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Il guardaroba di una signora borgheseMODA E DESIGN TRA MILANO E PROVINCIA NEGLI ANNI ’50

BraDypUS.netCOMMUNICATING

CULTURAL HERITAGE

BOLOGNA 2016

A cura di Martino Rosso

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In copertina: fronte, costume in maglia di lana (cfr. scheda 24a); retro, madre di D. G. al mare, anni ’50.

Progetto grafico BraDypUS – Communicating Cultural Heritage

ISBN 978-88-98392-46-9

Quest’opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale. Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/4.0.

2016 BraDypUSvia Aristotile Fioravanti, 7240129 BolognaCF e P.IVA 02864631201http://bradypus.nethttp://[email protected]

La Commissione Biblioteca desidera ringraziare: Le prestatrici e i prestatori Gli autori: Natalia Aspesi, Arturo Dell’Acqua Bellavitis, Roberto Pini, Madì Reggio Lo sponsor: Yamamay e Raffaella Porrini Eugenia Begatti, Gian Vittorio Bernardi, Olinda Boscolo, Stefania Cason, Fabrizio Menotti, Elisa Petris, Adelchi Rosso, Mirko Scandroglio Archivio fotografico La Triennale di Milano, Gio Ponti Archives - Salvatore Licitra, Archivio Panza Collection, Archivio Alberti-Reggio Il Personale Archivio Storico della Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Milano e quello della Galleria del Costume di Palazzo Pitti, in particolare Caterina Chiarelli e Simona Fulceri Gallia e Peter Cappelli, Calzaturificio Molaschi, Calzaturificio Fratelli Figini.

Un ringraziamento particolare a Dorita Giannoni che mi ha sopportato e supportato fin dall’inizio in questa avventura e senza la quale questa mostra non avrebbe potuto avere luogo.

MR

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Comune di Arsago Seprio

SindacoClaudio Montagnoli

Vicesindaco Assessore allaBibliotecaMartino Rosso

Ufficio CulturaRoberta Scampini - ResponsabileSandy Bertuol

Ufficio Ragioneria e AssicurazioniGigliola Morosi - ResponsabileStefano Monti

Biblioteca Comunale Carla Rossi in Porro

Commissione BibliotecaDorita Giannoni - Presidente

Davide Beia Giovanna ColomboDonata Da ColGessica FerraroMaria Grazia MambrettiGiovanni MartinelliElisa MerlettiFilippo MiotelloGregorio PeregoMartino Rosso

Catalogo

A cura diMartino Rosso

PresentazioneNatalia Aspesi

Testi diArturo Dell’Acqua BellavitisRoberto PiniMaddalena ReggioMartino Rosso

BraDypUs EditoreBologna 2016

Allestimento

Progettazione Elisa Merletti

AllestimentoFalegnameria Mario Merletti s.r.l.

Illuminazione EAV Di Stefano Cicogna e Renato Co-lombo s.n.c.

IL GUARDAROBA DI UNA SIGNORA BORGHESEModa e design tra Milano e Provincia negli anni ‘5015 - 30 Ottobre 2016Centro Culturale Concordia, Arsago Seprio (VA)

Con il patrocinio di:

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Main sponsor:

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9 | PrefazioneNatalia Aspesi

11 | Moda e Design negli anni ’50Arturo Dell’Acqua Bellavitis

19 | Un successo inaspettato: la nascita della moda italianaMartino Rosso

33 | Il guardaroba di una signora borgheseMartino Rosso

47 | Eugenia Alberti negli anni ’50: donnarchitettodocenteMadì Reggio

57 | Tra arte e architettura nella Milano degli anni ’50Roberto Pini

69 | Schede di catalogo

Sommario

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Vengono in mente certi film italiani di quegli anni, soprattutto due di Antonioni, Cro-naca di un amore del 1950 e Le amiche del 1955, due bellissimi film in bianco e nero di un regista che non si era ancora inventato l’incomunicabilità. Nel primo c’è una me-ravigliosa Lucia Bosè dalla vita molto sottile e dai fianchi arrotondati, indispensabi-li alla bellezza d’epoca, in una storia di adulterio nell’ambiente della ricca borghesia lombarda. Ispirato a un racconto di Cesare Pavese, Le amiche si svolge tra l’elegante borghesia torinese, con quattro belle signore dalla vita inquieta, Eleonora Rossi Dra-go, Valentina Cortese, Yvonne Furneaux, Madeleine Fisher. Il film si svolge in una sar-toria d’alta moda, frequentato da queste signore di massima seduzione, di eleganza di gran classe, raramente senza cappello e veletta: nel primo film l’immenso abito bianco da sera a leggeri volants, indossato dalla Bosè, è entrato nella storia del cinema.

In questa mostra sorprendente si torna non solo a quella moda da gran signora, ma a un mondo di essere donna adulta anche a vent’anni, proprio mentre in Francia la giovanissima Brigitte Bardot stava lanciando, e per sempre, l’immagine adolescen-te. Allora, le donne della borghesia italiana raramente lavoravano, il loro compito era quasi esclusivamente sposarsi, diventare madri, rifiutare ogni ruolo domestico, es-sere belle e alla moda come trofeo dei propri mariti.

Le più attente ai begli abiti e al loro rinnovarsi più volte all’anno, erano le signore della provincia industriale Italiana, che nel caso del gallaratese, confluivano a Milano o a Varese negli atelier di grandi sarti, dove le sfilate erano proibite alla stampa per evitarne ogni riproduzione. La moda industriale, quella femminile iniziata da poco, non competeva questo tipo di clienti, che sceglievano il modello e il tessuto di un capo d’abbigliamento sempre fatto su misura, il che richiedeva più prove ma che in-

Prefazionedi Natalia Aspesi

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tanto nascondeva gli eventuali difetti ed esaltava ciò che andava messo in evidenza. A parte le grandi sarte, c’erano in quegli anni 400 mila sartine che spesso andavano di casa in casa a ricostruire vecchi abiti o che riproducevano quelli di alta moda, con le loro capacità non sempre grandiose: però l’anno dopo, quando i modelli potevano essere fotografati e pubblicati sulle riviste.

Nella mostra sono raccolti anche i mobili di quegli anni di grande design italiano, tuttora nelle case delle famiglie che hanno conservato e imprestato questi inimita-bili modelli, che però non si indossano più.

Il massimo segno di quel tempo, di quel tipo di signora, di quella sua immagine, è rappresentato da capelli e cappellini: allora una vera signora non sarebbe mai uscita a capo scoperto, come le altre donne meno abbienti o più ribelli. Però, tra tante più essenziali liberazioni, ormai da decenni il cappello si porta raramente per segnare la propria classe privilegiata o esaltare la propria civetteria: al massimo per ripararsi dal freddo e allora è tutta un’altra storia.

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Lo sguardo curioso che questa mostra ci offre sul Guardaroba di una signora borghese negli anni ‘50, ci dice molto di più dell’evoluzione della moda italiana in un decennio cruciale per la sua storia: ci apre uno spaccato ricco e composito su quel decennio incredibile del boom economico italiano, quando con slancio, generosità e sacrificio, gli italiani, da nord a sud, seppero di fatto andare ben oltre la semplice “ricostruzio-ne”, ponendo le basi di molte storie di successo che continuano ancora oggi e che hanno fatto e fanno grande tuttora il nome del made in Italy nel mondo.

Dietro il termine ricostruzione, si celano infatti tanto i bisogni contingenti e le ne-cessità primarie della popolazione stremata dalla guerra quanto il desiderio di stare al passo con un mondo in rapida crescita. Sono gli anni della quantità, in cui l’industria dell’arredo è chiamata a dare una risposta ad una domanda in crescita continua e costante. Sono però anche gli anni della migrazione interna, quando le città indu-striali del nord attirano i lavoratori del sud svuotandone le campagne e creando al nord i primi grandi quartieri dormitorio delle periferie. Ma le grandi industrie, come la Montecatini, non sono solo la causa di questi sconvolgimenti sociali e urbani e promuovono attivamente lo sviluppo e la ricerca, con scoperte che daranno nuovo lustro al paese, se si pensa per esempio alle diverse scoperte di quegli anni ad opera di Giulio Natta nell’ambito delle materie plastiche, scoperte che saranno poi ricono-sciute con il Nobel per la chimica nel 1963.

E sempre un giovane ingegnere chimico, Giulio Castelli, aveva fondato nel 1949 la Kartell con lo scopo dichiarato di «produrre oggetti che avessero caratteristiche inno-vative, intese come applicazione di nuove tecnologie produttive, rivolte all’economia

Moda e Design negli anni ’50di Arturo Dell’Acqua Bellavitis

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del materiale e all’efficienza del processo»1. Un’avventura che dopo il primo successo del portasci K101 (tutt’oggi primo oggetto orgogliosamente in mostra all’interno del museo aziendale), porterà la Kartell a stampare i primi casalinghi in plastica e a vince-re nel 1955 il primo di una lunga serie di compassi d’oro, il più antico premio mondiale di design, «nato da un’idea di Gio Ponti» solo un anno prima e «per anni organizzato dai grandi magazzini la Rinascente, allo scopo di mettere in evidenza il valore e la qua-lità dei prodotti del design italiano allora ai suoi albori»2. Premi dovuti, soprattutto i primi, ad una sapiente fusione di tecnologia e design, dove l’innovazione di Castelli veniva bilanciata da un’analoga attenzione per le forme e la funzionalità degli oggetti (che oggi definiremmo user friendly) grazie all’intelligente lavoro della moglie, l’archi-tetto Anna Castelli Ferrieri, come direttrice artistica e designer, ma anche grazie al lavoro di altri celebri architetti e designer come Sapper, Zanuso, Aulenti, Sottsass, e il forse meno acclamato, ma pluripremiato, Gino Colombini.

A quel tempo, invece, destano forse ancora poca attenzione il mondo e l’industria della moda, che pure vedono un incredibile sviluppo. Sin dal termine della guerra, nel 1945, un’azienda ancora familiare come Gucci aveva infatti iniziato ad esportare i propri prodotti in America, riuscendo ad aprire nei primissimi anni ‘50 una delle prime boutique monomarca di moda italiana a New York. Ma negli anni ‘50 è già molto attiva anche Giuliana Camerino con il suo marchio Roberta di Camerino, che

1 G. CASTELLI, 1949; cfr. http://www.kartell.com/experience/it/pages/museum/ [12/09/2016].2 ADI, Compasso d’oro, 2016; cfr. http://www.adi-design.org/compasso-d-oro.html [12/09/2016].

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verrà premiato nel 1956 con il Neiman Marcus Award per le sue iconiche borsette3 caratterizzate, oltre che dallo stile innovativo ed anticipatore delle future tendenze, per la qualità del lavoro artigianale. Negli anni ‘50 infatti l’alta moda italiana iniziava ad essere riconosciuta anche all’estero per l’indubbia qualità delle materie prime e soprattutto per le grandi doti dei suoi artigiani, artigiani come Salvatore Ferragamo, che pure aveva vinto il Neiman Marcus Award ancora nel 1947 e che proprio del suo saper fare aveva fatto la base di una fiorente avventura imprenditoriale.

Ma gli anni ‘50 sono naturalmente anche gli anni dello sviluppo del pronto moda sempre nel nome dei grandi numeri e del design democratico. Il tema del design per tutti è infatti un tema trasversale che pervade la società degli anni ’50 che mira esplicitamente a promuovere il benessere per tutti un po’ in tutti i settori, dalla casa all’arredo, alla moda. Cantieri aperti e fabbriche per la produzione di massa ricopro-no il nostro territorio alla continua ricerca di abbreviare i tempi di produzione, sti-molando le innovazioni e imprimendo una veloce accelerazione ai consumi. Design democratico e velocità ben simbolizzati da un’icona del design italiano anni ‘50 come la Fiat 500 (in produzione dal 1957) che del resto riesce ad imprimere alle quattro ruote lo stesso incredibile successo popolare e di massa che le due ruote avevano avuto sin dalla fine degli anni ‘40 e che ancora avranno per lungo tempo con la Lam-bretta e la Vespa.

3 Emblema di questo successo internazionale sono infatti le sue borsette Bagonghi, miniaturizzazio-ne del modello della tradizionale “borsa da medico”, “interpretata non più in pelle, ma [...] in tessuto. Dentro ci sta tutto» cfr. E. PREMOLI, 99 Icone. Da segno a sogno, Lubrina Editore, Bergamo, 2007.

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Vespa Piaggio modello 150, detta anche “struzzo”, 125cc, 1953. Courtesy 3 Zetaci – Arsago Seprio (VA).

LambrettaInnocenti model-lo 125D, 125cc, 1954. Courtesy 3 Zetaci – Arsago Seprio (VA).

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Ma come si diceva anche il mondo dell’arredo è indubbiamente pervaso da un analogo spirito di “velocità e democraticità” che porta a concentrarsi su nuovi ma-teriali e nuove soluzioni tipologiche, che porteranno al successo della cucina all’ame-ricana4. Dopo la guerra, del resto, in Europa gran parte del mercato è saldamente in mano alle grandi industrie americane alle quali ben note sono le strategie pubblici-tarie e di marketing: tramite un uso mirato del messaggio e un sistema di valori quali benessere, sicurezza, consumo, solleticano e sollecitano le aspirazioni borghesi pro-ponendo la cucina come uno dei segni di distinzione sociale, come status symbol, ma al tempo stesso propongono un sistema di arredo integrato e attrezzato, in grado di adattarsi omogeneamente a qualsiasi locale5. Adattabilità, parola d’ordine anche nei materiali, grazie alla brillante capacità dell’intero sistema produttivo del mobile italiano, in grado di tradurre quelle forme e quei sistemi per la filiera italiana della lavorazione del legno, unendo modernità e tradizione.

Cultura di massa e cucina all’americana nascono e procedono parallelamente proprio perché entrambe risultano prodotte secondo regole di qualità industriale, divulgate tramite tecniche di comunicazione di massa e rivolte ad una società inter-nazionale e policulturale.

Parallelamente però il design italiano è in grado di sviluppare proprio negli anni ‘50 quella corrente di “regionalismo” internazionale che vede in edifici come la Tor-

4 A. DELL’ACQUA BELLAVITIS, Sperimentare nuove estetiche in G. CELANT, S. ANNICCHIARICO, Cu-cine & Ultracorpi, Electa, Milano, 2015.5 Ibidem.

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re Velasca di Milano uno dei suoi simboli, e che pure in alcuni pro-dotti di Giò Ponti, come la sua Su-perleggera mostra ancora una volta un’incredibile capacità di tradurre in linguaggio moderno ed interna-zionale i materiali della tradizione (come il legno ed il midollino) ed anche alcune forme archetipiche (molta della leggerezza della sedia di Ponti è infatti dovuta alla cono-scenza dell’archetipo della tradizionale sedia di Chiavari). Una sedia ancora oggi in produzione, in grado di rappresentare una vera e propria “sfida produttiva” per l’a-zienda, «una sfida racchiusa nella sezione triangolare delle gambe, la più ridotta pos-sibile compatibilmente con le esigenze costruttive essenziali. Una sezione che, disse Ponti, “assottigliando visualmente la forma, la esprime»6. E se Ponti avviò in quegli anni fertili collaborazioni con svariate imprese ed artigiani, la produzione di altri ar-chitetti/designer venne invece caratterizzata da rapporti piuttosto stabili all’interno dei quali l’abile intuizione progettuale era sempre sostenuta da una considerevole capacità manifatturiera, legata a tradizioni antiche, saper fare ed apertura al nuo-

6 CASSINA S.P.A., 699, (2016) Reperibile al: http://www.cassina.com/it/collezione/sedie-e-poltron-cine/699/ [12/09/2016].

Immagine pubblicitaria della sediaSuperleggera, 1957. Courtesy Gio Ponti Archives – Salvatore Licitra.

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vo. Rapporti che in prospettiva storica potrebbero definire dei veri e propri binomi progettuali, come il binomio Albini/Poggi, Borsani/Tecno o Zanuso/Arflex. La fale-gnameria Carlo Poggi di Pavia eseguirà infatti con maestria le principali opere del design di Albini negli anni ‘50 e oltre, Albini che, pur avendo già collaborato anche con Knoll, F.lli Bonacina, F.lli Cassina e Arflex, proprio a Poggi affiderà alcuni dei suoi pezzi più noti tra i quali il tavolino Cicognino e il tavolo TL3 nel 1953 o la libreria LB7 e la poltrona Fiorenza nel 1956. Ma di “binomi” si può parlare anche per il rapporto tra Borsani e Tecno o tra Zanuso ed Arflex, rispettivamente con il divanetto D70 (1954) dotato di un giunto meccanico fattosi decorazione e con l’iconica poltrona Lady (1951) dalle forme morbide a ben rappresentare queste feconde collaborazio-ni/unioni tra designer e produttore.

Questa mostra ha quindi il raro pregio di analizzare in modo attento e curioso, visti da un’ottica inconsueta, parte di questi temi complessi che hanno attraversato tutto il decennio e che sono tutt’ora alla base di molta parte della nostra industria del design e della moda.

Poltrona Lady, disegnata da

Marco Zanuso e prodotta da

Arflex dal 1951. Esemplare acqui-stato da L.A.-N.F.

nel 1957. Rifoderata.

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BibliografiaG. CELANT, S. ANNICCHIARICO, Cucine & Ultracorpi, Electa, Milano, 2015.

E. PREMOLI, 99 Icone. Da segno a sogno, Lubrina Editore, Bergamo, 2007.

Sitografia http://www.adi-design.org/compasso-d-oro.html [12/09/2016].

http://www.cassina.com/it/collezione/sedie-e-poltroncine/699/ [12/09/2016].

http://www.kartell.com/experience/it/pages/museum/ [12/09/2016].

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Prima degli anni Cinquanta: prove di indipendenzaPotrebbe sembrare difficile determinare quando sia nata la moda italiana, tuttavia, se al termine moda attribuiamo il significato corrente di sistema creativo, artigia-nale, industriale e commerciale relativo alla produzione di abbigliamento, non pos-siamo che focalizzare la nostra attenzione su un periodo storico molto preciso: il decennio che va dal secondo dopoguerra alla metà degli anni cinquanta1.

Non si vuole infatti dimenticare l’alterna fortuna che la moda italiana ebbe in de-terminati periodi storici precedenti2, né la presenza di alcune figure di spicco a li-vello internazionale, ma questi si ricollegano maggiormente alla storia del costume, nel primo caso, o ad esempi isolati di artigiani – che spesso fecero fortuna all’estero – nel secondo.

A titolo esemplificativo si possono citare Rosa Genoni, vincitrice nel 1906 del Gran Premio per la sezione Arte decorativa dell’Esposizione Internazionale di Mila-no con abiti ispirati alla pittura italiana rinascimentale, Mariano Fortuny – spagnolo di nascita, ma italiano di adozione – che diventò famoso in tutta Europa per i suoi manti e per il celebri abiti delphos e Maria Monici Gallenga che riscosse un certo

1 «La moda italiana non ha rappresentato solamente un fenomeno che ha dato la possibilità a dei creativi di esprimersi; essa ha strutturato un sistema economico e sociale, ha generato una cultura tecnica e tecnologica e, dagli anni Cinquanta, si propone al mondo come patrimonio del “saper fare”». Cfr. G. M. CONTI, I precursori della moda, in G. M. CONTI, Design & moda. Progetti, corpi, simboli, Giun-ti, Firenze Milano, 2014, p. 31.2 Si pensi ad esempio al rinnovamento del gusto di epoca umanistico-rinascimentale.

Un successo inaspettato: la nascita della moda italianadi Martino Rosso

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successo all’Esposizione Universale di Parigi del 1925; né si può dimenticare Elsa Schiapparelli che, tuttavia, è da considerare più couturier parigina che italiana.

Una fortissima spinta affinché la moda italiana si affrancasse dai dettami francesi era stata messa in atto anche ad inizio secolo grazie all’intervento di stampo nazio-nalistico della Regina Margherita e, successivamente, dal regime fascista che via via impose un sistema autarchico sempre più rigido. Nel 1935, a Torino, era stato istitu-ito l’Ente Nazionale Moda3 che aveva il compito di supportare ed indirizzare la pro-duzione di abbigliamento nella Penisola. Godendo di un grandissimo potere, l’Ente cercò di disciplinare dall’inizio il settore, arrivando nel 1937 ad obbligare tutte ditte iscritte a marchiare il 25% della produzione con la “Marca di garanzia” di italiani-tà di disegno e confezionamento del capo4. Tutti questi sforzi, tuttavia, non ebbero grande successo: mancavano una struttura di istruzione e avviamento professiona-le, così come un sistema industriale e commerciale; né la stampa aiutò nell’impresa. Le signore continuavano a desiderare capi di ideazione francese realizzati su misura dalle ottime sartorie disseminate in ogni città, e così i vestiti contraddistinti dalla Marca non andavano in produzione e quest’ultima si riduceva ad una mera imposi-zione burocratica5.

3 Si trattava del diretto successore dell’Ente autonomo per la mostra permanente nazionale della moda, nato nel 1932, chiuso dopo soli tre anni per innumerevoli lacune. Cfr. S. GNOLI, Moda. Dalla nascita della haute couture a oggi, Carocci editore, Roma, 2012, pp. 81-86.4 Nel 1939 sarebbe stata introdotta anche la “Marca d’oro” per le migliori case di moda; conferita, tuttavia, solo a partire dal 1941.5 Diversa fortuna ebbero i tessuti italiani, soprattutto quelli artificiali il cui settore, dopo la crisi del

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Nonostante il forte impegno, la moda italiana rimase un fenomeno provinciale o poco più; isolato all’interno dei confini del territorio nazionale: il resto del mondo vedeva ancora la Francia, ed in particolare Parigi, come unica, sola ed indiscussa ide-atrice di stili e tendenze. E a ben guardare anche in Italia, all’indomani del secondo conflitto mondiale, molte sartorie avevano ripreso ad acquistare i disegni dei mo-delli francesi o a copiarli più o meno legalmente, assecondando, peraltro, ciò che le clienti richiedevano.

La fine della guerra, però, aveva portato con sé anche molte novità e, mentre a Parigi Balenciaga giocava con i volumi e con una perfezione sartoriale assoluta e Dior lanciava il New Look, in Italia si accennavano i primi passi di quella che sarà la moda italiana.

Prima di affrontare la questione della Sala Bianca di palazzo Pitti, occorre bre-vemente sottolineare che nella seconda metà degli anni Quaranta la situazione in Italia non era immobile e si stavano creando le condizioni per il grande avvenimen-to del 1951.

Le sartorie storiche fornitrici della Real casa, della nobiltà e della gerarchia fasci-sta, infatti, avevano chiuso o l’avrebbero fatto entro poco, mentre la voglia di rico-

1929, ebbe ingenti investimenti che diedero frutto. Aziende come la CISA Viscosa, la SNIA Viscosa e la Montecatini, oltre a produrre fibre destinate a vita breve come il lanital, la cisalfa, il ramì, l’orbace, lo sparto di gelso, la ginestra, si dedicarono alla produzione del rayon che rappresentò una vera e propria rivoluzione nel mondo del tessile. Cfr. S. GNOLI, Moda. cit., pp.93-96 e E. PEDEMONTE (a cura di), Fibre, tessuti e moda, Marsilio, Venezia, 2012, pp. 55-60.

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struire e ricominciare aveva pervaso anche il settore dell’abbigliamento, portando in auge imprese giovani, alcune nate alla fine degli anni trenta in poi o, addirittura, ex novo. Carosa, Veneziani, Roberta di Camerino, Curiel, Gattinoni, Simonetta, Pucci e Capucci si affiancano a Marucelli, Biki, Sorelle Fontana, Antonelli, Vanna, Gabriella-Sport già sulla scena da qualche anno.

Da questo punto di vista il 1947 fu un anno eccezionale e di svolta. Innanzi tutto, per il varo del Piano Marshall, che saldò definitivamente il rapporto privilegiato con il mercato statunitense, da subito individuato come vera ed unica possibile direzione di espansione estera per la moda italiana, e in secondo luogo perché si cominciavano ad intravedere i primi segnali di riconoscimento di quello che sarebbe diventato il made in Italy. In quell’anno, infatti, fu assegnato a Salvatore Ferragamo il prestigioso Neiman Marcus Fashion Award6; Toni Frissel immortalò delle tute da sci di Emilio Pucci che vennero pubblicate su Harper’s Bazaar, ma anche Fortune, Vogue e Vogue British pubblicarono diversi servizi sull’Italian fashion e le fine Italian hand. Comincia-rono, infine, a giungere i primi buyers, presenza che diventerà più costante dal 1949.

Sempre nel ’49 ci fu un altro importante avvenimento: il matrimonio fra Linda Christian e Tyron Power. Questo avvenimento si presta ad una duplice chiave di lettura. La prima e più contingente è legata alla realizzazione dell’abito da sposa dall’atelier delle Sorelle Fontana che ebbe un successo strepitoso e che catapultò la maison sulla scena mondiale. La seconda è di carattere più generale e testimonia il legame e l’importanza del cinema per i creatori italiani, sia come costumisti sia per il

6 Quell’anno il premio fu conferito anche a Christian Dior, Norman Hartnell e Irene Gibbons.

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rapporto privilegiato che Roma e Venezia ebbero con il grande schermo e con divi e dive di fama mondiale7.

In tutta la penisola fu un susseguirsi di mostre, festival, sfilate e presentazioni, sostenuti da enti e comitati pubblici o privati, spesso, purtroppo, aspramente in lotta tra loro. Nel 1946 si tenne la prima Mostra nazionale dell’arte della moda, promossa dall’Ente moda nato l’anno precedente e che nel 1951, con il riconoscimento statale, prenderà il nome di Ente italiano moda. Nel 1949 mentre a Milano veniva costituito il Centro italiano della moda, a Roma si creava il Comitato della moda, destinato ad avere vita molto breve. Come se ciò non fosse sufficiente, a Venezia nel 1950 Franco Marinotti, proprietario della SNIA Viscosa, aveva fondato il Centro internazionale arti e costume che organizzava regolarmente sfilate, mostre ed eventi8 e la prolife-razione di organismi non si fermò negli anni seguenti9.

7 «Fu essenzialmente grazie alle produzioni hollywoodiane e al mondo di attori, attrici, giornali e quant’altro girava intorno a tutto ciò, che la moda italiana si affermò per gli americani come uno degli aspetti centrali dell’immagine dell’Italia quale Paese delle vacanze e del ‘bel vivere’.» Cfr. A. MERLOT-TI, I percorsi della moda made in Italy, in Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Tecnica, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 2013 (voce consultata on line).8 L’archivio del CIAC è stato acquistato nel 1981 dal comune di Venezia e con l’archivio di Vittorio Cini, comprato nel 1985, costituisce la raccolta documentale fondante del Centro Studi di Storia del Tessuto e del Costume di Palazzo Mocenigo. L’archivio privato della famiglia Marinotti, invece, è stato donato al Museo del 900 di Milano nel 2016.9 A Roma nel 1953 nacque il Sindacato italiano alta moda, nel 1958 la Camera sindacale della moda italiana e nel 1962 la Camera nazionale della moda italiana; mentre nel 1954 a Firenze sorse il Cen-tro di Firenze per la moda italiana. Per le vicende degli enti sopra descritti, tra gli altri, cfr. A. MER-

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Giovanni Battista Giorgini, l’Italian High Fashion Show e i “dissidenti”Le premesse per la nascita di una moda italiana cominciarono a comparire all’inizio del secolo scorso, tuttavia esiste una data precisa alla quale far corrispondere il feli-ce evento: il 12 febbraio del 1951.

Giovanni Battista Giorgini, contando solo sulle proprie forze e grazie ad una ca-parbietà granitica e a una abilissima capacità relazionale e organizzativa, riuscì a rac-cogliere nella propria abitazione privata, villa Torregiani a Firenze, in quasi solitudi-ne istituzionale, undici sartorie e uno sparuto numero di buyer di department stores americani di ritorno da Parigi per il First Italian High Fashion Show. Questi avevano accondisceso alle richieste di Giorgini più come un favore personale, che non per una seria aspettativa. Nasceva così, un po’ in sordina, quello che sarebbe diventato uno dei settori produttivi più importanti della Nazione.

Giorgini non era nuovo al mondo del commercio di prodotti artigianali toscani, attività alla quale prese a dedicarsi fin da ragazzo. Era inoltre un ottimo conoscitore del mercato americano, visto che fin dal 1924 aveva cominciato a viaggiare negli Stati Uniti d’America, dopo aver fondato una ditta di import/export. Ciò gli aveva permesso di diventare agente di acquisto per i grandi magazzini e di essere stato incaricato di aprire l’Allied Forces Gift Shop a Firenze dopo la fine della guerra. La conoscenza del mercato e dei gusti degli americani gli permisero, inoltre, di suggeri-re modifiche e a volte di indirizzare, se non rivoluzionare, la produzione artigianale

LOTTI, I percorsi della moda, cit.

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tradizionale, affinché incontrasse il gusto dei compratori d’Oltreoceano. Quattro furono i department stores americani rappresentati: B. Altman and Com-

pany di New York, Bergdorf Goodman di New York, Henry Morgan di Montreal, I. Magnin di San Francisco, mentre le cinque giornaliste presenti erano: Elisa Massai, corrispondente del Women’s Wear Daily, Elsa Robiola, direttrice di Bellezza e in-viata di Tempo, Vera Rossi di Novità, Misia Armani del periodico I Tessuti Nuovi e Sandra Bartolomei Corsi per il quotidiano Il Secolo XIX.

Carosa, Fabiani, Fontana, Marucelli, Noberasco, Schuberth, Simonetta, Vanna e Veneziani presentarono modelli di alta moda, mentre Emilio Pucci e la Tessitrice dell’Isola furono scelte per proporre la moda boutique. Facevano da cornice un nu-trito numero di case per la produzione di maglieria e accessori.

L’ultima sera di questi tre giorni di sfilate prevedeva un grande ballo con tutta la nobiltà fiorentina alla quale si chiedeva espressamente di indossare «abiti di pura ispirazione italiana».

«Il successo di questa prima manifestazione fu strepitoso, la critica entusiasta e le creazioni italiane, con costi del 50% inferiori rispetto a quelle francesi, registrarono immediatamente il tutto esaurito»10.

In effetti il costo molto inferiore rispetto ai modelli parigini fu un fattore impor-tante, ma, ovviamente, non bastava a spiegare il successo ottenuto. Bisogna, infatti, aggiungere la qualità dei tessuti, delle lavorazioni e dei materiali, si pensi ad esempio ai ricami e alla pellicceria che sapevano coniugare innovazione e tradizione, oltre alla

10 Cfr. S. GNOLI, Moda. cit., p. 169.

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fantasia nel modellare abiti da sera, ma anche vestiti da giorno pratici, sportivi, gio-vani, con materiali innovativi che si stabilivano a mezza via tra la standardizzazione americana e la haute couture francese11.

Le due edizioni successive si tennero presso il Grand Hotel di Firenze, mentre da luglio 1952 Giorgini ottenne l’uso della Sala Bianca di Palazzo Pitti, ambiente sfar-zoso e prestigioso che coniugava stile ed eleganza all’immagine di un’Italia ricca di capolavori artistici rinascimentali, tanto importante per adulare e convincere i com-pratori stranieri.

Non mancarono le difficoltà e i litigi fra sarti e con l’organizzazione delle sfilate, spesso fortemente fomentate dai vari enti torinesi, milanesi e romani, invidiosi del successo fiorentino.

Tra il 1952 e 1953 cominciarono le prime defezioni con la così detta “scissione romana”: Fabiani, Fontana, Simonetta e Schuberth decisero di presentare le proprie collezioni a Roma, invitati dal neonato Italian Fashion Service. In parte le sartorie tor-narono sui propri passi qualche anno più tardi, ma fenomeni di questo tipo si ripete-rono anche successivamente. I motivi di lamentazione principali erano due: il dover spostare la collezione e l’atelier a Firenze per una settimana e le regole della Sala Bianca che imponevano una passerella unica con un numero massimo di uscite.

Il successo della Sala Bianca comunque proseguì inesorabile e i numeri ne sono testimonianza: nel 1955 i compratori erano saliti a 500 e i giornalisti a 200, il valore

11 Cfr. A. FIORENTINI CAPITANI, S. RICCI, Le carte vincenti della Moda Italiana, in G. MALOSSI (a cura di), La sala bianca: nascita della moda italiana, Electa, Milano, 1992, pp. 87-127.

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delle esportazioni di abbigliamento passò da circa 455 milioni di lire nel 1951 a 1 miliardo e 280 milione a metà decennio, senza contare che la pubblicità indiretta che Giorgini riusciva a procurarsi negli USA valeva 200 mila dollari12.

Giorgini lasciò la direzione dei Fashion Show nel 1965 e dal 1972, con la nascita del prêt-à-porter, le sfilate si trasferirono progressivamente a Milano, non senza aver prima scritto la storia della moda e del costume di due decenni e aver lanciato alcuni fra i più grandi stilisti italiani.

La moda boutiqueCome si è visto il successo della moda italiana coinvolse molti fattori di natura esteti-ca, produttiva ed economica; tra questi il più importante, probabilmente, fu la moda boutique, del tutto sconosciuta a Parigi.

Si creò così un fenomeno del tutto peculiare che differiva dalla moda pronta per l’artigianalità della produzione, la precisione quasi sartoriale e l’eleganza del design, ma non era possibile considerarla alta moda né per il prezzo, né per le linee e tanto-meno per i materiali.

Si trattava piuttosto di un abbigliamento quasi sempre da giorno, giovane, con-temporaneo, adatto al nuovo ruolo della donna. Che si trattasse di un abito da gior-no, di una mise da sera o di un completo da mare, la leziosità francese e la rigidità

12 Cfr. G. VERGANI, La Sala Bianca: nascita della moda italiana, in G. MALOSSI (a cura di), La sala bian-ca cit., p. 68.

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tipica di alcuni indumenti di alta moda erano banditi in favore di linee più semplici, di capi più comodi, di modelli più sportivi e di colori più sgargianti.

Seguendo, forse senza volerlo, l’intuizione avuta da Giorgini si voleva puntare su un prodotto diverso che si rifacesse alla tradizione artistica e artigianale, man-tenendo una patina d’allure. Come spiega Enrica Morini, la sfida era attingere dalla tradizione senza cadere nel folklore, rievocare il mare senza proporre souvenir, ri-collegarsi alla tradizione artistica italiana senza cadere nella citazione dei quadri13.

Anche i materiali erano del tutto nuovi per prodotti di alta gamma. Figli diretti della “moda crisi”, che nel dopoguerra aveva costretto i produttori ad utilizzare qual-siasi cosa a disposizione per non bloccare la produzione, inaspettatamente risulta-rono gradevoli, utilissimi, combinati con la sapienza manuale di artigiani che normal-mente li lavoravano per altri scopi. Le suole in sughero di Ferragamo, i ricami in rafia delle Sorelle Fontana, i cappelli in paglia di Pucci e la tessitura manuale a telaio della Tessitrice dell’Isola sono solo alcuni esempi fra più noti. Questi ultimi due designer, in particolare, segnarono l’inizio della moda boutique e la rappresentarono in tutti i suoi aspetti. Nobili di origini, ma decaduti economicamente, cominciarono la loro attività legando il loro nome all’isola di Capri, al jet set internazionale, alle feste in-formali e a un gusto per il bello ed il sofisticato di sapore più popolare14.

13 Cfr. E. MORINI, Storia della moda. XVIII – XXI secolo, Skira, Ginevra-Milano, 2010, pp. 395-415.14 L’isola di Capri fu un luogo fondamentale per la moda boutique. Qui nacque quello stile “métissage” tra alta moda e sport, adatto a soddisfare le richieste di abbigliamento da mare – che fosse comunque glamorous – delle facoltose frequentatrici dell’isola. Nell’ex convento di Anacapri, sede di La Tessitrice

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Anche i tessuti partecipavano a questo rinnovamento sia per la novità dei filati e dei trattamenti, sia per il loro aspetto grazie all’utilizzo di stampe multicolore, di effetti trompe l’oeil o di pittura eseguita a mano.

La provenienza nobiliare di moltissimi interpreti della moda boutique, oltre che dell’alta moda, fu sicuramente un enorme aiuto sia per la commercializzazione dei prodotti fra gli strati più facoltosi della società, sia perché erano usi al cerimoniale della mondanità; ciò finì per influenzare anche la più alta couture italiana15.

Le donne americane apprezzarono moltissimo questi abiti così adatti al loro stile di vita e ne decretarono la fortuna. «Durante la guerra l’industria della moda americana si era affrancata dall’influenza francese e aveva creato uno stile estremamente inno-vativo e specificamente pensato per il modello di vita di quel paese. Produceva un’alta moda di altissima qualità […]. Il mercato degli Stati Uniti, però, era tanto vasto da acco-gliere anche altri prodotti». A ciò dobbiamo aggiungere l’altissima qualità che mante-nevano i prodotti italiani, l’estro creativo dei nostri stilisti e il costo molto contenuto.

dell’Isola, qualche anno più tardi si istituì la rassegna Mare Moda Capri, dove sfilarono anche Albini, Krizia, Missoni, Schön, Valentino e Sarli. Cfr. B. GIORDANI ARAGNO, Boutique, una somma di concetti e novità, in Italian glamour. L’essenza della moda italiana dal dopoguerra al XXI secolo, Skira, Ginevra-Milano, 2014, pp. 10-15.15 Gabriellasport era stata fondata dalla contessa Gabriella de Borsari (di Robiliant in prime nozze); Simonetta era nata duchessa Colonna di Cesarò e aveva sposato, in prime nozze, Galeazzo Visconti Modrone; Giovanna Caracciolo Ginetti di Avellino, proprietaria della sartoria Carosa, e Irene Galitzi-ne erano principesse; marchesi erano Emilio Pucci di Bersento e Olga Cisa Asinari di Grésy, mentre Clarette Gallotti – La Tessitrice dell’Isola – era baronessa.

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In secondo luogo non è da sottovalutare la riproducibilità maggiore di molti mo-delli, per i quali si poteva passare ad una produzione su più vasta scala in America16.

Da ultimo non bisogna dimenticare l’apporto fornito dagli accessori alla riuscita del progetto di definizione di una moda italiana, sia come valido supporto in pas-serella, sia come settore produttivo a sé stante. L’esperienza di Giorgini in ambito artigianale lo portò ad interessarsi e a sostenere questi creatori fin dalla prima ma-nifestazione in casa propria, dedicando loro alcuni locali e, successivamente, orga-nizzando un’esposizione dei loro prodotti in palazzo Strozzi.

Il decennio fu chiuso da un’altra principessa, Irene Galitzine, che debuttò in Sala Bianca nel 1959 e arrivò alla grande notorietà l’anno successivo, quando presentò una serie di completi composti da pantalone e casacca in shantung di seta dai colori sgargianti. Era una collezione adatta alla sera e al giorno, a Capri e ai palazzi romani, un po’ boutique e un po’ alta moda; racchiudeva in sé l’esperienza degli anni Cinquan-ta e apriva agli anni Sessanta. Diana Vreeland, estasiata, li soprannominò “Pyjama Palazzo”: era un nuovo capitolo della storia della moda.

16 Cfr. E. MORINI, Storia della moda. cit., p. 403 e A. FIORENTINI CAPITANI, S. RICCI, Le carte vin-centi… cit., p. 95.

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Il guardaroba di una signora borghesedi Martino Rosso

Moda e design tra Milano e provincia negli anni ’50.L’idea della mostra “Il guardaroba di una signora borghese. Moda e design tra Milano e provincia negli anni ‘50” nasce dal ritrovamento fortuito del guardaroba – piutto-sto completo – di una famiglia di imprenditori tessili del gallaratese ascrivibile a que-gli anni. Attorno a questo primo nucleo di abiti si è sviluppata un’idea più strutturata, grazie anche all’aggiunta di altri tre guardaroba coevi e, sostanzialmente, omogenei.

Dopo un’analisi più approfondita, si è individuato quale filo conduttore dell’espo-sizione il rapporto tra questi committenti e le sartorie di Milano presso le quali si servivano. Gli abiti presentati, infatti, non provengono dalle più celebri creatrici di moda di quegli anni, partecipanti alle sfilate della sala Bianca di Palazzo Pitti1, ma si inseriscono piuttosto nella vita comune della borghesia lombarda di quegli anni.

Sono gli anni della Ricostruzione prima e del boom economico poi, anni di pro-sperità e di cambiamento, anni che viaggiano sul doppio binario della tradizione – il decennio si apre con l’Anno Santo del 1950 – e dell’innovazione, del cambiamento sociale, della progressiva libertà di costumi e comportamenti. Non a caso il decennio si chiude nel 1960 con la presentazione de La dolce vita di Federico Fellini, affresco, forse un po’ esasperato, della Roma di metà secolo.

Per quanto riguarda il mondo della moda la capitale incontrastata è ancora Parigi e la nascente moda italiana stenta ad imporsi. Tra il 1949 e il 1950, quando Gior-gini cercherà di organizzare la prima sfilata di moda italiana, faticherà non poco a

1 M. ROSSO, Un successo inaspettato: la nascita della moda italiana, cfr. infra.

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trovare giornalisti e buyer interessati all’evento fiorentino, così come molto restie a partecipare furono le sartorie. Queste, infatti, erano abituate a copiare i modelli francesi e temevano che le proprie clienti le avrebbero abbandonate se avessero saputo che gli abiti non erano di derivazione parigina. Nelle menti di tutti Parigi era la moda. D’altro canto era consuetudine inveterata quella di andare personalmente in Francia per copiare i modelli, oppure comprare gli schizzi da appositi disegnatori che assistevano alle sfilate per rivenderli in Italia. C’era poi chi acquistava il modello o la teletta direttamente dalle maisons, diventandone una sorta di concessionario.

Fra gli abiti in mostra è riscontrabile questa prassi da alcuni particolari: in primo luogo dai racconti delle proprietarie che, molto giovani, accompagnavano le madri a Milano nelle sartorie per scegliere i nuovi abiti «su disegni provenienti da Parigi o grazie a delle piccole sfilate private di modelli di ispirazione francese»2. Successiva-mente la vendeuse3 proponeva una selezione di tessuti e iniziava la confezione del capo che richiedeva numerose prove.

Un secondo indizio è dato dalle linee e dalle forme degli abiti che rispecchiano quelle dell’epoca.

Bisogna infine prestare attenzione a due indizi materiali: la provenienza francese di alcuni tessuti, spesso marchiati in cimossa (2a; 3a)4, oppure l’intrigante caso del cap-

2 Questa ed altre informazioni circa il “processo” di acquisto di un abito sono state fornite allo scri-vente da F. M. in una intervista eseguita per la redazione di questo catalogo.3 L’utilizzo di molti termini francesi è ulteriore sottolineatura del ruolo della Francia in questo ambito.4 Nella parte interna dell’abito 2a è possibile leggere, sulle cimosse del tessuto vicino alle cuciture,

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pello a turbante di lana che presenta una doppia etichettatura Caronni e Dior (22b).Ma gli anni Cinquanta sono anche anni di sperimentazione e innovazione in am-

bito culturale, anni di studi, brevetti, idee e di grandi marchi che diventeranno indu-strie capaci di creare l’idea stessa di made in Italy, di sintesi fra progetto e prodotto.

Per queste ragioni si è deciso di inserire fra gli abiti alcuni pezzi di arredamento e og-getti di uso quotidiano, noti per essere diventati veri e proprie icone del design italiano. Se design – ma sarebbe più corretto chiamarlo disegno industriale – e moda in quegli anni non incrociavano ancora il loro cammino, come invece accade oggi, è vero però che partecipavano di una stessa temperie culturale e che i secondi uscivano dalla grande famiglia dell’artigianato con la quale i primi progettavano a stretto contatto. Entrambi servivano alla definizione di quel life style destinato a diventare famoso nel mondo.

Neppure possiamo dimenticare che la scelta degli oggetti esposti con gli abiti non è casuale: si tratta, infatti, di beni appartenenti alle medesime prestatrici dei vestiti, dei loro salotti e delle loro camere da letto o degli oggetti di uso quotidiano che an-cora conservano nelle loro case.

Fabrication francoise. Il vestito 3a, invece, è confezionato con un tessuto particolare di seta, con im-punture fitte e sfalsate di tre fili di lana. Questa lavorazione rende la superficie in rilievo ed è molto simile a quella di un abito della collezione del Rijksmuseum di Amsterdam (inv. nr. BK-1987-S4) con passaggi più radi di filo di ciniglia.

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Quattro guardaroba per quattro donneI quattro nuclei di abiti, come è naturale che sia, riflettono molto le loro proprieta-rie5, non solo nel gusto, ma anche nella tipologia degli oggetti dovuta ad occasioni differenti di utilizzo. Da essi è possibile cogliere la personalità, il gusto e gli stili di vita delle prestatrici; tutti però si rifanno ad una stessa idea di eleganza e a uno stes-so background culturale che rispecchia la società e il periodo storico nel quale sono stati creati. E’ interessante notare come alle differenze di colore, di decorazione e di materiale non corrispondano, invece, sostanziali cambiamenti di forma per abiti coevi di proprietari differenti. Riscontriamo, ad esempio, la trasformazione da abi-ti dritti con i fianchi leggermente sottolineati di inizio decennio, ad abitini scivolati, terminanti leggermente a campana. Comuni sono anche i cappellini tipo pillbox, che spariscono col passare del tempo, oppure la lunghissima fila di bottoncini foderati sul retro degli abiti da sposa, caratteristica tipica di questi abiti negli anni Cinquanta.

Cronologicamente il primo e più completo fra i guardaroba trattati è individuato nelle schede con le iniziali F. M. ed è costituito a sua volta da tre sottoinsiemi: gli abiti della proprietaria – all’epoca nel pieno passaggio tra l’adolescenza e la maggiore età – e quelli dei genitori. Gli abiti da uomo sono tre: due smoking (10a,b; 11a,b,c) e un cappotto (12a), utilizzati in occasioni serali molto formali. Uno dei completi è datato con precisione 19-4-54 sull’etichetta interna, ma anche gli altri possono essere con-siderati degli stessi anni. I vestiti della madre si dividono, invece, fra abiti da giorno e

5 Per volere dei proprietari di rimanere anonimi, si è deciso di individuare i quattro gruppi con le iniziali dei nomi delle prestatrici.

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da sera. I primi (scheda 2a, 3a), databili alla prima metà del decennio, sono ancora di derivazione francese nelle linee; quelli da sera (schede 7a,b; 9a; 13a,b e 14a), inve-ce, coprono l’intero arco cronologico considerato, rendendo più evidente il cambia-mento delle forme, delle lunghezze e delle linee. I tre abitini rimasti (schede 1a; 5a e 6a), sono facilmente ascrivibili alla proprietaria, allora diciottenne, per le dimensioni (vita stretta e gonna più corta), per i colori più accesi e per i materiali che rendono le superfici più movimentate ed estrose; adatti ad una clientela più giovane. Completa-no il tutto una serie di accessori, soprattutto cappelli e un set da equitazione.

Il secondo gruppo, individuato con le iniziali M. R., è costituito, invece, da un solo abito da sera (8a) riccamente ricamato, ma ha il pregio di essere accompagnato da molti accessori che in mostra sono accostati ad altri vestiti. Si tratta di oggetti ap-partenuti alla famiglia della proprietaria, nota nella zona per essere proprietaria di un’importante azienda produttrice di arredamento.

Il successivo nucleo di beni proviene dagli armadi di una signora dai nobili natali, sposata con un importante imprenditore impegnato nella produzione di calze. Indi-viduabili nelle schede con le iniziali L.A.-N.F., i due outfit (4a,b,c,d,e; 15a,b,c) spiccano per la loro completezza, che comprende addirittura le calze, e per contenere alcuni accessori di note case produttrici, alcune delle quali ancora in attività.

Si tratta di un abito da sera in raso di seta turchese, con guanti, calze, scarpe, bor-sa e cappello, quest’ultimo della più nota modisteria italiana: Gallia e Peter, e dell’a-bito da sposa con accessori.

Il matrimonio, celebrato nel 1957, è importante poiché data con precisione gli oggetti di abbigliamento, ma anche quelli di arredamento. Appartengono, infatti, ai

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medesimi proprietari anche la Superleggera6 di Gio Ponti e la poltrona Lady7 di Za-nuso esposte in mostra e acquistate per la villa realizzata su disegno dell’architetto Adriano Alpago-Novello.

L’ultimo guardaroba, infine, appartiene ad una arsaghese di adozione e si carat-terizza per essere diviso in due sottoinsiemi. Da un lato conserva due abiti da ceri-monia di impostazione tradizionale: uno da sposa (16a,b) e uno da prima comunione (17a); dall’altro uno stupendo costume da bagno in maglia di lana rossa (24a), testi-monianza di un profondo cambiamento della società rispetto ai decenni precedenti.

Per una museologiaSi è deciso di esporre gli abiti ordinandoli tematicamente piuttosto che cronologica-mente, sebbene quest’ultima sia facilmente riscontrabile all’interno dei singoli gruppi. Questo tipo di allestimento, unitamente agli oggetti di design e al materiale iconografico, facilita al visitatore la comprensione dei beni e ne permette una lettura più semplice.

6 La sedia 699, più nota come Superleggera è stata progettata da Gio Ponti a partire dal 1955 ed è prodotta dalla Cassina, ininterrottamente dal 1957. Gli esemplari esposti, sono stati acquistati nel 1957 per la sala da pranzo dei neo sposi. Purtroppo sono state re-impagliate e hanno perso parte della loro leggerezza.7 La poltrona Lady è stata disegnata da Marco Zanuso per Arflex e presentata alla IX triennale del 1951 della quale vinse la medaglia d’oro. I prestatori, nel 1957, acquistarono la coppia di poltrone in-sieme al divano IX Triennale e alla poltrona Senior, anch’essi prodotti da Arflex e presentati alla Trien-nale del 1951. Tutti sono stati rifoderati.

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Salotto composto da due poltrone

Lady, divano IX Triennale e

poltrona Senior, disegnati da

Marco Zanuso e prodotti da Arflex dal 1951. Esem-

plari acquistati da L.A.-N.F. nel

1957; rifoderati. Libreria modulare

e regolabile in legno disegna-ta da Adriano

Alpago-Novello, 1956. Tavolino in cristallo e gambe

in ottone, anni ’60. Piastrelle in

ceramica di Vietri dipinte a mano,

1957.

Pavimento in ceramica con

motivi a sole dise-gnato da Adriano

Alpago-Novello, 1956.

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La mostra si apre con una sezione dedicata ai mutamenti sociali ed economici che investono la società italiana negli anni Cinquanta cambiandone le abitudini e, di conse-guenza, l’abbigliamento. Da un lato, per le donne, comincia il processo di emancipazio-ne sociale che le porterà ad essere maggiormente considerate sia in famiglia sia in pub-blico come nel lavoro. A testimonianza di ciò sono esposti due cappotti, uno da uomo (12a) e uno da donna (18a), che ben rappresentano lo “stare fuori casa” di molte donne che spesso si dedicavano all’attività di segretaria: motivo per cui essi sono accompa-gnati da una macchina da scrivere Diaspron 828 e da una Multisumma9, entrambe di-segnate da Nizzoli per la Olivetti. In quegli anni, tuttavia, non tutte le signore avevano intrapreso un’attività lavorativa e moltissime continuavano a svolgere la mansione di casalinga; in mostra tale aspetto viene raccontato da una Superleggera accompagnata da due foto pubblicitarie d’epoca, cortesemente concesse dall’Archivio Gio Ponti, che rappresentano una donna e un bambino in grado di sollevare la sedia con un dito.

Dall’altro lato della sala si è creato un settore dedicato ad un altro grande aspetto sociale: lo sport. Retaggio in parte del Ventennio, negli anni ’50 le attività sportive uscirono dall’apparato della propaganda e dell’omologazione per acquisire quella caratteristica più leggera e giocosa che le contraddistingue ancora oggi. In questo senso, il completo da equitazione è rappresentativo di un retaggio nobiliare bon ton

8 Macchina per scrivere meccanica disegnata da Marcello Nizzoli e Giuseppe Beccio, prodotta a par-tire dal 1959.9 La Multisumma 24 è uno dei cinque modelli di Multisumma prodotti dal 1956 dalla Olivetti, su disegno di Marcello Nizzoli e meccanica di Natale Capellaro.

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Immagine pubblici-taria della sedia Su-

perleggera, 1957. Courtesy Gio Ponti Archives – Salvato-

re Licitra.

Multisumma 24 Olivetti, disegno di Marcello Niz-

zoli e meccanica di Natale Capel-

laro, 1956.

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ancora forte, mentre la Vespa Piaggio e il costume in maglia di lana (24a) testimonia-no un mondo giovane e spensierato che finalmente si può permettere di acquistare un mezzo di trasporto e di andare in vacanza al mare.

Successivamente si incontrano i sei abiti da giorno e da cocktail (1a; 2a; 3a; 4a; 5a; 6a), spesso completi di accessori, accompagnati dalla poltrona Lady di Zanuso e da un carrello-bar impiallacciato in formica e coperto da lastre di rame sbalzato e brunito10. Gli accessori, oltre ad essere presentati con i rispettivi abiti, sono anche mostrati a sé stanti, divisi per tipologia; fra borse, scarpe e ombrelli, spiccano un con-sistente numero di cappelli, elemento imprescindibile nell’abbigliamento da giorno almeno fino agli anni Sessanta.

Su una lunga pedana, invece, sono esposti i cinque abiti da sera (7a; 8a; 9a; 13a; 14a) in ordine cronologico, per meglio cogliere i mutamenti delle forme col passare degli anni, e i due smoking da uomo (10a,b; 11a,b,c).

Chiudono la mostra gli abiti da cerimonia religiosa: uno per la prima comunione (17a) e due da sposa datati 1950 (16a) e 1957 (15a). Questi ultimi sono inseriti fra l’arredamento più intimo di una camera da letto in legno chiaro e piano in onice beige.

A metà circa dell’esposizione, infine, è possibile visionare una selezione di proget-ti dell’architetto Eugenia Alberti tratti dallo straordinario Archivio Alberti-Reggio11, confrontabili con la poltrona in legno compensato curvato e il tavolino ovale in for-mica nera e struttura portante in tondino di ottone esposti affianco.

10 Il carrellino bar, il cui designer è sconosciuto, può datarsi al 1959 circa.11 M. REGGIO, Eugenia Alberti negli anni ’50: donnarchitettodocente, cfr. infra.

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F. M. al mare, metà anni ’50

(a sinistra).

Genitori di D. G. al mare, prima metà anni ’50

(a destra).

Genitori di D. G. sulle piste da sci, prima metà anni

’50.

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A sinistra, matri-monio dei genitori di D. G., Santua-rio di Santa Maria del Monte, Varese, 1950. La sposa indossa l’abito 16a,b (cfr scheda dedicata, infra).

A destra, matri-monio dei nonni materni dello scrivente (alto), Cassano Magna-go (VA), 1951 e dei loro nipoti (basso), Torino, 1955. Le fotogra-fie testimoniano la prassi piuttosto comune all’epo-ca per le spose, soprattutto nel ceto medio e negli strati sociali meno abbienti, di sposarsi con un vestito corto o con un tail-leur, invece del tradizionale abito lungo da sposa.

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Spose in galleria. Abiti nuziali del Novecento. La Galleria del Costume informa n. 2, Cen-tro Di, Firenze, 1989.

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Scrivere di mia mamma Eugenia Alberti significa, per me, descrivere innanzitutto la figura ed il temperamento forte di una donna profondamente legata alla sua profes-sione di architetto e a quella di docente universitario nella disciplina che più le era congeniale: l’architettura d’interni e il disegno d’arredamento, considerati da lei in una visione unitaria, che non escluse mai l’attenzione neppure al più semplice og-getto; fosse la lampada, il vaso per i fiori recisi e quelli più comuni e d’uso quotidiano quali i bicchieri, le posate, i piatti, i vassoi, ecc.

Dotata di una creatività non comune, di una capacità intuitiva simultanea, appas-sionata e concentrata nel lavoro che non interrompeva mai (anche per fare a gara con mio padre architetto-urbanista-paesaggista e professore universitario) era al-lenata nel progettare con flessibilità alle diverse scale: dall’1:100/1:50 per le unità abitative, dall’1:20 all’1:10, all’1:5 all’1:1, appunto, per dettagliare tutti i particolari di mobili, poltrone, sedie, lampade ed accessori.

Io, piccola da poter appena sbirciare sopra il tavolo da disegno, ammiravo la sua capacità del tratto “a mano libera” sia in studio, sia presso i laboratori delle aziende costruttrici dei suoi pezzi che la apprezzavano sì, ma non senza un certo timore re-verenziale soprattutto determinato dalla autorevolezza che il suo “gesto” emanava!

D’altronde la sua esperienza, cresciuta fin da giovanissima mediante il dialogo e il confronto con gli artigiani specialisti: ebanisti, artisti, fabbri, muratori, vetrai, le per-mise di fare propri i loro contributi tecnici, tanto da imporsi con ragione sull’utilizzo di determinati criteri di assemblaggio o sulla risoluzione definitiva di qualsiasi pro-blema costruttivo. Sinceramente penso che non avrebbe potuto fare diversamente nella vita: quella sua attività le stava a pennello.

Eugenia Alberti negli anni ’50: donnarchitettodocentedi Madì Reggio, appassionata allieva

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Sgabello da ingresso con struttura in legno di cipresso, seduta e poggiareni in gommapiuma rivestiti in pelle e sostenuti da orditura in nastrocord di larghezza 40 mm.Progetto arch. Eugenia Alberti-Reg-gio, esecuzione Galleria Mobili d’Arte (Cantù), anni ’50. Courtesy Archivio Alberti-Reggio.

Foto d’ambientazione: ingresso. Panchetta e sgabello con mobile porta-cappotti ad ante a libro in legno e ganci in ferro verniciato di nero; mo-bile pensile ad uso libreria con vano chiuso da anta scorrevole in legno e struttura portante in ferro verniciato nero.Produzione Auguadra (Cantù), anni ’50. Courtesy Archivio Alberti-Reggio.

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Poltroncina con struttura in legno massiccio e innesto di legno compen-

sato curvato ad eliminazione degli incastri; legamenti e sedile in legno

compensato curvato.Progetto arch. Eugenia Alberti-Reg-gio, esecuzione Legnidarte (Cantù),

anni ’50. Courtesy Archivio Alberti-Reggio.

Foto d’ambientazione: soggiorno. Poltrone in legno compensato

curvato e struttura in ferro verniciata di nero e fermata al legno da viti in

ottone; tavolo basso ovale in formica nera e struttura portante in tondino

di ottone; parete attrezzata modulare in legno con collegamenti in ferro e

ottone necessari al sostegno delle mensole in legno.

Produzione Auguadra (Cantù), anni ’50.

Courtesy Archivio Alberti-Reggio.

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Nata nel 1917 e vissuta sempre a Milano (tranne gli ultimi anni passati con me a Golasecca), ha frequentato il liceo artistico e, iscritta alla facoltà di architettura del Politecnico, si trovò ad essere unica donna nel suo corso di studi. Si può comprende-re quindi come la forza innata del suo temperamento dovette consolidarsi sempre più per riuscire ad affermarsi in un mondo che fino ad allora apparteneva agli uomini.

Il legame fra la professione di Architetto e quella di Docente universitario le con-sentirono di arricchirsi notevolmente, coinvolgendo gli studenti nella partecipazio-ne alla ricerca che non smise mai di affrontare e non considerò mai conclusa.

Forse una madre poco materna, dal carattere temprato dalle esperienze dure della vita (basti solo pensare alla guerra) che comunque non la fermarono nella de-terminazione di non interrompere mai il lavoro, ricercando invece le collaborazioni con i più grandi del tempo.

Per fare un nome: Gio Ponti di cui lei, in una prima fase, fu assistente per poi con-dividere dei corsi al Politecnico.

Fu il suo grande maestro, ma ai tempi i numeri erano altri, gli architetti si cono-scevano tutti e con tutti esistevano rapporti di stima, di amicizia, di lavoro in asso-ciazioni temporanee per affrontare progetti a tutto campo resi indispensabili dalle distruzioni della guerra.

È da dire che il sodalizio con mio padre, che li vide lavorare sempre insieme in studio ed in Facoltà, consentì loro di ampliare l’orizzonte delle reciproche discipline, studiando la qualità degli spazi aperti, di relazione, dei servizi di carattere sociale-culturale (quante le scuole progettate e realizzate, curandone la distribuzione spa-ziale, ma anche arredativa).

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Convinta, insieme a Reggio, «che gli ambienti nei quali ciascuno trascorre la pro-pria esistenza giornaliera sono qualificati oltre che dalle componenti architettoni-che-funzionali degli edifici (quali l’articolazione spaziale, le relazioni con l’esterno, l’efficienza abitativa), anche e soprattutto dalle modalità secondo le quali gli ambien-ti stessi sono perfezionati con l’arredamento e, in particolare, dai requisiti dei mobili che dell’arredamento sono gli elementi principali».

Come scrive in una sua presentazione, «perché la nostra attività psichica ed in-tellettiva possa esprimersi serenamente, è indispensabile che si svolga in ambienti armonici, confortevoli ed accoglienti, tali da consentire alla personalità di ciascuno la più ampia facoltà di espressione. Questi requisiti possono ottenersi solo da una saggia individuazione dei mobili che devono essere caratterizzati con estrema esat-tezza, nitore, limpida e misurata espressività».

In queste parole riconosco le affermazioni di Ponti in Amate l’Architettura: l’archi-tettura non deve essere statica, ma esprimere una tensione, intendendo l’espressi-vità quale valorizzazione degli elementi del linguaggio architettonico, in cui è impli-cita la funzionalità.

Fu costante in lei la convinzione che le componenti-base di una concezione ar-chitettonica si debbano affermare più sul piano del giusto che del divertente, più dell’equilibrio che dell’estrosità, in modo da garantire maggiore durevolezza della bellezza di un mobile, che deve comunque sempre affrontare giudizi critici soggetti-vi differenti, proprio per la natura diversa di ciascun individuo che vi si accosta.

La giusta progettazione, priva di ricercatezza, fine a se stessa, era per lei il primo livello da raggiungere in quanto le opere così concretate «saranno sempre apprez-

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zabili in quanto “pure”, espressioni di un clima di onestà e di equilibrio, rappresentan-do quantomeno, della sana letteratura!».

Riconosco nell’opera della mamma una chiarezza strutturale, un’essenzialità, una sincerità che rifuggivano l’estrosità artificiosa, priva di riscontro con le esigenze del-la struttura, priva di compiacimento nell’uso della materia, senza esaltazione della forma che deve invece risultare quale conseguenza di una serie di appropriate rela-zioni e non certo gratuita manifestazione della fantasia.

Dalla considerazione sempre presente nel suo “fare” finalizzato prioritariamen-te a migliorare la qualità della vita della collettività, nasce la concretezza dei suoi progetti che spero dal lettore essere apprezzati come compiuta unità fra fantasia e razionalità, fra contenuto e forma.

Il periodo storico, quello della ripresa economica posteriore alla Seconda Guerra Mondiale in cui Eugenia Alberti opera, è caratterizzato dalle enormi capacità di rea-lizzazione e diffusione consentite dall’apparato industriale e dalle cospicue richieste da parte di una massa sociale in graduale e continua ascesa economico-culturale, per la quale una confortevole attrezzatura della casa, dell’ufficio, della scuola, del pubblico ambiente era esigenza pressante e in fase di incremento.

Da sempre aveva combattuto contro i progetti insulsi e, parlando di mobili, con-tro quelli formalistici adorni di orpelli più o meno stilistici, preferendo i mobili “senza moda”, quelli per i quali “avvenire e presente” si identificavano; i mobili che era sua opinione tendessero ad essere permanentemente “di oggi”.

Insieme ad una schiera di artigiani-artisti relativamente modesta, fatta di pro-duttori “nostri”, convinti però dell’importanza e della finalità del “mobile d’oggi”, si è

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Sopra, foto d’ambiente: sala da pranzo-studio. Parete libreria con struttura di ferro a sostegno di mensole e mobili con cas-setti ed ante in legno; tavolo in cristallo bronzato e ferro; poltroncine imbottite e rivestite in sky lavabile.Produzione Auguadra (Cantù), 1958. Courtesy Archivio Alberti-Reggio.

A fianco, foto d’ambiente: tinello. Mobili in formica e legno; tavolo in formi-ca con struttura in ferro e sedie-poltron-cine imbottite rivestite in sky lavabile.Produzione Auguadra (Cantù), 1958.Courtesy Archivio Alberti-Reggio

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dedicata a porre nel mercato, con significative affermazioni, tipi di mobili quasi sem-pre di ottima impostazione, di perfetta realizzazione, confrontandosi con i colleghi designers-architetti. insieme contribuirono a sviluppare quell’area della Brianza che vide Cantù e Mariano Comense accogliere selettive e mostre a cui lei stessa parte-cipò, raccogliendo personali gratificazioni.

Convita che il design e i designers potessero svolgere un’azione didattica di inse-gnamento del gusto, affinché la produzione potesse evolversi positivamente, desti-nò gran parte del suo costante impegno accademico all’insegnamento ai futuri desi-

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gners, finalizzato a dar loro una preparazione specialistica e professionale capace di affrontare il mercato nazionale ed internazionale con successo.

I molti viaggi organizzati nella penisola scandinava, dove le sperimentazioni era-no da tempo avviate con risultati straordinari, le raccolte tecnologiche presso il Poli-tecnico, il recupero di prototipi o di modelli di produzione qualificata che gli studenti potessero studiare dal vero quali esemplificazioni tecnologiche, l’individuazione di laboratori specializzati che consentissero agli studenti di intraprendere ricerche rigorose e sistematiche su strutture e materiali per finalizzarsi alla progettazione sperimentale dei modelli, la continua ricerca di contatti e collaborazioni col mondo vivo della produzione, furono fra gli impegni assunti da Eugenia Alberti quale con-tributo alla didattica capace di insegnare il metodo per perseguire l’esattezza e la nobiltà dell’espressione.

Dimensionamento, smontabilità, riducibilità, idoneità all’esecuzione in serie, scel-ta dei materiali, finiture… a servizio di un’intuizione ideativa e della capacità compo-

sitiva, seguendo quello che lei definì “il discorso” di ciascun designer.

Nella pagina pre-cedente, progetto di poltroncina, poltrona, bergère, sgabello e divano imbottiti con struttura in legno e variante in fer-ro. Progetto arch. Eugenia Alberti-Reggio. Vincitore del terzo premio parimerito nella sezione “Mobili imbottiti” al Con-corso Internazio-nale del Mobile di Cantù. Courtesy Archivio Alberti-Reggio.

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Bibliografia:G. PONTI, Amate l’architettura, Vitali e Ghianda, Genova, 1957.

R. PANE, Architettura ed arti figurative, Neri Pozza, Venezia, 1948.

B. ZEVI, Saper vedere l’architettura, Einaudi, Torino, 1948.

G. DORFLES, Evoluzione del concetto di industrial design, in Stile industria, n.7, 1956.

G. HATJE, Neue möbel, Teufen, Svizzera, 1957.

H. VAN DER VELDE, La voie sacrée, discorso al Palais des Beaux Arts, Bruxelles, 1933, in Casabella n.23.

O. WAGNER, Moderne architektur, Vienna, 1893.

W. GROPIUS, Architettura integrata, Mondadori, Milano, 1959.

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Tra arte e architettura nella Milano degli anni ’50di Roberto Pini

È difficile immaginarsi una Milano più viva di quella che oggi noi viviamo, tuttavia parlando della situazione culturale tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Ses-santa Milano non è stata solamente la capitale economica del paese, motore del boom economico del dopoguerra, ma è stata una delle città culturalmente più vive ed interessanti d’Europa, capace di attirare a sé artisti e intellettuali da tutto il mon-do1, oltre ad essere un fertile terreno per la nascita e lo sviluppo di importanti galle-rie e collezioni private.

Sceglieremo come data simbolica per l’inizio di questo rinascimento culturale mi-lanese postbellico il 1947; in quest’anno infatti riaprirà la Triennale2 con la sua VIII edizione, dedicata da Piero Bottoni alla ricostruzione delle abitazioni (da cui nacque il progetto del quartiere milanese QT8); e sempre nel 1947 Lucio Fontana rientrerà definitivamente in Italia (dopo i 7 anni trascorsi lontano dalla guerra in Argentina) stabilendosi a Milano.

1 Un esempio della grande attrattiva che Milano poteva esercitare in quegli anni su artisti e intellet-tuali è il “lungo” soggiorno di John Cage che risiedette a Milano tra il 1958 e il 1959 invitato da Lucia-no Berio che nel 1955 assieme a Bruno Maderna aveva fondato lo Studio di Fonologia musicale RAI, trasformando Milano in uno dei poli europei di sperimentazione e ricerca sulla musica elettronica.2 A Milano prima della Triennale riaprì solo la Scala con il celebre concerto diretto da Arturo Toscani-ni nel maggio del 1946 e nell’ottobre dello stesso 1946 aprì al pubblico (con sole 7 sale) la cosiddetta Piccola Brera; solo nel 1950 la Pinacoteca di Brera potrà riaprire per intero, ricostruita su progetto di Franco Albini e Piero Portaluppi.

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Nelle prossime pagine cercheremo di ripercorrere rapidamente alcuni dei luoghi e delle vicende, ponendo un particolare accento al rapporto tra alcuni dei principali architetti del momento con i protagonisti della scena artistica e culturale di questa Milano, che cercava rapidamente di rinascere e di lasciarsi alle spalle gli anni bui del-la guerra e della dittatura.

ArtistiAppena rientrato a Milano Fontana diverrà subito parte del circolo di artisti, designer e architetti, creatosi attorno alla Galleria del Naviglio3 dove l’amicizia e le collabora-zioni con alcuni architetti come: Osvaldo Borsani, Roberto Menghi, Mario Righini4, Ernesto N. Rogers, Marco Zanuso5 e Luciano Baldassari6 porteranno alla nascita del

3 La Galleria del Naviglio fu fondata nel 1946 in via Manzoni a Milano dal veneziano Carlo Cardazzo – già proprietario e fondatore nel 1942 della galleria del Cavallino a Venezia – che aveva intuito per tempo il ruolo che avrebbe assunto il mercato dell’arte milanese.4 Fontana collaborò con Menghi e Righini nel 1948 per la realizzazione delle decorazioni del cinema Arlecchino in via San Pietro all’Orto; per il quale realizzò la Battaglia in ceramica, oggi in Collezione Prada.5 Fontana collaborò con Rogers e Zanuso nel 1952 per la sistemazione del Piccolo Teatro di via Ro-vello.6 La collaborazione di Fontana con Baldessari avrà come più alto risultato la realizzazione degli alle-stimenti dell’atrio d’ingresso e dello scalone d’onore per la IX Triennale del 1951, che culminavano con i Soffiti a luce indiretta (precursori dei più famosi Tagli) ma soprattutto con la grande Struttura al Neon visibile oggi al Museo del Novecento.

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Vestibolo d’in-gresso e atrio

della IX Triennale di Milano, 1951.

Allestimento a cura di Luciano

Baldessari e Mar-cello Grisotti. In primo piano, sul

pavimento, tarsia in vipla di Attilio

Rossi. Soffitto con strisce luminose

di Lucio Fontana. Foto Farabola.

Courtesy Archivio Fotografico ©

La Triennale di Milano.

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movimento dello Spazialismo e alla stesura nel dicembre del 1947 del primo Manife-sto dello Spazialismo7. Seguirà poi nel 1948 un secondo Manifesto e nel 1950 la Pro-posta di un regolamento (ossia una terza versione del Manifesto), mentre nel novem-bre del 1951 Fontana firmerà il Manifesto dell’arte spaziale. Sarà proprio al Naviglio che l’artista presenterà nel febbraio del 1949 il suo Ambiente spaziale a luce nera.

Sempre nel 1949 la sua ricerca lo portò ad iniziare la serie di tele dette dei Buchi e poi il ciclo delle Pietre e quello dei cosiddetti Barocchi; tuttavia il culmine della delle sue ricerche spaziali arriverà solo 9 anni più tardi, quando nel 1958 realizzerà il pri-mo dei suoi famosissimi Tagli.

Molto simbolicamente nel 1950 venne indetto dalla Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano un concorso per la realizzazione della V Porta del Duomo al quale partecipò lo stesso Fontana, risultandone vincitore ad ex-equo con Luciano Minguz-zi, tuttavia a causa delle lungaggini Fontana vi rinuncerà verso il 1952. La vicenda si concluderà poi nel 1965 con la realizzazione della porta ad opera di Minguzzi.

Un’ideale momento conclusivo di questa centralità culturale milanese possiamo fissarlo con l’esperienza di Piero Manzoni ed Enrico Castellani. Nel dicembre 1959 Manzoni e Castellani, infatti, ottennero in concessione dall’architetto Tommaso Buzzi alcuni locali in via Clerici, 12 dove, fino al luglio 1960, prese sede la ormai miti-ca Galleria Azimut. Questo spazio, tra le varie mostre, ospitò una delle performance più famose di Piero Manzoni: i suoi Nutrimenti d’Arte, nei quali il pubblico era invitato

7 Il Manifesto viene firmato oltre che da Fontana anche dal critico Giorgio Kaisserlian, dal filosofo Beniamino Joppolo e dalla scrittrice Milena Milani.

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a mangiare delle uova sode che Manzoni aveva marchiato con la sua impronta digi-tale. Gli ambienti furono occupati da Manzoni fino al 1963 (anche se non furono più utilizzati come galleria ma solo come studio) quando, il 6 febbraio, venne prematu-ramente a mancare colto da un infarto.

Con la fine di queste esperienze legate al gruppo di Azimuth prenderà forza il gruppo di artisti legati a Bruno Munari e all’arte Cinetica il cui successo sarà favorito dalla fondamentale mostra del maggio 1962: Arte Programmata che, curata da Mu-nari stesso, inaugurò gli spazi del negozio Olivetti in Galleria Vittorio Emanuele II di Milano, dando inizio ad una nuova epoca.

LuoghiCome già accennato prima, la Triennale riaprì le sue porte nel 1947, mentre la Pina-coteca di Brera solo nel 1950 e Palazzo Reale (dopo il restauro impostato dai BBPR)

Manifesto della mostra di Picasso

a Palazzo Reale, 1953.

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iniziò la sua attività espositiva nel 19518 divenendo uno dei principali poli culturali della città9. Culmine di quei primi anni espositivi furono le mostre dedicate a Van Gogh nel 195210 e a Picasso nel 195311.

La Permanente, invece, riaprì le porte della nuova sede in via Turati solo nel 195312. I lavori di ricostruzione iniziarono nel 1950 quando venne affidato il progetto di ai fratelli Castiglioni, i quali pensarono ad un edificio diviso in due parti: un corpo basso destinato ad ospitare tutti gli spazi della Permanente e una torre di 12 piani desti-nata ad uffici e abitazioni. I Castiglioni conservarono intatta la facciata originale13 e si dedicarono a ideare degli spazi espositivi essenziali, con grandi saloni illuminabili a seconda delle necessità sia da luce naturale che da luce artificiale, creando lungo

8 L’attività espositiva di Palazzo Reale ebbe inizio nel maggio del 1951 con la mostra Caravaggio e i caravaggeschi curata da Roberto Longhi.9 Significativa per sottolineare il ruolo centrale che rapidamente andò ad assumere Palazzo Reale fu-rono le stupende (e ormai celeberrime) fotografie scattate da René Burri nel 1953 durante la mostra dedicata a Pablo Picasso.10 La mostra “Van Gogh. Dipinti e disegni” fu allestita da Luciano Baldessari con la collaborazione di Nazareno Pancino, Ferruccio Maspero, Attilio Rossi e Ico Parisi.11 Per la mostra di Picasso, allestita da Gian Carlo Menichetti, Piero Portaluppi e Attilio Rossi, fu uti-lizzata per la prima volta dopo la guerra la Sala delle Cariatidi che ospitò Guernica, eccezionalmente prestata dall’artista spagnolo.12 La prima mostra della ricostruita Permanente: “La donna nell’arte da Hayez a Modigliani” si tenne dal 25 aprile al 29 giugno 1953 e fu allestita (gratuitamente) dai fratelli Castiglioni.13 La facciata era l’unico elemento superstite dell’edificio progettato da Luca Beltrami tra il 1883 e il 1886.

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tutta la superficie del soffitto una serie di lucernari circolari e rettangolari dando vita “ad un piano illuminante astratto, segnato da candidi punti e tratti”14. Per l’utiliz-zo dei materiali e per lo sviluppo astratto degli elementi illuminanti sul soffitto si può pensare ad una diretta ispirazione dalla biblioteca di Viipuri di Alvar Aalto.15

Solo nel 1954 riuscirà, invece, ad iniziare la sua attività espositiva il PAC (Padi-glione d’Arte Contemporanea), progettato da Ignazio Gardella a partire dal 1947 nell’area dove fino al 1943 sorgevano i rustici di Villa Reale16. Il progetto di Gardella, estremamente rispettoso delle preesistenze sopravvissute alla guerra, mantenne sia la pianta trapezoidale che le forme, nel tentativo di non alterare il rapporto con la Villa e soprattutto con il parco17. Gardella riuscì a creare degli ambienti estrema-mente flessibili ed accoglienti, realizzando una perfetta Kunsthalle (su modello di quelle tedesche) sicuramente più adatta ad ospitare mostre temporanee che non all’esposizione delle collezioni permanenti del Comune.

Accanto a questi luoghi della cultura “ufficiali” sorsero, tra la fine degli anni ‘40 e i primi anni ’60, una miriade di gallerie d’arte18 la cui attività fu vitale per il mondo

14 Cfr. S. POLANO, Achille Castiglioni, Electa, Milano, 2007, p. 60.15 La biblioteca di Viipuri fu progettata da Alvar Aalto tra il 1930 e il 1935.16 L’idea di destinare gli spazi delle scuderie della Villa ad ospitare le collezioni d’arte contemporanea era già stata formulata nel 1921 quando la Villa entrò a far parte delle proprietà demaniali del comu-ne di Milano.17 Il rapporto del nuovo Padiglione con il parco fu ulteriormente rimarcato grazie alla grande vetrata a nastro che divide la cosiddetta galleria delle sculture dalle ultime propaggini del parco.18 Tra la fine della guerra e gli anni ‘60 sono state conteggiate più di 200 gallerie attive a Milano.

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dell’arte italiano. A Milano più che altrove i galleristi dovettero smettere i panni dei semplici “mercanti d’arte” per divenire dei veri e propri promotori culturali, trasfor-mando le proprie gallerie in luoghi di sperimentazione che andavano a supplire alle enormi mancanze statali in materia di arte contemporanea19. Tra le principali galle-rie attive in quegli anni, oltre alla già citata Galleria del Naviglio di Cardazzo20, ricor-deremo: la Galleria del Milione dei fratelli Ghiringhelli; la Galleria dell’Annunciata di Bruno Grossetti; la Galleria dell’Ariete di Beatrice della Corte; la Galleria Apollinaire di Guido Le Noci e la Galleria Gian Ferrari di Ettore Gian Ferrari.

Accanto alle gallerie, verso la fine degli anni ’50, anche alcuni negozi iniziarono ad ospitare mostre ed esposizioni, basterà ricordare il già citato negozio Olivetti in Galleria o lo show-room Danese in piazza San Fedele.

19 Basterà come esempio il caso del sipario realizzato da Picasso nel 1917 per il balletto di Lèonide Massine, “Parade”, musicato da Erik Satie su un poema di Jean Cocteau. Il sipario giunse a Milano nel 1953 in occasione della già citata mostra di Palazzo Reale, l’opera però non fu mai esposta a causa delle sue dimensioni, giunse così nelle mani di Carlo Cadazzo che la offrì invano al Teatro alla Scala e successivamente ai Musei Parigini che acquistarono l’opera nel 1955.20 Tra le molteplici attività promosse da Cardazzo nelle sue gallerie ricordiamo la produzione (a par-tire dal 1950) di foulard a tiratura limitata realizzati su disegno di alcuni dei grandi artisti legati alle sue gallerie (Campigli, Capogrossi, Carrà, Crippa e Fontana solo per citarne alcuni). Cfr. D. DELL’IN-NOCENTI, Territori condivisi. Arte, moda e design tessilein Italia dal 1900 al 1960, in S. RICCI (a cura di), Tra arte e moda, catalogo della mostra di Firenze, varie sedi (19 maggio 2016 – 7 aprile 2017), Mandragora, Firenze, 2016, pp. 153-161.

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CollezioniCome già detto prima, la Milano che andava rinascendo in quegli anni Cinquanta fu terreno fertile per la nascita di importantissime collezioni private che, per la maggior parte, negli anni sono diventate pubbliche o per lo meno fruibili dal grande pubblico.

Il primo, e forse più sorprendente caso, è quello della collezione di Gianni Mattioli, formatasi a partire dal 1946 ed ampliatasi enormemente nel 194921, che a partire dai primi giorni del luglio 1950 fu esposta in un appartamento appositamente allestito in via Senato e, soprattutto, aperta al pubblico gratuitamente ogni domenica mattina fino almeno alla metà degli anni Sessanta22. La collezione Mattioli voleva testimonia-re – colmando in parte le lacune dei musei milanesi – l’importanza dell’arte italiana della prima metà del XX secolo e promuoverne la diffusione, rendendola disponibile

21 La collezione si arricchì degli 87 pezzi della collezione dell’avvocato bresciano Pietro Feroldi.22 Nel 1967 l’appartamento di via Senato cessò di essere visitabile e la collezioni iniziò a cadere nell’oblio.

Giuseppe e Giovanna Panza

nella casa mila-nese di Porta Ro-mana. Fotografia

Gian Sinigaglia, Milano.

Courtesy Archivio Panza

Collection, Mendrisio.

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a studiosi e visitatori. Essa, oggi in prestito permanente presso la Fondazione Peg-gy Guggenheim di Venezia, è una delle più importanti raccolte d’arte di artisti italiani dell’inizio del XX secolo con opere fondamentali del Futurismo e di De Chirico.

Negli stessi anni a Milano, oltre alla collezione Mattioli, finivano di formarsi anche la raffinatissima collezione dei coniugi Jucker23 e la sterminata collezione dei coniugi Boschi Di Stefano24; mentre la collezione Grassi veniva donata al Comune di Milano e ordinata negli spazi del secondo piano della Villa Reale su progetto di Ignazio Gardella.

Sempre verso la metà degli anni ‘50 iniziavano a Milano la loro attività collezioni-stica due personaggi che riusciranno a formare due collezioni estremamente diverse ma di enorme spessore: Giuseppe Panza di Biumo25 e Paolo Consolandi26. Sebbene i due grandi collezionisti milanesi abbiano formato due raccolte radicalmente op-poste, entrambi iniziarono la propria attività grazie all’amicizia con alcuni dei grandi galleristi milanesi del tempo e, soprattutto, grazie al desiderio di vivere circondati dal colore delle opere del loro presente.

23 La collezione Jucker dopo varie vicessitudini sarà acquistata dal Comune di Milano nel 1992.24 La collezione Boschi Di Stefano fu donata al Comune di Milano nel 1974.25 La prima collezione Panza sviluppatasi tra il 1955 e il 1965 si formò prima con opere dell’infor-male europeo (tra cui spiccano i nuclei di opere di Tàpies e di Fautrier) e successivamente con opere dell’espressionismo astratto americano (soprattuto Franz Kline e Mark Rothko) e della Pop-Art con le opere di Robert Rauschenberg.26 La collezione Consolandi si sviluppò a partire dalla metà degli anni ‘50 senza delle vere e proprie linee guida, ma seguendo di volta in volta il gusto del collezionista di vivere circondato dalle opere del suo tempo.

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BibliografiaS. BIGNAMI, M. FRATELLI, La Collezione Jucker, Skira, Milano, 2001.

L. CARAMEL (a cura di), Arte in Italia 1945-1960, Vita e Pensiero, Milano, 2013.

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G. MAFFEI, A. VETTESE, Libri d’artista della collezione Consolandi, catalogo della mostra di Milano, Palazzo Reale, (24 marzo – 23 maggio 2010), Charta, Milano, 2010.

G. PANZA, Ricordi di un collezionista, Jaca Book, Milano, 2006.

S. POLANO, Achille Castiglioni, Electa, Milano, 2007.

S. RICCI (a cura di), Tra arte e moda, catalogo della mostra di Firenze, varie sedi (19 maggio 2016 – 7 aprile 2017), Mandragora, Firenze, 2016.

E. DI RADDO, (a cura di), Milano 1945-1980. Mappa e volto di una città. Per una geo-storia dell’arte, Franco Angeli, Milano, 2015.

P. UNGAR (a cura di), Giuseppe e Giovanna Panza collezionisti, Silvana Editoriale, Ci-nisello Balsamo, 2012.

A. ZEVI, Peripezie del dopoguerra nell’arte italiana, Einaudi, Torino, 2006.

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Schede di Catalogo

Il guardaroba di una signora borgheseMODA E DESIGN TRA MILANO E PROVINCIA NEGLI ANNI ’50

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Guida alla lettura delle schede di catalogo

Le schede riportate di seguito sono state ideate per guidare il visitatore all’interno della mostra, perciò non saranno in ordine cronologico, ma seguiranno un andamento tematico. In alcuni casi si è deciso di creare una selezione di outfit completi identificati con uno stesso numero, ma con oggetti provenienti da diversi proprietari.

Per la comprensione delle abbreviazioni ci si riferisca alla seguente legenda:l. ant.: lunghezza anteriorel. post.: lunghezza posteriorelargh.: larghezzaalt.: altezzad.: diametrom.: manicav.: vitao.: orlot.: tacco

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Sartoria milanese, metà anni ’50.Tessuto: macramé di cotone, fodera tipo Bemberg.Provenienza: F. M.l. tot. ant. e post. 118 cm; m. 28 cm; v. 78 cm; o. 258 cmAbito per cerimonia del tipo robe-menteau di macramé di cotone color ghiaccio, fo-derato di tessuto rayon cupro (Bemberg?). Scollatura a giacca con colletto e revers del medesimo materiale; manica la gomito con piccolo risvolto. L’indumento, completamente aperto sul davanti, si chiude con bottoncini foderati con asole a cordoncino, disposti a gruppi di due. Sul retro è presente una doppia arricciatura a cannone, con fiocco in cannetté del medesimo colore dell’abito.

1a. Abito da giorno/cerimonia

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Produzione milanese, anni ’50.Marchio impresso: GALLERIA del CORSO 2/1° PIANO NOBILE/TEL. 701102/VIA DANTE 10/TEL. 07.460/Qintè/MILANO/CORSO VENEZIA 15ANG. VIA SPIGA-T. 702628Materiali: pelle, cuoio, legno.Provenienza: F. M. l. tot. 23 cm; largh. 7,5 cm; alt. tot. 11,5 cm; t. 6 cmScarpe décolleté tipo “Kitten” scamosciate blu con impuntura decorativa attorno all’apertura per il piede e punta arrotondata. Tacco in legno ricoperto.

1b. Scarpe

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Modisteria Modello (Milano?, Bologna?), prima metà anni ’50.Etichetta: L.L. modelloMateriali: rete, veletta, penne.Provenienza: F. M. (madre)l. 19 cm; largh. 17 cmCalottina sagomata, coperta da penne color crema. Veletta nera a maglie medie.La modisteria L.L. Modello (etichetta), della quale non si sono reperite informa-zioni, potrebbe essere milanese o, forse, bolognese, vista la presenza di cappelli in Galleria del Costume di Palazzo Pitti con stessa etichetta e provenienti dal guarda-roba di una signora abitante in Bologna.

1c. Cappello da cocktail

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Modisteria milanese, seconda metà anni ’50.Materiali: rete, organza, fiori di seta.Provenienza: F. M. (madre)d. testa 16,5 cm; d. max. falda 26 cm; alt. 12,5 cmCloche da giorno con falda sagomata e tagliata sul retro; l’intera superficie è coper-ta da fettuccia di mussola bianca intrecciata.Nastrino blu all’attaccatura della falda. Rose rosse di seta con foglie verdi sul lato destro.Finitura con nastro di gros grain all’interno.

1d. Cappello da giorno

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Sartoria milanese, prima metà anni ’50.Tessuto: matelassé di seta (Fabrication francoise stampato sulla cimossa).Provenienza: F. M. (madre)l. tot. ant. e post. 104 cm; m. 15 cm; v. 82 cm; o. 132 cmAbito da giorno in tessuto matelassé a fondo nero, con disegno di fiori e foglie marroni e bronzo. Gonna lunga al ginocchio, con leggeris-simo rigonfiamento sui fianchi; piccolo spacco a soffietto sul retro. Collo a scialle alto 5 cm sul retro, termi-nante in scollatura rettangolare davanti decorata con un fiocco dello stesso tessuto.

2a. Abito da giorno

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Calzaturificio Fratelli FiginiIl primo negozio di calzoleria su misura Figini venne aperto da Carlo Figini nel 1899 a Milano, per la realizzazione di calzature su misura. Durante la Prima Guerra Mondiale, tuttavia, le difficoltà economiche e di produzione portarono l’artigiano a spostare a Varese il proprio laboratorio, aprendo nel 1920 la Cal-zoleria della Madonnina. Negli anni successivi gli affari cominciarono ad essere più prosperi e nel 1952 venne iscritta alla Camera di Commercio di Varese la Figini Carlo e figli, divenuta Fratelli Figini nel 1957, con il passaggio alla seconda generazione.Finalmente, il 4 ottobre 1958, l’azienda poté riaprire un negozio monomarca a Milano in Piazza San Babila e qualche anno più tardi un altro in via Spadari.Nuovi e grandi successi, oltre che importanti collaborazioni, costellarono la storia successiva della ditta che, con l’impegno della terza generazione, conti-nua nella produzione di scarpe di qualità.

Cfr. Arch. St. CCIAA Milano, Registro ditte, nr. 518411Cfr. Arch. St. CCIAA Varese, Registro ditte, nr. 57428Cfr. sito internet aziendale: www.figinifootwear.it

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Calzaturificio Figini (Varese/Milano), 1958/59.Marchio impresso: FRATELLI Figini/VARESE/MILANOMateriali: seta, cuoio, legno.Provenienza: L.A.–N.F. l. tot. 26 cm; largh. 7 cm; alt. tot. 12,5 cm; t. 6 cmScarpe estive décolleté tipo “Kitten” in seta marrone/vinaccia, con tacco in legno ricoperto del medesimo tessuto.

2b. Scarpe

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Sartoria Galanti (Milano), metà anni ’50.Etichetta: GALANTI/MILANOTessuto: seta con impunture in filo di lana. Provenienza: F. M. (madre)l. tot. ant. e post 117 cm; m. 34 cm; v. 80 cm; o. 165 cmAbito da giorno/da cocktail in seta cangiante beige/marrone con im-punture fitte e sfalsate di tre fili di lana nera su tutta la superficie. Collo a scialle terminate con plis-settatura in décolleté rettangolare decorato con fiocco in velluto di seta nero e finta allacciatura a 6 bottoni rivestiti del medesimo tes-suto dell’abito. Maniche a palloncino sopra il gomito.Gonna sotto al ginocchio con leg-gerissimo rigonfiamento ai fianchi e due spacchi a soffietto sul retro.

3a. Abito da giorno

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Sartoria GalantiFra le sartorie presso cui si servivano le signore della famiglia di F. M., la Confe-zioni per Signora Galanti Gisa è stata sicuramente la più frequentata.Fondata a Milano nel 1928 da Adalgisa Galanti (nata a Mulazzo (MC) nel 1901), ebbe prima sede in via Calatafimi 5 e poi in piazza Bertarelli 4. Gli anni ’50 e ’60 furono quelli di maggior successo e videro l’impiego di numerose la-voranti. Venne chiusa nel 1986.

Cfr. Arch. St. CCIAA Milano, Registro ditte, nr. 155739.

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Sartoria milanese, fine anni ’50. Tessuto: Raso di seta.Provenienza: L.A.-N.F. l. tot. ant. e post. 92 cm; v. 42 cm; o. 157 cmAbito da cocktail in seta azzurra con scollo a V sottolineato da un’ampia fascia ricamata.Fianchi dritti con due tasche obli-que ricamate con motivo a ripresa del décolleté.

4a. Abito da cocktail

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Produzione lombarda, fine anni ’50. Tessuto: seta.Provenienza: L.A.-N.F. l. 28 cm, largh. max. 9 cm Guanti sopra il polso in raso di seta bianchi.

4b. Guanti

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Calzaturificio Molaschi (Parabiago – MI), P/E 1956.Marchio impresso: MOLASCHI/VIA P. MASCAGNI S. LORENZO DI PARABIAGO (MILANO) Materiali: tessuto lamè, legno, cuoio.Provenienza: L.A.-N.F. l. tot. 24 cm; largh. 7 cm; t. 6,5 cmScarpe sandalo estive da sera rivestite di tessuto Lamé argento e oro. Punta arrotondata con finta fibbia ricamata con jais grigio/azzurri e strass traspa-renti; passante dietro la caviglia senza fibbia.Tacco a rocchetto squadrato.

4c. Scarpe sandalo

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Calzaturificio MolaschiIl Calzaturificio Molaschi è ancora oggi un’importante azienda del distretto Cal-zaturiero di Parabiago, ma la sua storia è certamente più antica.Giovanni Battista Molaschi cominciò a lavorare giovanissimo come appren-dista modellista e tagliatore nelle numerose ditte calzaturiere che da secoli risiedevano attorno a Parabiago. Presto divenne sufficientemente esperto per potersi mettere in proprio, cosa che accadde dopo la Seconda Guerra Mondia-le, con il socio Filippo Carugo e l’ideazione del marchio Moka.Seppur gli affari andassero bene, una decina di anni dopo i due si divisero e i fratelli Elia e Battista fondarono il Calzaturificio Molaschi.Gli anni ’50 e ’60 furono quelli di maggior espansione grazie alla produzione per il Calzaturificio di Varese e le collaborazioni con alcune case d’Alta Moda tra le quali Mila Schön, Krizia, Ken Scott, Biki, Veneziani, Antonelli ed altri.

Cfr. Arch. St. CCIAA Milano, Registro ditte, nr. 533950.Cfr. M. L. CIPRANDI et alii, Noi, testimonianze e documenti in un libro per San Lorenzo di Parabiago, Parabiago, 2002. Cfr. sito internet aziendale: www. molaschi.it

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Gallia e PeterGallia e Peter venne fondata nel 1930 in via Montenapoleone 3, con la fusione delle modisterie Peter di Milano e Gallia di Torino. La prima era nota per esse-re una fra le più celebri produttrici di cappelli del capoluogo lombardo, mentre la seconda, già fornitrice della Real Casa, vantava una storia già lunga, essendo stata aperta nel 1904.Si può affermare che la storia di Gallia e Peter sia una storia al femminile: una storia di passione e professionalità tramandata di madre in figlia per genera-zioni, partendo dalle consuocere Angela Gallia e Cornelia Peter per arrivare a Maria Gallia e poi alla figlia Cornelia Giacomini fino alla nipote Laura Marelli, attuale proprietaria.Per questa modisteria gli anni ’50 furono veramente “gloriosi”, come li defini-sce Laura Marelli, per le collaborazioni con le più importanti sartorie e la par-tecipazione alla nascita della moda italiana in Sala Bianca a Palazzo Pitti; ma Gallia e Peter non smise di mietere successi neppure nella Milano di Albini, Armani, Ferrè e Versace, ed ancora oggi resta una vera e propria istituzione della moda italiana.

Cfr. Arch. St. CCIAA Milano, Registro ditte, nr. 875932Cfr. Arch. St. CCIAA Milano, Registro ditte, nr. 1081701Cfr. sito internet aziendale: www. galliaepeter.it

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Modisteria Gallia e Peter (Milano), 1959. Etichetta: GALLIA PETER/ MILANO/ VIA MONTE NAPOLEONE 3Materiali: tulle rigido, mussola di seta.Provenienza: L.A.-N.F. d. testa. 17 cm; d. max. falda 29 cm; alt. 16,5 cmCloche a falda avvolgente color panna in organza di seta. Gli sbiechi sovrapposti di organza sono cuciti alla struttura di tulle rigido formando una sorta di girandola. Fiocco sul retro all’attaccatura della falda. Finitura con nastro di gros grain all’interno.

4d. Cappello

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Manifattura lombarda, seconda metà anni ’50. Tessuto: lana.Provenienza: L.A.-N.F.alt. 14 cm più chiusura; largh. max. 24 cmPochette da sera piatta in tessuto, di forma trapezoidale, con fondo arrotondato.Chiusura metallica rettangolare in alto del tipo a pressione tramite due peduncoli in centro.La decorazione del tessuto a finto damasco è riprodotta sulla superficie esterna con ricamo ad incrostazione di jais azzurri, grigi, beige e marroni.

4e. Pochette

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Sartoria Galanti (Milano), fine anni ’50, inizio anni ’60.Etichetta: GALANTI/MILANOTessuto: pizzo e passamaneria in raso di seta, nylon.Provenienza: F. M.l. tot. ant. e post. 96 cm; v. 62 cm; o. 114 cm Abito da cocktail/cerimonia in pizzo di cotone beige con decorazione soutaches in fettuccia di raso di seta rosa salmone.Fodera in nylon giallo paglierino con doppia per la gonna.Scollatura leggermente quadrata della medesima ampiezza sia davanti che dietro.

5a. Abito da cocktail/cerimonia

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Sartoria Chiaia (Milano) (?).Tessuto: macramé di cotone, rayon cupro e tela misto lino. Balza in Bem-berg e velluto.Provenienza: F. M.l. tot. ant. e post. 102 cm; v. 66 cm; o. 160 cmAbito corto da sera con scollatura tonda, senza maniche, in macramé bordeaux adornato, a 13 cm, da una rouches in rayon (Bemberg?) bordeaux arricciato e da una fascia di velluto cremisi terminante con fiocco nel centro davanti.L’abito era stato confezionato per la festa dei 18 anni della proprietaria.

6a. Abito da cocktail/sera

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Produzione milanese, fine anni ’50.Marchio impresso: Qintè/MILANOMateriali: pelle, cuoio, legno. Provenienza: F. M. l. tot. 22,5 cm; largh. 7 cm; alt. tot. 11 cm; t. 6 cmScarpe décolleté scamosciate bordeaux con impuntura decorativa attorno all’aper-tura per il piede e punta squadrata. Calcagno e tacco squadrato ricoperti in pelle lucida bordeaux.

6b. Scarpe

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Fine anni ’40, inizio anni ’50.Tessuto: Seta damascata con filo d’oro (marchio e ‘SETA PURA’ sulla cimossa).Provenienza: F. M. (madre)Abito: l. tot. ant. 133 cm; l. tot. post. 161 cm; v. 80 cm; o. 417 cm;Stola: l. 211cm, largh. 38,5Abito da gran sera in seta blu dama-scata con fili d’oro che creano una fantasia di piccoli fiori e foglie.Il busto, rinforzato da stecche inter-ne, è sorretto da una fascia passante dietro il collo che disegna una scolla-tura a leggera “V”.Voluminoso sparato creato da una serie di pieghe simmetriche; schiena nuda. L’abito è completato da una stola del medesimo tessuto terminante, da un lato rettangolare, dall’altro con un polsino arricciato. Fodera nera in tessuto Bemberg. Secondo le testimonianze della pro-prietaria, l’abito era stato indossato dalla madre in più occasioni, fra le quali ricorda la cena di gala al Circolo Ufficiali Taliedo (Linate) di Milano.

7a,b. Abito da sera con stola

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Produzione lombarda, fine anni ’40.Etichetta: VAFMateriale: cuoio, pelle, legno.Provenienza: F. M. (madre)l. tot. 21 cm; largh. 6,5 cm; t. 8 cmSandali estivi da sera in pelle dorata con passante alla caviglia con fibbia.Punta tagliata arrotondata e tacco a rocchetto squadrato.

7c,d. Calzature da sera

Produzione milanese, anni ’50.Marchio Impresso: Tel. 760.287 / Stucchi / MILANO/ VIA F. CAVALLOTTI 13Materiale: cuoio, pelle, legno.Provenienza: F. M. (madre)l. tot. 21 cm; largh. 7 cm; t. 8 cmSandali estivi da sera in pelle dorata con passante alla caviglia con fibbia.Punta tagliata arrotondata e finta fibbia in centro davanti. Tacco a spillo.

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Manifattura lombarda, metà anni ’50.Tessuto: seta.Provenienza: M. R. (madre)l. tot. ant. e post. 123 cm; m. 12cm; v. 88 cm; o. 142cmAbito da sera in seta color vinaccia, con ricami a festoni vegetali.Scollatura tonda bordata da una greca ricamata e vita alta sottolineata da una sottile cintura con medesimo ricamo dello scollo.Corte maniche a coprire le spalle.

8a. Abito da sera

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Manifattura lombarda, metà anni ’50.Tessuto: raso nero. Provenienza: M. R. (madre)alt. 18 cm; largh. max. 27 cmBorsa trapezoidale in raso nero con chiusura rettangolare rigida a pressione coper-ta da alta pateletta sagomata al bordo e ricamata con jais e canette nere a formare un motivo decorativo a racemi e foglie.Unico manico ricoperto di raso nero, ancorato mediante due anelli in acciaio.

8b. Borsa

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Calzaturificio QuintèAdolfo Quintè, nato a Lodi nel 1883, è stato uno fra i più importanti produttori di scarpe realizzate su misura di Milano. Aprì il suo primo negozio nel 1929 in via Paolo da Cannobio, al quale seguì, l’anno successivo, quello di via della Spiga e poi quelli di via Dante, di Galleria del Corso e, infine, di Corso Venezia.Fra le numerose personalità che commissionavano scarpe all’artigiano ci fu Gabriele D'Annunzio che, su una foto esposta in negozio, gli scrisse questa dedica «Al grande Quintè che con le sue scarpe immortali mi diede modo di assumere il motto di Severo Severi insuetum iter». Negli anni '50 il figlio Bassano intuisce l'importanza del mondo del teatro, dell’avanspettacolo e della lirica, acquisendo come clienti le più grandi dive presenti a Milano e diventando uno fra i marchi più noti e raffinati del tempo.

Cfr. G. PARABIAGO in Vogue Pelle, 1981

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Produzione milanese, anni ’50.Marchio impresso: GALLERIA del CORSO 2/1° PIANO NOBILE/TEL. 701102/VIA DANTE 10/TEL. 807.460/Qintè/MILANO/CORSO VENEZIA 15ANG. VIA SPIGA-T. 702628Materiali: seta, cuoio, legno.Provenienza: F. M. (madre)l. tot. 23,5 cm; largh. 7 cm; alt. tot. 12 cm; t. 6 cmScarpe décolleté tipo “Kitten” in seta nera con nastrino in raso attorno all’apertura per il piede e incrociato davanti. Tacco in legno ricoperto del medesimo tessuto.

8c. Scarpe da sera

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Sartoria Galanti (Milano), prima metà anni ’50.Etichetta: GALANTI/MILANOTessuto: crinolina sintetica, tulle e velluto di seta.Provenienza: F. M. l. tot. ant. 107cm; l. tot. post. 98cm; v. 80cm; o. 205cmAbito da sera costituito da bustino rinforza-to con stecche e gonna a campana realizzati in tulle ricoperto da passamaneria di crinoli-na nera e sottili strisce di velluto con motivo ad onda.Fodera nera con bustino rinforzato con stecche.Il décolleté, leggermente a cuore, è sottoli-neato da una fascia di velluto nero (allacciata sulla schiena con ganci) le cui lunghe estre-mità ricadono sul retro dell’abito.Un mazzolino di 5 rose rosse e foglie appli-cate ad altezza vita davanti a sinistra decora l’abito.

9a. Abito da sera

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Produzione milanese, prima metà anni ’50.Marchio impresso: Tel. 86192/Colombo/VIA MAZZINI 16 – MILANOMateriali: seta, cuoio, legno.Provenienza : F. M. (madre)l. tot. 23 cm; largh. 6,5 cm; alt. tot. 13,5 cm; t. 8 cmScarpe décolleté in raso di seta nero, con tacco in legno ricoperto del medesimo tessuto.

9b. Scarpe da sera

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Produzione francese, anni ’50.Etichetta: Made In ParisProvenienza: M. R. (madre)alt.11 cm; largh. max. 18 cmPochette da sera piatta con chiusura rettangolare metallica. Forma trapezoidale con angoli smussati e manico a catenella fine.Decorazione ad incrostazione con strass trasparenti e rosetta centrale di jais e perle.Medesima decorazione sulla chiusura.

9c. Pochette da sera

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Sartoria Cartelli (Milano), metà anni ’50.Etichetta 1 (giacca): F. Cartelli/MILANO Etichetta 2 (pantaloni): FRANCESCO CARTEL-LI/MILANO/Sig. M. C.[…] [manoscritto]/Data 19-4-54 [manoscritto] NTessuto: crepella di lana.Provenienza: F. M. (padre)Giacca l. tot. ant. e post. 83 cm; m. 64 cmPantaloni: v. 88 cm; l. 110 cmCompleto da smoking di lana composto da giac-ca e pantalone. La giacca è a doppio petto, con revers lanciati in seta e due tasche.I pantaloni sono del medesimo tessuto della giacca ed hanno una banda in doppio nastro di seta lungo la gamba.

10a,b. Smoking

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Sartoria Cattaneo (Milano), metà anni ’50. Etichetta: A. CattaneoTessuto: panno di lana.Provenienza: F. M. (padre)Giacca l. tot. ant. e post. 79 cm; m. 64 cmPantaloni: v. 90cm; l. 109 cmGilè: l. tot. ant. e post. 54 cmCompleto da smoking in panno di lana composto da giacca, gilè e pantaloni.La giacca è a doppio petto, con revers lan-ciati in cannetté di seta e due tasche.Il gilè è monopetto con 2 tasche in lana sul davanti; retro in fodera di seta. I pantaloni presentano una banda in pas-samaneria di seta con motivo ornamenta-le in rilievo.

11a,b,c. Smoking

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Sartoria Belloni (Milano), metà anni ’50. Etichetta : [antico stemma della città di Milano e della casa reale inglese] / AN-GELO BELLONI / MilanoTessuto: spigato di lana.Provenienza: F. M. (padre)l. tot. ant. e post. 117 cm; m. 69 cm; o. 100 cmCappotto da uomo in tessuto spigato di lana nero e grigio. Chiusura a doppio petto.

12a. Cappotto da uomo

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Sartorie da uomoGli abiti maschili provengono tutti dal guardaroba di F. M. e appartenevano al padre dell’attuale proprietaria. Si tratta di due smoking con etichetta F. Cartelli e A. Cattaneo e di due cappotti, tutti di produzione milanese.Se della seconda sartoria, allo stato attuale delle ricerche, non è stato possibi-le reperire alcuna informazione, della prima, invece, esiste un fascicolo abba-stanza completo nell’archivio della Camera di Commercio di Milano.Iscritta al registro delle ditte al numero 87016, la «sartoria da uomo» appar-teneva al siracusano Francesco Cartelli (Cfr. Arch. St. CCIAA Milano, Registro ditte, nr. 87016), classe 1895. Era stata aperta in via S. Pietro dall’Orto il 15 febbraio 1923 e si era trasferita nel 1923 in via S. Protaso e nel 1967 in via Mercanti, dove rimase fino al 30 giugno 1979, anno di cessazione dell’attività. Nel 1925 aveva 6 operai.I cappotti, invece, sono stati confezionati dalle sartorie A. Belloni e C. Carrara.Angelo Belloni (nato nel 1987) aveva aperto la sua «sartoria per uomo su mi-sura» (in alcuni documenti anche «A. Belloni – tailor – sartoria») in via S. Raf-faele il 30 aprile1954, ove rimase fino al 31 dicembre 1960, data di chiusura dell’attività «per mancanza di lavoro e per salute».Il cappotto di Carrara (non esposto) era stato confezionato nella «sartoria da uomo Carlo Carrara di Celeste Carrara» (classe 1887) di via Silvio Pellico. La sartoria, probabilmente, era succeduta alla precedente sartoria del padre Car-lo (nel 1911)e a quella di Gianni Zucca (nel 1919). Nel 1925 aveva 18 operai. Fu chiusa il 20 febbraio 1969.

Per Franco Cartelli, cfr. Arch. St. CCIAA Milano, Registro ditte, nr. 87016.Per Angelo Belloni, cfr. Arch. St. CCIAA Milano, Registro ditte, nr. 451947.Per Carlo Carrara, cfr. Arch. St. CCIAA Milano, Registro ditte, nr. 54001.

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Sartoria Galanti (Milano), fine anni ’50.Etichetta: GALANTI/MILANOTessuto: raso di seta.Provenienza: F. M. (madre)Abito: l. tot. ant. 112 cm; l. tot. post. 115 cm; v. 74 cm; o. 141 cm. Cintura: 131 cmBolero: l. tot. max. 101 cm; m. 56 cmAbito da sera in raso di seta color bronzo con corpino rinforzato con stecche e ricamato con jais e perle nere sfaccettate di due misu-re, a creare foglie e pois.Allacciatura in centro frontale con zip fino allo scollo a “V”.Passante dietro il collo; spalle scoperte. Gonna di media lunghezza a portafoglio con sovrapposizione dal centro al fianco sinistro con tre pences. L’abito è provvisto di una cintura e di un bolerino a manica corta e scollo a scialle del medesimo tessuto. Secondo le testimonianze della proprietaria l’abito era stato realizzato per le uscite serali al Lido di Venezia.

13a,b. Abito da sera con bolero

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Produzione lombarda, inizi anni ’60.Etichetta 1: MODE/Alba De Bortoli/VARESE/C.SO ROMA 15Etichetta 2: Ridella-Biffi/MILANOTessuto: matelassé.Provenienza : F. M. (madre)l. tot. ant. 87 cm; l. tot. post. 95 cm; v. 88 cm; o. 98 cmAbito nero da cocktail senza maniche con scollatura tonda.Chiusura centrale leggermente in diagonale sul retro che termina nella gonna a portafoglio con un fiocco e decorata con un finto bottone foderato ad altezza del collo.Seconda gonna a tubino sottostante, cucita all’abito.Doppio orlo a festone.

14a. Abito da cocktail

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Manifattura milanese, seconda metà anni ’50.Marchio impresso: Quintè/MILANOMateriali: seta, cuoio, legno.Provenienza: F. M. (madre)l. tot. 22,5 cm; largh. 6,5 cm; t. 6,5 cmScarpe sandalo estive da sera rivestite di tessuto di seta nero. Punta arrotondata; passante dietro la caviglia con intreccio sui lati.Tacco a rocchetto squadrato.

14b. Scarpe sandalo

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Manifattura toscana, seconda metà anni ’50.Marchio impresso: WILLIAM BERGONZONI/PER Russi (?)/VIAREGGIO . FORTE DEI MARMIMateriali: seta, cuoio, legno.Provenienza: F. M. (madre)l. tot. 22,5 cm; largh. 6,5 cm; t. 7 cmScarpe sandalo estive da sera rivestite di tessuto di seta nero. Punta tagliata arrotondata; passante dietro la caviglia con intreccio sui lati.Tacco a spillo.

14c. Scarpe sandalo

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Modisteria Fanny (Milano), fine anni ’50.Etichetta: FANNY/VIA MONTENAPOLEONE, 8/MILANOTessuto: raso di seta, veletta.Provenienza : L.A.-N.F.Fiocco: l. 24 cm; largh. 19 cmVeletta d. 34 cm caFiocco in nastro di raso di seta nero a quattro asole e due lunghi lacci, montato su dischetto ovale ricoperto di velluto nero e recante un pettinino.Velo a maglie medie nero cucito a ruota fermato sopra il fiocco in centro e ricamato con qualche perlina e conteria rada.

14d. Veletta

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Produzione lombarda (?), anni ’50.Etichetta: HAND MADEProvenienza: M. R. (madre)alt. 10 cm; largh. max. 19 cmPochette da sera piatta in tessuto completamente ricoperta da ricamo ad incrosta-zione di perle. Decorazione di jais e canette bianche, grigie e trasparenti a formare una “V” con racemi e fiorellini.Forma a trapezio rovesciato con bordo superiore ad onde e quello inferiore a semi-cerchio.Chiusura con zip.

14e. Pochette da sera

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Produzione italiana, 1957.Tessuto: crêpe di seta, raso di seta.Provenienza: L.A.–N.F. l. tot. ant. 142 cm; l. tot. post. 164 cm; m. 49 cm; v. 58 cm; o. 750 cmAbito da sposa lungo, confezionato con multi strati di crêpe di seta avo-rio, composto da corpino aderente e ampia gonna.Il corpino è dotato di un colletto a fascetta rialzato e tagliato a metà sia davanti che dietro; apertura sul retro con fila di bottoncini foderati.Maniche lunghe sagomate con botton-cini sul polso.Ampia gonna a campana dritta davan-ti e con balza a circa mezza altezza sottolineata da nastrino di raso con fiocchetto in centro dietro.Velo antico di famiglia disperso; guanti e scarpe nelle schede seguenti.Il vestito ha forti somiglianze con l’abito da sposa confezionato dalla sar-toria Cesare Guidi (FI) nel 1956-60 e conservato alla Galleria del Costume di Palazzo Pitti (n. inv. TA1931).

15a. Abito da sposa

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Produzione italiana, 1957.Materiale: capretto.Provenienza: L.A.–N.F.l. 28 cm, largh. max. 10 cmGuanti in capretto bianco sopra il polso.

15b. Guanti da sposa

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Calzaturificio G. Grosso (Milano), 1957.Etichetta: Lavorazione a mano/G. GRASSO/MILANO/V.BELFIORE/6Materiali: seta, legno, cuoio.Provenienza: L.A.–N.F.l. tot. 26 cm; larg. 7,5 cm; alt. tot. 12,5 cm; t. 7 cm Scarpe estive décolleté tipo “Kitten” per abito da sposa in raso di seta avorio.Punta leggermente arrotondata e tacco in legno rivestito.

15c. Scarpe décolleté

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Manifattura lombarda, 1950.Materiali: abito: seta operata; cappa: pelliccia di volpe bianca.Provenienza: D. G. (madre)Abito: l. tot. ant. e post. 139 cm; m. 60 cm; v. 64 cm; o. 550 cmCappa: l.tot. ant e post. 55 cm; o. 165 cmAbito da sposa lungo in seta operata avorio.Corpino aderente con vita segnata dall’innesto con la gonna, a formare due punte verso l’alto in centro.Sottolineatura dei fianchi sul retro dell’abito tramite decorazione a piccole “U” rovesciate costituite da fettuccia in seta lavorata a tubicino. Colletto a camicia fermato da due bottoni rivestiti e lunghe maniche leggermente sagomate terminanti con spacchi ai polsi chiusi da 5 bottoni rivestiti del medesimo tessuto.Gonna più ampia e leggero strascico.Allacciatura centrale posteriore con fila di bottoncini foderati dotati di asole a cor-doncino.L’abito è accompagnato da una corta cappa in volpe bianca, imbottita e foderata in seta avorio con orlo a festone e senza allacciature.Velo disperso.

16a,b. Abito da sposa

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Abito prima comunione, sarta di Casorate Sempione (VA), 1959.Materiali: nylon ricamato, crinolina, rete e tulle.Provenienza: D.G.l. tot. ant. e post. 107 cm; m. 48 cm; v. 58 cm; o. 628 cmAbito per la prima comunione in tessuto di nylon ricamato, con numerose balze su strati di crinolina, rete e tulle bianco e avorio. Corpetto arricciato terminante con scollo tondo e colletto.Decorazioni con nastrini di raso e rose di organza.

17a. Abito prima comunione

D. G., prima comunione, 1959. La bambina indossa il vestito a sinistra.

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Manifattura lombarda, metà anni ’50.Tessuto: lana.Provenienza: D. G. (madre)l. tot. ant. e post. 73 cm; m. 61 cm; o. 160 cmGiacca ampia e morbida, corta ai fianchi, in tessuto di lana con motivo bianco e blu a stella a quattro punte. Colletto a camicia.Maniche non sagomate e tasche con apertura verticale.

18a. Cappottino

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Anni ’50. Provenienza: D. G. l. tot. 88 cm; manico 21 cm; d. 91 cmOmbrello con manico in legno nero decorato, asta in legno e raggera in metallo. Copertura color vinaccia opaco e bordo viola lucido.Chiusura con laccetto e bottone.

19a. Ombrello

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Anni ’50. Provenienza: D. G. l. tot. 88 cm; manico 27 cm; d. 91 cmOmbrello con manico in legno di nocciolo, asta in legno e raggera in metallo. Coper-tura color verde/marrone e interno a righe beige e verde marcio.Chiusura con laccetto e bottone.

19b. Ombrello

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Manifattura fiorentina, anni ’50.Marchio: MADE IN ITALY / BY / GucciMateriale: pelle, plastica.Provenienza: M. R.l. 31 cm; largh. 21 cm; alt. 19 cmBauletto beauty case di forma squadrata in pelle marrone foderato in plasticarossa.Coperchio a libro con maniglia in pelle e due chiusure con chiave. Iniziali M.A.R. incise in centro davanti.

20a. Bauletto beauty case

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Manifattura milanese, prima metà anni ’50.Materiali: tela, ciniglia, gros grain.Provenienza: L.A.-N.F.alt. tot. 9 cm; d. 19 cmCappello tipo pillbox tondo in ciniglia di diverse gradazioni di verde su struttura di tela foderata.Fascia a corona alta 5 cm e calotta leggermente bombata.Due peduncoli lunghi 10 cm, di forma a goccia, scendono lateralmente davanti ad incorniciare la fronte.Veletta marrone a maglie larghe su tutto il cappello, conservata frammentaria-mente. Nastro gros grain interno.Clip con finti strass sul lato sinistro davanti.

21a. Cappello

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Cappelli e cappellaiNegli anni ’50 il cappello era ancora un accessorio essenziale dell’abbigliamento femminile da giorno, sia da cerimonia, sia più informale. Ogni completo era accom-pagnato dal proprio copricapo, che variava non solo a seguito dei mutamenti di gusto della moda, ma anche secondo l’occasione e l’ora.Nella prima metà del decennio fra i modelli più comuni troviamo i cosiddetti pillbox e le calottine. I primi erano piuttosto piccoli e di forma cilindrica, con un’altezza di pochi centimetri, tanto da farli assomigliare alle scatolette per contenere le pillole, da cui il nome. Le calottine, invece, erano costituite da materiale semirigido oppor-tunamente decorato e variamente sagomato, che aderiva alla testa. Entrambi, molto spesso, erano completati con una veletta che scendeva sul viso op-pure copriva l’intera parte superiore della testa. Altri modelli molto in voga erano la toque, il turbante e la cloche. Di quest’ultima, verso la fine degli anni ’50, si diffuse un modello a falda avvolgente che ebbe grande fortuna anche nel decennio successivo.Le modisterie più ricorrenti fra i capelli di F. M. sono tre: Modello, Caimi e Caronni.Delle prime due, allo stato attuale degli studi, non è stato possibile trovare alcuna informazione, mentre l’archivio storico della Camera di Commercio di Milano con-serva il fascicolo di una modisteria Emma Caronni. Questa portava il nome della proprietaria ed era stata aperta nel 1935 in via Durini. L’anno successivo si trasferì in via Santa Margherita, dove rimase fino al 1954, anno della chiusura per «insoste-nibili spese fiscali».Siamo tuttavia molto dubbiosi nell’affermare che i capelli marchiati Caronni pro-vengano da questo negozio poiché il guardaroba di F. M. conserva molti altri capelli con la stessa etichetta sicuramente successivi; a meno che non si ipotizzi la ven-dita del marchio ad altro soggetto. È molto più probabile, invece, che si tratti della Sartoria Caronni di Varese che, secondo i ricordi della proprietaria, commerciava anche cappelli e accessori.Sono esposti inoltre una cloche di Galia e Peter – per la quale si rimanda ad appo-sto box – ed una marchiata La Familiare. La società cooperativa Cappellificio La Familiare fu fondata attorno al 1905 a Montevarchi (AR) per volere della fami-glia Masini. Dopo alcune trasformazioni societarie, l’azienda divenne una S.p.A. e cominciò ad esportare su scala internazionale. Gli anni ‘50, sotto la direzione di Nino Donati, furono il periodo di maggiore espansione. Una lenta fase di declino ne decretò la chiusura del 1976.

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Manifattura milanese, prima metà anni ’50.Materiali: tela, cotone cannetté, rafia.Provenienza: F.M. (madre).d. 17cm; alt. max. 4,5 cmCappello tipo pillbox tondo con calotta piatta in tessuto marrone e fascia di rafia intrecciata verde con taglio a “V” rovesciata sulla fronte.Passamaneria di cotone nera interna.

21b. Cappello

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Manifattura milanese, prima metà anni ’50.Materiali: finta paglia, gros grain.Provenienza: F.M. (madre).d. testa 17 cm; d. falda 21 cm Cappello a calotta in paglia finta verde brillante con nastro di gros grain nero pas-sante sul bordo e terminante con fiocco sotto il bordo davanti.

21c. Cappello

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Modisteria Caimi (Milano), anni ’50.Materiali: tessuto cannetté di cotone, gros grain.Etichetta: Caimi/MILANOProvenienza: F.M. (madre).d. testa 17 cm; d. falda 20 cm; alt. 5 cmCopricapo da cocktail in tessuto cannettè di cotone marrone con inserti rigidi irre-golari neri.Spillone con capocchia di ciniglia nera sul retro.Nastro di gros grain nero interno; fodera in cotone nera.

21d. Cappello

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Modisteria Caimi (Milano), prima metà anni ’50. Etichetta: Caimi/MILANOMateriali: feltro.Provenienza: F.M. (madre).d. testa 15,5 cm; d. falda 18,5 cm; alt. 7 cm Cappello tipo pillbox tondo in feltro a pelo lungo verde-acqua scuro.Fascia a corona alta 4 cm ripiegata su se stessa a formare due asole di un fiocco. Il centro del fiocco è rialzato e pettinato a forma di triangolo con applicazione di decorazioni in plastica.Calotta leggermente bombata.Due spilloni con capocchia del medesimo tessuto sul retro.Finitura con nastro di gros grain all’interno.

21e. Cappello

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Modisteria Caimi (Milano), anni ’50.Etichetta: Caimi/MILANOMateriali: feltro, penne, gros grain.Provenienza: F. M. (madre).l. max. 24 cm; largh. 23 cm; alt. 10cmCalotta di feltro verde scuro costituita da n. 4 parti sagomate e bombate con su-perficie trattata a imitare il velluto. Tre spicchi presentano una terminazione roton-da e costituiscono la metà anteriore; la parte posteriore è realizzata con un pezzo unico di feltro tagliato a rombo.Il bordo di velluto nero si stacca sul retro (anima filo di metallo interna) per dise-gnare due mezzelune.Sul lato sinistro davanti, 2 piccole e sottili penne verde/nere sono trattenute da un disco verde di feltro di 5 cm di diametro, con applicato un sottile cordoncino nero a disegnare una stella alpina. Finitura con nastro di gros grain all’interno.

22a. Calotta

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Modisteria Caronni (Varese ?), anni ‘50.Etichetta 1: CARONNI/MADE IN ITALYEtichetta 2: Christian Dior/PARIS/MADE IN/FRANCEMateriali: vari tessuti di lana.Provenienza: F. M. (madre).alt. Fronte 12 cm; alt. Orecchio 14 cm; d. 19 cmCappello invernale di lana del tipo “toque” costituito da una tela di misto lana in tinta unita verde acqua sulla quale è applicato un secondo tessuto di lana a righe irregolari verdi, azzurre, blu, gialle lilla e viola a imitare un turbante.Le etichette sembrano entrambe autentiche e cucite nello stesso momento, con il medesimo filo. Potrebbe trattarsi di modello prodotto “in licenza”, oppure di un cappello di Dior sul quale è stata cucita l’etichetta del rivenditore?

22b. Cappello da giorno

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Modisteria milanese, anni ’50.Tessuto: velluto.Provenienza : L.A.-N.F.alt. 11 cm; d. 19 cm Cappello morbido in velluto marrone scuro, tagliato e impunturato a creare un motivo decorativo a triangoli concentrici.Fiocco a più asole sul retro. Finitura con nastro di gros grain all’interno.

22c. Cappello da giorno

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Modisteria, anni ’50.Marchio : LA FAMILIAREMateriali: feltro.Provenienza: L.A.-N.F.alt. 12 cm; d. 20,5 cmCappello invernale da giorno rigido, in feltro peloso color sabbia, stampato a mac-chie di leopardo.Fascia di gros grain marrone chiaro a mezza altezza, con fiocco sul retro.Finitura con nastro di gros grain all’interno.

22d. Cappello da giorno

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Modisteria milanese, anni ’50.Materiali: tulle sintetico e veletta, gros grain.Provenienza: F. M. (madre).d. 17 cm; alt. 10 cmCappellino da giorno morbido con intelaiatura in tulle sintetico sul quale sono ap-plicati più strati di rete bordeaux a maglia media.Gros grain all’interno.

22e. Cappello da giorno

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Il Calzificio A. FerrerioL’attività produttiva di Antonio Ferrerio nel campo della fabbricazione di calze comincia nel 1921 quando, presso la casa paterna, allestisce alcuni locali per ospitare i primi telai per la realizzazione di calze circolari da uomo da donna. Nel 1925 la produzione è così aumentata da rendere necessaria la costruzio-ne dello stabilimento di somma Lombardo che, fra l’altro, può ospitare i telai cotton acquistati in Germania per la realizzazione di calze con la cucitura, mol-to in voga in quegli anni. Pur non senza difficoltà, l’utilizzo di questi macchinari all’avanguardia da i risultati sperati e la ditta cresce enormemente, tanto che nel 1939 nei due stabilimenti di Somma Lombardo e Vedano Olona erano im-piegati quattrocento operai.Dopo la Seconda Guerra Mondiale per la ditta comincia una nuova sfida det-tata da un altro cambiamento di gusto e di tecnologie. La calza in naylon tonda si impone su quella di altri filati tagliata e cucita e ciò comporta la revisione del processo produttivo, per il quale il Calzificio Ferrerio si attrezza presto con nuovi macchinari americani. Gli anni ’50 e ’60 sono quelli di maggior successo e il numero dei dipendenti aumenta ad oltre 600. Inoltre, grazie ad un’attenta campagna pubblicitaria, il marchio incontra grande fortuna oltre che in Italia in tutta Europa e in molti paesi extraeuropei.

Cfr. Arch. St. CCIAA Milano, Registro ditte, nr. 328060Cfr. Il Calzificio Ferrerio, in M. LOMBARDO (a cura di), Civiltà del Lavoro. Rasse-gna politica, economica, sociale, anno 2, numero 4, Roma, 1960.

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23a,b,c. Calze di nylonCalze di nylon – modello fercolor busta oroProduzione lombarda, anni ’50.Marchio: fer (Calzificio A. Ferrerio)Tessuto: nylonProvenienza: L.A.-N.F.

Calze di nylon modello AURAProduzione lombarda, seconda metà anni ’50.Marchio: fer (Calzificio A. Ferrerio)Tessuto: nylonProvenienza: L.A.-N.F.Questa confezione è stata prodotta dopo il 1973 come si evince dall’aggiunta della dicitura «[…] A nor-ma della legge n. 883 del 26.11.1973 […]» posta sul retro e inesistente sui pacchetti antecedenti.

Calze di nylon – modello FervelProduzione lombarda, seconda metà anni ’50.Marchio: fer (Calzificio A. Ferrerio)Tessuto: nylonProvenienza: L.A.-N.F.Questa serie di calze in nylon ha Brevetto per mar-chio di primo deposito nr. 158359 del 1.3.1960. Que-sta confezione è stata prodotta dopo il 1973 come si evince dall’aggiunta della dicitura «[…] A norma della legge n. 883 del 26.11.1973 […]» inesistente sui pac-chetti antecedenti.

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Produzione lombarda, metà anni ’50.Tessuto: maglia di lanaProvenienza: D. G. (madre).l. tot. ant. 71 cm; l. tot. post. 38 cm; spallina 48 cm; v. 56 cm; o. gamba 44 cmCostume da bagno intero, rosso, in maglia di lana. La parte che copre il seno e il bordo delle aperture per le gambe sono a righe oriz-zontali beige e rosse. La zona attorno al seno è bordata da una treccia del medesimo tessuto che prose-gue a creare l’allacciatura incrociata sulla schiena.Fettuccia decorativa in lana passante beige con due fiocchi sui fianchi.

24a. Costume da bagno

Madre di D. G. al mare, metà anni ’50. La ragazza indossa il costume a sinistra.

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Produzione varia, prima metà anni ’50.Marchio frustino: SWAIN & ADENEY LTD LONDONEtichetta sella in metallo: A. PARIANI/Selleria/VIA FILODRAMMATICI 6/MI-LANOMateriale: cuoio, fiberglass, ottone, velluto, cotone.Provenienza: F. M.Sella: l. tot. 72 cm; largh. 42 cm.Guanti: l. tot. 19 cm; largh. 10 cm.Stivali: l. tot. 24 cm; largh. 9 cm; alt. 38 cm.Frustino: l.72,5 cm.Cap: testa l. 21 cm; largh. 16 cm; visiera 5 cm. Completo da equitazione composto da sella in cuoio con finimenti in ottone e sottosella imbottito; frusti-no in fiberglass e stivali in cuoio marrone.Guanti con palmo in pelle e dorso in cotone lavorato a maglia.Cap nero ricoperto in vel-luto con fiocco in nastro di gros grain nero sul retro e interno imbottito.

25a. Completo da equitazione

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Finito di stampare nell’ottobre 2016.

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