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Santi Laici

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Questo libro è un compendio della nostra memoria collettiva. I Santi Laici sono esempi pericolosi che il sistema si affretta a dimenticare. Quando non ci riesce li celebra come modelli inarrivabili, eccezioni da ammirare ma non modelli da seguire. Anche se non si può imitarli, si deve ricordarli: ci spronano a costruire un domani in cui simili sacrifici non siano più necessari.

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Francesco rossiColpito da un proiettile destinato a un pregiudicato

di mafia mentre gioca a carte. Muore il 2 gennaio 2005.

c apita di avere una grande passione – la squa-dra di calcio di Sant’Anastasia, in provincia di Napoli – e di frequentare quasi tutti i giorni il

circolo ricreativo del paese, quello che una volta era la sede della società sportiva. Capita di fermarsi a giocare a carte con i vecchi amici, o magari con qualcuno che è soltanto di passaggio. Capita spesso a Francesco Ros-si, non sposato, che tutti chiamano «fravulella». È un tipo basso e molto robusto, lavora in un caseificio della zona, ma soprattutto è il capo tifoseria della squadra locale. Il pomeriggio del 28 dicembre 2004 si trova al solito circolo per una partita a maniglia, un tipico gioco di carte napoletano. Di fianco a lui, fra i compagni di tavolo, c’è il pregiudicato Vincenzo Mauri, che invece frequenta il posto di rado. Si sente così sicuro che non si è portato nessun guardaspalle, forse perché la for-tuna lo ha abituato bene, e lo ha già salvato da alcuni attentati. Con le cattive riesce sempre ad avere ragione e, si dice, bastona chi non è d’accordo con lui.

È quasi sera quando due killer sopraggiungono su una moto e gli sparano: Mauri muore sul colpo. Sulla traiettoria dei proiettili c’è anche Francesco Rossi: viene colpito al polmone e trasportato d’urgenza all’ospedale. L’intervento non basta: dopo un’agonia di cinque giorni, muore il 2 gennaio 2005. L’anno precedente, nella sola Campania ci sono stati più di 130 omicidi, di cui almeno un centinaio legati a faide di camorra.

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accursio MiraGliaSindacalista, si batte per i diritti dei contadini di Sciacca.

Ucciso dalla mafia in un agguato il 4 gennaio del 1947.

a ccursio Miraglia è molto amato nel suo paese dell’agrigentino, Sciacca. Ha una piccola indu-stria per la conservazione ittica, amministra una

fornace che produce mattoni, dirige l’ospedale e il tea-tro locali, sostiene l’orfanotrofio dei marinai e riforni-sce ogni giorno di pesce fresco la mensa dei poveri. È anche il segretario della Camera del lavoro, dove inse-gna ai contadini a leggere e a scrivere. Si fa un punto d’onore nello spiegare loro anche il codice di procedu-ra civile, perché vuole che si muovano dentro la legali-tà per rivendicare i propri diritti. «La forza dell’uomo civile è la legge, quella del mafioso la brutalità» dice durante il suo ultimo comizio da sindacalista.

In gioventù è stato un anarchico, tanto che la banca milanese dove lavorava l’aveva licenziato per «incompa-tibilità politica». Durante la guerra entra nel Fronte di li-berazione nazionale e si avvicina al Partito comunista, di cui diventa dirigente. Il suo primo impegno è ottenere la ridistribuzione delle terre attraverso la cooperativa Terra madre. Il 19 ottobre 1944 il governo di unità nazionale di Ivanoe Bonomi approva i cosiddetti «decreti Gullo», dal nome del ministro per l’Agricoltura, che ridefinisco-no le quote spettanti a proprietari e mezzadri e autoriz-zano la concessione ai contadini delle terre incolte, mal coltivate o sequestrate ai fascisti.

La Sicilia è piena di latifondi improduttivi, quasi la metà delle terre appartiene ai «baroni»: le rese per et-

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taro fruttano meno di quanto potrebbero, ma le enormi estensioni sono il simbolo concreto del potere di una classe dirigente intoccabile. Pur di difendere la fonte della ricchezza e del prestigio, i proprietari non esitano ad assumere affiliati della mafia come amministratori e campieri, pronti a spaventare ed eliminare gli oppositori.

Nel settembre 1946 Miraglia organizza la famosa «ca-valcata», una manifestazione pacifica che reclama l’ef-fettiva ridistribuzione delle terre. Impone a tutti di de-porre qualunque arma e si mette alla testa di un corteo di diecimila contadini del circondario, che attraversa il paese e chiede l’applicazione dei decreti. Poco dopo, il tribunale inizia a concedere gli appezzamenti alla coo-perativa e Miraglia riceve i primi avvertimenti mafiosi. Gli consigliano di lasciar perdere. Lui comincia a girare con una pistola in tasca e continua per la sua strada. Da tempo il suo motto è «Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio». Lo ha letto in Per chi suona la campana di Ernest Hemingway; ci crede talmente che lo ha fatto dipingere sul muro della Camera del lavoro.

La sera del 4 gennaio 1947 tre uomini aspettano Mi-raglia davanti a casa. Quando lo vedono rientrare dalla consueta riunione politica, sparano. Muore a 51 anni fra le braccia della moglie Tatiana. La donna, un’ex balleri-na di rivista, è figlia di un cugino dello zar, è di origine russa e parla male l’italiano. Si ritrova improvvisamente a dover gestire l’attività del marito – oltre ai tre figli – di cui non capisce nulla.

Per tre giorni il corpo di Miraglia viene esposto all’ospedale del paese e per altri tre alla Camera del lavo-ro, tante sono le persone che vogliono rendergli omaggio. In tutta Italia gli operai interrompono l’attività per alcuni

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minuti. L’11 gennaio si tengono i funerali, ma il parroco rifiuta di officiarli in chiesa: si tratta pur sempre di un morto ammazzato, e per di più comunista. All’ingresso del cimitero, quando comincia a cadere una pioggia leg-gera, un vecchio del paese commenta: «Un ti vosiru beni-diciri l’omini, ma ti binidiciu Diu».

Il giorno stesso la polizia esegue i primi arresti: un testimone ha indicato tra gli esecutori il bracciante Ca-logero Curreri. I mandanti sarebbero il cavalier Enri-co Rossi e il suo amministratore Carmelo Di Stefano, ritenuto il capo della mafia locale. Già in febbraio le accuse cadono per insufficienza di prove. Le indagini riprendono, anche su pressione dei deputati comuni-sti Girolamo Li Causi e Giuseppe Montalbano. Viene arrestato di nuovo Curreri, insieme a Pellegrino Mar-ciante e Bartolo Oliva: i primi due ammettono di essere stati ingaggiati dal cavalier Rossi e da altri due latifon-disti, Vella e Pasciuti. Poco dopo ritrattano tutto e anzi dichiarano che la confessione è stata estorta sotto tor-tura. Il crimine resta impunito.

L’ultima pista emerge nel 1969, quando muore il de-putato siciliano Antonio Ramirez. Il figlio ritrova tra le sue carte una busta sigillata da consegnare all’onorevole Montalbano: secondo questa versione, dietro l’omicidio ci sarebbero stati due deputati monarchici, gli stessi che hanno voluto la strage di Portella della Ginestra (vd. 1° maggio 1947). Il tribunale ritiene però che non ci siano elementi nuovi per riaprire le indagini.

L’omicidio di Accursio Miraglia ha ispirato Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia.

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vittiMe della straGe del Pilastro

Il 4 gennaio del 1991 i carabinieri Mitilini, Moneta e Stefanini si imbattono nella banda della Uno bianca

e vengono uccisi.

M auro Mitilini e Andrea Moneta hanno 21 anni, Otello Stefanini uno in più. Sono i tre carabinieri di pattuglia nel quartiere Pilastro di Bologna il 4

gennaio 1991. Con il suo primo stipendio, Moneta si è re-galato una Polo; ne è molto orgoglioso e ha voluto assolu-tamente rientrare a Bologna, dopo un permesso, in auto. Se avesse preso il treno non sarebbe stato messo nel turno serale al Pilastro. Un giro di sorveglianza non fa mai male, soprattutto da quando qualche mese prima si era verifi-cato un principio di incendio doloso in un ricovero per extracomunitari. Ma la serata è tranquilla e i carabinieri si fermano a parlare con alcuni agenti della polizia, poi riprendono la strada e lungo via Casini superano un’auto di colore chiaro. È una Uno bianca, diretta a San Lazzaro di Savena alla ricerca di una macchina da rubare per il prossimo colpo, ma i carabinieri non possono immaginar-lo. Gli occupanti della Fiat invece sono sospettosi, temo-no che quel normalissimo sorpasso sia una manovra per prendere il numero di targa. Meglio non correre rischi: si affiancano alla volante e Roberto Savi, il capo della banda, inizia a sparare. Otello Stefanini, alla guida, viene ferito subito; innesta comunque la marcia e tenta la fuga, finen-do contro i cassonetti della spazzatura.

Mitilini e Moneta provano a reagire, escono dall’auto, rispondono al fuoco e feriscono Fabio Savi, ma non riesco-

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no a salvarsi. In pochi istanti sono investiti da una pioggia di proiettili che li stende. Per precauzione gli assassini li finiscono con un colpo alla nuca sparato da vicino.

Andrea Moneta e Otello Stefanini ricevono la meda-glia d’oro al valor civile per aver tentato di reagire all’ag-gressione.

La banda della Uno bianca verrà identificata solo quattro anni dopo. I fratelli Alberto, Roberto e Fabio Savi – un ex poliziotto e due agenti ancora in servizio – sono condannati all’ergastolo. Appartengono alle forze dell’ordine anche i membri minori della banda: Marino Occhipinti, Pietro Gugliotta e Luca Vallicelli. Il primo riceve una condanna a vita mentre gli altri due sono or-mai in libertà.

salvatore aversa lucia Precenzano

Poliziotto irreprensibile, il 4 gennaio 1992 viene ucciso insieme alla moglie a colpi di pistola.

s alvatore Aversa è sovrintendente capo della poli-zia di Lamezia Terme. È un bravo poliziotto, co-scienzioso, affidabile e determinato; in commissa-

riato lo considerano la memoria storica perché conosce bene le vicende della ’ndrangheta calabrese e i suoi vari intrecci. A un anno dalla pensione si è messo a indagare sulle cosche Torcasio e Giampà e ha pronto un dossier che potrebbe portare al sequestro dei beni dei boss.

Il 4 gennaio 1992 accompagna la moglie Lucia Pre-cenzano, 55 anni, a fare compere in centro. È ormai sera,

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la coppia sta per salire in auto quando due uomini a viso scoperto si avvicinano e colpiscono Aversa alle spalle. La donna, che ha tentato di abbracciare e proteggere il ma-rito, ha visto in faccia i due sicari e non può essere rispar-miata: viene presa in pieno petto. Lui muore all’istante, lei in ospedale.

Una supertestimone identifica come sicari l’ex fi-danzato e un amico; viene inserita in un programma di protezione e riceve una medaglia d’oro al valore civile. L’accusa, che porta alla condanna dei due imputati, si ri-vela poi falsa e le indagini devono ripartire da capo. Solo nel 2001 emergono i nomi dei veri esecutori: Salvatore Chirico e Stefano Speciale, entrambi affiliati della Sacra corona unita. Hanno agito in Calabria su commissione, per saldare un debito di 60 milioni di lire. I mandanti sono i boss storici della ’ndrangheta di Lamezia, distur-bati dalle ultime indagini di Aversa e decisi a un’azione dimostrativa contro un poliziotto irreprensibile.

Non paghi dell’omicidio, i capicosca aggiungono lo sfregio: il 19 marzo 1992 assoldano due tossicodipen-denti per profanare le tombe del poliziotto e della mo-glie. Il giorno dopo il nipote trova i loculi sfondati e le bare bruciate.

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Gerardo d’arMinioMaresciallo dei carabinieri, viene ucciso nel centro

di Afragola il 5 gennaio 1976.

G erardo D’Arminio è un maresciallo dei carabinie-ri. Si è già distinto durante il servizio in alcune operazioni rischiose, tanto da ottenere una pro-

mozione sul campo. Da un anno è a capo della caserma di Afragola, in provincia di Napoli. Arrivato da poco, ha già compiuto quindici arresti e più di duecento denunce e perquisizioni. Da ultimo conduce indagini sui rapporti tra la malavita campana, calabrese e siciliana per il traffi-co di droga, che lo portano a investigare sul clan Moccia. Il 5 gennaio 1976 viene ucciso nella piazza principale di Afragola, da killer armati di fucile. Ha 36 anni e tre figli, Anna, Carmine e Marco.

Confessa l’omicidio Vincenzo Moccia, che sconterà una pena di undici anni e verrà ucciso poco dopo il rilascio. Giuseppe D’Arminio ha ricevuto una medaglia d’argento al valor militare.

GiusePPe FavaGiornalista, scrittore, drammaturgo. Freddato dalla mafia

il 5 gennaio 1984.

«P ippo» Fava nasce vicino a Siracusa, a Palazzolo Acreide, il 15 settembre 1925. Inizia gli studi di Giurisprudenza a Ca-

tania nel ’43, poco dopo l’arrivo degli Alleati sull’isola.

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Diventa giornalista, e collabora con testate di spicco, anche nel nord Italia, fino all’incarico di caporedattore dell’«Espresso sera» durato fino al 1980. È un eclettico, scrive delle sue passioni, dallo sport al cinema. È autore di drammi teatrali che porta in giro per l’Italia, conduce una trasmissione su Radiorai, e pubblica un romanzo, Passione di Michele, di cui scrive anche la sceneggiatura per l’adattamento cinematografico Palermo o Wolfsburg, che vince l’Orso d’oro a Berlino nel 1980. Nella primave-ra di quell’anno gli viene affidata la direzione del «Gior-nale del Sud»: arruola una schiera di giovani cronisti, e con loro persegue l’ideale di un giornalismo di inchiesta, al servizio della verità e della giustizia, fin nei meandri di Cosa nostra. Tutto fila liscio, fino a che la redazione di giovani coraggiosi capeggiati da Pippo deve fare marcia indietro. Si sono spinti troppo in là, da quando si sono schierati contro la costruzione di una base missilistica nei dintorni, e hanno inneggiato all’arresto del boss Al-fio Ferlito.

Un gruppo di editori e imprenditori prende il so-pravvento e rileva la testata: sono legati a «Nitto» San-tapaola, che vuole dettare legge una volta per tutte. Quando viene organizzato un attentato per colpire la rivista, e viene sequestrata la prima pagina dell’indo-mani perché la notizia non si diffonda, la redazione organizza uno sciopero, e Fava è licenziato. Ma non si dà per vinto. Fonda Radar, cooperativa con la qua-le autofinanzia un nuovo progetto editoriale, la rivista «I Siciliani». Il primo numero è del novembre 1982, e diventa subito una bandiera della lotta alla mafia. Interviste, inchieste e denunce iniziano a infastidire il clan di Santapaola, boss ammanicato col malaffare

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della zona, ritratto in fotografie insieme a politici e uo-mini in divisa. Quando i boss Andò e Graci provano a comprare il giornale, e si vedono sbattere la porta in faccia, Fava firma la propria condanna a morte.

Cosa nostra lo ammazza il 5 gennaio 1984, alle 22.00. Sta andando a prendere la nipote e viene freddato da cinque proiettili mentre sale sulla sua auto.

Qualche giorno dopo le autorità non partecipano al suo funerale, ma sono presenti molti giovani e operai. Inizialmente la pista mafiosa viene negata, si cerca un movente passionale. Il sindaco di Catania Antonino Drago fa in fretta ribadire che la mafia nella sua città non esiste, e afferma: «Cerchiamo di non fare in modo,

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criticando a vanvera, che i nostri operatori emigrino, in-vestendo i loro danari in Piemonte o in Liguria». Nel giro di alcuni mesi la magistratura apre gli occhi: il processo inizia nell’85, e si chiude nel 2003 quando la Corte di Cassazione condanna Nitto Santapaola – identificato come mandante – all’ergastolo, e la stessa sorte tocca ad Aldo Ercolano come esecutore.

Il giorno dopo la morte di Fava, alla redazione dei «Siciliani» si presentano giovani cittadini e giornalisti chiedendo di poter lavorare alla rivista, che continua a uscire per i seguenti tre anni.

Nel 2007 è stato istituito il premio giornalistico-letterario Giuseppe Fava: «Nient’altro che la verità: scritture e immagini contro le mafie», per ricordarne l’esempio.

Piersanti Mattarella Presidente della Regione Sicilia, tenta di innovare

l’amministrazione locale. La mafia lo uccide il 6 gennaio 1980.

«s e mi dovesse accadere qualcosa si ri-cordi di questo viaggio» dice Piersanti Mattarella alla sua segretaria prima di

partire per Roma, dove ha in programma di incontra-re l’amico Virginio Rognoni, allora ministro dell’In-terno. Non si sa esattamente che cosa gli racconti in quell’occasione, quali accuse lanci, che nomi faccia, ma di certo immagina quello che gli succederà di lì a poco.

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Mattarella nasce a Castellammare del Golfo, in pro-vincia di Trapani, nel 1935. Il padre Bernardo aveva dominato la politica siciliana negli anni Cinquanta, ma Piersanti si è liberato della pesante eredità avviando un profondo rinnovamento all’interno della Democrazia cristiana. Come Aldo Moro (vd. 9 maggio 1978) e Gior-gio La Pira, è un cattolico che crede nell’attività politica come conciliazione di impegno civile, rispetto sociale e rigore etico. Si è formato nell’Azione cattolica, è entrato molto giovane nelle fila del partito e ha ricoperto diversi incarichi in istituzioni locali, fino alla nomina a presiden-te della Regione Sicilia nel 1978.

Segno tangibile di un nuovo atteggiamento è la con-ferenza regionale sull’agricoltura, nella quale Pio La Torre (vd. 30 aprile 1982), deputato del Partito comu-nista, denuncia la corruzione all’interno dell’assesso-rato all’Agricoltura. Anziché difendere e discolpare il vecchio sistema, Mattarella rincara la dose e afferma che è arrivato il momento di gestire con trasparenza i contributi regionali.

Per smantellare la trama di antichi favori tenta un’inedita alleanza proprio con il Pci che permette di varare importanti riforme. Per prima cosa applica la legge sul decentramento amministrativo per trasferire competenze e potere agli enti locali. Le grandi famiglie mafiose rischiano così di perdere il controllo degli in-genti fondi in circolazione. Ma soprattutto Mattarella va a colpire il sistema degli appalti pubblici, e con quel-li minaccia il giro di denaro e favori su cui si reggono gli affari della criminalità. Queste iniziative raccolgono il malcontento immediato degli altri politici: la Dc ritira l’appoggio a Mattarella, che deve sciogliere l’alleanza

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con il Pci. Ma lui non rinuncia alle riforme già appro-vate e resta fermo nella lotta alla mafia.

Per Cosa nostra è troppo. Il 6 gennaio 1980, mentre sta andando a messa, viene freddato da due killer sotto gli occhi della moglie e del figlio. Ha 45 anni. Con lui finisce la primavera della politica siciliana, la breve e in-tensa stagione che avrebbe voluto riportare trasparenza e legalità anche all’interno delle istituzioni locali.

Secondo la sentenza della Corte di Appello di Paler-mo del 2 maggio 2003, Giulio Andreotti era a conoscen-za del delitto ed era intervenuto per impedirlo. A modo suo: «Ha, sì, agito per assumere il controllo della situa-

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zione critica e preservare la incolumità dell’on. Mattarel-la, che non era certo un suo sodale, ma lo ha fatto dialo-gando con i mafiosi e palesando, pertanto, la volontà di conservare le amichevoli, pregresse e fruttuose relazioni con costoro, che, in quel contesto, non possono inter-pretarsi come meramente fittizie e strumentali».

Tra i nomi dei possibili sicari compare quello di Valerio «Giusva» Fioravanti, militante di estrema destra. Si mol-tiplicano dubbi, piste, sospetti: che sia una rappresaglia politica? Che esistano alleanze tra la mafia e i movimenti eversivi? Ipotesi simili hanno toccato l’omicidio di Mino Pecorelli (vd. 20 marzo 1979). È il pentito Tommaso Bu-scetta a scagionare con decisione Fioravanti: «I terroristi non c’entrano niente, quello di Mattarella è stato fatto da Cosa nostra, andate a vedere a chi furono affidati gli appalti dopo la sua morte, cose che fanno paura».

vittiMe della straGe di acca larentia

Il 7 gennaio 1978 i terroristi uccidono due giovani missini. Negli scontri successivi

viene colpito Stefano Recchioni.

i l 7 gennaio 1978, verso le 18.00 finisce la riunione del Fronte della gioventù e i convenuti lasciano la sezione Tuscolano del Msi, in via Acca Larentia. Esce per pri-

mo Franco Bigonzetti, studente di medicina di 19 anni, seguito da Francesco Ciavatta, che invece ha 18 anni e fre-quenta ancora il liceo. Ad attenderli dietro un angolo ci sono cinque o sei persone armate: li vedono e fanno fuoco.

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Bigonzetti viene colpito alla testa e cade sul posto; Ciavat-ta tenta la fuga, prende la scalinata per uscire dal cortile ma viene raggiunto dai proiettili e si accascia sui gradini. Muore in sala operatoria prima che inizi l’intervento. Gli altri ragazzi della sezione fanno in tempo a barricarsi all’in-terno e a salvarsi. Gli aggressori spariscono in macchina.

La sparatoria attira una folla di giovani militanti, gior-nalisti, operatori, poliziotti o semplici curiosi. La tensione è molto alta: quando un cineoperatore lascia cadere un mozzicone di sigaretta nella pozza di sangue di una delle vittime, il gesto viene interpretato come un’ostentazione di disprezzo. I ragazzi spingono, urlano, insultano, aggre-discono; le forze dell’ordine rispondono con il fuoco. La pistola del capitano Edoardo Sivori si inceppa e lui prende quella di un collega. A farne le spese è Stefano Recchioni, diciannovenne, che viene ferito alla testa. Il ragazzo, che è ormai uscito dal Msi perché trovava troppo morbida la linea di Almirante, era accorso in via Acca Larentia dopo aver sentito la notizia dell’agguato. Morirà il 9 gennaio dopo un’agonia di due giorni. Alcuni mesi dopo, la strage mieterà un’altra vittima: il padre di Francesco Ciavatta si suicida bevendo acido muriatico.

I Nuclei armati di potere territoriale rivendicano la strage con una registrazione su un’audiocassetta: «Un nucleo armato, dopo un’accurata opera di controinfor-mazione e controllo alla fogna di via Acca Larentia, ha colpito i topi neri nell’esatto momento in cui questi stava-no uscendo per compiere l’ennesima azione squadristica. Non si illudano i camerati, la lista è ancora lunga». Gli assassini non saranno mai identificati, ma dieci anni dopo verrà ritrovata la mitraglietta Skorpion usata nell’attenta-to: è la stessa con cui le Brigate rosse hanno ucciso Ezio

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Tarantelli (vd. 27 marzo 1985), Lando Conti (vd. 10 feb-braio 1986) e Roberto Ruffilli (vd. 16 aprile 1988).

Edoardo Sivori viene condannato per «eccesso colposo di legittima difesa». Secondo molti è con la strage di Acca Larentia che si consuma la rottura definitiva tra le forze dell’ordine e i neofascisti. Dopo tre giorni di scontri arma-ti per le strade di Roma, nascono i Nuclei armati rivoluzio-nari, il principale gruppo della destra eversiva. A guidarlo sono «Giusva» Fioravanti e la futura moglie Francesca Mambro. Entrambi erano fuori dalla sezione Tuscolano dopo l’attentato. La donna, che all’epoca aveva 19 anni, aveva assistito al ferimento di Stefano Recchioni. Molti anni dopo, quando le verrà chiesto di che colore sono stati per lei gli anni di piombo, risponderà «Azzurro», come gli occhi di Stefano che si sono chiusi davanti ai suoi.

BePPe alFanoGiornalista, dichiara guerra alla lupara bianca e

agli appalti truccati. Ucciso dalla mafia l’8 gennaio 1993.

G iuseppe Alfano, detto Beppe, insegna educazione tecnica alle scuole medie e ha la passione della politica. Dopo una breve militanza in Ordine

nuovo ai tempi dell’università, dagli anni Ottanta pre-ferisce dedicarsi al giornalismo, seguendo l’esempio di uomini come Peppino Impastato (vd. 8 maggio 1978). Il giornalismo vero, quello fatto di inchieste e di denunce, di appostamenti notturni e di ricerche. Lavora prima per le emittenti locali siciliane (Telemediterraneo, Telecity e Telenews), poi nell’estate del 1991 approda alla carta

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stampata, scrivendo sul quotidiano catanese «La Sici-lia». Dalle colonne del giornale non solo critica i malavi-tosi e i latitanti, ma polemizza anche con gli amministra-tori locali corrotti, gli uomini d’affari e i politici deviati. Si interessa alle vittime della lupara bianca (la mafia usa uccidere i personaggi scomodi e ne fa sparire i cadaveri) e agli appalti truccati; smaschera inoltre i bilanci falsi-ficati di alcuni produttori agricoli e allevatori siciliani. Ingaggia una vera e propria guerra alla disinformazione, vuole abbattere il muro di omertà che grava sulla sua cit-tà, Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina.

«Guardate che io non ci arrivo davvero, al 20 genna-io… Mi ammazzeranno prima. Cercate di crescere, per-ché resterete voi gli uomini di casa»: i figli ricordano di avergli sentito pronunciare queste parole una sera del novembre 1992. Quando, cioè, le sue indagini rivolte all’Aias di Milazzo (Associazione italiana per l’assisten-za agli spastici) si sono fatte serrate e le sue accuse più precise e incalzanti. Vuole capire come mai l’ente sanita-rio, pur avendo dichiarato di non disporre di sufficiente liquidità per pagare gli stipendi degli oltre seicento di-pendenti, continui ad assumere personale, garantendo posti fissi e contratti sicuri e, per giunta, impegni capi-tali nell’acquisto di costosi beni immobili. In Alfano si insinua in fretta il sospetto che l’Aias sia gestita tramite rapporti clientelari e sia complice in affari mafiosi.

Nemmeno gli avvertimenti che riceve dal presiden-te Antonino Mostaccio riescono a distogliere le sue ri-cerche dalle operazioni poco chiare dell’associazione. Intensifica quindi i contatti con le forze dell’ordine, studia le consuetudini di Cosa nostra e negli articoli non risparmia i dettagli più brutali. Conosce e avvia

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fin da subito una fortunata collaborazione, almeno in apparenza, anche con un magistrato trasferito da poco al tribunale della città, il brianzolo Olindo Canali.

Le indagini di Alfano non si fermano e fanno paura minacciando di portare alla luce quella mafia silenziosa e subdola che latita indisturbata in tutto il territorio mes-sinese, lontano dai riflettori e dalle inchieste giudiziarie.

L’8 gennaio 1993 Alfano sa di essere vicino alla fine. Ha pestato i piedi a troppe persone e non si illude di po-ter contare sulle istituzioni. Quando esce di casa quella sera è consapevole di essere diventato ormai un bersa-glio facile. Il suo corpo viene ritrovato qualche ora dopo, riverso sul sedile di una Renault rossa. C’è sangue ovun-que: sul volto, sulla bocca, sulle tempie e sul torace.

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La commissione regionale antimafia comincia subito le indagini, ma il primo passo avanti si ha solo due anni dopo, nel 1994, quando un testimone si dice disponi-bile a deporre: Maurizio Bonaceto è un piccolo spac-ciatore, incensurato fino a quel momento, che la notte dell’omicidio si trovava – così racconta – nello stesso isolato di Alfano. Conferma di aver visto la macchina e riconosce in Nino Merlino, il sicario di fiducia del boss locale Giuseppe Gullotti, l’uomo con cui Alfano stava discutendo animatamente. Con questa testimonianza il tribunale ha finalmente in mano le prove per procedere all’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare per Antonino Mostaccio, ideatore e mandante dell’omici-dio, e per Gullotti. Il 15 maggio 1996 la Corte d’Assise di Messina condanna Nino Merlino a 21 anni e 6 mesi in qualità di esecutore materiale, mentre Mostaccio e Gullotti vengono assolti con formula dubitativa in mancanza di prove.

Due anni dopo, il 6 febbraio 1998 la Corte d’Appello di Messina sovverte la sentenza precedente e infligge la pena carceraria anche a Gullotti, ben 30 anni. Per quanto riguarda Mostaccio, la Cassazione nel 1999 ri-conferma la sua innocenza applicando di nuovo la for-mula dubitativa. La figlia Sonia rilascia dichiarazioni pesanti circa le modalità con cui si sono svolte le inda-gini: parla di gravi depistaggi, di ostruzionismo portato avanti da alcuni componenti delle forze dell’ordine, di insabbiamenti e boicottaggi a opera anche dello stes-so Canali che è infatti accusato di falsa testimonianza e di favoreggiamento dell’attività mafiosa. Nel 2003 si riapre il caso e il 9 gennaio di quell’anno si procede a un’indagine contro ignoti per individuare i mandanti

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occulti dell’assassinio Alfano. L’indagine è tuttora in corso, mentre quella a carico di Canali si è conclusa nel marzo 2011.

vittiMe dell’eccidio delle Fonderie riunite

di ModenaSei operai uccisi e duecento feriti negli scontri con

la polizia il 9 gennaio 1950 a Modena.

l e Fonderie riunite si trovano alla periferia di Mo-dena. Le ha fatte costruire nel 1938 l’industriale Adolfo Orsi, che già aveva impiantato nell’area le

Acciaierie ferriere, con l’intento di creare un polo mec-canico e metallurgico. Le sue fabbriche prosperano sotto il fascismo, grazie alla politica di riarmo voluta da Mus-solini, ma nel dopoguerra arriva la crisi. Uomo molto in vista nella Confindustria, descritto da tanti come un pa-drone vecchio stampo, anziché convertire la produzione preferisce rifarsi sugli operai.

I primi scontri tra Orsi e i sindacati avvengono nel 1947 e si trascinano a lungo. Alla fine, 26 operai vengono licenziati. Quando si presentano in fabbrica per entrare, si trovano davanti la polizia. Orsi vuole la serrata: chiude la fabbrica per assumere altro personale. Si apre un’im-mediata vertenza che termina con la vittoria del sindaca-to e la riapertura delle fonderie il 26 giugno 1948.

Da quel momento, la tensione che si respira a Modena è lo specchio della situazione italiana. L’attrito tra il go-verno e i comunisti non è mai stato forte come nel 1948,

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anno delle prime elezioni politiche repubblicane, quan-do si teme che l’Italia, il Paese del blocco occidentale con il Pci più forte, possa virare a sinistra. Vince invece la Dc e gli imprenditori ne approfittano per recuperare posizioni di forza nei confronti degli operai: salari bassi, pochi diritti, assunzioni e licenziamenti che discrimina-no gli elementi più politicizzati.

Ministro dell’Interno è il democristiano Mario Scel-ba, stretto collaboratore prima di don Sturzo, poi di De Gasperi, ma soprattutto acceso anticomunista, che ricorre alla repressione violenta pur di mettere a tacere le istanze destabilizzanti dei lavoratori. Si avvale spesso della celere, i reparti mobili della polizia nati nel 1946, a ridosso del referendum per la scelta tra repubblica e monarchia. Sono costituiti per lo più da ex soldati e il loro compito è il mantenimento dell’ordine pubblico; per raggiungerlo non esitano a usare manganelli e armi da fuoco.

Il secondo grande scontro con Orsi si ha nell’estate del 1949: l’imprenditore si lamenta per il pesante pas-sivo delle sue fabbriche e apre una vertenza con i sin-dacati. Ancora una volta la discussione si trascina per mesi, fino a novembre, quando le fonderie annunciano il licenziamento di 120 operai. Le manifestazioni invadono la città, il clima si scalda di nuovo e il conflitto diventa un simbolo politico delle lotte tra lavoratori sfruttati e capitalisti prevaricatori.

Per tutta risposta Orsi interrompe la vertenza e orga-nizza la seconda serrata, protetta ancora una volta dal-la polizia. Dopo 25 giorni di chiusura la direzione delle fonderie comunica ufficialmente che 250 dipendenti su 560 resteranno a casa. La scelta dei licenziati è a totale

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discrezione della dirigenza e, com’è prevedibile, taglia fuori gli operai comunisti e sindacalizzati.

Il giorno della riapertura della fabbrica, il 9 gennaio 1950, si temono violenti scontri: il sindaco tenta un’inu-tile mediazione con Orsi, la polizia chiede rinforzi alle città vicine e si prepara a presidiare i cancelli. I sindacati indicono uno sciopero generale e radunano i lavoratori per marciare verso le fonderie. Si dice ci siano ventimila persone accorse a sostegno dei colleghi estromessi. I pri-mi tafferugli scoppiano quando alcuni operai tentano di forzare il blocco ai cancelli per entrare. Vengono allon-tanati con violenza dalla celere, che poco dopo passa dai manganelli alle pistole.

Negli scontri che seguono muoiono sei persone: An-gelo Appiani, un ex partigiano di 30 anni; Arturo Chiap-pelli, un disoccupato di 43; il ventunenne Renzo Bersani viene ucciso mentre cerca di allontanarsi, come Ennio Garagnani, anche lui di 21 anni; il loro coetaneo Arturo Malagoli è un altro ex partigiano che perde la vita poco distante dalla fabbrica. La sorte peggiore tocca a Rober-to Rovatti, 36 anni, che viene ritrovato in un fosso: è sta-to prima picchiato con il calcio dei fucili e poi freddato con un colpo da vicino.

Secondo le cifre ufficiali i feriti sono una quindicina, ma molti preferiscono non farsi curare per paura di es-sere bollati come comunisti e quindi licenziati, o peggio ancora, incarcerati. Si parla di duecento persone.

Per molti l’eccidio di Modena vuole essere un’azione cruenta ed esemplare per placare le rivendicazioni de-gli operai. «La caccia è aperta: 6 operai morti a Mode-na» recita uno striscione provocatorio in un corteo di solidarietà. Nella sua relazione al parlamento, Umberto

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Elia Terracini, dirigente del Pci, descrive la strage come «omicidi premeditati, eseguiti a sangue freddo».

L’11 gennaio si tengono i funerali delle sei vittime, ai quali la cittadinanza modenese partecipa compatta. Pal-miro Togliatti interviene di persona e saluta così gli ope-rai morti: «Voi chiedevate una cosa sola, il lavoro, che è la sostanza della vita di tutti gli uomini degni di questo nome. Una società che non sa dare lavoro a tutti coloro che la compongono è una società maledetta».

ottavio conteAgente dei Nocs morto il 9 gennaio 1985 a 28 anni.

Gli sparano due uomini mai identificati.

o ttavio Conte ha 28 anni quando viene ucciso. È un agente di polizia in forza ai Nocs, il nucleo ope-rativo centrale di sicurezza dell’antiterrorismo. Il

pomeriggio del 9 gennaio si trova sul lungomare delle Meduse a Torvaianica (Roma) per fare una telefonata da una cabina. È fuori servizio e disarmato. Da un’Alfetta parcheggiata poco distante escono due uomini, che lo trascinano fuori, lo gettano a terra e gli sparano sei col-pi con due pistole calibro 7,65. Quattro lo colpiscono in pieno – al viso, al ventre e al petto – e lo uccidono. I killer fuggono sull’auto guidata da un complice; non verranno mai identificati.

L’omicidio è rivendicato inizialmente dal nucleo Anto-nio Gustini delle Brigate rosse, intitolato a un brigatista ucciso qualche settimana prima; la pista non convince del tutto e gli investigatori prendono in considerazione

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anche l’eversione di estrema destra. Entrambe le indagi-ni però non conducono a nulla: tuttora il caso è irrisolto e non sono emersi elementi decisivi.

FiladelFio aParoAppuntato, ucciso l’11 gennaio 1979. Indagava

sulla malavita locale.

«c i fu un certo Aparo che è stato ucciso e che andava sempre cercando latitanti. Lo chiamavamo il “Segugio”» ricorda

il pentito Gaspare Mutolo. Filadelfio Aparo entra in polizia nel 1956 e lavora a Bari, Taranto, Nettuno e infi-ne per la squadra mobile di Palermo. Si distingue in più occasioni per la sua dedizione: nel 1968 partecipa alla cattura di un rapinatore e viene promosso appuntato per il coraggio dimostrato. Dieci anni dopo riconosce due latitanti che tentano la fuga; insieme ad alcuni col-leghi riesce a fermarli. L’arresto gli vale un encomio so-lenne, ma anche la vendetta delle cosche. L’11 gennaio 1979 quattro killer lo aspettano vicino a casa: lo ucci-dono con numerosi colpi di lupara in piazza Tenente Anelli a Palermo. Aparo ha 43 anni e tre figli, il più piccolo ha solo un anno.

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