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RASSEGNA ITALIANA DI SOCIOLOGIA / a. XLV, n. 4, ottobnre-dicembre 2004 SOCIOLOGIA DELL'ALIMENTAZIONE Presentazione L’alimentazione: gusti, pratiche e politiche di ROBERTA SASSATELLI Per gran parte degli scienziati sociali l’alimentazione ha rap- presentato a lungo un oggetto futile e lo studioso la cui pista di ricerca si spingeva in tale direzione si trovava ad affrontare il non facile compito di liberarsi da un certo qual senso di colpa: così almeno sosteneva Roland Barthes (1961) in un piccolo ma ispirato saggio sul cibo. Se l’antropologia e la storia hanno superato un simile pregiudizio e consolidato ormai pluridecennali percorsi di ricerca sui fenomeni legati all’alimentazione, la sociologia ha stentato non tanto ad accorgersi del carattere sociale dei nostri gusti in fatto di cibo o di come, attraverso la cucina, vengano continuamente prodotte, riprodotte e modificate le identità sociali, quanto a tematizzare l’alimentazione come un oggetto di ricerca in quanto tale. Certo il pasto è stato spesso un aneddoto sociologico: ne Les formes élémentaires de la vie religieuse Durkhe- im (1894) è ben avvertito della funzione del pasto sacrificale che unisce i commensali in un rituale di incorporazione mediante il quale vengono assimilati e condivisi i principi sacri dell’animale; con il solito sguardo curioso Simmel si cimenta invece in un saggio, Soziologie der Mahlzeit (1910), in cui mette a fuoco le maniere della tavola come una classe di forme sociali che traduce la soddisfazione individuale in un evento sociale. Più prosaicamente nel suo lavoro sulla classe operaia Halbwachs (1912) sottolinea che per gli operai di inizio secolo il pranzo, l’ordine delle pietanze, la scelta dei cibi e i loro prezzi erano delle vere e proprie istituzioni sociali. Se la sociologia classica utilizza spesso un riferimento alle pratiche alimentari per illustrare altri fenomeni sociali, è solo a partire dalla fine degli anni settanta che intorno al cibo comincia a consolidarsi un’apprezzabile costellazione di specifici lavori sociologici.

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RASSEGNA ITALIANA DI SOCIOLOGIA / a. XLV, n. 4, ottobnre-dicembre 2004

SOCIOLOGIA DELL'ALIMENTAZIONE

PresentazioneL’alimentazione: gusti, pratiche e politiche

di ROBERTA SASSATELLI

Per gran parte degli scienziati sociali l’alimentazione ha rap-presentato a lungo un oggetto futile e lo studioso la cui pista diricerca si spingeva in tale direzione si trovava ad affrontare il nonfacile compito di liberarsi da un certo qual senso di colpa: cosìalmeno sosteneva Roland Barthes (1961) in un piccolo ma ispiratosaggio sul cibo. Se l’antropologia e la storia hanno superato unsimile pregiudizio e consolidato ormai pluridecennali percorsi diricerca sui fenomeni legati all’alimentazione, la sociologia hastentato non tanto ad accorgersi del carattere sociale dei nostrigusti in fatto di cibo o di come, attraverso la cucina, venganocontinuamente prodotte, riprodotte e modificate le identità sociali,quanto a tematizzare l’alimentazione come un oggetto di ricercain quanto tale. Certo il pasto è stato spesso un aneddotosociologico: ne Les formes élémentaires de la vie religieuse Durkhe-im (1894) è ben avvertito della funzione del pasto sacrificale cheunisce i commensali in un rituale di incorporazione mediante ilquale vengono assimilati e condivisi i principi sacri dell’animale;con il solito sguardo curioso Simmel si cimenta invece in un saggio,Soziologie der Mahlzeit (1910), in cui mette a fuoco le manieredella tavola come una classe di forme sociali che traduce lasoddisfazione individuale in un evento sociale. Più prosaicamentenel suo lavoro sulla classe operaia Halbwachs (1912) sottolinea cheper gli operai di inizio secolo il pranzo, l’ordine delle pietanze,la scelta dei cibi e i loro prezzi erano delle vere e proprie istituzionisociali. Se la sociologia classica utilizza spesso un riferimento allepratiche alimentari per illustrare altri fenomeni sociali, è solo apartire dalla fine degli anni settanta che intorno al cibo cominciaa consolidarsi un’apprezzabile costellazione di specifici lavorisociologici.

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Lo sviluppo di una vera e propria sociologia dell’alimentazioneè stato rallentato da un certo grossolano snobismo non solo pertutto ciò che ha il sapore del quotidiano, ma anche per tutto ciòche è legato alla sfera domestica e quindi, sulla scorta di un’ereditàottocentesca difficile da eliminare, al lavoro femminile, di cui quelloin cucina è certamente tra i più creativi. Oggi, però, soprattuttoin Francia e nel mondo anglo-americano il cibo è considerato, comescrive Arjun Appadurai (1981, 3) «un fatto sociale estremamentericco», una forma «particolarmente plastica di rappresentazionecollettiva». Importanti ricerche di taglio socio-antropologico osocio-storico si sono susseguite a partire dagli anni Ottanta:dall’ormai classico Cooking, Cuisine and Class di Jack Goody(1992) al più recente Consumption, Food and Taste di Alan Warde(1997), entrambi notevoli contributi sui significati distintivi dellacucina e del consumo di cibo, o dal celebre e celebrato All Mannersof Food di Stephen Mennell (1985) a Food, the Body and the Selfdi Deborah Lupton (1996), lavori che in modi diversi – con unatesi di stampo eliasiano sulla civilizzazione dell’appetito fondatasu una comparazione dell’evoluzione delle maniere della tavolafrancesi e inglesi l’uno, e con un’ampia panoramica incentrata sullaquestione del corpo l’altro – riflettono su modernità, identità eabitudini alimentari. Anche se molto poco di questi lavori ha avutorisonanza in Italia, la «sociologia dell’alimentazione» (sociologie del’alimentation nei paesi francofoni o sociology of food in quellianglofoni) ha ormai il carattere di una specializzazione sub-disciplinare, con un buon numero di testi che ne fanno il puntoe ne segnano progressi e confini (cfr. soprattutto Beardsworth eKeil 1997; Mennell et al. 1992; Poulain 2002). Nelle sue filamilitano ricercatori che si trovano spesso a dialogare con altrediscipline in cui l’alimentazione è indubbiamente oggetto piùcentrale – dalla storia all’antropologia, dall’epidemiologia allademografia, sino alla scienza della nutrizione. Non stupisce quindiche molte delle riviste fiorite nel campo degli studi sull’alimen-tazione – da Appetite a Food and Foodways – abbiano un tagliopropriamente interdisciplinare.

Provenendo da tradizioni teoriche diverse i sociologi che sisono occupati di alimentazione hanno, nel complesso, dato vitaad un’arena di studi articolata in cui il cibo è illuminato secondoprospettive non sempre immediatamente riconciliabili. Alcunisociologi si sono occupati prevalentemente degli aspetti dellaproduzione del cibo, del modo in cui essa è organizzata socialmente

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sia a livello micro – per es. Gary Allan Fine (1996) nel suo notoKitchens, uno studio sul lavoro nei ristoranti – sia a livello macro– per es. i lavori di Ben Fine (Fine e Leopold 1993) sull’economiapolitica dell’alimentazione. I più hanno concentrato la propriaattenzione sul consumo. Proprio i consumi alimentari sono, delresto, anche nel senso comune, profondamente legati alle nostreidentità sociali: basti pensare all’ubiquità di quell’adagio che il notogastronomo e filosofo francese Brillat-Savarin diffuse con il suoPhysiologie du Goût: «dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei».

1. Certo, il cibo parla di noi, delle nostre origini, di chi siamoe di chi vogliamo essere, ma anche i nostri disgusti alimentari cidicono molto. Mangiare in effetti è distinguere e discriminare, èincludere ed escludere – come sottolineato magistralmente sia daMary Douglas (1972; 1996) sia da Pierre Bourdieu (1979). Inqueste visioni risuonano le celebri osservazioni di Lévi-Strauss(1965) secondo cui l’essere umano è l’animal cuisinier e la cucinaè un’attività nella quale la società traduce inconsciamente la propriastruttura. Deciphering a Meal di Douglas (1972) rimane un saggiofondamentale a questo proposito nel mostrare come un pasto, lasua struttura, la sua preparazione e i modi del suo consumo sianosimbolo dei rapporti sociali di cui sono prodotto e allo stessotempo funzionino come un sistema di comunicazione dal carattereclassificatorio e discriminante. Ogni pasto è, insomma, un eventosociale strutturato che struttura altri eventi a sua immagine. Maanche i manuali di cucina sono un crocevia di identità e classi-ficazione culturale: «riflettono – come scrive, tra gli altri, Appa-durai (1988, 3) – i mutamenti nei confini del commestibile, leproprietà del processo culinario, le esigenze del bilancio famigliare,le fluttuazioni del mercato e la struttura dell’ideologia domestica[…] sono rappresentazioni non solo della struttura di produzionee distribuzione […] ma anche di classe e ceto». Come ha mostratol’importante tradizione italiana di studi storici sull’alimentazione– da Camporesi a Capatti e Montanari – anche la storia della nostrapenisola è stata costellata, dal medioevo ad oggi, da manuali dicucina che vanno ben oltre la curiosità letteraria. Se non sonomancate visioni moderniste, utopistiche, naturistiche o settarie –da La cucina futurista di Martinetti al Manuale di gastrosofianaturista di Alliata di Salaparuta – i manuali di cucina sono spessoandati al cuore delle nostre più salde identità collettive: nell’ot-tocento l’italianità è stata immaginata anche grazie al celeberrimo

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La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Artusi mentrel’odierna nostalgica frammentazione regionale è spesso una «tra-dizione» inventata grazie alla pletora di manuali che costruisconocanoni e confini regionali.

Il cibo ha in effetti un ruolo centrale nella creazione dellecomunità e non è difficile ricordare una serie di luoghi comuniin cui il riferimento alla dieta viene utilizzato per stigmatizzare ocelebrare immagini diverse di diverse identità collettive. Le abi-tudini alimentari contribuiscono a stabilizzare quei confini tangibilie quelle molteplici differenze simboliche che strutturano lo spaziosociale. Segnano l’appartenenza religiosa, non solo nelle culturetradizionali o in quelle della prima modernità – come ha suggeritoSchivelbusch (1980) mettendo a confronto il posto che la nascentesocietà borghese anglosassone puritana assegnava al caffè e quelloche la Spagna o la Francia cattoliche riservavano alla sensualecioccolata - ma anche nel mondo «globalizzato» e «Mcdonaldiz-zato» prefigurato da George Ritzer (1993). Con buona pace diRitzer, i McDonald’s si sono dovuti adattare ovunque ai gusti localispesso influenzati da norme religiose: in Israele, per esempio, sivendono Big Macs senza formaggio per non contravvenire allenorme kosher della cucina ebraica che richiedono la separazionedi carne e latticini; in India si servono soprattutto Maharajah Mac,con carne di montone, che possono essere consumati sia daiMussulmani che non mangiano maiale, sia dagli Hindu che nonpossono cibarsi di carne bovina.

Le appartenenze nazionali ed anche le distinzioni etnichetendono a consolidarsi attraverso la cucina. Questo anche esoprattutto quando i soggetti si trovano a fare i conti con mercie contesti diversi da quelli ovvi e scontati per tradizione. Unfenomeno oggi molto studiato è quello delle cucine etniche chedà risalto alla doppia natura dei percorsi di ibridazione tra leculture: i rifugiati e i migranti usano indubbiamente il cibo perrimanere ancorati alle proprie tradizioni, ma così facendo leriproducono nei luoghi di destinazione, spesso con significativevarianti e facendosi importanti agenti del cambiamento per iconsumi alimentari delle società di accoglienza (Cook e Crang1996). Le tradizioni gastronomiche del resto non sono statesemplicemente rimpiazzate dallo sviluppo dell’industria alimentaredi massa, anzi si sta oggi assistendo ad un vero e proprio boomdella cucina etnica (Belasco e Scranton 2002). Nel suo Ethnic Foodsand the Making of Americans, Donna Gabaccia (1998) ha mostrato

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che lo sviluppo di un’industria nazionale dei cibi in scatola in quellafucina del multiculturalismo di massa che sono gli Stati Uniti nonha richiesto la negazione di ogni riferimento etnico. Le tradizionietniche sono state piuttosto messe in gioco e re-inventate medianteun processo di «creolizzazione». Per quanto fabbricate e scarsa-mente connesse alla cultura locale e all’ambiente, le varie cucineetniche o regionali degli Stati Uniti rappresentano un codice cheaiuta i consumatori a scegliere di volta in volta il proprio pasto.Esse hanno inoltre un ruolo ambivalente rispetto alle differenzeetniche stesse: da un lato contribuiscono a fissare immaginiabbastanza nitide, ancorché stereotipizzate, di tali differenze,dall’altro forniscono un’area in cui i corrispettivi confini possonoessere superati senza gravi rischi. D’altro canto alcuni settorialimentari statunitensi, come l’industria dell’alcol, furono impor-tanti soprattutto per gli immigrati provenienti dal Sud e dall’Esteuropeo, dando vita ad un comparto che appariva etnicamenteneutro dal lato del consumo, ma si configurava come una verae propria nicchia etnica da quello della produzione (Gabaccia, inBelasco e Scranton 2002).

Anche le distinzioni di classe e ceto vengono ad esprimersi ea stabilizzarsi mediante le abitudini alimentari: pensiamo all’analisiche Bourdieu (1979) ha condotto nel La distinction, dove allapreferenza esteticizzante delle nuovi classi medie per la nouvellecousine si oppone la preferenza per l’abbondanza e la semplicitàdegli accostamenti delle classi lavoratrici (cfr. anche Warde eMartens 2001). Infine, i gusti e le pratiche alimentari contribu-iscono a segnare le differenze di genere: accanto al lavoro ditrasformazione del cibo svolto nelle famiglie ancora per lo più dalledonne (cfr. de Vault 1991), numerosi studi hanno documentato,per esempio, che la carne è a tutt’oggi un cibo con forticonnotazioni maschili (associato alla caccia, alla forza, alla violenza)e, allo stesso tempo, viene attivamente prescelto, rifiutato ocentellinato all’interno delle famiglie per segnare i confini di genere(Lupton 1996). Del resto, è proprio intorno al rapporto con il cibo– dalla produzione al consumo – che storicamente sono venutea costruirsi diverse visioni della femminilità, visioni spesso impron-tate al servizio, al controllo di sé, alla moderazione, se nonaddirittura alla mortificazione (cfr. Counihan 1999 e Muzzarelli eTarozzi 2003 anche per importanti riferimenti al nostro paese).Proprio perché attraverso il cibo possono aprirsi spazi di trasgres-sione fortemente connotati in base al genere, lo si ritrova spesso

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investito di una carica erotica che si legge in controluce nel mito(pensiamo solo la mela che Eva porge ad Adamo causando lacaduta dall’Eden), non manca di essere fonte di ispirazioneletteraria (Biasin 1991) o cinematografica (Bragaglia 2002) e finisceanche per essere facile spunto per chi confeziona messaggipubblicitari tanto da ispirare l’eloquente neologismo di «gastro-porno» (Smart 1994; cfr. anche Bell e Valentine 1997).

2. Se le distinzioni sociali e le tassonomie culturali si esprimono,e spesso si realizzano, attraverso il cibo, di converso, ciò che è«cibo» è risultato di un processo di classificazione culturale chesi realizza attraverso una serie di pratiche e conoscenze secondoi tempi e i modi di numerose istituzioni sociali che, soprattuttonelle società contemporanee, compongono una complessa filieraalimentare. Gli attori sociali devono poter innanzi tutto individuaree selezionare, da un universo di possibilità amplissimo, qualcosacome «commestibile». Devono poi produrre o estrarre gli ingre-dienti selezionati, lavorarli, e trasportarli nei luoghi dove potrannoessere preparati adeguatamente per il consumo. Anche in societàcome quelle occidentali contemporanee dove si diffondono i cibipronti, gli alimenti vanno comunque portati a casa, conservati, cottio scaldati, e spesso combinati ad altri alimenti per costruire dei«piatti» negoziando con una serie di saperi e di conoscenze diversegrazie alle quali i piatti vengono disposti in sequenze (de Certeauet al. 1984). Gli attori sociali devono ovviamente imparare nonsolo a gustare i cibi, ma anche ad utilizzare attrezzi diversi peril loro consumo esibendo maniere adeguate. E poi, dovranno anchesaper parlare del cibo, negoziando con quella dietetica profana chesi ritrova in epoche anche remote (cfr. Flandrin e Montanari 1997),ma che nella società contemporanea è affiancata da una vasta earticolata gamma di discorsi sul cibo: medici ed estetici, edonisticie salutisti, commerciali e religiosi, e così via.

Anche una succinta esposizione dei percorsi del cibo comequesta ci mostra chiaramente come esso non sia solo un fattomateriale. Le rivoluzioni alimentari per esempio, lungi dall’esseredelle rivoluzioni puramente materiali sono anche e soprattutto dellerivoluzioni simboliche. La diffusione in Europa, per esempio, dibevande eccitanti come il caffè, la cioccolata ed il tè si accompagnòalla diffusione del consumo di saccarosio, che, come ha mostratoSidney Mintz (1985) in un celebre saggio, fu segnata da profondimutamenti culturali. La rapidissima diffusione dello zucchero nel

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settecento non ebbe semplicemente a che fare con la crescentedisponibilità di saccarosio a costi decrescenti; implicò piuttosto unavarietà di idiosincrasie culturali nel suo consumo che, almeno inparte, rendono conto di tale diffusione. Lo zucchero e le bevandeamare zuccherate divennero i primi lussi democratici: non eranonecessari perché nutrienti eppure venivano quotidianamente usatida tutti, incluse le masse lavoratrici, ed erano circondati da ritualicomplessi. Gradualmente masse di lavoratori europei che nonavevano mai avuto accesso a prodotti che venivano da lontanodiventarono consumatori abituali di queste merci coloniali etropicali che fino a poco prima erano state remote e inaccessibili.I consumatori divennero così dipendenti da mercati che andavanoben oltre la loro visione del mondo, iniziarono a riconoscereprincipi di valutazione diversi da quelli delle loro comunità etipicamente legati ai consumi, e cominciarono a valutare se stessicome individui che avevano o meno la capacità di fare fronte aquesti stessi consumi.

Le molteplici valenze simboliche che si accompagnano al cibonon ci devono però fare dimenticare che le nostre abitudinialimentari, e i percorsi di produzione e scambio che le sostengono,hanno innanzi tutto dei risvolti pratici spesso di ampia portata.Nulla rende più evidente quest’affermazione di uno sguardoglobale e di lungo periodo: se lo stesso Mintz (1985) ha sostenutoche la coltivazione delle piante e l’addomesticamento degli animaliper la produzione di cibo nel neolitico fu probabilmente il piùimportate progresso tecnico nell’intera storia dell’umanità, nel suoSeeds of Change Henry Hobhouse (1985, XI) scrive provocatoria-mente che «il punto di partenza per l’espansione europea al difuori del Mediterraneo … non ha avuto nulla a che fare con lareligione o lo sviluppo del capitalismo, ma ha avuto molto a chefare con il pepe. Le Americhe furono scoperte come effettoimprevisto della ricerca del pepe». In effetti, studiare l’alimenta-zione oggi vuole dire cimentarsi in un esercizio di problematiz-zazione e superamento di alcune delle dicotomie che hanno segnatoil pensiero teorico sociale: materiale/simbolico; produzione/consu-mo; oggetto/soggetto; locale/globale, e così via. Né lo struttura-lismo venato di cognitivismo – che fa scrivere a Claude Lévi-Strauss(1962) nel suo celebre La pensée sauvage che perché siano «buonida mangiare» i cibi devono essere innanzi tutto «buoni da pensare»– né il materialismo evoluzionista – che spinge, diversi anni dopo,Marvin Harris (1986) a contrapporsi all’antropologo francese con

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il suo Good to eat secondo cui tutti i tabù alimentari, dal divietoper la carne di maiale tra ebrei e mussulmani a quello per la muccatra gli indù, sono riportabili e sostenuti da vantaggi e svantaggiin termini evoluzionistici ed ecologici – rappresentano oggi i puntipiù avanzati della ricerca. Tra strutturalismo e materialismo sifanno avanti posizioni, come la teoria della pratica post-struttu-ralista, che tentano di concepire le azioni che gli esseri umanicompiono per nutrirsi come sia materiali che simboliche, struttu-rate socialmente nello spazio e nel tempo, e spesso organizzate dauna varietà di istituzioni più o meno formalizzate. Mangiare perl’attore sociale, proprio come produrre cibo, non è solo un attocognitivo e neppure solo un atto materiale: del resto mente e corposono entrambi inestricabilmente connessi alle varie pratiche cheruotano intorno al cibo. Il cibo in effetti si offre come oggettodei nostri gusti e disgusti contribuendo a fissare le nostre capacitàe le nostre identità incorporate, rendendo così tangibile la mutuacostituzione di oggetto e soggetto, e infine sguscia tra le magliedella distinzione tra produzione e consumo cui ci ha abituatol’economia moderna per mostrare la porosità particolaristica e laframmentazione locale del processo di industrializzazione globale.

3. La sociologia dell’alimentazione non è oggi solo un terrenoprivilegiato per sperimentare posizioni teoriche nuove e d’avan-guardia, è anche un ambito di studi che si trova a fronteggiarenumerose sfide concrete, pressanti e politicamente delicate. Bastipensare agli squilibri nutrizionali che portano un numero crescentedi abitanti dei paesi occidentali sviluppati ad essere sovra pesoproprio quando il Sud del mondo è ancora attraversato da violentecarestie. È chiaro che fronteggiando simili questioni la sociologianon può che confrontarsi con discipline più «operative». Gli studisocio-antropologici hanno però anche una loro specificità chepossiamo individuare non tanto in uno sterile distacco, quantonell’opportunità di comprendere cosa «vuole dire» mangiare primaancora di cercare di modificare le abitudini alimentari, comesostenne Margaret Mead (1943) lavorando in qualità consulenteper il progetto sui mutamenti della dieta promosso dal Ministerodella Difesa statunitense durante la seconda guerra mondiale. Così,se l’epidemiologia ha messo in luce un nesso statistico positivo traobesità e mortalità o tra alcolismo e tabagismo e alcune gravipatologie, la sociologia può non solo adoperarsi per sottolinearela relatività e le valenze potestative delle conoscenze scientifiche

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sulla dieta, ma anche aiutarci a capire perché sono soprattutto ledonne a diventare obese, bulimiche o anoressiche (Bordo 1993),come i giovani imparano a fumare e cosa significhi per loro(Hughes 2003) e quali sono i significati e le norme associate alconsumo di alcool e all’intossicazione da alcolici in gruppi socialie retaggi culturali diversi (Alasuutari 1992; Cottino 1991) .

La medicalizzazione dell’alimentazione quotidiana, con la cre-scente tendenza ad esprimere i valori nutrizionali in calorie, è solouna delle grandi tendenze che incidono sulla cucina contempo-ranea: ad essa si accompagna una marcata tendenza alla destrut-turazione del desinare, per cui i pasti si semplificano, si mangiafuori pasto e, soprattutto, da soli e nei luoghi più diversi senzaseguire uno specifico insieme di norme rituali. Entrambe questetendenze contribuiscono ad approfondire la voragine che pareaprirsi tra norme e pratiche alimentari: «un pasto come si deve»è insomma lontano dalla nostra realtà quotidiana, e non per scarsità– come avveniva nelle società tradizionali e ancora avviene nel Suddel mondo – ma per un’abbondanza materiale e una polifoniaculturale che disorientano. «Pubblicità, suggestioni e prescrizionidiverse, e soprattutto e sempre di più, messaggi commerciali dinatura medica» concorrono a produrre, secondo Claude Fischler(1979, 206), quella «libertà anomica» che è anche «un tranelloansioso, e questa ansia favorisce a sua volta delle condizionialimentari aberranti». È da considerazioni simili che Fischler (1979,cfr. anche 1990) è partito per proporre la nozione di «gastro-anomia», intesa come condizione caratterizzante la modernitàalimentare e a sua volta definita da tre interconnessi fenomeni: lasovrabbondanza di cibo; la riduzione dei controlli sociali delgruppo e della commensalità che ha lasciato al consumatore il pesodi una scelta sempre più individualizzata; e il moltiplicarsi deidiscorsi sul cibo che produce una costellazione o un mosaicocacofonico e contraddittorio di criteri di scelta alimentare.

Se già De Martino (1977, 615) scriveva «se è una minacciala fame, è una minaccia anche mangiare da soli: ché il pane comecibo che nutre si può perdere anche quando si spegne la suavalorizzazione di cibo da mangiarsi in comune», le osservazionidi Fischler declinano una tematica anticipata dall’antropologiafilosofica e si combinano armoniosamente con l’idea che la nostrasia una «società del rischio» (Beck 1988). L’obbligo biologico amangiare variato e la costrizione culturale a mangiare solo alimenticonosciuti e contrassegnati come commestibili secondo pratiche e

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valori condivisi produrrebbe infatti, secondo Fischler, una contrad-dittoria opposizione tra «neofilia» e «neofobia», ed è questo«paradosso dell’onnivoro» ad essere poi esasperato dalla societàmoderna, generando nuove forme di ansia. Certo, l’intensificarsidelle ansie alimentari può essere considerato un fenomeno storicoda rintracciarsi già nell’allargamento dei circuiti alimentari asso-ciato alla diffusione di merci coloniali nell’Ancien Régime (Ferriéres2002). Nel complesso però questa tesi è stata declinata nel sensodi un’antropologia bio-culturale dell’alimentazione. Così l’idea diuna fondamentale ambivalenza umana di fonte al cibo permettedi classificare una serie di dimensioni dell’esperienza (cfr. per es.Beardsworth in Maurer e Sobel 1995): una dimensione piacere/disgusto raccoglie ansie di ordine sensoriale che vengono tenutea bada introducendo nuovi alimenti mescolandoli ad alimentitradizionali e utilizzando preparazioni e ricette già note; unadimensione salute/malattia si connette ad ansie di ordine sanitariodi cui si fanno carico non solo le prescrizioni dietetiche mondanema anche la medicina e dalla scienza dell’alimentazione; e, infine,una la dimensione vita/morte con ansie di ordine morale simbo-leggiate innanzi tutto dalla regolazione, nelle società occidentali,della produzione e circolazione della carne attraverso un complessoapparato burocratico che tenta di sopperire alla secolarizzazionedel sacrificio degli animali. In effetti, la laicizzazione dell’alimen-tazione nel suo complesso è causa ed effetto di processi industrialiche, a loro volta, tentano di recuperare qualcosa di sacro dispie-gando, lungo tutta la filiera alimentare, una pletora di saperi espertisempre più codificati.

Nell’alimentazione quotidiana «aver scelta» è un fenomenorelativamente recente nella sua diffusione tra la massa dellepopolazioni occidentali, fenomeno evidentissimo nella ristorazione.In tempi di scandali alimentari, «mucca pazza» e transgenico, lasituazione di scelta si allontana però chiaramente, anche nellanostra coscienza, da una decisione tra alternative con probabilitàcerte. Peraltro, secondo Stephen Mennell (1985), l’aumento dellavarietà e la diminuzione dei contrasti non sono che «due faccedella stessa medaglia». Riprendendo il lavoro di Adorno sullamusica «popular», Mennell guarda alle caratteristiche della mo-dernità alimentare con occhio critico, intravedendo essenzialmente«feticismo», ovvero la costruzione di un canone di best-sellersstandardizzati, e «regressione» del gusto, che è anche preferenzaper cibi facili come lo yogurt o i formaggi freschi. Con toni meno

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apocalittici Fischler (1990) considera la modernità alimentare unmeccanismo di creolizzazione: la cultura alimentare di massasarebbe attraversata da tendenze centripete e centrifughe cheproducono una sorta di mosaico sincretico universale. Certo se lamondializzazione crea flussi di merci de-localizzati, l’industrializ-zazione tende a tagliare i legami tra prodotto e territorio, discon-nettendo il cibo dal suo più immediato milieu ambientale eculturale. Gli studi più importanti in questo campo hanno peròormai mostrato che la mondializzazione e la standardizzazione siabbina all’eterogeneità e al localismo (cfr. per es. Appadurai 1996).Lo stesso processo di localizzazione procede in due direzionidiverse: implica un cambiamento della cultura locale, ma ancheun aggiustamento degli standard operativi dell’azienda che arrivasu un territorio (Howes 2000). La cucina contemporanea è in effettipresa tra globale da una parte e locale dall’altra, anzi nulla megliodella cucina ci mostra l’intrecciarsi di globalizzazione e localizza-zione. Alla (ri)scoperta del locale e delle tradizioni regionali, siaffianca quella che viene definita World Cuisine, una cucina fusione basata sull’ibridazione di materie prime e preparazioni. Inquest’ottica, se proprio per rispondere alle esigenze del commercioglobale, la messa punto di norme di sicurezza e di regolazione deglialimenti venga progressivamente trasferita ad enti sopranazionali(dal Codex Alimentarius all’Organizzazione Mondiale per il Com-mercio all’Unione Europea), non bisogna porre eccessiva enfasisull’omogeneità culturale e sul crollo delle tradizioni nazionali olocali: l’armonizzazione tra le diverse tradizioni non è affatto scevradi conflitti, come ha mostrato molto bene il caso del cibotransgenico che ha diviso le nazioni del Nord del mondo comequelle del Sud (Sassatelli e Scott 2001).

4. Forse nulla meglio della cucina del nostro paese ci mostrale ambivalenze del sistema alimentare contemporaneo. In Italial’avanzare dell’industrializzazione del sistema alimentare e la pres-sione della globalizzazione non hanno certo cancellato i mestierie le arti della cucina tradizionali, anche se i saperi artigianali sonoin forte mutamento (cfr. Benporat 1999). Se gli anni del secondodopo guerra sono anche quelli in cui si diffondono abitudinialimentari che unificano i gusti degli italiani creando un sensonuovo di appartenenza alla nazione – ricordiamo la promozionedi dolci tipici come il panettone che vengono fatti assurgere asimbolo nazionale (cfr. Camporesi 1995; Helstosky 2004; Monta-

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nari e Capatti 1999; Sorcinelli 1999) – oggi la varietà delle cucinedi territorio del nostro paese è diventata un modello globale, tantoquanto la «dieta mediterranea» – anch’essa peraltro una tradizioneinventata (cfr. Hubert 1998; Teti 1999) – ha fatto breccia nelladietetica profana dei paesi nordici. Le preparazioni e le tradizionigastronomiche locali sono ormai considerate una leva dello svilup-po locale e un patrimonio non solo da salvaguardare ma ancheda sviluppare. Nel 2003 l’Inea ha segnalato oltre 120 prodotticertificati come IGP o DOP e ben 450 denominazioni relative alsettore vitivinicolo. Alcuni di questi prodotti rimangono di nicchiama altri, come il Parmigiano Reggiano, sono chiaramente piccolilussi democratici e di massa e definiscono nuovi percorsi di qualitàdei prodotti alimentari organizzati intorno a significati come«l’artigianalità», il «gusto», la «genuinità» che sembrano offrirenuove fonti di rassicurazione dei consumatori (Gabbai et al. 2004;Murdoch e Miele 1999). Il «tipico» in effetti è ormai non soloun percorso istituzionalizzato di garanzia che traduce l’originelocale e particolaristica in forme burocratizzate e universalistiche,ma anche un codice comunicativo sempre più egemonico, tantoda essere surrettiziamente preso a prestito per pubblicizzareprodotti di largo consumo. Miriadi di manifestazioni – regionali,provinciali, comunali – promuovono la cucina e la gastronomialocale e le forme produttive tradizionali. Il salone internazionaledell’alimentazione nei segmenti di eccellenza «Cibus» a Parma, il«Salone del Gusto» promosso a Torino da Slowfood non sono chela punta dell’iceberg di un settore economico e culturale che staprendendo forte consapevolezza di sé. Del resto, nel mondo globaleil cibo italiano ha un posto tanto preminente quanto e più deifast-food americani: pizza, espresso, spaghetti sono tutti diventatioggetto di catene distributive di grande successo, ma anche iristoranti italiani di alta qualità hanno colonizzato i paesi sviluppatia Est e a Ovest. Peraltro, se l’agricoltura italiana è la seconda inEuropa per volumi dopo quella francese e se proprio l’Italia è ilprincipale produttore europeo di derrate all’avanguardia comequelle biologiche, l’industria della trasformazione alimentare ita-liana è estremamente parcellizzata, esposta alla penetrazione dimultinazionali straniere e, come hanno mostrato molto bene irecenti crack finanziari, non è sempre preparata alle sfide globali(cfr. Fanfani et al. 2001).

Anche per la sua forte dinamicità interna, l’universo dell’ali-mentazione costituisce oggi un’area di studio che, al di là di

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un’apparente leggerezza, si pone come fertile terreno per l’analisidelle implicazioni sociali e politiche del quotidiano. Temi comela fame, l’ineguaglianza, il neocolonialismo, le biotecnologie, lasicurezza alimentare, la sostenibilità ambientale, la responsabilitàdelle imprese, ecc. stanno diventando cruciali in quest’area,avvicinando ad una recente ma ormai ben identificabile tradizionedi ricerca studiosi provenienti da altre sub-specializzazioni socio-logiche, dalla sociologia politica a quella economica a quellaculturale. Se la cucina è spesso stata indicata come uno dei luoghidi riproduzione dell’ordine e delle gerarchie sociali, essa può anchecaricarsi di valenze anti-egemoniche, come ha mostrato WarrenBelasco (1993) nel suo Appetite for Change dove prende inconsiderazione le iniziative alimentari alternative e di protestaportate avanti dalla controcultura americana. È anche sulla scortadi una cultura alimentare alternativa, spesso intrisa di ambienta-lismo, che si è sviluppata l’agricoltura biologica, un settore ancoragiovane ma che sta crescendo in media del 10% annuo a livellomondiale; ed è la cultura ambientalista che unita al movimentomissionario ha favorito lo sviluppo del commercio equo e solidale,che pur cresce di circa il 20% annuo (Sassatelli 2004b).

Del resto poiché i più recenti dati della FAO confermano checirca il 25% della superficie del pianeta è dedicato alla produzionealimentare e che ben 800 milioni di persone sono denutrite risultaimpossibile separare la nostra alimentazione ed i criteri di sviluppodell’agricoltura dalle questioni di salvaguardia dell’ambiente e ditutela dei gruppi svantaggiati. Per certi versi, l’attenzione all’originedel cibo, e quindi il tentativo di «de-feticizzare» i prodottialimentari rendendo più visibile i loro percorsi di produzione, puòessere un modo per mettere in discussione la qualità di ciò chemangiamo da nuovi punti di vista: non solo ambientale come puòaccadere nel biologico, ma anche umanitario come può avvenirenel commercio equo e solidale (Goodman 2002; Guthman 2002;Sassatelli 2004a; 2004b). Questioni di respiro globale vengonoinsomma ormai portate sulla nostra tavola dai nostri piatti:all’imperativo della «sicurezza alimentare» – nel doppio senso dilotta alla fame e alla scarsità (food security) e attenzione a queirischi igienici che sono spesso il risultato non previsto di unaindustrializzazione che doveva eliminare le carenze alimentari (foodsafety) – si affianca oggi la questione della «sovranità alimentare».Come questi rapidi cenni suggeriscono, una filiera alimentaresempre più lunga e complessa come la nostra è carica di nodi

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problematici non sempre visibili che possono essere resi trasparentiapplicando opportunamente la scatola degli attrezzi del sociologo.

5. Identità e differenze, caratteristiche oggettuali e costruzionisimboliche, processi globali e peculiarità locali, rituali di consumoe percorsi di produzione vengono illuminati da un’analisi dei gustialimentari, delle pratiche e delle politiche del cibo. È con questionisimili che si confrontano alcuni tra i protagonisti del dibattitointernazionale in questo numero dedicato alla sociologia dell’ali-mentazione. Il saggio di Alan Warde ci consente di mettere a fuocouna pratica di consumo sempre più importante nelle societàoccidentali, che sollecita, e al tempo stesso struttura, la nostracapacità di scelta: la frequentazione di ristoranti. Warde consideral’attività del mangiare fuori come una forma di consumo culturalee, utilizzando la teoria della pratica, dimostra che mangiare fuoriconsiste in un insieme di conoscenze condivise e in convenzioniche governano le performances individuali. Tali conoscenze econvenzioni, che spesso appaiono semplicemente come «gusti»,sono socialmente differenziate anche se si realizzano nell’ambitodi una pratica ampiamente normalizzata. Antoine Hennion eGeneviève Teil approfondiscono la tematica del «gusto» dal puntodi vista delle pratiche che contraddistinguono il sapere e il sentiredell’«amatore». Considerando il caso di un alimento particolaree profondamente evocativo come il vino, Hennion e Teil mostranoi limiti di una lettura distaccata e ascetica del gusto in cui gli oggettiperdono la loro specificità e diventano solo scuse per la distinzionesociale e, collocandosi a metà strada tra indifferenza critica edifferenza oggettuale, tentano al contempo di offrire alcuni sug-gerimenti per evitare di ricadere in una visione oggettivista. Laricerca di forme di coerenza alimentare che offrano sostegnidell’identità si esprime anche, come sottolinea Alan Beardsworthnel suo saggio, nei regimi vegetariani, fenomeno che coinvolge oggiuna minoranza significativa della popolazione occidentale. Bear-dsworth, che da anni studia il vegetarianismo, si sofferma sulla nonfacile convivenza di contenuti etici e aspirazioni salutiste, invitan-doci a riflettere sui significati dell’astensione volontaria dalle carnie su come essa illumini alcune delle ambiguità della nostra cultura.Tra queste ambiguità vi è anche il nostro atteggiamento neiconfronti della natura e della scienza che si è espresso, tra l’altro,nelle resistenze incontrate dall’applicazione dell’ingegneria geneticaagli alimenti. Proprio traendo spunto dalla questione del transge-

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nico, Anne Murcott, un’illustre veterana degli studi sull’alimenta-zione, e Hugh Campbell chiudono questo speciale presentando unimportante tentativo di gettare un ponte tra la sociologia dell’ali-mentazione che si è concentrata prevalentemente sul consumo ela sociologia rurale che ha studiato il sistema agro-alimentareessenzialmente come catena di istituzioni produttive.

ROBERTA SASSATELLI

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