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8-12 marzo 2018 fieramilanocity Una manifestazione di La Fabbrica Del Libro Promossa da AIE - Associazione Italiana Editori Fiera Milano Segreteria organizzativa S.S. del Sempione 28 20017 Rho (MI) +39 0249976559 Contatti www.tempodilibri.it [email protected] [email protected] SCUOLA PRIMARIA 1*. Dopo il volo degli americani sulla Luna ho sentito dire che la Luna non è più quella di prima, che ha perso ogni bellezza e non significa più niente. Tu che cosa dici? Noi e la luna Da Cividale mi scrive Giacomino Sprit di dodici anni: «Dopo il volo degli americani sulla Luna ho sentito dire che la Luna non è più quella di prima, che ha perso ogni bellezza e non significa più niente. Tu che cosa dici?» Caro Giacomino, i signori che facevano quei discorsi intendevano dire che ora che gli uomini sono arrivati fin lassù, la Luna ha perso gran parte del suo mistero e quindi del suo incanto poetico perché infatti le cose e i paesi sconosciuti, inesplorati, esercitano un fascino molto maggiore che quelli noti perché lasciano via libera alle più pazze speranze. Così, sulla Luna quale si conosceva una volta, gli uomini potevano sbizzarrire la loro fantasia, immaginando perfino che vi abitassero strani esseri o mostri, che vi si potesse svolgere una vita favolosa. Oggi che gli astronauti si sono avvicinati fino a cento chilometri dalla superficie del satellite, oggi sappiamo che la vita lassù non esiste e che si tratta di un arido e inospitale deserto. Favole, illusioni, sono così sparite per sempre. Ma non si può dire certamente che la Luna, guardata di quaggiù, abbia perso la sua bellezza poetica. Si può fare al proposito un paragone. Le grandi montagne una volta nessuno le aveva ancora scalate, e guardandole dal fondo valle gli uomini immaginavano che le creste supreme fossero dimora di divinità, di esseri soprannaturali, di gnomi, di elfi, di draghi, di bizzarri spiriti. Ma anche a chi non prendeva sul serio queste credenze superstiziose, le vette, mai toccate dall’uomo, apparivano misteriose, affascinanti, irraggiungibili. Pensa un po’ al Cervino, per fare un esempio. Se non altro in fotografia, certamente lo conosci. Semplicemente per vederlo coi propri occhi venivano turisti da ogni parte del mondo. Era la stessa incarnazione della natura selvaggia e inviolabile. Eppure, dopo che l’inglese Whimper e subito dopo dalla parte italiana Giovanni Carrel ebbero conquistato la terribile cima, e sono passati più di cento anni, forse che il Cervino ha perso il suo fascino, la sua personalità? Non si può proprio dire. Migliaia, decine di migliaia di uomini ormai l’hanno scalato da tutte le parti, sui suoi fianchi sono sorti rifugi, nei giorni sereni d’estate sono decine le cordate che si inerpicano contemporaneamente sulle sue creste e pareti, dal versante italiano e da quello svizzero. E con un potente cannocchiale si può riuscire anche a distinguere gli omini arrivati in vetta. Ma poi cala la sera, gli alpinisti discendono, la gigantesca rupe resta sola soletta come negli antichi tempi, torna ad essere il castello incantato, la fortezza inespugnabile. Ebbene, io penso che per la Luna succederà lo stesso. Oramai non c’è dubbio che l’uomo riuscirà a metterci piede. E può darsi che per un motivo o l’altro si organizzino lassù delle «basi» in cui gli astronauti potranno soggiornare qualche tempo. Ma da quaggiù, anche col cannocchiale, non ci accorgeremo di nulla. La Luna ci apparirà sempre come una volta, enigmatica sfera sospesa negli spazi. E la sua luce continuerà a illuminare le nostre notti, trasformando i paesi, le strade, le campagne in un mondo incantato, dandoci quella commozione indicibile che alla tua giovanissima età anch’io già provavo. Dino Buzzati *si riferisce al numero indicato nel pdf “Il Gioco dei Perché” e corrisponde alla domanda di riferimento

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SCUOLA PRIMARIA 1*. Dopo il volo degli americani sulla Luna ho sentito dire che la Luna non è più quella di prima, che ha perso ogni bellezza e non significa più niente. Tu che cosa dici? Noi e la luna Da Cividale mi scrive Giacomino Sprit di dodici anni: «Dopo il volo degli americani sulla Luna ho sentito dire che la Luna non è più quella di prima, che ha perso ogni bellezza e non significa più niente. Tu che cosa dici?» Caro Giacomino, i signori che facevano quei discorsi intendevano dire che ora che gli uomini sono arrivati fin lassù, la Luna ha perso gran parte del suo mistero e quindi del suo incanto poetico perché infatti le cose e i paesi sconosciuti, inesplorati, esercitano un fascino molto maggiore che quelli noti perché lasciano via libera alle più pazze speranze. Così, sulla Luna quale si conosceva una volta, gli uomini potevano sbizzarrire la loro fantasia, immaginando perfino che vi abitassero strani esseri o mostri, che vi si potesse svolgere una vita favolosa. Oggi che gli astronauti si sono avvicinati fino a cento chilometri dalla superficie del satellite, oggi sappiamo che la vita lassù non esiste e che si tratta di un arido e inospitale deserto. Favole, illusioni, sono così sparite per sempre. Ma non si può dire certamente che la Luna, guardata di quaggiù, abbia perso la sua bellezza poetica. Si può fare al proposito un paragone. Le grandi montagne una volta nessuno le aveva ancora scalate, e guardandole dal fondo valle gli uomini immaginavano che le creste supreme fossero dimora di divinità, di esseri soprannaturali, di gnomi, di elfi, di draghi, di bizzarri spiriti. Ma anche a chi non prendeva sul serio queste credenze superstiziose, le vette, mai toccate dall’uomo, apparivano misteriose, affascinanti, irraggiungibili. Pensa un po’ al Cervino, per fare un esempio. Se non altro in fotografia, certamente lo conosci. Semplicemente per vederlo coi propri occhi venivano turisti da ogni parte del mondo. Era la stessa incarnazione della natura selvaggia e inviolabile. Eppure, dopo che l’inglese Whimper e subito dopo dalla parte italiana Giovanni Carrel ebbero conquistato la terribile cima, e sono passati più di cento anni, forse che il Cervino ha perso il suo fascino, la sua personalità? Non si può proprio dire. Migliaia, decine di migliaia di uomini ormai l’hanno scalato da tutte le parti, sui suoi fianchi sono sorti rifugi, nei giorni sereni d’estate sono decine le cordate che si inerpicano contemporaneamente sulle sue creste e pareti, dal versante italiano e da quello svizzero. E con un potente cannocchiale si può riuscire anche a distinguere gli omini arrivati in vetta. Ma poi cala la sera, gli alpinisti discendono, la gigantesca rupe resta sola soletta come negli antichi tempi, torna ad essere il castello incantato, la fortezza inespugnabile. Ebbene, io penso che per la Luna succederà lo stesso. Oramai non c’è dubbio che l’uomo riuscirà a metterci piede. E può darsi che per un motivo o l’altro si organizzino lassù delle «basi» in cui gli astronauti potranno soggiornare qualche tempo. Ma da quaggiù, anche col cannocchiale, non ci accorgeremo di nulla. La Luna ci apparirà sempre come una volta, enigmatica sfera sospesa negli spazi. E la sua luce continuerà a illuminare le nostre notti, trasformando i paesi, le strade, le campagne in un mondo incantato, dandoci quella commozione indicibile che alla tua giovanissima età anch’io già provavo.

Dino Buzzati

*si riferisce al numero indicato nel pdf “Il Gioco dei Perché” e corrisponde alla domanda di riferimento

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2*. Perché quando i grandi parlano con noi si dimenticano sempre di essere stati ragazzi, di aver avuto anche loro la “giornata nera” in cui non va mai bene niente? Sono stati giovani anche loro Da Brescia, Alessandra Giulini, mi scrive: «Sono una ragazzina di 11 anni e le scrivo per chiederle perché quando i grandi parlano con noi si dimenticano sempre di essere stati ragazzi, di aver avuto anche loro la “giornata nera” in cui non va mai bene niente. Quando” ho la luna di traverso”, loro incominciano a dire che alla loro età non c’era tempo di essere tristi per qualche cosa… Poi, a sentire loro, non c’era tempo di giocare, di sentire un disco; no, allora le ragazzine per bene stavano in casa a rammendare calzini e camicie…». Ho proprio l’impressione, cara Alessandra, che tu sia alquanto sfortunata. Si direbbe proprio che i “grandi” da te conosciuti siano dei “grandi” piuttosto scadenti come qualità intellettuale. Discorsi come quelli che tu mi riferisci mi sembrano denotare prima di tutto scarsa intelligenza. Intanto, il supporre, come per la verità fanno molti “grandi” (e anche moltissimi giovani) che i ragazzi di una volta, diciamo trenta o quarant’anni fa, fossero completamente diversi dai ragazzi di oggi è una grossa idiozia. È come dire che nel giro di trenta o quarant’anni la creatura-uomo è cambiata, come non era mai avvenuto da che il mondo esiste. D’accordo, io che ti scrivo sono un matusa, una persona cioè agli occhi dei tuoi coetanei poco attendibile; ma di giovani ultima leva ne ho conosciuti e ne conosco, e sono stato parecchio in mezzo a loro. Ebbene, ti garantisco che sono assolutamente identici ai ragazzi dei miei tempi. Certo, i costumi cambiano. Allora noi andavamo in bicicletta, adesso voi andate in motoretta, allora anche i ragazzini portavano il colletto inamidato, adesso vanno senza giacca e senza cravatta, e così via. Ma la sostanza, sta pure certa, è e sarà sempre la stessa. Anche allora c’erano i ragazzi studiosi e i ragazzi lazzaroni, c’erano i timidi e i disinvolti, i buoni e i cattivi, i sinceri e gli ipocriti, i disciplinati e gli indisciplinati, tale e quale oggi. Può darsi, è vero, che siccome il mondo nel giro di pochi decenni ha fatto passi da gigante, come non era mai avvenuto nei secoli andati, quella certa differenza di mentalità tra giovani e vecchi che si è sempre verificata (se non altro perché i grandi hanno avuto il tempo per imparare e capire molte più cose) si sia accentuata. E che una perfetta intesa tra padri e figli sia un po’ più difficile di una volta. Ma sarebbe sciocco esagerare. Anche una volta molti ragazzi avevano la sensazione di non essere capiti dai genitori, e viceversa. Insomma, io sono convinto che l’uomo è sempre lo stesso e, se mai, attraverso i secoli, va lentamente migliorando. Se poi qualche grande ti dice ancora che «ai suoi tempi non c’era tempo di essere tristi», non gli credere. Se c’è una stagione triste, accompagnata da terribili malinconie, è la primissima giovinezza. Malinconie che poi misteriosamente si diradano, fino a sparire, quando si diventa uomini fatti. Il vecchio luogo comune «giovinezza spensierata» è una delle tante cretinerie che girano impunemente per il mondo. La giovinezza – parlo naturalmente di ragazzi e ragazze che abbiano qualcosa nella testa e nel cuore – è tutt’altro che spensierata; anzi è inquieta, spesso torbida, tormentata da strane idee e strane paure. Ma, naturalmente, anche ai miei tempi c’erano tipi che non se la prendevano per nulla, che entravano nel mondo come le pecore entrano nel chiuso, che «vivevano spensierati». Ma erano da compiangere. Probabilmente sono gli stessi che, oramai coi capelli grigi, dicono oggi ad Alessandra: «E basta con quel giradischi!... Non capisco voi ragazze d’oggi come siete fannullone… Ai miei tempi…».

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3*. Perché il mio professore, quando incontra il preside, si leva tanto di cappello e quando invece viene salutato dal bidello fa appena un piccolo gesto con la mano? Levarsi tanto di cappello Da Bolzano un ragazzo di undici anni, che mi prega (a buon motivo) di non fare il suo nome, scrive: «Perché il mio professore, quando incontra il preside, si leva tanto di cappello e quando invece viene salutato dal bidello fa appena un piccolo gesto con la mano?» La risposta è molto semplice: perché il tuo professore sarà magari un pozzo di scienza ma è una persona maleducata. Intendiamoci, l’educazione a cui mi riferisco è qualche cosa di più della solita banale buona educazione che insegna per esempio a non mettersi le dita nel naso; significa piuttosto civiltà, ed è abbastanza rara, almeno in Italia. L’uso di salutare rispettosamente i superiori e di rispondere con indifferenza al saluto degli inferiori risale ai lontani tempi in cui si distinguevano appunto persone superiori e persone inferiori, e si pensava seriamente che un duca fosse un essere superiore, uno stalliere un essere inferiore. Adesso per fortuna non è più così. Certo, in una grande azienda, esiste ancora uno che comanda e ci sono molti altri che devono obbedire, ma questa differenza esiste, o per lo meno dovrebbe esistere, soltanto nei rapporti di lavoro. Una volta fuori della ditta, direttore e dipendenti si trovano sullo stesso identico piano; questo succede nei paesi civili. Dal punto di vista umano, il direttore deve essere considerato né più né meno dell’ultimo fattorino. E se questo fattorino per strada lo saluta togliendosi il cappello, è suo stretto dovere toglierselo anche lui. In quel momento, per la strada, lui non è più il direttore generale ma un cittadino qualsiasi, esattamente come l’altro. Ma allora, tu mi dirai, chi deve salutare per primo? Ecco, come regola generale direi che se si incontrano un uomo e una donna, il primo a salutare deve essere l’uomo perché, per antica tradizione, al «sesso debole» spettano tutti i riguardi. Se invece si incontrano due uomini, tocca al più giovane perché, da che mondo è mondo, all’uomo anziano viene attribuita maggiore saggezza, maggiore esperienza, maggiore dignità e così via. (Questa faccenda del rispetto verso i capelli bianchi meriterebbe un lungo discorso, che oggi qui non è possibile.) In quanto al tuo professore, io penso che tutti quelli che occupano professionalmente posizioni importanti dovrebbero essere loro a salutare per primi se incontrano un dipendente più anziano di loro. Comunque, ripeto, se il dipendente si toglie il cappello, non fare altrettanto io la giudico una «cafonata». E non pensare che siano dei particolari senza importanza. Il giorno che tutti avessero il dovuto rispetto del prossimo – il che non mi sembra una cosa troppo difficile – si vivrebbe tutti molto meglio.

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4.* Perché noi bambini giochiamo, e i grandi no? I giochi dei “grandi” Da Roma, Paolo Devoto, che fa la quarta elementare, mi scrive: «Perché noi bambini giochiamo, e i grandi no?». Qualcuno forse ti potrebbe rispondere che non è vero perché anche i grandi giocano (giocano a tennis, a palla a volo, al golf e a una quantità di altri sport; giocano a scacchi, alle carte, e poi fanno i cosiddetti giochi d’azzardo come i dadi, il poker, la roulette e così via). Invece penso che abbia ragione tu. Quelli che fanno i grandi si chiamano giochi ma non sono veri giochi. Il vero gioco, quello che procura delle ore di beatitudine, è quando un bambino con una cosa povera e semplice riesce a vivere favolose avventure. Mi ricordo, per esempio, quando ero piccolo, che gloriose guerre combattevo, tra i cespugli di un boschetto, contro i pellirossa, impugnando un misero fucile ricavato da una tavoletta di legno. E ricordo l’indimenticabile emozione – neppure Cristoforo Colombo ne provò una simile quando salpò verso l’America – che mi diede il varo, su un minuscolo ramo secondario del fiume Piave, di una flottiglia di galeoni fatti con gusci di grosse noci; e uno stuzzicadenti attaccato con la cera era l’albero; e un quadratino di carta infilato nello stuzzicadenti era la vela. Che giornata straordinaria fu quella. La stessa intensità di commozione, del resto, hanno le bambine che con qualche misero straccetto riescono a fabbricarsi una bambolina, che nelle loro braccia diventa veramente un bambino vivo; e magari posseggono bambole costosissime che a loro non interessano niente. I veri giochi, voglio dire, che danno la felicità ai bambini, sono quelli della fantasia, che li trasporta in un mondo di favola, dove anticamente, forse, c’erano le fate, i maghi e i draghi. Ai tempi della mia fanciullezza c’erano gli indiani Sioux o i tigrotti di Mompracem, adesso probabilmente vagano conquistatori del cosmo e mostruosi abitatori di pianeti misteriosi. Il guaio è che a una certa età questa bellissima capacità di credere nella finzione del gioco si perde, il bambino diventa un ragazzo, il suo cervello capisce molte più cose, la vita diventa più varia e interessante; ma i giochi, quelli veri, sono finiti per sempre. C’è solo una categoria di uomini che continua a giocare per tutta la vita, e continua così a vivere nella favola. Sono gli artisti, i poeti, i musicisti, i pittori, nei quali l’incantesimo della fanciullezza resiste nonostante gli anni. Come i bambini, gli artisti conservano la capacità di fare incantevoli viaggi a cavallo della fantasia e della illusione. E con un po’ di colore, con un pezzo di carta, povere cose, proprio come i bambini, sanno costruire sogni meravigliosi.

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5.* Ho litigato con un mio compagno perché lui diceva che i maghi e le fate esistono ancora, e io invece sostengo che sono tutte delle storie e, anche nei tempi antichi, maghi, fate e incantesimi erano soltanto delle leggende. Maghi, fate e incantesimi Dario Giubiletti, 12 anni, mi scrive da Padova: «Ho litigato con un mio compagno perché lui diceva che i maghi e le fate esistono ancora, e io invece sostengo che sono tutte delle storie e, anche nei tempi antichi, maghi, fate e incantesimi erano soltanto delle leggende». Be’, caro Dario, a voler essere precisi, il tuo compagno non ha poi tutti i torti. Non esistono, è vero, e non sono mai esistiti degli uomini, o donne, muniti di bacchetta magica e capaci, per esempio, di trasformare all’istante una zucca in una carrozza dorata e quattro topini in altrettanti cavalli bianchi. In questo sono d’accordo con te. Non credo neppure – benché non ne sia assolutamente sicuro – che ci possano essere delle formule segrete con cui si possano domare le bestie feroci, guarire in un secondo le ferite o le malattie, far comparire in una misera catapecchia una ricca tavola imbandita. Però esistono certamente delle persone dotate di facoltà ignote alla maggior parte degli altri uomini, e in grado di fare cose che a prima vista possono sembrare miracolose o soprannaturali. Io per esempio ho conosciuto un ricco signore che è capace di scrivere il nome che preferite sulla carta che preferite di un mazzo di carte da gioco ancora impacchettate, solo appoggiandoci sopra la matita; o di leggere un libro, a lui ignoto, che si trova in un’altra stanza; o di dipingere al buio completo, nel giro di dieci minuti, un graziosissimo quadro che in piena luce anche un bravo pittore impiegherebbe almeno un paio d’ore per fare. Piccole cose, dirai tu, però talmente fuori della regola che adoperare la parola mago non è poi molto esagerato. Ho conosciuto anche una donna, una contadina delle Marche senza istruzione, la quale, solo sfiorando con le mani una persona, sa dire che malattia ha, come se i suoi sguardi penetrassero nelle profondità delle sue viscere. E perfino i medici portano da lei i parenti ammalati quando non sono sicuri della diagnosi. Io non li ho visti, ma ci sono poi in India – ed è una cosa che nessuno mette in dubbio – dei monaci che, attraverso lunghi e difficili studi ed esercizi, riescono a sviluppare dei poteri straordinari, non solo di carattere fisico come quello di marciare a passo velocissimo per interi giorni senza bisogno di dormire né di bere né di mangiare, ma anche di carattere mentale come quello di trasmettere dei messaggi a distanza con la sola forza del pensiero. Il fatto è – su questo bisogna convenire – che tutte queste facoltà sono ancora misteriose, la scienza finora se ne è occupata molto poco e in ogni modo non ne è venuta a capo. Perciò tali fenomeni sono ancora avvolti da un alone favoloso e parecchia gente, appunto perché la scienza non li ha ufficialmente riconosciuti arriva addirittura a negarli. Macché maghi – dice, come dicevi tu – macché fate, tutte fandonie. Però vedrai che col tempo anche tu, caro Dario, cambierai opinione.

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6. Perché i grandi quando dicono “forse” vogliono dire “mai”? Forse o mai? Da Genova, Marina Ravano, 10 anni, mi scrive: «Perché i grandi, quando dicono “forse” vogliono dire “mai”?». Hai ragione, cara Marina. Anch’io ricordo la mortificazione, la rabbia, l’esasperazione che mi prendevano, da bambino, quando a una richiesta, che giudicavo più che legittima, mi sentivo rispondere: «Vedremo, forse, ci penseremo». In un certo senso mi sembrava peggio che se mi avessero detto un bel «no» deciso. Si trattava, per lo più, di piccole cose, ma per me importantissime: non so, poter andare a giocare in casa di un compagno di scuola, poter comperare un foglio di certi soldatini con i gradi dorati (a quei tempi lontani erano di gran moda tra i bambini, più ancora dei francobolli, e servivano come moneta di scambio), poter andare a vedere un certo film di selvaggi. Quando si è piccoli, i desideri sono spesso improvvisi e violentissimi. Si ha la convinzione che il dover rinunciare ci farebbe terribilmente infelici. E la pazienza è una virtù ancora del tutto sconosciuta. Perciò l’indecisione sulla nostra sorte, l’essere costretti ad aspettare, riesce insopportabile, doloroso, umiliante, peggio di un castigo. Perciò quel «forse», quel «vedremo», quel «ci penseremo» ha un suono così odioso. E allora perché i grandi – mi domandavo io allora e adesso ti domandi tu – ricorrono a questo sistema così antipatico? Il motivo, probabilmente, è questo: non è che i grandi siano cattivi, o poco intelligenti, o per incomprensione non prendano sul serio i tuoi desideri. Il fatto è che ricordano le trepidazioni, le pene, i pianti di quando erano piccoli anche loro. E ricordano pure l’irritazione, il cruccio, il risentimento che li prendeva al sentirsi rispondere «forse, vedremo, ci penseremo». (Il mondo infatti, nel corso della loro vita, è molto cambiato, adesso c’è una quantità di nuove macchine, di nuove invenzioni, di nuovi problemi, di nuovi costumi che solo trent’anni fa manco si sarebbero immaginati; invece il cuore dell’uomo, e il cuore del bambino, no, non è cambiato, e si rallegra, o soffre, esattamente come cento, duecento, mille anni fa.) Ma i grandi ricordano ancora più la desolazione, il senso di vuoto, lo smarrimento, le lacrime disperate di quando i loro genitori, o nonni, o parenti anziani, a cui avevano chiesto una cosa, rispondevano subito con un risoluto «no». E alle volte non era facile, o addirittura non era possibile, spiegare al bambino, o alla bambina, il motivo del rifiuto. E allora, se si chiedevano giustificazioni, la replica era secca e perentoria, come nella canzone oggi di moda: «perché di no», il che era peggio di tutto. Motivo per cui i grandi pensano: sappiamo benissimo che il «forse», il «vedremo», il «ci penseremo» darà alla piccola Marina un dispiacere, però anche per lei sarà sempre meglio che un «no» categorico. Tanto più che nei bambini i desideri sono violentissimi, e le mortificazioni penosissime, però in compenso hanno breve durata. Perché dunque farti disperare con un netto rifiuto (quando la cosa non è possibile)? Il «forse» è una via di mezzo, che ti lascerà col broncio ma non ti farà scoppiare in singhiozzi. E domani stesso, macché domani, tra un paio d’ore, è molto probabile che tu non ci pensi più. Conclusione: ciò che tu dici è vero, cara Marina. Il «forse» dei grandi, molto spesso, se non sempre, significa «mai». È una specie di menzogna, dunque, si potrebbe definire anche ipocrisia, però dettata solamente da bontà. Anche tu del resto, quando sarai mamma, e la tua bambina ti chiederà una cosa che ti sembrerà sbagliata, per non farla troppo soffrire anche tu risponderai:

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«Forse, vedremo, ci penseremo»; pur ricordandoti di aver mandato, tanti anni prima, una certa lettera al Corriere dei Piccoli.

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7.* Perché le mosche hanno sei zampe? Le mosche hanno sei zampe Almeida (strano nome) Perazzi, di 11 anni, mi chiede da Ferrara: «Perché le mosche hanno sei zampe?» Cara Almeida, la tua domanda mi ha preso alla sprovvista perché siamo in autunno inoltrato e di mosche in giro ce ne sono pochissime. Avevo già deciso di non risponderti quando, nel corridoio del mio appartamento, ho incontrato appunto una superstite mosca che si aggirava sfiduciata. Poiché sentiva l’avvicinarsi dell’inverno, sentiva anche avvicinarsi la sua fine; ed era di pessimo umore, poverina. Comunque, ho preso coraggio, e le ho chiesto: – Senti un po’ mosca, perché voi avete sei zampe? Si è appollaiata sulla mia mano destra e ha detto: – La tua domanda tocca un problema importantissimo, che, non capisco perché, gli scienziati hanno finora trascurato. Infatti da principio noi mosche non avevamo sei zampe. Non ne avevano neppure una. Si volava, si volava, ma non potevamo mai posarci. Era una condizione penosa. Sennonché un giorno una di noi vide una cicogna che se ne stava ritta su una zampa (l’altra l’aveva retratta, cioè piegata sotto la pancia) e cominciò a dire: «Perché anche noi non abbiamo una zampa? » Detto fatto, fecero uno sciopero, e a quel tempo gli scioperi delle mosche erano importantissimi. Fatto è che il buon Dio si decise: «Purché quelle noiose la smettano…». E così noi mosche, parlo naturalmente dei miei antenati, ricevemmo una zampa a testa. Ma quando si comincia, non è mai finita. Le mosche videro qualche giorno dopo la stessa cicogna che, siccome camminava, se ne andava su due zampe. E subito un altro sciopero: «Perché a lei due zampe e a noi una sola?» Una sollevazione tale che il buon Dio, per amore di pace, cedette. E da allora, tutte mosche a due zampe. Figurarsi. Passa qualche millennio e le mosche vedono un vecchietto che zampetta per la strada aiutato dal bastone. Di nuovo: «Perché lui tre zampe e noi soltanto due? » Altro sciopero, comizi, cortei attraverso la città, un finimondo. E il buon Dio? Anche stavolta arrendevole. Siano date tre zampe alle mosche. Credi che sia finita? No. Un bel giorno vedono un gatto. Quattro zampe? E noi solo tre? Che ingiustizia. Adunata generale! Sciopero! Ah il buon Dio che pazienza. Troppo buono, lo dico io stessa. Insomma, quattro zampe anche alle mosche. E le cinque zampe tu mi chiederai? Semplicissimo. Un mattino i miei antenati vedono un elefante e, ignoranti com’erano, prendono la proboscide per una zampa. Cinque? Altra sollevazione. Altro sciopero. Oramai erano abbonati. Il buon Dio fece un cenno: e fu sì. Ma che potevano pensare le mosche a cinque zampe il giorno in cui incontrarono uno scarafaggio? Sei zampe lui e noi soltanto cinque? Ah che magnifica sollevazione, che formidabili cortei. Di lassù il buon Dio, benché seccatissimo, fece un piccolo cenno. E così sei zampe anche alle mosche. Sei zampe. Da secoli e secoli ce ne andiamo per il mondo con sei zampe. Ma credi che siamo contente? Nell’agosto scorso, una delle più intraprendenti di noi ha incontrato un bel ragno con sette zampe. Sette zampe? Ha subito fatto ricorso. Ma dall’alto è venuto il responso. Niente da fare, signorine, stavolta la protesta non funziona. I ragni per legge hanno otto zampe. Quello era un povero ragno che ne aveva persa una sotto il tram. E così siamo rimaste scornate. Però non è detta l’ultima parola. Buona sera, signore, mi sento molto languida, probabilmente fra poco me ne andrò.

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Capisci, dunque, cara Almeida (curioso nome), il motivo delle sei zampe? Ma naturalmente, l’avrai indovinato da te, è tutta una favola. Io non ne so niente delle mosche, assolutamente niente. Ogni tanto, d’estate, cerco di schiacciarne una. Mai ci riesco.

Dino Buzzati *si riferisce al numero indicato nel pdf “Il Gioco dei Perché” e corrisponde alla domanda di riferimento

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SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO

1.* A scuola io ho detto che il coraggio è una virtù e il mio professore ha detto che non è vero. Chi dei due ha ragione? Coraggio e virtù Un ragazzo mi scrive: «A scuola io ho detto che il coraggio è una virtù e il mio professore ha detto che non è vero. Chi dei due ha ragione?» Ho il dubbio che tu abbia capito male. Probabilmente il tuo professore ha detto soltanto che in certi casi il coraggio può non essere una virtù. Immaginiamo per esempio dei banditi che in pieno giorno danno l’assalto a una banca dinanzi alla quale stanno di guardia dei poliziotti armati. Sono coraggiosi? Certo che sono coraggiosi. Ma il loro coraggio serve a fare una bricconata e perciò non ha niente di virtuoso. Stento a credere, però, che il tuo professore abbia condannato il coraggio in linea generale. Sarebbe come dire che è meglio essere vili. Il coraggio è la forza d’animo di fronte ai pericoli. Ecco, tu vai per la strada e vedi due ragazzi più grandi e grossi di te che per pura cattiveria – cose che purtroppo succedono – trascinano un povero gatto legato per una zampa verso la riva di un canale con l’intenzione di buttarlo in acqua e farlo annegare. Tu allora non stai lì tanto a pensarci e cerchi di strappargli di mano la cordicella. Quelli si rivoltano, cominciate a pestarvi e tu, più piccolo e solo, ne prendi di santa ragione. Ma intanto il micio ha avuto modo di correre via e di salvarsi. Il tuo coraggio dunque non è stata una bella cosa? Del resto, per tornare all’esempio di prima, se i poliziotti di guardia alla banca, anziché coraggiosi, fossero dei fifoni, all’arrivo dei banditi taglierebbero la corda. E neppure il tuo professore potrebbe poi dire che hanno fatto bene. Guai se si ragionasse così. Bisognerebbe concludere che è meglio essere deboli e cretini piuttosto che forti e intelligenti perché un uomo cattivo, se è forte e intelligente, può fare molto più male che se fosse mingherlino e stupido. No, no, il coraggio è una bella cosa. Tu stesso, scommetto, quando sei riuscito a dominare la paura, non so, attraversando una stanza buia, tuffandoti da un trampolino, buttandoti sugli sci giù per una pista ripidissima, dopo ti sei sentito molto meglio, più sicuro di te, più contento, più pulito. Non è così?

Dino Buzzati

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2.* Perché quando i grandi parlano con noi si dimenticano sempre di essere stati ragazzi, di aver avuto anche loro la “giornata nera” in cui non va mai bene niente? Sono stati giovani anche loro Da Brescia, Alessandra Giulini, mi scrive: «Sono una ragazzina di 11 anni e le scrivo per chiederle perché quando i grandi parlano con noi si dimenticano sempre di essere stati ragazzi, di aver avuto anche loro la “giornata nera” in cui non va mai bene niente. Quando” ho la luna di traverso”, loro incominciano a dire che alla loro età non c’era tempo di essere tristi per qualche cosa… Poi, a sentire loro, non c’era tempo di giocare, di sentire un disco; no, allora le ragazzine per bene stavano in casa a rammendare calzini e camicie…». Ho proprio l’impressione, cara Alessandra, che tu sia alquanto sfortunata. Si direbbe proprio che i “grandi” da te conosciuti siano dei “grandi” piuttosto scadenti come qualità intellettuale. Discorsi come quelli che tu mi riferisci mi sembrano denotare prima di tutto scarsa intelligenza. Intanto, il supporre, come per la verità fanno molti “grandi” (e anche moltissimi giovani) che i ragazzi di una volta, diciamo trenta o quarant’anni fa, fossero completamente diversi dai ragazzi di oggi è una grossa idiozia. È come dire che nel giro di trenta o quarant’anni la creatura-uomo è cambiata, come non era mai avvenuto da che il mondo esiste. D’accordo, io che ti scrivo sono un matusa, una persona cioè agli occhi dei tuoi coetanei poco attendibile; ma di giovani ultima leva ne ho conosciuti e ne conosco, e sono stato parecchio in mezzo a loro. Ebbene, ti garantisco che sono assolutamente identici ai ragazzi dei miei tempi. Certo, i costumi cambiano. Allora noi andavamo in bicicletta, adesso voi andate in motoretta, allora anche i ragazzini portavano il colletto inamidato, adesso vanno senza giacca e senza cravatta, e così via. Ma la sostanza, sta pure certa, è e sarà sempre la stessa. Anche allora c’erano i ragazzi studiosi e i ragazzi lazzaroni, c’erano i timidi e i disinvolti, i buoni e i cattivi, i sinceri e gli ipocriti, i disciplinati e gli indisciplinati, tale e quale oggi. Può darsi, è vero, che siccome il mondo nel giro di pochi decenni ha fatto passi da gigante, come non era mai avvenuto nei secoli andati, quella certa differenza di mentalità tra giovani e vecchi che si è sempre verificata (se non altro perché i grandi hanno avuto il tempo per imparare e capire molte più cose) si sia accentuata. E che una perfetta intesa tra padri e figli sia un po’ più difficile di una volta. Ma sarebbe sciocco esagerare. Anche una volta molti ragazzi avevano la sensazione di non essere capiti dai genitori, e viceversa. Insomma, io sono convinto che l’uomo è sempre lo stesso e, se mai, attraverso i secoli, va lentamente migliorando. Se poi qualche grande ti dice ancora che «ai suoi tempi non c’era tempo di essere tristi», non gli credere. Se c’è una stagione triste, accompagnata da terribili malinconie, è la primissima giovinezza. Malinconie che poi misteriosamente si diradano, fino a sparire, quando si diventa uomini fatti. Il vecchio luogo comune «giovinezza spensierata» è una delle tante cretinerie che girano impunemente per il mondo. La giovinezza – parlo naturalmente di ragazzi e ragazze che abbiano qualcosa nella testa e nel cuore – è tutt’altro che spensierata; anzi è inquieta, spesso torbida, tormentata da strane idee e strane paure. Ma, naturalmente, anche ai miei tempi c’erano tipi che non se la prendevano per nulla, che entravano nel mondo come le pecore entrano nel chiuso, che «vivevano spensierati». Ma erano da compiangere. Probabilmente sono gli stessi che, oramai coi capelli grigi, dicono oggi ad Alessandra: «E basta con quel giradischi!... Non capisco voi ragazze d’oggi come siete fannullone… Ai miei tempi…».

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3.* Perché la gente di colore nero che vive in America è nera ma quando partecipa a gare sportive, tipo Olimpiadi, diventa americana? I negri e la fratellanza La mia piccola compatriota Ulma De Bona mi scrive da Belluno: «Da tempo volevo proporle un perché, e la domanda è questa: perché la gente di colore nero che vive in America è nera ma quando partecipa a gare sportive, tipo Olimpiadi, diventa americana? Le parole di Riter, così mi sembra si chiami quell’atleta, mi sono rimaste impresse: “Noi non siamo cani da corsa, noi siamo uomini in qualsiasi momento!”. Signor Buzzati, la prego di pubblicare questa mia lettera perché in questo giornale, il più letto dei giornali per ragazzi, si infonda nei giovani animi amore per tutti i fratelli. Tanta gente parla di questo problema ma non fa niente, e chi fa qualcosa viene, come si dice da noi “tirato giù dalle spese”». Cara Ulma, negli Stati Uniti – io ci sono stato troppo poco per potermene rendere conto personalmente, ma la situazione è nota – i negri sono un problema sempre più assillante. In certi Stati rappresentano più di un terzo della popolazione, in certi distretti più della metà. Come probabilmente sai, si tratta dei discendenti degli schiavi che venivano anticamente importati dall’Africa e come schiavi erano trattati. Purtroppo, anche dopo che è stata concessa loro non solo la libertà, ma anche una condizione giuridica pari a quella dei bianchi, i negri sono generalmente ritenuti degli uomini inferiori, da tenere in disparte e da utilizzare soltanto come operai, servitori e così via. Se Dio vuole, col tempo una mentalità più aperta ed umana si è fatta strada. Oggi, in America, ci sono negri che insegnano alla università, che fanno il medico, lo scrittore, il poeta, l’avvocato e uno perfino è stato eletto senatore. Però in certe zone, soprattutto nel Sud, il disprezzo per i negri permane anche in persone colte e autorevoli; e alla più parte dei bianchi sembrerebbe un’assurdità indegna non solo sposare una negra, ma semplicemente sedersi a tavola con un negro. Come mai? Il fatto è che certi vecchi pregiudizi sono duri a morire. Pensa un po’. Esistono ancora qui da noi dei nobili che riterrebbero scandaloso sposare una ragazza del popolo! Certamente tra uomini e uomini, tra razze e razze esistono delle differenze. Ma gli scienziati che hanno studiato a fondo il problema, oggi non hanno dubbi: nella media, negri e bianchi, educati e istruiti nella stessa maniera, raggiungono lo stesso livello di intelligenza, di cultura, di capacità professionale. E quindi è balordo ritenerli inferiori a noi. In quanto poi alla bellezza, il discorso potrebbe farsi pericoloso proprio per i bianchi. In Africa, per esempio, ho incontrato sì dei negri che avevano una faccia piuttosto bestiale (ma facce bestiali non se ne vedono anche tra noi?), però, in Somalia, uomini e donne sono in media molto più belli ed eleganti degli europei; se avessero la pelle chiara sarebbero un vivaio inesauribile di divi e stelle cinematografici. Insomma, cara Ulma, nessuno può darti torto. E farai un’opera santa se nel tuo piccolo saprai far valere le tue idee. Comunque, anche ammesso che ci siano degli uomini, bianchi o neri, più dotati dalla natura e altri meno dotati, ciò non autorizza i primi a disprezzare i secondi, né a umiliarli, né a negare loro le stesse possibilità di vita e di lavoro. E fa rabbia, come tu scrivi, che tornino buoni i negri quando si tratta di vincere le Olimpiadi e li si esalti come campioni del Paese, mentre la regola, in casa, è di tenerli in disparte e di schifarli. Almeno a noi italiani, che pure abbiamo avuto molto a che fare con i negri in Africa, e che in genere li giudicavamo allo stesso nostro livello, quelle crudeli divisioni appaiono barbare e stolte. E ci sembra logico e giusto che adesso i negri si ribellino a questo stato di soggezione e intendano sostenere energicamente le loro ragioni.

Dino Buzzati

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4.* Perché il mio professore, quando incontra il preside, si leva tanto di cappello e quando invece viene salutato dal bidello fa appena un piccolo gesto con la mano? Levarsi tanto di cappello Da Bolzano un ragazzo di undici anni, che mi prega (a buon motivo) di non fare il suo nome, scrive: «Perché il mio professore, quando incontra il preside, si leva tanto di cappello e quando invece viene salutato dal bidello fa appena un piccolo gesto con la mano?» La risposta è molto semplice: perché il tuo professore sarà magari un pozzo di scienza ma è una persona maleducata. Intendiamoci, l’educazione a cui mi riferisco è qualche cosa di più della solita banale buona educazione che insegna per esempio a non mettersi le dita nel naso; significa piuttosto civiltà, ed è abbastanza rara, almeno in Italia. L’uso di salutare rispettosamente i superiori e di rispondere con indifferenza al saluto degli inferiori risale ai lontani tempi in cui si distinguevano appunto persone superiori e persone inferiori, e si pensava seriamente che un duca fosse un essere superiore, uno stalliere un essere inferiore. Adesso per fortuna non è più così. Certo, in una grande azienda, esiste ancora uno che comanda e ci sono molti altri che devono obbedire, ma questa differenza esiste, o per lo meno dovrebbe esistere, soltanto nei rapporti di lavoro. Una volta fuori della ditta, direttore e dipendenti si trovano sullo stesso identico piano; questo succede nei paesi civili. Dal punto di vista umano, il direttore deve essere considerato né più né meno dell’ultimo fattorino. E se questo fattorino per strada lo saluta togliendosi il cappello, è suo stretto dovere toglierselo anche lui. In quel momento, per la strada, lui non è più il direttore generale ma un cittadino qualsiasi, esattamente come l’altro. Ma allora, tu mi dirai, chi deve salutare per primo? Ecco, come regola generale direi che se si incontrano un uomo e una donna, il primo a salutare deve essere l’uomo perché, per antica tradizione, al «sesso debole» spettano tutti i riguardi. Se invece si incontrano due uomini, tocca al più giovane perché, da che mondo è mondo, all’uomo anziano viene attribuita maggiore saggezza, maggiore esperienza, maggiore dignità e così via. (Questa faccenda del rispetto verso i capelli bianchi meriterebbe un lungo discorso, che oggi qui non è possibile.) In quanto al tuo professore, io penso che tutti quelli che occupano professionalmente posizioni importanti dovrebbero essere loro a salutare per primi se incontrano un dipendente più anziano di loro. Comunque, ripeto, se il dipendente si toglie il cappello, non fare altrettanto io la giudico una «cafonata». E non pensare che siano dei particolari senza importanza. Il giorno che tutti avessero il dovuto rispetto del prossimo – il che non mi sembra una cosa troppo difficile – si vivrebbe tutti molto meglio.

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5.* Vorrei sapere perché i grandi non chiedono mai perché Perché i grandi non chiedono mai perché? Da Vicenza, Alessandra Cicogna mi domanda: «Vorrei sapere perché i grandi non chiedono mai perché». E chi te l’ha detto? Che cosa te lo ha fatto pensare? Forse perché non passa giorno, non passa ora, senza che tu chieda ai tuoi genitori, alla tua maestra, alle tue amiche il perché di qualche cosa? Mentre non senti quasi mai i tuoi genitori, o i nonni, fare altrettanto? No, no, cara Alessandra, le cose non stanno come tu immagini. È più che logico che voi bambini continuiate a chiedere «perché questo? perché quello?». Voi siete appena arrivati, si può dire, nel mondo in cui siete destinati a vivere, e questo mondo vi è nuovo, e misterioso, e dovunque voi guardate, là c’è qualche cosa che non avete mai conosciuta, che vi imbarazza, che eccita la vostra curiosità. Perché la Luna prima è a forma di mezzaluna e poi è tonda? Perché le donne hanno i capelli lunghi e gli uomini no? Perché quando uno starnuta gli altri dicono «salute»? Ogni volta che vi svegliate al mattino, vi trovate di fronte a un sacco di piccoli curiosi problemi nuovi. E allora, alzando gli occhi a chi è più grande di voi, continuate a chiedere: perché? perché? perché? I vostri genitori, i vostri nonni, i vostri zii, invece, non li sentite quasi mai chiedere spiegazioni. È vero. Ma non pensate, per carità, che essi abbiano imparato tutto, abbiano capito tutto, e vivano beati e felici. Fosse vero! Anche loro, tutti senza eccezione, hanno i loro quotidiani perché. I quali sono molto ma molto più grandi e difficili dei vostri. Sono i duri, e spesso incomprensibili perché, contro cui vanno a urtare tutti quelli che lavorano e devono farsi un posto nel mondo, che hanno una famiglia da mantenere, che hanno dei figli da educare, che si sentono così spesso smarriti e sbigottiti di fronte alle difficoltà, alle crudeltà, ai dolori che accompagnano la nostra esistenza. Cose grosse che fanno paura, che anche tu un giorno, pure se avrai un destino fortunato, conoscerai, ma per ora è meglio che tu non ci pensi, ne hai del tempo davanti. Ma a chi i grandi possono chiedere la spiegazione dei loro inquietanti perché? A chi possono rivolgersi vostra mamma, vostro papà quando si presentano quei gravi problemi? Ai maestri, ai professori? Ahimè, a una certa età non si hanno più maestri. Ai nonni? Ma anche i nonni, nonostante gli anni, si trovano nelle stesse condizioni. A chi allora? Ecco la verità. Quando si è diventati grandi e veniamo assaliti da quei grandi enigmi, non ci resta che chiedere perché a noi stessi, nel silenzio della notte, segretamente, senza dire parola. Sono i momenti difficili della vita, che toccano a chiunque. Avere studiato bene a scuola, avere diplomi e lauree, allora serve ben poco. Beati quelli che hanno una vera fede in Dio, si sentiranno forti dinanzi a qualsiasi terribile perché. Ma anche quelli che non hanno questa fortuna, se la caveranno con la saggezza, e soprattutto con la bontà. Ma ora ho paura di averti fatto dei discorsi un po’ troppo importanti, di averti fatto una specie di predica. A quello che ti ho detto, pensaci su, cara Alessandra, quando avrai un po’ di tempo. Adesso corri a giocare.

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6.* A proposito dell’esame di licenza media ho molto timore di non essere promosso, anche se sono uno dei più bravi della classe. Chi ha paura degli esami? Da Napoli, Mario Fenizia mi scrive: «Ho 13 anni e fra tre mesi farò l’esame per la licenza media per poi andare al liceo classico ed ho molto timore di non essere promosso, anche se sono uno dei più bravi della classe. Ciò le potrà sembrare banale ma con la paura che ho rischio veramente di essere rimandato. Veda un po’ lei se può aiutarmi». Sai che cosa ti dico, caro Mario? Tienitela cara, questa tua paura, e vedrai che tutto andrà bene. Non ti direi così se tu fossi un somarello, tra gli ultimi della classe. Invece, tu stesso lo ammetti, sei uno dei bravi. E allora la paura non potrà che farti del bene, perché in quest’ultimo periodo prima dell’esame tu ce la metterai tutta per imparare sempre di più, ciò che probabilmente non faresti se tu fossi beato e tranquillo. Due cose posso dirti, al proposito: prima di tutto che se tu sei veramente ben preparato, è praticamente impossibile che tu venga bocciato. Magari all’ultimo momento verrai preso dal panico, ti sentirai perduto, ti sembrerà di avere dimenticato tutto. Niente paura. Quando sarai davanti alla commissione d’esame, anche se il batticuore continuerà, vedrai che nel tuo cervello per incanto si ristabilirà l’ordine e tutte le cose che hai studiato si troveranno là, schierate come tanti soldatini, pronte a scattare se tu ne avrai bisogno. La seconda, e secondo me molto più importante, è questa: molto meglio dubitare che essere perfettamente sicuri di sé; molto meglio avere paura di non superare un esame che prepararsi a un esame con assoluta indifferenza o presunzione. Ma, a parte la scuola e gli esami, anche quando sarai grande, diffida dalle persone troppo sicure di sé, anche se sono brave nel loro mestiere. Sta pur sicuro che molto intelligenti non sono. Il vero segno della intelligenza è il dubbio. Perché solo i cretini sono sicuri di avere sempre ragione e di sapere tutto. E questo genere di cretini è anche molto pericoloso: studiando la storia avrai visto, o vedrai, che gli uomini più nefasti, quelli che hanno combinato più guai e insanguinato di più il mondo, erano sempre convintissimi di possedere loro soltanto la verità e la giustizia e perciò si sentivano autorizzati di imporre la loro volontà a tutti gli altri, a costo anche di stragi e di prepotenze. Hitler, per venire ai tempi vicini, era uno di questi. Se il benedetto dubbio lo avesse sfiorato, non avrebbe forse mandato a orribile morte tanti milioni di innocenti. Ma, a parte la storia e la politica, il dubbio sia sempre lodato; perché chi dubita di capire cercherà di capire sempre di più; chi dubita di sapere, cercherà di imparare sempre di più; chi dubita di avere ragione, cercherà sempre di più di scoprire la verità e la giustizia. Il dubbio ti insegnerà la sacrosanta modestia (che non vuole dire ipocrita sottomissione) e l’altrettanto sacrosanto senso della misura. Il dubbio ti salverà dalla tentazione, che magari qualche volta ti potrà capitare, di darti arie, anche se nella vita avrai tutti i successi desiderabili. Il dubbio ti renderà anche amato al prossimo perché avrai notato che le persone piene di sicumera (perché sono sicure di sé) sono estremamente antipatiche. Il dubbio, intendo dire, nel suo significato buono. Che non diventi continuo tentennamento o continua tremarella, per carità. Prima di prendere una decisione, pensarci su dieci volte (e qui il dubbio è benvenuto). Ma una volta presa, tirare dritti, altrimenti nella vita non si combinerà mai niente. E adesso, caro Mario, va’ pure tranquillo all’esame.

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7.* Ho letto su alcune riviste che in Canada si sta compiendo una vera strage di foche. Naturalmente per le pellicce. Ma come possono fare questo uomini dotati di intelligenza? Povere piccole foche Fulvio Ferrario, che non dà l’indirizzo né rivela la sua età (ma dalla grafia si capisce che è un bambino) scrive: «Ho letto su alcune riviste (per adulti) che in Canada si sta compiendo una vera strage di foche. Naturalmente per le pellicce. Ma come possono fare questo uomini dotati di intelligenza? Per giunta, si cercano le foche giovani che vengono strappate alla mamma con una brutalità indescrivibile…». Sì, caro Fulvio, ho visto anch’io alla televisione le orribili scene dei cacciatori canadesi che a colpi di mazza accoppano gli innocenti, inermi e graziosissimi cuccioli di foca. E condivido il tuo sdegno. Ma io ti domando: siamo in grado di condannare quella crudeltà noi che mangiamo bistecche, polli arrosto, prosciutti, tonno fresco o in scatola, quando non ci permettiamo il lusso di un paté (ottenuto attraverso l’ingozzamento sistematico di un’oca inchiodata al pavimento) o di un’aragosta (gettata viva nell’acqua bollente)? Credi che le stragi (di buoi, di cavalli, di vitellini, di maiali, di porcellini non meno graziosi delle piccole foche canadesi) che avvengono sistematicamente nei nostri macelli siano meno feroci e brutali? Mi chiederai: E tu non mangi salamini e cotolette alla milanese? Sì, li mangio perché evidentemente non sono abbastanza civile e per debolezza mi inserisco in un costume incivile; ma riconosco che di quelle malvagità mi rendo anch’io complice. Pensa un po’: che diritto avremmo di protestare se un bel giorno, per uno strano miracolo del cielo, si invertissero all’improvviso le parti e padroni del mondo non fossimo più noi uomini ma gli animali? I quali, giustamente, ci chiuderebbero nei recinti di grandi allevamenti e di tanto in tanto ci manderebbero a prendere per farci macellare e ricavarne gustosi pranzetti. Te le immagini le macellerie con al banco per esempio un leone o un orso impugnante il coltellaccio e nella vetrina alcuni quarti di ragazza e due o tre teste di bambino (ottime da fare lesse) con un ramoscello d’agrifoglio infilato tra i dentini? Certo non mi auguro seriamente un simile capovolgimento di situazione. Ma se tutti gli uomini potessero averne, per alcuni istanti, una visione precisa, come se fosse reale, e prendessero una spaventosa paura, sarebbe una lezione sacrosanta. Morale: benedetta qualsiasi iniziativa, azione, sforzo in favore dei poveri fochini. Non dimentichiamo però i casi nostri, facciamo un esame di coscienza, ricordiamoci delle tante crudeltà inutili inflitte qui in Italia a tante brave e buone bestie che non possono difendersi, anche fuori dei macelli. E scusa, caro Fulvio, se mi sono messo un po’ a fare la predica. Ciao.

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SCUOLA SECONDARIA DI SECONDO GRADO

1.* La mia insegnante ha detto che oggi il mondo è dominato tutto dalla violenza. (…) Secondo te ha ragione? Bob Kennedy Il piccolo Gino Tribulzi, di Napoli, mi chiede: «L’altro giorno, a proposito dell’uccisione di Robert Kennedy, la mia maestra ha detto che oggi il mondo è dominato tutto dalla violenza. Guardandomi intorno però non mi sembra che le cose vadano così. È vero che in Vietnam si fa la guerra ma qui a Napoli la vita è abbastanza tranquilla. Secondo te la mia maestra ha ragione?». Sì, secondo me ha ragione perché intendeva dire che, nonostante tutti i progressi della scienza e della cosiddetta civiltà, gli uomini continuano a comportarsi come i loro progenitori che vivevano nelle caverne. Perché l’uomo è diverso dalle bestie, perché l’uomo è superiore alle bestie? Perché l’uomo dispone della ragione che gli animali non posseggono. Nei primissimi tempi, quando anche lui, uomo, era poco più di una scimmia, doveva risolvere i suoi problemi soltanto con la forza fisica e per far valere le sue ragioni usava quindi la violenza, i suoi pugni, le sue randellate, i suoi colpi di clava. In seguito, via via che diventava più intelligente, al posto dei muscoli ha usato sempre più il suo cervello. E se due non andavano d’accordo, invece di menarsi, discutevano. Da allora l’uomo dovrebbe avere fatto molta strada, alla violenza non dovrebbe più ricorrere, perché la violenza si basa su un concetto ignobile. Come se uno dicesse a un altro: «È inutile perdere tempo per stabilire se hai ragione tu o io. Io sono il più forte, io ti posso spaccare la faccia, io ti posso ammazzare, e perciò comando io.» Nelle guerre il punto di partenza è sempre questo. E lo stesso bestiale meccanismo è certamente scattato nel giovane che ha sparato a Bob Kennedy anche se finora non possiamo sapere tutto ciò che ribolliva nella sua testa. Il mondo, cioè l’America, non andava come avrebbe voluto lui. E Kennedy gli sembrava il più tipico campione dell’America da lui odiata. Perciò ha voluto ucciderlo. Ma se tutti ragionassero così, se tutti facessero così, giornalmente ci sarebbero dovunque spaventose carneficine. Si tornerebbe veramente all’età delle caverne con lo svantaggio che invece delle clave e dei pugnali di pietra oggi disponiamo di mitragliatrici, razzi e bombe atomiche. Tu, caro Gino, dici che intorno a te la vita scorre tranquilla. Ma penso che anche tu, nella tua breve esperienza, abbia sofferto delle violenze altrui o per lo meno abbia assistito a qualche episodio di violenza; e abbia potuto intuire la mortificazione, la sofferenza, l’umiliazione di chi la subisce. Ecco, io mi ricordo una scenetta di quando avevo nove o dieci anni. Con un gruppo di compagni di scuola ero andato a giocare ai giardini pubblici di Milano. Tra gli altri c’era un bel ragazzo, di famiglia nobile, che si dava un mucchio d’arie anche perché, essendo in ritardo di un anno, era più alto e grosso di noi. A un certo punto, mentre si giocava coi soldatini di carta – un gioco che penso adesso non esista più – questo ragazzetto andò sulle furie contro un compagno che era timido e mingherlino. I due erano di fronte. A un tratto il signorino alzò una specie di piccolo scudiscio che portava sempre con sé e lo sbatté di tutta forza su una guancia del compagno, lasciando una crudele striscia rossa. Ora tu mi dirai: perché io e gli altri compagni non gli siamo saltati addosso e non gliene abbiamo suonate? A distanza di tanti anni risponderti mi riuscirebbe difficile. Però credo

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che nessuno ebbe la forza di reagire proprio perché la violenza, la sopraffazione brutale di quel nostro compagno ci aveva profondamente turbati e nello stesso tempo terrorizzati. Questo è appunto uno degli aspetti più odiosi della violenza: che in grandissima parte dei casi riesce ad avere il sopravvento su chi vorrebbe invece basarsi sulla ragione. La gente, grazie a Dio, ha perso l’abitudine di maneggiare le clave e si trova impotente quando in casa sua irrompono i prepotenti, grandi e grossi, armati fino ai denti. Lo capisci dunque che la tua maestra aveva ragione?

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2.* Nel mese scorso, durante questi scontri tra cecoslovacchi e russi, non tanto fisici quanto politici, mi sono chiesta molte volte: “Che cosa è il potere?” Cos’è il potere Da Pavia, Maria Chiara Viola mi scrive: «Nel mese scorso, durante questi scontri, tra cecoslovacchi e russi, non tanto fisici quanto politici, mi sono chiesta molte volte: “Che cosa è il potere?” E anche ragionandoci sopra non sono mai riuscita a dare una risposta a questo mio interrogativo». Cara Maria Chiara, il problema che poni è tutt’altro che semplice. Io non sono né un uomo politico né un filosofo ma mi sembra che il potere non sia altro che la capacità di imporre la propria volontà al prossimo. Detto questo, resta però da stabilire di che cosa è fatta questa facoltà: di forza materiale? di forza economica, cioè di ricchezza? di forza morale? Bene. Mi sembra non ci sia dubbio che il potere esercitato dalla Russia sulla Cecoslovacchia dipendeva solamente da una prevalenza di forza materiale. Sta pur sicura che se i cecoslovacchi avessero avuto più carri armati, più aeroplani, più cannoni e più soldati che l’U.R.S.S., l’U.R.S.S. non si sarebbe mai sognata non dico di occupare Praga ma neppure di fare la voce grossa. Nel campo internazionale a decidere, purtroppo, è sempre la forza materiale, anche se questa forza praticamente non viene esercitata. Basta che tu pensi alle bombe atomiche. Finché ne possedeva soltanto l’America, l’America era senza discussione più potente di tutti gli altri Stati perché, se avesse voluto, avrebbe potuto distruggerli. Poi anche i russi se la sono fabbricata, questa diabolica bomba. E un certo equilibrio si è ristabilito. Ma in pratica, mi chiederai, chi esercita questo potere? Una volta lo esercitavano i re che se lo trasmettevano di padre in figlio; e si era convinti che questo grandissimo privilegio discendesse dalla volontà di Dio, e perciò le popolazioni, in genere, obbedivano. I monarchi assoluti facevano di testa loro e nessuno poteva contraddirli (se non altri re, che si credevano più forti). Certo, era una bella assurdità. E difatti a poco a poco, le cose sono molto cambiate. Nel mondo civile, re di quella fatta non esistono più e il potere è affidato ai governanti dallo stesso popolo per mezzo di libere elezioni. Tu mi dirai: e i dittatori? Ma nei Paesi veramente civili i dittatori non esistono. I dittatori sono persone, che, saliti al governo in seguito a una vittoria militare, come Franco in Spagna, o per regolare carriera politica, come Stalin nell’U.R.S.S., accentrano a poco a poco su di sé tutte le funzioni di governo, aboliscono la libertà e finiscono per essere peggio dei re assoluti di una volta. Poi ci sono altre specie di poteri. Il potere per esempio che ha il ricco sul povero in quanto può, pagandolo, assicurarsi i suoi servigi. E molti sostengono che anche questo è ingiusto e vorrebbero che nessuno potesse utilizzare il lavoro di altri grazie ai suoi quattrini. C’è anche, come dicevi, un potere morale. Tipico esempio è il papa, vicario di Dio in Terra. Il suo potere anticamente era molto più grande perché allora gli uomini credevano in Dio molto di più. Oggi è ancora considerevole, tanto che la parola del papa è ascoltata con rispetto anche nei Paesi non cattolici. Ma non c’è neppure da fare il paragone con i secoli andati. Pensa che il papa non ha potuto impedire che si scatenassero le due ultime guerre mondiali. Di fronte alla forza bruta delle ambizioni e degli eserciti scatenati le sue disperate invocazioni non sono servite a niente. «Quante divisioni ha il papa?», chiedeva Stalin, come per dire che, siccome non disponeva di esercito, non c’era niente da temere da lui. Anche personaggi meno in alto del papa possono esercitare, del resto, un potere morale: uomini che si sono imposti alla stima, al rispetto, all’ammirazione della gente col loro contegno, con le loro

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opere. Ed è questo il potere di gran lunga il migliore perché quelli che vi si sottomettono lo fanno con entusiasmo e con amore. Ma, ahimè, il potere morale di questi uomini conta finché non c’è nessuno che gli si opponga con la forza materiale: ed è appunto quello che è successo in Cecoslovacchia.

Dino Buzzati

*si riferisce al numero indicato nel pdf “Il Gioco dei Perché” e corrisponde alla domanda di riferimento

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3.* Ho letto su alcune riviste che in Canada si sta compiendo una vera strage di foche. Naturalmente per le pellicce. Ma come possono fare questo uomini dotati di intelligenza? Povere piccole foche Fulvio Ferrario, che non dà l’indirizzo né rivela la sua età (ma dalla grafia si capisce che è un bambino) scrive: «Ho letto su alcune riviste (per adulti) che in Canada si sta compiendo una vera strage di foche. Naturalmente per le pellicce. Ma come possono fare questo uomini dotati di intelligenza? Per giunta, si cercano le foche giovani che vengono strappate alla mamma con una brutalità indescrivibile…». Sì, caro Fulvio, ho visto anch’io alla televisione le orribili scene dei cacciatori canadesi che a colpi di mazza accoppano gli innocenti, inermi e graziosissimi cuccioli di foca. E condivido il tuo sdegno. Ma io ti domando: siamo in grado di condannare quella crudeltà noi che mangiamo bistecche, polli arrosto, prosciutti, tonno fresco o in scatola, quando non ci permettiamo il lusso di un paté (ottenuto attraverso l’ingozzamento sistematico di un’oca inchiodata al pavimento) o di un’aragosta (gettata viva nell’acqua bollente)? Credi che le stragi (di buoi, di cavalli, di vitellini, di maiali, di porcellini non meno graziosi delle piccole foche canadesi) che avvengono sistematicamente nei nostri macelli siano meno feroci e brutali? Mi chiederai: E tu non mangi salamini e cotolette alla milanese? Sì, li mangio perché evidentemente non sono abbastanza civile e per debolezza mi inserisco in un costume incivile; ma riconosco che di quelle malvagità mi rendo anch’io complice. Pensa un po’: che diritto avremmo di protestare se un bel giorno, per uno strano miracolo del cielo, si invertissero all’improvviso le parti e padroni del mondo non fossimo più noi uomini ma gli animali? I quali, giustamente, ci chiuderebbero nei recinti di grandi allevamenti e di tanto in tanto ci manderebbero a prendere per farci macellare e ricavarne gustosi pranzetti. Te le immagini le macellerie con al banco per esempio un leone o un orso impugnante il coltellaccio e nella vetrina alcuni quarti di ragazza e due o tre teste di bambino (ottime da fare lesse) con un ramoscello d’agrifoglio infilato tra i dentini? Certo non mi auguro seriamente un simile capovolgimento di situazione. Ma se tutti gli uomini potessero averne, per alcuni istanti, una visione precisa, come se fosse reale, e prendessero una spaventosa paura, sarebbe una lezione sacrosanta. Morale: benedetta qualsiasi iniziativa, azione, sforzo in favore dei poveri fochini. Non dimentichiamo però i casi nostri, facciamo un esame di coscienza, ricordiamoci delle tante crudeltà inutili inflitte qui in Italia a tante brave e buone bestie che non possono difendersi, anche fuori dei macelli. E scusa, caro Fulvio, se mi sono messo un po’ a fare la predica. Ciao.

Dino Buzzati

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4.* A proposito del pugilato: “Io mi pongo un interrogativo: perché questo sport, barbaro e micidiale, viene incrementato e seguito?” È “barbaro” il pugilato? Il Direttore mi ha pregato di rispondere a Susanna Tevenè, di Livorno, una ragazzina di 13 anni la quale gli ha scritto: «Da tempo mi assilla un problema. Uno degli sport più seguiti è il pugilato. Molte volte sono morti pugili a causa di pugni nella testa o in atre parti vitali. Molti rimangono sfigurati. Io mi pongo un interrogativo: perché questo sport, barbaro e micidiale, viene incrementato e seguito? Perché un pugile che stende l’avversario viene considerato un campione? Io trovo incivili coloro che seguono questo sport, che lo praticano e che ne favoriscono la diffusione». A prima vista, cara Susanna, la risposta sembrerebbe facilissima. Come si può negare che nel pugilato c’è qualcosa di «barbaro» e di «incivile», anche se vanta antichissime tradizioni? E come si può dimostrare che l’abolizione di questo sport sarebbe una grave perdita per l’umanità? D’altra parte tu tocchi una delle innumerevoli contraddizioni dell’uomo. Conosco delle persone di animo buono e mite che, quando si trasmettono incontri di pugilato, se ne stanno attaccati al televisore con gli occhi spalancati dall’entusiasmo e quanto più i due pugilatori se ne danno, quanto più arrivano a segno terribili colpi, tanto più sono soddisfatti. Eppure, loro personalmente, non avrebbero il coraggio di dare neppure uno scappellotto al proprio figliolo. Perché? Prima di tutto entra in gioco l’ammirazione comune a quasi tutti gli uomini, per le dimostrazioni di bravura, di coraggio e di forza. Si aggiunge il gusto, questo sì condannabile senza riserve, che molta gente prova nell’assistere a scene crudeli; basta che tu pensi alle sanguinose corride, ai feroci combattimenti tra i galli, ai mortali duelli dei gladiatori i quali grazie a Dio oggi non si fanno più ma, se per ipotesi assurda fossero ripristinati, richiamerebbero un folto pubblico, garantito. Del resto, non trovi che la caccia sia ancora peggio del pugilato? La sofferenza e la morte degli animali non vedo perché siano molto meno pietose che la sofferenza e la morte dell’uomo. Anche qui una contraddizione che è ben difficile possa venire sanata. Presi uno per uno, i cacciatori sono quasi sempre delle bravissime persone, che tra l’altro amano teneramente i propri cani: quando fanno centro, però, quando con una bella schioppettata sono riusciti a troncare la vita a un capriolo, a una lepre, a una quaglia, che vivevano beati e innocenti, il loro animo esulta di felicità. E i macelli allora? Noi ci sediamo a tavola spensierati e addentiamo con la massima soddisfazione un’ala di pollo o una bistecca, ma questa bistecca, quest’ala di pollo significano la morte violenta e spesso crudelissima di una creatura che, nella maggioranza dei casi, capiva di dover morire e ha sofferto un’angoscia suprema. Dovremmo perciò rinunciare alla carne? Personalmente io direi di sì. Ma una proposta simile nel mondo moderno mai arriverebbe ad essere presa sul serio, se non altro per la vastità degli interessi che sono in gioco. E lo stesso si può dire della pesca, e lo stesso del «paté» di fegato, per produrre il quale le povere oche vengono sottoposte a orribili torture, e lo stesso delle aragoste che vengono buttate vive nell’acqua bollente. La vita quotidiana dell’umanità è piena di cose barbare e atroci, a cui quasi nessuno fa caso. Voglio dire insomma che, a paragone di tante crudeltà, il pugilato è ancora uno dei mali minori. E tu, Susanna, fai bene a disapprovarlo perché questo significa che hai un animo sensibile e buono. Ma probabilmente esiste una quantità di altre «inciviltà» bene occultate che tutti noi faremmo bene a condannare prima di scandalizzarci se due campioni si prendono a pugni, a rischio anche di rovinarsi per sempre i connotati.

Dino Buzzati

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5.* Perché la gente di colore nero che vive in America è nera ma quando partecipa a gare sportive, tipo Olimpiadi, diventa americana? I negri e la fratellanza La mia piccola compatriota Ulma De Bona mi scrive da Belluno: «Da tempo volevo proporle un perché, e la domanda è questa: perché la gente di colore nero che vive in America è nera ma quando partecipa a gare sportive, tipo Olimpiadi, diventa americana? Le parole di Riter, così mi sembra si chiami quell’atleta, mi sono rimaste impresse: “Noi non siamo cani da corsa, noi siamo uomini in qualsiasi momento!”. Signor Buzzati, la prego di pubblicare questa mia lettera perché in questo giornale, il più letto dei giornali per ragazzi, si infonda nei giovani animi amore per tutti i fratelli. Tanta gente parla di questo problema ma non fa niente, e chi fa qualcosa viene, come si dice da noi “tirato giù dalle spese”». Cara Ulma, negli Stati Uniti – io ci sono stato troppo poco per potermene rendere conto personalmente, ma la situazione è nota – i negri sono un problema sempre più assillante. In certi Stati rappresentano più di un terzo della popolazione, in certi distretti più della metà. Come probabilmente sai, si tratta dei discendenti degli schiavi che venivano anticamente importati dall’Africa e come schiavi erano trattati. Purtroppo, anche dopo che è stata concessa loro non solo la libertà, ma anche una condizione giuridica pari a quella dei bianchi, i negri sono generalmente ritenuti degli uomini inferiori, da tenere in disparte e da utilizzare soltanto come operai, servitori e così via. Se Dio vuole, col tempo una mentalità più aperta ed umana si è fatta strada. Oggi, in America, ci sono negri che insegnano alla università, che fanno il medico, lo scrittore, il poeta, l’avvocato e uno perfino è stato eletto senatore. Però in certe zone, soprattutto nel Sud, il disprezzo per i negri permane anche in persone colte e autorevoli; e alla più parte dei bianchi sembrerebbe un’assurdità indegna non solo sposare una negra, ma semplicemente sedersi a tavola con un negro. Come mai? Il fatto è che certi vecchi pregiudizi sono duri a morire. Pensa un po’. Esistono ancora qui da noi dei nobili che riterrebbero scandaloso sposare una ragazza del popolo! Certamente tra uomini e uomini, tra razze e razze esistono delle differenze. Ma gli scienziati che hanno studiato a fondo il problema, oggi non hanno dubbi: nella media, negri e bianchi, educati e istruiti nella stessa maniera, raggiungono lo stesso livello di intelligenza, di cultura, di capacità professionale. E quindi è balordo ritenerli inferiori a noi. In quanto poi alla bellezza, il discorso potrebbe farsi pericoloso proprio per i bianchi. In Africa, per esempio, ho incontrato sì dei negri che avevano una faccia piuttosto bestiale (ma facce bestiali non se ne vedono anche tra noi?), però, in Somalia, uomini e donne sono in media molto più belli ed eleganti degli europei; se avessero la pelle chiara sarebbero un vivaio inesauribile di divi e stelle cinematografici. Insomma, cara Ulma, nessuno può darti torto. E farai un’opera santa se nel tuo piccolo saprai far valere le tue idee. Comunque, anche ammesso che ci siano degli uomini, bianchi o neri, più dotati dalla natura e altri meno dotati, ciò non autorizza i primi a disprezzare i secondi, né a umiliarli, né a negare loro le stesse possibilità di vita e di lavoro. E fa rabbia, come tu scrivi, che tornino buoni i negri quando si tratta di vincere le Olimpiadi e li si esalti come campioni del Paese, mentre la regola, in casa, è di tenerli in disparte e di schifarli. Almeno a noi italiani, che pure abbiamo avuto molto a che fare con i negri in Africa, e che in genere li giudicavamo allo stesso nostro livello, quelle crudeli divisioni appaiono barbare e stolte. E ci sembra logico e giusto che adesso i negri si ribellino a questo stato di soggezione e intendano sostenere energicamente le loro ragioni.

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6.* Perché il mio professore, quando incontra il preside, si leva tanto di cappello e quando invece viene salutato dal bidello fa appena un piccolo gesto con la mano? Levarsi tanto di cappello Da Bolzano un ragazzo di undici anni, che mi prega (a buon motivo) di non fare il suo nome, scrive: «Perché il mio professore, quando incontra il preside, si leva tanto di cappello e quando invece viene salutato dal bidello fa appena un piccolo gesto con la mano?» La risposta è molto semplice: perché il tuo professore sarà magari un pozzo di scienza ma è una persona maleducata. Intendiamoci, l’educazione a cui mi riferisco è qualche cosa di più della solita banale buona educazione che insegna per esempio a non mettersi le dita nel naso; significa piuttosto civiltà, ed è abbastanza rara, almeno in Italia. L’uso di salutare rispettosamente i superiori e di rispondere con indifferenza al saluto degli inferiori risale ai lontani tempi in cui si distinguevano appunto persone superiori e persone inferiori, e si pensava seriamente che un duca fosse un essere superiore, uno stalliere un essere inferiore. Adesso per fortuna non è più così. Certo, in una grande azienda, esiste ancora uno che comanda e ci sono molti altri che devono obbedire, ma questa differenza esiste, o per lo meno dovrebbe esistere, soltanto nei rapporti di lavoro. Una volta fuori della ditta, direttore e dipendenti si trovano sullo stesso identico piano; questo succede nei paesi civili. Dal punto di vista umano, il direttore deve essere considerato né più né meno dell’ultimo fattorino. E se questo fattorino per strada lo saluta togliendosi il cappello, è suo stretto dovere toglierselo anche lui. In quel momento, per la strada, lui non è più il direttore generale ma un cittadino qualsiasi, esattamente come l’altro. Ma allora, tu mi dirai, chi deve salutare per primo? Ecco, come regola generale direi che se si incontrano un uomo e una donna, il primo a salutare deve essere l’uomo perché, per antica tradizione, al «sesso debole» spettano tutti i riguardi. Se invece si incontrano due uomini, tocca al più giovane perché, da che mondo è mondo, all’uomo anziano viene attribuita maggiore saggezza, maggiore esperienza, maggiore dignità e così via. (Questa faccenda del rispetto verso i capelli bianchi meriterebbe un lungo discorso, che oggi qui non è possibile.) In quanto al tuo professore, io penso che tutti quelli che occupano professionalmente posizioni importanti dovrebbero essere loro a salutare per primi se incontrano un dipendente più anziano di loro. Comunque, ripeto, se il dipendente si toglie il cappello, non fare altrettanto io la giudico una «cafonata». E non pensare che siano dei particolari senza importanza. Il giorno che tutti avessero il dovuto rispetto del prossimo – il che non mi sembra una cosa troppo difficile – si vivrebbe tutti molto meglio.

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7.* Perché sento dire così spesso, anche in chiesa, a messa, quando il prete fa la predica, che gli uomini grandi sono peccatori, cattivi, egoisti e una quantità di altre brutte cose? Diventare grandi Un’alunna di quarta elementare delle scuole di via Quadronno, a Milano, Lidia Bottesini, mi scrive: «Perché sento dire così spesso, anche in chiesa, a messa, quando il prete fa la predica, che gli uomini grandi sono peccatori, cattivi, egoisti e una quantità di altre brutte cose? È vero? Le persone che vedo intorno a me mi sembrano tutte brava gente!». Allora, cara Lidia, ti racconterò quello che mi disse un povero vecchio cane, di razza molto incerta, che incontrai una volta in una stradetta di campagna, dalle parti di Belluno. Se ne stava disteso sul bordo erboso della via, e si capiva subito che era malato. Mi fermai a guardarlo. Lui mi fissò con due occhi pieni di preghiera, come neanche un cristiano, ma senza la forza di alzarsi. Io gli chiesi: «Cosa ti succede, povero cane?» e gli feci una carezza sotto il mento perché questo è il posto dove ai cani piace di essere accarezzati e non sopra alla testa, come fanno in genere quelli che non conoscono bene i cani. Lui riuscì a levare un poco il capo e rispose: «Signore, tu sei il primo, dopo tanti anni, a farmi una carezza. Mi pare di essere ritornato bambino». Poi raccontò: «Signore, io credo di dover morire tra poco. Ma vorrei che tu mi spiegassi perché è così brutta e ingiusta la vita. Io ero nato in una casa di contadini, e sono un bastardo, ma allora non lo sapevo. I miei padroni erano gente abbastanza rozza, ma quando ero cuccioletto, me lo ricordo benissimo, tutti mi coccolavano e mi davano da mangiare delle buone cose. Poi, via via che crescevo, anche i ragazzi che mi avevano fatto l’impressione di essere buoni e gentili, hanno cominciato a trascurarmi. E, prima, se entravo nella loro cucina tutti mi facevano festa, adesso mi cacciavano fuori, a suon di pedate. Come sono stato adulto, mi hanno legato a una catena e dovevo stare giorno e notte nel cortile a fare la guardia e se la sera, quando mi prendeva la disperazione, mi mettevo a mugolare, erano bastonate. Le persone che io avevo creduto così buone, si rivelavano senza cuore. E quando sono stato vecchio e mi sono ammalato e non ero più in condizione di fare la guardia, mi hanno sbattuto fuori. Ed eccomi qui, mezzo morto di fame, che aspetto la morte». Quel povero cane, che si chiamava Lupo, riuscii a collocarlo in casa di un falegname e visse ancora discretamente sei o sette mesi, non mi ricordo con precisione. Ma perché l’ho ricordato? Perché la sua amara esperienza, e non voglio assolutamente fare il profeta di sventure, la farai un poco anche tu, cara Lidia, anche se meno crudele. Tu evidentemente hai avuto la fortuna di nascere in una ottima famiglia, i tuoi genitori ti adorano, tutte le persone che avvicini sono affettuose. Purtroppo, andando avanti negli anni, anche se sarai una ragazza molto brava e bella, ti accorgerai che il prossimo non ti sorriderà più come prima, e se andrai a lavorare, come fanno oggi quasi tutte le donne, constaterai che la bontà vera è molto rara. Non voglio spaventarti, per carità. Io, per esempio, nella mia ormai lunga esperienza posso dire di avere avuto a che fare quasi sempre con uomini per bene. Ma penso di essere un fortunato. Tutto intorno, vedo girovagare astute volpi e voraci lupi, quando non sono addirittura delle selvagge iene. Ad ogni modo ricordati, cara Lidia, una cosa molto importante: contrariamente a quello che ti consiglieranno quasi tutti, contro queste bestiacce cattive che forse incontrerai nella vita, l’arma della furberia conta poco; è più facile che tu riesca a sbaragliarle e a metterle in fuga con la semplice bontà.

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8.* Dopo il volo degli americani sulla Luna ho sentito dire che la Luna non è più quella di prima, che ha perso ogni bellezza e non significa più niente. Tu che cosa dici? Noi e la luna Da Cividale mi scrive Giacomino Sprit di dodici anni: «Dopo il volo degli americani sulla Luna ho sentito dire che la Luna non è più quella di prima, che ha perso ogni bellezza e non significa più niente. Tu che cosa dici?» Caro Giacomino, i signori che facevano quei discorsi intendevano dire che ora che gli uomini sono arrivati fin lassù, la Luna ha perso gran parte del suo mistero e quindi del suo incanto poetico perché infatti le cose e i paesi sconosciuti, inesplorati, esercitano un fascino molto maggiore che quelli noti perché lasciano via libera alle più pazze speranze. Così, sulla Luna quale si conosceva una volta, gli uomini potevano sbizzarrire la loro fantasia, immaginando perfino che vi abitassero strani esseri o mostri, che vi si potesse svolgere una vita favolosa. Oggi che gli astronauti si sono avvicinati fino a cento chilometri dalla superficie del satellite, oggi sappiamo che la vita lassù non esiste e che si tratta di un arido e inospitale deserto. Favole, illusioni, sono così sparite per sempre. Ma non si può dire certamente che la Luna, guardata di quaggiù, abbia perso la sua bellezza poetica. Si può fare al proposito un paragone. Le grandi montagne una volta nessuno le aveva ancora scalate, e guardandole dal fondo valle gli uomini immaginavano che le creste supreme fossero dimora di divinità, di esseri soprannaturali, di gnomi, di elfi, di draghi, di bizzarri spiriti. Ma anche a chi non prendeva sul serio queste credenze superstiziose, le vette, mai toccate dall’uomo, apparivano misteriose, affascinanti, irraggiungibili. Pensa un po’ al Cervino, per fare un esempio. Se non altro in fotografia, certamente lo conosci. Semplicemente per vederlo coi propri occhi venivano turisti da ogni parte del mondo. Era la stessa incarnazione della natura selvaggia e inviolabile. Eppure, dopo che l’inglese Whimper e subito dopo dalla parte italiana Giovanni Carrel ebbero conquistato la terribile cima, e sono passati più di cento anni, forse che il Cervino ha perso il suo fascino, la sua personalità? Non si può proprio dire. Migliaia, decine di migliaia di uomini ormai l’hanno scalato da tutte le parti, sui suoi fianchi sono sorti rifugi, nei giorni sereni d’estate sono decine le cordate che si inerpicano contemporaneamente sulle sue creste e pareti, dal versante italiano e da quello svizzero. E con un potente cannocchiale si può riuscire anche a distinguere gli omini arrivati in vetta. Ma poi cala la sera, gli alpinisti discendono, la gigantesca rupe resta sola soletta come negli antichi tempi, torna ad essere il castello incantato, la fortezza inespugnabile. Ebbene, io penso che per la Luna succederà lo stesso. Oramai non c’è dubbio che l’uomo riuscirà a metterci piede. E può darsi che per un motivo o l’altro si organizzino lassù delle «basi» in cui gli astronauti potranno soggiornare qualche tempo. Ma da quaggiù, anche col cannocchiale, non ci accorgeremo di nulla. La Luna ci apparirà sempre come una volta, enigmatica sfera sospesa negli spazi. E la sua luce continuerà a illuminare le nostre notti, trasformando i paesi, le strade, le campagne in un mondo incantato, dandoci quella commozione indicibile che alla tua giovanissima età anch’io già provavo.

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