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PAGINE APERTE Nuzzo Riflessioni in margine a un progetto ONU INTER- SEZIONI Corciulo Alle origini del dibattito metodologico sulla storia delle istituzioni parlamentari LEZIONI Troper Les relations extérieures dans la constitution de l’an III RICERCHE Dumoulin La dévolution du pou- voir municipal dans la France d’Ancien régime / Persano L’Encyclopédie fra continuità e mutamento storico / Clavero Voz de Nación por Constitución. España, 1808-1811 / Labriola Giolitti e lo Statuto da rifor- mare ARCHEOLOGIE Lahmer La doctrine physiocratique du contrôle juridictionnel de la loi positive / Gojosso Le contrôle de constitutionnalité dans la seconde moitié du XVIII ème siècle / Laquieze Le contrôle de cons- titutionnalité de la loi aux Etats-Unis / Meccarelli Controllo di costituzio- nalità e giurisdizione suprema nell’Italia post-unitaria VIRTUTE E CONO- SCENZA Macrì Tra storia e amministrazione nelle pagine dell’Enciclopedia del Diritto (1958–1992) TESTI & PRETESTI Lacchè Il telegrafo di Stendhal CRONACHE ITALIANE Martucci La leggenda di casa Savoia S t oria costituzionale PERIODICO DEL LABORATORIO DI STORIA COSTITUZIONALE ANTOINE BARNAVEn. 4 / II semestre 2002 Giornale di

SGiornale di oria costituzionale · 105 Giolitti e lo Statuto da riformare silvano labriola Archeologie ... 217 Il telegrafo di Stendhal. Politica ed elezio- ... interna ed esterna,

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PAGINE APERTE Nuzzo Riflessioni in margine a un progetto ONU INTER-SEZIONI Corciulo Alle origini del dibattito metodologico sulla storia delleistituzioni parlamentari LEZIONI Troper Les relations extérieures dansla constitution de l’an III RICERCHE Dumoulin La dévolution du pou-voir municipal dans la France d’Ancien régime / Persano L’Encyclopédiefra continuità e mutamento storico / Clavero Voz de Nación porConstitución. España, 1808-1811 / Labriola Giolitti e lo Statuto da rifor-mare ARCHEOLOGIE Lahmer La doctrine physiocratique du contrôlejuridictionnel de la loi positive / Gojosso Le contrôle de constitutionnalitédans la seconde moitié du XVIIIème siècle / Laquieze Le contrôle de cons-titutionnalité de la loi aux Etats-Unis / Meccarelli Controllo di costituzio-nalità e giurisdizione suprema nell’Italia post-unitaria VIRTUTE E CONO-SCENZA Macrì Tra storia e amministrazione nelle pagine dell’Enciclopediadel Diritto (1958–1992) TESTI & PRETESTI Lacchè Il telegrafo diStendhal CRONACHE ITALIANE Martucci La leggenda di casa Savoia

Storiacostituzionale

PERIODICO DEL LABORATORIO DI STORIA COSTITUZIONALE “ANTOINE BARNAVE” n. 4 / II semestre 2002

Giornale di

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Storiacostituzionale

n. 4 / II semestre 2002

Giornale di

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In copertinaPhilippe de Champaigne, Gli Scabini di Parigi, 1648.

Giornale di Storia costituzionale

Periodico del Laboratorio “A. Barnave”

n. 4 / II semestre 2002

Direzione

Luigi Lacchè, Roberto Martucci

Comitato scientifico

Bronislaw Baczko (Ginevra), Giovanni Busino (Losanna), Francis

Delperée (Lovanio), Alfred Dufour (Ginevra), Lucien Jaume (Parigi),

Michel Pertué (Orléans), Joaquín Varela Suanzes (Oviedo)

Comitato di redazione

Paolo Colombo, Federico Lucarini, Giovanni Ruocco, Luca Scuccimarra

Segreteria di redazione

Marco Fioravanti, Alessandro Macrì, Paola Persano

Direzione e redazione

Laboratorio di storia costituzionale “A. Barnave”

Università di Macerata

piazza Strambi, 1

62100 Macerata,

tel. +39 0733 258724; 258775; 258365

fax. +39 0733 258777

e-mail: [email protected]

I libri per recensione, possibilmente in duplice copia, vannoinviati alla Segreteria di redazione.La redazione si rammarica di non potersi impegnare a restituire idattiloscritti inviati.

Direttore responsabile

Angelo Ventrone

Registrazione al Tribunale di Macerata

n. 463 dell’11.07.2001

Edizione e distribuzione ⁄Publisher and Distributor

Quodlibet edizioni

via padre Matteo Ricci, 108

62100 Macerata

tel.+39 0733 264965

fax +39 0733 267358

e-mail: [email protected]

ISBN 88-7462-004-7ISSN 1593-0793

Progetto grafico

Augusto Wirbel

Tipografia

Litografica Com, Capodarco di Fermo (AP)

La rivista è pubblicata con un finanziamento dell’Università diMacerata e con un contributo del Dipartimento di diritto pubblicoe teoria del governo.

Finito di stampare nel mese di dicembre 2002

Prezzo di un fascicoloeuro 15,49;arretrati, euro 22;Abbonamento annuo (due fascicoli)/ Subscription rates (two iusses)Italia, euro 25,82; Unione europea, euro 36,15; U.S.A. e altri Stati,euro 55;

Pagamento:A mezzo conto corrente postale n. 14574628 intestato a Tempi provinciali soc. coop. a.r.l., via p. Matteo Ricci, 108 - 62100 Macerata;Con assegno bancario, con la stessa intestazione;Tramite bonifico bancario: Banca delle Marche cc. 13004ABI 6055 CAB 13401con Carta Visa, inviando, tramite fax o e-mail, i propri dati, numerodella Carta e le ultime quattro cifre della data di scadenza.

Payments:By bank cheque to: Tempi provinciali soc. coop. a.r.l., via P. Mat-teo Ricci, 108 - 62100 Macerata, Italy;By bank transfer:Banca delle Marche cc. 13004 ABI 6055 CAB 13401

Swift BAMA IT 3A001By Credit Card (Visa): please send by fax or e-mail the Credit Cardnumber and the last four digits of expiration date.

Gli abbonamenti non disdetti entro il 31 dicembre si intendono rin-novati per l’anno successivo.

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Sommario

giornale di storia costituzionale n. 4 / II semestre 2002

5 Un organo intermedio tra il popolo ed ilCorpo legislativo

Pagine aperte

7 Diritto all’identità e metanarrazioni.Riflessioni in margine a un progetto ONU

luigi nuzzo

Intersezioni

23 Alle origini del dibattito metodologicosulla storia delle istituzioni parlamentari:il contributo della International Com-mission for the History of Representati-ve and Parlamentary Institutions (ICHRPI)maria sofia corciulo

Lezioni

33 Les relations extérieures dans la Consti-tution de l’an III. Vers la fonction gou-vernementalemichel troper

Ricerche

49 La dévolution du pouvoir municipaldans la France d’Ancien régime: lessystèmes électorauxjaqueline dumoulin

69 L’Encyclopédie fra continuità e muta-mento storicopaola persano

81 Voz de Nación por Constitución. Espa-ña, 1808-1811bartolomé clavero

105 Giolitti e lo Statuto da riformaresilvano labriola

Archeologie

125 La doctrine physiocratique du contrôlejuridictionnel de la loi positivemarc lahmer

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Sommario

145 Le contrôle de constitutionnalité dans la pen-sée juridique française de la seconde moitiédu XVIIIème siècle: une autre approcheeric gojosso

155 Le contrôle de constitutionnalité de la loiaux Etats-Unis vu par les penseurs libérauxfrançais du XIXème sièclealain laquieze

173 Il grande assente? Controllo di costituzio-nalità e giurisdizione suprema nell’Italiapost-unitariamassimo meccarelli

Virtute e conoscenza

191 Il difficile connubio: un itinerario tra sto-ria e amministrazione nelle pagine del-l’Enciclopedia del diritto (1958-1992)alessandro macrì

Testi & pretesti

217 Il telegrafo di Stendhal. Politica ed elezio-ni nel «Lucien Leuwen» ai tempi dellaMonarchia di Luglioluigi lacchè

Cronache italiane

237 La leggenda di casa Savoiaroberto martucci

Librido

251 Quarantasei proposte di lettura

Agenda Barnave

275 La politica allo specchio. Un seminario aMaceratagiovanni ruocco

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Lo Stato costituzionale del XX secolo haistituzionalizzato la figura e le modalità tec-niche del controllo di costituzionalità del-la legge e del disciplinamento giuridico deipoteri. Certo, il ‘modello’ continentale –pur nelle sue diverse variabili storico-nazionali – ha seguito un percorso acci-dentato ed ha dovuto superare possentipregiudiziali.

Il rilievo assunto dalle Corti supreme intermini di interpretazione, di adeguamen-to e di evoluzione costituzionale è ormai unfatto assolutamente ovvio, anche se sonotrascorsi diversi decenni prima che lageneralità del ceto dei giuristi se ne ren-desse pienamente conto. Gli equilibri rag-giunti sembrano poggiare su pilastri forti eben piantati. La giustizia costituzionale èdiventata una tecnica avanzata della demo-crazia (costituzionale) e la legittimazione amezzo del diritto ne ha tratto un decisivorafforzamento.

Non mancano i dubbiosi e gli scettici,chi teme, specie in Francia, per le sortistesse del diritto politico-costituzionale

quasi schiacciato dal peso esorbitante del‘vero’ diritto costituzionale di fonte con-tenziosa. Il dibattito è aperto e le discus-sioni e i dubbi sono alimento per ogni pen-siero realmente critico.

Il “Giornale di storia costituzionale”propone in questo numero un primoapprofondimento monografico e ‘archeo-logico’ sul problema della costituzionalitàdella legge. Non è facile invero ripercorre-re le tracce di una vicenda che in Europasembrerebbe potersi delineare solo innegativo, cioè come impossibilità e imper-fezione. Se assumiamo, nel guardare all’in-dietro, la costituzione normativa e i suoicorollari come parametri di valutazione edi confronto, troveremo allora troppo poco,per lo più meri tentativi. Se invece ciponiamo il problema dal punto di vista –più coerente rispetto alle dinamiche sette-ottocentesche – della garanzia, interna edesterna, della costituzione e della logicagiurisdizionale del controllo della legge, gli

Un organo intermedio tra il popoloed il corpo legislativo*

* Il Federalista n. 78.

giornale di storia costituzionale n. 4 / II semestre 2002

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Presentazione

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esiti potranno essere più significativi erivelare talune singolari analogie – sullequali riflettere - con la moderna concezio-ne della legalità costituzionale. Così la tra-scurata teorica fisiocratica sullo statutodichiarativo della legge (ratio) qualeespressione dell’ordine naturale (Lahmer)si intreccia in modo forse inatteso con lariflessione sul ruolo e sulle pratiche di con-trollo adottate dalle corti sovrane deposi-tarie delle “leggi fondamentali del regno”(Gojosso). La lettura ‘americana’ di Toc-queville e di Laboulaye è un inventario deidilemmi della cultura liberale francese (edeuropea) di fronte alla funzione giurisdi-zionale di controllo (Laquièze). Il compa-rativismo relativista resto quello del Mon-tesquieu che va alla ricerca del più intimoesprit delle ‘leggi’ e delle istituzioni socialie politiche. Tra l’Europa e la Gran Bretagnac’è di mezzo un canale e non è poco, figu-rarsi l’immenso Oceano che divide ilnostro continente dagli Stati Uniti, laddo-ve ai tribunali è stato affidato “un immen-so potere politico”…

Ma il problema di fondo rimane. La leg-ge deve poter essere limitata, ma non basta-no più né l’ordine naturale né la ragionetanto cara ai dottrinari. Il figurino del ruleof law è ben presente ai liberali alla Toc-queville e può confluire, con opportuniadattamenti, nel grande alveo dello Statoliberale di diritto, forma e concetto deno-

tante una complessa e variegata genealogia. Il tradizionale binomio interpretativo

rigidità/flessibilità della costituzione nonesaurisce più il problema del controllo dicostituzionalità. L’alternativa appare unletto di Procuste che costringe le fluideesperienze ottocentesche dentro gli sche-mi di un normativismo costituzionale chenon appartiene ad esse. Bisogna imbocca-re sentieri apparentemente meno battuti.La definizione del “grande assente” divie-ne un problema in sé, da leggere attraversole categorie dei giuristi liberali tra Otto eNovecento. “Ci troviamo di fronte ad unritorno di (o una riformulazione della) cen-tralità del giurista, che, con la sua preroga-tiva più tipica e cioè interpretare il diritto,entra nelle maglie del sistema di relazionitra potere politico e diritto per ritagliarsi esvolgere una funzione fondamentale”(Meccarelli).

Proprio il contributo interpretativo del-le Corti supreme con parametri di giudiziorichiamanti principi, valori, consuetudini,bilanciamenti induce una modalità di enun-ciazione della regola che cerca, pur tra incer-tezze e formulazioni non sempre condivisi-bili, di temperare la voluntas con il richiamoalla ratio, facendo intravedere una concezio-ne della legalità (costituzionalmente intesa)più ricca, complessa, consensuale, plurali-stica. Anche in questo caso la storia costitu-zionale europea non resta muta.

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Pagine aperte

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…The gorilla wrestles with the supermanI who am poisoned with the blood of both, Where shall I turn, divided to the vein?I who have cursedThe drunken officer of British rule, how chooseBetween this Africa and the English tongue I love?Betray them both, or give back what they give?How can I face such slaughter and be cool?How can I turn from Africa and live?DEREK WALCOTT, A Far Cry from Africa (1962)

Indigenous people have the right to the full andeffective enjoyment of human rights and funda-mental freedoms recognized in the Charter of Uni-ted Nations, the Universal Declaration of HumanRights and international human rights law.

Con queste parole si apre il progetto finale diDichiarazione sui diritti dei popoli indigenielaborato nei primi anni Novanta dal Wor-king Group on Indigenous Populations, eapprovato nel 1994 dalla Sotto-commissio-ne sulla prevenzione della discriminazione ela protezione delle minoranze, istituzionecreata dal Consiglio economico e sociale del-le Nazioni Unite nel 1982 al fine di promuo-

vere la difesa delle popolazioni indigene e diassicurare un più efficace strumento per ilriconoscimento dei loro diritti1. Un proget-to però che, nonostante il richiamo “fidei-stico” alla Dichiarazione universale deiDiritti dell’Uomo e la sua sostanziale ricon-ducibilità all’interno della logica discorsivadei diritti umani, aspira a ripensare la diffi-cile eredità che quella dichiarazione «colo-niale e non universale»2 ci ha lasciato.

Viene orgogliosamente rivendicato infat-ti che l’iniziativa nasce dal basso, da un grup-po di lavoro privo di «autorità propria», mache arricchito dalla presenza dei nativi si ètrasformato in realtà in un organo interna-zionale per la rappresentanza dei popoliindigeni e per la diffusione della «voce indi-gena»3 nelle sale delle Nazioni Unite e dun-

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Diritto all’identità e metanarrazioniRiflessioni in margine a un progetto ONU*

luigi nuzzo

giornale di storia costituzionale n. 4 / II semestre 2002

* Si riproduce, con le opportune integrazioni e modifi-che, il testo di una relazione svolta il 28 luglio 2001,presso l’Università di Siviglia, al I. Encuentro de Inve-stigatores sobre los Derechos de los Pueblos Indígenas sultema El Proyecto de Declaración Universal de los derechosde Pueblos Indígenas de Naciones Unidas. Queste pagine sono dedicate a Luciano.

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que in uno strumento per la definizione el’affermazione di una nuova soggettività giu-ridica: il popolo indigeno. Un nuovo sogget-to, che vuole ora dotarsi di parola e dei mez-zi per farla sentire, che deve essere pensatocomunitariamente, con nuova identità ediritti collettivi perché solo attraverso ilriconoscimento di tali diritti, e soprattuttodel diritto alla autodeterminazione, può arri-vare a recuperare ed ammettere diritti sog-gettivi e libertà individuali.

Questo soggetto non richiede, né anela,riconoscimenti o legittimazioni statali, puòfarne a meno perché già dato, preesistente,ma rivendica all’interno della spazialità sta-tale il mantenimento e il rafforzamento deipropri sistemi politici e normativi e soprat-tutto il recupero e il riconoscimento dellasua memoria.

«Things are not so clear», scrive ColinPerrin, e non così semplici, purtroppo4.Innanzitutto perché nonostante i successiottenuti da molti movimenti indigeni le lororichieste di autodeterminazione e di giusti-zia continuano ad infrangersi sulle resisten-ze statali a riconoscere nuove forme di sog-gettività politica e sulle barriere erette peruna strenua difesa degli ultimi brandelli disovranità nazionale5; non si dimentichi, ilprogetto è ora sottoposto all’esame dellaCommissione delle Nazioni Unite sui dirit-ti umani, e quindi al rischio di essere attrat-to nell’orbita degli Stati nazionali, imbri-gliato nei lacci delle pratiche discorsive edelle strategie retoriche statali6.

La dichiarazione e la società civile di cuiè espressione potrebbero ritornare dunquenelle maglie di una sovranità e di uno Stato,che inesorabilmente tende a disattivare laforza costituente di ogni nuova soggettivitàaltra, o facendosi carico, giuridicamente epoliticamente, della sua tutela, o negandola

come terroristica e riducendola ad un bana-le problema di ordine pubblico7.

Un’altra domanda, poi. Di chi si parlaquando si parla di popoli indigeni? Chi sonogli indigeni? Sono un prodotto della nostraimmaginazione occidentale, vivono ancoranelle riserve del nostro immaginario colo-niale? La dichiarazione in esame non vuoleaiutarci.

Tuttavia, pur non contenendo alcunadefinizione di “indigenità”, non può fare ameno di presupporla insistendo nei 45 arti-coli sulla identità culturale e sulla diversitàetnica di gruppi preesistenti agli Stati colo-niali lungo una linea già fissata in una rela-zione del 1983 di Martinez Cobo, special rap-porteur della Sottocommissione Onu sullaPrevenzione delle discriminazioni e la pro-tezione delle Minoranze. Secondo tale rela-zione le comunità, i popoli e le nazioni indi-gene sono infatti coloro che

having a historical continuity with pre-invasionand pre–colonial societies that developed on theirterritories, consider themselves distinct fromother sectors of societies now prevaling in thoseterritories or parts of them. They form at presentnon dominant sectors of society and they aredetermined to preserve and develop and transmitto the future generations their ancestral territo-ries, and their ethnic identity, as the basis for theircontinued existence as people8.

Formalmente quindi si sfugge ai perico-li (e ai limiti) che ogni definizione contiene,ma non si può fare a meno di costruire ilnuovo soggetto attraverso una logica binariae dialettica che si muove sempre nello spa-zio chiuso di due opposti, centro/periferia,occidente/terzo mondo, moderno/premo-derno, colonizzatore/colonizzato9. Sfumaquindi la possibilità di fare dell’indigenitàuna categoria aperta, libera dai condiziona-

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menti imposti dalla temporalità e dalla spa-zialità coloniali, pronta all’incontro con altresoggettività resistenti e si riconduce il sog-getto indigeno, nato da uno storico proces-so di lotta, e necessariamente contingente,nelle trame di un discorso senza tempo fon-dato su di una sua distinctiviness etnica, fat-ta di pratiche religiose, tradizioni culturali,legami ancestrali con la madre terra, in unacategoria che appare quindi astorica, natu-rale e non problematica10.

Ripartiamo dunque dall’identità e ripen-siamola storicamente. Ciò che intendo pro-porre in queste pagine è infatti una rilettu-ra, da una prospettiva storica, del concetto diidentità individuale e collettiva delle popo-lazioni indigene, affermato solennementenell’art. 8 del progetto e poi specificato indiversi articoli, che possa permettere rinno-vate ricostruzioni per mezzo di nuovi mon-taggi istituzionali collettivi e aprire a diver-se soluzioni politiche. Un discorso che ècostruito, da un lato, archeologicamente,come ricerca delle strategie retoriche attra-verso cui l’identità è stata negata e come ana-lisi dei meccanismi comunicativi che per-misero il radicamento dei valori occidenta-li tra i colonizzati; dall’altro è pensato all’in-terno di quel metadiscorso che si sviluppanei 45 articoli del progetto e che costituisceuno degli ultimi straordinari prodotti dellamodernità e forse delle sue illusioni.

Ma leggiamo il testo. L’articolo 8 prevede che

[i]ndigenous peoples have the collective and indi-vidual right to maintain and develop their distinctidentities and characteristic, including the rightto identify themselves as indigenous and to berecognized as such,

stabilendo quindi il diritto dei popoli a auto-rappresentarsi come indigeni ed essere di

conseguenza riconosciuti come tali. Conl’articolo 9 poi si prevede che

[i]ndigenous peoples and individuals have theright to belong to an indigenous community ornation, in accordance with the traditions andcustoms of the community or nation concerned.No disadvantage of any kind may arise from theexercise of such a right.

Si sancisce dunque formalmente ciò chei conflitti etnici degli ultimi anni hannochiaramente anticipato, cioè il carattere arti-ficiale e fittizio dello Stato nazionale, inven-zione occidentale poi esportata e imposta nelresto del globo, che ha prodotto «l’effettoperverso di irrigidire le identità dei popolicon la pretesa di sussumerli entro forzoseunità e così di negarne le differenze nonmeno delle comuni identità»11.

Le popolazioni indigene sono, nel testo,nuovamente nazione, costituiscono comu-nità nazionali che vivono all’interno dei sin-goli Stati secondo le proprie tradizioni e ipropri costumi. L’ONU riconosce infatti allepopolazioni indigene il diritto di manifesta-re, praticare, insegnare le proprie tradizio-ni culturali, celebrare le proprie cerimoniespirituali e religiose, trasmettere la propriastoria, cultura e lingua alle generazioni futu-re (artt. 12, 13, 14).

In altre parole si cerca di restituire agliindigeni la memoria negata, l’identità di unpopolo può esistere infatti solo se vi èmemoria di sé e della propria storia.

Come ha scritto Fanon,

il dominio coloniale, perché totale e semplifican-te, ha presto fatto disconnettere in modo spetta-colare l’esistenza culturale del popolo sottomesso.La negazione della realtà nazionale, i rapporti giu-ridici nuovi introdotti dalla potenza occupante, lacacciata alla periferia, da parte della società colo-niale, degli indigeni e dei loro usi, l’esproprio,

Nuzzo

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l’asservimento sistematizzato degli uomini e del-le donne, rendono possibile questa obliterazioneculturale12.

Le parole di denuncia di Fanon, che apri-vano una conferenza sul rapporto tra cultu-ra nazionale e lotte di liberazione, testimo-niano la straordinaria efficacia e il lungopercorso del discorso coloniale della moder-nità. Esso necessitava per la sua sopravvi-venza e il suo perfezionamento non solo diun’opzione politico-militare, ma anche diuna struttura ideologica e culturale, che sinutriva e continua a nutrirsi di diversi ele-menti: giuridici, religiosi o anche in appa-renza soltanto artistico–culturali, come peresempio la pittura, il romanzo, l’opera, o lerappresentazioni teatrali13.

Questo processo di «obliterazione cul-turale» cui furono sottoposte le popolazio-ni indigene può essere, a mio avviso, com-preso appieno attraverso una rilettura stori-ca dei primi incontri tra civiltà europea ealterità indigena e delle relazioni che si ven-nero a strutturare con coloro che popolava-no le terre indiane14.

Nell’America spagnola si assistette infat-ti alla completa sovrapposizione di un siste-ma culturale su un altro, si definirono i per-corsi e le strategie che garantissero l’ingres-so e il radicamento dei valori dell’occidentecristiano nel mondo indigeno e si ricondus-sero le nuove soggettività nelle più rassicu-ranti categorie già conosciute degli schiavi,dei bambini, degli idioti, dei rustici15.

L’alfabetizzazione delle popolazioni indi-gene e l’irrompere della scrittura nel siste-ma culturale americano, finanche all’inter-no delle rappresentazioni iconografiche, chedi quella cultura erano uno dei prodotti piùautentici, non rappresentarono solo lo stru-mento per la normalizzazione del sapere

indigeno. Esse fornirono, da un lato, la pre-messa giustificazionista per la conseguenteespropriazione delle terre americane raffor-zando l’equiparazione degli indiani con fan-ciulli o idioti, che, come tali, necessitavanodi una tutela intellettuale e legale, e dall’al-tro costituirono il canale per l’interiorizza-zione della nuova giuridicità e per il radica-mento dei suoi valori.

Un formidabile impulso per il raggiun-gimento di questo obiettivo, non privo tutta-via di contraddizioni, si ebbe con l’instanca-bile attività di alfabetizzazione svolta dagliOrdini mendicanti e perseguito dalla Coro-na con l’emanazione di numerose leyes, cédu-las e cartas relative alla istituzione di scuolee collegi e alla fissazione delle regole alle qua-li ci si sarebbe dovuti attenere nell’insegna-mento della lingua spagnola. Questo proces-so normativo di ispanizzazione linguisticadelle Indie trovò nelle grandi opere di Anto-nio De Nebrija e di Aldrete il fondamentoteorico e il modello ideologico da esportaree vide, nel vocabolario messicano-castiglia-no di Alonso de Molina e nella grammaticadella lingua generale del Perù di Domingo deSanto Tomás, i risultati più brillanti16.

L’intensa produzione legislativa in mate-ria linguistica nasceva dalla consapevolezzache solo la diffusione dello spagnolo comelingua comune avrebbe garantito ai vincito-ri l’accesso al passato e la condivisione del-le antiche memorie dei vinti. L’adozione diun comune linguaggio poneva di conversoanche le basi per l’ingresso dei barbariall’interno della comunità civile, per il supe-ramento dell’imbarazzante nudità a cui gliindiani parevano condannati e per la nega-zione della loro diversità17.

Gli indigeni erano come tabulae rasae chenecessitavano della mano sapiente di un pit-tore o di un incisore, il quale vi inscrivesse i

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segni della civiltà e della cristianità18. E l’in-tero mondo americano era un mondo barba-ro, «una bestia sin policía alcuna», che

estotro mundo de acá con su conversación y tratole ha desenvuelto y hecho ladino y conversable, yle ha traído de los montes donde estaba a térmi-nos de mejor policía19.

La diversità doveva essere superata, eranecessario ricostruire l’ordine universalestabilito da Dio20. Bisognava quindi ricon-durre all’interno delle categorie della cultu-ra occidentale le popolazioni autoctone. Ciòavrebbe contribuito a disattivare le paure chequeste nuove soggettività creavano dal pun-to di vista sessuale (si ricordi il mito dellasodomia e della libertà dei rapporti carnali),giuridico-sociale (si pensi alla frequente einquietante assenza di rapporti proprietari,o al diverso significato di formazioni come lafamiglia) e, naturalmente, religioso21. Per-metteva, inoltre, lo ricordo ancora, l’appli-cazione nei loro confronti dei paradigminormativi previsti per i fanciulli e la lorotutela, e soprattutto per mendicanti e vaga-bondi e la loro rieducazione attraverso lafede e il lavoro22.

Dal punto di vista grammaticale, invece,ordine voleva dire ritorno all’unità lingui-stica originaria, a quella unità cioè che gliuomini, con la torre di Babele23 e con il lorofolle disegno di toccare il cielo, avevano for-se irreparabilmente minato e che ora si per-seguiva con l’affermazione del castigliano econ l’alfabetizzazione delle lingue indigene,con la riconduzione dunque di suoni scono-sciuti a lettere conosciute.

Come ha ricordato recententemente W.Mignolo, in pagine molto belle dedicate alladiffusione delle opere di Nebrija nel nuovomondo, questa operazione costituì non solouna rivoluzione tecnologica del sistema di

sapere indiano, ma determinò anche unaprima frattura con la tradizione classica. Lelettere infatti si liberavano della subordina-zione nei confronti della voce cui erano sta-te condannate e divenivano lo strumento peril controllo della voce stessa. Le lettere furo-no promosse a una dimensione ontologicacon una chiara priorità sulla voce come sututti gli altri sistemi di scrittura.

The letters had become the voice in itself, whilenon alphabetic writing systems were suppressed.The discontinuity of the classical tradition duringthe encounter with Amerindian languages emer-ged in the common and repeated expression estalengua carece de tales letras24.

Con l’applicazione americana del prin-cipio dell’umanista spagnolo che «se debeescribir como se habla y se debe hablar comose escribe» e che «los sonidos deben corre-sponder a cada una de las figuras de lasletras»25 si rese possibile la conquista delsistema sonico di lingue complesse come ilnahuatl o il quechua e la loro traduzione neirigidi schemi di un alfabeto.

L’insegnamento del castigliano diventa-va quindi un passaggio obbligato nel proces-so di civilizzazione della popolazione indi-gena e nello stesso tempo di razionalizzazio-ne del territorio. Un unico disegno discipli-nante che andava dalla politica linguistica aquella urbanistica percorreva l’attività colo-nizzatrice spagnola: agli indios doveva esse-re impedito di fuggire sui monti o nelle fore-ste; essi dovevano essere ripartiti nei pue-blos, in nuclei familiari strutturati sulmodello europeo mujer e hijos y heredades,ogni villaggio avrebbe dovuto avere una chie-sa e presso ogni chiesa ci sarebbe dovutaessere una “casa” dove i fanciulli imparas-sero a leggere, a scrivere e si avvicinasserocosì alla dottrina cristiana26.

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Il castigliano appariva, nelle rappresen-tazioni normative della Corona, la linguacomune, lo strumento per la riduzione adunità della molteplicità degli idiomi indiani,il canale attraverso il quale strutture politi-che, buoni costumi e naturalmente la fedecattolica sarebbero penetrati anche nel sel-vaggio mondo americano e avrebbero con-quistato i suoi abitanti27.

Come Tomás López Medel ricordava, ilmerito maggiore che gli spagnoli potevanovantare verso gli indiani era quello di averreso il loro mondo «mas conversable». Ilcastigliano infatti, lingua buona, elegantee civile, permetteva, superando la confu-sione linguistica locale, la creazione di unrapporto di comunicazione fra gli spagno-li e gli altri, nonché tra le stesse popola-zioni indigene altrimenti condannate alsilenzio o all’incomprensione. Dall’ascol-to e dalla comprensione delle parole deglialtri poteva nascere la conversación, cioè ildialogo e le relazioni sociali, e poi ancora,da questa l’amore e l’amicizia fra indiani espagnoli28.

Questi sentimenti modellati sull’esem-pio più alto dell’amore verso Dio permette-vano inoltre di mutuare l’obbligo di obbe-dienza che era dovuto alla divinità, di veico-larlo nella società e di strutturare proprioattraverso questo dovere le stesse relazioniumane e in particolare quelle tra colonizza-tori e colonizzati.

La lingua era un mezzo di comunicazioneche attivava i sentimenti profondi d’amore,amicizia, grazia, che muovevano ancora lerappresentazioni del mondo premoderno, limetteva in circolo e permetteva che essi dis-piegassero tutta la loro forza ordinante. Lostabilirsi d’amorevoli relazioni avrebbe per-messo agli Indios, ricordava ancora Medel,di apprendere «nuestra policía de comer, de

beber, de vestir, de limpiarnos y de tratarnuestras crianzas» e li avrebbe resi soprat-tutto docili e obbedienti29.

Al contrario la resistenza, anche soloculturale, la volontà di preservare la pro-pria identità rifiutando il nuovo ordinepolitico o anche conservando solo lamemoria della propria lingua e della pro-pria storia avrebbe prodotto esclusione. Unsimile comportamento avrebbe infattiallontanato i nativi dal sentimento di amo-re e liberalità che la corona e gli ordini reli-giosi provavano nei loro confronti, e cheregolava in modo quasi giuridico e così per-vasivo tutti i rapporti politici e umani del-le società premoderne.

La ricerca di questa identità negata, pri-ma, dalla violenta e performativa affettivitàmedievale e, poi, dimenticata nella genera-lità e astrattezza della modernità, che a quelmondo plurale aveva opposto l’unità delloStato e la solitudine dell’individuo, ha ani-mato la riflessione del gruppo di lavoro del-le Nazioni Unite. Nell’art. 8 del progetto siafferma quindi il diritto all’identità e siesprime la necessità che la memoria indige-na, violata per troppo tempo, sia finalmen-te reintegrata.

Tuttavia il diritto all’identità deve neces-sariamente (o realmente) significare anchediritto alla diversità e al riconoscimento del-la politicità di quella diversità, finalmenteliberata dall’ansia tipicamente moderna diessere catalogata, dalla preoccupazione cioèdi collocare in qualche modo gli indigeni,condannati a rimanere sospesi in uno spa-zio atemporale in cui la loro

indigenousness is sufficiently “present” for themto be able to claim rights, as well as sufficiently“absent” to make their claim to rights necessary30.

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L’introduzione di un diritto alla diversitàattraverso il riconoscimento di un dirittoall’identità, in un progetto di Dichiarazioneuniversale di diritti, può rappresentare unanovità di grande importanza. Se infatti, comeha dimostrato la ricerca sociologica e storicadi matrice sistemica, l’universalismo deivalori, nella sua specificazione nei sottosi-stemi della società, svela tutta la sua illuso-rietà e inconsistenza, infrangendosi ineso-rabilmente sulle diseguaglianze e sulle realidifferenze sociali31, sostenere e dichiarare ladiversità indigena costituisce un primo timi-do segnale verso una problematizzazione deldiscorso giuridico della modernità sui dirit-ti umani e sulla dignità umana e verso il supe-ramento dell’unicità del soggetto giuridico.Si introduce infatti una specificazione all’in-terno del sistema universale dei valori diuguaglianza e pari dignità degli uomini nonproduttiva di diseguaglianza, ma che attra-verso il riconoscimento della diversità bio-culturale concorre a produrre uguaglianza.

Insistere sul diritto ad una identità diver-sa delle popolazioni indigene può produrreulteriori benefiche conseguenze nella teoriagiuridica.

Come ha notato giustamente Crenshaw,uno dei maggiori esponenti della teoria del-la differenza razziale, l’identità dipende dal-la nozione di differenza. «La differenza è unconcetto derivato, basato sull’identità: duecose sono diverse se non sono identiche»32.

Se dunque l’identità è comprensibile soloin termini di differenza rispetto all’altro, ildiscorso giuridico della modernità, cheoccultava queste differenze all’interno di uni-co discorso alimentato dai supremi principidell’uguaglianza formale, dell’universalità,della generalità e dell’astrattezza ed incen-trato su un’immagine di uomo come esseregiuridico, soggetto razionale titolare di dirit-

ti, è segnato da crepe e contraddizioni pro-fonde che sempre più difficilmente possonoessere occultate33.

Antinomie e insufficienze che in veritàla teoria marxista aveva già smascherato,riconoscendo la finzione dell’autonomiasoggettiva e il carattere ideologico della cen-tralità del soggetto. L’analisi antiumanista diAlthusser aveva infatti ricondotto l’inven-zione del soggetto giuridico all’interno del-l’apparato ideologico dello Stato e, liberan-dolo dall’egualitarismo e dall’astrattismo cuilo aveva confinato la riflessione illuministae poi ottocentesca, aveva ribadito la sua cen-tralità all’interno dei meccanismi di ripro-duzione e conservazione del sistema di pote-re borghese34.

Più recentemente il paradigma modernodella soggettività giuridica ha subito la criti-ca definitiva della teoria dei sistemi e dellagiurisprudenza postmoderna. Nella teoriadei sistemi, infatti, la razionalità ha abban-donato il soggetto per il sistema, mostrandouna volta per tutte la debolezza e la consun-zione delle strategie e delle finalità che ave-vano portato la scienza giuridica e politicaottocentesca alla concezione “soggettocen-trica”35.

L’epistemologia di Luhmann individua il modo diproduzione della razionalità moderna che è razio-nalità del sistema ed elabora la strategia dell’inte-grazione del soggetto nell’universo descritto daquella razionalità; essa capovolge l’immaginemistica del soggetto razionale, del soggetto al disopra e al di là del sistema sociale, e indica le con-dizioni epistemologiche per realizzare la com-prensione e la riduzione della complessità delmondo, le condizioni, cioè, per cui il soggetto, cheè ormai solo un equivalente funzionale del siste-ma, partecipi della razionalità del capitale e impe-gni tutto se stesso nella realizzazione di quellarazionalità universale che lo guida, lo programma,che canalizza le sue delusioni, che orienta le sue

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illusioni, che gli tiene latente quanto potrebbespingerlo a non accettare il gioco36.

Nel postmodernismo giuridico, invece,l’applicazione delle teorie decostruttiviste,poststrutturaliste, gli approcci psicoanali-tici e femministi hanno contribuito alladecostruzione del postulato dell’uguaglian-za formale dei consociati e dell’unicità delsoggetto giuridico37. Ne è emerso un sog-getto non più alienato, ma frammentato,decentrato, plurale. Queste complicazionisoggettive hanno favorito la consapevolezzadella propria identità e quindi della propriadiversità e disattivato la forza programma-tica delle metanarrazioni moderne.

Ciò ha permesso, da un lato, il supera-mento delle forme di individualità forte:nazione, Stato, partito politico, e la sostitu-zione con individualità diverse come etnie,gruppi, movimenti e, dall’altra, l’emersio-ne di una molteplicità di discorsi che tieneconto delle diverse identità e dei diversipunti di vista. Infatti, il riconoscimentodell’identità e quindi della diversità ha pro-dotto, come hanno dimostrato gli studipostcoloniali, rilevanti risultati sul pianoretorico, permettendo lo sviluppo di nuo-ve pratiche discorsive che hanno ribaltato letradizionali prospettive per la lettura delrapporto noi/altri; centro/periferia38.

Tuttavia la lettura che si cerca di pro-porre in queste pagine, fondata sul ricono-scimento ad un diritto alla diversità attra-verso l’affermazione del diritto all’identi-tà, non risolve, a mio avviso, tutte le con-traddizioni e i dubbi da cui è attraversata.

Si può parlare infatti ancora di un’iden-tità? è possibile ancora ricostruire (o forsepiù esattamente costruire), partendo dallamemoria, un’identità che viva ancora sul-l’opposizione binaria colonizzati/coloniz-

zatori? o la frammentazione del soggetto,che abbiamo assunto come presupposto peril riconoscimento del diritto alla diversità,produce un’irreparabile parallela fram-mentazione dell’identità? o ancora, negarela forza semplificante e omogeneizzante delsoggetto giuridico unico non determinainesorabilmente una fondamentale ambi-guità di fondo del concetto di identità checi conduce fino al paradosso di Balibar chenon vi è identità che non sia identica a sestessa?39

Non ci aiuta Peau noir, masques blanchesdi Fanon, né la rilettura che Homi Bhabhane fa in The Location of Culture. Nel testo diFanon si assiste infatti ad un inesorabile eirreparabile spiazzamento dell’io colonia-le, ad una schizofrenia dell’identità

nel momento in cui il soggetto colonizzato siaccorge che non potrà mai diventare bianco,come gli è stato insegnato di diventare, o liberarsidell’essere nero che ha imparato a disprezzare40.

Bhabha, invece, partendo dal concetto diibridità, scioglie le identità coloniali, sia delsoggetto colonizzato che del colonizzatore,supera il conflitto tra il «Sé coloniale e l’Al-tro colonizzato», affermando la reciprocadipendenza di queste identità e nello stes-so tempo la loro continua fluidità e inde-terminatezza41.

In verità, se le riflessioni psicanalitichenon ci aiutano a trovare una risposta defi-nitiva, neppure le strategie discorsive piùtradizionali sviluppate dall’ONU nel pro-getto in esame riescono a risolvere i nostridubbi. Anzi, insistere sulla necessità diun’identità indigena dal carattere essen-zialmente culturale, intessuta di tradizionie cerimonie del passato, rivolta alla con-servazione e al recupero della memoria sto-

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rica, anche attraverso la riscoperta degliidiomi originari, può determinare un’ulte-riore frammentazione del soggetto, questavolta diviso tra un’identità concreta, deter-minata dall’appartenenza alla comunitàetnica o alla nazione, e un’identità astrattache deriva dall’essere, il soggetto indigeno,anche cittadino di uno Stato, ma che inassenza di strumenti che permettano unareale interazione con la vita politica dei sin-goli paesi rischia di rimanere appunto suun piano ideale, astratto42.

Infine un paradosso.Al di là delle diverse conseguenze che il

superamento del principio dell’unità delsoggetto giuridico potrebbe determinaresull’identità del soggetto stesso, o una mag-giore consapevolezza della propria specifi-cità e dunque della propria diversità, oall’opposto un’irrecuperabile perdita diidentità, non può negarsi l’esistenza neltesto in esame di un’antinomia tra la formae il contenuto.

Infatti, sia l’art. 8, che dichiara il dirit-to collettivo e individuale delle popolazio-ni indigene a conservare e sviluppare lapropria identità, sia l’art. 9, che sancisceun riconoscimento ufficiale della moltepli-cità delle identità e delle identificazioni, equindi della diversità indigena (medianteil diritto di appartenenza ad una comunitàe nazione indigena), fanno ancora parte diun metadiscorso che è espressione di valo-ri e principi propri della modernità.

Si assiste cioè al paradosso di persegui-re un diritto alla diversità all’interno di unanarrazione che ha come suo obiettivo ulti-mo quello di superare le differenze e pro-durre unità, rimanendo ancora fedeli aldogma del soggetto giuridico unico (se purindigeno), generale, astratto, ancora inde-terminato e non localizzato.

Tuttavia nonostante questo paradosso oforse grazie a questo paradosso si possonoaprire nuovi spazi per il giurista. La consa-pevolezza delle difficoltà di determinaresemanticamente il contenuto dei dirittifondamentali ci permette di sfruttare piùadeguatamente il capitale simbolico delladichiarazione per costruire un discorsoche, libero dai lacci della filantropia giuri-dica e al di là della retorica dei diritti uma-ni, non cerchi, ancora una volta, di disatti-vare le antinomie del soggetto, ma che siarealmente plurale, sensibile alla moltipli-cazione soggettiva della postmodernità. Ladiversità quindi come obiettivo di un’azio-ne politica volta al suo riconoscimento sulpiano giuridico-culturale, e come coele-mento per la definizione di una nuova sog-gettività, non più chiusa negli spazi prede-finiti della modernità, ma radicalmenteaperta e antagonista.

Un’azione politica intessuta di una mol-teplicità di scontri che recuperino spazia-lità e temporalità concrete, che non si arre-stino di fronte alle barriere formalistichedella legalità, e che quindi non escludanoaprioristicamente quei momenti di illega-lità necessariamente impliciti in tutte lepratiche politiche, sociali, giuridiche cheportano alla definizione di nuovi soggetti ealla comparsa di diritti fino ad allora nonimmaginabili43.

Una dichiarazione universale dei dirit-ti delle popolazioni indigene, se ha ancoraun senso, deve presupporre dunque l’esi-stenza di una pluralità di ordini normativie di meccanismi di potere che il giuristadella postmodernità, non più «legislato-re» ma nuovamente «interprete»44, ha ilcompito di svelare e di far parlare al fine dipermettere l’emersione delle altre sogget-tività, schiacciate nella modernità, fino alla

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loro negazione, dalla forza egemonica del-le categorie dell’individuo proprietario edello Stato45, e ora nuovamente messe inpericolo proprio dal globalismo giuridico e

dai nuovi standard di civilizzazione46 fis-sati da carte, progetti e istituzioni per ladifesa dei diritti umani47.

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1 La prima versione del progetto èdel 1993 ; dopo un riesame tecni-co il progetto, adottato da tutta laSottocommissione, è stato appro-vato con la risoluzione 1994/45 del26 agosto 1994. Per un quadro sin-tetico del percorso che ha portato aquesta dichiarazione cfr. A. Bur-guete Cal y Mayor, M. Xib RuizHernández, Hacia una carta uni-versal de derechos de los pueblos indí-genas, in AA.VV., Derechos indíge-nas en la actualidad, Mexico 1994,pp. 117-151.

2 B. Clavero, Derechos indígenas ver-sus Derechos humanos (a propósitode un proyecto de Naciones Unidas),«Quaderni Fiorentini», 26(1997), p. 567.

3 B. Clavero, De los ecos a las voces, delas leyes indigenistas a los derechosindígenas, in AA.VV., Derechos delos pueblos indígenas, Vitoria-Gasteiz 1998, pp. 35-72.

4 C. Perrin, Approaching Anxiety: TheInsistence of the Postcolonial in theDeclaration on the Rights of Indige-nous Peoples, in E. Darian, F. Fitz-patrick (a cura di), Laws of Postco-lonial, Ann Arbor 1998, pp. 19-38.

5 V. le proposte per un «federalismodiverso, democratico e decentra-to» di I. M. Young, Hybrid Demo-cracy: Iroquois Federalism and Post-colonial Project, in D. IVISON, P. Pat-ton, W. sanders (a cura di), Politi-cal Theory and the Rights of Indige-nous Peoples, Oakleigh 2000, pp.253-58.

6 Con la risoluzione 1994/45 [vedi.nt.1] la Sottocommisione aveva giàsottoposto il progetto alla Com-missione sui diritti umani dell’O-nu che ha deciso con la Risoluzio-

ne 1995/32 (3.04.1995) «to esta-blish, as matter of priority andfrom within existing overall Uni-ted Nations resources, an open-ended inter-sessional workinggroup of the Commission onHuman Rights with the sole pur-pose of elaborating a draft decla-ration, considering the draft con-tained in the annex to resolution1994/45 (26.08.1994) of the Sub-commission on Prevention of Dis-crimination and Protection ofMinorities, entitled draft “UnitedNations declaration on the rightsof indigenous peoples” for consi-deration and adoption by theGeneral Assembly within theinternational Decade of the Worl-d’s Indigenous People»; cit. in S. J.Anaya, Indigenous Peoples in Inter-national Law, New York 2000, p.67, nt. 86.

7 Per una critica dello Stato postmo-derno, diffusamente M. Hardt, A.Negri, Il lavoro di Dioniso. Per la cri-tica dello stato postmoderno, Roma2001 (ed. or. 1994). Degli stessiautori si veda anche Empire, Cam-bridge (Mass.) 2000, in cui siafferma l’emersione di una nuovaforma di soggettività radicale ealternativa alle logiche del potereglobale, «un potere costituentebiopolitico e comune che puòcreare democrazia».

8 U.N. Subcommision on Preven-tion of Discrimination and Protec-tion of Minorities (J. MartinezCobo, special rapporteur), Study ofthe Problem of Discriminationagainst Indigenous Populations,U.N. Doc. E/CN.4/Sub.2/1983/21Add.1-7 (1983).

9 Un’acuta critica della visione bina-ria del mondo e della dialettica chela informa è nei saggi di H. Bhab-ha, The Location of Culture, Lon-don-New York 1994, trad. it. A.Perri, I luoghi della cultura, Roma2001.

10 Perrin sottolinea la difficoltà dicollocare gli indigeni, «simplyhere (inside) or there (outside)»poiché essi sono «not placedsimply before or behind colonia-lism and modernity; this time isinimical to the writing of theDeclaration; it is a “time imme-morial” which is, therefore, notquite historical», Perrin, Approa-ching Anxiety, cit., pp. 25-27.

11 L. Ferrajoli, La sovranità nel mondomoderno. Nascita e crisi dello Statonazionale, Roma-Bari 1997, p. 48.

12 F. Fanon, Fondamenti reciproci del-la cultura nazionale e delle lotte diliberazione, in ID. Opere scelte, a curadi G. Pirelli, Torino 1971, p. 61.

13 Nell’ampia storiografia dedicataall’analisi dei rapporti tra dimen-sione culturale e colonialismo èd’obbligo rinviare a E. Said, Cultu-re and Imperialism, New York 1993,trad. it. S. Chiarini e A. Tagliavini,Cultura e imperialismo. Letteraturae progetto dell’Occidente, Roma1998; si veda anche E. Cheyfitz, ThePoetics of Imperialism. Translationand Colonization from The Tempestto Tarzan, Oxford 1991; T. Eagleton(a cura di), Nationalism, Colonia-lism and Literature, Minneapolis1990.

14 Per un diverso sguardo sui dirittiumani attraverso le lenti della sto-ria giuridica cfr. A.A. Cassi, Dirittoe diritti nella costruzione del Nuovo

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Mondo, in A. Sciumè (a cura di), Idiritti umani nel processo di consoli-damento delle democrazie occiden-tali, Brescia 2000, pp. 23-46.

15 Cfr. A. Pagden, The Fall of NaturalMan. The American Indian and theOrigins of Comparative Ethnology,Cambridge 1982; trad. it. I. Legati,La caduta dell’uomo naturale. L’in-diano d’America e le origini dell’et-nologia comparata, Torino 1989,pp. 26-141; A. M. Hespanha, Sabiosy rústicos. La dulce violencia de larazón jurídica, in ID., La gracia delderecho. Economia de la cultura enla edad moderna, Madrid 1993, pp.17-60; v. anche L. Nuzzo, Percorsireligiosi e strategie di dominio traAtlantico e Mediterraneo agli inizidell’età moderna, in M. Bernardiniet alii (a cura di), L’Europa e l’Islamtra i secoli XIV-XVI, Europe and Islambetweeen XIV and XVI Centuries,Napoli 2001, vol. 1, pp. 325-371.

16 Alonso de Molina, Arte de la len-gua mexicana y castellana, Madrid1945 (ed. 1571); Domingo De San-to Tomás, Lexicón o vocabulario de lalengua general del Perú, Lima 1951(ed. 1560); Gramatica o arte de lalengua general de los indios de losReynos del Perú, Lima 1951 (ed.1560).

17 Con molta chiarezza Bernardo deAldrete, Del origen, y principio de lalengua castellana ò romance que oise usa en España, ed. L. Nieto Jimé-nez, Madrid 1993, pp. 146-47.

18 V. S. J. Greenblatt, Learning to Cur-se: Aspect of Linguistic Colonialismin the Sixteenth Century, in F.Chiappelli (a cura di), First Imageof America, vol. 2, Berkeley and LosAngeles 1976, p. 562.

19 Tomás López Medel, De los tres ele-mentos. Tratado sobre la naturalezay el hombre de Nuovo Mundo, ed. B.Ares Queija, Madrid 1990, p. 284;la citazione è tratta dal catalogo di“cargos” che l’Europa aveva neiconfronti delle Indie. Ricordo cheMedel era un licenciado di dirittocanonico e oidor dal 1548 presso l’Audiencia de los confines in Guate-mala e rinvio per ogni altra notizia

biografica allo studio introduttivodi B. A. Queija.

20 Sul significato di ordine giuridicosi rinvia a P. Grossi, L’ordine giuri-dico medievale, Roma-Bari 1995;cfr. anche A.M. Hespanha, Lascategorias de lo político y de lo jurídi-co en la época moderna, in «IusFugit. Revista interdisciplinar deestudios histórico-jurídicos», 3-4 (1996), pp. 63-99.

21 S. Greenblatt, Learning to Curse,cit., p. 562.

22 Cfr. diffusamente A. Serrano Gon-zález, Como lobo entre ovejas. Sobe-ranos y marginados en Bodin, Sha-kespeare, Vives, Madrid 1992.

23 L’aggettivo è tratto da Bernardo DeAldrete, Del origen, cit., prologo, p.2.

24 W. D. Mignolo, The Dark Side of theRenaissance. Literacy, Territorialityand Colonization, Ann Arbor 1995,p. 46; pp. 37-43; tra i numerosiinterventi del linguista americanovedi anche Nebrija in the New World.The Question of the Letter, the Colo-nization of Amerindian Languages,and the Discontinuity of the ClassicalTradition, in «L’Homme», 122-124 (1992), XXXII, pp. 185-207;per uno sguardo più ampio cfr. W.J. Ong, Orality and Literacy. TheTechnologizing of the Word, Londonand New York 1982, trad. it. A.Calanchi, rev. R. Loretelli, Oralitàe scrittura. Le tecnologie della parola,Bologna 1986, pp. 169 ss; W.J. Ong,The Presence of the Word, New Haven1967, trad. it. R. Zelocchi, La pre-senza della parola, Bologna 1970,pp. 183-98.

25 A. De Nebrija, De vi ac potestate lit-terarum, ed. A. Quilis, P. Usábel,Madrid 1987, p. 38, p. 34; sul pun-to già B. Teubner, Europäisches undAmerikanisches im frühneuzeitlichenDiskurs über Stimme und Schrift, in«Romanistik in Geschichte undGegenwart», 24 (1987), p. 47.

26 Instruccíon al governador de lasIndias ordenando que se formen pue-blos con la población indígena dis-persa y que les enseñen a leer y escri-bir, in F. de Solano (ed.), Docu-

mentos sobre la política lingüística enHispanoamérica (1492-1880),Madrid 1991, pp. 6-7; vedi anche icanoni LXXI e LXXIII del primoconcilio provinciale messicano del1555, in J. Tejada y Ramiro, Collec-ción de cánones de todos los conciliosde la Iglesia de España y de America,Madrid 1863, V, Primero Concilioprovinciale mexicano, pp. 164-165.

27 Le “cedule”, le ordinanze e le “car-te” che la Corona invia in Americasono numerosissime; fra questevedi Cedula que manda al Visorrey dela nueva España, provea y de ordencomo se enseñe a los Indios la lengueCastellana (1550), poi incorporatanella Recopilación de Leyes de los rei-nos de las Indias, mandadas a impri-mir y publicar por la Magestad catoli-ca del Rey Don Carlos II, Madrid 1841,6, 1, 18, dove si afferma che «comouna de las principales cosas que Nosdeseamos para el bien de esta tier-ra es la salvacion y conversion anuestra santa Fe Catolica de losnaturales de ella, y que tambientomen nuestra policia y buenacostumbres; y asi tratando de losmedios que para este fin se podriantener, a parecido que uno de ellos yel mas principal seria dar ordencomo a essas gentes se les eseñasenuestra lengua castellana, porquesabida esta, con mas facilidadpodrian ser doctrinados en las cosasdel Santo Evangelio y conseguirtodo lo demas que les conviene parasu manera de vivir». Ulteriori testi-monianze nelle carte, “cedule” eistruzioni edite in Diego de Enci-nas, Cedulario Indiano, (1596)Madrid 1946, 4, ff. 339-340.

28 Cfr. i testi fondamentali di B. Cla-vero, Antidora. Antropología católicade la Economía moderna, Milano1991, e A. M. Hespanha, La sendaamorosa del derecho. Amor y iustitiaen el discurso jurídico moderno, in C.Petit (a cura di), Pasiones del Jurista.Amor, memoria, melancolia, imagi-nación, Madrid 1997, pp. 25-56.

29 Tomás López Medel, De los tres ele-mentos, cit., p. 284; sempre diTomás López Medel v. la Carta edi-

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ta in F. de Solano (a cura di),Documentos, cit., pp. 52-55.

30 C. Perrin, Approaching Anxiety,cit., p. 29.

31 Cfr. G. Corsi, Valores y derechosfundamentales en perspectivasociologica, in J. Torres Nafarrate(a cura di), La teoria dos sistemas,Universidad Iberoamericana,Mexíco; ID., Sociologia da costitu-ção, «Revista da Facultade deDreito da UMFG», entrambi incorso di stampa (consultati indattiloscritto per la cortesia del-l’autore).

32 K.W. Crenshaw, Race, Reform andRetrenchment: Transformation andLegitimation in AntidiscriminationLaw, «Harvard Law Review», 101(1988), p. 748, cit. in G. Minda,Postmodern Legal Movements. Lawand Jurisprudence at Century’sEnd, New York and London 1995,trad. it. C. Colli, Teorie postmoder-ne del diritto, Bologna 2001, p. 298(ma vedi pp. 277-307). Annullaogni distanza tra identità e diffe-renza E. Resta, il quale ha recen-temente ricordato, partendo dal-le Rovine circolari di Borges, chel’identità costituisce la differen-za e la differenza l’identità: tuttigli uomini sono identici nelvolersi differenziare dagli altri,per cui l’unica differenza consistenel fatto di non differenziarsi. E.Resta, Il diritto fraterno. Ugua-glianza e differenza nel sistema deldiritto, in L. Gallino (a cura di),Diseguaglianze ed equità in Euro-pa, Roma-Bari 1993, p. 384.

33 Contro le semplificazioni che imiti della modernità hannoimposto al nostro immaginariogiuridico è intervenuto più volteP. Grossi, vedi da ultimo, Mitolo-gie giuridiche della modernità,Milano 2001.

34 L. Althusser, Sur la reproduction,Paris 1995, trad. it. M. T. Ricci, Lostato e i suoi apparati, Roma 1997.

35 V. soprattutto N. Luhmann, Beo-bachtungen der Moderne, Opladen1992, trad. it. F. Pistolato, Osser-vazioni sul moderno, Roma 1995,in part. p. 33 ss.

36 R. De Giorgi, Scienza del diritto elegittimazione, Lecce 1998, pp.216-17; sulla “parabola” del sog-getto giuridico cfr. P. Barcellona,Il declino dello stato. Riflessioni difine secolo sulla fine di un progettomoderno, Bari 1998, p. 203 ss.

37 In una letteratura ormai impo-nente vedi il classico testo di C.Douzinas, R. Warrington, S.McVeigh, Postmodern Jurispruden-ce. The Law of Text in the Texts ofLaw, London and New York 1991;cfr. anche i saggi raccolti da P.GOODRICH in Law and PostmodernMind. Essays on Psycoanalisis andJurisprudence, Chicago 1998; daultimo la traduzione del manualedi G. Minda, Teorie postmodernedel diritto, cit.

38 Utili indicazioni per orientarsinei Postcolonial Studies in A.Loomba, Colonialism/Postcolonia-lism, Routledge 1998, trad. it. F.Neri, Colonialismo/postcoloniali-smo, Roma 2000; cfr. anche M.Hardt, La coscienza oscura deglistudi postcoloniali, in «Posse», 1(2000), pp. 218-27.

39 E. Balibar, Le identità ambigue.Internazionalismo o Barbarie,Relazione alla IX Semana Galegade Filosofia, Pontevedra (Galicia),20-24 aprile 1992, in ID., La pau-ra delle masse. Politica e filosofiaprima e dopo Marx, trad. it. A.Catone, Milano 2001, p. 197.

40 A. Loomba, Colonialismo/postco-lonialismo, cit., p. 175; F. Fanon,Peau noir masques blanches, Paris

1952, trad. it. M. Sears, Pelle neramaschere bianche: il nero e l’altro,Milano 1996.

41 H. K. Bhabha, I luoghi della cultu-ra, cit., pp. 61-96.

42 E. Balibar, Tre concetti della politi-ca; emancipazione, trasformazione,civiltà, in ID., La paura delle mas-se, cit., p. 29.

43 Cfr. B. Sousa Santos, Law: a Mapof Misreding, «Journal of Law andSociety» 14 (1987), pp. 279-302;ID., Stato e diritto nella transizionepost-moderna. Per un nuovo sensocomune giuridico, in «Sociologiadel diritto» 3 (1990), pp. 5-33.Vedi anche Id., Pela mão de Alice.O social e o político na pós-moder-nidade, Porto 1989.

44 Cfr. Z. Baumann, Legislator andInterpretes. On Modernity, Post-modernity and Intellectuals, Cam-bridge 1987, trad. it. G. Franzi-netti, La decadenza degli intellet-tuali. Da legislatori a interpreti,1992; cfr. la lettura che A. M.HESPHANHA fa di questo testo inJurists as Gamekeepers. ScrutinizingOrder in Early Modern WesternEurope, disponibile presso lapagina web dello storico porto-ghese.

45 B. Sousa Santos, Modernidade,Identidade e a Cultura de Fronteira,in ID., Pela mão de Alice, cit., pp.122.

46 G. W. Gong, The Standard of ‘Civi-lization’ in International Society,Oxford 1984; per una critica delglobalismo giuridico rinvio a D.Zolo, I signori della pace. Una cri-tica al globalismo giuridico, Roma2001.

47 Cfr. C. Douzinas, The End ofHuman Rights, Oxford 2000.

Pagine aperte

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La creazione della ICHRPI ha significato,fin dai suoi esordi ai nostri giorni, siaun’efficace razionalizzazione degli studi distoria parlamentare, sotto l’aspetto meto-dologico, sia un incremento quantitativo e,soprattutto, scientificamente qualitativodegli stessi.

Il padre fondatore della ICHRPI fu ilbelga Émile Lousse, professore all’Univer-sità di Lovanio, promotore, nel 1933, nelVII Convegno Internazionale di ScienzeStoriche, tenutosi a Varsavia, della creazio-ne di una Commissione permanente –all’interno del Comitato Internazionale diScienze Storiche – che si occupasse soprat-tutto del complesso problema della forma-zione delle prime Assemblee di Stati.

Gli auspici del Lousse si realizzarono nel1936 allorché tale Commissione fu varatain occasione del Convegno internazionaledi Bucarest; egli ne assunse la segreteriagenerale; al francese Coville fu attribuita lapresidenza ed all’italiano Pier Silvio Leicht,la vice-presidenza della stessa, la cui deno-minazione fu Commission pour l’étude des

origines des Assemblées d’États, compostainizialmente da un limitato numero di stu-diosi - dieci - che, gradualmente, detterovita alle sessioni nazionali francese, tede-sca, spagnola, italiana, olandese, polacca,ungherese e belga, quest’ultima – come eraovvio - la più numerosa ed attiva.

Erano, quelli, gli anni in cui divenivaquanto mai politicamente indispensabilemantenere in vita ed incrementare il dibat-tito sulle istituzioni rappresentative,neglette e disprezzate dagli imperanti regi-mi autoritari. E risultava senza dubbio piùsemplice – per evitare le possibili e previ-ste censure – che il confronto su questi temiavvenisse fra gli studiosi all’interno di uncenacolo scientifico. Non certo casualmen-te si dette vita, proprio nel 1935, ed ancorauna volta in Belgio, alla Société Jean Bodinpour l’histoire du droit et des institutions poli-tiques, come pure si varò la prestigiosa rivi-sta d’«Histoire politique et constitution-nelle» diretta da Boris Mirkine Guetzévich.

Ma veniamo alla vita ed alle opere dellaCommissione, il cui primo Convegno si

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Alle origini del dibattito metodologicosulla Storia delle istituzioni parlamentariIl contributo della International Commission for theHistory of Representative and Parliamentary Institutions(ICHRPI)

maria sofia corciulo

giornale di storia costituzionale n. 4 / II semestre 2002

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tenne nel 1936, a Losanna. Fra i relatori vierano, oltre al Lousse, la studiosa ingleseHelen Cam ed il Leicht che, in quell’occa-sione, fece un pubblico elogio dell’alloragiovine studioso Antonio Marongiu.

Come in una pièce teatrale, coloro chesaranno i principali protagonisti della vitascientifica della Commissione erano tuttipresenti fin dalla prima scena. Soprattuttoil Lousse che, nel ventennio 1933-1953, nesarà una specie di primo attore grazie allaformulazione della sua nota teoria metodo-logica sulle origini e lo sviluppo delleAssemblee di Stati. Dico “nota” perché essadette vita ad un vasto e dotto dibattito nelquale vennero coinvolti tutti gli specialistidell’epoca.

La costruzione metodologica di ÉmileLousse che è passata alla storia con la deno-minazione di teoria costituzionale-corpo-rativa, ove per costituzione s’intendeva lacondizione politica, sociale ed economicadi un determinato “Ordine” o “Stato”, laStändische Verfassung, che si enucleavaattraverso tre momenti istituzionalmenterilevanti:

a) l’aggregazione di territori semprepiù ampi, precedentemente indipendentie con autonome forme giuridiche;

b) la formazione di una gerarchiaamministrativa, formata da una fitta rete difunzionari scelti dal princeps e di fronte alui responsabili;

c) successivamente, grazie all’orga-nizzazione corporativa della società, si per-veniva alla gerarchia politica, cioè all’As-semblea di Stati, alla quale veniva affidata latutela dei privilegi e la rappresentanza degliinteressi cetuali, in definitiva la difesa deisuoi rappresentati di fronte agli eventualiabusi del sovrano.

In tale contesto, le distinzioni tra abi-

tanti di uno stesso territorio si fondavanosulla diversità di funzioni esercitate; all’in-terno di ciascuna delle quali i detentori dicomuni interessi si riunivano in associa-zioni, che, se dotate dal princeps di un pro-prio statuto, diventavano corpi privilegia-ti. Questi, a loro volta, si costituivano inOrdini o Stati

L’organizzazione corporativa è fondata su di unacorrispondenza di funzioni e di diritti, di servi-zi e di privilegi: le funzioni svolte inducono a lorovolta la concessione di privilegi, e le libertà con-cesse limitano i servizi da rendere in avvenire1.

E, pertanto, alla luce di queste conside-razioni, il Lousse così definiva l’Assembleadi Stati:

un’assemblea politica composta dai rappresen-tanti dell’Ordine o degli Ordini politicamenteprivilegiati di un Paese che agiscono (agissant) innome di questi Ordini e dell’insieme del Paeseper vegliare, da una parte, sul mantenimento deiprivilegi degli Ordini, dei corpi e degli individuie, dall’altra, sul mantenimento dei diritti fonda-mentali del Paese, e per rendere al principe i ser-vizi stipulati nelle Carte [di libertà] come con-tropartita dei diritti riconosciuti e dei privilegi dalui stesso concessi2.

Il Lousse vedeva pertanto nelle Assem-blee di Stati l’inevitabile punto di arrivo cuiperveniva la società tardo-medievale nellasua divisione (o meglio costituzione) cor-porativo-cetuale. Si trattava di una costru-zione dualistica, nella quale gli Stati ed ilprincipe erano chiamati – entrambi – agestire il potere condiviso. Gli inizi di que-sto percorso evolutivo istituzionale nonfurono semplici: spesso gli Ordini dovet-tero affrontare una dura lotta affinché ilprincipe non venisse meno ai patti stipula-ti; lotta che si concludeva generalmente con

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un compromesso allorché si riusciva final-mente a enucleare, dal fruttuoso disordinedegli Ordini, l’Assemblea degli Stati.

Ad avallo della sua teoria il Loussesosteneva che essa si poteva applicare nonsolo agli Stati tedeschi, in cui più e megliosi era realizzata la fenomenologia da luidescritta, ma anche a gran parte dell’Euro-pa cristiana; in ciò polemizzando con lascuola dei cosiddetti istituzionalisti o par-lamentaristi di formazione prevalente-mente anglo-francese (in particolare loStubbs, Macaulay, il Maitland, il Green, ilGuizot) ai quali egli rimproverava la sotto-valutazione della società e dell’operato diqueste prime assemblee cetuali, in favoredi quegli aspetti politico-istituzionali diesse (per esempio, la preminenza del Ter-zo Stato) che più facilmente si potevanocollegare ai trionfanti futuri nazionalismi ecostituzionalismi del XIX secolo.

In definitiva Émile Lousse esplicita-mente accusava gli studiosi liberali di avermesso la storia al servizio dell’ideologiapolitica, enfatizzando la funzione e l’im-portanza dell’attività delle assemblee –genericamente definite rappresentative –svincolate quasi da ogni dipendenza dallasocietà in cui erano sorte. Come pure rim-proverava loro la lacunosità di una meto-dologia delle istituzioni rappresentative chesi era fino allora limitata all’esame di ognisingola assemblea, senza inquadrarla in uncontesto comparativistico di cui il Loussefu sempre uno strenuo assertore3.

Indubbiamente va dato atto allo studio-so belga, con la sua valorizzazione degliaspetti socio-economicistici della societàtardo medievale, di avere contribuito adattenuare quell’approccio limitativo –diciamo così sovrastrutturale – tendente adindividuare e qualificare le istituzioni poli-

tiche sulla base di contenuti quasi preva-lentemente giuridici. Ma la tipologia da luidelineata si prestava davvero a divenire unmodello valido per individuare le origini ditutte le assemblee rappresentative, comeegli sosteneva? E per questa individuazio-ne si potevano usare altri strumenti meto-dologici?

Dopo la parentesi bellica, vennero for-mulate le prime critiche alla costruzione delLousse: per esempio, il noto storicoDhondt, membro della sessione belga, con-trappose alla statica unanimità d’interessidella società medievale – disegnata dalLousse – le continue contrapposizioni elotte per l’egemonia fra gli Ordini, che eglipreferiva definire potenze, lotta che si tra-sferiva inevitabilmente all’interno delleAssemblee di Stati4.

A sua volta, l’inglese Helen Cam, presi-dente dal 1949 della Commissione, nonmancò di far notare che la teoria corpora-tiva del Lousse non poteva essere valida perl’Inghilterra, ove la divisione per ceti all’in-terno del Parliament aveva avuto modestis-sime dimensioni, essendo questo piuttostouna «concentration of local communities»in un contesto di «selfgovernment at theKing’s command».

Non è casuale che proprio sotto la pre-sidenza della Cam – nel 1950 -, per amplia-re il campo d’indagine della Commissionevenisse affiancata accanto alla sua denomi-nazione in lingua francese – divenutaperaltro Commission Internationale pour l’hi-stoire des Assemblées d’États (les origines era-no sparite) – quella inglese: InternationalCommission for the History of representativeand parliamentary institutions; con ciòintendendo allargare il campo di studi nonpiù solo alle origini delle assemblee e nonpiù solo alle Assemblee di Stati. La stessa

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Cam, assieme ad Antonio Marongiu ed allosvedese Günther Stöckl presentò a Roma,sempre nel 1950, – in occasione del X Con-gresso Internazionale di Scienze storiche –una relazione sulle origini e sviluppo delleassemblee rappresentative5; il termine Sta-ti non figurava nel titolo, e, pour cause; lametodologia del Lousse veniva messa indiscussione nello schema interpretativoproposto da Marongiu, i cui studi erano giàampiamente noti.

Seguiamo pertanto con attenzione la suacostruzione metodologica. Il punto essen-ziale, la domanda chiave che egli si ponevaera la seguente: perché e come le Assem-blee di Stati assunsero quella rilevanzapolitica tale da farle considerare organiinseriti nell’apparato statale? Era possibi-le individuare un metodo, in qualche modocerto, che ci permettesse di comprenderequando, dalle diverse tipologie assemblea-ri succedutesi a partire dal basso Medioe-vo, emerse un nuovo soggetto di dirittopubblico?

Marongiu iniziò la sua analisi partendoda una tripartizione delle stesse:

1) la prima di esse si ebbe, allorché,secondo una prassi molto comune fino acirca il 1000, il sovrano indiceva sporadi-camente alcune grandi riunioni, cui parte-cipavano i maggiori dignitari, in occasionedegli eventi più importanti del regno:nascita dell’erede al trono, nozze, dichia-razioni di guerra, stipulazioni di trattati,celebrazioni di vittorie, ecc. Marongiu defi-nì tali riunioni – che si limitavano ad accla-mare le decisioni del princeps – assemblee-avvenimenti o di parata.

2) Accanto a queste – o successivamen-te ad esse – altre assemblee, che Marongiudefinisce consultive-ricettive, venivanoconvocate dal sovrano per avere il consiglio

dei loro componenti ed ottenere gli even-tuali aiuti (finanziari o bellici) richiesti.

Questi due primi tipi di assemblee sonodefinite da Marongiu pre-parlamenti, perdistinguerle dalla terza, apparentementesimile alle precedenti, ma con caratteristi-che soggettive ed oggettive totalmente nuo-ve, individuate essenzialmente nella con-sapevolezza dei suoi componenti di esserei depositari di una forma di rappresentan-za giuridica e politica, precedentementesconosciuta e, nello stesso tempo, nel rico-noscimento-accettazione di essa da partedel princeps.

Il Marongiu considera questa persona-le consapevolezza dei membri di taleassemblea la caratteristica fondamentaleaffinché si possa parlare a giusto titolo diun nuovo potere dello Stato, portatore diuna nuova dimensione giuridico-politica,precedentemente sconosciuta. Ci troviamodi fronte a quelle assemblee che egli defi-nisce parlamenti. Pur essendo queste, inqualche modo, una logica derivazione del-le precedenti, il passaggio dalle une allealtre non doveva considerarsi automatico –come sosteneva il Lousse – poiché era frut-to di una specifica e precisa volontà politi-ca. (Del resto Georg Jellinek non ha affer-mato che le istituzioni giuridiche – e quin-di a maggior ragione – quelle politiche sibasano soprattutto sull’elemento psicolo-gico?).

Questo mutamento istituzionale si pote-va cogliere solo attraverso un’attenta con-sultazione della documentazione archivi-stica ad hoc. A volte alcuni indizi ci faceva-no in qualche modo comprendere che cistavamo avviando dalla tipologia pre-par-lamentare a quella parlamentare vera e pro-pria (mi riferisco, per esempio, alle con-vocazioni più frequenti, o alla partecipa-

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zione alle Assemblee anche del cosiddettoterzo Stato); ma anche tali indizi, se nonsuffragati dalla documentata consapevolez-za da parte dei suoi componenti di essere gliunici depositari della volontà degli abitan-ti del regno, non erano sufficienti a far sìche l’assemblea venisse considerata comerappresentativa-deliberativa.

Questa nuova soggettività giuridica col-legiale, assieme alla solidarietà politica,furono elementi costitutivi di una realtàcomune e superiore che, attraverso l’e-spressione della volontà, limitò d’allora inpoi i poteri del titolare della sovranità, ilquale, a sua volta, nell’accettare tale limita-zione riconobbe all’assemblea il diritto-dovere di partecipare in maniera “costitu-zionale” alla res publica: la nuova assembleadiventò in tal modo l’organo di collega-mento istituzionale tra il re e i sudditi, aloro volta in stretto contatto personale coni membri di essa.

Questo schema metodologico delMarongiu – da lui ulteriormente perfezio-nato con l’elencazione delle modalità stori-co-istituzionali attraverso le quali si eranovenute enucleando le assemblee parlamen-tari – fu adottato da molti studiosi europei(si parlò di Cortes di fatto, Cortes di diritto,true Parliament, prototipo di parlamento);esso si distanziava notevolmente dallacostruzione del Lousse poiché ne derivavache le Assemblee di Stati non erano altroche una species della più vasta categoria diquelle parlamentari, che, in teoria, poteva-no essere divenute tali anche prima delladivisione in Ordini; come pure, al contra-rio, sia non tutte le assemblee cetuali dove-vano essere considerate dei veri e propriparlamenti; e ancora, – come sottolineò ilLeicht, in contrasto con il Marongiu - vierano state delle assemblee che, parados-

salmente, avevano svolto un’attività politi-ca più rilevante prima di essere ufficial-mente istituzionalizzate (anche se si trattòdi eventi del tutto casuali).

Conseguentemente alla sua tesi, ilMarongiu sostituiva il participio presentedel Lousse, agissant (che fotografava unasituazione di fatto delle assemblee) con lafrase «che hanno la funzione-consapevo-lezza di agire».

È evidente che la costruzione dell’illu-stre studioso rivalutava l’apporto, diciamocosì, personale, dei componenti l’istituzio-ne assembleare, rispetto alla società, nellaformazione di una coscienza e di una rap-presentanza politiche moderne: pertanto lasua teoria è stata definita, per distinguerlada quella ottocentesca, neo-parlamentare.

In generale, le assemblee rappresenta-tive, in un arco cronologico di circa quattrosecoli – dal 1100 al 1500 – passarono attra-verso quattro fasi: dopo l’assunzione dirilevanza rappresentativa-deliberativaattuarono un accordo-compromesso con isovrani, costituendo con ciò una limitazio-ne al potere di essi; in seguito – siamo neisecoli XV-XVI – iniziarono ad indebolirsie, infine, a decadere, in concomitanza conle prime forme assolutistiche della sovra-nità.

I tempi e le modalità con cui avvennerotali mutamenti istituzionali non potevanoassolutamente essere generalizzati, – comesosteneva il Lousse – poiché diversi e piùcomplessi sono stati i contesti storici chehanno fatto da cornice a tale fenomenolo-gia politica.

L’applicazione della metodologia delMarongiu contribuì a fare – diciamo così –un certo ordine all’interno dei numerosiesempi di assemblee più o meno rappre-sentative, spesso posticipando nel tempo la

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data iniziale di una pretesa assemblea par-lamentare, nella quale taluni ferventi sto-rici avevano visto l’inizio di un proprio pro-to-nazionalismo. A questo proposito è sta-to argutamente notato che

nello studio delle assemblee medievali e pre-moderne, gli storici sono come gli studiosi diittiologia che cercano di classificare ogni speciee forma di pesci, con la continua emozione discoprirne una nuova6.

In questo senso, è certamente correttoquanto nota in un suo recentissimo saggiosul «Journal» della ICHRPI, Thomas Bis-son allorché ci esorta a diffidare della tipo-logia considerata «in modo troppo astrat-to per illuminare storicamente i modelliche delinea», pur non sottovalutando –come successivamente aggiunge – che

i problemi concettuali e metodologici si pongo-no di fronte a tutti coloro che desiderano studia-re e insegnare la prima fase dell’esperienza euro-pea del potere e della consultazione7.

Con lo schema metodologico delMarongiu si sono confrontati molti storici,a volte denunciandone taluni limiti: comequelli espressi «dalla nouvelle vague criticadella storia delle istituzioni parlamentari»(la definizione è dello stesso Marongiu).Questi studiosi – specie a partire dagli anni’70 – hanno messo l’accento sull’impor-tanza dell’impulso “rappresentativo” pro-veniente dalla società (ovviamente intesain un’accezione molto più ampia e dinami-ca di quella disegnata dal Lousse).

Mi riferisco - fra gli altri - in partico-lare all’italiano Guido D’Agostino8 e all’o-landese Wym Blockmans9; quest’ultimo,dall’osservazione delle strutture, organiz-zazioni e funzioni delle istituzioni rappre-sentative individuò cinque tipologie corri-

spondenti ad altrettante e diverse realtàsociali dalle quali erano sorte. L’invito anon ingessarsi in rigidi schemi metodolo-gici venne anche da uno dei più noti stori-ci contemporanei, Helmut Königsberger,honorary past president della nostra Com-missione. Egli, in una magistrale lezionetenuta al King’s College, pur apprezzandol’importanza delle tipologie, ne sottolinea-va l’utilità soprattutto se esse venivanocombinate «con la dinamica delle forzesocio-politiche in continua lotta per ilpotere»10.

L’apporto societario significa anche chenello studio delle istituzioni rappresentati-ve e parlamentari non vanno trascurate néle teorie, né le pratiche politiche (peresempio l’organizzazione interna dei corpiassembleari), come pure il vasto contestoculturale ad esse sotteso (in particolare l’e-strazione sociale e la formazione politico-culturale dei loro componenti (specie per iparlamenti più cronologicamente vicini anoi è stata dimostrata l’importanza del“mito” della rappresentanza).

Negli studi dell’ultimo ventennio sisono sempre più consolidati quegli aspettiintesi a valorizzare la vitalità e la forza delcosiddetto ‘regionalismo’ europeo nel qua-dro delle dinamiche del potere e delle rap-presentanze ad esso connesse. Queste testi-monianze storico-istituzionali sembrano,infatti, aver lasciato una traccia molto piùconsistente di quanto non si sapesse aitempi di Lousse e di Marongiu11.

Quest’ultimo - presidente della Com-missione dal 1970 al 1980 - amò sempreconfrontare dialetticamente i risultati del-la sua ricerca con quanti rispettosamentegli presentarono le loro osservazioni criti-che, che egli stesso enumerava in un sag-getto, in francese, pubblicato sulla rivista

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della ICHRPI, nel 1982, e significativa-mente intitolato Progrès et problèmes de l’hi-stoire des Assemblées d’États et Parlements.L’ormai più che anziano studioso a conclu-sione di una attenta disamina affermava,con encomiabile modestia

che l’origine delle assemblee rappresentative erasenza dubbio un problema complicato, del qua-le egli aveva tentato di spiegare – forse riuscen-dovi solo in parte – le pourquoi et le comment12.

Per comprendere le pourquoi et le com-ment della nascita, evoluzione ed istituzio-nalizzazione della rappresentanza politica,in definitiva delle prime tipologie parla-mentari, la Commissione Internazionaleorganizza ogni anno un convegno di studi inuna delle nazioni-membri; pubblica,anch’esso annualmente, un «Journal»,Parliaments, Estates and Representation econtinua a mantenere quella che ormai puòcerto definirsi una collana storica, Les Étu-des présentées à la Commission.

Negli ultimi venti anni, gli esperti distoria parlamentare dei secoli XIX e XX ,membri della Commissione, sono diventa-ti altrettanto numerosi quanto quelli delperiodo moderno; il Medio-Evo, dopo

essere stato tanto studiato, o forse per que-sto, risulta attualmente piuttosto trascura-to, come ha puntualmente notato ThomasBisson13.

I componenti la Commission provengo-no soprattutto dall’Europa dell’Ovest, maanche dell’Est, e dagli USA, nonché da talu-ni paesi asiatici, in particolare dal Giappo-ne e dalla Cina; più rare sono le presenzedell’America Latina.

In definitiva, se lo scopo scientifico del-la Commissione è certamente quello dipromuovere ricerche sulle origini, evolu-zione e mutamenti delle istituzioni parla-mentari in tutto il mondo ed in tutti i perio-di – Königsberger ne aggiungeva un altro,più propriamente etico e politico, nel dis-corso di chiusura del suo mandato presi-denziale:

I parlamenti con la loro esistenza non hannorisolto i grandi problemi dell’umanità: la liber-tà e l’uguaglianza, la guerra e la pace. Ma nessu-n’altra organizzazione societaria è stata in gradodi farlo. Io credo che il dialogo politico debbarimanere aperto. La storia di questo problema èl’oggetto dei lavori della Commissione Interna-zionale14.

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1 G. D’Agostino, Argomenti di storiadelle Istituzioni parlamentari,Napoli, Coop. Ed. Ec. e Comm.,1975.

2 É. Lousse, Parlementarisme et cor-porativisme. Les origines des Assem-blées d’États, in «Revue Histori-que de droit français et étran-ger», 15 (1935), (pp. 683-706),p. 699

3 Cfr. É. Lousse, La société d’ancienrégime, in Études présentées à laCommission Internationale pour

l’histoire des Assemblées d’États, VI,Louvain, 1952.

4 J. Dhondt, « Ordini » o« potenze »: l’esempio degli Stati diFiandra, in Lo Stato moderno (acura di E. Rotelli e P. Schiera), ilMulino, Bologna, I, 1971.

5 Cfr. H. Cam - A. Marongiu - G.Stockl, Recent works and presentviews on the origins and develop-ment of representative assemblies,in X Congresso Internazionale diScienze Storiche, Relazioni (Roma

4-11 settembre 1955), Firenze,pp. 1-101. Di A. Marongiu cfr.,inoltre, Il Parlamento in Italia nelMedio Evo e nell’età moderna,Milano, Giuffré, 1962.

6 J. Rogister, Scientific balance-sheetof the work of ICHRPI, Londra,1996, p. 328 (brochure). Dellostesso autore, cfr. Some new direc-tions in the Historiography of StateAssemblies and Parliaments inEarly and Late Modern Europe, inParliaments, Estates, Representa-

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tion, vol. 16, 1996. 7 Cfr. T. Bisson, The problem of

medieval parliamentarism : areview of workes published by ICHR-PI (1936-2000), in Parliaments,Estates, Representation, vol. 21,2001, pp. 6 e 10.

8 Cfr. G. D’Agostino, Le istituzioniparlamentari nell’ancien régime,Napoli, Guida, 1979.

9 Cfr. W. P. Blockmans, A Typology

of representative institutions in latemedieval Europe, in «Journal ofMedieval history», 4 (1978).

10 Cfr. S. Mastellone, The 50th Anni-versary of ICHRPI, in Gli aspettisociali delle istituzioni rappresenta-tive nell’età medievale, moderna econtemporanea, Centro editorialetoscano, Firenze, 1986, p. 12.

11 Cfr. l’interessante disamina di L.Blanco, Note sulla più recente sto-

riografia in tema di Stato moderno,in «Storia, Amministrazione,Costituzione», 2/1994.

12 In Parliaments, Estates, Represen-tation, vol. 2, part. 2, p. 12.

13 Cfr. T. Bisson, The problem ofmedieval parliamentarism, cit.

14 Cfr. S. Mastellone, The 50th Anni-versary, cit., p.13.

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C’est, dit-on, dans le domaine des relationsinternationales que se manifeste particuliè-rement la prépondérance du pouvoir exécu-tif. Si cette idée est politiquement exacte,juridiquement il en va différemment, puis-que dans la plupart des systèmes représen-tatifs, les décisions les plus importantes, laguerre et les traités, doivent être approuvéespar les Parlements ou au moins par uneassemblée parlementaire. En droit, il s’agitdonc non d’une véritable prépondérance del’exécutif, mais tout au plus d’un partage dupouvoir entre les deux principaux groupesd’autorités de l’État.

Cependant, même un simple partagedonne au pouvoir exécutif un rôle qui dépas-se de beaucoup la simple exécution des lois.Sans doute ne peut-il prendre seul la déci-sion de faire la guerre ou de conclure uneconvention internationale, mais c’est lui quile plus souvent exerce seul l’initiative. C’estlui qui négocie les traités et sollicite l’appro-bation des Parlements ou l’autorisation deles ratifier.

Ces solutions ne manquent pas de justi-

fications pratiques et il est facile de rappe-ler l’impossibilité matérielle pour uneassemblée de mener une négociation, lanécessité d’agir vite ou celle de conserver lesecret. Toutefois, s’il y a toujours partage descompétences, ce partage n’est pas toujoursidentique et les assemblées constituantes ontfréquemment invoqué et tenté d’appliquerà cette matière des principes déjà admis pourd’autres. C’est notamment à la lumière de laséparation des pouvoirs que l’on pouvaitrechercher une solution. Ce principe est, onle sait, susceptible de plusieurs interpréta-tions et peut se traduire par plusieurs règlesdifférentes. On se bornera ici à rappeler lesdeux principales.

La première prescrit de spécialiser deuxautorités dans l’exercice des deux fonctionsprincipales, la fonction législative et la fonc-tion exécutive. Il suffira alors de déterminersi les relations extérieures relèvent de l’uneou de l’autre, puis d’en confier la direction à

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Les relations extérieures dans la constitution de l’an III.Vers la fonction gouvernementale*

michel troper

giornale di storia costituzionale n. 4 / II semestre 2002

* Cette étude a fait l’objet d’une publication dans les Mélan-ges Hubert Thierry, Paris, Pedone, 1998, pp.403-17.

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l’autorité compétente. Il est clair que le par-tage des compétences que l’on a observédans cette matière est tout-à-fait incompa-tible avec cette interprétation de la sépara-tion des pouvoirs.

Au contraire, d’après la seconde inter-prétation, les autorités ne doivent pas êtrespécialisées. Pourvu qu’aucune ne cumulel’exercice des deux fonctions, ce qui en feraitun despote, elles peuvent - et même ellesdoivent- être associées à la fonction législa-tive. C’est ainsi qu’une autorité chargée àtitre principal de la fonction exécutive, peutparticiper au pouvoir législatif soit grâce aumonopole de l’initiative, soit par le droit deveto. Il reste alors à déterminer si les rela-tions extérieures relèvent bien de la fonc-tion législative. Dans l’affirmative, mais dansl’affirmative seulement, les compétencesdans cette matière seront partagées.

Mais quelle que soit l’interprétationqu’on en donne, le principe de la séparationdes pouvoirs ne peut être utile que si l’on sefonde sur deux présupposés: d’abord que lesrelations extérieures relèvent tout entièressoit de la fonction législative, soit de la fonc-tion exécutive; ensuite qu’elles ne consti-tuent pas une troisième fonction ou qu’ellesne sont pas une partie d’une troisième fonc-tion.

Or, dès 1791, il a fallu abandonner le pre-mier de ces présupposés et adopter le pré-supposé contraire, pour distinguer parmi lesactes qui concourent à la conduite des rela-tions extérieures ceux qui relèvent de lafonction législative et ceux qui relèvent de lafonction exécutive, pour les soumettre aurégime juridique correspondant. D’autrepart, si les constituants de ’91, qui se fon-daient sur la seconde des deux règles, pou-vaient bien associer les principaux organesà la partie législative des relations extérieu-

res, leurs successeurs de la Convention, qui,dans leurs trois constitutions, prétendaientsuivre la règle de la spécialisation et quiauraient dû par conséquent attribuer au seulorgane législatif le pouvoir de faire les actesde nature législative, ont été contraints dedéroger à leurs principes, de partager euxaussi ce pouvoir et d’y associer l’autorité exé-cutive.

Les solutions de l’an III, qui constituentles exceptions les plus graves à la règle de laspécialisation, ne se comprennent qu’à lalumière du second présupposé et obligent àconsidérer que les relations extérieures nerelèvent pour l’essentiel ni de la fonctionlégislative, ni de la fonction exécutive, maisd’une autre fonction, la fonction gouverne-mentale. Pour mesurer l’ampleur et la por-tée de ce changement, il est indispensablede se reporter d’abord aux constitutionsantérieures.

1. Les premières constitutions révolutionnaires

Depuis le début de la Révolution, les rôlesétaient définis conformément à un principed’attribution des compétences relativementsimple: on ne doit pas raisonner par matiè-re, mais par types d’actes. Les relations exté-rieures ne relèvent entièrement ni de l’uneni de l’autre des deux grandes fonctions,mais certains des actes qui en relèvent sontdes actes législatifs et d’autres des actes exé-cutifs. Il suffit donc d’attribuer au pouvoirlégislatif les premiers et au pouvoir exécutifles seconds.

L’application de ce principe présuppo-sait bien entendu qu’on soit capable de défi-nir les fonctions législative et exécutive et dedire précisément ce qui relève respective-ment de chacune. Mais une fois cette répar-

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tition déterminée, le principe devait con-duire à accorder des compétences aux deuxorganes principaux. L’organe exécutif devaitmême recevoir deux types de pouvoirs: celuide faire des actes d’exécution, mais aussidans le cas, où il était normalement associéà l’exercice de la fonction législative, celuide participer aux actes de politique exté-rieure de nature législative.

Le principe essentiel du droit publicrévolutionnaire est que les décisions essen-tielles doivent être l’expression de la volon-té générale. En d’autres termes, elles relè-vent de la loi1. Les choix politiques doiventdonc nécessairement prendre la formelégislative. Le reste, ce qui relève de l’exécu-tion, est seulement la mise en oeuvre desdécisions législatives. Cependant, la latitu-de qui est laissée à l’autorité exécutive, char-gée de cette mise en oeuvre varie selon lesdomaines et se trouve à son maximum dansla conduite des relations extérieures. Ceci sevérifie à propos des pouvoirs de guerre et dela conclusion des traités2.

a. La guerre

Pour ce qui concerne la guerre, on distinguetoujours la décision de faire la guerre, qui estde nature législative et la conduite des opé-rations, qui relève de l’exécution. Sur le pre-mier point, l’accord se fait facilement à l’As-semblée constituante. La proposition deMirabeau de réserver au roi le pouvoir dedécision est combattue par Barnave, qui sou-ligne que

la détermination de faire la guerre, qui n’est pasautre chose que l’acte de la volonté générale, doitêtre dévolu aux représentants du peuple

ce qui signifie encore à ses yeux - on est auprintemps ’90 - à l’assemblée3. Le compro-mis est donc facile: le pouvoir sera partagéentre l’assemblée et le roi. Cependant, il s’a-git d’un compromis non sur le principe, maissur la solution4. Celui que Barnave avaitinvoqué sera appliqué dans toute sa rigueuret Mirabeau peut s’y rallier entièrement,sans renoncer à ses propres prémisses. Si onlaissait à l’assemblée seule le droit de décla-rer la guerre, avait-il déclaré, «vous auriezdeux principes différents, l’un pour la légis-lation ordinaire, l’autre pour la législationen fait de guerre»5. Or, la législation ordi-naire est faite par le concours du corps légis-latif et du roi. Si la détermination de faire laguerre est un acte de la volonté générale, elledoit être donc dévolue au pouvoir législatif.Or, le pouvoir législatif est exercé par lecorps législatif et le roi. L’argument étaitd’ailleurs explicitement invoqué par Le Cha-pelier:

En donnant au roi la sanction, vous avez exigé leconcours du roi pour les lois, comment lui refu-seriez-vous le concours pour la guerre?6.

Bien entendu, il sera nécessaire d’amé-nager les modalités de ce concours : pour leslois ordinaires, seuls les députés ont l’ini-tiative, le corps législatif vote un décret, quiest présenté au roi. Lorsque celui-ci accor-de sa sanction, le décret devient loi. Pour lesrelations extérieures, l’initiative ne peutvenir que du roi. L’Assemblée constituanteadopte donc à la quasi-unanimité une règle,qui figurera au chapitre «De l’exercice dupouvoir législatif»

la guerre ne peut être décidée que par un décret ducorps législatif, rendu sur la proposition formel-le et nécessaire du roi.

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Ce principe a un corollaire, qui inspire leprojet girondin: lorsque le pouvoir législatifappartient au corps législatif seul, c’est luiseul qui peut déclarer la guerre7. Le rôle dupouvoir exécutif, lorsqu’il n’est plus organelégislatif partiel, est nécessairement trèsréduit. S’il intervient, c’est seulement à titreconsultatif.

La constitution de ’93 ne contient aucu-ne disposition sur la déclaration de guerre,peut-être parce qu’on n’imagine pas faired’autres guerres que de défense, des guerresqu’il ne sera donc pas nécessaire de déclarer.

Jusqu’en l’an III, les choses sont doncsimples: comme la décision de faire la guer-re relève du pouvoir législatif, le pouvoir exé-cutif n’y participe que s’il est co-législateur.En d’autres termes, s’il dispose pour la légis-lation ordinaire d’une compétence décision-nelle, notamment par un droit de veto, c’estqu’il contribue à l’expression de la volontégénérale. Il est donc représentant du sujet decette volonté, la nation souveraine, et il doitêtre associé aussi à cette forme de législationqu’est la déclaration de guerre. Il faut souli-gner que si on lui donne ce pouvoir, ce n’estpas en raison de ses compétences dans lafonction exécutive, mais seulement en rai-son de et dans la mesure de son pouvoir légis-latif.

En revanche, quelle que soit la constitu-tion, tout ce qui concerne la conduite de laguerre, est l’exécution de la volonté généraleet relève sans discussion du pouvoir exécutifseul. La constitution de ’91 va jusqu’à distin-guer la décision de faire la guerre, qui estlégislative et la déclaration de guerre, qui enest l’exécution. Aussi, après que le Corpslégislatif a décidé la guerre, sur propositiondu roi, celui-ci doit encore la déclarer8.

Quant à la direction des opérations mili-taires, elle relève clairement de la fonction

exécutive seule. Selon la constitution de ’91,«le roi est le chef suprême de l’armée de ter-re et de l’armée navale», comme il est le chefsuprême de l’administration9, et c’est lui quidoit

distribuer les forces de terre et de mer ainsi qu’ille jugera convenable et en régler la direction en casde guerre10.

De la même façon, selon le projet girondin,

le Conseil exécutif est tenu d’employer pour ladéfense de l’État, les moyens qui sont remis à sadisposition11

et la Constitution de ’93 dispose que

la force publique employée contre les ennemis dudehors, agit sous les ordres du Conseil exécutif.

Toutefois ce principe de répartition descompétences doit souffrir quelques excep-tions en raison de la spécificité des relationsextérieures. La première concerne la guerreimposée: toutes les constitutions doiventprévoir au moins le cas d’une attaque sou-daine, à laquelle il est nécessaire de faire faceavant même que l’autorité législative soit enmesure d’exprimer la volonté générale. Laconstitution de ’91 y ajoute le cas où il faudraitentreprendre la guerre pour soutenir un alliéou pour conserver un droit par la force. Danstous ces cas, le pouvoir exécutif est autorisé àriposter, à charge pour lui de prévenir lecorps législatif, qui exerce un contrôle: ilpourra ordonner la cessation des hostilitésou requérir le roi de négocier la paix. Il fautnoter que ces décisions du corps législatifexpriment la volonté générale et que le roi esttenu de les exécuter, conformément au prin-cipe12. Le projet girondin contient une dis-position analogue, en partie d’ailleurs reco-piée de la constitution de ’9113.

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Toutes ces règles peuvent d’ailleurs êtreconsidérées comme exceptionnelles de deuxmanières: tantôt, elles sont exceptionnellesparce qu’elles dérogent au principe de répar-tition des compétences, comme dans le cas oùle pouvoir exécutif prend seul, au moins pro-visoirement, une décision qui relève norma-lement de la volonté générale, par exempleen déclenchant une guerre pour riposter àune attaque ou soutenir un allié; tantôt, ellessont exceptionnelles bien qu’elles ne déro-gent pas à la répartition normale des compé-tences; le pouvoir exécutif reste bien dans l’e-xécution, mais on conçoit ici la fonction exé-cutive de manière bien plus large que dansles autres domaines.

En effet, la distinction des fonctions juri-diques de l’État se comprend normalementau XVIIIème siècle, comme la distinction de lavolonté et de la force. La première corre-spond à la fonction législative et la seconde àla fonction exécutive, d’où il résulte que l’au-torité exécutive ne doit pas, en tant que telle,exprimer de volonté, mais seulement mettrela force au service de la volonté générale. Lafonction exécutive est donc subordonnée etsurtout elle n’implique en principe aucunemarge de pouvoir discrétionnaire. Cecidécoule d’ailleurs directement de l’idéal dela liberté politique: en obéissant au pouvoirexécutif, on doit obéir indirectement à la loi,ce qui arrive si le commandement du pou-voir exécutif n’est que le produit d’unedéduction de la loi, en d’autres termes, si lepouvoir exécutif n’a qu’une compétence liée.

Or, en matière de relations extérieures,une conception aussi étroite de la fonctionexécutive ne saurait évidemment conveniret il est indispensable de disposer d’unegrande marge d’appréciation quant auxmoyens employés. Toutes les constitutionstiennent compte de cette nécessité et attri-

buent à l’autorité exécutive un pouvoir dis-crétionnaire à l’aide de deux procédés. D’u-ne part, elles définissent dans certains cas lafonction du pouvoir exécutif non par lesactes qu’il est autorisé à accomplir, mais parla fin qu’il doit poursuivre. C’est ainsi qu’en1791, la constitution délègue au roi «le soinde veiller à la sûreté extérieure du royaume,d’en maintenir les droits et les posses-sions»14, et que le projet girondin précise,comme on l’a vu, qu’en cas d’hostilités, «leConseil exécutif est tenu d’employer, pourla défense de l’État, les moyens qui sontremis à sa disposition»15. D’autre part, ellesconfèrent ce pouvoir discrétionnaire defaçon explicite, comme le fait la constitutionde ’91 quand elle dispose que le roi pourradistribuer les forces «ainsi qu’il le jugeraconvenable et en régler la direction en casde guerre». La constitution de ’93 qui, pour-tant, tient le pouvoir exécutif dans la plusgrande subordination, est elle aussi con-trainte de recourir à ce procédé:

la force publique employée contre les ennemis dudehors, agit sous les ordres du Conseil exécutif.

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Le sceau des Affaires étrangères

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b. Les traités

Ce sont les mêmes principes que l’on tented’appliquer aux traités. Comme la décisionde faire la guerre, un traité est une loi. Il doitdonc être conclu par l’autorité législative. En1791, cette autorité législative est composéedu Corps législatif et du roi. L’argument tiréde la participation du roi au processus deconclusion des traités sera d’ailleurs l’un desprincipaux arguments de Barnave, au coursdu fameux débat du 10 août 1791, la qualité dereprésentant du roi. Est représentant celuiqui veut pour la nation. Donc, le roi commele Corps législatif est représentant

1° en ce qu’il consent et veut pour elle [la nation]que les nouvelles lois du corps législatif soientimmédiatement exécutées ou qu’elles soient sujet-tes à une suspension, 2° en ce qu’il stipule pour lanation, en ce qu’il prépare et fait en son nom destraités avec les nations étrangères, qui sont devéritables lois16.

Mais comme pour la guerre, il faut aména-ger la procédure législative pour l’adapter àla matière des relations extérieures. Il seraitbien entendu techniquement impossibleque le Corps législatif exerce l’initiative,c’est-à-dire négocie, tandis que le pouvoirdu roi se limiterait à donner son consente-ment17.

C’est donc le roi seul qui pourra exercerl’initiative en négociant les traités et c’est lecorps législatif qui devra ratifier. Cependant,comme pour la guerre, si les rôles joués parces deux organes dans la procédure législa-tive ordinaire sont renversés, le principen’est pas en cause: pour les traités, commepour les lois, il y a deux coauteurs. L’un pro-pose et l’autre consent. C’est pourquoi, laforme de la ratification est devenue diffé-rente de ce qu’elle est devenue aujourd’hui.

Le Corps législatif ne peut pas adopter uneloi autorisant la ratification; il doit réelle-ment ratifier. Il n’a pas le pouvoir d’adopterseul une loi, mais seulement un acte partiel,qui, dans la procédure ordinaire, est undécret. Dans la procédure de conclusion destraités, cet acte législatif partiel sera la rati-fication. C’est le traité tout entier qui est unacte de nature législative, parce qu’il est l’ex-pression de la volonté nationale. De mêmeque le vote du décret dans la procédure ordi-naire, la ratification, elle, n’est qu’une par-ticipation à l’édiction de l’acte.

Mais, il devient impossible de respecterce parallélisme avec la procédure législativeordinaire lorsque le pouvoir exécutif estécarté de la fonction législative, comme c’estle cas dans toutes les constitutions révolu-tionnaires à partir du projet girondin. Lalogique voudrait en effet que ce pouvoir exé-cutif soit privé de tout pouvoir de décision etmême de toute initiative en matière de trai-té, comme pour la législation ordinaire, cequi est évidemment impossible, car on ima-gine mal que le corps législatif conduise lui-même les négociations internationales.

On est donc contraint de revenir sur leprincipe et de donner au pouvoir exécutif,au moins dans certains cas, non seulementun pouvoir d’initiative qu’on lui refuse pourla législation ordinaire, mais même parfoisle monopole de l’initiative. Le projet giron-din distingue toutefois entre deux types denégociations.

Dans le premier cas le principe est sauf.C’est celui où la négociation a pour but d’ob-tenir la cessation des hostilités. Elle ne peutêtre entamée qu’en vertu d’un décret duCorps législatif, si bien que l’ouverture despourparlers apparaît bien comme l’exécu-tion de la volonté du législateur et non com-me une participation décisionnelle à la con-

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clusion du traité.18. Dans le second cas, enrevanche, on écarte nettement le principe: ils’agit des conventions et traités de paix, d’al-liance et de commerce, qui sont négociés àl’initiative et sous la direction du Conseilexécutif et ratifiés par le Corps législatifs19.Par la force des choses, cette solution est éga-lement adoptée par la constitution de ’93,qui elle aussi confie au Conseil exécutif lanégociation des traités, qui devront être rati-fiés par le Corps législatif20.

Il existe bien alors un partage des com-pétences et chacune des deux autorités, dontle consentement est indispensable à la vali-dité de l’acte, doit être considérée commecoauteur de la décision de conclure le traité,le Conseil exécutif parce qu’il a exercé lemonopole de l’initiative, le Corps législatifparce qu’il a ratifié, de sorte qu’on ne main-tient la solution technique qu’en sacrifiantles principes. Contrairement à ’91, les textesde ’93 violent leurs principes en attribuantles rôles en matière de relations extérieurescontrairement au principe officiel de répar-tition: le pouvoir exécutif est appelé à parti-ciper à un acte de nature législative.

2. La constitution de l’an III : vers la fonctiongouvernementale

En apparence, la Convention s’en tient auxprincipes en vigueur depuis le début de laRévolution. La déclaration de guerre est unacte de nature législative. Elle est décidée pardécret dans les formes législatives ordinai-res21.De même, les traités sont soumis à laratification du Corps législatif22. De mêmeencore, les compétences du Directoire sem-blent découler de la nature exécutive de safonction, bien que celle-ci soit conçue de

manière plus extensive que par le passé etcomme la mise en oeuvre d’un pouvoir dis-crétionnaire plus étendu. C’est ainsi qu’auxtermes de l’article 144:

Le Directoire pourvoit, d’après les lois, à la sûretéextérieure ou intérieure de la République...Il dis-pose de la force armée [...].

Pourtant, l’application cohérente desprincipes se révèle vite impossible et il fau-dra en dégager d’autres.

On peut le constater à propos de la décla-ration de guerre. Paradoxalement, c’est dansla similitude des termes employés par la con-stitution de l’an III avec ceux de la constitu-tion de ’91 que réside la grande innovation:

article 326. La guerre ne peut être décidée que parun décret du Corps législatif, sur la propositionformelle et nécessaire du Directoire exécutif.

On pourrait croire que la Conventions’est bornée à recopier le texte de ’91 en rem-plaçant les mots “roi” par “Directoire exé-cutif”, mais cette ressemblance cache desdifférences significatives. Tout d’abord, cesdispositions figurent à des endroits diffé-rents dans les deux constitutions: en ’91,dans le chapitre consacré au pouvoir législa-tif et, en l’an III, dans le titre XII Relationsextérieures. La raison en est qu’en ’91, onappliquait à la déclaration de guerre les prin-cipes généraux relatifs à l’exercice du pou-voir législatif: concours du roi et de l’assem-blée; initiative de l’un et approbation parl’autre.

Mais si l’on avait voulu appliquer à cettematière en l’an III les principes relatifs aupouvoir législatif, il aurait fallu tout simple-ment refuser au Directoire un pouvoir d’ini-tiative quelconque parce que privé de touteparticipation à l’exercice du pouvoir législa-

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tif général, il ne pouvait s’en voir attribuerdans l’exercice du pouvoir de décider de laguerre. Pour copier la solution technique de’91, il est donc logiquement nécessaire d’é-carter le principe qui la fonde et cesser deconsidérer que la déclaration de guerre estune loi. Thibaudeau l’affirme d’ailleursexpressément:

Il ne s’agit point de savoir si le droit de faire laguerre et la paix est une émanation du pouvoirlégislatif ou du pouvoir exécutif; c’est un droit dupeuple, il faut donc examiner seulement à quelpouvoir il est plus utile au peuple de le délé-guer23.

On va encore plus loin dans l’atteinte auxprincipes dans l’article suivant, qui donneau Directoire le pouvoir de déclencher laguerre seul. La constitution devait naturel-lement prévoir la possibilité d’une attaquecontre laquelle il faudrait se défendre avantmême d’avoir pu décider la guerre. La con-stitution de ’91, toujours sous la rubrique«pouvoir législatif» se préoccupait davan-tage d’éviter à l’Assemblée législative de setrouver engagée dans une guerre qu’ellen’aurait pas décidée que de donner au roi lepouvoir d’y faire face. Elle prévoyait que danstous les cas où il faudrait agir rapidement, leroi devrait le notifier aussitôt au corps légis-latif, qui pourrait ordonner la cessation deshostilités et poursuivre les ministresresponsables de l’agression24. Là encore, onappliquait le principe: si l’un des deux orga-nes législatifs partiels prend une initiative,quand bien même celle-ci lui serait imposéede l’extérieur, l’autre peut s’opposer à lui.Désormais au contraire, bien que le Direc-toire ne soit pas législateur partiel, il peut encas d’urgence, définie de manière large,décider seul des mesures à prendre.

Article 328. En cas d’hostilités imminentes oucommencées, de menaces ou de préparatifs deguerre contre la République française, le Direc-toire exécutif est tenu d’employer pour la défensede l’État les moyens mis à sa disposition, à charged’en prévenir sans délai le Corps législatif.

L’article est muet sur les pouvoirs duCorps législatif lorsque celui-ci aura été pré-venu. Le Directoire peut donc facilementemployer «les moyens mis à sa disposition»sous prétexte de menaces ou de préparatifs deguerre. Il a même, contre tous les principes,un droit d’initiative législative exceptionnel.

Il peut même indiquer, en ce cas, les augmenta-tions de force et les nouvelles dispositions légis-latives que les circonstances pourraient exiger25.

Le projet girondin contenait certes unedisposition analogue, mais la constitution del’an III remplace “nouvelles mesures” par“nouvelles dispositions législatives”. Il nes’agit plus seulement de suggérer une nou-velle loi, mais bien de présenter un projet.

Pour la conclusion des traités, le Direc-toire se voit confier un pouvoir bien plusgrand que celui de n’importe quel exécutifantérieur. D’abord, il a un pouvoir d’initia-tive identique à celui du roi en 91, que nejustifie pourtant pas cette fois une qualitéd’organe partiel de la fonction législative,puisque, comme le roi, il peut, aux termesde l’article 331, négocier

tous les traités de paix, d’alliance, de trêve, deneutralité, de commerce, et autres conventionsqu’il jugera nécessaire au bien de l’État.

Sans doute, les traités doivent-ils êtreratifiés par le corps législatif, mais, pour lapremière fois, ils peuvent contenir des arti-cles secrets, immédiatement exécutoiressans ratification26.

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Ainsi, le principe de spécialisation, quela Convention a pourtant appliqué de maniè-re systématique aux trois constitutionsqu’elle a élaborées, ne s’applique pas auxrelations extérieures. Il aurait conduit à con-sidérer, comme dans les constitutions pré-cédentes, que certains actes sont de naturelégislative et relèvent par conséquent desdeux assemblées et que d’autres sont denature exécutive et relèvent du Directoire. Il

aurait en tout cas interdit d’en faire l’objet decompétences partagées. Pourtant, c’est lasolution qui s’impose pour des raisons quel’on présente comme de pure opportunité.Tel paraît bien être le sens des propos deThibaudeau, qui affirme examiner seule-ment l’intérêt du peuple.

Pourtant, quand Thibaudeau préconisede rompre ici avec la solution girondine et deconfier au Directoire le monopole de l’ini-

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Traité de paix avec la Toscane

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tiative de la guerre, l’intérêt du peuple qu’ilinvoque tient à la nécessité du secret et à l’e-xigence de rapidité dans l’action. Cette justi-fication vaut d’ailleurs aussi pour les traités.Les raisons pour lesquelles le Directoireserait plus apte à agir et délibérer en secret,Thibaudeau n’a pas besoin de les énoncer,mais elles sont évidentes pour tous: c’estqu’il s’agit d’un organisme restreint. D’au-tres orateurs ajoutent la connaissance qu’ale Directoire de l’état des forces en présen-ce ou la nécessité de coordonner l’actiondans différents domaines.

On en arrive ainsi à l’idée que tous lesactes de la politique extérieure, qui requiè-rent ainsi une délibération rapide et secrè-te, et dont l’exécution doit être assurée demanière coordonnée, échappent pour cetteraison à la grande distinction de la fonctionlégislative et de la fonction exécutive.

On doit alors dire qu’ils relèvent d’unetroisième fonction, la fonction gouverne-mentale. L’expression même de “fonctiongouvernementale” n’est elle pas employéepar la constitution, ni d’ailleurs par les Con-ventionnels, mais on trouve à l’article 341 leterme de «fonction de gouvernement»27 etle terme de “gouvernement” est utilisé trèsfréquemment et il l’est dans une significa-tion nouvelle28.

Jusque là, ce mot avait dans le vocabulai-re politique deux sens principaux. Au senslarge, il était synonyme de pouvoir politique,comme dans l’expression “les formes degouvernement”. Au sens étroit, chez Rous-seau, par exemple, il désignait l’organe dupouvoir exécutif, entendu de manière parti-culièrement restrictive, comme le pouvoird’assurer l’application des lois29.

Sous la Convention, plusieurs orateurs,parmi les plus importants, commencent àl’employer avec une signification intermé-

diaire pour désigner l’organe du pouvoirexécutif, mais en tant qu’il accomplit desactes qui ne peuvent se rattacher à la fonc-tion exécutive strictement entendue. Thi-baudeau, par exemple, déclare que

il ne faut donc plus confondre le gouvernementet l’administration, la volonté et l’exécution, lacause et l’effet30.

De même, Sieyes, dans son grand disco-urs du 2 thermidor, distingue nettementgouvernement et administration ou gouver-nement et pouvoir exécutif (au sens strict).Après avoir rendu au plan de la Commissiondes Onze, un hommage mesuré, notammentparce qu’ «il a divisé, quoique d’une mainpeu ferme le pouvoir exécutif dans ses deuxprincipales parties» (le gouvernement etl’administration), il déclare:

Je ne confonds point le pouvoir exécutif avec legouvernement; je regarde, au contraire, la divi-sion de ces deux pouvoirs, dans une République,comme une de ces vues qui appartiennent enco-re au progrès de la science [...] le pouvoir exécu-tif est tout action, le gouvernement est tout pen-sée; celui-ci admet la délibération, l’autre l’ex-clut à tous les degrés de son échelle

et précise que le gouvernement (au sensorganique) doit exercer trois pouvoirs et être1) jurie de proposition et avoir l’initiative deslois; 2) jurie d’exécution et disposer à ce titredu pouvoir réglementaire ; 3) procurateurd’exécution, c’est-à-dire nommer le pou-voir exécutif (les ministres) et diriger sonaction31.

Cette distinction paraît avoir une doubleorigine. La première est le dualisme de l’e-xécutif que l’on avait été contraint d’intro-duire dans la constitution de ’91 en raisonde l’irresponsabilité du roi. Il résultait de cedualisme que les actes du roi qui relevaient

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de la fonction exécutive, mais seulementceux-là, devaient être contresignés par lesministres. En revanche, les actes du roi dansla fonction législative n’étaient pas soumisau contreseing. Si l’on voulait caractériserglobalement le rôle du roi, on ne pouvait pasdire qu’il assurait l’exécution des lois, parcequ’il ne l’assurait pas seul, mais avec lesministres. Par contre, on pouvait observerqu’il avait dans l’exécution un rôle directeur,qu’il lui revenait notamment de nommer etrévoquer les ministres et de coordonner leuraction.

La constitution de ’93 reproduisait cedualisme en distinguant le Conseil exécutifet les ministres, appelés agents généraux enchef de la République. Le Conseil nommaitet révoquait les ministres. Il était chargé sansdoute de la fonction exécutive, mais la con-stitution précisait qu’il devait diriger et sur-veiller l’action des agents. Là encore, onobserve une distinction latente entre l’exé-cution proprement dite et la direction et lacoordination de l’exécution.

L’autre origine paraît être le gouverne-ment révolutionnaire. Sans doute, le mot“gouvernement” est-il pris ici dans son senslarge de mode d’exercice du pouvoir politi-que, mais pendant la durée du gouvernementrévolutionnaire, la Convention avait mis enplace des comités, dont les principaux, leComité de Salut Public et le Comité de Sûr-eté Générale, étaient précisément appelés«comités de gouvernement», parce qu’ilsétaient chargés de surveiller et de dirigerl’action des administrations. Dans ce con-texte, on appelait parfois “gouvernement” lafonction exercée par ces comités. Ainsi, unprojet de décret présenté par Daunou,emploie-t-il le mot gouvernement juste-ment dans ce sens fonctionnel:

article 1er. Jusqu’à ce que les lois constitution-nelles soient mises en activité, le gouvernementsera confié aux Comités de Salut public & deSûreté générale, sauf les exceptions & les modi-fications contenues dans les articles suivants.32

et il précise que cette fonction consistenotamment dans la direction de la forcearmée dans Paris, la surveillance de toutesles parties de l’administration, la directiondes relations extérieures, celle des armées, lasurveillance de la trésorerie etc...

Ainsi, l’idée d’une fonction gouverne-mentale apparaît comme directement liée àla nécessité de justifier l’attribution à l’auto-rité exécutive de compétences qui ne relè-vent pas de la fonction exécutive et qu’on nepouvait pas non plus rattacher à la fonctionlégislative, puisque le Directoire n’avaitaucun rôle dans cette fonction. Le nouveauconcept fournissait une justification parfai-te à toutes ces compétences. Si le Directoireest un gouvernement et non une simpleautorité exécutive, alors il apparaît naturel,conforme aux principes aussi bien qu’auxnécessités pratiques, de lui donner au moinscertaines des attributions relevant de lafonction gouvernementale et au premierrang le pouvoir de conduire la politique exté-rieure.

La Convention thermidorienne n’ira pasplus loin, parce qu’elle n’est pas encore assezéloignée des conceptions qui l’ont guidéedepuis 1792 pour accepter de donner auDirectoire le droit d’initiative des lois ou unvaste pouvoir réglementaire. Les rédacteursde la constitution de l’an VIII sauront, eux,tirer de la nouvelle invention tout le particonvenable. Leur texte ne comprend plus detitre consacré au pouvoir exécutif, mais untitre justement intitulé «du gouverne-ment», tandis que le titre consacré spécia-lement aux relations extérieures a disparu.

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Le mot gouvernement peut désormaisdésigner à la fois une autorité investie decompétences relevant de toutes les fonctionsjuridiques de l’État et une fonction, définiecomme l’ensemble des compétences du gou-vernement au sens organique, un ensembledont les relations extérieures sont un élé-ment essentiel.

** *

Les transformations du droit des rela-tions extérieures contribuent ainsi à expli-quer les mutations de la doctrine de la sépa-ration des pouvoirs au XIXème siècle. Avant etpendant la Révolution, au moins jusqu’en1795, la fonction exécutive était conçue com-me essentiellement subordonnée et l’idéeque son titulaire pouvait faire équilibre aupouvoir législatif était proprement inconce-vable. Mais dès lors que l’autorité exécutiveest désignée comme le “gouvernement” etqu’elle exerce, au delà de la fonction exécu-tive, tout un ensemble de compétences soitlégislatives, soit relatives au droit des rela-tions extérieures, on peut désigner cetensemble comme la “fonction gouverne-mentale” et l’on peut concevoir que son titu-laire dispose d’une puissance équivalente àcelle du pouvoir législatif. Mais il peut arri-ver qu’alors même que le gouvernementpossède toutes ces attributions, on continuede le désigner par métonymie comme “pou-voir exécutif”, de sorte qu’on commence à

dire que ce “pouvoir exécutif” doit faireéquilibre au pouvoir législatif.

L’apparition, à cause de ces mutations,du concept de gouvernement offre une bon-ne illustration de la genèse et de la transfor-mation des concepts et théories constitu-tionnels. Selon la vision traditionnelle, lesauteurs d’une constitution – mais le raison-nement est le même pour la législation etpour tous les actes juridiques – appliquentdes doctrines juridiques ou des idéologiespolitiques et les traduisent en textes norma-tifs. On concède sans doute qu’il peut leurarriver de faire des exceptions, soit par prag-matisme, parce qu’ils constatent que leursdoctrines sont mal adaptées aux besoins pra-tiques, soit par tactique politique, parce qu’ilfaut bien faire des compromis. Mais le sché-ma explicatif repose toujours sur l’idée qu’u-ne constitution n’est que la mise en oeuvre,au prix des exceptions imposées par la vie, deprincipes formulés par une théorie anté-rieure à l’aide des concepts produits par cet-te théorie.

Ce qui ressort au contraire de l’analysedes travaux préparatoires, c’est que si lesnécessités pratiques contraignent les Con-stituants à apporter des exceptions aux théo-ries, elles contraignent aussi à imaginer desconcepts et des théories nouvelles, propresà justifier les dispositions positives, si bienque les constitutions produisent des con-cepts et des théories autant que les théoriesproduisent des constitutions.

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1 Cfr. Michel Troper, La séparationdes pouvoirs et l’histoire constitution-nelle française, Paris, LGDJ, 1973.

2 Tout cela se traduit dans la forme etle style d’écriture des constitu-tions. Il est remarquable que lors-que les principes s’appliquentfacilement, les dispositions relati-ves aux relations extérieures sontréparties entre les chapitres con-sacrés aux compétences législati-ves et exécutives, tandis que le titrequi porte spécialement sur lesrelations extérieures est réduit à ladétermination des buts générauxde la politique extérieure. C’est lecas de la Constitution de 91, dont letitre VI Des rapports de la nationfrançaise avec les nations étrangères,contient seulement, outre l’enga-gement de renoncer à toute guer-re de conquête, quelques disposi-tions sur le droit des étrangers quine pouvaient trouver place ailleurs.Ceci se comprend parfaitement: leroi est l’organe de deux fonctions.Il est co-législateur et pouvoir exé-cutif. Par conséquent, il est facilede lui attribuer des pouvoirs de co-décision de nature législative, etdes compétences d’exécution sansfaire exception aux principes. Enrevanche, lorsque l’organe du pou-voir exécutif n’est pas en mêmetemps organe législatif partiel, end’autres termes lorsqu’il ne dispo-se pas d’un droit de veto, il n’estpas possible, en matière de rela-tions extérieures, de lui attribuercertaines compétences de naturelégislative sans apporter aux prin-cipes des exceptions importantes.Il faut alors consacrer aux relationsextérieures un titre à part dans letexte de la constitution. C’est ce quise réalisera à partir du projetgirondin.

3 Séance du 21 mai 1790, ArchivesParlementaires, t. 15, p. 641.

4 Il y a là une forme de compromistout-à-fait particulière. Jon Elsterdistingue entre le débat, qui portesur les principes, et le marchanda-ge (arguing and bargaining). Ilsemble que le second se prête

mieux au compromis que le pre-mier, parce qu’entre principesopposés, le compromis est diffici-le, tandis qu’on peut à la suite d’unmarchandage trouver une solutionpratique intermédiaire entre deuxsolutions extrêmes. Mais, noussommes ici dans une situation oùl’un des orateurs, Mirabeau, peutobtenir un compromis, non pas enexerçant une pression, ni en com-battant le principe invoqué par sonadversaire, mais en s’y ralliantpour en défendre une interpréta-tion orthodoxe (cfr. Jon Elster,Argumenter et négocier dans deuxassemblées constituantes, dansRFSP, vol. 44, n° 2, 1994, pp. 187ss).

5 Séance du 22 mai 1790, ArchivesParlementaires, t. 15, p. 656.

6 Ibidem p. 654. 7 Titre VII, sect. II, Des fonctions du

corps législatif, article 1er «au corpslégislatif seul appartient l’exerciceplein et entier de la puissancelégislative».article 3. «Les actes émanés ducorps législatif se divisent en deuxclasses : les lois et les décrets» ;article 6. «Sont désignés sous lenom particulier de décrets, lesactes du corps législatif concernant[....] les déclarations de guerre, laratification des traités et tout ce quia rapport aux étrangers».La règle est répétée au titre XIII Desrapports de la République françaiseavec les nations étrangères et des rela-tions extérieures; article 365 : «Ladéclaration de guerre sera faite parle corps législatif et ne sera pasassujettie aux formes prescritespour les autres délibérations; maiselle ne pourra être décrétée qu’àune séance indiquée au moinstrois jours à l’avance, par un scru-tin signé, et après avoir entendu leConseil exécutif sur l’état de laRépublique».

8 Titre III, chap. IV, De l’exercice dupouvoir exécutif, sect. III, Des rela-tions extérieures, article 2. «Toutedéclaration de guerre sera faite ences termes: de la part du roi des

français, au nom de la Nation».9 Titre III, chap. IV, article 1er.

10 Titre III, chap. IV, De l’exercice dupouvoir exécutif, sect. III, Des rela-tions extérieures, article 1er.

11 Titre XIII, article 6.12 Titre III, chap. III, De l’exercice du

pouvoir législatif, sect. 1ère, Pouvoirset Fonctions de l’Assemblée Nationa-le législative, article 2. «Dans le casd’hostilités imminentes ou com-mencées, d’un allié à soutenir, oud’un droit à conserver par la forcedes armes, le roi en donnera, sansaucun délai, la notification auCorps législatif, et en fera connaî-tre les motifs. Si le Corps législatifdécide que la guerre ne doive pasêtre faite, le roi prendra sur lechamp des mesures pour faire ces-ser ou prévenir toutes les hostili-tés, les ministres demeurantresponsables des délais. Si leCorps législatif trouve que leshostilités commencées soient uneagression coupable de la part desministres ou de quelque autreagent du pouvoir exécutif, l’auteurde l’agression sera poursuivi cri-minellement. Pendant tout lecours de la guerre, le Corps légis-latif peut requérir le roi de négo-cier la paix et le roi est tenu dedéférer à cette réquisition».

13 Titre XIII, article 6. «En cas d’ho-stilités imminentes ou commen-cées, de menaces, ou de préparatifsde guerre contre la Républiquefrançaise, le Conseil exécutif esttenu d’employer pour la défense del’État, les moyens qui sont remis àsa disposition, à la charge d’enprévenir le corps législatif, sansdélai. Il pourra même indiquer ence cas, les augmentations de for-ces, et les nouvelles mesures queles circonstances pourraient exi-ger».

14 Titre III, chap. IV, article 1er.15 Titre XIII, article 6, précité.16 A.P. t. 29, p. 331.17 Comme l’écrira Eugène Pierre,

«négocier ne saurait être le fait deplusieurs, et rien de ce qui toucheaux relations d’un peuple avec ses

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voisins ne peut être préparé dansle tumulte d’une assemblée déli-bérante» (cité par Didier Maus, Larépartition des compétences enmatière de politique étrangère dansl’élaboration de la constitution de laVème République, communication auColloque La conduite de la politiqueétrangère de la France sous la Vème

République, Bordeaux , 7 avril,1995).

18 Titre XIII, article 8. «Aucunenégociation ne pourra être enta-mée, aucune suspension d’hosti-lité ne pourra être accordée, sinonen vertu d’un décret du corpslégislatif, qui statuera sur cesobjets après avoir entendu le Con-seil exécutif».

19 Titre XIII, article 9. «Les conven-tions et traités de paix, d’allianceet de commerce seront négocies aunom de la République françaisepar des agents nationaux nomméspar le Conseil exécutif et chargésde ses instructions; mais leur exé-cution sera suspendue et ne pour-ra avoir lieu qu’après la ratificationdu corps législatif ».

20 Articles 55 et 70.21 Article 327. «Les deux conseils

concourent, dans les formes ordi-naires, au décret par lequel laguerre est déclarée».

22 Article 333. «Les traités ne sontvalables qu’après avoir été exami-nés et ratifiés par le Corps législa-tif [... ]».

23 Séance du 11 thermidor, Moniteur,t. 25, p. 376.

24 Titre III, chap. III, sect. I, article 2.25 Article 328, al.2.26 Articles 332 et 333.27 «L’assemblée de révision n’exer-

ce aucune fonction législative ni degouvernement: elle se borne à larévision des seuls articles consti-tutionnels qui lui ont été désignéspar le corps législatif».

28 Sur la fortune de cette expression,cfr. Michel Troper, La théorie de lafonction gouvernementale chez Geor-ges Burdeau, dans Bernard Chan-tebout (Ed), Le pouvoir et l’État dansl’oeuvre de Georges Burdeau, Paris,Economica, 1993, pp. 73 ss.

29 «Le mot de gouvernement, dansson acception la plus étendue,

s’applique à l’exercice de tous lespouvoirs publics; il comprend l’or-dre législatif aussi bien que l’ordreexécutif; il comprend même lasouveraineté. Mais ce mot se rendaussi et même habituellementdans une acception plus restrein-te et comme ne désignant que l’or-dre exécutif» (Antoine Boulay dela Meurthe, Théorie constitutionnel-le de Sieyes. Constitution de l’an VIII.Extraits des mémoires inédits, Paris,1836, p. 24).

30 Antoine-Clair, Thibaudeau, Disco-urs sur le gouvernement actuel de laRépublique française, prononcé dansla séance du 7 floréal, Paris, floréalan III, p. 10.

31 Emmanuel-Joseph Sieyes, Opinionsur plusieurs articles des titres IV et Vdu projet de constitution, prononcéeà la convention le 2 thermidor de l’antroisième de la république, Paris, anIII.

32 Pierre-Claude-François Daunou,Rapport sur les moyens de donner plusd’intensité au gouvernement actuel,présenté au nom de la Commissiondes Onze, Paris, floréal an III.

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L’évocation de la dévolution du pouvoirmunicipal en France sous l’Ancien régimesous-entend l’existence d’un droit électo-ral, étant entendu que nous exclurons denotre propos les provinces qui n’ont pasretenu le système de l’élection. Il en estainsi par exemple pour l’Artois, le Hainautet la Flandre, régions récemment conqui-ses où le seigneur désignait les échevins.

Dans le cadre de cet article, les systè-mes électoraux ne sont pas étudiés en détailcar il en existe à peu près autant que decommunautés, chacune étant libre d’ail-leurs de faire évoluer son système électoralau fil des années. Il a semblé préférable deprésenter les grandes lignes, en commen-çant par la création de la réglementation,de la coutume qui vient compléter despoints mal rédigés ou demeurés dans l’om-bre et de leur évolution. Maîtres de leurréglementation électorale, les habitants desvilles ne jouissent cependant que d’un pou-voir délégué qui peut être repris dans cer-taines circonstances.

Consacrée aux charges municipales, la

seconde partie, découle logiquement de lapremière, étant entendu qu’on laissera decôté les charges électives de moindreimportance.

Enfin, la troisième partie s’attachera àune procédure électorale en constante évo-lution pour être de plus en plus complexe etlà encore chaque communauté choisit lesystème qui lui semble le plus adapté, laparticipation de la population étant un destraits les plus intéressants.

Le contentieux électoral sera traité ici àl’aide des quelques renseignementsrecueillis, une documentation homogènefaisant défaut.

I. De l’autonomie à l’encadrement électoral

A des périodes qui varient selon chaquecommunauté, au moins en théorie, leshabitants maîtrisent leur droit électoral,mettant au point des statuts municipaux

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La dévolution du pouvoir municipaldans la France d’Ancien régime:les systèmes électoraux

jaqueline dumoulin

giornale di storia costituzionale n. 4 / II semestre 2002

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souvent inspirés des pratiques antérieures.L’uniformité n’existant pas dans l’Ancienrégime, aucune loi générale ne réglant lesélections, les règlements et les coutumesvariaient selon les provinces. Cependant,si les différences étaient parfois considé-rables entre les pays d’états et les pays d’é-lection, donc entre le nord et le sud, cer-tains principes étaient généralementadmis, tel celui qui faisait dériver les char-ges municipales de l’élection, tels ceux quis’inspiraient du droit canon.

En l’absence de toute difficulté, ce droitest exercé librement, mais dès que sur-viennent les problèmes, le pouvoir centrals’immisce dans la réglementation. Quantaux parlements, de tout temps, il ont faitœuvre utile dans ce domaine, soit surrequête, soit de leur propre autorité.

1. LES COMMUNAUTÉS, SOURCES INTERNES

DE DROIT ÉLECTORAL

Généralement, les communautés élaborentseules ces documents appelés statuts muni-cipaux ou règlements électoraux, cependantcette formalité ne présentait aucun carac-tère d’obligation et des communautésencore au XVIIIème siècle, en l’absence derèglement, suivaient les usages régionaux.

a. Statuts municipaux. D’une manière géné-rale, les individus répugnent à mettre enplace de nouveaux statuts, ils préfèrentaménager les mesures existantes et il fautdes menées, brigues, cabales et monopoles(manœuvres destinées à fausser le jeu élec-toral) particulièrement scandaleux pourqu’ils se décident à rédiger de nouveauxrèglements électoraux.

Plusieurs types de procédure président

à cette élaboration. La communauté peutrédiger elle-même son nouveau règlement,ce qui suppose un certain nombre de per-sonnes capables et généralement le nou-veau texte est le fait de plusieurs instances:un projet mis au point par un conseil estadopté par un bureau avec adjonction dedéputés ou bien le projet est mis au pointpar une assemblée des plus apparents.

Si la communauté ne peut ou ne souhai-te pas rédiger ses nouveaux statuts, ellerecourt à un membre du parlement qui éta-blit un projet soumis ensuite à l’approba-tion de la communauté.

Le nouveau texte est accepté par uneassemblée de composition plus ou moinslarge et généralement la majorité simplesuffit. Ensuite, bien que cette formalité nesoit pas obligatoire, parce qu’elle donneforce de loi aux nouveaux statuts, l’homo-logation du parlement sera requise.

La conservation est assurée par la trans-cription du nouveau règlement dans lesregistres de la communauté, et la publici-té, par sa lecture avant chaque élection.

Lorsque les habitants mettent au pointleurs statuts municipaux, ils choisissentlibrement le système qu’ils désirent voirappliquer dans leur cité. Un bref inventai-re donne une idée de la diversité.

Montdidier (Somme) a retenu le suffra-ge universel et le vote à deux tours pour lemayeur de la ville. Gaillac (Tarn) a aban-donné le suffrage universel au début duXVIIème siècle (1603) car «la plus vilepopulace s’introduisait dans les assembléesélectorales». Carcassonne (Aude) et Ren-nes (Ille-et-Vilaine) préfèrent le suffrage àtrois degrés, avec élection d’un certainnombre de délégués appelés à voter pourles magistrats municipaux. A Rabastens(Tarn) en 1655, l’élection est confiée à

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trente-et-un anciens consuls tirés au sort.A Orchies et Douai (Nord), les échevinssortant nommaient trois bourgeois de laville comme électeurs, ceux-ci nommaienttrois échevins, lesquels en désignaient deuxautres et les cinq échevins ainsi constituésnommaient les deux derniers.

Alors que les rédacteurs de statuts pou-vaient mettre en place une réglementationcomplète, il semble qu’une stricte codifi-cation les ait inquiétés et il est évident qu’ilssont plus à l’aise avec les coutumes électo-rales, nombreuses et variées, qui complè-tent au fil des ans les défaillances de lamesure réglementaire.

b. Coutume. Par certains points restés dansl’ombre ou mal rédigés, les statuts munici-paux sont incomplets. Surgies pendant lacréation du nouvel état, ces carences com-promettent le bon déroulement de l’élec-tion: en cas de blocage, le conseil d’élec-tions sera rompu et la nomination revien-dra au roi. Une solution doit donc être trou-vée et appliquée immédiatement, utilisa-ble les années suivantes dans le même con-texte. C’est ainsi que naissent les coutumes,d’abord simples mesures ponctuelles com-blant un vide juridique, ensuite règles obli-gatoires.

L’élaboration de la coutume a donc lieuobligatoirement pendant l’élection, endehors de ce contexte, toute nouvelle mesu-re serait une modification du droit électo-ral existant.

Le droit de proposition revient norma-lement à toute personne assistant à l’élec-tion, mais le plus souvent c’est un des pre-miers magistrats qui assume cette tâche.

Après discussion de la proposition, lesopinants se prononcent selon l’ordre éta-bli pour l’élection des premiers magistrats.

Généralement, la majorité simple suffitpour que la mesure soit adoptée. Alors ellene constitue pas encore une coutume puis-que, par définition, une certaine répétitionest nécessaire, mais elle le deviendra si elleest reprise les années suivantes, sans qu’ilsoit besoin de recourir à nouveau au vote.

La preuve des coutumes est assurée parleur inscription dans les registres de la vil-le.

Il n’est assuré aucune publicité, ce quin’est pas très grave pour les coutumes lesplus connues, pour les autres, il fautrechercher dans les registres ou faire appelà la mémoire des opinants. En cas d’hési-tations ou de contradictions, une nouvellerègle sera votée et appliquée.

Le domaine de la coutume est très riche:accès aux principales magistratures politi-ques, dation du chaperon, installation desélus, … Richesse qui est le corollaire de lafaiblesse de la réglementation.

2. EVOLUTION DE LA RÉGLEMENTATION

ÉLECTORALE

Pour répondre à sa mission, permettre ledéroulement normal de la création du nou-vel état, le droit électoral se perfectionneau fil des années, constante évolution quicependant ne sera jamais capable d’endi-guer les menées, brigues, cabales et mono-poles.

Les registres montrent deux principalescauses d’évolution: l’insuffisance de laréglementation et le besoin de lutter con-tre des agissements répréhensibles. En fait,si très souvent, les règlements municipauxsont incomplets, il semble que ce ne soitpas le fait du hasard. On trouve en effet unecertaine volonté de ne mettre en place

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qu’un cadre et un désir patent de conserverdes zones d’ombre afin de profiter du videjuridique ou de l’imprécision pour se livrerà des menées et cabales.

Chaque fois que, selon certains, la mai-son commune est en danger, une modifi-cation est proposée, mais les améliorationssont généralement insuffisantes. Bienqu’ils estiment utile de lutter contre lesabus, ils hésitent à mettre en place desrèglements rigides et complets. Si lestenants du pouvoir ont intérêt à lutter con-tre les manœuvres électorales, il seraitmaladroit de leur part d’établir une stricteréglementation pouvant se retourner con-tre eux en cas de perte de la maison com-mune.

La complexité de cette situation ne peutêtre ignorée si l’on veut comprendre lefonctionnement des systèmes en place.

Le perfectionnement du droit entraînemomentanément un recul des manœuvres,jusqu’au moment où un autre point faibledu règlement retiendra l’attention des bri-gueurs.

Les troubles peuvent aussi permettre lepassage de la simple manœuvre à la viola-tion. Comme à la fin du XVIIème siècle il estde plus en plus difficile de briguer, il nereste plus alors que la transgression dudroit, illustrée par deux exemples: l’inter-diction d’élire les parents et alliés des pre-miers magistrats et celle de mettre en pla-ce des fils de famille. Souvent, les opinants,ne dénoncent plus la violation et acceptentdes nominations frauduleuses: c’est l’a-boutissement du système.

Cela est d’autant plus facile que le droitélectoral étant souvent dépourvu de sanc-tions, les brigueurs ne risquent qu’unedénonciation publique. Si des peines sontprévues, elles ne sont jamais appliquées,

comme si un rapport de force interdisaitaux élus de dénoncer les brigues, toléran-ce qui va jusqu’au pouvoir central puisquele roi, mis au courant des troubles, n’appli-que presque jamais les sanctions prévues.Leur qualité est peut-être aussi à prendreen compte: la gravité est telle que leurapplication semble plus redoutée que lestroubles: à Dijon (Côte-d’Or) par exemple,le parlement défend d’acheter les suffrageset de venir en armes aux assemblées élec-torales sous peine d’être pendu et étrangléet pour que tout le monde soit conscient dela menace, une potence est dressée devantle lieu où se déroulent les élections.

Il faut de plus s’interroger sur la finali-té des sanctions: empêcher une personnede nuire à nouveau, mais cela n’est réalisa-ble que si l’action émane d’un individuagissant pour son propre compte, éventua-lité qui doit être écartée. Il fallait donc met-tre en place des sanctions touchant ungroupe d’individus, problème devant lequelles auteurs étaient désarmés.

Les titulaires du droit de modificationsont les premiers magistrats en exercice,parfois ceux qui ont déjà été en charge etles conseillers, donc un groupe relative-ment restreint, mais cette règle n’est pasimmuable. A Aix-en-Provence (Bouches-du-Rhône), à la fin du XVIIème siècle, c’estla population aixoise qui s’empare du pou-voir réglementaire, ce qui pourrait laisserpressentir une certaine maturité politique,mais il faut être prudent car en fait il n’y aque cinquante Notables qui tentent des’immiscer dans la confection de la règle dedroit. Il faut souligner qu’ils proposent desmesures originales, allant jusqu’à l’instau-ration d’un autre mode d’élection des con-suls. Ils ne seront pas suivis par le pouvoircentral.

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La procédure est simple: il suffit d’éta-blir un projet qui sera soumis au plus pro-chain conseil, lequel se prononcera géné-ralement à la majorité simple.

Comme les statuts, les modifications sontreportées dans les registres de la ville.

La publicité est généralement assuréepar la lecture des nouvelles mesures avantles élections, afin que chaque opinant con-naisse les règles en vigueur, mesure qui seperdra au fil des ans car il deviendra tropcompliqué de lire les nombreuses modifi-cations.

Si ces nouvelles mesures ne modifientpas l’équilibre politique précédemmentétabli, le parlement n’est pas sollicité pourleur homologation.

Pour toutes les villes du royaume, ledroit électoral atteste d’une véritable auto-nomie municipale, mais souvent, cettedernière s’exerce dans un cadre restreint.Généralement, les rédacteurs ne profitentpas de la liberté qui leur est accordée, pré-férant s’inspirer du passé, comme si la seu-le antériorité justifiait de la qualité desmesures. Surtout, il est évident que lesrédacteurs mettent en place des statuts quiservent leurs intérêts, répugnant à instau-rer de nouvelles règles qui comportentobligatoirement un facteur d’incertitude.Fréquemment, les rédacteurs font partied’un groupe d’oligarques compétents, maisaussi intéressés, cela allant de pair avec leurdisponibilité économique et culturelle pourprendre en charge l’administration de lacité.

Dans l’Ancien régime, le cadre électoral,est le seul fait de la cité, mais une telleliberté comportait ses limites. Le droit tra-que la fraude, la fraude contourne le droitet pénètre ses lacunes, se perfectionne etviole délibérément la règle. Vient alors le

temps pour le pouvoir central d’intervenir,certes pour lutter contre les troubles, maisaussi pour développer la centralisation etla soumission des villes.

3. LES SOURCES EXTERNES

DU DROIT ÉLECTORAL

D’une manière générale, il semble que lesparlements interviennent relativement peudans la vie électorale des communautés. Plusgénérales et plus vastes sont les intrusionsdu pouvoir central qui, sur requête ou de sonplein gré, modifie la réglementation lorsqueles manœuvres électorales deviennent scan-daleuses, avec une nette accélération à la findu XVIIème siècle, conséquence logique del’affirmation de l’absolutisme royal. Il fautnoter une différence entre les interventionsdes parlements et celles du pouvoir central :d’un côté les arrêts ont un aspect strictementtechnique, de l’autre, les décisions peuventavoir un caractère politique.

a. Les parlements. Normalement, les parle-ments n’interviennent pas de façon arbi-traire dans la réglementation électorale.Leurs arrêts résultent soit d’une demande,tout particulier pouvant présenter unerequête en cas d’abus, soit d’une auto-saisi-ne lorsqu’ils la jugent utile. Les parlementsqui homologuent les règlements, et parfoisparticipent à leur confection, possèdent unetelle connaissance du droit électoral qu’ilsont aptes à juger les mesures qu’il faut évi-ter, celles qui doivent être mises en place.

Lorsque les parlements interviennentdans la réglementation électorale, les com-munautés ne sont pas consultées sur larègle édictée, elle s’impose car le roi leur adélégué une partie de ses pouvoirs.

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Le seul objectif de ces institutions estde faciliter la vie électorale. Si à Aix-en-Provence, le parlement ne s’est jamaisimmiscé particulièrement dans la régle-mentation électorale, ce désintérêt ne seretrouve pas dans tout le royaume. En 1603,le parlement de Toulouse (Haute-Garon-ne), pour remédier à des abus, ordonne queles consuls de Gaillac seront nommés parun conseil général composé de soixantemembres pris parmi les plus apparents etplus qualifiés de la ville, écartant ainsi lapopulation. La situation est à peu prèsidentique à Briançon (Hautes-Alpes), en1614, lorsque le parlement met au point lerèglement municipal.

b. Le roi. L’ingérence royale prend deux for-mes différentes selon qu’elle vise exclusive-ment une ville ou l’ensemble du royaume.

Dans le premier cas, son intrusion peutêtre commandée par des circonstancesexceptionnelles, tels le rétablissement del’ordre et la bonne administration de laprovince. A Marseille (Bouches-du-Rhô-ne), en 1660, alors que de violents troublesagitent la ville, le roi met en place un nou-veau règlement. Il avait procédé de la mêmefaçon, à Aix, l’année précédente. L’objectifroyal peut aussi concerner la bonne admi-nistration de la ville, s’il change la date desélections pour que les charges soient exer-cées pendant l’année civile.

Après une intervention royale, surtoutlors de la mise en place d’un nouveau règle-ment, les habitants, obligés de respecter lahiérarchie des sources, sont pratiquementdépossédés de leur pouvoir réglementaire,sauf pour apporter des modifications con-cernant des problèmes d’organisation.

Dans le second cas, la mesure royaleconcerne tout le royaume. Ainsi, en 1547, il

réserve l’administration des villes auxbourgeois et notables marchands, autant depersonnes capables de manier les denierset disposant du temps nécessaire pour s’oc-cuper des affaires de la ville. Le roi écarteainsi ses officiers qui avaient tendance àaccaparer le pouvoir municipal au détri-ment de leurs fonctions. L’autre interven-tion générale, qui se produit en 1692, mar-que un tournant décisif dans l’histoiremunicipale française. Désormais, les com-munautés ne peuvent plus élire leur pre-mier magistrat politique car le roi, pouraméliorer les finances de l’Etat, crée desoffices qui seront vendus aux particuliers.L’édit de Versailles est officiellement prispour d’autres motifs, tels les troubles con-stants observés dans les communautés.

Les villes réagissent vigoureusementmais le roi est intraitable, sauf si ellesrachètent l’édit. Les communautés quiacceptent cette opération perdent quandmême le droit d’élire le premier magistratde la cité, mais, comme à Aix, le roi le choi-sira parmi trois noms proposés par la ville.Généralement, il retiendra le premier nomde la liste.

Louis XIV a trouvé le moyen d’obtenirde l’argent et de s’immiscer dans les élec-tions municipales, bonne opération, puis-qu’il a fait acheter par les communautésquelque chose qui leur appartenait. D’ail-leurs, la même manœuvre sera renouveléeen 1702, 1703, 1706, 1707… jusqu’en 1724,tous ces édits auront pour but de soutirer del’argent aux communautés. L’imaginationne faisait d’ailleurs pas défaut, tous les pré-textes étaient bons pour créer de nouveauxoffices qui, généralement, étaient rachetéspar les communautés.

En 1724, les difficultés seront terminéesou sur le point de l’être. Le pouvoir central

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décidera, par édit de juillet, que désormaisles offices rétablis en 1722 seront à nouveausupprimés. Ceci aura pour conséquence derendre aux villes leurs compétencesanciennes. La liberté électorale sera réta-blie et les communautés pourront à nou-veau élire leurs consuls selon les ancien-nes coutumes et règlements.

Les lettres patentes, édits (…) sontenregistrées par les parlements et leur con-servation est assurée par leur inscriptiondans les registres de la ville.

c. Le Conseil d’Etat. Les interventions duConseil d’État, générales ou ponctuelles,sont relativement rares. L’arrêt du 22 octo-bre 1666, valable pour tout le royaume, estdestiné à régler l’élection des greffiers. AAix, en 1669, il comble une lacune de laréglementation puisqu’aucun texte nementionne le contentieux électoral.

D’une manière générale, le Conseil d’É-tat intervient peu dans la vie des commu-nautés, les élections municipales ne sontpas son fait, pour cela un autre agent dupouvoir central est tout désigné.

d. L’intendant. A la fin du XVIIème siècle,avec la mise en place de l’intendant, le rois’est doté d’un redoutable agent. Sans abor-der ici la surveillance des élections puisquesa présence sera obligatoire à chaque con-seil de création du nouvel état, il faut sou-ligner la place qu’il tiendra désormais par-mi les sources externes du droit électoral.

Bien souvent, le roi, par son éloigne-ment, ne disposait pas des informationsnécessaires pour mettre en place les règlesélectorales les plus idoines. Il devait se fierà des personnes venues l’informer de lasituation de la ville, dont les propos étaientrarement exempts de subjectivité. Désor-

mais, un agent à demeure dans la provincel’informe des manœuvres, mais surtout,par voie d’ordonnance, peut imposer denouvelles règles.

Normalement, le droit électoral devraittoujours être d’une efficacité maximum or,à l’évidence, la réglementation est souvent,si ce n’est toujours, insuffisante. Le vérita-ble problème tient au fait qu’elle ignore laréalité. Mise en place pour lutter contre desmanœuvres individuelles, elle est impuis-sante face à celles des partis et la mentali-té des intéressés autant que celle des par-lements, du roi, des intendants, n’était pasprête à s’adapter, à accepter la situation età composer la réglementation en partantdes faits. A vouloir faire entrer absolumentles pratiques électorales dans une régle-mentation désuète, celle-ci devenait inu-tile. Il suffit, pour illustrer ce propos, d’é-voquer l’interdiction de candidature. Dansla pratique, celle-ci existait bel et bien et ledroit ne pouvait s’y opposer efficacement.

L’attribution du pouvoir politique etadministratif fait l’objet d’une réglemen-tation précise à l’aide de statuts municipauxet de coutumes qui ont pour but essentiel dedéterminer les personnes dignes d’accéderaux plus hautes magistratures politiques dela ville et à l’ensemble des charges électives.Par un ensemble de conditions complexes,ils récompensent les individus les plusméritants et protègent la maison commu-ne des indésirables.

II. Les charges municipales

En 1579, Henri III impose que les princi-paux magistrats politiques des villes soientélus. Une ordonnance de Louis XIII, en

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1619, confirme cette disposition, cepen-dant, si en théorie les charges municipalesémanent nécessairement de l’élection, àtravers le royaume, la pratique est parfoisbien différente.

A titre d’exemple, il faut savoir qu’enGascogne, à la fin de l’Ancien régime, leseigneur choisit les futurs consuls parmi lessujets proposés par la communauté. A Lil-le (Nord), le rewart et le maïeur sont nom-més par le gouverneur. A Toulouse, à par-tir de 1687, la nomination revient au roi,sur une liste de présentation, mais parfoisil ne tient pas compte de cette proposition.Enfin, il peut même se trouver des cas d’hé-rédité comme à Saint-Maixent (Deux-Sèvres) où les enfants des échevins (équi-valents des conseillers) sont préférés à tousautres pour obtenir ces charges, d’où nais-sance d’une caste à laquelle est réservéel’administration municipale.

Ailleurs, le principe de l’attributionélective des charges municipales est uneréalité constante. Il ne peut subir d’attein-tes qu’en cas de circonstances très particu-lières qui imposent un autre mode de choix,modifications liées généralement à l’obli-gation de protéger des intérêts supérieurs.

C’est d’ailleurs au nom de l’un deux, lebien public, que sont élus les magistratspolitiques sans qu’ils aient à manifesterleur volonté de diriger l’administrationmunicipale. Perçue comme une récompen-se, l’élection confère logiquement des hon-neurs qui ne peuvent cependant faireoublier quelques charges, destinées à pro-téger l’administration municipale. Cemême souci impose d’ailleurs que les élusne restent en place qu’une seule année.

1. CARACTÈRE DES CHARGES ÉLECTIVES

Les charges électives sont en nombre varia-ble, selon les communautés et les époques.Elles sont caractérisées par l’absence decandidature et par l’obligation d’accepterl’honneur échu, système qui permet de fai-re administrer la ville par les personnesjugées les plus compétentes, même si capa-cité ne signifie pas obligatoirement dispo-nibilité et bonne volonté. En contrepartiede cet honneur, l’élu jouira de certainsavantages. Malgré les désagréments qu’el-les entraînent, parce qu’elles sont consi-dérées comme une récompense, les chargespubliques sont annuelles afin que touspuissent y prendre part.

Dans le cadre de cette communication,pour ne pas alourdir le propos, on ne tien-dra compte que des consuls, maires, éche-vins (…) et des conseillers, les principauxacteurs de la vie politique de la commu-nauté.

2. LIBERTÉ INDIVIDUELLE

ET CHARGES MUNICIPALES

Le principe de l’absence de candidature estune donnée commune à tout le royaume. Cesystème a théoriquement l’avantage de fai-re accéder à la tête de la cité des gens pai-sibles, au-dessus des querelles. C’est leprototype du bonus pater familias, imagerassurante qui correspond cependant assezpeu à la vérité et la pratique est là pour atte-ster que l’acte de candidature existait bel etbien et que parfois, comme à Nantes (Loi-re-Atlantique), il était officiel.

Les charges communales, considéréescomme un devoir à accomplir, ne peuventêtre refusées par les élus. Cette ancienne

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tradition romaine, contenue dans le codeThéodosien (XII, 29) est reproduite dansles chartes communales de Picardie et deBourgogne par exemple.

Cette mesure est appliquée différem-ment selon les provinces. En Provence, ilexiste peu de cas de refus de charge pourconvenance personnelle et généralementles arguments ne sont pas retenus. D’au-tres villes du royaume montrent plus desouplesse et le grand âge, les maladies, lenombre d’enfants… sont des motifs vala-bles pour obtenir une exemption. En fait, ilfaut relever la grande diversité, certainesvilles retenant tels arguments qui serontrefusés ailleurs.

Il est de règle dans tout le royaume decontraindre par voie de justice ceux qui,sans excuse légitime, refusent de remplirles charges auxquelles ils sont élus. AAmiens (Somme), si un bourgeois refused’être échevin, sa maison est rasée, il doitpayer une amende et remplir quand mêmela charge.

Comme les premiers magistrats, lesconseillers n’ont pas à faire acte de candi-dature. Dès que la pluralité des opinants ajugé un individu apte à veiller sur les inté-rêts de la communauté, il doit s’exécuter.

Sensibles à l’honneur qui leur est fait,conscients du rôle qu’ils peuvent jouer dansla ville, les élus essaient rarement de fuirles charges et, même après avoir tenté cet-te manœuvre souvent désespérée, ils sui-vent assez consciencieusement l’admini-stration de la ville. Il n’est pas impossibleque les honneurs attachés aux fonctionsaient joué un certain rôle, les charges étantde plus en plus théoriques au fil des ans.

3. HONNEURS ET CHARGES ATTACHÉES

AUX FONCTIONS MUNICIPALES

Le fait d’accéder à la plus haute magistratu-re politique de la ville confère des hon-neurs, des avantages pécuniaires et ennature qui, à travers le royaume, sont fixéspar la coutume et les règlements.

Parmi les honneurs, il faut citer l’ano-blissement des roturiers. Les premiersoffices dotés de la vertu d’anoblir semblentavoir été les charges de maires et échevinsdes villes de Poitiers (Vienne) en 1372 etd’Angoulême (Charente) en 1375. Ce pri-vilège fut ensuite étendu à beaucoup d’au-tres villes, de là est sortie la noblesse d’é-chevinage, dite aussi noblesse de cloche,par allusion au beffroi municipal.

La qualité de noble accordée aux pre-miers magistrats confère un certain nom-bre d’immunités héréditaires, celle de lataille pour les immeubles roturiers, delogement des gens de guerre (…)

Toujours au titre des honneurs, il fautrelever le droit d’être député à la cour,moyen de se faire connaître du roi. A Mar-seille, les consuls revenaient de la cour avecun présent en argent, une commissiond’officier dans un régiment ou sur un desnavires du roi (…)

Généralement, les premiers magistratspercevaient annuellement une sommed’argent qui pouvait être un véritable trai-tement. Au contraire, comme à Béthune(Pas-de-Calais), les fonctions municipalessont gratuites, les élus sont seulementdéfrayés. Les consuls de Grenoble (Isère) etd’autres villes du Dauphiné, en plus deleurs gages, sont exempts de taille l’annéede leur consulat mais ils ne peuvent pré-tendre à aucune vacation.

En effet, indépendamment des gages,

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les premiers élus perçoivent des vacationsqui sont parfois substantielles. Elles repré-sentent la rémunération d’un travail excep-tionnel (établissement des billets de loge-ment des troupes (…).

D’une manière générale, dans l’ensem-ble du royaume, si ce type de charge estrémunéré de façon très raisonnable, lesvacations par contre sont extrêmementavantageuses, à tel point qu’elles attirentl’attention royale. Un édit du 18 juin 1668réglemente les députations effectuées parles communautés. Désormais, les premiersmagistrats ne peuvent être députés, saufs’ils déclarent ne rien prendre pour leurvoyage et séjour, sinon ils seront condam-nés à rembourser le quadruple.

D’après l’ardeur à conquérir la premiè-re place dans la ville, il semblerait que lescharges ne comportent que des avantages.Pourtant les inconvénients ne manquentpas: les élus engagent leur temps, leurpatrimoine, leur responsabilité solidaire,leur sécurité en cas de troubles ou d’épidé-mie.

Le patrimoine des premiers magistratspolitiques peut être engagé pendant l’an-née d’exercice en cas de faute ou d’erreur degestion. Cette possibilité justifie la néces-sité de figurer parmi les plus nantis de laville: la surface financière de l’individu sertalors de caution.

Indépendamment de toute faute, lesélus peuvent être amenés à entamer leurpatrimoine. A Aix, en 1576, un consul estjeté en prison parce que la ville doit 515 flo-rins qu’elle ne peut payer. A Poitiers, en1601, un échevin prête de l’argent pourobtenir le départ des troupes royales, à Bri-ve (Corrèze), les consuls avancent des fondset ne seront remboursés que si les comptessont approuvés.

Les élus sont responsables des fautesqu’ils peuvent commettre pendant leurannée d’exercice. Déjà en 1386 à Dijon, lemaire devait être riche afin de donner à lacommune les moyens d’obtenir uneindemnité pour le cas où, par son fait, lamairie serait saisie. A Saint-Etienne deTinée (Alpes-Maritimes), le jour de la pre-station de serment, les consuls doivent ver-ser chacun 5 écus d’or, et 70 florins lors deleur sortie de charge.

D’autres cas de responsabilité financiè-re sont prévus, tenant toujours à l’entrée del’argent dans la caisse communale, et setrouve alors punie la négligence d’élus quine sont pas suffisamment diligents pourrécupérer les deniers de la ville ou surveil-ler les comptes du trésorier. A Pélissanne(Bouches-du-Rhône), les consuls suppor-tent tous les dépens et dommages-intérêtsque peut subir la communauté.

Il faut souligner que d’une manièregénérale, si les principaux magistrats poli-tiques sont responsables solidairement,dans la pratique, les élus viennent rarementau secours des finances de la ville, et leurresponsabilité est tout aussi exceptionnel-le. Cependant, le risque demeure.

Les élus peuvent encore voir leur patri-moine engagé lorsqu’ils prennent desmesures impopulaires. A Aix, en 1653, unconsul voit sa maison pillée à la suite d’unvote sur la ferme de la farine.

La présentation des charges pesant surles élus serait incomplète si une circon-stance, certes exceptionnelle, n’était envi-sagée car, par l’engagement physique qu’el-le imposait, elle bouleversait la vie des indi-vidus. Il s’agit de la peste. Lorsqu’elle gagnela ville, les élus doivent veiller à l’état sani-taire, au maintien de l’ordre, au ravitaille-ment … Alors un certain sens du devoir est

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indispensable et bien entendu l’abandonne peut être envisagé.

La complexité des honneurs, privilègeset charges attachés aux premières magi-stratures politiques rappelle leur caractèreextraordinaire, les plus considérées de laville. Les autres officiers, qui œuvrent dansl’ombre et dans l’indifférence presquegénérale, sont moins bien pourvus.

4. AUTRES CHARGES MUNICIPALES

Dans presque toutes les villes du royaume,aucune somme d’argent n’est attribuée auxconseillers pour le temps consacré auxaffaires de la ville, qu’il s’agisse de gages oud’indemnités. Donc, ils exercent une fonc-tion obligatoire et gratuite, privée d’hon-

neurs et de prestige, ce qui peut expliquerle désintérêt pour le conseillorat.

Parmi les charges qui pèsent sur la fonc-tion de conseiller, la principale est l’obliga-tion d’assister aux séances du conseil. Cetteparticipation n’étant pas toujours sponta-née, des moyens sont mis en place pour lut-ter contre l’absentéisme et ceux-ci, pourtoute la France, sont à peu près identiques.

Il peut tout d’abord exister un procédéde convocation destiné à éviter les oublis.Certaines communautés imposent uneamende aux conseillers absents. Lorsque lerèglement est très rigoureux, ils sontimmédiatement condamnés et peuvent êtreincarcérés sur réquisition des syndics. EnProvence, d’une manière générale, cessanctions ne sont pas appliquées.

Obligés d’accepter leur charge, les con-

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Bordeaux au XVIIème siècle

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seillers ne doivent pas en attendre d’hon-neurs, mais, à l’opposé, la pratique montrequ’ils prennent leur tâche avec philosophie.En obligeant des individus à accomplir untravail qu’ils ne désirent pas, à un momentqu’ils n’ont pas choisi, le risque était grandde rencontrer un absentéisme considérableet donc de voir un petit groupe de person-nes détenir effectivement le pouvoir muni-cipal.

Très souvent, la réglementation ne com-porte aucune disposition quant à uneresponsabilité éventuelle des conseillers.

L’accès à la maison commune est régle-menté, les charges municipales sont obli-gatoires, autant de précautions destinées àdes individus qui généralement resteronten charge pendant une courte période.

5. ANNALITÉ DES FONCTIONS MUNICIPALES

Assez répandue dans le royaume, cette règlen’est cependant pas obligatoire. A Eu (Seine-Maritime), au XVIIème siècle, il est fréquentque les échevins demeurent en charge plusd’une année. A Provins (Seine-et-Marne), leroi accorde le droit d’élire un maire et qua-tre échevins qui seront réélus tous les deuxans. A Dijon, depuis le XIIIème siècle, enl’absence de règlement s’introduit la coutu-me de prolonger le mandat des officiers.

Ailleurs, le principe de l’annalité desfonctions est tellement évident qu’il estsouvent inutile de l’affirmer dans les statutsmunicipaux.

Un aussi bref délai limite les dangers encas d’incompétence et les inconvénients vis-à-vis d’élus obligés d’accepter la charge.

Autre avantage: le renouvellementannuel permet à un plus grand nombred’individus d’accéder aux honneurs.

En 1692, le roi bouleverse l’ordre établiet l’un de ses arguments pour imposer desmaires perpétuels trouve sa source dansl’inconvénient du système: les élus quittentleurs charges alors qu’ils commencent àconnaître les affaires. A l’évidence, cela n’apas échappé aux communautés. A Toulou-se, les capitouls ont obtenu du parlementqu’un quart des magistrats reste en fonc-tion d’une année à l’autre afin d’introdui-re l’esprit de suite dans l’administrationcapitulaire. A Paris, les échevins sont éluspour deux ans, renouvelables par moitiétous les ans. D’autres communautés, com-me Aix, palient les inconvénients de l’an-nalité en adjoignant aux consuls nouvelle-ment élus des consulaires (personnes quiont déjà été consuls), les consuls et con-seillers vieux (sortant de charge).

La règle de l’annalité peut être tempé-rée lorsque les circonstances l’exigent: lesélus seront prorogés de quelques mois oureconduits pour une année en cas de trou-bles, ils seront remplacés en cas de décès oud’apparition d’une incompatibilité.

Le plus grand nombre d’individusdevant avoir accès aux honneurs conféréspar les charges, cela implique l’interdictiond’être réélu trop rapidement. En Langue-doc, les règles imposent parfois un délai desept années entre les magistratures. Le butest alors de préserver les intérêts privéscontre la communauté autant que celle-cicontre les ambitions personnelles.

Chaque communauté est libre de choi-sir le délai d’inéligibilité, en fonction decritères telle la disponibilité d’élus poten-tiels. D’une manière générale, la durée del’interdiction est plus courte pour les con-seillers que pour les principaux magistratspuisque tous les ans il faut trouver un cer-tain nombre de personnes capables.

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Obligatoires, les charges électives n’ac-caparent le temps des habitants de la cité quependant une année, cependant, même pourune si courte période, il faut veiller à ce queles élus figurent parmi les plus dignes de laville. La compétence n’est pas un critère suf-fisant, il semble plus important de veiller àla moralité, à la religion … des élus, autantde points qui doivent néanmoins être com-plétés par des incompatibilités et chefs d’i-néligibilité afin que l’administration de laville soit confiée aux plus méritants.

6. RÈGLES D’ACCÈS AUX CHARGES ÉLECTIVES

Un certain nombre de conditions ont étédéterminées dont l’objectif est double :permettre au conseil d’élections d’effec-tuer le meilleur choix en se conformant à laréglementation, éviter que certains indivi-dus manœuvrent et accaparent le pouvoir.L’arsenal juridique destiné à éviter leserreurs est fonction de la valeur accordéeaux différentes charges municipales. L’a-nalyse des statuts met en évidence l’impor-tance des consuls, maires, échevins (…)qui seuls bénéficient d’un système de pro-tection sophistiqué.

Multiplicité des conditions requises pour accé-der à la tête de la maison commune. L’origi-ne des conditions imposées par le droit estdouble. Parfois modifiées en devenantréglementaires, les unes résultent desmesures coutumières régissant l’accès auconsulat, principalement lorsqu’elles sontimportantes ou susceptibles d’être igno-rées, les autres, créées par les habitants dela cité ou par le roi, entièrement nouvelles,comblent les lacunes.

a. Conditions d’éligibilité. L’évidence de l’o-bligation d’être de sexe masculin est telleque bien souvent il est inutile de l’affirmerdans les statuts municipaux. Il en est demême pour l’état de santé. S’il fut un tempsoù les magistrats municipaux ne devaientpas être atteints de lèpre, cela n’est plusmentionné aux XVIème et XVIIème siècles.Autre condition apparemment passée soussilence: l’interdiction des magistraturessuprêmes aux bâtards. Son évidence est tel-le qu’elle peut être passée sous silence.

Certaines communautés divisent lapopulation en classes ou échelles. Ainsi, àMontpellier (Hérault) et à Nîmes (Gard),chacun occupe une position en fonction desa profession et chaque échelle fournit unconsul qui la représente au sein du gouver-nement local. A Perpignan (Pyrénées-Orientales), c’est l’alternative entre lesnobles et les bourgeois quant à l’exercicedes fonctions de premier et second consuls.

En ce qui concerne la religion, la situa-tion est des plus confuses, selon les pério-des et les régions. A Ganges (Hérault),devenue protestante à la fin du XVIème siè-cle, il n’y avait que quelques catholiques en1635. Souvent les villes connaissent dessituations incertaines, passant de l’accep-tation à l’exclusion comme à Montpellier ouà Strasbourg (Bas-Rhin).

Il arrive que les statuts municipaux pré-voient l’âge minimum requis pour l’électionde même que l’âge limite. En cas de silence,la coutume est sollicitée.

Pour être éligible, il est souvent imposéd’être natif et originaire de la ville et sou-vent d’y être domicilié, le temps variantd’une communauté à l’autre. A Bagnères(Hautes-Pyrénées), il fallait avoir résidédepuis dix ans.

Souvent il est demandé aux élus de pos-

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séder des biens dans la ville ou le terroir. Laplupart des communautés provençales exi-gent des élus qu’ils possèdent des biensinscrits au cadastre pour une certaine valeur,les chiffres variant beaucoup d’une commu-nauté à l’autre et parfois aussi en fonction dela charge.

L’ensemble de la réglementation, quidétermine les personnes dignes d’accéder àla tête de la maison commune, est complétépar de nombreux cas d’inéligibilité conte-nus essentiellement dans le droit.

b. Chefs d’inéligibilité. Les comptables, per-sonnes en compte avec la communauté telsque les fermiers, sont généralement exclusdes charges municipales car on craint de leurpart des manœuvres destinées à favoriserleurs propres finances.

L’interdiction des fils de famille fait aus-si partie des chefs d’inéligibilité. Ils inspi-rent une certaine crainte puisque, sous ladomination du bonus pater familias, ils nepeuvent disposer d’une fortune personnel-le. En cas d’élection, le père serait tenu derembourser les deniers publics, comme celaa été décidé par le parlement de Grenoble en1637 à propos d’un fils relicateur (débiteur)de la communauté. Certaines communautés,comme Saint-Jeannet (Alpes-Maritimes)admettent que les mineurs ou enfants defamille puissent être élus s’ils ne demeurentplus chez leur père et dirigent seuls leursaffaires depuis dix ans. Dans ce cas, il s’agitd’une émancipation tacite, mais deux con-ditions doivent être remplies: le domiciledistinct et la possession de moyens d’exi-stence propres.

Pour éviter que la maison commune nesoit la propriété d’une famille, les statutsprévoient presque toujours l’interdictiond’élire des parents et alliés, mais cette règle

pose souvent des problèmes, notamment encas de pénurie de gens capables.

Autre règle fréquemment insérée dansles statuts: l’exclusion des «gens ayant pro-cès avec la ville». Elle est destinée à empê-cher les plaideurs de manipuler les dossiersà leur profit.

L’éviction des «gens prévenus par justi-ce pour crimes et délits» protège le consu-lat de personnes dont la réputation est denature à ternir l’image des principaux magi-strats politiques.

Les deux derniers chefs d’inéligibilitéconcernent les débiteurs de la ville et les spé-culateurs. Les premiers mettant en péril desfinances déjà fragiles, on peut craindre queleur élection ne soit l’occasion de manœu-vrer pour éteindre la dette ou pour la rédui-re. En fait, l’action est certainement trèspsychologique: inciter les personnes suscep-tibles d’être élues à payer leurs dettes. Quantaux spéculateurs, ils sont écartés car ils acca-parent les denrées, chose répréhensible.

Très tôt, l’ensemble des précautions ci-dessus a été complété par une mesure qui aeu pour conséquence d’écarter de l’admini-stration municipale les gens de robe longue.

c. Incompatibilités. Depuis l’édit de 1547signé par Henri II, les gens de robe longue(membres des parlements, cours des comp-tes, avocats …) sont écartés de l’administra-tion des villes. Les sanctions prévues en casde violation sont très sévères: une forteamende doit être payée par chaque votant, ets’y ajoute une privation du droit d’élire. Bienentendu, les élus sont également punis par laperte de leurs offices. Le roi désirait quel’administration des deniers de la ville revîntaux personnes les plus compétentes, lesbourgeois et les notables marchands.

A travers le royaume cette règle est bien

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appliquée, sauf en cas de pénurie de genscompétents. A Auch (Gers), le premier con-sul est souvent un homme de loi, à Angers(Maine-et-Loire), les magistrats remplis-sent toujours les charges municipales.

Il ressort des règles ci-dessus, que tousles habitants d’une communauté ne pou-vaient espérer devenir consuls. Par contre, ilétait beaucoup plus facile d’accéder au con-seillorat.

7. LES CONSEILLERS

Théoriquement, seuls les conseillers possè-dent le pouvoir de décision en matière d’ad-ministration communale. Que leur accès à latête de la ville soit l’objet d’une stricte régle-mentation serait normal, mais très souvent,le droit et la pratique montrent que la situa-tion est tout autre.

a. Conditions d’éligibilité. Généralement, ilfaut être «citoyen» de la ville pour travail-ler à ses intérêts.

En ce qui concerne la religion, à Aix,avant 1585, sept personnes sur vingt-quatredoivent appartenir à la religion prétendueréformée (sont protestantes). A partir decette année, les conseillers, respectant lavolonté royale, prêtent serment de vivrecatholiquement.

Il arrive que les statuts imposent un âgeminimum pour pouvoir être élu conseiller,de même qu’un certain allivrement (niveaude fortune) peut être demandé.

Il ne paraissait pas nécessaire de prévoirun plus grand nombre de conditions d’éligi-bilité pour éviter la main-mise sur le pouvoirmunicipal et les chefs d’inéligibilité ne sontguère plus nombreux.

b. Chefs d’inéligibilité. La mesure qui seretrouve le plus fréquemment dans les sta-tuts concerne les règles de parenté. Parfoisce sont les mêmes que celles qui sont impo-sées aux consuls mais, bien souvent, la pénu-rie de gens capables oblige à tempérer cettedisposition. Ainsi, à Troyes (Aube), en 1665,le conseil est devenu une affaire de famille etmalgré un rappel du Conseil d’Etat les diffi-cultés d’application sont nombreuses.

Comme pour les consuls, le fait d’êtreen procès avec la ville est un cas d’inéligi-bilité.

En matière d’inéligibilité des conseil-lers, la coutume n’est guère plus riche quele droit, la seule explication valable tient audésintérêt qu’ils inspirent. Quelques dis-positions çà et là et une pratique très sou-ple semblent suffire.

c. Incompatibilités. Comme pour les con-suls, le fait d’être en compte avec la ville estune cause d’inéligibilité.

L’ensemble de toutes ces mesures mon-tre que la finalité du droit et de la coutumen’était pas de porter au pouvoir les gens lesplus compétents. En fait, très souvent, l’es-sentiel était que les premiers magistratsfassent honneur à la ville. Pour le reste,seules les valeurs les plus importantesétaient protégées, telles les finances de laville. Reflet de la mentalité, le besoin d’u-ne bonne administration n’est jamais évo-qué. Dans ce cas, il ne faut pas s’étonnerque règlements et coutumes s’intéressentplus à la moralité des gens, à ce qu’ils sont:honnêteté est alors synonyme de compé-tence, pourvu que l’élection soit légitime,que les élus correspondent bien à ce que lacité attend d’eux et que la procédure soitrégulière.

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III. La procédure électorale

A travers le royaume, la procédure électo-rale est aussi variée que l’ensemble de laréglementation.

Si les habitants jouissent d’une grandeliberté pour organiser leurs électionsmunicipales, ils doivent néanmoinsrespecter quelques principes généraux, etparmi ceux-ci l’obligation d’observer ladate et le lieu prévus dans les statuts muni-cipaux, parfois le recours au parlementpour convoquer le conseil de création dunouvel état, toute dérogation ne pouvantqu’être exceptionnelle.

1. ORGANISATION DES ÉLECTIONS

Chaque ville détermine la date qui lui con-vient. A Troyes, c’est le 11 juin, à Saint-Dizier (Haute-Marne) à la chandleur (…)La date choisie sera toujours respectée,toute modification non justifiée entraînantla cassation des élections. De même, lesélections ont toujours lieu au mêmeendroit. Selon l’ordonnance de juin 1559,les assemblées doivent se tenir dans un lieuaccessible à tous. Si les communautés sontriches, elles possèdent une maison com-mune, si elles sont pauvres, les électionsauront lieu sur la place de l’église, dans lasalle du château (…) Ces deux règles fontque tout le monde connaît le moment duchangement de l’administration municipa-le et le lieu où se déroulent les opérations.

Parfois, la convocation du conseil decréation du nouvel état doit être autoriséepar le parlement, sur requête présentée parles consuls, eux-mêmes mandés par leviguier. En Provence, en autorisant lesélections, le parlement désigne les conseil-

ler et commissaire qui assisteront à la créa-tion du nouvel état.

Il arrive que les élections soient précé-dées d’une phase préparatoire qui permetpar exemple aux consuls sortants de choi-sir leurs successeurs. Ici encore l’unifor-mité n’existe pas. Chaque communauté amis au point le système qui lui semble lemeilleur. A Aix, les consuls en fin de man-dat n’ont pas le pouvoir de choisir directe-ment leurs successeurs. La première sélec-tion est opérée par les consulaires quiinscrivent les noms des futurs consuls pos-sibles sur des bullettes (petits morceaux depapier). Les consuls sortant vont ensuiteclasser ces noms, vérifier la qualité des per-sonnes proposées et établir ainsi le rôle,étant entendu que le premier nom seraproposé en premier aux opinants. Norma-lement, le rôle est secret, mais il est cer-tain que tout le monde connaît les noms quiy sont portés.

Selon les communautés, la populationjoue un rôle plus ou moins important lorsdes élections. A Dijon, en 1611, un éditlimite le nombre de votants par le cens,mais on compte quand même 1 500 à 1 600électeurs, et plus lorsque les vigneronsarrivent en masse. A Aix, trente personnesde la ville, les cités, rejoignaient les con-seillers pour composer le conseil d’élec-tions.

Afin que chaque intéressé et l’ensem-ble de la population connaissent le momentdes élections, le système de convocationdoit être le plus large possible. Elles peu-vent être annoncées à «sons de cloches etvoix de trompes» par le crieur public à tousles carrefours. Il est assez fréquent que lesopinants ne soient pas convoqués indivi-duellement.

La convocation a généralement lieu le

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matin même de l’élection, ce qui peut sem-bler tardif, mais il faut tenir compte de l’in-térêt des habitants de la ville pour la créa-tion du nouvel état. Avec les brigues et lescabales qui entourent le changement desofficiers plusieurs semaines avant les élec-tions, il est impensable que la convocationait pour but de rappeler aux intéressésqu’ils doivent opiner. Il faut plutôt croireque, partie du formalisme électoral, elle n’aqu’un but de confirmation et d’informationenvers les habitants qui vont perdre desmagistrats politiques pour en trouver denouveaux.

La surveillance des élections est assu-rée par un représentant du pouvoir central.Cette mesure a été mise en place en 1547 et1549 pour préserver l’indépendance desmaisons communes. Dans certainesrégions du Nord, à Arras (Pas-de-Calais)par exemple en 1664, le gouverneur prési-de au renouvellement de la loi (conseil d’é-lections) et ensuite cette tâche sera dévolueà l’intendant. A Valence (Drôme), l’évêquepréside les élections municipales et reçoitle serment des consuls. En Provence, c’estle viguier qui veille au respect de la procé-dure électorale.

Généralement, les élections sont uneaffaire d’hommes, mais une distinction estparfois opérée entre ceux qui sont mariés etles célibataires. Ainsi, dans les petites com-munautés de la généralité de Paris, onadmet les célibataires inscrits sur le rôle dela taille. A l’inverse, dans les plus grandesvilles leur suffrage n’est pas requis, jugésincapables. A Dijon, cas tout à fait excep-tionnel, les femmes avaient le droit d’assi-ster à l’élection du maire, mais sous LouisXIII la norme s’impose comme ailleurs etleur présence est interdite.

D’une manière générale, partout dans

le royaume, l’assiduité est une obligationsanctionnée par une amende, laquelle dou-ble ou triple en cas de récidive.

A Aix, certains opinants sont interditsde vote : les parents et alliés en fonction dudegré d’alliance. A travers le royaume d’au-tres systèmes sont en vigueur. Ainsi, unarrêt du parlement de Normandie en 1675,pour la ville de Verneuil (Eure), prévoit queles voix du père, du fils, du frère et du neveucomptent pour une seule voix.

Parmi les interdits se trouvent les nom-més eux-mêmes qui, de plus, doivent quit-ter la salle du conseil au moment du vote.

L’assistance à la messe permet aux opi-nants, visités par l’Esprit Saint, de choisirles personnes les plus idoines pour admi-nistrer la ville et de trouver la force d’ou-blier toutes leurs affections pour ne pen-ser qu’au bien public.

Pour le cas où les esprits ne seraient passuffisamment préparés, les élections sontprécédées par des harangues, recomman-dations destinées elles aussi à écarter lespassions.

Enfin, des serments, en nombre plus oumoins important, sont ajoutés. Ainsi, laprestation de serment est obligatoire pourles premiers magistrats au moment de lanomination de leurs successeurs, et pourtous les opinants, au moment du ballotte-ment (vote).

Tous les moyens sont mis en œuvre pourque les élections soient à l’abri des convoi-tises. La procédure de la création du nou-vel état est jalonnée de précautions qui, pri-ses individuellement, sont d’une efficacitérelative, par contre, il n’est pas impossibleque l’ensemble ait permis d’éviter de plusgrands débordements.

Toutes ces mesures sont cependant d’u-ne efficacité relative car inadaptées au mal,

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la crainte de Dieu et le désir de lui plaire,ainsi qu’au roi, ne sont pas des argumentssuffisants pour empêcher les brigues, caba-les et monopoles. Ces moyens sont déri-soires face à des individus prêts à tout pours’attribuer ou conserver le pouvoir munici-pal. Il suffit de savoir que, notamment àDijon, en 1561, il était interdit de se rendrearmé à l’assemblée sous peine d’être pen-du et étranglé pour comprendre l’ambian-ce d’un conseil d’élections.

A travers le royaume, les modes d’élec-tion sont d’une extrême diversité. A Arras,les électeurs viennent tour à tour sur untapis placé au centre de la salle rayer lesnoms qu’ils veulent éliminer. A Nantes,avec le suffrage des «piques», chaque élec-teur prononce tout haut le nom de son can-didat et en même temps pique, c’est-à-diremarque d’un trait sur la liste des éligibles,le nom de son candidat. A Rians (Var), levote s’effectue à l’aide de «fayo» (haricot)blanc pour l’accord et noir pour le refus. Ala fin du XVIIème siècle encore, dans un vil-lage de Bigorre, on distribue aux habitantsdes grains de millet. A Aix, au début duXVIIème siècle, le vote s’effectue à l’aide deballottes de drap noir. Certaines communespréfèrent recourir au tirage au sort.

En ce qui concerne les caractères duvote, il faut savoir qu’au XVIIème siècle, ilest impossible d’assister aux élections etrefuser de voter. La notion d’abstention estinconnue. A Aubagne (Bouches-du-Rhô-ne), le règlement prévoit qu’en cas de refuspar un opinant, il sera condamné par le jugeà une amende de 500 écus et comparaîtraen justice devant la cour d’Aix s’il maintientson refus.

Toute personne convoquée à la créationdu nouvel état qui ne peut s’y rendre, perdson droit d’opiner car le système de la pro-

curation ou du vote par correspondance estinconnu. Le vote est un droit personnelintransmissible.

Enfin, le vote peut être public ou secret. Ilest public lorsqu’il s’effectue à haute voix,système qui n’est pas sans inconvénient puis-qu’un jour à Bayeux (Calvados) un artisan,pour se faire élire, vote plusieurs fois enchangeant sa voix. Certaines villes sont plusméfiantes, tel Albertville (Savoie) où les élec-teurs défilent un à un devant l’auditeur desvoix et quittent la salle après avoir expriméleur vote. A Cuers (Var), Angers, Troyes, levote est entouré d’une certaine discrétion.Pour d’autres communautés, le doute subsi-ste puisqu’il suffit de regarder dans quelleboite est plongée la main pour connaître levote. Sauf si, comme à Pélissanne, le règle-ment prend la précaution d’obliger les opi-nants à mettre la main dans toutes les boites,l’entrée étant protégée par un drap.

Le décompte des ballottes s’effectueimmédiatement après la fin du vote. Pourêtre élu, la majorité simple suffit. S’il setrouve autant de ballottes pour l’approba-tion que pour le refus, selon les époques,certaines personnes votent à nouveau afind’effectuer le partage, ou bien le nommé estrejeté (on ne parle pas encore de ballotta-ge, mais de partage de voix).

Lorsque les élections sont terminées,les élus ne prennent pas immédiatementleurs fonctions et souvent des cérémoniesdestinées à les faire connaître sont organi-sées.

2. PRISE DE FONCTION

ET MISE EN PLACE DES ÉLUS

Avant leur prise de fonction, les officiersnouvellement élus donnent une dernière

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garantie en prêtant serment. Cette obliga-tion est imposée par l’édit de Crémieu de1536, mais le principe était plus ancien.

Après leur prestation de serment, lesconsuls reçoivent leur chaperon, vêtementporté pendant la durée de leur charge, quiconstitue une considérable marque de dis-tinction. Dans de nombreuses villes, lesconsuls, en plus du chaperon, portent unerobe consulaire.

D’une manière générale, les consuls nou-vellement élus attendent un mois avant deprendre effectivement leurs fonctions. Pen-dant ce temps, ils assistent à toutes les réu-nions et se mettent au courant des affaires.

Selon les communautés, différentescérémonies encadrent la prise de fonctiondes nouveaux élus: assistance à une messe,visite au gouverneur, présentation aupublic, déjeuner (…)

La création du nouvel état fait l’objet desoins attentifs, réglés soit par le droit, soitpar la coutume. Tous ces système fonction-nent de façon variable selon les périodes.Dans l’ensemble, on peut estimer que leshabitants étaient assez satisfaits des roua-ges mis en place, d’autant que la cassationdes élections était là pour contenir l’ambi-tion des plus virulents d’entre eux.

3. CONTENTIEUX ÉLECTORAL

L’appel de l’élection a pour but d’obtenir sacassation et les règles applicables sont cel-les du droit canon qui admettait qu’uneélection puisse être frappée d’appel et soitcassée si elle était entachée de vice.

D’une manière générale le contentieuxélectoral est assez difficilement abordable.A Aix, pendant longtemps, les statutsmunicipaux ne contiennent aucun article

sur les règles d’appel, les motifs de cassa-tion, les demandeurs possibles … Les raresinformations sont recueillies au fil despages. Ainsi, apprend-on que l’appel del’élection doit avoir lieu dans le délai detrois mois. Les conseiller et commissairedu parlement constituent le premier degréde juridiction, exercé pendant le conseil decréation du nouvel état. Si les appelants nesont pas satisfaits de la décision, ils pré-sentent une requête au parlement, ce quiconstitue le second degré, mais ils peuventaussi s’adresser directement à cette cour, àcondition que cette intervention se situeaprès la clôture des élections. Dans ce cas,le parlement juge en première instance.Enfin, le Conseil d’Etat peut aussi être sai-si en première instance par les intéressés.

L’appel a pour caractéristique de n’êtrepas suspensif, ce qui est prudent et logique.Si les administrateurs n’avaient pu entreren charge avant la sentence du parlement,on pouvait craindre des mécontents unappel systématique. Cette mesure par ail-leurs est logique: d’une part, la direction dela maison commune ne peut être vacante,d’autre part l’élection représente la volon-té du conseil d’élections, laquelle est plusforte que celle d’un seul individu.

Conclusion

Nombre de villes du royaume sont des pol-yarchies, le gouvernement y est assuré par leconseil de ville et le consulat, l’échevinage …,élus selon un système dont le souci majeurn’est pas la recherche de la démocratie.Généralement, les régimes sont ploutocrati-ques et oligarchiques.

Tous ces traits sont communs à l’ensem-

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ble du royaume, de même que l’applicationdu droit électoral. Partout, il semble que lesabus aient été la règle et la permanence desbrigues et cabales montre assez que le droitétait inadapté, ceci s’affirmant davantage aufil des années.

Pour apprécier l’efficacité du droit faceaux manœuvres, il faut distinguer deux pério-des. Dans un premier temps, les brigues sontessentiellement individuelles, alors le droit,pleinement efficace, empêche les cabales etmonopoles et endigue parfaitement l’ardeurdes individus. Efficacité telle que les amou-reux du pouvoir municipal s’organisent et lespartis vont alors jouer un rôle qu’ils igno-raient jusque là. D’individuelles, les manœu-vres deviendront collectives et le droitimpuissant car il n’a pas été conçu pour s’op-poser à des gens organisés et regroupés: dèslors l’institution juridique ne correspondraplus à la réalité électorale et aucun remèdeefficace ne sera proposé. Cependant, dansl’absolu, il ne faut pas exagérer l’importancedes brigues et des cabales: en respectant ledroit ou en le contournant, les gens portés aupouvoir n’étaient guère plus compétents.L’administration de la ville était de toutesfaçons livrée aux gens les plus représentatifs,en respectant une légitimité, même factice.

Cette situation, à la fin du XVIIème siècle,

ne peut se comprendre qu’à l’aide d’une brè-ve analyse du jeu du pouvoir central. Le roi,durant la première moitié du XVIIème siècle,alors que sa position est souvent peu solide,s’efforce de maintenir l’équilibre entre lesforces en présence, avantageant les partisopposés à tour de rôle afin de polariser l’at-tention d’habitants bien remuants. Au milieudu XVIIème siècle, la situation change. LouisXIV s’affirme de jour en jour ; pour lui, ildevient moins important de maintenir unéquilibre que d’obtenir le soutien incondi-tionnel du parti qui lui est le plus favorable,prêt à agir au mieux des intérêts du royaume,tel qu’il les conçoit.

La création des offices de maires en 1692ne laisse subsister aucun doute: l’aimabledésordre électoral n’a plus de place dans unétat fort et organisé. Le temps de l’autono-mie municipale est révolu, et d’ailleurs onpeut se demander avec certains auteurs si laroyauté ne voyait pas d’un œil favorable uneagitation qui, tôt ou tard, permettrait l’appli-cation de remèdes énergiques. Louis XIV, ens’attaquant aux habitudes électorales de sessujets, en modifiant les formes anciennes etles usages séculaires, ruinait ce qui restaitd’esprit d’indépendance de ses provinces,consolidait sa puissance et surtout endiguaitla vie politique des provinces.

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[…] un fils est né auprès de son père, et il s’ytient: voilà la société, et la cause de la société.

MONTESQUIEU, Lettres Persanes, XCIV

1. La staffetta fra le generazioni

Nell’articolo “Encyclopédie”, uno dei con-tributi a più forte carica programmatica del-l’intero Dictionnaire raisonné des Sciences, desArtes et des Métiers, Diderot scrive:

ce mot signifie enchaînement de connaissances […].En effet, le but d’une Encyclopédie est de rassem-bler les connaissances éparses sur la surface de laterre; d’en exposer le système général aux hommesavec qui nous vivons, et de le trasmettre aux hom-mes qui viendront après nous; afin que les travauxdes siècles passés n’aient pas été des travaux inu-tiles pour les siècles qui succéderont; que nosneveux, devenant plus instruits, deviennent enmême temps plus vertueux et plus heureux, et quenous ne mourions pas sans avoir bien mérité dugenre humain1.

Nessun dubbio sul nesso di incidenzadiretta fra il momento epistemologico e

quello etico-politico: le conoscenze, decli-nate al plurale, ma non per questo destinateal caos o ad una accumulazione acritica,appaiono agli occhi di Diderot il presuppo-sto necessario di qualsivoglia progresso nelsegno della virtù e della felicità umane.

A riprova della centralità del sapere teo-rico e pratico2, quale elemento fondante lafede nel progresso illimitato dell’umanità,Jacques Proust traccia idealmente, a propo-sito della filosofia della storia degli enciclo-pedisti, una linea continua di pensiero che,partendo dal Discours préliminaire di d’A-lembert e dall’articolo “Eclectisme” (vol. V,p. 270) di Diderot, e passando attraverso ilTableau philosophique des progrès de l’esprithumain di Turgot (1750), giunge fino all’Es-quisse di Condorcet (1794)3.

Ma nella definizione di encyclopédieriportata in apertura c’è dell’altro: alla con-divisione attuale di un sapere, che è anchesaper agire, si somma la sua necessaria tra-smissione nella duplice direzione tempora-le del passato e del futuro. Ciò che si impo-ne è, per un verso, la salvaguardia delle con-

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L’Encyclopédie fra continuità e mutamento storico

paola persano

giornale di storia costituzionale n. 4 / II semestre 2002

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quiste ereditate da coloro che ci hanno pre-ceduto, e per l’altro, la capacità di gettare unosguardo lungo sulle sorti di quanti verrannodopo di noi.

E proprio l’intreccio di destini passati,presenti e futuri – o meglio, la rappresenta-zione che di tale intreccio gli enciclopedistiverranno elaborando – è la prospettiva diindagine da cui muove la presente trattazio-ne. Altrimenti detto, si tratta di compren-dere se il discorso sul peso della tradizioneda un lato, e sulla preoccupazione per iposteri dall’altro, che animerà parte del suc-cessivo dibattito rivoluzionario, trovi già nel-l’Encyclopédie una seppur embrionale arti-colazione.

Solide conferme dell’iscrivibilità dellaquestione generazionale nella retorica e nel-la pratica della Rivoluzione francese sonoreperibili, del resto, nei discorsi ufficiali enella corrispondenza privata degli attoripolitici, come pure nella produzione dipamphlets e brochures dell’epoca. Le fontirestituiscono, infatti, una polifonia di vocipro e contro la rivoluzione4, appropriantesidel tema per ragioni spesso ideologicamen-te antitetiche, ma nel convincimento comu-ne che la relazione tra morti e viventi e traviventi e non ancora nati possa sostenere lerivendicazioni più diverse, quelle di rotturaradicale col proprio passato nazionale alme-no quanto quelle di continuità politico-isti-tuzionale.

Si pensi allo scontro tra Edmund Burke eThomas Paine intorno alla legittimità dellamonarchia ereditaria inglese ed alla naturaliberatoria dell’impresa rivoluzionaria fran-cese.

Nella Letter to a noble Lord del 1796 Burkeesclude che un grande stato possa sopravvi-vere a lungo senza un corpo di nobiltà ere-ditaria, che è poi la catena che lega le età ed

unisce le generazioni di una nazione.Di contro Paine obietta che

[…] there never did, there never will, and therenever can exist a parliament, or any description ofmen, or any generation of men, in any country,possessed of the right or the power of binding andcontrouling posterity to the end of time […], or ofcommanding for ever how the world shall begoverned, or who shall govern it; […]. Every ageand generation must be as free to act for itself, inall cases, as the ages and generations which prece-ded it5.

La polemica fra i due sul senso creativo oconservativo dell’atto rivoluzionario e sul-l’identità del soggetto chiamato ad assumer-sene l’onere - soggetto universale per Paine,storicamente dato per Burke – è lo spaccatodi una stagione politica in cui l’interesse perla storia, già fatta e da farsi, è ormai divenu-to imperante 6.

Se e come la maturazione di tale interes-se nel clima prerivoluzionario della Franciadi metà Settecento abbia, poi, alimentato unapproccio inedito al tema del vincolo gene-razionale, sarà l’oggetto specifico della let-tura combinata di articoli dell’Encyclopédieche vado a proporre.

2. Tramonto di un pregiudizio

Nessuna seria riflessione sulla storia, e sul-le generazioni come soggetto storico, saràcondotta in Francia nella perdurante assen-za di apprezzamento per l’innovazione poli-tica, vale a dire ciò che di inedito è in gradodi prodursi sulla scena pubblica, spontanea-mente o per effetto dell’azione combinatadei soggetti coinvolti.

Tale apprezzamento faticherà a lungo ad

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affermarsi, a causa del pregiudizio risalen-te, ma ancora diffuso alla metà del Settecen-to ed oltre, che rigetta il cambiamento poli-tico, soprattutto quando a promuoverlo sia ilpopolo, quale fattore destabilizzante dell’or-dine costituito. Con l’Encyclopédie, a dire ilvero, il pregiudizio di cui sopra, pur nonscomparendo del tutto, appare affievolito.Ed è da questo processo di affievolimentoche intendo partire nell’analisi dell’opera.

Prima tessera del mosaico, dunque, l’ar-ticolo “Nouveauté” (vol. XI, p. 265):

c’est tout changement, innovation, réforme bon-ne ou mauvaise, avantageuse ou nuisible: car voi-là le caractère d’après lequel on doit adopter etrejetter dans un gouvernement les nouveautésqu’on y veut introduire. Le temps, dit Bacon, est legrand innovateur; mais si le temps par sa courseempire toutes choses, et que la prudence et l’in-dustrie n’apportent pas des remedes, quelle fin lemal aura-t-il? Cependant ce qui est établi parcoutume sans être trop bon, peut quelquefois con-venir, parce que le temps et les choses qui ontmarché longtemps ensemble, ont contracté pourainsi dire une alliance, au lieu que les nouveautés,quoique bonnes et utiles, ne quadrent pas si bienensemble: elles ressemblent aux étrangers quisont plus admirés et moins aimés. D’un autre côté,puisque le temps lui-même marche toujours, soninstabilité fait qu’une coutume fixe est aussi pro-pre à troubler qu’une nouveauté. Que faire donc?admettre des choses nouvelles et qui sont conve-nables, peu à peu et pour ainsi dire insensible-ment: sans cela tout qui est nouveau peut sur-prendre et bouleverser. […] Il est bon de ne pasfaire de nouvelles expériences pour raccomoderun état sans une extrème nécessité et un avantagevisible. Enfin il faut prendre garde que ce soit ledesir éclairé de réformer qui attire le changement,et non pas le desir frivole du changement qui atti-re la réforme.

Colpisce la lucidità del «laborieux com-pilateur»7 Louis de Jaucourt nel cogliere ilrapporto particolarmente complesso fra

temps e choses, e da lì l’effetto, a seconda deicasi, di consolidamento o di erosione che iltempo esercita sulla fattualità umana – isti-tuzioni politiche incluse. D’altronde, che iltempo sia per i redattori del Dictionnaire rai-sonné un concetto che vive e si specifica nelrapporto con le cose appare chiaro solo chesi presti attenzione alla rispettiva voce“Temps”, curata da Jean-Henri Samuel For-mey, (vol. XVI, p. 95):

[…] le temps qui n’est que l’ordre des successionscontinues, ne saurait exister, à-moins qu’il existedes choses dans une suite continue.

Ciò premesso, è proprio la voce “Nou-veauté” che, se confrontata con altre defini-zioni contenute in dizionari anterioriall’Encyclopédie, svela un primo reale sforzodi superamento dell’atteggiamento di con-danna per il nuovo in politica.

Alludendo in generale alla nozione dinovità, Alain Rey ne avverte «la valorisationtardive […] et contemporaine de celle demodernité» sottolineando come «jusqu’auXVIIIème siècle, elle fait plutôt l’objet d’em-plois critiques, se rapportant spécialmentaux changements, aux bouleversementspolitiques, religieux, sociaux […], ou mêmeaux troubles, aux révolutions […])»8. Bastiguardare al Dictionnaire François di Richelet,nel quale le nouveautés sono ridotte a «trou-bles, remuements et brouilleries qui chan-gent la face d’un état»9, entrando significa-tivamente a comporre la fisionomia dellanazione francese 10.

Dieci anni più tardi, con Le DictionnaireUniversel di Furetière, il pregiudizio di cuidicevamo trova una formulazione, se possi-bile, ancora più esplicita nell’affermazioneper cui «[l]e peuple court après les nou-veautés. Toutes les nouveautés sont dange-

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reuses en matière de religion. Les nouveau-tés sont bonnes en Phisique, parce qu’ellessont fondées sur de nouvelles experiences,sur de nouvelles decouvertes»11. Qui all’ac-cezione politica si disconosce persino unospazio autonomo di senso. Resta quella piùvaga attitudine popolare a subire il fascinodel nuovo che, data la generalità della pro-posizione, immaginiamo non risparmi nep-pure l’ambito politico.

Tornando a Jaucourt, si noti come la pre-sa di distanza dal succitato pregiudizioavvenga in prospettiva riformista: il muta-mento di regime o, più semplicemente, dilegge è ammesso, a condizione di esserenecessario quanto alle cause, graduale nel-l’esecuzione, ed “insensible”, cioè imper-cettibile negli effetti.

Sono cosciente del rischio di anacroni-smo insito nell’utilizzazione di categoriecome riforma, riformismo e riformista in uncontesto storico diverso da quello contem-poraneo, ma l’uso che da qui in avanti farò diquesti termini è un uso “debole”, nel sensodi provare a descrivere più un atteggiamen-to mentale nei confronti del nuovo, che unaprecisa ideologia politica. Condivido quindil’opinione di coloro che parlano di venariformista con riguardo all’intera cerchia dicollaboratori dell’Encyclopédie – eccezioni intal senso sarebbero il Rousseau della voce“Economie (politique)” (vol. V, p. 337) ed ilredattore della voce “Législateur” (vol. IX, p.357) 12, il quale si spinge a subordinare lafelicità pubblica al comunismo dei beni. Ecredo che su questo terreno abbia ragioneJacques Proust nel voler istituire un nesso dicontinuità materiale ed ideale – apparte-nenza allo stesso milieu sociale e culturale –fra gli enciclopedisti ed i primi rivoluziona-ri come Antoine Barnave e Jean-JosephMounier.

Egli attribuisce a Louis Blanc, Jean Jau-rès e René Hubert il comune punto di vistasecondo cui «l’idéal encyclopédique n’a étécelui que d’une fraction des hommes de laRévolution, principalement dans la phase dela Constituante»13. Altrove lo stesso autoresi chiede se

[l]es encyclopédistes furent-ils des révolution-naires […]. Si l’on admet en effet que la constitu-tion de 1791 […] correspondait à peu près à l’i-déal moyen des encyclopédistes, il faut admettreaussi que ce sont Barnave et Mounier qui incar-nèrent le plus complètement cet idéal, et non pasles jacobins. Mounier lui-même reconnaît que lesencyclopédistes et les philosophes en général ontjoué un rôle essentiel dans la lutte contre les abusde l’Ancien régime. Mais il nie qu’ils aient eu con-sciemment et dans leur ensemble la volonté derenverser ce régime. Leur idéal, qui se confondavec le sien, était de voir la bourgeoisie commer-çante et industrielle relayer sans violence l’aristo-cratie à la direction de l’Etat, après l’avoir en par-tie et progressivement supplantée, dans l’ordre dela richesse, par la pratique des affaires. (Encyclo-pédie, cit., pp. 103-04).

Tuttavia, oltreché sotto il profilo politico-ideologico, la posizione di Jaucourt è anchemetafisicamente sintonica con l’impiantogenerale dell’Encyclopédie, e più precisa-mente con i motivi leibniziani in essa pre-senti. Alla radice di qualsivoglia fenomenostarebbe infatti la legge di continuità, cosìcome formulata dal fondatore della teodi-cea14 ed ispirante l’articolo “Continuité” delgià citato Formey (vol. IV, p. 116):

[…] rien ne se fait par saut dans la nature, et […]un être ne passe point d’un état dans un autre, sanspasser par tous les différents états qu’on peut con-çevoir entr’eux.

Accostando l’affermazione per cui lanatura non conosce salti al fatto della totale

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assenza di una nozione sia metafisica chepolitica del termine rottura – “Rupture”(vol. XIV, p. 438) gode di considerazioneesclusivamente medico-chirurgica ricalcan-do, almeno in parte, le sorti del lemma régé-nération, sul cui impiego originario nelladuplice chiave medica e religiosa sono statescritte pagine di straordinario valore daAntoine de Baecque15 – possiamo scorgere itratti essenziali di una teoria certamentedinamica della politica e del diritto pubbli-co, nella quale però l’esigenza di conserva-zione dello status quo non è del tutto spenta.

3. Da figli a costituenti

Che spazio è riconosciuto alla dimensionegenerazionale in una teoria riformistica delmutamento? Qual è il ruolo della tradizio-ne? e della storia? Si aprono prospettiveancora inesplorate per l’istruzione e l’edu-cazione delle nuove generazioni? e per laprogettazione politica del futuro?

A queste domande cercherò di risponde-re tornando all’analisi testuale dei diciasset-te volumi in-folio dell’Encyclopédie, più esat-tamente alla voce “Génération” (vol. VII, p.558):

[…] c’est le changement d’un corps en un autre,qui ne conserve aucun reste de son état précédent.Car, a proprement parler, la génération ne suppo-se point une production de nouvelles parties, maisseulement une nouvelle modification de ces par-ties: c’est en cela que la génération diffère de ce quenous appellons création.

Quella riportata è, a dire il vero, solo unaparte della definizione: all’uso fisiologico delvocabolo segue l’uso di storia antica emoderna – specialmente attestato, secondo

l’autore dell’articolo, nella traduzione delleSacre Scritture – per cui génération altro nonè che il popolo, la razza, la nazione. Metten-do l’uno accanto all’altro i due significati,scorgiamo l’ennesimo segnale di una sensi-bilità politica ed intellettuale – quella dialcuni, se non proprio di tutti gli esponentidel cosiddetto «mouvement encyclopédi-ste»16 – attenta al cambiamento delle formedi vita, anche associata, e che questo cam-biamento accetta di esprimere ricorrendo acaute metafore, non ultima quella genera-zionale. Dietro la cautela impiegata AlbertSoboul scorge la necessità di aggirare l’on-nipresente censura ecclesiastica, da cui l’in-consistenza della voce “Progrès” (vol. XIII, p.430), nonostante l’ideale di progresso illi-mitato del genere umano sia «un des dog-mes de l’Encyclopédie», (Id., Introduction aTextes choisis de l’Encyclopédie, cit., p. 201).

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James Barry (1741-1806), Il progresso del genere umano

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Rispetto, invece, al linguaggio metafori-co adoperato alla voce “Génération”, possia-mo dire che la metafora di un processo chenon crea dal nulla ma modifica il corpo(sociale) preesistente e, così facendo, ne ori-gina uno nuovo, ha dalla sua il vantaggio dinon contraddire alla logica conservativo-riformistica di partenza e di assegnare unafunzione preminente al racconto storiogra-fico, in quanto opera di condivisione e per-petuazione da padre in figlio di un patrimo-nio comune.

Scrive Voltaire nell’articolo “Histoire”(vol. VIII, p. 221):

[l]es premiers fondaments de toute histoire sontles récits des pères aux enfants, transmis ensuited’une génération à une autre; ils ne sont que pro-bables dans leur origine, et perdent un degré deprobabilité à chaque génération.

L’accento cade sulla trasmissione delrécit, piuttosto che sulla sua costruzione ori-ginaria, e filtra l’idea che la storia si fondi,non già su un atto inventivo di data certa, masu quel binomio temps-choses indagato altro-ve. Che il fondamento della narrazione sto-rica sia lontano, indistinto e, via via che siripercorre a ritroso la catena generazionale,sempre meno distinguibile, non toglie chepur sempre di un fondamento si tratti. Tut-to sta a non confondere il momento costitu-tivo della narrazione storica con quello rico-struttivo della stessa.

Solo nel secondo caso si porranno esi-genze di scientificità, veridicità e correttaselezione ed interpretazione delle fonti, inaltre parole il problema dell’origine. E saràsoltanto allora che dovrà farsi strada il libe-ro esercizio della critica, il cui apprendi-mento generalizzato resta uno dei principa-li obiettivi filosofici del secolo dei Lumi.Marie Leca-Tsiomis evidenzia come «[l]a

fonction de recueil est indissociable de lacritique du recueil lui-même et ce n’est pasde masquer les carences qu’il s’agit, mais deles dévoiler. Pour Diderot, “encyclopédiser”est, tout à la fois, transmettre les connais-sances et mettre en évidence les béances dusavoir. […] la souveraine fonction […] estl’apprentissage de la critique […]», (Id.,Ecrire l’Encyclopédie, cit., pp. 251-52).

Sebbene nessuno degli enciclopedistidubiti del primato della scrittura sull’orali-tà, quando si tratti di sottrarre all’usura deltempo e alle manipolazioni degli uomini unalegge o una consuetudine, Jaucourt, chiama-to a definire a livello teologico il lemma“Tradition” (vol. XVI, p. 507), non lasceràperciò solo in ombra la tradizione orale perla più sicura tradizione scritta, vedendo nel-la prima

[…] un témoignage rendu de vive voix sur quelquechose: témoignage qui se communique aussi devive voix des pères aux enfants, et des enfants àleurs descendants.

Qui, per la prima volta, fanno la lorocomparsa al fianco dei padri e dei figli idiscendenti di questi ultimi, e la catenagenerazionale si arricchisce di nuovi anelli.Il fatto poi che tale arricchimento avvengasul terreno religioso, e non su quello politi-co-giuridico, non è privo di importanza.

La cosa si spiega, in primo luogo, con laprecedenza assegnata dall’Encyclopédie allasfera morale in rapporto alle altre sfere divita. Riprendendo il Discours préliminaire diD’Alembert (vol. I, p. xi), ne risulta che pergli enciclopedisti

[…] la Politique [est une] espèce de morale d’ungenre perticulier et supérieur […] surtout quandne veut pas oublier que la loi naturelle, antérieu-re à toutes les conventions particulières, est aussi

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la première loi des Peuples, et que pour être hom-me d’Etat on ne doit point cesser d’être homme.

In secondo luogo, c’è che motivi ed istan-ze politiche non restano del tutto estranei aldiscorso religioso – si tenga presente, inspecial modo, la contrapposizione cattolici-protestanti, che attraversa l’opera nella suainterezza.

Su questo secondo punto, nella medesi-ma voce “Tradition” Jaucourt riconosce aiprotestanti un forte spirito di emancipazio-ne nei confronti e della tradizione e, più ingenerale, del principio di autorità degli avi.

[…] les Protestants n’ont rien oublié pour infir-mer l’autorité des pères. Rivet et Daillé [rif. in notaa Du vrai usage des pères, libro I, dal cap. j al cap. xj;e, come risposta di parte cattolica, al Traité de lavéritable religion di M. l’abbé de la Chambre], deuxde leurs plus célèbres ministres ont objecté I° qu’ilest impossible de trouver au juste le sentiment despères sur quelque matière que ce soit, leurs ouvra-ges ayant été ou supposés ou corrompus et alté-rés, n’étant pas sûr de leurs sens, ni qu’ils ayentproposé tel ou tel point comme une tradition uni-verselle; 2° que la notoriété du sentiment des pèresn’impose aucune nécessité de le suivre; 3° que lespères se contradisent et donnent eux-mêmes laliberté de les abandonner; 4° que l’autorité despères est toute humaine, et par conséquent qu’el-le ne peut servir de fondement à la foi qui est tou-te divine; 5° que les pères ne sont recevables dansleur témoignage qu’autant qu’ils prouvent bien cequ’ils avancent; 6° que l’autorité de la tradition estinjurieuse à la plénitude de l’écriture.

La tesi della piena emancipazione trova,comunque, un leggero correttivo nell’arti-colo “Ancien” (vol. I, p. 441), dove l’abbé deMallet scrive che

[…] ancien est encore un titre fort respecté chezles Protestants. C’est ainsi qu’ils appellent les offi-ciers, qui conjointement avec leurs pasteurs ouministres, composent leurs consistoires ou

assemblées pour veiller à la Religion et à l’obser-vation de la discipline […].

Tutto l’opposto per i cattolici:

[…] la tradition, selon les Catholiques, est règle defoi, et […] c’est à l’Eglise seule qu’il appartientd’en juger et de discerner les fausses traditions d’a-vec les véritables, ce qu’elle connaît ou par letémoignage unanime des pères, ou par l’usageconstant et universel des églises […].

Il primo obiettivo polemico dei redattoridell’Encyclopédie è la pretesa egemonia sulsapere accademico da parte della Sorbona,come risulta dall’analisi di Albert Soboul peril quale «[l]’Encyclopédie poursuit avec achar-nement la philosophie scolastique, doctrineofficielle de l’Eglise, toujours ensignée par laSorbonne», (Id., Textes choisis de l’Encyclopé-die, cit., p. 17). In aggiunta a questo, gli enci-clopedisti stigmatizzano la sfera di influenzagesuita, poiché, come fa notare Marie Leca-Tsiomis (Ecrire l’Encyclopédie, cit., p. 11),

au sein du conflit très connu entre les “philoso-phes” et les pouvoirs politiques et religieux,notamment la Compagnie de Jésus, la parution del’Encyclopédie a constitué une nouvelle batailledans la longue guerre des dictionnaires, c’est-à-dire dans l’âpre dispute pour la maîtrise d’une devoies essentielles de la trasmission du savoir […].

Il tutto a voler sottolineare che il ricono-scimento di una certa tradizione come col-lante fra individui di generazioni diverse,che professino la comune appartenenza algenere umano, non può tradursi in un’ipo-teca perpetua sulla libertà di pensare e di agi-re autonomamente di quegli stessi indivi-dui, impedendo loro di metterne in discus-sione la legittimità e di provarsi a racconta-re una storia diversa da quella dei padri e deinonni, la propria storia.

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Il continuismo degli enciclopedisti non èrotto, ma appena scalfito. Eppure ciò che neconsegue è l’apertura di un piccolo varco chequalcun altro dopo di loro saprà percorrereed ampliare.

Si comincia col riconoscere l’esistenza diuna tradizione. Se ne ha bisogno allo scopodi istituire un vincolo generazionale saldo eduraturo, un vincolo non più soltanto natu-rale - l’essere tutti esemplari della specieumana e, come tali, tutti potenzialmentesoggetti al diritto naturale, è solo la condi-zione di partenza. Occorre che la società degliuomini rifletta in qualche misura le caratte-ristiche della catena di esseri del regno natu-rale, tenuto conto, tuttavia, di come nellaprima ipotesi la catena debba svilupparsinon solo sul piano sincronico, ma anche dia-cronico. È proprio lo sviluppo diacronico chepermette di introdurre la categoria di suc-cessione nel tempo, e quindi di trasmissio-ne e di tradizione.

Dal riconoscimento della tradizione, dalsentirsene parte integrante, discende quasiautomaticamente, laddove non se ne vogliadiventare schiavi, la messa in questione del-la stessa. Passata al vaglio della razionalitàindividuale, che è anche razionalità univer-sale, la tradizione è ridotta, relativizzata e daultimo superata.

Ecco acquistare senso la contrapposizio-ne fra mondo protestante e mondo cattoli-co, più dinamico e dissacrante il primo, piùchiuso e conservatore il secondo. In un casol’ipse dixit, nell’altro il coraggio di sottrarsialla tutela paterna.

Che il potere politico sia altro dall’auto-rità dei padri è inoltre confermato alla voce“Pouvoir paternel” (vol. XIII, p. 255) la qua-le, messa in relazione con l’articolo “Enfant”(vol. V, p. 652), configura una cittadinanzafinalmente sottratta alle forme di dipenden-

za che nella società di Ancien Régime ancoracaratterizzano – e non potrebbe essere altri-menti – la relazione padre-figlio.

La logica della dipendenza non si appli-ca all’esercizio della sovranità politica, senon a prezzo di scivolamenti nell’assoluti-smo. E la vera alternativa al potere assolutoconsiste nel modellare i rapporti politici suquelli domestici che legano, non già verti-calmente padri e figli, ma orizzontalmentequesti ultimi fra loro alla morte del padre.Scrive Jaucourt nella detta voce “Pouvoirpaternel” che

[…] si le pouvoir du Père a du rapport au gouver-nement d’un seul, le pouvoir des frères17 après lamort du père a du rapport au gouvernement deplusieurs; enfin la puissance politique comprendnécessairement l’union de plusieurs familles.

I padri e i figli cui ci si riferisce sonoverosimilmente compresenti, ma non è det-to che le dinamiche interne al loro rapportonon possano estendersi per similitudine aquelle fra individui adulti di generazionidiverse.

Solo allentando la stretta dei padri, dellaquale pure è stato necessario ammettere l’e-sistenza, è possibile procedere ad un’effet-tiva riappropriazione dei destini individua-li e collettivi, presenti e futuri. A ciò contri-buirà, fra l’altro, il volontarismo giuridicoteso a negare, ad esempio, che il regime del-le successioni patrimoniali possa averealcunché di automatico e, pertanto, di lesi-vo della libertà dell’erede. Per l’Encyclopédie,infatti, il moderno “Héritier” (vol. VIII, p.165) cessa di sottostare alla disciplina didiritto romano, che prevedeva accanto aglieredi necessari quelli volontari, detti ancheétrangers, ed è sempre e soltanto «héritiervolontaire». Come l’eredità dei beni, così latradizione può essere ugualmente accettata o

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respinta da chi è chiamato a beneficiarne. Ma attraverso quali mezzi i figli-eredi

verranno messi in condizione di compierela scelta emancipatrice nei riguardi deipadri? Come si riuscirà a scongiurare il peri-colo che l’eventuale rifiuto dell’eredità avitaproduca uno strappo insanabile fra la lorogenerazione e quelle che l’hanno preceduta?La risposta è ancora una volta cercata sul ter-reno culturale del sapere condiviso, ed ilmezzo individuato nell’educazione. La curadei figli, e prima ancora il fatto stesso didecidere di averne o meno, diventa fattorediscriminante fra il buono ed il cattivo citta-dino, in quanto indice di sincera preoccu-pazione per l’avvenire della propria patria.

La definizione di diritto naturale del ter-mine “Père” (vol. XII, p. 338) recita testual-mente:

[c]elui qui vit dans le célibat, devient aisementindifférent sur l’avenir qui ne doit point l’intéres-ser; mais un père qui doit se survivre dans sa race,tient à cet avenir par des liens éternels. […] lespères qui ont fait la fortune ou l’élévation de leurfamille, aiment plus tendrement leurs enfants;sans doute, parce qu’ils les envisagent sous deuxrapports également intéressants, et comme leshéritiers, et comme leurs créatures […].

Il legame filiale non dev’essere sempli-cemente rimosso dalla società, ma ripensa-to e reso funzionale alle nuove finalità socio-politiche del presente e del futuro. Il desi-derio di paternità è promosso a valore civi-co fondamentale, per ragioni non del tuttoestranee alla demografia politica.

L’homme vaut par le nombre […]. Un souverains’occupera donc sérieusement de la multiplica-tion de ses sujets. […] Ses Etats sont dans unesituation déplorable, s’il arrive jamais que parmiles hommes qu’il gouverne il y en ait un qui crai-gne de faire des enfants, et qui quitte la vie sans

regret. […] Ce sont les enfants qui font des hom-me. Il faut donc veiller à la conservation desenfants par une attention spéciale sur les pères,sur les mères et sur les nourrices,

è quanto si legge nell’articolo “Homme” (vol.VIII, p. 274), per la parte che riguarda l’ac-cezione politica del termine.

E ancora, a proposito della posterità (voceanonima “Posterité”, vol. XIII, p. 172):

[…] c’est la collection des hommes qui viendrontaprès nous. Les gens de bien, les grands hommesen tout genre, ont tous en vue la posterité. Celui quine pèse que le moment où il existe est un hommefroid, incapable de l’enthousiasme, qui seul faitentreprendre de grandes choses aux dépens de lafortune, du répos, et de la vie.

In fondo la cura dei figli propri ha moltoa che vedere – così credono gli enciclopedi-

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Denis Diderot

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sti – con la cura delle generazioni future,quella collection di individui che essi nonincontreranno mai ma che vorrebbero defi-nitivamente emancipati dall’ignoranza e dalpregiudizio, come pure dal giogo politico diun sovrano-despota. Si celebra, dunque, ilnuovo protagonismo di coloro che, sebbenedestinatari di una pedagogia che altri – gliadulti del proprio tempo o di epoche ben piùrisalenti – hanno predisposto per loro, alloscopo di farne cittadini degni di comporrele fila della nazione francese, potranno assu-mere un giorno la funzione politicamenteattiva di costituenti.

Nel lungo articolo “Représentant” (vol.XIV, p. 143)18, l’autore esplicita il suo idealedi costituzione rappresentativa, certo che

[p]our maintenir le concert qui doit toujours sub-sister entre les souverains et leurs peuples […]rien ne serait plus avantageux qu’une constitutionqui permettrait à chaque ordre de citoyens de sefaire représenter, de parler dans les assembléesqui ont le bien général pour objet. […] Les repré-sentants supposent des constituants de qui leurpouvoir est émané, auxquels ils sont par consé-quent subordonnés, et dont ils ne sont que lesorganes. […] un représentant ne peut s’arroger ledroit de faire parler à ses constituants un langageopposé à leurs intérêts; les droits des constituantssont les droits de la nation, ils sont imprescripti-bles et inaliénables; pour peu que l’on consulte laraison, elle prouvera que les constituants peuventen tout temps démentir, désavouer et révoquer lesreprésentants qui les trahissent, qui abusent deleurs pleins pouvoirs contre eux-mêmes, ou quirenoncent pour eux à des droits inhérents à leuressence; en un mot, les représentants d’un peuplelibre ne peuvent point lui imposer un joug quidétruirait sa félicité; nul homme n’acquiert le droitd’en représenter un autre malgré lui.

Il modello è quello di una comunità dicittadini-costituenti che alla figura dei padripreferisce ormai quella dei rappresentanti,

ai quali è legata da una fedeltà sempre revo-cabile e che non ha davvero più nulla dellasoggezione ad un’autorità assoluta.

Interpreti come Ermanno Vitale mini-mizzano la valenza costituzionalistica delnesso représentants-constituants, sottoli-neando come l’ideale di riforma in sensocostituzionale della monarchia francese nonappaia qui sostenuto da

una chiara delimitazione del potere politico in vir-tù della rivendicazione dei diritti dei cittadini: ilmodello liberale lockiano, solo in apparenza resopiù rispondente alle istanze dei rappresentati conla proposta del mandato imperativo per i rappre-sentanti, viene infatti intorbidato da una visionetradizionale della società per ordini, che rendeimplausibile […] una limpida affermazione costi-tuzionale dei diritti individuali19.

Trovo che analisi come questa non ten-gano sufficientemente conto del «faticosoapprodo alle rive del costituzionalismo» chepure, secondo Furio Diaz, gli enciclopedistiseppero intraprendere (Id., Scritti politici diDenis Diderot, cit., p. 45). Che il discorso, poi,seppure intriso di elementi tradizionali, siinnesti sul terreno costituzionalistico èassunto difficilmente negabile, come risul-ta dalla definizione di “Constituant” (vol. IV,p. 61) che «signifie aussi quelquefois éta-blissant», derivando quest’ultimo termineda établissements, vale a dire le antiche ordi-nanze del Regno.

Per concludere ritengo possa sostenersiche il vincolo generazionale, al pari della tra-dizione, è riconosciuto perché e purché siasempre possibile, all’occorrenza, allentarnela stretta.

Pensarsi soggetti ad un vincolo sempreremovibile è il presupposto logico della mag-gior intraprendenza nell’agire politico con-creto di cui daranno prova le generazioniformatesi all’ombra di quella straordinaria

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«espèce d’ouvrage cosmopolite» che è perWitold Wolodkiewicz l’Encyclopédie (op. cit.,p. XVIII).

Che la successiva storia costituzionaledella Francia in rivoluzione sia leggibile in

termini di oscillazioni continue fra ricono-scimento e negazione più o meno radicaledel legame generazionale, è ipotesi di lavo-ro su cui conto di tornare presto ad interro-garmi.

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1 D. Diderot e J.-B. D’Alembert,Encyclopédie ou Dictionnaire raison-né des Sciences, des Artes et desMétiers, par une Société de gens delettres, Paris, Libraires associés,1751-1780, vol. V, p. 635.

2 Per la valorizzazione del saperetecnico-scientifico all’internodell’Encyclopédie, N. Matteucci,Sugli studi intorno all’Encyclopédie,ne “Il Mulino”, febbr. 1953, pp.97-98, il quale vede in esso piùancora che nel ragionamentoastratto «l’elemento caratteristi-co della condizione umana da cuiogni proposta umanistica devepartire».

3 J. Proust, L’Encyclopédie, Paris,Armand Colin, 1965, pp. 148-49.Questi nega che all’interno del-l’Encyclopédie possa parlarsi disistematicità, poco importa sebaconiana o di altra natura (p.165). Sulla sua stessa linea di pen-siero P. Vernière, che nel Sette-cento riconosce una stagione dicrisi per tutti i grandi sistemi filo-sofici del passato, soprattuttoquello cartesiano (Id., L’Encyclo-pédie ou l’idée de synthèse, “Revuede synthèse”, LXVII, 1950; ora inLumières ou clair-obscur? Trenteessais sur Diderot et quelques autres,Paris, PUF, 1988, p. 23). Sull’ap-plicazione del sistema di classifi-cazione baconiano alle conoscen-ze raccolte nell’Encyclopédie, siveda M. Leca-Tsiomis, Ecrirel’Encyclopédie. Diderot: de l’usagedes dictionnaires à la grammairephilosophique, Oxford, VoltaireFoundation, 1999, p. 244. Per uninquadramento generale dell’in-fluenza di Bacone sullo spiritoenciclopedico, rinviamo a F. Ven-

turi, Le origini dell’Enciclopedia,Torino, Einaudi, 1963, cap. IV, pp.109-21 ed a W. Tega, Arbor scientia-rum. Enciclopedia e sistemi in Fran-cia da Diderot a Comte, Bologna, IlMulino, 1984.

4 Un utile strumento di lavoro è inquesto senso l’antologia a cura diA. de Baecque e con prefazione diM. Gauchet, Pour ou contre la Révo-lution, Paris, Bayard Éd., 2002.

5 T. Paine, Rights of Man, London, J.S. Jordan, 1791 (ed. consultataOxford & New York, Oxford Uni-versity Press, 1995, pp. 91-92).

6 Sul ruolo della rappresentazionedel passato nella formazione del-l’immaginario politico del diciot-tesimo secolo, si veda K. M. Baker,Au tribunal de l’opinion. Essais surl’imaginaire politique au XVIIIe siè-cle, Paris, Éd. Payot, 1990. L’auto-re allude specialmente alla pubbli-cistica precedente l’89, all’inter-no della quale spiccano le nume-rose Histoires de France, tese acostruire culturalmente un’iden-tità nazionale di cui è sempre piùforte il bisogno.

7 J.-F. Marmontel, Mémoires, Paris,Éd. M. Tourneux, 1891, vol. 2, p.364. Ma che intorno alla figura delcavaliere de Jaucourt circolasseroanche giudizi assai meno lusin-ghieri è dimostrato da W. Wolod-kiewicz nella Nota di lettura a Ledroit romain et l’Encyclopédie,Napoli, Jovene Ed., 1986, pp.xxiii-xxvi.

8 A. Rey, Dictionnaire historique de lalangue française, Paris, Dictionnai-res Le Robert, 1992, p. 1336.

9 P. Richelet, Dictionnaire François,contenant les mots et les choses, plu-sieurs nouvelles remarques sur la

langue françoise, Genève, J. H.Widerhold, 1680, p. 76.

10 A completamento della voce, siriporta il passo tratto dai Mémoiresdi La Rochefoucault, secondo cui«[la] nation [française] a unepente naturelle aux nouveautés»,ibidem.

11 A. Furetière, Dictionnaire Univer-sel: contenant généralement tous lesmots françois, La Haye e Rotter-dam, A. e R. Leers, 1690.

12 Si tratta di una voce anonima sul-la cui esatta attribuzione gli inter-preti restano tuttora divisi. Pro-pendono a favore della paternitàdiderotiana S. Goyard-Fabre (Lesidées politiques de Diderot au tempsde l’Encyclopédie, “Revue Interna-tionale de Philosophie”, 38,148/49, 1984, fasc. 1-2, p. 114) eW. Wolodkiewicz (Le droit romainet l’Encyclopédie, cit., p. xxi). Con-tra F. Diaz, curatore degli Scrittipolitici di Denis Diderot con le vocipolitiche dell’Enciclopedia, Torino,Einaudi, 1967, p. 116.

13 J. Proust, Diderot et l’Encyclopédie,Paris, Armand Colin, 1962, p. 12.

14 Per una lettura che riconosce inquella leibniziana soltanto una del-le rappresentazioni settecenteschedella natura, segnaliamo il bel librodi Guido Barsanti, dedicato in lar-ga parte alla controversia fra Lin-neo e Buffon, in cui colpisce la pre-sa di distanza dalle tesi di ArthurLovejoy sull’assoluta continuità,pienezza e gradazione della natura,quale principio incontrastato deldiciottesimo secolo. L’autore di TheGreat Chain of Being (CambridgeMass., Harvard University Press,1936; trad. it. La grande catena del-l’essere, Milano, Feltrinelli, 1966)

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avrebbe indebitamente generaliz-zato la “grande catena dell’essere”,«dipin[gendo] uno scenario[coerente di] nominalismo in gno-seologia, ottimismo in morale,riformismo in politica» dove si eli-dono i pur numerosi fattori di dis-continuità delle settecentescherappresentazioni della natura, evi-denziati, per contro, dal MichelFoucault de Les mots et les choses, (G.Barsanti, La Scala, la Mappa, l’Al-bero. Immagini e classificazioni del-la natura fra Sei e Ottocento, Firen-ze, Sansoni, 1992, p. 5).

15 A. de Baecque, Comment un motentre en politique: régénération desfidèles, régénération des plaies, régé-

nération du pleuple français, in Lecorps de l’histoire, Paris, Calmann-Lévy, 1993, pp. 165-94.

16 L’espressione è mutuata da A.Soboul, Introduction a Textes choi-sis de l’Encyclopédie, Paris, EditionsSociales, 19622, pp. 7-24.

17 Dobbiamo alla brillante tesi didottorato di Jean Bardy, Recherchessur la pensée juridique dans les dic-tionnaires encyclopédiques du XVIIIe

siècle (Thèse pour le doctorat, Facul-té de droit, Université de Paris,1954, dattil.) di aver raccolto lecostruzioni propriamente giuridi-che presenti all’interno dell’Ency-clopédie intorno a due teorie fon-damentali: quella patriarcale di

Boucher d’Argie e la teoria con-trattualistica cara a Diderot; in uncaso cioè il padre in rapporto aifigli, nell’altro i figli tra loro che sifanno fratelli.

18 Ulteriore voce anonima che, seb-bene attribuita dagli studi piùrecenti a d’Holbach, Furio Diaz nel1967 non esitava a ricondurre allevedute più autenticamente libera-li di Diderot, difendendone quin-di la paternità almeno ideale (F.Diaz, Scritti politici di Denis Diderot,cit., pp. 26-35).

19 E. Vitale, La visione illuministica delmondo nell’Encyclopédie di Dide-rot et D’Alembert, Milano, Baldi-ni&Castoldi, 1998, p. 15.

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Quisiera que la traducción correspondiese almérito del original; pero habiéndola hecho entiempos de inquietud (...) no dudo que (...) a lomenos (se) agradecerá la buena intención1 .

En la fecha del día quinto de noviembrede 1809 una Junta de Legislación que se reú-ne de lo más discretamente en el PalacioArzobispal de Sevilla adopta este acuerdo:

No habrá en adelante sino una Constitución úni-ca y uniforme para todos los dominios que com-prende la Monarquía Española, cesando desde elmomento de su sanción todos los fueros particu-lares de Provincias y Reynos,

a cuyo efecto «las Cortes serán restableci-das», dejándose para momento ulterior ladecisión acerca del «método de la convoca-ción y reunión, así como la autoridad ydemás atributos correspondientes a larepresentación nacional» que así se deno-mina, con término tradicional implicandoMonarquía, Cortes. Observemos que es unhito constituyente, bien que solapado demomento por su carencia misma de autori-

dad alguna a propósito tamaño. Alcanzaráefecto. En virtud de tal resolución de unaJunta que actúa prácticamente en secreto yconforme a unas previsiones de las que guar-da completa reserva, pronto, mediante repre-sentación nacional por institución de Cortesefectivamente, se alcanzará lo primero, laConstitución de la Monarquía Española, y notanto lo segundo, la uniformidad constitu-cional excluyente de fueros particulares de Pro-vincias y Reynos. Fue todo un comienzo2.

Con la atención específica que no sueleprestarse en la historiografía predominante,incluso entre la que se presenta como con-stitucional, hacia unos planteamientosjurídicos, cuales los constitucionales preci-samente, procedo a un repaso de los aconte-cimientos de tal trascendencia que se pro-ducen desde el mes de septiembre de 1808,cuando se constituye una Junta Central enca-bezando todo un movimiento de Juntas Pro-vinciales, hasta las mismas alturas de 1810,cuando se reúnen unas Cortes que produci-rán en efecto la Constitución de 1812, conalguna expedición todavía por el año inme-

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Voz de Nación por ConstituciónEspaña, 1808-1811

bartolomé clavero

giornale di storia costituzionale n. 4 / II semestre 2002

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diato, cuando dicha asamblea se adentra entrabajos de signo constituyente. Será repasohistórico y también historiográfico, estosegundo incluso, como veremos, por la pro-pia evidencia pretérita. Por aquellas fechasse intenta producir no sólo norma constitu-cional, sino también visión histórica comocuestión realmente primera a unos mismosefectos de alcance constituyente3.

1. Autoridad entre Juntas, Consejos y Cortes

Unos acontecimientos políticos puedendarse en estas páginas por sabidos. Merefiero por supuesto a la situación de emer-gencia generada por la rendición dinásticay la quiebra institucional de la MonarquíaBorbónica ante el Imperio Napoleónico en1808. Los ejércitos franceses ocupan buenaparte de la península y la dinastía de Bona-parte se entroniza en Madrid intentandolegitimarse con una Constitución, la deBayona. Cuenta con una relativa aceptaciónque permite una irregular puesta en prácti-ca4, pero también se encuentra con unafuerte reacción en la que desde un inicioconfluyen y se confunden la defensa aultranza del sistema establecido y unas aspi-raciones regeneradoras de signo vagamen-te constitucional que no se identifican conla Francia de Napoleón o que no desesperantanto de la propia sociedad como para resi-gnarse y confiarse a la hegemonía del Impe-rio de Bonaparte.

En situación así abiertamente bélica,Provincias y Reynos forman Juntas Supremaso Superiores de resistencia acabando por eri-girse entre diputados suyos y «en nombredel Rey nuestro Señor Don Fernando VII»,a finales de septiembre de 1808, una Junta

Central Suprema y Gubernativa del Reyno oJunta Central de Gobierno de los Reynos deEspaña y de las Indias. Son organismos pro-visionales que tienden a formarse con per-sonalidades legitimadas no tanto por elec-ción política como por cargo institucional oposición social5. La Junta Central tampocose legitima revolucionariamente por símisma ni en exclusiva por diputación ymandato procedente de las otras Juntas, lasde Provincias. Retengamos este principio. Seactúa en nombre y por autoridad de nuestroSeñor Fernando VII teniéndosele siemprepor monarca legítimo y así sobre todoteniéndose también a la Monarquía mismapor establecida sin solución de continuidadalguna en teoría de derecho6.

Se estaba en un momento de recupera-ción transitoria por parte resistente de laCorte central, Madrid, y con ello también derestablecimiento de algunas institucionesprincipales por este bando. El Consejo Real,como institución que representa la personao hace presente la autoridad del rey, pasa aavalar y revalidar la institución de la JuntaCentral. Sus miembros retoman posesiónprestando juramento. Juran la religión cató-lica, la dinastía de Borbón en cabeza del reyFernando y «la conservación de nuestrosderechos, fueros, leyes y costumbres». Ennombre todo esto siempre del monarcaausente, adoptando también esta represen-tación y tal compromiso no menos expresocon el ordenamiento establecido mediantejuramento, la Junta Central se sitúa porencima del Consejo Real. Falló el intento deque este mismo pasase a encabezar directa-mente el movimiento de las Juntas, pero laCentral tampoco anula al Consejo ni se lopropone. Ni siquiera lo desplaza de derechocomo institución que representa estable-mente la autoridad del Rey.

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Por todo lo que vaya a seguir, no olvide-mos este dato de la presencia de unas insti-tuciones tradicionales junto a las nuevas.Tampoco despreciemos el dato de que unacultura política y jurídica presentaba unasmismas características que no resultabanesquizofrénicas porque fuesen complejas7.El terreno nunca queda expedito ni despe-jado para unas innovaciones, constitucio-nales o no, lo cual podrá revestir su impor-tancia para esto mismo, para la novedad designo en su caso constitucional. Tampoco esque permaneciera o se recuperara toda unaestructura íntegra e incólume que no deja-se espacio a improvisaciones e innovacio-nes. No sólo falta el Rey, Fernando VII, sinotambién personal importante de las insti-tuciones principales de la Monarquía. Poresta razón y por el grado como en talesmomentos problemáticos afectaba en par-ticular a un consejo para Ultramar, el Con-sejo de Indias, y a uno de finanzas, el Conse-jo de Hacienda, el Consejo Real se refunde afinales de junio de 1809 junto con ellos yalgún otro en un Consejo y Tribunal Supremode España e Indias, más coloquialmenteconocido como Consejo reunido. Comorepresentación institucional más estable dela Monarquía, el propio Consejo Real serestablecería en sus términos a las mismasvísperas de las Cortes para ser finalmentedesautorizado por ellas en dicho precisoextremo y en su propia existencia8.

Para las Cortes, para unas Cortes de talautoridad por encima de Consejo identifi-cado con la persona del monarca, falta toda-vía un trecho decisivo. De momento seentiende que la Monarquía institucional-mente se recupera. Gaspar Melchor deJovellanos, miembro entonces más autori-zado de la Junta Central, aunque no estuvie-ra presidiéndola, expresaría a continuación

de su establecimiento lo que dicha conser-vación implicaba. Este organismo no asu-mía, pues no le cabía, «autoridad ni juris-dicción» propiamente dichas. Habrían derestablecerse plenamente, a medida que elcurso de la guerra lo fuera permitiendo, «elexercicio del poder judicial, económico yadministrativo» por parte de las magistra-turas y potestades competentes de confor-midad con el orden establecido, el de trac-to tradicional. Repárese bien, pues lo mere-ce, en el trazado jurídico del escenario polí-tico. La Junta Central se consideraba cons-titutivamente incapaz de autoridad ni juris-dicción mientras que las instituciones real-mente capacitadas, las monárquicas, noestuvieran en condiciones de hacerse cargode unos cometidos que se presentaban comodistinguiendo poderes entre lenguaje anti-guo de económico o doméstico y reciente deadministrativo o ejecutivo.

Jovellanos en su dictamen añadía algoque podrá resultar de importancia crucialmucho más allá de lo que entonces él mismopensara ni desease. Falta de autoridad nijurisdicción para adoptar por sí mismadecisiones menos coyunturales, al alcancede la propia Junta quedaban, aparte la direc-ción bélica, posibilidades tan apreciablescomo la de convocatoria y reunión de Cor-tes: «Que la nación fuese llamada a cortespara establecerse un gobierno de regencia»e incluso para decidirse «el modo de for-marle». Aun con este añadido de decidir unrégimen de regencia y no sólo limitarse aelegirla, se entiende esta posibilidad deCortes como recurso justamente previstopor el mismo ordenamiento tradicional envigor que ha establecido y habilitado lasautoridades y jurisdicciones debidas. Asítambién se desliza la novedad de atribuirsea la Nación un protagonismo, la condición

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de sujeto político de eventuales determina-ciones que, aun pudiendo resultarlo a estasalturas, no se presentan de momento ni seentienden de oficio como constituyentes.

El planteamiento de Jovellanos lo iránhaciendo suyo otros miembros y algunossignificados adláteres de la Junta Centralcon el añadido en casos de un expreso pro-pósito constituyente. Es idea que tambiénse manifiesta por estos medios duranteestos meses. La convocatoria de Corteshabría de servir entonces para plantearsefrancamente «la creación de una Constitu-ción» de cuya preparación podía ademásocuparse la misma Junta, la cual finalmen-te la presentaría «a la sanción de la Repre-sentación Nacional» en tales posibles Cor-tes. Su convocatoria se alegará de continuoque, rehén ya de Napoleón, Fernando VII,como efectivamente parece aun faltando laconstancia documental, la había dispuesto,sólo que al efecto nada constituyente dedefensa de la dinastía en esta situación deemergencia.

2. Consenso de Cortes y equívoco de Constitu-ción

Cortes no es una palabra que asustara, peroConstitución tampoco tenía por qué. En losflatos de voz al menos y ante la profundidady envergadura de la crisis podía producirsebastante coincidencia. La situación era talque requería recurrirse a Cortes y mirarse aConstitución. A partir de ahí podían venirlas desavenencias. Venían realmente. Huboun juego de solapamientos e incluso de di-simulos que despistó entonces y confundeahora. La historiografía sigue reproducién-dolo, cuando no agravándolo9.

La voz de Constitución por sí no repre-sentaba piedra de escándalo. Era palabravieja de lenguaje coloquial, como estableci-miento, y del jurídico, como norma, quehabía venido cobrando durante el sigloXVIII sentido nuevo, el constitucional quedesde entonces se califica. La invoca Jove-llanos, pero entendiéndola existente y nece-sitada tan sólo de vigorización y, si acaso, desaneamiento. Era la vía por la que pensabaque podría llegarse a un constitucionalismocon riesgos menores, tanto procedimenta-les como finales, de arbitrismo y de arbitra-riedad. Tal es el entendimiento entoncespredominante en el sector de signo másconstitucional. El término de Constitucióncon acepción de una especie de normacaracterizada como fundamental por prin-cipios de libertad se hace entonces bastan-te común, mas con una diversidad relevan-te de modulaciones. Sirve tanto para defen-der lo constituido como promover lo cons-tituible. Experimentándose y previniéndo-se equívocos, también se acusan escrúpulosen la utilización franca de la palabra10.

El uso entre precavido y diversificado deltérmino de Constitución entrañaba tantounas competencias muy distintas de lasposibles Cortes, para reformar o para consti-tuir, como una forma bien dispar de plan-tearlas, ya por estados tradicionales denobleza, clero y corporaciones, ya de nuevaplanta y para asamblea unitaria medianteelecciones más generales. La Junta Centralacordó lo primero, la reforma por cámarasestamental y corporativa, y en su interiormismo se fue gestando lo segundo. En sumismo seno se fueron haciendo los prepa-rativos para la innovación constitucional porasamblea nacional.

El 22 de mayo de 1809 la Junta Centralacuerda iniciar los trámites para proceder a

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la convocatoria, todavía sólo esto: «Que serestablezca la representación legal y conoci-da de la Monarquía en sus antiguas Cortes»,sin que se vea modo inmediato de proceder-se. Con dichas miras, la misma Junta Centralinstituye en su seno una Comisión de Cortes,la cual a su vez, «con el objeto de que exa-mine y le exponga las reformas que juzguenecesarias» a la luz de «las leyes constitu-cionales de España», establece la susodichaJunta de Legislación. Sus sesiones se desa-rrollan entre principios de octubre de dichoaño, 1809, y mediados de enero del siguien-te, 1810. Ahí se adopta discretamente la deci-sión constituyente citada y por ahí, en Sevi-lla y con participación de miembros de dichaJunta, parece que se prepara solapadamen-te un texto constitucional que pudiera pre-sentarse ya formado a las Cortes11.

El propio acuerdo referido de la Junta deLegislación, el de 5 de noviembre de 1809,hace la previsión de prepararse por ellamisma «el proyecto de Constitución», delo que más públicamente no se supo ni hoyse sabe. A través todavía de serias vicisitu-des en las que aquí no vamos a entretener-nos, acabarán imponiéndose esos plantea-mientos. La Junta de Legislación, como sub-sidiaria de otra, la Central, sin autoridad nijurisdicción, no tiene legitimidad ni capaci-dad para sus decisiones e iniciativas, peroparece que se las toma. Las Cortes, aunqueconvocadas para reforma por estamentos ycorporaciones, van preparándose y acabanconstituyéndose conforme a dichas otrasprevisiones de un carácter más constitu-yente.

En su Comisión de Constitución, la de lasCortes que acabarán celebrando sus sesio-nes en Cádiz, la que ya podrá asumir for-malmente el cometido de preparar el pro-yecto constitucional, harán aparición, con

armas y bagaje, hasta tres miembros de laJunta de Legislación subsidiaria de la JuntaCentral. Uno de ellos, Antonio Ranz Roma-nillos, es quien transmitiría el texto prepa-rado en Sevilla. No sería diputado, pero estono fue óbice para que se le integrara con voze incluso voto en dicha Comisión de Cons-titución de las Cortes. Su carrera constitu-yente venía de antes. Había comenzado en1808 participando en la elaboración de laConstitución bonapartista, la de Bayona.Otro miembro de la Junta de Legislacióntambién significado, Agustín Argüelles, serádiputado en las Cortes por Asturias e impul-sor resuelto del proyecto constitucional enellas, en comisión como en pleno. A aque-lla Junta de Legislación, no se sabe si por lap-so o con malicia, Jovellanos, quien prontocae en desgracia, se defiende a contraco-rriente y fallece, la llamaría Junta de Consti-tución y Legislación, anteponiendo el encar-go al nombre. Se negaría a aceptar Jovella-nos la juridicidad de las Cortes de Cádiz.Años más tarde, Argüelles, quien seguiríasustancialmente defendiéndolas, dirá sinmayor matiz ni reserva que la misma tuvo elcometido del proyecto de Constitución. Jurí-dicamente, ni había sido lo uno ni hizo lootro, ni Comisión de Constitución ni Comisiónde Legislación autorizada para formular elproyecto. Mas lo fue todo ello y lo hizo así dehecho12.

Jovellanos también dejaría escrito quealgunas Juntas provinciales como la deSevilla aspiraban a «una especie de consti-tución federal» cuando así resulta que dichaotra, la de Legislación, estaba ya decidiendoy hasta probablemente redactando una Con-stitución muy distinta13. Existía la base y laposibilidad de planteamientos constitucio-nales tan diversos y no se adoptaba conpublicidad el que vendría a querer estable-

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cerse, el menos federal del cese de todos losfueros particulares de Provincias y Reynos. Nose tome un proceso como ineluctable.Reténgase que una alternativa federal se tie-ne presente, en pro o a la contra, desde unarranque14.

No será la que tengan las Cortes a la vista.Su primera sesión notoriamente se celebrael 24 de septiembre de 1810 en la Isla deLeón, luego San Fernando, junto a Cádiz. Alas once de la noche se formalizan sus pri-meros acuerdos. El primerísimo será éste:

Los diputados que componen este Congreso, yque representan la Nación española, se declaranlegítimamente constituidos en Cortes generales yextraordinarias, y que reside en ellas la soberaníanacional.

Sigue el planteamiento de una distinciónde poderes, el poder legislativo, el executivo yel judiciario, asignándose éste a los Tribuna-les establecidos, confiándose el segundo ala Regencia transitoria, que ha sucedido a laJunta Central antes de la reunión de Cortes,y reservándose éstas el primero, el poderlegislativo en toda su extensión. No han sidolos términos de la convocatoria, como tam-poco serán los de la Constitución, peroresultan así los de partida para la reunión15.

De tal modo, la Nación española se pre-sume existente y se declara representada,como sujeto constituyente de unidad políti-ca, en Cortes generales y extraordinarias, locual se hace entre Sevilla y Cádiz sin mayordebate abierto que pudiera clarificar enton-ces e iluminar ahora. Nunca se reconoce enpúblico particularmente la base de los tra-bajos y las decisiones de la Junta de Legis-lación. Las actas y noticias de sesionespúblicas o también reservadas de comisio-nes y del pleno de las mismas Cortes no sonmucho más suficientes o ni siquiera muy

fidedignas. Constituyéndose así Españacomo Nación políticamente representada,porque ayer quisieran eludirse los proble-mas de fondo que fueran a tal efecto los jurí-dicos, no van a seguir ignorándose hoy16.

3. Representación simple o compuesta

La representación se ha planteado inicial-mente mediante estamentos y corporacio-nes, lo cual implicaba el problema de cuá-les y cómo. Jamás habían existido unas Cor-tes de todos los dominios que comprende laMonarquía Española, lo que nunca olvide-mos, a los mismos efectos jurídicos de larepresentación política, que entonces seextiende hasta archipiélagos asiáticospasándose por el continente americano conpoblación no sólo de origen europeo, sinotambién la colonizada y todo el grueso queentonces escapaba o resistía al colonialis-mo17.

Lo que más se había acercado a unarepresentación común no era mucho, puesse trataba de la práctica en la metrópolisdurante el siglo XVIII de unas Cortes de Espa-ña. Tras la abolición de las Cortes respecti-vas de Aragón, Valencia y Cataluña a princi-pios de la centuria, se había tratado de lacontinuidad de unas Cortes realmente deCastilla, compuestas de estamento tan sólociudadano, esto es, mediante representa-ción de corporaciones locales o territoriales,y extendidas ahora dichas mismas Cortes aciudades capitales de tales otros territorios,Cataluña, Aragón y Valencia. Subsistían enNavarra Cortes de estados, esto es, de clero,de nobleza y de ciudades18. Existían ademáscon autoridad análoga Juntas de corpora-ciones locales en algunos otros territorios

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septentrionales de la Península, como emi-nentemente en los vascos, en Vizcaya, Gui-púzcoa y Álava. Eran territorios que ademáscontaban con Diputaciones de las Cortes,caso de Navarra, o de las Juntas, caso vasco,para funciones más estables de gobiernointerior así bastante autónomo, es decir, dedeterminación sustancialmente propia. Y loeran que, sobre dicha base, podían figurar-se a estas alturas la existencia de una Consti-tución privativa19. Con tales mimbres, entreestos materiales que no eran de derribo, laJunta Central afrontó el reto de fraguar unarepresentación nacional en Cortes Generales,un tal parlamento.

El acuerdo indicado de la Junta Centralen 22 de mayo de 1809 sobre formación dela Comisión de Cortes para convocatoria delas mismas se extiende a disponer que

la Junta consultará a los Consejos, Juntas supe-riores de las provincias, Tribunales, Ayunta-mientos, Cabildos, Obispos y Universidades, yoirá a los sabios y personas ilustradas

con el objetivo último dicho de la representa-ción legal y conocida de la Monarquía en susantiguas Cortes. Se dicen antiguas porque nosirven las actuales, las referidas del sigloXVIII, y se procede a la encuesta porque lainstitución no resulta así tan conocida. Antetodo se pregunta sobre los «medios de ase-gurar la observancia de las leyes fundamen-tales del Reino». A tales efectos de averi-guación sobre leyes fundamentales por morde su cumplimiento, se plantea por la propiaComisión de Cortes una investigación histó-rica en toda regla de las prácticas parlamen-tarias de los diversos territorios en orden aextraerse una matriz común. La consulta másgeneral aportó bastantes materiales, peroescasa o ninguna ilustración a unos propó-sitos que pudieran hacerse operativos20.

Jovellanos busca quien pudiera encar-garse de la investigación histórica a dichosmismos efectos de operatividad actual. Elmejor conocedor entonces de la documen-tación pretérita del caso, en lo que toca a losterritorios de León y Castilla, e individuoademás de posición bastante constitucional,bien que de irregular formación jurídica ydeficiente información comparada,Francis-co Martínez Marina, a quien primero sedirige Jovellanos, no se muestra dispuesto.Por su cuenta y riesgo, hará una Teoría de lasCortes más bien crítica tanto con la posturaque representa el mismo Jovellanos, porestamental, como respecto al planteamien-to que hará suyo la Constitución de Cádiz,por parlamentario21.

Acepta el encargo Antonio Capmany,buen conocedor de la documentación deCataluña y persona también de cierta posi-ción constitucional y de intereses en lamateria no improvisados22. Como en el casode la consulta, lo que se cosechará es fraca-so, pero no merece por esto desprecio laoperación. Recuérdese que unos mismosindividuos, Jovellanos y Martínez Marina enconcreto, venían impulsando con éxito uncambio de cultura jurídica en torno a la pro-piedad mediante recurso clave a la histo-ria23. En circunstancias ahora de urgencia,no conseguirían lo propio respecto a la cul-tura política de la representación.

La operación historiográfica se tomabarealmente en serio. La Comisión de Cortesde la Junta Central puso empeño. Recabamateriales históricos interesantes a la insti-tución y práctica de Cortes de los diversosterritorios. El comisionado Capmany losestudia efectivamente para dilucidar elmodo de convocarse, constituirse y desem-peñarse un Congreso nacional o Cortes gene-rales de la Nación. En cuanto a su estableci-

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miento y régimen, encuentra mejoresorientaciones pretéritas fuera de los terri-torios de Castilla, poniendo en este puntoespecial énfasis:

Pues qué, ¿la corona de Aragón no tuvo por espa-cio de cinco siglos fueros, constituciones, liber-tades y franquezas invulnerables? ¿Aragón,Valencia, Cataluña y Navarra no son de España yno lo eran antes? ¿Han sido extrangeras las Pro-vincias Vascongadas y el Principado de Asturias,gobernados por sus fueros y juntas concejiles?”24.

Obsérvese de paso cómo compareceAsturias en una posición que, al contrariode los otros casos, no suele hoy reconocer-se por parte de la historiografía25.

El problema de fondo seguía siendo elde una composición conjunta, el de larepresentación actual de la Nación y no pre-térita de algún cuerpo menos integrado. Setenían, como hoy se tienen, escritos sobreprácticas más o menos históricas de uno uotro territorio que pueden aportar sugeren-cias, pero no entonces directrices, para unainstitución común26. El montaje que serequería, aunque otros ya hayamos detecta-do que cupieran, era el del escenario apun-tado por la Junta de Legislación, el de unasúnicas Cortes para una Constitución única,algo que no suministraba la historia pormucho que se la forzara. El propio Capmanylo reconoce sin ambages: «Nunca repre-sentaban la Nación» unas institucioneshistóricas o ni siquiera sus elementos cor-porativos de ciudades. Los apuntes fallidosde este intento de investigación de historiapara la puesta en práctica de derecho se con-servan y recuerdan hoy bajo el título poste-rior de Práctica y estilo de celebrar Cortes27.

Entre otros intentos de similar corte yen el círculo jovellanista, hubo uno másexpedito y práctico salido de pluma inglesa

y venido a vía muerta, como todo un resto28.En tamaño fracaso, no olvidemos que sólo sehan tomado en consideración territorioseuropeos. El contingente americano y asiá-tico ni siquiera entraba en el intento defiguración de Nación. No es de extrañar queentrase mal en el de representación ya insti-tucional.

Son testimonios de una imposibilidadno quizá absoluta, pues el mismo casoentonces socorrido de Inglaterra, el de uncorresponsal de Jovellanos, parecía probarotra cosa, pero lo era al menos de extremadificultad práctica dada la adversidad de laexperiencia histórica propia, entre las Cor-tes deficientes de Castilla y las difuntas deAragón y Cataluña con otros organismosvivos de por medio, a un propósito míni-mamente constitucional. Jovellanos tam-bién intentó recurrir como modelo de for-ma más directa al caso inglés, no sólo reca-bando informaciones y propuestas pocoaprovechables como la referida, sino tam-bién planteando sin mayor éxito la traduc-ción de la obra que entonces ofrecía la expo-sición más completa del constitucionalismobritánico, los Commentaries de WilliamBlackstone29. Se tradujo en cambio y estu-vo a disposición desde antes de publicarseotra obra bastante informada, pero de esca-sa utilidad operativa para accederse a Cor-tes en España, la Constitution de Jean LouisDe Lolme30. Jovellanos parece haber olvi-dado que ya había asistido, no hace tanto, auna operación importadora de este géneroconstitucional31.

Tales Comentarios, los de Blackstone, ytal Constitución, la de De Lolme, eran obrasentonces plenamente actuales, de pasado elecuador del siglo XVIII, pero de actualidadrelativa para el caso de la coyuntura espa-ñola, salvo por contrarrestarse el predica-

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mento creciente del constitucionalismofrancés revolucionario, no del napoleónico,entre quienes abogaban por Cortes. Puededecirse que pugnaban más unas posicionespolíticas liberales que unos planteamientosjurídicos constitucionales. Y no acababa deproducirse la confluencia precisa a losmismos efectos constituyentes. Un modeloinglés podía iluminar horizonte, pero noseñalar camino. Uno francés facilitaba esto,el procedimiento, por revolucionario, difi-cultando lo otro, el objetivo, por constitu-cional. No contaba además este otro plan-teamiento, el de procedencia francesa, conobras constitucionales de entidad equiva-lente a las de matriz inglesa. Ofrecía enton-ces Francia menos un modelo que un modo,el modo además que, por franqueza consti-tuyente, mayor problema de legitimidadcreaba y superior incertidumbre de viabili-dad introducía. Pero una alternativa factibletampoco es que brindaran ni Blackstone niDe Lolme ni unos corresponsales inglesesde Jovellanos, estos agentes entonces de unservicio de inteligencia constitucional32.

La frustración no era sólo personal, sinotambién y ante todo institucional. Por estoaquí nos interesa. La consulta general plan-teaba qué podría hacerse; la Comisión, cómopodría impulsar; las agencias, de qué modocabía encauzar. El fracaso, si ya se anuncia,es más que doble. No lo resulta tan sólo deuna persona, de Jovellanos, sino de todo unprimer intento de planteamiento constitu-cional en España. Mas el revés acumuladosobre el qué y el cómo no arredra. En unascircunstancias que favorecían más la preci-pitación que la ponderación del modo, se irádecidiendo una cosa y poniendo en marchaotra. Sin soltarse nunca las riendas ni tam-poco del todo las amarras, sin llegar a ceder-se hasta la reunión efectiva de las Cortes, se

acabará de hecho imponiendo el programamás constituyente entre los que estabanentonces en liza. Con algún que otro amagoy alguna que otra crisis, con avatares cuyospormenores aquí podemos ahorrarnos, seproduce y realiza la misma convocatoria deCortes, una convocatoria que, sin partir de lapremisa constituyente concluirá en el resul-tado constitucional con problemas de tractojurídico y autoridad normativa. La propiaentrada en vigor de la Constitución podrá ensu momento acusarlo33.

4. Solución de Cortes como voz de Nación

La convocatoria de Cortes se cursa en ene-ro de 1810 por parte de la Junta Central. Fuesu última determinación importante. Anteuna trayectoria de la guerra que recluye a laresistencia en Cádiz y sus aledaños, se pro-duce su caída sucediéndole una Regencia,un Supremo Consejo de Regencia de España eIndias sin dependencia como tal en princi-pio de las Juntas provinciales, con autori-dad propia causada por la representaciónprovisional de la Monarquía. La Regenciaasume la convocatoria aun sin desplegarmucha diligencia. Ha sido entonces cuandoJovellanos sale de escena. Siguen en la tras-tienda quienes pugnan por Cortes másabiertamente constituyentes. También per-manecen, con su propio entendimiento dela representación, las Juntas. Desde princi-pios de 1809 se les está intentando reducirsin éxito a unas funciones militares subor-dinadas bajo el apelativo de Juntas Provin-ciales de Observación y Defensa. Mas su pre-sencia y peso como Juntas representativasde provincias sigue haciéndose notar34.

Los términos de la convocatoria comien-

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zan a concretarse desde el año nuevo de1810. No son los de unas elecciones genera-les, pero algo se acercan sobre todo en com-paración con prácticas tradicionales derepresentación corporativa y presenciaestamental. Con las mismas se guarda toda-vía una continuidad que queda limitada a loprimero, atribuyéndose un diputado a cadaciudad que había tenido voto en las últimasCortes, de 1789. Se mantenía también laprevisión de convocatorias distintas al cle-ro y la nobleza, pero sencillamente no secursaron, cancelándose así de discretamen-te su presencia como estamentos o en cáma-ra separada. Nunca se ha aclarado, aunqueya entonces se investigara, cómo se traspa-pelaron estas concretas convocatorias, lasestamentales.

Se atiende también una línea de conti-nuidad con las instituciones improvisadaspor la emergencia dinástica y la circunstan-cia bélica. Las Juntas provinciales tambiéneligen un diputado cada una. Y a ellas vienea encomendárseles la dirección de las elec-ciones ya más generales en sus respectivosdistritos. Son de diverso grado a partir deasambleas parroquiales de vecinos paraelección final de un diputado por cada50.000 almas, por individuos, o fracción de25.000 con arreglo al censo último, de 1797,con un reajuste a favor de Canarias. Así secalculan en la Península algo más de 200diputados que oscilan entre 23 por Galicia yuno por Álava, a los que hay que sumar demomento, pues aún faltan los territoriosultramarinos, una treintena por las Juntas yuna cuarentena por las ciudades de voto enCortes.

La convocatoria se extiende a América yFilipinas encomendándose directamente ladesignación de diputados a los ayuntamien-tos de ciudades, a uno por capital de distri-

to amplio, mediante elección de ternas yselección por sorteo. Sin asignación así porpoblación, se calcula entonces esta presen-cia en unos ochenta diputados, pero cifrán-dose en menos de la mitad, en sólo treinta,a unos efectos provisionales de suplencias.Este de suplencia es el recurso que se arbi-tra en tanto que no se produce la comunica-ción, se desarrolla el procedimiento y acon-tece finalmente el arribo de los diputadosultramarinos. Los naturales de los distritossin elecciones cumplidas que se encontra-ran a mano en Cádiz elegirán unos suplen-tes para el desempeño provisional, peropleno, de la representación.

Aparte otras previsiones para territoriosmilitarmente ocupados, dicho arbitrio desuplencia también a su vez se extiende a loscasos metropolitanos en los que la guerra nopermitiese la celebración del elecciones,refundiéndose entonces en un solo repre-sentante los escaños por los diversos con-ceptos de Junta, ciudad de voto en Cortes yProvincia. Los supuestos de provisionalidaden diverso grado y tiempo eran mayorita-rios. Afectaban de entrada a veintitrés dis-tritos de la treintena peninsular. Por esto nose supo entonces ni cabe hoy determinar elnúmero exacto de escaños habilitados. Contendencia así retráctil, se situaban por enci-ma de los trescientos.

De una u otra forma, las diputaciones omandatos proceden o se entienden de loscorrespondientes territorios. Todos losdiputados son estrictamente tales por partede sus respectivos comitentes. Son manda-tarios. Para poder actuar, han de recibirpoderes, pero unos poderes que la mismaconvocatoria especifica. No pueden condi-cionarse ni restringirse:

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Otorgan poderes ilimitados a todos juntos, y a cadauno de por sí, para cumplir y desempeñar lasaugustas funciones de su nombramiento, y paraque con los demás Diputados de Cortes puedanacordar y resolver cuanto se proponga en las Cor-tes, así en razón de los puntos indicados en la Realcarta convocatoria, como en otros cualesquiera,con plena, franca, libre y general facultad.

No se entendía que la elección diputasey habilitase por sí misma, pues se precisa-ban poderes. Tampoco se suponía que estemandato, por su alcance, pudiera desvin-cular al individuo representante conrespecto al cuerpo representado, provin-cia, ciudad o junta por sí o por la represen-tación a su vez, en el caso de suplencias, de

sus naturales desplazados. Se recibían enefecto mandatos, unos poderes, y conformea ellos se actuaba, bien que hubieran dedeterminarse de tal forma abierta. Mas asíhabía diputación, habilitación y vincula-ción, todo ello, también esto tercero, unvínculo establecido y mantenido con el ter-ritorio o la comunidad que se representa-ba y comprometía.

«El Rey, en su nombre la Suprema Jun-ta gubernativa de España e Indias» o, puesa finales de enero de 1810 se interpone lasustitución de Junta por Regencia, «el Reynuestro Señor Don Fernando VII, y en sunombre el Consejo de Regencia de Españae Indias», convocan «para restablecer y

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El fusilamiento de Torrijos

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mejorar la Constitución fundamental de misReinos», para lograrse así «una Constitu-ción que sea digna de la Nación española»por parte de «las Cortes generales de laNación» misma. Éste es el lenguaje de laJunta Central, heredado por la Regencia,cuyos matices ya no se nos escaparán. No esuna convocatoria constituyente. Se hace ennombre del rey y así se entiende que por elrey mismo, no dejando de registrarse que lodejó dispuesto al inicio de toda esta crisis.

Y se procede ahora a la convocatoria conel objetivo expreso de reavivar una Consti-tución que se entiende existente y en la quereside entonces la incógnita. Ante todo, paramejorarla, habría de recuperarse. ¿Cuálera? ¿Dónde estaba? Ya sabemos que losintentos de una tal especie de restableci-miento había fracasado plenamente. Conese equívoco de fondo entre otros embara-zos que van siendo sorteados, prosigue unprocedimiento que resultará constituyentesin serlo de entrada e incluso sin confesar-se nunca francamente. Mas habrá Consti-tución y por obra de unas Cortes. Se estabaproduciendo el primer intento históricopropiamente dicho de constituirse por símisma toda una Nación, la española.

El Consejo Real, que se repone por laRegencia a este propósito, pretendió hacer-se cargo de la comprobación de credencia-les, constitución de la asamblea y presiden-cia de sus sesiones, valiéndose para todo ellode prácticas anteriores de Cortes, pero lostérminos de la convocatoria fueron tambiénconcretándose en una línea de jurisdiccióny autogobierno parlamentarios. Mediadoseptiembre de 1810, concurriendo ya dipu-tados en Cádiz, el propio Consejo de Regen-cia, «atendiendo a que estas Cortes sonextraordinarias», dispone que los seis pri-meros acreditados

examinen y aprueben por sí y en virtud de dele-gación expresa que hace Su Magestad, los poderes detodos los Procuradores de las provincias, ciudades,Juntas y demás Corporaciones de estos Reynos y los deIndias.

Su Magestad es la misma Regencia; Pro-curadores, los diputados; Corporaciones, lasrepresentadas. Asumiendo la jurisdicciónelectoral definitivamente frente a las pre-tensiones de otras instituciones de rangoregio, las Cortes mismas formarán unaComisión de Poderes. No es el único signo,como enseguida veremos, de que van asuperponerse a ellas, las Cortes a las insti-tuciones de autoridad monárquica y en par-ticular a Regencia y a Consejo.

La misma Regencia excusa a estas altu-ras las convocatorias estamentales quehubieran supuesto el contrapeso de unasegunda cámara en el mismo seno de lasCortes:

Ha resuelto que, no obstante lo decretado por laJunta Central sobre la convocación de los brazosde Nobleza y Clero a las próximas Cortes, delibe-ración que necesariamente había de causar con-siderables dilaciones, quando por otra parte sehallan personas de uno y otro estado entre losProcuradores nombrados en las Provincias, quesin necesidad de especial convocatoria de losEstados, se haga la instalación de las Cortes, sinperjuicio de los derechos y prerogativas de Noble-za y Clero.

Las Cortes se inauguran a continuacióncomo ya se ha recordado, el día 24 de sep-tiembre de 1810, estando presentes apenasla tercera parte de los por encima de trescentenares de diputados previstos, más omenos esto como también ya nos consta, ycerca de la mitad además en calidad desuplentes. Los propietarios, según se califi-caba a los elegidos efectivamente por los

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distritos, alcanzaban de entrada a una esca-sa mayoría. Nada de esto es óbice para queunas Cortes se proclamen de inmediato,como igualmente ya hemos visto, represen-tantes de la Nación española, así deposita-rias de la soberanía nacional y titulares de unpoder legislativo en toda su extensión. Y paraque procedan a hacer la Constitución. Lamisma será suscrita por algo menos dedoscientos diputados, ya todos actuandocomo titulares o al menos sin especificarselas suplencias, aunque alguna todavía que-dara, lejos en todo caso de los más de tres-cientos por sufragio que inicialmente sepensaran35.

Pero nada de esto les amilana ni arredrao, al contrario, todo ello más bien les incitay mueve a afirmarse y apoderarse. A conti-nuación de la proclamación primera comorepresentantes de Nación soberana, al díasiguiente, se atribuyen estas Cortes el títu-lo de Magestad, reservando el inmediata-mente inferior de Alteza para la Regencia yotras instituciones representativas delmonarca entonces, por virtud de un derechoaún vigente36. Parecía confiarse todavía másen esta autoridad de tracto tradicional queen la que pudiera conferir la Nación mismamediante pronunciamiento electoral más omenos efectivo. Esto comenzaba por fallardadas no sólo las circunstancias bélicas, sinotambién la dimensión jurídica de un diseñopolítico. He aquí entonces la Nación españo-la no sólo representada, sino tambiénentronizada.

Dados los términos de la convocatoria ylas deficiencias de las elecciones, ambascosas, ¿tenían estas Cortes autoridad o legi-timidad para comenzar a hacer lo que hicie-ron en nombre y representación de laNación? ¿Contaban con tal autorización olegitimación, con tamaña cualificación?

Jovellanos lo negaba. Alguna razón ha deconcedérsele. De momento, conforme vanproduciéndose los acontecimientos en elámbito que importa al respecto, el del dere-cho, lo que hay no es exactamente unaNación que elige unas Cortes a fin de con-stituirse a sí misma, sino unas Cortes quepostulan una Nación a fin de constituirla,con el fin de apoderarse ellas mismas parahacerla institucionalmente existir. Frente atodas las ilusiones de entonces y las que aúnse abrigan por la historiografía37, la Naciónsencillamente no existía y había que produ-cirla.

5. Complejo de Diputaciones como voces deCuerpos

Las Cortes, el conjunto de los Diputados quecomponen este Congreso, proclaman que repre-sentan la Nación española, con lo que cadadiputado participa así en el ejercicio de unasoberanía nacional o tiene voto para la com-posición de la voz y la determinación de lavoluntad de esta Nación. Nación es su Congre-so y a mayor razón el de estas Cortes Generalesy Extraordinarias. He aquí una clave de iden-tidad nacional encarnada en una institucióny además en solitario que ha venido rondan-do durante el procedimiento de convocatoriay que ahora se pone inequívocamente demanifiesto desde la primera sesión de lasCortes. En su seno, intentará hacerse espe-cialmente valer frente a los diputados quereivindiquen una voz propia y distinta enrepresentación de la provincia o cuerpo quele ha elegido. Mas el éxito será siempreentonces relativo para una parte como para laotra, para la voz de la Nación en Cortes o parala voz de cada territorio mediante sus dipu-

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tados. La idea de la Constitución en singular nocancelaba tan fácilmente una realidad comola de los fueros en plural.

He ahí una dinámica que hacía máscompleja la representación nacional sinimposibilitarla necesariamente ni muchomenos. Su ejercicio no habría entonces deagotarse en las deliberaciones y acuerdosde un congreso, pues tendría que partici-parse a otros cuerpos o instituciones. Lasmismas Cortes lucharon contra esto vana-mente. Conforme en su seno los suplentesvayan siendo sustituidos por los llamadospropietarios, podrá acentuarse tal dinámi-ca de vinculación entre representante yrepresentados. Los poderes ilimitadosexpresamente requeridos no eran óbicepara el acompañamiento de instruccionespor parte de los cuerpos apoderantes y parala práctica de consultas entre los represen-tantes y ellos, generalmente unas JuntasProvinciales como ya sabemos.

El mismo término de Provincia asumíaasí un valor activo de representación pro-pia y no pasivo de dependencia territorial.Gracias a unas Juntas Superiores, las provin-ciales, unos territorios que habían perdidoanteriormente entidad política y autono-mía jurídica han vuelto a poder entender-se y actuar como Cuerpos de Provincia, comocorporaciones institucionalizadas conrepresentación propia de la correspon-diente comunidad. Todavía no se habíaproducido la división provincial que hoyexiste38. Así tenemos entonces por ejem-plo unas Juntas de Cataluña, unas de Ara-gón o unas de Valencia identificándose conlos respectivos territorios o comunidades yeligiendo en su nombre diputación en Cor-tes. Entre Cortes y Cuerpos, la dinámica devinculación era lógica y sería efectiva39.

Existían también territorios o comuni-

dades que no necesitaron de dicha clase deJuntas para reconstituirse y actuar. Habíanmantenido entidad política y podían asícontar con Juntas más estables y autoriza-das, unas Juntas concejiles‚ esto es intermu-nicipales, en la expresión de Capmany queconocemos. Era esencialmente, aunquetampoco sólo, el caso vasco. Vizcaya, Gui-púzcoa y Alava constituían sendos Cuerposde Provincia con sus Juntas y Diputacionesparticulares40. Es un supuesto que no setiene en cuenta en el procedimiento deconvocatoria a Cortes, encerrando unamayor potencialidad de conflicto con la cla-ve sobrevenida y superpuesta de la repre-sentación nacional. Como el asunto seplanteó de forma explícita y resulta muysignificativo, vamos a recordarlo sumaria-mente.

Álava figura entre los territorios repre-sentados inicialmente por un diputadosuplente, pero en Cádiz se presenta unrepresentante de las Juntas alavesas ante laCorte, ante la Monarquía, alegando su dere-cho a representar también en Cortes, en elCongreso, conforme así a los fueros de dichaProvincia. Acreditada esta representación,no sería precisa la de otras Juntas y aúnmenos la más improvisada por los pocosalaveses presentes en Cádiz. Como a las Cor-tes, según ya sabemos, corresponde la juris-dicción electoral, ante ellas se formaliza unrecurso, provocándose el rechazo más tajan-te por parte de la Comisión de Poderes:

Ninguno de los diputados que tienen el honor decomponer tan respetable cuerpo ha podido seradmitido sin presentar autorización reglada a lafórmula prescrita generalmente, y no habiéndo-se observado ésta ni nada de lo sustancial de laelección, importa poco alegar los fueros particu-lares de la provincia de Álava.

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Es la respuesta de las Cortes, remachan-do: «La ley es tan general para toda la Nacióny tan uniforme sus conductas y deseos»41. Elcaso particular es bien expresivo de la resis-tencia de las Cortes a aceptar la dinámica máscompleja de la composición territorial de unarepresentación nacional que unas Juntasestablecidas hacen posible y otras transitoriaspotencian. La Nación se quería una con vozsimple, pero la tenía compleja.

Pese al propio empeño de las Cortes, elfenómeno de las Juntas provinciales no fueefímero a dichos mismos efectos represen-tativos que ahora estamos considerando. Ladinámica de la representación particularconcurriendo distintamente, con voz pro-pia, en una representación nacional va aadquirir carta de naturaleza por virtud de lamisma Constitución de Cádiz, ya que dotade forma general a los territorios con unasJuntas y unas Diputaciones, las cuales, sobretodo las segundas, vendrán a ser sucesorasde las Juntas Superiores o de las de Observacióny Defensa por ocupar su lugar en lo que tocaa la presencia del territorio de cara a larepresentación en Cortes. Conforme a laConstitución, las Juntas elegirán a una y otradiputación, la nacional y la provincial. LaDiputación de la provincia habría de serorganismo estable que se entiende repre-sentante de los intereses territoriales con laprolongación al mismo efecto de los dipu-tados provinciales en Cortes42. No es raroque les transmita instrucciones y que evacueconsulta de los mismos. Diputados se llamantanto unos como otros, tanto los nacionalescomo los provinciales. Lo son elegidos porlas mismas Juntas de la provincia. Todo ellomantiene la composición más compleja dela representación nacional.

Pues puede que tengan una validez másgeneral, atendamos las explicaciones de la

Diputación de Cataluña ante la puesta enpráctica de la Constitución:

Las voces de apoderado, comisionado, diputado, yacaso otras de igual significación, son sinónimas;por cada una de ellas se quiere significar una per-sona que tiene la representación de aquella cuiavoz lleva en los negocios que le tiene confiados.Así pues la frase Diputación Provincial significa unaProvincia representada en la unión de sus Dipu-tados, y sobre estos principios cree ésta de Cata-luña ser representante de la provincia.

Según sigue la misma explicando, noestorba para todo esto la existencia de losdiputados en Cortes: «No repugnan dos omás representaciones de una provincia a lavez, con tal que existan en diferentes para-ges». Así, los mismos «Diputados en Cor-tes por esta Provincia miran a esta Diputa-ción provincial como una representación deel Principado», guardando la vinculacióndicha43. Son planteamientos consiguientes ala Constitución, situados bajo su vigencia.Reflejan posiciones ya presentes y pujantesdurante el propio proceso que conduce aCádiz. Hemos visto a Jovellanos decir cómohabía Juntas que anhelaban una constituciónfederal, no otra cosa en sustancia que lo queahí manifiesta la Diputación de Cataluña. Aeste efecto, el caso estadounidense podíaofrecer desde luego un modelo que ya sehacía por el escenario americano de la pro-pia Monarquía44, pero por el propio lengua-je de la Diputación de Cataluña puede apre-ciarse que estaba menos presente por lapenínsula.

Las explicaciones catalanas eran opor-tunas porque la Constitución misma real-mente posibilitaría, aunque entre impor-tantes limitaciones, dicha concepción ypráctica sustancialmente federales median-te Juntas y Diputaciones Distaría bastantede establecerla con claridad y garantizarla

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con eficacia, pero no se merece la fama cen-tralista que empezó a cosecharse por Amé-rica y luego se ha enquistado en la historio-grafía más o menos constitucional y en elconstitucionalismo más o menos retrospec-tivo45. El principal impedimento para elpropio federalismo radicaba en el susodichoprincipio de Nación una con voz simple queintentará consagrarse por la misma Consti-tución. Aunque no sea ahora el momento deentrar en la problemática sustantiva de esteprimer constitucionalismo, dejemos almenos apuntado que todo es a su respectopuro problema, comenzándose por el pro-pio texto46.

6. Comisión y Constitución, Revolución yNación

La Comisión de Constitución está nombra-da antes de fin de año. Al cabo de uno ente-ro, en navidad de 1811, la misma puede darpor completado no sólo el proyecto, sinotambién un Discurso Preliminar justificativoen la línea cada vez más forzada de no per-der el tracto con el tenor no constituyente,sino de reforma, del proceso de convocato-ria, de este título limitativo, junto a la defi-ciencia electoral, de la propia autoridad. Noes por ello tal discurso la mejor entrada parala inteligencia de esta Constitución, peroresulta altamente expresivo47. Existe todoun hilo nunca del todo perdido por evitarseuna solución de continuidad que sería rele-vante porque implicaría pérdida completade legitimidad. No apliquemos a la institu-ción de las Cortes de Cádiz, a su identifica-ción con la Nación y a su labor realmenteconstituyente, una legitimación revolucio-naria que entonces no se dio. Su autoridad

es un problema histórico porque fue un pro-blema jurídico. Las Cortes operaron conconciencia de la precariedad de su legiti-mación constituyente.

Como puede verse por los términos ini-cialmente definidores de la tarea de laComisión de Constitución, se considerabaque la misma, la Constitución, había de cali-ficarse por razón de una materia, la política.Al mismo tiempo y con independencia, seconsidera por las Cortes la posibilidad deformación de otras distintas comisiones«para reformar nuestra legislación» condistinción de sus «diversas partes», la civil,la criminal, la de Hacienda, la de comercioy la de educación48. El proyecto de la Comi-sión de Constitución se referirá a ella mismaen sus remisiones internas como la Consti-tución sin más, pero el pleno de las Cortesreintroducirá el calificativo de política, sóloque ahora por contraposición a otra posibleeclesiástica. Es indicio también de hasta quépunto la misma Constitución puede alcan-zar incluso a un campo imprevisto en aque-llas primeras identificaciones de materiascomo ésta de una iglesia, la católica.

En tal referencia de signo constituyentea la composición del ordenamiento, obsér-vese la ausencia de alguna materia de Admi-nistración o administrativa, aunque yapudiera identificarse, como hemos visto porJovellanos. Es indicio de que opera una cul-tura jurisdiccionalista más todavía que lega-lista ni que ejecutiva49. Y adviértase tam-bién que no se entendía de entrada en elseno de las Cortes que la Constituciónpudiera concebirse como norma que presi-diera e informase el entero orden jurídico,como la norma que tendiere finalmente aincidir incluso de forma neurálgica en unamateria entonces principal y cuya revisiónde entrada no se ha previsto, la eclesiástica.

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Tratándose de política, con esta calificaciónpara el objeto constitucional en la dimen-sión normativa, se entiende en todo casoaquella que produce derecho, la que se haceinstitución para regir el ordenamientomediante la determinación de la Nación ysu representación. Ahí se han identificadomaterias que podrán comparecer de diver-so modo y en distinto grado por títulos cons-titucionales, en partes de la Constitución.Están la civil, la criminal, la de Hacienda, lade comercio y la de educación, no sólo así lapolítica.

Ya desde mediados del mes de agostohabía entrado el pleno en el debate de par-tes del proyecto anticipadas por la Comi-sión. Los acuerdos definitivos de las Cortesvan adoptándose o debiendo hacerse por«mayoría absoluta, esto es, uno más de lamitad» de los presentes, con obligación deasistencia de los diputados. Mas tambiéncabe y se aplica la aprobación por asenti-miento sin votación expresa ni registro depresencias. Y hubo sesiones secretas, notodas ni en todo documentadas50. Al iniciodel debate constitucional en el pleno, cuan-do ya se formalizan decisiones transcen-dentes, la asamblea aún no alcanza a losciento cincuenta miembros, la mitad o másbien menos de los previstos. La expresióncitada es del reglamento que, aplicandodesde un arranque el principio de autono-mía parlamentaria o valiéndose del título deMagestad frente a las instituciones rebajadasal de Alteza, se han dado las Cortes el 24 denoviembre de 1810, cuando todavía no sehabía decidido formalmente la formaciónde la Constitución. No hay en él previsiónalguna de votación más cualificada a tal efec-to constitucional51.

Durante los últimos días de dicho mes,agosto de 1811, el pleno de las Cortes deba-

te y aprueba los pronunciamientos consti-tucionales expresos respecto a la Nación ysu soberanía. El proyecto de la Comisión deConstitución propone atribuirle en conse-cuencia «el derecho de establecer sus leyesfundamentales, y de adoptar la forma degobierno que más le convenga», gobierno enel sentido entonces de Estado, pero las Cor-tes suprimen este último pronunciamien-to, esto es, la atribución más clara de unpoder constituyente. En todo caso, la Naciónse constituye a sí misma. Está haciéndolo.Tal acuerdo representa el desenlace decisi-vo de alcance constituyente con vocación depermanencia.

Lo será con la promulgación de la Cons-titución o intentará serlo mediante el jura-mento de la misma por la Nación o por loscuerpos que la componen52. La decisión deuna asamblea identificada con la represen-tación nacional resulta desde luego crucial,pero no acabará de constituir la última pordefinitiva. No se trata tan sólo de la cuestiónde hecho de que la Constitución no tengaluego una vigencia continua y asegurada,sino del problema de derecho del principioy forma de su autoridad y establecimiento.Un primer proceso constituyente, materialy nunca formalmente tal, presenta sus com-plejidades no sólo coyunturales o circuns-tanciales.

Para la Comisión de Constitución que haultimado el proyecto, el mismo guarda unnexo histórico de derecho presente, un trac-to así jurídico. No puede ser de otro mododada la carencia siempre de un poder pro-piamente constituyente, poder no autoriza-do por las elecciones ni asumido nuncaexplícitamente, aun mediando la sugeren-cia, por parte de las propias Cortes con todala soberanía y representación que se arro-gan, con todo lo Generales y Extraordinarias

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que se predican. A ello ha venido, forzandodesde luego evidencias, pero manteniendoasí también tracto de ordenamiento, evi-tando con todo a ultranza alguna solución decontinuidad, el Discurso Preliminar justifi-catorio del proyecto:

Nada ofrece la Comisión en su proyecto que no sehalle consignado del modo más auténtico ysolemne en los diferentes cuerpos de la legisla-ción española,

en unas leyes fundamentales anteriores y asíse entiende que en vigor. Tal es el motivo,todo un síntoma. A efectos constitucionalesno hay revolución; a los constituyentes nopuede contarse con ello.

Las Cortes Generales y Extraordinarias nohan comenzado asumiendo principios quepudieran legitimar para una iniciativa cons-titucional más franca, aquellos que sólopodían ser los derechos y sus garantías, unaslibertades y sus requerimientos. A partir deun pronunciamiento de este género, podríahaberse generado una acción constituyentemás abierta. No fue así como ya sabemos enel caso. El 24 de septiembre de 1810, pese acontarse con ejemplos notorios, la primeradeterminación de las Cortes no ha sido unadeclaración de derechos, sino otra de otroobjeto, una declaración de poderes. Tras atri-buirse de hecho, pero sin identificarlo, unpoder que resulta constituyente, han hechoacto seguido distinción entre poderes, ellegislativo, el executivo y el judiciario, para larespectiva asignación entre Cortes, Regen-cia y Tribunales. Esta declaración, la depoderes, no se mantendría por la Constitu-ción en dichos términos, sino en otros depotestades bajo supuestos comunes jurisdic-cionales, mientras que la otra, la de derechos,no comparecerá como tal en el texto consti-tucional, bien que los derechos se registra-

rán entre los principios del jurisdiccionalis-mo constitucional vinculante de potestades.En lo que ahora nos importa, no encontra-remos los derechos como título de legiti-mación constituyente.

A lo que en esta fase interesa, nunca esta-mos jurídicamente ante una revolución. Sialguna realmente hay, no es una revoluciónde derechos, revolución constitucionalista, deeste estricto compromiso, sino una revolu-ción de poderes, revolución constitucional, deeste concreto resultado. Es revolución cons-titucional y no revolución constituyente lo queentonces se produce, dicho lo mismo de otraforma. Son cosas diversas, aun compartien-do campo y hasta juego. Una dicotomía delgénero entre revoluciones no es que quepamantenerse hasta el final, pues el mismoestablecimiento de poderes puede y, pararesultar constitucional, debe estar mirandoa la existencia de derechos. Si la conexión nose produjera en algún momento y modo, nohabría llanamente constitucionalismo.

Como arranque, la distinción entre revo-luciones marca distancias, pero no separacategorías. Distingue entre planteamientosconstituyentes más o menos legitimados porprincipios jurídicos propios, los derechos,además, en su caso, que por la representa-ción electoral aquí también precaria. Parala propia suerte que espera a la Constituciónde 1812, conviene retener que las Cortes deCádiz nunca se movieron con un título delegitimidad suficiente para lo que se plan-tearon e hicieron. De ahí deriva su especialnecesidad de una continuidad jurídica. Enestos términos más específicos, pues ha demantenerse un tracto de derecho a todo lolargo de este proceso, revolución no hay enrigor ninguna. A tales efectos nos interesa laconstatación. Nos importa la Constitución,no la revolución.

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Mantengamos siempre nuestros térmi-nos, los constitucionales. Por estas latitu-des del debate constitucional gaditano, lavoz de revolución y sus derivados fue en sumomento más que nada descalificación,improperio de enemigos del constituciona-lismo en mayor medida que estimación deamigos, aunque también se hiciera postre-ramente identificativo más neutro para unosacontecimientos tenidos luego hasta hoyusualmente por revolucionarios sin mayo-res precisiones jurídicas ni constituciona-les. Con todo, unos términos de mucho usoentonces y en la historiografía luego tal ycomo lo sean serviles para los unos, los ene-migos, y liberales para los otros, los amigos,resultan muy confusos y requieren matices.Aun hablándose entonces de liberalismo yademás revolucionario, no resulta exacta-mente lo que entonces ocurre entre Juntas

y Cortes una revolución liberal sin más mati-ces, sin muchas matizaciones realmente53.Comenzaba por no originarse en derechosde libertad, por este punto esencial si deconstitucionalismo se trata. Ante una histo-ria constitucional más centrada en poderesque en libertades, conviene recordar cosastan elementales54.

Hay que mirar desde luego al lenguaje yla semiología toda de la época, o más toda-vía movernos con su guía, pero ciñéndonosa la dimensión constitucional como jurídi-ca con sus propios y suficientes proble-mas55. Así que no nos distraigamos conlogomaquias bizantinas, con discusiones tanatractivas y gustosas para la historiografía,para historiadoras e historiadores profesio-nales o aficionados, también para juristas,como dudosas e impertinentes para el asun-to sustantivo, para el constitucionalismo y

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Ya no hay tiempo (Francisco Goya)

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su genética. De tal intento se trata y no deotro si de lo que tratamos es realmente delparto constitucional, pues no anterior, de laNación española.

De momento tenemos, como premisa dela Constitución para ella misma, la Naciónque esta norma está constituyendo o se pro-pone constituir, la Nación española, unaentidad constituyente aun no constituidatodavía, o ya constituida sólo imaginaria-mente con anterioridad a constituirse en lostérminos institucionales que la hagan defi-nitivamente operativa. Podía comenzar aexistir porque ya existía antes de cobrarvida. La propia imaginación ya era forma deexistencia con cierta operatividad, con lacapacidad partenogenética de concebirse así misma. ¿Qué clase de criatura es esa?¿Cómo se concibe y actúa en fase de gesta-ción o incluso antes de la fecundación? Elproceso lo estamos contemplando, pero¿cómo cabe en dichos términos de Naciónpor Constitución en su doble sentido, quese moviliza por ella, por lograrla, y que exis-te gracias a ella, por procurarla? No esta-mos, aunque lo parezca, ante una petición deprincipio. No es un círculo vicioso, sino unavirtualidad histórica.

La Nación española existía y no existía,ambas cosas, antes de afrontar y alcanzar lospropios términos constitucionales de su

existencia o así su existencia misma. Existíaa ojos vista como una entre varias formas deidentificación, ni la más acendrada ni la demayor significación, de la Monarquía católi-ca y sus dominios, la Monarquía de basehispana y dicho título religioso e imperialmás oficial, el de catolicismo. No existía,salvo la imaginación del caso, como comu-nidad humana jurídica ni política ni tam-poco cultural o ni siquiera lingüística deentidad propia distinta a dicha instituciónde imperio. La Nación constituyente va aconstituirse dando el paso o intentando sal-var la distancia desde unos términos y losotros. Con revolución jurídica o sin ella, eratodo un salto entre la realidad y el deseo.

Va a hacer el intento porque puedehacerlo. El salto no era enteramente sobreel vacío ni mucho menos. No sólo se tratade que la crisis dinástica e institucional dela propia Monarquía lo permitiera. Puedeser un desencadenante, pero no el factordecisivo a los efectos constituyentes de unaNación política. A las alturas en las que esta-mos de principios del siglo XIX, tambiénocurre que tal posibilidad, la constitucio-nal, existe y que lo hace tanto en función dederechos como de poderes, ya conjunta, yatambién distintamente. Hemos visto tansólo cómo empieza a jugarse la partida. Unbalbuceo dice mucho de la criatura.

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1 Juan de la Dehesa introduciendoen 1812 la traducción de la Consti-tución de Inglaterra que, segúnreferiré, tenía dispuesta desde1809. El presente trabajo ha sidopresentado y debatido en semina-rio del grupo de investigaciónHICOES, Historia Cultural e Institu-cional del Constitucionalismo en

España (actual proyecto BJU2000-1378), formado ahora porMarta Lorente, José María Porti-llo, Paz Alonso, Carmen Muñoz deBustillo, Jesús Vallejo, Carlos Ga-rriga, Fernando Martínez, Car-men Serván, María del Mar Tizón,Pablo Gutiérrez Vega, Alba de Pazy quien suscribe, Bartolomé Cla-

vero. Nuestras aportacionespodrán apreciarse por mis refe-rencias.

2 Edición de las actas de esta Juntade Legislación por FranciscoTomás y Valiente en «Anuario deHistoria del Derecho Español»,65, 1995, pp. 103-125, comoapéndice de un trabajo que tiene

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ahora edición italiana: Genesi di uncostituzionalismo euroamericano.Cadice, 1812, traducción de AndreaRomano, Milán 2002.

3 Para una reflexión con copia y crí-tica que aquí, teniéndose en ita-liano, ahorro en su mayor parte,B. Clavero, Cadice come Costituzio-ne. Nota bibliografica, en A. Roma-no (ed.), Costituzione política dellaMonarchia spagnuola tradotta dal-l’originale (1813), Messina 2000(edición rústica, pues la hayencuadernada sin el aparato), pp.LXXVII-LXXXVI, nota que proce-de de Constitución Política de laMonarquía Española promulgada enCádiz a 19 de Marzo de 1812, vol. IIde Estudios, Sevilla 2000, pp. 248-262, la reflexión; 75-248, la expo-sición de aquel sistema constitu-cional.

4 A los efectos constitucionales, yfrente a la idea aún predominan-te de inefectividad normativa deltexto de Bayona, interesa particu-larmente Carmen Muñoz deBustillo, Bayona en Andalucía. ElEstado bonapartista en la Prefecturade Xerez, Madrid 1991.

5 Descontextualizando y sobrevalo-rando desde este inicio, AntonioMoliner, Revolución burguesa ymovimiento juntero en España, Llei-da 1997.

6 Salvo aviso de nota, tanto citas tex-tuales como datos concretosrespecto al proceso que conducedesde las Juntas hasta las Cortesproceden del material, que sigueun fácil orden cronológico aunquede doble entrada, por introduc-ción y por documentación, publi-cado en los tres volúmenes, que noresponden ni a título, por serhistoria, ni a subtítulo, por noextenderse o ni siquiera acercar-se a su presente, de Manuel Fer-nández Martín, Derecho Parlamen-tario Español. Colección de Consti-tuciones, disposiciones de carácterconstitucional, leyes y decretos elec-torales para diputados y senadores, yreglamentos de las Cortes que hanregido en España en el presente siglo,

Madrid 1885-1900 (reprintMadrid 1992). Trabajo en directosobre este acervo y no a través dela historiografía que acostumbra asaquearlo a veces incluso, porsegunda o enésima mano, incons-cientemente.

7 José María Portillo, Revolución deNación. Orígenes de la cultura cons-titucional en España, 1780-1812,Madrid 2000.

8 Para todo esto, documentalmen-te, Salustiano de Dios, Fuentes parael estudio del Consejo Real de Casti-lla, Salamanca 1986, pp. 154-160.

9 El agravamiento vino a finales delos años cincuenta del siglo pasa-do, el XX, porque, entre el régimenanticonstitucional y una historio-grafía confesional, se adoptó elmotivo gaditano en la proyecciónpretérita de construcciones legiti-madorasde la dictadura franquista,topándose la operación con unaposición liberal interna, represen-tada eminentemente en el terrenohistoriográfico por Miguel Artola,Los orígenes de la España contempo-ránea, Madrid 1959. En el primerbando, el del régimen entoncesestablecido, se sitúan el númeromonográfico sobre las Cortes deCádiz de la «Revista de EstudiosPolíticos», 126, 1962, que todavíase sigue inérticamente citandocomo autoridad, y toda una escue-la, la dirigida por Federico Suáreza quien también me referiré aho-ra, cuya obra principal de aporta-ciones documentales tampoco esque se sostenga mucho, dado suapresuramiento de trascripción ydescuido de edición.

10 Clara Álvarez, La influencia britá-nica y la idea de Constitución enJovellanos, en A. Romano (ed.), Ilmodello costituzionale inglese e lasua recezione nell’area mediterráneatra la fine del 700 e la prima metàdell’800, Messina 1998, pp. 507-543; J.M. Portillo, Existía una cons-titución española? El debate sobre elmodelo inglés en España, 1808-1812,en el mismo volumen, Il modellocostituzionale inglese, pp. 545-585;

Santos M. Coronas, La recepción delmodelo constitucional inglés comodefensa de la constitución históricapropia, 1761-1810, en el mismísimovolumen, Il modello costituzionaleinglese, pp. 615-643; Joaquín Vare-la, El debate sobre el sistema británi-co de gobierno en España durante elprimer tercio del siglo XIX, en JoséMaría Iñurritegui y J.M. Portillo(eds.), Constitución en España. Orí-genes y destinos, Madrid 1998, pp.453-505; S.M. Corona, El pensa-miento constitucional de Jovellanos,en «Revista Electrónica de Histo-ria Constitucional», 1, 2000.(http://hc.rediris.es/rhc.html)

11 Raquel Rico, Constitución, Cortes yopinión pública. Sevilla, 1809, en«Anuario de Historia del DerechoEspañol», 67, 1997, vol. I, pp.799-819, como episodio claveemparedado entre presenciasbonapartistas que también eran,como ya he recordado, constitu-cionales en algún grado, el aspec-to que menos aprecia ManuelMoreno Alonso, Sevilla Napoleóni-ca, Sevilla 1995.

12 F. Tomás y Valiente, Génesis de laConstitución de 1812, en «Anuariode Historia del Derecho Español»,65, 1995, pp. 13-125 (Obras Com-pletas, Madrid 1997, vol. V, pp.4449-4555), con las actas citadas,tales referencias de Jovellanos y deArgüelles, y la edición italianareferida. Agustín de Argüelles, Dis-cursos, edición del mismo Tomás yValiente, Oviedo 1995; el mismoArgüelles, Examen histórico de lareforma constitucional de España(1835), edición de M. Artola, Ovie-do 1999.

13 Gaspar Melchor de Jovellanos,Memoria en defensa de la Junta Cen-tral (1811), ed. José Miguel Caso,Oviedo 1992, vol, I, p. 66 (parte I,cap. I, par. 55).

14 B. Clavero, Historia y autonomía.Federalismo anónimo en la Consti-tución española, en «Revista deOccidente», 229, 2000, pp. 11-29;J.M. Portillo, Revolución de Nación,pp. 162-256 y 462-491.

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15 Colección de Decretos y Órdenes delas Cortes de Cádiz, Cádiz 1811-1813(reprint Madrid 1987), vol. I, pp.1-3 (27-29 en el reprint).

16 Puede ser ahora botón de muestra,entre tantos, José Álvarez Junco,Mater Dolorosa. La idea de Españaen el siglo XIX, Madrid 2001.

17 B. Clavero, Ama Llunku, Abya Yala.Constituyencia Indígena y CódigoLadino por América, Madrid 2000.

18 Pedro Molas, Las Cortes de Castil-la en el siglo XVIII, en AA.VV., LasCortes de Castilla y León en la EdadModerna, Valladolid 1989, pp.143-169, volumen que tambiénofrece exposiciones sobre Cortesde Cataluña, Aragón, Valencia yNavarra; José Luís Castellanos,Las Cortes de Castilla y su Diputa-ción, 1621-1789. Entre pactismo yabsolutismo, Madrid 1990.

19 J.M. Portillo, Monarquía y Gobier-no Provincial. Poder y Constituciónen las Provincias Vascas, 1766-1808,Madrid 1991.

20 M. Artola, Los orígenes de la Espa-ña contemporánea, vol. II, pp. 111-593; Federico Suárez Verdaguer(director), Cortes de Cádiz, I. Infor-mes oficiales sobre Cortes, (I.1).Baleares, (I.2). Valencia y Aragón,(I.3). Andalucía y Extremadura,Pamplona 1967-1974, con la cau-tela indicada.

21 Francisco Martínez Marina, Teoríade las Cortes o Grandes Juntas Nacio-nales de los Reinos de León y Castilla.Monumentos de su Constitución Polí-tica y de la Soberanía del Pueblo. Conalgunas observaciones sobre la LeiFundamental de la Monarquía Espa-ñola sancionada por las Cortes Gene-rales y Extraordinarias y promulga-da en Cádiz a 19 de marzo de 1812(1813), edición viva de José AntonioEscudero, Oviedo 1996.

22 Jesús Vallejo, Geografía constitu-cional ilustrada, en «Historia.Instituciones. Documentos», 25,1998, pp. 685-715; Estudio preli-minar, pp. LXVII-LXXII, a su edi-ción de Duque de Almodóvar,Constitución de Inglaterra, Madrid2000, pp. XI-CXXVIII.

23 B. Clavero, Amortizatio. Ilusión dela palabra, pp. 352-358, en «Qua-derni Fiorentini per la Storia delPensiero Giuridico Moderno», 17,1988, pp. 319-358.

24 B. Clavero, Cortes tradicionales einvención de la historia de España,en AA.VV., Las Cortes de Castilla yLeón, 1118-1988, vol. III-I, Vallado-lid 1990, pp. 147-195.

25 Lo reconoce y estudia C. Muñoz deBustillo, De Corporación a Consti-tución. Asturias en España, en«Anuario de Historia del DerechoEspañol», 65, 1995, pp. 321-403.

26 M. Artola, Los orígenes de la Espa-ña contemporánea, vol. II, pp. 11-109. Existe viva ahora la ediciónpor Tomás de Montagut de Lluysde Peguera, Practica, forma y stil decelebrar Corts Generals en Cathalun-ya, y materias incidents en aquellas,Madrid 1998.

27 Antonio Capmany, Práctica y esti-lo de celebrar Cortes en el reino deAragón, principado de Cataluña yreino de Valencia, y una noticia delas de Castilla y Navarra. (...) Vaañadido el reglamento para el Con-sejo Representativo de Ginebra y losreglamentos que se observan en laCámara de los Comunes de Inglater-ra, Madrid 1821.

28 F. Tomás y Valiente, Las Cortes deEspaña en 1809, según un folletocuya autoría hay que atribuir a untriángulo compuesto por un lordinglés, un ilustrado español y unjoven médico llamado John Allen , enEstat, dret i societat al segle XVIII.Homenatge al prof. Josep M. Gay iEscoda, Barcelona 1996, con edi-ción de ese modo, bilingüe, deltexto del susodicho John Allen,Suggestions on the Cortes, Londres1809, e Insinuaciones sobre las Cor-tes, igualmente Londres 1809.

29 Memoria en defensa de la Junta Cen-tral (1811), edición de José MiguelCaso, Oviedo 1992, vol. I, p. 192(parte II, parágrafo 86); Obras Com-pletas cuidadas por el mismo Caso,tomo V, Correspondencia, vol. IV,Oviedo 1988, pp. 187-188 (carta alord Holland de 4 de junio de 1809).

30 William Blackstone, Commentarieson the Laws of England, Oxford1765-1769; Jean Louis De Lolme,Constitution de l´Angleterre ou étatdu gouvernement anglois, comparéavec la forme républicaine et avec lesautres monarchies de l´Europe,Amsterdam 1771, traducción refe-rida de Juan de la Dehesa, Consti-tución de Inglaterra, o Descripcióndel Gobierno Inglés comparado conel democrático, y con las otrasMonarquías de Europa, Oviedo1812, disponible desde 1809:Archivo del Congreso de los Dipu-tados, legajo 30, núm. 28; edicióncomprendida en la de B. Clavero,Jean Louis De Lolme, Constituciónde Inglaterra, Madrid 1992.

31 J. Vallejo, Estudio preliminar aAlmodóvar, Constitución de Ingla-terra, pp. XXXV-XXXVIII y LXXXV-LXXXVII.

32 M. Moreno Alonso, La forja delliberalismo es España. Los amigosespañoles de lord Holland, 1793-1840, Madrid 1997, pródigo ennoticias, pero sin sensibilidadpara el constitucionalismo, comoya indiqué.

33 Marta Lorente, La voz de Estado. Lapublicación de las normas, 1810-1889, Madrid 2001, pp. 33-52.

34 Recordemos que constanciasdocumentales y noticias concretassobre todo este proceso puedenfácilmente localizarse, salvo avisocontrario de nota, en el Derechoparlamentario español de M. Fer-nández Martín.

35 R. Rico (ed.), Constituciones histó-ricas. Ediciones oficiales, Sevilla1989, pp. 19-70, con las suscrip-ciones.

36 Colección de Decretos y Órdenes delas Cortes de Cádiz, vol. I, pp. 4-5(30-31).

37 Para otro botón de muestra ahora,también entre tantos preconstitu-yendo nación, Ricardo García Cár-cel, Felipe V y los españoles. Unavisión periférica de la historia deEspaña, Barcelona 2002.

38 Jesús Burgueño, Geografía políticade la España constitucional. La divi-

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sión provincial, Madrid 1996, bienque no apreciando precisamentela diferencia gaditana, lo que escomún: C. Muñoz de Bustillo, Losantecedentes de las DiputacionesProvinciales o la perpleja lectura deun pertinaz lector, en «Anuario deHistoria del Derecho Español»,67, 1997, vol. II, pp. 1179-1192.

39 Antonio Peyró, Las Cortes de Ara-gón de 1808. Pervivencias forales yrevolución popular, Zaragoza 1985,con su trasfondo más inmediato:Ernest Lluch, Las Españas vencidasdel siglo XVIII. Claroscuros de la Ilus-tración, Barcelona 1999; J. Vallejo,De Sagrado Arcano a ConstituciónEsencial. Identificación histórica delderecho patrio, en Pablo FernándezAlbaladejo (ed.), Los Borbones.Dinastía y memoria de la Nación enla España del siglo XVIII, Madrid2001, pp. 423-484.

40 Carmen Muñoz de Bustillo,Encuentros y desencuentros en lahistoria. Los territorios del Nortepeninsular en la coyuntura del sete-cientos, en la revista «HistoriaContemporánea», 12, 1995, pp.135-173.

41 Pilar Chávarri, Las elecciones dediputados a las Cortes Generales yExtraordinarias, 1810-1813, Madrid1988, pp. 26, 38 y 92-95, no valo-rando el asunto, como es cierta-mente regla en la historiografía; B.Clavero, Ama Llunku, Abya Yala,Madrid 2000, pp. 236-251,ampliando noticia y considera-ción.

42 C. Muñoz de Bustillo, Los otrosceladores del orden constitucionaldoceañista. Diputaciones provincia-les y Ayuntamientos constituciona-les, en J.M. Iñurritegui y J.M. Por-tillo (eds.), Constitución en Espa-ña, pp. 179-213.

43 Josep Sarrión i Gualda, La Diputa-ció provincial de Catalunya sota laConstitució de Cadis, 1812-1814 i1820-1822, Barcelona 1991, pp. 97-98, con ulteriores manifestacio-nes bien expresivas por parte delos diputados catalanes tanto pro-vinciales como en Cortes. No apre-

cia en cambio, como es lo usual, laposibilidad federal del constitu-cionalismo gaditano Manel Ris-ques, El Govern Civil de Barcelona alsegle XIX, Barcelona 1995.

44 Jaime E. Rodríguez, La indepen-dencia de la América española,México 1996; B. Clavero, AmaLlunku, Abya Yala, pp. 390-397;Eduardo Martiré, 1808. Ensayohistórico-jurídico sobre la clave de laemancipación hispanoamericana,Buenos Aires 2001; J.M. Portillo,Autonomía e Independencia en elMundo Hispano, libro de próximapublicación.

45 Como nuevo botón de muestra,Alejandro Nieto, Los primeros pasosdel Estado constitucional en Espa-ña. Historia administrativa de laRegencia de María Cristina de Bor-bón, Barcelona 1996.

46 C. Muñoz de Bustillo, Cádiz comoimpreso, en la edición y volumencitados, el segundo de los Estudios,de la Constitución Política de laMonarquía Española promulgada enCádiz a 19 de Marzo de 1812, vol. IIde Estudios, pp. 173.

47 Mª Cristina Díez Lois (ed.), Actasde la Comisión de Constitución, 1811-1813, Madrid 1976; Mª LuisaAlguacil (ed.), Proyecto y texto defi-nitivo de la Constitución de 1812.Discurso preliminar, en Revista delas Cortes Generales, 10, 1987, LaConstitución de Cádiz, pp. 149-385,de utilidad para la comparaciónentre proyecto de la Comisión ytexto definitivo de la Constitución;Alicia Fiestas, «El Diario deSesiones de Cortes», 1810-1814, enAnuario de Historia del DerechoEspañol, 65, 1995, pp. 533-558.

48 Diario de Sesiones de las CortesGenerales y Extraordinarias,Madrid 1870-1874, vol. I, p. 153,sesión del nueve de diciembre.Existe un volumen de Índice, elnoveno, de aquella legislatura convoces de Constitución.

49 C. Garriga y M. Lorente, Responsa-bilidad de los empleados públicos ycontenciosos de la administración(1812-1845). Una propuesta de revi-

sión, en J.M. Iñurritegui y J.M. Por-tillo (eds.), Constitución en España,pp.215-272; los mismos Garriga yLorente, El modelo constitucionalgaditano, en A. Romano (ed.), Ilmodello costituzionale inglese, pp.589-613. Clave ahora es el estudiode Fernando Martínez Pérez, Entreconfianza y responsabilidad. La justi-cia del primer constitucionalismoespañol, 1810-1823, Madrid 1999.Abrió campo M. Lorente, Lasinfracciones a la Constitución de 1812.Un mecanismo de defensa de la Con-stitución, Madrid 1988.

50 Actas de las sesiones secretas de lasCortes Generales y Extraordinariasde la Nación española... (y )... de lascelebradas por la Diputación perma-nente de Cortes, Madrid 1874. Aña-den noticias al respecto JoaquínLorenzo Villanueva, Mi viaje a lasCortes, Madrid 1860 (reprintValencia 1998), y Adolfo de Castro,Cortes de Cádiz. Complementos delas sesiones verificadas en la Isla deLeón y en Cádiz, Madrid 1913.

51 Reglamentos (del Congreso de losDiputados y de las Cortes), Madrid1977, pp. 7-21, éste de 1810. ElSenado es posterior: Reglamentosdel Senado (1834-1993), Madrid1993.

52 M. Lorente, El juramento constitu-cional, en «Anuario de Historiadel Derecho Español», 65, 1995,pp. 585-632.

53 Dentro de las coordenadas histo-riográficas a las que ya me he refe-rido, aquellas que reproducían lasfacciones de serviles y liberales bajola dictadura franquista, la imagenrevolucionaria del episodio gadi-tano se impuso por el mérito deLos orígenes de la España contempo-ránea de Miguel Artola. Es obraque, al cabo de las décadas, semantiene editorialmente viva.Hoy la tiene en catálogo el Centrode Estudios Políticos y Constitu-cionales de Madrid, principal edi-tor también de los libros citadosde miembros del grupo HICOES.

54 B. Clavero, Freedom’s Law andOeconomical Status, a publicarse

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en «Quaderni Fiorentini per laStoria del Pensiero GiuridicoModerno», 30, 2002.

55 Para abordaje anacrónico de laentrada normativa y del medio lin-güístico, tampoco faltan botonesde muestra: José F. Chofre Sirvent,Categorías y realidad normativas enlas primeras Cortes españolas, 1810-1837, Madrid 1997; María Teresa

García Godoy, Las Cortes de Cádiz yAmérica. El primer vocabulario libe-ral español y mejicano, 1810-1814,Sevilla 1998. Para la clave norma-tiva, puede particularmente con-frontarse C. Garriga, Constitución,ley, reglamento. El nacimiento de lapotestad reglamentaria en España,1810-1814, 1820-1823, en «Anuariode Historia del Derecho Español»,

65, 1995, pp. 449-531. Habrápodido observarse, por la concur-rencia de citas, que también estádedicado al constitucionalismogaditano dicho número del«Anuario de Historia del DerechoEspañol», la revista que entoncesdirigía Francisco Tomás y Valiente.Ahí empezó la renovación que hayapodido apreciarse.

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1. La riforma dell’articolo 5 dello Statuto

L’ultimo governo presieduto da GiovanniGiolitti si presenta alla Camera per la fidu-cia il 24 giugno 1920. È un tentativo estremodi sopravvivenza del regime rappresentativo,destinato a fallire, come quelli degli effime-ri Gabinetti che si succedono, dal governoBonomi del luglio 1921, ai due governi Fac-ta, del febbraio e dell’agosto 1922, fino all’e-pilogo, segnato dalla nomina del governoMussolini, il 31 ottobre dello stesso anno,che segna l’avvento del regime autoritario.

Le dichiarazioni programmatiche resedal presidente del Consiglio rivestono uncerto interesse, sul piano della ricostruzio-ne storica del diritto costituzionale statua-rio, e specificamente per la parte relativa alladisciplina delle relazioni internazionali, cheè decisiva per l’accertamento dei lineamen-ti sistematici del primo ordinamento posi-tivo dell’unificazione e per una sua attendi-bile definizione tipologica.

Il tema è inquadrato politicamente già daprima, nel discorso elettorale tenuto a Dro-

nero in occasione delle elezioni dell’ottobre19191. Lo stesso Giolitti ne riporta la sostan-za nelle sue Memorie, in modo aperto edesplicito:

[…] rilevavo la strana contraddizione dei nostriordinamenti politici, pei quali, mentre il potereesecutivo non può spendere una lira, non puòmodificare in alcun modo gli ordinamenti ammi-nistrativi, né creare o abolire una Pretura o unsemplice impiego d’ordine, senza la preventivaapprovazione del Parlamento; può invece, a mez-zo di trattati internazionali, assumere, a nome delpaese, i più terribili impegni che portino inevita-bilmente alla guerra; e ciò non solo senza l’appro-vazione del Parlamento, ma senza che né il Parla-mento, né il Paese ne siano o ne possano essere inalcun modo informati2.

Ne deriva la necessità di sciogliere la con-traddizione «prescrivendo...che nessunaconvenzione internazionale possa stipular-si, nessun impegno si possa assumere senzal’approvazione del Parlamento».

In questa affermazione si riflettono glielementi sui quali il sistema statuario sem-bra attestarsi per tentare un proprio aggior-

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Giolitti e lo Statuto da riformare

silvano labriola

giornale di storia costituzionale n. 4 / II semestre 2002

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namento, a salvaguardia, almeno, della for-ma rappresentativa del regime costituziona-le. Vi è un evento decisivo, al quale come sivedrà lo stesso Giolitti fa riferimento perargomentare il proposito di sopprimere laprerogativa dell’esecutivo nella politica este-ra, ed è la introduzione del suffragio univer-sale maschile.

Da questa riforma, come altrove si è giàsostenuto3, si genera il passaggio dalla pri-ma alla seconda costituzione rappresentati-va. Si è dubitato, per vero, di una simile“periodizzazione”, perché fondata sullaincerta giustificazione della riforma dell’e-lettorato attivo. Non si tratta però di unariforma della disciplina elettorale, ma dialtro, e cioè del riconoscimento del dirittopolitico al voto per ciascun cittadino, senzaalcun discrimine selettivo, e pertanto di que-stione della forma dello Stato, che muta, conil suffragio universale, da Stato elitario a Sta-to democratico: non del succedersi di fasidistinte di uno stesso regime costituzionale,che presuppone la continuità, ma del succe-dersi di un regime ad un altro, il che pre-suppone la discontinuità.

La proposta di riforma dell’articolo 5 del-lo Statuto, cui sono dedicate queste rifles-sioni, ne costituisce una importante confer-ma. Il mutamento progettato, e le sue ragio-ni soprattutto, assumono un significatoimportante sia per la comprensione degliavvenimenti del tempo, e del carattere dellafase istituzionale che si determina, sia,retrospettivamente, al fine della lettura sto-rica dell’ordinamento costituzionale unita-rio, attestato sulle fondamenta di quello sar-do. La proposta governativa del 1920, e la suamotivazione, svelano fino in fondo la naturaformalistica della interpretazione suggeritadalla dottrina ufficiale del tempo in ordinealla prerogativa4.

Giolitti è esplicito sul punto. Le sue paro-le hanno il pregio di una non comune chia-rezza, e meritano di essere riportate:

Come salda garanzia di pace, il Parlamento deveavere nella politica estera la stessa autorità che hanella politica interna e in quella finanziaria. Per lacompleta applicazione di questo principio pre-sentiamo un disegno di legge, il quale, modifi-cando l’articolo 5 dello Statuto, dispone che i trat-tati e gli accordi internazionali, qualunque sia illoro oggetto e la loro forma, non sono validi se nondopo l’approvazione del Parlamento; e che, senzala preventiva approvazione del Parlamento non vipuò essere dichiarazione di guerra5.

Aggiunge Giolitti, da esperto conoscito-re del meccanismo parlamentare, e dei modiin cui può essere manovrato per ridurre lariforma e mera proclamazione di principio,senza sèguito pratico, che vi è la indispensa-bile condizione

che si istituiscano, presso i due rami del Parla-mento, commissioni permanenti alle quali ilGoverno dia notizia dello svolgimento delle trat-tative che riguardano le questioni più gravi6.

Il governo, ad attestazione del caratterestrategico e primario di questo suo obietti-vo, presenta nella stessa seduta in cui è tenu-to il discorso del presidente del Consiglio, ildisegno di legge n. 453, che reca il nuovotesto dell’articolo 5:

I trattati e gli accordi internazionali, qualunquesia il loro oggetto e la loro forma, non sono validise non dopo l’approvazione del Parlamento. IlGoverno del Re non può dichiarare la guerra sen-za la preventiva approvazione delle due Camere.

Alcune precisazioni possono essereopportune. La nuova disposizione propostasembra comprendere ogni intesa o pattonelle relazioni internazionali, che sia ido-

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neo, indipendentemente dalla forma assun-ta, a vincolare lo Stato che vi assume obbli-gazione. Tecnicamente è formula avveduta,perché rende certo l’àmbito applicativo, pre-venendo elusioni in danno delle attribuzio-ni parlamentari, di cui la diplomazia è insi-gne e collaudata fabbrica, e la mutevolezzadelle forme che si modellano nell’ordina-mento internazionale terreno di cultura pro-pizio.

Si può misurare l’importanza di questoaspetto, raffrontando il testo con la formu-lazione dell’articolo 80 della vigente costi-tuzione della Repubblica italiana. Il ricorsoagli accordi in forma semplificata, agli scam-bi di Note, e ad altre forme della prassi diver-se dai trattati ma dotati di pari efficacia, apreil varco all’aggiramento della previa autoriz-zazione legislativa, presupposto della validamanifestazione della volontà dello Stato adobbligarvisi. La dottrina giuridica ne discu-te, contrapponendosi diversi avvisi tra inter-nazionalisti e costituzionalisti, e all’internodei due campi scientifici: in pratica, recedo-no le attribuzioni del Parlamento.

Il disegno di legge è sottoscritto dal pre-sidente del Consiglio e da tutti i ministri (siricordi che, formalmente, l’iniziativa legis-lativa dell’esecutivo è imputata dallo Statutoal re, che la esercita tramite i ministri, chepropongono e controfirmano il decreto rea-le che dà forma al disegno di legge governa-tivo: solitamente sono i ministri le cui attri-buzioni dicasteriali attengono alla materia).Ciò implica due rilievi significativi: ne risal-ta la solennità formale, rafforzando la natu-ra di riforma costituzionale dell’iniziativa (sucui dunque è presunto l’assenso del capodello Stato), e, inoltre, tenuto conto dellastruttura politica della composizione delGabinetto, rivela una ampia base di consen-si tra gruppi e partiti.

L’articolo unico del disegno di leggeriproduce letteralmente le espressioni con-tenute nelle comunicazioni del governo sul-la fiducia, fatte dal presidente del Consiglio.La relazione contiene invece una più artico-lata e in parte diversa motivazione.

Non si fa più riferimento alla sola «sal-da garanzia di pace», attribuita dal Giolittialla revisione dell’articolo 5, ma le finalità ele ragioni si slargano, risalendo a considera-zioni ancor più generali. La relazione affer-ma che è «di manifesta evidenza» che

non possa più seguirsi la via tenuta fin qui: essacondurrebbe all’assurdo che quanto più il popolosi elevasse, quanto più crescesse il suo diritto e lasua capacità ad avere un peso decisivo nel Gover-no del Paese, tanto più questo Governo gli sfuggi-rebbe, perché continuerebbe ad essere retto daintese di gabinetti, sottratte ad ogni pubblicità esottoposte-forse- solo ad un limitato controlloposteriore, più illusorio che reale.

Non si potrebbe essere più chiari: e nonsolo per il presente, ma anche per il passa-to. La prerogativa è incompatibile con lademocrazia: se il popolo è maturo per gover-narsi, ciò deve valere nella politica esteranon meno che negli altri campi. Il controlloparlamentare previsto dall’articolo 5 delloStatuto albertino è facilmente aggirabile,perché al governo spetta stabilirne l’attiva-zione (è il governo che ne dà «notizia alleCamere tosto che l’interesse e la sicurezzadello Stato il permettano»); ed è anche illu-sorio, perché fiaccato sotto il peso del fattocompiuto. Per lo più, recedere unilateral-mente da un cattivo trattato può procuraredanno maggiore che approvarlo politica-mente nella sede parlamentare.

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2. Il precedente del Patto di Londra del 1915

Giolitti matura il suo proposito spinto anchedalla esperienza, recente ed amara, soffertaappena cinque anni prima, tra l’inverno e laprimavera del 1915, nel corso degli eventi cheprecedono la entrata in guerra dell’Italia afianco delle Potenze dell’Intesa, e contro gliantichi alleati della Triplice.

I termini della questione sono noti. Ilneutralismo, sostenuto da Giolitti, ha unsèguito maggioritario alla Camera. Malgradociò il governo Salandra, giovandosi di pres-sioni di piazza, alimentata da gruppi di inte-resse, e con l’avallo della Corona, prepara lascelta della guerra, e per questo fine sotto-scrive con Inghilterra e Francia il Patto diLondra. Si tratta di un vero e proprio tratta-to segreto, sottoscrivendo il quale l’Italia siimpegna ad intervenire in guerra a fiancodell’Intesa: sono previste clausole relative acompensi ed acquisti territoriali in caso divittoria.

Il Patto di Londra è sottoscritto e tenutosegreto, alla stregua dei significativi prece-denti del regime statutario, espressione del-la prassi della prerogativa regia7. Il testo sarànoto solo a guerra conclusa e per il mezzoinvero singolare offerto da fonte bolscevica,dopo il ritrovamento della copia custoditanegli archivi zaristi. Non soltanto il Parla-mento ne è tenuto all’oscuro, ma il Patto vie-ne stipulato dai rappresentanti del governoitaliano nonostante la dichiarazione di neu-tralità ufficialmente resa, e contro l’orienta-mento neutralista della maggioranza dellaCamera elettiva, attestato pubblicamente allostesso Giolitti.

Conformemente ai lineamenti impressidalla consuetudine costituzionale, il gover-no esercita la prerogativa, sentendosi esen-tato dal necessario consenso del Parlamen-

to, forte viceversa dell’assenso della Corona.Questo è il dato che emerge sotto il profiloformale: dal lato politico, l’analisi storiogra-fica più attenta assolve al compito di rico-struire le ragioni delle correnti del fronteinterventista, che è di complessa natura ecomposizione.

Giolitti farà scrivere da Olindo Malagodinelle sue Memorie parole che suonano di cen-sura dell’episodio, compresa la segretezza incui matura, con ricorso ad un sobrio under-statement. Riferendo di una udienza realeavvenuta l’8 maggio, quando il Patto è già sti-pulato (26 aprile), ricorderà che «anche inquella conversazione, l’obbligo del segreto,scritto nel Trattato, impedì che ne fossiinformato»8.

La censura è tuttavia assai prudente. Ineffetti, è stata applicata una norma costitu-zionale consuetudinaria, costantementeosservata dalla entrata in vigore dello Statu-to al tempo del regime sardo. Ancora da ulti-mo ciò è avvenuto per il caso della guerracoloniale libica, essendo presidente delConsiglio lo stesso Giolitti, come gli vienericordato polemicamente in una interruzio-ne dalla «estrema sinistra» (come annotascrupolosamente lo stenografo della Came-ra), durante la esposizione del programmanella ricordata seduta del 24 giugno 19209.

La riforma pertanto è rivolta a rimuove-re quella norma consuetudinaria, grazie allasostituzione dell’articolo 5 dello Statuto, equindi espungere la prerogativa; non si trat-ta di pareggiare il conto dell’ingrata vicendadel 1915, ma può servire anche a questo gra-dito fine.

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3. Fondamento della prerogativa di politicaestera

A fondamento della norma consuetudinariastanno due riferimenti, che risalgono al testodell’articolo 5 dello Statuto.

L’uno, affatto generale, corrisponde allaintestazione del potere esecutivo al capo del-lo Stato (nello Statuto è la locuzione di«Governo del Re»); l’altro, specifico, si rin-viene nella competenza del re a fare i tratta-ti internazionali.

Quanto alle attribuzioni parlamentari, siprescrive, oltre alla disciplina delle comuni-cazioni del governo nei termini richiamati, ilprincipio per cui «i trattati che importasse-ro un onere alle finanze, o variazioni del ter-ritorio dello Stato, non avranno effetto se nondopo ottenuto l’assenso delle Camere». L’ef-fettivo contenuto di tale principio discendeda questa formulazione, posta però a sistemacon la parte dello stesso articolo 5, in cui sisubordina l’adempimento della comunica-zione degli atti pattizi all’apprezzamento chespetta al governo della convenienza di ren-derli noti, come si è detto, sotto il profilo del-l’interesse e della sicurezza dello Stato.

La prassi statutaria indica senza incer-tezze che l’esecutivo agisce in piena discre-zionalità: la pretesa delle “mani libere” hasempre successo. L’apprezzamento in que-stione viene fatto rientrare nella competen-za dell’organo che “fa i trattati”, ossia li sti-pula, e vi si obbliga, in quanto rappresen-tante dello Stato nell’ordinamento interna-zionale: quindi, nella competenza regia, e,come si dirà, del potere esecutivo.

Vero è che, secondo i canoni del regimeparlamentare, potrebbe (o dovrebbe?) con-figurarsi specularmente il controllo delleCamere, ma si tratta di una fattispecie deltutto astratta, e anzi, nella costituzione mate-

riale non mai accolta nel senso indicato dal-lo Statuto. L’approvazione prevista dall’arti-colo 5, è atto bicamerale non legislativo(diversamente dalla prescrizione dell’arti-colo 80 della costituzione repubblicana):nell’ordinamento rappresentativo regio leCamere sono chiamate a porre in essere unatto di natura politica, il cui compimento puòavvenire senza vincolo di forma, ed ancheimplicitamente.

L’esecutivo si è avvalso di tale disciplinaeffettiva della prerogativa con tale larghezza

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Giovanni Giolitti, istantanea primo Novecento

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che, in casi di eminente rilevanza, comequelli ricordati delle guerre coloniali (al casolibico si può almeno aggiungere il clamoro-so, noto, caso del trattato di Uccialli), o del-la alleanza della Triplice, che fissa il sistemadelle relazioni internazionali del regno d’I-talia fino al primo conflitto mondiale, ilsegreto sul testo dei trattati è mantenuto, ecomunque ne è omessa la comunicazioneufficiale alle Camere, se non ad esaurimen-to pratico dei patti.

È questo un primo contenuto della pre-rogativa della politica estera. L’esecutivo siriserva di dare notizia dei trattati alle Came-re quando lo ritenga opportuno, rinviandonel tempo anche indefinitamente: si è difronte a consuetudine innovativa dell’arti-colo 5 dello Statuto.

4. L’approvazione parlamentare e le sue conse-guenze

L’altro contenuto della prerogativa regiaincide sulla norma che subordina l’esecu-zione dei trattati, che importino oneri finan-ziari o variazioni del territorio dello Stato allaapprovazione parlamentare.

Restano pertanto esclusi trattati che pos-sono rivestire importanza generale, comeper il commercio, o per il regolamento dirapporti di diritto civile o processuale, sullaestradizione e sulla cooperazione giudizia-ria, ed altri ancora. Per essi vale solo la nor-ma sulla comunicazione alle Camere, appli-cata in forza della consuetudine che si èrichiamata.

Per i trattati, che l’articolo 5 dello Statu-to albertino enumera tassativamente, si pon-gono alcuni interrogativi sull’efficacia dellacondizione posta per la loro esecuzione. Se

tale efficacia viene qualificata nell’ordina-mento internazionale, si tratta di una condi-zione impropria, poiché per il principio del-l’affidamento, al tempo dello Statuto validoin assoluto, le obbligazioni internazionalisorgono, e lo Stato è tenuto ad adempiere,per il solo fatto che il trattato sia stipulato eratificato, o comunque concluso secondo gliusi se è un patto di forma diversa, da partedegli organi che hanno la rappresentanzainternazionale dello Stato.

La responsabilità internazionale delloStato è piena, quando la manifestazione del-la volontà di obbligarsi è posta in essere dachi ne ha titolo nell’ordinamento interna-zionale, indipendentemente dal perfeziona-mento del procedimento del diritto interno,la cui eventuale inosservanza non può vale-re ad esimere dalla responsabilità per lamancata applicazione del trattato.

Sul piano del diritto interno, è assai dub-bio che possa configurasi una responsabili-tà dell’esecutivo per il fatto di dare esecuzio-ne ad un trattato, concluso in debita forma,senza l’approvazione del Parlamento per icasi in cui è prescritta dall’articolo 5. Ancheper tali trattati vale la riserva di dar corso allacomunicazione quando ciò non sia in con-trasto con l’interesse dello Stato. Se il gover-no fa valere la pretesa a giudicare inoppor-tuna la comunicazione, può anche preten-dere di dare esecuzione al trattato, pur man-cando la approvazione del Parlamento, poi-ché la condizione dell’approvazione presup-pone ovviamente la comunicazione: e d’altraparte, il non dare esecuzione integra laresponsabilità internazionale dello Stato.Può apparire un artificio formalistico, manon lo è, perché è formalistico ignorare lanorma consuetudinaria della prerogativa,che altera il contenuto dell’articolo 5 delloStatuto.

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È questo un caso in cui l’attivazione delcontrollo politico delle Camere è affidataall’apprezzamento del controllato: il potereesecutivo resta arbitro del procedimento. Aciò si aggiunga che l’atto di controllo non hanatura legislativa, né forma tipica, e quindipuò farsi implicitamente: nel caso dellavariazione del territorio, con riferimento alplebiscito di comodo, che maschera l’an-nessione, nel caso dell’accollo di onerifinanziari, con i relativi appostamenti nelbilancio di previsione.

La prassi indica che l’esecutivo agiscerichiamandosi alla prerogativa, con l’avallodella Corona (come si ricorderà, semprepartecipe della prerogativa, seppure conintensità variabile). Né mancano casi in cuisi registra una qualche derisione delle regio-ni invocate dal Parlamento, che lamenta laspoliazione subìta: così è nel noto episodiodel trattato di Uccialli, in relazione alla man-cata approvazione del quale Crispi negheràche si trattasse di variazione del territorionazionale, ma solo di acquisto coloniale.

Per i trattati che importino oneri finan-ziari soccorre il mezzo del bilancio di previ-sione, utilizzato allo stesso modo per la poli-tica estera in generale e per quella militare,che vi è strettamente connessa. La formula-zione del bilancio ed il procedimento di dis-cussione e di approvazione si svolgono con latacita ammissione di una assoluta premi-nenza dell’esecutivo in queste materie: ilgoverno formula le appostazioni conformialle obbligazioni internazionali assunte, e favalere a giustificazione la maggiore riserva-tezza propria del regime della prerogativa.

I mezzi giuridici dei quali il governo siavvale, anche in forza di consuetudini cheesso stesso promuove e sostiene, per limita-re o addirittura escludere il controllo politi-co della rappresentanza non sono dato esclu-

sivo del sistema statutario. La tendenza sten-de le sue radici molto in profondità, prose-guendo nel tempo con successo alterno,come un fiume carsico, che talvolta scompa-re dalla superficie e poi riaffiora, anchequando una prolungata dimora sotterraneafa illudere l’osservatore credulo che siascomparso, interrato per sempre. Così nonè, come insegnano le cronache costituziona-li più recenti del sistema repubblicano.

5. La prerogativa regia in politica estera

La storia del diritto pubblico statutario con-ferma, fin dall’esordio della Carta albertina,l’effettiva sussistenza della prerogativa dipolitica estera: ne è testimonianza la crisi deirapporti tra la Corona e la Camera elettiva,per la prima volta insediata all’atto della con-clusione rovinosa della Prima guerra d’Indi-pendenza (1849), con ripetuti scioglimentidella Camera, ripetuti nell’arco di poche set-timane, perché riottosa ad approvare il trat-tato con l’Austria vittoriosa.

Si tratta certo di una congiuntura straor-dinaria, dal punto di vista interno ed inter-nazionale, del regno di Sardegna: tuttavial’affermazione della prerogativa è inequi-vocabilmente enunciata nel proclama diMoncalieri. Il monito esplicito al corpoelettorale (ristretto), perché abbandonil’atteggiamento ostile, ripetutamente con-fermato, e assecondi la volontà del capodello Stato che il trattato si approvi, vienemunito della minaccia di sospendere oaddirittura abrogare lo Statuto emanatol’anno prima: se gli elettori continuerannoa votare contro tale volontà, non voterannopiù (è notevole come l’episodio sia riporta-to ancora agiograficamente nella Storia

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costituzionale del Regno d’Italia (1848-1898),dell’Arangio Ruiz, mezzo secolo più tardi,nel 189810). Il re parla chiaro:

se il paese, se gli elettori mi negano il loro con-corso, non su me ricadrà oramai la responsabili-tà del futuro, e nei disordini che potessero avve-nirne, non avranno a dolersi di me, ma avranno adolersi di loro.

La prerogativa regia non sarà mai néinterrotta né attenuata nello svolgimentodelle istituzioni statutarie; si rinvia agli stu-di in materia per le casistiche e gli altri rilie-vi che confortano l’affermazione: da Villa-franca alle vicende coloniali, alla stipulazio-ne e al rinnovo della Triplice. Il Patto di Lon-dra, infine, attesta che essa non viene menofino all’epilogo del regime statutario con ilcolpo di Stato del 1922: resta inalterato ilcontenuto di principio, per la parte in cuiesclude, o fortemente limita, la partecipa-zione della Camera elettiva all’esercizio del-la politica estera, e, specificamente, al pro-cedimento della attività pattizia.

Si affianca a quest’altra prerogativa, nel-la materia militare, a sua volta confortata dauna attendibile letteratura, che pone in evi-denza il legame affatto speciale tra tecno-struttura militare e Corona, anche chiaman-do in causa una tradizione che molto risalenel tempo, di cui si afferma la continuitàsostanziale pur dopo l’avvento della formarappresentativa negli ordinamenti istituzio-nali.

L’influenza del sovrano nella scelta deiministri della Guerra è nota e generalmenteammessa. La nomina di militari in tali uffi-ci subisce una battuta d’arresto solo nei pri-mi anni del Novecento, propiziata da eventiparticolarmente critici che consigliano lascelta di una personalità estranea all’am-biente ed alla carriera (29 dicembre 1907:

l’ingegnere Severino Casana è nominatoministro della Guerra).

È significativa la giustificazione teoricaaddotta a sostegno delle due prerogative, indichiarata limitazione del principio rappre-sentativo, e ad avvalorare la speciale parte-cipazione del capo dello Stato alla direzionepolitica della cosa pubblica. Le relazioniinternazionali e la condotta militare sareb-bero attività diverse da ogni altra, perchérivolte a perseguire interessi “unitari” delloStato, al riparo dall’influenza partigiana del-le parti politiche, le cui “passioni”, le cuivicende di azione e di contrasto sarebberopur sempre impregnate di calcoli di conve-nienza.

Così la dottrina, e non certo la menoautorevole, può sostenere che la dichiara-zione di guerra, «facoltà molto contestata»,può quanto alla sua devoluzione al capo del-lo Stato «legittimarsi solo per il pericolo diaffidare questioni estere, sempre complica-te e delicate, alle dispute delle Camere ed allevelleità dei partiti»11. Se ne desume anchequale opinione si abbia della rappresentan-za e dei partiti politici, e non nel milieu gior-nalistico, me nella comunità scientifica.

La politica estera e la politica militaredevono restare nella volontà unitaria delloStato: l’organo che in luogo di ogni altro è“simbolo” e rappresentante della “unità del-lo Stato” è il titolare della Corona. La conti-nuità del capo dello Stato, data la formamonarchica è presupposto indefettibile del-la necessaria continuità delle politiche este-ra e militare, che la precarietà delle maggio-ranze parlamentari sarebbe inadatta ad assi-curare.

Non manca chi segnala l’anomalia diquesta concezione in rapporto alla formarappresentativa del sistema costituzionalealbertino, senza però riuscire a scalfirne la

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predominanza e la decisiva influenza suldiritto positivo. Non si promuove una dis-cussione scientifica sul punto, sia per lainsufficiente elaborazione teorica dei giu-spubblicisti, sia perché vi si opporrebbe lacostituzione materiale, che anima un regi-me elitario, con esclusione del principio disovranità popolare, e nel quale il sistema èdualista, non monista.

Le due prerogative si integrano a vicen-da, in forza della evidente connessionemateriale, e tendono a fare corpo. Ciò neaccresce il rilievo sistematico tra i principiregolatori della forma di governo.

6. Tra Corona e Gabinetto

Fin qui si è fatto riferimento per indicare ilpotere esecutivo, quando alla Corona, quan-do al Gabinetto. Ma chi detiene effettiva-mente la prerogativa, a chi spetta di far vale-re la pretesa che vi è racchiusa di esercitarepoteri e facoltà sottratti alla concreta, pun-tuale ingerenza della Camera elettiva in fun-zione di controllo politico?

Appare inapplicabile lo schema secondocui la prerogativa sarebbe solo nominal-mente intestata alla Corona, perché appar-terrebbe formalmente ed effettivamente algoverno, il solo che può risponderne al Par-lamento. Questo schema si presenta cometipico errore di prospettiva storica.

Intanto, la struttura della prerogativaesclude il rapporto di responsabilità politi-ca verso le Camere, o quanto meno lo mettein discussione (si tornerà sul punto subitodopo).

È, inoltre, indimostrato l’assunto per cuial regime statutario apparterrebbe il princi-pio proprio delle moderne democrazie par-

lamentari, che esclude ogni partecipazionedel capo dello Stato all’indirizzo politico,negli Stati la cui forma è monarchica, e neglialtri in cui non vi è elezione popolare delpresidente.

Neppure si adatta al regime rappresenta-tivo albertino l’opposto schema, che preve-da l’attribuzione piena ed esclusiva dellaprerogativa, nonché dei connessi poteri efacoltà, al sovrano. È ipotesi priva di fonda-mento, considerando le previsioni normati-ve dello Statuto, e lo svolgimento delle isti-tuzioni costituzionali. Il tentativo di giustap-porre all’ordinamento statutario la formacostituzionale pura, appena dissimulato sot-to la nota locuzione del Torniamo allo Statu-to, declamata a fine secolo da Sydney Sonni-no12, non ha sèguito: ma se lo avesse avuto,si sarebbe prodotto un mutamento di regi-me, non la sua riabilitazione.

Per giungere ad una attendibile ipotesiinterpretativa è necessario partire dalla basebinaria della struttura costituzionale delpotere esecutivo, assicurata da un duplicepresupposto: la devoluzione al capo delloStato della titolarità del potere, disposta dal-lo Statuto; la competenza generale del gover-no per gli atti della funzione, derivante dalprincipio della responsabilità politica, affer-mato nei canoni della forma parlamentaredi governo fin dalla prima fase applicativadello Statuto.

La partecipazione del capo dello Statonon si restringe mai del tutto alla sferanominale. Ne fanno fede alcuni dati delsistema. La valida esistenza del Gabinettorichiede certamente la fiducia della Cameraelettiva e l’assenso del Senato: il regime del-la doppia fiducia persiste, malgrado l’affer-marsi della forma parlamentare.

La doppia fiducia riemerge nell’eserci-zio di attribuzioni rilevanti, in cui si attiva la

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responsabilità politica del governo, ma ilcontenuto della volizione degli atti, nella for-ma del decreto reale, non si limita alla tute-la della legalità costituzionale da parte delcapo dello Stato, ma comprende anche l’ap-prezzamento della opportunità dei provve-dimenti. Si può menzionare lo scioglimen-to della Camera elettiva, l’esercizio delle pre-rogative, compresa la nomina del ministropreposto ai dicasteri degli Affari Esteri, del-la Guerra e della Marina, nonché importan-ti atti relativi al funzionamento delle Came-re ed all’alta amministrazione.

È significativo, sotto questo profilo, ilcapitolo dell’uso dei poteri normativi delgoverno, e di quelli concernenti l’ordinepubblico e la sicurezza dello Stato, alla luce diuna assai ridotta razionalizzazione del siste-ma delle fonti.

Non può che farsi un breve richiamo allaforma degli atti in cui si manifestano i pote-ri normativi del governo, nel quadro delladiversità sostanziale del regime statutariorispetto al modello accolto nel regimerepubblicano oggi vigente, nel raffronto conil quale meglio si precisano i lineamenti delprimo. Flessibile l’uno, rigido l’altro; la posi-zione del capo dello Stato partecipe dei trepoteri nell’uno, estranea a ciascuno nell’al-tro, in cui ha solo figura di garanzia; scarsa-mente razionalizzato il sistema delle fonti nelprimo, come si è detto, compiutamenterazionalizzato nell’altro.

La tormentata vicenda istituzionale deldecreto legge, lentamente affermatosi nelregime statutario, e non mai pervenuta aduna disciplina certa ed univoca, è ben elo-quente in questo senso. All’epilogo di quelregime vi è il rifiuto del capo dello Stato diemanare il decreto per lo stato d’assediodeliberato dal governo Facta, e il mutamen-to di regime avviene mentre al Senato si dis-

cute, sulla scorta di una istruttiva ed acutarelazione Scialoja13, la introduzione delladisciplina organica della decretazione legis-lativa d’urgenza.

La struttura binaria dell’esecutivo nonprevede una definizione certa e durevole dellimite reciproco dei poteri e delle compe-tenze dei due organi, capo dello Stato egoverno. Sul punto, sistema politico ed ordi-ne costituzionale delle attribuzioni si intrec-ciano strettamente, al punto da rendereimpossibile la demarcazione di quanto èdevoluto all’uno ed all’altro organo costitu-zionale14.

In particolare, nel campo delle relazioniinternazionali, vi è un confine mobile tra leattribuzioni della Corona e quelle del gover-no, fin dall’inizio della esperienza unitaria,come afferma la più avvertita ricerca storio-grafica15. Né le une né le altre subiscono maicompressioni tali da ridursi ad essere pura-mente nominali: in presenza di caratteristi-che di instabilità e precarietà di governi e dimaggioranze, l’influenza del capo dello Sta-to tende ad espandersi molto.

7. Responsabilità politica e “copertura” dellaCorona

In ogni caso, come si è osservato riguardo alleprerogative, l’organizzazione costituzionaledel potere esecutivo su base binaria, si risol-ve in una alterazione del rapporto tra Gabi-netto e Parlamento rispetto ai lineamenti pro-pri della forma parlamentare di governo, adetrimento delle attribuzioni di controllopolitico delle Camere. L’effetto si produceindipendentemente dal punto di equilibriotra i due organi del potere esecutivo.

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Come si è ricordato, il principio dellaresponsabilità politica del governo è certa-mente posto nell’ordinamento costituziona-le. Il governo si assume la responsabilitàpolitica per ogni atto compiuto nell’eserci-

zio delle sue funzioni nei confronti del Par-lamento, e segnatamente della Camera elet-tiva. Accade, peraltro, che il governo assumela responsabilità politica anche per atti chesono nella volizione di altro organo, il capo

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frontespizio dello Statuto Albertino

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dello Stato: situazione che si riassume nellanota formula della “copertura politica dellaCorona”.

La formula è oggetto di enunciato scarsa-mente approfondito dalla dottrina del tem-po. Essa appare ambigua e polivalente, ilrelativo contenuto essendo individuatosecondo moduli ricostruttivi diversi, fruttodi teorizzazioni disparate, tra di loro distan-ti. L’uso abbastanza frequente della locuzio-ne nell’intero arco temporale della espe-rienza statutaria è peraltro sintomo della esi-stenza di una sottostante figura del dirittopositivo.

Non convince la ipotesi, da più partiavanzata, secondo cui la formula attestereb-be l’avvenuto spostamento di attribuzionisostanziali dal capo dello Stato al governo. Ècomune osservazione che dove è responsa-bilità è potere: ma, per il caso in questione,non si forniscono altri argomenti, né prove,salvo ricorrere, essendo il sistema rappre-sentativo, ai principi elaborati in astrattorelativi alla forma di governo. In questomodo però si dà per dimostrato l’assunto,che invece esige di essere dimostrato.

Se, invece, si procede verificando il dirit-to positivo, come risulta dalla evoluzione delsistema, si deve ammettere che quel trasfe-rimento di attribuzioni non è mai intera-mente avvenuto, dal che consegue che nonpossa affermarsi l’appartenenza del regimestatutario al modello parlamentare compiu-to, ma, come molti affermano, ad un model-lo di tipo limitato.

Altri argomenti, e pseudo argomenti,addotti dalla dottrina del tempo, sono ancormeno accettabili, pur continuando a circo-lare nella successiva letteratura. Tipico diessi è lo schema secondo cui il sovrano “nonpuò sbagliare”, e se un suo atto è posto indiscussione, non deve risponderne, ed è il

governo necessariamente ad essere esposto.È evidente la inconsistenza logico giuridicadi una simile premessa ricostruttiva, chedissimula la realtà positiva, non già la iden-tifica.

Vi è un dato che caratterizza la figura del-la copertura politica della Corona, che appar-tiene al regime degli atti, ed è la deroga cheimplicitamente si pone quanto alla sindaca-bilità politica degli atti per cui ricorre quel-la figura. Se si indaga su tale premessa, siimbocca una via fruttuosa per sciogliere idubbi interpretativi dell’ambigua, ed ellitti-ca, formula.

8. Significato di una formula

Quando il governo dichiara di assumere laresponsabilità politica di un atto del sovra-no, dà luogo ad una duplice affermazione. Laprima è che l’atto deriva dalla volontà delsovrano oltre che da quella del governo, per-ché diversamente, se risalisse alla volontàesclusiva del governo, la dichiarazione nonsarebbe necessaria, essendo sempre pre-sunta l’assunzione di responsabilità politicadel governo per ogni suo atto.

La seconda affermazione esclude l’atto insé dal sindacato politico delle Camere, poi-ché risale alla volontà di un organo che è perprescrizione statutaria politicamente irre-sponsabile. Il controllo parlamentare nonpuò esercitarsi neppure sulla formazionedell’atto, nella quale non sono chiamate incausa le sole attribuzioni del governo, salvoche per un aspetto.

Ciò che può farsi rientrare nel controllopolitico della rappresentanza è l’assenso delgoverno alla formazione dell’atto, la manca-

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ta opposizione del Gabinetto alla posizionedell’atto da parte del capo dello Stato.

Ne deriva una restrizione dell’oggetto delsindacato politico, essendo non l’atto ma ilcomportamento del governo di cooperazio-ne alla formazione dell’atto argomento del-la responsabilità politica: il che è già rile-vante sul piano delle relazioni tra Gabinettoe Camere parlamentari. Ma vi è di più.

Nella ipotesi che si delinea, in cui ilgoverno dichiara che l’atto è manifestazionedella volontà del capo dello Stato, assumen-dosi la responsabilità per l’assenso prestato,il contenuto effettivo del controllo parla-mentare si restringe sensibilmente, fino aridursi ad una fattispecie residuale ed estre-ma. Se infatti le Camere sanzionassero conla censura l’esito del controllo, non una cri-si politica si aprirebbe (ipotesi fisiologica),ma una vera e propria crisi costituzionale(ipotesi di rottura). Ne consegue che la pie-nezza della funzione di controllo viene meno,e, con essa, quella del rapporto di responsa-bilità politica del governo.

La conclusione cui si perviene, uguale aquella accennata prima a proposito specifi-camente della prerogativa della politica este-ra, è che si produce una retrocessione delrapporto di responsabilità politica, il cui cir-cuito si sottrae ai princìpi regolatori delsistema rappresentativo nella forma parla-mentare di governo. Il “figurino” del re cheregna e non governa si rivela astrazione, cosìcome l’altro “figurino” del rapporto diresponsabilità politica piena e diffusa traGabinetto e Camera elettiva.

L’ambigua formula della “copertura poli-tica della Corona” corrisponde in concreto aquesto regime della funzione di indirizzo. Ivalori cui è riferita la posizione costituziona-le del capo dello Stato, uno dei soggetti espo-nenziali che sono contraenti della carta con-

venzionale (non octroyée) dello Statuto, siriassumono in locuzioni del tipo del “supe-riore, unitario interesse della Nazione”, ma sirisolvono in termini di puro apprezzamentopolitico, e richiamano attività di indirizzo,salvo retoriche mistificazioni.

Il capo dello Stato dispone di un effi-ciente mezzo di persuasione per indurre ilgoverno a riconoscere la effettività delleattribuzioni della Corona, ed è il conseguen-te sottrarsi dello svolgimento della funzionedi indirizzo al sindacato politico parlamen-tare.

Neppure il governo, peraltro, puòammettere che si rendano nominali i suoipoteri, a profitto della Corona e dell’esta-blishment che vi si collega. Nemmeno ungoverno supinamente cortigiano (e non nesono mancati) potrebbe fare questo, per iriflessi immediati e penetranti che l’espli-carsi delle prerogative della politica estera edella politica militare provocano sull’interafunzione esecutiva, e in primo luogo suibilanci.

Quale conclusione se ne deve trarre nel-la ricostruzione del sistema? Nel campo del-le prerogative specialmente si afferma unastruttura binaria dell’esecutivo, i cui organisono il capo dello Stato e il Gabinetto, cia-scuno dotato di attribuzioni sostanziali, deli-mitate l’una rispetto all’altra in modo nonrazionalizzato, ma volta per volta determi-nato dal grado di solidarietà tra Gabinetto emaggioranza della Camera elettiva. Da talestruttura, e dal regime del suo atteggiarsi,deriva la riduzione del sindacato politicoparlamentare, segnatamente nei campi del-le relazioni internazionali e della funzionemilitare.

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9. Prerogative regie e regime parlamentare

La considerazione della rilevanza dell’ogget-to delle prerogative fa dubitare fondatamen-te della classificazione dell’ordinamento sta-tutario nella categoria del sistema parla-mentare, e della applicabilità ad esso delmodello di forma parlamentare di governo.

Si è preferito adottare la formula del regi-me parlamentare limitato, che però richie-de precisazioni, dubitandosi, in generale,della attendibilità del “figurino” parlamen-tare, secondo la critica, cui si aderisce, ser-ratamente condotta da Massimo SeveroGiannini16.

Anche nella ricostruzione storica è salu-tare guardarsi dalle schematizzazioni, anchequando sembrino avvalorate dal tenore let-terale di disposizioni e fonti, per non incor-rere nel pericolo denunciato dal monito dot-trinario appena ricordato:

[…] è un ben curioso modo di procedere quello diprendere un’esperienza costituzionale, di cacciar-la per forza nel barattolo del sistema parlamenta-re, e poi criticarla perché ne restano fuori i piedi.

Nel caso italiano dello Statuto albertino viè la retrocessione sensibile delle attribuzio-ni della rappresentanza, in una con il carat-tere elitario del regime, attestato dalla sele-zione nell’accesso al diritto di elettorato atti-vo, che verrà meno solo al suo tramonto.Sono le prerogative a determinare tale retro-cessione.

Politica estera e politica militare sonoelementi decisivi nella definizione e nellosvolgimento dell’indirizzo politico, in ognicaso, ma specialmente nello Stato italianoappena unificato. Gli atti di governo e di altaamministrazione nei due campi vincolano lestrategie di bilancio, il sistema della finanza

pubblica, produzione e consumi, nonché gliscambi di merci e l’approvvigionamento dimaterie prime, la ricerca scientifica, e lepolitiche dell’ordine pubblico.

La relazione al disegno di legge per lamodifica dell’articolo 5 dello Statuto alber-tino contiene affermazioni eloquenti in que-sto senso e, per la verità, valide anche oltrela congiuntura storica:

Le relazioni fra i vari Stati, vanno facendosi ognigiorno più frequenti e più intense ; non vi è ramodi attività umana nel quale non abbiano influenza– direttamente o di riverbero – accordi o conven-zioni internazionali; e dall’indirizzo e dalla con-dotta della politica estera dipendono gli aspetti piùvari della politica nazionale; possono essere limi-tate o vietate, incoraggiate o indirizzate correntidi traffici, scambi di prodotti, emigrazione di for-ze di lavoro o di ricchezza: possono essere rese piùrapide e più semplici comunicazioni di ogni gene-re […]; insomma, la vita degli Stati, nelle sue piùvarie manifestazioni, appare, ogni giorno più,dominata da intese e da patti che leghino i varipaesi; stretta e chiusa in una gran rete di accordiche mentre limitano le singole attività dei vari Sta-ti, rivelano come tutti i popoli siano sottoposti aduna legge di solidarietà, che vieta di compiere ulte-riormente una politica di chiuso egoismo.

Come si è accennato, bisogna tener con-to delle caratteristiche del nuovo Regno d’I-talia. Si tratta di uno Stato di secondaria sta-tura internazionale, segnato da forti squili-bri interni, la cui formazione avviene nellaindifferenza popolare, è osteggiata dallainfluente gerarchia religiosa, e appesantitada elevata disomogeneità sociale, culturale ecivile. In tale quadro, politica estera e poli-tica militare decidono le forme e gli orien-tamenti generali dell’indirizzo politico.

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10. Abolizione della prerogativa e suffragio uni-versale maschile

Nel discorso sulla fiducia, e nella giustifica-zione del progetto di riforma dell’articolo 5dello Statuto albertino, si fa esplicito riferi-mento alla recente introduzione del suffra-gio universale tuttora riservato ai soli eletto-ri maschi, ma liberato da ogni selezionelimitativa di ordine sociale. La premessa èsignificativa.

La relazione al disegno di legge affermache la sopravvivenza della prerogativa non èpiù ammissibile nel nuovo quadro istituzio-nale determinato dal suffragio universale(maschile):

È […] di manifesta evidenza come, nel campo del-la partecipazione del popolo – a traverso della suarappresentanza – al Governo della politica estera,non possa più seguirsi la via tenuta fin qui: essacondurrebbe all’assurdo che quanto più il popolosi elevasse, quanto più crescesse il suo diritto o lasua capacità di avere un peso decisivo nel Gover-no del Paese, tanto più questo Governo gli sfuggi-rebbe, perché continuerebbe ad essere retto daintese di gabinetti sottratte ad ogni pubblicità esottoposte – forse – solo ad un limitato controlloposteriore, più illusorio che reale.

In limpida sintesi è reso il quadro istitu-zionale effettivo del regime statutario quan-to alla condotta nelle relazioni internazio-nali, che si risolve, come è detto senza giri diparole, nelle «intese di gabinetti» sotto un«limitato controllo posteriore, più illusorioche reale» del Parlamento.

La relazione addita nel riconoscimentodel suffragio universale, che rimuove il prin-cipio di regime dello Statuto della selezionedell’accesso all’elettorato attivo, l’evento cherende inammissibile la prerogativa dellapolitica estera, riassunta nel quadro che si èappena richiamato. Del resto, il valore di rot-

tura della riforma risulta lampante quando siconsideri la teorizzazione del voto limitatoad opera della dottrina: chiare sono le paro-le dell’Arangio Ruiz, che si può citare tra itanti:

Non è lo spirito delle istituzioni, che deve deter-minare la base dello elettorato, bensì […] è nellecondizioni sociali che fu mestieri rintracciare labase, poiché tutti gli idonei debbono essere chia-mati al voto, nessuno fuori di essi17.

Sono i mutamenti della costituzionemateriale che si riflettono nella riforma. Laselezione sociale per l’accesso al diritto poli-tico dell’elettorato attivo, già originaria-mente fondata sul censo e in sèguito tempe-rata solo apparentemente dal requisito alter-nativo dell’acculturazione (che in quella Ita-lia equivale al censo, essendo elevatissima laquota di analfabetismo, che è quota di pover-tà spinta), identifica uno dei soggetti con-traenti il patto statutario, e ne è condizioneessenziale.

Si deve tener ben fermo il presuppostodella natura convenzionale della costituzio-ne statutaria, per intendere compiutamenteil valore della limitazione del diritto di elet-torato attivo, e non prestare fede alla tesi sulcarattere octroyé di uno Statuto liberamenteconcesso, come in disprezzo della verità sto-rica si pretende di affermare ancora mezzosecolo più tardi, da studiosi del livello diDomenico Zanichelli:

Quando si dice che il Re fu costretto a far ciò,quando si pretende di sostenere che Egli cedetteper paura d’una rivoluzione che lo sbalzasse daltrono, si erra fortemente […]. [Carlo Alberto]liberamente si convinse e liberamente concesselo Statuto18.

Con la eliminazione del principio (1912),che si conserva sostanzialmente intatto fino

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a quel momento, malgrado la réformetteDepretis, si fa strada una diversa concezio-ne del diritto politico di elettorato attivo, raf-forzata dal contemporaneo passaggio, altret-tanto significativo ma assai meno osservatorispetto al suffragio universale, che è la sosti-tuzione dell’iscrizione a domanda del citta-dino nelle liste elettorali con l’iscrizioneautomatica.

La nuova e diversa concezione è alla basedella giustificazione offerta al progetto direvisione dell’articolo 5. Infatti, il diritto dielettorato attivo non è più visto quale pote-stà di scegliere i governanti più idonei, i rap-presentanti per il miglior governo, ma comeapplicazione del principio della sovranitàpopolare. La forma rappresentativa non sicombina più con lo Stato monoclasse in cri-si.

11. La transizione repubblicana

L’interesse dell’episodio non è limitato alprogetto di superamento della prerogativa,ma si estende alla giustificazione di caratte-re generale che ne è motivazione, che inve-ste principi del regime costituzionale, fino atoccare la questione della attribuzione dellasovranità.

Se tutto il popolo è rappresentato, la rap-presentanza non può che essere espressio-ne di sovranità in senso proprio, ed i poteripolitici della Camera rappresentativa nonpossono ammettere limitazioni del tipo diquelle poste con la prerogativa, devoluta agliorgani costituzionali del potere esecutivo.

Si legge nella relazione al disegno di leg-ge per la revisione dell’articolo 5 dello Sta-tuto:

[…] un popolo potrebbe...trovarsi di fronte ad unaguerra dichiarata e deliberata ad opera del Gover-no e di fronte alla necessità ineluttabile della guer-ra, derivante dall’azione del suo Governo.

Ma è proprio questo che non può ammet-tersi:

[…] quando da una decisione dipendono insiemel’avvenire e l’esistenza stessa di un popolo, quelladecisione non può, non deve essere presa senzache il Parlamento la voglia e l’approvi.

Non viene celata la preoccupazione difondo che muove il governo a proporre lariforma, che racchiude due ragioni essen-ziali di politica costituzionale.

La prima ragione appartiene alla storiapolitica, ed è espressione della linea seguìtada Giolitti, mirante ad assorbire con pro-gressive riforme gli elementi di crisi e di rot-tura sociale e culturali addensatisi nellacomunità nazionale. I contributi storiogra-fici di Rosario Romeo ne sono la più aggior-nata e condivisibile ricostruzione.

La seconda ragione ha carattere più pun-tualmente istituzionale, e si traduce nell’im-pulso ulteriore al mutamento di regime pro-mosso dalla introduzione del suffragio uni-versale maschile che, sulla premessa impli-cita, mette in discussione la costituzionealbertina: si prende atto che è cambiata lacostituzione materiale dello Stato.

Questa linea di politica costituzionale èesposta in modo consapevole nella relazio-ne:

[…] sembra che sia diffuso un po’ dovunque uncerto senso di disagio nelle masse popolari, e siritiene - o si teme - da molti, che sia in quel dis-agio una insofferenza degli attuali ordinamenti;ma una più serena valutazione delle cose, mostra,invece, che nelle masse del popolo è nulla più cheuna forte aspirazione ad un più libero governo, che

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esse vorrebbero obbedisse meno al volere dipochi, e risentisse più l’influenza delle grandi cor-renti del pensiero nazionale. Dare quindi al popo-lo la possibilità di sapere che nelle assemblee par-lamentari, che sono una sua legittima rappresen-tanza, tutti i problemi di politica estera sono sot-toposti a sereno ed ampio dibattito, soprattutto adecisivo dibattito, è, oltre che giusto, somma-mente utile ai fini di una politica di pace e di lavo-ro, perché è ovvio che debba rifuggire da atteggia-menti violenti e da decisioni arrischiate il popoloche sappia poter essere l’arbitro delle proprie sor-ti e l’artefice del proprio avvenire e che sia sicurodi poter foggiare con libera volontà le armi della

propria elevazione e gli strumenti del proprio pro-gresso.

Ancora una volta, non si potrebbe esse-re più chiari di così.

Il governo Giolitti avrà una breve vita, edella proposta riforma dell’articolo 5 nonresterà che il disegno di legge. Gli avveni-menti successivi porteranno ad un regime disegno diverso da quello auspicato: il princi-pio rappresentativo non muterà la sua base,ma sarà soppresso.

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1 Sul dibattito preelettorale del 1919si leggono ancora utilmente le con-siderazioni di G. Perticone, La cri-si della democrazia e la lotta dei par-titi (1915-1920), in La politica italia-na nell’ultimo trentennio, Roma,Leonardo, 1945, pp. 324-335.

2 Giovanni Giolitti, Memorie dellamia vita, a cura di Olindo Malago-di, Milano, Treves, 1922, II, pp.556-557.

3 Cfr. Silvano Labriola, Storia dellacostituzione italiana, Napoli, Edi-zioni scientifiche italiane, 1995,pp. 173-202.

4 Cfr Gaetano Arangio Ruiz, Istitu-zioni di diritto costituzionale italia-no, Torino, Unione TipograficaEditrice, 1913, pp. 566-578.

5 Atti del Parlamento, LegislaturaXXV, I Sessione, Camera dei depu-tati, Discussioni, 24 giugno 1920,p. 2221.

6 Ibidem.7 Cfr sul punto, Paolo Colombo, Il Re

d’Italia. Prerogative costituzionali epotere politico della Corona (1848-1922), Milano, Franco Angeli,1999, pp. 320-324.

8 Giovanni Giolitti, Memorie dellamia vita, cit., p. 540.

9 Atti del Parlamento, cit., p. 2221.10 Gaetano Arangio Ruiz, Storia costi-

tuzionale del Regno d’Italia, [Tori-no, 1898], presentazione di Leo-poldo Elia, introduzione di Loren-za Carlassare, Napoli, Jovene,1985, pp. 33-57.

11 Giorgio Arcoleo, Diritto costituzio-nale. Dottrina e storia, Napoli, Toc-co, 1907, p. 379.

12 Sidney Sonnino, Torniamo allo Sta-tuto, in «Nuova Antologia», 1897.

13 V. «Studi giuridici», V, 1936, pp.15 ss., 52 ss.

14 Cfr Paolo Colombo, Il Re d’Italia.

Prerogative costituzionali e poterepolitico della Corona (1848-1922),cit., pp. 352-368.

15 Federico Chabod, Storia della poli-tica estera italiana dal 1870 al 1896.Le premesse, Bari, Laterza, 1951, pp.654-692.

16 Nella nota Prefazione all’edizioneitaliana dell’opera di Georges Bur-deau, Il regime parlamentare nelleCostituzioni europee del dopoguerra,Milano, Edizioni di Comunità,1950.

17 Gaetano Arangio Ruiz, Storia costi-tuzionale del Regno d’Italia, cit., p.352.

18 Domenico Zanichelli, Lo Statuto diCarlo Alberto, in Studi di storia costi-tuzionale e politica del Risorgimentoitaliano, Bologna, Zanichelli,1900, pp. 92-93.

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Organes et dépositaires des lois, Magistrats respecta-bles, elle est faite pour vous cette Science.

Du Pont de Nemours, Physiocratie ou constitution naturelledu gouvernement le plus avantageux au genre humain, Yver-don, 1768, p. LIX.

La pensée politique des physiocrates a faitl’objet d’études remarquables et désormaisclassiques1. S’inspirant de ces travaux, juri-stes et politologues se réfèrent à l’ordinaireà ce courant soit pour marquer son influen-ce sur la Déclaration des Droits de 17892 soitpour relever son rôle essentiel dans l’émer-gence et la promotion de la figure du cito-yen-propriétaire, si présente lors de laRévolution française3.

En regard, nous voudrions démontrerque la doctrine de Quesnay et ses disciples aégalement pour caractère essentiel de con-stituer la théorie la plus aboutie produite enFrance au XVIIIème siècle en faveur du con-trôle juridictionnel de la loi, et que l’on nepeut de ce fait s’interroger sur la genèse decette idée dans ce pays sans évoquer la con-

tribution de ceux que l’on nommait alors« les Economistes », et qui, au moyen d’u-ne riche production éditoriale défendirentauprès de leurs contemporains le modèle du« despotisme personnel et légal », dit éga-lement « monarchie économique ». Pour lecomprendre, il convient de présenter lesfondements essentiels de ce corps de doc-trine pensé sous la forme d’un système (1)lequel emportait en toute rigueur au sens desmembres de l’École la nécessité d’un con-trôle juridictionnel de la loi positive (2).

1. L’axiologie des physiocrates ou le primat dela loi naturelle

La physiocratie se présente comme unethéorie générale de l’organisation socialeayant pour objet la totalité des rapports del’Homme avec la société, ce que traduisait lesous-titre du moniteur officiel de l’école, les«Ephémérides du citoyen», qualifié à des-sein de Bibliothèque raisonnée des sciences

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La doctrine physiocratique du contrôlejuridictionnel de la loi positive

marc lahmer

giornale di storia costituzionale n. 4 / II semestre 2002

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morales et politiques. Dans ce cadre, partici-pant de l’esprit du siècle4, cette doctrinetirait sa spécificité et sa cohérence d’unpostulat, à savoir l’affirmation de l’existen-ce d’un ordre naturel consistant dans unensemble de lois physiques et morales éta-blies par la Providence, lesquelles formaientce que les physiocrates appelaient – de façonindistincte – le droit naturel ou la loi natu-relle, c’est-à-dire l’ensemble des conditionsessentielles auxquelles les hommes doivents’assujettir s’ils veulent prospérer. Précisé-ment, la physiocratie, science du droit natu-rel appliqué à la société, se proposait dedéterminer les termes de cette application,ainsi que ses voies et moyens5.

Du Pont de Nemours, doué pour rendrede façon synthétique les enseignements dumaître Quesnay, s’en était expliqué:

Il y a – avait-il affirmé – un ordre naturel, essen-tiel et général, qui renferme les lois constitutiveset fondamentales de toutes les sociétés; un ordreduquel les sociétés ne peuvent s’écarter sans êtremoins sociétés, (…) un ordre qu’on ne pourraitabandonner entièrement sans opérer la dissolu-tion de la société et bientôt la destruction absoluede l’espèce humaine6.

Bref, la nature, harmonieuse et ordonnéepar un dessein divin, prescrivait des lois dites« fondamentales » ou lois de nature, à ladéfinition desquelles les hommes ne pou-vaient participer: « c’est par la nature inva-riable des choses », disait ainsi Mercier de laRivière, « et non par la volonté ambulatoiredes hommes que les lois se trouvent être fon-damentales ». Sur cette base, il incombait àla puissance publique de les transcrire dansles lois constitutionnelles, dites « constitu-tives », et ordinaires, dites « positives ».

Or, cela impliquait que la loi positive par-ticipait d’un acte de connaissance et non de

volonté, puisqu’elle consistait exclusivementdans la transcription dans le for interne d’u-ne norme supérieure. Du Pont avait eu sur cesujet une formule frappante:

Les lois sont des règles de justice, de morale, deconduite utiles à tous et à chacun – avait-il posésous forme de principe. Les hommes ni leur gou-vernement, ne les font point et ne peuvent pointles faire. Ils les reconnaissent comme conformesà la raison suprême qui gouverne l’univers; ils lesdéclarent, ils les portent au milieu de la société[…]. C’est pour cela qu’on dit porteur de loi, légis-lateur et recueil des lois portées, législation, etqu’on n’a jamais osé dire faiseur de loi, légisfac-teur ni légisfaction7.

Autrement dit, « le pouvoir législatif nepeut être celui de créer, mais celui de décla-rer les lois », puisque la loi positive est ratio,non voluntas. Il s’agissait là d’un des pointscapitaux de la doctrine, que les membres del’Ecole exposaient sans cesse: « le terme defaire des lois est une façon de parler fortimpropre », rapportait ainsi Mercier de laRivière, puisqu’à son sens en effet le pou-voir législatif consistait dans

le droit exclusif de manifester par des signes sen-sibles aux autres hommes les résultats des loisnaturelles et essentielles de la société (et) n’estdonc que le pouvoir d’annoncer des lois déjà fai-tes nécessairement, et de les armer d’une forcecoercitive8.

Ainsi, les lois naturelles devaient être« déclarées », ce qui dans l’acception tech-nique utilisée par les physiocrates signifiaitqu’elles devaient être transposées dans ledroit positif. De ce fait, la puissance publi-que était exclusivement préposée à appliquerun ordre juridique autonome et préexistant,à verser la loi de nature dans la loi positive,à la concrétiser. S’il pouvait en être ainsi,c’est que la loi naturelle était susceptible d’ê-

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tre découverte et saisie par l’Homme, sansquoi elle serait inutile et constituerait alorsla preuve manifeste du défaut de sagesse duCréateur.

Les physiocrates en effet développaientune épistémologie spécifique de la connais-sance, centrée sur la notion d’Evidence,définie comme une « certitude si claire et simanifeste par elle-même que l’esprit nepeut s’y refuser », et qui de ce fait consti-tuait au profit de l’individu un discernementexact de ses vrais intérêts9. De fait, l’Hom-me pouvait avoir une connaissance éviden-te de la loi de nature et se déprendre ainsi de« l’opinion », c’est-à-dire de l’erreur issuedes passions et de l’exercice non raisonna-ble de sa volonté10.

Ainsi le binôme évidence/opinion cor-respondait chez les physiocrates à leur pro-pre version d’une distinction essentielle enson temps à la pensée politique des Anciens,opposant techne et doxa, laquelle discrimi-nait la politique scientifique de l’erreurcommune. Ainsi, en tant qu’objet de con-naissance, la loi de nature, « la loi des lois,la tige et le tronc de toutes les lois »11 formaitune règle infaillible de laquelle les hommespouvaient déduire une législation complète,de sorte qu’ils devaient s’interdire de rienconcevoir et d’ajouter par eux-mêmes souspeine d’établir le désordre. Ainsi les loisvisibles de l’ordre naturel renfermaient leslois nécessaires de l’ordre social, de sorteque la physiocratie – terme forgé en 1767 parBaudeau – étymologiquement, gouverne-ment de la nature, était possible, et tendait àl’institution d’une société régie par le despo-tisme de la loi de nature, dit égalementdespotisme de l’évidence.

Dans ce cadre, le droit naturel, «cefonds, ce principe et cet éternel prototype de

toutes bonnes lois possibles »12, se réalisaitpleinement dans le droit de propriété. End’autres termes, il leur paraissait

évident que la protection du droit de propriété,tant personnelle que foncière et mobilière, est lagrande, la sublime et peut-être l’unique fonctionde tous les gouvernements13.

Plus encore, ces penseurs qui tiennentune place déterminante dans l’histoire del’économie politique professaient dans cet-te matière une doctrine moniste exclusive-ment favorable à l’agriculture. En effet, dansleur optique, seule l’activité humaine appli-quée au domaine de l’agriculture était véri-tablement créatrice de richesses, en cequ’elle permettait de dégager un « produitnet », c’est-à-dire un excédent de valeur misà la disposition de la communauté, lequelconsistait précisément dans l’excédent duproduit des terres, défalcation faite desdépenses du travail et de la culture.

Ainsi, les physiocrates qualifiaient de« productive » la classe des agriculteurs etde « stérile » celle des industriels et com-merçants, car ces activités s’exerçant sur desmatières fournies par l’agriculture étaientcertes génératrices d’une valeur ajoutéemains non d’un « produit net », seulinstrument de mesure et d’accroissement dubien-être et de la prospérité en société. Con-séquence notable de ce choix, les proprié-taires fonciers faisaient seuls essentielle-ment partie du corps politique. De fait, lapolitique des physiocrates se voulait simple:« sûreté des propriétés: voilà tout le pactesocial en trois mots », disaient-ils, « l’a-brégé de toutes les lois naturelles, et le ger-me unique des vraies lois positives ».

Ainsi, en ce que la loi positive, applica-tion de la loi naturelle, traduisait la volonté

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de Dieu, c’est, selon un terme qu’ils emplo-yaient eux-mêmes, à une véritable « théo-cratie » que les Economistes entendaientaboutir, dans laquelle « le droit de législa-tion (…) n’est à personne », puisque lavolonté humaine n’y a aucune part, ce quetraduisait la devise de Quesnay, Ex natura jus,ordo et leges, ex homine arbitrium, regimen etcoercitio.

Or, cette conception très connotée de la loiemportait au sens des physiocrates une con-séquence fondamentale en matière d’organi-sation des pouvoirs publics, à savoir une con-damnation de principe de la balance des pou-voirs et du gouvernement mixte14. En effet, ladoctrine physiocratique fut à l’origine de laréfutation la plus systématique produite auXVIIIème siècle contre ce mode spécifique dedistribution des pouvoirs, qu’ils désignaientordinairement du terme de « contreforces »,en ce qu’ils y voyaient un régime politiquedébile créateur d’un pouvoir législatif arbi-traire, impropre à produire des normes juri-diques conformes au droit naturel.

En effet, dans l’optique physiocratique,chaque organe simple de législation étaitdestiné à la défense et promotion d’intérêtsspécifiques contradictoires avec l’unitéd’intérêt propre à la société, contenue enl’espèce dans l’intérêt des propriétairesfonciers. Ainsi, disaient-ils, « l’évidence nesaurait avoir de contrepoids. Les élémentsd’Euclide n’en eurent jamais »15, et dénon-çaient de ce fait

la balance des opinions, la balance des intérêts, labalance des pouvoirs, (…) toutes les balances ima-ginables, à la réserve de celle de la justice et dudroit naturel16.

De fait, ces rationalistes ne pouvaientconsentir à une forme institutionnelle qui,

estimaient-ils, faisait s’aheurter des intérêtssociaux exclusifs en dehors de toute recher-che de la Vérité, de sorte que, véritable« maladie sociale », elle entretenait au seinde l’Etat des discordes civiles dans le cadred’une guerre intestine. En d’autres termes,pour les Economistes, à l’opposition évi-dence / opinion correspondait dans l’ordrepolitique l’opposition despotisme légal /contreforces. Ainsi s’explique par exempleque Turgot devait dans sa Lettre au DocteurPrice du 22 mars 1778 condamner sans appelle constitutionnalisme américain naissant,précisément fondé sur la balance des pou-voirs17.

Mais, déjà, dans son Ordre naturel etessentiel des sociétés politiques, Mercier de laRivière avait consacré à ce sujet un chapitreentier, intitulé Réfutation du système chimé-rique des contre-forces établies pour balancerl’autorité tutélaire dans le gouvernement d’unseul, dans lequel il marquait l’irréductibili-té l’une à l’autre de ces deux logiques insti-tutionnelles que sont le despotisme légal etla balance:

Ceux qui ont imaginé le système des contre-for-ces – argumentait-il – ont pensé que le pouvoirdu Souverain pouvait être modifié par un autrepouvoir opposé, tel que celui d’une puissance éta-blie pour en être le contre-poids et le balancer. Sidans l’exécution de cette idée bizarre, poursui-vait-il, on pouvait parvenir à instituer deux puis-sances parfaitement égales, séparément ellesseraient toutes deux nulles […]. Si au contraireelles étaient inégales il n’y aurait plus de contre-forces. Sous quelque face que nous considéronsce système spécieux, nous y trouverons donc lesmêmes contradictions: il consiste au fond à oppo-ser une opinion à une autre opinion, des volontésarbitraires à d’autres volontés arbitraires […].Dans cet état – concluait-il – il est impossible queles intérêts particuliers ne soient pas la mesure dela résistance […] il est impossible qu’entre cesmêmes forces ne se perpétue pas une guerre sour-

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de et insidieuse […], destructive, qui se fait tou-jours aux dépens des intérêts de la nation18.

De fait, la contention entre partisansrespectifs de l’autorité tutélaire et de labalance devait être dans le dernier tiers duXVIIIème siècle une constante du débat poli-tique français. Dans ce cadre, Mably notam-ment rédigea ses Doutes proposés aux philoso-phes économistes sur l’ordre naturel et essentieldes sociétés politiques à l’effet de réfuter Mer-cier de la Rivière dont L’ordre naturel, succèsd’édition, venait de frapper les esprits à l’a-vantage de l’École. En réaction, l’abbé réaf-firma que le partage du pouvoir législatifconstituait le tempérament politique parexcellence: « notre auteur », écrivit-il en cesens en désignant Mercier,

qui cherchait des gardiens et des protecteurs auxlois, ne s’est pas aperçu qu’il ne les trouverait quedans un gouvernement tempéré. […]. Que n’exa-minait-il – rétorquait en effet Mably inversant lalogique de ses adversaires – les ressorts du gouver-nement mixte [dans lequel] les classes de citoyens[…] apprennent à n’avoir qu’un intérêt commun,parviennent à connaître la vérité par le secours dela discussion [et où] tous les ordres de la société sebalancent, […] se tiennent en équilibre19.

Au final, au rebours des partisans de labalance, les physiocrates en tenaient defaçon exclusive pour « l’évidence, l’uniquecontre-force » à leur sens, ainsi que l’écri-vit Diderot, un temps sectateur de l’Ecoleavant de s’en déprendre sans retour.

De fait, hostiles par principe à la distri-bution du pouvoir législatif entre différentsorganes, les membres de l’École en tenaientpour « l’unité de pouvoir ». Par ce terme,ils entendaient une monarchie dans laquel-le le roi, instruit des lois de l’ordre et doté defaçon exclusive de l’intégralité des fonctions

législative et exécutive, était destiné à trans-crire la loi naturelle dans le droit positif:Dans cette configuration, « la loi saisit leroi… » écrivait le marquis de Mirabeau, desorte que l’ordre social était conformé à l’or-dre naturel20. On notera toutefois que, s’in-scrivant dans la tradition du droit publicfrançais qui prônait l’exercice par le roi de lasouveraineté après aide et conseil, les Eco-nomistes jugeaient nécessaire l’institutiond’un conseil de sages. Quesnay lui-mêmeavait jugé ce point fondamental, estimantindispensable

un conseil aulique permanent et nombreux desprudes de toutes les classes, pour la directiongénérale du royaume. Sans quoi », ajoutait-il, « ilest inutile de parler monarchie; car autrement lamonarchie ne peut être qu’une folle le glaive à lamain21.

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Mais, au-delà de l’établissement d’un telconseil, ce type de régime n’était pas à leursens sans garanties, lesquelles étaient deplusieurs ordres. En premier lieu, le souve-rain, par l’impôt foncier qu’il prélevait, étaitcopropriétaire du produit net, ce qui impli-quait une identité entre ses propres intérêtset ceux des propriétaires, puisque, tout com-me eux, il avait avantage à l’accroissementde ce produit et était porté de ce fait à ne rienentreprendre contre la propriété, expressionsociale privilégiée du droit naturel.

Mais, surtout, les physiocrates enten-daient donner à l’évidence la plus grandepublicité possible afin de l’appuyer de la for-ce irrésistible de l’opinion publique. Cespublicistes, en effet, comme beaucoup deleurs contemporains, prêtaient à l’opinionpublique -terme valorisé, distinct de celui,négatif, d’opinion- une force irrésistible quis’imposait au gouvernement22.

Dès lors, il s’agissait de la gagner à laphysiocratie afin d’assurer l’effectivité d’unordre naturel rationnel pleinement objectifmais entravé jusqu’alors par les passions:« C’est plutôt », écrivit Le Trosne à ce sujet,« l’opinion qui gouverne les hommes que laraison; il s’agit donc de savoir la diriger pourmaîtriser et transformer les hommes ».

Autrement dit, l’évidence devait êtrerendue « manifeste » pour s’imposer auxesprits. Pour ce faire, il était impératif d’as-surer la « publicité » des lois de l’ordrenaturel, en premier lieu dans le cadre d’uneinstruction publique, « le premier, le vrailien social » à leurs yeux23. Par ailleurs, con-vaincus que l’erreur ne pouvait se soutenirdevant l’évidence, ils étaient favorables à laliberté de la presse conçue comme un appuidéterminant à cette diffusion. Alors, esti-maient-ils, dans une société parvenue à uneconnaissance évidente et publique de l’ordre

naturel, il serait procuré aux individus lagarantie de leurs libertés et de leurs pro-priétés, car de fait c’est cette opinion publi-que instruite qui

deviendrait la contreforce la plus puissante et laplus forte barrière qui pût jamais être opposée auxprétentions mal fondées des sujets, et aux volon-tés arbitraires du souverain24.

Mais, par ailleurs, les Economistes con-cevaient une garantie d’un tout autre ordre,qui s’inscrivait quant à elle dans l’organisa-tion même des pouvoirs publics, et faisaitintervenir le juge, exerçant plus que toutautre, un « ministère grave ».

2. Le contrôle juridictionnel de conformité de laloi positive à la loi naturelle

On peut contester à la physiocratie ses pré-misses axiologiques mais non sa cohérenced’ensemble en tant que système de pensée.

En effet, ces publicistes, qui concevaientfondamentalement la loi positive commeune norme secondaire et conditionnée, ontjugé indispensable de s’assurer de la con-formité de celle-ci par rapport à la normesupérieure afin de se garantir d’un légisfac-teur qui, de facto, contreviendrait à la hié-rarchie des normes et établirait le désor-dre25. Les droits et devoirs des individusétant fixés par la nature, il était nécessairede s’assurer que le despotisme de la naturepuisse prévaloir sur toute expression juridi-que de la volonté humaine, arbitraire paressence: de là l’institution d’un contrôle apriori et par voie d’action au profit du jugeappelé à remplir une «fonction indispensa-ble et sainte».

En effet, «le pouvoir législatif consis-

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t(ant) à déduire, à appliquer, à déclarer»26,il revenait aux juges - dont le premier devoir,avant même d’étudier le droit positif, étaitd’être instruits de la raison primitive des lois,en d’autres termes de connaître le droit natu-rel - de s’assurer de l’exactitude de la déduc-tion opérée par le monarque et d’attester auxmembres de la société, susceptibles en casd’atteinte à leurs droits de se mobiliser entant qu’opinion publique, que la loi naturel-le avait été «déclarée», c’est-à-dire correc-tement transcrite dans la loi positive.

Cette conception structure l’œuvre desphysiocrates qui étaient des partisans déter-minés d’un pouvoir judiciaire distinct etindépendant du roi, détenteur quant à lui despouvoirs législatif et exécutif. Malheureuse-ment, si elle a été exposée dans son princi-pe, le détail sur la procédure envisagée faitdéfaut de sorte que l’on peut simplementaffirmer que toute ordonnance du roi, avantd’être promulguée en tant que loi positive,devait avoir été soumise de droit à un ou destribunaux -leur nombre n’est pas donné-compétents pour en connaître. Dans leDespotisme de la Chine, Quesnay a dit peu dechoses à ce sujet, mais par les mots qui sui-vent, Du Pont a dit traduire la pensée duMaître:

Les ordonnances sont l’ouvrage des hommes (et)il est dans leur nature de demeurer sujettes à l’e-xamen, et d’être révocables quand il devient évi-dent qu’elles ne sont pas d’accord avec les lois27.

De fait, il revenait aux juges d’attester auxmembres du corps social que la loi était unerègle de justice et d’équité et qu’ils leurdevaient obédience.

Le Mercier de la Rivière, qui devait écri-re son Ordre naturel et essentiel des sociétéspolitiques sous l’inspection de Quesnay, est

celui qui a le plus insisté sur ce point impor-tant:

Puisqu(e les magistrats) doivent toujours avoirpour guide l’évidence de la raison primitive etessentielle des lois – prétendait-il – le témoigna-ge évident qu’ils rendent aux lois nouvelles […] estdonc pour les autres hommes une preuve suffi-sante qui établit en eux la certitude de la justice etde la nécessité de ces nouvelles lois; or cette cer-titude étant ce qui assure nécessairement une sou-mission constante aux lois, la magistrature setrouve être ainsi le lien commun qui unit l’Etatgouverné à l’Etat gouvernant28.

Ainsi, au moyen de ce contrôle juridic-tionnel destiné à protéger les droits fonda-mentaux, le corps social était prémuni con-tre l’arbitraire du roi et l’État était assuré del’obéissance à la loi positive.

De ce fait, le jeune La Vauguyon, à l’occa-sion précisément d’une réponse à Mably qui,nous l’avons vu, avait attaqué l’École au motifqu’elle ignorait la garantie essentielle de ladistribution des pouvoirs, s’appliqua enretour à lui faire observer que suivant lesEconomistes les magistrats auxquels étaitconfiée la garde de la loi participaient parleur ministère d’un mécanisme de protec-tion de la liberté, pleine et entière, effectiveet efficace:

Nous regardons – objecta-t-il en effet à l’abbé –comme la base essentielle d’une administrationéclairée, les tribunaux qui décident, d’après leslois positives, des biens, de l’honneur et de la viedes citoyens; et qui doivent être instruits des loisnaturelles, de l’ordre social, pour comparer dansleur institution les lois positives de l’administra-tion avec les lois naturelles et essentielles consti-tutives de tout gouvernement. [...]. Pourquoi,Monsieur, ardez-vous toujours le silence sur unecondition essentielle de la législation dans lesmonarchies: c’est le devoir des tribunaux dansl’admission des lois. Ces tribunaux dans unenation éclairée, sont nécessairement instruits des

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lois naturelles et constitutives, dont les lois posi-tives de l’administration ne doivent être que desactes déclaratoires, revêtues d’une sanction quiassure d’autant plus l’obéissance que l’on doit àces lois sacrées. Ce sont les lumières des magi-strats, c’est la fonction respectable d’en faire l’ap-plication dans l’examen préalable des nouvelleslois positives qui s’opposent aux effets de la séduc-tion et de la surprise dans le Souverain. Les ordon-nances que celui-ci promulgue, et a seul le droit depromulguer, ne deviennent exécutables, et ne for-ment proprement des lois qu’après qu’elles ontété vérifiées par les Magistrats29.

De ce fait, Charles de Butré avait raisonde caractériser dans les termes suivant ladoctrine des Economistes et de la disculperce faisant du reproche qui lui était adresséde ressortir à une logique d’auto-limitationdu pouvoir:

Personne ne doutera – disait-il – que l’opinionpublique bien établie et entretenue par uneinstruction continuée ne soit un frein très fortpour les passions même, quoique je ne croie pasfacile de décider si elle serait dans tous les cascapable de les arrêter. Il pourrait donc arriver quele despotisme légal tendît vers l’arbitraire, s’il n’a-vait pas d’autre frein que l’évidence. Et c’est pour-quoi – précisait-il – les Philosophes Economistesy ajoutent l’honneur et l’intérêt des Magistrats,qui ne sont point Législateurs, mais qui sont char-gés de vérifier les lois positives que le souveraincroit nécessaires, en les comparant avec les loisnaturelles de l’ordre social. Le devoir que la con-science impose à ces magistrats, le devoir négatifque leur donne l’évidence de la justice et de la rai-son, la nécessité que la conformité des ordonnan-ces nouvelles avec les lois de la justice par essen-ce soit constatée par leur examen, avant que cesordonnances puisent être mises à exécution, ontparu très propres à seconder, au milieu d’unenation éclairée, le pouvoir de l’évidence: qui elle-même facilite aux Magistrats l’accomplissementdes devoirs essentiels de leur ministère, et leurassure l’usage des droits respectables, qui leur sontconfiés pour l’intérêt commun de la Nation et duSouverain30.

Au demeurant, s’il fallait citer un seultexte en ce domaine, ce serait un extrait dulivre intitulé De l’origine et des progrès d’unescience nouvelle, précisément en ce que cetouvrage rédigé par Du Pont de Nemours étaitun précis destiné à vulgariser la Science etvalait de ce fait pour ses qualités didactiques.Il y est exposé en effet l’essentiel de la justi-fication développée par les Economistes àl’appui du contrôle:

L’autorité souveraine, y représentait l’auteur, n’estpas instituée pour faire des lois; car les lois sonttoutes faites par la main de celui qui créa les droitset les devoirs. De ce fait, les ordonnances des sou-verains qu’on appelle lois positives ne doivent êtreque des actes déclaratoires de ces lois essentiellesde l’ordre social [et] il y a […] un juge naturel etirrécusable des ordonnances mêmes des souve-rains, et ce juge est l’évidence de leur conformitéou de leur opposition aux lois naturelles de l’ordresocial. […]. Ainsi, ce qu’on appelle le pouvoirlégislatif, qui ne peut pas être celui de créer, maisqui est celui de déclarer les lois, et d’en assurerl’observance, appartient exclusivement au souve-rain, parce que c’est au souverain que la puissan-ce exécutive appartient exclusivement, par la natu-re de la souveraineté même [...]. Par la raisonmême que le souverain a la puissance législative etla puissance exécutive, la fonction de juger les cito-yens est incompatible avec la souveraineté, [puis-que, consistant dans] l’application de la loi à descas particuliers [elle] entraîne la recherche d’uneinfinité de faits particuliers, à laquelle le souverainne peut se livrer, [au risque, de surcroît, de] neplus savoir s’il parle comme législateur ou commejuge.

Il faut donc, poursuivait-il,

qu’il y ait des magistrats établis pour faire l’appli-cation des lois, pour examiner les contestationsqui s’élèvent entre les particuliers31, et mêmeentre le souverain, comme protecteur du public, etles particuliers accusés d’avoir violé l’ordrepublic32, et pour déclarer, après un examen suffi-

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sant, qu’un tel est dans tel cas, sur lequel la loi aprononcé. Pour qu’il soit évident que les magi-strats aient apporté un examen suffisant dans lesaffaires soumises à leur jugement, il faut qu’ilssoient assujettis à des formes qui constatent cetexamen33. Le droit de régler ces formes appartientau souverain comme une branche de la législationpositive.

Mais, en outre, indiquait Du Pont,

les magistrats étant chargés de juger d’après leslois positives et conformément aux règles pre-scrites par les lois positives, et ayant à décider ain-si des biens, de la vie, de l’honneur de leurs cito-yens, ils sont religieusement obligés de commencer parjuger les lois positives.

En effet, insistait-il,

il est évident qu’un magistrat serait coupable, quise chargerait de prononcer des peines contre sessemblables, d’après des lois évidemment injustes.

Les magistrats – insistait-il – doivent donccomparer les ordonnances positives avec les lois de lajustice par essence, qui règlent les droits et les devoirsde chacun, et qui sont ainsi la base de l’ordre social,avant de s’engager à juger d’après ces ordonnances.(...)34.

L’examen auquel les magistrats sont obli-gés – précisait-il aussitôt – ne saurait être préju-diciable à l’autorité souveraine; car l’autorité sou-veraine n’étant telle que parce qu’elle est déposi-taire des forces publiques, elle n’a d’autre intérêtlégal que celui d’accroître, par les meilleures loispositives, ces forces qui sont à sa disposition […].Quand il échappe donc une erreur aux souverainsdans leurs ordonnances positive, ce ne peut êtrequ’involontairement, et les magistrats les serventutilement, fidèlement et religieusement, en leurfaisant remarquer ces erreurs involontaires.

Enfin, concluait-il,

pour que les magistrats puissent remplir cettefonction inséparable de leur ministère, la fonc-tion importante de vérifier les ordonnances posi-tives en les comparant avec les lois naturelles etessentielles de l’ordre social, il faut […] que lesmagistrats soient très profondément instruits de

ces lois primitives et fondamentales de toutesociété. Pour être certain que les magistrats sontéclairés et suffisamment instruits des lois natu-relles de l’ordre social, il faut que l’on puisse jugerde leur degré d’étude et de leur capacité à cetégard35.

Ainsi, le juge, garant de l’ordre, avaitpour fonction essentielle de rapporter la loiordinaire à la loi de nature, afin de vérifiersi elle en était bien une norme d’application.Pour ce faire, il disposait d’un critère de con-formité, défini strictement, sur le plan for-mel tout au moins. En effet, la propriétéétant la raison de toutes les lois positives,l’accroissement du produit net faisait le cri-tère sur la base duquel l’adéquation à la loinaturelle de la loi positive devait être éva-luée. Quesnay l’avait dit dans son Despotismede la Chine:

Il faut – avait-il considéré – que le conseil du légis-lateur, et les tribunaux qui vérifient les lois, soientassez instruits des effets des lois positives sur lamarche de la reproduction annuelle des richessesde la nation, pour se décider sur une loi nouvellepar les effets sur cette opération de la nature.

De même, Du Pont avait fait écho au maî-tre:

Il n’y a aucune ordonnance positive, sur laquelleon ne puisse proposer cette question: s’agit-ild’augmenter nos moissons, d’élever nos enfants, etd’accroître les revenus du prince; ou de brûler nos récol-tes, d’étouffer notre postérité, de ruiner les financespubliques? La solution de cette question discutéejusqu’à l’évidence par les magistrats, rappelleratoujours à un monarque héréditaire et co-pro-priétaire, quelle est sa véritable volonté36.

On voit combien un tel critère était intel-lectuellement grossier et susceptible audemeurant d’une interprétation. Il faut tou-tefois relever qu’il est congruent avec lemonisme économique de l’École et qu’il était

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formulé dans le cadre d’une représentationde l’État gendarme, dont le premier devoirétait celui de l’abstention législative, en pleinaccord avec le principe du laisser faire37.D’ailleurs, les lois « fondamentales » aux-quelles les juges devaient se reporter étaientelles-mêmes peu nombreuses, et simplesdans leur substance. Pour un publicistephysiocrate, elles figuraient pour l’essentieldans les Maximes générales du gouvernementéconomique d’un royaume agricole de Que-snay, ainsi que Du Pont l’expliquait: « lesMaximes générales », écrivait-il en effet dansun propos introductif à ce texte, « réunissentles principales lois naturelles et immuablesconformes à l’ordre ». On pouvait de la sor-te constater, poursuivait-il, « à quel petitnombre de propositions se réduisent les loisfondamentales du bonheur des sociétés »38.

De fait, le courant physiocratique, par lapromotion d’un mécanisme du contrôlejuridictionnel de la loi, s’inscrivait, pourreprendre la distinction formulée par M.Manin, non dans le « libéralisme par labalance » qui limite l’action de l’État par ladistinction et l’opposition de ses organes,mais bien dans le « libéralisme par la règle »qui circonscrit la sphère d’action de la puis-sance publique39.

Compte tenu de ces éléments, on est con-duit à s’interroger sur une éventuelle paren-té de ce courant de pensée avec les thèsesparlementaires, d’autant qu’un auteur telque Mathiez a pu voir dans le système de l’É-cole une expression d’obédience parlemen-taire40.

Pour notre part, il nous semble que si dessimilarités peuvent, et doivent, être relevées,on ne peut toutefois conclure à l’identité desdoctrines, prises dans leur pureté concep-tuelle.

En effet, des différences significativesexistaient, qui portaient tant sur l’argumen-taire que sur le climat propres aux deux corpsde doctrine. C’est ainsi qu’à travers leursremontrances ou bien encore leurs manife-stes les plus significatifs tels que les Lettreshistoriques sur les fonctions essentielles du par-lement de Le Paige (1753-54), les Maximes dudroit public français par un collectif (1772) etle Catéchisme du citoyen de Saige (1775), lesparlements, revendiquant la succession desplaids de l’époque mérovingienne et caro-lingienne, présentés comme les assembléesgénérales de la nation, prétendaient repré-senter à leur tour la nation, et à ce titre, aumoins dans l’intervalle des Etats généraux,avoir la mission et le pouvoir de consentiraux lois en son nom.

Or les physiocrates étaient non seule-ment étrangers à cette logique qui partici-pait de la promotion du principe de la sou-veraineté nationale, mais plus encore hosti-les puisque partisans quant à eux d’une sou-veraineté de la raison41. Ainsi, pour l’essen-tiel, les remontrances des Cours souverai-nes, fondées sur un corpus opportuniste etévolutif, se reportaient aux lois fondamenta-les du royaume, aux privilèges et précédents,tandis que les Économistes alléguaient laraison primitive et essentielle des lois dansle cadre d’une conception abstraite et cohé-rente42.

Une remarque, toutefois, est nécessairepour bien juger de cette question. En effet,comme tout groupe de pensée, le “mouve-ment” physiocratique n’était pas univoquedans son expression, et souffrit le dispara-te, notamment après 1770, date charnièreretenue par Weulersse, à la suite de laquelleles pensées s’individualisent et divergent.

Pour preuve, Baudeau par exemple, qui

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se considérait comme le « disciple fidèle »de Quesnay, qu’il nommait ordinairementle « Confucius d’Europe », considérait quele Mémoire sur les municipalités de Turgot étaitanti-monarchique, inspiré de Rousseau etdestructif de la monarchie. Pour le mêmemotif, il condamnait l’Administration provin-ciale de Le Trosne, auteur qui participait dela physiocratie estimait-il, mais dont lesidées étaient « bizarrement amalgaméesavec la doctrine hétérodoxe et antimonar-chique (...) de M. Turgot »43.

En retour, Du Pont jugeait Mercier de laRivière et Baudeau trop favorables au « pou-voir absolu », à tel point qu’ils faisaient àson sens « une branche particulière » del’école de Quesnay44.

Bref, l’idéologie propre à ce courant n’é-tait pas uniforme et, sur le point qui nousoccupe, il est possible de distinguer en sonsein deux pôles, le premier pleinement favo-rable au parlement, symbolisé par Mercierde la Rivière, et l’autre anti-parlementaire,incarné par Turgot, et vers lequel Dupontinclinait sans réserve.

Paul-Pierre Le Mercier de la Rivière avaitlui-même été, de 1747 à 1757, membre duparlement de Paris45. Ses conceptions poli-tiques se ressentaient de cette appartenan-ce. Témoigne de cela l’initiative d’unemédiation qu’il prit en 1757 à la suite de l’e-xil de seize conseillers du parlement de Parisqui contestaient l’enregistrement forcé du13 décembre 1756. A cette occasion, en effet,il rédigea un document dans lequel ildemandait au roi, outre la grâce des exilés,son engagement d’ « assurer la liberté dessuffrages dans les délibérations », en d’au-tres termes de renoncer au lit de justice danssa forme traditionnelle46. Plus encore, sol-licité par Maupeou lui-même afin d’intégrersur les ruines des Cours souveraines le tout

nouveau parlement, Mercier, se refusant àtoute inflexion idéologique, opposa un refus,alors même qu’il affrontait de graves diffi-cultés financières. Dans la suite, les Ephémé-rides devaient être interdits à l’instigation deTerray47. Au demeurant, dans un livre paruen 1788, Mercier ne devait pas faire mystè-re dans ce domaine de ses options fonda-mentales, puisqu’il entendit démontrer

cette maxime de notre droit public, que nul acte dela volonté du souverain ne peut acquérir le carac-tère de loi, que par un enregistrement libre duparlement.

Cherchant en effet dans la constitutionmonarchique un corps dépositaire et gar-dien des lois, il désignait expressément leparlement:

Ce corps – exposait-il avec conviction – était déjàtout trouvé, tout institué; il existait dans celui qui,depuis la fondation de la monarchie, avait toujoursété le conseil législatif de nos monarques, et qu’onne pouvait dépouiller de cette fonction, sans déna-turer le gouvernement. On sent bien que la quali-té de gardien de nos lois fondamentales n’eût étéqu’un vain titre […] si de cette qualité il ne futrésulté, pour le parlement, l’obligation de veillersans cesse à la conservation de ce dépôt précieux,de ne jamais prêter son ministère à l’institutiond’une loi nouvelle incompatible avec les lois con-stitutives de la monarchie48.

Rien de tel, en revanche, chez Turgot.Celui-ci, en effet, avant même d’éprouver entant que ministre l’opposition virulente deces corps de magistrature, avait, de façonconstante, marqué son hostilité de principeà concéder à ces tribunaux un pouvoir dedécision ultime en matière politique. D’ail-leurs, il avait fixé assez tôt sa position sur cesujet, puisque il avait dès 1754 entrepris unouvrage contre le parlement dans lequel,soucieux de circonscrire un pouvoir d’action

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ultime, il réservait au roi le « derniermot »49. Cette posture explique sans douteque, à la suite de l’exil à Pontoise puis à Sois-sons des membres de la Grand-Chambre duParlement de Paris, il fut des dix-huit con-seillers d’Etat et des quarante maîtres desrequêtes qui composèrent la Chambre roya-le instituée par lettres patentes du 1er

novembre 1753 « pour connaître de toutesles affaires de la compétence du Parle-ment ».

Plus encore, l’Édit fatal lui agréa dans sonprincipe: « Pour moi » – confia-t-il à DuPont – sitôt la « révolution » de Maupeouconsommée,

en détestant les causes, les motifs, les dessous decartes, je ne blâme pas le fond de la besogne, et ilme semble que si elle peut tenir, le public à la lon-gue y gagnera plus qu’il n’y perdra50.

Car en effet, à son sens, l’action politique,qu’il concevait comme réformatrice, ne pou-vait s’accommoder du risque d’inertie con-tenu en puissance dans toute faculté d’em-pêchement: ainsi, expliqua-t-il,

je ne prends pas un intérêt infini aux cruches cas-sées51 (...). Leur résistance – développait-il– pourrait être utile, si elle était éclairée et désin-téressée; mais la négative absolue qu’ils voudraients’arroger dans le gouvernement est une choseabsurde en elle-même et avec laquelle aucun gou-vernement ne peut subsister, ni agir raisonnable-ment52.

De fait, les économistes évoluèrent entreces deux pôles ou sensibilités53. Au final, s’ilest un fait que la physiocratie a partie liéeavec la thématique parlementaire, elle n’estpas réductible à cette dernière et doit en êtredistinguée en raison de ses fondementsthéoriques et de son rationalisme impéni-tent.

Ainsi, en tant qu’idéologie, la physiocra-tie emportait au plan politique un contrôlede conformité de la loi positive à une normesupérieure afin de s’assurer de sa « natura-lité » pourrait-on dire, un tel contrôle valantcomme garantie politique fondamentale. Laloi positive ne pouvait être telle que dotéedes attributs de la loi naturelle, et cetteassomption en quelque sorte devait être vali-dée par le juge doté d’un pouvoir d’interpré-tation authentique. C’est dire combien lesEconomistes s’en remettaient à

un corps de citoyens institués pour être, plus par-ticulièrement encore que tous les autres, déposi-taires et gardiens de l’évidence même [et] qui encette qualité sont chargés de veiller sans cesseautour de l’autorité législative54.

Or, en contradiction avec cette caractéri-stique majeure, la très grande majorité desinterprètes immédiats de cette doctrine neprirent pas conscience de sa dimension etde sa signification exactes, et résumèrentpour l’essentiel le credo des Economistes àune défense et promotion d’un pouvoirabsolu, délesté de tout mécanisme institu-tionnel régulateur.

Ce n’est pas le moindre des étonnementsde compter dans cette liste Turgot, physio-crate indocile, certes, mais pourtant si pro-che des quesnaysiens sur bien des points. Eneffet, singulier paradoxe, ce dernier allamême jusqu’à voir dans la suppression desparlements par Maupeou un acte politiquequi ne pouvait que satisfaire les membres del’École: « Que disent les Economistes dunouvel Edit? », interrogea-t-il en effet DuPont. « Il me semble », lui fit-il observer,«qu’on chemine vers le despotismelégal »55. Turgot signifiait ainsi qu’à son sensla doctrine physiocratique se résorbait en

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entier dans la notion de monarchie absolue,au point d’ailleurs de considérer, horrescoreferens, que le

despotisme légal, dont la doctrine ne cesse de salirles ouvrages des économistes […] ne devrait setrouver que dans ceux de Linguet56.

De même, le publiciste et futur historio-graphe du roi Jacob-Nicolas Moreau tendit à

adultérer la portée objective du discoursphysiocratique qu’il fut pourtant amené àanalyser dans le détail. Il lui revint en effetde connaître, en tant que censeur royal, deleur production, tant celle de certains deleurs livres que celle, à partir de 1770, desEphémérides.

Or, ce partisan de la « monarchie pure »,s’il reconnaissait aux parlements le droit de

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remontrances, leur déniait conjointementtoute faculté d’empêcher, au point de faire dela réfutation des théories parlementaires l’a-xe majeur de sa propre œuvre57. De fait, iléprouvait une sensibilité particulière à l’é-gard de tout écrit tendant à justifier et établirun contrôle juridiquement contraignant, dequelque nature qu’il soit, sur le pouvoirlégislatif du roi. Or, pour autant, à chaqueexamen, le censeur fit bénéficier les physio-crates d’un nihil obstat, les exonérant ainside tout dessein de ce type: « je n’ai trouvé »,écrivit-il en effet, « que des choses bonneset utiles ».

S’il en était ainsi, c’est que Moreau, s’ildéniait aux cours souveraines le droit decontraindre, leur concédait en retour le droitd’éclairer le monarque, détenteur exclusifdu pouvoir législatif. Or, précisément il fitparticiper l’École de cette même positiondoctrinale, se félicitant de ce que les Econo-mistes en tenaient pour

une nation (...) chez laquelle des magistrats char-gés de faire l’application des diverses lois positi-ves aux cas particuliers, ont le devoir, le droit, etde plus un intérêt très pressant d’avertir le souve-rain de son erreur toutes les fois qu’il pourrait luiéchapper une ordonnance opposée à la conserva-tion des droits de la nation58.

Bref, concluait-il, « rien ne doit rassu-rer davantage le gouvernement qu’une doc-trine qui n’admet de moyens de réprimer lesexcès du pouvoir qu’en l’éclairant » et il vali-dait de ce fait « les écrits de ces philosophes(qui) respectent […] les principes du gou-vernement et les lois établies » en leur attri-buant un certificat de loyauté envers lamonarchie59.

De fait, prolongeant l’erreur d’interpré-tation primitive, les publicistes devaient sousla Révolution française ignorer pour l’es-

sentiel cette spécificité physiocratique60. Ilfaut toutefois excepter de cette erreur com-mune Emmanuel-Joseph Sieyes, dont lesinterventions lors des débats constituants del’an III ne peuvent être comprises sans uneréférence à leur matrice physiocratique.

Sieyes, en effet, à ce moment plus qu’àtout autre, pensait et parlait sur bien despoints à la façon de ces auteurs, maintes foislus et médités depuis les années soixante-dix, et dont par un effet naturel cet espritrationaliste et dogmatique s’était imprégné.Ainsi s’explique sa dénonciation, véritableréminiscence physiocratique, d’un législa-teur abandonné à sa discrétionnalité qui« ne faisait que vouloir ».

Mais, de plus, nous sommes pour notrepart convaincu que sa proposition d’unejurie constitutionnaire, sans nier son origi-nalité manifeste, devait beaucoup, notam-ment quant à sa fonction de tribunal de cas-sation destiné à prononcer sur les violationsou atteintes faites à la constitution, à la pro-pre réflexion des Economistes.

Ce sentiment est confirmé en outre par laprise en considération d’une autre missionimpartie à la jurie par Sieyes, qualifiée parlui-même de « supplément de juridictionnaturelle », dans le cadre de laquelle l’in-stance devait désigner au sort un dixième deses membres afin de former un « jury d’é-quité naturelle », destiné à être saisi par lestribunaux lorsqu’un juge s’estimerait dansl’impossibilité de rendre une décision, soitparce que la loi serait défaillante, soit parceque celle-ci heurterait sa conscience. Or, parcette procédure projetée, Sieyes exprimait ànouveau un trait de doctrine constant chezses devanciers selon lequel les juges, loin des’en tenir à la simple disposition textuelle età son interprétation étroite, devaient s’ap-pliquer à remonter à la raison primitive de la

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norme juridique, contenue dans le droitnaturel, afin que la règle de raison ne soitjamais méconnue par l’effet d’un texte dedroit positif mal défini61.

La raison de cette évaluation fautive estprosaïque: les physiocrates, peu lus en défi-nitive, ont été victimes d’avoir proposé àleurs contemporains une « littérature peudivertissante »62. De là, des lectures hâti-ves, dominées par l’impression invincibleproduite par les termes symboliques de« despotisme légal », d’ « autorité tutélai-re » et d’ « unité du pouvoir », dont il nesemblait pas qu’ils puissent se concilier avecle principe d’un contrôle juridictionnel.Turgot, toujours avisé, avait prévenu l’Écoleque certaines options terminologiques nui-raient à la propagation de la doctrine63. Ellesdevaient également compromettre sa com-préhension.

C’est un fait, la théorie politique desphysiocrates a passé dans le domaine publicpour ce qu’elle n’était pas de sorte que lejugement communément porté en doctrinesur ce corpus doit être révisé. Tocqueville lui-même, qui par ailleurs faisait aux Economi-stes une place essentielle dans son Ancien

régime et la Révolution, à la mesure de leurimportance doctrinale et historique, estimaitque ces publicistes, négligeant les garantiespolitiques, avaient promu un schéma politi-que dans lequel « un mandataire unique »était contrôlé par une simple « raison publi-que sans organes »64.

On imputera cette erreur au sommeild’Homère, car en effet c’est bien le juge quidans l’optique physiocratique constituaitl’organe privilégié de cette raison publique,chargé en cette qualité d’attester auprès del’opinion publique la conformité de la loiordinaire à la loi naturelle. Mercier de laRivière avait eu à ce propos des mots défini-tifs: « les lois », avait-il certifié « ne peu-vent parler que par la bouche du Magistrat[…]. Elles habitent en lui, elles vivent etpensent en lui »65.

Par ces motifs, les physiocrates peuventprétendre à une place authentique dans l’hi-stoire de la pensée juridique, car il s’agit làd’un élément structurant et déterminant deleur doctrine, laquelle, codifiée par des pen-seurs systémistes, était de leur avis propre« tellement liée par un enchaînement deconséquences nécessaires qu’on ne peut endétacher la moindre partie… »66.

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1 Citons, en priorité, la somme de G.Weulersse, l’œuvre d’une vie, àsavoir Le mouvement physiocratiqueen France de 1756 à 1770, Paris, F.Alcan, 1910; Les physiocrates, Paris,Doin, 1931; La physiocratie sous lesministères de Turgot et de Necker,Paris, PUF, 1950; La physiocratie àla fin du règne de Louis XV (1770-1774), PUF, 1959 et enfin, avec laparticipation de C. Beutler, Laphysiocratie à l’aube de la Révolu-

tion, 1781-1792, Paris, ed. del’E.H.E.S.S., 1984. Il faut égale-ment compter les contributionsd’Eugène Daire, Physiocrates (...),Paris Guillaumin, 1846 et de E.Fox-Genovese, The origins ofPhysiocracy, Cornell U. P., Ithacaand London, 1976.

2 Voy. en ce sens P. Dubreuil, Ledespotisme légal, vues politiques desphysiocrates, Paris, Noblet, 1908,pp. 107-109 et également M. Tho-

mann, Origines et sources doctrina-les de la Déclaration des Droits,«Droit», 1988, n° 8, p. 61 in fine,brève allusion. Celui toutefois quidonna le plus d’extension à cettethèse fut V. Marcaggi, suivantlequel la doctrine physiocratiqueétait la principale source d’inspi-ration de la Déclaration des droits,et ce relativement à son principemême, à sa philosophie généraleet à certains de ses articles. Voy.

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Les origines de la Déclaration desdroits de l’homme de 1789, Paris,Rousseau, 1904, passim. Con-scient de l’univocité de son analy-se, cet auteur devait en 1912 lors dela réédition de son livre nuancerson propos primitif (voy. 2e ed., p.VI notamment).

3 Sur ce sujet, voy. P. Rosanvallon,Le sacre du citoyen: histoire du suf-frage universel en France, Paris, Gal-limard, 1992. Afin, d’une façongénérale, de mesurer l’influencedes physiocrates lors de la Révolu-tion, on se reportera aux travaux deJ.-J. Airiau, L’opposition auxphysiocrates à la fin de l’Ancien régi-me, Paris, L.G.D.J., 1965 et de F.Lacroix, Les économistes dans lesassemblées politiques au temps de larévolution, Paris, Bonvalot-Jouve,1907.

4 Voy. B. Raynaud, Les discussions surl’ordre naturel au 18e siècle, «Revued’économie politique», 1905, pp.231-248 et 355-373.

5 Sur ce sujet, voy. A. Dubois, L’évo-lution de la notion de droit naturelantérieurement aux physiocrates,Paris, P. Geuthner, 1908 et J.Habermas, « Droit naturel etrévolution », in Théorie et pratique,Paris, Payot, 1975, T. I, pp. 109-144.

6 P.S. Du Pont de Nemours, De l’ori-gine et des progrès d’une science nou-velle, Paris, Desaint, 1768, p. 7.

7 Maximes du Docteur Quesnay, in A.Oncken, Œuvres économiques et phi-losophiques de F. Quesnay (…),Paris, J. Peelman, 1888, p. 398.

8 P.P.F. Mercier de la Rivière L’ordrenaturel et essentiel des sociétés poli-tiques, Londres, Paris, Desaint,1767, chap. XV, pp. 105-106.

9 Sur la notion d’évidence, utiliséepar les physiocrates sous la doubleinfluence de courants rationalisteet sensualiste, voy. les travaux deL. Ph. May, Descartes et les physio-crates, «Revue de synthèse», juil-let-déc. 1950, pp. 7-26 et A. Kubo-ta, « Quesnay disciple de Male-branche », in François Quesnay etla physiocratie, Paris, I.N.E.D.,

1958, t. I, pp. 169-196.10 « Tout ce qui n’est pas évidence

n’est qu’opinion, et tout ce quin’est qu’opinion est arbitraire etsujet au changement », dit à cepropos Mercier de la Rivière dansson Ordre naturel et essentiel dessociétés politiques, cit., chap. VIII,p. 50.

11 Marquis de Mirabeau, Lettres sur ladépravation, restauration et stabilitéde l’ordre, lettre 7, Paris, T. II, p.399.

12 «Ephémérides du citoyen», 1775,T. XII, p. 53.

13 «Journal d’Agriculture», juillet1766, p. 200.

14 La balance des pouvoirs consistaitdans l’érection d’un organe légis-latif complexe, composé d’aumoins deux organes partiels delégislation, par opposition à unorgane unique. Sur cette base, legouvernement mixte était consti-tué lorsque chaque organe partielde législation correspondait à uneclasse sociale ou ordre spécifiques,de sorte que la structure sociale sereflétait dans la structure de l’or-gane législatif complexe. AuXVIIIème siècle, l’archétype dugouvernement mixte était le régi-me anglais du roi-en-son-Parle-ment dans lequel le pouvoir légis-latif était exercé conjointement parles Communes, les lords et le roi.Sur ces notions essentielles audroit public des XVIIIème et XIXème

siècles et consubstantielles aveccelle de séparation des pouvoirs,voy. M. Troper, La séparation despouvoirs et l’histoire constitutionnel-le française, Paris, L.G.D.J., 1980 etM. Lahmer, La séparation des pou-voirs d’après le Second Traité et L’E-sprit des Lois, à paraître.

15 Ordre dépravé, op. cit., lettre XI, T.II, p. 802. C’est la raison pourlaquelle, dans son Despotisme de laChine, Quesnay traitait du gouver-nement mixte dans un paragrapheintitulé « diversité des gouverne-ments imaginés par les hommes »,voulant marquer ainsi qu’il s’agis-sait d’une création humaine arbi-

traire, en violation des lois de l’or-dre: Despotisme de la Chine,chap.VIII, § III.

16 Ordre dépravé, op. cit., T. II, lettre12, pp. 881-882.

17 Sur l’importance déterminante decette pièce dans la réflexion poli-tique, tant américaine que françai-se, voy. M. Lahmer, La constitutionaméricaine dans le débat français:1795-1848, Paris, L’Harmattan,2001.

18 L’ordre naturel et essentiel des socié-tés politiques, cit., T. I, pp. 207, 267,272-273. Dans les mois qui suivi-rent, Du Pont donna une Critiqueraisonnée de cet ouvrage et revintnaturellement sur ce point: « M.de la Rivière », exposa-t-il, « apris exprès ce mot despote quisignifie maître et propriétaire,pour écarter ces systèmes inutiles,dangereux, de mélange, d’opposi-tion des intérêts, des forces et desautorités, dont quelques auteursmodernes ont fait et font encoreleur chimère favorite sous le nomde balance des pouvoirs et de con-tre forces… ». «Ephémérides ducitoyen», 1767, T. XII, pp. 205-206.

19 Doutes…, in Collection complète desœuvres de l’Abbé de Mably, Paris,Desbrière, an III, T. XI, pp. 70-71.

20 « Lettres sur la dépravation … »,4e lettre, «Ephémérides du cito-yen», déc. 1767, p. 15.

21 Ce passage est tiré d’un fragmentsur la noblesse rédigé par le mar-quis de Mirabeau entre 1758 et1760 et annoté par Quesnay, publiépar G. Weulersse, Les manuscritséconomiques de François Quesnay etdu Marquis de Mirabeau, Paris, P.Geuthner, 1910, p. 27. Quesnaydevait d’ailleurs préciser sa pen-sée: « Il est essentiel », observa-t-il, « que le roi ait un conseil per-manent composé de douze ouquinze personnes choisies dans lanoblesse et la magistrature, afin demaintenir un plan fixe de gouver-nement qui puisse se soutenircontre les abus et l’administrationarbitraire de l’autorité confiée, et

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qui dans la minorité et dans la fai-blesse de la vieillesse des souve-rains assure la solidité et l’immu-tabilité du gouvernement ». Voy.note (de Quesnay) au Bref état desmoyens pour la restauration de l’au-torité du Roi et de ses finances par lemarquis de Mirabeau, édité par G.Weulersse, «Revue d’histoire éco-nomique et sociale», VI, 1913, pp.186-187.

22 Sur cette perception de l’opinionpublique, voy. K. M. Baker, Politi-que et opinion publique sous l’Ancienrégime, «Annales E.S.C.», janv.-fev. 1987, pp. 41-71 et J. Habermas,L’espace public. Archéologie de lapublicité comme dimension constitu-tive de la société bourgeoise, Paris,Payot, 1978.

23 Baudeau, Première introduction à laphilosophie économique (…), Paris,Didot l’aîné, 1771, p. 47. C’est dansce même esprit que, parallèlementà l’édition de précis élémentaires,furent utilisés les «Ephéméridesdu citoyen», destinés dans unpremier temps à instruire et con-vertir les élites. Sur cette stratégiepublicitaire sophistiquée, voy. C.E. Coleman, Ephémérides du cito-yen, 1767-1772, «Papers of theBibliographical Society of Ameri-ca», vol. 56, 1962, pp. 17-45; P.-H. Goutte, Les Ephémérides du cito-yen, instrument périodique au servi-ce de l’ordre naturel (1765-1772),«Dix-huitième siècle», 26, 1994,pp. 139-161 et B. Delmas et alii, Lesphysiocrates, la science de l’économiepolitique et l’Europe, in La diffusioninternationale de la physiocratie(XVIIIe-XIXe), Actes du colloque deSaint-Cloud, 23-24 sept. 1993,P.U. de Grenoble, 1995, pp. 7-26.On remarquera par ailleurs quesous le ministère de Turgot, lespréambules des édits, étoffés etdidactiques, étaient précisémentdestinés à la diffusion d’une con-naissance. (Ces textes sont repro-duits dans Les édits de Turgot, préf.De M. Garden, Paris, Imprimerienationale, 1976). Constatant cephénomène inédit, La Harpe dira

de Turgot qu’ « il est le premierparmi nous qui ait changé les actesde l’autorité souveraine en ouvra-ges de raisonnement et de persua-sion ». Cité par L. Say, Turgot,Paris, Hachette, 1891, p. 108.

24 Le Trosne, De l’ordre social, cit., p.258.

25 Puisque, disait Mirabeau, lorsque« la puissance tutélaire devientlégislative », « par-là même (elle)établit le désordre légal ». Voy. Let-tres sur la dépravation , restaurationet stabilité de l’ordre, lettre 18, cit.,T. III, p. 470.

26 Le Trosne, De l’ordre social, cit., p.53.

27 Du Pont de Nemours, Nécrologue deM. Quesnay de St Germain, parD.P.D.N., in A. Oncken, Œuvres éco-nomiques et philosophiques de Fran-çois Quesnay, cit., p. 893.

28 L’ordre naturel et essentiel des socié-tés politiques, cit., pp. 91-92.

29 «Ephémérides», 1768, T. V, pp.238-239 et T.VII, pp. 192-193.

30 Lettre de M.K. à M. le Chevalier de **.Au sujet des Doutes de M. l’Abbé deMably, «Ephémérides», 1768, T.VI, pp. 163-164. Sur Butré, voy. R.Reuss, Charles de Butré, 1724-1805(…), Paris, Fischbacher, 1887.

31 Du Pont évoque la justice civile.32 Il évoque ici la justice pénale.33 L’auteur fait sur ce point référen-

ce à la cassation, en usage bienentendu sous l’Ancien régimepuisque le Conseil du Roi joignaità ses fonctions administratives lepouvoir de réviser, devant la sec-tion appelée conseil privé ou con-seil des parties, les jugements desparlements et de les annuler le caséchéant pour violation de formes.

34 Ce passage pourrait donner à pen-ser que les physiocrates étaientfavorables à un contrôle a posterio-ri par voie d’exception. En vérité, iln’en est rien.

35 De l’origine et des progrès d’une scien-ce nouvelle, § XIX, Londres, Paris,Desaint, 1768.

36 Ibidem, § XX, p. 72. Voy. égalementMirabeau, Précis de l’ordre légal, op.cit., p. 206 et p. 210.

37 Le Marquis de Mirabeau ne man-quait jamais de revenir sur cetaspect: « Il suffit », déclarait-il,« que le gouvernement sache quele monde va de lui-même […], quele règlement et l’ordonnance, s’ilssont conformes aux lois physiquesde la nature, sont inutiles […]; aucontraire, qu’ils sont nuisibles etatroces s’ils s’en écartent […]:qu’en un mot, l’autorité n’a riend’autre affaire que d’exister, deréprimer les brigands, et d’ailleursde laisser faire ». Voy. Précis de l’or-dre légal, cit., pp. 104-105.

38 Physiocratie ou constitution naturel-le du gouvernement le plus avanta-geux au genre humain, Yverdon,1768, « Avis de l’éditeur », pp. 82-83. Les Maximes sont reproduitespp. 85-98.

39 Sur cette distinction, voy. B.Manin, « Les deux libéralismes: larègle et la balance », in I. Théry etCh. Biet (dir.), La famille, la loi, l’E-tat, Paris, Imprimerie nationale,s.d., pp. 372-389.

40 A. Mathiez, Les doctrines politiquesdes physiocrates, «Annales histori-ques de la révolution française»,vol. 13, 1936, pp. 198-199. Déjà, enson temps, Grimm avait prétenduque L’Ordre naturel était un livre defacture parlementaire et, rendantcompte en octobre 1767 de l’ou-vrage, stigmatisait le « despote légalà qui il faut un pouvoir illimité, etque l’évidence met dans l’impossi-bilité physique d’en abuser et de fai-re jamais le moindre mal à sonpeuple; qui a néanmoins besoind’un corps de magistrats pour êtreles gardiens de la certitude et pourattester aux peuples que le souve-rain suit l’évidence, le tout, pourmontrer la nécessité physiquementessentielle des parlements de Fran-ce et de leur droit de faire desremontrances, et cela, parce quel’auteur a été autrefois conseillerau parlement, et qu’aucun écrivainde droit public en France ne peuts’écarter des préventions parle-mentaires sans risquer d’être citéà la barre, et même, suivant l’exi-

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gence du cas, décrété de prise decorps ». Correspondance littéraire,philosophique et critique par Grimm,Diderot (…), par M. Tourneux,Paris, Garnier Frères, 1879, T. VII,pp. 447-448. (Les italiques sont deGrimm).

41 « La souveraineté réside dans laraison publique » écrivait en effetle Marquis de Mirabeau dans saCritique de la Déclaration des droitsde Virginie, op. cit., p. 12. De fait,précédant les Doctrinaires, ilsétaient eux aussi les tenants d’unedélocalisation - au sens premier duterme - de la souveraineté, aucuneinstance humaine ne pouvant yprétendre.

42 Un point d’ailleurs témoigne del’irréductibilité des ethos propresà ces deux constructions doctrina-les. Les Economistes en effet insi-staient autant qu’ils le pouvaientsur l’obligation faite aux magistratsde s’instruire et sur la nécessitéd’un contrôle de leurs capacités.Or, dans le contexte de l’époque,de telles précautions ne pouvaientêtre avancées qu’en réaction à lapratique parlementaire, puisqu’ausein des compagnies l’examend’entrée était « de pure forme »(suivant les termes de O. Chaline,« Parlements », Dictionnaire del’Ancien régime, Paris, P.U.F., 1996,p. 961, en accord sur ce point avecla totalité de la doctrine), ce quiétait inconciliable avec la théma-tique de la Raison véhiculée parl’Ecole.

43 Sur Baudeau, voy. Pervinquière,Un précurseur inattendu de l’Actionfrançaise: l’abbé Baudeau, «l’Ac-tion française», 15 septembre1909, T. XXIV, n° 228, pp. 210-230.

44 Notice sur les Economistes, in E. Dai-re, Œuvres de Turgot, Paris, Guillau-min, 1844, p. 260. Pour faire bon-ne mesure, le Marquis de Mira-beau nommait Du Pont l’« écono-miste métis », marquant ainsi sonéclectisme qu’il désapprouvait.

45 Sur ce publiciste, à l’étude de J.-M.Cotteret, Essai critique sur les idéespolitiques de Mercier de la Rivière,

Thèse, Paris, 1960, on préféreracelle de L. Ph. May, Le Mercier de laRivière (1719-1801). Aux origines dela science économique, Paris,C.N.R.S., 1975, ainsi que son arti-cle Despotisme légal et despotismeéclairé d’après Le Mercier de la Riviè-re, «Bulletin of the InternationalCommittee of historical sciences»,vol. IX, march 1937, n° 34, pp. 56-67. Voy. également G. Weulersse,Mercier de la Rivière, Encyclopaediaof the Social Sciences, New-York,MacMilan, 1933, vol. X, p. 353.

46 Voy. sur ce point le Mémoire des ser-vices de M. Le Mercier de la Rivière, 21mai 1775, A.N., E. 276, dossier per-sonnel, pièce 3. Cette initiative estévoquée par J. Flammermont, Lesremontrances du parlement de Parisau XVIIIème siècle, Paris, Imp. Nat.,1888, T. I, p. XXXIV et par L.-Ph.May, Le Mercier de la Rivière (1719-1801), cit., p. 18.

47 D’ailleurs, en cette même “époqueMaupeou”, Mercier, sollicité à cet-te fin par le prince Massalski, évê-que de Wilno était occupé à conce-voir une constitution pour lesPolonais. En l’espèce, il s’adressa àces derniers comme s’il l’avait faità des Français: « Ne me demandezpas », disait-il, « qui vous garan-tira l’observation constante de(s)lois; vous trouverez cette garantiedans les corps de magistrature quevous avez établis pour être les gar-diens des lois, et qui, en cette qua-lité, auront derrière eux toute lanation, seront ainsi, selon l’exi-gence des cas, ou réprimés ou sou-tenus par toute la nation ». Voy.L’intérêt commun des Polonais, ouMémoire sur les moyens de pacifierpour toujours les troubles actuels dela Pologne, en perfectionnant songouvernement, et conciliant ses véri-tables intérêts avec les véritables inté-rêts des autres peuples, (A.N, K 1317,n° 15). C’est dire qu’il faisait preu-ve d’une remarquable cohérencedoctrinale, laquelle devait lemener par la suite, dans une sorted’anticipation à la démonstrationque développera le Chief-Justice

Marshall, à affirmer que « s’il étaitlibre au pouvoir législatif de chan-ger la constitution, il n’y auraitpoint de constitution ». Voy.L’heureuse Nation, ou gouvernementdes Féliciens, Paris, Creuze, Behal,1792, T. II. p. 402.

48 Les vœux d’un Français, ou considé-rations sur les principaux objets dontle roi et la nation vont s’occuper,Paris, Versailles, 1788, pp. 87-88.Ce livre, dont l’un des objetsessentiels tendait à légitimer ledroit de libre vérification et d’en-registrement du parlement, parutpeu après la réforme de Lamoi-gnon, instituant une cour plénièreà laquelle était transféré le droitd’enregistrement des parlements(initiative à laquelle l’auteur faitréférence pp. 101-102). Il apparaîtde ce fait que Mercier avait conçucette production (dans laquelleétait également condamné l’Éditfatal, p. 112) comme un manifestepro-parlementaire dans une con-joncture adverse. Il devait récidi-ver un an plus tard, à l’occasion dela parution de ses Essais sur lesmaximes et lois fondamentales de lamonarchie française, ou canevasd’un code constitutionnel, danslequel il plaidait en faveur d’un« corps national, dépositaire etgardien des lois ». Ce corps, pré-cisait-il, « doit avoir la même sta-bilité que les lois, et ce corps nepeut être que celui de la hautemagistrature, dont la consistancefait partie de celle des lois, sa qua-lité d’organe des lois l’identifiantavec les lois » (voy. Titre V, art. I àIV). Les mêmes termes figurentdans son dernier livre, dans lequell’auteur faisait droit par ailleurs surbien des points à l’esprit et auxacquis de la Révolution: « il fautnécessairement donner », y lit-on, « une grande consistance à lamagistrature, si l’on veut donnerune grande consistance aux lois ».Voy. L’heureuse nation, ou gouverne-ment des Féliciens (…), cit., T. II, p.409.

49 Voy. Plan d’un ouvrage contre le par-

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lement, (fragments), reproduit parG. Schelle, Œuvres de Turgot et docu-ments le concernant, Paris, F. Alcan,1913, T. I, pp. 435-436

50 Lettre XCII, 28 février 1771, idem,T. III, p. 475.

51 Terme par lequel Turgot désignaitles parlements supprimés.

52 Lettre CXXXIII, 1er février 1771, àDu Pont, in G. Schelle, Œuvres deTurgot et documents le concernant,cit., p. 471. Toutefois, ainsi qu’il ledisait dans cette même lettre, Tur-got savait leur retour inéluctable.C’est la raison pour laquelle, s’il nefut pas, comme l’a écrit impru-demment H. Carrée, d’une passi-vité coupable à cette occasion,(voy. Turgot et le rappel des parle-ments (1774), «La Révolution fran-çaise», 1902, vol. 43, pp. 193-208), il se résolut sur un modeminimal à plaider seulement pourun encadrement normatif plusstrict de leur activité. Sur ce point,Du Pont pensait à l’identique deson maître et, fondamentalement,concevait le retour des parlementssous l’angle exclusif d’une réintro-duction des passions. Voy. à cepropos sa lettre A son Altesse Séré-nissime Monseigneur le prince héré-ditaire de Bade, 1er janvier 1783,publiée par C. Knies, Carl Friedrichvon Baden Brieflicher Verkehr mitMirabeau und Du Pont, Heidelberg,1892, vol. II, pp. 351-353.

53 Ainsi, par exemple, le Marquis deMirabeau ne devait cesser de criti-quer la conduite des parlementsabandonnés à leur oppositionsystématique: « dans unesociété », fit-il observer, « où tou-tes les têtes n’ont d’idée que d’undroit négatif, il est impossible quetout ne tende à sa dissolution. D’oùil suit que les tribunaux mêmes, nesachant que nier, n’étant fondés,dans leurs réclamations, que d’u-ne procuration négative, appuyésque d’un consentement négatif, neservent qu’à perpétuer la désu-nion… ». Voy. Lettres sur la dépra-vation…, cit., T. II, lettre 11, pp.780-781 et dans le même sens T.

III, lettre 13, p. 68. Il devait d’ail-leurs, sur le tard, les juger « tropredoutables pour la monarchie ».Voy. M. de Mirabeau au bailli deMirabeau, 4 septembre 1787, lettrereproduite par M. Dauphin-Meu-nier, «Le Correspondant», 25janvier 1913, pp. 276-277. Le Tro-sne, en revanche, longtemps avo-cat du roi au parlement, considé-rait plus favorablement la sphèreparlementaire, et se félicita de ceque Louis XVI ait rapporté l’Éditfatal, ce par quoi, jugeait-il, il« raffermi(t) la constitutionébranlée par une révolution mal-heureuse ». Voy. De l’ordre social,cit., p. 438.

54 Mercier de la Rivière, L’ordre natu-rel et essentiel des sociétés politiques,cit., p. 87.

55 Lettre XCII, à Du Pont, 28 février1771, in G. Schelle, Œuvres de Tur-got (…), cit., T. III, p. 475.

56 Lettre XCVIII, 10 mai 1771, à DuPont, ibidem, pp. 486-487. Sur cemême rapprochement avec la doc-trine du célèbre avocat, voy. égale-ment la lettre X, 5 février 1771, àCaillard, ibidem, p. 502.

57 Pour autant, Moreau, qui n’hési-tait pas à parler du « despotismedes parlements » et fut entreautres le rédacteur du discourstenu par le Chancelier Lamoignonau lit de justice du 21 juillet 1760,devait toutefois se montrer hosti-le à l’action du Chancelier Mau-peou: voy. Mes souvenirs, Paris,Plon, 1902, T. II, p. 89.

58 Lettre de Monsieur M. censeur royal,à un magistrat, «Ephémérides ducitoyen», 1768, T. IX, sec. partie,p. 147.

59 « Corps de doctrine du censeuractuel des Ephémérides du cito-yen », ibidem, 1770, T. I, p. 270 etLettre de Monsieur M. censeur royal,à un magistrat, cit., p. 174. SurMoreau, voy. D. Gembicki, Histoi-re et politique à la fin de l’Ancienrégime. Jacob-Nicolas Moreau, 1717-1803, Paris, Nizet, 1979, B. Barret-Kriegel, Jean Mabillon, Paris, PUF,1988, pp. 211-267 et K.M. Baker,

Au tribunal de l’opinion, chap. II:« Maîtriser l’histoire de France:l’arsenal idéologique de J.-N.Moreau », Paris, Payot, 1993, pp.85-122.

60 D’ailleurs, cette interprétationcommune a passé dans la plupartdes manuels d’histoire des idéespolitiques et dans bon nombred’études spécialisées. Toutefois, ilfaut de toute nécessité distinguerle livre, malheureusement mécon-nu, de Mario Einaudi, The Physio-cratic doctrine of judicial control,Introduction by Ch. H. Mc Ilwain,Cambridge (Mass.), Harvard poli-tical studies, 1938, X-96 p. Onregrettera que ce texte, essentiel etentièrement consacré au thème ducontrôle, ne soit toujours pas dis-ponible en France malgré sonancienneté et n’apparaisse guèredans les bibliographies.

61 Ainsi, dans le Despotisme de la Chi-ne, Quesnay regrettait que les tri-bunaux « trop fixés à la connais-sance des lois positives […] pour-raient ignorer souvent les lois dela nature [car] bornés à l’intelli-gence littérale des lois de la justi-ce distributive, [ils] ne remonte-raient pas aux principes primitifsdu droit naturel, du droit public etdu droit des gens ». C’est la raisonpour laquelle les physiocratesjugeaient prioritaire l’établisse-ment, au sein même des facultésde droit, d’une chaire de droitnaturel, avant même celui d’unechaire de droit public, et ce « pourpénétrer les interprètes de la loi deses premiers principes ». Voy.«Ephémérides du citoyen», 1775,T. XII, p. 46.

62 Suivant l’appréciation portée parThiers et rapportée par A. Batbie,L’homme aux quarante écus et lesphysiocrates, Paris, Cottillon, 1865,p. 1.

63 « Ce diable de despotisme »,représenta-t-il à Du Pont, « nui-ra toujours à la propagation devotre doctrine, et surtout enAngleterre, et parmi les gens delettres. Ceux-ci seront toujours

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aussi révoltés du ton de secte ».Voy. Lettre XCVII, 7 mai 1771, in G.Schelle, Œuvres de Turgot (…), cit,T. III, p. 486. Turgot avait d’ailleursplaidé auprès de Du Pont pour quel’épithète « tutélaire », danslequel il voyait « le cachet écono-mistique », fût supprimé en ce

qu’il caractérisait « la partie hon-teuse du système des économi-stes », et en tenait quant à lui pourle terme d’ « autorité publique ».Voy., lettre CXXXIII, 14 mars 1774,ibidem, p. 662. Dans le même sens,voy. lettre LXXXV, 21 décembre1770, ibid., p. 398.

64 L’Ancien régime et la révolution, L.III, chap. III.

65 L’Ordre naturel et essentiel des socié-tés politiques, cit., p. 89.

66 Le Trosne, De l’ordre social,cit., p.313.

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On occulte trop souvent le fait que sousl’Ancien régime, déjà, des Cours souverai-nes –Parlements et Cours des Aides–avaient manifesté la prétention de vérifier laconformité aux lois fondamentales duroyaume des lettres patentes données par leroi 1. Exprimée dès juillet 1718 2 et formuléeà maintes occasions durant tout le siècle,cette revendication avait suscité une réfle-xion non dénuée d’intérêt. Malheureuse-ment, la célébrité du projet de « jury con-stitutionnaire » défendu par Sieyès devantla Convention, en 1795, a eu l’inconvénientde rejeter dans l’ombre les perspectives decontrôle envisagées par d’autres auteursdont les travaux méritent pourtant d’êtretirés de l’oubli.

Traiter du contrôle de constitutionnali-té à l’époque des Lumières en échappant aureproche d’anachronisme suppose préala-blement de dissiper quelques équivoques.Tout d’abord, l’existence d’une hiérarchienormative est suffisamment ancienne pouravoir pénétré la pensée juridique contem-poraine. Ecrivant deux siècles plus tôt, Jean

Bodin faisait de la législation le principalattribut de la souveraineté et reconnaissaitdéjà simultanément la validité de règlessupérieures, lois divines, lois naturelles,lois du royaume, toutes sanctionnées selondes modalités spécifiques destinées à engarantir l’effectivité. De manière prémoni-toire, il annonçait déjà que

quant aux lois qui concernent l’état du royaume[…], le Prince n’y peut déroger, comme est la loisalique : et quoi qu’il fasse, toujours le successeurpeut casser ce qui aura été fait au préjudice deslois royales sur lesquelles est appuyée et fondée lamajesté souveraine3.

Pour autant, admettre dans une optiquenon positiviste la juridicité des lois fonda-mentales suffit-il à légitimer une approcheconstitutionnaliste de la question ? Y répon-dre renvoie au fameux débat qui divisedepuis toujours les partisans et les adver-saires de l’assimilation des lois du royaumeà la constitution. Au delà des déclarationsde ceux qui insistent sur la rupture révolu-tionnaire et de ceux qui, à rebours, défen-

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Le contrôle de constitutionnalité dans la pensée juridique française de la seconde moitié du XVIIIème siècle : une autre approche

eric gojosso

giornale di storia costituzionale n. 4 / II semestre 2002

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dent la réalité d’un ordre constitutionneltout à la fois formel et informel antérieur à17894, il convient de relever que la plupartdes auteurs attachés au contrôle de la légis-lation monarchique le conçoivent en regardd’un corpus de règles qui déborde du cadrestrict des lois fondamentales – nous le mon-trerons bientôt.

De plus, il importe de noter que la con-stitutionnalité des dispositions royales n’estguère envisagée de manière autonome ; trèssouvent les mêmes mesures doivent êtreégalement appréciées du point de vue deleur opportunité ou de leur cohérence parrapport au droit vigueur. Il n’est d’ailleurspas toujours facile de faire le départ entreles différentes grilles de lecture proposéestant leurs éléments demeurent enchevêtrés.

Enfin, en mettant l’accent sur la nou-veauté, il ne faudrait pas être conduit à pré-sumer la modernité des tenants du contrôlede constitutionnalité. En vérité, les revendi-cations des hauts magistrats, quelles quesoient leurs arrière-pensées, – MichelAntoine a parlé à cet égard d’un « rêve degouvernement des juges » 5 –, participentplus de la lutte contre le despotisme que de ladénonciation de l’absolutisme.

A aucun moment, l’avocat janséniste LePaige, héraut de l’opposition judiciaire, nerompt avec la conception classique de lamonarchie6. A sa suite, les auteurs desMaximes du droit public français, très hosti-les au Chancelier Maupeou, séparent enco-re le pouvoir absolu du pouvoir arbitraire 7.D’ailleurs, le revirement de certains, à l’in-star de Maultrot, n’interviendra qu’à la veil-le de la Révolution, dans un contexte deradicalisation, lors même que l’imminencedes Etats généraux ressuscités préfigure dessolutions d’une autre envergure.

L’identification apparemment parado-

xale des parlementaires aux défenseurs del’absolutisme se comprend mieux à la lectu-re du grand ouvrage de Montesquieu. D’a-près l’Esprit des lois (1748), la monarchie estle régime dans lequel « un seul gouverneselon des lois fixes et établies » (II.1), « oùun seul gouverne par des lois fondamenta-les » (II.4). L’économie du système requiertpar conséquent la présence d’un organechargé de garantir la sécurité juridique sanslaquelle le pouvoir verserait dans l’arbitrai-re et se confondrait avec le despotisme.

Il ne suffit pas qu’il y ait, dans une monarchie,des rangs intermédiaires ; il faut encore un dépôtde lois,

déclare Montesquieu (id.) qui confieimplicitement cette fonction aux Parle-ments (ils « annoncent les lois lorsqu’ellessont faites ») en attendant que d’autres enviennent à préciser et à étendre les préro-gatives des hautes juridictions.

Car si l’Esprit des lois pose les premiersjalons, c’est surtout la littérature juridiqueet politique du dernier tiers du XVIIIème quiconforte et nourrit les ambitions des magi-strats. C’est elle qui va dégager ce caractèresystématique qui faisait jusqu’alors défaut.En l’espèce, trois grandes phases peuventêtre isolées dans l’histoire idéologique ducontrôle de constitutionnalité, trois phasesen étroite corrélation avec les événementsmajeurs de la période : réforme du Chance-lier Maupeou, pré-Révolution, Révolution.

Un premier groupe d’auteurs et non desmoindres se prononce en faveur du contrô-le de constitutionnalité lors de la crise inau-gurée par l’affaire de Bretagne et terminéepar le rappel des Parlements après l’avène-ment de Louis XVI8.

Ici, la réflexion est en grande partiedébitrice d’une brochure de Catherine II de

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Russie, l’Instruction en vue de l’élaborationd’un Code de lois ou Nakaz (1766). Ce textemarqué par l’influence de Montesquieu etde Beccaria fut traduit en français et large-ment diffusé en Europe. Il inspira tous lestenants de la vérification des lois -même sibeaucoup en firent une interprétation con-trouvée. Les jansénistes partisans des courssouveraines, des philosophes comme Dide-rot et Voltaire, le physiocrate Mercier de laRivière, le parlementaire émigré Jannonl’ont connu et médité. Résolument opposésà la réforme de 1770-1771, les avocats Aubry,Blonde, Camus, Maultrot et Mey s’en récla-ment dans leurs Maximes du droit publicfrançais qui cristallisent les grands thèmesde l’opposition parlementaire9. Diderot, lemaître d’œuvre de l’Encyclopédie, réagit luiaussi aux propos de la tsarine dans les Entre-tiens avec Catherine II et dans les Observationssur l’instruction de S.M. impériale, composéesautour de 1773-1774. Après 1789, le texte dela tsarine sera encore mentionné par cer-tains nostalgiques de l’organisation judi-ciaire traditionnelle.

La seconde étape qui correspond à lapré-Révolution, enregistre le recul de lathématique du contrôle de constitutionna-lité: l’heure est aux débats sur la réunion desEtats généraux et sur leur composition(doublement du tiers, vote par tête…) ain-si qu’aux controverses sur la définition de laNation. Pour autant, l’idée n’est pas com-plètement abandonnée comme en témoi-gnent les écrits du juriste et physiocrateMercier de la Rivière 10. Rendu célèbre parL’ordre naturel et essentiel des sociétés politi-ques (1767), élevé au rang de manifeste del’école du docteur Quesnay, il publie en 1788et 1789 deux opuscules : Les vœux d’un Fran-çais ou Considérations sur les principaux objetsdont le roi et la nation vont s’occuper et les

Essais sur les maximes et les lois fondamenta-les de la monarchie française.

La mise en perspective de ces publica-tions révèle que si le contrôle de constitu-tionnalité est encore d’actualité en 1788, ilne l’est plus l’année suivante car, en 1789, leproblème se pose autrement. Le roi ne déte-nant plus le pouvoir législatif, on ne peutplus songer qu’à instituer un contrôle delégalité. Telle est la conséquence du triom-phe de la Nation souveraine et de son corol-laire, le légicentrisme fondé sur la concep-tion de la loi comme expression de la volon-té générale. Il semblerait que le contrôle deconstitutionnalité ne puisse plus trouverplace qu’au sein d’un régime monarchiquetraditionnel ou absolutiste, – ce qui valideles idées de Montesquieu.

Au demeurant, cette conclusion peutêtre vérifiée durant la troisième phase, àl’heure de la Révolution, quand le principedu contrôle de la législation recrute surtoutses partisans dans les rangs royalistes 11. LesConstituants l’ont écarté d’emblée et l’avè-nement de la République ne modifie pascette approche, comme le prouvent les dis-cussions sur la constitution de l’an I et lerejet du projet de Sieyès en 179512.

Dès lors, c’est en exil que la réflexion seperpétue chez des auteurs célèbres – J. deMaistre (Considérations sur la France, 1797),L. de Bonald (Théorie du pouvoir politique etreligieux, 1796) - ou moins connus – Jannon(Développement des principes fondamentauxde la monarchie française, 1795), l’abbé Ruf-fo de Bonneval (La véritable constitution fran-çaise, 1799)-, qui se rejoignent pour asso-cier le rétablissement de la monarchie etl’instauration d’un contrôle de constitu-tionnalité des actes royaux.

L’évocation rapide de ces trois époqueset des penseurs qui les ont illustrées suffi-

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ra sans doute à convaincre de la relative uni-té de vues qui existe entre 1766 et 1799. Audelà du régime politique particulier danslequel le contrôle doit s’inscrire et nonob-stant les inévitables divergences, il estnéanmoins possible de faire ressortir cer-tains traits communs: l’examen de la légis-lation reste le fait des seules cours souve-raines (1), qui opèrent selon la procédurede l’enregistrement (2) en se référant à unvaste corpus de normes (3).

1. Les cours souveraines, organe de contrôle

Il existait sous l’Ancien régime plusieursCours souveraines, juridictions de droitcommun (les Parlements) ou spécialisées(les Cours des aides), principalement char-gées de rendre la justice en dernier ressortsur le fondement d’une délégation royale.La plus importante d’entre elles était le Par-lement de Paris qui, relayant une attitudeancienne, – voir la Fronde –, développa auXVIIIème siècle une politique d’oppositionquasi-systématique à l’encontre du pouvoir.

Les différentes péripéties de ce conflitont bien été décrites, par Jules Flammer-mont, François Olivier-Martin et JeanEgret, de même que la réaction royale con-duite par le Chancelier Maupeou en 1770-1771, sur laquelle se sont penchés RobertVillers et Michel Antoine. Ce n’est pas sansraison que cette dernière a été qualifiée de« victoire à la Pyrrhus » : de courte duréepuisque l’une des premières mesures deLouis XVI fut de rappeler les anciens parle-ments que son aïeul avait supprimés, ellepermit également au terme d’un véritabletravail de propagande de convaincre lesesprits que les Cours souveraines devaient

être préposées au contrôle de constitution-nalité des lois royales, ce qui n’était pasacquis auparavant.

Certes, les hautes juridictions elles-mêmes avaient à plusieurs reprises manife-sté leurs prétentions en la matière, maisCatherine II qui fut vraiment la première àpenser ce type de contrôle, dépassant lesesquisses de Montesquieu, ne se départitpas, dans son Nakaz, d’un certain réalismepolitique 13. Souveraine autocrate, montéesur le trône à la faveur d’un coup d’État, ellene pouvait songer sérieusement à subor-donner son autorité législative à l’approba-tion d’une structure indépendante. C’estpourquoi, dans son projet resté lettre mor-te, elle veilla à confier le contrôle au Sénatqui était en Russie, depuis Pierre le Grand,le collège ministériel, c’est-à-dire la confé-rence des ministres nommés par le chef del’État.

Appelé à réagir aux propositions de latsarine, le philosophe Diderot qui entrete-nait avec elle des relations privilégiées, futloin d’en épouser toutes les vues 14. Il étaithostile au choix du Sénat, rejoignant par làMontesquieu qui avait déclaré que le conseildu prince n’était pas « un dépôt convena-ble » (EdL, II.4) et réprouvait pareillementtoute solution représentative ou parlemen-taire.

Sévère à l’endroit de la réforme duChancelier qu’il détestait, il ne prenait pasdavantage le parti des anciennes juridic-tions. Il développa d’ailleurs à leur encon-tre une critique qui ne manque ni de forceni de lucidité. Pour lui, le Parlement n’étaitqu’une institution fortuite dont les préro-gatives étaient incertaines et l’existenceprécaire. Créée par le roi, cette cour fut tou-jours dans la dépendance de la monarchiequi fixa l’étendue de ses compétences. En

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outre, ce ne fut que par accident qu’elle envint à contrôler la législation. Ce rôle ne luiétait pas dévolu: elle l’a en quelque sorteusurpé.

Enfin, Diderot ne croyait pas que l’espritde corps des parlementaires qui se manife-sta par la fameuse « théorie des classes »,pût profiter au bien public et à l’intérêt duroyaume. Partant, le dépôt des lois devaitêtre remis à une formation unique, ni judi-ciaire ni représentative, peut-être à mi-chemin entre les deux.

Naturellement, les avocats jansénistesdes Maximes du droit public français et, pluslargement, les auteurs des brochures quiabondent après 1771, ne pensent ni commeCatherine ni comme Diderot 15. Ils sont fer-mement attachés aux Parlements, ardentsdéfenseurs des dissidents religieux, et n’hé-sitent pas de ce fait à travestir les propos del’impératrice pour les mettre au service dela cause qu’ils soutiennent. En définitive,leur thèse va l’emporter avec le geste inop-portun de Louis XVI qui, de manière dura-ble, sonne le glas des solutions extra-parle-mentaires. A partir de 1775, tous les auteursse rallient donc à la formule érigeant lesCours souveraines en organe de contrôle.Les éléments qui cimentent cette unanimi-té sont de deux ordres, avec des argumentsdestinés à asseoir la légitimité de tellesinstitutions et d’autres qui s’inscrivent plu-tôt dans un registre statutaire.

Sur le premier point, la thèse qui pré-vaut, durant la réforme Maupeou, à l’inté-rieur du courant janséniste, souligne la dou-ble légitimité, tout à la fois historique etnationale, des hautes juridictions. Celles-cipassent pour les héritières des assembléesgénérales de l’époque franque qui concou-raient à l’élaboration des lois. Au sein desplacita, champs de mars ou champs de mai,

la nation adoptait des mesures que le roisanctionnait et faisait exécuter, selon uneinterprétation controuvée du capitulaires dePîtres (864) : « lex consensu populi fit et con-stitutione regis ».

Si la monarchie s’est transformée depuisla période des origines, les Parlements ontprolongé les assemblées primitives et inter-viennent encore, à ce titre, dans la procé-dure législative par le biais de la vérificationet de l’enregistrement. De plus, en l’absen-ce de réunion des Etats généraux, la derniè-re remontant à 1614-1615, ils ont très logi-quement recueilli la qualité de représentantde la nation qui vient à propos conforterleurs prétendues prérogatives.

Cependant, à l’approche de la Révolu-tion et en raison du divorce consommé dansl’opinion entre la magistrature et le partipatriote, les cours souveraines sont peu àpeu déchues du titre de défenseur de lanation. Il est vrai que le Parlement de Parislui-même a avoué son incompétence dansles remontrances du 26 juillet 1787 en ren-voyant aux Etats généraux la connaissancedes questions fiscales. Pour le physiocrateMercier de la Rivière, qui écrit en 1788-1789, il ne fait pas de doute que les hautesjuridictions sont dépourvues de toute légi-timité nationale bien que leur existencepuisse être encore justifiée par la traditionmonarchique 16.

En fait, c’est la Révolution qui porte uncoup fatal au mythe du Parlement consub-stantiel à la royauté, dont les penseurs del’émigration mesurent a posteriori le carac-tère subversif. Le président Jannon l’affir-me avec d’autant plus de vigueur qu’il est unancien parlementaire: les cours souverai-nes ne descendent pas des assemblées fran-ques17. Elles sont issues du Conseil du roi etdatent de l’époque médiévale. Elles tirent

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leur autorité du seul souverain et non de lanation ou d’une chimérique constitutionoriginelle altérée par l’absolutisme. ContreLe Paige, Jannon présente d’ailleurs lesEtats généraux comme les successeurs deschamps de mai dont ils ont annexé des com-pétences somme toute limitées car, depuisPharamond, la nation ne participe plus à l’é-laboration des lois. Partant, dans l’optiquede la plupart des contre-révolutionnaires,l’existence des Cours souveraines ne pro-cède plus désormais que de la seule volon-té royale.

Sur le second point, l’avantage du con-trôle exercé par les Parlements et autresCours des aides réside dans les garantiesd’indépendance offertes par le statut desmagistrats. En effet, à l’exception des pre-miers présidents et des procureurs géné-raux, ceux-ci étaient des officiers détenteursd’une charge acquise moyennant le verse-ment d’une somme d’argent, même s’ils enétaient formellement investis par le seulmonarque. La mise en place du système dela vénalité avait entraîné l’inamovibilité deces magistrats, qui ne pouvaient être démisde leur office qu’en cas de forfaiture. Ilsétaient de ce fait à l’abri des pressions dupouvoir dont la marge de manœuvre para-issait à leur égard limitée. Pendant long-temps, l’exil collectif ou individuel des par-lementaires resta la mesure la plus énergi-que employée par la royauté. Au paroxysmede la crise, le Chancelier Maupeou lui-même ne put totalement occulter le régimede la patrimonialité qui survécut à travers leremboursement des offices des juges révo-qués. Du reste, sa réforme maintint le prin-cipe d’inamovibilité de magistrats désor-mais salariés par l’Etat.

Devenue un lieu commun de la littératu-re juridique contestataire, l’indépendance

des cours souveraines sera encore saluée parles royalistes de l’émigration qui ferontvaloir la capacité de résistance des Parle-ments durant le XVIIIème siècle. Certains,comme Bonald, n’hésiteront pas à dénonceravec virulence les réformes de Maupeou(1770-1771) et de Lamoignon (1788) 18.

Le contrôle de constitutionnalité doitdonc incomber aux Cours souveraines. Leconsensus qui règne quant à l’organe n’estpas moins large concernant les modalitésdu contrôle.

2. L’enregistrement, procédure de contrôle

La vérification préalable à l’enregistrementest la procédure préconisée pour le contrô-le des actes royaux. De Catherine II à l’abbéRuffo de Bonneval en passant par Diderot,Mercier de la Rivière et Bonald, tous s’ac-cordent sur cette procédure dont on saitl’importance dans la France d’Ancien régi-me, les lettres patentes ne devenant exécu-toires qu’après leur transcription sur lesregistres des Cours souveraines.

Ainsi mis en œuvre, le contrôle présen-te des caractéristiques qui vont bien au delàdes usages institutionnels. De l’aveu géné-ral, la vérification est systématique: elle doitporter sur tous les actes royaux et pas seu-lement sur les lettres patentes. Les Ordon-nances sans adresse ni sceau et les Arrêtsdu Conseil sont également visés19.

Au terme de la vérification qui s’effectuelibrement, les magistrats statuant en leurâme et conscience, un arrêt d’enregistre-ment établit publiquement la conformité dela loi nouvelle à la «constitution». Dans lecas contraire, il est sursis à la transcriptionet procédé à l’envoi de remontrances pour

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demander au roi de modifier son texte. Pourles auteurs qui écrivent avant 1789, le refusd’enregistrement a d’ailleurs un caractèreabsolu. Les lettres de jussion et les lits dejustice dont la monarchie se sert pour impo-ser ses vues, sont inadmissibles. Les mesu-res prescrites grâce à de tels procédés sontnulles et de nul effet tant qu’elles contra-rient l’ordre constitutionnel. Les Courspeuvent légitimement persévérer dans leuropposition en rendant des arrêts de défen-se contre l’exécution des lois ou en cessantleur fonction. C’est la thèse défendue par lesavocats jansénistes aussi bien que par lephysiocrate Mercier.

La Révolution va pourtant contribuer àmodifier cette opinion. Pour les monarchi-stes exilés, le roi doit avoir le dernier mot. Cepoint ne souffre aucune discussion; il s’agitlà, sans doute, d’un enseignement tiré del’expérience récente. Partant, les Cours ne

sauraient contrarier durablement la volontéroyale. Bonald remarque ainsi qu’elles dis-posent d’une sorte de « veto » suspensif.L’enregistrement forcé demeure possiblebien qu’il ne soit pas souhaitable et emportel’obéissance des hauts magistrats. Néan-moins un auteur comme l’abbé Ruffo n’exclutpas la mise en place d’une forme de recours.Consécutivement à une transcription d’au-torité, obligation est faite aux hautes juridic-tions de saisir les États généraux pour leurcommuniquer les motifs les ayant conduitesà contrecarrer les résolutions du prince. Lestrois ordres peuvent alors solliciter, dansleurs cahiers, le «redressement» de la loiinconstitutionnelle. Ils ne possèdent pas eux-mêmes le pouvoir de l’amender ou de l’an-nuler: ils doivent convaincre le souverain dele faire20.

Aussi convient-il de noter combien ladifférence est sensible par rapport à l’épo-

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Séance du Parlement de Paris

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que antérieure à 1789. Les magistrats ne seposent plus en contre-pouvoir comme ils lefaisaient naguère, mais recouvrent leurmission traditionnelle de conseillers, plusparticulièrement chargés d’attirer l’atten-tion sur tout ce qui heurte la constitution.Joseph de Maistre déclare qu’ils « ont ledroit d’avertir le monarque, d’éclairer sareligion et de se plaindre des abus » 21. Entoutes circonstances, la décision ne laissepas d’appartenir au roi, mais quelque éten-due que soit sa puissance, celle-ci prendplace dans un cadre ayant vocation à la con-tenir.

3. Les lois fondamentales et la constitution,normes de référence

A ce propos, il importe tout d’abord de rele-ver une évolution dans le vocabulaire. Glo-balement, on parle plutôt de « lois fonda-mentales » avant 1789 et plutôt de « con-stitution » après cette date, mais il faut segarder d’être catégorique 22. Quoi qu’il ensoit de la terminologie usitée pour désignerces normes de référence, il est indéniableque la tendance est à l’élargissement de leurchamp matériel.

Avant 1789, sur la base d’une distinctionfaite par le publiciste suisse Burlamaqui, laplupart des théoriciens distinguent deuxcatégories de lois fondamentales, les unesnaturelles, les autres positives.

Les lois fondamentales naturelles sont« inaltérables et imprescriptibles » selonles termes des auteurs des Maximes du droitpublic français. Ayant une dimension uni-verselle, elles correspondent à peu près auxdroits individuels qui seront bientôt consa-crés par la Déclaration des droits de l’hom-

me et du citoyen. Il s’agit plus concrètementet par ordre d’importance de la propriété –personnelle, mobilière et foncière –, de laliberté et de la sûreté des sujets. Ensemble,elles forment la « base du droit public » detout État (Mercier). Toute disposition por-tant atteinte à l’un de ces droits doit doncêtre censurée.

Les lois fondamentales positives com-prennent les règles propres à chaque État,touchant l’organisation du pouvoir et les rela-tions entre l’autorité et les sujets. Appliquéesà la monarchie française, elles s’entendentd’abord des principes régissant la dévolutionde la couronne et établissant l’inaliénabilitédu domaine, s’identifiant ainsi aux lois fon-damentales dans l’acception classique del’expression. La plupart des auteurs ne selimitent pas cependant à cette approche pourainsi dire formelle et la complètent par desdispositions diverses prescrivant l’indivisi-bilité de la couronne et de la souveraineté, laréunion périodique de la nation en assem-blée, le respect des « stipulations faites parles différentes provinces » lors de leur réu-nion au domaine, l’inamovibilité des offices,le caractère constitutionnel du dépôt des loiset de la vérification des actes royaux…. Pourl’essentiel, ces thèmes seront d’ailleurs expo-sés dans la déclaration du Parlement de Paris,du 3 mai 1788 23.

Avec la Révolution, le syntagme « loisfondamentales » recule devant le vocable« constitution ». C’est désormais par rap-port à elle que le contrôle doit être effectué.Pour autant, la conception des normes deréférence n’en sort pas bouleversée car lesroyalistes restent fidèles à la notion tradi-tionnelle. Pour eux, la constitution n’est pasune norme édictant des droits, des devoirset des habilitations, mais elle désigne uneorganisation constante et (presque) inva-

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riable, impliquant un certain nombre derègles et s’imposant au souverain comme àses sujets. D’où une plus grande plasticitédu contrôle, envisagé aussi bien par rapportà des principes (Jannon) qu’à des coutumes,des usages, voire des habitudes (Ruffo), avecpar exemple la prise en compte de la divi-sion sociale en trois ordres. D’où, égale-ment, le maintien des deux catégories delois fondamentales, naturelles et positives,que certains intègrent à la constitutionorganique en veillant à en étendre le conte-nu. Pour Ruffo, les lois fondamentales natu-relles comprennent ainsi, outre les droitsindividuels précités, les principes de justi-ce, de bon ordre et le respect de la religion.

Si les lois fondamentales positives sontelles aussi enrichies de dispositions hété-roclites, dans la veine parlementaire pré-révolutionnaire, il est frappant de consta-ter qu’elles continuent d’être regardéescomme modifiables. Déjà, au début desannées 1770, les auteurs des Maximes dudroit public français avaient soutenu que lanation pouvait changer l’ordre successoralet instituer un nouveau régime politique. Ala veille de la Révolution, Mercier de laRivière semblait du même avis: tout enadmettant le caractère coutumier de la con-stitution monarchique, il reconnaissait lapossibilité d’en réformer le contenu « duconsentement général de la nation ».

De manière surprenante, le cataclysmerévolutionnaire ne met pas un terme à cet-te dérive volontariste. Le président Jannonet l’abbé Ruffo soutiennent ainsi que lestrois ordres peuvent participer avec le roi àl’établissement, à la modification ou à l’a-brogation des lois fondamentales qui for-ment la constitution.

Si Maistre est muet sur le sujet, Bonaldest le seul à combattre franchement une tel-le assertion en plaçant l’ensemble des nor-mes positives sous l’emprise du prince.Dans la mesure où toutes les lois procèdentde la nature, le souverain a pour uniquemission d’observer et de transcrire lesrègles de l’ordre du monde – il est le« secrétaire » de la nature. C’est dire que sile pouvoir est réservé au prince, en ce sensabsolu, il n’en demeure pas moins limité.Partant, dans cette perspective jusnaturali-ste classique, il ne saurait y avoir d’innova-tions constitutionnelles véritables: on nedoit parler que de « perfectionnementsinsensibles ».

Au delà des différences qui peuvent exi-ster et qui concourent à nourrir la réflexion,le thème du contrôle de constitutionnalitéest indéniablement présent chez les publi-cistes du dernier XVIIIème siècle. Bien quecertains révolutionnaires cherchent à luidonner consistance au sein des assemblées,lors des travaux constituants, sa promotionest plutôt le fait de leurs adversaires royali-stes. La Révolution aurait même pour con-séquence de grossir leurs rangs, avec la pré-sence de personnalités comme Maistre ouBonald réputés pour leur intransigeancedoctrinale. Pourtant, quand la Restaurationinterviendra, aucun de ces auteurs ne mili-tera plus pour que soit garantie la constitu-tionnalité des lois. L’épisode napoléonienet l’ineffectivité du contrôle sénatorial d’u-ne part, la mise en place d’une monarchielimitée de l’autre24, éclairent sans doute untel revirement.

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1 On en trouve cependant mentionchez Fr. Olivier-Martin, Les parle-ments contre l’absolutisme tradi-tionnel au XVIIIe siècle, Paris,reprint LGDJ, 1997, pp. 421-422.

2 Le 26 juillet 1718, le Parlement deParis indique au roi qu’il n’enre-gistrera que les lettres patentes nerenfermant « rien de contraireaux intérêts de Votre Majesté etaux lois fondamentales du royau-me », texte in J. Flammermont,Remontrances du Parlement deParis, Paris, Imprimerie nationa-le, 1898, tome 1, p. 88. Cf. J.-L.Mestre, Juridictions judiciaires etcontrôle de constitutionnalité enFrance de 1715 à 1814 in TowardComparative Law in the 21st Century,Tokyo, Chuo University Press,1998, pp. 500-504.

3 Les six livres de la république, éd. de1593, Paris, Fayard, 1986, I.8,p. 197.

4 Cf. par exemple Ph. Sueur, Histoi-re du droit public français, XVe-XVIIIe, Paris, PUF, 2e éd. 1993,tome 1, pp. 115-118.

5 Louis XV, Paris, Fayard, 1989,p. 568.

6 C. Maire, De la cause de Dieu à lacause de la Nation. Le Jansénisme auXVIIIe siècle, Paris, Gallimard,1998, pp. 405-407 ; Fr. di Dona-to, Constitutionnalisme et idéologiede robe. L’évolution de la théorie juri-dico-politique de Murard et Le Paigeà Chanlaire et Mably in «AnnalesHSS», juillet-août 1997, n°4,pp. 826-835 notamment.

7 Maximes du droit public français,s.l. en France, 1772.

8 Cf. E. Gojosso, L’établissement d’uncontrôle de constitutionnalité selonCatherine II de Russie et ses réper-

cussions en France (1766-1774) in«Revue Française de Droit Con-stitutionnel», n°33, 1998, pp. 87-99.

9 Ces auteurs s’appuient égalementsur les écrits de deux juristes alle-mands, Fleischer et Griebner, cf.J.-L. Mestre, L’évocation d’un con-trôle de constitutionnalité dans lesMaximes du droit public français(1775) in AFHIP, Etat et pouvoir. L’i-dée européenne, Aix-en-Provence,P.U. Aix-Marseille, 1992, pp. 21-36.

10 Cf. E. Gojosso, Le contrôle de l’ac-tivité normative royale à la veille dela Révolution : l’opinion de Mercierde la Rivière in «Revue de laRecherche Juridique-Droit pro-spectif», 1999-1, pp. 237-250.

11 Cf. E. Gojosso, Le contrôle de con-stitutionnalité des lois dans quelquesécrits monarchistes de la périoderévolutionnaire in AFHIP, La con-stitution dans la pensée politique,Aix-en-Provence, P.U. Aix-Mar-seille, 2001, pp. 229-243.

12 M. Lévinet, Le problème du contrô-le de la loi lors de l’élaboration de laconstitution de 1793 in «Revue duDroit Public et de la science poli-tique», n°3, 1991, pp. 697-732 ;J.-L. Mestre in L. Favoreu (dir.),Droit constitutionnel, Paris, Dalloz,4e éd., 2001, pp. 245-248.

13 Instruction en vue de l’élaborationd’un code des lois ou Nakaz (1766)in «Revue d’histoire économiqueet sociale», 1920.

14 Entretiens avec Catherine II (1773)et Observations sur l’Instruction deSa Majesté Impériale (1774) inDiderot, Œuvres politiques, éd. P.Vernières, Paris, Garnier, 1963.

15 Sur ce courant janséniste, outre

l’ouvrage déjà cité de C. Maire, cf.D. K. Van Kley, The Religious Ori-gins of the French Revolution, NewHaven et Londres, Yale U.P., 1996et M. Cottret, Jansénismes etLumières, Paris, A. Michel, 1998.

16 Les vœux d’un Français…, Paris etVersailles, Vallat la Chapelle etVeillard, 1788 et Essais sur lesmaximes et lois fondamentales…,Paris et Versailles, Vallat la Cha-pelle et Veillard, 1789.

17 Développement des principes fonda-mentaux de la monarchie française,s.l. [Neuchâtel], 1795.

18 Théorie du pouvoir politique et reli-gieux in Œuvres complètes de M. deBonald, Paris, J.-P. Migne éditeur,1859, tome 1, VI.3.

19 Sur la typologie des actes royaux,cf. Ph. Sueur, Historie du droitpublic, cit., tome 2, pp. 64-76.

20 La véritable constitution française,s.l. [Vienne], 1799, 2e partie,tome 2.

21 Considérations sur la France inEcrits sur la Révolution, éd. J.-L.Darcel, Paris, PUF, 1989, chap.VIII.

22 Cf. M. Ganzin, Le concept de consti-tution dans la pensée jusnaturaliste(1750-1789) in AFHIP, La constitu-tion, op. cit., pp. 167-201 et A. Ver-gne, La notion de constitution d’a-près la pratique institutionnelle à lafin de l’Ancien Régime (1750-1789),thèse droit dactyl., Paris II, 2000.

23 Reproduite in Archives Parlemen-taires, 1ère série, tome 1, p. 285.

24 Cf. S. Rials, Essai sur le concept demonarchie limitée in Révolution etContre-révolution au XIXe siècle,Paris, DUC/Albatros, 1987, pp. 88et suiv.

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Les Américains ont donc confié à leurs tribu-naux un immense pouvoir politique ; mais enles obligeant à n’attaquer les lois que par desmoyens judiciaires, ils ont beaucoup diminuéles dangers de ce pouvoir.

Alexis de Tocqueville, De la Démocratie en Amé-rique (1835), 1ère partie, chapitre 6

Nous avons donc besoin d’aller à l’école de l’A-mérique pour apprendre qu’une constitutionn’est pas une confiscation de la vie nationaleau profit d’une ou deux chambres, mais sim-plement une loi qui, réservant la souveraine-té nationale, et ne la déléguant jamais dans sonentier, organise les pouvoirs publics dans deslimites déterminées, et voit dans ces limitesla garantie de la liberté.

Edouard Laboulaye, Histoire des Etats-Unis, t. 3(1866), 1ère leçon

Etudier le contrôle juridictionnel de con-stitutionnalité de la loi dans la France duXIXème siècle peut sembler, à première vue,d’une pertinence relative, eu égard au ter-reau idéologique et institutionnel d’un pays,alors peu favorable à l’éclosion d’une telletechnique.

Le légiscentrisme, hérité de la Révolu-tion1, est dominant, même s’il est vrai quecertaines interrogations existent quant aucaractère sacré et incontestable de la loi2. Laloi, expression de la volonté générale, con-stitue une garantie pour les libertés, ce quele magistrat de la Cour de Cassation Helloexprime en 1848 en déclarant que «La loivient remplir la promesse de la Charte,c’est-à-dire servir de garantie à nosdroits».3

Cette forte exaltation de la loi occulte parlà même la question de la valeur juridiquedu texte constitutionnel et a fortiori de laDéclaration des droits, dont la fonction n’estpas négligeable dans le sens d’une légitima-tion du régime politique en place mais dontla mise en oeuvre laisse pour le moins àdésirer: il suffit de penser par exemple auxvicissitudes rencontrées par le principe deliberté de la presse tout au long du XIXème

siècle. D’autant que le juge qui est une autorité

plus qu’un pouvoir occupe une positionsubordonnée qui n’est guère favorable à une

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Le contrôle de constitutionnalité de la loiaux Etats-Unis vu par les penseurs libérauxfrançais du XIXème siècle

alain laquieze

giornale di storia costituzionale n. 4 / II semestre 2002

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défense efficace des libertés. Le souvenirdes Parlements d’Ancien régime, défiant lapuissance royale, n’encourage guère le pou-voir politique à lui accorder des prérogati-ves substantielles et une indépendanceaffirmée. Dès lors, on ne s’étonnera guèreque la magistrature soit régulièrement épu-rée, au gré des changements de régimes4.

En outre, l’expérience que la France a eudu contrôle de constitutionnalité de la loisous l’Empire de Napoléon Ier puis de Napo-léon III n’a pas laissé de souvenirs impéris-sables : le Sénat impérial, chargé de ce con-trôle, était un organe politique dont lesmembres, nommés discrétionnairementpar l’Empereur, étaient, à divers titres, desobligés du pouvoir. Le contrôle de constitu-tionnalité qui fut exercé n’eut par consé-quent aucune efficacité réelle: c’est ainsique le Sénat du Second Empire ne devaitcensurer aucun projet de loi de portéenationale5.

Ces conditions idéologiques nettementdéfavorables expliquent sans doute que lesdébats constitutionnels du temps soientfocalisés par d’autres enjeux. Les libéraux,qu’il s’agisse des doctrinaires ou des tenantsde la liberté du sujet tels que Benjamin Con-stant ou plus tard Prévost-Paradol, pensentla limitation du pouvoir étatique par la théo-rie de la séparation des pouvoirs et non parla hiérarchie des normes où la constitutionl’emporterait sur la loi. Il est vrai que pourun auteur comme Constant, la loi estsusceptible d’être mauvaise mais elle trou-vera alors des bornes avec un aménagementéquilibré des institutions politiques, le pou-voir neutre étant «le pouvoir judiciaire desautres pouvoirs», voire aussi avec l’examencritique du citoyen qui peut refuser d’obéirà une loi injuste6.

Dans cette perspective, l’idée d’une con-

stitution qui, comme aux Etats-Unis, seraitun acte juridique garanti par le pouvoir judi-ciaire face aux lois est bien loin de la con-ception française d’ omnipotence du pou-voir législatif, rappelée par Laboulaye audébut de son Histoire des Etats-Unis7.

Au demeurant, la perception que lesFrançais cultivés du XIXème siècle peuventavoir de l’Amérique est nécessairementschématique, en particulier du fait de l’é-loignement. En 1820, il faut en effet plus dedeux mois de voyage pour atteindre le Nou-veau Monde8. On en reste donc à une visionnaïve et quelque peu idyllique des Etats-Unis, à savoir une république de petits pro-priétaires terriens qui contribuent active-ment à l’intérêt commun. Cette perceptions’affinera après 1830, avec la multiplicationdes voyages des Français outre-Atlantiqueet la parution de nombreuses études, dont laplus célèbre est sans conteste celle de Toc-queville. Mais plus que les spécificités insti-tutionnelles, on retient d’abord des Etats-Unis qu’ils sont une fédération de républi-ques qui protègent les libertés, comme laliberté de conscience ou de circulation.

L’idée républicaine a sonimportance dans l’attachement conjonctu-rel que les Français portent à la patrie deJefferson: celle-ci, tel un phénomène demode, reviendra au devant de la scène idéo-logique française à chaque tourmente révo-lutionnaire (1789, 1830, 1848, 1870)9.

Les libéraux français ne pouvaient qu’ê-tre séduits par un modèle de balance despouvoirs, respectant les libertés individuel-les, mais son caractère démocratique, ten-dant à l’uniformisation des goûts10, et sonpeu de respect des traditions leur faisaientpréférer encore l’exemple britannique.Effectivement, le libéralisme français duXIXème siècle est un libéralisme aristocrati-

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que plus que démocratique, et plus anglo-phile qu’américanophile. Les grands libé-raux français (Constant, Victor de Broglie,Guizot, Royer-Collard, Thiers, Prévost-Paradol …) ont d’abord été des tenants de lamonarchie constitutionnelle anglaise, sansdoute parce que, soucieux de mettre fin auxprétentions républicaines et aux dérapagesrévolutionnaires que certains d’entre euxavaient eu l’occasion de subir, ils recher-chaient le modèle d’un régime libéral stable,compatible avec une dynastie royale. LesEtats-Unis, jeune république sans passé etsans aristocratie, ne leur étaient point d’ungrand secours.

Il n’en demeure pas moins que c’est par-mi le courant libéral que l’on rencontre, aucours du XIXème siècle, les meilleurs con-naisseurs des institutions politiques améri-caines ainsi que leurs plus ardents défen-seurs auprès de l’opinion publique françai-se ; deux noms doivent être plus spéciale-ment cités: Tocqueville et Laboulaye. Notonsqu’ils sont de la même génération, le pre-mier étant né en 1805, le second en 1811, ettous les deux d’origine aristocratique, mêmesi la famille de Tocqueville est d’une nobles-se bien plus ancienne que celle de Laboula-ye, dont le grand-père avait été anobli à lafin de l’Ancien régime en raison de sa char-ge de Secrétaire du Roi de la Grande Chan-cellerie de France11. Est-il besoin de rappe-ler qu’ils ont également tous les deux unesolide formation de juriste, Tocquevilleayant été licencié en droit en 1826 et Labou-laye en 1833, avant de se faire connaître parde savants travaux en histoire du droit etd’obtenir, en 1849, la chaire de législationcomparée au Collège de France12?

En revanche, leurs œuvres consacréesaux Etats-Unis n’ont pas été rédigées à lamême période. Si la première Démocratie en

Amérique, texte qui nous occupera ici plusspécialement13, date de 1835, c’est-à-direde la Monarchie de Juillet, les travaux deLaboulaye ont été rédigés pour leur part sousla Deuxième République et surtout sous leSecond Empire, la publication de son Histoi-re des Etats-Unis en trois volumes s’éche-lonnant tout au long du Second Empire14.En outre, on ne saurait mettre exactementsur le même plan le chef d’œuvre de Toc-queville et l’ouvrage, certes érudit maismoins profond, de celui qui fut l’un de sesdisciples, bien qu’il n’ait jamais été conduità le rencontrer15.

Il faut encore signaler que leur connais-sance des Etats-Unis ne s’est pas effectuéede manière identique puisque Laboulaye,contrairement à Tocqueville, ne s’y est pasrendu. Une santé délicate l’a empêché d’i-miter son illustre aîné dont on connaît levoyage effectué entre avril 1831 et mars183216. Pour le reste, ils avaient tous les deuxdes contacts avec des correspondants amé-ricains, notamment des législateurs et desjuges, et disposaient de sources livresquescomparables17.

Qu’allaient chercher Tocqueville etLaboulaye dans l’organisation politique etjudiciaire des Etats-Unis ? Pour ces auteursqui, à l’instar de Benjamin Constant, défen-daient la conception d’une souverainetélimitée, la loi devait nécessairement êtrebornée. Comme elle ne pouvait plus l’êtredans le respect de la Loi naturelle, expres-sion d’une Justice transcendante ou de laRaison, il fallait bien trouver ailleurs lesgaranties contre l’arbitraire: c’est dans lerespect des formes juridiques et de la puis-sance des tribunaux que résidait, selon eux,la meilleure garantie des droits des particu-liers. La toute puissance des juges améri-cains et leur faculté de fonder leurs arrêts

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sur la constitution plutôt que sur les loisconstituaient le meilleur contrepoids pos-sible à la domination du pouvoir du peu-ple18.

L’étude du contrôle de constitutionnali-té des lois aux Etats-Unis passe par uneréflexion sur la nature et les fonctions dupouvoir judiciaire américain. Les analysesde Tocqueville sont, sur cette question, d’u-ne grande pénétration, et l’on peut avancerque Laboulaye, fortement influencé parl’auteur de la Démocratie en Amérique, s’enest largement inspiré pour décrire le systè-me de contrôle de la loi (I). En revanche, lesdeux auteurs sont en désaccord lorsqu’ilss’interrogent sur une éventuelle transposi-tion de ce contrôle de la loi en France: tan-dis que Tocqueville, avec beaucoup de luci-dité, ne le croit guère possible en l’état desinstitutions publiques françaises de laMonarchie de Juillet, Laboulaye, dont on apu souligner l’«enthousiasme un peu naïf»à l’égard des Etats-Unis19, en est un chaudpartisan (II).

1. La description du contrôle de constitution-nalité des lois aux Etats-Unis

Les réflexions de Tocqueville sur le contrô-le de constitutionnalité exercé par le jugeaméricain, telles qu’elles apparaissentnotamment dans le chapitre VI de la pre-mière partie intitulé «Du pouvoir judiciai-re aux Etats-Unis et de son action sur lasociété politique»20, dépassent largement,par leur profondeur, leur caractère systé-matique et leur traitement comparatiste21, lecas des Etats-Unis au XIXème siècle. A cetégard, elles se distinguent nettement de cel-les, pourtant aiguisées mais beaucoup plus

circonstanciées, d’autres auteurs qui écri-vent, au même moment sur les institutionsaméricaines22. Leur modernité – le motn’est pas trop fort – autorise les interpréta-tions suivantes qui pourraient parfois sem-bler anachroniques, si elles s’appliquaientà d’autres documents. Mais l’on sait que,pour reprendre les termes de FrançoisFuret,

Tocqueville est […] allé chercher aux Etats-Unisnon pas un modèle, mais un principe à étudier, etune question à illustrer et à résoudre ; à quellesconditions la démocratie, si elle est un état desociété, devient ce qu’elle doit être aussi, faute deconduire à une dictature: un état de gouverne-ment.23

Etudiant le pouvoir judiciaire américain,Tocqueville relève d’abord qu’il présente lestrois caractères classiques de tout pouvoirjudiciaire :

- c’est un arbitre qui ne peut se pronon-cer que lorsqu’il y a un litige;

- il ne s’occupe que d’un cas particulier.S’il attaquait un principe général, il devien-drait «quelque chose de plus important, deplus utile peut-être qu’un magistrat» maisil cesserait «de représenter le pouvoir judi-ciaire»24.

- Pour agir, la «puissance» judiciaire,pour reprendre un terme qu’utilise volon-tiers Tocqueville, doit attendre qu’on l’aitsaisi.

De sa nature, le pouvoir judiciaire est sans action ;il faut le mettre en mouvement pour qu’il seremue.25

Cependant, le juge américain se séparesur un point important des magistrats desautres nations. Il est en effet revêtu, préci-se l’auteur de La démocratie en Amérique,d’un immense pouvoir politique qu’il tient

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uniquement de ce qu’on lui a reconnu ledroit de fonder ses arrêts sur la constitutionplutôt que sur les lois. On lui a ainsi permisde ne pas appliquer les lois qui lui para-îtraient inconstitutionnelles.

Que la justice soit dotée d’un pouvoirpolitique est une véritable découverte quinous vient des Etats-Unis, s’exclameEdouard Laboulaye lorsqu’il s’adresse à sonauditoire du Collège de France. En France,la justice n’a jamais été, sauf sur le plan desprincipes, un pouvoir politique ; elle a été

une branche de l’administration, une dépendan-ce du pouvoir exécutif, une fonction du gouver-nement, mais une fonction subalterne.26

Elle s’est contentée d’appliquer la loi,sans en discuter ses mérites.

Deux raisons majeures permettent d’ex-pliquer ce pouvoir qui n’est contesté parpersonne aux Etats-Unis, nous dit Tocque-ville. En premier lieu, la constitution est laloi suprême qui s’impose aux lois ordinai-res. Elle est à l’origine de tous les pouvoirset la force prédominante est en elle seule.Elle n’est pas censée être immuable commela Charte de 1830 en France et n’est passusceptible non plus d’être modifiée par leParlement telle une loi ordinaire, à l’imagede l’Angleterre.

Elle forme une œuvre à part, qui, représentant lavolonté de tout le peuple, oblige les législateurscomme les simples citoyens, mais qui peut êtrechangée par la volonté du peuple, suivant des for-mes qu’on a établies, et dans des cas qu’on a pré-vus.27

La constitution des Etats-Unis qui s’im-pose tant aux législateurs qu’aux citoyens,est au sommet de la hiérarchie des normes.Etant la première des lois, elle ne sauraitêtre modifiée par le Parlement comme il le

ferait d’une simple loi et les tribunaux doi-vent faire prévaloir la constitution sur leslois28. De l’idée que la constitution est lanorme suprême, Tocqueville en déduit trèslogiquement les mécanismes juridiques dela révision constitutionnelle et du contrôlejuridictionnel de constitutionnalité de la loi,anticipant sur les analyses des constitution-nalistes du siècle suivant.

Il existe une seconde raison majeure quijustifie que ce soit un juge, et non un orga-ne politique, qui est amené à contrôler laconformité de la loi par rapport à la consti-tution. Du fait de la nature même de sonactivité, le juge procède régulièrement à unecombinaison de normes dans le cadre deslitiges qui lui sont soumis et va déterminerquelle est la règle de droit qui s’impose danschaque espèce29. En outre et surtout, le jugefait partie, avec les avocats, de ce corps delégistes qui est un contrepoids efficace auxexcès démocratiques. Dans le chapitre VIIIde la deuxième partie de son ouvrage, Toc-queville fait l’inventaire des facteurs quitempèrent aux Etats-Unis, la tyrannie de lamajorité : l’absence de centralisation admi-nistrative et l’existence du jugement par jurysont ainsi évoqués, mais ce sont les légistesqui, au vu des fortes pages qui leur sont con-sacrées, «forment aujourd’hui la plus puis-sante barrière contre les écarts de la démo-cratie»30, alors que, paradoxalement, ilsconstituent une puissance que l’on redoutepeu car elle s’adapte aux évolutions du corpssocial.

De par leurs travaux consacrés à l’étudedes lois, les légistes développent un goûtpour les formes et un amour pour les rai-sonnements logiques et rigoureux qui lesrendent par nature conservateurs. Enacquérant la maîtrise d’une «science néces-saire», nécessaire à la fois parce qu’elle est

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peu répandue dans la population et qu’ellerend des services considérables aux cito-yens, les légistes ont le sentiment d’appar-tenir à une classe supérieure, à un véritable«corps» – le mot est employé par Tocque-ville – qui occupe une place à part dans lasociété31. On peut voir là une aristocratie dela connaissance, soucieuse d’ordre et parconséquent favorable à l’autorité, volontiersantidémocratique et prête à accepter quel-ques sacrifices du point de vue des libertés,du moment que les formes légales sontrespectées. Le prince a donc intérêt à s’ap-puyer sur les légistes pour gouverner et s’ilest tenté d’exercer un pouvoir autoritaire,les décisions qu’il prendra trouveront, grâ-ce à eux, une justification légale32.

Parmi les légistes, les juges sont, au seinde leurs tribunaux, les plus à même de con-stituer un pôle de stabilité au sein de lasociété démocratique. Outre ce goût pourl’ordre et les formes qu’ils ont contractédans l’étude des lois, l’inamovibilité de leursfonctions et leur pouvoir politique consi-stant à déclarer les lois inconstitutionnellesleur donnent une autorité suffisante pourréfréner les passions populaires et con-traindre le peuple à rester fidèle à ses lois.C’est à eux qu’il revient de résoudre une cri-se politique, résultant d’un affrontemententre les différents pouvoirs.

Un texte de Tocqueville en date de 1858met bien en évidence toute l’importance deleur intervention:

Que la constitution d’un pays oblige en droit lelégislateur lui-même: cela est reconnu en Euro-pe aussi bien qu’aux Etats-Unis; mais en Euro-pe, il n’y a guère que les révolutions qui, de tempsà autre, appartiennent aux grands pouvoirs del’Etat qu’ils sont sortis de sa constitution ou qu’ilsen méconnaissent l’esprit; tandis qu’en Améri-que, c’est le juge qui, à chaque pas que le pouvoir

exécutif ou la législature sont hors de la consti-tution, les arrête en refusant de donner la sanc-tion judiciaire à leurs volontés33.

Le contrôle juridictionnel de la consti-tutionnalité des lois a donc une fonctionessentielle, celle d’assurer la paix sociale.C’est une des leçons que nous donnent lesEtats-Unis: tandis qu’un conflit, mêmepolitique, se résout là-bas par un procès,tout se termine, dans la France d’alors, parune révolution. Dans son cours au Collègede France, Laboulaye rappellera l’avantagede cette technique, à ses yeux décisif34.

Dans la deuxième Démocratie en Améri-que, Tocqueville insistera à nouveau surl’importance du pouvoir judiciaire et l’atta-chement aux formes juridiques pour con-trebalancer les effets néfastes de la démo-cratie. Il y voit la meilleure garantie deslibertés individuelles contre un souveraintenté d’intervenir jusque dans la vie privéedes particuliers35.

Le contrôle de constitutionnalité de laloi exercé par le juge tempère par consé-quent les excès de la démocratie. Il modè-re, par la même occasion, les excès d’as-semblées despotiques et se révèle commeun élément déterminant d’une démocratielibérale.

Mais du fait même que le pouvoir judi-ciaire est immense aux Etats-Unis, il fautencore que les magistrats soient dotés d’ungrand pouvoir de discernement quant à l’e-sprit du temps. Evoquant les juges de la Coursuprême sur qui reposent la paix, la pro-spérité et l’existence même de l’Union, sansqui la Constitution serait une œuvre morte,Tocqueville précise:

Les juges fédéraux ne doivent donc pas seule-ment être de bons citoyens, des hommesinstruits et probes, qualités nécessaires à tous

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magistrats, il faut encore trouver en eux deshommes d’Etat; il faut qu’ils sachent discernerl’esprit de leur temps, affronter les obstaclesqu’on peut vaincre, et se détourner du courantlorsque le flot menace d’emporter avec eux-mêmes la souveraineté de l’Union et l’obéissan-ce due à ses lois36.

Car le pouvoir que détiennent les jugesde la Cour suprême n’est qu’un “pouvoird’opinion”; aussi important soit-il, il n’estrien si le peuple refuse d’obéir à la loi. Il estdonc fait appel au civisme et à la responsa-bilité du juge qui est invité à mener unepolitique jurisprudentielle empreinte desagesse et de modération.

Tocqueville ne s’intéresse pas unique-ment aux fondements du contrôle de con-stitutionnalité de la loi mais décrit aussi sesmodalités. Ainsi oppose-t-il, bien avantCharles Eisenmann, le contrôle par voied’exception au contrôle par voie d’action, lepremier ayant de loin sa préférence. Ce qu’ilreproche au contrôle abstrait, c’est qu’il pla-ce le juge comme un acteur politique parmid’autres. Perdant son impartialité, sa dis-tance par rapport aux événements, il seraitalors conduit à prendre parti : le pouvoirpolitique accordé aux juges deviendraitexcessif. Citons ici Tocqueville:

Si le juge avait pu attaquer les lois d’une façonthéorique et générale; s’il avait pu prendre l’ini-tiative et censurer le législateur, il fût entré avecéclat sur la scène politique; devenu le championou l’adversaire d’un parti, il eût appelé toutes lespassions qui divisent le pays à prendre part à lalutte37.

Comment ne pas voir dans ces propos lespectre du gouvernement des juges, régu-lièrement agité aujourd’hui à l’encontre dujuge constitutionnel, et ne pas les rappro-cher des controverses passionnées que

suscite l’action du Conseil constitutionnel,à l’occasion par exemple des nationalisa-tions ou plus récemment de la responsabi-lité pénale du président de la République?Juger la loi, c’est encore légiférer, c’est êtreco-législateur, c’est être un acteur essentielde la vie politique. Mais c’est sans douteaussi, lorsque le contrôle s’effectue seule-ment contre la loi, déclencher des passionsqui vont à l’encontre de la fonction modé-ratrice et d’apaisement que doit exercer lepouvoir judiciaire. Il n’est du reste pas sûrque ce dernier pourra faire preuve d’unedétermination identique dans son contrôleen fonction des périodes et des lois exami-nées38.

C’est pourquoi il faut préférer le contrô-le par voie d’exception, dont Tocqueville,toujours à partir de l’exemple américain,

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Alexis de Tocqueville

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met en évidence les avantages:- en premier lieu, il ne soulève pas d’en-

jeux partisans car le juge n’examine une loique dans le cadre d’un litige particulier,«dans un débat obscur et sur une applica-tion particulière»39. Il n’y aura donc pas depublicité, on parlerait aujourd’hui demédiatisation, excessive de l’affaire.

- Si la loi est censurée, elle ne l’est quepour un litige précis. Le jugement n’ayantpour but que de frapper un intérêt indivi-duel, «la loi ne se trouve blessée que parhasard». Bien qu’elle soit écartée dans uncas particulier, elle continue à exister, et cen’est que si plusieurs arrêts l’écartent, quel’on pourra en conclure qu’elle est annu-lée40.

- Un autre intérêt de ce contrôle est d’at-taquer une loi, seulement lorsque le besoins’en fait sentir. Ce n’est que lorsqu’une per-sonne se sentira lésée et qu’elle ira devant lejuge que la loi qui s’applique sera suscepti-ble d’être contestée. La législation n’est ain-si pas attaquée inconsidérément et sans defondement juridique solide, comme celaarrive souvent dans le contrôle par voied’action41.

Résumant sa pensée, Tocqueville expli-que que le contrôle par voie d’exception estle plus favorable à l’ordre public puisqu’ilne paralyse pas d’un seul coup et complète-ment une loi et qu’il s’exerce de surcroîtdans un climat paisible. Il est également leplus favorable à la liberté, en ce qu’il permetau juge qui n’attaque pas de front le législa-teur, de contrôler la constitutionnalité de laloi, sans avoir la crainte d’y procéder. C’estdonc l’individu au procès qui est concernéet non l’Etat. Il y a là un gage d’indépen-dance pour le juge et de liberté pour les plai-deurs. Certes, le juge exerce encore un pou-voir politique dans ce type de contrôle, mais

ses inconvénients sont largement réduits,du fait que la législation n’est susceptibled’être censurée que dans le cadre restreintd’un procès d’un particulier.

Au-delà de cette utilité sociologique,Tocqueville dégage une ultime conséquen-ce juridique du contrôle de conformité dela loi à la constitution. Ecoutons-le une nou-velle fois:

[…] du jour où le juge refuse d’appliquer une loidans un procès, elle perd à l’instant une partie desa force morale. Ceux qu’elle a lésés sont alorsavertis qu’il existe un moyen de se soustraire àl’obligation de lui obéir: les procès se multi-plient, et elle tombe dans l’impuissance. Il arri-ve alors l’une de ces deux choses: le peuple chan-ge sa constitution ou la législature rapporte saloi42.

Il est tentant de voir ici esquissée, avantCharles Eisenmann et Louis Favoreu, lathéorie de l’aiguilleur, selon laquelle le juge,lorsqu’il censure une loi, déclare seulementl’incompétence du législateur à intervenirdans le domaine considéré et invite le pou-voir constituant à s’en saisir43. En vérité,Tocqueville pose bien l’alternative qui seprésente lorsque l’application d’une loi estécartée par plusieurs juges, comme l’illu-stre l’exemple américain. La loi subsiste belet bien dans l’ordre juridique, mais le pou-voir judiciaire sollicite implicitement maisnécessairement une des situations suivan-tes:

- soit on procédera à une révision con-stitutionnelle, afin d’harmoniser la loi et laconstitution;

- soit le législateur devra retirer sa loi etla réécrire afin de la rendre conforme autexte constitutionnel.

Nous sommes là dans une problémati-que que connaissent bien nos démocraties

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constitutionnelles. Mais il ne faut pas s’ytromper: la prérogative donnée au juged’apprécier, par voie d’action ou d’excep-tion, la régularité de la loi n’est, en cas decensure, qu’une sollicitation du pouvoirconstituant ou du législateur à prendre leursresponsabilités, dans le strict respect del’ordre juridique, mais en aucune façon dese substituer à eux.

2. Le contrôle américain de constitutionnalitédes lois est-il transposable en France ?

Sur ce point, nous l’avons laissé entendre,Tocqueville et Laboulaye ne sont pas d’ac-cord. L’auteur de la Démocratie en Amériquepense que le système n’est pas transposabledans la France de Louis-Philippe. Onretrouve ici la grande prudence de l’auteur,étayée par une observation rigoureuse desdifférents systèmes institutionnels: le con-trôle de constitutionnalité, tout comme lesinstitutions fédérales, peuvent s’épanouiraux Etats-Unis et montrer leurs avantages;ce n’est pas pour autant qu’ils peuvent êtretransplantés sans réflexion dans d’autrescontrées44.

Ce comparatisme relativiste s’exprimenotamment dans le chapitre VI intitulé «Dupouvoir judiciaire aux Etats-Unis et de sonaction sur la société politique». Pour Toc-queville, si le contrôle de constitutionnali-té des lois n’est pas applicable dans la Fran-ce de la Monarchie de Juillet, c’est en par-ticulier parce que la Charte de 1830 ne dis-pose pas d’articles concernant sa révision.Dès lors en effet que le texte constitution-nel ne comporte aucune disposition con-cernant sa révision, il est immuable. Répon-dant à une opinion alors largement répan-

due, il précise que si les pouvoirs constitués– roi, chambre des pairs, chambre desdéputés – pouvaient modifier de leur propreinitiative la Charte, ils nieraient le texteconstitutionnel et sa valeur supérieure puis-qu’ils pourraient le modifier comme unesimple loi, cette dernière étant adoptée àl’époque par le monarque et les deux cham-bres. Ils nieraient du même coup leur exi-stence même, puisqu’ils ne tiennent leurexistence que de la Charte constitutionnel-le45. Tocqueville récuse de surcroît l’assi-milation qui pourrait être faite avec l’An-gleterre: cette dernière n’ayant pas de con-stitution écrite, qui peut dire qu’on changesa constitution ?46

Dans l’hypothèse par conséquent où lesjuges français pourraient écarter des loisqu’ils estiment inconstitutionnelles, c’esteux seuls qui disposeraient du pouvoir con-stituant «puisque seuls ils auraient le droitd’interpréter une constitution dont nul nepourrait changer les termes»47. Or, les jugesne représentant qu’eux-mêmes, il vautmieux encore accorder ce pouvoir à des par-lementaires qui représentent les volontésdu peuple, même imparfaitement. Tocque-ville n’est d’ailleurs pas loin de penser quec’est ce qui se passera effectivement dans lamonarchie constitutionnelle de Louis-Phi-lippe.

Concluant sur ce point, Tocqueville pré-cise:

En France, la constitution est également la pre-mière des lois, et les juges ont un droit égal à laprendre pour base de leurs arrêts ; mais, en exer-çant ce droit, ils ne pourraient manquer d’em-piéter sur un autre plus sacré encore que le leur :celui de la société au nom de laquelle ils agissent.Ici, la raison ordinaire doit céder devant la rai-son d’Etat48.

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Autrement dit, la logique juridique de lahiérarchie des normes qui imposerait nor-malement que le juge fasse prévaloir la con-stitution sur la loi, doit céder devant la logi-que sociale ou plus précisément, devant lavolonté de la nation, exprimée par ses repré-sentants.

On retrouvera une argumentation assezsimilaire dans les conclusions conformes ducommissaire du gouvernement Latourneriesur l’arrêt du Conseil d’Etat, Arrighi, en datedu 6 novembre 1936, qui a refusé d’examinerun moyen tiré de l’inconstitutionnalité d’u-ne loi49.

Lorsqu’un régime juridique – explique Latourne-rie – établit dès lors une hiérarchie entre les lois,c’est-à-dire lorsqu’il existe ce qu’on a appelé une«super-légalité» ou encore une «loi des lois», lejuge […] ne fait rien que de conforme à sa mission– pourvu que sa décision n’ait d’effet que sur leprocès auquel elle s’applique, – en faisant céder, lecas échéant, à la loi supérieure celle du degré infé-rieur. […] Mais ce n’est pas dans de telles consi-dérations de logique pure qu’en France tout aumoins la solution doit être cherchée.50

Et Latournerie d’insister sur la concep-tion alors dominante de la souveraineté de laloi, expression de la volonté générale, quiempêche le juge, «en l’état actuel du droitpublic français», d’opérer un tel contrôle51.

Non seulement la constitution n’a pas enFrance la portée juridique qu’elle a aux Etats-Unis, alors même qu’elle est pourtant “la pre-mière des lois”, mais en outre les légistesn’ont pas eu ce rôle modérateur, défendant lalégalité et assurant un contrepoids efficaceaux entraînements de la majorité, qu’ils onteu outre-Atlantique. Les juristes français ontcontribué à renverser la monarchie en 1789et, dans les Assemblées révolutionnaires,alors même qu’ils prétendaient consacrer etgarantir les droits de l’individu, ils ont en

réalité augmenté les prérogatives du pouvoiret diminué les garanties que la Révolutionentendait pourtant consacrer52.

Si Tocqueville est réticent à l’idée detransposer le modèle américain de contrôlede constitutionnalité53, certains de ses con-temporains en revanche s’y montrent plusfavorables. C’est le cas de Berriat Saint Prixqui, dans son Commentaire sur la Charte con-stitutionnelle, pense que le pouvoir législatifest limité par le pouvoir constituant et tirecomme conséquence de cette doctrine quetoute loi inconciliable avec le texte de la Char-te est inconstitutionnelle. Il propose ainsi, àl’image des Etats-Unis, que

les juges, lorsqu’ils auront à opter entre le texte dela loi et celui de la constitution, devront faire dudernier la base de leur jugement54.

Toutefois, reprenant une argumentationqu’il a certainement lue chez l’auteur de laDémocratie en Amérique, qu’il cite d’ailleursen note, il redoute que les juges soient prisentre un double écueil, soit qu’ils usurpentle pouvoir législatif en refusant d’appliquerdes lois régulières, soit qu’ils reculent devantla nécessité de déclarer une loi inconstitu-tionnelle.

Laboulaye est également favorable à l’a-doption d’un système de contrôle de consti-tutionnalité à l’américaine. Il ne cache d’ail-leurs pas à ses auditeurs du Collège de Fran-ce que l’étude qu’il entreprend de la consti-tution américaine doit servir à avoir une idéenette de ce qu’est une constitution, dans unpays où «nous trouvons partout l’omnipo-tence législative, et nulle part la liberté miseà l’abri du despotisme des assemblées»55. Laconstitution en France est un mot car il y ades Chambres qui font des lois qui ne sontpas toujours d’accord avec la constitution.Prenant l’exemple de la liberté religieuse qui

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fait certainement partie des principes de 1789proclamés par la constitution, Laboulaye citele cas suivant:

La liberté religieuse, suivant les principes de 1789,c’est encore la liberté d’annoncer sa foi, de ras-sembler ses frères, et pourvu qu’on ne trouble pasl’ordre dans la rue, qu’on n’injurie personne, c’estle droit de dire ce qu’on veut, de parler comme onl’entend, à la charge d’être responsable devant lestribunaux. Cependant, si après avoir réuni plus devingt personnes pour prier Dieu, je m’adressais àun tribunal, la constitution à la main, il n’est pasdouteux qu’on me condamnerait en vertu de l’ar-ticle 291 du Code pénal. On se prononcerait pourla loi, on déclarerait que la loi est plus ou moinsconforme à la constitution, mais qu’il n’y a rien au-dessus des lois, et que le pouvoir judiciaire estchargé de les faire exécuter, et non point de lesjuger56.

Si les Français font des révolutions, c’estparce qu’ils n’ont pas confiance dans ces loisqui s’imposent durablement, au détrimentde constitutions pourtant changeantes. Leslois viennent en effet s’intercaler entre letexte constitutionnel, issu de la volonté dupeuple, et les citoyens. Ces derniers sontdonc obligés de faire la révolution quiaccouche d’une nouvelle constitution qui,tout en promettant de nouvelles garantieslibérales, ne sera pas mieux respectée par lelégislateur que les précédentes. La Franceest ainsi placée dans un cercle vicieux57, lepeuple étant dépossédé de tout pouvoir parune assemblée qui est le véritable souve-rain58. Pour sortir de cet engrenage, Labou-laye propose, à l’image des Etats-Unis, l’in-stitution d’un pouvoir judiciaire indépen-dant chargé de vérifier la constitutionnali-

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Louis-Philippe d’Orléans Lientenant-général du Royaume (31 juillet 1830)

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té de la loi. Ainsi serait établi un pouvoirintermédiaire entre la constitution et la loiqui permettrait de limiter l’influence dulégislateur59.

Ce contrôle ne s’exercerait pas par voied’action. Si le juge

a le droit de dire: «Cette loi est contraire à la con-stitution, elle est nulle» [il ne pourrait] le faired’une façon générale et dire: «Nous ne recon-naissons pas telle loi.» Il n’a pas de pays qui rési-sterait à un pareil antagonisme des pouvoirssuprêmes.60

En outre, pour assurer l’indépendancedes juges vis-à-vis du pouvoir politique, ilfaudrait qu’ils soient nommés, et non élus,l’élection n’étant pas compatible avec lafonction de magistrat qui nécessite de seretirer complètement de la vie active. Sou-mettre le juge à l’élection le conduirait à selivrer à «une foule de petites manœuvres»,à faire de «la cuisine électorale», à s’enga-ger, une fois élu, à ne pas appliquer certai-nes lois qui déplaisent à ses électeurs. Com-me le dit Laboulaye, «dès que vous soumet-tez la nomination du juge à l’élection, vousn’avez plus de justice»61.

Si l’élection des juges, pratiquée pour-tant par certains États américains, estdésapprouvée par Laboulaye, l’inamovibi-lité, garantie par la constitution fédérale de1787, trouve au contraire son approbation,car elle est une protection du juge à la foiscontre le peuple et le pouvoir politique etpar là, assure son indépendance. PourLaboulaye, il s’agit d’assurer avant tout letriomphe de la justice et de la liberté, et noncelui de la volonté populaire que les consti-tutions françaises ont jusqu’alors promu,l’assimilant abusivement à la défense de laliberté. Car

dire qu’un peuple peut tout faire, cela ne veut pasdire qu’un peuple soit libre, et on peut être cer-tain que plus on donne un pouvoir actif au peu-ple, moins il a de liberté. […] Le pouvoir du peu-ple n’est que le règne d’une majorité, ce n’est pasdu tout le règne de la liberté. Le règne de la liber-té, c’est le règne de la loi sagement faite, sage-ment appliquée, et c’est le besoin de s’assurer cebienfait qui a fait établir l’inamovibilité desmagistrats62.

L’inamovibilité des juges, au même titreque la liberté de la presse et le contrôle dela nation ou de ses représentants sur lesaffaires publiques, constitue, pour Laboula-ye, une garantie essentielle des libertés civi-les63. Et pour que le juge puisse mettre unterme à la toute-puissance du Parlement, ilfaut qu’il fasse prévaloir la constitution surles lois ; il s’agira toutefois d’une constitu-tion qui, à l’image des Américains, com-porte

des clauses restrictives qui définissent étroite-ment la compétence du gouvernement. Ces clau-ses restrictives sont ce qu’on appelle les déclara-tions de droits64.

L’auteur des Questions constitutionnellesprécise bien qu’il ne vise pas là des thèsesphilosophiques, «si générales et si vaguesqu’elles ont le défaut de tout promettre etde ne rien tenir», comme on en trouve enFrance, mais des maximes concrètes, deslois formelles et supérieures qui s’imposentau législateur.

A vrai dire, ce sont les vieilles libertés anglaisesrédigées en articles ; c’est le common law régnanten souverain de l’autre côté de l’Atlantique65.

Il faudrait donc insérer dans le corps dela constitution des articles contenant lesgrandes libertés civiles et politiques.

Au cours de l’été 1848, Laboulaye avait

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participé au débat constituant précédant l’a-doption de la Constitution de la SecondeRépublique. Dans une brochure intituléeConsidérations sur la Constitution, il avait enappendice inséré un projet de constitutionqui reprenait, pour partie, le projet élaborépar la Commission de la Constitution66.Rejetant le droit au travail et le droit à l’in-struction, et plus largement tous les devoirssociaux énoncés dans le projet de la Com-mission de la constitution, «énumérationsentimentale (qui) est une concession pué-rile faite aux théories socialistes »67, le pro-jet de constitution présenté par Laboulayecomportait un titre VI intitulé «Disposi-tions générales», où figuraient notammentl’abolition de la peine de mort en matièrepolitique, la liberté de la presse, le libreexercice de la religion, la liberté d’ensei-gnement, l’inviolabilité du domicile et ledroit de propriété68.

Il est certain que le programme libéralde Laboulaye était ambitieux au regard de laculture politique française, érigeant la sou-veraineté de la loi et du Parlement commeun dogme et traditionnellement méfianteenvers l’autorité judiciaire, de surcroît divi-sée en deux ordres de juridictions, ce quirendait délicat l’institution d’un contrôle deconstitutionnalité par voie d’exception. Entout état de cause, Laboulaye ne put, pas plusque Tocqueville en 1848, défendre avec suc-cès ce type de contrôle juridictionnel, alorsmême qu’il fut un membre influent de laCommission des Trente et qu’il rapporta àl’Assemblée, le 7 juin 1875, le projet de loiconstitutionnelle concernant les relationsdes pouvoirs publics entre eux69.

Une fois de plus, la défense des libertéspassait d’abord par l’aménagement despouvoirs avant la garantie des droits par lepouvoir judiciaire qui n’avait de toute façon

rien pour séduire les notables du début dela IIIème République. Les catholiques libé-raux du Correspondant ne voyaient en effetdans le contrôle de constitutionnalité qu’u-ne technique permettant d’asseoir l’in-fluence d’une aristocratie de magistrats,incapable de transcender les choix partisansou les intérêts de classe. Les républicainsn’éprouvaient guère, pour leur part, lanécessité de méditer l’expérience américai-ne, dès lors que les institutions républicai-nes étaient solidement établies70.

Dans cette perspective, il n’est pas éton-nant de retrouver sous la plume d’EmileBoutmy ce jugement sur la Cour suprêmeaméricaine qui fait à nouveau planer lespectre du gouvernement des juges :

C’est une des maximes de Blackstone que, danstoute constitution, il y a un pouvoir qui contrôleet n’est pas contrôlé, et dont les décisions sontsuprêmes. Ce pouvoir est représenté, dans lasociété américaine, par une petite oligarchie deneuf juges inamovibles. Je ne connais pas d’an-tinomie plus frappante que cette suprématie d’u-ne autorité non élue dans une démocratie répu-tée du type le plus extrême, d’une autorité qui nese renouvelle que de génération en générationdans ce milieu instable qui change d’année enannée, d’une autorité enfin qui pourrait à larigueur, au nom d’un mandat moralement péri-mé, perpétuer les préjugés d’une période et por-ter un défi, dans la sphère politique même, à l’e-sprit transformé de la nation. On sait que le qua-trième président de la Cour suprême, John Mars-hall, resta en fonction trente cinq ans !71

Il faudra attendre les premières annéesdu siècle suivant pour que le débat, tant dansla classe politique que dans la doctrinepubliciste, soit relancé quant à l’adoptiond’un contrôle juridictionnel de constitu-tionnalité des lois en France. Mais cette fois,l’Amérique ne servira plus de modèle uni-que72.

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1 Est-il besoin de rappeler que laDéclaration des droits de l’hom-me et du citoyen de 1789 donnaitdéjà à la loi une place détermi-nante dans la protection des liber-tés. V. sur ce point, les ouvrages deStéphane Rials, La déclaration desdroits de l’homme et du citoyen,Paris, Hachette, 1988, spéc. p. 364et ss., et de Lucien Jaume, Ladéclaration des droits de l’homme1789, Paris, Flammarion, coll. GF,1989, p. 54 et ss.

2 Renforcées par certains arrêts dela Chambre criminelle de la Courde cassation: l’arrêt Paulin du 11mai 1833 qui semble admettre uncontrôle de régularité d’une loi surles délits de presse par rapport auxformes prescrites par la Charte;puis deux arrêts des 15 mars et 17novembre 1851 dans lesquels laCour de cassation accepte de con-naître de la constitutionnalité d’u-ne loi postérieure à l’entrée envigueur de la constitution de 1848.Pour l’analyse de ces arrêts quiinterviennent dans des périodesde libéralisme politique, on ren-verra aux travaux de Jean-LouisMestre, notamment Les juridic-tions judiciaires et l’inconstitution-nalité des ordonnances royales de laRestauration au Second Empire,«Revue française de droit consti-tutionnel», n° 15, 1993, p. 451 etss.; La Cour de cassation et le con-trôle de constitutionnalité, in LaCour de cassation et la Constitutionde la République, actes du collo-que des 9 et 10 décembre 1994,Presses Universitaires d’Aix-Marseille, 1995, p. 35 et ss.; Del’ancien sur l’article 37, alinéa 2 de laConstitution, RFDA, n° 2, 2001, p.301 et ss.

3 Charles-Guillaume Hello, Du régi-me constitutionnel dans ses rapportsavec l’état actuel de la science socia-le et politique, Paris, AugusteDurand, 3ème édition, 1848, t. 2, p.42.

4 V. Jean-Pierre Royer, Histoire de lajustice en France, PUF, 2ème édition,1996, p. 466 et ss., 518 et ss., 592

et ss.5 V. l’article d’Antoinette Ashworth,

Le contrôle de la constitutionnalitédes lois par le Sénat du Second Empi-re, RDP, 1994, p. 45 et ss.

6 V. les Principes de politique (1806),texte établi par Etienne Hofmann,Genève, Droz, 1980, t. 2, p. 476 etss. ; v. aussi Lucien Jaume, Droit,Etat et obligation selon BenjaminConstant, «Commentaire», n° 87,automne 1999, p. 711 et ss.

7 V. Edouard Laboulaye, Histoire desEtats-Unis, Paris, Charpentier,1855, t. 1, p. 21.

8 V. René Rémond, Les Etats-Unisdevant l’opinion française (1814-1852), Paris, Armand Colin, 1962,t. 1, p. 19 et ss.

9 V. Françoise Mélonio, Tocquevilleet les Français, Paris, Aubier, 1993,passim ; Jean-Claude Lamberti, Lemodèle américain en France de 1789à nos jours, «Commentaire», n°39, automne 1987, pp. 490 et ss.

10 Stendhal par exemple, goûtera auxEtats-Unis les institutions libéra-les, mais leur reprochera leurcaractère trop démocratique etuniforme. Pour lui, la sociétédémocratique donne trop de pla-ce à l’utilitarisme et au mépris desarts. Comment alors être heureuxdans un pays sans Opéra au milieud’un peuple sans fantaisie ni ima-gination, d’une société sans con-versation qui ramène tout à desconsidérations d’argent ? L’exi-stence y serait trop dure. V. RenéRémond, Les Etats-Unis devant l’o-pinion publique française (1814-1852), cit., t. 2, p. 682.

11 Sur la vie d’Edouard Laboulaye, onrenverra à la belle thèse d’AndréDauteribes, Les idées politiques d’E-douard Laboulaye 1811-1883, thèsede droit, Montpellier, 1989,dactylo., 2 vol., spéc. t. 1, p. 19 etss. (je remercie tout spécialementl’auteur de m’avoir communiquéun exemplaire de sa thèse, mal-heureusement non publiée.)

12 Sur le professorat de Laboulaye auCollège de France, ibidem., t. 1, p.45 et ss.

13 On ajoutera un texte ultérieur deTocqueville intitulé Rapport sur unouvrage de M. Th. Sedgwick, en datede juillet 1858, Œuvres complètes,Paris, Gallimard, 1989, t. XVI, p.243-247.

14 C’est ainsi que le premier tomerelatif à l’histoire des coloniesaméricaines, issu d’un cours auCollège de France en 1849-1850, aété publié en 1855 et que les deuxtomes suivants (Histoire de la Révo-lution; Histoire de la Constitution),issus de leçons faites au Collège deFrance en 1863 et 1864, ont étépubliés en 1866. Je citerai pour mapart ce texte dans sa deuxièmeédition, en date de 1867, paruechez Charpentier à Paris.

15 Ainsi que l’avoue Laboulaye, danssa notice nécrologique sur Toc-queville, parue dans L’Etat et seslimites, suivi d’Essais politiques,Paris, Charpentier, 1871, p. 138-201.

16 Sur le voyage de Tocqueville auxEtats-Unis, on se reportera à l’ou-vrage de George Wilson Pierson,Tocqueville and Beaumont in Ame-rica, Oxford University Press,1938.

17 La constitution américaine, leFédéraliste, les ouvrages de JosephStory, dont certains avaient ététraduits en français, leur étaientconnus. Sur les références livres-ques de Tocqueville, v. l’article deGeorge Wilson Pierson, Le “ secondvoyage ” de Tocqueville en Amérique,in Alexis de Tocqueville. Livre duCentenaire 1859-1959, Editions duCNRS, 1960, spéc. p. 77. Sur l’in-fluence du pasteur américainChanning sur les conceptionsreligieuses et sociales de Laboula-ye, v. Pierre Legendre, Méditationsur l’esprit libéral. La leçon d’E-douard de Laboulaye, juriste-témoin, RDP, 1971, spéc. p. 91-92 ;André Dauteribes, Les idées politi-ques, cit., t. 1, p. 245 et ss. : Labou-laye, à la suite de Channing, pen-se que l’individu est indéfinimentperfectible, ce qui a pour but dedonner à la politique un sens,

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celui d’assurer à l’homme le pleindéveloppement de ses facultés. Ily a donc un lien étroit entre reli-gion et politique. Laboulaye préci-se également que «Le granddevoir de la société, c’est le ména-gement, c’est la protection de l’in-dividu; la perfection de l’Etat, c’estla perfection du citoyen…» (Pré-face aux Œuvres sociales de Chan-ning, cité par André Dauteribes,Les idées politiques, cit., t. 1, p.248.)

18 On renverra ici à l’ouvrage deJean-Claude Lamberti, Tocquevilleet les deux démocraties, Paris, PUF,coll. Sociologies, 1983, p. 115 et ss.

19 V. René Rémond, Les États-Unis,cit., t. 1, p. 322.

20 Alexis de Tocqueville, De la démo-cratie en Amérique, Paris, Flamma-rion, 1981, t. 1, p. 167 et ss.

21 La méthode comparatiste est eneffet une constante chez Tocque-ville. A propos du contrôle de la loiet du pouvoir judiciaire, il se sertdes exemples des États-Unis, del’Angleterre et de la France.

22 Citons les ouvrages d’un juge à laCour suprême, grand spécialistede la constitution de son pays,Joseph Story, en particulier lesCommentaries on the Constitution ofthe United States, Boston, Hilliard,Gray and Co, Cambridge, Brown,Shattuck and Co, 1833, 3 vol., spec.t. 3, p. 425 et ss., p. 691 et ss.; unetraduction en français a été réali-sée par Paul Odent, Commentairesur la Constitution fédérale desÉtats-Unis, Paris, Joubert, 1843, 2vol.; En France, on citera les nomsdu saint-simonien Michel Cheva-lier, auteur des Lettres sur l’Améri-que du Nord (Paris, 1836, 2 vol.) etbien évidemment de Laboulaye.

23 Préface de François Furet à l’édi-tion Flammarion De la démocratieen Amérique, t. 1, p. 18.

24 Tocqueville, De la démocratie enAmérique, cit., t. 1, p. 168.

25 Ibidem.26 Edouard Laboulaye, Histoire des

Etats-Unis, Paris, Charpentier,2ème édition, 1867, t. 3, p. 472.

27 Tocqueville, De la démocratie enAmérique, cit., t.1, p. 169.

28 «Aux Etats-Unis, la constitutiondomine les législateurs comme lessimples citoyens. Elle est donc lapremière des lois, et ne sauraitêtre modifiée par une loi. Il estdonc juste que les tribunauxobéissent à la constitution, préfé-rablement à toutes les lois.» (ibi-dem, t. 1, p. 170) Cf. EdouardLaboulaye, Histoire des Etats-Unis,cit., t. 3, p. 478-479: «La consti-tution est une arche sainte où lepeuple a déposé ses libertés afinque personne, fût-ce même lelégislateur, n’ait le droit d’y tou-cher. Les juges fédéraux sont lesgardiens de ce dépôt sacré.»

29 «choisir entre les dispositionslégales celles qui l’enchaînent leplus étroitement est, en quelquesorte, le droit naturel du magi-strat.» (Tocqueville, De la démo-cratie en Amérique, cit., t. 1, p. 170.)

30 Ibidem, t. 1, p. 363.31 Citons le texte de Tocqueville:

«Les hommes qui ont fait leurétude spéciale des lois ont puisédans ces travaux des habitudesd’ordre, un certain goût des for-mes, une sorte d’amour instinctifpour l’enchaînement régulier desidées, qui les rendent naturelle-ment fort opposés à l’esprit révo-lutionnaire et aux passions irré-fléchies de la démocratie. – Lesconnaissances spéciales que leslégistes acquièrent en étudiant laloi leur assurent un rang à partdans la société; ils forment unesorte de classe privilégiée parmiles intelligences. Ils retrouventchaque jour l’idée de cette supé-riorité dans l’exercice de leur pro-fession ; ils sont les maîtres d’unescience nécessaire, dont la con-naissance n’est point répandue ;ils servent d’arbitres entre lescitoyens, et l’habitude de dirigervers le but les passions aveuglesdes plaideurs leur donne un cer-tain mépris pour le jugement de lafoule. Ajoutez à cela qu’ils formentnaturellement un corps. Ce n’est

pas qu’ils s’entendent entre eux etse dirigent de concert vers unmême point; mais la communau-té des études et l’unité des métho-des lient leurs esprits les uns auxautres, comme l’intérêt pourraitunir leurs volontés». (Ibidem, t. 1,p. 363-364.)

32 «Je pense donc que le prince qui,en présence d’une démocratieenvahissante, chercherait à abat-tre le pouvoir judiciaire dans sesEtats et à y diminuer l’influencepolitique des légistes, commet-trait une grande erreur. Il lâche-rait la substance de l’autorité pouren saisir l’ombre. Je ne doutepoint qu’il ne lui fût plus profita-ble d’introduire les légistes dansle gouvernement. Après leur avoirconfié le despotisme sous la formede la violence, peut-être le retrou-verait-il en leurs mains sous lestraits de la justice et de la loi».(Ibidem, t. 1, p. 365-366.) Le droitpeut apporter une légitimité à unpouvoir despotique: cette intui-tion géniale trouvera, on le sait, denombreuses illustrations au XXème

siècle, siècle des totalitarismes.33 Rapport sur un ouvrage de M. Th.

Sedgwick, in Œuvres complètes, cit.,t. XVI, p. 245.

34 «En Angleterre, comme en Amé-rique, tout finit par un procès.Dans ces pays, l’on se dit : “ Nousavons des juges, nous verrons quia raison. ” Malheureusement nousn’avons pas cette patience civique.Ainsi, en 1848, la question desavoir si on avait oui ou non ledroit de faire des banquets devaitse terminer par un procès, c’estainsi que les choses se seraientpassées aux Etats-Unis. En Fran-ce, on a mieux aimé trancher ladifficulté par une révolution. C’estun peu plus cher qu’un procès, etc’est la liberté qui en paye lesfrais». (Edouard Laboulaye,Histoire des Etats-Unis, cit., t. 3, p.478.)

35 De la démocratie en Amérique, cit., t.2, p. 392-393 : «La force des tri-bunaux a été, de tout temps, la plus

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grande garantie qui se puisseoffrir à l’indépendance indivi-duelle, mais cela est surtout vraidans les siècles démocratiques; lesdroits et les intérêts particuliers ysont toujours en péril, si le pou-voir judiciaire ne grandit et ne s’é-tend à mesure que les conditionss’égalisent».

36 Ibidem, t. 1, p. 227.37 Ibidem, t. 1, p. 171.38 «Si le juge ne pouvait attaquer les

législateurs que de front, il y a destemps où il craindrait de le faire ;il en est d’autres où l’esprit de par-ti le pousserait chaque jour à l’o-ser. Ainsi il arriverait que les loisseraient attaquées quand le pou-voir dont elles émanent serait fai-ble, et qu’on s’y soumettrait sansmurmurer quand il serait fort ;c’est-à-dire que souvent on atta-querait les lois lorsqu’il serait leplus utile de les respecter, et qu’onles respecterait quand il devien-drait facile d’opprimer en leurnom». (Ibidem, t. 1, p. 172.)

39 Ibidem, t. 1, p. 171.40 «D’ailleurs, la loi ainsi censurée

n’est pas détruite: sa force moraleest diminuée, mais son effetmatériel n’est point suspendu. Cen’est que peu à peu, et sous lescoups répétés de la jurispruden-ce, qu’enfin elle succombe». (Ibi-dem.)

41 «(…) on comprend sans peinequ’en chargeant l’intérêt particu-lier de provoquer la censure deslois, en liant intimement le pro-cès fait à la loi au procès fait à unhomme, on s’assure que la législa-tion ne sera pas légèrement atta-quée. Dans ce système, elle n’estplus exposée aux agressions jour-nalières des partis». (Ibidem, t. 1,p. 171-172.)

42 Ibidem, t. 1, p. 171.43 V. Charles Eisenmann, La justice

constitutionnelle et la Haute Courconstitutionnelle d’Autriche, Paris,Economica et Presses Universitai-res d’Aix-Marseille, (édition de1928), rééd. 1986, p. 20 : «(…) lesens juridique de la justice consti-

tutionnelle - le seul que l’onrecherche ici - est donc, en der-nière analyse, de garantir la répar-tition de la compétence entrelégislation ordinaire et législationconstitutionnelle, d’assurer lerespect de la compétence du systè-me de règles ou de l’organe suprê-me de l’ordre étatique» et LouisFavoreu, La modernité des vues deCharles Eisenmann sur la justiceconstitutionnelle, ibidem, p. 380.

44 V. la dernière subdivision du cha-pitre VIII sur la constitution fédé-rale, intitulée «Ce qui fait que lesystème fédéral n’est pas à la por-tée de tous les peuples, et ce qui apermis aux anglo-américains del’adopter», De la démocratie enAmérique, cit., t. 1, p. 241 et ss.

45 Ibidem, t. 1, note L, p. 558 : «Leslois de 1830, non plus que cellesde 1814, n’indiquent aucun moyende changer la constitution. Or, ilest évident que les moyens ordi-naires de la législation ne sau-raient suffire à cela. – De qui le roitient-il ses pouvoirs ? de la con-stitution. De qui les pairs ? de laconstitution. De qui les députés ?de la constitution. Comment doncle roi, les pairs et les députés, en seréunissant, pourraient-ils chan-ger quelque chose à une loi en ver-tu de laquelle seule ils gouver-nent ? Hors de la constitution ilsne sont rien : sur quel terrain seplaceraient-ils donc pour changerla constitution ? De deux chosesl’une : ou leurs efforts sontimpuissants contre la charte, quicontinue à exister en dépit d’eux,et alors ils continuent à régner enson nom ; ou ils parviennent àchanger la charte, et alors la loi parlaquelle ils existaient n’existantplus, ils ne sont plus rien eux-mêmes. En détruisant la Charte,ils se sont détruits».

46 Ibidem Sur les débats parlemen-taires de 1831 et de 1842 à proposdu pouvoir constituant, v. AlainLaquièze, Les origines du régimeparlementaire (1814-1848), thèse de

droit, Paris, dactylo., 1995, t. 1, p.281 et ss.

47 De la démocratie en Amérique, cit., t.1, p. 170.

48 Ibidem.49 Dalloz, 1938, 3ème partie, p. 1 et ss.50 Ibidem, p. 5-6.51 «Si (…) malgré les progrès qu’il a

faits dans l’étendue de son con-trôle, le juge, et en particulier lejuge de l’excès de pouvoir, a désar-mé les préjugés qui avaient faittenir en suspicion la magistraturede l’époque intermédiaire, ceserait, semble-t-il, une entrepri-se non moins vaine que dangereu-se que de l’engager à risquer, parde telles tentatives de contrôle,tout l’acquis de la jurisprudence.Quelque atteinte qu’aient pu rece-voir certaines idées peut-être tropabsolues sur la souveraineté de laloi, il n’en reste pas moins en effetque, dans la théorie et aussi dansla pratique de notre droit public, leParlement reste l’expression de lavolonté générale et ne relève à cetitre que de lui-même et de cettevolonté». (ibidem, p. 7.)

52 V. les observations de Jean-Clau-de Lamberti, Tocqueville et les deuxdémocraties, cit., pp. 119-121.

53 C’est le cas aussi d’un conseiller àla Cour de cassation, Charles-Guillaume Hello qui, en 1848,déconseille aux tribunaux de«juger entre les pouvoirs consti-tuant et législatif» car la loi «seprésente à eux comme l’expres-sion de la souveraineté et ils luidoivent l’obéissance», Du régimeconstitutionnel, cit., t. 2, p. 249.

54 Félix Berriat Saint Prix, Commen-taire sur la charte constitutionnelle,Paris, Videcoq, 1836, p. 119.

55 Edouard Laboulaye, Histoire desEtats-Unis, cit., t. 3, p. 28-29.

56 Ibidem, t. 3, p. 475.57 «Il n’y a pas une disposition de la

constitution qu’on ne puisse vio-ler par une loi. La constitutiondéclare que la liberté individuellesera respectée, que nul ne seradistrait de ses juges naturels, queles accusés seront jugés par le jury.

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Viendra un moment d’agitation, etl’on fera une loi qui renverra lescitoyens devant des commissionsmilitaires. Ils s’adresseront à lajustice, la constitution à la main;les tribunaux décideront qu’ils neconnaissent que la loi. De là est néle peu d’estime que nous avonspour les constitutions. Noussavons que le lendemain des révo-lutions on nous fait des constitu-tions où on nous promet tout ;mais les lois ne nous donnentrien, et les lois ne sont pas chan-gées. Dès qu’on arrive à mettre àexécution la constitution, on trou-ve ces lois entre la constitution etla justice». (ibidem, t. 3, p. 475-476.)

58 V. la préface des Questions consti-tutionnelles, Paris, Charpentier,1872 (p. IV et ss.) qui contient untableau comparatif entre l’écolerévolutionnaire ou française etl’école américaine, ainsi que cet-te observation: «[…] il y a un abî-me entre la démocratie suivantl’école révolutionnaire et la démo-cratie telle qu’on l’entend auxEtats-Unis. Chez nous, la souve-raineté du peuple est un mot ; levéritable souverain, c’est l’assem-

blée. En Amérique, le peuple estsouverain en droit et en fait; onrirait d’une chambre qui oseraits’attribuer une apparence de sou-veraineté» (ibidem, p. VI - VII).

59 «La grande réforme faite en Amé-rique est donc de placer entre laconstitution et la législation unpouvoir qui dit au législateur: laconstitution faite par le peuple estta loi comme la mienne. C’est lalex legum. Nous ne devons la violerni l’un ni l’autre» (ibidem, t. 3, p.477).

60 Ibidem, t. 3, p. 476.61 Ibidem, t. 3, p. 491.62 Ibidem, t. 3, p. 493-494. On note-

ra que Laboulaye, à la suite deMontesquieu et de Tocqueville,défend un libéralisme qui accordeune place essentielle à la loi pourla défense des libertés : sur cettequestion, v. Jean-Claude Lamber-ti, Tocqueville, cit., p. 108 et ss.;Lucien Jaume, La liberté et la loi. Lesorigines philosophiques du libérali-sme, Paris, Fayard, 2000, passim.

63 V. son livre Le parti libéral. Son pro-gramme et son avenir, Paris, Char-pentier, 7ème édition, 1869, spéc.p. 115 et ss.

64 Du pouvoir constituant (octobre

1871), in Questions constitutionnel-les, cit., p. 386.

65 Ibidem.66 V. les procès-verbaux de la Com-

mission de la Constitution de1848, présidée par Cormenin etdont faisait partie Tocqueville, inAlexis de Tocqueville, Œuvres com-plètes, t. III: Ecrits et discours poli-tiques, Paris, Gallimard, 1990, p.55-158.

67 Considérations sur la Constitution(juillet 1848), in Questions consti-tutionnelles, cit., p. 48.

68 Ibidem, p. 101-102 ; on pourracomparer cette liste à l’énuméra-tion des droits effectuée par laconstitution du 4 novembre 1848,articles 2 à 17.

69 V. André Dauteribes, Les idées poli-tiques d’Edouard Laboulaye, cit., t.1, p. 172 et ss.

70 V. Françoise Mélonio, Tocquevilleet les Français, cit., p. 222 et ss.

71 Emile Boutmy, Etudes de droit con-stitutionnel, Paris, Plon-Nourrit,1885, p. 181-182.

72 Une bonne synthèse de ce débatest présentée par Guillaume Dra-go, Contentieux constitutionnelfrançais, Paris, PUF, 1998, p. 133 etss.

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1. La questione della Giurisdizione suprema e ilprogramma di costruzione dello Stato post-uni-tario

L’Unificazione d’Italia, oltre che l’apprododel percorso risorgimentale, rappresentaanche l’avvio di una nuova fase dell’espe-rienza giuridica. Fatta l’Italia si trattava dicostruire un edificio giuridico unitario peruna realtà eterogenea; l’operazione avrebberichiesto decenni, nel corso dei quali mol-teplici settori della cultura sarebbero statichiamati a dare il proprio apporto. La giu-risprudenza scientifica e giudicante, comed’abitudine, non si è tirata indietro. Essa,da un lato, ha cercato di guidare le scelte dipolitica legislativa, dall’altro, ha contribui-to a tararne gli effetti e a determinarne levalenze.

Ciò era inevitabile in un contesto in cuirealtà giuridica statuale e identità naziona-le rappresentavano un programma più cheun risultato. Era ulteriormente inevitabilementre si trattava di promuovere un pro-cesso di statalizzazione in un territorio che,

per molti secoli della sua storia, aveva vis-suto una esperienza giuridica a base giuri-sprudenziale non impostata sulla piattafor-ma della unità e dell’uniformità del diritto.

Nel nuovo ordine, basato sulla sistema-tica del codice, la giurisdizione suprema erachiamata a costituire un punto di chiusura,che avesse le forme del controllo di legali-tà, per garantire il rispetto della legge nellasua fase applicativa. Si costituiva in tal modouno spazio istituzionale in cui, al naturaleruolo di vertice dell’ordinamento giudizia-rio, si sommava una funzione ausiliaria delpotere legislativo.

È per questa sua attinenza con la costru-zione del nuovo ordine giuridico che il ter-reno della giurisdizione suprema divenivarilevante anche per i riflessi sulle relazionitra i poteri dello Stato.

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Il grande assente?Controllo di costituzionalità egiurisdizione supremanell’Italia post-unitaria *

massimo meccarelli

giornale di storia costituzionale n. 4 / II semestre 2002

* Una versione in lingua tedesca del presente articolo èpubblicata nella Rivista digitale «Forum historiaeiuris»(http://www.rewi.hu-berlin.de/online/fhi).

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2. La valenza costituzionale della questione del-la corte suprema

La priorità annunciata era quella di assicu-rare il primato del potere legislativo su quel-lo giudiziario. Il dato non è poi così nuovoalla metà del XIX secolo; è la persistenza diun programma presente già nelle originidella idea di un tribunale di cassation. Si eratrattato, in Francia, di ridimensionare ilpeso dei Parlements nella gestione dell’ordi-namento giuridico, di proteggere il nuovopotere legislativo, ansioso di centralità, dal-le incisive incursioni del vecchio potere giu-diziario dei grandi tribunali1.

Un sistema di giurisdizione supremaorganizzato nella forma della cassazione è ineffetti orientato a controllare i giudici piut-tosto che il legislatore. Nelle percezionifrancesi tale dato funzionale è chiaramentericonosciuto; «est tellement entracinéedans l’esprit français» osservava De laGrasserie «n’ayant aucun besoin d’êtreanalysée, discutée ou améliorée»2.

Tali valenze sistematiche sono ricono-sciute nella cassazione anche dalla dottrinaitaliana del XIX secolo3; al contempo peròessa mostra di sapervi riconoscere i nessicon le peculiarità francesi4. In effetti perl’Italia altre erano le condizioni di contestoe i problemi che con la giurisdizione supre-ma si era chiamati a risolvere; altri erano ipresupposti culturali e le percezioni fonda-mentali su cui si basava la scienza giuridica.

Conseguentemente, la valenza costitu-zionale della questione della giurisdizionesuprema non si spiega solo nella costruzio-ne di un ambito istituzionale teso a garanti-re il legislatore dai suoi giudici. Più com-plesse sembrano le funzioni assegnate aquesto settore della vita dello Stato.

Lo si capisce subito dal carattere ibrido

del sistema di cassazione nell’Italia post-unitaria e dal modo con cui viene costruito.

La scelta per la cassation in Italia non èaffatto scontata, la si assume legislativa-mente nonostante molte resistenze nelmondo scientifico. La discussione, soprat-tutto nei primi anni dopo l’Unificazione, èabbastanza aperta anche riguardo alla com-patibilità di un tale tipo di giurisdizionesuprema con l’ordine costituzionale italia-no.

C’è ad esempio chi come Carcano vedenella Cassazione una istituzione che oltre alimitare eccessivamente l’indipendenza delgiudice e del corpo giudiziario è anche«usurpatrice» delle prerogative del poterelegislativo: «tutti gli atti e i procedimentidella Corte di Cassazione sono, per la loroessenza, atti e procedimenti di potere legis-lativo»5.

Essa, secondo queste percezioni, intro-duce un portato sistematico («la pretesaunità ed uniformità della giurisprudenza, laseparazione assoluta del diritto dal fatto, laviolazione di legge e simili»), che contrastacon «la critica acuta e profonda dell’espe-rienza»6.

Le perplessità, seppure manifestate conuna diversità di accenti e punti di vista, sem-brano caratterizzare l’intera scienza giuri-dica e condizionare il modo e i tempi con iquali il nostro ordinamento recepisce ilmodello francese.

Come sappiamo, almeno per tutta ladurata dell’esperienza liberale, la giurisdi-zione suprema opera sulla base di un asset-to legislativo riconosciuto come transitorio,il quale già dal momento della fondazionedell’ordine giuridico unitario non fa riferi-mento a «un sistema preconcetto di legis-lazione»7. La sua natura contiene profilisfumati che sono in parte riconducibili al

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concetto di cassation, nel senso originaria-mente voluto in Francia, ma in parte sonoanche inquadrabili nella categoria della ter-za istanza o della revisione; modelli di giu-risdizione suprema, questi ultimi, tipicidell’esperienza giuridica precedente allasvolta legalistica impressa dagli esiti dellaRivoluzione francese e dell’età dei Lumi.

Contemporaneamente, la struttura del-la giurisdizione suprema non è unitaria. Èarticolata tra un centro assente o debole eun tessuto di Corti supreme regionali traloro relativamente autonome.

Tutto ciò – si tratta del resto di unapproccio che caratterizza in generale lariforma dell’ordinamento giudiziario post-unitario8 –, è consapevolmente pensato,oltre che come questione tecnico giuridicadi sistema, anche nelle relazioni che impli-ca rispetto agli assetti costituzionali delpotere9. Anzi il profilo costituzionale dellaquestione prende spesso le valenze di unpunto dirimente per l’alternativa tra cassa-zione e terza istanza. Occorre valutare, adesempio spiegava Carcano,

se e quanto l’uno e l’altro sistema possono acco-modarsi ai principii del Governo rappresentati-vo e stare in mezzo ad istituzioni della natura diquelle che ci governano10.

Il legislatore si orienterà nel senso del-la cassazione, ma il tema dei rapporti traassetti costituzionali e struttura della giuris-dizione suprema non smetterà di costituireun punto aperto, sul quale discutere.

È in questo mobile scenario che siinquadra anche la questione del controllo dicostituzionalità.

Si tratta dunque per noi di studiare, daun diverso punto di vista, quello cioè dellagiurisdizione, un problema che la storio-

grafia ha tradizionalmente considerato apartire dalla questione del carattere di rigi-dità o di flessibilità riconoscibile nellacostituzione albertina11.

3. Il grande assente: il potere di controllo dicostituzionalità

Le indagini dedicate alla storia della Cassa-zione in Italia hanno già evidenziato che trale prerogative della giurisdizione supremanon c’è il controllo di costituzionalità delleleggi. Una tale prospettiva, soprattutto nel-la dinamica immediatamente post-unitaria,non sembrava praticabile.

Essa si poneva in linea di conflitto con latradizione statutaria piemontese. Pesavanoinoltre sulla attività legislativa del governosospetti di illegittimità. Si pensi alla legis-lazione del 1859, che aveva visto la luce inforza di un potere di decretazione concessoal governo, per l’emergenza costituita dallaguerra contro l’Austria; tale potere eccezio-nale era stato esercitato anche al di fuori deilimiti temporali concessi12.

Nella vita post-unitaria dello Stato, inol-tre, molteplici sono i provvedimenti spe-ciali a rischio di incostituzionalità. In par-ticolare tutte quelle misure repressive, par-te consistente della politica di emergenzacriminale, introdotte con decreto e sullequali il Parlamento risultava incapace diinterloquire tempestivamente, per via deimeccanismi istituzionali di sospensione echiusura delle sessioni parlamentari, oltreche di scioglimento della Camera dei depu-tati.

Il controllo di costituzionalità, dal pun-to di vista delle strategie di governo, potevarappresentare un ingombrante potenziale

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fattore destabilizzante. La sua “assenza”avrebbe quindi corrisposto alla necessità digarantire un ruolo di primo piano al potereesecutivo e margini di manovra nel dialogocon il potere legislativo.

È possibile però trovare ulteriori spie-gazioni. Va tenuto infatti presente che lavicenda dell’evoluzione dell’ordinamentogiudiziario post-unitario non si esaurisce inun necessario contrasto tra magistratura epotere politico:

Potere politico e potere giudiziario non solo nonrappresentavano forze diverse ma, non di rado,si confondevano persino negli stessi individui13.

Il punto dunque è comprendere quantol’assenza di un vero meccanismo di con-trollo di costituzionalità, esercitato dallagiurisdizione suprema, consista nella stru-mentale rimozione di un problema e quan-to, invece, tutto ciò abbia rappresentato unmodo di percepire la divisione dei poteri.

In sostanza occorre chiedersi come laquestione sia colta dalla cultura giuridica diquel tempo.

Tracce di una discussione su un possi-bile potere di controllo di costituzionalitàda attribuire al potere giudiziario sono rin-venibili in progetti di riforma, oltre che nel-la discussione scientifica.

Già nel progetto in materia di ordina-mento giudiziario presentato dalla Com-missione Cassinis (1861), istituita

per deliberare sulla convenienza d’instituireCorpi giudiziarii superiori alle Corti d’Appellonei principali centri del nuovo Regno Italiano edun Supremo ed unico consiglio di Giustizia, inte-so segnatamente a risolvere i conflitti, a tutelarela disciplina, a mantenere l’unità della Giuri-sprudenza

si riprendevano alcuni profili della Cortesuprema degli Stati Uniti proprio riguardoalla «cognizione di tutte le quistioni diincostituzionalità»14.

La riforma prospettava un assetto “fede-ralista” dell’ordinamento giudiziario rettoda una giurisdizione suprema ripartita trasei Corti di terza istanza (e non di cassazio-ne) regionali autonome e da una Cortesuprema centrale denominata SupremoConsiglio di Giustizia.

Tali proposte si legano negli anni ’60 adun ricco dibattito. Si tratta, tuttavia, di unadiscussione in cui il problema di un possi-bile ruolo della Corte suprema come giudi-ce di costituzionalità – seppure venga posto– non appare costituire un nodo fondamen-tale.

La eventuale Corte suprema unitaria dicui si parlava, si caratterizzava piuttosto perle funzioni disciplinari, la risoluzione diconflitti di giurisdizione tra le Corti supre-me regionali, la sanzione delle decisioni perviolazione di legge, la collaborazione con illegislatore al fine di modificare norme pocochiare. Tale vertice della giurisdizionesuprema era descritto come «corpo inter-medio tra la magistratura ed il potere legis-lativo»15, oppure come organo che rendeval’amministrazione della giustizia indipen-dente dall’esecutivo completando, dunque,una effettiva divisione dei poteri16; ma tut-to ciò senza passare necessariamente attra-verso una attribuzione esplicita di funzionidi controllo di costituzionalità.

Molti anni dopo, tra la fine del vecchio el’inizio del nuovo secolo, il quadro è omo-logo. La questione di un possibile sindaca-to di costituzionalità da attribuirsi alla giu-risdizione suprema appare secondaria,messa in ombra dal problema, ancora irri-solto, della unificazione o della articolazio-

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ne della giurisdizione suprema, e dal nodoancora non sciolto della natura di terzaistanza o di cassazione che essa o esse dove-vano assumere.

Siamo di fronte ad omologie certamentericonducibili a ragioni di contesto ben diver-se da quelle che avevano caratterizzato ildibattito degli anni ’60. Se ai tempi di Cas-sinis si trattava di stabilire con quale sup-porto giurisdizionale dovesse essere accom-pagnata l’unificazione legislativa del diritto,ora si trattava di fronteggiare, anche sul ter-reno della giurisdizione suprema, la compli-cata fase storica17 in cui l’evoluzione socialeed economica rendevano insufficiente ilsistema a diritto codificato in vigore.

Esso risultava continuamente eroso dainterventi legislativi speciali e da una giuri-sprudenza dottrinale e giudicante semprepiù consapevole di un possibile e necessa-rio ruolo creativo, rispetto all’ordinamentogiuridico positivo.

In questa diversità di contesti è ulterior-mente significativo l’atteggiamento che per-siste costante in materia di sindacato dicostituzionalità.

Nel 1903 si discute alla Camera deideputati un progetto di riforma presentatodal governo Zanardelli che interessava ingenerale l’ordinamento giudiziario.

Per ciò che riguarda la sistemazione degliassetti della giurisdizione suprema essoappare, in particolare, caratterizzarsi peruna doppia scelta. Istituzionalizzare una retedi Corti regionali di terza istanza e istituireuna Corte di Cassazione unica che avesse,tecnicamente parlando, i caratteri tipicidella cassazione. L’iter giudiziario si com-pletava a livello regionale. Quello centralesarebbe servito solo a garantire un control-lo di legalità e a favorire l’uniformità giuri-sprudenziale18.

Sul piano degli assetti costituzionali, ilvertice giudiziario, con questo tipo di Cortecentrale, non tendeva ad esercitare un con-trollo sugli altri poteri ma continuava a esse-re rivolto all’interno della magistratura –proprio perché distaccato da dinamiche enecessità della giustizia sostanziale e votatoa fissare la corretta interpretazione dellalegge.

La nuova Corte di Cassazione unitaria,spiega Zanardelli, si pone «all’infuori deicomuni ordini giudiziari»19. Il progettointende fare della Cassazione

un consesso in cui si raccolgano i più eminentigiuristi d’ogni contrada d’Italia, ciascuno deiquali vi porti il contributo del sapere, dei pro-gressi, delle correnti scientifiche [...] che si ela-borano nei vari centri della cultura nazionale;cosicché, col concorso degli studi e della dottri-na di tutti, la giurisprudenza sia l’espressione delprogresso, e formi l’unità del diritto, fondamen-to primo dell’unità morale della nazione20.

Tale caratterizzazione e destinazionefunzionale fanno della Corte suprema cen-trale un organo che

senza perdere la sua notevole indole di istituzio-ne giudiziaria, per essere posta all’apice del pote-re giudiziario, si asside arbitra fra tutti i poteri21.

Sulla base di queste impostazioni dellariforma ci sono alcune voci che valorizzanoproprio gli aspetti connessi agli equilibri frai poteri; aspetti marginali nella discussione,ma significativi per la nostra analisi.

Ad esempio c’è chi trova nel sistemaproposto un elemento di garanzia costitu-zionale anche rivolto al potere legislativo:

quanto alla Cassazione plaudo che il disegno larestituisca alla più alta missione, con la speran-za non lontana che a più alti ideali possa mirar-

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si, fino a metterla al di sopra del potere legislati-vo quando si attenti di violare le libertà statuta-rie22.

Dunque il progetto avrebbe introdottouna corte giurisdizionale capace di esercita-re un controllo di costituzionalità anche con-tro il potere legislativo.

Altri riconoscono in questa nuova istitu-zione unitaria,

un collegio – disse bene la relazione – non sola-mente giudiziario, ma costituzionale, [un organocustode] dei diritti dei privati nella interpretazio-ne della legge, [che] è anche custode del poterelegislativo contro le usurpazioni del potere esecu-tivo, come custode dell’integrità del potere giudi-ziario23.

Si tratta di un potere di controllo della lega-lità che tende ad assumere valenze di un con-trollo di costituzionalità nel senso di garanti-re anche una corretta dialettica tra i poteri,impedendo eccessi da parte dell’esecutivo.

4. Il controllo rivolto all’esecutivo

Seguiamo allora la pista tematica appenasuggeritaci. Sullo sfondo c’è la questioneconcretissima e spinosa – se ne è fatto cen-no sopra – del regime giuridico da ricono-scere al potere di decretazione del governo.Sono gli abusi del potere di decretazione inmateria repressiva che

dimostrano che la Corte di Cassazione entra ormainei congegni costituzionali; ed abbiamo tutto l’in-teresse, anzi la necessità che essa risponda sem-pre a questa sua alta missione24.

Sulla base di tale approccio la giurisdi-zione suprema sarebbe investita di un com-

pito di “controllo” di costituzionalità, checoncentri la sua azione non sulla verifica diattinenza della legislazione ordinaria ai prin-cipi fondamentali, ma sulla verifica dellalegittimità formale dei provvedimenti nor-mativi e in particolare di quelli del governo.Si può ricordare che, in effetti, è questo ruo-lo che, sul piano dei risultati, la Cassazioneaveva in certi casi assunto, come in occasio-ne del decreto Pelloux25. Ci riferiamo allavicenda apertasi con la emanazione deldecreto del 22 giugno 1899 n. 227. In questocaso il Governo ricorreva al decreto persuperare le resistenze parlamentari ad unaproposta di legge in materia di libertà distampa e di pubblica sicurezza. Con ulterio-ri provvedimenti venivano prima sospese epoi chiuse le Sessioni parlamentari. La Cas-sazione, con sentenza del 20 settembre1900, ritenne decaduto il decreto proprio inragione del provvedimento di chiusura del-la Sessione. Questo infatti «giusta le normecostituzionali ed in base alla costante con-suetudine» determinava la decadenza ditutti i progetti di legge sospesi 26.

A ben vedere però un simile tipo di fun-zione di controllo rivolta all’esecutivo, non èconcepita come prerogativa specifica dellagiurisdizione suprema. La dottrina tende ingenerale a vedere nel giudice un “controllo-re di legittimità”.

Seppure, si ribadisce, la funzione giuri-sdizionale non può sindacare le ragioni dinecessità che hanno costituito fondamentodel ricorso al potere eccezionale di decreta-zione, tuttavia spetta al magistrato in genere«senza dubbio la interpretazione e l’appli-cazione dei decreti-legge» e in particolare

decidere se il decreto-legge sia tuttora nello sta-dio di imperfezione organica che costituisce il suopeccato originale, ovvero se abbia acquistato defi-nitiva autorità di legge, qualora su questo punto

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siavi controversia. [L’indagine] è diretta ad accer-tare se esista una vera e propria norma giuridica,laonde appartiene alla competenza giudiziaria27.

C’è chi più decisamente parla di un pote-re di controllo

integro e assoluto rispetto a tutte le norme giuri-diche emanate dal potere esecutivo28.

Osserva Brunialti che

la difesa giurisdizionale della libertà si esercitadunque esclusivamente contro il potere esecutivo,quando non si attribuisca al potere giudiziario lafacoltà di toglier forza nell’applicazione alle leggiincostituzionali.

Tuttavia, si specifica, in omaggio alladivisione dei poteri, che il “sindacato” nonconsiste in una declaratoria di annullamen-to del decreto, ma in una non applicazionedella norma al caso concreto. Inoltre il dis-corso non concerne la decretazione per dele-ga legislativa. Si potrà soltanto sindacarne lalegittimità con riguardo al momento dell’e-saurimento del mandato legislativo29. Oppu-re, secondo altri, si potrà sindacare la «malaesecuzione» della delega legislativa30.

La questione del sindacato di costituzio-nalità sembra dunque rilevare come que-stione di controllo in sede giudiziale delpotere di decretazione del governo.

Si tratta, del resto, di un punto discussoin questi termini non solo in Italia. C’è l’e-sempio del Belgio31, dove già la costituzionedel 1831 stabiliva che i tribunali (e non solola Corte suprema) dovessero attenersi esclu-sivamente alla legge non applicando prov-vedimenti amministrativi, regolamenti edecreti in contrasto con la legge. Il punto èdibattuto con approcci simili anche negliambienti scientifici tedeschi a partire già

dagli anni ’60 dell’Ottocento32. Al centrodella dialettica Parlamento-governo, consi-derata dal punto di vista della Verffassung-smässigkeit der Verordnungen, non sta un giu-dice supremo di costituzionalità. Sono i tri-bunali a valutare la legittimità formale deldecreto, spiega Rudolf von Gneist, e

ob und wie weit die publizierten “Verordnungen”der Staatsregierung nach der LandersverfassungGesetzeskraft haben oder nicht.

nel caso poi di regolamenti esecutivi di leg-ge ponderano anche

wo die Grenze zwischen Ausführung und Abände-rung der gesetze liegt33.

Anche in questo caso tale controllo,sostanzialmente formale, appartiene al pote-re giurisdizionale in genere, non alla sua giu-risdizione suprema.

Cercando di ricapitolare: il tema con-trollo di costituzionalità – assente tra le pre-rogative della giurisdizione suprema – sem-bra trovare cittadinanza con riguardo al pro-blema dei limiti del potere normativo delgoverno; tuttavia la questione emerge in unospazio istituzionale che non è solo quellodella giurisdizione suprema ma in generaledella giurisdizione del giudice.

5. La costituzionalità delle norme positive e icompiti del giudice

Allarghiamo allora la nostra base di riferi-mento. La relazione tra giurisdizione supre-ma e costituzione fondamentale si chiariscemeglio nella definizione del ruolo del giu-dice rispetto alla costituzionalità delle nor-me positive.

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Al riguardo l’habitus continentale tendea considerare il potere giudiziario come«mero strumento degli altri poteri»34.

Lodovico Mortara ci ricorda che

Negli stati parlamentari non esiste un organocostituente speciale con la sua speciale funzione;

il che non vuol dire immaginare un dirittocostituzionalmente immobile e immodifi-cabile:

Mediante l’esercizio della funzione legislativapuò ottenersi il progressivo svolgimento deldiritto pubblico fondamentale dello Stato.

Si tratta – piuttosto che di un potere disostituire, abrogare, emendare le disposi-zioni costituzionali – di sottoporre le normecostituzionali, tramite le leggi, ad

una continua e progressiva interpretazione [chele adatta] ai movimenti della vita sociale35.

La funzione costituente esiste, ma nonc’è un organo specialmente dedicato al suoesercizio, diverso da quello che esercita ilpotere legislativo.

Lo rilevava anche Attilio Brunialti:

può ritenersi essere ormai generale tra noi ladottrina che il potere costituente è una sola cosacol legislativo ed in verun modo può considerar-si come distinto. La qual dottrina come a suo luo-go vedremo, è conforme alla evoluzione dellacostituzione italiana, nella quale non è traccia diun distinto potere costituente36.

È una conseguenza del modo, tratto dal-l’esperienza francese, di concepire la divi-sione dei poteri «legislativamente attuatasoltanto a carico e non a favore del poteregiudiziario»37, prospettiva che esclude lapossibilità che la magistratura eserciti un

sindacato sulla legge nel merito e tanto piùnella sua costituzionalità. Del resto, lo stes-so Statuto per la sua formulazione, oltre cheper il posizionamento nella gerarchia dellefonti, mal si prestava a favorire un control-lo di costituzionalità.

L’esempio americano seppure studiatocon interesse, più che fornire soluzioni,suggestiona i giuristi europei dell’Ottocen-to. Si affermava che

Cette introduction de la magistrature dans lesaffaires publiques, est faite pour nous surpren-dre. Elle semble violer le principe sacré de laséparation des pouvoirs en rendant possibles desconflits dangereux entre l’autorité législative etl’autorité judiciaire38.

Il confronto con le esperienze anglosas-soni è aperto, mosso da curiosità; ma, allostesso tempo, tende nel complesso a nonrisultare spendibile negli ordinamenti adiritto continentale. Ciò che contrasta è lastessa percezione – meno pronunciata neipaesi anglosassoni – della separazione deipoteri; essa indurrebbe a configurare ilpotere giudiziario come «un vero poterepolitico»39. Prospettiva ritenuta impratica-bile al di qua della Manica.

Insomma, riguardo al tema dei limitidella funzione legislativa l’orientamentoscientifico sembra ben consolidato. Con-statava Santi Romano in uno scritto camer-te del 1902,

Due – principalmente, anzi quasi esclusivamen-te – sono stati i punti di vista da cui si è credutodi poter condurre ed esaurire l’esame del graveproblema: la modificabilità per mezzo degli orga-ni legislativi ordinari, dello Statuto e l’incompe-tenza dei giudici a sindacare gli atti che presen-tano, regolarmente osservate, le forme esterioridelle leggi40.

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6. Segue: controllo intrinseco o estrinseco?

Sgombrato il campo da una possibile asse-gnazione al corpo giudiziario di funzioni dicontrollo di costituzionalità, i giuristi defi-niscono la soglia fino alla quale il giudicepuò spingersi ove ravvisi elementi di ille-gittimità costituzionale nelle norme daapplicare.

Alcune posizioni dottrinali tendono adistinguere tra controllo di costituzionalitàintrinseca ed estrinseca. La prima consistenel verificare se le disposizioni di legge

abbiano un contenuto conforme o compatibilecoi principi generali stabiliti nella carta costitu-zionale;

la seconda invece verifica se la

deliberazione e formazione» [di disposizioni dilegge] «sia avvenuta secondo le forme della car-ta medesima stabilite41.

Per la scienza ottocentesca al livello“intrinseco” il problema della incostituzio-nalità non può configurarsi 42. Occorre cheil regime parlamentare preveda

una funzione legislativa straordinaria, distintadalla ordinaria perché affidata ad un organo spe-ciale, il quale come la funzione stessa, riceve ilnome di “costituente”.

Solo dove è istituita questa funzione

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Giuseppe Zanardelli (1826-1903)

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col relativo organo [...] necessariamente la fun-zione legislativa incontra un impedimento asvolgersi oltre i confini del diritto nazionale43.

Non dubita che ai giudici sia «sottrattoqualsiasi controllo sulla legittimità sostan-ziale delle leggi» neanche chi, come SantiRomano, sul tema dei limiti della funzionelegislativa, si dichiara disposto a

non arrestarsi innanzi a principii e formule, chesi presentano con la consistenza di dommi e cheinvece rivelano la loro manchevolezza44.

Al livello di incostituzionalità intrinse-ca il giudice non può neanche spingersi asospendere l’applicazione di una normaritenuta incostituzionale45. Il problema insostanza è solo del Parlamento; la soluzionespetta ad esso.

Può invece configurarsi una questionedi incostituzionalità estrinseca o formale semanca «l’opera collettiva e simultanea deitre fattori legislativi», o, come precisanoaltri, se mancano i requisiti essenziali46.

Il sindacato, in senso tecnico, restacomunque al Parlamento. Si può ricono-scere all’autorità giudiziaria la facoltà dinon applicare una norma con le caratteri-stiche di incostituzionalità estrinseca. Sitratterebbe tuttavia di una decisione inca-pace di produrre effetti di invalidazionedella norma che vale rispetto al caso singo-lo, come anche si osservava con riferimen-to ai decreti47.

C’è poi chi si mostra prudente ancherispetto a questa possibilità di sindacato“sospensivo”, seppure riferito a problemidi incostituzionalità estrinseca. Nel nostrosistema, osservava Mortara

la competenza a esaminare se una legge abbia ono i requisiti esteriori della costituzionalità,

spetterebbe, caso per caso, ad ogni conciliatoreo pretore, tribunale o corte esistente sul territo-rio italiano. È facile ravvisare il pericolo che nederiverebbe48.

7. Segue: la prospettiva di un non-luogo istitu-zionale: l’interpretazione del diritto

In tale quadro restrittivo si apre però unospazio strategico, che forse costituisce ilvero luogo in cui il controllo di costituzio-nalità consegue – lo osserviamo qui conriferimento alle percezioni teorico-siste-matiche – margini effettivi di operatività.

I nostri giuristi, Brunialti ne è buonesempio, restano dell’avviso che «la vitacostituzionale di uno Stato» si esprime esvolge anche con «manifestazioni dellacoscienza giuridica» oltre che politica. Èuna constatazione feconda di conseguenze.

Sulla base di tale consapevolezza, infat-ti, si riconosce al giudice il compito di

interpretare una legge in modo che si accordi allenorme dello Statuto. […]. Se l’opposizione aiprincipii dello Statuto risulta non dal testo di unalegge, ma da un determinato modo di intender-la, il potere giudiziario, nell’applicarla, le puòdare quell’interpretazione che la renda concilia-bile coi principii medesimi49.

La questione della costituzionalità delleleggi è in ultima analisi «une question d’in-terprétation légale»50.

Santi Romano osserva che in effetti

tutto il diritto scritto ha la sua base in un dirittotacito, fondamentale, immediata emanazione del-le forze sociali ordinate […] che governa le leggi.

Il diritto scritto in sostanza

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retrotrae, per dir così, ad una specie di dirittoconsuetudinario, cui non solo non domina, madal quale viene dominato, quasi penetrato.

L’interprete fonda la sua attività su regoleche traggono il loro valore nel ricollegarsi aiprincipi fondamentali «siano scritti o nonscritti, poco importa», gli stessi che vinco-lano il legislatore:

Siffatte regole, rispetto agli individui che deb-bono obbedire alle leggi, qualunque sia il lorocontenuto, non possono essere che regole d’in-terpretazione, di fronte al legislatore solo limiti.

Certo, prosegue Romano, il legislatore puòderogare ai principi fondamentali comeaccade per la irretroattività, l’uguaglianza, idiritti quesiti, ma lo può fare solo se soste-nuto da precisi motivi. Il potere discrezio-nale che il Parlamento esercita in tal casodeve essere infatti conforme

alla finalità da cui il potere medesimo deriva; siha altrimenti uno sviamento del potere, checostituisce una violazione di diritto, nel sensoproprio della parola51.

Si finisce dunque nella sostanza con ilricavare spazi per un sindacato indiretto; unpotere di conformare interpretativamentela norma incostituzionale.

Si tratta di una percezione ermeneuticadella corrispondenza tra dato legale e prin-cipio costituzionale – ben spiegabile in unadimensione culturale come quella italianatradizionalmente giurisprudenziale – chelegittima l’armonizzazione interpretativadel diritto positivo con i principi generalidell’ordinamento costituzionale; sono prin-cipi fondamentali, sottolineiamo, che sonorinvenuti non solo nello Statuto, ma vengo-no tratti, potremmo dire, dal tessuto stessodella costituzione materiale.

Il che equivale a spostare il problemadella costituzionalità dal campo dei rappor-ti istituzionali a quello del metodo di appli-cazione del diritto.

La prospettiva tecnico-giuridica dell’in-terpretazione diventa un non-luogo istitu-zionale di effettiva regolazione della costi-tuzionalità delle leggi.

Si tratta di un approccio che valorizzacertamente il peso del potere giudiziario.L’esistenza della legge valida è gestita dalpotere giudiziario poiché una volta che lavolontà nazionale ha prodotto la legge «lasua esistenza è indipendente dalla volontàcreatrice come tale»52. È anche grazie aquesto suo peculiare ruolo, che il potere giu-diziario consegue una propria indipenden-za dagli altri poteri dello Stato.

Ciò tuttavia si rende possibile senza met-tere in discussione il rapporto tra diritto ebisogno di giuridicità misurato con la legge.

L’interpretazione infatti determina pon-derazioni delle valenze costituzionali dellalegge senza incidere sul regime della suavalidità e lasciando aperta la possibilità diuna lettura costituzionale della legge di vol-ta in volta aggiornata53.

L’interpretazione inoltre non è un’attri-buzione esclusiva e, per i nostri giuristi, nonsi esaurisce di certo nel giudice. Essa pre-suppone anche e anzitutto la mediazioneinsostituibile del giurista-scienziato. È talepresenza a garantire che le dinamiche inter-pretative, “costituzionalizzanti” il dirittopositivo, non confliggano con la scelta del-la legalità e della divisione dei poteri.

Già con la svolta pandettistica il giuristasi era trovato a promuovere

un’alleanza della scienza con la legislazionefacendosi mallevadore del controllo scientificodi legittimità dell’operato della giurisprudenza.

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La scienza giuridica, mentre assicuravala subordinazione del giudice alla legge, siricavava un ruolo di primo piano nellacostruzione del sistema giuridico. Correla-tivamente, la costruzione del sistema sullalegge tramite la scienza serviva a difenderei principi dello Stato di diritto anche daeventuali interventi dello stesso legislatorepolitico. Insomma il giurista

rifiutava il controllo giudiziario della costituzio-nalità sostanziale delle leggi per affermare, inve-ce, l’esigenza del controllo dottrinale della‘scientificità’ dei loro contenuti, come elemen-to necessario alla ricevibilità e all’introduzionedelle leggi nel sistema del diritto positivo54.

Tale impostazione diventa ancor piùsignificativa nello scorcio finale dell’Otto-cento e nei primi decenni del Novecento,quando, nel loro vario giustapporsi alla tra-dizione pandettistica, si fanno strada nuovimodi di concepire l’interpretazione deldiritto in una prospettiva che

riguarda non pure il carattere generale dell’in-terpretazione e il suo inevitabile sopraffare iltesto, ma la relazione fra legge e interpretazio-ne55.

Nella realtà italiana anche tali approcciantiformalisti e di valenza giusliberista con-tinuano a riservare al giurista-scienziato unruolo centrale nella interpretazione deldiritto56. È una caratteristica che distingueil giusliberismo italiano dalla tedesca Frei-rechtsbewegung più orientata nel senso del-la centralità del giudice.

Ci troviamo di fronte ad un ritorno di (ouna riformulazione della) centralità del giu-rista, che, con la sua prerogativa più tipica ecioè interpretare il diritto, entra nelle

maglie del sistema di relazioni tra poterepolitico e diritto per ritagliarsi e svolgereuna funzione fondamentale. Il giurista in talmodo si pone nel mezzo della dialettica trai poteri per il solo fatto di svolgere la propriafunzione culturale, senza dover occupare unluogo istituzionale.

Il dato si spiega ulteriormente se si tie-ne presente anche la forte contiguità (e inmolti casi anche l’identità) di persone tracoloro che siedono nella varie distinte isti-tuzioni, così come tra questi e coloro chesvolgono attività scientifica. Con tale altapropensione alla fungibilità delle risorseumane, la vita delle istituzioni rispetto aldiritto, non può esaustivamente essereregolata attraverso una ripartizione dellecompetenze.

L’interpretazione del diritto sembracostituire un livello comune dove comple-tare la dialettica tra istituzioni. Tutto ciòimplica appunto il primato del giurista,piuttosto che del giudice.

8. La giurisdizione suprema come risorsa costi-tuzionale

Tenendo conto di questa genetica ultrattivi-tà della interpretazione del diritto, altravalenza assume il punto della giurisdizionesuprema.

Maggiore pregnanza prendono espres-sioni ricorrenti che indicano nella Cassa-zione – giudice supremo chiamato a garan-tire l’esatta osservanza della legge – il luogodi “svolgimento” della legge e di prosecu-zione delle scelte del legislatore. SecondoMortara – quello stesso che negava esplici-tamente uno spazio istituzionale autonomoal controllo di costituzionalità –

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tra la funzione della legge e quella della giurisdi-zione non vi è solo un rapporto di dipendenza[...]. La funzione giurisdizionale [...] segna ilconfine al di là del quale non può estendersiquella che suolsi chiamare la onnipotenza dellalegge57.

È in questo modo, – sotto la copertura dialtre funzioni, queste sì, istituzionalmenteassegnate – che la giurisdizione supremapuò giungere ad incidere sulle valenze costi-tuzionali della legge.

Con tali premesse teoriche la morfologiapluralistica della giurisdizione supremasembra favorire aperture ad una gestioneinterpretativa delle valenze costituzionalidel diritto positivo, moltiplicando giuri-

sprudenzialmente (anche al massimo livel-lo giurisdizionale), le opportunità per unaloro ponderazione.

Forse è anche per questo che quel siste-ma di Corti supreme così ostentatamentecriticato è potuto rimanere in vigore tanto alungo. Era in fondo una risorsa preziosa peruno Stato con istituzioni giovani, privo diconsolidate prassi costituzionali capaci diindirizzarne la vita e la dialettica, e di deter-minare da sole una struttura di assetti com-patibile con la realtà; era, del resto, uno Sta-to sovrano che, volendo essere “di diritto”,non poteva prescindere dal pressante e pro-blematico tema del disciplinamento deipropri poteri.

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1 Cfr. J.L. Halperin, Le tribunal decassation et les pouvoirs sous laRévolution (1790-1799), Paris,LGDJ, 1987, passim, L. Lacchè, Ilpotere giudiziario come potere politi-co in Attilio Brunialti, in «Storia,amministrazione, costituzione»,7, 1999, p. 34.

2 R. De la Grasserie, De la fonctionet des juridictions de cassation enlégislation comparée (évolution,comparaison critique, réforme),Paris, LGDJ, 1911, p.1. Rilievisimili sono proposti da M.Renouard, Considerations sur l’hi-stoire de la Cour de Cassation, Paris,Cosse, 1875, p.18. Sottolinea levalenze antigiurisprudenziali nelmodello francese anche P. Harrasvon Harrasowsky, Die Rechtsmittelim Civilprocess nach dem gegenwär-tigen Stände der Gesetzgebung,Wien, Hölder, 1879, p. 5.

3 Fra gli altri cfr. G.D. Tiepolo, Del-la suprema autorità giudiziaria, inLa legge, I, 1861, p. 170, L. Frojo,Elementi di procedura civile, Napo-li, Stamperia di F. Ferrante e C.,

1865, p. 66, G. De Falco, Discorsopronunciato presso la Corte di Cas-sazione di Roma nella assembleagenerale del 3 gennaio 1884, Roma,Tipografia del Senato, 1884, p. 14,C. Carbellotto, Cassazione e Cortedi Cassazione, in Digesto italiano,VII, 1888, p. 49, L. Mortara, Com-mentario del Codice e delle leggi diprocedura civile, (terza ed.), Mila-no, Vallardi, 1905, vol.II, pp. 14-15.

4 Si veda ad esempio De Foresta, Delriordinamento giudiziario. Cassa-zione o terza istanza?, (1868), inappendice a M. D’Addio, Politica emagistratura, (1848-1876), Milano,Giuffrè, 1966, p. 487, o la Discus-sione sul disegno di legge sull’ordi-namento giudiziario, in Atti parla-mentari. Camera dei deputati.Discussioni, Legislatura XXI, 2a

Sessione 1902-1903, Vol.VII,Roma, Camera dei Deputati, 1903,Tornata del 10 marzo 1903, p.6538, G. Sarocchi, S. Lessona, E.Finzi, E. Barsanti, A. Tellini, Sulproblema delle Cassazioni territoria-

li. Consigli degli avvocati e dei pro-curatori di Firenze, Firenze, Tipo-grafia Barbera, 1923, p. 6.

5 G. Carcano, La Cassazione e lo Sta-tuto, Milano, 1872, pp. 12-13 e pp.27-28. Simili sono le osservazio-ni formulate da E. Barral, A. Anel-li, R. Luzzati, L. Bertolotti, Intornoalla suprema magistratura delRegno, Milano, f.lli Rechidei, 1872,pp. 132-133, F. Carrara, Della sosti-tuzione dei supremi tribunali di ter-za istanza alle quattro corti di cas-sazioni, (1873), in appendice a M.D’Addio, Politica e magistratura,cit., p. 534, G. Carnazza, Sull’orga-nizzazione giudiziaria, in «Il cir-colo giuridico», X, 1879, pp. 66-68.

6 Con queste osservazioni il«Monitore dei tribunali», II,1861, p. 155, introduceva alle pagi-ne dei Processi verbali della Com-missione Cassinis, pubblicatiintegralmente. Cfr. infra paragra-fo 3.

7 C. Giuliani, La terza istanza e laCorte di Cassazione, in «La legge»,

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I, parte I, 1861, p. 94. Cfr. M. Mec-carelli, Identità e funzione delle cor-ti supreme in Europa al tempo dellecodificazioni, in «Quaderni fio-rentini», 28, 1999, pp. 1147-1166.

8 Cfr. E. Dezza, Gli ordinamenti giu-diziari in Italia nell’età della codifi-cazione, in Saggi di storia del dirittopenale moderno, Milano, Led,1992, p. 191, A. Sciumè, ‘Quandola politica entra dalla porta la giu-stizia fugge impaurita dalla fine-stra’: giudici e sentimento della giu-stizia in Italia dall’Unità al primoNovecento, in Europäische und ame-rikanische Richterbilder, a cura di A.Gouron, L Mayali, A. PadoaSchioppa, D. Simon, Frankfurt amMain, Klostermann, 1996, pp.167-175, V. Denti, M. Taruffo, LaRivista di diritto processuale civile,in «Quaderni fiorentini», 16,1987, p. 663, N. Tranfaglia, Magi-stratura, in Storia d’Italia, a cura diF. Levi, U. Levra, N. Tranfaglia,Firenze, Nuova Italia, 1978, p. 619,P. Marovelli, L’indipendenza e l’au-tonomia della magistratura italia-na dal 1848 al 1923, Milano, Giuf-frè, 1967, pp. 194-201.

9 Si vedano fra gli altri C. Mangani-ni, Raffronto tra il sistema della Cas-sazione e quello delle terze istanze, in«La legge», VI, parte I, 1866, pp.355-358, E. Barral, A. Anelli, R.Luzzati, L. Bertolotti, Intorno allasuprema magistratura del Regno,cit., pp. 133-136, D. Cavalleri, L’i-stituto della cassazione e della terzaistanza, Milano, Hoepli, 1902, p.48. Si veda anche la Discussione delprogetto di legge per istituire sezionitemporanee in talune Corti di cassa-zione, in Atti parlamentari, Came-ra dei deputati, Discussioni,Legislatura XII, Sessione 1874-75,2° periodo, Roma, 1875, vol.IV, pp.4447-4478.

10 G. Carcano, La Cassazione e lo Sta-tuto, cit., p. 5.

11 Cfr. J. Luther, Idee e storie di giusti-zia costituzionale nell’Ottocento,Torino, Giappichelli, 1990, pp.169-183, e dello stesso Die italie-nische Verfassungsgerichtsbarkeit.

Geschichte, Prozeßrecht, Rechtspre-chung, Baden-Baden, Nomos,1990, pp. 44-50, M. Bignami,Costituzione flessibile, costituzionerigida e controllo di costituzionalitàin Italia (1848-1956), Milano,Giuffrè, 1997, pp. 1-25, J. VarelaSuanzes, Riflessioni sul concetto dirigidità costituzionale, in «Giuri-sprudenza costituzionale»,XXXIX, 1994, II, p.3313-3338, A.Pace, La causa della rigidità costi-tuzionale, Padova, Cedam, 1996,pp. 74-96.

12 Cfr. R. Martucci, L’invenzione del-l’Italia unita, Milano, Sansoni,1999, p. 342, A. Sciumè, Fra revi-sione e cassazione. Modelli di orga-nizzazione giudiziaria e politica del-l’unificazione nella Lombardiapostunitaria, in Ius mediolani,Milano, Giuffrè, 1996, pp. 997-998, 1022-1023 e 1049-1050, P.Saraceno, Storia della magistraturaitaliana, Roma, Università LaSapienza, 1993, pp. 130-135, M.D’Addio, Politica e magistratura,cit., pp. 109-113, P. Marovelli,L’indipendenza e l’autonomia dellamagistratura, cit., pp. 54-55.

13 P. Saraceno, Alta magistratura eclasse politica dalla integrazione allaseparazione, Roma, Edizione d’A-teneo & Bizzarri, 1979, p. 23.

14 G. Astengo, (a cura di), Processiverbali delle sedute della commissio-ne […], in «Monitore dei tribu-nali», II, 1861, verbale n.3, p. 159.Se ne veda la trattazione in A.Sciumè, Fra revisione e cassazione,cit., pp. 1001-1026 e M. D’Addio,Politica e magistratura, cit., pp.109-117.

15 S. Marchese, Sull’ordinamento del-le Corti supreme italiane, in «Lalegge», I, parte I, p. 10.

16 G.D. Tiepolo, Della suprema auto-rità giudiziaria, cit., p. 169. Talicaratterizzazioni della Cortesuprema unitaria sono rinvenibi-li anche in A. Caveri, Corte di terzaistanza, di cassazione, di revisione,corte suprema, (1861), in appendi-ce a M. D’Addio, Politica e magi-stratura, cit., pp. 467-469, G.

Astengo, (a cura di), Processi ver-bali, cit., verbale n. 3, pp. 158-159,D. Giuriati, La Cassazione e le treistanze, Torino, 1861, p. 2, G. Cal-garini, Il tribunale di terzo grado euna giurisdizione suprema, in «Lalegge», VI, 1866, parte I, pp. 893-894. Secondo M. D’Addio, Politi-ca e magistratura, cit., p. 115, tutta-via, il progetto Cassinis «avrebbeportato alla conclusione che il giu-dizio di costituzionalità era la veraed unica giustificazione chedistingueva il consiglio supremodi giustizia dalle Cassazioni regio-nali».

17 Una approfondita sintesi di talisvolgimenti scientifici è propostada P. Grossi, Scienza giuridica ita-liana, Milano, Giuffrè, 2000.

18 G. Zanardelli, Discorso del Presi-dente del Consiglio rivolto allaCamera dei Deputati, nella tornatadel 25 marzo 1903, in Discorsi parla-mentari, Roma, Camera dei Depu-tati, 1905, vol.II, pp. 642-643, inparticolare p. 638, C. Cavagnari,La riforma dell’ordinamento giudi-ziario, in «Monitore dei tribuna-li», XLIV, 1903, p. 161, C. Lesso-na, La réforme judiciaire en Italie, in«Revue trimestrielle de droitcivil», IX, 1903, pp. 349-351, E.Piola Caselli, La magistratura,Torino, Utet, 1907, pp. 417-421.Cfr. P. Marovelli, L’indipendenza el’autonomia della magistratura,cit., pp. 195-202.

19 G. Zanardelli, Discorso del Presi-dente del Consiglio, cit., p. 638. Loribadisce l’on. Sacchi durante ildibattito parlamentare in Atti par-lamentari, Camera dei deputati,VII, cit., tornata del 13 marzo1903, p. 6397, Discussione sul dise-gno di legge sull’ordinamento giudi-ziario.

20 Così il ministro di Grazia e Giusti-zia Cocco-Ortu durante il dibatti-to alla Camera, ibidem, tornata del24 marzo 1903, p. 6686.

21 C. Cavagnari, La riforma dell’ordi-namento giudiziario, cit., p. 162.

22 È un brano dell’intervento dell’on.Sorani, in Atti parlamentari,

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Camera dei deputati, VII, cit., tor-nata del 18 marzo 1903, p. 6502,Discussione sul disegno di legge sul-l’ordinamento giudiziario.

23 Sono parole dell’on. Sacchi, tor-nata del 13 marzo 1903, cit., p.6397.

24 Ibidem, p. 6398; un ruolo di argi-ne contro le ingerenze del potereesecutivo è riconosciuto alla Cor-te suprema di cassazione anchedall’on.Giradini, tornata del 19marzo 1903, p. 6538.

25 Cfr. M. Sbriccoli, Il diritto penaleliberale. La «Rivista Penale» diLuigi Lucchini, 1874-1900, in«Quaderni fiorentini», 16, 1987,pp. 105-183, J. Luther, Idee e storie,cit., pp. 192-194, e dello stesso Dieitalienische Verfassungsgerichtsbar-keit, cit., p. 50, M. Bignami, Costi-tuzione flessibile, cit., pp. 53-55.

26 Sentenza del 20 settembre 1900 in«Giurisprudenza italiana», 1900,II, col. 57. Se ne legga sulla stessarivista il commento di L. Mortara,Il decreto-legge 22 giugno 1899davanti alla Corte di Cassazione,col. 53-56. Cfr. E. Presutti, Ildecreto-legge 22 giugno 1899 avantialla giurisprudenza penale, in«Giurisprudenza italiana», 1899,II, col. 367-380, L. Lucchini, Ildecreto legge sui provvedimenti poli-tici, in «Rivista penale», 50, XXV,1899, pp. 125-143, e dello stessoDecreti legge e necessità di Stato, in«Rivista penale», 51, XXVI, 1900,pp. 583-584.

27 L. Mortara, Commentario, cit., I,pp. 100-104. Cfr. A. Brunialti, Ildiritto costituzionale e la politicanella scienza e nelle istituzioni,Torino, Utet, 1900, II, p. 594.

28 F. Degni, L’interpretazione della leg-ge, Napoli, Jovene, 1909, p. 230.Così anche C. Lessona, La legalitàdella norma e il potere giudiziario,in Scritti minori, Santa MariaCapua Vetere, Cavotta, 1911, I, pp.52-72.

29 Così A. Brunialti, Il diritto costitu-zionale, cit., I, (1896), p. 385 e p.320, II, p. 594 e pp. 569-597. Cfr.D. Cavalleri, L’istituto della cassa-

zione e della terza istanza, cit., p.49, C. Lessona, La legalità dellanorma, cit., p. 54.

30 F. Degni, L’interpretazione della leg-ge, cit., p. 234. Così anche C. Les-sona, La legalità della norma, cit.,pp. 47-48. Sui diversi punti divista dottrinali e giurisprudenzia-li manifestatisi in merito al “sin-dacato” dei decreti legislativi e suidecreti legge si veda M. Bignami,Costituzione flessibile, cit., pp. 43-61.

31 Cfr. L. Lacchè, La costituzione bel-ga del 1831, in «Storia, ammini-strazione, costituzione», 9, 2001,pp. 100-101. Lo ricordava già A.Brunialti, Il diritto costituzionale,cit., II, p. 581.

32 Le posizioni sono abbastanza arti-colate. Si pensi ad esempio alladiscussione tra E. A. Ehr, Studienüber das preußsche Staatsrecht,pp.179-243 e R. John, Rechtsültig-keit und Verbindlichkeit publizirterGesetze und Verordnungen nach denGrundsätzen des preussischen Staa-trechts, pp. 244-274, nelle paginedella Zeitschrift für deutschen Staat-srecht und deutsche Verfassungsge-schichte, I, 1867. Sul tema si veda-no anche H. Bischof, Verfassung,Gesetz, Verordnung und richterlichesPrüfungsrecht der Verfassungsmäs-sigkeit landesherrlicher Gesetze undVerordnungen, in Zeitschrift fürCivilrecht und Prozeß, XVI, 1859,pp. 235-294, 385-422, XVII, 1860,pp. 104-144, 253-304, 448-464 eR. von Gneist, Soll der Richter auchüber die Frage zu befinden haben, obein Gesetz verfasssungsmässig zuStande gekommen? Gutachten fürden vierten Deutschen Juristentag,Berlin, Springer, 1863, in partico-lare pp.5-6; per i decenni succes-sivi si vedano, G. Jellinek, Gesetzund Verordnung, Freiburg, Mohr,1887, E. Hubrich, Das Reichsgerichtüber den Gesetzes- und Verordnung-sbegriff nach Reichsrecht, Berlin,Struppe & Winckler, 1905. Cfr. J.Luther, Idee e storie, cit., pp.141-168.

33 R. von Gneist, Soll der Richter auch,

cit., p. 22.34 L. Lacchè, Il potere giudiziario, cit.,

pp. 31-32.35 L. Mortara, Commentario, cit., I, p.

124. Di simile avviso sono F.Degni, L’interpretazione della legge,cit., p. 228, S. Romano, Osservazio-ni preliminari per una teoria suilimiti della funzione legislativa neldiritto italiano (1902), ora in Scrit-ti minori, Padova, Cedam, 1950, I,p. 238.

36 A. Brunialti, Il diritto costituziona-le, cit., I, p. 336. L’autore avevautilizzato toni più espressamentecritici nel saggio Funzione politicadel potere giudiziario, in Archiviogiuridico, V, 1870, p. 408. Si veda latrattazione fattane da L. Lacchè, Ilpotere giudiziario, cit., pp. 25-45.

37 E. Piola Caselli, La magistratura,cit., p. 138.

38 E. Hedde, Du rôle politique du pou-voir judiciaire dans la constitutiondes États-Unis, Paris, V. Giard et E.Brière, 1895, p. 6. Cfr. R. De laGrasserie, De la fonction et des juri-dictions de cassation, cit., p. 88, A.Brunialti, Il diritto costituzionale,cit. I, p. 324, L. Mortara, Commen-tario, cit., I, p. 130, e già G.D. Tie-polo, Della suprema autorità giudi-ziaria, cit., p. 169, A. Caveri, Cortedi terza istanza, cit., p. 469.

39 A. Brunialti, Funzione politica delpotere giudiziario, cit., p. 404. Con-fermerà tali approcci in Il dirittocostituzionale, cit., in particolare,I, pp. 322-325.

40 S. Romano, Osservazioni prelimina-ri, cit., p. 217. Il tentativo di Roma-no è quello di elaborare, con una“osservazione microscopica”, masenza rinunciare ai due principisopra indicati, una più circostan-ziata teoria dei limiti della funzio-ne legislativa.

41 L. Mortara, Commentario, cit., I, p.123. Cfr. M. Bignami, Costituzioneflessibile, cit., pp. 27-43.

42 F. Degni, L’interpretazione della leg-ge, cit., p. 228. È questo un orien-tamento dottrinale ben consolida-to. Cfr. M. Bignami, Costituzioneflessibile, cit., pp. 27-28. Il criterio

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distintivo sarà ancora impiegatonegli anni Trenta; cfr. G. ArangioRuiz, Intorno al sindacato giudizia-rio sulle leggi, in Studi di diritto pub-blico in onore di Oreste Ranelletti nelXXXV anno del suo insegnamento,Padova, Cedam, 1931, I, pp. 21-23.

43 L. Mortara, Commentario, cit., I, p.123. Cfr. A. Brunialti, Il dirittocostituzionale, cit. II, p. 591, C.Lessona, La legalità della norma,cit., p. 45.

44 S. Romano, Osservazioni prelimina-ri, cit., p. 228 e p. 217.

45 A. Brunialti, Il diritto costituziona-le, cit. II, p. 591, L. Mortara, Com-mentario, cit., I, pp. 123-124, C.Lessona, La legalità della norma,cit., pp. 39-45.

46 F. Degni, L’interpretazione della leg-ge, cit., p. 229. Non sono però sin-dacabili gli interna corporis. Cosìanche M. D’Amelio, Corte di Cas-sazione, in Enciclopedia italiana discienze lettere ed arti, IX, 1931, p.539, C. Lessona, La legalità dellanorma, cit., pp. 43-44, A. Brunial-ti, Il diritto costituzionale, cit. II, p.592.

47 A. Brunialti, Il diritto costituziona-le, cit., II, p. 593 e vol. I, p. 322 egià F. A. De Marchi, Dell’autoritàgiudiziaria siccome guarentigia del-l’osservanza dello Statuto, in«Monitore dei tribunali», I,1860, pp. 545-549. Orientamenticon tali valenze erano seguiti dal-la tradizione dottrinale tedesca.Sono riassunti da R. von Gneist,Soll der Richter auch, cit., pp. 3-4 e

pp. 22-23. Cfr. R. John, Rechtsül-tigkeit und Verbindlichkeit, cit., pp.260-262, H. Bischof, Verfassung,Gesetz, Verordnung, cit., passim.Cfr. M. La Torre, Scienza giuridicae stato di diritto. Leonard Nelson eGeorg Jellinek, in «Materiali peruna storia della cultura giuridica»,2, 1999, p. 395.

48 L. Mortara, Commentario, cit., I, p.130.

49 Così A. Brunialti, Il diritto costitu-zionale, cit., I, p. 172 e II, p. 592; lalinea è ribadita anche in I, p. 322.

50 E. Hedde, Du rôle politique du pou-voir judiciaire, cit., p. 16.

51 S. Romano, Osservazioni prelimina-ri, cit., pp. 240-242. Tale approc-cio serve anche a individuare leipotesi in cui il legislatore puòmodificare lo Statuto; e cioè:quando la modifica è imposta«dalla necessità», intesa come«diritto che scaturisce immedia-tamente e direttamente dalle for-ze sociali»; quando si tratti diriconoscere una consuetudine;quando la modifica è indirettaconsistendo in una integrazionedello Statuto (pp. 236-238).

52 A. Brunialti, Funzione politica delpotere giudiziario, cit., pp. 406-407.

53 G.M. Malvezzi, Sulle tesi delle con-venienza di unificare la Corte di Cas-sazione in Italia, Venezia, tip. Emi-liana, 1872.

54 G. Cianferotti, Storia della lettera-tura amministrativistica italiana,Milano, Giuffrè, 1998, p. 757 e

anche p. 756. Cfr. J. Varela Suan-zes, Riflessioni sul concetto di rigi-dità costituzionale, cit., p. 3332, inriferimento alla «concezionemateriale della legge» elaboratadalla giuspubblicistica tedesca.

55 B. Brugi, Dalla interpretazione del-la legge al sistema del diritto, in Perla storia della giurisprudenza e del-l’Università italiane, Nuovi Saggi,Torino, 1921, p. 17. Cfr. M. Mecca-relli, Un senso moderno di legalità.Il diritto e la sua evoluzione nel pen-siero di Biagio Brugi, in «Quadernifiorentini», 30, 2001, pp. 124-184.

56 Sul “giusliberismo” italiano sivedano P. Grossi, Scienza giuridicaitaliana, cit., e dello stesso Itine-rari dell’assolutismo giuridico. Sal-dezze e incrinature nelle “parti gene-rali” di Chironi, Coviello e Ferrara,in «Quaderni fiorentini», 27,1998, p. 168-227, Interpretazioneed esegesi, in Studi in memoria di G.Tarello, I, Milano, Giuffrè, 1990,pp. 282-307, «La scienza del dirit-to privato». Una rivista progetto nel-la Firenze di fine secolo, Milano,Giuffrè, 1988, P. Costa, L’interpre-tazione della legge: François Gény ela cultura giuridica italiana fraOttocento e Novecento, in «Quader-ni fiorentini», 20, 1991, p. 428, L.Lombardi, Saggio sul diritto giuri-sprudenziale, Milano, Giuffrè,1975.

57 L. Mortara, Commentario, cit., I, p.71.

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Virtute e conoscenza

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Premessa

Le droit administratif actuel, comme toute autrebranche du droit, a son histoire. Pour le bien com-prendre, les phases par lesquelles il est passé sontd’une importance incomparable […] nous pou-vons maintenant embrasser d’un coup d’oeil tou-te une série de révolutions importantes et profon-des qui se sont produites dans un espace de tempsassez court et qui viennent seulement d’être ache-vées. Ici, l’histoire du droit n’a pas à constater ledéveloppement paisible, semblable à celui de l’ar-bre, qui pousse de jeunes rejetons et laisse périrles vieux; il ne s’agit pas d’un lent accroissementet de l’épanouissement des différentes formes quiaujourd’hui nous entourent. C’est le fondementtout entier, qui est, à chaque fois, changé1.

Con queste parole, Otto Mayer apriva lapartie générale della traduzione francese, dalui stesso curata, della sua famosa operaDeutsches Verwaltungsrecht, pubblicata origi-nariamente tra il 1895 ed il 1896, dimo-strando, primo di una lunga serie, un certoqual interesse per le tematiche dello svilup-po storico del diritto amministrativo. Inte-resse destinato a concretizzarsi in prassi

contenutistica riscontrabile nei più celebra-ti manuali di diritto amministrativo, a par-tire appunto dal tornante di fine secolodurante il quale, nelle pieghe di imponentiimpianti dogmatici che prendono corpo inpoderose opere di sintesi, si definiscono lelinee portanti della sistematica e della “spe-cialità” di questa nuova entità disciplinare: ildiritto amministrativo.

A dispetto di una depurazione e cristal-lizzazione giuridica di quest’ultimo da qual-siasi commistione storica, politologica, filo-sofica – decantata dagli esponenti del meto-do giuridico – fa capolino un fugace accen-no al farsi storico di una disciplina che, sep-pur appena delineatasi in forma larvale interra d’Oltralpe a partire dall’età napoleoni-ca, o – così nell’auto-legittimante vulgatateorica otto-novecentesca – maturatasi ecostruitasi gradatamente, quasi in una lottasecolare, a partire da archetipi lontanissiminel tempo ed in diretta connessione con ilsuccedersi delle forme storiche di Stato2,fino alla trionfante giuridicizzazione dell’ot-tocentesco Stato di diritto, richiede pur sem-

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Il difficile connubio: un itinerario trastoria e amministrazione nelle paginedell’Enciclopedia del diritto (1958–1992)

alessandro macrì

giornale di storia costituzionale n. 4 / II semestre 2002

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pre un antecedente logico, una contestualiz-zazione storica dalle venature talora mito-poietiche che le consenta di assestarsi, diacquisire fisionomia, anche a costo di forza-te contrapposizioni rispetto ad universi isti-tuzionali affatto eterogenei.

Le ricostruzioni si fanno carico del pesodel tempo e, secondo itinerari logici più omeno plausibili, si dipanano lungo il fluireininterrotto dei secoli per cercare le matri-ci originarie, intrecciandosi necessaria-mente con gli apparati organizzativi e ledinamiche funzionali che qualsivoglia ordi-namento politico ha via via modellato per leistituzioni deputate alla cura degli interessidei governati.

Oggi, a distanza di tanto tempo, cosarimane di quei tentativi di incursione retro-spettiva, delle poderose sequenze modelli-stiche di forme di stato e di istituzioni, con-catenantesi come ingranaggi, pensate daiprimi Maestri della scienza del diritto ammi-nistrativo?

Cercarle nello strumento che oggi rap-presenta il primo punto di partenza dogma-tico per chi si voglia avvicinare alle nozionied agli istituti giuridici, ossia l’Enciclopediadel diritto, è lo scopo di queste brevi notazio-ni.

Analizzare alcuni lemmi, strutturalmen-te non concepiti con un taglio meramenteaderente al dato normativo o tecnico-giuri-dico, alla scoperta di spunti di ricostruzionestorica, può essere un ulteriore mezzo perfare il punto della situazione in ordine alcomplesso problema della declinazione delrapporto tra storia ed amministrazione –ovviamente con tutte le cautele del casoimposte dalla constatazione delle gabbiecontenutistiche entro le quali si trovacostretta una voce enciclopedica – o, in ognicaso, per osservare, attraverso la trama

offertaci dall’evoluzione delle istituzioniamministrative, delle teorie che le hannosupportate, dei contrasti dottrinali cui pos-sono aver dato luogo, il ruolo giocato dall’in-sieme di questi elementi nella trasformazio-ne di lungo periodo della cornice delleodierne strutture pubbliche.

Non sfugge, certamente, la difficoltà direperire, tra le pieghe dei dettagli legislativie dei tecnicismi, significative contestualiz-zazioni storiche od aperture a vocazione sto-rico-istituzionale, nondimeno voci comequella – già analizzata in un contributo pre-cedente, in questa stessa rubrica, da F. Luca-rini – Stato (storia) di Maurizio Fioravanti(già in Enc. del dir., vol. XLIII, ad vocem, Giuf-frè, Milano, 1990; ed ora, rivisitato, in ID.,Stato e costituzione. Materiali per una storiadelle dottrine costituzionali, Torino, Giappi-chelli, 1993, da cui si cita) sono ben espres-sive del livello di consapevolezza raggiuntocirca la pregnanza del « fattore amministra-tivo-pubblico quale ulteriore caratteredistintivo della modernità politica» (p. 22).

Né il contenitore prescelto per la sele-zione dei contributi, con il suo taglio emi-nentemente giuridico, è del tutto peregrino.È sufficiente riflettere sull’influenza eserci-tata dalle ricostruzioni prospettate dagliesponenti del pensiero giuridico e della dot-trina amministrativistica classica sopraaccennati – le quali, volenti o nolenti, si sonorivelate ben difficili da rimuovere fino atempi recenti, quasi una sorta di involonta-ria e persistente griglia concettuale3, trasfe-ritasi perfino nell’adozione, nel linguaggiocomune, del lemma “amministrazione” inriferimento a periodi a dir poco sospetti –,per comprendere come anche ai frutti dellariflessione giuridica e storico-giuridica si siadebitori di rilevanti contributi per una mes-sa a fuoco del fenomeno amministrativo.

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Non si può, su opposto versante, nonconcordare con quanto sottolineato nell’Introduzione alla sua Storia dell’amministra-zione italiana da Guido Melis, il quale, in unabreve rievocazione dello sviluppo della sto-riografia amministrativa italiana, associa aduna rinnovata stagione di studi, legata allavalorizzazione di una approfondita ricercad’archivio, il raggiungimento di una «per-cezione della complessità del momentoamministrativo sia rispetto alla dimensionegiuridico-normativa (ineliminabile, ma nonper questo totalizzante) sia a quella mera-mente politica» (p. 11).

È da questo “difficile connubio”, quindi,tra storia istituzionale ed amministrativa estoria del diritto, così come del pensiero giu-ridico, che possono giungere i risultati piùincisivi per la comprensione del fattore“amministrazione”, di tutta la sua secolare ecomplessa evoluzione. D’altronde, giàrecenti opere manualistiche su questo tema,come quelle di Melis e di Mannori–Sordiappunto, danno segnali estremamente posi-tivi al riguardo, facendo ben sperare in pro-gressi futuri e confermando le potenzialitàdi una possibile sinergia tra i due approcci.

Resta solo da dire che le voci analizzatefaranno, rispettivamente, riferimento altema delle origini dell’amministrazione(Polizia), a quello del suo sviluppo storico edel relativo statuto giuridico costruitoleattorno (Amministrazione pubblica, Dirittoamministrativo), ed infine alla rilevante pro-blematica degli strumenti approntati per lasoluzione dei conflitti sorgenti tra soggettoprivato e pubblica autorità (Contenziosoamministrativo, Giurisdizione amministrativae giurisdizione ordinaria nei confronti dellapubblica amministrazione).

Polizia: un passaggio ineludibile verso l’ammi-nistrazione moderna?

L’onda lunga della vulgata tramandata dalladottrina amministrativistica della fine del-l’Ottocento circa gli snodi epocali che con-ducono all’evoluzione degli apparati ammi-nistrativi e di un loro correlato statuto e stru-mentario giuridico, è dato riscontrarla nel-la voce Polizia, bipartita nella trattazioneconcernente il periodo del diritto interme-dio ed il diritto pubblico vigente.

Nella prima, dovuta alla penna di MarioSbriccoli, eminente studioso di storia deldiritto, pur concentrandosi l’attenzione suiprofili storici dell’enucleazione di una fun-zione di prevenzione dei reati e di garanziadell’ordine pubblico – quale quella di poli-zia, appunto, nella sua moderna accezione –non manca qualche accenno a quel connubiointerpretativo che ha visto legati i destinidella «funzione di governo» e della «fun-zione di polizia» (p. 117).

Osservando gli sviluppi successivi allacrisi, per non dire “evanescenza”, del pote-re centrale, collocantesi tra IX e X secolo, ècon la rinascita della dimensione cittadina,con le problematiche ad essa connesse delmantenimento di «sicurezza e di ordine, diconvivenza e di moralità, di organizzazione,approvvigionamento, igiene» (p. 113), chesi assiste alla faticosa emersione di un «nuo-vo ruolo» per la “polizia”.

Il contesto della città-stato basso medie-vale vede crearsi, in nuce, le condizioni per laconfluenza degli interessi oligarchici del cetodominante in una rappresentazione unita-ria che li prospetta come interessi comuni atutti i cittadini, in una cornice di pratiche digoverno e di legislazione statutaria le cuiparole d’ordine di “utilitas publica” o “bonumcivitatis, communis, rei publicae” consolida-

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no le fondamenta concettuali della nuovafunzione di governo e di controllo che stalentamente emergendo.

La conseguente rinascita del concetto diautorità pubblica costituisce il prodromologico per un più incisivo intervento di rego-lamentazione ed ispezione successiva miran-te alla verifica dell’osservanza dei precettistabiliti. Senza addentrarsi nella disamina deicampi d’azione e dei soggetti istituzionalideputati ad occuparsene, è sufficiente rile-vare, ai nostri fini, la continuità di un siffat-to processo, attraverso le fasi storiche delleSignorie, dei Principati, fino ai nascenti Sta-ti regionali e, in successione, sino agli anti-chi Stati italiani, in una dinamica d’espan-sione della funzione di polizia che procede dipari passo alla «complicazione della vita civi-le, allo sviluppo della vita economica, ed allaprogressiva assolutizzazione del potere poli-tico dei Principi» (p. 115).

La distinzione tra “ polizia di benessere”e “polizia di sicurezza” comincia a farsi piùnitida, sebbene, in principio, i metodi ope-rativi adottati siano per molti profili simili.L’occhiuta sorveglianza, la trama repressivadi controlli e divieti, sono i caratteri di unapolizia cui l’assolutismo – a partire dal XVIsecolo –, in un crescendo normativo di«constitutiones, statuta, prammatiche,ordinanze, capitolari, bolle, editti, ordini,decreti, bandi, gride e notificazioni» (p.116), conferisce una “potestas inspiciendisuprema”, finalizzata alla “cura avertendi malafutura” ed allo “ius promovendae salutis”. Magli esiti di questo sviluppo sono strani.

Se l’ordre dans la rue mantiene sempre unruolo preminente nel quadro funzionale del-la polizia d’Ancien régime, la specificazionedei limiti di quest’ultima verrà, specie nelXVIII secolo, cristallizzata in una teorizza-zione che sovrappone «funzione di gover-

no» e «funzione di polizia», ponendo lebasi per la «costruzione dottrinale del cd.Stato di polizia» (p. 117)4; in una sintesi,quindi, che, privilegiando l’unitarietà rico-struttiva alle sfumature storiche, fa conver-gere in un unico alveo le diverse attitudinid’intervento dei vari esempi di organi magi-stratuali nati prima come organi di polizia epoi trasformatisi in giurisdizionali, nell’in-distinzione, per non dire sovrapposizione,tipica di quella temperie storica, tra funzio-ni di giustizia, polizia e governo.

Ed è proprio questo processo ad esseremaggiormente sviluppato nel successivocontributo di A. Chiappetti – dedicato allanozione di “polizia” nel diritto pubblicovigente – nel quale, in una breve trattazioneintroduttiva, esplicitamente votata a recu-perare, attraverso l’ausilio della prospettivastorica, una dimensione unitaria del concet-to di “polizia”, si tenta di riannodare le filadi una secolare evoluzione.

Indubbiamente quest’ultimo vanta ori-gini, anche semantiche, assai risalenti neltempo, collegandosi già dal punto di vistadella radice lessicale all’archetipo aristoteli-co della «politeia, come fine generale di buongoverno dello Stato, come dover essere del-la polis» (p. 121).

Per seguire allora l’evoluzione di questoprototipo concettuale, l’unica via proficua èquella di doppiarne l’itinerario in direttaconnessione con «l’evoluzione storica degliordinamenti statuali» (ibid.), giusta l’ovviaconstatazione che l’attuale stato normativo ela configurazione teorica di esso altro nonsono che il risultato finale di «una secolareevoluzione della legislazione che ha sempreavuto come punto fisso di riferimento, unanozione “originale” ».

Un punto di partenza decisivo è costitui-to dalla riscoperta del termine “polizia” in

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coincidenza con la temperie della nascita edello sviluppo dello Stato moderno.L’«immanenza» (p. 122) del concetto dipolizia è assodata in ogni scansione evoluti-va di questo processo, «da quello della for-mazione, con il superamento del fraziona-mento feudale, a quello della stabilizzazio-ne, con la razionalizzazione della figura sta-tuale ad opera dell’Illuminismo, dalle vicen-de delle monarchie assolute fino al liberale-simo» (ibid.). Nello stato assolutistico l’in-terconnessione tra la funzione di polizia,garante di una «ideale situazione sociale diordine, di sicurezza e di benessere» e laricerca del «consenso da parte delle classiproduttive emergenti», perseguito daisovrani continentali, viene presentato comedato indubitabile. I monarchi francesi ed iprincipi tedeschi, dalla fine del ’400, si“impossessano” della funzione di polizia,tentando di conseguire, a fini dinastici opatrimoniali, una aggregazione territorialeed una concentrazione dei poteri pubblici.Tutto ciò in antitesi al pluralismo ed allaframmentazione politico-istituzionale dimatrice medievale. Perentoriamente ilmonarca si pone al centro della scena:«attraverso il potere di emettere ordinanzedi polizia, Polizeiordnungen, e dotandosi degliapparati serventi di giustizia e di ammini-strazione», egli «ha trovato la forza per rea-lizzare il nuovo assetto pubblicistico» (p.122). La sicurezza interna, lo sviluppo deitraffici e delle industrie, nell’ambito didimensioni territoriali ampie, sono ormairisultati alla sua portata; è questo il cammi-no che conduce alla «creazione dello statomoderno».

A queste finalità corrisponde una dilata-zione del concetto di polizia, la quale «vienea costituire il fondamento dell’autoritàmonarchica assolutistica, legittimata dalla

finalità dell’ordine, della sicurezza e delbenessere» (p. 123). Ed ancora, dato ainostri fini significativo, si sottolinea la cir-costanza che vede il principe dotarsi «di unapropria giurisdizione e di un apparatoamministrativo a lui facente capo» (ibid.).E’ questa configurazione ipostatizzata dellapotestà di emanazione di Polizeiordnungen edel suo ruolo nella fase storica di consolida-mento dello stato moderno ad essere statoevidenziato «per merito della scienza giuri-dica tedesca a cavallo tra Seicento e Sette-cento, in relazione allo studio e sistemazio-ne della Polizeiwissenschaft» (p. 123).

Siamo così giunti al tornante, già sotto-lineato da Sbriccoli, che vede espandersi lefondamenta dello “ius politiae”. D’ora in poiassisteremo, nell’economia della parte sto-rico-descrittiva della voce che stiamo ana-lizzando, ad un processo dinamico, direm-mo, di azione e reazione che registra un’ini-ziale dilatazione del campo teorico ed ope-rativo della “polizia” ed un successivorestringimento, con le dovute eccezioni, sinoalle dimensioni iniziali.

Sotto la spinta manipolativa della “scien-za della polizia”, le maglie della fitta reteregolativa gettata in base al potere di ordi-nanza superano le barriere della Sicherheit,della sicurezza e dell’ordine pubblico, pergiungere a comprendere la Wohlfahrt, ilbenessere dei singoli, quale presupposto delbenessere collettivo e pubblico, che, in unquadro di pulsione eudemonistica, «con-sente al monarca di intromettersi, legife-rando e amministrando» (p. 123). È questa lafase del Polizeistaat, dello Stato di Polizia.

Il disciplinamento, le scienze ausiliariedello Stato divengono lo strumento di unarinnovata azione di governo «sull’intera vitasociale ed economica». Ma non è tutto. Nelquadro dipinto dall’estensore della voce,

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rinnovato si presenta anche lo strumentarioe la consistenza stessa «degli apparati ser-venti dell’esercizio del potere di ordinanza:la giustizia e, in modo massiccio, l’ammini-strazione statale» (p. 123). Si giustifiche-rebbe, quindi, l’ipotesi di un salto di quali-tà verso l’amministrazione in senso moder-no, evento già predicabile in questo periododenso di pregnanti modificazioni, non ulti-ma delle quali «la correlazione tra le duecombacianti nozioni del Polizeistaat e del Ver-waltungstaat… indice della strettissima cor-relazione tra l’esistenza stessa dello statomoderno e la necessarietà e centralità di unastruttura amministrativa permanente la qua-le si dimostra a lungo andare come il verocentro di imputazione della sovranità dellostato assoluto» (p. 124).

È in questo passaggio che la Verwaltung,l’amministrazione appunto – nella sua acce-zione “tedesca” dato che il riferimento, sep-pur non esplicitato, pare essere esemplatosull’esperienza dell’assolutismo di stampogermanico –, si rivestirebbe di un plusvalo-re teorico e funzionale, venendo intesa nelsignificato «onnicomprensivo di qualsivo-glia attività esercitata dal pubblico potere»(ibid.), sia pure nell’indistinzione dei pote-ri consustanziale allo stato assoluto.

Invero il tessuto argomentativo, in que-sti passaggi, pare un po’ risentire, confor-memente all’impressione suggerita dalleindicazioni bibliografiche poste a piè dipagina (vengono citati, tra gli altri, i nonrecenti lavori, seppur di impianto e soliditànon passibili di oblio, di Bussi, di Astuti, diMiglio), di qualche forzatura interpretativache non restituisce appieno la cifra delladimensione amministrativa della stagionedello Stato di Polizia. Prima di tutto è dasegnalare l’apparente universalizzazionedell’esperienza tedesca, che sacrifica i diver-

genti percorsi nazionali di evoluzione nor-mativa ed istituzionale del soggetto “ammi-nistrazione”, che – seppur nell’apparenteunivocità semantica del denominatore diquesta stagione (Policey, police, policìa, poli-zia – o, più diffusamente, Buon Governo) –percorre itinerari peculiari per ogni rispet-tiva area geografica. Parimenti forzata – qua-si una riproposizione degli automatismi, giàsegnalati, tipici della giuspubblicistica otto-novecentesca – appare la descrizione diun’amministrazione matura ben prima deltempo della sua reale incubazione come fun-zione e potere autosufficiente dal punto divista teorico e funzionale; una descrizioneche, al di là dell’esatta individuazione di uncrescente tessuto regolativo di cui si fa pro-motore il potere centrale, ne oblitera lecaratterizzazioni tipiche dell’Ancien régime,vuoi nella forma della necessaria mediazio-ne giurisdizionale a livello di esecuzione –tipica di un Justizstaat –, vuoi il substratopermanentemente corporativo e cetualeche ne condiziona ed impaccia, con le sueramificate e profonde radici, l’azione, pernon dire la plausibile predicabilità di esi-stenza.

D’altronde, ad attenuante, si deve regi-strare il diverso oggetto cui la voce, seppurineludibilmente collegata con il tema del-l’amministrazione, è dedicata nonché il pro-gresso degli studi in questo campo specifi-co5. Né va sottaciuto il fatto che, a propositodell’evoluzione del concetto di “polizia” suc-cessiva alla rivoluzione francese ed, a segui-re, sino all’arco temporale dell’apogeo del-l’età del liberalismo, Chiappetti opportuna-mente opera delle puntualizzazioni.

Per tornare alla metafora dell’espansio-ne e riduzione del campo teorico ed opera-tivo della “polizia”, giustamente se ne segna-la la «drastica modificazione»conseguente

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all’irrompere delle idee e delle innovazioniproprie dell’89. Proprio in terra d’oltralpelo sviluppo degli innovativi principi dellaseparazione dei poteri fa cadere il «tropodella conservazione e del benessere» (p.124) tipico dell’azione dello Stato di polizia,facendone confluire la relativa nozione ver-so l’originario ambito del mantenimentodell’ordine e della sicurezza, e dischiuden-do al contempo le porte all’ingresso di unaadministration, questa volta veramente rin-novata, espressione di una funzione costitu-zionalmente deputata alla realizzazione deifini pubblici, potere destinato a dispiegarsiin un contesto di superamento degli assettigiustiziali e delle pastoie corporative.

L’opposto avverrà nei «regimi di monar-chia costituzionale limitata […] dellemonarchie dell’Europa centrale» (p. 125).In questi contesti la evitata “irruzione” deinuovi principi, anche dopo il tornante del1848, non consentirà repentini cambiamentidi conduzione politica della cosa pubblica;sarà cioè possibile per «l’esecutivo tedesco(e austriaco) […] continuare ad operare, inun largo ventaglio di attribuzioni secondo gliantichi criteri monocratici dello ius politiae»(ibid.).In altri termini, sarà possibile regi-strare una perpetuazione – solo per alcuniprofili, aggiungiamo noi – di quella vecchiaprotagonista, la Policey, che continuerà «arappresentare ancora un’ampia parte dell’a-zione amministrativa dello stato, presentan-dosi come un incontestabile elemento dicontinuità con la precedente esperienza del-lo stato assoluto e della sua forma settecen-tesca più perfezionata, di Stato di polizia»(ibid.). Affermazione che, pur generica,rispecchia un certo tasso di attendibilità.

Organizzazione o statuto giuridico?

Nella prossima voce che passiamo ad analiz-zare, Amministrazione pubblica (premessa sto-rica), frutto della penna di un giurista posi-tivo dalla spiccata sensibilità storiografica,Massimo Severo Giannini, maestro delladottrina amministrativistica italiana, ci ven-gono prospettate delle riflessioni che, adispetto della seppur sintetica vocazione sto-rico-ricostruttiva suggerita dall’intitolazio-ne, si offrono piuttosto come perspicue indi-cazioni di carattere metodologico ed episte-mologico.

Senza dubbio, osserva preliminarmentel’autore, non sfuggì agli operatori del dirit-to del secolo scorso il macroscopico edincessante sviluppo delle pubbliche ammi-nistrazioni, circostanza che si ritenne dispiegare in base ai postulati di una «conce-zione quantitativa» (p. 231): la rilevantecaratura legislativa e giuridica assunta dalleistituzioni amministrative non sarebbe sta-ta altro che l’evidenziazione progressiva del-l’importanza di questo nuovo soggetto pub-blicistico, un tempo latente.

L’esistenza, nei diritti dell’antichità, «diuna normazione comune ai privati e ai pub-blici operatori» nonché la copertura e messain atto di «gran parte dei servizi personalidegli uffici dei pubblici munera […] (da par-te dei) servi pubblici» ed ancora, durante ilseguente periodo feudale, la rilevanza pura-mente fattuale degli apparati amministrativiesplicavano il basso profilo, la dimensioneminimale degli apparati organizzativi e delcorrelativo statuto operativo «negli ordina-menti giuridici generali dell’antichità».Senonché tale deterministica e semplicisticaspiegazione era destinata a non reggere l’of-fensiva euristica condotta sulla scorta deirisultati di più accurate ricerche storiche.

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Lungi dall’accreditare l’ipotesi di «unacontinuità di sviluppo quantitativo» (p. 231),questi ultimi dimostrano l’esistenza di saltiqualitativi: «a determinati momenti gliordinamenti generali necessari, quantome-no nell’esperienza politica dell’occidente,cambiarono la loro struttura, attribuendoseparato rilievo giuridico a gruppi di ufficiche si raccolsero sotto il nome di pubblicheamministrazioni»(ibidem). Uno sviluppo,quindi, non graduale ed indisturbato, mafatto di problematiche scansioni interne,interpretabile in virtù del riconoscimentodella sua intrinseca «storicità». Caratteri-stica che, se ne facilita l’approccio cognitivo,al contempo prospetta la necessità di fissa-re “paletti” terminologici e concettuali bendefiniti. Primo di tutti quello della distin-zione tra «apparato amministrativo» pub-blico e «pubblica amministrazione in sen-so proprio».

Mentre il primo indica prosaicamente«ogni ordinazione di servizi di persone e diservizi di mezzi organizzato secondo un dise-gno preventivo» (p. 232), piattaforma ine-liminabile di qualsivoglia ordinamento senon sua stessa condizione di esistenza, è solocon l’assunzione di «rilevanza giuridicaseparata» da parte di quest’ultimo che sigiunge alla dimensione sovraordinata dellaseconda entità sopracitata. È questo unoscarto qualitativo che abilita il passaggio dauna descrizione meramente analitica dellastoria degli apparati amministrativi e dellaloro disciplina, da una «narrativa episodicae sezionale» – sostanzialmente coincidentecon la storia del diritto pubblico di ordina-menti nei quali, nell’indistinzione delle fun-zioni, «l’organizzazione costituzionale deipubblici poteri è tutt’uno con l’organizzazio-ne amministrativa e con quella giudiziale» –ad un taglio ricostruttivo, sembra suggerire

la trama argomentativa nell’assenza di unaesplicita presa di posizione, inserito in coor-dinate scientifiche decisamente più defini-te.

Si tratta di uno snodo concettuale parti-colarmente delicato, soggetto a dar adito a«confusione di idee», in particolar modoconsideratone lo stretto collegamento con lospinoso tema, croce e delizia della storio-grafia istituzionale, del concetto di Stato. Senon si adotta l’accortezza linguistica di nondeclinare tale termine che per gli «ordina-menti generali necessari che son venuti invita al XVI secolo» (p. 232), si è destinati adincorrere nell’equivoco sostanziale per cui«quasi per un meccanico procedere si tra-sferiscono ad ordinamenti generali neces-sari, precedenti cronologicamente il sorge-re dell’ordinamento generale necessariodenominato Stato, gli attributi e le caratte-ristiche, anche strutturali, proprie di que-st’ultimo» (ibidem).

Le aspettative suscitate dall’indicazionedi questi scogli concettual-linguistici sistemperano, però, nel riconoscimento, daparte dello stesso autore, del parziale disin-teresse degli studiosi – «per ragioni varie,non ultima delle quali la non rilevante utili-tà» – verso un’analisi della posizione giuri-dica degli apparati amministrativi nei perio-di precedenti la formazione dello stato. Lanebbia su tali passaggi pre-statuali è desti-nata a diradarsi nella fase segnata dalla con-figurazione delle impalcature istituzionali delperiodo comunale, grazie all’introduzione –una sorta di salvifica intermediazione – del-la «nozione di persona giuridica, e l’appli-cazione di essa all’ente rappresentativo dellacomunità». Ma è solo con il XVIII secolo, conla sanzione della formula organizzatoria del-la divisione dei poteri che si opererà, entro lacornice degli apparati dei pubblici poteri, una

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separazione di complessi organizzativi, con-sentendo la «qualificazione come pubblicaamministrazione […] (del) complesso costi-tuito dalla Corona, dal Governo e dagli ufficiesecutivi ed ausiliari».

Ci si incammina quindi, come sottoli-neato anche precedentemente, verso il con-fine che segna l’inizio dell’assunzione dirilevanza giuridica da parte di tali rinnovatesoggettività istituzionali, unitamente all’usodi un «corpo di norme giuridiche proprie, lequali potranno essere indifferentementetanto un ramo speciale del diritto comune aiprivati e ai pubblici poteri, quanto un corpodi norme separate, che col tempo darannoorigine al diritto amministrativo».

Ed è, dunque, sulla scia di queste consi-derazioni generali, frutto di una astraenteutilizzazione di elementi concettuali trattidalla scienza dell’amministrazione così comeda una libera interpretazione della narrazio-ne storica, che Giannini ci introduce invo-lontariamente all’analisi di una categoriagiuridica ingombrante, che subito paradinanzi il grosso interrogativo delle proprieorigini: il Diritto amministrativo appunto, cuiè dedicata l’omonima voce.

Se pare indubbio, dice l’autore, che contale espressione si indichi un quid che ripe-te la propria formulazione, seppur in nuce,al contesto culturale e politico dell’89 – era-no stati i legisti della rivoluzione francesead introdurre le nozioni di amministrazio-ne pubblica, potere amministrativo, attoamministrativo, contenzioso amministra-tivo (p. 855) –, non è possibile però elude-re degli interrogativi di fondo che sorgonospontanei. E prima della rivoluzione esiste-va un diritto amministrativo? Se sì, perchénon ci se ne era accorti? O, altrimenti, senon c’era perché nacque proprio in quellaoccasione?

È con la dirompente elementarità retori-ca di questi quesiti che Giannini apre la pro-pria trattazione. Inutile anche solo il tenta-re di ripercorrere vicende dottrinali intri-catissime, terreno fertile per «dotte acca-demie». Vale la pena, però, di lumeggiare glisnodi concettuali che le hanno accompagna-te, al fine di comprendere le problematicheattuali con l’ausilio delle indicazioni forni-teci dagli sforzi speculativi trascorsi.

Nel secolo scorso si contrapposero duescuole di pensiero: una, propensa, con ilsuggello dell’auctoritas di Romagnosi, avedere nel diritto amministrativo un «dirit-to nuovo»; l’altra, invece, disposta a ricono-scere la «novità» della «scienza» del dirit-to amministrativo e non della sottostantebranca normativa. Con un atteggiamentofideistico nella potenzialità dell’ingegnospeculativo che riesce a manipolare, sino allacostruzione di un sistema scientifico perfet-to e conchiuso, il materiale grezzo del dirit-to, ci si adagiò nell’accettazione, talora acri-tica, della tesi di un fantomatico «dirittoamministrativo incognito» (p. 856). Essoera sempre esistito, quasi una sorta di con-notazione naturalistica ed «indisponibiledella statualità tout court»6. Ad infrangeretale sicurezza bastò la semplice «acquisizio-ne comparatistica» che il mondo – per tan-to tempo sconosciuto e, per questo, sogget-to a quell’alone di mistero e incomprensio-ne che ne consegue – della civiltà giuridicainglese non conosceva un diritto ammini-strativo, pur potendo vantare risalenti spe-rimentazioni di istituzioni amministrative(ad esempio l’autogoverno). Abbandonateorgogliose quanto sterili qualificazioni disottosviluppo culturale per tali esperienze,non restava che riconoscere, grazie alleintuizioni novecentesche di giuristi qualiHauriou, Fleiner, Zanobini che la «novità»

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era da predicarsi non solo per la scienza, maanche per il «ramo del diritto» (ibid.). Tesidivenuta dominante al tempo della stesuradella voce.

D’altronde, tale conclusione sfavorevolealla tesi del diritto amministrativo incogni-to è suffragata dalla riproposizione, da par-te di Giannini, delle distinzioni operate nelcontributo analizzato precedentemente(Amministrazione pubblica-premessa storicacit.) tra mere organizzazioni e maturi ordi-namenti generali di stampo statuale nonchédelle partizioni introdotte nell’ambito deidifferenti stadi evolutivi delle istituzioniamministrative, le quali, lungi dall’essereinnocenti sfumature semantiche prive diincidenza, nascondono un contenutosostanziale.

La verità è che «esiste una nozione diistituto amministrativo» – che con disin-voltura viene applicata retroattivamente –«che non è giuridica ma di scienza dell’am-ministrazione» ed impone ogni cautela,atteso che «il trasporto di simboli verbali adindicare realtà anteriori al momento dellanascita o dell’introduzione dei simboli stes-si è da accogliere sempre con grandissimecautele nelle scienze dell’uomo a causa del-la storicità del reale che esse studiano» (p.858).

Se il diritto amministrativo è presente inuna determinata dimensione, esso annetteed implica la sfera delle organizzazioniamministrative (o buona parte di esse); incaso contrario, quest’ultime non vengonomeno, benché al prezzo di una mutazione diqualificazione giuridica. È proprio questaevenienza, prosegue l’autore, a costituire ilnocciolo del dilemma: quali sono i «tipistrutturali di disciplina dei fatti ammini-strativi» – intesi unitariamente sotto la vestedell’organizzazione e del reciproco risvolto

funzionale di essa in termini di attività (idest azioni, omissioni, fatti ed atti, situazionisoggettive, effetti e risultati) – nell’assenza diun diritto amministrativo?

Rispondere a questo «difficilissimo»interrogativo, implica, anche, ripercorrerestoricamente le varie tappe percorse nel fati-coso processo di regolamentazione dei fattiamministrativi; operazione che riceverà,nell’ambito della voce, un parziale abbozzo,essendo piuttosto compito della «dottrinafutura» colmare le lacune degli studi di sto-ria del diritto pubblico, sinora troppo«descrittivi ed elementarizzanti per quantoconcerne le categorie giuridiche di qualifi-cazione» (p. 859).

Vengono così enucleate quattro catego-rie di tipi strutturali di ordinamenti gene-rali moderni: uno è quello degli «ordina-menti a diritto comune» (Giannini preferi-rebbe la locuzione «a normazione unita-ria») in cui i fatti amministrativi sono rego-lati dal diritto privato, rivisto alla luce delleesigenze “pubblicistiche” cui deve adattarsi,e vi è una normazione omogenea per tutti glioperatori giuridici dell’ordinamento. Suacaratteristica precipua è che l’atto autorita-tivo è ancora uno iussus, coercibile tramitel’intermediazione del giudice, che infatti haun « ruolo primario» (p. 859), con i suoipoteri decisionali in materie pubbliche,anche se ciò lo inabilita ad assumere le vestidi titolare di un ufficio burocratico.

Un secondo tipo è quello «degli Statiispirati ai principi costituzionali dell’asso-lutismo pieno» (p. 860), in cui tutti i pote-ri pubblici usano un diritto “proprio”, datoche si è in presenza di un ordinamentoimprontato alla predominanza di rapportisoggettivi riconducibili al binomio “potestà-soggezione” (viene citato il tipico caso dellaFrancia del XVIII secolo).

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Seguono due tipologie intermedie, unadelle quali è quella dei Paesi anglosassoni«in cui vi è una compresenza di ius publicume di ius privatum» (ibid.), ove il primo rego-la i fatti amministrativi concernenti l’aspet-to organizzativo (fatti interorganici), mentreil secondo quelli concernenti l’attività (fattiintersoggettivi). Vi si riscontra, dunque, unpredominio di un “diritto comune ad opera-tori privati ed a pubblici poteri”, a fronte diun’area minoritaria costituita da «una nor-mazione che compone il diritto costituzio-nale, a contenuto fortemente autoritativo»:in sintesi, massiva presenza del diritto“comune” e spiccato giurisdizionalismo,come meccanismo di difesa delle situazionisoggettive private colpite da atti autoritativi.

Infine, si ha un altro tipo intermediocaratterizzato dall’actum principis, in cui pre-domina sì una vasta area di rapporti inter-soggettivi regolata dal diritto comune, spes-so comunque costellato di “privilegia fisci”,cui fa riscontro, però, un’altra zona in cuil’autorità pubblica del sovrano ha una latitu-dine assoluta, non controllabile giudiziaria-mente. Quest’ultima si materializza in «attifortemente autoritativi e direttamente ese-guibili anche con la coercizione» (ibid.), manon è priva di confini, superati i quali sirientra nella zona di diritto comune, sogget-ta al controllo del giudice. Sono annoverabi-li in tale tipo i Paesi dell’area germanica, trai quali l’Austria, che costituiscono speciedell’assolutismo illuminato, ed in cui, per lanettezza e rilevanza del confine sopra ricor-dato, si introduce una larga delimitazionenormativa dell’ambito degli acta principis, eduna disciplina dei procedimenti contenzio-si volti a rendere controllabile dal centro l’a-zione dei poteri locali. In sintesi, vi vige unanormazione non di diritto comune, né didiritto dello Stato, e non ancora qualificabi-

le come diritto amministrativo, bensì ricon-ducibile, probabilmente, a quel Polizeirechted alla scienza camerale, ricordati dall’auto-re come prodotti tipici dei Paesi collegabilialla tipologia degli ordinamenti generali inanalisi.

Con questa incursione, impostata su untaglio a cavaliere tra rievocazione storica etipizzazione fondata su basi categoriali lega-te alle nozioni di scienza dell’amministra-zione, ancora una volta l’autore ci mette inguardia dal rischio di cadere in fallaci proie-zionismi storici, o di essere tentati di «rite-nere che le istituzioni di cui si riscontra lacontinuità o la riedizione o la simiglianza sia-no tutte istituzioni amministrative» (p.861).

Il pericolo di prospettare un continuumstorico non fondato su basi razionali né, tan-to meno, su corrette qualificazioni giuridicheè sempre in agguato.

La decostruzione, quindi, della categoriadel “diritto amministrativo incognito” rice-ve un altro tassello argomentativo significa-tivo, nell’auspicio che possa ricevere ulte-riore impulso dalla «nuova attenzione chesta salendo intorno alla storia dell’ammini-strazione pubblica» (p. 860).

Pari cautela deve adottarsi nella ricostru-zione del problema delle origini storiche deldiritto amministrativo. Ad essere scartatepreliminarmente sono le spiegazioni offer-te dai «pubblicisti pandettisti del secoloscorso», che lo vedevano come una conse-guenza dell’instaurazione dello Stato costi-tuzionale o della correlativa applicazione delprincipio della divisione dei poteri; stessasorte incontrano quelle che attribuivano lasua benefica creazione allo Stato di diritto(che però, come si osservò, era tale in quan-to possedeva un diritto amministrativo, atestimonianza di come si fosse incorsi in una

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patente tautologia). L’autore ricorda, infat-ti, che la semplice valutazione degli esempiofferti dai casi dell’Inghilterra e degli StatiUniti d’America, privi di un diritto ammi-nistrativo, smentisce tali assunti.

Accoglienza migliore non trova, infine,la teoria – già analizzata nella disamina del-la voce Polizia – tanto in voga presso gli «stu-diosi di lingua tedesca», che sostiene l’ideadi una successione, nel corso dell’età moder-na, delle forme “statuali” di un Justizstaat,seguito dal Polizeistaat, e coronata, a chiusu-ra, dallo “Stato di diritto” «inteso nel sensospecifico di Stato in cui l’amministrazione èlegata nella sua azione al principio di legali-tà» (p. 861).

Pare più proficuo, all’autore, affidarsi airisultati conseguiti sulla base di studiimprontati«ad una più vigilata coscienzastorica» (ibid.).

È così che per la nuova branca si predicaun’origine alle cui radici sta la «confluenzadelle esperienze costituite dai tipi struttura-li ad actum principis e del Polizeirecht con iprincipi costituzionali introdotti dalla Rivo-luzione francese, e con lo spirito di raziona-lità dei legisti francesi» (p. 861); confluen-za che vede sicuramente nella carica innova-tiva dei principi dell’89, e soprattutto dellanormazione ad essi conseguente, un impre-scindibile punto di partenza. In definitiva,in consonanza con quanto affermato daglistudi più recenti, è in quel frangente storicoche si sostiene sia stata tenuta a battesimol’invenzione di un moderno “spazio ammi-nistrativo”.

Segue poi una rapida carrellata sullevicende storiche di sviluppo della disciplinache definisce lo statuto giuridico di una nuo-va presenza istituzionale: l’amministrazione.

Partendo dalle argomentazioni fornite dastorici come Salvemini e Lefebvre, che qua-

lificano il diritto amministrativo come unostrumento nelle mani della borghesia, chedi esso si serve in funzione antagonista con-tro le classi sociali concorrenti, una sorta di«creatura dei Termidoriani» venata di auto-ritarismo, costituente un potente veicolo diaccentramento e di centralizzazione, cosìcome di controllo sociale – icastica e sugge-stiva la frase usata da Giannini: «si potreb-be dire, forse un po’ forzando, che il dirittoamministrativo sorse per dare nuovi mani-ci a vecchie mannaie» (p. 862) –, l’autorecerca di riportare entro giuste coordinate,maggiormente aderenti ad una trattazionegiuridica, la problematica affrontata, chedeve essere inquadrata su un ottica di lungoperiodo.

L’estensore della voce si immerge in unarievocazione di largo respiro (di cui voluta-mente tralasciamo la parte dedicata all’etàcontemporanea ed alla scienza del dirittoamministrativo nella sua versione dottrina-le, analisi che pure ha segnato un momentodi sintesi di indiscusso valore, riconosciutoancor oggi), che vede opporsi, in un con-fronto serrato, i due poli costitutivi dellaneonata branca, quello «autoritativo» equello «se non libertario, almeno non auto-ritario» (p. 862). Pur conscio delle «espres-sioni ipostatiche» adottate (p. 863), Gian-nini coglie l’intima cifra di quello che sarà ilcarattere saliente dell’utilizzo fatto e dellevalutazioni date su questa nuova disciplina.Un’entità giuridica strutturalmente bifron-te, soggetta a scosse interne, spesso sotto-posta a torsioni ed irrigidimenti dalle vena-ture autoritarie, funzionali alla ricerca di unbilanciamento del rapporto libertà-autoritàtroppo spesso non favorevole al cittadino.Nondimeno «strumento di civiltà» che, seinterpretato e rivolto in direzione garanti-sta, sarà destinato, nell’arco di un faticoso

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processo di evoluzione e secondo modalitàpiù sofferte di quelle evocate nel corso dellavoce, ed in tempi a noi molto più vicini diquelli della famosa stagione dello Stato didiritto, ad offrire il proprio contributo alprogresso dell’ordinamento giuridico.

«Un pianeta in gran parte sconosciuto»: la giu-stizia amministrativa preunitaria nella formadel contenzioso amministrativo.

È con l’espressione ad effetto riportata nel-l’intitolazione di questo paragrafo, mutuatada un contributo di sintesi risalente a qual-che tempo fa7, che ci accingiamo ad adden-trarci nell’analisi delle due ultime voci del-l’Enciclopedia del diritto prescelte, inerentialla problematica dei conflitti sorgenti trasoggetto privato, uti singulus, ed ammini-strazione.

Fortunatamente, alla luce dello stato diavanzamento degli studi, può ben predicar-si un significativo progresso delle cono-scenze in merito alle origini del contenzio-so amministrativo, alle sue radici teoricheed ai connessi sviluppi istituzionali. Studicome quelli di Abbamonte, di Aimo, di Feo-la, di Mannori – per non parlare dei rilevan-ti contributi della storiografia d’oltralpe perla rispettiva esperienza nazionale – hannogettato uno squarcio di luce su un campod’indagine che, sebbene ancora in buonaparte inesplorato (in particolare modo peralcune realtà statuali preunitarie) più chesconosciuto, inizia a restituirsi agli occhidegli storici in un’immagine dai contorni piùnitidi, grazie anche alle importanti acquisi-zioni storiografiche raggiunte in ordine aldibattito dottrinale che vivificò la concretaprassi di quest’esperienza istituzionale.

Trattazioni, allora, come quella della voceContenzioso amministrativo (premessa storica),redatta da Giuseppe Franchi, mantengonocomunque la loro utilità come epitome deilineamenti di sviluppo normativi ed orga-nizzativi che caratterizzano la stagione delcontenzioso, presentandone una panorami-ca sulla base dei noti e risalenti contributidescrittivi dovuti alla penna dello Schupfer,di Salandra e del Bertetti (e stupisce che inbibliografia non venga menzionata la fine –seppur sintetica e focalizzata sull’esperien-za sardo-piemontese – trattazione fattane,all’inizio del secolo scorso, da un giuristadella statura di Cammeo).

Va notato, preliminarmente, come la vocein analisi entri subito in medias res, affron-tando la questione dell’esperienza preuni-taria del contenzioso, senza un richiamocomparativo alle vicende genetiche del siste-ma francese di contentieux administratif – chetrovano sintetica esposizione in un’autono-ma partizione della stessa voce, espressa-mente dedicata al diritto comparato vigente– il quale, come è noto, trova le propria fon-damenta nei provvedimenti emanati nellaconvulsa, ma normativamente produttiva,stagione che intercorre tra i lavori dell ’inte-ro arco della legislatura dell’Assembleacostituente8 – pervasi da uno spirito creati-vo e “costituente”9, nell’accezione lata esimbolica assunta da tale termine in queltorno di tempo – ed i nuovi e significativisviluppi della legislazione dell’anno VIII, conla istituzione del Conseil d’Etat (art. 52 dellacostituzione consolare) e dei consigli di pre-fettura (legge 28 piovoso). Tracce normativetangibili, queste, della faticosa presa d’attodella consustanziale inerenza all’azioneamministrativa di una verifica giudiziale, danon attribuirsi alla cognizione del giudiceordinario in quanto esponente di un potere

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altro rispetto all’amministrazione. Nonancora “vera” giustizia amministrativa, ecomunque parziale risposta, per i cittadini,al bisogno di istanze di controllo in caso diconflitti di interessi tra la parte privata el’autorità, pur in un sistema caratterizzatodalla particolare posizione di preminenzariconosciuta all’amministrazione.

Pleonastico ricordare come il modellofrancese abbia influito profondamente nel-la configurazione dei sistemi di “giustiziaamministrativa” degli Stati preunitari, siadurante che nella stagione successiva aldominio napoleonico nella penisola.

Ecco, allora, che il lettore si trova propo-sto un quadro ricostruttivo impostato su unatripartizione: da una parte, vi sono espe-rienze di «tendenzialmente completa» (p.614) esenzione dell’amministrazione dallagiurisdizione, come nel caso del Ducato diModena e del Regno Lombardo-Veneto; dal-l’altra, un sistema di giurisdizione unica,attuato nel Granducato di Toscana; ed infi-ne l’insieme prevalente, anche per numerodi aree geografiche e di realtà statuali, deisistemi in cui il contenzioso di ispirazionefrancese viene mantenuto, vale a dire nelDucato di Parma, nel Regno delle Due Sici-lie, nel Regno di Sardegna e nello Stato pon-tificio.

Analizzando partitamente le singole real-tà istituzionali, risaltano subito i casi di quel-le emancipatesi dal modello d’oltralpe, unavolta venuta meno la dominazione francese.Per quanto riguarda il Ducato di Modena,appunto, le controversie amministrativevengono rimesse ai ministeri competenti permateria e – a partire dal 1852 – ai delegatiprovinciali in primo grado ed al Ministrodell’Interno in secondo e, talora, ultimo gra-do; a chiudere il sistema, contro le decisio-ni di una amministrazione iudex in causa pro-

pria, viene concesso un ricorso in appello –in controversie non di carattere finanziario– al Supremo Tribunale di revisione, ma soloper questioni di diritto e non di fatto.

Parimenti – ma in un contesto istituzio-nale di ben più rilevante caratura, comequello lombardo-veneto – il modello fran-cese di contenzioso viene abbandonato dopoil ritorno dei territori agli Austriaci. Pur dopoun iniziale prolungamento di vigenza, infat-ti, viene ristabilita la competenza degli orga-ni esecutivi – in un’ampia gamma di settoridi interesse ed intervento pubblico come inmateria di strade, acque, boschi, miniere,imposte – a conoscere delle controversiesorte e a provvedere alla loro composizione;al contrario, spetta ai tribunali ordinari latrattazione delle cause relative alla « pro-prietà e altri diritti, compresi quelli nascen-ti da pubblico appalto e incluse – fino al 1835– le imposte indirette» (p. 615).

Del tutto peculiare, poi, l’esperienzatoscana, dove, ad una generale competenzadell’autorità giudiziaria – tranne che in temadi pensioni, di contabilità pubblica e diappalti di strade – fa riscontro un così strut-turato sistema di ricorsi «aventi naturasemi-giurisdizionale ed esperibili davanti adautorità amministrative specializzate controgli atti dei Comuni» (così ci informa Man-nori nell’articolo sopra citato, p. 144), da farsostenere al Franchi – in maniera impreci-sa, ma perfettamente conseguente alla scar-sa conoscenza a tutt’oggi raggiunta in meri-to a tale esperienza – che « per contenziosoamministrativo si intendeva in Toscana ilrimedio del ricorso gerarchico» (ibid.).

A parte le eccezioni alla regola sopradescritte, frutto del recupero delle prece-denti matrici originarie risalenti, rispetti-vamente, al modello amministrativo delriformismo asburgico, per il Lombardo-

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Veneto, ed alla tradizione istituzionale autoc-tona del Granducato, si deve constatare lapersistenza, negli altri casi, dell’influenza delprototipo francese.

Proprio nei territori più intimamentelegati alla Francia, quelli del Regno d’Italia,si era assistito all’introduzione del sistemadel contenzioso amministrativo, nel 1805.Nel seno del neo costituito Consiglio di Sta-to, infatti, la sezione del consiglio degli Udi-tori era incaricata di riferire in adunanzaplenaria le «questioni relative al contenzio-so amministrativo, sia in primo grado, sia inappello dalle decisioni prese, in materie tas-sativamente indicate, dal consiglio di pre-fettura. La deliberazione dell’assembleagenerale del Consiglio di Stato doveva esse-re approvata dal Re» (p. 615). Così, nelleparole del Franchi, si rievoca il funziona-mento di queste strutture e dei relativi mec-canismi decisionali, palesi calchi dell’arche-tipo originale, destinati a costituire un pun-to di riferimento fondamentale per la pras-si contenziosa degli Stati preunitari. Impos-sibile soffermarsi, seppur concisamente, inqueste brevi notazioni, sul profondo ascen-dente esercitato dall’opera dottrinale di figu-re quali quella di G.D. Romagnosi, indiscus-so protagonista intellettuale di quella sta-gione, giustamente ricordato nel testo dal-l’estensore della voce.

È così che, pur venuta meno la presenzafrancese, ci si confronta e se ne toccano conmano i lasciti. A cominciare dal piccolo Duca-to di Parma, dove il Consiglio di Stato, rior-ganizzato a partire dal 1814 ed ordinato defi-nitivamente nel 1822, contempla una sezio-ne specificatamente votata alla trattazione delcontenzioso e contro le cui decisioni èammesso appello al Consiglio plenario.

Lo stesso dicasi per il Regno delle DueSicilie, dopo il rientro dei Borboni, che vede

confermate ed affinate le linee guida delsistema del contenzioso del Regno di Napo-li napoleonico, che aveva tenuto a battesimol’opera dei consigli di intendenza, le cui pro-nunce erano suscettibili di appello al Consi-glio di Stato.

Con la nuova legge sul contenziosoamministrativo del 21 marzo 1817 e quellasulla relativa disciplina del procedimento del25 dello stesso mese, si pongono le basi perl’operatività di quella che era destinata adessere la più completa tra le coeve esperien-ze preunitarie.

Basata su una clausola sufficientementelata, che attribuiva al contenzioso «le con-troversie che, cadendo sopra oggetti del-l’amministrazione pubblica, la interessanodirettamente o indirettamente», e su un’e-lencazione tassativa ma ampia degli «ogget-ti dell’amministrazione pubblica », nonchécon l’ausilio di una fiorente ed acuta dottri-na giuridica, la prassi degli organi del con-tenzioso del regno meridionale denotava undiscreto grado di affinamento, sì da renderoggetto dell’attenzione degli studiosi, anco-ra fino ad oggi, l’attività dei consigli di inten-denza e della Camera del contenzioso dellaGran Corte dei Conti, le cui decisioni in sededi appello erano dal Re approvate o sostitui-te con la decisione di un’altra camera dellastessa Corte.

Neppure lo Stato Pontificio si rivelaimpermeabile alle suggestioni del modellofrancese. Seppur in ritardo, nel 1835, conl’editto Gamberini viene introdotto l’«ordi-namento della giurisdizione delle materieamministrative», che vede – seppur in unquadro applicativo generale della neonatagiurisdizione che non eccellerà per qualità equantità – come organi del contenzioso «lecongregazioni governative in primo gradoper le controversie di interesse locale, con

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appello al Legato e, in mancanza, alla Con-gregazione del buon governo; la Congrega-zione camerale per le controversie piùimportanti con appello alla Congregazionedi revisione» (p. 616), con la previsione – incaso di revoca o di riforma della decisione diprimo grado da parte del giudice d’appello –di una terza istanza giurisdizionale presso ilConsiglio Supremo.

Questa complessa gerarchia viene ulte-riormente completata, con gli editti Anto-nelli del ’50 e ’51, che istituiscono una sezio-ne di giurisdizione contenziosa presso larecente struttura del Consiglio di Stato.

Per ultima , non in ordine di importanzae quasi a suggerire le linee direttrici di rife-rimento entro le quali si muoverà il sistemadella giustizia nell’amministrazione delfuturo Stato post-unitario, viene analizzatal’evoluzione dell’esperienza del contenziosonel Regno di Sardegna. Senza addentrarcinella graduale costruzione, durante la sta-gione delle riforme dell’assolutismo sabau-do del XIX secolo, di embrionali struttureatte a dirimere le controversie tra privati epubblica amministrazione – facenti capo agliintendenti ed alla Corte dei Conti, e, dopo leriforme di Carlo Felice del ’22, anche ai tri-bunali di prefettura (giudici ordinari) – è conle Regie Patenti del 1842 (integrate dal regioeditto del 29 ottobre 1847) che il Piemontesi incanala verso un sistema assimilabile almodello francese, con la creazione di orga-ni propriamente contenziosi, i Consigli diintendenza, contro le cui decisioni di primogrado – previste per un numerus clausus dimaterie, quali le imposte, le riscossioni, gliappalti pubblici, le acque e strade pubbliche,la contabilità degli enti locali – è dato appel-lo alla Corte dei conti, limitatamente però aquelle di maggiore rilevanza.

Ed è proprio sul crinale della conclusio-

ne di questa sintetica, ma al contempo com-pleta carrellata descrittiva del contenziosodegli Stati preunitari, che la voce denuncia ilimiti di un taglio troppo ancorato al datolegislativo formale. Nel momento in cui siesaurisce la costruzione dell’impalcaturaistituzionale di questo sistema, dalla Restau-razione in avanti, paradossalmente se nedevono registrare anche i primi segnali dicrisi, concretizzantisi nella «sempre piùinsistente […] corrente di giuristi che vole-va abolito il sistema del contenzioso», col-legata, in una dimessa e liquidatoria con-nessione, se non altro temporale, «ai fer-menti liberali che portavano – nel Piemon-te di Carlo Alberto – all’abolizione, nel 1847,di molti giudici speciali e del foro privilegia-to per il regio patrimonio» (p. 617).

All’aprirsi di una successiva parte dellavoce, dedicata alla rievocazione delle scher-maglie per l’abolizione del contenziosoamministrativo ed all’instaurazione delsistema di giustizia amministrativa post-unitario, si avverte una cesura logica, l’as-senza di elementi che forniscano un barlu-me di spiegazione in merito all’improvvisacontestazione del precedente sistema.

A prescindere dalle motivazioni sottese aquesta avversione ed alla questione della suafondatezza o meno su reali deficienze tecni-co-giuridiche o su disfunzioni applicative -che già autorevolmente sono state segnalatee commentate, come ad esempio nel contri-buto di Mannori più volte richiamato, e chenon è compito di queste brevi notazionirievocare - si sente la mancanza di una pre-sa di posizione in merito, che, sola, possacontestualizzare gli sviluppi storici succes-sivi.

Tra i tanti progetti presentati, nell’offen-siva abolizionista, si segnalano quelli delministro Galvagno (1850) – nella cui rela-

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zione di presentazione si affaccia per la pri-ma volta una distinzione destinata a lungafortuna, quella tra diritti ed interessi – e duedi Rattazzi (del 1854 e del 1857), progetti neiquali, a livello propositivo, si spazia dall’i-potesi di una devoluzione di tutte le contro-versie alla giurisdizione ordinaria, ad una piùblanda riduzione delle clausole attributive dicompetenza, per materia, del giudice delcontenzioso.

È con i pieni poteri conferiti al Governoche la situazione si sblocca, conciliando l’at-tuazione di riforme, legate al nome di Rat-tazzi, le quali sanciscono l’istituzione di Con-sigli di governo, organi che, con la legge 30ottobre 1859 n. 3708, divengono giudiciordinari del contenzioso amministrativo;mentre giudici di appello sono, in materiadi contabilità, la Corte dei Conti, ordinatacon la legge 30 ottobre 1859, n. 3706, e nelresto il Consiglio di Stato (legge n. 3707),dotato di apposita sezione del contenzioso.Ma si tratta del canto del cigno del conten-zioso. Pur a fronte della sua estensione – nelperiodo precedente la formazione della nuo-va compagine statale unitaria, con le annes-sioni – alla Lombardia ed alle Marche, ed alsuo mantenimento a Parma e nel meridione,la successiva constatazione della divisionedel Paese in una sostanziale bipartizione isti-tuzionale, tra aree già a tendenziale giurisdi-zione unica ed aree tuttora sotto la vigenzadel sistema del contenzioso, nonché il pesodi esempi di sanzione costituzionale delprincipio di unità di giurisdizione (qualequello sancito nella Constitution belga del1831), attizzano il fuoco delle polemiche epropiziano le schermaglie e le prese di posi-zione nei confronti della prassi del conten-zioso amministrativo. Eventi abbastanza notiper essere rievocati e che coinvolgono nomidestinati ad occupare il proscenio della poli-

tica italiana, quali Minghetti, Crispi, Rattaz-zi – per citare solo i più noti.

Furono costoro ad animare un dibattitodi alto profilo, la cui conclusione era forsegià in parte segnata. Sulla base del progettopresentato dal Peruzzi, dopo alcune modifi-che si giunge all’allegato E della legge sull’u-nificazione amministrativa del Regno del 20marzo 1865, n. 2248, che abolisce «i tribu-nali speciali investiti della giurisdizione delcontenzioso amministrativo» (art. 1) edevolve alla giurisdizione ordinaria «tutte lematerie nelle quali si faccia questione di undiritto civile e politico, comunque vi possaessere interessata la pubblica amministra-zione e ancorché siano emanati provvedi-menti del potere esecutivo o dell’autoritàamministrativa», limitando però il poteredi cognizione dei giudici ordinari e stabi-lendo che, in ogni caso, «l’atto amministra-tivo non potrà essere revocato o modificatose non sovra ricorso alle competenti autori-tà amministrative, le quali si conformeran-no al giudicato dei tribunali in quantoriguarda il caso deciso (art. 4, 2° comma) ».È, quello sopra citato in merito alla devolu-zione di giurisdizione, il famoso art. 2 chesegna la fine di un’esperienza ed, a brevedistanza, il riaccendersi di un conflitto susci-tato dalle manchevolezze del sistema, prestoevidenziatesi.

È quasi l’attuarsi di una legge del con-trappasso, quello cui si assiste; una vendet-ta postuma da consumarsi a breve distanza ditempo a danno dell’inaugurata giurisdizioneunica. La drastica diminuzione delle posi-zioni soggettive tutelate – basti pensare alfamoso «ch’ei si rassegni» pronunciato dalMancini a riguardo dei meri “interessi” – eduna prassi applicativa che denota le tare delnuovo modello, ne incrinano presto la cari-ca innovativa. La storia del delicato rappor-

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to tra giustizia e amministrazione continue-rà ad occupare le agende dei lavori parla-mentari, ad innescare dotte disquisizioni esuscitare contrasti dottrinali. Ancor oggipermangono divisioni nell’interpretazionedella scelta abolizionista, vista la perduran-te scissione tra i sostenitori della sua valen-za sostanzialmente garantista, seppur intri-sa di un certo intellettualismo dottrinario, ecoloro che vi riscontrano i segni di una fret-tolosa ed ingiustificata alzata di scudi neiconfronti dell’esperienza del contenzioso.

Viene spontaneo notare che, in definiti-va, gli sviluppi successivi ci mostrano, con lemodifiche attuate ad un non lungo lasso ditempo – peraltro occupato in serrate pole-miche sul tema della “giustizia nell’ammi-nistrazione” – ad un sistema da poco inau-gurato, che le vittime erano state due: l’ec-cessiva fiducia degli abolizionisti nelle pro-prie tesi e le potenzialità non valorizzate delcontenzioso. Una la causa necessitata e suf-ficiente: un nuovo stato da costruire, conun’amministrazione forte a sostenerne lefondamenta ancora non assestate.

Un laborioso processo: la formazione del siste-ma italiano di giurisdizione amministrativa

Come anticipato sopra, quello che potevasembrare un punto di arrivo, la legge n.2248, all. E, si rivela piuttosto come il bloc-co di partenza da cui prende inizio un fati-coso cammino di riforme, fatto di incertez-ze, di passi falsi, di altisonanti discussioniche producono risultati compromissori.

Il dato oggettivo è, dunque, quello di unanormativa che, piuttosto che rivelarsi come«pietra angolare del sistema» (p. 231), èsemmai la prima di una serie di statuizioni

legislative che non esauriscono «la discipli-na della giustizia amministrativa: i problemidella giurisdizione si risolvono in base aduna normativa non scritta, nata dalla pazien-te opera di integrazione (creazione) dell’or-dinamento svolta dalla giurisprudenza»(p.250). È nella trama argomentativa che sepa-ra queste due decise affermazioni, che la voceGiurisdizione amministrativa e giurisdizioneordinaria nei confronti della pubblica ammini-strazione di M.S. Giannini e A. Piras ci pre-senta una ricostruzione critica delle vicendee dei personaggi che hanno dato vita alnostro sistema di giustizia amministrativa.

Per comprendere l’impianto stabilito nel1865, e nella fattispecie il principio basilaredi esso, ossia quello dell’unicità di giurisdi-zione – impresa non facile, considerati imolteplici «aspetti della riforma che scon-certano chi riconsideri oggi l’intera mate-ria» (p. 233), come l’artificiosità dell’alter-nativa tra giurisdizione ordinaria e speciale,la distinzione tra diritti e meri interessi, l’in-certa disciplina dei conflitti di attribuzionecosì come il mantenimento di talune giuri-sdizioni speciali – gli autori si rifanno ad unaconsiderazione estranea alle «teorizzazionisuccessive alla riforma».

Certo, si può discutere sul contesto cul-turale, permeato da un marcato individuali-smo di matrice liberale, in cui matura la scel-ta abolizionista; così come lo si può fare cir-ca la reperibilità, sul momento, di criterialternativi di individuazione della giurisdi-zione; o sulla volontà di far salvo il principiodella separazione delle funzioni e dei poteridello stato. Ma non è questa l’ipotesi inter-pretativa suggerita.

Più prosaicamente si sottolinea la neces-saria finalità, nemmeno tanto recondita, diricercare, attraverso la normazione del ’65,«un difficile punto di equilibrio tra due

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opposte esigenze, l’esigenza di non toglierenulla al carattere autoritativo dell’azioneamministrativa, la necessità di ammettere,sia pure con le dovute cautele e riserve, ilprincipio dell’azionabilità delle pretese ver-so l’amministrazione», e tra le due «la pri-ma prevalse sulla seconda» (p. 234).

La conservazione – e successiva molti-plicazione – di numerose giurisdizioni spe-ciali a tutela di quelle situazioni soggettivenon ricadenti nell’alveo dei “diritti civili epolitici”, così come la mancata attribuzionedelle controversie che fossero insorte inordine alla giurisdizione ad un organo dellostesso potere giudiziario, ossia ad una delleCorti di Cassazione esistenti – come si sa,tale competenza venne affidata al Consigliodi Stato –, non sono altro che indici di ine-vitabili deviazioni dalla coerente configura-zione del «tipo di struttura […] e costruttoteorico» adottati (p. 235), entrambi sacrifi-cati sull’altare della necessità politica.

In un contesto che, nella prassi applica-tiva, denotava i limiti intrinseci delle previ-sioni normative, buona parte delle contro-versie è quindi lasciata nelle mani dell’am-ministrazione attiva, nei meandri dellegerarchie burocratiche, facendo risaltareancor di più le aporie del congegno legisla-tivo appena messo in azione. Ma le riformeerano ancora lontane. Nel frattempo, a fron-te di vistose dimenticanze, come l’oblio diuna specifica menzione circa la problemati-ca dei rapporti scaturenti dalla «materia didiritto pubblico relativa ai corpi moralilegalmente riconosciuti» – leggi Comuni eProvince –, non includibili nel cono diproiezione della formula dei “diritti civili epolitici”, si prospettano nuove direttrici disviluppo.

Creato appositamente uno speciale ricor-so al Re, esteso anche al merito dell’affare, è

il Consiglio di Stato che “fatalmente” tende«ad assumere le funzioni di un organosupremo di giustizia nell’amministrazione»(p. 235). Occorre intendersi sul punto. Nes-sun intervento legislativo sancisce tale fun-zione; anzi, scarse furono le voci che «silevarono a reclamare riforme» fino alla rivo-luzione parlamentare del 1876. Pur tuttavia– tra il 1865 e il 1876 – la giurisprudenzarelativa ai ricorsi al Re, a detta degli autori,costituisce il materiale che sarà il punto diriferimento del movimento politico e dot-trinario degli anni ’80 per “la giustizia nel-l’amministrazione”. Ad onor del vero, nem-meno di giurisprudenza in senso proprio sipuò parlare, visto che il Consiglio di Statoemetteva pareri sui quali la risoluzione eraadottata con decreto reale; comunque l’altoconsesso, pur nella consapevolezza – espres-sa nei pareri resi – che il rimedio straordi-nario con il quale si confrontava «non pote-va essere sperimentato a difesa di situazionigiuridiche che già avessero la loro tutela nel-l’azione di fronte ai tribunali ordinari» (p.236), fornisce un contributo nella definizio-ne della posizione deducibile in giudizio – laquale va oltre i “diritti condizionati o affie-volibili” –, sino a giungere ad enucleare ideecome la possibilità di considerare suscetti-bili di protezione «le aspettative legittime,garantite dalla legalità dei procedimentiattraverso i quali si formano gli atti ammi-nistrativi», o quella di «interesse diretto,personale ed attuale» in tema di legittima-zione a ricorrere o, infine, un abbozzo delnucleo concettuale della valutabilità della«legittimità intrinseca del provvedimentoamministrativo oltre la conformità alla leg-ge» (p. 238).

Anche gli autori esprimono cautela nelprospettare tale vicenda, quasi una sorta direviviscenza di una «specie di contenzioso

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amministrativo», ma fanno leva sulla circo-stanza che «niente riuscì ad opporsi a chefunzionasse anche nel nostro ordinamentoun istituto ed un rimedio del quale era sen-tita l’esigenza e che poteva ritenersi consen-tito dalla legge, ove di questa si fosse accet-tato un intelligente adattamento ai bisognipratici della vita» (p. 237).

Nella descrizione di un clima in bilico traaggiustamenti in corso d’opera e surrettiziericomparse non è possibile non far menzio-ne della questione dei conflitti di attribuzio-ne. È attorno ad essa che erano confluite ledisfunzioni del sistema.

Ad un congegno legislativo che avevapressoché relegato nella dimensione dell’ir-rilevante giuridico tutta la sfaccettata e com-posita area degli “interessi”, si erano aggiun-te le pronunce del Consiglio di Stato, questavolta assai meno proficue, che non si eranocerto indirizzate verso un favor10 giurispru-denziale nei confronti della giurisdizioneordinaria.

Ad un’amministrazione sempre prontaad usare l’“arma” della richiesta di verificadella giurisdizione per «sottrarre alla com-petenza dei tribunali ordinari una rilevanteserie di affari amministrativi che coinvolge-vano diritti civili» (p. 238) si associa, dun-que, la “timidezza”11 dei tribunali ordinarinell’opporre resistenza a tale spoliazione –vuoi anche per il pressoché incontestatodominio della distinzione tra atti emanatiiure imperii o iure gestionis quale criteriodistintivo della competenza del giudice ordi-nario a difesa dei diritti – anche a fronte diun atto emanato iure imperii dall’ammini-strazione. Sulla base di queste considerazio-ni risulta facile comprendere come anche lalegge n.3761 del 1877 non poteva risolvere, dasola, le pecche del sistema, valendo piutto-sto «ad eliminare gli inconvenienti maggio-

ri derivanti dalla normativa sui conflitti,restituendo la pronuncia sulla giurisdizione(ché in questa si risolveva la decisione sulconflitto di attribuzione) al suo naturale giu-dice, ossia ad una delle Corti di Cassazione»,nella fattispecie alle Sezioni Unite della Cor-te di Cassazione di Roma (p. 239).

La verità è che il principio dell’unicità digiurisdizione aveva perduto «tutto il suo ori-ginale fulgore» (p. 240), anche agli occhi dicoloro che lo avevano sostenuto, ed era desti-nato ad incontrare ben presto le prime durecritiche ed ostili prese di posizione.

Inizia così un lungo cammino accidenta-to attraverso il quale gli autori ci guidano conmano sicura, sebbene a prevalere, in fondo,sia un taglio espositivo orientato in sensoteorico-dottrinale, capace comunque, conqualche densa e lucida apertura più marca-tamente storico-politica o, talora, con ful-minanti affermazioni, di restituirci delleistantanee del clima entro il quale verrannoa maturare le successive riforme cheapprontano la piattaforma legislativa su cuisi basa ancora, in buona parte, l’assetto del-la giustizia amministrativa.12

Si parte dal vasto movimento politico edottrinario per la giustizia nell’amministra-zione che, singolarmente, trova tra i suoi piùeminenti esponenti personaggi legati alla«parte politica alla quale appartenevano ilegislatori dell’unificazione» (p. 240), tra iquali si può ricordare Silvio Spaventa (l’au-tore del famoso discorso di Bergamo del1880) ed il Minghetti. Indubbiamente vi èuna componente tecnica alla radice di que-sta ricca stagione politico-culturale, legataalle evidenziate anomalie funzionali delsistema messo in piedi nel ’65, ma giusta-mente si sottolinea anche l’importanza del-la mutata percezione delle questioni sul tap-peto susseguente alla svolta politica del ’76.

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Alla base di un rinnovato fervore rifor-mistico si pone la consapevolezza «dell’ine-luttabilità della trasformazione del governoparlamentare in governo di partiti….la con-vinzione al fine raggiunta che la libertà » –prendendo a prestito le parole di Spaventa –«deve cercarsi non tanto nella costituzionee nelle leggi politiche, quanto nell’ammini-strazione e nelle leggi amministrative» (p.240). La necessità di trovare nuovi strumentiinterpretativi della realtà politica del paese,così come mezzi giuridici atti a difendere ilcittadino dai possibili abusi dell’autorità,viaggiano di pari passo, in tale frangente, conun dibattito che coinvolge l’essenza stessadella dinamica statale, in rapporto all’inci-denza di quest’ultima sui termini di defini-zione dei rapporti di peso da instaurare, nel-la cornice di un moderno Stato di diritto, trale diverse componenti del problematicobinomio concettuale libertà-autorità.

La prospettiva tecnico-giuridica non vie-ne sicuramente tralasciata, ed è così che, sul-la scia delle suggestioni del «modello ger-manico», si propone la creazione di una veragiurisdizione amministrativa che, a dispet-to dell’altisonante prospettazione dei pro-blemi sul tappeto, più dimessamente, nelleproposte di Spaventa si sostanzia nella«semplice riforma delle attribuzioni e for-se della composizione del Consiglio di Sta-to, nonché delle attribuzioni giurisdizionalie del procedimento delle Deputazioni pro-vinciali, e allo sviluppo delle facoltà giuri-sdizionali attribuite a parecchie commissio-ni e corpi amministrativi [...] (che) delibe-ravano senza garanzia nessuna di procedi-mento» (p. 241). Una riforma, quindi, tuttainterna al sistema, di palese impronta mode-rata, ben espressiva delle contraddizioni delmodello liberale allora per la maggiore.

Dopo una serie di tentativi andati a vuo-

to, tocca al progetto di legge presentato daCrispi nel 1887, tagliare il traguardo dell’ap-provazione, nel 1889, sancendo, nel dispo-sto della legge n. 5992, l’istituzione della IVSezione del Consiglio di Stato, chiamata adecidere sui ricorsi per incompetenza,eccesso di potere e violazione di legge degliatti amministrativi. A fronte degli elementidi novità sottolineati dagli autori, costituitidall’introduzione della distinzione tra giu-dizio di legittimità e giudizio di merito, del-la precisazione della definizione dei vizi chedavano luogo ad annullamento e delle nor-me stabilite per affermare il principio chel’eccezione di incompetenza della IV sezio-ne comportava la sospensione del procedi-mento ed il rinvio alla Cassazione per la deci-sione sulla giurisdizione, non vengono, però,celate le aporie concettuali ancora sottesealla riforma e che si riverberavano nella pro-fonda incertezza circa la natura giurisdizio-nale o meno dell’organo appena istituito ecirca le posizioni giuridiche soggettive daquest’ultimo tutelate. Gli strali dei critici siconcentravano allora sulla mancata rotturarispetto al sistema del 1865, sul mancatosuperamento del criterio discriminanterelativo agli atti di impero o di gestione, inuna parola – sulla scorta delle preziose infor-mazioni forniteci da Salandra (pp. 243-244)–, nella perpetuazione della configurazionedel Consiglio di Stato come «organo, perquanto eminente, della pubblica ammini-strazione», una sorta di moderatoredell’«azione degli organi minori dell’ammi-nistrazione medesima». Una creatura, quin-di, che «come accade ad ogni istituzione, laquale non rappresenti la razionale e com-pleta effettuazione di un ideale politico o giu-ridico, ma, innestandosi ad istituti preesi-stenti, a torto o a ragione lasciati intatti, sirisolve in una serie di transazioni e compro-

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messi» risultando, a giudizio di alcuni,«opera deficiente ed insufficiente» (ibi-dem).

Ad onor del vero, pur rispecchiando unquadro veritiero per ciò che attiene alle cer-tezze concettuali raggiunte, bisogna peròricordare come tramite questa riforma sifosse recuperata ad una forma di tutela giu-ridica tutta quella vasta area degli “interes-si” che la normativa del ’65 aveva lasciatoscoperta; il che non è certo risultato irrile-vante, considerato anche il quadro politico,caratterizzato da un precario rapporto liber-tà-autorità, entro il quale la riforma venivaad inserirsi. Ciò nondimeno, neanche l’isti-tuzione, nel 1890, delle Giunte provincialiamministrative, con funzioni anche di tri-bunali amministrativi di prima istanza –contro le cui decisioni, peraltro, relativa-mente a materie stabilite con il criterio del-l’enumerazione, ci si poteva appellare alConsiglio di Stato – contribuisce in mododeterminante ad assestare il sistema, se nonaltro per il ruolo residuale cui vengono pre-sto relegate.

Si apre così un’ultima stagione, icastica-mente definita «delle occasioni mancate»,durante la quale assistiamo ai «tentativi fal-liti di correggere le inconseguenze maggio-ri della legislazione del 1865 e del 1889 perdare la coerenza di un “sistema” al disorga-nico insieme di disposizioni» (p. 247).

In un clima tutt’altro che irenico, costel-lato di dotte disquisizioni circa i criteri diriparto della giurisdizione, che vede fron-teggiarsi i sostenitori della teoria del petitumcontro i seguaci della dottrina della causapetendi, di serrati contrasti tra la Corte diCassazione ed il Consiglio di Stato, di com-missioni di studio istituite per la riformadegli istituti di giustizia amministrativa, sidipana una sequela di tentativi di assesta-

mento del sistema. Tentativi, questi, della cuiurgenza non si può certo dubitare visto che,proprio in questo periodo, che si estendedall’età giolittiana alla stagione della ditta-tura fascista, l’amministrazione si impennaverso una crescita quantitativa e qualitativarilevante, per presenza e pervasività di inter-vento, da cui scaturisce la necessità di repe-rire strumenti di tutela delle posizioni giu-ridiche soggettive.

Frutto legislativo di questa stagione saràla legge del 7 marzo 1907 n. 62, che istitui-sce la V sezione giurisdizionale del Consigliodi Stato, cui viene riservata la cd. “giurisdi-zione di merito”, mentre quella di “legitti-mità” è conservata in capo alla IV («inutiledistinzione» la definiscono gli autori), mala vera novità è la definitiva sanzione delcarattere “giurisdizionale” del Consiglio diStato e la qualità di sentenze delle sue pro-nunce.

Ma è ben poca cosa rispetto all’incerto etalora caotico dibattito che anima la prassiapplicativa del sistema. La stessa commis-sione di studi, istituita nel 1910 dal ministroLuzzatti, non vedrà tramutati i risultati delproprio duro lavoro, vivificato dal parallelosvolgersi di un’alta discussione scientificasui temi in questione, in un testo normati-vo. Pur tuttavia le proposte contenute nellarelazione stilata dalla medesima e pubblica-ta nel 1916, dopo la parentesi del primo con-flitto mondiale hanno la ventura di esseretradotte nel decreto n. 2840 del 30.12.1923,le cui disposizioni, coordinate con le normepreesistenti, danno corpo al testo unico delConsiglio di Stato del 1924, affiancato pocodopo dai regolamenti di procedura per i giu-dizi di fronte al supremo consesso ammini-strativo ed alle G. P. A. (su cui peraltro gliautori danno un giudizio poco lusinghiero).

Una travagliata storia legislativa, come

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quella appena descritta, restituisce appienola cifra del tasso di politicità della materia,acuito sia dalla connessa problematica delladefinizione del rapporto libertà-autorità siada una concezione statocentrica propria del-lo sviluppo della tradizione politica delnostro Stato unitario sia dalle inquiete sta-gioni (si pensi solo alle crisi di fine secoloed alla parabola dell’affermazione della dit-tatura) attraverso le quali era passata l’incu-bazione e la maturazione dei tentativi diriforma. Le stesse schermaglie, gli insoliti«concordati giurisprudenziali, i regolamen-ti pattizi di giurisdizione intervenuti tra ilConsiglio di Stato e la Corte Suprema di Cas-sazione» (p. 250) (si pensi a quello famosotra Mariano D’Amelio e Santi Romano) sonotestimonianza patente di un sistema inperenne “fase di transizione”, sempre inbilico fra tenaci continuità e sofferte muta-zioni, sostenuto «dalla stessa giurispruden-za, dalla viva realtà delle cose e dalla concre-ta esperienza dei giudici» (p.250), di unsistema continuamente discusso ancheall’indomani di ogni trasformazione e che,con tutte le sue “tare”, è riuscito comunqueanche nelle stagioni più difficili a garantireuna certa tutela a difesa dei cittadini. Il pro-sieguo di questa vicenda si proietta diretta-

mente verso l’odierna prassi giurisdiziona-le della nostra realtà repubblicana.

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Mario SBRICCOLI, Polizia (diritto interme-dio), in Enciclopedia del diritto, Milano, Giuf-fré, 1985, vol. XXXIV, pp. 111-120.

Achille CHIAPPETTI, Polizia (diritto pubbli-co), in Enciclopedia del diritto, Milano, Giuf-fré, 1985, vol. XXXIV, pp. 120-158.

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1 O. Mayer, Le droit administratifallemand, edition française parl’auteur, Paris, V. Giard & E. Briè-re libraires-èditeurs, 1903, t. I,pp. 23-24.

2 Si tratta della famosa successionedescritta in O. Mayer, Le droitadministratif, cit., pp. 24-82, chevede l’affermarsi progressivo dei«régime des droits de supériorité duprince (landesherrliche Hoheit-srechte) […] le régime qui suit, quiest caractérisé par la prépondérance

de la police (Polizeistaat) […] [finoa] l’Etat soumis au régime du droit(Rechtsstaat)»; per una acuta con-testualizzazione delle logiche sot-tese a tale tipologia ricostruttivanell’ambito della dottrina ammi-nistrativistica classica nonché perlimpide osservazioni sui contenu-ti ed i destini dell’espressione“diritto amministrativo”, si veda lapremessa («La parola e la cosa»)della prima parte del volume di L.Mannori – B. Sordi, Storia del dirit-

to amministrativo, Roma-Bari,Laterza, 2001, pp. 5-16.

3 Basti citare, al riguardo, le consi-derazioni fatte da L. Mannori, Giu-stizia e amministrazione tra antico enuovo regime, in R. Romanelli (acura di), Magistrati e potere nellastoria europea, Bologna, Il Mulino,1997, specie pp. 41-46.

4 Merita riportare le parole dell’au-tore, M. Sbriccoli, Polizia (dir.interm.) in Enc. del dir., Milano,Giuffrè, 1985, vol. XXXIV, p. 117: «

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[…] nel dibattito settecentesco lapolizia – sia che agisca per la sicu-rezza, sia che operi per il benesse-re – ha il preciso compito di osser-vare, controllare, informare, pre-venire. Compiti di governo, che siaggiungono a quelli più specificiche riguardano la repressione del-le attività criminali e la funzione dipolizia giudiziaria».

5 Si veda, in tema, il saggio di B. Sor-di, Police/Policey. Linguaggi comunie difformi sentieri istituzionali nelpassaggio dalla polizia di antico regi-me all’amministrazione moderna, in«Quaderni fiorentini per la storiadel pensiero giuridico moderno»,XXVI (1997), pp. 625 ss., ricco diperspicue osservazioni.

6 Cfr. L. Mannori – B. Sordi, Storiadel diritto amministrativo cit, p. 10.

7 L. Mannori, I contenziosi ammini-strativi degli Stati preunitari italianie il modello francese. Riflessioni espunti per un possibile studio compa-rato, in «Jahrbuch für europäischeVerwaltungsgeschichte», II(1990), pp. 139 ss.; saggio al qua-le, unitamente a G.S. Pene Vidari,Giustizia amministrativa (storia), in

Digesto delle Discipline Pubblicisti-che, vol. VII, ad vocem, Torino,Utet, 1991, si rinvia per una tratta-zione sinottica dell’argomento.

8 Non potendoci soffermare sulpunto si rinvia alle perspicue sin-tesi contenute nei saggi di J.L.Mestre, P. Alvazzi del Frate, P.Aimo inclusi nel volume Constitu-tion et Revolution aux Etats-Unisd’Amérique et en Europe (1776/ 1815),sous la direction de Roberto Mar-tucci, Macerata 1995; nonché allarassegna storiografica di S. Man-noni, Giustizia amministrativa, in«Storia Amministrazione Costitu-zione», Annale ISAP, 5/1997, pp.192-197.

9 Traggo la suggestione dalle rifles-sioni svolte al riguardo da R. Mar-tucci, L’ossessione costituente. For-ma di governo e costituzione nellaRivoluzione francese (1789-1799),Bologna, Il Mulino, 2001, pp.26–30; cfr. pure il saggio di F. Bur-deau, Pouvoir administratif et droitpublic français I. Le sens de l’expé-rience administrative de la révolu-tion, in «Giornale di storia costi-tuzionale», 2/2001, pp. 33 ss.

10 Sul punto si vedano i contributiinclusi in, Archivio ISAP, n.s., n.6, Le Riforme crispine, vol. II, Giu-stizia amministrativa, Milano,Giuffrè, 1990.

11 Si aprirebbe qui il capitolo riguar-dante il grado di autonomia e diindipendenza dei membri dell’or-dine giudiziario, che non è possi-bile in questa sede affrontare, seb-bene sia stato da taluno giusta-mente richiamato all’attenzionecome variabile incidente sul fun-zionamento del sistema, sicura-mente degna di accurata analisi;cfr. M. Nigro, Giustizia ammini-strativa, IV ed., Bologna, Il Muli-no, 1994, pp. 66-69.

12 Sugli aspetti che verranno esami-nati nel prosieguo del testo d’ob-bligo il rinvio al volume di B. Sor-di, Giustizia e amministrazione nel-l’Italia liberale. La formazione dellanozione di interesse legittimo, Mila-no, Giuffré, 1985; nonché all’agilericostruzione, distesa su un piùlungo arco temporale, di P. Aimo,La giustizia nell’amministrazionedall’Ottocento a oggi, Roma-Bari,Laterza, 2000.

Virtute e Conoscenza

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1. Auto-esercizi di editing per un romanzoimpubblicabile

«… Così, non preoccupatevi. Avrete il tele-grafo a vostra disposizione»1. Con questorassicurante viatico, Lucien Leuwen, giova-ne referendario, addetto al gabinetto parti-colare del ministro dell’Interno de Vaize, siaccinge a partire per una impegnativa, qua-si disperata, tournée elettorale. Eh sì, perchéil protagonista emblematico della secondaparte del Lucien Leuwen è il telegrafo, onni-presente reificazione di tutto ciò che per ilconsole Henri Beyle evoca speculazionefinanziaria, corruzione politico-elettorale,prevaricazione amministrativa: insomma,tutte le tare, tradizionalmente enfatizzate,della Monarchia di Luglio.

Non meraviglia quindi che uno degli ottotitoli che Stendhal ha attribuito generosa-mente a singole parti di quell’imponentemanoscritto di duemiladuecento fogli cheper convenzione chiamiamo Lucien Leuwensia appunto «Il Telegrafo». L’indecisionesulla scelta del titolo non è ovviamente

casuale e testimonia anzi dell’assolutaimportanza che l’autore di volta in volta asse-gna all’opera in progress.

Ogni titolo, infatti, rievoca memorie,luoghi e atmosfere particolari (Le ChasseurVert, Le Bois de Prémol, L’Orange de Malte)oppure connotazioni letterarie e politichenon meno importanti: si tratti de Le Rouge etle Blanc (o di L’Amarante et le Noir), idealeprosecuzione del più celebre romanzostendhaliano del 1830, o ancora del ricorda-to Le Télegraphe. Alla fine il romanzo pren-derà il suo nome dal protagonista, facendoprevalere un titolo in apparenza più “sem-plice” e dal sapore vagamente settecentesco(come l’ammirato Tom Jones di Fielding),essendo gli altri al contrario troppo legati asingoli aspetti del romanzo.

Il Lucien Leuwen è stato a lungo (ma l’e-quivoco è duro a morire) considerato untesto incompiuto, un mero progetto roman-zesco, anche se di così massicce proporzio-ni; tecnicamente potrà anche esserlo, seappena si considera che l’opera manca di unaimmaginata terza parte ambientata a Roma e

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Il telegrafo di Stendhal. Politica ed elezioni nel «Lucien Leuwen»ai tempi della Monarchia di Luglio

luigi lacchè

giornale di storia costituzionale n. 4 / II semestre 2002

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con un possibile, ma poco probabile, happyend.

Eppure, gli anni che vanno dal discretosuccesso de Il Rosso e il Nero al capolavoro LaCertosa di Parma non possono essere deru-bricati sotto la voce dell’incompiutezza, del-l’abbozzo, del mero progetto. Il fatto è che inStendhal/Henri Beyle – il re insuperabiledegli egotisti – il confine tra il reale e il con-tingente e la vita vissuta nella pagina lettera-ria non risponde a nessun schematismo edè impossibile dire quanto l’incompiutezzasia una necessità e quanto invece il risultatodi una fin troppo cosciente volontà poetica.

Sin dal 1831 Stendhal ha deciso di nonpubblicare più e si può forse parlare di duelivelli di impubblicabilità, l’uno più vistoso,come nel caso del Lucien Leuwen romanzopolitico, l’altro invece legato al tono speri-mentale, al registro stilistico, alla ricerca dialtri modelli2.

Il romanzo in questione nasce, come granparte dell’opera di Stendhal, da una singola-re sollecitazione letteraria. Nel dicembre1833 Henri Beyle torna all’ufficio di conso-le nell’odiata Civitavecchia portandosi dietroun manoscritto che l’amica parigina Mada-me Gaulthier – semplicemente Jules per loscrittore – gli ha affidato per una consulen-za “professionale”. Il testo parla della vita edegli amori di un tenente (da qui il titolo: LeLieutenant) in una città di provincia. La tra-ma non è certo originale per Stendhal (bastipensare ad un abbozzo del 1825 nel suo Raci-ne et Shakespeare).

Nella circostanza l’amico è severo, se noncrudele, come lui stesso sottolinea in unalettera del maggio 1834. Uno dei consigliriguarda proprio il titolo: sarebbe bene cam-biarlo in Leuwen o l’allievo espulso dall’EcolePolytechnique. In esso c’è già il primo nucleotematico e l’incipit del romanzo stendhalia-

no. Ormai è evidente che sarà Stendhal ascrivere il suo romanzo (all’inizio è L’Orangede Malte); nell’arco di più di un anno vi lavo-ra, corregge e riscrive, si arresta infine allaseconda parte. Il manoscritto diventerà peri decifratori stendhaliani un notevole rom-picapo, tante sono le note, le trappole, leambiguità, i messaggi di cui è infarcito.

Tanto il manoscritto dell’amica è pesan-te, enfatico, falso nei toni tanto il registroche Stendhal ricerca è quello della semplici-tà e dell’asciutezza. «È scritto come il codi-ce civile. Ho orrore della frase alla Chateau-briand», scrive alla fine del 1834 a Sain-te-Beuve annunciandogli il suo nuovoromanzo.

2. Un console della Monarchia di Luglio

Giungeva a Roma senza ambizioni, solo per pas-sare dieci anni senza troppi fastidi e poi tornare aParigi o altrove a finire la sua vita, in una condi-zione un po’ superiore a quella della povertà3.

In questo passaggio di un romanzo abban-donato al terzo capitolo – Une position socia-le4 – si può leggere l’attitudine esistenzialedel signor Henri Beyle (e quindi del prota-gonista Roizand) che si sta avvicinando aicinquant’anni, nel suo futuro scorge soloun’orrida vecchiaia (d’altronde, non è giàvecchio?), costretto a vivere in un borgoputrido di pescatori e galeotti, lontano dalpalcoscenico parigino, in un’Italia che siavvia a perdere del tutti il fascino dell’inno-cenza.

Il consolato a Civitavecchia è ovviamen-te un ripiego (cfr. M. Crouzet, Stendhal. Ilsignor me stesso, cit., in particolare capp. X-XI).

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Ha dovuto subire una cocente delusionenell’agosto del 1830 quando François Gui-zot5, ministro dell’Interno nel governo prov-visorio che guida la transizione al regimeorleanista, gli rifiuta una prefettura qualsia-si. Nella febbre d’ambizione che lo colpisce,Stendhal ha sperato per un momento dipoter rinverdire gli antichi fasti dell’ammi-nistratore napoleonico.

Eppure, lo scrittore dal riso beffardo edall’esprit troppo spiccato ha ben poco daspartire con quei duri dottrinari che percarattere e visione letteraria non lo amano,riproponendo, nel significato esistenzialeprima ancora che politico, quella dialetticatra resistenza e movimento che contrassegne-rà l’intero sviluppo della Monarchia diLuglio6.

Beyle però ricerca una più tranquilla«condizione sociale», avendo di fronte l’al-ternativa tra una vita parigina tutta lettera-tura, tardiva bohème e sguarnite stanze inaffitto e una carriera di funzionario che gliassicuri un minimo di sicurezza materialeper una vecchiaia incombente. La scelta glisembra alla fine obbligata, ma il prezzo dapagare è l’esilio a Civitavecchia, inseguitoovunque dalle polizie e dalle spie di quasitutti gli Stati italiani, male accolto nel Pon-tificio, costantemente sospettato di chissàquali complotti. Stendhal, però, non puòneppure amare il regime orleanista che pure,in vari momenti, lo protegge, più per difen-dere il suo pericolante prestigio internazio-nale che la carriera dello scrittore.

Non si attende più nulla, se non di potervivere come Roizand «senza troppi fastidi»,restando il meno possibile nel porto tirre-nico, cercando di soggiornare a Roma oarchitettando una ininterrotta strategia dicongedi che lo riportino a Parigi. La memo-ria e il passato diventano i suoi veri orizzon-

ti: vivere è diventato impossibile, non restache ricordare; e l’Io diventa il protagonistaassoluto.

3. I piani di lettura di un romanzo politico

La trama del Lucien Leuwen è, se così si puòdire, tipicamente stendhaliana. Al centro ungiovane eroe, come Julien Sorel o Fabrice delDongo, costretto a vivere in un’epoca nellaquale sembra possibile per i protagonistiamare solo donne ultras, accostandosi amondi rinserrati in un passato che non puòritornare, dovendo fare i conti, più prosai-camente, con una società “democratizzata”sempre più attratta da un presente fatto dicinismo e di mediocrità.

Come può un giovane eroe che si pensa-va duro e inetto e scopre invece di possede-re un cuore, sfuggire al destino che gli negala possibilità di essere felice in quel precisocontesto storico?

Lucien è figlio di un ricco banchiere,libertino, vivace, abile, tanto spiritoso dadetestare chi è privo d’esprit, e di una madresalottiera e sensibile. Espulso dal Politecni-co «come repubblicano» lascia Parigi perintraprendere senza convinzione la carrieramilitare.

La vita di guarnigione a Nancy è quanto dipiù squallido e meschino ci possa essere, dacondividere con ufficiali di cui è ormaiimpossibile riconoscere i tratti eroici deiprodi soldati di Napoleone. L’isolamento èassoluto e l’aristocrazia ultra detta i tempi, iriti e gli stili di una vita provinciale molto piùlontana da Parigi di quanto non dica la geo-grafia. Se non ci fosse una Madame de Cha-steller, vedova bellissima, ambitissima efacilmente idealizzabile, che Lucien intra-

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vede un giorno dietro una finestra del palaz-zo avito, il nostro eroe non si sottoporrebbea nessuno dei “sacrifici” necessari per intro-dursi – lui borghese e figlio di un disprezza-bile banchiere del juste-milieu – negliambienti legittimisti.

Lucien, che veste così bene l’uniforme –scopriranno presto le gran dame di Nancy –è elegante, ha modi raffinati, è còlto e sevuole sa essere spiritoso, ed è per di più ric-chissimo: dopotutto un ottimo partito perfiglie in età da marito in una città di provin-cia… Tuttavia, i nobili senza qualità che spe-rano di mettere le mani soprattutto sulcospicuo patrimonio di Madame de Chastel-ler, menati per il naso da un rozzo e astutoplebeo, il dottor du Poirier capo dei legitti-misti della zona, cominciano a vedere inLucien un pericoloso concorrente.

L’ingenuo Lucien cade nell’inverosimiletrappola escogitata da du Poirier: questi gli facredere che la donna angelicata in realtà staper dare alla luce un figlio concepito con unaristocratico suo amante. La fuga da Nancy,con Lucien sconvolto ma ancora innamora-to dell’inconsapevole Madame de Chastel-ler, chiude la prima parte del romanzo.

La seconda, come si è detto, si svolge traParigi, dove il padre banchiere vuole perLucien una carriera politica e un’appendiceamorosa con l’altrettanto bella signoraGrandet, moglie giovanissima di un riccofinanziere e perfetta antitesi dell’aristocra-tica lorenese, e le missioni elettorali in pro-vincia.

La morte del padre, il fallimento dellabanca di famiglia e la partenza di Lucien perraggiungere il posto di secondo segretariod’ambasciata che il ministro della Guerra havoluto fargli avere come pagamento di undebito d’onore verso suo padre, segnano larapida conclusione del romanzo.

Come si può intuire da questa trama, purridotta all’essenziale, Stendhal nel LucienLeuwen, più che in ogni altro suo romanzo,adotta un registro che passa dal sublime, dal-l’amore assoluto per Madame de Chasteller,ai meandri fangosi della politica, in una ine-sorabile discesa verso il basso7. La comme-dia trova in questo romanzo più libero sfogoe il ridicolo diventa spesso la lente permostrare i dilemmi della letteratura nellanuova società democratica8.

Non sorprendono le assonanze con lacommedia umana di Balzac o con l’educazio-ne sentimentale di Flaubert. Alcune pagineambientate a Nancy o il viaggio in provinciadella seconda parte tra prefetture e collegielettorali rivelano caratteri di satira socialee politica che si possono ritrovare in Dic-kens9 o nello specchio grottesco di Gogol’.

Lucien è troppo ricco per amare il dena-ro, vorrebbe una vita diversa, ma non ha vereambizioni: «vorrebbe tanto desiderare qual-cosa, ma non sa cosa…» (M. Crouzet, Stend-hal, cit., p. 736).

Per il padre quell’aria seria e triste da gio-vane innamorato deluso lo fa apparire unpovero sansimoniano… In fondo Lucienvorrebbe vivere a Parigi, solo per qualchesettimana all’anno10, come fosse uno stra-niero, impegnando il resto in un vagabon-daggio perenne e quasi senza meta11. «Sonoun bambino» piagnucola Lucien rivolto alsuo compagno di viaggio durante la missio-ne elettorale.

No, – gli risponde – voi siete un fortunato del seco-lo, come dicono i predicatori, e non avete mai avu-to compiti spiacevoli (Lucien Leuwen, cit., cap. L,p. 605).

Viziato, in modo diverso, dal padre e dal-la madre, è – come accade spesso in Stendhal– di un altro secolo, ma deve vivere nel suo.

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Qual è il carattere di Lucien? – si domanda Stend-hal in una annotazione – Non ha certo l’energia el’originalità di Julien. Ciò è impossibile nellasocietà (del 1835 e con ottantamila franchi di ren-dita). (Appendici a Lucien Leuwen, in Romanzi e racconti,cit., vol. II, cit., p. 1248).

La vie élegante – come in Balzac – è unmodo di stare al mondo che anticipa l’atteg-giamento del dandy di fronte alla noia diun’esistenza sociale che tende sempre più auniformare le condizioni umane12.

Stendhal, come si è visto, inizia il roman-zo ricordando per bene che Lucien è statocacciato dall’École polytechnique per aver pre-so parte ad una non meglio precisata mani-festazione repubblicana. Gli aspiranti inge-gneri godevano di questa fama, almeno fin-tantoché durava il loro duro tirocinio. Ineffetti, l’espediente è ottimo: Lucien nonpuò “non essere” una di quelle teste matteche simpatizzano per i repubblicani, salvopoi provare insuperabili perplessità verso diloro. L’incipit ironico, del resto, mostra subi-to che il Lucien Leuwen è un grande roman-zo politico. In tal senso, però, contiene varilivelli di lettura politica, dalla riflessione suipresupposti socio-economici della politicapassando per le sue componenti strutturali,“partitiche”, per arrivare infine alle proce-dure e alle forme di organizzazione e digestione del consenso in un sistema censi-tario e notabiliare.

Lucien è stato dunque espulso «comerepubblicano» e pensa, come Stendhal, chela corrotta Monarchia di Luglio possa cade-re presto per mano della repubblica i cuiscarsi seguaci hanno il merito di essere pro-bi e virtuosi ma persistono testardamentenella mania “costruttivista” di voler ripla-smare i Francesi, trasformarli in angeli anzi-

ché farli vivere secondo le loro inclinazioni(Lucien Leuwen, cit., capp. VI; XXXVII, p.430; L, p. 615; LII, p. 659).

Lo scetticismo stendhaliano si nutre diuna importante ragione estetico-letteraria.L’eco della prima parte de La démocratie enAmérique è evidente. L’America diventa ilparadigma della democrazia sociale, quellasorta di specchio nel quale i Francesi piùavvertiti possono già scorgere caratteri e tra-sformazioni che la Rivoluzione, con altrimezzi, ha reso in Francia irrevocabili.

Stendhal è per l’eguaglianza, ma tende adisgiungerla dalla condizione democratica.Nelle diverse prefazioni che lo scrittore ha

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Il telegrafo Chappe

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previsto per il romanzo è ricorrente la criti-ca della democrazia americana. Per Stendhalè preferibile dover corteggiare un Guizotministro dell’Interno per ottenere una pre-fettura piuttosto che il droghiere o il calzo-laio dell’angolo.

Nel XIX secolo – aggiunge – la democrazia portadecisamente nella letteratura il predominio dellagente mediocre, ragionevole, limitata e piatta, let-terariamente parlando (Lucien Leuwen, cit., pp. 69-70, 72, prima e terzaprefazione).

Nel romanzo poi si coglie anche il latostrettamente politico di questa preoccupa-zione: la maggioranza, in virtù del suffragiouniversale, è un nuovo tiranno.

Gli uomini non sono soppesati, ma contati, e il votodel più rozzo degli artigiani vale come quello di Jef-ferson, e spesso incontra maggiore simpatia… (Lucien Leuwen, cit., cap. LXIII, p. 773. V. anchecap. IV, p. 106; cap. VI, p. 142).

Un’osservazione, questa, che FrançoisGuizot, e con lui una gran parte dei liberalidell’epoca, avrebbero sottoscritto con uncerto entusiasmo.

Stendhal è ben consapevole della con-traddizione. Come Lucien rimpiange l’âged’or della conversazione13, teme che le ideeraffinate dei letterati possano venire som-merse dalla mediocrità democratica. Prefe-rirebbe trovarsi nel salotto frequentato daTalleyrand piuttosto che conversare con unirreprensibile ma noioso Washington.Insomma «… ho bisogno dei piaceri chepuò dare un’antica civiltà…» (Lucien Leu-wen, cit., cap. VI, p.142). L’arte è un fatto eli-tario e la democrazia, in quanto regimesociale di uniformità e conformismi, credeStendhal, minaccia lo status dell’artista e lasua libertà creativa.

Il mio destino è dunque quello di passare la vita traun gruppo di legittimisti terribilmente egoisti ecompiti, che adorano il passato, e dei repubblica-ni, terribilmente generosi e noiosi, che adorano ilfuturo. (Lucien Leuwen, cit., cap. XI, p. 213).

Se la forma repubblicana e la democraziarappresentano un orizzonte ravvicinato einevitabile, il giudizio politico di Lucien suilegittimisti non è meno severo. Del resto laprima parte del romanzo è un de profundis –come già Il Rosso e il Nero – per gli adoratoridel passato, questo sì inesorabilmente tra-montato, malgrado una loro persistenteinfluenza sociale e politica a livello locale. SeLucien si abbona ai giornali legittimisti efrequenta il covo dei gesuiti, dissimulandole sue vere opinioni, cherchez la femme: solol’attrazione per Madame de Chasteller puòtanto.

L’abbiamo visto, neanche a dire che unpersonaggio “anacronistico” come Lucienpossa accettare un destino così diverso dal-la sua sensibilità e indeterminatezza caratte-riale. Ma che altro può essere il figlio unicodi un banchiere, stereotipo del nuovo ordi-ne politico della Monarchia di Luglio? Que-sto destino il giovane rampollo lo rifiuta,anche perché a ben vedere il padre è un sin-golare finanziere che mette il motto di spi-rito e la beffa al di sopra del denaro (che pos-siede in abbondanza) e la madre sembra piùuna dama borghese e còlta del Settecento chenon una qualsiasi Madame Grandet delromanzo ottocentesco. Lucien, come Stend-hal, paradossalmente non può essere altro–e qui sta il problema - che «un fautoremoderato della Carta del 1830» (Lucien Leu-wen, cit., prima prefazione, p. 69).

Non lo possiamo vedere né negli abiti delrepubblicano, né in quelli del sansimonia-

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no, né tanto meno del legittimista. Che cosagli resta dunque? La realtà, ovvero il juste-milieu a cui appartiene per nascita. Lo spec-chio14 di Stendhal, per utilizzare un’imma-gine cara alla sua poetica, riflette e distorceal tempo stesso, «raffigurare le abitudinidella società attuale» significa comunquelasciarsi andare alle dolci illusioni dell’arte.(Lucien Leuwen, cit., prima prefazione, pp.69-70).

La seconda parte del romanzo è unehistoire des moeurs politiques del regime orlea-nista scritta da un funzionario isolato, delu-so, intristito. Stendhal traccia un ritrattoduro, beffardo, a tratti spietato del nuovoordine. Il salotto affollato e mondanissimo diMadame Grandet – «…quest’anima dacameriera ospite di un corpo così bello»(Lucien Leuwen, cit., cap. XLVII, p. 546) – èla quintessenza grottesca del trionfantemilieu politico-finanziario. Lucien deve amalincuore frequentarlo: del resto gli homi-nes novi – coloro che come dice suo padrerappresentanto la nuova nobiltà guadagnataschiacciando o truffando la Rivoluzione diLuglio – saranno pure ridicoli e rozzi, macostoro, a differenza dell’antica aristocraziaparalizzata dal passato e ossessionata dallaRivoluzione, agiscono, vivono. Fin troppo.

Nella seconda parte Stendhal accentua ilcarattere dell’attualità politica. Si prendegioco del King Philippe (memorabile l’epi-sodio del colloquio del re col padre diLucien), dei ministri, della loro condottapolitica. Nella rete di annotazioni che inter-fogliano i manoscritti, Guizot diventa Zotguio Zogt, l’odiato Thiers è 1/3, D’Argout diven-ta Nez, il nasone, ed è la figura che gli ispirail ministro de Vaize. In questa parte Stend-hal mette insieme fatti realmente accaduticon trasfigurazioni e reinvenzioni, quasi avoler rafforzare il carattere di pressante

attualità politica del romanzo. Del tutto tra-sparente è l’ispirazione offerta da persona-lità politiche di spicco come Guizot, Thiers,D’Argout, il maresciallo Soult, il ministrodegli esteri de Rigny. Nello stesso tempo,Stendhal allude più volte ad alcuni dei fattipiù tragici dei primi anni del regime: l’in-surrezione operaia a Lione, il massacro del-la rue Transnonain a Parigi («…la vostrabattaglia di Marengo è la spedizione di rueTransnonain…», dice du Poirier a Lucien –Lucien Leuwen, cit., cap. VIII, p. 173), e alcu-ni scandali politici e finanziari.

Stendhal scrive il romanzo nella sua con-dizione di console isolato, spiato e infelice;segue la politica francese “da lontano” attra-verso i giornali che un consigliere d’amba-sciata gli lascia vedere o grazie alle lettere diqualche amico ben informato. L’immagineè prevalentemente farsesca e, per numerosiaspetti, si direbbe oggi, impolitica.

Finché per vivere sarò costretto a servire il Bilan-cio, non potrò print it, perché ciò che il Bilanciopiù detesta è che si faccia mostra di avere delleidee15.

Il romanzo è sotto questo aspetto rigoro-samente impubblicabile almeno finché loscrittore dovrà vivere a spese del Bilancio:solo la fine del regime – che preconizza –potrebbe consegnarlo al lettore.

4. Il telegrafo

«Perché mettere le mani su quella macchi-na diabolica?» si domanda Lucien dopoaverne fatto ampio uso durante le sue mis-sioni elettorali. Questa macchina in effetti,come già anticipato, è l’allegoria che domi-

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na la seconda parte del romanzo. Lasciataprecipitosamente la carriera militare, fug-gito da Nancy innamorato e disgustato altempo stesso, a Parigi Lucien si vede offrireuna penosa alternativa: l’impiego in banca ol’ingresso nel gabinetto particolare dell’a-spirante ministro dell’Interno de Vaize.

Lucien sceglie la politica, poiché non amail denaro. Ma per fare la politica, secondoStendhal, bisogna essere un po’ furfanti. Sitratta però di una furfanteria particolare.

Tra dieci anni saprete – osserva il padre banchie-re – che Colbert, Sully, il cardinale Richelieu, inbreve, tutti coloro che sono stati uomini politici,vale a dire che hanno diretto gli uomini, hannoraggiunto per lo meno quel primo grado di fur-fanteria che vorrei vedere in voi. (Lucien Leuwen, cit., cap. XXXVI, p. 430).

Lucien accetta l’offerta, ma a tempodeterminato, ovvero per non più di diciottomesi. Il padre si prova allora a fargli un cor-so accelerato sulle «cose sporche» dellapolitica, sulle menzogne necessarie, sullemene elettorali.

Il governo fa sparire i diritti e il denaro della popo-lazione giurando ogni mattina di rispettarli… Maila verità pura e semplice. Guardate i dottrinari. (Lucien Leuwen, cit., cap. XXXVIII, pp. 439-440).

Con queste istruzioni Lucien prende pos-sesso della sua scrivania al ministero, rico-prendo una sicura e promettente posizione dipotere. Il ministro conte de Vaize è per Stend-hal un prototipo dell’homme politique del regi-me orleanista, ambizioso, vanitoso, menzo-gnero e soprattutto molto interessato al dena-ro. Il ministro dell’Interno ha dalla sua alme-no due armi temibili: ottantasei prefetture eil telegrafo. Bisogna però saperli utilizzarequesti strumenti. De Vaize, al primo incontrocon Lucien, finisce con l’elogiare

la probità del suo predecessore, il quale – notaStendhal - aveva la fama di aver messo da parteottocentomila franchi in un anno di ministero. (Lucien Leuwen, cit., cap. XLI, p. 463).

Una delle prime riflessioni che il nuovolavoro suggerisce a Lucien è la seguente:

Impariamo, dunque, se non a rubare, per lo menoa chiudere un occhio sui furti di Sua Eccellenza,come tutti questi impiegati che ho conosciuto oggi.(Lucien Leuwen, cit., p. 465).

Il ministro ha il telegrafo, e tuttavia habisogno della competenza di una banca d’af-fari per speculare in Borsa giacché è proprioquesto che sta a cuore a de Vaize: trasforma-re le notizie che gli giungono in anteprimaattraverso la «macchina diabolica» in dena-ro sonante frutto di abili speculazioni in Bor-sa sui corsi e sulle rendite pubbliche. Ilministro non può fare a meno del padre diLucien.

Correte da vostro padre… Ma prima copiate que-sto dispaccio telegrafico… Copiate, per favore,anche questa nota che mando al «Journal deParis»… Capirete tutta l’importanza e la segre-tezza della cosa…(Lucien Leuwen, cit., p. 470).

Lucien fa la spola tra il ministro e suopadre, per mettere a segno le speculazioni.Se il banchiere, oltre a guadagnarci del suo,ha così posto le basi per la carriera del figlio,il ministro pensa di trarne enormi guadagni.L’altero e grossolano de Vaize, che sa di poterdare ordini a tutti, si trova a malpartito conquel banchiere che non ama «abbastanza ilmetallo per avere troppi riguardi»; FrançoisLeuwen lo tiene sulla corda, perché il mini-stro dipende molto più da lui di quanto ilfiglio non dipenda da de Vaize16.

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5. Le missioni elettorali

Se Lucien accetta l’incarico di agente eletto-rale è perché in fondo vive la sua nuova posi-zione come una corvée impostagli dal padre ein ultimo come una sorta di inevitabile auto-flagellazione dopo il fallimento di Nancy…Non serve con lui evocare il nome del re17, néil prestigio del governo, né ovviamente ilguadagno personale. Alla fine accetta laduplice missione elettorale a condizione che«non ci sia del sangue». Bisogna dapprimaandare nello Cher, a Champagnier. Qui sitratta di far vincere il signor Blondeau. Nondovrebbe essere difficile, visto che il suoavversario Malot è un fanfarone impruden-te e vacuo. Del resto, Lucien non vi giunge-rà a mani vuote: avrà da distribuire denaro,tre rivendite di tabacchi e probabilmente duedirezioni di uffici postali. Potrà inoltre fardestituire chi vorrà.

Trattate con riguardo la vecchia nobiltà e il clero:fra loro e noi c’è solo la vita di un bambino. Nes-suna pietà per i repubblicani… (Lucien Leuwen, cit., p. 565).

È a Caen, nel Calvados, che Lucien incon-trerà ben altri ostacoli.

Occorre impedire a tutti i costi che venga elettoMairobert. È un uomo intelligente e brillante; conuna dozzina di teste come la sua, la Camera diver-rebbe ingovernabile. Vi do più o meno carta bian-ca in fatto di denaro, posti da assegnare e destitu-zioni18.

Il prefetto del luogo ha già provveduto ascrivere un pamphlet diffamatorio. Tuttavia,dice il ministro, è bene che vengano distri-buiti libelli stampati altrove e commissiona-ti per l’occasione; Lucien ne porterà con sédiverse centinaia di copie. L’ultima racco-

mandazione per il giovane impetuoso refe-rendario è di non irritare i prefetti, anche sepoi Lucien ottiene di poter corrispondereper telegrafo col ministro senza dover sotto-porre i dispacci a queglialti funzionari.«Così, non preoccupatevi. Avrete il telegra-fo a vostra disposizione».

La sera stessa Lucien parte alla volta del-lo Cher assieme a Coffe, un suo ex-compa-gno del Politecnico che aveva voluto con sé alministero dopo averlo tirato fuori da Sain-te-Pélagie, il carcere dei debitori. L’iniziodel viaggio è emblematico di ciò che li atten-de. Mentre cenano in una locanda di Bloisun gruppo di persone cerca di saccheggiarela loro carrozza. Arrivando i nostri hanno,infatti, inavvertitamente seminato per stra-da i pamphlet elettorali di cui il mezzo eraingombro. La folla li apostrofa minacciosa-mente: «Abbasso la spia, abbasso il com-missario di polizia». Lucien riceve in facciauna palata di fango. Gli insulti feroci degliastanti lo rendono pazzo di collera, e la fugaignominiosa è una discesa agli Inferi. «Ilfango e i torsoli di cavolo piovevano da tuttele parti sul calesse» (Lucien Leuwen, cit., cap.XLVIII, p. 571).

Solo la calma di Coffe riesce a lenire ilpianto di rabbia di Lucien e i suoi propositidi abbandonare la missione.

È solo in provincia – dice il saggio Coffe – che ilministeriale si accorge del disprezzo che gli con-cede generosamente la maggioranza dei france-si…(Lucien Leuwen, cit., p. 581).

Dopo la ritirata da Blois i nostri eroi fan-no subito rotta verso la prefettura di desti-nazione. Il signor de Riquebourg li riceve inberretto da notte mentre sta gustando unasaporita frittata. Il Lucien Leuwen è, tra lealtre cose, anche un saggio tipologico sulle

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figure dei prefetti e sui loro uffici. Il prefet-to di Nancy, Fléron, era un giovinastro vani-toso, untuoso, e corrotto, con in testa unaprefettura più importante o, meglio ancora,una direzione generale parigina da quaran-tamila franchi. Il prefetto dello Cher nelmentre riceve gli ospiti già si profonde in unageremiade e invoca subito la protezione del-l’onnipotente «commissario alle elezioni»:

Il mio posto, signori, è appeso a un filo; se non miprotegge un po’ sua eccellenza, per me è un dis-astro(Lucien Leuwen, cit., cap. XLIX, p. 583).

Naturalmente de Riquebourg presenta ilcollegio, di media entità, come estremamen-te difficile e con un voto dall’esito incerto. Ildipartimento sarebbe dunque un covo dioppositori, annoverando ben 27 abbonamen-ti al National e 8 alla Tribune. Ma il diabolicoprefetto sa il fatto suo e vuole dimostrarlo alcommissario elettorale. Come impedire l’ele-zione del candidato Malot, commerciante dilegname e stoffe? Anzitutto facendo credereche è prossimo al fallimento per via di certicattivi affari. Nel suo piano il telegrafo è ilmezzo lungo il quale corre la diffamazione. Ilprefetto fa in modo di impedire che un talenon diventi presidente del collegio, facendo-lo bloccare dai gendarmi. Lui invece sarà pre-sente nei locali del seggio elettorale indos-sando l’alta uniforme.

In assenza di Malot, non esito a rivolgere la paro-la agli elettori contadini, e – aggiunge Riquebourga voce bassissima, – se il presidente del collegioelettorale è un pubblico funzionario, anche libe-rale, mollo ai miei elettori in ghette delle schedecon su scritto in grosse lettere: Jean-Pierre Blon-deau, padrone delle ferriere. In questo modo guada-gnerò almeno dieci voti. Gli elettori, sapendo cheMalot è sull’orlo della bancarotta…(Lucien Leuwen, cit., p. 590).

Lucien non crede ai propri orecchi maCoffe è al settimo cielo e si diverte. L’attivi-smo del prefetto però non può non suscita-re l’ironico entusiasmo di Lucien. Di questopasso, gli dice, arriverete al Consiglio di Sta-to. Oh, no signore, Parigi è troppo cara perme. Aspiro solo ad una prefettura in una cit-tà importante, con dei buoni fondi segreti,aggiunge. Ma al momento doversi trasferi-re sarebbe per lui un vero disastro.

Tre matrimoni che la signora de Riquebourg statrattando per le figlie non sarebbero più possibi-li. E poi ho troppi mobili.(Lucien Leuwen, cit., p. 588).

Aggiungiamo che il prefetto tiene in suopotere anche i gesuiti ed è pronto a far sape-re che un nipote del candidato governativosta per essere nominato segretario generaledel ministero delle Finanze così da impres-sionare una ventina di elettori che hannointeressi diretti. Alla fine il prefetto sotto-pone a Lucien la sua distinta dei voti:

elettori iscritti 613presenti nel collegio, al massimo 400costituzionali di cui sono sicuro 178votanti per Malot che mi assicurerò personal-mente 10voti gesuiti procurati segretamente da Crochard,12, mettiamo il minimo 10

Totale: 198.

Mancano due voti, dunque, ma la nomi-na del nipote di Blondeau gli assicureràquattro voti e una piccola maggioranza didue. Qualora, infine, Lucien lo autorizzassea compiere quattro destituzioni, potrebbepromettere una maggioranza di dodici o for-se diciotto voti.

A questo punto la prima missione puòdirsi conclusa e a Lucien non resta che par-tire alla volta della città di N*** per la secon-

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da, ben più impegnativa, elezione. L’incon-tro di Lucien col prefetto Boucaut de Séran-ville rivela subito l’incompatibilità tra i due.Il prefetto, piccolissimo, esile, elegante, è ungiovane poco più che trentenne, non menovanitoso di Lucien nel quale scorge subito unrivale e non certo un possibile protettore.Questo prefetto cavilloso e affettato è giàcontrariato dal fatto di dover mostrare aLucien e al suo oscuro segretario la distintadelle elezioni. La situazione è quasi compro-messa: in un collegio di 1280 iscritti, proba-bilmente saranno 900 quelli presenti. Ilsignor de Mairobert può contare su 500 voti,100 in più del signor Gonin, candidatogovernativo.

Tutto ciò che il prefetto non dice, Lucienlo viene a sapere dal generale Fari, coman-dante di divisione. Mairobert, gli conferma,è onesto, ricco, cortese e non ha punti debo-li. Gli elettori di Mairobert sono convinti,energici; i nostri, invece, sono

silenziosi, tristi… mi sembra che i nostri bravivotanti si vergognino della loro parte (Lucien Leu-wen, cit., cap. L, p. 613).

Lucien non ha segreti per il generale.

Posso disporre di centomila scudi, ho sette o ottoposti da concedere, posso chiedere per telegrafoalmeno altrettante destituzioni.

«È troppo tardi» commenta laconico ilmilitare. La colpa è del prefetto che ha malcondotto le operazioni, impaurendo i timi-di, irritando un buon numero di elettori

Qui, i ricchi non apprezzano come dovrebbero ilgoverno del re, ma hanno una paura tremenda del-la repubblica.(Lucien Leuwen, cit., p. 615).

Lucien scrive un dispaccio telegrafico dainviare a de Vaize per fargli conoscere la rea-le situazione. Il prefetto però gli nega il tele-grafo facendo nascere un violentissimoalterco. Lucien, fuori di sé, minaccia di far-lo arrestare. «Farmi arrestare, perdiana!»,grida il prefetto che gli si lancia contro,Lucien lo tiene a distanza con una sedia… Sisfidano a duello… La risposta del ministrorisolve la controversia a favore di Lucien cheavrà la direzione superiore delle elezioni.

Il giovane signor Leuwen nell’occasionedimostra carattere e un certo talento. Comepuò reagire a prove tanto lontane dalla pro-pria sensibilità se non con uno stile perso-nale? Intanto bisogna cercare di ribaltare lasituazione. La rete elettorale del generaleFari è al lavoro, ma Lucien capisce che l’uni-co modo per impedire l’elezione di Mairo-bert è far convergere i voti del candidatogovernativo su quello legittimista. Lucienricorda una massima del ministro: megliodieci legittimisti che un solo Mairobert.

Questa via, dice il generale, è moltorischiosa per Lucien che potrebbe attirarsitutto il biasimo del ministro. Ma per il gio-vane commissario conta solo, a questo pun-to, vincere le elezioni. Che fare dunque?Prospettare la situazione al capo dei legitti-misti, il reverendo Le Canu. Ma per arriva-re a lui, bisogna passare attraverso il reve-rendo Donis-Disjonval. L’indomani Lucienriesce a parlare con Le Canu, un rinnegato,furfante della peggiore specie, un «Machia-velli in persona» (Lucien Leuwen, cit., cap.LI, p. 629).

Lucien non gli nasconde nulla e gli offrei voti ministeriali. Le Canu è laconico: «Ètroppo tardi». Lucien gli parla dei milionidel padre e osserva come sia questa la solacosa che impressiona il suo scaltro interlo-cutore. Con un dispaccio chiede al ministro

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se intende spendere centomila franchi peravere un legittimista al posto di Mairobert.Le elezioni inizieranno tra diciannove ore enon c’è tempo da perdere.

Il telegrafo, sempre lui, invia e riceve fre-neticamente i dispacci. I centomila franchi– poiché i legittimisti hanno nel frattempoaccolto i termini della transazione – arrive-ranno in tempo?

Vi guarderanno sempre come un pazzo, per avermesso in pericolo la vostra posizione personale…[osserva Coffe] Ci ho pensato subito – rispondeLucien –. Ma poi mi sono detto: quando si agisceper i ministri, non è degli avversari che dobbiamoaver paura, ma delle persone di cui siamo al ser-vizio. Così andavano le cose a Costantinopoli nelbasso impero… (Lucien Leuwen, cit., pp. 643-644).

Le elezioni politiche di cui parliamo evo-cano quelle del giugno 1834, le prime del-l’era orleanista celebrate secondo la leggeorganica dell’aprile 1831. Si tratta della leg-ge che ha soppresso il doppio collegio rein-troducendo l’elezione diretta a livello diarrondissement.

Abbassando il censo da 300 a 200 fran-chi per essere elettori (art.1) e da 1000 a 500per essere eleggibili (art.59) e prevedendoun piccolo correttivo in senso capacitario, sideterminava il raddoppio del corpo eletto-rale, ovvero dai quasi 90.000 del luglio 1830ai circa 166.000 della prima elezione. Que-sti elettori formano il cosiddetto pays légal,poca cosa rispetto a 32 milioni di Francesi.

Eppure sarebbe errato giudicare questosistema censitario con la lente del suffragiouniversale. Il regime ristretto, come è noto,corrisponde negli anni del Lucien Leuwen aduna filosofia politico-morale della rappre-sentanza nella quale gran parte dei liberali –pur con sfumature diverse – si riconoscono

pienamente19. Semmai il vero problema saràquello del mancato adeguamento del sistemaallo sviluppo sociale ed economico del pae-se, non bastando, ai fini dell’integrazionepolitica di nuovi ceti, la fin troppo abusataesortazione guizotiana: Enrichessez-vous.

Il collegio20 in cui Lucien deve operareannovera 1280 elettori, dei quali meno dimille si recheranno a votare. Quello che puòapparire un collegio molto piccolo è in real-tà un collegio molto grande nel quale biso-gna saper conquistare diverse centinaia divoti.

Creando circoscrizioni di arrondissement e collegiformati da centocinquanta elettori, si costringevai deputati a una dipendenza stretta e del tutto per-sonale dai loro committenti; si legava il destinodegli uomini pubblici, quale fosse la loro impor-tanza, agli interessi e ai capricci di un piccolonumero di famiglie, e per proteggere la Cameracontro le ispirazioni dello spirito di partito, la silasciava preda dello spirito di località21.

La ristrettezza fisiologica dei collegi è undato comune a molti altri sistemi elettorali aprevalenza censitaria lungo il XIX secolo. InFrancia è accentuata la trasformazione delregime elettorale22 in sistema politico-ammi-nistrativo assecondando quella radicata tra-dizione nazionale che individuava nella cen-tralizzazione un complesso e coerente stru-mento di mediazione locale e di necessarioraccordo con la sfera della rappresentanzapolitica. L’esprit de localité – che differenziaprofondamente le regioni francesi – non èun effetto bensì una condizione di partenza.Anche nei collegi più “grandi” conta la per-sonalità dei candidati e la campagna eletto-rale non può che essere personalizzata, dis-creta, basata sui vari livelli di influenza deinotabili.

Non bisogna dimenticare che le elezioni

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di cui parliamo prima ancora di essere unfatto politico sono una manifestazione dellasocietà locale, soprattutto quanto più ci siallontana dalle grandi città. La percentuale dipartecipazione al voto censitario è piuttostoelevata, malgrado le condizioni onerose chelo accompagnano, ovvero la dimostrazionedel reddito, l’iscrizione alle liste, il piccoloviaggio per recarsi al collegio, restando, senecessario, più giorni nel capoluogo.

Quella che si chiama e non di rado è cor-ruzione è un altro effetto del collegio ristret-

to23, anche se sappiamo che nessun sistemaelettorale è di per sé esente da traffici diinfluenza. Stendhal ne fa una chiave di let-tura del romanzo, secondo un’immaginedestinata a prevalere: tutto ha un prezzo nel-la Monarchia del re borghese e speculatore,dominata da un piccolo gruppo di finanzie-ri e di grandi industriali.

Il telegrafo è lo strumento attraverso cuipassa la corruzione, i denari da elargire, iposti, le destituzioni. La realtà viene filtrataattraverso lo specchio deformante di Stend-

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Stendhal in un disegno dell’epoca

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hal che rischia di mescolare troppo facil-mente cause ed effetti.

Lo stesso dicasi per l’immagine ricor-rente ed enfatizzata della Monarchia orlea-nista come regime della borghesia capitali-sta. Si rischia qui di avere riflessa un’imma-gine distorta, uniformemente borghese, chenon tiene conto della complessità delle tra-sformazioni e delle permanenze, delle diffe-renze e delle stratificazioni regionali e loca-li. Non bisogna confondere l’esprit borgheseraffigurato con straordinaria evidenza da unBalzac, uno Stendhal o un Daumier con unacategoria analitica pesante e uniformatrice.

L’enfasi che il “trionfo della borghesia”porta con sé rispecchia un paradigma dalforte carattere ideologico, dove ciò che èproiezione, desiderio o condanna rischia difar velo sulla realtà. Se la letteratura è unosservatorio24 straordinariamente ricco esuggestivo per penetrare i meandri dellesocietà del passato, nondimeno il comples-so legame tra storia e letteratura non puòabbattere le barriere esistenti tra novel ehistory.

Ma ritorniamo a Lucien e alle operazio-ni elettorali appena iniziate nella sala delleOrsoline. Il collegio elettorale ha una vitapropria, una sua esistenza giuridica e fisica.Esso designa il presidente, figura di notevoleimportanza sulla cui scelta i prefetti cercanoin tutti i modi di influire25. Il prefetto deSéranville, non a caso, fa ritardare l’arrivo diun elettore anziano per poter far insediareun suo uomo di fiducia. Il presidente detta itempi delle elezioni, forma l’ufficio, puòinfluenzare i presenti e orientare il voto degliincerti. Trenta elettori governativi che ave-vano fatto colazione in prefettura vengonofischiati non appena fanno il loro ingressonella sala elettorale. Ogni quarto d’oraLucien manda Coffe al telegrafo e fa tener

d’occhio anche i movimenti della secondastazione per evitare che il prefetto tenti dibloccare eventuali dispacci.

Il telegrafo di Stendhal non è ancora iltelegrafo elettromagnetico a un solo filo per-fezionato nel 1838 dall’americano SamuelMorse e basato su un alfabeto che usa linea,punto e spazio. La Francia ha avuto nel fisi-co Claude Chappe (1763-1805) e nei suoi fra-telli i pioneri della comunicazione a distan-za. Nel marzo del 1791 Chappe diede dimo-strazione pubblica di un sistema di trasmis-sione ottica composto da due stazioni ad unadistanza di sedici chilometri e basato susegnali meccanici corrispondenti a codici.

Il tachigrafo, il primo nome dato dall’ec-clesiastico francese alla sua invenzione,divenne poi il sempre più perfezionato tele-grafo di Stato da impiegare, tra l’età repub-blicana e quella napoleonica, soprattutto perusi militari. I semafori del telegrafo Chappevenivano posti su un rilievo ad una distanzal’uno dall’altro variabile tra i dieci e i trentakm, a seconda della configurazione del ter-reno. Solo nel 1846 venne installato sullalinea tra Parigi e Lilla il primo telegrafo elet-tromagnetico, con un ritardo sui tempidovuto proprio all’estensione (più di 4000km) della vecchia rete a segnali ottici.

Anche la storia del telegrafo sembra volerconfermare il dato emblematico e il contra-sto stridente – sottolineato da Stendhal a piùriprese – tra la Francia dei tempi eroici,quando un giovane ricercava la gloria per sée la Nazione, e la Francia della mediocritàborghese dove il telegrafo serve le specula-zioni di Borsa e la corruzione elettorale.

L’elezione, come si diceva, ha ben pocodel carattere standardizzato e “neutrale” checonosciamo. È un rito di sociabilità dei cetiprivilegiati, occasione di incontro, di con-flitto, di una vera e propria rappresentazio-

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ne politica. È parimenti una kermesse: non èun caso che nel romanzo un migliaio di per-sone sosti dinanzi alle Orsoline commen-tando tutto ciò che accade. Passano le due, ledue e mezzo, il dramma si sta per compiere:il limite fissato per lo scambio elettorale èoltrepassato. Mentre il reverendo Disjonvalcon aria offesa dice di non poter far ritarda-re oltre il voto dei suoi amici, ecco arrivareCoffe trafelato: «Il telegrafo si è messo inmovimento!».

Che sia il dispaccio tanto atteso? Lucienchiede ancora un quarto d’ora, vola all’uffi-cio del telegrafo e ritorna di corsa dopo ven-ti minuti col testo originale: il ministro del-le Finanze ha autorizzato il pagamento. Con-vintosi, Disjonval non perde tempo, va alseggio promettendo di fare tutto il possibi-le per la nomina del presidente del collegio.Intanto Lucien si reca da Le Canu per con-cordare l’elezione del signor de Crémieux,legittimista moderato, abbonato ai Débats esenza un passato da émigré…

Se verrà eletto al posto del signor Mairobert, ilgenerale e io vi consegneremo i centomila franchi.(Lucien Leuwen, cit., cap. LII, p. 651).

Disjonval ha nel frattempo squinzagliatouna quindicina di agenti per battere le cam-pagne e portare al seggio 150 legittimisti.

Lo scrutinio inizia alle cinque. Il primospoglio mostra che il candidato legittimistaè realmente sceso in lizza. Alle sei il ricevi-tore generale consegna i centomila franchi aLeuwen e al generale Fari che li mettono inuna cassetta affidata, in attesa dei risultatifinali, ad uno stimato e ricchissimo proprie-tario. Al primo turno gli elettori presentisono 873, destinati ad aumentare l’indoma-ni. Solo mettendo insieme i voti del candi-dato del prefetto e quelli dei legittimisti sarà

possibile impedire l’elezione di Mairobert.Che resta da fare, dunque? Il passo più dif-ficile, ovvero convincere il prefetto dellabontà del piano. Ci si prova il prudente gene-rale Fari, ma la reazione del funzionario ècollerica e non lascia speranze:

Non mi aspettavo di meno, dopo tutte questecomunicazioni telegrafiche. Ma infine, signori, vene manca una: io non sono ancora destituito, e ilsignor Leuwen non è ancora il prefetto di Caen.(Lucien Leuwen, cit., p. 655).

Neanche un dispaccio del ministro puòfar cambiare idea all’ostinato prefetto. L’af-fare dunque non può che fallire. Il giornodopo, nonostante venga fatta diffondere dalprefetto la falsa notizia della messa in statod’accusa di Mairobert come fautore delmovimento insurrezionale e repubblicano –siamo nel 1834, dopo i fatti di Lione, dellarue Transnonain, all’avvio dei grandi pro-cessi contro i repubblicani –, il galantuomodi Caen viene egualmente eletto. In un cli-ma pacifico, Lucien si aggira coraggiosa-mente tra la folla rendendosi conto della suaforza.

Ecco il popolo veramente sovrano”, pensò»(Lucien Leuwen, cit., p. 659).

Gli evviva annunciarono l’esito del voto.

“È gioia o rivolta?” gridò il generale correndo allafinestra. “È gioia – disse con un sospiro –, e noisiamo f…”.

Non restava altro da fare se non leggere ilbollettino dello scrutinio:

elettori presenti 948maggioranza 475Mairobert 475Gonin, candidato del prefetto 401Crémieux 61

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Sauvage, repubblicano che vuole ritemprare ilcarattere dei francesi con leggi draconiane 9voti nulli 2.

Lucien e Coffe riprendono la strada perParigi.

La vostra condotta è stata terribilmente impru-dente – gli dice l’amico -; vi siete fatto trasporta-re in pieno da quella follia della prima giovinezzache si chiama zelo.(Lucien Leuwen, cit., p. 660).

6. Una fisiologia della vita parlamentare

È questo il titolo che si potrebbe dare all’ul-tima parte del romanzo. Lucien è di nuovo aParigi, de Vaize lo riceve freddamente ma lopropone per una gratifica. Il ministro temeil padre di Lucien, il Talleyrand della Borsa,il suo celebre salotto, la sua ironia affilata.Nel frattempo il banchiere è stato eletto nel-l’Aveyron, dopo tre ballottaggi.

Quest’ultima parte, in effetti, ha comeprotagonista più il padre che il figlio, ovve-ro la vita parlamentare di un ricco deputatoche mettendo insieme una pattuglia di peo-nes senza arte né parte, riesce a diventare untemibile ago della bilancia nella frammenta-ta e infida Camera dei deputati26.

Che umiliazioni per il povero de Vaizesbeffeggiato in aula dal perfido signor Fran-çois Leuwen, lui sì invece acclamato comeuno dei migliori oratori del Parlamento, tan-to da far pronunciare, senza alcuna ironia, ilnome di Mirabeau. Il neo-deputato frondeur,uomo d’esprit, che non ha passione per lapolitica ma che si innamora della sua posi-zione parlamentare, ama mettere in diffi-coltà il governo.

C’è qualcuno che prende sul serio le mie chiac-chiere parlamentari? Ho dunque un’influenza,una consistenza?…(Lucien Leuwen, cit., cap. LIV, p. 690).

Il King Philippe in persona, il tariffarioincoronato come lo chiama Stendhal, deveintervenire sul banchiere per averne i voti. Alre che promette a lui e ai suoi famelici ami-ci impieghi e quant’altro, che immagina didover sborsare una bella somma, Leuwenoffre gratuitamente i suoi 27 voti, «ma lasupplico: mi permetta di burlarmi dei suoiministri» (Lucien Leuwen, cit., cap. LVIII, p.711), quel tipo d’uomini che odiano l’intel-ligenza e la battuta di spirito. Questo dandyin là con gli anni è anche la personificazio-ne dello sberleffo verso un’idea di politica –coeva ma, per certi aspetti, senza tempo –che Stendhal disprezza e di cui subisce dirimbalzo taluni sgraditi effetti.

In ciò pare di scorgere qualcosa dellapiega ironica della bocca del console HenriBeyle che non crede alla politica.

Il governo ha tutto l’interesse – dice il banchierealla signora Grandet che spera di ottenere il mini-stero di de Vaize per suo marito – a trattare conriguardo la Borsa. Un ministero non può disfare laBorsa, e la Borsa può disfare un ministero. L’at-tuale ministero non può andare lontano. (LucienLeuwen, cit., cap. LXI, p. 744).

Ma il ghigno di Stendhal non si fermaqui.

Poiché questi costumi [corrotti, N.d.A.] stannoper cedere il posto alle virtù disinteressate dellarepubblica, i cui uomini sapranno morire, comeRobespierre, con tredici lire e tredici soldi intasca, abbiamo voluto prenderne nota. (LucienLeuwen, cit., cap. LVIII, p. 720).

A noi non resta che fare altrettanto.

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1 Stendhal, Lucien Leuwen, inRomanzi e racconti, vol.II, Introdu-zioni e note ai testi di M. Di Maio,Cronologia di M. Crouzet, Tradu-zioni di M. Cucchi, Milano, Mon-dadori, 2002, I Meridiani, p. 567.

2 Su inachèvement e impossibilité inStendhal v. M. Crouzet, Stendhal ouMonsieur Moi-même, Paris, Flam-marion, 1990, tr. it. Stendhal. Ilsignor me stesso, Roma, EditoriRiuniti,1992, pp. 739 ss. e M. DiMaio, Introduzione, cit., pp. 9 ss.

3 Stendhal, Una posizione sociale, inRomanzi e racconti, vol. II, cit., p.971.

4 Scritto nel 1832, Stendhal lo rite-neva un importante materiale nar-rativo da utilizzare nell’architettu-ra del Lucien Leuwen.

5 Stendhal ha lasciato un gustosodialogo immaginario con Guizot alquale sollecita una prefettura,nonché il testo di un proclama cheavrebbe dato alle stampe in caso dinomina. Cfr. Diario, a cura di E.Rizzi, Torino, Einaudi, 1977, vol.II,pp. 574 ss.

6 Sul punto rinvio a L. Lacchè, LaLibertà che guida il Popolo. Le TreGloriose Giornate del luglio 1830 e leChartes nel costituzionalismo fran-cese, Bologna, Il Mulino, 2002.

7 Per un’analisi di questi temi si vedaadesso la lettura critica di Mariel-la Di Maio, Introduzione, cit., pp.43 ss.

8 M. Ozouf, Les aveux du roman. Ledix-neuvième siècle entre ancienrégime et révolution, Paris, Fayard,2001, pp. 19 ss.

9 Cfr. P. Colombo, Sketches by thePolls. La politica e il sistema elettora-le inglese sotto lo sguardo di CharlesDickens, in «Giornale di StoriaCostituzionale», 1, 2001, pp. 151-162.

10 «Per me, la felicità, o ciò che iocredo sia la felicità, è vivere inEuropa o in America con una ren-dita di sei o ottomila franchi, cam-

biare spesso città…» (Lucien Leu-wen, cit., cap. XLVI, p. 532).

11 Sull’immagine del flâneur v. W.Benjamin, Das Passagen-Werk,Frankfurt am Main, SuhrkampVerlag, 1982, tr. It. Parigi, capitaledel XIX secolo. I “passages” di Parigi,a cura di R. Tiedemann, Torino,Einaudi, 1986; Id., Johann JakobBachofen, Frankfurt am Main,Suhrkamp Verlag, tr. it. Il viaggia-tore solitario e il flâneur. Saggio suBachofen, a cura di E. Villari, Geno-va, Il Melangolo, 1998.

12 Cfr. G. Rebuffa, Il trionfo del codicecivile nella testimonianza di Honoréde Balzac, in «Materiali per unastoria della cultura giuridica», 1,1992, pp. 67 e 83.

13 B. Craveri, La civiltà della conversa-zione, Milano, Adelphi, 2001.

14 «…un romanzo dev’essere unospecchio», (Lucien Leuwen, cit..,seconda prefazione, p. 71).

15 Testamento del 17 febbraio 1835. 16 «… mi sono impegnato a condur-

re, come suo socio al cinquanta percento, tutti gli affari basati su dis-pacci telegrafici… Mettiti bene intesta che de Vaize non può fare ameno di mio figlio…» (LucienLeuwen, cit., p. 479).

17 «Povera monarchia! – pensò ilconte de Vaize – Il nome del re èormai privo del suo effetto magi-co…» (Ibidem, cap. XLVIII, p.562).

18 Ibidem, pp. 565-566. «…la miaopinione personale è che è megliospendere cinquecentomila franchie non avere Mairobert dinanzi anoi alla Camera. È un uomo tena-ce, saggio, stimato, terribile. Dis-prezza il denaro e ne ha molto.Insomma, è il peggio che ci sia»(p. 568).

19 Per un’analisi più ampia ed artico-lata v. L. Lacchè, La Libertà che gui-da il Popolo, cit.

20 Che forse non è scelto a caso daStendhal, essendo il collegio di

Lisieux nel Calvados il feudo elet-torale di Guizot fino al 1848. Siveda Ch.-H. Pouthas, Les électionsde Guizot dans le Calvados, d’aprèsdes documents inédits (extrait),Caen, Imprimerie de J. Ambroise,1920.

21 L. de Carné, Etudes sur l’histoire dugouvernement représentatif en Fran-ce de 1789 à 1848, Paris, Didier,1855, t. II, pp. 175-176.

22 Cfr. S. Kent, Electoral Procedureunder Louis-Philippe, New Haven,Yale University Press, 1937; A.Roubaud, Les élections de 1842 et1846 sous le ministère Guizot, inRevue d’histoire moderne, XIV,1939, pp. 271-286; A.-J. Tudesq,Les listes électorales de la Monarchiecensitaire, in «Annales. E.S.C.»,avril-juin, 1958, pp. 277-288; S.Kent, Electoral Lists of France’s JulyMonarchy, in «French HistoricalStudies», 1, 1971, pp. 118-127;A.-J. Tudesq, Les comportementsélectoraux sous le régime censitaire,in Explication du vote, a cura di D.Gaxie, Paris, Presses de la Fonda-tion National des Sciences Politi-ques, 1989, pp. 106-125.

23 Sul punto, per glianni Quaranta, v.A.-J. Tudesq, Les grands notables enFrance, (1840-1849). Etude histori-que d’une psychologie sociale, Bor-deaux, Delmas, 1964, t. II, pp. 878ss. e i rilievi di P.L.R. Higonnet,T.B. Higonnet, Class, Corruptionand Politics in the French Chamber ofDeputies,1846-1848, in «FrenchHistorical Studies», 5, 1967, pp.204-224.

24 M. Ozouf, Les aveux du roman, cit.,p. 10.

25 R. Rémond, La vie politique en Fran-ce, t.I, 1789-1848, Paris, A. Colin,1965, pp. 277 ss.

26 Sul sistema politico della Monar-chia di Luglio v. L. Lacchè, La Liber-tà che guida il Popolo, cit.

Lacchè

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1. La Monarchia non è come la Repubblica

È opportuno tener presente che, prima anco-ra di essere qualificabile come Stato a baseparlamentare e rappresentativa, l’Italia unitaera, innanzi tutto, una Monarchia. Vale a dire,una forma di governo al cui vertice istituzio-nale era posto un re, al quale lo Statuto fonda-

mentale del 5 marzo 1848 attribuiva poteririlevanti a cui nessuno dei sovrani avvicen-datisi sul trono avrebbe mai rinunciato1. Nona caso, la celebrata massima formulata daAdolphe Thiers «il re regna ma non gover-na», era quanto di più estraneo si potesseimmaginare, rispetto alla mentalità di Vitto-rio Emanuele II e dei suoi successori.

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La leggenda di Casa Savoia:trois rois n’est pas coutume(nel ricordo di Adolfo Omodeo)

roberto martucci

giornale di storia costituzionale n. 4 / II semestre 2002

… Radetzky? Ma che? L’armistizio… la pace, la pace che [regna…

… quel giovine Re di Sardegna è uomo di molto giudizio!È certo uno spirito insonne, e forte e vigile e scaltro…È bello? — Non bello: tutt’altro. — Gli piaccionomolto le donne…

(Guido Gozzano)

Chi fu desso? Del popolo figlio?O fu invece di stirpe regale?Che m’importa? Chi fosse non cale,a me basta che Italia Egli fé

(Antonio De Vecchis)

O chi assolda quei carnefici?O chi premia quelle fiere?Ahi, d’Italia o prence o sere!Qua il bicchiere!… Viva il Re!

(Felice Cavallotti, 1868)

Accorrete, su, all’asta, o fratelli!All’Italia oggi arridono i fati:su, accorrete, voi, plebi, ai mercatidove il segno l’araldo vi dié!O chi compra le gioje, gli anellidella sposa dell’uomo plebeo!Vogliam farne un superbo cammeoda donare alla figlia del re

(Felice Cavallotti, 1868)

Da tutto il pantano si sente gridare:evviva il sovranoche lascia rubare!D’imbrogli e di guainon s’occupa mai,oh comodo! oh bello!un re travicello!

(Re travicello, aggiornamento del 1893)

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Per non schiacciare in una griglia istitu-zionale monocromatica il ruolo del monar-ca mi sembra utile inquadrarne funzione eimmagine sotto altri profili.

Contrariamente a quanto sarebbe datopensare in un’epoca fortemente secolarizza-ta e proiettata nel futuro quale l’attuale, neisecoli XVIII e XIX — che pure sono di fortecambiamento politico in tutta Europa — laMonarchia non è riducibile a una specie diRepubblica dotata, però, di un capo dello Sta-to ereditario. È invece qualcosa di assimila-bile a un vestito istituzionale di natura imme-moriale di cui si è dotato il corpo mistico del-la Nazione per attribuire perennità alla pro-pria esperienza di comunità politica.

In quel contesto, l’espianto del re è qua-si inconcepibile, prima che impossibile. Ciriusciranno gli Stati Uniti solo grazie allasecessione dall’impero britannico. Gliinglesi, esauritasi l’esperienza dell’Interre-gno cromwelliano (1649-1660), se ne guar-deranno bene e anche dopo il consolida-mento istituzionale della figura del premier(nel corso dell’Ottocento) il loro resterà pursempre «il governo di Sua Maestà».

In Francia il trauma dell’uccisione del«padre della patria» (21 gennaio 1793) daràsì cittadinanza all’immagine femminile del-la patria-madre, la “madrepatria” (Marian-na), ma lascerà sostanzialmente vuoto (difunzioni) il trono di capo dello Stato fino allaQuinta Repubblica (1958)2.

Nella Germania imperiale, infine, lacentralità del kaiser sarà fuori discussione ead Otto von Bismarck, malgrado sia Cancel-liere del Reich, sarà consentito di sviluppa-re la propria politica solo grazie all’influen-za personale extra-politica (e alla stima) chelo legava al kaiser Guglielmo I.

Tuttavia, almeno fino alla Grande Guer-ra, in Europa la monarchia vive anche dei

mille legami che la stringono al paese e allasua gente, dell’immagine che riesce aproiettare all’esterno, del grado di credibi-lità immediata di cui può godere un sovranonel momento in cui proietta sui suoi popolil’immagine rassicurante e, allo stesso tem-po, virile di «padre della patria». In altreparole, nel contesto appena evocato un reincarna la Majestas populi — divenendo apieno titolo Sua Maestà — se riesce ad ele-varsi al di sopra della routine burocratica diprimo funzionario dello Stato per proporsiall’immaginario nazionale come fattoreaggregante di un’identità collettiva.

Nelle pagine che seguono vedremo sesarà possibile considerare in questi terminil’episodio sabaudo. Ho utilizzato voluta-mente il termine «episodio» a propositodella Monarchia italiana dei Savoia, proprioper rimarcare la sua specificità di “corta”durata rispetto alla “lunga” durata monar-chica europea. Ed è per tal motivo che, para-frasando il noto detto francese — deux foisn’est pas coutume — che richiede molto più didue episodi congiunturali per radicare con-suetudinariamente un istituto, ho ritenutodi poter dire che nella storia italiana «troisrois n’est pas coutume».

2. I Savoia Carignano dalla Sardegna all’Italia

In un celebre saggio pubblicato nel 1940, indura polemica con l’impostazione agiogra-fica dominante, lo storico Adolfo Omodeodimostrò come La leggenda di Carlo Albertofosse il prodotto di una rivisitazione patriot-tica e risorgimentale di un regno che era sta-to, invece, oscurantista e isolato internazio-nalmente3. Si potrebbe del pari sostenereche di analoga rilettura celebrativa abbia

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beneficiato l’intera dinastia, con un’arditaopera di ricollocazione agiografica e sequen-zialmente significativa di eventi e di frasiestrapolate qua e là.

Espressioni assurte però alla dignità dimassime, una volta decontestualizzate: dal«grido di dolore» del 1859, al «ci siamo eci resteremo!» (Roma, 1870) che trasfiguraun infastidito commento dialettale per unviaggio scomodo e durato troppo — «Final-ment ij suma!» — in un’apostrofe fieramen-te anti-papalina. Fino alla frase, celebre maimprobabile, rivolta il 24 marzo 1849 aVignale dal nuovo re Vittorio Emanuele II almaresciallo Radetzky — «Casa Savoia cono-sce la via dell’esilio, non quella del disono-re!» — destinata, nei fatti, ad essere ridico-lizzata ottantaquattro anni più tardi. Ciavrebbe pensato l’8 settembre 1943 il nipo-te del «Re Galantuomo», con la fuga aPescara e Brindisi e l’esercito lasciato privodi ordini.

Comincia abbastanza presto, incoraggia-ta in seguito dai governi post-unitari — com-presi quelli diretti da Francesco Crispi eBenito Mussolini — la sedimentazione deglielementi fondamentali di un mito che rein-venta e nobilita un passato dinastico, giun-gendo a trasformare il probabile capostipi-te del Casato — Umberto Biancamano (vis-suto intorno all’anno 1000), uomo d’armee, forse, conte borgognone — in una speciedi equivalente di Ugo Capeto fondatore delregno di Francia.

È così che secoli oscuri di rafforzamen-to contrastato di domìni feudali nella Savoia,vengono omogeneizzati in una anacronisti-ca prospettiva unitaria, all’insegna dellamessa a fuoco della missione italiana. Unavolta ricollocata la dinastia sul filo della lun-ga durata in un passato di comodo, sempreproteso verso destini alti, essa veniva impli-

citamente equiparata alle millenarie monar-chie nazionali europee.

Con la differenza, che mentre questeultime avevano visto avvicendarsi su di untrono “nazionale” per più secoli consecuti-vi le Case regnanti — Normanni, Plantage-néti, Lancaster, Tudor, Hannover per l’In-ghilterra; Capetingi, Valois-Angoulême,Borbone, Orléans per la Francia — CasaSavoia era, invece, millenaria per conto pro-prio. Senza cioè radicarsi stabilmente su untrono importante, avendo visto avvicendar-si i domìni posti sotto il suo controllo: Bres-se, Isère, Aosta, Susa, Savoia, Ivrea, Nizza,Torino, Monferrato, Sardegna, Italia in fine.

Vale a dire che solo a fine percorso, nel-la seconda metà dell’Ottocento, Casa Savoiasi era visto riconoscere il diritto a regnaresu un grande Stato nazionale, conseguendocon ritardo plurisecolare l’obiettivo che legrandi dinastie europee avevano raggiuntotra la fine del Medioevo e l’inizio dell’etàmoderna.

Anche se non è detto così esplicitamen-te, è questo che troviamo nei testi scolasticia partire dall’Unità, compendiabili nell’in-genua gioia con cui Giuseppe La Farina —proprio lui, il fondatore della Società Nazio-nale — riferendosi al mosaico di feudi terri-torialmente non tutti contigui che costitui-vano nel Medioevo i domìni sabaudi, pote-va osservare che «la persistenza ne’ propo-siti e le virtù militari sono doti antiche nel-la casa di Savoia»; o, ancora, che «casa diSavoia s’estendeva e si ingagliardiva»4.

Grottesco appare il tentativo di chi tentadi attribuire alla dinastia statura quasi mil-lenaria — è il caso, ancora una volta, di unlibro di testo, il Compendio di storia patria5

scritto da Ercole Ricotti — pubblicando unalunghissima serie unica di ben quaranta traconti, duchi e re; senza distinguere tra per-

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sonaggi mitici, vassalli, conti, vicari impe-riali e duchi sovrani; tacendo il fatto che soloa partire da Emanuele Filiberto (1559) pos-sa parlarsi effettivamente di un principatosovrano riconosciuto dalle Potenze.

3. Un passato regio risalente al Settecento

Al contrario, quella che amava presentarsicome «la più antica dinastia d’Europa»6

aveva in realtà un passato recentissimo — seanalizzato in una dimensione prospettica dilunga durata — risalendo il suo titolo regio alTrattato di Utrecht (11 aprile 1713) che ave-va trasformato Vittorio Amedeo II da ducadi Savoia in re di Sicilia (1713-1720), nel-l’àmbito di una più vasta risistemazione deiterritori europei a seguito della Guerra diSuccessione spagnola (1700-1714). Ma laSicilia si era rivelata un possesso cadùco.Infatti, l’isola era stata rioccupata quasiimmediatamente dalla Spagna (1718) peressere poi presidiata da forze anglo-austria-che prima di essere ceduta all’Impero.Avendo però ottenuta in cambio la Sardegna(1720), Vittorio Amedeo II era ugualmenteriuscito a consolidare un titolo sovrano dirango superiore.

Fino a quel momento nella storia d’Eu-ropa i Savoia più celebri non erano stati deiregnanti (non importa se conti o duchi),bensì due dei più famosi generali asburgici:il già citato Emanuele Filiberto, vincitoredella battaglia di San Quintino (1557), rein-sediato da Spagna e Francia alla guida delDucato di Savoia dopo la pace di Cateau-Cambrésis (1559); il feldmaresciallo prin-cipe Eugenio, vincitore dei Turchi (1697) eprotagonista della Guerra di Successionespagnola.

Tra i tanti vassalli del duca di Borgognanel Medioevo; poi conti di Savoia con Ame-deo IV (1233); percepiti per secoli comeprincipotti riottosi di area francofona, iSavoia costruiscono le loro fortune grazie alcontrollo dei passi alpini sulle direttrici Lio-ne-Chambéry-Ginevra e Chambéry-Tori-no-Milano. Agganciati all’Impero, allaFrancia, alla Spagna e a potentati minori conattente strategie matrimoniali, i signori diChambéry (divenuti duchi dal 1416) svilup-pano comportamenti analoghi a quelli deigrandi feudatari proto-moderni delle mar-che di frontiera dell’Europa medievale e diAntico regime. Con la Spagna contro laFrancia e viceversa, con bruschi rovescia-menti di alleanze nel corso di una stessaguerra, consolidando una fama solidissimadi alleati infìdi e avversari duttili, dispostiad ammorbidirsi con adeguati compensiterritoriali.

Dopo una crisi secolare, se è vero che allametà del XVI secolo Emanuele Filiberto ridi-venta sovrano del Ducato avìto, deve peròtollerare il presidio francese delle piazze-forti di Torino, Chieri, Chivasso, Pinerolo eVillanova d’Asti; mentre l’alleata Spagnapresidia i forti di Nizza e Villafranca. Spo-stata la direzione degli affari politici daChambéry a Torino (1563) e le mire espan-sioniste dall’asse Lione-Ginevra alle diret-trici Torino-Milano e Torino-Piacenza-Modena, un adeguato dispositivo militaresupporta questi appetiti.

Ma già alla fine del Settecento — con leoffensive napoleoniche del 1796 che asse-stano un colpo durissimo alla fama militaresabauda — la dinastia esce ridimensionatasu scala europea, obbligata a lasciare la ter-raferma piemontese e ridotta per una ven-tina d’anni a una dimensione isolana.

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4. Miti e proiezioni regali: Italo Amleto, ReGalantuomo, Re buono, Re soldato, Re di mag-gio

La dinastia dei Savoia, reinsediata dal Con-gresso di Vienna sul trono di Sardegna dopola notte napoleonica, durò il breve spazio ditre lustri, estinguendosi con Carlo Felice permancanza di eredi maschi. Ascese così altrono Carlo Alberto, principe di Carignano,discendente da un ramo collaterale deiSavoia. Quattro suoi eredi in linea direttaavrebbero regnato dopo di lui per undicianni sul trono di Sardegna (1849-61) e perottantacinque anni sull’Italia unita.

Lo spazio di tre generazioni avrebbe bru-ciato l’esperienza monarchica, attribuendo-le una durata pressappoco uguale a quella deivari tentativi di esportazione dinastica espe-riti dalle Grandi Potenze nei Balcani tra il1860 e il 1940 per stabilizzarne i regimi aspese dell’agonizzante Impero Ottomano.

Una permanenza sul trono italiano,altresì, irrilevante sul filo della lunga dura-ta monarchica, se posta in relazione con idieci secoli inglesi (che espressero quaran-ta re) o con gli otto secoli francesi con i lorotrentatré re.

Recuperata dal Congresso di Vienna inchiave di contrappeso anti-francese, ladinastia esprimerà appena sette sovrani,regnando su due Stati per complessivi cen-totrentun’anni (1815-1946) e cioè per unarco cronologico di poco superiore a quellocoperto dai Borboni a Napoli (1735-1860) eche, disaggregato, dà quarantasei anni diregno sui domìni ereditari (1815-1861) eottantacinque anni sull’Italia unita.

Ricollocati nel loro contesto e rapporta-ti alle crisi politiche con cui si sono dovuticonfrontare i sette sovrani Savoia — dallaRestaurazione (1815) alla fine della Monar-

chia (1943-46) — appaiono, innanzi tutto,inadeguati e incapaci di padroneggiare avve-nimenti che li sorpassano. I loro atti pub-blici, esaminati con cura, ne attestano talo-ra la completa inaffidabilità.

Basti pensare che la crisi del 1821 trovòVittorio Emanuele I impreparato; avrebbepreferito abdicare piuttosto che accogliereo respingere la richiesta di promulgare lacostituzione di Spagna. Dei suoi successorisui troni di Sardegna e d’Italia avremo mododi occuparci nelle pagine che seguono.

5. Carlo Alberto, «l’Italo Amleto»

Dei cinque sovrani con i quali è chiamata afare i conti l’epopea risorgimentale e il pri-mo ottantennio unitario — Carlo Alberto,Vittorio Emanuele II, Umberto I, VittorioEmanuele III, Umberto II — il primo è quel-lo al quale le cronache hanno riservato l’ap-pellativo meno lusinghiero: «Italo Amleto»,per le sue indecisioni nella partecipazioneal Quarantotto italiano.

La mancanza di risolutezza aveva in real-tà caratterizzato l’intera vita del Carignano,dando l’impressione che egli subisse gliavvenimenti «senza la capacità di valutar-li»7. Ambiguità, rigore poliziesco e ritardinelle riforme amministrative forniscono lecifre della sua inadeguatezza.

Dai più, il momento alto e significativodel regno di Carlo Alberto di Savoia Cari-gnano viene identificato nella concessionedello Statuto. Atto di grande rilievo politico,preceduto però da diciassette anni di asso-lutismo forcaiolo — i processi del 1833 con-tro la mazziniana Giovine Italia si concludo-no con quindici condanne a morte — cheattenuano gli entusiasmi per quel regno.

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Già erede presuntivo della Corona nelgrigiore della Restaurazione, Carlo Albertoaccetta le confidenze di giovani nobili poli-ticamente eretici — i Federati — carpendo-ne, probabilmente, la buona fede; salvodenunciarne il complotto al ministro dellaGuerra:

Il principe di Carignano mi aveva fatto chiamare.Mi venne incontro all’ingresso del suo studio e,prendendomi per mano, mi disse con un’aria pie-na di dolce soddisfazione: «Rallegriamoci; nonbisogna più preoccuparsi. Ho scoperto e sventatouna trama di cui ebbi il filo grazie a qualche ami-co fedele […]»8.

Divenuto Reggente a seguito dell’abdi-cazione di Vittorio Emanuele I, Carlo Alber-to accoglie in un primo tempo le richiestedei Federati, li associa al governo — con San-torre de Rossi di Santa Rosa al ministerodella Guerra — e promulga la costituzionedi Cadice (15 marzo 1821)9; salvo abbando-narli per precipitarsi dalle truppe lealiste delmaresciallo La Tour e mettersi a disposizio-ne del nuovo re Carlo Felice.

Tenterà di farsi perdonare le oscillazio-ni di campo partecipando alla campagnamilitare francese (impresa del Trocadero,1823) proprio contro quei costituzionali diSpagna che avevano riproposto il modellorappresentativo di Cadice agli incauti Fede-rati piemontesi, abbandonati a sé dall’on-divago Carignano. Ma gli resterà appiccica-ta addosso un’aura di ambiguità tale da ren-derlo indecifrabile per avversari ed amici,tanto da far dire al suo biografo, marcheseCosta:

Il suo sguardo contraddiceva continuamente la suaparola; la sua parola smentiva il suo sorriso, il suosorriso mascherava il suo pensiero10.

Asceso al trono sardo nel 1831, CarloAlberto isola lo Stato, incoraggiando la vel-leitaria politica estera del conte ClementeSolaro della Margarita e impelagandosi nel-le questioni dinastiche ispaniche e porto-ghesi. Contro la Francia di Luigi Filippod’Orléans finanzia la disgraziata spedizionedella duchessa di Berry. La stessa Confede-razione Elvetica non si sottrae alle suemanovre: sfumata l’annessione del Vallese,appoggia il movimento separatista ultracat-tolico del Sonderbund.

Quanto alle vantate riforme civili — chepure sono una realtà e servono ad europeiz-zare il Regno — esse sono però tardive e siconcretizzano nella riesumazione del passa-to istituzionale napoleonico: un Consiglio diStato, un draconiano codice penale, un codi-ce civile depurato del divorzio e integrato periniziativa del re da anacronistici editti chevincolando le successioni ereditarie e sot-traendole alla libera circolazione e disponi-bilità dei beni — si disse — portarono al sui-cidio il Guardasigilli Giuseppe Barbaroux.

Introverso, bigotto (nell’imbarazzo di chine conosce le abitudini, si diverte a ritaglia-re dai libri immaginette di santi), ambiguocon gli amici, vendicativo con gli avversari,imprevedibile con tutti attende che la guer-ra attesti la sua attitudine al comando.

Al posto di quell’armata anti-francese cheMetternich non aveva mai messo a sua dis-posizione arriva, invece, il confronto conl’Austria a cui non era preparato. Così, dopoaver passato una vita eternamente in unifor-me, regolata da squilli di tromba tra sfilate egiochi di simulazione (con i soldatini), iniziala campagna lombarda del marzo-giugno1848 senza piani di guerra, con una deboleintendenza e privo di carte topografiche.

La sua fiacca direzione delle operazionifarà il resto, provocando le disfatte di Custo-

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za e Novara, l’abdicazione, l’esilio portoghe-se. Tuttavia, «la fine shakesperiana di Car-lo Alberto» — secondo il noto giudizio del-lo storico Adolfo Omodeo — avrebbe tra-sformato l’ambiguo e «dilettantesco» prin-cipe della Restaurazione nel «re della causanazionale, il martire di Oporto»11.

6. Vittorio Emanuele II, il «Re Galantuomo»

Si deve alla penna di Massimo d’Azeglio lavoce che il sovrano del compimento delsogno nazionale, il «padre della Patria» Vit-torio Emanuele, non fosse di sangue reale,ma plebeo.

È storicamente accertato che una vam-pata di fiamme avvolse la culla del principi-no neonato e l’incauta nutrice ne riportòustioni tali da morirne; si sarebbe invece

salvato il bambino, in previsione di giornipiù fausti. Se così è stato, non resta che infe-rirne che una qualche forma di benevolen-za provvidenziale abbia presieduto ai regalidestini.

Tuttavia, la malignità azegliana sembradar fondamento a chi si interroghi sullascarsa somiglianza tra padre e figlio; come sel’alto, dinoccolato e aristocratico CarloAlberto non avesse potuto dare i natali alcorpulento, brevilineo e plebeo VittorioEmanuele.

Questi, d’altra parte, è l’opposto delpadre anche caratterialmente. Chiuso,introverso, bigotto, cortese espressione del-la “civiltà delle buone maniere”, e quindianche simulatore cortigiano il primo; quan-to il figlio sarebbe stato invece espansivo,cordiale, superstizioso all’occorrenza, roz-zo e naïf spesso, attento alla parte da recita-re, sempre. In questo senso, si può dire che

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Vittorio Emanuele III, la regina Elena e i loro figli (1922)

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Vittorio Emanuele fosse l’unico dei cinquesovrani presi qui in considerazione ad eser-citare il mestiere di re con consumata abili-tà, tanto da essere egli stesso in parte arte-fice di un mito che copre manchevolezze ecadute di stile.

Salito al trono dopo l’abdicazione diNovara, regna per undici anni sui domìniereditari e per circa diciotto sull’Italia uni-ta, abituando il paese e le istituzioni a unacostante partecipazione del sovrano allagestione dello Stato. Esordisce chiamandoal governo Massimo d’Azeglio — che costrui-rà l’immagine inizialmente vincente del reche è «Galantuomo» per aver saputo pre-servare lo Statuto dalle lusinghe reazionarie— poi, ha la fortuna di legare al trono l’abi-lità politica del conte di Cavour.

La scomparsa prematura dello statista lopriverà di un punto di riferimento forte,obbligandolo a oscillazioni continue tra ilcortigiano Rattazzi e il tronfio Ricasoli, tral’incolore Minghetti e gli energici Lanza eSella, con frequenti preferenze per queimilitari da cui si sentiva attratto (La Mar-mora, Menabrea) perché sicuro di poterliricondurre a una logica dinastica pre-parla-mentare.

Politicamente irrequieto, insofferentealle regole costituzionali e attratto dal gover-no personale — arriverà a nominare presi-dente del Consiglio il già malato e dementeLuigi Carlo Farini (dicembre 1862) nell’il-lusione di poterlo influenzare — sempre allaricerca di canali diplomatici paralleli perpoter ampliare il suo Stato o procurare unregno al cadetto Amedeo (Grecia o Spagna),Vittorio Emanuele II è percepito in Europacome una variabile dinastica non facilmen-te controllabile.

Egli si serve di chiunque, forse nella con-vinzione che una sua investitura ufficiosa

possa nobilitare qualunque avventuriero.Così, il conte Ottaviano Vimercati per diecianni addetto militare italiano a Parigi, è, allespalle del proprio governo, agente di colle-gamento tra il re e Napoleone III. Una suaantica amante, l’attrice Laura Bon, si vedetrasformata nella improbabile latrice di unaproposta di rovesciamento d’alleanze, indi-rizzata al feldmaresciallo austriaco Benedeka Verona. L’ex generale garibaldino unghe-rese Stefano Türr trama per conto del re neiBalcani. Mentre il sovrano in persona sirivolge all’avvocato romano Enrico Diamil-la Müller per agganciare, utilizzare, forseneutralizzare Mazzini.

Nei rapporti con Garibaldi Vittorio Ema-nuele II esprime il meglio di sé in termini diambiguità e spregiudicatezza. Gli andrà benenel 1860 con la spedizione nelle Due Sicilie,ma solo perché l’abile regista dell’interamanovra è il conte di Cavour12. Viceversa, ilduplice incoraggiamento dei malconcepititentativi di Aspromonte (1862) e Mentana(1867) getterà per due volte il paese sull’or-lo della catastrofe, dimostrando la sua debo-lezza rispetto all’iniziativa militare francese.

Sono ormai acclarate l’incapace gestionedel comando supremo nella guerra del 1866(di cui si addossò la responsabilità a La Mar-mora) e le incaute trattative per una allean-za militare con la Francia (1870) svoltesiall’insaputa di governo e paese, che si trova-rono a un passo da un potenziale conflittocon la Prussia di Bismarck. Eppure, conl’aiuto delle centinaia di monumenti che lomostrano gigante militare a cavallo con felu-ca e sciabola, la sua fama gli sopravviverà.

Salvo il passo falso del «Re Galantuomo»,immediatamente percepito nel Mezzogiornocome “re dei galantuomini”: da intendersinon già nell’improbabile accezione di perso-ne dabbene, bensì di accaparratori di terre

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demaniali e tirannelli locali. Si sarebbeespresso in tal senso — nella sua deposizionealla Commissione parlamentare d’inchiestasul brigantaggio — il possidente VincenzoTedeschi di Minervino Murge13.

Ne avrebbe scritto cinque anni più tardil’intellettuale napoletano Angelo Camillo DeMeis, sottolineando come nelle Due Sicilieil popolo «nel re galantuomo non vide il suore, ma solo il re dei galantuomini: bisticciofatale e profondamente storico»14. Giudizioconfermato da Pasquale Turiello secondo cui«i contadini espressero subito la loroimpressione equivocando sul titolo del reGalantuomo»15. Passo falso di cui sembranonon rendersi conto i cortigiani piemontesi,ma che, invece, non sfugge agli osservatoristranieri, tanto da strappare una significati-va ammissione a George, nipote di lord JohnRussell: «Re Galantuomo (nomignolo tri-stemente equivoco)»16.

7. Umberto I, il «Re buono»

Subentrato al padre il 9 gennaio 1878, Umber-to I appare come il più scialbo sovrano espres-so dalla dinastia sabauda, visto che al suoomonimo «Re di Maggio» il destino (sottoforma referendaria) non ha dato l’opportuni-tà di cimentarsi come regnante con prove talida attestarne la tempra istituzionale.

Torniamo, dunque, a Umberto I, timidoe introverso regnante, consegnato allanostra percezione visiva da centinaia diimmagini che ripropongono incessante-mente i suoi occhi spalancati e sgomenti,adagiati su enormi baffi. Schiacciato dallaesuberante personalità del padre VittorioEmanuele; intimidito dalle civetterie cultu-rali della moglie Margherita; succube di

Agostino Depretis e Francesco Crispi; ingra-to nei confronti di Benedetto Cairoli che,pure, aveva deviato il pugnale parricida diGiovanni Passanante; dilapidatore di fondipubblici e “convitato di pietra” nello scan-dalo della Banca Romana; antisemita nelfondo; entusiasta aderente alla Triplicealleanza; corresponsabile dell’alto e inso-stenibile livello raggiunto dalle spese mili-tari; Umberto I viene ricordato con l’insi-gnificante e incongruo appellativo di «Rebuono».

Cosa ci fosse di buono in un caratterechiuso e introverso, in un’esaltazione guer-resca priva di prove, nella infantile prefe-renza per lo stato d’assedio (1894, 1898), inuna inadeguatezza di ruolo attestata dall’en-tusiasmo per il mitragliatore di Milanogenerale Bava Beccaris, la storia non èriuscita a dimostrarlo. Incapace di fronteg-giare crispismo e post-crispismo, corre-sponsabile della disfatta coloniale di Adua,Umberto I perde la testa nelle crisi politi-che del 1894 e del 1898-99.

Martire suo malgrado è, piuttosto, sim-bolo di uno dei massimi livelli di discreditoraggiunti nel secolo dalla Corona. Ne affos-sa il mito incipiente; sarà il primo ad indos-sare un inutile giustacuore di maglia d’ac-ciaio sotto la camicia; attira su di sé pugna-li parricidi, fino all’appuntamento fatale conil proprio destino per mano di un fanaticonella Monza dell’amata Eugenia Litta il 29luglio 1900.

8. Vittorio Emanuele III, il «Re soldato»

Asceso al trono nelle circostanze dramma-tiche del regicidio di Monza, il re VittorioEmanuele III sembra inizialmente incarna-

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re le aspettative di un paese inquieto, unifi-cato da appena quarant’anni, e in preda auna crisi di assestamento, tuttora non pie-namente valutata nella sua giusta misura insede storica.

I quindici anni che precedono la GrandeGuerra accreditano l’immagine schiva delprimo funzionario dello Stato che affida ilRegno alle mani esperte del presidente delConsiglio, riducendo significativamente ilprotagonismo regio dei suoi predecessori;fino a ridimensionare sensibilmente la par-tecipazione del monarca ai lavori del Consi-glio dei ministri. Conoscitore dei meccani-smi profondi della gestione del potere, Vit-torio Emanuele III si era probabilmente resoconto che un suo intervento diretto alleriunioni di Consiglio avrebbe potuto “sco-prire” politicamente la Corona, ridimensio-nandone l’immagine super partes.

Nel primo Novecento sembrò che Gio-vanni Giolitti potesse essere quel premierforte, in grado di guidare la compiuta parla-mentarizzazione del sistema con l’assensosovrano. Salvo rimettere tutto in discussio-ne con lo scoppio della Prima guerra mon-diale, quando il re avrebbe deciso il rove-sciamento di alleanze e l’entrata in guerra aCamere chiuse, isolando la maggioranzaparlamentare giolittiana e chiudendoentrambi gli occhi di fronte alle vivacissimeintemperanze anti-parlamentari delle«radiose giornate» del maggio 1915, bene-volmente incoraggiate dal governo Salandra.

L’entrata dell’Italia in guerra produceistantaneamente il mito del «Re soldato»,anche se il ruolo militare del sovrano si limi-ta a quei continui giri d’ispezione dei repar-ti combattenti che tanto infastidivano ilgeneralissimo Luigi Cadorna.

La lunga crisi del primo dopoguerra met-te Vittorio Emanuele III di fronte all’inca-

pacità della classe dirigente liberale di gesti-re la pace — con le sue tensioni — dopo avervoluto la guerra. Non è questa la sede perriproporre le crisi aperte, chiuse e riaperteda Vittorio Emanuele Orlando, IvanoeBonomi, Giovanni Giolitti, F. S. Nitti, LuigiFacta e i mille fili che legavano tutti loroall’uomo del momento, l’autentico leaderdei combattenti smobilitati: Benito Musso-lini17.

Mi basterà solo ricordare il ruolo da pro-tagonista svolto da Vittorio Emanuele III inquell’autentica commedia degli equivociandata in scena a Roma il 28 ottobre 1922,quando il capo dello Stato, dopo un consen-so iniziale, rifiutò di firmare il decreto di sta-to d’assedio deliberato dal governo Facta.

Anche se c’è da dire che, in assenza diuna energica leadership liberal-conservatri-ce, l’eventuale ricorso allo stato d’assedio (infunzione antifascista) nell’ottobre 1922 nonavrebbe tutelato l’agonizzante regime rap-presentativo. Viceversa, avrebbe aperto lastrada a un ennesimo governo militare — ilquinto nella breve storia dell’Italia unita —ma dal corto respiro. Visto che i gabinettiguidati dai generali La Marmora (1864-66),Menabrea (1867-69), Pelloux (1899-1900),non si erano mai spinti al di là del bienniodi vita.

Fu così che Vittorio Emanuele III decisedi nominare Benito Mussolini alla guida delsuo governo, benché quel leader fosse allatesta di una sparuta pattuglia di una quaran-tina di deputati. Poi, nel ventennio succes-sivo, il re ne coprì e incoraggiò tutte le svol-te più significative — crisi Matteotti (1924),Aventino (1925), leggi razziali (1938), guer-re — nella probabile speranza che il duce delFascismo potesse rivelarsi quel Cancellieredel Regno che la dinastia non aveva trovatoin Giolitti.

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Salvo prenderne le distanze a guerraormai perduta e ordinarne l’arresto con ilcoup de Majesté del 25 luglio 1943. Ma la fugada Roma dopo l’armistizio dell’8 settembre,il collasso del Comando supremo e la cinicamancanza di direttive alle grandi unità com-battenti — virtualmente lasciate alla mercédei tedeschi — dimostrarono l’inconsisten-za di quell’epiteto di «Re soldato» costrui-to dalla propaganda.

9. Umberto II, il «Re di Maggio»

Colmato di onori dal cessato regime fascista,ma sostanzialmente tenuto ai margini dellavita pubblica malgrado formalmente rive-stisse il grado di generale d’armata, Umber-to principe di Piemonte è chiamato ad eser-citare le funzioni di capo dello Stato, a guer-ra perduta.

Lo fa a titolo provvisorio, quale Luogote-nente generale del Regno, in sostituzione delpiù che compromesso Vittorio Emanuele III,in base ad un artificio giuridico messo apunto dal vecchio uomo politico napoletanoEnrico De Nicola, fatto accettare al vecchiore il 12 aprile 1944.

Sarebbe rimasto in tale limbo istituzio-nale per due anni — dal 5 giugno 1944 al 9maggio 1946 — nominando presidenti delConsiglio (Ivanoe Bonomi, Ferruccio Par-ri, Alcide De Gasperi, già designati dalComitato di Liberazione Nazionale) e accet-tandone a turno le dimissioni, senza poterin alcun modo interferire sull’apertura echiusura delle crisi di governo. In attesa chela fine della guerra rendesse possibile quelreferendum istituzionale — Monarchia oRepubblica? — richiesto dai partiti delC.L.N. e per il quale il governo De Gasperi

aveva già iniziato gli adempimenti di rito. Poi, improvvisamente, l’esautorato re

Vittorio Emanuele III — che si era ben guar-dato dall’abdicare dopo l’ingloriosa fugadell’8 settembre 1943 — pensò bene di porfine alla tregua istituzionale per rafforzarele chances referendarie della screditataMonarchia.

Così, il 9 maggio 1946, cioè ventiquattrogiorni prima della celebrazione del referen-dum istituzionale del 2 giugno, VittorioEmanuele rinunciò al trono vergando unaformula stereotipata su carta da bollo, all’in-saputa del Consiglio dei Ministri. Quasi chela Corona fosse stata una sua personale pro-prietà soggetta al normale regime delle suc-cessioni patrimoniali.

Atto tardivo — se volto a separare leresponsabilità della Corona dal caduto regi-me fascista e dalla guerra perduta sì, ma giàvoluta — l’abdicazione del vecchio sovranoservì solo a tramutare per breve tempo il suoerede nel triste «Re di Maggio». Era trop-po tardi anche per influire sull’esito refe-rendario che, comunque, sancì una preva-lenza repubblicana di soli due milioni di voti— 12.672.767 contro 10.688.905 — quasi chel’elettorato non si fosse reso ben conto del-le dinamiche che avevano condotto alla per-dita della guerra, predisponendo l’opinionepubblica a quell’oblìo da me richiamato inun precedente scritto, pubblicato sul n° 2 diquesto «Giornale».

Mal consigliato, Umberto II sembrò noncredere che la Monarchia potesse risultaresconfitta dalle urne, preparandosi a restareal Quirinale in attesa che la Corte di Cassa-zione comunicasse il risultato ufficiale delvoto. I primi tafferugli tra monarchici erepubblicani, letti come pericolose avvisa-glie di una possibile nuova guerra civile,obbligarono il Consiglio dei Ministri a

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dichiarare la immediata decadenza del re,investendo il presidente del Consiglio DeGasperi delle funzioni provvisorie di capodello Stato.

Fu così che il pomeriggio del 13 giugno1946, il «Re di Maggio» abbandonò defi-nitivamente Roma alla volta di Lisbona,avendo scelto il Portogallo come terra d’esi-lio, sulle orme del trisavolo Carlo Alberto diCarignano.

Resta solo da aggiungere che il sogno ita-liano di Casa Savoia — magistralmente resopossibile dall’accorta regìa del Cavour — erastato irresponsabilmente bruciato in soliottantacinque anni, lasciando in eredità allagiovane repubblica un paese ferito nelle suecertezze e lacerato da una sofferta guerracivile.

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1 Per un inquadramento generaledella questione rinvio a PaoloColombo, Il re d’Italia. Prerogativecostituzionali e potere politico della-Corona (1848-1922), Milano, Fran-coAngeli, 1999.

2 Marcel Morabito, Il comando nega-to. La Rivoluzione francese e il pote-re esecutivo, Manduria, PieroLacaita Editore, 1997, p. 54.

3 Adolfo Omodeo, La leggenda diCarlo Alberto nella recente storiogra-fia, Torino, Einaudi, 1940, ora inAdolfo Omodeo, Difesa del Risorgi-mento, Torino, Einaudi, 1955, pp.156-235.

4 Giuseppe La Farina, Lezioni ele-mentari di Storia nazionale dallacaduta dell’Impero d’Occidente sinoai giorni nostri secondo i programmilegislativi ad uso delle Scuole Magi-strali maschili e femminili, Torino,Tipografia scolastica di SebastianoFranco e figli, 1861, pp. 41, 95.

5 Ercole Ricotti, Compendio di storiapatria dall’anno 476 al 1861 ad usodelle Scuole ginnasiali e tecniche,

Milano, V. Maisner, Torino, G.B.Paravia, 1866, pp. 239-240.

6 Cfr. Giuseppe Massari, La vita ed ilregno di Vittorio Emanuele II diSavoia primo re d’Italia, Milano,Fratelli Treves Editori, 18803, p.202.

7 Adolfo Omodeo, La leggenda diCarlo Alberto, cit., p. 210.

8 La testimonianza del conte Ales-sandro di Saluzzo è riportata daAdolfo Omodeo, La leggenda diCarlo Alberto, cit., p. 187.

9 Cfr. Paolo Colombo, Costituzionecome ideologia. Il 1820-21 italiano difronte alla costituzione di Cadice, inJosé M. Portillo Valdés, La Nazio-ne cattolica. Cadice 1812, una costi-tuzione per la Spagna, Manduria,Piero Lacaita Editore, 1997. 10

Charles Costa de Beauregard, Leprologue d’un règne: la jeunesse duroi Charles-Albert, Paris, Plon,1889, p. 1.

11 Adolfo Omodeo, La leggenda diCarlo Alberto, cit., p. 234.

12 Cfr. Roberto Martucci, L’invenzio-

ne dell’Italia unita 1855-1864, Mila-no, Sansoni, 1999., pp. 139-242.

13 Deposizione del 26 gennaio 1863,citata da Franco Molfese, Storia delbrigantaggio dopo l’Unità, Milano,Feltrinelli, 1983 (1964), p. 113.

14 Angelo Camillo De Meis, Il Sovra-no. Saggio di filosofia politica conreferenza all’Italia [1868], a cura diBenedetto Croce, Bari, Laterza,1927, p. 15.

15 Pasquale Turiello, Governo e gover-nati in Italia [1882], a cura di Pie-ro Bevilacqua, Torino, Einaudi,1980, p. 71.

16 Da una lettera del novembre 1860,citata da Denis Mack Smith,Cavour e Garibaldi nel 1860, Tori-no, Einaudi, 1972 (1958), p. 519.

17 Sul punto rinvio a Roberto Mar-tucci, Storia costituzionale italianadallo Statuto alla crisi della repub-blica 1848-2001, Roma, Carocci,2002.

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APaolo Alvazzi del Frate

L’interpretazione autentica nelXVIII secolo

Divieto di interpretatio e“riferimento al legislatore”nell’illuminismo giuridico

Torino, Giappichelli, pp. 181ISBN 88-348-0864-9,

Euro 13,94

Come esplicitamente dichiara-to nella Premessa questo librocostituisce la prima parte di unaricerca più ampia sull’evoluzio-ne dell’interpretazione autenti-ca nel XVIII e XIX secolo.

L’autore parte dal dirittointermedio e sottolinea comele fonti giustinianee avesseroassegnato al solo Imperatore lafunzione legislativa e interpre-tativa, salvo poi spiegare che

«il divieto di interpretatio giu-stinianeo non ebbe in praticaeffettività alcuna» (p. 45). Nelpanorama del diritto comunel’interpretazione autenticadivenne tema centrale soprat-tutto del pensiero canonistico(l’autore si sofferma sul gesui-ta spagnolo Francisco Suárez),in particolare nel clima cultu-rale della Controriforma, infunzione della difesa della dot-trina cattolica contro le eresie.

Al centro dell’opera si troval’illuminismo giuridico, france-se e italiano, di fronte al dibat-tito sull’interpretazione dellalegge, di cui l’autore ricostrui-sce, in maniera puntuale, le tap-pe più significative. Il primatodel legislatore e il “legicentri-smo”, o meglio il “mito” dellalegge, nella dottrina illumini-stica ha comportato da una par-te l’esaltazione del ruolo svoltodal legislatore come creatoredella legge e dall’altra, di con-

seguenza, un forte ridimensio-namento, per non dire discre-dito, del ruolo dell’interprete.Da ciò l’enfatizzazione dell’in-terpretazione autentica, ritenu-ta unica interpretazione possi-bile, perché effettuata dal legis-latore stesso.

Con il Code Napoleon, nel1804, tramonta la concezioneilluministica dell’interpreta-zione della legge a vantaggiodella funzione interpretativadella giurisprudenza.

M. F.

Association française pourl’histoire de la Justice

La cour d’assises.Bilan d’un héritage

démocratiqueParis, La Documentationfrançaise, 2001, pp. 319

ISBN 2-11-004721-6, Euro 19

Questo volume raccoglie gli Attidel Colloquio svoltosi presso la

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Quarantaseiproposte di lettura

A CURA DI ALBERTO CLERICI, PAOLO COLOMBO, FILIPPO DEL

LUCCHESE, MARCO FIORAVANTI, FEDERICO LUCARINI,LORENZO MANCINI, PAOLA MANDILLO, ROBERTO MARTUCCI,PAOLA PERSANO, GIOVANNI RUOCCO, LUCA SCUCCIMARRA,MONICA STRONATI

giornale di storia costituzionale n. 4 / II semestre 2002

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Cour de Cassation l’11 e 12 giu-gno 1999, per iniziativa dell’As-sociation française pour l’histoirede la Justice e dell’École nationa-le de la magistrature.

Da tempo in Francia ci siinterroga sul destino di questoimportante lascito di epocarivoluzionaria, fino a dubitareche la partecipazione popolareall’amministrazione della giu-stizia penale possa attestare lademocraticità dell’ordinamen-to.

Nell’impossibilità di darconto di tutti i contributi,basterà sapere che il Colloquioè stato organizzato in tre ses-sioni: Idéal démocratique et pra-tiques judiciaires, Souverainetépopulaire et cultures politiques,Procès d’assises et rôle desacteurs; permettendo così dispaziare dalla storia del jury cri-minel in Francia (A. PadoaSchioppa) e negli Stati Uniti(Gwénaële Calvès) alle con-traddizioni di Vichy (AlainBancaud), dalle prospettiveliberali di Tocqueville (LucienJaume) all’atteggiamento di treintellettuali — Gide, Mauriac,Giono — nei riguardi della Cor-te d’Assise (Thierry Pech).

R. M.

BFrancesco BENIGNO

Ultra pharumFamiglie, commerci e territori

nel Meridione modernoCorigliano Calabro, Meridia-na Libri, 2001, pp. XIV-209

ISBN 88-86175-69-8,Euro 17,56

È un viaggio nella Sicilia degliSpagnoli e dei Borbone, rivisi-tata attraverso percorsi diricerca e questioni interessan-ti in realtà l’intero Regnomeridionale al di qua e al di làdel Faro, quello che ci suggeri-sce l’autore, noto studioso del-l’Antico regime in tutte le suesfaccettature.

Il volume ripropone meri-toriamente alcuni importantisaggi di storia economica esociale, già pubblicati neglianni passati su riviste o in rac-colte collettanee, ma ora rileg-gibili in un contesto unitario.Dapprima, Benigno ci presen-ta «il territorio meridionalenella congiuntura secentesca»,tracciando un ampio affrescodei rapporti città-campagna,nel quale trovano spazio rifles-sioni sulla produzione grana-ria e sulle colture arborate,senza dimenticare le dinami-che demografiche e un impor-tante aspetto dell’Antico regi-me istituzionale: i conflitti giu-risdizionali.

La parte centrale del volu-me è dedicata al commercio

marittimo e illustra, in parti-colare, il ruolo svolto dal portodi Trapani negli scambi com-merciali mediterranei.

La parte conclusiva concer-ne la famiglia siciliana di Anti-co regime, analizza il ruolosocio-economico del matri-monio, la complessa strutturadegli aggregati domestici, ilruolo della parentela (la gran-de famiglia allargata piena dizie, cugini e acquisiti).

R. M.

Silvio BERTOLDI

Il re che tentò di fare l’Italia.Vita di Carlo Alberto di Savoia

Milano, Rizzoli, 2000,pp. 290

ISBN 88-17-86481-1,Euro 16,53

L’autore — noto giornalista giàcimentatosi in appassionatisaggi di divulgazione storica —tratteggia il ritratto efficace diuno dei protagonisti più con-traddittori e controversi dellastagione risorgimentale, tra-mandatoci nelle vesti carduc-ciane di Italo Amleto.

In pagine equilibrate, manon complici, ci viene ripropo-sto il lungo itinerario che tra-sforma lo spaesato principe diCarignano nell’erede al trono diuna dinastia priva di successori;divenuto, poi, l’ambiguo amicodei liberali piemontesi (Colle-gno, San Marzano, Santa Rosa),l’ondivago mallevadore del pro-nunciamiento costituzionale delmarzo 1821 e, infine, il reazio-

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nario “eroe del Trocadero” del-l’agosto 1823.

Dei suoi primi diciassetteanni di regno (1831-48)improntati a princìpi reaziona-ri puntellati dal frequente usodella forca, non ci viene taciu-to nulla: dalle ossessioni bigot-te del sovrano, alla subalterni-tà all’Austria, all’incauto coin-volgimento nel tentativo insur-rezionale ideato dalla duches-sa di Berry contro il re france-se Luigi Filippo (1833).

Il 1848 porta lo Statuto (4marzo) e poi la guerra all’Au-stria per il possesso di Milanoe Venezia: le disfatte di Custo-za e Novara, la successiva abdi-cazione, il patetico esilio inPortogallo sono seguiti dall’au-tore con crescente e “carduc-ciana” simpatia, quasi che lamorte romantica sulle rive del-l’Atlantico possa in qualchemodo riscattare quello che perla storia resterà l’Italo Amleto.

R. M.

Roberto BIANCHI

Bocci-Bocci. I tumulti annonari nella Tosca-

na del 1919Firenze, Olschki, 2001,

pp. 406 ISBN 8822249836, [s. i. p.]

Il biennio rosso delle provincetoscane, fino ad ora un po’meno studiato rispetto a quel-lo di altre zone – il pensierocorre diretto a Torino – e rela-tivamente meno segnato dalruolo della grande industria, fu

marcato dagli eventi dell’esta-te del 1919 che, non a caso, sisarebbero fissati nella memo-ria popolare con il curiosoappellativo di «bocci-bocci»,deformazione linguistica dibolscevichi.

L’autore tiene a sottolinea-re come il biennio rosso (chepuò vantare una letteraturasterminata), non esaurisca lasua portata nelle iniziativeoperaie – culminate con l’oc-cupazione delle fabbriche nelsettembre 1920 – ed includaquale fattore di rilevanteimportanza i moti contro ilcaroviveri.

In Toscana i tumulti anno-nari si caratterizzarono per unlegame non episodico con lestrutture locali del movimentooperaio organizzato (Partitosocialista, Camere del lavoro,cooperazione) e riuscirono adesprimere le forme di azione chein vario modo contrassegnaronoi moti nel resto della penisola.

È da sottolineare l’impegnodi Bianchi nel condensare lamappa dei tumulti in Toscana,nel descrivere l’«ondata» delgiugno 1919, nella indicazionedei luoghi dei moti, nel mette-re a punto un censimento del-le merci requisite e un elencodegli imputati.

Si è così scomposto il voltoanonimo e collettivo delle folle«multiformi e multicolori» cheassalivano negozi, magazzini,depositi e cantine, e si sonorecuperati almeno alcuni seg-menti che le componevano,facendo riemergere una pagina

di storia dell’Italia contempora-nea di particolare intensità eproblematicità, i cui contenutierano stati troppo sommaria-mente etichettati come arcaici eresiduali e i cui protagonistitroppo frettolosamente annul-lati nell’unità indistinta della«folla».

F. L.

Pierre BODINEAU

et Michel VERPEAUX

Histoire constitutionnellede la France

Paris, PUF, 2000, pp. 127ISBN 2-13-050588-0,

Euro 6,50

Affresco riuscitissimo dell’e-voluzione costituzionale fran-cese dalla Rivoluzione del 1789alla crisi del 1958, pubblicatonella collana “Que sais-je?”.

Formidabile «consomma-teur de constitutions» (p. 4),la Francia ne avrebbe avutequattordici in centosettant’an-ni, senza contare governi rivo-luzionari e provvisori o cam-biamenti consuetudinari, deli-neando un quadro nettamentecontrapposto a quello statuni-tense retto dalla costituzionedel 1787 tuttora in vigore.

A tal proposito, gli autoriinvitano alla cautela: tale insta-bilità — essi dicono — potreb-be essere più apparente chereale, considerata la lunga per-manenza al potere di uominipolitici che hanno attraversatopiù regimi: si pensi a Sieyès oThiers. D’altra parte, la solidi-

Quarantasei proposte di lettura

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tà della tecnostruttura ammini-strativa fa da contrappeso alla«discontinuité constitutionnel-le» (p. 5).

La ricostruzione che nesegue è quadripartita in modoconvincente. C’è, innanzi tutto,la fase delle Rivoluzioni costitu-zionali del 1789-99, con il ten-tativo di costruire uno Stato didiritto (1789-91) che s’incaglianelle secche del governo rivolu-zionario (1792-95), fallendo poinel tentativo di costruire con ilDirettorio il nuovo ordinerepubblicano (1795-99).

Il ritorno all’ordine è rap-presentato dalla fase napoleoni-ca, bipartita nei due regimirepubblicano-consolare (1799-1804) e imperiale (1804-15):entrambi fortemente autoritaried imperniati sulla centralità diun capo, inizialmente Primoconsole e poi imperatore deiFrancesi.

La difficile gestazione delregime parlamentare (1815-70) abbraccia quattro differen-ti regimi e altrettanti fallimen-ti: la Restaurazione difficile diuna monarchia limitata (1815-30); una Monarchia di Luglionata come repubblica sottomentite spoglie ma in cui,rapidamente, Luigi Filippodiviene padrone delle regole(1830-48); una SecondaRepubblica senza repubblicani(1848-52); un Secondo Impe-ro che dopo un decennio auto-ritario conosce una crescenteparlamentarizzazione, inter-rotta dalla disfatta di Sedan(1852-70).

La democrazia parlamenta-re caratterizza i due regimi det-ti della Terza (1870-1940) e del-la Quarta Repubblica (1946-58);esperienze interrotte da duegoverni di fatto: quello collabo-razionista, detto di Vichy (1940-44) e quello provvisorio (1944-46) di derivazione gollista. Del-la Terza Repubblica gli autorisottolineano la difficilissimaincubazione, nell’impossibilitàdi una restaurazione monarchi-ca, e le disfunzioni di tipo parla-mentarista connotanti il succes-sivo sessantennio fino alla dis-fatta del 1940.

Della Quarta Repubblicasono richiamati il bicamerali-smo ineguale con netta centra-lità dell’Assemblea Nazionale, iridotti poteri del presidente del-la Repubblica, il complessivoinsuccesso del tentativo di darvita a stabili governi, fino allacrisi finale, con la nomina del«plus illustre des Français», ilgenerale Charles De Gaulle, allapresidenza del Consiglio. Maquesta è un’altra storia.

R. M.

Pierre BOISSEAU

La Commune de Paris de 1871 àl’épreuve du droit constitutionnel

Clermont-Ferrand, PresseUniv. Fac. de Droit, 2001,

pp. 426ISBN 2-912589-08-8,

Euro 22,87

L’autore si interroga sulla pos-sibilità di applicare l’analisicostituzionale alla Comune

parigina del 1871. Può il dirit-to costituzionale contribuire adecifrare la rivoluzione, anchequando questa ha caratteri diassoluta atipicità? ed applicar-si, più in generale, ai fenome-ni di transizione giuridica?

La risposta è affermativa, apatto di ammettere che esistaun diritto costituzionale «dunouveau régime» accanto aldiritto «du changement derégime».

Liberata la Comune dalladimensione mitica, se ne ten-ta la riabilitazione giuridicatramite il resoconto della suaproduzione normativa. Si sco-pre allora che i Comunardiavevano una propria idea didiritto, non filtrata attraversole categorie del potere costi-tuente e della costituzione diportata nazionale, ma attraver-so l’idea tutta locale di unafederazione di comuni france-si come entità sovrane.

P. P.

Bruno BONGIOVANNI e GianMario BRAVO (a cura di)

Nell’anno 2000.Dall’utopia all’ucronia

Firenze, Leo S. Olschki Editore,2001, pp. 242

ISBN 88 222 49917,Euro 24.79

La Fondazione Firpo di Torinoha patrocinato nel marzo di dueanni fa’ un importante Collo-quio internazionale di cui laprestigiosa casa editrice Olsch-ki propone qui gli atti.

Librido

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Vi si tematizza l’utopia come«fatto culturale proteiforme» -l’espressione è di BronislawBaczko, autore dell’Introduzio-ne. L’utopia rivela una naturabifronte: genere letterario tra ipiù fortunati, tradisce la voca-zione ad imporsi quale forzapropulsiva in grado di muoverela storia. Ed è proprio tale dop-piezza che gli interventi raccolticercano di restituire.

Si comincia col percorsostoriografico di Giuseppe Ricu-perati sull’utopia come compo-nente dell’Illuminismo, dettoradicale, per contrasto con iLumi ufficiali del Settecentofrancese. È quindi MichelVovelle ad approfondire il nessofra utopia e rivoluzione in epocacontemporanea, preparando ilterreno alle riflessioni di GianMario Bravo sull’utopia nelsocialismo marxista. Qui «l’appello al senso diinvenzione dell’uomo, quandoquesti manifesta e afferma la suapassione per la libertà» diventautopia costruttiva e prospettivadi mutamento a tutt’oggi valida,nonostante il tragico invera-mento novecentesco.

P. P.

Luca BORSI

Classe politica e costituzionalismo: Mosca, Arcoleo, Maranini Milano, Giuffré, 2000,

pp. 606 ISBN 88-14-08359-2,

Euro 41,32

Terzo numero della collana«Biblioteca» dell’Archivio di

Storia Costituzionale e di Teoriadella Costituzione (Università diRoma “La Sapienza”), il volu-me presenta un’ampia rico-struzione del pensiero costitu-zionale di tre giuristi - Mosca,Arcoleo e Maranini - testimo-ni delle profonde trasforma-zioni dello Stato italiano nelpassaggio dall’epoca liberale aquella fascista.

Se i primi due sono intera-mente calati nella stagione del-lo Stato liberale, con Maraninil’analisi si sposta sulla nuovaprospettiva istituzionale delregime fascista e sulla succes-siva transizione alla democra-zia.

Un filo rosso lega, secondol’autore, le riflessioni dei trestudiosi: l’utilizzo del concettodi classe politica, che fa il suoingresso, con Mosca, nella dot-trina costituzionale. La crisidelle istituzioni liberali e dellacategoria concettuale dello Sta-to moderno e la consapevolez-za del crescente divario traordine giuridico e ordine rea-le avrebbero spinto i tre costi-tuzionalisti ad individuare nel-la classe politica, che è poiclasse dirigente, una funzioneimportante di unificazione emediazione: suo compitosarebbe stato quello di ricom-porre ad unità le istanze dis-gregatrici provenienti dallasocietà e di costituire un tra-mite costante tra la realtàsociale e quella giuridico-sta-tuale.

Da segnalare la parte delvolume, assai dettagliata, dedi-

cata ad Arcoleo ed alla sua pro-posta di riforma del Senatoregio, formulata nel 1910,ovvero il progetto di un Senatoparzialmente elettivo e rappre-sentativo di quella «nuovaclasse politica» che avrebbepotuto dirigere e moderare ilmoto della società. Interessan-te risulta poi la presentazionedella concezione che Maraniniebbe di classe politica, identi-ficata con il Fascismo, ovverocon quella «minoranza orga-nizzata» che, sulle ceneri del-lo Stato liberale, aveva conqui-stato il potere e aveva avviatouna ricomposizione socialedella nazione.

P. M.

CJean-Jacques Régis de CAMBA-

CÉRÈS

Mémoires inéditsParis, Perrin, 1999, 2 vol.

ISBN 2-262-01595-3,[s. i. p.]

Tra le tante carriere politichefiorite all’ombra della Rivolu-zione francese, quella di Cam-bacérès è senz’altro una dellepiù lunghe e interessanti.Deputato alla Convenzione,membro del Comitato di Salu-te Pubblica termidoriano, poideputato ai Cinquecento eministro, è uno dei primi poli-tici direttoriali ad allinearsi alnascente potere bonapartista

Quarantasei proposte di lettura

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dopo il colpo di Stato di bru-maio. Fedele collaboratore diNapoleone, egli ne accompa-gna l’ascesa aggiungendo nuo-ve cariche al suo già ricco cursushonorum: console nell’annoVIII, poi Arcicancelliere del-l’Impero, diventerà il vero eproprio alter ego dell’Imperato-re nei sempre più lunghi perio-di di assenza di quest’ultimo daParigi.

Testimone-chiave di tutti ipiù cruciali passaggi della Rivo-luzione, Cambacérès offre con isuoi Mémoires il prezioso contri-buto di uno sguardo dall’interno,che forse solo altri politici dilungo corso come Fouché e Tal-leyrand possono eguagliare. Inquesto caso, però, non si trattadi un monumento all’egotismorivoluzionario: Cambacérèsaffronta infatti il racconto diventicinque anni che hannocambiato il mondo con la stessaineguagliabile discrezione chein vita gli permise di attraversa-re pressoché inosservato cesuredecisive del periodo rivoluzio-nario come il Terrore, Termido-ro o lo stesso Brumaio, soprav-vivendo anche alla eccezionaleparabola del potere napoleoni-co.

Come sottolinea Jean Tulardnell’introduzione all’opera, piùche di memorie si tratta di«éclaircissements sur les princi-paux événements de la via politi-que»: non una biografia politica,dunque, ma una sorta di affrescocollettivo, in cui tutti i grandiprotagonisti dell’epoca si vedo-no riconosciuto il posto che

meritano. Dopo quasi due seco-li di attesa e qualche occasiona-le indiscrezione storiografica, ilfrutto retrospettivo di un’esi-stenza intensa, anche se discuti-bile, è finalmente a disposizio-ne di tutti.

L.S.

Davide CANFORA

La controversia di Poggio Braccio-lini

e Guarino Veronese su Cesare eScipione

Firenze, Leo S. Olschki Edito-re, 2001, pp. 173

ISBN 88 222 4987 9,Euro 18,08

Libro uscito per la collana «Stu-di e testi» della fiorentinaOlschki, a firma di Davide Can-fora, il quale fin dalle primepagine riconosce il propriodebito scientifico nei confrontidi Gian Mario Bravo e CesareVasoli.

L’opera ricostruisce la con-troversia tra i due esponenti del-l’Umanesimo italiano, PoggioBracciolini e Guarino Veronese,sulla figura di Cesare. Personag-gio controverso per antonoma-sia, il primo imperatore romanovedrà riflessi i tratti salienti del-la propria personalità e del pro-prio agire storico nel confrontoserrato con la figura speculare diScipione l’Africano.

Questa celebre controversia,che prende le mosse dalle pri-me riflessioni di FrancescoPetrarca sul senso della virtùromana, più che sciogliere l’in-

terrogativo sulla presunta supe-riorità dell’uno o dell’altro deidue leader, lascerà aperte unaserie di domande sulla tensionetutta interna all’umanesimo fio-rentino fra esaltazione dei per-sonaggi e delle vicende dell’an-tichità classica e culto repubbli-cano della «libertas».

P. P.

Jean-Marie CARBASSE

(sous la direction de)Histoire du parquet

Paris, PUF, 2000, pp. 333ISBN 2-13-050830-8,

Euro 22,56

Coordinati da Jean-Marie Car-basse, professore all’Universitàdi Paris II (Panthéon-Assas),dieci studiosi si sono interroga-ti sulle caratteristiche distintivedei titolari dell’accusa in Francia(anche se un contributo isolatolambisce la Germania) dalMedioevo fino al XX secolo.

Questo ricco volume collet-taneo fa dunque i conti con i pro-cureurs e i procureurs généraux inuna dimensione di lunga dura-ta. Essi nascono intorno al 1300come “procuratori del re” insenso letterale; vale a dire, inbase a una procura che li costi-tuisce legali rappresentanti delsovrano, al fine di tutelarne gliinteressi di natura demaniale. Intal modo i procuratori (con i lorosostituti, a partire dal XVI seco-lo) si trovano ad essere tra i piùantichi pubblici ufficiali nellastoria della burocrazia.

Custodi dei diritti del re — e

Librido

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quindi, lato sensu, dell’interessepubblico — le gens du roi hannocontrollato la police du royaumeed esercitato con crescente auto-revolezza le funzioni di pubblicoministero, attraversando la tem-perie rivoluzionaria e vedendoriaffermati prestigio e influenzagrazie alle riforme napoleoniche.

Una curiosità relativa al ter-mine eminentemente francesedi parquet, utilizzato anche danoi per indicare un piancito inlegno d’un certo pregio. Pare chel’etimologia giudiziaria transal-pina lo riconduca al “piccoloparco” (parc/parquet) o recintoconsacrato inizialmente ai tor-nei cavallereschi medievali; poial sito destinato all’amministra-zione della giustizia; infine, apartire dal XVIII secolo, il ter-mine parquet ha indicato i ban-chi della pubblica accusa occu-pati dalle gens du roi.

R. M.

Paola CASANA

Le costituzioni italiane del 1848-’49.

Appunti delle lezioni dell’a.a.2000-2001

di Storia del diritto italiano IITorino, Giappichelli, 2001, pp.

160ISBN 88-348-1099-6,

[s. i. euro]

Il libro sistema e raccoglie lelezioni di un corso di storia deldiritto italiano sulle Costituzio-ni italiane tra il 1848 e il 1849. Inappendice sono riportati i testicostituzionali per la verifica dei

nodi tematici segnalati durantele lezioni.

Essendo un lavoro di com-parazione si presumono diffe-renze traducibili in modelli. Aldi là delle differenze è possibilecomunque una analisi su alcuninodi costituzionali quali: la for-ma di governo, la definizione del«potere» giudiziario, il rappor-to tra poteri, la previsione omeno di procedimenti di revi-sione. All’analisi testuale seguel’esame degli statuti nella pras-si, soprattutto delle attuazionidei princìpi dichiarati per iscrit-to. Naturalmente tale verifica èpossibile solo per lo Statutoalbertino.

Tuttavia è possibile la com-parazione tra le tre Carte sicilia-ne (Costituzione siciliana, Car-ta separatista di Palermo e Attocostituzionale di Gaeta per laSicilia), interessante perchéconsente di osservare le soluzio-ni prospettate delle varie ideo-logie del costituzionalismo ita-liano intorno ai punti più pro-blematici.

Dalla comparazione esceconfermata l’ipotesi della costi-tuzione quale chiave per circo-scrivere i poteri assoluti delsovrano. Tuttavia la laconicitàdelle Carte ortroyées rende pra-ticabile un’interpretazione chetende a formare un governofacente capo al re, anche se poila verifica della prassi per lo Sta-tuto albertino evidenzia la ten-denza all’affermazione del Par-lamento sul governo.

M. S.

Giovanna CAVALLARI (a cura di)Comunità, individuo e globaliz-

zazioneIdee politiche e mutamenti dello

Stato contemporaneoRoma, Carocci, 2001, pp. 311

ISBN 88-430-1775-6,Euro 21,60

Identificato, certo frettolosa-mente, come la fine stessa del-la politica, il processo di inter-nazionalizzazione tecnica, eco-nomica e culturale in atto daalcuni anni a livello globale haradicalmente trasformato ilnostro modo di vivere e rap-presentare le appartenenzepolitico-istituzionali.

Spinta dalla marea mon-tante della globalizzazione, unapluralità di sfere sociali, reti dicomunicazione, rapporti dimercato, modi di vita si è fattastrada attraverso i confini, untempo intangibili, dello Stato-nazione, mettendo drastica-mente in discussionequell’«ortodossia territorialedel politico e del sociale»(Beck) che nell’orizzonte dellaprima modernità aveva rap-presentato un principio fonda-tivo di rilevanza assoluta.

Ciò che è sorto dalla crisidello Stato-nazione non è peròuna democrazia cosmopoliticafondata sulla potenza inclusivadell’universalismo dei diritti edella partecipazione, ma un’i-brida mescolanza in cui il pesodelle disuguaglianze e dellediscriminazioni rischia di tra-sformarsi nell’unica vera chia-ve di lettura globale applicabi-

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le ad un universo altrimentisempre più frammentato.

Ai pericoli – ma anche alleopportunità – che si celano intale ambiguo contesto è,appunto, dedicato il composi-to percorso di ricerca svilup-pato nel volume a cura di Gio-vanna Cavallari ; una riflessio-ne teorico-politica che all’esa-me dei processi in atto affian-ca uno sforzo di problematiz-zazione storica di quel rappor-to tra individuo e comunità, alquale ancora oggi appaionolegati i destini di una formapolitica compiutamente uni-versale.

La prima parte del volume ècosì dedicata all’analisi diautori del passato: Baruch Spi-noza come teorico di «unacomunità della comunicazionepotenzialmente illimitata»,Immanuel Kant come ideatoredi un diritto cosmopoliticobasato sui diritti umani e su unpossesso comune della super-ficie del pianeta, Karl Marxcome teorico di una comunitàsenza classi pensata comealternativa all’anarchia di unmercato già globalizzato, e poiancora Tönnies, Horkheimer ei comunitaristi libertari ame-ricani.

Mentre nella seconda par-te del volume il rapporto traindividuo e comunità nell’eradella globalizzazione è oggettodi un approccio “sincronico”centrato sui diversi profili cheesso costantemente chiama incausa: l’opinione pubblica,l’ordine internazionale, la tec-

nica, l’architettura istituziona-le, la sfera economica. Il tuttonella convinzione che l’analisipolitica, accanto a quella giu-ridica, sociologica ed econo-mica, resti uno strumentoessenziale «per esercitare nelmodo più efficace le armi del-la critica e rendere più com-prensibile il processo di cam-biamento in corso».

L. S.

Martin Clark

Il Risorgimento italiano.Una storia ancora controversa(a cura di Cesare Salmaggi)

Milano, Rizzoli, 2001, pp. 221 ISBN 88-17-86673-3,

Euro 7,70

Un libro denso, ricco di spun-ti ricostruttivi e riflessioni cri-tiche, in cui la competenza ita-lianista dell’autore gli fapadroneggiare una bibliografiavasta, consentendogli di forni-re al lettore le informazioniessenziali senza appesantirlecon inutili elenchi di nomi diprotagonisti secondari.

Martin Clark traccia unaffresco del problema italianodall’invasione francese (1796)al 1861, con un Epilogo proiet-tato nel primo decennio unita-rio e considerazioni finali lega-te all’attuale crisi del sistema-Italia.

In rapida sintesi: regimidella Restaurazione italianameno impopolari di quanto lapropaganda abbia detto, unmalessere veicolato da ufficia-

li napoleonici smobilitati e daceti emergenti esclusi dall’e-sercizio del potere politico,associazioni segrete come laCarboneria interessate a cospi-rare e destabilizzare gli assettiistituzionali decisi a Vienna nel1815.

Su tutto questo si inseriscela svolta impressa all’universocospiratorio dalla discesa incampo dell’«avvocato Giusep-pe Mazzini […] un giornalistadi grandi capacità, e un profe-ta» (pp. 65-66) che aggregaalcuni giovani entusiasti attor-no a un programma di «unità,libertà e indipendenza» cheavrebbe dovuto portare a unaItalia imperiale comprendentel’intera penisola, il Sud Tirolo,il Canton Ticino, la Corsica eMalta.

Il fallimento dei moti del1848-49 e dei governi provvi-sori (moderati e democratici),le disfatte piemontesi diCustoza e Novara, il successivo“decennio di preparazione”, lacentralità di Cavour nel man-tenere gli Stati Sardi ancoratiad una prospettiva europealiberal-rappresentativa sono alcentro di pagine avvincenti.

Meno convincente apparela ricostruzione della spedizio-ne dei Mille descritta dall’au-tore come «una delle più gran-di campagne militari di tutti itempi», condotta contro ilparere di Cavour: ipotesi rico-struttiva contraddetta dal Car-teggio del conte che propone unquadro interpretativo moltopiù sfaccettato.

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Mirabili, infine, le consi-derazioni finali sulla «pie-montesizzazione a oltranza»(pp. 140-144), sui limiti delnuovo assetto istituzionale for-temente censitario, sui “per-denti” dell’Unità: federalisti,democratici, contadini meri-dionali. Considerazioni amareche portano l’autore a dire: «èlecito sostenere che il Meri-dione avrebbe potuto avere unavvenire più prospero se fosserimasto uno Stato indipenden-te» (p. 153).

R. M.

Pietro CORRAO e Paolo VIOLA

Introduzione agli studi di storiaRoma, Donzelli, 2002, pp. 155

ISBN 88-7989-669-5,Euro 9,30

Agile volumetto che coniugal’intento divulgativo con l’esi-genza didattica di fare il puntosulle tendenze storiograficheche, succedutesi nel tempo,hanno variamente definito lostatuto della conoscenza stori-ca e l’atto stesso del fare storia.

Non è più il tempo dellastoria come «itinerario, di cuiogni epoca era una tappa, comese esistesse una meta, un’evo-luzione, una direzione, uncammino». È piuttosto ilmomento di una storia «mol-to più sofisticata intellettual-mente, ma che la società non sautilizzare, perché non rispon-de, non sa, né vuole risponde-re alle domande semplici rela-tive all’ordine che ogni epoca

sembrava darsi». Nonostantetale fattore di crisi, o forse pro-prio perciò, un libro comequesto ha ragione di esistere.

Onesto il privilegiamentodella prospettiva eurocentrica,non tanto per una scelta ideo-logica degli autori, ma per ilconvincimento comune adentrambi che certe categorieinterpretative come quella di“Medioevo” siano ancora forti,a patto che se ne riconosca lamatrice culturale di prove-nienza e non si pretenda diapplicarle con troppa disinvol-tura ad esperienze altre rispet-to a quella europea.

P. P

DMarco DE NICOLÒ

Trasformismo, autoritarismo,meridionalismo.

Il ministro dell’interno GiovanniNicotera

Bologna, Il Mulino, 2001,pp. 338

ISBN 88-15-08381-2,Euro 26,86

Frutto di una ricerca storicaaccurata e approfondita che haesaminato sia la storiografia adisposizione, sia i quotidianidel periodo, gli atti parlamen-tari e le fonti dirette pressol’Archivio centrale dello Stato,il Museo Centrale del Risorgi-mento e altri archivi o biblio-

teche in cui l’autore ha reperi-to documenti inediti, questolibro ricostruisce la vicendapolitica di uno dei personaggipiù controversi, e meno amati,del periodo post-unitario.

Il libro, senza voler «riabi-litare» il personaggio, analiz-za il sistema sociale in cui si èradicato Giovanni Nicotera, lasua organizzazione del mini-stero dell’Interno, la gestionedella piazza e dell’ordine pub-blico, la lotta alla mafia e allacamorra.

L’ascesa politica e il radi-camento che il deputato diSalerno ottiene nel Meridionesono dovuti, secondo la pro-fonda ricostruzione dell’auto-re, al progressivo consenso chetutta la Sinistra andava svilup-pando nel Sud: «La progressi-va penetrazione nelle ammini-strazioni locali; le proposte dispesa pubblica, vantaggiose peralcuni ceti e interessanti peraltri esclusi dalla politica ’’set-tentrionalistica’’ della Destra;la confluenza, in un disegno diriscatto del Mezzogiorno, diforze deluse, di qualunque ten-denza; la tessitura di una fittarete di clientele…» [p. 17-18].

Importante inoltre fu illegame stretto di Nicotera conla Massoneria, che ampliò larete di relazioni e di legami cheaveva intessuto soprattutto aNapoli e a Salerno.

Interessante poi comeNicotera si distacchi semprepiù dalle idee della Sinistrastorica spostandosi sulle posi-zioni di una Sinistra moderata

Quarantasei proposte di lettura

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e possibilista «pronta a sacri-ficare parte dei programmidella Sinistra storica per farconseguire al Mezzogiornomaggiori stanziamenti» [p.37].

Mancava nel panoramascientifico degli ultimi anni unlibro sul tema e quello di Mar-co De Nicolò riempie questovuoto, concentrandosi in par-ticolare sul ruolo di Nicoteracome ministro dell’Interno, ilcui metodo politico nella ricer-ca del consenso «non conobberiserve morali né politiche»[p. 320]

M. F.

Patrizia DOGLIANI

L’Europa a scuola.Percorsi dell’istruzione tra Otto-

cento e NovecentoRoma, Carocci, 2002, pp. 210

ISBN 88-430-2229-6,Euro 17,10

Al centro dell’indagine propo-staci da Patrizia Dogliani icomplessi percorsi della circo-lazione dei saperi in Europanegli ultimi due secoli, dallasfida dell’alfabetizzazione alconsolidamento dei sistemiscolastici nazionali, dallo spa-zio per uomini e donne all’or-ganizzazione dei sistemibibliotecari e museali.

Concepito originariamen-te quale parte di un più ampiolavoro collettaneo su Educazio-ne e qualificazione in Europa(non più dato alle stampe) iltesto è stato continuamente

rimaneggiato e arricchito dal-l’autrice che si è, in particola-re, interrogata anche «sul pro-cesso di integrazione culturalein Europa» (p. 12), grazieanche alle sue esperienze inUniversità inglesi e francesi.

R. M.

ELuigi EINAUDI,

Riflessioni di un liberale sullademocrazia 1943-1947

(a cura di Paolo Soddu) Firenze, Olschki, 2001, pp.

XVIII-300 ISBN 88 222 5037 0, [s. i. p.]

La presente raccolta copre ilperiodo che va dalla perma-nenza in Svizzera fino all’im-mediato dopoguerra, esclusiperò gli interventi di Einaudialla Costituente, e si dipanaquindi attorno al futuro dell’I-talia subito dopo la caduta delregime fascista.

In questo senso essarispecchia i tentativi dell’auto-re di affermare una visioneliberale della democrazia,applicata soprattutto alla sferad’intervento statale. E ciòappare significativo, se pensia-mo che le posizioni dell’econo-mista rimasero a lungo larga-mente minoritarie nel paese,pur garantendo, in alcunimomenti, la funzione di anti-

corpi a difesa di un liberalismocome Einaudi lo concepiva,ovvero «perfezionamento eelevazione della persona uma-na» e in quanto tale capace diporre freni e limiti all’inva-denza del potere.

«Il liberalismo è perciòuna dottrina di limiti; e lademocrazia diventa liberalesolo quando volontariamentesi astiene dall’esercitarecoazione sugli uomini nei cam-pi che l’ordine morale insegnaessere riservati all’individuo,dominio sacro della persona».Parole che fanno tutt’uno conquelle volte alla ricerca di for-me nuove di autogoverno dalbasso, come nell’articolo Via ilprefetto! (ricordato dallo stessoSoddu), che costituisce unadelle condanne più asprerispetto all’evoluzione delloStato italiano, per la sua natu-ra facile preda di una trasfor-mazione in senso autoritario.

Identico l’approccio riser-vato ai temi della libertà distampa e di religione, nonmeno che a quello dell’Europa,che è, anzi, il motivo di mag-giore novità negli scritti diquesto arco cronologico. Spe-cialmente per il rinnovato fer-vore nei confronti del proces-so di unificazione, che dettaall’autore alcune delle paginepiù ispirate, testimonianza nonsolo di una lucida lettura dellatragedia bellica, ma concretoindicatore di proposte opera-tive per il futuro del continen-te.

F. L.

Librido

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FJean-Claude FARCY

L’histoire de la justice françaisede la Révolution à nos jours.Trois décennies de recherchesParis, PUF, 2001, pp. 494

ISBN 2-13-051981-4, [s. i. p.]

È un lavoro di ampio respiroche apre nuovi cantieri diricerca, suscitando interroga-tivi e suggestioni; esso fa ilpunto sulla storiografia giudi-ziaria francese dell’ultimotrentennio attraverso lo spo-glio di un numero sterminatodi articoli, comunicazioni aconvegni, libri sull’argomento.

Per marcare una prima dif-ferenza con la situazione italia-na, dove il Consiglio nazionaledelle ricerche ha progressiva-mente emarginato i settori“umanistici” e il Ministerodella Giustizia con il suo inge-gner Guardasigilli Castelli —come ci dicono le cronache —si occupa d’altro, questo librodi Jean-Claude Farcy non è unprodotto del caso. L’histoire dela justice française costituisceinfatti il rapporto scientificodella «Mission de rechercheDroit et Justice», finanziatasotto la forma giuridica del GIP:un groupement d’intérêt publiccostituito dal Ministero fran-cese della Giustizia e dalC.N.R.S. (l’equivalente delnostro C.N.R.).

Il lavoro ha un impiantotematico e un passo analitico;esso è suscettivo di una dupli-ce fruizione: può essere lettointegralmente quale messa apunto storiografica; oppure,può funzionare da repertoriotematico. Vale a dire che, inter-rogato su una singola questio-ne (la giustizia rivoluzionaria,la giuria, ecc.), il libro fornisceal lettore un esaustivo quadrodi riferimento.

Ma, veniamo alla strutturadel libro; dopo un capitolo ditaglio metodologico — «Unehistoire jeune» — seguono«Lectures de la criminalité»(2), «Normes, institutions etpratiques judiciaires» (3),«Prisons et pénalités» (4),«Justice et répression politi-que» (5), capitoli chiusi da unastrutturatissima «Bibliogra-phie sommaire» e da un indi-ce degli autori citati. Ricchis-sime le note, che si aprono asuggestioni bibliograficheulteriori.

R. M.

Mauro FOTIA

Il liberalismo incompiuto.Gaetano Mosca, Vittorio Ema-nuele Orlando, Santi Romanotra pensiero europeo e cultura

meridionaleMilano, Guerini e Associati,

2001, pp. 260ISBN 88-8335-183-5,

[s. i. p.]

Il libro affronta il tema delliberalismo attraverso lo studiodi alcuni nodi tematici comuni

ai tre autori: la rappresentanza,il partito politico, il concetto diautarchia.

Naturalmente ognunointraprende un proprio per-corso scientifico, con sceltedifferenti: la rappresentanzapuò essere un male «necessa-rio» da controllare con la pub-blicità degli atti parlamentari eil referendum (Mosca); oppu-re un istituto che rappresentalo Stato sovrano (Orlando), maanche un artificio del diritto dacontrastare con un istituziona-lismo pluralista (Romano).

Sicuramente la figura diRomano si staglia sulle altredue per la peculiare capacità dicogliere le novità della societàmoderna e quindi risponderecon più idonei ordinamentipolitici e giuridici. Tuttavianon viene mai meno l’idea sta-talistica, cioè il rafforzamentodel potere centrale e delle pre-rogative di controllo dellasocietà nell’ottica della conser-vazione dello Stato liberale.

Lo studio evidenzia unimprinting originario che acco-muna i tre autori, una sorta dipessimismo che trova le pro-prie radici nel «sicilianismo»:la sedimentazione di datiambientali, biologici, storici eculturali. Sarebbe quindi il«sicilianismo» la fonte del-l’atteggiamento di chiusura econservazione dell’ordine esi-stente, dell’inevitabile libera-lismo incompiuto.

M. S.

Quarantasei proposte di lettura

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H. FRIESE, A. NEGRI, P. WAGNER

(a cura di)Europa politica

Ragioni di una necessitàRoma, Manifestolibri, 2002,

pp. 286ISBN 88-7285-265-X,

Euro 16,50

Il libro cerca di pensare un’Eu-ropa alternativa al modello distato nazionale, respingendo-ne la mera riproposizione supiù larga scala. In aperta pole-mica sia con i «socialdemocra-tici conservatori», sia con iteorici critici della globalizza-zione, gli autori di questo volu-me auspicano un’Europademocratica e solidale cheassolva la funzione di polo con-tro-egemonico.

Nella prima parte, dedica-ta alla politica e alla cultura inEuropa, emerge per intensità ilsaggio di Massimo CacciariDigressioni su Impero e tre Rome,mentre, nella parte dedicataall’Europa rispetto alla costel-lazione globale odierna, emer-ge per interesse il lavoro aquattro mani di Alessandro DalLago e Sandro Mezzadra I con-fini impensati dell’Europa, dovei due autori mettono in evi-denza come le frontiere del-l’Europa, soprattutto dopo il1989, si siano moltiplicate ediversificate e come questoabbia disseminato il continen-te di nuovi conflitti.

Il libro è chiuso da un bre-ve ma denso saggio di AntonioNegri – Strategie politiche perl’Europa. Europa necessaria, ma

possibile? – in cui si sottolineal’importanza di un nuovo sog-getto europeo che vogliacostruire una democrazia asso-luta e che si proponga comecontro-Impero.

M. F.

GLuigi GAMBINO

Un progetto di Stato perfetto:la “Monarchie aristodemocrati-

que”di Turquet de Mayerne (1611)

Torino, Giappichelli, 2000,pp. 188

ISBN 88-348-0873-8,Euro 14, 46

Questa monografia è dedicataad uno degli scritti più interes-santi ma meno conosciuti diquelli apparsi in Franciadurante il regno di Enrico IV ela reggenza di Maria de’Medi-ci, la cui elaborazione risalivaperò al 1591, in un contestodunque affatto diverso.

La monarchie aristodemo-cratique proponeva una radi-cale e profonda riforma del-l’assetto socio-politico france-se, privilegiando la forma digoverno mista proprio quandole teorie bodiniane sembrava-no averla resa oramai obsoleta.Fulcro di questo nuovo ordina-mento erano gli Stati Generali,ai quali spetta la sovranità cheè solo comunicata al re, e che

rappresentano l’espressione di«una monarchia regolata etemperata da leggi, sorretta e,per così dire, in simbiosi conl’aristocrazia, con i ceti pro-duttivi e con il popolo, comecondizione per il manteni-mento della libertà» (p.10). A questo fine acquista partico-lare rilevanza per Mayerne ilsistema dei “contrappesi”(contrepoids), idea ricorrentenella Monarchie aristodemocra-tique allorquando vengonodefiniti i rapporti fra le forzesociali e le istituzioni, facendoassumere a questo testo alcunecaratteristiche che, affermaRoland Mousnier, «font pen-ser irrésistiblement à la philo-sophie des lumières» (p.51).

A. C.

Marcel GAUCHET

La démocratie contre elle-mêmeParis, Gallimard, 2002,

pp. 385ISBN 2-07-076387-0,

Euro 10,50

L’ultimo libro di Marcel Gau-chet raccoglie i suoi articolipubblicati sulla rivista «LeDébat» negli ultimi vent’anni.Il libro si apre con un articolodedicato ai diritti dell’uomo, Lesdroits de l’homme ne sont pas unepolitique, e si conclude con unsaggio speculare a quello diapertura, significativamenteintitolato Quand le droits del’homme deviennent une politique.

Gli altri saggi sono dedica-ti in buona parte ad una que-

Librido

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stione che è stata a lungo alcentro degli interessi di Gau-chet, quella della religione,soprattutto all’interno di unasocietà fortemente secolarizza-ta e di fronte – per usare leparole di un suo famoso libro– al désenchantement du monde.

Nel complesso il libro sisofferma sullo sviluppo e sulcambiamento a cui abbiamoassistito negli ultimi anni,soprattutto rispetto ai sistemitotalitari dell’Europa dell’est ealla loro caduta. La democra-zia, apparentemente trionfan-te, sembra combattere controse stessa – per riprendere il beltitolo del libro, che però nonrispecchia a pieno il contenu-to dell’opera – e negli ultimianni si è come chiusa in sestessa. La posta in gioco per lademocrazia è appunto, secon-do l’autore, quella di sopravvi-vere al proprio trionfo.

M. F.

Bernard GAUDILLÈRE

Le régime politique italienParis, PUF, 1999, pp. 127

ISBN 2-13-049787-X,Euro 6,50

Inserito nella collana “Quesais-je?” questo saggio intro-duce il lettore nei meandri del-la complessità istituzionale ita-liana, condita da immobilismo,processi decisionali lenti e nontrasparenti, palese appesanti-mento della struttura dei pote-ri pubblici. Ne risulta una let-tura che sarebbe utilissima per

integrare il formalismo deinostri manuali di diritto costi-tuzionale con un solido testoche traccia un sintetico edesauriente affresco della costi-tuzione materiale italiana.

Anche in questo caso, l’oc-chio critico di uno studiosoesterno all’ambiente italianogli permette di cogliere piùagevolmente distorsioni eincongruenze che, viceversa,trovano presso di noi mentiormai “mitridatizzate” e, quin-di, incapaci di prendere attodell’immenso saldo negativocon cui si presenta all’opinio-ne pubblica europea un siste-ma politico carico di disfunzio-ni quale quello italiano.

In poco più di un centinaiodi pagine, dense di dati e valu-tazioni ma assistite da una effi-cace qualità di scrittura, il let-tore è chiamato a fare i conticon un presidente dellaRepubblica privo di poterisostanziali (il giudizio andreb-be, però, sfumato), con un pre-sidente del Consiglio disegna-to come primus inter pares deicolleghi di Gabinetto, e conuna legge elettorale ultra-pro-porzionale (fino al 1994) cheha abbinato al multi-partiti-smo esasperato un ancor piùesasperato multi-correntismo.

R. M.

Giuseppe GIANNANTONJ

Lavoro e tecnica in Zecca tra XVIe XVIII secolo.

Produzione e circolazione mone-taria dell’età moderna

Bologna, Costa Editore, 2001,

pp. 127 [s.i.p.]

Con meritorio mecenatismograndi istituti bancari finan-ziano pubblicazioni relativealla storia della moneta e dellamonetazione. Si tratta general-mente di volumi in cui la parteiconografica (spesso pregevo-le) prevale sul testo scritto.

Nel volume qui presentato,l’assenza del prezzo di coperti-na trasforma un lavoro di qual-che interesse (con un suo mer-cato) in una strenna semi-clandestina e ghettizzata.

Questo lavoro tradisce lanatura composita delle sueparti (tracce di conferenze,appunti di corsi), denunciandouna certa timidezza ricostrut-tiva, evidenziata anche dall’usodi periodi cortissimi costi-tuenti altrettanti capoversi.

Si tratta però di un saggiodocumentato che colma unvuoto ricostruttivo, introdu-cendo il lettore nei misteri del-la metallurgia d’Antico regimee della progressiva meccaniz-zazione del conio monetario,soffermandosi in particolaresulla Zecca di Bologna.

Interessante – anche seingenua nel trattamento deirisvolti processuali, estraneialla competenza dell’autore –la ricostruzione della vicendadel «birbo zecchiere» fraudo-lento addetto al conio.

R. M.

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Chiara GIORGI, La sinistra alla Costituente.

Per una storia del dibattito isti-tuzionale

Roma, Carocci, 2001, pp. 261ISBN 88-430-1770-5,

Euro 20,14

Una tesi storiografica e politi-ca consolidata rileva come lasinistra italiana, sospesa eoscillante tra una forma diavversione di origine marxistanei confronti del carattereliberale e borghese delle isti-tuzioni rappresentative parla-mentari e una prudente fidu-cia verso il potenziale demo-cratico contenuto in esse,abbia manifestato un deficitgiuridico nel dibattito svoltoall’Assemblea costituente.

Il libro di Chiara Giorgicerca di articolare questa posi-zione complessiva, eviden-ziando il contributo offerto daquattro protagonisti del dibat-tito costituzionale (Basso, Ter-racini, Laconi e Crisafulli).

Un lavoro di rilievo, dun-que, soprattutto per la cono-scenza delle posizioni e deicontenuti specifici da questiespressi, che non offre peròelementi particolari di aggior-namento nella difficile operadi approfondimento e di rico-struzione della cultura giuridi-co-costituzionale complessivadella sinistra italiana.

G. R.

HHarry HEARDER

CavourUn europeo piemontese

Roma-Bari, Laterza, 2000,pp. XII-270

ISBN 88-420-5803-3,Euro 18,08

Non sempre il tradurre denotaapertura cosmopolita; puòanche accadere che i “caccia-tori di teste” (talora, nonnecessariamente specialistidella materia), nell’ansia ditrovare dietro l’angolo un MackSmith o un Trevelyan si preci-pitino sul primo titolo esteronon opzionato dalla concor-renza.

È quanto accade a questoCavour che si presenta comeuna biografia dell’insigne sta-tista, rivelandosi invece in iti-nere un raccontino divulgativodove l’appiglio cavouriano siriduce a esile pretesto. Zeppodei luoghi comuni tipici d’un“risorgimentismo” d’altritempi, il libro appare pensatoper un pubblico che non sappiamolto del Risorgimento italia-no.

Qualche imprecisione deitraduttori rende qua e là fasti-diosa la lettura; per esempio,quando si citano i testi di unautore ottocentesco francese,che senso ha fornire i titoli inlingua inglese, piuttosto che initaliano, tenuto conto che l’ori-

ginale era francese? (p. 57).Inoltre, a Cavour viene attri-buita nel 1848 la richiestad’«istituzione di una guardiacivile» (p. 59), quando, contutta evidenza, si intende allu-dere alla Guardia “civica”,destinata ben presto a trasfor-marsi in Guardia Nazionale.

Aggiungo che la lettura èinutilmente appesantita dal-l’accorpamento delle note allafine del volume: ma è questauna singolare scelta editorialevieppiù seguita negli ultimianni.

R. M.

IFrancesco INGRAO

La bandiera degli elettori italianiPalermo, Sellerio, 2001,

pp. 211ISBN 88-389-1695-0,

Euro 14,46

Ci viene riproposto, gramscia-namente prefato, un interes-sante e dimenticato scritto delbisnonno del leader comunistaPietro Ingrao, già presidentedella Camera dei deputati dopoil 1976. Si tratta di un manife-sto politico non privo di inge-nuità — «il voto è l’arma lega-le dei partiti, che sono gli eser-citi della pace» (p. 92) — pub-blicato a Napoli nel 1876.

In quelle pagine, l’ex maz-ziniano e garibaldino sicilianoFrancesco Calogero Ingrao

Librido

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(Grotte, 1843 - Lenola, 1918)esprime la convinzione che ilpassaggio di consegne dallaDestra storica alla Sinistra par-lamentare (18 marzo 1876)possa rappresentare una svol-ta per il paese. Anche se lasciaperplessi l’entusiasmo con cuiaffida le proprie aspettativepalingenetiche agli «antece-denti dell’intimo compagno diCarlo Pisacane» (p. 65): ilsinistro ministro degli InterniGiovanni Nicotera, sopravvis-suto all’eccidio di Sapri in cir-costanze mai chiarite.

Il lavoro non è privo diambizioni e denota nell’autorebuone (quanto affastellate) let-ture, spaziando egli da Cicero-ne a Tacito, da Hobbes a Rous-seau, da Romagnosi a Giobertie Mazzini, da Stuart Mill a Cat-taneo e Ferrari; non senzaqualche piccolo pasticcio ditipo sincretico che sarebbeingeneroso contestargli.

Qua e là si intravvedonoanche sicuri indizi della futuraderiva espansionista di quellaSinistra militare garibaldina,divenuta forza di governo dopoil Settantasei. Come quandoFrancesco Ingrao scrive: “spe-riamo che la Sinistra nondimentichi che Nizza, il CantonTicino, il Tirolo, l’Istria, la Cor-sica e Malta sono terre italiane”(p. 117). Sarà quella un’osses-sione di tutti i governi italianifino alla disfatta del 1943.

Favorevole all’emancipa-zione delle donne, sostenitoredi un sistema educativo in cuil’insegnamento delle lingue

moderne (francese, inglese,tedesco) soppianti latino e gre-co, per Francesco Ingrao la car-tina di tornasole per la Sinistradi governo è la riforma eletto-rale che estenda il diritto divoto a tutti gli alfabetizzati, sop-piantando i collegi uninomina-li con lo scrutinio di lista.

Nel complesso, una letturadi indubbio interesse che offreal lettore di oggi un preziosospaccato di aspettative, illusio-ni, luoghi comuni di un since-ro e appassionato riformista diieri.

R. M.

KE.H. KOSSMANN

Political Thought in the DutchRepublic. Three Studies

Koninklijke Nederlandse Aka-demie van Wetenschappen, Amsterdam 2000, pp. 197

ISBN 90-6984-281-5, [s.i.p.]

In questo volume vengonoripubblicati tre dei più impor-tanti contributi di E.H. Kos-smann, uno dei maggioriconoscitori del pensiero politi-co olandese, scritti rispettiva-mente nel 1960, 1980 e 1985.Si segnala anzitutto il primostudio intitolato The Course ofDutch Poltitical Theory in theSeventeenth Century (pp. 25-129), tradotto per l’occasionein lingua inglese dall’originale

neerlandese. Vi è contenuta un’ampia

panoramica su fonti e testi assairilevanti ma che raramentehanno interessato gli studiosidel pensiero politico del XVIIsecolo, forse anche per la diffi-coltà rappresentata dalla lingua.

Questo contributo vieneperò considerato dagli espertiil punto di partenza per qual-siasi ricerca sul pensiero poli-tico olandese della prima etàmoderna. Assai importantisono anche gli scritti dedicatiai temi Popular Sovereignty at theBeginning of the Dutch AncienRegime e Dutch Republicanism,in cui l’autore esamina il casodella Repubblica delle Provin-ce Unite alla luce delle tesicontenute negli influenti lavo-ri di J. Pocock e Q. Skinner,rilevando la specificità e lacomplessità della tradizionerepubblicana dei Paesi Bassi.

A. C.

Jacques KRYNEN

(sous la direction de)L’élection des juges

Étude historique française etcontemporaine

Paris, PUF, 1999, pp. 278ISBN 2-13-049954-6,

Euro 21,04

Una giustizia resa in nome delpopolo, può essere ammini-strata da giudici selezionatiattraverso pubblico concorso?E l’inquietudine che sembralambire l’ordine giudiziario,sarebbe attenuata qualora l’in-

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vestitura elettorale sostituissela nomina per concorso?

Attorno a tali questioni, ungruppo di storici si è interroga-to, partendo dall’esperienzarivoluzionaria che con la leggedel 24 agosto 1790 ha introdot-to per un decennio il criterioelettivo, ripercorrendo le trac-ce di un dibattito che sino allaTerza Repubblica (1875 – 1940)ha contrapposto la scheda allanomina burocratica; aprendo-si, infine, a due esperienzestraniere — la svizzera e l’ame-ricana — che ancora fannoricorso (sia pure in formediverse) all’elezione dei giudi-ci.

Ne risulta un dossier denso,ricco di spunti problematicinon privi d’interesse in un’etàdi transizione quale la nostra,dove negli Stati dell’Unioneeuropea il giudice sarà semprepiù chiamato a fare i conti conla tendenziale supremazia deldiritto comunitario.

R. M.

LLetture urbinati

di politica e storiaRassegna a cura dell’Istituto

storico-politicodell’Università degli studi di

Urbino 9/2000

Segnaliamo qui un volume del-la rivista urbinate di politica estoria che dedica questo nume-

ro in particolare alla storia delRisorgimento italiano, allarivoluzione russa e alla politi-ca del Novecento europeo.

Interessante la letturacombinata che fa Raffaele D’A-gata, coordinatore della rivista,dei libri di Giovanni Aliberti,Lo Stato postfeudale. Burocraziegovernanti ed élites locali nelMezzogiorno prima e dopo l’uni-tà e di Roberto Martucci, L’in-venzione dell’Italia unita 1855-1864, il primo dedicato allaconfigurazione di una forma-Stato di tipo “postfeudale”piuttosto che “moderna” nelMezzogiorno italiano; il secon-do agli eventi che trasformaro-no un paese frammentato inpiù Stati sovrani in uno Statounificato. L’elemento che, inun certo senso, accomuna i duelibri è l’attenzione rivolta ver-so il Mezzogiorno che costitui-sce, secondo D’Agata, «unoggetto d’osservazione favori-to, essendo la sede del piùesteso tra gli organismi statalidella Penisola» [p. 1]

Di notevole rilievo, inoltre,anche se non totalmente con-divisibile nell’impostazione enel contenuto, l’articolo diMatteo Luigi Napolitano sulsilenzio della chiesa cattolica difronte al nazismo. Napolitano,leggendo il libro di padre Pier-re Blet, che aveva partecipatoalla pubblicazione dei docu-menti d’archivio relativi allaseconda guerra mondiale, PioXII e la seconda guerra mondia-le negli archivi vaticani, sostie-ne, argomentando in maniera

forse un po’ troppo unidirezio-nale, che la chiesa non tacquedi fronte al nazismo e invita adiffidare della «pre-fabrica-zione di leggende» [p. 50].

M. F.

MErica Joy MANNUCCI

La rivoluzione franceseRoma, Carocci, 2002, pp. 128

ISBN 88-430-2110-9,Euro 8,20

È questo un libretto che faràstorcere il naso a tutti queipuristi che immaginano cheun’agile sintesi sulla Rivoluzio-ne francese possa essere fir-mata solo da autori più che bla-sonati, che hanno già abbinatoi propri nomi a storie generalidella Rivoluzione o ad indaginitematiche di grande rilievo.

Non è questo lo spirito del-la collana “Le Bussole” che hagià prodotto (a costi modesti equindi con un discreto rappor-to qualità/prezzo) una quaran-tina di titoli destinati ad inte-grare le conoscenze di base,fornendo anche utili indicazio-ni di approfondimento biblio-grafico.

Sotto questo profilo il lavo-ro di Erica Mannucci ha cen-trato l’obiettivo prefissosi: illettore disinformato ma inte-ressato, arrivando a p. 128potrà dire di conoscere le coor-

Librido

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dinate essenziali di uno deglieventi che hanno fondato lanostra contemporaneità.

Una materia, di per sévastissima, è stata accorpata incinque veloci capitoli dedicatirispettivamente alla rotturarivoluzionaria (1), alla vitapolitica (2), ad economia esocietà (3), alla vita quotidiana(4), alla cultura rivoluzionaria(5). Il tutto è integrato da unautile cronologia degli eventi, daundici schede di approfondi-mento, da quattro carte geo-grafiche e da cinque riepiloghidelle questioni sul tappeto.

R. M.

Renée MARTINAGE

Histoire du droit pénal enEurope

Paris, PUF, 1998, pp. 127ISBN 2-13-049413-7,

Euro 6,50

Lavoro ambizioso che tratteg-gia la storia di una sorta didiritto penale comune europeo— sia pur limitato a Francia,Inghilterra e poco altro (Statitedeschi, Toscana) — dalMedioevo all’età delle codifi-cazioni ottocentesche.

Nella logica della collana“Que sais-je?” che non superamai le centotrenta pagine edove i titoli s’intersecano tra diloro, non c’è spazio per la com-pletezza. Ed è la stessa autrice— nota e, soprattutto, consape-vole specialista — a ricordarce-lo, quando si rammarica di nonpoter lambire i territori del

processo, legatissimi al dirittopenale sostanziale nella lungadurata che è oggetto della suaricostruzione.

Il lavoro si divide in trecapitoli. Nel primo, l’autrice ciguida attraverso il crepuscolodel diritto consuetudinariomedievale e il declino delletransazioni private fino all’e-mersione di una repressionepubblica assistita da un draco-niano (ma, quanto applicato?)sistema punitivo.

Il secondo capitolo è inte-ramente dedicato al Settecen-to riformatore: dai suoi autori— Montesquieu, Beccaria, Vol-taire, Servan, Dupaty, Lacre-telle, Bergasse, Filangieri,Howard, Romilly, Bentham —alle più importanti iniziativelegislative di riforma dellaseconda metà del secolo, condieci dense pagine sull’operacodificatoria della Rivoluzionefrancese.

Con il terzo capitolo faccia-mo i conti con «la naissance dudroit pénal moderne»: l’eradei codici è aperta dai draco-niano testo napoleonico del1810 (Francia), ma la Martina-ge considera tale (e cioè draco-niano) anche il codice bavare-se del 1813, benché esso siauniversalmente considerato unprodotto dell’illuminismoriformatore di Anselm Feuer-bach; prosegue con i codici dimetà Ottocento — prussianodel 1851 e austriaco del 1852 —ignorando un caposaldo rifor-matore quale il codice penaletoscano “Mori” del 1853;

approda, infine, alla «efferve-scence codificatrice de la fin dusiècle» che vede in tutta Euro-pa la codificazione delle circo-stanze attenuanti, una maggio-re attenzione alla distinzionetra tentativo e atto consumato,un crescente regresso dellapena di morte.

R. M.

Fernanda MAZZANTI PEPE

Costituzione e diritti fondamen-tali in Mably

Genova, Name, 2001, pp. 127ISBN 88-87298-32-7,

Euro 11,88

Appaiono qui raccolti gli Attidella Giornata di studio orga-nizzata all’Università di Genovail 25 novembre 1998 dalla stes-sa curatrice, nota studiosa delSettecento costituzionale e, inparticolare, di Mably e Brissot.

Il volume attesta anche lafortuna italiana del pensatore,sottratto negli studi degli ulti-mi decenni ad interpretazioniche ne appiattivano la com-plessità, facendone di volta involta un passatista, un proto-comunista o un teorico dell’u-topia.

I cinque saggi qui pubbli-cati riflettono sul contributodato da Mably allo sviluppo delcostituzionalismo moderno,soffermandosi in particolaresulla sua concezione dei droitscommuns de l’humanité e suisuoi apporti alla definizione diun moderno sistema di rela-zioni internazionali.

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R. M.Giles MILTON

L’isola della noce moscata.Come avventurieri, pirati e mer-

canti di spezie cambiarono lastoria del mondo

Milano, Rizzoli, 1999, pp. 373ISBN 88-17-86215-0,

Euro 15,49

Quando le spezie erano fonda-mentali per la conservazionedelle carni — e per coprirnel’acre odore di putrefazione — esi favoleggiava di loro presun-te virtù afrodisiaco-terapeuti-che, esse avevano un rilevantevalore di mercato, spessosuperiore a quello dell’oro.

Per impadronirsene, lePotenze marittime europeeproiettavano in estremoOriente i conflitti del vecchiocontinente.

Basandosi sui giornali dibordo e sui diari di avventurie-ri e lupi di mare del XVI e XVIIsecolo — Cornelis Houtman,Francis Drake, James Lanca-ster e tanti altri — l’autore cirestituisce un affresco dell’e-spansione marinara inglese,portoghese ed olandese cheaprì la strada alla futura colo-nizzazione.

Aiutato dall’agile traduzio-ne di Sergio Mancini, il lettorevede nascere i primi tentativicommerciali della Compagniadelle Indie Orientali; assistealla complessità delle trans-azioni tra mercanti che nonparlavano la stessa lingua;apprende, infine, quanto labi-le fosse il confine tra marina

mercantile e pirateria e quan-to quest’ultima fosse praticata,con astuzie infinite, da europeied orientali.

R. M.

Vittorio MORFINO,Il tempo e l’occasione.

L’incontro Spinoza Machiavelli, Milano, LED, 2002, pp. 280

ISBN 88-7916-181-4,Euro 24,00

Si tratta del primo tentativo diapprofondire l’analisi storico-filosofica e l’interpretazioneteorica del rapporto fra Spino-za e Machiavelli. Partendo dal-l’immagine e dalla funzioneteorica di Machiavelli nei testidella biblioteca di Spinoza,attraverso i riferimenti espli-citi all’acutissimus fiorentino,fino all’utilizzo implicito manon meno importante di argo-menti machiavelliani, Morfinoricostruisce il Kampfplatz filo-sofico entro cui Spinoza sischiera, contro la tradizioneidealistica e giusnaturalistico-contrattualista, indicando nel-l’atomismo di Democrito, Epi-curo e Lucrezio le fonti princi-pali – insieme appunto aMachiavelli – di quella cheAlthusser ha chiamato la «cor-rente sotterranea del materia-lismo».

Nella seconda parte dellibro l’autore approfondisce glieffetti teorici dell’incontroSpinoza-Machiavelli. Nellaprima fase del suo pensieroSpinoza aveva elaborato unaconcezione della conoscenza

basata, come per Aristotele,sullo scire per causas. Tuttaviaproprio il concetto di causasubisce un’evoluzione, passan-do da una concezione di ordosive series ad una di ordo siveconnexio.

Attraverso le immaginispinoziane elaborate da alcuniautori del Pantheismusstreit,Morfino sottolinea come lariflessione spinoziana sullateoria della storia di Machia-velli contribuisca alla costru-zione di un sistema estraneo adogni finalismo, a favore di unaconcezione complessa dellatemporalità così come di una«ontologia della relazione»caratterizzata dal «primatodell’aleatorio su ogni teologia eteleologia della Causa».

F. D. L.

PThomas PAINE

L’età della ragione(a cura di Erica Joy Mannucci)

Como, Ibis, 2000, pp. 131ISBN 88-7164-094-2,

Euro 8,78

Come ricorda la curatrice EricaJ. Mannucci nella sua densaIntroduzione, «The Age of Reasonfu un fenomeno editoriale diportata eccezionale» (p. 9) tan-to in Gran Bretagna che negliStati Uniti. Ne restano tracce allaBritish Library: ventiquattroedizioni (contemporanee e

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moderne) in inglese e due infrancese e in tedesco, entrambedel 1794.

Non desta meraviglia chequesto suo pamphlet — in cui,come al solito, Thomas Paine(1737-1809) utilizza un linguag-gio “parlato” per raggiungereimmediatamente le classi popo-lari alfabetizzate — abbia destatoscandalo nel Regno Unito, deter-minandone il rogo sulla pubbli-ca piazza, accompagnato dallacondanna in effigie dell’autore.

Infatti, il rivoluzionario epensatore anglo-americano inquesto suo pamphlet analizza ilsignificato delle credenze reli-giose, enfatizzando con l’abitua-le vis polemica incongruenze econtraddizioni di ebraismo e cri-stianesimo. Una provvidenzialeelezione alla ConvenzioneNazionale francese (1792) lo sot-trasse ai rigori dei giudici bri-tannici, aprendogli però rapida-mente le porte delle carceri pari-gine (1793-94) durante il Terro-re e ben oltre Termidoro.

R. M.

Alessia PEDIO, La cultura del totalitarismo

impefetto. Il Dizionario di politica del

Partito Nazionale Fascista(1940)

Milano, Unicopli, 2000,pp. 290

ISBN 88-400-0605-2,Euro 16,52

L’opera analizza in modo det-tagliato il contesto culturale e

politico, nonché la genesi delDizionario di Politica del PNFnel 1940, tenendo conto sia delcontributo degli autori legati alregime sia di quello di uominidi cultura ormai lontani dall’o-rizzonte ideologico dello stes-so (Walter Maturi, Arturo Car-lo Jemolo, Federico Chabod,Delio Cantimori) che, ugual-mente, parteciparono allacompilazione dell’opera.

Tale analisi riesce a rende-re in modo efficace il caratterecomplesso e problematico diun’opera evidentementesegnata da un alto grado dipoliticizzazione.

Da rilevare sono la prefa-zione di Adrian Lyttelton e ilparticolareggiato lemmariogenerale.

L. M.

Luca POLESE REMAGGI

«Il Ponte» di Calamandrei1945-1956

Firenze, Leo S. Olschki, 2001,pp. 444

ISBN 88-222-5040-0, [s.i.p.]

Ricerca ricca e documentata,questo lavoro di Polese Remag-gi si affianca ad altri lavori sul-la storia di alcune riviste –come il «Mondo» di MarioPannunzio – inserendosi nellepolemiche sull’azionismo,risalenti agli anni Novanta, etuttora aperte.

Le origini della rivista diPiero Calamndrei, che aveval’ambizione di essere un«ponte» per gli intellettuali, si

può collocare a cavallo tra il«liberalsocialismo» toscano eil «giellismo» piemontese

L’autore contestualizza larivista nella sua epoca storicasenza, però, che la storia d’I-talia del decennio analizzatodivenga l’oggetto del libro.Quasi tutto il lavoro tende acollegare l’esperienza del«Ponte» con l’eredità del PdAe a sottolineare come la rivistafosse una tribuna per la lottaper la “rivoluzione democra-tica”, per la riforma istituzio-nale dello Stato, per l’istitu-zionalizzazione dei Cln, per lapenetrazione dello spirito del-la Resistenza nella vita delloStato, per una difesa del mer-cato senza dimenticare la que-stione sociale, per la criticanei confronti dei partiti dimassa, per la critica del mode-ratismo e per una criticaaltrettanto dura verso laDemocrazia cristiana e versola confessionalizzazione delloStato italiano.

La battaglia politico-cultu-rale del «Ponte» degli ultimianni continua, in coincidenzacon il centrismo in Italia e laGuerra fredda nel sistemainternazionale, attraverso laricerca di una terza via traAmerica e Russia, affrontandotematiche come il federalismoe il socialismo.

Infine l’ultima battagliapolitica, questa volta vittorio-sa, sarà quella dell’”Unitàpopolare” contro la «leggetruffa», progetto di legge pre-sentato da Scelba nell’ottobre

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1952 che, lungi dall’essere untentativo di stabilizzare il siste-ma politico in senso maggiori-tario – «tesi anacronistica chenon tiene conto dell’impatto diuna tale modificazione sul con-testo politico della guerra fred-da [p. 394]» – avrebbe emar-ginato le sinistre nel Parla-mento e nel paese.

M. F.

Geminello PRETEROSSI

AutoritàBologna, Il Mulino, 2002,

pp. 188ISBN 88-15-08778-8,

Euro 10,50

In questo libro si ripercorrel’evoluzione del termine-con-cetto di autorità, con l’impor-tante obiettivo di fornire stru-menti utili a districarsi nellaaccentuata polisemia che locontraddistingue all’internodella cultura contemporanea.

L’analisi è attenta e partedall’originario ambito deldiritto romano per arrivare –passando attraverso le diversefasi del pensiero (la patristica,la Riforma, l’illuminismo, lacontrorivoluzione, il liberali-smo) – fino alle teorie dellemoderne scienze sociali.

Forse, la ricostruzione chene viene risulta sbilanciataproprio in quest’ultimo senso,con una abbondante metà delvolume riservata ai soli XIX eXX secolo. Il conseguenteeccesso di speculazione dottri-nale sui pensatori della con-

temporaneità induce così inalcune parti una complessità diesposizione che poco si addicea un’opera che vorrebbe essere –per quanto in senso alto – divul-gativa.

In certi casi “simplicitas, nonauctoritas, facit librum”.

L. M.

RFabrizio ROSSI

Saggio sul sistema politico dell’I-talia liberale.

Procedure fiduciarie e sistemadei partiti fra Otto e NovecentoSoveria Mannelli, Rubbettino

Editore, 2001, pp. 153,ISBN 88-7284-672-2,

[s. i. p.]

Si tratta di un agile e interessan-te saggio che analizza la forma digoverno cosiddetta della “dop-pia fiducia” (parlamentare eregia) instauratasi nella monar-chia costituzionale sabauda.

Il punto focale di attenzionecoincide con uno dei due poli ditale forma di governo, il «ver-sante parlamentare», che vieneanalizzato attraverso tre com-plementari livelli di analisi: ilrapporto tra gli organi statali divertice, la progressiva afferma-zione dei partiti e il sistema elet-torale.

Più in particolare, Rossisegue il percorso evolutivo del-le diverse procedure con le qua-

li si registra la fiducia dellaCamera nei confronti del Gabi-netto: percorso che si dipana trainterpellanze e interrogazioniministeriali, «sincero esperi-mento», fiducia preventiva,fiducia della Camera neoeletta,dibattito sull’indirizzo di rispo-sta al discorso della Corona,prassi britannica, modello fran-cese, pratiche istituzionalinostrane, ma non riesce mai acondurre – si fa giustamentenotare – ad una compiuta formaparlamentare.

P. C.

SQuentin SKINNER

Les fondaments de la penséepolitique moderne

Paris, Éd.A.Michel, 2001,pp. 923

ISBN 2-226-11706-7,[s. i. p.]

Inedito del grande studioso diCambdrige che, affidandosi allatraduzione di J.Grosmann e J-YPouillout, ricostruisce la storiadel pensiero politico fra la finedel Medioevo e l’avvento dellaModernità.

L’approccio metodologico èquello a cui Skinner ci ha ora-mai abituati: il rifiuto di una sto-ria fatta attraverso i grandi clas-sici (esplicita la presa di distan-za dall’Essor de la philosophie poli-tique au XVIe siècle di P.Mesnard,

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di cui pure si riconosce il valoreindiscusso).

Prevale, piuttosto, la letturain grado di restituire «la matri-ce sociale et intellectuelle géné-rale dont sont issus les travaux»dei teorici. Ed anche la scelta delperiodo (XIII-XVI secolo)risponde alle caratteristiche piùproprie della ricerca skinneria-na: tre secoli cruciali per la gra-duale elaborazione del lessicopolitico moderno, in specialmodo del lemma “Stato”

P. P.

Quentin SKINNER,Yves Charles ZARKA

Hobbes. The Amsterdam Debate.

Edited and introduced by HansBlom

Hildesheim, Zürich, New York,Olms Verlag 2001,

pp. 87ISBN 3-487-11390-2,

[s. i. p.]

Due dei maggiori studiosi mon-diali del pensiero politicomoderno, capostipiti delle scuo-le di Cambridge e Parigi, si con-frontano attorno alla figura eall’opera di Thomas Hobbes,uno dei filosofi più complessi eaffascinanti di ogni tempo.

È anzitutto un confronto dimetodologie: la scuola di Parigipiù attenta alla ricostruzione deiconcetti puramente filosofici diHobbes, e alla loro rilevanza nelpensiero contemporaneo, quel-la di Cambridge che invece nonabbandona mai la ricostruzione

del contesto storico in cui l’au-tore visse, e le categorie lingui-stiche a sua disposizione, dimo-strandosi scettica sulla possibi-lità di utilizzare Hobbes nel dis-corso politico contemporaneo.

La struttura del volume faseguire alla presentazione deimaggiori lavori di Skinner e Zar-ka sulla figura di Hobbes ildibattito vero e proprio, svolto-si ad Amsterdam nel 1996. Pro-prio Amsterdam, sottolineaBlom nell’introduzione, rappre-senta la città ideale per ospitareil confronto, per aver saputoassorbire e rielaborare sia la cul-tura filosofica francese che quel-la inglese.

A conclusione del dibattitovengono ripubblicati due con-tributi rilevanti che ben metto-no in luce le differenti metodo-logie utilizzate dalle due scuole:Hobbes and the Purely ArtificialPerson of the State di QuentinSkinner e Hobbes and the Right toPunish di Yves Charles Zarka.

A. C.

TEnzo TRAVERSO

Il totalitarismoMilano, Bruno Mondadori,

2002 pp. XIII-192,

ISBN 88-424-9546-8,Euro 11,90

Nell’ambito degli studi più

recenti sui regimi e sui movi-menti totalitari, il saggio di Tra-verso rappresenta un contribu-to significativo alla ricostruzio-ne del dibattito politico e filo-sofico sviluppato intorno altema nel corso del Novecento.

Opera di storia delle ideepiù che storica tout court, ilvolume puntualizza le diffe-renti posizioni articolate findagli anni Venti del secoloappena concluso, quando l’ag-gettivo “totalitario” fa la suaprima apparizione, privile-giando la tesi che legge in que-sto fenomeno politico unaderiva nihilistica e autoritariainsita nello sviluppo del pen-siero e della razionalità occi-dentali e nella sua crisi.

A tal proposito, Traversosottolinea come il dibattitointorno al concetto abbia avu-to sviluppo soprattutto in Occi-dente e in lingua inglese, qua-si rappresentando implicita-mente una forma di riflessionesulle difficoltà ed anche suilimiti del modello liberal-democratico.

Il saggio è la traduzioneampliata dell’introduzioneall’antologia pubblicata da Tra-verso in Francia (Le Totalitari-sme. Le XXe siècle en débat, Paris,Editions de Seuil, 2001). Dellostesso autore segnaliamo ancheLa violenza nazista. Una genea-logia (Bologna, Il Mulino,2002), costruito intorno allatesi, sostenuta anche nel volu-me sul totalitarismo, dellaGrande Guerra come luogo disperimentazione in grande sti-

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le della violenza del Novecen-to, come laboratorio della«morte anonima di massa».

G. R.

VPaolo VIRNO

Grammatica della moltitudine.Per una analisi delle forme di

vita contemporaneeRoma, DeriveApprodi, 2002,

pp. 127ISBN 88-87423-80-6,

[s. i. p.]

Frutto di un ciclo di lezioni

tenute all’Università dellaCalabria, il volume si apre conun argomento molto studiatonegli ultimi tempi, sebbenenon sempre con la dovutaserietà scientifica, che è quel-lo del rapporto popolo/molti-tudine, ovvero Hobbes versusSpinoza.

Nell’esperienza della“modernità” fu la nozione dipopolo a prevalere su quella dimoltitudine. L’autore, cheauspica una riaperturadell’«antica disputa» (p. 11),sottolinea come la moltitudinesia un rigurgito dello stato dinatura nella società civile cherappresenta un rischio per ildominio statuale.

All’interno di un capitolo

dedicato alla soggettività dellamoltitudine si trova una lettu-ra originale del concetto dibiopolitica che l’autore riporta,attraverso i Grundisse di Marx,al nocciolo razionale del termi-ne, vale a dire quello di forza-lavoro come somma di tutte leattitudini fisiche e intellettua-li esistenti nella corporeità.

Nell’attuale dibattitosulla moltitudine e sul cosid-detto capitalismo postfordista,spesso molto parolaio e pocoscientifico, questo volumeemerge per l’approccio rigoro-so basato su saperi molteplici,dalla filosofia politica all’epi-stemologia e alla filosofia dellinguaggio.

M. F.

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Agenda Barnave

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Che cos’è l’ “antipolitica”? Quale utilità puòavere tentare di definire la sua natura, le sueforme di espressione e le sue strategie e deli-mitarne insieme il campo semantico? E in chemodo una simile indagine può contribuire adapprofondire la conoscenza della politicamoderna e delle sue regole? A queste domandeha provato ad offrire qualche risposta il semi-nario su Democrazia e tirannide, organizzato daPaolo Viola e Sergio Luzzatto il 6 e il 7 maggioscorsi, nell’ambito delle attività del Laboratoriodi Storia costituzionale “A. Barnave”, dell’Uni-versità degli studi di Macerata.

Il seminario costituisce la continuazioneideale del convegno su Politica e antipolitica nel-la storia d’Italia, organizzato nel 2000 ad Arez-zo dalla Provincia e dall’Istituto meridionale distoria e scienze sociali, i cui interventi sono sta-ti pubblicati in gran parte sulla rivista «Meri-diana» (n.38-39/2000); non una sua ripropo-sizione, ma il tentativo di ricondurre il tema alleorigini della politica moderna, per esplorarnepoi tutta l’ampiezza storica: dalla riflessionepolitica del Tre e del Quattrocento, fino al cuo-re dell’antipolitica novecentesca. Una conti-

nuità sottolineata dallo stesso Viola nell’intro-durre i lavori del seminario maceratese, delquale egli ha sottolineato tutta la difficoltà, insi-ta nel cercare a ritroso le radici di un tema chesi è andato proponendo in modo manifesto soloin prossimità della definizione di una conce-zione della politica quale noi la conosciamoancora oggi: a partire dalla fine del Seicento enel Settecento, quando la politica diventa uncampo aperto e laico di opinioni contrastanti,non più l’angusto recinto di decisioni segrete,riservate al sovrano e a pochissimi iniziati.

Viola ha sottolineato come l’approccio aquesto tema comporti la necessità di tenerepresenti alcuni elementi. Tra questi, il fatto checon il termine “negativo” di antipolitica si pos-sono definire comportamenti molto diversi traloro, difficilmente riconducibili ad una matri-ce e, soprattutto, ad un concetto unitari, daosservare, invece, e da analizzare nello specifi-co delle singole situazioni storiche in cui sonorilevati. È inoltre importante evidenziare comel’antipolitica, là dove non si manifesta comerifiuto della politica tout court, come dimensio-ne impolitica, si presenti sempre nella forma di

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La politica allo specchioUn seminario a Macerata

giovanni ruocco

giornale di storia costituzionale n. 4 / II semestre 2002

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una polarizzazione negativa non esterna, mainterna al campo di tensione della politica,appartenendovi di diritto come dimensione delrifiuto e dell’esasperazione, spesso come sem-plice ricerca di scorciatoie e di semplificazioni,a volte anche come proposta di un’alternativaradicale all’esistente.

Sulla scorta di queste premesse storiche emetodologiche, si può osservare come l’anti-politica - secondo quanto espresso ancora daViola nel suo intervento al convegno di Arezzoe sinteticamente ricordato dallo stesso studio-so nell’incontro di Macerata – si profilerebbenel secolo dei Lumi secondo due profili di mas-sima, che superano entrambi la concezione diantico regime della politica come police, cioècome governo e amministrazione. Due formeconcretizzate storicamente nel patriottismo diBolingbroke, da un lato, e nel giacobinismorivoluzionario, dall’altro: il primo, una criticaradicale della pratica di governo whig, che con-trappone la difesa e l’unità dell’interesse nazio-nale garantita dal monarca e dal suo vincolo isti-tuzionale con il parlamento a un modello poli-tico basato sulla rappresentanza complessiva esulla mediazione della pluralità degli interessi;il secondo, un movimento che rifiuta il caratte-re arcaico e conservatore della politica di anti-co regime, in nome di una progettualità nuova,aperta verso il futuro. Entrambi tendono aincludere gli strati sociali non privilegiati, ilprimo però richiamandosi ancora all’ordina-mento politico vigente, il secondo con l’inten-zione di sconvolgerlo.

Entrambi gli esempi, poi, esprimono ilcarattere tipico di ogni forma di antipolitica,frutto evidente della crisi moderna del model-lo classico della politica: il richiamo morale allapurezza dei costumi e la denuncia della sovrap-posizione dell’interesse privato su quello pub-blico, e di conseguenza la proposta di rigenera-zione politica, nella forma di un ritorno al pas-

sato o di un invito al futuro. Su questa base, inmodo evidente nei due secoli successivi, lemanifestazioni antipolitiche conterranno spes-so un appello, popolare o populista, contro quelprofessionismo politico, che, inteso in sensolato, viene apertamente teorizzato dal Settecen-to in poi, come rappresentanza elitaria degliinteressi generali della società (si pensi, tra glialtri, a Sieyès).

D’altra parte, ha sottolineato ancora Viola,se tutte le differenti manifestazioni antipoliti-che che possiamo isolare si presentano comemeccanismi distruttivi, esse si dimostrano poipotenzialmente capaci di attivare a loro voltacircuiti virtuosi che modificano, e contribui-scono alla crescita della politica.

Riferendosi alle democrazie contempora-nee, anche Carlo Donolo, nel suo intervento alconvegno di Arezzo, ha sottolineato come cicli-camente le democrazie subiscano spinte dal-l’interno che tendono a disgregare il tessuto diregole scritte e non, nella cui conservazione enel cui progressivo rinnovamento la democra-zia contemporanea radica la propria ragiond’essere, come dimensione della convivenzacomune, fondata su una continua opera dimediazione di interessi diversi e contrapposti,necessariamente lenta e gravosa. Ma questespinte sono a loro modo anch’esse un prodottodella forma democratica.

Così, in un quadro storico complessivo inforte trasformazione, qual è quello attuale,spesso non è semplice distinguere e isolare letendenze politiche da quelle antipolitiche. Sipensi in tal senso (Lea D’Antone ne parla nelsuo intervento al convegno di Arezzo) alle rea-zioni, diverse e contrapposte che accolgono,nell’Italia degli anni Novanta, la partecipazionedi “tecnici” al governo del paese, letta da un latocome fenomeno antipolitico, come una forma disemplificazione tecnocratica della complessitàdella politica; dall’altro, all’opposto, come la

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riproposizione con volto nuovo di uno statali-smo di marca tradizionale.

Un’ambiguità presente già in quel discorsoantipolitico e antidemocratico sviluppato nelcorso dell’Ottocento, in particolare in chiavepositivistica, che sostiene a modo suo il profes-sionismo in politica, riconducendolo allanecessità che di essa si occupino persone com-petenti, veri e propri scienziati della società.Motivi antipolitici che nell’espressione di unSaint-Simon o di un Comte pretendono ineffetti di rinviare ad una dimensione della poli-tica più alta. Non si tratta più quindi del tradi-zionale “disprezzo” nei confronti degli stratiinferiori, non colti, della società, ma di un para-digma nuovo che riconduce anche la politica alladimensione di un sapere scientifico. Il mito diProtagora raccontato da Platone è così travolto:la politica non è una dimensione della qualepossono occuparsi tutti, la partecipazione popo-lare universale non è possibile; la Rivoluzionefrancese si è illusa che il popolo, escluso in anti-co regime dalla decisione pubblica, potesseesservi ricompreso, in nome di un diritto all’au-todeterminazione; la rappresentanza politicapuò essere invece ricondotta soltanto alla capa-cità di pochi di farsi interpreti dell’interessegenerale della società. Una riflessione, questa,tratteggiata nelle sue linee essenziali da ReginaPozzi, nell’intervento al seminario maceratesesu La scienza come antipolitica da Saint-Simon alpositivismo.

Le stesse spinte tecnocratiche tendono acoincidere comunque con una riduzione dellafiducia nella politica, intesa come dimensionedella discussione e della scelta, a vantaggio diuna richiesta di semplificazione e di velocizza-zione dell’azione di governo: a vantaggio, quin-di della competenza dell’ “esperto”, indicatocome il portatore naturale della decisionemigliore; dello schiacciamento della dimensio-ne della società civile su quella politica (secon-

do un’opinione diffusa, l’uomo di successo nelmondo degli interessi privati non potrà chereplicare i suoi risultati anche in campo pub-blico e si dimostrerà senza dubbio più vicinodei politici per professione ai bisogni concretidella gente); dell’eterno appello al capo, in for-ma spesso populistica e plebiscitaria, sul qualericadono onore e oneri di una piena assunzio-ne di responsabilità della decisione politica, inproporzione diretta con la quantità di potereche può esercitare in prima persona.

In alcuni casi la critica della corruzio-ne della classe dirigente è sviluppata contrap-ponendo ad essa una politica radicalmentediversa, che si ritiene radicalmente alternativaperché fondata su principi sani: uno sguardoretrospettivo conduce al fascismo, la cui vicen-da – ha sottolineato Angelo Ventrone nel suointervento all’incontro di Macerata dal titolo Peruna fratellanza nella gerarchia. La Grande Guerracome rigenerazione nazionale – deve essere diret-tamente ricondotta alla “formazione” subitadalle giovani generazioni nell’esperienza dellaprima guerra mondiale. La quale risulta permolti luogo di preparazione di una mentalitàpolitica nuova: dall’idea della guerra come puri-ficazione spirituale a quella della rigenerazionenazionale contro l’indebolimento morale pro-prio della vecchia società liberale. Il fascismoerediterebbe così i temi etici sviluppati dentroe intorno alla guerra, e costruirebbe un model-lo di “fratellanza gerarchica” nazionale, capacedi realizzare l’unità morale del paese, sposandoil cameratismo militare ereditato dalla guerracon le esigenze di giustizia sociale, soddisfattedall’alto.

Se questi sono i campi di tensione all’inter-no dei quali le democrazie contemporanee ten-dono insieme a lacerarsi e a trasformarsi, glielementi di base, o almeno molti di essi,appaiono in realtà chiaramente definiti già nel-la politica di Antico regime. Indagare questi ele-

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menti, così come è stato fatto nell’incontro diMacerata, consente soprattutto di svelarne lacarica fortemente retorica e demagogica che licaratterizza da sempre, cioè il portato manife-stamente polemico che consente ad essi dientrare in collisione diretta con l’oggetto poli-tico aggredito e ai loro sostenitori di presentar-si come portatori di contenuti e di valori radi-calmente antagonisti rispetto alla realtà politi-ca presente.

E’ stato Cesare Mozzarelli, con il suo inter-vento su Dall’Autorità al Potere. Sulle moderne ori-gini della politica e della patria a disegnare lecoordinate generali della politica in età moder-na. Mozzarelli le ha schematizzate nel passaggiodal paradigma classico antico - ereditato poidalla Scolastica - della naturale socievolezzaumana e del fondamento naturale dell’autoritàall’interno dell’unità religiosa della cristianità;alla crisi di questo modello nella frattura dellaRiforma. Dal cui seno origina l’esigenza conse-guente di rilegittimare il principio dell’obbe-dienza aprendo alla politica un terreno nuovodi riflessione autonoma rispetto alla sfera reli-giosa.

Diverse sono le strade che la modernitàsegue in questo sforzo di rifondazione: il dibat-tito intorno alla ragion di Stato, essenzialmen-te di area cattolica; la proposta di Bodin dellaneutralizzazione della politica dalla conflittua-lità di natura religiosa; il modello neo-stoicoche propone l’obbedienza all’esterno, per sal-vaguardare la libertà umana interiore; infine, ilgiusnaturalismo, che fonda l’obbedienza sullavolontà individuale, mentre la società perde inquesta prospettiva finalità comuni.

Si realizza così pienamente quello che Moz-zarelli definisce il passaggio dal problema del-l’autorità (il sovrano è legittimato dalla sua ope-ra virtuosa nel perseguimento di fini buoni pergli uomini) a quello del potere (il sovrano èlegittimato dalla sua capacità di garantire ordi-

ne e sicurezza ai suoi sudditi). È a partire daquesto passaggio, con la definizione di un cam-po di riflessione radicale sul fondamento delpotere pubblico, che iniziano a svilupparsitematiche anti-potere e anti-politiche.

Una frattura, quella tra Cinque e Seicento,che non impedisce di rilevare la continuità acavallo di questa cesura, di temi alla base dellalotta politica e di specifiche retoriche antipoli-tiche in età moderna, ma non solo. Il pensierova immediatamente al tema dell’unità dellasocietà e dello Stato, valore politico assoluto cheviene costantemente contrapposto, da un latoalla “faziosità”, cioè agli interessi di parte, digruppo; dall’altro, direttamente alla tendenzaalla sedizione attribuita al popolo, e dunque altumulto, alla rivolta. È un tema classico, cheGabriele Pedullà, nel suo intervento su “Uninconveniente necessario”? Machiavelli e la rifles-sione fiorentina sui tumulti cittadini, rinviene nelrichiamo al tema sallustiano della concordiapresente nella letteratura fiorentina del Quat-tro e del Cinquecento.

Del resto, egli ha sottolineato, già la lettera-tura comunale del Duecento e del Trecento con-tiene l’invito costante alla pace interna e all’u-nità contro la disgregazione fazionale. Unavisione politica che legge quindi i “tumulti”come una tendenza antipolitica e che si scon-trerà con la novità della posizione di Machia-velli, difensore dei conflitti buoni, quelli cheirrobustiscono e non minano la salute del cor-po sociale, contro quelli cattivi, che aggravanoinvece la sofferenza di un organismo già segna-to dalla corruzione e dalle lacerazioni interne.Una posizione, quella di Machiavelli, che restacomunque relativamente isolata nell’ambito delpensiero moderno, dove la ricerca dell’unità edella concordia come valori in sé appare costan-te.

Questo tema appare inoltre strettamenteconnesso con un concetto che affiora, non sem-

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pre sulla base di una definizione chiara e uni-taria, nella letteratura politica moderna, quel-lo di “patria”. Immediatamente riconducibilealla forma di governo repubblicana, esso è delresto evocato non solo da Bolingbroke nellarichiesta di un “re patriota”, ma anche da auto-ri francesi, come l’abate Coyer, in riferimentoalla monarchia francese della metà del Sette-cento, la cui riflessione è stata analizzata daRolando Minuti, nel suo intervento L’abate Coyere le“vieux mot de patrie”: riflessioni sul tema dellapatria nella cultura francese del Settecento‚ nelcorso del quale egli ha sottolineato proprio l’in-fluenza della letteratura inglese sulla culturafrancese. Guido Abbattista, intervenendo suPatriottismo e Impero in area britannica alla finedel Settecento: un caso di conflitto di interessi, hadel resto sottolineato come il termine “patriot-tico”, in assenza del sostantivo “patria” cui lacultura anglosassone preferiva quello di country,è utilizzato in contrapposizione a “fazioso”. E’ancora una volta il tema dell’unità del corpo del-lo Stato a spiegare quindi la possibilità di unutilizzo monarchico, nelle forme appena osser-vate, del termine.

Il tema della “patria” richiama a sua voltaquello della formazione delle identità politichecollettive (nazionali?) in età moderna. FrancoBenigno, riflettendo su Patria e politica nelle“rivoluzioni periferiche” antispagnole di metà Sei-cento, ha sollevato l’attenzione sull’importanzadella tesi sostenuta da Rosario Villari negli ulti-mi anni, dell’esistenza nella rivoluzione napo-letana di Masaniello di un doppio legame difedeltà, al re e alla patria. Pur evidenziando leragioni per le quali il modello di Villari nonsembra trovare sufficienti riscontri storici – tragli altri esempi lo stesso schema centro-perife-ria su cui quel modello si basa non sarebbe ingrado di spiegare l’insieme delle rivolte popo-lari del Seicento, che si polarizzano spesso suradicalizzazioni trasversali interne – Benigno

evidenzia la qualità di quella proposta storio-grafica, che pone al centro della riflessione ilrapporto tra le rivoluzioni del Seicento e la for-mazione delle identità nazionali europee.

Un tema, quest’ultimo, emerso anche nel-l’intervento di Girolamo Imbruglia su Storiapatria a Napoli intorno e contro Pagano, che haricostruito la grande stagione dell’ideale della“Nazione napoletana”, risorto nel Settecento,attraverso il quale la nobiltà cerca di accredi-tarsi come soggetto politico di riferimento, à laMontesquieu, per la monarchia. E sulla “nasci-ta” della nazione si è soffermato Alberto Banti,che con il suo intervento su La concordia neces-saria e l’orrore per il tradimento nel nazionalismorisorgimentale, ha voluto puntualizzare e descri-vere i registri narrativi che ne formano l’ideacomune, che la “costruiscono”, in Italia in etàrisorgimentale, sulla base di topoi culturali ere-ditati dal passato: la nazione come legame inter-generazionale, fondato sul riconoscimento diuna storia comune di lotta contro l’oppressio-ne, per la libertà, che prende la forma di unadifesa della purezza della comunità, associataspesso alla tutela dell’onore delle donne, con-tro la costante minaccia del tradimento.

Se torniamo per un momento al tema dell’“ossessione” per l’unità, così marcato nella cul-tura politica francese, va rilevato come esso siriversi direttamente nella Rivoluzione dell’89.Paolo Colombo, riflettendo su Unità di governo edivisione del potere nelle teorie costituzionali dellaRivoluzione francese, sottolinea ancora una vol-ta il monismo legicentrico che caratterizza ildecennio rivoluzionario. Ma evidenzia anchecome, pur tra mille difficoltà, questi anni sianoanche il luogo della formazione della nozionemoderna di “governo”, distinta da quella tradi-zionale di “esecutivo”, che viene progressiva-mente ricondotta alla funzione amministrati-va. Dalla scissione rivoluzionaria dell’unitàsovrana incarnata dal monarca, il compito di

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“pensare” sarà attribuito allora non al sololegislativo, che continua a rappresentare lavolontà generale, ma anche al governo, chiama-to ad operare scelte politiche, ad assumere deci-sioni.

Ed è del resto il decennio rivoluzionario illuogo storico dove le tensioni antipoliticheprendono una forma compiuta, in tutta la loroampiezza, esplicitando la loro natura fortemen-te retorica, di discorsi contrapposti ad altri dis-corsi all’interno di un’arena pubblica. Qui ilpensiero va immediatamente all’esperienzabonapartista nella quale questi temi e questetensioni precipitano insieme nei giorni del col-po di stato del 18 brumaio. Luca Scuccimarra hasviluppato il tema Retorica della totalità e model-li di rappresentanza nel discorso di brumaio, ana-lizzando il colpo di stato bonapartista propriodal punto di vista delle parole usate per indiriz-zare o per giustificare gli eventi politici e leposizioni assunte dai diversi soggetti in campo.La dimensione discorsiva appare addiritturacentrale nello stesso svolgimento dei fatti, nel-la sua dinamica temporale, secondo un model-lo inaugurato e ormai “imposto” agli attori poli-tici nel corso della lunga esperienza rivoluzio-naria.

Diversi registri retorici vengono utilizzati inquesto confronto polemico; uno, in particolaredeve essere sottolineato, perché tipico dellapolitica che giunge fino a noi, come trasforma-

zione dell’argomento dell’unità richiamato inprecedenza: la pretesa di un “partito” politico dirappresentare il tutto, cioè la nazione intera, diessere anzi la sua autentica espressione, l’uni-co suo vero rappresentante. Nel discorso bona-partista la “parte per il tutto” è l’esercito, l’uni-co che, massacrato e cresciuto negli anni neicampi di battaglia dell’intera Europa, incarnaancora il vero patriottismo rivoluzionario erepubblicano, perso negli ultimi anni nel bavar-dage, nella tendenza alla chiacchiera vuota, diuna classe politica inetta e corrotta.

Preannunciando le forme di populismootto-novecentesco, l’esercito non è presentatoneppure soltanto come una “parte” che si pre-tende rappresenti il tutto: esso è invece indica-to l’espressione migliore del cittadino france-se tout court. Ed è di fronte al popolo tutto,ricondotto così ad unità, che Napoleone si pone,solo. Con questa lettura, in chiave militare, del-la retorica rivoluzionaria del cittadino in armecontro i traditori della patria, il bonapartismoaccentua il ruolo del capo, insieme uomo deldestino e quasi deus ex machina, figura superio-re alla lotta degli interessi di parte, arbitrosupremo del futuro di una nazione, ancora unavolta da rigenerare. Con l’esperienza bonapar-tista, che incarna molte delle forme antipoliti-che note fino ai nostri giorni, siamo già a tuttigli effetti dentro il discorso politico della con-temporaneità.

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