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Settimana biblica 2014 Qoèlet Relatore: Padre Cesare Geroldi s.j. Per cortesia controllare gli asterischi Nota 1: Ogni tanto il relatore sfuma il parlato o l’accelera per dare espressione, e alcune parole – pur intese chiaramente da voi presenti – sfuggono alla registrazione e non sono comprensibili per la trascrizione. Cerco comunque di mantenere chiaro e completo il pensiero esposto. Nota 2: Lascio il testo di Vignolo in stile di poesia perché mi sembra più consono, però vedi poi tu se assemblare i versetti tipo prosa. Io naturalmente non ti metterò in conto questo ‘allungamento’ dello scritto. Nota 3: Scrivo il termine ‘sapienza’ con l’iniziale minuscola perché non riesco a capire quando il relatore si riferisce al libro e quando parla della disposizione interiore. Vedi di sistemare la cosa con lui, che certo fa delle distinzioni. Prima riflessione Vorrei iniziare le mie riflessioni partendo dalle cose che forse sembrano più inutili. Voi avete tra le mani alcuni fogli, un fascicoletto su Qohelet che ho preparato pensando ai nostri incontri. Stamattina ho visto la locandina della Scuola diocesana della Parola per quest’anno. Si ripercorreranno le Megillôt, cioè i cinque rotoli che stanno nella terza parte della Bibbia: dopo la Tôrāh (il Pentateuco), i Profeti (anteriori e posteriori, con i libri storici), vengono Ketubim (gli Scritti). Ebbene, cinque libri di questa terza parte sono chiamati appunto le Megillôt, e vengono letti durante le 1

Settimana biblica 2014 · Web viewLa percezione è certo di un qualcosa di perfetto, una macchina che funziona alla perfezione. Suscita meraviglia come nella prima pagina di Genesi

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Settimana biblica 2014

QoèletRelatore: Padre Cesare Geroldi s.j.

Per cortesia controllare gli asterischiNota 1: Ogni tanto il relatore sfuma il parlato o l’accelera per dare espressione, e alcune parole – pur intese chiaramente da voi presenti – sfuggono alla registrazione e non sono comprensibili per la trascrizione. Cerco comunque di mantenere chiaro e completo il pensiero esposto. Nota 2: Lascio il testo di Vignolo in stile di poesia perché mi sembra più consono, però vedi poi tu se assemblare i versetti tipo prosa. Io naturalmente non ti metterò in conto questo ‘allungamento’ dello scritto.Nota 3: Scrivo il termine ‘sapienza’ con l’iniziale minuscola perché non riesco a capire quando il relatore si riferisce al libro e quando parla della disposizione interiore. Vedi di sistemare la cosa con lui, che certo fa delle distinzioni.

Prima riflessioneVorrei iniziare le mie riflessioni partendo dalle cose che forse sembrano più inutili. Voi avete tra

le mani alcuni fogli, un fascicoletto su Qohelet che ho preparato pensando ai nostri incontri. Stamattina ho visto la locandina della Scuola diocesana della Parola per quest’anno. Si

ripercorreranno le Megillôt, cioè i cinque rotoli che stanno nella terza parte della Bibbia: dopo la Tôrāh (il Pentateuco), i Profeti (anteriori e posteriori, con i libri storici), vengono Ketubim (gli Scritti). Ebbene, cinque libri di questa terza parte sono chiamati appunto le Megillôt, e vengono letti durante le feste o nelle ricorrenze. Ad esempio, il libro delle Lamentazioni è letto nella ricorrenza di (tish'à beàv), cioè della distruzione del Tempio, avvenuta il 9 del mese di Av (più o meno luglio) del 586 a.C. e il popolo fa lutto. Non è una grande festa!

Altri Scritti vengono proclamati in circostanze festose. L’anno scorso, ad esempio, abbiamo letto una Megillàt, cioè il Cantico dei Cantici, che gli ebrei leggono a Pasqua. Quest’anno ne leggeremo un’altra, il Qohèlet, che viene letto durante la Festa delle Capanne (Sukkot). Il 25 settembre ricorre ancora oggi la Festa di Rosh Ha-Shanà, il Capodanno ebraico, e la luna nuova segna anche l’inizio del primo mese. Dopo dieci giorni c’è la Festa di Purim (Giorno delle espiazioni) e dopo cinque giorni – e quindi il 14 del mese, quando la luna è piena – c’è la appunto la Festa delle Capanne, durante la quale viene letto il libro di Qohèlet.

Tra l’altro questa è per noi un’indicazione quanto mai singolare. La Festa delle Capanne è in assoluto la festa più gioiosa, è ‘la’ festa, perché c’è il raccolto, si vive la conclusione di tutta l’estate. Si costruiscono delle ‘capanne’ in ricordo del tempo in cui si viveva nel deserto, in pellegrinaggio verso la terra promessa, e si abitava in dimore precarie come le tende. Oggi, nelle case d’Israele, sui balconi vengono sistemate delle frasche a modo di gazebo, e almeno un pasto deve essere consumato lì. Questo a dire: tu sei un viandante, sei uno che sta sotto il cielo, ospite di

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questo mondo, ma la tua casa è una realtà assolutamente transitoria; anche tu sei un residente temporaneo, non soltanto gli emigrati e i rifugiati.

È una festa di grande gioia, e bisogna fare attenzione a questo doppio registro (per la verità i sensi della festa delle Capanne sono molteplici). Il libro di Qohèlet – per quello che voi già conoscete – è un testo di gioia e di tristezza? È uno scritto ottimistico o pessimistico? Si piange o si ride? Si danza o si fa lutto? È certo un libro realistico, cioè presenta allegria e tristezza insieme, ma quella domanda ci accompagnerà sino alla fine. Vedremo che c’è una specie di ‘pendolo’. Qualsiasi commento a Qohèlet mostra che gli esegeti si muovono tutti in questa gamma. C’è chi lo considera un pessimista, uno scettico, un uomo che registra l’assurdo della nostra vita destinata alla morte; c’è invece chi rimarca le note di gioia che attraversano questo scritto, sostenendo che hai anche la possibilità di goderti la vita, di prenderti la tua parte di allegria, di bere il tuo vino e di mangiare il tuo pane con soddisfazione, forse con un certo egoismo.

Certo, in tutta questa gamma che va da un polo all’altro ci sono tante posizioni intermedie. Però se io mi dico ‘realista’ non significa che non morirò o non mi godrò la vita, ma solo che dovrò capire quale sia la misura, il dono di Dio. Tra l’altro, cos’è che credete?

Per Turoldo no, Qohèlet è un uomo che non crede in Dio, anche se il nome di Dio ricorre tantissime volte (perché per Turoldo forse il credere è un coinvolgimento personale, passionale, affettivo, è un dialogo). Oppure crede, ma non prega mai. Cercheremo di comprendere perché lui non tematizzi questo aspetto. Non è che se uno non parla di una cosa, essa non ci sia nella sua vita. Se non parlo di un argomento significa che rimando ad altri ambiti o ad altri tempi lo sviluppo di altre dimensioni della vita. Non si parla di tutto con tutti!

Però anche questa dimensione religiosa è calibrata secondo una certa prospettiva. Ci troviamo di fronte ad un tempo che un poco ci sfugge, ma insieme ci prende proprio là dove noi non riusciamo ad afferrarlo.

Come vi dicevo, ho preparato un opuscoletto perché quando prenderete in mano i commenti, vedrete che ognuno ha la sua introduzione che vi dà tutti i dati per orientarvi nella lettura, prima che andiate a leggere il testo. Noi non siamo qui per leggere i libri che sono stati scritti su Qohèlet, ma proprio il testo nella sua traduzione. Facciamo un esempio: Erri de Luca traduce quasi parola per parola, in un modo a volte anche sgrammaticato, che stride in italiano, però questo ci permette di vedere l’ordine in cui le parole sono in ebraico, o la ricorrenza degli stessi termini, anche se sappiamo che il medesimo ‘significante’, cioè la stessa parola, in contesti diversi ha un significato diverso. Lui ha voluto tradurre sempre lo stesso termine con la stessa parola. Nei fogli che avete in mano, vedete che ho messo il testo in ebraico in fianco alla sua traduzione ‘letterale’, con una precisa corrispondenza tra le parole ebraiche e quelle italiane.

Abbiamo poi la traduzione di Ceronetti, che è un poeta e ha tradotto non so quante volte il libro di Qohèlet, da quando era ragazzo fino ad ora, avanzato nell’età. Se la confrontiamo con quella di Erri de Luca ci domandiamo se stiamo leggendo lo stesso libro, perché c’è una notevole differenza. Nei fogli ho messo le traduzioni in forma di versi, ma dovrebbe essere una prosa, anche se nessuno lo sa. Si discute da duemila anni e sospetto che si andrà avanti ancora per qualche annetto…

Le traduzioni sono davvero diversissime l’una dall’altra, e per disorientavi ulteriormente ho messo in colonna il testo ebraico e cinque traduzioni italiane. Una è di Ravasi, il quale ha scritto anche un commento, pubblicato dall’Editrice S. Paolo: Qohelet. Il libro più originale e «scandaloso» dell’Antico Testamento. Ravasi è una garanzia, perché è un uomo dalla cultura sterminata che conosce benissimo tutta la letteratura accostata a Qohèlet. Appartiene alla corrente ‘pessimistica’ della critica della sapienza, con istanza di contestazione della sapienza stessa. Anche lui propone una traduzione del libro, e anche lui la propone come se fosse poesia.

Poi trovate la traduzione (non ancora stampata) di don Roberto Vignolo, docente di Antico Testamento alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano. A lui sono debitore e lo dico subito, secondo il consiglio dei Pirqê Aboth: «Di’ le cose a nome di chi le hai imparate». L’ho detto l’anno scorso a proposito di Borgonovo, al quale sono debitore per l’approccio al Cantico dei Cantici, e lo dico quest’anno rispetto a Vignolo per il nostro itinerario sul libro di Qohèlet.

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Io vi suggerirò moltissime chiavi di lettura che ha proposto in questi anni, in diversi studi un po’ specialistici. Egli suggerisce un’organizzazione del testo e una traduzione secondo me molto bella, anche se un po’ libera in alcuni passaggi. Anche l’anno scorso dicevamo che una traduzione troppo letterale rischia di essere bruttina, e se cerca di rendere in italiano le immagini e le metafore può essere più libera.

A fianco della traduzione di don Roberto ho messo anche quella di Piero Stefani, che è forse il più profondo conoscitore di ebraismo che abbiamo in Italia, amico di Paolo De Benedetti, di cui ha preso il posto alla Facoltà Teologica di Milano. Ha pubblicato da pochi mesi il libro: Qohelet (Ed. Garzanti). Anche lui propone una traduzione un po’ libera e insieme intrigante perché cerca di rendere il valore delle parole in ebraico, sciogliendole in quattro termini. È l’ultimissima interpretazione, e la trovate appunto sui fogli che avete in mano.

Vi potreste dunque domandare se stiamo leggendo lo stesso libro o cinque libri diversi. Sì, è lo stesso, ma ci sono cinque occhiali diversi, cioè ci sono cinque modi di cogliere nel testo un certo colore, che può essere più caldo o più freddo, e rispetto al quale il testo italiano prende una certa curvatura, una certa interpretazione. Tradurre significa già interpretare, e questo mi sembra cosa buona, così non ci si lega a nessuna traduzione particolare, come ho messo a titolo della dispensa, “Ogni traduzione è come il rovescio di un arazzo”.

Vale anche per la Bibbia che avete in mano. Chi ha la vecchia traduzione CEI legge un certo testo e certi titoli; chi ha la traduzione nuova legge un altro testo e ha titoli diversi. Infatti la divisione del testo è differente. Questo non è per disorientare, ma soltanto per dire che la nostra comprensione si muoverà nell’avanzare, lasciando che questi compagni di strada ci facciano da guide. Poi ciascuno di noi scoprirà il proprio sguardo particolare e coglierà quello che appartiene alla realtà che sta vivendo. Inter-esse significa proprio ‘essere dentro’. Quindi risuonerà, del testo, quella nota, quella battuta, quella prospettiva che sentiamo più vicina. Magari altre cose si sentiranno in altri tempi e in altre circostanze.

Quando cominciamo a leggere un libro, la prima cosa che vediamo è la copertina, davanti e dietro. Nel nostro caso la copertina del libro di Stefani è stata predisposta dalla casa editrice Garzanti, la quale ha messo un bollino rosso per segnalare che questo libro deve essere conosciuto, accreditato e venduto. Il bollino rosso indica anche che il libro fa parte di un contesto, di una Collana, di un insieme di libri finalizzati a mettere a fuoco tutto un orizzonte di ricerca, di approfondimento, di commenti. Nella parte posteriore si dice brevemente il contenuto del Qohèlet e parla dell’autore, Piero Stefani, affermando che egli si è accostato a questo scritto e ha fatto in modo che sia ancora presentabile ancora a noi, qui a Bergamo, nel 2014. Questa si chiama ‘operazione editoriale’.Però un libro come questo ha una caratteristica particolare: sembra costituito di foglietti, di appunti, articoli, schemi di riflessione, ecc., scritti dal protagonista e riposti in un cassetto. Poi, alla sua morte – come succede in queste occasioni – si fanno le pulizie, usando un certo riguardo per le cose che si pensano importanti, soprattutto se il defunto era un maestro nella vita religiosa, nella fede, nell’esistenza quotidiana. Qui c’è qualcuno, un discepolo di Qohèlet, che prende in mano questo materiale e, per farlo conoscere, lo mette secondo un ordine, che può essere cronologico o tematico.

Secondo voi, quale sarà l’attenzione posta da una persona che fa quest’opera redazionale? Parlerà di se stesso? No, anzi, vorrà far emergere quello che dicono i testi, nascondendo la propria operazione. Un po’ come capita per gli abiti, dove le cuciture sono nella parte interna, non visibile a chi guarda… Allora il redattore metterà insieme questo materiale cercando di non far vedere le suture del testo. Attenzione, quindi: le operazioni del redattore sono due. C’è un lavoro che consiste nel raccogliere il materiale e fare un lavoro di sistemazione per mettere in ordine quelle note – tanto brevi e stringate da sembrare appunti –, disponendole in una certa collocazione. La mano del redattore non si vedrà, perché cercherà di operare nel modo più discreto possibile. Anche se, certo, ci sarà un momento in cui vedremo anche il suo tratto, quella che deve risuonare è la voce del maestro.

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Una volta fatto il duplice lavoro, ecco quello editoriale. L’editore predispone la confezione perché il libro, reso accoglibile, possa venir presentato al lettore, al destinatario; proporrà una presentazione in un contesto credente, un imprimatur, oppure avrà delle riserve per la comunità credente.

Se prendete in mano la vostra Bibbia e leggete alla fine del libro di Qoèlet, trovate scritto un titoletto: “Epilogo”, “Appendice”, “Conclusione”. Tra l’altro potreste trovare una nota che spiega che questo ‘epilogo’ è stato fatto da un ‘epiloghista’, cioè una persona che non è Qohèlet. C’è quindi un’altra penna, un altro inchiostro, che racconta: «Oltre a essere saggio, Qoèlet insegnò…» (Qo 12,9).

Ma facciamo attenzione: la parola ‘epilogo’ è adatta, è giusta? No, perché in un romanzo l’epilogo è il punto di arrivo di una trama narrativa che arriva all’ultima scena. Ma quello che qui leggiamo non è affatto il punto di arrivo di un racconto! Non sono affatto le ultime battute di quello che il libro di Qohèlet vuole dire, per cui il termine ‘epilogo’ è fuorviante, perché questa pagina non è stata scritta dal redattore, ma dall’editore. Il redattore infatti è ‘interno’ al libro e cerca di confezionare un discorso che si sviluppa da un punto di partenza ad un punto di arrivo, e che è appunto interno al libro. L’editore invece ha un certo distacco dal libro, che è già lì pronto; non deve fare nessun’opera di organizzazione interna, ma di destinazione ad extra: deve mandarlo ‘fuori’. C’è quindi uno sguardo che dall’esterno valuta il prodotto, l’opera letteraria e il suo autore.

Così questa pagina conclusiva del libro è una cornice editoriale. Sul retro del libro che ho in mano c’è infatti una presentazione che non è stata fatta da Piero Stefani che ha confezionato il libro, ma dall’editore Garzanti, il quale la farà anche per tutti gli altri libri della medesima Collana.

Nella dispensa – forse anche nella Bibbia di Gerusalemme, nella nota – viene rimarcato il fatto che di per sé non siamo in presenza di un solo editoriale, ma di due editoriali diversi. Ci sono, cioè, due presentazioni dello stesso libro, che sono state scritte da due comunità di riferimento, il che significa che ognuna delle due presentazioni ha dovuto essere elaborata perché il libro doveva entrare in un certo contesto. La cosa è interessantissima per noi, che ormai leggiamo il libro di Qohèlet nella Bibbia.

Come vi dicevo, un libro può essere confezionato non pensando necessariamente che sia destinato ad una Collana. Il libro di Qohèlet è stato inserito in una tradizione (che noi diremmo appunto ‘Collana’), e qui si fa riferimento a due operazioni. La prima operazione colloca Qohèlet dentro il ‘recinto’, il contesto, dei Libri Sapienziali. Non è un’operazione secondaria, perché se si pone un libro dentro una Collana, bene o male si leggerà sempre questo libro anche alla luce degli altri libri della medesima Collana; in questo caso alla luce degli altri sapienti. È perciò un’operazione importante perché ci si deve domandare se Qohèlet sia in sintonia o in opposizione con gli altri libri sapienziali, se sia una voce che si allinea oppure che si pone di fronte, in contestazione critica rispetto alle prese di posizione degli altri sapienziali. Questa è una domanda seria: lo si può accettare dentro il contesto sapienziale, o quando lo si legge si resta perplessi davanti a certe espressioni polemiche? Non si dicono queste cose! Al catechismo non ci è stato insegnato così!

La prima operazione è quindi quella di capire come Qohèlet stia dentro un contesto di libri tra loro ‘imparentati’, che noi definiamo ‘sapienziali’. Stiamo così attuando un’introduzione a partire dal testo stesso. Non sto adesso facendo un’introduzione astratta, ma sto leggendo il libro, il quale ci sta raccontando che ha dovuto affrontare questa soglia, cioè ha dovuto essere accreditato dentro il circolo dei sapienziali. E dobbiamo capire quale tipo di sapiente sia stato Qohèlet, quale la sua personalità, che cosa abbia detto lui e che cosa sia stato scritto.

E vi dicevo che il libro di Qohèlet non è solo nella Collana dei Sapienziali, ma anche nella Bibbia, e la Bibbia comprende anche la Tôrāh e i Profeti. Ad un certo punto si è riconosciuto che il libro poteva stare nella Bibbia, anzi, questo libro è integrabile con quello che noi leggiamo nella Tôrāh.

Ed ecco allora la seconda operazione, quella ‘canonica’, che lo ha accreditato come un testo normativo, come un testo che può essere messo a fianco della Genesi, dell’Esodo, del Levitico, di

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Numeri e del Deuteronomio, nella tradizione storica e profetica d’Israele. C’è stato quindi bisogno di fare un secondo editoriale: quando si è riconfezionata la Bibbia come un tutto, si è trovato un posto anche per Qohèlet. Nei commenti troverete che l’epilogo è in contestazione rispetto al libro, in quanto cerca di stemperare la provocazione del testo, come se volesse prendere le distanze da quanto detto. Quindi nella fascetta editoriale sembra che si cerchi di dare l’imprimatur quasi togliendo vigore a quello che sta nel libro. Ma non è così! Se io non ti voglio riconoscere qualcosa, non te la pubblico ma te la censuro! Invece il fatto che ci sia questo editoriale, che coglie la visione integrabile con il tutto, significa che si riconosce la legittimità della parola di questo autore. Anzi, la si riconosce come parola di Dio.

Quest’ultima operazione del secondo editoriale viene presentata nella sua valenza più profonda: non è soltanto parola di Qohèlet, ma qui c’è ancora la rivelazione di Dio che si affaccia. Voi sapete che la sapienza, anche in Israele, è stata quella componente di ritorno sull’esperienza che ha due facce. Sostanzialmente sono state due le tappe anche della coscienza d’Israele per capire che cosa sia la sapienza. Innanzitutto è una qualità umana. La posizione dell’uomo di fronte al mistero della vita è quella di capire quale sia il suo senso, non semplicemente in modo astratto, ma operativo: imparare a stare al mondo non significa conoscere le cose, ma imparare a muoversi dentro le faccende della vita con prospettiva positiva. Questa è la prima tappa: la sapienza è una qualità umana che coglie il segreto del mistero della vita.

Nella seconda tappa la sapienza diventa invece una qualità di Dio, cioè è Dio che si affaccia su questo mondo, si rivela, presenta Lui il senso dell’esistenza, aiutando l’uomo con la forza della sua Parola. E qui ci sarebbero altre due categorie della sapienza: la Sapienza come Parola e la Sapienza come Spirito. È qualcosa del mistero di Dio che si affaccia sulla nostra coscienza, sulla nostra storia, sulla nostra realtà di Chiesa.

Ebbene, questi due editoriali mettono insieme le due caratteristiche. La sapienza come qualità umana è presentata nel personaggio assolutamente originale e affascinante di Qohèlet, che si è mosso dentro la ricerca del senso della vita. Nel secondo editoriale questa ricerca è lei stessa una parola di Dio, ed è inserita in un canone, in una serie di libri che noi riconosciamo ispirati dallo Spirito.

Quindi quell’ultima battuta è l’accreditamento definitivo di Qohèlet. Questo è un libro che ancora al tempo di Gesù era sottoposto alla domanda: sporca le mani o non le sporca? È ispirato o non lo è? è parola di Dio o no? E soltanto cent’anni dopo la morte e risurrezione di Gesù è stato inserito in quel contesto di libri ispirati.

Adesso leggiamo questo doppio editoriale. Lo trovate nella dispensa, nella quale appare il titolo di ‘Cornice’, a dire che c’è qualcosa che sta sopra e qualcosa che sta intorno; la cornice è una realtà che tiene insieme il quadro. Per il momento leggiamo la parte finale (Qo 9-14), poi vedremo la parte iniziale.

Leggerò sul foglio la traduzione di Vignolo, ma voi sbirciate sempre a fianco. La traduzione di Vignolo è libera, mentre bisognerebbe avere una traduzione più letterale; vi potrei mostrare le corrispondenze e giustificare perché i versetti degli editoriali segnati qui (e forse anche nella Bibbia di Gerusalemme) siano 12,9-12 e 13-14, mentre la divisione è piuttosto 12,9-11 e 12-14. Qui il v. 12 fa ancora parte del primo editoriale. Non voglio entrare in questioni troppo tecniche, ma sappiate che questa divisione è frutto di studi molto accurati fatti in questi ultimi anni proprio sulla composizione del testo. C’è tutta un’inclusione di termini che indica il perché i versetti 9-12 devono essere presi insieme.Leggiamo quindi il primo editoriale. Quello che scrive qui è quel discepolo o quel gruppo che ha preso l’opera redazionale e la sta attrezzando, la sta presentando a qualcun altro.

«9Oltre a esser sapiente lui di professioneQohelet si dedicò ad istruire la genteascoltò approfondì revisionò sentenze in quantità10si impegnò Qohelet a rinvenire parole invoglianti

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a trascriverne di attendibili con scrupolosa onestà.11Come pungoli le parole dei saggipietre miliari le raccolte d’autoretutte dono di un unico pastore.12E inoltre da questo figlio mio desistida fare tanti libri senza finee studiar tanto da estenuar la carne» (12,9-12).

«Oltre a esser sapiente lui di professione…». È un personaggio che di professione fa il conferenziere, il capo-scuola, il ricercatore, colui che pone le domande. È un saggio non saltuariamente, per hobby, ma uno che fa dell’essere saggio l’impegno della propria vita, la propria professione.

«Qohelet si dedicò ad istruire la gente…». È un professore, ma non sta chiuso in biblioteca muovendosi tra i suoi concetti dalla mattina alla sera, discutendo con se stesso e basta. No, ha anche un compito di educatore, vuole rendere partecipe la gente, anche se il suo uditorio era molto contenuto, composto di persone che pensavano alle cose e si lasciavano coinvolgere in quel tipo di riflessione. Nessuna discriminazione, però, perché era una sapienza destinata al popolo; potremmo parlare di una ‘lettura popolare’ della Bibbia. Una sapienza non esclusiva, non riservata ad un club o a circoli ristretti in cui si entra soltanto con la tessera…

È un uomo originalissimo, una persona che ha dedicato tutta la sua vita alla ricerca del mistero dell’esistenza, ha esplorato tutto attraverso il vivere umano e ha voluto offrire il frutto delle sue riflessioni alla gente. E come ha svolto questo ‘compito’? Uso questa parola perché poi ricorrerà nel testo.

«… ascoltò, approfondì, revisionò sentenze in quantità». Attenzione a queste battute. Qohèlet è un uomo che si mette in ascolto della tradizione. Le sentenze sono i proverbi, i Meshalim. Nella Bibbia, come sapete, c’è il libro dei Proverbi (un grande contenitore in cui hanno messo proverbi di generazioni diverse) e ogni proverbio cerca di fissare in due battute il senso di una realtà, cioè cerca di dare una chiave di lettura. Come sempre, quei proverbi sono ambigui, cioè sono veri in certe circostanze. Ad esempio, io posso affermare che l’unione fa la forza, sostenendo che non devi restare solo, e se vuoi realizzare un progetto devi metterti in cordata con altri, senza fare il libero battitore ma accettando il contributo di ciascuno. Ma posso anche sostenere che chi fa da sé, fa per tre, perché se devi sempre aspettare il parere, le decisioni e i suggerimenti degli altri, non arrivi mai a capo. Meglio tirar diritto da solo, altrimenti si arriva alla seconda reincarnazione senza aver concluso niente!

E allora, quale è il proverbio che vale? Tutti e due, perché la sapienza consiste nel capire quello che devi usare in una certa circostanza. La sapienza è quella che sta nel mezzo tra i due proverbi e che suggerisce quale regola applicare in quel momento. Se scambi i contesti, sei tu che sbagli, e quel proverbio non ti aiuta.

Qohèlet, dunque, ha raccolto tutte queste sentenze e poi le ha approfondite, indagando (trad. Stefani) e vagliando. Mette in atto un’operazione non soltanto di ascolto, ma anche di ponderazione, di scavo. La cosa vale anche oggi, perché noi traiamo dal passato le indicazioni di orientamento per la vita. Però chi è avanti nell’età, può dire che oggi valgono le cose che sono state dette loro a quindici anni? Dipende. Alcune sono ancora valide, ma per altre si può tranquillamente dire: “Per fortuna non è più così!”. Non è vero che ciò che la tradizione ci consegna è tutto oro colato, bisogna fare un’operazione di discernimento, di valutazione. L’apostolo Paolo raccomanda: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono» (1Ts 5,21). Non dobbiamo negare il passato, perché noi non siamo mai migliori dei nostri padri, ma non si possono applicare oggi dei costumi di vita che andavano per una società che usciva dal dopoguerra. Dobbiamo valutare, circostanza per circostanza, quello che ha ancora un peso.

Qohèlet è un uomo profondo, non è banale, non è un semplice ripetitore di quello che gli hanno detto gli altri, ma seleziona l’informazione, eliminando quanto è stato tramandato e non ha più presa.

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Facciamo ora attenzione al terzo verbo: (ascoltò, approfondì) «revisionò». La traduzione di Stefani dice: «catalogò»; quella di Ravasi propone: «compose»; quella di Erri De Luca: «ha raddrizzato». In realtà questo verbo (*Tiqqën ebraico, seguito dal sostantivo) in ebraico moderno significa ‘correggere le bozze”, cioè correggere gli errori in modo che poi si mandi all’editore il testo corretto da stampare.

Nella tradizione mistica d’Israele c’è * ebraico, che è l’operazione che fa Dio per riparare il mondo; quando ci sono cose che non funzionano le ‘aggiusta’. È quindi un verbo che ha di per sé due significati: uno significa ‘comporre/mettere insieme’, e l’altro ‘raddrizzare/correggere’, ma non semplicemente riordinare, bensì cambiare. È cioè capace di dire che una certa cosa va capita al contrario; se ricordiamo i due proverbi prima citati, il ‘chi fa da sé fa per tre’ non è il commento a ‘l’unione fa la forza’, ma mette in luce un altro aspetto: c’è un proverbio che mi viene trasmesso, ma io ne faccio un altro perché quello non è adatto al contesto.

Da qui nasce anche tutta la carica di provocazione del nostro testo, che dice delle cose inedite, delle cose che vanno contropelo. Immediatamente ci suonano strane perché dalla tradizione avevamo capito un’altra cosa, gli altri sapienti ci dicevano un’altra cosa: è il dramma della nostra coscienza.

Ma chi ha ragione? Lo devi sapere tu! Nel libro c’è quindi una forza di provocazione, di contraddizione sapienziale. Un sapiente ha

raccolto la tradizione, ma poi ti dà un colpaccio, un graffio, ti apre una finestra nuova. Vedremo che cosa è per lui la verità. Per noi è una realtà immutabile ed eterna, e lui dice che è vero, ma le cose immutabili ed eterne sono sopra il sole, e tu sopra il sole non ci arrivi: noi siamo ‘sotto’ il sole, e le cose ‘sopra’ non le conosciamo.

È un autore che fa molte domande e noi vorremmo molte risposte. Ravasi ricorda un pensiero di Oscar Wilde: “Tutti sono capaci di dare risposte. È per fare le domande che bisogna essere un genio!”. Le domande giuste, le domande vere. Vera è la domanda, non la risposta!. La risposta sarà sempre un cammino verso un senso più pieno, una vita più piena.

«Si impegnò Qohelet a rinvenire parole invoglianti» (v. 10). Ravasi traduce: «Qohelet si studiò di trovare uno stile affascinante»: Stefani: «Qohelet cercò di trovare parole efficaci… parole veritiere». Di per sé sono «parole d’intento». Il termine *ebraico indica il piacere, la capacità di sentire dentro un riscontro, come afferma il Sal 1: «Nella legge del Signore trova la sua gioia».

Sono parole che sanno agganciare, coinvolgere, mettere qualcosa in moto nell’altro. Ci sono parole che ci scivolano addosso e non lasciano nessun segno, ma in Qohèlet sentiremo parole, magari taglienti ma che pizzicano le corde profonde della nostra coscienza. Egli ci interpella con le domande più problematiche: perché devo morire? Sono parole coinvolgenti non perché che ci colpiscono provocando brivido o allegria e basta, ma perché ci attraversano. Stefano parla di “parole efficaci” perché fanno succedere qualcosa ‘dentro’.

«[Qohèlet si impegnò] a trascriverne di attendibili con scrupolosa onestà». Non è un contestatore che butta via tutta la tradizione sapienziale, ma è un uomo che la prende sul serio, tanto che poi cita molti proverbi, e di qualcuno dirà che non funziona. Ad esempio, se sei giusto andrà bene, ma se sei un farabutto ci sarà la punizione; se segui la parola di Dio avrai la vita, al contrario avrai la morte. Di per sé, in termini generali, una prospettiva di questo tipo non è contestabile, ma se ci si guarda intorno si vedono persone buone, rette, che sono calpestate, punite. E allora? Bisogna aspettarsi la punizione quando si fa del bene? Se farai del bene ci saranno guai… E Qohèlet lo regista.

Come mette quindi insieme queste realtà con quanto dice il libro del Deuteronomio a proposito del bene e della vita? Ecco, si tratta di porre, dentro i contesti della fede e dell’esistenza, delle domande che ci costringeranno a dare le nostre risposte, e Qohèlet sarà al nostro fianco nel cercare, non nel darci la risposta.

«Come pungoli le parole dei saggi, pietre miliari le raccolte d’autore, tutte dono di un unico pastore» (v. 11). Facciamo attenzione a questa battuta. Potremmo obiettare che un libro biblico dice una cosa, un libro sapienziale ne dice un’altra, e poi c’è Giobbe (il giusto punito) che dice il

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contrario. Chi ha ragione? Sono tante raccolte, tante testimonianze, e tutte hanno due funzioni: essere pungoli e picchetti.

Sono un’immagine ambivalente. Sono dei ‘pungoli’. Pensiamo al vincastro del pastore: è un bastone per spingere avanti le pecore, punzecchiandole perché vadano in una certa direzione. Che cosa è una sentenza? È una spinta, un invito ad andare secondo una certa rotta. È quindi una realtà dinamica, di movimento: si è in viaggio, in cammino. Ma nello stesso tempo le sentenze sono dei ‘picchetti’, come i chiodi che servono a fissare una tenda a terra. Devono rendere stabile e solida una situazione.

Le parole sapienziali hanno questa duplice valenza per radicarti nei riferimenti veri, seri, e insieme per indicarti il tuo essere in cammino. La tua tenda si muove, ogni tanto… Ci sono contesti diversi, fasi diverse della vita, relazioni diverse. Saranno necessarie due operazioni. Se sei un ‘figlio dei fiori’ forse avrai bisogno di qualche picchetto, e se sei un incallito tradizionalista avrai bisogno del pungolo. È la complementarietà della funzione del testo sapienziale, perché tutto è «dono di un unico pastore». Il Signore è il mio pastore… Con noi egli deve compiere questa doppia operazione, ma tutto è riconducibile alla sua intenzione di vita. C’è una parola e c’è anche il suo contrario: quale è quella vera? C’è un’unica mamma che ti dice di mangiare o poi di non mangiare più. Ma allora, devo mangiare o no? Dipende! Se è il quarto o quinto pasto che fai nella mattinata, non mangiare più; se sei anoressico, è meglio che mangi un po’.

È l’unico Pastore che ci guida in una vita che presenta diversi contesti.«E inoltre da questo figlio mio desisti da fare tanti libri senza fine e studiar tanto da estenuar la

carne» (v. 12). Sembra il motto degli studenti! Come vedete si può fare anche dell’umorismo su chi, pur vedendo che ci sono già tanti testi e commenti, decide di farne uno anche lui. Se si entra oggi in una libreria si resta esterrefatti per la quantità di volumi, e la quantità può farti entrare in depressione o nel disorientamento. Ebbene, questa battuta serve a dire che Qohèlet non è un libro tra i tanti, ma è uno scritto che non ha bisogno di innumerevoli commenti, ma di un ritorno incessante alle sue poche pagine, alle sue poche battute. Per stare al mondo non servono tante enciclopedie… Tuttavia anche per capire quelle poche pagine, talvolta bisogna farsi aiutare.

Abbiamo così visto la prima fascetta editoriale per presentare il libro nella Collana dei Sapienziali. È successo poi che questi libri sapienziali sono stati inseriti nella Bibbia.

Quando Gesù è risorto, ha incontrato quei due discepoli che, disperati, stavano andando a Emmaus. Avevano lasciato Gerusalemme e scendevano verso la costa. Che cosa fa? Dialoga con loro. Li lascia sfogare, pone delle domande e alla fine, «cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,27). La Tôrāh e i Profeti. Ha preso in mano anche i Sapienziali? Dipende! Nello stesso capitolo si legge: «Poi disse: “Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi”» (Lc 24,44). La terza parte della Bibbia è ancora in elaborazione, i Salmi ci sono, ma gli altri scritti entrano ed escono (c’è chi dice che sono ispirati e chi invece dice di no, in un processo che va avanti ancora), però ad un certo punto alcuni di questi testi sono stati riconosciuti e inseriti nel canone. Altri, che noi definiamo apocrifi, sono para-canonici, cioè non sono entrati nel canone.

Il nostro secondo editoriale è stato scritto quando è stata confezionata la Bibbia, quando Qohèlet viene riconosciuto come testo accreditabile: ci si può fidare di Qohèlet come parola di Dio.

«13Conclusione del discorso:una volta prestato ascolto a tuttotemi il Dio e osserva i suoi comandipoiché questo è ogni uomo14poiché di ogni opera tua buona o cattivaanche la più nascosta Dio chiederà conto» (12,13-14).Conclusione finale: «Una volta prestato ascolto a tutto…». Potrebbe essere un’indicazione

spirituale che accompagnerà la nostra avventura di questi giorni. Il ‘tutto’ è un fatto globale: gli

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scritti, i riferimenti etici, un’esistenza che va verso la pienezza della vita, i tratti di carattere a volte escatologico che ci affacciano al senso definitivo della vita. Poi «temi il Dio e osserva i suoi comandi poiché questo è ogni uomo, poiché di ogni opera tua buona o cattiva anche la più nascosta Dio chiederà conto». Ma Qohèlet dice queste cose? Egli dice l’opposto. Ebbene, chi ha messo questo testo nella Bibbia ha capito che anche Qohèlet non sarebbe stato contrario a guardare le cose in questo modo, perché tutto quello che ascolteremo è comunque dentro il rispetto di Dio ( il timor di Dio).

Vedremo anche come Qohèlet si muova fra i comandamenti, il tempio e il culto, la vera religione, sapendo che tutto porta alla mano di Dio che farà discernimento tra la vita e la morte, tra il bene e il male. Questo a tutti i livelli, a quello che si è visto e a quello che è nascosto.

Quindi questa ultima battuta ci incoraggia a leggere il libro di Qohèlet senza spaventarci. Qualcuno potrebbe rimanere sconcertato e confuso. Ma se si vogliono le cose precise, allora si deve prendere in mano il catechismo, che viene rifatto in ogni stagione perché la realtà cambia, anche se Qohèlet afferma che «niente di nuovo è sotto il sole». È buffo, questo libro, visto che di nuovo è almeno il libro. Niente di nuovo… Non si ricorda niente, eppure, dopo 2300 anni, da quando è stato prodotto Qohèlet, stiamo ancora ricordando uno che ha detto che non ci si ricorda più. Vedete che paradossalità? E il libro sarà tutto paradossale: dirà una cosa verissima, e il suo verissimo contrario.

Seconda riflessioneDopo aver approfondito la ‘cornice editoriale esterna’ relativa all’epilogo, ci accostiamo adesso

alla cornice editoriale esterna dell’inizio del libro di Qohèlet. È la stessa voce che parla, ed è sempre l’operazione editoriale che pone il titolo e dice chi è l’autore dell’opera: «Parole di Qohèlet, figlio di Davide, re su Gerusalemme» (Qo 1,1).

Detto questo ci domanderemo chi sia questo Qohèlet, perché noi abbiamo fatto il suo identikit la volta scorsa, ma la sua carta d’identità (come si chiama, dove abita, quanti anni ha, ecc.) non l’abbiamo. Siamo in possesso di un soprannome, oppure di un titolo, oppure di un emblema che da una parte rivela l’autore, e dall’altra lo nasconde. Questo nome ci dice qualcosa di lui, ma il fatto che si parli di ‘soprannome’ è perché il nome vero non lo conosciamo.

Non sappiamo neppure dove vive, anche se si parla di Gerusalemme. Ma forse questo riferimento è ironico, allusivo. Quando leggeremo le prime righe del libro scopriremo che la chiave ironica è la più adatta ad affrontare queste pagine. Qui Qohèlet sta parlando di sé o sta facendo riferimento a qualcun altro?

Vediamo intanto che questa cornice editoriale esterna racchiude il testo, il quale ha, a sua volta, una cornice introduttiva, quella redazionale, del discepolo che ha messo insieme i famosi foglietti che aveva trovato ‘nell’armadio’. È morto il maestro e lui si è trovato in mano questo materiale; forse era stato in parte già sistemato in una cartelletta dal maestro stesso, che l’aveva posto in una certa sequenza. Altre cose le ha trovate in un cassetto o nei libri, e allora aveva dovuto provvedere a collocarle e a organizzarle. Nel testo si troveranno quindi delle pagine ordinate e altre disordinate, senza connessione tra un testo e l’altro.

È importante conoscere la modalità con cui il redattore ha operato, perché ogni lettore vuole trovare una struttura di senso, capire come è organizzato il testo. Molte volte, però tale organizzazione ci sfugge, tant’è vero che se prendete in mano qualche commento, vedete che ciascuno riconosce una struttura sua. È come se si chiedesse a persone diverse di dire quante stanze ha un certo appartamento che tutte loro conoscono. Non ci sarà una risposta unanime, perché ciascuno ricorderà un corridoio o un disimpegno o una cameretta che agli altri erano sfuggiti, come se le pareti fossero spostabili.

Quindi la proposta che qui viene fatta da Vignolo è una delle tante. Lui divide questo testo in due sezioni. La prima parte (Qo 1,2-6,12) pare dominata da una domanda: “Che vantaggio c’è? Che

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cosa ne cavo dalla fatica di vivere? Che cosa guadagno dalla mia fatica sotto il sole? Che cosa mi è rimasto in mano?”.

La seconda parte (7,1-12,8) sarebbe invece guidata da un’altra domanda: “Chi lo sa?”; in italiano diremmo: “Chissà… forse”. Tu dici una cosa, ma chissà se è vera, chissà se la situazione è questa, se i dati sono questi o altri… L’uomo è dotato di un’anima razionale, è un animale razionale, quindi tra l’uomo e la bestia c’è una bella differenza! Qohèlet (e anche il libro della Genesi) dirà che sono state fatte lo stesso giorno le bestie e anche quelle bestie che si chiamano ‘uomini’. Perciò tra gli uomini e le bestie, sostiene Qohèlet, non c’è nessuna differenza. Ma come? Il respiro dell’uomo guarda verso l’alto, quello della bestia verso il basso. Chi lo sa… Dimostramelo, perché quello che io vedo è che muore l’uno e muore l’altra e tutti stanno sotto i nostri piedi. Il mondo è fatto così: la maggior parte degli abitanti sta già sotto e qualcuno cammina ancora sopra.

E colui che pone questa perplessità non è un nichilista che rifiuta la domanda. No, Qohèlet pone la domanda perché è un uomo che non si stanca di cercare ragioni per vivere.

Ritorniamo al titolo: «Parole di Qohèlet, figlio di Davide, re su Gerusalemme». Chi è? Salomone, figlio di Davide, re di Gerusalemme. Intanto questa indicazione è in

contraddizione con quello che abbiamo letto nell’incontro precedente. Là si diceva che Qohèlet era un sapiente di professione, un maestro. Certo, anche Salomone lo era, ma era anche tante altre cose, tra le quali il re. Ma allora, è o non è Salomone? Chi ha scritto queste righe è il re o no? Per qualcuno che si è dedicato agli studi biblici si tratta di una pseudo-epigrafia, cioè il fatto che si attribuisce a Salomone un testo per accreditarlo presso la comunità. Se l’ha scritto Salomone, non si discute! È un modo per dare autorevolezza ad uno scritto.

Tra l’altro, nella tradizione della Bibbia ebraica sono ben tre i testi attribuiti a Salomone: il Cantico dei Cantici, il libro dei Proverbi e il Qohèlet.

Ci sarebbe anche il libro della Sapienza. Bisogna notare che questo è stato composto quando Gesù era bambino, e quindi mille anni dopo Salomone. Si fa risalire a Salomone, ma essendo scritto in greco (lingua certo non parlata al tempo di quel re) non è stato incluso nella Bibbia ebraica

È chiaro quindi che Salomone diventa una cifra simbolica, una figura di riferimento, perché tutta la sapienza ha a che fare con il re più sapiente del mondo. Queste sono battute che si trovano all’interno dell’alveo sapienziale, che è stato fatto rimontare fino alla sua origine: Salomone, appunto. Tra l’altro, anche il libro della Sapienza raccoglie un certo modo di guardare il mondo…

Il Qohèlet è quindi nel canone ebraico, ma mentre gli altri due libri portano il nome di Salomone, questo no. Non te lo dico, così ti lascio la domanda già dall’inizio e ti metto in ricerca fin dal titolo. Salomone è stato re di Gerusalemme? Si, però ha governato su Giuda (Gerusalemme, appunto) e insieme su Israele perché il regno era unito. Insomma, si dice e non si dice.

È interessante che vengano attribuiti a Salomone tre libri, perché è come se corrispondessero a tre tappe della vita. La sapienza, per un giovane, è quella del Cantico dei Cantici: trova l’amata e godi la vita! È il tempo dell’effervescenza e dell’amore. Poi uno cresce, comincia a lavorare, ha delle responsabilità, è più equilibrato: è il tempo dei Proverbi, quando si trasmette ai figli la propria esperienza, dando quei riferimenti che permetteranno loro di navigare nella vita. Infine diventi vecchio e scopri i tanti limiti. E questi ti portano ad una domanda: “Chi lo sa?”. Così cominci ad entrare in crisi, non sei più tanto sicuro di quello che sostenevi un tempo, perché ti accorgi che un altro è convinto del contrario e non ha tutti i torti. Ti rendi conto che nella vita ci sono più cose di quelle che pensavi, perché nel corso degli anni che passavano ai visto altri ‘film’. È il momento del libro di Qohèlet.

Quindi quando era giovane, Salomone ha scritto il Cantico dei Cantici, nell’età matura ha scritto i Proverbi e alla fine, da buon vegliardo, ha scritto Qohèlet. Chiaramente non ha scritto nessuno dei tre, ma è un modo per dire che, nella vita umana, un testo ti parla in una certa fase, un altro testo ti parlerà in un’altra fase.

«Parole di Qohèlet». L’editore l’ha messo come autore delle parole, dei detti, delle sentenze, degli appunti, degli schemi molto stringati, ma chi è questo Qohèlet? Che cosa significa “Qohèlet? Significa: colui che parla nell’assemblea. Di per sé è nome femminile, e anche il verbo ebraico si

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Page 11: Settimana biblica 2014 · Web viewLa percezione è certo di un qualcosa di perfetto, una macchina che funziona alla perfezione. Suscita meraviglia come nella prima pagina di Genesi

usa al femminile, tanto che alcuni studiosi (tra i quali Amos Luzzatto) hanno pensato che Qohèlet sia una donna, anche se poi è difficile concordare con ‘figlio di Davide’. Ma questa espressione sarebbe una metafora, una maschera che si pone sul viso; tuttavia, finché non ci sarà maggior documentazione rimaniamo che è un uomo. Diciamo che è un nome, come soferet, ‘scrittore/scriba’; è grammaticalmente femminile, ma probabilmente è una figura maschile che ha a che fare con il qahal (assemblea).

Ma in questa assemblea, che posto occupava Qohèlet? Era nel pubblico o era colui che guidava l’assemblea? Non si sa, perché tutte e due le modalità hanno a che fare il con qahal e sono entrambe ugualmente interessanti. *? Padre Bouchon diceva di interpretare quella parola come se fosse del pubblico, dove uno alza la mano e dice: “Io, personalmente, non sono d’accordo, perché a me non succede così!”. Immaginiamo l’assemblea, dove si parla di cose alte, spirituali e comunitarie, si discute di Dio, dell’alleanza e di tutto; uno alza la mano e dice: “Sì, capisco tutte queste parole, ma a me non tornano i conti!”. È quindi uno che nell’assemblea prende la parola dalla parte del pubblico, come istanza critica. Non vuole fare il rivoluzionario, ma pensa che non si possa dare una risposta a tutto e sostiene che le cose non funzionano come il relatore/predicatore aveva detto.

È dunque una presenza popolare, è il pubblico che alza la mano nell’assemblea e dice di no.Oppure può essere invece colui che convoca l’assemblea a presentare la stessa istanza del

pubblico in termini problematici. È uno che ha una responsabilità, però anche lui non parla facendo il pappagallo di quanto è stato predisposto preventivamente per il suo intervento, ma prende la parola e cerca di guidare l’assemblea a rifarsi gli interrogativi di fondo. È un maestro che sta guidando una comunità a reimpostare le questioni.

Qohèlet quindi può essere tanto dalla parte del pubblico quanto dietro la cattedra.«Figlio di Davide, re su Gerusalemme». Ebbene, a Gerusalemme non c’è solo il Tempio, ma

anche il governo. Dove c’è il santuario, c’è sempre anche il castello! Il potere invisibile e quello visibile.… Le due realtà devono essere poste vicine, affinché dialoghino.

Questo è un po’ l’emblema di un popolo, quello guidato dal Signore, e Gerusalemme è davvero in riferimento al Tempio. Tutta la tradizione sapienziale sarà filtrata anche attraverso l’esperienza religiosa. La sapienza è tuttavia la domanda che si pone ogni uomo: che cosa vuol dire stare al mondo? Tutti intessono un dialogo con il mistero, credenti o non-credenti Ad un certo punto i credenti colgono che dietro questo mistero c’è Dio, il Creatore (nella storia d’Israele è l’Alleato). Ecco perché l’esperienza sapienziale mette insieme vissuto etico e vissuto religioso. Questo aiuta a tener conto di Dio e a capire che cosa significa fare il bene e non il male. Le due cose vanno insieme, per cui tu puoi essere onesto, giusto e devoto, ma di per sé non è un punto di partenza per giungere a credere, dal momento che ci può essere un uomo buono e giusto eppure non-credente.

A Gerusalemme dunque c’è questa compresenza del palazzo del re – che cerca di guidare nella giustizia il suo popolo, nelle vie del bene e non del male – e del Tempio, dove si va a vivere il proprio dialogo di alleanza con il Dio che si è rivelato nella storia. Quindi dire ‘Gerusalemme’ significa dire tutta la storia della salvezza e il centro del senso della propria vita. In Gerusalemme c’è l’esperienza della signoria di Dio e quella della signoria umana.

Come vedete, è un discorso che si colloca al cuore d’Israele, eppure nel nostro testo si parlerà mai dell’Alleanza, del Sinai, dell’esodo, della promessa fatta a Davide a proposito di una monarchia e di un re che sarebbe sempre stato sul suo trono. Il fatto è che Qohèlet, pur essendo a Gerusalemme, si colloca con tutti gli uomini che sono ‘sotto il sole’ e dirà delle cose che potranno essere ascoltate da tutti loro. Il suo è un libro che può trovarsi nelle mani di qualsiasi persona. Conosci un non-credente? Fagli leggere il Qohèlet. Bisogna che cominci a farsi delle domande, perché prima di essere credente si deve essere una persona che si interroga. Prima di essere ‘uomini di Dio’ bisogna essere ‘uomini’. Un uomo che non si interroga, non si pone in questione, non vive il travaglio della coscienza, non sarà neanche un vero credente.

Questo è un testo che si svolgerà nella solidarietà con tutti gli uomini che respirano, che nascono, vivono e muoiono. Credo che sia un testo da mettere in mano anche ai giovani, perché non parla troppo di Dio ma delle situazioni della vita; e quando ti accorgi che la vita non ti funziona, allora ti

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apri al mistero. Smetti di fare il bullo nel mondo, perché vedi che le cose che fai sono pochissime, le cose di cui sei certo e ti ritornano, sono pochissime. Ti innamori e non funziona, pensi di avere la salute eterna e prendi una malattia… E cominci a capire che il Padre Eterno è un altro, proprio a partire dall’esperienza normale della vita.

È quindi un testo interessantissimo perché si muove in Gerusalemme, e a Gerusalemme si è capaci di dialogare con tutte le popolazioni circostanti, con l’egiziano, con il babilonese. L’Egitto e la Mesopotamia erano le più grandi aree della sapienza con le quali Israele ha dialogato; terre che avevano millenni di riflessione sapienziale. Gerusalemme era una piccola realtà e al tempo di Qohèlet era un piccolissimo paese, eppure dialogherà con quelle usando esattamente lo stesso registro.

Terza riflessione

In questo incontro cominceremo a leggere il libro, ascoltando proprio la voce di Qohèlet, le sue parole.

Abbiamo detto che questo testo può essere visto sotto varie prospettive, perché contiene realtà ambivalenti e perfino espressioni che sembrano in contraddizione, tanto che alcuni studiosi hanno pensato che nella stesura del libro ci siano state ‘tante mani’. Oggi quasi nessuno è di questo parere: queste cose sono state scritte proprio da lui, gli appartengono. Non è che scrivesse a seconda dell’umore – per cui un giorno era soddisfatto e un altro era avvilito –, ma coglieva ogni giorno nella realtà le dimensioni ambivalenti. Ci siamo già chiesti se il suo fosse uno sguardo pessimista o ottimista, e abbiamo dedotto che era un realista, cioè una persona che tiene conto dell’una cosa e dell’altra contraria.

Prima di affrontare il testo, vorrei che deste una sbirciatina a: La bussola di Qohèlet, di Roberto Vignolo, che trovate dietro la copertina *(del libro o del fascicolo di p. Cesare?). È uno schema ermeneutico, interpretativo.

La realtà è fatta da almeno quattro dimensioni, quattro riferimenti, quattro ‘poli’ di cui tenere conto. L’immagine è appunto quella della ‘bussola’ perché quando ci muoviamo, noi abbiamo bisogno di orientarci mediante i punti cardinali, e tutto è da calibrare a seconda di dove si vive. A nord c’è freddo, a sud il caldo, a est sorge il sole, che tramonta a ovest, per cui, guardando la bussola, si vede dove ci si trova e ci si posiziona nella direzione in cui si deve andare.

Anche in italiano diciamo ‘orientarsi’, perché al tempo della Bibbia non c’era la bussola che abbiamo in mano noi, con l’ago che punta a nord, ma ci si riferiva all’oriente, all’est, perché era sicuro che da lì sorgeva il sole. Guardando in quella direzione si diceva ‘davanti’, poi il ‘dietro’ era l’ovest, ‘a destra’ il sud, e ‘a sinistra’ il nord. Tutte le cartine geografiche medievali di Gerusalemme sono orientate così…

Vi darò dei punti cardinali simbolici, perché quando ci muoviamo dobbiamo tener conto di dove siamo e quali sono gli ingredienti del nostro orientarci. Noi guardiamo verso est perché la luce viene da là, la vita viene da là; non sei al mondo perché ti ci sei messo tu, ma sei venuto fuori da un orizzonte e se sei qua è perché vieni da là, come tutti veniamo da dove viene la vita, la luce. “In principio era la luce”, e noi siamo collocati in questa luce, da questa luce, e veniamo da un Momento sorgivo che è il Signore: ex oriente lux. In tutto il libro di Qohlèt saremo invitati a tener conto di Dio, del mistero della tua vita, che non ci siamo data da noi, ma ci è stata data dal Creatore e da Lui è guidata.

Noi ci identifichiamo un po’ con il cammino del sole, che sorge e subito tramonta. È il viaggio della nostra vita. Il tramonto è detto con un verbo che significa ‘entrare’; visto dalla terra d’Israele, il tramonto mostra il disco solare che entra nell’acqua del Mediterraneo e sembra emettere un

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sospiro. È esattamente come la nostra vita quando entra nel sepolcro. Dalla terra nasciamo, sorgiamo, e poi vi ritorniamo.

In questo viaggio, che come quello del sole va da est a ovest, noi ci muoviamo verso occidente, avendo da una parte il nord e dall’altra il sud. Siamo quindi affiancati da due venti, quello freddo e quello caldo: sono le due dimensioni che attraversano la nostra vita mentre ricordiamo il fatto che dobbiamo morire. La nostra vita è sempre investita da questo gelo: memento mori. Tutta la cultura è una grande strategia per rimuovere questo dramma. Vedremo che anche Qohèlet cerca di farlo. Non ci pensi, ma è lì. Questo vento ti investe, ma fino a quando non lo decidi tu.

Tuttavia nel corso del viaggio siamo accostati anche dal vento caldo del sud, dalla gioia di vita, di relazioni, dal desiderio di senso. Tutta la vita è ricerca, attesa, speranza di qualcosa di bello, di positivo, di un amore come relazione piena e vera.

Fissando l’orizzonte durante un viaggio, si ha la sensazione che se ci si sposta, anch’esso si sposta. Così è anche il cammino dell’uomo: più va avanti, e più l’orizzonte va indietro finché a un certo punto non c’è più, perché non ci sono più gli occhi che lo guardano. Gli anni della vita vanno avanti, perciò intanto che cammini datti da fare. Non è che poi decide soltanto l’est da cui vieni, o il vento freddo del nord o quello caldo del sud! Puoi decidere tu, puoi muoverti tu: scegli, impegnati, rischia, coinvolgiti.

Bisogna fare attenzione, perché tra i vari tipi di lettura che si possono fare c’è chi rimarca l’uno o l’altro polo, mentre ci sono tutti e quattro. Mi sembra una bellissima immagine quella offerta da Vignolo, la più integrata – rispetto alle unilateralità di prospettive che sono state e vengono ancora proposte –, e cioè di tenere sempre conto che c’è sempre qualcosa di più. Non c’è solo la memoria della morte, non è vero! Ci sono sette ritornelli che sono un richiamo alla vita, alla gioia, al piacere legittimo. È un testo che non dialoga mai con Dio, ma lo ricorda sempre.

Certo, dirà che tutto è vuoto e tutto e nulla, ma se così fosse ci sarebbe da pensare al suicidio, e invece il nostro Qohèlet non si è suicidato, perché ha continuato comunque a prendere il giorno come veniva, e a prenderlo come l’unica possibilità di assaggiare la bellezza della vita. È certo una possibilità parziale, contraddittoria e anche frustrante, ma è l’unica possibilità offerta.

Teniamo presenti questi quattro punti di riferimento, che saranno preziosi per poterci orientare man mano che entreremo nel testo. Qualche volta prevarrà uno di loro, altre volte ci sarà un’altra sottolineatura di rimando.

Affrontiamo dunque il testo.Il primo tempo raccoglie i primi undici versetti. Ovviamente io faccio solo qualche sottolineatura,

perché su questo testo potremmo fermarci una settimana. Gli scavi possibili, i rimandi suggeriti possono essere molteplici, per cui metto qualche ‘asterisco’ nel testo perché ciascuno percepisca quello che succede dentro di sé leggendo quelle parole, avvertendo anche la diversa risonanza.

Intanto vedete che c’è: “Motto e domanda antropologica”. Ci sarà quindi una prima battuta che è già il punto di arrivo. Un ‘giallo’ che non funziona perché dice subito chi è il colpevole; si legge il testo, e ti viene detto già come andrà a finire, il risultato di tutta quanta l’indagine. Però rimane una domanda. Uno ha scavato, ha vissuto, riflettuto ed esplorato, ma gli rimane davanti una domanda.

Leggo dapprima il testo della CEI, ma seguirò in parallelo la traduzione di Vignolo. «Vanità delle vanità, dice Qoèlet,vanità delle vanità: tutto è vanità» (Qo 1,2).

Questo è il motto di Qohèlet. Nei fogli che vi ho dato, la parola ‘vanità’ non compare in nessuna delle cinque traduzioni. In effetti, ‘vanità’ è una resa italiana problematica. Quando si è realizzata la nuova traduzione, c’è stata una grandissima battaglia per questo versetto, perché volevano cambiare la traduzione. Hanno vinto i ‘conservatori’, cioè coloro che, pur ammettendo l’inadeguatezza del termine, sostenevano che faceva parte della tradizione perché, in questo termine ‘vanità’, risuona nel nostro orecchio tutta una storia di interpretazione (S. Girolamo, S. Filippo Neri, l’Imitazione di Cristo, ecc.), per cui non era opportuno perdere questo riferimento.

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Però facciamo attenzione, perché ‘vanità’ ha una connotazione morale, per cui dietro c’è il contemptus mundi, il disprezzo del mondo. Il che significa che tutte le cose che tu vivi non valgono niente! Non ne vale la pena, perché la cosa più importante è Dio, la realtà spirituale, la vita eterna. Questo mondo è un luogo di transito e tu non devi appassionarti per esso, perché non ne vale la pena. Il che è esattamente il contrario di quello che dice Qohèlet. Ovviamente uno può pensarla così, ma non è quello che dice Qohèlet!

Nella traduzione di questo termine c’è un problema che attraversa tutta la Bibbia, la quale usa spesso le metafore, i simboli. “Vanità” (hevel) è un termine astratto che si muove anche nell’ambito dell’etica per dire una cosa che non vale, vuota; ma di per sé l’immagine è quella di una nuvoletta che vedete guardando in alto, poi sparisce; oppure quella di un aereo che passa, lasciando una piccola striscia di cherosene che subito si dissolve. È quindi un vapore, un ‘fumo che sfuma’. Questa è l’immagine di una realtà impalpabile che c’è, ma è già andata via: hevel havalîm, fumo di fumi, nebbia di nebbia. È un modo per dire il superlativo – come ‘Santo dei Santi’ o ‘Cantico dei Cantici’ (canzonissima) – di una cosa leggera che se ne va.

È quindi un’immagine che vuole mostrare una cosa e il suo sparire. Piero Stefani traduce usando una parafrasi, un’immagine che viene smontata: «Un soffio, un soffio prossimo a svanire». Ceronetti parla di «fumo di fumi, polvere di polveri, tutto fumo». Ravasi sceglie un’immagine astratta: «Un immenso vuoto, un immenso vuoto, tutto è vuoto». Credo che questa traduzione sia meno opportuna. Vignolo traduce: «Un soffio poi niente, un soffio più niente tutto un soffio». Il tempo di dire una parola, e poi non c’è già più. (Tra l’altro hevel è il nome di un personaggio biblico, Abele. È il primo personaggio biblico che è morto, anzi è stato ammazzato). Da subito si presenta il polo freddo: ci sei? Benissimo, adesso sparisci! Questo sarà il motto di tutto il libro di Qohèlet.

E davanti alla constatazione che ogni cosa vola via, si pone la domanda che tutti abbiamo dentro: «Quale guadagno viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole?» (v. 3 –

Vignolo: «Che ci guadagna l’uomo da ogni sua pena penata sotto il sole?»). Qui ci sono già tutte le parole fondamentali del Qohèlet. La parola ‘tutto’ ricorre 91 volte nel libro.

Il nostro personaggio ha esplorato alcuni settori della realtà, ma adesso sta facendo delle affermazioni che hanno la pretesa della totalità. Non dice che è così in quel particolare aspetto, in quel contesto, in quella relazione, ma afferma che è tutto così. Sarà l’ultima parola che incontreremo al cap. 12,8, la medesima espressione.

Dentro questa constatazione, la domanda radicale contiene parole fondamentali come il ‘guadagno’, che alla fine diventa un niente. E uno si domanda il perché di tanta fatica, di tanto affannarsi se alla fine, guardandosi indietro, gli sembra non avere più niente. Oppure se gli resta qualcosa, ne gode un altro, perché comunque lui deve lasciare qui ogni cosa.

Notiamo che tra il v. 2 e il v. 3 c’è già una contraddizione, e sarà sempre così. Qohèlet dice una cosa, e la corregge subito. Prima dice che “tutto” è hevel, poi limita le cose a “sotto il sole”: il suo “tutto” è già relegato ad una realtà molto limitata, dal sole in giù, perché la realtà che tocca lui, il ‘tutto’ antropologico, non è il ‘tutto’ ontologico che riguarda l’intera realtà, ma solo la sfera umana, il vivere umano. Quindi non dirà mai che Dio è hevel, un soffio, perché sta ‘sopra il sole’ ed è per sempre: è l’oriente, la sorgente, la fonte della vita.

Qohèlet si accorge che il suo sguardo giunge solo fino alla calotta celeste e lui guarda il mondo sotto questo arco, sotto questo orizzonte. È quindi un “tutto” dalla parte di qua, e dalla parte di là non si sa che cosa ci sia. E dalla parte di qua, dove tutto è un soffio, lui proclama quello che Vignolo, nella sua suddivisione, definisce: “Poema del mondo che sta (l’uomo no)”. Il testo, anche dal punto di vista linguistico, è bellissimo. Nella traduzione sfugge la sfumatura poetica delle parole che si rincorrono con suoni particolari. Ci sono battute molto stringate, ma capaci di forte intensità, e riferimenti precisi, come l’aria che gira su se stessa. Bisogna fare attenzione a come viene guardato il mondo.

Leggo la traduzione di Vignolo:«4Un’epoca va un’epoca viene

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ma la terra sempre se ne sta.5Si leva il sole tramonta il solein fretta a casa suapoi ancora si leva di là.6Spira il vento a sudgira il vento a nordgira rigira il vento mentre spirae poi ritorna il vento sui suoi giri.7Tutti i fiumi buttano nel maremai sarà pieno il maree là dove vanno i fiumiancora andranno.8Le parole hanno la fiaccanon c’è più chi dire le sa.Mai sazio l’occhio che guardamai pieno l’orecchio che ascolta.9Ciò che fu ancora saràciò che fu fatto ancora si farànovità sotto il sole non ce n’è.10C’è qualcosa una parola per cui dire:“Guarda è nuova!”?Come già fu sarà per sempre.11Niente memoria degli antichinemmeno dei posteri a venireuna memoria tra i loro successori» (vv. 4-11).È una traduzione un po’ libera e ci sono espressioni che io non tradurrei così. Ad esempio, si

parla del sole. Erri De Luca traduce: «Ed è spuntato il sole e se ne è venuto il sole:e al suo luogo ansima, spunta lui là».

Al tramonto il sole scende nel mare, ma poi di notte, per essere puntuale al mattino dopo, deve correre e quindi respira a fatica, ansima appunto. È un’immagine antropomorfa: la terra è piatta, il sole si muove, giunto al margine sparisce e compie di sotto la sua corsa notturna per sbucare all’ora giusta nel punto giusto: «spunta lui là». E il traduttore continua senza mettere l’altro soggetto, il vento, se non alla fine dell’immagine, dopo aver fatto sentire i giri e i vortici dell’aria:

«Va a sud e volge a nord:volge volgendo va il ventoe sopra i suoi rivolgimenti torna il vento».

Ma prima di queste immagini dice che: «Una generazione va e una generazione viene, e la terra per sempre sta ferma». È la commedia umana, siamo noi che veniamo e ce ne andiamo, ma la terra rimane ferma.

Tra l’altro, Vignolo dice che bisognerebbe commentare questo brano con un vignettista che traccia con una sola linea diritta la terra; poi questa linea prende la forma dell’uomo che cammina, fa tutte le sue cose, poi si va abbassando lasciando il posto nuovamente alla linea diritta della terra. Il che a dire che la terra sta lì, e tu voli via, sparisci.

Dopo aver parlato del sole e del vento, Qohèlet parla dell’acqua: «Tutti i fiumi buttano nel mare mai sarà pieno il mare» (v. 7). Un uomo che vive a Gerusalemme ha presente il fiume Giordano, che scende dall’Hermon, fa tutto il suo corso e alla fine entra nel Mar Morto. E il mare accoglie sempre, senza debordare, le sue acque che di continuo scendono. Gli antichi non sapevano di evaporazione, ma pensavano che qualche canale sotterrano inghiottisse le acque abbondanti e le riportasse alla sorgente.

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Anche qui, come vedete, c’è un’idea ciclica (per la quale andrebbe bene anche l’evaporazione). La terra, il mondo, l’universo, si ricicla, per cui c’è l’idea di un eterno ritorno: tutto si ripresenta in una nuova edizione ma, più o meno, è un sistema chiuso. L’uomo no.

Però volevo già porvi una piccola domanda su un argomento che spacca in due gruppi gli studiosi. Quando ascoltate queste battute sulla terra, sul sole, sul vento e sull’acqua, che percezione avete? Questo ritorno ciclico delle stagioni, della vita, è una cosa bella, oppure è una cosa che sentite annoiante? La percezione è certo di un qualcosa di perfetto, una macchina che funziona alla perfezione. Suscita meraviglia come nella prima pagina di Genesi. È lo stupore davanti ad una creazione perfetta che trasmette anche un senso di sicurezza e di stabilità. È quindi una percezione positiva. E invece la maggior parte degli interpreti la sentono come negativa perché sembra non corrispondere al desiderio di novità insito nell’uomo. Perché uno fa un viaggio? Perché va da un’altra parte? Perché cambia spiaggia? Perché sente il desiderio di novità! Questo invece è l’eterno e identico ripetersi. Ecco l’ambivalenza.

Abbiamo già constatato che Qohèlet è un perfetto induttore di transfert: tu leggi e troverai quello che hai dentro di te. Se sei un uomo annoiato dirai: “Che noia, questa giornata”; se sei un uomo entusiasta della vita, davanti al sole che sorge esclamerai: “Signore, ti ringrazio di questa nuova giornata!”. Davanti a questo tutto che ritorna, alcuni provano un’asfissiante noia, e altri dicono: “No, un mondo incredibile che sa ripartire riciclando tutto, dà una visione di speranza». Per molti il sole che sorge significa l’inizio ad una nuova giornata di fatica, e l’aver davanti ancora ventiquattro ore è per molti una sciagura. La percezione può dunque essere ambivalente.

Forse questa mattina non tutti noi abbiamo ringraziato Dio per il sole che è sorto perché lo scarto tra le nostre idee e i nostri vissuti ci accompagna. Mi sono alzato quando il sole era già alto e non ho visto per niente che è spuntato da là! Forse la civilizzazione non aiuta a vedere il sole, ma dove la civilizzazione non c’è, la vita si svolge tra questi due estremi: il sole che sorge e il sole che tramonta.

Il primo sguardo di Qohèlet è quindi per il mondo, anche se c’è stata l’osservazione iniziale: «Una generazione passa via, una generazione entra, su una terra eternamente ferma» (trad. Ravasi), a dire che si ricomincia. Si potrebbe dire che una generazione sta camminando, si allontana e muore, mentre ne sopraggiunge un’altra. L’immagine è questa: la storia umana è transeunte, la terra è ferma.

Adesso la considerazione è su questa condizione umana. L’uomo è l’unico animale che parla e pone delle domande: perché muore?

«Le parole hanno la fiacca,non c’è più chi dire le sa» (v. 8a).

Il testo ebraico è più stringato: «Tutte le parole sono stanche/stancano». In ebraico il termine dabar significa ‘parola’, ma anche ‘cosa’: tutte le cose stufano. La pubblicità fa presa soltanto su un’idea: “Questo prodotto è nuovo!”. La macchina, il detersivo, il cellulare, il cibo, il vestito, la crema devono essere ‘nuovi’ perché le cose di sempre stufano.

Ma chi può dire una parola vera, davanti ad una realtà così affaticata, incolore, annoiata? Anche le parole che descrivono l’esperienza e dicono come va la vita, è come se fossero incapaci di ‘parlare’. Nessuno è in grado di dire una parola autentica, inconfutabile. Tu dici una parola, e subito diventa un soffio. Tra l’altro, tutto questo viene affermato da uno che ha appena cominciato a parlare e ha davanti a sé dodici capitoli! Dice: è colpa del redattore, perché lui il libro non l’ha scritto, non lo voleva scrivere, tant’è che ha messo i foglietti nei cassetti, nella cartelletta, nell’armadio. È stato l’altro a pubblicare quelle note!

È come se avesse l’esperienza che quello che dice non serve a niente, non interessa a nessuno; e quando l’ha detto, forse voleva dire un’altra cosa. Non vi capita mai? L’inconsistenza della parole, inadeguatezza nell’esprimersi.

E prima di parlare succedono due cose: tu guardi, tu ascolti:«Mai sazio l’occhio che guardamai pieno l’orecchio che ascolta» (v. 8b)

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È interessante in ebraico: «Non è sazio l’occhio di vedere». È strano, perché il verbo ‘saziare’ ha a che fare con la gola, per cui si applicano i verbi propri di un senso, ad un altro senso; qui l’occhio è una bocca che va alla ricerca delle cose per mangiarle, e non si sazia mai.

L’orecchio, poi, «non si riempie un orecchio nell’ascoltare». È lo stesso verbo che si diceva del mare, verso il quale i fiumi continuano a portare le loro acque: «al luogo dove i fiumi scorrono, continuano a scorrere» (v. 7). Adesso questo mare, questo bacino che non si riempie mai è l’orecchio: ascoltiamo, ascoltiamo, ascoltiamo, e continuiamo ad avere spazio. Siamo sempre in attesa di qualcosa che ci raggiunga, che ci riempia quello spazio vuoto. C’è un vuoto che percepiamo e che è sempre desideroso di una visita…

L’esperienza dello scarto tra ciò che ti aspetti e ciò che c’è, tra ciò che vorresti nuovo e ciò che registri, porta a questa constatazione:

«Ciò che fu ancora saràciò che fu fatto ancora si farànovità sotto il sole non ce n’è» (v. 9).È l’espressione tipica di Qohèlet, entrata anche nel nostro parlare; Non c’è proprio niente di

nuovo sotto il sole! Per noi è uno scacco, perché noi siamo sedi di novità e registrare questo esito di una vita, di una ricerca, sembra il fallimento di tutto. E se qualcuno osasse contestare, alzare la mano e dire di non essere d’accordo, Qohèlet lo riprenderebbe subito:

«C’è qualcosa una parola per cui dire:“Guarda è nuova!”?Come già fu sarà per sempre» (v. 10).

Erri De Luca traduce:«C’è una parola che uno dirà,vedi questo, nuovo lui è:già è stato ai mondiciò che è stato prima di noi».Quale è il problema? Perché ti sembra nuova quella realtà? Perché tu hai la memoria corta, labile,

per cui dimentichi le cose che ci sono già state e pensi che sia tutto nuovo. Ma un ottantenne che le ha viste e le ricorda ancora, può tranquillamente affermare che quando lui era ancora bambino, era già così.

«Niente memoria degli antichinemmeno dei posteri a venireuna memoria tra i loro successori» (v. 11).

Io vado via, ma ci sarà qualcuno che si ricorderà di me… Sì, tuo figlio e, se ti va bene, tuo nipote. Nessuno si ricorda del proprio bisnonno, che probabilmente neppure ha conosciuto, ma se non ci fosse stato lui, oggi non saremmo qua. E non vale neppure la promessa di un ricordo ‘per sempre’, perché il tempo cancella inevitabilmente la memoria.

Voli via tu, ma vola via anche il ricordo di te. E d’altra parte il fatto che tutto voli via, compresa la memoria, comporta che tu, quando vedi qualcosa di diverso, lo reputi nuovo perché non ti ricordi neanche tu che c’era già stato.

Questo è il quadro che fa Qohèlet della vita ‘sotto il sole’. ‘Sopra il sole’ non sappiamo come va… Comunque nessuno è ritornato indietro: una generazione se ne va, e nessuno ritorna a dirci com’è. Il sole torna indietro, l’aria torna indietro, l’acqua torna indietro, nessuno di noi ritorna indietro! E questo fatto può crearci un certo imbarazzo.

Davanti a questo testo, come ti collochi? Dipende! Dipende forse anche dall’età della vita, se si è giovani, o adulti, o avanti negli anni, nella

prossimità dell’incontro. Può essere che la certezza che il mondo resti, bellissimo, e io voli via costituisca un’esperienza drammatica; oppure il fatto di vivere una grande noia mi spinge a desiderare di andarmene. Sono le due modalità in cui possiamo, nell’altalena della vita, sentire il vivere, il camminare su questa terra.

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Nelle traduzioni non si coglie la sfumatura originale, ma ad esempio in Erri De Luca è continuamente ripetuto il verbo ‘andare’: va, vanno… Ecco, il nostro andare sulla terra è caratterizzato da questa ambivalenza che registra il finire come il dramma che caratterizza solo l’essere umano. Noi abbiamo la percezione di finire, per cui le parole che descrivono questo sono sempre mozzate in gola, e non le si possono dire. E anche se tu le puoi ancora dire, le senti inadeguate davanti al Mistero. Credo davvero che il mistero della creazione possa essere accolto con meraviglia oppure con stanchezza. Dipende da noi, da come guardiamo il nostro viaggiare attraverso questo mondo.

Quarta riflessioneFinalmente Qohèlet parla lui, e parla di sé. Ci sono tanti modi di parlare di se stessi. Se le cose

vanno male, ad esempio, facciamo lamento: “Sapessi che cosa mi è capitato!” e cominciamo a snocciolare i guai della nostra vita. Di per sé Qohèlet non si lamenta, ma da una parte vuole farci partecipi della sua esplorazione della vita, e dall’altra si rivolge dicendo a noi: “Io…” per vedere se trova qualche compagno di strada. In fondo si gioca personalmente perché sa che chi sta leggendo si può identificare con questo “Io”. Però se facesse un discorso moralistico portando come esempio le proprie esperienze finite male, l’ascoltatore coglierebbe quelle parole come una predica. E allora Qohèlet racconta se stesso, ma si mette una maschera. Diventa come il clown, che al circo fa e dice delle cose e ti appare di volta in volta scemo, comico, buffo. Ma quando rientri a casa, nel tuo spazio, ti rendi conto che aveva proprio ragione.

Quello dell’ironia è un modo di infilarsi nella nostra coscienza con un doppio movimento: dapprima non ci riconosciamo dentro un certo modo di rappresentare la vita e siamo convinti di aver fatto scelte diverse; dopo un po’ ci ripensiamo e scopriamo che anche noi siamo e facciamo così.

Il meccanismo di Qohèlet consiste nel fingere di essere un re. Teniamo sotto gli occhi lo scritto di Vignolo: “La bussola di Qohèlet”, e ci appropriamo di queste

battute che sono la chiave di lettura del nostro testo. Vignolo parla di una sindrome regale. Sindrome, per cui si tratta di una malattia: la malattia di

vivere, che tutti abbiamo addosso. Vedremo perché la definisce ‘’regale’. Scrive dunque Vignolo: «Un singolare maestro di sapienza israelita (Qo 12,9-12 - circa 250

a.C.), travestito da re di Gerusalemme…». Vi ho già detto che Salomone non c’è, ma viene alluso; è il re più sapiente, emblema appunto di una persona che sa come ci si muove nella vita.

«… con il suo diario di ricerca ci narra – con fine autoironia – il fallimento dei suoi eccessi e delle sue illusioni/pretese narcisistiche…». Quindi quell’io non è soltanto un modo di metterci la faccia, ma è il segno di un disturbo della personalità, dove la punta della bussola non guarda verso nord, ma verso se stesso. La malattia è il suo ‘ego’ (malattia di cui peraltro soffriamo tutti).

«…fino a odiare la vita (depressione/accidia)…». Nel testo di Qohèlet ci sono delle battute terribili: «Allora presi in odio la vita» (Qo 2,17).

«In ragione della rimozione della morte». (Non si vuole guardare il polo freddo!),«È il sogno nel cassetto di tutti, quella famosa “erba voglio”, che – come ci siamo sentiti

ammaestrare da piccini – “non cresce neanche nel giardino del re”. Dell’enigma della vita, Qohelet rinuncia a offrirci una mappa, preferendo una più umile bussola con cui cercare – in tutte le possibili circostanze – il senso della misura, o meglio il ridimensionamento, buon antidoto all’insipienza degli eccessi».

Accostiamoci allora al testo facendo attenzione a questa carica di ironia, a questa finzione letteraria che diventa un meccanismo di aggancio del lettore, uno specchio per ciascuno di noi.

Adesso viene raccontato l’itinerario che ha portato il nostro Qohèlet a dire che tutto è hevel: le ha provate tutte! Il testo riporta quelli che sono i verbi dell’homo faber (ho costruito, ho fabbricato, ho

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piantato…), quelli dell’homo œconomicus (ho acquistato, ho posseduto schiave e schiavi, ho accumulato) e quelli dell’homo ludens (ho cercato di godermi la vita). Le ha proprio tentate tutte!

E quando ha fatto queste operazioni (fino al v. 11), al v. 12 scatta il momento della riflessione. La riflessione consiste nel fatto che prima vivi, poi ci pensi su. ‘Ri-flettere’ è un verbo della scienza ottica: un raggio di luce parte dalla fonte, colpisce una superficie traslucida e torna indietro. È quindi il movimento di ritorno, e tu ri-pensi a esperienze, incontri, avventure; fai tutto, consumi tutto e poi tiri le somme. Ed ecco il risultato: hai odiato la vita, sei caduto in depressione. Così vai dallo psicanalista, il quale ti dice che per risolvere il problema ci vuole molto tempo e ti tira fino al cimitero, cercando di aiutarti a pensarci su, però in modo un po’ meno drammatico.

Ma quale è il vero problema? È che se tu ci pensi su e dici: “Ho sbagliato tutto!”, ti appendi ad una corda. Meglio non pensarci su. Lo dice subito, il nostro Qohèlet: il pensarci su è una brutta faccenda che ha dato Dio all’uomo. L’uomo è l’unica ‘bestia’ che ‘ci pensa su’ e si rende conto che muore, e al quale ogni realtà fa assaggiare il limite. Per quanto quella realtà sia bella, positiva, buona, frizzante, ad un certo punto finisce il gas; e quando finisce il frizzantino senti il disgusto per tutto. Il disgusto per ogni scelta, per ogni relazione, per ogni impegno, per ogni sogno, per ogni fantasia, per ogni avventura.

Certo, queste sono domande che presuppongono una condizione di vita agiata, per cui uno si può espandere a 360 gradi e investire le risorse spirituali e materiali della propria esistenza ad ampio raggio. Ma oggi, su per giù, tutti viviamo in tale condizione, in un ‘primo mondo’ che ci ha permesso di scegliere. Da queste parti, tre o quattro secoli fa, la condizione ordinaria era che la vita o la società o la famiglia decideva per te, mentre oggi sei in un mondo in cui puoi scegliere. Alla fine, siamo un po’ tutti dei piccoli re.

Questa è una visione alternativa, antagonista a quella che si affaccia nella Bibbia, dove l’uomo è al centro del creato. Pensiamo all’affresco della Genesi: si è preparato tutto, poi arriva il signore del mondo, l’uomo. Oppure ricordiamo il Sal 8,4-6:

«Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato».

Ma da Qohèlet balza la percezione che se anche sei il signore del mondo, anche se ti chiami Salomone, sei un pover’uomo che muore. Il re è nudo!

Leggiamo ora il testo di Qo 2,12-2,1-26 nella traduzione di Vignolo. Mi soffermo man mano sui versetti per qualche sottolineatura.

«12Io Qohelet sono re su Israele in Gerusalemme 13e sapientemente mi dedico a cercare, a scrutare…».

Qui ci sono due verbi, ebraico. Uno indica un’operazione di incessante ricerca, di scavo, di verifica della realtà, per cui tu la passi in rassegna non con uno sguardo rapido, ma con uno sguardo indagatore, ai raggi x. Le versioni italiane parlano di ‘ricercare’, ‘interrogare’. L’altro verbo indica l’esplorare e viene usato anche nel libro dei Numeri, quando Giosuè (*non è Mosè?) manda gli esploratori a vedere com’è la terra promessa; in italiano si potrebbe tradurre ‘le spie’. È la stessa espressione, per cui tu vai ad esplorare, cercando di renderti conto di dove sono le dinamiche nascoste. Sono dinamiche molto interessanti.

«…ogni impresa che si fa sotto il cielo». Lui sa che la sua indagine è limitata. È molto importante avere la consapevolezza che la mia esplorazione è sempre parziale; la verità assoluta, le risposte insindacabili, non esistono. È sempre un orizzonte delimitato dal cielo, per cui c’è una parte che non vedrai mai e non capirai mai.

«Compito duro questo che Iddio assegnò in donoagli uomini per farceli sfiancare».

Il testo ebraico parla di “una brutta faccenda”, perché alla fine il ricercatore esce sfiancato, non ne può più! Stefani traduce con ‘un brutto affare’; Ravasi con “compito sciagurato”; Erri De Luca con

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“un’occupazione cattiva”; Ceronetti con “fatica feroce”; la CEI con “occupazione gravosa”. Mettetela come volete, ma si tratta sempre di una brutta faccenda.

«14Ogni impresa ho visto sotto il soleed ecco tutto un soffio e fame di vento».

Ricorre ancora una volta questa espressione *ebraico, e poi si aggiunge quest’altra espressione un po’ misteriosa *ebraico, tradotta in modi diversi: compagna di vento, vento che ha fame, fame di vento, un pascersi di vento. Ma è l’aver fame o il pascersi? Mah… A me piace un’espressione di questo tipo: portarsi a spasso il vento. Che cos’è la tua vita? Un portare a spasso non il cagnolino, ma il vento. Non ce la fai! Anche l’immagine della fame dice qualcosa come il mangiare il vento, cioè niente. Vorresti arrivare da qualche parte con questa realtà che ti accompagna, ma non c’è niente da fare. Oppure ti identifichi con tante cose, e poi le guardi e ti domandi: “Ma che cosa ho fatto nella vita? Ho portato in giro il vento!”.

Nella traduzione di Vignolo il v. 15 è scritto in modo diverso perché probabilmente il nostro saggio sta citando dei proverbi. Ho già detto che lui è stato un raccoglitore di Meshalim, cioè di sentenze che cercano di stringere in una battuta una lettura della realtà che è passata attraverso tante verifiche come, ad esempio, questa:

«Quel che è storto drizzare non si può …..» (v. 15a).Questa espressione è presente in ogni cultura ed è tuttavia l’unica cosa che non entra nella nostra testa. Continuiamo a voler raddrizzare le cose, gli altri e anche noi stessi, e dopo qualche decennio ci accorgiamo di non avercela ancora fatta. E mi spiace per voi, ma se avete speranza di farcela, vi spezzerete prima.

Il proverbio, di per sé potrebbe essere in contraddizione con quello che abbiamo detto ieri. Il testo ebraico dice: *ebraico. Il verbo l’abbiamo già incontrato con il senso di ‘ascoltò’, ‘approfondì’ e ‘corresse/raddrizzò’ le sentenze. Qohèlet sta raccontando l’illusione: quello che raddrizzi è la tua illusione di raddrizzare. Va raddrizzato il modo di conoscere, l’approccio che abbiamo con il mondo; prima di cambiare qualcuno devi accoglierlo e solo dopo puoi relativizzarlo. È questa la consegna quando uno si sposa: ricordati tutti i giorni che quello che è così non lo puoi raddrizzare! Erri De Luca traduce: «Un torto fatto non potrà raddrizzarsi». Lo si applica anche alle relazioni umane, spesso difficili.

Ancora una volta la gamma è ampia, e il proverbio registra che Dio ha fatto il mondo così, ha fatto te così; il tuo volto, per quante plastiche facciale vorrai tentare, non lo cambierai. Accoglilo! E accogli il volto dell’altro.

«… e nemmeno contare ciò che manca» (v. 15b). Dovrebbe esserci quello e quell’altro… Non c’è! Devi partire da quello che c’è perché se per tutta la vita stai a guardare quello che non c’è, lasci finire la vita e non godi neppure di quello che c’è.

«16Mi dico:…». *ebraico significa: “Ho parlato io con il mio cuore”. C’è sempre di mezzo il cuore, questo spazio interiore di pensieri sempre in dialogo. Immaginiamoci alla fermata dell’autobus: nei dieci minuti di attesa ci guardiamo intorno, vediamo delle persone ma, se ci facciamo caso, in quei dieci minuti, quanti pensieri abbiamo dentro con i quali stiamo dialogando! Dentro di noi c’è tutto un mondo che si muove; dentro il nostro cuore c’è tutto un dialogo. In ebraico il cuore vuol dire intelligenza, volontà, libertà, tutta una gamma di valenze con le quali noi siamo in dialogo.

«Eccomi più grande più sapientedi quanti prima di me sopra Gerusalemme furono retanto godo di conoscere e sapere17totalmente dedicato a scoprire sapienzae follia e idiozia».

Questa è una persona di spessore! Un uomo che si è impegnato realmente è un signore, non soltanto perché è re. Ha la capacità di muoversi e di scavare tutto: quanto è sapienza, e quanto sapienza non è; si dichiara più grande di tutti. Ma facciamo attenzione alla prima molla, che è il confronto con gli altri: io più di te. Ovvio che ciascuno, nel suo regno, vuol comandare! Può essere una cucina, una

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casa, un reparto del luogo di lavoro. È una parte molto bassa di noi, dove il nostro ‘io’ ha trovato un cantuccio: “Come me, nessuno! Se non ci sono io, crolla tutto!”. Sto scherzando, ma c’è questa idea di essere migliori degli altri, più capaci di altri, più seri di altri… Non solo è un re che si identifica con l’uomo ideale, ma questo re è il meglio che c’è.

«Ma ora so: anche questo è fame di vento». Sta riguardando anche questa avventura appassionante di essere sapiente, e riconosce di essere un fallito:

«18poiché: più sai più soffricresce il sapere cresce il dolore» (altra citazione di un proverbio).Ma guarda un po’: tu pensavi che sapere le cose fosse un modo per aggirarti meglio dentro le

avventure della vita, invece se apri gli occhi ti accorgi di tante realtà negative in te e negli altri, per cui la buona coscienza te la tiri via.

Se uno scava dentro di sé, si rende conto che il cuore umano è un abisso, per cui si spaventa; scopre ancora una volta che muore e che tutto è finito, tutto è a termine. Noi ci muoviamo ad espansione libera, come se tutto quello che facciamo ce lo potessimo godere per lungo tempo. Poi vai a fare gli esami medici, e ti trovano un tumore… Ricordiamo bene la parabola evangelica dell’uomo ricco che aveva costruito granai ancora più grandi per raccogliere l’abbondante raccolto e si compiaceva con se stesso: «Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”» (Lc 12,19-20).

Se le cose vanno così, come minimo ti dai del cretino. Il testo ebraico usa un termine che nell’ebraico moderno significa un aggettivo che per rispetto traduco con ‘incavolato’ (*ebraico). È un dolore che fa proprio arrabbiare. Non parliamo solo delle malattie, ma anche delle cose importanti e prestigiose in cui ci si vuole impegnare. Se ti accorgi che alla fine ci sono sotto dei grossi imbrogli, rimpiangi di esserci entrato. Le delusioni sono le amarezze più cocenti! Avresti preferito non sapere, e il proverbio di Qohèlet ti conferma che: «più sai più soffri, cresce il sapere cresce il dolore».

Cap. 2. «1Dai, mi dico,prova con la gioia, godi ogni bellezza!Ed ecco: anche questo un soffio».

Quando dice che è “un soffio”, non sta affermando che è brutto, ma che è bellissimo, però dura poco! Il dramma è proprio che, essendo così bello, si vorrebbe che fosse per sempre, si potesse fermare il fotogramma. Invece è già volato via.

«2A chi ride dico: “Matto!” .A chi è contento: “Ma che fai?”».

Quelli pensano che sia per sempre…«3Penso in cuor miodi trattarmi con il vinoma di guidare la sapienzacontrollando la follia.per vedere il bello dove sta per gli uomini,occupati sotto il solenei giorni contati della vita».

Nel testo dovrebbe esserci la punteggiatura, ma a me dà l’impressione che questa testimonianza sia un flusso continuo della coscienza, come se Qohèlet stesse parlando muovendosi nelle memorie, nelle variabili della sua vita. Da un ambito scivola nell’altro: “Ho provato la sapienza, e adesso mi metto a bere. Siccome però sono sapiente, lo farò con misura anche se lo porto bene”. È l’illusione di poter governare l’ebbrezza del vino. Stefani traduce: «1Io dissi al mio cuore: “Suvvia proviamo con la gioia, stiamo a vedere dov’è il bene”…».

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Il problema, vedete, è questo: Dove è il tôb? Noi siamo fatti per il tôb, il bene, il bello; tutti noi cerchiamo la felicità, ma non sappiamo in che cosa o in che direzione cercarla per arrivare a quello che è ‘il bene’. Ogni cosa sembra troppo parziale, troppo limitata, troppo fugace.

«Pure ciò è povero soffio.2Del ridere dissi: “insensato”e della gioia “a che serve?”.3Consultai il mio cuorese valesse la pena di consegnarmi al vino,ma il mio cuore mi conduceva saggiamente,fino a farmi afferrare la stoltezzae a vedere dove sta il bene in ciò che gli uominifanno sotto il solenei giorni contati della loro vita».

Sembra che l’istinto di darti al vizio e l’istinto di controllare questo darti al vizio si confrontino: “Guarda come sono bravo! Sono riuscito a tenermi nella misura! Sono perfino riuscito a far sì che quando sono arrivato all’esperienza del vino, ho scoperto anche la stoltezza che c’è dentro. Ho visto il pericolo, si è accesa la lucina nel cruscotto interiore e mi sono fermato.”. È la capacità di vigilare anche sulle esperienze-limite e scoprire che non ne vale la pena.

E allora ti dai alle grandi opere, all’edilizia. C’è una vera e propria ‘malattia del mattone’, per cui ogni tanto si spostano i muri dell’appartamento, si rifanno i pavimenti, si sostituiscono le piastrelle. Si vuole abbellire l’ambiente, ed è giusto…

Riprendiamo Vignolo:«4Ingrandisco le mie impresecase mi edificovigne mi pianto5giardini e parchi mi aproci pianto ogni albero da frutto;6bacini d’acqua mi costruiscoper irrigare il mio rigoglio d’alberi».

Case e campi. Ci si identifica con cose che vengono fatte. La mia vita sta nelle cose, nelle grandi imprese edilizie o agricole.

«7Compro schiavi e schiave,servi nati in casa possiedo,bestiame grosso e minuto tantissimopiù di tutti prima di me in Gerusalemme».

Purtroppo in questa traduzione – e anche nelle altre, per la verità – non si vede il meccanismo che in ebraico è come un martello, perché ricorre sempre la stessa espressione * ebraico: “per me”. Questo termine ricorre molteplici volte: “Per me… per me… per me…: ci sono solo io!”. È un movimento narcisistico. È il moto che mettiamo in campo per sopravvivere: “Ci sono anch’io!”. Noi non vogliamo essere un numero nella massa e avvertiamo la molla del nostro ‘io’ spaventato, affamato, precario, il quale ha bisogno di realtà, di persone, di situazioni, di riscontri che lo confermino.

Per me… per me… per me…, e alla fine è tutto un soffio.«8Oro e argento ammasso per metesori di re e di provincedi cantanti e cantori mi circondo– delizia della gente –e di donne belle e bellissime.9Più di quelli prima di me in Gerusalemmem’ingrandisco, progredisco.Sempre m’assiste questa mia sapienza10quando ai miei occhi nulla rifiuto

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mai negando al mio cuore gioia alcuna».Sembra che egli sia vigilato, guidato, custodito, dalla sapienza, cioè dalla capacità di muoversi bene nella vita. Tu pensi di aver imparato bene lo slalom gigante, speciale, ecc., ma sta di fatto che qualche volta cominci a non prendere bene una porta; prima ne sbagli una, poi un’altra, e a un certo punto vieni squalificato. Pensi di essere agile, di muoverti dentro le realtà di questo mondo con destrezza, eppure i conti non ti tornano

«Ecco il mio cuore d’ogni mia fatica gioiscequesta la mia parte d’ogni mia fatica».

Il testo, qui, è singolare. Leggo la traduzione di Erri de Luca: «Non ho privato il mio cuore da ogni allegria, perché il mio cuore sia allegro via da ogni affannoe questa è stata la mia parte via da ogni mio affanno».

Per andare via da ogni affanno, ci vuole un grande affanno. Vedete il gioco strano: che fatica evitare la fatica! Tu cerchi di scansarla, e mentre metti in gioco tutta la strategia per scansare la fatica di vivere, provi una grande fatica. È il gatto che si morde la coda…

Proseguendo al v. 11, sempre Erri de Luca traduce: «E mi sono volto io»; Ceronetti: «Voltandomi a guardare»; Ravasi: «Allora io mi sono rivolto a considerare»; Stefani: «Mi volsi»; Vignolo, infine: «Ma poi riguardo io». Insomma tu le provi tutte, poi ti fermi e ti guardi indietro; ti giri e riconsideri tutto.

Vignolo:«11Ma poi riguardo ioogni impresa di mia mano intrapresaogni fatica penata e attuataecco: tutto questo un soffio, fame di ventonessun guadagno sotto il sole».

Siamo rimandati alla domanda: “Quale è il guadagno? Che cosa ne tiro fuori? Che cosa ci ricavo?”. Ecco la risposta: “Niente!”. È la più nera depressione, e sei tentato di prendere il flacone delle pastiglie, quello definitivo…

«12Allora provo a riguardare bene sapienza,follia, idiozia».

Qohèlet prova a considerare tutti gli scenari. Prima ha scelto la sapienza, ed è finito per convincersi che sarebbe stato meglio essere scemo. Tanta fatica per fare la brava persona, tanti sforzi per impegnarsi, e poi accorgersi che non ne valeva la pena. Lascia perdere! Guarda come sono felici quelli che non ci pensano su! Ma Qohèlet non dirà mai che è meglio la stoltezza. Dirà che sembrano uguali, sapienza e stoltezza, ma l’uomo non può fare a meno di ‘pensarci su’. Questo è l’uomo e questo è Qohèlet, che da una parte vede il fallimento della propria impresa, avverte la tentazione di pensare che al mondo è meglio essere stupidi, ma poi afferma che no, non è vero. Non rinunciare a giocarti!

«Il successore del re che cosa fa?Soltanto quello che fu fatto già».

Aveva proclamato che nessuno, prima, era stato bravo come lui, e alla fine confessa di essere la riedizione di quello che c’era. Tu pensi di maturare esperienze, valorizzare situazioni, mettere in moto imprese, e poi ti volti e non ti resta più niente. Provi una frustrazione terribile: “A chi le lascio queste cose?”. Hai fatto avanzare il livello di vita in una certa situazione, poi ti guardi indietro e constati che è peggio di prima. Esperienza dura, nella nostra vita! Ci metti la passione, l’impegno economico, coinvolgi le persone, e quando ti volti c’è solo una tabula rasa, tutto spianato come se non fosse successo niente. Hai risparmiato soldo per soldo, con fatica e tenacia, e in tre giorni tuo figlio ha speso tutto il patrimonio…

Alla fine Qohèlet trae delle conclusioni che non hanno bisogno di commento:«13E vedo allora ioil guadagno della sapienza sull’idiozia

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come il guadagno della luce sulle tenebre»14l’uomo saggio ha gli occhi in testail cretino avanza sempre al buio.Ma io so pure: stessa fine finisce entrambi.15E concludo in cuor mioche la fine del cretino farò anch’io.E allora: perché farmi saggio? che ci guadagno io?E mi dico in cuor mio:un soffio pure questo16niente più ricordo del saggio e del cretino per semprepresto tutto in oblìoMa come?! Anche il saggio muore con il cretino?17E odio la vitasciagura per me ogni impresa fatta sotto il solepoiché tutto è soffio, fame di vento.18E odio ogni mia faticache peno sotto il solese devo lasciarla a uno che viene dopo di me».

La constatazione è amara e provoca una serie di ‘chissà’19Chissà se sarà capace o cretino?Certo di ogni mia fatica sapientepenata sotto il sole dispone lui.Assurdo anche questo».

Qualcuno potrebbe obiettare che anche tu stai godendo di quello che un altro ti ha lasciato, anche tu sei dentro questa catena di eredità ricevute…

«20Di nuovo mi esaspero in cuor mioper tutta questa mia pena sotto il sole21poiché uno si affatica con capacità, competenza, successoe poi cede la sua parte a un altro che non ha faticato;anche questo un soffio, gran sventura.22Ma cosa resta a uno di ogni faticae angoscia del suo cuore penata sotto il sole?23Tutti i suoi giorni sofferti, triste la sua ansia.Neanche di notte il suo cuore riposa:anche questo un soffio!».

Verrebbe voglia di spararsi, e invece no! Questa radiografia impietosa è autoironica, poiché Qohèlet si sta rendendo conto che ha sbagliato tutto, ma in fondo una possibilità alternativa è dietro l’angolo. È possibile non spararsi!

«24Nulla di meglio allora per l’uomoche mangiare e beree in ogni fatica soddisfarsi;…».

Era esattamente quello che cercavo! Sì, ma sta’ attento perché non l’hai in mano tu il bandolo della tua felicità! La tua felicità non te la costruisci con le tue mani, anche se continui a dire: “Ho fatto per me… ho costruito per me… ho accumulato per me…”. Tu non puoi fare niente per te, se non ricevere, ricevere, ricevere:

«… ma questo io vedo venir dalla mano di Dio». La tua mano si alza, si impegna, si copre di calli. Giusto, ma la felicità non viene dalla tua mano. Questo non significa che adesso ti siedi e aspetti che scenda la roba dal cielo. Dalla spiga non esce il panino! Tra la spiga e il panino c’è la tua mano, ma la tua mano può muoversi perché la mano di Dio attraversa tutte le fasi della tua vita donandoti una fatica di cui gioire. Impara da Dio a gioire!

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Tutto questo significa che non devi sentirsi il centro del mondo, perché finché ripeti continuamente: “Io… Io… Io…”, la vita non ti funziona, la butti via, la sprechi. C’è uno scarto pazzesco tra quello che ti aspetti e quello che c’è. Impara a ricevere la gioia, che passa attraverso il mangiare, il bere, l’apprezzare la vita, le belle, piccole e umili realtà dell’esistenza.

Stefani traduce: «24Non c’è nulla di meglio per l’uomo che mangiare e bere e vedere prosperare la sua forza vitale nel corso del suo duro lavoro, io vidi che anche questo è dalla mano di Dio».

Qohèlet è un uomo che sa che c’è la mano di Dio. Dietro la realtà, a sostenere e ad alimentare la sua vita e la sua gioia c’è Dio:

«25Chi infatti mai potrà mangiare e gioire senza di Lui?26Però:“all’uomo buono ai suoi occhiLui dona sapienza e scienza e gioia,mentre a chi sbagliadà pena di raccogliere e ammassare,per darlo a chi è buono davanti a Dio”».

Anche questo pensiero, scritto in carattere diverso, è il rimando ad una sentenza tradizionale: se fai il bravo ti andrà bene, se fai il birbante ti capiterà che tu accumuli e tutto finirà nelle mani di un altro. Non è quello che pensa Qohèlet, ma quello che pensano tutti. E dopo aver citato il proverbio, pensa che forse non è vero neanche questo, perché tante volte succede che il birbante vada benissimo, e il buono patisca. Tornerà ancora su questo pensiero, ma intanto tira di nuovo la riga:

«Ma anche questo è un soffio e fame di vento».

Quinta riflessioneSiamo al cap. 3. La successione dei capitoli presuppone quell’opera redazionale del discepolo che

ha raccolto il materiale del maestro e l’ha disposto secondo una certa sequenza. Non sappiamo come abbia recuperato tale materiale, né se in parte fosse già ordinato. Pino Stancari ha scritto un volumetto («Nella crisi della sapienza. Lettura spirituale del Libro di Qohelet», Ed. Apostolato della Preghiera), in cui pone delle note molto acute e molto belle dentro una riflessione globale sulla sapienza e sulla rivelazione biblica. Egli, ad esempio, pensa che forse questi tre capitoli erano già stati organizzati da Qohèlet, mentre in quanto poi segue è difficile conoscere un disegno armonico, perché i capitoli sembrano un po’ più ‘appiccicati’.

Come vi ho già detto, le opinioni divergono, tant’è che il libro è diviso in modo diverso. Evidentemente è molto importante da dove si comincia a leggere e dove si finisce. Infatti la com-prensione consiste nel prendere insieme un pezzo del testo, e siccome l’intelligenza è un fatto di relazioni, di connessione tra elementi, di domande sul perché, tale comprensione si dà all’interno di un perimetro. Perciò se si legge un gruppo di versetti, bisogna capire la logica che li governa. Se sposto il confine un po’ più in là, l’architettura che vi riconosco sarà naturalmente diversa.

Ogni proposta ha uno scarto ipotetico, per cui non è definitiva, non è l’unica. Noi faremo la nostra lettura appoggiandoci all’uno o all’altro interprete. Nei fogli che vi ho consegnato potete vedere che ho messo la traduzione di Vignolo e la sua scansione del testo. Su questa scansione ho organizzato anche le altre traduzioni.

Il testo che ci accingiamo a leggere è molto famoso, e ci sono alcuni interpreti che ritengono che esso fosse precedente al libro e sia stato ‘saccheggiato’ da qualche altro contesto, perché è un quadretto che può stare anche a sé. È la descrizione dell’alternarsi delle vicende umane dentro il tempo. Il tempo è una dimensione fondamentale del nostro vivere, perché tutti siamo ospiti del tempo. Anche nel racconto della Genesi l’alternanza del giorno, della luce («e fu sera e fu mattina»), si chiama ‘tempo’; c’è il prima e il poi, c’è il giorno primo, secondo, terzo, quarto,

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quinto, sesto e lo Shabbat. Tutta la creazione si svolge quindi nel tempo, e quando al sesto giorno arriverà l’uomo, egli si troverà dentro questo ritmo. Ciascuno di noi è dentro un ritmo temporale: non soltanto il prima e il poi, ma anche ‘questo momento’ – come dirà Qohèlet – e ‘l’altro momento’, antitetico.

Ebbene, dentro questo grande contenitore sono descritte ventotto azioni, quattordici coppie di azioni e di tempi. Questo era un quadro che poteva circolare anche prima di Qohèlet. Del resto testi paralleli non mancano anche in altre culture di epoche precedenti il Qohèlet. Noi però stiamo leggendo queste parole dentro il testo di Qohèlet e le mettiamo in connessione con quanto abbiamo letto precedentemente. Ancora una volta, quindi, facciamo un’operazione di collegamento nella ricerca di questo saggio che abbiamo visto presentarsi con la maschera di pseudo-re, anzi, di pseudo-Salomone, re su Gerusalemme e su Israele.

Abbiamo conosciuto l’esito della sua avventura umana, della sua ricerca, del suo sforzo, del suo duro lavoro: tutto hevel, tutto soffio, tutto un portare a spasso il vento. Si potrebbe dire: “È finito il poema!”. No, perché ritorna ancora quella domanda: “Quale vantaggio c’è, quale profitto ne traggo, che cosa mi resta?”, alla quale uno potrebbe rispondere: “Ben poco!”.

Leggo Qo 3,9:«9Ma chi fa qualunque cosa fache ci guadagna dalla sua fatica?».

Non è esattamente la stessa formulazione di Qo 1,3: «Che ci guadagna l’uomo da ogni sua pena penata sotto il sole?». Nella lingua ebraica si nota una piccolissima differenza tra l’uomo (Adam) e ‘colui che fa’. È interessante, perché l’Adam non smette di agire, anche se non c’è nessun guadagno. Nonostante la domanda e la prima risposta, continua a riproporsi la domanda, perché questo è il «compito duro che Iddio assegnò in dono agli uomini» (Qo 2,13). Una brutta faccenda, ma è così: continuiamo ad operare e farci la domanda.

Il nostro darci da fare, dunque, è situato nel tempo.Riprendiamo in mano il testo (3,1). Leggo la traduzione di Vignolo, ma dobbiamo essere

consapevoli che nessuna traduzione riuscirà a rendere la stringatezza, la musicalità, e la capacità di prendere, del testo originale.

«1Per ogni cosa il momento suoper ogni impresa un tempo sotto il cielo:2tempo per nascere tempo per moriretempo per piantare tempo per sradicarpiante piantate3tempo per uccidere tempo per guariretempo per abbattere tempo per costruire4tempo per piangere tempo per rideretempo per far lutto tempo per danzare5tempo per scagliar pietre tempo per cumular pietretempo per abbracciare tempo per respingere6tempo per cercare tempo per perderetempo per custodire tempo per buttare7tempo per strappare tempo per ricuciretempo per tacere tempo per parlare8tempo per amare tempo per odiaretempo per far guerra tempo per far pace» (Qo 3,1-8).

Vi rileggo lo stesso testo nella traduzione di Erri De Luca. È più letterale e si vedono quindi meglio le parole che ricorrono. Le ultime due battute non presentano verbi, ma due sostantivi: guerra e pace.

«Per il tutto una data:e un punto per ogni intento sotto i cieli.

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Punto per nascere e punto per morire.Punto per piantare e punto per sradicare una pianta.Punto per uccidere e punto per sanare.Punto per rompere e punto per costruire.Punto per piangere e punto per ridere.Punto per far lutto e punto per ballare.Punto per gettare pietre e punto per ammassare pietre.Punto per abbracciare e punto per allontanarsi dall’abbracciare.Punto per cercare e punto per perdere.Punto per custodire e punto per gettare.Punto per stracciare e punto per cucire.Punto per tacere e punto per parlare.Punto per amare e punto per odiare.Punto di guerra e punto di pace».Intanto, che cosa vi suggerisce questa sequenza? Sono quattordici coppie per un totale di 28

tempi. È il risultato di 7x4, ed è esattamente la scansione con la quale il popolo di Dio vive il tempo: le quattro fasi lunari e le settimane. C’è quindi un riferimento alla totalità del tempo, nel quale ci sono momenti diversi. Tra l’altro qui c’è un problema di resa del termine tempo, che si esprime in tre modalità: *ebraico significa il tempo come durata (“Quanto tempo hai?”); * ebraico (che è il nostro caso) indica un momento puntuale, un’occasione, un’opportunità. (I greci avevano già tradotto questo tempo con kairos, tempo opportuno). Il terzo significato lo vedremo poi

Erri De Luca traduce con “punto”, a dire un tempo diverso: dentro il grande contenitore del mondo e del tempo ci sono realtà che sembrano contrapposte, altre complementari, altre consequenziali. Nel testo a volte c’è lo stesso verbo per dire azioni contrapposte.

È interessante la prima coppia, che tra l’altro è quella che genera tutte le successive coppie. Se non fossimo nati, infatti, non saremmo mai stati spettatori delle altre scene. Qui c’è scritto “nascere, morire”, ma in ebraico io non leggo ‘nascere’. Giustamente Piero Stefani traduce: «Tempo per generare e tempo per morire». Non è detto che sia la stessa persona a vivere queste esperienze: una può generare e un’altra morire. Per questo non sempre sono contrapposte, ma semplicemente collocate in momenti diversi per cui se si vive l’una non si può vivere contemporaneamente l’altra.

Ci sono alcuni studiosi che hanno diviso questo testo in cose piacevoli e cose spiacevoli, cose positive e cose negative, come se ci fosse già una valutazione di questi tempi; ma gli ultimi versetti sono posti in modo incrociato: «tempo per amare tempo per odiare; tempo per far guerra tempo per far pace», cioè c’è il positivo-negativo, e poi il negativo-positivo. E siamo proprio sicuri che una cosa sia sempre positiva e un’altra sempre negativa? Si riesce sempre subito a capire quale delle due vale e l’altra no? Prendiamo ad esempio: un tempo per tacere e un tempo per parlare. Dipende!Ad esempio, il libro dei Proverbi afferma: «Anche lo stolto, se tace, passa per saggio, e per intelligente se tiene chiuse le labbra» (17,28).

C’è un tacere positivo, e c’è un tacere aggressivo; c’è un tacere che è fatto di accoglienza, di dolcezza, di ricezione, e c’è un tacere fatto di disprezzo, di lontananza, di rifiuto.

Di per sé alcuni momenti devono essere decodificati. La percezione è che le cose scorrono davanti a noi con un’alternanza che non decidiamo noi. Ad esempio: io sono nato nel 1961, e non c’era la guerra; chi è nato nel 1940 ha vissuto la guerra. Non l’abbiamo deciso noi! Non abbiamo scelto noi quando essere generati, qualcun altro ha scelto.

Quando si accosta questo testo si pone una grande obiezione: i tempi, li decidiamo noi o non li decidiamo noi? Dipende. Come vedete, il testo suscita domande. Credo che non sia adeguata la traduzione di Ravasi: «Il tempo di nascere e il tempo di morire; il tempo di piantare e il tempo di sradicare». È inadeguata perché pensa che il tempo sia una prigione, e che noi siamo passivi davanti al tempo: non decidi tu quando nascere, quando morire, e nel tempo in cui vivi ci sono tutti gli altri tempi che non decidi tu. Devi solo registrare che è così.

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Il primo versetto in originale dice: * ebraico (Per tutto c’è un tempo), *ebraico (e c’è un momento per ogni vicenda, impresa, atto). Quindi il termine *ebraico significa proprio “per”. In quella vicenda, impresa, atto, ci siamo anche noi, decidiamo anche noi. Decido io quando parlare e quando tacere. Certamente c’è un movimento nelle vicende umane nelle quali io mi imbatto, per cui mi sento un po’ prigioniero di queste situazioni non scelte da me. Però poi scopro che ci sono dei momenti nei quali anche io posso posizionarmi con la mia libertà. Il tempo per generare un figlio lo decido io, anche se di mezzo c’è la volontà del Signore di permetterlo. Ma se io, pur avendo la potenza per mettere al mondo un figlio, dico di no, il figlio non nasce.

Davanti a questo testo si aprono come due scenari. Uno è quello in cui noi siamo dentro la prigione del tempo: vorrei una cosa, invece ce n’è un’altra. Credo che nessuno voglia morire, ma quel giorno, quella data, arriva, e non lo decidi tu. Ci sono delle situazioni in cui la libertà degli altri ha deciso: la guerra. Ci sono situazioni in cui noi combattiamo con il tempo nel quale siamo collocati, però ci sono anche delle circostanze – ed è il secondo scenario – nelle quali scopriamo che per noi c’è quel ‘per’, quell’appello a fare, a scegliere secondo un criterio di discernimento. E il discernimento consiste nel capire quando è il momento giusto per fare la cosa giusta, come ad esempio sposarsi: “ho appena venti, trenta, quaranta, cinquant’anni… ormai ho sessanta, settant’anni, è tardi!”. Questo è il dramma della nostra vita: ce la facciamo a capire quando è il momento opportuno? Si può affermare che è Dio a guidare i tempi, e in ogni tempo c’è un bene, ma noi facciamo fatica a rischiare in quello giusto.

Prima di proseguire nella lettura, vorrei porre ancora una domanda: che cosa significa che c’è un tempo per togliere le pietre, tempo per metterle? Forse per mettere i mattoni e per togliere i mattoni, se si parla delle case con i muri a secco; oppure un tempo per togliere le pietre e coltivare il campo, e un tempo, come la guerra, in cui vi vengono gettate, e non lo puoi coltivare.

Nella tradizione rabbinica c’è un riferimento sessuale: c’è un tempo per mettere il seme (la pietra), e un tempo per non metterlo, poiché subito dopo, sempre nel v. 5 si afferma che c’è un «tempo per abbracciare tempo per respingere». Ho fatto questo esempio particolare perché alcune espressioni sono un po’ misteriose e hanno un carattere metaforico, tant’è vero che questo testo è stato utilizzato da moltissime persone, uomini politici, romanzieri, e ognuno l’ha usato a modo suo perché era un’immagine che serviva a fissare un tempo per l’uomo, un’avventura dell’uomo.

«Tempo per custodire tempo per buttare»; «Punto per custodire e punto per gettare». Anche qui c’è un tempo positivo nel tenere e un tempo positivo per lasciar andare. Può essere determinato da una situazione esterna o da scelte nostre. Quindi non è un tempo deterministico in senso assoluto, ma nasconde un gioco misterioso.

Si potrebbero fare altre considerazioni, ma preferisco lasciare a voi il compito di meditarlo in solitudine e di rimanere in contemplazione su che cosa voglia dire stare in un tempo e guardare l’altro tempo, perché è possibile anche far in modo di poter transitare da un tempo all’altro. Se vivi un tempo di guerra puoi costruire l’altro tempo, quello di pace. Se sei in un tempo negativo attendi quello positivo; oppure ti trovi in un tempo positivo e sai che non è un assoluto. S. Ignazio, nelle sue Regole per il discernimento, parla della consolazione e della desolazione e dice: “Quando sei nella consolazione non ‘tirare su la cresta’, perché la vita non fa sconti a nessuno, e preparati per quando la situazione cambierà; quando sei nella desolazione non disperare, perché non è un tempo definitivo, ma un punto di passaggio, è il tempo della prova”.

Qohèlet non dice quello che sarebbe bello ci fosse o non ci fosse, ma quello che c’è. Se oggi vi trovaste in Siria, potreste fare tutti gli sforzi possibili, ma stareste in quel dramma. Non l’avreste deciso voi, ma vivreste in un flusso che porta a quella realtà. È chiaro che adesso io mi preparo per il tempo della guerra, ma guardo il lato positivo a partire da quello che c’è.

È la domanda che pone Qohèlet: come stare in questo ‘tempo dei tempi’, in questa alternanza? Qualcuno può sentirsi vittima, vivendo circostanze negative, oppure può sentire che nonostante tutti i condizionamenti che si trova intorno, c’è un altro modo per stare dentro quel tempo. Vediamo ancora una volta che l’autore è un grande induttore di tranfert. Ebbene, qualsiasi libro venga letto,

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qualsiasi meditazione, avrà sempre una sfumatura particolare perché dipende dall’esistenza di chi legge, dalla fase di vita che sta attraversando, dalla sua prospettiva.

Riprendiamo la lettura da Qo 3,10:«10Vedo il compito duro che Dio assegnò in donoagli uomini per farceli sfiancare».Ribadisco che Qohèlet non sta facendo un discorso filosofico sulla struttura del reale, su quello che è positivo e su quello che è negativo, ma sta descrivendo a partire dalla sua esperienza. Se qualcuno ha un’altra esperienza è pronto ad ascoltarlo, ma intanto lui vede, considera, registra. È interessante notare la traduzione di Vignolo, che parla di ‘dono’ e insieme di ‘sfiancare’. Che bel regalo!

Erri De Luca traduce: «Ho visto l’occupazione che ha dato Elohìm ai figli dell’Adàm per rispondere in essa». Rende con ‘rispondere’ quello che Vignolo traduce ‘sfiancare’, e comunque è un ‘dono’, un ‘dato’ consegnato da Dio, rispetto al quale bisogna prendere posizione, bisogna rispondere e non si può rimanere neutri. E rispondere tutti i giorni a questo appello è davvero una grande fatica.

«11Tutto questo Lui fece a meravigliaciascuna cosa per il tempo suo…».“Lui” è Dio, è questa Presenza misteriosissima che sta ‘sopra il sole’ e permette tutto quello che accade ‘sotto il sole’. Predispone le cose e l’uomo si trova all’interno di queste risorse. Ravasi traduce: «Tutte le sue opere sono affascinanti, ogni cosa fece bella nel suo tempo». Ma come ‘fece bello tutto a suo tempo’, se noi incontriamo tempi negativi? È come se Qohèlet cogliesse che ogni tempo di Dio è favorevole per qualche cosa, ma siamo noi ad infilarci in modo maldestro in questi tempi. ’è quindi un problema nostro, dal nostro punto di vista, perché Dio «fece a meraviglia ciascuna cosa per il tempo suo».

«…In cuore all’uomo Dio infuse il donodi sentire il tempo che perdura,non però il potere di scoprirel’opera che Lui fa da capo a fondo».

Ecco il nodo! Ciascuno di noi ha dentro l’*ebraico * ’olam ? (ecco la terza parola per dire il tempo), il senso dell’eterno (Ravasi), l’idea di totalità (Stefani), il mondo (Erri de Luca e Ceronetti).

Che cos’è questo * ’olam? È appunto il mistero del tempo. Dio ha messo dentro di noi la percezione del tempo che scorre tra un passato e un futuro, mentre noi vediamo soltanto il presente. Nell’XI Libro delle “Confessioni” di S. Agostino c’è questa bellissima descrizione della sua ricerca rispetto al tempo: “Se non me lo chiedi so che cosa è; se me lo chiedi non so che cosa è. Non so rendere ragione di questa realtà che mi avvolge”. Parla di ‘dispersione dell’anima’, cioè c’è solo il presente. Che cos’è il passato? È la memoria dei presenti passati. Quindi se la memoria è il passato e il desiderio del tempo che verrà è il futuro, quindi si vive il presente.

Noi – dice Agostino – abbiamo dentro questa percezione dello scorrere del tempo, questa idea di totalità. Noi siamo aperti al ‘tutto’ ed è per quello che cogliamo l’oggi come realtà parziale, posta nell’orizzonte del tutto. Noi abbiamo dentro il mistero del tempo, ma non abbiamo il potere di scoprire l’opera che Dio fa. Questo tentativo di afferrare la presenza del Signore nel tempo che c’è, è fallimentare. Dove stai, Dio? Ci sono circostanze in cui è difficile parlarne, perché sembra di dover registrare invece la sua assenza.

Qohèlet ammette che la sapienza è fallimentare, non ce la fa! Vorrebbe registrare la realtà nel profondo, vorrebbe dare un nome alle cose, vorrebbe anche vedere la presenza del senso profondo che chiamiamo “Dio”, ma non ce la fa. E allora? Allora ci sono delle circostanze nelle quali, per quanto ti giochi e t’impegni non giungi a nulla, e circostanze nelle quali ti accorgi che Dio farà una storia bella anche con questo tempo, saprà tirar fuori qualcosa anche da questo tempo. Perché è così? Nessuno lo sa dire.

Cerchiamo un atteggiamento di adorazione che ci permetta di cogliere già il momento positivo della gioia che ci viene incontro.

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«12Capisco allora in tutta la sua vita nulla di meglioche gioiree procurarsi bene;13ma chiunque mangia e bevee di ogni sua fatica godequesto è dono di Dio».

Torna ancora la percezione che ti sono dati dei momenti in cui provare gioia, di vedere l’opera di Dio. Non certo dall’inizio alla fine, però in questi frammenti tu cogli una Presenza bella, gioiosa:

14Tutto quel che Lui fa dura per semprenulla da aggiungere nulla da togliere».

C’è un rimando a Dt 4,2: «Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla», ma noi sentiamo anche le parole di Gesù: «In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge…» (Mt 5,18).Quello che fa Dio è perfetto!

Vedete questo doppio atteggiamento: mi sento impotente di comprendere da cima a fondo lo svolgersi del mistero, anche se molti frammenti di gioia mi permettono di vedere una Presenza che custodisce tutto. Eppure anche con quel frammento che colgo, non sempre mi tornano i conti. Ma leggiamo che:

«Con gli uomini Dio apposta fa cosìper farsi rispettare.15Il passato è già qui,il futuro già fuDio chiederà conto di quanto si è inseguito».

Sta dicendo che il Signore ci sta educando al mistero del tempo. Gli uomini sono creature generate che poi muoiono. Su di loro c’è questa alternanza di tempi, ed essi passano da uno all’altro cercando di fare il proprio gioco, ma percependo che sempre qualche cosa sfugge.

Ecco allora l’atteggiamento di adorazione, il timore di Dio. Non è il timore gelido di altre pagine dell’Antico Testamento, ma è la meraviglia che Dio ha messo nel cuore dell’uomo perché riconosca di non essere quel ‘tutto’. Il fatto che non riusciamo a cogliere il disegno del tutto non ci blocca e non ci impedisce di continuare a cercare, perché ci restituisce alle nostre misure, ci libera dalle nostre presunzioni, dai nostri punti esclamativi. Proviamo a mettere il punto di domanda…

Vedete quante domande ci sono nel testo di Qohelet! Esso continua ad interrogarci, continua a farci la domanda del v. 9: «Ma chi fa qualunque cosa fache ci guadagna dalla sua fatica?».Quale il vantaggio per tutto l’agire che uno fa? Intanto ci muoviamo, intanto ci barcameniamo dentro l’alternanza del giorno e della notte, dentro il calendario, dentro i nostri spazi. Certo, non sempre azzecchiamo il tempo giusto e il posto giusto.

Sesta riflessioneSiamo alla seconda sezione: Il meglio di una vita uguale per tutti (3,16 – 6,12)Questa sezione arriva fino al cap. 6,12, che, secondo Vignolo, è il giro di boa del testo. Ripeto:

sono tutte piste e suggerimenti ipotetici. Ad esempio, il testo che leggiamo ora, è invece associato da Ravasi a quanto segue nel cap. 4. Lui divide il testo dal cap. 3,16 al cap. 4,3, individuandone due movimenti, il primo nel cap. 3, il secondo dall’inizio del cap. 4, a sua volta con una doppia battuta: c’è una riflessione sull’ingiustizia (v. 1) e una sulla morte (vv. 2-3).

Dipende molto da come uno organizza l’atto di lettura, da dove comincia a leggere e dove finisce.

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Vi accennavo che Pino Stancari pensa che il cap. 3 sia un’unica unità: l’uomo alle prese con il mistero del tempo e con quello del luogo, del posto, del dove. Sono appunto le due dimensioni spazio-temporali.

Per Vignolo inizia la nuova sezione, che termina in questo primo quadro (il quarto di tutto l’insieme del testo) con la terza sanzione sulla gioia. C’è ancora quel ritornello che registra la possibilità data ai mortali di assaggiare e di godere la vita, là dove Dio la concede, la dona.

Certo, rimangono i perché, ma bisogna avere la pazienza di recepire la presa di posizione del testo. Se tu non sei d’accordo, è esattamente quello che vuol ottenere il testo, cioè instaurare le regole di un dialogo che può anche partire da posizioni di divergenza. Vedremo questo aspetto in quel dato drammatico del nostro stare al mondo che è il morire.

Vi invito a prendere il testo per quello che è, non per quello che non dice. Ci sono parti che non approfondirò per due motivi: per primo perché, nel poco tempo a disposizione, voglio condividere con voi il meglio di ciò che la mia ricerca ha prodotto, e poi perché voglio sollecitare voi a continuare la ricerca. S. Ignazio sostiene che è molto più fruttuoso ciò che ognuno trova per conto suo.

Posso anche capire che gli ‘omogeneizzati’ siano più comodi, ma è bello anche poter assaggiare, masticare qualcosa che immediatamente non ci convince, perché ci permette l’uso di scavare dentro. Quindi anche l’azione solitaria e personale è importante.

Adesso il discorso di Qohèlet è molto circolare. Una volta affrontati il poema iniziale (Qo1,3-11) e l’autobiografia autoironica (fine cap. 1 e cap. 2), è chiaro che a questo punto ci sarà una ripresa con variazioni sul tema. Il movimento del vento è anche dentro di noi, con un ritornare agli stessi nodi e riconsiderare le stesse dinamiche da angolazioni diverse. È anche il movimento della nostra coscienza che, dove non ha la risposta definitiva, scopre il limite del suo conoscere. Ognuno di noi si fa una domanda, e tutte le domande sono euristiche, cioè mettono in moto un processo di ricerca; non è detto che si giunga a risultati, ma si continua a cercare.

Intanto quello che trovi sono i dati della vita, che sono lì. Per quanto riguarda le opinioni, bisognerebbe registrare le condizioni della nostra esistenza.

Riprendiamo la lettura:«16E ancora vedo sotto il sole…» (3,16ss).Anche Mazzinghi reputa che qui cominci una sezione nuova perché c’è come uno stacco e si

riprende lo stesso verbo: ho visto sotto il sole, sulla terra… E che cosa ha visto?«…in luogo di diritto il crimine,in luogo di giustizia l’ingiustizia».

In questa traduzione manca l’avverbio ‘là’ (*ebraico), che viene posto in traduzione solo da Erri De Luca: «Il luogo di giudizio là è l’empio, e il luogo di giustizia là è l’empio». È una parola molto importante perché indica precisamente ‘il luogo’, a dire che anche i luoghi – e non solo i tempi – non funzionano. Tutto sembra stare nel posto sbagliato: nel posto del diritto c’è il crimine, nel posto della giustizia c’è l’ingiustizia. In quelle epoche remote, in quel mondo ‘avanti Cristo’ succedevano queste cose…

Questo porta ad un aspetto dolorosissimo, perché la giustizia ha sempre a che fare con il debole. La legge è a favore di chi non ha potere, e per questo deve funzionare sempre, altrimenti diventa la legge del prepotente. Quando si dice ‘giustizia’ si dice quell’intreccio di relazioni attraverso le quali transita la vita, in modo che ciascuno abbia il suo a livello di convivenza umana, e non venga privato della possibilità di vivere.

Qohèlet denuncia il dissesto, e noi lo constatiamo anche in situazioni che stanno davanti a noi o proiettiamo sullo schermo interno della condizione umana (la situazione italiana, quella internazionale…). Ed è una realtà che si ribalta dentro di noi: Io, in quale posto sono? È la domanda che Dio pose all’uomo: “Adamo, dove sei?”. Ogni cosa deve trovarsi nel posto giusto: nella corte di giustizia ci deve essere la giustizia, non i delinquenti! E le istituzioni pubbliche dovrebbero essere amministrate solo da uomini credibili e onesti.

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Tuttavia vediamo che allora, come oggi, non è così. Ed ecco così la domanda degli oppressi che chiedono al Signore di intervenire. Si chiama ‘salvezza’. E nelle pagine bibliche si chiede che questa operazione di salvezza non sia rimandata ‘al di là’ ma che, se possibile, sia organizzata ‘al di qua’, dove sembra che debba esserci ingiustizia sino alla fine. Allora la coscienza credente ha elaborato una certezza: di là si faranno i conti! Di qua il problema del male non riesce a trovare soluzione, ma forse di là… Come se si vivessero due tempi.

Di fronte a tutto questo dramma, al tempo di Qohèlet c’erano delle speranze nei confronti del cielo, cioè la prospettiva che da là sarebbe venuto qualcuno di qua e avrebbe aggiustato la situazione, un messo divino che attraversasse la calotta celeste, scendesse ‘sotto il sole’ e sistemasse le cose. Rispetto a questi nuovi scenari, a queste nuove suggestioni, teorie e credenze, Qohèlet le osserva e dice: “Chi lo sa?”. Sembra un po’ dissacrante nei confronti di coloro che vogliono aprire gli orizzonti, perché lui si ferma all’esperienza: “Io non ho visto, non vedo…”.

«17Mi dico io…».“Ho detto io nel mio cuore”. C’è sempre questo dialogo interiore, questo ritorno sui propri

pensieri, questa dinamica riflessiva. Lui vede che nel mondo al posto della giustizia c’è l’ingiustizia.

«…innocente e colpevole Dio penserà Lui a giudicarli,dato che quaggiù c’è un tempoper ogni aspirazione e ogni impresa».

Erri de Luca traduce: «Ho detto io nel mio cuore il giusto e l’empio giudicherà Elohìm: perché punto per ogni intento e su ogni opera è là». Le traduzioni diverse ci danno due piste diverse. Una dice che noi non riusciamo a capire il senso delle cose perché di qua non funzionano. Ma c’è il mistero di Dio che è presente nel tempo, nelle coordinate spaziali dell’uomo, là dove l’uomo si muove, è collocato, e a modo suo fa. Egli ha la percezione che l’istanza suprema non sia l’agire umano, ma sarà l’agire di Dio, però gli sfugge il ‘quando’ e il ‘come’.

L’altra pista è la traduzione di Erri De Luca che di nuovo insiste su quel ‘là’. Visto che il soggetto è Elohìm, il fatto diventa suggestivo, perché significa che Dio è anche dentro ogni ingiustizia umana, dove noi domandiamo: “Dov’è Dio?”. È là! Mi ritorna alla mente quella pagina memorabile di “La Notte”, in cui Elie Wiesel racconta di un bambino impiccato ad Auschwitz, che non riusciva a morire, e qualcuno domandava: “Dov’è Dio?”.

Misteriosamente, anche nelle situazioni in cui pensiamo che non ci sia niente da fare per fermare i mostri e non ci sia una presenza divina che operi, come se Dio fosse troppo occupato altrove, Egli sente ed è là, non si sa come.

Questo è ciò che Qohèlet riesce a dire. Di più non può. Noi vorremmo avere in presa diretta il dettaglio di questa presenza, di questa operazione di giustizia, invece lui registra l’ingiustizia e avverte che Dio è là!

«18E a proposito degli uomini mi dicometterli alle strette vuole Dio,mostrar loro che sono come bestie»

Erri De Luca traduce: «Ho detto io nel mio cuore sulla parola dei figli dell’Adàm per sperimentarli l’Elohìm: e per vedere che essi sono bestia, essi per essi». * ebraico È un’espressione di difficile resa anche in italiano. Il testo ebraico dice che Dio guarda, registra, guarda gli uomini e vede che sono come le bestie. Visto così sembra affermare che gli uomini si comportano come bestie soprattutto nelle situazioni d’ingiustizia. Sappiamo bene quale ferocia possa annidarsi nel cuore dell’uomo! Ma non è questo il discorso di Qohèlet. Egli dirà che l’uomo e la bestia sono uguali perché tutti e due muoiono. Viene ancora rimarcata la situazione di fragilità in cui ci troviamo tutti.

Abbiamo già sottolineato che, nella creazione, gli animali e l’uomo occupano lo stesso giorno, lo stesso tempo, ma condividono con loro anche lo stesso spazio. Alcuni li addomestichiamo, gli altri sono feroci. Condividiamo lo stesso respiro, anche se per gli animali si usa un’espressione diversa da quella usata per gli uomini.

Ma qui Qohèlet è feroce:

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«19Il destino degli uomini e quello delle bestieun unico destino:crepano queste crepano quelliun unico respiro per entrambil’uomo non ha vantaggio sulla bestia,tutto è un soffio20tutto sparisce nello stesso luogodalla polvere tutto fu trattoalla polvere tutto ritorna.21Chi sa se il respiro dell’uomo sale in alto lassùe quello della bestia sottoterra scende giù?».

Per dire ‘respiro’ si usa ‘nefesh’ o ‘ruah’; quest’ultima parola è già comparsa nel nostro libro, quando si parlava del vento che va a nord, poi a sud, gira e rigira. Quindi c’è un vento anche dentro di noi, e pure nelle bestie. Se lo specchietto posto davanti alla bocca non si appanna, significa che la vita è finita, e la cosa vale per le bestie e anche per noi.

C’è quindi ancora la memoria della morte. Se ci sono le vicende della storia, se si è immersi nella storia, è come se questo momento e questo spazio – il pezzo di terra che accoglierà l’uomo o la bestia e la polvere che si dissolverà con loro – facesse parte della vita. Ma Qohèlet ha sempre davanti la morte: si muore!

Ancora una volta sperimenti un mondo che funziona in modo strano, come una matassa di cui non riesci ad afferrare il bandolo; hai la consapevolezza di non riuscire ad organizzare il mondo e comunque ogni tentativo di organizzarlo ha un limite, perché muori tu e le bestie. Hai detto: “Adesso sistemo le cose, poi vediamo!”. Tu muori, e il mondo non l’hai sistemato: arriva il giorno del ritorno alla polvere, della fine.

Le battute di Qohèlet fanno un po’ il contropelo alla visione biblica dell’uomo, che cerca di esaltare la condizione umana rispetto a quella delle bestie. Ricordavamo il Sal 8: «Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?… di gloria e di onore lo hai coronato…tutto hai posto sotto i suoi piedi: tutte le greggi e gli armenti e anche le bestie della campagna». Il salmista afferma che l’uomo è sopra le bestie, le nomina, le governa, ma Qohèlet li pone sullo stesso piano: forse nel corso del viaggio hanno occupazioni diverse, ma alla fine arrivano allo stesso capolinea e scendono dal treno allo stesso modo.

È la consueta visione realista: né ottimista, né pessimista.«22 Allora vedo…».

Lui vede, osserva, registra. Non sta facendo la predica!«… nulla di meglio per l’uomoche gioire delle sue imprese:questa la parte che gli spetta».

Stefani traduce con ‘eredità’ e Ravasi con ‘destino’.La ‘parte’ è la possibilità data – cioè donata – a chi muore di poter gioire della sua vita. «Chi infatti mai lo porterà a vedereche cosa ci sarà dopo di lui?».

Il discorso non è rimandato a dopo la morte. Siamo partiti con l’ingiustizia e con il pensiero che dopo la morte le cose si sistemeranno. Ma la morte è un sigillo e i conti devono essere fatti di qua, con il tempo che ti è dato di vivere. E se fai i conti ‘al di qua’ sarai alle prese con tutte le disfunzioni del mondo. Individua la tua parte, discernila, ricevila, gioiscine. Devi tenere insieme queste due cose: un dato ti è dato subito, ma anche l’altro è molto consistente: ti è data la possibilità di guardare il mondo prima della morte e provare un soffio di gioia.

Facciamo attenzione a quel “nulla di meglio che”, che ci accompagnerà nel prossimo incontro perché si vorrebbe il mondo perfetto.

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“Come stai?”. “Un po’ meglio”. Questo non vuol dire che sei guarito. C’è la ricerca del bene e del meglio (il ‘più buono’ è un’altra cosa…), e non ci sono soltanto due possibilità, ma un ventaglio di occasioni, e sta a noi cogliere il meglio.

* qui il relatore chiude la sua riflessione e invita a porre domande anche relative agli incontri precedenti. Il dialogo – guardando la posizione del nastro – dura circa 15/20 minuti. Penso siano chiarimenti, per cui non proseguo la sbobinatura.Passo alla riflessione successiva.

Settima riflessioneContinuiamo la nostra lettura. Da quattro giorni siamo in contatto con questo testo e abbiamo

cominciato a conoscere da vicino Qohèlet, che tipo è. C’è già una consonanza con lui rispetto ad un certo sguardo sulla vita. È un compagno di strada nella nostra ricerca.

Abbiamo letto i primi tre capitoli, e vi accennavo che probabilmente questi erano già stati organizzati da Qohèlet, perché hanno un loro svolgimento e potrebbero benissimo essere parte di una riflessione sapienziale sulla condizione umana dentro la sua testimonianza autobiografica. Abbiamo visto la prospettiva dei tempi e dei luoghi dell’uomo, posto in modo misterioso dentro il tempo e nel luogo giusto.

Dal cap. 4 è più difficile trovare un filo rosso che tenga insieme le varie battute che leggeremo.Ogni traduttore, come vi ho già detto, dividerà il testo a modo suo. La soluzione più semplice è

che, una volta diviso il testo in un certo modo, si interpreti ogni pagina presa in sé, avulsa dal contesto (come succede nella nostra liturgia). Invece noi abbiamo la fortuna di poter leggere questo libro nella sua continuità, cioè interrogarci sul fatto che un testo sta dopo un altro; il nostro discepolo-redattore, disponendo così le note del maestro, ha colto un filo rosso. Anche noi cercheremo di aiutarci ad individuare il percorso che ci fa ancora fare, riprendendo battute già considerate. Il ritorno non è mai una riflessione a fotocopia, ma è sempre un approfondimento, uno sguardo ulteriore.

Questa parte del cap. 4 è inserita in una seconda sezione che il Vignolo intitola: “ Il meglio di una vita uguale per tutti” (3,16 – 6,12).

In questa parte ricorre un’espressione che è: * ebraico, cioè ‘meglio una cosa di un’altra’ nei vari ambiti che adesso saranno messi a fuoco.

Erri De Luca traduce con ‘buono più di’.Abbiamo già visto il quarto quadro di questa prima sezione: “Stessa sorte per tutti”, e adesso

affrontiamo i primi 16 versetti del cap. 4, raccolti nel titolo: “Che cosa è meglio”?Ci sarà un tema che attraverserà tutte queste battute, quello dell’ingiustizia, della violenza. Infatti

il saggio comincerà parlando dell’oppressione, cioè degli oppressi e degli oppressori. Il termine ‘oppressori’ non compare, ma c’è la realtà degli oppressi, causata ovviamente dagli oppressori. E questa parola ritornerà ancora alla fine.

Dentro questa nostra sezione ci sono due quadri, il secondo dei quali Vignolo chiama: “Vera religione”, ma si parlerà ancora dell’oppressione. Visto che noi più volte abbiamo chiesto: “ Ma Dio, che cosa c’entra in questo discorso di Qohèlet?”, ci domanderemo anche come mai ci sia una pagina che parla della religione.

Tra l’altro ho scelto di mostrarvi un attivo questo libro, un buon commento di * ???. Anche lui organizza il testo di Qohèlet e anche lui trova una struttura perfetta, concentrica, e mette al centro del libro proprio questa scena sulla religione, alla fine del cap. 4 e primi sei versetti del cap. 5, come se questa considerazione sulla vera esperienza di Dio fosse al centro di tutta la sua vicenda. Non so se sia vero, ma è soltanto per dire come la pagina che adesso leggeremo ci aiuterà a cogliere forse con più chiarezza come Qohèlet veda il contatto con il divino.

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Intanto guarda il mondo. Nell’incontro di ieri abbiamo visto che la considerazione sulla morte partiva da quella sull’ingiustizia nel mondo.

Cap. 4«1Di nuovo vedo…».

Continua la sua esplorazione, la partecipazione della sua esperienza. «tutte le oppressioni perpetrate sotto il cielo. Ecco il pianto degli oppressi sconsolatoil pugno degli oppressori li abbrutiscenessuno li solleva».

Leggo anche la traduzione di Erri De Luca, più letterale, perché in questa prima battuta ricorre per due volte la stessa espressione ebraica: «non c’è per loro un consolatore». Il versetto recita così: «E sono tornato io e ho visto tutti gli oppressi che sono fatti sotto il sole. E ecco lacrima degli oppressi e non c’è per loro un consolatore e dalla mano dei loro oppressori è forza e non c’è per loro un consolatore».

Vignolo parla di ‘oppressioni’, mentre Erri De Luca precisa che sotto il sole non ci sono soltanto le oppressioni come realtà astratte, ma proprio gli oppressi che vengono schiacciati dagli uomini. Non è un’oppressione che scende dal cielo, ma è frutto della volontà umana. Ci sono degli oppressi perché sono resi così dagli oppressori. Facciamo attenzione a questa prima scena, a questa constatazione della storia umana, al volto degli uomini solcato dal pianto. Già, c’è un tempo per piangere… e c’è perché qualcuno esercita la sua forza. Da una parte le lacrime, dall’altra la forza.

Che cos’è la storia umana? Un esercizio della forza che preme sui deboli e lascia dietro di sé un fiume di lacrime inconsolato. Quanti innocenti colpiti! E non c’è un consolatore: tu ti guardi in giro… solitudine. Pensiamo al quadro di Munch, “L’urlo”; qui c’è l’urlo del genere umano.

Allora Qohèlet dichiara che è meglio essere morti. Perché venire al mondo, se si deve vivere in queste condizioni? Lui sa bene che non si viene al mondo per questo, ma per mangiare, bere e godere della vita. Invece la scena che gli scorre davanti agli occhi è quella di persone che non possono farlo.

«2Ma allora beati i mortiquelli morti e sepolti da un pezzobeati loro più dei vivi che ancora scampano.3E più beato di entrambi chi ancora non è natoe non ha visto tutto il male compiuto sotto il sole».

Costui non ha visto l’opera cattiva che è stata fatta sotto il sole. Questa ‘opera cattiva’ è una dinamica di violenza. Nell’immediato ci immaginiamo quegli scenari drammatici della guerra, Hitler, le situazioni in cui ci sono degli energumeni violenti che si scatenano, ammazzano, ma in realtà tutto questo è consumato nelle misure della nostra vita ordinaria, quotidiana. È il nostro tempo di lavoro, come vediamo nel prosieguo della lettura.

«4Vedo pure ogni fatica spesa in ogni impresa…».È il fare dell’uomo, sono le nostre occupazioni, i nostri impegni: il nostro lavoro. E come è governato questo compito che ognuno di noi riceve dalla vita?

«… soltanto invidia gelosia tra loro».L’uso della forza, della violenza, si vive nelle misure quotidiane e modeste del nostro vivere insieme. La maggior parte della giornata la occupiamo lavorando, e Qohèlet osserva questa esperienza e questa vita di lavoro impregnata di invidia e di problemi: chi ha il lavoro e chi non l’ha; chi ha le tutele e chi non le ha; chi comanda e chi è comandato; chi decide e chi non decide per niente. Dentro il tessuto ordinario dello scorrere dei nostri giorni si annida la violenza, l’ingiustizia.

Quindi non è solo lo scorrere di quel fiume di lacrime che vediamo sulle prime pagine dei giornali, provocate dai dittatori del mondo. No, sono situazioni che conosciamo dentro le nostre case, dentro le nostre relazioni di tutti i giorni. Invidia e gelosia sono le due dinamiche: vorrei avere quello che ha l’altro, e se io ho una cosa che l’altro non ha, me la tengo stretta. Tra fratelli succede

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fin dall’inizio: uno si chiamava Caino, l’altro si chiamava Abele e la dinamica che li legava era l’invidia, lo stare male per la cosa che l’altro ha e che a me non è data. Oppure stare male perché l’altro mi ha sfrattato da una casa che mi spetterebbe, oppure star male cercando in tutti i modi di riprendere una cosa che era mia.

E succede che nel mondo c’è chi lavora, c’è il pigro, il lavativo che non fa niente perché c’è qualcun altro che lavora per lui. C’è anche chi si ammazza di lavoro tutta la vita, dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina, e poi muore.

«5Lo sciocco se ne sta le mani in manoe si mangia la carne…».

È il fannullone, che non fa niente dalla mattina alla sera.«6… meglio però una sola mano piena in paceche tutt’e due piene di angoscia e fame di vento».

L’alternativa è quello che si ammazza di lavoro, senza mai riposare. Il sapiente dice che bisogna saper stare tra questi due estremi. Devi smetterla di fare lo

sfaccendato pensando che gli altri debbano lavorare per te: fa’ la tua parte! Però non buttarti neppure solo nel lavoro pensando che sia l’unico scenario della tua vita: ti ammazzi! Non c’è più il riposo, non c’è più lo Shabbath, non c’è più la calma, non c’è più la pace.

Come sempre, quando ci sono due estremi, guarda dove sei tu. Se sei nel gruppo dei lavativi, datti da fare; se invece sei nella condizione di chi sa solo lavorare e non sa vedere nient’altro, fermati! Queste sono due condizioni che producono violenza o perché non fai niente, o perché sei sempre così strisciato che la farai pagare, e comunque la vita ti darà un brutto salario.

I vv. 7-8 hanno a che fare con chi è da solo«7Così ancora vedo l’assurdo sotto il sole8C’è chi sta solo senza nessunoun figlio un fratello non l’hama non dà tregua alla sua fatica».

Ti dai da fare dalla mattina alla sera. Per chi? Accumuli, accumuli, accumuli. Forse lo fai perché altrimenti ti trovi da solo e ti vien voglia di spararti. Allora cerchi di riempire il vuoto, la solitudine.

Segue una serie di proverbi che hanno a che fare con il problema della solitudine«Mai sazia la sua voglia di ricchezza ma io mi do pena, di gioia mi privo per chi ?Anche questo è assurdo sciagurata miseria».

D’accordo, se questa è la condizione di chi è solo, non vale il proverbio che dice: “Chi fa da sé fa per tre”. No, va bene l’altro: “L’unione fa la forza”.

Ecco allora che i vv. 9-12 parlano di due, anzi, l’ultimo parla di tre.«9Meglio in due che da solila fatica di due è vantaggiosa10se uno cade l’altro lo tira suguai al solitario quando inciampanon troverà nessuno a rialzarlo».

Si parla di situazioni di precarietà. Il mondo del lavoro, con i tanti di conflitti e tensioni, è pieno di cadute. Ci rubano il lavoro, ci si unisce per andare contro gli altri, vivendo una solidarietà che però produce conflitti. Per tutta la vita c’è la concorrenza.

Adesso fa l’esempio del freddo notturno quando non c’è riscaldamento.«11A letto in coppia ci si scalderàchi sta solo a scaldarsi come fa?»

Questa non è l’esperienza solo della coppia, ma della società. Ti metti vicino agli altri e così sopravvivi, altrimenti muori di freddo. È un’espressione anche metaforica: per non trovarti a gelare, devi metterti in gruppo con altri.

«12In due dall’attacco ti difendicorda a triplo capo non molla al primo strappo».

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È la terza situazione. In caso di aggressione, se si è in due si fa scappare l’assalitore. Anzi, è meglio essere in tre. La vita è un assalto reciproco, in cui devi sempre guardarti alle spalle, devi stare sempre in difesa. Se sei da solo è una sciagura, ma se si è insieme, bisogna stare in difesa perché l’altro non ti colpisca. Che fatica vivere! Che fatica stare da solo e che fatica stare insieme! Quanta violenza, quanti torti, quanta rabbia, quanta assurdità!

Qohèlet ha parlato di uno, poi ha parlato di molti, e adesso parla della società e di come è organizzata. C’è il re e c’è il popolo. Forse è difficile contestualizzare la situazione, ma se si apre il giornale qualcosa si trova.

«13Giovanotto intraprendente venuto su dal nientemeglio d’un re vecchio, sciocco, interdetto di mente».

Ecco il ‘meglio’… Ma non si diceva che i vecchi erano saggi, erano le persone più affidabili perché trasmettevano la loro esperienza, un certo modo di governare il mondo? No, meglio il nuovo, meglio il giovanotto che, tutto baldanzoso, porta avanti le sorti del Paese.

«14Questi già regna quando l’altro nasceva in galera poi esce a fare il re».

Succede che qualcuno va in galera e poi esce e fa il re, o almeno succedeva a quel tempo…È un giovane, ma è scaltro, si dà da fare, è avveduto. Mentre il vecchio re governa, lui sbriga le

sue faccende, va in prigione, ne esce, si fa spazio e arriva a sostituire il sovrano.«15Ed ecco tutta la gente sotto il solestare con quello subentrato al vecchio».

Un applauso generale. Finalmente una svolta! Adesso ci voleva proprio una figura nuova! Per fortuna è arrivata la crisi…

«16Tutta una folla gli va dietro,ma per chi viene dopo delusione».

Una doccia fredda! L’autorità è un esercizio di potere, di violenza, d’ingiustizia. Sgomiti, vuoi arrivare ad occupare quel posto, vuoi comandare! E gli altri sotto. Adesso ti applaudono, e poi scoprono di essere stati ingannati, di essere manipolati. Risultato: lacrime.

«Assurdo anche questo fame di vento».Anche questo è hevel, è portare a spasso il vento.

Sono tutte esperienze partite dall’ingiustizia, dalla violenza, dalle lacrime, dalla constatazione che il mondo non funziona con le nostre misure quotidiane. Vivi da solo? Non funziona. Vivi associato? Tutto un imbroglio. E allora che cosa fai? Ti rivolgi a Dio.

E infatti, nella scena che adesso leggiamo e che si trova al centro del libro, si parla del tempio.Quando Qohèlet si traveste da Salomone e magnifica tutte le cose che ha fatto (nessuno meglio di

lui…), non parla mai del tempio. Eppure la figura di Salomone è stata importantissima nella storia della salvezza perché lui ha costruito il santuario.

Qui salta fuori questo riferimento al tempio. È interessante perché comincia con un imperativo (v. 17). Al cap, 5,6 c’è un altro imperativo: «… piuttosto tu prendi sul serio Dio».

È la prima volta che Qohèlet cambia registro e passa dall’indicativo all’imperativo, prende posizione. Quando si parla di Dio, ci vuole dare un consiglio perché qui segnala un modo di vivere il contatto con Dio che tende a strumentalizzarlo.

Perché mette una considerazione sulla religione dentro questo quadro che sta delineando sull’ingiustizia e sulla violenza nel mondo? C’è forse una relazione tra religione e violenza, tra culto e violenza?

«17Bada ai tuoi passi quando vai alla casa di Dio».Che cosa si andava a fare alla casa di Dio? Certo a pregare e a offrire sacrifici. Questi potevano

essere di tre tipi fondamentali. Uno era l’olocausto, in cui l’animale ucciso veniva bruciato completamente per riconoscere davanti al Signore la gratuità della vita. Serviva a ricordare che se si campava era perché tutto veniva da Lui. C’erano poi i sacrifici di comunione, sacrifici pacifici per la pace reciproca; la vita insieme porta ad azzannarsi, e ci si deve riconciliare. Il Signore permette di trovare un canale di comunione mediante un pasto in comune: una parte di carne degli animali

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sacrificati spettava ai sacerdoti e una parte veniva condivisa tra gli offerenti. Poi c’era il sacrificio per il peccato, la colpa. Che cosa si voleva significare? Che Dio è capace di perdonare; è possibile la comunione con il Signore grazie alla sua misericordia. Questo sacrificio mostra che tu sei consapevole del tuo torto, del tuo peccato.

C’era poi tutta una serie di sacrifici minori, come quello di ‘riparazione’ per le colpe meno gravi.Comunque i sacrifici avevano lo scopo di riconoscere la gratuità di Dio, di fare a Lui un appello

perché favorisse la comunione tra le persone, e avere la possibilità di ritrovare quel canale di comunione con Dio che si era spezzato con il peccato.

«17Bada ai tuoi passi quando vai alla casa di Dio,vacci per ascoltarenon per offrire il sacrificio dello scioccoche nemmeno si accorge di sbagliare».

È il fraintendimento dell’esperienza religiosa fatta di gesti automatici. Ho fatto quello che era prescritto, ma che cosa è successo dentro di me? Niente! Non ho dato ascolto, la mia coscienza non è entrata in una dinamica di verifica. Una parola mi raggiunge e mi domanda: “Adamo, dove sei?”.

Dicevo che uno dei sacrifici era quello per la colpa. Ci dobbiamo rendere conto del male che facciamo! Invece ci sentiamo a posto, non ci rendiamo conto di niente, non diamo peso alle nostre relazioni. Si vive la religiosità con superficialità, con leggerezza…

C’è questo marchingegno del culto, e tu pensi che se fai quei gesti hai incontrato la parola di verità della tua vita. Gesti automatici! Devi invece andare al tempio per ascoltare la Parola e verificare dove è il tuo cuore.

Proseguiamo nella lettura. Siamo al cap. 5 e in questo breve testo la parola “Dio” compare ben sei volte. Qohèlet ammonisce:

«1Davanti a Dio adagio quando parlipiano a impegnartipoiché Lui sta in cielo tu in terraperciò le tue parole siano brevi».

Siamo rimandati al Discorso della Montagna: «Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole» (Mt 6). Più parole dico, più sono devoto; più parole dico, più Dio mi ascolterà! È il solito tentativo di mettere le mani sul mistero di Dio, sul suo cuore. Per sedurre Dio dico tante cose e Lui abbocca…

Ma Qohèlet mette in guardia:«2Troppa ansia produce sognitroppe parole dice lo sciocco».

Quando vai in chiesa, rilassati, non moltiplicare gli atti di devozione ripetitiva… Sta’ tranquillo, poi, quando avverti qualcosa che viene dallo Spirito, ti offri, ti giochi, chiedi la grazia di essere accompagnato per vivere meglio quella relazione con Dio, per viverla in pienezza, in consapevolezza, senza bla-bla.

La troppa ansia, anche nella preghiera, può portare a chiacchiere, ad illusioni, a sogni. Uno dice: “Guarda quanta devozione!”, ma Qohèlet sostiene che questo può essere un modo di entrare nella sfera del divino per certificare con Dio i tuoi imbrogli, e questo è un segno di violenza. Vuoi far entrare Dio nel tuo sistema, come un ingrediente del tuo modo di stare al mondo. Dio è in cielo, non te lo metti in tasca! Non puoi manipolare il cielo! “Padre nostro che sei nei cieli…”: Lui è là!

* qui racconta un aneddoto facendo due voci e storpiando quella anziana. Non capisco niente di niente, ma non penso sia determinante al fine della riflessione. Se tu lo ricordi e lo vuoi inserire… Passo oltre.

Non abbiamo nessun diritto di sindacare sulla fede degli altri, che è più autentica della nostra, né di criticare il modo personale di mettersi in contatto con Dio. Però bisogna fare attenzione: qui l’idea è che tu devi strappargliele, le cose, perché Lui non te le dà. Allora ti lanci nei voti più disparati, uno dietro l’altro come in una raccolta di bollini: alla fine, quando la scheda è completa, ti arriva il pupazzo-premio. No!

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«3Ogni voto fatto a Lui non tardare sciòglilopoiché nessuno ha stima di uno scioccoquel che prometti mantienilo».

Il voto serve a noi perché dopo aver ascoltato e ricevuto l’appello, possiamo prendere seriamente posizione. Qohèlet non sta ironizzando sul voto, ma sta riflettendo ancora una volta su un certo modo di vivere i sacrifici, un certo modo di varcare la soglia del tempio. Il problema non sono le preghiere, ma il modo di pregare.

Egli non sta dicendo che il culto è una cosa stupida, ma che c’è un modo stupido di accostarsi al culto, cioè di vivere la relazione con Dio. Se fai un voto, mantienilo, perché poi te lo imporrà la tua coscienza. Per questo è meglio essere cauto!

«4Meglio non far promesseche farle per non mantenerle;5alla tua bocca non permettere di farti cadere,al sacerdote di Dio non dire:“Ho fatto questo voto a cuor leggero”a sentir questo Dio si adireràfino a distruggere ogni tua impresa».

In una situazione di precarietà, di malattia, ti butti in un voto a Dio. Poi magari ti accorgi che non ce la fai e cominci a pensare che forse, essendo un impegno solo verbale, non è così grave. Però ti senti a disagio per il timore che il Signore si arrabbi, sentendosi preso in giro. Allora che cosa fai? Ti rivolgi all’uomo di Dio perché ti alleggerisca la coscienza. Per capire in profondità, quella persona ti aiuta a fare discernimento. E tu cerchi di persuaderlo che hai fatto quel voto perché non sapevi della gravità della promessa. Si è trattato solo di un errore di valutazione… Certo, a tutti capita di fare un errore, ma la vita spirituale è fatta di consapevolezza, altrimenti prendi in giro te stesso.

E se quel padre spirituale non accetta la tua superficialità e ti fa notare la serietà e la consapevolezza dell’impegno con Dio, tu cambi padre spirituale finché trovi quello che ti dice quello che vuoi sentirti dire. Tuttavia non erano stati i padri spirituali a lasciarti scontento, ma la tua coscienza! E tu cerchi di liberarti di questa, che dovrebbe essere il luogo della verifica del discernimento personale. E diventa ancora una volta una manipolazione. Meglio che tu non faccia nessun voto, almeno sei onesto! Nessuno te lo chiede, non sei obbligato a farlo, è una scelta volontaria… È di nuovo l’appello ad un’autenticità di vita

Ma perché faccio un voto? Perché io voglio mettere le mani su quelle di Dio, che mi assicurerà di farsi gli affari miei. Il divino innerva il sociale.

«6Dove abbondano sogni illusioniescono troppe parole in libertà…»

Erri De Luca traduce: «in molti sogni ci sono e sprechi e parole assai».«…piuttosto tu prendi sul serio Dio».È ancora l’invito a stare davanti al Mistero in un atteggiamento di adorazione. Qohèlet non è un

miscredente. Anzi, se denuncia la falsa religione è proprio perché vuole la vera religione.I vv. 7-8 sono omessi nella traduzione di Vignolo, mentre sono presenti, ad esempio, in quella di

Stefani, che leggeremo. Secondo me questo testo non sarebbe da escludere perché riprende proprio il tema con cui siamo partiti. Se il discepolo di Qohèlet ha organizzato i suoi foglietti in questa disposizione, dobbiamo capire le connessioni. Ebbene, anche quest’ultimo quadro ha a che fare con l’oppressione e con l’oppressore.

«7Se in una regione vedi opprimere l’indigentee stravolgere diritto e giustizianon restare sbigottito per la prepotenza».

Il mondo andava così non solo nel passato, ma ancora oggi per noi che leggiamo dopo 2300 anni…«Un’autorità infatti è controllata da un’altra a essa superioreed entrambe sono sottoposte ad autorità più alte;8tuttavia è un vantaggio per il paese nel suo complesso

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che la campagna sia sottomessa al re».Forse alla fine del versetto ci vorrebbe il punto di domanda…

Comunque la società umana è un marchingegno: c’è il comune, ci sono le province, le regioni, poi lo Stato, poi l’Europa. C’è quindi un’autorità più bassa controllata da quella più alta: la provincia regolamenta la vita dei comuni, la regione risolve i problemi delle provincie, e poi ecco lo Stato centralizzato che controlla le regioni ed è a sua volta controllato dall’Europa… Di per sé questo marchingegno potrebbe funzionare. Ricordiamo la pagina di Mt 8,8-9 dove il centurione prega Gesù: «… di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. Pur essendo anch’io un subalterno, ho dei soldati sotto di me e dico a uno: “Va’!”, ed egli va; e a un altro: “Vieni!”, ed egli viene; e al mio servo: “Fa’ questo!”, ed egli lo fa».

Questo è un sistema pagano. Nell’ottica cristiana ciascuno dovrebbe veramente essere a servizio dell’altro, ma il problema è che invece uno si approfitta dell’altro. Chi comanda dovrebbe promuovere la tua vita, e invece te la rende impossibile. La società diventa un marchingegno di violenza, un esercizio del potere. Vediamo lo sguardo disincantato del nostro saggio: ha vissuto nel mondo, ha registrato i fatti della vita personale, dei gruppi associati, della società umana, dell’esperienza religiosa. È un grande meccanismo oppressivo!

Ottava riflessioneLa prima parte – come la organizza Vignolo – termina alla fine del cap. 6. Nello schema sui fogli che vi ho consegnato, trovate scritto: «Seconda parte (7,1 – 12,8):

problema dominante: “chi sa?”». È la domanda che ci sta inseguendo: “Che vantaggio c’è?”. Alla fine ci sembra di non stringere niente. La riflessione sui vari passaggi di Qohèlet ci ha messo davanti una lettura impietosa del vivere dell’uomo, del marchingegno della violenza, del conflitto permanente.

Vignolo organizza i versetti 5,9-17 in due quadri che seguono e che portano alla conclusione della prima parte: “Fortune che sfumano e fortune non godute”. P. Stancari parla di ‘soldi degli uomini’, e su questo mediteremo adesso. C’è forse una relazione tra quanto abbiamo visto nella riflessione precedente e i soldi, cioè tra questo mondo violento e i soldi? Oggi il parlare dei soldi tocca anche dei drammi…

Sembra che questa possa essere una riflessione fatta da un potente di Gerusalemme, che sta bene, non ha avuto problemi e può permettersi anche di fare le proprie considerazioni sui quattrini. Però attenzione, perché nel Magnificat si afferma che Dio «ha rimandato i ricchi a mani vuote». A volte, tuttavia, questi ‘ricchi’ possono anche essere quei poveri che vogliono essere ricchi. Noi parleremo di soldi, ma di per sé non parleremo del mercato, della relazione tra manodopera, lavoro, capitale, accumulo, investimenti, bensì dell’atteggiamento interiore nei confronti del denaro.

Il discorso che ora apre il nostro Qohèlet, va bene per ciascuno di noi anche se siamo nullatenenti, perché riguarda non tanto la quantità di denaro che può circolare nelle nostre mani, ma la nostra relazione con i soldi. Egli scaverà ancora, perché sta cercando di mettere in luce come funziona il cuore umano e sta guardando nel suo cuore per capire come gira il marchingegno. Certamente i soldi sono una realtà con la quale abbiamo a che fare da quando eravamo piccoli e ci davano la ‘paghetta’, fino a quando li accantoniamo per il nostro funerale.

Come dicevo, Vignolo ha diviso il testo su due fronti: fortune che sfumano (cioè i soldi che volano via) e fortune non godute (cioè i soldi che restano, ma non te li godi). La disgrazia più grande è quando ce li hai e non ti godi la vita.

In mezzo c’è ancora una sezione: “La quarta sanzione sulla gioia”, che dice che c’è un modo per godersi quella quota di ricchezza che non ti sei accumulato tu, ma che tu ricevi e vivi come un dono. Il problema allora non sono i soldi, ma la relazione del cuore con il denaro.

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Leggendo verrebbe da pensare che sia uno scenario che riguarda gli altri, ma forse, davanti ad uno specchio, si può anche cambiare idea. Ecco dunque il testo (Qo 5,9-11; 5,12-19) nella traduzione di Vignolo:

«9Chi adora il denaro mai sazio di denarochi troppo ama i soldi non ne avrà ritorno:anche questo è un soffio».

Erri De Luca traduce: «Chi ama argento non si sazierà di argento e chi ama in abbondanza niente raccolto. Anche questo è spreco».

Torno a Vignolo: «10Più soldi fai più hai chi te li mangiae il vantaggio di chi ha la fortunasarà soltanto di guardarla e basta.11 Chi sta sotto padrone dorme benepoco o tanto che mangi non importa;il troppo ricco e sazio è senza pacea dormire di notte non riesce».

Quale è il problema? I soldi! A volte c’è proprio la fame di denaro, e il risvolto è subito interiore. Davanti ai soldi scatta la molla interiore di un appetito sfrenato che riassume tutti gli appetiti, perché con i soldi li si sazia tutti. In realtà, poi, non funziona così, ma intanto la molla scatta, e quando tu hai più soldi, qualcun altro dice che con i tuoi soldi ci potrebbe fare qualcosa.

Quindi, paradossalmente, si scatena una rete di relazioni, per cui ruotano intorno a te i ‘parassiti’, cioè coloro che approfitteranno dei tuoi quattrini. Queste sono tutte relazioni malate, perché la gente si avvicina solo per i soldi, e prima o poi ti vuole spillare qualcosa.

Qohèlet quindi suggerisce di stare attenti, perché più denaro si ha, più gli altri sono tentati di prenderselo. Ma non solo. Viene registrato un risvolto terribile: chi ha una condizione sociale modesta e lavora alla dipendenze di un padrone, alla fine della giornata va a casa e dorme; invece chi vive rispondendo alla molla dei quattrini non ha mai pace. Anche di notte controlla come va la borsa di New York! Vive in un’ansia continua, ha paura di perdere tutto. Funziona così: se non accumuli i soldi, li perdi; poi ti accorgi che più ne accumuli, e più c’è gente che ti si affianca per prenderteli. Alla fine diventa una molla che non gestisci più: ti gestisce lei, decide lei per te!

Qohèlet sta già parlando di come funziona questo aspetto affettivo, sta dicendo che i soldi suscitano dentro di te un amore, quello per il denaro. E lui fotografa questa dinamica affettiva: tu ami questa dinamica irrefrenabile. Stai male, non dormi, eppure è un amore che cresce. Quale vantaggio? C’è quindi un amore per la ricchezza che ad un certo punto perdi, per quanto tu accumuli, per quanto tu metta da parte, per quanto ti dia da fare. Quando muori – mi spiace dirtelo – lasci qui tutto!

«12Un altro brutto guaio sotto il solericchezze sottochiave assicuratea danno del padrone».

C’è sempre qualcuno che può rubare le tue ricchezze, e allora ecco gli strumenti di allarme sempre più sofisticati. Eppure, anche se sei convinto che da lì non usciranno, se ne vanno. Oggi è quasi tutto computerizzato e collegato, e in un attimo si seguono i giochi delle varie borse. C’è una frenesia di pulsanti, ma basta un pulsantino sbagliato e tu perdi un sacco di quattrini:

«13Se un affare va male perde tutto,a suo figlio non resta in mano niente»

Sai, io non lo faccio per me, ma per mio figlio. Guarda, io non amo il denaro per il denaro, ma per la sicurezza di mio figlio… Infatti non gli lascia niente!

«14Uscito nudo dal ventre di sua madrecosì da dove viene se ne torna;in mano mentre va non ha più nientedi tutta la fatica che penato;

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15 anche questo un brutto guaiocome era venuto se ne va:tanta fatica al vento per guadagnar che cosa?16 Tutti i suoi giorni mangerà nel buiodisgustato consumato irritato».

Quale è il problema che qui viene segnalato? Vuoi accumulare denaro, non dormi la notte, stai male. Ma quando hai impostato la tua vita così, c’è un guaio ancora più grave: quando hai raccolto una fortuna, la perdi. Eri nudo, non avevi niente e torni a non avere niente. Di per sé questa è la condizione di tutti, e l’immagine della morte che comunque ti denuda potrebbe essere l’occasione per te di una grande solidarietà con gli altri. Ma la vita è governata da una spietata competizione, da quel sentimento ‘altissimo’ che si chiama invidia.

Tu muori, non hai più niente. Potrebbe essere il momento della tua verità, quello in cui scopri che tu non hai in mano la vita; così, oltre al dolore perché muori, hai anche la vergogna di aver perso tutto. Doppiamente nudo! E arrabbiato, perché alla fine, in questo ‘braccio di ferro’, ha vinto lui, il denaro! Così diventa doppiamente pesante anche la morte, anche questo momento in cui sei riconsegnato alla misura della tua vita di creatura, per cui i beni sono soltanto un mezzo. Continui a ripensare ai soldi che avevi e che non hai più: è un inferno. Non esiste inferno più grande dell’essere attaccato a delle cose che non hai. Potevi stare bene, ma adesso non puoi più stare con quei quattrini con i quali ti sei identificato!

Proseguiamo nella lettura (Qo 5,17-19). Qohèlet afferma di aver capito: i soldi non servono a niente (provate però a non averli…). Non è una questione di soldi! Il problema è come il cuore li gestisce. È il problema di un accumulo insaziabile che devasta la coscienza e occupa tutto lo schermo interiore. È chiaro che ci vogliono anche dei mezzi, ma restano mezzi, restano delle realtà donate per intrattenere la vita. Ma la vita non si riassume nei mezzi, non sono il fine

«17Allora ecco io vedo il vero bene per l’uomo:mangiare bere godere il benein tutta la sua pena sotto il sole,nei giorni contati di vita che Dio gli assegna in donoquesta la sua sorte».

Viene data ancora una volta la possibilità di vedere che la realtà non è possesso, ma dono. La sorte dell’uomo è quella di ricevere il dono della vita per gioire. Capita che l’invidia ci possa rovinare il cuore perché il confronto con chi ha di più ci fa sentire depauperati di tante possibilità. Gusta fino in fondo il tuo pezzo di pane! Tu ricevi in regalo la vita, e ne sei l’amministratore. Ogni amministratore possiede delle cose, ma le deve appunto da amministrare. Ripeto, il problema non sono le cifre, ma il cuore. Il problema non è il ‘quanto’, ma il ‘come’. Devi vivere il rapporto con il denaro godendo della vita, accolta come il dono più grande che Dio ti può fare:

«18Sì, a chiunque Dio dona ricchezzae concede di mangiarne di tenersi la sua partedi contentarsi della sua fatica:questo davvero è dono di Dio.19L’ uomo infatti dimenticache i giorni della vita non son moltifinché Dio lo impegna con la gioia del cuore».

Questa gratuità, questa percezione di un mondo che funziona bene, alla fine ti accompagnerà fino all’ultimo giorno senza farti pensare alla morte. Se vivrai la gioia saprai amministrare bene i giorni della tua vita anche rispetto alla ricchezza.

Quindi c’è la possibilità di un rapporto con i soldi che è ancora dono di Dio. Ma intanto riprende invece il meccanismo che ci seduce e ci costringe a scegliere: o Dio o

Mammona, o il Padre o l’accumulo, o la fiducia o l’ansia della vita. Siamo al cap. 6,1-12:«1C’è un altro male che vedo sotto il sole

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gravare sull’umanità.2A qualcuno Dio concede in donodenaro gloria in quantitànulla gli manca di tutto ciò che brama,ma di goderne Dio non gli concedeun estraneo se li godràma questo è proprio assurdo un brutto guaio».

Ecco dunque che puoi essere pieno di risorse, non ti manca niente, ma non te la godi. E ritorna il messaggio di quella parabola: “Dopo me la godrò!”. No, dopo se la godrà un altro, perché tu devi scendere dal treno della vita.

3 Poiché se uno anche fa cento figli vive lunghi annie infiniti sembrano i suoi giornise dei suoi beni non sazia il desiderioper lui come neanche esser sepolto.Meglio l’aborto di lui – vi dico io –4quando viene si sfalda va nel buionel buio avvolto il suo nome5senza vedere il sole senza sapere niente di nientedell’altro pieno di giorni riposa meglio lui.6E se anche uno campa duemila annima non gode dei suoi benianche lui poi va a finire nell’unico luogo per tutti».

Aggiungi, aggiungi, aggiungi, ma è come se non fossi mai nato, come se ancora non avessi visto la luce. Una noia asfissiante! Se hai dei beni, almeno goditeli! E invece rimandi all’infinito il godimento.

«7 Ogni fatica dell’uomo è per la boccamai piena abbastanza la sua gola».

Ritorna sempre sulle stesse cose cercando di chiarificare sempre più il risvolto interiore di questa dinamica che abbiamo cominciato a mettere a fuoco

«8Che ci guadagna il saggio sul cretinouno povero ma esperto della vita?».

Il discorso è questo: si è detto che è meglio essere sapiente che cretino, per cui se la ricchezza è quella grande noia dell’accumulo senza godimento che porta alla frustrazione, è meglio essere poveri. Ma un conto è guardare le cose dall’esterno, un conto è esserci dentro. E tu puoi anche essere esteriormente povero, ma inevitabilmente vivi questa dinamica. Puoi anche essere una persona che non ha un grande conto in banca, ma il tuo cuore funziona così.

«9Vedere con i tuoi stessi occhi meglio di vaghi desideriAnche questo un soffio e fame di vento10Ciò che è stato ha già un nomeE poi l’uomo si sa che cos’è l’uomonon può discutere con uno più forte di lui».

E più forte di lui è certamente Dio. È l’espressione che troviamo nel libro di Giobbe: chi può discutere con uno che è più forte di lui? La questione non è la scena esterna, ma il riscontro della coscienza, dove tu sei a contatto con il mistero della tua vita.

«11Parole in eccesso ecco il soffio dell’assurdoe che ci guadagna l’uomo?12Per l’uomo vivo chi conosce il megliodei suoi giorni contati fugaci – un’ombra per lui?chi sa dirgli che cosa ci sarà sotto il sole dopo di lui?».

Facciamo attenzione a quest’ultima battuta, che è un interrogativo. Allora, che cosa è meglio? Se neanche la gestione del cuore nei confronti dei quattrini è capace di essere vissuta in modo ordinato

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– perché c’è una ricchezza che vola via o una ricchezza che resta, ma non viene goduta –, cos’è che conta nella vita? L’abbiamo visto nel riquadro centrale: ricevere tutto come dono.

Nel prosieguo della lettura affronteremo la seconda parte del libro di Qohèlet, nella quale questa domanda sarà martellante: “Sì è così, ma chi lo sa?”.

Qohèlet riprende in mano tutti gli aspetti della vita domandandosi: “Va bene, abbiamo fatto una radiografia. Abbiamo impostato una nuova sapienza, vi ho raccontato come stanno veramente le cose. Adesso però, se riguardiamo i diversi settori, ci vengono i dubbi!”. Abbiamo visto l’esperienza religiosa, il lavoro, la gestione dei soldi, le relazioni con gli altri, le esperienze affettive. Abbiamo sentito, ascoltato tutti, ma sarà poi vero? Chissà…

Questo tarlo accompagnerà la raccolta di note che il redattore ha disposto in un certo ordine, e provocherà domande anche su di noi. Chi lo sa quale è la strada giusta per gestire la propria vita?

Nona riflessioneVorrei citarvi il pensiero di Vittoria D’Alario, che insegna a Napoli (Posillipo) nella nostra

Facoltà e ha scritto la tesi di dottorato su Qohèlet che è stata pubblicata dalle Dehoniane ( Il libro di Qohelet. Struttura letteraria e retorica, Ed. Dehoniane, Bologna 1988). Anche lei si è dedicata a cercare un disegno sull’organizzazione del libro, facendo indagini su tutti quelli che l’hanno organizzato, ciascuno secondo la propria idea.

Puntando poi l’attenzione anche sulle dinamiche della retorica per approfondire il movimento del libro, lei pensa che il punto in cui siamo arrivati coincida con la fine della prima parte e che con il cap. 7 incominci la seconda parte. È più o meno l’impostazione di Vignolo che stiamo seguendo.

In verità lei dice che questa sezione finisce al cap. 6,9, dove si dice: «Anche questo un soffio e fame di vento». Fa da inclusione con la prima battuta del nostro libro. Poi ci sono i vv. 10-12 che starebbero al centro del libro, e sarebbero cioè al perno a cui ci si appoggia per guardare indietro e avanti. Sono esattamente gli ultimi versetti che abbiamo letto nell’incontro precedente:

«10Ciò che è stato ha già un nome…». È il ruolo della sapienza, che dà un nome alle cose. Era stato anche il compito di Adamo… Ma il dare il nome non significa semplicemente apporre delle etichette – questo è un tavolo, questo è un libro, questa è una sedia… –, ma interpretare la realtà. Che cos’è un tavolo? Che cosa c’è dentro un libro? Non si tratta di mettere un termine sopra un oggetto, ma di rendersi conto di che cosa si tratta. E per questo non basta certo consultare un dizionario al vocabolo ‘libro’, perché un libro non è soltanto un insieme di pagine. Nell’atto di lettura si instaura una relazione…

Il cercare dell’uomo è indagare la realtà. Fin dall’inizio Adamo cercava un aiuto che gli fosse corrispondente, ma non lo trovava (Gen 2,20). «Ciò che è stato ha già un nome». Noi veniamo al mondo inseriti in una cultura, e già questa interpretazione del reale ci permette di orientarci: è una sapienza già confezionata. Coloro che ci hanno preceduto hanno cercato di tramandarci il bagaglio di conoscenze che loro sono riusciti a guadagnare. Non è che si debba sempre partire da zero! Posso anche fare tesoro del consiglio che mi viene trasmesso da un mondo che stava prima di me.

«E poi l’uomo si sa che cos’è l’uomonon può discutere con uno più forte di lui».

Resta dunque una domanda: chi ha in mano il senso profondo? Si ha sempre a che fare con un ‘Tu’ misterioso, che ha in mano tutto, regola tutto e da cui viene tutto. E poi, chi sa veramente cos’è l’uomo? È inutile che pensi di discutere con questa Presenza!

«11Parole in eccesso ecco il soffio dell’assurdo». Entriamo nella Biblioteca Nazionale: montagne di libri. Entriamo in Internet: parole infinite. Le nostre parole ormai sono immagini in movimento, viaggiano sul video. Una volta c’era solo la parola scritta, poi quella registrata, poi la fotografia, poi il video… E noi navighiamo.

C’è la percezione di essere avvolti da parole, prospettive, immagini, film: appunto il soffio dell’assurdo.

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«E che ci guadagna l’uomo?».Ricompare ancora la domanda. Ritorna ancora l’interrogativo per cui noi siamo qui a leggerci il Qohèlet e lui ci provoca dentro: “Sì, tutto bene, ma che cosa ci guadagna, ciascuno di noi, in quello che fa? Quale è il valore di quello che fa? Perché io faccio quello che faccio?”.

«12Per l’uomo vivo chi conosce il megliodei suoi giorni contati fugaci – un’ombra per lui?chi sa dirgli che cosa ci sarà sotto il sole dopo di lui?».

Questo versetto rilancia la nostra avventura e noi cercheremo di arrivare alla fine di questo libro con una grande galoppata.

Erri De Luca traduce: «Chi conosce cosa è buono per l’Adàm nella vita?». Che cosa è veramente buono per me? Che cosa è meglio per l’uomo? È la domanda che ci accompagnerà di giorno in giorno finché avremo un po’ di respiro.

Che cosa è meglio per me? Gli altri faranno le loro raccomandazioni, daranno i loro consigli per l’acquisto di libri e la visione di film, indirizzeranno verso un padre spirituale o suggeriranno l’ultima lettera del Papa. Cerchiamo comunque un punto di riferimento per scoprire che cosa sia meglio per noi.

«Per l’uomo vivo chi conosce il megliodei suoi giorni contati fugaci – un’ombra per lui?»

Mentre l’uomo si pone le domande, la vita scorre e le occasioni passano. È meglio questo o quello? Alla fine, le tue possibilità non sono infinite, ma limitate, come quando metti il PIN per il bancomat: ne hai a disposizione tre, e se le sbagli, tutto viene bloccato. Se tu non azzecchi la password giusta, sei fermo.

«Chi sa dirgli che cosa ci sarà sotto il sole dopo di lui?».È sempre la domanda sul nostro futuro, perché intuiamo che la scelta fatta oggi ha a che fare con il presente, ma noi la proiettiamo sui giorni che verranno. La nostra vita è un’ombra, che cosa ci sarà sotto il sole dopo di noi?

Ci eravamo posti due domande: “Che cosa è meglio?”. “Che cosa è buono per me?” Adesso ci chiediamo: “E che cosa capita dopo di me?” C’è la domanda sul ‘dopo’.

Come già vi segnalavo, sullo schema che avete in mano trovate che Vignolo scrive : «Seconda parte (7,1 – 12,8): problema dominante: “chi lo sa?”».

La domanda è comparsa anche nella prima parte del libro e io stesso mi domando se quello che vi sto trasmettendo è proprio il contenuto del testo. La mia è infatti una delle tante interpretazioni possibili, che raccolgo qua e là. Io stesso infatti sono debitore di tanti amici, di tanti compagni di strada, di tanti interpreti che hanno cercato un bandolo e l’hanno proposto, sapendo quanta ipoteticità ci sia sotto uno schema troppo stretto.

Qohèlet si muove nella tradizione sapienziale e pensa che se un proverbio fa un’affermazione – poniamo ancora: l’unione fa la forza –, significa che c’è stata un’esperienza che ha dimostrato che è così. Quindi non è tutto da buttare, ma quale è il problema? È che pian piano quel proverbio ha avuto la presunzione di occupare tutto il reale, invece nel reale ci sono altre cose per cui, ad un certo punto, nasce l’altro proverbio: chi fa da sé fa per tre. Il fatto è che ci sono situazioni in cui non vale il primo, ma il secondo.

La realtà è ambivalente, complessa, articolata e non la si stringe con una sentenza. “Se fai il bravo ti andrà bene”. Sì, qualche volta funziona ma, purtroppo, molte volte non funziona affatto. E se per caso non funziona a me, prendo la sentenza e la butto nel cestino perché non la ritengo vera. Di per sé quando è nata poteva essere vera, ma pian piano questo modo di guardare il mondo è stato inquinato e spesso non funziona affatto.

In molti detti intravedi perfino un imbroglio perché vengono posti come un’etichetta su una realtà che contiene tutt’altra cosa. Così la sapienza va in crisi, la cultura va in crisi, perché quella che sembrava la lettura e la soluzione che andava bene nel passato o in certe circostanze, non va bene più nel mio tempo, nel mio spazio e nella mia esperienza. Non mi ci trovo!

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Ecco il perché della domanda: Ma chi lo sa? È vero o no? Funziona o non funziona? È giusto o non è giusto? Ci sono poi diversi livelli, perché il fatto del funzionamento è a livello esperienziale, mentre la giustizia è ad un livello etico. Una certa cosa è virtù o è peccato?

È indispensabile il discernimento e vedete come Qohèlet ci aiuti ad entrarci con quelle domande che ci mettono in viaggio nel cuore. Ecco perché preghiamo: “Signore, manda a noi dal cielo un raggio della tua luce!”, perché senza quel raggio di luce nel cuore non sappiamo come comporre ciò che ci troviamo davanti.

Quando acquisti dei mobili da montare, se sei capace lo fai in pochi minuti, ma se non sei capace lo fai e lo rifai trovandoti sempre dei pezzi che non hai inserito al loro posto (e magari li butti); così finché non ti decidi a seguire lo schemino. Ebbene, il Creatore del mondo ha fatto la vita, ma non ha fornito l’istruzione del montaggio, per cui ciascuno cerca di trovare tale istruzione. E quello che c’era prima di te e ti ha fornito l’istruzione del montaggio, non si è accorto che nel suo operare aveva buttato via qualcosa di indispensabile, che tu devi recuperare per rimontare in altro modo.

I capitoli che leggeremo adesso creano qualche disagio negli interpreti. Funzionano così: Qohèlet è in dialogo con la sapienza tradizionale; sente quello che si dice nelle accademie, nei luoghi di culto, nelle case. La sapienza si trasmette dall’università ai campi coltivati, agli ambiti domestici. “Figlio mio…”, indica che si parla della casa, dove un padre, che ha più esperienza, trasmette al figlio come si sta al mondo; oppure è il termine con cui il maestro si rivolge al discepolo, in un modo un po’ più elaborato di trasmettere il patrimonio precedente.

Qohèlet raccoglie dunque tutto quanto si dice o si trasmette per scritto, però lo questiona. E non sappiamo mai bene se quella che dice è una battuta che lui raccoglie da altri e contesta. Non conosciamo la dinamica con cui la contesta perché a volte c’è ironia, a volte sembra che la condivida. A noi manca il tono della voce con cui la pronuncerebbe dal vivo… Quindi potrebbe esserci la citazione di un proverbio e la sua contestazione.

Vignolo suddivide in quadri la parte che ci accingiamo ad affrontare: - IX QUADRO (7,1-14):Il meglio possibile per un futuro introvabile- X QUADRO (7,15-24):Sapienza introvabile – bando agli eccessi- XI QUADRO (8,1-14):L’introvabile donna- XII QUADRO (8,1-14):L’introvabile opera di DioIn questa sezione, dunque, ci sono quattro quadri. Vignolo dà un titolo in modo che, man mano

che scorriamo i versetti, quel titolo ci serva da chiaveNel grande Commentario Biblico della Queriniana ci sono delle presentazioni dei libri biblici

fatte in modo molto stringato. Il commento a Qohèlet è di Addison Wright. Quando parla dei Qo 7,1-8,17 – cioè la parte che leggiamo adesso – la suddivide lui stesso in quadri e dice: «In questa sezione nessuno può scoprire quello che deve fare».

La domanda era: “Che cosa è meglio per l’uomo? Che cosa è buono per l’uomo?”. Non è immediatamente chiaro quello che è bene fare. Perciò se c’è una cosa che lì per lì ti sembra evidente, sta’ attento perché non è affatto così evidente. Non bere tutto…

Addison Wright sostiene che queste quattro parti riportano una tesi; ad esempio: la mestizia e l’avversità sono meglio del riso e del successo. È quello che sembra dire una certa tesi tradizionale, la quale ha le sue ragioni, ma lui intitola il primo quadro: “Critiche del consiglio di preferire la mestizia e l’avversità”.

È interessante, perché il meccanismo è quello che segue. Si dice: “Meglio andare in una casa dove c’è un funerale che ad un banchetto di nozze”. Verrebbe

spontaneo di dire che è vero il contrario, ma il sapiente ammonisce: “Se vai al banchetto di nozze e pensi che l’esistenza possa essere tutta così, ti sbagli; se vai ad un funerale e vedi la sorte umana, ci

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pensi”. Quella della sapienza sembra un’indicazione importante per la vita; essa codifica dei comportamenti che sembrano contrari all’istinto umano per educare il cuore a vedere anche l’aspetto più vero della vita.

Qohèlet tiene conto di tutte queste cose, però… La sapienza raddrizza il modo sbagliato di vedere il mondo, ma Qoèlet raddrizza, a sua volta, il modo apodittico di dire le cose. Quello che la sapienza ha detto è vero, ma non è che posso andare a lutto per cinquant’anni! Bisogna anche saper relativizzare, perché niente è assoluto. Il gioco di Qohèlet funziona così: tu apprezza quella sentenza, ma sappi che non è l’unica che abita il reale. Oppure: quella cosa è vera, ma è vero anche il suo contrario! Egli Invita così a scavare ancora, facendosi sempre la domanda: “Ma che cosa è meglio?”. Non è che se lì sta scritto che è meglio andare ai funerali, tu devi cercare un funerale al giorno. No, devi cercare quello che è meglio. Se sei convinto che sia meglio fare una vita spensierata, forse va bene anche quella penitenza e puoi raccogliere l’invito di vivere anche giornate tristi… Se uno muore, osserva! Se uno è allegro, condividi l’allegria!

Il secondo quadro (vv. 15-24), che Vignolo intitola: “Sapienza introvabile – bando agli eccessi”, è per Wright: “Critiche del consiglio di evitare gli estremi in campo etico”.

Sembrerebbe giusto non fare troppo o troppo poco, ma poi sembra che Qoèlet critichi il criterio delle giuste misure. Quale è la giusta misura? È quella che si trova in un giusto riferimento, che non è a metà strada tra due opposti e non è neppure – come ci ha insegnato l’etica greca – il punto più alto tra due estremi. Il problema è stare davanti a quel mistero della vita e a quell’affacciarsi del dono di Dio per cui tu avverti la luce buona che ti chiama. Non si può decidere a tavolino di fare una cosa a metà tra l’essere avaro e l’essere prodigo. Deve essere una cosa buona per te! Ignazio di Loyola raccomanda il discernimento, perché non c’è solo il bianco o il nero, ma devi capire quale tonalità di colore è per te.

Il terzo quadro (vv. 25-29), che Vignolo titola: “L’introvabile donna”, per Wright è: “Critica dei consigli sulle donne”.

Qohèlet raccoglie tutto ciò che si dice sulle donne, ma per criticarlo, per affermare che non è così. Ho sotto gli occhi la strada che prende Pino Stancari applicando però a questa figura della donna

l’immagine tipicamente tradizionale di “Donna Sapienza”. Il fatto è che “Donna Sapienza” – cioè tutto quello che è meglio per te – non la trovi

immediatamente e forse non la troverai mai, nonostante le ricerche.Non ci sarebbe quindi la condivisione di un giudizio misogino antifemminista, ma piuttosto la

critica di questo mondo, di queste categorie. E se la donna è l’immagine della sapienza, non è così semplice trovarla. Bando alle presunzioni!

Il quarto quadro, chiamato da Vignolo: “L’introvabile opera di Dio”, è intitolato da Wright: “Critica del consiglio di fare molto conto dell’autorità”.

Ci sono tantissime sentenze sapienziali di come si sta davanti ai capi, alle autorità: “Ti raccomando: rispetto, non parlar male e non avrai guai”. Sì, ma ad un certo punto Qohèlet si domanda a che cosa si sia ridotta la sapienza: solo ad una cortigianeria. Tutte frasi di circostanza per non avere guai, tutto un imbroglio di doppiezze, di ipocrisie, per cui tante belle sentenze, alla fine, sono soltanto il paravento di giochi di potere.

Vedete quindi che c’è un certo modo di vedere le cose, e c’è Qohèlet che frena: “Aspetta! Non è così!” o che punta il dito: “Guarda come si è ridotta la sapienza!”.

Dopo questa galoppata leggiamo il testo, almeno in parte. Cerchiamo di individuare quali sono le sentenze tradizionali e quali sono le questioni che Qohèlet presenta contro di loro. Non sempre è facile il compito di mettere a fuoco con precisione, perché ci sfugge quali siano le sentenze che lui raccoglie e quelle che lui propone, e non si riesce a delimitare i vari blocchi. Io vi faccio questa proposta, ma voi potete trovare altre piste di ricerca.

Vignolo dà alla seconda parte questo titolo: “Il meglio nel poco”, sempre tenendo presenti le due domande: “Che cosa è buono per me? Che cosa viene dopo di me?”.

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Nel primo blocco del cap. 7 («Il meglio possibile per un futuro introvabile»), dovrei trovare nel presente quello che è possibile lì per me. Il meglio del poco, appunto.

E la terza sezione (7,1-8,17) è: “Tra possibile e introvabile”.Intanto, che cosa è meglio?«1Buona fama val più del buon profumopiù del giorno in cui nasci quello della morte»

In ebraico c’è un bellissimo gioco di parole: *ebraico. Sta dicendo che è meglio avere un buon nome che un patrimonio, perché una buona reputazione è la cosa più importante della vita. E perché è più importante il giorno della morte che quello della nascita? Perché alla nascita sono tutte bravissime persone (e alla morte anche…), ma alla morte si sa se una persona è stata veramente retta. La morte è un sigillo dietro il quale puoi leggere la vita di una persona e verificare la sua reputazione. Quindi è meglio un buon nome che tante cose apparentemente attraenti. Era davvero un buon uomo!

«2 Meglio frequentare la casa in luttoche la casa in baldorialì si vede la fine che fan tuttichi sopravvive ci dovrà pensare».

Abbiamo già commentato questo secondo proverbio; proseguiamo.«3Meglio il dolore del risoun volto sofferto riscuote il cuore».

Certo, il dolore affina. Molte volte le esperienze di dolore ci rendono più consapevoli delle vicende della vita e anche del dolore degli altri. Se tu non hai provato alcune cose, rischi di parlare a vanvera, ma se le hai vissute, hai maturato dentro di te una capacità di resistenza e di elaborazione del dolore che attrae. Ma quante volte, invece, il dolore abbruttisce, rende cupo il volto, scava!

«4Cuore saggio alla casa in luttocuore vuoto a quella in baldoria».

Quarto proverbio. Fa un po’ il verso a quello che aveva detto prima. Come si diventa sapienti? Non andando di bar in bar, ma cercando di attraversare tutte le situazioni della vita ragionandoci su.

«5Meglio ascoltare la critica del saggiodi tante canzonette assordanti6gli sterpi sotto la pentola crèpitanocosì risuona il riso degli sciocchi».

C’è chi ti applaude, parla sempre bene di te e ti vede in modo positivo, e chi invece ti critica. Qohèlet ammonisce: non è così la situazione! Tu ci sceglierai? Chi diventerà tuo amico? Il primo, non certo uno di quelli che ti criticano, continuano a farti questioni. (Non parliamo di ‘correzione fraterna’, perché spesso c’è la correzione, ma manca la fraternità). Ebbene, la sapienza dice: non prendertela, ma accetta che ci sia qualcuno che metta in evidenza i tuoi limiti, quei punti che puoi correggere e migliorare. Di per sé il proverbio è comprensibile e accettabile.

Bene, abbiamo visto alcuni proverbi utili alla vita, ma Qohèlet ci avverte:«Anche questo un soffio».

Perché? Perché anche l’uomo più saggio, anche chi ha tutti i proverbi in bocca, anche chi si sa muovere nella realtà, anche chi è sapiente e snocciola le sentenze una dopo l’altra, può essere corrotto da una ‘bustarella’ e cambiare opinione:

«7Anche il saggio alle strette si perdebasta un regalo per sedurre il cuore».

Fategli provare come è difficile vivere, e vedrete come fa fatica a tirar fuori le sentenze. Lui i consigli li dà volentieri quando riguardano gli altri. Ma quando tocca a te, quando c’è un oppressore che ti schiaccia, non ti va di sentirti dire che è meglio la tristezza che la gioia! Meglio sarebbe se ci fosse un po’ di respiro. Allora, quando sei alle strette, dici le stesse cose, oppure cambi idea?

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E c’è la tangente che seduce il cuore! Abbiamo assistito al caso di persone integerrime che quando diventano responsabili di una cosa, dopo un po’ non sono più così integerrime. C’è una sapienza già confezionata, ma basta anche poco per farla virare su altri fronti.

«8La fine è sempre meglio dell’inizio,il longanime migliore dell’irascibile».

Nella seconda espressione l’ebraico dice: meglio un respiro lungo [paziente] di un respiro che va in alto [superbo, iracondo].

Sono due affermazioni di per sé vere. Perché è meglio la fine che l’inizio? Perché all’inizio non si sa come andranno le cose, mentre alla fine puoi anche rileggere il corso degli eventi. All’inizio tutti i governi sono perfetti; dopo qualche mese ti accorgi che davanti a quel ‘perfetti’ bisogna mettere una particella che li rende ‘im-perfetti’,

«9Piano eh con l’iradi casa in cuore agli sciocchi».

Certamente è meglio non arrabbiarsi, ma bisogna anche vedere le circostanze…«10Non chiedere:“perché i tempi antichi erano più belli dei nostri?”;questa non è una domanda intelligente».

Quelli che fanno questa domanda sono coloro che hanno la memoria labile. Non è che una volta andasse meglio, è che non ti ricordi come andava. Hai elaborato le cose in un certo modo, per cui affermi che una volta era meglio. Con qualche video, ad esempio, ti mostro che una volta c’era la seconda guerra mondiale; una volta c’era il 90% di analfabetismo; una volta comandava solo uno e gli altri obbedivano; una volta tuo marito (o tua moglie) te lo sceglieva la tua famiglia; una volta non c’era la libertà di coscienza e per la tua coscienza – quello che è bene e quello che è male – decideva un altro. Sicuramente una volta c’erano tante cose belle, ma c’erano anche tante altre cose che belle non erano!

“Perché i tempi antichi erano più belli dei nostri?”. Andiamo piano a fare queste domande, perché non sono domande intelligenti. Forse la domanda è un’altra.

Ci sono quindi delle sentenze valide, sensate, intelligenti, ma bisogna vedere se valgono qui, se valgono per me, in questa situazione. Talvolta si occupano di un aspetto e non tengono conto di un altro. La sapienza vuole essere precisa, onnicomprensiva, una philosophia perennis che vale per sempre, per cui è inutile cercare ancora cose da aggiungere: c’è già tutto.

Invece è importante suscitare le domande, svegliare un fuoco dentro, suscitare la curiosità (cur = perché?). Se tu non chiedi perché, è inutile dare risposta ad una domanda non fatta.

«11Un patrimonio esige iniziativacosì chi vede il sole ne ha vantaggio…».

Giusto: se non ti dai da fare, non metti da parte niente. Pensiamo alle nostre terre del nord: “Io mi sono fatto da me! Nella vita mi sono dato da fare e ho messo da parte qualcosa”

«12… vivrà due volte al riparo,all’ombra della sapienza e all’ombra del denaro».È interessante, perché tutta la scuola tradizionale raccomandava: “Ragazzo, ti raccomando: va’

all’ombra della sapienza, mettiti al riparo sotto le ali della sapienza!”. Va bene, ma c’è una sapienza che ti porta a confidare in Mammona: è una sapienza disorientata, che mette insieme tutto: se hai i soldi otterrai quello che vuoi. Esattamente il contrario di quello che dice la tradizione d’Israele. È una sapienza che si è corrotta ed è diventata incapace di discernimento. Abbiamo già parlato del denaro e ribadiamo: non è una parola contro il denaro, ma invita a non identificare troppo sapienza e denaro. Se l’amore per il denaro porta ai vissuti che abbiamo considerato, è meglio non mettersi alla sua ombra, ma all’ombra del Signore usando anche il denaro.

Vedete quindi che un’indicazione può essere valida – come quella di darsi da fare per mettere da parte qualcosa –, ma se diventa assoluta, ricambia la sentenza: il principio della sapienza è il timor di Dio, il principio della sapienza è il timore di perdere il denaro. Non è esattamente la stessa cosa!

E infatti Qohèlet contesta:

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«Ma sul denaro la sapienza ha il vantaggiodi dar vita a chi ce l’ha».Il buon senso raccomanda di mettere da parte qualcosa, ma la vera sapienza avverte che non sarà

quell’accantonare che darà la vita, ma la sapiente gestione delle cose che la vita offrirà.Si vede la razionalità di quella indicazione, ma anche la sua unilateralità, l’imbroglio e il

fraintendimento. Ma come faccio a sapere se capisco o fraintendo? Ecco appunto il cuore, il discernimento. Il problema non sono le cose, non è la casa in lutto, l’inizio o la fine, il passato e il presente. Il problema è ‘pensarci su’ e soppesare. Non hai la risposta pronta, non hai la ricetta fatta!

Certo, ti arrivano le sentenze, ti arrivano i consigli, ma adesso pensaci su, e pensa alla differenza tra una cosa e l’altra rispetto a quello che ti presenta la tradizione. La tradizione ti dice una cosa, ma è vera? Funziona? È autentica?

«13Osserva pure l’opera di Diovuoi drizzare ciò che Lui fatto storto?».

Ricordate quel proverbio che abbiamo già incontrato? «Quel che è storto drizzare non si può» (Qo 1,15). Il Signore ha fatto delle cose che a te sembrano storte e le vuoi raddrizzare. Non ce la puoi fare. La cosa più storta è che ci sono delle alternanze: c’è la baldoria e il lutto, c’è il giorno della vita e quello della morte. Tu vuoi raddrizzare questi tempi, queste avventure della vita? Non ce la farai. E allora? Allora fa’ così:

«14Nel giorno di fortuna allegro…».Non andare in una casa di lutto quando vivi un giorno di fortuna. Non ha senso cadere in depressione! In un giorno fortunato sta’ allegro.

«… nel giorno di sventura attento».In questo momento guarda, osserva, renditi conto che la vita non è tutta una passeggiata di danza, non è un valzer continuo. No, la vita ha questa alternanza, ma quando ti si presenta un giorno favorevole accoglilo, apprezzalo, godilo. C’è dentro un dono. Questo non vuol dire che quanto poi capita una malattia, un insuccesso, subito sia tragedia.

«Apposta l’uno e l’altro ha fatto Diol’uomo così del suo futuronulla mai potrà scoprire».

Tu non sai come funzionano i giorni della tua vita, e in questa alternanza di giorni devi imparare a decodificare l’uno e a dare il nome all’altro. Il problema non sono le parole, le frasi fatte, per quanto siano opportune per orientarci. Un proverbio ci può istruire, ma il problema è il cuore, lo spazio interiore.

«15Tutto questo vedo nei miei giorni fugaci:l’onesto rovinarsi con la sua onestàil colpevole ingrassarsi dei propri delitti».

Così va il mondo. Ci hanno sempre insegnato che davanti a noi ci sono due vie: quella stretta e quella larga, quella della via e quella della morte. Giustissimo, però non funziona sempre. Voi raccomandate ai vostri figli di andare a scuola volentieri e di comportarsi bene, perché in questo modo otterranno dei bei voti, gli insegnanti saranno contenti e avranno tanti amici. E anche voi sarete contenti. Ma nella vita non sempre funziona, cioè non c’è sempre corrispondenza tra quelle che sono state le indicazioni date e i risultati. Fa’ il bravo e andrà tutto bene… e invece lui fa il bravo e qualcuno se ne approfitta. E per di più vede che qualcuno non si impegna affatto, ma se la gode. E allora Qohèlet consiglia:

«16Tu non volerti troppo onesto e neanche troppo saggioperché vuoi rovinarti?17Di male non farne troppo non essere incosciente troppoperché prima dell’ora vuoi crepare?».

Davanti ad una situazione dissestata che non funziona, cerchiamo le soluzioni. Le proposte sono quelle di una famiglia scaltra che suggerisce: “Tu va’ a scuola e fa’ il bravo. Però se il tuo compagno ti dà un ceffone, non sottometterti, reagisci, difenditi”. Insomma si cerca una misura

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proporzionale in una situazione che non funziona. Anche questo potrebbe essere un consiglio da dare in un mondo che non corrisponde al mondo ideale che abbiamo in testa. Certo, bisognerebbe seguire il Vangelo, ma umanamente parlando… E per fare un altro esempio che ci tocca, bisogna pagare le tasse. Beh, fino a un certo punto! È giusto essere onesti, però a furia di essere onesti ci si trova senza più niente in tasca.

Bisognerebbe trovare una via mediana, senza eccessi.«18Piuttosto attaccati qua e anche làchi teme Dio riesce in questo e in quello».

Il testo ebraico dice * ebraico, cioè: il timore di Dio uscirà a tutto. Allora, quale è la vera soluzione? Come trovare l’ultima indicazione pragmatica in questo contesto tanto problematico? Qohèlet afferma: “Alla fine non ci riuscirai, perché questa è una situazione in cui ci troviamo tutti”. E allora ritorna la domanda: “Quale è il bene per me?”. Siamo sempre alla ricerca di qualcuno che ce lo dica, che non ci inviti ad andare un po’ di qua e un po’ di là, ma ci indichi che cosa fare. Non lo so…

E allora mettiti davanti a Dio, davanti al mistero della realtà, alla complessità delle situazioni. Certamente i conti non tornano, e vedi come ti fa uscire Dio, orientando il mistero che è dentro di te. Non è quindi un mezzo filosofico, ma il tener conto di Dio.

Ma se lo faccio, mi trovo davanti alla sua parola che mi ricorda le due strade davanti a me. Questa parola è sempre valida e non deve essere cancellata, però tu devi vedere quale è il tuo gioco in questo momento. Ognuno troverà la propria soluzione ‘possibile’.

Qohèlet stringe di nuovo il nodo: bisogna fare discernimento. Non hai la pappa pronta, il vivere te lo devi cucinare!

«19La sapienza dà più forza a chi ce l’hadi quei dieci che hanno in pugno la città».

Certo, ci vuole un buon governante, perché è meglio un uomo capace che un imbecille; è meglio una persona che sa destreggiarsi, piuttosto di uno che non sa come muoversi.

«20Ma non esiste nessuno così bravoda agire sempre bene e mai sbagliare».

Qohèlet non è dissacrante, ma è un uomo realista, consapevole che anche la persona più brava farà vedere a breve i propri limiti. Nessuno è infallibile, neppure tu. Anche se pensi di essere il migliore della comunità e del quartiere, sei un pover’uomo.

«21Non correre dietro alle chiacchierese senti il tuo servo sparlare di te22sai quante volte l’hai fatto tu con altri?».

Già. Non ti saresti mai aspettato che di te si dicesse una certa cosa, ma anche tu hai sparlato di tutti e di tutto... Qohèlet prende contatto con la misura precaria della vita. Pensa a come parli tu, intanto, e non stare a guardare come chiacchierano gli altri. Cerca di non parlar male degli altri e invece di sorprenderti per come va il mondo, pensa che va come va il tuo cuore. Deve sei tu? Dov’è il tuo cuore?

Risultato:«23Questa la mia esperienza sapientemente accumulataimponendomi: “Voglio essere sapiente”».

Ecco la sapienza umana che si mette in cattedra e vuole spiegare come va il mondo.«Ma la sapienza è lontana da me24ciò che è stato è lontanoinaccessibile, irraggiungibile, chi lo troverà?».

L’ebraico dice: “è profondo, profondo…”. Chi troverà il saggio, il sapiente?È una percezione umile della nostra ricerca. Ci troviamo in un mondo che non funziona e in cui

cerchiamo di barcamenarci mettendoci davanti a Dio e ricordando di essere fallibili. Quello che c’è negli altri c’è anche in te, e i loro limiti sono anche i tuoi. La sapienza è una faccenda un po’ più profonda, ampia e alta di quello che pensi; non è a portata di mano!

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È un ridimensionamento, un onesto riconoscimento di quanta crisi ci sia dentro la nostra ricerca.

Ci troviamo ora davanti al quadro che Vignolo ha intitolato: “L’introvabile donna”. Ricordiamo che Wright l’aveva intitolato: “Critica dei consigli sulle donne”.

Non sarebbe quindi un modo di presentare la propria opinione, ma di riportare l’opinione diffusa a quel tempo. Non succedono più queste cose ai nostri giorni… Il ‘femminicidio’ era una cosa che succedeva a quel tempo barbaro… Adesso c’è la parità di genere e di diritti…

Qui mi interessa di ripetere che Qohèlet porta questa testimonianza per contestarla. La testimonianza dice che c’è un costume di vita che pensa che la donna sia così.

Nelle sue Regole di discernimento, Ignazio di Loyola ne mette una che parla della donna, paragonandola al demonio. La cosa funziona così: se tu sei debole, lei si scatena e ti fa il lavaggio del cervello; se invece tu sei fermo e mostri un muso duro, lei si spaventa e scappa. Fugge e non può fare niente contro di te.

Siccome Ignazio era un donnaiolo, è chiaro che sta usando questa immagine in base alla sua esperienza. Non è vero che l’uomo è forte e la donna è debole e, al di là dell’immagine, egli dice che funziona così anche nel rapporto con il male, quando ti sembra di esserne preda. Tu saresti solo vittima di un’iniziativa che ti coinvolge e contro la quale non puoi far nulla, perché il male è più forte. Non è vero, perché il male ha solo la forza che tu gli dai. Il male avrà presa su di te solo se gli dai il semaforo verde; se gli dai il semaforo rosso ti accorgi che quella suggestione non va avanti. Il problema è quello di non dargli in mano il volante, altrimenti deciderà come fa ogni guidatore. Bisogna che prima vada alla scuola-guida.

Ignazio usa quindi un’immagine – criticabile, se volete (ma poi ne mette anche per l’uomo…) – per dire un’altra cosa.

Probabilmente anche in Qohèlet, al di là di questa descrizione della donna, dobbiamo scoprire che sta parlando della sapienza. Noi stiamo sempre seguendo l’itinerario tracciato da una domanda: “Che cosa è bene per me?”. Cioè, quale è quella prospettiva, quell’orizzonte di vita nel quale mi posso muovere positivamente, apprezzando le cose, confrontandomi con i miei limiti, con il dolore, con il male, con l’ingiustizia, con la morte?

Dove è questa “Donna Sapienza”? Qohèlet si rende conto che tutte le prospettive che si presentano non sono quelle che lui sente adeguate a “Donna Sapienza”. La figura della sapienza è simboleggiata da Eva, da una donna. Donna Sapienza però – secondo i testi di Proverbi, dove la Sapienza è personificata (Pr 9) – può trasformarsi. Essa invita ad ascoltarla e ad entrare in contatto con lei; poi, ad un certo punto viene messa in contrasto con “Donna Follia”. Entrambe preparano un banchetto, una di un tipo e l’altra di tipo diverso. Le tavole sembrano di per sé la stessa cosa, ma poi si scopre che su una c’è del vino e del cibo abbondante, sull’altra acqua e pane presi di nascosto. Sono due modi diversi di mangiare la vita, anche se apparentemente sembrano uguali. Uno mi dà pienezza, l’altro mi imbroglia, mi fa star male.

Ecco, l’immagine è questa. Siamo alla ricerca della gioia autentica, della donna che mi presenta una strada che riconosco come proporzionata a me per darmi la vita. È ancora una volta un fatto esperienziale. Devi provare finché trovi, se trovi.

«25Da capo dedicato a scoprire scrutare cercarela sapienza il valore delle cose.26Incontro più forte della morte la donnauna trappola una rete il suo cuore,catene le sue braccia;chi è caro a Dio la scampachi vuole sbagliare ci casca.27Ecco quel che ho trovato – dice Qohelet –vagliando le cose una per una per trovarne il senso28quello che ancora cerco e non trovouna persona su mille l’ho trovata

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ma una donna tra queste mille no».Non è difficile trovare un uomo o una donna. Ma una sapienza che aiuta un povero uomo o una povera donna a muoversi nel mondo, non la si trova ancora. Ci sono libri e tradizioni, ma restiamo ancora alle prese con il senso profondo della ricerca.

«29Questo solo vedi ho trovatol’uomo e la donna fece buoni Dioma sono loro a complicare tutto».

Vediamo di nuovo la sapienza preconfezionata, che metto come un dischetto nel mio computer. È un programma bellissimo, ma nel mio computer non gira. Non è un problema del dischetto o del programma, ma del computer. Il problema sei tu.

Decima riflessioneSiamo al cap. 8 del libro di Qohèlet. Sappiamo già dove si trova la nuova sapienza in un mondo

così complicato, in un cuore così complicato.Adesso la domanda è: *ebraico. Chi è come il saggio? Allora significa che i saggi ci sono! Ogni

tanto si incontrano delle persone speciali: si chiamano ‘sapienti’. Se ne incontri uno rimani incantato e ti dici: “Lui sì, che sa come si manovra il marchingegno. Lui sì, che è un uomo abile! Aiuterà di certo anche me a cavarmela nella vita…”.

«1Chi è pari all’uomo di sapienza?chi interpreta le cose e le parole?».

L’ebraico dice: Chi conosce il senso delle cose, delle parole?«La saggezza dell’uomo rischiara il voltone scioglie la durezza».

Tu vedi il sapiente tranquillo, imperturbabile Buddah dal volto disteso, senza affanno, e rimani imbambolato. Sta di fatto che questo sapiente, con tutta la sua cala, esce di casa e va dal re. Dove c’è l’Accademia, l’Università, al Consiglio dei Ministri, dove si discutono le cose importanti, là ci sono gli ‘esperti’, i ‘saggi’. Non li avete mai sentiti nominare, quando bisogna rifare la legge elettorale o sistemare l’economia del Paese?

E allora il sapiente ti dice una cosa di buonsenso:«2A quel che dice il re obbedisciin ragion del giuramento divino».

È l’uomo della provvidenza e tu devi fare quello che dice; obbedisci, piega il capo, perché lui sa come vanno le cose nel mondo, lui sa come si governa il Paese. Lui ti darà le indicazioni e tu devi soltanto dire: “Yes. Signorsì!”.

«3Da lui non congedarti troppo in frettacon lui non ostinarti nell’erroretutto quello che vuole, il re lo fa».

Tu non influisci in nessun modo sulle sue decisioni…«4Sovrana la sua parolachi può dirgli : “che cosa vai facendo?”5Chi sta agli ordini non rischia nulla».

Ecco qua il voto di obbedienza! Hai capito a che cosa si è ridotta la sapienza? A cortigianeria! Il saggio è un cortigiano, un uomo di potere che gira in quegli ambienti, nelle sfere del potere. Ha capito bene chi comanda e assaggia anche lui il gusto del potere. Ma come?! Tu pensavi che la sapienza era stare davanti al mistero degli uomini, al mistero di Dio, per cogliere il segreto del mondo…

L’opportunista si sa muovere negli spazi giusti e nei tempi giusti. Il sapiente è dunque un uomo del sistema. Te la racconta a partire da quell’ambiente e ti convince che anche tu devi dire: “Sì”.

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Tu pensavi che fosse una persona libera, capace di considerare le cose con lo sguardo giusto, cercando il meglio per la vita, e scopri che per lui il meglio è il suo interesse e l’interesse del re, del capo. Il nostro Qohèlet è davvero spudorato!

«Un cuore saggiovedrà un tempo e un giudizio a suo favore».

Il saggio è dunque colui che ha un cuore capace di discernere le cose, di dare il consiglio opportuno,«6poiché tempo e giudizio incombonosopra il progetto d’ogni uomo;7e se pende qualche sciaguraperò nessuno sa cosa succederà:chi sa dire come andrà a finire?».

Il saggio fa le previsioni, il piano quinquennale. Noi dobbiamo fare queste considerazione a misura nostra. C’è chi pensa di sapere quale è il corso degli eventi, di avere una visione più ampia, e invece non sa niente neanche lui.

«8Nessuno possiede il respirocosì da tenerlo per sempre;sull’ora della morte nessuno può nulla».

Le cose del mondo vanno in modo incomprensibile. Non sai che cosa succederà domani, ma non preoccuparti: sulle scadenze della vita, su Sorella Morte, nessuno sa niente.

«Alla furia della guerra non c’è scamponemmeno il male salva chi lo compie».

Di fronte all’insindacabilità delle situazioni, all’imprevedibilità del futuro, alla precarietà di tutto, tu pensi di cavartela sgomitando nel mondo, facendo la tua parte di male, attaccando un po’ di qua e un po’ di là. Niente da fare, nemmeno il male salva chi lo compie. Tu pensi di fare il bullo nel mondo, e alla fine sei un povero fallito.

«9Tutto questo vedo ripensando».È un uomo che pensa, registra, non si illude, non si racconta storie. Guarda in faccia le cose e vede che sono così. E pensa a

«quanto viene fatto sotto il sole,quando per fargli malel’uomo schiaccia l’uomo».

Alla fine ciascuno è un uomo di potere. Ciascuno cerca di prevalere sull’altro, di schiacciarlo. Come il “grande dittatore” cerca di alzare la propria seggiolina per stare un po’ più in alto, in modo che l’altro stia un po’ più in basso. Tra l’altro Qohèlet è di Gerusalemme, per cui ha praticato quegli ambienti. Queste cose non gliele hanno raccontate, ma le ha viste in quei contesti così illuminati…

«10E questo anche ho vistoper delinquenti emeriti solenni funeraliandavano e venivano dal luogo santodei loro misfatti nella città tutti smemorati».

Ci sono dei farabutti che sono applauditi perfino al loro funerale. Si erano sempre aggirati nei palazzi del potere, avevano vissuto di corruzione e di intrallazzi. E adesso vengono incensati come se fossero dei riferimenti valoriali.

Ma ci siamo dentro tutti, perché quelli che ‘vanno e vengono’ dal luogo santo siamo noi che, pur vivendo delle esperienze religiose che favoriscono il contatto con il Mistero, non apriamo gli occhi, non ci accorgiamo di come è una certa persona, non ricordiamo, non facciamo niente: va bene così! È la nostra deresponsabilizzazione. Vivi i tuoi momenti di discernimento religioso, ma non ti accorgi per niente di come vanno le cose nel mondo, e continui ad eleggere la stessa persona, che fa gli affari suoi.

«Anche questo assurdo.11Così il cuore dell’uomo scoppia di voglia di fare il malequando al male fatto manca il fatto suo».

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Stefani traduce: «12Dato che non viene emessa prontamente una sentenza nei confronti di un agire malvagio, il cuore degli uomini si riempie di volontà di male». Visto che la giustizia non funziona, io faccio il prepotente in questo mondo, io sguazzo in questo mondo in cui posso esercitare il mio potere, approfitto di tutte le occasioni. Tanto, prima che arrivi la sentenza, prima che arrivi la sanzione…

«12e invece il trasgressore fa il male cento voltee si allunga la vita».

I delinquenti continuano a fare i delinquenti e campano molto!«Sì lo so, la buona sorte è per chi rispetta Dio,per chi di Lui nutre santo timore13e non per il delinquentea lui giorni brevi come un’ombrapoiché di Dio non ha rispetto»

Certo, al catechismo mi è stato detto di non preoccuparmi, perché arriverà il giorno del giudizio. Sì, ma quando? Fa’ il bravo, abbi rispetto di Dio e avrai il bene, mentre il delinquente la pagherà… Sembra quasi una bella poesia di Natale, ma siamo a Pasqua! La sapienza assicura che verrà il giorno in cui le cose si sistemano, ma tu questo giorno non lo vedi.

«14Ma sulla terra capita l’assurdo:giusti trattati come delinquenti,delinquenti trattati come giusti.Anche questo io dico assurdo».

Esplode tutto. Anche i riferimenti più sacri, anche le persone più brillanti. “Da’ a me il potere, che ti faccio vedere io come si gestisce bene”. È ancora un uomo di potere che ne sostituisce un altro. Non è che adesso viene il saggio: è un uomo di potere come il precedente.

Questo mondo non funziona, e anche tu ti sei lasciato imbambolare dal saggio, per poi scoprire che è un uomo ambiguo. È un mondo in cui il mio cuore non si orienta più; se le cose vanno per aria, ci vado anch’io! Se devo fare una scelta, che cosa faccio? Che cosa metto sulla ‘schedina’?

«15Farò allora l’elogio della gioia…».Ecco la bussola necessaria per orientarsi in un mondo impazzito, dove nulla è fermo e tutto si muove, dove niente è quello che sembra:

«…nulla di meglio per l’uomo sotto il soleche mangiare, bere, gioire;questa la compagnia di sua faticanei giorni di sua vita che Dio gli dona sotto il sole».

Ancora una volta la misura modestissima, che sembra rinunciataria. Puoi pensare di scendere dal treno quando non capisci più dove va, ma non puoi scendere dalla vita!

E allora ecco di nuovo l’invito ad apprezzare quel frammento che, per quanto piccolo, racchiude un sapore, una bellezza, un’autenticità, una schiettezza: un frammento di gioia. E ancora una volta scopri che è un insindacabile dono di Dio. Un giorno positivo, un incontro positivo, una relazione vera… Bisogna cogliere questo brivido di gioia!

«6Impegnato con metodo a conoscer la sapienzaa vedere il duro compito sulla terra quaggiù– di giorno e di notte l’uomo non ha pace –17ho cercato di vedere tutta l’opera di Dio.Ma l’opera che Dio fa sotto il solel’uomo non potrà mai scoprirlaper quanto si dedichi a cercarla, trovarla non potrà.Se pure il saggio pretendesse conoscerlatrovarla non potrà».

Il sapiente è consapevole che questo itinerario di ricerca sembra essere fallimentare, destinato a non stringere niente, a non concludere niente, a non portare da nessuna parte. Ma tu continua a cercare,

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e continua a raccogliere quel dono che Dio mette nella tua mano, perché almeno da quel punto puoi trovare un appoggio per riguardare tutto e ricominciare.

Siamo giunti al cap. 9 e nello schema iniziale leggiamo: Nel limite, l’invito alla gioia.Nei vv. 7-9 c’è il primo imperativo della gioia. Dopo aver detto che l’unica cosa bella che rimane

è mangiare, bere e godere della vita, adesso Qohèlet invita a farlo, a sceglierlo. È proprio un’esortazione. Si tratta ancora di una pagina che il discepolo ha trovato nel cassettino e ha incollato qui. (Vignolo titola questo passo: Ignoranza di Dio e della propria ora).

«1Su tutto questo ripensando concludogiusti e sapienti con le loro azionisono in mano a Dio …».

Tirando le somme, che cosa fai? Niente, perché la situazione non è nelle tue mani. I fili di una realtà così assurda, così sconclusionata, così ingiusta, sono comunque nelle mani di Dio. Su questo fatto Qohèlet non ha dubbi

«… Se ama o odia l’uomo non lo sa».Attenzione, perché qui il punto cambia un po’ le prospettive. Ravasi, ad esempio, traduce: «I giusti e i sapienti con le loro opere sono nelle mani di Dio. Ma l’uomo non sa se Dio prova per lui amore o odio». Suggestivo un itinerario e altrettanto suggestivo l’altro. «L’uomo non sa se Dio prova per lui amore o odio». Se le cose stanno così, chi è amato e che è odiato da Dio? “Dio benedice colui che ama”, e allora se a uno va tutto bene pur essendo un delinquente, significa che ama i delinquenti. E se colpisce una brava persona significa che odia chi è giusto e onesto… La cosa non ci suona bene.

Ma attenzione, anche questo fa parte del nostro vissuto interiore. Non ci tornano i conti sull’amore/odio di Dio perché noi facciamo presto a distribuire nel cuore di Dio le sue intenzioni. Ma Qohèlet dice: “Io sopra il sole non so che cosa transita, perché non mi tornano i conti”.

Erri De Luca traduce: «Anche l’odio, anche l’amore, all’uomo sfugge tutto». *ebraico: né amore, né odio conosce l’uomo. Che cosa registra questa battuta detta così? Non è

che non ti tornano i conti del mondo, ma non ti tornano i conti dentro la tua coscienza. Alla fine c’è quella grande confusione perché tu non sai più che cosa ami e che cosa odi. Il dissesto del mondo l’hai dentro tu, e quando ti muovi non sai che cosa vuoi. Perché? Perché alla fine, osservando che tutte le situazioni arrivano a quel capolinea che è la morte, dove anche tu arriverai, ti domandi come puoi giocarti.

Ecco allora questo dato di disorientamento che ciascuno di noi assaggia: alla fine, i miei affetti in che direzione vanno? A che cosa mi attacco? Da che cosa mi tengo distante? Che confusione! Invece di essere un raggio di luce, la sapienza mi lascia nella notte. Io non so girarmi dalla parte giusta, anzi, non so neppure quale sia la parte giusta! Finisco per non sapere affatto che cosa è il bene per me.

«Solo questo ha davanti:2stessa fine per tuttiper l’innocente per il delinquente,per il puro e per l’impuro,per chi offre sacrifici e chi no,per chi fa il bene e per chi fa il male,per chi spergiura e per chi con coscienza giura.3Questo il guaio peggioredi tutto ciò che avviene sotto il sole:unica fine per tutti».

Sì, ma di là ci sarà un aggiustamento! Io non lo so se ci sarà un aggiustamento, però so che si arriva al camposanto e ci si arriva tutti.

«Per questo il cuore degli uomini è gonfio di male,dentro covano follie tutta la vita

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poi via, tra i morti».È come registrare che se tu fai il bravo, muori; se tu fai il delinquente, muori. Ma almeno, come delinquente, ti passi un po’ meglio la vita. E allora scateniamoci finché c’è vita!

Qohèlet sembra un cattivo maestro che mette sulla cattiva strada, ma non è così: lui sta semplicemente guardando come vanno le cose, e vede che quando gli uomini si accorgono che nella loro clessidra c’è sempre meno polverina, si agitano e cercano di arraffare un po’ qui e un po’ là.

«4Oh a stare con i vivi c’è speranza:meglio un cane vivo che un leone morto;i vivi almeno sanno che morranno,5niente di niente i morti sannoricompensa per loro zero,memoria cancellata…».

Bene. Si muore, e non c’è nessun vantaggio per una condizione o per l’altra. Tuttavia sento la voglia di vivere anche se la mia è una vita da cani. «I vivi almeno sanno che morranno», e sono contenti di vivere in quel giorno. Non solo l’uomo è una bestia che sa fare domande, ma è anche una bestia che sa di morire. Dovrebbe essere ancora più disperante – soprattutto perché nella vita i conti non tornano e la sapienza è tutta un imbroglio – invece lui si attacca alla vita pur sapendo di dover morire. Vita da cani? Se l’alternativa è un leone morto, preferisco quella!

«…6amore odio gelosia per loro tutto sparito.mai più parte per loro a quanto si fa sotto il sole».

Il sapiente sa bene che tutto sparirà, le qualità positive e quelle negative, eppure è attaccato alla vita. Di fronte a questa disanima impietosa, a questa consapevolezza terribile della morte, ecco l’amore per il respiro che hai.

«7Ma tu dai, mangia il tuo panebevi il tuo vino:Dio è contento di quello che fai».

Ha appena detto che nessuno sa se Dio ama o odia l’uomo, ma qui attesta che Dio gli vuole bene.«8Sempre candide le tue vestinon manchi mai profumo sul tuo capo.9Va’ incontro alla vita con la donna che amiogni giorno di quel soffio che è la tua vitadata a te sotto il sole;questa parte ti spetta nella vita,nella fatica penata sotto il sole.

La vita è un soffio, ma meno male che c’è! Ama quel soffio, ama tutto quello che transita dentro questo soffio, ama tutti i volti che si affacciano davanti al tuo respiro! Bacia la tua donna, goditi la vita!

«10Tutto ciò che la tua mano avrà potere di farefinché ne hai forza, fallo».

Anche se tutto è nelle mani di Dio, tu giòcati! Nel tuo spazio, nella tua libertà, nella tua limitatezza, cane come sei, giòcati. Prima di andare laggiù, datti da fare.

«Niente più impresa né idea né scienza né sapienzalà dove stai andando.11Da capo vedo sotto il solenon tocca agli agili la corsa,ai forti la battaglia,ai sapienti il pane,ai capaci la ricchezza,agli abili il successo:tempo e caso decidono per tutti.12E l’uomo non conosce la sua ora,

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pesci nella rete uccelli in trappolaun’ora fatale piomba agli uomini addosso improvvisa».

Quindi, anche se abbiamo ormai capito che non si capisce niente, siamo qui proprio per capire che non capiamo niente. E allora questo ‘niente’ non sarà totalmente ‘niente’!

Undicesima riflessione* La registrazione parte a relazione iniziata…Certo, una navigazione a volte più serena, a volte un po’ più agitata, più incerta, però abbiamo

indubbiamente visto tante coste, tanti panorami fuori di noi e dentro di noi. Ci siamo resi conto che la Sapienza registra come va il mondo, il quale non va come vorremmo noi, e come va il nostro cuore, che pure non va esattamente come desidereremmo.

Riprendiamo il testo dove l’avevamo lasciato. Il nuovo quadro inizia al cap. 9,13 e termina al cap. 11,6. Anche qui potremmo dividere diversamente le sezioni, finendo al cap. 10 e lasciando il cap. 11 per quanto riguarda l’ultimo scorcio del libro, ma noi seguiamo la ripartizione di Vignolo, che chiama questo XIV Quadro: Sapienza e idiozia.

Abbiamo già visto che sono le due realtà che si confrontano. E propongo anche un altro titolo, quello che troviamo nel libro di Pino Stancari che già vi ho suggerito di leggere in uno dei nostri primi incontri («Nella crisi della sapienza. Lettura spirituale del Libro di Qohelet», ed. Apostolato della Preghiera). Egli chiama questo passo, questa sezione: Gli imprevisti della vita.

Abbiamo visto molte cose “sotto il sole” che non corrispondono alle nostre misure, alle nostre aspettative. Quanti colpi di scena!

Il redattore ha quindi fatto un’opera di raccolta delle note del maestro Qohèlet, disponendo secondo una certa sequenza i materiali rintracciati. Forse abbiamo a che fare ancora una volta con dei foglietti sistemati in una certa disposizione a causa di parole o di tematiche che si richiamano, oppure perché una nota serve a spiegare un foglietto che si poteva accostare.

Noi leggeremo battuta per battuta, sequenza per sequenza, raccogliendo quanto è contenuto in quel quadretto, ma cercando anche di cogliere sempre la connessione tra un quadro e l’altro, tra una riflessione e l’altra, tra una diapositiva e la successiva.

Ancora una volta il nostro sapiente si accorge che la realtà è proprio strana. Guarda cosa capita!«13Episodio istruttivo non da poco– a mio parere – ho visto sotto il sole:14una piccola città con poca genteun grande re l’attacca l’assediagran macchine di guerra tutt’intorno.15Nella città assediata c’era un talevenuto su dal niente ma sapienteche con abilità liberò dall’assedio la città».

Anche qui c’è questa dinamica singolare. C’è un piccolo centro, una località senza difese di fronte ad un sovrano che avanza con la sua sete di conquista e pone l’assedio davanti alla muraglia della cittadina. C’è un’enorme sproporzione tra la grande forza e la debolezza. Che cosa avrà ragione della grande forza? La capacità di un uomo di prendere posizione, dentro la città. È un uomo di per sé venuto su dal nulla, ma è molto accorto, e riesce ad aver ragione del grande esercito del dominatore. Difende la città. Sono situazioni che facciamo fatica a rintracciare in quel tempo, ma che sono abbastanza ricorrenti nella nostra memoria scolastica (Davide, Archimede, Pietro Micca…). Singole persone che sono riuscite ad avere la meglio su un intero esercito.

«Ma poi nessuno si ricordò del talevenuto su dal niente ma sapiente»

Ma come?! A quell’uomo che con la sua abilità ha liberato la città dall’assedio, si dovrebbe perlomeno fare un monumento come memoriale. Invece no, hanno già girato la pagina! L’hanno

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rimosso, ed è il signor Nessuno. Ha compiuto un’impresa eroica, ma il Qohèlet gli dice: “Non illuderti che si ricorderanno di te, la memoria è corta!”. Questo è l’imprevisto della vita: gesti significativi presto archiviati; imprese generose e gloriose cadute subito nell’oblio.

«16Ne deduco più della forza vale la sapienzama ecco disprezzata inascoltata l’abilitàdel tale venuto su dal niente ma sapiente».

La sapienza dovrebbe essere quella che ti aiuta a muoverti nel mondo, ma le opere fatte con sapienza vengono dimenticate in fretta. Quanto vale la sapienza?

Ecco ancora una volta gli imprevisti. Quale è il rapporto tra la sapienza e la stupidità? Adesso fa vedere quale sproporzione esista tra gli eventi della nostra vita.

«17La parola pacata dei sapienti trova udienzapiù del comando urlato agli sciocchi».

Alla fine una persona che parla con calma, valuta le cose, sa dare un nome alle situazioni, sa suggerire delle soluzioni, sembra avere una parola autorevole capace di trovare spazio là dove tutti urlano, sbraitano, si lamentano, si agitano. Ecco il sapiente, che sa dire una parola autorevole e garantita, una parola che sarà un punto di riferimento per saper orientarsi nella società.

Ebbene, che cosa succede? «18Più di armi da guerra vale la sapienzamolto però si perde anche per un solo errore».

Stefani traduce: «Tuttavia basta una sola mancanza per distruggere un gran bene», e Ravasi: «Uno solo che sbaglia può infatti rovinare immensi beni».

Vedete che sproporzione c’è nella vita? Si fa una scelta di vita, un’impostazione di esistenza sapiente, eppure basta uno sbaglio, un errore…

E Qohèlet fa un esempio molto banale.Cap.10 «1Un moscerino finisce nel vasettorovina anche il profumo più perfetto».

Quando una mosca muore dentro un vasetto di profumo preziosissimo, lo rovina totalmente: invece di profumare, esso diventa puzzolente.

Erri De Luca traduce: «Mosche di morte, puzzerà e traboccherà olio di profumiere». Basta una piccola mosca per rovinare l’intero vasetto. Basta uno sbaglio per rovinare l’onore di una persona, la sua credibilità. In sostanza, per rovinare la sapienza! Le situazioni più incredibili ti fanno rendere conto che niente è garantito.

«2Più d’ogni sapienza e onorepotrà pesare un poco di follia».

Capitano delle situazioni che sembrano gloriose, e invece basta poco per renderle ingloriose. Facciamo attenzione, perché questo potrebbe essere uno sguardo rivolto all’esterno: “Così capita nel mondo, vedi?”. E racconti la vicenda di quegli ingrati, di quegli imbecilli di quella città che hanno dimenticato il loro eroe, non l’anno promosso, ma l’hanno subito dimesso; talvolta succede davvero, e al posto di un uomo accorto che inciampa una volta viene messo uno davvero ottuso. Ma il problema vero è quello che succede dentro di noi, nel nostro cuore.

«2Cuore saggio nel verso giustocuore sciocco sempre in quello storto».

Sembra dire: “Cuore di saggio a destra, cuore di stolto a sinistra!”. In italiano l’espressione: “Mi è capitato un sinistro” significa che abbiamo avuto un incidente. Ma quanti incidenti dentro il cuore!

Dentro di me c’è una via saggia e una via sciocca, stolta. E noi pensiamo che gli stolti siano sempre gli altri.

«3Per la strada ovunque va fuori di testadi tutti pensa “Non hanno testa!”».

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È il matto che pensa che tutti gli altri siano matti. In ogni cuore c’è sapienza e stoltezza. Se vai in macchina ti può capitare un sinistro; e ti può capitare se vai in giro per il mondo. E capita, nella vita, specie se non si hanno delle buone guide. Almeno chi comanda deve essere saggio! Il pastore conduce le pecore perché non sbandino.

«4Se chi comanda ce l’ha su con tetu non disertare il posto tuosbagli anche gravi rimedia la calma».

Ecco innanzitutto un’indicazione quanto mai preziosa: “Se un tuo superiore ce l’ha su con te, non muoverti!”. Ho capito, ma non posso stare sempre sotto la grandine! Ecco quindi la difficoltà di far fronte a queste ‘intemperie’ che mi si scaricano addosso. L’indicazione sarebbe quella di stare tranquillo, lasciar passare la tempesta, stando sotto la grandine finché smette di cadere. Questo vale nel mondo del lavoro, ma anche in casa, nell’ambito religioso…

Bisogna avere tenacia, sperando che chi comanda sappia il fatto suo.«5Una sciagura vedo sotto il sole,l’errore abituale dei potenti:6promuovere cretini a posti alti,i facoltosi far sedere a terra,7servi issati a cavallo,prìncipi a piedi come i servi».

Il sapiente vive a Gerusalemme e viene forse da una famiglia borghese. Sembra sprezzante verso chi viene dal niente; probabilmente ha avuto successo e prova disprezzo per quei plebei che occupano il posto dei nobili.

Però qui il problema non sono queste persone di basse condizioni che sono assunte a compiti importanti, ma il fatto che chi comanda se le è scelte, ha scelto le persone sbagliate! Chi ha la responsabilità di gestire situazioni complesse non può circondarsi di persone incompetenti. Ecco il dramma! Gli imprevisti sono questi, perché poi tu hai a che fare con delle sconnessioni, dentro la società, a prescindere dalle rivendicazioni di classe. Questo sistema, poi, non funziona!

Quando ci si occupa delle cose, si corrono sempre dei rischi.«8Scava una fossa ci finirai dentroabbatti un muro ti morde una serpe9spacchi le pietre ti feriraitagli legna ti farai male.10Se il ferro perde il filo e non lo arrotiti tocca a raddoppiare la fatica:sarà meglio trovare un espediente».

Io faccio una cosa per sistemarla, e mi succede un guaio. Decido di demolire un muro pericolante, e vengo morso da una vipera! Se non arroti il coltello fai fatica, se lo arroti ti tagli la mano. Insomma, non va bene niente! Ma noi ci siamo già accorti che le cose non vanno come vorremmo. Pensiamo di muoverci nel reale, ma succedono altre cose impreviste.

Sono i rischi del vivere. Comunque tu ti muovi, ci sono in agguato dei guai. I guai degli altri, i guai del mio cuore: la vita è uguale per tutti.

«11Morde il serpente che non si fa incantarel’incantatore più a nulla vale».

Questa è una sapienza un po’ misteriosa, un po’ intrigante. In fondo, che cos’è la sapienza? È un po’ l’arte dell’incantatore, che deve cautelarsi di fronte ai morsi della vita. Vignolo traduce con ‘incantatore’ l’espressione ebraica ‘padrone della lingua’. La sapienza, dicevamo, è la capacità di dare il nome alle cose, di esprimersi facendo in modo che la vita funzioni. Invece succede che ormai la sapienza non è in grado di incantare il serpente; e lui ti morde, la vita ti morde.

Quella del serpente è un’immagine che abbiamo incontrato fin dalle prime pagine della Bibbia. È l’animale più astuto, che morde parlando; è il confronto tra Eva (“Donna Sapienza”) e il serpente.

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Questo quale vince con la sua bocca, inoculando il suo veleno, il suo imbroglio, la sua visione della vita, perché tu sei confuso.

I versetti che seguono hanno proprio a che fare con la parola. Ma che cosa vale, la parola? Come funziona il parlare umano?

«12La parola di una bocca saggia affascina…».Si potrebbe pensare che se questo è vero, può restare affascinato anche il serpente. Niente da fare! Il serpente continua a mordere.

«… le labbra del cretino lo confondono».Stefani traduce: «Le parole sulla bocca del saggio sono una grazia, lo stolto invece è come se fosse divorato dalle sue stesse labbra». Erri De Luca, a sua volta: « Parole di bocca di saggio sono grazia. E labbra di pazzo l’inghiottiranno».

Certo, se ci fosse una parola sapiente, capace di orientare il nostro cuore, le nostre mani, i nostri passi, sarebbe una grazia per tutti. Il problema è che invece nel cuore, a sinistra, c’è la follia che ci divora, è autodistruttrice. La nostra stupidità ci ammazza. È un continuo tentativo di suicidio.

«13 Con idiozia comincia il discorsosenza senso lo chiude malamente».

Ravasi traduce: «L’esordio del suo parlare è stupidità, la conclusione del suo discorso è tragica follia». Guarda un po’ come vanno le cose. All’inizio tu non prendi sul serio chi parla, convinto come sei che dica stupidaggini. Lo prendi come un gioco, parole leggere che gli escono così: non ci pensa su, poverino! Sì, ma il problema di questa impostazione della vita la paghi in modo tragico. All’inizio sembra un gioco, alla fine si rivela una tragedia. Così è la vita. La prendi sotto gamba e poi vedi come va a finire!

Stefani propone: «All’inizio le parole della sua bocca sono banalità ma alla fine la sua bocca pronuncia follie perverse». Nel corso della vita, nelle varie situazioni, quelle parole che sembravano abbastanza innocue diventano delle lame taglienti per le tue vene.

«14Moltiplica parole lo scioccoma l’uomo non sa che ci saràin futuro chi può dire che avverrà?».

Tu pensi che la moltiplicazione delle parole chiarisca le cose. In verità ecco ancora una volta la denuncia, la constatazione che le parole sono inadeguate, restano un mezzo. Ricordate che fin dalla prima scena dicevamo che «Le parole hanno la fiacca, non c’è più chi dire le sa» (Qo 1,8). Il sapiente ci avverte che noi ‘straparliamo’, siamo delle persone che quando aprono la bocca fanno una sola cosa: rivelano la loro stoltezza. E questo non perché non hai studiato, non perché devi leggere qualche libro in più, non perché se ti impegni farai poi un discorso grammaticalmente più corretto, ma semplicemente perché tu non sai affatto quello che capiterà domani..

Il problema, quindi, è strutturale; il problema del nostro vivere è che domani ci sarà sempre un imprevisto. Tu vorresti usare le parole del presente per prevedere il domani, ma domani succederà una cosa che tu non ti aspetti.

Stefani traduce: «L’uomo però ignora quando avverrà, infatti chi mai lo potrà informare su ciò che accadrà dopo di lui?». Siamo davanti al mistero. Ecco la sapienza di Qohèlet ancora una volta così vicina al suo limite, con atteggiamento umile.

Così vanno le cose della vita: tutto è imprevisto nel gioco tra la sapienza e l’idiozia.«15 La fatica sfianca il cretinonon sa andare nemmeno in città».

Anche qui forse si intravede lo sguardo di una persona altolocata che guarda un contadinotto che dalla campagna viene in città: “Ma guarda questo qui, che si ammazza di lavoro dalla mattina alla sera! Viene in città e non vi si sa muovere…”. Badate bene che qui l’immagine non è quella del contadinotto che viene nella città, ma quella di ciascuno di noi in un orizzonte nuovo che non è il suo. È stanco morto per il tanto darsi da fare, per il voler guadagnare le risorse per potersi muovere nella città del mondo, ma non ne è capace!

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Nella città di questo mondo tutti noi siamo dei buzzurri. Pensiamo che una volta arrivati lì saremo capaci di trovare la strada, ma quando arriviamo ci manca il navigatore e sbagliamo indirizzo. Non sappiamo muoverci.

I versetti che seguono sono stati inseriti, ma si potrebbero espurgere perché sembrano inseriti per la nostra generazione. Sono una profezia di quello che sarebbe capitato in Italia negli ultimi venticinque anni.

«16Povera te città dove un ragazzo è ree dal mattino i principi vanno a mangiare».

Questo ragazzotto può avere anche ottant’anni. Attenzione, perché c’è un modo di fare bambinesco da parte dei governanti, di quelle persone che dovrebbero avere a cuore il Paese. Ovviamente sono cose che succedevano in questa epoca primitiva… Queste spese folli…

È una situazione drammatica, e ancora una volta c’è uno sguardo desolante, pazzesco Chi l’avrebbe mai pensato?

«17Te beata città se nobile è tuo ree chi comanda all’ora giusta mangia».

Il riferimento è sempre anche a questi ‘sensori’ che dicono come uno vive, quale è la sua moralità. Come dice anche la nostra Costituzione, per svolgere la funzione di governo bisogna essere un uomo d’onore. Ma intanto al potere ci sono goderecci, approfittatori, ‘ragazzotti’ di ottant’anni, che se la spassano.

«18Marciranno le travi del pigropiove in casa di chi ha le mani in mano;19se la spassano con banchetti,con il vino che allieta la vitae a tutto provvede il denaro».

Ma che cura hanno, questi, della casa? Ci sono le travi piene di tarli, cade giù tutto, eppure non stanno vivendo la crisi. Mangiano, bevono, si divertono, se la raccontano, e intanto la casa crolla.

Irresponsabilità, leggerezza. Tutto è soldi che girano, corruzione dovunque; l’unico riferimento il denaro. Queste cose vengono documentate quotidianamente sui giornali, e non cambia niente. Si avvicendano figure, personaggi diversi, ma siamo sempre allo stesso punto.

«20Mai dir male del re neanche pensarlo,o di un potente neanche in camera da letto,perché in cielo volteggia un chiacchieroneun messo alato che racconta tutto».

Ci sono le ‘cimici’, i registratori, confidenze che vanno a finire su Internet. È buffo, ma nel mondo le cose sono sempre andate così: ad un certo punto c’è qualcuno che spiffera, fa la spia. Gli scenari sono davvero abbondanti: non ti puoi fidare di nessuno. Ma il fatto è che non ti puoi fidare di nessuno perché la tua vita non è limpida, altrimenti non avresti nessun bisogno di tutelarti.

Nel corso della nostra lettura stiamo rendendoci conto che il mondo va così: un sacco di cose che non vanno. Il mondo non va come vuoi, ma va come va! Tu vorresti raddrizzare ciò che è storto, ma non c’è niente da fare. A allora cosa faccio, se niente dipende da me, se tutte le situazioni sono sbalestrate, se i capi non funzionano, se io non funziona, se il mio cuore non funziona?

I primi sei versetti del cap. 11 mi piacciono molto. Contengono un invito, un incoraggiamento, e i verbi sono all’imperativo: investilo, impiegalo…

Le traduzioni sono interessanti. Stefani: «Getta il tuo pane sulla superficie dell’acqua». Certo, è un’immagine che non si capisce immediatamente. Si potrebbe pensare al gesto di un bambino che sparge le briciole sullo stagno per i pesciolini, ma forse dovrebbe essere decodificata.

Vignolo traduce: «1Quel che guadagni invèstilo per mare…». Potrebbero essere dei bastimenti che navigano sul Mediterraneo e giocano nel commercio. In sostanza, rischia!

Rifacendomi al libro di Stancari ho intitolato i quadretti che abbiamo visto: “I rischi della vita”. Quanti rischi nel vivere! E adesso è come se Qohèlet dicesse: “D’accordo, ci sono tanti rischi,

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succedono le cose più imprevedibili, ma adesso rischia tu, giòcati in questo mondo che non va come dovrebbe, in queste situazioni che tu non governi, in questa realtà che ti sfugge, dove le parole non sanno esprimersi. Giòcati! Butta la tua vita! Fa’ come quella povera donna ammirata da Gesù mentre dà i suoi spiccioli, tutto quello che ha, al tesoro del tempio. Gusta tutta la tua vita arrischiando quello che sei, quello che hai. È un invito a partecipare, senza aspettare che il mondo si aggiusti. Il nuovo governo sarà come il precedente… Giòcati in prima persona: tocca a te!

Cap. 11.«1Quel che guadagni invèstilo per mare,in poco tempo ti ritornerà».

Ritroverai quello che tu metti, ritroverai quello che è stato l’investimento della tua vita«2in sette o otto affari impiègalo.quali guai verranno in terra non si sa».

Vi leggo la traduzione di Stefani: «Danne una parte a sette e persino a otto perché non sai quali guai possono capitare sulla terra».

La mia impressione è che dica: “Ascolta, giòcati su tanti fronti, investi le tue energie, i tuoi desideri, le tue risorse, il tuo tempo, il tuo cuore, su tanti fronti. Non giocare al risparmio! Spenditi qui e spenditi là, spenditi oggi, spenditi domani. Buttati in quella situazione e in quell’altra, in quell’avventura e in quell’altra, e qualcosa troverai!”. Quel pezzo di pane e quel bicchiere di vino lo ritroverai sulla tua mensa.

Sì, va bene investire, ma bisogna fare discernimento, pensarci su, aspettare il tempo opportuno, le circostanze favorevoli. Sì, rischiare, ma poi chissà come va a finire… Quale è il tempo favorevole? Fra due anni, ma forse non ci sarai tu. Il tempo favorevole è adesso. L’unico tempo che hai è il presente. L’unica occasione buona è questa.

«3Nubi gonfie di pioggia scaricano in terrae se un albero si schianta,a nord come a sud, là dove cade resta».

La realtà è quella che è, e se un albero cade sta lì, non lo decidi tu. Guardi il cielo e lo vedi nuvoloso. Non potrai fare quello che avevi in programma.

«4Chi bada al vento non semina maicon il naso alle nuvole non mieti».

Se stai con le previsioni del tempo che segnalano vento per giorni, non seminerai mai. Se aspetti l’occasione perfetta non ti arriverà mai. Incomincia a buttare i tuoi semi… Il Vangelo racconterà di un seminatore che sparge largamente la semente, anche se il vento la porta sulla strada o fra le spine. Lui sa che qualche seme cadrà nel terreno buono! Ma se tu non lo prepari, il terreno bello non lo troverai mai. Semina, arrischia, datti da fare intanto che c’è tempo. Poi non ci sarà più tempo: anche se ci saranno situazioni migliori, non ci sarai più tu.

E quando nascerà l’erba, fa’ presto a tagliarla perché diventi fieno prima che cada la pioggia. Non stare a guardare le nuvole minacciose. Invece di dilazionare, datti da fare per sistemare subito la cosa. Questo non vuol dire che si debbano precipitare le cose, ma che una volta considerate tutte le circostanze esterne – che saranno sempre più o meno sfavorevoli – tu puoi giocarti. Anche se le situazioni si presentano contrarie, tu puoi seminare e mietere, perché tra le due cose c’è di mezzo tutta la vita. Ma se tu non semini, non mieterai mai.

«5In seno alla gravida tu ignoricome fa la vita a prender formacosì l’opera di Dio che tutto questo fa tu ignori».

È una bella traduzione, ma preferire che voi guardaste alla letteralità del testo in quella di Erri De Luca: «Così non è che tu conosca quale è una via del vento come ossa in ventre della piena: proprio così non conoscerai opera dell’Elohìm, che farà il tutto». Un italiano terribile, ma viene messa una parola dietro l’altra; poi, leggendo le altre traduzioni, si può sciogliere il dettato del testo.

Attenzione al gioco del vento. Questa espressione *ebraico (la via del vento) indica qui non qualcosa che passa all’esterno delle cose, ma passa all’interno di un utero. Chissà come andrà a

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finire? Certo, non lo sai esattamente. I vostri genitori e voi stessi che avete messo al mondo dei figli, non sapete esattamente com’è andata la storia, cioè come si sono formate le ossa nel ventre. Se fai molte ecografie, constati lo sviluppo del bambino, registri i nove mesi di un percorso misterioso per cui quel bambino, quando esce, respira. Tu la ‘via del vento’ in quel bambino non sai come è capitata, ma è capitata. Ti trovi davanti al mistero di Dio, e hai la percezione che è proprio Dio a fare tutto! Tu non sei padrone della vita. Che ne sai tu, del respiro? Il vento che c’è fuori non lo governi tu; il mondo non lo governi tu, ma non governi neppure il vento che c’è dentro. Tutto viene da Dio, anche questo soffio vitale che ci abita.

Allora, se Dio fa tutto, io mi siedo. No, perché se noi siamo qui è perché i nostri genitori ci hanno voluto, e se i vostri figli sono nati è perché voi li avete voluti. Quindi da una parte fa tutto Dio, ma dall’altra parte si deve muovere la nostra mano.

«6Al mattino semina il tuo semealla sera non fermare la tua mano;qual seme spunterà tu non lo saise l’uno o l’altro o l’uno insieme all’altro».

C’è tutto il discorso di Qohèlet. Tu non riesci a capire il senso delle cose, non riesci a stringere la misura del reale, tutto sfugge, le situazioni sono quanto mai dissestate e piene di imprevisti, tuttavia giòcati, fa’ la tua parte. Tutto è guidato da Dio, ma tu sai benissimo che le tue mani si muoveranno dentro le mani di Dio. Il tuo operare si troverà certamente in sintonia con l’operare di Dio che ti sfugge, ma intanto la vita va avanti.

Semina, altrimenti chi viene dopo di te non mangerà. Al mattino mettiamo in bocca un pezzo di pane, ma possiamo farlo perché per generazioni e generazioni c’è qualcuno che ha seminato e ha tenuto il seme; un altro ha preso il seme, l’ha rimesso nella terra poi l’ha mietuto; un altro ancora ha preso quel seme, l’ha seminato e ha raccolto le messi. Se questa catena si fosse interrotta noi oggi mangeremmo pastiglie di plastica… Viviamo una realtà nella quale non ci rendiamo neppure più conto del lavoro dell’agricoltore, però tutte le volte che celebriamo la Messa troviamo il pane, il vino, frutto del lavoro dei contadini e dei vignaioli. Altrimenti non ci sarebbero.

Leggeremo i famosi ‘ritornelli della gioia’, che prima sono all’indicativo (mangiare, bere e godere la vita sono la parte data all’uomo). Al cap. 9,7 abbiamo visto il sesto ritornello: «Ma tu, dai, mangia il tuo pane, bevi il tuo vino: Dio è contento di quello che fai».

È interessante, perché ogni volta che andiamo a Messa, sentiamo: “Prendete e mangiate, questo è il pane…, prendete e bevetene tutti”. In queste righe di Qohèlet troviamo una pienezza là dove il Signore, che si è rivelato un Gesù, ancora ci ha lasciato un segno che si fondesse in queste due battute: mangia questo pane; bevi questo vino. È la tua parte, è il dono per te, e noi sappiamo che questo dono è un “Tu”: il Signore morto e risorto per me.

Queste espressioni sono cinque volte all’indicativo e una volta all’imperativo risuonano ancora oggi nella nostra vita di credenti, di discepoli di Gesù. E quando andremo a Messa sentiremo di nuovo questo invito: mangia e bevi! Riassuntivo di tutto, segno di tutto, sacramento di tutto.

Riprendiamo un attimo il v. 6: «Al mattino semina il tuo seme, alla sera non fermare la tua mano…». Ancora una volta vediamo che qui non c’è il pessimista, il rinunciatario, lo scettico, il rassegnato. No, c’è qualcuno che ti dice: “Getta la tua vita, impegnati”.

«… qual seme spunterà tu non lo sai…». Nel vangelo di Marco troviamo il contadino che mette il seme e questo fa un suo percorso, ma come questo avvenga, il contadino non lo sa. Marco dice che il seme è ‘automatico’, termine che indica l’imparare da sé. Il seme ha dentro una logica di vita da autodidatta, però qualcuno lo deve seminare.

«…se l’uno o l’altro o l’uno insieme all’altro».Tu investi, e poi avrai la sorpresa di vedere che se hai seminato, se ti sei giocato nella vita,

qualcosa spunta: forse anche più di quello che tu pensavi!

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Dodicesima riflessione*La registrazione parte a relazione iniziata

Ci sono delle battute che con una pennellata riescono a descrivere una situazione, a cogliere con poche parole un vissuto. Certo, se il discepolo ha fatto questa operazione significa che non tutto il materiale di note, appunti e foglietti era già pronto per la pubblicazione. Anzi, può darsi che gli appunti non fossero neppure destinati ad essere letti da altri.

C’è un po’ di tutto: pagine molto alte, e pagine dal tono più dimesso, tuttavia ci accorgiamo di essere di fronte ad un uomo che non solo ti sa parlare, ma che è stato toccato dall’ispirazione anche letteraria, oltre che da quella dello Spirito Santo.

La pagina che ci apprestiamo a leggere è veramente straordinaria. È il foglio conclusivo, perché ciò che fa seguito a questo quadro è stato letto il primo giorno. Abbiamo visto che non si tratta di un epilogo, ma di ‘editoriali’ che appartengono alla confezione del libro per come è stata messa in circolo e poi inserita nella Bibbia.

Questa è dunque la pagina conclusiva perché se andate allo schema, vedete che a questo punto del libro c’è la “cornice conclusiva”. Come all’inizio c’era una: “ cornice compositiva: prologo e prima sezione del libro: domanda antropologica (1,3) poema cosmico-antropologico”, così anche qui troviamo un “poema antropologico-cosmico, con imperativo finale alla gioia e al ricordo.

Facciamo attenzione perché nella conclusione ci sarà l’invito con due verbi all’imperativo (gioisci, ricorda!) che danno la nota finale a colui che legge o ascolta (cioè noi). È una pagina che ancora una volta fa giustizia di tutte le interpretazioni unilaterali del nostro poema. Da una parte è l’invito alla vita – che pure muore – e ci ripropone la cifra di Qohèlet; dall’altra parte è una pagina che è stata interpretata in infiniti modi, per cui leggendola potremmo fare la storia di tutta l’esegesi di Qohèlet. Perciò vi potremo incontrare diverse visioni a riguardo del sapiente: ottimista, pessimista, scettico, rassegnato. E potremo accostarla come una pagina calda, capace di far sentire il senso possibile dell’esistenza. Dal v. 7 al v. 10 si afferma che la vita e bella nonostante gli impegni, e subito dopo si parla della vecchiaia. Le due realtà devono essere tenute insieme.

Nel fascicoletto che vi ho dato ci sono cinque versioni, ma non c’è quella della Bibbia interconfessionale. Dovete sapere che il testo che stiamo per leggere contiene delle immagini, delle metafore, un linguaggio simbolico. Si descrive una casa in sfacelo, i suoi abitanti e quello che capita a costoro. Ebbene, nella tradizione interpretativa – sia ebraica che cristiana – si è letto questo testo come un’allegoria. Quale è la distinzione tra metafora e allegoria? Nella metafora si vede l’immagine, quindi c’è un primo significato da cogliere, ma dietro questo ce ne sono molti altri. Dietro al significato primario c’è il rimando a significati ulteriori, ma si tiene la metafora, non si va subito a decodificare tutti i significati. L’allegoria dice che ogni elemento significa una cosa, quindi lo esplicita in modo diretto; succede così che di venti possibilità, tu ne cogli una.

Nel nostro caso, si pensa che l’allegoria che viene raccontata riguardi il corpo umano. È lo sfacelo non di quel palazzo, ma del ‘palazzo’ che sei tu. Ad esempio, le macine potrebbero essere i denti, oppure lo stomaco. In questa esplicitazione dell’allegoria ognuno si è scatenato: l’importante era sempre trovare un elemento del corpo umano dietro quelle immagini.

La Bibbia interconfessionale fa quindi una diversa interpretazione ma è un peccato, perché il linguaggio deve rimanere metaforico, simbolico. Certo, dietro un palazzo che si va disfacendo si potrà anche vedere l’uomo, ma ci sono anche tante altre cose che finiscono: le situazioni, il mondo, la vita… Un linguaggio molto bello rischia di diventare banale. Se si una traduzione in termini un po’ semplificati, sarà anche in lingua corrente, ma ammazza il poema!

Questo è comunque un nodo che è stato presente nella storia dell’interpretazione. Essendoci immagini anche un po’ misteriose, il testo a volte ha problemi di resa e per questo il testo ebraico, a seconda dell’interprete, è stato vocalizzato in un certo modo, poi in modo diverso per cercare di avere delle immagini più adatte. La difficoltà del testo, perciò, può indurre a semplificare la poesia;

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bisogna cercare di ricostruire il testo secondo la sua valenza metaforica, e poi lasciare al lettore di intuire e decodificare questi simboli.

Il Vignolo intitola questa parte: Poema finale, ma è un canto che si potrebbe dividere in tre battute: 11,7-8, con una prima battuta molto breve; 11,9-10, dove il canto comincia ad allargarsi; 12,1-7, dove il canto si espande sempre di più. È un canto sempre più appassionato. Vedremo poi che all’interno dell’ultima strofa ci sono tre movimenti.

Ma intanto leggiamo l’inizio del canto.«7Dolce la luce, gioia per gli occhiuno sguardo al sole».

Non sono soltanto parole messe in fila! Si avverte subito la percezione che ha ogni creatura umana di quanto sia dolce vivere. La luce: «Dio disse: “Sia la luce!”». In questa luce sono incastonate tutte le creature, perché in essa ‘viene alla luce’ il mondo. E dentro questa luce i colori, le sfumature. E chi di noi non è rimasto incantato quando fin da piccolo ha visto la carezza della luce sulle cose, sulle creature? Una dolcezza, una bellezza, uno stupore, una meraviglia. È un miracolo che avviene tutti i giorni, anche se noi siamo abituati ormai alla luce artificiale. C’è il buio, il niente, e poi improvvisamente sei ospite del mondo; sei venuto alla luce per godere questa bellezza.

E non sono soltanto le sfumature della vita che abbiamo visto fuori di noi, ma anche quelle che abbiamo assaggiato dentro di noi. Quel “dolce è la luce” è qualcosa che stai gustando *ebraico. Non ti sei ancora stancato di essere contento di essere in questo mondo, che è bello, nonostante tutto quello che abbiamo detto in questi giorni. Sì, la vita è bella, ed è una realtà che assaggiano tutti coloro che vengono alla luce, credenti e non credenti.

«8Quanti più anni l’uomo vivrà tutti quanti se li goda,si ricordi: altrettanti saranno quelli bui,tutto ciò che accade svanisce».

Certo, proprio perché la tua vita è così transeunte e tu hai sperimentato che tutto è un soffio e verranno anche giorni bui – quando cioè non ci sarai più –, goditi questa giornata che è tua, questa luce che illumina il tuo giorno. Ricordati della morte, ma tieni accesi i colori della vita. Intanto che sei vivo, intanto che c’è tempo, non vestirti a lutto ma vestiti a festa!

Ed ecco la seconda strofa.«9La tua giovinezza ragazzo vivi con gioia».Qui sono nascosti due imperativi: ricordati e gioisci. Sono due imperativi che troveremo anche

nell’ultima strofa: ricordati che devi morire, ma intanto vivi e gioisci. Ricordati che tutto passa, quindi cogli l’attimo. Ricordati che arriveranno i capelli bianchi, quindi approfitta dei capelli neri.

Ma chi è che esorta il ragazzo? Quando leggiamo: “Ragazzo mio… figlio mio…» sentiamo la voce di Qohèlet, ma qui siamo nella trasmissione dell’esperienza del maestro al discepolo. Questo ragazzo è uno che sta imparando a vivere, è l’apprendista della vita che sta ricevendo una parola che lo orienti nelle sue scelte. Potrebbe essere benissimo quello che ha raccolto queste pagine e che fa memoria del suo maestro: “Ti raccomando, approfittane! Impara a vivere godendo la vita”. E il ragazzo/discepolo si sente ancora nell’orecchio questo invito. Anche se si può immaginare che gli anni siano passati anche per lui e i suoi capelli siano ormai bianchi, è rimasto un ‘ragazzo’, un discepolo. Ma tutti siamo apprendisti!

Voi avete seguito questi incontri per una settimana. Vedo che non siete dei ‘giovinetti’, eppure insieme siamo qui e stiamo cercando di imparare a vivere, e fino all’ultimo respiro resteremo discepoli. Fino all’ultimo respiro resteremo dei ragazzi che si stanno affacciando alla vita, e questo è bellissimo. Non è un invito rivolto solo agli adolescenti! Se la prima strofa era rivolta a tutti gli uomini che vengono alla luce e ne apprezzano la bellezza, adesso siamo all’interno di un dialogo a due. E questo vale anche per noi che avanziamo, per cui l’invito è sempre lo stesso: impara ad apprezzare, impara ad ascoltare, in questo mondo che va come va, in questa situazione che non governi tu. Anzi, io credo che ciascuno di noi, con il passare degli anni, registri quante cose non riesce a manovrare nel suo cuore. Ebbene, davanti a questo mistero della vita chiediamo a Dio la gioia del cuore.

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«Goditi i giorni buoni di tua vita,segui le vie del cuore, il fascino degli occhi…».

Qui ancora una volta si fa riferimento ad un’esperienza sensibile. Il nostro poeta è giunto alla noia: “Ho visto… ho visto… ho visto…”. I suoi occhi sono aperti, incantati e anche scossi da tante situazioni, da tante realtà che l’anno amareggiato, eppure invita ancora: “Ragazzo mio, vivi fino in fondo!”.

Ma facciamo attenzione all’ultima riga:«…di tutto questo, sai, a render conto ti chiama Dio».

Stefani traduce: «Procedi lungo le vie del tuo cuore e assecondando quel che i tuoi occhi vedono ma sappi che Dio te ne chiederà conto». Ravasi: «Segui i desideri del tuo cuore e lo stupore dei tuoi occhi. Sappi, però, che per tutto Dio ti convocherà in giudizio». Ceronetti: «Va’ dove va il tuo cuore. Va’ dove va lo sguardo dei tuoi occhi. Ma sappi che per tutto Dio ti giudicherà».Avvertiamo subito l’ammonimento: “Sta’ attento! Non fare cose sconsiderate, perché alla fine Dio ti aspetta per giudicarti”. Tuttavia quel ‘però/ma’, nell’originale non c’è.

Erri De Luca traduce in maniera letterale: «Vattene nelle vie del tuo cuore e nelle viste dei tuoi occhi. E conosci che sopra tutto quello ti farà venire l’Elohìm nel giudizio». E quale è questo ‘giudizio’ di Dio? È quello per tutte le cose che non hai goduto, per tutte le occasioni che hai buttato via, e così ti lamenti dalla mattina alla sera e poi dalla sera alla mattina, dicendo che la vita è brutta, che con te è stata ingenerosa: “Guarda che sciagura mi è capitata addosso… guarda che imprevisto… guarda che rischio!”. No! Dio ti chiamerà in giudizio a rendere conto di tutte le possibilità che ti ha dato e che tu hai disprezzato, sciupato, cestinato. L’invito è serio, è pieno!

«10Via l’angoscia dal cuore,fatti passare ogni disagio al corpo,poiché un soffio la giovinezza, la tua aurora».

Ravasi traduce: «… perché capelli neri e giovinezza sono un soffio». È ‘aurora’ o ‘capelli neri’? Il testo usa il termine *ebraico , la cui radice può significare ‘nerezza’ (la nerezza un soffio), ma anche ‘aurora’, cioè il passaggio dal buio alla luce. In realtà non cambia molto: l’aurora della vita e i capelli neri. L’immagine è quella di una vita giovane, ma il riferimento è al fatto che il tempo del nostro essere discepoli è adesso, anche se abbiamo ottant’anni, perché poi la vita finisce. Hai ancora un’avventura aperta, che non finisce mai. È necessario l’ascolto di questo invito che noi riceviamo ancora stamattina, qualunque sia la data di nascita scritta sulla nostra carta d’identità. C’è ancora una giovinezza dello spirito che sta imparando a gioire della vita.

Siamo giunti alla terza parte del canto. Questa strofa è veramente un capolavoro. Potremmo organizzarla così: il primo versetto fa da introduzione, poi ci sono come tre passi di danza, tre movimenti (vv. 2-4; v. 5; vv. 6-7). Ci sarà poi il motto finale.

Anche nella traduzione si vede che per tre volte c’è un’espressione di questo tipo: “finché non” (Vignolo); «prima che» (Ravasi e Stefani); «fino a che non» (Erri De Luca). Ma finché non arriva che cosa? La morte. Fino all’ultimo istante tu puoi apprezzare di essere ospite nella casa del Creatore. Per la prima volta Elohìm ha un nome singolare: *ebraico, il tuo Creatore, con cui sei in dialogo. Scopri di appartenergli: la tua vita non è tua, ma un dono che Lui ti ha fatto e continua a farti fino a che non arriva l’ultimo istante. Un dono per il quale devi continuare a ricordarti di Lui e a godere di tutto.

Cap. 12:«1E del tuo Creatore ricòrdati…».

Nello schema che avete in mano, vedete che Vignolo ha scritto ‘ricordati’ lontano dalle parole che lo precedono e lo seguono, proprio perché è l’unica memoria che dovrebbe essere quotidiana.

«… nei tuoi giovani giorni,finché non vengano quelli disgraziatie giungano anni per dire:“Non è cosa per me, non ne ho più voglia!”».

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È ancora un invito alla festa interiore, perché poi arriva il ‘temporale’. Ma prima che arrivi l’uragano, approfittane!

«2Finché sole luce luna stelle non si spenganoe dopo la pioggia tornino le nubi».

È l’immagine del cielo nuvoloso che copre la notte, il giorno, le stelle, la luna, il sole. Tutto diventa grigio e si aprirà il giorno ultimo.

Prima che arrivi il temporale, ti accorgi che in casa la gente si muove in un certo modo. Ma questa è l’immagine di una casa che l’uragano ce l’ha dentro. Il temporale non è solo un fenomeno astronomico o atmosferico (corpi celesti, nubi del cielo…), ma anche antropologico, cioè riguarda il nostro vivere di uomini: invecchiamo!

«3In quel giorno i custodi di casa tremano,anche i più validi si piegano…»

Ravasi traduce con: «Gli uomini forti si incurveranno», cioè quelli che difendevano la casa, la città, si sentono anche loro deboli, incapaci di difendere, di fare il loro compito.

«… le addette alla macina superstiti si fermano,spento lo sguardo di donne alla finestra».

Le donne addette a macinare il grano si fermano e non si sente più il rumore. Le finestre servono per guardar fuori, per spiare chi passa. Le tendine servono a non far vedere l’interno, ma consentono di osservare tutto l’esterno. Qui succede che dietro quelle finestre non ci sono più occhi attenti, non c’è più gusto. Non t’interessa più niente di quello che avviene fuori, perché ormai quello che c’è dentro è spento. Senza vigore, anche i sensi non funzionano più e di conseguenza non funziona più la vita.

«4Restano chiusi i battenti sulla viae mentre cade la voce della molasi leva il chiasso degli uccellicon stormi gracchianti che calano…».

Ravasi traduce: «I battenti sulla via saranno serrati, lo stridore della mola si attutirà, il cinguettio degli uccelli si attenuerà, tutti i ritmi delle canzoni si affievoliranno».

Quando invecchiamo ci sembra che tutta la realtà cambi; ma non è la realtà a cambiare, siamo noi che non sentiamo più! Si ha la percezione di non avere più percezioni; avverti che la vita si spegne, i rumori si fanno sordi.

«… 5e dall’alto vedono il terrore in strada.E il mandorlo disgustae la locusta langue,è devastato il cappero».

Il mandorlo sono i capelli neri. Ravasi traduce: «… il mandorlo sarà in fiore», e Stefani: «e il mandorlo si coprirà di candidi fiori». Potrebbe essere il segno dei capelli bianchi.

Vediamo ora come traduce questo passo la Bibbia interconfessionale: «Allora il sole, la luna e le stelle per te non saranno più luminosi, il cielo sarà sempre nuvoloso».

Abbiamo visto l’immagine della casa: i custodi, i vegliardi, le donne che stanno macinando il grano. Qui è tradotto: «Le braccia che ti hanno protetto tremeranno». L’immagine viene subito applicata al corpo, le cui custodi sono le braccia. «Le tue gambe che ti hanno sostenuto diventeranno deboli», ma il testo non dice questo! «I tuoi denti saranno troppo pochi per masticare il cibo (la macina non macina più)… I tuoi occhi non vedranno più chiaramente… Le tue orecchie diventeranno sorde al rumore della strada, non sentirai quasi più il rumore della macina del mulino né il canto degli uccelli… La tua voce sarà debole e tremante». Diventa subito un’allegoria del corpo: «Avrai paura di camminare in salita e ad ogni passo sarai in pericolo di cadere. I tuoi capelli diventeranno bianchi».

Pensiamo alla bella immagine del mandorlo in fiore. Possono essere i capelli che imbiancano, ma forse può semplicemente ricordare che quando il mandorlo fiorisce, fuori è primavera. Però per te è inverno, perché il tempo va avanti, le stagioni si alternano. Tutto ritorna, tu no. Mentre il tempo ti

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segnala che sei ospite di un flusso eterno e tu ti rendi conto che i giorni passano, guarda questo mondo che ti viene incontro. È il tuo Creatore che ti dà da vivere tutto, e puoi anche vivere questo declinare delle forze, questo appuntamento con la vita che finisce, ricordandoti che tu sei nelle mani di Dio. Sei nelle mani del tuo Creatore.

«Ed ecco l’uomo se ne vaalla dimora della sua eternità».

Fin dall’inizio abbiamo detto che Qohèlet pensa a quel giorno, non fa finta di niente, perché quel giorno verrà.

Ci sono poi due immagini bellissime:«6Finché l’asta d’argento non si spezzie la sfera dorata s’infrangae sulla fonte la brocca vada in pezzi,e il recipiente finisca nel pozzo».

Stefani traduce: «…Prima che si tronchi la corda d’argento e vada in frantumi il vaso d’oro, che si rompa la brocca presso la fonte e la carrucola vada in pezzi nella cisterna». La prima immagine è quella della lucerna preziosa che contiene l’olio ed è legata ad una corda d’argento. La nostra vita è una lucerna accesa, appesa ad una cordicella; se si rompe la corda, si spezza la lucerna e l’olio si disperde. È un’immagine ‘interna’: cade con rumore la lampadina del tempo e la vita si spegne. L’altra immagine è ‘esterna’: sei sulla bocca del pozzo, nel quale c’è un sistema di secchi e di carrucole; se il sistema si rompe, il secchio cade sul fondo con un leggero tonfo. Non tiri più su l’acqua! Sono due metafore sulla fine, proposte con suoni diversi.

«7Torna alla terra d’origine la polveree il soffio vitale a Dio che lo dona!»

Qohèlet sta dicendo che dal Creatore veniamo e al Creatore torniamo. L’uomo e la bestia muoiono insieme. Chissà se il soffio dell’uomo va in alto e quello dell’animale va in basso…

Adesso sta dicendo che la vita è così bella, così abitata dalla luce, così dolce, da essere stata un’avventura nella quale abbiamo assaggiato l’ospitalità del Creatore. E se impari ad essere discepolo e ad ascoltare questa parola che ti tiene nella sapienza del vivere, sappi che ritorni a casa. Affidati a questo soffio del Creatore che abita la tua vita. È Lui in te: affidati a Lui, riconsegnati, sprofonda nel mistero.

Quest’ultima pagina non è per niente una ‘pagina nera’, ma un canto di gratitudine. È un grazie alla vita, nella consapevolezza di quanto afferma l’ultimo motto, l’ultima battuta del redattore-discepolo, che così fa il verso al primo versetto:

8Un soffio e poi niente – dice Qohelet –Tutto un soffio – poi niente.

Ma intanto abbiamo appena finito di cantare, e continueremo a cantare finché questo soffio sarà dentro la nostra gola.

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