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Roberto G. Salvadori ITALIA: CHI E'? La storia d'Italia vista dagli occhi dei contadini Speciale Punto G

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la storia d'Italia vista dagli occhi della povera gente

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Roberto G. Salvadori

ITALIA: CHI E'?La storia d'Italia vista dagli occhi dei contadini

Speciale Punto G

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prima edizione elettronica maggio 2014in copertina: Uomo che Zappa di Vincent Van Gogh

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1. Importanza della “questione dei contadini”.

In una società agricola, com’è quella dominante in Europa nel Settecento-Ottocento, ilavoratori della terra hanno un posto indiscutibilmente di primo piano. Dal loro lavoro dipende ilsostentamento della popolazione. Il forte incremento demografico che l’Europa conosce, a partire,all’incirca, dal 1720, ne è – se ce ne fosse bisogno – una dimostrazione. Servono altre superficicoltivabili (cultura estensiva: recupero di terreni abbandonati, bonifiche; cultura intensiva: nuovicriteri di sfruttamento del suolo). La proprietà è soprattutto di natura latifondiaria, nobile edecclesiastica, protetta - soprattutto quest’ultima - da privilegi di ogni genere, tra i quali spiccano ipossessi di manomorta, che sottraggono i possedimenti immobiliari e mobiliari alle normalioperazioni di compravendita.

Al centro, dovunque, in Italia come in Francia, in Polonia come in Russia, sta il contadino.Dovunque costituisce la larga maggioranza della popolazione (dal 65% all’85%, a seconda deiPaesi), ma dovunque il contadino è collocato ai gradini sociali più bassi e dovunque la città siimpone sulla campagna. Un fenomeno così vasto (e tanto complesso) richiama o dovrebberichiamare l’attenzione di storici, antropologi, sociologi, volti a darne una spiegazione; invece, ilpiù delle volte si dà per scontato, fin quasi ai nostri giorni, che la condizione contadina sianaturaliter quella della inferiorità, quasi da ogni punto di vista. Il contadino continua a essere, invarie forme, servo della gleba, e cioè, letteralmente, schiavo della zolla da cui la sua vita dipende.Questa condizione appare irrimediabile. Si nasce contadini e si muore contadini. Perfino icambiamenti più illuminati - le riforme – tornano a danno, in modo non sempre prevedibile, deilavoratori della terra. L’abolizione della feudalità, avvenuta, in Italia, con decreti napoleonici del1806 e del 1812, porta a un arricchimento dei grandi proprietari terrieri, ma non reca alcun seriobeneficio alla plebe contadina, anzi ne ribadisce la dipendenza dai padroni.

In questo modo, in tutta Europa, la questione contadina fa tutt’uno con la questione agrariaed è parte integrante della questione sociale. In Italia conosce, inoltre, due ramificazioni importanti:la questione del Mezzogiorno e la questione del brigantaggio, che alla precedente è in partecongiunta e dalla quale in parte si distingue. L’uso insistito del termine “questione” tradisce ilsignificato di problema irrisolto o rinviato o, peggio, risolto malamente. La trattazione dellaquestione contadina è attraversata, sotterraneamente, da un senso di colpa, tutt’altro cheingiustificato, dei galantuomini.

In realtà la soluzione è semplice – anche se solo apparentemente - ed è riassumibile nel gridodi rivendicazione contadina: La terra a chi la lavora. Un’aspirazione antichissima che, in epocamoderna, la Congiura degli uguali (1796) di François Babeuf, detto Gracco, e di Filippo Buonarrotiporta al grado di programma politico, sia pure votato all’insuccesso, visto il contesto in cui opera eche le fa assumere, sostenendo l’abolizione della proprietà privata, i caratteri di un comunismoutopico che richiama alla mente tanti isolati precursori – come l’abate Meslier – dispersi nel granfiume della storia.

Di fatto, in Italia, la questione nazionale ha la priorità su tutti gli altri temi elencati. Pur frainnumerevoli contraddizioni, pur seguendo vie tortuose, pur dovendo fare i conti con la spaccaturatra moderati e democratici, la finalità di un’Italia unita rimane una costante che riesce a giungere alsuo esito felice. Almeno apparentemente le altre domande, non meno impegnative, possono

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attendere, la loro soluzione può essere rinviata. Una valanga di difficoltà cade sulle spalle deglieredi del Risorgimento e giunge fino a noi recando con sé problemi non solo irrisolti, ma ancoraulteriormente aggravati, come nel caso emblematico del sostegno del fascismo ai grandi proprietariterrieri. Certi problemi finiscono con l’apparire immutati attraverso il tempo.

Né si può dire che i ceti dirigenti del periodo risorgimentale ignorassero l’entità dellaquestione. Per tacer del resto, i dati del censimento del 1861 e, più ancora, quelli messi in evidenzadalla grande inchiesta agraria Jacini (dal nome del Presidente della Commissione ministeriale checondusse la ricerca, svoltasi nella seconda metà del XIX secolo e i cui risultati furono moltodiscussi, viste anche le conclusioni particolarmente sconfortanti a cui si era arrivati) costituivanouna denuncia esplicita della condizione insostenibile delle campagne e dei loro lavoratori. Ancoraoggi è indispensabile partir di lì per intendere quale fosse realmente la condizione contadinanell’Ottocento.

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2. Il pauperismo contadino.

Dovunque la condizione contadina – pur nella sua grande varietà di manifestazioni – èriassumibile in una parola sola: povertà, o se si ritiene che vi sia ancora un gradino più in bassodella povertà: miseria, miseria squallida e disumana. In tutta Italia, al Nord, al Centro, al Sud eanche Oltralpe.

Esattamente il contrario di quanto una certa letteratura – che può essere definitaironicamente arcadica o pastorale – ha affermato e descritto (o meglio, finto di descrivere, come sesi trattasse di un ritratto dal vero): il buon contadino dalle scarpe grosse e dal cervello fino che sigode l’aria salubre della campagna, mangia sano, stende la mano e coglie un frutto, che ha desiderisemplici, facili da soddisfare e, che soprattutto, se arriva alla tarda età, ha una saggezza giustamenteinvidiatagli da chi vive tra i mille artifici e i mille inganni della città.

Il pane che mangia il contadino autentico non è fatto che in piccola parte di farina difrumento. Il più delle volte vi si mescolano l’avena e l’orzo, qualche volta vi si aggiunge la pagliaed è sempre, regolarmente, in quantità inferiore a ciò che sarebbe necessario. Dove è possibile sisupplisce con la polenta (Lombardia meridionale e, soprattutto, Veneto). Il mais è una benedizione,tanto più che per sfamare un adulto ne basta una modesta quantità al giorno, di facile e rapidacottura. Il mais è insieme una maledizione; se non accompagnato da integratori vitaminici fainsorgere la pellagra (così detta, secondo alcuni, per gli increspamenti della pelle, simili a quelliprovocati dalla lebbra). Per decenni le cause della malattia rimangono oscure, infine si scopre cheall’origine sta, appunto, una banale avitaminosi facile da curare attraverso semplici modifichedell’alimentazione, ma intanto la malattia ha fatto migliaia di vittime.

Analogo l’andamento della malaria. Anche qui prima di scoprire il meccanismo della suainsorgenza passano lunghi anni senza una contromisura efficace, anche se si conoscono già le virtùdel chinino. Ne sono colpiti le Maremme, l’agro pontino, il Polesine, il ferrarese, zone sparsedell’Italia meridionale… Ogni terra ha il suo flagello.

L’elenco, naturalmente, non è finito qui. La morbilità è alta ed è favorita da una pluralità difattori: le scarse conoscenze mediche dell’epoca, la mancanza di ogni forma di assistenza o diprevenzione (ammalarsi è una colpa), la trascuratezza dell’igiene, il legame dei contadini conterapie tradizionali a carattere magico o superstizioso… La mortalità infantile è molto altadovunque e molto grave è lo sfruttamento del lavoro minorile. Ancora in tenera età il bambinoviene inviato nei campi: scalzo, malvestito, malnutrito deve badare agli animali da pascolo e dacortile. Tipico è il caso dei cosiddetti gettatelli e cioè di coloro, numerosissimi, che sono rifiutati dailoro genitori, non in grado di allevarli, ed accolti dagli ospedali o da enti assistenziali appositi e che,a dodici anni di età all’incirca, vengono affidati a una famiglia contadina che li accoglie perchésono pur sempre braccia da lavoro, a cui assegnare i compiti più umili.

La donna, poi, è, quasi sempre, la vittima silenziosa di questo modello di società, l’ultimogradino della famiglia patriarcale: lavora nei campi, lavora in casa, alleva i figli, accudisce le bestieda cortile e anche quelle da lavoro. Se poi hanno la disgrazia di avere un figlio fuori dal matrimoniovanno soggette alla riprovazione generale, devono nascondere il frutto della loro colpa, e prendonoil nome di gravide occulte.

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Queste condizioni si protraggono nel tempo, generazione dopo generazione. Carlo Levi, inCristo si è fermato a Eboli, descrive scene strazianti di paesi popolati da bambini che nemmenocacciano le mosche che si affollano attorno ai loro occhi affetti dal tracoma, mentre le loro madri,ancora giovani, appaiono macilente, prive di forze, precocemente vecchie. E Levi scrive nel 1942-43. Ancora nella seconda metà del Novecento, in Sicilia, era possibile rintracciare perfino casi dibottone d’Oriente, una rara malattia della pelle.

Anche il mito della casa colonica ampia, ariosa, salubre, razionalmente organizzata necessitadi qualche revisione. Questo può essere vero, almeno parzialmente, per le fattorie toscane delperiodo leopoldino, culminanti nelle caratteristiche colombaie, ma la regola dovunque è il tugurio,la catapecchia che ospita più persone del dovuto. Si alloggia anche nelle caverne (tipici i sassi diMatera, destinati ad accogliere soprattutto pastori e che verranno sfollati solo a partire dal 1952).Generalmente gli spazi sono ristretti. Spesso si dorme nelle stalle. Si dorme accanto ai proprifamiliari, figli, fratelli e sorelle, con danno dell’igiene e anche della moralità. La vita dei contadiniviene così ridotta a quella delle bestie.

I pastori – che rientrano, sia pure indirettamente, nella categoria dei contadini - debbonoaffrontare altri disagi non lievi, come quelli derivanti dalla transumanza (trasferimento stagionaledelle greggi e anche delle mandrie di bovini dalla pianura alla montagna e viceversa). I percorsinon possono essere coperti in un sol giorno. Quello forse più importante, in Italia, che va dalTavoliere delle Puglie fino all’Abruzzo, attraverso il Molise, richiede stazioni di posta e luoghi dirifugio. Ma anche la transumanza dal Casentino alla Maremma (dove è in agguato la malaria), non èda meno quanto a disagi e rischi.

La coltivazione dei campi è flagellata da imprevedibili carestie che costringono il contadinoa ridurre le sue già misere razioni di cibo e quelle dei suoi familiari. Le carestie, in organismi tantoindeboliti, favoriscono l’insorgenza di nuove malattie, in gran parte a carattere epidemico. Ovvieconseguenze negative si hanno anche quando la malattia colpisce l’animale da lavoro. La vacca nonè sacra come in India, ma non è meno importante: il più delle volte la morte di un bue o di unamucca viene vissuta come un dramma a cui non si sa come mettere riparo.

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3. I contadini e le istituzioni.

I contadini sono analfabeti. Le percentuali di coloro che non sanno leggere, scrivere e far diconto non possono essere sempre indicate con sufficiente approssimazione alla verità se nonall’incirca dopo il 1860, ma sono certamente altissime. Già è allarmante il dato che riguarda tutto ilPaese, relativo al 1861: il 75% dei suoi abitanti è analfabeta. La campagna, come c’era da attendersiè colpita più fortemente della città. In molte zone agricole si incontrano percentuali cheraggiungono e superano il 90%. In diverse parrocchie vi è una sola persona che sappia leggere escrivere: il parroco. E non sempre correttamente. L’Italia del Sud, mediamente, è più arretrata diquella del Nord. Il parroco – che in molti casi è egli stesso di origine contadina - diviene uninsostituibile strumento di comunicazione e di operatività nelle vicende quotidiane. Ha un potereenorme: influisce sull’assunzione dei braccianti e regola quella delle balie, rilascia i certificati dibuona condotta, cura i registri anagrafici (nascite, matrimoni e morte)… Il contadino è del prete,soleva dire – con ragione – Garibaldi.

Le conseguenze di questa deficienza culturale, così macroscopica, sono incalcolabili.L’esclusione dalla lettura equivale a un’esclusione dal consorzio sociale. Il contadino non ha e nonpuò avere un pensiero autonomo. Anche quando avverte l’ingiustizia (o le ingiustizie) di cui èvittima, non sa articolare le sue ragioni, non sa farle valere. Precipita da ingiustizia in ingiustizia, daamarezza in amarezza. Finisce col detestare le carte che gli appaiono nemiche. Avversa tutto ciòche è nuovo e diffida di tutto. Ha in sospetto – spesso non senza fondato motivo – lo stessoavvocato che lo tutela nelle controversie.

Questa diffidenza si accentua nei momenti difficili. L’aumento del prezzo del pane, nelperiodo giacobino-napoleonico, viene attribuito all’accaparramento delle farine e alla speculazioneche ne consegue, ad opera degli stranieri (i francesi), dei ricchi padroni di terre, degli ebrei. Ilcontadino – che non ha mezzi di conoscenza critica - sospetta di qualsiasi novità. Le riformeleopoldine, concepite spesso per avvantaggiarlo, ad esempio per farlo divenire piccolo proprietarioterriero, non lo attraggono. Non ha il capitale, sia pur modesto, per compiere l’operazione; se riescea procurarselo entra presto in una situazione debitoria insostenibile che lo obbliga a cedere il terrenoappena acquistato a condizioni sfavorevoli. In realtà delle riforme conosce soltanto alcuni aspettiesteriori che colpiscono la sua credulità e le sue tendenze all’idolatria. Ad Arezzo, una delle tanteimmagini sacre presenti nel territorio, diviene la protettrice dai terremoti, la Madonna del Conforto,e il simbolo dell’importante insorgenza clerico-reazionaria del “Viva Maria” che dilaga in tuttal’Italia centrale. Ancora oggi la si festeggia più di quanto si faccia per il patrono della città.

Si tenga presente che, per larga parte dell’Ottocento, il lavoratore – operaio o contadino chefosse – non gode di alcuna assistenza né quando si ammala, né quando invecchia. Soltanto sul finiredel secolo, in parte per influsso della legislazione sociale bismarckiana (1881-1889) e in parte persollecitazione delle società di mutuo soccorso e delle prime organizzazioni socialiste si prendonoprovvedimenti in questa direzione, iniziando il processo che porterà alla teoria e alla pratica delloWelfare State, oggi messo in discussione, negli Stati occidentali, da una grave crisi economica.Nell’Ottocento, la famiglia colpita dalla disgrazia in uno o più dei suoi membri importanti, non haaltra risorsa che rivolgersi a un’incerta carità, gestita anche quella, in prevalenza da ecclesiastici. Il

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fenomeno, del resto, perdura anche oggi, sia pure con altri destinatari e con altre forme. (Si pensiall’assistenza praticata dalla Caritas).

I contadini incolti e illetterati, esasperati dalla fame e dalle ingiustizie, perdono, ogni tanto,improvvisamente e imprevedibilmente, il lume degli occhi, ed esplodono in rivolte, tanto violentequanto cieche e disordinate. Invadono le sedi comunali, i palazzi del potere, e li distruggono. Dannoal fuoco le odiate carte, gli archivi e i registri. È la jacquerie, così chiamata dall’appellativo ironicodi Jacques Bonshommes, dato ai contadini. Le jacqueries, a lor volta, sono le eredi delle bacaudaeromane, a testimonianza, se ce ne fosse bisogno, che il pauperismo e il vano ribellismo deicontadini corre attraverso i secoli fino ai nostri giorni.

Bakunin, massimo rappresentante dell’anarchismo delle campagne, da lungo tempostabilitosi in Italia, vede queste fiammate come manifestazioni spontanee, istintive che, unendosi leune alle altre, rivoluzioneranno l’intera società. In verità le non molte insurrezioni contadine chepossono richiamarsi a Bakunin o a forme atipiche di ribellismo (Bologna, 1874, Matese, traCampania e Molise, 1877, la Boje, 1882-1885, nel mantovano e nel cremonese, i Fasci siciliani,1891-1893), ecc. senza un’organizzazione, senza capi riconosciuti, naufragano rapidamente sotto larepressione, anche se contribuiscono a porre le premesse delle Leghe, vive soprattutto agli inizi delXX secolo. Merita, tuttavia, di essere ricordata l’impresa di Carlo Pisacane che muove verso unsocialismo ancora embrionale e del tutto velleitario, ma in cui vengono prese in considerazione“libere comuni contadine”. La sciagurata spedizione di Sapri (1856) – che ha un suo precedentenell’altrettanto sciagurato tentativo dei fratelli Attilio ed Emilio Bandiera (1844) – dimostreràquanto immatura sia la propensione contadina verso il Risorgimento, alla metà del secolo.

L’unità d’Italia sarà possibile solo quando dall’iniziale avversione diffusa (si pensi aimovimenti del “Viva Maria” già citati e a quelli sanfedisti del cardinale Ruffo), i contadini passanoa un diverso atteggiamento. Si può, addirittura, avanzare l’ipotesi che la condizione del successo delRisorgimento sia il progressivo, lento mutarsi dell’ostilità contadina in indifferenza e infine, inalcuni casi rintracciabili all’interno dell’impresa dei Mille e soggetti a molti rilievi critici, anche divicinanza e di sostegno.

L’impreparazione dei contadini ad affrontare le realtà di cui erano vittime era vista conchiarezza da Gramsci il quale scriveva: La psicologia dei contadini era, in tali condizioni,incontrollabile: i sentimenti reali rimanevano occulti, implicati e confusi in un sistema di difesacontro gli sfruttamenti, meramente egoistica, senza continuità logica, materiata in gran parte disornioneria e di finto servilismo. La lotta di classe si confondeva col brigantaggio, col ricatto, conl’incendio dei boschi, con lo sgarrettamento del bestiame, col ratto dei bambini e delle donne, conl’assalto al municipio; era una forma di terrorismo elementare, senza conseguenze stabili edefficaci. Queste parole erano scritte all’indomani della prima guerra mondiale, ma si applicavanobenissimo anche agli anni e ai decenni precedenti.

Non migliori erano i rapporti dei contadini con il potere militare. La coscrizioneobbligatoria, introdotta da Napoleone, era semplicemente odiata. I contadini vi reagiscono dandosialla macchia, alla clandestinità, organizzando forme di brigantaggio in ogni dove. I sistemi direclutamento differiscono, come c’era da attendersi, da Stato a Stato, ma quelli poi confluitinell’Italia unita sono bizzarri e iniqui, fondati sull’estrazione a sorte (tanto più lunga sarà la fermaquanto più basso e cioè piccolo sarà il numero estratto) e sulla possibilità di compra-vendita deinumeri, criterio che favoriva, ovviamente, coloro che erano in migliori condizioni economiche.Anche il sistema delle esenzioni era complesso e consentiva ulteriori ingiustizie.

Il pagamento delle imposte era concepito ugualmente in forme oppressive per i contadini iquali, paradossalmente, finivano con il pagare più dei proprietari. Il sistema fiscale, già in sè stessovessatorio, fu ulteriormente aggravato con l’introduzione (1868-69) della cosiddetta tassa sulmacinato che andava a colpire i prodotti cerealicoli. Il mugnaio – che assumeva così le funzionidell’esattore - era tenuto a registrare il numero dei giri delle sue macine ad ogni sua operazione e afar pagare la somma corrispondente al contadino. Il criterio era semplice, ma non mancavanodivergenze e liti sul calcolo dei giri. In discussione tuttavia era ancor prima il principio, ritenuto dai

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contadini gravemente iniquo. Si raggiunse così il pareggio del bilancio statale, perseguito dalgoverno della destra storica e, in particolare, da Quintino Sella, ma il prezzo del pane, già alto,aumentò ancora. Si ebbero proteste e disordini un po’ dovunque, in particolare in Emilia. Larepressione non fu indolore: costò 250 morti e un migliaio di feriti.

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4. Le “cento Italie agrarie”.

Chi pensasse a un’Italia contadina uniforme, omogenea dalle Alpi alla Sicilia, siingannerebbe grandemente. L’Italia agricola è un mosaico fatto di centinaia e centinaia di tesserediverse. Quando Pino Arlacchi, nelle sue vesti di studioso di storia, si propose di compiere unaricerca sul Mezzogiorno d’Italia si trovò dinanzi a un interrogativo preliminare: “… a quale dei tanti“Mezzogiorno” individuati dagli storici, dagli economisti e dai geografi intendevo riferirmi nel miostudio? Al Mezzogiorno jonico del latifondo o al Mezzogiorno mercantile e costiero greco? Aquello contadino delle valli interne o a quello romano settentrionale e della Sicilia orientale, tantoper fare alcuni esempi?” Dovette riconoscere che il Mezzogiorno era “un imponente deposito distrutture sociali discordanti” e pensò di rivolgere la sua attenzione alla sola Calabria, vista comesintesi di più strutture. Vi riconobbe tre aree, tre sistemi socio-economici distinti, autonomi enotevolmente complessi. Sistemi, che, per quanto lontani tra loro, erano uniti dal fatto di non esserein grado di reggere la concorrenza con il mercato nazionale, cosa che spingerà i contadini all’ultimopasso dettato da una condizione priva di ogni speranza: l’emigrazione.

Dovunque si incontrano residui di strutture feudali (in forma più accentuata nell’Italiacontinentale del Sud e in Sicilia) e dovunque sono in vigore i cosiddetti usi civici e cioè il diritto delcontadino a usufruire di aspetti marginali della lavorazione della terra, come il legnatico (raccolta diramoscelli per accendere il fuoco; pesca e taglio di canne negli acquitrini; ecc.). Si tratta dellosfruttamento di risorse marginali che torna indubbiamente di vantaggio al contadino, ma che èanche indizio inequivocabile di un’economia estremamente povera, senza contare che i proprietariterrieri cercano di liberarsi in tutti i modi degli usi civici, visti alla stregua di un’appropriazioneindebita come il pascolo degli animali sulle prode di confine. Certo, la conformazione del terreno (pianura, collina, montagna) e la sua collocazionegeografica (Italia settentrionale, centrale, meridionale, insulare) hanno un ruolo e determinanodifferenze che non è possibile ignorare, ma non sono affatto l’unica fonte di diversificazione. Assaipiù incisivi sono gli usi, le tradizioni, i processi storici dei criteri con cui veniva gestita lalavorazione della terra. Cento Italie agrarie vuol dire centinaia di isole, ognuna con suoi caratteripropri. L’Arlacchi, già ricordato, fa l’esempio, fra gli altri, del modo con il quale è organizzato, nelCrotonese, un gregge di 500 capi di bestiame (450 pecore, 50 capre) chiamato morra. Viprovvedono quattro pastori: un capo-morra, un agnellaro, un quadraro [?], un ragazzo. Un caporaleera responsabile della sicurezza del gregge. Si aggiungeva un mulattiere addetto al trasporto deiprodotti nei magazzini. Evidentemente siamo in presenza di un organismo solidamente strutturato,nato da una lunga esperienza e destinato a durare. Gli altri greggi, posti accanto, possono avere unregolamento del tutto diverso. L’esempio è tratto dalla pastorizia, ma è valido anche per lacoltivazione dei campi.

Con tutte le cautele del caso, in una situazione così complessa, possiamo riconoscere cinqueforme di conduzione della proprietà terriera e della sua lavorazione: il latifondo, la mezzadria, lacolonia, la piccola proprietà, l’affitto. In ordine sparso, anzi – almeno apparentemente - casuale,ricoprono tutto il territorio italiano, ciascuno con una sua caratteristica. Il latifondo dell’Italiasettentrionale, avviato a processi di meccanizzazione, non ha nulla da fare con quello romanocaratterizzato dall’inerzia dell’alto clero e dell’aristocrazia e, a sua volta, quello romano si distingue

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da quello meridionale, ancora fortemente impregnato di feudalità. Tratti comuni – del tutto incapaci,però, di tradursi in movimenti omogenei – sono le tendenze autocratiche dei suoi proprietari che,per altro, sono anche largamente assenteisti e cedono la guida della coltivazione dei campi a uominidi fiducia – i gabelloti della Sicilia, ad esempio, o i fattori dell’Italia centrale – che, in realtà, il piùdelle volte, sono visti, non senza fondamento, come privi di ogni affidabilità sia dalla parte delcontadino che da quella del proprietario che, alla fine, si contenta di trarre dalle sue terre un redditofisso, in una posizione del tutto parassitaria e sfavorevole a ogni innovazione.

Nella Padania si era allora instaurato un sistema irriguo, tra i più progrediti in Europa e cheaveva ricevuto l’attenzione – per la Lombardia e per il Piemonte – del Cavour. Le risaie delvercellese conoscevano un analogo rigoglio, grazie anche al duro lavoro stagionale delle mondine.La coltivazione della terra comincia qui a meccanizzarsi, e produce come conseguenza unfenomeno destinato ad avere una grande rilevanza: il contadino si trasforma in operaio agricolo e inbracciante. Non è più legato alla terra in cui vive e al padrone che la sorte gli ha assegnato, mavende la propria forza-lavoro al migliore offerente. L’offerta sarà ancora miserrima, ma dà alcontadino una forza contrattuale, sia pure esigua. Il contadino si avvicina all’operaio e convive,insieme a lui, in grandi aziende condotte dai fittavoli. La coltivazione in pianura agevola ilprocesso. I piccoli proprietari delle zone montuose delle Alpi e degli Appennini sono in seriedifficoltà, vivono ricorrendo all’emigrazione stagionale e a ciò che possono trarre dagli usi civici.Per la conduzione capitalistica del latifondo, poi, occorre un numero elevato di contadini e dibraccianti, in concorrenza tra loro (una sorta di marxiano esercito di riserva), ma non attraversato,nello stesso tempo, da agitazioni violente.

La mezzadria è presente un po’ dovunque in tutta Italia, ma le sue regioni di elezione sono laToscana, l’Umbria, le Marche, l’Emilia-Romagna. L’ordinamento mezzadrile è chiaritosemplicemente dal suo stesso nome: i prodotti della terra vengono divisi a metà tra il contadino chela lavora e il padrone che la possiede. Si capisce che la formula consente innumerevoli variazioni,ora a vantaggio di uno dei contraenti, ora a vantaggio dell’altro. Il risultato è che non c’è uncontratto mezzadrile uguale all’altro, ma tutti i rapporti tra padrone e capoccia sono inquinati dallareciproca diffidenza. Complica questa relazione, già in sé difficile, la presenza del fattore, posto acapo di più poderi.

Si è discusso a lungo, nell’Ottocento, particolarmente dalla fiorentina Accademia deiGeorgofili, se la mezzadria rappresentasse un reale vantaggio economico. L’orientamento d’insiemeera per una risposta negativa. Il mezzadro non si sentiva legato a una terra che non era sua e chepure aveva lavorato per trarne frutti che non erano suoi. Corrispondentemente il proprietario terrierosi sentiva ingannato e derubato, non aveva amore per quel suolo che pure gli apparteneva e stentavaassai a introdurre nuovi criteri e nuovi mezzi di coltivazione che il contadino, impreparato ediffidente, si rifiutava di usare. La mezzadria, in realtà, serviva per introdurre e mantenere la pacesociale, non per migliorare la coltivazione del suolo e la condizione dei contadini, per i quali leclausole dei contratti erano spesso limitatrici delle libertà più elementari. Il padrone, ad esempio,poteva impedire un matrimonio, per evitare l’ampliamento di una famiglia colonica: le braccia che,al momento, lavorano la terra erano già sufficienti.

Molto vicina alla mezzadria (tanto che molti studiosi la identificano con essa o laconsiderano una sua variante) era la colonia parziaria appoderata, diffusa nella valle del Po enell’Italia del Sud, dove, per altro, tre quarti del territorio era in condizioni feudali. Le differenzetra la mezzadria classica e la colonìa stavano nel fatto che, mentre nel primo caso, il contadinocontraente pagava la rendita in natura, attraverso la divisione del raccolto con il proprietario, macoltivava la terra sotto la supervisione e il controllo diretto del concedente, nel secondo pagava larendita in gran parte in denaro e godeva di maggiore indipendenza nella conduzione del podere.Inoltre il vincolo contrattuale con il proprietario era personale e non coinvolgeva tutta la famiglia,come invece avveniva nella mezzadria tipica.

Figure relativamente a sé stanti sono quelle dei fittavoli (o pigionali) e dei piccoliproprietari, aggrediti, generalmente, da debiti che li consegnano, mani e piedi legati, ai grandi

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proprietari terrieri. Ad ogni modo individuare e classificare le varie forme di coltivazione della terrae definire i rapporti tra il proprietario e il contadino è un’impresa ancor più che ardua, impossibile .L’Italia – Paese eminentemente agricolo - pullula di figure di persone legate all’agricoltura:contadini, massari, mezzadri, mezzaioli, coloni, gabelloti, braccianti, terraticanti, salariati, operaiagricoli… Si ha una serie di immagini dalle quali emerge il ritratto di un’Italia povera e disordinata,disordinata anche nella povertà, più povera in un luogo e meno in un altro. È in questo contesto chenasce la questione meridionale che ci accompagnerà fino ai nostri giorni.

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5 – La “questione meridionale”.

La “questione meridionale” è in realtà un groviglio di “questioni” di varia natura, diinterrogativi privi di risposta, di problemi non soddisfacentemente risolti, a cominciare da quello –fondamentale - della responsabilità delle condizioni di inferiorità del Sud nei confronti del Nord.Inferiorità economica, prima di tutto, ma anche culturale, che ha alimentato una controversiaperenne tra le due parti d’Italia, i polentoni e i terroni, e ha intralciato se non impedito l’unitàcontadina nel Paese. Camillo Prampolini, socialista, soleva dire, e la battuta doveva sembrarglibrillante, che l’Italia era divisa in due: i Nordici e i Sudici. Queste divisioni fittizie servono solo permascherare quelle reali e per ritardare la presa di coscienza della propria condizione e di quellaaltrui.

L’arretratezza del Sud rispetto al Nord, al momento dell’unità d’Italia, è incontestabile, manon è affatto chiaro quando inizia questo divario e chi o che cosa ne è la causa. È il terreno didisputa, da duecento anni, dei cosiddetti meridionalisti, studiosi di orientamento, lato sensu,liberale, spesso indicati come “grandi intellettuali”, a cui va riconosciuto il merito di aver portatoalla luce il problema e di averlo sviscerato in molti suoi aspetti. La vicenda – come sappiamo – ècomplicata dal fatto che non esiste un solo mezzogiorno, ma una pluralità di mezzogiorni differenti,non conciliabili tra loro. Ne danno testimonianza le grandi isole, la Sicilia e la Sardegna, cosìdiverse l’una dall’altra e così diverse, allo stesso tempo, dalle altre regioni.

L’attenzione ai problemi del Sud data da lungo tempo (basta pensare ad autori del Settecentocome Antonio Genovesi, Gaetano Filangieri, Ferdinando Galiani… [Cfr.: Il Sud nella storiad’Italia, antologia della questione meridionale, a cura di Rosario Villari, Bari, Laterza 1971], ma èsoprattutto con Giustino Fortunato (1848-1932) che la “questione meridionale” diviene un capitoloobbligato del dibattito sull’insoddisfacente sfruttamento delle risorse economiche della penisolaitaliana. Giustino Fortunato addossa gravi responsabilità al Nord che non finanzia adeguatamentel’industrializzazione del Mezzogiorno e molti lo seguiranno in questa diagnosi che pure resta assaiincerta. Ad esempio, il processo di lavorazione della seta, esistente tanto al Nord al Sud, sidifferenzia a partire dall’ultima fase. Al Nord, la seta viene lavorata in loco e l’industria se neavvantaggia, al Sud viene prevalentemente commercializzata. Oppure: da più parti è stata citata lacostruzione della prima ferrovia Napoli-Portici (1837) come esempio delle potenzialità industrialidel Mezzogiorno, soffocate dal Nord, ma è anche vero che i Borboni non dettero alcun sviluppo aquesto primo troncone ferroviario, mentre nel Nord si arrivò, nel giro di pochi anni, a oltre duecentochilometri di ferrovie. E così via, fino a ipotizzare una indolenza congenita del Sud, a fronte di unospirito di iniziativa del Nord, in grado di rivaleggiare con quello europeo.

Annotazioni come queste, sottolineate e amplificate, hanno portato a un vero e proprioscontro, anche verbalmente violento, tra coloro che vedono nel Sud d’Italia solo un territoriocalpestato dalle ingiustizie e avanzano proteste e rivendicazioni che contribuiscono alla disunitàd’Italia, senza poi riparare davvero i torti ricevuti, presunti o reali che siano. I tentativi dipiemontesizzazione dell’Italia ci furono e si tradussero, in alcune circostanze, in un impiego dellaforza per piegare delle pur legittime resistenze, ma ci furono anche gli atteggiamenti e iprovvedimenti reazionari di Francesco II e dei Borboni in generale. In ogni caso scarsa, per non dire

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nulla, era l’attenzione per migliorare la condizione economica dei contadini e la loro cultura. Icontadini restavano quello che erano: poveri, analfabeti, incolti. Sostanzialmente estranei alRisorgimento, ma anche, a ben vedere, a ogni “anti-Risorgimento”.

Franco Della Peruta – il nostro maggior studioso della condizione delle classi subalterne nelperiodo risorgimentale - è costretto a riconoscere che la loro presenza sulla scena si riduceall’affacciarsi, tra il 1849 e il 1852, di una germinale corrente socialista, influenzata dalle idee diProudhon, soprattutto nelle province di Mantova, Rovigo, Verona e Padova. E anche questadipendenza dalle idee altrui (si pensi, ad esempio, a Bakunin) dà da riflettere. Sembra che, in Italia,nessuno sia consapevole dell’esistenza dei contadini, che non incontreremo nei moti del 1820-21,né in quelli del 1831. Essi non avranno parte alcuna nell’impresa, tipicamente mazziniana (anche seMazzini la sconsigliò) dei fratelli Bandiera (1844), e, quel che più conta, non saranno presentinemmeno nelle vicende del 1848. Interverranno, invece, nell’impresa di Carlo Pisacane (1856), ma– disgraziatamente – dalla parte sbagliata, richiamando così alla memoria i momenti della loroattiva partecipazione ai movimenti sanfedisti del periodo napoleonico.

La sorpresa viene dall’impresa dei Mille. La media borghesia e i contadini si schierano conGaribaldi, il quale, consapevole del fatto che, senza l’aiuto dei picciotti (e cioè dei piccoli, ossiaancora di coloro che occupano i gradini più bassi della scala sociale) non sarebbe in grado disconfiggere l’esercito professionale dei Borboni, fa compromettenti promesse: la terra ai contadini eun miglioramento delle loro condizioni di vita. Bronte, nel catanese (agosto del 1860), diviene uncaso emblematico delle contraddizioni profonde che sono proprie della vicenda risorgimentale. Icontadini (insieme a piccoli notabili locali) muovono per occupare la ducea di Nelson, un territorioche, come dice il nome, i Borboni avevano assegnato in feudo, come gesto di ringraziamento, algrande ammiraglio inglese Orazio Nelson. Ciò che segue è un succedersi di episodi orrendi,attribuibili all’una e all’altra parte. La conclusione è ugualmente e più orrenda: Nino Bixio, inviatoa Bronte da Garibaldi per ristabilire l’ordine, istruisce un processo sommario, della durata di quattroore, nei confronti di 150 persone. Cinque degli imputati, di cui uno sicuramente innocente e un altrodebole di mente, vengono fucilati.

Nella sua tragicità l’episodio di Bronte è illuminante. L’unità d’Italia si realizza attraversouna contesa, relativamente interna, fra partito moderato e partito democratico progressista, ma vi èun terzo personaggio, un convitato di pietra – i contadini e la plebe in genere – che, pur nonessendo protagonisti degli eventi, cominciano in modo confuso, contorto e contraddittorio, adapparire sulla scena. I decreti del Dittatore sono un inganno necessario, per rendere libera l’Italiameridionale. Nei momenti cruciali moderati e democratici fanno blocco tra loro ed insiemeallontanano da sé lo spettro della questione sociale. I contadini (o meglio, una parte di essi)ufficializzano, per così dire, la loro protesta, e riconosciutala inascoltata per le vie legali, ricorronoalla violenza e al crimine. Non ci sono più regole, ovvero ve ne sono soltanto quelle dettate dalladisperazione. Avviene così che gli anni dell’unità siano anche quelli del brigantaggio e dellaapparizione della mafia, due modi diversi di manifestare un disagio profondo e irrimediabile.

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6 . La “questione del brigantaggio”,

La mafia non ha un’incidenza nelle vicende risorgimentali. La sua nascita, infatti, è datata,all’incirca, nel 1860 e si rivelerà pericolosa e subdola qual è soltanto nei decenni successivi. Lamafia, in certo modo, è una corporazione criminale organizzata contro lo Stato, alla cui natura restaindifferente. È Cosa Nostra, cioè un modo di dimostrarsi capaci di gestire i propri interessi più emeglio di quanto possa avvenire da parte delle istituzioni parallele della società civile.

Il brigantaggio, invece, è una piaga improvvisamente apertasi nel tessuto sociale delmeridione e dovuta a una pluralità di cause, ciò che ha portato, soprattutto inizialmente, ainterpretazioni molto diverse. Di durata relativamente breve nella sua fase acuta (autunno 1860 –inverno 1861) dette luogo a dibattiti senza fine sulla sua reale natura. Oggi, generalmente, siriconosce la validità di osservazioni come quelle avanzate, nel 1863, da un proprietario terriero diPescasseroli, Francesco Saverio Sipari, secondo il quale il brigantaggio nasceva dalla più assolutamancanza di proprietà dei contadini, e quindi dalla loro miseria estrema, disperata e dalla lorofame disumana. Non diversamente Francesco Saverio Nitti, qualche tempo dopo, affermò che ilbrigantaggio era stato un fenomeno sociale, dipendente dall’oppressione sotto cui la borghesiarurale manteneva i contadini.

Ma non fu sempre così. Dalla maggior parte dei borghesi il brigantaggio fu visto come uninsieme di atti criminali, opera di bruti, da punire con la massima severità. Si finì con lo sconfinarenel macabro, il brigante catturato veniva offerto al ludibrio popolare, e, una volta ucciso,fotografato, decapitato, afferrato per i capelli e mostrato come un trofeo. Eravamo alla vigilia delladiffusione delle teorie lombrosiane e il clima scientifico del positivismo legittimava questiatteggiamenti.

Si sommavano tra loro cause differenti. I Borboni aspiravano a rientrare in possesso delperduto regno. Nulla di più naturale che trasformare i briganti in soldati, dar loro un’uniforme che lilegittimasse come combattenti per una causa degna di considerazione, tanto più che anche il Papaera schierato con loro e ne sosteneva le rivendicazioni. La rivolta contadina, sotto le vesti dibrigantaggio, si collegava, quindi, a finalità clerico-reazionarie con le quali, in realtà, non avevanulla da spartire se non il fatto di avere in comune lo stesso avversario, ma nemmeno sul pianomilitare vi era una piena intesa. I borbonici miravano a una sollevazione generale della popolazione,cioè dei contadini, i briganti, che conoscevano bene i sentimenti della popolazione alla qualeappartenevano, preferivano affidarsi a una guerriglia condotta nei boschi e nei luoghi montuosi,assai meno noti al nemico.

I capi-briganti non mancavano di capacità militari. Alcune delle loro imprese sono senz’altromemorabili. Spiccavano fra loro personalità come quelle di Crocco (detto Donatelli) e del suoluogotenente, - tale almeno per un certo periodo di tempo - Ninco-Nanco (pseud. di GiuseppeNicola Summa). I due erano noti, oltre che per la loro intelligenza e la loro abilità tattica, anche perla loro fredda crudeltà. E qui cade una delle tante ambiguità della vicenda del “brigantaggiomeridionale”: i briganti sono considerati, da un lato, come feroci assassini e dall’altro come eroipopolari degni di considerazione se non addirittura di rispetto. Si sentono, in un modo informe e

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confuso, ma altrettanto profondo, vendicatori delle ingiustizie sofferte per lungo tempo. Liaffiancano spesso le loro donne – le “brigantesse”- indizio di una solidarietà familiare, tutt’altro chetrascurabile.

Il brigantaggio prende così la veste (e la sostanza) di una vera e propria guerra civile. Sicalcola che, al momento della maggiore espansione del fenomeno i briganti fossero almeno 80.000,fronteggiati da 100-120.000 uomini appartenenti a reparti dell’esercito italiano addestrati acombattere con gli stessi criteri di spietatezza dei loro avversari. Famoso è rimasto, a questoriguardo, l’episodio di Pontelandolfo e Casalduni, (due località del beneventano) dove l’uccisione dicirca quaranta soldati italiani provocò una rappresaglia che sembra anticipare il modello delle straginazifasciste nella seconda guerra mondiale: quattrocento persone, uomini, donne, bambini, furonouccise dopo essere state sottoposte a violenze di ogni genere mentre le loro case furono distrutte inmodo che non ne rimanesse pietra su pietra (14 agosto1861). Al termine della guerra risultaronouccisi circa 5.000 briganti, mentre altrettanti ne vennero arrestati.

I borbonici non ebbero mai un concreto piano d’azione per l’Italia meridionale. Il generalecatalano José Borges tentò di organizzare una forza militare regolare nell’Italia meridionale,avvalendosi anche del sostegno dato dalla Chiesa cattolica alla causa borbonica e, di riflesso, aquella dei briganti. I rapporti tra questi ultimi, la Chiesa e i Borboni si rivelava così tortuoso einnaturale. La Chiesa, in particolare, poteva schierarsi a favore della causa lealista borbonica, manon poteva agevolmente far sua quella dei briganti, accettandone e condividendone la manifestaillegalità e l’immoralità delle imprese. Altro motivo non secondario di imbarazzo, il contrasto fral’alto clero, tutto schierato a favore dei Borbone, e il basso clero non alieno, almeno in parte, darivendicazioni di carattere sociale. Infine, i Borbone si erano sempre avvalsi di sollevazionicontadine per combattere il costituzionalismo borghese.

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7. – Le interpretazioni del Risorgimento (e le tesi di Antonio Gramsci).

Come si sa le interpretazioni del Risorgimento sono innumerevoli e fortemente differenziate.Un problema ricorrente è costituito dalla scarsità dei consensi alla finalità di un’Italia unita. Come èstato possibile conseguire l’intento con così poche forze, oltre tutto spesso tra loro fortementedivise, come i liberali cavouriani e come i democratici del partito d’azione? È vero: il Risorgimentod’Italia avviene in un contesto europeo e non è un evento isolato, ma il concorso di circostanzefavorevoli non è sufficiente da solo a spiegare un fenomeno di così vasta portata e così“individualizzato” ed è certo che la causa italiana ha visto il contributo di personaggi fuori delcomune e di tanti giovani infiammati dagli ideali di libertà e di indipendenza, ma nemmeno questo,nel gioco dei duri rapporti di forza tra potenze e forze socio-politiche è bastevole a dar contopersuasivamente del successo incontrato alla fine. Si è stati tentati di gridare al miracolo, soprattuttoper quel che riguarda l’opera del Cavour, così rischiosa e così fortunata, oppure si è trasformata lavicenda storica in un’epopea o in una leggenda densa di eroi, pensosi dei destini della Patria.

In termini più prosastici si è parlato, soprattutto a proposito del Mezzogiorno, di una guerraregia che ha favorito la casa Savoia e penalizzato le altre dinastie, a cominciare da quella borbonica.Lì – fra l’altro – sarebbe da collocare il sacrificio del Sud d’Italia (l’inferiorità del Sud fucondizione dello sviluppo del Nord, è stato detto) nell’interesse generale. E così via. Non c’è statastrada, per quanto impervia, che non sia stata tentata per dar conto di questo fenomeno anomalo,l’unità d’Italia. Non c’è che da scegliere. Tuttavia due sole interpretazioni, fra le tante possibili,fanno assegnamento sulla condizione e sulla dinamica delle classi subalterne (del proletariato e delsottoproletariato cittadino e agricolo, della plebe, insomma) non solo per spiegare gli eventi chepercorsero la penisola italiana nell’Ottocento, ma per trarne una proposta che, se attuata, avrebbetrasformato ab imis fundamentis la struttura sociale della penisola: quella anarchico-bakuniniana equella gramsciana. Ma quella del rivoluzionario russo era un’iniziativa lasciata alle circostanzeoccasionali, allo spontaneismo, allo sregolato e violento desiderio di giustizia; non aveva niente diorganico e nemmeno di meditato. Fra i due, il programma che ha attirato maggiormente l’attenzionedegli storici e dei politici è quello di Gramsci, ancora oggi oggetto di discussioni e di controversie anon finire.

La formulazione della tesi di Gramsci è relativamente semplice. A suo avviso ilRisorgimento italiano ha le caratteristiche di una rivoluzione agraria mancata. Non si è realizzata laconvergenza di forze tra ceto borghese e classe contadina che sola avrebbe assicurato una baseampia e solida alla formazione del nuovo Stato. Il coinvolgimento delle classi subalterne, anzi,avrebbe potuto e dovuto essere ancora più vasto e comprendere anche gli operai del Nord (la cuiorigine sociale, oltre tutto, è in larga misura contadina). Operai del Nord, contadini del Sud,borghesia progressista, avrebbero dovuto costituire un’alleanza diretta e organizzata dalleavanguardie operaie e dai grandi intellettuali, capaci di avere una concezione rivoluzionaria dellasocietà. Era evidente che Gramsci aveva dinanzi a sé l’esempio degli sviluppi della rivoluzionebolscevica e il “modello” leninista. La teorizzazione del Risorgimento avveniva, da parte sua, subitoall’indomani della prima guerra mondiale (nel corso dell’elaborazione delle tesi del Congresso

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clandestino del Partito Comunista d’Italia, avvenuto a Lione nel 1926, e poco prima di venirearrestato dalla polizia fascista). Inoltre, la funzione egemone assegnata alla classe operaia era senzadubbio il riflesso dell’esperienza determinante dell’occupazione delle fabbriche, a Torino, neldopoguerra. Gramsci elabora le sue teorie quando la vicenda risorgimentale si è conclusa da unpezzo, ma investiga il passato per spiegare il presente.

Egli non ebbe il tempo né il modo di sottoporre a discussione o vogliam dire a verifica le sueidee. Certo, questi suoi primi enunciati non vanno indenni da interrogativi e da perplessità. Par dipotere rilevare un eccesso di fiducia nelle nuove forze che si affacciavano all’orizzonte della societàitaliana. Nella loro grande prevalenza gli operai e i contadini a cui egli si rivolge, sono immaturiculturalmente, ancor prima che politicamente. Gramsci stesso ne è consapevole per primo (comerisulta dalla citazione precedentemente riportata sulla psicologia dei contadini). E Gramsciproseguiva: Quattro anni di trincea e di sfruttamento del sangue hanno radicalmente mutata lapsicologia dei contadini. Questo mutamento si è verificato specialmente in Russia ed è una dellecondizioni essenziali della rivoluzione. … Le condizioni storiche dell’Italia non erano e non sonomolto differenti da quelle russe. Ma se effettivamente quattro anni di guerra erano stati un banco diprova terribile per tutti e, in particolare per i contadini, il processo di formazione di una coscienzasociale e politica delle plebi era ancora lungi dall’aver raggiunto il grado che il segretario delP.C.d’Italia gli attribuiva. Era sufficiente a provarlo le decimazioni dei fanti – in gran partecontadini – che si rifiutavano di assalire il nemico alla baionetta, punizioni atroci subite senza unareazione organizzata e tangibile..

Queste riflessioni critiche e autocritiche comparivano con chiarezza, anche nelle valutazionigenerali che Gramsci dava del Mezzogiorno: Il Mezzogiorno può essere definito una grandedisgregazione sociale; i contadini che costituiscono la grande maggioranza della sua popolazionenon hanno nessuna coesione tra loro, - La società meridionale è un grande blocco agrariocostituito da tre strati sociali: la grande massa contadina amorfa e disgregata, gli intellettualidella piccola e media borghesia rurale, i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali. Questiultimi, poi, a dire di Gramsci, si riducevano a due – Giustino Fortunato e Benedetto Croce – confunzioni di sostegno della reazione (il contadino meridionale è legato al grande proprietarioterriero per il tramite dell’intellettuale). Ciò nonostante Gramsci non cessava di riporre le suesperanze nel proletariato operaio e contadino, tanto del Nord che del Sud: La borghesiasettentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento;il proletariato, emancipando se stesso dalla schiavitù capitalistica, emanciperà le masse contadinemeridionali asservite alla banca e all’industrialismo parassitario del Settentrione. – Imponendo ilcontrollo operaio sull’industria, il proletariato rivolgerà l’industria alla produzione di macchineagricole per i contadini, di stoffe e calzature per i contadini, di energia elettrica per i contadini:impedirà che più oltre l’industria e la banca sfruttino i contadini e li soggioghino come schiavi alleloro casseforti.. Spezzando l’autocrazia nella fabbrica, spezzando l’apparato oppressivo delloStato capitalistico, instaurando lo Stato operaio che soggioghi i capitalisti alla legge del lavoroutile, gli operai spezzeranno tutte le catene che tengono avvinghiato il contadino alla sua miseria,alla sua disperazione …

Le speranze delineate con accenti così vibrati da Gramsci avrebbero, poi, dovuto infrangersicontro i tentativi di dare una soluzione coloniale della questione contadina e, ancor più, contro lareazione agraria rappresentata dal fascismo. Il riscatto contadino avrebbe avuto ancora una lunga edura strada dinanzi a sé.

La “questione contadina” – estate 2012 - rgs