposti rispet-to ad imposte e non tasse.

B2) Il principio della territorialità si puntualizza meglio alla luce del cri-terio di correlazione, menzionato nella stessa legge delega, tra il prelievo e il beneficio che il soggetto passivo potrebbe ritrarre dall’esercizio delle fun-zioni pubbliche/amministrative con esso finanziate.

Il legislatore delegante, peraltro, sembra aver introdotto tale criterio co-me regola non assoluta ma solo eventuale.

Di conseguenza, vi potranno essere tributi privi della caratteristica della commutatività se, ad esempio, pienamente coerenti al criterio della territo-rialità e della continenza

24. Il criterio della territorialità si comprende anche nella logica della re-

sponsabilizzazione dell’amministrazione locale e nell’esigenza che la leva fi-scale sia al servizio del pareggio del bilancio dell’ente locale.

Ovviamente, il riferimento al costo pubblico non deve limitarsi al mero ruolo di criterio di determinazione ma deve collegarsi in modo sostanziale alle specifiche caratteristiche del presupposto.

B3) L’autonomia normativa, così già fortemente caratterizzata nella leg-ge delega dalla territorialità, si collega necessariamente al principio della continenza.

Per esso si intende, ai nostri fini, il legame necessario tra l’individuazione del presupposto del tributo proprio e le materie di competenza legislativa in termini non solo finalistici, commutativi o di destinazione vincolata

25 ma anche meramente oggettivi; tutto ciò per coordinare le diverse espressioni

24 Evidenzia, giustamente, l’effetto limitativo che altra conclusione causerebbe GIOVA-NARDI, La fiscalità regionale e locale nel d.d.l. Calderoli tra tributi propri derivati e principio di continenza: ci sarà un qualche spazio per i tributi propri in senso stretto di regioni ed enti loca-li?, in Dir. prat. trib., 2009, I, p. 322; si aggiunga sul punto, tra gli altri, anche DI SIENA, Note minime, cit., p. 966.

25 In questo senso sembra orientarsi, invece, STEVANATO, I “tributi propri” delle Regioni nella legge delega sul federalismo fiscale, cit., p. 409.

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della potestà legislativa regionale per materia tra una disciplina fiscale e una o più discipline non fiscali.

Tale principio, tuttavia, costituisce una regola tendenziale nel senso che esso non esclude che l’autonomia delle Regioni possa esplicarsi anche sen-za un collegamento diretto con le materia di competenza esclusiva, come potrebbe accadere nel caso in cui alla Regione fosse offerta l’occasione di occupare presupposti cui il legislatore tributario statale abbia rinunciato

26: si richiama, ad esempio, la tormentata reviviscenza dell’imposta sulle dona-zioni e sulle successioni.

Rispetto al contenuto dell’art. 2 della legge delega, l’art. 38 del D.Lgs. 6 maggio 2011, n. 68 espressamente dispone che la legge regionale a partire dal 2013 in ordine «ai presupposti non assoggettati ad imposizione da parte dello Stato» possa «istituire tributi regionali e locali nonché, con riferimen-to ai tributi locali istituiti con legge regionale, determinare variazioni delle aliquote o agevolazioni che comuni e province possono applicare nell’eser-cizio della propria autonomia».

Ne risulta, pertanto, una conferma da un lato, dell’occupabilità di presup-posti non già coperti da fattispecie erariali, attraverso l’intervento istitutivo del-la singola Regione; dall’altro, che, a seguito dell’equiordinazione con lo Stato, ogni Regione può realizzare una singola politica fiscale differenziando aliquote o agevolazioni dei tributi locali istituiti direttamente a livello regionale.

6. Fiscalità regionale, fiscalità di vantaggio ed agevolazioni fiscali; il criterio dell’insularità e le indicazioni ritraibili dalla giurisprudenza comunitaria

L’art. 2 della legge delega ammette l’introduzione «in conformità con il diritto comunitario, di forme di fiscalità di sviluppo, con particolare riguar-do alla creazione di nuove attività di impresa nelle aree sottoutilizzate».

La “fiscalità di sviluppo” può essere intesa come uno spazio di intervento delle Regioni attraverso l’adozione di strumenti i cui effetti devono essere compatibili con i vincoli comunitari

27 tra cui il divieto di attribuire vantaggi economici sotto forma di agevolazioni fiscali che, in quanto selettivi, alteri-no le regole della concorrenza

28.

26 V. GIOVANARDI, La fiscalità regionale e locale, cit., p. 44. 27 Più in generale e per tutti vedi MICELI, Federalismo fiscale e responsabilità comunitaria

degli enti territoriali: riflessioni e prospettive, in Rass. trib., 2010, p. 1671 ss. 28 Da ultimo e per tutti MELIS, La c.d. “fiscalità di vantaggio” nella delega sul federalismo

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Pertanto, la misura fiscale di natura agevolativa sarebbe illegittima lad-dove derogasse ad un regime fiscale comune a tutti i soggetti che si relazio-nino allo stesso modo ad un territorio, introducesse una differenziazione tra operatori economici tutti in una situazione di fatto e di diritto identica e, in-fine, non avesse una giustificazione nell’autonomia della singola Regione di intervenire nel suo proprio territorio senza condizionare l’esercizio dell’im-presa in altri territori.

Il territorio regionale, a tal fine, è apprezzabile quale unico contesto geo-grafico di riferimento in ragione di un sufficiente grado di autonomia nor-mativa (non solo ma anche tributaria) e, quindi, idoneo a rendere la misura non più selettiva – dal punto di vita non solo materiale ma, soprattutto, ter-ritoriale – ma generale seppur rispetto al solo territorio della singola Regio-ne che sia intervenuta.

Più in generale, quindi, sono ipotizzabili misure di vantaggio di diverso genere la cui selettività non sia conflittuale

29: a) riduzioni di aliquote di tributi regionali propri derivati per i soli pre-

supposti riferibili alla singola Regione purché a questa sia attribuito il po-tere normativo necessario e l’ente regionale non riceva da quello statale misure compensative della riduzione del gettito; si aggiunge l’intervento costituito dalla limitazione in termini assoluti o relativi del campo di ap-plicazione di un’addizionale regionale 29 bis. Cfr. Corte cost., 9 gennaio 2012, n. 2;

b) applicazione del tributo solo da alcuni operatori purché ciò non accada causando discriminazioni basate sulla residenza fiscale.

Ne deriva l’evidente nesso tra i criteri fondanti l’autonomia normativa tributaria regionale e, in particolare, il criterio della territorialità e gli spazi di intervento con finalità agevolative.

Il territorio regionale può costituire elemento oggettivo dell’autonomia della Regione sotto il profilo istituzionale, procedurale ed economico alla fiscale e gli aiuti di Stato: alcune riflessioni, in AA.VV., Federalismo fiscale e autonomia degli enti territoriali, cit., p. 109 ss.; GONZALEZ PINEIRO, Aiuti di Stato, “selettività regionale” e poli-tiche fiscali agevolative delle Regioni, in Riv. dir. trib., 2010, I, spec. p. 893 ss.; RAGUCCI, La legge delega, cit., p. 750 ss.; AA.VV., Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, a cura di Ingrosso e Tesauro, Napoli, 2009, passim; FRANSONI, Gli aiuti di Stato fra autonomia locale e capacità contributiva, in Riv. dir. trib., 2006, III, p. 250.

Per un completo quadro dei principi del diritto tributario comunitario e dei rapporti con l’ordinamento tributario nazionale si rinvia a BORIA, Diritto tributario europeo, Milano, 2010, spec., con riguardo al punto, p. 19 ss.

29 Per approfondimenti da ultimo MELIS, La c.d. “fiscalità di vantaggio”, cit., p. 113 ss.

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luce degli esatti contorni definiti alla luce della sent. CGE 11 settembre 2008, cause riunite C-428/06/C-434/06

30. In questi termini, il criterio della selettività territoriale troverebbe una

precipua fisionomia ove analizzato alla luce dell’insularità intesa come parti-colare modo di essere delle caratteristiche del territorio e dei presupposti che in esso si possono realizzare, tali da poter giustificare una razionale di-scriminazione per una diversa capacità contributiva.

Sul punto merita di essere ricordata la c.d. sentenza Azzorre (CGE 6 set-tembre 2006, causa C-88/03)

31 nella quale i giudici comunitari hanno ap-prezzato l’esigenza di correggere, anche attraverso lo strumento tributario, le disparità economico-sociali causate dall’insularità purché, però, alla ridu-zione del gettito del tributo locale non corrisponda una misura compensati-va di origine statale.

La condizione della mancata compensazione non gode, al momento, una diffusa approvazione

32, quantomeno ove non se ne possano stabilire con precisione i caratteri, soprattutto in presenza del diffuso trasferimento dal “centro alla periferia” tramite meccanismi perequativi volti, tra l’altro, a ga-rantire, in concreto la solidarietà nazionale

33. È, però, chiaro che l’assenza di un automatismo e, quindi, di una com-

pensazione garantita in termini automatici 34 e riferita in modo diretto e ine-

quivoco al mancato gettito derivante dalla misura agevolativa renderebbe più fondato un intervento agevolativo selettivo sulla base dell’insularità.

Ai sensi dell’art. 9, comma 1 della legge delega i trasferimenti alle Regioni dal fondo perequativo si devono rapportare ad una differenza tra il fabbiso-gno per sostenere le spese relative alle funzioni essenziali ed il gettito che le Regioni possono ottenere da addizionali, compartecipazioni e tributi deri-vati.

Non pare, allora, esistere una misura compensativa automatica con i ca-ratteri sopra menzionati e, quindi, sarebbe ipotizzabile un intervento regio-nale nella prospettiva della fiscalità di sviluppo del territorio

35. Una conclusione diversa sarebbe, invece, raggiungibile con riguardo al

30 In Rass. trib., 2009, p. 879 ss. 31 In Dir. prat. trib. int., 2007, p. 319 ss. con nota di FICARI, Aiuti fiscali regionali, selettivi-

tà e “insularità”: dalle Azzorre agli enti locali italiani. 32 Criticamente tra gli altri FRANSONI, Gli aiuti di Stato, cit., p. 256. 33 Così CARINCI, Federalismo fiscale e Aiuti di Stato, in Rass. trib., 2006, p. 1800 ss. 34 V. GONZALEZ PINEIRO, Aiuti di Stato, cit., p. 903. 35 Condivisibilmente. GONZALEZ PINEIRO, Aiuti di Stato, cit., p. 916.

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finanziamento delle funzioni non essenziali: in tal caso il legislatore delegan-te, nel riferirsi ad una perequazione indirizzata alla “capacità fiscale” al fine di eliminare le differenze di gettito per abitante tra le Regioni rispetto al get-tito medio per abitante su base nazionale, non ha espressamente ammesso che, ai fini della misura perequativa, la differenza possa essere causata dall’e-sercizio dell’autonomia normativa tributaria regionale con finalità agevolati-ve nella logica della c.d. fiscalità di sviluppo

36. Le indicazioni ritraibili dalla giurisprudenza comunitaria

37e costituziona-le

38 assumono, a riguardo, rilievo: in particolare, la prima per aver meglio fissato i contorni della selettività affermando che, ove sia assente qualsiasi compensazione specifica (e non generica come quella della perequazione) di origine statale, la pari ordinazione nell’autonomia normativa tributaria esprimerebbe un concetto di simmetria che attenuerebbe la rigidità del di-vieto di misure selettive in quanto non si avrebbe una regola di portata na-zionale con cui confrontarsi; la seconda per aver riconosciuto il condizio-namento diretto esercitato dall’ordinamento comunitario sul concreto eser-cizio della potestà normativa tributaria delle Regioni (a statuto sia ordinario che speciale).

Inoltre, le espressioni di autonomia normativa tributaria attraverso la ti-pologia di tributi propri derivati (ma il discorso vale anche per quelli in sen-so stretto) non potranno mai contrastare – come conferma la recente espe-rienza in materia di tributi regionali sardi – con i principi fondamentali co-munitari ovvero con il divieto di discriminazioni basate sulla residenza fiscale, di limitazioni alle libertà fondamentali (circolazione, prestazione di servizi), di aiuti fiscali di Stato alle imprese con natura selettiva e di dazi doganali.

Ciò non toglie quantomeno l’opportunità che i limiti comunitari siano richiamati espressamente nei decreti delegati per la loro immediata applica-bilità.

7. La fiscalità delle Regioni a Statuto speciale

In generale, l’esperienza normativa delle Regioni a Statuto speciale costi-tuisce un interessante terreno di “sperimentazione” e di “confronto” anche

36 GONZALEZ PINEIRO, Aiuti di Stato, cit., pp. 918 ss. e 934. 37 Sent. Azzorre Causa C-88/03, cit. 38 Sent. n. 102/2008, cit.

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in forza della maggiore attitudine di (se non tutte almeno) alcune delle Re-gioni speciali più inclini all’autonomia decisionale e, con essa, a quella tribu-taria

39. Oltre a ricordare il caso del tributo regionale siciliano sui gasdotti presenti

nel territorio regionale (art. 6 L.R. 26 marzo 2002, n. 2), qualificato (forse, impropriamente) come tributo a scopo ambientale e dall’impatto conflittuale con le regole comunitarie che vietano di introdurre restrizioni anche di ca-rattere fiscale alla circolazione delle merci

40, il paradigma delle c.d. tasse sul lusso sarde dimostra come le espressioni di autonomia normativa tributaria regionale speciale non possano essere tali da occupare presupposti già noti alla fiscalità erariale e da discriminare sulla base della residenza fiscale ri-spetto al territorio regionale.

La legge delega dedica spazio prevalentemente alle Regioni a Statuto or-dinario e meno a quelle a Statuto speciale per le quali dispone l’applicazione «in conformità agli statuti» delle sole disposizioni di cui agli artt. 15, 22 e 27; ciò significa che la normazione delegata non potrà, comunque, regolare spazi e limiti diversamente da quelli già desumibili dalla normazione statu-taria di ogni singola Regione

41. L’art. 27 della legge delega prevede che «le norme di attuazione dei ri-

spettivi statuti» debbano provvedere al coordinamento della finanza regio-nale con quella statale novellata (comma 1) e che tale normativa attuativa dei singoli Statuti dovrà tenere in considerazione gli «svantaggi strutturali permanenti» ed i «costi dell’insularità» nonché i «livelli di reddito pro ca-pite» che caratterizzano i singoli territori (comma 2).

Infine, l’art. 27, comma 3 demanda alle norma di attuazione degli Statuti il compito sia di definire «i principi fondamentali di coordinamento del si-stema tributario» con riguardo alla specifica autonomia regionale sia di in-dividuare «forme di fiscalità di sviluppo» conformi al diritto comunitario e volte a promuovere nuove iniziative imprenditoriali nelle aree svantaggiate.

Sotto questo aspetto, l’autonomia delle Regioni speciali in termini di maggiore spazio di un intervento proprio nell’introduzione di tributi regio-

39 FREGNI, Autonomia tributaria delle Regioni, cit., p. 495. 40 V. CTP Palermo, 5 gennaio 2004, n. 1203 nonché, per tutti, CARINCI, Autonomia tri-

butaria delle Regioni e vincoli del Trattato dell’Unione europea, in Rass. trib., 2004, p. 1201 ss. e LA SCALA, Il carattere ambientale di un tributo non prevale sul divieto di introdurre tasse ad effetto equivalente ai dazi doganali, ivi, 2007, p. 1318 ss.

41 Lo osserva SAMMARTINO, Federalismo fiscale e autonomia finanziaria della regione sici-liana, in AA.VV., Federalismo fiscale e autonomia degli enti territoriali, cit., p. 27 ss.

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nali rispetto a quello delle regioni ordinarie nonché di una diversa autono-mia finanziaria farebbe diversamente operare i limiti sia derivanti dalle esi-genze del coordinamento

42 sia di genesi comunitaria, come quello della se-lettività

43. La scelta del delegante pare deviare dalle indicazioni fornite dalla Corte

costituzionale nella sent. n. 102/2008 la quale avrebbe ammesso anche l’assunzione di presupposti identici a quelli dei tributi erariali dovendo la Regione rispettare i principi del sistema tributario statale cui non apparter-rebbe il divieto di duplicazione del presupposto

44, divieto che, per la Corte costituzionale, andrebbe ricercato nel Titolo V della Costituzione (artt. 117 e 119) per le sole regioni a statuto ordinario.

È evidente che anche per tali Regioni è richiesta una legge regionale che coordini la fiscalità regionale rispetto a quella propria del livello di governo sovraordinato (quello statale) e sottoordinato (quello provinciale e comu-nale)

45, riducendo i margini di intervento non meramente attuativo degli enti locali al solo settore delle agevolazioni ed esenzioni

46 con probabile di-vieto di incremento dell’aliquota massima

47. Ciò che, invece, potrebbe costituire oggetto di riflessione è un intervento

delle Regioni a statuto speciale volto alla mera implementazione di tributi propri derivati previsti dalla legge statale per le Regioni ordinarie; l’ipotesi potrebbe non essere peregrina alla luce di recenti esperienze in cui l’inizia-tiva regionale priva di concertazione ha avuto esito infelice in termini sia di gettito che di consenso politico.

Il proiettare le Regioni speciali verso una piena diversificazione delle

42 V. da ultimo BIZIOLI, Il divieto di doppia imposizione contenuto nella legge delega in ma-teria di “federalismo fiscale”: elementi ricostruttivi e profili costituzionali, in AA.VV., Federali-smo fiscale e autonomia degli enti territoriali, cit., p. 188 ss.

43 MELIS, La c.d. “fiscalità di vantaggio” nella delega, in AA.VV., Federalismo fiscale e au-tonomia degli enti territoriali, cit., p. 119 ss.

44 Sul rischio che ciò possa causare un difetto di coerenza vedi FALSITTA, Le imposte del-la regione Sardegna sulle imbarcazioni ed altri beni di “lusso” nelle “secche” dei parametri costi-tuzionali e comunitari, in Corr. giur., 2008, p. 895 cui adde, se si vuole e tra gli altri, FICARI, Sentenza n. 102/2008 della Corte Costituzionale e disegno di legge delega n. 1117: prospettive divergenti, cit., p. 120.

45 V. in tal senso anche ANTONINI, Ipotesi di sviluppo del sistema tributario italiano, in AA.VV., Verso quale federalismo?, a cura di Magliaro, Trento, 2010, p. 88.

46 V. MARINI, Profili problematici e prospettive dell’autonomia tributaria degli enti locali, in AA.VV., L’autonomia tributaria delle Regioni e degli enti locali, cit., p. 95 ss. cui si aggiunga, tra gli altri AMATUCCI, I principi, cit., p. 1 ss. spec. p. 35 ss.

47 Possibilista sembra, invece, RAGUCCI, La legge delega, cit., p. 755.

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scelte di formazione tributaria regionale rischierebbe, infatti, di causare una eccessiva diversità tale da violare la regola dell’armonia con le rationes dei pre-lievi fiscali; tutto ciò, però, non varrebbe per quei tributi regionali del tutto nuovi ed affatto accostabili a contigue (o identiche) esperienze erariali.

A queste condizioni anche le Regioni a Statuto speciale potranno istitui-re forme di fiscalità di sviluppo nonché esercitare la propria autonomia normativa tributaria valorizzando il principio della continenza molte volte già esplicito nei singoli Statuti con valenza costituzionale.

L’alternativa riduttiva è quella di ammettere che la Regione speciale be-neficia, in virtù del proprio Statuto, solo della devoluzione di una quota per-centuale di imposte erariali per presupposti realizzati nel territorio o redditi percepiti da residenti nella Regione in nulla limitabile dalla legge statale

48.

8. Fiscalità regionale e autonomia degli enti locali territoriali diversi dalle Re-gioni (Province e Comuni e città metropolitane)

Lo Stato e le Regioni sono, dunque, pari ordinate quanto a poteri di pre-visione e, quindi, rendono secondario e del tutto dipendente l’intervento regolamentare delle Provincie e dei Comuni privi ex art. 23 Cost. della pos-sibilità di una iniziativa autonoma

49. Emerge da subito, quindi, nella legge delega la posizione secondaria e,

per molti versi, passiva delle Province e dei Comuni conseguente all’equior-dinazione fra Stato e Regioni

50. La legge delega riconosce loro solo la possibilità di godere di tributi pro-

pri derivati previa decisione statale o regionale (art. 12, comma 1); in parti-colare:

– la legge statale può individuare (direi istituire) nuovi tributi provinciali o comunali o disporne la trasformazione

– la legge regionale può istituire nuovi tributi provinciali o comunali a condizione che sia rispettata la riserva di presupposto a favore dello Stato.

Almeno nei confronti degli enti territoriali diversi dalle Regioni, l’assetto derivante dalla legge delega si deve intendere in termini senza dubbio meno

48 V. sent. Corte cost., n. 74/2009 per il Friuli Venezia Giulia. 49 Sul punto da ultimo e per tutti AMATUCCI, I principi, cit., 2010, p. 25 ss. e BORIA, I

rapporti tra ordinamenti autonomi, cit., p. 79 ss., spec. p. 83 ss. 50 In senso critico evidenzia un dubbio di costituzionalità AMATUCCI, I principi, cit., pp.

13, 25 e 35.

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autonomistici di quelli che, ad una prima presentazione, era stato proposto, potendosi ipotizzare che gli stessi debbano meramente attuare la facoltà di-sciplinata nella legge (statale o regionale) potendo, nella migliore delle si-tuazioni, solo scegliere fra una serie di alternative.

La riserva di istituzione a favore dello Stato e delle Regioni di cui alla leg-ge delega non contrasta con l’attuale disposto dell’art. 119, comma 2 Cost. il quale, nell’affermare genericamente che tutti gli enti locali territoriali «Sta-biliscono e applicano tributi ed entrate propri», presuppone la distinzione fra le Regioni, dotate di autonomia normativa, e gli altri enti, privi di questa, ammettendo che l’ente locale possa operare anche a seguito della sola legge regionale di coordinamento sebbene nei soli campi del procedimento e del-le agevolazioni e, comunque, non con riguardo agli elementi essenziali della fattispecie.

La legge delega, esprime, dunque, un coordinamento anche interno ad ogni singola Regione; lo si desume dall’art. 2, comma 2 il quale, alla lett. q), per i «presupposti non assoggettati ad imposizione da parte dello Stato» attribuisce alla legge regionale il potere di «1) istituire tributi regionali e lo-cali» determinando «2) (…) le variazioni delle aliquote o le agevolazioni che comuni, province e città metropolitane» e, alla lett. s), la facoltà di «(…) istituire a favore degli enti locali compartecipazioni al gettito dei tri-buti e delle compartecipazioni regionali»: sarebbe, infatti, illogico non ac-compagnare l’istituzione di tributi locali e di compartecipazioni da parte di una regione ad una normativa regionale che si preoccupi anche di coordina-re il successivo intervento regolamentare degli enti locali.

Sussistono, quindi, due diversi coordinamenti: uno verticale ed uno oriz-zontale tra livelli di governo diversi, enti di pari autonomia e enti dotati di autonomia diversa

51. L’art. 15 della legge delega prende in espressa considerazione le città me-

tropolitane con un disposto nella legislazione delegata, assai innovativo in quanto per esse è prevista al fine di finanziarne le funzioni che andranno ad ereditare da altri enti territoriali, «l’attribuzione (…) dell’autonomia impo-sitiva corrispondente alle funzioni esercitate dagli altri enti territoriali (…) anche attraverso l’attribuzione di specifici tributi» nonché l’assegnazione di «tributi ed entrate propri anche diversi da quelli assegnati ai comuni».

Attribuzione di autonomia impositiva ed assegnazione di tributi ed en-trate propri sono, dunque, concetti che devono essere intesi rispetto all’au-

51 Vedi RAGUCCI, La legge delega, cit., p. 745 ss.

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tonomia che tali città possono avere in base alla Costituzione e, cioè, pari a quella dei Comuni non avendo alcun potere normativo; si tratta, quindi, di spazi riconducibili a quelli dei tributi propri derivati.

9. Indicazioni dal D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23 in materia di “federalismo fiscale municipale” e dal D.Lgs. 6 maggio 2011, n. 68. L’imposta di scopo comunale, provinciale e delle città metropolitane

La fase attuativa della legge delega è entrata nel vivo con il D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23 (“Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale”) il quale contiene disposizioni dedicate, oltre che alla “Devoluzione ai comuni della fiscalità immobiliare” (art. 2), alla c.d. “cedolare secca sugli affitti” (art. 3), all’“Imposta di soggiorno” (art. 4), all’“Addizionale comunale all’imposta sul reddito delle persone fisiche” (art. 5), all’“Imposta municipale propria” (artt. 8-9) e “secondaria” (art. 11), anche all’“Imposta di scopo” (art. 6).

Più in particolare, il citato art. 6 del Decreto dispone, attraverso un rego-lamento da adottare ex art. 17, comma 2, L. n. 400/1988, la revisione della disciplina dell’imposta di scopo di cui all’art. 1, comma 145, L. 27 dicembre 2006, n. 296

52, prevedendo l’individuazione di opere pubbliche ulteriori ri-spetto a quelle già tipizzate, l’aumento fino a dieci anni della durata massima di vigenza del tributo, la possibilità che il gettito tributario finanzi l’intero ammontare della spesa necessaria per l’opera pubblica da realizzare.

A seguito delle modifiche che verranno introdotte con regolamento go-vernativo (e ovviamente non comunale), la nuova imposta di scopo per la realizzazione di opere pubbliche vedrà l’individuazione del soggetto passi-vo, del presupposto e dell’aliquota ancora attribuita alla legge (statale o re-gionale) mentre il regolamento comunale potrà intervenire sugli altri aspetti della fattispecie.

In ogni caso, il tributo di scopo, es. con finalità ambientale, non potrebbe mai costituire un dazio doganale o una c.d. tassa ad effetto (allo stesso) equivalente, vietati ai sensi sia dell’art. 120 Cost. che degli artt. 28, 30 e 34 del Trattato della Comunità europea

53, né un’imposta generale su consumo

52 Se si vuole anche per approfondimenti vedasi FICARI, L’autonomia normativa tributa-ria degli enti locali e la legge Finanziaria 2007, in Rass. trib., 2007, p. 883 ss.; CIANFROCCA ROTUNNO, Tributi locali. Le novità della finanziaria 2007, Rimini, 2007, p. 35 ss.

53 Da ultimo in generale vedi FICHERA, Federalismo fiscale e Unione europea, in Rass. trib., 2010, p. 1542 ss. con particolare riferimento al c.d. tubatico siciliano.

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che vada ad aggiungersi, in violazione all’art. 401 della Dir. n. 6/112, all’Iva

54. Il D.Lgs. 6 maggio 2011, n. 68 (“Disposizioni in materia di autonomia di

entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determina-zione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario”), all’art. 20, tra gli “Ulteriori tributi provinciali”, prevede un’imposta provinciale di scopo sim-metrica a quella comunale; in termini identici l’art. 24, nel disciplinare il “Si-stema finanziario delle città metropolitane”, al comma 6 riproduce identica scelta per le imposte di scopo delle città metropolitane.

Lo stesso Decreto n. 68, all’art. 8, poi, ipotizza che, salva la loro soppres-sione, possano essere «trasformati in tributi propri regionali» una serie di prelievi tra i quali, ai nostri fini, possono assumere rilievo, per il loro poten-ziale collegamento (diretto o indiretto) con l’ambiente «l’imposta regiona-le sulle concessioni statali dei beni del demanio marittimo, (…) l’imposta sulle emissioni sonore degli aeromobili».

10. Cenni agli elementi caratterizzanti il prelievo di natura tributaria rispet-to a quelli dell’erogazione di natura privatistica corrispettiva

Nella prospettiva dell’attuazione del federalismo fiscale nei termini dise-gnati dalla legge delega e dai decreti delegati e nella chiara prospettiva di po-ter meglio individuare le alternative forme di remunerazione dei costi di tu-tela, gestione ed erogazione dell’acqua, può essere importante meglio defi-nire le caratteristiche in base alle quali il pagamento a favore dell’ente locale conserva natura tributaria o, invece, assume le vesti di un vero e proprio cor-rispettivo di diritto privato in un contesto economico-sociale nel quale l’e-rogazione dei c.d. beni pubblici è combattuta tra spinte alla liberalizzazione e timori che il profitto ritraibile dal privato possa danneggiare la natura pub-blica della “fonte” e dell’“azienda” produttiva.

La denominazione di quanto pagato non può imporre all’interprete al-cuna qualificazione necessaria

55 dovendosi, invece, indagare la realtà so-stanziale del pagamento e dell’operazione, superando, così, il dato letterale adottato nella singola sede regolamentare.

54 V. ancora FICHERA, Federalismo fiscale e Unione europea, cit., p. 1545 ss. 55 Così già DEL FEDERICO, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino,

2000, p. 122 ss.

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a) In termini volutamente sintetici pare che un tributo sia definibile co-me commutativo

56 quando ricorre una serie di caratteri che qui di seguito indichiamo:

– il presupposto di fatto del prelievo si collega all’esplicazione di un’atti-vità o al godimento di un bene concesso da parte dell’ente;

– l’importo, per quanto diversificato, è determinato in modo autoritati-vo, a nulla rilevando criteri tariffari basati su dati statistici o medio-ordinari;

– la prestazione patrimoniale è coattiva o, quantomeno, la domanda del servizio e/o del bene è obbligata;

– la prestazione resa al soggetto che effettua il pagamento costituisce il risultato di un procedimento;

– si esercitano pubbliche funzioni; – il gettito ha una destinazione vincolata alternativamente a finalità di

interesse generale di una comunità indiscriminata, di una comunità discri-minata oppure specificamente per la produzione del bene o servizio presta-to.

b) Si ha, invece, una obbligazione sinallagmatica (i.e. non tributaria) quan-do la prestazione resa dall’ente locale al singolo:

– è legata alla fruizione di un servizio prestato dall’ente locale oppure al godimento di un bene di proprietà dell’ente medesimo;

– consiste in un fare, non fare o permettere che formi oggetto di un con-tratto;

– deriva non dalla legge ma da una scelta negoziale a nulla rilevando, in termini qualificatori che l’attuazione della medesima abbia una disciplina legale;

– è relativa all’erogazione di pubblici servizi. La necessità di una distinzione a priori discende, anche, dalla ricaduta

che la qualificazione può avere sull’applicazione dell’Iva al corrispettivi. Più in particolare, infatti, la natura privatistica del rapporto e corrispetti-

va del pagamento espone l’ente locale all’obbligo di assoggettare all’imposta sul valore aggiunto quanto ricevuto.

Infatti, ai sensi dell’art. 4, par. 5 della Direttiva CE 17 maggio 1977, n. 77/388, il Comune non è considerato soggetto passivo per le sole «attivi-tà od operazioni» esercitate «in quanto pubbliche autorità anche quando in relazione a tali attività od operazioni percepiscono diritti, canoni, con-

56 Si rinvia, sul punto, anche per riferimenti a FICARI, L’autonomia normativa tributaria, cit., p. 891 ss. ma da ultimo, PETRILLO, Tributi, nuove entrate locali e loro controversa natura giuridica, in AA.VV., Il nuovo sistema fiscale degli enti locali, cit., p. 61 ss.

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tributi o retribuzioni» (ora v. l’art. 13, § 1, comma 1 della Direttiva CE 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE).

Ne consegue, pertanto, la necessità di verificare, a prescindere dalla for-male denominazione della prestazione patrimoniale, se questa derivi dall’e-sercizio di una funzione pubblica in ordine alla quale il Comune opera quale pubblica autorità o se, invece, il servizio sia erogato senza alcune delle tipi-che prerogative del potere pubblico ed in palese regime di concorrenza con operatori privati che offrano gli stessi servizi.

Peraltro, l’esito dell’indagine sulle concrete caratteristiche della prestazione potrebbe indurre ad una rivisitazione critica il disposto dell’art. 4, comma 5, D.P.R. n. 633/1972 nella parte in cui si dispone che «sono considerate in ogni caso commerciali, ancorché esercitate da enti pubblici, le seguenti atti-vità: (…) b) erogazione di acqua e servizi di fognatura e depurazione (…)» rispetto alla previsione della norma comunitaria che non ha trovato, almeno al momento, esplicita trasposizione nel D.P.R. n. 633/1972

57.

PARTE II. FEDERALISMO FISCALE E FISCALITÀ DELL’ACQUA

11. Le implicazioni dell’autonomia normativa tributaria delle Regioni e degli enti locali sulla “fiscalità” locale dell’acqua

Affrontando l’aspetto relativo all’assunzione dell’acqua quale bene ambien-tale è possibile individuarne la complessa fisionomia quale “bene” oggetto di le-giferazione tributaria e quale “bene” beneficiario della destinazione del gettito.

In primo luogo, in ordine alle Regioni a Statuto ordinario ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost. «Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle se-guenti materie: (…) s) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali»; in base al successivo comma 2 è materia di legislazione concor-rente quella relativa alla «tutela della salute; (…) governo del territorio;

57 Sul problema dei rapporti tra la normativa interna e quella comunitaria anche CON-TRINO, sub Art. 4, in AA.VV., Commentario breve alle leggi tributarie, Tomo IV, Iva e imposte sui trasferimenti, a cura di Marongiu, Padova, 2011, p. 43 ss. ma già TESAURO, Il regime Iva delle attività degli enti pubblici, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1992, I, pp. 105 ss. e 117 aveva espres-so perplessità sulla compatibilità di un’applicazione generalizzata e non condizionata della norma interna.

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(…) valorizzazione dei beni culturali e ambientali». Per le Regioni a Statuto speciale si nota, nella maggior parte dei casi, l’at-

tribuzione all’autonomia normativa regionale di uno spazio (esplicitamen-te) più esteso condizionandola all’armonia con la Costituzione ed ai princi-pi dell’ordinamento giuridico repubblicano, al rispetto degli obblighi inter-nazionali e comunitari

58. Sul versante del prelievo, se, da un lato, il principio c.d. di continenza

consentirebbe alla Regione di valorizzare una materia esclusiva (anche) al-l’interno di una fattispecie tributaria locale, dall’altro, la copertura in via e-sclusiva della materia a favore dello Stato non dovrebbe, per le Regioni, im-pedire di assumere l’acqua a presupposto/beneficiario del prelievo in ragio-ne della disciplina dei tributi propri in senso stretto di cui al combinato di-sposto dell’art. 119, comma 2, Cost. e della legge delega.

Con particolare riguardo alla delega, l’«attribuzione di risorse autonome (…) alle regioni, in relazione alle rispettive competenze, secondo il princi-pio di territorialità» (art. 2, comma 2, lett. e)) è declinabile, valorizzando l’ambito delle competenze ed uno dei significati del principio della territo-rialità ovvero quello di un prelievo territorialmente orientato nel presuppo-sto e/o nella destinazione del gettito.

Il collegamento dell’ambiente e dell’acqua al criterio di territorialità è e-vidente anche nella prospettiva segnata dall’art. 2, comma 2, lett. p) in quan-to se il tributo regionale e locale si deve giustificare in base ad una «tenden-ziale correlazione tra prelievo fiscale e beneficio connesso alle funzioni esercita-te», ove l’acqua, nelle sue diverse manifestazioni ed aspetti, si collegasse, anche in base al principio di continenza, ad una funzione pubblica a livello sia regionale che comunale, essa ben potrebbe essere assunta all’interno di un tributo regionale proprio.

Premesso che la Corte costituzionale ha ribadito che alle Regioni a Sta-tuto speciale si applicano i soli principi contenuti negli artt. 15, 22 e 27 della legge delega n. 42

59, ciò non toglie che le stesse possano giungere ad un ana-logo risultato poiché ai sensi dei loro singoli statuti esse sono dotate di una più immediata autonomia.

58 V., ad es., l’art. 3 dello statuto speciale della regione Sardegna (L. cost. 26 febbraio 1948, n. 3).

59 Corte cost., 10 giugno 2010, n. 201.

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12. (Segue) Imposta di scopo e “fiscalità” dell’acqua

Uno strumento che ben si presta alla valorizzazione dell’ambiente e dell’acqua nelle due diverse modalità sopra accennate (all’interno della fat-tispecie oppure quale beneficiario del gettito) è senza dubbio l’imposta di scopo.

Alla luce del combinato disposto degli artt. 1, comma 145, L. 27 dicem-bre 2006, n. 296

60, 12, comma 1 della legge delega n. 42/2009 e 6 del D.Lgs. n. 23/2011 tale strumento potrebbe assumere un rilievo importante nello sviluppo di una “fiscalità” dell’acqua considerando la tutela dell’acqua e/o la sua efficiente gestione e rogazione come lo scopo cui sia vincolato l’impiego del tributo.

Più in particolare, si deve ricordare che l’ente comunale non è titolare di una propria autonomia normativa tributaria, anche per evidenti esigenze di garantire, ex art. 117 Cost., il rispetto del principio del coordinamento del sistema tributario di modo che ex art. 23 Cost. lo stesso potrà solo stabilire ed applicare ma non istituire e prevedere tributi comunali di scopo.

Ciò premesso, il prelievo tributario con vincolo di destinazione, nella sua complessiva razionalità e attuazione tra i diversi livelli di governo

61, a segui-to di una concertazione fra Stato o Regione e i comuni di una singola Re-gione potrebbe consentire, in ragione del principio di continenza, di ottene-re risorse fruibili dal singolo Comune a seguito di una cornice normativa le-gislativa (anche solo regionale) chiara ed essenziale, che possa consentire un federalismo cooperativo e coordinato

62 in cui il Comune intervenga ne-gli spazi non coperti dalla riserva di legge.

Considerando che nell’attuale elenco di opere pubbliche di cui all’art. 1, comma 149 della L. n. 296/2006 non sono comprese quelle a vario modo attinenti all’acqua

63, il regolamento ex art. 17 della L. n. 400/1988 ben po-

60 Su cui per tutti anche per riferimenti PETRILLO, Tributi, nuove entrate locali, cit., p. 85 ss. 61 Sul punto per tutti FEDELE, Federalismo fiscale e riserva di legge, in Rass. trib., 2010, p.

1530 ss. 62 Il punto è ormai condiviso: per tutti vedi ANTONINI, sub Art. 23, in AA.VV., La costi-

tuzione italiana. Principi fondamentali. Diritti e doveri dei cittadini, a cura di Bifulco, Celotto e Olivetti, Torino, 2007, p. 498.

63 In quanto si prevedono, al momento, solo quelle relative al trasporto pubblico urba-no, quelle viarie, quelle di arredo urbano e di decoro, di risistemazione di parchi e giardini, di realizzazione di parcheggi pubblici, di restauro, di conservazione di beni artistici e archi-tettonici, di realizzazione di nuovi spazi per eventi culturali, allestimenti museali e biblio-teche e, infine, quelle relative all’edilizia scolastica.

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trebbe inserire l’acqua tra i beni la cui tutela, gestione ed erogazione po-trebbe essere finanziata con un tributo di scopo

64.

13. Gestione ed erogazione dell’acqua, servizio idrico e qualificazione del “prezzo” ai fini tributari: profili sostanziali e procedimentali

13.1. Il quadro normativo e la rilevanza dell’esito referendario

La gestione in forma privatistica dell’erogazione del servizio idrico senza dubbio induce a riflettere sull’impatto che la forma può avere nella qualifi-cazione del prelievo di genere commutativo ma di specie tributaria o corri-spettiva.

La disciplina normativa del servizio idrico evidenzia alcuni tratti fonda-mentali per la nostra analisi, traendo spunto anche dalla regolamentazione non tributaria.

a) Il D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (“Norme in materia ambientale”) con-tiene delle disposizioni che costituiscono «principi generali dell’ambiente» e che «possono essere derogate, modificate o abrogate solo per dichiarazio-ne espressa da successive leggi» (art. 3 bis); viene, inoltre, esplicitato che la tutela ambientale è garantita dagli enti pubblici attraverso, tra l’altro, un’a-zione di natura anche “preventiva” nonché informata al principio «chi in-quina paga» (art. 3 ter) e che gli enti pubblici, nell’esercizio delle loro fun-zioni, devono essere orientate alla «migliore attuazione possibile del prin-cipio dello sviluppo sostenibile» (art. 3 quater).

Il Decreto individua nell’Autorità d’ambito regionale un ente dotato di

64 Si ricordi una citazione di VON HAYEK, Liberalismo, edito nel 1978 ma stampato da Ideazione, Roma, 1988, p. 90 ss. che ben si attaglia al finanziamento della gestione ed ero-gazione dell’acqua attraverso lo strumento dell’imposta: «Non c’è dubbio che siano molti i “servizi pubblici” che, pur essendo altamente desiderabili, non possono essere forniti dal mecca-nismo di mercato in quanto, se ci sono, essi devono andare a vantaggio di tutti e non possono essere riservati a coloro che sono disposti a pagarli» di modo che «i servizi in questione posso-no essere forniti soltanto se i mezzi per far fronte al loro costo vengono ottenuti per via fiscale» e «il loro finanziamento – e, anche, pur se non sempre, la loro gestione – devono essere affidati a enti provvisti del potere di imposizione» di modo che «i fondi vengano raccolti attraverso im-poste locali»; l’Autore prosegue nel senso che, nel mercato di tali servizi, affinché si garan-tisca la soddisfazione del bisogno «sono necessarie norme che favoriscano il mantenimento della concorrenza e ostacolino, nei limiti del possibile, lo sviluppo di posizioni di monopolio» le quali non si sarebbero consolidate «se il governo non avesse agevolato lo sviluppo con la poli-tica tariffaria».

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personalità giuridica (art. 148) al quale, alla stregua di un consorzio obbliga-torio ex lege, partecipano obbligatoriamente gli enti locali ed al quale sono per legge trasferite le loro competenze in materia di gestione delle risorse idriche (art. 148, comma 1); l’Autorità affida con gara la gestione del servi-zio idrico anche ad una società mista previa scelta del socio privato (artt. 150-151) e, attraverso una concessione, consente al gestore l’uso gratuito delle infrastrutture (art. 153); a ciascuna Autorità sono, inoltre, trasferite le attività e passività relative al servizio compresi i debiti riferibili alla gestione diretta operata dai comuni compresa la realizzazione delle opere infrastrut-turali. Si noti, peraltro, che tali Autorità avrebbero dovuto cessare dalle loro funzioni dal gennaio 2011 ai sensi dell’art. 2, comma 186 bis della L. n. 191/2009.

In relazione alla determinazione delle risorse necessarie a coprire i costi relativi ai servizi idrici si richiama, tra gli altri e per la sua rilevanza ai fini fi-scali, il principio «chi inquina paga» (art. 119).

Più in dettaglio, l’art. 154, commi 1 e 5 del Decreto dedicato disciplina la “Tariffa del servizio idrico integrato” la definisce e regola nei termini che se-guono; nella bipartizione tra voci relative ai costi fissi e voci relative al mar-gine di profitto, essa:

– costituirebbe «il corrispettivo del servizio idrico integrato» e avrebbe-ro «natura di corrispettivo» tutte le «quote della tariffa del servizio idri-co»;

– è determinata tenendo conto di due principi: quello «del recupero dei costi» di gestione e funzionamento e quello di “chi inquina paga” i costi am-bientali

65; – è «applicata dai soggetti gestori». Lo stesso art. 154, al comma 3 attribuisce ad un Decreto interministeria-

le la funzione di stabilire criteri generali di determinazione al fine di garanti-re un’omogenea disciplina sul territorio nazionale e al comma 4 all’Autorità d’ambito il compito di determinare “la tariffa base”.

In ordine alla riscossione, l’art. 156 prevede che la tariffa sia «riscossa dal gestore» anche con le modalità di cui al capo III del D.Lgs. 9 luglio

65 Si ricorda che la giurisprudenza comunitaria ha puntualizzato come gli Stati membri (qui si aggiunge, nei lori diversi livelli di governo) sono liberi di istituire tributi sui rifiuti ma devono garantire che il pagamento vada a gravare integralmente sul soggetto cui sia riferibile il comportamento inquinante (v. CGE 25 febbraio 2010, causa C-172/08, in Riv. dir. trib., 2011, IV, p. 63 ss. con nota di ESPOSITO DE FALCO, Il tributo regionale sui rifiuti solidi in discarica alla luce di una recente pronuncia della Corte di Giustizia Europea.

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1997, n. 241 «previa convenzione con l’Agenzia delle Entrate». A livello locale, peraltro, la legge consente di concentrare in un unico

soggetto la gestione degli acquedotti, della rete fognaria e della depurazione, pur lasciando separate le tariffe e le loro determinazioni.

b) L’attuale quadro normativo incentrato sull’esistenza e regolamenta-zione della tariffa del servizio idrico integrato è la risultante di un processo evolutivo assai contorto e contraddittorio.

Tra le diverse disposizioni antecedenti al D.Lgs. n. 152/2006 è significa-tivo ricordare che la sostituzione del c.d. canone per il servizio di depura-zione delle acque, qualificato come tributo comunale ex art. 62, commi 5 e 6, del D.Lgs. n. 152/1999 poi abrogata, disposta dall’art. 31, comma 28 della L. n. 44/1998, è stata rinviata più volte (al pari di quanto accaduto per la trasformazione della Tarsu in Tia) fino al 2 ottobre 2000, data a partire dalla quale, con l’abrogazione dell’art. 62, è entrata in vigore la tariffa del servizio idrico integrato.

c) Nella legislazione regionale speciale le scelte del legislatore nazionale sono sostanzialmente riprodotte sebbene taluni interventi regionali siano an-tecedenti al D.Lgs. n. 152/2006; in particolare, leggendo, ad es. la L.R. Sar-degna 17 ottobre 1997, n. 29, si nota come la “Tariffa d’ambito” costituisca il «corrispettivo del servizio idrico integrato che deve essere posto a carico dell’utenza» determinato al fine di consentire, alla luce «degli atti di indi-rizzo e di pianificazione assunti dalla Regione», «la copertura dei costi di esercizio e di investimento, ivi compresi gli oneri finanziari conseguenti alla contrazione di mutui da parte della Regione per la realizzazione di interven-ti nel settore idrico, anche cofinanziati dall’Unione Europea»

66. d) La rilevanza dell’esito del referendum sull’acqua e sui servizi pubblici

locali del 12 e 13 giugno 2011 senza dubbio può essere colta nella prospet-tiva anche tributaria.

Si deve premettere che prima del referendum circa la maggioranza delle gestioni idriche erano pubbliche nel senso che venivano controllate intera-mente da società sotto il controllo degli enti locali e con affidamento senza gara, con una percentuale solo del 17% per società miste controllate anche (ma non solo) dall’ente locale e del 5% per concessionari solo privati con un

66 Nel caso della Sardegna, ad esempio, la gestione è stata affidata ad un unico soggetto costituito da una società a totale capitale pubblico locale (Abbanoa s.p.a.) la quale, ai sensi della disciplina dei modelli gestionali previsti per i servizi pubblici locali, è sottoposta ad un controllo da parte degli enti pubblici titolari del capitale analogo a quello che gli stessi potrebbero esercitare se i servizi fossero dagli stessi direttamente prestati.

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20% di gestione diretta in economia da parte dei Comuni 67 e che fosse da

escludere una privatizzazione in senso giuridico dell’acqua la quale era ed è sempre n bene demaniale necessario.

L’esito ha, quindi, riguardato la possibilità (esclusa), sempre con gara concorrenziale, di affidare a privati la sola distribuzione dell’acqua e gestio-ne degli acquedotti, senza eliminare né la connotazione pubblicistica deri-vante dalla determinazione della tariffa con procedimento amministrativo, tale da imporre ai singoli gestori l’adozione di un “prezzo” secondo una for-mula che tenga conto degli investimenti realizzati, né il ruolo di pianifica-zione e controllo delle Autorità di ambito territoriale e quello di vigilanza sul-la determinazione delle tariffe operato dalla neo costituita Agenzia di vigi-lanza.

La vittoria del “sì” e, quindi, l’abrogazione dell’art. 23 bis del D.L. n. 112/2008 e dell’art. 15 del D.L. 135/2009 ha riportato sotto il controllo as-soluto dell’ente locale la gestione del servizio (anche idrico) rendendo solo possibile e non più obbligatoria l’assegnazione del servizio a società sia private che pubbliche che miste.

Senza entrare nel merito se tale scelta referendaria vada a migliorare l’e-rogazione e a risolvere i problemi del finanziamento e dell’investimento

68, è evidente che viene rafforzata l’idea della natura pubblica e non privata del-l’erogazione (oltre che della proprietà della “fonte”).

e) Indicazione importante, sebbene da valutare criticamente nella sua applicazione generalizzata a tutti i settori ivi previsti, è l’art. 4, comma 5 del D.P.R. n. 633/1972 il quale, in materia di individuazione della nozione di impresa commerciale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, prevede, con decorrenza dal 1° gennaio 1999 (art. 31, comma 30, L. n. 448/1998), che «sono considerate in ogni caso commerciali, ancorché esercitate da enti pubblici, le seguenti attività: (…) b) erogazione di acqua e servizi di fogna-tura e depurazione, gas, energia elettrica e vapore»

69.

67 Fonte Il Sole 24 ore del 3 maggio 2011 e 2 giugno 2011. 68 Come afferma F. DEBENEDETTI (Quante mistificazioni sull’acqua, in Il Sole 24 ore del

10 giugno 2011, p. 12) è «follia credere che chi non è capace di controllare i propri forni-tori sappia controllare i propri dipendenti».

69 Disposizione alla quale ha prestato specifica attenzione la Corte costituzionale nella sent. 10 ottobre 2008, n. 335 § 6.1. in materia di servizio di fognatura e depurazione, in Rass. trib., 2009, p. 175 ss. con nota di LOGOZZO, Luci ed ombre sulla natura del canone di depurazione delle acque reflue.

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13.2. (Segue) Alcune indicazioni dalla giurisprudenza costituzionale e di legit-timità, dalla prassi ministeriale e da esperienze normative contigue

Il menzionato quadro normativo deve essere da subito accostato alla po-sizione che, sul punto, è stata assunta dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità in ordine a prelievi relativi sia all’acqua che allo smaltimento dei rifiuti.

A) La Corte costituzionale, da un lato, nella sent. 10 ottobre 2008, n. 335 relativa alla natura del canone per lo scarico e la depurazione delle acque re-flue così come disciplinato nella c.d. legge Galli, esalta la natura del contrat-to di utenza come elemento idoneo a far escludere che la genesi dell’obbli-gazione vada rinvenuta in un atto autoritativo e sostiene che si possa confi-gurare quanto pagato alla stregua di un corrispettivo, la cui debenza dovreb-be seguire le regole civilistiche dell’adempimento contrattuale, trattandosi di un corrispettivo di una prestazione commerciale, di modo che lo stesso non sarebbe dovuto ove il servizio di fognatura sia sprovvisto di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi.

La sent. n. 335/2008 valorizza la circostanza che, ove manchi il servizio di depurazione delle acque reflue alcuna quota tariffaria riferibile al servizio di depurazione possa essere chiesta dalla società di gestione del servizio idrico integrato, distinta da quella riferibile, invece, al servizio di pubblica fognatura per aderire ad una ricostruzione strettamente corrispettiva del pagamento.

Tale natura corrispettiva sarebbe desumibile dalla circostanza che la co-struzione della tariffa da parte del legislatore si raccorda

i) all’«utilità particolare che ogni utente (…) ottiene dal servizio», ii) al “valore economico” del servizio stesso, iii) al «costo industriale del servizio idrico», iv) alla necessità che il pagamento della tariffa debba, per legge, assicura-

re «la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio», v) alla qualificazione come impresa ai fini dell’Iva dell’attività di «b) ero-

gazione di acqua e servizi di fognatura e depurazione» (art. 4, comma 5 del D.P.R. n. 633/1972),

vi) all’assenza di specifici rinvii alla disciplina della riscossione tributaria, vii) la Corte aveva inoltre rilevato l’assenza di riferimenti alla disciplina

della riscossione tributaria, nella L. n. 36 del 1994, che si limitava a stabilire che la funzione della riscossione è demandata all’ente gestore del servizio idri-co, a differenza del precedente art. 17, comma 8, primo per., L. n. 319/1976, che rimandava espressamente agli istituti tributari,

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viii) su questo punto si può osservare (forse dopo) che a nulla rileva la natura giuridica dell’ente gestore del servizio di riscossione.

Di conseguenza, non risulterebbe più dovuto alcun pagamento in assen-za dell’impianto o di sua presenza ma temporanea inutilizzabilità.

Sul punto si può, però, osservare come il prevedere che il pagamento debba rapportarsi all’utilità ritratta dal godimento del servizio, il valutare nel-l’attribuzione di un prezzo (anche) il costo industriale del servizio ed il ga-rantire che quanto pagato debba assicurare la copertura dei costi di investi-mento e di esercizio paiono rappresentare elementi compatibili con una ri-costruzione del prelievo in termini non solo di corrispettivo ma anche, ed alternativamente, di tassa, quale specie del genere tributario: anche nel c.d. pricing di una tassa locale l’ente titolare della relativa potestà tributaria deve svolgere valutazioni tecniche in punto di economicità.

La Corte costituzionale, sebbene con riferimento non all’acqua ma alla contigua esperienza dei rifiuti, ha, inoltre, ribadito, nella sent. 24 luglio 2009, n. 238

70, la natura tributaria della Tia, nonostante la denominazione quale tariffa e lo scorporo in essa di due quote (una fissa e una variabile) di cui so-lo una certamente tributaria.

B) Altre importanti indicazioni – non sempre corrispondenti con quelle derivanti dalla giurisprudenza costituzionale – sono offerte dalla giurispru-denza tributaria di legittimità in materia di qualificazione delle somme pagate a fronte di servizi pubblici.

La Corte di Cassazione, infatti, ai fini di stabilire la giurisdizione (ordinaria o tributaria) ha offerto (e continua ad offrire) importanti riferimenti che con-sentono di ritenere che, a prescindere dalla denominazione formalmente adottata dal singolo legislatore, la natura tributaria della prestazione e, con es-sa, la giurisdizione delle commissioni tributarie ricorrano ogniqualvolta

71: – il pagamento avvenga in assenza di un intervento volontario del privato

conseguente ad un assetto negoziale, – non vi sia sinallagmaticità tra il pagamento e l’erogazione/fruizione del

servizio, – la somma incassata vada a coprire costi generali e non solo specifici

della prestazione,

70 Vedi tra gli altri GUIDO, Considerazioni a margine della qualificazione tributaria della Tia, in Rass. trib., 2009, p. 1107 ss.

71 V. Cass., sez. un., 14 maggio 2010, n. 11720; Cass., sez. un., 15 giugno 2009, n. 13894 (in GT-Riv. giur. trib., 2009, I, 861 ss.); Cass. 10 luglio 2008, n. 19314; Cass. 17 luglio 2007, n. 15885; Cass., sez. un., 8 marzo 2006, n. 4895.

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– a nulla rilevando che il pagamento sia richiesto con un atto tipico della riscossione tributaria come la cartella di pagamento oppure del pagamento tra privati come la fattura.

La S.C., infatti, già in passato aveva affermato l’obbligo del pagamento anche in assenza della presenza di impianti centralizzati di depurazione o di loro temporanea inattività, sottolineando la destinazione dell’erogazione ad un fondo vincolato alla loro realizzazione e gestione

72; non sono, però, man-cate indicazioni diverse che, invece, hanno escluso l’obbligo del pagamento in assenza dell’impianto

73. Infine, si è precisato che, se il credito relativo al servizio idrico integrato

ha natura privatistica, la riscossione non potrà avvenire sulla base della sola emissione di una fattura ma richiederà un titolo avente efficacia esecutiva

74. C) Nella prassi ministeriale si rinvengono alcune indicazioni utili per

comprendere l’attuale fisionomia del fenomeno e le sue eventuali criticità o vizi.

Si ritiene che la concessione in uso al gestore da parte del comune delle strutture per l’erogazione del servizio idrico a fronte dell’obbligo per il ge-store di pagare le c.d. “passività pregresse” riferibili alla gestione diretta del servizio idrico da parte del comune dia luogo ad una prestazione di servizi imponibile ai fini Iva in quanto costituirebbe la remunerazione di una ob-bligazione “di permettere”

75. In altra direzione si è, invece, posizionato un secondo orientamento

che ha invitato a verificare le concrete modalità di svolgimento dell’attivi-tà

76. In questa seconda direzione, seppur con riguardo al solo rapporto tra

Comune e concessionario e non anche tra concessionario e cittadino, si è escluso il carattere di pubblica autorità dell’attività ove la regolamentazione del rapporto tra l’ente locale ed il privato gestore disciplini reciproche ob-bligazioni secondo i moduli giuridici propri del rapporti di diritto civile

77,

72 Cass. 4 gennaio 2005, n. 96; Cass. n. 6418, 2005; Cass. n. 16426, 2004 e Cass. n. 11188, 2003.

73 Cass. 7 luglio 2005, n. 14314. 74 Così Cass., sez. III, 4 luglio 2011, n. 14628 e Cass., sez. III, 29 agosto 2011, n.

17628. 75 Ris. Agenzia Entrate 11 ottobre 2010, n. 104/E. 76 V. Ris. Agenzia Entrate 5 dicembre 2007, n. 352/E e 6 maggio 2009, n. 122/E. 77 Es. la facoltà di risoluzione di diritto, l’onere del preavviso in caso di recesso, la previ-

sione di una penale nel caso di ritardata consegna dei beni oggetto dell’affidamento.

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per affermare la ricorrenza dell’esercizio di un’impresa commerciale ex art. 4, D.P.R. n. 633/1972

78. D) Infine, in ordine ai diritti aeroportuali si può evidenziare un’impor-

tante esperienza. Da un lato, l’art. 39 bis della L. 29 novembre 2007, n. 222 ha affermato

che dall’imbarco e sbarco «non sorgono obbligazioni di natura tributaria» in quanto le c.d. tasse e diritti di imbarco sarebbero assimilabili a tariffe corri-sposte in assetti negoziali privatistici per specifici servizi resi in occasione delle attività di impresa esercitate negli aeroporti; dall’altro, la giurispruden-za di legittimità sul punto

79 è, invece, giunta alla diversa conclusione della natura tributaria di tali prestazioni anche dopo il menzionato intervento normativo

80 valorizzando la circostanza che il pagamento dei diritti derive-rebbero da assetti determinati dalla legge o da atti amministrativi generali in assenza di qualsiasi scelta discrezionale della pubblica amministrazione o negoziale delle parti.

Orbene, in ordine a tale ultima fattispecie ed alla rilevanza delle caratteri-stiche del rapporto tra gestore unico del servizio ed il vettore

81, si sottolinea l’importanza che, in questa ultima ipotesi, assume nella Corte di Cassazione l’assenza di scelta e di volontà del soggetto pagatore, sebbene tale posizione si sia rivelata in contrasto con quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sent. n. 51/2008 in cui i diritti aeroportuali sono stati ritenuti corri-spettivi dovuti in base a contratti.

13.3. La qualificazione tributaria del “prezzo” ai fini Iva; il principio “chi in-quina paga” non esclude la natura tributaria del pagamento

Con riferimento alla gestione dell’erogazione dell’acqua la stessa norma-tiva tributaria comunitaria induce, seppur implicitamente, a distinguere se la società mista sia un ente pubblico e, in caso positivo, se essa nella gestione del servizio idrico operi in qualità di pubblica autorità essendo di per sé neu-

78 Per il caso della concessione in uso degli impianti pubblicitari del Comune v. Ris. Agenzia Entrate 29 dicembre 2010, n. 139/E.

79 Cass., sez. un., 15 giugno 2006, n. 22245. 80 Cass. 11 gennaio 2008, n. 379. 81 Su cui, per approfondimenti, per tutti vedi anche per citazioni GUIDO, La natura giu-

ridica dei diritti aeroportuali tra orientamento giurisprudenziale e legislazione sopravvenuta, in Riv. dir. trib., 2008, I, spec. p. 540 ss.

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trale che l’attività svolta sia di impresa commerciale e lo status giuridico del-l’esercente e, invece, essendo rilevanti le modalità di svolgimento dell’atti-vità stessa.

L’art. 13 della Direttiva n. 2006/112/CE, infatti, dispone che «Gli Stati, le regioni, le province, i comuni e gi altri organismi di diritto pubblico non sono considerati soggetti passivi per le attività od operazioni che esercitano in quanto pubbliche autorità, anche quando, in relazione a tali attività od operazioni percepiscono diritti, canoni, contributi o retribuzioni. Tuttavia, allorché tali enti esercitano attività od operazioni di questo genere, essi de-vono essere considerati soggetti passivi per dette attività od operazioni quan-do il loro non assoggettamento provocherebbe distorsioni della concorren-za di una certa importanza»

82. Laddove la prestazione di erogazione non fosse assoggettabile ad Iva ai

sensi del regime Iva delle prestazioni accessorie, occorrerebbe verificare con attenzione se l’utilizzazione della struttura idrica da parte della società av-venga o meno previo pagamento di un canone.

In particolare, infatti, se l’utilizzo della struttura è funzionale all’eroga-zione sarebbe evidente la strumentalità; è, però, vero, che la determina zione di un eventuale canone è rimesso a scelte pattizie tendenzialmente autonome da assetti pubblicistici di modo che, in questo caso, sarebbe as-sente qualsiasi elemento riconducibile all’esercizio di una funzione di pub-blica autorità

83. Altro elemento da considerare è se il prezzo applicato dal gestore al merca-

to dei consumatori/contribuenti sia o meno previamente determinato in base a più offerte cioè a regole di libero mercato, condizione che si potrebbero rea-lizzare solo qualora la scelta del gestore avvenisse con un bando pubblico.

Infine, ove non vi fosse impianto si avrebbe il paradosso che chi inquina non pagherebbe nulla mentre chi depura pagherebbe

84; per evitare tale evi-dente contraddizione e incoerenza anche con i principi comunitari occorre ribadire l’interesse pubblico del servizio e la destinazione vincolata del getti-to derivante dal complesso dei pagamenti alla istituzione e/o gestione degli impianti in una logica tributaria trattandosi di un servizio di natura pubblica che viene erogato nell’interesse generale di una comunità territorialmente

82 Sul concetto a tal fine di “distorsione” cfr. Corte di Giustizia CE, 16 settembre 2008, cause C-288/07 Isle of Wight Council.

83 Ris. 6 maggio 2009, n. 122/E proprio in relazione al canone per la concessione in uso della rete fognaria comunale.

84 Acutamente LOGOZZO, Luci ed ombre, cit., p. 202 ss.

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circoscritta con una domanda, però, obbligatoria 85.

Soffermandoci, infine, sulle società di gestione del servizio idrico esse pre-sentano una specialità “derogatoria”

86 tale da mettere in crisi qualsiasi au-tomatismo sulla qualificazione commerciale dell’attività svolta ai fini Iva ov-vero l’applicazione dell’Iva a quanto ricevuto a seguito dell’erogazione del servizio prestato, tutto ciò, peraltro, in coerenza al dettato normativo co-munitario e ad una neutralità della forma adottata ai fini della qualificazione fiscale del provento.

Se si condivide tale approccio, non si potrà che ritenere non del tutto soddisfacente un approccio solo soggettivo – tale per cui la natura pubblica di un soggetto imprenditoriale debba escludere la rilevanza fiscale dei pro-venti della relativa attività così come la natura privata dello stesso debba au-tomaticamente comportarne la rilevanza ai fini Iva – e prediligere quello oggettivo, attento alle caratteristiche del servizio oggettivamente prestato anche alla luce della disciplina comunitaria in materia di imposta sul valore aggiunto

87. Peraltro, l’attenzione per l’impatto sulla concorrenza giustifica nella di-

sciplina civilistica delle società miste alcune restrizioni individuate espres-samente dall’art. 13 del D.L. n. 223/2006 conv. con modifiche nella L. 4 agosto 2006, n. 248.

Il punto è, quindi, quello dell’oggetto sociale quale elemento non neutro rispetto alla qualificazione; di conseguenza, la disciplina sarà individuata a seconda che l’oggetto si caratterizzi in modo diverso a seconda che si verifi-chi la presenza di un’impresa, (anche) di una funzione pubblica, di un servi-zio pubblico o di una mera attività strumentale

88. Si aggiunga come la concettualizzazione della fattispecie “organismi di

diritto pubblico” in settori giuridici diversi da quello tributario abbia, ormai, esteso i propri confini in ragione non della forma giuridica adottata (e, quindi, anche a quella societaria) ma della natura del soggetto controllante o dell’at-

85 V. tra gli altri LOGOZZO, Luci ed ombre, cit., p. 203. 86 Amplius negli studi di IBBA tra i quali si segnala, da ultimo ed anche per riferimenti,

Le società a partecipazione pubblica: tipologia e discipline, in AA.VV., Le società “pubbliche”, a cura di Ibba, Malaguti e Mazzoni, Torino, 2011, p. 1 ss.

87 Indicazioni in tal senso anche in IBBA, Servizi pubblici e diritto societario, in AA.VV., Studi in tema di forma societaria, servizi pubblici locali, circolazione della ricchezza imprendi-toriale, Torino, 2007, pp. 179-180.

88 Le variabili sono, dunque, comuni a quelle già adottate nell’analisi effettuata dalla dottrina giuscommercialistica: vedi IBBA, Le società a partecipazione pubblica: tipologia e discipline, cit., p. 4 ss., spec. p. 22 ss.

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tività svolta 89; in questo senso anche ai fini fiscali può essere utile la distin-

zione proposta dalla Corte costituzionale 90 tra «attività amministrativa in for-

ma privatistica e attività d’impresa di enti pubblici». La normativa comunitaria

91 prevede, che si debba in ogni caso conside-rare esercizio di impresa commerciale assoggettata ad Iva l’erogazione (ol-tre che) di gas, energia elettrica, acqua e trasporto; di conseguenza, se ciò fosse risolutivo ma non pare così certo, sarebbe da escludersi che l’attività svolta da una società mista possa essere svolta «in quanto pubblica autori-tà»

92. Il peso che la fonte comunitaria ha in termini di interpretazione della

normativa nazionale dovrebbe indurre, allora, ad una meditazione sulla for-za che può avere la qualificazione della considerazione ex lege come com-merciali, anche se esercitate da enti pubblici, delle attività di depurazione nei termini in cui si esprime l’art. 4, comma 5, lett. b) del D.P.R. n. 633/1972 es-sendo tale disposizione stata inserita dall’art. 31, comma 30 della L. 23 di-cembre 1998, n. 448 a prescindere dall’assetto comunitario.

89 V. ancora IBBA Le società a partecipazione pubblica: tipologia e discipline, cit., p. 22; per esemplificazioni anche LIBERTINI, Organismo di diritto pubblico, rischio d’impresa e concor-renza: una relazione ancora incerta, in Contr. e impresa, 2008, p. 1217 ss.; cui si aggiunga PIZZA, Partecipazioni pubbliche locali e regionali e art. 13 del D.l. n. 223/2006 (c.d. Decreto Bersani), in AA.VV., Le società “pubbliche”, cit., p. 109 ss., spec. p. 126.

90 Corte cost., 1 agosto 2008, n. 326. 91 V. il combinato disposto dell’art. 13 e dell’allegato I dove Dir. Comunitario 28 no-

vembre 2006/112/CE “Relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto”. 92 V. MICELI, Società miste e diritto tributario: le questioni aperte, in AA.VV., Studi, cit., p.

220 ss.

5.

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Alessandro Giovannini

FONDATO PERICOLO PER LA RISCOSSIONE ED ESAZIONE STRAORDINARIA

NELL’ACCERTAMENTO ESECUTIVO

FOUNDED DANGER FOR TAX COLLECTION AND EXTRAORDINARY EXACTION IN THE EXECUTIVE ASSESSMENT

Abstract L’art. 29, lett. c) della L. 30 luglio 2010, n. 122, modificata dalla L. 12 luglio 2011, n. 106, ha introdotto nuove regole per la riscossione delle imposte sui redditi, del-l’imposta sul valore aggiunto e dell’imposta regionale sulle attività produttive in ca-so di fondato pericolo per il positivo esito della riscossione medesima. La disciplina si inserisce nel nuovo sistema di riscossione dei tributi incentrato sulla qualificazione dell’avviso di accertamento come titolo esecutivo. Tre gli ar-gomenti esaminati nel saggio in pubblicazione: il primo relativo all’interpretazio-ne della lett. c), avuto riguardo ai termini procedimentali che essa stessa scandi-sce con rinvio a quelli indicati alle lett. a) e b) dello stesso art. 29; il secondo ri-guarda atto e procedimento sostitutivi del “vecchio” ruolo straordinario e del suo meccanismo formativo, con valutazione delle problematiche conseguenti in pun-to motivazione e difesa del debitore; il terzo, finalmente, concerne il rapporto tra nuova esecuzione straordinaria ed istituti già ordinati alla garanzia del credito erariale in caso di fondato pericolo per la sua riscossione e più precisamente tra nuova esazione e misure cautelati previste dal D.Lgs. n. 472/1997 e dalla L. n. 2/2008. Parole chiave: riscossione, esecuzione, accertamento, misure cautelari, pericolo, ruolo straordinario Art. 29, letter c), of Law No. 122 of 30 July 2010, as amended by Law No. 106 of 12 July 2011, introduced new rules for the collection of income taxes, value added tax and regional tax on productive activities in case of danger for the positive outcome of

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the collection itself. The new rules are part of the reformed tax collection system, based on the qualification of the notice of assessment as an instrument permitting enforcement. This paper will examine three main topics: the first one relates to the unvarnished inter-pretation of letter c), having regard to the procedural terms with reference to those speci-fied in letters a) and b) of Art. 29 itself; the second one concerns the act and procedure that are going to replace the “former” extraordinary tax roll and its mechanism of for-mation, with the related problems concerning the motivation of assessment and ta-xpayer’s defense; the third, finally, concerns the relationship between the new extraordi-nary tax collection and other instruments already provided for the tax credit guarantee in case of danger for the collection and, more precisely, between the new tax collection and the measures provided by Legislative Decree No. 472/1997 and Law No. 2/2008. Keywords: income taxes, execution, assessment, measures, danger, extraordinary role

SOMMARIO: 1. La nuova disciplina della riscossione straordinaria nell’accertamento esecutivo: osserva-zioni introduttive e piano dell’indagine. – 2. I termini procedimentali per la riscossione straordinaria in base ad accertamenti esecutivi. – 3. L’atto fondante l’esecuzione forzata e l’obbligo motivazionale in punto pericolo per la riscossione. – 4. Misure cautelari, misure di garanzia ed esazione straordinaria: diritto del creditore alla riscossione, diritto del debitore all’integrità patrimoniale e valutazione giudiziale del pericolo. – 5. L’esecuzione straordina-ria come extrema ratio: i criteri di ragionevolezza, necessarietà, proporzionalità e la motiva-zione ulteriore dell’atto sulla scelta compiuta dall’amministrazione. Risarcimento del danno e azione giudiziale (cenni).

1. La nuova disciplina della riscossione straordinaria nell’accertamento ese-cutivo: osservazioni introduttive e piano dell’indagine

La L. 30 luglio 2010, n. 122, modificando il procedimento di riscossione coattiva delle imposte sui redditi, dell’imposta sul valore aggiunto e sulle at-tività produttive, e qualificando come titoli esecutivi, in luogo del ruolo, l’avviso di accertamento, quello d’irrogazione delle sanzioni e l’atto di ride-terminazione del credito, ha introdotto anche una nuova disciplina per il ca-so di fondato pericolo per il positivo esito della riscossione

1.

1 Sulla legge di riforma della riscossione si vedano, come contributi di carattere genera-le, GIOVANNINI, Riscossione in base al ruolo e agli atti d’accertamento, in Rass. trib., 2011, p. 22 ss.; GLENDI, Notifica degli atti “impoesattivi” e tutela cautelare ad essi correlata, in Dir.

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In particolare, la lett. c) dell’art. 29, nel testo risultante dalle modifiche apportate dalla L. 12 luglio 2011, n. 106, stabilisce che in presenza di perico-lo, «decorsi sessanta giorni dalla notifica degli atti di cui alla lettera a)» (os-sia, avviso di accertamento, avviso di irrogazione delle sanzioni e avviso di rideterminazione), «la riscossione delle somme in essi indicate, nel loro ammontare integrale, comprensivo di interessi e sanzioni, può essere affida-ta in carico agli agenti della riscossione, anche prima dei termini previsti alle lettere a) e b)». Nell’ipotesi indicata «e ove gli agenti della riscossione, suc-cessivamente all’affidamento in carico degli atti di cui alla lettera a), venga-no a conoscenza di elementi idonei a dimostrare il fondato pericolo di pre-giudicare la riscossione», non opera, invece, la sospensione di cui alla lett. b).

Le disposizioni ora richiamate sollevano numerose questioni di non faci-le soluzione.

A me pare, anzitutto, che la riforma sia stata introdotta in maniera fretto-losa, senza adeguata considerazione delle sue implicazioni sistematiche e dei suoi risvolti pratici

2. Non si è tentato, infatti, neppure in maniera ap-prossimativa, un coordinamento delle nuove disposizioni col tessuto ordi-namentale nel quale si inseriscono e non si è neanche sentita l’esigenza di a-dottare una disciplina che, in ragione dell’eliminazione del ruolo, consentis-se comunque di mantenere percepibile la separazione, storicamente acquisita e teoricamente consolidata, tra fase d’accertamento dell’obbligazione d’impo-sta e fase della riscossione del credito corrispondente

3. prat. trib., 2011, I, p. 481 ss.; CARINCI, Prime considerazioni sull’avviso di accertamento “ese-cutivo” ex d.l. n. 78 del 2010, in Riv. dir. trib., 2011, I, p. 159 ss.; LA ROSA, Riparto delle com-petenze e “concentrazione” degli atti nella disciplina della riscossione, in Riv. dir. trib., 2011, I, p. 577 ss.; G. GAFFURI, Aspetti ciritici della motivazione relative agli atti d’imposizione e l’ese-cuzione degli avvisi di accertamento, ivi, 2011, I, p. 597 ss., nonché i molti contributi raccolti nel volume La concentrazione della riscossione nell’accertamento, a cura di Glendi e Uckmar, Padova, 2011, e da ultimo LUBELLI, Evoluzione del sistema di riscossione: dal ruolo esattoriale all’accertamento esecutivo, in La riscossione dei tributi, a cura di Basilavecchia, Cannizzaro e Carinci, Milano, 2011, p. 43 ss.; SAMMARTINO, Gli atti e la tutela, ivi, p. 397 ss.; CANNIZZA-RO, Concentrazione della riscossione nell’accertamento: le ricadute sul sistema, ivi, p. 65 ss.

2 Come affermato, tra gli altri, anche da DEL FEDERICO, Gli accertamenti esecutivi e le procedure concorsuali, in La concentrazione della riscossione, cit., p. 161, che giustamente ri-chiama i farraginosi emendamenti introdotti dal D.L. n. 70/2011, convertito dalla L. n. 106/2011, che contraddicono perfino l’idea ispiratrice della riforma.

3 Dal punto di vista teorico, per la distinzione netta tra fase dell’accertamento e della dichiarazione, e fase della riscossione, rimane illuminante la ricostruzione di G. FALSITTA, Il ruolo di riscossione, Padova, 1972, passim, ma spec. p. 290 ss.; in termini sintetici, sempre di G. FALSITTA, v., Prefazione, in La riscossione dei tributi, a cura di Basilavecchia, Cannizza-ro e Carinci, cit.

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Non discuto l’idea ispiratrice della riforma, che, per molti aspetti, nella sua originaria traduzione normativa – quella cioè anteriore alla L. n. 106/2011 – riprendeva scelte già compiute da altri ordinamenti europei, con l’intento di superare i momenti “vuoti” del procedimento 4. D’altra parte, non si può neppure dimenticare come l’aspirazione a concentrare titolo esecutivo e or-dine di pagamento nell’atto d’accertamento abbia radici antiche, risalendo al R.D. 14 aprile 1910, n. 639, sulla riscossione delle entrate dello Stato tra-mite ingiunzione fiscale

5. In discussione, pertanto, non è la finalità della riforma, ma è la sua orga-

nicità complessiva. Infatti, l’assenza di una visione in tal senso orientata ha sottratto le nuove disposizioni ad un’integrazione coerente, sia interna, os-

4 Per esempio, nell’ordinamento tedesco, l’avviso di imposta costituisce titolo per la ri-scossione. In particolare, per il § 218 della legge generale tributaria (Abgabenordnung) «presupposto per la realizzazione dei crediti derivanti dall’obbligazione tributaria è costi-tuito dagli avvisi di imposta, dagli avvisi relativi ai crediti tributari, dagli avvisi di responsa-bilità e dagli atti amministrativi che liquidano le prestazioni tributarie accessorie». Occor-re dire, però, che la legge generale della Repubblica federale tedesca dispone anche che quando vi è “il rischio di non incassare” l’imposta, l’autorità finanziaria possa bensì esigere il pagamento anticipato, ma anche che possa invitare il debitore a rilasciare idonea garan-zia (§ 221). La traduzione di queste disposizioni è tratta da V.E. FALSITTA, Legge generale tributaria della Repubblica federale tedesca, Milano, 2011.

5 L’art. 2 del R.D. 14 aprile 1910, n. 639, dispone che il procedimento di coazione comin-cia con l’ingiunzione, «la quale consiste nell’ordine, emesso dal competente ufficio dell’ente creditore, di pagare entro trenta giorni, sotto pena degli atti esecutivi, la somma dovuta». La natura dell’ingiunzione è stata lungamente dibattuta: alla teoria tesa a riconoscerle na-tura schiettamente amministrativa, riconducibile ad A.D. Giannini e poi a Cristofolini, si contrapponeva quella volta ad assegnarle natura giurisdizionale, elaborata inizialmente da Calamandrei e dopo ripresa da Berliri. In tempi a noi relativamente più vicini, questa rigida contrapposizione si è largamente attenuata e la tesi ormai prevalente vede nell’ingiunzione un “atto complesso”, che assomma in sé natura di provvedimento amministrativo, di ordi-ne di pagamento e di titolo esecutivo, reso tale del visto di esecutorietà apposto dal giudice [v. MICHELI, Sulla natura dell’ingiunzione per il pagamento delle entrate patrimoniali, in Giur. it., 1949, I, 1, p. 587 ss., spec. p. 592; ALLORIO, Diritto processuale tributario, Torino, 1962, p. 167; COCIVERA, Ingiunzione (diritto tributario), in Enc. dir., vol. XXI, Milano, 1971, p. 528 ss., spec. p. 541 ss.]. L’intera problematica è stata puntualmente ripercorsa da DOLFIN, Ingiunzione fiscale, in Nov. Dig. it., Appendice, IV, Torino, 1983, p. 259 ss., e più recente-mente da URICCHIO, L’ingiunzione fiscale, in La riscossione dei tributi, a cura di Basilavec-chia, Cannizzaro e Carinci, cit., p. 161 ss. Sulla qualificazione dell’ingiunzione nella giuri-sprudenza, in linea con l’evoluzione della dottrina, anche a seguito del D.P.R. n. 43/1988 sulla riforma della riscossione, si veda RANDAZZO, Nota in tema di giurisdizione nelle contro-versie su ingiunzione fiscale, in Riv. dir. trib., 2005, II, p. 471 ss.; per quanto riguarda l’esazione dei tributi doganali dopo il D.Lgs. n. 46/1999 in materia di entrate dello Stato, v. FORTE, I nuovi atti di accertamento e di riscossione della dogana, in Giust. trib., 2000, p. 37 ss.

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sia tra proposizioni nelle quali esse stesse si articolano, sia esterna, in parti-colare con istituti già ordinati a garantire il credito erariale in ipotesi di fon-dato pericolo per la sua riscossione.

Difetti di ordine e coerenza, che, se non rappresentano peculiarità esclu-sive della legislazione tributaria e men che meno di questa legge

6, qui acqui-stano particolare evidenza e portano allo scoperto qualcosa, in realtà, di più profondo, che merita di essere messo in risalto.

Mi pare evidente che gli interventi in esame contribuiscono a irrobustire modifiche già avviate negli ultimi anni e a modificare sensibilmente l’ordine dei valori finora garantiti: la parità tra le parti del rapporto tributario e l’ef-fettività della tutela del debitore, pure affermati solennemente nello Statuto dei diritti del contribuente e radicati nella filigrana delle norme costituzio-nali

7, sono vieppiù poste in secondo piano, mentre cuore pulsante del pro-cedimento diviene l’“interesse fiscale” alla riscossione, inteso come bene giuridico “super primario”

8. Questo modo di concepire i rapporti tra Stato e contribuente, anche

quando quello ritenga esservi pericolo per la soddisfazione della sua pretesa, testimonia un cedimento non soltanto, per così dire, strutturale del diritto positivo, ma anche e in primo luogo, dell’impalcatura culturale che ne sor-regge elaborazione e formazione.

Infatti, per arrivare al risultato denunciato, si è compiuta la scelta di “az-zerare” o comunque ridurre grandemente la distanza tra fase dell’accerta-mento e quella della riscossione, contestualizzando, in un solo atto, avviso d’accertamento dell’imposta, titolo esecutivo e precetto

9. Credo, però, che non si sia reso un buon servizio al diritto e neppure, alla

fine dei conti, alla collettività, a indebolire quella distinzione, fino a renderla evanescente sul piano della ripartizione provvedimentale e della scansione procedimentale degli atti. E non si è reso un buon servizio al diritto perché, in nome dell’efficienza, peraltro solo asserita, si sono ridotte, almeno in con-creto, le tutele a favore del privato e indebolito l’usbergo dei princìpi costi-

6 Si veda, a questo proposito, l’approfondito studio di MATTARELLA, La trappola delle leggi, Bologna, 2011, che assume proprio le leggi fiscali ad esempio paradigmatico dei “mo-stri legislativi” (p. 73 ss.).

7 Lo spiega lucidamente MOSCHETTI, Il “principio democratico, sotteso allo Statuto dei di-ritti del contribuente e la sua forza espansiva, in Riv. dir. trib., 2011, p. 731 ss., spec. p. 753 ss.

8 Su questi concetti, v. BORIA, L’interesse fiscale, Torino, 2002. 9 Ed elevando la notificazione dell’atto a elemento costitutivo del titolo esecutivo, co-

me ha osservato CARINCI, Prime considerazioni, cit., p. 168 ss.

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tuzionali e di quelli frutto dell’evoluzione storica, anche teorica e giurispru-denziale, del diritto tributario. E ciò basta, secondo me, per dubitare della validità della scelta: affievolire diritti o disporne un loro arretramento a pet-to della potestà statale, non è mai né una conquista di civiltà e di ammoder-namento, né può costituire reale e risolutiva risposta ai problemi

10. Su questi aspetti tornerò nella speranza di riuscire a dimostrare in positi-

vo la loro fondatezza, ma le considerazioni fin qui svolte si possono ritenere già sufficienti per introdurre, nel dettaglio, il piano di lavoro che mi propon-go di sviluppare.

Tre gli argomenti da esaminare: il primo attiene all’interpretazione, nuda e cruda, della lett. c), avuto riguardo ai termini procedimentali che essa stes-sa scandisce con rinvio a quelli indicati alle lett. a) e b) dello stesso art. 29; il secondo riguarda atto e procedimento sostitutivi del “vecchio” ruolo straor-dinario e del suo meccanismo formativo, con valutazione delle problemati-che conseguenti in punto motivazione e difesa del debitore; il terzo, final-mente, concerne il rapporto tra nuova esecuzione straordinaria ed istituti già ordinati alla garanzia del credito erariale in caso di fondato pericolo per la sua riscossione e più precisamente tra nuova esazione e misure cautelati previste dal D.Lgs. n. 472/1997 e dalla L. n. 2/2008, estensiva al credito per imposta delle misure originariamente riferite al solo credito per sanzione pecuniaria amministrativa.

2. I termini procedimentali per la riscossione straordinaria in base ad accer-tamenti esecutivi

La disciplina della lett. c) ha un profilo meritevole di immediata atten-zione, che riguarda, come appena indicato, la scansione dei termini proce-dimentali e in particolare il coordinamento interno tra le disposizioni nelle quali essa stessa si articola e il loro coordinamento con quelle che compon-gono l’intero art. 29.

La lett. c) subordina l’avvio della riscossione straordinaria al decorso del termine di sessanta giorni dalla notifica degli atti, ma, ad un tempo, concede

10 Le questioni più rilevanti in punto tutela del contribuente, con note agre sulla loro diminuita estensione processuale, sono state messe in luce specialmente da GLENDI, Noti-fica degli atti, cit., p. 501 ss., e da SCHIAVOLIN, Quale tutela per i soggetti passivi?, in La con-centrazione della riscossione nell’accertamento, cit., p. 127 ss., ed anche, con sfumature e per profili tra di loro diversi, dagli altri autori citati nella precedente nota 1.

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all’agenzia di non rispettare quelli previsti dalle lett. a) e b), e invece consen-te che siano messi in non cale soltanto i termini previsti della lett. b) quando l’azione sia attivata dall’agente della riscossione.

La ragnatela normativa può essere districata, secondo me, cercando di porre ordine alle fasi che contrappuntano il nuovo procedimento. Mentre la lett. a) si limita a richiamare il termine previsto per la presentazione del ri-corso, la lett. b) dispone, da un lato, l’esecutività dell’avviso decorso il pe-riodo di sessanta giorni dalla sua notifica e l’avvio in concreto del procedi-mento decorso l’ulteriore periodo di trenta giorni dalla data ultima per il pagamento; dall’altro lato, stabilisce una moratoria ex lege di 180 giorni per l’avvio dell’azione esecutiva. La previsione della prima parte della lett. c), al-lora, nel rinviare a questi termini, se consente di mettere in carico al conces-sionario gli avvisi per la riscossione straordinaria anche quando non sia de-corso il termine per il ricorso [lett. a)], impone senz’altro lo spirare di quel-lo, non processuale, dei sessanta giorni dalla notifica dell’avviso, che, pur previsto dalla lett. b), è richiamato proprio dalla lett. c) per conferire all’av-viso natura contestuale di titolo esecutivo, con obliterazione, tuttavia, sia del periodo dei trenta giorni, sia e vieppiù della sospensione ex lege di 180 giorni [previsti dalla lett. b)]

11. La L. n. 106/2011 – già l’ho ricordato – ha aggiunto l’ulteriore previsio-

ne per la quale, se gli elementi idonei a dimostrare il fondato pericolo ven-gono a conoscenza dell’agente per la riscossione, l’azione di immediata esa-zione può essere avviata senza rispettare soltanto il termine di moratoria di 180 giorni dall’affidamento in carico degli atti all’agente stesso.

Questa disposizione, però, appare ultronea perché, come cercherò di chia-rire, la sola possibilità per offrirle dignità interpretativa è di ritenere che all’agente della riscossione competa una funzione bensì propulsiva del pro-cedimento – di segnalazione degli eventi – ma non provvedimentale, fun-zione, quest’ultima, che può spettare soltanto all’Agenzia delle entrate quale titolare del credito e del potere formativo del titolo giuridico idoneo a legit-

11 Il termine dei sessanta giorni previsto dalla lett. b) non è sovrapponibile a quello per la proposizione del ricorso indicato nella lett. a). Non solo i due termini perseguono fun-zioni diverse, ma, in concreto, possono non coincidere. E per convincersene è sufficiente pensare alla sospensione per ferie dei termini processuali disposti dalla L. 7 ottobre 1969, n. 742, oppure alla sospensione determinata dall’istanza di accertamento con adesione, presen-tata dal contribuente ai sensi dell’art. 6, comma 3, della L. 19 giugno 1997, n. 218 (v. GLENDI, Notifica degli atti, cit., p. 486 e nota 10). Rispetto agli accertamenti esecutivi, per così dire, ordinari, il difficile inquadramento e coordinamento di questi termini è evidenziato da LA ROSA, Riparto delle competenze, cit., p. 588 ss.

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timare l’avvio dell’esecuzione straordinaria, potere al quale accedono, natu-raliter, la funzione valutativa dei fatti e l’elemento motivazionale dell’atto.

3. L’atto fondante l’esecuzione forzata e l’obbligo motivazionale in punto pe-ricolo per la riscossione

Lo studio della disposizione della lett. c) suggerisce almeno due conside-razioni ulteriori, corrispondenti ad altrettante aporie e carenze sistematiche alle quali ho già fatto cenno e che ora riprendo compiutamente per dimo-strarne in positivo la rilevanza.

La prima questione riguarda l’atto idoneo a sostituire il ruolo straordina-rio, di cui all’art. 15 bis del D.P.R. n. 602/1973

12. La disposizione della lett. c), più volte citata, non subordina espressamente l’avvio della riscossione straordinaria a un atto successivo all’originario titolo non connotato dal pe-ricolo, e neppure a un atto in grado di informare il debitore su motivi e fatti che inducono, proprio, all’esazione straordinaria. Atto e motivazione, inve-ce, che devono senz’altro raggiungere il debitore, pena, in caso contrario, l’assenza di titolo per l’esecuzione immediata e integrale del credito, e la vio-lazione dell’art. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241, e dell’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, disposizione, quest’ultima, per la quale tutti gli atti dell’ammi-nistrazione devono essere motivati ed anche il titolo esecutivo deve riporta-re la motivazione della pretesa

13.

12 Sul ruolo in generale esiste una letteratura molto vasta, ma rimangono fondamentali gli studi di G. FALSITTA, Il ruolo di riscossione, cit., e ID., Tributi (riscossione), in Enc. dir., agg. VI, Milano, 2002, e di DE MITA, Le iscrizioni a ruolo delle imposte sui redditi, Milano, 1979. A questi autori si devono almeno aggiungere, tra i più autorevoli, TREMONTI, Impo-sizione e definitività nel diritto tributario, Milano, 1977, p. 106 ss.; BASCIU, Verso la scompar-sa del ruolo esattoriale, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1983, I, p. 465 ss.; GLENDI, Natura giuridica dell’esecuzione forzata, in Dir. prat. trib., 1992, I, p. 2240; LA ROSA, Riscossione delle imposte, in Enc. giur., Roma, 2001; BASILAVECCHIA, Ruolo d’imposta, in Enc. dir., Milano, 1989 e ID., Il ruolo e la cartella di pagamento: profili evolutivi della riscossione dei tributi, in Dir. prat. trib., 2007, I, p. 127 ss.; CARINCI, La riscossione a mezzo ruolo nell’attuazione del tributo, Pi-sa, 2008.

13 La motivazione, se è anzitutto strumento di controllo interno all’agire pubblico, a ga-ranzia della stessa amministrazione, è il principale “veicolo” di controllo esterno di quell’a-gire, a favore sia della comunità, che, figurativamente, mediante lo Stato inteso come per-sona, si riconosce e incorpora nell’amministrazione agente, sia e primariamente del desti-natario del provvedimento. La motivazione, dunque, consente la corretta interpretazione dell’atto nelle sue diverse parti costitutive e al contempo, proprio per il tramite di questa

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Per superare questa duplice lacuna normativa, le soluzioni che mi sem-brano prospettabili sono queste. La prima è ipotizzare la coincidenza tra av-viso d’accertamento inteso come ordinario titolo per l’esecuzione e avviso d’accertamento inteso come titolo per la riscossione straordinaria. Questa ipotesi presuppone, però, che l’amministrazione conosca e alleghi in quel-l’atto, fin dalla sua emanazione, i fatti di pericolo e ne motivi la valutazione in punto fondatezza.

L’amministrazione, tuttavia, non sempre conosce ex ante quei fatti e dun-que l’avviso d’accertamento può non costituire provvedimento idoneo a di-venire titolo per l’esecuzione straordinaria. Per l’ipotesi di sopravvenuta co-noscenza del rischio, allora, è d’obbligo una soluzione alternativa, che rivita-lizzi, in ogni caso, uno degli atti indicati nella lett. a) dell’art. 29, i quali sol-tanto, nel nuovo procedimento, possono acquisire natura e funzione di tito-lo esecutivo in luogo del ruolo: individuare quell’atto nell’avviso di rideter-minazione e vedere in questo anche l’atto depositario della motivazione

14.

funzione, persegue quella di garantire i diritti sostanziali, procedimentali e processuali del privato (questi aspetti sono messi in risalto, con grande chiarezza, da M.S. GIANNINI, Moti-vazione dell’atto amministrativo, in Enc. dir., vol. XXVII, Milano, 1977, p. 257 ss., spec. p. 268). È anche per questi motivi che la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha qualifi-cato come essenziale il requisito della motivazione rispetto all’iscrizione immediata a ruolo di imposta, interessi e sanzioni avvenuta a seguito di controllo automatico o di controllo formale della dichiarazione, e con riguardo al successivo atto nella forma della cartella di pagamento (Cass. 20 dicembre 1999, n. 14306, in Il Fisco, 2000, p. 2018; Cass., sez. trib., 16 settembre 2005, n. 18415, ivi, 2005, p. 5696; si veda anche Corte cost., ord. 21 aprile 2000, n. 117, ivi, 2000, p. 7054; in dottrina, v. CARINCI, La riscossione, cit., p. 230 ss.). Ora, se è così per il ruolo e per la cartella, nessun dubbio è lecito nutrire, io credo, sull’obbligo di motivare il titolo proprio alla riscossione straordinaria. D’altra parte, questa interpreta-zione non può essere revocata in dubbio anche in considerazione del fatto che la nuova normativa consente di aggredire il patrimonio del debitore decorso, puramente e sempli-cemente, il termine (non processuale) di 60 giorni dalla notificazione di uno degli atti e-lencati nella lett. a), senza ulteriori, successivi atti o formalità di rito. V., in termini condivi-sibili, G. GAFFURI, Aspetti critici, cit., pp. 611 e 612. Sull’obbligo di motivazione stabilito dall’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, per tutti, v. MARONGIU, Lo statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2008, p. 165 ss., e PERRONE, Riflessioni sul procedimento tri-butario, in Rass. trib., 2009, p. 43 ss., spec. pp. 63 e 64; per la disciplina anteriore, v., tra gli altri, SALVINI, La partecipazione del privato all’accertamento tributario, Padova, 1990, e MU-LEO, Contributo allo studio del sistema probatorio nel procedimento di accertamento, Torino, 2000, p. 345 ss.; sul rapporto, in particolare, tra motivazione e prova, ampiamente, CIPOL-LA, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, p. 294 ss.

14 Per l’art. 29, lett. a), può vestire i panni di titolo esecutivo e di precetto proprio l’avvi-so di determinazione del credito successivo all’avviso d’accertamento. Certo, nell’esazione straordinaria, imposte e sanzioni non devono essere necessariamente rideterminate e anzi,

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A conclusione simile si deve arrivare nell’interpretazione della novella al-la lett. c) apportata dalla già richiamata L. n. 106/2011, per la quale, «ove gli agenti della riscossione, successivamente all’affidamento in carico degli atti di cui alla lettera a), vengano a conoscenza di elementi idonei a dimo-strare il fondato pericolo di pregiudicare la riscossione, non opera la sospen-sione di cui alla lettera b)» (ossia la moratoria dell’esecuzione forzata di 180 giorni).

Questa disposizione, infatti, non indica né atto, né procedimento per la riscossione integrale e immediata del credito.

Mi pare di poter sostenere, sulla base delle considerazioni finora svolte, che il procedimento, pur avviato dall’agente della riscossione, debba passare da un atto “confezionato” dall’amministrazione finanziaria, sia perché essa è la sola titolare del diritto di credito preteso in adempimento, sia perché, nel-la sistematica della lett. a), come già evidenziato, il ruolo è sostituito da uno degli atti ivi elencati, i quali soltanto, perciò, possono acquisire natura di ti-tolo esecutivo.

Ipotizzare strumenti diversi dall’avviso di rideterminazione e dunque im-maginare atti riconducibili immediatamente all’agente della riscossione, esporrebbe la procedura a vizi radicali di legittimità per mancanza di titolo esecutivo, ma darebbe in ogni caso agio anche ad un insanabile vizio in pun-to motivazione dell’atto eventualmente adottato dall’agente in fase di ese-cuzione, con compromissione della tutela del debitore anche in ragione del-le limitazioni disposte dall’art. 57 del D.P.R. n. 602/1973 all’applicazione degli artt. 615 e 617, c.p.c.

15. normalmente, sono riprese, pari pari, negli importi risultanti dall’avviso di accertamento anteriormente formato e notificato. Si potrebbe perciò sostenere la non idoneità dell’avvi-so di rideterminazione ad intervenire in questa fase del procedimento e dunque ad acquisi-re la funzione di titolo legittimante l’esecuzione forzata. Per la verità, il credito portato ad esecuzione straordinaria comprende, oltre alle somme per imposta e sanzione, anche gli interessi moratori e per questi è giocoforza procedere alla determinazione dell’ammontare. Ecco perché, a mio pare, l’avviso di rideterminazione può essere visto come atto in grado di intervenire proprio in questa fase del procedimento e assumere, con il decorso del tem-po e in ragione delle formule sacramentali in esso contenuto, la qualità di titolo esecutivo.

15 Questa disposizione, infatti, non ammette pienamente l’opponente alle tutele degli artt. 615 e 617, c.p.c., confinandone l’azione, innanzi al giudice ordinario, alle sole que-stioni sulla pignorabilità ed escludendo l’opposizione, in ogni caso, per quelle sulla regola-rità formale e la notifica del titolo. Sui limiti dell’art. 57 e sulla tutela giurisdizionale davan-ti alle commissioni tributarie e al giudice ordinario, v. TESAURO, Lineamenti del processo tributario, Rimini, 1991, p. 231 ss.; RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 2005, p. 24 ss.; RANDAZZO, I confini della giurisdizione tributaria sul versante della riscossione e dell’e-

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Di conseguenza, se non s’ipotizza un atto riconducibile all’agenzia ante-riore al pignoramento, nella specie dell’avviso di rideterminazione, la tutela del debitore ne uscirebbe grandemente compromessa, con possibile viola-zione dell’art. 24 e dell’art. 113 Cost.

4. Misure cautelari, misure di garanzia ed esazione straordinaria: diritto del creditore alla riscossione, diritto del debitore all’integrità patrimoniale e valutazione giudiziale del pericolo

Dal punto di vista sistematico, il secondo ordine di problemi che solleva la lett. c) attiene al suo coordinamento con previsioni già presenti nell’ordi-namento e poste anch’esse a presidio del credito erariale in caso di fondato pericolo per l’esazione.

Questa problematica, per la verità, si poteva già cogliere nel vigore della vecchia disciplina sulla riscossione e l’istituto del ruolo straordinario già coesisteva con altri istituti preposti alla garanzia del credito erariale.

Il procedimento dell’art. 29, tuttavia, e la riunione, nei termini fin qui esposti, della fase esattiva con quella dell’accertamento, sembrano mettere ancor più in risalto le discrasie sistematiche che quella convivenza già mo-strava e accentuare i problemi sia di applicazione delle singole disposizioni, sia di composizione organica della normazione in un quadro coerente di tu-tela degli interessi in gioco.

Il primo riferimento è all’art. 22 del D.Lgs. n. 472/1997 per il quale l’ente impositore, «quando ha fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito» (per sanzione pecuniaria) «può chiedere, con istanza motivata, al Presidente della Commissione tributaria provinciale, l’iscrizione di ipoteca sui beni del trasgressore e dei soggetti obbligati in solido e l’autorizzazione a procedere, a mezzo di ufficiale giudiziario, al sequestro conservativo dei loro beni, compresa l’azienda».

Questo procedimento e le correlate misure, sono state estese, com’è no-to, al credito per imposte e interessi dalla L. 28 gennaio 2008, n. 2.

Per completezza, è utile poi rammentare l’art. 77 del D.P.R. n. 602/1973, modificato dal D.Lgs. n. 193/2001, il quale stabilisce che, decorso il termine secuzione forzata, in La giurisdizione tributaria nell’ordinamento giurisdizionale, Atti del con-vegno di Teramo, a cura di Basilavecchia e Tabet, Bologna, 2009, p. 50 ss.: PURI, I confini della giurisdizione tributaria nella riscossione dei tributi, in La riscossione dei tributi, a cura di Basilavecchia, Cannizzaro e Carinci, cit., p. 375 ss., spec. p. 386 ss.

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di sessanta giorni dalla notifica della cartella, l’agente della riscossione può i-scrivere ipoteca sugli immobili del debitore e dei coobbligati; e per comple-tezza è utile ricordare anche l’art. 86 del D.P.R. n. 602, che consente all’a-gente di iscrivere fermo amministrativo sui beni mobili registrati.

L’idea che traspare, in forma neppure troppo velata, da una lettura in controluce del complesso delle previsioni fin qui ricordate, unitamente alla lett. c) dell’art. 29, è quella, a mio parere non condivisibile, di riportare esi-genze cautelari, tipiche del momento accertativo dell’imposta, alla fase della riscossione coattiva, così da sottrarle a vagli giurisdizionali preventivi, a maggior garanzia dell’asserito interesse fiscale alla riscossione, ma a detri-mento delle garanzie del contribuente.

Insomma, di creare per il creditore Erario un regime speciale, nel quale, agitando lo spettro dell’interesse fiscale, inteso come interesse super-prima-rio, si attenuano garanzie presidio del diritto soggettivo all’integrità patri-moniale e si obliterano, per altro verso e specularmente, pure le regole di di-ritto comune, dettate bensì a garanzia del diritto di credito speso in executi-vis, ma anche, in un sapiente e storicamente accreditato bilanciamento di interessi, del diritto di difesa del debitore, a protezione, per l’appunto, del suo diritto di proprietà

16. Certo, gli ambiti operativi delle disposizioni ricordate non sono esatta-

mente sovrapponibili o possono non esserlo. Se gli artt. 77 e 86 del D.P.R. n. 602/1973 prescindono dal pericolo per l’esazione e si atteggiano a misure

16 In un contesto normativo diverso dall’attuale, una valutazione “terza” era in qualche modo garantita anche dalla legislazione anteriore alla riforma tributaria degli anni settanta, che, infatti, imponeva, seppur con un procedimento interno all’amministrazione, l’inter-vento preliminare dell’Intendente di finanza. La formazione dei ruoli straordinari, infatti, doveva essere previamente autorizzata dall’Intendente, il quale doveva valutare, per l’ap-punto, la richiesta formulata dall’ufficio delle imposte o da altri uffici, la sussistenza dei fat-ti di pericolo e la loro rilevanza rispetto alla procedura esecutiva attuata nella forma del ruolo straordinario. V. G. FALSITTA, Il ruolo di riscossione, cit., p. 11. Meccanismo identico venne previsto dall’art. 23 del D.P.R. n. 602/1973, che rimetteva valutazione ed esecutività del ruolo straordinario sempre nelle mani dell’Intendente. Con la scomparsa di questa fi-gura, il visto di esecutorietà venne rimesso al direttore dell’agenzia delle entrate, che però lo doveva apporre non più sul ruolo, ma sul “riassunto riepilogativo” (art. 24, comma 3, L. 27 dicembre 1997, n. 449); fino a quando, ad opera del D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, venne abrogato l’art. 23 e con esso il visto di esecutorietà, introdotto l’art. 15-bis dedicato esclusivamente al ruolo straordinario e venne radicalmente modificato l’art. 12 dello stesso D.P.R. n. 602, il cui comma 4 rimise alla semplice sottoscrizione, anche in forma elettroni-ca, del titolare dell’ufficio o di un suo delegato la funzione di conferire al ruolo natura di titolo esecutivo; norma, questa, tuttora in vigore. V. DE MITA, Le iscrizioni, cit., p. 224 ss.; BASILAVECCHIA, Ruolo d’imposta, cit., p. 179; CARINCI, La riscossione, cit., p. 97 ss.

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più propriamente di garanzia 17, l’art. 22 del D.Lgs. n. 472/1997, “integrato”

dalla legge del 2008, invece, affonda la radice sostanziale della richiesta di iscrizione di ipoteca o sequestro proprio in quel pericolo, come in quel peri-colo si ritrova la radice sostanziale della lett. c) dell’art. 29.

Dispersa l’originaria ratio dell’art. 22 in ragione dell’estensione di quelle misure anche al credito per imposta e, adesso, smarrita la distinzione, alme-no nella scansione provvedimentale, tra fase d’accertamento e quella della riscossione – distinzione che, in qualche modo, riusciva a giustificare quel-l’estensione, e, per altro verso, a dare un qualche fondamento di sistema alle previsioni dell’art. 77 e dell’art. 86 del D.P.R. n. 602/1973 – l’art. 22 si trova ora a intrecciarsi con la disciplina dell’accertamento esecutivo. Con una di-sciplina, cioè, imperniata non più sul ruolo, quale atto proprio della riscos-sione, ma su un atto tipico del momento accertativo dell’obbligazione d’im-posta, potendo questo coincidere, come osservato in precedenza, anche con l’originario avviso d’accertamento, connotato, fin dalla sua emanazione, dal pericolo per la riscossione e corredato degli elementi suscettibili di qualifi-carlo come titolo esecutivo e come precetto.

Pur nell’identità della radice fattuale dell’art. 22 e della lett. c) dell’art. 29, la scelta del diverso procedimento, slegata da criteri normativi espressamen-te vincolanti per l’Agenzia, non determina effetti equivalenti per il debitore, poiché con il procedimento dell’art. 22 l’aggressione dei suoi beni è mediata dall’intervento giurisdizionale ed è garantita anche in casi di “eccezionale urgenza e pericolo” dal procedimento sommario inaudita altera parte di cui al comma 4 dello stesso art. 22; mentre, nell’ipotesi di atto esecutivo straor-dinario, adottato ai sensi della lett. c), la tutela giurisdizionale su motivi e fatti di pericolo è solo ad esso successiva e finisce per collocarsi in prossimi-tà o addirittura in epoca successiva all’espropriazione.

È vero – l’ho appena detto – che il sistema appresta garanzie processuali anche quando l’azione muove dall’avviso esecutivo straordinario, compresa la garanzia cautelare disciplinata dall’art. 47 del D.Lgs. n. 546/1992

18. Se in-tendiamo ragionare col metro della concretezza, però, non è revocabile in

17 Di recente, sulla natura di queste misure, MESSINA, I riflessi degli accertamenti esecutivi sull’adozione delle misure cautelari pro-fisco, in La concentrazione della riscossione nell’accer-tamento, cit., p. 551 ss.

18 Mi sembra non siano leciti dubbi sull’impugnabilità dell’atto innanzi al giudice spe-ciale tributario quando infondato o viziato, in particolare se privo di motivazione o conte-nente motivazione carente o erronea sulla valutazione dei fatti di pericolo, e dunque sulla possibilità di domandare la sospensione cautelare degli effetti dell’atto stesso alle condizio-ni e con il procedimento dell’art. 47.

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dubbio che il nuovo meccanismo esponga il debitore a rischi di compromis-sione del suo patrimonio o della sua attività economica incomparabilmente superiori a quelli riconducibili all’adozione di misure soltanto cautelari con vaglio giurisdizionale preliminare.

Questa conseguenza, secondo me, è ingiustificata di per sé e per due mo-tivi ulteriori, corrispondenti ad altrettanti nervi scoperti del sistema. Occor-re considerare, anzitutto, che la scelta dell’amministrazione di adottare l’uno o l’altro degli strumenti non sembra, almeno a prima vista, riportabile a cri-teri legali per essa stessa vincolanti e dunque, sempre a prima vista, sindaca-bili ex post dal giudice. In secondo luogo, si deve considerare che il provve-dimento d’accertamento può non essere connotato da definitività e che il credito per il quale si pretende di procedere in executivis non esser certo nel-l’an e nel quantum, potendo ancora sottostare ad accertamento giudiziale

19.

5. L’esecuzione straordinaria come extrema ratio: i criteri di ragionevolezza, necessarietà, proporzionalità e la motivazione ulteriore dell’atto sulla scel-ta compiuta dall’amministrazione. Risarcimento del danno e azione giu-diziale (cenni)

Che dire, allora? Pur di fronte a questo differenziato e rafforzato regime di tutela del credito erariale, la normativa in commento, se valutata in ter-mini strettamente formali, non mi pare possa essere additata come lesiva del diritto di difesa del debitore, il quale, in un modo o in un altro e quale che sia lo strumento prescelto dall’agenzia, può ottenere comunque un vaglio giurisdizionale sul pericolo

20.

19 È quello che normalmente accade, anche se, in teoria, la riscossione straordinaria può avvenire pure a petto di accertamento definitivo, poiché il procedimento, per così di-re, d’urgenza determina la non applicazione della sospensione legale dei 180 giorni, so-spensione che invece, secondo me, opera per la riscossione di tutti i crediti, compresi quel-li consacrati in atti divenuti definitivi.

20 La Corte costituzionale, se investita della questione, potrebbe, con un argomentare accentuatamente formalistico, non considerare fondata la questione, proprio in ragione del sistema di tutela che, bene o male, il debitore può attuare. Si veda, della Corte, l’ord. n. 393/2008, in cortecostituzionale.it, pronunciata nel giudizio di costituzionalità dell’art. 72-bis del D.P.R. n. 602/1973 concernente il pignoramento dei crediti presso terzi, ordinanza nella quale, al di là di questioni proprie alla motivazione dell’ordinanza del giudice a quo, si escludono profili di illegittimità della norma scrutinata «giacché il terzo può comunque opporsi al pignoramento secondo il rito ordinario e il debitore esecutato attivarsi nelle forme dell’art. 57 del d.P.R. n. 602», essendo, questi, per di più, portatore di «interesse di

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Nei fatti, però, come ho sottolineato, la differenza tra la strada dell’art. 22 e quella dell’art. 29, lett. c), può essere marcata e l’opzione dell’agenzia può in concreto recare grave pregiudizio al patrimonio o all’attività economica del debitore, pregiudizio che non sempre può essere prevenuto o riparato efficacemente e in tempi rapidi.

Ora, se non si vuole rischiare di trasformare il sistema in una trappola mortale per il contribuente, l’accertamento del cui debito – lo ribadisco – può ancora essere sub iudice, diventa fondamentale ricercare il “giusto” equi-librio tra le contrapposte esigenze e rendere il diritto di difesa non solo for-malmente esercitabile, ma anche effettivo

21. Questo è il vero cuore del problema: sebbene le singole disposizioni non

indichino criteri ai quali ricondurre la scelta dell’amministrazione, mi do-mando se questi siano invece desumibili dal sistema e se i principi che lo in-formano siano suscettibili di fondare, per l’appunto, una regola di compor-tamento vincolante per l’amministrazione stessa. Regola che faccia perno sulla gradazione della gravità del pericolo, che renda, cioè, l’accertamento e-secutivo straordinario l’extrema ratio. Insomma, detto ancor più chiaramen-te, che determini l’Agenzia a privilegiare, in prima battuta, il procedimento di vaglio giurisdizionale preventivo di cui all’art. 22 del D.Lgs. n. 472/1997, e, solo in presenza di pericolo a petto del quale le misure cautelati potrebbe-ro apparire inadeguate, oppure, come espressamente indica la lett. c), di fondato pericolo per il “positivo esito” della riscossione

22, a ricorrere allo strumento dell’esazione straordinaria.

Mi rendo conto che, a prima vista, sembrerebbe trattarsi di regola rimes-sa anch’essa all’apprezzamento del creditore e dunque, gratta gratta, legata mero fatto rispetto all’utilizzo dell’una o dell’altra modalità» di soddisfazione coattiva del credito. Per note ricostruttive del pensiero dei giudici della Consulta sull’interesse di mero fatto e sulla disparità di mero fatto, e per osservazioni critiche su questa ordinanza, v. LUONGO, in Le espropriazioni presso terzi, diretto da Auletta, Bologna, 2011, p. 456 ss.

21 Rispetto alle misure di garanzia pro fisco disciplinate dal D.P.R. n. 602/1973, di re-cente, DEL FEDERICO, Fermo su beni mobili ed ipoteca, in La riscossione, Quaderni Rivista di-ritto tributario, Milano, 2011; per osservazioni convincenti sul contemperamento delle esi-genze e sulla conseguente azione dell’amministrazione e dell’agente per la riscossione, v. inoltre MESSINA, I riflessi, cit., spec. p. 565 ss., nonché, per una sintesi, GUIDARA, Indisponi-bilità del tributo e accordi in fase di riscossione, Milano, 2010, p. 226 ss.

22 Si immagini, ad esempio, l’ipotesi in cui i beni sequestrabili coincidano con merce custodita in luoghi insalubri e sottoposta, per questo motivo, a deperimento. In simile cir-costanza, le misure cautelari dell’art. 22 sarebbero senz’altro inappropriate e dunque l’ese-cuzione straordinaria si atteggerebbe a strumento necessario e proporzionalmente adegua-to alla reale tutela del credito.

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pur sempre a giudizi soggettivi di valutazione. Se si scende con l’analisi più in profondità, però, è possibile, secondo me,

corroborare quella regola comportamentale di forza giuridica stringente e dotarla di “parametri” applicativi vincolanti, desumibili sia dall’art. 97 della Costituzione e dal principio di ragionevolezza, sia, sul piano provvedimen-tale, dall’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente

23. Mentre i principi costituzionali possono radicare l’obbligo per l’ammini-

strazione di ponderare esigenze contrapposte e di adottare lo strumento me-no pervasivo, secondo i criteri di adeguatezza, necessarietà e proporzionalità, l’art. 7 può obbligarla, anche in questa circostanza, a esternare valutazioni e motivi sulla scelta adottata

24. L’amministrazione, in buona sostanza, dovrebbe motivare l’atto espo-

nendo non solo le valutazioni sui fatti di pericolo, ma anche le ragioni che l’hanno determinata all’esazione straordinaria in luogo del procedimento cautelare di cui all’art. 22 e i criteri che ha seguito per convincersi della sua necessarietà e proporzionalità rispetto al fine da perseguire.

Del resto, anche nell’esecuzione ordinaria, il giudice dell’esecuzione, se chiamato a ridurre i mezzi di espropriazione o l’entità del pignoramento ai sensi degli artt. 483 e 496, c.p.c., deve valutare la proporzionalità delle misu-re rispetto al soddisfacimento delle pretese creditorie, dato che una “dilata-zione” di quelle misure, se non necessaria allo scopo, si tradurrebbe in «gra-tuita compromissione dei diritti dominicali e del regime di libera circolazio-

23 Il principio di ragionevolezza, inteso come bilanciamento equo degli interessi e dei sacrifici, si affaccia in Inghilterra agli inizi del seicento, ma il leading case è il Wednesbury case del 1948 (v. CRAIG, Administrative Law, London, 1994, p. 404 ss.). In Italia, fino agli anni settanta, il principio stenta ad essere accolto e la sua compiuta elaborazione risale al fondamentale studio di MERUSI, L’affidamento del cittadino, Milano, 1970 (ora in Buona fede e affidamento nel diritto pubblico, Milano, 2001, spec. p. 199 ss.), studio che ha poi orientato tutta la giurisprudenza successiva fino alla sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 6 febbraio 1993, n. 3, in Foro it., 1993, III, 321.

24 Sui criteri di adeguatezza, necessarietà e proporzionalità, propri della valutazione amministrativa, v. MORBIDELLI, Il procedimento amministrativo, in AA.VV., Diritto ammini-strativo, Bologna, 1993, p. 1026 ss.; VIPIANA, Introduzione allo studio del principio di ragio-nevolezza nel diritto pubblico, Padova, 1993, p. 38 ss.; LOMBARDO, Il principio di ragionevo-lezza nella giurisprudenza amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 1997, p. 421 ss.; SANDUL-LI, La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998, passim, ma spec. p. 285 ss.; SCACCIA, Gli strumenti delle ragionevolezza nel diritto costituzionale, Milano, 2000, p. 55 ss. Tra i tributaristi, si richiamano espressamente a questi principi, sebbene per procedimenti diversi da quello qui esaminato, MESSINA, I riflessi, cit., p. 255 ss.; GALLO, L’istruttoria nel sistema tributario, in Rass. trib., 2009, spec. p. 32.

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Alessandro Giovannini

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ne dei beni, con ripercussioni negative anche sul tessuto complessivo del traffico giuridico»

25. Certo, queste previsioni si collocano in un ambito procedimentale e di

rapporti di diritto sostanziale di stampo schiettamente privatistico. Ai nostri fini, però, non è questo il punto rilevante. Qui interessa evidenziare come adeguatezza, proporzionalità e necessarietà siano, in realtà, criteri direttivi suscettibili di attraversare orizzontalmente il sistema, poiché radicati, anzi-tutto, sul principio di ragionevolezza e dunque riconducibili agli artt. 97 e 3, comma 1, della Carta fondamentale, e anche, come si è scritto, ai principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo

26. È proprio per questi motivi che, secondo me, essi sono senz’altro utiliz-

zabili anche nella nostra materia e riferibili, come criteri orientativi di una regola di comportamento, pure all’azione dell’amministrazione finanziaria, così da obbligarla a rendere edotto il debitore delle ragioni che l’hanno persuasa a privilegiare l’esecuzione straordinaria in luogo del procedimen-to che avrebbe bensì consentito di attivare misure cautelari a tutela del credito, ma solo dopo il preliminare vaglio giudiziale dei fatti e degli inte-ressi in gioco.

D’altra parte e specularmente, solo vincolando l’amministrazione a consimili parametri e obbligandola alla motivazione, si può ritenere che il giudice sia effettivamente posto nella condizione di valutare adeguatezza e proporzionalità dello strumento prescelto e di verificare il pregiudizio subito o che potrebbe subire il debitore. E solo così l’amministrazione po-trebbe essere inchiodata in punto responsabilità e la tutela del contri-buente potrebbe prendere realmente corpo nella forma dell’azione risar-citoria.

Azione, questa, da far coincidere con una domanda accessoria in seno al-la causa principale innanzi al giudice tributario, con applicazione diretta del-l’art. 96, comma 2, c.p.c., oppure da qualificare come azione autonoma da-vanti all’autorità giudiziaria ordinaria, secondo i termini prescrizionali del

25 Cass. 1 marzo 1986, n. 1305, e Cass. 1 aprile 2005, n. 6895, in Le leggi d’Italia, Banca dati.

26 Il principio di proporzionalità, infatti, come di recente ricordato da MELIS e PERSIA-NI, Riscossione coattiva e Convenzione europea dei diritti dell’uomo: alcune riflessioni, in Rass. trib., 2011, p. 901 ss., spec. p. 915 ss., è costantemente applicato anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, proprio a garanzia dei diritti proprietari rispetto agli strumenti com-pressivi o limitativi degli stessi, quando quegli strumenti appaiono sproporzionati o non necessari rispetto alle finalità perseguite.

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diritto al risarcimento, da esercitare sia nei confronti dell’amministrazione, sia e per ipotesi marginali, nei confronti dell’esattore per danni da questi di-rettamente causati, in ossequio alla disciplina dell’art. 59 del D.P.R. n. 602/1973

27.

27 Il tema è complesso e qui può essere solo accennato. Mi limito a ricordare che, men-tre sul terreno sostanziale il diritto del contribuente al risarcimento non è, ormai, da met-tere più in discussione, sul terreno processuale permangono divergenze di opinioni sul-l’autorità giudiziaria competente. Per parte mia ritengo che l’azione, come domanda acces-soria, possa proporsi al giudice speciale ai sensi dell’art. 2, comma 1, primo capoverso, del D.Lgs. n. 546/1992, similmente, del resto, a quanto accadeva nel processo amministrativo in relazione ai diritti patrimoniali consequenziali, ed oggi accade, sempre in quel processo e pure come azione autonoma, per effetto dell’art. 7, comma 4, del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (codice del processo amministrativo). A questo riguardo v. GIOVANNINI, Processo tri-butario e risarcimento del danno, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1999, I, p. 200 ss. Per altri studiosi – lo ricordo per completezza – la competenza sarebbe invece da ricondurre al giudice ordina-rio, anche in ragione dell’oggetto del processo tributario e della sua configurazione come processo d’annullamento. Ampiamente, per una sintesi anche giurisprudenziale e per consi-derazioni conclusive convincenti, v. MARELLO, La giurisdizione delle Commissioni tributarie, in Codice commentato del processo tributario, a cura di F. Tesauro, Torino, 2011, p. 43 ss.

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Carlos María López Espadafor

SITUACIÓN ACTUAL DE LA PROHIBICIÓN DE CONFISCATORIEDAD EN MATERIA TRIBUTARIA:

LA EXPERIENCIA ESPAÑOLA EN EL CONTEXTO DE LA UNIÓN EUROPEA

SITUAZIONE ATTUALE DEL DIVIETO DI CONFISCATORIETÀ IN MATERIA TRIBUTARIA: L’ESPERIENZA SPAGNOLA

NEL CONTESTO DELL’UNIONE EUROPEA

CURRENT STATE OF THE PROHIBITION OF CONFISCATORY TAXES: THE SPANISH EXPERIENCE

IN THE CONTEXT OF EUROPEAN UNION

Abstract La problemática del derecho fundamental a la propiedad privada y la no confiscato-riedad demandan su análisis desde la visión del acceso a aquélla, en cuanto que nor-malmente para el consumo de cualquier tipo de bien o producto es necesario un pre-vio acceso a la propiedad del mismo. Definir límites en tal sentido puede ayudar a frenar la imposición indirecta frente a la directa, haciendo así nuestro Sistema tribu-tario más progresivo y, de esta forma, más justo, a la luz de los principios materiales de justicia tributaria. Con ello alcanzaríamos una redefinición del derecho a la pro-piedad privada en materia tributaria útil en relación a sujetos de cualquier nivel de capacidad económica, en el contexto de la Unión Europea. Se trata, pues, de abrir nuevas líneas argumentales que en la práctica puedan ser utilizadas ya sea en sede de Tribunal Constitucional, ya sea en sede de Tribunal de Justicia de la Unión Europea. Palabras clave: no confiscatoriedad, Unión Europea, derecho de propiedad, de-recho tributario, tributo, España Il principio di non confiscatorietà in materia tributaria si potrebbe definire come il dovere del legislatore di non stabilire tributi che possano di fatto annullare le possibilità di iniziativa economica dei soggetti attraverso un’imposizione irrazio-

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nale e, soprattutto, che possano incidere negativamente sulla loro proprietà pri-vata. La confiscatorietà in materia tributaria si profilerebbe dunque come un li-mite alla proprietà privata. Le questioni in tema di diritto fondamentale alla pro-prietà privata – intesa qui non solo come proprietà immobiliare, bensì come pro-prietà relativa a qualsiasi bene o prodotto – e non confiscatorietà dei beni richie-de dunque di essere analizzata partendo dalla prospettiva dell’accesso alla pro-prietà e delle tutele costituzionali ad essa connesse. La proprietà privata ha infatti una funzione sociale costituzionalmente riconosciuta e, dal canto suo, il diritto tributario, in uno Stato sociale e democratico come quello spagnolo, ricopre una funzione redistributiva della ricchezza. Definire i limiti alla confiscatorietà può dunque essere di aiuto a porre anche dei limiti non solo all’imposizione indiretta, ma altresì all’imposizione diretta, contribuendo nel contempo ad accrescere la progressività del sistema tributario spagnolo e, in tal modo, a renderlo più equo e in linea con i principî della giustizia fiscale sanciti dall’art. 31 della Costituzione. Tutto ciò potrebbe portare ad una ridefinizione dei diritti in materia di proprietà privata, che tenga conto anche di quanto espresso in materia nel contesto dell’U-nione Europea. Scopo del presente lavoro è dunque tracciare nuove linee di ri-flessione e nuovi spunti argomentativi, che possano essere utilizzati sia dalla Cor-te Costituzionale spagnola che dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Parole chiave: non confiscatorietà, Unione Europea, diritti di proprietà, diritto tributario, tassazione, Spagna The principle of non-confiscation in tax law shall be defined as the duty of the Parlia-ment not to introduce taxes that may, in practice, annul private economic initiative through the exercise of an irrational taxing power and, in particular, negatively affect their private property. Confiscatoriness in tax law shall be identified as a limit to private property. The issues related to the fundamental right to private property – considered not only as immovable property, but also as property in relation to any good or product – and non-confiscation need to be analysed from the perspective of access to property and of its related constitutional safeguards. Private property has in fact a social function constitutionally recognised and tax law, in a social and democratic State such as Spain, accomplishes a redistributive function. Trying to define the limits of confiscatoriness may be therefore useful for identifying limits to indirect and also to direct taxation, by con-tributing, at the same time, to increase progressivity of Spanish tax system and make it more fair and respectful of tax justice principles laid down in Art. 31 of the Constitution. This would lead to a re-definition of private property rights that takes into account the guidelines emerged in the European Union context. The present study is therefore aimed at engaging new research paths and arguments, which may be used by the Con-stitutional Court and the Court of Justice of the European Union. Keywords: non-confiscation, European Union, property right, tax law, taxation, Spain

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SOMMARIO: I. Consideraciones preliminares. – II. La prohibición de confiscatoriedad en materia tributaria. – III. El límite en materia de confiscatoriedad. – IV. Parámetros racionales. – V. La perspectiva de la Unión Europea. – VI. Reflexión final en materia de derechos fundamentales.

I. Consideraciones preliminares

La Unión Europea tiene un protagonismo esencial en materia de imposi-ción indirecta, a través de la armonización fiscal. Pero la constante tensión entre la imposición directa y la indirecta no es algo que deba moverse sólo en sede de las distintas opciones de política socio-económica, sino que es necesario buscar los límites jurídico-constitucionales que puedan frenar a la segunda frente a la primera y encontrar también su fundamento dentro del Derecho de la Unión Europea.

El estudio del Derecho Financiero y Tributario cada vez se ha centrado más, como debe ser, en la preeminencia de su análisis desde los principios contenidos en el apartado 1 del artículo 31 de nuestra Constitución, nor-malmente denominados principios materiales de justicia tributaria. Ahora bien, no debe ser esa la perspectiva exclusiva en su análisis, ni la que agote las posibilidades de contemplación constitucional del tributo.

Frente a lo que sucedía en la década de los ochenta y principios de los noventa del siglo pasado, cada vez se pronuncia menos aquello de “la redi-stribución de la riqueza”. Recordemos que el artículo 131 de nuestra Con-stitución en su apartado 1 in fine, en relación a la renta y la riqueza, proclama «su más justa distribución». Esta importantísima declaración final de ese precepto debemos unirla a la consagración de España como un «Estado so-cial y democrático de Derecho» en el apartado 1 del artículo 1 de nuestra Constitución. De esta forma, la a veces olvidada dimensión social de nue-stro Estado se dejaba sentir ya en el primer precepto de nuestra Consti-tución.

En función de todo lo anterior, si ponemos en relación los artículos 1.1, 31.1 y 131.1 de nuestra Constitución, nos encontramos con que en un Estado social y democrático de Derecho no cabe sino articular la redi-stribución de la riqueza a través del ingreso y del gasto público en función de la capacidad económica del sujeto. De este modo, en un Estado social y democrático de Derecho el Derecho Financiero y Tributario debe presen-tarse como la articulación jurídica de la redistribución de la riqueza.

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Cuando nos encontramos con situaciones de imposición desorbitada en las que la carga fiscal sobre un bien o producto supera el precio de éste antes de impuestos, nos vemos en la necesidad de encontrar el anclaje constitu-cional de la norma que pueda impedir dicho exceso. Esto nos lleva a fijarnos en que en relación al respeto en materia tributaria del derecho a la propie-dad privada, en ocasiones se cuestiona la carga fiscal máxima sobre la titula-ridad de ésta, descuidando el análisis de los límites de la carga fiscal sobre los actos de acceso a la misma, es decir, de la carga fiscal que se soporta al adquirir un bien o producto.

En la determinación de cuándo se puede producir una violación en el plano fiscal del derecho de acceso a la propiedad, debemos partir de la con-creción del límite o límites cuantitativos o porcentuales que se deben aplicar a la imposición sobre el consumo, ante los principios materiales de justicia tributaria. Para consumir un bien hay que adquirirlo; el problema se presen-ta cuando la carga fiscal sobre un bien o producto dificulta ilegítimamente y de manera desproporcionada la posibilidad de su adquisición. Además, de-bemos fijarnos no sólo en los tradicionales esquemas de la propiedad priva-da, forjados esencialmente pensando en la propiedad inmobiliaria, sino que debemos pensar en la propiedad de cualquier tipo de producto, porque, en principio, para consumirlo, primero hay que adquirirlo y, así, adquirir su propiedad. A tales efectos, no podemos partir sólo de la disciplina estatal, si-no que también se debe tomar en consideración la incidencia en este tema del Derecho de la Unión Europea, en cuanto que la mayoría de los impue-stos indirectos han sido y son objeto de armonización fiscal comunitaria. Podríamos haber comenzado hablando de no confiscatoriedad, lo que suce-de es que en la disciplina comunitaria europea no se habla expresamente de ésta, pero sí del derecho de propiedad. Recordemos que la disciplina fiscal comunitaria se centra esencialmente en la imposición indirecta, de ahí que hablemos del acceso a la propiedad y no de la tenencia de ésta, pues esto úl-timo quedaría en el ámbito de la imposición directa, de competencia esen-cialmente estatal.

Así, en nuestro análisis deberemos centrarnos en la interpretación de la idea de no confiscatoriedad a la luz del derecho fundamental a la propiedad privada, como derecho fundamental consagrado no sólo en nuestra Consti-tución, sino también en la disciplina comunitaria europea de los derechos fundamentales

1. La contemplación del derecho a la propiedad privada de-

1 Punto de partida esencial, dentro de la consagración de los derechos fundamentales,

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sde la perspectiva de la imposición indirecta, nos debe hacer plantearnos, como hemos apuntado, no sólo la incidencia de la imposición sobre la titu-laridad o propiedad de los bienes, sino esencialmente la incidencia de la im-posición sobre el acceso a la propiedad de los mismos, hasta el punto de po-der llegar a ser considerada como confiscatoria. La contemplación, desde la perspectiva fiscal, del derecho de propiedad, no sólo en materia de imposi-ción directa, sino también en materia de imposición indirecta, se presentaría como lo más acorde con los postulados de un Estado social y democrático de Derecho. La contemplación de la incidencia de la imposición sólo sobre la titularidad de la propiedad y no sobre el acceso a la misma sería algo con-trario a tales postulados. De esta forma, revitalizar la idea de no confiscato-riedad también en relación a la imposición sobre el consumo, se presenta como una ayuda a la tarea de redistribución de la riqueza, debiendo repre-sentar el Derecho Financiero y Tributario la articulación jurídica de dicha tarea en un Estado como el nuestro.

La evolución de la integración europea y, con ello, de la armonización fi-scal comunitaria en ocasiones parece dejar en el olvido los mencionados po-stulados. Inmersos en el contexto comunitario europeo, cada vez parece más incómodo o trasnochado para algunos hablar en relación a la riqueza de «su más justa distribución»

2. Pero el hecho de que el derecho a la pro-piedad privada forme parte tanto de la disciplina constitucional nacional como de la disciplina comunitaria europea nos permite poder utilizar la in-terpretación de este derecho a la luz de la imposición indirecta para poder revitalizar los postulados del Estado social y democrático de Derecho, in-tentando limitar este tipo de imposición en aquello en que pueda llegar a considerarse como confiscatoria.

La consagración en la disciplina de la Unión Europea del derecho a la propiedad privada supone un límite esencial a un crecimiento cuantitativo desmedido de la armonización fiscal comunitaria en materia de tipos de en su proyección tributaria, debe ser la contemplación del derecho a la propiedad privada, consagrado expresamente tanto en las Constituciones de los Estados miembros de la Unión Europea, como dentro del Derecho originario de ésta. Las medidas de armonización fiscal aprobadas por las instituciones de la Unión Europea no podrán violar tal derecho, que a su vez debe ser contemplado no sólo desde los tradicionales esquemas forjados en el ámbito nacional, principalmente desde la perspectiva de la propiedad inmobiliaria, sino, como de-cimos, desde una visión más amplia en cuanto que casi todo para poder ser consumido de-be ser primero objeto de propiedad por el consumidor y la imposición sobre el consumo, dentro de la armonización fiscal comunitaria, constituye su núcleo esencial.

2 Final del apartado 1 del artículo 131 de nuestra Constitución.

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gravamen sobre el consumo. El protagonismo de la armonización fiscal co-munitaria en la imposición sobre el consumo, hace que el análisis de la prohibición de confiscatoriedad en relación a tal tipo de imposición deba partir de su aplicabilidad en el ámbito de aquélla para, a partir de la misma, fijarnos en lo que añade la imposición de responsabilidad exclusivamente nacional a los mínimos comunitarios armonizados. En función de ello, en los posibles supuestos en principio criticables o discutibles, habrá que analizar hasta dónde llegaría la responsabilidad de la Unión Europea y hasta dónde la responsabilidad exclusivamente nacional, ante la prohibición de impuestos sobre el consumo confiscatorios, que chocarían con el derecho fundamental a la propiedad privada, en su contemplación nacional y comunitaria.

Todo ello sin perjuicio, obviamente, de que la prohibición constitucional de confiscatoriedad, en relación a la imposición sobre el consumo, pudiese, en su caso, ser también susceptible de consideración en campos impositivos de competencia esencialmente estatal.

Dejando a un lado lo anterior, desde ARISTÓTELES 3 podemos encontrar

justificaciones racionales de que debe observarse el dicho, ya popular, de que en el término medio está la virtud

4. De alguna manera, a este dicho tan aparentemente evidente se le pueden encontrar aplicaciones lógicas y racionales, con amparo jurídico, en la materia que estamos analizando. La solución a primera vista se puede así incluso buscar en la razón popular.

3 «Veamos un ejemplo: suponiendo que el número diez represente una cantidad gran-de, y el número dos una muy pequeña, el seis será el término medio con relación a la cosa que se mide; porque seis excede al dos en una suma igual a la que le excede a él el número diez. Éste es el verdadero medio según la proporción que demuestra la aritmética, es decir, el número. Pero no es éste ciertamente el camino que debe tomarse para buscar el medio tratándose de nosotros. En efecto, porque para tal hombre diez libras de alimento sean demasiado y dos libras muy poco, no es razón para que un médico prescriba a todo el mundo seis libras de alimento, porque seis libras para el que haya de tomarlas, pueden ser una alimentación enorme o una alimentación insuficiente. Para Milon es demasiado poco; por el contrario, es mucho para el que empieza a trabajar en la gimnástica. Lo que aquí se dice de alimentos, puede decirse igualmente de las fatigas de la carrera y de la lucha. Y así, todo hombre instruido y racional se esforzará en evitar los excesos de todo género, sean en más, sean en menos; sólo debe buscar el justo medio y preferirle a los extremos. Pero aquél no es simplemente el medio de la cosa misma, es el medio con relación a nosotros» (ARISTÓTELES, De la naturaleza de la virtud, en Moral a Nicómaco, Libro segundo, Capítulo VI, en www.filosofia.org/cla/ari).

4 Dicho que ha dado lugar incluso a alguna tesis doctoral. Al respecto véase AYENSA REMÍREZ, Desde el término medio hacia la virtud: un análisis de la mente creadora y su eficacia prospectiva, Tesis doctoral de la Universidad Complutense de Madrid, Facultad de Filoso-fía, 2003, en www.ucm.es/eprints/4787.

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Lo más complejo es buscarle su justificación jurídica, tanto desde la per-spectiva de las constituciones nacionales, como desde la perspectiva del Derecho originario de la Unión Europea. Pues bien, como punto de inicio, intentaremos acercarnos a algo así como que la carga impositiva pueda llegar como máximo

5 al término medio del total, debiendo concretar esto en función de qué sea ese total, es decir, en función de la magnitud que se mida.

II. La prohibición de confiscatoriedad en materia tributaria

En una primera aproximación, podríamos definir el principio de no confiscatoriedad en materia tributaria como el deber del legislador tribu-tario de no establecer tributos que en su configuración determinen una tributación que anule las posibilidades de actuación económica del suje-to

6, al provocar una tributación irracional. A nuestro entender, en función de lo anterior, la no confiscatoriedad en materia tributaria se presentaría como una especificación del derecho a la propiedad privada en el ámbito tributario

7.

5 La preocupación por el máximo de la imposición es que algo que podemos encontrar desde muy lejanos tiempos y así hace más de dos mil años ya podíamos leer que «cuando se agotan los recursos, los impuestos se recaudan bajo presión. Cuando el poder y los re-cursos se han agotado, se arruina el propio país. Se priva al pueblo llano del 70 por 100 de su presupuesto, mientras que los gastos del gobierno para equipamiento se elevan al 60 por 100 del suyo» (SUN TZU, El arte de la guerra, Versión de THOMAS CLEARY, traducción de Alfonso Colodrón, 32ª edición, Madrid, 2007, pág. 30).

6 Pero cuando hablamos de que no se anulen las posibilidades de actuación económica del sujeto no queremos decir que a éste se le pueda dejar lo mínimo, sino que tal situación económica debe estar más próxima al resultado de la iniciativa del sujeto y nunca por de-bajo de su contribución al sostenimiento de los gastos públicos.

Frente a esto, a veces la doctrina, a nuestro entender desacertadamente, ha sido dema-siado mezquina al describir lo que legítimamente podría quedar en manos del sujeto de-spués de la tributación. Así, dentro de esta línea se podría citar a BERLIRI – paradójicamen-te tan acertado en otras ocasiones –, quien señalaba que «la progresividad de la imposi-ción no puede nunca ser tal que no deje al contribuyente al menos una suma suficiente pa-ra su mantenimiento» (Corso istituzionale di Diritto Tributario, Volume primo, Milano, 1985, pág. 128). El alcance de estas palabras nos parece muy corto o pobre. Además, esas palabras, en una autoridad doctrinal como BERLIRI, pueden representar un desacertado referente para los Tribunales Constitucionales europeos.

7 El Tribunal Constitucional, en el fundamento jurídico número 6 de su Sentencia 182/1997, de 28 de octubre, ha declarado lo siguiente: «Deber constitucional de contri-

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El artículo 31 de la Constitución, en su apartado 1, establece que el Si-stema tributario no podrá tener alcance confiscatorio. Presenta este precep-to el deber de contribuir a partir de la capacidad económica del contri-buyente, debiéndose configurar el Sistema tributario dentro de los paráme-tros de la igualdad y la progresividad, presentándose estos dos principios como «inspiradores» del mismo. De otro lado, su artículo 33 consagra el derecho a la propiedad privada, si bien pone de manifiesto al mismo tiempo la función social de la misma. Esta función social se puede contemplar de-sde muchas perspectivas y, entre ellas, el deber de tributación no se puede considerar ajeno a tal función social.

La doctrina, aunque en muy distinto grado, ha reconocido la vinculación de la prohibición de confiscatoriedad a través del Sistema tributario con el respeto al derecho a la propiedad privada. Recogemos a continuación una serie de opiniones en tal sentido, siguiendo el orden cronológico en que fue-ron publicadas.

Señala PALAO TABOADA que «el calificativo “confiscatorio” no debe evi-dentemente entenderse en sentido absoluto y estricto, sino sencillamente como equivalente a “contrario al principio de propiedad privada”», desta-cando este autor que «la rotundidad del término “confiscatorio” es revela-dora de la preocupación de los redactores del texto por cubrir también el “flanco fiscal” del derecho de propiedad y, por tanto, de que quedara claro en este aspecto el sistema constitucional de valores»

8. De otro lado, LEJEUNE VALCÁRCEL señala que «todo el problema de la no

confiscatoriedad se reduce a determinar hasta dónde puede llegar un tributo (especialmente los de naturaleza extrafiscal), a fin de que no lesionen el de-recho constitucional de propiedad, ya que no sólo es necesario que un tribu-to no tenga un tipo del cien por cien, sino que tenga unos tipos tales que no frustre las lógicas y razonables expectativas que de la propiedad privada se derivan», añadiendo a continuación de lo anterior que «la no confiscato-riedad resulta ser así un límite a la progresividad, pero no un límite surgido desde dentro del ordenamiento tributario (ya que éste, como se ha dicho, no puede en sí mismo ser confiscatorio), sino un límite que surge desde otro derecho protegido constitucionalmente, como es el derecho de pro-

buir cuyo cumplimiento no se encuentra desconectado del derecho de propiedad también constitucionalmente garantizado (art. 33 C.E.)».

8 La protección constitucional de la propiedad privada como límite al poder tributario, en Hacienda y Constitución, Madrid, 1979, págs. 319 y 320.

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piedad, de tal forma que sólo en relación a éste puede ser comprendido y analizado el problema de la no confiscatoriedad tributaria»

9. Sobre la referencia en estudio del texto constitucional a que el Sistema

tributario no podrá tener alcance confiscatorio, CALERO GALLEGO y NAVAS VÁZQUEZ señalan que «se trata de una expresión que agudiza aun más el sentido garantista y en protección de la libertad y propiedad individuales de todo el precepto»

10. Por otra parte, NÚÑEZ PÉREZ señala que «el establecimiento del principio

de no confiscatoriedad tributaria no sólo no es innecesario, sino que viene a reforzar el equilibrio que ineludiblemente ha de estar presente entre la de-tracción coactiva de riqueza que todo tributo implica y “el derecho a la pro-piedad privada y a la herencia” que la Constitución reconoce a los ciudada-nos»

11. Según CASANA MERINO «para dar sentido a la prohibición de la confisca-

toriedad en el ámbito tributario, no podemos prescindir de la necesaria re-lación con el derecho de propiedad privada»

12. Sobre «la acogida del prin-cipio de no confiscatoriedad en la Constitución Española» RUIZ-HUERTA CARBONELL señala que «refleja un refuerzo del derecho de propiedad reco-nocido en el artículo 33»

13. De otro lado, GONZALO Y GONZÁLEZ señala que el principio de no confiscatoriedad «resulta inseparable del principio de ga-rantía de la propiedad privada»

14. Por otra parte, SÁNCHEZ SERRANO señala que «en una interpretación si-

stemática de la Constitución, es manifiesta asimismo la conexión del princi-pio de no confiscatoriedad tributaria con el derecho a la propiedad privada,

9 Aproximación al principio constitucional de igualdad tributaria, en Seis estudios sobre Derecho Constitucional e Internacional Tributario, Editorial de Derecho Financiero, Edito-riales de Derecho Reunidas, Madrid, 1980, págs. 168 y 169.

10 Estudio preliminar a la obra de MOSCHETTI, El principio de capacidad contributiva (traducción también por J.M. Calero Gallego y R. Navas Vázquez), Madrid, 1980, pág. 28.

11 La prohibición constitucional de tributos confiscatorios: dos supuestos, en Impuestos, núm. 22, 1991, pág. 8.

12 El principio constitucional de interdicción de la confiscatoriedad en el ámbito tributario, en la Revista de Derecho Financiero y de Hacienda Pública, núm. 216, 1991, pág. 1099.

13 Vigencia y operatividad del principio de la no confiscatoriedad de los tributos en el orde-namiento español, en Crónica Tributaria, núm. 64, 1992, pág. 119.

14 El principio constitucional de no confiscatoriedad tributaria, en El Sistema Económico en la Constitución Española, Volumen II, XV Jornadas de Estudio, Dirección General del Ser-vicio Jurídico del Estado, Ministerio de Justicia, Secretaría General Técnica, Centro de Publicaciones, Madrid, 1994, pág. 1555.

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constitucionalmente reconocido dos artículos más adelante». Indica este autor que «la interdicción de confiscatoriedad del artículo 31.1. no hace si-no sumar a los principios de justicia tributaria una garantía de la propiedad privada, adicional a su vez a las ya establecidas en el artículo 33». Destaca SÁNCHEZ SERRANO que «de lo que se trata, evidentemente, es de hacer com-patible el deber fundamental de contribuir, constitucionalmente estableci-do, con el “derecho a la propiedad privada y a la herencia”, también consti-tucionalmente garantizado» y añade que «para ello el sistema tributario no deberá comprender tributos y alcanzar un grado de onerosidad tal que los ciudadanos en general, o determinadas categorías o grupos de los mismos en particular, se vean en la necesidad de desprenderse de sus bienes o pro-piedades para satisfacerlos», señalando que «si así fuese, la tributación tendría “alcance confiscatorio”: o sea, produciría, por vía indirecta, un resul-tado análogo al de la confiscación prohibida por el artículo 33.3 de la Con-stitución»

15. De otro lado, sobre «la construcción jurídica del principio de no confi-

scación» NAVEIRA DE CASANOVA señala que «se puede agrupar en torno a cuatro polos conceptuales: el derecho de propiedad, los principios jurídicos tributarios, los fines no recaudatorios del tributo y un grupo de ideas que tienden a darle una relevancia propia al mandato»

16. Por otra parte, «la regla de la no confiscatoriedad» según CAZORLA PRIE-

TO «es un claro ejemplo de la relación de los principios constitucionales-tributarios con otros derechos o principios consagrados constitucionalmen-te, en particular con el derecho a la propiedad privada proclamado en el artículo 33 de la Constitución»

17. Junto a ello, GARCÍA DORADO habla de «una relación que nos parece imprescindible y obligada: la que existe entre el principio de no confiscatoriedad y el derecho a la propiedad privada»

18. Así pues, podemos apreciar cómo la inmensa mayoría de la doctrina re-

conoce la vinculación entre las ideas de no confiscatoriedad en materia tri-butaria y de respeto al derecho de propiedad privada. Pero frente a ello, exi-

15 «Principios de Justicia Tributaria», Capítulo IV del Manual General de Derecho Fi-nanciero, Tomo Segundo, Derecho Tributario. Parte General, Comares, Granada, 1996, págs. 91 y 92.

16 El principio de no confiscatoriedad. Estudio en España y Argentina, McGraw-Hill, Ma-drid, 1997, pág. 448.

17 Derecho Financiero y Tributario (parte general), Aranzadi, Navarra, 2000, pág. 112. 18 Prohibición constitucional de confiscatoriedad y deber de tributación, Dykinson, Madrid,

2002, pág. 90.

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sten autores que, en mayor o menor medida, le restan protagonismo a la idea de propiedad en el fundamento de la exigencia de no confiscatoriedad en materia tributaria. De todos modos, el que reconozcamos la vinculación entre las ideas de propiedad y de no confiscatoriedad no quiere decir que no reconozcamos otras posibles dimensiones en la contemplación de esta prohibición constitucional.

En tal sentido, AGULLÓ AGÜERO señala que «la prohibición de confisca-toriedad debe ser contemplada en función de la justicia del sistema tributa-rio y no únicamente en función de la defensa de la propiedad, es decir, no como una garantía directa de la propiedad, sino como una garantía del pro-pio sistema tributario frente a posibles desviaciones»

19. Pero muy crítico con la vinculación de las ideas de no confiscatoriedad y

de propiedad privada se muestra MARTÍNEZ LAGO, quien, ante la prohibición constitucional de no confiscatoriedad en materia tributaria, destaca que «normalmente, esta referencia se ha relacionado por los autores con la defen-sa del orden económico privado, con la propiedad privada que aparece con-stitucionalizada en el artículo 33 de la norma fundamental». Sobre «este punto de vista», este autor señala que «padece, sin embargo, los errores pro-cedentes de un defectuoso enfoque del significado que constitucionalmente adquiere la propiedad privada como derecho de los ciudadanos, que no pue-de desligarse en su consideración actual, desde luego, de su caracterización como función social»

20. Frente a la opinión de este autor, es necesario apun-

19 Señala esta autora que «la prohibición de confiscatoriedad no trata de proteger di-rectamente la propiedad ni como Derecho subjetivo ni como institución», añadiendo que «la propiedad ya está suficientemente garantizada por el artículo 33». Indica que «la im-posición incide sobre la propiedad y la garantía de ésta no la afecta porque sus ámbitos de actuación son diferentes». Pero frente a ello, señala esta autora lo siguiente: «No obstan-te, puede darse una colisión entre ambas instituciones, y es por ello que entre los princi-pios de la imposición se sitúa la prohibición de confiscatoriedad. Es posible que sin esta declaración el resultado fuera el mismo, pero con ella resulta evidente que el ataque a la propiedad mediante el sistema tributario tiene un límite, y que este límite es independien-te, de un lado, de las razones fiscales o extrafiscales de los impuestos, y, de otro, de la con-creta estructura que adopte el sistema tributario. A ese límite se le llama alcance confisca-torio. Dónde debe situarse es un problema que la conciencia histórico-social de lo justo se encargará de señalar en cada momento» (Una reflexión en torno a la prohibición de confisca-toriedad del sistema tributario, en la Revista española de Derecho Financiero, núm. 36, 1982, pág. 561). En el mismo sentido, véase MIRANDA PÉREZ, El principio constitucional de no con-fiscatoriedad en materia fiscal, en Jurisprudencia Tributaria, núm. 20, 1998, pág. 24.

20 Los fines no fiscales de la imposición y la prohibición de confiscatoriedad, en Gaceta Fi-scal, núm. 81, 1990, pág. 156.

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tar que la función social de la propiedad no impide la consideración de la co-nexión de ésta con la no confiscatoriedad en materia tributaria, en cuanto que la confiscatoriedad implicaría una extralimitación en esa función social.

Pues bien, nosotros creemos que se debe vincular la idea de no confisca-toriedad a la idea de propiedad privada. Ambas ideas, principios, límites, derechos, se contemplan en dos preceptos distintos de nuestra Constitu-ción. Habría que plantearse si esto supone que a ambas ideas se les deba re-conocer un sentido distinto o distante, cuando nos movemos en el ámbito tributario. A nuestro entender, la respuesta a tal interrogante debe ser nega-tiva, debiendo reconocerse la vinculación de ambos conceptos o ideas.

Desde una perspectiva de pura técnica jurídica, en un plano más estricto y sistemático, se podría pensar que dos preceptos no pueden decir lo mi-smo, pues entonces uno de ellos sería inútil y, como principio dogmático, el legislador o, en este caso, el constituyente, no hacen nada inútil, de forma que, ante dos referencias en dos preceptos distintos, necesariamente hu-biese que individualizar dos ideas distintas.

De todos modos, aquí lo que nos estamos planteando es si, siendo la idea de propiedad privada una idea general válida para las diferentes ramas del Ordenamiento jurídico, también jugaría en materia tributaria. Si es así, se po-dría pensar que con la consagración general del derecho de propiedad privada bastaría para impedir que los tributos no tuviesen alcance confiscatorio. En-tonces, ¿qué utilidad vendría a tener la consagración expresa del principio de no confiscatoriedad? ¿Vendría a tener una significación distinta?

Pues bien, si, de esa perspectiva de técnica rigurosa, pasamos a una per-spectiva de técnica de creación normativa útil, la consagración general de una idea no tiene porqué impedir la utilidad de una especificación de esa idea en un ámbito más concreto, reforzando el valor sustantivo e interpre-tativo de la idea en ese ámbito más específico. Algo de esto podríamos en-contrar en el dato de que un precepto de la Constitución hable del derecho a la propiedad privada y que, además de éste, otro haga referencia a la no confiscatoriedad en materia tributaria.

La no confiscatoriedad puede ser entendida como una plasmación del límite que supone el respeto a la propiedad privada en materia tributaria. La Constitución consagra este derecho y quiere que su respeto tenga una especial atención en la articulación del Sistema tributario, reforzando esta idea, al hablar expresamente de no confiscatoriedad y evitando el adelantar en el artículo 31 el concepto de propiedad privada, no dando lugar así a posibles interpretacio-nes fuera de lugar en relación a las distintas perspectivas desde las que se pue-de tomar en consideración la propiedad privada en materia tributaria.

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La propiedad privada cumple una función social y el Derecho Financie-ro debe cumplir una función redistributiva de la riqueza en un Estado so-cial y democrático de Derecho como el nuestro. Ahora bien, esto no pue-de suponer que, aunque el Sistema tributario pueda, como no puede ser de otra manera, afectar a la propiedad privada, sus figuras puedan incidir sobre ésta en una medida que deje sin contenido a tal derecho. El tributo puede afectar a la propiedad privada, pero aquél no puede llegar a un nivel que deje vacío de contenido en ciertos supuestos el derecho a la propiedad privada. El tributo puede afectar a ésta, pero sólo hasta un cierto límite. ¿Qué límite? El determinado por un nivel de tributación más allá del cual la propiedad privada dejaría de ser esencialmente eso, es decir, esencial-mente privada, pasando a ser más pública que privada.

El apartado 1 del artículo 31 habla de contribución al sostenimiento de los gastos públicos a través de un Sistema tributario entre cuyos principios inspi-radores está la progresividad. Junto a ello, con la referencia expresa a la no confiscatoriedad en este precepto se quiere despejar cualquier duda en rela-ción a que la consagración del deber de tributación en esos términos nunca puede justificar una tributación excesiva e irracional que haga que la propie-dad privada pierda su contenido esencial, el de privada, pasándose, por el solo hecho del deber de tributación, a que fuese más pública que privada. Se resal-ta en el artículo 31.1 de la Constitución el deber de tributación, pero la im-portancia que se le da no puede interpretarse en el sentido de que ello permi-ta desconocer la esencia del derecho a la propiedad privada y para ello se ha-bla expresamente en este precepto de que la contribución a los gastos públi-cos a través del Sistema tributario no podrá tener alcance confiscatorio.

Si a la propiedad se le pone en la Constitución el calificativo de privada, sin desconocer su función social, siempre deberá estar en mayor medida al servicio o utilidad del contribuyente, que al servicio o utilidad de la Ha-cienda Pública. De no ser así, no tendría sentido que en la Constitución se hubiese hablado de la propiedad como privada.

La propiedad del contribuyente no puede ser más pública que privada; por ello sus bienes y derechos no pueden estar nunca en mayor medida al servicio del Fisco que al servicio de aquél. Esta regla se rompería si el Si-stema tributario llegase a niveles confiscatorios.

Como se diría llanamente, si de lo que gano se lleva el Estado 21 más de lo

que me quedo o si cuando voy a gastar se lleva más el Estado que lo que vale

21 Y, obviamente, el resto de entes públicos.

6.

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aquello que yo me quedo para consumir, ahí la propiedad parecería más pública que privada.

Nuestra Constitución habla, como hemos visto, de no confiscatoriedad del Sistema tributario y del respeto al derecho de propiedad privada

22. Aho-ra bien, dado que en materia de imposición sobre el consumo juega un pa-pel esencial la armonización fiscal comunitaria, debemos fijarnos en un con-texto más amplio, como es el que abarca la Unión Europea. Sería lo más fácil encontrarnos constituciones de Estados miembros de ésta donde sólo se habla del respeto al derecho de propiedad privada y no se habla expresa-mente de la no confiscatoriedad en materia tributaria. La consagración ex-presa de la prohibición de confiscatoriedad en materia tributaria no se prodiga en las constituciones europeas, pero puede derivarse de la protec-ción en las mismas del derecho a la propiedad privada, sin olvidar su co-nexión con la problemática del principio de capacidad económica. De otro lado, dentro del Derecho de la Unión Europea podemos encontrar una consagración del derecho de propiedad privada, aunque tampoco encon-tremos expresamente contemplado el principio de no confiscatoriedad a través del Sistema tributario. Esa consagración del derecho a la propiedad privada en el ámbito del Derecho de la Unión Europea podemos indivi-dualizar partiendo de que, según el Tribunal de Justicia de ésta, los princi-pios generales o derechos fundamentales que derivan de las Constitucio-nes de los Estados miembros forman parte también del Derecho de aquél-la. A ello se añade la consagración del derecho a la propiedad privada en la Carta europea de derechos fundamentales

23. En este texto de la Unión Eu-

22 Además de consagrar el derecho de propiedad, en el constitucionalismo sudameri-cano también podemos encontrar algún ejemplo de texto constitucional que hable expre-samente de no confiscatoriedad en materia tributaria. Así, la Constitución Venezolana de 1999 establece expresamente en su artículo 317 que «ningún tributo puede tener efectos confiscatorios».

Por otra parte, la jurisprudencia argentina se ha mostrado especialmente precisa a la hora de reconocer un límite cuantitativo a partir del cual un impuesto pasa a ser confisca-torio, concretando ese límite en el 33 por ciento. Y ello aun sin existir una referencia expre-sa en su texto constitucional a la prohibición de confiscatoriedad en materia tributaria.

Sobre la no confiscatoriedad en el ámbito fiscal a la luz del constitucionalismo sudame-ricano, puede verse NARANJO RENDÓN, La determinación o búsqueda de límites cuantitativos frente a los tributos confiscatorios, en www.monografías.com/trabajos27/sistemas-tributarios, 2005.

23 El Proyecto de Tratado por el que se quería establecer una denominada Consti-tución para Europa y que fue sustituido por el Tratado de Lisboa – que sacó de su texto el contenido de la citada Carta –, señalaba en el apartado 1 de su artículo II-77 lo siguiente:

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ropea 24 se habla a secas del derecho a la propiedad, sin ponerle expresa-

mente el calificativo de privada. Pero, obviamente, el sentido de tal texto y el contexto en el que se ubica dejan ver claramente, como no podía ser de otra manera en la disciplina comunitaria, que está haciendo referencia a la pro-piedad privada, núcleo esencial del propio concepto de propiedad.

Junto a ello, más allá de la disciplina de la Unión Europea, es necesario destacar que el Protocolo Adicional nº 1 al Convenio Europeo para la Pro-

«Toda persona tiene derecho a disfrutar de la propiedad de los bienes que haya adquirido legalmente, a usarlos, a disponer de ellos y a legarlos. Nadie puede ser privado de su pro-piedad más que por causa de utilidad pública, en los casos y condiciones previstos en la ley y a cambio, en un tiempo razonable, de una justa indemnización por su pérdida. El uso de los bienes podrá regularse por ley en la medida que resulte necesario para el interés gene-ral».

De todas formas, un texto similar lo podemos encontrar contenido en el apartado 1 del artículo 17 de la Carta de los derechos fundamentales de la Unión Europea, tanto en su versión 2000/C 364/01, como en su versión 2007/C 303/01, proclamada solemnemente el 12 de diciembre de 2007, un día antes de la firma del Tratado de Lisboa. De este modo, el contenido de la Carta intentaba incorporarse al fallido texto de Constitución Europea. De todas maneras, aunque no lo recoja ya expresamente, el Tratado de Lisboa hace una remisión expresa a dicha Carta, como veremos a continuación.

Por otra parte, en el quinto párrafo del Preámbulo de dicha Carta se señala lo siguien-te: «La presente Carta reafirma, dentro del respeto de las competencias y misiones de la Unión, así como el principio de subsidiariedad, los derechos que emanan en particular, de las tradiciones constitucionales y las obligaciones internacionales comunes de los Estados miembros, del Convenio Europeo para la Protección de los Derechos Humanos y de las Libertades Fundamentales, las Cartas Sociales adoptadas por la Unión y por el Consejo de Europa, así como de la jurisprudencia del Tribunal de Justicia de la Unión Europea y del Tribunal Europeo de Derechos Humanos».

24 A pesar del Tratado de Lisboa, podemos tener presente que la Declaración del Pleno del Tribunal Constitucional 1/2004, de 13 de diciembre de 2004, pronunciada en base al Requerimiento 6603-2004, formulado por el Gobierno de la Nación, acerca de la constitu-cionalidad de los artículos I-6, II-111 y II-112 del Tratado por el que se intentaba estable-cer una Constitución para Europa, firmado en Roma el 29 de octubre de 2004 (Primacía del Derecho Comunitario y alcance de la Carta de derechos fundamentales de la Unión Europea), en su fundamento jurídico 2 señaló que «la cesión constitucional que el art. 93 CE posibilita tiene a su vez límites materiales que se imponen a la propia cesión», añadiéndose a continuación que «esos límites materiales, no recogidos expresamente en el precepto constitucional, pero que implícitamente se derivan de la Constitución y del sentido esencial del propio precepto, se traducen en el respeto de la soberanía del Estado, de nuestras estructuras constitucionales básicas y del sistema valores y principios funda-mentales consagrados en nuestra Constitución, en el que los derechos fundamentales ad-quieren sustantividad propia (art. 10.1 CE), límites que, como veremos después, se respe-tan escrupulosamente en el Tratado objeto de nuestro análisis».

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tección de los Derechos Humanos y de las Libertades Fundamentales 25

establece en el primer párrafo de su artículo 1 que «toda persona física o moral tiene derecho al respeto de sus bienes», disponiéndose a continua-ción de lo anterior que «nadie podrá ser privado de su propiedad más que por causa de utilidad pública y en las condiciones previstas por la ley y los principios generales del Derecho Internacional». En el segundo párrafo de este mismo artículo se establece que «las disposiciones precedentes se en-tienden sin perjuicio del derecho que poseen los Estados de poner en vigor las leyes que juzguen necesarias para la reglamentación del uso de los bienes de acuerdo con el interés general o para garantizar el pago de los impuestos u otras contribuciones o de las multas». Este artículo 1 lleva por rúbrica «Protección de la propiedad»

26. El hecho de que se hable en este precepto al mismo tiempo de propiedad y de impuestos en modo alguno podría inter-pretarse en el sentido de que estos últimos pudiesen anular a aquélla, pues el-lo iría en contra del propio reconocimiento de la protección de la propiedad privada

27. Al mismo tiempo, es necesario destacar que el Tratado de la Unión Eu-

ropea ya estableció en el apartado 1 de su artículo 6 que «la Unión se basa en los principios de libertad, democracia, respeto de los derechos humanos y de las libertades fundamentales y el Estado de Derecho, principios que son comunes a los Estados miembros», disponiéndose en el apartado 2 de este mismo artículo 6 que «la Unión respetará los derechos fundamentales tal y como se garantizan en el Convenio Europeo para la Protección de los Derechos Humanos y de las Libertades Fundamentales firmado en Roma el 4 de noviembre de 1950, y tal y como resultan de las tradiciones constitu-cionales comunes a los Estados miembros como principios generales del Derecho comunitario». El apartado 8 del artículo 1 del Tratado de Lisboa por el que se modifica el Tratado de la Unión Europea y el Tratado consti-tutivo de la Comunidad Europea, firmado en Lisboa el 13 de diciembre de

25 Convenio también contemplado en el Tratado de Lisboa, como tendremos ocasión de comprobar.

26 Sobre el derecho de propiedad a la luz de este Convenio desde la perspectiva tributa-ria, véase PÉREZ ROYO, El derecho de propiedad y la prohibición de discriminación en su disfru-te como límites al poder tributario en el Convenio Europeo de Derechos Humanos, en la Revista española de Derecho Financiero, núm. 109-110, 2001, págs. 23 y ss.

27 Dentro de las Explicaciones sobre la Carta de los derechos fundamentales (2007/C 303/02), en el penúltimo párrafo de la explicación relativa al «derecho a la propiedad», se señala que «este derecho tiene el mismo sentido y alcance que el garantizado en el CEDH, no pudiendo sobrepasarse las limitaciones previstas en este último».

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2007, modificó el artículo 6 del Tratado de la Unión Europea. Tras dicha modificación, en el párrafo primero del apartado 1 del artículo 6 del Trata-do de la Unión Europea se pasó a establecer que «La Unión reconoce los derechos, libertades y principios enunciados en la Carta de los Derechos Fundamentales de la Unión Europea de 7 de diciembre de 2000, tal como fue adoptada el 12 de diciembre de 2007 en Estrasburgo, la cual tendrá el mismo valor jurídico que los Tratados». En el apartado 2 de esta nueva ver-sión del artículo 6 se establece que «La Unión se adherirá al Convenio Eu-ropeo para la Protección de los Derechos Humanos y de las Libertades Fundamentales. Esta adhesión no modificará las competencias de la Unión que se definen en los Tratados». Por último, en el apartado 3 de esta nueva versión del artículo 6 del Tratado de la Unión Europea se establece que «Los derechos fundamentales que garantiza el Convenio Europeo para la Protección de los Derechos Humanos y de las Libertades Fundamentales y los que son fruto de las tradiciones constitucionales comunes a los Estados miembros formarán parte del Derecho de la Unión como principios genera-les».

Pues bien, en concreto, dentro de la problemática de los derechos fun-damentales, en relación al derecho de propiedad, se puede partir de la Sen-tencia del Tribunal de Justicia de la Unión Europea de 13 de diciembre de 1979 (Asunto 44/79) y más recientemente se puede destacar la Sentencia del mismo Tribunal de 10 de julio de 2003 (Asuntos acumulados C-20/00 y C-64/00). En esta Sentencia se señala que «los derechos fundamentales forman parte de los principios generales del Derecho cuyo respeto garantiza el Tribunal de Justicia y que, para ello, este último se inspira en las tradicio-nes constitucionales comunes a los Estados miembros, así como en las indi-caciones proporcionadas por los instrumentos internacionales relativos a la protección de los derechos humanos en los que los Estados miembros han cooperado o a los que se han adherido», añadiendo que «dentro de este contexto, el CEDH reviste un significado particular». Se destaca en esta Sentencia entre los derechos fundamentales así protegidos el derecho de propiedad, señalándose en la misma que cabrían restricciones al ejercicio de los derechos fundamentales siempre y cuando «no constituyan, teniendo en cuenta el objetivo perseguido, una intervención desmesurada e intole-rable que lesione la propia esencia de esos derechos».

Así pues, en el Derecho de la Unión Europea, aunque no encontremos contemplado expresamente el principio de no confiscatoriedad a través del Sistema tributario, sí encontramos consagrado el derecho a la propiedad privada. Pero el impedir normas de la Unión Europea confiscatorias en ma-

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teria tributaria se consigue al hacer valer el respeto al derecho de propiedad privada, consagrado también, como exponemos, dentro de la disciplina ju-rídica de aquélla. Además, la contemplación de un derecho fundamental como éste se debe considerar parte del Derecho originario de la Unión Eu-ropea, al que debe someterse el Derecho derivado de ésta.

De esta forma, pues, las normas tributarias que emanan de las instituciones de la Unión Europea, ya sean para regular los recursos propios de ésta, ya va-yan dirigidas a la armonización fiscal, no pueden tener un contenido que pro-voque efectos confiscatorios en materia tributaria

28, pues con ello estarían violando un derecho fundamental integrante de la disciplina europea.

Por otra parte, en ocasiones los impuestos no persiguen como finalidad más directa el recaudar ingresos para hacer frente a los gastos públicos, sino el incidir sobre ciertos comportamientos del ciudadano, de forma que la carga económica del impuesto frene tales comportamientos, consiguiendo que el ciudadano limite o reduzca éstos para evitar en la medida de lo posible la ci-tada carga económica que suponen. Se trata de comportamientos cuya limi-tación debe encontrar amparo en algún precepto de la Constitución. El artículo 31.1 de ésta establece, como hemos visto, el deber de contribuir al so-stenimiento de los gastos públicos a través del Sistema tributario dentro del respeto de unos principios, que se recogen en el mismo precepto constitucio-nal. Pero, por ejemplo, dado que en otro precepto de la Constitución

29 se protege el derecho a un medio ambiente adecuado, se estaría legitimado un impuesto que en vez de tener como finalidad directa el recaudar ingresos públicos, tuviese como objetivo frenar ciertas actuaciones o comportamien-tos que puedan afectar al medio ambiente, de forma que los ciudadanos, para no cargar con el peso económico de ese impuesto, decidan o prefieran dejar de realizar el correspondiente comportamiento o actuación. En el fondo, para tratarse de un impuesto extrafiscal puro, el legislador tributario al establecerlo

28 Según FALCÓN Y TELLA «principios como la interdicción de la confiscatoriedad, el respeto a la propiedad privada y la libertad de empresa, que figuran en las Constituciones de todos los Estados miembros, constituyen también principios básicos del ordenamiento comunitario, que ha de respetar los derechos de los particulares derivados de dichos prin-cipios». Añade este autor que «dicho en otros términos, las instituciones comunitarias no pueden adoptar medidas que no habrían podido adoptar los parlamentos nacionales de ninguno de los quince Estados miembros, los cuales no podrían evidentemente establecer un impuesto confiscatorio» (La tasa suplementaria en el sector de la leche y de los productos lácteos: un impuesto confiscatorio y discriminatorio entre ganaderos, en Quincena Fiscal, núm. 17, 1997, pág. 6).

29 Artículo 45 de nuestra Constitución.

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debería tener como deseo principal el no recaudar nada, en vez de recaudar mucho. Ello supondría que no habría habido ningún comportamiento que hubiese afectado al medio ambiente, de los que podrían haber generado el devengo del impuesto. Así se habría cumplido la finalidad de proteger el me-dio ambiente y no se habría producido ninguna recaudación, no siendo ésta la finalidad del impuesto. Entre recaudar mucho y no recaudar nada, puede re-caudarse poco y cuanto menos se recaude en mayor medida se habrá conse-guido la finalidad perseguida por el legislador.

Con ello nos habríamos alejado de la finalidad propia o tradicional de los tributos, pero eso no quiere decir que se puedan desconocer en tales casos los principios de justicia tributaria consagrados en el artículo 31 de la Con-stitución y el resto de derechos y garantías constitucionales que deriven de otros preceptos de aquélla.

Lo que hemos descrito sería el caso de un impuesto extrafiscal puro co-mo se ha apuntado, es decir, de un impuesto con el que no se busca direc-tamente recaudar, sino que el mayor deseo sería que no se recaudase nada.

Pero en ocasiones se presentan por el legislador como extrafiscales im-puestos que no lo son totalmente, dado que con ellos, en función de la carga tributaria que representan y las actuaciones o situaciones sobre las que inci-den, no sólo se busca incidir en el comportamiento de los ciudadanos, sino también obtener una importante recaudación. Mezclándose ambas perspec-tivas, el legislador tributario no suele mantener un rigor coherente en tales casos, no sabiendo conjugar acertadamente los criterios en juego y ampa-rándose en una mayor o menor extrafiscalidad se intenta justificar una carga fiscal desmedida, que puede ser difícil reconocer como legítima.

En materia de imposición indirecta, los impuestos sobre consumos específicos tradicionalmente se han intentado presentar por el legislador, en mayor o menor medida, como extrafiscales, en el sentido de que vienen a provocar una mayor carga fiscal sobre ciertos productos porque el consumo de éstos puede resultar nocivo para la sociedad y cuanto mayor sea el peso económico de la carga fiscal sobre tales productos, mayor será el celo del contribuyente por limitar o reducir el consumo de los mismos. A veces el legislador, amparándose en esa pretendida extrafiscalidad, carga en demasía la fiscalidad de ciertos productos, aun siendo consciente de que por mucho que los cargue fiscalmente – dadas las condiciones de la sociedad actual, construida y dirigida por el Estado, como principal responsabile – el ciuda-dano no puede prescindir de ellos.

Si nos fijamos en la Ley 38/1992, de 28 de diciembre, de Impuestos Especiales, dentro de su Exposición de Motivos encontramos la referencia a

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ese corte extrafiscal de estos Impuestos. En concreto, en esa Exposición de Motivos se puede leer lo siguiente: «... los impuestos especiales de fabrica-ción que constituyen, junto con el Impuesto sobre el Valor Añadido

30, las figuras básicas de la imposición indirecta y se configuran como impuestos sobre consumos específicos, gravando el consumo de unos determinados bienes, además de lo que lo hace el IVA en su condición de impuesto gene-ral. Este doble gravamen se justifica en razón de que el consumo de los bie-nes que son objeto de estos impuestos genera unos costes sociales, no teni-dos en cuenta a la hora de fijar sus precios privados, que deben ser sufraga-dos por los consumidores, mediante una imposición específica que grave selectivamente estos consumos, cumpliendo, además de su función recau-datoria, una finalidad extrafiscal como instrumento de las políticas sanita-rias, energéticas, de transportes, de medio ambiente, etc.»

31. Esa finalidad extrafiscal resulta más creíble en relación a los Impuestos

sobre el Alcohol y Bebidas Alcohólicas y al Impuesto sobre las Labores del Tabaco, pues a nadie se le escapa lo nocivo que puede resultar el consumo de tabaco y de ciertas bebidas alcohólicas, a un determinado nivel, con el coste social que puede conllevar y que de algún modo se puede intentar compensar con actuaciones públicas que encuentren su referente, contra-partida o base económica al menos en parte en lo recaudado por tales im-puestos. Sea como fuere, a cualquiera nos resultaría difícil defender lo no nocivo o beneficioso del tabaco o de un excesivo consumo de ciertas bebi-das alcohólicas, con lo cual no es difícil verse legitimado para hablar de ex-trafiscalidad en relación a la fiscalidad del tabaco y de las bebidas alcohóli-cas, por muy conscientes que seamos de que ciertas personas, con adicción al tabaco, por mucho que se aumente la presión fiscal sobre este producto,

30 En adelante IVA. 31 En la práctica, la mayoría de los Impuestos Especiales llegan al consumidor final a

través de una traslación económica y no de una pura traslación jurídica, dado que se apli-can en fase única. Eso no quiere decir que no se deban tomar en consideración jurídica-mente a la hora de determinar la carga que soporta el consumidor, pues, como, por ejem-plo, se reconoce expresamente en el artículo 1 de la Ley de Impuestos Especiales, se trata de Impuestos que recaen sobre el consumo. Esto no quita que existan casos de traslación jurídica directa al consumidor; piénsese, por ejemplo, en el Impuesto sobre la Electricidad, que se repercute, junto con el IVA, al consumidor final, dado que la electricidad, mientras se mantiene dentro de las redes de transporte de energía, se encuentra en régimen suspen-sivo. De otro lado, en el Impuesto Especial sobre Determinados Medios de Transporte el sujeto pasivo es esencialmente aquel sujeto a cuyo nombre se matricula el vehículo y para consumir el vehículo hay que matricularlo y para matricularlo hay que acreditar el pago del Impuesto o su exención o no sujeción.

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no van a encontrar fuerzas para dejar de consumirlo o consumirlo en menor medida y conscientes también de que el consumo de ciertas bebidas al-cohólicas, aunque con moderación, incluso puede tener determinados efec-tos beneficiosos. Piénsese en todo lo bueno que se ha descubierto en rela-ción a un consumo moderado de una bebida como la cerveza en ciertas si-tuaciones. Y, de otras bebidas, con moderación, difícil es escapar hoy en de-terminadas situaciones de tradición social. Ahora bien, no está mal que quien abuse del consumo de éstas tema a su alto coste económico, acrecen-tado por la carga fiscal que soportan, pero que, al final, no hace mella en el bolsillo del rico, sino, como siempre, en el bolsillo del pobre; pero no es éste el momento de detenernos en las bondades de que la imposición directa siempre debería tener un peso mucho más evidente que la indirecta, a la luz de los principios constitucionales de justicia tributaria.

Pero volvamos aquí sobre lo más o menos extrafiscales que nos pueden parecer otros Impuestos Especiales, dejando ahora a un lado el Impuesto sobre la Electricidad, por su tipo de gravamen más bajo en proporción o en comparación con la carga fiscal de otros Impuestos Especiales y fijémonos en el Impuesto sobre Hidrocarburos y en el Impuesto sobre Determinados Medios de Transporte.

Existen dos tipos de bienes sobre los que el legislador tributario suele “cebarse” injustificadamente, intentando alcanzar una recaudación desme-dida, actuando de la forma en que, a primera vista, se resentirían menos ciertos sectores económicos o de la manera en que al ciudadano le que-darían menos alternativas para escapar de tal tributación. Se trata de los in-muebles y de todo lo relativo a la circulación rodada, centrada en los vehícu-los y los carburantes esencialmente. En el caso de los inmuebles, por mucho que se cargue fiscalmente a éstos el suelo físico no puede, en principio, cre-cer ni decrecer, es decir, hay el que hay. Por mucho que se cargue fiscalmen-te el suelo éste no desaparece.

Y algo similar sucede con el ámbito de los vehículos. Fijándonos en los impuestos indirectos, normalmente para conducir se hace necesario sopor-tar el IVA, el Impuesto sobre Determinados Medios de Transporte y el Im-puesto sobre Hidrocarburos

32, sin perjuicio de otros tributos, pudiendo ci-tar, por ejemplo, el Impuesto sobre las Primas de Seguros que necesaria-mente se soporta por el seguro del vehículo. Todo lo que incide fiscalmente

32 Además del, discutido por la Comisión de la Unión Europea, Impuesto sobre las Ventas Minoristas de Determinados Hidrocarburos.

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incide al final sobre el coste de cualquier producto, porque al final todos los productos se transportan y todos viajamos aunque sea en transporte público y en poco salva la alta presión fiscal en función de lo anterior el dato de que los vehículos de transporte no particulares estén no sujetos o exentos en el Impuesto sobre Determinados Medios de Transporte

33. Pues bien, tratándose de bienes y elementos necesarios para la vida diaria

de ciudadanos de cualquier nivel económico, habría que plantearse hasta qué punto es legítimo hablar de extrafiscal en relación a la imposición sobre los carburantes, cuando es algo de lo que es muy difícil prescindir, cuando la técnica aun no ofrece alternativas viables y asequibles para los ciudadanos de cualquier capacidad económica. Por mucho que se cargue fiscalmente no se puede prescindir de ello. Bajo ese parcialmente falso expediente de la ex-trafiscalidad se abusa fiscalmente del consumidor, cuando el legislador tri-butario es consciente de que el ciudadano en los elementos necesarios de su vida cotidiana no puede prescindir de ciertos consumos y de eso se apro-vecha el Estado.

Y en los ámbitos en los que tradicionalmente en conjunto la capacidad económica global de los contribuyentes suele ser más baja es donde pre-cisamente se hacen más necesarios esos consumos. Piénsese en las zonas ru-rales y sobre todo en las zonas rurales de menor volumen de población, donde el transporte privado se hace más necesario que en las grandes ciu-dades y por lo tanto no se puede dejar de soportar en mayor medida, en principio, el Impuesto sobre Determinados Medios de Transporte y el Im-puesto sobre Hidrocarburos. Al final estos impuestos terminan incidiendo en mayor medida en las zonas de menor nivel económico, zonas más necesi-tadas de ayuda y promoción.

Así pues, por una amplia serie de razones, creemos que no es convenien-te que la Hacienda Pública se siga “cebando” en los carburantes para obte-ner una fortísima recaudación, amparándose en ideas, trasnochadas o que nunca han sido totalmente verdaderas, basadas en una extrafiscalidad más que limitada y parcialmente errónea.

Las cuestiones apuntadas nos hacen ver que en ocasiones no son lo sufi-cientemente rigurosos los esquemas extrafiscales utilizados por el legislador tributario, pues se quieren cargar fiscalmente con bastante fuerza bajo esa apariencia ciertos productos, bajo el argumento de que esa mayor carga fiscal

33 Podemos tener en cuenta, por ejemplo, los autobuses como supuesto de no sujeción (art. 65.1.a.2º de la Ley de Impuestos Especiales) o los taxis como supuesto de exención (art. 66.1.a de la Ley de Impuestos Especiales).

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reduciría su consumo, pensando que el contribuyente desistiría de éste o lo limitaría. El problema es que se trata de productos de cuyo consumo el con-tribuyente no puede prescindir por mucho que se carguen fiscalmente, con lo cual el Sistema tributario se convierte en menos progresivo y menos justo, pues se trata de impuestos indirectos que sitúan en una posición cada vez más delicada a los sujetos de una menor capacidad económica global.

Pero dejando a un lado lo anterior, lo que nunca puede suceder es que el expediente de la extrafiscalidad se utilice por el legislador tributario para de-sconocer los principios de justicia tributaria consagrados en el apartado 1 del artículo 31 de la Constitución. Y así, dado que la extrafiscalidad puede llevar a situaciones de tributación desproporcionada, especialmente hay que vigilar que ésta no se utilice para intentar justificar el llegar a impuestos con-fiscatorios. El hecho de que un impuesto sea extrafiscal no le permite ser confiscatorio. Los principios de justicia tributaria del artículo 31.1 de la Constitución no deben desconocerse por el hecho de que se utilice el expe-diente de la extrafiscalidad.

El Tribunal Constitucional ha declarado que el establecimiento de «im-puestos de carácter primordialmente extrafiscal» debe realizarse «respe-tando las exigencias y principios derivados directamente de la Constitución (art. 31)»

34. Entre estas exigencias y principios también estaría la limitación de no poder crear situaciones confiscatorias

35.

34 Fundamento jurídico 13 de la Sentencia del Tribunal Constitucional 37/1987, de 26 de marzo. En el mismo sentido, puede verse el fundamento jurídico 4 de la Sentencia del Tribunal Constitucional 186/1993, de 7 de junio. Además es necesario destacar en relación a estas sentencias que en los citados fundamentos jurídicos de las mismas se menciona la confiscatoriedad en materia tributaria, rechazando que se dé en los supuestos que analizan, pero sin que el Tribunal Constitucional se haya preocupado en estas sentencias de aclarar cuándo los impuestos pueden resultar confiscatorios, perdiendo, como en otras sentencias (fundamento jurídico 11 de la Sentencia del Tribunal Constitucional 14/1998, de 22 de enero, fundamento jurídico 23 de la Sentencia del Tribunal Constitucional 233/1999, de 16 de diciembre, y fundamento jurídico 11 de la Sentencia del Tribunal Constitucional 194/2000, de 19 de julio), la oportunidad de contribuir a una mayor certeza para los opera-dores jurídico-tributarios en relación a los principios constitucionales de justicia tributaria y, en concreto, con respecto a la no confiscatoriedad en materia tributaria.

35 En este contexto, podríamos detenernos en la opinión de ESCRIBANO LÓPEZ, quien señala que «no será posible hablar de doble imposición, ni de solapamiento y, por consi-guiente, tampoco de vulneración del principio de capacidad económica, apreciando la exi-stencia de doble imposición, cuando se trate de tributos con fines fiscales, unos; y otros, en los que la causa eficiente sea de índole extrafiscal, es decir, se trate de impuestos de orde-namiento». Señala también al respecto este autor que «será entonces la finalidad extrafi-scal del tributo de referencia la que impida que pueda hablarse de solapamiento o doble

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Pues bien, en función de todo lo anterior, los impuestos extrafiscales de-ben respetar los principios constitucionales de justicia tributaria, por lo que, junto a los demás, el principio de no confiscatoriedad a través del Sistema tributario también juega en relación a la disciplina tributaria extrafiscal, di-sciplina que, como hemos apuntado, no siempre se aplica con el rigor debi-do, pues en ocasiones el expediente de la extrafiscalidad se predica de situa-ciones que no se prestan realmente a la misma.

Entre los ejemplos que podríamos poner de productos con una presión fiscal excesiva, se encontraría sin duda alguna el de los carburantes. Esto po-dría dar a primera vista una cierta idea de desprecio por ciertas dimensiones medioambientales. Nada más lejos de la realidad. Hacemos ciertas conside-raciones en el sentido de poner en evidencia un mal entendido o incorrecto planteamiento extrafiscal o desproporcionado en nuestra trayectoria impo-sitiva

36. La protección del medio ambiente no puede justificarlo todo y máxime

contra aquello que es muy difícil o casi imposible evitar por ciertos sujetos. La protección del medio ambiente no se debe hacer extralimitándose en la imposición sobre ciertos productos de los que una gran cantidad de sujetos,

imposición y, por consiguiente, escapar así del juicio de inconstitucionalidad por alcance confiscatorio» (La prohibición de alcance confiscatorio del sistema tributario en la Consti-tución Española, en la Revista española de Derecho Financiero, núm. 142, 2009, págs. 414 y 415). Frente a esta interesante opinión de Escribano López, deberíamos hacer dos tipos de observaciones. De un lado, que nuestro Tribunal Constitucional, como hemos visto, ha puesto de manifiesto cómo el hecho de que un impuesto sea extrafiscal no le exime de un cierto sometimiento a los principios materiales de justicia tributaria recogidos en nuestra Constitución. De otro, que los impuestos aparentemente presentados como extrafiscales a veces en el fondo buscan principalmente una finalidad recaudatoria.

36 Tanto desde la disciplina nacional, como desde la armonización fiscal de la Unión Europea, se intenta justificar una elevada presión fiscal en materia de carburantes bajo la perspectiva de la protección medioambiental, pero descuidándose paradójicamente en ambos ámbitos la estructuración de dicha imposición en función de la real potencialidad de emisiones de CO2; por ejemplo, se quiere tender hacia una equiparación de la carga fiscal del gasóleo con la de la gasolina, sin tomar en consideración las menores emisiones de CO2 de los vehículos diésel frente a los de gasolina, si partimos de vehículos de similar potencia. Todo ello presidido por una tradición de carga fiscal superior al precio del pro-ducto antes de impuestos, impulsada desde la Unión Europea y agravada por nuestro Estado que, aunque pueda estar por debajo de otros Estados europeos en la presión fiscal sobre los carburantes, también lo está en nivel de renta y de transportes públicos, sin per-juicio igualmente de encontrarnos en la periferia geográfica europea y de tener una pobla-ción rural con gran dispersión geográfica en zonas montañosas que dificultan el transporte público y fuerzan al transporte privado.

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en unas condiciones que no son las más cómodas o favorables, no pueden prescindir.

No lo analicemos todo desde los esquemas de una gran ciudad bien co-municada con el resto del país y con el extranjero y donde el metro y los trenes de cercanías dan unas grandes posibilidades de transporte, que con-vierten casi en ilógico el uso del propio vehículo. Pensemos en ciudades a las que se tarda más en llegar en tren que en autobús. Pensemos en las zonas rurales. Pensemos en todo lo que no es el centro de una gran ciudad.

Habrá carburantes altamente contaminantes y fácilmente sustituibles. En relación a éstos sí cabría una mayor carga fiscal. Pero en relación a los no sustituibles la presión fiscal no puede suponer aprovecharse de algo de lo que no puede escapar el sujeto, para que la Hacienda Pública obtenga una fácil recaudación alejada de los principios constitucionales de justicia tribu-taria.

Foméntese el desarrollo del ferrocarril y del transporte marítimo todo lo posible y no dejando zonas privadas de un desarrollo efectivo de aquél. Prohíbase la circulación rodada particular en las zonas o núcleos más frági-les o de mayor contaminación. Prohíbanse ciertas actuaciones contaminan-tes. Establézcanse limitaciones. Auméntense considerablemente las ayudas a la investigación y producción de vehículos y carburantes menos contami-nantes, hasta que se llegue a hacer a los mismos asequibles y viables para to-dos. A lo que no se puede llegar es a aberraciones ilógicas cargando fiscal-mente de una forma irracional productos de los que no se puede prescindir en formas de vida que, paradójicamente, se quieren promocionar o defen-der su mantenimiento. Pensemos, así, en la defensa de las zonas agrícolas o rurales dentro de la Unión Europea y del paradójico peso fiscal despropor-cionado que deben soportar en un elemento allí más que esencial como son los carburantes.

La forma en que se ha llevado hasta la fecha la vinculación de las ideas de fiscalidad y medio ambiente no ha sido la más correcta, justificando en el fondo en su contrapartida económica actuaciones lesivas del mismo. Es más, la trayectoria pública medioambiental no ha sido nada correcta, inten-tando con un rápido lavado de imagen corregir grandes errores silenciados del pasado. Hablamos de una política en materia de medio ambiente erró-nea no sólo en sede de fiscalidad.

Por todo ello, no queremos que los ejemplos que exponemos en este tra-bajo sean tomados como un desprecio por la perspectiva de la protección del medio ambiente, pues no habría nada más lejos de la realidad en nuestra intención. Entendemos, no sólo en el plano fiscal, que se puede mejorar y

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mucho la política medioambiental y su gestión económica. Es más, defen-demos un fortalecimiento de la misma que, por otra parte, nunca deberá servir para justificar situaciones irracionales en materia tributaria, ni desde una perspectiva nacional, ni desde una perspectiva comunitaria.

III. El límite en materia de confiscatoriedad

Para determinar la cuantía de un límite en relación a la imposición sobre el consumo, es necesario partir de que éste debe ser, en principio, un límite general, es decir, en relación o válido para la generalidad de los productos y servicios, sin perjuicio de otros posibles límites especiales, en función de la toma en consideración de ciertas circunstancias particulares o excepcio-nales. Así, tratándose de bienes y servicios de primera necesidad, o sea, bie-nes y servicios sin los cuales no se puede sobrevivir, es lógico que el límite se encuentre por debajo de un límite general. Piénsese, por ejemplo, en ali-mentos y sustancias sin las cuales no es posible la vida humana. Es decir, tratándose de bienes y servicios de primera necesidad, el respeto a los prin-cipios constitucionales de justicia tributaria nos obligaría a respetar un límite inferior al posible límite general que en relación a la imposición sobre el consumo se debería fijar atendiendo al principio de no confiscatoriedad en materia tributaria.

Pues bien, en atención a este principio, la imposición sobre el consumo se debería mover por debajo de un determinado límite general, porque, de no ser así, podría estarse restringiendo indebidamente las posibilidades rea-les de acceso a la adquisición de los bienes y, de esta forma, las posibilidades de acceso a la propiedad de los mismos. Sin poder acceder a la propiedad o adquisición de los bienes, en principio, no se pueden consumir éstos. Vol-vemos a ver la conexión de este problema con el respeto del derecho a la propiedad privada. Sin el respeto de ese límite general se violarían tanto el mantenimiento de la propiedad privada, como las posibilidades de acceso a la misma, desde una perspectiva de rigor conceptual.

Si para consumir – lo que normalmente implica adquirir la propiedad de lo que se consume – uno debiese destinar al consumo una cantidad de uni-dades monetarias de su patrimonio en medida tal que la carga impositiva con la que se queda el Estado es superior al valor económico de los bienes que se integran en su patrimonio, se estaría violando el principio de no con-fiscatoriedad en materia tributaria, pues se estaría lesionando el derecho de propiedad privada tanto en relación a su mantenimiento, como en relación

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a su adquisición. Consumiendo, el Estado se llevaría más de lo que nos que-daría, o, dicho de otro modo, adquiriendo, el Estado se llevaría más de lo que recibimos. Pensemos aquí en una adquisición de la propiedad sobre productos en un sentido amplio, pues casi todos los productos son en rigor y realmente objeto de propiedad. Es decir, no nos movamos aquí con un esquema tradicional limitado en materia de propiedad, pensando, como se hace normalmente al oír ese concepto, en la propiedad sobre inmuebles, que no es el mejor ejemplo para ilustrar la problemática que se quiere poner aquí de manifiesto.

En función de lo expuesto, el límite entendemos que debería fijarse en la no superación de un porcentaje del 100% del valor del bien

37. Y, de cara a una viabilidad práctica en su aplicación, por elevado que sea y dada la tradición impositiva que ha venido rigiendo en nuestro ámbito, aplicarlo tomando en consideración sólo la imposición sobre el consumo. Mezclarlo, en una prime-ra aproximación, con los porcentajes de imposición sobre la renta y el patri-monio, donde juegan tipos de gravamen progresivos, haría inviable su aplica-ción, dado que en estos otros impuestos sus tipos de gravamen determinan un porcentaje de tributación en función de la capacidad económica de cada sujeto individualmente considerado. Todo ello sin perjuicio de alguna consi-deración adicional que debamos hacer en relación a esos otros índices de ca-pacidad económica posteriormente, especialmente con respecto a la renta.

Así pues, centrándonos en la imposición sobre el consumo, planteándo-nos la carga fiscal que puede soportar un determinado producto, debemos entender que ésta no podrá ser superior al cien por cien

38, de forma que la

37 Aunque en relación a un tributo con una naturaleza muy particular y bien distinto de los impuestos que aquí nos vienen sirviendo de ejemplo, SOTRES MENÉNDEZ destacó que un «tipo del 115 por 100 del precio indicativo de la leche, reviste un claro carácter confi-scatorio» (Nuevo régimen de la tasa suplementaria en el sector de la leche y productos lácteos (sistema de cuotas lecheras), en Gaceta Fiscal, núm. 125, 1994, pág. 186). En similar sentido se pronunció FALCÓN Y TELLA en relación al mismo tributo, señalando que «es evidente que un impuesto del 115 por 100 es contrario a la capacidad contributiva, ya que resulta confiscatorio» (La tasa suplementaria en el sector de la leche y de los productos lácteos: un impuesto confiscatorio y discriminatorio entre ganaderos, cit., pág. 5).

38 En un alarde de inspiración, el Tribunal Constitucional en el fundamento jurídico 9 de su Sentencia 150/1990, de 4 de octubre, señala que sería «evidente el resultado confi-scatorio de un Impuesto sobre la Renta de las Personas Físicas cuya progresividad alcanza-ra un tipo medio de gravamen del 100 por 100 de la renta». Lo que sucede es que esa “pe-rogrullada” la manifestó el Tribunal Constitucional en materia de imposición sobre la ren-ta, mientras que el límite del 100% del que hablamos aquí sería un límite en materia de imposición sobre el consumo.

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carga fiscal que soporte el consumidor final de un producto no pueda ser superior a las cantidades que, por otros conceptos, esencialmente el precio, pague por el mismo. Así, en esencia, el impuesto que pesa sobre un produc-to no puede ser superior al precio del mismo.

El límite del 100% no podría jugar de la misma manera en materia de imposición sobre la renta y en materia de imposición sobre el consumo. Una tributación del 100% en la im-posición sobre la renta, obviamente en hipótesis de laboratorio, privaría al sujeto de cual-quier renta que después hubiese podido destinar al consumo, con lo cual se cerraría, en función de ello, la posibilidad de una posterior imposición sobre el consumo. De todos modos, en la práctica, aunque no se haya concretado en un determinado porcentaje, lo que está claro es que para no considerar la imposición sobre la renta como confiscatoria el tipo de gravamen debería estar bastante por debajo de ese límite del 100%, mientras que la imposición sobre el consumo, aun sin llegar a este límite, podría moverse, para ciertos pro-ductos, por encima del límite que se pudiese establecer para la imposición sobre la renta.

Por otra parte, en materia de imposición sobre la renta, la existencia de un mínimo exento (plasmado de una u otra manera, según el sistema fiscal de que se trate), ante un hipotético tipo de gravamen del 100%, haría que la tributación efectiva siempre estuviese por debajo de ese porcentaje, por muy alta que fuese, a lo que habría que añadir el juego, en el mismo sentido, de los otros tipos más bajos, dentro de la hipotética escala de tipos de gravamen. Pero, al margen de todo ello, tipos de gravamen muy altos en la imposición so-bre la renta desincentivarían la producción y tendrían unos efectos económicos difícilmen-te pensables.

De todos modos, parece excesivamente simplista el hecho de que el Tribunal Consti-tucional se permita decir que una tributación del 100 por 100 en el Impuesto sobre la Ren-ta de las Personas Físicas sería confiscatoria. Ante tal pronunciamiento del Tribunal Con-stitucional, YEBRA MARTUL-ORTEGA señala lo siguiente: «Lo que argumenta resulta obvio. Sólo en un Estado dictatorial cabe pensar que a uno se le despoje de sus rentas y propieda-des o se ponga una tarifa del 100 por 100 y eso cabe pensarlo respecto a unos pocos, pero no a todos. Un impuesto de ese tipo se cobraría una vez nada más, puesto que al año si-guiente no habría rentas ni propiedades para pagar, suponiendo que sobreviva el sujeto pasivo» (Constitución Financiera Española. Veinticinco años, Madrid, 2004, pág. 191).

Y es que parece sorprendente que un órgano como el Tribunal Constitucional realice unas consideraciones como las vertidas en la citada Sentencia 150/1990, consideraciones que SÁNCHEZ SERRANO califica de «peregrinas y pintorescas» (Tratado de Derecho Finan-ciero y Tributario Constitucional, I, Madrid, 1997, pág. 566, nota 97).

En todo este tema debemos pensar siempre no sólo en la carga fiscal provocada por un impuesto, sino también y esencialmente en las situaciones de plurimposición, en cuanto acumulaciones de impuestos sobre un mismo objeto de gravamen. Dentro del objeto de gravamen, recordemos la diferenciación que FERREIRO realiza entre el objeto material y el objeto fin del tributo, situando el primero en la riqueza efectivamente gravada por cada tributo, mientras que el segundo haría referencia a la riqueza que se quiere gravar, enten-dida como fin o fines del tributo (El objeto del tributo, en Revista española de Derecho Finan-ciero, núm. 10, 1976, págs. 229 y ss.). Del objeto del tributo ya se había ocupado FERREIRO en su obra Contribución Territorial Urbana: El objeto del tributo, en Hacienda Pública Española, núm. 22, 1973, págs. 24 y ss.

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Si un producto tiene un precio de 50, los impuestos indirectos que se acumulen sobre el mismo no deberían ser superiores a 50. De no ser así, se estaría destinando, ante el consumo, más unidades monetarias al Estado que a nuestra economía particular, violándose el derecho a la propiedad pri-vada. De este modo, si no se respetase ese límite del 100% se limitaría el ac-ceso a ésta, pues deberíamos destinar más unidades monetarias a la imposi-ción que las correspondientes al valor que entra en nuestro patrimonio y saldría de éste más del doble del valor de lo que vuelve al mismo.

Si, por ejemplo, para adquirir un determinado producto necesitásemos 100 unidades monetarias y 51 correspondiesen a la carga fiscal que soporta el producto y 49 al precio real del mismo sin impuestos, para adquirir tal producto saldría de nuestro patrimonio más del doble de lo que vuelve al mismo, aunque sea para su posterior consumo. Y ello por motivos fiscales. Esto es lo que se debería considerar confiscatorio por atentar contra el prin-cipio constitucional de no confiscatoriedad del Sistema tributario, no re-spetándose el derecho a la propiedad privada.

Obviamente, estamos hablando de un límite extremo dentro de una di-mensión constitucional. Estamos hablando de un límite de justicia dentro de la lógica constitucional. Pero desde una perspectiva de política econó-mica y de lógica económica qué duda cabe de que la economía de cualquier país y la economía de la propia Unión Europea se vendrían abajo si la fisca-lidad de todos los consumos o de la mayoría de los consumos se ajustase o acercase a ese límite general del 100%. Lo lógico, habitual y necesario económicamente es que la mayoría de los consumos soporten una carga fi-scal que se mueva muy por debajo del 100%, como realmente sucede.

Ahora bien, esto no quita la necesidad de ese límite para que la Hacienda Pública no se cebe indebidamente en la presión fiscal sobre determinados consumos de los que hoy día realmente no se puede prescindir. Los legisla-dores tributarios nacionales y las instituciones comunitarias deben respetar ese límite, para no caer en la injusticia de una presión fiscal irracional sobre determinados consumos de los que, en nuestro actual nivel de desarrollo, no se puede prescindir, afectando tanto a sujetos de elevada capacidad económica global, como a sujetos para los que ésta es baja, en el sin sentido de una tradición en la imposición indirecta. Y todo ello prescindiendo de abusivas utilizaciones del expediente de una extrafiscalidad en determinadas ocasiones sólo parcialmente real.

En otros supuestos la posibilidad de utilización del expediente de la ex-trafiscalidad es real, lógica y viable. Ello unido a la dimensión de que se trate en ocasiones de consumos en cierta medida superfluos o innecesarios po-

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dría legitimar, ante ciertas contadas situaciones, que se pudiese superar el referido límite del 100% fijado en relación a consumos necesarios. Una cosa es el consumo por placer, por decirlo de alguna manera, por muy “engan-chado” que se esté al mismo, y otra muy distinta el consumo en el que juega mayormente un elemento de necesidad.

Por ejemplo, no se puede poner a un mismo nivel el consumo de tabaco y de bebidas alcohólicas de alta graduación y el consumo de los carburantes necesarios para la circulación rodada habitual. Quizás en relación a los pri-meros la mayoría de la sociedad o, por lo menos, “un buen padre o una bue-na madre de familia” no tendría tanto inconveniente en aceptar como legíti-ma, en un plano de lógica constitucional de justicia, una tributación por en-cima del 100%, como con respecto al consumo de carburantes, donde ya el límite del 100% le parecerá alto, aunque un respiro en comparación con las situaciones que se han venido dando

39, sobre todo si para su vida normal y cotidiana no puede prescindir del vehículo propio al no disponer en su ámbi-to de unas redes de transporte público que cubran sus necesidades.

Piénsese en quien vive en zonas rurales, que suelen ser las más necesita-das, donde no se dispone de transporte público a cualquier hora o con de-stino a cualquier sitio, frente a quien viva, por ejemplo, en una gran ciudad. O piénsese también en quien no tiene la suerte de trabajar en el centro de la ciudad y la única forma de llegar a su trabajo es con su propio vehículo. A quienes tienen estos problemas, que no son pocos si pensamos en las zonas rurales, no les exijamos el mismo esquema mental enquistado en quien tie-ne una boca de metro a pocos minutos de su casa y el transporte público puede cubrir todas sus necesidades. El gasóleo y las gasolinas son “necesa-rios” o “muy necesarios” para gran parte de la población en el actual nivel de desarrollo de nuestra sociedad. Cosa distinta pueden ser ciertos hidrocarbu-

39 En relación a la carga fiscal que soportan los carburantes, sería necesario partir de los niveles mínimos de imposición establecidos en la Directiva 2003/96/CE del Consejo, de 27 de octubre de 2003, por la que se reestructura el régimen comunitario de imposición de los productos energéticos y de la electricidad (DO L 283, de 31 de octubre de 2003). A partir de ahí, deberíamos fijarnos en aquello en lo que pudiesen exceder, sobre esos niveles mínimos de imposición, los tipos de gravamen del Impuesto sobre Hidrocarburos en nue-stra Ley de Impuestos Especiales. A ello habría que sumar la carga fiscal que representa el Impuesto sobre las Ventas Minoristas de Determinados Hidrocarburos. También habría que añadir la carga fiscal que representa el IVA, aplicándose éste sobre el precio del pro-ducto y sobre las cuotas del Impuesto sobre Hidrocarburos y, posteriormente, sobre las cuotas del Impuesto sobre las Ventas Minoristas de Determinados Hidrocarburos (art. 78.dos.4º de la Ley 37/1992, de 28 de diciembre, del IVA).

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ros menos esenciales, altamente contaminantes y más sustituibles, donde la extrafiscalidad pueda jugar abiertamente determinando una mayor presión fiscal.

La lucha contra la contaminación ocasionada por el consumo de hidro-carburos “normales” no se debe hacer, ni desde los Estados, ni desde las in-stituciones comunitarias, ahogando fiscalmente a los mismos. Eso no lo puede aceptar, ni moralmente, quien tiene una buena posición económica en función de su cargo, ni mucho menos quien viaja en vehículo oficial, por muy al uso que esté el recurso a la frase de que alguien tiene que asumir la responsabilidad de las decisiones poco agradables.

Frente a esa falsa extrafiscalidad, pues en poco ayuda a la solución de los problemas que pretende combatir, la lucha contra la contaminación por car-burantes se debería hacer de otra forma. Se debería incentivar en mayor me-dida con subvenciones directas, por altas que éstas tengan que ser, la investi-gación y producción de biocarburantes y carburantes menos contaminantes y de vehículos aptos para su uso, a precios accesibles incluso a sujetos de ba-ja capacidad económica. Cuando cualquier sujeto pueda acceder a precios asequibles a vehículos no contaminantes y tales vehículos den unas presta-ciones en cierta medida similares a las de los actuales, entonces estará legi-timada una presión fiscal elevada sobre el gasóleo y las gasolinas; mientras no.

Mientras ese nivel de desarrollo tecnológico y de producción industrial no llegue, la solución no es ahogar fiscalmente el gasóleo y las gasolinas. Y no sirve siempre el argumento de la posibilidad o necesidad de la utilización del transporte público frente al privado, pues eso no es real en muchos casos y en la mayoría de las zonas de nuestro territorio; sobre todo es falso en las zonas menos desarrolladas y más necesitadas. Soluciónese, pues, el proble-ma con mayores ayudas y subvenciones directas a la investigación y produc-ción de biocarburantes o carburantes menos contaminantes y de vehículos aptos para los mismos, con unas prestaciones similares a las de los vehículos actuales – por lo menos similares a los de gama baja – y a precios accesibles incluso a los sujetos de baja capacidad económica. Subvenciones que deben venir tanto de la Unión Europea como de los Estados miembros.

Baste todo esto como ejemplos para distinguir unos productos a los que, de una u otra forma, no se les puede quitar el calificativo de necesarios, de otros en relación a los cuales se puede prescindir de tal calificativo. En rela-ción a los primeros se legitimaría totalmente la garantía de un límite máxi-mo del 100% en relación a su imposición, desde una perspectiva de justicia y lógica constitucional, mientras que el expediente de la extrafiscalidad pue-

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de justificar en algunos casos en relación a los segundos situaciones extre-mas en que ese límite se amplíe o crezca a un porcentaje superior. Pero aun en estos otros casos en que el límite se pudiese entender que podría sobre-pasar el 100%, tampoco podría ir mucho más allá. Es decir, aunque existie-sen circunstancias lógicas amparables constitucionalmente que permitiesen ante ciertos productos excepcionalmente una tributación por encima del 100%, tal tributación tampoco podría ir mucho más allá. Ello en función de que aquí se estarían destinando al consumo medios monetarios procedentes de unas ganancias que ya han tributado en la imposición sobre la renta.

Con similares esquemas lógicos, si en relación a un determinado Sistema fiscal

40, entendiésemos que en la imposición sobre la renta, sumados todos los impuestos que incidan sobre ésta, no pueda existir una tributación supe-rior al 50% para no ser confiscatoria

41, a ella se debería sumar la imposición sobre el consumo. De todos modos, en ese Sistema fiscal imaginario el 50% sería un límite a la progresividad y la mayoría de los sujetos se moverían por debajo del mismo. Pero en situaciones extremas, combinando el límite del 50% en relación a la imposición sobre la renta con el límite del 100% en re-lación a la imposición sobre el consumo, nos podríamos encontrar con si-tuaciones de laboratorio como la siguiente.

Un sujeto de elevada renta, que tributase a un tipo medio próximo al 50% en la imposición sobre la misma y que desee realizar un consumo de los que soportasen la presión fiscal más elevada, próxima al 100%, podría encontrarse con una situación irracional. De 100 unidades monetarias que hubiese ganado, aproximadamente 50 habrían tributado por la imposición sobre la renta y 50 las podría destinar al consumo apuntado. De estas 50 de-stinadas al consumo 25 podrían corresponder al valor de lo que va adquirir para poder consumirlo y 25 podrían corresponder a los impuestos que so-

40 Podríamos tomar en consideración al respecto el pronunciamiento del Tribunal Constitucional alemán en relación al límite de la imposición en su país. Sobre este tema véase HERRERA MOLINA, Una decisión audaz del Tribunal Constitucional Alemán: el conjunto de la carga tributaria del contribuyente no puede superar el 50% de sus ingresos. Análisis de la sentencia del BverfG de 22 de junio de 1995 y de su relevancia para el ordenamiento español, en Impuestos, II, 1996, págs. 1033 y ss.

41 En materia de imposición sobre la renta, para que no exista confiscatoriedad y se re-spete el derecho a la propiedad privada, el límite impositivo no sería del 100%, sino que debería ser del 50%. Si de la renta que recibiese un sujeto los poderes públicos se quedasen con más del 50% de la misma, prevalecería lo público sobre lo privado, dejando vacíos de contenido los referidos mandatos constitucionales. Ahora bien, en materia de imposición sobre el consumo el límite debería ser del 100% del precio del producto antes de impue-stos, para que no prevalezca lo público sobre lo privado en el acceso a los bienes.

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portaría ese consumo. De manera que de 100 que ganaba como renta, sólo disfrutaba realmente lo equivalente a un valor de 25, con lo cual en ese caso extremo de laboratorio la tributación global por el Sistema fiscal podría lle-gar a un 75% por esas 100 unidades monetarias.

Es una hipótesis extrema, que simplemente queremos utilizar para hacer ver que aun en aquellos supuestos en los que consideramos que la extrafi-scalidad y, si se quiere, cierta toma en consideración del elemento lujo, pu-diese justificar para el consumo de determinados productos excepcionales una presión fiscal superior al referido límite del 100%, tal presión fiscal su-perior no podrá ir mucho más allá de tal límite o ser muy superior al mismo, porque conjugada con una elevada presión fiscal sobre la renta en casos par-ticulares de sujetos de elevada capacidad económica se podría llegar a una presión fiscal global del Sistema tributario que llegase a unos niveles desor-bitados, aunque en supuestos excepcionales.

De otro lado, en aquellos supuestos en los que la base imponible se deter-mina en términos monetarios, partiendo ésta esencialmente del precio del producto, de forma que el tipo de gravamen consista en un tanto por ciento de la misma, resultaría más fácil la aplicación del límite descrito en el apartado anterior. Ahora bien, en aquellos supuestos en los que la base imponible no se determina en función del precio, sino en términos no monetarios, resultaría algo más difícil la aplicación del límite anterior. Se trataría de impuestos en los que la base imponible consistiese en el número de unidades, en el volumen de producto, en el peso de éste, en su poder energético, o en cualquier pará-metro similar no monetario. En estos impuestos el tipo de gravamen viene a consistir en una cantidad de dinero por un determinado número de unidades de producto, de volumen de éste, de peso del mismo, etc.

Tratándose de bases imponibles fijadas en términos monetarios, la cuota resulta fácilmente comparable con la base imponible, de manera que se pueda comprobar si aquélla supera el 100% de ésta. En realidad si se tratase de un único impuesto bastaría con fijarnos en el porcentaje del tipo de gra-vamen, viendo si es o no superior al 100%. De esta manera, consistiendo en tales supuestos la base imponible principal o esencialmente en el precio, se puede ver si la carga fiscal que pesa sobre el consumo del producto es o no superior a ese límite. Si son varios los impuestos que inciden sobre el con-sumo del producto y todos ellos parten de bases imponibles monetarias, fi-jadas esencialmente a partir del precio de aquél, habría que sumar las cuotas de todos ellos para determinar la carga fiscal que pesa sobre el producto

42.

42 No bastaría con sumar los porcentajes de los tipos de gravamen de todos los impue-

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La suma de las cuotas de todos los impuestos que incidiesen no debería su-perar el 100% del precio del producto.

Tratándose de una carga fiscal que va a ser soportada por el consumidor final debemos partir del precio del producto en la última fase del proceso de producción o distribución de éste, fase en la que el producto llega a aquél.

Cuando se trata de impuestos en los que la base imponible no se deter-mina en términos monetarios, habrá que fijarse también, obviamente, en el precio del producto en la última fase del proceso de producción o distri-bución del mismo, es decir, en el precio que paga el consumidor final. Se trataría de un precio general para el producto, es decir, el precio medio de mercado, no pudiendo atenderse al precio cobrado a cada contribuyente en particular por circunstancias particulares, pues eso haría prácticamente in-viable la puesta en marcha de la aplicación del referido límite.

Habrá que comparar la cuota con el precio del producto y ver que aquél-la no represente más del 100% de éste. Ahora bien, los tipos de gravamen suelen permanecer más constantes que los precios. Los tipos de gravamen, en la práctica, no suelen variar más de una vez al año, normalmente a través de las modificaciones introducidas por las Leyes de Presupuestos Generales del Estado, en virtud de la habilitación de la Ley tributaria a la Ley pre-supuestaria

43. Así, puede cambiar, con relativa facilidad para el legislador, el tipo de

gravamen anualmente, pero, frente a ello, los precios pueden variar capri-chosamente con más facilidad, en función de las situaciones de mercado, siempre que no se trate de precios fijados administrativamente por los po-deres públicos, en cuyo caso el precio lo determinarían éstos. Pero, como decimos, tratándose de precios libres, sólo sometidos a los vaivenes del mer-cado, pueden cambiar en cualquier momento.

Puede suceder que el legislador tributario haya establecido unos tipos de gravamen en función de los cuales la carga fiscal no sea superior al precio del producto en ese momento de su establecimiento, pero que la bajada del precio haya hecho que la carga fiscal se haya quedado por encima de aquél. Si el precio baja, el tipo de gravamen y, así, la cuota podrían quedar descom-pensados frente a aquél. Por ello, deben existir mecanismos de ajuste más o menos rápido de los tipos de gravamen a las bajadas del precio. Ello se po-dría hacer a través del Decreto-Ley. Pero, para prevenir esos cambios, el le- stos si éstos se aplican en distintas fases del proceso de producción o distribución del bien o servicio, pues en cada fase cambiaría el precio de referencia.

43 Cfr. el artículo 134.7 de la Constitución.

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gislador debería no fijar una carga fiscal demasiado próxima al precio, sino bastante más baja, de forma que cuando baje el precio la carga tributaria no quede demasiado alta con respecto al nuevo precio. Así, la carga fiscal siem-pre deberá ir más baja con respecto al límite, para que se pueda jugar con un cierto margen, de manera que no haya que proceder por vía de urgencia a las reformas legislativas necesarias para la reducción de los tipos de grava-men.

Y lo mismo se podría decir con respecto a las instituciones comunitarias en relación a las directivas de armonización fiscal, que también deberán ju-gar con cierto margen, siempre bastante por debajo del límite – si es que quieren aproximarse a éste –, para prevenir cualquier bajada de precios que descompense la relación entre la carga fiscal y el precio, que es la que hace que se respete el límite. Ello sin perjuicio de que las instituciones comu-nitarias también deban proceder con la correspondiente celeridad a las re-formas normativas que sean necesarias para el respeto a ese límite.

Pero siempre, como decimos, tanto el legislador estatal como las insti-tuciones comunitarias deberían no aproximarse demasiado al límite, jugan-do bastante por debajo para que un cambio brusco de los precios a la baja no provoque repentinamente una situación que suponga el no respeto del citado límite. Es decir, que se juegue con un margen que, como diría un ca-stizo, no determine que el legislador se pille los dedos, ante una bajada de precios. Ello sobre todo cuando se trata de precios muy cambiantes, en fun-ción de circunstancias más o menos imprevisibles. Aunque el simple dato de saber que se trata de productos con precios muy cambiantes ya reclama cierta previsión, consistente en jugar siempre con un amplio margen por debajo del límite. No actuar así supondría una labor de creación normativa irresponsable y temeraria.

Retomando la idea de la complejidad en la aplicación del estudiado lí-mite, sobre todo cuando se trata de impuestos con bases imponibles no mo-netarias, debemos destacar que pueden incidir sobre un determinado pro-ducto varios impuestos con bases imponibles no monetarias o al mismo tiempo impuestos con bases imponibles no monetarias e impuestos con ba-ses imponibles monetarias. Las distintas posibilidades de acumulación de impuestos, con las citadas formas de cuantificación de sus bases imponibles, aportan un elemento adicional de complejidad a la problemática descrita.

Dejando a un lado lo anterior, debemos volver sobre dos ideas expuestas, para aclarar hasta dónde confluyen y hasta dónde no, eliminando posibles erróneas apariencias. De un lado, hemos hablado de un 100% del precio del producto, antes de impuestos, como límite a la imposición sobre el consu-

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mo. De otro, hemos puesto de manifiesto el alto coste económico que so-portan los consumidores en relación a los carburantes, en función de la car-ga fiscal que existe sobre éstos. También hemos apuntado que, frente al I-VA, cuyos tipos de gravamen se fijan en un tanto por ciento de la contrapre-stación satisfecha, en los impuestos específicos sobre los carburantes los ti-pos de gravamen se fijan, esencialmente, en una cantidad por volumen de producto.

Con todo ello no queremos dar la impresión de que proponemos que en los impuestos específicos sobre los carburantes se pasase a establecer tipos de gravamen consistentes en un tanto por ciento del precio. Entendemos que ésta no sería una medida acertada, pues cuando se disparasen los pre-cios del petróleo eso multiplicaría también la presión fiscal sobre los carbu-rantes habituales. Cuando hablamos del referido límite del 100% lo hace-mos en el sentido de que tal porcentaje debe servir para poner en evidencia que la carga fiscal sobre los carburantes, aunque fijada en una cantidad por unidad de volumen, debe establecerse con suficiente margen por debajo de ese límite. Y ello buscando una prudencia económica, dado que cuanto más alta sea la carga fiscal sobre los carburantes, peor es el mensaje o imagen que se transmite a los países productores de petróleo, pues si a éstos se les hace ver que los consumidores pueden asumir una alta presión fiscal sobre los mencionados productos, tales países pueden entender que también podrán asumir la elevación del precio del petróleo fruto de sus recortes de la pro-ducción. Así, los productos de precios muy altos e inestables no son los más adecuados para soportar una elevadísima fiscalidad, como sucede con los combustibles habituales.

IV. Parámetros racionales

El principio de no confiscatoriedad aparece en el artículo 31.1 de nuestra Constitución predicado del Sistema tributario, por lo que el mismo jugaría en relación a tal Sistema en su conjunto. Pero, al mismo tiempo, hemos vi-sto la vinculación existente entre las ideas de no confiscatoriedad en materia tributaria y de propiedad privada. La interpretación de las mismas siempre deberá realizarse desde la perspectiva de la justicia, pues ésta, a partir del ca-lificativo de «justo» que aparece expresamente en el citado precepto de la Constitución, se convierte en un valor invocable en sí mismo en materia tri-butaria, resolviendo posibles dudas en la articulación de los demás princi-pios en juego. Pero, por muy indeterminada que pueda ser en sí la idea de

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justicia, hay ciertos elementos de los que es obvio que no se puede prescin-dir en su concreción, como puedan ser las ideas de lógica y racionalidad. Lo justo será siempre más difícil que aparezca como ilógico o irracional.

Como decimos, en relación al Ordenamiento tributario se habla en nue-stra Constitución de «sistema» y de «justo». Tales exigencias contenidas en el apartado 1 del artículo 31 del citado texto constitucional no podrán hacerse efectivas si no es desde la racionalidad en la estructuración de las di-stintas figuras tributarias.

En el análisis de la idea de racionalidad con respecto al Sistema tributa-rio es necesario partir de las consideraciones que realizó SAINZ DE BUJANDA, que no podemos sino recoger aquí, incluso en su literalidad

44. Distinguía este Profesor entre una «racionalidad interna» y una «racionalidad exter-na». Señalaba que «un sistema tributario sólo es racional si, acreditada la racionalidad interna de cada figura tributaria, acierta a asociarla a su ra-cionalidad externa, es decir, a su capacidad para combinarse armónicamen-te con las restantes modalidades de imposición que integran el conjunto». Destacaba este autor que «la racionalidad externa de un tributo consiste en su idoneidad para integrarse dentro del sistema, sin romper la racionalidad de este último, lo que acontece si cualquiera de las figuras impositivas que lo componen, al asociarse con las restantes, destruye los objetivos básicos del sistema, conculca los principios generales de justicia tributaria». Añadía que «la técnica para lograr esa racionalidad externa consiste en que el legislador, al establecer cada tributo, o al modificar sustancialmente uno preexistente, compruebe con rigor si puede ensamblarse sin violencia en el conjunto».

Todo esto llevaba a SAINZ DE BUJANDA a sentenciar que «la racionalidad no puede en modo alguno separarse del valor “justicia”, ni de otras exigen-cias – seguridad, certeza – asociadas a ella». Así, señalaba este autor que «un sistema tributario, en efecto, sólo es racional si es justo, y sólo puede ser justo si se adecua a las normas fundamentales y primarias del ordena-miento positivo, contenidas en el texto constitucional, y a los principios ge-nerales del Derecho, de raigambre iusnaturalista». Las palabras que hemos recogido de este Profesor, expresaban consideraciones que, como diría un castizo, no tienen desperdicio.

44 La Contribución Territorial Urbana. Trayectoria histórica y problemas actuales, Conse-jo General de Cámaras de la propiedad urbana de la Comunidad Valenciana, Valencia, 1987, págs. 5 a 15.

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Ante las dos perspectivas de la racionalidad mencionadas, interna y exter-na, es esta última la que más directamente se conecta a la idea de sistema, aunque ninguna de las dos puede desconocerse, obviamente, en la construc-ción del Sistema tributario.

Si verdaderamente queremos que el Sistema tributario sea precisamente eso, sistema, no puede consistir sólo en una acumulación de figuras, sino en un entrelazado armónico de las mismas. En la medida en que no sea una mera suma de tributos, sino un conjunto armónico de éstos, será mayor la racionalidad y, en función de ello, como hemos visto, también será mayor la justicia, que debe presidir el Ordenamiento tributario.

El análisis de si un Sistema tributario en su conjunto es confiscatorio o si atenta contra la capacidad contributiva global del sujeto puede resultar difícil. El análisis de estos problemas debe partir de la conformidad con los principios constitucionales de justicia tributaria de cada figura impositiva en particular. De ahí se debe pasar al análisis de la conformidad con la Consti-tución de las confluencias de impuestos sobre una misma manifestación de capacidad económica y, así, de los casos de plurimposición sobre un mismo objeto de gravamen.

Del análisis de un impuesto pasaríamos al de varios confluentes entre sí. Esto nos irá permitiendo un examen y una contemplación más estricta y ri-gurosa de la justicia del Sistema tributario en su conjunto. Como resultado de ello se podrían poner de manifiesto casos concretos de inconstituciona-lidad o entender que no se dan. Pero lo que sí se revelarían serían contables supuestos que, aun manteniéndose en los límites estrictos de una literalidad constitucional, rozarían el límite de la racionalidad, sistematicidad, buena técnica y orden del Sistema tributario en su conjunto.

Así pues, entendemos que una técnica útil para el análisis de la racionali-dad y constitucionalidad del Sistema tributario es comenzar por el análisis de la racionalidad y constitucionalidad de cada figura impositiva y de ahí pa-sar al análisis de las implicaciones de oportunidad técnica y constitucionali-dad de los casos de plurimposición, en cuanto confluencias concretas de impuestos, contribuyendo así a la comprensión y consideración más racio-nal del Sistema tributario en su conjunto.

Puede suceder que cada figura del Sistema tributario, aisladamente con-siderada, responda aparentemente al principio de capacidad económica. Pe-ro el Sistema tributario en su conjunto, ante irracionales acumulaciones de impuestos, podría llegar a suponerle al sujeto una contribución a los gastos públicos superior a la que se debería corresponder con su capacidad eco-

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nómica global, llegando a límites confiscatorios. De ahí la forma de actuar que se propone.

De otro lado, señala MOSCHETTI que «elementos de la racionalidad son la coherencia entre los fines que el legislador se ha prefijado y los medios utilizados para alcanzar tales fines, la coherencia entre las singulares disposi-ciones y el sistema en el que las disposiciones están situadas, la proporciona-lidad entre medios y fines, la proporcionalidad entre el sacrificio de un valor jurídico y la satisfacción de otros valores jurídicos»

45. Pues bien, cuando el legislador persigue una aparente finalidad extrafiscal muchas veces desem-boca en una situación irracional, cuando los medios utilizados no sirven pa-ra alcanzar dicho objetivo, tal y como hemos tenido ocasión de apuntar.

Así pues, las ideas de racionalidad y justicia deberán presidir la interpre-tación de las ideas de no confiscatoriedad y de propiedad privada en materia tributaria. De esta forma, la aplicación de estas ideas que no resulte racional difícilmente se podrá considerar justa.

Resulta muy difícil determinar si el Sistema tributario en su conjunto es o no confiscatorio. En función de todo lo expuesto, una tributación por todos los impuestos (no sólo los directos) superior al 50 por ciento de la renta to-tal del sujeto empezaría, en principio, a romper con los esquemas de lo que hoy la conciencia social reconocería como racional.

Pero, como decimos, aplicar ese límite del 50 por ciento al Sistema tribu-tario en su globalidad puede resultar muy difícil, ante la gran variedad de si-tuaciones que se pueden dar en la práctica y sobre todo al combinar la im-posición directa con la indirecta. Puede que un sujeto tenga una tributación global superior al 50 por ciento de sus rentas y que en su vida no efectúe ac-tos de consumo que le supongan soportar por éstos una carga tributaria su-perior al valor de lo que adquiere para consumir. También podemos encon-trar otros sujetos en relación a los cuales su tributación global por todos los impuestos directos e indirectos no supere el 50 por ciento de sus rentas y que para los mismos sí sea habitual la realización de actos de consumo en los que la carga tributaria soportada por éstos es superior al valor de lo que adquieren para consumir, de un modo u otro.

Por todo ello, en la búsqueda de la delimitación del principio de no con-fiscatoriedad, buscando esa racionalidad de la que hemos hablado, constru-yendo el esquema de un Sistema tributario justo, debemos comenzar por el

45 La razionalità del prelievo ed il concorso alle spese pubbliche, en Le ragioni del Diritto Tributario in Europa (Giornate di Studi per Furio Bosello), Università di Bologna, 2003, pág. 4, en www.berliri.giuri.unibo.it.

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análisis de cada figura tributaria y de las acumulaciones de impuestos sobre una misma manifestación de riqueza. Y, en atención a esa racionalidad, ni el Sistema tributario en su conjunto, ni cada impuesto aisladamente conside-rado, ni las situaciones de acumulaciones de impuestos sobre una misma manifestación de capacidad económica podrán resultar confiscatorios o atentatorios contra el derecho a la propiedad privada en su respeto en mate-ria tributaria.

Por ello, la lucha contra las situaciones de no confiscatoriedad en materia tributaria, entendiendo el respeto a la idea de propiedad privada de la forma más racional posible, debe comenzar por un análisis de cada figura impositi-va, determinando su confiscatoriedad o no y, de ahí, si es que aisladamente no resultasen confiscatorias, pasar a las acumulaciones de impuestos sobre una misma manifestación de riqueza, determinando igualmente si resultan o no confiscatorias. Y una vez determinada su confiscatoriedad estaría clara su inconstitucionalidad, aunque el Sistema tributario en su conjunto no llegase al límite descrito supra. Y, frente a ello, si el Sistema tributario en su co-njunto, en una amplia generalidad de contribuyentes, superase el citado límite, el mismo adolecería en gran medida de ser confiscatorio y, así, incon-stitucional, aunque sus impuestos o acumulaciones parciales de éstos no diesen esa imagen por separado.

Concretando todas las ideas expuestas y al margen de lo que pueda su-poner el Sistema tributario en su conjunto, la imposición sobre ciertos con-sumos por sí misma ya podría resultar confiscatoria. Así pues, ante el con-sumo de cada tipo de bienes en particular, debemos proceder determinando si cada impuesto aisladamente considerado puede resultar confiscatorio y si las acumulaciones de impuestos, es decir, si las situaciones de doble imposi-ción o plurimposición, sobre cada consumo en particular puedan resultar confiscatorias. Para ello, ni cada impuesto aisladamente considerado, ni las acumulaciones de impuestos sobre el consumo de un determinado tipo de bienes pueden representar una carga tributaria superior al valor de lo que entra en el patrimonio del sujeto, que es lo que puede ser consumido. Una violación de este límite supone romper con el respeto racional a la idea de propiedad privada. Para consumir saldría del patrimonio del sujeto más del doble de lo que vuelve al mismo. Para adquirir algún tipo de bien para con-sumirlo, la Hacienda Pública se llevaría más de lo que vale lo que adquiri-mos, con lo cual la propiedad sería más pública que privada. Se trataría de algo irracional y, como tal, claramente injusto. Ahí es donde entendemos, en función de todo lo expuesto, que se debe concretar el límite de la no con-fiscatoriedad en materia de imposición sobre el consumo y, así, del respeto

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al derecho de propiedad privada en este sector de la imposición, ana-lizándose, no sólo en relación al consumo en general en su globalidad, sino también en relación al consumo de cada tipo de bienes, cuya imposición, por sí misma, podría llegar a ser calificable de confiscatoria y, en función de ello, de inconstitucional.

V. La perspectiva de la Unión Europea

Las instituciones de la Unión Europea se presentan como responsables en gran medida de la intensidad alcanzada por la imposición sobre el con-sumo. Ésta representa el ámbito esencial, más importante o más desarrolla-do, dentro de su armonización fiscal. Dentro de los impuestos que inciden sobre el consumo destacan el IVA, como Impuesto general sobre el consu-mo

46, y los Impuestos Especiales, sobre consumos específicos. Tanto el IVA como la casi totalidad de los Impuestos Especiales se encuentran armoniza-dos conforme a directivas de la Unión Europea

47. En todos los Estados miembros de ésta debe aplicarse el IVA. Éste no es

totalmente idéntico en todos ellos, sino que de las instituciones de la Unión Europea han emanado una serie de directivas, que contienen unas directrices a las cuales cada Estado debe ajustar su IVA nacional. Cada Estado tiene su propia ley reguladora del IVA y el IVA de cada Estado es similar a los del resto de Estados miembros, pero no idéntico. El IVA no está totalmente armoniza-do y, entre las cuestiones en las que el IVA puede variar, dentro de ciertos límites, de un Estado a otro se encuentra la cuantía de sus tipos de gravamen.

Así pues, en las directivas de armonización fiscal se establecen unos objeti-vos o directrices a cumplir o seguir, que son plasmados, con cierto margen de libertad, por los Estados miembros en sus leyes nacionales, dentro de los límites y disposiciones marcadas por las instituciones de la Unión Europea.

La existencia del IVA en todos los Estados miembros se debe a un doble orden de motivos: de un lado, el IVA sirve de base a la articulación de un re-curso propio

48 de la Unión Europea; de otro, y primordial, si se quiere conse-

46 Aunque debemos recordar, por lo que concierne a nuestro Estado, que en las Islas Canarias y en Ceuta y Melilla no se aplica el IVA, siendo otros impuestos distintos los que inciden sobre el consumo en dichos territorios.

47 No es objeto de dicha armonización el Impuesto Especial sobre Determinados Me-dios de Transporte.

48 El IVA para los contribuyentes de los Estados miembros de la Unión Europea se pre-

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guir un mercado único comunitario, es decir, si se quiere que el mercado co-munitario funcione como un solo mercado y, así, como un verdadero mercado interior, es necesario que las normas fiscales esenciales que rijan en el mismo sean similares en todos los Estados miembros. Siendo el factor fiscal uno de los elementos esenciales que inciden sobre un mercado, si las normas fiscales que afectan al tráfico mercantil fuesen, a tal efecto, muy distintas en todos los Estados miembros de la Unión Europea, en la práctica nos podríamos encon-trar con tantos mercados como leyes fiscales diferentes y, así, podríamos en-contrarnos con tantos mercados como Estados miembros, con lo cual nos ale-jaríamos del objetivo de un solo mercado, un mercado único, un mercado in-terior. A ello debemos unir que con el IVA se consiguen objetivos de neutrali-dad fiscal y que con la armonización fiscal del lugar de realización del hecho imponible se evitan situaciones de doble imposición internacional, es decir, se evita que un mismo acto sea gravado a la vez por distintos Estados miembros.

Pues bien, la Unión Europea es actualmente responsable de la existencia del IVA y de los Impuestos Especiales de Fabricación

49. Estos impuestos no se encuentran totalmente armonizados. Ahora bien, las instituciones comu-nitarias suelen establecer unos tipos mínimos de gravamen armonizados, de senta como un impuesto indirecto, del que es acreedor el correspondiente Estado. Bien es cierto que, como hemos apuntado, las legislaciones nacionales sobre el IVA son el resulta-do de una armonización fiscal realizada a través de directivas comunitarias y que este Im-puesto sirve de base, como decimos, a la estructuración de un recurso propio comunitario. Pero este recurso de la Unión Europea, en sí mismo, no tiene naturaleza tributaria, aunque parta en su articulación de la existencia y aplicación por los Estados miembros de un tribu-to, como es el IVA. Así pues, el IVA, que se presenta como un impuesto indirecto para el contribuyente comunitario, sirve de base para la articulación de un recurso propio de la Unión Europea, que de cara a ésta consiste en una prestación que debe serle satisfecha por los Estados miembros, sin que pueda afirmarse la naturaleza tributaria de tal prestación. Sobre este tema, destaca FALCÓN Y TELLA que «el IVA comunitario no es un tributo ni un recargo que venga a superponerse sobre el IVA nacional», señalando que «en el recurso IVA, lo mismo que en las contribuciones financieras, la Comunidad ostenta únicamente un derecho de crédito frente a los Estados miembros, a percibir determinadas cantidades» (Introducción al Derecho Financiero y Tributario de las Comunidades Europeas, Madrid, 1988, pág. 308). De otro lado, MAMBERTO señala que «el IVA no es un tributo comunita-rio, en el sentido en que lo son los derechos aduaneros y los gravámenes sobre el azúcar, sino sólo un impuesto nacional armonizado» (L’IVA come risorsa propria delle Comunità Europee, en Diritto e Pratica Tributaria, núm. 6, Parte I, 1981, págs. 1519 y 1520). En el mismo sentido, véanse WALLACE, Las finanzas de las Comunidades Europeas (traducción de F. Lobo Aleu y A. Moltó), Madrid, 1982, págs. 110 y 111; y RUFIÁN LIZANA, Los ingresos de la CEE. Los recursos propios, en Estudios sobre armonización fiscal y Derecho presupuestario europeo, 2ª edición, Granada, 1987, págs. 548 y 549.

49 Además del Impuesto Especial sobre el Carbón.

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forma que en ciertos impuestos los Estados miembros deban aplicar como mínimo tales tipos de gravamen, de manera que se consigan determinados objetivos de competencia entre Estados, es decir, evitando que una diferen-cia muy acusada de tipos impositivos entre Estados miembros desplace cier-tas actividades hacia unos, en perjuicio de otros.

Por encima de los tipos mínimos de gravamen fijados en las directivas de armonización fiscal, al tratarse precisamente de eso, de mínimos, obviamente, salvo que la Unión Europea establezca unos máximos, los Estados miembros podrán incrementar tales tipos de gravamen en sus leyes nacionales. Al mi-smo tiempo, en principio, siempre que no se trate de impuestos sobre el vo-lumen de negocios similares al IVA, los Estados miembros podrán crear im-puestos nacionales sobre consumos específicos

50, además de las accisas o Im-puestos Especiales de Fabricación y del Impuesto Especial sobre el Carbón, armonizados éstos conforme a directivas de la Unión Europea.

Cuando se trata de impuestos armonizados conforme a directivas de ésta, los Estados miembros tienen el deber, en principio, de establecerlos en su territorio y de regularlos y aplicarlos conforme a las directrices recogidas en tales directivas. Junto a ellos, siempre que no se atente contra el Derecho de la Unión Europea, los Estados miembros podrán crear otros impuestos sobre consumos específicos.

Pues bien, es necesario plantearse, cuando la carga fiscal sobre el con-sumo de un producto pueda resultar confiscatoria, de quién es la responsa-bilidad de ello y, así, a quién le corresponde reducir los tipos de gravamen, a las instituciones de la Unión Europea o a los Estados miembros. Téngase en

50 Cfr. el artículo 401 de la Directiva 2006/112/CE del Consejo, de 28 de noviembre de 2006 (DO L 347, de 11 de diciembre de 2006), relativa al sistema común del IVA, que se corresponde con el antiguo artículo 33 de la Directiva 77/388/CEE del Consejo, de 17 de mayo de 1977, Sexta Directiva en materia de armonización de las legislaciones naciona-les relativas al IVA, habiendo sido sustituida esta última Directiva por aquélla. Sobre ese artículo 33 pueden verse, entre otros, FALCÓN Y TELLA, La compatibilidad del IVA con otros impuestos indirectos. STJCEE de 19 de marzo de 1991, en Impuestos, núm. 8, 1992, págs. 83 y ss.; MARTÍNEZ GARCÍA-MONCÓ, El concepto de impuesto sobre el volumen de ventas en el artículo 33 de la Sexta Directiva: Consolidación de una interpretación jurisprudencial. Comen-tario a la Sentencia del Tribunal Superior de Justicia de las Comunidades Europeas de 19 de marzo de 1991 (Asunto C 109/90, N. V. Giant vs. Commune d’Overijse), en Noticias/CEE, núm. 83, 1991, págs. 115 y ss.; RAMÍREZ GÓMEZ, Jurisprudencia del Tribunal de Justicia de las Comunidades Europeas en materia de Impuesto sobre el Valor Añadido. Estudio sistemático e incidencia en la regulación española del Impuesto, Pamplona, 1997, págs. 220 y ss.; ZORNO-ZA PÉREZ, Notas sobre el concepto de impuestos sobre el volumen de ventas en la Sexta Directi-va, en Noticias/CEE, núm. 19, 1986, págs. 31 y ss.

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cuenta que éstos están obligados a respetar lo dispuesto en las normas co-munitarias, no pudiendo contravenirlas.

Antes de resolver el citado interrogante, debemos plantearnos también, ante una carga fiscal sobre un determinado producto que pueda resultar confiscatoria, si lo que se debe reducir es el IVA o el impuesto que grava ese producto específico. Nosotros entendemos que el impuesto específico debe ceder frente al impuesto general, como es el IVA, pues si se actuase sobre éste se estarían, por decirlo de alguna manera, discriminando o diferencian-do en su tratamiento ciertos consumos frente a otros, en la disciplina de ese Impuesto general, por motivos ajenos a este Impuesto en sí. Así, creemos que sobre lo que se debe actuar, reduciéndola, es sobre la carga fiscal que representa el impuesto específico que grave el consumo de un producto en particular. De esta manera, lo primero que habría que hacer es reducir el ti-po de gravamen de dicho impuesto específico.

A su vez, es necesario determinar si ese impuesto específico se encuentra o no armonizado conforme a directivas comunitarias. Si ese impuesto espe-cífico, que entendiésemos como causante de una situación fiscal confiscato-ria, no estuviese armonizado conforme a directivas comunitarias, la respon-sabilidad sería estatal y sería el correspondiente Estado miembro quien ten-dría que reducirlo, es decir, reducir su tipo o tipos de gravamen y, en su ca-so, suprimirlo, si por mucho que se redujesen sus tipos de gravamen no de-sapareciese esa situación confiscatoria.

Si ese impuesto específico se encuentra armonizado conforme a directivas comunitarias, habrá que ver si el correspondiente Estado miembro lo ha regu-lado en su ley nacional con un tipo de gravamen superior al tipo mínimo fija-do por las directivas comunitarias; en tal caso, el Estado deberá reducir tal ti-po de gravamen hasta que desaparezca la situación confiscatoria, pudiendo ser necesario llegar hasta el mínimo fijado por las directivas comunitarias. Si el tipo de gravamen se ha fijado en el mínimo establecido en las directivas comunitarias o se ha reducido, en función de lo apuntado, hasta tal mínimo y aun así la situación fiscal sigue resultando confiscatoria, correspondería a las instituciones comunitarias la responsabilidad de reducir los tipos mínimos de gravamen previstos en las directivas de armonización fiscal.

Aquí estamos hablando de un deber o responsabilidad de reducir, cuan-do nos encontremos con la necesidad de actuar contra una situación deri-vada de normas ya existentes. Pero lo ideal sería que las autoridades nacio-nales y comunitarias no provoquen esas situaciones, es decir, que el legisla-dor estatal y las instituciones comunitarias antes de crear una norma anali-cen si sus efectos van a resultar confiscatorios y, por tanto, no la creen o la

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creen con unos tipos de gravamen más reducidos. Lo que sucede es que el mal actuar en materia de creación normativa al que nos tienen acostum-brados tanto los legisladores estatales como las instituciones comunitarias nos hacen pensar en mayor medida que lo más probable, usual o habitual es que sea necesario actuar contra una situación normativa ilegítima ya e-xistente.

La situación a resolver en función de los parámetros apuntados puede complicarse en la práctica en mayor medida. Así, podrían incidir al mismo tiempo tanto el IVA, impuesto general sobre el consumo, como un impue-sto específico armonizado conforme a directivas comunitarias y, al mismo tiempo, otro impuesto específico de autoría puramente nacional. La solu-ción habría que darla con los criterios de preferencia ya apuntados.

Pero no pensemos que tipos de gravamen aberrantes en cuanto excesivos sólo los podemos encontrar en relación a bienes o productos objeto especí-fico de impuestos armonizados conforme a directivas comunitarias, que de-terminen una situación fiscal después incrementada en mayor o menor me-dida por los legisladores tributarios nacionales.

También podemos encontrar ejemplos de impuestos exclusivamente na-cionales, que no hayan sido objeto de armonización fiscal, que por sí mi-smos pueden crear una situación confiscatoria en algún Estado miembro. Se trata de situaciones donde la responsabilidad es puramente estatal y no compartida entre el correspondiente Estado y la Unión Europea, aunque, en relación a ésta, siempre esté presente, en principio, el IVA, como impue-sto general sobre el consumo, armonizado conforme a directivas comunita-rias. Pero, como decimos, a la hora de resolver tales conflictos, tal y como hemos apuntado supra, siempre se debe actuar primero sobre el impuesto que grave el correspondiente consumo específicamente y no sobre el im-puesto general sobre el consumo.

Pues bien, fijándonos en la disciplina fiscal puramente nacional sobre el consumo específico de algún tipo de bienes, podríamos detenernos en un supuesto que, desde otra perspectiva, distinta de la que ahora analizamos, ha llegado, de todas formas, a la jurisdicción de la Unión Europea.

El Tribunal de Justicia de ésta, en su Sentencia de 17 de junio de 2003 (Asunto C-383/01), se ha pronunciado sobre una cuestión prejudicial plan-teada en relación a la lov om registreringsafgift af motorkoretojer (Ley danesa del impuesto de matriculación de los vehículos automóviles) en su versión codificada de 14 de abril de 1999. En concreto, se planteó tal cuestión pre-judicial con respecto al gravamen devengado al matricular por primera vez el vehículo en territorio danés, con un tipo del 105% sobre un primer tramo

7.

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y del 180% sobre el resto del precio 51. La base imponible del impuesto parte

del precio, incluyendo el IVA 52.

51 Tipos de gravamen como éstos ponen de manifiesto cómo para individualizar una si-tuación de confiscatoriedad no es necesario partir de una situación de plurimposición o acumulación de impuestos, pudiendo encontrar casos aislados de impuestos que por sí so-los podrían recibir tal crítica. De todos modos, en ese ejemplo del consumo de automóvi-les habría que añadir, como en relación a casi todo, la carga fiscal del IVA.

52 Nos encontramos así con una sobreimposición a la inversa de lo que sucede con aquellos casos provocados por el IVA en nuestro Ordenamiento (pero no en relación al Impuesto Especial sobre Determinados Medios de Transporte). Hablamos de sobreimpo-sición porque se trataría de la aplicación del tipo de gravamen de un impuesto a la cuota de otro.

Frente a esa forma de cuantificar la base imponible en el impuesto de matriculación danés, recordemos que en la base imponible de nuestro Impuesto Especial sobre Deter-minados Medios de Transporte no se incluye la cuota del IVA. En concreto, en el artículo 69,a) de nuestra Ley de Impuestos Especiales se establece que la base imponible de este Impuesto estará constituida «en los medios de transporte nuevos, por el importe que con ocasión de la adquisición del medio de transporte se haya determinado como base impo-nible a efectos del Impuesto sobre el Valor Añadido, de un impuesto equivalente o, a falta de ambos, por el importe total de la contraprestación satisfecha por el adquirente, deter-minada conforme al artículo 78 de la Ley del Impuesto sobre el Valor Añadido. No obstante, en este último caso, no formarán parte de la base imponible las cuotas del Im-puesto General Indirecto Canario satisfechas o soportadas directamente por el vendedor de medio de transporte».

Debemos tener en cuenta que el citado artículo 78.dos.4º de la Ley del IVA, en rela-ción a la inclusión de tributos en la base imponible de éste, establece que esto «compren-derá los impuestos especiales que se exijan en relación con los bienes que sean objeto de las operaciones gravadas, con excepción del impuesto especial sobre determinados medios de transporte». En el momento en que se redactó este precepto los únicos Impuestos Especiales que existían, al margen del Impuesto Especial sobre Determinados Medios de Transporte, eran los Impuestos Especiales de Fabricación y obviamente ese precepto, al hablar simplemente de «impuestos especiales», estaba pensando en ellos, es decir, en los Impuestos Especiales de Fabricación. De todos modos, el artículo no incluye la especifica-ción «de Fabricación», con lo cual el nuevo Impuesto Especial sobre el Carbón también debería considerarse comprendido en dicha previsión de inclusión de su cuota en la base imponible del IVA. Todo ello sin perjuicio de que el amplio abanico de beneficios fiscales que rodea al Impuesto Especial sobre el Carbón en nuestra Ley de Impuestos Especiales lo haga poco aplicable en la práctica.

Pero volviendo al supuesto del Impuesto Especial sobre Determinados Medios de Transporte, hemos visto cómo nuestra Ley del IVA excluye de la base imponible de éste la cuota de aquél. También debemos recordar que es habitual en la práctica que la cuota del Impuesto Especial sobre Determinados Medios de Transporte se pague al concesionario que nos vende el vehículo, encargándose éste de su ingreso a la Hacienda Pública. Incluso, en los precios que se ofertan en publicidad, es normal que vaya incluido el importe de la cuota del citado Impuesto Especial. No obstante, a diferencia de lo que sucede en España,

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El Tribunal de Justicia resolvió esta cuestión prejudicial sobre la base de la disciplina de la libre circulación de mercancías, a la luz del artículo 90 del Tratado CE, donde se prohibía que un Estado miembro grave directa o in-directamente los productos de los demás Estados miembros de la Unión Europea con tributos internos superiores a los que graven directa o indirec-tamente los productos nacionales similares. Se parte en ese asunto de la ca-rencia de producción nacional de automóviles en Dinamarca. No obstante, el Tribunal de Justicia declaró en esta Sentencia que el citado artículo 90 del Tratado CE debía interpretarse en el sentido de que no se oponía al referido impuesto.

En el asunto que sirve de base a esta Sentencia nos encontramos con

donde, como hemos visto, nuestra Ley del IVA aclara la cuestión, la citada situación ha provocado las correspondientes dudas en algún otro Estado comunitario; en concreto en Dinamarca, donde, como podemos apreciar, se ejerce una de las presiones fiscales más de-sorbitadas sobre los automóviles, poniéndose de manifiesto una desproporcionada vorágine impositiva. Pues bien, en relación a una cuestión prejudicial planteada por un ór-gano jurisdiccional de este otro Estado miembro, el Tribunal de Justicia de la Unión Eu-ropea, en el apartado 30 de su Sentencia de 1 de junio de 2006 (Asunto C-98/05) ha de-clarado que «en el marco de un contrato de venta en el que se prevea que, conforme al uso al que el comprador destine el vehículo, el distribuidor deberá entregar éste ya matriculado y por un precio que incluya el impuesto de matriculación que haya pagado antes de la en-trega, dicho impuesto, cuyo hecho imponible no reside en la mencionada entrega, sino en la primera matriculación del vehículo en el territorio nacional, no se halla comprendido en el concepto de impuestos, derechos, tasas y exacciones parafiscales en el sentido del artícu-lo 11, parte A, apartado 2, letra a), de la Sexta Directiva». Añade el Tribunal en este mi-smo apartado de esa Sentencia que «tal impuesto corresponde al importe recibido por el sujeto pasivo del comprador del vehículo, como reembolso de los gastos efectuados en nombre y por cuenta de este último, en el sentido del apartado 3, letra c), de la citada di-sposición». Recordemos que en el artículo 11.A.2.a) de la citada Directiva 77/388/CEE, entonces vigente, se establecía que «quedarán comprendidos en la base imponible: a) los impuestos, derechos, tasas y exacciones parafiscales, con excepción del propio Impuesto sobre el Valor Añadido». Al mismo tiempo, esa Sexta Directiva sobre el IVA establecía en su artículo 11.A.3.c) que «no se comprenderán en la base imponible: ... c) las sumas que un sujeto pasivo reciba del comprador de los bienes o del destinatario de la prestación en reembolso de los gastos pagados en nombre y por cuenta de estos últimos y que figuren en su contabilidad en cuentas específicas. El sujeto pasivo vendrá obligado a justificar la cuantía efectiva de tales gastos y no podrá proceder a la deducción del impuesto que, even-tualmente, los hubiera gravado». Como reflejo de esto en nuestra Ley del IVA, cfr. el artículo 78.tres.3º de ésta. Pues bien, esos preceptos de la antigua Sexta Directiva sobre el IVA mencionados en la citada Sentencia del Tribunal de Justicia de las Comunidades Euro-peas – y que sirvieron de base por su fecha a los correspondientes preceptos de nuestra Ley del IVA, que no ha sido necesario modificar al respecto – se corresponden respectivamente con los artículos 78.a) y 79.c) de la nueva Directiva 2006/112/CE ya mencionada.

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unos tipos de gravamen desmedidos, del 105% en un primer tramo y de un 180% en el segundo, sobre bienes también sometidos al IVA. En función de todo lo expuesto se trataría de un tributo que podríamos considerar confi-scatorio, en los términos utilizados por nuestra Constitución y, así, atenta-torio contra el derecho a la propiedad privada, en los términos comunes a la generalidad de las Constituciones europeas y a la dimensión comunitaria de los derechos fundamentales.

Pero el Tribunal de Justicia de la Unión Europea no entra en este pro-blema en la referida Sentencia, entre otras cosas porque no se le plantea y, seguramente, porque se trata de un tributo nacional no armonizado con-forme a directivas de aquélla. No obstante, sorprende el paso de este asunto por el Tribunal sin que éste ni siquiera haya realizado alguna alusión a lo ir-racional que resulta la situación fiscal contemplada, máxime cuando el dere-cho a la propiedad privada forma también parte de la disciplina de la Unión Europea.

Todo ello es fruto de una tendencia que ha crecido en el ámbito europeo de permitir, de una u otra forma, desde una instancia u otra, el desarrollo de una imposición indirecta desmesurada e ilógica, de la que es en gran medida responsable la propia Unión Europea, aunque en el ejemplo expuesto ese impuesto no sea de su competencia directa, es decir, aunque estemos aquí hablando ahora de un impuesto no armonizado conforme a directivas de aquélla.

Pero las instituciones de la Unión Europea, en relación a otros impuestos indirectos sí armonizados por las mismas, han ido desarrollando una irra-cional fortísima imposición indirecta, que crea una tendencia en la creación legislativa, de la que se contagian los legisladores nacionales, creando aber-raciones como el impuesto danés referido.

Ese excesivo fortalecimiento de la imposición indirecta impulsado por las instituciones de la Unión Europea, le da apariencia de legítimo a cual-quier exceso recaudatorio en este ámbito, lo que ayuda a que poco a poco los Estados miembros se escuden en tal tendencia, restando paulatinamente protagonismo a la imposición directa, imposición esta última de corte y competencia esencialmente nacional. Y se amparan en esa tendencia, tanto por lo que ya les viene hecho o dado por vía de armonización fiscal, como por aquello en lo que los Estados impulsan por sí mismos este tipo de impo-sición dentro de sus competencias.

Recapitulando, las páginas anteriores nos han dejado ver cómo la pro-blemática en estudio se mueve entre el ámbito puramente interno, pre-sidido por los principios y derechos constitucionales, y el ámbito de inci-

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dencia de la Unión Europea, en el que, como hemos apuntado, también tie-nen entrada los derechos fundamentales y, en concreto, dentro de los mi-smos, el derecho a la propiedad privada.

No es necesario insistir demasiado en cuestiones bien sabidas, como los principios que rigen la relación entre el Derecho de origen interno o Dere-cho nacional y el Derecho de la Unión Europea, concretados en la supre-macía de éste sobre aquél y en el efecto directo del mismo en los Ordena-mientos estatales. Incluso en relación a las directivas, abiertas a la actuación normativa posterior de los Estados miembros plasmando o desarrollando las directrices recogidas en aquéllas, se ha reconocido, no obstante, la posi-bilidad de eficacia directa de aquéllas

53. La supremacía del Derecho de la Unión Europea sobre el Derecho na-

cional ha resultado, obviamente, más pacífica en materia de normas de ran-go infraconstitucional. Mayor problema ha planteado la colisión de las normas constitucionales con las normas comunitarias, esencialmente en lo relativo a los derechos fundamentales.

En nuestra Constitución su artículo 93 permite la atribución a las institu-ciones comunitarias del ejercicio de competencias derivadas de aquélla. Siendo así, atribuido a tales instituciones el ejercicio de un determinado ámbito competencial, la regulación de éste quedaría en principio sometida a la disciplina jurídica comunitaria y no a las normas constitucionales a las

53 El instrumento fundamental para armonizar las legislaciones nacionales y, así, los or-denamientos tributarios de los Estados miembros de la Unión Europea, lo constituyen las directivas. Aunque éstas normalmente necesitan de una norma de adaptación del Derecho nacional para desplegar su plena eficacia en el mismo, no siempre tiene porqué ser así. Puede suceder que ante una directiva de armonización fiscal un Estado miembro no haya creado una norma de adaptación de su ordenamiento tributario a la directiva y que sin embargo ésta vea aplicado su contenido en el mismo, porque contenga una norma paralela a otra contenida en un Tratado de Derecho Comunitario originario, consiguiéndose el ob-jetivo perseguido por la directiva aplicando el contenido que se corresponde con el Trata-do. Puede suceder también, ante la falta de tal norma interna y sin que se dé esa circun-stancia anterior, que la directiva pueda tener eficacia directa porque exista una disposición nacional que se oponga a la misma, debiendo dejar sin efecto esa norma nacional al ser contraria a una norma comunitaria y en la medida en que la directiva resulte idónea para definir derechos que los contribuyentes puedan alegar frente al Estado. De esta forma lo ha reconocido el Tribunal de Justicia de las Comunidades Europeas, debiendo destacar como punto de partida en tal sentido su Sentencia de 19 de enero de 1982 (Asunto 8/81), Sentencia que ha tenido una gran relevancia en Derecho Tributario. Sobre la eficacia di-recta de las directivas de armonización fiscal, véase CAYÓN GALIARDO, FALCÓN Y TELLA y HUCHA CELADOR DE LA, La armonización fiscal en la Comunidad Económica Europea y el Sistema tributario español: Incidencia y convergencia, Madrid, 1990, págs. 668 a 672.

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que quedan sometidas las competencias de titularidad puramente interna. Esto podía suponer un grave problema hasta el reconocimiento de los dere-chos fundamentales en la disciplina jurídica comunitaria, pues éstos consti-tuyen un núcleo esencial en las Constituciones nacionales a los que resul-taría ilógico que los Estados renunciasen, a pesar de su atribución de com-petencias a la Unión Europea.

Pero, como decimos, el problema se va superando conforme en la disci-plina jurídica de la Unión Europea se va reconociendo y ampliando el elen-co de derechos fundamentales, ya sea por vía de la jurisprudencia del Tri-bunal de Justicia de aquélla, ya sea por vía de textos de Derecho Originario de la misma, tal y como hemos visto supra.

Todo ello puede no acabar totalmente con los problemas de colisión en-tre el Ordenamiento de la Unión Europea y las Constituciones nacionales y, en función de ello, entre las pretensiones de jurisdicción de los Tribunales Constitucionales de los Estados miembros y las del Tribunal de Justicia de la Unión Europea. Pensemos en que si un derecho fundamental se encon-trase reconocido en una Constitución nacional y no en el Derecho de la Unión Europea o bien si en aquélla se muestra con un contenido más am-plio que en este último, la defensa de tal derecho en su contenido más com-pleto, como se haría normalmente, en una perspectiva puramente interna, ante el correspondiente Tribunal Constitucional nacional, en la medida en que no pudiese tener la misma protección ante el Tribunal de Justicia de la Unión Europea, podría ocasionar situaciones ilógicas, con las consecuentes fricciones entre jurisdicciones que ello pudiese provocar.

VI. Reflexión final en materia de derechos fundamentales

Nosotros somos de la opinión de que, partiendo de una defensa de la evolución de la integración europea, la adhesión de un Estado a la Unión Europea no puede provocar nunca una merma en los derechos funda-mentales de sus ciudadanos, pues ello supondría una involución en el Dere-cho, contraria a la evolución constitucional de los Estados desarrollados y, así, de los Estados europeos. El ejercicio de competencias comunitarias al margen de las Constituciones nacionales o, si se quiere, la supremacía del Derecho de la Unión Europea sobre éstas, nunca debería menoscabar los derechos fundamentales, incluso en su contemplación más amplia. El mi-smo proceso de evolución normativa dentro de la Unión Europea, sea por vía de reconocimiento jurisprudencial, sea por vía de sus textos de Derecho

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Originario, deja ver una tendencia en tal sentido, que debe ser el criterio in-terpretativo inspirador de la resolución de cualquier problema puntual al re-specto.

Los derechos fundamentales alcanzan una dimensión europea y mun-dial, más allá de la Unión Europea y de las Constituciones nacionales, que nos sitúa en un terreno en el que sólo se puede ir hacia delante y nunca hacia atrás. Además, no hacerlo así, situaría a las Constituciones nacionales en una posición no muy acorde con el alcance con que la cesión de compe-tencias a las instituciones de la Unión Europea se hace en el sentir o inten-ción de los “pueblos” de Europa. La, aunque debilitada, existencia todavía del elemento soberanía lo impediría. El propio elemento soberanía podría ser todavía utilizado como criterio interpretativo al respecto, en atención al estado de evolución de la Comunidad Internacional y, más en concreto, del alcance de la integración de los Estados miembros de la Unión Europea.

Con este trabajo hemos intentado, pues, abrir una nueva línea argu-mental que en la práctica pueda ser utilizada en su caso en la actuación con-tra las situaciones descritas, ya sea en sede de Tribunal Constitucional, ya sea en sede de Tribunal de Justicia de la Unión Europea en los aspectos que quedan bajo la competencia de este último.

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Giuseppe Marini

NOTE IN TEMA DI RILEVANZA AI FINI DELL’IMPOSIZIONE SUI REDDITI DEL MAGGIOR

VALORE DELL’AVVIAMENTO DEFINITO IN SEDE DI IMPOSTA DI REGISTRO

SOME NOTES ON THE RELEVANCE FOR INCOME TAXATION OF THE INCREASED VALUE OF GOODWILL AS DETERMINED

FOR STAMP DUTY TAX PURPOSES

Abstract La diversità tra corrispettivo dichiarato ai fini delle imposte sui redditi e maggior valore di avviamento accertato ai fini dell’imposta di registro costituisce una pre-sunzione semplice, la cui gravità, precisione e concordanza non è determinata ex lege né può enunciarsi in virtù di conformi precedenti giurisprudenziali, ma deve emergere attraverso lo svolgersi del procedimento e il pieno esercizio di un’i-struttoria finalizzata all’imparziale rappresentazione della concreta realtà econo-mica del destinatario dell’accertamento. Parole chiave: avviamento, plusvalenza, cessione d’azienda, imposte sui redditi, imposta di registro, valore venale. The divergence between the goodwill’s value declared in the income tax return and the higher value assessed in the context of stamp duty tax, represents a rebuttable pre-sumption (prima facie evidence), whose gravity, precision and concordance are not determined by the law and neither is definable according to case law, but it emerges from the outcome of the proceeding and a comprehensive fact-finding activity aimed at depicting impartially the economic reality of the assessed taxpayer. Keywords: capital gain, company disposal operation, income tax, scamp duty tax, market value

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SOMMARIO: 1. Il quadro giurisprudenziale. – 2. Esame critico delle soluzioni pretorie. – 2.1. La tesi dell’au-tomatica rilevanza. – 2.2. La tesi dell’incidenza presuntiva. – 2.3. Presunzioni e onere della pro-va. – 3. Alcune considerazioni conclusive.

1. Il quadro giurisprudenziale

La questione della rilevanza ai fini delle imposte sui redditi del valore del-l’avviamento definito in sede di imposta di registro ha ricevuto differenti so-luzioni nella giurisprudenza di legittimità.

L’indirizzo prevalente, sia pure con una certa varietà di formulazioni, può essere così sintetizzato:

– l’amministrazione finanziaria è legittimata a procedere in via induttiva all’accertamento del reddito da plusvalenza patrimoniale relativa al valore di avviamento, realizzata a seguito di cessione di azienda, sulla base dell’accer-tamento di valore effettuato in sede di imposta di registro;

– grava sul contribuente l’onere probatorio di superare, anche mediante ricorso a elementi indiziari, la presunzione di corrispondenza tra il corri-spettivo della cessione del bene e il valore accertato definitivamente ai fini dell’imposta di registro, dimostrando di avere in concreto venduto ad un prezzo inferiore 1.

Tali principi risultano accolti dalle più recenti sentenze della Corte – nonostante i rilievi critici formulati dalla dottrina

2 e una certa incertezza e

1 Cass. n. 14581/2001; n. 21055/2006; n. 28791/2008; n. 21020/2009 e, da ultimo, Cass. n. 5078/2011, n. 23608/2011 e n. 27989/2011.

2 In dottrina, senza pretesa di esaustività, si veda: CORASANITI, La controversa (il)legit-timità della rettifica della plusvalenza da cessione d’azienda in base al valore di avviamento de-finito ai fini del registro, in GT-Riv. giur. trib., n. 8, 2010, p. 709 ss.; MANCUSO, Automatica trasposizione del valore accertato ai fini dell’imposta di registro nell’accertamento della plusva-lenza da cessioni di immobili, in Il Fisco, n. 45 del 6 dicembre 2010, pp. 7280 ss.; VANNINI, Cessione d’azienda: ancora in tema di contaminazioni tra imposta di registro e imposte dirette, in Dir. prat. trib., n. 4, 2010, pp. 2-879 ss.; BEGHIN, La differenza prezzo-valore rileva solo in una “vera” valutazione d’insieme, in Corr. trib., 2008, p. 2931 ss.; ID., Cessione di azienda e presunzione di corrispondenza tra prezzo e valore di mercato, in Corr. trib., 2008, p. 2849 ss.; ID., Il differenziale prezzo-valore nella cessione d’azienda: i cortocircuiti argomentativi della Suprema Corte, in Rass. trib., 2008, p. 1087 ss.; ID., Il trasferimento dell’azienda e l’imposizio-ne sulle plusvalenze nei recenti arresti giurisprudenziali: alla ricerca di punti fermi e di schemi generali di ragionamento, in Riv. dir. trib., 2008, II, p. 135 ss.; FICARI, La “circolazione” del-

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contraddittorietà che affiora tra i vari orientamenti. Una prima opinione, dalla quale muove la prevalente tesi giurispruden-

ziale secondo cui i valori dei beni rettificati ai fini dell’imposta di registro possono fondare accertamenti induttivi in materia di tassazione sui redditi, ritiene, infatti, che il valore definitivamente assegnato, ai fini dell’imposta di registro, all’avviamento nell’ambito del trasferimento di azienda, sia vinco-lante per l’amministrazione finanziaria nell’accertamento, ai fini delle impo-ste sul reddito, avente ad oggetto plusvalenze realizzate con lo stesso trasfe-rimento

3. Pur non essendo espressamente previsto un vincolo giuridico ad un valo-

re divenuto definitivo ai fini dell’applicazione di un altro tributo, né esisten-do nell’ordinamento una disciplina generale sull’accertamento di valore di beni o di atti economici ai fini dell’imposizione, tale vincolo – si afferma – deriva, comunque, dai principi costituzionali.

A questa posizione, che pur se radicale ha forse il pregio della coerenza ri-spetto alle conclusioni, in termini di estensione dei risultati accertativi, cui perviene, ha fatto, tuttavia, seguito nella giurisprudenza più recente un diver-so approccio interpretativo, per il quale «il valore dell’avviamento accertato definitivamente ai fini dell’imposta di registro non vincola in maniera assoluta l’amministrazione e il contribuente in sede di accertamento ai fini Irpef»

4. Una differente impostazione valorizza invece «l’esistenza nell’ordina-

mento del principio generale secondo il quale in un contratto con presta-zioni corrispettive si presume che tra le due prestazioni vi sia una propor-zione, tanto che è prevista una azione generale di rescissione per le ipotesi in cui ciò non si verifica»

5. Questa presunzione di congruità tra le prestazioni negoziali indurrebbe

l’azienda nella recente giurisprudenza tributaria, in Riv. dir. trib., 2008, II, p. 125 ss.; D’ANGELO, Note (critiche) sull’utilizzo del valore definitivo ai fini dell’imposta di registro per l’accertamento ai fini delle imposte sui redditi, in Riv. dir. trib., 2008, II, p. 59 ss.; BOCCALAT-TE, Spunti di riflessione sull’azienda ceduta, imposte di registro e sui redditi, in Giur. trib., 2008, p. 84 ss.; GIARETTA, Plusvalenze da cessione d’azienda tra corrispettivo e valore normale, in Corr. trib., 2007, p. 1803 ss.; CAPOLUPO, Valore venale e base imponibile Irpef: un rapporto difficile, in Il Fisco, n. 27 del 3 luglio 2006, pp. 4121 ss.; RENDA-STANCATI, Vincolanti i valori definiti per l’imposta di registro ai fini delle imposte sui redditi, in Corr. trib., 2002, p. 2360 ss.; RAVACCIA, Definizione di azienda e utilizzabilità del valore venale definito per l’imposta di re-gistro anche ai fini dell’Irpef, in GT-Riv. giur. trib., 2000, p. 168 ss.

3 Cass. n. 4117/2002. 4 Cass. ord. n. 7023/2010. 5 Cass. n. 14448/2000.

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una corrispondente presunzione di conformità tra i due valori fiscali (quello accertato ai fini del registro e quello ai fini dell’imposizione sui redditi sul corrispettivo negoziale), cosicché, nell’ipotesi di loro divergenza, l’ammini-strazione sarebbe legittimata a procedere ad accertamento induttivo median-te integrazione o correzione della relativa imposizione, mentre spetterebbe al contribuente, che deduca l’inesattezza di tale rettifica, superare la presun-zione di corrispondenza del prezzo incassato rispetto «al valore di mercato e quindi a quello accertato ai fini dell’imposta di registro»

6. Più di frequente, questa stessa conclusione si argomenta con sicurezza –

anche se in modo non sempre compiuto – sul cosiddetto “comportamento antieconomico” del contribuente; sulla presunzione secondo la quale un soggetto tassabile in base a bilancio si comporti in conformità alla comune prassi commerciale, non essendo ipotizzabile che quel soggetto “svenda” ad un prezzo inferiore a quello di mercato, che si assume cristallizzato nel valo-re accertato ai fini del registro.

La sommaria ricognizione dello stato della giurisprudenza pone quindi in evidenza come pure all’interno dell’orientamento, da taluni definito “gra-nitico”, consolidatosi nell’ultimo decennio si rinvengano oscillazioni e mo-tivazioni non sempre coerenti dalle quali si pretende di trarre le medesime implicazioni sul piano applicativo.

In una prospettiva diversa a quella ora ricordata (nel senso cioè di un ag-gravamento dell’onere istruttorio in capo all’amministrazione procedente) si colloca invece l’altro indirizzo – cui rimane legata la giurisprudenza di me-rito

7 e una isolata pronuncia (sent. n. 16700/2005) della Sezione tributaria della Cassazione, secondo cui i principi che presiedono alla determinazione del valore del bene trasferito sono diversi a seconda dell’imposta che si deve applicare, giacché in materia di registro viene in rilievo il valore di mercato del bene, mentre con riguardo alla plusvalenza realizzata nell’ambito del-l’impresa occorre verificare la differenza realizzata tra il prezzo di acquisto e il prezzo di cessione del bene medesimo.

Da siffatto rilievo consegue, come pure si afferma in qualche risalente de-cisione ministeriale

8, che i valori definiti in sede di applicazione dell’impo-sta di registro non possono rappresentare da soli elementi sufficienti per

6 Cass. ord. n. 22793/2010. 7 Comm. trib. prov. di Milano, sez. III, 17 maggio 2010, n. 202; Comm. trib. reg. del

Lazio, sez. XXVII, sent. 6 luglio 2007, n. 83; Comm. trib. reg. della Lombardia, sez. LXIII, sent. 30 gennaio 2007, n. 7.

8 Nota n. 9/2512 del 7 novembre 1980; Risoluzione Ministeriale 1° luglio 1980 n. 9/1437.

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giustificare una rettifica in contrasto con le risultanze contabili, ma possono essere vagliati nel contesto della situazione contabile ed economica dell’im-presa e, ove concorrano con altre indicazioni documentali o presuntive pre-cise e concordanti, possono costituire elementi validi per la determinazione dei redditi da accertare.

2. Esame critico delle soluzioni pretorie

2.1. La tesi dell’automatica rilevanza

Passando all’esame delle diverse opinioni affacciate in giurisprudenza, de-ve anzitutto escludersi la fondatezza della tesi che afferma l’automatica rile-vanza del valore definito in sede di accertamento dell’imposta di registro, ai fini dell’imposizione sul reddito d’impresa di plusvalenze conseguenti alla ces-sione di azienda e riferite all’avviamento

9. L’estensione dei risultati dell’accertamento acquisiti in ambiti impositivi

diversi, si assume fondata sull’affermata esistenza di un vincolo, per l’ammini-strazione finanziaria, direttamente discendente dai principi costituzionali di uguaglianza, d’imparzialità e di capacità contributiva (artt. 3, 97 e 53 Cost.).

Di tali principi infatti – spiega il giudice di legittimità – la Corte costitu-zionale ha fatto specifica applicazione, nella sent. n. 473/1995, per esclude-re che un medesimo bene possa subire una diversa valutazione ai fini del-l’imposta di registro e dell’INVIM:

– il principio di uguaglianza impone che se il valore dello stesso immobi-le viene riconosciuto per ragioni obiettive nei confronti di un debitore d’im-posta, esso non può essere diverso ove si tratti di un contribuente di un’altra imposta connessa e nello stesso contesto, che pur si riferisce al trasferimen-to dello stesso bene;

– il principio di capacità contributiva esige che la medesima situazione di fatto non può che essere rivelatrice della stessa capacità contributiva e, quin-di, dell’analogo prelievo fiscale;

– infine, il principio di imparzialità impone all’amministrazione finanzia-ria, in applicazione dell’art. 97 Cost., una uniforme valutazione del bene il cui

9 Accolta da Cass. n. 4117/2002. SEPIO, Limiti all’efficacia dell’accertamento tributario tra valore venale dei beni e corrispettivo pattuito (nota a Cass., sent. 22 marzo 2002, n. 4117), in Rass. trib., 2002, p. 1357; LUPI, Postilla a RENDA-STANCATI, Vincolanti i valori definiti per l’imposta di registro ai fini delle imposte sui redditi (nota a Cass., sent. 22 marzo 2002, n. 4117), in Corr. trib., 2002, p. 2365.

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trasferimento è colpito da diversi tributi, contrastando «col più elementare senso di giustizia che un medesimo bene, in un medesimo momento e con-testo possa avere agli effetti fiscali due valori diversi, a seconda del contri-buente dal quale ciascuna imposta è dovuta».

Le stesse conclusioni – ritiene la Cassazione – devono valere nella fatti-specie in esame: nella quale si tratta di un medesimo cespite, l’avviamento, il cui valore deve essere determinato da diversi organi della stessa amministra-zione, nello stesso contesto temporale e in relazione ad uno stesso atto eco-nomico (trasferimento di azienda), senza che le singole leggi d’imposta im-pongano speciali e divergenti criteri di determinazione del relativo valore.

Tale assunto non può essere condiviso. È innanzitutto da osservare, in termini generali, come non sia corretto rife-

rire al rapporto tra imposizione di registro (indiretta) sui trasferimenti e tri-buto (diretto) sui redditi quanto rilevato con riguardo al diverso rapporto tra INVIM ed imposta di registro. E ciò sia per l’esistenza di una norma, l’art. 6, comma 2, del D.P.R. n. 643/1972, che prevedeva un criterio di uniformità dei valori da utilizzare allo specifico fine dell’accertamento dell’INVIM e dell’im-posta di registro, sia per l’identità dei presupposti che caratterizza i predetti tributi, a dispetto della diversa ratio che legittima l’imposizione fiscale nel ca-so in esame: l’emersione e la tassazione della ricchezza trasferita nell’imposta di registro; la ricchezza prodotta nell’imposta sui redditi.

L’indirizzo in esame legittimerebbe, in definitiva, un rapporto di vincola-tività automatica tra imposte aventi diverso presupposto (l’an debeatur) e diversa base imponibile (il quantum debeatur).

Di qui il difetto della premessa argomentativa che pretende di trasferire i risultati interpretativi acquisiti con riferimento a forme di imposizione la cui disciplina presenta marcati profili di omogeneità e interdipendenza (speci-ficamente per quanto concerne i criteri giuridici di determinazione del valo-re imponibile) ad un differente ed autonomo meccanismo impositivo.

Più in dettaglio, la tesi dell’efficacia automatica sembra obliterare comple-tamente il dato normativo, da cui emerge, al contrario, come i criteri relativi alla determinazione del valore sono diversi a seconda dell’imposta applicata.

In caso di cessione d’azienda la base imponibile per il calcolo dell’impo-sta di registro è determinata dal valore venale in comune commercio, ossia il prezzo che, in normali condizioni di mercato, il cessionario sarebbe dispo-sto a pagare per l’acquisto dell’azienda. L’Ufficio competente controlla il va-lore sul quale è stata determinata l’imposta di registro considerando il valore complessivo dei beni che compongono l’azienda ceduta, compreso l’avvia-mento (art. 51, commi 1, 2 e 4, del D.P.R. n. 131/1986).

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Ai fini delle imposte sui redditi, concorrono alla formazione del reddito anche le plusvalenze derivanti dalla cessione di aziende, compreso il loro va-lore di avviamento, realizzate unitariamente a titolo oneroso; in tale ipotesi, la plusvalenza è costituita dalla differenza fra il corrispettivo conseguito e il costo non ammortizzato (art. 86, comma 2, del D.P.R. n. 917/1986). La pre-valenza del criterio del corrispettivo per la determinazione della plusvalenza realizzata in caso di cessione d’azienda è poi indirettamente confermata dal rilievo supplementare assegnato al criterio del valore normale, il cui utilizzo è limitato alle ipotesi di assegnazione dei beni ai soci o di destinazione a fi-nalità estranee all’esercizio dell’impresa

10. La tesi dell’efficacia diretta, portata alle estreme conseguenze, sembre-

rebbe, dunque, alludere, più ancora che ad un automatismo presuntivo, ad un vero e proprio “parametro legale” di determinazione della base imponi-bile – di creazione pretoria (e che si vuole desunto dai principi) – ulteriore e diverso da quello risultante dal diritto positivo.

In realtà l’affermazione di base di questo indirizzo è messa in crisi dalla innegabile constatazione che l’automatica sostituzione dei valori da assog-gettare a tassazione, come assunti dalle singole leggi di imposta, non rinvie-ne a fondamento, nella specie, alcun, pur necessario, aggancio normativo.

2.2. La tesi dell’incidenza presuntiva

Questa tesi, come accennato, risulta affinata in successivi arresti giuri-sprudenziali che, pur inclini, in principio, ad escludere forme di automatica trasposizione delle risultanze acquisite in materia d’imposta di registro alla diversa sfera di imposizione sui redditi (stante la specificità dei relativi crite-ri di determinazione dell’imponibile), pervengono, nella sostanza, a conclu-sioni non dissimili sul piano applicativo.

Cosicché, ripercorrendo nei suoi termini essenziali il percorso argomen-tativo seguito da questa giurisprudenza: a) per un verso, si ammette, in linea

10 Il riferimento al valore normale in materia di imposte sui redditi è circoscritto ad al-cune ipotesi: a) operazioni intragruppo poste in essere tra società collegate o controllate nazionali ed estere; b) determinazione della sopravvenienza da cessione del contratto di locazione finanziaria; c) scioglimento agevolato delle società non operative. A ciò si può aggiungere che l’art. 3, comma 41, della L. 23 dicembre 1996, n. 662, dispone che ai fini delle imposte sui redditi gli atti di assegnazione ai soci si considerano fatti per un valore non inferiore al valore normale. Un ultimo caso non riguarda la determinazione dell’impo-nibile ma costituisce una condizione per la spettanza di un determinato regime di ritenuta d’imposta: è il caso dell’allineamento del tasso di interesse al tasso di mercato.

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generale, che il valore dell’avviamento accertato definitivamente ai fini del-l’imposta di registro non vincola in maniera assoluta l’amministrazione nel-l’accertamento condotto in ambito reddituale, rilevandosi esattamente che per le imposte dirette opera il criterio del prezzo, mentre per le indirette la base imponibile è determinata con riferimento al valore, elemento differente dal corrispettivo; b) per altro verso, dalla premessa, talora elevata a “principio generale”, secondo cui nei contratti a prestazioni corrispettive si presume che tra le due prestazioni vi sia una proporzione, si fa discendere come necessaria conseguenza una presunzione di conformità tra valore “di mercato” come ac-certato ai fini del registro e corrispettivo incassato, con un conseguente occul-tamento di materia imponibile in ipotesi di loro divergenza.

Di qui la conclusione secondo cui, pur nella diversità dei criteri di deter-minazione dell’imponibile, l’amministrazione è legittimata a procedere in via induttiva all’accertamento del reddito da plusvalenza patrimoniale rela-tiva all’avviamento, realizzata con la cessione d’azienda, sulla base dell’ac-certamento di valore effettuato in sede di applicazione dell’imposta di regi-stro, con una conseguente inversione della prova a carico del contribuente, che rimane onerato di superare la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato al valore accertato in quella sede in via definitiva.

Anche questo indirizzo merita una valutazione critica, per una serie di ragioni.

Va innanzitutto riconsiderata l’affermazione che ricava, ai fini tributari, la presunzione di conformità tra valore definitivamente accertato per il regi-stro e corrispettivo negoziale dalla (ritenuta) necessaria equivalenza del va-lore economico delle prestazioni oggetto di scambio, che si assume connes-sa a un “generale principio” di giustizia contrattuale.

In disparte ogni considerazione circa l’applicabilità alla materia fiscale di principi ordinanti un diverso settore giuridico (con il quale indubbie sono le interrelazioni, anche reciproche), qui a risultare fragile è la stessa validità proprio nel sistema di riferimento della proposizione generale da cui questa elaborazione pretende di trarre dirette conseguenze ai nostri fini.

Pur non sottovalutando le tendenze evolutive della giurisprudenza più recente e gli sviluppi di una legislazione sempre più sensibile all’equilibrio delle posizioni delle parti (pervenendosi, in specifiche ipotesi, ad un sinda-cato sull’adeguatezza del corrispettivo anche al di fuori di condizioni di pa-tologia nella contrattazione), sembra comunque decisamente da escludere, in omaggio all’autonomia e alla libertà dei privati contraenti, l’esistenza di un principio generale di necessaria equivalenza oggettiva tra le contrapposte attribuzioni, che, secondo questa tesi, riceverebbe un’indiretta conferma dalla

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previsione dell’azione generale di rescissione per lesione. Che il principio sia invece quello della libertà contrattuale, da cui conse-

gue la tendenziale insindacabilità dell’adeguatezza economica dello scam-bio, risulta con chiarezza dal sistema. La disciplina della rescissione confer-ma che lo squilibrio economico dello scambio contrattuale non è rilevante, se non nei casi in cui la determinazione della misura di scambio risulti vizia-ta da circostanze anomale e penalizzanti (stati di pericolo e di bisogno). La regola è ribadita anche in ambiti disciplinari caratterizzati da specifiche fina-lità di protezione: l’art. 1469 ter cod. civ. precisa infatti che la qualifica di vessatorietà delle clausole predisposte di norma «non attiene … all’adegua-tezza del corrispettivo dei beni e dei servizi».

Si deve aggiungere che, in un’indagine che valorizzi la prospettiva della causa concreta accolta dalla giurisprudenza più recente, lo scambio (appa-rentemente) ineguale può trovare ragione in qualche elemento esterno ad esso ma ad esso legato, capace di compensarne il deficit economico e così rendere l’operazione appetibile per chi a prima vista ne esce sacrificato. In definitiva, il principio della causa in concreto può imporre di riconoscere che qui la causa non è semplicemente lo scambio tra il prezzo e il bene (tra cui può in ipotesi sussistere uno scarto anche rilevante di valore); ma è lo scambio tra il bene da una parte e dall’altra parte il prezzo più l’ulteriore elemento di convenienza che il venditore si attende dalla vendita, che può assumere per tale via specifica rilevanza causale.

Sulla base di queste considerazioni deve dunque negarsi l’esattezza della premessa su cui, secondo la cennata ricostruzione, si fonda il meccanismo presuntivo che legittima la ripresa a tassazione.

Ma a conclusioni non dissimili si giunge anche se dal piano dei principi – in realtà, come visto, carenti – ci si sposta a quello delle regole del buon sen-so o dell’id quod plerumque accidit, per il quale può risultare certamente fon-dato che la vendita del bene sia avvenuta ad un prezzo pari al valore, dal momento che lo scambio utilitaristico costituisce il paradigma dominante della razionalità sociale.

Non convince tuttavia l’ulteriore proposizione che si trova ripetuta nelle sentenze: la presunzione che un bene sia venduto al valore di mercato e quindi a quello accertato ai fini dell’imposta di registro.

L’equazione non è sempre vera perché – come non hanno mancato di ri-levare gli autori che si sono occupati dell’argomento

11 – non sempre e, co-

11 V., in particolare, BEGHIN, Occultamento di plusvalenze: confusione tra valore venale e valore definito per il registro, in Corr. trib., 2011, p. 1296 ss.

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munque, non necessariamente il valore commerciale dell’azienda (com-prensivo dell’avviamento) ed il valore definito ai fini dell’imposta di registro corrispondono, potendo anzi, in concreto, risultare differenti.

Rilevano al riguardo, innanzitutto, i metodi impiegati dall’amministrazio-ne finanziaria (e la discrezionalità entro cui la stessa si muove) nella deter-minazione dei beni oggetto di valutazione e, per quanto specificamente in-teressa, dell’avviamento.

In tema di imposta di registro, come accennato, a siffatta valutazione si procede «con riferimento al valore complessivo dei beni che compongono l’azienda, compreso l’avviamento»; il legislatore non fornisce, tuttavia, alcu-na indicazione o criterio utile ai fini della relativa quantificazione, limitan-dosi a precisare che «per gli atti che hanno per oggetto aziende o diritti reali su di esse, si intende per valore il valore venale comune in commercio».

Come noto, in mancanza di un’espressa definizione legislativa, il concet-to di avviamento è identificato nell’intrinseca qualità (immateriale) dell’im-presa di produrre valore: più che di un bene o di uno specifico elemento sin-golarmente valutabile, si tratta di un valore economico autonomo ed ulte-riore rispetto al valore complessivo dei singoli beni organizzati per l’eserci-zio dell’impresa, in grado di rappresentare la capacità di produrre valori ul-teriori rispetto alla ordinaria capacità produttiva

12. È del pari noto come le metodologie elaborate per determinare il valore

dell’avviamento sono molteplici e possono condurre a risultati non univoci in ragione dei differenti criteri di misurazione impiegati.

Lo riconosce in modo chiaro la giurisprudenza secondo cui la valutazio-ne della capacità di produrre reddito definita come avviamento «dipende da una valutazione complessiva della organizzazione aziendale che non deriva in via matematica dal valore dei singoli beni di pertinenza della medesima. Da tale caratteristica discende che non esiste un metodo unico per valutare l’avviamento, essendo ipotizzabili numerosi criteri tecnici applicabili, ed in effetti praticati», tra i quali quello di cui al D.P.R. n. 460/1996 ha carattere residuale ed è usualmente considerato quale soglia minima in mancanza di validi metodi alternativi

13.

12 Il principio contabile nazionale OIC 24 indica l’avviamento come «l’attitudine di un’a-zienda a produrre utili in misura superiore a quella ordinaria, che derivi o da fattori specifici che, pur concorrendo positivamente alla produzione del reddito ed essendosi formati nel tempo in modo oneroso, non hanno valore autonomo, ovvero da incrementi di valore che il complesso dei beni aziendali acquisisce rispetto alla somma dei valori dei singoli beni, in vir-tù dell’organizzazione dei beni in un sistema efficiente ed idoneo a produrre utili».

13 Cass. n. 26429/2010.

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Per altro verso, la divergenza tra i due valori può dipendere dal concreto atteggiarsi della vicenda procedimentale e processuale in capo a ciascuno dei coobbligati e conseguentemente dalle differenti fattispecie cui può per-venirsi in sede applicativa, sia per eventuali iniziative selettive operate dal-l’amministrazione finanziaria, consentite dal carattere solidale dell’obbliga-zione, sia per le scelte assunte dai singoli condebitori in sede accertativa o giudiziale (si pensi alle ipotesi di definizione concordata dell’accertamento, sulle quali possono incidere distinte e non coincidenti valutazioni di conve-nienza, che poco hanno a che vedere con l’esigenza di una quantificazione della pretesa tributaria conforme al parametro legale)

14. A ben vedere, queste considerazioni inducono un’ulteriore riflessione

sulle conseguenze cui l’affermazione di un rapporto di pregiudizialità, di re-ciproca dipendenza logico-giuridica tra fattispecie impositive in capo a più soggetti, anche per differenti ambiti di tassazione, dovrebbe condurre sul pia-no amministrativo e più specificamente della partecipazione e del contrad-dittorio procedimentale (con i connessi oneri strumentali di comunicazio-ne), nonché sul versante giurisdizionale, rispetto al quale, anche nella pro-spettiva dell’evoluzione del modello processuale da giudizio sull’atto a giu-dizio sul rapporto, sembrerebbe imporsi, ad esempio, una diversa valutazio-ne sulla sussistenza dell’interesse al ricorso e alla decisione in capo al ceden-te (si pensi al caso di intervenuta acquiescenza all’accertamento da parte del coobbligato), come anche sull’applicazione, quando ne ricorrano i relativi presupposti, di strumenti (come il litisconsorzio necessario e la sospensione per pregiudizialità

15 in grado di assicurare una tutela effettiva).

14 Svaluta la consistenza del rilievo Cass. ord. n. 18705/2010, secondo cui «in tema di accertamento del reddito d’impresa, il valore di mercato determinato in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro può essere legittimamente utilizzato dall’Am-ministrazione finanziaria come dato presuntivo ai fini dell’accertamento di una plusvalen-za patrimoniale realizzata a seguito di cessione dell’azienda, restando a carico del contri-buente l’onere di superare la presunzione di corrispondenza tra il valore di mercato ed il prezzo incassato, mediante la prova, desumibile dalle scritture contabili o da altri elementi, di avere in concreto venduto ad un prezzo inferiore (Cass. n. 4057/2007, n. 21055/2005). La circostanza che il valore nella specie accertato derivi da accertamento con adesione del-l’acquirente non muta evidentemente i termini della questione, restando salva la possibili-tà per il venditore di offrire la prova contraria».

15 In tema di litisconsorzio necessario nel processo tributario, successivamente all’arresto segnato da Cass., sez. un., n. 1052/2007, può rinviarsi a FICARI, Il litisconsorzio necessario tra novità giurisprudenziali e fattispecie tributarie, in GT-Riv. giur. trib., 2009, p. 839 ss.; BACCA-GLINI, Litisconsorzio necessario e solidarietà tributaria: corsi e ricorsi storici, in Corr. giur., 2007, p. 775 ss., con postilla di CONSOLO, … E pur si muove! Il giusto riparto fra coobligati solidali

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Tornando al precedente ragionamento, i rilievi formulati in dottrina sul-l’opinabilità dei risultati estimativi, resi incerti dall’obiettiva “sfuggevolezza” dell’elemento oggetto di valutazione e dalla relativa ampia discrezionalità, nella scelta dei criteri di quantificazione, riservata all’amministrazione, non-ché le più pregnanti considerazioni in ordine alle numerose variabili che, in sede applicativa, influenzano (in modo indipendente dalle condizioni emer-genti dal mercato) la definizione del valore fiscale, dimostrano l’insufficien-za del mero riferimento al dato relativo alla definizione ai fini dell’imposta di registro a costituire valido presupposto del processo inferenziale, idoneo da solo a fondare

16, ai fini dell’accertamento reddituale, una presunzione quali-ficata di occultamento del corrispettivo, prescindendo da qualsivoglia inda-gine in ordine agli elementi utili a caratterizzare, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, la complessiva operazione negoziale posta in essere dai privati.

Ciò che – come suggerisce un illustre Autore, invitando a rifuggire un’ec-cessiva astrazione e a privilegiare un approccio maggiormente pragmatico, legato all’individualità del caso concreto, tanto nell’elaborazione scientifica come nelle singole statuizioni dei tribunali – non significa rifiutare, in via di principio, rilevanza presuntiva alla sola differenza tra valore accertato e cor-rispettivo, richiedendo (come sempre necessario) il soccorso di diversi e ul- torna (per altra via) al centro del sistema; GLENDI, Le sezioni unite della Suprema Corte officiano i “funerali” della solidarietà tributaria, in GT-Riv. giur. trib., 2007, p. 189; FALSITTA, Presuppo-sto tributario unitario, giusto riparto e litisconsorzio necessario nella solidarietà passiva tributaria, in Riv. dir. trib., 2007, II, p. 167 ss.; RANDAZZO, Litisconsorzio necessario tra condebitori di im-posta sugli atti di divisione, in Corr. trib., 2007, p. 1002 ss.; CONSOLO, Per una nuova figura di litisconsorzio necessario nel processo tributario, in GT-Riv. giur. trib., 2007, p. 419 ss. Sulla so-spensione per pregiudizialità nel processo tributario si veda, senza pretesa di completezza, DELLA VALLE, Sospensione, interruzione ed estinzione del processo, in AA.VV., Il processo tributa-rio. Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da Tesauro, Torino, 1999, p. 606 ss.; GLENDI, Sulla travagliata esperienza della sezione tributaria della Corte di Cassazione in te-ma di pregiudizialità fra (e di sospensione necessaria dei) processi tributari, in GT-Riv. giur. trib., 2001, p. 1226; MARINI, Note in tema di sospensione del processo tributario, in Rass. trib., 2006, p. 1046 ss.; ID., Le vicende anomale del processo tributario, in DELLA VALLE-FICARI-MARINI (a cura di), Il Processo Tributario, Padova, 2008, p. 503 ss.; GRAZIANO, Accertamento unitario e sospensione del processo, in DELLA VALLE-FICARI-MARINI (a cura di), Il Processo Tributario, Padova, 2008, p. 527 ss.

16 Studio CNN n. 81-2009/T, I trasferimenti aziendali: questioni aperte, approvato dalla Commissione studi tributari il 4 dicembre 2009 (estensori Basilavecchia, Nastri e Pappa Monteforte), secondo cui se il valore definitivamente accertato ai fini dell’imposta di regi-stro non è automaticamente equiparabile al valore di mercato dell’azienda oggetto della cessione, non sussistendo alcun fatto noto, l’amministrazione finanziaria non potrà proce-dere in via induttiva alla rettifica del reddito da plusvalenza sulla base dell’accertamento effettuato in sede di applicazione dell’imposta di registro.

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teriori riscontri, ma piuttosto escludere che quel dato possa essere colto e valorizzato, come indice di evasione, in modo isolato, senza essere calato in una più comprensiva valutazione della reale «situazione economica, in tutti i suoi aspetti rilevanti»

17, che può essere adeguatamente lumeggiata solo at-traverso una compiuta istruttoria, assicurando nel contraddittorio procedi-mentale l’apporto partecipativo del contribuente, da vagliare nel percorso su cui si regge il provvedimento finale.

Dalle cose dette risulta, con una certa evidenza, l’incongruità di certe af-fermazioni giurisprudenziali, in ordine ai poteri di accertamento in capo agli Uffici e alla distribuzione dell’onere probatorio tra amministrazione e priva-to, alle quali, condividendo l’insegnamento sopracennato, può certo non ri-conoscersi validità generale, appunto perché legate alla peculiarità delle sin-gole fattispecie delibate, ma che finiscono, in ragione soprattutto dell’asso-lutezza con cui vengono proposte, per delineare un diritto vivente che, di fatto, condiziona la pratica amministrativa e l’applicazione giudiziale.

2.3. Presunzioni e onere della prova

E qui non può non condividersi l’osservazione, da più parti sollevata, che pone in rilievo come l’indirizzo giurisprudenziale consolidato, che legittima, senz’altro, l’accertamento motivato sul mero riscontro della differenza tra il corrispettivo dichiarato in atto e il valore dell’azienda definitivamente fissa-to per l’imposta di registro, trasferendo sul contribuente l’onere probatorio, si orienti secondo lo schema tipico della presunzione legale, operando una semplificazione procedimentale e un’attenuazione dell’obbligo motivazio-nale (dalla cui piena attuazione soltanto, nei termini sopra indicati, può in-vece emergere la specifica significatività, nel caso concreto, di quello sco-stamento), peraltro non autorizzate da precipua norma di legge.

Si obietta correttamente che, giusta il disposto dell’art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 600/1973, il procedimento inferenziale del quale l’ammini-strazione si avvale deve essere sorretto, in presenza di scritture contabili, che non siano state dichiarate inattendibili, da presunzioni munite dei necessari caratteri di gravità, precisione e concordanza, come previsti dall’art. 2729 c.c., escludendosi conseguentemente che il divario tra prezzo e valore possa da solo esaurire i passaggi richiesti dalla motivazione dell’atto (come avviene sulla base di una valutazione ex ante compiuta in sede legislativa), potendo

17 LUPI, Sentenze giuste, generalizzazioni sbagliate, postilla a DE LUCA, Riflessi sulle imposte dirette della definizione dell’avviamento ai fini del registro, in Dialoghi trib., 2011, p. 151 ss.

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piuttosto innestarsi in una catena argomentativa più estesa e funzionale alla individuazione del prezzo occultato

18. Questa impostazione, coerente coi principi, sembra trovare ulteriore con-

ferma in dati di carattere positivo, dai quali emerge come l’esigenza di sem-plificare l’attività accertativa e i connessi oneri istruttori in capo all’ammini-strazione passi di necessità per il tramite di un espressa opzione legislativa nel senso predetto (per contro non rinvenibile nel caso che occupa).

Come noto, in tema di accertamenti immobiliari, l’art. 24 della L. 7 luglio 2009, n. 88 (legge comunitaria 2008) – con l’esplicita finalità, risultante dal-la rubrica della disposizione, dell’adeguamento comunitario di previsioni tributarie interne

19 – ha riformulato gli artt. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 600/1973 e 54, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972, eliminando la presun-zione legale pro fisco in materia di imposte sui redditi ed IVA introdotta dal D.L. n. 223/2006, e con essa la possibilità per l’amministrazione finanziaria di fondare la rettifica esclusivamente sul rilevato scostamento tra il corrispettivo dichiarato per la cessione di beni immobili e il relativo valore normale.

L’introduzione della presunzione legale (questa sì, operata in modo espres-so) consentiva, come detto, agli Uffici di dimostrare l’occultamento di impo-nibile (ai fini delle imposte sui redditi e dell’IVA) in base alla sola divergenza tra corrispettivo dichiarato e valore normale del bene ceduto; mentre spostava sul contribuente l’onere di fornire la prova negativa, che tale divergenza non era frutto di evasione, attraverso elementi idonei a giustificare l’alienazione ad un corrispettivo diverso da quello espresso dalle condizioni di mercato.

Venuta meno la presunzione legale relativa, con l’abrogazione delle nor-me poste in favore della parte pubblica, lo scostamento dei corrispettivi di-chiarati per le cessioni di beni immobili rispetto al valore normale torna a costituire – come riconosce pianamente una recente nota della stessa ammi-nistrazione finanziaria – elemento presuntivo semplice, con la conseguenza che trovano applicazione le disposizioni di carattere generale in materia di ac-certamento di cui all’art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 600/1973 e al-l’art. 54, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972.

Col che le direttive impartite agli uffici divengono dunque le seguenti:

18 BEGHIN, La differenza prezzo-valore rileva solo in una “vera” valutazione d’insieme, cit. 19 L’intervento operato dal legislatore in sede di approvazione della legge comunitaria

2008 si è reso necessario, per quanto riguarda l’imposta sul valore aggiunto, a seguito del-l’invio da parte della Commissione europea di un parere motivato (procedura di infrazio-ne n. 2007/4575) con il quale la stessa aveva sollevato eccezioni di compatibilità della pre-detta disposizione con l’ordinamento comunitario.

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– valutare se le motivazioni degli accertamenti impugnati si dimostrino comunque adeguate o se, invece, alla luce dell’intervenuta modifica norma-tiva, si rivelino insufficienti così da richiedere l’abbandono dell’eventuale con-tenzioso in corso;

– verificare, in particolare, che, in sede di controllo, l’infedeltà del corri-spettivo dichiarato sia sostenuta, oltre che dal mero riferimento allo scosta-mento dello stesso rispetto al prezzo mediamente praticato per immobili della stessa specie o similari, anche da ulteriori elementi presuntivi idonei ad integrare la prova della pretesa;

– valorizzare la presenza di tali ulteriori elementi presuntivi, i quali, tra loro associati, siano idonei a sostenere la pretesa tributaria, tenuto conto, al-tresì, delle ragioni rappresentate dal contribuente

20. Ciò posto, le considerazioni surriferite in ordine alle scelte – funzionali

ad esigenze di semplificazione e rafforzamento della pretesa tributaria – già operate in sede legislativa in materia di accertamenti immobiliari, così come le indicazioni provenienti dall’amministrazione e conseguenti all’intervenu-ta variazione del quadro normativo di riferimento, forniscono un ulteriore supporto alla ricostruzione che si è sopra proposta con riguardo alla rilevan-za da riconoscere al valore dell’avviamento definito per il registro ai fini del-l’accertamento della plusvalenza connessa alla cessione aziendale.

3. Alcune considerazioni conclusive

In questa prospettiva, e in via di sintesi delle osservazioni sopra espresse in senso critico agli indirizzi prevalenti in giurisprudenza, vanno pertanto ri-baditi i seguenti punti.

Innanzitutto, l’identità, sostenuta dalla tesi più radicale, tra valore “venale” accertato per il registro e corrispettivo percepito non può affermarsi se non sulla base di un preciso dato di diritto positivo, nella specie mancante, che legit-timi a trasformare il primo valore in un mezzo di determinazione del reddito.

La diversità tra corrispettivo dichiarato e maggior valore di avviamento, ed in generale dell’azienda, definito ai fini dell’imposta di registro costitui-sce, piuttosto, una presunzione semplice, la cui gravità, precisione e concor-danza non è ex lege determinata né può enunciarsi in virtù di conformi pre-cedenti giurisprudenziali, ma deve emergere attraverso lo svolgersi del pro-

20 Circ. 14 aprile 2010, n. 18 - Agenzia delle Entrate - Direzione Centrale Affari Legali e Contenzioso.

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cedimento e il pieno esercizio di un’istruttoria che, non limitata al mero ri-scontro formale, sia finalizzata all’imparziale rappresentazione della concre-ta realtà economica del destinatario dell’accertamento. Di contro, l’automa-tismo dell’accertamento – come altrove si riconosce nella giurisprudenza di legittimità – eluderebbe lo scopo precipuo dell’attività accertativa che è quel-lo di giungere alla determinazione del reddito effettivo del contribuente in coerenza con il principio di cui all’art. 53 Cost.

Per altro verso, ciò non vale ad escludere, in via di principio, che la diver-genza del corrispettivo rispetto al valore accertato possa da sola risultare si-gnificativa ad attivare la presunzione di occultamento di una parte di prezzo – richiedendosi sempre il supporto e l’integrazione di elementi ulteriori in-diziari – fermo restando «l’onere dell’Ufficio, sul piano della correttezza del potere amministrativo, … di valutare imparzialmente la situazione econo-mica in tutti i suoi aspetti rilevanti, e quindi offrire un contraddittorio pro-cedimentale al contribuente, per farne valere altri»

21. Sotto quest’ultimo profilo, si coglie allora l’insufficienza dell’atto di ac-

certamento che si esaurisce nel mero rilievo dello scostamento con il valore definito per il registro. La gravità, precisione e concordanza riferibile alla presunzione basata su quello scostamento deve emergere da un quadro ne-cessariamente più complesso, nel quale assumono rilevanza, anche nel sen-so della loro necessaria considerazione in sede di motivazione, gli apporti col-laborativi e difensivi forniti dal contribuente nella sede del procedimento.

D’altra parte, la valorizzazione della partecipazione del contribuente alla fase di formazione dell’atto di accertamento mediante un contraddittorio preventivo, finalizzato a verificare l’adeguatezza del rilevato divario a fonda-re una ricostruzione presuntiva della plusvalenza, consente anche di atte-nuare le forti perplessità alle quali l’affermata inversione dell’onere probato-rio si espone, soprattutto considerate le limitazioni che caratterizzano il re-gime delle prove ammesse nel processo tributario.

A conclusione di queste brevi riflessioni un dato sembra emergere in mo-do certo: che in tale materia nessuna opinione può assumersi come general-mente valida o infondata, prescindendo nella ricostruzione amministrativa e processuale della fattispecie impositiva dalla peculiarità del caso concreto. Di-remmo piuttosto che l’unico indirizzo da rifiutare – sul quale sembra invece adagiarsi la lunga serie di sentenze passata in esame, e che rischia di tradursi nei discutibili automatismi procedimentali azionati dagli Uffici – sia proprio quello di un acritico appiattimento a una massima giurisprudenziale.

21 LUPI, Sentenze giuste, generalizzazioni sbagliate, cit.

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GIURISPRUDENZA

SOMMARIO: Corte di Giustizia UE, sez. I, 8 settembre 2011, cause riunite da C-78/08 a C-

80/08 – Pres. Tizzano, Rel. Kasel, con nota di A. Marinello, Regimi imposi-tivi differenziati e società cooperative secondo la Corte di Giustizia UE (Different tax regimes and cooperative societies according to the Court of Justice of the European Union)

Corte cost., 25 luglio 2011, n. 247 (udienza del 5 luglio 2011) – Pres. Quaranta, Rel. Gallo, con nota di L.P. Murciano, Raddoppio dei termini per l’accerta-mento, potere impositivo e tutela del contribuente (Tax assessment’s dupli-cation of terms, taxing power and taxpayer’s protection)

Cass., sez. I, 4 novembre 2011, n. 22931 (udienza del 12 ottobre 2011) – Pres. Proto, Rel. Zanichelli, con nota di P. Mastellone, La non falcidiabilità del credito IVA nel concordato preventivo prescinde dalla presenza della tran-sazione fiscale (The full payment of VAT in the pre-bankruptcy agreement is necessary also without “fiscal transaction”)

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Corte di Giustizia UE, 8 settembre 2011, cause da C-78/08 a C-80/08

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Corte di giustizia UE, sez. I, 8 settembre 2011, cause riunite da C-78/08 a C-80/08 – Pres. Tizzano, Rel. Kasel

Società cooperative di produzione e lavoro – Regime fiscale previsto dall’ordi-namento italiano – Agevolazioni – Trattato Ue – Art. 87, n. 1 – Aiuti di Stato – Condizioni necessarie – Qualificazione – Selettività e proporzionalità della mi-sura – Accertamento – Competenza del giudice nazionale.

Le misure fiscali di vantaggio concesse alle società cooperative di produzione e lavoro

in virtù degli artt. 11-14 del D.P.R. n. 601/1973, nella versione in vigore fino al 1993, possono essere qualificate come “aiuto di Stato” ex art. 87, n. 1, del Trattato Ce solo se le condizioni di applicazione della disciplina comunitaria, consistenti essenzialmente nella selettività della misura controversa, nell’incidenza sugli scambi tra Stati membri e nella distorsione della concorrenza interna al mercato comune, risultano integralmente soddi-sfatte. Di conseguenza, secondo il giudice comunitario, spetterà al giudice del rinvio opera-re una valutazione sul carattere selettivo delle agevolazioni, sulla loro eventuale giustifica-zione alla luce della natura o della struttura generale del sistema tributario nazionale nel quale si inseriscono e la loro conformità ai principi di coerenza e proporzionalità.

(Omissis). – 1. Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione

dell’art. 87 CE e del principio del divieto di abuso del diritto in materia tributaria. 2. Tali domande sono state sollevate nell’ambito di tre controversie nelle quali so-

no contrapposti, rispettivamente, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agen-zia delle Entrate alla (A) Soc. coop. arl (in prosieguo: la «(A)») (C-78/08), la (B) Soc. coop. arl, in liquidazione (in prosieguo: la «(B)»), all’Agenzia delle Entrate e al Ministero dell’Economia e delle Finanze (C-79/08), nonché il Ministero delle Finan-ze al sig. (C) (C-80/08), relativamente a domande dirette ad ottenere varie esenzioni fiscali di cui beneficiano le società cooperative di produzione e lavoro in applicazione del diritto tributario italiano.

Contesto normativo Il diritto dell’Unione 3. Il 10 dicembre 1998 la Commissione delle Comunità europee ha pubblicato una

comunicazione sull’applicazione delle norme relative agli aiuti di Stato alle misure di tassazione diretta delle imprese (GU C 384, pag. 3; in prosieguo: la «comunicazione sulla tassazione diretta delle imprese»), con lo scopo di chiarire taluni aspetti nel set-tore degli aiuti di Stato sotto forma di misure fiscali.

4. In seguito all’adozione del regolamento (CE) del Consiglio 22 luglio 2003, n. 1435, relativo allo statuto della Società cooperativa europea (SCE) (GU L 207, pag. 1), la Commissione, nella comunicazione 23 febbraio 2004 al Consiglio, al Parlamen-

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to europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni sulla promozione delle società cooperative in Europa [COM(2004) 18 def.; in prosieguo: la «comunicazione sulla promozione delle società cooperative in Europa»], ha messo in rilievo le caratteristiche specifiche delle cooperative e ha presentato misure dirette a promuovere lo sviluppo di tale forma di società negli Stati membri.

La normativa nazionale 5. L’art. 45 della Costituzione italiana stabilisce quanto segue: «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mu-

tualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incre-mento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità.

La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato». 6. Il decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 601, recante

«Disciplina delle agevolazioni tributarie» (Supplemento ordinario alla GURI n. 268 del 16 ottobre 1973, pag. 3), nella versione in vigore all’epoca dei fatti oggetto della causa principale, ossia dal 1984 al 1993 (in prosieguo: il «DPR n. 601/1973»), così disponeva:

«Articolo 10 (Cooperative agricole e della piccola pesca) «1. Sono esenti dall’imposta sul reddito delle persone giuridiche e dall’imposta lo-

cale sui redditi i redditi conseguiti da società cooperative agricole e loro consorzi me-diante l’allevamento di animali con mangimi ottenuti per almeno un quarto dai terreni dei soci nonché mediante la manipolazione, trasformazione e alienazione, nei limiti stabiliti alla lettera c) dell’art. 28 del decreto del Presidente della Repubblica 29 set-tembre 1973, n. 597, di prodotti agricoli e zootecnici e di animali conferiti dai soci nei limiti della potenzialità dei loro terreni.

2. Se le attività esercitate dalla cooperativa o dai soci eccedono i limiti di cui al pre-cedente comma ed alle lettere b) e c) dell’art. 28 del predetto decreto, l’esenzione compete per la parte del reddito della cooperativa o del consorzio corrispondente al reddito agrario dei terreni dei soci.

3. I redditi conseguiti dalle cooperative della piccola pesca e dai loro consorzi sono esenti dall’imposta sul reddito delle persone giuridiche e dall’imposta locale sui reddi-ti. Sono considerate cooperative della piccola pesca quelle che esercitano professio-nalmente la pesca marittima con l’impiego esclusivo di navi assegnate alle categorie 3 e 4 di cui all’art. 8 del decreto del Presidente della Repubblica 2 ottobre 1968, n. 1639, o la pesca in acque interne.

Articolo 11 (Cooperative di produzione e di lavoro) «1. I redditi conseguiti dalle società cooperative di produzione e lavoro e loro con-

sorzi sono esenti dall’imposta sul reddito delle persone giuridiche e dall’imposta locale sui redditi se l’ammontare delle retribuzioni effettivamente corrisposte ai soci che pre-stano la loro opera con carattere di continuità, comprese le somme di cui all’ultimo comma, non è inferiore al sessanta per cento dell’ammontare complessivo di tutti gli

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altri costi tranne quelli relativi alle materie prime e sussidiarie. Se l’ammontare delle retribuzioni è inferiore al sessanta per cento, ma non al quaranta per cento dell’am-montare complessivo degli altri costi, l’imposta sul reddito delle persone giuridiche e l’imposta locale sui redditi sono ridotte alla metà.

2. Per le società cooperative di produzione le disposizioni del comma precedente si applicano a condizione che per i soci ricorrano tutti i requisiti previsti, per i soci delle cooperative di lavoro, dall’art. 23 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577, e successive modificazioni.

3. Nella determinazione del reddito delle società cooperative di produzione e lavo-ro e loro consorzi sono ammesse in deduzione le somme erogate ai soci lavoratori a titolo di integrazione delle retribuzioni fino al limite dei salari correnti aumentati del venti per cento.

Articolo 12 (Altre società cooperative) «1. Per le società cooperative e loro consorzi diversi da quelli indicati dagli articoli

10 e 11 l’imposta sul reddito delle persone giuridiche e l’imposta locale sui redditi so-no ridotte di un quarto.

2. Ai fini dell’imposta locale sui redditi la società o il consorzio ha facoltà di optare per l’applicazione delle deduzioni previste nel quarto comma dell’art. 7 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 599, in luogo della riduzione di cui al comma precedente.

L’opzione deve essere esercitata in sede di dichiarazione annuale, alla quale deve essere allegato, a pena di nullità, l’elenco dei soci cui si riferiscono le deduzioni.

3. Per le società cooperative di consumo e loro consorzi, ferme restando le disposi-zioni dei precedenti commi, sono ammesse in deduzione dal reddito le somme riparti-te tra i soci sotto forma di restituzione di una parte del prezzo delle merci acquistate.

Articolo 13 (Finanziamenti dei soci) «1. Sono esenti dall’imposta locale sui redditi gli interessi sulle somme che, oltre

alle quote di capitale sociale, i soci persone fisiche versano alla società cooperative e loro consorzi o che questi trattengono ai soci stessi, a condizione:

a) che i versamenti e le trattenute siano effettuati esclusivamente per il consegui-mento dell’oggetto sociale e non superino, per ciascun socio, la somma di lire quaranta milioni. Tale limite è elevato a lire ottanta milioni per le cooperative di conservazione, lavorazione, trasformazione ed alienazione di prodotti agricoli e per le cooperative di produzione e lavoro;

b) che gli interessi corrisposti sulle predette somme non superino la misura mas-sima degli interessi spettanti ai detentori dei buoni postali fruttiferi. (…)

Articolo 14 (Condizioni di applicabilità delle agevolazioni) «1. Le agevolazioni previste in questo Titolo si applicano alle società cooperative,

e loro consorzi, che siano disciplinat[i] dai principi della mutualità previsti dalle leggi dello Stato e siano iscritti nei registri prefettizi o nello schedario generale della coope-razione.

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2. I requisiti della mutualità si ritengono sussistenti quando negli statuti sono espressamente e inderogabilmente previste le condizioni indicate nell’art. 26 del de-creto legislativo 14 dicembre 1947, n. 1577, [recante provvedimenti per la coopera-zione (GURI n. 17 del 22 gennaio 1948] e successive modificazioni (in prosieguo: il «decreto legislativo n. 1577/1947») e tali condizioni sono state in fatto osservate nel periodo di imposta e nei cinque precedenti, ovvero nel minor periodo di tempo tra-scorso dall’approvazione degli statuti stessi.

3. I presupposti di applicabilità delle agevolazioni sono accertati dall’amministra-zione finanziaria sentiti il Ministero del Lavoro o gli altri organi di vigilanza».

(Omissis). 28. In tale contesto la Corte suprema di cassazione ha deciso di sospendere i pro-

cedimenti e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali, formulate in termini identici nelle tre cause da C-78/08 a C-80/08:

«[1)] Se le misure fiscali agevolative alle società cooperative, nella vigenza degli artt. 10-11-12-13 e 14 del D.P.R. [n. 601/1973], siano compatibili con la disciplina della concorrenza e, in specie, siano qualificabili come aiuti di Stato ai sensi dell’art. 87 del Trattato CE, soprattutto in presenza di un non adeguato sistema di vigilanza e cor-rezione degli abusi previsto dal [decreto legislativo n. 1577/1947][.]

[2)] In particolare, ai fini del problema della qualificazione delle misure fiscali age-volative in contestazione come aiuti di Stato, se tali misure possano ritenersi propor-zionate rispetto ai fini assegnati all’impresa cooperativa; se il giudizio di proporzionali-tà possa riguardare, oltre che la singola misura, il vantaggio attribuito, con conseguen-te alterazione della concorrenza, dalle misure nel loro complesso[.]

[3)] Ai fini della risposta ai precedenti quesiti, tenendo conto del fatto che il siste-ma di vigilanza risulta gravemente ed ulteriormente indebolito dalla riforma societaria, soprattutto in relazione alle cooperative a mutualità prevalente, e non totalitaria, se-condo la legge n. 311 del 2004[.]

[4)] A prescindere dalla qualificabilità delle misure agevolative in questione come aiuto di Stato, se l’utilizzazione della forma societaria cooperativa, anche all’infuori dei casi di frode o di simulazione, possa essere qualificata come abuso del diritto, ove il ricorso a tale forma avvenga all’esclusivo o principale scopo di realizzare un risparmio fiscale».

Sulla ricevibilità delle domande di pronuncia pregiudiziale (Omissis). 33. Relativamente alle presenti domande di pronuncia pregiudiziale, il giudice na-

zionale, con le prime due questioni, chiede se le misure fiscali agevolative che la disci-plina interna in discussione concede alle società cooperative siano compatibili con il diritto dell’Unione e, più specificamente, se dette agevolazioni possano essere qualifi-cate come «aiuti di Stato» ai sensi dell’art. 87, n. 1, CE.

34. Orbene, per giurisprudenza costante, benché non spetti alla Corte pronunciar-si, nell’ambito di un procedimento ex art. 267 TFUE, sulla compatibilità di norme di

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Corte di Giustizia UE, 8 settembre 2011, cause da C-78/08 a C-80/08

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diritto interno con il diritto dell’Unione né interpretare disposizioni legislative o rego-lamentari nazionali, essa, tuttavia, è competente a fornire al giudice del rinvio tutti gli elementi interpretativi attinenti al diritto dell’Unione che gli consentano di pronun-ciarsi su tale compatibilità per la definizione della causa sottoposta alla sua cognizione (v., in particolare, sentenze 15 dicembre 1993, causa C-292/92, Hünermund e a., Racc. pag. I-6787, punto 8, nonché 27 novembre 2001, cause riunite C-285/99 e C-286/99, Lombardini e Mantovani, Racc. pag. I-9233, punto 27).

(Omissis). 40. Riguardo alla quarta questione sollevata dal giudice a quo, relativa all’eventuale

abuso del diritto commesso dalle società di cui trattasi nelle cause principali, si deve ricordare che, secondo quanto ribadito in una giurisprudenza costante della Corte, i soggetti di diritto non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle nor-me del diritto dell’Unione (v., in particolare, sentenze 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax e a., Racc. pag. I-1609, punto 68, nonché 20 settembre 2007, causa C-16/05, Tum e Dari, Racc. pag. I-7415, punto 64).

41. È tuttavia pacifico che le agevolazioni concesse in applicazione del DPR n. 601/1973 alle società cooperative di cui alle cause principali sono state istituite esclu-sivamente dal diritto interno italiano, e non dal diritto dell’Unione. Pertanto è escluso che, nella fattispecie, si configuri una violazione del principio del divieto di abuso del diritto in forza del diritto dell’Unione.

42. Conseguentemente, poiché la quarta questione non attiene all’interpretazione del diritto dell’Unione, la Corte non è competente a pronunciarsi.

Sulle questioni pregiudiziali 43. Ai fini della soluzione delle prime due questioni, quali riformulate al punto 38

della presente sentenza, occorre fornire al giudice del rinvio i necessari elementi d’in-terpretazione delle condizioni cui l’art. 87, n. 1, CE subordina la qualificazione di una misura nazionale come aiuto di Stato, ossia, in primo luogo, il finanziamento di tale misura da parte dello Stato o mediante risorse statali, in secondo luogo, la selettività di detta misura, nonché, in terzo luogo, l’incidenza della stessa sugli scambi tra Stati membri e la distorsione della concorrenza risultante da siffatta misura. Queste condi-zioni devono quindi essere esaminate in successione.

Sulla condizione consistente nel finanziamento della misura da parte dello Stato o mediante risorse statali

44. L’art. 87, n. 1, CE riguarda gli «aiuti concessi dallo Stato, ovvero mediante ri-sorse statali, sotto qualsiasi forma».

45. Secondo costante giurisprudenza, il concetto di aiuto è più ampio di quello di sovvenzione, poiché esso vale a designare non soltanto prestazioni positive, come le sovvenzioni stesse, ma anche interventi i quali, in varie forme, alleviano gli oneri che normalmente gravano sul bilancio di un’impresa e che, di conseguenza, senza essere sovvenzioni in senso stretto, hanno la stessa natura e producono identici effetti (v., in particolare, sentenze 8 novembre 2001, causa C-143/99, Adria-Wien Pipeline e Wie-

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GIURISPRUDENZA RTDT - n. 1/2012

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tersdorfer & Peggauer Zementwerke, Racc. pag. I-8365, punto 38; 15 luglio 2004, cau-sa C-501/00, Spagna/Commissione, Racc. pag. I-6717, punto 90 e giurisprudenza ivi citata, nonché 10 gennaio 2006, causa C-222/04, Cassa di Risparmio di Firenze e a., Racc. pag. I-289, punto 131).

46. Ne deriva che un provvedimento mediante il quale le pubbliche autorità accor-dino a determinate imprese un’esenzione fiscale che, pur non implicando un trasferi-mento di risorse da parte dello Stato, collochi i beneficiari in una situazione finanziaria più favorevole di quella degli altri contribuenti costituisce un «aiuto di Stato» ai sensi dell’art. 87, n. 1, CE. Allo stesso modo, può costituire un aiuto di Stato una misura che conceda a talune imprese una riduzione d’imposta o un rinvio del pagamento del tri-buto normalmente dovuto (sentenza Cassa di Risparmio di Firenze e a., cit., punto 132).

47. Occorre quindi constatare che una misura nazionale come quella in discussio-ne nelle cause principali è riconducibile a un finanziamento statale.

Sulla condizione consistente nella selettività della misura controversa 48. L’art. 87, n. 1, CE vieta gli aiuti che favoriscano «talune imprese o talune pro-

duzioni», vale a dire gli aiuti selettivi. 49. La qualificazione di una misura fiscale nazionale come «selettiva» presuppone,

in un primo momento, l’identificazione e il previo esame del regime tributario comune o «normale» applicabile nello Stato membro interessato. Successivamente, si deve va-lutare e accertare, a fronte di tale regime tributario ordinario o «normale», l’eventuale selettività del vantaggio concesso dalla misura fiscale considerata dimostrando che quest’ultima deroga a tale regime ordinario, in quanto introduce differenziazioni tra operatori che si trovano, sotto il profilo dell’obiettivo perseguito dal sistema tributario di tale Stato membro, in una situazione fattuale e giuridica analoga (v., in tal senso, sentenza 6 settembre 2006, causa C-88/03, Portogallo/Commissione, Racc. pag. I-7115, punto 56).

50. Sotto questo profilo, dagli elementi a disposizione della Corte emerge, da un la-to, che, ai fini del calcolo dell’imposta sul reddito delle società, la base imponibile delle cooperative di produzione e lavoro interessate viene determinata allo stesso modo di quella degli altri tipi di società, vale a dire in funzione dell’importo degli utili netti ri-sultanti dall’esercizio dell’attività dell’impresa al termine dell’anno d’imposta. Occorre pertanto considerare che l’imposta sulle società costituisce il regime giuridico di rife-rimento cui rapportare la valutazione dell’eventuale carattere selettivo della misura in discussione.

51. D’altro canto, si deve rilevare che, in deroga alla previsione generale applicabile alle persone giuridiche, i redditi imponibili conseguiti dalle società cooperative di pro-duzione e lavoro interessate sono esenti dall’imposta sulle società. Dette cooperative beneficiano quindi di un’agevolazione fiscale cui non possono invece accedere le so-cietà a scopo di lucro.

52. Dall’art. 11 del DPR n. 601/1973 discende che un’agevolazione fiscale del ge-

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nere di quella oggetto delle cause principali non si applica a tutti gli operatori econo-mici, ma è concessa in considerazione della natura giuridica dell’impresa, società coo-perativa o meno (v., in tal senso, sentenza Cassa di Risparmio di Firenze e a., cit., pun-to 136).

53. Occorre poi sottolineare che un aiuto può essere selettivo con riferimento all’art. 87, n. 1, CE anche quando riguardi un intero settore economico (v., in partico-lare, sentenza 17 giugno 1999, causa C-75/97, Belgio/Commissione, Racc. pag. I-3671, punto 33).

54. Di conseguenza, è necessario accertare se esenzioni fiscali come quelle di cui al-le cause principali siano tali da favorire talune imprese o talune produzioni rispetto ad altre imprese che si trovano in una situazione di fatto e di diritto analoga sotto il profi-lo dello scopo perseguito dal regime dell’imposta sulle società, ossia l’imposizione dei redditi delle società.

55. In proposito si deve rilevare che le cooperative, forma in cui sono costituiti i soggetti giuridici di cui alle cause principali, sono rette da principi di funzionamento peculiari, che le differenziano nettamente dagli altri operatori economici. Sia il legisla-tore dell’Unione, adottando il regolamento n. 1435/2003, che la Commissione, nella sua comunicazione sulla promozione delle società cooperative in Europa, hanno posto in evidenza tali caratteristiche specifiche.

56. Dette caratteristiche si traducono fondamentalmente, come enunciato all’otta-vo ‘considerando’ del menzionato regolamento, nel principio della preminenza della persona, che si riflette nelle norme specifiche riguardanti le condizioni di ammissione, di recesso e di esclusione dei soci. Inoltre, il decimo ‘considerando’ del medesimo re-golamento precisa che, in caso di liquidazione, l’attivo netto e le riserve dovrebbero essere devolute ad un’altra entità cooperativa avente finalità o obiettivi di interesse ge-nerale analoghi.

57. Riguardo alla gestione delle cooperative, si deve sottolineare che queste ultime non sono gestite per il lucro di investitori esterni. In base all’ottavo e al decimo ‘consi-derando’ del regolamento n. 1435/2003, nonché al punto 1.1 della comunicazione sulla promozione delle società cooperative in Europa, il controllo della società è e-quamente ripartito tra i soci, rispecchiando quindi la regola «una persona, un voto». Le riserve e gli utili sono conseguentemente detenuti in comune, sono indivisibili e devono essere destinati all’interesse comune dei soci.

58. Relativamente al funzionamento delle società cooperative, occorre rilevare che, tenuto conto della preminenza della persona, queste sono finalizzate, come indicano segnatamente il decimo ‘considerando’ del regolamento n. 1435/2003 e il punto 1.1 della comunicazione sulla promozione delle società cooperative in Europa, al recipro-co vantaggio dei loro soci, i quali sono al tempo stesso utilizzatori, clienti o fornitori, affinché ciascuno di essi possa trarre profitto dall’attività della cooperativa in base alla propria partecipazione nella medesima e in proporzione alle proprie transazioni con tale società.

8.

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59. Peraltro, come precisato dal punto 2.2.3 della menzionata comunicazione, le società cooperative non hanno o hanno scarso accesso ai mercati dei capitali, cosicché il loro sviluppo dipende dai loro fondi propri o dal credito. Tale situazione è dovuta al fatto che le quote delle società cooperative non sono quotate in borsa e, pertanto, non sono negoziabili. Inoltre, come messo parimenti in risalto dal decimo ‘considerando’ del regolamento n. 1435/2003, il tasso di rendimento del capitale conferito e delle partecipazioni è limitato, il che rende l’investimento in una società cooperativa meno vantaggioso.

60. Il margine di profitto di questo specifico tipo di società è di conseguenza net-tamente inferiore a quello delle società di capitali, che meglio si possono adeguare alle esigenze del mercato.

61. Tenuto conto delle specifiche caratteristiche proprie delle cooperative, risulta quindi necessario constatare che non si può, in via di principio, considerare che socie-tà cooperative di produzione e lavoro come quelle in discussione nelle cause principali si trovino in una situazione di fatto e di diritto analoga a quella delle società commer-ciali, purché, tuttavia, esse operino nell’interesse economico dei loro soci e intratten-gano con questi ultimi una relazione non puramente commerciale, bensì personale particolare, in cui essi siano attivamente partecipi e abbiano diritto ad un’equa riparti-zione dei risultati economici.

62. Infatti, cooperative di produzione e lavoro che presentassero caratteristiche di-verse da quelle inerenti a siffatto tipo di società non perseguirebbero realmente una finalità mutualistica e dovrebbero pertanto essere distinte dal modello descritto nella comunicazione della Commissione sulla promozione delle società cooperative in Eu-ropa.

63. In ultima analisi, spetta al giudice del rinvio verificare, alla luce del complesso delle circostanze che caratterizzano le cause di cui è investito, se, in funzione dei criteri di cui ai punti 55-62 della presente sentenza, le cooperative di produzione e lavoro in discussione nelle cause principali si trovino effettivamente in una situazione analoga a quella delle società a scopo di lucro soggette all’imposta sulle società.

64. Nel caso in cui il giudice nazionale concludesse che, nelle cause di cui è investi-to, la condizione esposta al punto precedente è effettivamente soddisfatta, occorre-rebbe ancora stabilire, conformemente alla giurisprudenza della Corte, se esenzioni fiscali come quelle oggetto delle cause principali siano giustificate dalla natura o dalla struttura generale del sistema nel quale si inseriscono (v., in tal senso, sentenza Adria-Wien Pipeline e Wietersdorfer & Peggauer Zementwerke, cit., punto 42).

65. In tal senso, una misura in deroga rispetto all’applicazione del sistema tributa-rio generale può essere giustificata qualora lo Stato membro interessato possa dimo-strare che tale misura discende direttamente dai principi informatori o basilari del suo sistema tributario (v. sentenza Portogallo/Commissione, cit., punto 81).

66. In tale contesto, occorre fornire al giudice del rinvio le seguenti precisazioni al fine di consentirgli di pronunciarsi utilmente nelle cause di cui è investito.

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67. Va rammentato anzitutto che la Corte ha dichiarato in più occasioni che lo scopo perseguito dagli interventi statali non è sufficiente a sottrarli ipso facto alla qua-lificazione come «aiuti» ai sensi dell’art. 87 CE (v., in particolare, sentenza 22 dicem-bre 2008, causa C-487/06 P, British Aggregates/Commissione, Racc. pag. I-10505, punto 84 e giurisprudenza ivi citata).

68. L’art. 87, n. 1, CE, infatti, non distingue a seconda delle cause o degli obiettivi di una misura statale, ma definisce tale misura in funzione dei suoi effetti (sentenza British Aggregates/Commissione, cit., punto 85 e giurisprudenza ivi citata).

69. Si deve altresì ricordare che una misura in deroga rispetto all’applicazione del sistema tributario generale può essere giustificata qualora tale misura discenda diret-tamente dai principi informatori o basilari di tale sistema tributario. In proposito oc-corre distinguere tra, da un lato, gli obiettivi che persegue un determinato regime tri-butario e che sono ad esso esterni e, dall’altro, i meccanismi inerenti al sistema tributa-rio stesso, che sono necessari per il raggiungimento di tali obiettivi (v., in tal senso, sentenza Portogallo/Commissione, cit., punto 81).

70. Di conseguenza, esenzioni fiscali che fossero riconducibili a uno scopo estra-neo al sistema impositivo in cui si collocano non possono sottrarsi alle esigenze deri-vanti dall’art. 87, n. 1, CE.

71. Inoltre, come emerge dal punto 25 della comunicazione sulla tassazione diretta delle imprese, la Commissione ritiene che la natura o la struttura generale del sistema tributario nazionale possa essere legittimamente addotta per giustificare la circostanza che le cooperative che distribuiscono tutti gli utili ai propri soci non siano tassate a li-vello della cooperativa, purché l’imposta venga riscossa in capo ai soci.

72. Infine, come fatto valere nelle sue osservazioni scritte, la Commissione consi-dera altresì che una misura nazionale non può trovare legittima giustificazione nella natura o nella struttura generale del sistema tributario nazionale in discussione laddo-ve consente l’esenzione dall’imposta sugli utili derivanti da scambi con soggetti non membri della cooperativa o la deduzione di somme versate a questi ultimi a titolo di retribuzione.

73. È inoltre necessario vigilare affinché sia rispettato il requisito della coerenza di una data agevolazione, non solamente con le caratteristiche inerenti al sistema tributa-rio di cui trattasi, ma anche relativamente all’attuazione di detto sistema.

74. Spetta quindi allo Stato membro interessato realizzare e far applicare procedu-re di controllo e di vigilanza opportune al fine di garantire la coerenza delle specifiche misure fiscali introdotte a favore delle società cooperative con la logica e la struttura generale del sistema tributario ed evitare che enti economici scelgano questa specifica forma giuridica esclusivamente al fine di godere delle agevolazioni in materia d’im-poste previste per siffatto tipo di società. Spetta al giudice del rinvio verificare se tale condizione sia soddisfatta nella causa principale.

75. In ogni caso, affinché esenzioni fiscali come quelle di cui alle cause principali possano essere giustificate in base alla natura o alla struttura generale del sistema tri-

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butario dello Stato membro interessato, è inoltre necessario garantire che siano con-formi al principio di proporzionalità e non eccedano i limiti di ciò che è necessario, nel senso che il legittimo obiettivo perseguito non potrebbe essere raggiunto attraverso misure di portata minore.

76. È tenendo conto del complesso dei citati elementi d’interpretazione del diritto dell’Unione, quali forniti dalla Corte ai punti 64-75 della presente sentenza, che spet-terà al giudice del rinvio valutare se le agevolazioni fiscali previste a favore delle società cooperative di produzione e lavoro di cui alle cause principali siano giustificate alla lu-ce della natura e della struttura generale del sistema tributario interessato.

Sulle condizioni consistenti nell’incidenza sugli scambi tra Stati membri e nella di-storsione della concorrenza

77. L’art. 87, n. 1, CE vieta gli aiuti che incidono sugli scambi tra Stati membri e falsano o minacciano di falsare la concorrenza.

78. Per qualificare una misura nazionale come aiuto di Stato non è necessario di-mostrare un’incidenza effettiva dell’aiuto di cui trattasi sugli scambi tra gli Stati mem-bri e un’effettiva distorsione della concorrenza, ma basta esaminare se tale aiuto sia idoneo a incidere su tali scambi e a falsare la concorrenza (sentenze 29 aprile 2004, causa C-372/97, Italia/Commissione, Racc. pag. I-3679, punto 44; 15 dicembre 2005, causa C-148/04, Unicredito Italiano, Racc. pag. I-11137, punto 54, nonché Cassa di Risparmio di Firenze e a., cit., punto 140).

79. In particolare, quando l’aiuto concesso da uno Stato membro rafforza la posi-zione di un’impresa rispetto ad altre imprese concorrenti nell’ambito degli scambi in-tracomunitari, questi ultimi devono ritenersi influenzati dall’aiuto (v., in particolare, citate sentenze Unicredito Italiano, punto 56 e giurisprudenza ivi citata, nonché Cassa di Risparmio di Firenze e a., punto 141).

80. A questo proposito, non è necessario che l’impresa beneficiaria dell’aiuto par-tecipi direttamente agli scambi intracomunitari. Infatti, quando uno Stato membro concede un aiuto ad un’impresa, l’attività sul mercato nazionale può risultarne mante-nuta o incrementata, con conseguente diminuzione delle possibilità per le imprese con sede in altri Stati membri di penetrare nel mercato di tale Stato membro. Inoltre, il raf-forzamento di un’impresa che fino a quel momento non partecipava a scambi intra-comunitari può metterla nella condizione di penetrare nel mercato di un altro Stato membro (citate sentenze Unicredito Italiano, punto 58, nonché Cassa di Risparmio di Firenze e a., punto 143).

81. Occorre pertanto constatare che un’agevolazione fiscale del genere di quella in discussione nelle cause principali è idonea ad incidere sugli scambi tra gli Stati membri e a falsare la concorrenza ai sensi dell’art. 87, n. 1, CE.

82. Alla luce del complesso delle considerazioni suesposte, le questioni sollevate, quali riformulate al punto 38 della presente sentenza, devono essere risolte dichiaran-do che esenzioni fiscali come quelle in discussione nelle cause principali, concesse alle società cooperative di produzione e lavoro in forza di una normativa nazionale del ge-

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nere di quella contenuta nell’art. 11 del DPR n. 601/1973, costituiscono un «aiuto di Stato» ai sensi dell’art. 87, n. 1, CE solamente nel caso in cui tutte le condizioni di ap-plicazione di tale disposizione siano soddisfatte. In una situazione come quella al-l’origine delle controversie di cui è investito il giudice del rinvio, spetterà a quest’ulti-mo valutare nello specifico il carattere selettivo delle esenzioni fiscali di cui trattasi, nonché la loro eventuale giustificazione alla luce della natura o della struttura generale del sistema tributario nazionale nel quale si inseriscono, stabilendo, segnatamente, se le società cooperative di cui alle cause principali si trovino di fatto in una situazione analoga a quella di altri operatori costituiti in forma di società a scopo di lucro e, qua-lora ciò si verificasse, se il trattamento fiscale più favorevole riservato alle menzionate società cooperative sia, da un lato, inerente ai principi fondamentali del sistema impo-sitivo vigente nello Stato membro interessato e, dall’altro, conforme ai principi di coe-renza e di proporzionalità.

Sulle spese 83. Nei confronti delle parti nelle cause principali il presente procedimento costi-

tuisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sul-le spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara: Esenzioni fiscali come quelle in discussione nelle cause principali, concesse alle so-

cietà cooperative di produzione e lavoro in forza di una normativa nazionale del gene-re di quella contenuta nell’art. 11 del decreto del Presidente della Repubblica 29 set-tembre 1973, n. 601, recante disciplina delle agevolazioni tributarie, nella versione in vigore dal 1984 al 1993, costituiscono un «aiuto di Stato» ai sensi dell’art. 87, n. 1, CE solamente nel caso in cui tutte le condizioni di applicazione di tale disposizione siano soddisfatte. In una situazione come quella all’origine delle controversie di cui è investi-to il giudice del rinvio, spetterà a quest’ultimo valutare nello specifico il carattere selet-tivo delle esenzioni fiscali di cui trattasi, nonché la loro eventuale giustificazione alla luce della natura o della struttura generale del sistema tributario nazionale nel quale si inseriscono, stabilendo, segnatamente, se le società cooperative di cui alle cause prin-cipali si trovino di fatto in una situazione analoga a quella di altri operatori costituiti in forma di società a scopo di lucro e, qualora ciò si verificasse, se il trattamento fiscale più favorevole riservato alle menzionate società cooperative sia, da un lato, inerente ai principi fondamentali del sistema impositivo vigente nello Stato membro interessato e, dall’altro, conforme ai principi di coerenza e di proporzionalità. (Omissis).

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Regimi impositivi differenziati e società cooperative secondo la Corte di Giustizia UE

Different tax regimes and cooperative societies according to the Court of Justice of the European Union

Abstract Secondo la Corte di Giustizia UE, le misure fiscali di vantaggio concesse alle società cooperative di produzione e lavoro in virtù degli artt. 11-14 del D.P.R. n. 601/1973, nella versione in vigore fino al 1993, possono essere qualificate come “aiuto di Stato” ex art. 87, n. 1, del Trattato CE solo se le condizioni di applicazione della disciplina europea, consistenti essenzialmente nella selettività della misura controversa, nell’in-cidenza sugli scambi tra Stati membri e nella distorsione della concorrenza interna al mercato comune, risultano integralmente soddisfatte. Alla luce dei precetti costitu-zionali e degli ulteriori principi interni dell’ordinamento nazionale, tuttavia, il regime fiscale applicabile alle cooperative non può essere qualificato come “derogatorio” ri-spetto al sistema impositivo ordinario, trattandosi, più correttamente, di una discipli-na a sua volta fondante un regime ordinario di tassazione, differenziato in quanto ri-spondente ad una logica di sviluppo del sistema economico nel suo insieme, e non “selettivo” nell’accezione risultante dall’art. 87 del Trattato CE. Parole chiave: aiuti di Stato, mercato comune, selettività, cooperative, regime fisca-le differenziato, Corte di Giustizia dell’Unione Europea According to the Court of Justice of the European Union, tax exemptions granted to producers’ and workers’ cooperative societies by virtue of Arts. 11-14 of Presidential Decree No. 601/1973, in the version in force until 1993, may be classified as “State aid” according to Art. 87, para. 1, EC Treaty, only in so far as all the requirements for the application of that provision are met – i.e. consisting essentially in the selectivity of the controversial measure, in its incidence on exchanges between Member States and in a distortion of free competition within the common market. In the light of constitutional provisions and other principles of national law, the tax regime applicable to cooperatives cannot be qualified as “exceptional” compared to the ordinary one, since, more correctly, it is a discipline providing an alternative tax regime responding to a logic of development of the economic system as a whole, and not “selective” in the meaning resulting from Art. 87 EC Treaty. Keywords: State aid, common market, selectivity, cooperatives, different tax regime, Court of Justice of the European Union

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Corte di Giustizia UE, 8 settembre 2011, cause da C-78/08 a C-80/08

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SOMMARIO: 1. Agevolazioni fiscali e cooperazione: la sentenza della Corte di Giustizia. – 2. Il quadro nor-mativo di riferimento: il rilievo costituzionale della cooperazione. – 3. (Segue) Il quadro nor-mativo di riferimento: la tassazione degli utili delle società cooperative nell’ordinamento italia-no e la ratio del trattamento impositivo differenziato. – 4. La cooperazione nel contesto norma-tivo comunitario. – 5. La nozione di “aiuto di Stato”: criteri interpretativi. – 6. La cooperazione come modello sociale ed economico di sviluppo dell’Unione europea

1. Agevolazioni fiscali e cooperazione: la sentenza della Corte di Giustizia

La sentenza in commento offre l’occasione per riflettere su fondamento e coeren-za sistematica dei regimi fiscali differenziati applicabili alle società cooperative, se-condo i principi generali dell’ordinamento interno e dell’ordinamento comunitario.

Vale la pena ricordare come l’intervento della Corte di Giustizia sia stato solleci-tato dalla nostra Corte di Cassazione nell’ambito di tre controversie aventi ad ogget-to la spettanza delle agevolazioni previste dal D.P.R. n. 601/1973 e in particolare dal suo art. 14 1. Nel disporre la sospensione dei procedimenti, la Suprema Corte ha sot-toposto all’attenzione del giudice comunitario le seguenti questioni pregiudiziali: a) se le misure fiscali di vantaggio disposte dagli artt. 10 e seguenti del D.P.R. n. 601/1973 siano qualificabili come “aiuti di Stato” ai sensi dell’art. 87, n. 1, del Tratta-to CE, soprattutto in presenza di un non adeguato sistema di vigilanza e correzione degli abusi; b) se tali misure possano ritenersi proporzionate rispetto ai fini assegnati all’impresa cooperativa e se il giudizio di proporzionalità possa riguardare, oltre alla singola misura isolatamente considerata, il vantaggio attribuito dalle misure nel loro

1 La vicenda relativa ai presunti privilegi fiscali riconosciuti alle cooperative parte da lontano, ma ha conosciuto nel recente passato una improvvisa accelerazione. In un primo momento, infatti, la Corte di Cassazione si era limitata ad una semplice richiesta di informazioni alla Commissione europea (Cass., sez. trib., ord. 17 febbraio 2006, n. 3525, in merito alla quale si veda GIOVANNINI, Concorrenza fiscale e aiuti di Stato – Principi e tassazione delle società cooperative, in Boll. trib., 2006, p. 1589 ss.; GRAZIANO, Agevolazioni tributarie per le società cooperative e aiuti di Stato, in Dir. prat. trib., 2006, II, p. 457; SARTI, Il regime tributario delle società cooperative e la sua compatibilità con il divieto comunitario degli aiuti di Stato, in Rass. trib., 2006, p. 932 ss.) mentre, in seguito, era stata un’associazione di categoria a depositare un reclamo vero e proprio, volto a stimolare l’avvio di un esame preliminare del caso: si tratta del reclamo presentato in data 4 aprile 2006 da Federdistribuzione, concernente il trattamento fiscale agevolato riconosciuto dalla legislazione italiana alle cooperative di consumo e a proposito del quale si veda SAL-VINI, Le misure fiscali per la cooperazione, in L. SALVINI (a cura di), Aiuti di stato in materia fiscale, Padova, 2007, p. 493. La questione è stata finalmente rimessa alla Corte di Giustizia con tre ordinanze formal-mente distinte, ma di contenuto sostanzialmente identico dalla stessa Cassazione, mediante rinvio pre-giudiziale ex art. 234 del Trattato. V. Cass., ordd. 8 febbraio 2008, nn. 3030, 3033 (entrambe in banca dati “fisconline”) e 3031. In merito, si veda PEPE, Fiscalità cooperativa ed “aiuti di Stato”: questioni meto-dologiche e problemi reali, in Rass. trib., 2008, p. 1705 ss.).

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complesso; c) a prescindere dalla qualificazione delle misure agevolative come “aiu-to di Stato”, se l’utilizzazione della forma societaria cooperativa possa essere consi-derata come “abuso del diritto”, laddove il ricorso a tale forma avvenga nell’esclusivo o principale scopo di realizzare un risparmio fiscale.

In merito alle prime due questioni, attinenti alla riconducibilità del regime tribu-tario in contestazione nell’alveo degli “aiuti di Stato”, la Corte di Giustizia ha stabili-to, in sintesi, che le agevolazioni concesse alle società cooperative di produzione e lavoro in virtù dell’art. 11 del D.P.R. n. 601/1973, nella versione in vigore fino al 1993, possono costituire incentivazione fiscale solo se le condizioni di applicazione dell’art. 87, n. 1, consistenti nella selettività della misura controversa, nell’incidenza della misura medesima sugli scambi intracomunitari e nella distorsione della concor-renza interna al mercato comune, risultano integralmente soddisfatte 2.

Secondo il giudice comunitario, pertanto, spetta al giudice del rinvio operare una valutazione sul carattere “selettivo” delle agevolazioni e sulla loro eventuale giustificazione alla luce dei principi o della struttura generale del sistema tributario nazionale nel quale si inseriscono e la loro conformità ai principi di coerenza e proporzionalità 3.

Quanto alla terza questione, relativa all’eventuale abuso del diritto, la Corte ri-leva correttamente la propria incompetenza nel merito, dal momento che le norme del D.P.R. n. 601/1973 riguardano esclusivamente il diritto interno italiano, do-vendosi perciò escludere la violazione del principio del divieto di abuso in forza del diritto dell’Unione 4.

2 Sulle condizioni di applicazione della norma di cui all’art. 87, n. 1, del Trattato CE e sulla loro necessaria cumulatività si veda FICHERA, Gli aiuti fiscali nell’ordinamento comunitario, in Riv. dir. fin., 1998, I, p. 84 ss.; TESAURO, Diritto comunitario, Padova, 2003, p. 483 ss.; DI BUCCI, Aiuti di Stato e misure fiscali nella recente prassi della Commissione CE e nella giurisprudenza delle giurisdizioni comuni-tarie, in Rass. trib., n. 6 bis, 2003, p. 2315 ss.; LA SCALA, I principi fondamentali in materia tributaria in seno alla Costituzione dell’Unione europea, Milano, 2005, p. 419 ss.; FRANSONI, Profili fiscali della di-sciplina comunitaria degli aiuti di Stato, Pisa, 2007, p. 35 ss.; SEER, Le fonti del diritto comunitario ed il loro effetto sul diritto tributario, in A. DI PIETRO (a cura di), Per una Costituzione fiscale europea, Pado-va, 2008, p. 45 ss.

3 Si veda in proposito ALTIERI, Competenze del giudice nazionale in materia di aiuti di Stato nel set-tore fiscale e considerazioni conclusive, in Rass. trib., n. 6 bis, 2003, p. 2339 ss.; RUSSO, Le agevolazioni e le esenzioni fiscali alla luce dei principi comunitari in materia di aiuti di Stato: i poteri del giudice nazio-nale, in Rass. trib., n. 1 bis, 2003, p. 330 ss.

4 Sotto questo profilo, la posizione espressa dalla Corte di Giustizia mi sembra ineccepibile. La nozione stessa di “abuso del diritto”, da sempre presente nella giurisprudenza della Corte, interessa certamente il settore tributario, ma nei limiti della fiscalità armonizzata. È dunque soltanto in rela-zione ai settori rientranti nella competenza della Comunità europea, ovvero, per quanto qui interes-sa, al solo settore della fiscalità armonizzata o all’esercizio di diritti e libertà fondamentali che tale concetto può assumere rilievo per la Corte di Giustizia. V. Corte di Giustizia, 21 febbraio 2006, cau-sa C-255/02, Halifax, in Riv. dir. trib., 2006, III, con nota di POGGIOLI, La Corte di giustizia elabora il concetto di “comportamento abusivo” in materia di Iva e ne tratteggia le conseguenze sul piano impositivo: epifania di una clausola generale antielusiva di matrice comunitaria?; Corte di Giustizia, 21 febbraio

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2. Il quadro normativo di riferimento: il rilievo costituzionale della cooperazione

La sentenza della Corte, nei termini fin qui sintetizzati, solleva, come ho antici-pato, numerose questioni e offre spunti di riflessione che possono interessare vari aspetti della disciplina tributaria domestica.

Quel che a me sembra di particolare rilievo è anzitutto il tema della (eventuale) riconducibilità delle misure – la non tassazione o la parziale tassazione degli utili prodotti dalle società cooperative e in particolare degli utili destinati a riserve indi-visibili – nell’ambito dell’art. 87, in quanto dotate del carattere “selettivo” e non proporzionate alla finalità di interesse generale che con quelle misure lo Stato membro vuole perseguire.

Preliminare diventa, allora, per il buon esito dello studio, inquadrare il fenome-no cooperativo dal punto di vista costituzionale e poi, in stretta conseguenza, ri-chiamare analiticamente la disciplina dettata dal D.P.R. n. 601/1973.

L’ordinamento italiano ha tradizionalmente riservato al fenomeno cooperativo un trattamento peculiare, in linea con quanto previsto dall’art. 45 della Costituzione che, nel riconoscere la funzione sociale della cooperazione «a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata», ne promuove al contempo lo sviluppo e l’incremento, finalità, queste ultime, non espressamente previste per le altre forme di impresa 5.

Già da questa connotazione, si può dedurre la specificità e, per certi versi, l’“alterità” del fenomeno cooperativo rispetto alla cornice normativa generale che l’art. 41 Cost. delinea per ogni attività che presupponga una organizzazione finaliz-zata allo svolgimento di attività economiche.

Prova evidente di tale peculiarità è proprio il fatto che l’art. 45 Cost. contiene un riconoscimento (esplicito per le società cooperative, implicito per l’impresa ar-tigiana) della intrinseca funzione sociale di tali attività di impresa, mentre nel con-testo dell’art. 41 Cost. l’“utilità sociale” costituisce, al contrario, un limite per l’ini-ziativa economica, al punto che i “fini sociali” legittimano il legislatore ad imporre

2008, causa C-425/06, Part service, in Rass. trib., 2008, p. 163, con nota di ZIZZO, Abuso del diritto, scopo del risparmio d’imposta e collegamento negoziale. In proposito, si veda altresì SALVINI, L’elusione IVA nella giurisprudenza nazionale e comunitaria, in Corr. trib., 2006, p. 3103; BEGHIN, L’inesistente confine tra pianificazione, elusione e “abuso del diritto”, in Corr. trib., 2008, p. 1784. Per un inquadra-mento sistematico del divieto di abuso del diritto nell’ordinamento interno, si veda diffusamente GIOVANNINI, Il divieto d’abuso del diritto in ambito tributario come principio generale dell’ordinamento, in Rass. trib., 2010, p. 982 ss. Sul tema specifico del possibile “abuso” delle forme giuridiche nel set-tore della cooperazione si veda PEPE, Fiscalità cooperativa ed “aiuti di Stato”: questioni metodologiche e problemi reali, cit., p. 1723 ss., e, da ultimo, STEVANATO, “Abuso” delle forme giuridiche ed elusione tri-butaria nelle società cooperative, in Dir. prat. trib., 2011, p. 753 ss.

5 V. VERRUCOLI, Cooperative (imprese), in Enc. dir., X, Milano, 1962, p. 552 ss.; NIGRO, Art. 45, in Comm. Cost. Branca, Bologna-Roma, 1981, p. 1 ss.; BUONOCORE, Diritto della cooperazione, Bologna, 1997, p. 47 ss.

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eventuali vincoli di indirizzo e coordinamento 6. Secondo il precetto costituzionale, dunque, a connotare la disciplina delle so-

cietà cooperative sono i due elementi della “funzione sociale” e della “mutualità”, la cui effettiva compresenza può legittimare, ai sensi della stessa norma costituzio-nale, uno status giuridico differenziato rispetto a quello delle società lucrative 7.

Le cooperative, per quanto imprese organizzate necessariamente in forma so-cietaria, si caratterizzano tuttavia per la centralità dell’elemento personale 8, a fronte di una rilevanza specularmente meno significativa dell’elemento patrimo-niale 9.

In altri termini, la società cooperativa presenta, da un lato, tratti di assoluta originalità in punto combinazione fattori della produzione e, dall’altro, una in-trinseca rilevanza sociale, perseguendo la tutela di interessi particolarmente qua-lificati 10.

Nel sistema di valori che emerge dalla Carta costituzionale, in definitiva, la cooperazione è assunta a modello sociale ed economico “tipizzato”, ma non per questo derogatorio o antitetico al modello astratto di impresa. Non solo: il partico-lare favore che ad essa viene garantito sottende l’aspirazione di fondo alla realizza-zione e valorizzazione di un sistema solidale di svolgimento dell’attività economi-ca, in stretta relazione con gli artt. 2 e 3, comma 2, della Costituzione stessa.

6 Tanto che la riserva di legge di cui all’art. 41 Cost. è strumentale al perseguimento di generici fini sociali, da intendersi essenzialmente come limiti alla libera iniziativa economica, mentre nel caso dell’art. 45 Cost. la riserva è strumentale agli specifici fini sociali di promozione e tutela. V. LOTITO-NARDELLA, Commento art. 45, in Commentario alla Costituzione, a cura di Bifulco, Celotto, Olivetti, Milano, 2006, p. 920.

7 Sul fondamento costituzionale del regime fiscale applicabile alle cooperative, si veda VERRU-COLI, Lo “strumento” cooperativo e l’imposizione fiscale: agevolazioni e condizionamenti, in AA.VV., La struttura dell’impresa e l’imposizione fiscale, Padova, 1981, p. 177; MARONGIU, La cooperazione “costi-tuzionalmente riconosciuta”. Profili di costituzionalità, in F. GRAZIANO (a cura di), La riforma del diritto cooperativo, Padova, 2002, p. 49 ss.; GIOVANNINI, Concorrenza fiscale e aiuti di Stato, cit., p. 1591; PE-PE, La fiscalità delle cooperative. Riparto dei carichi pubblici e scopo mutualistico, Milano, 2009, passim.

8 Testimoniata da una pluralità di elementi connaturati alla loro struttura, quali la presenza di un numero minimo di soci, la parità di prerogative e di diritti sociali tra gli stessi soci, a prescindere dal capitale detenuto da ciascuno di loro.

9 Come dimostrato da altri fattori, quali l’entità risibile del capitale sociale minimo richiesto per la costituzione della società, la variabilità automatica del capitale in funzione dell’ingresso o della fuoriuscita dei soci, l’irrilevanza del capitale individualmente detenuto da ciascun socio persona fisi-ca ai fini del voto capitario, l’esistenza di limiti legali minimo e massimo relativi all’entità individuale di quote o azioni detenute da ogni singolo socio.

10 V. NIGRO, Art. 45, cit., p. 2 ss.; MATACENA, La cooperativa come impresa socialmente responsabi-le, in AA.VV., La società cooperativa: aspetti civilistici e fiscali, a cura di G. Schiano di Pepe e F. Gra-ziano, Padova, 1997, p. 107 ss.; LOTITO-NARDELLA, Commento art. 45, cit., p. 922.

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3. (Segue) Il quadro normativo di riferimento: la tassazione degli utili delle so-cietà cooperative nell’ordinamento italiano e la ratio del trattamento imposi-tivo differenziato

Quanto alle misure fiscali riconosciute al settore cooperativo, occorre rammen-tare che nel sistema vigente all’epoca dei fatti in causa, i benefici stabiliti dalla legge erano destinati esclusivamente alle cooperative che avessero adottato le prescri-zioni contenute nell’art. 26 del D.Lgs. C.P.S. 14 dicembre 1947, n. 1577 (c.d. “leg-ge Basevi”) in ordine alla presunzione di esistenza dei requisiti mutualistici 11.

In presenza di tale requisito formale, il D.P.R. n. 601/1973 garantiva: la piena esenzione per il reddito delle cooperative agricole e della piccola pesca, purché l’attività dei soci fosse esercitata entro certi limiti e a determinate condizioni (art. 10); analoga esenzione per le cooperative di produzione e lavoro, con deduzione dal reddito della società delle somme erogate ai soci a titolo di integrazione delle retribuzioni fino al limite dei salari correnti aumentati del venti per cento (art. 11); la riduzione a un quarto dell’aliquota applicabile al reddito della società per le altre cooperative, con possibilità per le cooperative di consumo di dedurre dal reddito le somme ripartite fra i soci sotto forma di restituzione di una parte del prezzo del-le merci acquistate (ristorni) (art. 12); agevolazioni tutte applicabili in presenza dei requisiti di mutualità indicati dalla “legge Basevi”, in quanto previsti dallo sta-tuto e di fatto osservati, secondo gli accertamenti dell’amministrazione finanziaria e degli organi di vigilanza 12.

Il quadro delle agevolazioni è venuto progressivamente mutando, prevedendo in particolare con l’art. 12, L. n. 94/1977, l’esclusione delle imposte dirette sul cen-to per cento degli utili accantonati a riserva indivisibile 13, detassazione che si lega-va alla necessità di evitare una doppia imposizione, essendo nel contempo mutato il regime di tassazione sul reddito delle società di capitali ordinarie, con la previ-sione per i soci di un credito di imposta, del quale quelli delle cooperative, non

11 In proposito, si veda FILIPPI, Requisiti mutualistici e regime tributario, in AA.VV., La società coo-perativa: aspetti civilistici e tributari, cit., p. 177 ss.; BONFANTE, Delle imprese cooperative. Art. 2511-2545, in Comm. cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, Bologna, 1999, p. 20 ss.; FANTOZZI, Riflessioni critiche sul regime fiscale delle cooperative, in Riv. dir. trib., 1999, p. 424.

12 V. COCO-D’AMATI, Le agevolazioni per la cooperazione nel D.P.R. n. 601/1973, in AA.VV., La società cooperativa; aspetti civilistici e tributari, cit., p. 207 ss.

13 V. DI PIETRO, L’art. 12 della legge 16 dicembre 1977, n. 904 ed il riconoscimento fiscale della mu-tualità, in AA.VV., La società cooperativa: aspetti civilistici e tributari, cit., p. 263 ss.; FANTOZZI, Rifles-sioni critiche sul regime fiscale delle cooperative, cit., p. 432; PISTOLESI, Le agevolazioni fiscali per le coo-perative, in TributImpresa, 2004, p. 71; PALADINI-SANTORO, Il ruolo economico delle riserve indivisibili, in AA.VV., La disciplina civilistica e fiscale della “nuova” società cooperativa, a cura di V. Uckmar e F. Graziano, Padova, 2005, p. 153; GALLO, L’accumulazione indivisibile e l’art. 12 della legge n. 904 del 1977, ivi, p. 277 ss.

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percettori di utili, non avrebbero potuto giovarsi. Con l’art. 1, comma 460, della L. n. 311/2004, infine, in coincidenza con la ri-

forma societaria e in seguito all’abrogazione dell’Irpeg e del credito di imposta sui dividendi, si è previsto per le cooperative a mutualità prevalente l’assoggettamento ad Ires di una quota di utili netti pari al trenta per cento del loro ammontare, con esenzione dei rimanenti utili se accantonati a riserve indivisibili, a fondi mutuali-stici o se destinati a rivalutazione gratuita delle quote o azioni. Inoltre, per le coo-perative di produzione e lavoro, qualora le retribuzioni corrisposte ai soci non sia-no inferiori al cinquanta per cento di tutti gli altri costi, la stessa disposizione pre-vede l’esenzione della parte di imponibile derivante dalla indeducibilità dell’Irap. Per le cooperative agricole e della piccola pesca, l’assoggettamento a Ires è ulte-riormente limitato al venti per cento degli utili netti annuali, mentre per le coope-rative sociali e i loro consorzi l’esenzione totale degli utili è subordinata al loro in-tero accantonamento a riserve indivisibili 14.

Tali modifiche si sono rese necessarie anche in relazione alla nuova disciplina delle società cooperative introdotta con il D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, nell’am-bito della quale l’innovazione più rilevante è consistita nel concetto di “mutualità prevalente” 15 (art. 2512 c.c.), in base al quale sono destinatarie dei benefici fiscali

14 Il quadro generale sin qui delineato è stato peraltro oggetto di numerosi interventi correttivi, diretti per lo più a confermare il recente trend riduttivo per le agevolazioni riservate al settore coope-rativo: con la “manovra estiva 2008” (D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito in L. 6 agosto 2008, n. 133), il legislatore ha introdotto drastiche penalizzazioni per talune cooperative e, con particolare riferimento alle cooperative di consumo, con decorrenza dal periodo di imposta 2008, la quota di utili annuali attratta a tassazione è passata dal 30 per cento prescritto per la generalità delle cooperative a mutualità prevalente, al cinquantacinque per cento; da ultimo, la c.d. “manovra di ferragosto” (D.L. 13 agosto 2011, n. 138) ha modificato ulteriormente le percentuali di imponibilità degli utili netti annuali, che passano al sessantacinque per cento per le cooperative di consumo, al quaranta per cento per le altre cooperative a mutualità prevalente diverse da quelle agricole e della piccola pesca.

15 Il nuovo art. 2512, prevedendo le «cooperative a mutualità prevalente» e introducendo la di-stinzione tra queste, alle quali sono riservate le agevolazioni fiscali disposte dalla legge a favore della cooperazione e le altre cooperative, rappresenta una delle più profonde innovazioni introdotte dalla riforma, che si ricollega direttamente all’art. 45 Cost. e a quella funzione sociale che la norma costi-tuzionale riconosce alla sola cooperazione «a carattere di mutualità e senza fini di speculazione pri-vata», alla quale dovrebbero essere riservati i favori della legge. Questa distinzione è stata ribadita chiaramente dalla legge delega, che aveva previsto la necessità di distinguere tra cooperazione costi-tuzionalmente riconosciuta, e quindi destinataria del trattamento di favore perché in possesso dei requisiti richiamati dall’art. 14 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, e cooperazione “diversa”, che finisce col collocarsi in un’area molto prossima a quella delle società lucrative. In merito alla distin-zione tra i due modelli di società cooperativa, si vedano i commenti sub artt. 2512, 2513, 2514 c.c., nei diversi commentari alla riforma societaria: BUONOCORE (a cura di), La riforma del diritto societa-rio, Torino, 2003, p. 223 ss.; MAFFEI ALBERTI (a cura di), Il nuovo diritto delle società, Padova, 2005, p. 2617 ss. Si vedano anche BASSI, La unitarietà del fenomeno cooperativo dopo la riforma e la posizione dei soci, in AA.VV., La disciplina civilistica e fiscale della “nuova” società cooperativa, cit., p. 40; MARASÀ (a cura di), Le cooperative prima e dopo la riforma del diritto societario, Padova, 2004.

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le sole cooperative che svolgono la loro attività “prevalentemente” in favore dei so-ci, consumatori o utenti dei beni o servizi e che si avvalgono “prevalentemente” delle prestazioni dei soci e degli apporti di beni o servizi da parte di questi 16.

Con particolare riguardo alle riserve indivisibili, è stata introdotta nel codice ci-vile una disposizione specifica, l’art. 2545-ter, a mente della quale sono indivisibili le riserve che, per disposizione di legge o di statuto, non possono essere ripartite tra i soci, neppure in caso di scioglimento della società. Esse possono essere desti-nate alla copertura di perdite solo in caso di esaurimento sia delle altre riserve, che la società aveva destinato ad aumento di capitale, sia delle riserve distribuibili in caso di scioglimento. In tale ultima ipotesi, esse sono devolute al fondo per la promo-zione e lo sviluppo della cooperazione.

Da quanto precede, nonostante l’incedere sempre più tortuoso ed imprevedibi-le della normazione, i diversi regimi di (de)tassazione degli utili sembrano coagu-larsi intorno ad un comune denominatore.

Più che a una logica agevolativa in senso “sottrattivo”, è evidente che la loro parziale detassazione, in quanto destinati a riserve, assolve una funzione essenziale ai fini dell’incentivazione e funzionamento stesso del sistema cooperativo: raffor-zare la patrimonializzazione della società in relazione ad un corrispondente sacrifi-cio dei soci e dunque dar corpo effettivo alla mutualità.

Il correlato regime fiscale si spiega, perciò, con l’esigenza di evitare che il pre-lievo in capo alla cooperativa ostacoli o vanifichi, per l’appunto, il raggiungimento di queste finalità, che, come già detto, sono assunte dal sistema e in particolare dal-l’art. 45 Cost., a finalità generali, espressive di valori fondanti il nostro sistema 17.

16 Le cooperative a mutualità “non prevalente” sono invece escluse dal godimento dei benefici fiscali, sono aperte all’accesso dei capitali esterni, e risultano sottoposte a limiti per ciò che attiene la distribuzione degli utili. Per la distinzione tra le due categorie di società cooperative ai fini del godi-mento dei benefici fiscali si veda SALVINI, La riforma del diritto societario: le implicazioni fiscali per le cooperative, in Rass. trib., 2003, p. 840; COCO, L’ambiguo requisito della “mutualità prevalente” nella disciplina delle agevolazioni tributarie, in TributImpresa, 2004, p. 261; PISTOLESI, Le agevolazioni fiscali per le cooperative, cit., p. 68; BASSI, La unitarietà del fenomeno cooperativo dopo la riforma e la posizione dei soci, in AA.VV., La disciplina civilistica e fiscale, cit., p. 22 ss. e, se si vuole, MARINELLO, La riforma del diritto societario: riflessi fiscali per le cooperative, in AA.VV., Le opportunità del nuovo diritto societa-rio per le imprese cooperative, a cura di F. Belli, Firenze, 2005, p. 76 ss.

17 In merito al fondamento costituzionale della fiscalità cooperativa, soltanto il rafforzamento patrimoniale della società può assicurare, nella logica dell’art. 45 Cost., la piena efficacia degli obiet-tivi di promozione e tutela del fenomeno cooperativo e, d’altra parte, occorre confrontare la posi-zione del socio di una società cooperativa con quella del socio di un ente lucrativo. Soltanto al pri-mo, infatti, resta preclusa la possibilità di beneficiare degli utili accantonati a riserva e, a prescindere dalla consistenza del patrimonio accumulato dalla società, al socio spetterà esclusivamente la quota di pertinenza del capitale sociale. Sul punto, DI PIETRO, Requisiti fiscali per le agevolazioni delle coope-rative, in AA.VV., La disciplina civilistica e fiscale della “nuova” società cooperativa, cit., p. 84; SALVINI, Le misure fiscali per la cooperazione, cit., p. 497; SARTI, Il regime tributario delle società cooperative, cit., p. 948; QUATTROCCHI, Le norme in materia di “aiuti di Stato” in ambito comunitario, cit., p. 1116;

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Detto in termini chiari, ci troviamo di fronte non ad un sistema fiscale agevola-tivo o, se si preferisce, ad agevolazioni in senso proprio, bensì ad un sistema fiscale differenziato, che presenta, piuttosto, un carattere “necessitato”, in ragione delle peculiarità strutturali proprie di questa forma societaria 18.

La coerenza sistematica di tale scelta è confermata, sul piano del diritto interno, dalla circostanza che la promozione della cooperazione è comunque subordinata agli opportuni controlli, tesi ad assicurare l’effettività della funzione sociale e l’as-senza di fini speculativi privati 19.

In questo quadro, il regime tributario disposto dal legislatore sembra piena-mente giustificato anche alla luce del principio del concorso alle spese pubbliche ex art. 53 Cost. e del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. 20. Queste norme, infat-ti, in una loro lettura combinata, secondo il costante orientamento della Corte co-stituzionale, consentono valutazioni differenziate dell’attitudine alla contribuzio-ne, se funzionali alla promozione di interessi al pari tutelati dalla Carta fondamen-tale, sebbene riconducibili a finalità extrafiscali.

4. La cooperazione nel contesto normativo comunitario

Prima di verificare la compatibilità del regime tributario appena delineato con l’art. 87, è opportuno ricordare come anche il diritto comunitario mostri crescente attenzione al fenomeno cooperativo. Il primo significativo intervento in materia si è avuto con le risoluzioni del Parlamento europeo del 19 novembre e del 4 dicem-bre 1980, volte rispettivamente a favorire il collegamento tra le diverse associazio-ni degli Stati membri, mediante il Comitè de coordination des association de coopera-

MARRONE-STEVANATO-GIOVANNINI, L’esenzione ires per le cooperative: agevolazione fiscale, conseguen-za dell’indistribuibilità degli utili o in intreccio delle due?, in Dial. dir. trib., 2006, p. 839.

18 Di qui, tra l’altro, la netta distinzione tra gli obiettivi sottesi alle riserve di legge contenute ri-spettivamente negli artt. 41 e 45 della Carta costituzionale. La prima enuncia infatti il rinvio al legi-slatore ordinario del potere di determinare i «programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». La seconda è inve-ce diretta a promuovere e favorire lo sviluppo della cooperazione «con i mezzi idonei», riconduci-bili essenzialmente, anche se non esclusivamente, all’area dell’incentivazione fiscale. A tale proposi-to, si veda GALGANO, Le nuove società di capitali e cooperative, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. econ., diretto da F. Galgano, Padova, 2004, vol. XXIX, p. 499.

19 In merito al sistema dei controlli, si rinvia a MORARA, Il sistema dei controlli, in AA.VV., La ri-forma delle società cooperative, a cura di R. Genco, Milano, 2003, p. 211 ss.; ROCCHI, Il controllo giudi-ziario e la vigilanza amministrativa, in AA.VV., Le cooperative dopo la riforma del diritto societario, a cura di M. Sandulli e P. Valensise, Milano, 2005, p. 225 ss.

20 V. MARONGIU, La cooperazione “costituzionalmente riconosciuta”. Profili di costituzionalità, in F. GRAZIANO (a cura di), La riforma del diritto cooperativo, cit., 75; GIOVANNINI, Concorrenza fiscale e aiuti di Stato, cit., 1587.

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tives e la promozione di indagini conoscitive delle diverse realtà nazionali e l’ado-zione di apposite politiche di incentivazione.

Sulla scia di quanto avvenuto per la disciplina delle società commerciali, il 5 marzo 1992 la Commissione europea ha emanato un documento ufficiale che ha fatto propria la proposta di regolamento avanzata dal Consiglio in tema di “Statuto della società cooperativa europea”, a sua volta ripresentata con emendamenti il 6 luglio 1993 21.

Di notevole rilevanza, anche ai fini della compatibilità comunitaria dei tratta-menti differenziati garantiti dai vari Stati membri alla cooperazione, è il documen-to di lavoro dei servizi della Commissione del dicembre 2001 che, muovendo da un’analisi comparativa dei modelli di società cooperative in Europa, si concentra sul ruolo che la cooperazione può svolgere nel contesto degli obiettivi comunitari. A tale proposito, la Commissione ha rilevato come la concessione di benefici in favo-re delle cooperative si giustifica con il perseguimento di obiettivi non meramente econo-mici nell’interesse di tutte le parti interessate 22.

I principi comuni alla disciplina della cooperazione nei vari Stati membri sono stati poi sintetizzati nel regolamento CE del Consiglio 22 luglio 2003, n. 1435, re-lativo allo statuto della società cooperativa europea (SCE), il quale, muovendo dalla considerazione della “preminenza della persona”, identifica come obiettivo della SCE, cui tutte le legislazioni nazionali dovrebbero progressivamente unifor-marsi, il soddisfacimento dei bisogni propri dei soci e la promozione delle loro at-tività economiche nel rispetto di alcuni principi, tra cui la finalizzazione delle atti-vità della società cooperativa al reciproco vantaggio dei soci ed il coinvolgimento di questi nelle attività della società, con equa ripartizione del controllo, attraverso la regola “una persona, un voto”.

Al fine di assicurare pari condizioni di concorrenza e contribuire al proprio svi-luppo economico, la Comunità dovrebbe assicurare alle cooperative strumenti giuridici idonei a rendere più agevoli le loro attività transnazionali e, pur dovendo-

21 Sul progetto di società cooperativa europea, si veda diffusamente SCHIANO DI PEPE, Lo statuto comunitario della società cooperativa, in AA.VV., La società cooperativa: aspetti civilistici e tributari, cit., p. 159 ss.

22 V. Documento di lavoro dei servizi della Commissione – Le cooperative nell’Europa imprenditoria-le, par. 2.9.2., consultabile sul sito http://ec.europa.eu/enterprise/entrepreneurship/coop/social- cmaf_agenda/social-cmaf-cooperatives.htm. In proposito, QUATTROCCHI, Le norme in materia di “aiuti” di Stato in ambito comunitario e il regime tributario delle società cooperative, in Dir. prat. trib., 2008, p. 1111. A seguito dei rilievi svolti nel documento in questione, la Commissione ha emesso una Comunicazione sulla promozione delle società cooperative in Europa, nella quale si afferma tra l’al-tro che un trattamento fiscale differenziato per le cooperative «può essere accettato», ma in tutti gli aspetti della legislazione sulle cooperative «andrebbe rispettato il principio secondo il quale le pro-tezioni o i vantaggi concessi ad un tipo particolare di organismo devono essere proporzionati ai vin-coli giuridici, al valore aggiunto sociale e alle limitazioni proprie di tale forma e non devono dar luo-go ad una concorrenza sleale» (par. 3.2.6.).

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si garantire che le cooperative operino in condizioni di parità rispetto alle altre im-prese, viene sottolineato che esse sono disciplinate da regole di funzionamento par-ticolari, diverse rispetto a quelle degli altri operatori economici, che si traducono in li-mitazioni riguardanti i diritti propri dei soci e nella prevalenza dello scopo mutua-listico rispetto alla finalità lucrativa 23.

Da ultimo merita di essere ricordata la risoluzione del Parlamento europeo 19 febbraio 2009 sull’economia sociale, con la quale si sottolinea come l’esistenza di modelli giuridici alternativi a quello rappresentato dalla società lucrativa sia rico-nosciuta nel Trattato CE e nella successiva adozione dello statuto della società co-operativa europea, e si invita la Commissione a promuovere e difendere il concetto di “fare impresa in un altro modo” attraverso forme di esercizio dell’attività eco-nomica la cui vera forza propulsiva sia rappresentata non tanto dalla redditività e-conomica, quanto dalla “redditività sociale” 24.

5. La nozione di “aiuto di Stato”: criteri interpretativi

Si tratta, a questo punto, di confrontare le considerazioni finora svolte con la nozione di “aiuto di Stato” e di verificare, finalmente, se il sistema impositivo pre-visto per le cooperative possa essere considerato compatibile con il divieto dell’art. 87, n. 1, del Trattato. Accertamento, questo, che la Corte di Giustizia, nella sen-tenza qui in commento, ha rimesso al giudice nazionale.

Il divieto – com’è noto – risponde a una logica tendenzialmente sganciata dai valori ordinamentali e costituzionali degli Stati membri, e si identifica, piuttosto, nel primato assoluto del mercato e della libera concorrenza 25.

Riprendendo la ratio dell’art. 87, l’indagine sin qui condotta potrebbe apparire

23 Si veda il regolamento comunitario sulla SCE n. 1453/2003, considerando n. 7 e n. 9. Sul pun-to, in particolare, QUATTROCCHI, Le norme in materia di “aiuti” di Stato in ambito comunitario e il re-gime tributario delle società cooperative, cit., p. 1110; SARTI, Prime riflessioni sugli aspetti civili e fiscali della società cooperativa europea, in Riv. coop., 2004, p. 70. Tra gli aspetti più significativi emergenti dallo statuto della SCE, va segnalato il rilievo attribuito all’obbligo di destinazione a riserva legale di una parte degli utili e, soprattutto, alla indivisibilità delle riserve che, esattamente come nell’ordina-mento italiano ed in altri ordinamenti nazionali, risponde all’esigenza di una più intensa patrimonia-lizzazione delle società cooperative riconosciuta come coerente con il fine mutualistico.

24 Tra i mezzi necessari per il raggiungimento dell’obiettivo di promozione e tutela dell’econo-mia sociale, il Parlamento europeo indica espressamente il sostegno al gruppo di riflessione dell’U-nione europea sulle banche di credito cooperativo e la promozione delle società cooperative in Eu-ropa, secondo le linee guida stabilite dal regolamento CE n. 1435/2003. Il testo della risoluzione è consultabile sul sito http://www.europarl.europa.eu.

25 V. GALLO, Mercato unico e fiscalità: aspetti giuridici del coordinamento fiscale, in Rass. trib., 2000, 725 ss.; BASILAVECCHIA, Agevolazioni, esenzioni ed esclusioni, in Rass. trib., 2002, pp. 434-435; GIO-VANNINI, Concorrenza fiscale e aiuti di Stato, cit., p. 1591.

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improduttiva, dal momento che l’angolo visuale del legislatore comunitario, privi-legiando concorrenza e mercato, sembrerebbe relegare ad un ruolo ancillare altri beni giuridici che i singoli ordinamenti tendono a proteggere.

In realtà, se si scende con l’analisi più in profondità, ci si avvede che le cose non stanno propriamente in questi termini e che, anzi, valori e beni giuridici nazionali conservano funzione determinante nell’interpretazione dell’art. 87.

La centralità di questo argomento consiglia di muoversi per gradi e articolare il ragionamento 26.

L’art. 87, nella parte in cui considera vietate le misure concesse «sotto qualsiasi forma» dagli Stati membri, introduce un concetto di portata generale, suscettibile di comprendere una serie indeterminata di misure, dirette o indirette, indipenden-temente dalla loro giustificazione e dalla loro finalità.

Per la giurisprudenza elaborata al riguardo dalla Corte di Giustizia, l’aiuto di Stato è incompatibile con il mercato comune in presenza di quattro condizioni 27: a) deve trattarsi di un aiuto erogato dallo Stato, un suo ente territoriale o altro ente pubblico che operi nell’ambito dei poteri delegati dallo Stato; b) la misura di in-centivazione deve incidere sugli scambi tra Stati membri, rafforzando la posizione di alcune imprese o produzioni; c) deve, conseguentemente, falsare, o minacciare di falsare la concorrenza; d) deve, infine, presentare un carattere selettivo, rivol-gendosi ad alcune imprese o produzioni.

Affinché, dunque, una misura possa costituire “aiuto”, deve anzitutto essere “im-putabile allo Stato” ed attingere a “risorse statali”, nozioni che, in questo contesto, comprendono giocoforza anche le Regioni e gli altri enti locali territoriali a cui siano attribuite competenze in materia tributaria, o più genericamente sovvenzionale 28.

26 Preliminarmente, ricordo che l’instaurazione del mercato comune presuppone la creazione ed il funzionamento di uno spazio economico unificato, sorretto da regole omogenee, all’interno del quale gli scambi possano avvenire alle medesime condizioni esistenti nel contesto del mercato nazionale. Questa prospettiva unificante rende necessaria, da un lato, l’eliminazione di ogni barrie-ra alla libera circolazione dei beni e dei servizi e, dall’altro, impone che la concorrenza tra imprese stabilite nel territorio dell’Unione non sia falsata da misure finanziarie d’incentivazione assunte dal singolo Stato nei confronti di alcuni soltanto degli operatori economici nazionali. Si tratta di una declinazione tipica del principio di non discriminazione e, dunque, della cosiddetta fiscalità nega-tiva. Sulla funzione “negativa” della variabile fiscale nel processo di unificazione del mercato co-mune, si veda FICHERA, Gli aiuti fiscali nell’ordinamento comunitario, cit., p. 97 ss.; BORIA, L’anti-sovrano. Potere tributario e sovranità nell’ordinamento comunitario, Torino, 2004, p. 107 ss.; GIO-VANNINI, op. loc. ult. cit.

27 In proposito si rinvia a RUSSO, Le agevolazioni e le esenzioni fiscali alla luce dei principi comunitari in materia di aiuti di Stato, cit., p. 239; GIUSTINIANI, Aiuti di Stato nel diritto comunitario e misure fiscali, in Rass. trib., n. 6 bis, 2003, p. 2243 ss.; BORIA, Diritto tributario europeo, Milano, 2005, p. 59 ss.

28 V. DI BUCCI, Aiuti di Stato e misure fiscali nella recente prassi della Commissione Ce e nella giuri-sprudenza delle giurisdizioni comunitarie, cit., p. 2318. In giurisprudenza, si veda la sent. della Corte di Giustizia 16 maggio 2002, causa C-482/99, Stardust, punti 24 e 50-57; nonché la sent. 14 ottobre 1987, causa C-248/84, Nordrhein-Westfalen, punto 17. Occorre altresì che la determinazione di at-

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Certo, la rinuncia immediata alla percezione di un’entrata fiscale da parte di uno Stato può obbedire a considerazioni di prospettiva e può coincidere, nel me-dio o lungo periodo, con un’aspettativa di gettito maggiore, derivante, appunto, dalla incentivazione iniziale o congiunturale di una determinata attività. Per ciò che interessa l’ambito di applicazione dell’art. 87, n. 1, tuttavia, non si tratta di va-lutare la convenienza prospettica o la ragionevolezza medio tempore per lo Stato che abbia inteso promuovere lo sviluppo di una determinata attività, ma è suffi-ciente accertare che nell’immediato lo Stato abbia rinunciato totalmente o par-zialmente al prelievo che avrebbe imposto in condizioni normali 29.

Ed eccoci al punto nodale dell’interpretazione dell’art. 87: il parametro di rife-rimento che identifica il trattamento tributario “normale”.

Si tratta, come ho testé sottolineato, di aspetto decisivo, che si lega, già a fil di logica, ad un “giudizio di relazione” tra trattamento fiscale specificamente oggetto di valutazione ai fini della norma comunitaria e quello eventualmente applicabile a situazioni comparabili sotto il profilo oggettivo e soggettivo.

Giudizio che evoca il concetto di selettività per come elaborato dalla Corte di Giustizia rispetto al divieto di distorsione della concorrenza 30. tribuire un vantaggio a determinate imprese discenda effettivamente da una scelta dello Stato mem-bro e non costituisca la semplice applicazione di disposizioni comunitarie. V. l’art. 8, n. 1) della di-rettiva del Consiglio 19 ottobre 1992, 92/81/CEE, relativa all’armonizzazione delle strutture delle accise applicate agli oli minerali e la sent. della Corte 10 giugno 1999, causa C-346/97, Braathens Sverigen. Sulle “risorse statali”, si vedano le sentt. della Corte 15 marzo 1994, causa C-387/92, Banco Exterior de Espana; 19 maggio 1999, causa C-6/97, Italia/Commissione (“autotrasportatori”); 19 set-tembre 2000, causa C-156/98, Einkommensteuergestz.

29 Sul punto, diffusamente, DI BUCCI, Aiuti di Stato e misure fiscali nella recente prassi della Com-missione Ce e nella giurisprudenza, cit., p. 2318 ss.; e, in giurisprudenza, la sent. 6 marzo 2002, cause riunite T-92/00 e T-103/00, territorio Històrico de Alava – Diputacion Foral de Alava e a./ Commissione (“Ramondin”).

30 La Corte di Giustizia ha precisato che non è configurabile una soglia o una percentuale al di sotto della quale si possa ritenere che gli scambi tra Stati membri siano influenzati da una determi-nata misura. Ciò che rileva è l’idoneità dell’aiuto ad incidere sugli scambi intracomunitari e a minac-ciare di falsare la concorrenza, senza che sia necessaria una dimostrazione puntuale sull’effettivo pregiudizio subito da talune imprese a causa della concessione dell’aiuto (v. Corte di Giustizia, 29 aprile 1994, causa C-372/97, Repubblica italiana/Commissione delle Comunità europee, in http:// curia.europa.eu e, in dottrina, RUSSO, Le agevolazioni e le esenzioni fiscali alla luce dei principi comuni-tari in materia di aiuti di Stato, cit., p. 336; FRANSONI, Profili fiscali della disciplina comunitaria degli aiuti di Stato, cit., p. 10). La “distorsione della concorrenza” deve perciò essere valutata avuto riguar-do sia all’effettiva incidenza sugli scambi, sia alla mera possibilità che tale misura rafforzi un’impresa a danno di altre imprese concorrenti (al fine della valutazione dell’idoneità dell’aiuto a falsare la con-correnza non è pertanto necessario che l’impresa beneficiaria partecipi direttamente agli scambi in-tracomunitari, dal momento che il rafforzamento della sua posizione conseguente all’adozione della misura di vantaggio può consentire anche ad un’impresa che sino a quel momento non abbia parte-cipato a tali scambi di inserirsi nel mercato degli altri Stati membri. Sul punto, TIZZANO, Trattati del-l’Unione Europea e della Comunità europea, cit., p. 599). Nozione, quella di impresa, che comprende qualunque attività economica, indipendentemente dalla forma che assume o da caratteristiche sog-

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Come ha avuto modo di precisare la Corte, la “selettività” della misura si radica su un confronto tra il trattamento agevolativo concesso a talune imprese o produ-zioni e quello che si rende applicabile ad altre imprese che si trovino in una situa-zione fattuale giuridica identica o analoga, tenendo conto, al contempo, del livello di tassazione assumibile come “normale” in seno all’ordinamento statale e dell’o-biettivo perseguito dalla misura fiscale di vantaggio 31.

In relazione a questo specifico aspetto, non è idoneo a soddisfare il requisito della selettività un provvedimento di favore che, sebbene costitutivo di un vantag-gio, sia giustificato dalla «natura o dalla struttura generale del sistema nel quale si inserisce» 32, assumendo a parametro la logica interna del sistema fiscale nella sua generalità: la giustificazione del trattamento agevolativo, pertanto, non può essere determinata in astratto, ma presuppone. al contrario, un’analisi del sistema tributa-rio di riferimento, comprensiva dei suoi fondamenti generali e dell’assetto sistema-tico complessivo.

Quello che a prima vista si presenta come un trattamento di favore si può allora rivelare come semplice trattamento differenziato, riferito cioè a situazioni non o-mogenee, ed essere stato concepito non come “aiuto” ma come indispensabile a-nello di congiunzione tra astratte esigenze fondanti il sistema nazionale e loro con-creta realizzazione. gettive del suo esercente. Ciò che conta, dunque, è che la misura procuri un vantaggio “specifico” a determinate imprese o settori di attività (v. in particolare le sentt. della Corte 26 settembre 1996, causa C-241/94, Kimberly Clark; 1 dicembre 1998, causa C-200/97, Ecotrade): nella logica del sistema de-lineato dall’art. 87, pertanto, la situazione in cui viene a trovarsi il beneficiario della misura va para-gonata con quella di altre imprese stabilite nello Stato membro, a nulla rilevando, sotto questo profi-lo, il raffronto con la situazione delle imprese stabilite negli altri Stati membri, né la circostanza che la misura agevolativa tenda a compensare situazioni di svantaggio nelle quali versino le imprese be-neficiarie (si veda, in proposito, la sent. della Corte 19 maggio 1999, Italia/Commissione “autotra-sportatori”, cit., punti 17 e 21).

31 V. in proposito le sentt. della Corte 17 giugno 1999, Belgio/Commissione (“Maribel bis-ter”); e 8 novembre 2001, causa C-143/99, Adria-Wien Pipeline.

32 La Corte ha escluso per la prima volta il carattere selettivo di una misura fiscale che possa es-sere giustificata in base alla “natura o l’economia del sistema” con un obiter dictum nella sent. del 2 luglio 1974, causa C-173/73, Italia/Commissione, per poi ribadire il principio in più occasioni, sia pure sempre sul piano teorico e ricorrendo ad obiter dicta. Si vedano, tra le altre, la sent. Maribel bis/ter e la Adria-Wien Pipeline citate alla nota precedente. Anche la Commissione, nella comunica-zione 98/C 384/03, Applicazione delle regole relative agli aiuti di stato alle misure riguardanti la fisca-lità diretta delle imprese, in G.U.C.E. 10 dicembre 1998, ha aderito a questa impostazione, chiarendo che una misura di carattere selettivo può giustificarsi quando derivi «direttamente dai principi fonda-mentali o direttivi del sistema fiscale dello Stato». In sede di applicazione pratica, tuttavia, la verifica circa la coerenza di una misura fiscale selettiva con i principi generali del sistema tributario nel quale si colloca incontra non poche difficoltà: tra gli esempi concreti, si veda la decisione 2003/193/CE della Commissione in merito alle esenzioni fiscali e prestiti agevolati concessi dall’Italia in favore di im-prese di servizi pubblici a prevalente capitale pubblico (in G.U. L 77 del 24 marzo 2003, 21). V. DI BUCCI, Aiuti di Stato e misure fiscali nella recente prassi, cit., p. 2329 ss.

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Ebbene, queste osservazioni, se corrette, conducono immediatamente alla con-clusione sulla compatibilità del sistema fiscale delle cooperative con l’art. 87.

Mi sembra di poter senz’altro affermare che quel sistema non sia suscettibile di essere qualificato come “selettivo”, nell’accezione venuta via via formandosi nella giurisprudenza comunitaria 33, trattandosi, piuttosto, di un regime legato ad una logica propria del nostro ordinamento, direttamente giustificata dai suoi principi fondanti 34.

Ho già richiamato, infatti, l’art. 45 della Costituzione, vero e proprio basamen-to di settore ed espressione di un modello organico di sviluppo sociale ed econo-mico della Repubblica, modello che, proprio in ragione di quel basamento, non può dirsi “derogatorio” o “speciale” rispetto al modello della società lucrativa o del-l’impresa tout court, ma semmai “alternativo”, dotato però di pari dignità.

Il succo del ragionamento, allora, diventa questo: alla luce dei precetti costitu-zionali e degli ulteriori principi interni dell’ordinamento nazionale, quella che po-trebbe apparire deroga al sistema impositivo ordinario, è soltanto, in realtà, disci-plina a sua volta fondante un regime “ordinario” di tassazione, differenziato bensì in ragione della finalità di sviluppo del sistema economico considerato nel suo in-sieme 35, ma non integrante, proprio per questi motivi, il divieto dell’art. 87 del Trattato in punto selettività.

Muovendoci su questa linea ricostruttiva, mi sembra si possa ritenere superata anche la questione, pure indicata dalla Corte di Giustizia nella sentenza in com-mento, sulla “proporzionalità” tra la misura “agevolativa” e la finalità concretamen-te perseguita.

Infatti, se è vero, come io credo, che il regime fiscale delle società cooperative fonda semplicemente un sistema differenziato di tassazione, coerente con i valori generali, il principio di proporzionalità neppure può venire in considerazione, poi-

33 A partire dalla sent. 2 luglio 1974, causa 173/73, Italia/Commissione. Si vedano altresì Corte di Giustizia, 17 marzo 1993, cause riunite C-72/91, C-73/91, Sloman Neptun; 29 aprile 2004, causa C-159/01. In dottrina, la compatibilità comunitaria del regime fiscale della cooperazione con la di-sciplina degli aiuti di Stato è sostenuta da PISTOLESI, Le agevolazioni fiscali per le cooperative, cit., p. 65 ss.; SARTI, Il regime tributario delle società cooperative, cit., p. 932; GRAZIANO, Agevolazioni tributarie per le società cooperative, cit., p. 465 ss.; SALVINI, Le misure fiscali per la cooperazione, cit., p. 500; PEPE, Fiscalità cooperativa ed “aiuti di Stato”, cit., p. 1712.

34 Osserva GIOVANNINI, Concorrenza fiscale e aiuti di Stato, cit., p. 1589, in termini che a me sem-brano condivisibili, che «le caratteristiche della cooperazione … fondano in realtà un sistema fiscale autonomo, intrecciando un sistema bensì di settore ma non derogatorio del sistema generale. Se mi si consente un gioco di parole, la disciplina costituzionale e quella civilistica radicano un sistema generale di settore, caratterizzato da regole peculiari, ma pur sempre generali, quindi e per l’appunto non derogatorie».

35 V. MOSCHETTI-ZENNARO, Agevolazioni fiscali, in Dig. disc. priv. sez. comm., I, 1987, p. 85; LA ROSA, Le agevolazioni tributarie, in Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, I, I, Padova, 1994, p. 403 ss.; BASILAVECCHIA, Agevolazioni, esenzioni ed esclusioni, cit., p. 438 ss.

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ché esso presuppone che quel sistema sia qualificabile come agevolativo in senso stretto e quindi derogatorio.

6. La cooperazione come modello sociale ed economico di sviluppo dell’Unione europea

A conclusione, può essere opportuno riprendere, come ulteriore argomento a favore della compatibilità comunitaria del sistema fiscale nazionale dedicato alle cooperative, quanto già detto sul rilievo crescente che il fenomeno assume nell’am-bito dell’ordinamento comunitario e in particolare nel regolamento in materia di Società Cooperativa Europea.

Si tratta, a mio modo di vedere, di un trend significativo verso una accentuazio-ne dei profili “solidaristici” e di attenzione alla “socialità” emergenti dal Trattato, per effetto delle progressive modifiche e integrazioni che concorrono a delineare la costituzione economica europea.

Se letto in questa prospettiva, anche il perfezionamento del libero mercato e dei regimi di concorrenza non è più destinato a porsi come valore in sé, ma come strumento rivolto alla realizzazione di condizioni di uguaglianza sostanziale e di maggiore benessere economico e sociale per i cittadini dell’Unione 36.

Anche in una prospettiva esclusivamente comunitaria, per concludere, una dif-ferenziazione fiscale che presenti le caratteristiche di organicità e coerenza sistema-tica richieste dall’art. 87, può trovare corrispondenza in valori immanenti al Tratta-to, che non solo non confliggono, ma che anzi si pongono sullo sfondo delle tradi-zionali libertà di circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e delle persone.

Antonio Marinello

36 In questo senso, RUSSO, Le agevolazioni e le esenzioni fiscali alla luce dei principi comunitari in materia di aiuti di Stato, cit., p. 225 ss.

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Corte cost., 25 luglio 2011, n. 247 (udienza del 5 luglio 2011) – Pres. Qua-ranta, Rel. Gallo

Accertamento. – I.V.A. – Termini. – Loro raddoppio. – art. 57 d.P.R. n. 633/1972. – Illegittimità costituzionale. – Questione. – Art. 3, comma 3, legge n. 212/2000. – Inammissibilità. Accertamento. – I.V.A. – Termini. – Loro raddoppio. – art. 57 d.P.R. n. 633/1972. – Illegittimità costituzionale. – Questione. – Artt. 3, 24, 25, 97 Cost. – Infondatezza.

È inammissibile la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto del

terzo comma dell’art. 57, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto), inserito dal comma 25 dell’art. 37, D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimen-to e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248 –, e del comma 26 dell’art. 37, D.L. n. 223 del 2006, sollevata in riferimento al-l’art. 3, comma 3, L. 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei di-ritti del contribuente).

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto del terzo comma dell’art. 57, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto), inserito dal comma 25 dell’art. 37, D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimen-to e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248 –, e del comma 26 dell’art. 37, D.L. n. 223 del 2006, sollevata in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 97 della Costituzione.

(Omissis) Nel corso di due giudizi riuniti promossi da una società a responsabilità

limitata avverso due avvisi di accertamento dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) ri-guardanti, rispettivamente, gli anni 2002 e 2003, la Commissione tributaria provinciale di Napoli, con ordinanza depositata il 29 aprile 2010, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 97 della Costituzione nonché all’art. 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), questioni di legittimità dell’art. 57 del decreto del Presidente della Repubblica del 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto), quale modifica-to dal comma 25 dell’art. 37 del decreto-legge del 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, in vigore dal 4

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luglio 2006 [recte: del combinato disposto del terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 – comma inserito dal comma 25 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006 – e del comma 26 dell’art. 37 del medesimo decreto-legge n. 223 del 2006].

Il censurato terzo comma del citato art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972, nel testo in vigore dal 4 luglio 2006, stabilisce che, «In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti [cioè, nel testo applicabile ratione temporis ai due suddetti periodi d’imposta in contesta-zione: in caso di presentazione della dichiarazione, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, aumentato – nel caso di richiesta di rimborso dell’eccedenza d’imposta detraibile risultante dalla dichiarazione – di un periodo di tempo pari a quello compreso tra il sedicesimo giorno successivo a quello di notificazione della richiesta di documenti da parte dell’ufficio e la data di consegna di tali documenti; in caso di omessa presentazione della dichiarazione, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe do-vuto essere presentata] sono raddoppiati relativamente al periodo d’imposta in cui è stata commessa la violazione». Inoltre, il comma 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006 prevede che «Le disposizioni di cui ai commi 24 [relativo alle imposte sui redditi] e 25 [relativo all’IVA] si applicano a decorrere dal periodo d’imposta per il quale alla data di entrata in vigore del presente decreto sono ancora pendenti i termini di cui al primo e secondo comma dell’art. 43 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 [re-lativo alle imposte sui redditi] e dell’art. 57 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 [relati-vo, come visto, all’IVA]».

Tali disposizioni sono denunciate, in base a quanto espressamente indicato nel di-spositivo dell’ordinanza di rimessione, nella parte in cui non prevedono che, in pre-senza delle ipotesi di reato previste dal d.lgs. n. 74 del 2000: 1) la normativa sia appli-cabile solo alle annualità successive al 2006, anno nel quale sono entrati in vigore i commi 25 e 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006; 2) «l’eventuale denun-cia» ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen. debba essere presentata anteriormente allo spirare dei termini di cui ai primi due commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972.

(Omissis)

Considerato in diritto 1. – La Commissione tributaria provinciale di Napoli dubita, in riferimento agli artt.

3, 24, 25 e 97 della Costituzione nonché all’art. 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), della legittimità del combinato disposto del terzo comma dell’art. 57 del decreto del Presidente della Repubblica del 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto) – comma inserito dal comma 25 dell’art. 37 del decreto-legge del 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il conteni-mento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entra-

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te e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 – e del comma 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006.

Detto combinato disposto stabilisce, in tema di IVA, che: a) «In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo d’imposta in cui è stata commessa la violazione» (art. 57, terzo comma, del d.P.R. n. 602 del 1973); b) «Le disposizioni di cui ai commi […] 25 [comma che ha introdotto il citato terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 602 del 1973] si applicano a decorrere dal periodo d’imposta per il quale alla data di entrata in vigore del presente decreto [4 luglio 2006] sono an-cora pendenti i termini di cui al primo e secondo comma […] dell’art. 57 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633»). In forza di tali disposizioni e con riguardo agli anni di imposta 2002 e 2003, oggetto degli avvisi impugnati nei giudizi riuniti a quibus, sono raddop-piati (ove ricorrano le indicate condizioni) i seguenti termini di accertamento dell’IVA previsti dai primi due commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972: 1) il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, aumentato – nel caso di richiesta di rimborso dell’eccedenza d’imposta detraibile risultante dalla dichiarazione – di un periodo di tempo pari a quello compreso tra il sedicesimo giorno successivo a quello di notificazione della richiesta di documenti da parte dell’ufficio e la data di consegna di tali documenti (primo comma); 2) il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata, nel caso di omessa presentazione della dichiarazione (secondo comma).

Ad avviso della Commissione tributaria rimettente, la normativa denunciata víola gli evocati parametri, nella parte in cui non prevede che: a) la normativa sul raddoppio dei termini di accertamento sia applicabile solo alle annualità successive all’anno 2006, nel quale sono entrati in vigore i commi 25 e 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006; b) «l’eventuale denuncia» debba essere presentata, ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen., anteriormente allo spirare dei termini di cui ai primi due commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972.

In particolare, vengono prospettate cinque diverse censure, con riferimento, in primo luogo, agli artt. 3 e 24 della Costituzione, e 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente); in secon-do luogo, all’art. 24 Cost.; in terzo luogo, agli artt. 3 e 97 Cost.; in quarto luogo, all’art. 3 Cost.; in quinto luogo, infine, all’art. 25 Cost.

(Omissis) 5. – Nel merito, è necessario esaminare analiticamente le cinque censure prospet-

tate dal rimettente. 5.1. – Con la prima censura viene affermato che il denunciato combinato disposto

si pone in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nonché con l’art. 3, comma 3, della legge n. 212 del 2000, perché irragionevolmente «proroga o riapre», per gli accertamenti delle imposte, termini di decadenza ormai «scaduti», cosí ledendo l’esigenza di «cer-tezza dei rapporti giuridici» ed il diritto di difesa dei contribuenti.

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5.1.1. – Va preliminarmente rilevato, al riguardo, che l’art. 3, comma 3, della legge n. 212 del 2000 (secondo cui «I termini di prescrizione e di decadenza per gli accer-tamenti di imposta non possono essere prorogati») non può essere qui evocato quale parametro di legittimità costituzionale. Come piú volte osservato da questa Corte, in-fatti, le disposizioni di detta legge non hanno rango costituzionale e non costituiscono, neppure come norme interposte, parametro idoneo a fondare il giudizio di legittimità costituzionale di leggi statali (sentenza n. 58 del 2009; ordinanze n. 13 del 2010, n. 185 del 2009, n. 180 del 2007, n. 428 del 2006, n. 216 del 2004).

La questione riferita all’art. 3, comma 3, della legge n. 212 del 2000 è, dunque, inammissibile.

5.1.2. – La questione riferita agli artt. 3 e 24 Cost. non è fondata, perché il rimet-tente muove dall’erroneo presupposto interpretativo che la normativa censurata «proroghi o riapra termini di decadenza ormai scaduti».

L’erroneità di tale presupposto è evidente, ove si consideri che i termini raddoppia-ti di accertamento non costituiscono una “proroga” di quelli ordinari, da disporsi a di-screzione dell’amministrazione finanziaria procedente, in presenza di “eventi peculiari ed eccezionali”. Al contrario, i termini raddoppiati sono anch’essi termini fissati diret-tamente dalla legge, operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva (allorché, cioè, sussista l’obbligo di denuncia penale per i reati tributari previ-sti dal d.lgs. n. 74 del 2000), senza che all’amministrazione finanziaria sia riservato al-cun margine di discrezionalità per la loro applicazione. In altre parole, i termini rad-doppiati non si innestano su quelli “brevi” di cui ai primi due commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 in base ad una scelta degli uffici tributari, ma operano autono-mamente allorché sussistano elementi obiettivi tali da rendere obbligatoria la denun-cia penale per i reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000. Sotto questo aspetto non può parlarsi di «riapertura o proroga di termini scaduti» né di «reviviscenza di poteri di accertamento ormai esauriti», perché i termini “brevi” e quelli raddoppiati si riferisco-no a fattispecie ab origine diverse, che non interferiscono tra loro ed alle quali si con-nettono diversi termini di accertamento. Più precisamente, i termini “brevi” di cui ai primi due commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 operano in presenza di viola-zioni tributarie per le quali non sorge l’obbligo di denuncia penale di reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000; i termini raddoppiati di cui al terzo comma dello stesso art. 57 operano, invece, in presenza di violazioni tributarie per le quali v’è l’obbligo di denun-cia. è, perciò, del tutto irrilevante che detto obbligo, come osservato al punto 3.1., pos-sa insorgere anche dopo il decorso del termine “breve” o possa non essere adempiuto entro tale termine. Ciò che rileva è solo la sussistenza dell’obbligo, perché essa soltan-to connota, sin dall’origine, la fattispecie di illecito tributario alla quale è connessa l’ap-plicabilità dei termini raddoppiati di accertamento.

Tali conclusioni non mutano neppure ove si faccia riferimento al censurato comma 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006. Questa disposizione non prevede una «riapertura di termini di accertamento già scaduti», ma risolve solo un problema di

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successione di leggi nel tempo, senza dettare una disciplina sostanziale ad hoc. Essa si limita, infatti, a stabilire che «Le disposizioni di cui ai commi […] 25 si applicano a decorrere dal periodo d’imposta per il quale alla data di entrata in vigore del presente decreto sono ancora pendenti i termini di cui al primo e secondo comma […] dell’art. 57 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633». In tal modo non viene retroattivamente “ria-perto” un termine già scaduto, ma viene solo escluso che il raddoppio dei termini si applichi alle violazioni tributarie per le quali, alla data di entrata in vigore del decreto (4 luglio 2006), fosse già decorso il termine di accertamento previsto dalla normativa anteriore (secondo quanto già rilevato al punto 3.2.).

È opportuno sottolineare che l’introduzione legislativa di un piú ampio termine di decadenza è evenienza frequente nel diritto tributario ed è pacifico che una siffatta nuova normativa, in difetto di diversa espressa statuizione di legge, si applichi solo ove il precedente e piú ristretto termine non sia già decorso e, quindi, il rapporto non sia esaurito. Le disposizioni denunciate, dunque, sono conformi ai princípi piú volte ap-plicati dalla giurisprudenza in materia di successione delle leggi nel tempo che abbiano previsto l’ampliamento di termini decadenziali. A titolo di esempio, tra i molti che po-trebbero essere indicati, può qui ricordarsi che la Corte di cassazione, in tema di so-pravvenuto prolungamento dei termini di decadenza per la richiesta in via amministra-tiva del rimborso delle imposte dirette, ha costantemente affermato che il piú ampio termine di decadenza (48 mesi in luogo di 18 mesi) trova applicazione nel caso in cui, alla data di entrata in vigore della legge recante l’ampliamento del termine, sia ancora pendente il termine originario, mentre non è applicabile qualora, alla data predetta, tale termine sia già scaduto (ex plurimis, Cassazione civile, sentenze n. 2376, n. 10123 e n. 582 del 2010; n. 25610, n. 22748, n. 22745 e n. 16927 del 2008).

È irrilevante, infine, l’assunto che gli evocati parametri sarebbero violati per l’incertezza in cui versa il contribuente, il quale deve attendere il decorso del termine raddoppiato per avere la sicurezza dell’insussistenza dell’obbligo di denuncia penale. Si è visto, infatti, che tale incertezza è meramente eventuale e soggettiva e dipende non da una discrezionale valutazione dell’amministrazione finanziaria sulla denunciabilità penale dei fatti, ma solo dal momento in cui l’ufficio tributario venga concretamente a conoscenza degli elementi obiettivi comportanti l’obbligo di denuncia. Essa costitui-sce, perciò, una circostanza di mero fatto inidonea ad influire sullo scrutinio di legitti-mità costituzionale.

5.2. – Con la seconda censura è affermato che il denunciato combinato disposto si pone in contrasto con l’art. 24 Cost., sotto due profili: a) perché la denuncia penale, se proposta dopo il decorso dei termini “brevi” di decadenza, potrebbe intervenire quan-do il contribuente, ritenendo non piú accertabile il rapporto tributario, non sia piú in possesso delle scritture e dei documenti contabili; b) perché, non prevedendo un «ra-gionevole» ed «oggettivamente determinato» termine di notificazione dell’atto im-positivo e consentendo «una distanza eccessiva tra il fatto e la contestazione», com-porta una «indeterminata soggezione del contribuente all’azione esecutiva del fisco» e, quindi, vanifica la difesa del contribuente.

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Nessuno dei prospettati profili di illegittimità costituzionale è fondato. 5.2.1. – Quanto alla lesione del diritto di difesa – dedotta sotto il profilo che il con-

tribuente non sarebbe piú in grado di difendersi qualora non fosse piú in possesso del-le scritture e dei documenti contabili da lui «legittimamente» eliminati dopo il decor-so del termine “breve” di accertamento –, va rilevato che il rimettente procede da un erroneo presupposto interpretativo. Egli assume che l’obbligo di conservazione delle suddette scritture e documenti persista solo fino alla scadenza del termine “breve” di accertamento previsto dai primi due commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972.

In realtà il contribuente, per effetto dell’art. 22 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è tenuto a conservare le scritture ed i documenti fino alla definizione degli accer-tamenti relativi al corrispondente periodo d’imposta. Pertanto, se il termine previsto dalla legge, in presenza dell’obbligo di denuncia delle suddette violazioni tributarie penalmente rilevanti, è quello raddoppiato di cui alla normativa censurata, ne segue che il contribuente ha l’obbligo di conservare le scritture ed i documenti fino alla defi-nizione degli accertamenti relativi e, quindi, non può ritenersi esonerato da tale obbli-go fino alla scadenza del termine raddoppiato.

L’eventuale soggettivo affidamento del contribuente a che non siano fatti valere, dopo il decorso del termine “breve” di accertamento, elementi obiettivi (giudizialmen-te controllabili ex post, come si vedrà in prosieguo, al punto 5.3.) comportanti l’obbligo di denuncia penale per i reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000 non è rilevante ai fini del giudizio di costituzionalità, trattandosi di una circostanza di mero fatto. Ciò che invece rileva sul piano giuridico è che il contribuente, ai sensi dell’art. 22 del d.P.R. n. 600 del 1973, è tenuto a conservare la predetta documentazione fino allo spirare dei termini raddoppiati. Il che, evidentemente, non comporta alcuna lesione del diritto di difesa, proprio perché l’obbligo di conservazione documentale fino al decorso di tali termini è contenuto, dal predetto articolo, in limiti certi.

5.2.2. – Quanto, poi, alla lesione del diritto di difesa, dedotta sotto il diverso profilo dell’irragionevole ed eccessiva distanza temporale tra «il fatto e la contestazione», tale da comportare una indeterminata soggezione del contribuente all’azione «esecutiva» (rectius: accertativa) del fisco, è agevole osservare che – contrariamente a quanto affer-mato dal rimettente – il termine non è né indeterminato né irragionevolmente ampio.

Non è indeterminato, in quanto esso, in presenza del suddetto obbligo di denuncia penale, è individuato dalla normativa in modo certo; e cioè: a) entro il 31 dicembre del-l’ottavo anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione; b) entro il 31 dicembre del decimo anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovu-to essere presentata. Né tale obiettiva certezza può ritenersi esclusa dall’eventuale sog-gettiva incertezza del contribuente sulla astratta ravvisabilità delle indicate ipotesi di reato. L’impossibilità per il contribuente di avere la sicurezza ex ante della non ricor-renza dei presupposti di denunciabilità penale della sua condotta costituisce infatti, come si è appena visto, un inconveniente di mero fatto, irrilevante ai fini del giudizio di legittimità costituzionale. Per contrastare possibili abusi degli uffici tributari sono

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invece sufficienti, come sarà meglio precisato al punto 5.3., da un lato, la previsione dell’obbligo dei pubblici ufficiali – e, quindi, anche dei verificatori fiscali – di inoltrare senza ritardo la denuncia penale (obbligo sanzionato dall’art. 361 del codice penale) e, dall’altro, la controllabilità giudiziale circa la sussistenza dei precisi ed obiettivi pre-supposti richiesti dalla legge e dalla giurisprudenza perché sorga detto obbligo.

Il termine raddoppiato, inoltre, non è irragionevolmente ampio, perché è di poco superiore al termine di prescrizione dei reati suddetti (sei anni) e la sua entità è ade-guata a soddisfare la ratio legis di dotare l’amministrazione finanziaria di un maggior lasso di tempo per acquisire e valutare dati utili a contrastare illeciti tributari, i quali, avendo rilevanza penale, sono stati non ingiustificatamente ritenuti dal legislatore par-ticolarmente gravi e, di norma, di complesso accertamento. In particolare, la gravità e la difficoltà di rilevamento di detti illeciti derivano sia dalla non arbitraria ipotizzabilità (in base a chiari ed obiettivi elementi indiziari) dei reati perseguibili d’ufficio previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000; sia dal fatto che tali reati – in considerazione delle modalità della condotta criminosa ovvero della misura del danno arrecato all’erario – normal-mente richiedono controlli, verifiche ed indagini fiscali particolarmente difficili al fine di determinare l’effettiva capacità contributiva dei soggetti passivi d’imposta. Tale si-tuazione, del resto, si presenta anche nelle fattispecie oggetto di esame nei giudizi principali riuniti, in relazione alle quali si addebitano alla contribuente, per gli anni d’imposta in contestazione in detti giudizi, dichiarazioni fraudolente od infedeli.

L’individuata ratio legis non esclude che il legislatore abbia avuto di mira anche l’ulteriore obiettivo indicato nella relazione d’accompagnamento al disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 223 del 2006, secondo la quale le disposizioni denun-ciate sono dirette a consentire la circolazione delle prove dal giudizio penale al proce-dimento tributario. Tale ratio indubbiamente può sussistere in concreto, data la norma-le maggiore durata del processo penale rispetto ai termini di accertamento “brevi”, ma non è idonea, da sola, ad improntare la disciplina in esame sia perché – secondo quanto già osservato – il raddoppio dei termini consegue dal mero riscontro di fatti compor-tanti l’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia o dall’inizio dell’azione penale; sia perché – come si vedrà meglio piú avanti – l’obbligo di denuncia (comportante il raddoppio dei termini di accertamento) sorge anche ove sussistano cause di non punibilità impeditive della prosecuzione delle inda-gini penali ed il cui accertamento resti riservato all’autorità giudiziaria penale; sia per-ché – in base a quanto si è appena visto – il termine raddoppiato di accertamento è co-munque piú ampio del termine di prescrizione del reato (sei anni). La circolazione di elementi probatori dal giudizio penale al procedimento tributario è, dunque, solo even-tuale e temporalmente limitata, e costituisce una giustificazione solo accessoria e par-ziale dei denunciati commi 25 e 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006.

Va sottolineato, altresí, che l’ampiezza dei termini derivante dal suddetto raddop-pio si inserisce in un piú vasto quadro sistematico. In particolare, essa è analoga a quel-la fissata dall’art. 27, commi 16 e 17, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185 (Mi-

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sure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2. Tali disposizioni, con riferimento ad ipotesi simili al reato di indebita compensazione previsto dall’art. 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000, stabiliscono che – salvi i piú ampi termini previsti dalla legge in caso di violazione comportante l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen. per il reato previsto dal citato art. 10-quater – l’atto di accertamento dei crediti indebita-mente utilizzati dal contribuente in compensazione, indicato dall’art. 1, comma 421, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio an-nuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005), deve essere notificato entro il termine di decadenza del 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello dell’utiliz-zo di crediti inesistenti in compensazione.

Per completezza, va infine rilevato che, in forza della specialità del censurato terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972, non rientrano nel computo dei termini da raddoppiare i prolungamenti di quelli previsti da altre disposizioni di legge. Induce a tale conclusione la lettera del citato terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972, che prevede il raddoppio dei soli «termini di cui ai commi precedenti» dello stesso ar-ticolo; e cioè dei termini che scadono il 31 dicembre del quarto anno successivo a quel-lo in cui è stata presentata la dichiarazione (primo comma), nonché dei termini che scadono il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata (secondo comma). Non rientrano, pertanto, nel computo dei termini da raddoppiare ai sensi delle disposizioni denunciate né la proroga biennale di cui all’art. 10 della legge n. 289 del 2002, né il diverso raddoppio dei termini dei medesimi primi due commi dell’art. 57 d.P.R. n. 633 del 1972 previsto, nell’àmbito degli interventi antievasione e antielusione internazionale e nazionale, dal comma 2-bis dell’art. 12 del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché pro-roga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, com-ma inserito dall’art. 1, comma 3, del decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 194, converti-to, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2010, n. 25. Pertanto, nel caso in cui i pro-lungamenti di termini previsti dalle disposizioni denunciate e da altre disposizioni siano astrattamente applicabili in relazione alla medesima fattispecie, l’amministrazione fi-nanziaria non potrà mai utilizzarli in modo cumulativo al fine di superare il massimo dell’ampliamento temporale previsto dalla singola normativa piú favorevole per l’am-ministrazione. Questa interpretazione esclude che le disposizioni denunciate possano concorrere a rendere irragionevolmente lunghi i tempi dell’accertamento.

5.3. – Con la terza censura il rimettente afferma che il denunciato combinato di-sposto víola gli artt. 3 e 97 Cost., perché, non condizionando il raddoppio dei termini né all’avvio dell’azione penale prima del decorso dei termini “brevi” di decadenza dal-l’accertamento né all’esito di tale azione, attribuisce all’amministrazione finanziaria − irragionevolmente ed in contrasto con i princípi di imparzialità e di buon andamento − il potere discrezionale di estendere i termini dell’accertamento in base ad una sog-gettiva e non controllabile valutazione circa la necessità di presentare denuncia penale

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per violazioni ricondotte ad ipotesi di reato, «magari su elementi puramente indiziari e strumentalmente enfatizzati».

La questione non è fondata. Si è già rilevato che il rimettente muove da una interpretazione plausibile delle di-

sposizioni censurate, le quali, in base al loro tenore letterale, stabiliscono che il rad-doppio dei termini deriva dall’insorgenza dell’obbligo della denuncia penale, indipen-dentemente dall’effettiva presentazione di tale denuncia o da un accertamento penale definitivo circa la sussistenza del reato.

Detta interpretazione non implica, tuttavia, che la legge attribuisca all’amministra-zione finanziaria l’arbitrario ed incontrollabile potere di raddoppiare i termini “brevi” di accertamento.

Quanto all’asserita arbitrarietà, infatti, il raddoppio non consegue da una valuta-zione discrezionale e meramente soggettiva degli uffici tributari, ma opera soltanto nel caso in cui siano obiettivamente riscontrabili, da parte di un pubblico ufficiale, gli ele-menti richiesti dall’art. 331 cod. proc. pen. per l’insorgenza dell’obbligo di denuncia penale. Per costante giurisprudenza della Corte di cassazione, tale obbligo sussiste quando il pubblico ufficiale sia in grado di individuare con sicurezza gli elementi del reato da denunciare (escluse le cause di estinzione o di non punibilità, che possono essere valutate solo dall’autorità giudiziaria), non essendo sufficiente il generico so-spetto di una eventuale attività illecita (ex plurimis, sentenze della Cassazione penale n. 27508 del 2009; n. 26081 e n. 15400 del 2008; n. 1244 del 1985; n. 6876 del 1980; n. 14195 del 1978). Va, inoltre, sottolineato al riguardo che il pubblico ufficiale – al-lorché abbia acquisito la notitia criminis nell’esercizio od a causa delle sue funzioni – non può liberamente valutare se e quando presentare la denuncia, ma deve inoltrarla prontamente, pena la commissione del reato previsto e punito dall’art. 361 cod. pen. per il caso di omissione o ritardo nella denuncia.

Quanto all’asserita incontrollabilità dell’apprezzamento degli uffici tributari circa la sussistenza del reato, va obiettato che – contrariamente a quanto affermato dal rimet-tente – il sistema processuale tributario consente, invece, il controllo giudiziario della legittimità di tale apprezzamento. Il giudice tributario, infatti, dovrà controllare, se ri-chiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo al riguardo una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finan-ziaria abbia agito con imparzialità od abbia, invece, fatto un uso pretestuoso e stru-mentale delle disposizioni denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un piú ampio termine di accertamento. È opportuno precisare che: a) in presenza di una con-testazione sollevata dal contribuente, l’onere di provare detti presupposti è a carico dell’amministrazione finanziaria, dovendo questa giustificare il piú ampio potere ac-certativo attribuitole dal censurato terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972; b) il correlativo tema di prova – e, quindi, l’oggetto della valutazione da effettuarsi da parte del giudice tributario – è circoscritto al riscontro dei presupposti dell’obbligo di

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denuncia penale e non riguarda l’accertamento del reato; c) gli eventuali limiti proba-tori propri del processo tributario hanno, pertanto, una ridotta incidenza nella specie e, comunque, non costituiscono oggetto delle sollevate questioni.

5.4. – Con la quarta censura viene affermato che il denunciato combinato disposto si pone in contrasto con l’art. 3 Cost., perché, «consentendo discipline differenziate per la no-tifica dell’accertamento», introduce «irragionevoli elementi di disparità di trattamento».

Anche tale questione non è fondata. La censurata disparità di trattamento non sussiste, perché la ricorrenza di elementi

tali da obbligare alla denuncia penale ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen. costituisce una situazione eterogenea rispetto a quella in cui tali elementi non ricorrono. È inne-gabile, infatti, che la non arbitraria ipotizzabilità di specifici reati tributari, espressivi di un particolare disvalore, giustifica la previsione di una disciplina differenziata, proprio in ragione della gravità dei fatti e della maggiore difficoltà che, di norma, richiede il lo-ro accertamento.

5.5. – Con la quinta censura viene affermato che la normativa denunciata si pone in contrasto con l’art. 25 Cost. perché, in presenza di ipotesi di reato previste dal d.lgs. n. 74 del 2000 per le quali vi sia l’obbligo di denuncia, essa rende retroattivamente appli-cabile la sanzione del raddoppio dei termini per l’accertamento dell’imposta.

La questione non è fondata, perché la disciplina del raddoppio dei termini non ha natura sanzionatoria. Non è perciò invocabile, nella specie, il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole previsto dall’evocato secondo comma dell’art. 25 Cost. E ciò a prescindere dalla considerazione che – per quanto osservato ai punti 3.2. e 5.1.2. – la disciplina fiscale censurata si applica solo per l’avvenire, con riferimento sia agli ille-citi commessi a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 223 del 2006 sia a quelli commessi anteriormente e per i quali, a tale data, non siano ancora de-corsi i termini di cui ai primi due commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972.

In particolare, il raddoppio dei termini di accertamento non può qualificarsi “san-zione penale”, neppure impropria o atipica. Esso infatti, da un lato, non rappresenta la reazione ad un illecito penale, perché – come si è visto – consegue non dall’accerta-mento della commissione di un reato, ma solo dall’insorgere dell’obbligo di denuncia dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, restando irrilevante il fatto che l’azione pena-le non sia iniziata o non sia proseguita o intervenga una decisione penale di proscio-glimento, di assoluzione o di condanna; dall’altro, non costituisce una conseguenza sfavorevole sul piano sostanziale, perché non comporta né un obbligo di prestazione né l’emissione di un atto di accertamento. Il mero assoggettamento ad un termine piú lungo di accertamento fiscale non svolge, dunque, alcuna funzione afflittivo-punitiva o sanzionatoria di un fatto di reato, ma, operando su un piano meramente procedimen-tale, persegue solo il sopra evidenziato obiettivo di attribuire agli uffici tributari mag-gior tempo per accertare l’effettiva capacità contributiva del soggetto passivo d’impo-sta, quando ciò sia giustificato dalla non arbitraria ipotizzabilità, ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen., di violazioni gravi e di piú difficile controllo.

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Per Questi Motivi LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del combinato di-

sposto del terzo comma dell’art. 57 del decreto del Presidente della Repubblica del 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto) – comma inserito dal comma 25 dell’art. 37 del decreto-legge del 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la ra-zionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di con-trasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 –, e del comma 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006, sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli, in riferimento all’art. 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contri-buente), con l’ordinanza indicata in epigrafe;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del suddetto combi-nato disposto del terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 e del comma 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006, sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli, in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 97 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe. (Omissis).

Raddoppio dei termini per l’accertamento, potere impositivo

e tutela del contribuente

Tax assessment’s duplication of terms, taxing power and taxpayer’s protection

Abstract La Corte Costituzionale ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costitu-zionale dei commi 25 e 26 dell’art. 37, D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, con riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 97 Cost., e inam-missibili quelle proposte, con riguardo al medesimo articolato normativo, rispet-to all’art. 3, ult. comma, L. 27 luglio 2000, n. 212. La decisione di ritenere confor-me la previsione per la quale i termini per l’accertamento, in materia di imposta sul valore aggiunto, si raddoppiano in caso di violazione determinante l’obbligo

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di denuncia ai sensi dell’art. 331 c p.p., per uno dei reati di cui al D.Lgs. n. 74/ 2000, è in parte condivisibile, considerate, per un verso, la dimensione oggettiva dell’elemento integrante la condizione per l’operare dell’istituto, individuato nel-l’emergere, in sede di accertamento, di circostanze sufficienti a fondare l’obbligo di denuncia; per altro verso, la possibilità per il contribuente di devolvere al giu-dice tributario, ope exceptionis, le questioni relative alla sussistenza di tale ele-mento, ottenendo così tutela del proprio diritto di difesa. Rimangono tuttavia a-perti alcuni problemi, in particolare quello sull’ambito di applicazione della nor-ma, sia con riferimento all’aspetto oggettivo, con riguardo, cioè, all’individuazio-ne delle violazioni penali legittimanti l’applicazione del “termine lungo”, sia con riferimento all’aspetto soggettivo, relativo alla possibilità che il raddoppio si estenda al soggetto titolare del rapporto d’imposta verificato quando questi non coincida col soggetto attivo del reato. Non risolve, del resto, la problematica del-la rilevanza che le modalità di acquisizione della notitia criminis ed il tempus com-missi delicti possono assumere nell’ambito della fattispecie disciplinata dall’arti-colato normativo sottoposto a vaglio di legittimità. Parole chiave: decisione, condivisibile, accertamento fiscale, notitia criminis, dupli-cazione dei termini, tutela del contribuente The Constitutional Court considered groundless the question of constitutional legiti-macy of Art. 37, paras. 25-26, Law Decree No. 223 of 4 July 2006, in relation to Arts. 3, 24, 25 and 97 of the Constitution and, on the other side, held inadmissible the question of constitutional legitimacy of the same paragraphs in relation to Art. 3, last paragraph, Law No. 212 of 27 July 2000. The decision to consider constitutionally acceptable the provisions that double the terms of tax assessment activities in case of criminal offences requiring to file a complaint according to Art. 331 of the Criminal Procedural Code, is only partially agreeable. In this respect, on one side, it shall be considered the objective dimension of the pre-condition of this institution (i.e. the iden-tification during tax assessment activities of circumstances involving the duty to file a complaint) and, on the other, the possibility for the taxpayer to submit to the tax judge – ope exceptionis – the decision on all the issues concerning the existence of such pre-condition, in order to obtain a full enforcement of his right of defence. How-ever, certain issues still remain open: in particular, from the objective point of view, the one concerning the identification of criminal offences that justify the application of the “long term”; and, from the subjective point of view, the issue concerning the possibility that such doubled term shall apply also to the taxpayer involved in case he is not also the author of the criminal offence. The decision does not even solve the related issue concerning the relevance that the methods of acquisition of the notitia criminis and the tempus commissi delicti shall have in the factual situation disciplined by the provisions subject to the question of constitutional compatibility. Keywords: decision, shared, tax assessment, notitia criminis, duplication of terms, taxpayer’s protection

9.

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SOMMARIO: 1. Sul raddoppio dei termini per l’accertamento dell’obbligazione d’imposta nella sentenza del-la Corte costituzionale. – 2. Sulla disciplina intertemporale e sulla rilevanza dell’art. 3 dello Sta-tuto dei diritti del contribuente. – 3. Sulla tutela processuale e procedimentale del contribuen-te. – 4. Sulla rilevanza penale della condotta, rapporti tra procedimenti e obbligo di denuncia come fatto oggettivamente rilevante. – 5. Sull’ambito di applicazione della disposizione che pre-vede il raddoppio dei termini di accertamento in ipotesi di violazioni che comportino l’obbligo di denuncia ex art. 331 c.p.p. – 6. Sui tempi e sulle modalità di acquisizione della notitia criminis rile-vante ai fini del raddoppio dei termini. – 7. Sulla rilevanza del tempus commissi delicti.

1. Sul raddoppio dei termini per l’accertamento dell’obbligazione d’imposta nel-la sentenza della Corte costituzionale

Con la sentenza in commento, la Corte costituzionale ha dichiarato l’infon-datezza delle questioni di legittimità del combinato disposto dell’art. 57, D.P.R. n. 633/1972, per come modificato dall’art. 37, comma 25, D.L. n. 223/2006, e del-l’art. 37, comma 26, del medesimo decreto legge, sollevate con riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 97, Cost., e l’inammissibilità di quelle proposte, con riguardo allo stesso disposto normativo, in riferimento all’art. 3, ult. comma, L. n. 212/2000.

Nell’ordinanza di rimessione 1, la Commissione Tributaria Provinciale di Na-poli aveva dubitato della conformità a Costituzione delle disposizioni che preve-dono il raddoppio dei termini entro i quali possono essere notificati gli avvisi di accertamento, «in caso di violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74». Aveva ritenuto, in particolare, che tali norme, da un lato, potessero confliggere con l’art. 3, ult. comma, dello Statuto dei diritti del contribuente, nella misura in cui sono suscettibili di applicazione anche ad accer-tamenti riferiti a periodi di imposta anteriori alla loro entrata in vigore; dall’altro, e in ogni caso, fossero suscettibili di determinare una irragionevole compressione delle garanzie dei contribuenti. Costoro, infatti, secondo il giudice remittente, si troverebbero esposti al rischio di un’arbitraria espansione del periodo di verificabi-lità della loro obbligazione tributaria, con pregiudizio delle loro concrete possibili-tà di difesa, stante la più limitata durata dell’obbligo di conservazione delle scrittu-re contabili sancito dall’art. 22, D.P.R. n. 600/1973.

Analoghe perplessità avevano segnato, d’altronde, il dibattito dottrinale seguito all’entrata in vigore del D.L. n. 223/2006, dubbi che avevano suggerito veri e pro-pri interventi di ortopedia interpretativa al fine di limitare portata e significato del-

1 Comm. trib. prov. di Napoli, ord. 29 aprile 2010, n. 266, in bancadati Fisconline.

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la novella e scongiurarne, dunque, l’ipotizzata illegittimità 2. Il giudice delle leggi, invece, ha escluso, in maniera tranchante, che quelle di-

sposizioni possano essere censurate in punto di costituzionalità. Secondo la Corte, è ragionevole prevedere, per l’accertamento dell’obbligazio-

ne d’imposta, un termine di decadenza diverso a seconda che si versi in una situa-zione sicuramente priva di rilievo penale oppure in altra, connotata da elementi (reputati) astrattamente idonei a legittimare l’avvio dell’azione penale. Nell’ultimo caso, infatti, criteri normativamente predeterminati – quali, appunto, quelli che impongono l’obbligo di denuncia all’Autorità giudiziaria – soccorrono a fondare un giudizio di particolare disvalore rispetto alla condotta del contribuente e a giu-stificare l’apparente disparità di trattamento, anche a prescindere da esigenze istruttorie o d’indagine.

La scelta dell’ordinamento di assicurare che procedimento amministrativo e processo penale seguano percorsi indipendenti, secondo la logica c.d. del “doppio binario”, spiega anche la scelta del legislatore del 2006 di legare il termine più am-pio non all’accertamento giudiziale della responsabilità penale del contribuente, bensì all’emergere di elementi sufficienti a far sorgere, in capo al funzionario accer-tatore, l’obbligo di denuncia previsto dall’art. 361, c.p., e dall’art. 331, c.p.p.

La dimensione oggettivamente apprezzabile di tali elementi, da un lato, e la possibilità di sottoporre al vaglio del giudice tributario la questione della loro sussi-stenza e della loro idoneità quoad effectum, dall’altro, scongiurano, poi, ogni vulnus del diritto di difesa. Il suo esercizio, infatti, secondo la Corte, non può ritenersi compromesso neppure dal rischio che il contribuente si disfaccia delle scritture contabili prima dello scadere del termine “prolungato”, poiché l’art. 22, D.P.R. n. 600/1973, sovrappone la durata dell’obbligo di conservazione documentale a quella del periodo di soggezione alla verifica, quale che sia in concreto.

Insomma, si è di fronte alla disciplina, intrinsecamente ed estrinsecamente coe-rente, di un termine ordinario per l’accertamento, in ipotesi di violazione che com-porti l’obbligo di denuncia, che, anche a tutela del contribuente, deve essere appli-cata ogni volta che ricorrano i presupposti di legge, senza che residui alcun margi-

2 SALVINI, Ipotesi di reato tributario e raddoppio dei termini per l’accertamento, in AA.VV.¸ La con-centrazione della riscossione nell’accertamento, a cura di C. Glendi e V. Uckmar, Padova, 2011, p. 387 ss.; SCHIAVOLIN, Art. 43 d.P.R. 600/1973. Termine per l’accertamento, in AA.VV., Commentario Breve alle leggi tributarie. Tomo II. Accertamento e sanzioni, a cura di Moschetti, Padova, 2011, p. 276 s.; MA-RELLO, Raddoppio dei termini per l’accertamento e crisi del “doppio binario”, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 85 ss.; ARDITO, La proroga dei termini per l’accertamento in presenza di violazioni penalmente rilevanti, in Rass. dir. trib., 2007, p. 429 ss.; BUCCISANO, Il raddoppio del termine ordinario per l’esercizio del potere impositivo in caso di denuncia di reato penal-tributario viola la parità delle armi tra Fisco e contribuente? (nota a Circolare Agenzia delle Entrate – Direzione Centrale Normativa e Contenzioso n. 54/E/2009), in Riv. dir. trib., 2010, II, p. 423 ss.; ZOPPINI, Il raddoppio dei termini per l’accertamento ovvero nuove ipotesi “borgesiane” di decadenza dell’azione della Finanza, in Riv. dir. trib., 2008, I, p. 669 ss.

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ne di discrezionalità per l’amministrazione procedente e la cui corretta applicazio-ne può essere vagliata dal giudice tributario.

Conseguentemente, e salva la limitazione posta dal comma 26 dell’art. 37, D.L. n. 223/2006 3, tale disciplina deve trovare attuazione con riferimento a tutti i pe-riodi d’imposta per i quali non abbia ancora esaurito i propri effetti al momento della sua entrata in vigore, senza che possa per ciò ipotizzarsi una lesione degli artt. 3, 24 e 97 Cost., né dell’ultimo comma dell’art. 3 dello Statuto dei diritti del con-tribuente, peraltro espressamente considerato non invocabile alla stregua di para-metro per lo scrutinio di legittimità.

2. Sulla disciplina intertemporale e sulla rilevanza dell’art. 3 dello Statuto dei diritti del contribuente

L’argomentare della Corte, così riepilogato, mi pare, in massima parte, persua-sivo.

Muovendo dalle problematiche che sembrano meno rilevanti dal punto di vista ricostruttivo ed in particolare dalla questione concernente la rilevanza da assegna-re alle norme dello Statuto, ricordo, anzitutto, che costituisce ormai ius receptum della giurisprudenza, anche costituzionale, il principio per cui quelle norme non possono assurgere a rango di norme interposte nel vaglio di ragionevolezza delle leggi ordinarie 4. Si deve, allora, condividere il giudizio della Corte sull’inammis-sibilità della questione sollevata con riferimento all’art. 3, L. n. 212/2000.

E non credo che la questione della legittimità della disposizione che prevede l’applicazione dei termini di cui al terzo comma dell’art. 57, D.P.R. n. 633/1972 a tutti i periodi d’imposta per i quali, al momento dell’entrata in vigore del D.L. n. 223/2006, non fossero ancora decorsi i termini di cui ai primi due commi della stes-sa disposizione, possa essere fondatamente riproposta sotto il profilo della lesione dei principi di ragionevolezza e tutela dell’affidamento del contribuente, e neppure, secondo me, valorizzandone la dimensione di meta-norme d’interpretazione.

3 Come è noto, la disposizione citata prevede che le disposizioni di cui ai commi 24 e 25, che in-troducono, rispettivamente, il comma 3 dell’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 57 del D.P.R. n. 632/1972, si applicano a decorrere dal periodo d’imposta per il quale alla data della sua entrata in vigore sono ancora pendenti i termini di cui al comma 1 e 2 dell’art. 43 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e dell’art. 57 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.

4 V., in giurisprudenza, tra le tante, Corte cost., ord. 6 luglio 2004, n. 216, in G.U. 14 luglio 2004; Corte cost., 15 gennaio 2010, n. 13, in G.U. 20 gennaio 2010; in dottrina, anche per più ampli rife-rimenti, NICHETTI, Art. 1 della l. 27 luglio 2000, n. 212, in AA.VV., Commentario breve alle leggi tribu-tarie. Tomo II. Diritto costituzionale tributario e Statuto del contribuente, Padova, 2011, p. 464 e MA-STROIACOVO, Art. 3 della l. 27 luglio 2000, n. 212, ivi, 487. Contra, MARONGIU, Lo statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2008, p. 54.

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Per quanto riguarda quest’ultimo punto, il problema mi pare risolto dall’esistenza di una disposizione che, espressamente, disciplina la successione nelle leggi del tem-po, quale appunto il comma 26 dell’art. 37, D.L. n. 223/2006, al cospetto della quale il problema della natura dell’art. 3 dello Statuto cessa di rilevare come tale 5.

Con riferimento alla possibile violazione dei principi di ragionevolezza e affida-mento del contribuente, invece, è sufficiente rilevare come il combinato disposto dei commi 24 6, 25 e 26 dell’art. 37 escluda che possano essere incisi rapporti esau-riti al momento della sua entrata in vigore 7. Mi rendo conto che può senz’altro continuare a porsi, ciò malgrado, la questione generale sulla ragionevolezza del raddoppio dei termini, ma essa non riguarda tanto la disciplina intertemporale, bensì e più in generale la conformità a sistema della scelta legislativa complessiva-mente considerata.

3. Sulla tutela processuale e procedimentale del contribuente

Mi pare non suscettibile di censure, nel nocciolo, anche il passaggio della sen-tenza sulla tutela giurisdizionale del contribuente che abbia subito un accertamen-to nel termine introdotto dall’art. 37, D.L. n. 223/2006.

Ritengo, infatti, che sia corretto il principio affermato dalla Consulta, secondo il quale, a garanzia del suo diritto di difesa, deve essere consentito al contribuente di devolvere alla cognizione del giudice tributario ogni questione, circa la sussi-stenza delle condizioni necessarie per l’ampliamento dei termini di accertamento 8.

Tali questioni, pur non attenendo direttamente al merito del rapporto d’imposta, incidono in realtà sulla persistenza del potere-dovere dell’amministrazione di emanare l’atto impositivo 9. Possono, pertanto, avere accesso al processo in qualità di eccezione

5 Contra, TESAURO, La Consulta ha trascurato lo Statuto, in Il Sole 24 ore, 27 luglio 2011, 1. 6 Ricordo che il comma 24 dell’art. 37 del D.L. n. 223/2006 ha introdotto il terzo comma del-

l’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973, che detta, in materia di accertamento delle imposte dirette, norma analoga a quella prevista dal terzo comma dell’art. 57 del D.P.R. n. 633/1972, oggetto del giudizio di costituzionalità conclusosi con la sentenza annotata. Nel prosieguo della nota, stante l’identità delle previsioni normative e delle questioni poste, si farà indifferentemente riferimento alla norma che raddoppia i termini di accertamento in materia di Imposta sul Valore Aggiunto e a quella che rad-doppia i termini per l’accertamento delle imposte dirette.

7 V., anche per più ampli riferimenti, MASTROIACOVO, I limiti alla retroattività nel diritto tributa-rio, Milano, 2005, p. 168.

8 Sul punto, anche per puntuali riferimenti alla giurisprudenza di merito formatasi nelle more della decisione della Corte costituzionale, v. DELLA VALLE, Non si ha raddoppio dei termini di accertamento, quando il giudice tributario ritiene infondata la notitia criminis, in GT-Riv. giur. trib., 2011, p. 352.

9 Secondo la dottrina prevalente, peraltro, il decorso del termine di decadenza non estingue il potere impositivo, bensì si riflette sulla legittimità del suo esercizio. Sul punto, v. F. TESAURO, Istitu-zioni di diritto tributario. I. Parte generale, Torino, 2006, p. 220).

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di decadenza e, in questa prospettiva – secondo l’orientamento ormai fermo della giu-risprudenza e della dottrina più attenta – all’unica condizione che siano specificamente dedotte fra i motivi del ricorso 10.

Si potrebbe porre il problema di quale possa essere l’oggetto di tale eccezione e, cioè, se, tramite di essa, si debba chiamare il giudice tributario ad una prognosi sulla configurabilità del reato ascritto al contribuente oppure, come si è ritenuto nella sentenza annotata, ad una valutazione concernente la circostanza che, al momento dell’emanazione dell’avviso, il verificatore disponesse di elementi suf-ficienti per considerarsi obbligato a trasmettere la notitia criminis all’autorità giu-diziaria 11.

Anche sul punto, però, mi sembra si possa convenire con la tesi del giudice del-le leggi. La soluzione prescelta, infatti, è coerente, con la decisione, logicamente precedente, di scindere l’effetto del raddoppio dei termini dagli esiti del processo o dell’istruttoria penale.

Si tratta, d’altronde, di soluzione che offre il vantaggio di ridimensionare, ai fini che qui interessano, l’urgenza della questione della compressione dei diritti del contribuente, legata al disposto dell’art. 7, D.Lgs. n. 546/1992, sulle prove nel pro-cesso tributario 12.

10 Il principio per il quale l’eccezione di decadenza, in quanto stabilita in favore e nell’interesse esclusivo del contribuente in materia di diritti disponibili, deve considerarsi eccezione in senso stret-to, rimessa alla rilevazione della parte che ne abbia interesse, è stato ripetutamente affermato in giu-risprudenza. V., a solo titolo esemplificativo, Cass., 24 agosto 2007, n. 18019, in banca dati Fisconli-ne. In dottrina, v. SCHIAVOLIN, Art. 43 del d.P.R. 600/1973, commento, in AA.VV., Commentario bre-ve alle leggi tributarie, Tomo II, Accertamento e Sanzioni, Padova, 2011, p. 276; FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2008, p. 365.

11 La distinzione può apparire cavillosa. Credo, invece, che essa acquisisca rilievo, per esempio, nelle ipotesi in cui l’amministrazione proceda ad accertamento bancario, rettificando la dichiarazio-ne dei redditi presentata da contribuente obbligato alla tenuta delle scritture contabili, sulla scorta della presunzione fissata dall’art. 32 D.P.R. n. 600/1973 ed il contribuente fornisca i giustificativi delle operazioni di versamento contestate nel corso del giudizio, anziché del contraddittorio ammi-nistrativo. È evidente, infatti, come in questo caso l’impossibilità di rimproverare un reato al contri-buente non possa, tuttavia, escludere la legittimità dell’operare dell’amministrazione, che abbia ra-gionevolmente presunto il superamento delle soglie rilevanti e, dunque, la sussistenza di un proprio obbligo di denuncia, e sulla base di tale presunzione notificato l’avviso d’accertamento nel termine raddoppiato, invece che in quello normale.

12 Le considerazioni che i giudici della Consulta hanno riservato alla questione appaiono, per certi versi, sbrigative. Nella sentenza annotata, essi si sono limitati a rilevare, invero, che «gli even-tuali limiti probatori propri del processo tributario hanno, pertanto, una ridotta incidenza nella spe-cie e, comunque, non costituiscono oggetto delle sollevate questioni». Credo, peraltro, che il ragio-namento colga nel segno, giacché se si assume che la valutazione cui è chiamato il giudice tributario deve riguardare gli elementi circa la sussistenza dell’obbligo di denuncia già acquisiti dall’ammini-strazione al momento dell’accertamento, si può allora ragionevolmente ritenere quella valutazione possa riguardare anche la prova che di quegli elementi sia stata costituita, nel procedimento di veri-fica, in punto di legittimità e di fondatezza. In questa prospettiva, però, il giudizio non necessita di

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Credo doveroso rimarcare, semmai, come dalla corretta affermazione del dirit-to del contribuente a contestare, in ambito processuale, ope exceptionis, la legitti-mazione dell’Ufficio a procedere ad accertamento dopo il decorso dei termini “normali”, si debbano far discendere, per forza di cose, due conseguenze tra di loro speculari: per un verso, l’obbligo dell’amministrazione di indicare nel provvedimen-to, a pena di nullità, i motivi e gli argomenti di prova che hanno fondato la scelta e, dunque, le ragioni di fatto e di diritto che l’hanno indotta a ritenere sussistente un obbligo di denuncia 13; per altro verso, la possibilità che la decisione del giudice tri-butario sulla sussistenza o meno dei presupposti per il raddoppio costituisca capo autonomo della sentenza, suscettibile di passare in giudicato.

4. Sulla rilevanza penale della condotta, rapporti tra procedimenti e obbligo di denuncia come fatto oggettivamente rilevante

Più complesso è il discorso da fare con riguardo ai passaggi della sentenza sul merito della scelta del legislatore del 2006 di prevedere che, nel caso di violazione che importi l’obbligo di denuncia, i termini per l’accertamento si raddoppino.

Anche a questo riguardo, peraltro, mi pare che il ragionamento dei giudici della Consulta meriti, nella sostanza, di essere condiviso.

La circostanza che al contribuente possano essere ascritti comportamenti rite-nuti dall’ordinamento particolarmente offensivi e, per ciò, stigmatizzati con la san-zionabilità penale, mi sembra sufficiente a rendere non irragionevole l’introduzio-ne di un regime dell’accertamento diverso, in punto di disciplina dei termini, da quello applicabile in situazioni prive di analoghi profili di offensività 14.

Il rilievo penale della condotta può costituire, infatti, ostacolo al riconoscimen-to della preminenza dell’interesse del singolo alla rapida definizione del rapporto d’imposta rispetto all’interesse collettivo alla verifica della capacità contributiva che gli è effettivamente riferibile. Penso, anzi, che l’esigenza di garantire rapidamente la definizione del rapporto non possa fondare aspettative di impunità, che mi paio-no inidonee a fondare un legittimo affidamento.

Sotto altro profilo, non credo che, alla luce dei principi desumibili dagli artt. 97 e 3 della Carta, la soggezione a verifica possa essere considerata, ex se, alla stregua di sanzione, propria o impropria 15. Una simile idea, pur autorevolmente sostenuta, ulteriore istruttoria, ma ben può essere articolato e contrastato sulla base delle prove pre-costituite che hanno normale accesso nel giudizio dinanzi alle commissioni.

13 V. TESAURO, La Consulta ha trascurato lo Statuto, cit. 14 In senso conforme v. CORSO, Rapporti tra la dimensione penale dell’accertamento tributario e

termini per l’accertamento, in Corr. trib., 2010, p. 341 ss. 15 Contra, SALVINI, op. cit., p. 388; ZOPPINI, op. cit., p. 669. In generale, sul rilievo del concetto di

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rafforza la tutela del contribuente, sacrificando però la dimensione costituzionale del potere-dovere dell’amministrazione di garantire imparzialità e buon andamen-to dell’azione pubblica (artt. 97 e 3 Cost.) e, tramite di essa, anche l’eventuale bi-lanciamento degli interessi del singolo e della collettività, nella prospettiva dell’art. 53 della Costituzione. La Corte, d’altra parte, pare aderire proprio alla ricostruzio-ne qui proposta ed equiordinare gli interessi in gioco, virilizzando il principio di ragionevolezza sotteso all’art. 3 Cost.

Sotto altro profilo, ancora, il nostro sistema è segnato dalla netta separazione tra processo penale e procedimento amministrativo e dalla tendenziale impermea-bilità tra le due istruttorie (art. 20, D.Lgs. n. 74/2000) 16. Credo possa senz’altro ritenersi consequenziale e coerente, allora, che l’effetto del raddoppio dei termini d’accertamento sia fatto discendere dal mero sorgere, in capo al funzionario verifi-catore, dell’obbligo di denuncia per uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74/2000, e rimanga svincolato, invece, tanto dagli esiti dell’istruttoria penale 17, quanto dall’ac-certamento giudiziale della responsabilità penale del contribuente o del suo legale rappresentante 18.

Se il momento penale potesse acquisire rilievo nell’ambito del procedimento amministrativo solo all’esito del giudizio ordinario di affermazione della responsa-bilità, si rischierebbe, infatti, oltre che di lasciar di fatto inoperante la norma in esame, di negare alla radice la logica c.d. del doppio binario e contraddire il dispo-sto dell’art. 20, D.Lgs. n. 74/2000 e l’esegesi consolidata dell’art. 654, c.p.p., sull’ef-ficacia della sentenza penale in altri processi 19.

Per converso, se si pretendesse di allacciare il raddoppio dei termini all’esi- sanzione impropria nel diritto tributario, v. MASTROIACOVO, I limiti alla retroattività nel diritto tribu-tario, Milano, 2005, p. 102 ss. e, con accenti critici, COPPA-SAMMARTINO, Sanzioni tributarie, in Enc. dir., Milano, 1989, XLI, p. 425.

16 V., anche per più ampli riferimenti, MASTROGIACOMO, Art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000, in AA.VV., Commentario breve alle leggi tributarie. Tomo II. Accertamento e sanzioni, a cura di Moschetti, Padova, 2011, p. 654 ss.; ARDITO, Giudicato penale e giudizio tributario, in Rass. trib., 2010, p. 893 ss.

17 Contra, MARELLO, op. cit., passim. 18 Contra, SCHIAVOLIN, op. cit., p. 277 s. 19 V., in giurisprudenza, tra le tante, Cass. 22 settembre 2000, n. 12577, in Mass. Giur. it., 2000;

Cass. 22 settembre 2000, in Boll. trib., 2001, p. 1576; Cass. 8 marzo 2001, in Rass. trib., 2003, p. 272; Cass. 25 gennaio 2002, in Rass. trib., 2003, p. 274; Cass. 21 giugno 2002, n. 9109, Cass. 16 maggio 2005, in http://rivista.ssef.it, 2009, luglio-settembre; Cass.15 maggio 2008, in Il Fisco, 2008, I, p. 4345; Cass. 16 aprile 2008, in Guida norm., 19 maggio 2008, n. 96; Cass. 8 aprile 2009, in Guida norm., 6 maggio 2009, n. 84 in dottrina, TRAVERSI-GENNAI, I nuovi delitti tributari, Milano, 2000, p. 371; NAPOLEONI, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario, Milano, 2000, p. 273; CORVI, Art. 20 (commento) – Rapporti tra procedimento penale e processo tributario, a cura di Caraccioli, Giarda e Lanzi, in Dir. proc. pen. trib., Padova, 2000, p. 497. Contra, CONSOLO, Nuovo processo penale, proce-dimento tributario e rapporti tra giudicati, in Giur. it., 1990, IV, p. 313; SCHETTINO, Gli effetti della sen-tenza penale nel processo tributario, in LUPI (a cura di), Fiscalità d’impresa e reati tributari, Milano, 2000, p. 206.

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genza, di ordine istruttorio, che le risultanze dell’indagine penale possano essere impiegate ai fini dell’accertamento, ribaltando, così, il tradizionale prisma interpre-tativo della norma 20, ci si troverebbe costretti a dover fronteggiare ostacoli inter-pretativi di qualche rilievo. Bisognerebbe ipotizzare, infatti, che la mancata acqui-sizione, ad opera della magistratura inquirente, di elementi probatori nuovi, ulte-riori rispetto a quelli emersi nel corso della verifica fiscale, determini l’inoperatività della disposizione sull’allungamento dei termini 21.

In questa prospettiva, però, la norma non potrebbe che trovare applicazione nel limitato e angusto ambito degli accertamenti integrativi, dovendosi immagina-re la sussistenza, in capo all’amministrazione, dell’obbligo, di emanare un “norma-le” avviso d’accertamento nei termini non raddoppiati, poi suscettibile di successi-va (eventuale) integrazione nei termini raddoppiati.

Seguendo la ricostruzione qui in esame, si consentirebbe, poi e per altro verso, l’impiego, nel procedimento amministrativo, di elementi di prova acquisiti con l’esercizio dei poteri propri all’istruzione penale, ma non verificabili nel procedi-mento e nel successivo processo tributario con le stesse garanzie che invece infor-mano il loro vaglio nel processo penale 22.

La ricostruzione proposta dalla Corte Costituzionale, invece, ha il pregio di permettere, senza eccessive forzature sistematiche, una conciliazione tra mezzi (al-lungamento dei termini dell’accertamento) e fine della regola (introduzione di una disciplina differenziata per l’accertamento di violazioni connotate da particolari profili di offensività e gravità). Riesce inoltre ad assicurare, a garanzia dell’affida-mento e del diritto di difesa del contribuente, il carattere oggettivo del presuppo-sto al quale viene connesso l’effetto normativo. A ben vedere, difatti, la ricorrenza di elementi idonei a far sorgere un obbligo di denuncia in capo all’accertatore è fat-tispecie già ritenuta sufficientemente tipica e determinata dall’ordinamento, tanto da poter concorrere ad integrare l’elemento di fatto rilevante ai fini del reato previ-sto e sanzionato dagli artt. 361 e 362 del c.p.

20 Cfr. MARELLO, op. ult. cit. 21 Così MARELLO, op. cit. 22 Si consideri anche, ad ulteriore dimostrazione di quanto or ora affermato, che nel nostro sistema

processuale vige un ferreo e consolidato divieto di prova testimoniale (art. 7, D.Lgs. n. 546/1992). Sul-l’annosa questione, v., per tutti, RUSSO, Problemi della prova nel processo tributario, in Rass. trib., 2000, p. 375 ss.; ID., Il giusto processo tributario, in Rass. trib., 2004, p. 233 ss.

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5. Sull’ambito di applicazione della disposizione che prevede il raddoppio dei termini di accertamento in ipotesi di violazioni che comportino l’obbligo di denuncia ex art. 331 c.p.p.

La bontà dell’impianto logico-argomentativo della sentenza non basta, tuttavia, a nascondere le problematiche che, comunque, sollevano i commi 24, 25 e 26 del-l’art. 37, D.L. n. 223/2006.

La prima questione sulla quale è opportuno interrogarsi è quella concernente la determinazione dell’ambito oggettivo e soggettivo di applicazione della novella, problematica che il giudice delle leggi pare aver obliterato.

Per quanto riguarda il profilo oggettivo, mi sembra che il silenzio della Corte non possa dare luogo a soverchi equivoci interpretativi.

La lettera dei commi 24 e 25 dell’art. 37, individua il presupposto dell’e-stensione nel tempo dei poteri d’accertamento con un generico riferimento a viola-zioni che comportino l’obbligo di denuncia di cui all’art. 331, c.p.p. per uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74/2000, senza compiere distinzioni tra reati direttamente in-cidenti su esistenza e ammontare dell’obbligazione d’imposta e altri reati 23.

È possibile, allora, che il silenzio della Corte consegua ad una precisa scelta in-terpretativa e più precisamente ad un’applicazione lineare dell’art. 12 delle dispo-sizioni preliminari al cod. civ., per il quale – come è noto – nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato pro-prio delle parole: siccome la lettera del comma 3 dell’art. 57, D.P.R. n. 633/1972 è inequivoca, si può ragionevolmente pensare che i giudici della Consulta non ab-biano ritenuto neppure opportuno affrontare la questione.

Questa ricostruzione, d’altra parte, ben si conforma all’idea, palesata nella sen-tenza, che la ratio della norma sia da individuare non nell’esigenza di permettere che le risultanze dell’indagine penale siano veicolate nel procedimento ammini-strativo 24, ma in quella di garantire che posizioni connotate da profili di particolare offensività possano essere verificate in un tempo più ampio di quello normalmente a disposizione della parte pubblica.

Impostato così il ragionamento, quindi, si può concludere che la medesima esi-genza sia apprezzabile con riferimento a tutte le situazioni nelle quali la condotta ascritta al contribuente appaia meritevole della sanzione penale, a prescindere dal fatto che integri violazione degli obblighi di veritiera dichiarazione. In altre parole, che il raddoppio dei termini d’accertamento possa essere predicato con riferimen-to a tutti i casi in cui, nel corso dell’istruttoria amministrativa, emergano gli estremi

23 Contra, SCHIAVOLIN, op. cit., p. 277. 24 Se l’esigenza istruttoria evocata nel testo assurgesse a fondamento della previsione normativa,

potrebbe limitare, per così dire, dall’interno, la portata normativa della disposizione considerata.

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per denunciare uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74/2000, senza tra questi poter compiere distinzioni ulteriori 25.

Mi pare invece più articolato il discorso sul profilo soggettivo, discorso che me-rita di essere approfondito sotto un duplice angolo visuale.

In primo luogo, si pone la questione se il raddoppio dei termini possa veramen-te prodursi nei confronti anche del soggetto titolare del rapporto d’imposta verifi-cato quando questi non coincida con persona fisica, soggetto attivo del reato.

In maniera tralaticia, si è finora dato per scontato che l’effetto del raddoppio consegua all’emergere di fatti reato riferiti al rapporto d’imposta oggetto di verifi-ca, a prescindere dalla circostanza che quei fatti siano direttamente imputabili al contribuente ovvero alla persona fisica rappresentante.

Questa è senz’altro soluzione di buon senso, che può apparire anzi necessitata alla luce del principio di ragionevolezza: negare che la disposizione sul raddoppio dei termini possa operare nei confronti del soggetto titolare del rapporto d’impo-sta può arrecare un vulnus alla coerenza interna del sistema.

D’altra parte, la lett. e) dell’art. 1, D.Lgs. n. 74/2000 – che determina una con-nessione diretta tra fatto dell’autore materiale e interesse dell’ente, in rappresen-tanza del quale la persona fisica ha operato – e, per certi versi, l’art. 19 dello stesso articolato – che presuppone una rimproverabilità della persona giuridica, per gli il-leciti ascritti al suo legale rappresentante 26 – corroborano la tesi per cui fatti ascrit-ti alla persona fisica possono essere riferiti all’ente, in virtù del collegamento fun-zionale sussistente tra i due soggetti.

Non si può fare a meno di rilevare, però, che l’art. 1, D.Lgs. n. 74/2000 assume bensì che i fatti ascritti ai rappresentanti debbano intendersi riferiti al rapporto

25 Probabilmente, a quanto osservato nel testo, si potrebbe obiettare che la portata normativa del comma 3 dell’art. 57, D.P.R. n. 633/1972 e del terzo comma dell’art. 43, D.P.R. n. 600/1973 debba considerarsi limitata, in ragione della loro collocazione. Entrambe le disposizioni sono inseri-te, invero, in articoli che disciplinano il procedimento di verifica ed accertamento, rispettivamente ai fini dell’imposta sul valore aggiunto e delle imposte sui redditi. Pertanto, potrebbe apparire ragione-vole ritenere che le violazioni alle quali esse si riferiscono siano solo quelle suscettibili di acquisire rilievo nell’ambito di quel procedimento. Credo, tuttavia, che si tratti di obiezione non decisiva. Gli artt. 43 e 57 citati regolano il procedimento di accertamento solo in punto termini. Ben si può so-stenere, quindi – in maggiore aderenza alla ratio legis, per come in precedenza ricostruita – che i loro terzi commi introducano una nuova regola procedimentale, rilevante soltanto sotto questo profilo, senza inferire, dal contesto nel quale sono situati, altre conseguenze circa la loro portata. Contra: BUCCISANO, op. cit. e, soprattutto, LUPI, Ancora sull’ampliamento dei termini per l’accertamento, a se-guito di violazioni penali, in Dial. dir. trib., 2006, p. 1294, che anzi afferma la necessità che l’accerta-mento notificato nel più lungo termine introdotto dall’art. 37, D.L. n. 223/2006 debba addirittura riguardare gli stessi fatti posti a fondamento della denuncia, per evitare che la disposizione possa es-sere utilizzata alla stregua di «grimaldello per prolungare, o addirittura iniziare ex novo indagini am-ministrative che non hanno alcun collegamento con l’inchiesta penale».

26 V. GIOVANNINI, Illecito tributario, principio di specialità e responsabilità dell’ente, in Riv. dir. trib., 2000, I, p. 859 ss.

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d’imposta degli enti giuridici (o delle persone fisiche rappresentate), ma ai soli fini dell’applicazione dello stesso decreto e con riguardo all’integrazione del reato di evasione 27. Pertanto, senza un’espressa previsione normativa, la congiunzione tra amministratore, soggetto attivo del reato, ed ente contribuente, ai fini del raddop-pio dei termini del procedimento amministrativo, può essere fondata soltanto su un’interpretazione estensiva di quella norma, che potrebbe collidere con il dispo-sto dell’art. 14 delle preleggi, stante il carattere penale di quella disposizione.

Del resto, e sotto altro profilo, rimane che, nel nostro ordinamento, anche per i reati “fiscali”, la responsabilità è necessariamente personale 28 e costituisce, anzi, ius receptum della giurisprudenza di nomifilachia e norma di legge il principio per il qua-le gli illeciti del D.Lgs. n. 74/2000 non rientrano nell’ambito di applicazione del D.Lgs. n. 231/2000, che solo consente, nel nostro sistema, la riferibilità all’ente degli effetti penali di una disposizione sanzionatoria di fatti imputati alla persona fisica 29.

Il problema può essere probabilmente risolto ragionando sul piano della rico-struzione della fattispecie disciplinata dai commi 24 e 25 dell’art. 37, D.L. n. 223/ 2006. Si può assumere, infatti, che la notitia criminis fondante l’obbligo di denuncia concorra con il vincolo di immedesimazione organica sussistente tra autore dei fat-ti e titolare del rapporto, a costituire l’elemento integrante della fattispecie in di-scorso 30 e dunque che sia sufficiente la riferibilità al contribuente del rapporto “vi-ziato” dal comportamento penalmente rilevante, per giustificare il raddoppio.

Da altro punto di vista, la genericità della locuzione utilizzata per definire il pre-supposto di applicazione del comma 3 dell’art. 57 (e dell’art. 43), lascia irrisolta la

27 V. BELLAGAMBA-CARITI, Il sistema delle sanzioni tributarie, Milano, 2011, II, p. 6 ss.; G. MO-SCHETTI, Art. 1 del d.lgs. n. 74 del 2000, in Commentario breve alle leggi tributarie. Tomo II. Accerta-mento e sanzioni, Padova, 2011, p. 531; LUPI, Interrogativi sul dolo specifico come limite alla rilevanza penale di questioni di diritto, in AA.VV., Fiscalità d’impresa e reati tributari, Milano, 2000, p. 58 s.

28 Sul punto, v., anche per riferimenti più ampli, ROMOLOTTI, La responsabilità da reato degli enti. I principi generali, in AA.VV., Diritto penale delle società. Profili sostanziali e processuali, a cura di Cerqua, Padova, 2011, t. I, p. 995. Mi sia consentito di rilevare, peraltro, che, proprio muovendo dall’assunto del carattere personale della responsabilità penale, potrebbe non essere irragionevole ipotizzare che il legislatore del 2006 abbia inteso assoggettare al più ampio termine d’accertamento introdotto (anche) chi si sia reso (rectius: sia apparso, sulla base di elementi oggettivi) personalmente colpevole, in un dato periodo d’imposta, di un comportamento, considerato particolarmente lesivo dell’interesse fiscale. Ciò tanto più se si assume, come si fa qui, che la ratio perseguita dalla norma sia quella di connettere il pro-lungarsi dei tempi dell’accertamento alla specifica offensività della violazione, della quale siano stati riscontrati gli estremi nel corso del procedimento amministrativo di verifica.

29 V., in giurisprudenza, Cass. pen. 11 maggio 2011, n. 23667, in banca dati Leggi d’Italia. Repertorio di giurisprudenza; Cass. pen. 29 settembre 2009, n. 41488, in CED Cassazione, 2009; Cass. pen., sez. un., 23 giugno 2011, n. 34476, in CED Cassazione, 2011; in dottrina, per tutti, CORSO, Valido il sequestro preventi-vo sui beni dell’ente anche in assenza di responsabilità amministrativa, in Corr. trib., 2011, p. 3210 ss.

30 Vista la delicatezza del tema e la sua idoneità ad incidere su principi fondanti il nostro ordinamento, sarebbe stato senz’altro auspicabile una maggiore attenzione del legislatore nella formulazione del-l’articolato normativo o un intervento “ortopedico” della Consulta, con sentenza interpretativa additiva.

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questione di come esso possa operare nelle ipotesi in cui il rapporto d’imposta ac-certabile nel più ampio termine lì previsto sia connesso, per comunanza di fatti-specie o in virtù di altro vincolo, ad altro rapporto, rispetto al quale non siano con-figurabili elementi di rilevanza penale. In altri termini, se un soggetto, al quale non sia neppure indirettamente ascrivibile un’ipotesi di reato fiscale, possa nondimeno essere raggiunto da un avviso di accertamento, dopo il decorso del normale termi-ne di decadenza, per profili “comuni” tra il suo rapporto e quello di altro soggetto, cui sia invece riferibile una violazione rilevante agli effetti del D.Lgs. n. 74/2000.

L’amministrazione finanziaria ha preso posizione su tale problematica con la circolare 54/E del 23 dicembre 2009, sostenendo che, al fine di scongiurare inac-cettabili disparità di trattamento, si deve ritenere che la previsione dell’art. 37, D.L. n. 223/2006 sia applicabile «anche in relazione alle fattispecie in cui, per l’accerta-mento tributario nei confronti del soggetto verso cui opera l’ampliamento dei ter-mini, sia necessario procedere all’accertamento anche nei confronti di altro sogget-to d’imposta legato al primo, per esempio, da un rapporto di responsabilità solida-le», ancorché «limitatamente agli aspetti tributari che assumono rilevanza per la determinazione della posizione fiscale del primo e limitatamente al periodo di im-posta cui si riferisce la violazione che assume rilevanza penale».

Personalmente ritengo che il raddoppio dei termini di accertamento non possa essere disposto con riferimento a rapporti fiscali rispetto ai quali non siano diret-tamente apprezzabili profili di rilievo penale e che, anche nei casi presi in conside-razione nella circolare citata, di responsabilità solidale per l’obbligo di imposta, si debba resistere ad ogni tentazione di evocare fenomeni di super-solidarietà (rec-tius: di ultra-solidarietà) tributaria.

Il carattere, per così dire, eccezionale della previsione sul raddoppio dei termini mi pare che ne imponga, infatti, un’interpretazione restrittiva e credo, pertanto, che si possa sostenere che l’effetto da essa disciplinato possa prodursi nei confronti di più soggetti solo quando essi abbiano contestualmente posto in essere l’illecito, ovvero, come già detto, nei casi in cui vi sia un rapporto di immedesimazione tra soggetto imputabile e titolare del rapporto d’imposta.

6. Sui tempi e sulle modalità di acquisizione della notitia criminis rilevante ai fini del raddoppio dei termini

Altro tema meritevole di attenzione è quello attinente il possibile rilievo, ai fini della normativa in discorso, della fonte della notitia criminis e del momento della sua acquisizione da parte dell’Agenzia delle Entrate.

I giudici della Corte hanno escluso la sussistenza della problematica: muovendo dall’assunto che quello introdotto dall’art. 37, D.L. n. 223/2006 sia un termine ordina-rio d’accertamento e non costituisca proroga di quelli previsti nei primi due commi

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dell’art. 43, D.P.R. n. 600/1973, e dell’art. 57, D.P.R. n. 633/1972, hanno dato per scontato che esso possa applicarsi ogni volta che il rapporto verificato presenti profili di rilevanza penale, a prescindere dal momento e dalle modalità della loro emersione.

La lettera della legge ed esigenze di garanzia mi pare suggeriscano, però, di in-terrogarsi sul punto.

Le disposizioni introdotte dal comma 25 dell’art. 37, più volte richiamato, pre-vedono che i termini di accertamento si raddoppino «in caso di violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74».

Il puntuale riferimento all’obbligo di denuncia non può considerarsi un pleona-smo del legislatore, privo di significato normativo, e neppure un mero richiamo ad una condizione di procedibilità per l’avviando procedimento penale, posto che tutte le condotte delittuose previste dal D.Lgs. n. 74/2000 sono perseguibili d’ufficio.

Si è visto, anzi, che quel riferimento vale a legare l’effetto del raddoppio ad ele-menti idonei ad integrare la fattispecie dell’art. 361 c.p., e quindi oggettivamente verificabili, rappresentando così un baluardo di tutela per il contribuente.

Bisogna ritenere, allora, che esso connoti, per così dire, dall’interno la fattispe-cie normativa e ne segni, conseguentemente, i limiti di operatività.

In questa prospettiva, però, mi pare tutt’altro che irragionevole sostenere che possono assumere rilievo, ai fini dell’applicabilità della norma, le modalità ed il tem-po di acquisizione della notizia di reato, dalla quale si voglia far discendere il raddop-pio dei termini. L’art. 361 c.p., infatti, non sanziona un generico dovere di denuncia all’autorità giudiziaria, bensì uno specifico obbligo, che può fondare la responsabilità penale del suo titolare, ma che sorge solo in capo al pubblico ufficiale che venga a conoscenza di fatti penalmente rilevanti nell’esercizio delle proprie funzioni.

Ciò implica, a mio avviso, che il fatto di reato, fondante l’obbligo, sia acquisito nell’esercizio legittimo di quelle funzioni e la connotazione della legittimità non si potrebbe dire avverata se quel fatto fosse accertato all’esito di verifica avviata in epoca successiva allo spirare del normale termine decadenziale.

Pertanto, credo non si incorra in forzature sistematiche se si sostiene che l’am-ministrazione, per legittimare l’accertamento dopo il decorso dei termini previsti dai primi due commi dell’art. 43, D.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 57, D.P.R. n. 633/ 1972, debba allegare elementi di fatto acquisiti mediante l’impiego dei propri pote-ri istruttori nel corso di un procedimento di verifica avviato ritualmente e prima dello scadere di quei termini 31.

Del resto, ragionando in questo senso non si lede la ratio della norma, per come qui ricostruita, né mi sembra si sia costretti a qualificare il termine, introdotto dal-

31 In senso conforme, ZOPPINI, op. cit., p. 680; v. anche TOMMASINI, Non è valida la verifica oltre i termini di durata imposti dallo Statuto del contribuente [Nota a Comm. Reg. LO sez. I 19 marzo 2008, n. 12], in Corr. trib., 2008, p. 3309 ss.

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l’art. 37, D.L. n. 223/2006, come proroga di quello “normale”, anziché alla stregua di termine ordinario, come sostiene la Corte nella sentenza in commento. Per con-tro, ammettere l’acquisibilità di prove decorso il termine “breve” impone di accet-tare la possibilità che gli uffici diano avvio a verifiche già a priori insuscettibili di sfociare legittimamente in un avviso di accertamento, per l’insussistenza del potere di rettifica in ragione dell’intervenuto decorso dei termini.

7. Sulla rilevanza del tempus commissi delicti

Da ultimo, si rendono opportune alcune brevi considerazioni sul rilievo che as-sume, ai fini dell’applicazione della normativa in esame, il tempus commissi delicti.

Le disposizioni introdotte dall’art. 37, D.L. n. 223/2006 prevedono che l’ef-fetto del raddoppio dei termini si produca «relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione».

Parte della dottrina ha censurato la formula linguistica utilizzata dal legislatore, poiché, nelle ipotesi di infedele o fraudolenta dichiarazione, determinerebbe, appa-rentemente in maniera irragionevole, il raddoppiarsi dei termini d’accertamento in re-lazione, anziché al periodo di imposta al quale si riferisce, appunto, l’infedele o fraudo-lenta dichiarazione, al periodo di imposta successivo, nel quale è commesso il delitto 32.

È stato suggerito, pertanto, di interpretare la disposizione nel senso di riferire l’estensione del termine al periodo d’imposta nel quale è stata tenuta la condotta che ha dato luogo all’evasione e non a quello nel corso del quale è stata depositata (o omessa) la dichiarazione.

Si tratta di soluzione che può apparire di buon senso, ma occorre osservare che, nella prospettiva ermeneutica suggerita dalla Corte Costituzionale e qui condivisa, essa può risultare, in definitiva, priva di fondamento positivo.

Mi pare, infatti, che, se si assume che il raddoppio dei termini si connetta solo al (potenziale) rilievo penale del comportamento, senza che abbiano importanza l’esito del giudizio penale o le risultanze dell’indagine istruita dalla magistratura in-quirente, e, per altro verso, che possa essere innescato da ogni fatto suscettibile di integrare uno dei reati del D.Lgs. n. 74/2000, il criterio dell’interpretazione lettera-le della norma, previsto dall’art. 12 delle disposizioni preliminari al cod. civ., non possa essere messo in discussione. Criterio, dunque, che impone di ritenere che si raddoppi il termine per l’accertamento dell’obbligazione sorta nel periodo d’impo-sta in cui è stata depositata la dichiarazione infedele, ma non quello relativo al pe-riodo d’imposta cui quella dichiarazione si riferisce.

Luigi P. Murciano

32 ZOPPINI, op. cit., p. 680.

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Cass., sez. I, 4 novembre 2011, n. 22931 (udienza del 12 ottobre 2011) – Pres. Proto, Rel. Zanichelli. Riscossione – Concordato preventivo. – Ammissione. – Presenza di debiti tribu-tari. – Obbligatorietà dell’istanza di transazione fiscale. – Esclusione. – Paga-mento dei debiti tributari secondo le regole concorsuali ordinarie. Riscossione – Concordato preventivo. – Falcidia dei crediti tributari. – Mancata presentazione dell’istanza di transazione fiscale. – Ammissibilità. – Presenza di un credito IVA. – Possibilità di pagamento ridotto. – Esclusione. – Inclusione del-l’IVA nelle risorse proprie dell’Unione Europea. – Sussistenza. – Intangibilità del credito IVA. – Norma eccezionale. – Obbligatorietà pagamento integrale del cre-dito IVA. – Sussistenza. – Applicabilità retroattiva. – Sussistenza. Riscossione – Concordato preventivo. – Credito IVA. – Obbligo di pagamento integrale. – Sussistenza. – Norma eccezionale. – Crediti con grado di privilegio antergato. – Obbligo di pagamento integrale. – Esclusione.

In presenza di un credito erariale, l’istanza di transazione fiscale è facoltativa e di-screzionale per il debitore, il quale può valutare la convenienza di ottenere il pagamento dilazionato o parziale dei tributi secondo la procedura di cui all’art. 182 ter l. fall. op-pure adire il concordato senza proporre istanza di transazione fiscale, facendo sì che i debiti nei confronti dell’Amministrazione finanziaria seguano la sorte comune di tutti gli altri debiti in base alle regole concorsuali ordinarie.

L’intangibilità del credito IVA prevista dall’182 ter, comma 1, l. fall., così come mo-dificato dall’art. 32 del D.L. 29 novembre 2008, n. 185, costituisce previsione inderoga-bile e operante indipendentemente dalla presentazione dell’istanza di transazione fisca-le da parte del debitore. Trattandosi di una norma eccezionale ed espressiva del diritto UE, ne consegue la necessità dell’integrale pagamento dell’IVA, la quale rientra fra i tributi costituenti risorse proprie dell’Unione Europea in virtù della propria funzione di trasferimento di risorse all’Unione medesima. Da ciò ne consegue la non predicabilità dell’esclusione della falcidia dell’IVA anche per i concordati cui non sia applicabile ratione temporis tale modifica normativa.

La necessità che il piano concordatario preveda al suo interno l’integrale pagamento dell’IVA è dettata da una norma di natura eccezionale rispetto all’art. 160, co. 2, l. fall. e, pertanto, non è imposto al debitore anche l’integrale pagamento dei crediti con grado di privilegio antergato.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L’Agenzia delle Entrate ricorre per cassazione avverso la decisione della Corte d’Appello che ha rigettato il suo reclamo nei confronti del decreto con il quale il Tri-

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bunale ha omologato la proposta di concordato preventivo presentata dalla … s.a.s. Il ricorso è affidato a due motivi: con il primo si deduce violazione degli artt. 160 e

182 ter della legge fallimentare per avere la Corte ritenuto ammissibile la proposta contenente, tra l’altro, la falcidia dei crediti tributari benché non fosse stato effettuato lo specifico interpello dell’ufficio fiscale previsto nell’art. 182 ter l. fall.; con il secondo si deduce violazione dell’art. 182 ter l. fall. per avere la Corte territoriale ritenuto am-missibile la falcidia anche del credito IVA, costituente risorsa propria della Comunità europea e possibile oggetto di transazione unicamente quanto ai tempi di pagamento.

Resiste l’intimata debitrice con controricorso illustrato con memoria, mentre non ha proposto difese l’ufficio della Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello.

MOTIVI DELLA DECISIONE

(Omissis) Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione degli artt. 160 e 182

ter l. fall. per avere la Corte d’Appello ritenuto possibile la falcidia dei crediti tributari pur in assenza dell’attivazione, da parte del proponente il concordato, dello specifico procedimento che regola la transazione fiscale.

La censura non è fondata anche se, per le ragioni di cui all’esame del secondo mo-tivo, deve essere in parte corretta la motivazione del giudice del reclamo laddove pre-dica la possibilità di falcidia dell’IVA.

La questione, che viene affrontata per la prima volta dalla Corte e che è stata ogget-to di attenzione da parte della giurisprudenza di merito e della dottrina, in maggio-ranza schierate per la facoltatività della transazione fiscale, contestata invece dall’Am-ministrazione che sul punto si è pronunciata con la Circolare n. 40/E del 2008, non può certo essere risolta nel senso della non obbligatorietà dello speciale rito sulla base del mero dato letterale secondo il quale “con il piano di cui all’art. 160 il debitore può proporre il pagamento … dei tributi” (corsivo dell’estensore), che altro non è che la ripetizione della formula contenuta nel citato art. 160, secondo la quale “l’impren-ditore che si trova in stato di crisi può proporre ai creditori un concordato preventivo”, che chiarisce unicamente che l’accesso all’indicato istituto è una facoltà per il debitore e non è, quindi, sufficiente a supportare un giudizio di alternatività della transazione fiscale rispetto ad altro rito volto anch’esso alla falcidia del credito tributario.

Prima di affrontare la questione è necessario innanzitutto evidenziare quali varia-zioni all’ordinario procedimento concordatario comporti il ricorso al sub procedimen-to della transazione fiscale.

Diversi sono innanzitutto gli obblighi imposti alle parti direttamente interessate e, cioè, al debitore e al fisco.

Il primo deve provvedere nei confronti dell’Amministrazione fiscale (inteso ricom-preso in questo termine per semplicità espositiva anche il concessionario per la riscos-sione, ora agente della riscossione) ad una formalità alla quale non è tenuto nei con-fronti degli altri creditori e, cioè, alla comunicazione, contestualmente al deposito del

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ricorso per il concordato presso la cancelleria del Tribunale, della copia della domanda e della relativa documentazione. Tale adempimento è finalizzato a sollecitare l’ufficio fiscale ad un’attività anch’essa peculiare che non è invece richiesta agli altri creditori e, cioè, a certificare l’ammontare complessivo del debito tributario mediante la comuni-cazione di quello già accertato e di quello conseguente alla liquidazione delle dichia-razioni, compresa la dichiarazione integrativa relativa al periodo sino alla data di pre-sentazione della domanda, “al fine di consentire il consolidamento del debito fiscale”.

Ben diversi sono anche gli effetti dell’omologazione del concordato contenente la raggiunta transazione fiscale.

In primo luogo si “consolida” il debito tributario. Tale formulazione, che è eviden-temente atecnica in quanto nel tessuto normativo con detta espressione viene definita una modalità opzionale di calcolo della tassazione dei redditi di un gruppo di imprese (artt. 117 e segg. TUIR), ha di conseguenza nella disposizione in esame un significato, che può essere anche complesso, non ancora univocamente definito. Certamente, e come è unanimemente riconosciuto, la prima accezione è quella di quadro di insieme del debito tributario, tale da consentire di valutare la congruità della proposta con rife-rimento alle risorse necessarie a far fronte al complesso dei debiti ed è certamente utile a fronteggiare l’incognita fiscale che normalmente grava sui concordati. Altro e corren-te possibile significato dell’espressione sul quale si è interrogata la dottrina e che viene qui richiamato solo per completezza espositiva, non essendo materia del contendere, è quello secondo cui tale quadro del debito complessivo cristallizzerebbe la pretesa tri-butaria alla data di presentazione della domanda così come quantificata dall’ufficio con esclusione da una parte della facoltà del medesimo di procedere ad ulteriori accer-tamenti anche se non sia ancora maturata la decadenza e dall’altra del debitore di con-testare pretese anche se non ancora definitive.

Positivamente fissata dalla norma, invece, quale conseguenza dell’omologazione dell’accordo anche sul debito tributario, è l’estinzione dei giudizi in corso aventi ad oggetti i tributi concordati, effetto, questo, che non si verifica per gli altri creditori i quali quando votano sulla proposta concordataria sostanzialmente formulano il loro consenso solo in relazione alla percentuale o alle modalità di soddisfacimento pro-spettate, ma possono non solo proseguire l’eventuale contenzioso in corso ma iniziar-lo anche ex novo se in disaccordo con l’ammontare o la qualità dei crediti indicati nella domanda.

In definitiva, dunque, ben diverse sono le conseguenze tra un concordato senza transazione fiscale nel quale il fisco sia trattato come un qualunque altro creditore ed uno, invece, in cui la transazione venga perseguita con le modalità indicate e, quindi, ben diversi sono vantaggi e svantaggi delle due soluzioni.

Con la transazione fiscale il debitore ottiene il vantaggio della apprezzabile o asso-luta certezza sull’ammontare del debito (a seconda del significato che si vuole attri-buire al consolidamento) e, quindi, una maggiore trasparenza e leggibilità della propo-sta con conseguente maggiore probabilità di ottenere, oltre all’assenso del fisco, anche

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quello degli altri creditori. Tutto ciò ha però un costo che è dato dalla sostanziale ne-cessità di accogliere tutte le pretese dell’Amministrazione, non essendo plausibile che la stessa, dopo aver indicato il proprio credito, accetti in questa sede di discuterlo e ri-durlo.

Escludendo il ricorso alla transazione fiscale, il debitore non ottiene i richiamati benefici, ma può optare per la contestazione della pretesa erariale in vista di un minore esborso se gli importi in contestazioni non incidono in modo rilevante e se quindi il consenso del fisco non è decisivo ai fini del raggiungimento della maggioranza.

Ma non vi è dubbio che l’esame della possibilità dell’alternativa presuppone innan-zitutto che si accerti se il consenso del fisco sia comunque indispensabile per l’omo-logazione del concordato o se la falcidia del credito fiscale possa intervenire anche in presenza del voto contrario dell’Amministrazione.

Il quesito deve essere risolto nel senso della seconda alternativa. Decisivo è in proposito il disposto dell’art. 184 l. fall. laddove, enunciando gli effet-

ti del concordato, sancisce che “il concordato omologato è obbligatorio per tutti i cre-ditori anteriori al decreto di apertura della procedura di concordato”. La tassatività della disposizione, e, quindi, l’affermazione del principio secondo il quale l’assetto dei crediti (inteso quale definizione della percentuale di pagamento o delle modalità al-ternative di soddisfacimento) quale emerge dalla proposta omologata obbliga tutti i creditori indipendentemente non solo dal loro voto favorevole o contrario ma dalla stessa loro partecipazione al procedimento, porta ad escludere la possibilità di un par-ticolare statuto per il fisco, non essendo revocabile in dubbio che un’eccezione al prin-cipio, se voluta e per le conseguenze pratiche che comporta, sarebbe stata espressa-mente inserita dal legislatore in occasione della formulazione della disposizione dedi-cata alla materia.

D’altra parte, ulteriori considerazioni portano alla stessa conclusione e in primo luogo quella secondo cui se il voto negativo del fisco escludesse quella secondo cui se il voto negativo del fisco escludesse di per sé la possibilità di omologazione del con-cordato non avrebbe senso e contrasterebbe con i principi del giusto processo, che vo-gliono anche che vengano evitate attività processuali non necessarie, far votare l’Am-ministrazione unitamente a tutti gli altri creditori quando la sua volontà e quindi l’e-ventuale veto ben potrebbero essere accertati preliminarmente rendendo inutile l’ulte-riore corso.

Oltre a ciò, e senza considerare l’incongruenza di attribuire un peso determinante alla volontà dell’Amministrazione pur quando, ad esempio, voti contro anche in pre-senza di una proposta conforme alle sue aspettative semplicemente per la ritenuta non fattibilità del piano, non può ignorarsi una considerazione di carattere generale e, cioè, che la sostanziale attribuzione del diritto di veto al fisco renderebbe assai più difficile l’accesso al concordato in quanto il debitore sarebbe tenuto ad accettare in toto le pre-tese fiscali per poter accedere alla transazione e questo non si concilia con l’evidente volontà del legislatore di valorizzare e favorire la soluzione concordataria anche sacri-

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ficando forme di tutela prima presenti, come dimostra, ad esempio, l’eliminazione del-la doppia maggioranza.

Accertato dunque che la votazione non favorevole da parte dell’Amministrazione non impedisce l’omologazione del concordato se è comunque raggiunta la prescritta maggioranza e prima di trarne le conseguenze in ordine al quesito in discussione, è opportuno rilevare che il richiamo alla preferenza per il ricorso al concordato quale mezzo per affrontare la crisi dell’impresa sarebbe di per sé sufficiente a porre in dubbio l’obbligatorietà della transazione fiscale, in quanto era assolutamente pacifico nella vi-genza della disciplina del concordato antecedente alla stagione delle riforme che anche il credito tributario potesse essere oggetto di falcidia (ovviamente se chirografario) e che, più in generale, il fisco potesse essere trattato come qualunque altro creditore. Se dunque si predicasse l’obbligatorietà della transazione fiscale con ciò che comporta in termini di sostanziale assoggettamento alla pretesa erariale, la possibilità del debitore di accesso al concordato ne verrebbe grandemente pregiudicata in stridente contrasto con le intenzioni del legislatore.

A parte tale considerazione, è comunque l’accertata irrilevanza (nei termini sopra chia-riti) del voto dell’ufficio che convince della facoltatività del ricorso alla transazione fiscale.

A riprova è sufficiente valutare i possibili sviluppi della procedura nell’ipotesi in cui lo speciale sub procedimento venga invece attivato.

In primo luogo è possibile che, pur sollecitata dalla comunicazione di copia della domanda di concordato, l’Amministrazione semplicemente non si attivi trasmettendo la richiesta documentazione. Poiché evidentemente il procedimento non può subire un’interruzione per l’inadempienza dell’ufficio, si deve procedere ugualmente agli ul-teriori adempimenti e, quindi, alla votazione e, se la maggioranza è comunque raggiun-ta, al giudizio di omologazione il cui esito, come chiarito, non può essere condizionato dalla mancanza del voto favorevole dell’erario.

Un esito analogo si verifica se l’ufficio adempie al proprio obbligo, ma il contri-buente debitore ritiene di non doversi adeguare alla pretesa e, quindi, non modifica la proposta (se non appostando una congrua riserva) manifestando l’intenzione di pro-seguire nell’eventuale contenzioso in corso e di volersi opporre ad eventuali ulteriori pretese. Tale atteggiamento sarebbe infatti perfettamente lecito, non potendosi evi-dentemente subordinare ex lege l’omologabilità del concordato alla rinuncia del debi-tore a difendersi nei confronti del creditore-fisco, né potendo tale rinuncia ritenersi implicita nella richiesta di transazione fiscale quando ancora il quadro delle pretese (consolidamento) non è definito.

Stesso esito, infine, se i conteggi del debitore e del fisco coincidono o se il secondo comunque si adegua alla pretesa risultante dal consolidamento, ma l’erario esprime ugualmente voto non favorevole; ipotesi, questa, possibile in quanto non può negarsi al fisco la facoltà di non aderire alla proposta vuoi perché ritiene non soddisfacente il trattamento prospettato e più favorevole l’ipotesi fallimentare, vuoi perché giudica non fattibile il piano.

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In tutti questi casi, non essendo dirimente il voto erariale, il concordato, sussi-stendo gli altri presupposti, può comunque essere omologato con la conseguenza che il fisco deve accettare l’esito del procedimento come ogni altro creditore, fermo re-stando che la mancata adesione al concordato comporta il non verificarsi dei partico-lari effetti della transazione fiscale (consolidamento del debito inteso come non modi-ficabile manifestazione della pretesa ed estinzione dei giudizi in corso) che sono chia-ramente subordinati all’omologazione, in uno con il concordato, della connessa tran-sazione fiscale, non potendo né il debitore né il fisco rimanere pregiudicati nei rispet-tivi diritti se non hanno concordemente accettato l’assetto degli interessi che tale pre-giudizio giustifica.

Ma se è così, e se quindi pur in presenza di un tentativo di transazione fiscale non ri-suscito il concordato può essere ugualmente omologato, non è dato intendere perché un tale tentativo debba comunque essere effettuato se il debitore ritiene ab origine di non volere perseguire alcun accordo particolare col fisco perché già ne conosce le pretese, le ritiene infondate ed è disposto a correre il rischio del voto contrario dell’ufficio.

La ritenuta obbligatorietà della transazione fiscale, intesa come necessario interpel-lo dell’erario, pur in presenza della volontà del debitore di non voler accettare di pa-gare un debito superiore a quello già considerato nella proposta, presuppone la dimo-strazione dell’esistenza di un interesse concreto e degno di tutela dell’Amministrazio-ne ad essere comunque sollecitata a svolgere le attività previste dall’art. 182 ter; inte-resse che non è dato ravvisare, posto che l’ufficio, pur in assenza dell’interpello, non viene minimamente pregiudicato nel suo diritto di evidenziare compiutamente le sue pretese (anche in sede di adunanza e ai fini del voto) e di perseguirne l’accertamento prima e il soddisfacimento poi.

Né vale, infine, il richiamo al principio di indisponibilità del credito tributario dal momento che tale indisponibilità esiste nella misura in cui la legge non vi deroghi e non sono certo estranei all’ordinamento ipotesi di rinuncia dell’Amministrazione al-l’accertamento (condoni c.d. tombali) o alla completa esazione dell’accertato in vista di finalità particolari, fermo restando che la richiamata carenza di interesse alla parti-colare modalità procedimentale di cui all’art. 182 ter esclude la necessaria connessione tra detta modalità e la falcidia.

Il primo motivo deve dunque essere rigettato. Con il secondo motivo si deduce violazione degli artt. 160 e 182 ter l. fall. per aver

ritenuto ammissibile il giudice del merito la falcidia del credito relativo all’imposta sul valore aggiunto (IVA) nell’ambito di un concordato senza transazione fiscale.

La censura è fondata. Con l’art. 32 del D.L. 29 novembre 2008, n. 185, è stato modificato il primo com-

ma dell’art. 182 ter l. fall. e, tra l’altro, è stata introdotta la precisazione secondo la qua-le “con riguardo all’imposta sul valore aggiunto, la proposta può prevedere esclusiva-mente la dilazione del pagamento”, disposizione in seguito estesa anche alle ritenute previdenziali effettuate e non versate.

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La disposizione ha troncato la discussione in corso circa la ricomprensione o no dell’IVA tra “i tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea” esclusi dalla pos-sibilità di falcidia fin dall’ordinaria formulazione della norma e ritiene il Collegio che la stessa, in realtà, si ponga su di un piano di continuità con il primitivo dettato legislati-vo (per l’analogo rapporto tra riforma e decreto correttivo: Cass., sent. n. 22150/10) chiarendone e confermandone l’interpretazione e che, quindi, pure questo si riferisse anche all’IVA, dovendosi intendere il richiamo al tributo come risorsa riferito non già al gettito effettivo (venendo in realtà il contributo per IVA calcolato prescindendo da questo), bensì alla specie di tributo individuata quale parametro per il trasferimento di risorse all’Unione e la cui gestione, sia normativa che esecutiva, è di interesse comuni-tario e come tale sottoposta a vincoli. Da ciò consegue la non predicabilità della esclu-sione della falcidia dell’IVA anche per i concordati cui non sia applicabile ratione tem-poris la recente modifica legislativa sul punto.

Poiché tuttavia la proposta di concordato di cui si tratta non ha seguito la via della transazione fiscale (in relazione alla quale la disposizione espressamente si applica), la questione che si pone è se l’intangibilità dell’IVA sussista solo se viene attivato detto procedimento oppure se sia indipendente dall’opzione del debitore e, quindi, si im-ponga anche nel caso in cui la transazione speciale non venga perseguita ma la propo-sta tratti il fisco come ogni altro creditore, come è avvenuto nella fattispecie.

La soluzione è ravvisabile nel secondo corno del dilemma. Innanzitutto può osservarsi, in linea generale, che non avrebbe alcuna giustifica-

zione logica e che quindi non sia credibile che il legislatore abbia inteso lasciare alla scelta discrezionale del debitore assoggettarsi all’onere dell’integrale pagamento del-l’IVA, imposta armonizzata a livello comunitario sulla cui gestione, si ribadisce, gli Sta-ti non sono esenti da vincoli (si veda Corte di Giustizia CE, sez. V, 11/12/2008, n. 174) optando per la transazione fiscale oppure avvalersi della possibilità di proporne un pagamento parziale decidendo per il concordato senza transazione e, quindi, rima-nendo vincolato solo all’obbligo di pagare integralmente il debito nei limiti del valore dei beni sui quali grava la garanzia, peraltro spesso insussistenti come nel caso di im-posta gravante sul valore della prestazione i servizi.

A parte tale considerazione, ciò che non convince dell’inderogabilità della disposi-zione qualunque sia l’opzione del creditore è la natura stessa in quanto non si tratta di norma processuale, come tale connessa allo specifico procedimento di transazione fi-scale, ma di norma sostanziale in quanto attiene al trattamento dei crediti nell’ambito dell’esecuzione concorsuale dettata da motivazioni che attengono alla peculiarità del credito e prescindono dalle particolari modalità con cui si svolge la procedura di crisi.

In proposito, ed in ciò deve correggersi la motivazione dell’impugnata decisione, deve escludersi che la necessità dell’integrale pagamento dell’IVA comporti quella del-l’integrale pagamento di tutti i crediti privilegiati con grado anteriore in ossequio al principio secondo cui “il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’ef-fetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione” (art. 160, c. 2, u.p., l. fall.).

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Cass., sez. I, 4 novembre 2011, n. 22931

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Prescindendo dalla considerazione che dando decisiva rilevanza a tale disposizione la questione non si porrebbe nel concordato senza classi in quanto la falcidia dei crediti privilegiati non comporta necessariamente la suddivisione dei creditori in classi se per la parte in chirografo il trattamento è identico per tutti ed uguale a quello dei crediti originariamente chirografari per il solo fatto che vi sono crediti da pagarsi integralmen-te (perché in prededuzione o privilegiati capienti), ciò che rileva è l’erroneo richiamo alla disciplina della graduazione dei crediti. La disposizione che sostanzialmente esclu-de il credito IVA da quelli che possono formare oggetto di transazione, quanto meno in ordine all’ammontare del pagamento, è una disposizione eccezionale che, come si è os-servato, attribuisce al credito in questione un trattamento peculiare e inderogabile. La norma invocata dalla Corte d’appello (art. 160 c. 2) attiene, per contro, unicamente al trattamento aggiuntivo rispetto a quello imposto ex lege (ancorato al valore dei beni og-getto della garanzia) che viene deciso discrezionalmente dal debitore, ma che trova ap-punto un limite nel rispetto del grado di rilevanza attribuito dal legislatore ai diversi crediti in ragione del valore sociale della loro causa. Il vincolo, per contro, non astringe il legislatore che può, come nella fattispecie e per cause discrezionalmente individuate, attribuire un trattamento particolare a determinati crediti come avviene per la prededu-zione, senza che ciò incida automaticamente sul trattamento degli altri.

Diversamente opinando, tra l’altro, si dovrebbe attribuire al legislatore se non l’in-tento, quantomeno l’accettazione del rischio di rendere in molti casi sostanzialmente inattuabile il percorso concordatario in quanto, tenuto conto del basso grado del pri-vilegio dell’IVA, la necessità di proporne l’integrale pagamento comporterebbe l’ana-loga necessità per tutti i creditori privilegiati anche non tributari, rendendo oltretutto priva di contenuto la stessa transazione fiscale.

È appena il caso di ribadire, infine, che l’obbligo dell’integrale (anche se dilazio-nato) pagamento dell’IVA non comporta l’inderogabile accoglimento della pretesa fi-scale, in quanto nell’ambito del concordato senza transazione fiscale resta ferma la fa-coltà del contribuente di opporsi alla stessa, così che è solo l’imposta definitivamente accertata che è soggetta al vincolo richiamato.

Il motivo deve dunque essere accolto e in relazione allo stesso cassata la sentenza impugnata.

La circostanza che la proposta concordataria, pur ammissibile sotto il profilo del mancato ricordo alla transazione fiscale, sia invece ammissibile a causa della previsione del parziale pagamento del debito per IVA, rimasta immodificata in corso di procedu-ra, consente di decidere la causa nel merito e, quindi, di dichiarare inammissibile la do-manda di concordato.

La novità delle questioni trattate induce all’integrale compensazione delle spese dell’intero giudizio.

P.Q.M. la Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta il primo, cassa il decreto impu-

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gnato in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, dichiara inammissibile la domanda di concordato preventivo proposta dalla … s.a.s.; compensa le spese dell’inte-ro giudizio.

La non falcidiabilità del credito IVA nel concordato preventivo prescinde dalla presenza della transazione fiscale

The full payment of VAT in the pre-bankruptcy agreement is necessary also without “fiscal transaction”

Abstract L’introduzione nel 2006 della c.d. transazione fiscale nella legge fallimentare ita-liana (R.D. n. 267/1942, così come successivamente modificato) permette al de-bitore in seria crisi finanziaria, che intenda raggiungere un concordato preventi-vo con tutti i creditori privati al fine di evitare il fallimento, di regolare anche i propri debiti tributari e contributivi con le autorità competenti. Posto che il legi-slatore ha introdotto siffatto istituto tributario all’interno della disciplina falli-mentare, la giurisprudenza di merito continua ad incontrare numerose difficoltà ermeneutiche relative alla sua applicazione. Con la decisione n. 22931 del 4 no-vembre 2011, la Corte di Cassazione ha stabilito che la transazione fiscale costi-tuisce una mera facoltà (e non un obbligo) per il debitore che intenda regolare le proprie obbligazioni tributarie e, in secondo luogo, che il credito IVA non è mai falcidiabile qualora l’Amministrazione finanziaria non aderisca alla transazione fiscale né al concordato preventivo “puro”. La prima questione risolta dalla Su-prema Corte riflette lo spirito delle procedure concorsuali nel nostro ordinamen-to (fenomeno noto come privatizzazione dell’insolvenza) che mirano alla soddi-sfazione della massa dei creditori, obiettivo in relazione al quale i creditori pub-blici – e, in particolare, l’Amministrazione finanziaria – non possono costituire un ostacolo. La possibilità di regolare le obbligazioni tributarie senza il consenso del Fisco costituisce un’ulteriore superamento del principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria verso un approccio maggiormente efficiente della ri-scossione. Da ultimo, la Suprema Corte sottolinea che la modifica normativa del 2008 che sancisce la non falcidiabilità del credito IVA per mezzo della transazio-ne fiscale (per il quale è solamente possibile un pagamento rateizzato) ha natura

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“imperativa” e, come tale, applicabile anche qualora la regolamentazione delle pendenze tributarie avvenga al di fuori della transazione fiscale stessa. Tale con-clusione palesa un approccio prudente della Suprema Corte volto alla protezione delle risorse finanziarie dell’Unione Europea ed esprime altresì un parallelismo con la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE. Parole chiave: concordato preventivo, transazione fiscale, IVA, diritto dell’Unio-ne Europea, autorità fiscali, consenso The introduction in 2006 of the so-called fiscal transaction («transazione fiscale») in the Italian insolvency legislation (Royal Decree No. 267/1942, as subsequently amended) allows debtors in a serious financial crisis interested in seeking an agree-ment with all private creditors in the attempt to avoid formal bankruptcy («con-cordato preventivo»), the possibility to settle also their tax and social contribution obligations with the competent public authorities. Since the legislator introduced this tax institute as part of the insolvency discipline, the courts are facing many interpreta-tion issues concerning its application. With decision No. 22931 of November 4, 2011, the Italian Supreme Court establishes that the fiscal transaction represents merely an option (not a legal duty) for the debtor intending to settle its tax obligations and, sec-ondly, that the VAT liability shall not be reduced if neither the fiscal transaction nor the pre-bankruptcy agreement are accepted and signed by the tax authority. The first question resolved by the Supreme Court reflects the effective spirit of insolvency pro-ceedings in the Italian system (referred to as the so-called insolvency privatisation) aimed at satisfying the mass of creditors, which public creditors and, especially, the tax authorities, do not have the right to obstacle. The possibility to settle fiscal obligations without the consent of the tax authorities represents a further overcoming of the princi-ple of “unavailability” of tax obligations towards an efficiency-oriented approach of tax collection. Finally, the Supreme Court considers the 2008 amendment providing that VAT obligations cannot be reduced through the fiscal transaction (but can only be pay-able in instalments) as “imperative” and, therefore, applicable even if the settlement on tax obligations is reached without fiscal transaction. Such conclusion shows a prudent approach of the Italian Supreme Court towards the protection of the EU financial re-sources and expresses a parallelism with the jurisprudence of the CJEU. Keywords: pre-bankruptcy agreement, fiscal transaction, VAT, EU law, tax authorities, consent

SOMMARIO: 1. Inquadramento sistematico della transazione fiscale. – 2. Le questioni sottoposte al vaglio della Suprema Corte. – 2.1. Il dibattito circa l’obbligatorietà o meno della transazione fiscale. – 2.1.1. Tesi dell’obbligatorietà della transazione fiscale. – 2.1.2. Tesi della facoltatività della tran-sazione fiscale (c.d. tesi dualista). – 2.1.3. La soluzione della Suprema Corte. – 2.2. La sorte del

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credito IVA nel concordato preventivo: è possibile un pagamento in misura ridotta? Analisi degli orientamenti giurisprudenziali sul punto. – 2.2.1. Tesi della falcidiabilità dell’IVA. – 2.2.2. Tesi della non falcidiabilità dell’IVA. – 2.2.3. La soluzione della Suprema Corte. –3. Riflessioni conclusive. – 3.1. La natura facoltativa della transazione fiscale e l’erosione del c.d. principio di indisponibilità tributaria. – 3.2. La matrice europea dell’IVA e la c.d. interpretazione conforme del diritto nazionale da parte della Corte di Cassazione.

1. Inquadramento sistematico della transazione fiscale

Sin dalla propria introduzione nell’ordinamento italiano, l’istituto della transa-zione fiscale ha creato non pochi dubbi interpretativi che hanno impegnato la dot-trina tributaria e fallimentarista in un faticoso lavoro esegetico 1.

1 Sul tema, v. SELVI, Art. 182-ter. Transazione fiscale, in SANTANGELI (a cura di), Il nuovo fal-limento, Milano, 2006, p. 791 ss.; TOSI, La transazione fiscale, in Rass. trib., vol. 49, n. 4, 2006, p. 1071 ss.; CECCHERINI, La transazione fiscale e l’art. 182 ter della legge fallimentare, in Il Diritto Fallimentare, vol. 82, n. 6, 2007, Parte I, p. 961 ss.; MAGNANI, La transazione fiscale, in SCHIANO DI PEPE (a cura di), Il diritto fallimentare riformato, Padova, 2007, p. 677 ss.; DEL FEDERICO, LOR., La nuova transa-zione fiscale nel sistema delle procedure concorsuali, in Riv. dir. trib., vol. 18, n. 3, 2008, Parte I, p. 215 ss.; DOMINICI, La sorte dei crediti tributari nel concordato preventivo con transazione fiscale, in Il Diritto Fallimentare, vol. 83, n. 3-4, 2008, Parte II, p. 346 ss.; MATTEI, La transazione fiscale nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Il Diritto Fallimentare, vol. 83, n. 6, 2008, Par-te I, p. 867 ss.; MOSCATELLI, Crisi dell’impresa e debito tributario: riflessioni sulla transazione fiscale, in Rass. trib., vol. 51, n. 5, 2008, p. 1317 ss.; RANDAZZO, Il “consolidamento” del debito tributario nella transazione fiscale, in Riv. dir. trib., vol. 18, n. 10, 2008, Parte I, p. 825 ss.; TROMBELLA, La transazione fiscale: dalle incertezze interpretative alle interpretazioni azzardate, in Riv. dir. trib., vol. 18, n. 4, 2008, Parte II, p. 271 ss.; TROMBELLA, Riflessioni critiche sulla transazione fiscale, in Riv. dir. trib., vol. 18, n. 6, 2008, Parte I, p. 577 ss.; DEL FEDERICO, LOR., La transazione fiscale nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti, in DIDONE (a cura di), Le riforme della legge fallimentare, tomo II, Torino, 2009, p. 2059 ss.; POLLIO, La transazione fiscale, in FAUCEGLIA-PANZANI (diretto da), Falli-mento e altre procedure concorsuali, tomo III, Concordato preventivo. Accordi di ristrutturazione. Liqui-dazione coatta amministrativa. Amministrazione straordinaria. Profili internazionali. Disciplina penale, fiscale e transitoria, Torino, 2009, p. 1837 ss.; VITIELLO, L’istituto della transazione fiscale, in AMBRO-SINI-DEMARCHI-VITIELLO, Il concordato preventivo e la transazione fiscale, Bologna, 2009, p. 275 ss.; DEL FEDERICO, LOR., Questioni controverse sulla transazione fiscale, in Corr. trib., vol. 33, n. 29, 2010, p. 2377 ss.; FICARI, La «transazione fiscale» nella «ristrutturazione» dei debiti tributari e nel concor-dato preventivo, in BUONOCORE-BASSI (diretto da), in CAPO-DE SANTIS-MEOLI (coordinato da), Trat-tato di diritto fallimentare, vol. I, I presupposti. La dichiarazione di fallimento. Le soluzioni concordata-rie, Padova, 2010, p. 610 ss.; MARINI, La transazione fiscale, in Rass. trib., vol. 53, n. 5, 2010, p. 1193 ss.; BAGAROTTO, L’ambito oggettivo di applicazione della transazione fiscale, in Rass. trib., vol. 54, n. 6, 2011, p. 1472 ss.; CECCHERINI, La transazione fiscale. Aspetti di procedura e contraddizioni, in Il Diritto Fallimentare, vol. 86, n. 3-4, 2011, Parte I, p. 345 ss.; FERRO, Art. 182ter. La transazione fiscale, in FERRO (a cura di), La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico2, Padova, 2011, p. 2153 ss.; GAFFURI, Aspetti problematici della transazione fiscale, in Rass. trib., vol. 54, n. 5, 2011, p. 1115 ss.; LA MALFA, La transazione dei crediti fiscali, in DE MATTEIS-SCARAFONI (coordinato da), CAIAFA (a cura

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Cass., sez. I, 4 novembre 2011, n. 22931

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Si rileva, in primo luogo, l’infelice collocazione dell’istituto all’interno del corpus normativo fallimentare e, per di più, lo stesso appellativo “transazione” 2 ha riaperto l’antico dibattito relativo all’indisponibilità del credito tributario da parte dell’Ammini-strazione finanziaria, concetto col quale si indica generalmente il carattere di irrinun-ciabilità del tributo da parte del soggetto attivo del rapporto obbligatorio d’imposta 3.

La transazione fiscale è stata istituita dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 4, il cui art. 146 ha introdotto l’art. 182 ter all’interno del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (d’ora in avanti L. fall.) e, al contempo (art. 151), ha abrogato la figura della c.d. transazione esattoriale (o transazione sui ruoli) prevista dall’art. 3, comma 3, D.L. 8 luglio 2002, n. 138 (convertito in L. 8 agosto 2002, n. 178), la quale autorizzava l’Agenzia delle Entrate a transigere i tributi iscritti a ruolo per ammontare superiore ad € 1,5 mi-lioni, «in caso di accertata maggiore economicità e proficuità rispetto alla attività di riscossione coattiva». Siffatta previsione era inserita nel c.d. Decreto salva calcio, detto anche Decreto salva Lazio, in quanto l’unica a beneficiarne è stata la proprio la squadra di calcio S.S. Lazio S.p.A., la quale ha ottenuto la possibilità di “spalma-re” i propri debiti tributari erariali (ad eccezione, quindi, di addizionali regionali e dell’IRAP) in 23 rate annuali, con applicazione degli interessi al saggio legale 5. Al riguardo, il Fisco ha precisato che l’istituto era caratterizzato dalla «possibilità, al verificarsi di determinate condizioni ed in deroga ai principi generali, di raggiunge-re un accordo che, attraverso reciproche concessioni, consenta la chiusura delle controversie relative alla fase della riscossione, ovvero che ne impedisca l’insorgen-za, ed di permettere il conseguimento di un risultato più proficuo rispetto a quello conseguibile coattivamente» 6.

Al fine di evitare censure di costituzionalità, il peculiare istituto previsto dal De- di), Le procedure concorsuali, tomo II, Padova, 2011, p. 1425 ss.; MAURO, La transazione fiscale nel labirinto delle norme e dei principi, in BASILAVECCHIA-CANNIZZARO-CARINCI (a cura di), La riscossione dei tributi, Milano, 2011, p. 327 ss.

2 Nozione che richiama il contratto di diritto civile «col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro. Con le reciproche concessioni si possono creare, modificare o estinguere anche rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione delle parti» (art. 1865 c.c.).

3 Così RUSSO, Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, in LA ROSA (a cura di), Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, Milano, 2008, p. 91.

4 Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’art. 1, comma 5, della L. 14 maggio 2005, n. 80.

5 Per un approfondimento, si rinvia a MANDRIOLI, La transazione dei tributi iscritti a ruolo nel fal-limento e nell’esecuzione individuale, in Il Fallimento, vol. 25, n. 10, 2003, p. 1033 ss.; DOLMETTA, A.A., Relatività dei nomina in diritto civile e in diritto tributario: la nozione di “transazione” nella l. n. 178 del 2002, in Dir. prat. trib., vol. 75, n. 6, 2004, Parte I, p. 1515 ss.; MOSCATELLI, La disciplina della transa-zione nella fase di riscossione del tributo, in Riv. dir. trib., vol. 15, n. 5, 2005, Parte I, p. 483 ss.

6 Agenzia delle Entrate, Circolare 4 marzo 2005, n. 8/E, con nota di BASILAVECCHIA, La transa-zione dei ruoli, in Corr. trib., vol. 28, n. 15, 2005, p. 1217 ss.

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creto salva calcio, da una parte, imponeva che l’eventuale accordo raggiunto doves-se produrre un risultato migliore rispetto alla riscossione coattiva, in ossequio al principio del buon andamento della Pubblica Amministrazione (art. 97 Cost.) e, dall’altra, procedimentalizzava l’intero iter, il quale, svincolato da qualsiasi logica di approvazione automatica, necessitava del parere conforme della Commissione con-sultiva per la riscossione ex art. 6, D.Lgs. 13 aprile 1999, n. 112. Con tali accorgimen-ti il legislatore ha ridotto al minimo la discrezionalità dell’Amministrazione finanzia-ria, prevedendo l’adesione a tale forma transattiva esclusivamente in presenza di ri-gorose condizioni e subordinando la stessa alla sussistenza del miglior risultato pratico.

Maggiori problemi sorgono, invece, in relazione alla transazione fiscale di cui all’art. 182 ter L. fall., che offre la possibilità per il debitore in situazione di crisi di depositare congiuntamente al piano di concordato preventivo una proposta di «pagamento, anche parziale, dei tributi amministrati dalle agenzie fiscali e dei rela-tivi accessori, limitatamente alla quota di debito avente natura chirografaria anche se non iscritti a ruolo, ad eccezione dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unio-ne europea». Il nuovo istituto può, dunque, trovare applicazione esclusivamente nell’ambito del concordato preventivo ex art. 160 L. fall., a prescindere dal fatto che il debitore presenti un piano con ristrutturazione dei debiti, con cessione dei beni o, infine, “misto” (i.e. un piano che preveda la soddisfazione dei creditori in parte mediante la cessione di beni aziendali e, in parte, con l’impiego di nuova fi-nanza).

Occorre adesso individuare la cornice concorsuale entro la quale la transazione fiscale si colloca, per poter affrontare meglio le questioni di diritto sottoposte alla Corte di Cassazione.

Il concordato preventivo così come attualmente disciplinato dagli artt. 160 ss. L. fall., costituisce per il debitore che si trovi in uno stato di crisi (che può anche assurgere a stato di insolvenza vera e propria) 7 una valida alternativa al fallimento, volta ad eliminare tale stato e, al tempo stesso, soddisfare le ragioni dei creditori, seppur in misura percentuale 8. Il presupposto oggettivo per poter accedere alla procedura concorsuale è, dunque, condensato nella nozione di “crisi”, la quale ri-comprende un ventaglio di ipotesi che possono andare dalla situazione precedente all’insolvenza, a quella in cui vi è un rischio concreto, a quella, infine, di insolvenza irreversibile 9. L’attuale disciplina del concordato preventivo privilegia, quindi, l’e-

7 In questo senso, si veda la norma di interpretazione autentica di cui all’art. 36, L. 30 dicembre 2005, n. 273 (c.d. Mille proroghe).

8 Si rammenta che nella previgente disciplina solo il debitore in stato di insolvenza poteva acce-dere al concordato preventivo. In altre parole, prima la ratio del concordato preventivo era di tutela-re il debitore “onesto ma sfortunato”, per riprendere la colorita definizione di BOLAFFIO, L., Il con-cordato preventivo secondo le sue tre leggi disciplinatrici, Torino, 1932, p. 1.

9 In tal senso, LO CASCIO, G., Il concordato preventivo8, Milano, 2011, p. 96. Per la posizione della

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sigenza di ripristinare la normale attività dell’impresa valorizzando la centralità del ruolo dei creditori, sebbene l’intera procedura si svolga sempre sotto il controllo del Tribunale. Al riguardo, l’introduzione del presupposto dello stato di crisi per accedere al concordato preventivo – al posto del più circoscritto requisito dello stato di insolvenza – ha comportato una vera e propria “privatizzazione” dell’insol-venza 10.

Il ricorso per l’ammissione alla procedura deve contenere il c.d. piano illustrati-vo delle modalità di soddisfacimento dei creditori, che può avvenire in diverse for-me (art. 160, lett. a), L. fall.) 11. Alla domanda, che apre il giudizio di ammissione alla procedura dinanzi al Tribunale, il debitore deve allegare la seguente documen-tazione:

a) la relazione di un professionista scelto dal debitore, che risulti iscritto nel regi-stro dei revisori contabili e in possesso dei requisiti di professionalità previsti per il curatore ex art. 67, comma 3, lett. d), L. fall., il quale attesti la fattibilità del piano e la veridicità dei dati aziendali;

b) una relazione aggiornata sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore, al fine di permettere un riscontro oggettivo circa la trasparenza e cor-rettezza dell’operazione concordataria proposta;

c) uno stato analitico ed estimativo delle attività; d) l’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei relativi crediti e delle

cause di prelazione; e) l’elenco dei titolari di diritti reali o personali su beni di proprietà o in possesso

del debitore; f) il valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente re-

sponsabili. Sin dall’originaria disciplina del 2005, il vaglio di ammissibilità del Tribunale

consiste principalmente in una verifica formale volta a individuare la sussistenza dei requisiti soggettivi del proponente (i.e. la qualità di imprenditore commerciale) e la regolarità della documentazione prodotta, non potendosi questa estendere alla veri-dicità dei dati aziendali forniti e alla fattibilità del piano. Il D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169 (c.d. Decreto correttivo) ha modificato l’art. 162 L. fall., introducendo, di fatto, giurisprudenza sul punto, v. FILOCAMO, F.S., Le condizioni di ammissibilità del concordato preventivo, in Il Fallimento, vol. 32, n. 12, 2010, p. 1452 ss.

10 LO CASCIO, G., op. ult. cit., p. 145. 11 La dottrina considera che il piano rivesta «il ruolo di strumento principe dal quale desumere

le linee di ingegneria finanziaria che l’imprenditore intende attuare al fine di superare quello stato di crisi ovvero di insolvenza in cui il medesimo si è venuto a trovare in conseguenza del deteriorarsi dell’equilibrio economico». In questo senso, MANDRIOLI, Struttura e contenuti dei “piani di risana-mento” e dei “progetti di ristrutturazione” nel concordato preventivo e negli accordi di composizione stra-giudiziale delle situazioni di “crisi”, in BONFATTI-FALCONE (a cura di), Le nuove procedure concorsuali per la prevenzione e la sistemazione delle crisi di impresa, Milano, 2006, p. 458.

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un’eventuale fase dialettica fra giudice e debitore, finalizzata a ottenere un’integra-zione della documentazione da quest’ultimo prodotta ed evitare una possibile dichia-razione di fallimento 12. Secondo un orientamento minoritario tale innovazione com-porterebbe la possibilità per il giudice di effettuare anche un controllo di merito 13, ma la Suprema Corte ha in più occasioni smentito la fondatezza di tale interpretazione 14.

Posto che l’imprenditore in stato di crisi ha nella maggior parte dei casi anche debiti nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, è dunque necessario com-prendere la loro collocazione e la misura del relativo soddisfacimento all’interno delle procedure concorsuali, trattandosi di obbligazioni di diritto pubblico 15.

Nello specifico ambito della procedura di concordato preventivo 16, la transa-zione fiscale permette al debitore di ottenere il c.d. consolidamento dei propri debiti tributari e la cessazione della materia del contendere in relazione alle controversie transigibili 17, nonché di ottenere del consenso del Fisco in sede di approvazione del piano concordatario.

12 L’attuale art. 162, comma 1, L. fall. prevede che «il Tribunale può concedere al debitore un termine non superiore a quindici giorni per apportare integrazioni al piano e produrre nuovi docu-menti».

13 Così AZZARO, Concordato preventivo e autonomia privata, in Il Fallimento, vol. 29, n. 11, 2007, p. 1267 ss.; MOSCATELLI, Crisi dell’impresa e debito tributario: riflessioni sulla transazione fiscale, cit., p. 1321; FICARI, La «transazione fiscale» nella «ristrutturazione» dei debiti tributari e nel concordato preventivo, cit., p. 628. In giurisprudenza, v. ex pluribus Tribunale di Bari, sez. IV, decreto 25 febbraio 2008, in Il Fallimento, vol. 30, n. 6, 2008, p. 682 ss.

14 In questo senso, Cass., sez. I, 25 ottobre 2010, n. 21860, in Il Fallimento, vol. 33, n. 2, 2011, p. 167 ss., con note di FABIANI, Per la chiarezza delle idee su proposta, piano e domanda di concordato pre-ventivo e riflessi sulla fattibilità, ivi, p. 172 ss. e di BOZZA, Il sindacato del tribunale sulla fattibilità del concordato preventivo, ivi, p. 182 ss. Più di recente, si veda Cass., sez. I, 23 giugno 2011, n. 13817, in Giustizia Civile, vol. 61, n. 7-8, 2011, p. 1673 ss. In dottrina, v. FAUCEGLIA, Ancora sui poteri del Tri-bunale per l’ammissibilità del concordato preventivo: errare è umano, perseverare diabolico, in Il Diritto Fallimentare, vol. 83, n. 6, 2008, Parte II, p. 576; PACCHI, La valutazione del piano del concordato pre-ventivo: i poteri del Tribunale e la relazione del commissario giudiziale, in Il Diritto Fallimentare, vol. 86, n. 2, 2011, pp. 107-108.

15 Per un inquadramento della tematica, v. MICCINESI, L’imposizione sui redditi nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, Milano, 1990 e, da ultimo, MAURO, Imposizione fiscale e fallimento, Torino, 2011. Rileva efficacemente DEL FEDERICO, LOR., La nuova transazione fiscale nel sistema delle procedure concorsuali, cit., p. 216, che «il difficile equilibrio tra procedure concorsuali e fiscalità è sempre stato condizionato per un verso dalla rigidità delle pretese del Fisco, caratterizzate dall’indi-sponibilità dell’obbligazione tributaria e dal regime pubblicistico del rapporto tra ente impositore e contribuente, e per altro verso dalla così detta specialità del diritto tributario, che per tale sua asseri-ta natura, è stato ritenuto troppo spesso prevalente rispetto alle regole della concorsualità».

16 L’evoluzione normativa dimostra, infatti, che «il concordato preventivo costituisce l’habitat giuridico proprio della transazione fiscale». Così LA MALFA, La transazione dei crediti fiscali, cit., p. 1431.

17 Sugli effetti della transazione fiscale, v. in particolare GIORDANO, Effetti della transazione fiscale “fuori” e “dentro” il concordato preventivo, in Il Diritto Fallimentare, vol. 86, n. 5, 2011, Parte II, p. 528 ss.

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Cass., sez. I, 4 novembre 2011, n. 22931

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L’originaria formulazione dell’art. 182 ter L. fall. è stata oggetto di varie mo-difiche, le quali hanno identificato meglio il campo di applicazione dell’istituto. Più precisamente:

– l’art. 16, comma 5, del c.d. Decreto correttivo ha chiarito che la transazione fi-scale può trovare applicazione anche nella procedura di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis L. fall. 18;

– l’art. 32, comma 5, lett. a), D.L. 29 novembre 2008, n. 185 ha esteso l’ap-plicabilità della transazione fiscale anche ai contributi previdenziali verso INPS e INAIL 19 e, al contempo, ha previsto che in relazione all’IVA la stessa possa unica-mente comportare una dilazione del pagamento e non anche una sua riduzione;

– l’art. 29, comma 2, lett. a), D.L. 31 maggio 2010, n. 78 ha aggiunto che anche le ritenute operate e non versate possano solo essere dilazionate, e il comma 4 del-la medesima disposizione ha introdotto il reato di falso in transazione fiscale, pre-vedendo la punibilità ex art. 11, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 per colui che presenta «elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi per un ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila»;

– infine, l’art. 23, comma 43, D.L. 6 luglio 2011, n. 98 ha ampliato i requisiti soggettivi per accedere agli accordi di ristrutturazione dei debiti, prevedendo che l’imprenditore agricolo in stato di crisi o di insolvenza – non essendo fallibile e, dunque, non potendo accedere al concordato preventivo – possa adesso utilizzare l’accordo di ristrutturazione dei debiti e, in tale ambito, servirsi del sub-procedi-mento della transazione fiscale.

2. Le questioni sottoposte al vaglio della Suprema Corte

I problemi interpretativi che hanno maggiormente impegnato la giurispru-denza di merito, e che vengono risolti dalla decisione della Suprema Corte in ras-segna, attengono all’obbligatorietà o meno della transazione fiscale all’interno del concordato preventivo e, in secondo luogo, al trattamento del credito IVA.

2.1. Il dibattito circa l’obbligatorietà o meno della transazione fiscale L’introduzione dell’istituto della transazione fiscale all’interno dell’iter proce-

durale del concordato preventivo ha sin da subito dato luogo a diversi approcci circa la sua natura e, segnatamente, circa la sua obbligatorietà o meno in presenza

18 In dottrina, v. MARENGO, Transazione fiscale, in DI MARZIO (a cura di), Il correttivo della rifor-ma fallimentare, Torino, 2008, p. 235 ss.

19 L’ambito e le modalità di applicazione dell’art. 182 ter L. fall. ai fini della c.d. transazione con-tributiva sono definiti dal D.M. Ministero del Lavoro 4 agosto 2009. V. anche Direzione Centrale Entrate INPS, Circolare 15 marzo 2010, n. 38.

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di crediti tributari. Al riguardo, in giurisprudenza e dottrina si sono formati vari orientamenti.

2.1.1. Tesi dell’obbligatorietà della transazione fiscale L’orientamento che si è consolidato in una fase iniziale parte dal presupposto

che la transazione fiscale costituisce un procedimento necessario quando il con-cordato preventivo coinvolga anche crediti tributari. Sul punto, la giurisprudenza ha elaborato tre varianti.

A) Natura “autonoma” della transazione fiscale e necessaria presentazione della do-manda Secondo una prima impostazione (ormai quasi del tutto superata), la transa-

zione fiscale costituirebbe un procedimento che si colloca nell’ambito del concor-dato preventivo, ma che mantiene una propria autonomia negoziale, con la conse-guenza che la possibilità di un pagamento ridotto dei crediti tributari è subordina-to al necessario voto favorevole da parte dell’Ufficio e al raggiungimento del relati-vo accordo transattivo. Un concordato preventivo che incida su crediti tributari non regolati per mezzo della transazione fiscale dovrebbe essere, quindi, dichiarato inammissibile stante il voto negativo del Fisco che, di fatto, costituisce esercizio di un vero e proprio potere di veto.

La principale sostenitrice di tale tesi è l’Amministrazione finanziaria, la quale reputa che l’eccezionale ingresso di un istituto consensuale che ricalca lo schema civilistico della transazione ex art. 1965 c.c. costituisca una deroga al principio di indisponibilità tributaria e, come tale, non assoggettabile a interpretazione analogi-ca. Pertanto, non sarà mai «possibile pervenire ad una soddisfazione parziale» del credito tributario «al di fuori della specifica disciplina di cui all’articolo 182-ter» 20, in quanto tale norma disciplina un autonomo negozio a contenuto transattivo.

Aderendo a tale impostazione, la falcidia o il pagamento rateizzato (nel caso dell’IVA e delle ritenute operate e non versate) del credito tributario sarà possibile esclusivamente nel caso in cui l’Ufficio aderisca alla transazione fiscale, mentre sif-fatto risultato non potrebbe essere mai raggiunto nel caso di presentazione di una proposta concordataria “pura” 21.

B) Natura “endoconcorsuale” della transazione fiscale e necessario raggiungimento dell’accordo con il Fisco Sempre nell’ambito della tesi dell’obbligatorietà, un altro filone considera la

20 V. Agenzia delle Entrate, Circolare 18 aprile 2008, n. 40/E, par. 4. 21 La stessa Circolare n. 40/E precisa a chiare lettere che «in assenza della proposta di transa-

zione fiscale, i crediti tributari devono essere soddisfatti in maniera integrale ed alle scadenze pre-scritte dalla legge». Nello stesso senso, Agenzia delle Entrate, Risoluzione 5 gennaio 2009, n. 3/E.

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transazione fiscale un sub-procedimento amministrativo che si innesta all’interno del concordato preventivo e finalizzato a quantificare il credito tributario. Pertan-to, la mancata proposizione della domanda congiuntamente al piano di concorda-to determina inevitabilmente l’inammissibilità di quest’ultimo 22.

Questa tesi postula che il necessario deposito della domanda di transazione fi-scale e l’altrettanto necessario ottenimento del consenso da parte del Fisco espri-merebbero la funzione di “certificazione” del debito tributario all’interno del con-cordato preventivo. Di conseguenza, sarebbe impensabile pretendere l’ammissibi-lità e, a maggior ragione, l’omologazione di un concordato preventivo senza tran-sazione fiscale, in quanto lo stesso comporterebbe la «definitiva approvazione di un piano “difettoso” quanto all’esatta consistenza del carico debitorio del contri-buente; e gli effetti esdebitativi della chiusura del concordato pregiudicherebbero a titolo definitivo l’operatività del principio di indisponibilità dell’obbligazione tri-butaria» 23.

C) Natura “endoconcorsuale” della transazione fiscale e necessaria presentazione della domanda Secondo un’altra variante, infine, il ricorso alla transazione fiscale è obbligato-

rio ma non costituisce condicio sine qua non per l’ammissibilità del concordato pre-ventivo 24. In sostanza, in presenza di crediti tributari, il debitore che propone il concordato preventivo è obbligato a depositare contestualmente domanda di tran-sazione fiscale, che se poi non sfocia nel raggiungimento di un accordo con il Fi-sco, non inficia l’ammissibilità del piano concordatario.

Posto che il piano ex art. 160 L. fall. può essere finalizzato sia ad un concordato “liquidatorio” (i.e. mirante alla soddisfazione dei creditori o alla ristrutturazione dei debiti) sia ad un concordato che permetta la continuità dell’attività imprenditoria-le, ne consegue che lo stesso non può essere ostacolato dal disaccordo dell’Ufficio alla proposta di transazione fiscale, dal momento che il legislatore non ha espres-samente attribuito al Fisco un diritto potestativo in tal senso. La transazione fisca-le, quindi, deve essere presentata congiuntamente al concordato preventivo, in quanto è un istituto che ontologicamente presuppone reciproche concessioni e

22 In questo senso, v. ATTARDI, Inammissibilità del concordato preventivo in assenza di transazione fiscale, in Il Fisco, vol. 33, n. 39, 2009, p. 6438; CAPOLUPO, La transazione fiscale: aspetti sostanziali, in Il Fisco, vol. 30, n. 20, 2006, p. 1-3015 ss.

23 ATTARDI, op. cit., p. 6439. 24 In tale orientamento, spicca per chiarezza Tribunale di Monza, sez. III, decreto 15 aprile 2010,

Pres. e Rel. Paluchowski, in Il Fallimento, vol. 33, n. 1, 2011, p. 82 ss., con nota di STASI, Obbligatorie-tà o facoltatività della transazione fiscale?, ivi, p. 85 ss., ma si veda anche Tribunale di Venezia, decre-to 27 febbraio 2007, Rel. Marini, in Il Fallimento, vol. 29, n. 12, 2007, p. 1464 ss., con nota di FINAR-DI, Transazione fiscale e crediti privilegiati nel concordato preventivo, ivi, p. 1466 ss. In dottrina, v. GAF-FURI, Aspetti problematici della transazione fiscale, cit., p. 1120.

10.

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rinunce, e finalizzato a ottenere: a) il consolidamento del debito tributario; b) un accordo legittimo circa la falcidia dello stesso.

Tale impostazione – largamente seguita nelle pronunce più recenti – considera la transazione fiscale un istituto non autonomo, ma di natura “endoconcorsuale” al concordato preventivo, ove l’eventuale voto negativo da parte dell’Amministra-zione finanziaria non sarebbe però in grado di alterare la decisione della maggio-ranza dei creditori che aderiscono al piano proposto, il quale dovrà, dunque, essere omologato dal Tribunale adito. In tale ipotesi, quindi, il credito tributario per cui è stata infruttuosamente proposta anche transazione fiscale rimarrebbe legato alle sorti del concordato, seguendone le regole concorsuali ordinarie 25. A differenza di quanto accade nel concordato fallimentare, qui l’eventuale silenzio dell’Ammini-strazione finanziaria nell’adunanza dei creditori equivale a un voto negativo 26.

25 Sempre il Tribunale di Monza, cit., precisa che il “nuovo” concordato preventivo «ha una dimensione contrattualistica e consensualistica molto più accentuata di prima e ogni creditore chiamato al voto […] ha sempre la disponibilità del diritto. Solo l’esattore o l’Agenzia delle En-trate non possono in condizioni ordinarie disporre della obbligazione tributaria». Pertanto, una volta proposto il piano concordatario corredato dalla proposta di transazione fiscale «non è vin-colante l’assenso del Fisco, una volta che questi sia stato posto in condizione di disporre e votare come gli altri creditori. Esso in tale frangente diviene un creditore come gli altri, in quanto la de-terminazione del quantum dell’obbligazione tributaria viene subordinato ad un altro interesse pubblico che è quello alla composizione della crisi che evidentemente il legislatore reputa premi-nente e, fornendo il procedimento che ne assicura la lecita determinabilità, si è posto in condi-zione il Fisco di partecipare consensualmente alla quantificazione dell’obbligazione tributaria decidendone la falcidia».

26 Sul punto, il Tribunale di Roma, decreto 27 gennaio 2009, Rel. La Malfa, in Giur. comm., vol. 37, n. 3, 2010, Parte II, p. 525 ss., con nota di SANTORO CAYRO, Considerazioni in tema di ‘autonomia’ della transazione fiscale, ivi, p. 530 ss., ha ritenuto non condivisibile la tesi dell’autonomia in quanto «i) l’art. 182-ter non si discosta dall’art. 160 l. f. nel prevedere la possibile falcidia dei crediti privile-giati tributari, ma aggiunge a tale previsione la disciplina procedurale attraverso cui gli uffici fiscali pervengono al voto; ii) quello della transazione fiscale non costituisce un vero e proprio negozio a contenuto transattivo, poiché non è prevista la stipula di un accordo contenente reciproche conces-sioni e attraverso di esso non si tende a risolvere o prevenire una lite tra il fisco e il debitore; in tal senso sarebbe quindi improprio parlare di autonomia di tale negozio rispetto al diverso e più genera-le negozio costituito dal concordato; iii) già il contenuto precettivo dell’art. 160 sulla falcidia dei crediti privilegiati l. f. è sufficiente a consentire il superamento del principio d’indisponibilità dei crediti tributari, che non ha rango costituzionale; iv) dal punto di vista funzionale, la transazione fiscale si atteggia quale procedura predisposta per consentire agli uffici fiscali di partecipare al con-cordato col loro voto e per dettare le regole attraverso cui legittimamente i relativi uffici esprimono il voto; v) formalmente, quello espresso dagli uffici fiscali è un voto, reso alla pari di quello di tutti gli atri creditori in applicazione del principio maggioritario, e non invece una espressione di volontà alla stregua dell’accettazione di un negozio; in tal senso è qualcosa di più e di diverso da un atto ne-goziale; vi) la disciplina dell’art. 182 ter non contiene una fase volta alla definizione di trattative tra le parti, come sarebbe stato necessario se effettivamente si fosse trattato di transazione vera e pro-pria; vii) andando di contrario avviso si attribuirebbe al fisco un potere di veto insindacabile, con violazione dei diritti del proponente e degli altri creditori; viii) mentre il concordato (preventivo o fallimentare) ha una sua propria funzione autonoma rispetto alla transazione fiscale e può vivere di

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Sulla scorta di tale assunto, l’istituto di cui all’art. 182 ter L. fall. «si risolve in una modalità collaterale ed interna alla procedura di concordato preventivo, quale parte del più generale piano proposto. La transazione fiscale non è, infatti, un au-tonomo accordo, ma costituisce una fase endoconcorsuale» 27.

Questo orientamento ha il pregio di ridare centralità al concordato preventivo quale “binario” sul quale si inserisce il sub-procedimento della transazione fiscale, la cui necessaria presentazione è volta a mettere il soggetto attivo del rapporto ob-bligatorio d’imposta nella condizione di aderire a una falcidia dei crediti fiscali, in deroga al principio di indisponibilità tributaria 28.

2.1.2. Tesi della facoltatività della transazione fiscale (c.d. tesi dualista) Nel panorama giurisprudenziale più recente si è ormai consolidata l’imposta-

zione secondo cui la transazione fiscale rappresenta un procedimento endocon-corsuale all’interno del concordato preventivo. Ebbene, prendendo le mosse da ta-le traguardo interpretativo, alcuni collegi giudicanti stanno, però, iniziando a consi-derare che la tesi dell’obbligatorietà della transazione fiscale risulti eccessivamente tranciante e incompatibile con la logica che il legislatore ha inteso imprimere al “nuovo” concordato preventivo.

In base a tale innovativo orientamento, il debitore il stato di crisi che voglia ot-tenere la falcidia dei crediti tributari può indifferentemente avvalersi del procedi-mento endoconcorsuale della transazione fiscale o chiederne il pagamento ridotto (o dilazionato per IVA e ritenute) nell’ambito del concordato preventivo, senza seguire le regole procedurali di cui all’art. 182 ter L. fall. (c.d. tesi dualista) 29. In vita propria, altrettanto non è per la transazione che può essere proposta solamente nell’ambito di altra procedura del sistema concorsuale».

27 Così Tribunale di Pavia, decreto 8 ottobre 2008, Rel. Balba, su www.ilcaso.it. 28 La dottrina che avalla questa impostazione arriva alle seguenti conclusioni: «a) che in ogni

caso in cui il proponente intenda pervenire alla falcidia dei crediti fiscali, debba necessariamente proporre la transazione fiscale e promuovere la relativa sub-procedura, sottostando ai relativi vincoli formali e sostanziali (relativi ai tributi transigibili); b) che agli uffici finanziari può riconoscersi la fa-coltà di non votare o di votare contro la proposta avanzata, ma senza che ciò comporti l’inammissi-bilità della proposta; c) che all’autorità giudiziaria e non agli uffici finanziari debba riconoscersi l’autonoma potestà di statuire sull’inammissibilità della procedura ex art. 182 ter, poiché altrimenti si finirebbe attraverso tale via per attribuire all’Amministrazione fiscale una impropria facoltà di veto sulle sorti della procedura di concordato, senza nemmeno attuare le garanzie del contraddittorio». Così LA MALFA, La transazione dei crediti fiscali, in DE MATTEIS-SCARAFONI (coordinato da), CAIAFA (a cura di), Le procedure concorsuali, tomo II, Padova, 2011, pp. 1439-1440.

29 Secondo il Tribunale di Ravenna, decreto 21 gennaio 2011, Rel. Farolfi, su www.ilcaso.it, «la previsione della transazione fiscale all’interno del piano concordatario è opzione meramente facolta-tiva per il debitore in stato di crisi […], con l’ulteriore conseguenza che un piano concordatario po-trebbe imporre la falcidia dei debiti tributari anche in assenza di formale accesso al sub-procedimen-to ex art. 183». Nello stesso senso, v. Tribunale di Pescara, decreto 2 dicembre 2008, Rel. Filocamo, su www.ilcaso.it; Tribunale di Roma, decreto 27 gennaio 2009, cit.; Tribunale di Mantova, decreto

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aperto contrasto con la posizione espressa dall’Agenzia delle Entrate nella Circola-re 18 aprile 2008, n. 40/E 30, viene dunque ribadita la natura endoconcorsuale della transazione fiscale, ma viene aggiunto che la stessa non è l’unica strada percorribile per ottenere la falcidia dei crediti tributari 31.

In una delle più significative pronunce in tal senso, il Tribunale di La Spezia ha ritenuto che «l’attuale sistema consenta all’imprenditore che versi nelle condizioni indicate all’art. 160 l.f. di formulare una proposta di concordato preventivo che preveda la falcidia dei crediti tributari anche senza seguire l’iter descritto dall’art. 182-ter l.f. e dunque senza perseguire gli effetti del consolidamento del debito fi-scale e della cessazione del contenzioso che la norma ora citata ricollega all’esito positivo della transazione fiscale, la quale dunque deve essere considerata come facoltativa per quel debitore che per qualsiasi motivo, non avesse interesse a con-seguire gli effetti anzidetti» 32.

2.1.3. La soluzione della Suprema Corte La decisione in rassegna rappresenta un’equilibrata miscela composta dall’ac-

coglimento della tesi della facoltatività sopra illustrata e dall’estensione del prin-cipio dell’intangibilità dell’IVA anche nel caso in cui i crediti tributari siano fal-cidiati nell’ambito del concordato preventivo ex art. 160 L. fall. senza transazione 26 febbraio 2009, Rel. De Simone, su www.ilcaso.it; Tribunale di Bologna, decreto 24 marzo 2009, inedito; Tribunale di La Spezia, decreto 1° luglio 2009, Rel. Farina, in Il Foro Padano, vol. 66, n. 1, 2010, Parte I, p. 127 ss., con nota di PEZZANO, I.V.A. tra concordato preventivo e transazione fiscale, ivi, p. 131 ss.; Tribunale di Bologna, Sez. IV, decreto 17 settembre 2009, Rel. Florini, inedito; Tribunale di Genova, decreto 26 novembre 2009, in www.osservatorio-oci.org; Corte d’Appello di Genova, Sez. I, decreto 19 dicembre 2009, Rel. Silva, in Giur. it., vol. 162, n. 5, 2010, p. 1090 ss.; Corte d’Appello di Bologna, decreto 22 febbraio 2010, in www.osservatorio-oci.org; Corte d’Appello di Firenze, Sez. II, Rel. Romoli, decreto 13 aprile 2010, su www.ilcaso.it; Corte d’Appello di Torino, sez. I, decreto 6 maggio 2010, Rel. Stalla, in Corr. giur., vol. 28, n. 6, 2011, p. 859 ss., con nota di PIAZZA, La transa-zione fiscale e la sua efficacia ai fini dell’omologa del concordato preventivo, ivi, p. 863 ss., e in Il Falli-mento, vol. 32, n. 11, 2010, p. 1275 ss., con nota di GUIOTTO, Opportunità della transazione fiscale e disciplina dei crediti privilegiati insoddisfatti, ivi, p. 1278 ss.; Tribunale di Asti, decreto 3 febbraio 2010, Rel. Ceccon, in Il Fallimento, vol. 32, n. 6, 2010, p. 707 ss., con nota di VERNA, La transazione fiscale quale sub-procedimento facoltativo del concordato preventivo, ivi, p. 710 ss.; Corte d’Appello di Venezia, decreto 10 giugno 2010, inedito; Tribunale di Arezzo, decreto 7 ottobre 2010, in DeJure; Tribunale di Salerno, decreto 9 novembre 2010, Rel. Jachia, in Giur. it., vol. 163, n. 2, 2011, p. 347 ss., con nota di FAUCEGLIA, Ruolo del Tribunale e concordato preventivo: quando la scelta risiede nel fa-vorire la soluzione della crisi d’impresa, ivi, p. 349 ss.; Corte d’Appello de L’Aquila, 16 marzo 2011, n. 306, Rel. D’Orazio, in Il Fallimento, vol. 33, n. 10, 2011, p. 1211 ss., con nota di MARELLI, Il voto di adesione alla proposta di concordato preventivo e la transazione fiscale, ivi, p. 1215 ss.

30 La quale considera non omologabile un concordato preventivo che contenga una proposta di falcidia dei crediti tributari al di fuori del procedimento previsto dall’art. 182 ter L. fall.

31 In dottrina, v. LA CROCE, Autonomia endoconcorsuale e non obbligatorietà della transazione fisca-le nel concordato preventivo, in Il Fallimento, vol. 32, n. 2, 2010, p. 142 ss.

32 Così Tribunale di La Spezia, decreto 1° luglio 2009, cit.

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fiscale, in ragione della matrice europea del tributo. Con particolare riguardo ai rapporti intercorrenti fra concordato preventivo e

transazione fiscale, il Supremo Consesso non solo ha smentito il carattere autono-mo di quest’ultima, la quale ha chiara natura endoconcorsuale 33, ma ne ha sancito definitivamente la facoltatività. Ci pare, quindi, che il carattere endoprocedimenta-le della transazione fiscale rifletta, sul piano sostanziale, un’equiparazione del trat-tamento che il legislatore ha inteso riservare ai crediti tributari rispetto a quelli de-gli altri creditori privati.

Più precisamente, il debitore che opti per la falcidia dei crediti tributari senza ricorrere alla transazione fiscale non otterrà i benefici del consolidamento e del vo-to positivo dell’Ufficio, ma potrà contestare la pretesa tributaria in sede contenzio-sa dinanzi alle Commissioni tributarie, posto che «il consenso del fisco non è deci-sivo ai fini del raggiungimento della maggioranza».

La Cassazione non riconosce alcun peso specifico al voto del Fisco (i.e. potere di veto), dal momento che il principio di cui all’art. 184 L. fall. 34 non contiene al-cuna deroga espressa in tal senso 35. Ma non solo. La decisione sottolinea come l’obbligatorio ricorso alla transazione fiscale comporterebbe inevitabilmente una lesione dei principi del c.d. giusto processo 36, in quanto l’instaurazione del sub-pro-cedimento opererebbe una variazione all’ordinario procedimento concordatario e una dilatazione dei tempi per il raggiungimento dell’accordo con i creditori. Nell’i-potesi in cui la transazione fiscale e i relativi benefici non siano desiderati dal debi-tore, per le più varie ragioni, la sua obbligatorietà imporrebbe allo stesso di subire un ingiusto prolungamento dell’attività processuale derivante, per esempio, dalla:

a) non attivazione dell’Ufficio a seguito della proposta di transazione fiscale;

33 Al riguardo, anche la più accorta dottrina non ritiene condivisibile la tesi dell’Amministrazio-ne finanziaria e reputa che non sia ipotizzabile «la proposizione autonoma della transazione fiscale al fine di transigere i debiti tributari o contributivi senza contemporaneamente presentare una pro-posta di concordato o di accordo nell’ambito della quale incastonare la transazione; tantomeno sa-rebbe ammissibile, ovviamente, la sua autonoma omologazione o approvazione». Così LA MALFA, Ratio e natura giuridica della transazione fiscale, in LA MALFA-MARENGO, Transazione fiscale e previ-denziale, Santarcangelo di Romagna, 2011, p. 83.

34 A mente del quale «il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori al de-creto di apertura della procedura di concordato».

35 In tal senso, LA MALFA, Rapporti tra la transazione fiscale e il concordato preventivo, in Corr. trib., vol. 32, n. 9, 2009, p. 706, evidenzia che una soluzione opposta finirebbe per attribuire all’Ammini-strazione fiscale una impropria facoltà di veto sulle sorti della procedura di concordato, al di fuori di ogni garanzia di contraddittorio.

36 Sull’incidenza della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo del 1950 sull’ordinamento tributario italiano, v. DEL FEDERICO, LOR., I principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in materia tributaria, in Riv. dir. fin. sc. fin., vol. 69, n. 2, 2010, Parte I, p. 206 ss.; CORDEIRO GUERRA-DORIGO, Taxpayers’rights during tax procedures as human rights, in KOFLER-MADURO-PISTONE, Hu-man rights and taxation in Europe and the world, Amsterdam, 2011, p. 425 ss.

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b) attivazione dell’Ufficio, la cui maggior pretesa non è però accettata dal debi-tore;

c) accettazione della maggior pretesa da parte del debitore, ma voto negativo espresso dall’Ufficio, il quale potrebbe per esempio ritenere più conveniente lo scenario fallimentare.

Secondo la Corte di Cassazione, «la sostanziale attribuzione del diritto di veto al fisco renderebbe assai più difficile l’accesso al concordato in quanto il debitore sarebbe tenuto ad accettare in toto le pretese fiscali per poter accedere alla transa-zione e questo non si concilia con l’evidente volontà del legislatore di valorizzare e favorire la soluzione concordataria».

Alla luce di tale ragionamento, non risulta neppure accettabile la variante “soft” della tesi dell’obbligatorietà (cfr. supra § 2.1.1., lett. C), Natura “endoconcorsuale” della transazione fiscale e necessaria presentazione della domanda), in quanto com-porta anch’essa un’inutile aggravio temporale della procedura concordataria nel caso in cui il debitore ab origine non intende addivenire ad alcun accordo con il Fi-sco «perché già ne conosce le pretese, le ritiene infondate ed è disposto a correre il rischio del voto contrario dell’Ufficio». Posto che, come abbiamo visto, la tesi ri-chiamata reputava che il necessario interpello dell’Amministrazione finanziaria servisse a rispettare il principio di indisponibilità tributaria, la Cassazione ricorda che lo stesso è stato in passato più volte bypassato dallo stesso legislatore con l’e-manazione di provvedimenti condonistici che hanno, di fatto, permesso all’Ammi-nistrazione di rinunciare all’accertamento delle imposte a fronte di un pagamento forfetario.

2.2. La sorte del credito IVA nel concordato preventivo: è possibile un pagamento in misura ridotta? Analisi degli orientamenti giurisprudenziali sul punto

La vexata quaestio per eccellenza in relazione alla transazione fiscale attiene al-l’esatta individuazione del perimetro di applicazione oggettiva dell’istituto. La nor-ma prevede testualmente che la transazione fiscale possa applicarsi solo in relazio-ne ai «tributi amministrati dalle agenzie fiscali e dei relativi accessori, […] ad ec-cezione dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea». Pertanto pos-sono essere oggetto di transazione fiscale solo i “tributi” 37 amministrati da Agenzia

37 Secondo la Corte cost., 12 gennaio 1995, n. 2, Rel. Baldassarre, su www.cortecostituzionale.it, la nozione di tributo «è caratterizzata dalla ricorrenza di due elementi essenziali: da un lato, l’imposi-zione di un sacrificio economico individuale realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio; dall’altro, la destinazione del gettito scaturente da tale ablazione al fine di integrare la fi-nanza pubblica, e cioè allo scopo di apprestare i mezzi per il fabbisogno finanziario necessario a co-prire spese pubbliche». In dottrina, v. in particolare FEDELE, La nozione di tributo e l’art. 75 Cost., in Giur. cost., vol. 40, n. 1, 1995, p. 23 ss.; DEL FEDERICO, LOR., Tasse, tributi paracommutativi e prezzi

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delle Entrate 38, Agenzia delle Dogane 39, Agenzia del Demanio 40 e Agenzia del Terri-torio 41.

Nella versione originaria della norma non vi era alcuna specificazione in rela-zione al credito IVA: conseguentemente, la giurisprudenza di merito si è divisa cir-ca il trattamento da riservare a tale tributo e, in particolare, se lo stesso fosse ricon-ducibile o meno alla categoria delle c.d. risorse proprie dell’Unione Europea.

Solo con l’art. 32, comma 5, lett. a), D.L. 29 novembre 2008, n. 185, è stato specificato che con riguardo all’IVA la proposta di transazione fiscale può unica-mente prevedere la dilazione del pagamento. A seguito di tale modifica normativa, si è sviluppata la c.d. tesi dualista, la quale, sancendo la facoltatività della transazio-ne fiscale, ha reso maggiormente “appetibile” il ricorso al concordato preventivo anche in presenza di crediti IVA.

2.2.1. Tesi della falcidiabilità dell’IVA Secondo l’orientamento giurisprudenziale precedente alla novella del 2008,

l’IVA poteva essere falcidiata in quanto non rientrante a pieno titolo fra i tributi costituenti risorse proprie dell’Unione Europea e, se tutti gli altri requisiti sogget-tivi e oggettivi risultavano rispettati, un concordato preventivo che comportava la falcidia del credito IVA doveva essere considerato ammissibile.

Al riguardo, veniva rilevato che «l’IVA, quale imposta nazionale amministrata dalle Agenzie Fiscali, non rientra tra le risorse proprie dell’Unione Europea: da ciò discende che l’IVA può essere oggetto di transazione fiscale ex art. 182 ter e, quin-di, di pattizia previsione di pagamento percentuale» 42.

Tale ricostruzione faceva leva sul fatto che il meccanismo di calcolo con cui gli Stati membri sono tenuti a corrispondere alle casse europee la quota di IVA è para-metrato sulla base imponibile nazionale e, quindi, prescinde dall’effettiva riscossione pubblici, Torino, 2000, p. 111 ss. e p. 180 ss.; FRANSONI, La nozione di tributo nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in PERRONE-BERLIRI (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Na-poli, 2006, p. 123 ss.

38 Adibita alla riscossione di IRPEF, IRES, IRAP, IVA, imposta di registro, etc. 39 Adibita alla riscossione di tributi doganali, dazi, diritti di confine, etc. 40 Adibita alla riscossione dei canoni demaniali. Sull’evoluzione della disciplina, v. TERRACCIANO,

Il demanio quale strumento di finanza pubblica. Profili finanziari e tributari, Torino, 2003. 41 Adibita alla riscossione di tributi e diritti amministrativi relativi alla gestione dei registri cata-

stali e della c.d. pubblicità immobiliare. 42 Così Tribunale di Milano, sez. II, decreto 13 dicembre 2007, Pres. e Rel. Quatraro, in Riv. dir.

trib., vol. 18, n. 4, 2008, Parte II, p. 264 ss., con nota di TROMBELLA, La transazione fiscale: dalle incer-tezze interpretative alle interpretazioni azzardate, ivi, p. 271 ss. Nello stesso senso, v. Tribunale di Bo-logna, sez. IV, decreto 26 ottobre 2006, Rel. Guidotti, in Il Fallimento, vol. 29, n. 5, 2007, p. 579 ss., con nota di ZANICHELLI, Transazione fiscale e pagamento percentuale dei crediti privilegiati nel concor-dato preventivo: più dubbi che certezze, ivi, p. 580 ss.; Tribunale di Pavia, decreto 8 ottobre 2008, cit.; Tribunale di Milano, sez. II, decreto 16 aprile 2008, Rel. Nunnari, su www.ilcaso.it.

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del tributo in capo ai contribuenti 43. Inoltre, deporrebbe a favore della falcidiabilità dell’IVA anche la Risoluzione del Parlamento Europeo del 29 marzo 2007, la quale rileva che la percentuale sull’aliquota IVA «viste le sue modalità di determinazione, non può considerarsi a tutti gli effetti una risorsa propria dell’Unione» 44.

L’esclusione della quota IVA dal novero delle risorse proprie UE era d’altronde avallata anche da autorevole dottrina, la quale ha rilevato che una conclusione op-posta avrebbe comportato sia una perdita di appeal della transazione fiscale che una lettura errata della normativa europea rilevante 45.

Dopo la modifica dell’art. 182 ter L. fall. effettuata dal citato D.L. n. 185/2008 46, il problema che si poneva riguardava l’operatività della norma in relazione ai pro-cedimenti per concordato preventivo pendenti. Al riguardo, alcuni collegi hanno reputato che la norma avesse portata meramente procedurale e, non andando a specificare che l’IVA è tributo costituente risorsa propria dell’Unione Europea, non poteva trovare applicazione per le procedure pendenti nelle quali si fosse già tenu-ta l’adunanza dei creditori e fossero iniziate le operazioni di voto 47.

2.2.2. Tesi della non falcidiabilità dell’IVA A fronte dell’approccio sopra illustrato, non sono mancate delle pronunce di

segno contrario, le quali hanno ritenuto che la transazione relativa ai crediti IVA, in quanto risorsa propria dell’UE, avrebbe inevitabilmente inficiato il meccanismo

43 V. Tribunale di Pescara, decreto 2 dicembre 2008, Rel. Filocamo, su www.ilcaso.it. Sulla stessa scia, il Tribunale di Bologna, decreto 24 marzo 2009, inedito, ha ritenuto che l’IVA può essere og-getto di falcidia, in quanto non costituisce tributo indisponibile e che se così non fosse risulterebbe impossibile prevedere il pagamento non integrale dei privilegi, posto che: a) l’IVA ha un grado di privilegio molto basso e b) il pagamento integrale senza «alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione» renderebbe impraticabile la falcidia dei privilegi di grado superiore. In dottrina, v. CA-RINCI, La questione fiscale nella costituzione europea, tra occasioni mancate e prospettive per il contri-buente, in Rass. trib., vol. 48, n. 2, 2005, p. 546.

44 Parlamento Europeo, Risoluzione del 29 marzo 2007 sul futuro delle risorse proprie dell’U-nione Europea (2006/2205(INI)), in G.U.U.E., n. C 27E del 31.1.2008, p. 214 ss. Al Considerando D di tale Risoluzione, il Parlamento UE biasima il fatto che non siano stati recepiti i suoi numerosi sforzi volti ad adottare il c.d. metodo delle dichiarazioni, che calcola la quota di IVA da versare alle finanze UE sulla base delle effettive dichiarazioni IVA, mentre è rimasto in vigore il c.d. metodo del gettito, «con il risultato che la risorsa dell’IVA si è trasformata da una vera e propria risorsa propria con un collegamento diretto ai cittadini europei a uno strumento puramente statistico per calcolare il contributo di uno Stato membro».

45 Così TOSI, La transazione fiscale, cit., p. 1078. Nello stesso senso, v. MAGNANI, La transazione fiscale, cit., p. 682; DEL FEDERICO, LOR., La nuova transazione fiscale nel sistema delle procedure concor-suali, cit., p. 224; BAGAROTTO, L’ambito oggettivo di applicazione della transazione fiscale, cit., p. 1483.

46 Per la posizione dell’Amministrazione finanziaria, v. Agenzia delle Entrate, Circolare 10 aprile 2009, n. 14/E.

47 In tal senso, Tribunale di Mantova, decreto 26 febbraio 2009, Rel. De Simone, in Giur. comm., vol. 37, n. 3, 2010, Parte II, p. 525 ss., con nota di SANTORO CAYRO, cit., p. 530 ss.

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di finanziamento delle istituzioni europee e, quindi, non poteva essere considerata ammissibile. In particolare, la stessa Amministrazione finanziaria aveva invitato gli Uffici a escludere l’IVA – ad eccezione dei relativi “accessori” (i.e. interessi e san-zioni) – dalle transazioni fiscali, in attesa che si formasse un consolidato orienta-mento giurisprudenziale sul punto 48.

Prima della modifica del 2008, a sostegno di tale tesi la giurisprudenza ha sotto-lineato come lo stesso ottavo Considerando della Direttiva n. 2006/112/CE che disciplina il sistema comune dell’imposta sul valore aggiunto prevede espressa-mente che «in applicazione della decisione 2000/597/CE, Euratom del Consi-glio, del 29 settembre 2000, relativa al sistema delle risorse proprie delle Comunità europee, il bilancio delle Comunità europee, salvo altre entrate, è integralmente finanziato da risorse proprie delle Comunità. Dette risorse comprendono, tra l’al-tro, quelle provenienti dall’IVA, ottenute applicando un’aliquota comune ad una base imponibile determinata in modo uniforme e secondo regole comunitarie» 49.

Secondo questo orientamento più sensibile rispetto alla necessaria riscossione integrale del tributo armonizzato, la previsione che ha escluso la falcidiabilità del-l’IVA nell’ambito della transazione fiscale sarebbe imperativa. Proprio per la natu-ra della norma, e considerato che per il codice civile l’IVA ha un grado di privilegio alquanto modesto, non verrebbe assolutamente alterato l’ordine dei privilegi né tantomeno verrebbe imposto al debitore di dover pagare integralmente tutti gli al-tri crediti con privilegio di grado superiore 50.

2.2.3. La soluzione della Suprema Corte A seguito dell’esclusione per legge dell’IVA dai tributi falcidiabili, in quanto la

“transigibilità” della stessa deve ritenersi limitata al pagamento rateizzato ma inte-grale, parte della giurisprudenza di merito ha, come abbiamo visto, iniziato a con-siderare facoltativa la transazione fiscale per evitare che tale limitazione disincenti-vasse il ricorso al concordato preventivo.

Il secondo motivo di ricorso che ha dovuto affrontare la Suprema Corte attie-ne, appunto, al trattamento dell’IVA in caso di concordato preventivo “puro”, cioè senza transazione fiscale.

A ben vedere, quelle decisioni che aderiscono alla tesi dualista considerano che la transazione fiscale costituisce una procedura endoconcorsuale facoltativa, le cui regole specifiche sono contenute nell’art. 182 ter L. fall. Data la sua facoltatività, il debitore che intendesse falcidiare i crediti tributari senza proporre transazione fi-scale, potrà farlo nell’ambito del concordato preventivo, senza dover seguire l’iter

48 Agenzia delle Entrate, Circolare 18 aprile 2008, n. 40/E, par. 4.2.1. 49 V. ex pluribus Tribunale di Piacenza, decreto 1° luglio 2008, Pres. e Rel. Bersani, su www.

ilcaso.it. 50 Così Tribunale di Roma, decreto 16 dicembre 2009, Rel. Di Marzio, su www.ilcaso.it.

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previsto dall’art. 182 ter L. fall. e, in particolare, potrà falcidiare anche il credito IVA 51.

Discostandosi parzialmente dalla tesi dualista, la quale è stata elaborata come “scappatoia” proprio per evitare il necessario pagamento integrale dell’imposta ar-monizzata 52, la Suprema Corte ha reputato che il credito IVA possa essere al mas-simo dilazionato anche in assenza di transazione fiscale, considerando imperativa la previsione di intangibilità dell’IVA introdotta con la novella del 2008.

Sul punto, è stato da più parti rilevato che l’espressa esclusione dell’IVA dal raggio di azione della falcidia fosse stata introdotta dal legislatore per l’«emozione del momento» 53, in quanto era all’epoca pendente dinanzi alla Corte di Giustizia UE il procedimento di infrazione promosso dalla Commissione Europea nei con-fronti dell’Italia relativo all’incompatibilità della normativa sul condono IVA con il diritto europeo.

La sentenza qui analizzata considera che proprio alla luce del fatto che l’IVA è un tributo armonizzato a livello europeo, la norma che ne esclude la falcidiabilità nell’ambito della transazione fiscale non è una mera disposizione procedurale, ma ha natura imperativa e sostanziale in quanto interviene nel «trattamento dei credi-ti nell’ambito dell’esecuzione concorsuale dettata da motivazioni che attengono alla peculiarità del credito e prescindono dalle particolari modalità con cui si svol-ge la procedura di crisi». Quello che in sostanza la Cassazione intende evidenziare a fondamento della propria tesi è l’inclusione dell’IVA fra le risorse proprie UE non a causa del proprio gettito effettivo, che è calcolato sulla base imponibile e pre-scinde dall’effettiva riscossione, ma in virtù della specie di tributo, il quale assurge a «parametro per il trasferimento di risorse all’Unione e la cui gestione, sia normati-va che esecutiva, è di interesse comunitario e come tale sottoposta a vincoli».

Per quanto riguarda i rapporti fra la norma imperativa che esclude la falcidiabi-lità del credito IVA e la gerarchia dei privilegi, la Cassazione si allinea a quel filone interpretativo che reputa non alterabile l’ordine dei privilegi, con la conseguenza che non viene imposto al debitore di dover pagare integralmente tutti gli altri cre-diti privilegiati di grado antergato 54. Sul punto, la Suprema Corte ricorda che «il

51 V. ex pluribus Tribunale di La Spezia, decreto 1° luglio 2009, cit. 52 Già attenta dottrina aveva rilevato che la tesi dualista rappresenta un escamotage che permette

alla proposta concordataria di essere «svincolata dalle pastoie procedurali della transazione fiscale ed, inoltre, si potrebbe proporre anche la falcidia dell’IVA e delle ritenute operate e non versate, che invece è vietata nell’istituto ex art. 182 ter l.f. Tale opinione chiaramente muove nel senso di favorire le soluzioni concordatarie, che spesso sono impedite dalla presenza di ingenti crediti IVA, che non sarebbero falcidiabili in base alla recente modifica apportata dal d.l. 185 del 29 novembre 2008». Così LA MALFA, La transazione dei crediti fiscali, cit., p. 1441.

53 Così FICARI, Riflessioni su “transazione” fiscale e “ristrutturazione” dei debiti tributari, in Rass. trib., vol. 52, n. 1, 2009, p. 75.

54 V. Tribunale di Roma, decreto 16 dicembre 2009, cit.

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vincolo, per contro, non astringe il legislatore che può, come nella fattispecie e per cause discrezionalmente individuate, attribuire un trattamento particolare a deter-minati crediti come avviene per la prededuzione, senza che ciò incida automatica-mente sul trattamento degli altri».

Alla luce di tale ricostruzione, dunque, l’IVA non può mai essere oggetto di fal-cidia: né nell’ambito delle procedure concordatarie iniziate prima dell’introduzio-ne della modifica legislativa 55 e neppure nelle procedure concordatarie che coin-volgano crediti tributari senza transazione fiscale.

3. Riflessioni conclusive

Con la decisione in rassegna, la Suprema Corte ha adottato una posizione che, da una parte, garantisce un equilibrio fra le esigenze concorsuali e le pretese tribu-tarie e, dall’altra, esprime un orientamento interpretativo “prudente” nei confronti del diritto dell’Unione Europea.

3.1. La natura facoltativa della transazione fiscale e l’erosione del c.d. principio di indisponibilità tributaria

L’accoglimento della tesi della non obbligatorietà della transazione fiscale nel-l’ambito della procedura concordataria e l’inesistenza di un potere di veto in capo all’Amministrazione finanziaria (esercitabile con il voto negativo nell’adunanza dei creditori) appare perfettamente in linea con la ratio dell’istituto e 56, in generale, con la nuova concezione “privatistica” delle procedure concorsuali. A differenza della previgente transazione esattoriale, l’obiettivo della transazione fiscale non può più considerarsi limitato al profilo economico relativo alla massimizzazione

55 In senso contrario, v. Tribunale di Mantova, decreto 26 febbraio 2009, cit. 56 In questo senso, è stato rilevato che «l’esigenza fondamentale che anima la riforma del falli-

mento è quella di agevolare l’uscita delle imprese in crisi, risolvendo rapidamente la situazione d’in-solvenza, in funzione del salvataggio dell’impresa e dei posti di lavoro. […] la transazione fiscale non è l’iter procedimentale che disciplina la presentazione della proposta di concordato al fisco, ma è una semplice facoltà accordata al debitore che vi farà ricorso se intenda raggiungere il risultato di rendere incontestabile il suo debito col fisco. Non è dunque sufficiente sottolineare l’assenza di au-tonomia dell’istituto e la sua natura di norma procedurale, che disciplina le modalità con cui gli uffi-ci fiscali sono chiamati ad esprimere il loro voto sulla proposta di concordato, ma è necessario altresì affermare che la procedura tracciata dall’art. 182 ter è meramente facoltativa, cosicché, anche senza fare ricorso ad essa, sarà possibile interpellare il fisco sulla proposta concordataria e richiamarlo ad esprimere il suo voto, al pari di ogni altro creditore». Così Corte d’Appello di Genova, sez. I, decre-to 19 dicembre 2009, cit., che respinge il reclamo dell’Agenzia delle Entrate contro il decreto di omologazione del concordato preventivo del Tribunale di La Spezia, cit.

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della riscossione tributaria, ma deve necessariamente mirare anche alla finalità aziendalistica di ripristino dell’attività imprenditoriale da cui dipendono altri inte-ressi ugualmente meritevoli di tutela (quale, in primis, la tutela delle posizioni lavo-rative dei dipendenti) 57.

Nel 2010 la Suprema Corte si era trovata per la prima volta a doversi pronun-ciare sulla transazione fiscale considerandola istituto di carattere eccezionale ap-plicabile solo ai crediti tributari e, da un punto di vista procedurale, ha reputato le-gittimo il decreto di omologazione di un concordato preventivo preceduto dal di-niego, da parte del Tribunale, del differimento delle operazioni di voto a fronte di una richiesta dell’Ufficio in tal senso 58. Già in tale occasione, dunque, il Supremo Consesso aveva manifestato un approccio volto a favorire la snellezza della proce-dura concorsuale, la quale non deve risultare ingessata dalla presenza del creditore-Fisco.

Con la sent. n. 22931/2011, proprio nell’ottica di bilanciare l’interesse fiscale con la logica concorsuale e il buon andamento dell’azione amministrativa ex art. 97 Cost., la Corte di Cassazione ha compiuto un ulteriore e significativo passo in avanti. La pronuncia, infatti, smentisce la posizione assunta dall’Agenzia delle En-trate nella citata Circolare n. 40/E del 2008 e prende atto della progressiva diffu-sione di strumenti lato sensu consensuali nell’ambito dell’ordinamento tributario 59, i quali attribuiscono un certo margine di discrezionalità “vincolata” nelle mani de-gli Uffici da esercitarsi nelle ipotesi tassativamente individuate.

Com’è noto il potere impositivo che si manifesta anche nella fase di riscossione è delimitato dai vincoli costituzionali della riserva di legge (art. 23 Cost.) e dell’u-guaglianza in ambito tributario (art. 3 Cost.), con la conseguenza che la funzione di ripartizione delle spese pubbliche che assolve il tributo non dovrebbe essere modificata dall’esercizio di poteri discrezionali da parte del Fisco 60.

57 In questo senso, MARINI, La transazione fiscale, cit., p. 1194. Contra STEVANATO, Art. 182-ter. Transazione fiscale, in CAVALLINI (diretto da), Commentario alla legge fallimentare, tomo III, Artt. 124-215 e disposizioni transitorie, Milano, 2010, p. 836 ss.

58 Cass., sez. I, 22 marzo 2010, n. 6901, Rel. Zanichelli, in Corr. trib., vol. 33, n. 25, 2010, p. 1997 ss., con nota di PURI, La transazione fiscale al vaglio della Suprema Corte, ivi, p. 1991 ss.

59 Sull’argomento, v. MARELLO, L’accertamento con adesione, Torino, 2000, p. 141 ss.; VERSIGLIO-NI, Accordo e disposizione nel diritto tributario. Contributo allo studio dell’accertamento con adesione e della conciliazione giudiziale, Milano, 2001, p. 135 ss.; GARBARINO, Imposizione ed effettività nel diritto tributario, Padova, 2003, p. 121 ss.; LA ROSA (a cura di), Autorità e consenso nel diritto tributario, Mi-lano, 2007; MOSCATELLI, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, 2007, passim; LA ROSA (a cura di), Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, Mila-no, 2008.

60 Senza potersi addentrare nella questione in questa sede, basti ricordare che in dottrina si con-tendono il campo una posizione che reputa il tributo come fonte legale dell’obbligazione in capo al contribuente, mentre gli atti dell’Amministrazione finanziaria hanno natura dichiarativa di un rap-porto obbligatorio già in essere (c.d. teoria dichiarativa), ed un’altra posizione che attribuisce, invece,

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Dal momento che l’Amministrazione finanziaria ricopre il ruolo istituzionale di esigere il corretto adempimento delle obbligazioni pubbliche dai consociati, nel diritto tributario è stato elaborato sin da epoche remote il c.d. principio di indispo-nibilità, il quale troverebbe fondamento nell’art. 49 del R.D. 23 maggio 1924, n. 827, secondo cui nei contratti con lo Stato «non si può convenire l’esenzione da qualsiasi specie di imposte o tasse vigenti all’epoca delle loro stipulazione». In ba-se a tale orientamento, l’attribuzione di un potere discrezionale nell’applicazione del tributo costituisce un’alterazione del criterio di riparto dei carichi fiscali così come determinati dalla legge e una violazione dell’eguaglianza tributaria 61.

Aderendo a tale impostazione, parrebbero prima facie incompatibili con l’im-pianto costituzionale sia le normative di condono sia gli istituti consensuali. Se-nonché, mentre per le prime la Corte Costituzionale ha sempre adottato un atteg-giamento “di salvataggio” reputandole norme procedimentali che non violano il principio di parità di trattamento 62, per quanto riguarda gli istituti quali l’accerta-mento con adesione e la conciliazione giudiziaria la dottrina ne ha ormai ammesso la legittimità in quanto:

i) incidono su una pretesa tributaria non ancora definitiva; ii) sono per lo più utilizzati in controversie concernenti questioni di fatto; e iii) sono caratterizzati da un automatismo per la determinazione di sanzioni, in-

teressi e tempi di pagamento 63. all’Amministrazione finanziaria una potere vincolato con il quale l’obbligazione tributaria può estrinse-carsi (c.d. teoria costitutiva). Sul punto, v. LA ROSA, (voce) Accertamento tributario, in Dig. disc. priv., sez. comm.4, vol. 1, Torino, 1987, p. 1 ss. Con specifico riferimento al principio di indisponibilità, v. REDI, Appunti sul principio di indisponibilità del credito tributario, in Dir. prat. trib., vol. 66, n. 2, 1995, Parte I, p. 407 ss.; FALSITTA, Natura e funzione dell’imposta, con speciale riguardo al fondamento della sua «indisponibilità», in LA ROSA (a cura di), Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, Milano, 2008, p. 45 ss.

61 FALSITTA, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008, p. 62 e p. 70. Anche la giurispru-denza di legittimità ha in più occasioni affermato il principio di indisponibilità. V. Cass., sez. I, 26 febbraio 1937, n. 574, Rel. Lorusso Caputi, in Riv. dir. fin. sc. fin., vol. 1, n. 2, 1937, p. 239 ss., con nota di BODDA, Sulla inderogabilità delle norme tributarie, ivi, e su Dialoghi trib., vol. 1, n. 3, 2008, p. 12 ss., con nota di CROVATO-LUPI, Conferme sull’indisponibilità del credito tributario come regola di contabilità pubblica, ivi, p. 7 ss.; Cass., sez. un., 15 maggio 1939, n. 1661, in Foro it., vol. 62, n. 5, 1939, Parte I, 1538 ss., con nota di INGROSSO, G., Sul contenuto giuridico del concordato tributario, ivi, p. 1539 ss.; Cass., sez. I, 8 maggio 1991, n. 5128, in Riv. dir. trib., vol. 1, n. 11, 1991, Parte II, p. 521 ss.; Cass. V, sez. I, 12 maggio 1992, n. 5620, in Giustizia Civile, vol. 42, n. 10, 1992, Parte I, p. 2358 ss.; Cass., sez. trib., 2 luglio 2003, n. 10427, in Dir. prat. trib., vol. 75, n. 2, 2004, p. 256 ss.; Cass., sez. trib., 11 gennaio 2006, n. 309, in Il Fisco, vol. 30, n. 8, 2006, p. 1238 ss.; Cass., sez. un., 2 novembre 2007, n. 23031, in Giustizia Civile, vol. 58, n. 7-8, 2008, Parte I, p. 1719 ss.

62 Corte cost., 7 luglio 1986, n. 172, Rel. Dell’Andro; Corte cost., 7 luglio 1986, n. 175, Rel. Fer-rari; Corte cost., 11 febbraio 1988, n. 160, Rel. Mengoni; Corte cost., ord. 12 aprile 2005, n. 155, Rel. Flick; Corte cost., ord. 27 luglio 2005, n. 340, Rel. Gallo, tutte su www.cortecostituzionale.it.

63 Così TOSI, Il delicato rapporto tra autorità e consenso in ambito tributario: il caso della transazio-ne fiscale, in CIVITARESE MATTEUCCI-DEL FEDERICO, LOR. (a cura di), Azione amministrativa ed azione

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La transazione fiscale costituisce sicuramente un istituto in cui si verifica un ac-cordo tra Fisco e contribuente, ma non presenta quegli automatismi che permet-tono di considerarla agevolmente conciliabile con il principio di indisponibilità. Al contrario, l’approccio della prevalente giurisprudenza di merito che equipara la posizione del Fisco a quella degli altri creditori costituisce una chiara deroga a tale principio sul piano procedurale 64. Ma non solo. La transazione fiscale deroga al-l’indisponibilità anche sul piano sostanziale, in quanto può comportare la falcidia o il pagamento dilazionato di tributi anche già iscritti a ruolo (e, quindi, espressione di una pretesa definitiva dell’Erario) e, inoltre, lascia carta bianca all’Ufficio in me-rito ai criteri da seguire per raggiungere l’accordo 65.

Alla luce di tali considerazioni, l’adesione della Suprema Corte alla concezione fa-coltativa della transazione fiscale e la totale equiparazione del Fisco agli altri creditori, milita a favore della consacrazione nel diritto tributario “vivente” del progressivo sgre-tolamento del principio di indisponibilità, il quale d’altronde non è previsto da una norma di rango costituzionale 66. Questa evoluzione è resa possibile dalla valorizza-zione delle esigenze sottese all’art. 97 Cost., confermata peraltro dalla progressiva in-troduzione nell’ordinamento di una serie di istituti lato sensu consensuali 67.

In quest’ottica, l’art. 182 ter L. fall. prevede un istituto finalizzato a permettere la riscossione di un credito tributario in un contesto in cui sarebbe difficile realizzarlo e con modalità divergenti da quelle ordinarie 68. La ratio della transazione fiscale è, dun-que, rinvenibile nella «volontà dell’ordinamento di preferire, in taluni casi e a talune condizioni, la controllata parziale subordinazione dell’interesse fiscale di fronte ad altri valori costituzionalmente tutelati» 69. D’altronde, se la funzione del prelievo tri-

impositiva tra autorità e consenso. Strumenti e tecniche di tutela dell’amministrato e del contribuente, Mi-lano, 2010, p. 274.

64 Sul punto, v. VISCONTI-LUPI, Transazione fiscale e indisponibilità del credito tributario, in Dial. dir. trib., vol. 4, n. 4, 2006, p. 456.

65 V. TOSI, op. ult. cit., p. 287 ss. 66 Rileva, però, FALSITTA, Funzione vincolata di riscossione dell’imposta e intransigibilità del tributo,

in Riv. dir. trib., vol. 17, n. 12, 2007, Parte I, p. 1057, che non sia necessario «un riconoscimento co-stituzionale (in una Costituzione rigida) della indisponibilità».

67 V. MOSCATELLI, La disciplina della transazione nella fase di riscossione del tributo, cit., p. 508 ss. 68 Di fronte alla tradizionale diffidenza della dottrina in relazione a strumenti “transattivi” del-

l’obbligazione tributaria, è stato acutamente osservato che questa è superabile «se si adotta un pun-to di vista diverso e se ci si pone l’interrogativo del perché le amministrazioni fiscali non debbano valutare l’economicità della propria azione, comparando – dal punto di vista del proprio interesse e dell’interesse generale alla migliore applicazione dei tributi, senza ponderare interessi estranei – ri-sultati possibili e costi sopportabili». Così BASILAVECCHIA, Il ruolo e la cartella di pagamento: profili evolutivi della riscossione dei tributi, in Dir. prat. trib., vol. 78, n. 1, 2007, Parte I, p. 147, nt. 45. In sen-so analogo, v. TOSI, op. ult. cit., p. 293.

69 In questi termini, DE MITA, Transazione con il Fisco per tutte le crisi, in Il Sole 24 Ore, 28 giugno 2009, p. 19.

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butario è quello di riscuotere dai consociati una quota di contribuzione alle spese pubbliche, nelle situazioni in cui l’attività di riscossione verosimilmente non produca entrate ma solo costi amministrativi (come possono profilarsi nell’ambito delle pro-cedure concorsuali, appunto), è agevole comprendere che un accordo transattivo risulti auspicabile alla luce dei principi di efficienza e buon andamento della P.A.

La pronuncia annotata si inserisce in questo trend, in quanto prevede che la fal-cidia dei crediti tributari – ad eccezione di IVA e ritenute – possa legittimamente aversi anche senza transazione fiscale e, quindi, senza il coinvolgimento né il con-senso del Fisco.

Così ricomposta la questione e considerando la transazione come istituto facol-tativo che si incardina nel concordato preventivo, la Corte di Cassazione mette in risalto gli aspetti innovativi della stessa 70: da un lato, il fatto che l’adesione del-l’Ufficio alla proposta comporta il consolidamento del debito tributario e la cessa-zione della materia del contendere e, dall’altro, che tale voto positivo può risultare decisivo ai fini dell’approvazione del piano concordatario nel suo complesso 71.

3.2. La matrice europea dell’IVA e la c.d. interpretazione conforme del diritto na-zionale da parte della Corte di Cassazione

Questo scenario ci permette di constatare che se in relazione alle imposte sui redditi il principio di indisponibilità tributaria ha subito e continua a subire conti-nue deroghe, dall’altro lato lo stesso ha ormai assunto consistenza in relazione a quei settori del diritto tributario di competenza dell’Unione Europea. La Suprema Corte dimostra, infatti, una grande sensibilità nel trovare un’interpretazione del-l’art. 182 ter L. fall. che non crei frizioni con i principi UE in materia di IVA quale imposta armonizzata.

La disciplina relativa alle modalità con cui l’Unione Europea reperisce le pro-prie fonti di finanziamento è stata per la prima volta prevista nel 1970 72, quando fu abbandonato il modello delle contribuzioni degli Stati membri e identificate le se-

70 In questo senso, la Suprema Corte si allinea con quelle decisioni di merito secondo cui l’ap-provazione da parte dell’Ufficio della proposta di transazione fiscale «ha sì effetto condizionante, ma non dell’esito del concordato preventivo, bensì del conseguimento da parte del debitore di que-gli effetti, già definiti ‘tipici’ ed ‘ulteriori” insiti, in una parola, nel ‘consolidamento’ della sua posi-zione fiscale con riguardo tanto ai tributi già iscritti a ruolo, quanto a quelli ancora in corso di deter-minazione […]; il conseguimento di tale obiettivo pratico rappresenta anzi una vera e propria ‘chia-ve di lettura’ dell’art. 182 ter, nel senso di individuare nel legislatore il preciso intendimento di attri-buire all’istituto della transazione fiscale il ruolo precipuo di ‘incentivo’ del debitore al ricorso al concordato preventivo». Così, Corte d’Appello di Torino, sez. I, decreto 6 maggio 2010, cit.

71 V. anche ZANICHELLI, I concordati giudiziali, Torino, 2010, p. 262. 72 Decisione del Consiglio del 21 aprile 1970, n. 70/243/CECA, CEE, Euratom, in G.U.C.E., n.

L 94 del 28 aprile 1970, p. 19 ss.

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guenti risorse “proprie” (c.d. principio di autonomia finanziaria): a) prelievi agricoli, riscossi in relazione agli scambi con Stati terzi; b) dazi della tariffa doganale comune, riscossi in relazione agli scambi fra Stati

membri e Stati terzi; c) applicazione di un’aliquota uniforme sull’imponibile IVA, corrispondente ad

una percentuale del PNL degli Stati membri calcolata secondo parametri europei e non superiore al 50%;

d) c.d. quarta risorsa, corrispondente a una percentuale del PIL degli Stati membri, così come determinata annualmente.

Mentre le risorse di cui alle lett. a) e b) sono definite risorse proprie tradizionali (RDT), le altre costituiscono le risorse finanziarie.

La quota IVA viene calcolata con criteri macroeconomici ed è entrata a regi-me come risorsa propria a seguito dell’approvazione della Sesta Direttiva IVA sull’armonizzazione della base imponibile (Direttiva n. 77/388/CEE). Sin dalla sua introduzione questa risorsa continua a subire una progressiva riduzione e nel 2000 il Consiglio UE ha sancito che «al fine di continuare a tener conto della capacità contributiva dei vari Stati membri al sistema delle risorse proprie e cor-reggere gli aspetti regressivi del sistema attuale per gli Stati membri meno pro-speri, […] le regole di finanziamento dell’Unione dovranno essere modificate nel modo seguente:

– il tasso massimo di richiamo della risorsa IVA dovrà essere ridotto dall’1% al-lo 0,75% nel 2002 e 2003 e allo 0,50% dal 2004 in poi,

– l’imponibile IVA degli Stati membri dovrà continuare ad essere limitato al 50 % del loro PNL» 73.

A partire dal 2007, l’aliquota uniforme di prelievo della risorsa dell’IVA è ulte-riormente scesa allo 0,30% 74.

La decisione del Supremo Consesso che considera l’IVA come risorsa UE guar-dando alla specie di tributo più che alla modalità di calcolo, si allinea a una recente giuri-sprudenza la quale, considerando facoltativa la transazione fiscale e ammettendo la fal-cidia dei crediti tributari anche nel contesto della proposta concordataria “pura”, ha tuttavia precisato che «la proposta di pagamento in percentuale dei debiti previdenzia-li ed erariali, per quanto riguarda l’IVA […] non prevede l’integrale soddisfacimento, come preteso dalla legge, essendo questo inderogabile e “tutt’al più dilazionabile”: l’IVA è un’imposta di natura comunitaria e, quindi, come è noto, indisponibile» 75.

73 Considerando (9), Decisione del Consiglio del 29 settembre 2000, n. 2000/597/CE, Eura-tom, in G.U.C.E., n. L 253 del 7 ottobre 2000, p. 42 ss.

74 Art. 2, comma 4, Decisione del Consiglio del 7 giugno 2007, n. 2007/436/CE, Euratom, in G.U.U.E., n. L 163 del 23 giugno 2007, p. 17 ss. Quanto al gettito IVA che entra nelle casse UE, que-sto è sceso dal 66% nel 1986 all’11,3% nel 2010.

75 Così Tribunale di Roma, decreto 2 maggio 2011, Rel. Taurisano, inedito. In tale occasione, il

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In sostanza, per quanto riguarda l’IVA la Cassazione ha confermato la sussi-stenza di un principio di indisponibilità tributaria “europea”, in quanto non sarebbe ragionevole attribuire al contribuente la possibilità di scegliere discrezionalmente se «assoggettarsi all’onere dell’integrale pagamento dell’IVA, imposta armonizzata a livello comunitario sulla cui gestione, si ribadisce, gli Stati non sono esenti da vincoli» 76. Se è vero che gli Stati membri hanno la funzione di riscuotere le risorse e trasferirle alle finanze UE, è altrettanto vero che questa non può essere esercitata permettendo trattamenti differenziati fra contribuenti di diversi Stati.

Tale soluzione è pienamente condivisibile, in quanto in più occasioni la Corte di Giustizia UE ha rilevato che la disciplina IVA, sebbene recepita dagli Stati mem-bri per mezzo di direttive, impone agli stessi un’applicazione uniforme. Con parti-colare riguardo all’Italia, con le note decisioni nelle cause C-132/06 77 e C-174/07 78 i giudici europei hanno bocciato il condono IVA previsto dalla L. 27 dicembre 2002, n. 289 (c.d. legge finanziaria 2003) e la relativa estensione all’annualità 2002 79. A seguito della procedura di infrazione promossa dalla Commissione Eu-ropea 80, la Corte del Lussemburgo ha ritenuto che gli istituti della integrazione de- Collegio romano ha reputato inammissibile la proposta di concordato preventivo senza transazione fiscale in quanto, sebbene quest’ultima risulti facoltativa, il debitore aveva proposto un pagamento del credito IVA per € 13.184,00 a fronte di un totale accertato di € 659.196,00.

76 A dire il vero, lo stesso Consigliere relatore della decisione in rassegna aveva già in un precedente scritto evidenziato come sarebbe illogico lasciare «alla scelta discrezionale del de-bitore […] la possibilità del pagamento integrale o no dell’IVA». Così ZANICHELLI, op. ult. cit., p. 263.

77 Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 17 luglio 2008, causa C-132/06, Commissione c. Italia, in Racc., p. I-5457.

78 Corte di Giustizia UE, Quinta Sezione, 11 dicembre 2008, causa C-174/07, Commissione c. Italia, in Racc., p. I-180.

79 Per le considerazioni della dottrina in relazione a tali decisioni, si rinvia ex pluribus ad AMA-TUCCI, Condono Iva e incompatibilità comunitaria, in Boll. trib., vol. 75, n. 17, 2008, p. 1317 ss.; DE MITA, Incompatibile per la Corte UE il condono Iva con la normativa comunitaria, in Corr. trib., vol. 31, n. 33, 2008, p. 2667 ss.; FALSITTA, Alcune puntualizzazioni sulla illegittimità dei condoni (con speciale riguardo all’IVA italiana, in GT-Riv. giur. trib., vol. 15, n. 4, 2008, p. 281 ss.; FALSITTA, I condoni fiscali IVA come provvedimenti di natura agevolativa violatori del principio di neutralità del tributo, in Riv. dir. trib., vol. 18, n. 12, 2008, Parte II, p. 334 ss.; MARELLO, La Corte di giustizia censura il condono IVA: le ricadute di un importante decisione, in Giur. it., vol. 161, n. 1, 2009, p. 239 ss.; RENDA, Il contrasto tra la definizione agevolata delle pendenze tributarie e la sesta direttiva IVA: un ostacolo all’integrazione tra ordinamento nazionale e comunitario, in Riv. dir. fin. sc. fin., vol. 64, n. 4, 2005, Parte I, p. 551 ss.; STE-VANATO-GERETTO-BRESSAN-VARESANO-CENTORE-TROCINI, Quali effetti per le censure comunitarie ai condoni IVA?, in Dialoghi trib., vol. 1, n. 5, 2008, p. 100 ss.; TINELLI, Condono IVA e normativa comu-nitaria, in GT-Riv. giur. trib., vol. 15, n. 11, 2008, p. 937 ss.

Per un commento relativo alle conclusioni dell’AG Sharpston, v. BEGHIN, Criteri di giustizia nel concorso al finanziamento del bilancio comunitario: il caso del condono IVA, in GT-Riv. giur. trib., vol. 15, n. 4, 2008, p. 289 ss.; CORSO, L’Avvocato generale UE delinea il contrasto tra condoni IVA 2002 e normativa comunitaria, in Corr. trib., vol. 30, n. 45, 2007, p. 3677 ss.

80 Sulla procedura di infrazione, si rinvia a TESAURO, Diritto comunitario5, Padova, 2008, p. 284

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gli imponibili per gli anni pregressi (art. 8) e della definizione automatica per gli anni pregressi (art. 9, noto anche come “condono tombale”), violavano l’art. 10 TrCE 81 e la normativa IVA alterando il principio di neutralità fiscale e, traducendosi in una «rinuncia generale ed indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibi-li» effettuate nei periodi d’imposta interessati dal condono 82, contrastavano con l’obbligo degli Stati membri di garantire un accertamento e una riscossione omo-genea dell’IVA su tutto il territorio europeo 83.

Mentre per il condono IVA l’incompatibilità rilevata dalla Corte di Giusti-zia UE atteneva alla legislazione italiana che permetteva un pagamento forfeta-rio del tributo a tutti i contribuenti, per la transazione fiscale il discorso è di-verso, in quanto la cerchia dei destinatari è più ristretta (infatti, i soggetti de-vono essere fallibili e in stato di crisi) e il trattamento del credito IVA non è predeterminato a livello normativo, ma affidato alla “contrattazione” fra con-tribuente e Ufficio.

La decisione della Cassazione di non considerare ammissibile la possibilità di falcidiare l’IVA in un concordato preventivo senza transazione fiscale se, da una parte, può disincentivare il ricorso al concordato preventivo, dall’altra scongiura la possibilità di una procedura di infrazione a carico dello Stato italiano. Al riguardo, la giurisprudenza europea ha chiarito che uno Stato membro può essere considera-to responsabile per violazione del diritto UE anche se quest’ultima viene perpetra-ta da parte di un’autorità giudiziaria 84 e tale principio è stato ritenuto altresì appli-cabile al caso in cui la violazione sia ascrivibile a un organo giurisdizionale supre-mo 85.

Specificamente nel settore dell’IVA, è stata recentemente ravvisata la respon-sabilità finanziaria della Spagna per mancata applicazione del tributo ai servizi resi ss.; DEL FEDERICO, LOR., Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea. Contributo allo stu-dio della prospettiva italiana, Milano, 2010, p. 121 ss.

81 Articolo abrogato dal Trattato di Lisbona. 82 Così Corte di Giustizia UE, causa C-132/06, cit., par. 53 e Corte di Giustizia UE, causa C-

174/07, cit., par. 37. 83 Secondo FALSITTA, Il condono Iva sotto scacco davanti alla Corte di Giustizia comunitaria, in

Il Fisco, n. 17, 2006, p. 1-2534, «sotto il profilo comunitario la legge di condono Iva, per il perio-do della sua vigenza e limitatamente ai soggetti passivi del tributo che hanno scelto di fruirne (l’adesione al condono è sempre stata facoltativa), ha, più che sconvolto, quasi distrutto quel si-stema comune dell’Iva disegnato dalle direttive comunitarie e dalle numerose sentenze interpre-tative della Corte di Giustizia avente specifica rilevanza in materia di Iva. […] La trama dei prin-cipi su cui si regge il sistema comune è stata brutalmente lacerata e resa irriconoscibile da un’orda di regole avventizie ed improvvisate costruite all’insegna del principio guida di ogni condono: pochi, a casaccio ma subito».

84 Corte di Giustizia UE, 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler, in Racc., p. I-10239; Corte di Giustizia UE, 9 dicembre 2003, causa C-129/00, Commissione c. Italia, in Racc., p. I-4637.

85 Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 13 giugno 2006, causa C-173/03, Traghetti del Medi-terraneo, in Racc., p. I-5177.

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dai conservatori dei registri immobiliari (registradores de la propiedad), avallata dal Tribunal Supremo de España sulla base del fatto che tali soggetti andavano qualifi-cati come funzionari pubblici 86.

La decisione della Cassazione pare, quindi, aver operato una c.d. interpretazione conforme del diritto nazionale con le norme europee sulla disciplina IVA e sul si-stema di finanziamento UE, andandone a individuare la ratio e facendo prevalere l’aspetto economico-sostanziale su quello giuridico-formale 87. Da un punto di vi-sta generale, infatti 88, gli Stati membri sono tenuti al rispetto del c.d. principio di effettività del diritto UE, il quale deve essere garantito attraverso:

1) primato del diritto UE; 2) effetto diretto delle norme chiare, sufficientemente precise e incondizionate; 3) necessità che la legislazione domestica sia soggetta a interpretazione con-

forme con il diritto UE (consistent interpretation) 89; 4) principio della responsabilità dello Stato per danni causati da serie violazio-

ne del diritto UE da parte di qualsiasi organismo statale; 5) principio di effettività procedurale, il quale comporta: i) la possibilità per i singoli di ottenere adeguata tutela dei propri diritti UE in

maniera equivalente a quella garantita negli altri Stati membri (c.d. principio di equivalenza) e

ii) la garanzia che tale possibilità non sia limitata in modo da rendere la tutela dei diritti UE eccessivamente difficile o virtualmente impossibile.

Alla luce di ciò, la corretta conclusione della Cassazione evidenzia una sensibiliz-zazione e un coordinamento del supremo organo giurisdizionale italiano con la Cor-te di Giustizia UE e 90, soprattutto, conferma il fatto che in materia di IVA gli Stati

86 Corte di Giustizia UE, Terza Sezione, 12 novembre 2009, causa C-154/08, Commissione c. Spagna, in Racc., p. I-00187.

87 Secondo JOUSSEN, L’interpretazione (teleologica) del diritto comunitario, in Riv. crit. dir. priv., vol. 19, n. 4, 2001, p. 496, «l’interpretazione del diritto comunitario deve considerare che le leggi sulle quali si fonda non hanno un contenuto meramente classico, ordinatorio, bensì sono parte integrante di un gruppo normativo, che ha come scopo specifico l’armonizzazione di diversi ordinamenti giuridici».

88 TERRA-WATTEL, European tax law5, Alphen aan den Rijn, 2008, p. 83. 89 Sull’argomento, v. BETLEM, The doctrine of consistent interpretation. Managing legal uncertainty,

in Oxford Journal of Legal Studies, vol. 22, n. 3, 2002, p. 397 ss.; BETLEM-NOLLKAEMPER, Giving effect to public international law and European Community law before domestic courts. A comparative analysis of the practice of consistent interpretation, in European Journal of International Law, vol. 14, n. 3, 2003, p. 569 ss.; SAWYER, The principle of ‘interprétation conforme’: how far can or should national courts go when interpreting national legislation consistently with European Community law?, in Statute Law Re-view, vol. 28, n. 3, 2007, p. 165 ss.; TENORE, The scope for “consistent interpretation” in the area of divi-dend taxation, in PISTONE (a cura di), Legal remedies in European tax law, Amsterdam, 2009, p. 27 ss.

90 Anche la giurisprudenza costituzionale ha precisato che poiché «spetta alla Corte di giustizia assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del medesimo Trattato, se ne deve dedurre che qualsiasi sentenza che applica e/o interpreta una norma comunitaria ha indub-biamente carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario, nel senso che la Corte di giusti-

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membri conservano un ristretto ambito di discrezionalità relativamente all’attuazio-ne degli obblighi previsti nelle varie direttive, ma che «questa libertà, tuttavia, è limi-tata dall’obbligo di garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie della Co-munità e da quello di non creare differenze significative nel modo di trattare i contri-buenti, e questo sia all’interno di uno degli Stati membri che nell’insieme di tutti lo-ro. […] la sesta direttiva deve essere interpretata in conformità al principio di neu-tralità fiscale inerente al sistema comune dell’IVA, in base al quale gli operatori eco-nomici che effettuano le stesse operazioni non devono essere trattati diversamente in materia di riscossione dell’IVA (sentenza 16 settembre 2004, causa C-382/02, Cimber Air, Racc. pag. I-8379, punto 24). Ogni azione degli Stati membri riguardan-te la riscossione dell’IVA deve rispettare questo principio» 91.

Il pagamento ridotto del credito IVA nell’ambito della transazione fiscale non costituisce certamente una “rinuncia generalizzata” alla riscossione di detto tributo come si era verificato nel caso del condono tombale, ma nondimeno costituisce una deroga all’applicazione della disciplina europea non espressamente accordata dal Consiglio ex art. 22, parr. 9 e 12, Direttiva n. 77/388/CEE 92.

In aggiunta a tali considerazioni sul piano internazionale, si rileva che anche da una prospettiva domestica l’approccio della Cassazione risulta pienamente condi-visibile in quanto contribuisce ad inquadrare con maggior precisione l’istituto del-la transazione fiscale nel nostro ordinamento e, al contempo, ne evidenzia la fun-zione che esso è destinato ad assolvere.

Sotto il primo aspetto, la facoltatività dell’istituto ridimensiona sensibilmente la variabile fiscale all’interno della procedura concordataria, andando a bilanciare l’e-sigenza di gettito erariale con il soddisfacimento delle altre pretese creditorie. L’in-terpretazione della Corte, in altre parole, pone un freno alla presenza del creditore-Fisco nell’ambito del concordato preventivo e valorizza il contesto della disciplina fallimentare entro il quale il peculiare istituto della transazione fiscale si colloca.

Ma è soprattutto sotto l’altro aspetto che la decisione risulta di particolare inte-resse, in quanto la Corte rileva che la ratio che rende la transazione fiscale “appeti-bile” non è tanto la falcidiabilità dei crediti tributari, quanto il duplice effetto che il contribuente ottiene dalla sua stipulazione: il consolidamento dei debiti tributari e la cessazione della materia del contendere. In quest’ottica, la transazione fiscale zia, come interprete qualificato di questo diritto, ne precisa autoritariamente il significato con le proprie sentenze e, per tal via, ne determina, in definitiva, l’ampiezza e il contenuto delle possibilità applicative». Così Corte cost., 11 luglio 1989, n. 389, Rel. Baldassarre, su www.cortecostituzionale.it.

91 Corte di Giustizia UE, causa C-132/06, cit., par. 39. 92 La giurisprudenza europea ha confermato che uno Stato membro, in mancanza di siffatta

espressa facoltà di deroga accordata dal Consiglio, non può esentare un soggetto passivo IVA dall’obbligo di presentare la dichiarazione né tantomeno dall’obbligo di pagare l’imposta senza in-correre in un eccesso di potere. Così Corte di Giustizia UE, Terza Sezione, 28 settembre 2006, cau-sa C-128/05, Commissione c. Austria, in Racc., p. I-09265.

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costituisce un istituto facoltativo che si colloca all’interno del concordato preven-tivo, il quale permette al debitore di ottenere una cristallizzazione definitiva delle proprie pendenze con il Fisco 93.

È evidente, quindi, che qualora il debitore non intenda – per le più varie ragioni – addivenire ad una transazione fiscale, l’Amministrazione finanziaria ben potrà avanzare pretese tributarie superiori rispetto ai debiti erariali indicati nel piano con-cordatario e, inoltre, proseguire gli eventuali contenziosi pendenti. Dal canto suo, il debitore potrà difendersi da tali pretese, «non potendosi evidentemente sub-ordinare ex lege l’omologabilità del concordato alla rinuncia del debitore a difen-dersi nei confronti del creditore-fisco, né potendo tale rinuncia ritenersi implicita nella richiesta di transazione fiscale quando ancora il quadro delle pretese (conso-lidamento) non è definito».

Alla luce della decisione della Suprema Corte, dunque, la falcidia dei crediti tri-butari non deve essere più considerata l’effetto caratterizzante della transazione fiscale, in quanto lo stesso può essere ottenuto anche mediante il concordato pre-ventivo “puro”. Di conseguenza, gli effetti tipici della transazione fiscale sono rav-visabili esclusivamente nel consolidamento dei debiti tributari e nella cessazione della materia del contendere 94.

In merito all’effetto di consolidamento 95, la Cassazione rileva che lo stesso – sebbene non ancora pacificamente inquadrato dalla giurisprudenza di merito – serve al debitore ad ottenere un “fermo immagine” che conferisce certezza alla componente tributaria nell’ambito del concordato preventivo.

L’altro effetto tipico della transazione fiscale è, poi, quello della cessazione della materia del contendere, la quale costituisce un beneficio che può essere ottenuto dal debitore solo dopo aver soddisfatto la «sostanziale necessità di accogliere tutte le pretese dell’Amministrazione, non essendo plausibile che la stessa, dopo aver indicato il proprio credito, accetti in questa sede di discuterlo e ridurlo» 96.

93 In questi termini, v. ZANICHELLI, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concor-suali: dopo il d.lg. 12.9.2007, n. 169, Torino, 2008, p. 459.

94 Evidenzia chiaramente questo profilo DEL FEDERICO, LOR., Gli effetti della transazione fiscale, Relazione al Convegno “La transazione fiscale”, tenutosi a Roma il 22 gennaio 2010, su http://www. associazionecuratori.it/?page=incontri&pag=7.

95 Sul punto, v. RANDAZZO, Il “consolidamento” del debito tributario nella transazione fiscale, cit., p. 825 ss.

96 Al riguardo, l’Amministrazione finanziaria ha chiarito che tale effetto «attiene ovviamente so-lo alle liti riguardanti i tributi oggetto di transazione e non anche alle controversie non riferibili alla proposta di transazione, come ad esempio a quelle in tema di rimborso. La cessazione della materia del contendere si produce con la chiusura della procedura e, quindi, con il decreto di omologazione (artt. 180 e 181). Nei casi in cui il concordato sia successivamente annullato o risolto ai sensi del-l’art. 186 della L.F., poiché la cessazione della materia del contendere è conseguenza dell’intervenu-to accordo fra le parti, il venir meno di quest’ultimo determina la ripresa del contenzioso». Così Agenzia delle Entrate, Circolare 18 aprile 2008, n. 40/E, par. 5.2.

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In conclusione, mentre sul piano internazionale la sentenza della Corte espri-me la progressiva valorizzazione da parte degli Stati membri di un interesse fiscale “europeo” quale proiezione sovranazionale di una tradizione costituzionale comu-ne e, come tale, meritevole di tutela mediante un omogeneo e integrale reperimen-to delle risorse proprie che compongono il bilancio UE (di cui la quota IVA costi-tuisce una componente essenziale) 97, sul versante nazionale viene chiarita l’intrin-seca funzione della transazione fiscale alla luce della sua natura facoltativa e del contesto concordatario in cui essa opera.

Pietro Mastellone

97 In questo senso, v. BIZIOLI, Il processo di integrazione dei principi tributari nel rapporto fra ordi-namento costituzionale, comunitario e diritto internazionale, ed. provv., Padova, 2008, pp. 180-182.

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Finito di stampare nel mese di marzo 2012 nella Stampatre s.r.l. di Torino – Via Bologna, 220

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