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Periodico di Ateneo Anno XIV, n. 2 - 2012 REPORTAGE. IN EQUILIBRIO PROVE DI DECRESCITA Ricchezza e povertà Serge Latouche L’economia civile Ateneo eriodico di P Ateneo Anno XIV, n. 2 - 2012 Anno XIV, n. 2 - 2012

Roma 3 news DECRESCITA SERENA

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"Il gioco vitale della Decrescita Serena". Bia Simonassi, 2012. Pagine centrali (36 e 37).

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Periodico di AteneoU Anno XIV, n. 2 - 2012

REPORTAGE.

IN EQUILIBRIOPROVE DI DECRESCITA

Ricchezza e povertà

Serge Latouche

L’economia civile

Ateneoeriodico diP Ateneo Anno XIV, n. 2 - 2012 Anno XIV, n. 2 - 2012

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Periodico dell’Università degli Studi Roma TreAnno XIV, numero 2/2012

Direttore responsabileAnna Lisa Tota(Professore straordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi)

CaporedattoreAlessandra Ciarletti

Vicecaporedattore e segreteria di redazioneFederica Martellini [email protected]

RedazioneUgo Attisani, Gaia Bottino, Valentina Cavalletti, Gessica Cuscunà, Paolo DiPaolo, Irene D’Intino, Indra Galbo, Francesca Gisotti, Elisabetta Garuccio Nor-rito, Michela Monferrini, Monica Pepe

Hanno collaborato a questo numeroBenedetta Calandra (ricercatrice in Storia e istituzioni delle Americhe, Univer-sità degli Studi di Bergamo), Danilo Campanella (laureato CdL in Filosofia),Francesca Cantù (professore ordinario di Storia moderna - Preside della Fa-coltà di Lettere e Filosofia), Claudia Morgana Cascione (assegnista di ricercain Diritto privato comparato), Margherita Colangelo (ricercatrice in Diritto pri-vato comparato), Riccardo Crescenzi (Università degli Studi Roma Tre e Lon-don School of Economics), Giorgio De Vincenti (professore ordinario di Cine-ma, fotografia e televisione - Direttore del Dipartimento di Comunicazione espettacolo), Gianpiero Gamaleri (presidente Adisu Roma Tre), Massimo Mari-no (professore a contratto di Promozione e informazione teatrale presso il Di-partimento di Musica e Spettacolo dell’Università degli Studi di Bologna - au-tore del blog Controscene, Corriere della Sera Bologna), Francesco Mauro(L’Astrolabio - Amici della Terra), Luca Passi (studente CdL in Ingegneria civi-le), Tonino Perna (ordinario di Sociologia economica, Dipartimento DESMaS,Univeristà di Messina), Giulia Pietralunga Cosentino (CdL In Informazione, edi-toria e giornalismo), Laura Pujia (tutor Master ASP e PhD candidate), MatteoSpanò (studente CdL in Informazione, editoria e giornalismo), Elisabetta Tosini(laureata CdL Teorie della comunicazione), Stefano Zamagni (professore ordi-nario di Economia politica, Università degli Studi di Bologna)

Immagini e fotoFrancesca Gisotti, Green Belt Movement©, Leticia Marrone©, Andrea Martiradon-na©, Martin Rowe©, Stefano Vaja©, Andrea Vanni, www.windoweb.it, www.eco-baleno.wordpress.com

Un ringraziamento speciale a Bia Simonassi che ha ideato e disegnato per noi ilGioco della decrescita, pp. 36-37(www.freeyourideas.net - http://treebookgal-lery.blogspot.it - http://theprojectlabshow.blogspot.it/)

Progetto graficoMagda PaolilloConmedia s.r.l. - Via Ippolito Nievo, 62 - Romawww.conmedia.itIl progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico

Impaginazione e stampaTipografia Gimax di Medei MassimilianoVia Valdambrini, 22 - 00058 Santa Marinella (RM) - tel. 0766 511644

In copertinaFunambolo a Concarneau. Foto di Andrea Vanni

Finito di stampare ottobre 2012

ISSN: 2279-9192

Registrazione Tribunale di Roma - n. 51/98 del 17/02/1998

SommarioEditoriale 3

Primo PianoRicchezza e povertà 5Uno sguardo storico ai cicli delle società umanedi Francesca Cantù

L’economia civile 9Perché la decrescita non è la soluzionedi Stefano Zamagni

Eventi estremi 12Decrescere per salvarci dalle tempeste climatichee finanziariedi Tonino Perna

Istantanee sulla diversità culturale 14I valori della decrescita nella produzionecinematografica internazionaledi Giorgio De Vincenti

Le vie della crescita 17Non solo ponti e strade per conciliare sviluppoe coesione di Riccardo Crescenzi

Decrescita e senso dei luoghi 20Esperienze didattiche internazionali per una possibilevalorizzazione del patrimonio culturaledi Laura Pujia

Pentole comuni 22Risposte creative alla fame: organizzazioni popolari inAmerica Latinadi Benedetta Calandra

Transition towns 24Come la decrescita può trasformarsi in realtàdi Valentina Cavalletti

Occupy Wall Street 26Se il sogno americano non è più una possibilitàdi Michela Monferrini

L’anello mancante del capitalismo 29Muhammad Yunus e la rivoluzione del microcreditodi Elisabetta Tosini

Earth Summit 2012 31L’insuccesso di Rio + 20: un obiettivo insostenibile di Francesco Mauro

I figli di un uomo sono i figli di tutti 35Il manifesto per l’economia umana compie quarant’anni:gli ammonimenti di Nicholas Georgescu-Roegendi Michela Monferrini

Il gioco vitale della decrescita serena 36di Bia Simonassi

La terra vista dal cielo 38L’arte come strumento di salvaguardia del pianetadi Francesca Gisotti

La donna che piantava gli alberi 40Wangari Maathai e il Green Belt Movementdi Gaia Bottino

Fare pace con la terra 42L’attivista indiana Vandana Shiva racconta l’unico veroconflitto attuale: la guerra di tutti contro il pianetadi Michela Monferrini

L’economia della sopravvivenza 44La proposta di Ernst Friedrich Schumacher di Danilo Campanella

IncontriSerge Latouche. La sfida della decrescita 45di Federica Martellini

Olivier Malcor. De - crescere con il Teatro 48dell’Oppressodi Valentina Cavalletti

Dipak Raj Pant. Se la crisi è un’opportunità 52di Federica Martellini

ReportageTutta la piazza gridò: «Non voglio morire!» 56Il Mercuzio della Compagnia della Fortezzadi Massimo Marino

RubrichePopscene 60Ultim’ora da Laziodisu 61Non tutti sanno che… 62

RecensioniTutta la realtà è relazione 63Una giornata di studio su Raimon Panikkardi Giulia Pietralunga Cosentino

Città dell’altra economia 64Memorie del territorio e ricerca di un futuroecosostenibiledi Francesca Gisotti

Il guardiano della foresta 65Lorax alla ricerca di un vero alberoche ci ricordi chi siamo di Matteo Spanò

Rwanda: 18 anni dopo 66Ciò che l’occhio ha visto il cuore non dimenticadi Gaia Bottino

Storia e memoria nel prisma del diritto 68Ricostruire il passato per costruire il futurodi Claudia Morgana Cascione e Margherita Colangelo

Ischia Film Festival 69Quando lo spettacolo è il territoriodi Francesca Gisotti

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Nella Filosof iadel denaro (1900)Georg Simmel ciricorda che la scar-sità di un determi-nato bene contri-buisce a fondarne ilvalore economico.In altri termini, se-condo il sociologotedesco, non sareb-be vero che ciò cheha più valore èscarso, ma sarebbevero il contrario,cioè che ciò che è

scarso ha più valore. Questa prospettiva – offertadalla riflessione sociologica – mette, almeno in parte,in discussione il fatto che i beni abbiano un valore insé e riconosce le dinamiche sociali che rendono pos-sibile la formazione del valore economico. La lezio-ne simmeliana può essere un utile punto di partenzaper ragionare insieme sulle sfide poste dalla filosofiadella decrescita. Questo numero di Roma Tre News,infatti, è interamente dedicato alla filosofia della de-growth, alle “altre economie” e ai cambiamenti diparadigma che esse auspicano.

Nelle società contemporanee il concetto di scarsitàsembra essere intimamente connesso sia con il con-cetto di valore (se tutto ciò che è scarso ha valore, nederiva che tutto ciò che ha valore debba essere ne-cessariamente scarso), sia con quello di sviluppo illi-mitato. Infatti, il paradigma di uno sviluppo progres-sivo delle risorse implica il riconoscimento di un’in-sufficienza di sviluppo nella situazione presente, cioèil riconoscimento di una situazione di scarsità nel“qui ed ora” che diviene la molla in grado di giustifi-care la necessità di un maggiore sviluppo nel prossi-mo futuro. La scarsità si rivelerebbe dunque essere illato nascosto ma necessario dello sviluppo continuo.Nell’equazione “sviluppo = benessere” occorrerebbeintegrare anche questo aspetto. Nella contemporaneità il modello di sviluppo cre-

scente comporta come conseguenza consumi cre-scenti. Se continuiamo a produrre automobili, telefo-nini, computer, oggetti d’arredo, abiti, scarpe, etc., ènecessario poi che qualcuno acquisti tutti questi og-getti che ci vengono offerti per le strade, nelle vetri-ne dei negozi, nelle immagini pubblicitarie, nei dis-corsi quotidiani. Ma quante paia di scarpe, borse evestiti potremo in una vita mai indossare? Quante au-tomobili per famiglia avremo bisogno di possedere equanti cellulari ci servono per comunicare con il re-sto del mondo? Non vi è mai capitato di guardare tut-ta questa merce che ci viene continuamente offerta edi provare un’ondata di sazietà e di disgusto, comedopo un pranzo “troppo” abbondante? Con tutte lepaia di scarpe che possediamo dove mai potremo an-dare? La crisi economica che attraversiamo ha pro-dotto la quadratura del cerchio, perché improvvisa-mente non ci sono più le risorse economiche per ac-quistare tutti questi beni, da cui è sembrato per un at-timo lungo decenni che dovesse – o almeno potesse– dipendere la nostra felicità. E allora che fare? Perla prima volta la macchina della felicità si è inceppa-ta, il consumismo non è più una strada praticabile.Ce lo dicevano in molti, già da decenni, parlando deidanni ambientali che lo sviluppo crescente implica-va. Lo spettro dell’insostenibilità di questo sviluppogià aleggiava fra noi, ma si trattava di un’insostenibi-lità ambientale e quindi potevano continuare a igno-rarla. Ora all’insostenibilità ambientale si è aggiuntauna insostenibilità di tipo economico e questo cam-bia tutto. Il dato più interessante di questo modelloriguarda proprio il concetto di scarsità, di cui parlaSimmel. Infatti, nella prospettiva dello sviluppo illi-mitato (ed anche insostenibile) il focus della nostraattenzione riguarda ciò che non c’è. È il riconosci-mento della scarsità ad alimentare la macchina deiconsumi. Paradossalmente pur avendo così tanto, ad-dirittura troppo, continuiamo a soffermare la nostraattenzione su ciò che non abbiamo ancora, ma cheforse potremmo avere e che quindi potremmo acqui-stare. Che cosa succede se, seguendo i suggerimenti

di alcuni antropologi, filosofi, psicologi e sociologicome Nicholas Georgescu-Roegen, Serge Latouche oErnst Friedrich Schumacher proviamo a sovvertirequesta prospettiva? Succede un fatto alquanto singo-lare: usciamo dalla logica dello sviluppo illimitato,ma al contempo anche dalla logica della necessità di

La rivoluzione dell’abbondanza Appunti per una filosofia della decrescita

di Anna Lisa Tota

Anna Lisa Tota

Nelle società contemporanee il concettodi scarsità sembra essere intimamente

connesso sia con il concetto di valore (setutto ciò che è scarso ha valore, ne derivache tutto ciò che ha valore debba essere

necessariamente scarso), sia con quello disviluppo illimitato

La scarsità si rivelerebbe dunque essereil lato nascosto ma necessario dello

sviluppo continuo

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un consumo illimitato. Usciamo così miracolosamen-te anche dalla logica della scarsità e ci troviamo ma-gicamente in una prospettiva di abbondanza. In altritermini potremmo scoprire che ciò che abbiamo già,è moltissimo e che non ci servono altre scarpe, altrivestiti, altre case, altri soldi, altre automobili, altri te-lefonini. Ne abbiamo già tantissimi e, ancora meglio,la qualità della nostra vita può essere indipendentedalla quantità di beni che possiamo consumare.

In un bel libro intitolato Limite (2012) Serge Latou-che richiama l’utilità sociale e la necessità morale diriconoscere il limite. Il filosofo della decrescita pereccellenza ci rammenta come il concetto di hybrisnell’antica Grecia si riferisse proprio a coloro chenon possono riconoscere il limite e accettarlo. Il li-mite è morale, economico, sociale e politico ad untempo. Una società che non si confronta con i limitiè destinata all’autodistruzione. Cornelius Castoriadis(2008) afferma significativamente a questo proposi-to: «Abbiamo bisogno di eliminare questa follia diespansione senza limite, abbiamo bisogno di un idea-le di vita frugale, di una gestione da buon padre difamiglia delle risorse di questo pianeta».

Abbiamo bisogno anche di ripensare al nostro con-cetto di benessere economico e a quello di denaro.

Che cosa rappresenta per noi il denaro? Possiamoprovare a pensarlo in modo diverso? Il denaro puòessere visto come una forza, come una forma di ener-gia circolante nel mondo che può portare benessere amolti, se ben impiegato? Il denaro che abbiamo inmente è un fattore di esclusione o di inclusione so-ciale? In altri termini, unisce o divide? Genera felici-tà oppure sofferenza? In questo quadro di riflessionesulla decrescita felice penso sia utile aggiungervi unariflessione sul potere del denaro come forza beneficae “normale”. Quest’opera dell’artista-architetto Sil-via Makita, che si ispira alla Regola di San France-sco, si intitola Quando la moneta diventa coriandoloe ci rammenta che gioiose e leggere come i coriando-li le monete possono circolare nel mondo e persinodiventare pezzi di arredo urbano …

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La crisi economica che attraversiamo haprodotto la quadratura del cerchio,

perché improvvisamente non ci sono piùle risorse economiche per acquistare tutti

i beni, da cui è sembrato per un attimolungo decenni che dovesse – o almenopotesse – dipendere la nostra felicità

Paradossalmente pur avendo così tantocontinuiamo a soffermare la nostraattenzione su ciò che non abbiamo

ancora. Ma che cosa succede seproviamo a sovvertire questa

prospettiva? Succede un fatto alquantosingolare: usciamo dalla logica dello

sviluppo e del consumo illimitati.Usciamo così miracolosamente anche

dalla logica della scarsità e ci troviamo inuna prospettiva di abbondanza

Quando la moneta diventa coriandolo: l’opera è stata realizzata in piazza XXIV Maggio a Milano il giorno 23 giugno 2012. Ringraziamol’artista Silvia Makita e il fotografo Andrea Martiradonna per aver concesso a Roma Tre News la pubblicazione delle foto.

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Ricchezza e povertàsono due termini, con-cettuali e fattuali, cheindicano due realtà edue condizioni di vitaassolutamente antino-miche, antiche quantola comparsa dell’uomosulla terra, consideratoquest’ultimo nella suasingolarità personale enelle sue organizzazio-ni sociali, dalle più ru-dimentali alle più evo-

lute. Nella percezione diffusa e intuitiva del mondoeuropeo-occidentale moderno, che si esprime nellinguaggio corrente, ognuno dei due termini si ac-compagna ad altri, che tendono a qualificarlo e arenderlo esplicito: così la ricchezza si certifica an-che come possesso, potere, abbondanza e benesse-re; la povertà, invece, come spoliazione, marginali-tà, penuria e deprivazione. Entrate a far parte del-l’apparato concettuale delle scienze sociali, natecon l’Età moderna (XVI sec.) e fiorite dall’Illumi-nismo ai nostri giorni, le due parole – ricchezza epovertà – pur nella loro semplicità e immediatezzanon godono di una definizione univoca e condivisada economisti, sociologi, filosofi e moralisti. Le di-verse accezioni dei due termini sono tributarie deicontesti psicologici, ideologici, culturali e religiosi,

politici e istituzionali, che hanno caratterizzano neltempo le diverse società dell’Europa e dell’Occi-dente. Nel Medioevo, sulla scia di una radicalitàevangelica che ha avuto in Francesco d’Assisi ilsuo più alto esempio, la povertà fu considerata an-che un valore morale e spirituale, un mezzo di libe-razione dall’assoggettamento all’avidità, alla pas-sione del possesso, che ottenebrano l’animo umanoe lo rendono insensibile all’ingiustizia sociale. Findalla rivoluzione dei prezzi conseguente alla sco-

perta dell’America, l’impoverimento di grandi mas-se della popolazione e l’aggravarsi dei conflitti so-ciali, che accompagnavano i primi stadi del capita-lismo, posero filosofi e uomini politici di fronte alproblema della povertà come al maggior problemasociale dell’Età moderna. Ci si chiedeva come lasocietà avrebbe potuto eliminare l’accattonaggio,combattere la disoccupazione, arrestare il vagabon-daggio, contenere i comportamenti criminali, chevenivano naturaliter attribuiti ai poveri ed eranoconsiderati diretta conseguenza della miseria e dellapovertà oziosa. Nella nuova società urbana, che na-sce e s’incrementa in questo periodo storico, argina-re e combattere la povertà diventa uno dei primicompiti dei governanti, anche perché – consideratauna colpa, un vizio, e condannata dallo “spirito” delcapitalismo che fiorisce nei paesi protestanti delnord Europa – la povertà suscita disprezzo e paura,viene vissuta dagli abbienti come una continua mi-naccia all’ordine sociale. Mentre si comincia ad in-terrogarsi sulle cause che la generano e sui mecca-nismi che la alimentano, la necessità di fornire imezzi di sussistenza ai diseredati è all’origine dellepolitiche assistenziali, che lo Stato moderno, accan-to alle istituzioni ecclesiastiche, ma progressiva-mente anche in loro sostituzione, tenta di mettere inopera. Le Leggi sui Poveri, che l’Inghilterra ha co-nosciuto dalla regina Elisabetta I fino alla Rivolu-zione industriale, rappresentano un quadro normati-vo esemplare (ancorché discusso) nell’evoluzione

Ricchezza e povertàUno sguardo storico ai cicli delle società umane

di Francesca Cantù

Nel Medioevo, sulla scia di unaradicalità evangelica che ha avuto in

Francesco d’Assisi il suo più altoesempio, la povertà fu considerata ancheun valore morale e spirituale, un mezzo

di liberazione dall’assoggettamentoall’avidità, alla passione del possesso,che ottenebrano l’animo umano e lo

rendono insensibile all’ingiustizia sociale

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Francesca Cantù

I tre stati: clero, nobiltà e borghesia. Le tre classi privilegiate cheopprimono il popolo in una caricatura anonima del 1789

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sociale dell’Europa moderna. La polarizzazione fraricchi e poveri è ben visibile anche a livello architet-tonico: nelle città come nelle campagne, si affianca-no e si contrastano i palazzi e i castelli nobiliari daun lato, le casupole e le capanne della plebe urbana erurale dall’altro. Nel 1478, di fronte all’incalzare del-

la peste, un magistrato mantovano scrive che in cittàc’è una popolazione di 9000 bocche «de la qualesenza dubio glie sono quattromila de poveri senzamodo de viver». Alla fine del Medioevo le città con-tano spesso non meno del 20% di poveri nei tempinormali, che salgono fino al 45% in tempi di crisi;strutture caritative e assistenziali cercano di arginareil problema. Nell’Europa preindustriale, dove la terracostituisce il principale fattore di produzione, i con-tadini sono circa l’80% della popolazione. Vivono diun’economia di sussistenza; nelle campagne – a dif-ferenza delle città dove operano con crescente suc-cesso le società dei mercanti e le banche appena co-stituite per supplire alla mancanza di moneta circo-lante e ospitare le nuove ricchezze che nasconodall’accumulazione capitalistica – lo scambio dei be-ni è ai livelli minimi e la moneta scarsa. Le servitùfeudali sono gravose, la produttività della terra è so-spesa alle vicende climatiche e il reddito agricolo deipiccoli proprietari terrieri e dei salariati agricoli è

continuamente minacciato da tre eventi catastrofici:le guerre, le epidemie, le carestie, che incidonodrammaticamente sulla povertà strutturale di larghemasse, come mostrano le ricorrenti crisi economichee demografiche che attraversano gran parte del XVIIsecolo. Nella società cetuale dell’Antico Regime, lagrande nobiltà e l’alto clero rappresentano i maggioridetentori della ricchezza, in prevalenza provenientedalla rendita agraria prodotta dalla grande proprietàterriera. Impersonano il mondo della ricchezza e delprivilegio, cui si avvicinavano artisti e intellettuali incerca della fama poiché le grandi opere si realizzanoin virtù del mecenatismo dei signori laici ed ecclesia-stici. Partecipano al mondo del potere e del lusso,manifestando la preminenza del loro ruolo socialemediante consumi suntuari e improduttivi, sia gli uo-mini di governo e gli alti funzionari che vivono la vi-ta delle corti reali e principesche, sia la nascente bor-ghesia (professionisti, imprenditori, mercanti) chemira a sancire la propria ascesa sociale adottando ivalori, i comportamenti e i consumi del ceto aristo-cratico. La povertà, che devasta le campagne e si an-nida nei ghetti urbani dei diseredati, suscita tumulti erivolte lungo tutta l’età moderna e alimenta una delleanime della Rivoluzione francese, che si esprime nel-l’assalto dei contadini ai castelli feudali e nelle insur-rezioni cittadine contro l’insopportabile aumento delprezzo del pane. Dal XVIII al XIX secolo, però, larivoluzione agricola e la rivoluzione industriale cam-biano il volto economico-sociale e culturale dell’Eu-ropa e dell’Occidente, mutando anche l’aspetto tradi-

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Dal XVIII al XIX secolo la rivoluzioneagricola e la rivoluzione industriale

cambiano il volto economico-sociale eculturale dell’Europa e dell’Occidente,mutando anche l’aspetto tradizionalecon cui ricchezza e povertà si erano

manifestate fino a quel momento

Due scatti del fotografo e giornalista Jacob August Riis: le sueinchieste fotogiornalistiche denunciavano le condizioni di indi-genza dei ceti popolari, soprattutto immigrati, nella New York difine Ottocento

Nella nuova società urbana arginare ecombattere la povertà diventa uno deiprimi compiti dei governanti, anche

perché, considerata una colpa econdannata dallo “spirito” del capitalismoche fiorisce nei paesi protestanti del nord

Europa, la povertà suscita disprezzo epaura, viene vissuta dagli abbienti comeuna continua minaccia all’ordine sociale

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zionale con cui ricchezza e po-vertà si erano manifestate ederano state vissute fino a quelmomento. Molti sono i fattoriche innescano e rendono possi-bile questo cambiamento epo-cale: la straordinaria crescitademografica, già delineata nellaseconda metà del XVIII secolo;il progredire delle conoscenzescientifiche, che rende disponi-bili nuove fonti di energia conl’applicazione di nuove tecni-che ai processi produttivi, l’au-mento del reddito che ne conse-gue. Le fabbriche modificano

l’aspetto e le condizioni di vita delle città, che cono-scono nuove forme di ricchezza e di povertà, là dove

si rende evidente la polarizza-zione tra i possessori del capi-tale industriale e la forza-lavo-ro costituita dal mondo operaio,fatto anche di donne e bambini:sfruttati e sfruttatori, secondo inuovi termini che vengono co-niati per esprimere il conflittosociale sottostante. Nonostantele poderose contraddizioni edisuguaglianze comportate dal-la distruzione della societàagraria tradizionale e dal bassolivello dei salari, che accrescela rendita capitalistica, nella so-cietà industriale della seconda

metà dell’Ottocento e del Novecento si assiste a unaprogressiva presa di coscienza che la disuguaglianzadei diritti effettivi, testimoniata da ricchi sempre piùricchi e da poveri sempre più poveri, non soltanto ècausa di un indebolimento delle istituzioni e di unblocco della loro evoluzione in senso democratico,ma non consente a una parte importante della popo-lazione di partecipare agli effetti dello sviluppo, co-stituendone anzi un freno. A partire dalla metà delXIX secolo la tendenza al miglioramento delle con-dizioni di vita delle masse operaie appare evidente,anche come risultato delle lotte sociali, dei progressinell’organizzazione sindacale e, insieme, dello svi-luppo economico generale. Oggi, però, la crescitaeconomica, che pure era riuscita a rilanciarsi supe-rando crisi gigantesche del sistema-mondo comequelle del 1929 e delle due terribili guerre mondialidel XX secolo, si scontra con una drammatica inver-sione di tendenza, che pone l’Europa e tutto l’Occi-dente di fronte alla drammatica necessità d’interro-

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Oggi, la crescita economica, che pureera riuscita a rilanciarsi superando crisi

gigantesche del sistema-mondo comequelle del 1929 e delle due terribiliguerre mondiali del XX secolo, si

scontra con una drammatica inversionedi tendenza, che pone l’Europa e tutto

l’Occidente di fronte alla necessitàd’interrogarsi profondamente sui limiti

dello sviluppo e di quell’ideologia delprogresso, che tanta parte ha avuto nel

disegno e nelle dinamiche dellamoderna società industriale

Amartya Sen, premio Nobel per l’economia nel 1998

Attraverso un’ampia e documentatissima panoramica storica, La ricchezza e lapovertà delle nazioni affronta il problema più grave e urgente del pianeta: il di-vario crescente tra i ricchi e i poveri. Nel corso degli ultimi 600 anni, i paesipiù ricchi del pianeta sono stati quasi tutti europei. Alla fine del XX secolo labilancia ha iniziato a inclinarsi verso l’Asia, dove paesi come il Giappone si so-no sviluppati con inedita rapidità. Ma perché alcune nazioni sono state privile-giate mentre altre sembrano destinate a restare per sempre nella miseria? Ri-prendendo la riflessione di Adam Smith, David S. Landes ricostruisce la lungae affascinante storia della ricchezza e della potenza nel mondo. Studia le originidella prosperità, segue i percorsi dei vincitori e degli sconfitti, accompagna l’a-scesa e la caduta delle nazioni. Discute le varie innovazioni, in particolare neisettori degli armamenti, dei trasporti, dell’energia e della metallurgia. Soprat-tutto, esamina i processi storici per capire in quale misura le diverse culture ac-celerano – o rallentano – il successo economico e militare, e influiscono sul te-nore di vita. Secondo Landes, i paesi dell’Occidente hanno potuto svilupparsi

assai presto grazie a una società aperta in grado di valorizzare e favorire il lavoro e la conoscenza, e dunquel’aumento della produttività e la creazione di nuove tecnologie. Oggi i vincitori sul ring dell’economiamondiale stanno seguendo proprio questo percorso, mentre chi resta indietro non è stato in grado di replica-re questa formula. La condizione necessaria per aiutare le nazioni arretrate, sostiene Landes, è comprenderela lezione della storia: ed è proprio questa la lezione che ci offre La ricchezza e la povertà delle nazioni.

David S. Landes, La ricchezza e la povertà delle nazioni. Perché alcune sono così ricche ed altre così po-vere, Milano, Garzanti, 2002da www.garzantilibri.it

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8 garsi profondamente sui limiti dello sviluppo e diquell’ideologia del progresso, che tanta parte haavuto nel disegno e nelle dinamiche della modernasocietà industriale.La problematica ricchezza/povertà non investe sol-tanto gli individui, le famiglie, i gruppi sociali, maanche le nazioni e interi gruppi di paesi, che condi-vidono difficili situazioni geografiche e condizionidi radicale arretratezza economica e sociale. Nelnostro tempo il divario tra la ricchezza e la povertàdei diversi paesi si analizza e si misura in termini disviluppo e sottosviluppo, dando origine a una plura-lità di termini (più o meno “politicamente corretti”:Primo e Terzo Mondo, paesi in via di sviluppo,paesi ad alto o basso reddito, paesi emergenti. I pa-rametri e gli indicatori in base ai quali formulare laquestione del divario tra paesi ricchi e paesi poverisono stati analizzati per la prima volta in modo si-stematico nel famoso trattato di Adam Smith, AnInquiry into the Nature and Causes of the Wealth ofNations (1776), al punto da far considerare il suoautore come il fondatore dell’economia classica edel liberismo economico. Qui possiamo solo con-statare la persistenza storica di tale questione, cheha fatto versare fiumi d’inchiostro a sociologi, sto-rici ed economisti, come sintetizza e rilancia il sag-gio dello storico economico statunitense DavidLandes, pubblicato a New York nel 1999 e in tradu-zione italiana nel 2002, che porta l’esplicito titoloLa ricchezza e la povertà delle nazioni. Perché al-cune sono così ricche e altre così povere. Conun’impostazione di studio incentrata sul lunghissi-mo periodo e in aperta polemica con una recenteletteratura indirizzata a mettere in causa il primatoeuropeo nel grande teatro della storia mondiale,Landes afferma che nell’ultimo millennio è stataproprio l’Europa – e l’Europa della rivoluzione in-dustriale – il principale propulsore dello sviluppo.Ciò, soprattutto per ragioni di ordine culturale (latutela dei diritti di proprietà, la precoce separazionetra il potere religioso e il potere politico, il decen-tramento dell’autorità, la predisposizione all’inno-vazione). Il saggio di Landes ha suscitato grande in-teresse, ma anche una serie di riserve, tra cui quellarelativa al fatto che oggi la dimensione economicadello sviluppo (o della sua mancanza) è prevalenteper definire e classificare i paesi come “ricchi” o“poveri”. Gli indicatori assunti sono molteplici: ilProdotto Interno Lordo, la distribuzione della ric-chezza, il reddito pro capite, il potere d’acquisto, iltasso di crescita economica. Le società umane han-no sempre conosciuto delle disparità nelle condizio-

ni di vita e nel ritmo di sviluppo, ma soltanto nel-l’epoca contemporanea queste disparità hanno as-sunto una dimensione elevatissima e si presentanoalla coscienza come un’ingiustizia sociale insoppor-tabile. Nell’epoca preindustriale le differenze tra iricchi e i poveri non superavano mediamente il rap-porto di 1:3 o di 1:5, mentre nell’epoca industrialeaumentarono fino al rapporto di 1:25. Due secoli emezzo fa il divario tra l’Europa e, per esempio, l’A-sia orientale o meridionale (la Cina o l’India) era di1,5-2:1. Oggi, i dati parlano un linguaggio più im-pressionante: la differenza di reddito pro-capite trauna delle più ricche nazioni industriali europee, laSvizzera, e il più povero dei paesi non industrializ-zati, il Mozambico, è di circa 400:1. Alcuni paesinon solo non recuperano terreno, ma diventanosempre più poveri, sia in termini relativi (reddito econsumi al di sotto del valore medio) sia in terminiassoluti (problematicità della sussistenza quotidia-na fino al limite della sopravvivenza). America La-tina, Asia e Africa, specialmente dopo la decolo-nizzazione che hanno conosciuto con tempi e mo-dalità differenti, sembrano ripercorrere le contrad-dizioni dei processi di modernizzazione vissuti dal-le società europee, per di più in condizioni distraordinaria accelerazione temporale. Il problemadella fame nel mondo è l’aspetto più tragico e ildiscrimine più radicale ed eticamente insopportabi-le della polarizzazione della ricchezza nelle fasceprivilegiate della popolazione (numericamentesempre più ristrette) e della povertà in quelle piùdiseredate e abbandonate (immensamente preva-lenti nel numero). Occorre combattere la periferiz-zazione di una gran parte del mondo rispetto al si-stema economico mondiale governato da un centrodominante, occupato dai paesi ad alto reddito, aforte industrializzazione e sviluppo tecnologico,che dominano il mercato globale e dettano le leggidella globalizzazione. Ad Amartya Sen, premio No-bel per l’economia nel 1998, si deve la maggiorconsapevolezza odierna nell’ampliare la definizionedi sviluppo al di fuori della sola sfera economica in-serendo nella nozione di sviluppo – e quindi anchedi ricchezza – elementi nuovi come la salute e l’ali-mentazione, l’istruzione e la cultura, le condizionidignitose della vita quotidiana, la parità di genere,le diverse libertà di espressione di ogni personaumana. Il rapporto ricchezza/povertà continua a es-sere un terreno di riflessione e di assunzione di re-sponsabilità da cui nessun cittadino del mondo glo-bale può chiamarsi fuori, anche perché prefigura lagiustizia e la vivibilità del nostro mondo futuro.

Un Premio Nobel per l’economia spiega, con analisi rigorose ed esempi tratti dalla storia edall’attualità, come un vero sviluppo economico sia inseparabile dalla lotta per la libertà, ela democrazia sia il presupposto fondamentale per combattere la fame, la miseria, l’analfa-betismo e l’intolleranza. Un punto di riferimento costante nella storia del pensiero economi-co. Amartya Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Milano,Mondadori, 2001, da www.librimondadori.it

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La proposta della “de-crescita felice” vantaprecedenti illustri: lateoria dello stato sta-zionario per primo, ela-borata dal grande filo-sofo ed economista in-glese John Stuart Mill ametà Ottocento. Mill –riprendendo alcuneconsiderazioni di Mal-thus – parlava di statostazionario per signifi-care una situazione in

cui il tasso di crescita netto dell’economia è ugualea zero. Nel capitolo “Sullo stato stazionario” deisuoi Principles (1848), Mill criticava la scienzaeconomica del suo tempo per aver identificato il be-nessere economico e sociale con l’andamento senzasosta della crescita dei profitti. Bloccare la logica

egemonica dei “piaceri quantitativi” voleva dire perMill mettere in discussione lacapacità di autoregolazione delcapitalismo e riportare in primopiano il ruolo della politica.In seguito, altri economisti epensatori hanno formulato ipo-tesi analoghe. Ricordo, tra que-sti, Paul Lafargue, genero diMarx, con il suo saggio Dirittoall’ozio in cui è avanzata laproposta di lavorare tre ore algiorno (sic!); Bertrand Russellcon il suo Elogio dell’oziositàche esplicitamente tratta di de-crescita (propone un orario dilavoro di quattro ore giornalie-re); Ernst Friedrich Schumachercon il celebre Piccolo è bello.Un’economia come se gli esseriumani contassero; ed ancoraNicholas Georgescu Roegencon il suo programma di “bioe-conomia” avanzato negli anniSettanta del secolo scorso. Non

ci si deve dunque meravigliare se, di tanto in tanto,la preoccupazione per la sostenibilità e le preoccu-pazioni per il futuro spingono studiosi di diversamatrice culturale (ad esempio John Stuart Mill eraun grande liberale) ad avanzare proposte del tipodecrescita felice, come in tempi recenti va facendo,con grande impegno, Serge Latouche.Pur comprendendo le ragioni che rendono di grandeattualità il movimento della decrescita e pur condi-videndo la diagnosi e l’eziologia dei “mali” dellanostra società svolte dagli studiosi del movimento,non ritengo che la terapia suggerita e la via di uscitaprospettata vadano nella direzione desiderata. Ve-diamo perché.

In primo luogo, va precisato che il concetto di svi-luppo ha ben poco da spartire con quello di crescita.Etimologicamente, sviluppo significa “liberazionedai viluppi, dai vincoli” che limitano la libertà dellapersona e delle aggregazioni sociali in cui essa siesprime. Questa nozione di sviluppo viene piena-mente formulata all’epoca dell’Umanesimo civile(XV secolo). Decisivo, a tale riguardo, è stato ilcontributo della Scuola di pensiero francescana: ri-cercare le vie dello sviluppo significa amare la li-bertà. Tre sono le dimensioni dello sviluppo auten-

ticamente umano, tante quantesono le dimensioni della liber-tà: la dimensione quantitativo-materiale, cui corrisponde lalibertà da; quella socio-rela-zionale, cui corrisponde la li-bertà di; quella spirituale, cuicorrisponde la libertà per.Nelle condizioni storiche at-tuali, è bensì vero che la di-mensione quantitativo-mate-riale fa aggio – e tanto – sullealtre due, ma ciò non legittimaaffatto la conclusione che ri-ducendo (o annullando) la cre-scita – che rinvia alla sola di-mensione quantitativo-mate-riale – si favorisca l’avanza-mento delle altre due dimen-sioni. Anzi, si può dimostrare– ma non è questa la sede –che è vero proprio il contrario.Ecco perché preferisco parlaredi sviluppo umano integrale,

L’economia civilePerché la decrescita non è la soluzione

di Stefano Zamagni

John Stuart Mill criticava la scienzaeconomica del suo tempo per aver

identificato il benessere economico esociale con l’andamento senza sosta

della crescita dei profitti

Stefano Zamagni

Il concetto di sviluppo ha ben poco daspartire con quello di crescita

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10 di uno sviluppo, cioè, che deve tenerein armonico e mutuo bilanciamento letre dimensioni di cui sopra. Un taleobiettivo si realizza attraverso un mu-tamento della composizione – e non giàdel livello – del paniere dei beni diconsumo: meno beni materiali, più be-ni relazionali e immateriali e soprattut-to più beni comuni (da non confondersicon i beni pubblici o con i beni collet-tivi). È possibile ciò? Certo che lo è,come il filone di studi dell’economiacivile da Antonio Genovesi (1753) inavanti ha indicato e come talune espe-rienze – per la verità ancora modeste – vanno dimo-strando.L’antidoto dunque all’attuale modello consumisticonon è la decrescita, quanto piuttosto l’economia ci-vile – un programma di ricerca e uno stile di pen-siero, tipicamente italiani, ben noti in Europa finoalla metà del Settecento, ma che da allora sono statiobnubilati dal paradigma dell’economia politica. Sinotino le differenze: mentre l’economia civile è fi-nalizzata al bene comune, l’economia politica mirapiuttosto al bene totale. Laddove quest’ultima ritie-ne di poter risolvere i problemi della sfera economi-co-sociale appoggiandosi sui soli principi delloscambio di equivalenti e di redistribuzione, l’econo-mia civile aggiunge a questi due principi quello direciprocità, che è il precipitato pratico della frater-nità. La novità della economia civile è nell’avererestituito alla fraternità quel ruolo centrale nellesfere dell’economico e del sociale che la Rivoluzio-ne francese e l’utilitarismo di Bentham avevanocompletamente cancellato.In secondo luogo, per paradossale che ciò possa ap-parire, la tesi della decrescitarischia di eludere la natura ve-ra del problema e ciò nella mi-sura in cui essa si limita a porreil segno meno al paradigmadell’economia politica, non co-stituendone il superamento. Ilfatto è che la crescita è una di-mensione fondamentale di ogniessere vivente. Come dice F.Capra, non c’è vita senza cre-scita. Certo, va sempre tenuto amente che quello della crescitanon è un processo lineare, comeSteven Gould ha persuasiva-mente mostrato con la sua teo-ria degli equilibri punteggiati.Continuare allora a parlare didecrescita (meno industria, me-no consumi etc.) vale a disto-gliere l’attenzione (e lo sforzo)dal vero problema, che è dupli-ce. Per un verso, quello di tro-vare il consenso necessario suquale crescita si vuole puntare;

per l’altro verso, quello di individuarecome passare da un sistema che, comel’attuale, è centrato su un’idea di cre-scita illimitata ad un altro che inveceaccolga al proprio interno la nozionedi limite (delle risorse, ambientale,energetico, alle disuguaglianze socia-li). A questo scopo, ci occorre un’ana-lisi di traversa (nel senso di J. Hicks) enon già un’analisi di dinamica compa-rata, come invece si continua a fare.Ricordo sempre, in argomenti del ge-nere, la celebre frase di F. Kafka: «Esi-ste un punto di arrivo, ma nessuna

via». (Il Castello). A poco serve sapere che c’è lapossibilità di arrivare ad un equilibrio superiore senon si indica il sentiero (di traversa) per raggiun-gerlo.

Se la crisi è anche e soprattutto spirituale (ha cioè ache vedere con lo spirito che ha animato in Occi-dente la stagione storica che è ormai alle nostrespalle) allora non basta ridurre o addirittura annul-lare l’espansione quantitativa. È la direzione che vamutata e per far questo ci vuole un pensiero forte

che mai prescinda dalla nostracondizione di esseri liberi. Suquesto il movimento della de-crescita mi pare silente. Lanuova stagione di crescita chedobbiamo auspicare non puòessere una mera espansionequantitativa, ma una ecceden-za qualitativa in grado di valo-rizzare la vera ricchezza di cuidisponiamo, che solo una co-munità di uomini liberi puòsprigionare. Se invece si con-tinua a demonizzare il merca-to, questo diventerà davveroun luogo infernale. La sfida davincere è piuttosto quella dellasua umanizzazione, ovverodella sua civilizzazione.Un’ultima annotazione. L’ideadi Latouche e degli altri stu-diosi che si riconoscono nelprogramma di ricerca della de-crescita è che sia ormai indila-zionabile il salto cosiddetto di

Il nodo sta nell’individuare comepassare da un sistema che, comel’attuale, è centrato su un’idea dicrescita illimitata ad un altro che

invece accolga al proprio interno lanozione di limite (delle risorse,

ambientale, energetico, alledisuguaglianze sociali)

John Stuart Mill

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paradigma. Poiché è la stessasocietà dei consumi e della cre-scita senza limiti a costituire ilproblema, è urgente “uscire dal-l’economia”. Per quanto evoca-tiva, tale espressione è fuor-viante perché ambigua. Infatti,se economia sta qui a significa-re il problema economico inquanto tale, una tale proposta èpriva di senso. Perché, come laletteratura di antropologia eco-nomica da tempo ha documen-tato, quello economico è il pri-mo (in senso temporale) proble-ma degli umani, un problemache si pone sia prima di quellopolitico – che principia quandoCaino, dopo l’uccisione di Abe-le, fonda la prima città – sia pri-ma di quello giuridico – che na-sce quando Romolo uccide Re-mo. Uscire dall’economia, inquel senso, sarebbe allora comeuscire dalla “casa” dell’uomo.Se invece l’espressione richiamata viene presa a si-gnificare la fuoriuscita da un certo discorso econo-mico e da un certo paradigma teorico, ciò è certa-mente necessario. Il mainstream economico, al pari

di tutte le forme di pensiero egemone, ha finito colfar credere che l’economia è solo scambio di equi-valenti e che il mercato può essere popolato solo dahomines oeconomici – il che è attualmente falso.Fuoriuscire da questa economia vuol dire allorafuoriuscire dall’economia? Crederlo sarebbe caderein un grave errore di ingenuità epistemologica; masoprattutto sarebbe cadere nella trappola tesa dal

paradigma che si vuole abbat-tere. Sarebbe come concludereche, poiché il modello dellascelta razionale (rational choi-ce) è aporetico e incapace didare conto di grossi ambitidella realtà, si deve rinunciarealla nozione stessa di raziona-lità del comportamento uma-no. E invece basta cambiare ilmodello di razionalità. La risposta alla crisi non è co-me porre rimedio alle condi-zioni di eccesso che hanno re-so la nostra una “società obe-sa”, in senso figurato, ma nonè neppure la decrescita che siferma al solo piano quantitati-vo, del più e del meno. L’al-ternativa all’obesità non è in-fatti la denutrizione, ma il di-scernimento. A meno che conl’espressione decrescita felicesi intenda far riferimento adun progetto globale come

quello, ad esempio, dell’economia civile. (Può darsiche sia questo l’approdo del lungo itinerario intel-lettuale di Latouche). Ma allora perché continuare ausare termini equivoci che finiscono col confonde-

re le idee e perché non voler utilizzare quanto è giàa nostra disposizione da tempo e che ha tutto il po-tenziale per realizzare l’invocato e auspicato saltodi paradigma?

L’antidoto all’attuale modelloconsumistico non è la decrescita,

quanto piuttosto l’economia civile, unprogramma di ricerca e uno stile di

pensiero, tipicamente italiani, ben notiin Europa fino alla metà del Settecento,ma che da allora sono stati obnubilatidal paradigma dell’economia politica.

Ma mentre l’economia civile èfinalizzata al bene comune, l’economia

politica mira piuttosto al bene totale

Il mainstream economico, al pari ditutte le forme di pensiero egemone, hafinito col far credere che l’economia è

solo scambio di equivalenti e che ilmercato può essere popolato solo da

homines oeconomici, il che èattualmente falso

Per lungo tempo la scienza economica si è fondata su una visione antropologica ristret-ta: l’uomo è homo oeconomicus. Oggi, con il complicarsi della dinamica sociale, politi-ca ed economica, tale prospettiva appare superata. Tra i nuovi paradigmi, l’Economia ci-vile offre un modello di pensiero e di prassi economica che coniuga individuo e comuni-tà, libertà e fraternità, mercati e vita civile, spirituale, gratuità e contratto. Economia co-operativa e non-profit, dono, gratuità, beni relazionali: l’Autore ripercorre i temi chiavedell’Economia civile, centrata sul soggetto agente non visto unicamente come indivi-duo, ma come persona.Stefano Zamagni, Per un’economia a misura di persona, Roma, Città Nuova Editrice,2012

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Diciamolo subito perchiarire i termini dellaquestione: la “crescitainfinita” non esiste innatura. Nessuno di noiha mai visto un alberocrescere all’infinito, néun animale per quantoalto come la giraffa sa-lire verso il cielo.D’altra parte, come so-stiene Giorgio Ruffolonel suo recente saggioTesta e croce. Breve

storia della moneta (Torino, Einaudi, 2011), la cate-goria della “crescita infinita” è un’ideologia recente:nel pensiero degli economisti classici era chiaro cheil modo di produzione capitalistico, pur avendocomportato una forte crescita iniziale del PIL, sareb-be finito nel tempo in una situazione di crescita zero(Sismondi) o di lunga e definitiva stagnazione (Ri-cardo, Stuart Mill). Detto questo, è anche vero che la “decrescita”, cate-goria introdotta in Italia da Serge Latouche, nonesiste in natura: qualunque essere vivente attraversaun ciclo vitale che è fatto di crescita, stabilità, de-clino, morte. In altri termini, anziché parlare di “de-crescita” dovremmo parlare di declino, di invec-chiamento, di fine di un ciclo vitale. Come lo stessoLatouche ha recentemente affermato, sarebbe piùcorretto parlare di società della “acrescita” o megliodi una società dell’abbondanza nella frugalità (Ser-ge Latouche, Per un’abbondanza frugale, Torino,Bollati Boringhieri, 2011). Il valore della categoriadella “decrescita” è stato soprattut-to di carattere pedagogico, di avermesso in discussione quello che fi-no a qualche decennio fa era asso-lutamente vissuto come un dogma,un mito incrollabile. D’altra parte,ancora oggi di fronte alla crisi fi-nanziaria ed economica dell’Occi-dente, e segnatamente in Italia,quasi tutte le forze politiche e so-ciali continuano a parlare di “cre-scita” come terapia per uscire dallacrisi. Nessuno poi spiega in qualisettori produttivi, con quali mezzifinanziari, dovrebbe avvenire que-sta famosa “crescita” tenendo con-to della nuova Divisione Interna-zionale del Lavoro che ha ridottogli spazi per le nostre merci sul

mercato mondiale. Ed è questo un punto centrale. Le potenze occidentali – Usa, Giappone, UE – eranogià arrivate al capolinea della crescita economica al-la fine degli anni Settanta del secolo scorso. In quelperiodo si è registrata, infatti, una profonda crisi da“sovraproduzione” che è stata affrontata e risolta at-traverso un poderoso processo di indebitamento:dello Stato, delle famiglie, delle imprese. Contem-poraneamente, le grandi imprese occidentali comin-ciavano a delocalizzare le produzioni nei paesiemergenti, a partire dai paesi asiatici, per contrastarele richieste e le rigidità dei sindacati dei lavoratori

che in quella fase storica avevano una rilevante for-za contrattuale. Dopo trent’anni, il risultato di que-sto processo è sotto i nostri occhi: non solo nellaVecchia Europa, ma in tutto l’Occidente, è cresciutoil Debito – pubblico e privato – in maniera insoste-nibile, mentre si è ridotta drasticamente la quota oc-cidentale di merci esportate sul mercato mondiale.Detto in altro modo: l’Occidente ha accumulato undebito globale (Stato, famiglie, imprese) insostenibi-le – pari negli Usa a quattro volte il PIL, nella UE a

due volte e mezzo, in Giappone a trevolte e mezzo – ed allo stesso tempoha fortemente ridotto il suo apparatoproduttivo e le sue quote nel mercatoglobale. Di contro, è cresciuta solola parte finanziaria, in maniera ab-norme e patologica, che sta provo-cando guasti e disastri crescenti intutto il mondo. Ma i limiti della crescita non si pon-gono solo sul piano della sfera eco-nomica (Ricardo, Stuart Mill etc) osociale (Marx, Schumpeter), oggi sipongono sul piano dell’ecosistema.È la “questione ambientale” quellache oggi impone una profonda ri-flessione sul nostro modello di cre-scita “infinita”. Non solo perché lerisorse sono finite, il che è una ov-

Eventi estremiDecrescere per salvarci dalle tempeste climatiche e finanziarie

di Tonino Perna

La categoria della “crescita infinita” èun’ideologia recente: nel pensiero degli

economisti classici era chiaro che ilmodo di produzione capitalistico, puravendo comportato una forte crescita

iniziale del PIL, sarebbe finito neltempo in una situazione di crescita zero

o di lunga e definitiva stagnazione

Tonino Perna

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vietà, ma soprattuttoper l’impatto delle no-stre produzioni indu-striali sugli equilibriambientali. Come hoavuto modo di dimo-strare in un saggio re-cente (Eventi estremi.Come sopravvivere al-le tempeste climatichee finanziarie, Milano,Altreconomia, 2011),gli “eventi estremi” sipresentano – tanto nelmondo finanziario chein quello climatico –con una preoccupantecrescita della frequenza. Vale a dire: abbiamo sem-pre avuto a che fare con “eventi estremi” ma oggi sipresentano con una frequenza inedita e preoccupan-te. Per questo è necessario pensare ad una “decrescita”selettiva : a) deve “decrescere” in maniera rilevante il peso

della finanza e la stessa massa finanziaria (pari acirca un milione di miliardi di dollari a fronte deisettantamila dollari del PIL mondiale);

b) devono “decrescere” gli impianti inquinanti, lecatene lunghe della distribuzione delle merci, ilprelievo degli stock ittici, forestali, minerali;

c) devono “decrescere” tutte le produzioni che han-no un impatto ambientale e sociale negativo, valea dire le merci con valore d’uso “negativo”, a par-tire dalle armi.

Viceversa, devono“crescere”: a) gli investimenti intutte le espressionidella cultura e del-l’arte; b) gli investimentinel recupero ambien-tale e nella manuten-zione ordinaria estraordinaria del ter-ritorio per resistereagli “eventi estremi”; c) le risorse finanzia-rie per la “ricerca fi-nalizzata” ad una mi-gliore qualità della

vita, al risparmio energetico, all’equilibrio dell’e-cosistema.

Naturalmente, questo è un programma di massimache vale soprattutto per i paesi occidentali, e soprat-tutto per noi europei. Se prendiamo coscienza cheuna fase della storia economica e sociale è ormai fi-nita, che questo modello di sviluppo non ha più fu-turo, allora possiamo ripensare a come dosare “cre-scita” e “decrescita” in un quadro con altre coordi-nate. Detto in una battuta: l’Europa deve impararead invecchiare sul piano economico, ed a rinasceresul piano sociale e culturale. Il che significa sapertrovare un nuovo modello sociale che non sia piùdrogato dalla finanza o dalla rincorsa a consumi sen-za fine, ma punti sulla qualità della vita, delle pro-duzioni, del risparmio finalizzato a lasciare alle nuo-ve generazioni un mondo migliore. Se l’Unione Eu-ropea sarà capace di reinventare un modello di eco-nomia e società all’altezza di questa sfida allora ri-troverà un posto importante nel mondo, come lo tro-vò la Grecia quando venne conquistata da Roma conle armi, ma vinse e s’impose sul piano culturale.

È la “questione ambientale” quella cheoggi impone una profonda riflessione

sul nostro modello di crescita “infinita”

Il crollo di Wall Street del settembre 2008 è stato definito una “tempesta perfetta”. Male analogie tra la Borsa e il meteo non si limitano al linguaggio. Che cosa c’entranodunque il denaro e la finanza con il clima e la CO2? Gli “eventi estremi” climatici efinanziari, in crescita negli anni recenti, si caratterizzano per il medesimo meccani-smo: “fluttuazioni giganti” provocate da una fortissima accelerazione dei processi. Adesempio quelli indotti dall’immissione nell’atmosfera di grandissime quantità diCO2 e - sul mercato - di un’enorme massa di denaro. Disastri che colpiscono per pri-mi i poveri del mondo, poi l’ambiente e noi stessi. Ma come si può salvare Gaia e isuoi abitanti? La risposta in queste pagine.Tonino Perna, Eventi Estremi. Come salvare il pianeta e noi stessi dalle tempeste cli-matiche e finanziarie, Milano, Altreconomia, 2011, da www.altreconomia.it

D’altro canto la “decrescita” non esistein natura: qualunque essere vivente

attraversa un ciclo vitale che è fatto dicrescita, stabilità, declino, morte. In

altri termini, anziché parlare di“decrescita” dovremmo parlare di

declino, di invecchiamento, di fine diun ciclo vitale

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Il cinema si è sempreoccupato della decre-scita. L’arte in generalesi è sempre occupatadella decrescita. Inten-do: dei valori della de-crescita. Che non è ne-cessariamente depres-sione. Non parlo quidel tema – politico –della redistribuzionedelle ricchezze nel pe-riodo di ristrutturazio-ne del capitalismo in-

ternazionale che stiamo vivendo. Sarà il grande te-ma dei prossimi decenni e delle generazioni piùgiovani: il tema della giustizia sociale nel mondoglobalizzato. Mi compete come cittadino ma noncome studioso di cinema, e altri più competenti dime possono parlarne.Io parlo di cinema. Ma di quale cinema? Di quelloche si vede e, ancor di più purtroppo, di quello chenon si vede. E poi: di quello che gira su pellicola,ma anche di quello che viaggia in elettronica o nelleforme del digitale. E ancora: di quello che nasce perle sale e per l’home video, ma anche di quello chenasce per la televisione o per le esposizioni d’arte oper i musei o per internet. Il cinema – oggi – è tuttoquesto: ogni forma dell’audiovisione, a cominciareda quella che troviamo quotidianamente sui televi-sori domestici, è territorio degli studi che tradizio-nalmente indichiamo come studi di cinema. Ovun-que andiamo (da qualche anno anche nella metropo-litana) ci incontriamo con questo cinema “espanso”che è l’audiovisivo, che accompagna la nostra vita econtribuisce a formare le nostre coscienze e a orien-tare i nostri desideri.

Se in questo flusso di immagini audiovisive isolia-mo anche soltanto quelle più “lavorate”, quelle ilcui senso è (o ambisce a essere) più “denso”, vedia-mo che vi appaiono frequentemente, e in posizione

centrale, i valori della decrescita. Che sono quellidel cosiddetto sviluppo sostenibile (termine da al-cuni a torto criticato) e delle diversità culturali. Va-lori che sono a ben vedere strettamente connessi traloro. Sviluppo sostenibile significa azzerare ogninostalgia di società edeniche alla Shangri-La e pen-sare operativamente a rendere produttiva la possibi-le saldatura di sviluppo e progresso sollecitata qua-rant’anni fa da Pier Paolo Pasolini (per fare il nomedi un poeta cineasta). Significa porre al centro dellosviluppo il tema della felicità (garantito in diverseCostituzioni e collegato alla privacy, alla dignità ealla irripetibilità di ciascun essere umano), il temadel valore dell’interiorità e quello del valore del-l’ambiente e del rispetto della Natura. La “diversitàculturale”, riconosciuta nel 2011 come patrimoniodell’umanità (al pari della biodiversità) dall’art. 1della Dichiarazione universale della diversità cultu-rale dell’Unesco, mette in gioco il confronto pro-duttivo tra le diverse forme umane di esistenza e disocializzazione.Se questi sono i valori della decrescita, non è diffi-cile osservare quanto il cinema e l’audiovisivo (e sidovrebbe parlare delle arti in generale) ne siano sta-ti e ne siano portatori intelligenti e testardi, a livelloplanetario. Una parte consistente delle produzionidel miglior cinema internazionale è portatrice di ri-flessioni profonde sulle tante culture in cui il genereumano si riconosce oggi, dalla Groenlandia (Parla-re con le orecchie, documentario di A. Sciamplicot-ti sulla cultura Inuit minacciata di estinzione; equanto sia oggi di attualità il tema della Groenlan-dia – e dell’immensa quantità di petrolio che giacesotto le sue nevi e i suoi ghiacci – è mostrato dalpadiglione danese alla Biennale Architettura di Ve-nezia di quest’anno, che alle problematiche di svi-luppo di quel territorio è interamente dedicato, conuna notevole presenza di materiali audiovisivi) aSamoa (The Orator, di Tusi Tamasese, film di fin-zione con una forte valenza antropologica presenta-to al festival di Venezia 2011), dal Centro e SudAmerica (per esempio, le due docu-fiction del 2010Verano de Goliat di Nicolas Pereda, che ci porta nelcuore del Messico rurale, e Jean Gentil di LauraAmelia Guzman e Israel Cardenas, in cui seguiamoun insegnante che ha perso il lavoro nel suo pere-grinare all’interno di Haiti; e la docu-fiction Giri-munho, girata nel 2011 da Clarissa Campolina eHelvécio Marins Jr, onirica e fascinosa esplorazionedi vite quotidiane nel sertão brasiliano, raccontateattraverso gli stessi protagonisti delle vicende reali)all’Asia (Still Life, 2006, e Useless, 2007, del cine-se Jia Zhangke; Lola, 2009, e Thy Womb, 2012, del

Istantanee sulla diversità culturaleI valori della decrescita nella produzione cinematografica internazionale

di Giorgio De Vincenti

Giorgio De Vincenti

Ovunque andiamo (da qualche annoanche nella metropolitana) ci

incontriamo con questo cinema“espanso” che è l’audiovisivo, che

accompagna la nostra vita econtribuisce a formare le nostre

coscienze e a orientare i nostri desideri

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filippino Brillante Mendoza; Three Sisters, 2012,del cinese Wang Bing). Per non parlare dei docu-mentari girati viaggiando intorno al mondo, comeGuest di José Luis Guerin, Vivan las Antipodas! diVictor Kossakovsky (entrambi del 2011) o The For-gotten Space, documentario sulla globalizzazionegirato sulle navi cargo nei mari del mondo da NoëlBurch (noto studioso di cinema) e Allan Sekula(2010), per fare solo qualche esempio delle operepiù note ai critici e ai cinefili.

A una manciata di titoli farò riferimento anche perquanto riguarda i film italiani recenti che lavoranosu temi legati a quello della ricerca di un diversomodello di sviluppo e a quello delle istanze umani-tarie che provengono da Paesi diversi dal nostro: Ilmio paese (2006, David di Donatello 2007 comemiglior documentario) e La nave dolce (2012) diDaniele Vicari; Far East (2009) di Paolo Serbantinie Giovanna Massimetti, Medici con l’Africa (2012)di Carlo Mazzacurati.

Concludo questo scarnissimo elenco con il più notoUna scomoda verità (2006) di Davis Guggenheim:con protagonista l’ex-vicepresidente Usa Al Gore,tratta il tema del surriscaldamento terrestre e havinto il premio Oscar nel 2007. I film che ho citato sono tutti nati per la normaledistribuzione (in sala e/o sulle reti televisive) e qua-si tutti hanno vinto importanti premi a festival inter-nazionali. Ma sono quasi tutti sconosciuti a un pub-blico che non sia di esperti. Poiché si tratta di operetra le più interessanti del panorama cinematograficointernazionale degli ultimissimi anni, la domandache ci si deve porre è la seguente: perché la censuradel mercato – oggi più dura che mai nella storia delcinema, proprio per l’ampliamento delle possibilitàche le nuove tecnologie hanno offerto alla Settimaarte in ordine all’accesso che ad essa è oggi consen-tito, in tutte le sue forme, ampliamento che ha perconseguenza la meravigliosa moltiplicazione disguardi, di voci, di informazione e riflessione criti-ca che è possibile ricavare anche soltanto dai titoliche abbiamo citato – priva i cittadini (non soltantoitaliani) di una possibilità così estesa e “facile” diconoscenza e confronto critico sull’esistente, su unaparte così decisiva delle problematiche del mondocontemporaneo? Una possibilità che ci viene offertadalla generosità di un incredibile numero di cineastiche nel mondo si confrontano attraverso la cinepre-sa o la videocamera con gli aspetti più veri e attualidelle vite di noi tutti.Decrescita può significare anche – e forse soprattut-to – questo: il recupero della profondità rispetto allasuperficie di cui si sono fatti promotori proprio i

La “diversità culturale”, riconosciutanel 2011 come patrimonio dell’umanità

(al pari della biodiversità) dall’art. 1della Dichiarazione universale della

diversità culturale dell’Unesco, mettein gioco il confronto produttivo tra lediverse forme umane di esistenza e di

socializzazione

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mezzi della comunicazione e tra loro quelli, decisi-vi, dell’audiovisione.

Aggiungo – in conclusione di questo articolo chenon ambisce ad altro se non a mostrare l’esistenzadi una realtà tanto grande quanto ai più sconosciuta– che il nostro Ateneo si è da vari anni inscritto inquesta comunità virtuale (e virtuosa) degli operatoriculturali audiovisivi coscienti della posta in gioconello sviluppo planetario contemporaneo: lo ha fat-to dotandosi di un Centro Produzione Audiovisivipresso il Di.Co.Spe.-Dipartimento Comunicazionee Spettacolo Università Roma Tre, che agisce sulmercato avvalendosi di professionisti e che ha pro-dotto, nei dieci anni della sua esistenza, più di centodocumentari, molti dei quali lavorano sui temi chequi sono stati trattati. Numerosi tra questi film delDi.Co.Spe. sono stati selezionati in festival interna-zionali (tra i quali Cannes, Venezia e Roma), dovehanno vinto numerosi premi, ricevendo sempreun’accoglienza più che lusinghiera da parte dellacritica e del pubblico. Ricordo solo alcuni titoli:Tarda estate, lungometraggio di finzione, girato inGiappone e in lingua giapponese da Marco De An-gelis e Antonio Di Trapani, selezionato al Festival

di Venezia 2010 e a quello di Bergen dello stessoanno e Premio del pubblico al Festival di Tirana2010; I fuochi e la montagna (2002) di Luca Belli-no, Paolo Buccieri, Ella Pugliese, sulla comunitàcurda dell’ex-Mattatoio di Roma, selezionato incinque festival internazionali; Mate y moneda(2005) di Luca Bellino, sull’immigrazione di ritor-no di italiani dall’Argentina in crisi economica; laserie “Roma e le sue città”, sei documentari sullecomunità di immigrati che si sono stabilite nella ca-pitale, girati in collaborazione con gli stessi prota-gonisti; L’ora d’amore (2008) di Andrea Appetito eChristian Carmosino, sul tema della sessualità edell’amore nelle carceri, selezionato in otto festivalinternazionali e vincitore di sette tra premi e men-zioni speciali. Altri esempi si potrebbero aggiunge-re, ne facciamo uno solo: diverse ore di materialisul tema del cambio climatico, girati per lo più in

America Centrale e Meridionale; materiali preziosie per ora censurati dal mercato italiano, che di que-sto tema non vuole parlare.Decrescita significherà anche questo: un recuperodi attenzione e di fattiva vigilanza sulle questionivitali del pianeta. Un recupero di democrazia.

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Una parte consistente delle produzionidel miglior cinema internazionale è

portatrice di riflessioni profonde sulletante culture in cui il genere umano si

riconosce oggi

Decrescita può significare anchequesto: il recupero della profonditàrispetto alla superficie di cui si sonofatti promotori proprio i mezzi della

comunicazione e tra loro quelli,decisivi, dell’audiovisione

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Il generalizzato rallen-tamento delle principa-li economie avanzateassociato ai notevolivincoli sia interni chesovra-nazionali all’uti-lizzo di interventi dipolitica monetaria o fi-scale ha sollecitato la(ri)valutazione di altristrumenti ritenuti ido-nei a rilanciare la cre-scita e a garantire unadistribuzione bilanciata– anche in termini ter-

ritoriali – dei suoi benefici. In questo contesto lostrumento dello sviluppo infrastrutturale ha riscos-so un particolare successo sia in Europa che negliStati Uniti. Una parte consistente dello “StimulusPackage” varato dal Presidente Obama nel 2009 èrelativa proprio allo sviluppo di nuove infrastruttu-re. Il consenso fortemente bi-partisan su questospecifico aspetto della manovra, il supporto dellelobbies di costruttori e l’appoggio di governatori esindaci sono tutte manifestazioni del successo dellepolitiche infrastrutturali sul ‘mercato politico’.Successo che ha portato al varo di un piano plu-riennale di spesa per l’accrescimento della dotazio-ne infrastrutturale del paese: questo piano è finaliz-zato, tra le altre cose, a «ricostruire 150.000 migliadi strade, costruire e mantenere 4.000 miglia di li-nee ferroviarie passeggeri, riabilitare e ricostruire150 miglia di piste aeroportuali» (U.S. White Hou-se, 2010). Nel lanciare questo piano la Casa Biancafa esplicitamente riferimento sia a «benefici econo-mici di lungo periodo» che a vantaggi per la classemedia (inclusi nuovi posti di lavoro a supporto de-gli investimenti in infrastrutture e riduzione nei co-sti di viaggio e trasporto) nonchè a un miglior im-piego delle risorse sotto-utilizzate e a un aumentogeneralizzato delle capacità di far fronte alla do-manda di migliori infrastrutture da parte dei citta-dini americani.

Anche l’Unione Europea nella sua strategia “Euro-pa 2020” finalizzata al superamento della crisi e al-

la crescita di lungo periodo ha posto una notevoleenfasi sul tema delle infrastrutture – di trasporto edenergetiche – come precondizione non solo per lacrescita ma anche per la piena partecipazione alMercato comune. L’idea che le infrastrutture pos-sano simultaneamente sostenere la crescita econo-mica e favorire la coesione sociale ed economica èprofondamente radicata nella storia delle politichedi sviluppo comunitarie. Per il periodo di program-mazione 2000-06, circa due terzi dei 195 miliardidi euro (a prezzi 1999) assegnati ai Fondi struttura-li sono stati attribuiti alle regioni Obiettivo 1 (ov-vero regioni con PIL pro capite inferiore al 75 percento della media UE) e si stima che circa la metàdi questa assegnazione all’Obiettivo 1 è stata desti-nata allo sviluppo di nuove infrastrutture. Inoltre,circa la metà dei 18 miliardi di euro del Fondo dicoesione per lo stesso arco di tempo sono stati de-stinati alle infrastrutture mentre le erogazioni dellaBanca Europea per gli investimenti (BEI) con lamedesima finalità hanno raggiunto i 37,9 miliardi.Anche nel quadro finanziario 2007-2013, circa 8miliardi di euro sono stati stanziati direttamenteper le reti di trasporto trans-europee oltre al sup-porto dei Fondi Strutturali e del Fondo di coesionecontinueranno.

Alla preferenza dei policy makers per lo sviluppoinfrastrutturale quale strumento di politica econo-mica ha fatto riscontro una vasta letteratura acca-demica che ha fornito la giustificazione concettualeper il rilevante ammontare di risorse finanziarie de-stinate a questo obiettivo. Nei contributi che adot-tano una prospettiva ‘macroeconomica’ il contribu-to delle infrastrutture alla crescita economica vienetradizionalmente concettualizzato in tre diverseprospettive spesso convergenti. In primo luogo, leinfrastrutture producono i loro benefici nella loroqualità di “fattore di produzione non remunerato”,che genera direttamente incrementi nell’output; se-condo, come un fattore di accrescimento, che raf-forza la produttività del capitale e del lavoro; e,terzo, come un incentivo per la rilocalizzazione diattività economiche. In questo contesto, a parità dialtre condizioni, a un più elevato stock di infra-struttura pubblica si accompagna una maggioreproduttività del capitale nel settore privato. Questo

Le vie della crescita Non solo ponti e strade per conciliare sviluppo e coesione

di Riccardo Crescenzi

Riccardo Crescenzi

Una parte consistente dello “StimulusPackage” varato dal Presidente

Obama nel 2009 è relativa proprio allosviluppo di nuove infrastrutture

L’investimento pubblico difficilmentepuò essere considerato come un

elemento trainante per una crescitastrutturale di lungo periodo

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approccio ha prodotto un vasto filone di letteraturaempirica che ha fornito materiale decisivo a sup-porto dell’impatto positivo sulla crescita economi-ca dell’investimento infrastrutturale: il tasso di ren-dimento dell’investimento in capitale pubblico ar-riva a essere stimato superiore al 100 per cento an-nuo.Le conclusioni raggiunte da questo vasto e influen-te filone di letteratura accademica sull’impatto ma-croeconomico delle infrastrutture sono state messein discussione da studi teorici ed empirici diversiche ne hanno posto in luce i limiti da punti di vistadifferenti. In una prospettiva ‘macro’, è stata messain dubbio la direzione di causalità della relazionetra crescita economica e infrastrutture e sottolinea-to come la mancanza di una definizione ‘standard’del concetto di infrastruttura possa aver condotto asignificative incongruenze di misurazione. La cau-salità non opera dall’investimento pubblico allacrescita, ma piuttosto in direzione opposta: l’inve-stimento pubblico difficilmente può essere consi-derato come un elemento trainante per una crescitastrutturale di lungo periodo. Inoltre il modo nelquale l’infrastruttura è gestita e ‘prezzata’ è di fon-damentale importanza per valutarne l’impatto eco-nomico. In una prospettiva di tipo ‘micro’, la rela-zione tra investimento infrastrutturale, migliora-mento nel livello generale di accessibilità e perfor-mance economica diviene molto più complessa dal

punto di vista analitico quando considerazioni dicarattere puramente macroeconomico vengono in-serite in modelli capaci di includere una qualchedimensione spaziale. La potenziale ambiguità dell’impatto dell’infra-struttura di trasporto sullo sviluppo economico èstata esplicitamente affrontata in modelli analiticivia via più sofisticati (New Economic Geography).Questo approccio consente di affrontare la specifi-ca natura dell’infrastruttura di trasporto quandoviene messa a confronto con altre forme di capita-le dato il suo ruolo nel facilitare il commercio enel rendere possibile agli individui, alle società,alle regioni e agli stati nazionali di sfruttare il lorodiverso vantaggio competitivo. Lo sviluppo del-l’infrastruttura di trasporto, accrescendo l’accessi-bilità delle regioni economicamente più deboli,non solo consente alle imprese nelle regioni menosviluppate un migliore accesso agli input e ai mer-cati delle regioni più sviluppate ma rende anchepiù facile per le aziende nelle regioni più ricche ri-fornire le regioni più povere da lontano, e può cosìdanneggiare le prospettive di industrializzazionedelle aree meno sviluppate. Questi modelli offronouna spiegazione solidamente microfondata perl’effetto potenzialmente ambiguo di cambiamentinel livello di accessibilità. Inoltre, hanno sottoli-neato l’effetto differenziale di connessioni inter eintra regionali e l’effetto “hub-and-spoke” genera-

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to da condizioni d’accesso non uniformi alle mag-giori infrastrutture.Di conseguenza è importante interrogarsi su qualidirezioni stia prendendo il dibattito economico peruna più accurata valutazione dell’impatto delle in-frastutture sui processi di crescita e sviluppo eco-nomico a supporto di più efficaci politiche pubbli-che. Qualsiasi apparato concettuale che cerchi divalutare le piu’ efficaci opzioni di politica pubblicaper il rilancio della crescita deve prendere in consi-derazione la serie complessiva di condizioni cheinfluenzano le dinamiche di crescita economica.Una varietà di forze influenzano i canali e le moda-lità attraverso cui i cambiamenti nella dotazione in-frastrutturale possono influenzare la performancedell’economia. Una vasta letteratura ha suggeritocome la crescita economica sia un processo multi-forme, dove non solo la dotazione infrastrutturale,ma anche attività innovative nella forma di attivitàdi R&S e accumulazione di capitale umano, econo-mie di agglomerazione, processi di specializzazio-ne, migrazione e localizzazione geografica e strut-ture socio-istituzionali (economia delle istituzioni esistemi d’innovazione), esercitano una diretta in-fluenza e interagiscono reciprocamente al fine dideterminare il dinamismo economico di ogni spa-zio. Questi fattori si combinano in modo differentein contesti diversi determinando la capacità di rea-zione delle diverse economie regionali ai cambia-menti esterni. Mentre alcuni fattori economici (co-me per esempio il capitale e la tecnologia) hannouna maggiore capacità di adattarsi in risposta ashock esterni (come per esempio l’integrazioneeconomica o il cambiamento nel grado di accessi-bilità dovuto a nuove infrastrutture di trasporto) invirtù della loro mobilità relativamente più elevata,le strutture sociali e istituzionali tendono – adesempio – a essere molto meno flessibili. Alla lucedelle diverse condizioni contestuali e della loro dif-ferenziata capacità di aggiustamento, il medesimoinvestimento in infrastrutture in due aree distintepuò condurre a risultati differenti come conseguen-za dell’interazione con condizioni economiche lo-cali differenziate. Inoltre, poiché lo sviluppo d’in-frastrutture riguarda anche la connettività tra areediverse qualunque intervento deve essere collocatoin una prospettiva spaziale che tenga conto sia delruolo delle condizioni endogene che di quelle dellearee limitrofe. L’impatto delle infrastrutture (soprattutto di tra-sporto) si propaga da una regione all’altra, influen-do significativamente sulla performance economi-ca: talvolta il progetto in una singola regione puòavere un forte effetto di welfare che si propaga anumerose altre regioni. In questa prospettiva, è ne-cessario non solo cogliere l’effetto Keynesiano dipiù breve periodo della spesa in infrastrutture ol’effetto di rilocalizzazione di attività economichein risposta al mutamento nei costi di trasporto, mafornire anche una completa valutazione dell’inci-denza dei benefici di network che emergono quan-

do l’infrastruttura rende possibili più strette intera-zioni con gli agenti economici delle regioni vicine,incrementando così le loro interazioni e diffonden-do possibilmente i benefici di agglomerazione.Una comprensione più approfondita dell’impattoeconomico delle politiche per le infrastrutture pas-sa dunque per lo sviluppo di modelli analitici e ap-parati concettuali capaci di ‘integrare’ sia il ruolodei diversi fattori che condizionano l’impatto delleinfrastrutture sull’economia (con i relativi mecca-nismi di azione e retroazione) che le loro dinami-

che spaziali (attraverso gli effetti di spillover). Unapproccio ‘integrato’ all’analisi dell’impatto delleinfrastrutture getta le basi per ricondurre lo svilup-po infrastrutturale all’interno di un mix bilanciatodi politiche di sviluppo. In questa prospettiva èpossibile valutare se e come lo sviluppo delle infra-strutture debba essere coordinato con politiche fi-nalizzate a rafforzare altri fattori ‘condizionanti’ lacrescita e lo sviluppo (come il capitale umano el’innovazione). La considerazione dei meccanismidi trasmissione spaziale degli effetti economici del-le infrastrutture fa inoltre emergere il potenziale‘costo del non-coordinamento’ tra amministrazionie livelli di governance differenti. Solamente pre-stando attenzione alla complessa relazione nel tem-po e nello spazio dell’insieme dei fattori che in-fluenzano la crescita è possibile sviluppare politi-che pubbliche capaci di massimizzare gli effetti po-sitivi dell’investimento in infrastrutture, minimiz-zando nel contempo i rischi economici e di welfareper le aree più deboli spesso impreparate a compe-tere in mercati più integrati.

*Un approfondimento su questi temi è contenuto nelNumero Speciale 1/2012 di QA/Rivista dell’Associazio-

ne Rossi-Doria “Economia e Politica delle Infrastrutturein Italia” a cura di Fabrizio Balassone e Riccardo Cre-scenzi. Il volume è stato presentato in un’iniziativa con-giunta del Dipartimento di Economia e della Banca d’I-talia nel mese di aprile 2012

Lo sviluppo dell’infrastruttura ditrasporto, accrescendo l’accessibilità

delle regioni economicamente piùdeboli, non solo consente alle imprese

nelle regioni meno sviluppate unmigliore accesso agli input e ai mercatidelle regioni più sviluppate ma rendeanche più facile per le aziende nelle

regioni più ricche rifornire le regionipiù povere da lontano, e può così

danneggiare le prospettive diindustrializzazione delle aree meno

sviluppate

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Oggi tutto ciò che appar-tiene al passato sembra aprima vista rimanere in-vulnerabile al cambia-mento. Difatti, tuttavia,di fronte ad un territorioin continua antropizza-zione è impensabile cheil processo trasformativonon investa anche il pas-sato e la sua storia. L’antico, oggi, si con-fronta con le vaste tra-sformazioni territorialidettate dalla struttura e

dall’articolazione socio-economica contemporanea edai diversi processi di sviluppo e crescita del territorio.Così in questo costante ciclo consumistico dove si ri-nuncia a tutto tranne che al superfluo, come dicevaOscar Wilde, l’uomo diviene incapace di gestire l’an-tropizzazione da lui stesso generata. Di qui l’invito delprofessore francese Serge Latouche a ritrovare il sensodei limiti e abbandonare l’obiettivo della crescita illi-mitata interessa tutti i campi. Tra questi l’architettura,da sempre artefice di trasformazioni territoriali e so-ciali, gioca un ruolo importante nel ristabilire i para-metri di un ritorno cosciente a una vita più semplice. Parafrasando Latouche, una crescita infinita è impos-sibile in un paese finito. Con questa premessa la ca-pacità dell’ingegnosità umana diviene l’unico stru-mento per progettare la decrescita ed evidenziare ilsenso dei luoghi.In una logica contemporanea di sviluppo per lo svi-

luppo, di globalizzazione e consumo dove i concettidi tempo e memoria hanno perso la loro connotazio-ne, costruire meno e ripensare il patrimonio esistenteper riabitarlo, riterritorializzarlo e viverlo in modonuovo potrebbe risultare un esempio efficace di archi-tettura consapevole, atta al recupero del senso deiluoghi. Un’architettura dove bastano pochi gesti per

stabilire ciò che orienta e ordina la lettura e la com-prensione di un luogo. Il progetto attraverso il recupe-ro di antichi percorsi e nuove accessibilità può rimet-tere in rete una serie di risorse altrimenti disseminatenel territorio e destinate a rimanere latenti. Un’archi-tettura della decrescita è possibile e necessaria diquesti tempi, e rileggere il territorio attraverso la suastoria e i suoi usi contemporanei rappresenta la possi-bilità di un futuro sviluppo sostenibile dell’ambiente. Nei confronti dell’antico l’architettura contempora-nea ha il compito di ripristinare ciò che non è più vi-sibile, svelare la verità del luogo e valorizzare il si-gnificato in rapporto alla nostra cultura.Esperienze didattiche significative in questo camposono state portate avanti nell’ambito del finanziamen-to europeo Erasmus Intensive Program “Architecture,Archaeology and Landscape” grazie alla collabora-zione delle Facoltà di Architettura di Roma Tre, Val-

Laura Pujia

Decrescita e senso dei luoghiEsperienze didattiche internazionali per una possibile valorizzazionedel patrimonio culturale

di Laura Pujia

In questo costante ciclo consumisticodove si rinuncia a tutto tranne che alsuperfluo, come diceva Oscar Wilde,l’uomo diviene incapace di gestire

l’antropizzazione da lui stesso generata

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Vista dell’ingresso al foro romano di Tongobriga, 2011

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ladolid (Spagna) e Oporto (Potogallo).La ricerca mira ad indagare il rapporto tra il progettoarcheologico e quello urbano, oggi altrimenti scarsa-mente comunicato. Quest’area d’indagine richiede insé una collaborazione tra diverse figure e saperi disci-plinari differenti sia nella didattica e nella ricerca chenella pratica professionale.La Facoltà di Architettura di Roma Tre porta avantida più di dieci anni indirizzi di ricerca orientati versoun’attenta e consapevole collaborazione tra architet-tura e archeologia.Il programma (Erasmus Intensive Program) ha vistol’organizzazione di due workshop internazionali perla durata di dodici giorni consecutivi che hanno coin-volto studenti italiani, spagnoli e portoghesi prove-nienti dalle tre Facoltà ed ognuno con una diversaformazione (architetti, archeologi, conservatori, stori-ci dell’arte, ingegneri etc.) pronti a confrontarsi tra lo-ro lavorando in gruppo.Durante il workshop sono stati previsti dei seminari edelle lezioni da parte dei docenti ed esperti, lavoro ingruppo con la presenza dei tutor, mentre i weekendsono stati impegnati in escursioni e visite per cono-scere il patrimonio presente nel territorio.Obiettivo dei workshop è stato il mettere a punto pro-prio una metodologia progettuale per la comprensio-ne ed interpretazione dei resti archeologici nel lorocontesto culturale, sociale e paesaggistico; partecipa-re, da un’ottica ampia e integrata, al dibattito contem-poraneo incentrato sul paesaggio culturale; confronta-re esperienze internazionali riguardanti l’intervento insiti archeologici e contribuire fattivamente allo svi-luppo degli stessi. Entrambe le esperienze si sonoconcluse con una esposizione pubblica dei lavori e lapresentazione dei progetti davanti alle autorità locali.Tutto ciò è esempio di come l’architettura possa farleggere il territorio esistente nel suo complesso inter-venendo con pratiche poco dispendiose su uno spazionel suo divenire storico.La seconda edizione del workshop si confronta per

l’appunto con una scala paesaggistica dove il fram-mento fa i conti con il suo contesto e l’archeologia in-vade una scala territoriale. Il workshop si è svolto loscorso ottobre presso il Museo Diffuso di Cavallino(parte del SESA, Sistema ecomuseale del Salento), apochi chilometri da Lecce in Puglia. Si tratta di un si-stema storicamente pluristratificato, in cui le traccearcheologiche (neolitiche, messapiche, romane, bi-zantine, medievali etc.) sono numerosissime, taloranon particolarmente rilevanti in se stesse, ma disse-minate in un territorio ricco di ulteriori potenziali ri-sorse economiche ed ambientali, spesso sottoutilizza-te e talora inattive. Un sistema quindi che permette diconstatare direttamente come la valorizzazione deibeni culturali non vada ricercata per singoli casi, ma

nella loro interrelazione in progetti più ampi: che sia-no per il recupero naturalistico e paesaggistico, o perla riattivazione di percorsi alternativi, o che coinvol-gano la promozione di attività economiche, ricettive eturistiche evolute etc. Queste esperienze progettuali dal respiro internazio-nale mirano a far comprendere la ricchezza del no-stro territorio, sempre in crescita e in trasformazione,e che solo un uso razionale, meno distruttivo, piùpragmatico, più adeguato delle risorse reali può valo-rizzare il patrimonio esistente. 21

Sopra e accanto: Museo Diffuso di Cavallino (LE), 2012

In una logica contemporanea diglobalizzazione e consumo dove i

concetti di tempo e memoria hannoperso la loro connotazione, costruire

meno e ripensare il patrimonio esistenteper riabitarlo, riterritorializzarlo e

viverlo in modo nuovo potrebberisultare un esempio efficace diarchitettura consapevole, atta al

recupero del senso dei luoghi

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Gli anni Settanta e Ot-tanta del Novecentovedono, in diversi pae-si del Sudamerica, unmomento di forte crisiper quanto riguarda lasituazione socio-econo-mica di gran parte deisettori popolari. In molti casi all’autori-tarismo dei golpe mili-tari (Brasile, 1964;Uruguay e Cile, 1973;Argentina, 1976) si

sommano politiche economiche che approfondisco-no ancor più il divario tra le varie classi sociali. Il Cile del generale Augusto Pinochet (1973-1989)costituisce in questo senso un caso esemplare. Lepolitiche redistributive del precedente governo so-cialista (1970-73) vengono bruscamente interrotte.Si riduce la spesa pubblica con drastici tagli a ser-vizi sociali prima garantiti dallo Stato, si aumentala pressione tributaria, si riducono i salari e si sop-prime qualsiasi forma di negoziazione collettiva. Icosiddetti Chicago Boys (gruppo di economisti cile-ni specializzati negli Stati Uniti all’insegna di dot-trine neoliberiste) promuovono per il Cile una tota-le apertura al mercato internazionale. Vengono libe-ralizzati i prezzi, anche di beni di prima necessitàcome il riso o il grano, e i terreni prima destinati al-le colture di tali prodotti vengono ora dedicati allaproduzione di beni appetibili all’estero, come vinoe mele. La commercializzazione degli alimenti si fasempre più esclusiva, rinchiusa nei circuiti ristrettidei grandi centri delle zone alte. I costi sociali di queste misure sono altissimi: dis-occupazione oltre il 20 %, denutrizione infantile, si-stema assistenziale e sanitario pubblico allo sfascio,licenziamenti arbitrari di soggetti ritenuti “scomo-di” per il regime. La popolazione della capitale, Santiago, elabora inquesta congiuntura drammatica strategie di soprav-vivenza, dando origine, spesso in forma clandesti-na, a una pluralità di organizzazioni economichepopolari (OEP). Per comodità espositiva le dividia-mo in quattro tipologie. 1. Organizzazioni di consumo. La socializzazionedel problema sentito con vergogna presso molte fa-miglie, la fame, trova diverse soluzioni, come a) or-ti familiari e comunitari in cui, oltre ad orticoltura efrutticoltura di prodotti freschi o secchi, si coltiva-no erbe medicinali b) comprando juntos, una sortadi gruppi d’acquisto collettivi che acquistano insie-

me all’ingrosso per ovviare i problemi di riforni-mento e per abbassare i costi dei prodotti e del tra-sporto c) ollas comunes, pentoloni comuni che for-niscono razioni di cibo, cucinato insieme e consu-mato privatamente nelle case. 2. Organizzazioni produttive di lavoratori, in cuisi producono beni e servizi in cambio di denaro. Inuna prima fase appoggiate da settori progressistidella Chiesa cattolica, poi sempre più laiche, si sud-dividono in diversi laboratori, come a) talleres soli-darios, centrati sulla produzione di tessuti, artigia-nato, calzature, costruzioni e riparazioni. Vista l’al-tissima partecipazione femminile (95%) hanno ora-ri molto flessibili, per consentire il regolare svolgi-mento delle attività domestiche. Ci sono poi le b)Amasanderias, panetterie, e c) Talleres laboralespor rama, gruppi di lavoratori disoccupati, soprat-tutto uomini, riuniti per categorie (metallurgici, co-struttori, calzolai).

3. Organizzazioni di servizi sociali. Rispondono aesigenze molto varie, soprattutto in campo sanitarioe abitativo, come i Grupos de salud, incaricati dicondurre inchieste sulle situazioni igienico-sanita-rie dei vari nuclei familiari, della distribuzione dialimenti, del recupero di alcolisti e tossicodipen-denti.4. Organizzazioni rivendicative di lavoratori.Hanno origine con i licenziamenti di massa fin daiprimi mesi successivi al golpe del 1973. Centratisulla difesa del diritto al lavoro, iniziative di sussi-stenza, aiuto mutuo, lavoro in proprio, si dividonofondamentalmente in a) sindacati territoriali di la-voratori indipendenti, responsabili di progetti sul-l’occupazione da sottoporre alla pubblica ammini-strazione; b) sindacati di lavoratori vincolati a fede-razioni di portuali, commercianti, calzolai, lavora-tori del vetro e altre categorie particolarmente col-pite dalla disoccupazione.

Pentole comuni Risposte creative alla fame: organizzazioni popolari in America Latina

di Benedetta Calandra

Benedetta Calandra

Gli anni Settanta e Ottanta del Novecentovedono, in diversi paesi del Sudamerica,

un momento di forte crisi per quantoriguarda la situazione socio-economica digran parte dei settori popolari. In molti

casi all’autoritarismo dei golpe militari sisommano politiche economiche che

approfondiscono ancor più il divario trale varie classi sociali: in questo contesto

prendono forma le organizzazionieconomiche popolari (OEP)

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Per dare un’indicazione quantitativa, un censimentosulle OEP condotto a Santiago da un centro studiprivato fotografa, ai primi anni Ottanta, una realtàdi 46759 individui direttamente coinvolti nelle atti-vità e 187237 beneficiari complessivi. Queste organizzazioni costituiscono una risposta at-tiva di fronte alla povertà e all’esclusione sociale,forniscono uno spazio cruciale di aggregazione, na-scono come risposta contingente alla crisi ma rap-presentano, al tempo stesso, un microcosmo chetrascende l’esigenza immediata, favorendo ancheconsapevolezza e, soprattutto per le donne, empo-werment e percezione delle proprie capacità. Le ollas comunes (pentoloni comuni), ad esempio,racchiudono una pluralità di significati. Da un lato,infatti, non sono realtà nuove per il continente lati-noamericano, ma s’inseriscono in un percorso stori-co già consolidato. Precedenti di questo tipo – cuci-nare collettivamente il pasto – sono ricorrenti intutta la regione andina e non solo, sebbene con di-verse specificità. In Cile, in particolare, attorno aiprimi anni Trenta del Novecento il governo e laChiesa cattolica mettono numerose ollas del pobrea disposizione di lavoratori immigrati dalle minieredi salnitro e ridotti in miseria da una drammaticacongiuntura economica; altre ollas, sempre a partiredagli anni Trenta, accompagnano con regolarità gliscioperi operai. Tuttavia le ollas nate a partire dal golpe del 1973,come risposta organizzata dagli stessi settori popo-lari in una fase in cui allo Stato non si può chiedereniente e diffusa per anni su tutto il territorio metro-politano, sono allo stesso tempo qualcosa di pro-fondamente originale. E non è un caso che vadanoprogressivamente a sostituire i comedores popola-res che le associazioni cattoliche mettono a servizio

dei quartieri più disagiati. Giocano un ruolo predo-minante fattori psicologici, cioè la vergogna dimangiare in dei luoghi comuni, inaccettabile permolti, e soprattutto per gli uomini. La olla viene or-ganizzata in modo da consumare il pasto diretta-mente a casa propria, rappresentando così una mo-dalità collettiva ma allo stesso tempo “privata” dirisolvere il problema della fame.Inoltre, non si tratta solamente di un luogo doveprelevare quotidianamente del cibo, bensì di unavera e propria organizzazione. Si comincia infatticon l’iscrizione in una lista di tutte le famiglie cheintendono partecipare, in modo da calcolare quanteporzioni di cibo è necessario cucinare. È un’orga-nizzazione a carattere strettamente territoriale, co-involge persone che hanno condiviso per anni laquotidianità di uno stesso quartiere, e una realtà incui il fattore umano, inteso come forza lavoro e spi-rito di coesione, è centrale. La olla ha bisogno diuna infrastruttura in cui funzionare, di risorse fi-nanziarie (denaro), alimentari (viveri) e umane (la-voro). Per ottenere tali risorse i membri si organiz-zano in attività periodiche di raccolta, come visiteai mercati per reperire eventuali avanzi, organizza-zione di lotterie o vendita di vestiti usati. Il funzio-namento delle attività viene regolato da riunioni pe-riodiche, che hanno luogo ogni due-tre settimane,in cui si decidono collettivamente la divisione deicompiti, i turni di lavoro, le iniziative per otteneregli alimenti.

Il ruolo delle donne è preponderante, e anche un’at-tività banale e privata come quella della cucina di-viene grazie al loro lavoro un importante veicolo disocializzazione, oltre che un rimedio alla fame.Nella olla le donne lavorano, discutono, si confron-tano, operano delle scelte collettive, allontanandosiautonomamente e con una certa regolarità dallospazio domestico. Come tutte le OEP, anche la ollarappresenta infatti uno spazio aggregante che ri-sponde a esigenze profonde di reciprocità e aiutomutuo. Ai primi anni Novanta, con il lento ritorno alla de-mocrazia e lo stabilizzarsi di politiche sociali mag-giormente includenti, le OEP vedono una lenta eprogressiva dissoluzione. Il continente latinoameri-cano, tuttavia, presenterà molte altre forme di rispo-ste creative alle crisi. Basti solo pensare all’adozio-ne del trueque, forma di baratto tra beni e servizisenza intermediazione monetaria, che animerà lestrade di Buenos Aires dopo la terribile congiunturaeconomica del 2001. 23

Un censimento sulle OEP condotto aSantiago del Cile da un centro studi

privato fotografa, ai primi anni Ottanta,una realtà di 46.759 individui

direttamente coinvolti nelle attività e187.237 beneficiari complessivi

Una GratiFeria è una fiera gratuita basata sullo scambio, nellaquale si può portare e portarsi via ciò che si desidera senza che visia nessuno tipo di pagamento in denaro. A Buenos Aires c’è unaGratiFeria tutte le seconde domeniche del mese. Il motto è: «Por-ta quello che vuoi (o niente) e portati via quello che vuoi (o nien-te)». Questo va al di là del trueque, del semplice baratto, dal mo-mento che viene meno anche il concetto di reciprocità

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Totnes, in Inghilterra,all’apparenza non è unacittadina diversa dallealtre cittadine inglesi:case in pietra locale,prati curati per ognigiardino, vasi di fiori adogni finestra. Lungo lastrada principale nego-zietti molto caratteristi-ci ti invitano ad acqui-stare i prodotti tipici,dalle pastries a ognispecie di organic food;

in una piazzetta l’immancabile mercato delle pulcivende qualsiasi tipo di chincaglieria. Percorrendouna via laterale ti puoi imbattere in una di quelle li-brerie d’altri tempi, che vende tutta la letteratura(usata) per migliorare il tuo inglese. Tutto sembraperfettamente in linea con l’english style: una sinto-nia tra tradizione e innovazione, un equilibrio tra cit-tà e campagna, un’armonia tra cultura e natura che si

sviluppa in questa terra con una spontaneità rincuo-rante.

Tuttavia a Totnes c’è di più. La persona che passeg-gia in bicicletta per la via probabilmente fa parte delcycling group, che ha come scopo «la promozionedell’uso della bicicletta come una forma realistica ditrasporto quotidiano e non come semplice attività peril tempo libero», come si legge sul sito della città; icottage con giardino lungo il fiume sono frutto pro-babilmente del progetto delle transition home o del

Transition TownsCome la decrescita può trasformarsi in realtà

di Valentina Cavalletti

Valentina Cavalletti

Ogni forma dell’agire, del pensare e delvivere della comunità di Totnes dal 2006

ad oggi è stata in qualche modo ripensatae rimodellata sotto l’impulso di un’idea,

quella di svincolarsi dall’utilizzo delpetrolio e dei combustibili fossili eritrovare la forza e la capacità di

resilienza tipica dei sistemi naturali

Qui e nella pagina a fianco: due scorci di Totnes

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gruppo di cohou-sing, che promuo-vono un’idea dicasa a basso im-patto ambientalee a basso costoper la gente delposto, un’idea diabitazione che in-tegri la possibilitàdi produrre cibobiologico, l’auto-sufficienza ener-getica, le energierinnovabili e l’u-tilizzo di materia-li locali e natura-li: «una rispostapratica alle seriesfide che ci stia-mo ponendo come comunità e come società»; il cibobiologico sulla tavola del tuo B&B potrebbe esserefrutto di un gardenshare, che permette di mangiare lafrutta e la verdure dell’orto del vicino di casa, dopoaver condiviso la fatica della coltivazione; oppurenon è improbabile raccogliere, passeggiando perstrada, una verdura cresciuta all’interno di un’aiuolapubblica, grazie al progetto Incredible Edible Totnes. Ogni forma dell’agire, del pensare e del vivere dellacomunità di Totnes dal 2006 ad oggi è stata in qual-che modo ripensata e rimodellata sotto l’impulso diun’idea, quella di svincolarsi dall’utilizzo del petro-lio e dei combustibili fossili e ritrovare la forza e lacapacità di resilienza tipica dei sistemi naturali. Que-sta capacità è applicabile anche alle comunità locali,che possono trovare delle strategie per riorganizzarsidi fronte a quegli eventi traumatici che arrivanodall’esterno, al di fuori del controllo degli abitanti diquella stessa comunità. Rob Hopkins, nativo di Tot-nes, è stato l’ideatore e il cofondatore di questo mo-vimento che ha reso possibile la trasformazione dellasua città, primo esempio di transition town nel mon-do. Nel suo The Transition Handbook: from oil de-pendence to local resilience, Hopkins illustra in mo-do pragmatico e scientifico come avviare una transi-

zione nella propria comunità grazie alla sua lungaesperienza di insegnamento e di ricerca nell’ambitodella permacultura e della progettazione sostenibile.Dall’esperienza di Totnes si è rapidamente sviluppa-to un network internazionale di Transition Towns,che ad oggi conta più di 400 comunità. In Italia laprima città di transizione è stata Monteveglio in pro-

vincia di Bolognama le iniziativesono molte esparse lungo tuttala penisola, grazieall’impegno diTransition Italia,il network italia-no nato per facili-tare e supportarela diffusione diquesto processocollettivo sul ter-ritorio nazionale.Una rivoluzionedal basso chepunta soprattuttoal coinvolgimentoe alla partecipa-zione attiva dei

cittadini, che sono chiamati ad essere protagonisti delprocesso di transizione attraverso l’ideazione di pro-getti specifici, da attuare in collaborazione con altricittadini, sfruttando le specifiche competenze. I temicari alle città in transizione sono perfettamente insintonia con i concetti legati alla decrescita: non acaso Rob Hopkins è stato invitato alla 3a Conferenzainternazionale sulla decrescita per la sostenibilitàecologica e l’equità sociale (Venezia, 19-23 settem-bre 2012).

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Dall’esperienza di Totnes si èrapidamente sviluppato un network

internazionale di Transition Towns, chead oggi conta più di 400 comunità. In

Italia la prima città di transizione è stataMonteveglio in provincia di Bologna

Rob Hopkins, cofondatore di Transition Town Totnes

Per saperne di più

http://www.transitiontowntotnes.org/http://transitionitalia.wordpress.com/http://www.transitionnetwork.org/http://transitionculture.org/http://www.venezia2012.it/

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Recentemente RobertoSaviano è tornato aWall Street, un annodopo la nascita di Oc-cupy e il primo invito atenere un interventopubblico ricevuto daparte degli organizza-tori del movimento.Era il settembre 2011,Zuccotti Park era statooccupato in reazionealla crisi scoppiata nel2008 e agli sconfortan-

ti dati statistici sulla distribuzione economica, se-condo i quali l’1% della popolazione controllava (econtrolla) il 40% della ricchezza, schiacciando ilrestante 99% (“Noi siamo il 99%” è stata – non acaso – la frase scelta come motto del movimento).In quell’occasione, Saviano – così come molti altriintellettuali da ogni parte del mondo – era stato in-vitato a parlare del rapporto tra mafia e crisi econo-mica. Presto, OWS si sarebbe allargato a macchiad’olio, arrivando a coinvolgere novecento città intutto il mondo e vedendo la nascita di oltre duemilacomunità di manifestanti, tra loro collegate grazieal lavoro svolto dal sito Occupy Together. Il movi-mento, che sin da subito ha fatto del progressismoe dell’egualitarismo la sua bandiera, cominciava aoffrire argomenti di dibattito e alternative alle logi-che di mercato che avevano portato alla crisi mon-diale, con lo scopo di riavvicinare i temi della fi-nanza alla vita individuale delle persone. A poco apoco, gli si creava attorno una costellazione digruppi dalle diverse esigenze: ci sono state le rimo-stranze degli studenti, le proteste contro gli affitti ei pignoramenti a Sunset Park e a Brooklyn (“Oc-cupy Our Homes”), le richieste di miglioramentodel sistema sanitario.

A far conoscere il movimento in Italia ci ha pensa-to l’“infiltrato” Riccardo Staglianò, giornalista diRepubblica che ha poi pubblicato Occupy WallStreet. Il reportage dentro la protesta (Chiarelette-re, 2012). Staglianò ha conosciuto i diretti protago-nisti dell’esperienza di OWS, li ha fatti parlare, haraccolto le loro richieste e le loro ragioni, ha segui-to dibattiti e riunioni, ha mangiato e dormito con

loro, raccontandoli poi con ironia, senso critico euna sorta di “distanza positiva”. Uno studente gliha confidato: «Sono qui perché il sogno americanoè diventato proprio quello: un sogno, non più unapossibilità», così sintetizzando meglio di chiunquealtro il pensiero dei partecipanti attivi di OWS,americani o stranieri che fossero. Staglianò è arri-vato a porre una fondamentale domanda (irrimedia-bilmente senza risposta) a sé stesso («Sono loro,con la convinzione che tutto si possa ancora cam-biare, o piuttosto noi, imbolsiti da tonnellate di ra-gionevolezza, a vivere una pericolosa illusione?»),ma era partito, soprattutto, con molte domande perloro, per i manifestanti; prima tra tutte: dove voletearrivare, dove potete arrivare?Un anno dopo, OWS non è ancora “arrivato”, forse

Occupy Wall Street Se il sogno americano non è più una possibilità

di Michela Monferrini

«Sono qui perché il sogno americano èdiventato proprio quello: un sogno, non

più una possibilità»

Michela Monferrini

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non “arriverà” mai, forse non vuole arrivare danessuna parte, ma gli organizzatori si stupiscono dicome possano essere riusciti a riunire e far manife-stare assieme così tante persone così tanto diversetra loro. «Non c’era – ha scritto ora Saviano – unasola visione del mondo condivisa, ma potevi scor-gere il punto di contatto di diverse visioni del mon-do». Diverso il loro credo politico, l’ambito lavora-tivo di provenienza (i disoccupati stavano accantoai lavoratori, e anche tra questi ultimi erano rappre-sentati diversi livelli sociali), diverse le loro richie-ste, i loro problemi; uguali, solo nella voglia dicambiamento di quel sistema sociale, di quel capi-talismo finanziario che li stava schiacciando, oltre-ché nel desiderio di poter manifestare le proprie ra-gioni pacificamente, tanto da impegnarsi all’inter-no dello stesso movimento per evitare che frangeestremiste potessero formarsi e rendere vano ognitentativo di dialogo: «Non siate violenti – è stata laraccomandazione –, o eccessivamente aggressivi.Qualsiasi accenno di violenza sarebbe una scusaper bloccare la protesta e arrestare tutti. Stiamousando la tattica della Primavera Araba per rag-giungere i nostri obiettivi e incoraggiare l’uso della

non-violenza per garantire la sicurezza di tutti ipartecipanti». A questo proposito, anche se nel no-vembre 2011 gli scontri e gli arresti si sarebberopoi effettivamente verificati, mai prima di OWS,erano nate regole simili all’interno di uno stessomovimento manifestante: dalle liste di comporta-menti corretti da adottare – spuntate su internetall’inizio dell’esperienza –, si è velocemente passa-

ti ai corsi di “comunicazione non-violenta” tenutidirettamente a Zuccotti Park. E forse è proprio gra-zie a tutto questo che OWS, nonostante i momentidi tensione, i cambi di programma, le richiestespesso inascoltate, è riuscito – ancora secondo Sa-viano – a «sopravvivere all’uragano», senza nean-che avere un proprio leader (non poteva averneuno, viste le diverse posizioni rappresentate dalmovimento, completamente “orizzontale”), senza –sembra un paradosso – avere un microfono. A NewYork, per parlare con un microfono, la manifesta-zione deve essere regolarmente registrata e autoriz-zata, il che non poteva dirsi per OWS. È nato cosìquello che è stato definito il “microfono umano”:qualcuno parla, e la folla intorno ripete le sue frasiall’unisono, per alzare il tono, per arrivare a tutti. Ecomunque, anche senza microfono, OWS ha avutoi suoi mezzi: ha avuto i tweet, i commenti, i videoda caricare su Youtube, perché è da subito statogiovane, e tecnologico, e ha saputo fare politicareale (qualcuno ha parlato di “antipolitica”, ma si-gnifica non aver capito il senso di quest’esperien-za) servendosi della comunicazione virtuale, pro-prio come aveva fatto Obama durante la sua primacampagna elettorale: solo che le speranze riposte inlui e nel suo operato sono state mal ripagate, disil-luse.

Oggi, di fronte alle imminenti elezioni americane,OWS fa un passo indietro, segno che i suoi propo-siti, nel corso di quest’anno, non sono mutati: si

«Sono loro, con la convinzione che tuttosi possa ancora cambiare, o piuttosto

noi, imbolsiti da tonnellate diragionevolezza, a vivere una pericolosa

illusione?»

Anche senza microfono, OWS ha avuto isuoi mezzi: ha avuto i tweet, i commenti,i video da caricare su Youtube. Perché èda subito stato giovane e tecnologico, eha saputo fare politica reale (qualcuno

ha parlato di “antipolitica”, ma significanon aver capito il senso di

quest'esperienza) servendosi dellacomunicazione virtuale

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vuole ancora creare dialogo, si vogliono sollevarequestioni, si vuole far riflettere, anziché entrare inun dibattito che solo apparentemente riguarda il mo-vimento e chi ha scelto di farne parte: «La nostraposizione – ha dichiarato Mark Bray, addetto stampadi Occupy – è che sia il Partito Democratico sia il

Partito Repubblicano abbiano sentimenti di gratitu-dine verso banche e corporazioni, e che la democra-zia non ha senso in questa società stratificata. Cia-scuno di noi voterà o non voterà per chi vuole, mainsieme siamo un movimento sociale indipendenteche prende le distanze dalla politica elettorale».

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Di certo gli indignati di Occupy Wall Street sanno cosa non vogliono. Ovvero ilperdurare di questa insostenibile diseguaglianza economica dove l’1 per centodella popolazione controlla il 40 per cento della ricchezza. Loro sono il restante99 per cento. Quelli lasciati cadere nel tritacarne del capitalismo finanziario. Chesi sono stancati di veder privatizzare i guadagni e socializzare le perdite.Riccardo Staglianò è entrato dentro al movimento. Nel libro ne racconta in presadiretta la genesi. Le storie dei protagonisti e la loro visione del mondo. Ha parte-cipato ai loro gruppi di lavoro. Prove tecniche di democrazia diretta, dove ognidecisione si prende all’unanimità. Niente leader («Il potere corrompe»). Nienterichieste specifiche («Non chiediamo permesso al sistema; ci riprendiamo ciò checi appartiene»). Con i riferimenti culturali più diversi, da Gandhi a Gene Sharp.Una cocente delusione per Obama. E il sostegno di intellettuali da tutto il mondo,dal premio Nobel Stiglitz a Naomi Klein, Slavoj Zizek e Roberto Saviano.Alla domanda «Quanto resisterete?» rispondono: «Anche tutta la vita. Non aven-

do un futuro, siamo qui per inventarcelo». Li hanno chiamati ingenui, ma nella dittatura del cinismo potreb-bero essere un antidoto. Se anche otterranno poco, sarà comunque tutto guadagnato. Con la passione che cimettono, poi, nessun esito è da escludere. Come dicono in America, only the sky is the limit, non c’è limite adove potrebbero arrivare.«Noi paghiamo il prezzo dei loro misfatti. Viviamo in un sistema che socializza le perdite e privatizza i gua-dagni. Questo non è capitalismo. È economia distorta» Joseph Stiglitz, a Zuccotti Park

Riccardo Staglianò, Occupy Wall Street. Il reportage dentro la protesta, Milano Chiarelettere, 2012da www.chiarelettere.it

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Lui è Muhammad Yu-nus, fondatore dellaGrameen Bank e premioNobel per la Pace, ha ri-vestito un ruolo chiavenel condurre, a livelloglobale, una battagliacontro la povertà. Parlare del professor Yu-nus non è solo racconta-re la storia di comevent’anni fa abbia sco-perto che accordandominuscoli prestiti ai dis-

eredati della terra si poteva fare di più di quanto aves-sero fatto miliardi di dollari degli aiuti stranieri. Non èsolo la storia di una banca che è cresciuta fino a esserein grado di fornire a dodici milioni di persone – vale adire il 10% della popolazione del Bangladesh – glistrumenti di autonomia per uscire dalla miseria. Non èsolo la storia di come la rivoluzione del microcreditosi sia espansa, aiutando i poveri di cinquantatré paesitra la Cina, il Sudafrica, la Francia, la Norvegia, il Ca-nada e gli Stati Uniti, ad assumersi la responsabilità eil controllo della propria vita.Parlare di Muhammad Yunus significa parlare di unadifferente visione del mondo.

È il pioniere del microcredito, ha potenziato attivitàgeneranti un guadagno tramite piccoli prestiti senzagaranzie collaterali, ha dimostrato che i poveri (soprat-tutto le donne povere) fanno del credito un uso infini-tamente migliore di quello che ne fanno i ricchi.Nato a Chittagong, terzo di quattordici figli, a ventino-ve anni diventa professore di Economia presso laMiddle Tennessee State University e in seguito diret-tore del Dipartimento di Economia dell’Università diChittagong.

Yunus e i suoi collaboratori hanno cominciato batten-do a piedi centinaia di villaggi del poverissimo Benga-la, concedendo in prestito pochi dollari alle comunità,somme minime che servivano per avviare progetti im-prenditoriali, ma tutto ciò non soltanto è cresciuto finoa diventare la struttura Grameen Bank, che significaBanca del Villaggio, ma ha dato il via anche a un cir-colo virtuoso con ricadute sull’emancipazione femmi-nile. Grazie al professor Yunus, le donne hanno con-quistato la propria indipendenza trasformandosi inreali imprenditrici, proprietarie di un conto corrente dapoter gestire autonomamente e capaci di creare coope-

L’anello mancante del capitalismoMuhammad Yunus e la rivoluzione del microcredito

di Elisabetta Tosini

Elisabetta Tosini

Parlare di Muhammad Yunus significaparlare di una differente visione del

mondo

L’economista e banchiere Muhammad Yunus, fondatore della Grameen Bank è considerato l’ideatore e realizzatore del microcredito mo-derno. Nel 2006 gli è stato assegnato il premio Nobel per la pace

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rative, promuovendo il coinvolgimento di ampi stratidella popolazione.Ad oggi la Grameen Bank concede prestiti a 7,93 mi-lioni di persone, il 97% delle quali sono donne, per untotale di oltre 8,26 miliardi di dollari con un tasso direstituzione prossimo al 100%. Yunus ha fondato anche la Grameen Trust, che diffondeil sistema di microcredito di Grameen in tutto il mondo.Più recentemente ha cominciato a promuovere l’idea

di “social business”, impresa senza dividendi né perdi-te con un obiettivo sociale, che rappresenta l’anellomancante del capitalismo.Ci sono notizie che spiazzano per la loro stucchevo-lezza, altre che disorientano perché non se ne riesce adefinire il costrutto logico. Nel 2006 Oslo ha asse-gnato a Yunus il Nobel per la Pace, poiché l’econo-mista visionario si misura, per alleviarli, con i pro-blemi reali di persone reali. Di sbagliato c’è che i po-veri, le madri indigenti di Chittagong, non fanno maila guerra ma la subiscono, infatti, Yunus ha migliora-to la loro vita economica esattamente come deve fareun premio Nobel per l’economia. Avergli dato il No-bel per la Pace sa di riparazione, se non di beffa, inun sistema economico mondiale che solo le periferie,il Bangladesh e il sud del mondo, sembrano capaci diriformare.

Del resto, però, nel 2011, lo stesso sistema economicoha obbligato il professore ad abbandonare la caricache ricopriva nella banca che lui stesso aveva fondato.La decisione è stata presa in seguito alle imponentipressioni fatte dalla Banca centrale del Bangladeshche ha contestato i metodi con i quali Yunus era statonominato direttore della Grameen.

Le onorificenze che il professore ha ricevuto spazianodal Premio Ramon Magsaysay, al World Food Prize alSydney Peace Prize; ha inoltre ritirato l’IndipendenceDay award, il più importante premio nazionale delBengala.Recentemente il presidente USA Barack Obama lo haonorato conferendogli la Medaglia presidenziale dellaLibertà, il più grande premio civile degli Stati Unitid’America.In definitiva Muhammad Yunus ci ha dimostrato lasua certezza, solida e profonda, che, se lo vogliamo,possiamo realizzare un mondo senza povertà, poichéciascuno di noi ha un potenziale illimitato, e può in-fluenzare la vita degli altri all’interno delle comunità edelle nazioni, nei limiti e oltre i limiti della propriaesistenza.

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Yunus ha dimostrato che i poveri(soprattutto le donne povere) fanno delcredito un uso infinitamente migliore

di quello che ne fanno i ricchi

I poveri, le madri indigenti diChittagong, non fanno mai la guerra

ma la subiscono, infatti, Yunus hamigliorato la loro vita economica

esattamente come deve fare un premioNobel per l’economia. Avergli dato ilNobel per la Pace sa di riparazione

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Da Rio a Rio +20.Questa volta il consen-so è stato raggiunto e ilgiudizio è praticamenteunanime; anzi, è statoun giudizio già emessoprima della conferenza:Rio +20 – la Conferen-za delle Nazioni Unitesullo Sviluppo Sosteni-bile, tenutasi anche que-sta volta a Rio de Janei-ro, il 20-22 giugno2012, nel ventennale

della famosa Conferenza di Rio, detta il Summit del-la Terra – è stata un insuccesso. Si sono trovati tuttid’accordo: funzionari delle Nazioni Unite, membridelle delegazioni governative, ecologisti e rappresen-tanti dei popoli indigeni, esperti di tutti i tipi: è statoun insuccesso, anzi di più, un fallimento annunciato.Eppure, la storia era cominciata in modo apparente-mente soddisfacente. Dopo una lunga preparazione,dagli inizi degli anni Settanta (la pubblicazione delRapporto sui Limiti dello Sviluppo da parte del Clubdi Roma è del 1972), si era arrivati alla prima Confe-renza di Rio (UNCED) nel 1992. L’analisi contenutanel rapporto era stata rafforzata dagli effetti della cri-si petrolifera del 1973, e nel ventennio successivo laquestione ambientale si era andata aggravando: alcu-ni incidenti disastrosi e un costante deterioramentodell’ambiente si erano legati a problemi economici,sociali, e di disparità tra nord e sud, tra sviluppo esottosviluppo, facendo emergere una contraddizionesempre più forte tra sviluppo e ambiente. L’impressione che si ebbe a Rio nel 1992 fu che ileader mondiali si fossero accorti di tutto ciò e cheintendessero veramenteporvi rimedio, in modoconsensuale, a parte un at-teggiamento da “cattivi”degli Stati Uniti (solo nel1993 si sarebbe insediatal’amministrazione demo-cratica di Bill Clinton, piùsimpatetica ai dettami diRio ma comunque lontanada ogni ratifica, segno diuna diffidenza americanamolto radicata).In ogni modo, pur tracompromessi ed azioni dilobby, e con gli Stati Unitiche frenavano direttamen-

te o tramite delegazioni amiche (il Regno Unito, adesempio), le decisioni prese a Rio sembravano robu-ste: tre convenzioni internazionali, dette informal-mente “globali”, legalmente vincolanti (due firmate aRio, la Convenzione quadro sul cambiamento clima-tico e la Convenzione sulla diversità biologica; la ter-za, sulla lotta alla desertificazione e siccità soprattut-to ma non esclusivamente in Africa, firmata dopo unpaio d’anni), e l’Agenda 21, un documento non vin-colante, ma corposo e dettagliato nel tentativo di da-re indicazioni complete su come conseguire una svi-luppo sostenibile nei diversi casi e ai vari livelli. Ladefinizione di questo obiettivo/paradigma era stato ilconcetto ispiratore degli impegni intrapresi e delquadro generale; ma proprio in questo risiedeva forseuno degli ostacoli.

Si credeva allora che l’implementazione di questistrumenti, dopo la loro approvazione e ratifica, sa-rebbe seguita, e che altri strumenti successivamenteconcordati avrebbero rafforzato il quadro generale(strumenti sulle foreste, sulle risorse idriche, sul ma-

re, collegamenti con altri“fori” come la FAO, l’U-NESCO, il WMO etc.). Ineffetti, l’implementazionec’è stata, ma limitata es-senzialmente al piano eco-diplomatico e formale,scandito da strumenti ine-sigibili: il Protocollo diKyoto sul controllo delleemissioni di gas a effettoserra, il Protocollo di Car-tagena sul trasferimentotransfrontaliero di “organi-smi viventi modificati”preparati grazie alle mo-derne biotecnologie etc.

Earth Summit 2012 L’insuccesso di Rio +20: un obiettivo insostenibile

di Francesco Mauro

Francesco Mauro

Dopo venti anni, in maniera un po’liturgica, le scadenze di Rio +5, +10 e+15 si sono susseguite, prendendo atto

che i risultati sul campo, laddoveesistenti, sono stati scarsi oppure

chiaramente non collegati agli strumentidi Rio ma dovuti ad altri fattori. Le

peripezie dei dettami di Kyoto sono notea tutti, messi in crisi non solo dalla

posizione degli USA ma anche da quelladei grandi paesi emergenti

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Sono passati da allora venti anni e, in maniera un po’liturgica, le scadenze di Rio +5, +10 e +15 si sonosusseguite, prendendo atto che i risultati sul campo,laddove esistenti, sono stati scarsi oppure chiaramen-te non collegati agli strumenti di Rio ma dovuti adaltri fattori. Le peripezie dei dettami di Kyoto sononote a tutti, messi in crisi non solo dalla posizionedegli USA ma anche da quella dei grandi paesi emer-genti. Anche sulla biodiversità le note positive non cisono state (tranne che, paradossalmente, nei paesi delnord grazie all’abbandono dei terreni marginali perl’agricoltura ed il ritorno, spontaneo o per riforesta-zione, dell’espansione della foresta boreale e tempe-rata). I successi registrati sono stati semmai comuni-cativi, formativi e culturali, per la presa di coscienzadi alcune problematiche, anche superando un certoconservatorismo accademico; ma pagando lo scottodi un verbalismo “politically correct”.

Le possibili ragioni di un insuccesso. Come accen-nato, il deludente esito di Rio +20, e soprattutto ilfallimento di ogni tentativo credibile di introdurrenuovi strumenti vincolanti e rendere realmente vin-colanti (“enforcement”) quelli esistenti, specialmentenei riguardi degli aspetti finanziari a carico dei paesiindustrializzati, era ormai largamente atteso, ma ve-niva interpretato come dovuto ad una carenza di vo-lontà da parte di Stati Uniti, Regno Unito, Australia,Germania, Giappone e qualche altro, soprattutto neiriguardi del Protocollo di Kyoto, in un quadro piùgenerale di diminuzione di tensione. La posizionepolitico-culturale dominante negli organi delle Na-zioni Unite e nelle Convenzioni – una sorta di mix di“neoliberismo” controllato dallo stato, impegno “ver-

de”, multilateralismo terzomondista – comunque ri-teneva che a Rio +20 la situazione potesse essere re-cuperata e rilanciata in termini didascalici, fornendonuovo impeto, grazie a un cerimoniale accuratamen-te preparato, alla pressione delle ONG, e alla messain mora dei “cattivi”. Ma così non è stato: la media-zione dell’ONU e del Brasile ospitante non ha accon-tentato quasi nessuno, l’insuccesso è stato ricono-sciuto e denunciato dal “nord” e dal ”sud”.L’errore commesso dalla burocrazia ONU – ossia dal-la CSD (Commission on Sustainable Development) edall’UNEP (United Nations Environmental Program-me), in prima fila e dai “burocrati dell’ambiente” èstato evidente: quello di interpretare le difficoltà co-me dovute a cattiva volontà politica ed alla difesa diinteressi nazionali ed aziendali – cosa in parte verama non sufficiente – senza sottoporre ad analisi criti-ca l’impostazione generale del processo di Rio.Per prima cosa, non si è capito che la crisi ambienta-le in certe regioni sta peggiorando, anche a causa difenomeni finora trascurati o inattesi (la grande nubescura di inquinamento associata con i monsoni inver-nali sopra India e Asia del sud-est, la deforestazionenelle regioni tropicali, lo spostamento latitudinaledelle zone siccitose e aridificate, la catastrofe nuclea-re di Fukushima a seguito di uno tsunami, il ruolosempre maggiore degli incendi), anche se altrove (adesempio, in Nuova Zelanda, Canada, Australia) lostato dell’ambiente migliora (riduzione dell’inquina-mento atmosferico e marino da parte dei paesi indu-strializzati). Comunque sembra non ancora acquisitoda parte dei decisori il concetto che i fenomeni deldegrado ambientale sono di origine multifattoriale e

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La presidente del Brasile Dilma Rousseff all’Earth Summit 2012

In soli cinquant’anni, dal 1960 al 2010, il numero degli abitantidell’area della foresta amazzonica è passato da 6 a 25 milioni e lasuperficie della foresta si è ridotta notevolmente

Non si è capito che la crisi ambientalein certe regioni sta peggiorando, anchea causa di fenomeni finora trascurati o

inattesi: la grande nube scura diinquinamento associata con i monsoniinvernali sopra India e Asia del sud-

est, la deforestazione nelle regionitropicali, lo spostamento latitudinale

delle zone siccitose e aridificate, lacatastrofe nucleare di Fukushima, ilruolo sempre maggiore degli incendi

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le iniziative spesso continuano ad essere frammenta-te secondo un approccio a matrice in uno spazio noncorrettamente definito.Eppure, negli ultimi anni, critiche motivate hannocominciato ad emergere e diversi possibili errori diimpostazione sono stati segnalati. Un primo errorepuò riguardare la scelta di porre da sola al centrodell’attenzione la questione energetica, pur impor-tantissima dal punto di vista dello sviluppo umano,ma molto governata da fattori geopolitici e specula-tivi. Questa scelta è stata aggravata dall’interpreta-zione della questione energetica essenzialmente co-me questione climatica (Protocollo di Kyoto), su ba-si scientifiche che non si sono mai completamente

affermate e che tuttora sono contestate da diverseparti. A leggere bene il dibattito, si può rilevare chenon è tanto il cambiamento climatico ad essere mes-so in discussione, rivendicata una giusta considera-zione per i cambiamenti climatici del passato e laesistenza di numerosi fattori, naturali ed antropici,capaci di co-indurre e influenzare il cambiamentoclimatico; quanto l’importanza relativa della relazio-ne CO2-clima e quindi della responsabilità antropi-che. I critici ritengono che sarebbe stato più sempli-ce affrontare il problema del cambiamento climaticoseparatamente da quello energetico, e comunque intermini di mitigazione e adattamento e non di pre-venzione. In tal caso, il problema energetico verreb-be ricondotto ai suoi termini geopolitici e, sul pianodei consumi, all’innovazione, al risparmio e all’effi-cienza energetica.

In questa visione critica, anche la questione dellabiodiversità non è stata posta correttamente. Per pri-ma cosa, la conservazione e l’uso sostenibile avreb-bero dovuto riguardare primariamente la biodiversitàecosistemica, paesaggistica e nei suoi aspetti territo-riali. Una contraddizione questa che passa anche al-l’interno di una ONG di “conservazionismo scientifi-co” come l’IUCN (International Union for Conserva-tion of Nature), che oscilla tra l’impegno sulla “listarossa delle specie in pericolo” ed il cosiddetto ap-proccio ecosistemico. Una visione riduttiva dellaquestione della biodiversità ha peraltro concorso alfar sì che la relativa convenzione non fosse quellacentrale al processo di Rio. Questa convenzione, in-vece di affrontare il problema chiave della gestionedegli ecosistemi, ha preferito dedicarsi al Protocollodi Cartagena, concessione ai timori verso le biotec-nologie espressi da alcune ONG nelle nazioni indu-strializzate. Di converso, un impegno sulla biodiver-sità indirizzato verso gli ecosistemi sarebbe stato in-teressante in quanto avrebbe sottolineato gli aspettiterritoriali della crisi ambientale. In tal modo, si sa-rebbe potuta comprendere la differenza operativaprofonda tra la devastazione dell’ambiente causatada un intervento antropico sregolato e la modifica-zione dell’ambiente perseguita in modo sostenibile.Questa scelta di porre la questione territoriale al cen-tro dell’attenzione avrebbe potuto essere portataavanti sia dando maggior centralità alla Convenzionesulla Biodiversità, sia utilizzando la terza convenzio- 33

L’inquinamento sale sul tetto del mondo: dal 2006 al 2010 nellaregione dell’Everest la quantità delle particelle prodotte dallacombustione (il cosiddetto black carbon) è aumentata del 300% el’ozono del 30%. Gli abitanti di alcuni villaggi della zona si di-chiarano ormai “rifugiati ambientali’’

I critici ritengono che sarebbe stato piùsemplice affrontare il problema del

cambiamento climatico separatamenteda quello energetico, e comunque in

termini di mitigazione e adattamento enon di prevenzione. In tal caso, il

problema energetico verrebbericondotto ai suoi termini geopolitici e,sul piano dei consumi, all’innovazione,al risparmio e all’efficienza energetica

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ne, sostituendo allalotta contro la deser-tificazione una piùgenerale lotta controil degrado del territo-rio. Quest’ultimascelta sarebbe peròstata politicamenteimproponibile inquanto si sarebbescontrata con le ri-chieste degli statiafricani e dei paesi invia di sviluppo.Dopo questi errori diimpostazione, vannoriconosciuti diversiproblemi operativi che hanno concorso agli esiti in-soddisfacenti. Errori di comunicazione prima di tutto:un catastrofismo che ha finito per irritare l’opinionepubblica e per essere smentito da molti autori scienti-fici. Un uso a sproposito di alcuni termini, come ”so-stenibilità”, “desertificazione”, e “impronta ecologi-ca”, ha avuto impatti negativi. Si è infine notata unapresenza sempre minore degli scienziati, sostituiti gra-dualmente, nel sistema delle Nazioni Unite e in sediistituzionali come la Commissione europea, da “tecni-ci”, distinti dai cultori delle scienze naturali.I costi del sistema delle Nazioni Unite e il mancato co-

ordinamento fra le agenzie dell’ONU e fra le conven-zioni, più volte ma invano richiesto, hanno anche in-crementato il tono e il numero delle critiche. La crisifinanziario-economica sta facendo la sua parte e, inmodo paradossale, sta producendo una diminuzionedegli impatti sull’ambiente a seguito del calo dellaproduzione e dell’espansione industriale e urbana.Qualche prospettiva per il futuro. Non è chiaro, aquesto punto, quale possa essere l’avvenire del pro-cesso di Rio. L’impressione generale è che esso nonpossa essere riformato ma neanche del tutto abbando-nato. Se da un lato si riconosce da più parti che il con-senso globale che era stato raggiunto non è più esi-stente, dall’altra appare evidente che una rete è statacreata e che, accanto ad una gestione burocratica cen-tralizzata, si è affermata la formazione di un sistemaflessibile e potenzialmente in grado di evolversi nel

contesto di un cam-biamento globale incorso ma dai confinie dettagli incerti. Alcuni approcci dianalisi sono statimessi a disposizionedi ricercatori e deci-sori. Uno di questi èla visione dei proces-si della biosfera (an-che) in termini diflussi di capitale: al-cune multinazionalisi sono dimostrate in-teressate a questo ap-proccio. E ancora:

molti governi, gli stessi che si sono rifiutati di prendereimpegni di cooperazione onerosa, stanno prendendo inconsiderazione l’indicazione di attribuire un maggiorvalore alla natura ed eventualmente di modificare ilPIL in modo da includervi i fattori di “valore” ambien-tale e sociale, i costi dei servizi ambientali e delle ester-nalità. Questo approccio non è certamente nuovo, maha il pregio di superare alcune posizioni ideologiche“verdi” affermatesi a Rio, o meglio di rendere possibilel’utilizzazione sia di concetti di mercato, sia di concetti“radicali verdi”, sia di approcci scientifici relativamen-te nuovi (come l’approccio ecosistemico). L’esperienzadegli ultimi decenni sembra mostrare che, davanti aproblemi così complessi ed articolati, le grandi confe-renze planetarie non costituiscano l’approccio miglioreper trovare un accordo, se non altro per la presenza didiversi e ben radicati interessi nazionali, e quindi per ladifficoltà di raggiungere una unanimità consensuale. Inaltre parole, si sta affermando la strada basata sull’af-frontare i singoli casi uno per uno, con approcci piùpragmatici e locali, con la partecipazione non solo deigoverni, ma delle imprese e degli scienziati – alla ricer-ca di tecnologie che possano aiutare a trovare le solu-zioni opportune – e degli altri “stakeholders”.Peraltro, superare le incrostazioni ideologiche e gli in-teressi lobbystici di alcune industrie come degli attivi-sti di professione non sarà facile. Vi è poi un caveatgrande come un macigno: il futuro dell’ambiente edella sostenibilità come potrà essere disegnato dallafuoriuscita dalla grande crisi economico-finanziaria diquesti tempi? La sostenibilità ambientale del futuro di-penderà da come si ricostituirà il rapporto fra svilup-po, mercato e democrazia; ma è opportuno fin daadesso, in modo empirico e utilitaristico, impegnarsiper far sì che, questa volta, la conservazione, l’uso so-stenibile e l’equa condivisione dei benefici (e dei co-sti) – o, se si vuole cambiare terminologia, un uso as-sennato, giustificato e conservativo delle risorse natu-rali biotiche e abiotiche – siano fin da subito degliobiettivi dovuti e concreti.

*Articolo già apparso su L’Astrolabio. Newsletter

degli Amici della Terra, n. 11 del 9 ottobre 2012,astrolabio.amicidellaterra.it

Un impegno sulla biodiversitàindirizzato verso gli ecosistemi sarebbe

stato interessante in quanto avrebbesottolineato gli aspetti territoriali della

crisi ambientale. In tal modo, sisarebbe potuta comprendere la

differenza profonda tra la devastazionedell’ambiente causata da un interventoantropico sregolato e la modificazione

dell’ambiente perseguita in modosostenibile

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Un’immagine satellitare dei reattori dell’impianto nucleare di Fukushima dopol’incidente del marzo 2011

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Nell’ottobre 1973, aNyach, nello Stato diNew York, circa duecen-to economisti firmavanoil manifesto per una“economia umana” re-datto da Nicholas Geor-gescu-Roegen, KennethBoulding e HermanDaly. Georgescu-Roe-gen aveva sessantasetteanni, si era laureato aBucarest, aveva prose-guito gli studi accademi-

ci a Parigi ed era poi emigrato negli Stati Uniti, dovesarebbe rimasto sempre. Nel momento in cui redigevail manifesto, raccogliendo la proposta dell’associazio-ne ambientalista e pacifista “Dai Dong” (un’espressio-ne cinese con cui si vuole indicare che i figli di un uo-mo sono i figli di tutti e l’intero mondo è la sua fami-glia), l’economista metteva a punto la sua teoria della“bioeconomia”, che si sarebbe poi accompagnata allaformulazione del sistema economico indicato con ilnome di “decrescita”. Georgescu-Roegen – spesso ad-ditato semplicisticamente come un pessimista e unprovocatore – metteva in guardia dalla limitata dispo-nibilità di risorse energetiche del pianeta, e proponevaun modello bioeconomico per il quale non era assolu-tamente sufficiente rispondere all’esaurimento di certamateria con la sua trasformazione in una nuova risor-sa: nell’ottica di Georgescu-Roegen (ottica in cui l’e-conomia si saldava strettamente alle leggi della fisicae diveniva ecologia), anche la materia – come già l’e-nergia – va incontro al proprio degrado, per cui sem-mai l’uomo dovrà investire le proprie risorse economi-che per provvedere allo smaltimento, oltre che alla tra-sformazione. La prospettiva di Georgescu-Roegensembrava, considerata sulla lunga distanza temporale,non riuscire a fornire risposte ottimistiche o quanto-meno propositive.

Il manifesto per l’economia umana si inseriva in talemomento di dibattito – nel mezzo inoltre di una gravecrisi energetica che investiva il settore petrolifero emandava alle stelle il prezzo della benzina –, arrivan-

do a porre una serie di domande («Che fare? Quali so-no gli effettivi costi – si legge nel testo –, a lungo ter-mine, della produzione di merci e chi finirà per pagar-li? Che cosa è veramente nell’interesse non solo attua-le dell’uomo, ma nell’interesse dell’uomo come spe-cie vivente destinata a continuare?») e individuandouna prima soluzione nel tentativo di smettere di consi-derare astrattamente il mondo e le leggi del denaro, e

nel guardare piuttosto alle abitudini di vita sociale del-l’uomo, che avrebbe dovuto in primo luogo diminuireil consumo (dunque la produzione delle merci), equindi portare su scala più vasta il suo senso della giu-stizia e le sue regole economiche senza conoscereconfini, arrivando a un «sistema globale» che rappre-sentasse una «economia della sopravvivenza, anzi del-la speranza» contro la vecchia «economia del potere».Si era, inoltre, nel pieno della guerra del Vietnam (sicombatteva da tredici anni, si sarebbe combattuto perun altro biennio) e non è secondario il fatto che tra lelinee del manifesto vi fosse un evidente antimilitari-smo, essendo le spese di guerra, secondo i firmatari, leprime da eliminare in uno stato che puntasse a unacondotta economica “umana”: «Le nazioni – si leggeancora – che sono tanto sviluppate da essere i princi-pali produttori di armamenti dovrebbero essere capacidi raggiungere un ampio consenso su questo divietosenza alcuna difficoltà se, come affermano, possiedo-no anche la saggezza per guidare l’umanità. Interrom-pere per sempre la produzione di questi strumenti diguerra non solo la farà finita con gli assassini di massaper mezzo di armi ingegnose ma libererà anche gran-dissime forze produttive che potranno essere impiega-te per l’aiuto internazionale senza pregiudizio del li-vello di vita nei rispettivi paesi».Nell’autunno 2013 queste parole compiranno qua-rant’anni: sembra allora auspicabile, in un periodo dicrisi davvero “globale” e di fronte a stati che, mentrecorrono ad armarsi per poter fare la guerra sono sulpunto di dichiararsi guerra per evitare di armarsi, unanuova riflessione sulle teorie proposte dal testo diNyach, sul loro grado di riscontrabilità o di utopia nel-la realtà di oggi, dove una decrescita controllata – erail pensiero di Georgescu-Roegen, forse mai davveropreso sul serio – potrebbe rappresentare un nuovo mo-dello di crescita; o anche soltanto come invito a pren-dere in considerazione una nuova strada, un nuovopercorso, fuori dalla vacillante economia tradizionale.

I figli di un uomo sono i figli di tuttiIl manifesto per l'economia umana compie quarant'anni: gli ammonimentidi Nicholas Georgescu-Roegen

di Michela Monferrini

Michela Monferrini

Nell'ottobre 1973, a Nyach, nello Statodi New York, circa duecento economisti

firmavano il manifesto per una“economia umana” redatto da

Nicholas Georgescu-Roegen, KennethBoulding e Herman Daly

La teoria della “bioeconomia” sisarebbe poi accompagnata alla

formulazione del sistema economicoindicato con il nome di “decrescita”

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La Terra vista dal cieloL’arte come strumento di salvaguardia del Pianeta

di Francesca Gisotti

Sono passati moltissimianni da quando la Terra,territorio ancora tutto dascoprire, spingeva navi-gatori e avventurieri acompiere imprese estre-me e spesso senza ritor-no. Intraprendere unviaggio poteva allora si-gnificare rischiare lapropria vita, ma il desi-derio di scoperta e la vo-lontà di conoscere nuoverealtà erano più forti di

ogni paura. Oggi si può dire che restino ben pochi lem-bi di mondo a non essere stati scandagliati da cima afondo. Spesso l’azione dell’uomo non si è limitata aduna semplice osservazione, traducendosi purtroppo inun’opera di radicale trasformazione dei luoghi e dellepopolazioni che vi abitavano. C’è però un uomo che havoluto gettare uno sguardo “nuovo” su questo nostroPianeta, convinto che ci fosse ancora tanto da scoprire;bastava semplicemente “cambiare il punto di vista”. Sitratta del regista e fotografo Yann Arthus-Bertrand che,dal 1994, ha intrapreso un ambizioso progetto: fotogra-fare e riprendere “la Terra vista dal cielo”. La storia di quest’artista e naturalista francese è un’ap-passionante testimonianza d’amore per la natura. Dopoaver diretto una riserva naturale nel cuore del suo Pae-se, Bertrand va a vivere in Kenia per approfondire lostudio dei leoni di quella zona. È proprio lì, durante unviaggio a bordo di una mongolfiera, che scopre unnuovo modo di osservare la Terra e se ne innamora. Daallora tante le attività portate avanti: dai reportage delRally Paris – Dakar all’iniziativa, nel 1989, di riunire ipiù grandi fotografi francesi per una tre giorni di “scat-ti”. La sua specializzazione in fotografia aerea lo rendeuno dei più apprezzati maestri del genere, un meritoche lo porta a pubblicare le sue opere sualcune riviste molto prestigiose come LeFigaro ed il National Geographic. Nel 1991 fonda l’agenzia Altitude, cheraccoglie immagini aeree scattate in varieparti del globo e, tre anni dopo, grazie an-che al patrocinio dell’Unesco, inizia l’av-ventura più importante della propria vita:fotografare il mondo dall’alto. Da allora harealizzato più di 300.000 fotografie e mol-tissime riprese, girando in lungo e largo,per un totale di ben 150 paesi visitati. Larealtà immortalata sembra quasi apparte-nere ad un passato lontano, dimenticato, incui la natura incontaminata non aveva an-

cora subito gli effetti distruttivi di una “modernizzazio-ne” senza rispetto per gli equilibri del sistema. La forzadi una cascata, la corsa di un animale selvaggio, i colo-ri e le forme di una vegetazione ai più sconosciuta.

La Terra ci appare come un misterioso organismo pul-sante di vita, di fronte alla quale l’individuo è solo lapiccolissima parte di un meccanismo in equilibrio per-fetto con se stesso. Eppure questo stupore, che ancoraci coglie di fronte a tanta bellezza, nei secoli sembraessere stato sostituito da un senso di “inadeguatezza”,una sorta di “complesso di inferiorità” che l’uomo hacercato di superare con le armi di un presunto “pro-gresso”. Nel tentativo di recidere il cordone ombelica-le che lo teneva legato alla grande Madre, egli ha mes-so in atto azioni di totale stravolgimento degli assettiecologici, cercando di ribadire il suo essere “indipen-dente” rispetto ad una genitrice ritenuta “troppo in-gombrante”. A giustificare tale azione sono state avan-zate diverse motivazioni: miglioramento degli stili divita, aumento della produttività, creazione di un siste-ma di sviluppo molto più accelerato rispetto a quellolasciatoci in eredità dai nostri antenati. Civiltà contronatura. Se non si possono negare i tanti effetti positividerivati dalle scoperte della tecnologia e della scienza,neanche si può evitare di riflettere sulle disastroseconseguenze di una loro applicazione esasperata e sul

loro essere vantaggiose solo per una pic-cola parte della popolazione mondiale.Ecco allora che Bertrand ci getta davantiagli occhi un’altra realtà, molto meno ras-sicurante di quella offerta dalla visione discenari “mitici”, sempre più in via diestinzione. È l’azione umana a diventarequi protagonista: discariche a cielo aper-to, disastri ambientali, deturpanti realtàarchitettoniche. Sono immagini che feri-scono, che ci ricordano quanto la preoc-cupazione principale non possa più essereil livello di produttività economica, per-ché ad essere in pericolo è la nostra stessaesistenza. Considerare la Terra come un

Francesca Gisotti

Nel 1994 Yann Arthus Bertrand, grazieanche al patrocinio dell’Unesco, inizia

l’avventura più importante dellapropria vita: fotografare il mondo

dall’alto. Da allora ha realizzato più di300.000 fotografie e moltissime riprese,

girando in lungo e largo, per un totale diben 150 paesi visitati

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Il fotografo e giornalista franceseYann Arthus Bertrand

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“corpo estraneo”, daplasmare, sta facendosì che essa venga gra-dualmente privata delsuo ossigeno, che è lastessa aria che ci per-mette di vivere. Manifestazioni dellasua ribellione sonocostantemente davantii nostri occhi sotto forma di disastri ambientali di va-rio genere, eventi che spesso non riusciamo, o voglia-mo, interpretare. Invece, come sottolinea lo stessoBertrand, dovrebbero essere letti come occasioni di ri-flessione su un modello di “evoluzione” alternativo,mirato al risparmio energetico, alla riforestazione, alriciclaggio totale dei rifiuti, alla diminuzione dei con-sumi. L’azione individuale e quella globale divente-rebbero così “complici” di una nuova e diversa “mo-dernizzazione”, in sintonia e non in contrasto con gliequilibri del Pianeta. Solo così la Terra tornerebbe adessere l’unica vera Home, titolo emblematico del do-cumentario girato dal fotografo francese e prodotto dalnoto regista Luc Besson nel 2009. We all have a datewith the planet, è il sottotitolo del lungometraggio, unappuntamento, appunto, che non possiamo mancare ea cui dovremmo arrivare con una nuova consapevo-lezza, sia rispetto allo scenario in cui siamo inseriti siarispetto a come potremmo cambiarlo. Oltre a questofilm e a diverse altre opere per il cinema e la televisio-ne (recentissimo è il documentario La soif du monde),dall’esperienza di Bertrand è nato anche un libro (co-stantemente aggiornato) ed un evento internazionale:una mostra itinerante che, proprio come il suo autore,sta facendo il giro del mondo, svolgendosi, in lineacon la filosofia che la anima, sempre all’aperto e gra-tuitamente. Sul suo esempio sono molti gli artisti che hanno presoa cuore il problema ecologico e la necessità di renderenote alcune situazioni gravissime e per troppo tempotaciute. Una dimostrazione dell’importante lavoro

compiuto dai cineastidi tutto il mondo èrappresentato dallarassegna Il Festivaldelle Terre, giuntoquest’anno alla suanona edizione e rea-lizzato a Roma all’in-terno della “Mediate-ca delle Terre”, l’ar-

chivio multimediale del Centro Internazionale Croce-via. Questa Organizzazione Non Governativa da tem-po si occupa della valorizzazione dell’identità cultura-le e delle tradizioni dei popoli, con particolare atten-zione a quelli che hanno maggiormente subito ledrammatiche conseguenze di modelli di sviluppo im-posti dall’esterno. Fra i documentari presentati que-st’anno, presso il Nuovo Cinema Palazzo – Sala Vitto-rio Arrigoni a San Lorenzo, particolarmente significa-tivi sono stati When the Water Ends dell’americanoEvan Abramson e Desire of Changhu del cinese Hua-qing Jin. Il primo documenta la drammatica situazionein cui vivono le popolazioni al confine fra Kenya edEtiopia, dove il riscaldamento della Terra ha provoca-to il prosciugamento delle acque, causando sanguinosiconflitti per l’accesso ai bacini idrici. Il secondo rac-conta, attraverso la quotidianità di un bambino e dellasua famiglia, i problemi derivanti dalla graduale spari-zione dell’oasi di Mingin, nel deserto del nordest dellaCina. Fortunatamente però arrivano anche testimo-nianze che rincuorano e proprio dall’Italia. La giovaneregista Raffaella Bullo ha infatti documentato il bell’e-sempio di agricoltura ecosostenibile promosso dalleCooperative “Valle dei Casali” e “Il Trattore” e portatoavanti a pochi passi da Roma. Qui la coltivazione del-la terra si lega al reinserimento di persone in difficoltàe vede svolgersi quotidianamente anche servizi di ri-storazione, di giardinaggio, di educazione ambientaleper i bambini e riabilitazione psico-sociale. Un bell’e-sempio insomma di come il legame fra la Terra e l’uo-mo possa ancora dare i “suoi frutti”.

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Quando nel 1999 venne pubblicato La terra vista dal cielo nessuno avrebbe maiimmaginato che 10 anni più tardi quel libro sarebbe diventato un monumento,realistico e veritiero, sullo stato del pianeta. E che un lavoro così importante eunanimemente riconosciuto avrebbe portato il suo autore a divenire uno dei per-sonaggi più accreditati - a livello mondiale - in materia di difesa dell’ambiente. Adieci anni di distanza il grande successo di Yann Arthus-Bertrand ritorna in un’e-dizione ampliata con una serie di nuove e spettacolari fotografie. In questi anni,Yann Arthus-Bertrand non ha mai smesso di viaggiare e documentare, fotografan-do aree della terra dove prima non si era spinto. Così alcune destinazioni si sonoaggiunte a completare un ritratto unico del nostro Pianeta: dall’Isola di Pasqua, al-la Siria, dal Gabon alla Groenlandia. Un centinaio di nuove immagini, corredateda didascalie, arricchiscono in questo modo il precedente lavoro. Oltre ad essere

un volume fotografico di valore artistico per l’alta qualità degli scatti, La terra vista dal cielo è anche un li-bro che permette di scoprire, comprendere e agire insieme per assicurare un avvenire alle generazioni future.All’interno del volume i grandi temi relativi all’ecologia (agricoltura, biodiversità e clima) sono analizzatida specialisti di fama internazionale, in un momento critico per l’ambiente, in cui è necessaria la conoscenzae la consapevolezza da parte di tutti.

Yann Arthus Bertrand, La terra vista dal cielo, Milano, Monandori Electa, 2010

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«Piantare alberi è comeseminare idee. Con ilsemplice gesto di pian-tare un albero diamosperanza a noi stessi ealle future generazio-ni». Così il premio No-bel per la Pace WangariMaathai sintetizzò l’es-senza del Green BeltMovement, associazio-ne non governativa dalei fondata nel 1977,con lo scopo di difende-

re i diritti umani e di sostenere una corretta ammini-strazione democratica delle nazioni attraverso la pro-tezione dell’ambiente. La Maathai era consapevoledel fatto che la preservazione e il ripristino delle ri-sorse naturali rappresentassero il primo passo per larealizzazione della democrazia e della pace.

Nata nel 1940 in una comunità poligamica di etniakikuyu stanziata in una zona rurale del Kenya, Wan-gari Maathai fu la prima donna centrafricana a lau-rearsi in biologia nel 1964 al Mount St. ScolasticaCollege del Kansas e nel 1966 otten-ne un master in scienze all’Universitàdi Pittsburgh. Più tardi conseguì ildottorato in anatomia all’Universitàdi Nairobi dove nel 1976 ottenne lacattedra di veterinaria.L’attività del Green Belt Movementiniziò quasi per caso quando la biolo-ga applicò le sue competenze a finiecologisti: piantare degli alberi percombattere la desertificazione, stimo-lare la biodiversità alternando speciediverse di piante, valorizzare le zoneverdi già esistenti. Wangari Maathaiebbe l’idea di coinvolgere nel suoprogetto persone povere e non alfabe-tizzate, in prevalenza donne, prove-nienti dalle zone rurali del Kenya. In-dividuò nel Movimento Green Belt,l’opportunità per le donne dei villaggidi far sentire la propria voce e trovarefinalmente il coraggio di agire.

Nel 1976 Wangari Maathai si iscrisse al Consiglionazionale delle donne del Kenya: durante la giornatamondiale dell’ambiente nel 1977, con altre attivistedel Consiglio nazionale, piantò sette alberi in un par-co appena fuori città. «Un simbolo di pace» dichiarò. Ebbe così inizio il movimento femminile Green Beltcontro il degrado ambientale ma anche contro la cor-

ruzione del partito unico di Daniel Arap Moi, presi-dente dal 1978 al 2002. Nel 1988 la professoressaMaathai si scontrò con il dittatore Moi per impedirela costruzione di un grattacielo di 62 piani con allog-giamenti di lusso nell’Uhururu Park che avrebbe eli-minato centinaia di acri di foreste; la biologa riuscìad attirare l’attenzione della stampa internazionalebloccando lo scempio ma fu più volte picchiata, in-carcerata e minacciata di morte dal regime di Moi.La repressione di Moi contro Wangari Maathai e lealtre attiviste fu così brutale da scatenare le proteste

dei governi stranieri e di AmnestyInternational.Negli anni Ottanta, il marito diWangari Maathai chiese il divorziodalla moglie con la seguente moti-vazione: «Troppo istruita, troppoforte, troppo riuscita, troppo diffici-le da controllare». Wangari Maathaiaccettò con serenità il prezzo dellasolitudine che dovette pagare a cau-sa delle sue battaglie: «A volte midomando come sarei diventata seMwangi non mi avesse lasciata –scrisse in un passo della sua auto-biografia – se lui fosse rimasto, for-se le cose sarebbero andate moltodiversamente. La via che avrei se-guito sarebbe stata la nostra, manon la mia. La vita ci offre delleopportunità anche nei momentipeggiori».Nel 2002, con l’insediamento del

La donna che piantava gli alberi Wangari Maathai e il Green Belt Movement

di Gaia Bottino

di Gaia Bottino

La biologa e ambientalista keniotaWangari Maathai è stata la prima don-na africana ad aver ricevuto il PremioNobel per la Pace per «il suo contribu-to alle cause dello sviluppo sostenibile,della democrazia e della pace». È statamembro del parlamento keniota e assi-stente ministro per l'ambiente e le ri-sorse naturali dal 2003 al 2005.Foto Martin Rowe©

Negli ultimi venti anni molti degliobiettivi del Green Belt Movement e diWangari Maathai sono stati raggiunti:

oltre 40 milioni di alberi sono statipiantati lungo il continente africanocontro la desertificazione e oltre 30mila donne sono state addestrate in

silvicoltura, in lavorazione dei generialimentari e in apicoltura

«Piantare alberi è come seminare idee.Con il semplice gesto di piantare unalbero diamo speranza a noi stessi e

alle future generazioni»

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governo Mbaki e la sua politica incentrata sulla lot-ta alla corruzione, Wangari Maathai ricoprì l’incari-co di sottosegretario al Ministero dell’ambiente enel 2004 fu la prima donna africana nella storia a ri-cevere il Premio Nobel per la Pace per «il suo con-tributo alle cause dello sviluppo sostenibile, dellademocrazia e della pace». Nel 2006 fondò insiemead altre illustri “sorelle” Nobel la Nobel’s WomenInitiative per una pace incentrata sull’uguaglianzadi genere e sulla giustizia sociale.Negli ultimi venti anni molti degli obiettivi delGreen Belt e di Wangari sono stati raggiunti: oltre

40 milioni di alberi sono stati piantati lungo il con-tinente africano contro la desertificazione e oltre 30mila donne sono state addestrate in silvicoltura, inlavorazione dei generi alimentari e in apicoltura.Il 25 settembre 2011 Wangari Maathai si è spentaall’età di 71 anni a Nairobi, dove era in cura per untumore. Gli alberi sono stati una parte essenzialedella sua esistenza e oltre a difenderli, la donna havissuto proprio come loro: non ha mai dimenticatole sue radici, fonte di sostentamento necessaria persvettare in alto nel cielo e sfidare con coraggio letempeste della vita.

41Il Green Belt Movement incoraggia le donne ad unirsi in gruppi e ad avviare delle “nurseries” degli alberi, promuovendo così nonsolo la cura per l’ambiente ma anche la capacità di organizzarsi intorno a una causa comune

Il Green Belt Movement (GBM) è un’organizzazione ambientalista chesostiene le comunità, e in particolar modo le donne, nella conservazionedell'ambiente promuovendone al contempo il miglioramento delle condi-zioni di vita. GBM è stata fondata da Wangari Maathai nel 1977 sotto gliauspici del Consiglio nazionale delle donne del Kenya (NCWK) per ri-spondere alle esigenze di molte donne delle zone rurali del paese. Inizial-mente era un programma per la piantagione di alberi, contro la deforesta-zione, l’erosione del terreno e la siccità. Oggi è diventato lo strumento perdare la possibilità alle donne del Kenya e ai loro familiari di proteggere

l’ambiente e così combattere anche per una gestione eco-sostenibile, uno sviluppo economico equo, unabuona politica governativa.Grazie all’azione di GBM decine di milioni di alberi sono stati piantati in Kenya, si è ridotta l’erosione delterreno negli spartiacque, migliaia di ettari di foreste indigene ricche di biodiversità sono state risanate eprotette e centinaia di migliaia di donne e le loro famiglie possono far valere i propri diritti per una vita piùsana e produttiva. Tante comunità nel mondo si sono ispirate a questa iniziativa, iniziando progetti simili.Per saperne di più: www.greenbeltmovement.org

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Propone di fare pacecon la Terra. Scrive unlibro nel 2009 – Ritor-no alla terra – in cuirisponde alla crisi na-scente avanzando unnuovo modello di eco-nomia e poco dopo ri-ceve la lettera di ungiovane disoccupatoche le racconta di es-sere diventato agricol-tore e di badare aun’intera comunità

semplicemente curando un orto. Va a spargere se-mi nel Punjab, una regione tra Pakistan e India no-ta anche per i molti suicidi tra i contadini (nel2011 ne ha raccontato le storie il documentario ita-liano di Sebastiano Tecchio e Cecilia MastrantonioBehind the Label, Dietro l’Etichetta), e la sua as-sociazione – Navdanya, costituita venticinque annifa – riceve richieste di semi per oltre tremila orti. Ora, l’attivista indiana Vandana Shiva, scrive unnuovo libro – Fare pace con la Terra, appunto – elo fa, di nuovo, con lo spirito della semina, comecon la convinzione che ogni pagina possa dare ilsuo raccolto, che ogni storia positiva possa essered’esempio e crearne di nuove, come dai rami sioriginano rami. Il colore delle sue opere è sempre

il verde, al di là della copertina: verde come se-condo lei dovrebbe essere verde la vita, come do-vrebbe esserlo la biosfera, ma verde anche come èverde il denaro, come sono verdi il mercato eun’economia falsamente ambientalista, la «formasuprema di mercificazione del pianeta» (ne fa par-te l’agricoltura OGM, «una falsa soluzione alla fa-me»), che Shiva tenta di smascherare. Il suo “me-

todo” è, a ogni passo, quello di trattare argomentiapparentemente noti e mostrarne il risvolto, le pie-ghe inesplorate; avviene soprattutto con un altroelemento davvero “verde”: la militarizzazione. Leguerre che accendono il pianeta di fuochi inutili, e

Fare pace con la TerraL'attivista indiana Vandana Shiva racconta l'unico vero conflitto attuale:la guerra di tutti contro il pianeta

di Michela Monferrini

Michela Monferrini

Le guerre che accendono il pianeta difuochi inutili, e di cui si crede di

conoscere le cause, nasconderebberosempre, per Vandana Shiva, la

motivazione più vera, l'unica reale ecostante: il possesso della terra, la lottaper la gestione dell'ambiente, il crimineorganizzato dalle multinazionali per ilcontrollo delle materie prime e delle

fonti energetiche

Vandana Shiva è diventata una delle più importanti testimonial delle lotte per la dife-sa dell’ecosistema, contro il saccheggio delle risorse naturali che le grandi corpora-tion da tempo perseguono, senza alcun rispetto per le popolazioni né per i luoghi. Èuna logica drammatica che sta facendo precipitare il nostro pianeta verso una situa-zione di non ritorno, contro cui si oppone il sapere antico, connesso con la natura e ilsuo ciclo, delle popolazioni indigene. L’aggressiva politica delle corporation negliultimi anni ha fatto un salto di qualità. Le multinazionali sempre più ricorrono all’u-so strutturato della forza, trasformando in senso regressivo i paesi in veri e propristati militarizzati corporativi – come testimoniano quanto sta accadendo nelle zonetribali indiane e l’arresto di numerosi ambientalisti e difensori dei diritti umani.Contro questo, in tutto il mondo si sta formando un’altra consapevolezza che pone alcentro i diritti di Madre Terra.In pieno caos, con coraggio e tanto amore, la gente comune, dal basso, sta costruen-

do una nuova visione del pianeta. Questo libro fa il punto proprio sullo scontro in atto tra le due opposteconcezioni del mondo. “Questo libro documenta la guerra in atto contro la Terra e i suoi abitanti, ma anche la lotta in sua difesa, peril diritto dei popoli a godere del suolo e dell’acqua, delle foreste, delle sementi e della biodiversità. Spiegacome le nostre residue speranze di sopravvivenza dipendano dal passaggio a un paradigma basato su un’eco-nomia, una politica e una cultura della Terra. Fare pace con la Terra è un imperativo per la sopravvivenza eper la libertà.” Vandana Shiva

Vandana Shiva, Fare pace con la Terra, ilano, Feltrinelli, 2012da www.feltrinellieditore.it

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di cui si crede di conoscere lecause, nasconderebbero sem-pre, per Shiva, la motivazio-ne più vera, l’unica reale ecostante: il possesso della ter-ra, la lotta per la gestione del-l’ambiente, il crimine orga-nizzato dalle multinazionaliper il controllo delle materieprime e delle fonti energeti-che. Così tutte le guerre, inogni luogo del globo, non so-no altro che variazioni a di-stanza e su scala più o meno grande, della guerraunica che viene mossa al pianeta, mascherata sub-dolamente e tragicamente da una costellazione di«guerre alle persone». In Afghanistan, in Iraq,ovunque si versi «“sangue per il petrolio”, con ilpassare del tempo si vedrà che sono guerre per laterra, per il cibo, per il patrimonio genetico e labiodiversità». Questi conflitti alimentari, climatici,verdi, combattuti per le foreste o per l’acqua, ven-gono portati avanti issando la bandiera di una piùaggressiva economia, e distruggendo una certa,consolidata idea di ecologia: il paradosso è che idue termini, economia ed ecologia, hanno la stessaprovenienza: oikos, casa.Ed è naturalmente quello di casa, l’esempio chesta più a cuore all’autrice: l’“antimodello” india-no; è il più macroscopico, il più evidente. L’India– avverte Vandana Shiva – sta economicamentecrescendo, ma a quale, altissimo prezzo? In nomedi un misterioso miracolo economico si è consu-mata e si consuma quella che potremmo definireuna guerra dell’India all’India stessa, con le con-seguenze di una più profonda disuguaglianza so-ciale (laddove già si partiva da una situazione

complessa), una scomparsaquasi totale dell’idea di de-mocrazia e del patrimonio,un tempo ricchissimo, dellabiodiversità del paese, unapolarizzazione di ricchezzae povertà, per la quale «unpugno di corporation e dimiliardari» riesce a control-lare l’intera società.Mentre si parla di un’Indiacome terza potenza mondia-le dopo Cina e Stati Uniti,

Vandana Shiva sembra gettare una luce inquietantesul futuro del suo paese, e prospettarne addirittura,dopo il boom dell’economia, un collasso totale chepartirebbe dal livello sociale per poi abbattersi sul-

le stesse strutture economiche. Queste tesi le sonovalse accuse di infondatezza e persino studi speci-fici atti a dimostrarne la mancanza di veridicità(come nel caso delle sue proteste contro le modifi-cazioni OGM dei terreni, a cui l’InternationalFood Policy Research Institute ha contrappostouna puntuale analisi dagli esiti contrari), e tuttaviaVandana Shiva continua la sua capillare protesta,per i cui frutti – deve esserne convinta – arriveràun tempo di raccolta.

In Afghanistan, in Iraq, ovunque siversi «“sangue per il petrolio”, con ilpassare del tempo si vedrà che sonoguerre per la terra, per il cibo, per il

patrimonio genetico e la biodiversità»

In un mondo dove ognuno scambia continuamente informazioni - foto, video,parole - ogni istante della realtà documentata lascia una traccia. Quello chenon si vede invece, sembra non esistere. Eppure c’è.Behind the Label è un viaggio in India alla scoperta del mondo nascosto frale pieghe del cotone, il tessuto più indossato al mondo. Ma è anche il pretestoper raccontare il processo di globalizzazione dal punto di vista di chi non haaccesso a informazioni e privilegi.L’India è un paese in forte crescita economica, dove l’agricoltura resta la

principale attività per il 70% della popolazione. Il secondo settore rilevante per l’occupazione nazionale èl’industria tessile. L’India quindi è il suo cotone. Ma quale?Dal 2002 l’India ha sostituito il suo cotone nativo con piante geneticamente modificate ed oggi cresce il 90per cento della sua produzione con semi nati in laboratorio. Qual è l’impatto della coltivazione di questo co-tone in termini di qualità della vita per milioni di uomini, donne e bambini che lo producono?Qual è l’impatto sull’ambiente?Quali sono i reali interessi delle multinazionale della globalizzazione che governano il mondo del cotone?Il cotone biologico, di cui l’India detiene già il primato mondiale (anche se si tratta del 4% della produzioneglobale), può entrare nelle etichette dei tessuti che usiamo ogni giorno? Avrà la forza per essere diffuso intutto il mondo? Alla fine, spetta ad ognuno di noi scegliere cosa indossare, consapevoli che se i consumicambiano, la vita di milioni di contadini potrà cambiare.

Behind the Label. The double face of indian cotton, di Cecilia Mastrantonio e Sebastiano Tecchio, Italia (2011)da www.behindthelabel.it

Vandana Shiva

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«Un giorno un architet-to, un astronomo e uneconomista erano sedu-ti insieme discutendosu quale delle loro pro-fessioni fosse la più an-tica. L’architetto dicevache era la sua perchéera stato un architetto apianificare e costruireil Giardino dell’Eden,la prima casa dell’uma-nità. No, diceva l’astro-nomo, prima del Giar-

dino c’è stata la creazione del cielo e della terra, eci deve essere stato un astronomo a studiare quelcielo. Bene, disse l’economista, hai ragione, ma Dioha creato il cielo e la terra dal caos e, disse, chi cre-di abbia creato quest’ultimo? ». Questa apologo eraspesso raccontato da Ernst Friedrich Schumacher(1911-1977), un filosofo ed economista tedesco,consulente economico del National Coal Board, inGran Bretagna. Da buon filosofo, in seno a questaistituzione, cominciò a covare molte domande, checulminarono in una convinta e aspra critica nei con-fronti delle economie occidentali, alle quali oppo-neva, in alternativa, l’adozione di tecnologie umanee decentralizzate. Nel suo libro Small is Beautifulparla di sistemi locali, basati su risorse e consumilocali per combattere la crisi innescata dal giganti-smo economico-finanziario di matrice capitalista.Schumacher scrive di risparmio energetico, temati-che ambientali e della crisi del sistema capitalistico.L’impianto teoretico di Schumacher lo portò al ri-fiuto del materiali-smo, del capitalismoe, in seguito, dell’a-gnosticismo. Si av-vicinò infatti primaal buddhismo («co-s’è il caos se nonl’economia senzabuddhismo?») e poialla filosofia scola-stica, in particolareall’opera di Tomma-so d’Aquino, finoalla sua totale ade-sione alla religionecristiana e, dagli an-ni Cinquanta, allaconfessione cattoli-ca. In effetti notò le

somiglianze tra la sua visione economica e gli inse-gnamenti contenuti nelle encicliche papali (RerumNovarum, 1891, papa Leone XIII) e nella dottrinasociale della Chiesa. L’attrattiva che, in campo am-bientalista, il filosofo ebbe per l’ecologia e per l’e-quilibrio con la natura (si veda l’ecosofia sostenutada Raimon Panikkar e l’ecologia profonda di ArneNaess) la ritroviamo nel libro Per una società a mi-sura d’uomo. La visione di E.F. Schumacher. Il progetto del filosofo prevede che tutta la produ-zione di beni e servizi si fondi sul rispetto per lavita (biocentrismo) in cui uomini, animali, piante,tutti facenti parte dell’ecosistema vivente, devonoessere messi al centro dell’agire economico. La ter-ra, come anche la galassia e l’intero universo, è giàconcepita come sistema autosufficiente, autorego-lato. Ogni sistema ha un limite, e così anche quel-lo economico. È perciò fondamentale tener contodelle sovrautilizzazioni, per non danneggiare lacomunità, concepita come l’insieme delle persone,che, con il loro lavoro, producono i beni, ma soloquelli strettamente necessari, per non correre il ri-schio di creare false mode, false dottrine, false di-vinità (una di queste, probabilmnete, è l’economi-cismo). Quello che appare fondante in Schumacher non ètanto che egli si richiami a questa o a quella dottri-na ecologista, ma che fondi il suo ragionare all’in-terno di un sistema economico basato su valori cri-stiani, senza l’illusione che sia possibile riformarele istituzioni e i sistemi del capitalismo industrialeavanzato. Il punto non è vedere cosa c’è in questigoverni o sistemi, ma cosa essi sono: strumentidell’attuale economia, irremovibile, dannosa, pri-

vatizzata e privatiz-zante. Il primo mo-mento di questa ri-voluzione è interio-re , nel la propriaautocoscienza, epoi nel la propriapresa di posizione.Citando le paroledel filosofo: «Nonposso io stesso al-zare i venti che cispingerebbero ver-so un mondo mi-gl iore . Ma possoalmeno issare lavela , in modo dacatturare il ventoquando viene».

L’economia della sopravvivenza La proposta di Ernst Friedrich Schumacher

di Danilo Campanella

Danilo Campanella

Ernst Friedrich Schumacher

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Decrescita: una parola oggi sulla bocca di molti.Uno slogan, una bandiera. Lei, che l’ha tenuta inqualche modo a battesimo, potrebbe declinare pernoi i valori sui quali si incardina e le pratiche in cuisi articola?La decrescita è un circolo virtuoso che si articola inotto obiettivi, in un processo che possiamo chiamaredelle otto “R”. Le prime due delle quali sono certa-mente “Rivalutare” e “Riconcettualizzare” e questocomporta un rovesciamento del modo di pensare e diapprendere la realtà. È necessario decolonizzare l’im-maginario dai valori della società della crescita, chesono la concorrenza, l’appropriazione e la mercifica-zione dell’ambiente, la velocità, e ritrovare un mododi vivere in armonia con la natura, recuperando il sen-so del limite. Questo comporta ovviamente di cambiare i rapporti diproduzione: quindi “Ristrutturare” ovvero adattare, infunzione del cambiamento dei valori, le strutture eco-nomiche e produttive, i modelli di consumo, i rapportisociali, gli stili di vita. Cambiare i rapporti di distribu-zione: quindi “Ridistribuire”, combattendo le disegua-glianze, garantendo a tutti gli abitanti del pianeta l’ac-cesso alle risorse naturali, assicurando un lavoro sod-disfacente e condizioni di vita dignitose a tutti. È necessario poi “Rilocalizzare” ovvero consumareprodotti locali, sostenendo così l’economia locale.Ogni decisione di natura economica andrebbe presa suscala locale, per bisogni locali. “Ridurre”: l’impronta ecologica, lo spreco, gli orari dilavoro, la tossicodipendenza dalla moda.“Riutilizzare” superando l’ossessione, funzionale allasocietà dei consumi, della continua tensione al nuovo;“Riciclare”, recuperando tutti gli scarti non decompo-

nibili derivanti dalle nostre attività.«Il “modello di sviluppo” è quello voluto dalla so-cietà capitalistica che sta per giungere alla massi-ma maturità. Proporre altri modelli di sviluppo, si-gnifica accettare tale primo modello di sviluppo.Significa voler migliorarlo, modificarlo, corregger-lo. No, non bisogna accettare tale “modello di svi-luppo”. E non basta neanche rifiutare tale “model-lo di sviluppo”. Bisogna rifiutare lo “sviluppo (…)(…) E poiché si dovrà ricominciare da capo conuno “sviluppo”, questo “sviluppo” dovrà essere to-talmente diverso da quello che è stato». Come in al-tri casi le parole di Pier Paolo Pasolini, parlano in-credibilmente del e al nostro presente. Perché a suoavviso lo sviluppo non può essere sostenibile?

Conosco bene gli Scritti corsari, in cui Pier Paolo Pa-solini parla della crescita e dello sviluppo. Io credoche anche lo sviluppo sia una parola tossica e che nonpossa esistere uno sviluppo senza crescita. Lo svilup-po è una trasformazione qualitativa della crescita che èun fenomeno quantitativo. Dobbiamo uscire dalla cre-scita perché lo sviluppo non è, non è mai stato e nonsarà mai sostenibile. È un progetto economico basatosulla crescita infinita e soprattutto è negato dalla realtà

La sfida della decrescitaIntervista a Serge Latouche

di Federica Martellini

Serge Latouche, economista e filosofo francese. È uno degli animatori deLa Revue du MAUSS, presidente dell’associazione «La ligne d’horizon», èprofessore emerito di Scienze economiche all’Università di Parigi XI eall’ Institut d’études du devoloppement économique et social (IEDS) di Pa-rigi. Specialista dei rapporti economici e culturali Nord-Sud e dell’episte-mologia delle scienze sociali, è considerato il principale promotore dell’i-dea della decrescita. È uno dei critici più acuti della ideologia universalistadalle connotazioni utilitariste, rifacendosi anche alle concezioni di MarcelMauss e di Ivan Illich, rivendica la liberazione della società occidentale

dalla dimensione universale economicista.Fra i sui lavori editi in Italia ricordiamo: L’occidentalizzazione del mondo (Bollati Boringhieri, 1992); Lamegamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso (Bollati Boringhieri,1995); Decolonizzare l’immaginario. Il pensiero creativo contro l’economia dell’assurdo (EMI, 2004); Altrimondi, altre menti, altrimenti. Oikonomia vernacolare e società conviviale (Rubbettino, 2004); La scom-messa della decrescita (Feltrinelli, 2007); Breve trattato sulla decrescita serena (Bollati Boringhieri, 2008);La fine del sogno occidentale. Saggio sull’americanizzazione del mondo (Eleuthera, 2010); Per un’abbon-danza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita (Bollati Boringhieri, 2012); Limite (Bollati Borin-ghieri, 2012).

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È necessario decolonizzarel’immaginario dai valori della società

della crescita, che sono la concorrenza,l’appropriazione e la mercificazionedell’ambiente, la velocità, e ritrovareun modo di vivere in armonia con la

natura, recuperando il senso del limite

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naturale della limitatezzadel pianeta. Basti pensareche, ad esempio, con untasso di crescita molto bas-so, del 3,5 per cento annuo(che è quello della Franciatra il 1949 e il 1959) si hauna moltiplicazione di 31volte in un secolo, di 961volte in due secoli e di piùdi 16.000 volte in tre seco-li! E facendo una proiezio-ne di lunga durata, si otten-gono cifre inverosimili.Questo dà il senso di quanto siamo fuori dalla misura. Per un’abbondanza frugale (Bollati Boringhieri,2012) è uno dei suoi ultimi lavori tradotti in Italia.Come si esce dal circolo vizioso della produzione dibeni, bisogni e consumi?

Naturalmente per uscire da un circolo vizioso si deveinnescare un circolo virtuoso. E qui torniamo alla pro-posta delle otto “R”, di cui parlavo prima. È necessa-rio innanzitutto ridurre la creazione dei bisogni artifi-ciali e per questo dobbiamo lottare in primo luogocontro la pubblicità e contro la colonizzazione del-l’immaginario che questa ha prodotto e produce. Il fi-ne della pubblicità è renderci insoddisfatti di ciò cheabbiamo, per farci desiderare ciò che non abbiamo. Epoi è necessario ridurre il consumo, soprattutto il con-sumo artificialmente creato e dovuto all’obsolescenzaprogrammata dei beni e degli oggetti. Siamo continua-mente indotti a rimpiazzare il computer o il telefonoperché non funzionano più, mentre potrebbero al con-trario essere riparati, potrebbero essere progettati degli

oggetti programmati perdurare più a lungo. Biso-gna muoversi nella dire-zione della riduzione dellaproduzione di beni, senzaridurre il benessere. Po-tremmo avere delle lavatri-ci che invece che duraredue anni, durino venti otrent’anni. Se quella del progresso edella crescita infinita,che assicura il benessereper tutti, è un’ideologia,

la filosofia della decrescita felice non rischia di es-serne il paradigma speculare? Non sarebbe piùopportuno dire che la decrescita è necessaria, checi attende una fase di impoverimento materialema che questo cambiamento non va inteso comeun arretramento ma al contrario come una tem-poranea perdita di equilibrio che può condurci aun approdo più armonico, con le altre culture econ l’ecosistema?Io penso che non si tratti in realtà di un impoveri-mento, ancorché materiale. Si tratta piuttosto di ar-ricchirsi diversamente. Si tratta di fare meglio e, sepossibile, di fare tutti tutto, ma tutto di meno.Questo si lega ad esempio al problema dell’obsole-scenza programmata e soprattutto al tema del rispar-mio, in primo luogo del risparmio energetico. Biso-gna ripensare il modo di vivere e di risparmiare l’e-nergia che è una risorsa limitata e preziosa. La po-tenza energetica necessaria ad un tenore di vita de-coroso (riscaldamento, igiene personale, illumina-zione, trasporti, produzione dei beni materiali fonda-mentali) equivale a quella richiesta da un piccolo ra-diatore acceso di continuo (1 Kw). Oggi il NordAmerica consuma dodici volte tanto, l’Europa occi-dentale cinque, anche in Italia c’è un grandissimospreco di energia, mentre un terzo dell’umanità restaben al di sotto di questa soglia. Questo spreco va ri-dotto per assicurare a tutti condizioni di vita eque edignitose.

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Dobbiamo ridurre la creazione deibisogni artificiali e per questo bisogna

lottare in primo luogo contro lapubblicità che ci rende insoddisfatti diciò che abbiamo, per farci desiderare

ciò che non abbiamo

Che cos’è mai l’abbondanza frugale, oltre a un ossimoro che lega provocato-riamente due opposti, a un’ennesima parola d’ordine suggestiva e impraticabi-le? Se qualcuno replicasse così alla prospettiva di una convivenza capace disobrietà non punitiva, verrebbe preso sul serio da Serge Latouche, e contrad-detto con ottime ragioni. Agli argomenti di chi dissente da lui e dagli altri,sempre più numerosi, «obiettori di crescita», il maggior teorico della decresci-ta dedica questo libro, ormai necessario dopo anni di malintesi, resistenze, tra-visamenti strumentali, accese controversie. Gli sviluppisti incrollabili, o gliscettici poco inclini a dar credito alle logiche antieconomiche, troveranno quiil repertorio delle loro tesi e delle loro perplessità, smontate una a una. Saràdifficile continuare a sostenere con qualche fondatezza che la decrescita è re-trograda, utopica, tecnofoba, patriarcale, pauperista. La crisi devastante chestiamo vivendo la indica invece come l’uscita laterale dalla falsa alternativa traausterità e rilancio scriteriato dei consumi. Un’abbondanza virtuosa, ci avverteLatouche, è forse l’unica compatibile con una società davvero solidale.da www.bollatiboringhieri.it

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La decrescita è una di-mensione che non sedu-ce tutti. Alcuni sono li-beri di interpretarlamollando tutto, rallen-tando, dedicandosi adaltri doveri e altri piace-ri, altri sono (o si sento-no) invischiati nelle pa-stoie di una quotidianitàangusta che non lasciaintravedere orizzonti di-versi. Per chi ha perso illavoro il tempo liberonon ha molto fascino… È solo una questione diprospettiva? Decrescita è certamente una parola che può non essereseducente. Ciò a cui dobbiamo pensare è una prospet-

tiva di prosperità senza crescita. Quello della disoccu-pazione è certamente un problema drammatico manon si può combattere la disoccupazione senza usciredalla dimensione della crescita. È escluso il rilanciodell’occupazione attraverso il rilancio dei consumi, ènecessario piuttosto ridurre drasticamente gli orari dilavoro: lavorare meno per lavorare tutti e questa certa-mente per gli operai rappresenta una decolonizzazionedell’immaginario molto forte. Non è una cosa facile,ma il progetto di decrescita può creare la speranza cheè necessaria per andare verso una società di prosperitàsenza crescita, una società di abbondanza frugale.

In qualche modo è come sefossimo alla fine di una“belle époque”. Il tempo ècircolare e i processi stori-ci e biologici sono fatti dicicli. Abbiamo, a suo avvi-so, la consapevolezza sto-rica e gli strumenti cultu-rali per essere, come socie-tà e come individui, prota-gonisti e non vittime delladecrescita?Mi piace questa definizionedi “belle époque”. Io parlo

spesso dei “trent’anni gloriosi”: le decadi dal 1945 al1975. Questo periodo è stato una parentesi nella storiaumana, un evento eccezionale che ha coinciso con l’a-poteosi della società dei consumi. Poi il sistema haesaurito la sua possibilità di funzionare. In realtà giàda alcuni decenni non è più la “belle époque” e siamoin una condizione di forte precarietà. La crisi avrebbepotuto prodursi dagli anni Ottanta ma il sistema hatrovato un modo per salvarsi. Oggi siamo a un bivio enon è più possibile continuare così: tutti cercano di farripartire, ancora una volta, la stessa logica, ma è un ci-clo che si è esaurito.Io non uso mai la parola decrescita per parlare di re-cessione, che è, semmai, una decrescita forzata e checi rende quindi vittime e non protagonisti. Penso chenoi abbiamo le risorse e gli strumenti per affrontarequesta fase: il difficile è rompere con la colonizzazio-ne dell’immaginario in cui siamo immersi. La decre-scita è certamente una sfida. È una scommessa, cheperò vale la pena di fare e che può essere vintaDal 19 al 23 settembre scorsi si è svolta a Venezia laterza conferenza internazionale sulla decrescita, cuilei ha partecipato. Che impressione ne ha avuto? La conferenza di Venezia dà molta speranza. C’eramolta gente e soprattutto molti giovani, non solo ita-liani ma provenienti da tutti i paesi del mondo: spa-gnoli, francesi, latinoamericani e il fatto che soprattut-to i giovani si mobilitino e si sentano coinvolti su que-sti temi rafforza la nostra fiducia nel futuro.

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La potenza energetica necessaria ad untenore di vita decoroso (riscaldamento,

igiene personale, illuminazione,trasporti, produzione dei beni

materiali fondamentali) equivale aquella richiesta da un piccolo radiatoreacceso di continuo (1 kw). Oggi il NordAmerica consuma dodici volte tanto,

l’Europa occidentale cinque

Il sp v c

La condizione umana è inscritta dentro dei limiti. Alcuni riguardano la no-stra situazione nel mondo, altri sono inerenti alla nostra natura. Siamo pri-gionieri di un piccolo pianeta la cui situazione eccezionale nel cosmo hapermesso la nostra comparsa. D’altra parte la nostra intelligenza, non me-no eccezionale, ci permette di adattarci a una grande varietà di situazioni,ma non ci autorizza a fare tutto né a conoscere tutto. La nostra sopravvi-venza presuppone dunque un buon funzionamento delle nostre organizza-zioni sociali, in armonia con il nostro ambiente: in altri termini, la sotto-missione a norme che ci impediscono di cadere nella dismisura e nell’illi-mitatezza.Il problema è che ogni limite e ogni norma sono arbitrari, e che le frontieresono sempre incerte. Ci sono limiti che non devono essere superati, ma bi-sogna conoscerli. Perché se si scavalca il limite, addio limiti. Questa arbi-trarietà è uno scandalo per la ragione. La riflessione filosofica, fin dai suoialbori, ha avuto gioco facile nel denunciarne i paradossi.da www.bollatiboringhieri.it

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Nel 2008 hai fondato Parteciparte, un gruppoche fa parte della rete internazionale del Teatrodell’Oppresso (TdO), che nasce negli anni Ses-santa in Brasile, in un contesto decisamente dif-ferente dal nostro. Chi sono gli oppressi di oggi? Mi viene voglia di rigirarti la domanda: per te chisono gli oppressi? Lo spirito del lavoro che facciocon il teatro è quello di trovare insieme le risposte espesso anche le domande. Ma visto che questa èun’intervista… proviamo a rispondere. Il Teatrodell’Oppresso ha identificato tre tipi di oppressioneche emergono costantemente in tutto il mondo, an-che con tecniche silenziose, subdole, in cui è solo ilcorpo a manifestare una situazione problematica:contro le donne, contro gli stranieri, contro i lavora-tori. Più in generale l’oppressione per noi si determinaquando il potere subito da qualcuno si appoggia aun sistema talmente forte da poter essere impostoanche con un piccolo gesto. Per rendere tutto piùsemplice: gli oppressi sono coloro i quali subisconoun sistema. Immaginiamo delle scene, come se fos-simo a teatro. Io ho due figli che piangono di nottementre sto dormendo. Uno dei due genitori si devealzare per andare a tranquillizzarli. È sufficienteche io faccia un sospiro, per far alzare la mia com-pagna. Non devo giustificare niente: è un regimeche mi permette di avere accanto una persona che sioccupa dei lavori di cura al posto mio. Un altroesempio. Recente-mente sono stato inSlovenia e le perso-ne con cui abbiamolavorato ritenevanoche nel loro paesenon esiste un sistemadi oppressione neiconfronti degli stra-nieri. Attraverso al-cuni esercizi, abbia-mo scoperto che lapersona di origineucraina di cui aveva-

mo messo in scena la storia aveva serie difficoltà atrovare un lavoro accettabile, decoroso, rispettosodel percorso di studi che aveva svolto. Parallela-mente non riusciva a svincolarsi da una storia diffi-cile con il suo compagno, una persona molto vio-lenta con lei. La ragazza pertanto era stretta tra duefuochi: la difficoltà di lasciare il compagno che ledava in ogni modo un sostentamento e l’impossibi-lità di trovare un lavoro, che non fosse quello diprostituirsi. La gente non capiva perché la ragazzanon scegliesse di andarsene, lasciando il suo com-pagno ma, vista l’alternativa, non era evidentemen-te una scelta facile. Quello che è emerso è stato unsistema di oppressione molto ben strutturato controgli stranieri, di cui non si aveva la minima consape-volezza, e parallelamente un sistema di oppressionelegato al genere. Credo che la peculiarità del teatro sia quella dilavorare sull’individualità: ogni storia è una sto-ria a sé. Non si corre il rischio di non interpreta-re bene la realtà lavorando con delle categorie dioppressione preconfezionate?Sì, quando la realtà si legge in maniera ideologica,quando le persone hanno già deciso in quale siste-ma ci muoviamo, quando hanno già deciso la rispo-sta allora il TdO diventa esso stesso opprimente. Laquestione dell’oppressione è la questione più deli-cata di questo metodo, perciò la tua prima domandaè totalmente rilevante: si pone che c’è un sistema

ma ogni volta siamodisposti a riscoprire,a ripartire, cerchia-mo di trovare sem-pre uno sguardo ver-gine, che non è faci-le. All’inizio io stes-so non volevo usare isistemi, infatti nonlo chiamavo Teatrodell’oppresso mateatro aperto. Ma sono gli oppressiche ci hanno inse-

De - crescere con il Teatro dell’OppressoIntervista a Olivier Malcor

di Valentina Cavalletti

Olivier Malcor si è laureato con una tesi sul teatro invisibile a La Sorbonne, Parigi(2002) e ha imparato il Teatro dell’oppresso e il Teatro di Strada in America Latina eStati Uniti (1999-2003). L’ha praticato diversi anni a Marsiglia in Francia (2003-2005)e in Africa (2005-2007) per affrontare la violenza sulle donne e i bambini. Ora vive aRoma dove utilizza il TDO in diversi ambiti, particolarmente nella lotta per i diritti deirifugiati, delle donne e dei lavoratori. Collabora con diverse associazioni e ONG,scuole e università.

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gnato questo modo difare teatro e alla fineho voluto evidenziarequesto aspetto. Au-gusto Boal, il fonda-tore del TdO, ha sa-puto intuire che biso-gnava liberare le loroenergie, permettendoagli spettatori di par-tecipare attivamenteal processo. In Perùuna donna che nonriusciva a farsi capi-re dagli attori è salita sul palco per picchiare il ma-rito senza chiedere alcun permesso. Allo stesso mo-do in cui il pubblico romano di Che cosa sono lenuvole di Pier Paolo Pasolini si arrabbia e non per-mette a Otello di uccidere Desdemona.

Il passaggio dal contesto latino americano a quelloeuropeo è possibile se si rovescia l’idea di un’op-pressione fisica dovuta alla presenza reale dei poli-ziotti con la mitraglietta per le strade. La scommes-sa è che in Europa spesso abbiamo gli oppressoridentro la testa, li abbiamo introiettati, perciò c’èuna tecnica del TdO che si chiama I poliziotti nellatesta il cui unico scopo è svelare gli oppressori cheabbiamo dentro di noi.Ma ovviamente è importante tenere conto dellacomplessità delle situazioni. Nelle relazioni di cop-pia ci sono casi difficili anche per gli uomini, comela questione dei padri separati che spesso non sonotutelati. In altri casi, l’uomo è penalizzato nei lavoridi cura verso i bambini pur volendo e cercando divivere momenti di intimità con i propri figli. Manon possiamo negare che ogni due giorni una donnamuore di violenza subita da uomini e questo avvie-ne perché molti uomini si appoggiano a un sistemache arriva a paralizzare la propria compagna psico-logicamente o fisicamente. Come il teatro può aiutare le persone a riscattar-si?In due modi. Per prima cosa permette di vedere piùchiaramente quello che spesso non si vede, rendevisibile i sistemi, tutte le forze che stanno dietro aun atteggiamento, a una situazione, tutti i giochi dipotere. In una scena di un nostro spettacolo un uo-mo tornava a casa dicendo: «Ti ho fatto la spesa». Èuna battuta classica: a tutti gli uomini almeno una

volta nella vita èsfuggita ma quandoquesta battuta è usci-ta sulla scena, ed èstata in qualche mo-do analizzata e capi-ta, penso sia difficileripeterla nel quoti-diano. Secondaria-mente permette di al-lenarsi a cambiare.Nell’ultimo spettaco-lo che abbiamo rea-lizzato qui in Italia

Figli di donne, abbiamo messo in scena la madrifi-cazione delle donne e la gente poteva intervenireper proporre il cambiamento. Fare in modo che lapropria compagna possa andare al cinema quandoc’è un figlio piccolo non è facile. Il compagno co-mincia a dire che quando resta solo con il bambinoentra nel panico, che se si sveglia non sa cosa fare ela donna solitamente rinuncia. Hanno visto questospettacolo tante femministe di lunga esperienza chehanno trovato difficoltà, di fronte a situazioni con-crete, a trovare delle strategie significative di cam-biamento. Questo per sottolineare che trasformarela realtà concretamente, senza discorsi, non è asso-lutamente semplice e che il teatro può divenire unapalestra per allenarsi a cambiare. La vostra metodologia è applicata in tutto ilmondo su vari fronti e permette di mettere inscena le situazioni di conflitto della vita quotidia-na, dai conflitti interpersonali a quelli sociali maanche politici. Il TdO assomiglia a una sorta diterapia di gruppo, che ha lo scopo di liberarecerte emozioni anche attraverso l’utilizzo dellapropria corporeità. No, è qualcosa di diverso da una terapia. Il teatrodell’oppresso identifica certamente una problemati-ca, ma partendo da quel problema si cerca di capirese c’è un sistema dietro, collettivizzandolo, creandouna rete con le altre persone e mettendo questaenergia a contributo di tutti. Quindi non si tratta ditogliere la rabbia, ad esempio, o una qualsiasi emo-zione negativa ma, al contrario, di impedire che siperda, prendendola come un punto di forza per per-metterci di cambiare il sistema e di trasformarlo.

Diciamo che capovolgete la prospettiva, non bi-sogna puntare alla catarsi ma sfruttare quellaeventuale oppressione per un cambiamento posi-tivo.La catarsi è cruciale dal teatro greco al cinema ame-ricano, ma è il concetto che Augusto Boal ha com-

Il Teatro dell’oppresso ha identificatotre tipi di oppressione che emergono

costantemente in tutto il mondo, anchecon tecniche silenziose, subdole, in cui

è solo il corpo a manifestare unasituazione problematica: contro ledonne, contro gli stranieri, contro i

lavoratori

Augusto Boal, il fondatore del TdO, hasaputo intuire che bisognava liberare le

loro energie, permettendo aglispettatori di partecipare attivamente al

processo

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50 battuto di più perché a suo avviso ci rende passivi,purificandoci dalle tendenze negative. Invece ilTdO cerca di riattivare tutte quelle energie che dan-no la possibilità alle persone di affermare i propridiritti e la propria dignità. Cos’è il teatro forum?Il teatro forum è una delle tecniche che utilizziamo.Con il teatro forum si vede chiaramente una scenacon delle problematiche, che solitamente finiscemale. La seconda volta che si ripete la scena il pub-blico potrà intervenire per cambiare la storia: fac-ciamo sostituire uno dei personaggi, ma non lascia-mo mai togliere l’oppressore perché sarebbe troppofacile, sarebbe come togliere il problema.

Se è vero che è importante il coinvolgimento del-la collettività per attivare o riattivare i processidi partecipazione di ciascuno, è anche vero chenon tutti i punti di vista riescono a illuminare larealtà. Nel gioco delle parti, è necessario l’inter-vento di un mediatore, di una sorta di filosofodell’antica Grecia con la sua tipica funzionemaieutica… qual è il ruolo del jolly? Il jolly è colui che pone le domande, di cui non sala risposta nel migliore dei casi. Egli conosce l’artedella domanda più insolente. In questo senso, pensoche sia molto vicino al ruolo del filosofo, che sicu-ramente ha un bagaglio culturale adatto per questoruolo. Il jolly è un facilitatore ma anche un “diffici-litatore”, uno che pone le domande che permettonodi problematizzare sempre di più la situazione, dicapire le conseguenze di ogni strategia, di capire irisvolti di ogni parola; che permette di stimolare laragione e anche di far capire che certe situazioni so-no intollerabili. Il jolly facilita anche la creazionedello spettacolo e quando è davvero bravo non c’èuna sua parola nel testo: anche questo processocreativo è molto libero e le sue domande sono fon-damentali per stimolare sia una riflessione che unapresa di coscienza collettiva. In questo numero dedicato alla decrescita parlia-mo sotto vari profili di come si può umanizzarela crescita economica, rendendo più umani que-gli indicatori che a parole dicono che siamo increscita ma che nei fatti non ci raccontano cosa

stiamo perdendo, in termini di felicità ad esem-pio. Il teatro dell’oppresso potrebbe agire per ac-celerare questo processo di consapevolezza. Inche modo? Il teatro mostra le conseguenze di ogni azione. Cer-ca di mostrare la conseguenza del consumismo peresempio. C’è una tecnica che si chiama zoom outche permette di vedere quello che avviene dietro auna situazione. Pensiamo ad esempio a tutte le per-sone che sono dietro all’acquisto di un vestito chepago 2 euro: dai capitalisti che speculano in Cina,ai lavoratori che non hanno diritti. Si cerca di mo-strare tutta la catena degli eventi: da un lato permet-te di avere più consapevolezza del problema edall’altro cerca di affrontarlo per trasformare larealtà. Il problema è che siamo stati educati ad ave-re piuttosto che ad essere, ma il teatro ci insegna dinuovo ad essere perché la vita è teatro. Quando fac-ciamo teatro diventiamo teatro, siamo teatro. C’èuna capacità naturale sulla quale noi del TdO scom-mettiamo: noi non facciamo teatro, come gli attori,noi siamo teatro, cerchiamo di ritrovare l’essereteatro che una persona oppressa ha naturalmente.Una persona vittima di violenza è la più brava a re-citare la violenza. Una volta che ritroviamo questoessere essenziale che per noi è teatro ci si allontanadall’avere e capiamo la follia che si cela dietro ilconsumismo, o dietro altri sistemi come il maschili-smo. Il TdO si propone di proporre una cultura al-ternativa attraverso una riflessione collettiva. Nella partecipazione del vostro gruppo alle as-semblee di bilancio partecipato di alcuni munici-pi romani si può rintracciare una certa sintoniacon la prospettiva di questo numero. Puoi par-larci di questa esperienza, nata peraltro da unacollaborazione con il Dipartimento di studi urba-ni di Roma Tre? Si è trattato di un progetto molto particolare, soloalla fine del percorso posso dire di aver capito cheaveva a che fare con la decrescita. Nel MunicipioIX volevano trovare un modo per favorire la parte-cipazione popolare nelle decisioni pubbliche, inparticolare sulle questioni di bilancio. È stato incre-dibile notare come si sia velocizzato il processo:con gli esercizi tipici del teatro riuscivamo a racco-gliere cinque proposte al minuto laddove in assem-blea si può impiegare un’ora per arrivare a totaliz-zare quel numero di soluzioni. Alla fine sono statefatte 101 proposte e 48 sono state considerate fatti-bili. Questo ancora una volta ci fa capire come ilcorpo sa molto prima dell’intelletto quali sono iproblemi, quali sono le situazioni da cambiare.Anche la qualità delle proposte fatte è risultata mi-gliore, perché la gente visualizzava i problemi attra-verso delle scene, delle statue umane, rimettendol’uomo e il suo corpo al centro delle decisioni pub-bliche. Inoltre si improvvisavano le conseguenze dideterminate proposte mettendone immediatamentein luce le eventuali criticità. Il tema della sicurezzaè un tema molto di moda, che spesso viene risoltoschierando eserciti di polizia sulle strade. In alcune

Il passaggio dal contestolatino-americano a quello europeo è

possibile se si rovescia l’idea diun’oppressione fisica dovuta allapresenza reale dei poliziotti con la

mitraglietta per le strade: in Europaspesso abbiamo gli oppressori dentro latesta, li abbiamo introiettati, perciò c’è

una tecnica del TdO che si chiama Ipoliziotti nella testa il cui unico scopo è

svelare gli oppressori che abbiamodentro di noi

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città dell’America Latina hanno sostituito i poliziot-ti con dei mimi. Invece di punire, imitano chi sicomporta male. Danno molta visibilità alle azioniincivili, imitando ad esempio chi butta un pezzo dicarta per terra. Il mimo viene poi reso ancora piùvisibile da una banda musicale che incornicia lospettacolo improvvisato su quell’atteggiamento. Iltutto viene filmato e trasmesso in tv con delle bellecampagne per dare risonanza alla cosa. Questo perdire che a volte con delle scelte diverse si possonoraggiungere gli stessi obiettivi anche con maggioresuccesso. La grande scoperta nell’esperienza del bilancio par-tecipativo del Municipio IX, che è stata la primaistituzione pubblica ad aver votato un bilancio conil teatro, è stata che le decisioni umane costano po-co, anzi a volte sono gratuite.

Di pochi mesi fa è il progetto di Parteciparte congli studenti della Facoltà di Lettere e Filosofia.Che tipo di lavoro avete fatto insieme?È stato un intervento per decostruire gli stereotipi digenere, sia maschili che femminili, e abbiamo lavo-rato anche con Elisa Giomi, una ricercatrice dell’U-

niversità di Siena, che è intervenuta proprio in qua-lità di esperta in questo campo. Il primo obiettivo èstato quello di mostrare come, con un metodo comeil teatro, si può fare ricerca in modo splendido e ve-loce perché si può avere accesso a delle informazio-ni preziosissime, vere, vissute, spontanee, in untempo molto breve. Laddove ci vogliono mesi perla compilazione e l’elaborazione di questionari, chespesso non danno le risposte che si cercano, la reci-tazione permette di confermare dei dati e provarenuove ipotesi in tempo reale. Che tipo di risultati e di riscontro hai utilizzandoquesto metodo?Prima ero insegnante di filosofia ed era tutto moltopiù facile: avevo il mio stipendio, una bella casa,100 alunni l’anno con cui lavorare. Ora sono unprecario, ma vedo dei risultati talmente interessanti,che mi danno la forza di andare avanti. Lo vedo siaquando lavoro sulla decostruzione degli stereotipidi genere, a cui ho dato molta rilevanza in questaintervista visto che è stata la tematica su cui abbia-mo costruito l’ultimo spettacolo; ma lo vedo anchee soprattutto quando mi immergo in situazioni piùal limite, nelle comunità di tossicodipendenti, neiquartieri periferici delle grandi città (da Marsiglia aRoma), dove si sviluppano sacche di forte emargi-nazione e di violenza, quando lavoro in contesti diestrema povertà e indigenza anche nei paesi diver-samente sviluppati. Credo che il TdO dia concreta-mente dei risultati e questo lo constatano diretta-mente i finanziatori, che continuano a stanziare ipropri soldi nei nostri progetti anche quando sareb-be facile investirli altrove, in particolare in un mo-mento di crisi come quello attuale. È anche compitodegli intellettuali dimostrare che i soldi che si dan-no alla cultura possono aprire nuove e più ampieprospettive, possono avere una ricaduta nella socie-tà civile, senza correre il rischio di diventare auto-referenzali, chiusi nei salotti a fare soltanto grandidiscorsi.

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TdO – Il Teatro dell’OppressoIl TdO è pensato per chi non fa teatro. Per partecipare ai seminari di formazione o essere aggiornati sulle di-verse iniziative ci si iscrive alla mailing list [email protected]. La formazione che si svolge ad ottobreè l’appuntamento annuale di maggiore rilievo, durante la quale di solito nascono gli spettacoli, i progetti, lenuove storie da cui partire.

Il teatro dell’oppresso identifica unaproblematica e partendo da quel

problema si cerca di capire se c’è unsistema dietro, collettivizzandolo,

creando una rete con le altre persone emettendo questa energia a contributo

di tutti: non si tratta di togliere larabbia, o una qualsiasi emozione

negativa ma, al contrario, di impedireche si perda, prendendola come unpunto di forza per permetterci di

trasformare il sistema

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Prof. Pant, lei è fra i pochi – credo – a parlare, diquesti tempi, di “Rinascimento italiano”: dove ri-siede secondo lei la radice di un possibile Rinasci-mento nel nostro Paese?Le radici del nuovo “Rinascimento italiano” risiedonoin due elementi: sostenibilità e multi-localismo. Il nuo-vo rinascimento potrebbe partire da molti focolai, daipiccoli luoghi, magari fuori dalle grandi città, che con-tengono alcuni ingredienti preziosi, la cui importanza èdestinata a crescere. I preziosi ingredienti sono:- la qualità e la quantità delle risorse ambientali: l’ac-

qua, l’aria, il suolo, lo spazio, la vegetazione, etc.;- la rilevanza estetica del paesaggio naturale e del

paesaggio storicamente modellato, soprattuttoquello preindustriale e rurale, e le risorse culturali,sia quelli materiali, sia quelli immateriali (arti,maestranze, saperi, sapori…);

- l’assetto identitario (le caratteristiche degli abitanti,dei loro prodotti tipici, del loro stile architettonicoe artistico) ed il micro-sistemaaffettivo (comunità faccia-a-fac-cia, dove il confronto umano e lasolidarietà sono più diretti e ge-nuini);

- gli orizzonti di nuovi affari basatisulle risorse agro-alimentari, cul-turali, paesaggistiche, sui prodot-ti artigianali ed industriali di al-tissima qualità e sui servizi per lecomunità dislocate, anche negliangoli più sperduti: i servizi tec-nologici, socio-assistenziali e sa-nitari, servizi di formazione/in-

formazione, mobile community banking (servizibancari nuovi e flessibili, a misura di individui, fa-miglie, imprese e comunità), tele-lavoro, e-com-merce etc.

Viste le situazioni e le proiezioni dell’ambiente glo-bale e delle incertezze climatiche, viste le tendenzedemografiche (longevità, invecchiamento) in Italiaed altrove, vista la domanda di naturalezza e salubri-tà delle risorse agro-alimentari e la voglia di viverein luoghi senza stress, con una cornice paesaggisticagradevole, vista la domanda di sicurezza e viste lepossibilità infinite di essere collegati con il resto delmondo da ovunque (e quindi non più marginalizzati),grazie alle tecnologie info-telematiche (ICT), i pic-coli luoghi saranno territori strategici per l’economiasostenibile del futuro.I governi locali (comuni) dovrebbero riuscire a crea-re un asse istituzionale collaborativo con gli altri or-ganismi: province, regioni, governo centrale e, all’in-

terno, con imprenditori, associa-zioni civiche e con la cittadinanzain generale, per tendere verso unaprogettualità condivisa per il loroluogo-sistema, per la loro ‘terra dicuore’. I governanti dei piccoliluoghi-sistema dovrebbero fareuna ricerca concreta (non accade-mica) per trovare una “bussola”(scenari e strategie) per il proprioluogo-sistema e per la propria co-munità. Solo dopo questo passo,dovrebbero essere formulati i varipiani tecnici (spesso accade il

Se la crisi è un’opportunitàIntervista a Dipak Raj Pant

di Federica Martellini

Dipak Raj Pant è il fondatore e coordinatore scientifico dell’Unità di studi interdisci-plinari per l’economia sostenibile presso l’Università Carlo Cattaneo (LIUC) di Ca-stellanza (VA), dove insegna Antropologia applicata e Sistemi economici comparatidal 1995. Senior Fellow della Society for Applied Anthropology (SfAA), USA, è stato VisitingProfessor in varie università estere (USA, Svezia, Cina, Perù, Brasile, Regno Unito,Germania, West Indies). Inoltre, è stato International Research Associate dell’Envi-ronmental Health & Social Policy Center a Seattle (USA) e Visiting Scientist (studidi biodiversità, conservazione e sostenibilità) presso l’American Museum of NaturalHistory di New York e presso il Field Museum di Chicago (USA).

È coordinatore scientifico di vari progetti per lo sviluppo sostenibile in diversi paesi (Armenia, Brasile,Cambogia, Mongolia, Nepal, Perù, Sierra Leone, Venezuela). È stato consulente per la ricostruzione dei consorzi di irrigazione e delle infrastrutture rurali e per lo svilup-po rurale sostenibile nel bacino del Mekong, Cambogia. Tra il 1987 e il 1991 è stato professore di Ecologiaumana ed Etnologia presso la Tribhuvan University, Kathmandu (Nepal) e consulente del governo nepaleseper lo sviluppo rurale nelle aree impervie.È autore di pubblicazioni scientifiche e divulgative in inglese, italiano e nepalese ed ha collaborato a varieriviste e antologie.

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contrario! Spesso si confonde la tattica con la strate-gia). Il governo nazionale ha il ruolo di orientare(con la “bussola”) la comunità ed i mercati, creare lecondizioni logistiche e normative, racimolare le ri-sorse e utilizzarle per il massimo bene comune dilunga durata, correggere le distorsioni in corso disviluppo. Il ruolo delle imprese, che sono i protago-nisti dello sviluppo sostenibile locale, invece è quellodi fruire le opportunità createsi, sia localmente siaglobalmente, avvalendosi della coesione sociale in-terna e delle relazioni esterne.

Nulla sostituisce l’azione governativa a livello locale(anzi, multi-locale, in tutte le località del territorionazionale nel contempo) di cui, la più urgente, lapriorità tra le priorità, è la sicurezza ambientale e lastabilità dell’assetto idrogeologico. La maggioranzadei comuni d’Italia è a rischio idrogeologico, a ri-schio devastazioni nei casi di eventi catastrofici co-me il terremoto, e di inquinamento. È urgente orien-tare l’opinione pubblica, le politiche, le risorse e letecnologie verso la migliore gestione del territorio,dei rifiuti e dell’energia, in sinergia con la ri-qualifi-cazione delle infrastrutture esistenti (non nuove in-frastrutture, visti i tempi di vacche magre!). Il nuovoorizzonte di operosità (cantieri, investimenti, lavoro,occupazione…) è nella sicurezza territoriale, nellasalubrità ambientale, nella valorizzazione del paesag-gio, nel controllo e diminuzione dell’inquinamento enel miglioramento delle infrastrutture basilari.L’altro compito urgente per l’azione locale in tutto ilterritorio nazionale è varare ed implementare il pianodi mobilità multi-forme inter-modale: la fruibilità dilocomozione in tutto il territorio con mezzi ciclo/pe-donali oltre che con i mezzi motorizzati, con la mede-sima sicurezza e facilità, in sinergia con il sistema ditrasporto pubblico e con i punti di approdo/terminalidi strade, ferrovie, porti ed aeroporti. La mobilità mul-ti-forme inter-modale aumenta la fruibilità/godibilitàdelle risorse locali, la sicurezza ambientale ed umana,la coesione sociale e la valorizzazione del territorio;oltre a favorire il risparmio energetico e la diminuzio-ne dell’inquinamento. L’Italia è povera nel sotto-suolo(risorse minerarie), ma è ricchissima nel sovra-suolo(risorse paesaggistiche, culturali, umane, agro-alimen-

tari, artigianali ed industriali); per l’ottimo rendimentodelle risorse sovra-suolo (overground resources) lamobilità multi-forme inter-modale è cruciale.Un altro urgente compito per l’azione è l’infrastrut-turazione di base e facilitazioni fiscali per le tecnolo-gie info-telematiche; è una questione di competitivitàdel luogo-sistema. Il divario digitale (digital divide)oggi è come la questione dell’alfabetizzazione odell’immunizzazione (vaccinazione) di una volta. Vaaffrontata con la massima serietà. Le persone devonoessere in grado di scegliere il tipo di rete di cui vo-gliono far parte, oppure restare fuori da qualsiasi re-te. Però la possibilità deve esserci, altrimenti si per-dono opportunità di reddito, occupazione e cultura.Il nuovo rinascimento italiano è possibile per i nuoviorizzonti di affari creatisi dai limiti eco-sistemici edalla crisi dei consumi (erosione del potere d’acqui-sto); gli stessi limiti e crisi diventano stimoli per unriordino ambientale-infrastrutturale e per un’innova-zione dei prodotti e dei processi; in altre parole, l’ot-timizzazione ecologica. Il nuovo rinascimento italia-no sarà possibile grazie alle infinite opportunità disapere, di saper vivere, di saper fare e di far sapere -su scala planetaria - grazie alle reti info-telemati-che, partendo proprio dalle piccole dimore felici edai piccoli luoghi sani e sereni che sono le terre dicuore di tanti cittadini, imprenditori e lavoratori, chesaranno i nuovi distretti del ben-essere sostanzialeumano (zone of wellness) non solo il ben-avere.Κρίσις in greco antico significa “scelta”, “capaci-tà di scelta, di discernimento”. In cinese l’ideo-gramma che indica la parola crisi è composto didue segni: il primo indica il pericolo, il secondol’opportunità. Perché nel nostro tempo e alle no-stre latitudini abbiamo perso la capacità di vederequesto risvolto della medaglia?La capacità di vedere la “crisi” come il momento discelte strategiche di lungo respiro oppure come op-portunità in mezzo ai rischi e pericoli fa parte inte-grante della qualità di guida (leadership). La caratte-ristica della leadership è di diffondere la consapevo-lezza della realtà di crisi (trasparenza e comunicazio-ne), di disegnare uno scenario di riferimento (la pro-spettiva del superamento della crisi e della nuovarealtà desiderabile e plausibile) e di tracciare un per-corso strategico (road-map) per tendere verso lo sce-nario di riferimento (la mobilitazione di risorse e co-scienze). In proposito, mi sembra che manchi la qua-lità di leadership anche nell’attuale governo, che pu-re è decente e presentabile da tutti i punti di vista ecredibile (sembrerebbe) agli occhi degli investitoriinternazionali e dei vertici delle istituzioni europee(sono davvero saggi questi investitori e gli alti buro-crati di Bruxelles?) ma che non mi pare abbia unoscenario di riferimento né un tracciato strategico dilungo respiro. Il governo attuale ed i suoi sostenitorisembrano bravi ed onesti prigionieri del passato, in-trappolati nello stesso paradigma economico basatosull’imperativo della ‘crescita’ (sviluppo quantitativomateriale/monetario) che ci ha portato a questa matu-razione (e saturazione); puntano tutto sull’Italia pa- 53

È necessario orientare l’opinionepubblica, le politiche, le risorse e letecnologie verso la migliore gestione

del territorio, dei rifiuti e dell’energia.Il nuovo orizzonte di operosità(cantieri, investimenti, lavoro,

occupazione…) è nella sicurezzaterritoriale, nella salubrità ambientale,nella valorizzazione del paesaggio, nel

controllo e diminuzionedell’inquinamento e nel miglioramento

delle infrastrutture basilari

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gante e pagabile, ma non sembrano avere idee chiaresull’Italia serena e sostenibile. A mio modesto pare-re, il governo attuale sembra quanto di meglio siadisponibile in Italia in questo momento, ma non misembra che sia all’altezza della situazione, che è disvolta epocale per l’Italia e per l’Europa.La leadership è ancora assente in Italia. Già da diver-si decenni l’Italia soffre della mancanza di leadershipal suo interno per tre ragioni.Prima ragione: il cattivo sistema politico-elettorale,che è un pasticcio unico nel mondo delle democrazie,che non favorisce una buona alternanza tra gli schie-ramenti politici, che impedisce il ricambio all’internodegli schieramenti (i partiti), e che alimenta il poteredei politicanti cronici al vertice dei partiti (compresiquelli anagraficamente più “giovani”, cresciuti nellostesso humus politico-culturale, che però scalciano adestra e a manca per arrivare al vertice nel nome del“nuovo”). I politicanti cronici arrivano al vertice dopolunghi periodi di attività (non-produttive) di retorica,presenzialismi mediatici e di tessitura delle relazioniclientelari. Naturalmente, questi non hanno tempo (evocazione) per studiare a fondo la realtà, né hannoviaggiato in maniera seria per avere i termini di con-fronto/paragone con altre realtà del pianeta (sono co-me le rane di pozzanghera che credono che tutto ilmondo sia come la loro piccola dimora). Questi sog-getti non sono capaci di pensare strategicamente nélasciano spazio ai nuovi genuini soggetti (non neces-sariamente “giovani” dal punto di vista anagrafico,però freschi in politica) che potrebbero avere il pen-siero strategico e la capacità di leadership.La seconda ragione: l’assenza di meritocrazia e tra-sparenza in (quasi) tutte le organizzazioni pubblichee private di medie e grandi dimensioni. Persone diqualità non riescono ad arrivare ai comandi sia per ilsistema dei concorsi (totalmente screditati) sia per lenomine/cooptazioni (clientelismo, nepotismo). Allafine regna la mediocrità nelle organizzazioni (tranneche nelle piccole imprese radicate sul territorio); e lepotenziali guide (leaders) rimangono demotivati, sot-to-utilizzati, defilati o dispersi.La terza ragione: la carenza/scarsità di esempi vir-tuosi anche fuori dalla politica e dalle amministrazio-ni pubbliche; ad esempio, nel mondo di impresa edaffari. Tranne pochissime eccezioni, la maggior partedei grandi (visibili) esponenti del mondo imprendito-riale italiano sembrano cultori della mondanità e del-l’effimero (sport, lusso, tendenze di moda, regate,barche, gala…), e non sembrano impegnati per i beni

comuni supremi (ambiente, paesaggio, arte, letteratu-ra, educazione, scienza, fiducia e coesione sociale,riduzione della vulnerabilità umana, assetti identitaridel loro territorio, cooperazione tra popoli, dialogointer-culturale, pace…). Per queste ragioni scarseggia la leadership in Italia, ela scarsità di leadership produce sfiducia, rassegna-zione fatalista, depressione sociale e, di conseguen-za, inibisce lo sprigionamento della creatività im-prenditoriale e favorisce la fuga di cervelli. La socie-tà ne risente negativamente; perciò la crisi si acuisce.

«Il mercato libero non rende gli uomini liberi magli uomini liberi creano un mercato ragionevol-mente libero. Quindi bisogna puntare sulla libertàdell’uomo non sulla libertà del mercato». Qualisono, concretamente, le azioni e le scelte da mette-re in pratica per puntare sulla libertà dell’uomo? La libertà dell’essere umano dipende dalla sua capa-cità di fare libere scelte (giuste o sbagliate) senza ri-catti, pressioni o condizionamenti. Solo un essereumano istruito, informato, sano e sicuro nel suo ha-bitat può compiere scelte libere. Perciò certe sferepubbliche che garantiscono libera scelta dei cittadinie delle comunità - la sicurezza, la salute, l’istruzio-ne, l’informazione, le infrastrutture e l’ambiente -non possono essere lasciati alla mercé del mercato. Èuna questione di civiltà/inciviltà. Il compito principa-le di uno Stato democratico è di proteggere, promuo-vere e proiettare la comunità dei cittadini (esseriumani) nel fare le loro libere scelte a prescindere da-gli andamenti congiunturali del mercato. Il mercato,più libero possibile, è una grande ed utilissima sferadell’attività e di interscambio all’interno della socie-tà; il mercato è racchiuso nella comunità (i cittadini

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Tre immagini della spedizione scientifica in Mongolia per il progetto delle scuole-carovana

Il divario digitale (digital divide) oggi ècome la questione dell’alfabetizzazioneo dell’immunizzazione (vaccinazione)

di una volta. Va affrontata con lamassima serietà. Le persone devonoessere in grado di scegliere il tipo di

rete di cui vogliono far parte, oppurerestare fuori da qualsiasi rete. Però lapossibilità deve esserci, altrimenti si

perdono opportunità di reddito,occupazione e cultura

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sono anche operatori economici); non è la comunitàche è racchiusa dentro il mercato (i cittadini sono,soprattutto, esseri umani).Lei collabora con numerose imprese e imprendi-tori. Come la prendono quando lei sostiene chenon è così importante se le imprese falliscono,l’importante è che non muoia l’imprenditorialità? Si divertono, e sono d’accordo con me. Grazie aimiei amici imprenditori ho potuto capire meglio ilmondo dell’impresa e degli affari. E alcuni di lorohanno anche chiesto (e seguito) i miei consigli nellefaccende prettamente aziendali. Spero di essere statoutile nel migliorare i loro affari e far marciare le loroorganizzazioni verso una mediazione ottimale tra ilprofitto e la sostenibilità. A giudicare dal loro gene-roso sostegno ai miei progetti e missioni scientifiche(Extreme Lands Program) sembrerebbe che i mieiamici imprenditori sono contenti dei risultati del miosupporto intellettuale alle loro organizzazioni.Che cos’è il “Programma delle terre estreme”(Extreme Lands Program)? La Mongolia, le Ande,certe zone delle Alpi: da cosa sono accomunatiquesti luoghi? Di quali valori e di quali pratichesono interpreti e che cosa ci possono insegnare?Extreme Lands Program (Programma Terre Estreme)è uno dei principali filoni delle mie ricerche da tantianni. Extreme Lands Program parte nel 1988 dallaTribhuvan University di Kathmandu (Nepal), con lericerche applicate alla pianificazione economicanell’Himalaya centrale, in collaborazione con gli or-gani governativi preposti allo sviluppo rurale.In seguito, dal 1995, dalla mia base italiana, questoprogramma si è esteso in molte altre aree estreme delmondo: le Alpi e gli Appennini (Italia); le Ande (Perù,Bolivia, Venezuela); il Caucaso (Armenia); il desertocostiero sudamericano (Perù-Cile); le Montagne Roc-ciose (USA); la tundra e la taiga siberiana (Russia,Mongolia); le steppe ed i deserti di Mongolia e diMongolia Interna (Cina) e l’altopiano tibetano (Nepal,Cina); la savana tropicale (Sierra Leone). L’ExtremeLands Program consiste in missioni di ricognizioneapprofondita dei luoghi-campione delle terre estreme,i luoghi più remoti e marginali del pianeta, però stori-camente abitate dagli esseri umani, fruite come bacinodi risorse economiche e vissute come cornice paesag-gistico-ambientale (habitat) delle tradizioni arcaiche.Le terre estreme sono contesti dai quali è possibiletrarre alcune indicazioni per l’economia sostenibile.Le tradizioni culturali e materiali dei popoli delle ter-re estreme, per quanto erose e disarticolate oggi, so-no comunque una buona fonte di ipotesi scientificheper le pratiche di sostenibilità. Sono luoghi di attua-zione delle strategie adattive dei nativi e della gestio-ne sostenibile di scarse risorse. Le terre estreme sonoun concentrato di rarità, biodiversità e residui di ar-caicità. Sono spesso abitate da minoranze etniche, aimargini della vita politica e culturale delle loro ri-spettive nazioni e spesso ai confini tra stati-nazioni.Nella nostra epoca i popoli, insieme con gli e(s)quili-bri economici ed ambientali del loro habitat, sonovulnerabili. Se non valorizzate e ben gestite, queste

terre tendono a spopolarsi, e viene meno il presidioumano del territorio (e la continuità delle tradizioni)che causa ulteriori pressioni migratorie sulle aree ur-bane che sono già molto malsane ed invivibili in tan-ti paesi in via di sviluppo.

Uno dei progetti cui si è dedicato è quello dellescuole-carovana. Di cosa si tratta?Si tratta di sviluppo del capitale umano nelle steppe enella taiga della Mongolia centro-settentrionale, terreestreme da tutti i punti di vista. I contenuti della mis-sione “scuola-carovana” (Mobile Community Trai-ning Project – Extreme Lands Program) sono:- la quantificazione dei fabbisogni formativi degli

operatori locali per uno sviluppo sostenibile local-mente gestito, basandosi sulla valutazione dellavulnerabilità delle comunità locali e della sosteni-bilità/insostenibilità del loro sistema economico. Èuno studio interdisciplinare all’incrocio tra l’ecolo-gia umana e l’economia territoriale, contestualizza-to in un progressivamente più ampio quadro delledinamiche nazionali (Mongolia), regionali (l’Asiasettentrionale-orientale), internazionali (la globa-lizzazione) e planetarie (i cambiamenti ambientalie le incertezze climatiche);

- la formazione dei formatori locali (tecnici ed ammi-nistratori mongoli) sulla ‘sostenibilità’ in terminiteorici e pratici, incorporando la ‘sostenibilità’ co-me il filone unificante per la formazione degli ope-ratori economici locali (pastori nomadi) su cinqueaspetti: la gestione dei pascoli, la gestione delle ri-sorse idriche, la gestione del commercio dei pro-dotti locali, la manutenzione e la riparazione degliapparecchi localmente usati (i pannelli solari e pe-riferiche, le batterie, la radio ecc.), e la gestione deirifiuti a livello locale;

- l’implementazione sperimentale di un sistema diformazione itinerante (formato nomade) delle fa-miglie di pastori nomadi delle steppe e della taiga,ultimi baluardi di una civiltà in rischio d’estinzio-ne, andando nei loro accampamenti tradizionali enon portandoli nei centri distrettuali ed urbani;

- la dimostrazione pratica alle istituzioni locali e na-zionali che vi è la possibile di una via di sviluppoverticale (upliftment) basato sul valore/preziositàdelle cose anche senza lo sviluppo orizzontale (de-velopment) basato sul volume/quantità delle cose;che vi è la possibilità di organizzare ed erogare iservizi basilari per le popolazioni delle aree margi-nali a basso costo ed in maniera compatibile con illoro eco-sistema e tradizione culturale; e che nonvi è nessuna inevitabilità di sedentarizzazione odurbanizzazione per una sana e serena prosperitàdelle comunità nomadiche. 55

Il mercato è racchiuso nella comunità(i cittadini sono anche operatori

economici); non è la comunità che èracchiusa dentro il mercato (i cittadini

sono, soprattutto, esseri umani)

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Attraversare l’ombranel sole a piccoSi resta smarriti di fron-te alla quantità di facce,di corpi, di immaginidella memoria, di parolepoetiche e di parolequotidiane, di fotografieche raccontano Mercu-zio non vuole morire, lospettacolo dell’estate,l’invenzione di Arman-do Punzo che fora i si-mulacri luccicanti dello

spettacolo per rivelare un lavoro lungo, di ascolto, diattenzione, di dialogo con una città, con i tempi cheviviamo, col Paese e con i suoi grigi fantasmi.Quando nel cortile del carcere di Volterra, alla fine diun’ora e mezza di teatro puro, che parte da Romeo eGiulietta di Shakespeare per gridare la voglia di ri-scrivere le storie e le vite, di spostarsi fuori dai ranghiprevisti, apparentemente senza scampo; quando Mer-cuzio, i bambini vestiti di bianco, i clown che lo han-no accompagnato nel suo viaggio contro la morte, imacchinisti vestiti di nero, la marionettista con la suamarionetta spogliata, come aggredita da una malattiadevastante e dolcemente sopravvissuta, pesci multi-colori, pannelli della “bella Verona” Volterra con lecase schizzate in figurazioni espressioniste, le ripro-duzioni di grandi quadri di scontri, uccisioni e so-gnanti fantasie surreali che alla fine, alla morte, si op-pongono, Picasso e Caravaggio e Goya e altri, e tuttoil pubblico, con in mano un libro, esibendolo comeuno schiaffo a questi tempi in cui ci insegnano la ras-segnazione; quando tutti si schierano sotto la musicascandita dai versi di Majakovskij, poeta della rivolu-zione dell’immaginazione, della rivoluzione tradita,allora sembra di essere ritornati a Avignone, nel 1968,quando il Living Theatre marciava fuori dai teatricontro la realtà, chiedendo “Paradise Now”, il Paradi-so ora. Tutti quei colori, nelcortile del carcere di Volter-ra, sotto un sole che picchiaimpietoso, quei volti, lagioia, le grida strazianti ecombattive dei detenuti at-tori – «Non voglio mori-re!», «Non voglio morire!»– ci riportano fuori dallesbarre, alla crisi, ai tempigrigi che viviamo. Ma lofanno senza ideologismi:c’è in quei libri esibiti co-

me medaglie o proclami, in quelle voci, nei suoni, neiversi, nei colori, la coscienza che dal buio si esce at-traversando la morte con la disperazione di chi nonvuole accettare la realtà per come è. Con l’immagina-zione, la capacità poetica (artigianale, creaturale) diformulare nuove immagini. Con la fantasia, capacitàdi vedere i fantasmi, dar loro corpo, figurarli e farliagire per trasformare. Con l’arte come capacità di ri-costruire il mondo partendo dalla profondità della no-stra palude, dall’altezza della necessità di straordina-ria (extra-ordinaria) visione e meraviglia.

Dimenticare la realtàPunzo ce lo ha insegnato in più di vent’anni di lavoroin carcere: dal fondo orribile del mondo, dalla pena edall’espiazione senza salvezza, è possibile ricostruirevite, riaprire speranze. Dimenticare la realtà avvilen-te, lo stato delle cose, le sbarre, le colpe, per riformu-lare giocando sulle forze umane, sulla capacità di ve-dere oltre che tutti abbiamo, per quanto nascosta pos-sa sembrare. Quando senti recitare gli attori dellaCompagnia della Fortezza, vieni precipitato in unmondo antico, dove c’è gioia, dolore, teatro popola-re, alta poesia: tutto insieme, come quando duranteun intenso canto d’amore cinese di una Giulietta mu-rata nel suo balcone un inserviente uomo di marmoraccoglie le spade come al circo. Shakespeare, vili-peso tutti i giorni sui nostri palcoscenici, se la godecon questi eretici che prima, con Hamlice rendono

l’Amleto parole scritte amano da tappezzare pareti,soffitti, pavimenti, e rac-contano lo smarrimentodell’impotenza e la neces-sità di formulare nuovi al-fabeti; ora con Mercuzio,seguendo le suggestionisulla leggerezza di ItaloCalvino, fanno di Romeo eGiulietta un copione sba-gliato, vile, in cui il padreBardo non ha avuto il co-

Tutta la piazza gridò: «Non voglio morire!» Il Mercuzio della Compagnia della Fortezza

di Massimo Marino

Massimo Marino

Marat-Sade (1993, Casa di reclusione di Volterra)

Tutti quei colori, nel cortile del carceredi Volterra, sotto un sole che picchiaimpietoso, quei volti, la gioia, le gridastrazianti e combattive dei detenutiattori – «Non voglio morire!», «Nonvoglio morire!» – ci riportano fuoridalle sbarre, alla crisi, ai tempi grigi

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raggio di salvare il figlio personaggio che incarnavala poesia funambolica e poteva scongiurare la trage-dia con la sua volontà di rovesciare un mondo in cuii padri si disputano e i figli muoiono, come suggeri-sce una delle numerose didascalie affidate a striscio-ni bianchi sull’asfalto del cortile del carcere. Mercu-zio è il poeta che parla di fate, lo spadaccino in sinto-nia col nulla (il vuoto che bisogna fare), l’intellettua-le, l’uomo di cultura che rovescia le apparenze, lospirito mercuriale che Shakespeare sacrifica e chePunzo non vuole fare morire.Scorrono davanti allo spettatore, sotto una delle musi-che circensi di Andrea Salvadori, le pagine della tra-gedia dei due amanti, su pannelli giganti, riscritta co-me se Mercuzio non fosse morto, con le parole cheShakespeare attribuisce a altri personaggi che avreb-be potuto pronunciare lui, sottolineate: i testi non so-no la Legge, e la Norma si può, si deve cambiare, per-ché la cosa più difficile non è morire, è vivere, in que-sto mondo in cui «hanno di nuovo decapitato le stel-le!», perché «bisogna strappare la gioia ai giorni ven-turi», come scrive il fratello «bello, ventiduenne», ilpoeta Majakovskij, simbolo, portavoce di tutti gli spi-riti sacrificati da un’orribile, tetra Realtà.La città idealeMercuzio e Tebaldo precipitano nel sangue, dopo chelo spettatore per un attimo, entrato nel carcere, ha vi-sto un quadro gigante dell’uomo vitruviano di Leo-nardo e un’immagine di una di quelle città ideali chefurono i teatri del Rinascimento, non so se dell’O-limpico di Vicenza, del Farnese di Parma o di qual-che altro di quegli edifici, monumenti di un’impossi-bile, irreale, non data nella realtà effettuale, propor-zione d’utopia. Dal sogno dell’uomo perfetto si passain un baleno alle sbarre che chiudono la parte centra-le del cortile della Fortezza, del Carcere, al duello,alla “bella” Verona incombente, alle mani dei suoicittadini lordate di rosso, esibite in un veloce corteodi spettatori guidato da una Lady Macbeth di biancovestita, ai cadaveri di Giuliette, in sagoma cartacea oscelte tra le giovani spettatrici del pubblico, all’incal-zare, avanzare, schiacciare della città, di uomini conabiti pietrosi di colonne e mattoni, sagome che na-scondono spade, a un’apparizione del Prologo delledivisioni intestine di due famiglie e a una di Riccar-do III che come belva di rapina in agguato precipita

la furia dei campi di battaglia nel chiuso delle alcove,delle case, delle vite quotidiane…Le immagini, l’ascoltoDalì e Picasso, Chagall e Fellini, clown, angeli, città,sberleffi e eroi seri e circensi governano il sogno diMercuzio, lo stesso Punzo ferito a morte da un Tebal-do (Aniello Arena) che, compiuto l’assassinio e ucci-so a sua volta da Romeo, si trasforma in fantoccio unpo’ Totò, un po’ Fortunello, e non ricorda più cos’hafatto, perché si ritrova su quella piazza mentre un An-gelo della Morte liberty danza in fotografia gigante arapinare la vita di Mercuzio. L’utopia svanisce nel-l’ombra oscura, per bloccarsi in un limbo che generasogni, immagini che accompagnano l’infinito riman-dato trapasso, in una notte scura sotto il sole abba-gliante. Clown, bianchi e rossi, con corpi d’albero,con pance scrigni, con cappelli basso tuba (bellissimii costumi di Emanuela Dall’Aglio e le scene di Ales-sandro Marzetti, Silvia Bertoni e dello stesso Punzo)si animano come da un’antica immagine, mentre unuomo in grigio (Maurizio Rippa), con la valigia dellelacrime versate e degli orizzonti da scoprire intona unbarocco, lancinante canto, chiedendo la consolazionedel ricordo e la scena è attraversata da Otello e daisuoi incantamenti, da Prospero, da elfi, fate, artigianidel Sogno di una notte di mezza estate.

Mercuzio si tramuta in farsesco, circense Cyrano infrac, viaggiatore della Luna e spadaccino che sfida so-lo i giganti (non i troppi anni esistenti), in cerca di im-prese così grandi da non avere tetti che le racchiudano,specchiandosi in una testa con nasone, riflettendosi inuno specchio che gli rivela a volte i visi del pubblico.Si agitano marionette sotto le musiche dolci o incom-benti di Andrea Salvadori, l’uomo basso-tuba riportain scena il niente, il nulla di Pessoa, mentre si narra divita, vissuta, svanita, travagliata, e sul letto giallo dei 57

Mercuzio è il poeta che parla di fate, lospadaccino in sintonia col nulla (il

vuoto che bisogna fare), l’intellettuale,l’uomo di cultura che rovescia le

apparenze, lo spirito mercuriale cheShakespeare sacrifica e che Punzo non

vuole fare morire

Alice nel paese delle meraviglie - Saggio sulla fine di una civiltà

(luglio 2009, Casa di reclusione di Volterra). Foto di Stefano Vaja©Hamlice - Saggio sulla fine di una civiltà (luglio 2010, Casa di re-clusione di Volterra). Foto di Stefano Vaja©

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sogni di van Gogh si leva una vela che grida controtutto ciò che ammazza l’anima, tutti i giorni, con l’a-narchica follia di Artaud. Le immagini diventano in-calzanti, comiche, rarefatte, in un “sogno”, in una“poesia” che è rovesciamento continuo delle cose as-sodate, delle viltà quotidiane, ricerca di strade peruscire dal buio, dal limbo, dall’apparente luce versol’illuminazione della necessità di cambiare la vita e,una volta cambiata, cambiarla ancora. Di non accetta-re. Di trovare in fondo al precipizio la salvezza, per-ché non si può più cadere ancora di più, più in giù.Bruciante lavoro di tempi di crisi, che nessuna im-magine può rendere vivido come la memoria. Chesfida la rappresentabilità offrendosi smagliante in pa-sto a fotografi, cineoperatori, giornalisti ciarlieri, chesi lasciano ingannare e sedurre dalle belle immagini.Con questo immenso fuoco d’artificio di figurazioniPunzo mi sembra abbia ottenuto, ancora una volta,un altro effetto: concentrare sulle parole, scandite,composte per associazioni, per confessioni monolo-ganti, per sbalzi da attori inarrivabili, mirabolanti,perfetti nei tempi, densi nei ritmi, nei timbri, nellacapacità di aprire mondi nei quali sprofondare persalvarci, noi spettatori, deponendo la vanità della su-perficie riflettente, delle trappole lusinghiere, per la-

sciarci penetrare fin nel fondo e arrivare a gridare,non per militanza, né per disperazione, ma come ne-cessità e promessa: «Non voglio morire!» (da ricor-dare, oltre a Aniello Arena, almeno Francesco Felici,Giovanni Langella, Massimiliano Mazzoni, RosarioCampana, Abderrahim El Boustani, Ibrahima Kandij,Gianluca Matera, Rosario Saiello, Massimo Terrac-ciano, Giuseppe Venuto).

Migliaia di immagini di Mercuzio non vuole morire sipossono ritrovare su Flickr, alla pagina della Compa-gnia della Fortezza, su vari media, in rete, nei socialnetwork. Ma l’immagine di questo lavoro dice troppoe niente. È uno spettacolo questo, paradossalmente, daascoltare a occhi chiusi, da farsi entrare fin nel fondo.Riecheggia quel grido, «Non voglio morire!», l’urlo diribellione al testo, ai “testi” che ci regolano le vite. Ciprende per mano con l’invito a superare la nebbia perrifiutare di scomparire. Per tornare a vivere.

Mercuzio non vuole morire - La vera tragedia in Romeo e Giulietta (luglio 2012, Casa di reclusione di Volterra). Foto di Stefano Vaja©

Mercuzio non vuole morire. Foto di Leticia Marrone©

E tutto il pubblico con in mano unlibro, esibendolo come uno schiaffo a

questi tempi in cui ci insegnano larassegnazione

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Mercuzio è la piazzaMercuzio è il lavoro di un anno, di Punzo e della Com-pagnia, con il fondamentale, intelligente coordinamen-to organizzativo di Cinzia De Felice e dei preziosi Do-menico Netti e Isabella Brogi (ma da ricordare sareb-bero molti altri, da Laura Cleri a Carlo Gattai a PierNello Manoni, a tutti quelli che hanno diffuso Mercu-zio nei paesi, nelle botteghe, presso le associazioni).Perché lo spettacolo non muore in carcere, quest’anno.Si fa festival, assorbe quasi tutto il festival Volterratea-tro, diventa laboratorio sul corpo poetico, sull’immagi-ne, sulla scrittura, con artisti di varia provenienza (Tea-tro delle Ariette, Teatrino Giullare, Pietro Floridia,Centro Teatrale Umbro, Officine Papage, ManovalanzaTeatro, Isole Comprese Teatro) trasportandosi nellepiazze e nelle strade di tre paesi, dopo due prime gior-nate con brevi intensi incontri sulla poesia come linguada mettere nei corpi e nei luoghi (con la serie Rime perIncanto di Lidia Riviello e Erika Manoni, nove bellis-simi videoclip interpretati dai detenuti della Fortezza) emostre e creazioni ospiti che entrano nel grande spetta-colo finale (Generale o l’azione di un fucile di CasArsaTeatro / Balletto Civile e Il Minotauro di Antonio Viga-nò / Teatro La Ribalta).Mercuzio porta il suo grido a Montecatini Val di Ceci-na, a Pomarance e a Volterra. Gli spettatori diventanoattori di qualche scena, rimanendo pubblico, comunitàin azione che alla fine, per piccole accelerazioni, perpaziente costruzione, trasformano le piazze in luoghidella rivolta dell’immaginazione, luoghi di incontro,di scoperta dell’altro e della forza di un corpo colletti-vo. È apparso Dioniso a Pomarance, al tramonto; è ri-tornato in piazza con la corsa vorticosa con le valigiedopo cortei di mani insanguinate, dopo morti di Giu-liette e sbandieratori e teatrini di carta itineranti eduelli e ostensioni di libri come bandiere di chi nonaccetta di delegare, di morire, a Volterra (e c’eranospettacoli preparati per un anno intero da cittadini,sbandieratori, bambine in tutù, acrobati…). Tutta lapiazza, alla fine, grida: «Non voglio morire!».Quest’estate si è discusso molto, nei festival, di real-tà, di ritorno alla realtà e di lavoro sui margini della

realtà. Ma anche di spazi pubblici, di teatro o di per-formance che tornano nelle piazze e aprono luoghinuovi di relazione. Molte volte abbiamo assistito abelle intenzioni senza corpo. Qui, dopo un lavoro inprofondità che ha unito gruppi diversi di cittadini per

un anno, pazientemente, senza paura di sporcarsi col“popolare”, perfino con la cultura di massa grazie allalucidità del progetto; qui, alla ricerca di una lingua ef-ficace e condivisa per parlare alla parte più profonda(e spesso nascosta) di tutti (ma anche a quella più leg-gera); qui, a Pomarance e a Volterra, è apparsa unacomunità, una possibilità. Assemblea temporanea, ra-pimento, presenza totale, progetto. Il metodo carceresperimentato da Punzo in questi anni, trasbordare,trasfigurare, portare contro la realtà per inventarneuna più umana, è diventato emozione e pensiero con-divisi. Al teatro non si può chiedere di più. La respon-sabilità oggi diventa di ognuno di noi.Ad Armando Punzo e alla Compagnia ora spetta ilteatro stabile in carcere, che da tanto tempo ormaichiedono senza risposta, per rendere questo metodo diascolto, di provocazione e di creazione con, solido,duraturo. Siamo sicuri che, se verrà, non sarà simileai teatri stabili che già conosciamo, di tradizione o in-novazione che siano: sarà un’altra avventura dellamente, del corpo, della poesia.

Le immagini diventano incalzanti,comiche, rarefatte, in un “sogno”, in

una “poesia” che è rovesciamentocontinuo delle cose assodate, delle viltàquotidiane, ricerca di strade per usciredal buio, dal limbo, dall’apparente luceverso l’illuminazione della necessità dicambiare la vita e, una volta cambiata,cambiarla ancora. Di non accettare. Di

trovare in fondo al precipizio lasalvezza, perché non si può più cadere

ancora di più, più in giù

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60 PopsceneMecenatismo 2.0. Il fenomeno Kickstarter e le nuove formedi finanziamento della cultura nell’epoca di internet

di Ugo Attisani

Il 9 febbraio del 2012 ilprogetto per la realizza-zione di una dockingstation per Iphone è sta-to il primo a raggiunge-re la cifra di un milionedi dollari raccolti attra-verso la piattaforma difinanziamento on lineKickstarter, uno tra ipiù noti siti di crowd-funding, ovvero di fi-nanziamento condivisoattraverso la rete, e si-

curamente il più rilevante in ambito di supporto allosviluppo di progetti di carattere creativo o artistico.Nello stesso giorno, soltanto poche ore dopo, la casadi produzione di videogame Double Fine Produc-tions, dietro la quale si cela il team di programmazio-ne di alcuni classici dei videogiochi degli anni Ottan-ta e Novanta come Maniac Mansion e Monkey Is-land, è riuscita a infrangere un altro record, raggiun-gendo la cifra di un milione di dollari meno di 24 oredopo aver pubblicato sul sito la propria proposta difinanziamento per la realizzazione di un’avventuragrafica, arrivando poi a raccogliere la ragguardevolesomma complessiva di oltre tre milioni. Questi dueeventi, curiosamente avvenuti a distanza di temporavvicinata, rappresentano però soltanto il vertice diun fenomeno nato tre anni fa, quando Perry Chen,Yancey Strickler e Charles Adler hanno dato vita aquesto sito che, pur non essendo il primo né nella or-mai già piuttosto larga galassia delle piattaforme dicrowdfunding, né tantomeno nel più specifico ambi-to di quelle dedicate al finanziamento di progetti cul-turali, ha saputo attirare le attenzioni dell’opinionepubblica su un fenomeno in origine relegato soltantoagli addetti ai lavori. In realtà, infatti, l’idea di sfrut-tare le potenzialità di comu-nicazione e partecipazionecondivisa della rete per re-perire i fondi necessari a fi-nanziare iniziative artisti-che o creative, altrimentiescluse dai canali economi-ci tradizionali, risale ai pri-mi anni del decennio scor-so, addirittura prima che sidiffondessero gli attuali so-cial network. Nel 2000 in-fatti Brian Camelio, musici-sta jazz indipendente, deci-se di creare il primo vero e

proprio sito di crowfunding musicale, Artistshare,partendo dall’idea che rivolgendosi direttamente allabase degli ascoltatori e appassionati di musica gli ar-tisti avrebbero potuto sviluppare le proprie idee e ipropri progetti con una libertà che i normali canali difinanziamento e produzione non erano più in gradodi offrire. Artistshare, attraverso il suo creatore, è ad-dirittura riuscito a codificare questa nuova forma diraccolta di investimenti per la produzione culturalein una patent, più o meno corrispondente ad un no-stro brevetto. Da quel giorno numerose altre iniziati-ve in questo senso hanno fatto la loro comparsa sullarete, fino, appunto, a Kickstarter, che nel giro di solitre anni, grazie al numero di progetti sviluppati e so-prattutto all’importanza e alla fama degli artisti ecreatori coinvolti, è riuscito a destare l’attenzione deimedia più importanti. La rapida ascesa di questo sito,come quella di molti altri simili operanti anche inambiti diversi da quello culturale, ha ovviamente an-che evidenziato alcuni punti di fragilità di un sistemadi finanziamento condiviso, per lo più da individuarenel rischio di frodi per i finanziatori da un lato e nel-la poca garanzia della proprietà intellettuale per ipromotori dei progetti. Questo ha fatto sì che gli stes-si imprenditori dietro a queste piattaforme abbianoesercitato una forte pressione nei confronti della po-litica americana, pressione che è sfociata nell’appro-vazione bipartisan da parte del Congresso degli StatiUniti del JOBS Act (Jumpstart Our Business StartupsAct), una legge che si occupa di regolare in modo or-ganico la materia del crowdfunding. Quest’ultimofatto, unito anche all’interessante definizione data aKickstarter da parte del New York Times, che lo haparagonato alla moderna e popolare versione dellaNEA (National Endowment for the Arts), l’agenziaindipendente del governo americano che si occupa disupportare e finanziare i progetti di eccellenza artisti-ca, dovrebbe probabilmente far riflettere chi, a tutti i

livelli, sia produttivi cheamministrativi, si occupadi arte e cultura nel nostropaese, dato che, nonostan-te tutto, qui in Italia sem-brano essere ancora alcentro del dibattito temati-che quali il finanziamentopubblico della cultura,l’entità dell’Iva da appli-care da parte del Governosugli ebook o l’opportuni-tà o meno di regolamenta-re gli sconti da parte dellelibrerie.

Ugo Attisani

I creatori di Kickstarter, da destra Charles Adler, Perry Chen eYancey Strickler

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Dal 21 al 23 giugno2012 i maggiori re-sponsabili ed esperti intema di borse di studio,di residenze universi-tarie, di luoghi di risto-razione, di servizi aidiversamente abili, diiniziative culturali, diattività sportive e altriservizi che arricchisco-no l’esperienza univer-sitaria, si sono ritrovatia Roma per un con-

fronto di grandeutilità.L’occasione è sta-ta data dal IXSimposio interna-zionale dei docen-ti universitari, cheha dedicato un’ap-posita sessione altema “Il campus:luogo di studio,luogo di vita” asottolineare che ilpercorso dello stu-dente non si esau-risce con la fre-quenza alle lezio-ni e nei contatticon i docenti inoccasione degliesami e la prepa-razione e discus-sione della tesi ,ma si arricchiscedi tanti altri mo-menti di socializ-zazione. In prati-ca, grazie ancheall’utilizzo di col-legamenti in retevia skype, si è po-tuto in tale occa-sione valutare iservizi offerti aglistudenti universi-tari da diversipaesi sia europeicome Francia,Germania e Spa-

gna sia del Mediterraneo che anche d’oltreoceanocome nel caso del Brasile. L’Italia era rappresentata da molti responsabili di di-versi enti regionali tra cui Laziodisu nonché dallaloro associazione nazionale - Andisu – attraverso lapresenza del suo presidente Marco Moretti. Sebbenedal raffronto della realtà italiana con quella degli al-tri paesi sia emerso che ancora si deve lavorare inItalia per raggiungere alcuni standard europei e perfar sì che i nostri studenti universitari possano gode-re delle stesse prerogative dei loro coetanei europei,sono venuti alla luce dati significativi che lascianoben sperare in politiche per il diritto allo studio sem-pre più efficaci. Lo scorso anno sono state date in

Italia 181.312 borsedi studio dagli entiregionali su un tota-le di 937.077 stu-denti regolarmenteiscritti in tutte leuniversità, in prati-ca una borsa ognisei studenti. Inoltreci sono 43.066 postiletto, gratuiti per idetentori di borsa. L’incontro ha vistoanche la partecipa-zione di rappresen-tanti delle Fonda-zioni C.E.U.R. eRUI e ha stabilitoun proficuo raffron-to tra iniziativepubbliche e private.Si è parlato in chia-ve storica dellarealtà dei collegiuniversitari in cui sisono formati moltiesponenti dellaclasse dirigentepassata e attuale.Le residenze uni-versitarie si sonodimostrate non sololuoghi di perma-nenza ma anchecrogiuoli di dibatti-ti culturali capaci diselezionare i mi-gliori talenti dellediverse nazioni.

Gianpiero Gamaleri

Ultim’ora da LaziodisuIl campus: luogo di studio, luogo di vita. Il diritto allo studio al centrodi un incontro internazionale

di Gianpiero Gamaleri

Intervento di Achim Meyer auf der Heyde, presidente dell’ente per il diritto allo stu-dio tedesco

Tra i partecipanti al Simposio il presidente dell’ANDISU Marco Moretti e il presiden-te Laziodisu Roberto Pecorario

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Non tutti sanno che...Palazzo Massimo in Lingua dei Segni. Un progetto della Soprintendenzaper i Beni Archeologici di Roma, della Facoltà di Ingegneria di Roma Tree dell’Istituto Statale Sordi di Roma

di Luca Passi

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Il 20 aprile scorso, pres-so Palazzo Massimo aRoma, è stata presentatal’applicazione per tablete smartphone, in Linguadei Segni Italiana (LIS)e American Sign Lan-guage (ASL), per ilMuseo Nazionale Ro-mano-Palazzo Massi-mo. Tale applicazione oguida che dir si voglia,ha l’intento di fornireuna piena accessibilità a

tutti i cittadini che vogliono riconquistare gli spazidell’arte e dell’archeologia.L’iniziativa ha avuto come ente promotore la Soprin-tendenza per i Beni Archeologici di Roma e ha coin-volto la Facoltà di Ingegneria dell’Università degliStudi di Roma Tre e l’Istituto Statale Sordi di Roma(ISSR).Il progetto, sviluppato nell’arco di otto mesi, ha vis-suto sostanzialmente due fasi.La prima fase, che potremmo definire conoscitiva edi ricerca, ha visto la collaborazione tra un gruppo dilavoro dell’Università degli Studi di Roma Tre e unaltro della Soprintendenza Speciale per i Beni Ar-cheologici di Roma.Il team di Roma Tre era formato da Paolo Mele, Pre-side della Facoltà di Ingegneria, dall’ing. Franco Mi-licchio, responsabile del progetto per la Facoltà diIngegneria e da Guglielmo Mizzoni; quello della So-printendenza da Tiziana Ceccarini, Silvia d’Offizi eMara Pontisso.Durante gli incontri, che hanno avu-to una cadenza mensile, sono stativalutati la tecnologia e i supporti dausare per lo sviluppo dell’applica-zione ed è stata effettuata un’ analisidel budget a disposizione. In con-temporanea si è proceduto dal puntodi vista amministrativo a stipulareuna convenzione tra l’Università de-gli Studi Roma Tre, la Facoltà di In-

gegneria e la Soprintendenza Speciale per i Beni Ar-cheologici di Roma.La seconda fase invece, è stata di natura prettamentetecnica. Ci si è soffermati, ad esempio, per i sordisulla qualità dei video e sulla dimensione del suppor-to (Ipad e Tablet), si è tenuto conto della loro neces-sità di visualizzare i video su supporti di dimensionimaggiori ai 7 pollici; mentre per i beni culturali sullayout e sulla valorizzazione del percorso museale edelle opere.Sulla base delle esigenze esposte è stato definito ilcodice di sviluppo (Lua, Javascript, Css) e scelto ilformato video più adatto e il font da utilizzare al finedi garantire la fruibilità dell’applicazione su più sup-porti. L’applicazione è stata sviluppata per esseresupportata sui principali software di utilizzo comunecome IOS e Android.L’applicazione si avvia con la schermata di presenta-zione con il logo di Palazzo Massimo e la dicituraLingua Italiana dei Segni. Successivamente si acce-de ad un menù di secondo livello che indica i pianidel museo e presenta sullo sfondo immagini alterna-te. In basso, sulla destra, trovano posto due ulteriorivoci: “Mappe”, che permette al visitatore di orientar-si all’interno del museo e “Menù”, che rimanda allapagina principale.L’applicazione sarà resa disponibile, gratuitamente,sia sullo store Android che su quello Apple attraversogli account istituzionali di tutti gli enti coinvolti.Inoltre, tale applicazione rappresenta una novitànell’ambito museale italiano. Non esistono infatti ap-plicazioni, dedicate ad utenti sordomuti, sviluppateper un museo pubblico.L’altro elemento da non sottovalutare sono stati i

tempi di realizzazione ed i costi ditale progetto.In tempi di austerity e ristrettezzeil conseguimento di tale risultato èstato senza mezzi termini un suc-cesso per tutti.Infine il confronto e l’intesa conla Soprintendenza ha aperto leporte a nuovi spunti di collabora-zione futura.

di Luca Passi

Museo Nazionale Romano-Palazzo Massimo

Sabato 10 novembre 2012 la Pastorale Universitaria ha programmato il X pellegrinaggio dei giovani uni-versitari ad Assisi. L’iniziativa è rivolta a tutti gli studenti degli Atenei romani. Si parte alle 7.00 davanti ai luoghi stabiliti dalle Cappellanie. La quota di partecipazione è di 10 euro. Perinformazioni: padre Angel Alba: [email protected] oppure don Pino Fanelli: [email protected].

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Il dipartimento di Filoso-fia in collaborazione conil Cirpit (Centro Inter-culturale dedicato a Rai-mon Panikkar) ha orga-nizzato, il 14 maggioscorso, presso la Facoltàdi Lettere e Filosofia,una giornata interamentededicata al filosofo spa-gnolo. Un’occasione perconoscere e approfondi-re il suo pensiero e la suadottrina che offrono non

pochi spunti di riflessione per leggere e provare a com-prendere la realtà che ci circonda. A guidare i presentisi sono susseguiti numerosi interventi coordinati daMaria Roberta Cappellini, presidente del Cirpit e daGiuseppe Cognetti, docente dell’Università di Siena,intervallati da proiezioni audiovideo con significativicontributi tratti da interviste e conferenze che Panikkarha tenuto durante tutta la sua intensa attività.Raimon Panikkar è nato il 3 novembre 1918 a Barcel-lona da padre indiano e hindù e da madre catalana ecattolica. Fin da bambino, dunque, poté adottare, col-tivare e parlare di tradizioni diverse nelle quali non siè mai sentito estraneo. È vissuto in India, a Roma (do-ve è stato libero docente dell’Università), e negli StatiUniti. Nel 1987 è tornato in Catalogna e ha stabilito lasua residenza a Tavertet dove ha continuato a tenerecorsi, seminari e incontri su temi filosofici, religiosi,culturali e di approfondimento delle diverse tradizionidell’umanità. L’enorme attività di Raimon Panikkar,qui appena accennata, deriva il suo significato profon-do dalle idee e dalle esperienze che l’hanno ispirata.Nel corso della sua vita ha mantenuto un intenso con-tatto con l’India dove si recò per la prima volta nel1954. La sua formazione intellettuale, fra Occidente eOriente, gli ha consentito diriflettere nella sua opera undialogo filosofico costantetra tradizioni, ideologie ecredenze diverse, assoluta-mente non convenzionale. Ilnucleo del pensiero di Panik-kar può essere racchiuso nel-la sua concezione della real-tà. La realtà non ha struttura,ma si esprime nell’intercon-nessione di tutto con il tutto.La filosofia è cogitare e col-ligere, pensare e raccogliere.Il suo pensiero, ispirato dal

principio advaita (né monista, né panteista, né duali-sta), propone una visione dell’armonia, della concor-dia, che vuole scoprire “l’invariante umano” senza di-struggere le diversità culturali che mirano tutte allarealizzazione della persona in un continuo processo dicreazione. Il dialogo non è per gli uomini un lusso,ma qualcosa di strettamente necessario. E il dialogo,soprattutto interreligioso, ha un ruolo importante. Pa-nikkar non ha mai inteso questo dialogo come un dia-logo astratto, teorico, un dialogo basato esclusivamen-te sulle credenze, ma come un dialogo umano chescende in profondità, nel quale si cerca la collabora-zione dell’altro per la mutua realizzazione, dal mo-mento che la saggezza consiste nel sapere ascoltare. Ela creazione avviene ogni giorno, è un fatto pratico,concreto. Attraverso il suo pensiero è possibile legge-re la realtà e immaginarla in maniera diversa, cercan-do un modo di vivere nuovo, forse più umano. Neglianni Ottanta Panikkar utilizzò il termine terricidio,stigmatizzando lo sfruttamento intensivo della terrache ci sostiene, per descrivere l’epoca in cui viviamo.Con una visione concreta e anche globale dell’esisten-za, Panikkar ha, quindi, inteso difendere non solo l’ar-monia tra gli uni e gli altri e con noi stessi, ma anchee soprattutto la nostra armonia con la natura; nei suoiscritti ha difeso la sacralità della vita e la sua inviola-bilità, denunciando come si sia perduta la sensibilitàper la sacralità della materia. L’ecosofia, altro concet-to cardine della dottrina del filosofo, è la nuova sag-gezza della terra. Ciò che è umano, ciò che è infinitoo divino e ciò che è materiale, non sono tre realtà se-parate ma i tre aspetti di un’unica realtà. E questa èstata la sua intuizione cosmoteandrica o teandropo-cosmica che invita a vivere in maniera armonica conil tutto. Nelle sue riflessioni trapela la lucida consa-pevolezza dell’impossibilità di una crescita economi-ca infinita e la contraddittorietà che caratterizza ilconcetto occidentale di sviluppo. É necessario un

cambiamento, un’inversionedi rotta rispetto al modellodominante di crescita e diaccumulazione illimitata.Una decrescita felice, citan-do Serge Latouche, che pos-sa far immaginare non soloun nuovo tipo di economia,ma anche una nuova e piùequilibrata società nella qua-le ciascuno è protagonistadella propria vita ed è parte-cipe della comune avventuraumana dell’aver cura dellarealtà intera.

Tutta la realtà è relazioneUna giornata di studio su Raimon Panikkar

di Giulia Pietralunga Cosentino

Giulia Pietralunga Cosentino

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Tre giorni per rifletteresu un sistema “alterna-tivo” di sviluppo pro-duttivo. Tre giorni dedi-cati al confronto fra lediverse realtà culturali esociali del nostro terri-torio. Dal 30 marzo al1° aprile scorsi, la Cittàdell’Altra Economia èstata lo scenario di unsusseguirsi ininterrottodi performance artisti-che, esposizioni, dibat-

titi, aventi come filo conduttore la necessità di ripen-sare le politiche organizzative della città di Roma, invista di percorsi collettivi mirati alla salvaguardiadell’equilibrio ambientale e alla sperimentazione dinuove progettualità ecosostenibili. Tutto questo inuno spazio fortemente inscritto nella memoria storicadei romani, l’ex mattatoio di Testaccio, un luogo chenegli ultimi anni è diventato un vero e proprio can-tiere culturale, con la presenza, al suo interno, oltreche del CAE, anche dell’Università Roma Tre, delMACRO, dell’Accademia di Belle Arti. Una ferventerete di attività artistiche in grado di restituire un’im-magine diversa ad un complesso edilizio, per moltotempo, considerato come parte “aliena” rispetto alcontesto urbano di riferimento. Nuove preoccupazio-ni sono ora legate alla volontà dell’amministrazionecomunale di affidare a nuovi soggetti lo spazio cosìsapientemente gestito dal Consorzio Città dell’AltraEconomia. I tre giorni hanno così voluto rappresenta-re una sorta di summa delle tante iniziative portateavanti fino ad ora. Durante l’evento, è stato possibilevisitare un’esposizione dedicata all’Eco Arte e all’E-co Design. La mostra, curata da Sonia Mazzolidell’Associazione Nuova Bauhaus, ha visto la parte-cipazione di alcuni importanti artisti del nostro terri-torio che, attraverso il riciclo dei materiali più svaria-ti, hanno proposto un nuovo modo di concepire l’Ar-te, vissuta sia come un “percorso di ricerca interio-re”, sia come un’occasione per dare nuova forma aoggetti del vivere quotidiano. Ecco allora che a farlada protagonisti sulle tele c’erano scarpe, scarti di tra-vi, buste di plastica, cd rom, pellicole, addirittura ca-mere d’aria di ruote di biciclette; spesso “scarti” alta-mente inquinanti che sono stati invece scelti comestrumenti di congiunzione fra l’io e lo spazio circo-stante. Altrettanto suggestive alcune installazioni: unvecchio tronco d’albero trasformato in una “creatu-ra” fiabesca, con una fonte di luce invisibile al suointerno, una sedia “intrappolata” in un intreccio di

corde, canne di bambù “impreziosite” da nastri ade-sivi su cui sono state trascritte le poesie di Alda Me-rini. Occasioni uniche per educare lo sguardo adun’osservazione libera dalla gabbia dei vecchi sche-mi consolidati. Stessa logica di apertura ha animatol’iniziativa del baratto, promossa dall’AssociazioneAirbnb. Vecchi oggetti, destinati ad essere buttati daipropri proprietari, sono invece stati riqualificati attra-verso una targhetta descrittiva della propria storiapersonale, diventando così strumento di condivisionefra i vari partecipanti all’evento. E hanno rappresen-tato un’occasione di “scambio”, in questo caso diidee e proposte, anche i diversi dibattiti tenutisi nellaSala Conferenze Renato Biagetti e incentrati sullanecessità di un ripensamento del modello urbanisticoe culturale della Capitale. Fra gli interventi partico-larmente significativi quello di Andrea Baranes cheha raccontato l’esperienza del Teatro Valle comeesempio importante di gestione “dal basso” di unospazio artistico, un possibile punto di partenza perripensare il rapporto fra pubblico e luoghi della cul-tura. Spazi e luoghi reali ma anche spazi e luoghivirtuali come quelli di cui si occupa da diverso tem-po Binario Etico, una società Cooperativa che operaall’interno della Città dell’Altra Economia e che, daalcuni anni, è impegnata a sostenere un uso piùconsapevole delle nuove tecnologie. Attraverso lapromozione del software Libero e di un utilizzo deimezzi informatici che rifiuti la logica dell’usa e get-ta, Binario Etico propone alternative di recupero deicomputer ormai in disuso, evitando così la disper-sione dei suoi componenti estremamente nocivi. Frai momenti più significativi dei tre giorni va menzio-nata la proiezione del documentario di Ilaria JovineIn Piazza. La giovane regista e sceneggiatrice havoluto “raccontare” una storia: quella di Piazza Te-staccio, un luogo simbolo per i romani che, dopoquasi cento anni, sta per perdere la propria funzionedi mercato rionale per tornare ad essere luogo dipassaggio. Di fronte alle testimonianze di coloroche quella piazza l’hanno abitata, la macchina dapresa quasi scompare, registrando, senza interferi-re, un universo di volti e parole in preda ad un gro-viglio di emozioni. Confusione, disorientamento erabbia, ma soprattutto la nostalgia di un tempo chenon tornerà e di cui ora non restano che istantaneein bianco e nero custodite nei cassetti della memo-ria. Ed è questa stessa “paura di perdita” che ha ali-mentato e continua ad alimentare i progetti delCAE. La paura di perdere la nostra identità cultura-le e territoriale, riducendoci ad essere “passantidistratti” di uno spazio in cui transitiamo… senzaviverlo.

Città dell’altra economia Memorie del territorio e ricerca di un futuro ecosostenibile

di Francesca Gisotti

Francesca Gisotti

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C’era una volta… Ècosì che iniziano tutte legrandi favole. E Lorax,il guardiano della fore-sta, possiede tutte lecarte in regola per an-noverarsi tra queste, af-frontando, o meglio an-cora scontrandosi, conla realtà di un ambienteeternamente conteso trasviluppo e ritorno alleorigini. Basato su Il Lorax, un

libro per bambini pubblicato nel 1971, il film si faportavoce della fantasia visionaria e della creativitàlinguistica proprie della poetica dell’autore. TheodorSeuss Geisel, più conosciuto con lo pseudonimo diDr. Seuss, è stato uno degli scrittori americani perl’infanzia più stimati di tutti i tempi, è dalla sua pen-na che è uscito il forse più celebre Grinch. Il conte-nuto “didattico” delle sue opere non risiede solo nel-la morale delle storie, ma anche nel fascino conferitoalla parola, sapientemente proposta in rime o tenera-mente cullata nell’apparente veste di musical.Sullo sfondo di una città sintetica priva di qualsiasiforma di natura, il giovane Ted è alla ricerca di unvero albero per riuscire a far colpo su Audrey, unaragazza il cui sogno sembra utopico ed irraggiungibi-le in un contesto in cui l’aria pura è a pagamento e ifiori dei giardini sono fatti di cartone. L’amore portaTed a spingersi oltre i confini della piccola Thneed-ville, al di fuori dei quali scopre il mondo reale, lostesso mondo in cui conoscerà On-ce-Ler, un anziano e bisbetico ere-mita che attraverso il racconto del-la sua storia riuscirà a fornire algiovane la conoscenza e con essal’ultimo seme dell’albero di truffo-la, simbolica speranza di una inat-tesa rinascita. «Perché a meno che uno come tenon ci tenga molto, niente andràmeglio, o sarà risolto».Con queste parole Once si rivolgea Ted. A meno che noi per primi,non avremmo il coraggio di pren-dere parte attiva nella lotta perl’ambiente, lo sviluppo e la tecno-logia ci porteranno brevemente difronte a scelte drastiche, là doveuna direzione esclude definitiva-mente l’altra. Un arcobaleno di co-

lori, figure animate e testi musicati, un esercito biz-zarro per fronteggiare una guerra che si rinnova digiorno in giorno coinvolgendo gli attori più disparati.Un esercito che arruola ambientalisti, sognatori,bambini e soprattutto gente comune, tra loro chi, co-me noi, immagina come sarebbe triste sdraiarsi suprati di cemento giocando a strappare i petali di mar-gherite made in China. Intrappolati in una modernitàche altera e gioca con la scala dei valori necessitiamospesso di ancore d’umiltà che proprio come le radicidi un albero o le fondamenta di una casa ci tengonoradicati a quello che siamo realmente, ricordandocida dove veniamo. Ed allora è bene che Lorax parli illinguaggio della natura ed è bene che ne sia la voce,avanguardistico promemoria collettivo, caleidoscopi-co messaggio di riflessione dai molteplici destinatari.Noi che siamo soliti accettare l’idea che esista solo ilbianco e il nero, perché in fondo è più facile schierar-si che faticare alla ricerca delle vie di mezzo. Noiche diamo per scontata l’alba e il tramonto, persinodel sole non riusciamo più a ricordare il tragitto, tan-to che il nostro sguardo raramente si alza al cielo,preso come il resto del nostro corpo da quella routineche tutto soffoca e rapisce, pensiero incluso. Noi chein fondo lo sappiamo bene, sappiamo che c’è biso-gno di un cambio di paradigma, di una svolta decisi-va, ogni qual volta ci si presenta l’occasione di sce-gliere, perché in fondo è solo questione di volontà.Crescere non significa necessariamente seguire unadirezione, quanto piuttosto percorrere un passo conla consapevolezza di non dover tornare indietro didue. Arriverà il giorno in cui i fiumi saranno privi dipesci, come la terra priva di petrolio, il giorno in cui

dovremo passare alla cassa e paga-re il conto, in esso saranno elencatele nostre scelte politiche, sociali,economiche ed etiche. Non è uncaso che negli ultimi decenni sianonati movimenti come il Venus Pro-ject, o Zetgeist, o gruppi dediti aduno sviluppo sostenibile con l’o-biettivo di stabilire una nuova rela-zione di equilibrio biologico fral’uomo e la natura, nonché di equi-tà tra gli stessi esseri umani. Perquanto sia insito nella nostra stessanatura cercare di agguantare il fu-turo con la mano del presente, dob-biamo tenere conto che esso stessoha un animo antico e dal passatopiù remoto trae origine. Cos’èquindi il futuro, se non la sommadelle nostre scelte?

Il guardiano della foresta Lorax alla ricerca di un vero albero che ci ricordi chi siamo

di Matteo Spanò

Matteo Spanò

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Sono trascorsi 18 annidal 6 aprile 1994, datad’inizio del genocidioin Rwanda che causòlo sterminio di 800000persone di etnia Tutsiad opera della maggio-ranza Hutu.In memoria di quei tra-gici avvenimenti chehanno segnato persempre la storia delRwanda, l’Osservato-rio sul razzismo e le

diversità dell’Università Roma Tre insieme alla“Famiglia Igihozo” (www.igihozo.it), appartenenteall’associazione degli studenti ruandesi sopravvis-suti al genocidio (GAERG), ha organizzato il 7aprile scorso una giornata di studio presso l’Ospi-zio Salesiano Sacro Cuore.L’incontro ha visto l’intervento di Michela Fusa-schi, antropologa ed autrice del volume vincitoredel premio Iglesias Hutu-Tutsi. Alle radici del ge-nocidio ruandese e delle studentesse ruandesi Grâ-ce Umuhire, Honorine Mujyambere, Yvonne Inga-bire, Béata Uwase della “Famiglia Igihozo”, scam-pate al genocidio.La giornata ha avuto inizio con un momento di rac-coglimento e di preghiera in ricordo delle vittime.Pochi minuti dopo la proiezione di un video ha ri-percorso alcuni episodi del massacro dell’etniaTutsi, facendo riaffiorare dolori incancellabili nellementi e nei cuori di alcuni dei presenti, i rescapés,coloro che hanno vissuto in prima persona l’orroredi quei giorni.Nella sala sonorisuonate comeun incomprensi-bile grido di gioiale parole di unospeaker di RadioTelevisione Libe-ra Mille Colline,emittente radio-fonica indipen-dente fondata nel1993 dalla Coali-zione per la Dife-sa della Repub-blica con l’obiet-tivo di diffonderel’odio etnico con-tro i Tutsi: «Ral-

legriamoci, amici miei. Gli scarafaggi sono statisterminati. Rallegriamoci, amici miei. Dio non èmai ingiusto. Se sterminiamo definitivamente gliscarafaggi nessuno al mondo ci verrà a giudicare».Così è stato. I Tutsi sono stati abbandonati al lorodestino sotto lo sguardo indifferente della comunitàinternazionale che, in alcune circostanze, si è rive-lata complice dello sterminio di migliaia di inno-centi, ostacolando addirittura la cattura degli assas-sini. Michela Fusaschi ha sottolineato come soltanto nelXX secolo, i genocidi abbiano mietuto vittime piùdi tutte le guerre del globo. I rescapés, i sopravvissuti, oltre a portare semprecon loro il dolore per la perdita dei loro cari, ven-gono minacciati ancora oggi per evitare che la lorotestimonianza venga ascoltata dall’opinione pub-blica. I rescapés sono coloro che sono passati dall’infer-no e ne sono usciti miracolosamente vivi, per que-sto provano un sentimento di senso di colpa e ver-gogna: «Quella vergogna che il giusto prova da-vanti alla colpa commessa da altri», come scrivevaPrimo Levi nel suo saggio I sommersi e i salvati.I rescapés vogliono non solo ricordare ciò che èsuccesso ma impegnarsi in prima persona perchéfatti del genere non avvengano mai più nella storia.«È necessario guardare al futuro con un occhio alpassato» ha detto Honorine Mujyambere, in Italiada quattro anni per un dottorato di ricerca in inge-gneria all’Università di Ferrara «Avevo 13 anniquando è iniziato l’incubo del genocidio. Sono ri-masta orfana. All’inizio pensavo che il dolore si sa-rebbe attenuato con il passare degli anni ma ora mirendo conto che è cresciuto insieme a me. Abbiamo

deciso di crearel’associazioneGAERG conl’obiettivo di ri-creare delle fa-miglie artificialicomposte da unpadre e da unamadre che spes-so hanno la stes-sa età dei loro“figli”; questineo-nuclei fami-liari sostituisco-no le vecchie fa-miglie biologi-che decimatedurante il geno-

Rwanda: 18 anni dopoCiò che l'occhio ha visto il cuore non dimentica

di Gaia Bottino

Gaia Bottino

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cidio e i componenti sisostengono a vicendamoralmente ed econo-micamente». Non è un caso che i ltermine IGIHOZO inruandese significhi «co-loro che portano la con-solazione». Yvonne In-gabire, in Italia da dodi-ci anni e studentessa inrelazioni internazionali,si è soffermata in parti-colare sulle difficoltàdelle donne sopravvis-sute al genocidio: «Ledonne rimaste vedoveche vivono nelle areerurali hanno dovutosobbarcarsi del lavoro agricolo, perlopiù pesantis-simo. Per quanto riguarda l’ambito urbano la dis-parità uomo-donna si sta progressivamente ridu-cendo anche se c’è ancora molto da fare – ha spie-gato Yvonne – si tratta di una società ancora pretta-mente maschile, dove i lavori dirigenziali sono oc-cupati per l’81% da uomini, mentre le donne rico-prono oltre il 70% degli incarichi nelle segreterie enell’amministrazione. È il cosiddetto “tetto di cri-stallo”: oltre un certo livello dirigenziale la donnanon arriva».Béata Uwase ha 22 anni e frequenta la Facoltà di

Medicina all’Universi-tà La Sapienza di Ro-ma. Durante il genoci-dio ha perso ventiduefamiliari: «Ho piantomolto per la mia fami-glia. Ma il momentodel pianto è finito e so-no diventata una donnache lotta».Béata ha parlato dellecentinaia di donne Tut-si vittime di abusi ses-suali che, a seguitodella violenza, hannocontrat to i l virusdell’HIV: «Molti bimbinati dalla violenza so-no stati abbandonati, o

peggio, le madri si sono suicidate. Gli stupratori,poi, spesso erano vicini di casa, persone con cui ilgiorno prima prendevi il tè o con cui lavoravi neicampi. E anche se si sono fatti passi avanti ci sonotutt’oggi molte verità che è ancora difficile faremergere».Béata, Grâce, Honorine e Yvonne non hanno odioo rancore negli occhi per quello che hanno subito:sono riuscite a dare un significato al loro dolore ea lottare perché il Rwanda possa ricostruire dallemacerie di un passato tormentato, un presente e unfuturo diversi per le nuove generazioni.

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Il lavoro propone una ricerca delle ragioni profonde del conflitto che hasconvolto il piccolo paese africano, analizzandone le premesse storico-antro-pologiche. L’autrice intraprende una completa rilettura della vasta letteraturaetnografica e sociologica sul Rwanda, affrontando in particolare la revisionecritica dei concetti di etnia e conflitto etnico impiegati indiscriminatamentequali categorie.

Michela Fusaschi, Hutu-tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Torino,Bollati Boringhieri, 2000 da www.bollatiboringhieri.it

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68 Storia e memoria nel prisma del dirittoRicostruire il passato per costruire il futuro

di Claudia Morgana Cascione e Margherita Colangelo

Nelle giornate del 31 maggio e 1° giugno scorsi, si ètenuto presso l’Aula del consiglio dell’Università diRoma Tre, il convegno Ricostruire il passato per co-struire il futuro: storia e memoria nel prisma del di-ritto, organizzato nell’ambito del progetto di ricercaPRIN 2008 Le ferite della storia e il diritto riparato-re: un’indagine storico - comparatistica.Il convegno, coordinato dal responsabile scientificonazionale del progetto, prof. Vincenzo Zeno Zenco-vich, coadiuvato dai responsabili delle unità locali diricerca, prof. Giorgio Resta (Università degli Studi diBari “Aldo Moro”), prof. Aldo Mazzacane (Universi-tà degli Studi di Napoli “Federico II”) e prof. LuigiNuzzo (Università del Salento), ha rappresentato losbocco conclusivo di una ricerca biennale che ha vi-sto coinvolti comparatisti e storici del diritto nell’a-nalisi delle problematiche concernenti le intersezionitra storia - memoria - diritto e, in particolare, quelleriguardanti la cosiddetta “giuridificazione della sto-ria”.Il problema dell’interazione tra diritto e memoria si èimposto negli ultimi anni all’attenzione della culturagiuridica europea. Ne sono testimonianza i numerosistudi dottrinari, la casistica giurisprudenziale e il pro-liferare delle cosiddette “leggi sulla memoria”, ossiatesti normativi volti a prefissare una lettura ufficialedeterminati eventi storici, proteggerne il ricordo ediffonderne la conoscenza presso la generalità deiconsociati. Il tema del confronto con il passato pone innumere-voli e complessi interrogativi. Un primo ordine di in-terrogativi concerne il profilo della “riparazione deipregiudizi della storia” (questo è il titolo di un cele-bre convegno organizzato nel 2007 dalla Cour deCassation francese): la responsabilità civile rappre-senta uno strumento adeguato per riparare le feritedella storia? È utile introdurre nell’ordinamento giu-ridico apposite “leggi sulla memoria”? Quali sono lerisposte emergenti nei diversi ordinamenti rispetto alfenomeno del negazionismo? Esiste un “diritto allamemoria” e, se sì, chi può rivendicarlo e con qualistrumenti di tutela? Non solo. Lo studio della dialet-tica tra diritto e memoria, nell’ottica di definire un’i-dentità condivisa e di contrastare il fenomeno del ne-gazionismo (oggi come mai al centro del dibattitopubblico), non può tralasciare ulteriori quesiti: fino ache punto possono legittimamente limitarsi, in un si-stema costituzionale, la libertà di espressione e la li-bertà della ricerca storica? Come selezionare glieventi della storia meritevoli di una “memoria protet-ta” senza cadere nel rischio dell’arbitrarietà o persinonella reverse discrimination? Per la molteplicità e varietà dei profili problematici

connessi alla tematica, uno studio esaustivo del temanon può prescindere dal lavoro congiunto di giuristie storici. Tuttavia estremamente rare sono le indaginicondotte in maniera interdisciplinare. In questa pro-spettiva, il progetto di ricerca PRIN 2008 Le feritedella storia e il diritto riparatore: un’indagine stori-co - comparatistica si è proposto di contribuire a col-mare tale lacuna, coniugando la sensibilità del com-paratista con quella dello storico del diritto per rea-lizzare un’analisi ad ampio raggio circa il problemadei rapporti tra diritto e memoria. I risultati delle ricerche condotte sono stati presentatie discussi nel sopra citato convegno conclusivo, or-ganizzato in occasione della scadenza temporale delprogetto.Già nel gennaio 2011, i primi risultati del gruppo diricerca erano rifluiti nel primo convegno Le feritedella storia e il diritto riparatore; in quella sede, giu-risti e storici, italiani e stranieri, si erano confrontatisulle modalità in cui il diritto, nelle esperienze giuri-diche contemporanee, è intervenuto a riparare le in-giustizie della storia, individuali e collettive (si veda,ad esempio, il caso dell’Holocaust litigation), valu-tandosi, parimenti - in una prospettiva sovranaziona-le e comparata - quali rimedi il diritto offre a talescopo. L’attenzione si era altresì appuntata sull’utilitàdell’introduzione di apposite “leggi sulla memoria”,vagliandosi il problema del rapporto tra tali leggi elibertà di espressione, al fine di valutare presuppostie limiti di ammissibilità della regolamentazione pub-blica dei discorsi sul passato. In questa prospettiva,era stata approfondita la questione del negazionismo,comparando le soluzioni emergenti a livello interna-zionale e discutendo le prospettive di riforma del di-ritto interno.Il convegno della primavera 2012 si è collocatonella medesima prospettiva, approfondendo talunedelle questioni già messe sul tappeto e tentando dirafforzare il dialogo interdisciplinare avviato, conl’obiettivo di muovere dalla storia del diritto al“diritto della storia”. In tale ottica, i relatori inter-venuti hanno approfondito, sia pur nella diversitàdegli approcci e degli specifici settori di indagine,la questione se la ricerca storica stia subendo unprocesso di “giuridificazione” e con quali modalitàed esiti.Il successo delle iniziative intraprese e della ri-cerca svolta hanno indotto gli organizzatori a rac-cogliere l’insieme delle relazioni tenutesi nei dueconvegni in un’unica pubblicazione che sarà dis-ponibile nei prossimi mesi. Tutti i materiali sonocomunque consultabili sul sito https://www.si-tes.google.com/site/storiaediritto/home.

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Si è tenuta dal 30 giu-gno al 7 luglio l’ultimaedizione dell’IschiaFilm Festival. Nata nel2003 per iniziativa diMichelangelo Messina,questa manifestazionenon rappresenta soltantouna semplice rassegnacinematografica, bensìun’occasione unica pervalorizzare due delle ri-sorse principali del no-stro Paese: arte e territo-

rio. Il Festival è infatti dedicato a tutte quelle opere ci-nematografiche in cui l’ambientazione, lungi dall’es-sere un mero scenario, è invece protagonista della vi-cenda. Del resto quante pellicole sarebbero totalmenteinimmaginabili in una location diversa rispetto a quel-la scelta dal regista. Se il cinema è l’arte dell’immagi-nario per eccellenza, vien da sé che esso si nutra es-senzialmente di atmosfere, veli sottili ed impalpabiliin grado di avvolgere contemporaneamente il mondofuori e dentro lo schermo. Ecco quindi che allo spetta-tore viene offerta l’occasione di intraprendere un viag-gio che non è solo immersione in una storia, bensì lospostamento in un contesto altro, fatto di spazi, cultu-

re, colori e chissà forse un giorno anche odori e sapori.L’Ischia Film Festival si pone proprio l’obiettivo di ri-flettere su questo stretto legame fra realtà territoriale esua trasposizione cinematografica, con particolare ri-guardo verso quei lavori incentrati su alcune proble-matiche specifiche legate al contesto ambientale e so-ciale. Lo fa all’interno di uno scenario che è già di persé un set, quello del Castello Aragonese, un’imponen-te fortezza a picco sul mare, in grado di regalare emo-zioni quasi di straniamento ai suoi visitatori. Comeogni anno, l’evento ha visto la partecipazione di im-portanti protagonisti del settore cinematografico, co-me i registi Francesco Patierno (presente con il filmCose dell’altro mondo) e Paolo Genovese (vincitoredel “Premio Castello Aragonese”, per la migliore re-gia, con il film Immaturi), ma anche di esponenti delleamministrazioni locali, giornalisti, rappresentanti delleFilm Commission. Accanto alle proiezioni e al con-corso vero e proprio infatti, il Festival è stato soprat-tutto luogo di dibattiti e riflessioni, costruiti intorno al-la constatazione che il cineturismo rappresenta oggiun’importante risorsa economica per l’Italia. Il deside-rio di visitare la location di un film si accompagna in-fatti all’attivazione di una macchina produttiva che, seben incentivata, può essere estremamente proficua.Inoltre, esso stimola la conoscenza di località spessopoco note, la cui identità storica rischierebbe costante-

Ischia Film FestivalQuando lo spettacolo è il territorio

di Francesca Gisotti

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mente di precipitare in un oblio da evitare a tutti i co-sti. A tal proposito, ha impressionato particolarmenteil film Oroverde, che si è aggiudicato il premio per ilmiglior cortometraggio. Girato dal regista pugliesePierluigi Ferrandini, questa intensa pellicola racconta,in pochi minuti, una vicenda realmente avvenuta nel1935 a Tricase, un piccolo paesino della Puglia. Qui,una giovane ragazza, impiegata in un tabacchificio, siritrovò testimone dell’uccisione del fratello duranteuna manifestazione operaia. A rendere l’opera partico-larmente preziosa contribuisce il fatto che gli eventitrasposti sullo schermo siano stati narrati al registaproprio da colei che li visse direttamente. Realizzatoall’interno del progetto “Memorie” della Puglia FilmCommission, questo lavoro costituisce il tassello fon-damentale di un più ampio piano di salvaguardia dellamemoria storica, chiave d’interpretazione di un pre-sente tanto complicato quanto di difficile decodifica-zione. A tal proposito non si può negare il fatto che leamministrazioni locali giochino un ruolo fondamenta-le per la realizzazione di opere sul territorio, sia perquanto riguarda la promozione delle possibili location,sia per l’abbattimento dei muri burocratici. A rifletteresu queste problematiche è intervenuta, fra gli altri, an-che la rappresentante delle Marche Film CommissionAnna Olivucci che, in occasione del seminario “Rea-lizzare un prodotto cine-televisivo: il ruolo della FilmCommission nel sostegno dell’Industria cinematogra-fica locale”, organizzato dall’OSA (Istituto Europeo diOrientamento allo Spettacolo e Arti Visive), ha pro-prio sottolineato la necessità di una sinergia fra i di-versi soggetti coinvolti nella valorizzazione territoria-le. Alla base del problema c’è la visione dell’arte co-

me qualcosa di poco redditizio e perciò spesso trascu-rabile. In realtà, il cinema offre una pubblicizzazionedelle località interessate che nessun altro mezzo di co-municazione sarebbe in grado di eguagliare, indiriz-zandosi ad un pubblico ampio e colto in un momentodi grande coinvolgimento emotivo qual è quello dellavisione di un film. Per questo rappresenta uno stru-mento efficace per combattere la crisi sia economicache culturale del territorio, non solo favorendo il tu-rismo, ma garantendo anche lavoro a tutte quelleprofessionalità tecniche indispensabili per la realiz-zazione di un’opera cinematografica. Inoltre, ele-mento non trascurabile, anche se spesso ritenuto“scomodo”, il cinema può servire a far luce su situa-zioni drammatiche presenti in alcuni contesti, favo-rendo l’attivazione di una risoluzione immediata. Èquanto ci si augura avvenga grazie all’ottimo e co-raggioso documentario La crociera delle bucce dibanane di Salvo Manzone. Il film dà testimonianzadella lotta portata avanti nell’isola di Stromboli daun’agguerrita anziana francese che, da quarant’anni,vive in Sicilia. Il suo obiettivo è quello di incentivarela raccolta differenziata dei rifiuti, in contrapposizio-ne alla scelta dell’amministrazione locale di traspor-tare le scorie via mare, con conseguenti aumenti del-le spese a carico degli abitanti. L’opera fa parte diuna più ampia iniziativa, che mira alla sensibilizza-zione della regione Sicilia verso la problematica del-lo smaltimento. La speranza è che manifestazioni co-me l’Ischia Film Festival non restino casi isolati masiano portatrici di un nuovo modo di considerare lacultura; non più un bagaglio nozionistico fine a sestesso bensì strumento dinamico di sviluppo.

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Università degli Studi Roma Tre - via Ostiense, 159 - www.uniroma3.it A

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