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Sangue romagnolo. I compagni del duce

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In un fazzoletto di terra, pochi chilometri quadrati, nell’aspra e solatia Romagna, sono nati e vissuti, in una manciata d’anni, a cavallo tra l’800 e il ‘900, quattro personaggi che hanno cambiato la storia d’Italia. Quattro uomini che, nel bene e nel male, hanno cercato di cullare un sogno: la speranza di cambiare la misera realtà in cui erano nati, l’orgoglio di vivere una vita degna di essere vissuta e di realizzare, con le proprie forze, un mondo diverso, forse perfetto, così distante dalla povera e cara terra, la Romagna, che hanno continuato ad amare per tutta la vita. Benito Mussolini, Nicola Bombacci, Leandro Arpinati e Torquato Nanni, amici-nemici da sempre

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CLESSIDRACollana di saggistica storica diretta da Giancarlo Mazzuca

Prefazione di Sergio Zavoli pag. 7

Sangue romagnolo nota autori pag. 13

Premessa pag. 15

Parte Prima - Le strane coppie pag. 21- Le valli della politica Capitolo primo Da sempre ribelli pag. 23 Capitolo secondo L’alba rossa del Novecento pag. 32

Parte Seconda - Mussolini-Bombacci pag. 39- Il nero e il rosso Capitolo primo Fino alla morte pag. 40 Capitolo secondo I due rivoluzionari pag. 46 Capitolo terzo Il “dux in fieri” pag. 61 Capitolo quarto Il sole dell’avvenire pag. 69 Capitolo quinto Marce su Livorno e Roma pag. 79 Capitolo sesto Mosca-Roma e ritorno pag. 91 Capitolo settimo L’ora della verità pag. 103 Capitolo ottavo Convergenze definitive pag. 115 Capitolo nono Socializzazione utopistica pag. 129 Capitolo decimo Appesi per i piedi pag. 138

Parte Terza - Nanni-Arpinati pag. 143- Fratelli siamesi Capitolo primo Vincoli di sangue pag. 145 Capitolo secondo Salvate il “soldato” Neri pag. 153 Capitolo terzo Squadracce contro pag. 158

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CLESSIDRACollana di saggistica storica diretta da Giancarlo Mazzuca

Finito di stampare nel mese di giugno 2012per conto di Minerva Edizioni, Bologna

Quarta edizione giugno 2012

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CLESSIDRACollana di saggistica storica diretta da Giancarlo Mazzuca

Prefazione di Sergio Zavoli pag. 7

Sangue romagnolo nota autori pag. 13

Premessa pag. 15

Parte Prima - Le strane coppie pag. 21- Le valli della politica Capitolo primo Da sempre ribelli pag. 23 Capitolo secondo L’alba rossa del Novecento pag. 32

Parte Seconda - Mussolini-Bombacci pag. 39- Il nero e il rosso Capitolo primo Fino alla morte pag. 40 Capitolo secondo I due rivoluzionari pag. 46 Capitolo terzo Il “dux in fieri” pag. 61 Capitolo quarto Il sole dell’avvenire pag. 69 Capitolo quinto Marce su Livorno e Roma pag. 79 Capitolo sesto Mosca-Roma e ritorno pag. 91 Capitolo settimo L’ora della verità pag. 103 Capitolo ottavo Convergenze definitive pag. 115 Capitolo nono Socializzazione utopistica pag. 129 Capitolo decimo Appesi per i piedi pag. 138

Parte Terza - Nanni-Arpinati pag. 143- Fratelli siamesi Capitolo primo Vincoli di sangue pag. 145 Capitolo secondo Salvate il “soldato” Neri pag. 153 Capitolo terzo Squadracce contro pag. 158

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CLESSIDRACollana di saggistica storica diretta da Giancarlo Mazzuca

Finito di stampare nel mese di giugno 2012per conto di Minerva Edizioni, Bologna

Quarta edizione giugno 2012

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A Gabriella e Licia

Capitolo quarto Sangue e schiaffi pag. 166 Capitolo quinto La caduta pag. 172 Capitolo sesto I confinati pag. 181 Capitolo settimo Gli ultimi carbonari pag. 192 Capitolo ottavo La trafila pag. 198 Capitolo nono “Cantos” di Malacappa pag. 213 Capitolo decimo “Io sono Arpinati” pag. 221

Epilogo pag. 231

Bibliografia pag. 235

Ringraziamenti pag. 239

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A Gabriella e Licia

Capitolo quarto Sangue e schiaffi pag. 166 Capitolo quinto La caduta pag. 172 Capitolo sesto I confinati pag. 181 Capitolo settimo Gli ultimi carbonari pag. 192 Capitolo ottavo La trafila pag. 198 Capitolo nono “Cantos” di Malacappa pag. 213 Capitolo decimo “Io sono Arpinati” pag. 221

Epilogo pag. 231

Bibliografia pag. 235

Ringraziamenti pag. 239

Page 6: Sangue romagnolo. I compagni del duce

Se dovessi porre un distico in capo a questo libro farei ricorso all’inchiesta dal titolo Nascita di una dittatura, traendone quel passaggio in cui Rachele Mussolini – da me lungamente intervistata a Carpena nella vecchia casa di famiglia – con una sincerità e direi persino un certo sprezzo per i grandi poteri, quasi sempre fonte di altrettanto grandi guai, mi disse: «Se Benito aves-se accettato di andare in America a fare il giornalista, come gli avevano proposto, sarebbe andata meglio per tutti, anche per lui...». Quella signora, ancora animata da una fresca anziani-tà – con qualche ruga vicino agli occhi chiari e lucenti, e soprattutto il piglio di una popolana cresciuta non grazie agli onori, ma alla franca, veloce saggezza di una contadina romagnola – aveva in uggia, tra i lauda-tores del marito, la lunga serie, diceva lei, degli oppor-tunisti e dei voltagabbana, che lusingarono il duce al di là della decenza, ricevendo gradi e prebende, salvo fuggire come tanti sorci quando la barca cominciò a fare acqua e addirittura affondare. Non andò così per tutti e Mussolini resisteva, in genere, alle intemera-te della moglie. Dopo il Gran Consiglio del 25 luglio 1943 – che aveva decretato, di fatto, la fine del regime – Rachele dirà al marito: «Li hai fatti almeno arrestare tutti?». E il duce, che sapeva come rabbonirla, rispon-

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Se dovessi porre un distico in capo a questo libro farei ricorso all’inchiesta dal titolo Nascita di una dittatura, traendone quel passaggio in cui Rachele Mussolini – da me lungamente intervistata a Carpena nella vecchia casa di famiglia – con una sincerità e direi persino un certo sprezzo per i grandi poteri, quasi sempre fonte di altrettanto grandi guai, mi disse: «Se Benito aves-se accettato di andare in America a fare il giornalista, come gli avevano proposto, sarebbe andata meglio per tutti, anche per lui...». Quella signora, ancora animata da una fresca anziani-tà – con qualche ruga vicino agli occhi chiari e lucenti, e soprattutto il piglio di una popolana cresciuta non grazie agli onori, ma alla franca, veloce saggezza di una contadina romagnola – aveva in uggia, tra i lauda-tores del marito, la lunga serie, diceva lei, degli oppor-tunisti e dei voltagabbana, che lusingarono il duce al di là della decenza, ricevendo gradi e prebende, salvo fuggire come tanti sorci quando la barca cominciò a fare acqua e addirittura affondare. Non andò così per tutti e Mussolini resisteva, in genere, alle intemera-te della moglie. Dopo il Gran Consiglio del 25 luglio 1943 – che aveva decretato, di fatto, la fine del regime – Rachele dirà al marito: «Li hai fatti almeno arrestare tutti?». E il duce, che sapeva come rabbonirla, rispon-

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derà: «Oggi no, lo farò domani!», mentendole come di più non sarebbe stato possibile. Rivado a ciò per dire che questo libro attraversa una temperie tra politica, psicologica e affettiva in cui si richiama un “quartetto romagnolo” degno di una vul-gata provinciale che ancora sbocconcella la storia tra vero e inverosimile, seppure tenuta in vita dalle sue per nulla infondate premesse ideologiche e sentimentali, o viceversa. Sta di fatto che quel “sangue romagnolo”, estraneo alle tenere pagine di Edmondo De Amicis, è assimilabile a qualche ridondanza di Alfredo Panzini, sempre in vena di romagnolismo sebbene fosse nato a Senigallia: «Rimanete fedeli alla Romagna, è l’unica terra dove si conserva quel po’ di buono che è rimasto nel mondo». Un primato ovviamente discutibile, con quella vena oratoria che lo scrittore – avvezzo, invece, all’ironia – riservava ai suoi contadini di Bellaria dove aveva fissato il proprio radicamento elettivo (“i giorni del sole e del grano”, ricordate?) pretendendo che i villici usassero la cravatta, borghese fin che si vuole, ma non il ribaldo fiocco alla “Lavallière”, di origine francese e repubblicana.Ciò premesso, i lettori troveranno in queste pagine una prova originale e riuscita di biografia, un genere storico non a torto considerato tra i più ardui per il talento e le competenze che richiede: l’attitudine alla penetrazione psicologica, il saper stare in un difficile equilibrio, sempre a rischio di qualche caduta, tra la freddezza nell’analisi dei fatti e il calore nell’interpre-

tazione delle persone; infine, la verve narrativa per far rivivere la storia che, come scrive Croce, «non si ri-pete e non si serba intatta». Quattro biografie – o, se volete, ritratti – tenute insieme da un legame, l’amici-zia, che resiste alle durezze non di rado laceranti della vita, fino all’ora del bilancio lasciato a chi sopravvive, che lo valuta secondo i lasciti certi o controversi di chi si congeda. Preso dal racconto, mi sono doman-dato se, scrivendo di Mussolini, Bombacci, Arpinati e Nanni, gli autori abbiano o no sentito di avventu-rarsi in un terreno coperto dalla cenere del tempo; che però nasconde, per dirla con Orazio, un tappeto di braci non ancora spente, che basta appena rimuo-vere per vederle riprendere colore e rianimarsi. Mi è tornato in mente un maestro del genere biografico, André Maurois, autore di due capolavori, le vite di Shelley e Disraeli, per il quale la scelta di un sogget-to da “ritrarre” rispondeva quasi sempre a un biso-gno non solo intellettuale, ma anche psicologico, in definitiva umano, cioè dettato da una curiosità non complice e tuttavia, in qualche modo, partecipe. È il motivo per cui il racconto diventa non solo interes-sante, ma anche avvincente, grazie a una narrazione affilata, dirò così, che coinvolge e trattiene il lettore. Lytton Strachey – nel suo celebre Eminenti vittoriani, inclusi i graffianti, ironici e tuttavia emozionanti ri-tratti di Florence Nightingale, la celebre missionaria laica negli ospedali di Crimea, e del generale Gordon, l’ultimo difensore di Kartum contro i dervisci – rac-

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derà: «Oggi no, lo farò domani!», mentendole come di più non sarebbe stato possibile. Rivado a ciò per dire che questo libro attraversa una temperie tra politica, psicologica e affettiva in cui si richiama un “quartetto romagnolo” degno di una vul-gata provinciale che ancora sbocconcella la storia tra vero e inverosimile, seppure tenuta in vita dalle sue per nulla infondate premesse ideologiche e sentimentali, o viceversa. Sta di fatto che quel “sangue romagnolo”, estraneo alle tenere pagine di Edmondo De Amicis, è assimilabile a qualche ridondanza di Alfredo Panzini, sempre in vena di romagnolismo sebbene fosse nato a Senigallia: «Rimanete fedeli alla Romagna, è l’unica terra dove si conserva quel po’ di buono che è rimasto nel mondo». Un primato ovviamente discutibile, con quella vena oratoria che lo scrittore – avvezzo, invece, all’ironia – riservava ai suoi contadini di Bellaria dove aveva fissato il proprio radicamento elettivo (“i giorni del sole e del grano”, ricordate?) pretendendo che i villici usassero la cravatta, borghese fin che si vuole, ma non il ribaldo fiocco alla “Lavallière”, di origine francese e repubblicana.Ciò premesso, i lettori troveranno in queste pagine una prova originale e riuscita di biografia, un genere storico non a torto considerato tra i più ardui per il talento e le competenze che richiede: l’attitudine alla penetrazione psicologica, il saper stare in un difficile equilibrio, sempre a rischio di qualche caduta, tra la freddezza nell’analisi dei fatti e il calore nell’interpre-

tazione delle persone; infine, la verve narrativa per far rivivere la storia che, come scrive Croce, «non si ri-pete e non si serba intatta». Quattro biografie – o, se volete, ritratti – tenute insieme da un legame, l’amici-zia, che resiste alle durezze non di rado laceranti della vita, fino all’ora del bilancio lasciato a chi sopravvive, che lo valuta secondo i lasciti certi o controversi di chi si congeda. Preso dal racconto, mi sono doman-dato se, scrivendo di Mussolini, Bombacci, Arpinati e Nanni, gli autori abbiano o no sentito di avventu-rarsi in un terreno coperto dalla cenere del tempo; che però nasconde, per dirla con Orazio, un tappeto di braci non ancora spente, che basta appena rimuo-vere per vederle riprendere colore e rianimarsi. Mi è tornato in mente un maestro del genere biografico, André Maurois, autore di due capolavori, le vite di Shelley e Disraeli, per il quale la scelta di un sogget-to da “ritrarre” rispondeva quasi sempre a un biso-gno non solo intellettuale, ma anche psicologico, in definitiva umano, cioè dettato da una curiosità non complice e tuttavia, in qualche modo, partecipe. È il motivo per cui il racconto diventa non solo interes-sante, ma anche avvincente, grazie a una narrazione affilata, dirò così, che coinvolge e trattiene il lettore. Lytton Strachey – nel suo celebre Eminenti vittoriani, inclusi i graffianti, ironici e tuttavia emozionanti ri-tratti di Florence Nightingale, la celebre missionaria laica negli ospedali di Crimea, e del generale Gordon, l’ultimo difensore di Kartum contro i dervisci – rac-

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comanda di «comprimere in poche folgoranti pagine» la complessa varietà dei caratteri personali. Anche in questo volume s’incontra una tecnica impiegata con altrettanta padronanza; come nel tracciare la vicen-da di Torquato Nanni, e del suo amico Arpinati, uno dei ras del fascismo, più volte in attrito con Mussolini perché incapace di adulazione o, se si vuole, di dut-tilità, cui toccarono cinque anni di confino, più altri cinque per il mancato ravvedimento; e il cui nome an-cora ricorre nella descrizione dell’intreccio tra le vite di Mussolini e Nicola Bombacci, compagni di scuola, amici, in seguito radicalmente divisi: Bombacci, uno dei fondatori, insieme con Gramsci, Bordiga, Togliat-ti e Terracini, del Partito comunista, quindi espulso dal partito, infine pronto a riunirsi a Mussolini nell’ul-tima disperata avventura di Salò, conclusa a Piazzale Loreto. Non aggiungerò altri esempi per non togliere sorprese alla scoperta del lettore; mi premeva, del re-sto, dare risalto al quadro su cui si collocano i quattro percorsi, collegati tra loro tanto strettamente da far pensare a un unico racconto quadripartito: il quadro è la Romagna, terra dei sempre ribelli, dove Byron, prima dell’eroica morte a Missolungi, si sentì e si disse “carbonaro”. Tutto è tracciato con vigore e cautela. Qualcuno si domanderà come in quest’opera, scritta da romagnoli su altri romagnoli, a parte qualche ci-tazione, manchi Pietro Nenni, lontanamente solidale con Mussolini fino alla comune galera di Forlì, per avere osteggiato la guerra di Libia, e poi divisi en-

trambi dall’incomunicabile spirito di libertà di quelle due “teste dure”, per dirla con Rachele Mussolini pur sapendole ormai nettamente distinguere. Gli è che il tribuno di Faenza visse fino alla caduta del fascismo, potendo salutare il ritorno della libertà e la nascita della Repubblica; in cui, leader del Psi, parlamenta-re, uomo di governo e di Stato, vide avverarsi ciò per cui aveva lottato. Quella storia, dunque, non poteva assimilarsi alla tragedia romagnola narrata in queste pagine scritte per rievocare un dramma che coinvolse vari generi di fedeltà, di fuga da se stessi, di ritorni sui propri passi. Tutto nel segno tragico di un fatale, doloroso, insanguinato tramonto.

Sergio Zavoli

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comanda di «comprimere in poche folgoranti pagine» la complessa varietà dei caratteri personali. Anche in questo volume s’incontra una tecnica impiegata con altrettanta padronanza; come nel tracciare la vicen-da di Torquato Nanni, e del suo amico Arpinati, uno dei ras del fascismo, più volte in attrito con Mussolini perché incapace di adulazione o, se si vuole, di dut-tilità, cui toccarono cinque anni di confino, più altri cinque per il mancato ravvedimento; e il cui nome an-cora ricorre nella descrizione dell’intreccio tra le vite di Mussolini e Nicola Bombacci, compagni di scuola, amici, in seguito radicalmente divisi: Bombacci, uno dei fondatori, insieme con Gramsci, Bordiga, Togliat-ti e Terracini, del Partito comunista, quindi espulso dal partito, infine pronto a riunirsi a Mussolini nell’ul-tima disperata avventura di Salò, conclusa a Piazzale Loreto. Non aggiungerò altri esempi per non togliere sorprese alla scoperta del lettore; mi premeva, del re-sto, dare risalto al quadro su cui si collocano i quattro percorsi, collegati tra loro tanto strettamente da far pensare a un unico racconto quadripartito: il quadro è la Romagna, terra dei sempre ribelli, dove Byron, prima dell’eroica morte a Missolungi, si sentì e si disse “carbonaro”. Tutto è tracciato con vigore e cautela. Qualcuno si domanderà come in quest’opera, scritta da romagnoli su altri romagnoli, a parte qualche ci-tazione, manchi Pietro Nenni, lontanamente solidale con Mussolini fino alla comune galera di Forlì, per avere osteggiato la guerra di Libia, e poi divisi en-

trambi dall’incomunicabile spirito di libertà di quelle due “teste dure”, per dirla con Rachele Mussolini pur sapendole ormai nettamente distinguere. Gli è che il tribuno di Faenza visse fino alla caduta del fascismo, potendo salutare il ritorno della libertà e la nascita della Repubblica; in cui, leader del Psi, parlamenta-re, uomo di governo e di Stato, vide avverarsi ciò per cui aveva lottato. Quella storia, dunque, non poteva assimilarsi alla tragedia romagnola narrata in queste pagine scritte per rievocare un dramma che coinvolse vari generi di fedeltà, di fuga da se stessi, di ritorni sui propri passi. Tutto nel segno tragico di un fatale, doloroso, insanguinato tramonto.

Sergio Zavoli

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Nella nostra carriera abbiamo scritto diversi libri ma, questo, è forse il più caro. È quello che, con un po’ di retorica, potrebbe essere definito il coronamento di una vita. Non vorremmo essere tentati dall’autocelebrazio-ne, ma, dopo quasi cinquant’anni di mestiere assieme e di lavoro gomito a gomito al Resto del Carlino – ci siamo conosciuti, infatti, sul finire dei ruggenti anni Sessanta, quando Giancarlo era un giovane apprendi-sta alla redazione di Forlì e Luciano un giornalista già affermato –, è stato naturale scrivere un libro a quattro mani. E non è un caso che la protagonista principale di quest’opera sia l’amicizia, un’amicizia profonda, che va al di là delle divisioni politiche e degli interessi di parte, che lega quattro uomini, i nostri moschettieri, per tutta un’esistenza (e oltre). Non è neppure un caso che il libro racconti storie vere di Romagna, la nostra terra, la terra dove l’amicizia ha ancora un senso e le passioni restano forti: entrambi siamo, infatti, originari di Santa Sofia. Se Luciano Foglietta ha sempre vissuto nel cen-tro appenninico, la mamma di Giancarlo Mazzuca, Ma-ria Naldini, era nata a Camposonaldo, una frazione di S.Sofia, nel 1916 (due anni prima il Grande Terremoto

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Nella nostra carriera abbiamo scritto diversi libri ma, questo, è forse il più caro. È quello che, con un po’ di retorica, potrebbe essere definito il coronamento di una vita. Non vorremmo essere tentati dall’autocelebrazio-ne, ma, dopo quasi cinquant’anni di mestiere assieme e di lavoro gomito a gomito al Resto del Carlino – ci siamo conosciuti, infatti, sul finire dei ruggenti anni Sessanta, quando Giancarlo era un giovane apprendi-sta alla redazione di Forlì e Luciano un giornalista già affermato –, è stato naturale scrivere un libro a quattro mani. E non è un caso che la protagonista principale di quest’opera sia l’amicizia, un’amicizia profonda, che va al di là delle divisioni politiche e degli interessi di parte, che lega quattro uomini, i nostri moschettieri, per tutta un’esistenza (e oltre). Non è neppure un caso che il libro racconti storie vere di Romagna, la nostra terra, la terra dove l’amicizia ha ancora un senso e le passioni restano forti: entrambi siamo, infatti, originari di Santa Sofia. Se Luciano Foglietta ha sempre vissuto nel cen-tro appenninico, la mamma di Giancarlo Mazzuca, Ma-ria Naldini, era nata a Camposonaldo, una frazione di S.Sofia, nel 1916 (due anni prima il Grande Terremoto

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che rase al suolo il paese), ed era lontana parente di Tor-quato Nanni, l’intellettuale del gruppo al centro di una trama che è degna di un romanzo. Per questi motivi, il nostro lavoro è dedicato alla Romagna e a tutti coloro che ci hanno sopportato per mezzo secolo. Per ora, ov-viamente, a Dio piacendo...

G.M. e L.F.

Verso la fine dell’Ottocento, in un fazzoletto del-la Romagna, un triangolo di appena una ventina di chilometri per lato, diviso a metà tra le terre ex pa-paline e quelle che avevano fatto capo ai granduchi di Toscana, nascono, nell’arco di tredici anni (1879-1892), quattro personaggi che hanno avuto un ruolo di primissimo piano nell’Italia della prima metà del Novecento. Un poker dai nomi altisonanti: Benito Mussolini da Predappio, Nicola Bombacci e Leandro Arpinati da Civitella di Romagna, Torquato Nanni da Santa Sofia di Romagna. Quattro personaggi, quattro amici, che, nel bene o nel male, hanno fatto la storia del Paese per mezzo secolo. Su di loro, a cominciare ovviamente dal duce, sono stati scritti fiumi di inchio-stro, ma nessun libro li ha finora messi in relazione assieme così strettamente. Eppure le loro vite – che si accavallano e si intrecciano, si allontanano per poi, improvvisamente e incredibilmente, ricongiungersi – hanno la stessa unica matrice. Sono tutti figli di quel socialismo anarcoide che si è imposto in Romagna a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento e che ha pro-

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che rase al suolo il paese), ed era lontana parente di Tor-quato Nanni, l’intellettuale del gruppo al centro di una trama che è degna di un romanzo. Per questi motivi, il nostro lavoro è dedicato alla Romagna e a tutti coloro che ci hanno sopportato per mezzo secolo. Per ora, ov-viamente, a Dio piacendo...

G.M. e L.F.

Verso la fine dell’Ottocento, in un fazzoletto del-la Romagna, un triangolo di appena una ventina di chilometri per lato, diviso a metà tra le terre ex pa-paline e quelle che avevano fatto capo ai granduchi di Toscana, nascono, nell’arco di tredici anni (1879-1892), quattro personaggi che hanno avuto un ruolo di primissimo piano nell’Italia della prima metà del Novecento. Un poker dai nomi altisonanti: Benito Mussolini da Predappio, Nicola Bombacci e Leandro Arpinati da Civitella di Romagna, Torquato Nanni da Santa Sofia di Romagna. Quattro personaggi, quattro amici, che, nel bene o nel male, hanno fatto la storia del Paese per mezzo secolo. Su di loro, a cominciare ovviamente dal duce, sono stati scritti fiumi di inchio-stro, ma nessun libro li ha finora messi in relazione assieme così strettamente. Eppure le loro vite – che si accavallano e si intrecciano, si allontanano per poi, improvvisamente e incredibilmente, ricongiungersi – hanno la stessa unica matrice. Sono tutti figli di quel socialismo anarcoide che si è imposto in Romagna a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento e che ha pro-

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dotto anche altre figure di spicco, a cominciare dal faentino Pietro Nenni (finito in carcere, a Forlì, con Mussolini, dopo le proteste del 1911, per la spedizio-ne italiana in Libia). I quattro imboccheranno, poi, strade diverse – chi a destra e chi a sinistra, chi fascista e chi socialista rivoluzionario poi comunista, chi fasci-sta poi pentito e chi socialista turatiano – ma si ritro-veranno, alla fine, assieme, due a due, strane coppie davvero, nel momento culminante della loro vita. Nel giro di pochi giorni, in quel drammatico e risolutivo aprile del 1945, Mussolini e Bombacci sono giustizia-ti a Dongo, Arpinati e Nanni (che aveva cercato di fare da scudo a Leandro) a Malacappa. Tutti e quattro muoiono sotto il fuoco dei partigiani.Persino Nanni, che era sempre stato socialista e che, in gioventù, aveva anche rischiato di essere ammazzato dal-le “squadracce” fasciste se non fosse intervenuto, in suo soccorso, proprio Arpinati: venti anni dopo Torquato aveva, quindi, cercato di restituire il favore, ma, questa volta, fu la fine per entrambi. Così come era andata male a Bombacci, che aveva fondato nel 1921, a Livorno, il Partito Comunista Italiano, a stretto contatto con Lenin, ed era stato preso di mira dalle camicie nere durante la Marcia su Roma. Nonostante i trascorsi bolscevichi, Ni-colino (così Mussolini chiamava confidenzialmente Ni-cola Bombacci) è finito (ingloriosamente?) a fianco di Mussolini nel momento del declino definitivo del fasci-smo, con i plumbei e drammatici giorni della Repubbli-ca Sociale di Salò.

Storie di grandi contrapposizioni, quelle dei nostri protagonisti, storie di confini e di esili, di lotte fra-tricide, di passioni intense, di duelli sanguinari, ma anche di amicizie durature, al di là delle tensioni, delle rivalità politiche e delle tragedie di quel tem-po. Come è possibile che personaggi così importanti siano nati, negli stessi anni, in un fazzoletto di terra? È stata solo un’incredibile coincidenza o lo scenario di quella Romagna, a cavallo tra i due secoli, è ri-sultato determinante nel dare l’imprinting definitivo alla “banda dei quattro”? Insomma, perché mai nel-le due valli contigue del Rabbi e del Bidente hanno vissuto, contemporaneamente, personalità che sem-brano ricalcare il modello del “superuomo” di Niet-zsche? Non è, poi, ancora più singolare il fatto che gli amici-nemici, separati nella vita, si siano ritrovati assieme nella morte? Solo uno scherzo del destino?Sangue romagnolo cercherà di dimostrare due verità. La prima è che Mussolini, Bombacci, Arpinati e Nanni, in quel determinato periodo storico, non potevano nascere in nessuna altra terra al di fuori della Romagna. Come scrive lo stesso Nanni, «per comprendere l’anima roma-gnola bisognerebbe risalire nei secoli e si desumerebbe una continuità rettilinea nei caratteri della razza. Indivi-dualismo, insofferenze di ogni oppressione, profondità di sentimenti, impulsi selvaggi di “primitivi”che non sono stati contaminati dalle lunghe dominazioni nemiche».La seconda verità è che il senso dell’amicizia fa aggio su tutto il resto, soprattutto in Romagna. Sbagliano,

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dotto anche altre figure di spicco, a cominciare dal faentino Pietro Nenni (finito in carcere, a Forlì, con Mussolini, dopo le proteste del 1911, per la spedizio-ne italiana in Libia). I quattro imboccheranno, poi, strade diverse – chi a destra e chi a sinistra, chi fascista e chi socialista rivoluzionario poi comunista, chi fasci-sta poi pentito e chi socialista turatiano – ma si ritro-veranno, alla fine, assieme, due a due, strane coppie davvero, nel momento culminante della loro vita. Nel giro di pochi giorni, in quel drammatico e risolutivo aprile del 1945, Mussolini e Bombacci sono giustizia-ti a Dongo, Arpinati e Nanni (che aveva cercato di fare da scudo a Leandro) a Malacappa. Tutti e quattro muoiono sotto il fuoco dei partigiani.Persino Nanni, che era sempre stato socialista e che, in gioventù, aveva anche rischiato di essere ammazzato dal-le “squadracce” fasciste se non fosse intervenuto, in suo soccorso, proprio Arpinati: venti anni dopo Torquato aveva, quindi, cercato di restituire il favore, ma, questa volta, fu la fine per entrambi. Così come era andata male a Bombacci, che aveva fondato nel 1921, a Livorno, il Partito Comunista Italiano, a stretto contatto con Lenin, ed era stato preso di mira dalle camicie nere durante la Marcia su Roma. Nonostante i trascorsi bolscevichi, Ni-colino (così Mussolini chiamava confidenzialmente Ni-cola Bombacci) è finito (ingloriosamente?) a fianco di Mussolini nel momento del declino definitivo del fasci-smo, con i plumbei e drammatici giorni della Repubbli-ca Sociale di Salò.

Storie di grandi contrapposizioni, quelle dei nostri protagonisti, storie di confini e di esili, di lotte fra-tricide, di passioni intense, di duelli sanguinari, ma anche di amicizie durature, al di là delle tensioni, delle rivalità politiche e delle tragedie di quel tem-po. Come è possibile che personaggi così importanti siano nati, negli stessi anni, in un fazzoletto di terra? È stata solo un’incredibile coincidenza o lo scenario di quella Romagna, a cavallo tra i due secoli, è ri-sultato determinante nel dare l’imprinting definitivo alla “banda dei quattro”? Insomma, perché mai nel-le due valli contigue del Rabbi e del Bidente hanno vissuto, contemporaneamente, personalità che sem-brano ricalcare il modello del “superuomo” di Niet-zsche? Non è, poi, ancora più singolare il fatto che gli amici-nemici, separati nella vita, si siano ritrovati assieme nella morte? Solo uno scherzo del destino?Sangue romagnolo cercherà di dimostrare due verità. La prima è che Mussolini, Bombacci, Arpinati e Nanni, in quel determinato periodo storico, non potevano nascere in nessuna altra terra al di fuori della Romagna. Come scrive lo stesso Nanni, «per comprendere l’anima roma-gnola bisognerebbe risalire nei secoli e si desumerebbe una continuità rettilinea nei caratteri della razza. Indivi-dualismo, insofferenze di ogni oppressione, profondità di sentimenti, impulsi selvaggi di “primitivi”che non sono stati contaminati dalle lunghe dominazioni nemiche».La seconda verità è che il senso dell’amicizia fa aggio su tutto il resto, soprattutto in Romagna. Sbagliano,

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per esempio, gli storici e i giornalisti che considerano Bombacci un traditore (dei comunisti) tout court. An-cora nel luglio del 2010, il direttore del Tempo, Mario Sechi, parlando del deputato finiano Fabio Granata, che aveva lasciato Berlusconi per confluire nel nuo-vo partito di Futuro e Libertà, lo ha definito “Bom-bacci”. Non da “comunista a fascista”, par di capire, ma il contrario: “da fascista a comunista”. Il motivo dell’errore è semplice: se Ciano e Grandi sono stati considerati traditori dai mussoliniani con qualche ra-gione, per Bombacci, ritenuto un rinnegato dai “ros-si”, il discorso è molto diverso. L’amicizia tra l’Uomo del destino e il collaboratore di Lenin (il quale, detto per inciso, aveva tanta stima del duce da rimproverare ai compagni italiani di essersi fatto scappare Musso-lini che Vladimir Iliyc Ulyanov considerava il miglior socialista in servizio) è durata tutta una vita, anche quando le loro strade politiche si sono divise. C’è, a questo proposito, un episodio quasi inedito, che ci ha raccontato, anni fa, Indro Montanelli (con alcune imprecisioni corrette da Annamaria Bombac-ci, nipote di Nicola) che aiuta a comprendere quale sia la differenza tra “traditori” e “nemici” che resta-no, in realtà, amici in fondo al cuore. Una storia, quel-la narrata da Cilindro, che conferma perfettamente la nostra tesi: si trattava di un legame, il loro, a pro-va di bomba. Ecco il racconto di Montanelli: siamo negli anni Trenta. Indro fa un po’ di confusione tra Luciano De Feo, suo consigliere culturale e Quin-

to Navarra, cameriere personale del duce, che poi avrebbe narrato l’episodio allo stesso Montanelli. Il collaboratore era entrato in confidenza con Mussolini perché, così come il capo del fascismo, soffriva (o fa-ceva finta di soffrire) di un’ulcera. Tra loro si era così creata una sorta di complicità sanitaria e, ogni mat-tina, quando il segretario si recava nella famosa Sala del Mappamondo per la firma della corrispondenza, i due parlavano del decorso della loro malattia: «Sta-notte, ho riposato bene, e voi?». Un giorno, l’uomo di fiducia appare particolarmente taciturno e Mussolini gli chiede le ragioni di quello strano comportamento. Il motivo, ammette l’assistente, è proprio Bombacci, il marxista romagnolo, emarginato per motivi politi-ci. La moglie di Nicola aveva, infatti, osato scrivere al duce chiedendogli, in nome dell’antica fratellan-za, un’elargizione in denaro per poter curare il figlio che era ingessato per una gravissima forma di scolio-si e doveva sottoporsi a una lunga cura riabilitativa al “Codivilla” di Cortina. L’assistente, credendo, in buona fede, di interpretare il pensiero del capo del governo, aveva spedito immediatamente a Bombacci un assegno di mille lire. A posteriori, conveniva ora, si era trattato di un errore gravissimo perché Starace, segretario del Partito Nazionale Fascista, l’aveva pla-tealmente redarguito e, per punizione, gli aveva strac-ciato la tessera del partito in mille pezzetti davanti ad altri gerarchi. Quando il collaboratore termina il rac-conto, Mussolini, rabbuiatosi in volto, lo congeda in

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per esempio, gli storici e i giornalisti che considerano Bombacci un traditore (dei comunisti) tout court. An-cora nel luglio del 2010, il direttore del Tempo, Mario Sechi, parlando del deputato finiano Fabio Granata, che aveva lasciato Berlusconi per confluire nel nuo-vo partito di Futuro e Libertà, lo ha definito “Bom-bacci”. Non da “comunista a fascista”, par di capire, ma il contrario: “da fascista a comunista”. Il motivo dell’errore è semplice: se Ciano e Grandi sono stati considerati traditori dai mussoliniani con qualche ra-gione, per Bombacci, ritenuto un rinnegato dai “ros-si”, il discorso è molto diverso. L’amicizia tra l’Uomo del destino e il collaboratore di Lenin (il quale, detto per inciso, aveva tanta stima del duce da rimproverare ai compagni italiani di essersi fatto scappare Musso-lini che Vladimir Iliyc Ulyanov considerava il miglior socialista in servizio) è durata tutta una vita, anche quando le loro strade politiche si sono divise. C’è, a questo proposito, un episodio quasi inedito, che ci ha raccontato, anni fa, Indro Montanelli (con alcune imprecisioni corrette da Annamaria Bombac-ci, nipote di Nicola) che aiuta a comprendere quale sia la differenza tra “traditori” e “nemici” che resta-no, in realtà, amici in fondo al cuore. Una storia, quel-la narrata da Cilindro, che conferma perfettamente la nostra tesi: si trattava di un legame, il loro, a pro-va di bomba. Ecco il racconto di Montanelli: siamo negli anni Trenta. Indro fa un po’ di confusione tra Luciano De Feo, suo consigliere culturale e Quin-

to Navarra, cameriere personale del duce, che poi avrebbe narrato l’episodio allo stesso Montanelli. Il collaboratore era entrato in confidenza con Mussolini perché, così come il capo del fascismo, soffriva (o fa-ceva finta di soffrire) di un’ulcera. Tra loro si era così creata una sorta di complicità sanitaria e, ogni mat-tina, quando il segretario si recava nella famosa Sala del Mappamondo per la firma della corrispondenza, i due parlavano del decorso della loro malattia: «Sta-notte, ho riposato bene, e voi?». Un giorno, l’uomo di fiducia appare particolarmente taciturno e Mussolini gli chiede le ragioni di quello strano comportamento. Il motivo, ammette l’assistente, è proprio Bombacci, il marxista romagnolo, emarginato per motivi politi-ci. La moglie di Nicola aveva, infatti, osato scrivere al duce chiedendogli, in nome dell’antica fratellan-za, un’elargizione in denaro per poter curare il figlio che era ingessato per una gravissima forma di scolio-si e doveva sottoporsi a una lunga cura riabilitativa al “Codivilla” di Cortina. L’assistente, credendo, in buona fede, di interpretare il pensiero del capo del governo, aveva spedito immediatamente a Bombacci un assegno di mille lire. A posteriori, conveniva ora, si era trattato di un errore gravissimo perché Starace, segretario del Partito Nazionale Fascista, l’aveva pla-tealmente redarguito e, per punizione, gli aveva strac-ciato la tessera del partito in mille pezzetti davanti ad altri gerarchi. Quando il collaboratore termina il rac-conto, Mussolini, rabbuiatosi in volto, lo congeda in

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modo brusco. Passano due giorni e Starace chiama a rapporto il segretario del duce: con un gran sorriso, gli consegna una tessera del PNF nuova di zecca e, con un buffetto sulla guancia, aggiunge ammiccando: «Ci avevi creduto, cretinetti, eeh!». La storiella rac-contata da Montanelli forse ci spiega, più di qualsiasi altra considerazione, per quale motivo il comunista Bombacci abbia, poi, voluto morire accanto al fascista Mussolini. Con queste premesse, il libro ha un solo scenario di fondo: “Amarcord Romagna”, cioè le ra-dici romagnole (dalla culla alla tomba) che i quattro capipopolo non recideranno mai.

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modo brusco. Passano due giorni e Starace chiama a rapporto il segretario del duce: con un gran sorriso, gli consegna una tessera del PNF nuova di zecca e, con un buffetto sulla guancia, aggiunge ammiccando: «Ci avevi creduto, cretinetti, eeh!». La storiella rac-contata da Montanelli forse ci spiega, più di qualsiasi altra considerazione, per quale motivo il comunista Bombacci abbia, poi, voluto morire accanto al fascista Mussolini. Con queste premesse, il libro ha un solo scenario di fondo: “Amarcord Romagna”, cioè le ra-dici romagnole (dalla culla alla tomba) che i quattro capipopolo non recideranno mai.

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Già all’inizio dell’Ottocento, George Byron aveva avuto modo di sperimentare, durante il suo lungo soggiorno a Ravenna, il temperamento, il sangue cal-do e la passionalità dei romagnoli (e delle romagno-le), prodromi di quel successivo terremoto politico con epicentro le valli del Bidente e del Rabbi. Ha scritto il lord inglese: «In Romagna c’è solo qualche assassinio di tanto in tanto perché ognuno ammazza o fa ammazzare chi gli pare e piace, ma questo non commuove nessuno». Parole sacrosante del grande poeta che, di lì a poco, sarebbe andato a morire a Missolungi, per la libertà della Grecia. Quella a sud del Sillaro è sempre stata, in verità, una regione tur-bolenta ma è, soprattutto, nel XIX secolo che hanno trovato terreno fertile gli scontri politici, le battaglie ideologiche, il dilagare del banditismo (leggi il Pas-satore e l’episodio dell’assalto al teatro di Forlimpo-poli nel racconto del grande “cuciniere” Pellegrino Artusi: la cena è servita!...).Chi, con occhio da esperto di lungo corso (a metà tra sociologia e politica), aveva saputo cogliere in toto i fer-menti romagnoli era stato Massimo D’Azeglio, quando ancora era un “semplice” scrittore e pittore piemonte-se, dedicando all’argomento un intero libro: Gli ultimi casi di Romagna. Secondo il futuro erede di Cavour,

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Già all’inizio dell’Ottocento, George Byron aveva avuto modo di sperimentare, durante il suo lungo soggiorno a Ravenna, il temperamento, il sangue cal-do e la passionalità dei romagnoli (e delle romagno-le), prodromi di quel successivo terremoto politico con epicentro le valli del Bidente e del Rabbi. Ha scritto il lord inglese: «In Romagna c’è solo qualche assassinio di tanto in tanto perché ognuno ammazza o fa ammazzare chi gli pare e piace, ma questo non commuove nessuno». Parole sacrosante del grande poeta che, di lì a poco, sarebbe andato a morire a Missolungi, per la libertà della Grecia. Quella a sud del Sillaro è sempre stata, in verità, una regione tur-bolenta ma è, soprattutto, nel XIX secolo che hanno trovato terreno fertile gli scontri politici, le battaglie ideologiche, il dilagare del banditismo (leggi il Pas-satore e l’episodio dell’assalto al teatro di Forlimpo-poli nel racconto del grande “cuciniere” Pellegrino Artusi: la cena è servita!...).Chi, con occhio da esperto di lungo corso (a metà tra sociologia e politica), aveva saputo cogliere in toto i fer-menti romagnoli era stato Massimo D’Azeglio, quando ancora era un “semplice” scrittore e pittore piemonte-se, dedicando all’argomento un intero libro: Gli ultimi casi di Romagna. Secondo il futuro erede di Cavour,

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i presunti “semiselvaggi” romagnoli altro non erano che amanti della libertà, arcistufi dei governi e dei papi (compreso il vescovo di Imola, Giovanni Mastai Fer-retti, che dalla Romagna salirà direttamente al soglio pontificio come Pio IX), che consideravano oppressori trincerati dietro un’intransigenza ottusa e nemica. «I casi di Romagna – precisava D’Azeglio – sono un episo-dio dell’indipendenza italiana, questione che tanto più fervidamente viene agitata nel segreto dei cuori e dei colloqui, quanto più severamente le è vietato palesarsi in liberi discorsi ed in libere dimostrazioni». D’Azeglio aveva vissuto in prima persona quei giorni intensi del 1845. Inviato a Roma, forse dallo stesso Carlo Alberto, il futuro statista raggiunse, a Rimini, quel manipolo di rivoltosi, comandati da Piero Renzi, che aveva assalito una caserma delle truppe papaline e occupato la cit-tà. Tra i cospiratori, c’erano personaggi di primo piano come Luigi Carlo Farini di Russi, anch’egli futuro col-laboratore di Cavour e presidente del Consiglio, che scriverà il Manifesto di Rimini, un vero e proprio pro-gramma del riformismo liberale inviato a tutti i sovrani europei. Ancora nulla di veramente rivoluzionario: si chiedevano solo riforme politiche ed economiche sen-za intaccare il potere assoluto dei pontefici. Scrive an-cora D’Azeglio:

«Ma se ho creduto e credo che i suoi autori non abbiano po-sto mente a quel che v’era d’impossibile, d’intempestivo, perciò d’ingiusto, nella loro impresa, ciò non vuol dire che s’abbiano a tenere per ladri e codardi, come hanno ripetuto i fogli italiani e stranieri; ed ora che sono vinti, ora che sono parte ricacciati in

esilio, parte chiusi in carcere e sottoposti a giudici, che non dirò prevaricatori, non avendo il diritto d’accusar chicchessia senza chiedere prove, ma che dirò esposti a molte tentazioni di preva-ricare, non piaccia a Dio che in tutta Italia non sia chi alzi la voce per la verità, per dirla imparzialmente a vinti e vincitori.»

Osservazioni giuste, quelle di D’Azeglio, anche per-ché, in tutta la prima metà dell’Ottocento, in Roma-gna, le proteste nascono e muoiono all’insegna del liberalismo contro la ventata di restaurazione che ha colpito l’Europa dopo la caduta di Napoleone e la pace di Vienna. Non è un caso che il nipote del gene-rale corso, Luigi Napoleone, il futuro Napoleone III, partecipi ai moti di Romagna del 1831 ed è singolare il fatto che, nel 1858, l’attentatore del principe, di-ventato imperatore, all’uscita dell’Opera di Parigi, sia proprio un romagnolo, l’anarchico Felice Orsini di Meldola. (Nicola Bombacci, altra strana coinci-denza, da bambino si era trasferito con la famiglia a Meldola dalla natia Civitella di Romagna, iniziando nella città di Orsini il suo sofferto percorso politico da anarchico-socialista).Nella seconda metà dell’Ottocento, la musica cambia in tutta Europa, Romagna compresa. Già al congres-so di Parigi del 1856, dopo la guerra di Crimea, Ca-vour propone inutilmente – lo scrive Emilio Rosetti (grande ingegnere e giramondo di Forlimpopoli) ne La Romagna (Ulrico Hoepli 1894) – di far cessare l’occupazione militare austriaca negli stati pontifici e di staccare la Romagna, formando una specie di principato vassallo. Un’idea che viene ripresa da Vit-

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i presunti “semiselvaggi” romagnoli altro non erano che amanti della libertà, arcistufi dei governi e dei papi (compreso il vescovo di Imola, Giovanni Mastai Fer-retti, che dalla Romagna salirà direttamente al soglio pontificio come Pio IX), che consideravano oppressori trincerati dietro un’intransigenza ottusa e nemica. «I casi di Romagna – precisava D’Azeglio – sono un episo-dio dell’indipendenza italiana, questione che tanto più fervidamente viene agitata nel segreto dei cuori e dei colloqui, quanto più severamente le è vietato palesarsi in liberi discorsi ed in libere dimostrazioni». D’Azeglio aveva vissuto in prima persona quei giorni intensi del 1845. Inviato a Roma, forse dallo stesso Carlo Alberto, il futuro statista raggiunse, a Rimini, quel manipolo di rivoltosi, comandati da Piero Renzi, che aveva assalito una caserma delle truppe papaline e occupato la cit-tà. Tra i cospiratori, c’erano personaggi di primo piano come Luigi Carlo Farini di Russi, anch’egli futuro col-laboratore di Cavour e presidente del Consiglio, che scriverà il Manifesto di Rimini, un vero e proprio pro-gramma del riformismo liberale inviato a tutti i sovrani europei. Ancora nulla di veramente rivoluzionario: si chiedevano solo riforme politiche ed economiche sen-za intaccare il potere assoluto dei pontefici. Scrive an-cora D’Azeglio:

«Ma se ho creduto e credo che i suoi autori non abbiano po-sto mente a quel che v’era d’impossibile, d’intempestivo, perciò d’ingiusto, nella loro impresa, ciò non vuol dire che s’abbiano a tenere per ladri e codardi, come hanno ripetuto i fogli italiani e stranieri; ed ora che sono vinti, ora che sono parte ricacciati in

esilio, parte chiusi in carcere e sottoposti a giudici, che non dirò prevaricatori, non avendo il diritto d’accusar chicchessia senza chiedere prove, ma che dirò esposti a molte tentazioni di preva-ricare, non piaccia a Dio che in tutta Italia non sia chi alzi la voce per la verità, per dirla imparzialmente a vinti e vincitori.»

Osservazioni giuste, quelle di D’Azeglio, anche per-ché, in tutta la prima metà dell’Ottocento, in Roma-gna, le proteste nascono e muoiono all’insegna del liberalismo contro la ventata di restaurazione che ha colpito l’Europa dopo la caduta di Napoleone e la pace di Vienna. Non è un caso che il nipote del gene-rale corso, Luigi Napoleone, il futuro Napoleone III, partecipi ai moti di Romagna del 1831 ed è singolare il fatto che, nel 1858, l’attentatore del principe, di-ventato imperatore, all’uscita dell’Opera di Parigi, sia proprio un romagnolo, l’anarchico Felice Orsini di Meldola. (Nicola Bombacci, altra strana coinci-denza, da bambino si era trasferito con la famiglia a Meldola dalla natia Civitella di Romagna, iniziando nella città di Orsini il suo sofferto percorso politico da anarchico-socialista).Nella seconda metà dell’Ottocento, la musica cambia in tutta Europa, Romagna compresa. Già al congres-so di Parigi del 1856, dopo la guerra di Crimea, Ca-vour propone inutilmente – lo scrive Emilio Rosetti (grande ingegnere e giramondo di Forlimpopoli) ne La Romagna (Ulrico Hoepli 1894) – di far cessare l’occupazione militare austriaca negli stati pontifici e di staccare la Romagna, formando una specie di principato vassallo. Un’idea che viene ripresa da Vit-

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torio Emanuele II all’inizio del 1859: Pio IX respin-ge senza indugi la proposta ritenendola «poco degna di un principe cattolico». Ma la situazione è ormai senza ritorno per la Chiesa: la Provvidenza non può nulla contro i rivolgimenti che stanno per esplode-re. Già nel 1859 le cosiddette “quattro delegazioni di Romagna” avevano mandato al diavolo i papalini, obbligandoli a trincerarsi nelle Marche. Il Governo provvisorio, guidato da Luigi Carlo Farini, aveva poi proclamato la dittatura di Vittorio Emanuele, incari-cando il generale Garibaldi di vigilare sui nuovi con-fini. L’Eroe dei due mondi amava e conosceva per-fettamente la Romagna sin dal 1849, quando, dopo la caduta della Repubblica Romana, si era rifugia-to nella libera San Marino trovando poi la salvezza (ma la moglie Anita era morta durante la fuga) oltre l’Appennino con l’aiuto del sacerdote don Giovanni Verità di Modigliana e dei coraggiosi romagnoli che, a rischio delle loro vite, si erano impegnati nella tra-fila per scortarlo al sicuro. Nel settembre del 1859, si era dunque svolto il plebiscito e la Romagna, as-sieme all’Emilia, si era unita al Piemonte e al nuovo Regno d’Italia anche se l’annessione, soprattutto per l’opposizione di Napoleone III (sì, proprio lo stesso dei moti del ’31...) venne dichiarata solo l’11-12 mar-zo 1860 assieme a quella della Toscana.La fine del potere temporale dei papi e la proclama-zione del Regno d’Italia non attenuano, anzi aumenta-no, il forte anticlericalismo che si respira in Romagna

e che interessa anche quelle zone della fascia montana appartenenti ai granduchi di Toscana. Nella seconda metà dell’Ottocento si moltiplicano, così, giornali e giornaletti “mangiapreti”, come più tardi sarà La Sco-pa, edito e diretto da Torquato Nanni, che aveva come sottotitolo: “Giornale anticlericale della Romagna ap-penninica”. Come rileva Lorenzo Bedeschi (che era un sacerdote...) quel giornalismo poteva soddisfare i palati popolari, ma anche quelli più esigenti, e si dif-ferenziava da quello dell’ Avanti! che, in quegli anni, si attardava piuttosto sui processi dei cosiddetti preti immorali (una campagna ante-litteram rispetto a quel-la, a livello mondiale, che è andata in onda, in pieno ventunesimo secolo, contro i preti pedofili). Le cro-ciate anticlericali di tanti capipopolo e, in particolare, di Nanni – chiaramente influenzato dalle idee del suo amico Giuseppe Prezzolini –, erano, dunque, indi-rizzate contro le gerarchie ecclesiastiche e contro gli squaciarël, i cattolici più bigotti, anche se Torquato e i suoi compagni non erano completamente atei perché, con le dovute eccezioni, non avevano del tutto smar-rito i sentimenti religiosi. Per i cattolici romagnoli più intransigenti, la politica era, comunque, diventata un tormento. Veniero Cattani (Rappresaglia, Marsi-lio 1997) ci racconta di un gustoso episodio che ha, come teatro, proprio Santa Sofia: il giornale di Nan-ni si era talmente attirato le critiche della Santa Sede che il Vaticano aveva deciso di mandare un visitatore apostolico sull’Appennino tosco-romagnolo. La rela-

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torio Emanuele II all’inizio del 1859: Pio IX respin-ge senza indugi la proposta ritenendola «poco degna di un principe cattolico». Ma la situazione è ormai senza ritorno per la Chiesa: la Provvidenza non può nulla contro i rivolgimenti che stanno per esplode-re. Già nel 1859 le cosiddette “quattro delegazioni di Romagna” avevano mandato al diavolo i papalini, obbligandoli a trincerarsi nelle Marche. Il Governo provvisorio, guidato da Luigi Carlo Farini, aveva poi proclamato la dittatura di Vittorio Emanuele, incari-cando il generale Garibaldi di vigilare sui nuovi con-fini. L’Eroe dei due mondi amava e conosceva per-fettamente la Romagna sin dal 1849, quando, dopo la caduta della Repubblica Romana, si era rifugia-to nella libera San Marino trovando poi la salvezza (ma la moglie Anita era morta durante la fuga) oltre l’Appennino con l’aiuto del sacerdote don Giovanni Verità di Modigliana e dei coraggiosi romagnoli che, a rischio delle loro vite, si erano impegnati nella tra-fila per scortarlo al sicuro. Nel settembre del 1859, si era dunque svolto il plebiscito e la Romagna, as-sieme all’Emilia, si era unita al Piemonte e al nuovo Regno d’Italia anche se l’annessione, soprattutto per l’opposizione di Napoleone III (sì, proprio lo stesso dei moti del ’31...) venne dichiarata solo l’11-12 mar-zo 1860 assieme a quella della Toscana.La fine del potere temporale dei papi e la proclama-zione del Regno d’Italia non attenuano, anzi aumenta-no, il forte anticlericalismo che si respira in Romagna

e che interessa anche quelle zone della fascia montana appartenenti ai granduchi di Toscana. Nella seconda metà dell’Ottocento si moltiplicano, così, giornali e giornaletti “mangiapreti”, come più tardi sarà La Sco-pa, edito e diretto da Torquato Nanni, che aveva come sottotitolo: “Giornale anticlericale della Romagna ap-penninica”. Come rileva Lorenzo Bedeschi (che era un sacerdote...) quel giornalismo poteva soddisfare i palati popolari, ma anche quelli più esigenti, e si dif-ferenziava da quello dell’ Avanti! che, in quegli anni, si attardava piuttosto sui processi dei cosiddetti preti immorali (una campagna ante-litteram rispetto a quel-la, a livello mondiale, che è andata in onda, in pieno ventunesimo secolo, contro i preti pedofili). Le cro-ciate anticlericali di tanti capipopolo e, in particolare, di Nanni – chiaramente influenzato dalle idee del suo amico Giuseppe Prezzolini –, erano, dunque, indi-rizzate contro le gerarchie ecclesiastiche e contro gli squaciarël, i cattolici più bigotti, anche se Torquato e i suoi compagni non erano completamente atei perché, con le dovute eccezioni, non avevano del tutto smar-rito i sentimenti religiosi. Per i cattolici romagnoli più intransigenti, la politica era, comunque, diventata un tormento. Veniero Cattani (Rappresaglia, Marsi-lio 1997) ci racconta di un gustoso episodio che ha, come teatro, proprio Santa Sofia: il giornale di Nan-ni si era talmente attirato le critiche della Santa Sede che il Vaticano aveva deciso di mandare un visitatore apostolico sull’Appennino tosco-romagnolo. La rela-

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zione dell’ispettore, monsignor Cordella, vescovo di Sovana e di Pitigliano, datata 1909 e pubblicata dalla tipografia vaticana, è molto dura ma, a leggerla, fa un po’ sorridere perché scritta in un latino davvero mac-cheronico: «In paroecia (Santa Sofia) quam maxime floret sodalicium socialistorum et athea ephemeris quae bis quoque mense prodit, cuius lectio fidelibus sub gra-vi prohibenda est». Insomma, bisognava fare pulizia cominciando, quasi paradossalmente, dalla Scopa di Torquato. Solo con la Rerum novarum di Leone XIII, il mondo cattolico sembra finalmente in grado di ri-svegliarsi, sotto la spinta di don Giovanni Ravaglia e di Eligio Cacciaguerra di Cesena, ma la parentesi sarà di breve durata: con lo scioglimento dell’Opera dei Congressi da parte di Pio X e con la successiva con-danna del Modernismo, tutto tornerà come prima. Di pari passo, con l’anticlericalismo dilagante, era anche cresciuta l’influenza del socialismo nelle due Romagne (quella toscana e quella ex pontificia) ma la diffusione, almeno agli inizi, non era stata al-trettanto rapida, perché contrastava con gli ideali repubblicani già ben radicati in queste terre. Era, quello, il tempo in cui anche il movimento anar-chico, con una forte presenza nelle valli del Rab-bi e del Bidente, aveva cominciato ad abbraccia-re alcune idee socialiste, portate avanti dal partito fondato nel 1892, l’anno della nascita di Leandro Arpinati e del ripristino del sistema elettorale a suf-fragio uninominale. Al voto di quell’anno, i liberali

prevalgono ancora in Emilia-Romagna con 26 de-putati rispetto ai 13 eletti dall’alleanza di sinistra (radicali, socialisti e repubblicani). Ma già nel 1895 la differenza si attenua: i liberali ottengono 25 de-putati mentre la sinistra ne conquista 14 (6 radicali, 6 socialisti e 2 repubblicani).Soltanto nell’ultimo decennio del XIX secolo, gra-zie alla maggior presa sugli strati popolari delle idee collettivistiche, l’escalation socialista diventa quasi vertiginosa. Via via che si avvicina la fine del secolo, la Romagna accentua i connotati politici tendenti al “rosso” sulla scia dell’espansione a tappe forzate del-le nuove organizzazioni operaie e contadine – precisa Luigi Lotti, allievo di Giovanni Spadolini e faentino – e della crescente delusione della popolazione nei confronti dei governi che si avvicendano dall’Unità d’Italia in poi, sia quelli della Destra storica, sia quelli della Sinistra trasformista. Un malessere post-unitario alimentato, come scrive Corrado Stajano, «da una po-vertà oggi inimmaginabile, tra fame, analfabetismo, malattie – la pellagra, la tubercolosi –, dove la rivolta ebbe realistiche motivazioni». Un disagio che talvolta è capace di rimettere assieme mazziniani-repubblica-ni e socialisti schierati contro la Chiesa anche dopo la fine del potere temporale dei papi. È il caso dei fune-rali a Modigliana, il 3 dicembre 1885, di don Giovan-ni Verità, il sacerdote della trafila garibaldina. Scrive proprio Spadolini in Romagna vicende e protagonisti: «Il funerale si svolse con l’assenza di ogni segno di

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zione dell’ispettore, monsignor Cordella, vescovo di Sovana e di Pitigliano, datata 1909 e pubblicata dalla tipografia vaticana, è molto dura ma, a leggerla, fa un po’ sorridere perché scritta in un latino davvero mac-cheronico: «In paroecia (Santa Sofia) quam maxime floret sodalicium socialistorum et athea ephemeris quae bis quoque mense prodit, cuius lectio fidelibus sub gra-vi prohibenda est». Insomma, bisognava fare pulizia cominciando, quasi paradossalmente, dalla Scopa di Torquato. Solo con la Rerum novarum di Leone XIII, il mondo cattolico sembra finalmente in grado di ri-svegliarsi, sotto la spinta di don Giovanni Ravaglia e di Eligio Cacciaguerra di Cesena, ma la parentesi sarà di breve durata: con lo scioglimento dell’Opera dei Congressi da parte di Pio X e con la successiva con-danna del Modernismo, tutto tornerà come prima. Di pari passo, con l’anticlericalismo dilagante, era anche cresciuta l’influenza del socialismo nelle due Romagne (quella toscana e quella ex pontificia) ma la diffusione, almeno agli inizi, non era stata al-trettanto rapida, perché contrastava con gli ideali repubblicani già ben radicati in queste terre. Era, quello, il tempo in cui anche il movimento anar-chico, con una forte presenza nelle valli del Rab-bi e del Bidente, aveva cominciato ad abbraccia-re alcune idee socialiste, portate avanti dal partito fondato nel 1892, l’anno della nascita di Leandro Arpinati e del ripristino del sistema elettorale a suf-fragio uninominale. Al voto di quell’anno, i liberali

prevalgono ancora in Emilia-Romagna con 26 de-putati rispetto ai 13 eletti dall’alleanza di sinistra (radicali, socialisti e repubblicani). Ma già nel 1895 la differenza si attenua: i liberali ottengono 25 de-putati mentre la sinistra ne conquista 14 (6 radicali, 6 socialisti e 2 repubblicani).Soltanto nell’ultimo decennio del XIX secolo, gra-zie alla maggior presa sugli strati popolari delle idee collettivistiche, l’escalation socialista diventa quasi vertiginosa. Via via che si avvicina la fine del secolo, la Romagna accentua i connotati politici tendenti al “rosso” sulla scia dell’espansione a tappe forzate del-le nuove organizzazioni operaie e contadine – precisa Luigi Lotti, allievo di Giovanni Spadolini e faentino – e della crescente delusione della popolazione nei confronti dei governi che si avvicendano dall’Unità d’Italia in poi, sia quelli della Destra storica, sia quelli della Sinistra trasformista. Un malessere post-unitario alimentato, come scrive Corrado Stajano, «da una po-vertà oggi inimmaginabile, tra fame, analfabetismo, malattie – la pellagra, la tubercolosi –, dove la rivolta ebbe realistiche motivazioni». Un disagio che talvolta è capace di rimettere assieme mazziniani-repubblica-ni e socialisti schierati contro la Chiesa anche dopo la fine del potere temporale dei papi. È il caso dei fune-rali a Modigliana, il 3 dicembre 1885, di don Giovan-ni Verità, il sacerdote della trafila garibaldina. Scrive proprio Spadolini in Romagna vicende e protagonisti: «Il funerale si svolse con l’assenza di ogni segno di

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cattolicità, ma con decine di labari democratici, di stendardi massonici, di bandiere repubblicane, di ves-silli delle società operaie. Centinaia di camicie rosse intrecciate coi ritratti di Mazzini a prevalente sfondo nero, quasi a ricomporre le polemiche fra i due padri del Risorgimento popolare e democratico».Alla delusione post-unitaria seguono l’irritazione, lo scontento, persino la rivolta. Il prestito nazionale for-zoso, la tassa sul macinato, le leggi elettorali antiquate e discriminatorie, la poca libertà amministrativa con-cessa agli enti locali (c’era già voglia di federalismo fiscale...) e la miseria endemica sono i tanti campanelli d’allarme che Roma non riesce a cogliere. E, soprat-tutto in Romagna, accade un fatto strano: tanti “re-duci” risorgimentali (garibaldini, mazziniani, liberali) cominciano a tingersi di rosso. Le dottrine positiviste avevano fatto presa e gli idoli della gioventù proletaria non erano più Garibaldi e Bixio, ma Carlo Marx e l’anarchico Errico Malatesta. Dapprima erano dilagate le dottrine elaborate dal fi-losofo francese Proudhon che rifiutava ogni tipo di potere al di sopra dell’individuo, poi quelle divul-gate dal tedesco Max Stirner e dal libertario russo Pëtr Kropoktin, l’amico di Bakunin che, assieme a Cafiero, aveva rilanciato, soprattutto in Romagna, le idee anarchiche. Tali idee, ben amalgamate con certi principi del nascente socialismo dell’imolese Andrea Costa, spingono contadini e operai a staccarsi sempre di più dal partito repubblicano e a sposare

l’estremismo libertario. Le tensioni deflagrano nei fat-ti di Villa San Michele di Ravenna, dove la battaglia tra due squadre di socialisti e di repubblicani pro-voca cinque morti, così come sfociano nel processo del “delitto Battistini”, il dirigente socialista cesenate ucciso nel 1891 dal sicario di un manipolo di repub-blicani. Riesplode un clima di violenza che è dipin-to dai giornali dell’epoca forse in modo esagerato. Il sociologo positivista Guglielmo Ferrero era convinto che la Romagna, a cavallo dei due secoli, fosse una società violenta e affaristica, soprattutto nei rappor-ti pubblici, dove i ceti si confondevano senza distin-zione di classe: «In molti punti la cancrena affaristica ha infettato profondamente il bel corpo della forte e selvaggia Romagna». In questo clima di violenza e di povertà i quattro moschettieri romagnoli muovono i primi passi nella politica.

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cattolicità, ma con decine di labari democratici, di stendardi massonici, di bandiere repubblicane, di ves-silli delle società operaie. Centinaia di camicie rosse intrecciate coi ritratti di Mazzini a prevalente sfondo nero, quasi a ricomporre le polemiche fra i due padri del Risorgimento popolare e democratico».Alla delusione post-unitaria seguono l’irritazione, lo scontento, persino la rivolta. Il prestito nazionale for-zoso, la tassa sul macinato, le leggi elettorali antiquate e discriminatorie, la poca libertà amministrativa con-cessa agli enti locali (c’era già voglia di federalismo fiscale...) e la miseria endemica sono i tanti campanelli d’allarme che Roma non riesce a cogliere. E, soprat-tutto in Romagna, accade un fatto strano: tanti “re-duci” risorgimentali (garibaldini, mazziniani, liberali) cominciano a tingersi di rosso. Le dottrine positiviste avevano fatto presa e gli idoli della gioventù proletaria non erano più Garibaldi e Bixio, ma Carlo Marx e l’anarchico Errico Malatesta. Dapprima erano dilagate le dottrine elaborate dal fi-losofo francese Proudhon che rifiutava ogni tipo di potere al di sopra dell’individuo, poi quelle divul-gate dal tedesco Max Stirner e dal libertario russo Pëtr Kropoktin, l’amico di Bakunin che, assieme a Cafiero, aveva rilanciato, soprattutto in Romagna, le idee anarchiche. Tali idee, ben amalgamate con certi principi del nascente socialismo dell’imolese Andrea Costa, spingono contadini e operai a staccarsi sempre di più dal partito repubblicano e a sposare

l’estremismo libertario. Le tensioni deflagrano nei fat-ti di Villa San Michele di Ravenna, dove la battaglia tra due squadre di socialisti e di repubblicani pro-voca cinque morti, così come sfociano nel processo del “delitto Battistini”, il dirigente socialista cesenate ucciso nel 1891 dal sicario di un manipolo di repub-blicani. Riesplode un clima di violenza che è dipin-to dai giornali dell’epoca forse in modo esagerato. Il sociologo positivista Guglielmo Ferrero era convinto che la Romagna, a cavallo dei due secoli, fosse una società violenta e affaristica, soprattutto nei rappor-ti pubblici, dove i ceti si confondevano senza distin-zione di classe: «In molti punti la cancrena affaristica ha infettato profondamente il bel corpo della forte e selvaggia Romagna». In questo clima di violenza e di povertà i quattro moschettieri romagnoli muovono i primi passi nella politica.

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