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Roberto Roversi Poesia al fuoco della Storia di Daniele Piccini   G   i   o   v   a   n   n   i   G   i   o   v   a   n   n   e   t   t   i    /   E    f    fi   g   i   e

Roberto Roversi

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Poesia al fuoco della storia, di Daniele Piccinni

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7/17/2019 Roberto Roversi

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Roberto Roversi

Poesiaal fuoco della Storia

di Daniele Piccini

  G  i  o  v  a  n  n  i  G  i  o  v  a  n  n  e  t  t  i   /  E   f   fi  g  i  e

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Parlando qualche numero fadella nuova prova di Cesare

 Viviani, La forma della vita,ho avuto modo di rilevare latensione rinnovata – quasi

un segno dei tempi – di poeti di di- versa estrazione ed età verso la for-ma-poema, in cui sembra convo-gliarsi un desiderio di espressione to-tale e inclusiva. Ebbene, un autoreche ha legato quasi tutto il suo per-corso alla forma del poema e che hacontribuito fortemente all’affermarsidi questo genere dopo la metà delNovecento è senz’altro Roberto Ro-

 versi. Attraversando stagioni e tem-perie politiche dall’osservatorio qua-si eremitico, eppure operante, dellalibreria antiquaria che da più di qua-rant’anni gestisce a Bologna, Roversiha finito per tingere di leggenda la

sua lunga militanza poetica. In parteper essersi fatto promotore ed edito-re, tra il 1955 e il 1959, della rivista“Officina”, assieme agli amici Leonet-ti e Pasolini, in cerca di uno speri-mentalismo che non si risolvesse inaccademia e in ludus  verbale: una ri-

 vista e una proposta che sono rima-ste come pietre d’angolo, sia puremagari nella sconfitta sostanziale (oapparente?) di quella linea, nella sto-ria della poesia secondonovecente-sca. Dall’altro lato, a renderlo uno

scontroso, singolare uomo di lettere,quasi appunto un ritirato eremita, edunque una figura intorno a cui fiori-scono racconti e micro-leggende, è ilsuo costante rifiuto di accettare leggie logiche dell’industria culturale, del-la comunicazione, del mercato. Ilche, nel campo specifico della sua at-tività di poeta, lo ha portato in annilontani, alla fine dei Sessanta, a unadecisione a suo modo clamorosa: do-po aver stampato da Feltrinelli e poida Einaudi la sua raccolta di poemi

( Dopo Campoformio, 1962; 1965 inedizione rivista, con sottrazioni e ag-giunte), Roversi decide di non affida-re ad alcun editore il nuovo libro, De- scrizioni in atto (1969), e lo tira inproprio, in tre successive edizioni, alciclostile, per circa tremila copie, in-

 viandolo a chi ne fosse realmente in-teressato.

C’è in questo episodio molto delRoversi poeta e ideologo: cioè la col-tura di un disegno di opposizione to-tale rispetto all’esistente, una volontàquasi superstiziosa di non compro-missione con qualsivoglia forma dipotere. E anche, volendo, una dosedi moralismo, che non manca di unasua austera verità morale. Lo scontro,su questo terreno, era evidentemen-te con il progetto di occupazione deigangli del potere editoriale persegui-to invece, sia pure con l’intento di-chiarato di intopparli e stravolgerli,dagli invisi protagonisti del Gruppo63. Due sinistre e due idee contrap-poste del modo di fronteggiare il Mo-loc dell’industria culturale, della dis-soluzione della letteratura. Da unaparte l’attivismo e la ragnatela di po-tere, fondata però su prodotti pensa-

ti per inceppare la macchina, cioè li-bri tendenzialmente illeggibili, ro-manzi non-romanzi, arte museificatain partenza (per rispondere all’equi-

 valenza di linguaggio costi tuito eideologia oppressiva); dall’altra unpessimistico e scettico rifiuto di avera che fare con le logiche mercantili ela ricerca, magari velleitaria e utopi-stica, di forme alternative di diffusio-ne dell’espressione letteraria, sempreconcepita come d’opposizione.

Si sa purtroppo come il primo indi-

rizzo, una volta riassorbito, abbia di-mostrato la sua inanità, conducendoal trionfo del meccanismo che volevacontraddire (il caso di Eco, ideologodel Gruppo 63 e poi autore di best  seller costruiti in laboratorio, ne fa fe-de). Sull’opposizione pura e dura diRoversi si deve ancora esprimere unariflessione ponderata, ma certo il ri-schio di un’impostazione puramentemorale o moralistica, che non arrivaa incidere sui meccanismi dell’odiatopotere culturale, che lo lascia insom-

ma a se stesso e anzi magari lo privadi un possibile anticorpo (o virus, sesi vuole), mi pare che continui adaleggiare. Ma questo argomento ciporterebbe, inevitabilmente, troppolontano.

È bene invece tornare a “Officina”,luogo di incubazione della poesiamatura di Roversi, che, giovinetto

(essendo nato nel 1923), aveva dalle stampe due raccoltine di vancora liricheggianti, Poesie (194 Rime (1943), e poi un’ulteriore sge in cui il nuovo è ancora in videfinizione, Poesie per l’amator stampe (1954). Il lavoro della rivcosì come l’esempio del Pasolini le Ceneri di Gramsci (1957), spinno Roversi a un tentativo di rapsentazione dell’Italia uscita dguerra e dalla Resistenza (a cui il

 vanissimo poeta ebbe modo di pacipare), che non dissolvesse in liné in retorica il quadro della realpoemi, in fondo unificabili in unsegno unitario come altrettanti epdi, di  Dopo Campoformio (19cercano una via difficile e solitasia pure nutrita in profondità di chi condivisi e comuni. Al di qua

di là di alcuni momenti di lirismolirismo si direbbe fisiologico, il pocerca la costruzione di un ordspesso, continuo, dalla tonalità spta, in cui anche le sigle liriche si scgono, per ritrovare la loro veritàcontinuum: con questa linguamessa, prosastica eppure organita in lasse che tengono ben presela misura di riferimento dell’endsillabo, Roversi rappresenta un’Icontraddittoria e irrisolta, contade industriale, con una forte colori

ideologica che più che stingere scose deve, nelle intenzioni dell’are, emergere dalle scene stessesorgente il motivo dell’ipocrisia giosa).

I poemi muovono dall’avvenimto decisivo della Resistenza (“Il tesco imperatore”), passano per l’a

 vione del Polesine (“Pianura Pana”), la situazione politica itali(“Lo stato della Chiesa”), la tragdella bomba atomica (“La bombHiroshima”). Nell’edizione rivista

1965 si arriverà a un montaggispezzoni di articoli e reportages ticipo di una nuova stagione poedell’autore) sulla tragedia del VajC’è una volontà didattica permante, occhiuta, calata tuttavia in formin calchi che hanno ancora un dero e una tenuta letteraria singounificati proprio da quella man

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grigio di cui si diceva. Il giro degli og-getti, delle scene e delle storie è te-nuto insieme dal sentimento di una

 vitali tà faticante, addolorata, dallosfiorire degli anni dopo la giovinezzache fa tutt’uno, probabilmente, conl’ingiustizia sociale ed epocale. Ungrigiore che opaca anche le abba-glianti e ritornanti apparizioni fem-minili, quasi epifanie di una illusoriagiovinezza del sangue (in analogiacon Caproni, con Giudici).

Fortini, in una celebre recensione a Dopo Campoformio del 1965, mise inrilievo quella che gli pareva una con-traddizione di fondo: “Ma qual è il li-mite di questa poesia […]? È l’esita-zione fra servitù volontaria alla lette-ratura, come schermo, maschera,punto d’appoggio convenzionale elibertà immediata, come espressività

integrale, ‘sincerità’”. Un elemento dicontraddizione simile, ma meno evi-dente, a quello che si riscontrava neipoemetti di Pasolini, tuttavia più vi-sceralmente disponibile di quantonon fosse Roversi a cogliere i sintomidi una vitalità intollerante della stessachiusura ideologica (mentre Roversiè appunto dedito a riassorbire ogniinsorgenza in grigio e in epica cora-le). Nel risvolto di copertina del pri-mo Dopo Campoformio, l’autore par-lava chiaro, dicendo di un libro “mo-

notono, con pagine di pietra”, “butta-to in una oggettività disperata e do-lente”, inteso a dare “il ritratto dell’I-talia rotta e adirata che ancora insistee resiste […] e non è splendente magrigia, non celeste ma nera, strug-gente come una brace”. Precisando,prima di lanciare strali avvelenaticontro la neoavanguardia (“il neofu-turismo che s’affaccia con un pluri-linguismo da crociera turistica”), cheil suo “non è dunque, e non vuol es-sere di proposito, un libro tenero,

ben fatto, o nuovo […], ma […] un li-bro d’opposizione, un libro di con-trasto politico”.

Tuttavia c’era ancora un legame, inquesto libro, con una possibilità dibellezza letteraria (qui negata, ma aun livello di smorzatura più che didissoluzione), come in Pasolini, chein seguito verrà più sostanzialmente

affossata. E sarà la stagione delle De- scrizioni in atto. La trama contadina,la fabulosità sia pure illusoria del vi-

 vere biologico (l’accensione degliamori prima della monotonia della

 vita sfiorente) viene sempre più sfal-dandosi (mentre in Dopo Campofor-mio agiva anche una sorta di koinè 

popolare, leggendaria, che nutriva inquegli anni in modi diversi anche il

 Volponi delle Porte dell’Appennino eil Bertolucci incubante la Camera daletto) e lascia il posto a un disegno diopposizione politica, per stare aun’espressione dell’autore, sempremeno disponibile alla letterarietà.

Curioso ma impossibile da passaresotto silenzio un sostanziale (chissàse cosciente) avvicinamento in que-sti nuovi testi a quel “plurilinguismo”così violentemente stigmatizzato nel-

la nuova avanguardia, al sabotaggioinsomma delle strutture solide del di-scorso letterario, che proprio i nova-tori del Gruppo stavano conducen-do, sia pure in forme diversificate espesso profondamente divaricate. Ilfatto è che la forza rappresa delle im-magini di Dopo Campoformio , “teseognuna da scoppiare, al punto chestai per vedere saltare le cerniere sin-tattiche e logiche”, come diceva nellasua recensione-requisitoria Fortini, èora esplosa e ha fatto davvero venir

meno il contenimento del poema-elegia, per lasciar emergere i nodi, inervi, gli spigoli del discorso ideolo-gico ma anche semplicemente rap-presentativo.

E qui davvero si coglie qualche ba-leno di prossimità soprattutto a Pa-gliarani, se si pensa all’esperienza in-sieme ragionativa, discettatrice e di-sgregante (montaggio di testi ‘altri’,citazioni extra-letterarie, opzioneideologica) delle  Lezioni di fisica(poi Lezioni di fisica e Fecaloro: ri-

spettivamente 1964 e 1968). Non èun caso che proprio a questa altezzasi dia anche il gesto simbolico del ri-fiuto del veicolo tradizionale di diffu-sione della letteratura (quello edito-riale), come a segnalare il punto piùprofondo e radicale di disagio neiconfronti del proprio fare e la tensio-ne a un discorso altrimenti orientato

(proprio Fortini e la sua concezidella poesia come errore è in fodecisivo per Roversi).

Quando torna al progetto dipoema sullo stato della Nazione,po essersi cimentato in tentativi psastici e teatrali, il poeta ha ormasciato dietro le spalle la brace, ilgiore balenante di una vecchia, ana, povera Italia, e anche tutto il co d’artificio dello sperimentalisSa che né la strada della rappresezione oggettiva, epica, né quella la presa diretta plurilinguistica psono di per sé fare da sonda attebile. Nasce il progetto dell’ Italia polta sotto la neve , poema ancorcostruzione, in cui le forme solidimmagini tese e a volte turgide smorzate nella loro tensione) di   po Campoformio vengono libe

dalle guaine ma, per lo più, senzaluogo a una contestazione formdel discorso letterario, piuttosto sgendo una rappresentazione dcrisi e dell’impasse in modi allegocifrati. Del poema sono state fattenoscere fin qui diverse parti, tuttmodi semiclandestini, da editorinori, al di fuori del circuito dell’instria culturale: L’Italia sepolta sotneve. Premessa (Nordsee, Ro1984, poi Quaderni del MasaoBologna 1995); Parte prima (Il G

sole, Valverde [Catania] 1989); P seconda (Pendragon, Bologna 19infine La partita di calcio (PiroNapoli 2001), costituita da novabrani (i numeri 164-253 dell’inprogetto).

È chiaro che il poeta tenta una ta di assemblaggio, nei brani del pma, del tutto della storia, della leratura, del transito esistenziale (sida il n. 10 [173] della Partita), donesso, il connettivo non è nella ratività dimessa di Dopo Campo

mio né nel montaggio violento elemico delle Descrizioni , ma in giustapposizione e calibratura mantiene un quoziente di enigmcità. Insomma, è come se matereietti della vicenda storica e intetuale si ricomponessero senza ecostretti nella sutura della sintama sospesi, allo stato gassoso, in

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inquieta e non poco turbata sospen-sione aerea, come particelle di ununiverso in perenne scomposizione.

È in questa sorta di deriva del sen-so e della tenuta d’insieme della Sto-ria (avvertita, almeno a livello laten-te, dal Roversi poeta) che tali appun-titi ingredienti acquistano una loro

 vitalità non del tutto esplicita (stavol-ta l’energia delle sovrapposizioni edegli scarti fa piuttosto pensare a cer-to Porta). La scrittura della Partita ,per esempio, è chiara, fruibile e in-sieme polisemica, anche se nonoscura. E le figure che vi compaiono(Agrippa D’Aubigné, Achille Varzi, ilgiocatore di calcio, Che Guevara,Chet Baker, Glenn Gould…) sonocome indicatrici di un sovra- o sotto-

senso, emblemi, nomi simbolici diuna storia che continua a fluire nelpresente, a giocarsi, magari all’oscu-ro della coscienza dei tempi. La stes-sa partita di calcio è allegoria incertae proteiforme. Forse il punto è che labattaglia si è spostata, impercettibil-mente, fino a non coincidere più conalcuna contesa nota, analizzabile intermini strettamente ideologici. Forseper questo sono diffusi segnali e mo-niti di una definitiva sparizione, di ungenerale arresto: è il caso dei libri, in-cendiati, minacciati, posti sotto l’as-sedio di un pericolo incombente, chespesso compaiono nei testi della Par-tita (si legga da 87 [250]: “bruciano i

 vetri delle biblioteche / gli scaffali dilegno odorano di onde di boschi /

avvampano i libri chiedono pietàmuoiono in silenzio o scendonbattaglia contro il tempo / che li tpesta. / Cenere nelle biblioteche gli avidi pipistrelli / chini sopra gltimi fogli. Fumo”). Un mondo, quumanistico, quello del discorso e la ragione opposti al divampare deventi ciechi, sembra entrato in e pare costituire uno degli elemdella partita, più enigmatica, fonindecifrabile, che si va giocandopra e sotto la nostra percezioneuna sorta di universo totale e totzante, in cui distinguere storia, naca, letteratura, politica sarebbeno. In questo, forse, la ragione ultdel poema.

Daniele Pic

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Da DOPO C AMPOFORMIO

Una terra

[ I. Antonio padre – II. Il superbo lamento – III. Pesce di mare  –  IV. A Senarica, amica di Venezia – V. Il dolore d’essere dimen-ticati – VI. Crescono giovani aspri  – VII. Corropoli  – VIII. Ferra-

 gosto – IX. Il fumo dei vulcani ]

Un bioccolo di lanafrusta nel tramonto alberi, fiori,muove il trotto dell’onda.Sulla sponda i ragazzi con la schienainarcata puntano i piedi nella rena;“dài pa’ssì, oh… ooh!” lo scafo stridesulle palanche nere, Antonio padre sfiora l’acqua, è nel mare,apre cigno le ali, le lampare,anatrelle, l’avvincono con cordee la flottiglia corre in alto mare.Nella notte, chini sul fondo, gli uomini

pescano se la luna è pienao la corrente non spinge in Dalmaziail cefalo che volge guizzi in oro.Un lume è accesolaggiù oltre il mio dito: Antonio padre al palpitodel primo fiore in cielo tornerà.L’inverno è lungo stretto dentro un marepauroso; quando giugno allora

brucia il dorso ai delfinii marinai avventano nei solchisonno, fatica, reti rammendate.

È morto il capitano. Cadein mare ogni luce di festadai giovani cuori; a rivale donne attendono ammucchiate.

Un marinaio è al timone, bianco agnello;così gli uomini antichi veleggiavanoapprodavano a isole felici.La barca vira, si torce, si chinamentre s’alza il lamento. Una voce:“Tu, tesoro di mamma, meschinaperla bruciata da un vulcano,sei trascinato a terra con la manoin croce, sulla sabbia, dal vento, uccellospento di rabbia, scuro, ecco il riposo”.

 Vanno in tumulto con le ali aperte.I fortunali cadevano sulle onde deserteal colpo della frusta di questo uomo.

Steso sul sacco è un tronco incenerito,è tuono offeso, esploso, dileguato;il calzone al ginocchio accartocciato.

 Vita, mia vita comesei terribile e amata: uno sconfortosenza consolazione è ancora vivonegli occhi di questo morto che iericon tutti i suoi pensieri era nel mare.

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Il venditore di pesce per strade e sentierifu in America un tempo.“Sempre un fumo nel cielo;pane, carbone, nel vino la polvere;tristi le donne, negli occhi la polvere;i ricordi chiamavano lontano.Ora mio figlio lavora a Milanoe quella è la mia casa. Addio America”.Sul prato ferma ride la sua casacresciuta in fretta.Spinge la bicicletta, grida il pescegiallo sul ghiaccio e viole:“chi prende il pesce, pesce fresco di mare?”

 va scalzo a chiamaresul viale nell’ombra dei tronchi,sfiorato da siepi a filo del mare.

Un vagabondo canta e ruvidimarinai ascoltano a un fanale.

Sulla strada appassiscono i geranibucati dai fari delle macchine,autotreni scuotono l’asfalto,i pioppi coprono fra lo stridio dei frenil’agonia di un gatto sfracellato.“A Senarica, amica di Venezia…”fuochi verdi aprono la golaai cani sulle aie del montescreziato da barbagli sereni all’orizzonte.Il vecchio intona con pena un canto tristee i fiori tremano, cadono,muoiono nella polvere.

L’erba è gialla, pietre; il cimiterocon gli ulivi e cipressi sbiaditi.

 Anche nella pace i mortinon hanno tregua, risalitidal profondo si stringono le manirotte dalla fatica.Madri stroncate dalle gravidanze,invecchiate con pazienza infinita su reti,uomini stanchi più dell’aria d’autunno:con il viso inchiodato fra due datesanno che non c’è pianto non gridato

né un giorno senza male: che la vitanel dolore fu tutta patita.Rimpiangono solo l’oblio dei vivi,d’essere dimenticati in poche ore.I ricchi almenohanno il nome dipinto nelle proredelle barche che rosse sul lidocon gli alberi e vele ammainateattendono la piena primavera

per gettarsi con un grido sui branchimorbidi e azzurrinelle calme correnti verso l’Africa.

La rocca ancora incombe a precipizio.Un tempo sulle alturei noci contorti strisciavano a terrafoglie di quattrocento anni, eppureadesso il silenzio è favolaper i vecchi che muoiono nel sole.Le case all’ombra delle tamerici,fra le siepi, case di girovaghie pescatori, pittate di bianco,formaggio fresco su una fogliadi fico, sono cadute;scompare adagio la genteche non trema alle nevi dell’inverno.Crescono giovani aspri, amare mandorlein un tempo d’inferno, di lampi

e sorprese telluriche nell’ariagrigia che illividisce ogni città;il sangue arde dentro i cuori straziatidall’unghia del mostro che si torce.Ma quale mondo appariràdopo la pena necessaria!

Là il monte, laggiù è il mare:il mare con le speranze strappatea una barca che adagio s’avvicina.Sui chioschi di benzina

cantano i tordi e volano nelle vallatealle ragazze dal petto tremanteoh così dolcemente.Quelle del mare, ardite fierecontrastano, sono restie agli sguardimaliziosi e azzannanocome i lupi di selva.(Pace con voi, ragazze dell’Abruzzo,una è sangue al mio cuore.)

 A Corropoli fumano i camini,gli alberi difendono le casedove i topi imperversano e la razzadegli uomini passati consumò

nel rancore una vita vile.Case per amori di monache,per grida soffocate, per pugnalicavati al frusciare di un uscioo all’ombra di un cortile.Ma strappa la tenda dal cielouna donna accosciata nel vento,canta un riso gentile;palpita l’aria fatta azzurra

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al lume dei suoi occhimentre con le mani in cui traluce l’ossosceglie e vaglia il frumento.

Buon popolo, fra luci semispenteti attardi, stupendamente docile.Le ragazze adornate di corallirosseggiano come il tramontoo impallidiscono allo scherzodi un giovanotto ardito:“Vedeste comare Splendore?balli con me, bel cuore?”

 Aspettano i fuochi d’artificiorovesciate sull’erba,i premi favolosi della tombolae l’amore colomba del diluvio.Cade la felicità da scrigni aperti,le luci della festa aprono piume;scese dal monte con le scarpe in mano

bagnano la speranza nel lumedella notte, nell’uragano dei giuochi,nelle giostre che strappano lontano.Fasciati in maglie rosse i marinai,stretti i calzoni sulle cosce,toccano il gomito alle ragazze;trillano le argentine passeree si offrono, quasida un albero protese.

Terra addormentata per secoli

dai frati astuti, dalle processionifra gli uliveti e i campi,buttate le barche sulla rivatrema all’ansia del petrolionero come un nembo dalla Marca.I vigneti abbattuti, la penadi un paese deserto sui dirupida cui gli uomini tutti sono fuggiti;solcato il mare dalle petroliere,nell’acqua grassa i pesci imputriditigalleggiano con il ventre scoppiato,e rombi di scavatrici, grida, fuochi,martelli, tonfi profondi nella terra;

il fumo dei vulcanicopre la pietra del gran sasso.Basse, di notte fischiano dal marenavi cisterne, lunghe, stese, nerecome un morto sull’acqua; si provauno sgomento a sentirle chiamare.Su gli oleodotti splende luna nuova.

Da LE DESCRIZIONI IN ATTO

Decima descrizione in atto

I.

Che età avevi quando irruppe il Medo?

II.

Il giuramento a lume di candelanella cattedrale di Brunswickdavanti alla tombadi Enrico l’Uccellatore (vedere a pagina ottanta)con gli occhi azzurri e i capelli biondi, essie il pelo sul cuore…

III.

Una strada non c’è. C’è una strada (un fiume), c’èfiume

 – credo che ci sia, è così – un profondofosso, una siepe, un fiore d’alberosotto il giardino spappolato, c’è il piantodi una bambina nuda col tracoma c’èil sangue di un uomo per terra decapitatola milza di un animale sul bancone di legno;c’è il filo bianco (un rosso filo) che stendedal labbro di chi parla fino a una casa laggiù;una carta su cui il dito striscia con raccapriccio;

l’orgasmo della donna fra l’erba affumicatada un vecchio incendio, un bombardiere che non si ve

 Vilipendio di istituzioni (di gravi legittime colpe).Non c’è più l’eco, il suono non c’è, il percuoteredell’ultimo dissenso, le vociplacate (finalmente?), i refusi scomposti;ribolle un altro piombo per più degne canzoni

 – la caratteristica del tempo è una misurata indifferentutto interessa un poco per brevissimo tempo,ogni cosa muore, deperisce, sé consuma e sfoltiscenel forno della memoria.

IV.

Dice Kant la disciplina del genio(ossia l’educazione) è il gusto: gli ritagliale ali e lo rende pulito e costumato.Il grande Kant, savio nella sua stanzucciadi legno, con l’onda delle ideeche si scioglie in un silenzio ordinato

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e sulle vie (deserte) lo zoccolo di un cavallo.Ma questo, che siede anch’egli, è un uomo, nella casacon moderati calori, in un quarto pianodi paese italiano, che è, che sarà? così lontanodai rumori. Ah, non è costumato e polito. Non costumato,è tutto dentro sbrecciato, pendente,insolente, tenero e terso, muscolomacellato in una sordida ignominia,ingorgo meschino, è gramigna spersa seccaraccolta da una vecchiaccia che insacca.Questo non sarà polito, eh no, costumato non è (le cir-

costanzenon lo permettono), non è pulito – tutti sentonosulla via lo zoccolo di una mortepassare alternando il suono con quello dello spazzino(e la sua tromba). L’alba, all’alba, l’alba

 – disegnare contro i vetri col fiato –è, nello strizzarsi delle vene,così distesa distante, la mano aperta, l’occhiaiadi questa giornata incerta nella scelta; stramazzeràfra noi farneticando (presto, fra noi) di dolori antichi

e dei nuovi congegni. Ammonisce così riservata superbaa non perdere le occasioni (la vita è un fulmine nel

tempo) – intanto una ragazza sulla gamba perfettanell’ambito di una stanza indossa la vestagliaspenna se stessa nello scirocco ferito da una calzairride alla varietà degli umoriagitata da una innocua speranza.

 V.

 Accendere una sigaretta (fumata dopo sei anni)

il potere agli operai e ai contadini – si elidono a vicenda sopraffattida queste contraddizioni che non distinguonofra la necessità e il bisogno, fra chi(si può dire) di una corda che si sfilacciatrattiene il bandolo e colui che esautorato esaustosi lascia colpire dal canapo alla faccia.L’affare è grave e merita considerazioneOggetto di ogni disputa, nel caldo della stanzamentre fuori si apre al mondodistrutto dall’acquazzonee rigurgita una cloaca con la gola di vaccae si fa notte fra i lampi

e una pietà di noi si distende sopra le forme immobili(con noi) nell’attesa perfida dello spettacolo – la consumata mente, l’usura, il sillogismo,il calembour sul titolo di chi si compiace al caffè –èla fine del mondo, un’arca ribaltata,sulle pianure le ossa della città

 – allora tu dici che il momento del contrastosi invera in una nuova necessità: (questo è il punto),

ognuno di noi che sediamosillogizza ma non opera, la disputa si fa arcaicae tutti noi (il giro del dito è ampio)degradiamo nella mistificazione.

 Accendere una sigaretta.Sono anni bui o sono anni nuovi?Per la verità credo che il buiosia il buio arcigno tetro gelido perfettoche sia una luce nuova.

 VI.

Ieri in via Andegari scura e stretta, raffinata via che cduce a

una foresta di simboli scalcagnati, la moglie incontrocontrai ho

incontrato di un compagno fucilato.Stormiscono le foglie della memoria.Con una testa di capelli rossi, in quelle case sporch

fango o

dell’ottusa avidità borghese la spalla modulata domente suonava.

La sua giovinezza (incantava) ancora.L’ora del giorno, incerta un poco colmao piuttosto il luogo distaccato dai rimorsi, in una inceombra, distaccata dalla buriana ossessiva,la giuliva felice voce di addio ciaoo R. che (un attimo)… dimenticato, al mio cuore…Si possono dimenticare i morti per sempre.Leggeri andavamo a braccioi suoi capelli di fiamma disse sono sposata ho due figneppure un ritratto più, mi puoi capireuna gran voglia di vivere

questa città fa impazzire.La provincia fa morire. A notte ancora nella sua casa, fra i figli e il maritonella casa a mezz’ariasui rami di un albero fortunato di cristallo, verde.Baciò me sulla boccaperfida, e dolcemente, vicino alla porta.Tutto scomparso, assopito, scancellato, annegato,

 visi di uomini trapassati sbiancavano in polverenon era vero più niente.

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Da L’ITALIA SEPOLTA SOTTO LA NEVE(Parte prima)

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Lavora una talpa nel giardino degli acquazzoni d’

aprile mese crudele. Aprile s’affaccia, brucia, brucia le foglie appena,sui fogli scritti appena scritti.Così calmo. Anche il mese crudele. Si spegne.

 Aprile viaggia su strani arcobaleni.Saluterà la terra.Ciò che lui ha detto ha fatto. Così è scritto.Lascia cadere paroleun uomo vecchio alle spalle le raccoglie piangendo.Sul nome di antichi poeti le rovine edifi-cano pietre edifica il tempo.Oggi piove.È sereno.Il mese sereno crudelescioglie le montagne del tempo, il fiume èneve.In quell’estate i giorni con pause impenetrabili.Racconta per telefono notizie della guerraera

Da L A PARTITA DI CALCIO

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Perché cadi, vento d’estate ? Vento del sole. Vento d’estate.Il giocatore di calcio dice: alcuni portanonel nome il proprio destino.Prima che il mondo ci lasci (o ci abbandoni)riuscirò a raccogliere qualcheframmento di paroleper capire le obiezioni degli amiciil rumore degli anni, queste ultime avventure.

 All’inizio del ’99ho raggiunto la grotta dei miei pensieriprima era pianto poi lunghi respiriperderemo la virtù d’amore

se la partita non sarà terminatacon un tiro preciso nel momento dell’attesa.Le gradinate vuote la gente dispersasolo la prossima gara riempirà questa patriadi bandiere. Voci. Le voci coprono l’acqua di molta alle-

griasono voci lontane.

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Dice il signor D’Aubigné l’uomoinvecchia invecchiando pensa brevi parolepoche parole dice l’uomo che invecchia è curvosono parole di pietra o il fumodi un qualche incendio che si va spegnendo.Il giocatore di calcio dicela sera della finale di Coppal’anno che uccisero Kennedy spararono a Kennedy il pallone volavacorrendo vedevo il pallone bianco come il viso dell’ultimo sogno nella terra dei mangiatori di lotooggi con il signor D’Aubigné galoppo per la brughierStrane storie accadono in questi annilaggiù vedo la polvere di una zuffa o uno scontro di

 A entrambi è sorto in questo momento dal cuoreun grande desiderio di pianto.

(Nota: Gli ultimi due versi presi dall’Odissea)

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Il volo nello spazio con le parole di carta e l’inchiostro la farina del diavolo.Ritorno a casa trovola siccità di quest’annola terra nel veleno di crepe

 – quando c’è il sole quando la notte non viene.Il mondo nasconde le rovinedentro vulcani di silenzio, i boschigridano nei boschi prima di scomparire.

È ancora da vedere se la povertà di ieriera più triste della ricchezza esplosapolvere di ghiaccio tra le pietrein questi giorni rassegnati a un piccolo destino.Il pane che l’Europa tocca muore.Il viaggio così finisce. Il cavaliere così si allontana.Mi rifiuto di sottoscriverequalsiasi forma di pattocon il diavolo. Mani di uomini neristrisciano le lamiere arrugginite.

48 (211)Bestiario e timido erbariocon foglie e fronde.Cade l’anno comincia il secoloo sembra cominciare.Fuochi sui monti nei campi sopra i coppi della cittànell’ombra di una camerettaaspettando l’inverno che non viene.

Roberto Roversi / Poesia al fuoco della Storia 

7/17/2019 Roberto Roversi

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Sulla piazza le orme dei giovani che non sannoancora camminarema con la mente viaggiano per la Spagnapecore enormi guardano i fulmini caderesulla mano di un sangiovanni bianco davanti la chiesa.Quanto c’è da fare perché una poesia sia una poesianon solo correggere ma anche camminare.È impossibile. Silenzio. Disse: “Signore, si può accomo-

dare”.Il sole di luglio tendeva il piedecercava fra le ginestre la serpe verdolina.“È vero che nessuna l’amava?”.La stagione portava piccoli pesci verso la libertà della ca-

scata –ma non era vacanzagli indios scomparivano con la giungla o si adeguavano

ai bianchi.Il sonno comincia non con il silenzioma con la violenza dell’amore

 voglio essere ferito da un fulmine,non accarezzato dalla prima pioggia d’aprile.

Piena di voci e fantasmiquesta storia ha avutouna notevole risonanza.Fu ascoltata da tanti che la raccontarono poi.

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DOVE I NEMICI DI UN TEMPO?dove gli uomini dalle lunghe barbe con le alte spadee gli occhi forano il cielo lanciando le fiamme?

Oggi erra l’ombra dei topifra le foglie che neanche l’autunnochiama più con amore.Dice il signor D’Aubigné sono queste le meraviglie?Solo un vecchio può essere colpito al cuoreda un colpo di fucile?Non abbiamo più nemicisiamo uomini spenti.Che vita è questa?

Immanuel Kant muoresospendiamo la partita dice il signor D’Aubignésospendiamo il gioco delle ombre

oggi sotto lo striscione d’arrivo cadiamo nell’eternità.Chiedo alle rondini di tornarese viene meno la speranzasia chiara l’attesasia giusto l’ordine di migrare.

Inediti

Da L’ITALIA SEPOLTA SOTTO LA NEVE(Parte terza, vv. 2516-2622)

Nota

 Del lungo testo, di cui questi versi sono parte, due soli sono i

tagonisti: la signora Mirella Silocchi, rapita nel luglio del

imbucata martirizzata poi uccisa in un bosco dopo un tr

 glio feroce, qua in Emilia, e l ’astronauta russo dimentic

quasi abbandonato nello spazio dove orbitava, al tempo d

caduta di Gorbaciov. Essi, nel precipitare degli eventi, mon

 gano senza interferire, mentre il destino scivola come una

vina verso la morte.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . Attenti a parlare ascoltare anche a cantare ma iochiamato in caverna dalla pazienza vecchia del mond

La terra è una vacca ubriaca di sale di mielesi completa si squarcia si evolveascolta crocchiare i cannoni le foglie d’autunno sui racontempla il danno si adegua alla gravità dell’eventodifende l’ultimo fuoco l’ultimo ghiaccio l’ultimo gridod’amore.Ma io non ero ancora nato io eil linguaggio correva via con le gambe di vetrogridavo al topo: dove sei? Aspettami! Diventa un re!non ripartite al segno della piccola lunalasciando me nell’ombra di una terra immortale.Tutto l’inverno ho navigato nello spazioè venuta primavera piena di selve

continuo il mio viaggio sulla nave chedalla luce conduce alla lucedalla luce come una piuma mi scarica alla nottesono un vagone disperso in una stazione di frontier

Patagonia manon posso lamentarmi perché sono solo – eronello spazio che non ha vocee tacevopercosso dal peregrinare degli astri coi piedi di velluil loro percorso di guerra è vicino alla schiena di dio nuvole irate.

 Ascoltate! Ascoltiamo. Il loro tamburo. Combattetegentiluomini di Russia questa ultima battaglia

meglio morire sul campo che andare erranti incalzauna gloriache la vita rende arlecchina. Ascoltate!Sproniamo i cavalli del cielo cavalchiamo nel sangue

 Ascoltate! Cavalchiamo cavalchiamo nel sanguela paura del cielo che strappa manciate di stelleoscura la voce un abbraccio di gelido fuoco poi sile

e silenzio

Roberto Roversi / Poesia al fuoco della Storia 

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solitudine antica – la terra è nel vento di foglie strappateuna morte è in corsole onde uguali si sciolgono gridando vendetta.Forse è la morte annunciata del nostro pianeta?Morire da straniero comei profughi sulle barche vaganti fra tormenti e l’arsura?Non un mondo di eguali tracotanti mauomini e donne uomini e donne diversi e l’alberodella libertà sferzato da gelate non vintonella battaglia.Tornerò. Io ritorno attraverso il cuore della mia terra na-

taletocco il cielo coi miei capelli sedutoho i piedi sopra la testa del mondopenso alle piccole cose risparmio le oreoltre l’oceano sento il respiro di un amico che dorme.Coraggio, la festa dell’uomo è in arrivol’orma dei piedi è sospesa sopra i millenni.Sono stimolato, egli dice, dall’attesa di una vocetracce d’oro sulla sabbia di un fiume che corre nel cieloimmergo le mani nel cuore della terra profonda

essa perduta in un cammino senza tramontosi quieta nella tempestapunisce le città acquattate come cinghiali nel boscocome ragazze caute esaltate fra la polvere della memoria.Una luce impazientesi presenta suona alla porta nel primo verde del giornosi guarda intorno annuncia il destino di un uomoassassinato nel buio.Domando se ancora piovevala notte in cui re Teodorico è stato sepoltonel fiume Busento e se la notte pioveva campane o spa-

 ventopoi ho raggiunto l’America

l’America che è sempre lontana. Così i giorni scadono viaugualie albe uguali e tramonti velocile erbe scoppiano al morso di un insettogorghi d’acqua fremono nella gola degli uccelli sui raminere piume straziano nubi conficcate nell’ariaosservano i fiumi bruciare e le rive desertechiamare chiamare. Ah! lecanzoni di Dalla un tempo s’alzavano dai praticome trottole lanciate dai bambini.Orsi risalire montagnel’odore del pelo bagnato di neve e di mieleombre di pellegrini con fiaccole

sui sentieri dei boschifra ossa di animali uccisi dal gelo impietosoanche la natura è caduta prigioniera del sonnonessuna primavera rasserena la voce delle fiabefra i tizzoni fradici d’inverno.La natura del sonno sfugge dunque a se stessacome belva si rintana dentro caverne.

 Ancora. Gemme del cielo invernale nel cielo invernalespunta la primavera italiana errabonda

insiste gemma invernale insiste insiste laprimavera non solo italiana e gli applausi

 volo d’ombre trapassate trafittedalla freccia di Diana volante urlante cantante. Altro

 vedo.Non so altro. Brilla di magnitu-dine 1,6 Bellatrix (gamma Ori) un gigante bludistante 360 a.l. lo tocco con la mano sinistra ebrucia brucia anche se è dalla parte del cuore nonmi lascia partire trattiene la corsa la nebulosa d’Orionqua perduto in uno spazio che il mio occhio non vedsopra le città giganti della terraunificate da una pietà senza straziosolo gli occhi cavati ai giovani soldatile giovani donne sgozzate nudesolo le mani tagliate ai vecchi davanti alle case infuocsolo frecce sul petto delle bianche bambine coperte

carbone maiaccesosolo raffiche raffiche raffiche nella schiena dei ragaz

che ridono

fra luci di carnevale eguardando i vecchi bagnati di sangue scendere a terrsi addormentano lasciando la vita sorpresi.

Da L’ITALIA SEPOLTA SOTTO LA NEVE(Parte quarta, Le trenta miserie d’Italia)

IV.

Miseria delle miserie la quarta miseria d’Italiasono le miserie stabili con la spada del dubbiola pianura dei barbari i barbareschi sui mari latua Roma brucia la maledizione consuma le pietre.Non voglio ascoltare l’altoparlante chiamare tre voltela signora di Stoccardao la madre gridare al bambino che è l’ora di cenaoggi non vedo il cucciolo del pastore abruzzese sul pstringersi al vecchio cane che sopporta ogni morso.Quando è notte l’ora del sonno sogna.Con la spada del dubbiointerrompo il cammino da oscurità a oscuritàchiedo l’ora d’aria

per svegliarmi dal sonno dubitare un pocoagguantare la mano del mondo non affondarenella micidiale tempesta che tritura i cuori.Da oscurità a oscurità solo una foglia può raccontarel’ordine delle foglie che cadonoma il riscontro degli opposti è un giuoco chefa incendiare le cime d’Olimpo percosso da rissedegli dei che sono inquieti in amore.I motivi d’indignazione

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uno per uno i motivi dell’attesaascolto vocaboli in una lingua mai parlata dall’uomo.Parlare continuare a parlare senza sapere come parlarescrivere continuare a scrivere senza sapere come scriverepensare continuare a pensare non sapendo cosa pensa-

re econtinuare a voler sapere senza sapere che cosa sapere.Nel corso della giornatasi disfano le montagne le nuvole delle paroleinseguono messaggi erranti senza tregua.Come rispondere alle domande del fiume che custodiscei cadaveri dei nemici?La risposta è nella stanza degli ospiti ad accendereil fuoco.Toccheremo domani il termine di questa primaavventura.

 V.

La miseria d’Italia numero cinque una nuvola

molto bianca una nuvola biancacalando all’improvviso molto bianca – biancaha divorato il gatto steso grigio in un sole autunnaleguardava la gente passare e la gentenella sottostante strada dentro il traffico domenicale.

 Via la nuvola il gatto l’ha stretta fra i denti ciabattandofurtivacome la scia di una nave che si addentra cauta nelporto lasciando le onde grandi del mareio vedo come accadono le cose fiorite o sfioritesono lacrime di una piccola suora diseredatama so che cavalco sulla lama della spadatagliente e la luce sanguina.

 Anche la foglia nell’aria non ha più speranza di vita.Mi domando dove trovare il tempo sapere negli anni chedurano un giornoper continuare lo scavo dentro la terra di sassi e toccarela buona radice del pioppo sovranotutto è livellato oramai piallato appiattito.Sovrana la solitudine della grande campagna conducela danzal’uccello nero cala gridando sul solcoper il terrore della navicella spaziale che fulminal’aria tracciando ferite di giallo.Milioni di chilometri e Giotto il pittore divinosi muove fra le pecore dello spazio

tocca gli astri non si brucia le manipotrà dipingere ancora il mondoricordare il buio di dioriconoscere l’occhio dell’uomo da quello della serpe.Invadere col fuoco l’infinito così lieto e vicinosenza bruciarlo.

 XII.

La miseria della misera Italia numero dodicila testa in fiamme la sterpagliadella festa dei pensieri paglia cheavvampa brucia fra braci di fumo.Si consumano notizie mescolate al ricordodi vecchie etàl’armamentario sul carro della vita in corsaè spazio di fresca primavera.

 Altrove polvere sollevata dall’auto nella strada di camgna

odora di mele mentre il merlo s’allontanastride forte a filo dell’erba lungo il maresiepi siepi siepi di oleandri abbandonati epini scavezzati dai venti secolari camminano a terra.Può la morte ordire il suo acuminato massacroridurre in cenere il delfinoil vascello in fuocola sovrastante nuvola in ciclone etravolgere la vita?

Il fervore trascinato in gorgol’esistente in un attimo è scomparsogiovinezza è il ricordo poi sull’occhio ottusodel cielo interminabile di tettie alla fine dimenticare la tombadei vecchi eroi?Quante primavere gli uomini fuggitiviabbandonano alle giovani ali che arrivano portate dagarbino?Si può considerare l’opportunità di non rassegnarsibruciare il carro del vincitoreanche le nostre bandiere.Per favore.