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Pagina 23 Che fare n. 70, gennaio-febbraio 2009 Nel mondo dell’istruzione prima- ria l’autunno ha portato una “novi- tà” ed una “sorpresa”. La “novità”: con il decreto 137 il governo ha av- viato una profonda contro-riforma della scuola elementare (v. scheda). La “sorpresa”: le lavoratrici delle elementari (in stragrande maggioran- za si tratta, infatti, di donne) non sono disposte a subire passivamen- te. Nelle scuole ci si inizia ad orga- nizzare, si discute collettivamente, si riesce in una certa qual misura a coinvolgere le famiglie dei bambini, si promuovono assemblee e manife- stazioni che puntano a “uscire” dal- le mura scolastiche e a comunicare con i quartieri. In alcune scuole, il 17 ottobre riesce lo sciopero indetto dai sindacati di base ed il 30 dello stesso mese, in occasione dello sciopero di categoria promosso da Cgil, Cisl e Uil, mentre in molte città si svolgono cortei, Roma è invasa da una marea di manifestanti. Ci sono gli studenti medi e gli universi- tari, gli insegnati delle superiori e i precari dell’università, il personale non docente e i genitori, ma il nu- cleo centrale della manifestazione è composto dalle maestre, scese in piazza dietro una miriade di striscio- ni e cartelli. Lavoratrici dignitose, mediamente abbastanza giovani, spesso alla prima esperienza di lot- ta, guardate con simpatia da buona parte del restante mondo del lavoro. Berlusconi e i suoi scagnozzi ma- sticano amaro, ma non si fermano. È vero che i decreti attuativi sono tutti da “scrivere” e che anche su questo piano la partita è da giocare, ma è altrettanto vero che, nonostante le riuscite mobilitazioni, il decreto è or- mai trasformato in legge con proce- dura d’urgenza. Come mai tanta de- cisione? come mai tanta “fretta”? e, soprattutto, come continuare, ri- prendere e rafforzare la lotta contro la “riforma” Gelmini? Per poter rispondere a queste do- mande, è necessario andare a vede- re quale è la reale posta in gioco. Il ruolo della scuola L’obiettivo del governo è dupli- ce. Primo: operare tagli all’istruzio- ne per miliardi di euro a vantaggio delle banche, della finanza, del gran- de capitale e delle spese belliche. Si attacca questo anello della spesa sociale per sostenere il profitto e la competitività (anche militare) del cosiddetto “sistema Italia”. Secon- do (ma non in ordine di importanza): riorganizzare complessivamente la scuola, cominciando innanzitutto da quella elementare, per renderla ca- pace di svolgere la funzione sociale che le è assegnata in modo più coe- rente con le esigenze imperative dei mercati. La scuola è una delle istituzioni incaricata dal capitale dell’educazio- ne della nuova generazione e della formazione della forza lavoro richie- sta dalle imprese. Essa è uno stru- mento nelle mani della classi pro- prietarie e sfruttatrici. È qui che ven- gono trasmessi la cultura, l’ideolo- gia ed i “valori” della classe domi- nante. Anche nella sua versione più aperta ed “avanzata”, in essa opera- no la selezione di classe e le discri- minazioni ai danni dei figli delle fa- miglie proletarie. Ed essa resta una delle istituzioni fondamentali per mantenere e riprodurre la divisione tra sfruttati e sfruttatori, tra chi co- manda e chi fatica. Questa è, nel capitalismo, l’essenza della scuola. Solo strappando di mano il potere politico alla borghesia, si potrà real- mente dar vita ad un sistema educa- tivo radicalmente alternativo, fina- lizzato ad aiutare sin dalla più tenera età ogni individuo a sviluppare al meglio ed armonicamente le proprie capacità e sensibilità in un’ottica e in una tensione sociale e collettiva. Un sistema che, non contrapponen- do e non separando più l’istruzione all’attività lavorativa, contribuirà a superare in avanti la divisione, tipi- ca della società borghese, tra lavoro intellettuale e manuale e a formare un uomo con conoscenze e interes- si davvero sociali e onnilaterali. Questo significa che fino a quel giorno la scuola non potrà essere altro che un ambiente in cui pulsa solo e soltanto la legge del capitale? Non siamo così semplicisti. Riflet- tiamo sulla recente storia italiana. A cavallo tra gli anni ’50 e ’60 dell’appena trascorso secolo, l’Ita- lia stava effettuando il balzo che ne avrebbe fatto un paese pienamente industrializzato. L’immigrazione in- terna vi ebbe un ruolo fondamenta- le. Milioni di contadini poveri e di braccianti abbandonarono le cam- pagne meridionali per andare a sa- ziare la fame di manodopera a buon mercato delle industrie e dei cantieri del Nord. Si trattava di gente per lo più semi-analfabeta, che si esprime- va quasi unicamente in dialetto e con una scarsissima conoscenza della lingua italiana, ma soprattutto si trattava di gente non avvezza alla dura disciplina di fabbrica. A tal proposito, l’industriale Re- nato Lombardi, nel primo convegno della Confindustria su “istruzione e industria” (aprile ’59), diceva: “Quello che l’industria chiede ai ra- gazzi sul piano strettamente profes- sionale è molto poco. Le nozioni professionali si possono e spesso si devono acquisire dopo.” Ciò che deve fare la scuola, continua Lom- bardi, è insegnare “l’ordine e la di- sciplina, elementi insostituibili nella formazione del carattere e della per- sonalità”; “difficilmente ad esse si sopperisce nell’ambiente di fabbri- ca se non si può contare su basi precostituite”. Insomma, le mansio- ni terribilmente monotone e ripetiti- ve alla catena di montaggio si impa- rano presto e sul campo, quello che la scuola deve fare è formare uomini ubbidienti, sottomessi e rispettosi delle gerarchie sociali. Di qui, il maestro con la bacchet- ta, le punizioni umilianti riservate ai figli dei contadini e degli operai, le pagelle con i voti (10 al figlio del dottore, 6 -se va bene- a quello del manovale), la bocciatura per il 7 in condotta e una didattica arida, no- zionistica e ridotta ai minimi termini. I rampolli delle “persone per bene” imparavano in ogni caso ben altro a casa, negli istituti privati o anche in classi della scuola pubblica ben se- lezionate. Scuola e lotta di classe Ma questo (ci sia consentito il termine) schifosissimo “modello di- dattico” a un certo punto si è incri- nato. A mandarlo a gambe in aria è la lotta della “incolta e rozza” classe operaia che, nella seconda metà de- gli anni sessanta, dai centri indu- striali del settentrione si diffonde per tutta la penisola. È il lungo “au- tunno caldo”, che non si fa sentire “solo” in fabbrica ma investe ed in- fluenza tutti gli ambiti della vita so- ciale. Scuola compresa. È in questo clima e solo grazie ad esso che i migliori pedagogisti ed insegnanti riescono a gettare le basi per una didattica meno individuali- stica, meno nozionistica, meno pas- sivizzante, più attenta al sociale e che si riesce a scalfire la rigida strut- tura classista della scuola italiana (soprattutto nelle elementari). Ci si batte affinché la scuola non sia sem- plicemente il luogo di formazione della forza-lavoro richiesta dalle fab- briche e dagli uffici ma uno degli ambienti in cui si fa le ossa un lavo- ratore capace di difendere i suoi di- ritti insieme ai suoi compagni e di pensare criticamente. Non si vuole rescindere il legame tra la scuola e la società, cosa in sé impossibile, ma collegare quello che si fa a scuola non con le esigenze dei capitalisti ma con le esigenze di difesa e di liberazione globale che i lavoratori cercano di far valere al di fuori della scuola. Espressione di questa spin- ta è anche l’esperienza delle “150 ore”. Questo è il ’68 di cui Tremonti e l’intero padronato vogliono liberar- si. Per tornare indietro? Agli anni cinquanta? No, lo vogliono fare per realizzare una scuola pienamente con i tempi,,, inizio XXI secolo. Rap- presentano questo tentativo Una “riforma” al passo coi tempi Il “maestro unico”, il voto in con- dotta, la demolizione del “tempo pie- no”, le classi “separate” per i figli degli immigrati e l’impoverimento della didattica previsti o prodotti dalla 137. Il decreto Gelmini prospet- ta una scuola al passo coi tempi e con le necessità del capitalismo ita- liano ed internazionale. Oggi, infatti, il ragionamento por- tato dall’imprenditore Renato Lom- bardi cinquanta anni fa è ancora più attuale. Grazie all’utilizzo capitalisti- co della scienza, non solo il lavoro industriale è diventato ancora più monotono e ripetitivo, ma anche le cosiddette occupazioni “tecniche” richiedono (balle a parte) un sempre minor grado di conoscenza e gli stessi livelli bassi del lavoro “intel- lettuale” vengono sempre più par- cellizzati, “semplificati” e standardiz- zati sul modello di fabbrica. Certo, lo sviluppo tecnologico e la perdita di specializzazione delle mansioni po- trebbero essere la base materiale per il superamento della divisione del lavoro e lo sviluppo di un essere umano universale. Ma solo se le for- ze produttive fossero liberate dalla morsa del capitale e del profitto. Di più: se negli anni cinquanta per le imprese era sufficiente avere a di- sposizione una manodopera dispo- sta a mansioni ripetitive pur rima- nendo con la testa altrove, adesso si vuole un lavoratore che metta non solo i suoi muscoli ma anche tutta la sua capacità di concentrazione e di attenzione al servizio di processi produttivi sempre più incalzanti e stressanti. Le future generazioni devono es- sere “educate” sin dall’infanzia a questi comportamenti. Da questo punto di vista, il rilancio più o meno esplicito dell’insegnamento dei “va- lori” della nazione, della razza, della donna vista come “angelo del foco- lare” non rappresenta neanche esso un “insulso e incomprensibile” ri- torno al passato: esso serve a pla- smare un lavoratore disposto a tut- to pur di sostenere la competitività della propria azienda e del proprio paese, anche all’occorrenza di di- ventare ubbidiente soldato, automa pronto ad essere usato per schiac- ciare altri popoli e a scannarsi con altri lavoratori ciascuno in nome cia- scuno della “propria” patria e tutti al servizio del dio profitto. La scuola elementare targata Gel- mini tendenzialmente è una caserma dequalificata e dequalificante per- ché questo oggi serve al capitali- smo. Scuola. Il decreto Gelmini è stato approvato: come continuare la lotta? 1) Tagli economici per 456 mi- lioni di euro nel 2009, per 1.650 milioni nel 2010, per 2.538 nel 2011 e 3.188 a partire dal 2012. Il tutto fa un totale di oltre 7.800 milioni di euro. 2) Tagli al personale così distri- buiti in tre anni; circa 90mila tra gli insegnanti e 47mila tra il per- sonale ausiliario (ata). Questi ta- gli saranno attuati col blocco del- le assunzioni e, soprattutto, con massicci licenziamenti mascherati attraverso l’espulsione dei precari dalle scuole. 3) Istituzione del “maestro uni- co” nelle elementari e svilimento del “tempo pieno”. La didattica viene ridotta a 24 ore settimanali. Ma, tranquilli, il governo fa sape- re che si terrà conto delle specifi- che esigenze delle famiglie per una “più ampia modulazione del tem- po scuola”. Delle tre l’una: o le altre ore d’insegnamento saranno a pagamento e a carico delle fami- glie (chi può può, chi non può non può); o i bambini verranno pura- mente parcheggiati negli istituti il pomeriggio e qualche cooperativa iper-precarizzata assumerà pure funzioni di babysitteraggio; o sia- mo di fronte all’ennesima bufala governativa. 4) L’aumento del numero dei bambini per classe (si punta ai 30). Un solo maestro e tanti bambini in più. E la Gelmini ha la faccia bron- zea di spacciare tutto ciò per un “provvedimento finalizzato al mi- glioramento della didattica”. 5) C’è il rischio (per ora stoppa- to grazie alle mobilitazioni) della chiusura dei piccoli istituti con accorpamento delle varie scuole. Il tutto per la gioia delle famiglie dei piccoli e piccolissimi centri i cui figli dovranno abituarsi sin da piccolissimi a fare i pendolari. Ma è, ovvio, per il bene dei bambini! 6) Ultima novità (mozione pre- sentata dal leghista Cota): classi separate per i bambini immigrati. Il cavaliere e la ministra le chia- mano “classi ponte” e servirebbe- ro (vedi un po’ quanta attenzio- ne) a facilitare l’integrazione dei piccoli “stranieri” (così li chia- mano) che hanno difficoltà nella lingua. Apparentemente questo provvedimento potrebbe anche sembrare puramente idiota. Infat- ti chiunque può capire che il modo migliore e più veloce per appren- dere una lingua è quello di fre- quentare quotidianamente chi questa lingua parla. Il fatto è che questa misura, però, non è frutto della stupidità, ma è voluta scien- temente per seminare divisione tra lavoratori italiani e immigra- ti, a cominciare da quando en- trambi sono in giovanissima età. Inoltre questo emendamento apre la strada a tutte le altre forme di discriminazione: verso i disabili, verso i bambini “problematici”, verso coloro che più subiscono il disagio sociale. Ciliegina sulla torta: col fede- ralismo fiscale si accentueranno ancor di più le differenze tra scuo- la e scuola, tra territorio e territo- rio. Ovvio: sempre per il bene dei bambini e dei giovani provenienti da famiglie proletarie. Ecco cosa prevede la contro-riforma Gelmini della scuola pubblica. Come andare avanti Per quanto, dunque, possa appa- rire (ed anche essere) “confusa, contraddittoria e approssimativa”, la “riforma” Gelmini si colloca piena- mente nel solco delle necessità ca- pitalistiche. Bloccarla sarà, quindi, più ostico di quanto abbiano imma- ginato molti lavoratori della scuola. Bisogna attrezzarsi a dovere. Per questo è necessario che i lavoratori della scuola, i genitori ed i giovani che in questi mesi si sono mobilitati non disperdano le loro forze, si dia- no e rafforzino, al contrario, momen- ti di discussione ed organizzazione collettiva. E che sviluppino la loro azione lungo due direzioni, intrec- ciate tra loro. Da un lato, bisogna collocare la battaglia contro la “riforma” sco- lastica nell’ottica di una più gene- rale battaglia contro l’intera politi- ca del governo e della Confindustria e, su questa base, lavorare ad esten- dere il fronte di lotta, adoperandosi con tenacia e in prima persona per costruire momenti di contatto, di dia- logo, di assemblee e di comune or- ganizzazione con il resto del mondo del lavoro, a cominciare da quello operaio. Bisogna a tal fine utilizzare tutti i momenti di mobilitazione pos- sibili. Dall’altro lato, va messo in luce che le esigenze della classe lavora- trice richiedono che la scuola ele- mentare sia cambiata nella direzione opposta a quella del governo Berlu- sconi. Va contrastata l’evasione scolastica, tornata a crescere negli ultimi anni, e non solo tra i bambini immigrati. La difesa del tempo pieno è possibile se essa è combinata con la lotta per l’estensione di esso nel- l’Italia meridionale, dove questo passo in avanti della lotta proletaria è raramente attuato. Il rigetto del- l’indirizzo razzista sottostante la norma sulle classi differenziate chia- ma in ballo, infine, i programmi at- tualmente in vigore: la scuola italia- na, in modo particolare la scuola ele- mentare, è crescentemente multina- zionale, eppure nei programmi (di storia, geografia, lingua e letteratu- ra, ecc.) è ancora assente la storia dei popoli del Sud e dell’Est del mondo, la loro lotta di emancipazio- ne dal dominio coloniale e semi-co- loniale europeo, per non parlare del- l’insegnamento delle loro lingue e letterature. Certo, andare in questa direzione non è per nulla facile. Da un lato perché continua ad essere ancora troppo presente l’idea (illusoria) che quello della scuola sia un “mondo a parte” che può e deve essere tutela- to grazie a sue presunte “particolari- tà”. Dall’altro lato perché nelle fab- briche e nelle aziende private il ricat- to occupazionale e la minaccia di chiusura o di spostamento all’este- ro della produzione stanno ancora agendo da ostacolo allo capacità di mobilitazione e lotta di questo cen- trale e decisivo settore. Non è dunque una strada sempli- ce, ma è l’unica (altro che referen- dum!) che ci può portare a contra- stare realmente l’azione del governo anche sullo “specifico” terreno sco- lastico. Lo dimostrano, tra l’altro, l’esperienza storica degli anni ’60 e ’70 e il fatto che questo “affondo nell’istruzione” può avvenire ades- so, dopo che il terreno è stato pre- parato da anni ed anni di costante attacco alle condizioni e alla capaci- tà di resistenza politica dei lavorato- ri dell’industria.

Scuola. Il decreto Gelmini è stato approvato: come ... · Il ruolo della scuola L’obiettivo del governo è dupli-ce. Primo: operare tagli all’istruzio-ne per miliardi di euro

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Page 1: Scuola. Il decreto Gelmini è stato approvato: come ... · Il ruolo della scuola L’obiettivo del governo è dupli-ce. Primo: operare tagli all’istruzio-ne per miliardi di euro

Pagina 23Che fare n. 70, gennaio-febbraio 2009

Nel mondo dell’istruzione prima-ria l’autunno ha portato una “novi-tà” ed una “sorpresa”. La “novità”:con il decreto 137 il governo ha av-viato una profonda contro-riformadella scuola elementare (v. scheda).La “sorpresa”: le lavoratrici delleelementari (in stragrande maggioran-za si tratta, infatti, di donne) nonsono disposte a subire passivamen-te. Nelle scuole ci si inizia ad orga-nizzare, si discute collettivamente,si riesce in una certa qual misura acoinvolgere le famiglie dei bambini,si promuovono assemblee e manife-stazioni che puntano a “uscire” dal-le mura scolastiche e a comunicarecon i quartieri. In alcune scuole, il 17ottobre riesce lo sciopero indettodai sindacati di base ed il 30 dellostesso mese, in occasione dellosciopero di categoria promosso daCgil, Cisl e Uil, mentre in molte cittàsi svolgono cortei, Roma è invasada una marea di manifestanti. Cisono gli studenti medi e gli universi-tari, gli insegnati delle superiori e iprecari dell’università, il personalenon docente e i genitori, ma il nu-cleo centrale della manifestazione ècomposto dalle maestre, scese inpiazza dietro una miriade di striscio-ni e cartelli. Lavoratrici dignitose,mediamente abbastanza giovani,spesso alla prima esperienza di lot-ta, guardate con simpatia da buonaparte del restante mondo del lavoro.

Berlusconi e i suoi scagnozzi ma-sticano amaro, ma non si fermano. Èvero che i decreti attuativi sono tuttida “scrivere” e che anche su questopiano la partita è da giocare, ma èaltrettanto vero che, nonostante leriuscite mobilitazioni, il decreto è or-mai trasformato in legge con proce-dura d’urgenza. Come mai tanta de-cisione? come mai tanta “fretta”? e,

soprattutto, come continuare, ri-prendere e rafforzare la lotta controla “riforma” Gelmini?

Per poter rispondere a queste do-mande, è necessario andare a vede-re quale è la reale posta in gioco.

Il ruolo della scuola

L’obiettivo del governo è dupli-ce. Primo: operare tagli all’istruzio-ne per miliardi di euro a vantaggiodelle banche, della finanza, del gran-de capitale e delle spese belliche. Siattacca questo anello della spesasociale per sostenere il profitto e lacompetitività (anche militare) delcosiddetto “sistema Italia”. Secon-do (ma non in ordine di importanza):riorganizzare complessivamente lascuola, cominciando innanzitutto daquella elementare, per renderla ca-pace di svolgere la funzione socialeche le è assegnata in modo più coe-rente con le esigenze imperative deimercati.

La scuola è una delle istituzioniincaricata dal capitale dell’educazio-ne della nuova generazione e dellaformazione della forza lavoro richie-sta dalle imprese. Essa è uno stru-mento nelle mani della classi pro-prietarie e sfruttatrici. È qui che ven-gono trasmessi la cultura, l’ideolo-gia ed i “valori” della classe domi-nante. Anche nella sua versione piùaperta ed “avanzata”, in essa opera-no la selezione di classe e le discri-minazioni ai danni dei figli delle fa-miglie proletarie. Ed essa resta unadelle istituzioni fondamentali permantenere e riprodurre la divisionetra sfruttati e sfruttatori, tra chi co-manda e chi fatica. Questa è, nelcapitalismo, l’essenza della scuola.

Solo strappando di mano il potere

politico alla borghesia, si potrà real-mente dar vita ad un sistema educa-tivo radicalmente alternativo, fina-lizzato ad aiutare sin dalla più teneraetà ogni individuo a sviluppare almeglio ed armonicamente le propriecapacità e sensibilità in un’ottica ein una tensione sociale e collettiva.Un sistema che, non contrapponen-do e non separando più l’istruzioneall’attività lavorativa, contribuirà asuperare in avanti la divisione, tipi-ca della società borghese, tra lavorointellettuale e manuale e a formareun uomo con conoscenze e interes-si davvero sociali e onnilaterali.

Questo significa che fino a quelgiorno la scuola non potrà esserealtro che un ambiente in cui pulsasolo e soltanto la legge del capitale?Non siamo così semplicisti. Riflet-tiamo sulla recente storia italiana.

A cavallo tra gli anni ’50 e ’60dell’appena trascorso secolo, l’Ita-lia stava effettuando il balzo che neavrebbe fatto un paese pienamenteindustrializzato. L’immigrazione in-terna vi ebbe un ruolo fondamenta-le. Milioni di contadini poveri e dibraccianti abbandonarono le cam-pagne meridionali per andare a sa-ziare la fame di manodopera a buonmercato delle industrie e dei cantieridel Nord. Si trattava di gente per lopiù semi-analfabeta, che si esprime-va quasi unicamente in dialetto econ una scarsissima conoscenzadella lingua italiana, ma soprattuttosi trattava di gente non avvezza alladura disciplina di fabbrica.

A tal proposito, l’industriale Re-nato Lombardi, nel primo convegnodella Confindustria su “istruzione eindustria” (aprile ’59), diceva:“Quello che l’industria chiede ai ra-gazzi sul piano strettamente profes-sionale è molto poco. Le nozioniprofessionali si possono e spessosi devono acquisire dopo.” Ciò chedeve fare la scuola, continua Lom-bardi, è insegnare “l’ordine e la di-sciplina, elementi insostituibili nellaformazione del carattere e della per-sonalità”; “difficilmente ad esse sisopperisce nell’ambiente di fabbri-ca se non si può contare su basiprecostituite”. Insomma, le mansio-ni terribilmente monotone e ripetiti-ve alla catena di montaggio si impa-rano presto e sul campo, quello chela scuola deve fare è formare uominiubbidienti, sottomessi e rispettosidelle gerarchie sociali.

Di qui, il maestro con la bacchet-ta, le punizioni umilianti riservate aifigli dei contadini e degli operai, lepagelle con i voti (10 al figlio deldottore, 6 -se va bene- a quello delmanovale), la bocciatura per il 7 incondotta e una didattica arida, no-zionistica e ridotta ai minimi termini.I rampolli delle “persone per bene”imparavano in ogni caso ben altro acasa, negli istituti privati o anche inclassi della scuola pubblica ben se-lezionate.

Scuola e lotta di classe

Ma questo (ci sia consentito iltermine) schifosissimo “modello di-dattico” a un certo punto si è incri-nato. A mandarlo a gambe in aria è lalotta della “incolta e rozza” classeoperaia che, nella seconda metà de-gli anni sessanta, dai centri indu-striali del settentrione si diffondeper tutta la penisola. È il lungo “au-tunno caldo”, che non si fa sentire“solo” in fabbrica ma investe ed in-fluenza tutti gli ambiti della vita so-ciale. Scuola compresa.

È in questo clima e solo grazie adesso che i migliori pedagogisti edinsegnanti riescono a gettare le basiper una didattica meno individuali-stica, meno nozionistica, meno pas-sivizzante, più attenta al sociale eche si riesce a scalfire la rigida strut-

tura classista della scuola italiana(soprattutto nelle elementari). Ci sibatte affinché la scuola non sia sem-plicemente il luogo di formazionedella forza-lavoro richiesta dalle fab-briche e dagli uffici ma uno degliambienti in cui si fa le ossa un lavo-ratore capace di difendere i suoi di-ritti insieme ai suoi compagni e dipensare criticamente. Non si vuolerescindere il legame tra la scuola e lasocietà, cosa in sé impossibile, macollegare quello che si fa a scuolanon con le esigenze dei capitalistima con le esigenze di difesa e diliberazione globale che i lavoratoricercano di far valere al di fuori dellascuola. Espressione di questa spin-ta è anche l’esperienza delle “150ore”.

Questo è il ’68 di cui Tremonti el’intero padronato vogliono liberar-si. Per tornare indietro? Agli annicinquanta? No, lo vogliono fare perrealizzare una scuola pienamentecon i tempi,,, inizio XXI secolo. Rap-presentano questo tentativo

Una “riforma”al passo coi tempi

Il “maestro unico”, il voto in con-dotta, la demolizione del “tempo pie-no”, le classi “separate” per i figlidegli immigrati e l’impoverimentodella didattica previsti o prodottidalla 137. Il decreto Gelmini prospet-ta una scuola al passo coi tempi econ le necessità del capitalismo ita-liano ed internazionale.

Oggi, infatti, il ragionamento por-tato dall’imprenditore Renato Lom-bardi cinquanta anni fa è ancora piùattuale. Grazie all’utilizzo capitalisti-co della scienza, non solo il lavoroindustriale è diventato ancora piùmonotono e ripetitivo, ma anche lecosiddette occupazioni “tecniche”richiedono (balle a parte) un sempreminor grado di conoscenza e glistessi livelli bassi del lavoro “intel-lettuale” vengono sempre più par-cellizzati, “semplificati” e standardiz-zati sul modello di fabbrica. Certo, losviluppo tecnologico e la perdita dispecializzazione delle mansioni po-trebbero essere la base materiale peril superamento della divisione dellavoro e lo sviluppo di un essereumano universale. Ma solo se le for-ze produttive fossero liberate dallamorsa del capitale e del profitto. Dipiù: se negli anni cinquanta per leimprese era sufficiente avere a di-sposizione una manodopera dispo-sta a mansioni ripetitive pur rima-nendo con la testa altrove, adessosi vuole un lavoratore che metta nonsolo i suoi muscoli ma anche tutta lasua capacità di concentrazione e diattenzione al servizio di processiproduttivi sempre più incalzanti estressanti.

Le future generazioni devono es-sere “educate” sin dall’infanzia aquesti comportamenti. Da questopunto di vista, il rilancio più o menoesplicito dell’insegnamento dei “va-lori” della nazione, della razza, delladonna vista come “angelo del foco-lare” non rappresenta neanche essoun “insulso e incomprensibile” ri-torno al passato: esso serve a pla-smare un lavoratore disposto a tut-to pur di sostenere la competitivitàdella propria azienda e del propriopaese, anche all’occorrenza di di-ventare ubbidiente soldato, automapronto ad essere usato per schiac-ciare altri popoli e a scannarsi conaltri lavoratori ciascuno in nome cia-scuno della “propria” patria e tutti alservizio del dio profitto.

La scuola elementare targata Gel-mini tendenzialmente è una casermadequalificata e dequalificante per-ché questo oggi serve al capitali-smo.

Scuola. Il decreto Gelmini è stato approvato:

come continuare la lotta?

1) Tagli economici per 456 mi-lioni di euro nel 2009, per 1.650milioni nel 2010, per 2.538 nel2011 e 3.188 a partire dal 2012. Iltutto fa un totale di oltre 7.800milioni di euro.

2) Tagli al personale così distri-buiti in tre anni; circa 90mila tragli insegnanti e 47mila tra il per-sonale ausiliario (ata). Questi ta-gli saranno attuati col blocco del-le assunzioni e, soprattutto, conmassicci licenziamenti mascheratiattraverso l’espulsione dei precaridalle scuole.

3) Istituzione del “maestro uni-co” nelle elementari e svilimentodel “tempo pieno”. La didatticaviene ridotta a 24 ore settimanali.Ma, tranquilli, il governo fa sape-re che si terrà conto delle specifi-che esigenze delle famiglie per una“più ampia modulazione del tem-po scuola”. Delle tre l’una: o lealtre ore d’insegnamento sarannoa pagamento e a carico delle fami-glie (chi può può, chi non può nonpuò); o i bambini verranno pura-mente parcheggiati negli istituti ilpomeriggio e qualche cooperativaiper-precarizzata assumerà purefunzioni di babysitteraggio; o sia-mo di fronte all’ennesima bufalagovernativa.

4) L’aumento del numero deibambini per classe (si punta ai 30).Un solo maestro e tanti bambini inpiù. E la Gelmini ha la faccia bron-zea di spacciare tutto ciò per un“provvedimento finalizzato al mi-glioramento della didattica”.

5) C’è il rischio (per ora stoppa-to grazie alle mobilitazioni) della

chiusura dei piccoli istituti conaccorpamento delle varie scuole.Il tutto per la gioia delle famigliedei piccoli e piccolissimi centri icui figli dovranno abituarsi sin dapiccolissimi a fare i pendolari. Maè, ovvio, per il bene dei bambini!

6) Ultima novità (mozione pre-sentata dal leghista Cota): classiseparate per i bambini immigrati.Il cavaliere e la ministra le chia-mano “classi ponte” e servirebbe-ro (vedi un po’ quanta attenzio-ne) a facilitare l’integrazione deipiccoli “stranieri” (così li chia-mano) che hanno difficoltà nellalingua. Apparentemente questoprovvedimento potrebbe anchesembrare puramente idiota. Infat-ti chiunque può capire che il modomigliore e più veloce per appren-dere una lingua è quello di fre-quentare quotidianamente chiquesta lingua parla. Il fatto è chequesta misura, però, non è fruttodella stupidità, ma è voluta scien-temente per seminare divisionetra lavoratori italiani e immigra-ti, a cominciare da quando en-trambi sono in giovanissima età.Inoltre questo emendamento aprela strada a tutte le altre forme didiscriminazione: verso i disabili,verso i bambini “problematici”,verso coloro che più subiscono ildisagio sociale.

Ciliegina sulla torta: col fede-ralismo fiscale si accentuerannoancor di più le differenze tra scuo-la e scuola, tra territorio e territo-rio. Ovvio: sempre per il bene deibambini e dei giovani provenientida famiglie proletarie.

Ecco cosa prevede la contro-riforma Gelmini

della scuola pubblica.

Come andare avanti

Per quanto, dunque, possa appa-rire (ed anche essere) “confusa,contraddittoria e approssimativa”,la “riforma” Gelmini si colloca piena-mente nel solco delle necessità ca-pitalistiche. Bloccarla sarà, quindi,più ostico di quanto abbiano imma-ginato molti lavoratori della scuola.Bisogna attrezzarsi a dovere. Perquesto è necessario che i lavoratoridella scuola, i genitori ed i giovaniche in questi mesi si sono mobilitatinon disperdano le loro forze, si dia-no e rafforzino, al contrario, momen-ti di discussione ed organizzazionecollettiva. E che sviluppino la loroazione lungo due direzioni, intrec-ciate tra loro.

Da un lato, bisogna collocare labattaglia contro la “riforma” sco-lastica nell’ottica di una più gene-rale battaglia contro l’intera politi-ca del governo e della Confindustriae, su questa base, lavorare ad esten-dere il fronte di lotta, adoperandosicon tenacia e in prima persona percostruire momenti di contatto, di dia-logo, di assemblee e di comune or-ganizzazione con il resto del mondodel lavoro, a cominciare da quellooperaio. Bisogna a tal fine utilizzaretutti i momenti di mobilitazione pos-sibili.

Dall’altro lato, va messo in luceche le esigenze della classe lavora-trice richiedono che la scuola ele-mentare sia cambiata nella direzioneopposta a quella del governo Berlu-sconi. Va contrastata l’evasionescolastica, tornata a crescere negliultimi anni, e non solo tra i bambiniimmigrati. La difesa del tempo pienoè possibile se essa è combinata conla lotta per l’estensione di esso nel-l’Italia meridionale, dove questopasso in avanti della lotta proletariaè raramente attuato. Il rigetto del-l’indirizzo razzista sottostante lanorma sulle classi differenziate chia-ma in ballo, infine, i programmi at-tualmente in vigore: la scuola italia-na, in modo particolare la scuola ele-mentare, è crescentemente multina-zionale, eppure nei programmi (distoria, geografia, lingua e letteratu-ra, ecc.) è ancora assente la storiadei popoli del Sud e dell’Est delmondo, la loro lotta di emancipazio-ne dal dominio coloniale e semi-co-loniale europeo, per non parlare del-l’insegnamento delle loro lingue eletterature.

Certo, andare in questa direzionenon è per nulla facile. Da un latoperché continua ad essere ancoratroppo presente l’idea (illusoria) chequello della scuola sia un “mondo aparte” che può e deve essere tutela-to grazie a sue presunte “particolari-tà”. Dall’altro lato perché nelle fab-briche e nelle aziende private il ricat-to occupazionale e la minaccia dichiusura o di spostamento all’este-ro della produzione stanno ancoraagendo da ostacolo allo capacità dimobilitazione e lotta di questo cen-trale e decisivo settore.

Non è dunque una strada sempli-ce, ma è l’unica (altro che referen-dum!) che ci può portare a contra-stare realmente l’azione del governoanche sullo “specifico” terreno sco-lastico. Lo dimostrano, tra l’altro,l’esperienza storica degli anni ’60 e’70 e il fatto che questo “affondonell’istruzione” può avvenire ades-so, dopo che il terreno è stato pre-parato da anni ed anni di costanteattacco alle condizioni e alla capaci-tà di resistenza politica dei lavorato-ri dell’industria.

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“Un tormento di lavoro senza fineper cui si torna sempre a percorrerelo stesso processo meccanico asso-miglia a un lavoro di Sisifo; la moledel lavoro, come la roccia, torna acadere sempre sull’operaio spossa-to.” Engels: La condizione dellaclasse operaia in Inghilterra.

“Tutti i sensi sono lesi ugualmen-te dalla temperatura aumentata arti-ficiosamente, dal chiasso assordan-te ecc, astrazion fatta dal pericolo dimorte che si cela nell’ammucchia-mento di macchine una vicinissimaall’altra, il quale produce, con la re-golarità del susseguirsi delle stagio-ni, i propri bollettini industriali dibattaglia. L’economizzazione deimezzi sociali di produzione, chegiunge a maturazione solo nel siste-ma di fabbrica, diviene allo stessotempo, nelle mani del capitale, de-predazione sistematica delle condi-zioni di vita dell’operaio durante illavoro, dello spazio, dell’aria, dellaluce e dei mezzi personali di difesacontro le circostanze implicanti ilpericolo di morte o antigieniche delprocesso di produzione, per nonparlare dei provvedimenti mirantialla comodità dell’operaio”. Marx: Ilcapitale.

Da venti anni stuoli di sociologi,giornalisti e studiosi si affannano aspiegare quanto e come tali visionisiano roba vecchia e sorpassata. Ilcapitalismo, infatti, grazie alle nuo-ve tecnologie, avrebbe (udite, udi-te) finalmente reso “leggero” il lavo-ro operaio. Balle colossali.

Il valore dell’indagine...

A smentire questo schifoso e in-teressatissimo cumulo di bugieprovvede, tra l’altro, l’inchiestasvolta dalla Fiom, frutto di un gran-de lavoro organizzato, che rappre-senta la più importante indagine de-gli ultimi vent’anni sulle condizionidi vita e di lavoro dei metalmeccani-ci in Italia. Quattrocentomila que-stionari distribuiti e centomila tor-nati indietro compilati, fanno piazzapulita delle più indegne e false reto-riche sociologiche sulla scomparsadella classe operaia e dimostranoquanto siano di piena attualità lerighe scritte da Marx ed Engel circacentocinquanta anni fa.

I metalmeccanici in Italia rappre-sentano una parte non proprio pic-cola dell’esercito delle tute blu:compresi gli impiegati, contano cir-ca due milioni di addetti su un totaledi 5 milioni di salariati manufatturie-ri! Eppure, come riconosce la stessaFiom, l’eco dell’inchiesta è statascarsa. E non certo perché priva disignificatività. Compilare questiona-ri con circa cento domande non èstata esattamente una passeggiata,soprattutto se si considera che acompilarli sono stati nella stragran-de maggioranza dei casi operai tra ilterzo e il quinto livello, che lavoranoper almeno otto ore al giorno percinque giorni a settimana (e qualcu-no anche oltre), costretti a concilia-re, soprattutto se donne, lavoro ex-tradomestico e lavoro domestico edi cura. Che per rispondere a tutte ledomande è stata necessaria almenoun’ora tanto che, quasi tutti, si sonoportati il questionario a casa.

Mai in passato le inchieste sullecondizioni di lavoro avevano rag-giunto un così alto numero di que-stionari compilati e ciò è indicativodel bisogno ancora non adeguata-mente manifestato, ma molto diffu-so tra i lavoratori, di ridare voce evisibilità al mondo del lavoro, di farconoscere le proprie condizioni, leproprie aspettative, le proprie paure

ed il proprio stato di salute.

...e le ragionidel silenzio su essa

Eppure questa importante indagi-ne è rimasta un po’ in sordina. E nonci riferiamo tanto all’eco che essanon ha avuto sulla stampa borghe-se, la quale ha sempre considerato etrattato come spazzatura tutto ciòche riguarda il mondo del lavoro sa-lariato. Quanto all’eco, piuttostoscarsa, avuta all’interno del sinda-cato, e, cosa ancor più preoccupan-te, tra gli stessi lavoratori che nesono stati i diretti protagonisti. Unoscarso rilievo fondamentalmente daaddebitare alle profonde difficoltàpolitiche in cui attualmente versa laclasse operaia e che potranno esse-re superate solo riconquistando unapropria prospettiva di classe.

È a partire da questa necessitàche vogliamo segnalare questa im-portante indagine ai nostri lettori, aicompagni e ai lavoratori. A quantiavvertono che si preparano eventi acui non sarà più sufficiente rispon-dere alla stregua del passato. Da-vanti ai quali non sarà più sufficien-te limitarsi a “dire la propria”, comein parte accade con l’inchiesta Fiom.

Cosa emerge dall’indagine?

Anzitutto alcuni elementi di ca-rattere generale. L’inchiesta, con-dotta per lo più in aziende sindaca-lizzate, ha coinvolto complessiva-mente 4.000 imprese, la gran partedelle quali medie e grandi; 100milalavoratrici e lavoratori, di cui oltre15mila impiegati, più di 3mila immi-grati (certamente sottorappresenta-ti rispetto al numero complessivopresente nelle aziende metalmecca-niche) e oltre 20mila donne. Il primodato che emerge è la smentita di tuttii luoghi comuni sulle reali condizio-ni di lavoro oggi. “Nel lavoro indu-striale di oggi, proprio in quello piùcompetitivo ed avanzato, le vecchiepratiche tayloristiche fondate sullaripetitività, sulla parcellizzazione,sulla spinta all’aumento dell’orariodi lavoro, e quelle richieste dallamodifica dei ritmi produttivi, dalladiversa richiesta di qualità dei pro-dotti, dall’obbligo di una maggioreattenzione e partecipazione di chilavora al processo produttivo, il vec-chio ed il nuovo si sovrappongonoe si intrecciano. Non sparisce la vec-chia condizione di lavoro, ma si tra-sforma con un aggravio complessi-vo della fatica del lavoratore e ancorpiù della lavoratrice, per cui la faticache viene dal vecchio spesso sisomma con lo stress, la tensione,l’insicurezza sociale prodotta dalnuovo”. Insomma, nell’era del tantocelebrato post-fordismo emerge conforza una amara verità. Il fordismo èsuperato soltanto in un senso: os-sia esso è stato ulteriormente perfe-zionato grazie alla sua combinazio-ne con un più moderno ed efficientemodello di organizzazione del lavo-ro, il toyotismo. Ebbene, a smentitadelle favole raccontate a iosa daglianni novanta (dai governi, dai pa-droni e, non nascondiamocelo, an-che dai sindacati tutti) sull’avventodel lavoro ormai libero da rigidi earcaici vincoli di ogni sorta, creativoe soprattutto avamposto di un’erain cui avrebbe dovuto farla da pa-drone il maggior tempo libero pertutti (ricordate le frottole su come illavoro flessibile avrebbe permessoai giovani di lasciarsi alle spalle fi-nalmente i rigidi orari di fabbrica deipropri padri?), dall’inchiesta emer-

gono dati ben più materiali e crudi.Non solo il lavoro oggi (anno 2008!)è parcellizzato e ripetitivo (lo affer-mano il 65% degli intervistati) ed iritmi di lavoro sono elevati per granparte della durata del tempo di lavo-ro. Ma, a dettare i ritmi ed i tempi dilavoro non è la libera iniziativa dellavoratore (altra grandiosa frottola)bensì, per il 71,6 % degli operai ed il63% degli impiegati, sono in primoluogo gli obiettivi di produzione pre-fissati (dai padroni!) ed a seguire iritmi di lavoro degli altri colleghi, lavelocità della macchina, il controllodiretto del proprio capo. Infine piùdella metà degli operai (il 52,3% )non può cambiare l’ordine e la prio-rità dei compiti da svolgere, l’83%non può influire in maniera determi-nante sul proprio orario di lavoro, il44,3% non è libero di decidere quan-do prendere le ferie. Quanto ad ora-ri, il 64% degli intervistati dichiara dilavorare 40 ore a settimana ed il26,3% oltre 44. Solo una piccola per-centuale è disponibile ad un incre-mento degli orari (a proposito di de-tassazione degli straordinari!) e qua-si la metà li vorrebbe ridurre. “Lasomma di vecchio e nuovo, la lorocontaminazione, produce così unmodo di lavorare infinitamente piùstressante e faticoso che nel passa-to”. Domanda al volo: tutto c’entrao no con la diffusione tra i lavorato-ri, soprattutto giovani, di quelle so-stanze stupefacenti che illusoria-mente “danno la carica” per tirareavanti?

Infine, un dato che emerge conforza è che le donne e gli immigratirappresentano la parte più sfruttata,

meno tutelata, peggio pagata. Ledonne e gli immigrati sono inqua-drati nella stragrande maggioranzadei casi al 3° livello e non superanomai il 5°. Sono le donne a detenere ilprimato quanto a lavori precari, fles-sibili e con una più bassa retribuzio-ne. Infine sono soprattutto le donnee gli immigrati a subire sui luoghi dilavoro intimidazioni, discriminazionie violenze, anche fisiche.

Insomma, come dice la stessaFiom, se questa è la condizione deilavoratori impiegati nelle medie egrandi imprese sindacalizzate, non èdifficile immaginare le condizioni dilavoro nelle piccole e piccolissimeimprese non sindacalizzate.

Ma, al di là dei dati, come percepi-scono la propria condizione i lavo-ratori? Più della metà degli operai edelle operaie (il 58%) considera ilproprio posto di lavoro a norma,dotato cioè delle misure necessarieper lavorare in sicurezza; il 73% de-gli intervistati ritiene di aver ricevu-to una buona informazione sui ri-schi derivanti dall’utilizzo di mate-riali, strumenti e prodotti; oltre il77% dichiara di poter discutere suiposti di lavoro della propria condi-zione e dell’organizzazione del lavo-ro; poco meno del 20% degli operairitiene alto il rischio di farsi male sulposto di lavoro; circa il 70% degliintervistati intravede per l’impresain cui lavora una situazione o di mi-glioramento (il 19%) o stabile (il51%) nei prossimi due anni.

L’inchiesta Fiom sulla condizione

dei lavoratori metalmeccanici

L’inchiesta della Fiom confermauna verità mai troppo illustrata ecompresa: i lavoratori immigraticostituiscono la parte più sfrutta-ta, meno tutelata, peggio pagatadel settore metalmeccanico. Unaforza lavoro a prezzi di saldo per ilcapitale italiano, a partire dal-l’accesso al mercato del lavoro,grazie anche alla Bossi-Fini.

Nonostante il grado spesso ele-vato di scolarizzazione conseguitonei paesi di origine, la maggiorparte degli immigrati lavora comeoperaio, e raramente ha un inqua-dramento superiore al terzo livel-lo. Sono i più colpiti dalla preca-rietà: i contratti di lavoro preca-rio e a tempo determinato sono in-fatti, per gli immigrati, quasi il tri-plo che per i lavoratori italiani:riguardano un immigrato su quat-tro, uno su tre al di sotto dellasoglia dei 35 anni.

Sotto-inquadramento e preca-rietà pesano in modo determinan-te sull’entità del salario. Non è ca-suale che tra i lavoratori immigra-ti l’inchiesta Fiom abbia trovatogli orari di lavoro più lunghi. Né ècasuale che essi siano disposti alavorare ancora più ore… è pro-prio per compensare in qualchemodo i bassi salari che i lavoratoriimmigrati fanno ordinariamente lostraordinario, e accettano piùspesso l’imposizione di turnazioninotturne o di sabato, o si trovanocostretti a trovarsi un secondo la-voro.

Anche per quel che riguarda gliinfortuni, le morti sul lavoro e lemalattie professionali, i lavoratoriimmigrati “godono” di trattamen-to speciale. Le stesse statistichedell’Inail, che in questi ultimi anni

Lavoratori di serie B. Non rassegnati, però.

hanno registrato una tendenzialediminuzione dell’incidenza di in-fortuni e incidenti mortali tra ilavoratori italiani (chissà quantocorrispondente alla realtà è tuttoda vedere), mostrano contestual-mente un loro aumento tra i lavo-ratori immigrati. Ciò si deve ailunghi orari e ad una vera e pro-pria segregazione in compartiproduttivi, dove il lavoro è fisica-mente più pesante, più insalubre,più logorante: nella siderurgia,nelle fonderie, nella prima lavo-razione dei metalli e sempre piùspesso, all’interno di singole fab-briche, in veri e propri reparticonfino molto ben popolati di im-migrati.

Benché sottoposti a moltepliciricatti, i lavoratori immigrati noncessano di rivolgersi ai sindacati:tra il 2006 e il 2007, in un soloanno, le iscrizioni tra i lavoratoriimmigrati sono cresciute da687.000 a 814.000. Da anni c’èun boom di iscrizioni. È un segnochiaro e forte che non vi è rasse-gnazione di fronte al “destino”che i capitalisti nostrani vorreb-bero riservare a loro e all’interaclasse lavoratrice. Un segno chenon trova una reale corrisponden-za nel sindacato. Anzi. C’è tuttoraun forte scarto tra gli iscritti e idelegati immigrati, e uno scartoancora maggiore tra iscritti e di-rigenti di origine non italiana.Ma soprattutto manca una seria,sistematica, militante azione con-tro il razzismo e le discriminazio-ni nei posti di lavoro e al di fuoridei posti di lavoro, che è invecesempre più urgente, specie dopo ifatti di sangue di questi ultimimesi.

Tra la difesa delle conquistee realismo operaio

Non si tratta di schizofrenia. Daun lato nelle imprese più sindacaliz-zate (quelle in cui maggiormente si èrisposto al questionario) il padrona-to non è ancora riuscito a far total-mente piazza pulita delle garanziestrappate dai lavoratori nei decenniprecedenti e, quindi, un minimo di“controllo” operaio sulle condizionilavorative continua a sopravvivere(e, non casualmente, ad essere unodei principali bersagli confindustria-li). Dall’altro lato vi è una forma di“realismo” operaio che non vede al-tra strada che aggrapparsi alla pro-pria azienda nella speranza (illuso-ria) di parare i colpi in arrivo. D’al-tronde non è stato anche il sindaca-to (Cgil me Fiom comprese) ad edu-care la classe lavoratrice a vedere lapropria sorte legata a stretto filo conquello della propria impresa e dellapropria nazione? E così, di fatto, acontribuire a dar spazio a tutte quel-le derive di tipo localiste e leghisteche per altro verso la stessa Fiomgiustamente denuncia come fune-ste per il movimento operaio?

Rinaldini il 21 settembre, nel suointervento conclusivo alla manife-stazione a Mestre (Venezia) controle politiche governative, ha detto:“stiamo entrando in una crisi eco-nomica che costringerà i lavoratori ascendere in campo. Il sindacatodeve predisporsi a governare il con-flitto”.

La questione, sempre più strin-gente rimane pertanto la seguente:come e in quale prospettiva i lavora-tori devono e possono organizzareun’efficace difesa? Prendere attodelle attuali difficoltà è necessario,ma proprio per affrontarle e superar-le. In tal senso l’obiettivo di fondodeve essere quello di lavorare aduna scesa in campo generale controil governo e la confindustria, e noncerto, come sostengono alcuni diri-genti Fiom, quello di ipotizzare “tan-te resistenze a macchia di leopardo”(qui contro la precarietà, là sulla sa-lute, in un’altra parte contro l’auto-ritarismo aziendale…). È vero, al-l’oggi una simile battaglia non è allanostra portata immediata. Pensare,però, di potervi sfuggire ricercandoscorciatoie sarebbe soltanto suici-da. Quello che deve essere affronta-to è un percorso faticoso, faticosis-simo; assolutamente non lineare etravagliato. Ma che non si può sal-tare. Ed uno dei primi passi in que-sta direzione consiste nella riacqui-sizione della fiducia nelle propriesole forze organizzate. Consiste nelriconquistare l’orgoglio di classe.Perché è vero, oggi il proletariato ècostretto ad una vita dura, pesante,avarissima di soddisfazioni e riccadi umiliazioni dentro e fuori i luoghidi lavoro. Un’esistenza da cui natu-ralmente si vuole scappar via. Mada cui non si potrà evadere né pervie individuali, né attraverso l’usodi sostanze che aprono le porte diillusori paradisi artificiali in cui perun attimo ci si immagina di aver mes-so alle spalle la propria quotidianità.Dallo squallore, dalle ansie e dai tor-menti del presente se ne potrà veni-re fuori solo collettivamente, conl’organizzazione e la lotta di classecontro il capitalismo, contro la suaorganizzazione del lavoro e di tuttala vita sociale.

La grande crisi del capitalismo / La grande sfida per il proleriato

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Contro il razzismo di stato,

per l’unità di lotta contro il comune nemico

tra lavoratori italiani e immigrati

Queste pagine sono dedicate adalcune delle mobilitazioni che inquesti mesi, sia pure tra mille diffi-coltà, i lavoratori immigrati hannoportato avanti. Secondo le statisti-che ufficiali questi proletari con-tribuiscono ormai per oltre il 10%al prodotto lordo italiano e in cir-ca 750 mila sono iscritti ai sinda-cati. Quanto più negli anni è cre-sciuto il loro peso nel campo pro-duttivo, tanto più si è fatto di tuttoper stendere intorno ad essi il filospinato del razzismo. Gli obiettividi questa pluridecennale politica,che attraverso l’azione dell’attua-le governo sta vivendo una decisosalto di qualità sia sul piano istitu-zionale che su quello extra-istitu-zionale e “popolare”, sono molte-plici. Gli immigrati servono come ilpane al capitalismo italiano, madevono restare lavoratori di serieB, costantemente sotto schiaffo esuper-sfruttati. E soprattutto devo-no essere mantenuti divisi e sepa-rati dai lavoratori italiani, anziquesti ultimi devono essere indottia vedere (falsamente) in essi lacausa principale dei loro proble-mi.

In un simile contesto le mobilita-zioni locali di cui diamo conto inqueste pagine sono importantissi-me, ma per poter davvero costruireun argine contro le politiche razzi-ste è indispensabile andare decisa-mente oltre. Le energie devono es-sere convogliate verso la costru-zione di un reale e stabile coordi-namento nazionale aperto a tuttigli immigrati a prescindere dallaloro appartenenza o meno a un sin-dacato.

Per andare in questa direzione è,però, necessario tenere conto e af-frontare un complesso di situazio-ni. L’offensiva razzista, infatti, nonmarcia solo sul mero versante re-pressivo, ma anche su altri pianiche mirano tutti a creare divisionee contrapposizione all’interno de-gli stessi immigrati.

Per dirne una, nelle scorse setti-mane si è tenuto un convegno “sul-l’integrazione” ispirato dal presi-dente della camera Fini a cui sonostati invitati i“rappresentanti” de-gli immigrati tra i più “istruiti” oche più si sono “inseriti” (magariavendo fatto strada nel commercioo nella piccola imprenditoria) nel-la società italiana. Nel convegnoFini ha riconosciuto (bontà sua) ilruolo dei lavoratori “stranieri”,ma ha soprattutto sollecitato (rice-vendone positive risposte dai pre-senti) che la parte “migliore” diquesti si faccia carico di promuo-vere tra la restante massa i valoridell’italianità. L’obiettivo è quellodi utilizzare una ristretta e ben se-lezionata fascia di “integrati” pertentare di porre un freno “dall’in-terno” al percorso di organizza-zione e lotta degli immigrati e perfar vivere con più forza tra di essi lanecessità e la “convenienza” (inrealtà l’obbligo) di adeguarsi inpieno alle “regole” di “casa no-stra” (leggi alle esigenze delle im-prese e dello stato italiano).

Ma estremamente pericolosa (esbagliata) è anche la proposta ve-nuta dalla Cgil di Treviso. Di fron-te alla crisi che avanza e ai tantilicenziamenti che anche nel trevi-giano stanno colpendo soprattuttoimmigrati, il segretario della Cgillocale, Barbiero, ha chiesto che ilgoverno e le autorità locali bloc-chino ogni nuovo ingresso di lavo-ratori “stranieri” per, invece, af-frontare e risolvere il problema dichi “è già qua”. Una simile inizia-

tiva rischia di raccogliere il con-senso di non pochi operai immi-grati e di creare divisione e con-trapposizione tra chi ha e chi nonha il permesso di soggiorno, tra chiè da tempo in Italia e chi invece èappena arrivato o sta per giunger-vi. Simili divisioni, se non contra-state sin da subito, avranno un soloeffetto: quello di rendere più debo-li e ricattabili non solo i “nuovivenuti”, ma l’insieme degli immi-grati. La difesa e la conquista deipropri diritti non può passare persimili vie, ma solo attraverso unamobilitazione ed un’organizzazio-ne che unisca “regolari” e “clan-destini”, “vecchi” e “nuovi” arri-vati.

Di come rilanciare la lotta tra ipiù attivi degli immigrati se ne stadiscutendo da tempo e nelle discus-sioni si inizia ad affacciare con uncerto rilievo l’idea dello scioperodella manodopera immigrata. Èchiaro che una tale “specifica”prospettiva deriva innanzituttodall’isolamento in cui questi pro-letari sono lasciati dal sindacato edall’atteggiamento per nulla favo-revole che i lavoratori italiani ma-

Il 18 ottobre si è tenuta un’assemblea provinciale dei lavoratori immigratiorganizzata dalla Fiom. Circa centoventi partecipanti soprattutto di nazio-nalità africana. Nel corso dell’assemblea sono state denunciate le condi-zioni ricattatorie a cui sono sottoposti gli operai immigrati ed è statosottolineato come sia in aumento il numero di delegati di fabbrica di origine“straniera”.

Significativi sono stati alcuni interventi dei delegati immigrati nei quali siinvitavano i lavoratori immigrati ad essere più presenti alle iniziative, nelleassemblee e negli scioperi indetti dal sindacato. Rispetto a questa solleci-tazione è intervenuto un immigrato dalla platea, che ha fatto notare che ledifficoltà tra i lavoratori, sono dovute essenzialmente al legame tra permes-so di soggiorno e contratto di lavoro: “se oggi partecipiamo alle iniziati-ve, domani con i dirigenti aziendali dobbiamo presentarci in questuraper il rinnovo del permesso di soggiorno…”.

Un altro intervento ha sollecitato il sindacato a non lasciare da soli ilavoratori immigrati: “ c’è bisogno di solidarietà e di pieno sostegno aimigranti che rischiano di perdere il posto di lavoro, il permesso di soggior-no e di non riuscire a mandare i soldi a casa”. A più riprese è statodenunciato il razzismo strisciante nella Città di Parma.

Inoltre, particolarmente interessante l’intervento del rappresentante delcoordinamento immigrati di Bologna che ha parlato del lavoro che si stafacendo nel capoluogo emiliano con l’obiettivo di arrivare ad uno scioperodegli immigrati che coinvolga chi lavora in fabbrica, ma anche chi, come lebadanti, è occupato in altri settori.

All’assemblea è anche intervenuto il padre di Emmanuel Bonsu (lostudente pestato dai vigili urbani durante un fermo). Questo operaio, riccodi dignità, ha denunciato con chiarezza l’operato della polizia municipaleed ha parlato dell’effetto terrorizzante che il pestaggio ha avuto sugli altrisuoi figli. Altri immigrati hanno fatto sapere che alla famiglia Foster sonoarrivate diverse lettere minatorie e che il giorno precedente Emmanuel estato posto sotto interrogatorio per circa 10 ore.

In seguito a questa iniziativa l’8 novembre 2008, sempre a Parma, si èsvolto un corteo che ha visto centinaia di operai immigrati scendere instrada contro il razzismo del governo e delle istituzioni locali.

Abdoul Guibre Foster (Aba), giovane operaio “di colore” originario delBurkina Faso con passaporto italiano, viene assassinato a sprangate peraver preso un paio di biscotti in un bar. Gli inquirenti e la magistratura siaffrettano a spiegare che il razzismo con l’omicidio non c’entra nulla. Magli amici di Aba (quasi tutti giovanissimi immigrati di seconda generazio-ne) non la bevono. Prendono “improvvisamente e imprevedibilmente” latesta del corteo indetto contro il delitto, forzano e fronteggiano i cordoni dipolizia gridando a viso aperto la loro rabbia e la loro verità: Aba è statoassassinato dal clima di odio razzista che da anni viene sapientementeiniettato e coltivato dai “poteri forti” nella società italiana.

Il giorno dopo la stampa è piena di commenti preoccupati: “giovaniincontrollabili in piazza” si scrive. Che si preoccupino pure. Noi salutiamoe chiamiamo a salutare con entusiasmo l’affacciarsi alla lotta di questanuova generazione di proletari immigrati.

Il 16 ottobre si è svolta a Roma una manifestazione cittadina indetta dalComitato Immigrati contro le politiche razziste del governo che ha visto lacombattiva e attenta partecipazione di oltre mille immigrati. Al corteo,recependo l’invito che dal Comitato Immigrati era stato portato in unaaffollata assemblea di lavoratori della scuola, si è anche unita una delega-zione di insegnanti elementari impegnate nelle mobilitazioni contro il de-creto Gelmini. Nei comizi che hanno accompagnato la manifestazione tantogli immigrati, quanto le lavoratrici della scuola (quasi tutte alle primeesperienze di lotta) hanno sottolineato quanto la politica governativaanche nel campo dell’istruzione sia fortemente venata di razzismo (si pensialle classi differenziali per i bambini “stranieri”) e quanto lo smantellamen-to del tempo pieno andrà a gravare fortemente sulle spalle delle famiglie e,soprattutto, delle donne immigrate e come, quindi, sia necessario svolgereinsieme una battaglia contro tutto ciò.

Ovvio, si è trattato di un piccolo, anzi, piccolissimo, “episodio”, manonostante ciò va decisamente sottolineato perché contribuisce ad indi-care la strada da seguire per rigettare il veleno razzista che sapientementeviene sparso a piene mani dal governo e dai mezzi di comunicazione e perandare, al contrario, verso una lotta comune tra lavoratori immigrati editaliani.

nifestano nei loro confronti. A tito-lo di esempio si pensi che, a dispet-to del crescente tasso di sindaca-lizzazione degli immigrati, l’ultimamanifestazione nazionale sulla“questione” preparata con un cer-to impegno dalle confederazionirisale al 2004 e ciò nonostante lepolitiche e le pratiche razziste ab-biano toccato proprio in questianni livelli letteralmente bestiali.

Proprio per queste ragioni unasimile iniziativa di sciopero, alcontrario di quanto si ascolta an-che in ambienti sindacali, non sa-rebbe affatto un elemento di divi-sione e separazione dai lavoratoriautoctoni, ma, al contrario, svol-gerebbe anche una funzione salu-tare nello scuotere questi ultimidalla loro indifferenza o, peggio,ostilità verso i proletari immigrati.

Un obiettivo, questo, niente af-fatto semplice che per poter diveni-re praticabile e realizzabile neces-siterà di una forte spinta auto-or-ganizzata da parte degli stessi la-voratori immigrati e al cui percor-so la nostra organizzazione darà ilproprio contributo con tutte le sue,purtroppo non titaniche forze.

Roma

Milano

Parma

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Contro il razzismo assassino !

Per la lotta e l’auto-organizzazione dei lavoratori immigrati !

La strage compiuta dalla camorra a Castel Volturno ha avuto un solo e fondamentale obiettivo:

tentare di terrorizzare gli immigrati per costringerli ad accettare passivamente il bestiale sfruttamento

a cui ogni giorno sono costretti nei campi, nei cantieri e nei tanti luoghi di lavoro in cui sono

impiegati.

Allo stesso modo, l’omicidio del giovane operaio originario del Burkina Faso, Abdoul Guibre,

ucciso a sprangate a Milano per aver “rubato” due biscotti, è il frutto diretto del clima razzista che

da anni viene costruito ad arte dalla stampa, dalla televisione e dai governi tanto di centrodestra

quanto di centrosinistra. Un clima che, con l’azione del governo Berlusconi, si va facendo sempre

più pesante.

Tutta l’economia capitalistica italiana (sia la sua parte “legale e onesta”, sia la sua parte “illegale”

e malavitosa) ha grande bisogno dei lavoratori immigrati, ma li vuole schiavi da super-sfruttare e

senza diritti. Il ricatto del permesso di soggiorno, la legge razzista Bossi-Fini e le tante iniziative

discriminatorie delle varie istituzioni italiane servono appunto a spezzare ogni capacità di resistenza

e di lotta degli immigrati. Stessa cosa a cui, per altre vie, punta l’azione della malavita organizzata.

Contro tutto ciò si può e si deve reagire.

Lo hanno dimostrato le centinaia di lavoratori africani che, subito dopo la mattanza di Castel

Volturno, sono immediatamente scesi per strada, sfidando con coraggio e a viso aperto la camorra,

e che, con la loro mobilitazione, hanno impedito che la strage passasse sotto silenzio e fosse

spacciata falsamente come “un regolamento di conti tra bande”.

Lo hanno detto i tanti giovani “di colore” che a Milano hanno sfidato e fronteggiato i cordoni

di polizia gridando con rabbia che quello di Abdoul (al contrario di quanto affermato dai magistrati

e dagli uomini di governo) è un assassinio figlio del razzismo.

Affinché crimini come quelli di Castel Volturno e di Milano non si ripetano più, è necessario non

avere alcuna fiducia nelle istituzioni, ma, al contrario, puntare e avere fiducia solo nella propria lotta,

nella propria auto-organizzazione e nella propria auto-difesa. Bisogna lavorare con tutte le proprie

forze per andare verso la costruzione di un unitario movimento nazionale di tutti gli immigrati

che colleghi in un solo fronte di lotta gli immigrati che vivono nel Sud Italia con quelli che vivono

al Nord, quelli che (più o meno al nero) lavorano nell’agricoltura, nell’edilizia e nei servizi, con quelli

che in sempre maggior numero lavorano nelle fabbriche.

Andare verso questo difficile ma indispensabile obiettivo, far sentire e far pesare la propria

forza organizzata è anche il miglior modo per scuotere i lavoratori italiani dalla loro indifferenza

o, peggio, dalla loro ostilità verso gli immigrati e per combattere, quindi, quel veleno razzista che

sta creando un clima di guerra tra i lavoratori italiani e immigrati a tutto e solo vantaggio dei padroni.

Il razzismo infatti è un’arma rivolta anche contro i proletari italiani: li spinge a indirizzare la loro

rabbia contro un falso bersaglio e a vedere nei lavoratori di altra nazionalità dei nemici. Serve

insomma a dividere e a mettere in feroce concorrenza tra di loro i lavoratori rendendoli tutti più

isolati e più deboli di fronte a padroni e governo.

Il volantino distribuito dalla nostra Organizzazione a Caserta il 4 ottobre 2008

La grande crisi del capitalismo / La grande sfida per il proleriato

“Quello che si sta creando è unclima da pogrom”. Così scriveva-mo l’anno scorso nel supplementoal n. 68 del nostro giornale. La dire-zione non è cambiata, anzi! È cam-biata solo la velocità di tali processi,che si sono nel frattempo accelerati.Si è creato un clima da pogrom.

Agli ultimi episodi di squadrismostatale (la palma ora passa –per laprima volta nella storia” ai vigili ur-bani) si affiancano sempre più quellidi violenza “privata”. La propagan-da ha ottenuto i suoi risultati: il raz-zismo è stato seminato con cura da-gli scranni parlamentari e (ancor piùbiecamente) dalle amministrazionicomunali, e ora se ne raccolgono ifrutti avvelenati.

È una vera e propria grandinequella che si abbatte su immigrati,italiani di colore, marginali, emargi-nati. Registriamo solo alcuni esem-pi, tra gli episodi riferiti dalla grandestampa, di soprusi, aggressioni,squadrismo di stato:

•“Milano, blitz all’alba al cam-po rom: ‘schedati come al tempofascista’. Parte il primo censimentodi un campo rom, a Rogoredo, fra-zione a sud di Milano…” (la Re-pubblica, 7 giugno 2008).

• “A Roma armi a tutti i vigili.Punire chi rovista nei cassonetti.”(la Repubblica, 7 agosto)

• “Termoli. Vigili maltrattanoambulante… Trascinato sull’asfal-to, lungo il corso della città, sottogli occhi attoniti di centinaia dipersone. Strattonato per alcunilunghissimi metri da tre agenti dipolizia municipale… volevanometterlo nel portabagagli.” (la Re-pubblica, 26 agosto) Per fortuna inquesto caso, l’ambulante è statodifeso dai passanti che hanno de-nunciato l’episodio.

• Padova. “Nuovo blitz per lalegalità: controllati una dozzina diappartamenti dove c’erano ma-ghrebini ‘accampati’. Clandestininegli alloggi alla Stanga. I canipoliziotto scovano diciassette oc-cupanti irregolari.” (il mattino diPadova, 20 settembre)

• “Islam, rivolta in Veneto. ‘Cinegano il Ramadam’. Moscheechiuse alla vigilia del mese sacro, ifedeli identificati dalle forze del-l’ordine…La situazione più diffici-le a Treviso… I fedeli multati per lapreghiera nel parcheggio.” (la Re-pubblica Metropoli, 21 settembre).

• “Parma, picchiato da 6 vigiliurbani: «Sei negro»… Cinque oreda incubo… picchiato e insultatocon frasi razziste.” (la Repubblica,1 ottobre). Il giovane studente gha-nese ha dovuto sottoporsi ad unintervento chirurgico all’occhio si-nistro. Di due mesi fa (l’8 agosto) èla fotografia che ritrae una giovaneprostituta sporca e insanguinatadentro una cella della caserma deivigili di Parma, di lei non si sa piùnulla (mentre i vigili aguzzini nonsono neppure stati sospesi dal “ser-vizio”).

• “Ciampino. Shock per una don-na somala. «Guarda questa pazzanegra, mo’ ti meniamo. Se non faiquello che ti diciamo… Sei neradentro e fuori…». Insultata e umi-liata dopo essersi opposta aun’ispezione vaginale e rettale…nuda e in piedi per quattro ore inun ufficio della polizia di frontieradell’aeroporto di Ciampino.” (laRepubblica, 4 ottobre).

• “Controlli a Roma e a Milano:oltre il 60% sugli immigrati…L’Aduc: ‘La polizia individua lepersone da fermare sulla base deitratti somatici”. (la RepubblicaMetropoli, 5 ottobre).

• “Clandestini, provincia al se-taccio. Maxi-operazione di carabi-nieri e polizia fra casolari e bazaretnici di Padova, Abano, Cittadel-la, Este e Piove di Sacco. Notte di

controlli: identificate 500 persone,40 locali nel mirino.” (il Mattino diPadova, 19 ottobre).

• “Le città tagliano i servizi aimigranti. Da Verona a Roma girodi vite ai progetti per l’integrazio-ne. A Brescia chiusi lo sportelloinformativo e quello per le badan-ti. In Friuli abrogata la legge re-gionale… A Verona, il sindaco le-ghista Flavio Tosi ha cominciato…negando per la prima volta dopo27 anni contributi e patrocinio alFestival del cinema africano…ecc.(la Repubblica Metropoli, 19 otto-bre).

• E poi la sequela di proposte dilegge: permesso di soggiorno a pun-ti, regolamentazione delle ronde cit-tadine, referendum per poter costru-ire una moschea, aggravante di penaper i reati commessi da clandestini,restrizioni per l’accesso ai servizisociali e all’assistenza sanitaria: “LaLega: niente assistenza medica aiclandestini. Medici delatori per lapolizia. Immigrati irregolari prividi cure mediche gratuite” (la Re-pubblica, 19 ottobre), stretta suimatrimoni misti (la Repubblica, 8 ot-tobre) e ultima (la Repubblica, 12ottobre) l’immonda tassa sul per-messo di soggiorno: 200 euro!, (chesi aggiungono ai 70 per spese po-stali, pagamento del bollo, permes-so elettronico).

Insieme al razzismo statale, e suoportato naturale, ecco il razzismo“popolare”. Con gli episodi nel na-poletano: da Ponticelli a maggio, unvero pogrom, a Pianura (fine settem-bre), dai raid razzisti di Roma, sinoall’assassinio a sprangate al gridodi “negro di merda” del dicianno-venne Abdoul Salam Guiebre a Mi-lano (14 settembre), reo di aver ru-bato due scatole di biscotti. E poi,ancora, l’aggressione, di un gruppodi ragazzi, ad un cinese che aspetta-va l’autobus a Roma il 12 ottobre.Per non parlare della strage di CastelVolturno dove il razzismo della cri-minalità organizzata (da cui lo statonon è mai avulso) si fonde con quel-lo “popolare”.

“Osserva Kwame, ghanese, dacirca 5 anni in Italia “: ‘Siamo in-desiderati come persone, ma gradi-ti come braccia da impegnare inattività che non interessano i citta-dini [italiani] o che farebbero solodietro compensi stratosferici, men-tre a noi viene data una miseria.Ho l’impressione che è tutto archi-tettato, così lavoriamo in silenziosenza mai alzare la voce perché sia-mo deboli dal punto di vista giuri-dico.’” (la Repubblica Metropoli,12 ottobre).

Avesse la stessa lucidità il nostroproletariato!

La proposta della Lega, che è ora di tutto il governo,di creare nelle elementari classi separate per i bambinifigli di immigrati che non superino un test linguistico (icui parametri sono tutti da decidere) è motivata conquesta formula: “discriminazione transitoria positiva”.Sic! Che sarebbe come dire: “razzismo momentaneobenevolente”, oppure: “xenofobia occasionale prope-deutica”.

Come si rimpiange la franchezza del ventennio, quan-do si poteva titolare Il Popolo d’Italia (luglio 1938):“Il razzismo italiano data dall’anno 1919, ed è basefondamentale dello Stato fascista” oppure si potevascrivere nel “Manifesto della razza”, senza tanti arzigo-goli: “È tempo che gli italiani si proclaminofrancamente razzisti”.

Squadrismo di stato e pogrom “privati”

Ci fate rimpiangere

Benito…

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Pagina 27Che fare n. 70, gennaio-febbraio 2009

È un dato di fatto che nell’ultimoanno in Italia si è assistito ad unaescalation di violenza mai registrataprima contro i lavoratori immigrati.Con l’azione del governo Berlusco-ni il razzismo italiano ha infatti com-piuto un autentico balzo in avanti.

Ciò che è cambiato rispetto alleprecedenti politiche anti-immigratinon sono ragioni di fondo, bensì adessere mutata è la gravità dei nuoviattacchi, la loro organicità ad ununico, seppur articolato, disegnopolitico e la sbandierata sicurezzanel far ciò da parte dell’attuale go-verno. Una sicurezza che non è sem-plicemente legata all’ampia maggio-ranza numerica dei seggi parlamen-tari ma è da ricondurre, ed è benenon nascondercelo, ad un vastoconsenso sul punto tra le classi me-die e quelle lavoratrici e alla crescen-te affermazione degli ideali(in)securitari tra gli stessi partiti del-la “opposizione”, all’interno deiquali una certa attitudine à la Genti-lini non è più un’eccezione. Una si-curezza che deriva anche, indiretta-mente, dalla stessa campagna me-diatica sulle aggressioni razziste chesi sono susseguite in un crescendoin questi ultimi mesi. La puntuale equotidiana pubblicità ha finito infat-ti per essere sempre meno una de-nuncia del razzismo imperante esempre più una campagna di intimi-dazione contro gli immigrati, che, senon rigano dritto, possono essererimessi al proprio posto, in qualsiasimomento, dai vicini italiani, dai com-pagni di banco italiani, dai colleghidi lavoro italiani. Soprattutto si ètrasformata nel migliore spot per lepolitiche razziste del governo: attra-verso questa quotidiana pubblicitàè stato infatti possibile socializzarel’idea che gli italiani, al fondo, nonsono altro che della brava gente raz-zista, e che quindi al governo nonrimane che ascoltarne i profondiumori.

In tal senso la campagna anti-romè stata al contempo un banco di pro-va ed il segnale d’inizio di questanuova fase. Nella storia italiana edeuropea le politiche discriminatoriee persecutorie contro le popolazionirom non sono di certo una novità.Costretti in schiavitù, deportati, mar-chiati a fuoco o mutilati, incatenati,giustiziati o privati dei figli, i romsono sopravvissuti alla “civiltà” eu-ropea fondendosi con il resto delleclassi popolari o arroccandosi sem-pre più in attività economiche che,continuamente erose dallo sviluppocapitalistico, li hanno spinti in unaimpietosa spirale di marginalizzazio-ne.

Questo processo non si è svoltolinearmente e congiuntamente sututto il continente ma è stato detta-to, volta per volta, dalle diverse di-namiche di sviluppo del capitalismosu scala nazionale e regionale. Eccoperché la presenza dei rom è ancoroggi concentrata per più del 60%nell’area carpato-balcanica, mentrenei paesi dell’Europa occidentalesuperano raramente lo 0,5% dellapopolazione globale. Dove prima siè sviluppata l’industrializzazione el’organizzazione statuale moderna,maggiormente si è avuta la fusione,e quindi la dispersione, della popo-lazione rom nel resto della società.La maggioranza dei rom, infatti, haintrapreso, coerentemente con lecondizioni economiche in cui eranoinseriti, l’abbandono del nomadismogià prima della Seconda guerra mon-diale. Oggi, più dell’80% delle popo-lazioni rom dell’Europa occidentalerisulta sedentaria.

Da cosa trae origine, quindi, il di-battito sulla tolleranza zero contro irom, chi vive nei cosiddetti campinomadi e perché vi è una palpabileostilità diffusa nei confronti di que-ste popolazioni?

La risposta a queste domande èlegata soprattutto alla trasformazio-ne che ha investito i paesi dell’EstEuropa dopo il 1989. Il collasso delleeconomie del cosiddetto “sociali-smo reale” ha infatti privato i prole-tari dell’Europa Orientale di tuttauna serie di tutele sociale e ciò, ov-viamente, ha avuto le conseguenzepiù disastrose soprattutto sugli “ul-timi” tra gli ultimi, cioè le popolazio-ni Rom.

In paesi come la Jugoslavia poi(pur senza poter parlare del rag-giungimento di una vera e diffusa“integrazione”) è innegabile che sisiano raggiunti importanti obbietti-vi per quanto riguarda la sedentariz-zazione e l’inserimento lavorativo inambito industriale, come anche ri-spetto alla scolarizzazione e alla par-tecipazione all’attività politica e sin-dacale. Tutto questo non solo adopera delle politiche governative,ma anche grazie all’associazionismoe all’attivismo rom che fiorirono nel-la prima metà del novecento e allaloro “entusiastica partecipazione”,come ebbe modo di dire Tito, allalotta partigiana durante la Secondaguerra mondiale.

Questo processo ha avuto unviolento punto d’arresto e di inver-sione con la devastazione militareed economica del paese balcanicooperata dagli arieti finanziari e mili-tari del capitalismo occidentale. Ilneocolonialismo targato Usa e UE,infatti, oltre che garantire libertà disaccheggio alle proprie aziende, haovunque minato coscientemente esapientemente tutti quei legami soli-daristici che si erano andati costi-tuendo tra le diverse popolazionidell’Europa Orientale. Le popolazio-ni rom si sono trovate così risospin-te nel passato, private di servizi pub-blici basilari, espulse dal ciclo pro-duttivo e dalla rappresentanza poli-tica, sfrattate dalla speculazione edi-lizia, scacciate dalla crisi economicacosì come dalle armi della disgrega-zione jugoslava. Tutto questo i romlo hanno vissuto, ed è bene sottoli-nearlo, congiuntamente ai loro con-nazionali rumeni, bulgari, bosniaci omacedoni. Ed esattamente come iloro connazionali hanno tentato dirisollevare le proprie condizioni divita emigrando verso il ricco Occi-dente. I 16.000 rom jugoslavi giuntiin Italia tra il 1992 e il 2000 non sonoquindi una conferma alla propensio-ne culturale o genetica al nomadi-smo. Così come non lo sono nem-meno i 50.000 rom che hanno abban-donato la disastrata Romania perl’Italia. Essi sono stati invece co-stretti, al pari di milioni di altri lavo-ratori immigrati, ad abbandonare ipropri paesi di provenienza a causadelle condizioni di vita e di lavoroche il capitalismo ha imposto loroattraverso guerre e devastazionieconomiche. La questione rom nonè quindi una questione a sé stantema è parte integrante del più vastoprocesso delle migrazioni internazio-nali.

Il capitale ne è lucidamente co-sciente. Le dichiarazioni “anti-zin-gari” sono intrinsecamente dichia-

razioni anti-immigrati. Il dibattitosorto in seguito all’omicidio Reg-giani ne è una prova lampante e ilpogrom contro il campo di Ponticellinon è stato altro che l’ouverture perla strage di Castelvolturno. L’equi-parazione diffusa nei giorni seguen-ti al delitto Reggiani tra NOMADI –ROM – RUMENI – IMMIGRATInon è solamente un chiaro tentativodi strumentalizzare l’emotività pub-blica per colpire ancora una voltal’insieme dei lavoratori immigrati, maè anche la grezza schematizzazionedi una realtà.

Al contempo attraverso l’amplifi-cazione e, spesso, la distorsione del-la questione rom, lo stato ha potutogiustificare ulteriormente l’attaccoin atto contro tutta la marginalitàsociale. La campagna contro le po-polazioni rom s’inserisce infatti inun quadro di misure disposte appo-sitamente per attaccare ed isolaretutte quelle componenti marginaliz-zate del proletariato e ritenute nonpiù o difficilmente inseribili nel si-stema dello sfruttamento salariato.Le ordinanze contro i lavavetri, larichiesta di redditi “adeguati” perottenere la residenza, le norme anti-accattonaggio, ne sono solamenteun rapido assaggio. Tutto questo,naturalmente, in previsione di uninevitabile allargamento sociale del-la marginalità. In quest’ottica il di-battito sui campi nomadi si rivelacosì in tutta la sua pretestuosità. Lisi descrive come inaccettabili esem-pi ed amplificatori del degrado urba-nistico, sociale, morale. Ed è così,non serve a nulla nascondercelo.Ma allo stesso tempo si tace sucome siano state proprio le istituzio-ni a realizzarli, a produrre l’illegalitàche li contraddistingue, a generarela marginalità che li domina. Nellarealtà, infatti, i campi nomadi nonsono altro che degli strumenti istitu-zionali atti a segregare le popolazio-ni rom immigrate ed a negare loroogni forma di sedentarizzazione. La

mancanza di strutture igieniche, ilmancato collegamento alla rete idri-ca e alla rete elettrica, l’ubicazioneperiferica e malsana del campo stes-so, gli abusi delle forze dell’ordine,la distruzione periodica delle roulot-tes e delle baracche, la sottomissio-ne ai regolamenti dei campi non fan-no altro che negare ai rom ogni pos-sibile processo di stabilizzazioneabitativa, lavorativa, scolastica.“Che i campi nomadi si spostino dipaese in paese ogni 7-15 giorni” hatuonato lo scorso maggio l’ex mini-stro per la Giustizia Clemente Ma-stella. Altro che progetti d’inseri-mento scolastico! Altro che pro-grammi di stabilizzazione abitativa!Altro che percorsi professionali!

Il risultato di tali condizioni di vitanei campi è drammatico: meno del3% dei rom superano i 60 anni, itassi di morbilità, l’analfabetismo ela disoccupazione sono attestati sulivelli incomparabilmente più alti ri-spetto al resto della popolazione ita-liana ed immigrata, mentre l’accessoal lavoro è per forza di cose ristrettoad occupazioni irregolari e tempora-nee. E naturalmente in queste con-dizioni non possono che proliferareil furto e l’accattonaggio. Ma comepotrebbe essere altrimenti? La mar-ginalità alimenta la microcriminalitàe l’auto-degradazione, per i romcome per chiunque altro.

Non si tratta di negare il degradoche attanaglia questi uomini e que-ste donne. Si tratta invece di svelarei meccanismi e le dinamiche che ilcapitale e lo stato hanno utilizzatoper sottoproletarizzare una specifi-ca componente della popolazioneimmigrata, e di rendersi finalmenteconto che questa medesima spintaalla marginalizzazione sta incuban-do tra gli strati più bassi della classelavoratrice. Il pugno di ferro cheoggi lo Stato sta esercitando controle popolazioni Rom e le fasce meno“integrate” tra le popolazioni immi-grate è destinato a colpire tutti colo-

La sorte riservata dal capitalismo al popolo rom

ro che la mano invisibile del merca-to lascerà senza un lavoro, senzauna qualsiasi fonte di reddito, senzaun qualsiasi appoggio. Questo pro-cesso, conseguenza dell’accelera-zione della crisi economica mondia-le, non può che portare ad ulteriorifratture in seno alla classe. Si trattaquindi di intraprendere un camminodi ricomposizione di classe, riget-tando ogni tentativo di “naturaliz-zare” le fratture che continuano aminare l’unità del proletariato inter-nazionale.

Non cogliere le aspirazioni eman-cipatrici, non essere a fianco dellepopolazioni rom nelle loro ancorframmentarie, seppur chiare (si ven-dano ad esempio le mobilitazioni diMilano o l’attivismo di associazionicome il Comitato Rom Sinti Insie-me), rivendicazioni per la casa, per illavoro, per la scuola significhereb-be non rafforzare le nostre stesserivendicazioni. Giustificare o sop-portare i “campi nomadi” così comesono organizzati, significherebbecondannare una parte del nostrostesso esercito proletario di riservaalla ghettizzazione, alla microcrimi-nalità, al lavoro nero. Non attrezzar-si per contrastare l’aumento del-l’ostilità verbale e fisica nei confron-ti delle popolazioni rom significhe-rebbe concedere, ancora una volta,al capitale di poter sviare la nostrasacrosanta rabbia proletaria dal suopercorso, convogliandola in dege-nerazioni razziste e nazionaliste. Ov-vero, in altre parole, contro noi stes-si!

Non vi può essere alcuna soluzio-ne alla questione rom all’infuori diun processo di auto-organizzazionee di lotta collettiva di queste popo-lazioni con il resto del proletariato.Contemporaneamente e congiunta-mente la difesa e l’avanzamento del-le condizioni di vita e di lavoro deiproletari occidentali non può chepassare attraverso l’abbattimento diogni ostacolo che li allontana daipropri colleghi immigrati. Questo si-gnifica non solo battersi per una pie-na equiparazione dei lavoratori im-migrati con quelli autoctoni, ma por-tare anche il sostegno attivo ed in-condizionato alle lotte che infiam-mano il sud e l’est del mondo.

Non vi può essere, infatti, alcunasoluzione alla questione rom, e allaquestione immigrazione in generale,in un mondo dominato dal sistemacapitalistico. È stato l’attuale regimedi dominio dell’uomo sull’uomo aporre queste due questioni e sola-mente il suo superamento potrà ri-solverle. Ancora una volta si ricon-ferma la giustezza del monito “so-cialismo o barbarie”!