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I vasi di terracotta per le vie del barocco 3 Mobili d’arredo da una pianta da frutto 8 Il trionfo della carne ... 18 Un dolce... segreto 27 Il barocco leccese e la sua maestosità 50 Le passioni romane... 44 Salento che meraviglia ! V C Rivista realizzata dalle classi V A, B e C dell’ Istituto Comprensivo Stomeo Zimbalo viale Roma - Lecce Piccoli giornalisti in azione

Salento, che meraviglia!

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La rivista “Salento, che meraviglia!” è stata realizzata dalle classi V A, B e C dell’Istituto Comprensivo “P. Stomeo - G. Zimbalo” - Lecce grazie al progetto “Good News”, della dott.ssa Simona Greco. A.s. 2014/2015

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I vasi di terracotta per le vie

del barocco3Mobili d’arredo

da una pianta da frutto8

Il trionfo della carne ...18

Un dolce... segreto27

Il barocco leccese e la sua

maestosità50

Le passioni romane...44

Salentoche meraviglia !

V C

Rivista realizzata dalle classi V A, B e Cdell’ Istituto Comprensivo Stomeo Zimbalo

viale Roma - Lecce

Piccoli giornalisti in azione

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Arte e Tradizionicon gli allievi della V C

I vasi di terracotta per le vie del Barocco

La cartapesta nelle sue varietàIl ferro battutoUna roccia tipica salentinaArte e cultura in cittàRiscoperta di vecchie tradizioniIl ricamo oggiIl tamburello salentinoMobili d’arredo da una pietra da frutto

Fischietti in terracottaLa cartapesta: le fasi di lavorazione

Lo Stomeo-Zimbalo partecipa al concorso “Carrelli Ecologici”La pietra leccesePer le vie del barocco lecceseArtigianato d’eccellenza

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Lecce che bontà! In cucina con la V A

Gastronomia salentinaI dolci tipici di PasquaIl trionfo della carne nella cucina lecceseChe delizia! Che passione!Ciceri e TriaOrecchiette e MaccheroniLa storia delle PuddicheIl rusticoLe “marangiane chine”Ricerca sui MustazzoliI pucceddhruzziUn dolce...segretoLa taieddhaLe cartellate: dolce di origine leccese o barese?Un frutto dimenticato:la mela cotognaCotognata leccese: il barocco tribudio d’autunno!

V C

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Sommario

Storia e Curiosità...a spasso con la V B

Paolo StomeoLa nostra città ha dato i natali a grandi personalità che hanno fatto la storiaLa regina Maria D’EnghienIl Castello di Carlo VGiovani giornalisti all’operaTradizioni del SalentoGli scavi del palazzo VernazzaLa porta più anticaPorta S. BiagioPorta Napoli e l’ObeliscoI fondatori di LupiaeLe passioni Romane nella bella LecceS. Irene Patrona di LecceOronzo, Fortunato e GiustoLa colonna di Sant’OronzoIl Barocco leccese e la sua maestositàCuriosità dalla storia...Le poesie “te li mestieri...”per ridere un pò

Lecce che bontà! In cucina con la V A

Gastronomia salentinaI dolci tipici di PasquaIl trionfo della carne nella cucina lecceseChe delizia! Che passione!Ciceri e TriaOrecchiette e MaccheroniLa storia delle PuddicheIl rusticoLe “marangiane chine”Ricerca sui MustazzoliI pucceddhruzziUn dolce...segretoLa taieddhaLe cartellate: dolce di origine leccese o barese?Un frutto dimenticato:la mela cotognaCotognata leccese: il barocco tribudio d’autunno!

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Arte e Tradizionicon gli allievi della V C

Staff di Redazione:

Andriani Alessandro PasqualeAprile AntongiuliaBernardini PierandreaCapone MireaCarati GabrieleCarlà MartinaCazzella GabrielCazzella MarikaCiccarese SofiaDe Luca IsmaeleDi Giuseppe Benedetta GiuliaEpicochi SamueleFiorentino VittoriaFuso AuroraMaddalena GiuliaMancarella Alice

Marasco PietroMarcianò ElenaMontinaro NoemiMuca AntonellaPagliaricci MarcoPallara MarcoPetrachi GiulianoRamires AndreaRomanazzi ValeriaTempesta MarinaToffoletti AzzurraRedattoreCapo Redattore:

Paola Rizzo

Ciao! Mi chiamo Uccio.

Vi farò conoscere il nostro

artigianato artistico.

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I vasi di terracotta per le vie del Barocco

La lavorazione della terracotta è tipica dei paesi situati nelle zone dove si estrae l’ar-gilla. L’arte di lavorare questo straordinario elemento, che la natura stessa fornisce, si perde nella notte dei tempi. Nel Salento, la lavorazione della terracotta è molto diffusa e a Lecce (seppure città rinomata soprat-tutto per il suo splendido Barocco) si pro-ducono oggetti di vario tipo: piatti, scodel-le, “pignate” e vasi, che vengono realizzati e venduti in molti paesi della provinicia: a Nardò, a Gallipoli, a Lucugnano, a Tricase e nel Basso Salento (tutti importanti centri di produzione). A San Pietro in Lama, per esempio, si realizzano gli “imbreci” (in dialetto, le tegole). Cutrofiano, invece, è un centro famoso per la produzione di vasi e di utensili.L’origine stessa della cittadina è legata alla terracotta, visto che essa sorge al centro di un’area caratterizzata dalla presenza di uno strato d’argilla a poca profondità. Il legame è rinforzato da quello che è il significato della parola Cutrofiano: nome composto dal sostantivo greco “cutra”, che significa vaso, e dal verbo “fio”, che corrisponde a fabbricare. Quindi, Cutrofiano è da sempre conosciuto come il paese dei vasi e della terracotta.

Ancora oggi l’argilla cutrofianese viene decorata con le stesse greche, linee ondu-late, segmenti, fiorellini usati nel passato. In tutto il territorio, però, non ci si limita alla produzione di oggetti per la casa, ma si realizzano anche giochini ironici come fischietti, campanelle e pupi, che animano i nostri presepi a Natale. Gran parte della produzione oggi viene fatta in serie ed è difficile trovare il vero artigiano che lavora come si faceva una volta. Infatti, come tutti i mestieri anche questo, purtroppo, sta via via scomparendo.Per le vie della città, fra fregi e decori di palazzi e chiese ristrutturate nel 500, è co-munque ancora possibile vedere piccole botteghe dove la tradizione permane.

Martina Carlà

LECCE E LA TERRACOTTA

Origini e lavorazione della terracotta a Lecce

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La cartapesta nelle sue varieta’

Giovedì 9 ottobre, alcuni alunni della V C si sono recati presso il centro storico di Lecce, alla ricerca di forme artistiche in cartape-sta. Nella biblioteca “Bernardini”, fondata da Sigismondo Castro-mediano il 20 marzo 1863, si puo trovare la statua “Allegoria di Lecce” costruita nel 1883 da “Oronzo Greco”, per l’arrivo del re in stazione; è alta mt. 3,80 sembra fatta in marmo, invece è car-tapesta.Nella chiesa del Duomo si possono trovare due statue che sem-brano bronzo ma invece sono fatte interamente in cartapesta. Nel-la chiesa di “Santa Chiara” si può ammirare un bellissimo soffitto, di forma ottogonale, i turisti dicono che è un vero capolavoro, infatti la cartapesta è lavorata talmente bene da sembrare legno.

Marco Pagliaricci e Vittoria Fiorentino

ESPLORANDO LA CITTA’

In giro per Lecce, ammirando le diverse forme di arte in cartapesta.

Il ferro battutoARTIGIANATO LECCESE

L’arte del ferro nel Salento, una pratica antichissima, si è riaccesa, dopo un periodo di lungo torpore, du-rante lo stile Liberty. Al ferro per la sua resistenza e per il suo carattere decorativo si affida il compito di abbellire la casa e la città.Fiorente è in questo periodo la produzione di sup-pellettili domestiche: alari, copricaloriferi, ferri da camino e letti. Come per il passato, l’artigianato del ferro battuto è legato all’architettura sacra; con la medesima armonia e grazia, l’arte febbrile si esprime negli interni delle Chiese e dei Conventi, e spesso sostituisce altri materiali. Nel XVI e nel XVII secolo, in un periodo che vede protagonista lo stile Rococò ed il Barocco, gli abili artigiani di tale settore hanno saputo sintetizzare le predominanze estetiche del periodo riuscendo a creare, nei loro laboratori, incredibili decori e cesel-lature, utilizzati in tanti Palazzi.Usando il martello e la forgia, mezzi di lavoro anti-

chissimi, gli artigiani realizzano ancora oggi can-delieri, lampadari, testate di letti, grate, balaustre, ringhiere, inferriate e cancellate. Più leggero è il rame, che con quel suo rosso par-ticolare, è da sempre un metallo richiestissimo. Gli oggetti in rame sono spesso splendide brocche, caraffe, anfore, caffettiere, oliere e padelle. La deco-razione è ridotta al minimo, sobria, ma smagliante, realizzata con qualche fiore stilizzato a rilievo, fatto con punzoni, o con la mertellatura di migliaia di pic-colissime facce, ottenute con un materiale particola-re la cui superficie battente deve avere levigatezza estrema. Parlando di rame non possiamo tralasciare il rame smaltato; la lavorazione degli smalti ha potuto dif-fondersi nel Salento grazie alla preziosa attività degli Istituti d’Arte ed alla loro rivisitazione di esperienze estere.

Marco Pallara e Andrea Ramires

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Una roccia tipica salentina

Arte e cultura in città

ANTICHE TRADIZIONI…

E’ famosa in tutto il mondo per il suo colore e la sua lavorazione.La pietra leccese è una roccia calcarea salentina, nota per la sua facilità di lavorazio-ne. Questa roccia ha una composizione piuttosto omogenea costituita da carbonato di calcio. La pietra leccese è diffusa maggiormente nei paesi come Corigliano d’Otranto, Melpignano, Cursi e Maglie. Il colore va dal bianco al giallo paglierino e deve la sua particolare lavorabilità alla presenza di argilla che permette un modellamento manua-le. Alcune opere d’arte realizzate con questa pietra sono: Palazzo Celestini, il Duomo ecc…La pietra leccese è molto sensibile all’azione meccanica e allo smog; contiene un liquido chiamato lattosio che crea uno strato impermeabile e permette di rimane-re alterata nel tempo. In Terra D’Otranto si ritrovano statue e costruzioni romane in lecciso (pietra leccese), all’ interno i paleontologi hanno ritrovato fossili di delfini, capodogli, denti di squali, pesci, tartarughe e coccodrilli.

Gabriele Carati, Ismaele De Luca, Pierandrea Bernardini

Sabato 10 maggio in via Brunetti a Lecce è stato inaugura-to uno spazio espositivo dove la mia mamma, l’architetto Simona Marchetti, ha curato l’allestimento di una mostra dal titolo”Hosh tra le meraviglie di Alice”.Hosh è un progetto e al tempo stesso uno spazio (all’inter-no di un palazzo storico) dedicato alla creatività contempo-ranea; ospiterà eventi culturali su realtà vicine ma anche molto lontane. Ci saranno artisti del cinema, della moda, della fotografia e sarà un’occasione per confrontare l’arte e la cultura salentina con quelle del resto del mndo.

Pietro Marasco

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Riscoperta di vecchie tradizioni

Il ricamo oggi

Realizzazione di indumenti e accessori per la casa all’uncinetto

INTERVISTAALLA NONNA

Venerdì 6 marzo sono stata a casa di mia nonna e le ho posto alcune domande sulla lavorazione all’uncinet-to, che è un suo piacevole hobby:1. Da quanto lavori all’uncinetto?Ho imparato ad usare l’uncinetto sia con il cotone che con la lana quando ero una bambina della tua età. Perché ai miei tempi, durante le vacanze estive, non si usava andare a mare ogni giorno e quindi durante quelle ore di libertà ci si riuniva in casa con le vicine e le più grandi insegnavano alle più piccole. 2. Era un lavoro che ti appassionava?Ho incominciato ad appassionarmi successivamente quando alle scuole medie c’era la disciplina chiamata “Applicazioni tecniche” e, mentre ai maschietti insegnavano lavori di meccanica, a noi ragazze insegnava-no, a scelta, cucito, ricamo, uncinetto e lavori a maglia con i ferri.3. Hai continuato a coltivare questo tuo hobby?Con il procedere degli studi e la successiva attività lavorativa ho accantonato questo hobby per molti anni, per riscoprirlo di nuovo adesso. 4. Sei soddisfatta dei lavori che realizzi?Lavorare all’uncinetto richiede molta pazienza per realizzare un lavoro fatto bene. Regalare, per esempio ad una nipotina, un accessorio fatto a mano, specialmente dalla propria nonna, fa molto piacere, più che acquistarlo dal negozio. Perciò ho intenzione di continuare a dedicarmici cercando di trasmettere questa passione e questa tradizione anche a te. Valeria Romanazzi

Come molte altre antiche tradizioni di questa terra, anche quella del ricamo sopravvive a stento, in un’epoca nella quale non si ha più tempo ormai da dedicare né all’apprendimento di queste tecniche, né alla loro ap-plicazione. Mentre fino a non moltissimi anni fa il ricamo era un’attività casalinga quotidiana, una cosa del tutto naturale, alla quale le donne si dedicavano con piacere anche dopo una giornata di fatica nei campi. Frequentando addirittura delle vere e proprie botteghe del ricamo per diventare più brave.I segreti e le abilità apprese, venivano poi tramandate a quelle piccole donne che un giorno avrebbero potuto realizzare con le loro mani un corredo personale, fatto di lenzuola, tovaglie e asciugamani finemente decorati a mano. Attualmente sono presenti in quasi tutti i comuni del territorio, ancora molte filatrici e tessitrici che utilizzano ancora il tradizionale telaio salentino a pedali, nonostante la diffusione di macchi-nari più moderni. Merletti e pizzi rappresentano un grandissimo vanto per il Salento che, come sempre, è

intenzionato a preservare le antiche tradizioni che hanno fatto la storia del territorio. Infatti, sono nate addirittura delle piccole imprese dedicate a questa arte, tra Maglie e il Capo di Leuca, che hanno con-solidato ancor di più questa antichissima lavora-zione. Tra i merletti più conosciuti c’è sicuramente il “chiacchierino”, conosciuto in passato come il “merletto dei poveri” e diventato nel corso degli anni passione di regine e nobili. Viene realizzato con la spoletta sulle dita ed è basato su un lavoro rapido ma preciso, che permette di realizzare cen-trini, pizzi di finitura, guarnizioni per abiti e tanto altro.

Benedetta Di Giuseppe e Giulia Maddalena6

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Durante il periodo estivo non mancano le feste e le manifestazioni all’ aperto nelle quali i salentini sfoggiano la loro abilità nel suonare lo strumento principe della musica popolare della loro terra.

Le originiLe origini del tamburello si per-dono nella notte dei tempi, basta comunque sapere che in tante iconografie e graffiti rupestri que-sto strumento musicale viene già raffigurato nella sua forma classi-ca, quindi potrebbe risalire all’era preistorica. Nel Salento sono stati ritrovati graffiti rupestri nelle grot-te di Porto Badisco (una località vi-cino Otranto) che risalgono a circa

6.000 anni fa e la cultura conta-dina di queste

zone si è

appropriata di questo strumento, facendolo diventare nei secoli il simbolo della musica e della danza popolare salentina.

Come è fattoIl tamburello è uno strumento mu-sicale a cornice, costituito da una parte in legno di faggio e da una cornice su cui si applica la pelle di capra o di capretto. Questa viene fissata da chiodi di legno o con una fascia, sempre di legno. Inol-tre il tamburello è composto da una parte metallica inserita nella cornice, i cimbali, originariamente

ricavati da latta di sarde.

Le tecnicheLe dimensioni del tamburello va-riano da un minimo di 25 cm ad un massimo di 70 cm di diametro. An-che il numero di cimbali varia a se-conda della gravità del suono che si vuole produrre. Infatti la compo-nente grave del suono prodotto è costituita dalla percussione della pelle di capretto o di capra, mentre quella più acuta dipende dai cim-bali metallici.

Marina Tempesta

Simbolo per antonomasia della pizzica e della musica salentina, è il tamburello, uno strumento a percussione, tra i più antichi.

Il Tamburello Salentino

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Mobili d’arredo da una pianta da fruttoUna generazione di falegnami alla ricerca di idee nuove e uniche

Sikalindi vera fibra di fico d’india

Il 7 Marzo ho intervistato l Sig. Rossetti Antonio, proprietario del negozio unico al mondo, Sikalin-di Mobili d’arredo, sito a Lecce in via Libertini, nei Pressi di Porta Rudiae.Sig. Antonio da dove nasce questa pas-sione?Io provengo da una famiglia di falegnami, sin da piccolo dopo la scuola, trascorrevo il mio tempo libero in falegnameria e ho cercato di trasmettere la mia passione ai miei figli, Marco e Marcello.Chi ha scoperto il Sikalindi?Marco e Marcello, sempre alla ricerca di cose nuo-ve e particolari, hanno scoperto e brevettato que-

sta fibra estratta dalla pianta di fico d’india.

Come sono fatti i mobili di Sikalindi?Ogni mobile, rivestito con la fibra di Sikalindi, è un pezzo unico, poiché le venature creano disegni e colori irripetibili.Da dove provengono le piante?Il fico d’india viene raccolto nella provincia di Lec-ce rispettando i cicli di vita della pianta stessa.

Pierandrea Bernardini

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In Puglia, una delle tradizioni più originali, è quella legata alla lavorazione dei fischietti rigo-rosamente in terracotta.

Si tratta di oggetti davvero particolari,adatti ad un regalo originale o per una collezione.I fischietti pugliesi si trovano in tutta la Puglia, ma sicuramente le province salentine e la città di Ostuni,conservano e mantengono viva quella che è ormai una tradizione.Gli esemplari più antichi pare siano gli strumenti in terracotta a forma di frutto e con bocca a fes-sura, scoperti nell’Antico Egitto risalenti al 3300 A.C. Il fischietto,durante i secoli veniva spesso impegnato in festività e cerimonie.Nell’ottocento, in Russia, nella quarta domenica dopo Pasqua,si celebravano gli avi con la “Danza Delle Streghe” e il fischietto veniva usato come scaccia-streghe; mentre in Baviera, i fischietti ad acqua si mettevano nella culla del neonato fino al suo battesimo con l’intento di preservar-lo dai cattivi influssi. In Portogallo, i fischietti,si cuociono ancora oggi con tecniche antiche ov-vero i forni alimentati solo da balle di stracci.In Inghilterra, nel Sussex, si muravano nei camini dei grossi fischietti a forma di uccello affinchè il continuo sibilio tenesse lontano gli spiriti ma-ligni. Ritroviamo questo uso anche in Calabria.Antichissima ma ancora sentita, è la tradizione

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pugliese dei fischietti con le loro multi forme e colorate raffigurazioni legate sia alla tradizione, che alla vita di oggi, dove forte è la vena satirica che ne traspare. La maggior produzione, detie-ne una lunga tradizione a Grottaglie, Rutigliano, Gravina, Alberobello…Molti punti di vendita qua-lificati in tutto il territorio pugliese dove possono essere acquistati, comprese le botteghe di rino-mati artisti, ceramisti, locali.

Alessandro Andriani

Esplorando il Salento e le sue famose tradizioni Fischietti in Terracotta

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In piazza Duomo, a Lecce, possiamo trovare una piccola bottega della cartapesta dove Marco Epicochi, un maestro cartapestaio, ci parla della creazione di una statuetta. Una delle tradizioni più radicate del nostro territorio è l’arte della cartapesta. Mi sono recato in piazza Duomo, uno dei luoghi più suggestivi della città, e all’interno della piazza, è presente una piccola bottega dove Marco Epicochi, il mio papà, ci spiega le varie fasi di lavorazione di una tipica statuetta.

La Cartapesta: le fasi di lavorazione

Si iniziano a lavorare con l’argilla la testa,le mani e i piedi, poi si fanno seccare e si mettono in un forno particolare che rag-giunge la temperatura di mille gradi. La seconda fase consiste nel realizzare il bustino, cioè il manichino fatto di un’anima di filo di ferro e di una parte anatomica ,fat-ta di paglia avvolta con lo spago. Ottenuti questi elementi si uniscono le estremità di terracotta al bustino e si dà una posizione. La terza fase è la preparazione della colla anch’essa artigianale, fatta di farina, acqua e poi messa a bollire. Ottenuto questo risultato, con un pennello si bagna la cartapesta adagiandola sul bu-stino, si creano diverse pieghe. Una volta vestita e fatta asciugare, si passa alla fase della fuocheggiatura che consiste nello scaldare dei ferri a forma di cucchiaio in una fornicetta, con all’interno dei carbo-ni. Questo delicato passaggio serve a deco-rare e irrobustire ulteriormente l’opera. L’ultima fase è quella di arricchire la sta-tuetta dipingendola.

Samuele Epicochi

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Lo “Stomeo-Zimbalo” partecipa al Concorso “Carrelli ecologici ”Martedì 17 febbraio i bambini delle classi terze partecipano al concorso e vin-cono!!!I bambini delle classi terze, della scuola primaria “Viale Roma”, hanno realizza-to due splendidi carrelli con materiale riciclato. Uno dei due è stato realizzato proprio in cartapesta e rappresenta il dio Corvo che ha creato l’Universo. L’i-

dea è nata dal fatto che quest’anno i bambini di terza stanno studiando i miti. Il carrello è stato preparato per il concorso bandito dall’ IPERCOOP per tutte le scuole di Lecce e provincia. Lo scopo del concorso era quel-lo di preparare dei carrelli con materiale riciclato e quella della cartapesta è senz’altro una forma di riciclo.

Giuliano PetrachiMirea Capone

Azzurra Toffoletti

Quinta edizione Concorso Carrelli Ecologici

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La pietra leccese (chiamata anche “leccisu”) è una roccia calcarea; è tipica della regione salentina ed è

nota soprattutto per la sua facilità di lavorazione. È diffusa soprattutto nei comuni di Lecce, Melpignano,

Maglie e Cursi. Essa è costituita da carbonato di calcio sotto forma di granuli di calcare e di cemento,

a cui si possono trovare aggiunte di quarzo, fosforo ed argilla che, in diverse miscele, danno origine a

differenti qualità di roccia.La pietra leccese affiora dal terreno e si estrae dal sottosuolo in enormi cave a cielo aperto, profonde fino

a 50 metri. L’estrazione del leccisu è semplice poiché si lascia incidere facilmente. La durezza e la resi-

stenza della pietra crescono con il passar del tempo. Quando la pietra si consolida, assume una tonalità

di colore ambrato. Utilizzata sia in campo architettonico sia in quello scultoreo, la pietra leccese deve la

sua lavorabilità alla presenza di argilla, che permette un modellamento persino manuale.

Questa pietra, apprezzata in campo artistico, ha raggiunto stima internazionale grazie all’artigianato lo-

cale ed alla complessa architettura del Barocco leccese. Esempi significativi sono i fregi, i capitelli ed i

rosoni delle chiese di Lecce.La pietra è sensibile agli agenti atmosferici, all’umidità ed allo smog. Per

renderla più resistente, gli scultori dell’epoca barocca usavano il

latte. L’origine del nome della pietra leccese si deve a Gian Bat-

tista Brocchi.Attualmente, l’artigianato della pietra leccese produce

souvenir ed opere d’arte.Antonella Muca e Sofia Ciccarese

La pietra lecceseLA PIETRA LECCESE È UNA ROCCIA SALENTINA

La pietra leccese è una roccia calcarea, tipica della regione salentina e

risalente al periodo miocenico. È facile da lavorare, sensibile agli agenti

atmosferici ed apprezzata a livello internazionale, sia in campo artistico sia

in campo architettonico.

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Per le vie del barocco leccese

Il centro storico di Lecce è caratterizzato dall’ar-te barocca che decora chiese e balconi, ma so-prattutto dalle tante piccole botteghe dell’artigia-nato locale.La cartapesta e oggetti in terracotta sono tipici della tradizione leccese.L’artigiano Claudio Risi ha la sua bottega nelle vicinanze del Duomo, nel suo negozietto è rap-presentato un mondo di contadini, madonne e statue sacre.

La statuetta in cartapesta prende vita intorno ad un’anima di filo di ferro foderato da paglia ricciolina tenuta stretta da giridi filo di spago, su di esso vengono montati testa mabi e piedi in terracotta. Il manichino viene vestito di car-ta imbevuta di colla fatta di farina e acqua, poi viene lasciato ad asciugare. Una volta asciutta e modellata con dei ferri roventi viene levigata e stirata lasciando impresso sulla statuetta i segni tipici.... Le statuette e statue che rappresentano la tradi-zione leccese sono quelle dei santi nelle proces-sioni oppure quelle che raffigurano contadini, attualente, però una immagine he sta prendendo piede è la ballerina di Pizzica.Altri oggetti della tradizione leccese sono pro-

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dotti in terracotta.La terracotta è un materiale facile e maleabile nella lavorazione, che prende vita e forma sotto le mani di artigiani abili e fantasiosi.Una volta realizzato l’oggetto, che può essere un fischietto, una statuetta, un piatto una cam-panello o altro, viene lasciato asciugare natural-mentee poi cotto in forni a una temperatura di 900°- 1200°. La fase successivaè la colorazione. Possono essere usati colori ad acqua oppure co-lori adatti per la ceramica.La terracotta a seconda delle fasi della cottura cambia consistenza e valore, si passa dalla ter-racotta alla ceramica ,capodimonte e in fine Bi-squit.Esistono inoltre la terracotta rossa e quella bian-ca. Generalmente la prima viene utilizzata per realizzare pentolame, la seconda rimane bianca anche dopo la cottura quindi è ideale per realz-zare anche oggetti d’arredamento.

Alice Mancarella Antongiulia Aprile Elena Marcianò

IL FASCINO DI UNA SCOPERTA ANTICA

Cartapesta una tradizione dell’ artigianato locale

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Artigianato d’eccellenza VI EDIZIONELa mostra-mercato Artigianato d’Eccellenza, giunta alla sua VI edizione, torna ad animare la sto-rica piazzetta Giosuè Carducci e la chiesa sconsacrata di San Francesco della Scarpa a Lecce.Artigianato d’Eccellenza è un evento ormai atteso nel capoluogo pugliese e quest’anno inizierà con un giorno d’anticipo, giovedì 21 maggio, in concomitanza con la rassegna “Lecce Cortili Aperti”, altro appuntamento molto atteso.Saranno sempre gli artigiani i protagonisti assoluti della manifestazione.Essi daranno dimostrazione delle diverse tecniche di lavoro riproducendo in questo modo l’at-mosfera delle proprie botteghe.In questa mostra-mercato si vuole sottolineare lo scambio tra committente e artigiano, quest’ul-timo nel ruolo di artefice dell’estetica sociale.Nell’anno di Expo, dedicato al cibo e alla sostenibilità verrà riproposto “Cibo artigiano”, lo spazio dedicato alle tradizioni culinarie salentine e nazionali.In questo spazio è valorizzato l’artigianato culinario attraverso il racconto di tecniche, ricette e sapori tradizionali. Per inaugurare questo spazio verrà presentato il video “Da Caravaggio a Va-nessa Beecroft, un percorso tra arte e cibo”, a cura del professor Ludovico Pratesi critico d’arte di rilevanza internazionale.L’evento si distingue anche per l’impegno benefico: parte del ricavato sarà devoluto al reparto di Oncologia Pediatrica dell’Ospedale Vito Fazzi di Lecce e alla comunità ragazze madri e gestanti “Chiara Luce”, come lo scorso anno il contributo andrà al progetto di studio sui tumori celebrali.Artigianato d’Eccellenza aprirà i battenti giovedì 21 maggio con orario continuato dalle 10:00 alle 21:00. La mostra è gratuita e aperta a tutti.

Gabriel Cazzella, Marika Cazzella e Aurora Fusò

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Lecce: che bontà!!!In cucina con la VA

Ciao! Mi chiamo Nina.Vi farò venire

l’acquolina in bocca con le nostre prelibatezze.

Staff di Redazione:Barletta FedericoCalogiuri AmbraCaniglia GiorgiaCapone ValentinoCastillo JoshelleCosi Vincenzo MariaDe Blasi Andrea PioDe Carlo EmanueleDe Santis AlessandroDe Santis FedericoDe Vitis SofiaElia LucreziaEsposito GiuliaFedele AndreaGiannattasio GiuliaGiuranna GiulioGrattagliano Marta

Greco LucaIndino FedericaIvagnes RiccardoLera ArielaLicci MarcoMaci GiuliaMarquez Lloyd KevinMusella FrancescoRizzo SimoneRollo GiuliaRosato VirginiaZecca Pierfrancesco

Capo Redattore:

Anita Arcella

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Siamo andate in giro per i vicoli del barocco salentino alla ricerca dei locali tipici della cucina leccese. Pas-sando nelle vicinanze di Piazza Sant’Oronzo, siamo state attratte dal profumo che proveniva dalla cucina del locale “La Magiada” di Gianni Gaetani, la cui cuci-na viene gestita ancora dalla nonna Carmela, che con un po’ di nostalgia, ci ha pre-sentato due dei tanti piatti tipici della cucina salentina, “Fave e cicorie” e “Sagne ‘Ncannulate”

“FAVE E CICORIE” (FAE E FOGGHIE) E’ il caso del piatto, made in Puglia, realizzato con ingredienti che pro-vengono direttamente dalla terra “Fave e cicorie selvatiche” meglio dette “Fae e fogghie”. Questo piat-to è arricchito da due ingredienti poveri, le fave secche e le cicorie selvatiche: erbette spontanee dal sapore amarognolo, che insieme danno vita a un piatto rustico e sa-porito. Si tratta di una ricetta senza tempo, che le massaie salentine preparano ancora oggi e che vie-ne tramandata da generazione in generazione per mantenere vivi i sapori di una volta. Anticamente quando non esistevano le cucine a gas, le fave venivano cotte in an-fore di terracotta solo con acqua e alloro, chiuse e lasciate per ore e ore, vicino a un fuoco acceso, ma vi posso assicurare che il suo sa-pore era straordinario.

“SAGNE ‘NCANNULATE”

La pasta della domenica per eccel-lenza in molte famiglie salentine. La pasta fresca in casa in casa è un must e le nonne sono bravis-sime a prepararla in brevissimo tempo. Questa pasta sembra ave-re un legame con San Giuseppe, la forma infatti ricorda i trucioli di legno, frutto delle piallate del fale-gname. Innanzitutto si prepara la pasta per dare il tempo di seccare all’aria e vengono usate farina di semola rimacinata, farina integrale e acqua tiepida. Questo piatto va condito con sugo amalgamato con la ricotta forte tipica della cucina salentina. Un vero toccasano per anima e corpo.

Giulia Giannattasio e Giulia Maci

(Vecchie ricette da raccontare…..)

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Gastronomia Salentina

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La pasqua è una festività molto importante. Nel Salento ci sono dei dolci tipici, e noi dello Stomeo Zimbalo per osservarli siamo andati alla pasticceria NATALE. Ecco alcuni dolci tipici:Il nome di questo primo dolce è AGNELLO: questo dolce è fatto di pasta di mandorla ed è farcito con marmellata, cioccolato, e condimenti dolci di ogni tipo .E perchè si fa questo dolce proprio a pasqua? Perchè simboleggia Gesù e il suo sacrificio.Abbiamo visto altri dolci tipici come la PUDDRICA.Ma questi bravi pasticceri fanno anche l’uovo di cioccolata, campanelle e anche la cosa più bella: il co-niglietto di cioccolato.Ovviamente questa pasticceria è fornita anche del dolce tipico nazionale di Pasqua come le colombe e uova di Pasqua però ovviamente artigianali.

I Dolci tipici di Pasqua

Come fa a realizzare le sue opere?Pensando a quello che piace a me e poi al gusto delle altre persone.Come gli è nata l’ idea di fare il pasticce-re?A me piacevano i dolci e poi ho incontrato altre persone sulla strada quando ho iniziato a fare il pasticcere e che mi hanno saputo insegnare che mi hanno saputo trasferire dei principi buoni sulle cose che mi hanno fatto appassionare.Cosa voleva fare da grande?Il vigile urbano.Lo fa con passione?Lo faccio con passione perchè diversamente que-sto mestiere non si potrebbe fare c è bisogno di molto sacrificio.Quanto punta in alto?Punto in alto soprattutto alla soddisfazione dei

clienti e alla soddisfazione dei miei parenti non è una questione di puntare in alto.Nella sua pasticceria si producono dolci tipici leccesi se si quali?Si producono soprattutto i dolci tipici leccessi re-lativamente leccesi perchè in Italia ce ne sono mi-gliaia il pasticciotto, mustazzoli, fruttone e diciamo tanti dolci tipici che possono essere considerati tipicamente leccesi.Ci sono dei dolci tipici natalizi?Certo che ce ne sono tipici natalizi ad esempio il panettone, i puccedruzzi soprattutto.C’ è un dolce che ha inventato lei?Più di qualche dolce che ho inventato io, modifica-to o, meglio ,che ho creato io o per lo meno perzo-nalizzato da me.Da quanti anni fa questo mestiere?Praticamente da sempre, cioè da circa 40 anni.

Giulio Giuranna e Virginia Rosato

L’Intervista

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Mettere tutti gli ingredienti in una terrina ed impastare bene il tutto in modo da ottenere un composto omogeneo, se necessario aggiunge-re un po’ di latte e se l’impasto risulta morbido aggiungere 2 cucchiai di pangrattato. Ricavare tante palline della dimensione desiderata e frig-gerle in abbondante olio bollente. Per preparare le polpette al sugo: far bollire le polpette fritte in una salsa di pomodoro fresco aromatizzata con il basilico. Il sugo così ottenuto è ottimo per condire la pasta, soprattutto quella fatta in casa.Tra i piatti di carne della cucina leccese non può mancare il galletto o meglio “l’addhruzzu” che si prepara arrostito o al sugo per la festa di Sant’O-ronzo. La tradizione di consumare questo piatto è legata al martirio di Sant’Oronzo. Si racconta che quando il Santo fu decapitato per essersi proclamato cristiano, un gallo cantò per annun-ciare a Lecce e al Salento il sorgere del sole del cristianesimo.Nel periodo pasquale, in cui è tradizione mangia-re l’agnello, la popolazione consumava gli scarti dell’animale, cioè le interiora per preparare piatti che oggi sono diventati ricercatissimi. Proprio con le interiora dell’agnello si preparavano (e si preparano) i turcineḍḍhri, involtini dal sapore de-

Il trionfo della carne nella cucina leccese

ciso e prelibato, cotti sulla brace o al forno. La parola turcinieddhru significa “piccolo attorcigliamento” dal verbo torcere perché una rete e un budello stringono il fegato, il cuore, il rognone e il prezzemolo degli in-voltini. Un’altra prelibatezza è l’agnello al forno con le patate.Tra le specialità di carne tipiche della tradizione lecce-se c’è la carne di cavallo, diffusa in quanto questi ani-mali erano usati per i lavori nei campi e come mezzo di trasporto e quando erano troppo vecchi per lavorare servivano come alimento. I pezzetti di carne di cavallo vengono preparati in una pignata, tipica pentola in terracotta con due manici, esternamente smaltata per metà e l’altra parte in terracotta in modo che durante la cottura favorisca la traspirazione del cibo mantenen-dolo caldo e permettendo di continuare la cottura una volta tolta dal fuoco. La cottura del cibo con la pignata è genuina e ne esalta il sapore. Ambra Calogiuri e Luca Greco

La cucina leccese è caratterizzata da numerosi piatti poveri che in passato si preparavano con quello che la terra offriva e quello che si poteva realizzare con pochi soldi. La carne era un piatto raro consumato solo la domenica o addirittura durante le feste più importanti come Natale, Pasqua, la festa patronale e in occasione di particolari ricorrenze.Tra i piatti della tradizione leccese la polpetta è la regina della tavola. Le polpette sono nate sicuramente per necessità perché nelle famiglie più povere e numerose le scarse quantità di carne macinata venivano amalgamate con ingredienti poco costosi come il pane duro di qualche giorno bagnato in acqua e le uova. Molto presto, però, le polpette sono uscite dalla tavola dei poveri per entrare in ogni famiglia come piatto indispensa-bile su tutte le tavole. Per i leccesi non è domenica se non si mangiano le polpette, fritte come antipasto o al sugo come secondo piatto; c’è chi le prepara piccole, chi giganti, comunque sempre buonissime, costituiscono un piatto tipico presente in tutti i menù dei ristoranti della città.

PREPARAZIONE

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grammi 700 di carne macinata due voltegrammi 300 di mollica di pane raffermogrammi 100 di parmigiano grattugiato ( a scelta gavoi, pecorino o rodez)3 uovauna manciatina di prezzemolosale e pepe q.b.olio d’oliva

Per una polpettata per sei persone:

Ingredienti

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I pizziUn tempo si faceva il pane con farina di grano duro in casa, adesso sono solo i forni a per-petuare la tradizione dei pizzi che sono fatti con un impasto costituito da acqua, lievito e farina di grano duro. I pizzi leccesi sono dei soffici panini conditi con olive nere, pomodo-rini e cipolla e sono noti anche come ”pucce” salentine .

Le pittuleLe pittule originariamente si degustavano nel giorno di San Martino e nei giorni di vi-gilia dell’Immacolata, Natale e Capodanno. Queste sono fatte con pasta lievitata, molto morbida, fritte a forma di palline e con una tecnica particolare. Possono essere bianche e vengono consumate intinte nel vincotto, nel miele o condita nei modi più fantasiosi e van-no servite rigorosamente calde.

La magia del cioccolato A Lecce, nella meravigliosa location di Piazza Sant’Oronzo, dal 5 all’ 8 Dicembre 2014 si è svolta la “ Festa del Cioccolato” dove il pro-tagonista assoluto è stato il vero cioccolato artigianale.Pare che gli scopritori e primi coltivatori del cacao siano stati i Maya. Ci sono varie qua-lità di cacao e secondo alcuni studi è molto energetico.Lo scopo di questa fiera è proprio quello di portare in Piazza Sant’Oronzo la cultura del cioccolato e valorizzare la lavorazione artigia-nale di questo nobile prodotto che da sempli-ce pianta diventa un gustosissimo alimento . E’ così che l’abilità di questi artisti trasforma il cibo in arte!

Federica IndinoMarta Grattagliano Sofia De VitisJoshelle Castillo

Arte culinaria leccese“Che Delizia! Che Passione”A lecce la” buona cucina” è di casa, infatti tutti i turisti che vengono in vacanza da noi non restano mai delusi nell’ assaggiare i nostri piatti tipici locali !Grazie ai prodotti che offre la nostra terra sono numerosi i piatti tipici della tradizioni tra i quali spiccano le pittule e i pizzi.

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LA RICETTA CUORE DEL SALENTO

Ciceri e triaDa chi hai imparato a fare questo tipo di pasta?Dalla mia mamma.

Come hai imparato a farla?Guardandola, quel piatto lo faceva spesso.

Conosci qualche trucco, per rendere più buona la pietanza?Si, prima di mettere la pasta nei piatti prendo al-cuni ceci e li schiaccio, così da fare una specie di crema da mettere sopra alla pasta e ceci.

Puoi dirmi il PROCEDIMENTO per fare la tua squisita pasta?La sera prima metto a bagno i ceci in acqua tie-pida con un pò di sale e li lascio a bagno tutta la notte.La mattina metto a cuocere i ceci per due - tre ore ed intanto preparo un impasto di farina, acqua e sale e lavoro sino ad amalgamarlo. Stendo una sfoglia sottile e l’arrotolo su se stessa. Taglio a listarelle di un centimetro e le srotolo (la Tria). In una casseruola metto a bollire dell’acqua dove verso la tria lasciandone un po’ da parte in modo da friggerla in una padella dove ho messo due spicchi d’aglio, prima della fine della cottura ci verso i ceci, la crema preparata schiacciando alcuni ceci e la pasta lessata e la faccio amalga-mare bene, aggiungendo come tocco finale un pizzico di pepe.

Da chi hai imparato a fare questo tipo di pa-sta?Da mia nonna e da una sua vicina di casa.

Come hai imparato a farla?Guardando mia nonna ho imparato a fare i macchero-ni,visto che mia nonna non sapeva fare le orecchiette, andavo da Chiara, la sua vicina di casa, che mi insegnò a fare le orecchiette.

Conosci qualche trucco per rendere più buo-na la pietanza?Si, invece di farla col sugo semplice io nel sugo metto qualche pezzo di carne, da formare una specie di ragù e poi nel sugo aggiungo un po’ di formaggio cremoso chiamato ricotta forte.

Puoi dirmi il PROCEDIMENTO per fare la tua squisita pasta? Metto la farina su di una spianatoia, faccio un mucchiet-to con un buco al centro. Aggiungo un pizzico di sale nell’impasto. Nel buco fatto al centro della farina verso l’acqua tiepida e impasto energicamente sino a quan-do non ottengo un bell’impasto liscio ed omogeneo. Lo lascio riposare per circa 30 minuti. A questo punto gli dò la forma che preferisco come orecchiette e macche-roni. Preparo la salsa facendo rosolare nell’olio l’aglio, aggiungo la cipolla tagliata a fettine sottili, aggiungo la carne e poi il pomodoro, cuocio per qualche minuto a fuoco alto, aggiungo il sale, un po’ di pepe e lascio cuo-cere circa due ore rigirandola spesso. Quando la salsa di pomodoro è pronta cuocio la pasta in abbondante ac-qua salata. Nel frattempo in una ciotola sciolgo la ricot-ta forte con un mestolo di salsa appena cotta. Scolo la pasta al dente e la unisco alla ricotta sciolta nella salsa di pomodoro.

Giorgia Caniglia

IL VERO CUORE SALENTINO

Orecchiette e maccheroni

INTERVISTE ALLA NONNA

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La storia delle puddicheHo fatto un’ intervista alla nonna sulla storia delle PUDDICHE e le ho fatto queste domande:

Nonna, che cosa e’ la puddica?La “puddica” e’una confezione di uno o piu’uova, in un impasto dolce o salato e che, secondo i dialetti e’ chiamata anche “curruculu”, “puddicastro” o “palomma”.

Di che origine e’?E’ di chiara origine pagana.

Perché è di origine pagana?E’di origine pagana perché era collegata con i riti della fertilità che un tempo si tene-vano in primavera.

Nonna, ma visto che si prepara tutti gli anni ancora oggi, vuol dire che e’ anche di tradizione cristiana?Successivamente le stesse usanze sono state raccolte dalla tra-dizione cristiana e, fino a non molto tempo fa, era usanza comu-ne che le ragazze l’offrissero in dono ai loro fidanzati il giorno di Sabato Santo.

Giulia Rollo e Lucrezia Elia

INTERVISTA ALLA NONNA

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L’ipotesi sulla nascita del rustco è probabilmente che questa specialità non è venuta alla luce prima del XVlll secolo,periodo in cui è stata inventata la pasta sfoglia. Con il passare del tempo si aggiunse alla ricetta originale un altro ingrediente francese la besciamella. MITO Si narra che il rustico fu inventato da un semplice falegname che non sa-pendo cosa mangiare mescolo’ ingredienti a caso e impastando impastando inventò questo piatto.Oggi il rustico leccese si trova in tre varianti : la tradi-zionale, quella con besciamella e per finire un mix di besciamella e mozzarel-la fior di latte.Insomma che dire il rustico è il re dello Street Food salentino.

Pierfrancesco Zecca

Il rustico

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Le “marangiane chine” Una delle ricette simbolo dell’estate salentina, sono le melanzane ripiene quelle che in dialetto prendono il nome di “marangiane chine”, realizzate solo con pochi e semplici ingredienti in questo caso vegetariani. Il profumo di questo piatto riporta alla mente quello che da bambini si sentiva appena svegli la mattina nelle calde giornate estive. Si faceva colazione in cucina con intorno una vera e propria agitazione, mamme e nonne che si muovevano in perfetta sincronia. Un rito que-sto, insieme alla preparazione della “Pitta di Patate”, che portava via tutta la mat-tinata, visto che tutto doveva essere fatto e preparato secondo un ordine preciso. Ogni volta si facevano “stanati” (tegami) a non finire, per deliziare tutti i figli e i nipoti. Si era felicissimi e si andava al mare ancora più contenti perché si sapeva che al ritorno ci sarebbe stato un pranzo speciale, la tavola apparecchiata con al centro lo “stanato” di “marangiane chine” che bastava per sfamare un esercito. Oggi che non si ha tantissimo tempo si cerca di farle almeno un paio di volte in tutta la stagione, magari abbreviando i tempi della preparazione senza rovinarne il gusto.

PROCEDIMENTO Lavate e pulite le melanzane, tagliatele in due per il lato lungo e svuotatele all’interno. Tagliate a pezzetti piccoli la polpa e fatela soffriggere in una padella grande nell’olio insieme alla carne tritata, Aggiungete il pomodoro a pezzetti, il formaggio grattugiato, l’uovo, la mozzarella e il sale. Riempite le melanzane svuotate con il ripieno e si-stematele in una teglia su uno strato di olio e sale.Condite con i pezzetti di pomodoro, le patate tagliate grossolanamente, aglio, prezzemolo e infornate per 20 minuti, fino a quando il ripieno non mostrerà una crosticina in superficie.Servitele calde in modo tale che il formaggio possa filare.

Federico De SantisFrancesco Musella

4 melanzane grandi500 grammi di carne tritata150 grammi di formaggio grattugiato (pecorino e/o parmigiano)100 grammi di mozzarella1 uovo; 1 mazzetto di prezzemolo; 1 agliopomodori a pezzetti; 2 patate grandiolio extravergine di oliva q.b.; sale q.

Ingredienti per 4:

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Ricerca sui “Mustazzoli”I mustazzoli sono dei dolci tipici del Salento (Puglia meridionale) e della Sicilia occi-dentale, dove rientra tra i prodotti agroalimentari tradizionali siciliani riconosciuti dal ministero delle Risorse agricole. Molte regioni rivendicano la paternità di questo biscot-to, è usato tantissimo infatti in Puglia, in Sardegna, in Calabria, in Sicilia, nel Lazio, in Campania e in Lombardia.

Il termine deriva dalla lingua latina, non dal latino mustum (il mosto) come si era pen-sato in principio, bensì da mustace, cioè alloro. In origine si preparava il mustaceum, una focaccia per le nozze, un dolce avvolto in foglie di mustace (alloro) che dava aroma

durante la cottura. Da qui il proverbio loreolam in mustace quaerere, ovvero: cercare inutilmente nella focaccia le foglie di alloro

che si erano bruciate nel forno.I mustazzoli sono noti anche come: mustaccioli, zozzi (a causa della glassa al cioccolato sulla su-perficie), mostaccioli, mustazzueli, bisquetti, pi-squetti, mustazzòli ‘nnasparati, scagliòzzi, scàiezz-

uli, castagnette.

I mustazzoli hanno origini arabe e infatti come nell’usanza di questa civiltà anche questi biscotti, come il pane arabo,

non sono lievitati. Era una tipica abitudine, ancora oggi in vita, cuocere e consumare questi dolci durante le ri-

correnze e le feste sacre. Secondo la tradizione questi particolari biscotti potevano essere modellati in varie forme: per la tradizione cristiana forme di pesce e di uccello; per quella pagana forme di donna, serpen-te o lettere. In Sicilia dal settecento e fino a qual-che decennio fa era una produzione tipica delle suore dei conventi di clausura.Infatti per molti anni anche le suore di clausu-ra Benedettine di Lecce, del Monastero di San Giovanni, li hanno prodotti insieme alla pasta di mandorle.

L’associazione di questo dolce a feste e ricorrenze particolari non sarebbe una casualità. Sembrerebbe infatti che ancora oggi vengono preparati, li dove è originato, per essere consumato in occasione di

feste o eventi religiosi.Infatti, anche nelle feste di paese per la celebrazione

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del Santo patrono, si vedono sempre bancarelle che vendono, accanto a noccioline e pistacchi (i così detti “passachiempi”) i mustazzoli. Abbiamo intervistato la Sig.ra Carmela di Gagliano del Capo, cuoca esperta, riven-ditrice di pasta fresca, che proprio in occasione della Santa Pasqua ha preparato per la famiglia e per i parenti degli ottimi mustazzoli.Le abbiamo chiesto come abbia imparato e da chi questa ricetta e ci siamo fatti spiegare il procedimento per prepararli.Ci ha raccontato che fin da piccola vedeva sua madre e sua zia (che a loro volta avevano imparato dalla nonna) cucinare questi biscotti seconda la ricetta tradizio-nale del Salento.

Ci ha spiegato che questi ingredienti devono essere lavorati fino ad ottenere un im-pasto morbido, ma non troppo, da dividere poi in piccole porzioni dalle quali forma-re i biscotti. Questi vengono messi in forno (rigorosamente a legna) per mezz’ora, poi viene passata la glassa e lasciati asciugare.La sig.ra Carmela prepara questi dolci a Natale, a Pasqua e a San Rocco in agosto per la festa patronale. Ma anche ogni volta che le “salta ‘n capu”!!!L’impasto dei mustazzoli è costituito da vino cotto, ovvero sciroppo di fichi secchi che non ha nulla in comune con il prodotto che porta lo stesso nome ma ottenuto dal mosto d’uva cotto, buccia d’agrumi, mandorle, miele, cannella, talvolta coto-gnata, granella di nocciole, cioccolata, frutta candita. I mustazzoli hanno la carat-teristica di essere molto croccanti, solo con l’aggiunta del burro, della margarina o dello strutto nell’impasto, si ottiene un prodotto molto più morbido e friabile ma che si discosta dalla ricetta tradizionale.

Vincenzo Cosi, Riccardo Ivagnes, Simone Rizzo

1 Kg di farina250 g di zuccherocacao amaro quanto basta per colorarli20 g di ammoniaca; 50 g di burrouna tazzina di caffè di olio; latte q.b.; mandorle; chiodi di garofano; cannella; limone; 4 o 5 uova; Per la glassa:

1 Kg. di zucchero; 1/4 di acqua; cacao in polvere

Ingredienti:

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I purceddhruzzi

I Purceddhruzzi sono dolci natalizi diffusi

nel Salento, in Puglia e in Basilicata ed è

una delle ricette più antiche, infatti, risalgo-

no ai tempi degli antichi greci visto che già

in quel tempo si usava friggere della pasta

e condirla con miele e spezie.

Il procedimento è molto lungo, questi dol-

ci vengono fatti con farina e lievito e dopo

averli fritti vengono immersi nel miele e

decorati con pinoli cioccolatini e piccolis-

sime palline dolci colorate (detti anesini). Il

nome deriva dalla loro forma che ricorda

un piccolo porcellino, la pasta, infatti, viene

passata sul rovescio di una grattugia dan-

do quella tipica forma.

A Natale le mamme ma soprattutto le non-

ne preparano i purceddhruzzi per poi rega-

larli ai nipoti, parenti e amici. Questo dolce

è molto buono e consiglio a tutti di assag-

giarlo.Andrea Fedele

Arte culinaria leccese

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Un dolce… segretoLecce è una città barocca tutta da scopri-re, sia per i suoi monumenti, sia per i suoi prodotti tipici. Tra questi non si può non citare la famosa e golosa pasta di mandor-la delle monache Benedettine. L’origine è molto antica e risale al 1600 circa. Le suo-re, in realtà, cominciarono a produrre que-sti dolci non per commercializzarli, ma per omaggiare vescovi e alti prelati, per favori ricevuti. Gli ingredienti erano e sono molto semplici: zucchero, mandorle, marmellata di pere o meglio ancora “faldacchiera”. Si producevano pesci e agnello per Natale e Pasqua e dolcetti vari per il resto dell’an-no. Quello che, però, ha reso insuperabile questo dolce è proprio il ripieno, e cioè la faldacchiera. Si narra che fu la suora Anna Fumarola a “provare” un miscuglio in dosi ancora segrete, tra tuorlo d’uovo e marmellata di pere, che ne rendeva ancora più ghiotto il ripieno. L’arte pasticcera era affidata a suore, che costrette alla clausu-

ra, vedevano nella realizzazione del dolce, un momento di evasione. Si sa che le tra-dizioni si tramandano di generazione in generazione, per cui ancora oggi a Lecce si producono ancora questi dolci come al-lora. Per acquistarli bisogna essere pron-ti a sopportare lunghe file alle porte del monastero, dove però non si può vedere il viso della suora. Una massiccia porta separa gli acquirenti dalle Benedettine e attraverso una ruota sui possono ritirare i vassoi e pagare il dovuto. Proprio questa ruota consentiva in passato di lasciare i bambini nei conventi. Oggi le suore bene-dettine sono conosciute in tutto il mondo per questi dolci dal sapore inconfondibile. Infatti giungono richieste anche dall’Ame-rica.

Federico Barletta

La “Taieddha”PREPARAZIONESi predispone uno stanato e di dispone prima uno strato di

patate crude, pulite e tagliate a rondelle; poi uno strato di zucchine crude, sempre tagliate a rondelle (senza la par-

te finale).Quindi, si distribuiscono le cozze di mare aperte a metà e uno strato di pomodori tagliati a pezzettini.Bisogna avere cura di insaporire il tutto con sale, pepe e olio q.b. Un ingrediente che si potrebbe ag-giungere a proprio piacimento è la cipolla.

Andrea Pio De Blasi

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Le discussioni sull’origine di alcuni prodotti tipici della cucina pugliese sono tante, ma tra le più accese vi è quella che riguarda la nascita di uno dei dolci tipici della tradizione natalizia della nostra Puglia : “la cartellata”.

Le cartellate: dolce di origine leccese o barese?

LA STORIACertamente la sua origine risale all’epoca bizantina, quando nel centro - sud Salento (nella cosiddetta Grecia Salentina) si mescolarono i nostri usi e co-stumi con quelli di provenienza orientale.Se infatti il nome “Kartelas”, è certamente un nome greco che significa “cestino”, Il sapore è un mix me-raviglioso tra la bontà semplice e decisa dell’olio di oliva della Puglia con il profumo dolce ed orientaleg-giante della cannella. Nella tradizione pugliese le fasce con cui si formano le cartellate, simboleggiano le fasce che avvolsero il Gesù Bambino nella culla (il cestino) alla sua nasci-ta; anche se non mancano alcune interpretazioni che ricondurrebbero la forma delle cartellate alla corona di spine che i Romani fecero indossare al Gesù al momento della sua crocefissione.Ancora oggi in tutti i paesi del Salento, la preparazio-ne delle cartellate costituisce un vero e proprio rito durante il periodo natalizio.A sentire le nonne massaie si inizia ad organizzarsi già nei primi giorni di dicembre acquistando il ne-cessario: anice, cannella, farina, zucchero e miele, e programmando con le zie e le vicine di casa il giorno, l’ora e soprattutto la casa dove preparare le cartel-late”. Anticamente , di solito , il giorno della preparazione veniva fissato per l’antivigilia di Natale e quindi si inziava la mattina del 23 dicembre con l’impasto per poi procedere per l’intero pomeriggio , alla creazione delle forme ed alla friggitura delle frittelle. Una particolarità: si trattava di un avvenimento solo al femminile: i bambini maschietti venivano affidati alla zia o alla nonna di turno, gli uomini dovevano uscire di casa per non intralciare la sacralità del rito.

Le bambine più piccole iniziavano con le mansioni più facili (sbucciare le arance ed i mandarini…) le signorine realizzavano le striscioline merlettate, le donne le intrecciavano con forme a rosa ed a cestello e le nonne di dedicavano alla friggitura in olio di oli-va; operazione delicata dalla quale dipendeva il bel colore dorato delle frittelle.Ogni generazione però insegnava alla successiva i trucchi di un mestiere antichissimo che veniva svolto interamente a mano.Terminata la friggi tura le comari presenti si suddi-videvano in parti uguali le sperlunghe ed ognuna di loro, a casa propria, si adoperava secondo il proprio gusto, al completamento delle cartellate. Questa era la fase “de lu mmelare” le cartellate nello sciroppo di zucchero, nel miele o nel vincotto (tradizione più diffusa nel barese) ; successivamente venivano poi deposte sui vassoi da portata, e spolverizzate di otti-ma cannella e pinoli (in alcuni paesi mandorle).

UNA CURIOSITA’Con l’impasto avanzato si realizzavano i cosiddetti “PURCIADDUZZI” che erano pertanto anticamente il risultato dello scarto della creazione delle forme delle cartellate. Si realizzavano facendo dei bastoncini di pasta lunghi che venivano poi tagliati a pezzettini a mò di gnocco, “girati” sulla superficie di un paniere e fritti nell’olio. Il procedimento del “mmelare” era uguale a quello delle cartellate.

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Ingredienti

1kg Farina1 Bicchiere di Olio di oliva (Versarlo in una pentola e far soffriggere leggermente delle bucce di mandarino)1 Cucchiaio di zucchero1 Bustina di vanillinaSucco di 3 arance1 UovoAnice e vino bianco q.b. per Impastare.Olio di oliva per friggere

Le cartellate: dolce di origine leccese o barese?

Il PROCEDIMENTOFar soffriggere le bucce di mandarino nell’olio di oliva (un bicchiere) e ver-sarlo sulla farina cercando di amalgamarlo strofinando con le mani. Aggiungere lo zucchero, l’uovo, il succo di tre arance, la bustina di vanillina ed impastare il tutto aggiungendo anice e vino q.b per ottenere un impasto compatto. Lavorare a lungo, (oggi si può fare con la macchinetta - è più semplice!) , realizzare delle sfoglie e tagliare con la rondella delle fascette larghe circa 1,5 cm, chiuderle ogni 2 cm ed arrotolarle su se stesse formando delle rose, oppure fare semplicemente delle striscioline. Friggere in abbondante olio di oliva, dorarle, lasciarle su un foglio di carta assorbente. Per lo sciroppo di zucchero far bollire per 5 minuti 150 gr di acqua con 1/5 kg di zucchero, passare ad una ad una le rondel-le e le forme, scolarle una ad una, adagiarle su un piatto di portata ed infine spolverizzarle di cannella e pinoli. La variante è sostituire lo sciroppo di zuc-chero con il miele.

Marco Licci

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Quanta frutta ogni giorno nelle nostre tavole, frutta di ogni genere e nazionalità. Ma chi si ricorda di lei? La mela cotogna, un frutto dimenticato, ma dalle virtù nascoste, che vanta un passato leggendario ma ha un presente meno protagonista. “La leggenda narra che rappresentò Venere, simbolo di buon auspicio e fecondità nei banchetti matrimoniali al tempo degli dei.” La mela cotogna appartiene alla famiglia delle “Rosaceae” . E’ il frutto di un albero a crescita spontanea che si trova origine nel Medio Oriente (Persia) e tutt’ora diffuso nel Paese del Mediterraneo Occidente. Conosciuto fin dai Greci che chiamavano “il frutto sacro Venere” simbolo d’amore e fedeltà è dai Romani citate da Catone, Pugno e Virginio. La mela cotogna, che era comunemente coltivata nel Medio Evo, era considerata come il più utile dei frutti. Uti-lizzato già nella cucina medievale ma oggi poco apprezzato per il suo sapore acidulo che ne permette il consumo solo sotto forma di conserva e marmellata.E’ un prodotto tipico della nostra tradizione! Dalla sana merenda che mangiavano i nostri nonni quan-do erano bambini ma ormai quasi sparita del tutto. La Cotogna Leccese dal colore ambrato o rosso bruno, odore delicato e sopore dolce, ottenuta dalla polpa delle grosse mele di produzione locale, messa a cuocere insieme a zucchero. Acqua e vari aromi quali: limone, cannella, arancio. E’ diventata una riceta senza tempo! Tramandata da generazione in generazione. Questa dolce marmellata, torna protagonista ad ogni ricorrenza sulle tavole cittadine an-che grazie alla Signora Barbara De Matteis titolare della anonima pasticeria “COTOCNATA LECCESE”.

Ariela Lera e Giulia Esposito

Un frutto dimenticato: la mela cotogna

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Cotognata leccese: il barocco tribudio d’autunno! Amate i dolci? Amate la frutta d’autunno? Then the Salento is your land! La cotognata leccese merita un blog a se per quanto è buona e profumata! Per conoscere i sapori dei nostri nonni bisogna necessariamente scoprire il gusto di uno dei “frutti nascosti”. Non se ne vedono più nei mercati e nem-meno sulle bancarelle lungo le strade eppure hanno caratterizzato per tanto tempo la vita del Salento. Ep-pure solo una settantina d’anni fa, durante la guerra, la “cotognata leccese” era l’unica merenda che si poteva dare ai bambini. Ora è solo un ricordo! La mela cotogna è uno dei frutti tra i più tipici del Salento, che un tempo trionfava negli orti delle deli-zie d’ogni casa, campagna, e con la quale si produce la tipica “Cotognata leccese”, marmellata gelatinosa confezionata a cubetti e mattonelle. Sembra un frutto oramai quasi totalmente dimenti-cato eppure ha un passato ricco ed interessante! La leggenda narra che la “mela cotogna” rappresentò l’emblema di Venere, simbolo di buon auspicio e fecondità nei banchetti matrimoniali al tempo degli Dei. Simbolo dell’amore e della fecondità. Le mele cotogne spesso ornano ed arricchiscono le faccia-te di architettura barocca leccese. Capitelli, portali, finestre, cornici, stemmi, mensole, archi, lunette, ed altari si impreziosiscono di questi frutti autunnali, ti-picamente salentini e mediterranei, come dono del lavoro contadino e della generosità della terra offerto a Dio. E’ un prodotto semplice e genuino: trattasi di una densa marmellata che si ottiene dalla polpa delle grosse e succose mele cotogne di produzione locale, messa a cuocere insieme a quantità pressoché ugua-le di zucchero. Quando l’impasto è sufficientemente cotto, e si è reso omogeneo e consistente prendendo un colore dorato assai carico, vi si aggiunge cannel-la, vaniglia, arancio, limone (a seconda dei gusti) e poi si travasa ancor caldo nelle speciali scatole di legno oppure di metallo. In realtà non esiste una ricetta ufficiale della Coto-

gnata leccese, tramandandosi il processo produttivo di generazione in generazione, ma grazie alla genti-lezza e disponibilità della Sig.ra Barbara De Matteis, titolare della pasticceria tra le più antiche rinomate della città, sono stati comunque pressoché indivi-duati gli ingredienti e il procedimento per la sua pre-parazione. “Ingredienti e preparazione: 2 kg di mele cotogne (meglio se un po’ verdi), 2 kg di zucchero, la buccia di un limone, 1 litro di acqua. Preparazione: mettere in una pentola l’acqua, la buccia di limone, le mele cotogne sbucciate e tagliate a pezzi e mezzo chilo di zucchero. Cuocere per un quarto d’ora. Scolare con-servando l’acqua di cottura da utilizzare per la gela-tina di mele cotogne. Passare al setaccio la polpa e metterla in una teglia. Versare lo zucchero rimanente e, a fiamma bassa, con un cucchiaio di legno mesco-lare continuamente. Proseguire la cottura, finché non si sia addensata. Ancora calda, versarla nelle formi-ne o stenderla su una spianatoia. Farla asciugare per una set timana in un luogo fresco ed asciutto. Quindi tagliarla a pezzi e conservarla in appositi barattoli.”Insomma: LENITE LA PENA DEL TRISTE AUTUNNO CON QUALCHE GOLOSO MORSO ALLA COTOGNA-TA LECCESE!

Marco Licci ed Emanuele De Carlo

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Storia e Curiositàa spasso con la V B

Ciao! Mi chiamo Irene.

Vi condurrò per le strade di Lecce

per raccontarvi la sua storia

e tante tante curiosità.

Staff di Redazione:Alemanno SophiaBalocchi ThomasBeccarisi CristinaBuscicchio AliceCerasino BenedettaCiminiello ValeriaCorrado Sara LuciaDe Giovanni FrancescoDe Rinaldis AuroraDe Salvatore SimoneFaggiano MichelleFaggiano SamueleGiordano BrianIngrosso LudovicaLipari Salvatore

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Capo Redattore:Anna De Martino

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Paolo StomeoIl nostro istituto comprensivo è intitolato al prof. Paolo Stomeo, personalità di straordinario rilievo del Salento, nella sua qualità di eccezionale studioso e insigne ellenista.

È nato nel 1909 a Martano nel cuore del Salen-to, un’isola nella quale una manciata di comuni; sparsi fra secolari e rigogliosi ulivi, conserva un antico dialetto, il griko, retaggio di insediamenti greci lontanissimi. Fin da giovane si è dedicato alla passione per la lingua, gli usi e i costumi del-la sua terra. Intuisce l’importanza e il fascino della lingua parlata ovvero del dialetto griko. Avendo continui contatti verbali con la gente comune in-daga nell’ archivio della terminologia popolare e producei suoi lavori.Nel 1992 pubblica il “vocabolario greco-salenti-no” che nasce, come sottolinea. E. De Giorgi nella premessa, da una conoscenza immediata e diretta della vita, degli usi, dei costumi e delle tradizioni popolari, delle genti grecaniche salentine.La sua vocazione didattica consente al Prof. Sto-meo di insegnare sia presso l’università di Lecce, sia nell’ambito dei licei cittadini, nei quali viene a ricoprire le funzioni di docente e di preside.

Ma sono soprattutto le sue doti umane, quali le bontà d’animo, la dolcezza del carattere e una grande generosità a consentirgli di lasciare in tutti un segno indelebile del suo valore di uomo, di cultura umanistica e di grande comunicatore. Collaborando con altri scrittori Paolo Stomeo pubblica altri libri riguardanti sempre le tradizio-ni Salentine. Il Prof. Stomeo era affascinato dalla bellezza adriatica. Le sue costruzioni, le architetture rurali, le chie-se bizantine, romaniche barocche, edificate con la pietra calcarea, biancheggiavano uguali fra le sponde. Nel 1959 nasceva il gemellaggio tra il comune di Calimera e le università di Atene e Salonicco. Il prof. Stomeo stringe frequenti rap-porti con Enti culturali e Circoli letterari in Grecia e tiene ad Atene due conferenze in lingua Greca sulla figura del grande poeta conterraneo, nonché infaticabile animatore del risveglio Greco-Salenti-no, Vito Domenico Palumbo. Paolo Stomeo è stato un instancabile studioso ed è grazie a lui che la cultura greca è rimasta viva.Tutti noi dovremmo vedere in questo magnifico umanista una fonte di ispirazione.

Luca Migliucci

Piacere di conoscerti!Mi chiamo Paolo Stomeo,

amo il Salentoe le sue tradizioni.

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La nostra citta’ ha dato natali a grandi personalita’ che hanno fatto la storia......conosciamone alcuni!

Antonio De Viti De Marco E’ stato uno dei più grandi economisti italiani.Nato a Lecce il 30 settembre 1858 e morto a Roma il 1° dicembre 1943, visse dapprima a Casamassella, piccola frazione di Uggiano la Chiesa e poi a Lecce, dove compì gli studi classici presso il liceo Palmieri. Si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma, ma ben presto scoprì la sua inclinazione per la scienza delle finanze. Laureatosi a Napoli, acquistò e divenne direttore del Giornale degli economisti, che gli diede fama, tanto che ben presto fu eletto deputato con il partito radicale. Democratico e liberale, capì sin da subito l’enorme pregiudizio dettato dalle politiche protezionistiche e fu uno strenuo oppositore di Crispi e Giolitti. Fu anche un grande meridionalista, accanto a Gaetano Salvemini, puntando spesso l’indice contro le politiche antimeridionali che sin da allora caratteriz-zavano l’azione dello Stato italiano.Fu anche un oppositore del regime fascista. Rifiutò la nomina a Senatore da parte dello stesso Mussolini e si ritirò dalla vita pubblica, tornando nella sua Casamas-sella, dove completò una delle sue più grandi opere: “I primi principi dell’economia finanziaria”, tradotta in varie lingue e fonte di ispirazione per numerosi eco-nomisti.

Giuseppe CandidoGiuseppe Candido (Lecce, 28 ottobre 1837 – Ischia, 4 luglio 1906) è stato un vescovo cattolico, fisico e inven-tore italiano. Giuseppe Candido dopo essere entrato a 10 anni nel Collegio Reale dei Gesuiti dove manifestò grande entusiasmo per lo studio dell’elettricità grazie soprattutto al suo maestro p. Nicola Miozzi, conseguì a Napoli la laurea in matematica e fisica.Non è conosciuta la data della sua ordinazione presbi-terale. Nel 1881, papa Leone XIII lo nominò vescovo titolare di Lampsaco e lo inviò come vescovo coadiu-tore alla sede di Nicastro, l’attuale Lamezia Terme. Nel 1888 fu nominato vescovo di Ischia. Nell’isola conti-nuò i suoi studi religiosi e fisici. Rinunciò alla diocesi ed ebbe il titolo vescovile di Cidonia. Proseguì gli studi fino alla morte, avvenuta il 4 luglio 1906, all’età di 68 anni. Ritornato nella città natale realizzò numerosi ap-parecchi elettrici utilizzati nelle abitazioni private della città, ma il suo impegno principale in campo elettrico è rappresentato dalla rete di orologi pubblici elettrici sincroni a Lecce. Quest’opera che egli stesso costruì dopo averla progettata non aveva precedenti in Italia e fu una delle prime in Europa, rimanendo in funzione fino al 1937. Tra le sue invenzioni annoveriamo la pila a diaframma regolatore, il pendolo elettromagnetico sessagesimale ed il brevetto di un gassogeno auto-matico.

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Tito SchipaRaffaele Attilio Amedeo Schipa nasce a Lecce, quarto figlio di una famiglia modesta (il padre Luigi è guardia daziaria) nel quartiere popolare delle Scalze negli ul-timi giorni del 1888, ma viene iscritto all’anagrafe il 2 Gennaio 89 per questioni di leva militare.Il suo sovrannaturale talento vocale viene notato im-mediatamente dal maestro elementare Giovanni Alba-ni poi da tutta Lecce, per cui fu sempre “propheta in patria”.Con l’arrivo da Napoli del vescovo napoletano Genna-ro Trama (1902) vero talent scout dell’epoca, l’avvio all’arte del giovane talento, soprannominato ormai “Titu” (piccoletto), è garantito con la sua entrata in se-minario, dove studierà anche da compositore.Dopo un’adolescenza piuttosto agitata nella sua città natale, dove dà prova, oltre che del suo talento arti-stico, anche della sua predisposizione all’avventura e alla seduzione, su consiglio del suo miglior maestro di canto, Alceste Gerunda, Tito “emigra” a Milano per completare gli studi con Emilio Piccoli e cercare l’oc-casione di debutto (naturalmente a pagamento) che avviene a Vercelli con una Traviata(4 Febbraio 1909).Il successo non è immediato (le caratteristiche vocali del ragazzo sono del tutto inconsuete per il pubblico medio dell’epoca) ma la progressione è sicura e co-stante, fino a che, dopo una lunga routine di forma-zione nella compagnia operistica di Giuseppe Borboni, culminata a Roma per l’Esposizione Universale del 1911, il primo trionfo lo aspetta a Napoli, dove con una Tosca leggendaria il nome d’arte “Tito Schipa” si impo-ne definitivamente alle cronache artistiche e mondane.Il successo lo porta subito in Spagna, e lo spagnolo è la lingua più esemplare della sua naturale predisposi-zione poliglotta (ne parlerà correntemente quattro e ne

canterà undici compreso l’aborigeno australiano più, come ripeteva, il napoletano) il che lo aiuta a conqui-stare con facilità il cuore degli spagnoli, orfani del loro idolo, il tenore catanese Giuseppe Anselmi.Segue un periodo di viaggi tra la Spagna e il Sud Ame-rica, dove si gettano le fondamenta di un lungo intenso rapporto con il pubblico, specialmente argentino. Ma la guerra, col pericolo dei sottomarini, vede il giovane Schipa intentare e vincere una causa con la sua agen-zia artistica per farsi riconoscere il diritto a non navi-gare fino alla cessazione delle ostilità.Il 1919 è l’anno dell’approdo negli Stati Uniti, invitato dalla soprano Scozzese Mary Garden e dall’impresario Cleofonte Campanini, che insieme gestiscono la Civic Opera di Chicago. Qui sposa la soubrette francese An-toinette Michel d’Ogoy, conosciuta a Montecarlo in oc-casione della prima assoluta di La Rondine di Giacomo Puccini, da cui avrà due figlie, Elena e Liana.Questa volta è Rigoletto l’opera del debutto trionfale a Chicago (4 Dicembre). Inizia per Tito Schipa l’av-ventura statunitense, cominciata come probabile suc-cessore di Caruso ma in realtà definitasi come quella dell’Anti-Caruso per eccellenza, che lo vede tenore stabile di Chicago per 15 anni, indi primo tenore al Me-tropolitan di New York, ormai tra i più famosi e i più pa-gati cantanti dell’epoca, specialmente nella categoria del “tenore leggero” o “di grazia” dove si assicura il titolo di massimo interprete d’ogni tempo.Progetta di scrivere un’opera-jazz (quindici anni prima di Gershwin), si avvicina al repertorio leggero spagno-lo e napoletano con risultati insuperati nell’ambito te-norile (grazie anche alla amicizia e collaborazione con gli autori José Padilla e Richard Barthelemy), si apre all’esperienza del nuovo cinema sonoro diventando anche un più che discreto attore di musicals (Vivere! del 1937 capeggerà il box-office italiano sia con la pel-licola stessa che con le due canzoni di Bixio incluse, Vivere e Torna piccina mia), si compromette con i gan-gster di Al Capone venendone classicamente prima ricattato poi blandito, colleziona onorificenze e rico-noscimenti prestigiosi, tra cui la Legion d’Onore fran-cese, passa da un’avventura sentimentale all’altra con risultati disastrosi per il suo matrimonio, e soprattutto guadagna cifre vertiginose che sperpera con abilità diabolica, rimbalzando continuamente dalla classifica degli uomini più ricchi del mondo a quella di bersaglio ideale per le stangate di ogni tipo.La seconda guerra mondiale e il suo nuovo legame

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sentimentale con l’attrice Caterina Boratto, che lo riav-vicina all’Italia, lo portano a coinvolgimenti eccessivi con il regime fascista, soprattutto per l’antica amici-zia personale con Achille Starace, suo conterraneo. A metà degli anni ‘40 il cinquantenne Tito Schipa è pron-to a ripartire per un’altra lunga fetta di carriera che lo porta davanti ai pubblici di tutto il pianeta con la sola esclusione di Cina e Giappone.Nel 1944 conosce l’attrice Teresa Borgna, in arte Diana Prandi, che sposerà nel 1947 e da cui avrà Tito Jr.Nel 1956 un invito a dirigere una scuola di canto a Bu-dapest lo porta per la prima volta oltre cortina, espe-rienza che culminerà con la presidenza della giuria del festival della gioventù a Mosca nel 1957. Le sue nuove simpatie per il pubblico sovietico gli fruttano i sospetti dei servizi segreti italiani, che gli dedicano un fascicolo del SIFAR e boicottano il suo progetto di aprire un’Accadenia di canto in Italia sotto gli auspici del Quirinale.Accusato di filocomunismo, è costretto a tornare negli Stati Uniti, dove viene accolto, ancora una volta, con entusiasmo.La scuola di canto nasce a New York, ed è mentre in-segna canto che il diabete contratto negli anni ‘40 lo porta a morte il 16 Dicembre 1965, settantasettenne, dopo una carriera di 57 anni, del tutto straordinaria in un cantante lirico per lunghezza, varietà e glamour .

Elisa Paglialonga

La regina Maria D’Enghien è stata la so-vrana di Lecce. Nata nel 1367 a Lecce da Giovanni D’Enghien, conte di Lecce e San-cia (Bianca) Del Balzo, titolari del ducato di Andria. Dopo la morte senza eredi del fratello mag-giore Pietro, nel 1384, divenne contessa di Lecce. Maria fu scelta dal papa romano Urbano VI come sposa per Raimondello Or-sini (Del Balzo Orsini), secondogenito del conte di Nola, Nicola Orsini e di Giovanna di Sabran. Le nozze furono celebrate a Lec-ce nel 1385. Maria rimase per più di venti anni all’ombra del marito che, oltre ai suoi feudi in Campania e in Irpinia, si creò ne-gli anni successivi una vasta signoria in Puglia (Brindisi, Gallipoli, Martina Franca, Monopoli, Molfetta, Barletta, Altamura e Minervino Murge). Raimondello, nella lotta per il trono tra Ladislao d’Angiò Durazzo e Luigi II d’Angiò, seguì la politica opportuni-stica quanto abile della «doppia lealtà» per schierarsi al momento decisivo al fianco del vincitore Ladislao I d’Angiò. Ricompen-sa per questo doppio gioco fu l’investitu-ra, il 9 maggio 1399, da parte di Ladislao, del Principato di Taranto (il più importante feudo del Regno) che lo rese signore illi-mitato della Terra d’Otranto, poiché nella primavera 1399, alla morte del padre, aveva ereditato anche la piccola contea di Soleto. Non è noto il ruolo di Maria nella ribel-lione del 1405 contro Ladislao I d’Angiò da parte del marito, che aveva ripreso i rapporti con Luigi II d’Angiò. La morte improvvisa di Raimondello, il 17 gennaio 1406, la lasciò con quattro figli minorenni in una situazione critica perché, a parte suo nipote Pietro d’Enghien Lussembur-go, conte di Conversano, dove sua non-

La regina Maria D’Enghien

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na Giovanna Sanseverino esercitava la reggenza, Maria fronteggiava Ladislao da sola. Proseguì la ribellione di Raimondel-lo, tenendo nascosta la sua morte sino al 1° marzo 1406. Nello stesso giorno lasciò Lecce con i figli e andò a Taranto, perché la città era più facile da difendere e per-metteva approvvigionamenti via mare. Maria si mostrò un’avveduta organizzatrice e amministratrice: preparò Taranto al pre-visto assedio, assoldò truppe mercenarie al comando del nipote di suo marito, Fran-cesco Orsini, e strinse contatti diplomatici con avversari di Ladislao. A fine febbraio Ladislao, ancora all’oscuro della morte di Raimondello, si era mosso verso la Puglia e il 14 aprile iniziò l’assedio di Taranto che dovette interrompere dopo quasi due mesi senza grandi risultati, benché Mar-tina Franca e la contea di Conversano gli si fossero sottomesse. Quando Ladislao pose nuovamente l’assedio a Taranto, il 16 aprile 1407, Maria avviò in breve tempo le trattative che portarono al suo matrimo-nio con il re, celebrato il 23 aprile 1407. Dal 1420, risiedette quasi esclusivamente a Lecce e si occupò soprattutto dell’ammini-strazione dei suoi feudi, per i quali emanò diversi statuti e privilegi. Tra questi, i più importanti sono sicuramente gli Statuta et capitula florentissimae civitatis Litii, del 14 luglio 1445. Disponeva a questo scopo di una propria cancelleria e di un proprio ufficio camerale. Nello stesso periodo fece edificare per il marito Raimondello un mo-numento funebre a Galatina nella basilica francescana di Santa Caterina d’Alessan-dria a Galatina, commissionata da Rai-mondello stesso quale tempio familiare e

completata da Giovanni Antonio. Maria morì a Lecce il 9 maggio 1446 e fu se-polta nella chiesa di S. Croce a Lecce. La sua tomba venne dispersa insieme all’origina-ria chiesa, ricostruita nella sua prestigiosa veste attuale nel corso dei lavori di adegua-mento e bastionatura del Castello Carlo V. Maria gode ancora oggi di popolari-tà nel Sud della Puglia, sostenuta da una ininterrotta tradizione storiogra-fica locale incentrata sulla dimensio-ne romanzata ed eroicizzata delle sue lunghe e controverse vicende biografiche. A Taranto, ogni anno, nel terzo sabato di maggio, si svolge il ricco corteo in costu-me medievale che rievoca e arricchisce quanto tramandato da Crassullo sul Matri-monio di Maria d’Enghien con Ladislao di Durazzo. Nella stessa città Taranto, la tradi-zione orale ha tramandato la lo-cuzione dialettale «u uadàgne de Maria Prène» (il guadagno di Maria di Brienne), con la quale, richiamando la perce-zione popolare di perdita di libertà e sovranità che Maria ottenne dal matrimonio con Ladislao, si suole indicare uno scambio svantaggioso o un cat-tivo affare.

Brian Giordano

La regina Maria D’Enghien

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Il Castello di Carlo VCarlo V imperatore (I come re di Spagna, II d’Unghe-ria e IV di Napoli). Nipote dell’ imperatore Massimilia-no d’Asburgo e di Giovanna la Pazza (figlia di Ferdi-nando d’Argona e di Isabella di Castiglia). Divenne a soli sei anni, per la morte del fratello e della sorella maggiore della madre, come pure la quella del padre, erede non solo dei Paesi Bassi, ma dell’ Aragona e della Castiglia. Il castello di Lecce si trova a ridosso del centro citta-dino. L’imperatore Carlo V d’Asburgo nel 1539 emanò l’ordine di demolire il vecchio Baluardo e di costruire una nuova fortezza con le tecniche di architettura militare. I lavori furono affidati a Gian Giacomo dell’ Acaya, un ingegnere. Nel 1872 venne colmato il fossato che lo circondava ed eliminati i ponti elevatori delle due porte: Porta Reale e Porta Falsa o di Soccorso sul lato posteriore, che è quello più sviluppato e for-tificato per contrastare i pericolosi attacchi. Per far posto all’imponente mole del castello fu demolito il Convento dei Celestini con l’annessa Chiesa di Santa Croce, in seguito riedificati in via Umberto I, un’elegante reggia di cui rimane qualche traccia, inglobata nel corpo di fabbrica centrale: il Mastio a Nord-Est e la Torre Mozza a Sud-Ovest. Dal 1870 al 1979 fu caserma e distretto militare.Il 30 Aprile 1983 l’Amministrazione Militare cedette il Castello al Comune di Lecce. Il primo piano del castello è utilizzato per collocarvi eventi e realizzare percorsi espositivi. Recenti indagini dell’Uni-versità del Salento hanno messo in luce il nucleo più antico del maniero, che è da far risalire a tale periodo torre alta e svettante di forma quadrata che si trova al centro della fortezza, da cui si sviluppò l’impianto del castello. Nel corso del ‘500 come spesso accade nell’area Salentina il maniero venne modificato e oggi è in gran parte da collegare a tale periodo. La forma dell’edificio difensivo e quadrangolare con ai quattro angoli altrettanti “bastioni”. La for-ma ricalca quella tipica delle fortificazioni. Nella fortezza leccese vengono impiegati dei baluardi “fiancheggiati dalla moderna”, ossia con i baluardi che rinserrano la cortina, muro rettilineo tra i due bastioni. Questa particolare architettura militare è stata curata verso il lato Ovest.Il castello si trova lungo una via di comunicazione molto importante, da qui infatti si poteva giungere al porto di San Cataldo. L’unica porta che consentiva l’accesso alla città era cosiddetta Porta Reale, ben protetta dai bastioni di San Martino e di Santa Croce. Un ulteriore porta si trovava sul lato oppo-sto. Su entrambe le porte c’era lo stemma imperiale. L’edificio era circondato da un fossato. Una leggenda narra che gli Orsini del Balzo nel corso del ‘300 tenessero nel fossato un orso bianco (come status symbol) per scoraggiare eventuali intrusi; sulla porta ad est inoltre sono presenti i segni dove doveva poggiare il ponte levatoio.

Davide Stefanazzi e Thomas Balocchi

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L’architetto e scultore Giuseppe Zimbalo (1620– 1710) viene considerato il maggior esponente dell’ar-te barocca a Lecce.Nasce nel capoluogo salentino nel 1620, nel seno di una famiglia di rinomati scultori: nipote di France-sco Antonio Zimbalo, altro celebre architetto della storia leccese, Giuseppe Zimbalo è anche noto come “Zimbarieddu” ovvero “piccolo Zimbalo” proprio per distinguerlo dal padre e dal nonno, entrambi dediti al suo stesso lavoro.Il nonno, Francesco Zimbalo, aveva edificato, già nel 1606 le tre porte principali della chiesa di Santa Cro-ce a Lecce. Proprio per questo motivo, molti specia-listi affermano che la bellezza del barocco leccese è dovuta proprio al talento della famiglia Zimbalo.A Giuseppe Zimbalo vengono attribuiti alcuni fra i più importanti edifici di Lecce, primo fra tutti il Duo-mo.Nel periodo romano, Piazza Duomo, corrispondeva probabilmente al foro romano della città e qui sorge-va il Tempio di Giove, infatti durante gli scavi, furono scoperti colonne e mosaici facenti parte del foro. Il conte Normanno Goffredo decise di costruire la cat-tedrale nel 1114 e la piazza svolgeva la funziona sia religiosa che civile.La Piazza inizialmente aveva tre ingressi: il primo ingresso dove c’è il campanile, il secondo l’ingres-so attuale e il terzo dove c’è il seminario. La piazza

inoltre era racchiusa ed il campa-

nile inizialmente fungeva da torre di vedetta. Con la costruzione di Piazza Sant’Oronzo, il vescovo Pap-pacoda, commissiona a Giuseppe Zimbalo la ristrut-turazione della Cattedrale dedicata all’Assunzione della vergine, di conseguenza Piazza Duomo iniziò ad assolvere la funzione religiosa. Lo Zimbalo rico-struisce anche il campanile, che viene posto sul lato sinistro della piazza, mentre prima era sul lato del-la facciata principale, per rendere più scenografico l’impatto con la piazza.Nel 1761 viene sostituita la porta di accesso in le-gno, vengono realizzati due palazzi gemelli ed i Pro-pilei, dal greco pro-pilaios (avanti alla porta), sono sculture per rendere l’ingresso monumentale, opera realizzata da Emanuele Manieri. L’opera è sovrasta-ta da statue che raffigurano Sant’Oronzo, Sant’Ire-ne, Santa Venere e Padri della chiesa, quasi a voler proteggere lo spazio sacro della piazza. Il seminario realizzato nel 1694 chiuse una delle porte di accesso al cortile, Oggi è uno dei rari esempi di piazza chiusa.Oltre alla ricostruzione del Duomo, nel 1666 l’ Univer-sità consegnò a Zimbalo l’edificazione di una colon-na al centro della piazza principale, sulla quale poi venne posta la statua di Sant’Oronzo.Il “padre del barocco” si occupò anche della ricostru-zione della Chiesa di San Giovanni Battista o del Ro-sario quando aveva già superato i settant’anni. L’an-ziano architetto si dedicò all’opera dal 1961 fino alla morte, nel 1710, contribuì personalmente al finanzia-mento dei lavori. Ancora incompleta alla scomparsa del suo creatore, la struttura venne ultimata nel 1728 da alcuni artisti locali, ed in essa Zimbalo chiese di essere sepolto.

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Giovani giornalisti all’opera!

GIUSEPPE ZIMBALO e Piazza Duomo

Benedetta Cerasino e Anna Laura Rosato

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Gli scavi del Palazzo VernazzaDuro lavoro di scavi per requisire templi, divinita’ e reperti egizi.

TROVATI REPERTI EGIZI DURANTE GLI SCAVI DEL PALAZZO VERNAZZA

Dopo anni di ristrutturazione finalmente sono riusciti a terminare gli scavi nel cinquecentesco palazzo Vernazza situato nei pressi della chiesa di San Matteo, in cui sono stati trovati bellissimi reperti, templi di divinità egizi e anche il Purgatorium scoperto recentemente. In più è stato scoperto un tempio pagano dedicato alla dea Iside. In seguito sono state portate alla luce un gran numero di ceramiche ben conservate da Libia e Tunisia, state usate come baratto in passato. Analizzando tutti questi ritrova-menti si può ipotizzare che questi reperti risalgono circa al IV sec. a.C. e al IV sec. d.C.

Giorgia Valletta

Fra gli eventi di particolare rilevanza si citano: la Focàra di Sant’ Antonio a Novoli, il 17 Gennaio per i festeggiamen-ti in onore del Santo Patrono; la Processione del Venerdì Santo a Gallipoli; la danza delle tarantate che si svolge il 29 Giugno, presso il Santuario di S. Paolo a Galatina; la Sagra della municeddha a Cannole, dall’ 11 al 13 Agosto, la Notte di San Rocco con tamburelli pizzica e ballate a Torre Padu-li, la notte tra il 15 ed il 16 Agosto; la Festa dellu mieru a Carpignano Salentino, dall’ 1 al 3 Settembre; la sagra della Volia cazzata, a Martano, la 2a/3a decade di Ottobre; il mo-numentale Presepe Vivente di Tricase sul Monte Orco. Tra queste elencate la più importante è il Beato Oronzo,che,si svolge dal 24 al 26 Agosto. In questi giorni si ferma e le vie del centro si riempono di gente che passeggiano fra centianaia di bancarelle.Alex Miccoli, Mary Miccoli, Sophia Alemanno

Tradizioni del SalentoIl Salento è ricco di cultura e tradizioni

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Porta San Biagio è una delle tre porte di accesso al nucleo antico di Lecce, dedicata a san Biagio vescovo della città di Sebaste in Armenia nel IV secolo. Costituisce l’accesso me-ridionale all’antico nucleo urbano. Si trova in prossimità di piazza d’Italia. Sorta al posto di una porta più antica voluta da Carlo V, Porta San Biagio fu ricostruita nel 1774 per vole-re del governatore di Terra d’Otranto Tommaso Ruffo, come si evince dall’epigrafe latina posta a coronamento. La porta, caratterizzata da coppie di colonne a fusto liscio poggianti su alti basamenti è sormontata dallo stemma di Ferdinando IV di Borbone e da quello della città di Lecce duplicato ai lati. Al di sopra della trabeazione si eleva il fastigio di coronamento che accoglie un’epigrafe commemorativa. La scultura di san Biagio in abiti vescovili, completa l’ornamento artistico della porta. Questa porta è alta 17,3 m.

Cristina Beccarisi

Porta Rudiae è la porta più antica di Lecce infatti a noi non è arrivato il suo aspetto originario perché crollò nel Seicento e fu ricostruito nel 1.703 da Giuseppe Cino. Inoltre all’ epoca portava a Rudiae patria di Quinto Ennio. Nella sua parte alta c’è la statua di Sant’ Oronzo che benedice la gente che entra nella città, e sovrasta un discorso relativo all’antichissima leggendaria storia rac-contata dai busti vicino al Santo: di Malennio figlio di Dasumno e nipote di Sale, Dauno re e figlio di Malennio, di Euippa sorella di Dauno e quello di Idomeneo marito di Euippa che avrebbe dato il nome a Lecce.Inoltre Porta Rudiae era costeggiata dalle mura di Lec-ce ed ha reminescenze barocche. Accanto la statua di Sant’Oronzo c’è quella di Sant’Irene e di San Domenico Guzman; sotto la statua c’è l’epigrafe sulla leggenda che narra la nascita di Lecce.

Samuele Faggiano, Salvatore Lipari, Michelle Faggiano

Porta S. Biagio

La porta più antica

Terza porta dell’antica Lupiae

La porta che conduce a Rudiae patria del poeta Quinto Ennio

Porta Rudiae: la porta più antica di Lecce

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Porta Napoli e l’ObeliscoAppena giunti in città due sono i monumenti che accolgono il visitatore, l’Obelisco e Porta Napoli. L’Obelisco è una guglia fatta innalzare in onore di Ferdinando I di Borbone, re delle Due Sicilie. Fu eretto nel 1822, alto una decina di metri, in pietra leccese, poggia su una larga base a gradinata e su un piedistallo parallelepipedo sui cui lati vi è un delfino che azzanna la mazzaluna: lo stemma della provincia di Terra d’Otranto. Sui quattro lati dell’Obelisco una serie di rappresentazioni mitologiche e gli stemmi dei quattro circondari di Brindisi, Gallipoli, Lecce e Taranto. L’intera opera è dello scultore di Muro Leccese Vito Car-luccio che la eseguì su disegno di Luigi Cepolla. Di fronte all’Obelisco vediamo l’imponente mole dell’Arco di Trionfo o, più familiarmente per i leccesi, Porta Napoli perché è da qui che un tem-po si usciva dalla città per recarsi nella capitale storica del Sud. L’Arco di Trionfo, uno dei più alti d’Italia, isolato nel 1934 dal resto delle mu-rae e costruito là dove un tempo c’era Porta San Giusto, fu eretto nel 1548 su decisione di Ferrante Loffredo e su progetto di

Gian Giacomo dell’Acaya, in onore di Carlo V (si noti il motivo delle colonne d’Ercole che ricorre sempre nelle opere dedicate all’imperatore), per ringraziarlo per aver ricostruito il Castello e le mura di Lecce, proteggendo così la città.Si trat-ta di un’imponente struttura, alta circa 20 m, con un timpano triangolare, sorretto da due colonne per lato con capitelli corinzi, sul quale campeggia lo stemma asburgico dell’aquila bicipite. Sull’ar-chitrave è collocata un’epigrafe dedicatoria che ricorda le gesta dell’Imperatore.Scavi nei pressi di Porta Napoli, sotto la strada, hanno rivelato la presenza di tratti delle mura messapiche della cit-tà, databili alla fine del IV secolo a.C. Si tratta di filari di grandi blocchi squadrati in calcare locale (1,50x 0,70x0,50 m) conservati per l’altezza di 3 filari; all’interno erano riempiti di pietre a secco. In alcuni tratti attraversano, sovrapponendovisi, aree di necropoli più antiche. Vicino alla Porta fu rinvenuta la tomba di un bambino di 8-10 anni.

Simone De Salvatore

Porta Napoli: l’arco di trionfo di Carlo V, insieme all’Obelissco è uno dei monumenti più interessanti ed affascinanti della nostra bella città

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I fondatori di LupiaeSecondo la tradizione, Lupiae fu fondata da Malen-nio un personaggio mitologico figlio di Dasumno e nipote di Salo, inoltre anche discendente di Mi-nosse. Era re dei salentini e fondò Lecce forse nel XIII secolo a.C.Ebbe un figlio di nome Dauno e una figlia Euippa; una volta che morì Dauno, lo scettro passò a sua sorella che si sposò con Idomeneo re cretese che con il suo popolo portò arte e cultura a Lupiae e al Salento. Inoltre Idomeneo ebbe una lunga storia, infatti un giorno risolse una disputa di bellezza tra Teti e Medea, decidendo a favore di Teti. Medea, irritata maledisse il suo popolo e condannò i cretesi a non dire la verità da cui nacque il proverbio sui cretesi.Esso inoltre aspirò la mano della bella Elena e soffrì molto quando fu destinata a Menelao. Si diceva anche che Idomeneo fosse bellissimo. Le file greche si raccolsero sulla spiaggia d’ Aulide, quando alcuni ambasciatori cretesi accorsero per annunciare che il loro re avrebbe guidato cento navi a Troia se Agamennone avesse acconsentito a condividere con lui il supremo comando della spedizione. Il re accettò e Idomeneo partecipò con

ottanta navi alla guerra di Troia, uccidendo Asio, Otrioneo, Alcatoo, Enomao, Erimante e Festo. Di-fese le navi e salì sul cavallo di Troia.Ci sono svariate tradizioni su cosa fece Idomeneo dopo la guerra ma la più diffusa è quella che trovò il trono usurpato da un uomo con cui sua moglie ebbe una relazione. Partì in Italia e si stabilì in Ca-labria cioè il nome antico del Salento dove fondò una città. Una variante afferma che fu cacciato dai cretesi.Inoltre Idomeneo per conquistare Lupiae dopo molte prove fallite chiamò un esercito, tuttavia al porto trovò Euippa diventata regina ed egli si sposò con il re cretese. Si può dire anche che Eu-ippa in lingua greca significa Bella Cavalla inoltre lei era sempre guardata a causa della sua bellezza.

Samuele Faggiano Salvatore Lipari

Michelle Faggiano

Ecco la storia di un re guerriero , di un personaggio mitologico ,di suo figlio e di porta Rudiae

I mitici fondatori di Lupiae con i loro busti su una delle porte Leccesi : Porta Rudiae

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Le passioni romane nella bella LecceANFITEATRO ROMANO L’anfiteatro romano, insieme al teatro, è il monumento più espressivo dell’im-portanza raggiunta da Lupiae, l’antena-ta romana di Lecce, tra il I e il II secolo d.C.La datazione del monumento è ancora oggetto di discussione e oscilla tra l’età augustea e quella traiano-adrianea.Il monumento venne scoperto durante i lavori di costruzione del palazzo della Banca d’Italia, effettuati nei primi anni del ‘900. Le operazioni di scavo per riportare alla luce i resti dell’anfiteatro iniziarono quasi subito, grazie alla vo-lontà dell’archeologo salentino Cosimo De Giorgi e si protrassero sino al 1940.Attualmente è possibile ammirare solo un terzo dell’intera struttura, in quanto il resto rimane ancora nascosto nel sot-tosuolo di piazza Sant’Oronzo dove si ergono alcuni edifici e la chiesa di San-ta Maria della Grazia. L’anfiteatro pote-va contenere circa 25.000 spettatori.Del monumento, realizzato in parte direttamente nella roccia e in parte

costruito su arcate in opera quadrata, rimangono allo scoperto, oltre ad una parte dell’arena ellittica, intorno alla quale si sviluppano le gradinate dell’or-dine inferiore, due corridoi anulari, uno che corre sotto le gradinate, l’altro, esterno, porticato, cui appartengono i numerosi e robusti pilastri, sui quali era imposto l’ordine superiore scandito, al pari di altri similari monumenti, dal Co-losseo all’Arena di Verona, in una galle-ria di fornici.L’arena, nella quale si tengono spetta-coli teatrali e rappresentazioni sceniche di autori antichi e moderni, era divisa dalla cavea da un alto muro che era or-nato da un parapetto (podium) adorno di rilievi marmorei a bauletto figuranti scene di combattimento tra uomini ed animali. Anche nel muro di divisione tra l’arena e la cavea si aprivano diversi passaggi di comunicazione col corrido-io centrale ed un più angusto corridoio, scavato immediatamente dietro l’arena, era adibito ai servizi del monumento.

ANFITEATRO,TEATRO,TERME ROMANE

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Le passioni romane nella bella Lecce

LE TERMELe terme sono da datare in età augustea e rappresen-terebbero la distrazione della popolazione del I secolo. La struttura si estenderebbe per oltre 3000 metri quadri e sono collocabili tra teatro romano e anfiteatro; alla luce è stata riportata solo una zona, ovvero il ‘Calida-rium’ (la zona calda). Le terme sono state abbandonate a sé stesse, e quindi lasciate intatte, per molti anni, finchè non arrivarono in città i Normanni, i quali hanno preso per le loro costruzioni pezzi di pietra appartenen-ti alla struttura termale.Tutte le terme si trovano sotto la Chiesa di Santa Chiara e sotto la Banca d’Italia.

TEATRO ROMANOFu scoperto nel 1929. È di età augustea ed è costituito da una cavea del diametro di 19 metri, divisa in sei se-zioni da scalette disposte a raggiera.L’orchestra è pavimentata in pietra ed è divisa dalla cavea da un parapetto in pietra e dalla scena da un ca-nale. Si presume contenesse 5.000 spettatori.Le dodici gradinate, un tempo platea, sono divise da scalette radiali e la base a grandi lastroni di pietra, è contornata da tre grandi gradini che probabilmente fungevano da posti riservati alle autorità del tempo.Alcune sculture marmoree ritrovate durante gli scavi, sono ora custodite presso il Museo Provinciale della città.

Alice Buscicchio Sara Lucia Corrado Valeria Ciminiello

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S. Irene Patrona di LecceAl tempo di san Costantino il Grande,la leggenda racconta che il re Licinio della provincia di Mage-done (Persia) aveva una bellissima figlia chiamata Penelope. Per proteggerla da tutte le corruzioni del mondo esterno, all’età di sei anni la rinchiuse in una torre alta e inaccessibile nella quale aveva ogni genere di comodità. Era servita a tavola da tredici inservienti ed era istruita da un saggio anziano di nome Apelliano. Un giorno, la bambina vide entrare nella torre una colomba che portava nel suo becco un ramoscello d’ulivo che posò su un tavolo d’oro. Poi venne un’aquila che aveva nei suoi artigli una corona di fiori che posò nello stesso posto. Infine, arrivò un corvo che portava un serpente e lo pose sempre lì. Quando Penelope chiese al suo ma-estro il significato di queste cose, egli spiegò che essa doveva ricevere il Battesimo, simboleggiato dal ramoscello d’ulivo, e che, dopo aver affrontato prove e tribolazioni, avrebbe indossato la corona regale del martirio.Subito dopo questa visione, un angelo venne a educarla nella Fede Cristiana e le diede il nome di Irene (Pace).Dopo essere stata battezzata, Irene buttò gli idoli del padre e affrontò le sue minacce con risolutezza virile. Licinio la gettò furiosamente in mezzo ai cani selvatici, ma uno di loro si rivoltò contro il re e lo schiacciò. Riportato in vita grazie alle pre-ghiere della figlia, Licinio si convertì insieme a un gran numero di suoi sudditi; e dopo aver abdicato si ritirò nella torre, dove trascorse il resto dei suoi giorni in lacrime di pentimento. Sedecia, il suo successore al trono, cercò di ripor-tare la principessa all’idolatria e, di fronte al suo ri-fiuto ostinato, la gettò in una fossa piena di serpenti velenosi. Con la potenza di Dio, Irene si salvò da questa prova così come dalle altre che le furono in-flitte, e convertì molti pagani alla vera Fede. Quando Sedecia fu detronizzato dai suoi nemici, suo figlio Savoro andò in guerra per vendicarlo.

Irene andò nella città natale di Magedone per in-contrare Savoro e il suo esercito, e chiedergli di mettere fine alle persecuzioni. Il re si rifiutò, così, insieme al suo esercito fu colpito dalla cecità, ma per le preghiere della santa riottennero tutti la vista. Ciò nonostante, Savoro si rifiutò di riconoscere il potere di Dio ed espose la santa ad altre torture; per questa sua insolenza fu colpito e ucciso da un fulmine.Liberata, così, dal re, Irene attraversò tutta la città proclamando la Buona Novella, e conducendo a Cristo la maggioranza degli abitanti. Si recò, poi, nella città di Calliniko, dove, avendo trionfato sul-le torture che le furono inflitte, condusse alla Fede tutti gli abitanti incluso il prefetto incaricato dal re di torturarla. La fama della santa raggiunse il re Sapore II di Per-sia che la convocò e la decapitò. Un angelo, però, la riportò in vita cosicché potesse continuare la sua missione. Andò quindi nella città di Mesembria, recando in mano un ramoscel-lo d’ulivo come simbolo di vittoria della Fede sopra tutti i poteri della morte. Dopo aver battezzato il re della regione e i suoi sudditi, ritornò nella sua madrepatria e poi andò a Efeso, dove, per confermare la sua predicazione operò molti miraco-li, simili a quelli degli Apostoli. Avendo completato la sua opera missionaria, sant’Irene prese con sé il suo maestro Apelliano e sei discepoli; e andando in una tomba appena costruita, ordinò loro di chiuderla dentro e di ritorna-re dopo quattro giorni. Due giorni più tardi, Apelliano ritornò alla tomba, tol-se via la pietra e trovò la tomba vuota. Dio aveva glorificato la sua serva che lo aveva amato e aveva dedicato tutta la sua vita nel servirlo. Sebbene molti di questi miracoli possano sembrare irrea-

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li, nulla è impossibile a Dio. Sant’Irene, attraverso la sua predicazione e il suo esempio, condusse migliaia di persone a Cristo. La Chiesa continua a onorare la sua me-moria e a invocare la sua celeste intercessione. Sant’Irene fu protettrice della città di Lecce fino al 1656, anno in cui fu proclamato patrono della città: sant’Oronzo vescovo. Tuttavia, rimangono in città numerose testimonianze, piccole e grandi, di que-sta antichissima devozione, oggi, purtroppo, quasi del tutto dimenticata. Una di esse è la chiesa a Lei intitolata, nel cuore della città, risalente ai secoli XVI-XVII. La nostra comunità Ortodossa di Lecce del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, (in via Ascanio Grandi 3 nei pressi di piazzetta santa Chia-ra) continua a venerare la Santa come protettrice di Lecce.

Giorgio Rizzo e Sara Palano

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Oronzo, Fortunato e Giusto

Quando nasce Sant’Oronzo si chiamava Publio ed era un nobile Leccese pagano. Si racconta che insieme al nipote Fortunato (venerato come Santo Martire della Chiesa Cattolica) si trovassero al molo di Adriano cioè in località di San Cataldo, quando incontrano San Giusto, discepolo di San Paolo, giunto sulle nostre coste per andare a Roma e portare una lettera di San Paolo alla comunità cristiana Romana.Da questo incontro Publio e Fortunato si convertono al cristia-nesimo e chiedono di essere battezzati, Publio cambia il suo nome in Oronzo che vuol dire Risorto, per indicare il suo cam-

biamento di Vita.Oronzo e Fortunato andarono a Corinto, dove furono accolti da San Paolo, che nominò Oronzo Vescovo di Lecce e il nipote Fortunato suo successore.Tornati in Italia, perché Cristiani, (sappiamo che nell’impero romano i cristiani furono ferocemente perse-guitati) vennero arrestati e condotti a

LA STORIA DEI NOSTRI SANTI PATRONI

tre chilometri da Lecce (dove attualmente sorge una Chiesa denominata dai Lecce-si “LA CAPU TE SANTURINZU” oppure SANTU RONZU TE FORE), il 26 Agosto, per essere decapitati.

Ludovica Ingrosso

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La colonna di Sant’Oronzo, alta circa 29 metri, è situata in piazza Sant’Oronzo a Lecce.Sulla sommità ospita la statua del patrono eseguita a Venezia nel 1739.La colonna venne eretta in segno di gratitudine a Sant’Oronzo, a cui la città attribuì la sua preservazione dalla peste diffusasi nel 1656 nel Regno di Napoli.Il monumento venne realizzato utilizzando i rocchi crollati dello stelo mar-moreo di una delle due colonne romane che erano poste al termine della via Appia a Brindisi.I lavori furono guidati dall’architetto leccese Giuseppe Zimbalo, il quale co-struì il basamento in pietra animato da balaustre e statue e rastremò i rocchi i quali risultavano scheggiati a causa del crollo.Anche il capitello adoperato fu quello dell’antica colonna romana, sul qua-le venne posizionata una statua in legno veneziano ricoperta di rame, di Sant’Oronzo, raffigurato in abiti vescovili nell’atto di benedire la città. Durante i festeggiamenti del Santo nell’agosto del1737, un razzo colpì e bru-ciò la statua che venne totalmente rifatta; la nuova effigie di S. Oronzo fu fusa in bronzo (sempre a Venezia) e riprese definitivamente il suo posto nel 1739.

Francesco Capone

La colonna di Sant’Oronzo

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Il barocco leccese si è sviluppato soprattutto a Lecce e nel resto del Salento tra la fine del XVI secolo e la prima metà del XVIII secolo. Lo stile spagnolo si diffuse nel Salento dalla metà del Seicento grazie agli archi-tetti locali come Giuseppe Zimbalo e Giuseppe Cino.Con la battaglia di Lepanto, fu allontanata la minaccia da parte dei turchi e questa corrente artistica si diffuse in tutta la provincia grazie alla pietra leccese , che per le sue caratteristiche era particolarmente indicata alla lavorazione con lo scalpello.Alla fine del Cinquecento la città era rappresentata solo dal Castello Carlo V; successivamente si arricchì di numerosi altri edifici religiosi e monumenti su ispirazione del vescovo Luigi Pappacoda. Inizialmente i fregi e gli stemmi barocchi erano presenti solo sugli edifici sacri e nobili, in seguito anche sulle semplici case private. Tra gli architetti che costruirono questi capolavori, si ricordano Giuseppe Zimbalo, Giuseppe Cino, Francesco Antonio Zimbalo e Gustavo Zimbalo. Le maggiori opere del barocco leccese sono la basilica di Santa Croce, Palazzo del Governo, piazza Duo-mo su cui si affacciano il Duomo e il Seminario, le chiese di Sant’Irene, Santa Chiara, San Matteo, del Carmine, di San Gio-vanni Battista, la chiesa del Gesù e la chiesa delle Alcantarine.

Sara Refolo

Il Barocco leccese e la sua maestosità

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GennaioIl 19 Gennaio 1833, intorno alle 5 del mattino, una vio-lenta scossa di terremoto, preceduta da una burrasca atmosferica, colpì il Salento, provocando diversi crolli e panico generale tra le popolazioni. Il paese di Vernole fu una delle zone in cui il fenomeno si avvertì con maggiore intensità, ed i suoi abitanti proclamarono a questo pro-posito diversi riti religiosi, per ringraziare la Protettrice Sant’Anna dello scampato pericolo.

FebbraioIl 18 Febbraio 1567,una donna di nome Laura Macchia,-malata ed inferma da 50 anni,si fece accompagnare in braccio ai piedi dell’immagine di Maria SS. della Porta,-dove venne miracolosamente guarita,tornando così a casa tra la commozione generale di concittadini e fedeli. La chiesa,dedicata a S. Maria della Porta e maggiormen-te nota come di S. Luigi,si trova nel centro storico di Lecce,in via Palmieri.

MarzoEsattamente un secolo fa, Domenica 15 Marzo 1908, mentre a Torino si festeggiava il decennale della FIGC, nasceva ufficialmente il calcio in città: il primo nome della società polisportiva era Sporting Club Lecce, la maglia rosso-nera con una stella bianca, il presidente Marangi (cui poi verrà intitolata una casa di riposo per anziani), la sede sociale all’angolo tra viale Lo Re e via Brunetti, il campo di gioco in viale Brindisi...

AprileIl 17 Aprile 2003,il trentunenne torinese Gianluca Rat-ta arrivò a Porto Cesareo, dove ha festeggiato i primi 15mila km percorsi a piedi,attraversando l’Italia. Il mara-toneta,in compagnia del suo fedele cane Shira, insegui-va il grande sogno di entrare nel prestigioso Guinness dei primati per la più lunga traversata d’Europa a piedi. Era in cammino da quasi 400 giorni, con l’obbiettivo di arrivare a Londra nel 2013...

Maggio10 anni fa, Mercoledì 27 Maggio 1998, venne distri-buito il numero 0 di “Salento in Tasca” a 24 pagine, nato da un’idea del direttore Nicola Ricci e dell’al-lora editore Luca Martano. Il giornale, dal 2001 cu-rato dall’agenzia di comunicazione e servizi Avanti Salento!, rappresenta oggi un utile vademecum, per conoscere e vivere ogni settimana la nostra Terra, con tutte le sue inimitabili attrazioni e gli imperdibili appuntamenti...

GiugnoAlle 18.17 di Domenica 16 Giugno 1985,il Lecce en-trò per la prima volta nella sua storia nella serie A del campionato di calcio. Nell’ultima gara della sta-gione,giocata a Monza,i giallorossi conquistarono la promozione pareggiando 1 a 1(gol di Alberto Di Chiara) e piazzandosi, a quota 50 punti, al 1° posto col Pisa. Il presidente era Franco Jurlano, l’allena-tore Eugenio Fascetti. In campo 3 salentini: Levan-to, Luperto e Rizzo.

LuglioIl 19 Luglio 2002, a Porto Cesareo, venne inaugu-rata una statua, dedicata alla moglie del pescatore, con le sembianze di Manuela Arcuri, invitata per l’occasione insieme a Gianni Ippoliti, che devolse in beneficenza il ricavato del dente gel giudizio dell’at-trice. il monumento, in pietra leccese, era opera dello scultore copertinese Salvatino De Matteis e voleva essere un omaggio alla bellezza e prosperità delle donne locali.

Agosto Lunedì 24 Agosto 1998, in piazza San Giorgio,a Melpignano, si svolse la prima edizione de”La Not-te della Taranta”. Il concerto fu dedicato al cantore Uccio Bandello,storico componente degli Ucci,-scomparso l’anno prima. Ad aprirlo un bambino di

Curiosità dalla storia ...accadde nel

Salento...

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7 anni,Flavio Durante, con il tamburello. Maestro con-certatore e direttore della serata, preceduta da accesi dibattiti e confronti tra tradizionalisti e contaminatori, era Daniele Sepe.

SettembreIl 17 e 18 Settembre 1994, Lecce ed il Salento accolse-ro il sommo pontefice Giovanni Paolo II. Era un Saba-to pomeriggio, quando i salentini radunati al Duomo il Papa rivolse un accorato ed indimenticabile saluto: “Che bello vedere questa architettura, questa chiesa...Vi voglio bene , un gran bene a tutti i leccesi, soprat-tutto ai giovani. Ma non solo a loro: voglio un gran bene agli ammalati, agli anziani, ai bambini, a tutti...”

Ottobre Il 29 Ottobre 1928, nasceva a Melendugno Rina Du-rante, figura carismatica della cultura e della lettura meridionale della seconda metà ‘900. Nel 1964, con il romanzo “La malapianta”, vinse il Premio Salento, a cui seguirono varie pubblicazioni. Fondatrice del Can-zoniere grecanico salentino, ha contribuito alla risco-perta degli studi sul Tarantismo e sulle più importanti e significative storie e tradizioni del Salento.

NovembreIl 4 Novembre 1758, venne inaugurato, a Lecce, il “Te-atro nuovo”, meglio conosciuto come Teatro Paisiello, noto musicista, nato a Taranto 1741 e morto a Napoli nel 1816. Fu costruito in poco meno di due mesi, con l’esigenza di dare alla città un luogo adatto alle cre-scenti attività culturali e artistiche. Nel 1867, fu donato al Comune, che lo ricostruì e restaurò, in varie fasi, sino a farlo diventare il piccolo gioiello di oggi.

DicembreFu un triste Lunedì,quello del 5 Dicembre 1983,quando Lecce porse l’ultimo saluto nella chiesa di S. Antonio a Fulgenzio a Michele Lorusso e Ciro Pezzella, calciatori giallorossi scomparsi tre giorni prima,in un inciden-te stradale nei pressi di Mola,c mentre si recavano in auto alla stazione ferroviaria di Bari, timorosi di prendere l’aereo. Oltre diecimila persone e tifosi testi-moniarono il loro affetto,ancora oggi vivo nei cuori di molti...

Sara Refolo ed Elisa Paglialonga

L’impiegatu

Tenimu ‘ntra all’ Italia l’ impiegati,ddha gente sempre china te allegria,tenimu ‘ntra ‘ll’ uffici sfaticati;‘sta pinna comu ha fare cu li scria?Te fannu la presenza ogne matinaA retu ‘lli sportelli, carte e carte…Ma cu ‘na strafuttenza sopraffinale pigghianu e le mintenu te parte.‘Na fila te cristiani fore ‘spetta,ma ci è ca ni lu tae ‘nu chiarimentu?Pueru ‘ mpigatu… legge la gazzetta,e tutti manda, addhai, beddhu cuntentu.Quandu, poi, lu giurnale s’ha spurpatu,se uarda l’orologiu: <<Che ora è>>.Se ‘ntisa te ddha seggia ‘nu café.Passata c’ ae già metà sciurnata,telefona cu saccia ce ha mangiare;se face cu l’ amicu ‘na parlatasu quistu e quiddhu, ncigna lu tagghiare … Lu giurnu cussì passa, nah fatia !Te st’ impiegatu veru discraziatu;nu se ppulizza mancu scrivania e bae tecendu :<<Quantu haggiu fatiatu!>>.E a fine mese face lu scuntentu:<<Mannaggia haggiu pigghiata ‘na miseria>>Se ssetta e penza .<<Uarda ce mumentu,qu campi osce è ‘na cosa seria.Ci uei cu fazzu chianu l’ inventariute tutte ddhe cartacce te acrchiviare,tocca ne pachi lu straordinariu,senò, governu latru, stau a russare>>.

Le poesie “te li mestieri...”

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Lu ecchiu fornaroLu furnaru era dru nunnu Ca facìa lu mestieri Cchiu utile allu mundu:“lu biancu panettieri”.Se ntesava alla matina Prima ncora alla matina Prima ‘ncara te sule,‘mpastava acqua e farina e le mantìa a lievitare.Filonii,”pane comune Poi nfrumentava,e pagnotte,e lì cucìa ìntra llu furnuquando ìa passata la notte.Cussì, la prima ‘nfurnataProfumava pè tutta la curteAddù tenìa la putea;e se passai te ddra parte ‘nfrezzulatu e puru a ddesciunu,tie te ‘mbriacai te dra ndore,e, mentre la respirai,te se aprìa stomacu e core.……………………………………Quasi tutti li furnari te osce Fatìanu industrialmente,ma, cussì, lu oane nù bbete,moi cchiui, comu, era,fragrante.E puru quando ete friscu,alla sira ciungomma ha ddentatue,se largusia,poi l’à ccuetu,già puscrai l’à truatu ‘mmuffatu!Se sarvanu le freseddre sule,ca ‘nsieme alli prumitori,condite cu ll’ oggi e lu saletanu gustu a periedddri e signori.

Le modestie

Tra le recuerdi te quandu era strianci nd ‘ete unu ca ete propriu chiaru:-Quandu pè mancu cù la mamma miaTrasìa ntru a nnu locale mutu caru.-All’angulu te la manu mancina,intru alla ecchia via te li Scarpari,nc’era nna porta te ingressu e nna vetrinachina te li cappieddri li cchiù rari.Baschi cù llù feltru ammorbiditu,sfiziose “cloches” e semplici calotte,“tocchi” cu nnu mazzettu strafiurinu,oppure a falde larghe le pagliette.Cù quarchè scalune se salìa,a ddù l’estru cù lle manu d’oruficera rande la <<Modisteria>>te le De Blasi,ca eranu ddo soru.Le pròe, fissate cù puntualità,durànu ogne sira fèna alle ottu,pè le mugghi signure de cittàca addrai se trattenìanu usu salottu.Allu passatu, fenca l’anni trenta,pè fare cumpleta na tulettala fimmena ca ulìa bbessa elecantepurtava lu cappieddru e la veletta.Moi nùsse nde usa quasi nuddru,ma, cu eleganza picca originale,se porta sulu qualche coppulieddrususu la capu, a furma te…orinale.

Lu scupastrate

E scupa, scupa pe lle strate, pòrtande carte, terra e rrumasugghie…scupa le sigarette muzzecate ,mustici, scorze e rèculli cu mpùgghie.E quandu jèu sta dòrmu, tie ccumiènzicu scupi pe lle strate de sta gente,e scupi, e te macèddi e mutu pienzia quacche cosa ca te rusce a mente.Ma pòi nci canti e fischi, amicu miu,e tie pulizzi a ddu nci llurdu jèu,ma si’ cujètu,ca te jùta Ddiu, quandu te isciu a tie, è nnu giurnu nèu.

Francesco De Giovanni

Le poesie “te li mestieri...”

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Ci unu nu’mbole,li ddoi nu’ sse attenu.(se uno non vuole,i due non si picchiano).

Basta il buon senso di chi nonVuole far scaturire botte o litigi a Schivare tutte le provocazioni.

Ci se spìeca la matina,rrimane Francu la sira.(Chi si spiega la mattina,rimane franco la sera).

Chiarire ogni situazione sin dall’ inizioÈ il modo migliore per liberarsi da qualunque re-sponsabilità

Li parienti su’ comu le scarpe noe: cchiù su’ stritte, cchiù male te fannu.(I parenti sono come le scarpe nuove: più sono strette, più male ti fanno.)

Può accadere che proprio le persone più vicine si rivelino scorrette e finiscano, addirittura, per creare problemi

A cauce de ciucciu nu’ dare risposta.A cauce de ciucciu nu’ dare risposta.(a calci di asino non dare risposta)

Le parole offensive pronunciate daPersone poco intelligenti non meritanoAttenzione.

Lu matrimoniu?Ci la mmeste ae ngalera a vita, figurateci la sbaglia! (il matrimonio? Chi lo indovina va in prigione a vita, figurati chi lo sbaglia!)

Sposarsi implica, spesso, rinunce e cambiamenti nella migliore delle ipotesi.Se poi la scelta si rivela sbagliata, leconseguenze sono gravi…

Lu mugghiu cuocu ete l’appetitu.(il miglior cuoco è l’ appetito) Quando si ha fame, qualunque cibo risulta gradito.

Quiddhru ca llassi è persu!(quello che lasci è perduto!)

Le occasioni vanno afferrate al volo,senza indugio alcuno,perché non sempre, nella vita,si possono riproporre…

La pagghia ‘nnanti lu fuecu se ‘mpigghia.(La paglia vicino al fuoco brucia).

Se i desideri vengono tentati,allora resistere diventa impossibile.

Lu purpu se coce cu l’acqua soa stessa(il polpo si cuoce con l’acqua sua stessa)

Chi vive in modo disonesto e privo di valoritroverà nel corso del tempo il caro conto di un’esistenza scellerata.

per ridere un pò!!

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Ci cade e poi se ausa, nu’sse sente mai cadutu.(chi cade e poi si alza non si sente mai caduto).

Quando si ha la forza per superare le difficoltà, queste stesse sembrano che neppure siano venute e vengono lasciate alle spalle.

Tre cose nu’sse mprestanu mai: libri, sordi e mugghiere.(Tre cose non si prestano mai: libri, denaro e moglie).

In tutti e tre i casi,c’è il serio rischio di perdere ciò che si è lasciato uscire o di riaverlo in misu-ra diversa, purtroppo sempre negativa…

Ogne mesciu scarcìscia de l’ arte soa (Ogni maestro scarseggia del propria arte ).

Spesso l’ artigiano è così occupato a soddisfa-re le richieste di lavoro ,da non trovare il tempo per le esigenze propie.

Ci llassa la strada ecchia pe’ lla noa ,sape cce llassa e nu’ sape cce ttroa… (Chi lascia la strada vecchia per la nuova,sa quel che lascia e non quel che trova…)

Non è necessariamente giusto un cambia-mento, anzi a volte si rivela poco saggio ed inopportuno.

Se sì ‘ncudine statte, se sì Martieddhru bbatti.(se sei incudine statti,se sei Martello sbatti).

Ognuno è tenuto a rispettare il suo Ruolo, sensa cercare di fare cose Che non appartengano alle proprieCompetenze o possibilità…

Ci ole bbiscia lu mbriacu veru,subbra lu duce se bbie lu mieru.(se si vuole vedere il vero ubriacoÈ chi sul dolce beve il vino)

Il dolce è normalmente l’ultimo piatto a Tavola, chi continua a bere preferisceMantenere in bocca il gusto dell’alcool…

Se la mugghere hae tertu tocca allu maritu cu cer-ca scusa ( se la moglie ha torto , tocca al marito chiedere scusa ).

A volte , anche se si ha ragione , è più saggio fare il primo passo per riappacificarsi,con buona pace di tutti.

Ci tene sordi batte le carte.(chi ha soldi batte le carte).

Il denaro consente il potere delleDecisioni e, sovente, chi lo ha fa il Bello e cattivo tempo…

Quandu sì fessa, statte a casa toa (quando sei fesso, rimani a casa tua)

Se le capacità sono assai limitate, è meglio non cercare gloria edavventure del proprio ambiente.

Alessandro Martini e Aurora De Rinaldis

per ridere un pò!!

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La rivista “Salento, che meraviglia!” è stata realizzata dalle classi V A, B e C dell’Istituto Comprensivo “P. Stomeo - G. Zimbalo” - Lecce

grazie al progetto “Good News”, della dott.ssa Simona Greco.

Anno scolastico 2014/2015Pubblicato on line in giugno 2015

Progetto grafico e impaginazione: Simona GrecoIllustrazioni: bambini classi VA, B e C

Gli articoli sono stati tutti elaborati dai bambini.

Editing: Insegnanti Anita Arcella, Anna De Martino, Paola Rizzo

mail: [email protected]

Non commerciale Licenza Digital Online Commons

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Salentoche meraviglia !Piccoli giornalisti in azione