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SHALOM שלוםEBRAISMO INFORMAZIONE CULTURA ITALIA ANCHE LA SATIRA HA DEI LIMITI FRANCIA FUGA DEGLI EBREI ARGENTINA RELAZIONI PERICOLOSE CON L'IRAN ד’’ בסHollywood e la Bibbia FOCUS N° 2 - FEBBRAIO 2015 - SHEVAT 5775 • ANNO XLVIII - CONTIENE I.P. E I.R. - Una copia € 6,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1 Roma Faremo e ricorderemo A 70 anni dalla liberazione di Auschwitz: ricordare l’antisemitismo di ieri, combattendo quello di oggi

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SHALOMשלוםEBRAISMO INFORMAZIONE CULTURA

ITALIAANCHE LA SATIRA HA DEI LIMITI

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EDITORIALE

Nei luoghi della Memoria, per una Memoria senza luoghi

A 70 anni dalla liberazione dei campi di sterminio nazisti, il numero dei testimoni e dei sopravvissuti si

affievolisce ogni giorno di più. E' normale che sia così, 'una generazione viene, una generazione va'. Preziose perciò, ancora di più, sono le loro parole; ed in questi ultimi anni molti degli ex deportati si sono sottoposti a faticosi e traumatici ritorni nei campi di sterminio per raccontare ai giovani cosa fu la persecuzione degli ebrei e dei rom. Su quei luoghi di morte e di barbarie, le parole rotte dal pianto dei testimoni inebetiscono gli ascoltatori, rompono l'indifferenza dei giovani, costruiscono un ponte consegnando alle nuove generazioni la responsabilità di tramandare e raccontare a loro volta.Tutti abbiamo la consapevolezza che il prossimo decennale dell'apertura dei cancelli di Auschwitz (l'ottantennale si celebrerà nel 2025), sarà diverso; vedrà un ruolo molto più marginale dei testimoni, il cui numero si sarà ulteriormente affievolito. La grande responsabilità che l'umanità dovrà raccogliere sarà quella di proseguire la testimonianza senza i testimoni, ma la sfida più importante sarà quella di non banalizzare il ricordo, portando il racconto da un semplice livello di narrazione in pathos, in suggestione. Oggi questo è possibile perché Sami Modiano, le sorelle Bucci, Piero Terracina, Nedo Fiano e tanti altri non parlano della Shoah in generale, come un evento meta-storico, ma raccontano le loro piccole e grandi 'storie' familiari, i loro affetti, i legami d'amore brutalmente spezzati. Non

descrivono la sofferenza dei prigionieri, ma raccontano il dolore che loro stessi hanno provato, le umiliazioni che loro stessi hanno dovuto subire. Solo così la Shoah può essere compresa, la cui percezione complessiva - per l'enormità dei morti prodotti - sfugge all'uomo comune. E' un concetto espresso da una celebre frase, attribuita a Stalin: “La morte di un uomo è una tragedia, la morte di milioni è statistica”.Se è impossibile poter raccontare sei milioni di tragedie (di cui un milione e mezzo di bambini trucidati), è doveroso però non cedere alla tentazione semplificante di raccontare la Shoah in termini puramente storiografici. Visitare quei luoghi, recarsi nei campi è fondamentale per una buona didattica, ed è motivo di orgoglio per il nostro Paese che il Ministero dell'istruzione abbia rinnovato il memorandum d'intesa con l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane per continuare a promuovere i Viaggi della Memoria per le scuole italiane.Ma solo una parte degli studenti va ad Auschwitz. Perché la Memoria entri a pieno titolo nel bagaglio formativo dei futuri studenti, è necessario portare Auschwitz qui. E' necessario avere luoghi in Italia dove proseguire il racconto della Shoah, ricordando le storie dei singoli, i loro volti, i loro nomi. Milano ha da alcuni anni il Memoriale 'Binario 21'. Roma quando avrà il Museo della Shoah?

La Comunità ebraica romana commossa

dalle parole del Presidente Mattarella

Ora occorre inserire Stefano Gay Taché

tra le vittime del terrorismo

‘’Abbiamo ascoltato commossi le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso d’insedia-mento alla Camera dei Deputati. Condivi-diamo ogni minimo passaggio: la mag-giore attenzione che l’Italia deve alle comunità straniere, la valorizzazione delle diversità, il ricordo di chi 70 anni fa ha lottato contro il nazi-fascismo, la lotta alla mafia come priorità assoluta, la minaccia del terrorismo internazionale, i singoli valori che fanno della nostra Carta Costituzionale il fondamentale strumento di democrazia”. Lo dichiara il presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccar-do Pacifici.“Nel suo profondo pensiero guardando dall’alto del suo ruolo il nostro Paese ha voluto citare anche la tragedia che ha colpito la nostra Comunità, segnata dal terrorismo palestinese già il 9 ottobre del 1982 davanti al Tempio Maggiore di Roma - sottolinea Pacifici - Il Capo dello Stato ha nominato il piccolo Stefano Gay Taché, ‘un nostro bambino, un bambino italiano’, assassinato barbaramente in quel vile attentato e così facendo ci ha abbracciati condividendo con tutti noi un dolore che non potremo mai estirpare. Io sono figlio di quell’attentato. Mio padre è stato ferito in quell’attacco come molti altri ebrei romani scampati miracolosa-mente alla morte”.“Il gesto del Presidente della Repubblica riempie il cuore di speranza degli ebrei romani e italiani - conclude. - La famiglia di Stefano, i genitori e il fratello, vogliono a loro volta abbracciare il Presidente e immaginare che una volta per tutte il nome di Stefano venga inserito nell’elen-co delle vittime del terrorismo in Italia. Per questo tale abbraccio non vuole rima-nere solo una metafora. I genitori e il fratello di Stefano vorrebbero abbracciare di persona il Capo dello Stato nelle moda-lità che riterrà opportune, compresa la possibilità di trovarsi insieme davanti alla lapide fuori della grande sinagoga a Roma, in Largo Stefano Gay Taché’’.

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“Lo stato di Israele è democratico, basato sulle fon-damenta della libertà, della giustizia e della pace nella visione dei profeti di Israele e sostiene i dirit-ti individuali di tutti i suoi cittadini secondo la leg-

ge”. Questo è l’inizio della proposta di legge che dovrebbe alla fine riconoscere Israele come lo Stato nazione del popolo ebraico. Non sembra minacciosa verso la democrazia come invece si sono affrettati a gridare i commentatori che non l’hanno nemmeno letta. E’ veramente notevole quante critiche e malumori abbia sollevato il fatto che il Parlamento israeliano abbia discusso il di-segno che stabilirà, una volta approvato, che Israele è lo Sta-to nazionale del Popolo ebrai-co. Una verità auto-evidente, e che non sottrae nessun diritto alle minoranze, come non sot-trae questo diritto il fatto che gli Stati Uniti siano la nazione del popolo americano. Cos’è che dà tanta noia all’opi-nione pubblica internazionale, che cosa spinge a credere che un fondamento legislativo di questo tipo possa trasformar-si in razzismo e in discrimina-zione? Non è l’Italia lo Stato del popolo italiano? Ciascuna nazione, non è la nazione del popolo che risiede con motivazioni storiche, culturali e, perbac-co, talora persino religiose all’interno dei suoi confini, senza che questo significhi deturpare i diritti delle minoranze al suo inter-no? Perché immediatamente si è sospettato il governo israeliano, che così tanti amano odiare, di volere brandire una mannaia nei confronti delle religioni non ebraiche e verso le altre etnie? Dove si trova la traccia che questo possa accadere? Non nella storia di questo paese, che ha rispettato tutte le differenze, e non nelle parole del disegno di legge che sarà quello maggioritario, ovvero quello già approvato dal Gabinetto. Forse che non è chiaro, anzi sicuramente non è chiaro neppure ai nostri amici una volta per tutte, anche se è stato rimarcato tante volte, che il popolo ebraico è appunto un popolo e che l’ebraismo non è una religione sola-mente. Moltissimi paesi occidentali, spiegano i costituzionalisti, definiscono il tema della appartenenza della terra al suo popolo in modo spesso molto più determinato di quanto non faccia la “basic law” ancora non votata alla Camera di Israele; e nessuno, fra i commentatori del New York Times o di Ha’aretz, sembra sapere che ci sono tre disegni di legge da mettere a confronto e nessuno dice, scegliendo di riportare la versione più dura, che l’opzione più probabile è invece che sia la versione più morbida a moderata quella destinata a diventare legge. Sarebbe così bello che, una volta tanto nel giudizio verso Israele, invece di cercare il difetto, l’opinione pubblica cercasse di vedere la verità: e la verità è che la legge stabilirà semplicemente quello che ognuno sa e vede e che è naturale anche per qualsiasi altro popolo in qualsiasi altra nazione. Israele è lo Stato del popolo ebraico, la sua epica storia è costruita

per ritrovare la patria degli ebrei da mani ebraiche, come noi ita-liani abbiamo avuto il nostro risorgimento e la nostra resistenza, così il popolo ebraico ha avuto i suoi momenti di identificazione nella storia contemporanea come nel passato, e le ragioni storiche e fattuali sono così forti, i sacrifici e l’eroismo nell’autodetermi-nazione, principio fondamentale della nostra epoca, così evidenti che davvero non dovrebbe saltare per la testa a nessuno di met-terli in discussione. Anche chi mette al primo posto la difesa dei diritti delle minoranze, e questo è un diritto incontrovertibile e anche importante, deve informarsi meglio: prima di tutto, tutte

le versioni più estreme, quelle che potevano essere sospettate di discriminazione sono già ca-dute, anche se molti giornali di questo non tengono conto e se-guitano a citarle, e il Gabinetto le ha già cancellate. La base della legge proposta dal governo è composta di 14 punti e dice: “La terra d’Israele è la patria del popolo ebraico e il luogo di nascita dello Sta-to”; poi si parla dell’inno “Ha-tikva”, successivamente dei diritto al ritorno che è esteso a ogni ebreo, poi della necessità di stringere rapporti con la dia-spora e con gli ebrei in difficoltà

nel mondo, dell’educazione e non della religione, e quando si ar-riva a parlare della religione si dice che qualsiasi membro di altre religioni avrà il diritto di osservare le sue feste e il suo culto, così come i luoghi santi resteranno nelle mani delle varie religioni. Libertà, giustizia, integrità, pace sono i principi citati come ti-pici di Israele nel disegno preferito, e non c’è nessuna traccia di principi discriminatori, anche se si possono trovare invece in altri progetti di legge. Il principio dell’uguaglianza, che non viene citato espressamente per evitare le reazioni degli ortodossi, ap-pare chiaramente nel richiamo alla dichiarazione di Indipenden-za dal momento che la legge incorpora la dichiarazione del 1948 come fu redatta e letta da David Ben Gurion stesso. “In questi giorni in cui si scrivono varie leggi sulla nazionalità… non deve esserci spazio per discriminazioni verso gruppi dentro la società israeliana… e (occorre) santificare i principi di eguaglianza su cui la dichiarazione di indipendenza è basata…”. La prefazione, fatta di cinque frasi, menziona la parola eguaglian-za cinque volte. Molti altri punti del progetto che sarà probabil-mente quello prescelto ne parlano. I principi discriminatori che erano contenuti nelle proposte di destra, sono stati scavalcati dal-la decisione politica per cui la legge dovrà essere sponsorizzata dal governo, e Netanyahu dovrà dare la sua approvazione. Certo, chi ama odiare Bibi seguiterà ad odiarla, la propaganda interna-zionale continuerà a bombardare, ma ogni persona di buon senso leggerà il testo e vedrà che arabi, beduini, armeni, circassi, ecce-tera, seguiteranno a godere di una protezione completa di tutti i loro diritti civili e culturali. Invece, come è noto, oltre a una piattaforma nettamente nazio-

COPERTINA

La “basic law” dello Stato di Israele che scandalizza il mondo

Troppe polemiche attorno al disegno di legge che vuole riconoscere allo Stato ebraico una verità ribadita in ogni altra democrazia:

lo Stato nazionale è legittima espressione del popolo.

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nalista, gli arabi palesti-nesi hanno decisamente adottato una piattaforma nazionalista discrimina-toria nei confronti degli ebrei e pretendono un ca-rattere totalmente, esclu-sivamente, arabo del loro stato. La Carta nazionale palestinese dice “La Pale-stina è la patria del popolo arabo palestinese, è parte indivisibile della patria araba e i palestinesi sono parte integrante della nazione araba”. Sembra a qualcuno che qui ci sia posto per una minoranza, tanto più per la larga minoranza israeliana che si produrrebbe se ci fossero distacchi territoriali notevoli nelle mani dei palestinesi per formare uno stato palestinese, ovvero se gli insediamenti fi-nissero in mano palestinese? Chi avesse qualche speranza, può rileggersi i discorsi di Abu Ma-zen che ha dichiarato più volte che non vuole ve-dere l’ombra di un ebreo all’interno dei suoi territori quando esisterà lo Stato palestinese. E’ pura cul-tura dell’odio come quella che santifica i terroristi e dà i loro nomi alle piazze palestinesi, quindi non ci riguarda, non con questa ci confrontiamo. Ci riguarda molto di più invece il punto politico della necessità di dichia-rare chiaro e tondo che Israele, Stato ebraico, proprio per questo non sarà mai un Paese discriminatorio nei confronti delle minoranze e che quando Abu Mazen dice che non riconoscerà mai Israele come stato ebrai-

co, mesta nel torbido: cerca infatti di alimenta-re la confusione che crea nebbia quando si pensa all’ebraismo come reli-gione e non come radice eterna della vita di un popolo variegato e molto diversificato al suo inter-no, in parte religioso in parte non religioso. Se la legge confermerà che gli autobus non circolino di sabato, sarà più o meno la stessa scelta che sta-bilisce in Italia che la do-menica sia festa, o che sia festa nazionale il Natale.

Un popolo può, anzi deve riconoscere la sua radice, la sua natura, i valori per cui vive e muore, specialmente se, come Israele, ogni giorno di fatto deve difenderli da un attacco discriminatorio e violento. Deve affermare di fronte all’interlocutore che ha giu-rato di non riconoscerti mai per quello che sei la sua identità,

soprattutto perché è del tutto evidente che dietro il rifiuto di Abu Mazen si nasconde (a malapena) il progetto del diritto al ri-torno indiscriminato e alla fine al piano di sommer-gere il popolo ebraico in uno stato binazionale che diventi poi solo arabo. Israele è lo Stato del Po-polo ebraico, e proteggerà come nessun altro i diritti delle minoranze. Il resto è solo una favoletta. Inoltre se c’è un modo di tornare

a colloqui di pace, esso è legato alla definizione chiara delle parti. Il popolo ebraico è una di queste parti.

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Devo confessarlo: di fronte alle notizie del terrorismo islamico - giorno dopo giorno, anno dopo anno - ho provato paura, spesso

un senso di lutto profondo, dei punti di vera disperazione, rabbia, tristezza, anche odio. Ma raramente mi è capitato di mera-vigliarmi. Che producessero terrorismo ef-ferato società primitive e selvagge, che usano anche al loro interno una violenza senza limiti, mi è sempre sembrato tragicamente ov-vio, orribilmente coerente con la loro identità. Atroce, doloroso, intollerabile, mo-ralmente abbietto - ma pur-troppo scontato. E che fosse contro di noi che innanzitut-to portavano il loro terrori-smo, che fossero i nostri bambini, i nostri anziani, le nostre donne, le nostre scuo-le, le sinagoghe, insomma, il popolo ebraico, mi è sembra-to ancor più orribile e pauro-so ma altrettanto scontato. L’idea che degli esseri infe-riori, come ci considerano dai tempi di Maometto, allu-dendo a noi con disprezzo cinque volte al giorno nelle loro preghiere, dei servi, dei nemici di Maometto, graziati solo se accettavano ostensibilmente una condizione servile in tutti i momenti della loro vita pubblica e privata, si ribellassero, ritornassero nella loro antica casa e pre-tendessero di governarla, anche se annes-sa da tempo al territorio dell’Islam... be’, questo deve sembrare loro un affronto in-

tollerabile, un’onta da lavare col sangue. Che fossimo sopravvissuti alle molte guer-re che ci hanno dichiarato, che avessimo distrutto in pochi e senza aiuti, le loro massicce armate, il loro terrorismo, il ricat-to del petrolio... questo è un’offesa insop-portabile al loro senso dell’onore. In una cultura in cui i conflitti si risolvono col sangue, quelli religiosi come quelli tri-bali, interetnici, dinastici o politici, è chia-

ro che l’insulto della nostra sopravvivenza non possa che generare il terrorismo più cruento, il più vile, il più privo di pietà umana e di rispetto per i non combattenti. Insomma, per il terrorismo mi indigno, cerco nei limiti delle mie possibilità di combatterlo, ne porto il lutto quando rie-sce a uccidere e a ferire, ancor di più quando lo fa con bambini, donne, vecchi,

passanti indifesi. Ma non riesco a sor-prendermene, lo trovo dolorosamente prevedibile come i mali della vita, non ne riesco anzi a immaginarne il termine pos-sibile nel tempo della vita prevedibile. E quindi non mi sento tradito quando acca-de. Attaccato sì, violato, ferito, ma non tradito. So che non possiamo aspettarci da quella parte altro che morte, salvo per chi se ne dissocia, capisce che è una stra-

da senza uscita, cerca di cambiare questo destino terribile, che porta alla rovi-na anche gli arabi prigionie-ri della loro volontà di ven-detta contro la nostra vita.Ancora: non mi sento tradito dai paesi ex comunisti asia-tici, africani, che danno un appoggio più o meno effetti-vo alle iniziative diplomati-che contro Israele. Si tratta di vecchi schieramenti, che scattano con una specie di automatismo: il “Terzo Mon-do” insieme agli ex “Paesi Socialisti” contro l’Occiden-te. Che Israele non sia più appoggiato dall’Europa né dall’amministrazione Obama

non importa, esso è considerato automati-camente l’avanguardia dell’imperialismo americano, la terra del colonialismo ecce-tera eccetera. Amareggia naturalmente che ci sia un antisemitismo in luoghi dove non c’è mai stata una presenza ebraica se non limitatissima, come in Cina e in India; ma si tratta di posizioni politiche, che pos-sono cambiare. E in effetti sembra che

Paghiamo con il sangue il nostro diritto a vivereÈ successo negli anni della Shoah

e si ripete anche in questo difficile momento storico

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l’India uscirà dallo schieramento anti-isra-eliano all’Onu; con la Cina e il Giappone ci sono processi di avvicinamento economico e commerciale. Perfino con la Russia, che pure è lo sponsor politico e militare dell’I-ran e di Assad, ci sono dei discorsi aperti. Ma resta la logica di schieramento.Di loro non mi sorprendo. Mi meraviglio invece, mi sento profondamente tradito dall’Occidente, dall’Europa, da una certa “intelligenza” americana, dalla sinistra europea e italiana, e anche da quella suda-mericana, che in questo ha fatto da batti-strada all’Europa. L’Europa ha visto la Shoà, anzi l’ha com-messa. L’Occidente ha giurato molte volte che non si sarebbe ripetuta, ha aperto musei della Shoà e dell’ebraismo. Tutti i paesi hanno avuto le testi-monianze, i sopravvissuti, si so-no commossi ai libri e ai film. Sono stati spesso il teatro di pic-colo o grande terrorismo antie-braico. Di più: il loro passato in-tegra profondamente la storia della diaspora ebraica e conosce in maniera diretta (l’Europa) o indiretta (Usa e America latina) i molti secoli di persecuzioni inflit-ti agli ebrei. Sono passati poco più di due se-coli da quando la Francia ha ini-ziato il processo di emancipazio-ne degli ebrei, che poi si è diffu-so nel resto del continente, in Italia (1848-61) in Germania (con-cluso solo negli anni Settanta del Novecento) eccetera. L’Europa ha promesso nell’Ottocento inte-grazione al popolo ebraico, che si è gene-rosamente identificato con i paesi in cui abitavano, ha partecipato in maniera emi-nente alla loro modernizzazione, alle batta-glie politiche, perfino alle guerre, e poi l’ha tradito con pogrom, con discriminazioni, con umiliazioni come il caso Drayfus e poi con la Shoà.

Dopo il trauma tragico dello sterminio, che non è stato solo nazista, ma ha visto la partecipazione massiccia di governi e di popoli in Germania ma anche in Francia, in Italia, in tutto l’Est, gli ebrei hanno di nuo-vo ricucito la trama di un’integrazione coi loro paesi, appoggiando allo stesso tempo e favorendo la nascita e lo sviluppo di Isra-ele. Israele non è nato come compensazio-ne alla Shoà, ma certamente è una garan-zia contro la sua ripetizione, è la realizza-zione di un sogno millenario che diventa urgenza politica alla fine dell’Ottocento sotto la spinta della persecuzione e dell’o-scura ma indubitabile pulsione europea a liberarsi dei suoi ebrei. Forse io mi sono illuso con la mia genera-

zione che l’Europa avesse imparato la le-zione che essa stessa si è data con la Shoà. Forse ho fatto male, con la mia generazio-ne a trattare la Shoà come una cosa conclu-sa, frutto di un tempo finito, un errore confessato e concluso. Oggi l’Europa tradi-sce ancora. Non protegge adeguatamente gli ebrei che sono rimasti sul suo territorio, che sono oggetto di attentati continui, di minacce, di boicottaggi. E osteggia aperta-

mente Israele, col pretesto del tutto inat-tendibile sul piano della realtà di favorire improbabili trattative di pace - che nella strategia palestinese sono solo forme di guerra sviluppata con mezzi diplomatici. L’Europa non tiene conto di come le sue azioni, i voti dei suoi parlamenti, le sue posizioni all’Onu abbiano l’effetto pratico di mettere ancora in pericolo la vita indivi-duale e collettiva degli ebrei. Non le impor-ta, non se ne sente responsabile. Volentie-ri scarica sulla testa del popolo ebraico il costo del suo colonialismo, la responsabili-tà dei suoi rapporti interni con l’immigra-zione ed esterni con il mondo musulmano. E’ un terzo tradimento, che sorprende e amareggia. Che i paesi islamici presentino

all’Onu mozioni che puntano alla distruzione di Israele sotto la finzione della pace, non me-raviglia. E non meraviglia ne-anche che cerchino di crimina-lizzare l’autodifesa israeliana dalle minacce terroristiche usando la Corte Penale Interna-zionale. Era previsto dalla sua costituzione, con l’avvertenza che anche in questo Israele sarà solo il primo obiettivo e seguiranno Usa, Gran Breta-gna, Francia. Che buona parte delle nazioni del Terzo Mondo si allinei è sgradevole ma fa parte delle costanti del gioco politico. Che l’Europa rifiuti di appoggiare Israele e si erga come una terza parte che lo

giudica e in sostanza collabora per la sua distruzione, questo sì, amareggia e sor-prende.

UGO VOLLINella pagina a fianco: Germania 1933 "con lo Sturmer (giornale antisemita) contro gli ebrei. Gli ebrei sono la nostra disgrazia"In questa pagina: Inghilterra 2011 "Israele i tuoi giorni sono contati. Per la pace nel mondo Israele deve essere distrutta"

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Davanti al fondamentalismo islamico, quanta retorica,

quanta confusione mentaleTroppe giustificazioni, distinguo

e scarsa capacità di analisi persino da chi non te lo saresti aspettato, dal Papa

Passata la sbornia del «Je suis Charlie» era purtroppo inevitabile che riemergesse lo sfilacciamento (per non dir peggio) del fronte che dovrebbe contrastare la minaccia del fondamentalismo islamico. Troppi sono

stati i casi di scuole francesi in cui ci si è rifiutati di osservare un minuto di silenzio in onore delle vittime e sono venuti fuori i soliti arnesi a spiegare che tutto è stato una montatura messa in piedi dalla Cia e dal Mossad. Tuttavia, anche volendo non dare troppa importanza a questa controinformazione demenziale (il che sarebbe un errore, visto come inquinò le menti di tante persone dopo l’attacco alle torri gemelle di New York), è assai inquietante il livello di confusione che circola anche ai livelli più elevati della politica e delle autorità religiose. Papa Francesco ha dichiarato che la violenza in nome della religio-ne e di Dio è inaccettabile ma è altresì inaccettabile l’offesa della fede altrui, e se uno insulta la mamma è del tutto naturale asse-stargli un pugno. Forse si potreb-be sorvolare su questo episodio, visto che da varie parti è stato derubricato a “scherzo”, ma col-pisce assai che questo sia l’unico caso in cui sia venuta meno la tenace adesione al principio dell’accettazione dello “schiaffo sull’altra guancia”. Quando, in precedenti occasioni, il Papa ha predicato la necessità di fermare il fondamentalismo ha precisato con chiarezza che questo non doveva comunque essere fatto con la forza (come, non si capisce bene, ma questa è un’altra faccenda); e quando ha deprecato le stragi di cristiani, la vendita come schiave delle donne cristiane messe in gabbia, non si è mai sognato di dire, neanche per scherzo, che bisognasse tirare qualche pugno contro simili obbrobri. Dunque, è soltanto l’estremismo islamista che è grati-ficato di una comprensione che sconfina nella giustificazione degli attentati?Ma la confusione mentale dilaga a livelli apparentemente più innocui – apparentemente, perché nei frangenti in cui siamo di logomachia si muore. Ci si divide tra chi dice che gli attentati francesi sono forme di terrorismo e chi dice che sono episodi di vera e propria guerra all’occidente. No – replicano altri – è guer-ra civile perché le persone coinvolte sono cittadini francesi (o di altri paesi europei) anche di seconda generazione. Una simile osservazione è assai fondata ma bisognerebbe trarne le conse-guenze tra cui due principali. La prima è che la situazione è di gran lunga più grave di quanto sarebbe se si trattasse soltanto di attacchi terroristici o bellici del tutto esterni a una società compatta nel difendere i suoi prin-cipi di convivenza, mentre questo manifesta un livello di sfilac-ciamento e di disgregazione dei progetti di integrazione dell’im-migrazione – fallimento che ha prodotto in forme diverse ma analoghe nei diversi paesi europei segmenti comunitaristi isola-ti che mirano a difendere l’autonomia dei propri principi di con-

vivenza (la sharia, in particolare), anche quando sono in piena contraddizione con la legislazione dominante e persino a imporli con la forza. La seconda conseguenza è che chi usa l’argomento della guerra civile per mettere a tacere chi coglie l’occasione per condannare il lassismo nella gestione dell’immigrazione, si dà la zappa sui piedi. È ben evidente che c’è chi coglie il pretesto di quanto è accaduto per parlare soltanto di immigrazione ed eccitare gli animi contro gli immigrati, ma sostenere che il tema dell’immigrazione non c’entri nulla in quanto gli attentatori sono cittadini europei, è uno svarione da matita blu. E questo per il semplice motivo detto prima: se costoro sono giunti al punto di essere mobilitabili per attaccare le società europee dall’interno, vuol dire che i progetti di integrazione sono falliti.

Se ci impantaniamo nella retorica anziché ragionare si va alla cata-strofe: chi scrive è figlio di immi-grato, figuriamoci se può decente-mente avercela con l’immigrazio-ne, ma l’ingresso in un paese che non sia basato sull’accettazione delle sue regole, la conoscenza della sua lingua e della sua tradi-zione culturale (e dirò di più, anche l’interesse e l’affetto per queste) non ha alcun senso se non quello di fabbricare le premesse di una catastrofe. Un conto è l’imposizio-ne autoritaria di modelli che non lasciano spazio alla coltivazione del legame con le proprie radici e con la propria religione, altro conto

è accettare che la società si decomponga in gruppi indipendenti che non rispondono più ad alcun contratto sociale, fino al punto – in nome di un disgraziato “buonismo” – di mettere all’ultimo posto i diritti delle radici, della cultura e delle religioni storicamen-te prevalenti nel paese ospitante.In definitiva, vi sono poche speranze che il contrasto alla sfida dell’integralismo islamico possa avere successo se l’Europa non tornerà sui suoi passi rispetto a un processo che in pochi decenni ha sgretolato i fondamenti delle proprie società, persino dimenti-candone la storia (come si vede bene al livello dell’istruzione), screditandone la cultura, le istituzioni e le forme associative democratiche. Quando ci si rifiutò di menzionare le “radici ebrai-co-cristiane” della civiltà europea, si poteva ben criticare questa formula, suggerirne formulazioni diverse, ma il rigetto brutale che ne venne fatto, quasi si trattasse di un proclama razzista, doveva far capire lo sfacelo cui stava andando il continente. E che è sotto gli occhi ogni volta che apriamo il portafogli e maneggiamo le squallide carte-moneta su cui campeggiano forme architettoniche astratte, per l’incapacità di mettersi d’accordo persino a scegliere l’iconografia di un certo numero tra i grandi monumenti e tra i volti di uomini rappresentativi della grandezza della civiltà euro-pea. Quando riusciremo a vedere su quei pezzi di carta il Colos-seo, l’Acropoli di Atene, la cattedrale di Chartres, una sinagoga di Toledo, i volti di Galileo, Goethe, Cervantes, Newton o Spinoza, senza che qualche congrega di imbecilli blocchi tutto in nome di qualche stravagante obiezione “politicamente corretta”, sarà il segnale che forse questo continente ha ancora qualche speranza di sopravvivenza.

GIORGIO ISRAEL

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Man mano che le stragi di Parigi si allontanano nel tempo e l'emozione suscitata rimane anch'essa un ricordo, abbiamo assistito ad un mutamento nella pubblica opinio-

ne nei confronti dell'intera vicenda. Dalle responsabilità evidenti e riconosciute degli esecutori materiali a quelle dell'ideologia che le ha moti-vate, siamo passati ad una fase che non è azzardato definire giustificativa. L'ese-cuzione della redazione di Charlie Hebdo - una strage a sangue freddo - che ha com-mosso e indignato centinaia di milioni di persone, gene-rando una solidarietà verso un giornale che forse soltan-to una minima parte dei vari milioni che poi l’hanno acqui-stato conosceva, si è tramu-tata in un riesame dei contenuti del giornale stesso.L'insulto alla parola 'religione', che con l'aggettivo 'islamica' era stato alla base della strage, mentre nei primi giorni veniva giusta-mente giudicato inaccettabile da una società democratica, e perciò laica, come la Ministra della Giustizia francese Christiane Taubira aveva dichiarato “Si può disegnare di tutto, anche il profeta Mao-metto, perché in Francia, paese di Voltaire e dell'irriverenza, si ha il diritto di prendere in giro tutte le religioni", e come avevano condiviso i milioni di partecipanti alla grande manifestazione "Je suis Charlie", ebbene, a distanza di poche settimane, il vento è cambiato. Un sondaggio recente attribuisce al 40% dei francesi l'opinione che il settimanale aveva oltrepassato il limite consentito, in pratica che la libertà di espressione doveva fermarsi di fronte alla parola reli-gione, inglobando in quel 40% - oltre ai prevedibili 6/7 milioni di musulmani che vivono in Francia - su questo tema la quasi totalità è d'accordo - una alta percentuale di francesi che ha fatto marcia indietro. Una scelta sulla quale hanno sicuramente avuto influenza le parole del Papa durante il suo viaggio nelle Filippine. "Un crimi-ne uccidere in nome di Dio, ma non si insultano le religioni", ha detto Francesco, un’affermazione che suona come una condanna sull’intero Charlie Hebdo che, come tutti sanno, fa della satira vera, non quella annacquata alla quale ci hanno abituato i vignet-tisti di casa nostra, sempre attenti all’uso che fanno delle loro matite. Le parole del Papa sono state il segnale che Islam e Cristia-nesimo non possono essere soggetti a raffigurazioni men che mai irrispettose, cancellando le speranze di chi aveva interpretato il suo arrivo come novità, grazie soprattutto a quel suo "… e chi sono io per giudicare!". Adesso sappiamo che l'islam, la cui traduzione letterale è "sottomissione" è equivalente al cristianesimo. Che poi le pene per chi lo critica siano diverse, è un fatto da attri-buirsi al fatto che il cristianesimo opera in un mondo occidentale che ne ha cambiato, dall'illuminismo in poi, pratiche e regole nell'applicazione della fede. L'islam, che vive - o si propone di ritor-nare a vivere - in un mondo arretrato - può arrivare a fare stragi di cristiani, ai quali non è concesso il diritto di reagire nemmeno con la matita. Sempre per via del rispetto che dovrebbe essere dato all'islam, dato che viene ritenuto - anche dal Papa - soltanto una religione.

Al Papa si sono subito accodati i vari leader occidentali, Obama per primo, che non ha ritenuto opportuna la sua presenza alla marcia di Parigi, e tutti gli altri, Hollande e Merkel in testa, che hanno

pubblicamente riaffermato tutti gli apprezzamenti all'i-slam quale religione di pace. Poco importa se tutto il ter-rorismo che minaccia le nostre libertà agisce proprio nel nome dell'islam.I giornalisti di Charlie Hebdo sono morti invano?Ho tenuto fuori da questo commento gli ebrei vittime dello stesso terrorismo isla-mico, essendo quelle del supermercato kasher soltan-to le ultime di una lunga serie che ben conosciamo. Ebrei che non hanno mai alzato un dito, né un soprac-

ciglio, di fronte a nessuna vignetta di Charlie Hebdo, essendo l’iro-nia e la satira una componente strutturale dell’ebraismo. Il gioco – o meglio la tragedia – ha due attori, cristianesimo e islam. Il secondo vuole sottomettere tutti, cristiani compresi, il primo lo legittima.Non c'è bisogno di scrivere un romanzo, premonitore, come ha fatto Michel Houellebecq (Sottomissione, Bompiani ed.) per capire che il risultato sarà il suicidio dell'Occidente, delle nostre società sicuramente imperfette, ma democratiche, aperte, sempre più attente ai diritti di tutti. Anche di quelli che pur vivendo in regimi democratici approfittano delle nostre leggi permissive per distrug-gere i nostri valori. In poche parole per sottometterci.

ANGELO PEZZANAIn alto a destra: nella copertina di Charlie Hebdo, Michel Houellebecq prevede di rispettare il Ramadan nel 2022

Che dialogo è se uno vuole 'sottomettere' l'altro?Non ci può essere nessuna giustificazione se una religione

consente di uccidere perché ci si sente offesi

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EUROPA

Ogni volta che il terrorismo jihadista colpisce l’Occidente, le reazioni in Israele seguono un copione consolidato. C’è, naturalmente, la solidarietà per le vittime, soprat-tutto quando a essere colpiti sono ebrei o israeliani che

si trovano all’estero. C’è poi la speranza che l’Occidente, e soprat-tutto l’Europa, si risvegli, comprenda il pericolo dell’estremismo islamico e si riavvicini a Israele, che da decenni affronta da solo la minaccia terrorista. Infine, segue l’invito pressante agli ebrei della Diaspora a fare Aliyah, a emigrare in Israele, unico paese a poter garantire la sicurezza e la sopravvivenza del popolo ebraico.Ma è davvero così? L’Aliyah è la risposta migliore al terrorismo e all’antisemitismo di chi prende di mira le comunità ebraiche sparse nel mondo?Il governo israeliano, e soprattutto il premier Benjamin Netanyahu, ha seguito con convinzione il copione sopra descritto a seguito della doppia strage compiuta a Parigi contro il settimanale satirico Charlie Hebdo e i clienti ebrei del supermercato Hyper Cacher. Questa volta però le parole e le azioni del premier e dei suoi allea-ti politici sono suonate strumentali e grossolane, suscitando criti-che da parte europea e israeliana. Netanyahu, prima ancora di partire alla volta di Parigi e poi nelle sue numerose apparizioni nella capitale francese, ha ripetuta-mente invitato il mondo a unirsi contro l’estremismo islamico, cer-cando di collegare le azioni di Al-Qaida, ISIS e altre organizzazio-ni islamiste internazionali a quelle di Hamas e altri gruppi terroristi vicini alla causa palestinese.Netanyahu non ha tutti i torti nel ravvisare possibili saldature fra il jihadismo mondiale e il terrorismo palestinese, e indubbiamente il fanatismo islamico alimenta le posizioni e le azioni di Hamas quanto quelle di Al-Qaida. Eppure, a torto o a ragione, la maggior parte del pubblico europeo e fran-cese, anche quella parte che non è pregiudizialmente filo-palesti-nese, traccia un netto distinguo fra le motivazioni e gli scopi di queste diverse compagini. E nel contesto dell’attentato di Parigi le parole del premier israeliano sono suonate come un tentativo stru-mentale e disperato di agganciarsi al clima globale di solidarietà e far sorte comune in un momento in cui invece le divisioni tra Isra-ele e Unione Europea sulla questione palestinese sono chiare e profonde.Non a caso, secondo i media israeliani e francesi, il presidente francese Francois Hollande aveva cercato di bloccare la partecipa-zione di “Bibi” alla grande marcia di solidarietà a Parigi per non compromettere il senso di unità creatosi a seguito degli attentati. Netanyahu, che inizialmente aveva acconsentito alla richiesta francese, ha fatto marcia indietro quando ha saputo che il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman e il ministro dell’Economia Naftali

Bennett, suoi rivali per il voto di destra nelle prossime elezioni di marzo, erano partiti per Parigi. Netanyahu non ha dunque esitato a privilegiare i suoi interessi elettorali personali invece di salva-guardare le già tese relazioni tra Francia e Israele. Hollande ha mostrato tutto il suo disappunto, quando, durante una cerimonia in ricordo delle vittime dell’Hyper Cacher presso la sinagoga cen-trale di Parigi, si è alzato per lasciare l’evento nel momento in cui Netanyahu prendeva la parola.A turbare i francesi sono stati anche gli inviti di “Bibi” e dei suoi ministri agli ebrei francesi ad aumentare il ritmo dell’emigrazione verso Israele. “Lo Stato d’Israele è la vostra casa”, ha detto il pre-mier. “Tutti gli ebrei che vorranno immigrare in Israele saranno accolti a braccia aperte”. Netanyahu non ha irritato solo l’Eliseo, ma anche molti ebrei francesi, che non credono alla necessità di abbandonare in fretta e furia il continente europeo.“Vivere in Israele non è facile” - dice Daphna Poznanski, presiden-te dell’Associazione dei Francesi in Israele - “non bisogna venire a viverci per panico, ma perché si crede veramente in questo paese”. Anche Rebecca - una trentunenne che viveva di fronte all’Hyper Cacher, trasferitasi a Tel Aviv un mese prima degli attentati - rifiu-

ta l’idea di un’Aliyah fatta sull’onda della paura. “Io non ho mai avuto paura in Francia: per strada, in sinagoga, a scuola, ho sempre rifiutato di avere paura” - dice la giovane nuova immigra-ta - “Sono venuta in Israele perché sono sionista, ma Bibi non ha il diritto di dire che dobbiamo lasciare la Francia”.Paradossalmente, l’invito di Netanyahu fa il gioco dei terroristi, spiega Gerard Benhamou, altro leader della comunità francese, trasferitosi trent’anni fa in Israele. “È proprio quello che vogliono i terroristi, spingere con le violenze gli ebrei a fuggire dalla Francia”, spiega. “Invece bisognerebbe dire che gli ebrei hanno il diritto di vivere in Francia e in

Europa in pace e sicurezza.”L’Aliyah dalla Francia è in aumento negli ultimi anni a causa della crescita degli episodi di antisemitismo nel paese, e nel 2014 circa 7,000 ebrei francesi si sono trasferiti in Israele. Si tratta comunque di poco più dell’uno per cento della comunità francese: non certo un esodo di massa. Netanyahu, dicono dunque i francesi d’Israele, farebbe meglio a lasciare da parte le strumentalizzazioni politiche e a mettere le risorse dello Stato ebraico in fatto di sicurezza e protezione anti-terrorismo al servizio della Francia e della sua comunità ebrai-ca. Meglio lasciar stare gli inviti a “fare i bagagli” e lavorare per rafforzare gli ebrei della Diaspora, perché una Diaspora forte signi-fica anche tutelare un appoggio importante per lo Stato ebraico nei momenti del bisogno - momenti che negli ultimi anni, purtroppo, si sono fatti assai frequenti.

ARIEL DAVID

L'aliyah è una risposta all'antisemitismo europeo?Polemiche e acceso dibattito, dopo gli attentati, per l’invito espresso dal premier israeliano Netanyahu agli ebrei francesi di trasferirsi in Israele

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NEW YORK – All’indomani delle stragi terroristiche di Parigi, Barack Obama sale in cattedra per fare la lezione ai governi europei, esortandoli ad “assimilare meglio la propria minoranza islamica”, perché “il pugno di ferro e

le misure straordinarie di sicurezza non bastano a risolvere i proble-mi e prevenire futuri attacchi”. “Il più grande vantaggio degli Stati Uniti nella lotta contro il terro-rismo interno è che la nostra popolazione musulmana si sente americana”, ha spiegato il Presidente Usa nel corso di una confe-renza stampa con il Premier inglese David Cameron, primo leader invitato alla Casa Bianca dopo gli attentati francesi. “In America c’è questo incredibile processo di immigrazione e assimilazione che fa parte della nostra tradizione ed è probabilmente la nostra forza più grande”, ha aggiunto, “mentre lo stesso non è vero in molte parti d’Europa”. Sondaggi, esperti di terrorismo e sociologi gli danno ragione. La maggiore integrazione degli islamici in Usa e le eccezionali misure di sicurezza implementate da Washington dopo l’11 di settembre hanno permesso all’America di dormire sonni più tranquilli rispetto ad Europa, Canada e Australia, anche se l’attentato alla maratona di Boston, nell’aprile 2013, ha ricordato al Paese che bastano due folli ‘lupi solitari’ per mettere in ginocchio un’intera città.Ma Obama sa bene che l’impegno militare anti-Isis degli Usa rende il Paese nuovamente vulnerabile e così annuncia che il 18 febbraio si terrà a Washington, alla Casa Bianca, un summit anti-terrorismo ad alto livello, da lui presieduto, per affrontare la crescente minac-cia dei “foreign fighters” (5000 solo quelli con passaporti europei): estremisti islamici occidentali andati a combattere in Siria e Iraq che potrebbero tornare in patria per compiere attacchi terroristici come quelli di Parigi. “Riuniremo insieme tutti in nostri alleati”, spiega Obama, “per discutere come possiamo reagire a questo estremismo violento che pervade il mondo intero”. L’attivismo americano fa seguito al putiferio di polemiche per l’as-senza del Presidente Usa alla storica marcia post-attentati di Parigi: la più imponente manifestazione di piazza dai tempi della Libera-zione, nel 1945, cui sono intervenuti oltre 40 capi di stato tra cui il Presidente francese Francois Hollande, il Cancelliere tedesco Ange-la Merkel, il Primo ministro britannico David Cameron, il Primo ministro italiano Matteo Renzi, il Presidente del governo spagnolo Mariano Rajoy.“Obama n’est pas Charlie”, ha tuonato l’influente sito ‘Politico’. “Ha deluso il mondo”, gli ha fatto eco in prima pagina il New York Daily News. I media americani hanno accusato Obama di aver “snobbato la marcia” e di essere rimasto alla Casa Bianca con la famiglia, (“ma nessuno sa come ha impiegato il tempo”, hanno puntato il dito), mentre il vicepresidente Biden “era a casa nel Delaware e il sottosegretario Kerry era in visita in India”. Alla marcia non c’era nemmeno il ministro di Giustizia, Eric Holder, che pure era presente al summit antiterrorismo che si era svolto a

Parigi soltanto un’ora prima della manifestazione di Place de la Republique. L’unica partecipazione americana ufficiale ha finito per essere quella dell’ambasciatrice Jane Hartley, un livello di rappre-sentanza di solito riservato ai Paesi emergenti. Apriti cielo. «Quest’assenza è simbolo di una mancanza della leadership ameri-cana sulla scena internazionale ed è pericoloso», l’ha accusato Ted Cruz, senatore repubblicano del Texas. «L’attacco di Parigi, così come quelli contro Israele e altri alleati, è un attacco ai valori condi-visi», ha aggiunto. «È stato un grave errore», ha rincarato la dose il senatore della Florida Marco Rubio, leader di punta del Tea Party.Alla fine Obama è stato costretto ad un’umiliante mea culpa. “Avremmo dovuto inviare qualcuno ad alto livello alla marcia di Parigi”, ha ammesso il portavoce della Casa Bianca Josh Earnest, assicurando che il Presidente avrebbe voluto partecipare al raduno, ma lo scarso tempo a disposizione per mettere a punto le misure di sicurezza glielo ha impedito. Quando gli hanno chiesto come mai persino il Primo ministro israe-liano, Benjamin Netanyahu, era presente in strada, Earnest ha detto che la sicurezza del Presidente e del Vicepresidente è molto più dispendiosa e difficile. “I requisiti di sicurezza di una visita a livello presidenziale o di un vicepresidente sono onerosi e rilevanti e il tutto è amplificato in occasione di eventi con tale partecipazione di massa”, si è giustificato.In un’intensa e commossa visita a una settimana dai blitz, il Segre-tario di Stato John Kerry ha cercato di correre ai ripari. “Ci tenevo a essere qui con tutta Parigi, con l’intera Francia”, ha detto il capo della diplomazia Usa in un discorso in francese nell’Hotel de Ville, la sede del municipio parigino, prima di incontrare il Presidente Francois Hollande e il collega Laurent Fabius. “Vengo a condivide-re con voi un grande abbraccio, vecchi amici, e a manifestarvi di persona l’orrore e il dolore che gli americani condividono per l’incu-bo a occhi aperti, per l’infamia che avete dovuto subire”.“Io rappresento una Nazione che rende grazie ogni giorno per avere nella Francia uno dei propri alleati più antichi”, ha aggiunto, “ve lo volevo dire di persona”. Poi Kerry ha ceduto il proscenio a uno degli “amici del Massachusetts”: il celebre cantautore James Taylor, che prima ha intonato la Marsigliese e poi ha accompagnato alla chitarra uno dei suoi più celebri successi, non a caso ‘You’ve Got a Friend’, ‘Tu hai un amico’.A chi mette in dubbio l’impegno americano per combattere il terro-rismo, l’amministrazione ricorda che nessuna nazione al mondo spende altrettanto nella lotta per sradicare l’odio. “Oltre ad aver perso più di 6800 uomini nelle operazioni post-11 di settembre tra Iraq e Afghanistan, gli Usa continuano a mantenere una massiccia presenza in Europa”, spiega un funzionario, “66mila tra soldati e personale militare di stanza nel vecchio mondo. E dopo gli attacchi di Parigi”, aggiunge, “abbiamo letteralmente inondato il continente dei nostri migliori 007, agenti FBI e spie varie”.

ALESSANDRA FARKAS

A Parigi a dire ‘Je suis’ c’erano tutti, meno ObamaL’incomprensibile assenza dell’amministrazione americana

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“Il discorso è forse complesso, ma a me, uomo della strada, sem-bra abbastanza semplice. La libertà di espressione, conqui-

sta importantissima della civiltà moderna, non può scatenare reazioni violente, ma reazioni sdegnate sì. In sostanza: le vignette blasfeme si possono fare ma io sono libero di criticarle anche in modo pesante e di dire che mi fanno schifo. Poi il resto dovrebbe dipendere dalla sensibilità di ciascuno. Io per esempio non amo il dileggio sarcastico, mi diverte invece molto l’ironia più lieve, ma il mio gusto personale non c’entra nulla con le leggi.”Questa frase estrapolata fra le tante che si leggono a pochi giorni dai fatti di Parigi, non menziona il secondo episodio: le quat-tro vittime altrettanto se non più innocenti dell'ipermercato Kosher.Ognuno cercava una risposta in quelle ore di odio, in quel primo giorno, e fra le infini-te possibilità di manifestare lo sdegno e il dolore per quanto appena accaduto, avevo deciso di postare sui social network: non io sono Charlie, ma con tutto il cuore sono vicino a Charlie.Poche ore e la mia vita è stata travolta di nuovo: ho cambiato ancora e ho messo un Maghen David listato a lutto. Nel mare di distinguo sottili come spilli o violenti come travi in un occhio, la mia anima, con sem-plicità aveva trovato la sua strada, vicina alle vittime della jihad islamica, identifica-ta con loro dal mio essere un ebrea libera, che vorrebbe essere libera anche di deci-dere se e come fare la mia alyà. Come ha detto Joel Mergui, presidente del Consi-stoire di Francia, voglio scegliere con il mio cuore, non per paura e/o in fuga.Il giorno dopo ero il mio popolo, colpita a morte insieme alle vittime innocenti dell'o-dio più bieco: senza se né ma, perché il rispetto dell'identità ebraica è l'essenza

stessa dei parametri di libertà e di demo-crazia; i 17 morti di Parigi, morti per essere liberi, per essere i garanti dell'ordine da cui tutte le libertà sono tutelate, morti per essere ebrei. Sto usando parole lievi rispetto a quelle che sentiva la mia anima e la mia mente, mi sentivo schiacciata, sola, io non ho fatto satira sulle attività e i gusti sessuali del profeta, io sono nata membro di un popolo cui i distinguo, mancati, esitanti, tardivi, troppo pronunciati, sovraesposti (non importa la forma e la dimensione dell'arti-colazione intellettuale, per essere identifi-cato come ebreo basta esserlo) hanno assottigliato di qualche milione di unità l'esistenza in vita.Abbiamo passato ore giorni in cui sembra-va che la carneficina non dovesse avere mai fine, il mondo sbigottito, avendo dimenticato l'11 settembre 2001, ritornava ad accorgersi che ci sono persone che distinguo non ne fanno, né sottili né gros-solani. Bestie, sotto forme umane, che in nome di una religione, intesa come valore di liberazione dall'altro, uccidono i diversi da sé. L'odio non conosce differenze.Come tutte le forme della politica sistemi-ca, anche l'ordinamento europeo ha la necessità di riassestarsi di fronte ai muta-menti radicali delle realtà circostanti. Non credo che la soluzione sia passare dalla libera circolazione alla chiusura delle fron-tiere, ma ad una maggiore condivisione di intelligence si, ad una revisione dei criteri di entrata, in funzione delle provenienze risultanti dei vari viaggi in paesi che ucci-

dono in una guerra non dichiarata, è indi-spensabile.Se c'è una lezione che viene dagli attentati di Parigi, oltre la visione chiara del malmo-stoso stagno di un antisemitismo diffuso e talora oltremodo vergognosamente tollera-to, è che se l'Europa unita è solo l'Euro, non solo l'obiettivo dell'Unione è mancato ma la denuncia è più grave: il sistema, messo in marcia dal Trattato del 1954, che non pre-vedeva solo il dato economico come dato unificante, ma la condivisione di valori che, prima o poi, dovrà portare ad una costituzione d'Europa, ha subito una grave marcia d'arresto.Troppo facile prevedere i disastri, con buona pace di quanto scritto da Oriana Fallaci, inventarsi la speranza e immagina-re il futuro è più difficile, particolarmente se non si è anziani, amareggiati, iconocla-sti, ma giovani col futuro dinanzi a sé e in procinto di prendere in mano la vita. Più difficile riscrivere le norme tenuto conto di contesti sociali e politici mutati. Ma per questo siamo andati ad eleggere i nostri rappresentanti al Parlamento Europeo e forse all'appello qualche loro voce è man-cata. Dopo le marce cosa si deve fare?La politica deve essere chiamata a rispon-dere in tutte le sue sedi, anche e soprattut-to dopo le emergenze, quando i media dimenticano di ricordare gli orrori prossi-mi, si concentrano su quelli passati e nelle nostre comunità si sceglie di emigrare in Israele, anche per paura. Piano piano lo sdegno evapora, ritornerà il silenzio?

CLELIA PIPERNO

EUROPA

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Voglio scegliere con il mio cuore

A Parigi grande solidarietà alle vittime di Charlie Hebdo. Ma gli ebrei scappano dalla Francia. Non si capisce

che l'identità ebraica è l'essenza stessa dei parametri di libertà e di democrazia del Paese

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islamica ha colpito gli ebrei. Solo dopo Charlie Hedbo, la gente è scesa in piazza

Una Francia senza ebrei, non sarebbe più tale, ha affer-mato il premier Manuel Valls all’indomani delle grandi manifestazioni parigine contro gli attentati terroristici di matrice islamista. È vero. La Francia non sarebbe più

la stessa. Ma se così è, bisognerebbe essere conseguenti, ammet-tere con onestà che la Francia ha purtroppo smesso da molto tempo di essere la stessa. Quindici anni fa c’è voluto del tempo prima che le autorità france-si riconoscessero che gli attentati alle sinagoghe, e i pestaggi quotidiani, erano la manifestazione virulenta di un antisemitismo di tipo nuovo, di matrice islamista, in cui l’odio contro gli ebrei e Israele, uniti indistintamente, faceva da perno al rigetto della civiltà e dei valori occidentali. A differenza di quanto accadde in passato con l’antisemitismo della destra, anche quando ha ricono-sciuto il carattere indiscutibilmente antisemita dell’ondata di vio-lenza antiebraica, la cultura progressista non si è mobilitata. I francesi non sono stati chiamati a scendere in piazza in solidarietà con i loro concittadini ebrei aggrediti per le strade, all’uscita dai ristoranti, nei luoghi di preghiera e nelle scuole. Le scuole ebrai-che erano protette come fossero dei bunker, ma la gente non ha percepito l’angoscia degli ebrei francesi come propria. Gli attenta-ti alle scuole e le stragi d’innocenti non erano percepiti come un attacco diretto contro la Francia. Erano considerati dai più come il risultato di una guerra che si svolgeva altrove, che non coinvolge-va la Francia come tale. Un’importazione pericolosa del conflitto mediorientale condannabile quanto si vuole, in cui però si ritene-va che Israele “avesse una responsabilità morale” oltre che “poli-tica” e che vedeva la Francia in prima fila nella difesa “dei diritti palestinesi” e forse anche per questo “risparmiata” dalle conse-guenze più devastanti. Secondo questa narrazione falsa, se Israele avesse “accolto i dirit-ti palestinesi”, il terrorismo antiebraico avrebbe perso la ragion d’essere. Nelle forme estreme di questo delirio, gli ebrei erano “responsabili” dei loro stessi mali e avrebbero dovuto avrebbero dovuto prendere le distanze dalla politica israeliana. Fintanto che gli attentati sono stati rivolti contro gli ebrei, e le istituzioni ebraiche, questa falsa narrazione autoassolutoria, che fa da sfondo a un nuovo antisemitismo, ha purtroppo funzionato, impedendo la presa di coscienza di un pericolo che non riguarda solo ed esclusivamente gli ebrei, ma l’intera società francese ed europea. Rimossa dallo spettro politico, la verità torna a galla nel momento in cui a essere colpiti non sono solo gli ebrei, ma l’intera società francese con i suoi simboli costitutivi. “Che abbiano ragio-

ne gli israeliani, nel denunciare la demonizzazione, di cui è ignobil-mente oggetto il loro paese?”- “Sarà mica, che la situazione d’in-sicurezza, che da sempre caratterizza l’esistenza di Israele (e che una parte consistente della cultura europea rifiuta di guardare), sia stata solo l’anticipo di quel che potrebbe accadere in Europa?“- “Non sarà mica che stiamo per diventare tutti ‘israeliani e che per non riconoscerlo ce la prendiamo proprio con gli israeliani?”. Qualcuno nel segreto della coscienza, qualche domanda se la sarà posta. Anche per questo, chi aveva timore di pensare in modo nuovo, non ha trovato di meglio che prendersela con la volontà del premier israeliano di esserci comunque alla grande manifestazio-ne, per testimoniare la vicinanza al popolo francese e agli ebrei francesi. Pensare in modo nuovo fa paura. Non si guarda meglio cantando al buio, o peggio trattando come fossero dei paria gli esponenti di un paese amico e che è l’unica democrazia del Vicino Oriente. La difesa di Israele, unica democrazia nel Vicino Oriente, la sua accettazione piena nel mondo arabo e islamico, la sua sicu-rezza ed esistenza in pace con i vicini, è una condizione impre-scindibile e irrinunciabile perché il dialogo tra l’Europa e l’islam, l’Occidente e l’Oriente, per quel che valgono queste metafore, non sia una parola vuota. Chi non comprende questo, è al di qua del livello etico minimo accettabile per discutere del problema.

DAVID MEGHNAGI

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I drammatici eventi di Parigi hanno riportato ancora una volta un fattore positivo sempre presente nella storia del popolo ebraico: la presenza del giusto che, sebbene faccia parte della famiglia o del popolo dei persecutori antisemiti, si distingue e

si rivela come colui che salva la vita di ebrei innocenti. Ciò è pre-sente sin dal libro dell'Esodo con la presenza della figlia del Farao-ne Batyah che salva il piccolo Mosè, fino ad arrivare all'azione sal-vatrice di Schindler che risparmia dalla morte annunciata nei lager migliaia di ebrei. Questa volta è toccato a Bathily Lassanna vestire i panni dell'eroe. Originario del Mali, musulmano praticante e commesso presso l'Hyper kosher assaltato dal terrorista islamico Coulibaly, è riuscito a mettere in salvo in una cella frigorifera alcuni ebrei che si trova-vano lì. I media, nei giorni successivi al triste epilogo, hanno messo in evidenza la sua azione eroica, dando lo spunto per spendere qualche osservazione. Balza agli occhi ciò che ha fatto Lassanna perché stride con la passività a cui assistiamo quotidianamente; un'indifferenza che ha causato e causa ancora danni incalcolabili. E' ciò che vogliono gli esecutori del crimine. Diffondere la paura, seminare terrore nell'opinione pubblica, in modo che cresca l'omer-tà e il silenzio. Paralizzando le coscienze in uno stato d'impotenza, creando l'immobilismo di fronte all'emergenza che stiamo vivendo. Purtroppo l'Europa in questi ultimi decenni di fronte al moltiplicar-si di attentati ci ha abituato a questo comportamento. Era lecito pensare che dopo la tragedia della Shoah, dalle ceneri di

Auschwitz fosse rinato il Vecchio Continente con gli anticorpi necessari a fronteggiare i fenomeni di totalitarismo che mettono in pericolo i diritti conquistati dopo secoli di conflitti. A giusta ragio-ne, si pensava che queste difese fossero diffuse capillarmente nelle nostre democrazie. Non è stato così. Ma il pensiero che ci sia sempre qualcuno che intervenga incoraggia a sostenere che il popolo ebraico non sia mai solo del tutto. C'è sempre un filo che lega l'uno all'altro, anche nei momenti più bui del martirio. Raffor-zando l'idea che si combatta nel corso della storia per uno scopo universale che unisce tutti coloro che credono nella libertà e nella democrazia. Sia che sia successo ai tempi del Faraone, sia ai tempi della Shoah e sia oggi. L'atto virtuoso di Lassanna, come allora quelli di Batyah e Schind-ler, segnalano la presenza di coscienze umanitarie che non cono-scono il timore di agire. Grazie a questo tacito legame che unisce si può combattere sicuri di vincere la minaccia islamica. Perché la guerra all'Isis richiede determinazione, con un'azione decisa senza pause, senza cedere al ricatto del Califfato. E i soli discorsi non bastano. Ora tocca a noi, lettori ed osservatori, sollecitare l'azione delle Isti-tuzioni affinché al Giusto Lasanna sia reso merito del suo operato. Perché con la sua azione, mettendo a rischio la propria vita, ha trasmesso al mondo intero la testimonianza di ciò che è la solida-rietà umana. Che va al di là della propria fede.

JONATAN DELLA ROCCA

EUROPA

Nell’orrore della violenza antisemita

brilla la luce di un GiustoUn doveroso grazie

a Bathily Lassanna, il commesso musulmano del Hyper cacher

di Parigi che ha salvato decine di ebrei

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La Francia è stata teatro di attentati contro obiettivi ebraici ed israeliani sin dalla fine degli anni Settanta, periodo nel quale il terrorismo palestinese

imperversava in Europa e la capitale francese era uno dei principali centri operativi dei servi-zi segreti mediorientali. Aeroporti, sinagoghe, cimiteri, scuole ebraiche e ristoranti kosher erano nel mirino dei killer arabi palestinesi che godevano di una rete capillare internazionale del terrore con a capo leggendarie figure come Carlos e Abu Nidal. Le cronache ci riportano ad una lunga scia di sangue che vede spesso la regia di George Habbas, fondatore del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Dopo un attentato perpetrato all’aeroporto di Orly nel maggio del 1978, in cui alcuni terroristi spararono all’im-pazzata contro un gruppo di passeggeri in partenza per Tel Aviv causando otto morti; nell’ottobre 1980 è la sinagoga parigina di Rue Copernic ad essere colpita: verranno assassi-nate quaranta persone e saranno venti i feriti. Gli attentati avvengono nel periodo del ricono-scimento ufficiale europeo dell'Olp dopo il ver-tice di Venezia, che causerà un allentamento della morsa verso il terrorismo arabo, vista l'a-pertura politica concessa dai governanti del Vecchio Continente, e che vede tra i principali sostenitori, in prima fila, insieme a Giulio Andreotti i socialisti Francois Mitterrand e Bettino Craxi. Tutta l’Europa è sotto il miri-no, oltre a Parigi, anche Vienna, Anversa e Roma saranno colpite duramente da questa nuova stagione. Dopo l'uccisione di un diplo-matico israeliano nella capitale francese nell'aprile del 1982, quat-tro mesi dopo nell'agosto è preso di mira il quartiere ebraico del Marais, dove nel ristorante Goldenberg sei persone sono uccise e ventidue sono ferite. Nel marzo del 1985 delle bombe esplodono in un cinema parigino durante il Festival cinema ebraico causando 18 feriti e nel mese successivo gli ordigni sono piazzati presso l'agenzia della Banca Israeliana di proprietà Leumi. Nel maggio del 1990 la notizia della profanazione del cimitero di Carpentras sconvolge tutto il mondo, con le tombe scoperchiate e cadaveri estratti. Negli anni successivi si susseguiranno atti intimidatori che prenderanno di mira scuole con bombe incendiarie, rabbini e studiosi con la kippàh aggrediti per le strade. Dopo l’11 settembre e la seconda Intifadah in Israele, i riflessi della globalizzazione del terrore islamico anche in Francia sono devastanti; ad accrescere il fenomeno contribuisce il boom della rete che recluta migliaia di fanatici con i contatti nei nuovi siti internet che incitano l'odio razziale. E ciò contribuirà all’ escala-tion di attentati antisemiti: nell’aprile del 2002 a Bondy (Sei-ne-Saint-Denis) sono aggrediti quattordici calciatori del Maccabi; nel gennaio 2003 a Parigi il rabbino Farhi è pugnalato all’addome e tre giorni dopo gli viene bruciata la macchina. Nei mesi succes-sivi le cronache riportano prima un’aggressione a due apparte-nenti al movimento ebraico Haschomer Hatzair, qualche settima-na più tardi, con bastoni e spranghe di ferro, vengono attaccati

gli studenti di una scuola ebraica. Nell’ottobre 2003 a Essonne, il rabbino Michel Serfaty viene aggredito mentre va in sinagoga. Nel febbraio 2004 a Parigi viene distrutta la targa che ricorda gli ebrei deportati durante la Shoah. Sono centi-naia le intimidazioni e le violenze che seminano il panico e la paura nei seicentomila ebrei fran-cesi, che rappresentano la più popolosa comuni-tà europea. Una situazione divenuta insosteni-bile tanto da far dire dall'allora premier israelia-no Sharon, in visita a Parigi nel luglio del 2004, agli ebrei francesi di emigrare al più presto in Israele per fuggire dalla violenza antisemita. Sarà una dichiarazione che, oltre a turbare i rapporti con l'Eliseo, lascerà il segno, presagen-do ciò che accadrà negli anni a venire. Perché il peggio non è passato. In un clima arroventato di minacce e violenze, si arriva nel febbraio del 2006 al sequestro che segna il dramma di Ilan Halimi: un giovane ebreo che dopo 24 giorni di prigionia e di torture sarà bruciato vivo da una banda islamista per-ché ebreo, dopo che gli investigatori avevano escluso il movente antisemita. Ma ciò non basta a fare alzare il livello di guardia della vigilanza sulle istituzioni ebraiche per fronteggiare la furia musulmana estremista sempre più incal-zante nelle sue quotidiane aggressioni. E non giungerà inattesa la strage di Tolosa del marzo

2012, quando il giovane franco algerino di fede musulmana Moha-med Merah, ucciderà tre studenti e un insegnante nella scuola ebraica Ozar Hatorah.

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Francia, la lunga scia di sangue ebraico

Sono innumerevoli gli attentati e le violenze che hanno avuto

per obiettivo gli ebrei

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Francia: l’unica fede dello Stato è quella laica

Nei pubblici uffici, nelle scuole e negli ospedali non sono ammessi i simboli

dell’appartenenza religiosa. Quindi niente croci, chador, hijab, kippot, ziziot

Si racconta che il 13 aprile del 1655, presentandosi in tenuta da cacciatore al Parlamento di Parigi, Luigi XIV il “Re Sole” abbia pronunciato la frase destinata alla cele-brità: L’Etat c’est moi, “lo Stato sono io”. E chiuse in

questo modo a favore della Corona un dibattito estenuante sull’imposizione di nuove tasse. Durante i successivi 26 anni la Corona, grazie all’infaticabile teologo Bossuet, difese strenuamente le prerogative della Chiesa di Francia (i cosiddetti Privilegi Gallicani) contro ogni rivendica-zione di autorità dei Pontefici romani. Il risultato conclusivo furono i Quattro Articoli del 1681. Il primo e più importante di essi stabiliva che il potere temporale del re (dunque la capacità politica dello Stato) non può e non deve essere in alcun modo limitato dalla dottrina e dalla teologia, neppure se espresse for-malmente dal Papa. Luigi XIV divenne così de jure et de facto, nel proprio regno, anche il capo della Chiesa. Non molto diverso, almeno in materia di religione, dai sovrani protestanti. Nasceva così nel cuore dell’Europa cattolica, e proprio per volontà del “Re Cristianissimo”, una nuova dottrina: lo Stato assume totale liber-tà d’iniziativa e discrezionalità legiferante, anche in materia di fede e pratiche religiose. Non si trattava certo di una premessa alla separazione laica e definitiva tra Stato e Chiesa. Infatti la giustizia francese continuò a mandare al patibolo fattucchiere e stregoni presunti, come pure ad incarcerare, torturare e proces-sare ebrei ed eretici se trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato, perfino nell’Età dei Lumi.

Uno dei padri fondatori del moderno laicismo fu Francois-Marie Arouet, meglio conosciuto come Voltaire. Il quale è anche uno dei genitori non illegittimi del moderno antisemitismo. A Voltaire si dovrebbero preferire Rousseau e Montesquieu, due illuministi sicuramente più profondi e forse meno protetti dall’Europa radi-cal chic del Settecento. Venne la Rivoluzione del 1789, ma fallì il tentativo di fare della “Dea Ragione” la nuova divinità della Francia. Alla fine gli affari e la borghesia conquistarono il potere anche con la benedizione del clero. Poi Napoleone Bonaparte prese l’Europa. Per due volte, a meglio sottolineare la nuova realtà delle cose, trasportò in Francia il Sommo Pontefice Pio VII imponendogli nel 1804 l’inco-

ronazione in Notre Dame e nel 1813 una indigesta convenzio-ne-concordato. Il Papa fece in tempo a vedere la fine dell’Impero, senza peraltro rimediare ai danni irreparabili che la Francia della laicità aveva inflitto alla tradizione feudale-aristocratica: si apri-vano vie nuove, la libertà di fede e la piena uguaglianza di fronte alla legge potevano veramente trasformarsi in diritto inalienabi-le, ebrei ed evangelici sarebbero divenuti cittadini a tutti gli effetti. Un conto furono naturalmente le solenni enunciazioni, e altro affare invece la dura realtà della lotta contro il pregiudizio. La modernità laica aveva chiuso gli antichi ghetti, precipitando però gli ebrei d’Europa nel gioco rischiosissimo, spesso letale, dei conflitti tra gli Stati e all’interno degli Stati stessi. Alla Rivoluzione fece seguito la persistente violenza della reazio-ne, fino alla vicenda del Capitano Alfred Dreyfus. La storia rara-mente si muove a caso. Con la legge del 9 dicembre 1905 la Repubblica Francese sanciva il principio dell’assoluta separazione tra Stato e Chiesa. Non ci sarà dunque bisogno di un Concordato. L’attività legislativa deve essere conforme all’etica praticata dallo Stato: quella della Costi-tuzione repubblicana. Non trascorre neppure un anno: il 12 luglio del 1906 la Corte di Cassazione francese cancella la condanna inflitta nel 1894 all’e-breo Dreyfus in quanto tale, e come tale dunque “traditore” per definizione, secondo le più consolidate tradizioni antisemite dell’Europa cristiana. Due guerre mondiali, un Presidente ebreo - Leon Blum - che la Gestapo terrà in ostaggio a Dachau, Vichy e la rivincita reazionaria dei collaborazionisti con l’invasore nazi-sta. La Francia che esce dalla Seconda guerra mondiale è una nazione umiliata e contraddittoria, i peggiori fascisti antisemiti non faticano a riciclarsi. Forse l’arroganza dell’estremismo isla-mico ha trovato qualche precoce incoraggiamento, già durante gli Anni Settanta del secolo passato, proprio negli ambienti “nostalgici” che infestavano il nazionalismo. Oggi la ruota ha fatto un altro giro, e la destra francese preferisce non ricordare. Tuttavia il 5 ottobre del 1958 la Francia si era data la settima Costituzione Repubblicana, la Costituzione tuttora in vigore della Quinta Repubblica. L’Articolo 1 così esordisce: “La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e socia-le”. L’aggettivo laica ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro e provo-cato alluvioni di polemiche sull’ammissibilità dell’esibizione nei pubblici uffici e nelle scuole, negli ospedali e ovunque, di segni esteriori di appartenenza religiosa: chador, hijab, kippot, ziziot. Altro tsunami dopo la strage a Charlie Hebdo e al supermercato casher: quali limiti alla libertà di espressione e alla polemica antireligiosa? In Francia non ne esistono, se non per l’insulto e il dileggio contro le vittime di un crimine. E la Shoah è un crimine provato e comprovato. Così lo pseudocomico Dieudonné ha inu-tilmente tentato di equiparare Charlie Hebdo alla sua quenelle antiebraica, che gli ha assicurato fama e denaro. Il Presidente Hollande e il Primo Ministro Valls hanno dimostrato coraggio e determinazione partecipando alla cerimonia nella Grande Sina-goga di Rue de la Victoire. Il ricordo degli ebrei assassinati sol-tanto perché acquistavano il cibo per la mensa di Shabbat li ha commossi in modo visibile. Non avevamo visto un comportamen-to analogo nei giorni della strage di Tolosa, tre anni fa.

PIERO DI NEPI

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Tra la primavera e l’estate del 1940 le armate della Germa-nia nazista invasero la Francia in sole sei settimane. Un vecchio e malandato maresciallo ottantenne, Petain, glo-ria della prima guerra mondiale, fu spinto, invitato o forse

ben felice di scendere a patti con il nemico nazista creando un governo fantoccio e collaborazionista, il governo di Vichy, che ben presto si trasformò da fantoccio in alleato e tra i migliori collabora-tori del progetto di sterminio antiebraico. Allora come oggi, di fronte ad un’opinione pubblica francese indif-ferente o complice rispetto al desti-no degli ebrei di Francia, dovremmo chiederci perché la Repubblica delle Repubbliche non abbia a cuore il destino dei propri cittadini ebrei e, tra le pieghe della sua storia, ha nascoste pagine così intrise di san-gue ebraico da mettere in dubbio ogni pretesa di antica democrazia sin dai tempi di Vercingetorige. Prima di ogni cosa, per comprende-re la realtà della deportazione degli ebrei di Francia, dobbiamo sfatare il mito di un’occupazione nazista della stessa: l’esiguo manipolo di soldati tedeschi rimasti a guardia del governo di Vichy non avreb-be potuto mai sostenere una così imponente macchina della morte. Da subito Pétain ed i suoi colleghi dimostrarono una volontà per-secutoria verso i cittadini ebrei francesi che nessun paese in Euro-pa eguagliò mai. Il governo di Vichy creò campi di transito, di rac-colta, di internamento che furono ottime basi per il progetto di eliminazione che dal 1942 fu messo in atto in maniera precisa, ben oltre le aspettative tedesche. Gli accordi di quello stesso anno, fra governo di Vichy ed Eichmann, stabilirono che la polizia di Vichy si sarebbe occupata delle retate e furono gli stessi funzionari di Vichy che proposero ad Eichmann ed Heydrich un progetto di rastrellamento di intere famiglie, senza distinzione di sesso e di età, un progetto ben oltre le aspettative dell’alleato tedesco! Il 16 ed il 17 luglio il governo di Vichy si mise all’opera e più di tredici-mila ebrei furono arrestati e radunati nel Velodrome d’Hiver a Parigi per essere trasferiti prima nei campi francesi e poi verso “Est”, cioè verso Auschwitz. Tra fine agosto ed inizio settembre furono organizzate nuove retate che portarono ad altri settemila arresti. Di fronte al crescente antisemitismo in Francia rimaniamo sconvol-ti; per uno Shabbat, le autorità hanno fatto chiudere la centrale sinagoga di rue de la Victoire, cosa che non avveniva dai tempi di Vichy, e dovremmo chiederci il senso storico della relazione tra ebrei e Francia. Un senso storico che solo nel 1995 con il presiden-te Jacques Chirac fece ammettere le dirette e reali responsabilità dello Stato francese nella tragedia dell’Olocausto. Uno Stato che sin dagli albori della propria nascita ha avuto com-portamenti ambigui nei confronti della minoranza ebraica. Da un lato, negli anni prima della Rivoluzione del 1789, molto fu scritto per la liberazione degli ebrei e la loro emancipazione, a cominciare dalle riflessioni dell’abate Grégoire, dall’altro restava un’idea di “utilità” degli ebrei per lo Stato e restavano anche granitici tutti i pregiudizi antiebraici che dipingevano gli ebrei come persone

attardate in superstizioni arcaiche. L’accettazione degli ebrei all’in-terno dello Stato doveva passare attraverso quella che divenne una famosa formula: “Bisogna rifiutare tutto agli Ebrei come nazione, bisogna accordare loro tutto come individui, bisogna che non costi-tuiscano nello Stato né un corpo politico, né un ordine. Devono essere individualmente dei cittadini.” Una formula del genere, pur restando una pietra miliare nel percorso dei diritti di cittadinanza delle minoranze ebraiche in Europa, lascia aperta l’annosa questio-ne dell’ebreo che, se non si spoglia della pericolosa identità ebrai-

ca che lo accumuna agli altri ebrei e lo rende “gruppo”, resta un poten-ziale nemico dello Stato e della Repubblica, un nemico che può essere sacrificato ben volentieri sull’altare della tranquillità della Nazione francese quando questa, come nei giorni di Vichy, deve sce-gliere come nutrire il coccodrillo nazista. Lo stesso accadde il 22 dicembre del 1894, quando alla Nazione servì un nuovo pasto pron-to da consegnare al popolo francese

inferocito e questo pasto era il capitano Alfred Dreyfus, l’ebreo accusato falsamente di tradimento, degradato, arrestato e solo nel 1906 riabilitato. La massa aveva bisogno di gridare: “Morte a qualcuno!” E fu naturale per la Repubblica sostituire la parola “qualcuno” con la parola “ebreo.” Quell’ebreo che in dettaglio, in quanto cittadino, in fondo non aveva mai smesso di essere “nazione” altra da quella di Francia. Solo il coraggio dello scrittore libero Emilè Zolà porterà sulle pagine di Le Figarò il suo “J’Accuse…” una forte accusa verso un governo che perseguitava un innocente con poche prove e per giunta discutibili. Il caso Dreyfus per “l’ebreo moderno, colto, che si era lasciato alle spalle il ghetto ed i suoi piccoli traffici fu un colpo al cuore.” Pare che questa frase fu pronunciata dal padre del Sionismo, Theodor Herzl, allora giornalista a Parigi. Di fatto di “colpi al cuore” gli ebrei di Francia e di tutta Europa ne avrebbero avuti molti altri e forse ancora ne vedranno fintanto che la Francia e quindi l’Europa tutta non accetti l’idea di una presenza ebraica inviolabile e che non può essere sottoposta a condizioni. Perché nel momento stes-so in cui una nazione, una repubblica, un qualsiasi stato europeo pone condizioni e vincoli alla esistenza dei propri cittadini ebrei si avvia alla propria scomparsa come democrazia. Una democrazia che da un lato costringe i propri cittadini che vengono ammazzati mentre vanno in una scuola ebraica o in un supermercato casher a trasformarsi da uomini in ebrei e dall’altro, avvenuta questa tra-sformazione, pretende di non poterli più difendere adeguatamente perché, appunto, sono “solo” degli ebrei. I fatti di Parigi, al giornale Charlie Hebdò, così come all’Hyper Cacher ci hanno dimostrato che di fronte ai coccodrilli totalitari, siano essi di formazione nazista, fascista, comunista o islamista, non esistono repubbliche in salvo o cittadinanze di rifugio: siamo tutti ebrei, cristiani, infedeli senza alcun passaporto o gloriosa storia repubblicana da poter usare come scudo.

PIERPAOLO P. PUNTURELLO

La République française: Liberté, Égalité, Fraternité

e AntisémitismeLa Patria della democrazia che

non ha mai difeso i suoi cittadini ebrei

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Siamo in guerra e prendiamo coscienza che siamo solo agili inizi. E’ la prima volta dai giorni di Adolf Hitler che le sinagoghe in Francia sono state chiuse di sabato. Tutta-via, è unicamente il tragico attentato al giornale Charlie

Hebdo che ha scosso gli europei: i molti e continui attentati ai singoli ebrei e alle comunità ebraiche in tutta Europa in questi anni hanno turbato qualcu-no, ma per quasi tutti si è trattato «solo» di ebrei. Molti intellettuali e politici sostengono che il problema non è l’Islam, ma il terrori-smo. È come dire che il cri-stianesimo non è l’antise-mitismo o l’antigiudaismo. Certo! Tuttavia è innegabi-le che l’antisemitismo e l’antigiudaismo sono stati problemi profondi propri del cristianesimo (e non solo). La violenza e il fanati-smo, la sottomissione reli-giosa e il terrore non esauri-scono l’Islam, ma sono un problema religioso che in qualche modo riguarda l’Islam. L’auto-critica dell’Islam (assieme alla critica laica esterna) su questo punto sembra difettare. Cristiani ed ebrei, secondo il Corano, sono presenti nei Paesi isla-mici in quanto dhimmi, popolazioni sottomesse, tollerate purché subalterne e paganti apposite tasse. Cosa dobbiamo, sia a livello politico e giuridico sia a livello inter-religioso, chiedere oggi ai più

autorevoli teologi islamici nei Paesi europei e arabi, anche a fron-te della massiccia presenza demografica di musulmani? La prima domanda è la seguente: è possibile per l’Islam, in osse-quio al Corano e per necessità religiosa intima propria dei musul-mani osservanti, e non solo perché richiesto dai governi occidenta-li o da ebrei e cristiani, accettare teologicamente, apprezzandolo, il

concetto di cittadinanza politica, anziché quello di cittadinanza religiosa, con-fliggente quest’ultimo con i valori occidentali e pericolo-so per le comunità cristiane ed ebraiche che, in qualità di minoranze, sarebbero esposte a intolleranze e arbitrio? Questa domanda fondamentale, per ignoran-za, ignavia e inettitudine, non è mai stata seriamente posta dai politici europei, che hanno responsabilità enormi, anche del sangue sinora versato. C’è una seconda questione, che si intreccia alla prima.

Per l’Islam, gli ebrei hanno alterato la Rivelazione divina e i cristia-ni hanno pratiche cultuali, oltre a condividere con i primi una Rivelazione alterata, dal sapore idolatrico. E’ possibile per l’Islam, in ossequio al Corano e per necessità religiosa interiore dei musul-mani osservanti, e non solo perché sollecitato daa ebrei e cristiani, apprezzare positivamente, in una prospettiva teologica, ebrei e cristiani in relazione alle problematiche sollevate da questo assunto coranico? Premesso che ci sono migliaia di singoli musulmani che a queste domande hanno già risposto personalmente con il rispetto per il prossimo e per la sua fede, con un certo pluralismo e con l’integra-zione ricercata e praticata, tuttavia manca una reale, inequivoca-bile, onesta, autorevole e vincolante riflessione teologica islamica al riguardo. È chiaro che se le risposte saranno per lo più negative, non sufficientemente autentiche o caratterizzate da silenzi e imbarazzi, ci si troverà tutti di fronte a un immenso problema. C’è una tentazione che può profilarsi, a diversi livelli, sia nel cri-stianesimo sia nella politica europea: quella di lasciar soli gli ebrei e lo Stato di Israele per facilitare una pace politica, culturale e religiosa con l’Islam politico, specie nell’ottica delle future proie-zioni demografiche religiose europee e mediterranee. È una stra-tegia fallimentare che i cristiani arabi provarono con il panarabi-smo e l’antisionismo. Gli esiti sono ben noti: dopo che quasi tutti i Paesi islamici si sono sbarazzati dei “loro” ebrei, si sono concen-trati con violenze e massacri sulle ben nutrite minoranze cristiane. È una storia che si ripropone e che va dal genocidio armeno (cento anni fa), ai cristiani copti di Egitto, ai cristiani etiopi e nigeriani, sino a Mosul. E molti Paesi europei, un’intera «classe» di intellet-tuali e molti cristiani di Occidente hanno le mani grondanti del sangue dei cristiani di Oriente, dato che sono stati disposti a sacrificarli sugli altari del pacifismo, dell’opportunità politica, di un malinteso concetto di tolleranza, della cultura benpensante e

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La Bibbia messa ai margini e la crisi del cristianesimo

L’Europa sconta un’incapacità nel comprendere lo Stato di Israele. A una certa politica miope gli ebrei piacciono solo in quanto morti da ricordare

e non come soggetti con cui confrontarsi

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radical chic, della «buona» coscienza. La tentazione di abbandonare gli ebrei e Israele è già esistente nei ricorrenti epi-sodi di boicottaggio europeo dello Stato di Israele. Esiste nel silenzio imbarazza-to o infastidito sui morti ebrei in Europa oggi. Con buona pace della Giornata della Memoria. La Giornata della Memoria è stata pur-troppo addomesticata con liturgie pub-bliche e anestetizzata dalle cerimonie in Parlamento e al Quirinale. Le più alte cariche dello Stato dovrebbero annual-mente andare a celebrarla a Fossoli, a Bolzano, a San Sabba o nel ghetto di Roma, per far capire che è una realtà possibile, come tale ripetibile, e che si è verificata in Italia, con il plauso, la colla-borazione, l’assenso e i silenzi di moltis-simi - troppi - italiani. Essa così risulta azzoppata, fraintesa e priva di potenzia-lità dinamiche per comprendere il pre-sente e incidervi positivamente. E l’ignavia e il diniego europeo sulle questioni presenti e sull’incapacità di affrontare politicamente e culturalmente le insidie legate alle derive dell’Islam politico, consegnando così a razzisti e xenofobi le risoluzioni del problema, gettano ombre lun-ghe che rievocano i fantasmi del nazismo e, per gli ebrei, della persecuzione. L’incapacità di comprendere lo Stato di Israele in definitiva si risolve nel fatto che a una certa politica e a una certa cultura europea miope gli ebrei piacciono solo in quanto morti da piangere e ricordare e non come soggetti vivi con cui dialogare e confrontarsi, ovvero oggi, in primo luogo, Israele. La nostra contemporaneità ricorda tristemente il periodo sinistro tra le due guerre mondiali: una sorta di collasso sistemico. La crisi che viviamo non è economica e demografica soltanto: è una crisi culturale e valoriale, legata alla crisi del cristianesimo e, in un certo senso, della conoscenza della Bibbia, il cardine dell’intera nostra cultura dal punto di vista urbanistico, artistico, musicale, letterario, filosofico, giuridico, politico e religioso. E proprio per questo la Bib-bia non è presente nelle scuole. E questa la chiamano laicità!

È stato necessario un attore per far di nuovo parlare, interessando, di Bibbia e del Decalogo: Benigni! Che debacle che sia stato necessario lui dopo duemila anni di cristianesimo e duemila e due-cento anni di ebraismo in Italia! L’ero-sione della conoscenza della Bibbia, non in quanto «tributo antiquario» ma piuttosto in quanto «forza creatrice e rigenerante», è uno dei fatti più inquie-tanti e drammatici per il nostro futuro sia religioso, sia culturale nelle sue varie declinazioni, sia in termini econo-mici e politici. Aveva ragione C. M. Martini a dire che la Bibbia è il libro del futuro dell’Europa e dell’Occidente, ma non è stato ascol-tato. Aveva ragione Benedetto XVI nella ben nota conferenza di Ratisbona, ma fu vittima del discredito mediatico e culturale. E la Bibbia è stata scritta da ebrei, per ebrei, in ebraico, e l’ebraismo ancora oggi sopravvive proprio grazie alla Bibbia. E, parimenti, credo, il cri-stianesimo. II riportare la Bibbia a fondamento della

cultura e dell’etica è un impegno religioso possibile, dalla fecon-dità straordinaria, condivisibile tra ebrei e cristiani: un impegno di cui si avverte l’urgenza impellente e drammatica in questi anni di crisi, di confusione assordante, di efferata violenza e di grande mediocrità.Tuttavia, senza il reale riferimento positivo e non ambiguo a Isra-ele, non sarà né autentico né produttivo il dialogo tra ebrei e cri-stiani. Infine, visti i tempi calamitosi in cui ci troviamo e troveremo anco-ra di più domani a vivere, invito tutte le persone coscienti e responsabili a raccogliersi in preghiera invocando dall’alto l’im-pulso in ciascuno di noi ad agire ai fini del rispetto del prossimo e della pace, concetto e realtà quest’ultima troppo spesso ideolo-gicamente abusata.

GIUSEPPE LARAS(Il Corriere della Sera, 13 gennaio 2015)

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Dopo la strage di Parigi nella redazione di Charlie Hebdo ad opera dei fratelli Kouachi, il rapporto tra satira e religione occupa di nuovo un posto di primo piano nel dibattito contemporaneo sulla libertà di

espressione. Un dibattito che è tornato in auge da quando nel 2005 i redattori del quotidiano Jyllands-Posten, che aveva pub-blicato il 30 settembre nella versione on line alcune caricature di Maometto, erano stati obiettivo di ripetute minacce da parte di fondamentalisti religiosi. Tra le vignette spiccano quelle che rappresentano Maometto con un candelotto di dinamite sul tur-bante; in un’altra mentre impugna minaccioso una scimitarra; in un’altra ancora mentre, sulla soglia dell’Aldilà, respinge alcuni martiri della Jihad ancora fumanti, comunicando loro che “non ci sono più vergini” (“Stop, stop, we ran out of virgins!”). In alcune raffigurazioni le fattezze fisiche di Maometto sono marcate in maniera tale da attribuirgli un aspetto mefistofelico. Ricordano il modo in cui in Europa venivano raffigurati gli ebrei nel periodo che precedette la Shoah. La pubblicazione provoca lo sdegno di

tutti i musulmani nel mondo, alcuni dei quali reagiscono con violenza assaltando le ambasciate danesi. In Italia, il ministro per le Riforme Istituzionali Roberto Calderoli, leghista, getta benzina sul fuoco dichiarando di indossare da giorni una maglietta con le vignette incriminate, arrivando a mostrarla com-piaciuto nel corso di un’intervista al Tg1 in segno di solidarietà ai giornalisti danesi. Il ministro si dimette ma la trovata della maglietta provoca l’as-salto di una folla di esagitati libici al consolato italiano di Benga-si, nel corso del quale 12 dimostranti vengono uccisi dalla polizia accorsa a difendere la sede diplomatica. Queste le premesse dell’assalto a Charlie Hebdo che già nel 2006 ripubblicò le vignette satiriche danesi. Ma quello tra satira e religione è un rapporto antico, come ovvio. Nell’antica Grecia troviamo traccia di dialoghi caricaturali degli dei. Tra ‘800 e ‘900 è il Cattolicesimo ad essere oggetto di satira da parte dell’internazionalismo socialista. Un esempio italiano, forse il più importante, fu l’esperienza del

Satira e religione, un binomio esplosivoLo dicevano già gli antichi: ‘Scherza con i fanti, ma lascia stare i santi’. Colpiti più di tutti sono stati gli ebrei che però non hanno mai pensato

di uccidere i vignettisti

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settimanale romano L’Asino. Fondato nel 1892 dai due esponen-ti socialisti Guido Podrecca e Gabriele Galantara, nei primi anni di vita si concentrò sulla satira contro il governo Giolitti. Fu nei primi anni del ‘900 che avvenne la svolta anticlericale del settimanale, dovuta all’ingresso nella vita politica da parte dei movimenti cattolici. Le vignette prendevano di mira preti e vescovi, grassi e opulenti cardinali intenti ad opprimere il popolo e il pontefice stesso e furono oggetto di sospensioni imposte dalla censura. E’ invece la religione ebraica quella maggiormente colpita a par-tire dall’ascesa nel nazismo in Germania. La pubblicazione di riferimento del partito per quanto riguarda la satira illustrata è senza dubbio Der Sturmer. Nato nel 1923 e sospeso appena dopo il “putsch” di Monaco, il periodico nazista riprende le pubblica-zioni nel 1925 dedicandosi totalmente a quella che più che satira è propaganda anti-giudaica. Le strisce descrivevano gli ebrei come grassi, bassi, brutti oltre che pervertiti sessuali dal naso adunco ed occhi suini. L’antisemitismo a fumetti fece la sua comparsa anche in Francia ed in Italia. A Vichy era pubblicata la rivista collaborazionista Vide, mentre i più importanti periodici erano rigidamente con-trollati dalle forze di occupazione. Proprio nella Francia occupata nascono le accuse di collaborazio-nismo a uno dei più grandi autori di fumetti del dopoguerra: si tratta di Hergé, padre di Tin Tin. Negli anni ’40/50 in Italia le riviste satiriche fondamentali furono il Candido e il Marc’Aurelio. Il primo fu fondato da Giovanni

Mosca ma ebbe la sua punta di lancia in Giovanni Guareschi, l’inventore di Peppone e Don Camillo. La satira in questo caso era soprattutto politica. Il Marc’Aurelio esisteva sin dal 1931, ma più che alla satira vera e propria era dedito all’umorismo in gene-rale. Scrissero e disegnarono sul Marc’Aurelio tra gli altri Fellini, Scola, Steno, Zavattini. A fine anni ’70 torna troviamo Il Male e Frigidaire, quest’ultimo più dedito al fumetto. Il Male divenne famoso soprattutto per le false prime pagine di quotidiani, con notizie deliranti del tipo “Annullati i mondiali di calcio”, “Sono atterrati gli extraterrestri o “Arrestato Ugo Tognazzi è il capo delle Brigate rosse”. Tenta-tivo di raccogliere l’eredità del Male fu Cuore di Michele Serra, che ebbe buon successo agli inizi degli anni ’90, ma circoscritto ad un pubblico politicamente schierato. Ma la rivista satirica più famosa degli ultimi decenni è il Verna-coliere che, come recita la frase sotto la testata, è un «mensile di satira, umorismo e mancanza di rispetto in vernacolo livornese e in italiano». Tra le copertine più famose quella in cui campeggia la scritta, riferita a Papa Benedetto XVI: «Era meglio un papa pisano, almeno si rideva un po’. Si doveva chiamà Gosto I e vole-va rifà le processioni co’ barrocci». Nell’edizione era raffigurate una serie di vignette come quella che illustra alcuni preti che si chiedono «ma sei sicuro che quando dice SS intende lo Spirito santo?». Oppure. «Come mai hanno eletto Ratzinger?», chiede un tizio. Risposta: «Perché Priebke era troppo vecchio».

NICOLA ZECCHINI

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Esiste una Halakhà che regola la materia dell’ironia bla-sfema, se così vogliamo chiamarla?La regola è prescritta nel Talmùd (Meghillà 25b) in questi termini: ogni letzanùt è proibita tranne quella della

‘avodà zarà. Per letzanùt (in ebraico moderno letzàn è il buffone, il pagliaccio) si intende, in quella pagina, la satira che usa concetti e forme scurrili. E’ sempre proibita, a meno che l’oggetto sia la ‘avodà zarà, letteralmente il culto estraneo, generalmente una religione idolatrica. Il Talmùd prende come esempio un verso del profeta Isaia (46:1) che descrive la caduta delle divinità babilonesi in termini non tanto eleganti. Ma è solo uno dei possibili esempi tra tanti della Bibbia.Storicamente, come ci si è comportati su tali questioni?L’ironia, lo scherno, la satira, le accuse pesanti nei confronti di altre religioni sono presenti nella Bib-bia e continuano in tutta la storia. Si pensi che un rito fondante l’i-dentità e la religione ebraica, come Pesach, il sacrificio pasqua-le, nasce come opposizione alla sensibilità e alla religione egizia-na. Quando il Faraone aveva pro-posto a Mosè di fare i sacrifici in Egitto, Mosè gli aveva detto che se gli ebrei avessero sacrificato animali venerati dagli egiziani avrebbero rischiato la lapidazione da parte di gente offesa. Ma il giorno prima della piaga dei pri-mogeniti e dell’uscita dall’Egitto il sacrificio viene fatto, pubblica-mente e per ordine divino. Niente di politically correct; al contrario, la dimostrazione della sconfitta di un sistema. In tempi biblici si ironizzava sui nomi degli dei, Ba’al (il signore) diventava Bòshet (la vergogna); Ba’al Zevùl (il signore del luogo sacro) diventava Ba’al Zevùv (il signore della mosca). Su questa linea continuarono i primi cristiani che trasformarono Ba’al Zevùv da divinità a principe dei diavoli: Belzebù. Nessuno è innocente in queste operazioni. Ovviamente tutto dipende da quanto ti lasciano fare (perché dai tempi di Mosè a oggi la satira è rischiosa…), quale coscienza si ha del rispetto verso le diversità, e quanto è ostile l’altra parte nei tuoi confronti, tanto da meritare una critica aggres-siva.Esistono approcci differenti tra le attuali autorità rabbiniche?Non è un argomento sul quale si discute molto.Esistono differenze tra le diaspore e Israele?Non so se ce ne sono, dipende dai rapporti di forza tra comunità locale e comunità generale. Ma in un’epoca globalizzata come la nostra un colpo di tosse a Pechino fa notizia ovunque.Come ci si regola in Israele? In Israele i cosiddetti laici sono molto aggressivi nei confronti dei religiosi, e viceversa…Non è una novità. Si pensi ai midrashim che dicono che dopo la nascita di Izchak–Isacco la matriarca Sara dovette (e fu capace di farlo) allattare tutti i neonati, per dimostrare che il figlio l’aveva partorito lei, e che Izchaq era la copia del padre Abramo, per smen-tire chi supponeva un altro generoso donatore… E chi lo faceva erano i letzanè hadòr, i satirici di quella generazione, un termine che nella letteratura midrashica e di esegesi ritorna 130 volte!

Esistono differenze tra sefarditi e ashkenaziti?Sarei tentato di dare una risposta ironica, meglio tacere.Mi è stato insegnato che “non si scherza sulla Torà”, tanto meno su passi e versetti che ad una moderna sensibilità occidentale sembrerebbero prestarsi a qualche superficiale ironia… E’ la variante interna ebraica del proverbio “sacherza coi fanti e lascia stare i santi”. E’ un invito a rispettare la nostra identità e la nostra tradizione. Se dovessimo cedere acriticamente alla “sensi-bilità occidentale” (che in parte però è figlia nostra) faremmo a pezzi molte cose, ed effettivamente è quello che succede. La Torà contiene tante cose di difficile comprensione e che richiedono stu-dio. La sfida è di mettersi a studiare e non cedere alle tentazioni autodistruttive. Perché è vero che non possiamo fare a meno, anche nella Torà, di una certa leggerezza iniziale, per poter entrare

serenamente nei suoi segreti, ma poi bisogna essere seri.Anche gli ebrei di formazione e condotta distanti dalla stretta osservanza sanno che si tratta di trasgressione grave e di compor-tamento comunque biasimevo-le, soprattutto se manifestato in pubblico.Dovrebbe essere un fondamento del messaggio “civile” dell’ebrai-smo, il rispetto della dignità altrui. Ma questo non significa bandire l’ironia, che è strumento di crescita.La considerazione risulta diver-sa se il responsabile eventuale è un ebreo, rispetto a chi ebreo

non è? Insomma, c’è un obbligo halakhico di essere particolar-mente severi con chi appartiene ad una Comunità ebraica? Si può rischiare l’allontanamento?Sono possibili tutti gli scenari, ironia tra ebrei o bidirezionale tra ebrei e non ebrei. In ogni caso vi sono i limiti del buon gusto e chiaramente non è lecito superare quelli dell’ostilità tra gruppi. Un ebreo che si comporta male, tanto più in pubblico, rischia di fare quello che è chiamato il chilùl haShem la profanazione del Nome, e per questo ha una responsabilità maggiore. Quanto all’allontanamento, dipende da cosa si fa e a danno di chi, e via dicendo. Si possono rischiare forme di emarginazione sociale e forte critica, ma essendoci anche una forte diversità sociale, hanno un impatto limitato.Nel mondo ebraico c’è una tradizione di autoironia e di sarcasmo intelligente però distruttivo, che spesso colpisce non solo regole e interpretazioni ma la stessa autorità rabbinica… Insomma, il fin troppo celebre witz lo abbiamo anche in Italia e soprattutto qui a Roma…Non ho l’impressione che da queste parti ci sia una grande tradi-zione di ironia, soprattutto di quella intelligente. Molte persone faticano a comprendere l’ironia o sono iper-suscettibili. Molto spes-so ho colto battute da persone della ormai vecchia generazione su questioni di osservanza, che non capivano e quindi schernivano, ma si tratta di roba vecchia dettata dall’ignoranza. Magari ci fosse qualcuno che fa ironia intelligente apparentemente distruttiva, ma utile per la chiarezza. Mi divertirei a rispondergli nella sua stessa lingua, per quanto mi è consentito, e l’ho già fatto in passato.

I confini della satiraNon tutto è lecito, quando si scherza. “Shalom” ne ha parlato

con il Rabbino capo di Roma, rav Riccardo Di Segni, commentando le vignette di Charlie Hebdo

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Può essere utile citare due casi celebri di ebrei molto irriverenti, Philip Roth e Woody Allen. Philip Roth ha conosciuto forme di ostra-cismo nelle Congregations ameri-cane fin dai tempi di “Addio, Columbus” e del celebre “Lamen-to di Portnoy”. Quanto a Woody Allen lo ricordiamo protagonista in un film recente firmato da John Turturro, nel quale si mette dura-mente in ridicolo un Tribunale Rabbinico dei Chassidim Satmar. Per non parlare di moltissimi altri film più o meno riusciti. L’ebrai-smo ortodosso ha espresso reazio-ni in proposito?L’ebraismo ortodosso è una galassia. Qualcuno si può arrabbiare qualcun altro si può divertire. Ma i Satmar non vanno al cinema…Comunque Izchak deriva da una radice che si riconnette al “ridere”…Nel caso specifico è il riso spontaneo di un’anziana signora che non crede alle possibilità divine di pie-gare la natura. E’ una lezione su come affrontare la vita, senza preoccuparsi troppo. Un po’ differente dal sarcasmo distruttivo.In molti ambienti ebraici, e non soltanto ortodos-si, si fa notare che irridere la fede degli altri è sconveniente e censurabile. Più censurabile anco-ra se si tratta di una fede monoteista come quella islamica. Insomma Charlie Hebdo spesso non piace neppure agli ebrei, però gli ebrei non sono passati alla violenza.Va precisato che l’Islam non è considerato ‘avodà zarà e non ci è permesso irriderlo. Dire che Charlie non piace agli ebrei, beh… bisogna vedere a quali ebrei. Ce n’erano due quel giorno in reda-zione (Wolinski e Cayat) e sono stati uccisi. Gli ebrei a cui non piace (e sono tra quelli) non si identificano nella sua scurrilità. Questione prima di tutto di buon gusto, prima che di divieti reli-giosi. Ma è evidente che è ben difficile immaginare un ebreo che prende un mitra per fare strage in una redazione di un giornale

satirico. Non ce lo permette la nostra religione e, con molta più forza di quanto possa la religione su di noi, la nostra storia e la nostra coscienza.Qualche volta si ha l’impressione che la nostra cautela derivi anche da una mentalità di minoranza. Siamo molto solerti quando si tratta di difendere la sensibilità altrui e di manica molto larga quando toccano la nostra. Non è che stiamo sempre in tribunale dopo aver visto certe vignette. Ma nelle diaspore le autorità rabbini-che si sono - mi sembra - schierate dalla parte del buon diritto dei

musulmani a forme di tutela anche forte della propria sensibilità e suscettibilità, escludendo ovviamente il ricorso ad ogni forma di violenza.Non so se siamo di manica molto larga quando toccano la nostra. Si pensi alle vignette anti-israe-liane e spesso antisemite che compaiono soprattut-to in tempi di crisi e di guerra. Le proteste ci sono, ma non si va oltre alle proteste e denunce accorate, perché gli strumenti giuridici mancano. Penso a quello che hanno fatto noti vignettisti italiani e alla nostra impotenza nei loro confronti. Eppure una soluzione ci sarebbe, rispondergli con gli stessi loro strumenti; ma ci vuole genio e accesso ai media (cose di cui non disponiamo molto, malgrado quello che pensano - e disegnano - gli antisemiti).

Negli USA si è fatto notare che il diritto a non essere offesi nella propria sensibilità religiosa è un diritto fortemente tutelato. Obama non si è presentato alla manifestazione di Parigi, e forse non per caso…L’assenza di Obama forse dipende da un contenzioso USA-Francia più ampio. Ma la domanda che dovrebbe riguardarci tutti è quella dei limiti e non è un dibattito semplice.

INTERVISTA A CURA DI PIERO DI NEPI

Dall'alto: Georges Wolinski e Elsa Cayat

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“L’86° vittima dell’attacco all’AMIA” (Argentina Isra-elite Mutual Association) ha scritto su twitter Ser-gio Bergman, Rabbino e deputato argentino, rife-rendosi al pubblico ministero Alberto Nisman, tro-

vato morto il 18 gennaio scorso. Nisman indagava proprio sulla strage che colpì la comunità ebraica argentina (250mila persone, la più numerosa dell’America latina) nel 1994, 85 morti e oltre 200 feriti. Secondo la sua ricostruzione, l’attacco sarebbe stato effet-tuato dai terroristi di Hezbollah e pianificato e finanziato dall’I-ran, tanto da emettere sei mandati di arresto internazionale contro iraniani ritenuti responsabili, tra cui alcuni esponenti di primo piano del regime di Teheran, come l’ex Presidente Ali Raf-sanjani e l’ex ministro della Difesa Ahmad Vahidi. Nel 2006, la sentenza della Procura Federale di Buenos Aires che riconobbe Hezbollah e il governo iraniano come responsabili diretti dell’attentato, cui seguì l’interruzione dei rapporti tra Iran e Argentina. Al momento della morte di Nisman, però, le relazioni tra Teheran e Buenos Aires si erano ristabilite, forse anche troppo. La settimana preceden-te la sua morte, infatti, Nisman aveva rivela-to delle intercettazioni telefoniche tra agen-ti dei servizi segreti argentini e funzionari iraniani che discutevano accordi segreti: ha così accusato la Presidente argentina Cristi-na Kirchner di aver preparato un’offerta di copertura all’Iran, con cui avrebbe garantito l’immunità agli ex funzionari del governo iraniano, in cambio di accordi economici e commerciali.Il riavvicinamento tra Iran e Argentina parte però prima. Il rallentamento dell’economia del Paese sudamericano ha trovato nell’Iran sottoposto alle san-zioni internazionali un valido partner per esportare i propri pro-dotti agricoli e per importare petrolio. Nel 2012, le esportazioni in Iran erano aumentate del 234% da quando Cristina Kirchner è divenuta Presidente nel 2007; se poi i dati si comparano con il 2005, l’incremento è addirittura del 1000% secondo il Clarin. L’I-ran è così divenuto il secondo compratore al mondo della soia prodotta in Argentina, da cui ha importato anche cereali, oli e grassi animali, ma anche prodotti tecnologici.

Si sono dunque incontrate esigenze complementari: da una parte l’Iran, costretto a embarghi economici e all’isolamento diplomati-co, ha guardato a molti Paesi sudamericani come nuovi interlocu-tori; Ahmadinejad aveva anche avviato un solido asse con il venezuelano Chavez negli anni 2000, con l’obiettivo di coinvolge-re anche altri Paesi come Bolivia ed Ecuador. Da parte di Buenos Aires c’era da fronteggiare una situazione economica catastrofi-ca: negli ultimi mesi del 2012 si era paventata l’ipotesi di un nuovo default, tanto che l’agenzia Fitch aveva declassato di 5 gradini da B a CC il rating del debito, mentre a inizio 2013 è arri-vata dal Fondo Monetario Internazionale una dichiarazione for-male di censura per l’inaccuratezza dei propri dati economici,

cosa mai verificatasi in precedenza, minac-ciando anche l’espulsione dell’Argentina dal FMI; inflazione alle stelle e accuse di conti truccati rendono l’idea dell’andamento dell’economia argentina degli ultimi anni. Il tutto si è inserito in un quadro già movimen-tato dalla nazionalizzazione della compa-gnia petrolifera argentina YPF (Yacimientos Petrolíferos Fiscales) espropriata alla spa-gnola Repsol e dalle rivendicazioni sulle Falkland-Malvinas.In questo contesto si è avviata una disten-sione nei rapporti tra questi due Paesi. Nel 2011, in occasione del discorso di Ahmadi-nejad alle Nazioni Unite, per la prima volta dall’implicazione iraniana nell’attentato, il rappresentante argentino all’ONU non aveva abbandonato la sala. Nel 2012 si sono susseguiti incontri bilaterali, come i vertici di settembre a New York e di ottobre a Gine-vra, fino all’accordo, firmato in Etiopia nel gennaio 2013, per stabilire una commissio-

ne congiunta formata da 5 esperti di diritto internazionale esterni ai due Paesi per indagare sull’attentato all’AMIA. A distanza di un anno, la morte di Nisman, definita in una dichiarazione della Anti-Defamation League, il gruppo con sede a New York che si batte contro l’antisemitismo, “un altro tragico episodio della sor-dida saga del fallimento dell’Argentina di agire con decisione per trovare, arrestare e perseguire i responsabili dell’attacco terrori-stico all’AMIA”.

DANIELE TOSCANO

MONDO

Quelle oscure relazioni tra Iran e ArgentinaLa misteriosa morte del magistrato Alberto Nisman che indagava sulle responsabilità

e le connivenze dopo l’attentato antisemita a Buenos Aires del 1994

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Le ragioni del nucleare di Teheran

La bomba atomica ha un valore simbolico e rafforza il senso

di difesa del Paese. Ma è anche un'incombente minaccia

sui nemici della rivoluzione islamica

Mentre la comunità internazionale è alle prese con il terrorismo, con le atrocità dello Stato Islamico e con il virus Ebola, riprende il dialogo fra le potenze occi-dentali e l’Iran sulla questione nucleare. I rischi e le

preoccupazioni derivanti dal possesso da parte del regime degli ayatollah di materiale utilizzabile per la costruzione dell’atomica sono ormai noti all’opinione pubblica mondiale, ciò che invece sembra sfuggire sono le motivazioni che hanno spinto l’Iran a procedere su questa strada.Nonostante il governo di Teheran sia, dalla rivolu-zione islamica del 1979, chiuso in se stesso, ren-dendo difficile il lavoro di qualsiasi osservatore esterno, alcune conside-razioni possono essere fatte su quando e perché l’opzione nucleare è diventata di vitale impor-tanza per lo Stato.Esistono due possibili giustificazioni alla base dell’inflessibilità iraniana riguardo al suo programma nucleare: la sua valenza simbolica e il senso di peri-colo per l’incolumità della nazione.La società iraniana, in virtù del suo essere stata per secoli un centro culturale, scientifico e religioso della regione mediorienta-le, è da sempre pervasa da un forte orgoglio nazionale. Il program-ma nucleare costituisce, nell’immaginario collettivo, il modo in cui l’Iran si riafferma come nazione sovrana, avanzata e indipendente dalle continue interferenze del mondo occidentale all’interno della sua politica. Le dichiarazioni dei suoi leaders politici, che la defi-niscono spesso una "questione di dignità nazionale", sembrano proprio avallare questa tesi.La seconda motivazione è molto più semplice ma non è mai stata riconosciuta in pubblico: la difesa e la deterrenza dell’atomica. La maggior parte degli analisti ritiene che l’Iran vorrebbe dotarsi di un’arma nucleare per scoraggiare le minacce provenienti dall’e-sterno. Noi occidentali inorridiamo al pensiero di un regime fonda-mentalista in possesso di armi di distruzione di massa ma i citta-dini iraniani hanno un approccio molto diverso rispetto alle ambi-zioni nucleari del loro paese: che si tratti di sostenitori dell’ayatol-lah Khamenei o di laici appartenenti al Movimento Verde, le loro differenze ideologiche scompaiono quando si tratta di discutere del diritto dell’Iran di entrare a far parte del club nucleare. Il moti-vo di questo largo sostegno risiede nel profondo senso di insicu-rezza e di vulnerabilità della società. In fin dei conti il programma nucleare è stato avviato durante gli anni '80 quando era in corso la guerra con l’Iraq di Saddam Hussein il quale non si fece scrupo-lo di usare armi chimiche sull’esercito di Teheran.Oggi l’Iraq non è più una minaccia ma, essendo l’Iran uno dei pochi Stati Sciiti presenti sulla scena mediorientale, non mancano i nemi-

ci che vedrebbero di buon occhio un cambio di regime. Oltre agli Stati Uniti, che hanno inserito l’Iran nella lista degli "Stati Canaglia", un vasto panorama di Stati Sunniti è in continua lotta con l’Iran per la supremazia nella regione, soprattutto l’Arabia Saudita, l’altro grande Stato dominato dall’ortodossia religiosa e che gli ayatollah reputano non adatto al ruolo di guardiano delle sacre reliquie di Medina e La Mecca. Inoltre, proprio in questi ultimi mesi, le milizie

Isis stanno continuando la loro corsa verso Est minacciando i confini ira-niani. L’intransigenza degli uomini di Al-Bagh-dadi, che vedono i musul-mani Sciiti come infedeli alla pari di cristiani ed ebrei, ha già spaventato Teheran a tal punto da far dialogare il Presidente Rouhani con Obama per un possibile intervento dell’esercito iraniano nella Coalizione Interna-zionale anti-Isis.Una delle principali ragio-

ni per cui il Pakistan non è stato invaso dalla rivale India è proprio il fatto che questo si era dotato di un arsenale di testate nucleari da utilizzare come ultima spiaggia. Immaginate ora di essere un leader iraniano: in queste condizioni non vorreste anche voi un’arma che vi faccia sentire sicuri in un ambiente così ostile?

MARIO DEL MONTE

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Se mi avete invitato qui oggi non è per cantare l’onore e la grandezza dell’umanità, ma per piangere, purtroppo, i progressi di quella inumanità radicale, di quella bassezza che si chiama antisemitismo. A Bruxelles, pochi mesi orso-

no, sono stati attaccati la memoria ebraica e i guardiani di questa memoria. A Parigi, solo qualche giorno fa, abbiamo sentito ancora una volta il grido infame “A morte gli ebrei” e i disegnatori sono stati assassinati perché disegnavano, i poliziotti per il loro lavoro e gli ebrei perché facevano la spesa e semplicemente erano ebrei. In altre capitali, in Europa e altrove, la stigmatizzazione degli ebrei sta ridiventando la parola d’ordine di una nuova setta di assassini, a meno che non sia la stessa, sotto altre vesti.La vostra Casa è stata edificata contro tutto questo. La vostra As-semblea aveva il sacro compito di scongiurare il risveglio dei terri-bili spiriti dell’antisemitismo. Ma essi sono di ritorno, e perciò sia-mo qui. L’antisemitismo di oggi dice tre cose. Può operare su vasta scala solo se riesce a proferire e ad articolare tre enun-ciati odiosi, ma inediti, e che il XX secolo non è riuscito a squalificare. 1. Gli ebrei sarebbero esecrabili perché sostenitori di uno Stato malvagio, illegittimo e assassi-no: è il delirio antisionista di chi è spieta-tamente contrario al ritorno degli ebrei nella loro terra storica. 2. Gli ebrei sareb-bero tanto più esecrabili in quanto fonde-rebbero il loro amato Paese su una soffe-renza immaginaria o, perlomeno, esage-rata: è l’ignobile, l’atroce negazione della Shoah. 3. Infine, commetterebbero un terzo e ultimo crimine che li renderebbe ancora più detestabili; crimine che consi-sterebbe - evocando essi instancabilmen-te la memoria dei loro morti - nel soffoca-re le altre memorie, nel mettere a tacere gli altri morti, nell’eclissa-re gli altri martiri che gettano nel lutto il mondo odierno, e di cui il caso più emblematico sarebbe quello dei palestinesi: qui ci avvici-niamo a quella imbecillità, a quella lebbra che si chiama competi-zione tra le vittime. II nuovo antisemitismo ha bisogno di questi tre enunciati. È come una bomba atomica morale con tre componenti. Riconoscerlo signi-fica cominciare a vedere quel che vi spetta fare per lottare contro questa calamità. Immaginiamo una Assemblea generale delle Na-zioni Unite dove Israele abbia il suo posto, tutto il suo posto, quel-lo di un Paese come gli altri, né più né meno colpevole di altri, con gli stessi doveri ma anche gli stessi diritti; e immaginiamo che gli si renda giustizia riconoscendogli, intanto, di essere ciò che è ve-ramente: una autentica, solida e valida democrazia. Immaginiamo una Assemblea generale delle Nazioni Unite che, fedele al proprio patto fondatore, diventi la scrupolosa guardiana della memoria del peggiore genocidio mai concepito da quando esiste l’uomo. Imma-giniamo che nel 2015, sotto la vostra egida e con l’aiuto delle più alte personalità scientifiche mondiali, si tenga la più completa, la più esauriente, la più definitiva delle conferenze mai riunite finora sul tentativo di distruzione degli ebrei. Proviamo poi a sognare che da qualche parte, a New York, a Ginevra o a Gerusalemme, si ten-

ga una seconda conferenza da dedicare a tutte le guerre dimenti-cate che affliggono le terre abitate, ma di cui non si parla mai perché non rientrano nel quadro dei blocchi, o dei gruppi, fra cui vi dividete. E che questa seconda conferenza, contraddicendo lo stu-pido e mostruoso pregiudizio secondo cui in un cuore c’è posto soltanto per un’unica compassione, riveli quella che è stata l’au-tentica verità dei decenni trascorsi: è quando si aveva nel cuore la Shoah che subito si vedeva l’orrore della pulizia etnica in Bosnia; è quando si aveva in mente quel campione dell’inumano che fu il massacro pianificato degli ebrei d’Europa che si capiva immedia-tamente quel che accadeva in Ruanda o nel Darfur. Insomma, lungi dal renderci ciechi davanti ai tormenti degli altri popoli, la volontà di non dimenticare nulla del tormento del popolo ebraico è ciò che rende rilevante, evidente, l’immensa afflizione dei popoli del Burundi, dell’Angola, del Congo, e di altri ancora. Adottando que-

sto programma, lotterete contro l’antise-mitismo reale. Riabilitando l’Israele, av-valendovi della vostra autorità per far ta-cere, una buona volta, i cretini negazioni-sti e andando in aiuto dei nuovi dannati della terra immolati sull’altare dell’ideolo-gia antisionista, smantellerete una ad una ogni componente del nuovo antise-mitismo. Al tempo stesso, difenderete la causa dell’umanità. Non sarei qui se non pensassi che questa sede sia uno degli unici luoghi al mondo, forse il solo, dove possa orchestrarsi la solidarietà degli ebranlés, dei percossi, di cui parlava il grande filosofo cèco Ian Pa-tocka e che ha rappresentato il senso della mia vita. Quando, nel mio Paese, le più alte autori-tà dicono: «La Francia senza i suoi ebrei

non sarebbe più la Francia», esse erigono una diga contro l’infa-mia. E quando, nello stesso Paese, un capo di Stato e di governo su quattro vengono a sfilare per dire «lo sono Charlie, io sono poliziotto, io sono ebreo», alimentano una speranza su cui non contavamo più. La vostra stessa presenza qui, stamattina, la vostra volontà di rendere questo evento possibile e, forse, memorabile, attestano che in tutti i continenti, in tutte le culture e in tutte le civiltà si comincia a prendere coscienza che la lotta contro l’antisemitismo è un obbligo per tutti: è una grande e bella notizia. Quando si colpisce un ebreo, diceva un altro scrittore, è l’umanità intera a essere gettata a terra. Un mondo senza ebrei non sarebbe più un mondo: un mondo in cui gli ebrei ricominciassero a essere i capri espiatori di tutte le paure e di tutte le frustrazioni dei popoli sareb-be un mondo dove gli uomini liberi respirerebbero meno bene e dove gli uomini sottomessi lo sarebbero ancora di più. Sta a voi, adesso, prendere la parola e agire. Sta a voi, che siete il volto del mondo, essere gli architetti di un edificio dove per la matrice di tutti gli odi lo spazio si assottigli.

BERNARD-HENRY LEVYPubblicato su Il Corriere della Sera,

27 gennaio 2015

Smascheriamo l’antisemitismo per contrastare tutti i genocidi

Un appello all’Onu: l’orrore di ieri è direttamente collegato a quelli di oggi. Chi aveva nel cuore l’Olocausto ha percepito immediatamente la mostruosità dei massacri in Bosnia,

in Ruanda e nel Darfur. Una sintesi del discorso di Bernard-Henry Levy in occasione della riunione dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite sul tema della crescente violenza antisemita nel mondo

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La testimonianza di rav Israel Meir LauDifendere l'identità ebraica, testimoniare

e vigilare che la Shoah non si ripeta mai più

Cosa ci ha insegnato la Shoah? Quale lezione possiamo trarre dalla pagina più oscura della storia dell'umanità e della storia del popolo ebraico? E' ruotata attorno a queste domande la breve visita che Israel Meir Lau

(già rabbino capo ashkenazita d’Israele tra il 1993 e il 2003 e oggi rabbino capo di Tel Aviv nonché presidente del Mausoleo Yad Vashem di Gerusalemme) ha tenuto a Roma, in occasione della Giornata della Memoria per il 70mo anniversario della liberazio-ne di Auschwitz.La sera del 26 gennaio Lau – nel tempio di via Balbo - ha svolto una lezione incentrata sul pericolo dell’assimilazione e sulle con-seguenze che essa produce per la sopravvivenza del popolo ebrai-co. “Esistono tre tipi di diluvio – ha spiegato – quello dell'ac-qua, quello di sangue e fuoco ed il terzo è la confusione/assimila-zione. Contro il primo diluvio l'umanità si è salvata attraverso l'arca, contro il secondo che è rappresentato dalla Shoah gli ebrei sono stati lasciati soli, ma contro il pericolo dell'assimila-zione l'unica ricetta è rafforzare la propria identità ebraica. La soluzione contro l'assimilazione è l’educazione, impartita fin dall’età di tre anni. Portate al tempio i figli, fate indossare la kip-pah, fateli vivere in una società ebraica".Rav Lau ha portato alcuni esempi, fra tutti il drammatico calo della popolazione ebraica negli Stati Uniti. Citando gli studi dei demo-grafi Roberto Bachi e Sergio Della Pergola, rav Lau ha ricordato che negli Usa nel 1945 vi erano circa sei milioni di ebrei; con una media di due figli per coppia, oggi avrebbero dovuto essere circa 50 milioni, ma gli ebrei americani oggi sono appena 3,5 milioni. “Che fine hanno fatto, tutti gli altri?”, ha chiesto Lau?. “Si sono assimilati, ed oggi nello Stato di New York un ebreo su due fa un matrimonio misto". E' un calo demografico terribile, un cedere alla propria identità ebraica che - ha sottolineato rav Lau - non si è mai verificato nemmeno sotto le numerose persecuzioni e pogrom che gli ebrei hanno subito nel corso della storia.Il giorno dopo, ad un pubblico non ebraico prevalentemente for-mato da giovani studenti, rav Lau ha presentato il suo libro “Dalle ceneri alla storia” (Cangemi ed.) – nella versione originale, ‘Non alzare la mano contro il ragazzo’, da un passo della Genesi (cap. 22) - che racconta la sua storia di bambino di otto anni uscito da Buchenwald e poi attraverso vicissitudini, studio, e amore delle persone che lo hanno incontrato è giunto fino a diventare rabbino capo di Israele: "Se avessero raccontato a Lulek - ha spiegato il rav, il cui nome in polacco è appunto Lulek - che da grande mi sarei seduto al tavolo con la regina Inghilterra o avrei parlato con il papa o con il presidente degli Stati Uniti, non lo avrei creduto”.Ma Lau non ha voluto raccontare la sua storia, non si è piegato sul racconto del passato quale sopravvissuto ma si è proiettato sull'oggi, ma soprattutto sul domani: "la Shoah non è una eredità del passato perché il presente ne è segnato”. “Sono preoccupato del presente e del futuro – ha spiegato - davanti a nuove tragedie e a nuovi genocidi, dove è l'umanitá? Non chiediamoci dove è D.o, ma dove è l'uomo, dove sono i Capi di Stato?". E' questa stessa indifferenza, questa stessa voglia di non vedere, di girarsi dall'altra parte, che è stata alla base e ha dato inizio alla persecuzione nazista degli ebrei. Nel 1923 Hitler scrive il Mein

Kampf contro gli ebrei e nessuno protesta. Poi viene eletto Cancel-liere e nessuno protesta. Poi nel 1933 vengono emanate le prime leggi razziali e il mondo non disse nulla. Poi nel 1938 con la Notte dei cristalli, vengono distrutte 1000 sinagoghe, 3000 ebrei uccisi, decine di migliaia arrestati e deportati e tutto questo nel più asso-luto silenzio della stampa internazionale. “Lancio un appello agli studenti – ha sottolineato rav Lau - fate una ricerca sulla stampa per vedere come hanno commentato: dall’Occidente non è venuta una sola parola".Tutto questo silenzio, questa indifferenza, ha prodotto il silenzio sul più grande massacro della storia, quello di Babi Yar, vicino Kiev: tra il 29 e il 30 settembre 1941, furono massacrati 33.771

ebrei ucraini. “Cercate cosa disse la stampa, nulla. Non un articolo, solo il poeta Yevtushenko ha scritto una poesia”. “Lo stesso silenzio – ha ricordato Lau – quando nel 1942 con la Conferenza di Wannsee fu piani-ficata la soluzione finale e furono predisposti i campi di sterminio”.Identificarsi con un dramma così enorme come è stato lo sterminio di sei milioni di ebrei (di cui un milione e mezzo di bambini), è difficile - ha

spiegato Lau - e abbiamo dovuto attendere il 2004 perché l'Onu dedicasse un giorno alla commemorazione della Shoah.Per comprendere cosa sia stata la persecuzione e il genocidio degli ebrei i numeri non bastano, perché non colpiscono, è neces-sario identificarsi nel dolore delle singole persone. Ci è riuscito il diario di Anne Frank che eleva il valore del racconto individuale a testimonianza. “Anche per questo ho scritto questo libro – ha concluso il rav – per commemorare il passato ma anche per preve-nire che l’orrore si ripresenti”.

G. K.

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“Night will fall”: lo sconvolgente documentario

sui lager nazistiUn film che per anni nessuno

ha mai potuto vedere

Dopo una breve uscita televisiva, anche la Casa del Cinema di Roma – in occasione della Giornata della Memoria ha offerto al pubblico le sconvolgenti scene di “Night will fall” (“Cadrà la notte”). Un documentario

coprodotto, fra gli altri, anche dall’italiana GA & A Productions, consociata RAI.”Immagini come queste - ha rilevato in apertura Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica romana - rappresentano la migliore replica a quanti, proseguendo l’opera dei carnefici di allora, vorrebbero negare la Shoah, o quantomeno ridimensionarla”.“Night will fall” (del regista e produttore André Singer), incorpora infatti in gran parte le immagini del documentario sui lager nazisti che nella primavera-estate del ‘45, fu realizzato, su incarico degli Alleati, dal produttore e regista britannico Sidney Bernstein, assemblando il materiale girato nei mesi precedenti dalle truppe sovietiche, britanniche, americane e australiane, al momento della liberazione di Auschwitz, Bergen-Belsen, Buchenwald, Dachau e altri lager. Supervisore del documentario fu Alfred Hitchcock, amico personale di Bernstein, che lavorò al montaggio e alla sce-neggiatura del film, con precise istruzioni (come, ad esempio, far vedere chiaramente agli spettatori la vicinanza dei vari lager a tante tranquille cittadine tedesche, dove la vita quotidiana prose-guiva tra scenari da cartolina).Il film, tuttavia, non vide mai la luce per varie ragioni, fra cui la nascente guerra fredda che spingeva gli Alleati a non infierire troppo sulla Germania, potenziale futuro alleato nella tensione coi sovietici. Il film è così rimasto 70 anni negli archivi dell’Imperial War Museum di Londra, ad eccezione dell’autunno 1945, quando varie sue sequenze, proiettate in aula, risultarono determinanti nei processi a Josef Kramer, comandante di Bergen-Belsen,e, soprattutto, ai massimi leader nazisti a Norimberga.Sono immagini in cui la morte domina quasi ogni inquadratura, con le cataste di cadaveri nudi simili a macabri, scheletrici, mani-chini dagli occhi sbarrati. Quegli stessi occhi sbarrati che per lungo tempo accompagneranno i sopravvissuti, il cui inserimento nella società, il cui ritorno ad una vita ‘normale’, non sarà mai più lo stesso.

FABRIZIO FEDERICI

‘Corri ragazzo, corri’La drammatica storia di giovane ebreo

polacco sopravvissuto alla Shoa, raccontata in uno struggente film

In occasione della Giornata della Memoria, è stata ospitata, il 19 gennaio, presso la Casa del Cinema di Roma, l'anteprima del film presentato da Lucky Star "Corri ragazzo corri", del regista Premio Oscar Pepe Danquart, che è stato proiettato

nelle sale italiane dal 26 al 28 gennaio. Il film, tratto dall'omonimo romanzo dello scrittore israeliano Uri Orlev, è ispirato alla strug-gente storia di Yoram Friedman, ebreo polacco miracolosamente sfuggito ai Nazisti.

Nel film Yoram è Jurek, un bambino ebreo costretto a lasciare la famiglia e a scappare dal ghetto di Varsavia per sopravvivere alla furia nazista. L'attaccamento alla vita lo ha portato, tra una fuga e l'altra, ad adattarsi alle situazioni più disperate, ad assumersi responsabilità di gran lunga più grandi di lui ma soprattutto a mantenere la promessa fatta al padre nel momento del distacco da lui: non dimenticarsi mai di essere ebreo. Per mantenere questa promessa, il piccolo Jurek deve sopravvivere, e per farlo è costret-to a resistere ai freddi inverni polacchi, a dormire nei boschi, e a rubare cibo dalle fattorie. Nei suoi tre anni di lotta per la soprav-vivenza avrà la fortuna di conoscere persone disposte ad aiutarlo e persone che, al contrario, lo hanno tradito, spingendolo a un passo dalla morte. Jurek si troverà quindi a scappare da una caserma delle SS, si salverà da una casa incendiata dai soldati tedeschi e a scampare una tragica fine quando un medico si sot-trae al suo compito avendo scoperto che il piccolo paziente è ebreo. Anche nei momenti in cui la situazione sembra prendere decisa-mente una piega tragica e senza via di uscita, Jurek dimostra di avere una tenacia e una prontezza d’animo degne di un uomo maturo.Forse è proprio l'attaccamento alla vita ad essere insito nel DNA ebraico, tanto che ad oggi quel bambino, ormai 79enne vive in Israele, dove ha incontrato la sorella dopo più di trent'anni, ed è padre di due figli e nonno di diversi nipoti. Un racconto toccante e pieno di umanità, che non trascura temi ancora attuali come l'attaccamento alla fede e il rinnovato timore nel nascondere il proprio credo religioso per salvaguardare la propria vita. Questo film è un inno alla speranza e una tra le tan-tissime testimonianze di storie ambientate nel periodo della Seconda Guerra Mondiale sulla continua lotta al limite tra la vita e la morte.

YAEL DI CONSIGLIO

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Medicina e Shoah

Convegno al Policlinico sui cambiamenti

dell’etica medica da fine ‘800 ai giorni nostri

Gli orrori perpetrati dal nazismo non sono scaturiti da una men-te malata, ma sono stati il pun-to di arrivo di un’ideologia che

precedeva il nazismo e che, in forme diverse, continua a manifestarsi fino ai giorni nostri. Que-sto è stato il tema princi-pale emerso durante la tavola rotonda “1945-2015: Medicina e Shoah, settant’anni dopo Au-schwitz. Dalle leggi di Norimberga alla bioetica medica contemporanea”, organizzata dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane in collaborazione con i docenti del corso Medicina e Shoah della Sapienza Università di Roma, presso la I Clinica Medica del Policlinico. Riccardo Di Segni (Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma) ha denuncia-to il fatto che nella nostra Costituzione compaia ancora il termine “razza” (art. 3) mentre ormai gli scienziati sono concordi nell’affermare che tale definizione non

abbia alcun senso. Ha ricordato come, durante il nazismo, accanto ad una medi-cina che usava il corpo umano per esperi-menti pseudo-scientifici, c’è stata anche una medicina che ha cercato di salvare l’essere umano nelle situazioni limite dei ghetti e dei campi di sterminio dovendo decidere, ad esempio, a chi dare le poche medicine a disposizione. Ha, infine, sotto-lineato come i medici che collaborarono con il nazismo agirono volontariamente: il programma da loro messo in atto fu frutto di un’ideologia condivisa. Antonio Pizzuti (Università di Roma La Sapienza) ha delineato un quadro delle

prime teorie dell’eugene-tica, nate a metà dell’ ‘800 con lo scopo di migliorare la qualità della vita, dege-nerate poi in tecniche di soppressione degli indivi-dui considerati un “peso” per la società, applicate, prima dell’avvento in Eu-ropa del nazismo, anche negli Stati Uniti e poi pa-radossalmente portate co-me prova di “non colpevo-lezza” dagli imputati del Processo di Norimberga. Georg Lilienthal (Gedenk-statte Hadamar) ha tratto

il tema dell’Aktion T4, ovvero l’uccisione in Germania di coloro che erano conside-rati “malati di mente” che è stata, nei fatti, la “prova generale” dello sterminio degli ebrei. Riguardo all’eugenetica, Marcello Pezzetti (Fondazione Museo della Shoah) ha sotto-lineato come sia fondamentale il passag-

gio effettuato dai nazisti da ideologia a

legge dello Stato che coinvolge la società

intera. Infine, Gilberto Corbellini (Sapienza

Università di Roma) ha messo in evidenza

le conseguenze degli orrori nazisti sull’eti-

ca medica partendo dal Codice di Norim-

berga elaborato dopo la Shoah, fino al

Rapporto Belmont (1979) e rilevando come

il dibattito sulla necessità/inumanità degli

esperimenti sugli uomini sia ancora oggi

attuale.

SILVIA HAIA ANTONUCCI

Alla Sapienzail 9 marzo iniziano i corsi

Per il secondo anno consecutivo, il 9 marzo 2015 inizia il corso Medicina e Shoah, rivolto agli studenti del Corso di Laurea

delle Facoltà Mediche della “Sapienza” Università di Roma ed a professionisti sanitari del Policlinico Umberto I e del Sant’Andrea. Il corso, tenuto da docenti universitari e storici della Fondazione Museo della Shoah, prevede quattro incontri con lezioni monografiche sui rapporti tra medicina e nazismo, tra teo-rie medico-biologiche eugeniche e raz-ziali e le politiche governative di segre-gazione e sterminio nel III Reich. Scopo del corso è far conoscere il fondamentale ruolo dei medici negli orrori nazisti, ma anche quello di evidenziare quanto, all’indomani della fine della guerra, il processo di Norimberga sia stato fonda-mentale per avviare riflessioni e regola-mentazioni delle ricerche sperimentali e dei trials clinici, sino ad arrivare all’at-tuale bioetica medica.

Cambia la sede, non la sostanza. La cerimonia istituzionale in occasione del Giorno della Me-moria il 27 gennaio, infatti,

quest’anno non ha avuto luogo come di consueto al Quirinale, ma, a seguito delle dimissioni del Presidente Napolitano, si è svolta a Montecitorio, alla presenza di cen-tinaia di studenti. Dopo l’intervento inizia-le della Presidente Boldrini, hanno preso la parola il Presidente dell’Unione delle Co-munità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna, tre studenti e la ministra dell’Istruzione, Stefania Giannini. A moderare, la giornali-sta Maria Concetta Mattei; presenti fra gli altri il Ministro del Lavoro Giuliano Poletti e il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano Delrio.Nel corso della Celebrazione è stato proiet-tato un filmato prodotto da Rai Storia con

immagini dei campi di concentramento di allora e di oggi, intervallato da racconti dei sopravvissuti. C’è stato inoltre un inter-mezzo musicale della cantante Ute Lem-per, accompagnata dalla pianista Vana Gierig, oltre ad un intermezzo musicale della violinista Francesca Dego.“La memoria deve essere coltivata anche

al di fuori delle commemora-zioni ufficiali, deve dare fasti-dio, deve essere scomoda, come un pungolo per supera-re l’indifferenza” ha senten-ziato il Presidente supplente della Repubblica Pietro Gras-so nel suo intervento, prima della consegna dei premi agli Istituti vincitori della XIII edi-zione del Concorso “I giovani ricordano la Shoah”, assegna-ti alla rappresentazione della

Shoah come un albero dalle mille foglie della scuola primaria Domenico Luciano di Givoletto (TO) e ai cortometraggi della scuola media inferiore Suelli di Senorbì (CA) e dell’Istituto Professionale Alber-ghiero di Villa San Giovanni (RC).

DANIELE TOSCANO

Il Parlamento ricorda il 27 gennaio

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Casina Vallati sede della fondazione Museo della Shoah

Consegnate le chiavi in attesa che partano i lavori a Villa Torlonia

“Oggi è un giorno molto importante perché voglia-mo avviare e accelerare un percorso di ricono-scimento e mantenimento della memoria”. Lo ha detto il sindaco di Roma, Ignazio Marino, nel

corso della cerimonia di consegna - avvenuta il 26 gennaio - alla Fondazione Museo della Shoah delle chiavi della Casina dei Val-lati, che sorge a largo 16 ottobre 1943, un luogo simbolico, al centro del quartiere dove avvenne il terribile rastrellamento di 2000 ebrei. “Un luogo - ha spiegato il sindaco - dove coltivare la memoria, in attesa di realizzare il museo, dove c’era un grande ritardo sui tempi della gara per la realizzazione del museo stesso che verrà edificato a Villa Torlonia”.A prendere le chiavi della Casina dalle mani del sindaco è stato

Leone Paserman, presidente della Fondazione Museo della Shoah: “Sono emozionato oggi nel ricevere le chiavi di questo edificio, sia per la fondazione che per i sopravvissuti della Shoah. Questo spazio bellissimo della casina dei Vallati consentirà subi-to al pubblico di vedere tutta la documentazione che la fondazio-ne ha raccolto in questi 6 anni e mezzo di attività. L’impegno - ha concluso - continua e mi auguro anche che quanto prima verrà aggiudicata in via definitiva la gara di costruzione del museo della Shoah a villa Torlonia che speriamo sorgerà tra qualche anno. La memoria della Shoah deve interessare tutti i cittadini”.

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Una targa in ricordo dei dipendenti ebrei del comune di Roma deportatiCon la delibera 388 il governatorato estromise

e licenziò 50 dipendenti ebrei capitolini

Una targa alla memoria di Aldo e Bixio Pergola, dipendenti comunali licenziati nel 1939 dall’allora Governatorato di Roma in conseguenza della promulgazione delle leggi razziali, e in seguito deportati e uccisi ad Auschwitz, è

stata posta il 27 gennaio nel piazzale antistante il dipartimento del Personale in via Tempio di Giove. Un omaggio alla memoria dei fratelli ma anche di tutti i lavoratori comunali che furono vittime della discriminazione razziale

“E’ molto importante che sia stata scoperta questa targa – ha spie-gato nella breve cerimonia il sindaco Marino - perché fa rabbrividi-re la lettura delle parole che vennero pronunciate a pochi passi da qua, nell’aula Giulio Cesare, quando venne votata la delibera per la ‘protezione della razza italiana’ e quindi l’esclusione delle persone di religione ebraica dai palazzi del Comune di Roma”. Bixio Pergola, nato nel 1903, era segretario principale del Governa-torato. Fu arrestato assieme alla moglie, Emilia Pugliese, il 18 otto-bre del 1943: trasferiti nel Collegio militare di Roma, furono poi deportati ad Auschwitz e uccisi poco dopo l’ingresso nel campo di sterminio. Il fratello Aldo Pergola, ingegnere comunale nato nel 1899, fu deportato nell’ottobre del ‘43 assieme alla moglie e alla figlia ad Auschwitz, dove morirono tutti. Le storie dei fratelli Pergola insieme a quella di circa 50 dipendenti capitolini che furono colpiti dalle leggi fasciste appaiono sulla home page del portale di Roma Capitale.

Il Giorno della Memoria tra attualità e storia

L’Associazione Culturale ex Alunni Scuola Elementare Umberto I (www.leggirazziali.org) prosegue la sua atti-vità per sensibilizzare le scuole e le famiglie alla memo-ria della Shoah. Questo istituto di Roma dal 1938 al 1943

ospitò al suo interno classi per bambini di "razza ebraica" nel po-meriggio, mantenendo gli studenti ebrei separati da quelli "ariani".Per l’edizione del Giorno della Memoria del 2015, l’Associazione, presieduta da Maurizio Della Seta, è stata invitata a Fiumicino in occasione di un Consiglio Comunale straordinario: dopo i saluti del sindaco Esterino Montino e degli assessori, davanti a quasi 200 studenti delle scuole del territorio, le commoventi testimo-nianze di Maurizio Della Seta e di Gabriella Costa, bambini nel ’38, seguite dalla lettura dell’attrice Iaia Forte di un brano tratto da “La Storia” di Elsa Morante sulla deportazione dal ghetto di Roma. L’Associazione ha poi promosso un volume i cui proventi sono destinati all’Ospedale pediatrico Alyn di Gerusalemme, che cura bambini e progetti dell’infanzia per palestinesi e israeliani: proprio poche settimane fa un’importante donazione, resa nota con un video messaggio di ringraziamento con cui, a nome di Brenda Hirsch, Capo Dipartimento dell’Ospedale, si informavano i presenti dell’assegnazione all’Associazione di una targa di ricono-scimento presso l’Ospedale. Il testo “Ora Mai Più – Le leggi razzia-li spiegate ai bambini”, curato da Daniel Della Seta, è un volume di riflessioni, una raccolta di 40 testimonianze, poesie, racconti e disegni degli alunni di oggi, arricchite da manoscritti, documenti, pagelle e foto dell’epoca e con il testo originale delle leggi razziali.

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LASCIA UN BUON SEGNO

Giliana Ruth Malki - Cell. 335 59 00891Responsabile della Divisione Testamenti Lasciti e Fondi del Keren Hayesod Italia vi potrà dare maggiori informazioni in assoluta riservatezzaEnrica Moscati - Responsabile Roma

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TESTAMENTII progetti di Lasciti e Donazioni danno pieno valore alle storie personali e collettive degli amici del popolo ebraico. Un testamento è una concreta possibilità per aiutare oggi e domani l’azione del Keren Hayesod.

FONDIIl nostro buon nome dipende dalle nostre buone azioni. Un fondo a te dedicato o alla persona da te designata, è la migliore maniera di lasciare una traccia duratura associandola ad un ambito di azione da te prescelto. I temi ed i progetti non mancano.

PROGETTIIl KH ha tanti progetti in corso, tra gli altri; progetti per Anziani e sopravvissuti alla Shoah - Sostegno negli ospedali - Bambini disabili - Sviluppo di energie alternative - Futuro dei giovani - Sicurezza e soccorso - Restauro del patrimonio nazionale. Progetti delicati, dedicati, duraturi nel tempo. Di cui sei l’artefice.

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FOCUS

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“La Bibbia resta la migliore fonte di soggetti: non ho mai visto un film religioso che non sia stato un successo di cassetta”. Così, oltre cinquanta anni fa, il leggendario regista Cecil B. De Mille che più

di ogni altro ha lavorato agli adattamenti del ‘Libro dei libri’ alla giovanissima giornalista italiana Oriana Fallaci che era andata a Los Angeles per intervistarlo e che da quell’esperienza americana trasse spunto per il suo esordio in campo letterario con il volume I sette peccati capitali di Hollywood. “Il sesso e la religione sono le grandi molle che sostengono il mondo”, continuava De Mille, “il primo solletica gli istinti peggiori, la seconda ripulisce le loro coscienze.” Così spiegava il regista de I dieci comandamenti con Charlton Heston nel ruolo di Mosé con il commento di Oriana Fallaci che insisteva sullo strano connubio di storie d’amore e tradimento tra begli uomini e belle donne sullo sfondo dei testi sacri. Eppure, nonostante alcune incongruenze e ingenuità e l’inevitabile passare del tempo, i film di De Mille restano ancora oggi tra i più interessanti e riusciti per quello che riguarda l’adattamento biblico. De Mille che si dice dormisse con la Bibbia sotto al cuscino e un taccuino per prendere appunti, concludeva l’intervista dicendo “Racconto la Bibbia attraverso le immagini, mentre altri lo fanno attraverso le parole. Il mio è un modo come un altro per pregare.”Considerazioni sempre attuali nonostante siano passati sei decadi da quando sono state espresse e che hanno visto decine di altri film di ispirazione religiosa e di ambientazione biblica invadere il grande e il piccolo schermo, offrendo una serie di variazioni sul tema, purtroppo non sempre riuscite o di gran gusto. Proprio in queste settimane è, infatti, presente nei cinema l’ultimo adattamento biblico in ordine di tempo che il regista

Ridley Scott (Alien, Blade Runner) ha tratto dal libro dell’Esodo, concentrandosi su una versione ‘postmoderna’ della lettura dei libri che, a dispetto dell’utilizzo di effetti visivi imponenti, sembra mancare il senso ultimo del lavoro di registi come De Mille o John Huston, ovvero, quello di drammatizzare storie antiche seguendo un punto di vista che non sia solo religioso, ma anche molto umano e non solo ‘ibrido’ per piacere a tutte le religioni e ‘politicamente corretto’. Ma se Exodus: Dei e Re è piuttosto piatto e senza punti di vista originali, estremizzando questo discorso, nella primavera del 2014, l’apprezzato filmaker

americano Darren Aronofsky ha offerto, invece, una visione insolita della storia di Noè nel semi-fantascientifico Noah in cui Russell Crowe interpretava il profeta biblico in un mondo popolato da creature e mostri, pur restando fedele allo spirito delle personalità dei personaggi. Licenze artistiche che perfino il regista de La Bibbia, John Huston giustificava nelle sue memorie ricordando la lavorazione del film che lo aveva visto nei panni di Noé dopo il rifiuto di Charlie Chaplin ad interpretare quel ruolo: “La Genesi – diceva - è una sorta di mitologia poetica.” Spiegava Huston: “E’ un passaggio dal mito, quando l’uomo, di fronte alla Creazione e altri misteri profondi, si è

inventato spiegazioni per l’inspiegabile. Ma sotto la leggenda, pian piano, si condensa la Storia quando questa non veniva ancora scritta, ma tramandata in maniera orale.” Il cinema, quindi, diventa per certi versi, una maniera moderna per continuare una tradizione di racconto plurimillenaria passata dalla parola al digitale, seguendo anche tecniche narrative differenti da quella tradizionale cinematografica.Tra le centinaia di pellicole dedicate alla Bibbia iniziate con la stessa nascita del cinema, senza dubbio una delle più importanti e riuscite è il film d’animazione Il Principe d’Egitto

Adamo, Noè, Abramo, Mosè, Giuseppe: un cast di Patriarchi e Profeti

Tradizione o suggestione? Quando i racconti della Bibbia incontrano il cinema, sacro e profano si mischiano

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ancora una volta dedicato alla vita di Mosé che vide l’allora ex capo della Disney, Jeffrey Katzenberg dare vita al primo lungometraggio kolossal animato nel 1998 insieme all’amico Steven Spielberg con il marchio DreamWorks. “Per girare quel film in novanta minuti ci abbiamo messo più di tre anni”, ricorda Katzenberg. ”Non considero Il principe d’Egitto un semplice cartone animato, perché in qualche maniera è stato come portare alla vita un dipinto. Abbiamo provato a inventare una nuova specie di realismo per questo genere cinematografico, grazie alle tecnologie che abbiamo sviluppato e all’ottimo gruppo di sceneggiatori che lavorano abitualmente con noi”. Nei film legati alla religione e alla fede uno degli elementi più importanti è la musica, come ricorda il compositore Hans Zimmer che proprio con Il Principe d’Egitto ha affrontato una delle sfide più importanti della sua carriera: “Sentivo molto la responsabilità di quello che stavo facendo e che poteva offendere circa il settantacinque per cento della popolazione mondiale. Ho sofferto molto e sudato tantissimo nel comporre una musica molto personale e complessa che esprime il mio punto di vista sulla storia di Mosè. Non volevo ascoltare nessun altro se non me stesso.” Del resto, il confronto con i testi sacri è stato sempre molto problematico. A differenza dell’approccio di De Mille, i registi non sempre hanno seguito una linea originale di racconto o

perlomeno, personale. Spesso, l’afflato mistico o religioso ha privilegiato piuttosto la narrazione epica come nel caso di Salomone e la Regina di Saba con Yul Brinner e Gina Lollobrigida diretti da King Vidor oppure come ne La storia di Ruth (1960) di Henry Koster. Marcatamente ‘di genere’ sono Sodoma e Gomorra di Robert Aldrich con Stewart Granger, Pier Angeli e Rossana Podestà, ma anche quel David con Richard Gere nei panni del più amato re della Bibbia.Ma, nella più pura tradizione yiddish, la Bibbia non è stata solo oggetto di adattamenti quantomeno rispettosi del suo essere un libro sacro: Mel Brooks offre una lettura esilarante della storia di Mosé ne La pazza storia del mondo

volume 1 con il profeta che mostra al popolo i dieci comandamenti dopo avere distrutto inavvertitamente una delle tavole dicendo “Uditemi, Uditemi. Prestate orecchio. L’Eterno, il Signore mi comanda di recarvi questi quindici… (cade una delle tavole della legge e si rompe) Dieci! Dieci comandamenti cui dovrete ubbidire”.Ridere ‘per la Bibbia’ e non ‘della Bibbia’ è – come spiega lo stesso regista – segno della grandezza dell’ebraismo: “Non vado in Sinagoga e non pratico tutti i rituali ebraici, ma credo assolutamente nello spirito ebraico e nella sua cultura.” Puntualizza Brooks: “Sono orgoglioso di essere un ebreo, perché siamo un grande popolo che ha avuto tante persone coraggiose come coloro i quali sono sopravvissuti alla Shoah. Sono fortunato di essere ebreo, perché questo ti dà un talento particolare nell’arte del vivere. E’ qualcosa che ti fa ridere nei disastri e nei momenti tristi”. E mentre abbondano le produzioni anche sul cosiddetto Nuovo Testamento, non c’è quindi da aspettarsi che questa nouvelle vague di film a tema biblico abbia presto conclusione. Nonostante i primi titoli ad argomento biblico risalgano ai primi anni del cinema e del Ventesimo Secolo, tra le produzioni annunciate per i prossimi anni che presto potrebbero andare oltre la fase di sviluppo troviamo Goliath con Taylor Lautner (Twilight) e Dwanbe “The Rock” Johnson rispettivamente nei panni del Re e del gigante; nonché il potenzialmente interessante e tematicamente inedito La redenzione di Caino interpretato, ma anche diretto dalla Superstar Will Smith.

MARCO SPAGNOLI

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Il mondo islamico contesta ‘Exodus’

«Film sionista e pieno di errori storici»Come molti altri film di genere ‘biblico’, anche ‘Exodus’ di Ridley Scott è stato prima stroncato, poi persino censurato, in molti Paesi arabi ed islamici. D’altra parte era già capitato anche ad un altro Patriarca di fare la stessa fine: nel 2014 “Noah” di Darren Aronofsky, con Russell Crowe nel panni del protagonista, era stato censurato in Qatar, Bahrain ed Emirati Arabi.Ma il Mosè di Exodus è persino peggio poiché – ha spiegato il ministro della Cultura egiziano, Gaber Afour – “dà una visione sionista di Mosè e contraddice la verità storica: mostra gli ebrei che costruiscono le piramidi, quando tutti sanno che furono ter-minate almeno mille anni prima dell’Esodo. Per non dire del Mar Rosso: la divisione delle acque viene fatta passare per un feno-meno naturale, non per un prodigio. Questo è inaccettabile”.Forse ha però ragione il regista Tarantino che dice che il bello del cinema è reinventare la storia. Purché non si pretenda d’in-segnarla. Ma gli islamici che hanno lanciato la mezza fatwa su Exodus, sanno chi è Quentin Tarantino?

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La Bibbia, la sceneggiatura più bella di Hollywood

Sono innumerevoli i film e i cartoni animati che hanno avuto per tema

le storie e i racconti tratti dalla Torà

Da ‘Sansone e Dalila’ uscito nel '49, al più recente ‘Exodus (dei e re)’ nelle sale in questi giorni, da ‘I Dieci Comandamenti’ a ‘Noah’. Se la Bibbia è stato il primo testo stampato, il più tradotto al mondo, nonché

il primo "best seller", non c'è da sorprendersi se da cinquant'anni ad oggi gran parte dei film prodotti ad Hollywood e dalle più grandi case di produzione e di distribuzione siano stati ispirati proprio a questo libro. Sebbene i vari registi non si siano sempre attenuti ai testi e abbiano spesso romanzato i propri film, le tante storie della Bibbia rimangono comunque adatte ad ogni genere di pubblico, tanto che per i bambini sono stati creati cartoni animati come "Mosè il principe d'Egitto" e "Giuseppe il re dei sogni", entrambi prodotti dalla Dreamworks Pictures.Anche i volti più celebri del cinema, come Charlton Heston e Russel Crowe, hanno vestito gli umili panni dei personaggi biblici come quelli di Mosè nel film del '56 "I dieci Comandamenti" o di Noè in "Noah" uscito nelle sale nel 2014. Tra i vari colossal appartenenti a questo filone, non c'è però da trascurare il celebre film del '66 "La Bibbia", del regista statunitense John Houston, nel quale vengono interpretati i primi ventidue capitoli del Libro della Genesi: dalla creazione del mondo al sacrificio di Isacco. Anche molti sceneggiati riproposti più volte in televisione non sono stati solo inerenti alle storie della Bibbia, ma più in generale si sono attenuti ai libri delle sacre scritture; si pensi alla storia della regina Ester mandata in onda dalla Rai o al film

Davide contro Golia. Alcuni registi, per una miglior resa del proprio lavoro e una maggior cura nei particolari, si sono spesso consultati con istituzioni religiose come rabbini e sacerdoti cattolici prima di cimentarsi dietro la camera da presa. Anche se le stesse storie sono state più volte proposte si è continuamente cercato di sbalordire il grande pubblico con un costante miglioramento degli effetti speciali e della qualità delle scenografie, cercando di rendere le pellicole di volta in volta migliori delle precedenti, quasi da far sembrare le trame differenti. Si può quindi pensare che la produzione di questo genere di film, rivolto al grande pubblico, risulti essere non solo un "ripasso" di cultura religiosa per i credenti o un semplice spunto di riflessione, ma il pretesto per dare maggior spessore al settore cinematografico sempre più in crisi a causa della sua incapacità di rinnovamento dei contenuti.

YAEL DI CONSIGLIO

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L'ebreo di Roma, in bilico tra vecchia e nuova identità

La storia di una trasformazione sociale ed economica, tra Risorgimento

ed emancipazione, nel saggio curato da Claudio Procaccia

La popolazione ebraica a Roma nel 1816 annoverava 3047 unità fino ad arrivare nel 1911 a 8000 unità, mentre parallelamente quella dell'intera città passava da 128.000 a 519.000 abitanti; si trattò di un secolo che vide profon-

de trasformazioni con una comunità mutata, oltre che nei numeri, nei diversi tratti sociali. Un periodo che è stato esaminato sotto la lente di ingrandimento nel testo uscito da qualche settimana "Ebrei a Roma tra Risorgi-mento ed emancipazione (1814- 1914)", edito da Gangemi e cura-to da Claudio Procaccia che raccoglie i contributi di storici, stati-stici ed esperti del mondo ebraico, ed in allegato un CD che riproduce la rico-struzione virtuale dell'edi-ficio delle Cinque Scole. E' un insieme di saggi di forte valenza scientifica, con dati provenienti dall'archivio comunitario e da una storiografia che negli ultimi decenni ha arricchito la ricerca sul periodo. Grazie alla siner-gia di collaboratori di diversa provenienza cultu-rale, la pubblicazione rie-sce a dare al lettore una fotografia completa degli anni trascorsi passando in rassegna dai differenti punti di osservazione l'enorme documentazione esistente: così si passa dalla demografia ai censimenti, dal diritto alla sociologia, dall'architettura alla cultura, dall'arte al culto; storie di un vissuto nello spazio ristretto del vecchio Portico d'Ottavia, rielaborate dagli esperti nel loro passaggio secolare. Non vengono tralasciate pagine dedicate a singole famiglie o personaggi che si evidenzia-vano nel panorama ebraico romano. Va riconosciuto agli autori che nei loro interventi fanno rivivere in modo trasversale il lungo periodo dinamico e vivace, vissuto tra i moti risorgimentali, con l'illusione prima svanita di uscire dal perimetro imposto dalla Chiesa, fino ad arrivare al passaggio cruciale che segna la fine dell'esperienza del ghetto e l'inizio dell'integrazione nel tessuto sociale cittadino e nazionale. Un mosaico che delinea nell'aspetto culturale economico una condi-zione sociale che presentava agli inizi dell'Ottocento metà popo-lazione ebraica in completa indigenza, gradualmente. Con la libertà acquisita, la seconda metà del secolo sarà caratterizzata da un forte elemento di mobilità sociale, che permetterà di arri-vare agli inizi del Novecento, sebbene permanessero ancora lar-ghe fasce di estrema povertà, integrati alla vita capitolina e nazionale. E con una presenza crescente, tenendo sempre conto dell’esiguità numerica, sia nel mondo politico e sia in quello uni-versitario e con un attiva partecipazione, già nel 1911, nel com-mercio capitolino. Ne esce fuori una nuova identità che, grazie all'emancipazione vissuta fuori dal ghetto, si confronterà con nuove sfide e conoscerà il fenomeno dell'assimilazione, scono-sciuto fino a quel momento.

JONATAN DELLA ROCCA

L'ebraismo torinese che non c'è più

Economia e vicende familiari in ‘La via di fuga’ di Federico Fubini

L'editorialista economico de La Repubblica, Federico Fubini, è andato alle stampe con l'ultima opera "La via di fuga" edito da Mondadori. E' un libro che descrive come diverse realtà hanno affrontato le crisi economi-

che con esiti non sempre positivi. E' un'opera di particolare inte-resse perché riesce a coniugare storia ed economia, con il rac-conto nei periodi salienti della famiglia paterna dell'autore, uno spaccato della vita piemontese ebraica del secolo scorso. Questa descrizione è intrecciata con quella della Grecia di oggi (di cui il giornalista descrive le reazioni alla crisi economica), e con quella del mercato dei voti comprati in Calabria, regione in cui affonda-no le sue radici materne. Già dalla lettura delle pagine iniziali è interessante apprendere come il divieto vigente a fine Settecento di accedere all'istruzio-ne superiore e alle professioni avesse causato tra gli israeliti la diffusione del mestiere di negoziante, rigattiere e banchiere nella stessa persona; perché in quanto prestatori in garanzia non potendo accettare terreni, per il divieto di detenerli, come pegno si facevano consegnare oggetti e abiti usati. Ma tutto ciò muta a metà dell'Ottocento: grazie allo Statuto Albertino gli

ebrei possono accedere all'Università. E la reazione dà dei frutti al di là di ogni previsione. Perché con il passare degli anni la parte-cipazione è talmente in cre-scendo che il risultato è sor-prendente: a inizio Nove-cento "i docenti ebrei a Tori-no sono il 16 per cento del totale dei professori alla facoltà di Giurisprudenza, e il 30 per cento a quella di Medicina". Una frequenza al di sopra della popolazione cittadina che porrà le basi di soddisfazioni nella ricerca accademica e scientifica. Tra questi studenti brillanti spicca Renzo Fubini, prozio

dell'autore, che ci accompagna nelle diverse esperienze fino all'ultima pagina del libro. Ricercatore promettente e alunno del futuro presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, dopo aver maturato esperienze negli Stati Uniti e in Inghilterra, torna in Italia dopo il crollo del '29: qui ricoprirà la docenza all'Ateneo di Trieste, prima di esiliare a Parigi con l'emanazione delle leggi razziali, e di essere poi catturato e deportato nel campo di ster-minio di Auschwitz dove troverà la morte nel 1944. E' un libro vibrante, senza pause che incarna il dinamismo pro-fessionale di Fubini. La cronaca diviene storia, raccontata con la penna fluida del giornalista navigato. La storia del prozio è il punto di partenza per capire l'inadeguatezza del sistema di fron-te alla debacle finanziaria avvenuta nel 1929. Su questa scia le pagine scorrono con osservazioni acute sulle mancate risposte alla drammatica crisi economica, con raffronti su ciò che succes-se allora ed oggi. Sullo sfondo delle depressioni descritte riesce a ricostruire dinamiche che si ripetono a distanza di secoli, sen-sibilizzando il lettore sull'incapacità del mondo politico di tirarci fuori dal declino.

J. D. R.

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EDITORIA PER RAGAZZI

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Non si tratta di un gioco di parole ma, mai come in que-sto momento, è importante dire che la paura non deve spaventare: non sarà la prima né l’ultima volta che ca-piterà di avere paura ma l’importante è non farsi para-

lizzare, la paura ha fatto parte della vicenda umana fin dai suoi albori e la risposta agli interrogativi che suscita sono – e devono – essere oggetto di riflessione. Soprattutto in una rubrica dedica-ta a giovani e bambini. Per questo dopo ‘i fatti francesi’ di cui si parla nelle altre pagine del giornale abbiamo chiesto il parere di alcuni studiosi: un neuropsichiatra infantile e un sociologo. Cosa è la paura, e - se possibile - come gestirla.Saul Meghnagi, sociologo“La riflessione sulla paura può partire da riferimenti storici precisi, in un li-bro di qualche tempo fa Jean Delume-au, professore di storia delle mentali-tà religiose in Francia, - il libro è “La Paura in Occidente secoli XIX e XVIII, la città assediata, edito da SEI ndr - spiega come nelle varie epoche non siano mai mancati elementi di paura. Nel Medio Evo per esempio era molto forte la paura del buio. A noi oggi fa sorridere ma se proviamo ad immagi-nare il buio di una città medioevale di notte forse riusciamo a capirla meglio. Sono state paure spesso misteriose, vi era la paura della peste, che era una paura reale, o la paura delle donne come emblema della diversità, da cui sono nati poi i roghi delle streghe. In alcuni casi la paura era legata a dati veri e possibili di pericolo - per esempio la peste - ma nel caso delle donne la paura si costruiva nei confronti del potere del ‘di-verso’. Oggi la situazione è ovviamente cambiata e il diverso può essere il musulmano o lo straniero ma non si può attribuire a tutti quelli che sono portatori di una cultura l’essere portatori di pericolo. Nel caso degli attentati o delle minacce verso gli ebrei in relazione a dei musulmani il pericolo c’è ma non è ascrivibile a tutta la comunità musulmana. Quindi la percezione di paura si rivolge ad un evento possibile ma non certo.Per ragionarci sopra è utile recuperare alcune categorie di analisi usate rispetto al lavoro: si parlava fino a qualche anno fa della possibilità di rimanere disoccupati e si insisteva molto sulla si-tuazione di rischio. Proprio rispetto alla povertà incombente si è introdotta la parola vulnerabilità: essa non guarda il rischio presente ma la paura che ci possa essere un pericolo. In questo senso credo che oggi, in una situazione di rischio che riguarda tutta la popolazione, gli ebrei siano un po’ più vulnerabili. E direi che questo è in linea, per quanto riguarda specificatamente i gio-vani, da quanto emerso nella ricerca “Cittadini del mondo, un po’ preoccupati. Una ricerca sui giovani ebrei italiani” - edita dalla

Giuntina nel 2011. I ragazzi sono più internazionali e più mobili ma abbiamo rilevato che la preoccupazione è aumentata. Credo che quanto si sta verificando in Europa produrrà degli aspetti di mobilità ulteriore, forse verso Israele o verso gli Stati Uniti, non solo dalla Francia ma anche da altri paesi europei. E sembra sia proprio la percezione di essere più vulnerabili che motiva la necessità di muoversi verso luoghi con altre comunità ebraiche non tanto però per la ricerca di sicurezza fisica quanto come luo-go di accoglienza. In questo la paura ha un suo ruolo anche se la ricerca rileva una contraddizione evidente: da un lato vi è la grandissima disponibilità dei giovani ebrei verso gli immigrati,

la memoria dell’essere stati stranie-ri ‘in terra d’Egitto’ è molto forte, ma rispetto alla specificità dell’im-migrazione islamica c’è una grande preoccupazione, e credo che questa crescerà. E’ importante anche tenere presente che molte famiglie di ebrei europei provengono da paesi arabi e conservano di questa fuga un ricordo effettivo. Anche quando la memoria famigliare riguarda cose belle si trat-ta comunque di un passato presen-tissimo.Credo però che eventi di riflessione pubblica e collettiva siano importan-ti, iniziative di dialogo interculturale nelle scuole per esempio credo che aiuterebbero molto anche in ragazzi ebrei presenti in quelle scuole. Stare insieme tra ‘diversi’ è difficile, esisto-no delle ragioni effettive di difficoltà

che non si possono ignorare.Per quel che riguarda però lo specifico ebraico, non solo giovani-le, credo ci sia la necessità di chiarezza assoluta circa il diritto di cittadinanza, conquistato con difficoltà dagli ebrei nei loro paesi, e Israele: ciò che gli ebrei devono chiedere è la loro sicurezza e la loro tutela nel paese di cui sono cittadini. Israele è un luogo di riferimento ma la priorità è difendere il loro diritto nei paesi dove vivono e di cui sono cittadini. Se poi gli ebrei vorranno andare in Israele ciò deve essere, auspicabilmente, il risultato di una scelta e non di una fuga.Gavriel Levi, neuropsichiatra infantileIn una civiltà sempre più globale anche i singoli traumi hanno una ripercussione, un’onda globale. E i mezzi di comunicazione di massa, per l’appunto globali, trasmettono alle notizie un im-patto forte ed immediato. Eppure, nel valutare l’urto dell’evento traumatico sul singolo, è necessario sapere come e in che modo agisce, rispetto al fatto traumatizzante, l’aggancio personale. Ad esempio: un terremoto in California non è diverso dal terremo-to all’Aquila eppure, nel secondo caso, è probabile che per un bambino italiano la prossimità geografica agisca come aggancio

I bambini e la pauraSaper gestire i piccoli o grandi traumi creati da un’informazione che tende

a drammatizzare e a spaventare. L’importante è reagire, lo spiegano gli esperti

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personale. Oppure, al contrario, che ci sia in California una persona che conosciamo e a cui vogliamo bene. La notizia quindi non è mai neutrale poiché ad essa si som-mano i riferimenti personali dei singoli. Ma, terremoto a parte, nel caso dei bambini agiscono anche altri ele-menti: in particolare se sono proprio i bambini ad esse-re protagonisti, se, per esempio, si parla di bimbi uccisi. Vi sono infatti notizie che consentono identificazioni ancora più forti: viviamo in una fase in cui i bambini sono spesso oggetto delle cronache, si parla di bam-bini rubati, di pedofilia. Nella confusione gli elementi si sommano ed impediscono, per chi è esposto alla no-tizia, di focalizzare il nucleo traumatico, inoltre in un flusso continuo di notizie c’è un effetto anestetizzante.Nel caso dei bambini l’effetto dell’esposizione ad un trauma dipende anche dalla propria storia individuale, dall’esperienza che si è vissuta di dolore, paura, ansia, pregiudizi e dall’impatto con il senso di giustizia che

ciascun bambino sviluppa fin dai suoi primissimi anni di vita. ‘Perché dai a lui due caramelle e a me ne dai solo una?’ È una frase familiare a ciascun genitore o educatore su cui si può costruire molto. Ed è in funzione di questo vissuto personale che è fondamentale tenere presente che qualunque trauma viene vissuto tanto in relazione alla propria storia individuale quanto a quella famigliare entro cui viene letta. In generale rispetto ai traumi – che ci sono sempre e non si possono misura-re (per molti anche il cambio di casa può essere come una morte traumatica e dolorosa del proprio ambiente) - è fondamentale che non si creino atteggiamenti che vengono chiamati ‘nevrosi di indennizzo’: interiorizzare che si ha sempre diritto ad essere risarcito. Così, per gli ebrei, una cosa è pensare che vi sia stata nella storia una frequente componente antisemita, un’altra è inter-pretare la realtà soltanto attraverso lo specchio dell’e-terno antisemitismo.Quanto al ruolo dell’educazione io credo che niente por-terà a superare un trauma passato se non occuparti e accudire te stesso e gli altri. Non si tratta di un generico buonismo moralistico, si tratta di educare a fare e non a comparire poiché è nella dimensione del fare, senza scivolare nel ‘fare per raccontare’, che qualunque cosa si può affrontare. Magari con fatica e dolore ma diviene affrontabile. In questo il contributo ebraico è fondamen-tale: i modi di leggere la Torah sono tanti ma è impor-tante sottolineare che non c’è scritto da nessuna parte che siamo i migliori, anzi. Di ciascuno dei personaggi della Torah sono riportati i limiti e le ambivalenze. La differenza è in questo, c’è scritto che ognuno di noi fa delle cose sbagliate e che solo da questo si può partire. Ed è con questa consapevolezza che l’educazione a fare il bene per sé e per gli altri diviene centrale. Anche per elaborare un trauma.

A CURA DI LIA TAGLIACOZZO

Due vendetteMeir ShalevBompiani, p. 403 € 19 “E’ così. La storia degli ebrei in Terra d’Israele e del Sionismo, non è fatta di comitati e dispute ideologiche…Si tratta prima di tutto di amori e odi e nascite e morti e vendette, e famiglie…”. E la famiglia Taburi non ha fatto eccezione. La sua storia in Terra Promessa inizia con un carretto carico di passato, giunto dai Monti della Galilea, pieno di speranze alla ricerca di un suolo in cui mettere radici. A distanza di settantanni dal tragico evento che segnerà per sempre la vita di Zeev, Rut e della loro discendenza, la nipote Ruta ne ripercorre le vicende umane, i sentimenti d’amore ma anche di odio e di gelo-sia. Ma soprattutto riemergerà dalla memoria familiare una sanguinosa catena di eventi, “vendette” appunto, iniziati una piovosa e buia notte del 1930, rimasti a scan-dire la storia dei Taburi. Un racconto aspro quello di Meir Shalev, narrato attraverso un continuo salto tempo-rale tra passato e presente, ironia e amarezze, rassegna-zione e spirito indomito. Potente fino all’ultima riga.

CharlotteDavid FoenkinosMondadori, p.204 € 16Il romanzo è ispirato alla vita drammatica di Charlotte Salomon, pittrice scomparsa ad Auschwitz nel 1943 a soli 26 anni, incinta. Foenkinos narra non solo la triste infanzia di Charlotte a Berlino, colpita da tragedie e lutti familiari ma anche gli incontri con i grandi artisti dell’e-poca. La grande passione per la pittura permette alla ragazza di essere ammessa, unica studentessa ebrea, all’Accademia delle Belle Arti. L’amore per Alfred, che riconosce le sue notevoli capacità artistiche e la incorag-gia a coltivare il suo interesse verso la pittura. Poi, con l’avvento del nazismo, la pittrice è costretta a rifugiarsi in Francia: qui, sentendosi in pericolo, consegna la car-tella con tutti i disegni, “la sua vita”, al suo medico. L’autore racconta la storia di Charlotte in versi liberi: una frase per riga, in un ritmo nervoso e incalzante, da leggere tutto d’un fiato. Travolgente.

La strada per ItacaBen PastorSellerio editore Palermo, p 512 € 15“Se Martin Bora avesse saputo che entro mille giorni avrebbe perso tutto ciò che aveva (ed era), quella dome-nica non si sarebbe comportato in modo apprezzabil-mente diverso.” E così il lettore sa già per mano di chi si farà guidare in questo thriller d’atmosfera, tra spie e criminali, sullo sfondo di un’Europa incendiata dall’ide-ologia nazista. Quinto romanzo dedicato all’inquieto Martin Bora, in questo capitolo della serie l’investigato-re della Wehrmacht si trova a Mosca, nella fase di alle-anza Hitler-Stalin. Proprio a seguito di un ordine russo il capitano viene mandato in missione a Creta, inizialmen-te per motivi del tutto futili, salvo poi ritrovarsi davanti ad un vero e proprio massacro di civili a cui trovare soluzione. Nessuna ipotesi può essere trascurata: spio-naggio, vendetta tra papaveri di regime, movente pas-sionale. Ancora una volta il detective-ufficiale creato da Ben Pastor non tradisce le aspettative e senza mai abbandonare l’intima repulsione verso l’ideologia nazi-sta, onorerà l’imprescindibile impegno umano di giun-gere alla verità, qualunque essa si riveli. Un noir storico da non perdere.

A cura di JACQUELINE SERMONETA

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ROMA EBRAICA

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Nell’anno 2015 la CER dovrà pagare costi ordinari per circa 11,6 milioni di euro, cui vanno sommati € 200mila stimati per il rimborso della quota capitale del mutuo ipotecario originario pari a €3,5 milioni, (debito residuo attuale circa

2,4 milioni), ovvero costi di natura finanziaria; significa dover preventi-vare entrate, ovvero trovare risorse, di pari importo.Le entrate a bilancio sono state divise secondo questo elenco: Proven-ti istituzionali; Ricavi immobiliari; Proventi mobiliari; Proventi culto; Proventi attività sociali; Proventi attività culturali; Proventi scuola; Proventi editoria-libreria-biblioteca; Proventi museo; Proventi cashe-rut; Proventi vari, cui si contrappone l’esposizione dei costi direttamen-te riconducibili a ciascun settore, visto come Cdc/Cdr (centro di costo/ricavo), e di cui, nel prospetto di bilancio, si riporta l’avanzo/disavanzo atteso.“Rispetto allo scorso anno – ha spiegato l’Assessore Spizzichino - abbiamo attese di minori entrate per almeno € 400mila (fondamental-mente per minori incassi di rette scolastiche e di contributi da iscritti) ed è quindi necessario predisporre un mix di maggiori risorse da incassare/minori oneri da sostenere per ritrovare il pareggio”.Osserva Spizzichino: “Il bilancio CER è strutturalmente in deficit, scon-ta una difficoltà a ridurre i costi, giacché circa il 70% del totale delle uscite è rappresentato da voci stipendiali. Esso si fonda, tra l'altro, su alcune voci di entrata 'precarie', cioè non stabili (alcune cicliche, ovvero legate alla congiuntura) e su costi certi e difficilmente riducibili (oltre al costo del lavoro, le imposte e tasse)".Per giungere ad un equilibrio finanziario la Comunità ha quindi due opzioni, non necessariamente alternative: “tagli lineari e/o ristruttura-zione dei dipartimenti, cioè razionalizzazione/miglioramento della quantità/qualità dei servizi erogati". Per poter raggiungere tali risultati, occorre che l'attività dell'Ente sia trasparente e coerente con le decisio-ni intraprese.“Un obiettivo nei prossimi bilanci - ha spiegato Spizzichino - dovrà essere quello di predisporre, oltre ai prospetti previsti dalla normativa privatistica, una relazione di missione ove indicare, per fini informativi e comunicativi, i livelli di efficacia ed efficienza raggiunti e raggiungi-

bili Se in questi anni avessimo proceduto così, sicuramente risaltereb-bero molte cose fatte, e spesso con poche risorse, o almeno si compren-derebbe meglio come ogni assessorato ha gestito le risorse a propria disposizione, e quali e quante attività ha svolto".Il patrimonio immobiliare. Nel corso degli anni, la CER ha provveduto, compatibilmente con le proprie risorse, a mantenere funzionale il proprio patrimonio immo-biliare, sia quello messo “a reddito” che utilizzato direttamente. “Si prevede di spendere per manutenzioni quanto circa nell’anno prece-dente e gli stanziamenti preventivati sono sufficienti a mantenere in stato decente il patrimonio immobiliare”. Le entrate relative alle locazioni immobiliari sono sostanzialmente in linea con quelle pre-ventivate.La gestione delle scuole. Il numero di iscrizioni attese è in diminuzione e conseguentemente sono state previste minori entrate, rispetto allo scorso anno, per circa €300 mila. Attualmente (anno in corso) gli alunni iscritti sono 809; sembra plausibile una riduzione del numero che nel prossimo anno 2015/16 potrebbe essere pari a 776 (con un potenziale ulteriore diminu-zione del 10%). Nel biennio 2009/2010 si era registrata una media di circa 1000 iscritti. Il trend al ribasso è dovuto principalmente al calo anagrafico ed alle recenti e rilevanti alyiot ma, forse, anche alla difficol-tà di alcuni nuclei familiari a pagare le rette.Da un punto di vista economico, con un deficit complessivo di circa €2 M/anno (e nonostante i notevoli correttivi previsti in questo bilancio - già da anni si è intrapreso un serio ed incisivo processo di revisione dei costi), le scuole rappresentano il maggior onere che la CER deve sop-portare. Tuttavia, rappresentando la principale garanzia che la Comu-nità continui a rimanere viva negli anni a venire, tali uscite vanno considerate piuttosto un investimento.L'importo medio delle rette scolastiche è stato aggiornato solo una tantum, anche per allinearlo alla dinamica dei costi del personale. Nel loro complesso, e al netto delle borse di studio (il budget delle borse di studio si attesta a circa 120mila €, e potrebbe aumentare solo se fosse previsto il contributo per borse di studio dall’Ucei che lo scorso anno è

Bilancio preventivo 2015La relazione dell’Assessore Tony Spizzichino

Come qualsiasi altro bilancio pre-ventivo, anche quello della CER non contiene dati storici, ma sti-me future di possibili ricavi e di

relativi impegni di spesa, rispetto ai quali il Collegio Sindacale non può esprimere giu-dizi sul raggiungimento dei risultati illu-strati. Ciò che il Collegio Sindacale è chia-mato a verificare è la sostenibilità delle previsioni elaborate dal preventivo; che esse non siano irragionevoli; siano presen-tate correttamente e siano coerenti con l’informativa finanziaria storica; e che il Bilancio Preventivo sia stato redatto con-formemente alle norme dello Statuto ed ai principi generali contenuti nelle “Linee Guida per la gestione dei bilanci delle Co-munità Ebraiche Italiane”. In sostanza il Collegio Sindacale deve in sostanza verifi-care la sussistenza di un principio di ‘pru-denza’, trattando si appunto di un bilancio preventivo. Sulla base di tali indicazioni il Collegio Sindacale (composto da Piero Mi-lano, Piero Alberto Busnach e Stefano An-

ticoli) ha espresso alcune osservazioni. “La quantificazione della previsione del contri-buto otto per mille, pari a € 1.116.854, risul-ta di importo maggiore rispetto a quanto riportato nel bilancio di previsione 2015 dell’Ente erogatore Ucei (€ 1.023.658). In relazione a questa voce, pertanto, eviden-ziamo che per € 93.196 non c’è legittima-zione giuridica e, conseguentemente, è assente il presupposto della relativa previ-sione economica”.Il Bilancio Preventivo “non fornisce indica-zioni utili a dimostrare anche l’equilibrio finanziario nella gestione dell’Ente”; “… il bilancio non lascia intravedere l’esistenza di un piano d’intervento per un possibile rientro dell’esposizione finanziaria”.Non è indicata “una strategia per recupe-rare il disavanzo degli esercizi precedenti che al 31/12/2013 ammontava ad € 2.941.157, né tantomeno un ripensamen-to nell’organizzazione, vastità ed onerosi-tà dei servizi offerti che possa far prefi-gurare nel prossimo futuro un ripiana-

mento dell’attuale deficit finanziario ed economico”.Il Collegio considera “assolutamente im-procrastinabile un attento riesame dei cen-tri di costo dell’Ente anche in considerazio-ne del modestissimo accantonamento, in questo Preventivo, per spese di manuten-zione e altro”, tanto più – osservano i revi-sori – “un possibile mancato rispetto del Preventivo, per fatti imprevisti e impreve-dibili, ha generato in passato perdite eco-nomiche e finanziarie”. Il Collegio Sindacale osserva, inoltre, di non aver avuto “la previsione relativa al contributo obbligatorio degli iscritti con la c.d. matricola dell’anno 2015, in quanto quest’ultima non risulta ancora predispo-sta ed approvata”; e segnala che nella sti-ma dei costi manca la voce “stanziamenti per fondo di riserva e stanziamenti per eventuali spese straordinarie e legali.Il Collegio ha evidenziato infine che il Bi-lancio Preventivo 2015 è stato approvato oltre il termine statutario del 31 ottobre 2014 e che non sono disponibili i dati di raffronto con un preconsuntivo al 31 dicem-bre 2014.

La Relazione del Collegio Sindacale

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stato pari a 100mila € per tutte le scuole italiane),le rette coprono anco-ra, ed appena, un terzo dei costi.Per il prossimo anno, non è stato previsto alcun incremento delle rette.E’ attesa un’importante sovvenzione dalla Fondazione Lauder per 100mila€ che potrebbe anche divenire continuativa e che, nel caso erogata, farà aumentare il budget delle borse di studio di pari importo.Tributi/contributo volontario.La pesante situazione economica del paese incide anche sugli iscritti CER. Non è sostenibile un incremento, seppur minimo, dell'importo della c.d. "matricola", nonostante che l’accertato medio per iscritto oggi è ai livelli di molti anni fa e la contribuzione media, per nucleo familia-re, è molto bassa. “Più in generale - sottolinea Spizzichino - va deciso se ‘spostare’ la contribuzione degli iscritti sui prezzi dei servizi piutto-sto che lasciarla su un qualcosa che somiglia ad una imposta”.Gettito dell’otto x milleL’andamento delle entrate in Cer, da quando si beneficia di questo gettito, ha avuto un picco di oltre 1,2 M€ per poi scendere a 0,8 M€. L’entrata in questione sembra ora assestarsi sul milione/€ da almeno 2 anni.Culto e casherutI costi dell’Ufficio Rabbinico e dei servizi rituali sono in diminuzione (40mila€ circa, per voci stipendiali) rispetto al preventivo dello scorso anno (si prevede, comunque, un disavanzo complessivo di circa 750mila€). La contribuzione ai Batei Hakeneseth (140mila€ circa), che si reggono soprattutto con risorse proprie, è stata mantenuta, sebbene rimangano disparità di trattamento tra i vari templi. Quanto alla cashe-rut, si rileva il costante aumento della domanda di prodotti casher, che ha comportato un rilevante potenziamento delle risorse impiegate in questo settore. ShalomLo scorso anno il Consiglio della Cer aveva deliberato un aumento, su base volontaria, della tassazione di appena 5 euro all’anno, per riceve-re Shalom a casa. Tale minimo aggravio avrebbe consentito di incassa-re almeno 30.000 euro, e avrebbe consentito di risparmiare le copie per

coloro che avrebbero voluto il giornale solo sul web. A Shalom è stato chiesto un ulteriore piano di riduzione dei costi, riducendo il disavanzo pari a circa 115.000 euro.Museo e LibreriaIl Museo oltre a rappresentare un ottimo “biglietto da visita” della Cer è ormai da qualche anno anche un interessante centro di profitto. Anche quest’anno per il Museo sono attese entrate per circa 815mila€, a fronte di spese dirette di circa 652mila€.La libreria, che accoglie ad oggi nei suoi locali anche il centro di cultu-ra, e per cui stimiamo circa 230mila€ di uscite, le entrate preventivate, considerando una lieve diminuzione degli incassi consuntivati nel corso del 2014, sono state ribassate dell’8% rispetto al preventivo 2014 e vengono indicate in 165mila€.Nel 2015 è stato previsto lo spostamento del centro di cultura ed è stata data disdetta dell’attuale contratto di locazione della libreria; tuttavia, a bilancio, sono state stanziate le risorse necessarie alla ordinaria gestione della libreria in altra sede.Giovani e sportNon sono state previste riduzioni di contribuzione ai centri giovanili mentre si è ridotto lo stanziamento a favore del MACCABI.Situazione finanziariaLa Cer ha un affidamento bancario di 3,5 milioni di euro, cui si applica un tasso decisamente più basso di quello di mercato.“Se considerassimo i flussi solo per competenza – ha spiegato Spizzi-chino - la gestione Cer causerebbe, cumulativamente nell’anno, deficit per almeno 4-4,5M€. Tale divario entrate/uscite si è andato ampliando negli ultimi anni in quanto la quasi totalità delle uscite ha un andamen-to lineare e regolare, ma lo stesso non può dirsi delle entrate. Per for-tuna l’andamento dei “cd residui", ovvero l'incasso ed il pagamento dei crediti/debiti pregressi, è inverso e, in tal modo, si riesce parzialmente a compensare il gap finanziario causato nell'anno di riferimento". “Alcu-ne entrate, poi, non vengono riscosse puntualmente, lasciando che molti crediti si accumulino… l’equilibrio finanziario si regge su una linea molto labile e su andamenti di entrate non regolari nei vari mesi.”ConclusioniAppare evidente come poter predisporre bilanci in equilibrio economi-co-finanziario diventi sempre più complesso.In una situazione di crisi straordinaria, lunga e profonda, quale quel-la di questi ultimi 7 anni, dovremmo rivedere ed approfondire, al livello comunitario nazionale, qual è il compromesso tra puntuale rispetto delle norme e del sistema di controlli, e la possibilità di disattenderli, temporaneamente, giustificandolo se a beneficio della vitalità delle comunità.Ove vi fossero determinate garanzie patrimoniali e fosse verificabile l'esistenza di un trend positivo degli indicatori di "buona salute" delle Comunità (che sarebbe bene capire quali sono, oltre quelli normalmen-te utilizzati ed indicati dalla buona tecnica e dottrina aziendalistica), andrebbe data la possibilità di derogare a certi impegni, se questo significa investire nel nostro futuro.In conclusione l’Assessore Spizzichino lancia un avvertimento: “Non ci si può illudere che la Comunità di Roma possa mantenere lo stesso livello/quantità di servizi (e quindi debba spesare così tanti costi), e un certo standard qualitativo, sicuramente migliorabile, senza considerare seriamente quanto stia cambiando la struttura e la consistenza delle proprie entrate; conseguentemente, non si può più rimandare una seria revisione della propria organizzazione tutta".

Tanto a mi ‘un me toccaIl divertimento in giudaico-romanesco

con il pubblico protagonista il prossimo 3 marzo

Il giudaico-romanesco in un talk show, con spettacolo teatrale e dibattito con il pubblico, sul tema della comunicazione.Il primo evento al Teatro Italia (via Bari, 18) il 3 marzo alle 21.00Per prontazione ed acquisto biglietti (proventi devoluti alla Depu-tazione): 06.68400636 - 06.5803657 - 06.6877594 - 06.5584325 - 338.1910525 - 389.6954012

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La battaglia contro l’autismo sbarca negli asili nido e nelle scuole materne italiane. A partire dal mese di gennaio negli istituti delle Comunità Ebraiche di Roma, Milano, Torino, Firenze e Trieste prenderà infatti il via il progetto

di prevenzione primaria “La salute psi-comotoria”, che prevede l’individuazio-ne di eventuali ritardi nello sviluppo del bambino, che possono rappresentare un campanello d’allarme anche per l’auti-smo, attraverso l’osservazione dei pic-coli in età pre-scolare mentre sono in un ambiente ludico.L’iniziativa sarà realizzata in collabora-zione con AME (Associazione Medica Ebraica - Italia) e Sochnut Italia - Agen-zia Ebraica per Israele. Il progetto, volu-to e finanziato dall’UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) tramite i fondi dell’8 per mille, prevede un impegno biennale per il 2015 e 2016, ed è frutto della collaborazione pluriennale con l’Ospedale Hadassah di Gerusalemme, l’Università Ebraica di Gerusalemme

e il Centro di diagnosi e riabilitazione pediatrica dell’Ospedale di Beer Sheva (Israele).Suddiviso in tre fasi, quella di formazione degli educatori scolasti-ci, quella di osservazione dei bambini e quella dei laboratori ludi-

co-motori, il progetto utilizza una serie di strumenti di misurazione dello svilup-po psicomotorio elaborati ad hoc da terapiste e psicologhe della clinica comasca ‘Villa Santa Maria’.“L’aumento impressionante dei disturbi dello sviluppo ha notevolmente innalza-to il livello di allarme nei genitori – spie-ga Enzo Grossi, Direttore scientifico di Villa Santa Maria -. Questo programma consente di fare uno screening sistema-tico in ambiente scolastico, cogliendo piccoli segnali di allarme che preludono a patologie dello sviluppo infantile nella

condotta globale, nella gestualità, nei caratteri della motricità, nella comunicazione nel gioco, nelle difficoltà e, soprattutto, nell’efficacia delle risposte a determinati stimoli”.

Insegnare l’uso responsabile di Internet

È importante conoscere i pericoli che i giovani possono incontrare sulla

Rete e nei Social Network. Lo ha spiegato ai genitori degli

alunni della scuola media ebraica il Commissario di Polizia Roberto Giuli

Lo scorso 19 gennaio presso la Scuola Media ebraica “Angelo Sa-cerdoti” si è tenuto un incontro – rivolto soprattutto ai genitori degli

alunni – con il sostituto Commissario della polizia postale Roberto Giuli, incentrato sui pericoli della Rete e sull’uso corretto di internet da parte dei ragazzi. L’evento è stato organizzato dal responsabile della si-curezza Gianni Zarfati, dall’assessore alle Politiche Educative Ruth Dureghello, dal preside rav Prof. Benedetto Carucci e dal vice preside Alfi Tesciuba. Vista l’impor-tanza dell’argomento trattato, sono stati chiamati a partecipare anche rappresen-tanti della Deputazione ebraica, del Centro ebraico il Pitigliani e degli Asili infantili. L’incontro si è aperto con la consegna di una targa al Commissario come ringrazia-mento per l’ottimo e costante operato della polizia per mano di Gianni Zarfati che ha sottolineato come fosse la prima volta che questo tipo di incontro fosse aperto anche ai genitori. Il preside Carucci ha poi evi-denziato l’importanza della sicurezza in-formatica e di come i genitori abbiano un ruolo fondamentale nel prevenire situazio-ni pericolose. “Una vigile e provvida paura è la madre della sicurezza” (cit. Edmund Burke): così il

Commissario ha esordito, spiegando come sia condizione indispensabile che gli adulti debbano conoscere delle semplici tecniche per un uso sicuro e responsabile da parte dei figli dei Social Networks e della Rete in generale, al fine di renderli meno vulnera-bili di fronte a circostanze pericolose. Giuli ha sottolineato come i genitori debba-no soprattutto aprire un canale comunica-tivo con i ragazzi, che sono dei “nativi in-formatici”, proprio per evitare di ritrovarsi di fronte a “minacce” come tentativi di ade-scamento, furti d’identità, cyberbullismo e quant’altro.Durante l’incontro il Commissario ha evi-denziato quale siano gli strumenti per preparare i genitori ad ogni situazione. Consigli e regole di condotta: i figli vanno “rallentati” in una società che si muove con estrema velocità, imponendogli delle rego-le non solo nella vita ma anche nell’utilizzo del computer: il rischio è che i ragazzi, che utilizzano la rete informatica, avvertano un senso di deresponsabilizzazione e di onni-potenza che è di per se stesso pericoloso. Ad arricchire l’incontro hanno contribuito le numerose domande dei genitori rivolte al Commissario, che ha fornito risposte molto esaustive e chiare, tanto che unanime è sta-ta la richiesta di poter ripetere incontri di questo tipo.

JACQUELINE SERMONETA

Consigli per una navigazione sicura su internet e per un uso responsabile del computer o dello smartphone

• Non dare informazioni personali o dati finanziari.

• Non rispondere a messaggi imbaraz-zanti.

• Non condividere la password con altre persone, anche amici (cambiarla spes-so, utilizzando caratteri alfanumerici per renderla più sicura).

• Non compilare moduli di iscrizione o profili personali.

• Non partecipare a concorsi online.• Non accettare amicizie o incontrare

persone conosciute in chat.• Non scaricare programmi senza il per-

messo dei genitori, in quanto, senza volerlo, potrebbero scaricare virus informatici.

• Non mandare messaggi volgari on line.• Non aprire i messaggi indesiderati

(spam).• Non effettuare acquisti online senza la

supervisione dei genitori.• Non salvare i dati di login.• Non lasciare il PC/Smarthphone incu-

stodito.• Controllare che nessuno ti stia osser-

vando quando digiti la password.• Bloccare lo schermo.• Utilizzare un antivirus aggiornato.

Autismo, progetto pilota nelle scuole ebraiche italianeIntervenire in tempo per curare i disturbi dell’apprendimento

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La storia di Sami Modiano e sua mo-glie Selma Dulman è ben nota, ma non tutti sanno che il 10 Gennaio 1958, il giorno del loro matrimonio

erano soli e senza famiglia. Sami aveva per-so suo padre e sua sorella Lucia nel campo di sterminio di Auschwitz, mentre Selma aveva lasciato la casa di suo padre per rag-giungere Sami in Congo.Lo scorso anno dopo una visita alla loro casa di Ostia, Daniel e Josef Di Porto insie-me alla Dott.ssa Elvira Di Cave hanno deci-so di organizzare una cerimonia a sorpresa per Sami e Selma in occasione dei loro 57 anni di matrimonio.L’evento pubblicato su Facebook ha avuto subito un enorme successo: tutti volevano partecipare e dare il loro contributo per re-galare agli sposi una festa che non avreb-bero mai dimenticato; in particolare hanno collaborato: “Le Bon Ton” di Giovanni Ter-racina, la macelleria di Claudio Spizzichino e “Granelli di pane” che hanno offerto il ca-tering per la festa nel cortile della scuola; Graziella Terracina e Stella Calò che hanno pensato agli addobbi, ai fiori e al bouquet di

Selma; i fotografi Ariel Nacamulli e Stefano Meloni; ovviamente la CER e la direttrice della scuola Vittorio Polacco Milena Pavon-cello, che si è impegnata per rendere i bam-bini protagonisti di questa festa.Tra i sorrisi dei bambini, le lacrime dei presenti e l’emozione dei loro “fratelli” so-pravvissuti (erano presenti Lello Di Segni, Alberto Sed, Mario Mieli e Piero Terracina), Sami e Selma hanno avuto una meravigliosa cerimonia; la celebrazione del loro amore è stata la risposta ai recenti avvenimenti ter-roristici di Parigi: con la presenza dei bam-bini e un tempio gremito di gente abbiamo dimostrato ai nostri nemici la forza del po-polo d’Israele.“È un momento difficile per il popolo ebrai-co” - ha spiegato nel breve discorso rav Di Segni - “nella nostra Europa osserviamo una nuova forma, ma non imprevista, di odio antiebraico. La nostra presenza nume-rosa è una risposta alla storia di questa cop-pia, ma anche una risposta giusta di stare insieme di fronte alla violenza antisemita”.“È pericoloso - ha proseguito il rav - parlare dell’attentato di Parigi come di un 11 Set-

tembre, perché l’11 Settembre è stato un complotto sanguinoso organizzato per dan-neggiare gli USA. Quello che è successo in Francia è il seguito di questi avvenimenti, ma quando vanno a uccidere i bambini nel-le scuole ebraiche non viene considerato 11 Settembre. Perché per gli ebrei ammazzati nessuno esprime solidarietà? Questa ceri-monia - ha concluso rav Di Segni - è una te-stimonianza, una prova della nostra volontà di andare avanti e ciò che succede contro di noi non ci indebolisce ma anzi ci rafforza. La nostra risposta al male che ci fanno non è la disperazione, ma la forza di andare avanti”.“Ad Auschwitz ho perso tutta la mia fami-glia deportata da Rodi - le poche commosse parole che Modiano ha rivolto a tutti, in un ideale abbraccio - ma a Roma ho trovato una grande famiglia”.Il giorno della cerimonia all’interno del tem-pio è stato messo un bussolotto gigante in cui ciascuno ha potuto fare la propria of-ferta. Con il ricavato verrà creato tramite il KKL un progetto a nome di Sami e Selma a favore dei bambini in Israele.

GIORGIA CALÒ

La grande famiglia di Sami ModianoIn migliaia sono accorsi nel Tempio Maggiore per un festeggiamento a sorpresa

in onore di Sami, sopravvissuto ad Auschwitz, e della moglie Selma Dulman

Più chiamate a Sefer per tutti

L’esilarante proposta di Attilio Bondì per il prossimo Consiglio della Comunità: scegliere

i candidati in base ai soprannomi

Che ci sia fermento all’interno della Comunità in vista delle prossime elezioni, non è più un segreto or-mai. Man mano che ci si avvicina

al momento del voto i toni si alzano sempre di più ed emergono chiaramente simpatie, antipatie, contrasti e conflitti, come in ogni comunità che abbia la responsabilità di sce-gliere i propri rappresentanti. Non per questo non è concesso fare un po’ di ironia sulle elezioni, specialmente sulla scelta dei candidati, proprio come ha fatto Attilio Bondì con una “scherzosa” candi-datura postata su Facebook. Il post, accen-tuato dallo slogan “Più chiamate a Sefer per

tutti”, ha ottenuto quasi trecento likes sulla sua homepage e quasi seicento commenti, il tutto in soli dieci giorni. Un successo stra-ordinario, quindi, sottoline-ato soprattutto dalla grande partecipazione alla richiesta di indicare i possibili asses-sori sulla base di soprannomi veramente esistenti. E cosi sono saltati fuori ruoli azzec-catissimi come “mezzo milio-ne” assessore alle entrate, “Biastimella” assessore al culto, “Sputacchio” alle poli-tiche educative, “Pannolino” alla terza età, “Kissinger” assessore alle relazioni internazionali, “Bi-stecca” e “Simmenthal” in lotta per il posto di assessore alla Kasherut, “Scienza negra” alla cultura, “Topolino” alle attività ricreati-ve, “Bavelle” ai grandi eventi, “Staccabrac-cia” assessore alla difesa e tantissimi altri ancora. L’idea nasce proprio come uno scherzo, inu-tile dire che l’autore stesso non si sarebbe

mai aspettato tanto successo, ma soprattut-to che molti iscritti alla comunità gli consi-gliassero di candidarsi per davvero. «Avevo

già postato qualcosa di simi-le su Facebook a luglio, un progetto per un centro com-merciale tutto “gnevrimme”, con dentro un’agenzia per le scommesse chiamata “Bado Snai”, un negozio di ottica “Bonocchio Cevenga”, una Banca-Vonodde e anche una bottega per le taglie forti chia-mata “Ghibboro”», spiega Attilio. Non una novità per lui, quindi, creare uno spazio per

sdrammatizzare le realtà della nostra comu-nità attraverso il Social Network più famoso e più utilizzato del mondo. Niente più che un po’ di Ironia, in un Giudaico Romanesco modernizzato che, ricordandoci le nostre origini, riesce a regalarci qualche minuto di risate in un periodo così importante per la nostra comunità.

REBECCA MIELI

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Piccoli alunni, grandi lettoriSu iniziativa delle morot Deborah Levi ed

Elena Perugia, incontro tra la scrittrice Lia Levi e i bambini delle elementari

Lo scorso gennaio, nell’ambito dei programmi scolastici che vogliono educare i piccoli studenti delle ele-mentari a conoscere e ad apprezza-

re il mondo della lettura, le Morot Deborah Levi ed Elena Perugia hanno organizzato un incontro tra i loro alunni e la scrittrice - e storica direttrice di ‘Shalom’ - Lia Levi.Lia Levi si è specializzata nell'editoria per ragazzi ed in questa veste ha parlato del suo ultimi libro - edito nella collana Il Battel-lo a Vapore - “Io ci sarò”.E’ la storia di Riccardo e Lisetta, orfani, che vivono con gli zii in due città diverse. Ma Riccardo ha fatto una promessa alla sorelli-na: “Se un giorno avrai bisogno di me, io ci sarò”. E in quali pericoli maggiori ci si può imbattere nella vita se non quello di essere

dei bambini ebrei nel bel mezzo delle per-secuzioni razziali e della guerra? Riccardo, deciso ad andare da Ferrara a Roma per raggiungere la sorella, incontrerà mille agguati, vedrà di fronte a sé i malvagi, gli indifferenti e anche i buoni, finché non saranno i partigiani ad aiutarlo a mantene-re la sua promessa. Lisetta e gli zii verranno salvati all’ultimo minuto, con uno spettaco-lare colpo di mano, quando già stanno per essere deportati. E Riccardo sarà in prima fila tra i salvatori. Tante le domande dei piccoli lettori che si sono stretti attorno a Lia Levi, desiderosi di avere una copia del libro firmata dall’autore.

Visitando il Museo Ebraico di Roma si ha la possibilità di ammi-rare importanti testimonianze della storia della comunità ebrai-

ca romana e di venire a conoscenza di aspetti interessanti e meno noti che hanno caratterizzato la vita quotidiana degli ebrei romani nel corso di numerosi secoli. Fra queste testimonianze rientra certamen-te l’uso di stemmi. Questi sono visibili su numerosi oggetti, sono spesso estre-mamente differenti l’uno dall’altro e consentono di avere maggiori informazioni non solo sui preziosi oggetti esposti al Museo ma spesso anche sulle famiglie ebraiche che li hanno generosamente donati. Come si ricorda in Arte ebraica a Roma e nel Lazio, ‘si conoscono stemmi di ebrei romani fin dal XIII secolo: in un Machazor della Biblioteca Casanatense di Roma è miniato quello di David ben Ruben ha-Rofè (‘David figlio di Ruben il medico’: o forse Del Medigo)’. In passato si riteneva che l’uso di stemmi fosse stato importato dagli ebrei spagnoli che alla fine del Quattrocento giunsero numerosi a Roma dopo essere stati cacciati dalla Regina Isabella di Castiglia. In realtà si conoscono stemmi dell’ebraismo romano più antichi. Sembrano essere stati creati già

a partire dal Medioevo, in parte per emula-re la nobiltà romana e come simbolo di tentata emancipazione e in parte per distin-guere la proprietà privata o famigliare degli oggetti. Anche nel lungo periodo della reclusione nel ghetto nacquero nuovi stemmi. Questi erano legati soprattutto al cognome della famiglia ebraica. Non era raro che famiglie

con lo stesso cognome (pro-venienti probabilmente dalla stessa località) per differen-ziarsi da altre famiglie omo-nime, utilizzassero stemmi diversi. Alle figure araldiche usate dalle famiglie si aggiungono anche quelle forse più note delle diverse Scole. Gli stemmi sono presenti su numerosi oggetti esposti al Museo: Ketubot, Mappot, corone, rimmonim e molti altri.

Sul prezioso bacile in argento donato dai fratelli Shelomò, Mordekhai e Avraham Ashkenazi alla Scola Catalana si può notare al centro lo stemma della Scola Catalana con un leone in movimento rivolto verso destra davanti ad una Menorah. Sull’addobbamento Alatri donato alla Scola Nova compaiono sui rimmonim i leoni rampanti su una colonna, stemma della famiglia realizzato dall’argentiere Francesco Teoli.

La torre circondata da leoni rampanti, sim-bolo della Sinagoga Castigliana, compare invece su dei rimmonim donati nel primo ventennio del Settecento dalla famiglia Efrati, mentre si può identificare lo stemma dorato della famiglia Corcos (con due leoni controrampanti che sostengono un monte di tre cime da cui si dipartono delle spighe di grano) all’apice dei rimmonim donati dalla famiglia stessa Scola Castigliana.Lo stemma della famiglia Mieli è rappresen-tato da tre api che volano in direzione di un contenitore di miele come si può vedere da uno splendido makhazor donato dalla fami-glia nell’Ottocento.Molti degli stemmi rimandano dunque al cognome della famiglia: Di Cori (un cuore), Cammeo (con un cammello), Castelnuovo (una torre merlata), Del Monte (con un leone rampante su un monte con tre cime), Di Porto (un’imbarcazione con due vele rappresentata davanti ad un porto fortifica-to), Fiorentini (il braccio destro di una figu-ra che tiene in mano tre gigli), Pontecorvo (con un corvo rappresentato sopra un monte di tre cime appoggiato sopra un ponte sotto al quale scorre un fiume). Ricorrono spesso le stesse figure come ad esempio il leone che simboleggia la forza e la tribù di Giuda oltre che il Regno di Leon da cui venivano molti ebrei spagnoli (Arte ebraica a Roma e nel Lazio) le spighe di grano che simboleggiano la prosperità e le opere buone o l’albero che invece rimanda all’Albero della vita. Un visitatore curioso della storia delle fami-glie ebraiche romane potrà cercare questi simboli fra i numerosi oggetti esposti al Museo Ebraico: sono una preziosa testimo-nianza di una storia meno nota della nostra comunità.

SARAH TAGLIACOZZO

L’“Associazione Daniela Di CastroAmici del Museo Ebraico di Roma”è nata per aiutare il Museo Ebraico di Roma nella tutela, conservazione, promozione, diffusione e sviluppo della ricchezza del suo patrimonio.

PER INFORMAZIONI E PER ISCRIZIONI:www.associazionedanieladicastro.orginfo@associazionedanieladicastro.org

Tel. 334 8265285

ASSOCIAZIONED.A.N.I.E.L.AD I CASTROAMICI MUSEO EBRAICO DI ROMA

Gli ebrei romani e l’uso degli stemmi

Nel Museo Ebraico una ricca collezione

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Nello scenario dell'ebraismo ita-liano, che ha recentemente visto l'insediamento di tre nuovi capi rabbini in tre picco-

le comunità, si è aggiunta, il 12 gennaio presso il Tempio Maggiore, la cerimonia per il conseguimento della laurea rabbini-ca di Roberto Di Veroli, già avente il titolo di maskil, sofer e shochet. L’evento ha visto la partecipazione di tutti i rabbanim della Comunità, del presidente CER Ric-cardo Pacifici e dei bambini delle Scuole Ebraiche, oltre che quella dei parenti e delle persone care al nuovo Rav. Il Rabbino Capo Riccardo Di Segni è inter-venuto pronunciando un discorso su come lo studio della Toràh e l'adempimento alle mizvòt permetta ad ogni ebreo di innal-zarsi spiritualmente e ha colto l'occasione per augurare a Rav Di Veroli di poter tra-smettere alla Comunità ciò che lui ha imparato e continuerà ad imparare e che da ora in poi possa continuare il suo per-corso in salita iniziando da questo "primo gradino" rappresentato dalla sua Semichà. La cerimonia è proseguita con la Berachà

dello stesso Rabbino Capo a Rav Di Veroli, che ha poi dedicato il suo Dvar Torah alla memoria delle vittime ebree morte duran-te l’attentato all’Hyper chacher di Parigi per mano di terroristi islamici. Nel suo intervento, riprendendo il libro di Shemot, ha ripreso un commento del Rebbe di Lubavitch riguardo al compito svolto dagli ebrei ai tempi della schiavitù in

Egitto: la costruzione dei mattoni. Nel commento viene spiegato come, una volta reso libero dalla schiavitù egiziana, il popolo ebraico è automaticamente diven-tato "schiavo" di HaKadosh BarucHu e ha iniziato a "costruire i mattoni" per Lui. Se in Egitto gli ebrei erano obbligati a costru-ire i mattoni in maniera concreta, una volta resi liberi, hanno continuato a costruire mattoni: in generale, costruire mattoni significa partire da un materiale semplice come la paglia e migliorarlo con l'aggiunta di altri materiali. Oggi i mattoni che costruiamo rappresentano la società in cui viviamo: ognuno di noi all'inizio della propria vita è come paglia, ma stu-diando Torah e praticando mizvòt, quindi unendo delle cose che ci rendono migliori e che potenziano la nostra spiritualità, possiamo diventare noi i mattoni che con-tribuiscono al perfezionamento e alla cre-scita della società, ma non solo: possiamo aiutare a diventare mattoni anche i nostri fratelli aiutandoli nello studio e nella pra-tica della Torah. Dopo il discorso, Rav Roberto Di Veroli ha ringraziato i familiari e i membri del Col-legio Rabbinico per averlo sia accompa-gnato nel percorso che lo ha portato al raggiungimento di questo traguardo che per la fiducia a lui affidata aiutandolo così, da "semplice paglia" a diventare un "mattone".

YAEL DI CONSIGLIO

Rav Roberto Di Veroli, il nuovo 'mattone' della Comunità

Con una cerimonia al tempio Maggiore, ha ricevuto il riconoscimento di Chacham

Il mondo delle TefillotInsegnare ai bambini a pregare: una garanzia di sopravvivenza

per il popolo ebraico

Il 18 gennaio scorso, presso gli Asili Israelitici Rav Elio Toaff, ha avuto luo-go la presentazione del libro “Il mon-do delle Tefillot”, creato dai bambini

con le Morot, con l’intervento di Rav Ro-berto Della Rocca, Rav Roberto Colombo e Simona Nacamulli del Consiglio UCEI.A prendere la parola è stata la direttrice Ju-dith Di Porto: “il nostro più grande deside-rio e lavorare insieme, scuola e famiglia”. Ha spiegato che bisogna cominciare da su-bito ad insegnare ai bambini le cose basi-lari della cultura e della lingua ebraica poi-ché rappresentano un bagaglio possente. “La difficoltà – ha ammesso – sta nel farla diventare un’attività costante, nonostante sia molto astratta e i bambini, invece, sono molto concreti. Bisogna far entrare dentro di loro l’idea di D-o”. Questo libro è uno strumento dove ci sono i punti essenziali delle Tefillot con le spiegazioni. Molto emozionato Rav Della Rocca che ha ricordato che proprio all’interno di questo asilo ha iniziato a recitare le Tefillot. “Il siddur - ha spiegato - ci accompagna per tutta la vita e lo porteremo nella nostra memoria intima. La tefillà

ci insegna il senso di riconoscenza, proprio perché uno dei nostri problemi è quello di dare tutto per scontato e non ringraziare chi ci aiuta. Non tutti sanno che la riconoscenza è alla base di tutte le mitzvot” . Rav Colombo ha spiegato perché per aprire la Tefillà al Tempio usiamo una benedizione che usa la parola “Sekvì” (Gallo in ebrai-co antico). Una parola così antica e complicata che ormai non conosce nessuno. Con il libro “Il mondo delle Tefillot” in mano, ci

spiega che “il significato antico di gallo vuol dire “cuore” e i chachamim voleva-no concentrarsi sul cuore delle persone. Il cuore ha un’unione significativa con la parola gallo. Il cuore, infatti, gestisce il futuro della nostra esistenza, proprio come il gallo che ha il sentore di ciò che accadrà nel futuro. Bisogna, quindi, rap-portarsi con sentimento alla Tefillah e avere il “culto del cuore”. Questo libro darà un forte sentimento ebraico a figli e genitori”. Il libro è stato realizzato grazie al sussi-dio dell’UCEI tramite l’8x1000. Simona Nacamulli, consigliera UCEI, ha spiega-to che “ogni progetto è un’emozione e quando si arriva alla fine non deve essere

una “chiusura”, ma un inizio di qualcosa”. Infine, ha ricordato che “il Tempio Beth Michael ha attivato, grazie a Gadi Piperno, un corso di Tefillah Didattica. Il risultato è stato molto bello: le persone piano piano si avvicinano senza la vergogna di essere giudicate e imparano a pregare.”

MIRIAM SPIZZICHINO

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Un rabbino a tutto tondoPresentato alla libreria Kiryat Sefer il volume di Paolo Orsucci “Quale è la via del vento?”,

sulla figura di rav Isidoro Moshè Kahn

Qualcuno lo chiama "il caso", altri, come Einstein, lo defi-niscono come il modo del Signore di agire nell'anonimato comunque sia, il "destino" ha voluto che nel 1946 l'allora Direttore del Collegio Rabbinico David Prato andasse in

cerca di ragazzi che studiassero per diventare rabbini: si recò a Napoli e scelse un piccolo ragazzo, orfano, Isidoro Kahn. Alla presentazione presso la libreria Kiryat Sefer del volume di Paolo Orsucci “Quale è la via del vento? Appunti su Isidoro Moshè Kahn (1934-2004)”, edito da Belforte e pubblicato con il patrocinio dell'Assemblea dei Rabbini d'Italia, Giacomo Kahn ricorda con affet-to lo zio che veniva dalla Lettonia e diventò un "rabbino a tutto tondo", nel senso che faceva davvero tutto, era shochet, celebrava tutte le tefillot, componeva le recite per bambini a Purim, costruiva personalmente la succà. L'arrivo al Collegio Rabbinico di Isidoro Kahn è stato ricordato da Rav Vittorio Haim Della Rocca: si presen-tò con un berretto da marinaretto; all'inizio pareva avesse un carat-tere chiuso, ma dopo qualche giorno divennero grandi amici. L'edi-tore Guido Belforte lo ha definito "un gran signore napoletano, un uomo di gran cuore" con un carattere "correttamente forte". E la sua correttezza è stata sottolineata anche da Rav Gianfranco Di Segni ricordando come, quando si dimise da Capo rabbino di Livorno,

disse a quella che era stata, fino a quel momento, la sua Comunità che, come insegnava l'Halakhà, da quel giorno egli avrebbe seguito in tutto e per tutto il nuovo Capo rabbino e che si aspettava lo stesso comporta-mento da tutti: un grande esempio di umiltà. E non è un caso il fatto che

il suo insegnamento, come sostenuto da Orsucci, arrivava al cuore delle persone proprio attraverso l'esempio del proprio comporta-mento; era un uomo di cultura, un fine intellettuale, un rabbino che ha saputo portare l'ebraismo alla sua Comunità. A tale riguardo, Luciano Meir Caro, Rabbino Capo delle Comunità Ebraiche di Fer-rara e Pisa, scrive nell'introduzione al libro: "Occorreva pochissimo tempo per percepire e apprezzare il suo grande cuore. Alieno da ogni forma di ostentazione, aveva la capacità di mettere immedia-tamente l'interlocutore a proprio agio. Al centro del suo agire pone-va costantemente l'insegnamento a tutti i livelli, dispensato con grande capacità, entusiasmo e passione". "Le parole che Isidoro ci ha consegnato - ha scritto a tale riguardo Orsucci - sono un testa-mento morale. Sono una luce guida, che merita di restare accesa" ed esse, nella particolare struttura del libro, circondano il testo del volume che risulta impaginato come il Talmud.

SILVIA HAIA ANTONUCCIPaolo Orsucci, Quale è la via del vento? Appunti su Isidoro Moshè Kahn (1934-2004), Livorno, Belforte, 2014, pp. 395, 22 euro.

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Una nuova app ti ricorda che la dispensa è vuota L’ha inventata Uriel Perugia

Quante volte ci è capitato, nel voler fare una torta, di accorger-ci di aver finito le uova? Quante volte andando a fare la spesa,

una volta a casa, ci ricordiamo di aver dimenticato di comprare quello di cui ave-vamo bisogno e abbiamo riempito il carrello di prodotti che già avevamo? Sono queste alcune tra le situazioni più comuni che hanno ispirato Uriel Peru-gia a creare SmartQsine. Questa applicazione inno-vativa, ci ricorda di fare la spesa solo quando è necessario avvisandoci su cosa sta per finire o meno nella nostra dispensa. Il sistema è formato, oltre che dalla App per smar-tphone e tablet, da una bilancia di piccole dimen-sioni e molto sottile, chiamata "Pad" dove possiamo pesare i prodotti che vogliamo siano sempre presenti in casa, in modo da poterne misurare il quantitativo standard e monitorarne le scorte. La bilancia è collega-ta all'applicazione che ci avvertirà quando le riserve di cibo che abbiamo deciso di tenere sotto controllo stanno per finire. Uriel racconta della sua idea: “come tutte le invenzioni è nata da una necessità. Ad ognuno di noi è capitato almeno una volta,

o spesso, di trovarsi a casa ed accorgersi di non avere più qualcosa che si utilizza quo-tidianamente. Pensiamo ad esempio quan-do abbiamo i bambini in casa: quante volte capita di dimenticarsi di comprare il latte una volta tornati la sera o, addirittura, la mattina stessa? SmartQsine ci permette dedicare più tempo alle cose importanti senza trascurare i beni di prima necessità, ed oltre a far fronte alle esigenze famigliari è utilizzabile anche da bar, pub e locali per ‘monitorare’ le scorte dei prodotti ottimiz-zando le quantità necessarie e conseguen-

temente le spese. L'idea è nata a febbraio dello scorso anno. Ci sono voluti due mesi per pianificare il pro-getto e intorno ad aprile abbiamo iniziato a metterci concretamente all’opera”. Ad oggi è pronta una pre-serie del prodotto e dal prossimo aprile sarà in commercio. Nel mese di gennaio l'App è stata pre-sentata all'International Consumer Electronics

Show di Las Vegas (una delle più grandi fiere mondiali dell'elettronica di consumo): il prodotto verrà mostrato su un sito di crowdfounding e in base alle richieste si procederà con la produzione dei pezzi.

YAEL DI CONSIGLIO

www.smartqsine.comfacebook: smartqsinetwitter: @smartqsineemail: [email protected]

È tornata Zì Fenizia!

Chi ha vissuto a Roma, in particolar modo a Portico d’Ottavia, ricor-derà sicuramente la pizzeria a taglio “Zì Fenizia”, meta di tanti

turisti e considerata una delle migliori pizze-rie “take away” da Gambero Rosso. Una volta chiuso ha lasciato un vuoto in tutti gli amanti della pizza a taglio kasher. Beh, l’at-tesa è finita... Zì Fenizia è tornata! In un piccolo punto su Via Ostiense, di fron-te alla prefettura, spunta il tanto atteso “Zì Fenizia, Pezzi di Pizza”. Grande successo anche nei Social dove, nella bacheca della pagina facebook, spuntano elogi e vecchi ricordi. Come ci spiegano Cinzia e Michele, i proprietari, “la pizza è Chalav Israel e abbiamo deciso di fare il nostro ritorno in questa zona proprio per venire incontro a tutti i ragazzi di religione ebraica che studia-no all’università qui vicino, Roma Tre, e non sanno dove andare a mangiare”. Basta varcare la soglia per risentirsi a casa: “Bella cucciola de zia, che te fa Zì Fenizia?”. E tra un pezzo di pizza e un po’ di concia, tornano alla mente i bei tempi andati. Un pezzo dell’infanzia, e dell’adolescenza, di tutti è tornata a deliziarci con la sua pizza a taglio kosher. Progetti per il futuro? “Comin-ciare a servire ai nostri clienti del sabato sera anche le pizze tonde e per chi, invece, vuole mangiare i nostri prodotti senza muo-versi da casa... Ci stiamo attrezzando per le consegne a domicilio”. A questo punto non ci resta che augurarvi buon appetito... Pan-cia mia, fatti capanna!

MIRIAM SPIZZICHINO

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Il 6 gennaio al Teatro Argentina - su iniziativa della Deputazio-ne - è stato presentato “I Love Libya”, uno spettacolo emozio-nante scritto e interpretato da David Gerbi e diretto da Tonino Tosto. E’ il racconto di una vita da rifugiato che è dovuto

scappare con la sua famiglia dalla Libia per salvarsi, una storia unica ma uguale a quella di tante altre persone. “È una storia da raccontare”, dice Lillo Naman, il presidente della sinagoga di Beit Shmuel:. “Ho provato una grande emozione. La sua storia è simile anche alla storia della mia famiglia, anche noi siamo scappati”. Il Dr. Gerbi è psicologo, rappresentante dell’organizzazione mon-diale degli ebrei di Libia che ha sede ad Or Yehuda in Israele e il presidente dell’associazione “I Love Libya”. Con la sua attività ha presentato spettacoli anche in giro per il mondo e pubblicato molti libri: Rifugiato, costruttori di pace, ecc. Inoltre, ha fondato “I Colibrì sognatori”, un gruppo di persone il cui obiettivo è di avvicinare tra loro popoli e religioni diversi. Il 30 Novembre 2014 è stata una giornata storica poiché il parlamento israeliano ha riconosciuto dei rifugiati ebrei provenienti dai paesi arabi. Gerbi ha presentato la sua storia come una serie di miracoli che hanno segnato la sua vita: il trasferimento in Italia nel 1967, la vita a Roma, la sua attività in giro nel mondo per la pace e contro il raz-zismo, l’antisemitismo, il terrorismo e la violazione dei diritti umani. Come nasce questa necessità di raccontare e trasmettere il ricor-do della comunità ebraica libica?Non ho mai dimenticato la sofferenza della mia famiglia. Vedevo che loro cominciavano a invecchiare e morire e restava quest’in-giustizia. Allora con il passar del tempo ho deciso di prendere in mano la situazione. In particolare tutto è iniziato con l’11 settem-bre, quando ho visto il fuoco uscire dalle torri gemelle e mi sono ricordato di quando ero bambino. Allora c’era di fronte a casa mia un palazzo abitato da famiglie ebree e degli arabi ci avevano but-tato del petrolio e gli avevano dato fuoco. Molti ebrei erano morti e altri erano scappati per non morire soffocati. Ricordo l’odore e il panico della gente, questo ha aperto la mia ferita. Tutte le emozio-ni sono uscite e ho deciso di dire: “Basta! Devo fare qualcosa”. Ho detto che anch’io ho sofferto, io sono un profugo ebreo dei paesi arabi, anche la mia famiglia ha sofferto ma non siamo diventati terroristi. Noi abbiamo cominciato a lavorare onestamente e ci siamo integrati nella società italiana, nella comunità romana. Ho detto che si può combattere contro l’ingiustizia ma senza diventa-re un terrorista, si può costruire la pace, difendendo i diritti umani e ho deciso di farlo. Ho messo a disposizione la mia vita, ho deciso di scrivere un libro. Lo spettacolo racconta momenti toccanti della tua vita: il ritrova-mento di una tua zia per caso dopo 35 anni o la rottura del muro di ingresso della sinagoga di Tripoli… Sono stati dei miracoli. Ho trovato mia zia ancora viva, pensavamo fosse morta. Quando Gheddafi mi ha permesso di tornare in Libia dopo 35 anni e anche di portare via con me mia zia (adesso è sepol-ta in Israele e non in un cimitero musulmano libico), che era l’ultima ebrea in Libia, ci sono andato e mi volevano ammazzare. Sono riu-scito a salvarmi. Uso quindi la mia storia come uno strumento per combattere il razzismo e l’antisemitismo, per aiutare le persone. Il momento in cui ho rotto il muro nella sinagoga in Libia è stato si-gnificativo, perché ho rotto il muro del silenzio.Che cosa hai pensato quando hai rotto il muro?In quel momento ho rotto la paura di duemila anni, e ho pensato agli insegnamenti di Jung: “… dover portare a compimento, o an-che soltanto continuare, cose che le età precedenti avevano lascia-to incompiute.”

Dopo essere stato espulso dalla Libia, vi sei poi ritornato ri-schiando la vita. Perché?Ho fatto parte di un gruppo di persone (Associazione Colibrì) che vogliono combattere per la libertà, la democrazia, i diritti umani, la libertà di religione e il rispetto dei diritti delle minoranze. Io mi schiero per Israele che lotta per tutto questo. In Israele c’è tutto, convivono le sinagoghe, le chiese e le moschee. Sono come i colibrì, faccio la mia piccola parte come abbiamo visto durante lo spettaco-lo nel filmato di Wangari Maathai, che nel 2004 è diventata la prima donna africana ad aver ricevuto il Premio Nobel per la Pace. Lei racconta la storia del piccolo colibrì, in una foresta divorata dalle fiamme tutti gli animali scappano, ad eccezione di questo uccellino che dice: “devo fare qualcosa per questo incendio”. Quindi vola al fiume più vicino prende delle gocce d’acqua e le getta sul fuoco. Gli altri animali restano inerti e dicono al piccolo colibrì: “cosa pensi di fare? Sei troppo piccolo”, e il colibrì ha risposto:”sto facendo il me-glio che posso”, e per me è quello che dovremmo fare tutti. Quale sarà il prossimo miracolo della tua vita? E qual è il mes-saggio che vuoi lasciare?Il miracolo sarà quello di portare lo spettacolo dal Papa perché an-che lui sostiene gli stessi valori di cui io parlo nello spettacolo: la lotta contro il razzismo, l’aiuto ai poveri, l’aiuto ai rifugiati, la coesi-stenza di varie religioni, la lotta contro la violenza, tutti i messaggi di cui il Papa è portavoce. Il messaggio è semplice: bisogna avere il coraggio di fare perché le cose cambino. Se ognuno fa qualcosa anche di piccolo, alla fine qualcosa è successo.

YAARIT RAHAMIM

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I Love LibyaLo spettacolo di una vita scritto ed interpretato da David Gerbi

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DOVE E QUANDO

Parashà: Terumà

Venerdì 20 FEBBRAIONerot Shabath: h. 17:30

Sabato 21 FEBBRAIO Mozè Shabath: h. 18:31

----------------------------------------Parashà: Tetzavè

Venerdì 27 FEBBRAIONerot Shabath: h. 17.39

Sabato 28 FEBBRAIOMozè Shabath: h. 18.39

Parashà: Ki Tissà

Venerdì 6 MARZONerot Shabath: h. 17.47

Sabato 7 MARZOMozè Shabath: h. 18.48

----------------------------------------Parashà: Vaiakel-Pekudè

Venerdì 13 MARZONerot Shabath: h. 17.55

Sabato 14 MARZOMozè Shabath: h. 18.56

16.30 ADEI-WizoChiostro del Bramante, Via Arco della Pace, 5Visita guidata dalla dott.ssa Sara Procaccia alla mostra “Escher”. Info in sede--------------------------------------------------------------------------------

18.00 ADEI-Wizo e Centro di Cultura EbraicAAdei, Lungotevere Ripa, 6Aperitivo con l’Autore: Daniele Scalise intervista Roberto Fiorentini in occasione dell’uscita del suo libro Le chajim Alla vita!--------------------------------------------------------------------------------

17.00 Le PalmeLa Parashà della settimana: Terumàspiegata da Rav Roberto Di Veroli 20.00 IL Pitigliani Fatti un maestro, trovati un compagno: lezione di Talmud a cura di Rav Benedetto Carucci Viterbi “A cosa serve la sapienza?”Prossimo incontro lunedì 16 marzo ore 20.00--------------------------------------------------------------------------------

17.00 Le PalmeFacciamo il punto: proposte e progetti per le nuove attività del Circolo--------------------------------------------------------------------------------

18.50 IL PitiglianiMeghillà delle donne per le donne. Sarà attivo il servizio di baby parking--------------------------------------------------------------------------------

17.00 Le PalmePurim alle Palme, la festa più dolce che ci sia: tortolicchio, pizza e ... altri dolci tipici--------------------------------------------------------------------------------

20.30 IL PitiglianiGrande festa di Purim per adulti e famiglie

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17M A R T E D I

18MERCOLEDI

19G I O V E D I

25MERCOLEDI

04MERCOLEDI

05G I O V E D I

07S A B A T O

FEBBRAIO

MARZO

SHABAT SHALOM

Centro di Cultura EbraicaDa lunedì 23 febbraio per 4 lunedì al Tempio dei Giovani Panzieri - Fatucci

Piazza S. Bartolomeo all’Isola, 24, ore 20.30

Ciclo di incontri sulla tefillà con cena• Lunedì 23 febbraio: La tefillà nel pensiero ebraico:

chassidismo e razionalismo con Rav Riccardo Di Segni

• Lunedì 2 marzo: Il Kaddish nella tradizione ebraica con Rav Benedetto Carucci Viterbi

• Lunedì 9 marzo: La tefilla di Channà con Anna Arbib

• Lunedì 16 marzo: L’Amidà nel commento tradizionale: passi della Amidà attraverso il commento dei Maestri con Rav Roberto Colombo

Lezione con cena a pagamento, posti limitati, prenotazione obbligatoria:

Tel. 06.5897589 - [email protected]

ADEI WIZOLunedì 16 e 23 febbraio ore 15.00 in sede proseguono gli incontri di burraco. Corso per principianti con in-segnante: lunedì 2-9-16 mar-zo

Giovedì 19 e 26 febbraio e 5 e 12 marzo corso base di lingua ebraica con la Prof.ssa Luisa Basevi, ore 9.00 -10.30 (un in-contro a settimana di 1 ora e ½). Info e prenotazioni in sede

Mercoledì 18 febbraio e 4 marzo ore 10.00 in sede Lezioni di Torah e pensiero ebraico a cu-ra di Rav Chajm Vittorio Della Rocca

SAVE THE DATE: 9 marzo pranzo della donna 17 marzo visita guidata alla mostra su Matisse.Info in sede

IL PITIGLIANIMetodo FeuersteinDomenica 15 febbraio Inizio corso pas pasic. Info: Sarah [email protected] - www.pitigliani.it

Gruppo GhimelTutti i giovedì dalle 16.30 con Davide Spagnoletto ed Elisa-betta Anticoli Moscati

Programmi educativiDomeniche di Ebraismo: attivi-tà divertenti su feste, tradizioni e lingua ebraica. Dalle 10.00 al-le 15.30 domenica 15 febbraio e 1° marzo. Info: Roberta [email protected]

Domenica 1° marzo ore 11.00 Festa di purim con spettacolo teatrale, attività e banchetto per bambini Info e prenotazio-ni: Giorgia Di Veroli [email protected]

NOTES

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Benedetta, Simhà Panzieri di Cesare e Denise Di Castro

Sarah Sassun di Ralph e Sharon Di Porto

Joshua Di Nepi di Aron e Federica Di Castro

Elio Nahum di Daniel Efraim e Alisa Ruth Toaff

Samuel Frabetti di Nazzareno e Lina Zarfati

Michelle Piperno di Simone e Anna Restino

Carola Cousin di Richard e Alessia Astrologo

Nicole Menasci di Massimo e Ines Bautista

Michal Spagnoletto di Maurizio e Ester Terracina

Rebecca Calò di Ariel e Tamara Zarfati

Ludovico Pontecorvo di Andrea e Luisa Scalvedi

Sara Coen di Climo e Marina Pavoncello

Ilan Di Gioacchino di Bruno e Roberta Servi

Michael Sonnino di Stefano e Laura Hannuna

NASCITE

BAR/BAT MITZVÀ

MATRIMONI

AUGURI

RINGRAZIAMENTI

ANNUNCI

Lo scorso 20 dicembre è nato David Caviglia di Giorgio e Sara Bisogno. La redazione formula i migliori auguri.

È nato Joshua Di Nepi. I migliori auguri ai genitori Aron Di Nepi e Federica Di Castro, ai nonni, in particolare Sandro Di Castro, presidente del Benè Berith e Flora Sed Piazza, collaboratrice presso il Museo ebraico.

Mazal tov a Daniele Efraim Nahum e Alisa Ruth Toaff, collabo-ratrice presso il Museo ebraico per la nascita di Elio. Auguri alla famiglia, in particolare al bisnonno Rav Elio Toaff.

Mazal Tov a Lina Zarfati e Nazzareno Frabetti per la nascita del piccolo Samuel. Il Direttore e i colleghi della Cooperativa Avodà.

Lo scorso numero, nell’annunciare le nozze di Cesare Gattegna con Giada Camerino, non abbiamo segnalato che lo sposo è il figlio di rav Settimio Raffael Gattegna z.l.. Ce ne scusiamo con la famiglia.

Il Presidente Bonfiglioli e il Consiglio della Deputazione Ebrai-ca desiderano ringraziare David Gerbi per aver organizzato la splendida rappresentazione teatrale “I Love Libya” il cui ricava-to ha permesso di contribuire al sostegno delle fasce più deboli della nostra Comunità. Un ringraziamento particolare al Gruppo Colibrì che si è adoperato per il buon esito della serata.

Milano palazzo signorile con giardino condominiale e portineria in zona residenziale ben servita di fronte a scuola ebraica priva-to vende appartamento mt 200 su 3 esposizioni 3 bagni con box XL. Affittasi fino a eventuale vendita della stessa, Camera arre-data con bagno, cucina kosher, lavatrice e wi-fi.Tel 02 48302412 - 335 6181855

CI HANNO LASCIATOCostanza Anticoli 31/05/1933 – 31/12/2014

Franca Astrologo 21/04/1938 – 28/12/2014

Angelo Di Cori 03/11/1926 – 21/01/2015

Miriam Di Gioacchino 29/01/1960 – 06/01/2015

Franca Di Nepi 26/03/1929 – 05/01/2015

Piero Di Nepi 17/03/1922 – 14/01/2015

Donato Di Veroli 05/04/1955 – 06/01/2015

Luciano Marino 24/02/1934 – 14/01/2015

Giacomo Moscato 07/09/1940 – 04/01/2015

Lazzaro Moscato 27/01/1942 – 10/01/2015

Alberto Pavoncello 31/03/1938 – 01/01/2015

Silvia Piazza O Sed 13/07/1929 – 18/01/2015

Leone Pontecorvo 08/02/1936 – 05/01/2015

Tina Spizzichino 02/07/1934 – 06/01/2015

Silvana Terracina 04/02/1924 – 13/01/2015

Shalom Vaturi 16/07/1928 – 06/01/2015

IFI 00153 ROMA - VIA ROMA LIBERA, 12 ATEL. 06 58.10.000 FAX 06 58.36.38.55

Massimiliano Del Monte - Lia Pergola

Marco Mosseri - Melissa Sonnino

Dopo una lunga malattia, è venuta a mancare lo scorso mese

Tina Spizzichino madre di Alberto Piazza O Sed (‘Scienza’), assessore alla

Kasherut della Cer. Sentite condoglianze alle famiglie.

Child survivor / infanzia negataLa Claims Conference – l’Ente che gestisce i risarcimenti per le vit-time della persecuzione nazista – ha da poco approvato un nuovo fondo destinato all’infanzia negata, riconoscendo la sofferenza e il trauma inimmaginabile dei bambini che hanno vissuto l’esperienza della clandestinità, il terrore di essere scoperti, la separazione dai ge-nitori, la privazione e gli abusi nei ghetti fino all’orrore dei campi di concentramento. Il fondo emetterà pagamenti una tantum pari a € 2.500,00 agli ebrei vittime dei nazisti e nati tra il 1 gennaio 1928 e l’8 maggio 1945 e che abbiano subito una delle seguenti persecuzioni:(I) Reclusione in un campo di concentramento; (II) Reclusione in un ghetto; (III) Essere vissuti in clandestinità o sotto falsa identità, per un periodo di almeno 6 mesi nei paesi occupati dai nazisti;Coloro che già ricevono rimborsi o risarcimenti dalla Claims Confe-rence riceveranno una lettera in italiano con le istruzioni da seguire per avere accesso al fondo. Per tutti gli altri, l’elenco della documen-tazione necessaria e il formulario da compilare saranno disponibili sul sito della Claims Conference a partire dalla prima settimana di febbraio. Il personale della Deputazione Ebraica è a vostra disposi-zione sia per chiarimenti e/o eventuali informazioni ulteriori e sia per un supporto nella compilazione dei moduli (in questo caso, il martedì e il giovedì dalle 10:00 alle 13:00 previo appuntamento).Deputazione Ebraica Tel 06 5885656 / 06 5803657 Mail: [email protected]

I figli Luciano, Elisabetta, Lidia e Giorgio Calò la sorella Giuliana, i cognati e i nipoti ringraziano parenti amici e colleghi per le amore-voli parole e per l’affetto che hanno ricevuto per la scomparsa di Franca Astrologo z”l. “A una donna di valore, a una madre esem-plare, a una guida unica, all’amore della nostra vita”.

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Berto l’edicolante

Je suis Charlie

Quando ne capitava l’occasione, Berto asseriva con una punta d’orgoglio di essere un mezzo ebreo. Il che, nel suo lessico un

po’ arcaico, valeva quanto i panni risciac-quati in Arno da Alessandro Manzoni: una rivendicazione di appartenenza, una sacra-lità di natali.A dire il vero quella rivendicazione di ap-partenenza si era illanguidita nel corso delle generazioni attraverso i rami di un al-bero genealogico un po’ ondivago. E la sa-cralità dei natali era stata negata dai rabbi-ni cui non bastava un padre ebreo per af-francarlo dal mondo dei goym. Ma tant’è. Al cuore non si comanda e a quello di Berto non occorrevano certificazioni rabbiniche per battere in sintonia col retaggio di suo padre e dei suoi nonni paterni.Per lui non c’erano Natale o Capodanno. E quando si avvicinavano Pesach o Kippur entrava in fibrillazione e mangiava qualche pezzo d’azzima o saltava una colazione più per dire a sé stesso: il mio posto è là, che per un vero afflato religioso.Così Berto viveva il suo doppio registro. In cuor suo, senza smanie e con quel tacito buon senso che per trent’anni aveva con-sentito a sua moglie, pace all’anima sua, di fare in casa albero e presepe.Tutto saltava però quando avvertiva in pe-ricolo quelli che chiamava, con una punta di infastidita ironia, i suoi fratellastri ebrei.Allora il sangue delle origini sembrava ri-bollire.

Guerre, attentati, stragi e le vecchie paure riemergevano mettendo a nudo ferite mai ri-marginate.Oggi era uno di quei giorni.Seduto al suo sgabello, dietro montagne di giornali, Berto scorreva le cronache da Parigi. Sangue, terrore. Una città sotto assedio e il diffuso senso di sgomento di fronte a un Male Assoluto che di nuovo insidia-va l’Europa.Un tintinnio di monete lo fece sobbalzare.Di fronte a lui c’era quello che tutti chiamavano l’Onorevole.Basso, tarchiato, una barbetta incolta e stiracchiata, indossa-va un eskimo che sembrava un residuato bellico. Aveva la fissa della politi-ca ma nessuno avrebbe potuto dire da che parte stesse. Destra o sinistra, ce l’aveva con tutti. “Dammi Libero e il Manifesto.”Berto trattenne un sorriso ma prese le mo-nete e consegnò i giornali.“Hai visto che disastro?” stava dicendo in-tanto quello, evidentemente in vena di co-mizio. “Una città intera sotto coprifuoco. Ma questa volta non passeranno. Hanno osato troppo! La libertà di espressione non si tocca.”Nel dirlo scostò i lembi dell’eskimo mo-strando la felpa rossa con la scritta bianca ‘Je Suis Charlie’.Ora Berto era di natura diffidente verso ogni gratuita ostentazione ma quella gli sembrava quanto mai bislacca.“Li fermerai con quella?” chiese con un sorrisetto provocatorio.“Beh, tu che sei nel settore della stampa

dovresti essere il primo ad indossarla.”“Già, mi hai preso per Carlo De Benedetti… Io comunque una felpa come quella non la indosserò mai! Anzi, se vuoi saperlo mi fa proprio ridere!”“Beh, mi fai pena… Per battere il terrorismo ci vuole una mobilitazione. E se non reagia-mo quando portano la strage in seno a un comitato di redazione, abbiamo già perso la nostra battaglia di civiltà. Io domani sarò idealmente a Parigi per levare al cielo una matita insieme a centinaia di migliaia di fratelli europei. E insieme grideremo a quei cialtroni che oggi siamo tutti vignettisti! Che ci hanno uccisi ma non imbavagliati!”Berto sospirò infastidito.“Mi hai frainteso” disse “io non ho niente contro quella felpa. E’ che sulla mia, le scrit-te dovranno essere più piccole.”“Più piccole…?” chiese l’Onorevole sospet-toso.“Si, più piccole e più numerose. Comincerò con scrivere sono un atleta di Monaco 72 e poi sono una mamma uccisa da Sbarro a Gerusalemme e poi ho perso mio figlio in un bus di Tel Aviv. E ancora sono un giova-ne del Delphinarium.” L’Onorevole ora lo squadrava come se aves-se di fronte un marziano.“Ci vorrà un po’ di pazienza ma ce li met-terò tutti. Lascerò solo uno spazio libero per scriverci sopra: e tu dov’eri Onorevole quando è iniziata la mattanza?” Quello fece un balzo indietro, come se l’a-vessero schiaffeggiato.“Questa poi…!” esclamò oltraggiato, senza sapere cosa altro aggiungere.Girò sui tacchi e si allontanò furioso.“Un attimo, Onorevole…” gli gridò dietro Berto. “Quando parti per il tuo viaggio ide-ale a Parigi non dimenticare di avvertirmi. Verrò anch’io con te…”Quello era ormai lontano e non lo udiva più.“Si” concluse Berto sotto voce “verro an-ch’io... Ma non alzerò come gli altri una matita. Io leverò al cielo gli zaini insangui-nati dei bimbi di Tolosa.”

MARIO PACIFICI

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Visitare il Verano è addirittura pericolosoGiorni fa mi sono recata la Cimitero Monumentale del Verano per visitare la tomba di mio padre Erberto Olper. L’ho trovata spaccata in due in uno scenario di tombe scoperchiate e pezzi di marmo sparsi per tutto il campetto che oltretutto rendevano pericoloso il già difficile accesso. Ma era soprattutto una scena sconvolgente. Il campo si trova su un montarozzo – il secondo a sinistra volgendo le spalle al Monumento ai deportati – forse costruito con terra di ripor-to che non ha resistito alle forti piogge dei mesi scorsi. Le tombe si possono ricostruire o aggiustare, ma che succederà se l’evento si ripeterà? Potremmo trovarci con le bare sul terreno circostante. Segnalo tutto questo a Shalom sperando che la Comunità faccia pressione sui responsabili (il Comune? l’AMA?) perché ripuliscano il campo evitando che qualcuno si rompa l’osso del collo e provve-dano a verificarne la stabilità, e invito tutti quelli che si trovano nella mia situazione a fare fronte comune per riparare a un fatto così doloroso per noi e così vergognoso per chi dovrebbe provvede-re. Un cordiale shalom.

ISA DI NEPI OLPER

Un grazie a tutti voiAd Auschwitz ho perso tutta la mia famiglia ma qui a Roma ho trovato un grande famiglia. La bellissima sorpresa che la “mia gran-de famiglia” ci ha fatto domenica 11 gennaio, in cui hanno organiz-zato a nostra insaputa le nostre nozze d’oro al Tempio Maggiore, ci ha riempito di gioia e felicità. La cerimonia è stata molto emozio-nante e sentire intorno a noi la commozione della gente ci ha fatto comprendere ancora di più l’affetto che tutta la comunità ha per noi. E’ stata una mattinata meravigliosa che io e Selma ricorderemo sempre. Desideriamo condividere la nostra gioia con tutti voi e ringraziarvi uno ad uno per essere stati con noi. Un particolare ringraziamento vogliamo farlo alla Prof.ssa Elvira Di Cave, a Daniel e Joseph Di Porto, al Rav Riccardo Di Segni, a Riccardo Pacifici e a tutti coloro che hanno lavorato all’organizzazione dello straordina-rio evento. Un grazie anche ai sopravvissuti che hanno voluto esse-re presenti in questa magica mattinata: Lello Di Segni, Alberto Mieli, Alberto Sed e Piero Terracina.Grazie anche ai bambini della scuola ebraica che con il loro entusia-smo e vivacità hanno riempito di gioia la nostra giornata.

Sami Modiano

Quegli ebrei traditi dalla PatriaIn questi mesi ricorre il centenario della Prima Guerra Mondiale. Io non c’ero, ma c’erano già mio padre, che aveva 24 anni, e mia madre che ne aveva solo 8.Ho trovato tra le fotografie di famiglia questa di mio padre, Lello Della Seta, nella sua uniforme dell’Esercito Italiano, nel pieno della giovinezza, bello e molto distinto. Ripenso sempre alla sua storia, è qualcosa che mi ha sempre accompagnato da quando ero piccola, quando lui c’era, a quando non c’è stato più. La sua tragica fine e quella di mio fratello Giancarlo ha segnato irrimediabilmente tutta la mia vita, da bambina di circa 7 anni, fino ad oggi che ne ho 78. Questo immenso dolore lo porterò con me per sempre.Quanti giovani ebrei hanno creduto nell’Italia durante la Grande Guerra, pronti a morire per questa Patria che poi li avrebbe traditi mostruosamente. Circa 20 anni dopo la fine della Grande Guerra, Mussolini e il regime fascista avrebbero promulgato le leggi razzia-li che tolsero a tutti gli ebrei ogni diritto e dignità.Ho ricevuto tanti anni fa da una mia zia una medaglia appartenuta a mio padre in ricordo della Grande Guerra con incisi l’Altopiano dei Sette Camini e un cannone puntato contro il nemico (prima l’e-sercito austro-ungarico e poi i nazisti). Purtroppo, non so come né quando, con grande dolore negli anni l’ho persa.

Il 16 ottobre 1943 mio padre e mio fratello con più di duemila ebrei romani furono deportati nel campo di sterminio di Auschwitz-Birke-nau; sei milioni di ebrei morirono nei campi. I miei, come da testi-monianza di un sopravvissuto, morirono dopo alcuni mesi di malat-tie e stenti nel Ghetto di Varsavia. Sempre a proposito della Grande Guerra desidero ricordare lo zio di mio marito, tenente Augusto Della Seta, di cui mio marito porta il nome, eroicamente caduto in battaglia e decorato con medaglia d’argento al valor militare. Una lapide nella tomba di famiglia lo ricorda.

PAOLA DELLA SETA

Un uomo dimenticatoVi sono uomini che non soffrono di protagonismo, ma che ciò nono-stante si sono dati molto da fare per l’ebraismo e per Israele. C’è chi per esempio negli anni Sessanta, preoccupato dei numerosi attac-chi sferrati all’ex Ghetto da parte di falange neonaziste, si adoperò per la costituzione della L.E.D. (Lega Ebraica Difesa), madre dell’at-tuale sorveglianza. C’è chi partì per la Guerra dei Sei Giorni e chi collaborò attivamente alla stesura di un vero giornale al di fuori dai normali bollettini, affinché il mondo ebraico romano e non solo, potesse avere una voce socioculturale ufficiale per comunicare con l’intero Paese. Una voce chiamata “Shalom”.Non riscontrare dalla comunità, ma soprattutto non leggere nean-che su “Shalom”, un minimo segno di partecipazione per la morte di Alberto Baumann (z.l.) avvenuta il primo novembre scorso, testi-monia come nel nostro microcosmo ebraico romano, spesso le per-sone vengono interpellate solo per il tempo nel quale possono essere utili, poi emarginate nell’oblio. Ringrazio invece gli amici (pochi ma buoni) e l’ADEI che hanno trasmesso il loro affetto a mia madre Eva Fischer ed a me.

ALAN BAUMANN

GrazieCaro Direttore,vorrei ringraziare il moel David Pavoncello per l’accurata professio-nalità e la cura prestata durante la milà di mio figlio Samuel.

LINA ZARFATI

Non chiamiamoli terroristiCaro direttore,smettiamola di definirli terroristi. Mi riferisco alle decine di sigle, gruppi islamisti alle migliaia di militanti che dal Medio Oriente all’Africa stanno facendo stragi ovunque si trovino, che si tratti di Siria o Nigeria. Che da anni stanno insanguinando le città del mondo occidentale, da Sidney a Parigi. Che usano metodi barbarici per uccidere, come far esplodere bimbe imbottite di tritolo nei mer-cati (Nigeria), usare scudi umani per difendersi (Gaza/Hamas), decapitare ostaggi, Siria, Irak, ad opera di uno psicopatico che si definisce l’erede di Maometto. Non è terrorismo, è una guerra non dichiarata. Iniziamo a chiamarla nel modo appropriato, non sono terroristi, sono movimenti che usano metodi si orribili, ma che hanno uno scopo ben preciso, fanno una guerra a loro più congenia-le, impadronirsi di stati cosi detti “falliti”, impaurendo l’occidente che appoggia o aiuta quelle nazioni che vorrebbero loro, e far pro-seliti tra giovani nati e cresciuti nelle democrazie occidentali. Ter-rorista è una definizione minimalista, sono soldati e criminali allo stesso tempo. Sarebbe bene che l’Europa, aprisse gli occhi, siamo di fronte ad un evento epocale, la più grave minaccia dopo la scom-parsa del nazismo, e nazisti lo sono loro nei metodi e nella visione apocalittica. Le nostre sono società pacifiche, in crisi economica e sociale, purtroppo quando la storia ci mette di fronte mostruosità come questa, non c’è altro da fare, bisogna affrontarla nel modo più appropriato. Magari iniziandoli a definire nel modo giusto.

Lavocedeilettori [email protected]

LETTERE AL DIRETTORE

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L’islamismo integralista che ha dichiarato guerra alla civiltà. Non i musulmani che sono loro stessi le maggiori vittime, ma chi si è appropriato della loro cultura e religione. Non li facciamo crescere come il mondo intero fece con Hitler prima di fermarlo, è il momen-to di agire, non sarà facile né indolore, ma vanno affrontati dove si sono annidati, non possiamo continuare ad aspettarli a Parigi, Lon-dra, Boston e domani chissà dove.

ALBERTO DI CONSIGLIO

Si cercano informazioniRaffaele Zicconi, ucciso alle Fosse Ardeatine, nonno di Massimo Ciancaglini, durante l’occupazione nazista nascose una famiglia ebrea nella cantina del suo appartamento in piazza Ledro 7 a Roma. Massimo Ciancaglini, che cura un blog sulla Resistenza romana e, in particolare, sulla strage delle fosse Ardeatine (http://lavitaelare-sistenzaaroma-myway.blogspot.it/), vorrebbe rintracciare eventuali discendenti o superstiti di tale famiglia ebrea salvata dal nonno di cui purtroppo non sa nulla. Se qualcuno ha informazioni a riguardo, è pregato di contattare l’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma, email: [email protected]

La Biblioteca non può essere svanita nel nullaCaro Direttore,una recente intervista del Corriere della Sera ad Alessandra Di Castro e Serena Di Nepi ripropone vigorosamente all’attenzione generale il problema della ricerca e del recupero della biblioteca della Comunità ebraica di Roma e di quella del Collegio rabbinico, razziate dai nazisti nel 1943.Condivido pienamente la convinzione che la biblioteca non può essere sparita nel nulla, che appare fortemente motivare le intervi-state nella ricerca che si accingono a compiere,. E’ la convinzione, che fin da epoca remota mi ha spinto a sollevare il problema del possibile ritrovamento; prima, in seno alla Commissione Anselmi e poi, in rappresentanza dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, forte delle raccomandazioni conclusive contenute nel rapporto finale di quella Commissione, presso il Governo dell’epoca. Una diversa Commissione, quella per la ricerca della biblioteca, istituita a segui-to di ciò dalla Presidenza del Consiglio di Ministri, della quale face-vano parte autorevoli storici e archivisti e che ebbi la ventura di presiedere, trasse la sua origine proprio da quel convincimento!Nella intervista al Corriere della Sera si fa un accenno, in verità breve, al lavoro di questa seconda Commissione, alle indagini che ha svolto, definite preziose, ed ai contatti che ha stabilito con stu-

diosi nel mondo. Tuttavia, con la affermazione, che presumibil-mente è dell’intervistatore, che non sarebbe “approdata a risulta-ti”, si potrebbe lasciare al lettore la spiacevole sensazione che, alla fine, la Commissione abbia girato a vuoto.Non è, però, così. Tralasciando di dire che le notizie riportate in quella intervista sono fornite dal rapporto conclusivo della Com-missione e che le vaste ricerche da questa compiute, rese più difficili dalla dispersione e spesso dalla distruzione dei documenti, hanno consentito di stabilire taluni punti fermi (il rapporto con-clusivo può essere integralmente letto su: http://www.governo.it/Presidenza/USRI/confessioni/commissioni.html), vorrei sottolinea-re come l’attività di scavo archivistico, l’azione di sensibilizzazio-ne, le relazioni intrattenute e la partecipazione al dibattito inter-nazionale avviata dalla Commissione medesima abbiano contribu-ito a dare rilievo internazionale alla questione, sorprendentemen-te ignorata quasi dappertutto, e a diffondere la consapevolezza della sua importanza. La avventurosa restituzione di un Pentateu-co stampato ad Amsterdam nel 1680 e proveniente da Hungen, avvenuta in occasione della partecipazione a un convegno tenuto-si ad Hannover nel 2005, gli inviti a convegni internazionali tenu-tisi sui beni razziati dai tedeschi con la pubblicazione delle rela-zioni ivi presentate dalla Commissione, sono testimonianza con-creta dell’interesse suscitato.La Commissione ha concluso i propri lavori per la scadenza del termine (pur prorogato) assegnatole e per la impossibilità di avere altri finanziamenti oltre a quelli, per la verità erogati con il conta-gocce, già avuti per le missioni all’Estero. Nel rapporto finale, la Commissione aveva espresso l’auspicio che le indicazioni raccolte potessero in futuro incrociarsi con altri dati, da altri rinvenuti, magari con la esplorazione di archivi russi allora inaccessibili, e consentire il ritrovamento di un insostituibile patrimonio culturale che, ribadiva la Commissione, non poteva essere svanito nel nulla.Ripeto qui quell’auspicio, con l’augurio che possa realizzarsi con il pieno successo del lavoro che Alessandra Di Castro e Serena Di Nepi stanno per avviare.

DARIO TEDESCHI

Una compagnia di danza specialeA Morro d’Alba, piccolo paese rurale sito nelle campagne marchi-giane in provincia di Ancona, a circa 30 km. dal capoluogo medesi-mo, vi è, già da molti anni, un gruppo, una compagnia/scuola di danza denominata “DANZINTONDO”. Ed io ne faccio parte già da circa tre anni. Si chiama così proprio perché, più che altro, effettua,

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DIREZIONE, REDAZIONELun gotevere Sanzio, 14 - 00153 RomaTel. 06.87450205/6 - Fax 06.87450214

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art. 2 - L. 662/96 Filiale RM

Le condizioni per l’utilizzo di testi, foto e illustra-zioni coperti da copyright sono concordate con i detentori prima della pubblicazione. Qualora non fosse stato possibile, Shalom si dichiara disposto a riconoscerne il giusto compenso.

Autorizzazione Tribunale di Roma n. 2857 del 1° settembre 1952

Progetto grafico: Ghidon FianoComposizione e stampa:

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Visto si stampi 4 febbraio 2015

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Smokéd / affumicato: un gioco di parole. Una sfida nel segno di uno humor che non vuole offendere nessuno, ma sorridere di tutto. Prima presero gli zingari, i comunisti, i socialisti, gli omosessua-li… poi presero gli ebrei… Ma io non mai dissi nulla. Poi quando arrivarono a me, non c’era più nessuno a dire qualcosa. Dopo le stragi di Parigi non ci sembra di averlo letto e ascoltato, qui in Italia, il celebre apologo in versi attribuito al pastore evangelico Martin Niemoller, poi a Bertolt Brecht, ed infine anche ad un’ano-nima tradizione degli antinazisti in clandestinità. Eppure è dal 1947 che gli ebrei di Israele e della diaspora vanno avvertendo il mondo intero: prima aggrediscono noi, poi verranno a cercare anche voi. L’ultima moda, anche tra gli ebrei liberal, è spiegare che “Israele scherza col fuoco”. Dunque si continua tranquilla-mente a biasimare Israele per eccesso di legittima difesa. A pro-posito, sorprendentemente la guerra all’Isis non sembra provoca-re danni collaterali. Un caso unico negli annali militari. O forse adesso i giornalisti non sono più autorizzati a documentarli.

Smokéd

organizza, si esibisce, ed insegna (anzi, effettuiamo, dato che ne faccio parte anche io) danze “in circolo”, “in tondo”, danze tipiche folkloristiche tradizionali popolari; sia italiane, come ad esempio il saltarello marchigiano, la pizzica pugliese, la tarantella calabrese, la tammurriata campana, ecc..... ma anche danze balcaniche, danze greche, danze francesi, danze occitane, del nord Italia, ecc.... insom-ma danze che spaziano un po’ su tutta Europa e non solo.Ci riuniamo il martedì sera per ballar tra di noi; il giovedì invece si riunisce il “gruppo” che effettua le coreografie esterne con i costu-mi di scena. Infatti, alcuni di noi ormai bravi e preparati, si esibisco-no durante feste popolari, sagre di paese, manifestazioni sportive, ecc..... per rallegrare e portare musica e danza in giro per le Marche.Siamo un bel gruppo unito di varie età, e spesso organizziamo anche stage per approfondir delle danze, oppure feste a ballo e/o cene sociali, come momento di aggregazione socializzante.Ultimamente, con mio stupore e piacevole meraviglia, la nostra insegnante Lorena ha inserito anche danze tipiche ebraiche-israe-liane. Balliamo infatti: Manavu’, Hava naghila, ecc.... ed anche recentemente stiamo imparando addirittura la bellissima e commo-vente danza yiddish Dona-dona, conosciutissima in tutto il mondo.Lo scorso anno poi, questa “mia” compagnia di danza DANZIN-TONDO, in occasione della giornata della Memoria, è stata invitata, sia sul palco del teatro comunale di Monte san Vito, che sul palco del teatro di Montecarotto, a portar in scena “Per non dimenticare”, commovente spettacolo sulla Shoah. Io son proprio orgoglioso di far parte di questa compagnia di danza, che sembrerebbe “specializ-zata” in danze della nostra cultura ebraica! Chi dovesse passare per Ancona, oltre a visitare la nostra bella ed antica Sinagoga, si ricordi quindi di venire a Morro d’Alba, dove lo attende quindi una bella serata di musica e danze tipiche della nostra millenaria cultura ebraica!

SERGIO FORNARI

Silvia Haia Antonucci

Giorgia Calò

Ariel David

Mario Del Monte

Jonatan Della Rocca

Yael Di Consiglio

Piero Di Nepi

Alessandra Farkas

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