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Salvo Mastellone. Storia della democrazia in Europa. Dal XVIII al XX secolo. Premessa. Il testo è stato scritto per affermare che la democrazia in Europa è un fatto politico a cui non ci si può opporre; in quanto mira a stabilire migliori rapporti sociali tra «politici» e «cittadini», tra «benestanti» e «disagiati»; nella società democratica gli uni e gli altri dovrebbero vivere civilmente, quindi, non comportamenti di subordinazione, ma comportamenti di comprensione, in quanto i cittadini, come sosteneva Mazzini, hanno eguaglianza di diritti e doveri. Introduzione . Due secoli di democrazia. Il dibattito sulla democrazia è più vivo che mai, non solo in Italia, ma anche nei paesi in cui essa è più antica, in quelli in cui non esiste o dove è stata soffocata. Il testo parla di due secoli di democrazia in Europa in cui le opere sono esaminate in modo cronologico dal 1748 con Montesquieu al 1945 con Kelsen, fondatore della teoria pura del diritto. La democratizzazione è la condizione necessaria per l’instaurazione di una pace stabile. I politologi hanno dato la preferenza all’analisi comparativa dei vari sistemi democratici esistenti oggi nel mondo, soprattutto tra quella degli antichi e quella dei moderni, a scapito dell’analisi storica. Il testo riguarda esclusivamente la democrazia moderna. Comincia con Montesquieu, il cui concetto di democrazia peraltro, nonostante l’importanza che esso ha avuto nell’ispirare tanto i rivoluzionari americani quanto quelli francesi, è ancora costruito sul modello della democrazia degli antichi, i cui esempi storici principali sono Atene e Roma. Ammiratore della repubblica romana, attribuiva alla virtù il principale ispiratore della repubblica democratica. Una certa confusione si era creata tra il concetto di democrazia e repubblica. La democrazia antica, intesa unicamente come democrazia diretta, era stata adatta ai piccoli stati, alle città-stato, come appunto Atene. Montesquieu disse che le democrazie, in quanto realizzabili nei piccoli stati, erano in pericolo poiché potevano essere travolte dai grandi stati confinanti e sulla base di ciò elogia l’istituto della confederazione delle città e delle province perché serve a coniugare il beneficio del governo popolare all’interno con quello della sicurezza, propria dei grandi stati, all’esterno. Derathé sostenne, ingiustamente, che Montesquieu ignorasse completamente la democrazia rappresentativa. Mastellone mette in evidenza 1

Salvo Mastellone - Storia Della Democrazia in Europa Doc

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Salvo Mastellone.Storia della democrazia in Europa.

Dal XVIII al XX secolo.

Premessa.

Il testo è stato scritto per affermare che la democrazia in Europa è un fatto politico a cui non ci si può opporre; in quanto mira a stabilire migliori rapporti sociali tra «politici» e «cittadini», tra «benestanti» e «disagiati»; nella società democratica gli uni e gli altri dovrebbero vivere civilmente, quindi, non comportamenti di subordinazione, ma comportamenti di comprensione, in quanto i cittadini, come sosteneva Mazzini, hanno eguaglianza di diritti e doveri.

Introduzione. Due secoli di democrazia.

Il dibattito sulla democrazia è più vivo che mai, non solo in Italia, ma anche nei paesi in cui essa è più antica, in quelli in cui non esiste o dove è stata soffocata. Il testo parla di due secoli di democrazia in Europa in cui le opere sono esaminate in modo cronologico dal 1748 con Montesquieu al 1945 con Kelsen, fondatore della teoria pura del diritto.

La democratizzazione è la condizione necessaria per l’instaurazione di una pace stabile. I politologi hanno dato la preferenza all’analisi comparativa dei vari sistemi democratici esistenti oggi nel mondo, soprattutto tra quella degli antichi e quella dei moderni, a scapito dell’analisi storica. Il testo riguarda esclusivamente la democrazia moderna. Comincia con Montesquieu, il cui concetto di democrazia peraltro, nonostante l’importanza che esso ha avuto nell’ispirare tanto i rivoluzionari americani quanto quelli francesi, è ancora costruito sul modello della democrazia degli antichi, i cui esempi storici principali sono Atene e Roma. Ammiratore della repubblica romana, attribuiva alla virtù il principale ispiratore della repubblica democratica. Una certa confusione si era creata tra il concetto di democrazia e repubblica. La democrazia antica, intesa unicamente come democrazia diretta, era stata adatta ai piccoli stati, alle città-stato, come appunto Atene. Montesquieu disse che le democrazie, in quanto realizzabili nei piccoli stati, erano in pericolo poiché potevano essere travolte dai grandi stati confinanti e sulla base di ciò elogia l’istituto della confederazione delle città e delle province perché serve a coniugare il beneficio del governo popolare all’interno con quello della sicurezza, propria dei grandi stati, all’esterno.

Derathé sostenne, ingiustamente, che Montesquieu ignorasse completamente la democrazia rappresentativa. Mastellone mette in evidenza due massime; nella prima sottolinea la priorità del potere popolare su quello dei rappresentanti, che interviene quando il primo non viene esercitato, mentre nelle democrazie rappresentative moderne accade il contrario; l’altra è relativa al rapporto fra democrazia diretta e democrazia rappresentativa dove afferma: «Il popolo sceglie in maniera ammirevole coloro cui deve affidare parte della propria autorità». Il primo grande testo che esprime le buone ragioni della democrazia rappresentativa è il Federalist di Alexander Hamilton.

Come accennato all’inizio, il concetto di democrazia è molto cambiato nei due secoli compresi tra Montesquieu e Kelsen. Sono principalmente tre le differenze principali fra la democrazia moderna al punto di partenza e al suo punto di arrivo. Tra la democrazia dei moderni e quella degli antichi.

La prima differenza riguarda la teoria e la tipologia delle forme di governo, vale a dire la diversa collocazione che la democrazia ha nella classificazione rispettivamente accolta da Montesquieu dove vale la bipartizione monarchia-repubblica, e in quella elaborata da Kelsen dove vale quella autocrazia-democrazia. Per Kelsen autocrazia è l’opposto della democrazia. Nel primo caso, la democrazia con l’aristocrazia sotto il comune concetto di repubblica, e quindi isolando la monarchia, il che vale quanto dire che vi sono repubbliche aristocratiche e repubbliche democratiche, nel secondo caso, abbinando l’aristocrazia con la monarchia sotto il comune concetto di autocrazia, e quindi isolando la democrazia. Per la classificazione Montesquieu usa un criterio che si fonda sul rapporto fra governo di una persona fisica e governo di un’assemblea, o di un corpo collettivo; il criterio di Kelsen, invece, si fonda sulla distinzione fra governo dal basso (o ascendente) e dall’alto (o discendente). Il primo criterio riguarda i soggetti del potere; il secondo criterio riguarda il movimento del potere inteso come forza capace di piegare le volontà.

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La seconda differenza riguarda la stessa forma di governo democratico, com’è intesa dall’uno o dall’altro. Nella democrazia di Montesquieu il popolo fa attraverso i suoi ministri ciò che non può fare egli stesso, cioè egli ha prima di tutto il potere di fare egli stesso e poi quello di autorizzare altri a prendere la decisione al suo posto. Nella democrazia rappresentativa di Kelsen, invece, avviene proprio il contrario; cioè prima vengono i rappresentati, che una volta eletti costituiscono un corpo di decisori indipendente dagli elettori, in base al principio cardine dello stato rappresentativo poi, eventualmente, ma solo in casi eccezionali e limitati, viene la decisione diretta da parte del popolo sotto forma di referendum.Dal punto di vista formale la differenza tra democrazia diretta e indiretta è che la prima si ha in quanto prende origine in un’assemblea, una riunione di individui che stanno simultaneamente nello stesso luogo riuniti per discutere e deliberare; il luogo emblematico della seconda, invece, è la cabina elettorale dove ogni cittadino prende la decisione che gli spetta, da solo, isolato da tutti gli altri. La democrazia diretta è connessa al concetto di popolo come soggetto principale del potere politico: il popolo è un ente collettivo ma non è un corpo unico. Citiamo il detto “una testa un voto”, esempio il giorno delle elezioni. La democrazia rappresentativa, invece, il popolo visto come universitas non c’è più, poiché da un lato c’è il corpo dei rappresentanti, dall’altro, i singoli cittadini. Il popolo è una mera finzione. Ciò non significa che nella società moderna democratica ci siano solo individui. Ci sono anche i gruppi, le società e soprattutto le associazioni, a cui Mastellone dà molta importanza, ed afferma: «Una storia della democrazia in Europa dopo il 1848 deve ripercorrere le vicende delle associazioni nei diversi paesi e interpretarle in chiave politica». In chiave politica perché le associazioni rappresentano la società civile che sottosta al sistema politico democratico.

La terza differenza fra la democrazia moderna al punto di partenza e al suo punto di arrivo è forse quella più significativa. Per contraddistinguere le diverse forme di governo Montesquieu ricorre, com’è ben noto, ad un elemento etico che è la virtù, quale principio delle democrazia per amor di patria e di eguaglianza. Elemento che invece è sparito nel corso dei secoli nella definizione di democrazia. Con Kelsen, e non solo con lui, per democrazia s’intende un insieme di regole, le cosiddette regole del gioco, che permettono di prendere decisioni collettive vincolanti con il massimo consenso e quindi senza bisogno di ricorrere all’uso della forza di una parte contro l’altra.Nell’antichità il valore fondamentale che caratterizza la democrazia è l’eguaglianza. Tutti gli scrittori democratici esaltano lo spirito egualitario, quelli antidemocratici lo condannano. Ma man mano che passano gli anni, però, l’idea motrice della democrazia è sempre meno l’eguaglianza e sempre più la libertà. Difatti man mano che ci si avvicina all’età contemporanea, la contrapposizione fra liberalismo e democrazia tende a scomparire, e il governo democratico diventa come il naturale sviluppo del liberalismo, tanto che si parla di liberal-democratici. - L’ideale dell’eguaglianza, dell’eguaglianza sostanziale al di là di quella puramente giuridica e formale, è stato via via assunto dai movimenti socialisti che si sono opposti tanto al liberalismo quanto alla democrazia, la democrazia sociale, proposta e praticamente guidata dai partiti social-democratici o dei lavoratori, dalla seconda metà del secolo scorso ad oggi. Così è avvenuto che, a partire della seconda metà del secolo scorso, al contrasto tra liberalismo e democrazia si è creato un contrasto tra i difensori della liberal-democrazia da un lato e i socialisti, democratici e non democratici, dall’altro.Nel capitolo trentaduesimo. La polemica contro la democrazia parlamentare: da Lenin a Pareto, si vede che accanto alla critica della democrazia da parte dei conservatori, che continuano a ritenere liberalismo e democrazia antitetici, si è venuta diffondendo una critica non meno aspra da sinistra, da parte degli ideologi della rivoluzione sociale, i quali vedono nel sistema parlamentare anche a suffragio universale una forma di democrazia incompiuta, e che il suo compimento avverrà solo quando l’abbattimento del regime parlamentare aprirà la strada a una democrazia più rappresentativa perché più estesa e più popolare, quale quella dei consigli operai. Tanto nella opposizione di destra quanto in quella di sinistra, il bersaglio è la democrazia liberale, e ciò conferma che democrazia e liberalismo sono diventati un tutt’uno.

La saldatura tra ideali liberali e democratici avviene precipuamente con John Stuart Mill, il quale occupa un posto centrale nella democrazia moderna.Per finire, Mastellone ricorda l’Atene di Pericle come scuola attiva di libertà, ovvero dove vi è sia il rispetto della libertà degli antichi quanto la libertà dei moderni, ovvero il rispetto della libertà privata dei cittadini e non solo di quella pubblica. Un liberale e democratico come Luigi Einaudi, esaltò la «finanza periclea», considerando l’Atene di Pericle come una delle epoche o attimi felici nella storia del mondo. Nella «città periclea» si rispecchiava «l’immagine dell’ottimo stato», cioè «Il rispetto della legge, il governo del consenso, l’amor di patria, l’orgoglio della libertà», così ricongiungendo in nome della libertà la democrazia dei moderni con quella degli antichi.

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Parte primaLa democrazia come governo del popolo con istituzioni rappresentative

(1748-1848).

Capitolo primo. Montesquieu: la democrazia e il governo repubblicano.

L’Esprit des lois di Montesquieu esce nel 1748. L’autore nel primo capitolo afferma che ci sono tre forme di governi: il repubblicano, il monarchico e il dispotico. Il repubblicano è quello nel quale il popolo tutto, o almeno in parte di esso, detiene il potere supremo; il monarchico è quello nel quale uno solo governa, ma secondo leggi fisse e stabilite; nel governo dispotico, invece, uno solo, senza né leggi, né freni, trascina tutto o tutti dietro la sua volontà e i suoi capricci. Nel governo dispotico i poteri non sono divisi. In ogni stato ci sono tre poteri: il potere esecutivo, giudiziario e legislativo; l’individuo per essere libero deve godere della tranquillità e sicurezza perciò i tre poteri citati devono essere divisi l’uno dall’altro.

L’intento politico di Montesquieu è di distinguere il governo monarchico costituzionale dal governo dispotico. Ad esempio, per l’autore, non è dispotico il governo costituzionale inglese, fondato su principi di libertà politica e separazione dei poteri. - Tra le forme di governo che preferisce c’è la monarchia costituzionale, che egli definisce monarchia moderata, però esamina con attenzione la natura del governo repubblicano, sostenendo che in una repubblica se il popolo intero gode del potere supremo, si ha una democrazia; se il popolo supremo si trova nelle mani di una parte del popolo allora si ha una aristocrazia. Venezia è il modello di repubblica aristocratica. Secondo Montesquieu l’aristocrazia migliore è quella dove le famiglie aristocratiche sono affini ala popolo. Nel governo repubblicano democratico il popolo è, sotto certi aspetti, il sovrano, ma grazie alle sue volontà. Il popolo che gode del potere supremo deve fare da solo tutto ciò che può far bene; e ciò che non può far bene deve affidare ai suoi ministri. - Per l’autore modelli di governo repubblicano sono Atene e Roma: in queste città «il popolo sceglie in maniera ammirevole coloro i quali deve affidare parte della propria autorità»; il popolo non solo sa scegliere ma «ha sufficiente capacità per farsi render conto della gestione altrui».

Nel capitolo dedicato al governo repubblicano e alle leggi relative alla democrazia, Montesquieu, dice che un governo di una democrazia non può non essere repubblicano. Precisa che il governo democratico si regge sul principio della «virtù», condizione necessaria per mantenersi e sostenersi, se la repubblica è corrotta, lo Stato è perduto. La «virtù» è «amore delle leggi» che richiede «una continua preferenza dell’interesse pubblico al proprio». In una democrazia l’amore per la repubblica non è altro che l’amore per la democrazia, amore per l’eguaglianza. In una democrazia si deve avere felicità e vantaggi eguali per tutti, nonché eguali piaceri e speranze. Anche se diversi in ogni modo, ogni cittadini deve servire la propria patria.

I politici d’oggi parlano di commercio, manifattura e perfino di lusso, in uno società del genere la virtù, che è il principio del governo repubblicano, viene soffocata. Ne prende il suo posto il desiderio di possedere, l’ambizione e l’avidità di tutti che si diffonde. La repubblica democratica è caratteristica dei piccoli Stati; perché il bene è più apprezzato, è meglio conosciuto e più vicino a ciascun cittadino e sono meno diffusi gli abusi; al contrario, in una grande repubblica ogni uomo cerca di essere felice, grande e glorioso, e gli interessi divengono particolari e di conseguenza vi è poca moderazione negli spiriti.

Nonostante la simpatia per il moderatismo monarchico, Montesquieu giudica possibile una democrazia governata in forma repubblicana, una repubblica, «composta di individui saggi, si governerà saviamente; composta di individui felici, sarà essa pure molto felice». Anche se nella democrazia «l’eguaglianza reale sia l’anima dello Stato», non bisogna applicare l’eguaglianza con estrema rigidità, basta livellare le differenze a un certo livello, poi saranno le leggi a spianare le ineguaglianze mediante pesi da imporre ai ricchi e sgravi da accordare ai poveri.

Per quanto riguarda la repubblica federativa Montesquieu si esprime in questo modo. Sostiene che se una repubblica è piccola, sarà distrutta da una potenza straniera; se è grande, perirà per vizi interni. Una

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repubblica democratica deve evitare la corruzione del principio della democrazia; cioè il principio della democrazia si corrompe non solo quando c’è diseguaglianza, ma anche quando si va avanti l’eguaglianza estrema. Lo spirito di diseguaglianza, che porta al governo aristocratico e lo spirito di eguaglianza estrema, che la conduce al dispotismo di un solo. Montesquieu afferma che si sarebbe vissuto sempre sotto il governo d’un solo se non si sarebbe fatta una costituzione. Si riferisce alla repubblica federativa; una forma di governo dove si può creare un grande Stato formato da tanti piccoli stati. Questa società deve rispettare le norme di ogni governo libero, difende la divisione dei poteri e affida il potere legislativo a rappresentanti eletti dal popolo. La repubblica federativa rende possibile nei tempi moderni la democrazia.La repubblica democratica, se è federativa, può mantenersi nella sua grandezza senza corrompersi all’interno, infatti «se qualche abuso si introduce in una parte della confederazione, viene corretto dalle altre, rimaste sane»; la repubblica federativa gode della bontà del governo democratico interno e possiede, grazie all’associazione, i vantaggi delle grandi monarchie. Ma «lo spirito delle monarchie è la guerra e il desiderio d’ingrandirsi; lo spirito della repubblica è la pace e la moderazione». Una repubblica democratica federativa è ben diversa dalle leghe associative tra le città, poiché in altri tempi le associazione tra città erano necessarie perché una città conquistata perdeva sia il potere esecutivo che legislativo, sia tutte le proprietà individuali. In una moderna federazione formata da Stati repubblicani è possibile realizzare una società democratica con i giudici e i magistrati eletti secondo la proporzione demografica dei suffragi dei singoli Stati.

Nell’Esprit des lois, pur essendo favorevole alla monarchia costituzione di tipo liberale, Montesquieu, prospetta l’ipotesi di un regime repubblicano di tipo democratico fondato sulla virtù, regolato dall’eguaglianza non estrema dove i cittadini devono rispettare i propri rappresentanti e i propri governanti. La repubblica democratica diventa una possibile alternativa governativa in quanto c’è il rapporto tra uomo e governo. Con l’opera di Montesquieu si apre un dibattito tra monarchia assoluta e monarchia costituzionale, e anche il dibattito tra sistema monarchico e sistema repubblicano. Il suo pensiero permette di affrontare in maniera moderna il problema delle forme di governo.

Fa dei giudizi comparativi tra i governi e afferma che i governi dispotici sono contrapposti ai governi liberi; i governi monarchici sono distinti dai governi repubblicani; i governi repubblicani aristocratici sono separati dai governi repubblicani democratici. - Nell’Encyclopédie (1754) si trova la definizione di democrazia data da Montesquieu ed è tratta dall’Esprit des lois: «ogni repubblica dove la sovranità risiede nelle mani del popolo è democrazia, se il potere sovrano si trova in una parte soltanto del popolo è una aristocrazia; la democrazia apre ai cittadini il cammino degli onori e della gloria; per conservare la democrazia è necessaria la virtù, ossia l’amore delle leggi e della patria, l’amore dell’eguaglianza e della frugalità. Il principio della democrazia si corrompe, quando si perde lo spirito d’eguaglianza, ma anche quando prevale l’eguaglianza estrema. Ogni democrazia deve avere delle leggi scritte e degli ordinamenti stabili, anche se il popolo in quanto legislatore può mutare le une e gli altri. Il tema della democrazia è ripreso nella voce «république» della Encyclopédie: quando nella repubblica il popolo «en corps» ha il potere sovrano, c’è la democrazia.

Capitolo secondo. Rousseau: la democrazia e lo stato sociale.

Dopo sei anni della pubblicazione de l’Esprit des lois, nel 1754 Jean Jacques Rousseau redige il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza e lo dedica alla repubblica di Ginevra. Di Ginevra ne esaltava la saggezza dei cittadini in quanto popolo e sovrano hanno il medesimo interesse e ciò sembra corrispondere alle caratteristiche di una repubblica a governo democratico. I cittadini avevano in comune l’amor di patria e hanno per secoli difeso la propria libertà, proprio come avveniva per Roma e Atene. La repubblica di Ginevra è, perciò, paragonabile ai governi democratici delle antiche repubbliche. Il dispotismo ebbe modo di affermarsi nel momento in cui nacque la società civile. Essa ha origine nel momento in cui un uomo disse «Questo è mio». Quando la proprietà fu impianta l’eguaglianza finì e ne scaturirono guerre e conflitti in ogni ambito, politico, economico, sociale, ecc. si raggiunse così il massimo delle ineguaglianza.

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Al Discorso, Voltaire, con spirito ironico, rispose: bisogna allora negare la civiltà e ritornare allo stato di natura? Cosi Rousseau per rispondere a tale affermazione, scrisse e pubblicò, nel 1762, la sua opera più importante,una sorta di trattato sui «princìpi del diritto pubblico»: il Contratto sociale. Diviso in quattro libri.A Rousseau nel Contratto Sociale non interessa il tema della economia politica, ma chiarire in quale forma di Stato si realizza la democrazia, identificata con la volontà del popolo; è la sovranità del popolo che caratterizza lo Stato repubblicano democratico. Se il popolo è libero si ha una repubblica; se il popolo è asservito a uno solo, si ha il dispotismo: con il dispotismo «non c’è bene pubblico né corpo politico».L’alternativa è tra associazione e sottomissione, cioè tra libertà del popolo o il dispotismo sul popolo. Con il contratto sociale ogni associato aliena i suoi diritti a favore di tutta la comunità, importanti che si tratti di eguali.

Nel pensiero di Rousseau fondamentale è il problema dello Stato. Lo Stato serve di base a tutti i diritti; «lo Stato, in rapporto dei suoi membri, è padrone di tutti i loro beni». L’eguaglianza morale è data dalla sovranità dello Stato. [Alla sovranità è dedicato il libro secondo del Contratto sociale.] La sovranità non è che l’esercizio della volontà generale: «Solo la volontà generale può dirigere le forze dello Stato secondo il fine della sua istituzione, che è il bene comune»; se la volontà particolare privata tende per natura al privilegio, la volontà generale tende all’eguaglianza. [In sostanza Rousseau sostiene che la sovranità deve essere nelle mani del popolo, ma distingue nettamente tra sovranità e governo.] Distingue, inoltre, la volontà generale dalla volontà di tutti; la volontà di tutti è la somma di volontà particolari e di interessi diversi di diversi gruppi, mentre la volontà generale «guarda soltanto all’interesse comune», della volontà del popolo che non può che essere unitaria e di conseguenza essa è sempre giusta e «tende sempre all’utilità pubblica» In questa definizione c’è la chiave della differenza tra governo democratico inteso come deliberazione maggioritaria dei cittadini, e Stato democratico inteso come espressione dell’utilità pubblica.

Se il patto sociale dà al corpo politico un potere assoluto, lo Stato non può non avere un carattere sociale. La parola «sociale» merita particolare attenzione perché si contrappone al «privato». Per Rousseau il cittadino è soggetto all’autorità delle leggi; il contratto sociale è un patto sociale che stabilisce l’eguaglianza dei cittadini. Nel Contract l’aggettivo qualificativo «social» assume un preciso valore politico. - Rousseau critica i sostenitori dei diritti del singolo, ossia Grozio e Barbeyrac, Locke e Montesquieu; d’altra parte sviluppa in senso repubblicano il principio della sovranità teorizzato da Bodin in senso monarchico; e chiama repubblica «ogni Stato retto dalle leggi, sotto qualunque forma di amministrazione possa essere; infatti solo allora l’interesse pubblico governa, e la cosa pubblica è qualcosa; ogni governo legittimo è repubblicano»; ma in ogni governo repubblicano «il popolo sottomesso alle leggi» deve essere l’autore delle leggi.

Il libro terzo è dedicato alle forme di governo. Il governo è soltanto «un corpo intermedio» tra sudditi e la sovranità, «incaricato dell’esecuzione delle leggi e della conversazione della libertà, tanto civile come politica»; il governo è «l’esercizio legittimo del potere esecutivo» e governatore è «l’uomo che ha l’incaricato di questa amministrazione». Come detto prima, Rousseau distingue nettamente tra sovranità e governo. [Il governo è incaricato di eseguire e far rispettare la volontà generale, ed è composto da un piccolo gruppo di cittadini, definiti "commissari del popolo". Rousseau si opponeva fortemente all'idea che il popolo potesse esercitare la propria sovranità tramite un'assemblea rappresentativa.]

Rousseau dà una sua definizione della repubblica democratica quando afferma «che i depositari del potere esecutivo non sono i padroni del popolo, ma i suoi funzionari, e il popolo può assumerli e destituirli quando meglio crede». Egli separa in maniera netta la dispotica autorità governativa dalla realtà democratica del contratto sociale: la democrazia per Rousseau è il potere sovrano del popolo. - Lo Stato sociale di Rousseau deve svolgere funzioni economiche combattendo le diseguaglianza patrimoniali imponendo il principio della eguaglianza economica. Lo Stato ha il diritto di intervenire nel settore della rendita e del profitto in modo da avere un’equa ricchezza nazionale tra tutti i cittadini. I diritti politici, essenziali in una democrazia civile, devono essere congiunti con i diritti economici, essenziali in una democrazia sociale.

In conclusione vediamo che nell’Esprit des lois di Montesquieu la democrazia può restare nell’ordine politico governativo; secondo il Contrat Social di Rousseau la democrazia deve coinvolgere il contesto sociale dello Stato. La prima soluzione fa riferimento al rapporto uomo-governo, la seconda al rapporto

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uomo-Stato. La democrazia civile dell’Esprit des lois era diversa dalla democrazia sociale del Contrat Social, e questa differenza fu al centro del dibattito politico dopo il 1762. Ogni presa di posizione, da parte di scrittori politici, risaliva alle opere di Montesquieu o Rousseau.Capitolo terzo. La repubblica democratica americana e le sue istituzioni.

Nel 1763 il parlamento inglese entrava in conflitto con le colonie britanniche dell’America Settentrionale. Tredici anni dopo, nel 1776, il congresso delle colonie si riunisce a Filadelfia adottavano la Dichiarazione d’indipendenza. Nello stesso anno Paine critica il sistema politico inglese con monarca e nobili, e sostiene che secondo lui non è da confondere il governo con la società: la società è la realtà permanente, e l governo dovrebbe essere composto da persone eletto dal corpo generale degli elettori; il governo dovrebbe assicurare «libertà e sicurezza». non c’è buon governo sotto la tirannide monarchica del sovrano o sotto la tirannide aristocratica dei nobili; un buon governo è repubblicano, poiché esso trae il suo potere dal popolo.

La Convenzione americana iniziò i suoi lavori a Filadelfia il 25 maggio 1787 per preparare una costituzione nella quale fosse chiarita la posizione del cittadino americano in quanto membro degli Stati Uniti. Ogni cittadino avrebbe dovuto svolgere le sue attività nelle istituzioni locali, e avrebbe dovuto partecipare alla vita politica del grande Stato. Fu così adottata la soluzione bicamerale con la camera dei rappresentanti e quella dei senatori. Le due Camere insieme costituivano il Congresso.

Un opera molto importante fu «The Federalist» («Federalista»), sono un insieme di articoli scritti da Alexander Hamilton, John Jay e da James Madison. Questi articoli, 85, esprimono le buoni ragioni della democrazia rappresentativa e contiene, appunto la definizione della repubblica democratica quale governo rappresentativo. Secondo gli autori del «Federalista», la costituzione americana accetta l’ordinamento federale dello Stato e, poiché i rappresentanti eletti sono in grado di giudicare quali siano gli interessi generali del paese, respinge il sistema della democrazia a partecipazione diretta perché può dar luogo a contrasti tra fazioni diverse. Con il sistema rappresentativo la repubblica democratica si può estendere su grandi territori che saranno uniti in forma federativa; con un governo federale il cittadino si assicura la sua libertà politica contro l’assolutismo del potere centrale, e resta effettivamente padrone del suo destino. I rappresentanti del popolo riuniti in assemblea possono pensare d’essere il popolo stesso.

Hamilton aveva letto l’Espirt des lois, e da Montesquieu derivava la fiducia nella divisione dei poteri; egli credeva in un governo repubblicano democratico sorretto dal consenso dei cittadini: il popolo deve poter indicare coloro dai quali desidera essere governato; infatti in una repubblica rappresentativa l’esercizio dei poteri è affidato a uomini scelti realmente dal popolo e non in nome del popolo. Secondo Hamilton bisognava realizzare la «repubblica confederata», della quale aveva parlato Montesquieu «come mezzo per ampliare la difesa dei governi popolari».

L’elemento distintivo del sistema americano era il carattere rappresentativo; rappresentanza negli organi locali, rappresentanza nelle istituzioni federali, rappresentanza nelle due camere del Congresso. I Inghilterra la camera eletta era la camera dei commons contrapposta alla camera dei peers; negli Stati Uniti la camera dei deputati venne denominata camera dei rappresentanti per sottolineare il carattere rappresentativo dei deputati: ma i rappresentanti più che rappresentare tutto il popolo americano rappresentavano gli elettori dai quali erano stati eletti, ossia una specifica maggioranza elettorale. Il rappresentante aveva sì, libertà di azione politica, dettata dal fatto di rappresentare coloro che lo avevano scelto, ma ne aveva anche “l’obbligo”.

I lettori europei dell’Esprit des lois videro realizzata nell’ordinamento politico degli Stati Uniti d’America la repubblica democratica federativa teorizzata da Montesquieu. Avendo adottato un governo repubblicano rappresentativo, la società americana aveva evitato il dispotismo, e non aveva prodotto i dissidi e le turbolenze della democrazia diretta. Molti non rimasero insoddisfatti della repubblica e dissero che essa era stata possibile perché negli Stati Uniti non vi era mai stata una tradizione monarchica e aristocratica.Mayer scrisse, richiamandosi a Montesquieu, che negli Stati Uniti era assicurata la libertà di religione, di pensiero e di stampa. Brissot asserì che il suo cuore di francese batteva d’orgoglio nel vedere adottate le teorie di Montesquieu. I democratici lettori del Contract Social di Rousseau, invece, dopo tante speranze

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sollevate dalle vicende americane, non rimasero soddisfatti della costituzione americana del 1787. Diderot pensava, ad esempio che gli americano si stessero dirigendo verso un sistema sociale egualitario, ispirato dalla ragione, in realtà il testo preparato dalla Convenzione di Filadelfia non era un «contatto sociale»; la repubblica americana non poteva essere considerata una democrazia sociale. Capitolo quarto. La rivoluzione democratica francese e le forme di governo.

Nel 1776 furono proclamati nella Dichiarazione americana i diritti inalienabili degli uomini e fu riconosciuto al popolo il diritto di creare un nuovo governo. A questa fase guardavano con invidia gli illuministi francesi, in quanto nello stesso tempo, in Francia la situazione era drammatica. La monarchia non riusciva a risolvere i problemi del paese e così la nobiltà propose la convocazione degli Stati generali, non più riuniti dal 1614: i tre ordini, ossia il clero, nobiltà e terzo stato. Si cercava cioè di dare alla Francia un assetto costituzionale.

Nel giugno 1789 si ebbe la Rivoluzione francese quando i rappresentanti del terzo stato si proclamarono assemblea nazionale per dare alla Francia un costituzione democratica. Il mese dopo, a luglio, l’assemblea nazionale decise di preparare una dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Fu votato ad agosto e nei primi tre articoli della Déclaration des droits de l’homme et du citoyen il testo sembra rispondere all’interrogativo: che cosa è la democrazia? La democrazia è quella forma di governo nella quale gli uomini sono «liberi ed eguali nei diritti» e «le distinzioni sociali sono fondate sull’utilità comune»; i cittadini conservano «i diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo», quali «la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’opposizione»; in un governo democratico il principio di sovranità non risiede nel monarca, ma nella nazione.

Nel 1791 fu votato dall’assemblea costituente il testo costituzionale, nella quale si dice che la Francia era una monarchia costituzionale, i ministri erano responsabili davanti al sovrano ed i cittadini erano divisi in attivi, che avevano diritto di voto, che comunque era la minoranza, e cittadini passivi.

La Déclaration del 1789 fu premessa alla Constitution del 1791; ne derivò, però, un evidente contrasto. La Déclaration si adattava a un ordinamento repubblicano, perché non faceva riferimento né al re né alla monarchia, la Constitution, invece, regolava un sistema politico monarchico. Montesquieu nell’Esprit des lois aveva parlato di governo repubblicano democratico e di governo monarchico costituzionale: la Déclaration del 1789 rispondeva ai postulati di una repubblica democratica, e la Constitution del 1791 alle caratteristiche di un governo monarchico costituzionale. La distinzione tra cittadini «attivi» con diritto di voto e cittadini «passivi» senza diritto di voto, non solo stabiliva una diseguaglianza giuridica, ma assegnava al censo un valore di discriminazione politica.

Nel corso del 1792 vi era molto malcontento da parte delle classi popolari contro il governo che non riusciva a superare le difficoltà economiche. Si parla sempre più di repubblica, definita da Rousseau la forma di governo nella quale domina l’interesse pubblico. L’esempio americano stava a dimostrare che la repubblica poteva ottenere il consenso di tutte le classi. Il popolo occupò Parigi e Luigi XVI fu sospeso delle sue funzioni. La repubblica francese doveva assicurare, come quella americana, al cittadino i diritti naturali; il governo aveva il compito di rispettare l’eguaglianza giuridica dei governati.

A questo punto Condorcet, in nome del comitato costituzionale, presentò un progetto di costituzione. Era un progetto dei girondini, del quale facevano parte Brissot e Thomas Paine, il 15 febbraio 1793. Questo progetto girondino non piacque ai giacobini. In polemica con i girondini federalisti, che guardavano agli Stati Uniti d’America, l’ala giacobina era contraria a dare eccessivo potere alle autorità locali perché i tal modo veniva indebolita la sovranità del potere centrale. - Contro la concezione girondina, Robespierre opponeva una concezione giacobina: la diseguaglianza politica aveva la sua origine nella diseguaglianza economica; ne conseguiva che le leggi rivoluzionarie dovevano tendere a diminuire la diseguaglianza economica. Robespierre pensava come Rousseau che l’origine della diseguaglianza fosse, non tanto nella natura, quanto nella proprietà privata. La democrazia più che un valore politico, doveva avere un valore sociale. Robespierre rifiutò il regime parlamentare perché di carattere aristocratico e censita rio, e propugnò un repubblica democratica, nella quale il popolo sovrano agisse direttamente o attraverso dei delegati, e nella

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quale il governo imponesse l’eguaglianza; nella repubblica democratica era l’interesse comune che doveva prevalere. Come per Rousseau, Robespierre sostiene che la volontà generale è la volontà del popolo. Inoltre era in nome di Rousseau che Robespierre e Saint-Just respingevano la costituzione degli Stati Uniti, fondata «sull’aristocrazia delle ricchezze» e non interessata ai «diritti dei deboli o dei poveri». Il popolo è la sola base della rappresentanza nazionale, al popolo spetta l’iniziativa della formazione delle leggi.L’ideale democratico dei giacobini divenne quello dei sanculotti, che pensavano a una rivoluzione popolare per realizzare l’eguaglianza civile: questo ideale egualitario si richiamava al pensiero di Rousseau. La realizzazione ideale della repubblica rousseauiana sembrò impossibile con il paese attraversato da profondi conflitti. Così gli stessi uomini della Convenzione pensarono a una repubblica democratica moderata. Con la caduta di Robespierre (9 termidoro= 27 luglio 1794) si aprì una nuova fase costituzionale per la Convenzione che si concluse con la stesura di una nuova costituzione. Tuttavia coloro che credevano nella rivoluzione popolare rimasero delusi. Nel 1796 Babeuf afferma che «è tempo di parlare di democrazia vera; di definire che cosa intendiamo con questa parola e che cosa vogliamo ci dia, di concertare, d’accordo col popolo intero, i mezzi per fondarla e mantenerla in vita». Per Babeuf la democrazia era uno sviluppo in senso egualitario economico della rivoluzione. La repubblica doveva essere il governo dei cittadini con eguaglianza di diritti civili, e anche una struttura politica nella quale fosse realizzato un contratto sociale fondato sulla eguaglianza delle condizioni di vita: la costituzione del 1795 assicurava ai cittadini alcune istituzioni democratiche, si doveva creare una democrazia totale per tutti e ciò era possibile, per Babeuf, solo con la rivoluzione. Ma la rivoluzione è cosa diversa rispetto alla democrazia, la prima ha una capacità distruttiva del regime socio-politico esistente e deve avere l’attiva partecipazione popolare, la seconda invece è un sistema di governo a sovranità popolare. In più bisognava separare la democrazia diretta da quella rappresentativa.

Kant sostenne che la democrazia se è diretta, cioè dove «tutti deliberano anche se non sono tutti», essa è governo dispotico, e con questo criticava Rousseau e ritornava al pensiero di Montesquieu che invece proponeva una forma di governo repubblicano conforme allo spirito di un sistema rappresentativo:ogni governo dispotico deve applicare il principio politico della separazione dei poteri. Implicitamente condannava Robespierre, con la sua personale dittatura, che aveva usato confusamente i termini di repubblica e democrazia e aveva preferito l’appoggio della folla rivoluzionaria.

In conclusione di democrazia e di democratici si parlò molto in Francia durante la rivoluzione francese, spesso in antitesi all’aristocrazia o alla monarchia.

Capitolo quinto. Il dibattito sulla democrazia nel triennio giacobino italiano (1796-1799).

I giacobini italiani vedevano nella repubblica il modo per realizzare la pubblica felicità e il loro interesse dottrinale si incentrava sul tema della democrazia, che era da realizzare con una forma di governo repubblicano secondo la tipologia proposta da Montesquieu, anche se l’autore più citato fosse Rousseau. Bisogna, però, dissociare il Rousseau dei giacobini italiani dal Rousseau dei giacobini francesi. I giacobini italiani vivevano in un momento storico e politico diverso rispetto a quelli dei francesi, in quanto i transalpini si trovavano in una Francia rivoluzionaria; in più gli italiani si esprimevano in modo più riflessivo rispetto alla creatività rivoluzionaria dei giacobini francesi poiché gli italiano davano uno specifico valore alla democrazia. Per i giacobini italiani la parola «democrazia» significa amore dell’eguaglianza e della patria. I principi generali di questo linguaggio democratico sono libertà, eguaglianza, virtù, diritti, pubblica utilità, pubblico bene; gli elementi sociali sono classi laboriose, massa, società, popolo, universalità dei cittadini; gli strumenti politici sono associazione, convenzione, assemblea popolare e soprattutto rappresentanza. Perciò molti linguisti sostengono che nel triennio giacobino «nasce in Italia la lingua della politica in senso moderno», della politica che non è più ragion di Stato; è la lingua dinamica e polemica della società civile.

Nel linguaggio politico giacobino repubblica e democrazia diventano quasi sinonimi. - F. Cavriani, (1798), parla di «democrazia convenzionale» quando il popolo per esercitare «la sua sovranità per mezzo di una magistratura, la elegge e commette alla medesima il deposito delle leggi». - Nicio Eritreo, (1798), afferma che il governo democratico è «il più utile di tutti gli altri al genere umano»; esso impedisce ai popoli di cadere nella barbaria e nell’ignoranza; «le società democratiche sono le più semplici, e in conseguenza le più

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uniformi alla retta ragione»; in una repubblica democratica tutti i cittadini si interessano alla elezione dei magistrati «perché vengano prescelte le persone più idonee»; infatti «il popolo non mostrerà alcuna cura e interesse per questi affari che no sono strati né risoluti né esaminati da lui». – Matteo Galdi, (1798), sostiene che, in una repubblica democratica, bisogna adottare una diversa istruzione pubblica: essa deve tendere «a istruire e a educare il popolo in massa nei principi della democrazia». La democrazia si diffonde attraverso i circoli democratici e non attraverso le società popolari.Se la democrazia è governo del popolo, come far sentire «la sovranità reale del popolo»? - Vincenzio Russo risponde che «non può esservi altra forma di repubblica se non la popolare». In questa forma di governo l’uomo non deve sacrificare parte dei suoi diritti e ricorda che il popolo è il vero elemento della democrazia; il popolo può compiere le vere rivoluzioni. - Un elogio alla democrazia viene fatto dal Russo sul «Monitore di Roma» (1798), parlando al popolo delle nuove repubbliche: «la democrazia convien piantarla negli animi, conviene stabilirla nel riordinamento dei fatti sociali, nella riforma dei pubblici desideri, nel raddrizzamento dei costumi, nella onnipotenza di una legislazione repubblicana e dell’opinione»; infine «la democrazia propone ed esige eguaglianza». Girolamo Bocalosi scrive molto sulla democrazia e sostiene, (1797), che il repubblicano nuovo deve essere educato in modo diverso per avere «sentimenti democratici». Cita Montesquieu per aver parlato «del potere legislativo, giudicativo ed esecutivo», e per aver affermato che nelle repubbliche aristocratiche vi è meno libertà che nelle monarchie, sebbene l’autore preferito sia Rousseau. Respinge l’ipotesi di una democrazia diretta, perché «vi può essere democrazia per mezzo di rappresentanti eletti dal popolo». Secondo Bocalosi l’Italia ha bisogno di essere «una repubblica democratica una e indivisibile».

In Italia escono, nel corso del 1796-1799, da parte dei politici giacobini italiani, molti periodici sul tema della democrazia. Ma un momento importante fu nel 1796 poiché si tenne un celebre concorso da parte dell’amministrazione della Lombardia che chiese «a tutti i buoni cittadini e amanti della libertà» di rispondere ad un quesito: «Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia» per rendere «familiari al popolo gli eterni principi della libertà ed eguaglianza»? I governi liberi, secondo la definizione di Montesquieu nell’Esprit des lois, erano i governi non dispotici, ma i giacobini, attenendosi all’insegnamento di Rousseau, concordavano che l’unico governo, nel quale il popolo è naturalmente sovrano e l’eguaglianza civile esiste, è la repubblica democratica, espressione della volontà generale: il giacobino italiano vede nella repubblica democratica il mezzo migliore per realizzare la felicità sociale. - La dissertazione premiata fu quella presentata da Melchiorre Gioia: egli crede nella democrazia, ma non nella democrazia «assoluta» teorizzata da Rousseau; egli ha davanti la costituzione francese del 1795, e si riferisce a una sovranità esercitata attraverso la rappresentanza, infatti «la sovranità risiede essenzialmente nell’universalità dei cittadini». «Il popolo deve scegliersi dei rappresentanti, loro confidare la cura dei suoi affari politici», e onde evitare abusi da parte loro, è opportuno fissare la divisione dei poteri. Riemerge così l’insegnamento di Montesquieu che affermava «che quando gli uomini si uniscono, il loro giudizio si restringe». Una costituzione democratica deve proclamare la sovranità del popolo e l’eguaglianza dei cittadini,ma deve fissare «la rappresentanza nazionale eletta del popolo» e la divisione dei poteri.

Il primo anno della libertà italiana fu il 1797, nello stesso anno esce ad opera di Giuseppe Compagnoni Gli elementi di diritto costituzionale democratico. Qui vi è la messa a punto più lucida sul tema della democrazia nel triennio giacobino. Negli ultimi capitoli Compagnoni afferma che la democrazia è una forma politica generale, la quale può prendere la forma della «oclocrazia» o della «democrazia rappresentativa». L’oclocrazia si ha quando «una turba furiosa e insensata pretende di guidare gli affari»; questa forma è «incapace di produrre alcun bene, capace solo di fare la ruina di tutti». Come evitare la demagogica oclocrazia? Il popolo deve dare «commissione ai propri rappresentanti»; per mezzo dei rappresentanti il popolo fa «ciò che non può fare da sé»; la popolare rappresentanza non è effetto di corruzione come pretende Rousseau ma al contrario essa «è necessaria e saggia disposizione tendente alla preservazione dei pubblici diritti». Nella democrazia rappresentativa la costituzione assegna al popolo tutte le operazioni che può fare da sé; al popolo è assegnata l’elezione dei magistrati, «che sono i custodi e gli esecutori della sua volontà, e i ministri dei suoi interessi» e sono «l’assicurazione della libertà del popolo». I rappresentanti del popolo, il corpo legislativo, sono autorizzati a fare le leggi nel rispetto della volontà generale; fare una legge, infatti, «non è certamente un creare una volontà generale, ma semplicemente u annunciarla».

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La giustificazione della democrazia repubblicana rappresentativa si ritrova nel Rapporto del comitato di legislazione al governo provvisorio, preparato da Mario Pagano nel 1799. Il Pagano afferma che «gran passi aveva già dati l’America in questa, diremmo nuova scienza, formando le costituzioni dei suoi liberi stati», ma la Francia «ha dato fuori una delle migliori costituzioni che si siano prodotte finora», per cui il comitato napoletano «ha adottato la costituzione della madre repubblica francese» emanata nel 1795.Capitolo sesto. La polemica antidemocratica: i legittimisti e i costituzionalisti.

I legittimisti.

Nel trentennio che va dal consolato di Napoleone Bonaparte, 2 agosto 1802, alla monarchia di luglio 1830 prevalsero in Europa tendenze antidemocratiche che venivano da esperienze politiche e storiche diverse.

[ Per i legittimisti, al contrario dei rivoluzionari, la successione al trono avveniva per la volontà di Dio, per “diritto divino”, e per ordine di primogenitura maschile; base teorica dell’assolutismo monarchico. Ognuno di essi aveva ricevuto il suo trono da Dio stesso, e ribellarsi contro la loro autorità era come ribellarsi a Dio. Il legittimismo esprimeva la stretta unione tra le due autorità stabilite da Dio: la Chiesa e lo Stato. – La fine del legittimismo si ha quando la nuova fase rivoluzionaria, che inizia in Europa con la Rivoluzione del 1830 in Francia, segnò la vittoria del sistema liberale costituzionale al quale aveva aspirato la borghesia girondina francese sin dal 1789 quando aveva tentato inutilmente di trasformare l'assolutismo monarchico in monarchia costituzionale. Ora con l'abdicazione di Carlo X la grande borghesia ha raggiunto il suo obiettivo respingendo ai margini della vita politica i fautori del legittimismo.]

La polemica contro la rivoluzione fu esposta in maniera originale da Joseph de Maistre quando afferma che ogni nazione ha una missione da compiere e la Francia è stata infedele alla sua missione, e la Provvidenza si è servita della rivoluzione per rigenerare il paese. La Francia, condannando a morte Luigi XVI, ha commesso un attentato alla sovranità che «réside» su una testa. Secondo Maistre ogni costituzione è un’opera divina, ed è Dio che investe di potere straordinario il sovrano. Non solo la monarchia è la migliore forma di governo, ma bisogna combattere lo spirito demoniaco della rivoluzione con il suo governo repubblicano; ristabilire la monarchia non è, dunque, una «révolution contraire», ma il contrario di una rivoluzione. – Anche il visconte Louis de Bonald era contro la repubblica ed in polemica antidemocratica, affermò che il rivoluzionario si è eretto a legislatore della società politica e a riformatore della società religiosa; invece esiste una sola costituzione della società politica e religiosa; la riunione di queste due costituzioni e di queste due società forma la società civile. Polemizza con Montesquieu perché secondo lui nell’Esprit des lois, la differenza nella legislazione delle società è da attribuire alle passioni dell’uomo e non all’influenza dei diversi climi, cioè a circostanze locali. Polemizza con Rousseau, soprattutto, perché nel Contract Social dissolve la società, e propone un governo popolare nel quale l’uomo rimane abbandonato, senza guida. Infine non accetta il principio del popolo sovrano e considera la democrazia una forma di dispotismo, la nega sostenendo sia una malattia che affligge l’Europa. La Francia, erigendosi in democrazia, è entrata in un periodo di disorganizzazione, l’intento è di distruggere le grandi famiglie e annientare la religione. Sostiene la necessità naturale della monarchia ereditaria di tipo francese, in cui il re è la causa, la nobiltà il mezzo, la società l’effetto ed un ordinamento morale che può essere dato soltanto dalla Chiesa cattolica.

Durante il primo quindicennio dell’Ottocento continuò la tendenza conservatrice, la polemica contro la rivoluzione e le critiche al regime napoleonico. Il filone conservatore guardava alla società agraria, alla vecchia nobiltà terriera, come il proprietario terriero amministrava i suoi possedimenti il sovrano doveva amministrare gli affari pubblici. Il centro ideologico era tuttavia Vienna. - Adam Müller affermò che lo Stato, quale società civile è un complesso con al centro la sovranità. Ha un essenza religiosa e riconosce il suo prototipo nella famiglia; il principe ha il compito di sollecitare lo sviluppo di tutti gli ordini sociali, ma deve appoggiarsi nella sua azione politica alla nobiltà ereditaria. - Friedrich von Gentz, amico di Müller, trasferitosi a Vienna per meglio dirigere l’azione contro Napoleone in nome delle idee di legittimità, dove inoltre si sviluppò una letteratura conservatrice e reazionaria. - Alla tesi del «consenso democratico» venne contrapposta quella della «legittimità monarchica», bisognava cioè restaurare i legittimi sovrani sui troni e

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ristabilire l’ordine morale nella società europea sconvolta dalle idee rivoluzionarie. Per i legittimisti, come Carl Ludwig von Haller, nato a Berna, i liberali, erano i continuatori dei giacobini. Si contrappose a Rousseau, nato a Ginevra, e teorizzò la restaurazione delle tradizioni morali in opere uscite dal 1816 al 1820, sostenendo che gli Stati non sono semplici comunità civili, e i giovani non possono essere ricavati dalla massa di tutto il popolo; la restaurazione della scienza politica implica la distruzione dei principi falsi e il ristabilimento dei principi legittimi; invece della sovranità del popolo sostiene la sovranità di colui che è indipendente per sua potenza e per sua fortuna.I costituzionalisti monarchici.

Criticarono i principi democratici anche coloro che credevano nella monarchia costituzionale e rifiutavano l’assolutismo di tipo dispotico. Il centro di questa opposizione fu l’Inghilterra, dove si sviluppò la polemica prima contro gli eccessi del popolo parigino, e poi contro il regime autoritario di Napoleone.

Dai moderati liberali il sistema monarchico costituzionale fu presentato come un superamento della repubblica e dell’ancien régime, della democrazia e del dispotismo: si poteva con il sistema costituzionale armonizzare la libertà dei sudditi con l’autorità del sovrano, la nazione con la monarchia; i moderati liberali, guardando all’Inghilterra e richiamandosi alla letteratura politica da Locke a Burke, affermarono che il sistema monarchico costituzionale era l’antidoto al governo dispotico di uno e al governo popolare di tutti; la trilogia «libertà, nazione, costituzione» divenne il programma dei liberali. – Napoleone nel 1815 dovette ammettere che il «gusto delle costituzioni» era dominante e non poté evitare di dare una costituzione al paese. Chiamò Benjamin Constant, in precedenza espulso dal tribunato, e affermò che voleva essere un re costituzionale, con discussioni pubbliche, elezioni libere, ministri responsabili e libertà di stampa. Constant prese come modello la «charte octroyée» di Luigi XVIII modellata sul sistema inglese con due camere, una dei pari ereditari e una dei deputati dei dipartimenti; il sovrano aveva il potere esecutivo nonché l’iniziativa e la sanzione delle leggi; il sovrano sceglieva i ministri ed era capo dell’esercito e dell’amministrazione. - Dietro l’amore per la libertà costituzionale si celava una profonda diffidenza verso la democrazia quale forma di governo. Quasi tutti i doctrinaires presentarono il sistema monarchico costituzionale come il contrario della democrazia popolare: il regime liberale costituzionale doveva far emergere i valori intellettuali e morali di ogni cittadino. – Il nome di Benjamin Constant talvolta figurava tra i teorici della democrazia ma lui era un teorico della monarchia costituzionale ed era contrario alla «sovranità popolare» perché aveva paura che la monarchia potesse essere spazzata via dalla democrazia, «emportée par la démocratie». La democrazia non era che una forma nuova di dispotismo; nel 1793 essa aveva causato anarchia, tirannide e miseria. La sovranità del popolo, affidata a una sola persona, a parecchi, a tutti, era un male. In tale prospettiva antidemocratica bisogna leggere il Cours de politique constitutionnelle di Constant. L’autore polemizza con Rousseau: la sovranità non esiste che in modo limitato e relativo; il consenso della maggioranza non è sempre sufficiente a legittimare i suoi atti: non avendo riconosciuto queste verità il Contract Social è divenuto il più terribile ausiliario di ogni dispotismo.

Quasi tutti i dottrinari costituzionalisti, che si autodefinivano amici della libertà, criticarono la teoria democratica della sovranità popolare; i punti centrali furono espressi da Guizot che affermava non fosse possibile immaginare una società intenta soltanto a governare; il governo rappresentativo doveva essere distinto dalla democrazia, ossia dal governo di tutti; la vita politica non poteva essere concepita come contrasto tra partito rivoluzionario e partito controrivoluzionario. La volontà generale era assurda perché negava la volontà individuale e creava un nuovo potere assoluto; alla sovranità del popolo bisognava opporre la sovranità della ragione, e questa ragione non poteva essere espressa che da pochi uomini capaci; veniva, così, delineata una concezione elitaria del potere.

Secondo Kant, la costituzione repubblicana del pensiero tedesco doveva rispondere ai principi di libertà e di eguaglianza dei cittadini, ma non era chiaro se a costituzione repubblicana fosse un tipo di Stato costituzionale oppure una forma di governo. Stato repubblicano governato da un monarca, prospettato in questo modo, poteva significare accettare la soluzione istituzionale monarchica e rinviare a un lontano futuro un ordinamento politico senza una dinastia regnate.

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In Germania Hegel propose un recupero del pensiero di Montesquieu senza accogliere l’ammirazione per l’ordinamento costituzionale inglese; l’Inghilterra era un paese politica,ente arretrato che non poteva servire da modello per paesi con una propria tradizione monarchica, come la Prussia; la tipologia prospettata da Montesquieu sulle forme di governo, perciò, poteva essere interpretata in forma dialettica e considerò la monarchia costituzionale, contrapposta al dispotismo e alla democrazia, come l’ultimo stadio di sviluppo dello Stato; nella monarchia costituzionale il sovrano è uno, il potere governativo è quello di pochi, nel potere legislativo interviene la maggioranza di un popolo. - Norberto Bobbio aveva notato, in un saggio di Hegel e le forme di governo, che la monarchia costituzionale era presentata come la sintesi di tutte le forme storiche, e della quale non se ne poteva concepire una diversa e superiore; senza dubbio la democrazia degli antichi fu un momento particolarmente felice della storia dello spirito umano, ma essa poteva essere applicata solo ai piccoli Stati. – L’idea della democrazia applicabile soltanto ai piccoli Stati fu molto diffusa in Germania e affermavano che la costituzione democrazia applicata a un grande Stati fosse una costituzione illegale o apparentemente democratica. La vera democrazia, precisò Hegel, era quella delle città greche, essendo caratteristiche essenziali di un governo democratico la partecipazione diretta dei cittadini agli affari pubblici, la prevalenza degli interessi collettivi su quelli privati, la piccola dimensione della città Stato. Per Hegel la repubblica degli Stati Uniti, considerata da alcuni come una repubblica democratica, era uno Stato in divenire non ancora tanto progredito da aver bisogno di adottare la forma monarchica. - Nel 1821 affermò che la monarchia costituzionale assicurava la libertà del popolo meglio che la stessa repubblica popolare e polemizzò con la concezione democratica che muoveva dall’individuo e considerava il popolo espressione della volontà generale. Alla rappresentanza dei cittadini Hegel contrapponeva la razionalità della rappresentanza per stati sociali (Stӓnde); in essi risiedeva la garanzia per il bene generale e per la libertà; muovendo dagli «stati sociali» esistenti nella «società civile», egli giungeva allo Stato; ma puntando sugli Stӓnde egli negava la eguaglianza dei cittadini nella sfera politica.

Capitolo settimo. La democrazia rappresentativa americana.

Dopo la caduta di Napoleone e dopo la restaurazione dei legittimi prìncipi, si continuò a guardare con ammirazione agli Stati Uniti d’America, dove la democrazia si era affermata. Dopo il 1820 la forma di governo americano divenne un modello politico. Gli Stati Uniti avevano conquistato la propria indipendenza, avevano fissato un sistema politico democratico, avevano permesso ai propri cittadini di usufruire delle libertà civili, avevano, i requisiti per essere aditati come un mirabile esempio da imitare. Per molti la costituzione americana fissava la volontà di indipendenza di un popolo.

Ai francesi gli Stati Uniti apparivano come il paese del progresso e come modello di vita repubblicana. Era il paese della rivoluzione riuscita, che non aveva avuto né dittatura, né restaurazione. - In Inghilterra, i radicali, parlavano dell’America del Nord come del paese nel quale era già stata realizzata o avrebbe potuto essere realizzata la democrazia. L’opinione pubblica leggeva molto la rivista «North American Review» e dalle lettere delle riviste da 10 centesimi dove l’uomo americano, alla fine, appariva come quello onesto, che si era fatto da solo e dalle idee chiare.

Jeremy Bentham nel 1817 pubblicò il Plan of Parliamentary Reform, dove usava la parola «democracy» riferendosi agli Stati Uniti, e sosteneva che la democratica rappresentativa era l’unica democrazia che poteva essere adottata nel tempo e nello spazio. Era contro la democrazia diretta che si identificava con l’anarchia.In Italia, l’interesse per la repubblica americana, si ha con l’opera del Botta sulla guerra d’indipendenza americana in quanto presentava la rivoluzione americana come fatto prevalentemente militare, quasi ignorando gli istituti politici degli Stati Uniti. Giuseppe Compagnoni, invece, nell’opera Storia dell’America individuò i tratti caratteristi della rivoluzione americana: lo spirito della tolleranza religiosa, l’assoluta laicità dello Stato, l’assetto federale, l’eguaglianza delle condizioni civili. Anche Luigi Angeloni aveva proposto in un suo scritto il modello degli Stati Uniti d’America e nel 1818 indicò, con linguaggio più democratico, la federazione come modello più confacente all’Italia.

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In Europa ad accrescere molto la simpatia in per gli Stati Uniti furono gli scritti di James Fenimore Cooper che esaltava le istituzioni della democrazia americana e la traduzione delle opere di Benjamin Franklin. - Per molti paesi come l’Italia e la Germania, divisi in piccoli Stati, la federazione degli Stati Uniti poteva essere la formula possibile per concordare tradizioni locali e interessi nazionali. – I repubblicani che manifestarono le proprie simpatie per gli Stati Uniti si richiamavano, non alla tradizione egualitaria di Robespierre, ma alla tradizione girondina; essi ritenevano che la soluzione democratica,garantendo a tutti i cittadini l’eguaglianza politica, avrebbe evitato i pericoli del terrore e i conflitti sociali. La democrazia americana era una concreta alternativa alla monarchia.

Capitolo ottavo. L’egualitarismo democratico: Buonarroti.

Nel 1824 uscì a Parigi un opera di Mignet dove l’autore esprimeva un giudizio positivo sul primo periodo della Rivoluzione francese (1789-1791). Robespierre impose in maniera dittatoriale un piano, accolto dai giacobini, considerato giusto e naturale, di democrazia fondato sull’eguaglianza per imporre la giustizia e la probità. Il giudizio positivo sulla monarchia costituzionale diventava da parte di Mignet una condanna della democrazia giacobina egualitaria.

Filippo Buonarroti, importante rivoluzionario europeo del primo Ottocento, aveva vissuto di persona gli avvenimenti della Rivoluzione francese, frequentò il club dei giacobini e conobbe Robespierre, da cui condivise lo scorgere nei violenti contrasti sociali di allora i segnali della lotta di classe, della guerra tra il ricco ed il povero. Nel 1796 fu uno dei condannati e ritiene doveroso e giusto far conoscere il partito «démocratique» nei suoi veri valori. Buonarroti ribadiva a trent’anni di distanza che l’eguaglianza dei «démocrate» era l’unica soluzione atta a conciliare i veri bisogni di un paese, e a dare un assetto politico libero, felice, tranquillo e duraturo alla società. Dualizza il contrasto interno della rivoluzione, distinguendo tra un sistema di egoismo e un sistema di eguaglianza. I sostenitori del primo sistema si limitavano, per lui, a trasferire il potere da una casta all’altra; invece i sostenitori del sistema di eguaglianza agivano «a favore della massa del popolo e a favore della riforma completa della società»; non si trattava di far prevalere un ordine di governo su un altro, ma di occuparsi della sorte del popolo, che è alla base di ogni governo legittimo; gli «egoisti» mutarono di atteggiamento a seconda delle circostanze e delle fazioni, i difensori dell’eguaglianza seguirono la via che si era tracciata. Il contrasto era impostato tra gli «egoisti e i popolari».

Altra distinzione viene fatta da Buonarroti della politica tra moderati e rivoluzionari. I primi avevano alle spalle la dottrina inglese degli economisti, concentrati nell’accumulo della ricchezza e nel rifiuto nel dare i diritti politici per raggiungerne lo scopo; e i secondi, al contrario, che si preoccupavano della condizione sociale dei cittadini, costretti alla miseria addirittura alla schiavitù.

I partigiani della democrazia, a differenza dei girondini e degli aristocratici della Convenzione, si battevano per la causa del popolo ed erano amici dell’eguaglianza. Contro i girondini, Robespierre oppose la sua Déclaration des droits, dove era affermato il diritto di tutti alla formazione della legge, il diritto del popolo di resistere all’oppressione ed il vedere estirpata la miseria. – Gli amici dell’eguaglianza considerarono questa «costituzione democratica» lo strumento per consentire al popolo l’esercizio della sovranità. – I fautori del regime di egoismo riuscirono il 9 termidoro (27 luglio 1794) a fare assassinare Robespierre e i deputati ai quali il popolo francese doveva gran parte del progresso compiuto nella conquista dei diritti. Ma alcuni amici dell’eguaglianza, ossia Babeuf e gli altri democratici, volendo evitare gli egoismi dei conservatori ed impedire la controrivoluzione, fondarono la Société du Panthéon e sostennero la legittimità della costituzione del 1793. Nelle loro riunioni questi democratici ribadirono che la causa del male è nella ineguaglianza dei beni e delle condizioni; il compito di un legislatore era di struggere questa ineguaglianza.

L’opera di Buonarroti sulla Conspiration pour l’égalité era una chiara difesa dell’egualitarismo democratico. Nell’opera i democratici sono repubblicani legati costantemente alla causa del popolo e sono difensori della numerosa «classe dei lavoratori». La polemica contro la dottrina inglese degli economisti, assente nei testi di Babeuf, diventa polemica contro i nuovi ceti mercantili e capitalisti, che credono nella grande industria, nel

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commercio illimitato, nella rapida circolazione del denaro. Per Buonarroti si deve creare una comunità sociale poiché, sostiene, non c’è democrazia senza una «égalité sociale». La maggioranza dei datori di lavoro sottopaga il salariato ed il potere è così riservato solo a parte della comunità, viene negata alla massa la «liberté naturelle». La democrazia deve portare a un ordine di eguaglianza contro gli aristocratici favorevoli a un ordine di egoismo. – Per poter instaurare e realizzare l’eguaglianza è utile ricorrere allo strumento politico delle «conspirations démocratiques»; la cospirazione erano un momento di riflessione sui problemi della patria in cui gli amici dell’eguaglianza si preparavano e pensavano a come risolverli. - Nel luglio del 1830 scoppiò a Parigi la Rivoluzione di Luglio. Le giornate parigine sembravano ridare alla Francia l’iniziativa politica in Europa. Il gruppo degli egualitari buonarrotiani continuava a pensare a un progetto di costituzione repubblicana fondata sull’eguaglianza mentre i sostenitori della repubblica rappresentativa pensavano a un assemblea di deputati eletti che governasse in maniera democratica.Capitolo nono. La nazione democratica: Mazzini.

Giuseppe Mazzini considerò inizialmente, come Melchiorre Gioia, governi liberi tanto la repubblica democratica quanto la monarchia costituzionale. Dopo i trascorsi in carcere ed arrivato una certa maturità intellettuale si dichiarò sostenitore soltanto della forma politica repubblicana; lo si vede nella rivista «La Giovane Italia» pubblicata nel 1832. - La fiducia nella democrazia repubblicana, quale governo libero di una nazione, fu rafforzata da Mazzini dalla letteratura repubblicana francese di quegli anni. Prendendo spunto da un discorso di Raspail affermò che le finalità di un governo libero repubblicano erano le stesse per la Giovane Italia e che i repubblicani erano contrari al dispotismo organizzato; non solo ogni cittadino aveva il diritto di concorrere alla elezione dei suoi rappresentanti, ma nessuno doveva «chiedere invano lavoro per guadagnarsi la vita»; bisognava avere «un governo favorevole allo sviluppo delle facoltà morali e fisiche dell’uomo». – Per i repubblicani la fonte dell’autorità era nella collettività, intesa come l’insieme dei cittadini partecipanti con il suffragio universale diretto alla vita della nazione; invece, nella dottrina di Saint-Simon mancava l’idea della sovranità del popolo. Ecco perché i repubblicani francesi non amavano le dottrine industriali dei sansimoniani.

Nel 1831 Filippo Buonarroti respinse il modello federativo americano perché era un sistema aristocratico rivestito di forme democratiche, e si rifece al modello democratico francese del 1793. Contro l’assetto federativo proponeva un’autorità centrale unica e forte, ripiena di mire repubblicane con l’incarico di compiere la rivoluzione, di spianare tutti gli ostacoli, di stabilire l’uguaglianza, di preparare la nazione all’esercizio della sovranità. Mazzini a tale critica affermò che il progetto di governo libero unitario-repubblicano non riguardava l’Italia, ma tutta l’Europa, infatti la serie progressiva dei mutamenti europei guidava inevitabilmente le società europee a costituirsi in vaste masse unitarie.

Nel 1830 Mazzini conobbe Carlo Bianco di Saint-Jorioz da cui condivideva idee sulla insurrezione tanto da definire la Giovine Italia una «Società tendente all’insurrezione». Mazzini però distingueva la insurrezione dalla rivoluzione, la prima era «destinata a formare un popolo, essa agirà in nome del popolo e s’appoggerà sul popolo»; la seconda invece deve essere fatta dal popolo e per il popolo e realizza un progetto di governo. La lotta armata nazionale appartiene al momento della insurrezione invece scopo della rivoluzione è attuare un sistema democratico nazionale, quale è il sistema repubblicano.

Di Mazzini, è importante il concetto democratico di nazione; innestando il concetto di nazione su quello di popolo, diede questa definizione: «La nazione è l’universalità de’ cittadini parlanti la stessa favella, associati, con eguaglianza di diritti civili e patriottici, all’intento comune di sviluppare e perfezionare le forze sociali e l’attività di quelle forze». Secondo Mazzini l’eguaglianza dei diritti, che si realizza con il suffragio universale, e lo sviluppo delle forze sociali, che riscatta il mondo del lavoro, permettono alla gente di divenire popolo. L’idea di nazione-popolo servì a Mazzini per elaborare la teoria della nazione democratica.

Rifacendosi alla discussione sui governi liberi, Mazzini teorizza la forma di governo repubblicano, ossia un governo popolare di cittadini civilmente eguali ma insiste sulla sovranità nazionale. Mazzini crede nel popolo «ente collettivo»; per popolo intende non una classe, ma «l’universalità degli uomini componenti nazione»; per nazione egli intende «l’universalità dei cittadini».

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Per Mazzini la repubblica era la forma di governo di ogni nazione democratica: la nazione democratica esprimeva la sua volontà attraverso la rappresentanza di deputati regolarmente eletti; questi deputati avevano il compito di realizzare le finalità sociali della nazione. Rifiutando «il concetto di assorbire tutte le nazionalità a profitto di un solo popolo», egli difendeva «l’individualità dei popoli» contro la prospettiva della nazione guida francese caldeggiata da Buonarroti. L’idea di insurrezione nazionale si materializzò nel 1833 quando cercò di organizzare una spedizione puntando sulla partecipazione degli esuli polacchi. Il piano di Mazzini era di suscitare in Savoia e nelle altre parti d’Italia la insurrezione, la quale sarebbe stata seguita dalla guerra partigiana per bande; la insurrezione italiana con la presenza di elementi stranieri, soprattutto polacchi, poteva far scoccare la scintilla per causare una conflagrazione europea. - La spedizione fallì, ma la collaborazione tra opposizione democratica italiana e polacca si ampliò e fu fondata una organizzazione a carattere europeo chiamata Giovine Europa. In nome della Giovane Italia, della Giovine Polonia, della Giovane Germania, un gruppo di giovani rivoluzionari firmò il documentario costitutivo il 15 aprile 1834 per contrapporre all’alleanza dei re l’alleanza dei popoli. La Giovine Europa fu il primo organismo europeo fondato sul presupposto di una unione di nazioni indipendenti, governate democraticamente.

Capitolo decimo. La libertà democratica: Tocqueville.

Alexis de Tocqueville pubblica nel 1835 l’opera De la démocratie en Amérique. L’opera ha un immediato successo. Negli Stati Uniti la democrazia era una realtà di fatto fondata sull’eguaglianza delle condizioni e nella sua opera ha esaminato la democrazia nel paese nel quale, sostiene, essa ha raggiunto lo sviluppo più completo e più pacifico.

Il tipo si società democratica che prospettava Tocqueville non era quella storica della rivoluzione francese del 1793, e nemmeno quella utopica formula con libertà di immaginazione dai teorici dell’egualitarismo, ma quella realizzata negli Stati Uniti d’America. In Francia la democrazia aveva avuto un percorso difficile perché la classe politica dirigente ne diede scarsa importanza. A tale proposito sostenne che «la democrazia in Francia, abbandonata nel suo cammino alle sue disordinate passioni, ha rovesciato tutto ciò che ha incontrato al suo passaggio, e ha scosso ciò che non ha distrutto; essa non ha cessato di avanzare in mezzo ai disordini e all’agitazione del combattimento».

A quasi cento anni dalla pubblicazione dell’Esprit des lois (1748) di Montesquieu, che aveva additato bell’Inghilterra il paese nel quale il principio della libertà era profondamente rispettato, Tocqueville presenta gli Stati Uniti d’America come il paese nel quale si era sviluppata la libertà democratica, fondata sulla eguaglianza delle condizioni. Per libertà democratica Tocqueville intende una dottrina di compromesso: la libertà è una convinzione morale che l’uomo rivendica per difendere i propri diritti. Negli Stati Uniti tutti i cittadini formano il popolo ed è il popolo che nomina colui che fa la legge, colui che l’esegue, e colui che punisce le infrazioni alla legge; la forma di governo è quella rappresentativa poiché è il popolo che nomina i suoi rappresentati, ed è la maggioranza che governa in nome del popolo. Per eguaglianza delle condizioni non intende eguaglianza di beni, ma eguaglianza di diritti per ogni singolo; di tali dritti l’uomo deve poter godere, e in questo consiste la sua libertà.

Bobbio afferma che Tocqueville è prima liberale che democratico poiché mette sempre prima la libertà dell’individuo all’eguaglianza sociale. Montesquieu faceva la distinzione tra governi «liberi» e governi «tirannici», Tocqueville afferma che tutti i governi liberi hanno dei partiti; l’America ha avuto due grandi partiti, il partito federalista e il partito repubblicano. Le armi usate dai partiti in America sono i giornali e le associazioni. La sovranità del popolo e la libertà di stampa sono due cose interamente correlative. La libertà d’associazione impedisce la tirannia della maggioranza, come impedisce ad un gruppo di faziosi di opprimere un popolo; in un paese dove le associazioni sono libere, le società segrete sono sconosciute. Il diritto d’associazione, conclude Tocqueville, è un diritto inalienabile quasi come la libertà individuale. In Europa, invece, l’associazione è vista come un’arma da guerra contro i governanti, o richiama l’idea di violenza, questo perché esse non hanno come scopo di parlare ma di agire, di combattere e non di convincere. - Ci si chiede a questo punto se in Europa fosse possibile adottare un sistema politico sociale

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come in America. Più che un modello, risponde Tocqueville, l’ordinamento politico-sociale americano è un esempio di come si possa «régler la démocratie», in quanto evita il pericolo tanto del dispotismo assoluto quanto dell’immobilismo monarchico. Lo scopo del suo lavoro, conclude, è di dimostrare, attraverso l’esempio dell’America, come le leggi, e soprattutto i costumi, possono permettere a un popolo democratico di restare libero.

In conclusione, Tocqueville, non dà un definizione rigorosa del concetto di democrazia, né la definisce come potere politico ma ne deduce le caratteristiche seguendone un indagine di tipo sociologico. Giunge, così, alla conclusione che la democrazia consiste nell’eguaglianza delle condizioni; in una democrazia non esistono differenze ereditarie e ogni cittadino può aspirare a una qualsiasi condizione.

Nel 1835, John Stuart Mill precisò che la democrazia americana era una democrazia con istituzioni rappresentative e Camillo Cavour affermo che la società cammina a grandi passi verso la democrazia.Capitolo undicesimo. Le unioni democratiche e il cartismo.

L’Inghilterra fu il primo paese in Europa ad affrontare i problemi connessi con la trasformazione industriale e con il costituirsi delle grandi fabbriche. Il modello capitalistico aveva portato ad un rapporto di conflitto tra operai e datori di lavoro in quanto le condizioni di lavoro e le retribuzioni erano spesso inadeguate.

Jeremy Bentham fu uno dei primi a parlare di riforme e nel 1832, anno della sua morte, si ebbe il Reform Act che può essere considerato come il primo passo verso riforme democratiche in Inghilterra. Questo perché considerava il problema dei poveri drammatico e proponeva una rete di «house of industry», dove i disoccupati avrebbero trovato collocamento. Data la profonda differenza tra ricchi e poveri proponeva, sempre con animo democratico, che il governo non ne rimasse indifferente. – Anche Robert Owen si occupò del problema delle fabbriche e del rapporto operai-datori di lavoro. Sosteneva che migliori condizioni umane e migliori retribuzioni avrebbero dato un miglioramento produttivo; costruì vicino alla fabbrica un villagio per le famiglie che avrebbero potuto, così, godere di un sereno senso di vita. Ma l’esito fu negativo allora passò alla proposta di riforma nazionale attraverso un «factory bill» che consisteva con la diminuzione dell’assunzione dei minori, rispetto delle norme, ecc. Ma di fronte all’opposizione degli industriali e delle autorità governative, egli decise di recarsi negli Stati Uniti, dove fondò la comunità «New Harmony». Ritornato in patria si trovò alla testa del movimento delle associazioni operaie, le Trade Unions.

Le Trade Unions furono le prime forme di rappresentanza sindacale. Furono essenzialmente dei sindacati nazionali di mestiere che si formano in Inghilterra nel 1824, con lo scopo di rendere più sopportabili le condizioni di vita dei lavoratori nelle fabbriche contro le ingiuste leggi e abusi degli imprenditori. Nel 1834 venne costituita la «Grand National Consolidated Trades Union» dove le singole associazioni si coalizzarono come intesa di specifici sindacati con un vasto programma di cooperazione. L’Unione si richiamava ai diritti dell’uomo e chiedevano una riforma della Camera dei comuni con l’estensione del diritto di voto a tutte le persone adulte di sesso maschile. Ma la debolezza del nascente movimento operaio inglese viene però messa in luce nel 1834, quando fallisce il suo tentativo di unificarsi in una grande unione sindacale nazionale, avvenne lo scioglimento del «National Consolidated Trades Union» ed il frazionamento del movimento. Tuttavia era impossibile pensare a una vita più democratica nella fabbrica senza l’intervento della democrazia politica; bisognava coinvolgere nelle proposte di riforme sociali le forze politiche dl paese; la classe operaia doveva puntare su suffragio universale; la riforma democratica doveva ottenere l’appoggio diretto delle unions degli operai. [ Tra il 1868 e il 1871 vennero legalizzate e creato un organismo di coordinamento delle organizzazioni sindacali (il Tuc, Trade Unions Congress).]

Il Cartismo fu un movimento politico-sociale, britannico, prevalentemente di uomini della "working-class", il cui nome derivava dalla People's Charter, ("Carta del Popolo"). Nei primi mesi del 1837 la London Working Men’s Association elaborò la People’s Charter in sei punti che prevedeva il suffragio universale, l’eguaglianza dei distretti elettorali, le votazioni in parlamento a scrutinio segreto. Il testo fu stilato da un gruppo di operai capeggiati da William Lovett. I Chartist si richiamavano alle idee di Jeremy Bentham e Robert Owen; rivolgendosi all’opinione pubblica i cartisti desideravano il graduale miglioramento delle

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condizioni delle classi lavoratrici senza ricorrere alla violenza e ai disordini; doveva essere un programma educativo che si limitava alla vita associativa.

Non mettendo mai in dubbio il carattere democratico delle unioni operaie ed avendo sempre il loro appoggio, il movimento cartista poteva rimanere una forza morale oppure divenire una forza fisica. La Convenzione cartista, chiamata parlamento del popolo, si aprì a Londra il 4 febbraio 1839 dove moderati e radicali si scontrano sul problema se continuare con la forza morale, oppure ricorrere alla forza fisica. La Convenzione era spinta dalle Trade Unions contro il governo, ma un atteggiamento di rivolta antiparlamentare non avrebbe giovato a coordinare le energie della democrazia.

I delegati della Convenzione decisero di portare la questione in Parlamento nel maggio 1839, anche se ne venne data una certa importanza, la «Petizione» rimase nell’ombra e venne respinta. In realtà le unioni degli operai intendevano applicare alla vita politica le strutture democratiche adottate all’interno delle associazioni. [ La petizione fu nuovamente presentata nel 1842 con oltre tre milioni di firme. Il mancato accoglimento diede luogo a diverse dimostrazioni, che sfociarono anche in gravi casi di sangue. Successivamente il movimento andò perdendo forza, sia per il raggiungimento di una maggiore prosperità, sia per le riforme attuate tra il 1867 e il 1887, soprattutto il Ballot Act del 1872, che ne accolsero di fatto gran parte delle richieste. L'eredità del cartismo confluì quindi nel movimento socialista, di cui aveva anticipato alcuni elementi come la teoria del plusvalore. ]

Capitolo dodicesimo. Il governo democratico popolare.In Francia, nel decennio 1838-1848, fu molto vivo il dibattito sulla rappresentanza politica e sulla sovranità popolare. Tendenzialmente i democratici radicali insistevano sulla democrazia diretta, vista come un democrazia partecipativa e non sulla rappresentanza politica che in pratica conferiva poteri eccezionali ad alcuni deputati ambiziosi.

Théophile Thoré, parlava di eguaglianza ed aveva un impostazione popolare della democrazia; Tocqueville invece era la risposta liberale alla impostazione popolare della democrazia, egli non considerava l’eguaglianza come l’unica causa motrice delle trasformazioni della società civile americana ed affermava che la democrazia americana assicurava l’indipendenza individuale del pensiero. Tocqueville, nei primi due tomi del 1835, non tocca l’argomento sul dualismo libertà-eguaglianza, cosa che invece fa insistentemente nei due tomi pubblicati nel 1840. L’eguaglianza raggiunta attraverso una rivoluzione democratica non può non portare all’individualismo,e, quindi, all’egoismo; la rivoluzione democratica non spinge gli uomini ad avvicinarsi gli uni agli altri; gli americani hanno avuto la fortuna di arrivare alla democrazia senza passare attraverso la rivoluzione democratica; in altre parole gli americani vivono in un a democrazia liberale, mentre in Europa si rischia di cadere in una democrazia dispotica.

Nel 1843 Antoine E. Cherbuliez, sostenne che la democrazia in Europa era da distinguere tra la «democrazia rappresentativa» e la «democrazia pura»; quella rappresentativa era reale, riferendosi a quella venutasi a formare in Svizzera, e quella pura era democrazia teorica, non era compatibile con l’ordine sociale regolare e progressivo, perché poteva portare a forme di anarchia.

Alla discussione politica sulla democrazia contribuirono anche gli esuli tedeschi giunti in Francia. Nel 1834 fu fondata la Lega dei proscritti che chiedeva rinnovamento sociale alla Germania. Successivamente nacque la Lega dei Giusti, un'organizzazione operaia clandestina tedesca, nata nel 1836 a Parigi da una scissione degli elementi più radicali della Lega tedesca segreta dei Poscritti. Successivamente essa comprendeva lavoratori di diversi paesi europei ed aveva sue comunità in Germania, Francia, Svizzera, Inghilterra, Svezia. Nel 1847, sotto l'influenza determinante di Karl Marx e Friedrich Engels, diede vita alla Lega dei Comunisti. Il motto della Lega dei Giusti era « Tutti gli uomini sono fratelli ».

Per molti democratici l’elemento nuovo della vita sociale doveva essere l’associazione; le associazioni popolari erano destinate a costituire la struttura dominante della democrazia. essa poteva risolvere i problemi della classe operaia e dare una nuova organizzazione alla società. Elias Regnault afferma che l’associazione sarà la formula del governo di domani; d’accordi con lui i sansimoniani e fourieristi. L’associazione poteva

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essere il rimedio ai mali politici e ai problemi economici, poteva inserire la classe operai nella vita del paese. «L’associazione, che ammette soltanto eguali, sarà una immensa rivoluzione e permetterà finalmente di realizzare in politica la democrazia».

Louis Blanc scrisse Organisation du travail, in cui sosteneva che l’associazione doveva essere organizzata, negli «ateliers sociaux» i capitali forniti dallo Stato avrebbero portato gli operai ad avere il diritto di lavorare e più partecipi alle attività produttive; in più ottenevano il rispetto dei diritti da parte dei datori di lavoro. Questo testo segnò un momento di svolta nel dibattito sulla democrazia; la democrazia non era solo un problema politico, era un problema sociale che interessava il mondo del lavoro; la democrazia quale governo del popolo doveva avere un programma a favore delle masse degli operai; il governo aveva il compito di organizzare con una azione proveniente dal potere centrale le attività produttive. I cittadini davano potere governativo ai propri rappresentanti che dovevano preoccuparsi di riproporre l’eguaglianza sociale ed assicurare il diritto di lavoro a tutti i cittadini, oltre che a tutte le garanzie sociali. A partire del 1848 si accese, nell’ambito della democrazia sociale, il dibattito circa il rapporto tra Stato e società. Lo Stato, in quanto organismo collettivo, doveva permettere all’individuo di ritrovare all’interno della comunità la eguaglianza sociale.

Per Victor Considérant l’associazione sopprimeva gli intermediari e sviluppa le iniziative popolari; l’associazionismo mutualistico poteva risolvere molti problemi sociali.

Per Mazzini la democrazia nazionale era vista in senso associazionistico, difatti fondò la prima associazione dei lavoratori italiani. La democrazia repubblicana doveva risolvere i problemi politici di una nazione, ed in nome del principio d’associazione doveva compiere una rivoluzione sociale, ossia l’emancipazione delle classi più povere. Per Mazzini la democrazia in Europa sarebbe nata da una rivoluzione politica e nazionale scoppiata nei paesi non ancora indipendenti e liberi; i democratici polacchi prospettavano una rivoluzione nazionale e sociale, perché bisognava strappare la proprietà della terra alla nobiltà. «La democrazia rappresentativa dei tempi futuri sarà retta con uomini politici intenti all’applicazione e allo sviluppo di una legge costituzionale»; «l’unione del principio democratico con il governo rappresentativo è un fatto prettamente moderno»; l’insegna del partito democratico è: «Il progresso di tutti per opera di tutti sotto la guida dei migliori e dei più saggi». Per Mazzini la democrazia fornisce le idee fondamentali per l’avvenire dell’Europa e la può liberare dal dispotismo.

Proudhon attribuiva alla proprietà la causa dei mali politici e sociali ma, successivamente, espresse il timore che il governo democratico alla Rousseau potesse portare al comunismo; la comunità dei comunisti era «la religione della miseria». Per Proudhon, invece, il lavoro era il principio della ricchezza, la forza che creava i valori. Per permettere all’uomo di vivere del suo lavoro bisognava mettere insieme associazione e individualismo in una concezione democratica della società.

La risposta di Marx a Mazzini e Proudhon non tardò a venire: Mazzini parlava di «progress of all» e Proudhon scriveva una metafisica dell’economia politica. Il contrasto economico per Marx era nel contrasto delle forze produttive, che diventava antagonismo di classe. Alla produzione feudale si opponeva quella borghese, ma a sua volta quella borghese era divenuta conservatrice; ad essa si opponeva la classe proletaria. Le condizioni economiche della vita borghese creava la miseria del proletariato. Per Marx l’associazione concepita come «mutualità» non poteva risolvere i problemi economici ed eliminare la concorrenza. L’associazione doveva prendere un carattere politico; la lotta di una classe contro un’altra classe era una lotta politica che doveva portare alla caduta della antica società e alla formazione di una nuova società civile senza classe. Solo il proletariato, quale classe sociale, per Marx ed Engels, avrebbe potuto realizzare la democrazia. è questa l’idea fondamentale del Manifesto che precisava che la conquista della democrazia coincideva con l’innalzamento del proletariato a classe dominante. In conclusione per Marx ed Engels il proletariato doveva conquistare il potere politico ed elevarsi a classe dominante, e in questo modo far sparire le ostilità tra nazioni. La proposta politica del proletariato era fissata in tre punti: il primo era l’organizzazione del proletariato in classe, secondo la distruzione della supremazia borghese e infine la conquista del potere politico da parte del proletariato. Solo in questo modo era possibile il libero sviluppo di tutti: sarebbe stata questa la vera democrazia. essi ritenevano che il mutamento politico-sociale si sarebbe

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avuto solo con una rivoluzione fatta dalla classe proletaria contro la borghesia; la rivoluzione avrebbe causato dei mali e dei dolori; era il prezzo da pagare, ma dopo la rivoluzione si sarebbe giunti a un’epoca di giusta, di benefica e di pacifica democrazia, con un governo veramente popolare.

Parte seconda.La democrazia e i movimenti associativi popolari

(1848-1871).

Capitolo tredicesimo. Le rivoluzioni europee del 1848.

Nel 1848 ci fu la concomitanza degli eventi che dimostrò che i popoli d’Europa avevano raggiunto una comune sensibilità, e si erano maturate le idee di libertà e di eguaglianza. I moti insurrezionali del 1848 ebbero finalità costituzionali, nazionali e sociali; ma il protagonista degli avvenimenti fu il popolo, poiché il popolo partecipò alle manifestazioni, salì sulle barricate, scese in strada, ecc. La parola «popolo» assunse un valore unitario, un contenuto sociale. Le rivoluzioni del 1848 furono preparate dal pensiero dei socialisti utopistici e dei repubblicani riformatori, dal pensiero dei teorici delle nazionalità e della indipendenza dei popoli, dal pensiero degli avversari dell’assolutismo in nome delle garanzie costituzionali. Ma gli avvenimenti del 1848-49, nel loro complesso di fatti, di sentimenti, di speranze, segnarono una svolta nella mentalità popolare europea; nessuno poteva negare che le rivoluzioni fossero avvenimenti popolari, e questi avvenimenti popolari diedero forza alla mentalità democratica.

Nel 1848, caratteristica fu la ripercussione europea; la notizia, che rimbalzò da uno Stato all’altro, creò ovunque premesse rivoluzionarie per l’eco popolare che i fatti ebbero. – In Francia, Parigi, vi fu la caduta della monarchia e la proclamazione della repubblica;– In Austria, Vienna, vista tramite stampa la situazione creatasi a Parigi, e volendo evitare disordini dati dal malcontento da parte dei cittadini, bisognava liquidare il governo Metternich. – In Italia, Milano, le agitazioni viennesi furono all’origine delle Cinque giornate, grande nemico il potere militare che aveva il suo centro a Vienna ed era organizzato sotto bandiera austriaca. Fu proprio nella lotta contro il potere militare che il popolo trovò unità, ed i capi seguirono gli orientamenti del municipio, del comune, che era l’organizzazione cittadina che traeva la sua autorità dalla popolazione; era il simbolo della associazione primitiva della vita nazionale. Carlo Cattaneo fu la «figura più vigorosa e originale espressa dalla rivoluzione milanese delle Cinque giornate». Egli ricorda «l’adunanza del popolo milanese intorno ai capi municipali»; questi cercano di tenere unito il popolo rivolgendo ai cittadini affermano che è tempo di «libertà per tutti, giustizia per tutti». – A Roma, gli avvenimenti del 1849 non furono certo municipali e si conclusero con la fuga di Pio IX, ci fu la costituzione della repubblica romana che statuiva che l’associazione era libera, che ogni cittadino era elettore ed eleggibile, che l’assemblea era costituita dai rappresentanti del popolo; diritti e doveri dei cittadini erano fondati sulla premessa che «ogni potere viene dal popolo».

Il tema del comune e della sua organizzazione fu al centro delle discussioni dottrinali non solo nel biennio 1848-1849, ma durante tutto il ventennio 1850-1871. Questo tema fu connesso con l’idea di associazione, e si pensò che nell’ambito dell’amministrazione comunale potessero essere adottate nuove forme di partecipazione democratica dei cittadini. Per giungere a una rivoluzione democratica bisognava partire dalla periferia comunale, difatti i movimenti europei d’azione democratica indicarono il comune quale struttura di base degli ordinamenti politici. - Una critica alla democrazia venne da Guizot, nello scritto De la démocratie en France, che aveva governato durante la monarchia censitaria di Luigi Filippo. Sosteneva che tutti i partiti

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parlano di democrazia e la invocano come un talismano politico; nessun governo sembra possa farne a meno, eppure la democrazia non assicura né pace, né libertà, ma solo guerra sociale e dispotismo rivoluzionario. - Dopo gli avvenimenti del 1848, in Europa si diffuse un moto democratico di rinnovamento sociale. Si moltiplicarono le associazioni; come associazioni di mutuo soccorso, di cooperazione e politiche. Sotto la spinta degli eventi sembrò difficile opporsi al desiderio di associarsi; l’associazionismo fu presentato come un sistema di vita sociale; le associazioni potevano divenire centri di comportamento democratico. Le associazioni del tempo furono molto importanti. Tocqueville aveva fatto l’elogio della associazioni americane,e aveva indicato in queste la premessa dello spirito democratico americano. L’associazionismo fu un movimento dal basso di carattere democratico, e il carattere democratico è confermato dalla diffusa e costante fiducia nell’assemblea che eleggeva il consiglio direttivo e ne controllava l’operato. Per questo rispetto dei compiti l’associazionismo fa parte della storia della democrazia europea. – Bisogna anche parlare di associazioni femminili che si moltiplicarono mostrandosi nel suo aspetto emancipazionistico.Capitolo quattordicesimo. Il problema delle associazioni in Francia.

Il movimento d’associazione si diffuse in Francia ma non senza difficoltà. Vi erano molte posizioni a riguardo e fu campo di polemica tra scrittori e politici.

- Blanc riaffermò il concetto che gli operai salariati dovevano divenire associati, perché l’associazione in una società democratica, fondata sul suffragio universale, poteva realizzare il binomio eguaglianza-libertà. - Victor Considérant riconosceva che per applicare il «diritto al lavoro» bisognava puntare sull’associazione operaia ed insisteva sul decentramento comunale. – André Cochut sostenne che il «movimento sociale» delle associazioni operaie è connesso con la rivoluzione di febbraio del 1848, ed ha un carattere francamente democratico. - Il fenomeno associativo poteva modificare i rapporti del capitale e del lavoro ma questo progresso sociale sarebbe avvenuto nello spirito della democrazia; gli operai associati altro non chiedevano che continuità del lavoro e una giusta retribuzione.

Nel 1851 Charles Renouvier affermò che solo attraverso la organizzazione dei comuni si poteva ottenere un sistema di governo democratico,poiché nei comuni, con il governo locale, il popolo poteva partecipare direttamente alla vita politica. - Per molti la democrazia diretta era impraticabile e contraria agli interessi del popolo; la molteplicità delle minoranze avrebbe creato instabilità e conflitti, laddove bisognava riconoscere al popolo la capacità di saper scegliere i propri rappresentanti. I giacobini, in polemica con i girondini, si richiamavano alla costituzione giacobina del 1793 che poteva realizzare il vero governo popolare.

Sul tema della democrazia prese posizione anche Proudhon, sostenendo che l’aspirazione democratica degli operai era di associarsi liberamente e di partecipare direttamente alla vita politica con eguaglianza di diritti. Secondo lui, la proposta di Blanc, di affidare al governo la realizzazione del programma sociale, minacciava la libertà dei singoli e imponeva l’eguaglianza con l’autorità. Bisognava evitare che il potere fosse esercitato a danno del proletariato dall’alto, come proposto da Blanc negli «ateliers sociaux», ma doveva essere una forza dal basso che doveva imporsi sul capitale e lo Stato. – Per costituire un moto dal basso occorreva sviluppare nelle associazioni operaie il principio della mutualité. Riaffermò che «lo sviluppo della classe operaia» è legato al mutualismo; il concetto di mutualità può assicurare «servizio contro servizio, valore contro valore, garanzia contro garanzia; solo con la mutualità si può realizzare la vera associazione politica».

Etienne Vacherot sosteneva che lo studio di Tocqueville sulla democrazia in America fosse un libro di storia, la dissertazione di Guizot sulla democrazia in Francia uno scritto di politica contemporanea; bisognava, invece, definire i princìpi della democrazia offrendo un testo di scienza politica. – Condanna il regime cesaristico di Luigi Napoleone; la democrazia non vuole nell’ordine politico altro sovrano che la volontà generale e sostituisce nell’ordine economico il padronato dei datori di lavoro con l’associazione. - La democrazia rispetta i diritti dell’uomo e deve essere applicata alla società democratica, dove tutti i cittadini concorrono all’elezione dei poteri e alla formazione delle leggi oltre che avere il rispetto dei diritti sociali ed i privilegi a livello di giustizia e dignità umana; allo Stato democratico, dove l’individualismo deve cedere il posto all’interesse generale; di fondamentale importanza è il decentramento che si realizza con un ordinamento comunale; cioè il comune (la commune) è la struttura territoriale di tipo democratico, è

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l’organo dove vengono a contatto l’individuo e lo Stato, è il centro della vita collettiva. Lo Stato deve lasciare ai comuni l’amministrazione attiva, le iniziative in materia di istruzione, di lavori pubblici, ecc. e al governo democratico, che resta subordinato allo Stato e deve rispettare le tre funzioni senza la quale non esisterebbe la democrazia: la legislativa, l’esecutiva e l’amministrativa, lasciando la sovranità al popolo. Su questa tripartizione è incentrato lo studio di Vacherot. Inoltre sostiene che il sistema democratico si regge sul principio dell’associazione e l’avvenire della democrazia deve vedere l’associato sostituirsi dovunque al salariato, in una democrazia ogni cittadino deve poter partecipare al governo e all’amministrazione del paese. Le condizioni sociali della democrazia sono legate all’associazione che è un grande progresso verso la democrazia,può assicurare all’operaio dignità civile, può modificare il lavoro in fabbrica, può sostituire l’interesse di un proprietario con l’interesse comune e può essere applicato a qualsiasi forma di lavoro.

Cos’è l’ordinamento governativo di una associazione? «Il governo di ogni associazione è completamente democratico: il comitato di amministrazione è eletto per un anno dall’assemblea generale; i membri del comitato sono rieleggibili; essi hanno estesi poteri amministrativi, ma hanno bisogno dell’autorizzazione dell’assemblea generale per le grandi decisioni; la contabilità è controllata da censori eletti anch’essi dall’assemblea». Questi criteri, applicati alla vita pubblica, avrebbero realizzato la democrazia in politica.

Dopo il 1848 le associazioni speravano di vedere riconosciuto il proprio carattere democratico. Il movimento d’associazione continuò a diffondersi in Francia:gli operai in polemica con i datori di lavoro, pretesero camere sindacali e ribadirono la loro fiducia nelle cooperative professionali. E poiché le associazioni non potevano essere soltanto nazionali, ma dovevano avere legami internazionali, essendo internazionale la causa degli operai, si doveva guardare con simpatia alla nuova Associazione internazionale dei lavoratori fondata a Londra nel settembre 1864.

Baudrillant, nel 1865, proponeva una politica democratica di tipo liberale fondata sul decentramento e sul progresso sociale, ma dopo il 1867, quando le idee rivoluzionarie ripresero vigore in Francia, la parola democrazia significò programma di profondo mutamento; il mutualismo umanitario sembrava troppo moderato. Certo è che alla fine del 1870 la vera alternativa politica in Francia sembrò essere l’alternativa democratica,in opposizione alla proposta liberale avanzata da Emile Ollivier. Quella democrazia, che era stata sperimentata all’interno delle associazioni popolari, doveva essere estesa a tutta la società civile: quindi, una diversa gestione del comune e un diverso modo di produzione.

Capitolo quindicesimo. Il mutualismo italiano.

Nel movimento associazionistico si formarono due tendenze: una, capeggiata dai fratelli Boldrini, mirava a mantenere l’organizzazione mutualistica indipendente dalla politico, l’altra, di tendenza repubblicana, aveva la sua roccaforte in Liguria. La tendenza repubblicana insisteva sull’autonomia sociale del mutualismo, ma aveva l’appoggio dei giornali democratici dei lavoratori.

Il movimento mutualistico italiano, rispetto a quello degli altri paesi, si mosse più lentamente ma assunse ben presto un valore laico, e di questo valore laico si preoccuparono le autorità ecclesiastiche, le quali videro un pericolo per le vecchie confraternite di carità. L’operaio all’interno di un’associazione mutualistica non era un semplice assistito per motivi di carità ma era un socio, che aveva una sua dignità civile, in quanto pagava una quota mensile e partecipava alla vita amministrativa della società.

Carlo Cattaneo vedeva sul piano politico che l’associazionismo sembrava essere il federalismo. Sosteneva che bisognava guardava alla Svizzera e rispettare le tradizionali autonomie regionali della penisola. La costituzione della repubblica federativa sarebbe stata il risultato di un moto evolutivo che assegnava alle regioni il decentramento effettivo del potere centrale, il controllo delle attività amministrative. Libertà civile e libertà federativa erano strettamente connesse con i presupposti ideali dell’associazionismo; l’associazione dei singoli poteva evolversi nell’associazionismo municipale. Cattaneo ebbe il torto di puntare

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sull’aggregazione federale dei vecchi nuclei storici italiani con una trasparente impronta elvetica, e di non aver insistito sulle idee di riscatto popolare connesse con la questione sociale.

Mazzini confermò, dopo il 1848, la sua fede nella democrazia come ordinamento politico; egli respinse tanto l’individualismo anarchico, quanto l’autoritarismo della teoria comunista. La democrazia era da realizzare attraverso l’associazione! Nel Manifesto fissò i punti del suo pensiero: «Libertà, associazione, pregresso di tutti ad opera di tutti; applicazione dei principii d’eguaglianza; santità e inviolabilità del lavoro». Ebbe il merito di dare alle diverse richieste d’indipendenza un carattere democratico: ogni popolo, che con le proprie forze realizzava il risorgimento nazionale, non poteva che scegliere la repubblica democratica quale forma di governo; dalle democrazie nazionali sarebbe nata l’alleanza dei popoli europei. – Parlò, dopo il 1860, della «classe operaia» e della condizione penosa dei lavoratori, criticando il capitale e i capitalisti, ma non approvava l’abolizione della proprietà individuale proposta dal comunismo. Egli è al corrente che le associazioni operai sono da tempo impiantate in Francia, Inghilterra e Belgio, conosce le critiche fatte da Proudhon al comunismo, cita Cochut e conclude affermando che l’associazione operaia «contiene il segreto di tutta una trasformazione sociale che dovrebbe compirsi in Italia».Le associazioni operaie, secondo Mazzini, dovevano all’interno governarsi con metodo democratico: «Eguaglianza dei socii nell’elezione d’amministratori a tempo, o meglio soggetti a revoca; retribuzione per tutti eguale alle necessità di vita, ecc.» su queste basi generali dovevano muoversi le associazioni operaie, e a questi princìpi si dovevano richiamare le società di mutuo soccorso a tendenza democratica; la democrazia era da applicare nella gestione interna delle associazioni in modo che i soci potessero educarsi allo spirito della eguaglianza repubblicana e «conquistare un governo popolare».

[ Le Società Operaie di Mutuo Soccorso sono associazioni, le cui forme originarie videro la luce intorno alla seconda metà dell'800, nate per sopperire alle carenze dello stato sociale ed aiutare così i lavoratori a darsi un primo apparato di difesa, trasferendo il rischio di eventi dannosi (come gli incidenti sul lavoro, la malattia o la perdita del posto di lavoro). -Nacquero come esperienze di associazionismo, coeve alla proto industria, per rispondere alla necessità di forme di autodifesa del mondo del lavoro. Dopo l'ondata rivoluzionaria del 1848 la loro diffusione subisce un notevole incremento grazie alle concessione di costituzioni liberali negli antichi Stati italiani. Prima di tale data la libertà di associazione era fortemente limitata ed ostacolata dagli ordinamenti nati nel clima poliziesco della Restaurazione.]*

Per alcuni studiosi è da sottolineare l’influenza di Mazzini sulle società operaie di mutuo soccorso, per altri a Cattaneo e Pisacane. Ma nelle società di mutuo soccorso ci fu un denominatore comune, costituito dalla gestione interna democratica; le società coinvolsero gruppi e categorie di ogni genere, e si adeguarono nei loro statuti ai princìpi democratici. Le associazioni erano società a carattere privato, ma i capi d’arte nel costituire le società adottarono negli statuti il sistema della elezione democratica alle cariche.

Ogni società di mutuo soccorso riteneva di essere un’associazione democratica. La società di mutuo soccorso di Lucca (1862) intende rispettare «il principio democratico» e diffonderlo «nelle officine e nelle campagne». Quasi ogni statuto di associazione mutualistica prevede un’assemblea dei soci che costituisce il corpo elettorale, e una elezione annuale degli organi direttivi a suffragio universale; inoltre il comitato direttivo è responsabile nei confronti dell’assemblea generale; in questo modo il sistema di democrazia a partecipazione diretta viene contemperato con il sistema di democrazia rappresentativa. – È stato criticato il fenomeno dei soci onorari nelle società di mutuo soccorso perché erano personaggi lontani dallo spirito animatore della classe operaia. Nelle società fondate da Mazzini erano, si solito, personalità politiche di sinistra. La società di mutuo soccorso di Prato (1861) è l’espressione d’un ambiente moderato: si parla di soccorso materiale, intellettuale e morale, in sostanza mostrano ai soci come sarebbe gestita una società politica democratica. - Il 16 gennaio 1863 venne fondata a Firenze, da Giuseppe Mazzini, Alberto Mario, Giuseppe Dolfi e Antonio Martinati, la Società democratica. Nel capitolo primo dello statuto si precisa: «La Società è rappresentata da un comitato dirigente di cinque membri e due segretari, eletti tutti per schede alla semplice maggioranza dei voti»; il comitato dirigente è solo «esecutore delle risoluzioni discusse e votate nell’Assemblea con obbligo di renderne conto»; tutti i soci sono elettori ed eleggibili, ma chi viene eletto per un turno di elezioni «non può essere rieletto». Questo è l’ordinamento interno di una società ispirata ai princìpi democratici delle associazioni operaie di mutuo soccorso.

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In conclusione vediamo che è indiscutibile che le associazioni operaie italiane intesero il governo sociale come un governo democratico. In Italia, come in altri paesi d’Europa, l’associazionismo fu un moto democratico dal basso che trascinò politici e filantropi. – Il movimento associazionistico italiano si mosse in ritardo rispetto a quello europeo, ma bisogna anche tener conto della situazione politica italiana fino al 1860 e delle resistenze ideologiche a iniziative che avevano un carattere laico. Dopo il 1860 si credette che le associazioni avrebbero costituito la piattaforma politica sulla quale la democrazia avrebbe fondato le premesse delle richieste sociali; l’esercizio della democrazia non era necessariamente un fatto sovversivo.

*[Il funzionamento delle SOMS in Italia venne regolato il 15 aprile 1886. - All'epoca della I Internazionale (1864), erano già sorte le prime Società di Mutuo Soccorso o di mutuo appoggio, nate con lo scopo di darsi solidarietà e/o chiedere aiuto ad altri ceti sociali. L'"età d'oro" delle società di mutuo soccorso è nei due decenni tra il 1860 e il 1880. Successivamente a questo tipo di esperienza che alcuni (tra i quali Bakunin) consideravano paternalistica, si affiancarono altri tipi di organizzazione di lavoratori che sostituirono alla concezione mutualistica e solidaristica quella sindacale e partitica. Le SOMS continuarono tuttavia ad espandersi sia come numero di associazioni (che toccò il picco di 6722 nel 1894) che di associati (il culmine è nel 1904 con 926.000 soci). - Con l'avvento del fascismo le SOMS vennero sciolte o incorporate in organizzazioni fasciste.]Capitolo sedicesimo. Associazionismo e Stato in Germania.

In Germania, dopo il 1848, si riunirono sotto una grande lega doganale, diciotto Stati tedeschi. Il processo industriale avanza a grandi passi e gli infortuni, di conseguenza, aumentavano: ecco perché il problema della previdenza sociale fu largamente dibattuto in Germania dopo il 1848. – In tutte le grandi città sotto l’impulso di attivisti democratici si costituirono delle associazioni operaie (Arbeitervereine); i democratici chiedevano, soprattutto, di poter prendere parte alle discussioni sulle garanzie sociali da parte dello Stato. A settembre di quell’anno Stephan Born, un tipografo, organizzò una Fratellanza che riunì diverse associazioni operai, e si diffuse in diverse parti della Germania. Essa aveva propositi sociali: permettere all’operai di raggiungere una dignitosa condizione umana e poter partecipare alla organizzazione democratica dello Stato. – La «Fratellanza operaia» e altre associazioni si fecero portavoce delle nuove esigenze democratiche, e in questa loro azione furono appoggiate da alcuni organi di stampa. Si discusse molto di diritto delle masse, di libertà di assemblea e di associazione, di migliori condizioni di vita per il proletariato. Non mancarono dissensi all’interno delle associazioni democratiche, ma tutte erano d’accordo che in una vera democrazia i cittadini, senza distinzioni di ceto e senza differenze economiche, avessero il diritto di far conoscere le proprie esigenze alle autorità politiche.

Marx entrò nella Società dei democratici di Colonia e sostenne la tesi dell’alleanza della classe operaia e degli elementi progressisti borghesi per realizzare una democrazia avanzata. – A difesa giuridica delle associazioni fu fatta da Lorenz Stein che sostenne la tesi che le associazioni erano l’elemento della vita stessa dello Stato; quindi, non solo libertà di associazione, ma necessità delle associazioni per il funzionamento della vita pubblica. Egli distingueva l’associazione politica dalla lega associativa. – Il coro dei giuristi conservatori replicò che il governo aveva il diritto di sorvegliare le associazioni politiche e operaie per prevenire i disordini; il potere di polizia aveva il diritto di prendere nota della qualità dei promotori, della condizione degli associati, degli argomenti da trattare nelle riunioni. Le associazioni operaie, sotto il pretesto del muto soccorso, potevano divenire associazioni antigovernative; per questo motivo erano d considerare associazioni pericolose. – Anche in campo cattolico fu sollevato il problema dell’associazionismo, molti cattolici conservatori erano contrari a un associazionismo a carattere democratico, tanto è vero che parlavano solo di un ordine cristiano. Solo il vescovo di Magonza, Ketteler, fu più sensibile alle aspirazioni autonomistiche degli operai sostenendo che il problema della classe operaia non era un problema di carità, ma di giustizia. Avvicinandosi alle posizioni dei democratici, auspicò la formazione in Germania di un movimento cattolico sociale, e sostenne che le associazioni cooperative potevano modificare il sistema produttivo e permettere una conciliazione delle classi. – Ma tra tutti, sul tema dell’associazionismo, si distinse per fervore operativo Herman Shulze-Delitzsch; sostenitore dell’associazionismo operaio, quale strumento per frenare il predominio della grande industria, se dotato di un capitale iniziale. Fondò a Delitzsch la prima società di credito per gli operai, istituì un sistema bancario popolare, che agevolava gli artigiani e i piccoli commercianti, ed infine diede vita a numerose cooperative di consumo e di distribuzione. Non accettava i princìpi di Owen e Proudhon e preferiva liberalismo di Bastiat.

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Il movimento associazionistico tedesco fu caratterizzato, nel suo insieme, da una profonda fiducia nei confronti dello Stato; il problema sociale era un problema di carattere pubblico, e lo Stato non poteva disinteressarsi della condizione degli operai. L’intervento statale a favore dei lavoratori poteva creare le condizioni necessarie all’attuazione dei programmi di previdenza e di assistenza, di cooperazione e di consumo, di istruzione e di specializzazione. Restava incerto se la gestione degli organi statali avrebbero fatto gli interessi del proletariato e restava incerto il rapporto tra organizzazioni locali e potere centrale politico: il potere dello Stato avrebbe regolato le iniziative capitalistiche, ma sarebbe rimasto in balia del consenso dei lavoratori. Alle richieste di maggiore democrazia i conservatori risposero con la difesa dei diritti della proprietà. - Diede risposta ben chiara sulla funzione politica delle associazioni operaie Ferdinand Lassalle, influenzato da Marx e Engels, tanto da adottare la teoria della lotta di classe. Era sostenitore di una repubblica democratica e difese le necessità storiche della rivoluzione sociale; sostenne che lo Stato doveva divenire uno strumento di democrazia sociale e che lo Stato era nelle mani dei ceti privilegiati che difendevano gli interessi della classe capitalistica. Per mutare questa situazione politica non erano sufficienti i progetti mutualistici ma bisognava puntare sul suffragio universale che avrebbe permesso agli operai, attraverso il voto, di obbligare lo Stato a intervenire a favore di tutto il popolo.Con il suo Arbeiter-Program, del 1862, segnò una svolta nel dibattito sulla funzione politica della classe operaia in quanto legò il movimento operaio tedesco al problema nazionale, e destinato ad assicurare a tutti i cittadini lavoro e benessere. In questo programma operaio egli preconizzò che il movimento di associazione potesse uscire dal mutualismo per divenire un grande partito politico tedesco; questo partito operaio doveva tendere al miglioramento della classe operaia e strappare il potere governativo alla classe borghese; sul piano sociale egli suggeriva di moltiplicare le cooperative operaie di produzione, le quali, finanziate dallo Stato, avrebbero assicurato all’operaio il frutto del suo lavoro. – Fondò la prima associazione generale tedesca degli operai ed iniziò un azione di organizzazione capillare rivolgendosi alle associazioni operai esistenti ed indicò quali fossero i mezzi pratici per dar vita a un partito di massa e respinse l’associazionismo politico moderato. Gli operai non solo avevano il diritto di associarsi, ma dovevano partecipare alla vita politica. La polemica contro l’associazionismo di Schulze-Delitzsch divenne polemica contro la concezione borghese delle associazioni di produzione; quindi al catechismo proposto da Schulze-Delitzsch egli contrappose un catechismo dell’associazionismo autonomo dei lavoratori.

Il sistema socio-politico di Lassalle poggia sulla concezione economica del lavoro: i capitalisti sfruttano il lavoro, e si impossessano di una parte del valore che spetta all’operaio; per modificare questa situazione lo Stato deve incoraggiare il lavoro autonomo degli operai e mettere le associazioni in condizione di combattere i datori di lavoro e la produzione capitalista. La democrazia doveva essere per Lassalle una democrazia sociale.

Se la classe operaia voleva la gestione democratica dello Stato doveva organizzarsi come partito politico. Un partito politico di massa che mantenesse le stesse caratteristiche dell’associazionismo, cioè la volontà, l’impegno sociale e la partecipazione collettiva. La differenza tra associazione e partito politico, che qualche difficoltà aveva portato all’interno degli Arbeitervereine, era che la democrazia nelle associazioni aveva una funzione educativa di carattere civile, e doveva abituare la classe operaia a partecipare alla vita associativa; il partito, invece, aveva una finalità politica di lotta, e non poteva correre il pericolo di perdere la sua linea strategica a causa di maggioranze occasionali.

Capitolo diciassettesimo. L’unionismo inglese.

Il 1848 segnò il fallimento del movimento cartista inglese, ma non altrettanto avvenne per il Trade Union Movement, nato dalla realtà dello sviluppo industriale del paese e dalle specifiche esigenze degli operai.

I coniugi Webb scrissero che un nuovo spirito dominò il mondo delle unioni operaie inglesi. Con la loro espansione e l’aumento del numero delle quote richiese che si nominasse uno dei membri per dedicare tutto il suo tempo alla corrispondenza e ai conti. Ma il nuovo funzionario, per quanto operoso, si trovò nelle mani

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un compito superiore alla sua istruzione e alle sue capacità. Dopo il 1850 nel mondo unionista inglese, si ha la fusione tra le associazioni locali, che determina l’avere una classe di funzionari salariati permanenti e scelti tra le file dei membri delle unioni operaie che svolgono la funzione organizzativa e tutelano gli interessi dei lavoratori su scala nazionale.

Ogni amalgamated Society e ogni central Association fu in condizione dopo il 1852 di svolgere a favore dei soci un’azione di soccorso contro la malattia, l’infortunio e la vecchiaia, ma anche un’azione di difesa del salario contro il datore di lavoro; questa duplice azione ampliò le prospettive dell’associazionismo inglese che adesso avevano maggiore tranquillità in caso di conflitto con gli imprenditori. A loro volta gli imprenditori accusarono le Trade Unions di utilizzare i contributi associativi dei soci, destinati ai sussidi in caso di necessità, per finanziare scioperi politici. – La prima preoccupazione delle associazioni fu di mettere i propri membri nella possibilità di leggere, quindi istruzione; la seconda fu di fornire ai loro membri gli organi di stampa per essere informati o per far sentire la propria voce.

L’idea dell’associazione venne difesa in Inghilterra non solo dai vecchi cartisti, ma dai radicali, secondo i quali l’unione degli operai con le associazioni o con le cooperative poteva mettere fine alla conflittualità sociale e avviare su nuovi binari la produzione e la distribuzione dei beni necessari al paese.John Staurt Mill sostenne l’importanza delle associazioni operaie nel sistema produttivo del paese; a suo giudizio esisteva nelle masse della società una forza volitiva della quale non si conosceva l’ampiezza. Le associazioni operaie avrebbero visto un giorno gli operai lavorare sotto la direzione di capi eletti da loro stessi ed avrebbero affidato agli operai gli strumenti di produzione dando, così, avvio al progresso sociale.Per capire il suo significato della democrazia bisogna partire dalla fiducia che egli dava nella funzione delle associazioni operaie: era necessario costituire associazione democratiche, impostate come cooperative, per permettere alle classi operaie di trovare la loro rappresentanza; soltanto l’abitudine alla partecipazione associativa poteva portare i lavoratori al «democratic citizenship», alla cittadinanza democratica. Mill interpreta la democrazia come ordinamento politico fondato «sull’educazione» e «partecipazione».

L’associazionismo inglese divenne un modello nei paesi europei; tutta la letteratura socio-politica relativa alle associazioni operaie di mutuo soccorso e di previdenza sociale, pubblicata tra il 1846 e il 1870 in Europa, elogiò l’unionismo inglese. – Dopo il 1860 i capi delle Trade Unions, avendo la sede a Londra, pensarono a una intesa tra le associazioni inglesi per condurre una battaglia comune; i rapporti ben presto divennero amichevoli, e si costituì una specie di consiglio dei segretari delle associazioni che impostarono una strategia politica. ci fu l’associazione dei carpentieri, dei meccanici, dei muratori, ecc. ognuno chiedeva qualcosa di diverso ma sempre legate al miglioramento delle condizioni civili, sociali ed economiche.

Nel 1862 giunse a Londra, in occasione della esposizione universale, una delegazione di operai francesi, e grande fu l’ammirazione per i risultati ottenuti dalle Trade Unions inglese. Fu allora che fu proposta un intesa internazionale delle società operaie a difesa degli interessi comuni con sede a Londra: «Finalmente compresero che senza un collegamento internazionale non risultava possibile alcun successo definitivo e che il movimento operaio per la sua natura oltrepassava le barriere statali e nazionali». – Il consiglio londinese delle Trade Unions organizzò il 28 settembre 1864, un meeting pubblico al quale furono invitati democratici tedeschi, francesi, polacchi ed italiani. Il meeting ottenne un grande successo perché tutti convennero che era necessario coordinare sul piano internazionale l’azione delle società europee, tanto di mutuo soccorso quanto di cooperazione. Finalmente gli inglesi uscivano dal loro tradizionale isolamento e concordavano con i lavoratori di tutte le nazioni un’azione comune. – Mazzini godeva di buona fama bella, nella classe operaia inglese, e alcuni componenti italiani del consiglio centrale proposero che fosse adottato un suo testo. Nessuno dubitava sulla sua onestà ma alcuni non volevano confondere la lotta contro il capitalismo industriale con la lotta contro l’Austria per la liberazione del Veneto. Un’associazione internazionale non poteva legare la sua sorte a chi era impegnato in una lotta politica nazionale. Così nel settembre 1864 fu individuato nel tedesco dottor Karl Marx l’uomo in grado di coordinare l’azione internazionale delle Trade Unions. Conosceva diverse lingue, era l’autore del manifesto, pubblicato in inglese nel 1850, nel quale, come esponente della frazione più avanzata della democrazia tedesca, aveva sostenuto l’internazionalismo proletario poiché il moderno capitale industriale aveva spogliato il lavoro di ogni carattere nazionale; in più, nel proprio paese non aveva ricoperto cariche politiche, né aveva assunto una leadership preminente, inoltre

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era stimato dai suoi connazionali per il suo ingegno, per la sua preparazione culturale. Non bisogna dimenticare che molti membri inglesi del consiglio centrale non avevano la preparazione culturale per stilare documenti preliminari da sottoporre alla discussione; inoltre Marx sembrava adatto a moderare le pretese dei francesi e a contenere le elegie dei mazziniani.

Capitolo diciottesimo. La democrazia proletaria dell’Associazione internazionale dei lavoratori.

A Londra confluivano, da diversi paesi, molti emigrati ed esuli politici. Proudhoniani francesi, mazziniani italiani, tedeschi operaisti e socialdemocratici, artigiani e operai belgi, esuli intellettuali russi e polacchi. In questa situazione culturale Marx tra il 21 e il 27 ottobre 1864 si accinse al delicato compito di preparare gli statuti dell’Associazione internazionale dei lavoratori, costituitasi un mese prima. Occorreva fornire una motivazione dottrinale ed un comune desiderio di organizzazione, Marx propose come motivazione il fatto che al progresso crescente della borghesia corrispondeva l’aumento della povertà per la classe lavoratrice. Per porre rimedio bisognava che il proletariato si unisse in legami di fraternità «tra gli operai dei differenti paesi» e puntare alla «conquista del potere politico» per fondare la «democrazia proletaria».

Gli statuti provvisori dell’Associazione internazionale dei lavoratori vennero approvati dal consiglio centrale il 1° novembre 1864 dove Marx precisò che la democrazia proletaria non tendeva «a costituire nuovi privilegi e monopoli di classe, ma a stabilire per tutti i diritti e doveri eguali e ad annientare ogni predomini di classe». L’Associazione internazionale degli operai doveva essere «un centro di collegamento e di cooperazione tra le società operaie esistenti nei diversi paesi», dalle società di mutuo soccorso alle società per l’affrancamento della classe operaia; la sede del consiglio sarebbe stata Londra, e i congressi generali dei delegati delle società operaie sarebbero stati tenuti in sedi scelte per opportunità politiche. Questo centro di collegamento non faceva «distinzioni di colore, di fede o di nazionalità», e intendeva divenire portavoce delle «aspirazioni comuni della classe operaia». L’Associazione internazionale dei lavoratori aveva una struttura democratica, non solo perché rivendicava nel suo programma i diritti dell’uomo e del cittadino per tutti, ma in quanto il consiglio centrale, come nelle associazioni operaie, era eletto dalla assemblea annuale dei rappresentanti dei diversi paesi. - L’Associazione quale movimento democratico associazionistico europeo, si presentava statutariamente con un programma riformistico, e sembrava accettare la validità del lavoro cooperativo. Nelle Istruzioni due paragrafi erano dedicati al lavoro cooperativo e alle associazioni di mestiere. Il testo era molto esplicito: «Il compito dell’Associazione internazionale dei lavoratori è di unificare i movimenti spontanei della classe operaia e di attribuir loro uniformità, ma non di dirigere la classe operaia o di imporre ad essa un qualsiasi sistema dottrinario». Si riconosceva al movimento cooperativo di essere una forza riformatrice della società presente con il compito di mostrare che il sistema, di subordinazione del lavoro al capitale dispotico, poteva venir soppiantato dal sistema repubblicano della associazione di produttori liberi ed eguali.

Questa fiducia nella democrazia venne rafforzata dal successo che l’iniziativa londinese ebbe in tutti i paesi d’Europa. In un appello del consiglio generale del 1867, si leggeva: «I lavoratori devono unirsi e costituire associazioni per difendere il loro salario e la loro vita. Fino ad oggi queste associazioni sono state esclusivamente locali; il capitalismo, invece, grazie alle nuove invenzioni industriali, vede accrescere quotidianamente la sua forza. Di fronte a questo stato di cose, se la classe operaia vuole continuare la sua lotta con qualche prospettiva di successo deve trasformare in internazionali le sue associazioni nazionali».

I repubblicani francesi guardavano con gelosia alle iniziative inglesi. Un gruppo di democratici francesi lanciò l’idea di un «Congrès de la paix» che si tenne a Ginevra, terra d’esilio per molti, l’11 giugno 1867. Alla fine delle riunioni piuttosto confuse, fu chiaro che la libre démocratie non era la democrazia associativa dei lavoratori. - Il predominio inglese non poteva far sorgere all’interno stesso dell’Associazione internazionale dei lavoratori diffidenze nazionali. Un attacco indiretto al gruppo dirigente londinese e all’atteggiamento riformistico delle Trade Unions, avvenne da parte del russo Bakunin che propugnò la «Alliance internazionale de la démocratie socialiste». Egli aveva in mente, invece, un programma anarchico, dove ci si doveva opporre alla democrazia borghese in nome della eguaglianza naturale degli individui; gli individui con la rivoluzione sociale dovevano distruggere il potere autoritario governativo; gli assertori della

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democrazia socialista respingevano alleanze con i moderati e rifiutavano qualsiasi azione politica che non avesse «come fine immediato e diretto il trionfo della causa dei lavoratori contro il capitale». - Ma nella replica del consiglio dell’Associazione dei lavoratori, stesa a Londra il 22 dicembre 1868, la «Alliance internazionale de la démocratie socialiste» non fu accolta come filiale dell’Associazione internazionale dei lavoratori.

Marx rifiutava tanto l’eguaglianza delle classi «predicata dai socialisti borghesi», quanto l’anarchismo dei fondatori dell’Alleanza democratica socialista. - La prospettiva politica di Marx, che prevedeva una forma di governo proletario, andava oltre il semplice programma riformistico delle società operaie, e trovava le sue ragioni nelle conclusioni economiche espresse nell’ultima sezione del primo volume della sua opera Das Kapital, terminato dopo la fondazione dell’Associazione internazionale degli operai, e pubblicato nel settembre 1867. Nell’ultima sezione, la settima, Marx insisteva sul processo di accumulazione del capitale ed enunciava la legge generale dell’accumulazione capitalistica con le relative conseguenze sulla classe operaia. L’associazione degli operai non avrebbe riformato la situazione generale modificando il rapporto produzione-salario: essa avrebbe determinato «la ribellione della classe operaia» sempre più unita e disciplinata «dallo stesso meccanismo del processo di produzione». La classe operaia inglese si sarebbe, per Marx, impadronita del potere e avrebbe realizzato la democrazia proletaria. Capitolo diciannovesimo. Il comune democratico.

In un approfondito studio su Le vocabulaire politique et social en France de 1869 à 1872, Jean Dubois ha osservato che la parola «Commune» (il comune) richiamava alla memoria la «Commune de Paris» del 1793; questa parola venne pronunciata nelle riunioni politiche dopo la caduta dei regime cesaristico di Luigi Napoleone, ma essa era già stata pronunciata nelle associazioni operaie con evidente allusione alla autonomie communale e alla fédération communale. Autonomia significava partecipazione attiva dei cittadini alla vita del comune senza le impostazioni autoritarie del potere centrale; federazione significava decentramento, intesa politica e sociale dei comuni, significa fédération des sociétés ouvrières. L’elemento unificante era la fiducia nella democrazia, quale forma di governo sociale. I democratici erano quei cittadini che pensavano a una struttura politica associativa. – I repubblicani amavano essere chiamati democratici, e davano alla parola democrazia un valore morale e politico; ma se la repubblica era una macchina politica, la democrazia, si disse, era un fatto sociale; democrazia significava giustizia insieme con la libertà e l’eguaglianza. La democrazia non poteva non essere autoritaria, al contrario si identificava con il popolo; la causa della democrazia era la causa di tutti; non poteva essere césarienne, poiché era popolare: la démocratie ouvrière era una démocratie populaire.

Nel 1871 i tedeschi assediarono Parigi, nonostante fosse minacciata dalla occupazione delle truppe tedesche e a corto di viveri, riuscirono ad opporsi al proprio governo che aveva lasciato Parigi. –Sotto la spinta di un diffuso sentimento democratico, i rappresentanti comunali decisero la convocazione dei cittadini per eleggere il 26 marzo il Conseil général del Comune di Parigi. La percentuale di astenuti fu alta, e vennero eletti intellettuali, artigiani e lavoratori dipendenti, più che operai delle fabbriche; tuttavia nelle misure adottate fu vivo lo spirito dell’associazionismo, ossia di quel movimento democratico che aveva caratterizzato la storia della Francia dopo il 1848. – Missione del nuovo Conseil général eletto fu di istituire in Francia una repubblica democratica fondata sulla sovranità del popolo; il popolo doveva detenere questa sovranità senza cederla a un apparato statale autoritario, e senza affidarlo attraverso plebisciti a un capo carismatico; il popolo doveva partecipare al governo del paese. Associazionismo operaio e ordinamento governativo dovevano essere regolati dal medesimo spirito democratico.

Poco dopo i tragici eventi, nel Grand dictionnaire universel di P. Larousse, alla voce «Commune de Paris de 1871», viene riportato nella valutazione di questa guerra civile, che bisogna tener conto delle sofferenze fisiche e morali subite dai parigini durante l’assedio; la resa governativa di Parigi causò nella popolazione collera e disillusione contro i capitulards; questa città, fedele alla repubblica, con profondo disappunto vide la nuova assemblea nazionale inclinare verso la monarchia; una serie di atti governativi contro la guardia nazionale parigina accrebbe l’irritazione.

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Il Comune di Parigi invitò i lavoratori a costituire società operaie, cooperative di lavoro; l’associazione restò il motivo dominante dei discorsi politici. La Commune démocratique di Parigi, fino all’ultimo, credette di lottare «per la libertà contro il dispotismo, per l’eguaglianza contro il monopolio, per la fraternità contro la servitù, per la solidarietà dei popoli contro l’egoismo degli oppressori». Erano temi dibattuti dai democratici dopo il 1848, e ripresi con ostinata coerenza dai difensori del comune democratico.

Federico Chabod nelle premesse alla Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 ha dedicato alcune pagine alla paura per «i rossi» che si diffuse in Europa dopo la Comune.

Si poteva credere nella democrazia quale forma di governo? Su questo punto la gauche democratica europea si spaccò con due risposte diverse: secondo alcuni gli avvenimenti di Parigi dovevano esser visti come l’aurora della futura società proletaria con un governo di tipo comunali stico; secondo altri bisognava fondare una repubblica democratica di tipo rappresentativo con finalità sociali. Democrazia proletaria oppure democrazia rappresentativa divennero le due soluzioni della sinistra europea.

Capitolo ventesimo. Democrazia comunalistica e democrazia rappresentativa.

Per molti storici, nel testo sulla Guerra civile in Francia di Marx, vi è la definizione della democrazia proletaria. Gli avvenimenti dell’esperienza francese serve a Marx per trarne alcune indicazioni di carattere teorico. La «Commune» è un autentica rivoluzione contro lo Stato-potere, infatti, con essa il suffragio universale è finalmente nelle mani del popolo e permette ai comuni di scegliere i propri funzionari addetti alle pubbliche funzioni; la «Commune» di Parigi ha dato corpo alle aspirazioni della classe lavoratrice in tutti i paesi. La nuova forma politica della società proletaria sarebbe stata la repubblica sociale; la repubblica proletaria, secondo Marx, sarebbe stata una democrazia comunalistica a carattere proletario. – Nella stesura definitiva, Marx ribadisce che dalla «Commune» non solo sono emersi gli elementi della nuova società, ma è nata una nuova «form of government», ossia il «governo della classe operaia»; con questa nuova forma di governo ogni iniziativa, presa prima dallo Stato, passa nelle man i del comune; il comune parigino può servire da modello per i grandi centri industrializzati, e per ogni centro urbano e rurale. L’unità della nazione è fondata sulla «Costituzione comunale» con la conseguente distruzione dello Stato potere, il quale intralcia il «libero movimento della società»; il comune può fornire alla repubblica sociale la base di «istituzioni realmente democratiche»; in questa società comunalistica di tipo partecipativo la «produzione cooperativa» sarebbe subentrata al «sistema capitalistico». – Nel testo sulla Guerra civile in Francia esamina la nuova forma di governo scaturita dagli avvenimenti parigini, e passa dal modello associativo statale al modello comunale francese; la nuova società doveva emergere dalla esperienza politica e sociale parigina; la Commune francese indica per Marx la via per infrangere il privilegio governativo della classe appropriatrice; la classe lavoratrice, se vuole fondare una vera repubblica sociale, deve guardare al comune democratico francese. In polemica con i socialisti Marx addita «l’organizzazione comunale» quale esempio per realizzare «il libero e associato lavoro»; e in polemica con i repubblicani moderati francesi che consideravano la Comune parigina «una democrazia degradata», Marx condanna la repubblica parlamentare, e quindi la democrazia rappresentativa.

A difesa della democrazia comunalistica intervenne anche il russo Bakunin, il quale da tempo sosteneva che il comune avrebbe sostituito lo Stato, e che nella nuova società sarebbero stati applicati princìpi egualitari. Egli sostenne che lo Stato è la negazione stessa della morale umana e dell’umanità; l’avvenire apparteneva alla classe operaia che in nome della solidarietà desiderava una democrazia sociale fondata sul comune. - Nel 1871, in uno scritto, La Commune de Paris et la notion d’Ètat, sostenne che contro i partigiani dell’iniziativa assoluta dello Stato, i collettivisti democratici credevano nell’organizzazione spontanea del lavoro, nelle associazioni liberamente costituite, nella federazione spontanea dei comuni; abolire lo Stato era la condizione indispensabile per realizzare la vera democrazia collettiva e partecipativa. Bakunin preparò, nello stesso anno, un testo polemico contro il capo della Giovine Italia, La théologie politique de Mazzini, n quanto difensore dello Stato democratico nazionale. Polemizzando contro il repubblicano democratico

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Mazzini, Bakunin respingeva la concezione di quei democratici moderati che predicavano la cooperazione delle classi attraverso la democrazia rappresentativa. Lo stato moderno, precisò, anche se ha un’apparenza democratica, è autoritario e centralizzato.

Nel 1872 esce a Londra la nuova edizione del Manifesto del partito comunista e nella prefazione, firmata da Marx e Engels, si diceva che di fronte allo sviluppo della grande industria e ai fatti delle esperienze della Comune di Parigi, vari punti del programma erano invecchiati ed andavano rivisti. Tuttavia restava valida la via tracciata al proletariato, che doveva, per porre fine allo sfruttamento del sistema capitalistico, abolire la proprietà privata, fonte dei rapporti capitalistici, e anche spezzare la macchina dello Stato borghese, baluardo dei privilegi sociali.

Mazzini prese le difese della democrazia rappresentativa con governo popolare. Commentando i fatti di Parigi ripropose il tema della collaborazione fra le classi da attuare in una democrazia repubblicana. Loda i «duecentomila elettori che votano placidamente la scelta dei membri del municipio», ritiene l’insurrezione parigina una «protesta repubblicana», e accusa le classi abbienti di non curarsi del «modo ascendente della classe operaia». Gli agiati non capivano che la tendenza, di questo nuovo moto europeo, era l’associazione, l’elemento delle classi operaie; l’idea di associazione si sostituisce all’attività individuale: «l’emancipazione degli operai è una rivoluzione che si compirà in nome del principio di associazione nell’epoca nostra». Questa difesa democratica dei diritti della «classe operai delle città» è una accusa nei confronti del’assemblea francese, che non nomina «un governo di popolo che assicuri almeno internamente la libertà». Nello scritto Comune e l’Assemblea, Mazzini torna sui fatti di Parigi, sullo spettacolo «d’ira, di vendetta e di sangue», terminato con la «semaine sanglante» (21-28 maggio 1871), condannando tanto il terrore del Comune parigino, quanto la feroce repressione dell’Assemblea di Versailles. Nello scritto riafferma la sua fede repubblicana, e rimprovera al governo francese di non aver fatto «franca dichiarazione repubblicana» e di non aver emanato una legge «di largo e libero ordinamento municipale». Difende la repubblica democratica fondata sul principio del «progresso morale, intellettuale, economico da svolgersi per mezzo dell’associazione»; la forma repubblicana è l’unico mezzo per tradurre in rapida realtà l’associazione, l’unico sistema per trasformare gli assalariati in associati. Ma condanna la repubblica proletaria teorizzata da coloro che in nome della questione sociale fomentano l’odio, invocano il ricorso alla forza, e badano solo ai problemi economici; respinge, così, «le stolte teoriche del Comune di Parigi» accolte dall’Internazionale dei lavoratori. Mazzini, per vedere realizzato il miglioramento delle condizioni morali, intellettuali ed economiche di tutti i cittadini, auspica «un ordinamento politico nel quale gli operai possano per mezzo dei loro rappresentanti esprimere bisogni, tendenze, desideri, oggi commessi a uomini d’altre classi e con interessi diversi». Sulla base di queste aspirazioni fondate sulla giustizia, Mazzini ripropone un programma di democrazia rappresentativa da attuare con una repubblica popolare in grado di conciliare la classe operaia e la classe media; questa classe media ha il dovere di «stendere una mano fraterna alla classe immediatamente inferiore e sollevarla al proprio livello». - Il 10 marzo 1872, Mazzini si spegneva a Pisa, ma molti democratici repubblicani continuarono la sua battaglia: la democrazia doveva essere realizzata con un sistema politico repubblicano a carattere nazionale. Questi democratici, sostennero la funzione civile delle società operaie e indicarono nel decentramento dei comuni il mezzo per rinnovare la vita politica nazionale.

In Inghilterra, i capi delle Trade Unions cessarono di appoggiare la democrazia rivoluzionaria, e si fecero apertamente sostenitori della democrazia rappresentativa di tipo riformistico; la scissione dall’Internazionale dei lavoratori divenne, così, inevitabile. Dopo la vittoria dei conservatori del 1874, i democratici inglesi incrementarono la loro attività attraverso «clubs», «meetings», «papers» per ottenere il suffragio universale, l’intervento governativo nei conflitti tra operai e datori di lavoro, allargamento del diritto di voto e una nuova legislazione sociale. - In Francia la sinistra radicale ripropose il modello della repubblica rappresentativa popolare perché le leggi del 1875 non affermavano il principio della sovranità popolare; esse erano il risultato di compromessi complicati, centrati sulla teoria della separazione dei poteri; bisognava, invece, realizzare la vera repubblica democratica. Della democrazia radicale furono animatori alcuni repubblicani, i quali avevano criticato gli eccessi della Comune parigina. La repubblica democratica doveva realizzare riforme interne, adottare una politica fiscale,compiere interventi sociali. - In Svizzera, sotto la pressione dei democratici, venne messo, in diversi cantoni, in atto il sistema della votazione diretta di tutti i cittadini sui problemi legislativi. Nel 1874 si procedette a una revisione totale della costituzione, così le istituzioni

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federali svizzere sembrarono poter servire da esempio per una democrazia rappresentativa non centralizzata. - In Italia di democrazia si parlò dentro e fuori il parlamento: democrazia significava decentramento amministrativo, autonomia dei comuni, suffragio universale, libertà per le associazioni operaie, riforma scolastica; secondo i democratici bisognava attuare una trasformazione delle istituzioni; il governo doveva affrontare il problema sociale e aiutare gli strati popolari economicamente più deboli. Nel 1872, Garibaldi propose una coalizione delle forze democratiche italiane per portare l’attenzione sulle questioni sociali e per dare una comune strategia alle associazioni democratiche, ma la proposta cadde per le profonde divergenze tra la sinistra rivoluzionaria e la sinistra riformista. Dal canto loro i repubblicani rifiutarono le idee degli internazionalisti e i loro propositi rivoluzionari.

Il discorso sulla democrazia nazionale rimase debole perché non poteva prescindere dallo sviluppo produttivo in atto nei diversi paesi. L’Europa in tutti i settori affermava la sua capacità industriale e la sua volontà espansionistica: doveva, di conseguenza, riconoscere di essere una società economicamente e socialmente avanzata. L’esame di questa realtà economica e sociale europea aprì un ampio dibattito culturale sul significato e sul valore della democrazia moderna. Una democrazia moderna doveva essere un diverso modo di governare: alla partecipazione politica dei ceti popolari doveva corrispondere un sistema finanziario sociale; la progressività delle imposizioni tributarie doveva essere integrata con lo sviluppo dei servizi pubblici, e la ridistribuzione dei redditi doveva garantire la sicurezza sociale.

Parte terza.La democrazia quale società civile di cittadini uguali.

(1871-1915).

Capitolo ventunesimo. La società moderna avanzata.

Il problema sociale apparve nella sua gravità dopo gli avvenimenti della Comune parigina (1871), che fece temere in Europa una rivoluzione sociale. L’ordine sociale era in pericolo perché i conflitti sociali poteva disgregare l’intera nazione e travolgere gli ordinamenti politici ed economici. Bisognava studiare la società contemporanea e trovare delle soluzioni per eliminare le cause dei mali esistenti all’interno dei diversi paesi.

Herbert Spencer affermò che la società non è un semplice nome collettivo che raccoglie un certo numero di individui; essa è una entità simile a un organismo che si sviluppa in dimensione e anche in struttura. In ogni società, poi, sorge una classe dominate, che non solo di distingue dal resto, ma si differenzia allorché comincia a compiere singole funzioni di governo. Lo stesso avviene per le classi governate; inizialmente la popolazione si occupa solo di agricoltura, successivamente anche di manifattura, e così si determina la distribuzione del lavoro. Proprio queste differenziazioni creano i contrati nella società. – Spencer, nelle società avanzate distingue due forme radicalmente diverse di organizzazione politica: la società militare e la società industriale. Nella prima, la società è idealmente organizzata per la guerra e ogni attività è subordinata al potere centrale. L’individualità di ogni membro è subordinata nella vita, nella libertà e nella proprietà. Nella seconda, invece, questa subordinazione non è necessaria, l’individualità del cittadino è protetta e colui che deve regolare le contese è l’arbitrato. Senza l’aggressività del militarismo la funzione collettiva consiste nel decidere fra le pretese rivali in cui le persone interessate non possono vedere la misura equa che le mette d’accordo. Per assicurare un equo accordo, bisogna che ogni interesse possa essere equamente espresso. - E ancora, la società militare è il risultato di un sistema imposto (regime di statuto), la società industriale è il frutto degli accordi (regime di contatto); tanto l’una quanto l’altra società sono espressioni storiche di una società sviluppata, ma ogni società sviluppata è una società complessa, e lo sviluppo della aggregazione determina «the advance of organization», «ossia l’anticipo di organizzazione».

I contemporanei di Spencer furono attratti dal tema della società avanzata, quale società complessa. Che stessimo andando verso l’avanzamento, e che non era un fenomeno lineare, era sicuro. Ricostruire il mondo dei fatti storico-sociali è straordinariamente complicato, perché tante cause operano assieme; la società è il

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risultato delle sue passate condizioni e bisogna indagare su queste posizioni; una organizzazione politica a regime contrattuale non può non rispecchiare la complessità di una società avanzata.

L’evoluzione naturale di Spencer venne però criticata. Il mondo sociale era soggetto all’urto dei gruppi: i gruppi sono l’elemento del progresso sociale. La lotta per la vita è una lotta di gruppi ed il gruppo più forte orienta il moto della società; la società avanzata si realizza ai danni dei deboli, i quali sono costretti ad assoggettarsi ai più forti. – L’ideologia del conflitto fu richiamata da Thomas Malthus che spiegava come l’aumento della popolazione contrapposto all’aumento dei mezzi di sostentamento era all’origine di molti conflitti sociali; la miseria degli starti più bassi della popolazione era normale conseguenza. Poiché la conflittualità era una minaccia permanente, bisognava convenire che la società avanzata era anche una società tormentata da contrasti profondi, aggravati dalla staticità delle istituzioni.

Fustel de Coulanges spiegò come la società avanzata moderna era ben diversa, in senso negativo, alla società antica. Partendo dal fenomeno religioso, aveva mostrato l’unità della famiglia e la solidarietà dei gruppi di famiglie all’interno del mondo antico. Il giudizio positivo sulla polis dell’antichità classica era stato confermato per le primitive civiltà dagli studi etnologici. Tutti gli etnologi confermavano l’esistenza di una società primitiva meno conflittuale. Henry Summer Maine affermò che la società antica, essendo fondata sull’autorità paterna e non sull’idea di contratto, risultava armoniosa e non conflittuale. Lewis H. Morgan affermò che in alcune società primitive la proprietà era stata comune, e l’organizzazione politica era stata collettiva. A questo dibattito sulla società avanzata conflittuale, contrapposta alla società organica meno avanzata, diede molta importanza Ferdinand Tӧnnies, nello scritto del 1887, Comunità e società. Tӧnnies afferma che il legame sociale può influenzare la volontà di una persona, mentre la volontà collettiva è un legame d’interdipendenza che può rimanere inalterato per un periodo indefinito: questo legame muta solo attraverso atti d’innovazione. Nelle relazioni sociali, il passaggio dalla vita del villaggio rurale alla vita della città ha determinato il passaggio dalla comunità alla società. La contrapposizione è abbastanza evidente: dall’amicizia allo scambio, dai costumi alla legislazione, dalla religione all’opinione pubblica. - Per spiegare le difficoltà della convivenza urbana, Tӧnnies, contrappone alla comunità rurale o feudale con i suoi vincoli naturali, umani e spontanei, la società borghese, capitalistica, individualistica e convenzionale. Nella società antica gli uomini vivono separati ma in simbiosi, nella società moderna, invece, l’individuo rifiuta il contatto con l’altro individuo tranne se non ottiene uno scambio di prestazione o donazione, gli individui non agiscono per la società ma agiscono per sé. In questa società di scambio, che possiamo definire borghese, gli individui rimangono tra loro indipendenti ed in aperta concorrenza, ossia in uno stato di guerra. Manca il senso della democrazia perché c’è una classe che considera il paese un mercato di acquisto e di smercio; questi padroni in possesso di denaro riducono, mediante il contratto di lavoro, le persone libere in schiavi. Poiché la società è caratterizzata dalla città industriale, a questo tipo di città vengono attribuite le colpe della società conflittuale. Nella città industriale le relazioni sociali sono dominate non più dal rapporto amichevole, ma dal calcolo razionale a fine d’interesse e all’accumulo di denaro; l’ordine pubblico non è un accordo civile, ma è retto da norme giuridiche che si trova in mano al gruppo che detiene il potere.

La grande città, quale centro di conflitti sociali, fu un tema costante della letteratura sociologica. La grande città era la città industriale caratterizzata dallo sfruttamento delle forze lavoro e dove l’individuo diventava un semplice ingranaggio di una enorme organizzazione di cose e di poteri. All’interno della metropoli si creavano le profonde differenze sociali: il problema della città, prima che politico, era problema sociale. La società avanzata conflittuale mostrava le sue divisioni sociali all’interno della città industriale poiché all’interna di essa vi erano molti ceti sociali diversi tra loro che spesso erano in contrasto tra di loro. L’unico rimedio per arrivare ad avere istituzioni democratiche era di partire dalle condizioni esistenti, modificarle, sostituirle e migliorarle per adattare la democrazia alle esigenze politiche della complessa società moderna.

Dopo l’unificazione della Germania, e dopo la proclamazione di Roma capitale d’Italia, lo Stato nazionale sembrava la realtà politica che prima o dopo sarebbe divenuta comune a tutti i paesi europei. Esso non era solo liberazione dello straniero e dal dispotismo ma aveva anche il compito di diffondere l’istruzione, di essere lo Stato di tutti e non solo di una minoranza privilegiata, doveva diventare lo Stato della maggioranza, ossia lo Stato del popolo. L’alternativa tra Stato nazionale e Stato popolare era un’alternativa dottrinale che

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dipendeva dalla forma di governo. – Il suffragio universale diventava una premessa per una società di cittadini uguali. Dopo il 1871 sembrò il punto d’arrivo dei sistemi elettorali e il presupposto della rappresentanza. il problema del sistema elettorale divenne l’argomento più importante della scienza del diritto pubblico, perché dal tipo di diritto adottato scaturivano le norme politiche: un governo democratico doveva avere un sistema elettorale democratico.

In conclusione furono, così, delineate due proposte di ordinamenti misti, che possono essere indicate come di governo democratico liberale in uno Stato nazionale, e come progetto di governo democratico sociale in uno Stato popolare. Nel primo caso prevaleva l’individuo con le sue esigenze morali e le sue richieste di libertà: il cittadino era considerato nella sua posizione civile. Nel secondo caso l’accento era posto sul lavoro in quanto premessa del benessere comune: il lavoro non doveva degradare l’uomo, ma renderlo membro attivo della società; il lavoratore doveva essere rispettato nella sua funzione produttiva. Le due proposte di ordinamenti misti vennero intese come progetti perché la fiducia nel progresso, da un lato, e la dottrina dell’evoluzione, dall’altro, portavano a proiettare nel futuro le proposte di nuovi ordinamenti.

Capitolo ventiduesimo. Progetto di governo democratico liberale in uno Stato nazionale.

Nel capitolo sulla società moderna avanzata, siamo arrivati ad avere due proposte di ordinamenti misti, tra cui quello di governo democratico liberale in uno Stato nazionale, dove prevaleva l’individuo con le sue esigenze morali e le sue richieste di libertà: il cittadino era considerato nella sua posizione civile. – Giovanni Sartori parlò del rapporto tra democrazia e liberalismo e ricordava che secondo l’ideale liberale e quello democratico confluirono l’uno nell’altro come ipotesi di governo liberaldemocratico. Gli avvenimenti parigini del 1871 scossero i liberali e democratici che si accorsero che per salvare la società moderna avanzata bisognava combinare l’iniziativa individuale con le esigenze sociali. Era necessario rifondare la morale individuale e sociale; la morale quale sistema di valori e di norme per migliorare i modi di convivenza. Si moltiplicarono, così,gli studi sulla morale, soprattutto come etica connessa con la politica e con le scienze sociali. – Si parla di governo democratico liberale in Germania, Francia, Inghilterra ed Italia.

In Germania dopo l’unificazione furono pubblicate molte opere sull’etica e fu tentata una classificazione delle idee morali. L’etica è la ricerca di uno o più criteri che consentano all'individuo di gestire adeguatamente la propria libertà nel rispetto degli altri. La morale rappresenta la condotta diretta da norme, la guida secondo la quale l'uomo agisce. Il termine morale fa riferimento al comportamento, costume, carattere, consuetudine. I moralisti moderni mostravano che la parola «sociale» era posta in primo piano e l’etica era ormai una scienza sociale. L’etica doveva comporre il contrasto liberalismo-socialismo e realizzare la giustizia nel campo economico. La moralità era il risultato di una società, in Germania venne auspicata la «pacificazione sociale».

In Francia, si fece teorico della democrazia liberale Jules Romain Barni, sostenendo che avrebbe dovuto essere una guida morale per ogni cittadino tollerante ed amante dello spirito civico e cercò di fissare i «princìpi ed i costumi» di una buona repubblica. Analizzò le finalità di una educazione democratico-liberale, sostenendo che la repubblica avrebbe potuto conciliare la libertà con l’eguaglianza. H. C. Mailfer, invece, cerò di dare una base teorica al progetto democratico liberale, sostenendo che la democrazia era lo sviluppo verso la conoscenza del diritto e della giustizia, la «liberté véritable» poteva accordarsi con la «égalité». La libertà non è incompatibile con la democrazia, anzi garantisce l’individuo contro gli errori della maggioranza e contro gli errori dei mandatari della sovranità popolare. - Molti scrittori intesero in Francia la democrazia liberale come governo repubblicano, ossia una repubblica ouverte e sage. Henri Marion dichiarò apertamente che la repubblica era la migliore forma di governo, perché con le sue istituzioni rappresentative assicurava l’indipendenza dei cittadini e l’eguaglianza delle persone dinnanzi alla legge, e ciò era il

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fondamento delle costituzioni libere. La società repubblicana francese si muoveva democraticamente con saggezza e moderazione evitando che l’eguaglianza dei diritti diventasse eguaglianza dei beni altrimenti si sarebbe avuto l’anarchia. La morale doveva, quindi, scaturire per Marion da una «conciliation» della libertà con l’eguaglianza. A. Fouillée su questa base concluse che la democrazia in quanto fatto sociale doveva essere fondata sul rispetto della proprietà e della libertà individuale. I democratici in Francia ebbero il merito di ridare importanza alla dignità del cittadino, assegnando loro dignità morale e di conquista di diritti.

In Inghilterra il dibattito si svolse tra gli utilitaristi, fedeli alla formula del maggior numero, e i liberali, difensori dell’iniziativa privata. Sia l’uni che l’altri erano d’accordo nel trovare un punto d’incontro tra egoismo e altruismo. H. Spencer affermò che il rapporto tra personale e sociale era al centro del problema morale e politico, da qui la necessità di una armonica cooperazione tra l’individuo e lo Stato, tra privato e pubblico. – Non era chiaro se la società avanzata moderna potesse rifarsi agli ideali del mondo classico, dove l’individuo, secondo alcuni studiosi, come ad esempio George Grote, era insicuro poiché si poteva passare dalla estrema libertà alla schiavitù. Nella polis greca era assicurata la partecipazione al governo, la democrazia ateniese era grandiosa perché permetteva la libera discussione, si univa alla libera attività individuale. – Thomas E. May, scrisse la storia della democrazia in Europa dall’antica Grecia ai tempi moderni dove, in sostanza, afferma che la democrazia è confusa con la lotta per libertà politiche; importante è precisare i gradi e le condizioni della democrazia come della libertà. Trovare la conciliazione tra istituzioni e riforme in senso politico. Per John E. Acton, invece, la cooperazione doveva essere raggiunta tra le classi sociali e ricordò che durante la rivoluzione francese la libertà era stata la parola d’ordine del ceto medio, e l’eguaglianza la parola d’ordine del popolo; bisognava evitare il contrasto tra queste due classi. –Interpretazione originale della morale quale base della vita privata e pubblica venne data da Thomas Hill Green, che prendendo le distanze dalla teoria dell’evoluzione, sostenendo che la natura è un sistema di relazioni di cose che possono essere affermate soltanto da un io capace di fare l’unità; è l’individuo, quindi, il principio attivo della natura. Le azioni dell’uomo sono le azioni mediante il quale l’io si realizza. Avendo ereditato dai filosofi greci tanto il principio di moralità quanto le classificazioni di questa moralità, tuttavia ogni bene ideale è condizionato dal progresso morale e dalle esigenze sociali: non può prescindere dalla realtà politica. per Green il potere dello Stato non è potere arbitrario che risiede in una persona, ma è potere giustificato dalla costituzione,con il compito di rispettare i diritti dei cittadini. Green crede nello Stato liberale e al cittadino deve essere tutelata la vita e la libertà. Lo Stato non è un aggregato di individui sotto un sovrano ma è una società nella quale i diritti degli uomini sono definiti e armonizzati, infatti è la volontà la base dello Stato e non la forza, ogni cittadino deve avere la forza di agire e il cittadino ha l’obbligo morale di obbedire allo Stato. Sui compiti dello Stato è a volte necessario l’intervento governativo. – Anche se fu attribuito a Green, da parte di Harold J. Laski, il merito di avere fornito gli auspici alle principali innovazioni legislative inglesi, il teorico di un governo democratico liberale, dopo il 1870, fu John Stuart Mill. Egli chiedeva un funzionamento democratico e liberale dell’apparato dello Stato anche se in lui restavano profonde le preoccupazioni per una maggioranza politica dominata dai lavoratori. Il governo non doveva prescindere da alcuni postulati del liberalismo tradizionale, ma non poteva dimenticare l’interesse collettivo. Mill sottolineava la differenza tra vera e falsa democrazia, tra rappresentanza di tutti e rappresentanza della maggioranza. Per Mill la democrazia è quel sistema politico che permette alla maggioranza di elettori di avere una maggioranza di rappresentanti, e alla minoranza di elettori di avere pur sempre i suoi rappresentanti; la vera democrazia deve, inoltre, evitare che la semplice maggioranza del parlamento non corrisponda alla maggioranza della popolazione. Mill crede nell’antagonismo politico e nella funzione morale dell’opposizione. Definisce il governo democratico liberale «representative democracy», democrazia rappresentativa, perché in esso sarebbero ascoltati «gli interessi, le opinioni della minoranza». Una vera democrazia sarà governo di tutti per ciascuno. Dopo il 1870 apparve più chiara la proposta democratica di Mill che precisa che erano da mettere insieme l’utilità privata e l’utilità pubblica; l’utilitarismo non poteva essere un semplice calcolo quantitativo; esso doveva rispondere alle esigenze del singolo e del collettivo. -In conclusione, essendo la democrazia liberale la democrazia rappresentativa di tutti e non soltanto della maggioranza, Mill indicava un modello progressivo di sviluppo. Egli vede la società, non come un complesso di consumatori miranti al proprio interesse e in conflitto fra loro, ma come una comunità atta a sviluppare le capacità umane dei cittadini e l’interesse diretto nelle azioni del governo; l’avanzamento dovrebbe avvenire in valore morale, intellettuale e pratico; in altre parole non equiparando la massima felicità collettiva alla massima produttività.

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In Italia, Francesco De Sanctis distingueva l’ideale della scuola liberale e l’ideale della scuola democratica, ma auspicava un governo liberale che mettesse «a base della sua dottrina non l’individuo, ma l’associazione». Per De Sanctis in uno Stato nazionale il governo doveva ricercare «ogni progresso civile e sociale» e questo governo era immaginato come governo democratico liberale. – La fiducia nel governo democratico liberale di uno Stato nazionale permise in Italia la rivoluzione parlamentare del marzo 1876, quando la sinistra costituzionale giunse al potere con un programma di trasformazione in senso democratico dell’Italia ormai unita e indipendente con Roma capitale. – Nel 1871 Attilio Brunialti nello scritto La democrazia nello Stato moderno, affermò che l’ordinamento democratico della società e dello Stato era la principale questione della scienza politica moderna. La democrazia era una causa giusta, ma doveva rispettare le istituzioni esistenti. La democrazia vera era rappresentata dalla liberaldemocrazia nella quale «interesse del maggior numero è garantito dalla volontà del maggior numero». - In chiave liberaldemocratica vennero lette molte opere di giuristi tedeschi. J. K. Bluntschli, ad esempio, affermò, guardando alla Svizzera, che la forma di governo migliore era quella democratica rappresentativa, quale regime dei cittadini liberi e quale governo dei migliori eletti in quanto la democrazia rappresentativa distingue i cittadini secondo il merito e affida gli affari pubblici ai migliori attribuendo il potere alla maggioranza. – Come Brunialti anche Giorgio Arcaleo elogiò gli studi giuridici della scuola tedesca, lui in materia di diritto costituzionale. Nel progetto democratico liberale i governanti dovevano lasciare i governati liberi nei settori della vita privata; l’intervento pubblico doveva essere limitato e la libertà di agire dei cittadini assicurata dalla pluralità delle istituzioni, dalla divisione dei poteri, dalla sicurezza della libertà di voto e dal progressivo decentramento degli organi amministrativi. L’iniziativa privata doveva essere rispettata.Capitolo ventitreesimo. Progetto di governo democratico sociale in uno Stato del popolo.

Contrapposto all’ordinamento misto di governo democratico liberale in uno Stato nazionale, venne proposto il progetto di governo democratico sociale in uno Stato popolare dove l’accento era posto sul lavoro in quanto premessa del benessere comune: il lavoro non doveva degradare l’uomo, ma renderlo membro attivo della società; il lavoratore doveva essere rispettato nella sua funzione produttiva.

Nella città aveva lunga tradizione la cooperazione, ed il cooperativismo era da inserire nella società e doveva divenire associazione cooperativa a carattere democratico. Bisognava migliorare le condizioni di vita degli operai delle fabbriche, e anche dei lavoratori della terra. Il mondo agricolo doveva entrare nell’ambito della cooperazione, e doveva diventare politica di associazione economica e sociale. – Le cooperative dovevano creare un tessuto popolare per annullare i profitti dei mediatori a beneficio della classe dei lavoratori; le cooperative dovevano realizzare un sistema democratico sociale di associazione del lavoro; doveva essere il lavoro a prevalere sull’utile e sul profitto. Già si erano avute operazioni nel 1848 in Europa ma dopo il 1871 esse mostravano una notevole funzione produttiva per il loro carattere democratico e sociale. – I democratici sociali parlavano di cooperazione voluta dallo Stato popolare a difesa delle classi lavoratrici; in questa prospettiva a carattere socialista furono riesaminate le teorie mutualistiche.

Dopo il 1871, la cooperazione sembrò essere una concezione democratica di vita per emancipare socialmente, economicamente e politicamente la classe lavoratrice. Cominciarono, infatti, a costituirsi nei diversi paesi d’Europa le federazioni delle cooperative, organizzate secondo statuti che rispettavano il principio della eguaglianza dei diritti e il sistema della rappresentanza elettiva. A questa concezioni aderirono democratici sociali e le Trade Unions inglesi che volevano mettere insieme i postulati del cartismo e i precetti del socialismo e volevano modificare le istituzioni pubbliche in istituzioni favorevole ai lavoratori. In Inghilterra, le Trade Unions ormai reclutavano aderenti anche tra i lavoratori meno qualificati e peggio retribuiti, dopo il 1871, si presentarono come unioni di lavoro capaci di unire sindacalmente i lavori di un settore contro le pretese della classe dominante. I capi delle Trade Unions si ritenevano democratici sociali, come anche altri in Europa che guardavano all’esempio del sindacalismo inglese. – In Belgio le cooperative si battevano per realizzare lo Stato popolare dei lavoratori, anche se rimasero fedeli all’idea proudhoniana di mutualité. Il cooperativismo belga ebbe un proprio carattere e si sviluppò soprattutto dopo il 1880 quando vennero fondate biblioteche democratiche e farmacie popolari, furono aperti centri di vendita e magazzini di generi alimentari, giungendo, così, alla «Société coopérative fédérale de Belgique». – In

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Germania esistevano due partiti dei lavoratori: l’Associazione generale dei lavoratori tedeschi fondata da Lassalle nel 1863 ed aveva come organo il giornale «Sozial-Demokrat» e il Partito socialdemocratico dei lavoratori fondato nel 1869 da Liebknecht e da Bebel che aveva come organo il giornale «Volksstaat». I due partiti erano in aperta polemica ma dopo gli avvenimenti della Comune e dopo il declino della Associazione internazionale degli operai, essi ritennero necessario giungere a una intesa. Si raggiunse un intesa nel 1874 con il programma di Gotha dove prevalse un comune orientamento democratico sociale, nel senso che i due concetti di Stato del popolo e di governo democratico sociale vennero fusi in una prospettiva che aveva come premessa il lavoro e come finalità politica la classe operaia. Il programma di Gotha del Partito socialista operaio unificato venne fortemente criticato da Marx.

Molti democratici europei si allinearono sulle posizioni dottrinali tedesche dello Stato del popolo; essi accettarono i postulati della società avanzata fondata sul lavoro, e videro nel governo democratico sociale il modo in cui porre fine alle ingiustizie e alle diseguaglianze sociali. Allo Stato del popolo si poteva arrivare con i mezzi rivoluzionari dello scontro frontale tra le classi, ma si potevano anche evitare i sussulti rivoluzionari; una decina politica democratica sociale poteva avviare a pacifica soluzione i problemi sociali e permettere una rapida evoluzione sociale.

In Francia il gruppo dei radical-socialisti, polemizzando con i repubblicani moderati, richiedeva una energia politica democratica; dal punto di vista istituzionale bisognava abolire il senato, separare lo Stato dalla Chiesa, eleggere i giudici, sostituire l’esercito con una milizia nazionale; dal punto di vista sociale bisognava ridurre la giornata lavorativa, interdire il lavoro minorile, assicurare ai lavoratori pensione per la vecchiaia e gli infortuni, e coinvolgere gli operai nei programmi produttivi della azienda. Louis Blanc, rivolgendosi ai propri elettori così spiegava cosa fosse il partito dei radil-socialisti: «Volere che la Repubblica, appoggiata dal suffragio universale abbia per scopo il miglioramento morale, intellettuale e fisico di tutti, ecc.» essendo lo Stato francese già a carattere repubblicano, bisognava renderlo popolare con un governo democratico sociale: un vero governo democratico sociale era contrario alla espansione coloniale, e pertanto erano da condannare le guerre di annessione o di conquista, quali causa di divisione tra razze superiori e razze inferiori; un governo democratico sociale doveva eseguire le istanze popolari e adeguarsi al progresso delle nuove tendenze scientifiche. - In, Spagna, si ebbe un dibattito tra democratici spagnoli su lavoro, salario e proprietà e fu Pablo Correa y Zafrilla ad esporre un progetto democratico sociale. Fautore del collettivismo e della emancipazione del proletario proponeva un ordinamento sociale con suffragio universale e dove lo Stato sociale doveva essere basato sul consenso popolare e l’eguaglianza; i cittadini dovevano associarsi negli organismi comunali e formare l’unità dello Stato, da qui la necessità della federazione, strumenti politico per evitare il potere di uno Stato autoritario e per risolvere la questione sociale.

In Italia si animò la speranza di un governo popolare tra coloro che criticavano aspramente la classe politica al governo, incapace di risolvere le questioni sociali dello Stato unitario. Nel 1879 venne fondata a Roma la Lega della democrazia per raggruppare le forze laiche e democratiche. Secondo i democratici sociali le Istituzioni democratiche avrebbero dovuto essere gestite dal basso, e muovere dall’ordinamento comunale. Contro lo Stato accentratore, gestito da una minoranza borghese, l’ordinamento comunale avrebbe potuto risolvere la questione sociale e realizzare quel federalismo per il quale si erano battuti i fédérés della Comune parigina. Parlare di democrazia sociale significava affrontare con una diversa prospettiva i problemi delle classi popolari e permettere a una nuova classe politica di dirigere gli affari pubblici. Per Garibaldi la democrazia sociale fu solo lo sviluppo dell’associazionismo politico operai e sviluppo degli ordinamenti democratici della società. Per lui, l’ideale della democrazia rimase spesso astratto. Un progetto lucido di democrazia sociale fu prospettato nel 1887 da Antonio Labriola che vedendo la situazione in cui versava il paese, con il governo parlamentare che funzionava male e il conservatorismo borghese che prevaleva nel paese, propose una democrazia militante che aveva lo scopo di arrivare, tramite la democrazia, «al governo del popolo mediante il popolo», cioè a sostituire al suddito il «cittadino», a negare ogni autorità che non sia quella dal «mandato di rappresentanza». La democrazia italiana vuole giustizia per tutti gli ordini sociali, alto senso delle istituzioni parlamentari e fondare di nuovo la rappresentanza, ma fare suoi i problemi sociali con vero sentimento popolare. Labriola proponeva un «ordinamento sociale» capace di dare «a ciascuno secondo il merito ed il lavoro suo»; la democrazia politica aveva fatto solo promesse senza affrontare la questione

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sociale, invece la democrazia sociale doveva venire incontro agli oppressi, utilizzando la sovranità popolare, in modo da realizzare «la cooperativa sociale del comune benessere morale e materiale».

I democratici sociali sostenevano che le cooperative di lavoratori dovevano con l’aiuto dello Stato demolire la struttura capitalistica e dare vita a un nuovo modo di produrre, ma il progetto dello Stato popolare non era molto concreto. Le critiche non mancarono e spesso furono pesanti. Da sinistra marxisti e anarchici appuntarono i loro strali contro la forma mista democratica sociale; da destra i conservatori e i vecchi liberali criticarono violentemente il programma progressista di Stato popolare.

Capitolo ventiquattresimo. L’opposizione dei moderati al governo democratico popolare.

In Inghilterra parecchi scrittori condussero una vivace polemica contro la deviazione di un liberalismo aperto alle nuove tendenze democratiche e vedevano l’avvento della democrazia come un grosso pericolo per la proprietà privata in quanto erano convinti che la democrazia avrebbe da un lato impoverito la cultura dall’altro sconvolto le strutture sociali. - H. J. Summer Maine, nel 1861, si rifaceva alle idee della tradizione costituzionale dove il governo popolare era un sistema politico che minacciava l’equilibrio della società in quanto gli estremisti non sarebbero riusciti al realizzare nessuno tipo di governo e realizzato solo riforme astratte. – Matthew Arnold, nel 1869, in un saggio si oppone inizialmente all’anarchia di una democrazia, priva di direzione e causa di disordine ma, dieci anni dopo, affermò che l’uomo è destinato al progresso e deve essere educato civilmente, ma la democrazia, forma di governo che aveva il suo modello ideale nell’Atene di Pericle, era meta difficile da raggiungere. La democrazia era da criticare come governo attuabile oggi, anche se accettabile domani ad alcune condizioni. Anche il liberale Herbert Spencer era preoccupato dall’idea di una democrazia coercitiva (obbligatoria) che sfociasse nel dispotismo.La posizione dei conservatori inglesi verso il progetto di governo democratico-liberale era in parte simile alla posizione di parecchi intellettuali europei, che si rifiutavano di credere che l’eguaglianza del diritto di voto potesse migliorare le istituzioni politiche locali e nazionali.

In Francia il personaggio centrale della opposizione alla democrazia liberale fu Hyppolite Taine che fino al 1870 si era tenuto estraneo alla politica teorica e pratica. Aveva una concezione aristocratica della società e secondo lui il miglior governo era quello che si fondava sulla gerarchia naturale, creata dalla ricchezza e dalla scienza. Era da evitare la democrazia moderata che si “vestiva con gli abiti” del liberalismo; il liberalismo non poteva accettare il suffragio universale senza perdere i suoi carattere sostanziali. Il sistema parlamentare fondato sul suffragio universale toglieva il potere all’aristocrazia naturale, composta dai migliori, per affidare il governo ad alcuni arrivisti che si rivolgevano alla massa del popolo, politicamente impreparata e psicologicamente trascinata, nelle scelte dei candidati, da promesse inattuabili, oppure da motivi passionali. Taine affermò che un popolo, consultato, può dire quale sia la forma di governo che gli piace ma non quella di cui ha bisogno, prova era che la Francia dal 1791 aveva avuto tredici costituzioni non capendo che «la forma sociale e politica nella quale un popolo può entrare e restare non è data dal caso, ma è determinata dal suo carattere e dal suo passato». Dedicò pure uno scritto sul partito rivoluzionario giacobino accusandolo di usare parole grandiose e vaghe per attuare una giustizia perfetta che però è così imperiosa che finisce per imporre i suoi comandamenti fino al dispotismo. – La polemica di Taine contro il progetto di governo popolare era simile alla polemica di Ernest Renan contro il suffragio universale e la democrazia. Come Taine, Renan era convinto che i democratici spingevano il paese alle insurrezioni, ali estremismi, e aprivano, in questo modo, la via alla dittatura; per questi motivi con un «governo democratico» il paese non poteva essere «ben governato, ben amministrato e ben comandato». In conclusione anche il belga Adolphe Prins intervenne a riguardo affermando che l’organismo parlamentare era reclutato a casaccio, era incapace di maggioranza omogenee, era nell’impossibilità di controllare la pubblica spesa; l’effettiva direzione del paese stava nelle mani di una burocrazia irresponsabile. All’origine di tutti i mali governativi c’era Rousseau con le sue astratte idee di volontà popolare, c’era la rivoluzione francese con il principio del suffragio universale. Al posto della moderna idea della rappresentanza democratica di tutti i cittadini, Prins preferiva un sistema rappresentativo imperniato sugli ordini e sulle corporazioni di tipo prerivoluzionario.

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In Italia Il discorso contro la democrazia liberale e contro il governo popolare rappresentativo assunse particolare vigore, dove da tempo era in atto da parte della «Destra storica» la polemica contro la «Sinistra parlamentare» e contro «l’ingerenza dei partiti politici nella amministrazione dello Stato». La democratizzazione del regime liberale e l’avvento dei nuovi elettori preoccupavano fortemente moderati e conservatori. – La polemica contro il governo rappresentativo e contro i mali del parlamentarismo si confuse con la polemica contro le correnti liberaldemocratiche,le quali gettavano il paese nelle mani degli arrivisti e dei mediocri; la liquidazione delle classi dirigenti tradizionali, fatta in nome della democrazia o con l’estensione del diritto di voto, non poteva non sconvolgere il sistema costituzionale bicamerale, il principio della divisione dei poteri, la funzione degli organi governativi. - Gaetano Mosca portò la sua attenzione sul problema della classe governante. Afferma che «la scienza sociale si riassume in quella che con vocabolo moderno si dice sociologia»; egli concorda così con Spencer. In nome della nuova scienza sociale vede la lotta delle classi sociali come una lotta politica tra una vecchia classe politica al governo e una nuova classe politica desiderosa di giungere al potere. Mosca non crede che il rinnovamento della classe politica si possa attuare con lo sviluppo del sistema elettivo perché la volontà del paese non è manifestata «sicuramente per mezzo d’un elezione». Il cosiddetto parlamentarismo puro di tipo anglosassone non è, dunque, una soluzione. Per governo parlamentare puro Mosca intende «quello in cui tutta l’importanza politica nello Stato appartiene ad elementi venuti su direttamente od indirettamente da un’elezione popolare». Il tipo di governo parlamentare che Mosca preferisce è «il governo di ministero o di gabinetto» nel quale «il gabinetto e il presidente del consiglio formano la ruota principale, il centro di gravità di tutto il sistema parlamentare». - Per Mosca, «l’esistenza dei partiti è certo un fatto necessario nella vita parlamentare»; la sua polemica è diretta contro l’azione di quel partito che «vuole la distruzione assoluta e con mezzi violenti di tutto l’attuale ordinamento sociale, e può portare all’anarchia». Sostiene che bisogna evitare che «l’elemento operaio, emancipatosi dalla influenza delle altre classi sociali» mandi alla camera i suoi sostenitori. In ogni caso, se da destra si temette che lo Stato costituzionale si potesse trasformare in uno Stato popolare, non meno accanita fu l’opposizione da parte della sinistra proletaria al progetto di un governo democratico sociale.Capitolo venticinquesimo. L’opposizione marxista al governo democratico borghese.

Il Partito socialista operai, fondato a Gotha nel 1875, chiedeva, assieme al suffragio universale, una legislazione popolare, una giurisdizione popolare e una educazione popolare. – Contro il programma del Partito socialista operai polemizzarono Marx ed Engels; lo Stato libero popolare era per essi una assurdità; al massimo si poteva parlare di comunità, che corrispondeva alla parola francese commune. – Marx era per principio lontano dal programma di Gotha e lo considerava inaccettabile. L’affermazione iniziale del programma che il lavoro fosse «la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà» era per Marx una espressione imprecisa di tipo borghese; inoltre, la conclusione che il frutto del lavoro appartenesse «a uguale diritto, a tutti i membri della società» era una proposizione accettata in ogni tempo dagli uomini al potere. Poi si parla di «Stato libero». Che cos’è lo Stato libero? «Non è affatto scopo degli operai», osserva Marx, «rendere libero lo Stato». Nel Reich tedesco lo «Stato è libero quasi come in Russia: la libertà consiste nel mutare lo Stato da organo sovrapposto alla società in organo subordinato ad essa». Né ha senso parlare di «Stato del popolo»; infatti non «ci si avvicina alla soluzione del problema neppure di una spanna». - Engels riprese i temi centrali del pensiero di Marx e criticava gli articoli di Eugen Dühring, professore berlinese, che vedeva i fattori politici come i veri motori della storia, invece lui sostenne la prevalenza dei fattori economici.

In conformità con le idee di Marx e di Engles, la sinistra del partito socialista tedesco rifiutò la democrazia borghese e si attestò a difesa della democrazia di tipo proletario. Nel 1789 il governo tedesco prese delle misure antisocialiste ed il partito socialista diventa illegale e non poteva, quindi, avere nessuna attività di riunione, propaganda, associazione, stampa. – I socialisti tedeschi però, dopo la morte di Marx avvenuta nel 1883, si richiamarono al suo pensiero e si dichiararono suoi discepoli. Fissarono così un programma dove volevano realizzare l’ordinamento proletario della società operaia. Nel congresso del 1887 venne proposto di modificare in senso marxista il programma socio-politico del partito socialista operaio; bisognava prima di tutto preparare la classe operaia a impossessarsi del potere politico. – Nel 1889, uno sciopero dei minatori nella Ruhr, mise in crisi il governo autoritario di Bismarck; il movimento socialista non poteva restare fuori legge ed infatti il partito della socialdemocrazia ottenne molti voti nelle elezioni del 1890. Caduto il cancelliere Bismarck e ridivenuto legale il partito socialista, i dirigenti considerarono questi avvenimento

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come una vittoria contro lo Stato autoritario e pensarono di organizzare il partito come un partito di massa degli operai, capace di rivendicare il potere politico per il proletariato. Il nuovo programma venne elaborato da Kautsky in occasione del congresso di Erfurt nel 1891, sempre con l’adozione del pensiero marxiano. Le premesse dottrinali furono trovate nella miseria crescente del proletariato e nella concentrazione monopolistica del capitalismo.

Anche molti anarchici si avvicinarono alla dottrina marxiana e dichiararono di essere disposti a marciare al fianco dei socialisti tedeschi contro lo Stato capitalista della borghesia. Partiti da posizioni diverse giunsero alla conclusione che gli operai dovevano possedere una coscienza di classe e dovevano strappare il potere politico alla borghesia. – Gli anarchici, di quasi tutta Europa, avevano ribadito fin dal 1880 che la democrazia proletaria doveva intendersi come comunismo libertario. Ma essere libertari significava rispettare sempre la democrazia contro l’autoritarismo dei comitati centrali dei partiti organizzati. – Nel 1881 a Barcellona, Spagna, venne fondata una federazione dei lavoratori che si definì anarchico-collettivista, si doveva arrivare ad una riorganizzazione della vita sociale con l’abolizione di ogni privilegio; bisognava trovare un equilibrio tra proprietà individuale dei consumi e proprietà collettiva della produzione. – Gli anarchici erano contro il parlamentarismo della democrazia borghese, e condannarono lo Stato democratico, essendo la democrazia governativa un ostacolo allo sviluppo della società. – Kroptokin parlò del governo rappresentativo ed respinse il programma socialdemocratico del Volksstaat, perché metteva in pericolo la democrazia comunista. E definirà il «governo rappresentativo», nonostante l’allargamento del suffragio e la pretesa democratica dei partiti, lo strumento del dominio della borghesia sul proletariato. La democrazia proletaria deve essere la forma di governo di una società comunitaria libertaria fondata sull’autogestione, sul lavoro associato, sul progresso collettivo e, quindi, contraria al centralismo statale e al dispotismo governativo. La democrazia deve incoraggiare il mutuo appoggio e la tendenza all’assistenza reciproca. - In Inghilterra, William Morris auspicava una vita sociale di tipo comunitario. In una democrazia proletaria bisognava eliminare il contrasto tra possessori e non possessori, tra governanti e governati e permettere a ogni cittadino di svolgere liberamente la sua attività nel mondo agricolo, industriale, artistico ed intellettuale.In Italia Errico Malatesta, elaborò un programma anarchico rivoluzionario ma la sua proposta di «ordinamento comunistico-anarchico» era legata alla critica contro la politica parlamentare. In polemica con il progetto borghese di governo parlamentare democratico sociale, gli anarchici italiani proponevano un sistema politico in cui i cittadini potessero essere autonomi: lo sviluppo individuale doveva trovare la sua realizzazione nell’unità comunale, senza sottostare agli ordini del potere statale. Da queste premesse si giungeva alla proposta di un modello di «buona società» capace di assicurare agli uomini un nuovo ordine Sociale, senza, miserie, senza sfruttamento, senza oppressioni.

I socialisti marxisti e gli anarchici bakuninisti contrapposero la democrazia di tipo proletario, realizzabile dopo la presa del potere da parte della classe operaia allo Stato capitalista, nato dallo sfruttamento della classe borghese sulla classe operaia; bisognava abbattere lo Stato borghese per sopprimere la divisione di classe e realizzare la vera democrazia, ossia la democrazia della classe operaia. Ma entrambi intendevano in maniera diversa la democrazia; per i marxisti democrazia significava governo della classe operaia da attuare attraverso un ordinamento controllato dal partito della classe operai; per gli anarchici la democrazia era affermazione della volontà collettiva da attuare con la partecipazione diretta.

Capitolo ventiseiesimo. Democrazia politica e pratica rappresentativa.

La democrazia liberale tra fine 800 e inizio 900 sembrava aver trovato una stabile base sociale nei ceti medi, commercianti, professionisti, funzionari pubblici e impiegati privati. La democrazia liberale voleva semplicemente sviluppare il buon senso, la ragione e lo spirito civico. Soprattutto tramite la stampa. – In Francia, Henry Michel, notava che con il progresso del socialismo e la dissoluzione dell’individualismo era caduto il contrasto assoluto tra individuo e Stato e si era andando realizzando un governo «democratico e liberale». Lo Stato non poteva non intervenire per assicurare a tutti i cittadini la dignità civile e per evitare le gravi iniquità sociali. L’elogio della democrazia politica, rispetto dell’individuo e della collettività, venne fatto da molti repubblicani francesi ma bisognava esaminare su quali istituzioni si reggeva la democrazia liberale. - Yves Guyot sosteneva che la democrazia liberale, in opposizione alla democrazia socialista che

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pensava agli interessi della classe operaia, poteva trovare la sua ragione ne La démocratie individuelle e concludeva che l’individualismo democratico doveva rispettare nella vita civile il principio dell’eguaglianza politica e permettere «la coesistenza e la concorrenza dei partiti», appoggiandosi sui ceti medi.

Il funzionamento della democrazia politica era fondato sulla dinamica parlamentare dei partiti politici e poiché i partiti politici dovevano trovare nel parlamento la scena della loro azione e muoversi in funzione del dibattito tra maggioranza governativa e minoranza dell’opposizione, un modello di democrazia politica sembrò essere il sistema politico inglese, che aveva seguito una evoluzione ininterrotta.

M. Ostrogorski, tenendo presenti le vicende politiche inglesi, cercò di dimostrare che i partiti politici tradizionali si erano organizzati per evitare la concorrenza del partito operaio ed erano giunti a includere nel loro programma alcune riforme proposte dai socialisti di Stato. Ostrogorski vedeva realizzabile la democrazia all’interno degli ordinamenti liberali, e riteneva vicina la «nuova sintesi della società politica», che era, in realtà, la democrazia liberale; questa sintesi era connesso con il formarsi di «partiti rigidi e permanenti». Il suo studio sull’organizzazione dei partiti politici mise in circolazione una nuova terminologia politica e mostrò che tutti i partiti, da quello operaio a quello conservatore, si muovevano verso forme democratiche. Il sistema parlamentare era ormai condizionato dal comportamento dei partiti e le istituzioni parlamentari dipendevano dal funzionamento dei partiti.

L’elogio della democrazia politica, quale sistema rappresentativo, venne fatto dagli storici liberali inglesi che sottolinearono che «la teoria evoluzionista» aveva prodotto un sostanziale mutamento nell’atteggiamento degli uomini politici verso i problemi sociali; liberali e conservatori esaminarono con maggiore comprensione le esigenze delle classi lavoratrici ed entrambi parlavano sempre più di democrazia.

Un esempio di democrazia liberale europea sembrava essere il regime confederale svizzero. La Svizzera era considerata il paese d’Europa dove migliori erano le condizioni dell’operaio e dove c’erano minor conflitto tra operai e padroni, dove le innumerevoli istituzioni fondate a beneficio degli operai contribuivano a mitigare le asprezze della vita dei lavoratori. Pensioni alimentari, società cooperative di consumo, casse di risparmio, società di mutuo soccorso, associazioni permanenti fra operai, rendevano civile la vita del paese; d’altra parte, il popolo partecipava più o meno direttamente alla legislazione e al governo. Il popolo svizzero esercitava quando voleva il suo sovrano potere mediante il referendum; le leggi più importanti non entravano in vigore, se non venivano approvate dai cittadini.

Anche la Germania, nonostante la politica autoritaria di Bismarck sembrava orientata verso il sistema rappresentativo, in quanto, alla democrazia liberale in molti paesi d’Europa,compresa l’Austria, sembravano aderire non solo alcuni strati della piccola borghesia, ma anche i ceti interessati allo sviluppo delle attività produttive. – Georg Jellinek tenendo conto della parte liberale e di quella socialista cercava di trovare un accordo tra i diritti dei soggetti nell’interesse generale. Respinge l’ipotesi di diritto sociale da inserire tra quello il diritto privato e pubblico e accoglie la visione democratica liberale. Egli fissò per i giuristi europei un’immagine giuridica del funzionamento di un ordinamento misto. Si astenne dall’emettere giudizi sui diversi tipi di organizzazione statale, ma affermò che «l’ordinamento statale è propriamente un compromesso continuo fra singoli gruppi che si disputano il potere».

Alcuni liberali, che guardavano al vecchio modello costituzionale, negli ultimi anni del secolo assunsero un atteggiamento più sfumato. Gaetano Mosca, pur rifiutando la formula giacobina della democrazia in quanto causa della decadenza di ogni pubblica morale e del principio di autorità, riconosceva che la classe dei governanti, nelle società sviluppate, preferiva la vita politica legale ai modi arbitrari di governo. Mosca temeva che l’evoluzione della liberaldemocrazia in socialdemocrazia potesse causare una maggiore burocratizzazione. – Si fece strada il concetto che la democrazia non era solo una forma di governo a carattere laico ma concordava con il concetto cristiano della società – La Società cattolica italiana di cultura, nel 1900, con Giuseppe Toniolo indicò Il concetto cristiano della democrazia, dove le linee maestro erano la libertà e l’eguaglianza a beneficio di tutte le classi. La «democrazia cristiana» aveva come finalità l’affermazione dei doveri sociali e sul piano politico non bisognava alterare l’organismo della società. – Per i cristiani bisognava salvaguardare la libertà religiosa individuale e l’autonomia morale del singolo e

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bisognava trovare una soluzione alla miseria gravante sulla maggioranza dei lavoratori e alla loro esclusione dalla vita politica. Non era cristiana quella società dove un piccolo numero di persone imponeva la propria volontà economica e sociale sulla massa degli operai; i rapporti dovevano essere basati sulla buona volontà, alla fratellanza, al rispetto dei diritti individuali.

La letteratura sulla democrazia politica aumentò notevolmente ad inizio 1900. Diversi scrittori politici ribadirono che il suffragio universale, così paventato dai liberali dell’Ottocento, era uno strumento di stabilizzazione sociale e dava dignità sociale a tutti i cittadini in quanto realizzava la sovranità popolare e permetteva alle classi lavoratrici di partecipare alla vita politica del paese e non costituiva un pericolo sociale per una intelligente oligarchia governativa.

Per Hobson il liberalismo non aveva fatto un serio sforzo per formulare una organica politica di riforma sociale. Da qui la necessità di una coerente azione governativa capace di proteggerei cittadini contro gli abusi del potere economico e di fornire a tutti una sostanziale eguaglianza sociale ed intellettuale. – Hobhouse, nel 1911, formulò in modo democratico la dottrina politica liberale. Gli elementi del liberalismo erano per lui la libertà civile, fiscale, personale, sociale, economica e nazionale; ma egli insisteva sulla «evoluzione della teoria liberale» e distingueva il primo liberalismo dal liberalismo moderno. – Per Hobhouse i due principi di volontà generale e di suffragio universale sono entrati nel quadro del liberalismo e la liberaldemocrazia è la orma politica moderna del liberalismo. Il vecchio liberalsismo è morto perché adesso bisogna accettare dalla dottrina democratica la necessità degli interventi dello Stato in materia economica e sociale, bisogna vedere in che modo l’individualismo «può lavorare in armonia con il socialismo». - Egli ha un profondo senso dello Stato che «può costringere i suoi cittadini ad adeguarsi alle sue norme senza permettere alcuna divergenza»; la sua è una funzione coercitiva, cioè che realizza obiettivi comuni e esercita un controllo nell’interesse di una equa giustizia; nelle moderne società l’individuo è troppo incline a considerare dovuto ciò che lo Stato fa per lui, in realtà dovrebbe avere grande considerazione verso lo Stato che tende all’armonia sociale. – Quando parla di liberalsocialismo, egli auspica per l’Inghilterra la cooperazione tra partito laburista e partito liberale in modo da dar vita a un movimento vasto e profondo per rendere stabile la democrazia politica. La democrazia rimane una formula vuota se non riesce a creare l’estensione dell’interesse sociale: «lo sviluppo dell’interesse sociale – ed è questa la democrazia – dipende non solo dall’ampiezza del suffragio e dalla supremazia della legislatura eletta, ma dalle organizzazioni intermedie che collegano l’individuo al tutto». Se democrazia significava governo del popolo, ogni popolo, quale unità etnica, aveva diritto alla sua libertà e a governarsi in maniera indipendente.

Il giudizio ottimistico sulla democrazia politica, applicata nella pratica rappresentativa, non era condiviso né dalla destra, né dalla sinistra, che deploravano i mali del parlamentarismo dei politicanti. La classe politica parlava di democrazia, ma era abbastanza contraria ai mutamenti del personale parlamentare; più che altro si preoccupava di controllare l’andamento delle elezioni locali e nazionali. Questo liberalismo modernizzato non affrontava i problemi fondamentali della società civile, dalle autonomie locali ai conflitti del lavoro, dalla disoccupazione alla invalidità, dalla difesa dell’infanzia alla protezione della vecchiaia. Nel sistema parlamentare non pochi intellettuali e molti giovani videro un processo di decadimento politico; si sentiva spesso parlare di meschini accordi parlamentari, di imbrogli elettorali ai danni dell’opposizione. Gli scandali di carattere finanziario, o di carattere morale, che attiravano l’attenzione dei lettori di giornali, sembravano confermare il parere negativo espresso sulla presunta democrazia politica. Le critiche, con il passare degli anni, aumentarono d’intensità. La democrazia, per trasformarsi radicalmente, doveva passare dal campo strettamente politico a quello apertamente sociale, e coinvolgere il movimento operaio. Si spiegano così le numerose proposte di democrazia sociale e di regimi nazionali.

Capitolo ventisettesimo. Riformismo sociale e movimento operaio.

Nel 1893 uscì a Parigi l’opera di Emile Durkheim De la divisiondu travail social: l’autore affrontava il tema del lavoro, ma non dissociava il lavoro dal problema della società civile. Esamina i rapporti della personalità individuale e della solidarietà sociale. Al fenomeno della solidarietà egli dà un valore sociale per rispondere alle esigenze dei progressisti della Terza repubblica, rimasti fedeli alla tradizione democratica repubblicana

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di chiedere l’allargamento della partecipazione popolare. – L’analisi del lavoro non poteva non portare al socialismo e riconobbe che il socialismo assegnava un valore politico al lavoro. Ogni società avanzata, dice, è anche società complessa, in quanto, a causa della divisione del lavoro, si creano interessi contrastanti; una società complessa, però, non può reggersi sulla forza, ed è necessario fissare le regole di solidarietà per coordinare gli interessi divergenti creati dalla divisione del lavoro.

In Inghilterra si svolse un dibattito sul rapporto politico tra lavoratori e democrazia. I coniugi Webb ritenevano che nel movimento delle Trade Unions c’era un unanime desiderio di rendere le organizzazioni operaie più efficaci politicamente; il New Unionism aveva come programma di raggiungere la maggioranza nella camera dei comuni in modo da divenire una forza politica effettiva dello Stato. Dal New Unionism nacque l’Indipendent Labour Party dove gli interessi del lavoro erano opposti a quelli dei proprietari. – Nel 1897 uscì a Londra l’opera dei coniugi Webb sulla democrazia industriale, per affermare, dopo una lunga indagine sociologica, che le Trade Unions erano vere democrazie in quanto le loro interne costituzioni erano basate sul principio di «governo del popolo, dal popolo, per il popolo», e, in quanto rispettavano la democrazia ai diversi livelli organizzativi; le associazioni sindacali inglesi avevano compiuto nella loro evoluzione storica una «rivoluzione silenziosa», ed erano giunte a una «forma moderna di democrazia». Ma la parte più interessante dell’opera era quella sulle istituzioni rappresentative: secondo i Webb alcune grandi associazioni federali avevano risolto il problema della democrazia, ossia l’aver trovato il modo per avere l’efficienza amministrativa con il controllo popolare. Questa fiducia nella forza democratica del Trade Unionism rimase inalterato nel primo decennio del Novecento. – Altro scrittore importante, influenzato dalla esperienza sociale inglese e che seguì con attenzione le vicende del movimento operaio inglese, fu Ernest Bernstein, egli si rese conto della differenza tra socialismo tedesco e socialismo britannico e dopo la morte di Engles (1895), si chiese se il socialismo democratico di un paese più avanzato; come l’Inghilterra, non fosse da guardare come modello. Tenendo presente alcune affermazioni di Engels circa il progresso inglese verso il socialismo, scrisse un testo con i Presupposti del socialismo. – Ma che cos’è la democrazia per Bernstein? La democrazia non è soltanto «una semplice forma di governo», ma «un assetto sociale in cui nessuna classe goda di un privilegio politico di fronte alla collettività»; inoltre nel concetto di democrazia è implicito il concetto di rappresentanza giuridica, ossia il governo dei popoli si risolve in un governo di maggioranza; nella democrazia «è il voto della maggioranza che decide, e ad ognuno si richiede di riconoscere la legge votata dalla maggioranza». – Il socialismo, secondo Bernstein, deve porsi sul piano della democrazia e del suffragio universale, quindi, volgersi «alla creazione di situazioni e presupposti che rendono possibile e garantiscono un trapasso senza rotture violente del moderno ordine sociale ad un ordine superiore di civiltà». Visto che la società moderna sta trasformando e cambiando lo Stato la condizione preliminare per realizzare il socialismo è «la formazione di organi politici ed economici della democrazia».

Il riformismo sociale, detto anche socialdemocrazia pratica, non sembrava essere in contrasto con la psicologia e l’antropologia, anzi sembrava concordare con il principio sociologico, di carattere positivistico, dell’evoluzione. Credere nell’evoluzione significava: credere nella trasformazione radicale delle realtà sociali: su questi punti erano d’accordo i socialdemocratici. Ma su nesso ideologico che lega Durkheim, Webb e Bernstein si è poco insistito perché ognuno di questi scrittori è stato visto nel proprio ambiente nazionale; invece in una prospettiva europea il riformismo sociale ebbe una sua consistenza dottrinale, e sembrò una effettiva alternativa politica. la democrazia, impostata come politica del bene comune, avrebbe affondato le radici nelle forze sociali del paese e avrebbe dato al governo una legittimità effettiva. - Fu Boleslaw Limanowski che si attenne a questa democrazia, quando scrivendo della democrazia in Polonia, affermò che il socialismo doveva tener conto di tutta la tradizione culturale europea, ma nella pratica doveva risalire alle origini sociali di un popolo per trovare le soluzioni più adatte. - Il profondo nesso della democrazia con il socialismo fu sostenuto da più parti: in Francia, dopo il 1900, quando si riconobbe che il socialismo tendeva alla democrazia, perché la democrazia voleva l’eguaglianza dei diritti, l’educazione popolare e la partecipazione locale dei cittadini. Molti socialisti intendevano per democrazia il socialismo riformista e il socialismo municipale. – In Italia, il partito socialista italiano (1892) preferì nella sua struttura adottare un orientamento democratico con corpi elettivi, assemblee periodiche con organi collaterali (sindacati, cooperative, circoli ricreativi). Turati tracciò le linee guida per una politica sociale che permettesse alla classe operai di divenire una forza propulsiva nello sviluppo dello Stato democratico.

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La democrazia sociale a tendenza riformistica nel primo quindicennio del Novecento assunse nei diversi paesi aspetti particolari e non mancarono dissensi e contrasti. Il socialismo riformistico fu un vasto movimento di pensiero e di azione: esso riteneva di cambiare la società tramite le istituzioni rappresentative ma bisognava rifondare lo Stato sul consenso dei cittadini.

Il concetto di democrazia sociale, quale pratica da adottare nell’esercizio governativo, fu condiviso da quei cristiani i quali insistevano sulla giustizia sociale e sulla fraternità evangelica. Il movimento democratico cristiano prosperò nelle principali città dell’Europa, interessandosi alle sorti del proletariato, difendendo le richieste dei lavoratori, criticando il capitalismo borghese. – In Belgio, nel 1891, i cattolici erano al governo, ma due anni dopo un sacerdote, Adolphe Daens, formò un partito popolare cristiano e anche si volle evitare la frattura tra cattolici conservatori e cattolici socialisti, i democratici riaffermarono la necessità di nuovi ordinamenti sociali e politici favorevoli alla classe operai.). – In Francia, molti cattolici si interessarono ai problemi sociali e nacque una stampa cattolica con chiaro orientamento operaistico che chiedeva fiducia nella democrazia come organizzazione sociale. – In Italia, giovani democratici cristiani cercarono di utilizzare alcune proposte avanzate dai socialisti, sviluppando l’azione sindacale e diffondendo la cultura sociale, criticando le idee liberaldemocratiche formula da Toniolo e lo Stato borghese.

In conclusione, fermenti socialdemocratici si ebbero in tutti i settori della vita politica, culturale, religiosa d’Europa, e vivo fu il presentimento che il programma del riformismo sociale, prima o dopo, sarebbe stato ampiamente condiviso, in nome della pubblica utilità e nell’interesse dei lavoratori. La stessa rappresentanza sarebbe diventata la rappresentanza di tutti i ceti sociali, in questo modo sarebbe diventata la rappresentanza di tutti i ceti sociali, in questo modo sarebbe stato possibile sviluppare una social action, che si sarebbe estesa a tutti quei campi, da quello economico a quello pedagogico, da quello istituzionale a quello penale. Bisogna dire che spesso si determinano confusi dottrinali. Il linguaggio usato dai gruppi democratici non fu, sovente, uniforme: le incertezze del vocabolario democratico erano palesi; infatti proposizioni identiche, pronunciate da gruppi diversi, avevano significati contrastanti. Il linguaggio democratico - sociale fu inteso in modo difforme: esso suonò alle orecchie dei moderati come un programma rivoluzionario a carattere antiborghese; alle orecchie dell’ala rivoluzionaria suonò come una minaccia all’unità della classe operaia.Capitolo ventottesimo. Polemiche antiparlamentari da destra.

Contro la democrazia politica si moltiplicarono dopo il 1890 le critiche dei conservatori. Venne posti sotto accusa i regimi governativi a tendenza democratica, accusati di incapacità decisionale, inefficienza amministrativa e di mancanza di fermezza nei confronti delle agitazioni operaie. I mali del sistema parlamentare vennero spesso considerati mali di origine democratica. Negli ordinamenti democratici il potere non era nelle mani degli ottimi per cultura, moralità e competenze; era nelle mani dei mediocri che sapevano farsi avanti. I democratici parlavano di interesse del popolo, in realtà usavano il potere a vantaggio personale.

Antiparlamentarista era Vilfredo Pareto, il quale dalla difesa del liberalismo in economia passò alla denuncia del sistema democratico, giudicato demagogico e clientelare. Sia la democrazia liberale che quella sociale minacciavano il diritto di proprietà e conducevano alla centralizzazione governativa a danno di coloro che lavoravano senza domandare nulla allo Stato; entrambi le democrazie era inconciliabili con le forme individualistiche dell’economia liberale. Era un liberale antidemocratico in quanto la considerava una tortura dell’ordine delle cose, cioè dell’ordine liberale. – In ogni sistema politico una élite forma una aristocrazia sociale, la quale è profondamente divisa dalle masse; soltanto una minoranza attiva ha una funzione permanente nella società e proprio perciò la ideologia della democrazia è inapplicabile alla politica. Ogni élite dura finché riesce a mantenere l’equilibrio sociale, poi viene sostituita da un’altra; avviene il fenomeno della circolazione delle élites. Una sale al potere e l’altra all’opposizione, si appoggia sulla maggioranza e cerca di farla cadere. – Il suo rimprovero ai sostenitori della liberaldemocrazia è di essere sensibili ai sentimenti umanitari e di non sapere difendere, quali borghesi, le proprie posizioni; ciò è segno di decadenza. Il pericolo più grave è la socialdemocrazia che minaccia tutto l’equilibrio del corpo sociale.

In Italia anche i nazionalisti erano contro la democrazia. Enrico Corradini polemizzò contro il liberalismo accomodante e contro il socialismo democratico; si doveva respingere il parlamentarismo, quale fonte di corruzione. Se il socialismo predicava la coscienza di classe per dare il potere al proletariato, il nazionalismo

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predicava la coscienza nazionale per dare all’Italia potenza e agli italiani prosperità. Condannava quel socialismo che cercava di mostrare il volto liberale, e quel liberalismo che seguiva una politica sociale. Al socialismo trasformato in socialdemocrazia e al liberismo divenuto liberaldemocratico egli contrapponeva uno Stato nazionale, da realizzare con una rivoluzione nazionale, che avrebbe dato unità al paese. - Critiche alla democrazia furono fatte dai nazionalisti in nome dell’uomo «eroico». Il «superuomo» di Nietzsche assunse un risvolto politico di carattere antidemocratico. Anche l’eroe di D’Annuncio venne inteso come eroe antidemocratico. L’immagine dell’eroe superuomo fu presente nella letteratura dell’inizio del ‘900, e diffuse nella gioventù universitaria le ambizioni di grandezza personale e nazionale: l’eroe rappresentava con il suo genio la volontà di una nazione. - In Francia la polemica nazionalista si scatenò con l’affaire Dreyfus. L’arresto di un capitano ebreo accusato di spionaggio a favore della Germania sollevò «un furore patriottico di destra», allora antisemitismo e antiparlamentarismo scesero in campo contro la sinistra democratica. Prese posizione contro la rappresentanza, il parlamentarismo e le dottrine democratiche Maurice Barrès. Charles Maurras contro il liberalismo democratico e la democrazia sociale, in quanto erano le cause della decadenza della Francia. In Belgio, Adolphe Dechamps si oppose al democratico suffragio universale in quanto la democrazia poteva agire con la brutalità del numero, imponendo il suo potere assoluto, opprimendo le minoranze e soffocando la libertà. Nel 1905 Adolphe Prins scrisse che i democratici sono identificati con i marxisti che vogliono l’eguaglianza della remunerazione e della distribuzione, e contrappone alla maggioranza la minoranza qualificata.

Le giustificazioni della opposizione alla democrazia liberale vennero trovate spesso nella necessità di un governo stabile, emanazione di uno Stato forte. Di Stato forte, in senso etico, parlavano gli idealisti, i quali criticavano i positivisti orientati verso una visione contrattuale della società civile, che degenerava nel compromesso parlamentare; i nazionalisti, i quali criticavano il pacifismo dei democratici e l’internazionalismo delle associazioni operaie; ed i ceti privilegiati, i quali si sentivano minacciati dall’ascesa delle classi operaie. – L’autore che si occupò del tema dello Stato forte fu Heinrich von Treitschke con l’opera postuma Politik, uscita nel 1897. Nazionalisti e conservatori ammirarono nell’opera il nesso tra nazione e Stato: essenza dello Stato è la potenza, e caratteristica dello Stato forte è la centralizzazione. Egli detestava i partiti democratici e nutriva, invece, fiducia nel dovere etico dello Stato che deve ricorrere alla guerra per ridare energia alla nazione. La sua Politica ottenne un grande successo in Germania.Nel primo decennio del Novecento molti intellettuali, che si ritenevano élite, assunsero atteggiamenti antidemocratici ed espressero il desiderio di sostituire i politicanti. Si consideravano uno «strato sociale» senza deformazioni classiste e che avrebbero potuto agire con spirito di indipendenza per l’interesse generale. I regimi rappresentativi che misero sotto accusa furono quelli a cui aspiravano politicamente. – la polemica condotta contro gli ordinamenti rappresentativi è da distinguere dalla polemica condotta dai burocrati contro le istituzioni parlamentari. I burocrati si rendevano conto della loro forza sociale dopo un periodo di pratica amministrativa, ma l’antipatia della burocrazia ministeriale, stabile e conservatrice, verso la classe politica parlamentare,mutevole e riformistica, aveva una origine psicologica; gli esperti delle norme mal sopportavano le continue interferenza di politici privi di cognizioni amministrative. Max Weber vide nelle critiche dei burocrati ai politici il desiderio di un maggio potere burocratico, ma le critiche celavano il desiderio di un rapporto diverso con gli organi centrali dello Stato; i burocrati di carriera non desideravano avere una posizione subordinata rispetto ai politici ci complemento.

In conclusione, polemica colta degli intellettuali e polemica amministrativa dei burocrati non potevano non avere conseguenze funeste sullo sviluppo graduale della democrazia politica; la pratica rappresentativa venne a perdere il valido sostegno di coloro che gestivano la funzione pubblica, e di coloro che contribuivano a formare con le comunicazioni collettive l’opinione pubblica.

Capitolo ventinovesimo. Opposizione da sinistra alla democrazia borghese.

Per la sinistra rivoluzionaria era da rifiutare la democrazia che riproponeva la vecchia visione borghese del liberalismo, ma ancora più era da condannare la democrazia che, in nome del progresso, si alleva con il sistema capitalistico di produzione; la democrazia borghese dimenticava le esigenze della classe operaia e tradiva le ragioni della democrazia proletaria.

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Nel congresso del partito socialista tedesco, tenuto ad Hannover nel 1899, Bebel pronunciò una requisitoria (un discorso) contro il revisionismo democratico sociale; secondo lui Bernstein negava i punti fondamentali del marxismo: il materialismo storico, la dialettica, la teoria del valore, il concetto di povertà crescente. Con le tesi revisionistiche si negava alla classe operaia di svolgere la sua missione storica; i socialisti non potevano rinunciare alla pregiudiziale dell’appropriazione dei mezzi di produzione ai danni dei capitalisti. Altri aggiunsero che la proposta politica di Bernstein demoliva gran parte del programma di Erfurt, secondo cui gli operai potevano chiedere riforme sociali e non intaccavano le finalità rivoluzionarie dei lavoratori.

La difesa ufficiale della linea del partito socialista tedesco fu fatta dall’autore della parte teorica del programma di Erfurt, Karl Kautsky, il quale replicò con una messa a punto ortodossa che la rivoluzione sociale era inevitabile, essendo le riforme insufficienti; solo la rivoluzione poteva portare all’abolizione della proprietà privata e alla socializzazione dei mezzi di produzione; allora soltanto si sarebbe avuta la fine dello sfruttamento della classe capitalista sulla classe operaia; le piccole riforme non avrebbero evitato il conflitto con la classe dominante; la classe operaia poteva continuare a chiedere miglioramenti di vita, ma essa aspirava a una repubblica socialista con un governo in grado di agire a favore degli operai. Kautsky respingeva, così, l’ottimismo democratico di Bernstein, perché credeva nell’acuirsi della lotta di classe. Contro Bernstein fu Plechanov, sostenne che solo il trionfo del socialismo avrebbe permesso con un nuovo modo di produzione di realizzare la democrazia proletaria: la Socialdemocrazia di Bernstein era un semplice riformismo e non una democrazia socialista. Anche Rosa Luxemburg respinse il revisionismo riformistico di Bernstein, distinguendo nettamente la socialdemocrazia borghese, dove il polo politico era quello del sistema privato e la socialdemocrazia proletaria che aveva come finalità l’avvento al potere della classe operaia. La vera democrazia, quella proletaria, aveva scopo la lotta all’emancipazione della classe operaia e chiedeva una trasformazione sociale ed economica della società. Secondo lei i destini della democrazia erano legati «ai destini del movimento operaio» e alla conquista del potere d parte del proletario.

Nello scritto Che fare?, pubblicato nel 1902, Lenin affermò che la tendenza revisionistica del partito delle riforme sociali negava i punti fondamentali del marxismo, dalla teoria della lotta di classe al fatto della miseria crescente del proletario; l’economismo di Bernstein, a tendenza tradunionista, chiedeva che le questioni concernenti l’intera organizzazione del movimento operaio fossero decise dalla maggioranza dei voti di tutti i membri; ma per una organizzazione rivoluzionaria era assurdo e ingenuo affidarsi a un tipo di democrazia primitiva. Per realizzare la democrazia proletaria bisognava non solo denunciare la soluzione borghese proposta dal partito costituzionale democratico, ma organizzare un partito d’azione rivoluzionaria, ossia una forte organizzazione di rivoluzionari di professione. – Dopo gli avvenimenti rivoluzionari del 1905 in Russia Lenin precisò che la socialdemocrazia riformistica e borghese era del tutto diversa rispetto alla socialdemocrazia rivoluzionaria proletaria; solo la rivoluzione avrebbe insegnato alle masse la democrazia proletaria; il partito socialista rivoluzionario doveva respingere il programma della borghesia democratica. L’insurrezione degli operai avrebbe portato al potere il proletariato ed una volta al potere avrebbe imposto la dittatura che avrebbe eliminato le istituzioni parlamentari dei democratici borghesi, e avrebbe realizzato la società comunista, che sarebbe stata società democratica perché organizzata per il proletariato. Lenin si ricollegò al modello politico sociale della Comune di Parigi che, nonostante la brevità della sua esistenza, era riuscita a dimostrare con sufficiente chiarezza il suo carattere di governo dei popolo, di governo degli operai.

Victor Adler considerò la democrazia sociale quale premessa per arrivare alla democrazia proletaria; la via della democrazia sociale non era necessariamente rivoluzionaria; si poteva anche con modi legali giungere alla società socialista.

Bisogna dire che la sinistra rivoluzionaria, più che prospettare una forma di governo, preferì inveire contro la corruzione del sistema capitalista e contro le disfunzioni del sistema parlamentare borghese. La repubblica del lavoro sarebbe stata ben diversa dalla democrazia borghese che con il sistema parlamentare operava in maniera schiettamente antidemocratica.

Anche gli anarchici criticarono violentemente la democrazia borghese e la politica parlamentare dei riformisti. Secondo gli anarchici il movimento rivoluzionario avrebbe potuto avere il centro propulsivo nelle

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organizzazioni sindacali; le future comunità di fabbrica avrebbero fondato la democrazia. Il piano di lotta fu tracciato da Fernand Pelloutier, il quale indicò nello sciopero generale lo strumento dell’azione rivoluzionaria per abbattere la società capitalista. Georges Sorel riprese il pensiero e l’azione sindacale di Pelloutier, affermando che non aveva mai nutrito molta fiducia nei riguardi della rappresentanza, ma il suo atteggiamento divenne più critico quando in nome del sindacalismo polemizzò contro la democrazia. Egli affermò che la democrazia costituiva un pericolo per il sindacalismo e per l’avvenire del proletariato in quanto mescolando le classi si confondevano i problemi dei lavoratori. Se i socialisti volevano restare rivoluzionari dovevano condannare le proposte democratiche dei riformatori sociali. Così, quella che era la lotta contro una certa democrazia, divenne opposizione alla democrazia come concezione politica, confusa con la democrazia rappresentativa. Per Sorel i democratici chiedevano libertà per loro e la negavano agli altri: i princìpi della democrazia erano trappole tese fra i fiori.

In Italia nel dibattito sulla democrazia intervenne Giuseppe Rensi con uno scritto su La democrazia diretta, pubblicato nel 1902 a Roma. L’autore, dopo aver messo sotto accusa il sistema parlamentare e aver respinto gli anciens règimes, si dichiarava difensore della democrazia diretta, fondata sull’iniziativa popolare e sull’istituto del referendum; solo la democrazia diretta poteva far trionfare la vera volontà popolare. Arturo Labriola affermò che il proletariato non poteva vedere nel parlamento l’organo della propria emancipazione perché il regime parlamentare si era sviluppato in maniera da servire agli interessi della classe borghese: un’ora di violenza valeva più di cento anni di riforme parlamentari.

In Italia, come in Francia, la sinistra rivoluzionaria condannò la democrazia parlamentare, ma molti pensieri, idee, espressioni usati contro la democrazia dalla sinistra rivoluzionaria, in nome del proletariato, vennero utilizzati anche dalla sinistra rivoluzionaria, in nome del proletariato, vennero utilizzati anche dai nazionalisti e dai conservatori. In saggi, in articoli, in discorsi, la grande accusata divenne la democrazia rappresentativa, incapace di risolvere i problemi sociali politici; la democrazia dava forza agli apparati burocratici, la democrazia impediva il rinnovamento morale dello Stato.

Esisteva, infine, la democrazia nei partiti che si professavano democratici?

Capitolo trentesimo. Le critiche al partito democratico.

Nel citato studio sulla «organizzazione dei partiti politici» (1903), Ostrogorski aveva dimostrato che di fatto in Inghilterra, tanto nel partito liberale quanto in quello conservatore, che costituivano la spina dorsale del sistema parlamentare, i comitati centrali avevano assunto una chiara leadership; essi selezionavano candidati eleggibili capaci di interpretare le tendenze e le aspirazioni degli aderenti al partito. Ma il comitato centrale, pur di avere intorno a sé dei «fidèle du parti», in pratica faceva nominare in parlamento delle «parfaites médiocrités», e finiva per imporre una «tyrannie de parti». Questa situazione danneggiava il funzionamento del governo parlamentare e falsava il principio rappresentativo, mettendo in crisi il rapporto parlamento-opinione pubblica. In Ostrogorski era profonda la fiducia nel sistema politico democratico liberale; la separazione tra la minoranza dei deputati e l’insieme della società era un male che poteva essere curato; si trattava di ristabilire l’equilibrio tra ordine politico e ordine sociale.

Gli studi positivi a carattere sociologico ben presto furono estesi anche ai partiti democratici di massa, e si cominciò a discutere sulla condizione sociale degli iscritti ai partiti operai. Ne risultarono conclusioni amare sulla unità composita dei lavoratori e sulla scarsa democrazia adottata dai comitati direttivi.L’immagine grafica del partito operaio era quello di una piramide comprendente alla base l’ampia massa degli iscritti, come ad esempio il partito socialdemocratico tedesco (SPD), dove al vertice vi erano i dirigenti nazionali con capacità di condurre le battaglie politiche, poi gli attivisti locali che dedicavano gran parte del loro tempo libero alla vita di partito, seguiva una minoranza operaia cosciente dei propri diritti di classe, in basso c’era la massa degli iscritti e dei simpatizzanti. -- Partiti che poggiano su una organizzazione centralizzata potevano credere nella democrazia quale forma di governo ?

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Gustave Le Bon proponeva «la classificazione degli adepti del socialismo» in classi operaie e classi dirigenti; le istituzioni democratiche erano, infatti, vantaggiose per le élites, ossia per le classi dirigenti. La grande contraddizione, secondo lui, era tra «le idee democratiche e le aspirazioni socialiste»; poiché i socialisti pensavano a un regime dispotico per imporre l’eguaglianza, prima o dopo, il socialismo avrebbe prodotto un «césarisme» che avrebbe soppresso tutte le istituzioni democratiche. – La sua analisi alimentò vivaci discussioni e fu la sociologia, che si vantava di essere una scienza nuova, a confermare la crisi della democrazia all’interno del partito operaio e a individuare un processo di evoluzione oligarchica all’interno delle organizzazioni democratiche. Politici, sindacalisti e borghesi tendevano ad assumere posizioni direttive nel movimento operaio, essi cercavano di evitare il ricambio delle cariche nel partito mentre continuavano ad accusare l’immobilismo dei privilegi nella società capitalista.

Con molta acutezza burocratica del partito operaio fu analizzata da Max Weber. Nei suoi scritti la dinamica del mutamento contrastava con la rigidità della organizzazione; la tendenza dei quadri dirigenti era di burocratizzare la struttura della socialdemocrazia. Esaminare il nucleo organizzato dirigente, in rapporto con il largo numero di iscritti, significava porsi il problema della democrazia dei partiti politici e mettere in discussione le finalità democratiche dei partiti di sinistra. -- Com’era possibile credere che il partito di massa volesse veramente instaurare la democrazia nel paese, se il nucleo di coloro che vivevano del partito non sentiva il bisogno di rispettare la democrazia interna di partito ?

Robert Michels insistette sulla inamovibilità dei dirigenti del partito operaio tedesco. Il sistema democratico del partito era, secondo lui, fondato sul diritto delle masse di scegliersi, in determinati momenti, quei padroni ai quali avrebbero dovuto assoluta obbedienza; la stessa organizzazione portava alla oligarchia, ossia alla fine della democrazia; non solo rappresentanti dei partiti parlamentari nel loro lavoro legislativo si allontanavano dagli elettori, ma gli stessi capi dei partiti rivoluzionari finivano per costituire una oligarchia sulla massa: in conclusione, nel regime dei partiti democratici i capi diventavano «più inamovibili di qualsivoglia corporazione aristocratica». – Michels, avendo alle spalle una lunga militanza socialista e conoscendo bene uomini e fatti della socialdemocrazia tedesca, in un suo scritto approfondì le critiche alla democrazia socialista. Secondo lui la scienza politica doveva indagare sui comportamenti dei leader e a riflettere sul problema della organizzazione, e a separare l’ideale della emancipazione del proletariato dal desiderio di potere nei capi politici del movimento operaio. Per dimostrare le «tendenze oligarchiche degli aggregati politici», Michels faceva una analisi sulle funzioni dei capi nelle organizzazioni democratiche, e sulla sottomissione delle masse alla volontà dei capi ( Führer e duci) , vantata come caposaldo delle istituzioni democratiche. L’analisi finiva per essere una requisitoria contro la democrazia, sia diretta sia indiretta; ogni organizzazione che abbia una struttura – sia Stato democratico, partito politico o associazione proletaria – porta al formarsi di una oligarchia. Ma la requisitoria era principalmente rivolta contro «il partito democratico moderno», che aveva una certa parentela con l’organizzazione militare. Nella vita dei moderni partiti democratici le più importanti risoluzioni erano prese da un pugno di persone; la prevalenza, infine, di uno solo fra gli oligarchi, che riusciva a carpire il potere, portava alla dittatura. Una dittatura personale, «conferita dal popolo secondo le norme costituzionali», era alla base della «ideologia bonapartista»; il bonapartismo scaturiva dalla «volontà collettiva».

Lo studio di Michels sollevò in Europa consensi e dissensi, ma dalle polemiche che scoppiarono traspare una sostanziale divergenza tra coloro che ritenevano che ogni partito dovesse riproporre al suo interno una struttura parlamentare, e coloro i quali vedevano nel partito uno Stato in miniatura da dirigere con fermezza e autorità.

Kautsky, nel 1900, riaffermò la funzione dominante del partito operaio; gli avvenimenti russi del 1905 e le crisi morali degli Stati capitalisti dimostravano che il partito doveva interpretare le tendenze delle masse e orientare l’azione sindacale. Altra soluzione poteva essere la formazione di un partito nazionale in grado di essere l’organizzazione unitaria intermedia tra Stato e nazione ed, inoltre, poteva difendere gli interessi generali del paese. Sia il grande partito dei lavoratori, sia il grande partito nazionale, assegnavano ai quadri direttivi una indiscussa funzione regolatrice sui governati. - Accanto al partito dominante potevano anche sussistere altri partiti, ma era implicito che non ci sarebbe stata una rotazione di direzione politica. Una volta ottenuta la maggioranza dei seggi, il partito dominante sarebbe rimasto stabilmente alla guida del paese,

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perché l’elettorato avrebbe votato nel suo interesse successivamente nella stessa maniera. - Il concetto di partito dominante mancò d’una teorizzazione organica, ma era implicito che in un sistema a partito dominante la direzione politica del paese sarebbe passata nelle mani del partito dominante.

I capi della sinistra socialista, quando criticavano il sistema parlamentare borghese, precisavano, sulla base delle indicazioni di Marx, che le istituzioni rappresentative da centri di discussione dovevano divenire organismi di lavoro; il lavoro sarebbe stato di carattere esecutivo e legislativo allo stesso tempo; i deputati sarebbero stati i delegati degli operai e avrebbero badato al bene comune di tutti i lavoratori. – Sul versante nazionale, gli oppositori della democrazia liberale immaginarono un partito del quale avrebbero fatto parte i cittadini amanti della propria patria. Da Barrès a Corradini la nazione implicava l’eguaglianza dei cittadini, ma i cittadini sarebbero stati rappresentati dalle corporazioni, dalle associazioni; allora a governare sarebbero state le rappresentanze degli interessi professionali; sarebbe finita la confusione tra rappresentanza e governo perché sarebbe stato il partito nazionale a seguire le linee direttive della politica governativa; un corporativismo moderno avrebbe portato alla fine dello sterile parlamentarismo. Un partito nazionale dominante avrebbe imposto il superamento dei contrasti di categoria e fatto prevalere l’interesse del paese.

La parola «dominante» circolò molto in Europa negli ambienti politici, ma per francesi e inglesi esso era sinonimo di position. Il dominante con riferimento al partito ebbe, invece, la sua derivazione dal sostantivo tedesco, supremazia. Marx aveva inteso la supremazia come dominio esercitato con potere dispotico dal proletariato; anche Treitschke aveva assegnato al governo una funzione dominante nella vita politica, perciò il partito del governo doveva essere non solo nazionale, ma anche dominante. Kautsky chiedeva la supremazia delle masse da realizzare per mezzo del partito operaio (1914). Ogni ipotesi di partito dominante, in tutti i casi, comportava la fine delle alternative parlamentari e il tramonto della libertà elettorale.

Il problema del partito dominante è stato storicamente poco studiato, ma allora si prospettò la possibilità che un partito di maggioranza potesse divenire un partito stabilmente dominante; allora si prospettò anche l’ipotesi che un partito con una maggioranza relativa potesse con una legge elettorale assicurarsi la maggioranza assoluta nell’assemblea legislativa e divenire il partito dominante della vita politica. La verità è che l’esasperazione politica era profonda, e con una radicalizzazione delle posizioni dottrinali si giunse alla guerra.

Parte quarta.La democrazia a difesa dei diritti individuali e sociali.

(1917-1995).

Capitolo trentunesimo. La guerra e il dirigismo statale.

Tra la fine di luglio ed inizio agosto 1914 in Europa scoppiò la guerra. Negli anni del conflitto europeo la parola «democrazia» venne usata dalla propaganda in senso positivo e in senso negativo. Il quadro di questo contrasto lo fa Thomas Mann in Considerazioni di un impolitico, scritto durante la guerra ma pubblicato nel 1918. L’alternativa era tra il «democratico» o il «conservatore» politico, e nella difficile ricerca di sapere quale fosse la «vera» o la «umana democrazia». La parola stessa «democrazia» fu connessa con le alleanze politiche, che molto poco coincidevano con la somiglianza delle forme di governo. – Durante la guerra ogni civile, senza distinzione di sesso, dovette partecipare allo sforzo bellico: gli uomini furono richiamati alle armi e le donne sostituirono gli uomini nelle attività produttive e commerciali. Si ebbero due conseguenze: lo Stato riconobbe di fatto l’eguaglianza dei diritti, permettendo alle donne di partecipare attivamente alla vita sociale ed economica del paese, in più riconobbe che in una società moderna avanzata la distinzione di sesso erano infondate. Ma questo ampliamento dei diritti non si tradusse in ordinamenti più democratici.

In Germania l’economia di guerra venne teorizzata come nazionalizzazione della produzione. Colui che la diresse fu il moderato Walter Rathenau, che aveva criticato in alcuni suoi scritti la lotta di classe e le ambizioni politiche del proletariato ma aveva sperato una solidarietà nazionale anticapitalistica. Economia di guerra significa l’adottare tutta una serie di provvedimenti per controllare l’economia in ottica dello sforzo

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bellico: controllo dei prezzi, materie prime, ecc. tutto ciò portò in poco tempo l’economia del paese alla militarizzazione. – In Francia, il piano di organizzazione e della produzione industriale per rifornire le truppe di armi e munizioni fu preparato da Albert Thomas, socialista noto studioso di sindacalismo. Non fu tenero verso il sistema parlamentare, prevedeva nel dopoguerra la trasformazione dell’economia controllata di guerra in una economia controllata anticapitalistica, ossia il passaggio da un «socialismo di guerra» a un «socialismo di pace». – In Inghilterra, fu nominato ministro delle munizioni, Lloyd George, che assunse un controllo quasi dittatoriale sull’industria britannica e le sue direttive furono ancora più dittatoriali non appena gli fu affidato il War office, cioè il controllo della produzione e del credito, ma l’invito fatto ai risparmiatori di vendere i propri investimenti all’estero per pagare i debiti contratti con l’America fu un duro colpo ai princìpi della democrazia liberale.

L’economia di guerra sembrò a volte orientata verso una economia nazionalistica e a volte verso una economia socialistica. Si parlava sovente di militarismo come fenomeno deteriore della guerra, ma il militarismo fu un fenomeno complesso, che percorse tutto il tessuto nazionale e contribuì a sostanziare la fiducia nel dirigismo statale. Il conflitto europeo condizionò la legislazione dello Stato in materia economica e sociale, ma il condizionamento avvenne seguendo i criteri propri della organizzazione militare. Secondo gli statalisti si doveva guardare all’esperienza bellica e non ai vecchi princìpi dottrinali per instaurare nella pubblica amministrare dirigenti in grado di comandare e non politicanti abituati ad approfittare delle opportunità del momento. Non vi erano compromessi ma prevalevano la disciplina e il dovere sulle indicazioni dei politicanti. - Ogni Stato europeo in guerra, prima o dopo, subì la sua «Caporetto» (sconfitta), e all’interno dei singoli Stati le conseguenze furono più o meno simili; gli avvenimenti sul fronte militare si ripercossero sul fronte civile: il personale dirigente fu mutato, entrarono militari, industriali e uomini di cultura e la selezione venne fatta sulla base della competenza tecnica e della capacità organizzativa. Si delineò una pratica di dirigismo statale in quanto il nuovo personale dirigente riteneva che fosse l’amministrazione centrale ad assumere la responsabilità delle decisioni e non il consenso delle forze pubbliche e ciò produsse una rivoluzione concettuale nel liberalismo ti tipo amministrativo.

Due concetti emersero in maniera chiara dalla esperienza bellica: il concetto di «organizzazione» e il concetto di «pianificazione». L’organizzazione era la premessa necessaria per coordinare lo sforzo collettivo e per migliorare i due momenti della produzione e della distribuzione. L’organizzazione applicata alla funzione sociale non poteva non tradursi in una pianificazione organica delle capacità produttive del paese, sia per mantenere l’occupazione, sia per incrementare i beni di consumo più necessari. In una pianificazione il governo doveva tener conto delle importazioni e delle esportazioni, in modo che fossero sfruttate le risorse nazionali, non solo per pareggiare la bilancia dei pagamenti con l’estero, ma per rendere più autarchico il mercato nazionale. Luigi Enaudi criticò i «dittatori della condotta economica di guerra» nel senso che politici e funzionari non applicavano la contabilità tradizionale ma imponevano procedure eccezionali. Il fenomeno bellico ebbe delle ripercussioni profonde sul modo di pensare in riferimento alla cosa pubblica. Non era chiaro quali ordinamenti amministrativi sarebbero stati adottati dalle nuove forze politiche,in ogni caso il liberalismo di tipo ottocentesco sembrava inaccettabile dopo l’esperienza organizzativa della guerra.

In quegli anni il termine «democrazia» assunse un significato ambiguo perché venne staccato dalla tradizionale alternativa libertà o eguaglianza; democrazia era presenza delle masse nella vita politica, ma le masse avevano diritto di essere presenti perché erano state presenti nella guerra; per molti, però, la presenza delle masse imponeva una «democrazia governata dall’alto». – Prima che si arrivasse alla pace molti credevano che per passare dal sistema politico di guerra a quello della pace, sarebbe stato necessario adottare un modo di governare autoritario per mettere le cose a posto. I socialisti avrebbero potuto conquistare il potere con l’appoggio delle masse lavoratrici e imporre la «dittatura del proletariato». I nazionalisti invece si presentavano come difensori della patria e avevano fiducia verso l’esercito che aveva difeso il paese dal nemico, «dittatura militare» per la protezione nazionale. – In una situazione ideologicamente confusa venne ripreso il tema del partito dominante. La formazione di un partito dominante avrebbe permesso una migliore gestione del potere; ma era difficile immaginare che un partito dominante potesse rimanere tale solo nell’ambito dell’ordinamento parlamentare. Secondo i socialisti, un partito proletario e rivoluzionario doveva tracciare il programma politica e sociale della classe operaia senza ricorrere alle strutture rappresentative borghesi. Secondo i nazionalisti, tutta la direzione politica doveva orientarsi verso una soluzione nazionale;

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solo un partito dominante nazionale avrebbe potuto fornire l’elaborazione dottrinale della gestione politica del paese; esso sarebbe stato il partito della massa nazionale che aveva sopportato il peso della guerra e avrebbe ridato dignità alle funzioni pubbliche.

Soluzione proletaria o soluzione nazionale sembrarono essere le due alternative in grado di dare vita a nuovi ordinamenti politici, e in possesso di valide giustificazioni dottrinali. L’esperienza della guerra insegnava che la vittoria era condizionata dalle capacità del comandante; per operare una rivoluzione bisognava rivedere il rapporto Massa e Führer: il nuovo capo doveva saper parlare non ai deputati, ma alle masse.

Capitolo trentaduesimo. La polemica contro la democrazia parlamentare: da Lenin a Pareto.

Durante gli anni del conflitto in Russia si era paurosamente ondeggiato tra la democrazia coronata (Zar Nicola II) e la democrazia repubblicana. Nel 1917, Lenin accentuò la sua polemica contro la democrazia borghese e contro la repubblica democratica, inneggiando alla democrazia rivoluzionaria, profondamente diversa dalla democrazia riformista; la democrazia rivoluzionaria, quella vera, non poteva accordarsi con i capitalisti ma doveva «rompere con il passato e riconquistare la fiducia degli operai e dei contadini». Lenin, nel testo Staat und Revolution, scrisse sulla «democrazia marxista» per smascherare i socialisti opportunisti, i socialsciovinisti e i socialdemocratici. I socialisti, secondo Lenin, sottopongono il pensiero di Marx a un «trattamento», in modo da renderlo accettabile alla borghesia, ma «gli antagonismi di classe non possono essere oggettivamente conciliati». Come esiste una democrazia borghese esiste una democrazia proletaria, quella proletaria crede nel principio della eleggibilità e sostituisce il parlamentarismo corrotto della società borghese con altre istituzioni rappresentative senza divisione tra lavoro legislativo ed esecutivo. – Lenin polemizza contro i socialdemocratici tedeschi, sostenitori dello «Stato popolare», e propone che il partito operaio bolscevico si chiami partito comunista, perché «soltanto il comunismo è in grado di dare una democrazia realmente completa». La vera democrazia, quella proletaria, si avrà con la società comunista, quando non ci saranno più classi. Ma per Lenin la democrazia proletaria è condizionata dalla dittatura proletaria, e la dittatura proletaria è attuata dal partito comunista. Sennonché Lenin non prevede l’estinzione del partito comunista nell’ambito della società proletaria. La democrazia proletaria non consente il dissenso ed è necessario reprimere, dice Lenin, gli oppressori, gli sfruttatori, i capitalisti, per liberare l’umanità dalla schiavitù salariale; per lui gli oppressori, gli sfruttatori, i capitalisti non costituiscono il dissenso. Comunque la democrazia proletaria resta contraria alle istituzioni parlamentari. La condanna della democrazia politica borghese coincise con il passaggio dalla concezione del partito dominate alla concezione del partito egemone; infatti solo l’azione del partito bolscevico poteva mettere fine al predominio borghese. Non senza motivo nel Comitato esecutivo centrale pan russo (VCTK), il partito bolscevico assunse una posizione egemonica.

Kautsky fece delle osservazioni critiche nel suo scritto Dittatura e Proletariato, sostenendo che bisognava distinguere tra classe e partiti: la classe comanda, i partiti governano; e come nell’ambito del mondo borghese i liberali e i conservatori rappresentano come partito gli interessi della stessa classe, era da pensare che nell’ambito del mondo proletario i partiti socialisti avrebbero rappresentato gli interessi dell’intera classe operaia; se gli interessi della medesima classe non potevano essere rappresentati in maniera diversa con metodi tattici differenti, l’egemonia del partito comunista diventava la dittatura del partito proletario e non più la dittatura del proletariato; la dittatura di questo partito era necessario solo se il proletariato era una minoranza in un sistema rappresentativo borghese.

A tali affermazioni Kautsky ebbe diverse rispose critiche. Quella Lenin fu che parlava come un liberale e non come un marxista e che confondeva la democrazia parlamentare borghese con quella sovietica del proletariato; non si poteva contrapporre la democrazia alla dittatura perché ogni democrazia borghese, anche la più democratica, era sempre una forma di dittatura sulla classe operaia. – Trotsky polemizzò con Kautsky, precisando che la dittatura del proletariato era diversa dalla democrazia liberale: i comunisti non credevano nella «metafisica della democrazia» con i suoi princìpi di sovranità popolare, di suffragio universale, di libertà individuale; questi princìpi erano stati utili al terzo stato per combattere il feudalesimo aristocratico e alla borghesia per affermare il suo potere sociale ed economico attraverso il parlamentarismo. La democrazia proletaria era qualcosa di diverso dalla democrazia parlamentare di tipo borghese. – Radek in polemica con

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Kautsky concordava con Lenin e Trotsky che la dittatura del proletariato era diversa dalla democrazia; la democrazia era un modo per il capitale di governare. – Infine Bucharin dichiarava che la dittatura del proletariato avrebbe portato a una forma politica diversa dalla repubblica parlamentare democratica.

Dopo il 1920 Lenin non presentò più il comunismo sovietico come una più alta forma di democrazia; il regime sovietico, essendo l’antitesi delle democrazie occidentali, era una nuova forma di governo anticapitalistica e antiborghese. L’aggettivo «democratico» venne spesso usato per attutire il peso morale della parola dittatura; così, in polemica con i socialisti «traditori e venduti», si parlò di «democratica dittatura degli operai e dei contadini»; la democrazia proletaria si era concretizzata negli ordinamenti sovietici fatti per il popolo, infatti la classe proletaria non era più sottoposta alle decisioni della borghesia capitalistica.

Il filocomunismo fu un fenomeno europeo che si espresse sul piano dottrinale ribadendo l’avversione alla democrazia, quale sistema di governo borghese, e ripeté che la democrazia proletaria doveva passare attraverso la dittatura del proletariato per arrivare al comunismo.

Antonio Gramsci affermava che in Italia la democrazia sera solo «una parola,una frase fatta, un figurino alla moda anglo-americana»; la democrazia borghese era condannata a morire «per la sua riluttanza ad accogliere e rispettare una disciplina politica di partito». Gramsci non credeva che fossero ancora validi i sistemi delle democrazia liberali occidentali; sarebbero state necessarie nuove forme rappresentative attraverso le quali esercitare la sovranità popolare: una minoranza partitica avrebbe dovuto esercitare «la dittatura per permettere alla maggioranza affettiva di organizzarsi, di rendersi cosciente delle intrinseche sue necessità, e di instaurare il suo ordine all’infuori di ogni apriorismo, secondo le leggi spontanee di questa necessità».- Molti operai europei leggevano i giornali e concordavano sulla opportunità di aderire all’Internazionale comunista e condividevano il pensiero di Lenin che bisognava abbattere «il parlamento sorto dal suffragio universale», e liberarsi «dal culto della democrazia»; se il socialismo voleva diventare la forza propulsiva del paese «doveva fondarsi sull’esperienza russa», e mandare a casa i deputati eletti dalla borghesia. – in Italia, all’interno dei partiti socialisti europei il filocomunismo spesso si confuse con un fenomeno di azionismo rivoluzionario, ed assunse il nome di massimalismo. I massimalisti nel 1919 presentarono un testo polemico nei confronti dei punti programmatici dei social riformisti; il programma massimalista respingeva come inadeguate le piccole riforme relative ai comuni, alle cooperative e al Parlamento; ma il rifiuto più categorico riguardava la rappresentanza democratica, uno strumento falso e ambiguo utilizzato dalla borghesia per restare al potere e per impedire con i suoi accorgimenti e compromessi la vittoria finale del proletariato.Se il comunismo sovietico sembrava essere una soluzione politica realizzabile in Europa, il nazionalismo prospettava una diversa ipotesi per uscire dalla paralisi nella quale era caduta la liberaldemocrazia. Il nazionalismo aveva diffuso lo spirito patriottico e sembrava poter dare unità morale al paese. La guerra era stata popolare ed il movimento nazionalista, in antitesi a quello proletario, si presentava come movimento popolare con lo scopo di operare «una rivoluzione nel modo di governare». Ma le speranze del movimento nazionalista negli anni 1917-1921 non ottenne quanto desiderato e si aggrappò all’idea di nazione, evocata dalla patria e fatto collettivo che però aveva bisogno di una struttura statale ed di una minoranza disinteressata capace di governare per il bene del paese. Per cui lo Stato forte sembrava una necessità politica. – La guerra diffuse l’idea di rivoluzione, sovietica o nazionalista . la rivoluzione nazionale era da realizzare con l’appoggio dell’esercito, con l’aiuto delle classi medie e con i reduci. - Il nazionalismo si diffuse in tutta Europa e si disse esprimesse il disaggio degli ex combattenti, in Italia e Germania. Esso ricorse alla violenza e nutrì avversione verso gli ordinamenti rappresentativi. Ogni nazionalismo in Europa si caratterizzò per il disprezzo verso i partiti parlamentari, e covava l’ambizione di divenire un movimento guida, capace di coinvolgere le forze politiche antiparlamentari. I nazionalisti volevano con l’appoggio delle forze popolari patriottiche diventare da movimento di associazioni nazionaliste un partito dominante per operare la rivoluzione dello Stato. – Il carattere antidemocratico del nazionalismo era esplicito nel manifesto della rivista «Politica». i punti programmatici erano: negazione dell’individualismo liberale e della ideologia egualitaria, affermazione dello Stato come forza, richiamo alle tradizioni del paese, ricostruzione spirituale dell’unità nazionale; inoltre si dichiarava: «L’ideologia democratica è, per definizione, l’ideologia della sconfitta; la mentalità democratica è imbelle e viscida; il democraticismo impotente e parolaio fa da battistrada all’anarchia; l’ideologia democratica è eminentemente individualista ed antistatale; l’ordinamento democratico prepara la decadenza perché vuole l’abolizione della gerarchia sociale».

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Sul tema della democrazia intervenne Vilfredo Pareto con quattro studi pubblicati tra maggio e luglio del 1920 e riuniti in un volumetto dal titolo Trasformazione della democrazia. Richiamandosi al Trattato di sociologia generale, egli esamina la fenomenologia del potere dal punto di vista sociologico. In ogni collettività umana sono in contrasto due forze; una, che si potrebbe dire centripeta, spinge alla concentrazione del potere, l’altra, che si potrebbe dire centrifuga, spinge alla divisione del potere. L’ordinamento sociale non è mai in perfetta quiete, ma in continuo divenire; un divenire lento o veloce a seconda che le trasformazioni siano di media o di lunga durata. - Per Pareto la società del dopoguerra non ha nulla a che fare con la società ottocentesca. Bisogna capire se c’è uno «sgretolamento della sovranità centrale» oppure uno spostamento del potere centrale a causa della forza centripeta. Su queste premesse egli critica la debolezza del parlamento, le esitazioni dei governanti e si duole nel vedere gli interessi privati prevalere sull’interesse generale, e il moto politico sottomesso alla forza centrifuga. - In favore del potere centrale sembrano agire due partiti tra loro molto diversi: il partito dei nazionalisti e il partito dei socialisti di tipo marxista; nazionalismo e comunismo si sarebbero affermati a causa dello sgretolamento del potere centrale dei paesi europei coinvolti nel sistema plutocratico (di chi ha denaro). Si chiede se si può credere nelle forze ormai logore e impotenti del parlamentarismo democratico e liberale che detengono oggi il potere, e a suo giudizio il «potere dei parlamenti decade, e che si fanno ognora più stentatamente ubbidire».

Comunismo e nazionalismo erano su posizioni dottrinali opposte, ma bisogna anche considerare i modi dell’azione politica. Tanto uno che l’altro si posero in maniera chiara il problema del partito: il partito era concepito dal comunismo in rapporto con il proletariato, ed era concepito dal nazionalismo in rapporto con la nazione; tanto l’uno quanto l’altro pensavano a una unificazione dei movimenti esistenti. I gruppi menscevichi, massimalisti, socialisti e anarchici, potevano scegliere la loro azione demolitrice del regime borghese - capitalista, ma dovevano alla fine riconoscere l’egemonia del partito comunista per fondare la società sovietica. I movimenti nazionalisti se volevano realizzare i loro programmi dovevano riunirsi in un partito che riuscisse a diventare il partito guida. Tanto il partito egemone che quello guida non potevano essere democratici e una volta al potere si sarebbero imposti in Russia e Italia come partito unico, dando forma concreta alla monocrazia in opposizione alla democrazia.

Nel 1920 muore Max Weber, ma l’anno dopo uscì un suo scritto che erano un’appassionata testimonianza della sua partecipazione alla nascita della repubblica di Weimar, ma soprattutto un messaggio politico a difesa della democrazia. Weber auspicava una coalizione di tutte le forze progressiste tedesche, e sosteneva che la borghesia liberaldemocratica doveva collaborare con la socialdemocrazia; questa sua difesa della democrazia parlamentare e partitica aveva sul piano dottrinale un valore generale. – Contro coloro che vedevano nel parlamentarismo un sistema corrotto e adatto per arrivisti, Weber difendeva il valore morale e politico del parlamento come necessità primaria contro la burocrazia statale e contro l’autoritarismo di massa. Nel saggio Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania (1918), Weber si opponeva alla «forma di governo del genio», quale il «cesarismo» di Bismarck, che aveva lasciato una nazione «senza la minima educazione politica», e «senza la minima volontà politica, con un parlamento completamente impotente a risolvere i grandi problemi». Secondo Weber nella democrazia moderna i partiti erano i depositari più importanti di tutta la volontà politica; essi impedivano che una burocrazia governante imponesse uno «Stato autoritario». Nella democrazia parlamentare egli vedeva la forma politica migliore per esprimere le energie creative della società, e per permettere il libero manifestarsi delle volontà; nella democrazia parlamentare dovevano confluire le tendenze schiettamente liberali e le forze socialdemocratiche; i socialdemocratici avrebbero perciò dovuto rinunciare al «carnevale della rivoluzione» e accettare la collaborazione governativa della borghesia radicale. Nel discorso politico su La nuova Germania, auspicava un governo democratico fondato su un libero compromesso tra forze pari: «Le strade dell’onesta e assolutamente pacifica democrazia radicalborghese e di quella socialista potrebbero correre per decenni assieme spalla a spalla». La repubblica era La forma istituzionale della Germania più sicura, ma essa aveva bisogno dell’appoggio dei partiti democratici, e di orientarsi verso un decentramento amministrativo di tipo federalistico. - Ernst Troeltsch disse che la rivoluzione tedesca era nata come rivoluzione militare e aveva avuto momenti di anarchia ma sembrava sfociare in una struttura democratica con l’assemblea di Weimar. Riteneva che la democrazia era l’unica via per una corretta evoluzione politica e sociale dello stato moderno. La salvezza sta in essa per cui bisogna adottarla. La democrazia sociale non è

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puro socialismo, ma organizzazione sociale diretta a ottenere il massimo di beni materiali e la loro distribuzione, fondata sulla solidarietà e disciplina; e non è neppure pura democrazia, ma trasferimento dell’autorità e dei poteri a maggioranza ritenute sacre, i cui organi esecutivi eletti devono provvedere anche alle minoranze che sempre esercitano il controllo.

In conclusione è difficile raccogliere le voci che si levarono in Europa a difesa della democrazia parlamentare. In Francia, parlare di democrazia significava richiamarsi alle tradizioni repubblicane del paese. In Inghilterra, qualcuno temette che il partito laburista potesse seguire le orme del partito bolscevico. James Bryce difese la Moderna Democrazia in un opera del 1921, ammettendo il declino della funzione legislativa nelle assemblee rappresentative e giustificando in parte le critiche al parlamentarismo ma credeva nella possibilità di «rimediare» per fare delle camere dei rappresentanti «il centro vitale del’attività governativa». In Italia, la difesa della democrazia parlamentare la fece Gaetano Mosca riconoscendo che il governo rappresentativo consentiva ai governati di esprimere in modo legale il proprio malcontento e di mettere in discussione le decisioni dei governanti. - Bisognava disperare? J.G. Penman rispose che la democrazia è un sistema politico che difende la libertà e deve alla fine prevalere: la politica democratica parlamentare può ancora fornire le soluzioni ai problemi sociali ed economici del dopoguerra.

Capitolo trentatreesimo. Il fallimento della liberaldemocrazia italiana e l’avvento del fascismo.

A fine conflitto si doveva passare, sia per gli Stati vinti che per gli Stati vincitori, dalla guerra alla pace.Il caso dell’Italia fu abbastanza atipico; il paese aveva vinto gli austriaci e strappato a Trieste e Trento, ma gli italiani parlavano di «sconfitta al tavolo della pace» e ciò per la debolezza della classe politica. In un clima di sfiducia verso i governanti il sistema politica non sembrava riuscisse a svolgere le sue funzioni governative. – In ogni occasione, i nazionalisti ribadivano le critiche al funzionamento dei poteri e dei servizi in un regime liberaldemocratico di tipo parlamentare. Essi chiedevano il controllo pubblico delle iniziative private e la regolamentazione degli organi amministrativi. – Il sistema politico italiano era sempre di tipo liberaldemocratico, così come l’aveva lasciato l’esperienza costituzionale di prima della guerra, ma peggiorato nel suo funzionamento. – Le elezioni politiche del 1919 videro vincitori il partito socialista ed il partito popolare. I vecchi parlamentari cercarono di proporre nuove soluzioni di tipo conciliative ma i nuovi parlamentari rifiutarono il sistema delle coalizioni quale espressione del deprecato parlamentarismo. Si parlò allora di «ordine nuovo». L’ordine nuovo doveva essere rivoluzionario, e il mito della «rivoluzione» coinvolse un po’ tutti: finalmente una rivoluzione che l’Italia non aveva fatto durante il Risorgimento.Per i nazionalisti la rivoluzione doveva essere nazionale, perché il paese aveva bisogno di una rivoluzione «attiva». Renzo De Felice aveva insistito su Mussolini rivoluzionario, e aveva colto i motivi innovatori del movimento nazionale dei fasci che si proiettò nella realtà politica sociale del dopoguerra. Il movimento dei fasci si giovò della diffusa sfiducia nelle capacità governative della democrazia. – Benito Mussolini, con linguaggio acceso, assicurava di voler andare verso le masse, di voler dare ad esse la certezza di un domani migliore; nello stesso tempo faceva l’elogio del popolo «paziente, laborioso, tenace». A suo dire, la guerra aveva chiamato alla ribalta le masse proletarie, ma egli non prometteva ad esse un sistema democratico, prometteva il benessere nazionale; il «popolo d’Italia» aveva diritto a un’esistenza dignitosa. Mussolini si presentava come capo di un movimento innovatore e contrario al comunismo e alle soluzioni sovietiche, ciò riscosse la simpatia della piccola borghesia e di molti liberali. Nel 1921 il movimento dei fasci di combattimento si trasformò in partito, assumendo la denominazione di partito nazionale fascista (PNF).

Il fascismo si giovò dell’opposizione di sinistra al sistema liberale e così riuscì a passare, agli occhi dei più ingenui, come un movimento progressista antiliberale; dall’altro canto, poiché l’opposizione di sinistra non prospettava un’alternativa chiara di ordinamento democratico, il fascismo si presentò come antitesi (contrapposizione) della democrazia. Francesco Saverio Merlino in un suo scritto, Fascismo e democrazia, riconosceva che i partiti si sinistra con la loro propaganda avevano contribuito alla decadenza della democrazia; eppure, egli precisava, «democrazia e fascismo sono termini antitetici». – Sulla caduta del regime liberaldemocratico e delle tecniche usate dal fascismo per giungere al potere si occupò Paolo Farneti nel suo saggio La caduta dei regimi democratici. Egli distingue tra la «società civile» quale risultato della rivoluzione industriale, e la «società politica» quale portata del sistema delle istituzioni ottocentesche.

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Scrisse che il sistema parlamentare entrò in crisi per colpa della classe politica che non si preoccupava di risolvere i problemi della società civile, politica e delle forze istituzionali. La politica della piazza e della caserma si sostituisco alla politica del seggio elettorale e una situazione di questo genere creò lo spazio per movimenti che volessero lanciarsi nell’esperienza politica aggreganti un numero sufficiente di forze.

È anche vero che il fascismo per conquistare il potere seppe adottare una idonea organizzazione politica. Nel processo di formazione del fascismo bisogna distinguere tre fasi: nasce come movimento e cerca l’intesa con altri movimenti simili, dalle associazioni patriottiche ai gruppi nazionalisti; si fuse con il partito nazionalista e diventò partito nazionalfascista con scopo di diventare un partito con funzioni di partito dominate nell’ambito del parlamento, infine dal 1923 al 1926 il fascismo si muove per divenire partito unico nell’ordinamento monarchico costituzionale.

Nell’ottobre 1922 il fascismo, con la marcia su Roma, non solo espresse la propria sfiducia verso le consuetudini liberaldemocratiche di governo, ma si presentò come qualcosa di più del partito importante del quale aveva parlato Pareto. Una volta al governo, Mussolini agì come capo del partito dominante. Il fascismo era partito dominante perché «rappresentava la totalità di massima del paese con la maggioranza sicura della Camera»; per questa sua condizione restava nell’orbita costituzionale. Secondo G. Lumbroso molti entravano «nel partito dominante per garantirsi la sicurezza personale del quieto vivere».

Questo partito nazionalfascista dominante ebbe il consenso fuori d’Italia da parte di molti conservatori. Cecil Squire Sprigge ricordava che in Inghilterra molti approvavano Mussolini e la sua politica. – Mussolini si imponeva in parlamento come capo del partito dominante, venne considerato in Europa come l’allievo di Pareto e di Sorel. La sua concezione governativa, per Bonn, era fondata sulla convinzione che si dovesse governare con un partito nazionalfascista la paralisi della democrazia parlamentare.

Ma il partito dominante mirava a divenire partito unico, eliminando ogni opposizione partitica. Il parlamentarismo era in decadenza «perfino nella parlamentarissima Inghilterra»; il governo fascista «sorto da una rivoluzione antiparlamentare» non intendeva «riabilitare il parlamentarismo e ridar vita alla democrazia», né ricostituire una camera. La funzione nuova di apprestare «organismi espressivi di consenso» spettava al partito fascista e solo lui poteva avere il compito di predisporre «l’azione animatrice della coscienza nazionale»; si ristabiliva così un rapporto stretto tra «funzione di governo e funzione di partito»; per la difesa del nuovo regime dovevano essere aboliti gli altri partiti e il capo del governo doveva essere «dittatore del partito fascista». Si liquidavano, come osservò Francesco Ruffini, i Diritti di libertà.Mussolini considerava il testo di Alfredo Rocco «la chiara formulazione dei prìncipi di base del programma fascista»; scrisse che la vera opposizione alla «concezione liberal-democratica-socialista dello Stato» era il fascismo e l’avversario centrale del fascismo era la democrazia, che costituiva una minaccia all’autorità dello Stato e agli interessi della nazione. Il programma politico e la dottrina fascista era capace di mettere in crisi e distruggere le istituzioni rappresentative a carattere democratico. I fascisti usavano la parola democrazia sempre in senso spregiativo; il fascismo serviva gli interessi del popolo, ma la guida del paese spettava al duce.

Capitolo trentaquattresimo. Democrazia e antifascismo.

Tra il 1920 e il 1922 mancò in Italia un’approfondita analisi della democrazia come forma di governo e come strumento civile di potere. Socialisti, conservatori, nazionalisti continuarono in quegli anni a formulare critiche sul funzionamento del sistema rappresentativo e sulle capacità decisionali dei parlamentari. Era quasi una moda esprimere sfiducia nella rappresentanza definita «falso canale» o «comitato d’affari». Solo dopo la marcia su Roma (1922) l’opposizione avviò un dibattito sul modo come governare democraticamente. – Il dibattito lo si può seguire leggendo la rivista aperta a tutte le tendenze democratiche «Critica sociale» (1923). Tutti erano d’accordo sulla necessità di ripensare le premesse teoriche del socialismo; questo ripensamento implicava un appello alla democrazia «ripudiando ogni dittatura, quella di Roma come quella di Mosca». La democrazia significava opposizione alla dittatura del partito sovietico e opposizione allo Stato-partito di tipo fascista. Lo Stato-partito non solo era antidemocratico ma tendeva allo Stato

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aristocratico. Il partito fascista in Italia era riuscito a trionfare in grazia del suo ordinamento militare (1-15 ottobre 1923); ma la democrazia restava il tipo di governo di una società civile e moderna; per questa fiducia nella democrazia i socialisti spingevano il proletariato a lottare per il vantaggio e la libertà di tutti i ceti sociali; quindi a vantaggio dell’immensa maggioranza.

Non era chiaro quale modello politico dovesse seguire la democrazia italiana, dal momento che i redattori di «Critica sociale» condannavano i metodi della dittatura sovietica e della dittatura fascista, nonché gli appetiti degli Stati borghesi europei. Carlo Rosselli, in nome del Liberalismo socialista, ricordò che in Inghilterra, dopo la vittoria dei laburisti nelle elezioni del dicembre 1922, si sarebbe avuto un Partito socialista laburista con sistema rappresentativo e riconoscimento di un diritto ad una o più opposizioni. Dice che l’Inghilterra ci sopravanza di un secolo e che il suffragio universale e la partecipazione alla cosa pubblica di tutti i cittadini, non appaiono ormai un semplice diritto ma uno stretto e imperioso dovere. In Italia, sull’esempio della democrazia inglese, i socialisti che rifiutano «il socialismo collettivista, accentratore» hanno da svolgere «un’azione liberale», innestandosi sul moto concreto delle masse; soltanto il socialismo liberale può realizzare la democrazia: «Sono socialista per un insieme di princìpi, ma credo nei princìpi di libertà e di democrazia». Anche Alessandro Schiavi elogiò il socialismo inglese. – Sulla rivista «Critica sociale», (16-31 dicembre 1923) la vittoria dei laburisti venne salutata come la riscossa del principio democratico. L’alleanza del partito laburista e del partito liberale contro i conservatori fu vista come un alternativa politica in grado di far riprendere nei paesi europei il ritmo del movimento progressivo e democratico.

Nel 1924, nella collana di studi politici, economici e sociali «Res publica» Giovanni Amendola pubblica il volume La democrazia. L’autore criticava il partito fascista, che non solo riteneva di essere il «partito dominante», ma identificava «un partito con la nazione»; il fascismo aveva adottato «uno strano sistema politico» poiché la camera era aperta ma sopprimeva «le condizioni indispensabili al suo normale funzionamento»; il fascismo mutava il diritto di maggioranza «in arma di sopraffazione anticostituzionale», e attuava «un potere esecutivo asservito stabilmente ad un partito»; in questo modo la sovranità parlamentare era umiliata dalla pratica dello «Stato-partito». Anche la visione politica di Amendola si rifaceva al modello inglese per realizzare la stabilità parlamentare.

A fine 1924 Guido De Ruggiero, avendo davanti l’esempio politico della liberaldemocrazia inglese, difese a oltranza il sistema politico rappresentativo parlamentare. Il liberalismo italiano non aveva compreso il senso della democrazia per la quale si erano battuti i liberali inglesi John Stuart Mill e Gladstone. – Nel 1925 esce a Milano il volume di Guglielmo Ferrero, La democrazia in Italia, dove l’autore sostiene che la democrazia parlamentare in Italia non c’era stata perché il paese era stato sempre governato da una oligarchia; dopo la guerra il suffragio universale non era bastato a modificare le istituzioni parlamentari; la colpa ricadeva sui partiti politici che avrebbero dovuto cooperare e concorrere ugualmente all’esercizio della sovranità popolare: invece ogni partito si era presentato come partito apportatore di una verità unica e universale, con l’intento di poter essere l’unica guida, ossia il partito dominante. Partito dominante era divenuto il partito fascista; al partito dominante bisognava rispondere con la richiesta di ristabilire l’autorità del parlamento. Ferrero proclamava la sua fiducia nelle istituzioni rappresentative «quali organi utili della società moderna», e la sua fede nella democrazia «la sola forma possibile di governare nella civiltà occidentale». Non bisognava, quindi, confondere il partito di maggioranza con il partito dominante. La principale causa dei mali dell’Italia era la «mancanza di un forte partito democratico borghese».

Intanto Mussolini aumentava i poteri della Polizia e riduceva la libertà di stampa. Con le leggi eccezionali del 5 novembre 1926, poi, decretava lo scioglimento di tutti i partiti, associazioni e organismi democratici; il partito nazionale dominante diveniva partito unico. Le figure dell’opposizione antifasciste si rifugiarono in Francia e continuarono la loro lotta contro il fascismo. Gli antifascisti non solo cercarono di «far conoscere agli stranieri male informati quale fosse la faccia vera della dittatura fascista», ma ribadirono la propria fiducia nella democrazia. tra questi vi erano Guglielmo Ferrero, Francesco Saverio Nitti e Silvio Trentin.

Il discorso sulla funzione politica dell’opposizione, all’estero, fu rinnovato da «Giustizia e libertà», movimento politico fondato a Parigi nel 1929 da un gruppo di esuli antifascisti, tra cui emerse come leader Carlo Rosselli. [ Era comune la volontà di organizzare un’opposizione attiva ed efficace al fascismo, in

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contrasto con l’atteggiamento dei vecchi partiti antifascisti uniti nella Concentrazione, giudicato debole e rinunciatario. Giustizia e Libertà aderisce alla Concentrazione antifascista, unione di tutte le forze antifasciste non comuniste (repubblicani, socialisti, CGL) che intende promuovere e coordinare dall'estero ogni possibile azione di lotta al fascismo in Italia. - L’obiettivo di Giustizia e Libertà era quindi quello di preparare le condizioni per una rivoluzione antifascista in Italia che non si limitasse a restaurare il vecchio ordine liberale ma in grado di creare un modello di democrazia avanzato e al passo con i tempi, aperto agli ideali di giustizia sociale. Rosselli considera il fascismo una manifestazione di antichi mali della società italiana e si propone quindi non solo di sradicare il regime mussoliniano, ma anche di rimuovere le condizioni politiche, sociali, economiche e culturali che lo avevano reso possibile. - Il movimento Giustizia e Libertà svolse anche un’importantissima funzione di informazione e sensibilizzazione nei confronti dell’opinione pubblica internazionale, svelando la realtà dell’Italia fascista che si nascondeva dietro la propaganda di regime, in particolare grazie all’azione di Gaetano Salvemini, che era stato l’ispiratore del gruppo e il maestro di Rosselli.] – Rosselli con la pubblicazione Socialisme libéral impostò un’alternativa governativa al regime dittatoriale fascista: la cooperazione laburismo-liberalismo avrebbe profondamente modificato la vita parlamentare, ma la funzione direttiva doveva essere affidata a un partito capace d’imporsi come movimento coordinativo: «Io sono esplicitamente favorevole ad una organizzazione del movimento socialista su basi affini a quelle del partito del lavoro britannico», ossia «sintesi federativa di tutte le forze che si battono per la causa del lavoro». - L’opera Socialisme libéral contribuì a spingere i partiti aderenti alla Concentrazione antifascista a stabilire un patto con una comune posizione politica: repubblica, democrazia, Stato laico e autonomie. Questo patto rese più significative le prospettive indicate in «Giustizia e libertà»: alla caduta del fascismo il nuovo ordinamento politico italiano sarebbe stato repubblicano e la stabilità governativa sarebbe stata coordinata da un partito dominante nella società civile nel parlamento. – Il partito socialista italiano rispose che doveva essere lui il partito dominante in una «repubblica democratica dei lavoratori». I comunisti, che non aderirono alla Concentrazione antifascista, sostenevano l’egemonia del partito comunista ed un fronte popolare per difendere la democrazia contro il fascismo.

Nell’ottobre del 1931 la netta sconfitta elettorale dei laburisti inglesi lasciò senza fiato coloro che avevano puntato sul modello inglese. Quelli che avevano esaltato la cooperazione liberalismo-laburismo rimasero disorientati; in più si aggiunse il fallimento della socialdemocrazia tedesca e il prevalere minaccioso del nazionalismo dittatoriale di Hitler. - Alla luce di ciò «Giustizia e libertà» riaffermò la fiducia nel programma misto liberalsociale e venne precisato che il movimento non si proponeva come nuovo partito per combattere il fascismo, ormai divenuto sistema a partito unico e si prendevano le distanze dal partito comunista sovietico, definito antidemocratico perché riconosceva come sovrano non il «Popolo», ma «esso Partito». La «grande democrazia del lavoro» si batteva per il pluralismo dei partiti contro il prevalere di un solo partito. In conclusione, Rosselli sostenne che i partiti erano da concepire dentro lo Stato come organi dello Stato: se un partito era tutto fuori dello Stato, non si aveva più un partito, ma un movimento rivoluzionario, e tale voleva essere «Giustizia e libertà» che si batteva per un sistema repubblicano di democrazia sociale fondato sulla lotta dei partiti. Il movimento fu, dal punto di vista politico-istituzionale, una risposta all’ordinamento fascista: il totalitarismo a partito unico, sorretto dalla monarchia, doveva essere sostituito con una democrazia repubblicana, a struttura parlamentare; evitare le crisi di funzionamento delle democrazie moderne e venire incontro con riforme sociali alle ispirazioni di libertà e democrazia sostanziale; si preconizzava un sistema parlamentare di tipo inglese con un partito laburista dominante. L’impostazione politica di Rosselli e del gruppo «Giustizia e libertà» fu un monito per tutti: bisognava uscire dall’ambiguità e chiarire le proprie posizioni sul funzionamento delle future istituzioni politiche.

Capitolo trentacinquesimo. Il fallimento della socialdemocrazia tedesca.

Anche in Germania si credette nella funzione politica di un partito dominate. Alle elezioni del gennaio 1919 ci fu la vittoria delle forze socialdemocratiche che si battevano per un governo popolare. Quando la nuova assemblea si riunì a Weimar, il 6 febbraio 1919, la soluzione migliore sembrò essere la repubblica democratica, fondata su istituzioni rappresentative. Dopo le elezioni, i democratici continuarono a credere che intorno al partito dominante socialdemocratico si sarebbero aggregate, prima o poi, le altre forze repubblicane, sia di destra che di sinistra. Il nuovo partito comunista tedesco e molti massimalisti

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denunciarono l’assemblea di Weimar come l’organo della controrivoluzione e suscitarono scioperi e disordini. I democratici fecero ricorso alle forze armate militari per impedire una soluzione di tipo sovietico ma negli scontri furono uccisi rosa Luxemburg e Karl Liebknecht; così si rafforzò l’opinione che il partito socialdemocratico avrebbe esercitato il potere da partito dominante.

Era convinzione comune che il sistema bipartitico, sia inglese che americano,fosse inapplicabile in Germania per ragioni storiche, sociali e religiose; invece, si sarebbe certamente andati verso la formazione di pochi grandi partiti che avrebbero potuto trovare l’accordo sulle questioni di fondo ed agito sui propri aderenti per stabilire un solido rapporto tra governo e cittadini. – Sindacati e industriali, liberali e moderati, si mostravano disposti a sottoscrivere una costituzione democratica. Il primo progetto della costituzione venne stilato dal giurista universitario Hugo Preuss, ma nel dibattito vennero ampliati gli aspetti sociali, tanto che il testo della costituzione della repubblica di Weimar, approvato il 31/07/1919, venne giudicato come lo strumento giuridico-politico idoneo per realizzare la sovranità del popolo. La soluzione federale rispettava i governi locali, coordinati in maniera democratica con un sistema elettivo proporzionale. Fu anche costituito un consiglio federale (Reichsrat) con funzioni di controllo. Il potere legislativo venne affidato alla camera dei deputati (Reichstag) eletta a suffragio universale. Ai cittadini erano garantiti dalla costituzione l’eguaglianza davanti alla legge, la libertà civile, i diritti d’associazione e potevano ricorrere al referendum popolare.

I socialdemocratici tedeschi erano impreparati ad assumere la direzione degli affari dello Stato ma avevano dalla loro parte gli operai. I socialisti democratici (SPD) accettarono la repubblica come forma istituzionale di governo, ma la repubblica, concepita come opposizione alla monarchia, avrebbe dovuto permettere la emancipazione dei lavoratori. Essi mettevano sempre al centro del programma il proletariato e pensarono di teorizzare una via elettorale che portasse il proletariato al potere ma non adottando una chiara politica governativa si andò incontro a un lento calo elettorale che finì per riflettersi su tutto il sistema istituzionale.

Il periodo della Storia della Germania che va dal 1919 al 1933 è conosciuto come la Repubblica di Weimar. Prende il nome dalla città dove si tenne un'assemblea nazionale per redigere una nuova costituzione dopo la sconfitta tedesca della prima guerra mondiale. Il primo tentativo di stabilire una democrazia liberale in Germania fu un'epoca di grande tensione e di conflitto interno, che si concluse con l'ascesa al potere di Hitler e del Partito Nazionalsocialista nel 1933. - L’ordinamento costituzionale di Weimar era stato immaginato come un sistema democratico guidato da un partito dominante che avrebbe esercitato, per un periodo limitato, una dittatura costituzionale che doveva servire al partito di maggioranza ad avere il via libera dal capo dello Stato per emanare norme per salvaguardare la stabilità governativa. Ma al contrario, il partito socialdemocratico tedesco non riuscì a imporsi come partito dominante nelle coalizioni governative, né seppe svolgere il ruolo di guida del paese. Intendeva assicurare ai lavoratori la sicurezza della propria esistenza e il benessere collettivo e quindi stabilire una eguaglianza di fatto. Questa uguaglianza avrebbe dovuto essere pianificata, organizzata e controllata dallo Stato con strumenti amministrativi: così la dittatura del proletariato sarebbe diventata garanzia sociale. Intanto i risentimenti nazionali prendevano sempre più piede ed i conservatori rimpiangevano il passato regime. I movimenti antidemocratici si facevano strada.

Parte del mondo intellettuale criticò il sistema parlamentare di Weimar. Gli intellettuali di sinistra i difensori della democrazia parlamentare erano i traditori del proletariato e non vedevano nella repubblica di Weimar quella democrazia proletaria che avevano sognato leggendo i testi di Marx. Per gli intellettuali di destra i difensori della democrazia parlamentare erano traditori della nazione tedesca e rimproveravano ai governanti di avere accettato la sconfitta e sottoscritto il Diktat. [ ossia dettato; una dura condizione non negoziale imposta sulla parte soccombente in un confronto (trattato di pace, armistizio, resa, etc.). Il termine fu usato per la prima volta nel 1919 in un giornale francese a proposito del trattato di pace di Versailles imposto alla Germania sconfitta.] – Così in Germania invece del previsto partito dominante di maggioranza si ebbe una frammentazione dei partiti. La cosiddetta coalizione di Weimar, formata da socialdemocratici, cattolici e liberali di sinistra, era comandata dal SPD ma l’opposizione a questo partito di maggioranza relativa, non solo sottrasse voti alla coalizione, ma ingrossò i gruppi politici di sinistra e soprattutto di destra. – Contro questo processo di frammentazione partitica, le forze politiche non sembravano saper reagire. Il SPD per timore della concorrenza comunista insisteva sulla lotta di classe ma molti intellettuali accusavano il partito di maggioranza relativa di non avere un orientamento politico chiaro.

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Il partito che salì alla ribalta nel biennio 1928-1930 fu il Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori meglio conosciuto come Partito Nazista (NSDAP) che si presentava come il partito socialista a carattere nazionale e si dichiarava essere partito degli operai. Rifiutava il sistema parlamentare ed intendeva diventare un partito dominante. La socialdemocrazia tedesca aveva perduto l’appoggio istituzionale e morale del parlamento (per il dualismo tra presidente, cancelliere, capo dello Stato e del governo) e si reggeva ormai sulle decisioni del presidente della repubblica; al governo parlamentare si sostituì una sorta di governo presidenziale indipendente dai partiti. Il presidente Hindenburg nel giugno 1932 nominò come nuovo capo del governo Von Papen ma, dopo aver sciolto il parlamento, anticipando un voto di sfiducia, indisse nuove elezioni. Da queste elezioni il partito nazionalsocialista (NSDAP) ottenne molti voti diventando il partito di maggioranza relativa. La socialdemocrazia non più in grado di funzionare era quasi finita prima ancora dell’arrivo al potere del nazismo.

Il disfacimento del sistema democratico tedesco apparve ben chiaro il 30 gennaio 1933, quando il generale Hindenburg nominò cancelliere del Reich Adolf Hitler del NSDAP. La svolta storica fu decisamente orientata in senso antidemocratica; il programma governativo di Hitler prevedeva un diverso regime politico. Cosa più grave, il nuovo governo nazionalsocialista nella sua azione repressiva contro i partiti dell’opposizione democratica puntava a imporre al paese un partito unico. Avendo a disposizione, non solo la radio e la stampa, ma gli organi amministrativi dello Stato, il partito nazionalsocialista poteva compiere la sua rivoluzione nazionale.

Nel 1933 Hitler, con l’appoggio del partito tedesco-nazionale raggiunse la maggioranza assoluta che gli permise di avere nelle sue mani i pieni poteri. Il nuovo capo del governo non cercò nemmeno di comportarsi come capo del partito dominante ma mise subito in atto il proposito di istituire un regime a partito unico. Cominciò la lotta spietata, violenta, feroce, contro i capi dei partiti dell’opposizione; Hitler negava il principio dell’eguaglianza davanti alla legge, che era uno dei pilastri della concezione democratica, a coloro che non accettavano il programma nazionale indicato dal nazionalsocialismo. Invano i socialdemocratici nel Reichstag votarono contro la proposta di legge di affidare a Hitler i pieni poteri; la maggioranza parlamentare, il 24 marzo 1933, conferì al governo una potestà legislativa e una potestà costituzionale, con questa legge il supremo organo legislativo perdeva le sue prerogative sovrane e affidava al governo un potere costituzionale. Questa legge, che doveva essere una legge costituzionale provvisoria, divenne la costituzione definitiva della Germania. Molti democratici si resero conto che il vero parlamento non sarebbe stato il Reichstag ma il congresso del partito.I partiti weimariani tentarono di difendere la propria legalità all’interno del nuovo regime nazionalsocialista, ma nel corso di pochi mesi essi furono disciolti; il partito social demo-cratico tedesco fu soppresso con l’accuso di tradimento contro il governo legittimo della Germania.La legge del 14 luglio 1933 vietò la formazione dei nuovi partiti, e venne dichiarato esplicitamente: «In Germania esiste un unico partito politico, il partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori»; era questo il passo decisivo verso «l’unità di partito e Stato», fissata con la legge del 1° dicembre 1933. La dottrina giuridica nazionalsocialista avrebbe teorizzato lo Stato totale (Totalstaat) nella sua triplice articolazione: Stato, partito, popolo. Anche in Germania sulla democrazia prevaleva la monocrazia.

Capitolo trentaseiesimo. La crisi della democrazia occidentale e il filo fascismo.

La crisi della democrazia occidentale, dopo l’avvento del fascismo in Italia, era di carattere politico-culturale, e coinvolgeva i valori sui quali poggiavano le istituzioni europee. Questa crisi di valori fu connessa con la crisi economica che diffuse in Europa un profondo malessere, aumentò le incertezze politiche e fece credere che il sistema economico liberale, identificato con il regime capitalistico, fosse destinato a crollare per lasciare il posto a nuove forme di economia. Pubblicisti e giuristi concordavano che la democrazia mostrava segni di decadimento, e che le istituzioni rappresentative volgevano ormai al declino.

Harold J. Laski affermava che le istituzioni democratiche non sembravano rispondere ai desideri delle masse. I governi parlamentari in Italia e Germania non erano stati capaci a risolvere i problemi del

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dopoguerra; le classi dominanti in Europa, formate dei ceti borghesi di una società capitalistica, non riuscivano più a rispondere alle richieste avanzate dalle classi popolari. Le istituzioni rappresentative, per Laski, erano in decadenza, e non era chiaro in quale direzione si potesse procedere alla loro riorganizzazione. Scettico del sistema politico britannico, non credeva che una trasformazione del governo parlamentare potesse essere operata sulla base del sistema costituzionale esistente. Per lui, «Soviet form of government» e «Italian form of government» erano due punti di riferimento, anche se rifiutava la violenza e la dittatura. - La liberaldemocrazia aveva connesso la democrazia con la filosofia della libertà; ma la libertà era una funzione del possesso di proprietà; da qui la contraddizione tra politica ed economia. Bisognava trasformare la democrazia liberale capitalistica in democrazia popolare. I difensori della democrazia capitalistica anglosassone avevano anche accettato di concedere il suffragio universale a condizione di non avere una legislazione contraria al capitalismo. La democrazia popolare doveva essere movimento verso l’eguaglianza per aumentare i benefici materiali delle masse. – Laski aveva sostenuto che la democrazia doveva affrontare il «doppio attacco di comunismo e fascismo»; essa doveva adattare i suoi meccanismi ed i suoi princìpi ad un mondo cambiato, e tener conto della eguaglianza economica. Lo Stato doveva interferire negli ordinamenti generali della vita economica per dare maggiore importanza alla comunità; la società non poteva più basarsi sulla concezione della liberà di contratto; di conseguenza le classiche teorie del governo parlamentare e presidenziale erano insoddisfacenti perché rispondevano alle condizioni sociali dell’Ottocento.

Per Joseph Ludvìk Fischer la democrazia, come forma di governo e come concezione politica, sembrava ormai stretta tra fascismo e comunismo. La crisi della democrazia era connessa con il formarsi del bipolarismo tra modello proletario e modello capitalistico, che prevedeva soltanto l’alternativa tra Stato comunista e Stato fascista. La democrazia sembrava sparisse per lasciar posto solo a soluzioni non democratiche prospettate dal fascismo e dal comunismo. Nel fascismo Fischer vedeva l’influenza diretta di Pareto, teorico della volontà di una élite, la quale poteva diventare una oligarchia pronta a decidere arbitrariamente di tutto. Davanti al prevalere di sistemi politici con partito unico organizzato, egli nutriva deboli speranza che la democrazia sapesse rinnovarsi con un proprio programma.

La crisi della democrazia fu connessa con la crisi della libertà e con la crisi dell’Europa, con il declino dell’individualismo e con il declino della critica; questi discorsi però fornirono le armi al filofascismo, fenomeno di ampie proporzioni, che alcune volte si fermò alla semplice simpatia, altre volte giunse alla collaborazione. Il filofascismo si manifestò come simpatia verso Mussolini e come consenso alle misure di ordine pubblico senza pervenire alla giustificazione dottrinale. A molti conservatori piaceva l’idea di uno Stato forte, capace di assicurare ordine e benessere nel paese; alcuni liberali non amavano lo Stato totalitario ma accettavano lo Stato nazionale di diritto che dava unità morale; gli uni e gli altri ritenevano che le istituzioni pubbliche dovessero essere al servizio dello Stato nazionale. - Alcuni liberali conservatori guardarono il fascismo attraverso l’immagine presentata da Giuseppe Prezzolini, dove il fascismo era il prodotto politico nato in un paese dove la democrazia non era mai esistita. Il filofascismo fiorì anche tra parecchi socialisti. Il socialismo nazionale avrebbe dovuto sostituire ai valori materiali i valori ideali, avrebbe dovuto coniugare la vita fisica con la vita spirituale. Il socialismo nazionale voleva liberarsi della democrazia parlamentare, espressione della mediocrità politica, e dare uno slancio collettivo alla partecipazione sociale. – Con il pretesto della crisi generale della democrazia molti letterati liberaldemocratici abbandonarono le loro posizioni illuministiche e accettarono di aderire ai partiti autoritari con la speranza di dirigere i fatti storici, come ad esempio Julien Benda. – I fenomeni antidemocratici avevano origini lontani ed erano radicati nelle viscere della cultura europea, come nelle manifestazioni della dittatura napoleonica oppure nel rozzo autoritarismo zarista. Alla base del filofascismo degli anni 1930-40 ci fu sempre la sfiducia nei mezzi democratici offerti dai regimi rappresentativi e il carisma di Mussolini che sapeva superare i problemi in maniera energica. La sfiducia degli intellettuali nella democrazia giustificò le decisioni dei politici autoritari e coloro che amavano la patria avrebbero dovuto ammettere che con l’ordine sarebbero state vinte la miseria e la disoccupazione.

Salazar negava ai regimi democratici di aver difeso le libertà politiche e di aver agito in favore del popolo: per questi motivi egli si proclamava avverso alla democrazia e al parlamentarismo, che non tenevano conto delle nuove realtà politiche e sociali. Si diceva contrario allo Stato totalitario ma aveva simpatie verso lo Stato fascista e le dottrine corporative; infatti una volta diventato presidente del consiglio adottò il partito

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unico, ossia l’Unione nazionale (1934) e impostò una rigorosa censura sulla stampa, i lavoratori dovettero iscriversi al sindacato nazionale e non potevano assolutamente proclamare uno sciopero.

I due termini di «antidemocrazia» e di «filofascismo» non sono facilmente dissociabili nell’Europa occidentale nel decennio 1930-40; partendo dai presupposti della crisi della democrazia molti approdarono alla simpatia per il fascismo. Molti accomunarono il fascismo di Mussolini al nazismo di Hitler ma sul piano morale entrambi erano considerati come Crisi della civiltà. Per Huizinga si vedevano forme di governo che non funzionavano più e sistemi di produzione che agonizzavano ma non si condannavano i regimi dispotici; si aveva la crisi della razionalità sostanziale, fondata su valori di libertà e di giustizia. Huizinga sosteneva fosse in crisi l’equilibrio di valori, la «civiltà» ed il «raziocinio» e soprattutto perché era stato dato alla lotta un compito di civiltà. Esaltare la lotta significava sconvolgere i princìpi morali del vivere civile.

Capitolo trentasettesimo. La fiducia nella democrazia parlamentare.

In un saggio del 1930 José Ortega y Gasset scrisse che il fatto più importante della vita pubblica europea era «l’avvento delle masse al pieno potere sociale». Proponeva la democrazia liberale, per fronteggiare il fenomeno inquietante della massificazione considerata la forma di governo che aveva rappresentato «la più alta volontà di convivenza», in questa forma di governo la maggioranza conviveva con l’opposizione e dava alle minoranze i diritti civili. La ribellione delle masse potevano portare ad una catastrofe, come fascismo e bolscevismo, «due chiari esempi di regressione sostanziale». Bisognava superare il liberalismo dell’800 che aveva provocato l’intervento violento delle masse e fare ricorso al principio della giustizia sociale. Proponeva una democrazia capace di evitare l’autoritarismo dello Stato totalitario e suggeriva di puntare sulla democrazia parlamentare per uscire dalla polemica tra liberalismo borghese e socialismo sovvertitore.

Si aveva il desiderio di uscire dalla crisi delle istituzioni rappresentative e sia i liberali, che accettando le conseguenze del suffragio universale e parlavano un linguaggio liberaldemocratico, che i socialisti, che accettavano soluzioni di tipo socialdemocratico, accettavano i tratti della democrazia e, unendosi, i partiti democratici potevano contrastare in parlamento l’avanzata del fenomeno dilagante del fascismo.

Per controbattere le tesi sostenute dal fascismo Hans Kelsen pubblicò un saggio sull’essenza e sul valore della democrazia seguito da un altro saggio sul problema del parlamentarismo. Egli sposta il dibattito sulle forme dei regimi politici. Il liberalismo e socialismo non presentano più differenze ideologiche perché si usa la nozione di democrazia «per tutti gli scopi possibili e in tutte le possibili occasioni, tanto che essa assume i significati più diversi, spesso fra di loro contrastanti»,così democrazia si contrappone all’autocrazia. Riconosce che Rousseau è stato il più importante teorico della democrazia, avendo posto come pietra fondamentale del suo sistema politico la libertà, e avendo affermato che nessuno ha il diritto di comandare a un altro, se tutti gli uomini sono uguali. Per realizzare lo Stato democratico che impedisce l’insopportabile dominio dell’uomo sull’uomo, bisogna rinunciare al principio dell’umanità e accettare il principio maggioritario, per cui la maggioranza assoluta, e non la maggioranza qualificata, prende le decisioni. La realtà politica della società moderna sono i partiti politici, «i quali raggruppano gli uomini di una stessa opinione, per garantir loro un effettivo influsso sulla gestione degli affari pubblici». Kelsen su ciò insistette molto, infatti «la moderna democrazia si fonda sui partiti politici, la cui importanza è tanta maggiore, quanto maggiore applicazione trova il principio democratico». La democratizzazione dello Stato moderno dando ai partiti politici una base costituzionale e la funzione di organi della formazione della volontà dello Stato. Il problema della democrazia di fronte alla dittatura di partito – di sinistra e di destra – è quello della evoluzione della organizzazione del popolo in partiti: la democrazia può esistere solo se gli individui di uno Stato si raggruppano secondo le loro affinità politiche; «solo l’illusione, o la ipocrisia, può credere che la democrazia sia possibile senza partiti politici». Conclude Kelsen che «la democrazia dello Stato moderno è la democrazia parlamentare, in cui la volontà generale è formata da una maggioranza di cittadini eletti dalla maggioranza di titolari dei diritti pubblici» e aggiunge che «la democrazia moderna vivrà soltanto se il parlamentarismo si rivelerà uno strumento capace di risolvere le questioni sociali del nostro tempo»; anzi «il destino del parlamentarismo deciderà anche del destino della democrazia». in polemica con coloro che

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criticavano le forme del parlamentarismo risponde: «Il parlamentarismo è la formazione della volontà direttiva dello Stato attraverso un organo collegiale eletto dal popolo in base al suffragio universale ed egualitario, vale a dire democratico, secondo il principio della maggioranza». Il parlamentarismo moderno che intende Kelsen esercita le sue funzioni secondo il principio della maggioranza che presuppone non solo l’esistenza di una minoranza, ma anche la sua protezione, con i cosiddetti diritti dell’uomo e del cittadino. Per Kelsen la differenza tra la democrazia formale e quella sociale, in replica ai marxisti, è che questa nozione di democrazia si spaccia per tale ma non lo è in quanto nega la differenza tra dittatura e democrazia e si considera la dittatura come una vera democrazia perché realizza la giustizia.

Altri autori fecero sentire la loro voce a favore della democrazia: J.M. Keynes, fu sostenitore di una libertà sociale e sostenne che se il partito laburista ed il partito liberale in Inghilterra si fossero alleati la democrazia parlamentare ne avrebbe tratto molto vantaggio. - Delisle Burns, fece l’elogio dell’«uomo democratico e della organizzazione democratica», affermando che l’ideale democratico era un orientamento morale che si identificava con la storia della civiltà europea e si opponeva alle tendenze dittatoriali. - J.A.R. Marriot, fece una contrapposizione dialettica tra Dittatura e Democrazia per meglio far comprendere le gravi incognite alle quali andava incontro la tradizione parlamentare inglese. Partiva dalla Grecia antica e tracciava un quadro storico della democrazia per concludere che la grave minaccio dell’Europa era la dittatura come forma di governo. – Alcuni sociologi, come Georges Gurvitch, scrisse che la democrazia non poteva continuare a discutere i problemi, essa doveva integrare i gruppi per giungere alla cooperazione economica; era, perciò, necessario uno Stato nuovo fondato sul contratto sociale, ossia un socialismo effettivo dove la libertà individuale sarebbe stata garantita dalla partecipazione di tutti alla collettività pluralistica.

Le osservazioni parlamentari di Kelsen concordavano con le idee costituzionali dei giuristi repubblicani francesi, i quali, richiamandosi alla tradizione del 1789, ribadirono la loro fiducia nelle istituzioni democratiche della Terza repubblica; era la tradizione della Rivoluzione francese che bisognava difendere contro la minaccia di una dittatura rossa o nera. Mettere in discussione i princìpi della sovranità popolare, come facevano i conservatori, significava imboccare la via autoritaria; il cesarismo di tipo mussoliniano richiamava alla memoria di molti francesi il bonapartismo, che aveva portato la Francia alle tragiche vicende del 1870-1871. – Alcuni democratici ammettevano che spesso i regimi parlamentari non funzionavano bene, ma si poteva pensare a dei correttivi del sistema elettorale.

I problemi delle società democratiche furono esaminati da Francesco Saverio Nitti, nello studio pubblicato a Parigi nel 1933, su La democrazia. Nitti seguiva la formazione delle democrazie moderne e i nuovi aspetti della reazione antidemocratica, e presentava la democrazia come una tendenza politica universale. La democrazia consentiva il progresso civile dei popoli ed era benefica per tutti,però richiedeva tre condizioni: l’isonomia, cioè l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, l’isotimia, cioè eguaglianza nell’accesso alle cariche, e l’isogoria, cioè diritto eguale di parola. Dall’esilio egli afferma che: «Quando lo spirito di violenza domina nuovamente l’Europa, io vedo un crescente e più grande processo di democratizzazione, proprio in quelle cause che sembrano più contrarie all’esistenza e allo sviluppo delle società democratiche». E concludeva che: «La democrazia, attraverso inevitabili crisi, è diventata nelle forme più diverse la tendenza fondamentale verso cui vanno tutti i popoli, man mano che progrediscono». – La fede nella democrazia di Nitti è molto simile a quello formulato da Benedetto Croce l’anno prima in favore della libertà. E un atto di fede fu il messaggio lanciato dall’esule tedesco Thomas Mann: il fascismo non era che una «manifestazione transitoria»; bisognava credere nella libertà e nella giustizia; la dittatura era da combattere in tutte le sue forme politiche, da quella fascista a quella bolscevica. Questa atti di fede erano espressioni di una scelta culturale ma non erano i modi di come opporsi attivamente all’antidemocrazia.

Nel dibattito sulla democrazia la difesa del sistema parlamentare portò alla conclusione che il fascismo era il vero nemico della democrazia. Il fascismo era una dottrina antidemocratica che si stava diffondendo in Europa, come ad esempio in Spagna il movimento Falange Española fondata nel 1933 da Primo de Rivera e Ruiz de Alda. – A causa del diffondersi in Europa delle idee e dei movimenti fascisti, alcuni socialisti uscirono dalle ambiguità dottrinali, sviluppando in senso parlamentare la funzione sociale della democrazia; una democrazia popolare poteva realizzare la giustizia richiesta dalle classi lavoratrici. Il «socialisme démocratique», attraverso istituzioni rappresentative, poteva porre fine, scriveva Emile Vandervelde, al

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prevalere del capitalismo. Una grande democrazia del lavoro poteva divenire democrazia della maggioranza dei cittadini; questo programma doveva impegnare i gruppi antifascisti a coalizzarsi contro il pericolo del nazionalismo antidemocratico, e a intervenire dove il fascismo minacciava d’imporsi con un colpo di Stato appoggiato dalle forze militari. Dalla lotta antifascista doveva nascere secondo i socialisti una democrazia fondata sulla logica dei partiti: «Un mondo nuovo di giustizia e libertà».

Una «rifondazione etica» della democrazia in opposizione ai totalitarismi fu ipotizzata da alcuni cattolici. La democrazia era considerato da parte loro un sistema politico ambiguo, ma con la crisi della democrazia era in crisi l’autonomia della persona. Fu don Luigi Sturzo, a scrivere sul problema della democrazia cristiana all’indomani della guerra. Aveva fondato in Italia il Partito popolare e fu allora che era sembrato che i cattolici fossero disposti ad accettare la democrazia parlamentare e a difendere il pluralismo partitico. La democrazia cristiana aveva riportato dei successi in Italia, Germania, Francia e Belgio. Ma nel 1924 Sturzo aveva dovuto ammettere la propria sconfitta davanti al fascismo, e, sconfessato dalle autorità ecclesiastiche, prendere la via dell’esilio. Un ripensamento dottrinale sulla democrazia cristiana divenne necessario dopo la vittoria completa del fascismo. - I cattolici popolari avevano una idea politica della socialité; allo Stato totalitario,concepito come unità di potere, Sturzo opponeva una società di cittadini legati a un contratto, in virtù del quale gli uomini sottomessi volontariamente a un governo conservano la loro coscienza individuale, senza negare i diritti e i doveri reciproci; quindi partecipazione alla vita sociale e non una reductio ad unum con un potere centrale.

Francesco Luigi Ferrari, fondò a Bruxelles una rivista di studi politici internazionali, «Res Publica», per condannare «i regimi distruttivi della libertà». Il direttore Ferrari mise sotto accusa il Concordato fascista del 1929 e affermò che nell’Italia democratica di domani i rapporti tra Stato e Chiesa sarebbero stati risolti con mutua comprensione. Marcel Prélot scrisse nella rivista, che il fascismo era debole giuridicamente: «Mussolini è padrone dello Stato in quanto è il leader del fascismo, e come primo ministro non fa che seguire la volontà del capo del partito che si identifica con la sua persona».

Emmanuel Mounier, fondò una rivista francese, «Esprit», dove giovani democratici, con prospettiva filosofica, centravano la loro attenzione sulla persona anche se gli avvenimenti europei chiedevano anche una risposta politica. Mounier affermava il primato della persona umana sulle necessità materiali e sugli organismi collettivi e proponeva un ordinamento sociale di tipo democratico. Bisognava per lui dissociare il cristianesimo, che è un fatto spirituale, dalla reazione, che è fatto politico: era una presa di distanza dalle associazioni cattoliche che davano un colore politico al cristianesimo. Denunciò la democrazia borghese malata di denaro, i capitalisti e auspicava l’avvento di una società comunitaria. Attaccò il franchismo Spagnolo e non aveva in simpatia i cattolici popolari che volevano una rivoluzione spirituale e teorizzò una democrazia «reale» con nuove strutture politiche rappresentative corrispondenti alle esigenze democratiche delle classi popolari. Contro il prevalere dei regimi totalitari egli parlava di una democrazia fondata sulla responsabilità di tutte le persone costituenti la comunità; i princìpi tradizionali di sovranità popolare, di eguaglianza, di libertà individuale, dovevano essere adattati alle necessità della comunità; erano da evitare le soluzioni aristocratiche per passare dalla situazione dell’uomo governato passivamente alla partecipazione civile di tutte le persone. Tenne in considerazione le critiche marxiste rivolte alla democrazia formale ma non ne condivide le conclusioni, perché essendo ogni società pluralistica, i singoli gruppi dovevano essere rappresentati e rispettati. – Sulla linea di Mounier, Jacques Maritain non nascose le sue simpatie filo-nazionaliste, ma dopo gli avvenimenti europei e soprattutto le vicende spagnole del franchismo, condannò il totalitarismo fascista sostenendo bisognasse costruire una «cristianità nuova» come la libertà di pensiero e il rispetto dei diritti dell’uomo; un nuovo umanesimo doveva porre al centro la dignità umana e non l’assolutismo statale. Da qui la proposta di un nuovo regime rappresentativo nel quali il potere legislativo e il potere esecutivo fossero chiaramente distinti, oltre al suffragio universale. Una democrazia «organica», senza negare l’esistenza dei partiti, doveva mettere insieme l’idea «comunitaria» con l’idea «personalista».

La vittoria del nazismo in Germania e le vicende di Spagna riaprirono il dibattito sulla democrazia. coloro che lasciarono l’Europa, e cercarono rifugio negli Stati Uniti, lodarono le istituzioni americane per la difesa dei diritti dei cittadini, e parlarono di democrazia istituzionale. Coloro che guardavano alla Rivoluzione sovietica, e andarono a battersi in Spagna contro il franchismo, parlarono di democrazia strutturale. Se la

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democrazia strutturale sovietica venne contrapposta alla democrazia istituzionale americana, venne anche valutata in maniera diversa sia la politica estera degli Stati Uniti, sia quella dell’Unione Sovietica.

Capitolo trentottesimo. La democrazia strutturale sovietica.

Gramsci interpretò la rivoluzione sovietica come la premessa della democrazia proletaria. La rivoluzione sovietico era una rivoluzione di massa che doveva permettere al proletariato di esprimere come classe le proprie esigenze: per questi motivi Gramsci appoggiò la formazione di istituti di democrazia diretta, quali erano i soviet. I comunisti, anarchici, riformisti, popolari potevano partecipare alle riunioni dei soviet, ed essere rappresentati, anche se il partito bolscevico non rinunciava alla sua funzione egemonica, in quanto difendeva gli interessi generali del proletariato. Per Gramsci la rivoluzione sovietica aveva creato una democrazia sociale; la nuova struttura, alternativa alla gestione capitalistica, presentava inizialmente grandi difficoltà, ma la dittatura di classe avrebbe permesso la costruzione del nuovo Stato. Lo Stato sovietico mirava a realizzare «la partecipazione attiva e permanente» dei lavoratori «alla vita delle sue istituzioni». Nella nuova democrazia fondata sul proletariato non ci sarebbe stato organizzazioni sociali come nel capitalismo, come ad esempio, sindacati di mestiere, camere del lavoro, confederazioni dei lavoratori, che aveva ragione in un regime di proprietà privata ma in una nuova struttura non aveva più ragion d’essere perché la democrazia proletaria si attuava attraverso nuovi organismi che non si ponevano come fine la lotta ai proprietari di merce, ma la partecipazione dei lavoratori alla società socialista. - Morale della democrazia proletaria era che non ci doveva essere il dominio dei pochi sui molti, ma il proletariato doveva raggiungere l’autogoverno dello Stato con i consigli di fabbrica, ritenuto «il più idoneo organo di educazione reciproca e di sviluppo del nuovo ordine sociale». – Gramsci opponeva al fascismo il comunismo e sosteneva che la strategia dei soviet doveva estendersi non solo in Russia ma al campo internazionale per poter combattere il fascismo. I comunisti italiani dovevano unirsi nel tentativo da rovesciare il regime totalitario capitalistico. Nei suoi Quaderni scrisse che in Italia si sarebbe passati attraverso una fase di antifascismo repubblicano e democratico ma per poter operare questa trasformazione si doveva tener viva l’immagine del proletariato sovietico.

Il fallimenti della politica laburista e l’avanzata del fascismo in Europa spinsero molti socialisti e democratica raggiungere un intesa, almeno tattica, con i comunisti, difensore della classe operaia, che si distingueva dal fascismo, alleato del capitalismo.

La democrazia strutturale sovietica preferiva una economia pianificata, difatti nel 1921 il congresso dell’Unione Sovietica aveva approvato una nuova politica di pianificazione a lungo termine (NEP) che conteneva un ampio programma di sviluppo economico. I socialisti si sarebbero accordati con i comunisti in un piano economico adatto per i paesi avanzati industrialmente. I coniugi Webb, definirono il Soviet Communism: A New Civilisation, in quanto l’ordinamento politico sovietico era la più «inclusiva ed equalizzata democrazia» del mondo, e presentava «un nuovo sistema rappresentativo». Nell’Unione Sovietica la struttura costituzionale non era dittatoriale perché i comitati potevano prevalere nei diversi rami dell’amministrazione. La democrazia sociale preconizzata durante la guerra era ormai una realtà. Stalin ammetteva che nell’Unione Sovietica la dittatura del proletariato era la dittatura del partito, ma il partito comunista dava soltanto delle direttive ai propri membri, e agiva per mezzo della persuasione. Stalin, a differenza di Mussolini e di Hitler, non era investito per legge di autorità, e non aveva nemmeno il potere di un presidente americano; egli era soltanto il segretario generale del partito, non era un dittatore ma si limitava a eseguire le decisioni del comitato centrale del partito. – I Webb concludevano che il sistema sovietico era da considerare come una «new civilisation» nel progresso della società umana in quanto aveva abolito il «profit» e condannava «lo sfruttamento» imponendo «l’uguaglianza sociale», essa aveva posto termine al capitalismo. I Webb, come parecchi altri socialdemocratici europei, contribuirono a diffondere il mito della democrazia strutturale sovietica, che nella realtà non esisteva.

Nei congressi della Terza Internazionale, (VIII) tenuti dal 1919 al 1937, emerse che al fronte unico del capitalismo fascista si contrappose un fronte unico dei lavoratori. L’azione comune di comunisti e

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socialdemocratici avrebbe esercitato una enorme influenza su tutti i lavoratori, contadini, piccola borghesia, intellettuali, per cui si richiedeva unità d’azione al partito d’appartenenza. Il fronte popolare, a partire del 1935, si costituì in Spagna e Francia e molti socialisti si rallegrarono di potersi alleare con i comunisti senza negare i princìpi del socialisme démocratique. Da parte comunista la democrazia essendo l’espressione della sovranità del popolo da esercitare attraverso lo Stato socialista, la democrazia poteva essere applicata anche nei paesi con tradizioni parlamentari sotto forma di democrazia popolari, fondate sull’intesa delle forze politiche antifasciste per il miglioramento delle condizioni sociali dei lavoratori. La democrazia strutturale sovietica poteva essere sperimentata in Europa come democrazia popolare.

La conferma dell’orientamento democratico sovietico si ebbe con la costituzione del1936, in virtù della quale il diritto elettorale a suffragio universale, diretto, uguale e segreto, venne assicurato a tutti i cittadini. Allora sembrò che l’Unione Sovietica fosse passata all’attuazione pratica dei princìpi democratici. – Poiché la parola «costituzione» in russo corrisponde a «struttura», la democrazia entrava nella struttura della società sovietica e si esprimeva come democrazia strutturale negli articolo sui diritti fondamentali dei cittadini. – La democrazia strutturale non dava al cittadino un semplice diritto di voto, che il deputato parlamentare avrebbe utilizzato a proprio vantaggio personale, ma la sicurezza sociale nella vita quotidiana; lo Stato era veramente Stato del popolo perché assisteva uomini e donne nei settori della vita economica, sociale, culturale. La democrazia strutturale tutelava i diritti del cittadino e scendeva anche negli ingranaggi dell’occupazione controllando produzione e distribuzione, senza consentire i profitti degli imprenditori.

I teorici della democrazia parlavano di «democrazia sostanziale» che avrebbe eliminato le diseguaglianza sociali;la democrazia fissata nella costituzione sovietica,ossia nella struttura dello Stato sovietico, finalmente realizzava il principio di eguaglianza che era stato il principio della democrazia sociale teorizzata nel XIX secolo. La democrazia si risolveva,così,nel comunismo che attuava la rivoluzione democratica dei lavoratori.

Però ben presto socialisti e molti comunisti si accorsero che la democrazia nell’Unione Sovietica esisteva solo sulla carta in quanto nulla mutava della proposta del fronte unico popolare antifascista con egemonia dottrinale di Mosca. Però consentiva di credere nella contrapposizione tra fascismo capitalista e sovietismo popolare. La tematica della vera democrazia marxista si stava esaurendo nel pensiero politico europeo, nonostante gli esperimenti dei fronti popolari, e si moltiplicarono le critiche alla falsa democrazia strutturale sovietica. Il sistema monocratico sovietico a partito unico restava in contrasto con la democrazia, che presuppone una pluralità di istituzioni a difesa dei diritti civili dell’individuo.

Capitolo trentanovesimo. La democrazia istituzionale americana.

Negli Stati Uniti a partire dal 1932, ad opera di Roosevelt ci fu il «New Deal». Questo «nuovo corso» affrontava i problemi della produzione e della occupazione, senza mettere in discussione le istituzioni democratiche del paese. – Louis Hartz disse che a causa dello spirito radicale del nuovo corso, i giovani che in Europa divennero socialisti e comunisti, in America in gran parte divennero «new dealers» per sostenere la legislazione sociale nell’ambito della tradizione liberale americana. - Gli avvenimenti europei, e soprattutto l’avvento del nazismo in Germania, riproposero il problema dell’opinione pubblica, deviata dalla propaganda dei partiti nazionalisti. La politica aveva il compito, in modo e attraverso le istituzioni democratiche, di rafforzare nell’opinione pubblica il senso della giustizia collettiva ed il senso della eguaglianza dei diritti.

John Dewey scrisse, dopo aver sottolineato l’importanza dell’«associazione umana», che i due aspetti caratterizzanti una società democratica erano «la maggior fiducia nel riconoscimento di interessi comuni come fattore di controllo sociale», e «una più libera interazione fra i gruppi sociali con un relativo

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cambiamento nelle abitudini sociali e con l’affrontare le nuove situazioni prodotte da relazioni variate». Era convinto che se la civiltà industriale permetteva il benessere per tutti essa poteva essere una civiltà democratica. Mentre in America prospettava una civiltà con individui che assumevano un atteggiamento di comunicabilità e una concezione progressiva dell’educazione e del sapere, nell’Unione Sovietica prendeva corpo un processo di opposizione al metodo progressivo di educazione da lui proposto. Per Dewey «l’americanismo» era il modello distintivo del progresso e della civilizzazione e collegava lo sviluppo americano con le lotte dell’uomo morale per la libertà. Contro il pericolo di sistemi oppressivi egli rivendicava il «diritto del’autodeterminazione» ed esprimeva fiducia nelle istituzioni libere. Tanto i diritti che le istituzioni dovevano coinvolgere il mondo del lavoro per l’emancipazione dei salariati; il problema centrale era di evitare che le condizioni sociali potessero ostacolare lo sviluppo di scelte intelligenti e di giudizi indipendenti. – Il senso della sua posizione politica era chiara: si trattava di difendere «le libertà civili», che erano state soppresse «in tre grandi nazioni d’Europa», ossia Italia, Germania e in Russia, e preservare «le istituzioni», per le quali si era battuto il liberalismo. Restringere «l’esito per il futuro ad un conflitto tra fascismo e comunismo» significava avviarsi verso una catastrofe; solo la fiducia nella democrazia e nelle sue istituzioni poteva evitare un tale disastro e risolvere il problema «autorità o potere».

Robert M. MacIver, professore scozzese, approfondì il concetto di Community ed affrontò il tema Society. Dopo l’avvento al potere del nazismo, difese apertamente la superiorità della forma democratica di governo su quella totalitaria. La struttura istituzionale democratica, secondo lui, si differenzia dal totalitarismo perché il diritto costituzionale prevale sui voleri del governo che detiene il potere; una costituzione democratica ammette il costituirsi di associazioni non controllate dal governo, garantisce la libertà della religione, filosofia, scienza, ossia della cultura, consente alle minoranze di organizzarsi e di svolgere attività politica. La democrazia non si attua mai completamente, perché questa forma di governo può allignare soltanto dove la maggioranza del popolo ha la coscienza della propria volontà e crede nel valore delle istituzioni. Insisteva sulla separazione tra comunità e Stato, quale condizione della democrazia; in un regime democratico il governo doveva rendere conto alla comunità della sua azione; era la comunità a fissare i limiti del potere governativo e a esercitare un continuo controllo; al suo interno la minoranza doveva poter esprimere liberamente la propria opinione sulla politica. La democrazia difendeva la comunità contro il governo mediante le istituzioni rappresentative.

Questi temi, diritti civili, sviluppo sciale, istituzioni democratiche, governo controllato, si ritrovano in molti scrittori politici che per sfuggire ai regimi autoritari emigrano dall’Europa negli Stati Uniti. Tra questi Nicola Matteucci che aveva scritto nella introduzione agli scritti di Franz Neumann: «l’affermazione di Neumann secondo la quale la scienza politica si occupa di un problema solo, quel del rapporto dialettico fra dominio e libertà, potrebbe essere condivisa da tutti gli altri»; questo democratico radicale combatté la sua battaglia contro l’alienazione del potere politico; se la libertà non si esprime solo contro il governo, ma anche attraverso il governo, e se la democrazia consiste nella realizzazione di trasformazioni sociali, le istituzioni possono garantire la partecipazione delle masse alla gestione del potere. – Neumann aveva subìto l’influenza di Harold Laski durante il soggiorno a Londra, ma giunto negli USA, teorizzò la democrazia istituzionale. Spesso le libertà giuridiche non erano costituzionalmente garantite, ma uno Stato democratico, a differenza di uno Stato autoritario, doveva regolare e difendere le istituzioni umane; e per istituzioni Neumann intendeva le associazioni permanenti tendenti a perpetuare la vita sociale, dalla fabbrica all’impresa, dal matrimonio alla proprietà privata; esistevano, quindi, «rapporti definibili fra istituzioni e diritti di libertà». Difese la repubblica di Weimar perché quella democrazia era fallita non per colpa «della volontà degli elettori», ma per la mancata «rappresentanza di organizzazioni sociali autonome». La democrazia di Weimar «non ignorava la lotta di classe, ma cercava piuttosto di trasformarla in una forma di cooperazione interclassista»; essa poggiava sull’idea di «parità fra gruppi sociali». La stessa democrazia americana avrebbe dovuto prendere ad esempio la democrazia weimariana, se voleva evitare il pericolo di impantanarsi in un mero «istituzionalismo». Per questa via Neumann giungeva alla democrazia istituzionale e alla giustificazione dottrinale del modello americano; i diritti civili e politici, a suo giudizio, avevano validità perché istituzionalizzati; quindi non solo incorporati in una costituzione, ma anche resi operanti da enti capaci d’opporsi a provvedimenti autoritari.

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Molti intellettuali che emigrarono negli Stati Uniti studiarono la società europea e diedero una interpretazione degli avvenimenti politici dal punto di vista economico. Essi studiarono la società capitalistica e ritrovarono le origini del nazionalsocialismo nella grande industria o nei grandi proprietari terrieri, e individuarono legami tra classe dirigente fascista e grandi interessi finanziari. - Joseph A. Schumpeter, approdò alla democrazia istituzionale, negli Stati Uniti si convinse che per capire il rapporto tra «ordine sociale socialista e metodo democratico di governo» bisognava farlo dandone un’interpretazione dal punto di vista economico; poiché il confronto economico tra capitalismo e socialismo poteva condurre a una forma di governo più funzionale. Tuttavia, la sua democrazia era quella sociale; le elezioni, i partiti, i parlamenti, i gabinetti potevano sussistere in un socialismo democratico; secondo lui per far funzionare la democrazia nell’ordine sociale bisognava che tutte le classi si attenessero alle regole del gioco democratico e si mettessero d’accordo sulle istituzioni da rispettare. - Carl J. Friedrich, sostenne che la democrazia non poteva prescindere dalle istituzioni costituzionali. Parlava di «politics», alludeva alla democrazia come ordinamento politico e ammetteva l’allargamento dell’azione governativa nel capo dell’economia. Per molti autori la continua espansione dello Stato nel capo economico avrebbe messo in crisi «la società del capitalismo»; ma, se un governo democratico rispettava le istituzioni, esso non avrebbe distrutto la libera iniziativa degli individui; erano proprio le istituzioni che potevano offrire una ferma garanzia alle libertà civiche fondamentali. Solo un governo costituzionale, con separazione dei poteri e autogoverno locale, poteva garantire i diritti fondamentali degli esseri umani, che andavano dal diritto di esprimersi liberamente al diritto di lavorare e di godere i frutti del proprio lavoro. Studiò il federalismo americano ma teneva presente lo sfortunato esperimento della Germania. Il mancato successo della costituzione di Weimar e l’ascesa al potere di Hitler dovevano servire per studiare «i processi di funzionamento del governo costituzionale». Concludeva che un governo moderno e democratico doveva essere inteso come sforzo per determinare una condotta responsabile degli affari pubblici, nei confronti dell’elettorato. - Sulla linea di Friedrich troviamo Hans Kelsen, che restando fedele a Kant e alla sua teoria della coscienza morale, sebbene la sua interpretazione di Kant fosse filtrata attraverso l’influenza di Ernst Cassirer, mentre diveniva più profonda la sua opposizione alla «teoria politica bolscevica». Distinse democrazia da autocrazia: «Democrazia significa che la volontà, rappresentata nell’ordinamento giuridico dallo Stato, è identica alla volontà dei sudditi. Il suo opposto è la soggezione della autocrazia. Qui i sudditi sono esclusi dalla creazione dell’ordinamento giuridico, e non è in alcun modo garantita l’armonia fra tale ordinamento e le loro volontà. Democrazia e autocrazia non descrivono effettivamente determinate costituzioni storiche, ma rappresentano piuttosto dei tipi ideali. Nella realtà politica non vi è alcun Stato che si conformi completamente all’uno o all’altro di questi tipi ideali». Dedicò alcuni paragrafi della sua Teoria generale alla libertà e all’eguaglianza, ma riteneva caratteristico della democrazia la discussione tra maggioranza e minoranza in parlamento, ma anche in riunioni politiche, giornali, libri ecc. – L’autocrazia nei tempi moderni si era manifestata, non con la monarchia, ma con la dittatura di partito. Con la dittatura di un partito si ha la completa soppressione di tutte le libertà e sia gli organi ufficiali dello Stato che gli organi del partito possono interferire nella libertà del cittadino; con la dittatura di un partito le elezioni e plebisciti hanno il solo scopo di celare il fatto della dittatura. La conclusione di Kelsen era netta: un regime politico a partito unico non è un regime democratico. Tale conclusione può anche essere discussa e respinta, ma risalendo alla classificazione delle forme di governo proposta da Montesquieu – dispotismo, monarchia costituzionale, repubblica democratica -, si deve ammettere che con Kelsen abbiamo una nuova proposta di classificazione delle forme di governo: autocrazia e democrazia. Entrambe, secondo Kelsen, sono fondate su due forme di organizzazione, ossia «centralizzazione e decentralizzazione», sul piano strettamente politologico si può sostenere che la centralizzazione porta a un sistema monocratico e la decentralizzazione a un sistema poliarchico.

Capitolo quarantesimo. La rinascita della democrazia in Europa (1945-1989)

Il 1945 segnò la fine della guerra in Europa, ma appariva difficile la ricostruzione politica e non solo. Ognuno pensava al nemico vinto ma il nemico vinto era soprattutto il sistema politico abbattuto, genericamente identificato con la dittatura fascista. Tutti si auspicavano la rinascita della democrazia, ma molte speranze caddero nel 1948 con l’inizio della guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica dopo la

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fondazione dell’Alleanza Atlantica (NATO) che divise di fatti l’Europa in due blocchi. Non mancarono timori e minacce tra i due blocchi; il «bipolarismo» per oltre 40 anni, fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989, caratterizzò la storia delle relazioni internazionali tra i due sistemi politici, quello americano e quello sovietico. Entrambi cercarono di dare valore ideale al proprio sistema politico, ricollegandosi rispettivamente alla Rivoluzione americana e alla Rivoluzione russa, e ritenevano di essere i due modelli politici che gli altri Stati avrebbero dovuto imitare per superare i problemi lasciati in eredità dalla guerra. - In ogni caso, il «bipolarismo» condizionò il dibattito in Europa sulla democrazia dopo il 1950 e si può affermare che Stati Uniti d’America e Unione Sovietica diedero luogo a due tendenze dottrinali, che insistevano l’una sull’ideale della libertà individuale e l’altra sull’ideale della giustizia sociale. Per i sostenitori dell’americanismo, l’Europa orientale era il blocco del totalitarismo, della dittatura, dell’autocrazia. Per i sostenitori del sovietismo, l’Europa occidentale restava il mondo del capitale plutocratico, della dipendenza salariale, dello sfruttamento borghese dei lavoratori. Americanismo e sovietismo sono stati due radicalismi ideologici dove il primo, ispirato da un rigidismo morale, credeva di dover salvare gli europei dal pericolo del totalitarismo rosso e condannava la dittatura esercitata da un comitato centrale comunista; il secondo, animato da una fede sociale, sosteneva la lotta di classe e mirava alla vittoria del proletariato sul potere borghese, in più, condannava il monopolio delle grande finanza capitalista.

Rimaneva una situazione conflittuale nell’Europa, dove ad occidente avevamo scrittori che difendevano il sistema liberale e rifiutavano la dottrina marxista, che furono giudicati sostenitori del sistema politico americano. D’altra parte scrittori politici che credevano nei valori della giustizia sociale che vennero additati come teorici del rinnovamento anticapitalistico della società. Ma nonostante questa situazione conflittuale, nell’Europa occidentale viva era la cultura europea verso la riscoperta dei classici della politica. questo storicismo aiutò la circolazione delle idee, lasciando aperta la via alle discussioni culturali.

Se si volevano evitare i mali delle dittature, bisognava, avviare un discorso storico sul totalitarismo, la dottrina politica dello sconfitto nazismo e capire le cause delle gravi disfunzioni dello Stato. Per Hannah Arendt studiare le origini del totalitarismo significava prendere coscienza dei mali politici che affliggevano la vita civile: l’antisemitismo, l’imperialismo, l’autoritarismo ideologico, le manifestazioni di massa avevano modificato l’agire politico, e avevano portato alla seconda guerra mondiale. Il totalitarismo era stato vinto con la sconfitta del nazismo, ma anche la modernità americana era da criticare: la politica impediva ovunque la partecipazione attiva del cittadino alla vita pubblica, perché prevaleva soltanto chi comandava; era questa la condizione umana, perché tanto quella sovietica quanto quella americana con il passar del tempo avevano impoverito l’esistenza umana con la burocratizzazione.

Intorno agli anni Sessanta si auspicò la «fine delle ideologie», di destra e di sinistra, e la cultura europea doveva sottrarsi ai dogmatismi ideologici imposti dalla guerra fredda; negli anni Settanta, quando si cominciò a parlare di distensione, si fece ricorso ad autori che non erano di parte avversa; si utilizzò il pensiero liberale per criticare la politica americana, oppure il pensiero di Gramsci per criticare l’Unione Sovietica; si teorizzò un euro-liberalismo ed un euro-comunismo.

Alcuni scrittori studiarono il sistema politico americano e il sistema politico sovietico, per capire le ragioni della guerra e spiegare le differenze dottrinali. Emersero due spiegazioni: una politologica, che sosteneva che quello americano era la conseguenza dovuta alla moltitudine di popoli e di ceti che avevano contrassegnato la storia americana. Nel sistema sovietico la vittoria del proletariato aveva dato vita alla formazione di un forte partito operaio che per imporre la sua azione politica e modificare la situazione sociale si era imposto come partito unico. L’altra era antropologica, secondo cui il contrasto USA-URSS aveva radici nella tradizionale diversità tra Occidente ed Oriente, tra una concezione tollerante ed un'altra autoritaria.

I due blocchi volevano imporre un proprio modello di governo, ma molti pensatori politici europei cercavano invece un proprio modello europeo. Per il sistema politico inglese era Isaiah Berlin, che prese le distanze dal «fanatismo comunista» e dal «materialismo americano» per insistere sulla «comunità della tradizione intellettuale europea». Poiché comunismo e fascismo non avevano toccato l’Inghilterra, bisognava rifarsi alla tradizione britannica da Locke a Mill «contraria agli estremi», e prendere come modello il sistema politico inglese, rispettoso delle funzioni del parlamento. Al modello parlamentare inglese guardarono con interesse,

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oltre a Berlin, anche Popper e Dahrendorf. - Secondo questi scrittori politici il modello politico inglese era un modello democratico in grado di attuare un programma di riforme senza creare conflitti violenti tra forze politiche al governo e forze politiche all’opposizione. Elementi essenziali del «modello inglese» erano la libera competizione elettorale e l’affidamento di formare il governo al capo dei partiti con maggior numero di deputati; oltre ad avere un partito di opposizione, governo ombra, che permetteva il controllo del governo in carica e faceva conoscere all’opinione pubblica la compagine ministeriale alternativa. - Karl R. Popper contrappose alla «società chiusa» la «società aperta»; la seconda attraverso istituzioni democratiche difende la libertà dei singoli e dei gruppi, invece la prima è una società totalitaria con norme impositive. Popper nella Società aperta e i suoi nemici criticava Hegel che aveva fatto l’apologia dello Stato prussiano, e Marx che aveva preparato l’ideologia totalitaria della società egualitaria a partito unico. - Ralph Dahrendorf riteneva esemplare l’esperienza politica britannica per la capacità di promuovere democraticamente le riforme. Afferma, sulle «istituzioni ed i comportamenti britannici», che in Inghilterra «esiste una fondamentale libertà di vita che non è facile trovare altrove»; il Parlamento inglese è lo specchio della nazione ed il suo sistema politico è una democrazia in atto; questa democrazia non solo è in aperta contrasto con le dittature, ma è diversa dalle altre democrazie.

Alla forma di governo democratico di tipo inglese alcuni scrittori politici contrapposero un governo democratico di tipo francese. La Quarta Repubblica non riuscì a risolvere i problemi interni ed esteri della Francia; ci riuscì la Quinta Repubblica, voluta da De Gaulle, con modello di democrazia rappresentativa. A sostegno del modello francese ci furono Maurice Duverger e François Furet.

Oltre il dibattito sul modello istituzionale, nell’Europa occidentale fiorino importanti orientamenti di pensiero con carattere politico. Notevole incidenza culturale ebbe l’esistenzialismo francese. Nella rivista «Les temps modernes» Jean-Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty misero sotto accusa il sistema capitalista e contestarono le istituzioni parlamentari «controllate dall’imperialismo americano». Continuò la polemica contro il marxismo burocratizzato e la struttura borghese Loius Althusser. [L'esistenzialismo è un indirizzo del pensiero filosofico, in opposizione all'idealismo e al razionalismo, esso insiste sul valore specifico dell'esistenza individuale umana e sul suo carattere precario. In alcuni rappresentanti ha un'accentuazione religiosa, in altri ha carattere umanistico e mondano.] - I sociologi tedeschi formularono, a partire del 1950, diverse teorie critiche della società europea. Le critiche di Theodor Adorno al capitalismo e al sistema sociale, ad esso, connesso furono largamente utilizzate dalle correnti marxiste ed anche dalle correnti del «dissenso»; lo stesso può dirsi di Max Horkeimer che contestò «la società borghese» ed il suo modello di ragionare; ma l’uno e l’altro consideravano il bolscevismo una degenerazione della risoluzione comunista.

A proposito degli orientamenti di pensiero a carattere politico, un discorso a parte è da fare per Gramsci, nei suoi scritti pubblicati dopo la sua morte tra il 1947 e il 1951, dove affrontò il «problema storico della democrazia»; portò il marxismo «dal mito alla ricomposizione»; impostò «le strategie del potere», presentò «un socialismo armonioso»; storicamente bisogna, però, distinguere Gramsci dal «gramscismo», e precisare in quale modo il «gramscismo» fu interpretato e utilizzato dal PCI. Nell’Europa occidentale dal 1949 al 1989 l’argomento dottrinale politico è stata la democrazia. per chiarire il suo concetto è stato chiamato in causa il «consenso», si è cercato di definire la «cittadinanza», è stato invocato il rispetto dei diritti umani, si è data importanza alla funzione dell’opposizione. Ogni governo parlamentare dei paesi dell’Europa occidentale, nel quarantennio, hanno rispettato le libertà civili connesse con le istituzioni rappresentative, hanno riconosciuto libertà di azione e di parola ai rappresentanti dell’opposizione e ai sindacati dei lavoratori, distinzione fra operai e imprenditore, tra capo dello Stato e capo del governo e tra parlamento e opinione pubblica. - Le democrazie parlamentari dell’Europa occidentale hanno funzionato perché ogni governo ha avuto presente le esperienze fallimentari del passato, che avevano permesso l’avvento dei regimi fascisti. Proprio perché il sistema rappresentativo nel passato era stato inficiato da debolezze e insufficienze, ogni governo è stato animato da buona volontà operativa. – È da notare che alla costruzione dell’Europa occidentale hanno collaborato, senza rendersene conto, la democrazia laica e la democrazia cristiana, la democrazia di destra e di sinistra, la democrazia marxista e quella liberale. Ecco perché il quarantennio 1949-89 può essere definito un quarantennio democratico nella storia di Europa. La fiducia nella democrazia in questi quaranta anni ha permesso di superare molti contrasti interni nei singoli paesi, e di comporre pacificamente molti conflitti sociali. È stata la fiducia nella democrazia che ha spinto le

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forze politiche ad appellarsi spesso all’elettorato per ottenere il consenso popolare. È stata la fiducia nella democrazia che ha contribuito a superare le crisi interne e a fare sperare nella possibilità di distensione.

Nel periodo 1949-89 la democrazia è stata più aspirazione politica che realtà governativa, ma c’è stata una linea di sviluppo. Lo sviluppo si è avuto sul piano locale, perché le istituzioni locali sono state avviate verso un decentramento amministrativo con supporto sempre crescente dalla popolazione. Lo sviluppo si è avuto sul piano sociale, nel senso che i rapporti di lavoro e i modi di produzione sono stati affrontati con una visione di utilità sociale. Sul piano educativo con una diffusione dell’istruzione di base, con conseguente diffusione dei mezzi di comunicazione di massa dai giornali alla televisione. Sul piano politico gli organismi nazionali hanno mutato metodi per non alimentare il dissenso dei cittadini; l’evoluzione delle strutture è stata accompagnata da una evoluzione delle mentalità. Questi sviluppi, talvolta disarmonici, hanno avuto una profonda incidenza sulla società civile. Nella società civile europea si è fatta strada l’eguaglianza delle condizioni civili, che ha messo in crisi vecchie abitudini, familiari e cittadine.

Ben diversa la situazione politica nei paesi dell’Europa orientale. La maggior parte dei paesi avevano al governo partiti comunisti che si proclamavano democrazie popolari, ma in ogni paese fu instaurato in pratica un governo a partito unico, come in Unione Sovietica. Le democrazie popolari dovevano essere un alternativa alle democrazie parlamentari occidentali ma con l’avvento della guerra fredda nei paesi dell’Est europeo, dietro la facciata del mantenimento di elementi di relativo pluralismo, si affermò la supremazia dei partiti comunisti in termini di sostanziale monocrazia. – La parola «democrazia» nel sistema monocratico andò perdendo il valore di partecipazione consensuale del popolo alla vita civile del paese. L’egemonia governativa di un solo partito vietava ogni dissenso ideologico e ogni opposizione politica. Fu, tuttavia, l’azione oppressiva esercitata da Mosca a rendere più difficile la vita politica delle democrazie popolari. – L’Unione Sovietica utilizzò con notevole efficacia la strategia del pacifismo: gli Stati Uniti preparavano la guerra, l’Unione Sovietico mirava alla pace. Il patto atlantico venne definito come l’intesa politica dei paesi capitalisti per assoggettare i popoli con l’uso delle armi e ogni movimento culturale non marxista venne collegato con l’imperialismo americano. Ma secondo il governo di Mosca i problemi economici e sociali dei singoli Stati europei potevano essere risolti solo con l’impostazione politica sovietica; bisognava perciò prender come modello politico il sistema del partito unico del proletariato, adottato dall’Unione Sovietica.

Cominciarono a manifestarsi, però, segni di insofferenza popolare contro i governi cosiddetti popolari. L’azione ideologica marxista a favore della classe operaia, che dominava il dibattito culturale nelle sezioni dei partiti comunisti dell’Europa orientale, parlavano di eliminazione del profitto, produzione sociale, salario assicurato,anticapitalismo industriale...Il governo di Mosca imponeva alle democrazie popolari il predominio assoluto dell’Unione Sovietica sugli Stati del blocco sovietico. Avendo accettato la monocrazia del partito unico, ogni partito comunista doveva reprimere qualsiasi forma di opposizione. – Sembrò che qualcosa dovesse mutare dopo la morte di Stalin nel 1953 e soprattutto dopo il rapporto di Nikita Chruščëv al XX Congresso del partito comunista dell’Unione Sovietica il 13/2/1956, che era una rinuncia ai metodi dispotici del sistema stalinista e una promessa di autonomia verso i paesi che gravitavano nell’orbita sovietica. Ma nello stesso anno, in Ungheria in manifestazioni popolari contro la politica autoritaria di Rákosi, intervennero, a Budapest, le truppe sovietiche che repressero nel sangue le speranze di metodi democratici di governo. Gli eventi ungheresi crearono una profonda crisi nei paesi dell’Est europeo, e quel consenso che aveva appoggiato i partiti comunisti nei singoli Stati dell’Est dopo la guerra, cominciò a declinare. Apparve ben chiaro che nelle democrazia popolari di tipo monocratico ogni trasformazione politica voluta dalle masse popolari era impossibile. L’opinione pubblica si rese conto che la burocrazia di partito, che occupava i posti di potere, non avrebbe tollerato deviazioni ideologiche. Era la monocrazia che assegnava a un solo partito il diritto di servire da collegamento tra Sato e società.

Il vento della democrazia cominciò a soffiare all’interno dello stesso partito comunista in Cecoslovacchia quando si parlò di «primavera di Praga» e di «socialismo dal volto umano», si sperò di avere un governo capace di risolvere autonomamente i problemi nazionali, ma al contrario le truppe dell’Unione Sovietica repressero ogni tentativo di mutamento con la forza. In Polonia la difficile situazione economica e l’oppressione comunista suscitarono dopo il 1970 un forte risentimento nei ceti popolari, legati alla tradizione cattolica. La caduta del muro di Berlino nel 1989 e il crollo dei governi dell’Europa orientale

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hanno determinato una nuova situazione politico-dottrinale, ma i popoli che sono usciti dal monopartitismo non hanno trovato nel semplice pluripartitismo la soluzione dei problemi economici e sociali.

La società europea non solo si è mossa verso l’eguaglianza delle condizioni civili, ma ha studiato i modi per realizzare questa eguaglianza. Ha capito che la democrazia per funzionare ha bisogno, infatti, della possibile alternanza governativa, quale conseguenza del dibattito parlamentare. Un sistema politico diventa monocratico se le forze sociali al governo impediscono all’opposizione di diventare maggioranza. L’alternanza governativa non serve soltanto a migliorare la situazione civile di un paese, ma ad evitare che la volontà popolare sia offuscata e la dinamica politica sia deviata.

In Europa, dalla caduta del nazismo alla caduta del muro di Berlino, ogni discorso ideologico sulla democrazia è stato inteso, quasi sempre, come una presa di posizione politica a favore di una delle due potenze impegnate nella guerra fredda. Il dibattito sulla democrazia ha, tuttavia, permesso la rinascita di governi democratici dove aveva governato la monocrazia fascista o la monocrazia sovietica. Nella seconda metà del Novecento la cultura politica dell’Europa occidentale ha, inoltre, saputo discutere sia di federalismo, sia di unione europea con ordinamenti democratici. Il federalismo europeo era stato utilizzato, in verità, nella polemica contro il fascismo, rigidamente legato al binomio Stato-Nazione.

Nel Manifesto di Ventotene, scritto verso la fine del 1941, Altiero Spinelli aveva contrapposto il federalismo al nazionalismo degli Stati totalitari; l’unificazione europea è maturata durante gli anni del contrasto tra Stati Uniti e Unione Sovietica. I momenti storici dell’unificazione europea sono il trattato di Roma (1957) con il quale venne costituita la Comunità economica europea, le prime elezioni per il Parlamento europeo (1979), il trattato di Maastricht (1992) con l’apertura delle frontiere tra gli Stati aderenti all’Unione europea, e l’adozione di una moneta unica. La unificazione europea in atto ha messo in discussione lo Stato nazionale, la rappresentanza politica, il potere dei governi, dando particolare valore al tema della democrazia.

Ma quale democrazia dovrebbe essere adottata dall’Unione europea? La democrazia delle regole è stata la risposta di Norberto Bobbio. Nella sua battaglia civile Bobbio ha sempre sostenuto che «il futuro della democrazia» non solo è da concepire in una società poliarchica, ma bisogna evitare i miti dei soggetti storici, quali «il proletariato», «la nazione» «il popolo». La società europea, per Bobbio, dovrebbe rispettare le norme costituzionali democratiche, adottare il principio della tolleranza reciproca, agire in nome della pace.

Capitolo quarantunesimo. Il futuro della democrazia: Bobbio.

Nel clima intollerante della «guerra fredda», con il mondo spaccato in due «blocchi» Bobbio prese posizione contro «la pseudocultura degli improvvisatori» ponendosi come scopo «quello di capire e di aiutare a capire» perché «l’uomo di cultura esamina, indaga, pondera, riflette, controlla, verifica». Pure definendosi «un intellettuale di sinistra», ha cercato sempre la via del dialogo, e costantemente ha ribadito che libertà e eguaglianza sono i valori a fondamento di ogni democrazia. - Egli si richiamava spesso al pensiero di Carlo Cattaneo e «alla sua idea illuministica e positivistica del progresso», ossia al Cattaneo che aveva unito «all’interesse intellettuale una forte passione civile», Bobbio, come Cattaneo ha seguito la via del riformatore ed è arrivato ad accettare il principio federalistico come «convivenza civile nell’ambito nazionale ed internazionale»; si spiega la sua adesione al progetto delle unione europea.

Nel clima politico dell’Italia postfascista, divisa tra americanismo e sovietismo, Bobbio ha affrontato il delicato tema della democrazia. Così riassumeva il rapporto tra democrazia e liberalismo rappresentativo:

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«Per gli scrittori liberali nella democrazia rappresentativa o parlamentare lo Stato deve garantire alcuni diritti fondamentali, quali i diritti di libertà di pensiero, religione, stampa, riunione, ecc.», tuttavia «l’elemento caratterizzante della democrazia resta sempre la partecipazione libera quale espressione e risultato di tutte le altre libertà». «In generale, la linea di sviluppo della democrazia nei regimi rappresentativi è da rintracciarsi essenzialmente in due direzioni; a) nel graduale allargamento del diritto di voto, primamente ristretto a un’esigua parte dei cittadini in base a criteri fondati sul censo, sulla cultura e su sesso; b) nella moltiplicazione degli organi rappresentativi che in un primo tempo sono limitati ad una delle due assemblee legislative, e poi si estendono via via all’altra assemblea, agli enti del potere locale, o, nel passaggio dalla monarchia alla repubblica, anche al capo dello Stato. Nell’una e nell’altra direzione il processo di democratizzazione, che consiste in un sempre più pieno adempimento del principio-limite della sovranità popolare, s’innesta nella struttura dello Stato liberale inteso come Stato in primis garantistico. In altre parole, lungo tutto il corso di uno sviluppo che arriva sino ai giorni nostri, il processo di democratizzazione, quale si viene svolgendo negli Stati, che oggi vengono chiamati di democrazia liberale, consiste in una trasformazione più quantitativa che qualitativa del regime rappresentativo».

Secondo Bobbio non era diverso il rapporto tra democrazia e socialismo che così riassumeva: «Rispetto al socialismo, l’ideale democratico rappresenta un elemento integrante e necessario, ma non costitutivo. Integrante, perché una meta per i socialisti è sempre stata di rafforzare la base popolare dello Stato, necessario, perché senza questo rafforzamento non ci sarebbe mai stato la trasformazione della società come si erano sempre prefissati i socialisti, e non costitutivo, perché l’essenza del socialismo è sempre stata il rivoluzionamento dei rapporti economici e politici, ed anche, quelli sociali, e non solo politici dell’uomo. Ciò che muta nella dottrina socialista rispetto alla dottrina liberale è il modo d’intendere il processo di democra-tizzazione dello Stato. Il suffragio universale, ad esempio, per il liberalismo è il punto di arrivo del processo di democratizzazione dello Stato, nella teoria marx-engelsiana, invece, è solo il punto di partenza. […]»

«Nella prevalente teoria politica contemporanea dei paesi a tradizione democratico-liberale le definizioni di democrazia tendono a risolversi e a esaurirsi in un elenco più o meno ampio. [Nel testo 9 definizioni […]». Dalle definizioni si vede come tutte queste regole stabiliscono come si debba arrivare alla decisione politica, non che cosa si debba decidere. Si può affermare che nessun regime storico abbia mai osservato tutte queste regole e neanche si può dire quante ne basterebbero osservare per affermare se un regime possa essere detto democratico o meno. Fatto sta che se non ne osserva neanche uno non sarà certo democratico».

Bobbio ricorda che nella «scienza politica» è diffuso l’uso di specificare il concetto generico di democrazia con un attributo qualificante, «formale» «sostanziale»: «Secondo una vecchia formula che considera la democrazia come governo del popolo per il popolo, la democrazia formale è piuttosto un governo del popolo, quella sostanziale è piuttosto un governo per il popolo. Come una democrazia formale può favorire una minoranza ristretta di detentori del potere economico, e quindi non essere un governo per il popolo, pur essendo un governo del popolo, così una dittatura politica può favorire in periodi di trasformazione rivoluzionaria, quando non sussistono le condizioni per l’esercizio di una democrazia formale, la classe più numerosa dei cittadini, e quindi essere un governo per il popolo, pur non essendo un governo del popolo». E concludeva: «Bisogna riconoscere che nelle due espressioni “democrazia formale” e ”democrazia sostanziale” il termine democrazia ha due significati nettamente distinti. Nella prima indica un certo insieme di mezzi, quali sono appunto le regole procedurali indipendentemente dalla considerazione dei fini; nella seconda indica un certo insieme di fini, qual è soprattutto il fine dell’eguaglianza non soltanto giuridica, ma anche sociale se non economica, indipendentemente dalla considerazione dei mezzi adoperati per raggiungerli. Entrambi i termini sono legittimi».

Nella Premessa degli scritti su Il futuro della democrazia, Bobbio chiariva: «Per regime democratico s’intende primariamente un insieme di regole di procedura per la formazione di decisioni collettive, in cui è prevista e facilitata la partecipazione più ampia possibile degli interessati. So bene che una simile definizione procedurale, o formale, o in senso peggiorativo formalistica, appare troppo povera ai movimenti che si proclamano di sinistra. Ma non esiste una definizione altrettanto chiara ed è l’unica che possa darci una prima grande distinzione […]». Il vero democratico crede che la tolleranza sia il principio che dovrebbe regolare la convivenza civile.

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Piero Meaglia, dopo aver ripercosso la riflessione di Bobbio, insiste sulla distinzione, accolta da Bobbio, tra concezione «formale» e concezione «sostanziale» della democrazia. Dalla democrazia «formale» secondo Bobbio può derivare un governo che agevoli la minoranza in possesso del potere economico; dalla democrazia «sostanziale» può derivare un governo che decida a favore dei meno abbienti, ignorando le regole democratiche. Il primo governo, però, applicando le regole della democrazia formale resta democratico; il secondo governo, non applicando le regole democratiche, diventa autocratico.

Bobbio affermava che il pericolo maggiore da evitare è la dittatura accolta da Filippo Buonarroti in nome dell’eguaglianza, ma teorizzata da Carl Schmitt in Germania. Con molta linearità sosteneva sempre che un governo riformatore è sempre preferibile ad una dittatura. Il contrario della democrazia è la dittatura, tanto da suggerire ai marxisti di usare l’espressione gramsciana «egemonia», e non «dittatura», per denotare il primato politico di una classe sull’altra. Si capisce meglio perché fosse fautore nella vita politica della procedura del negoziato e dell’accordo con l’opposizione. La sua visione politica era avversa agli estremismi ed orientata alla conciliazione in nome della pace.

Nella seconda edizione degli scritti su Il futuro della democrazia, guardando alle «democrazie occidentali» d’Europa, Bobbio concludeva nella premessa: «Il dispotismo è statico e sempre eguale a se stesso», «la democrazia è dinamica»; infatti, «per un regime democratico l’essere in trasformazione è il suo stato naturale»; si spiega così il divario fra «democrazia ideale e democrazia reale», ma per regime democratico si deve intendere «un insieme di regole di procedura per la formazione di decisioni collettive, in cui è prevista e facilitata la partecipazione più ampia possibile degli interessati». Poiché «solo il potere può creare il diritto e solo il diritto può limitare il potere, lo Stato dispotico è il tipo ideale di Stato di chi si pone dal punto di vista del potere; all’estremo opposto c’è lo Stato democratico, che è il tipo di Stato di chi si pone dal punto di vista del diritto». «Non sarà mai detto abbastanza contro ogni tentazione organicistica ricorrente che la dottrina democratica riposa su una concezione individualistica della società». «Ma i rapporti dell’individuo con la società vengono visti da liberalismo e democrazia in modo diverso: il primo recide il singolo dal corpo organico della comunità, la seconda lo ricongiunge agli altri uomini perché dalla loro unione la società venga ricomposta come un’associazione di liberi individui».

Bobbio si è anche posto il problema della democratizzazione dei rapporti internaizonali ed ha insistito nel chiedere agli Stati d’Europa di attenersi nei reciproci rapporti alle regole della democrazia. La nuova realtà politica dell’Europa unita, non solo deve rispettare il sistema internazionale, ma, per aspirare alla pace, dovrebbe impegnarsi ad adottare il principio della non aggressione. Bisogna proseguire nel processo di democratizzazione del sistema internazionale, e per Bobbio, «le Nazioni Unite rappresentano, dopo il fallimento della Società delle Nazioni, il primo grandioso tentativo di democratizzare il sistema internazionale, vale a dire di trasferire nei rapporti fra Stati sovrani i princìpi sui quali si fonda lo Stato democratico». Ogni società democratica deve sempre avere una ispirazione etica, e, come insegnava Mazzini, non può avere quali princìpi ideali la libertà individuale, l’eguaglianza sociale e la prospettiva umanitaria, anche se, mi avvertiva sorridendo (Mastellone), princìpi da non perseguire in assoluto.

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