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Sommario - Ufficio Catechistico Diocesano Bologna · E venne bianco nella notte azzurra un angelo dal cielo di Giudea, ... se in quella notte piena di mister ... Nel grembo di Maria

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Sommario

1) Il Cammino dell’incarnazione fino alla croce

“Il Verbo si fece carne” ............................................................................................................................... Pag. 3

2) La Risurrezione di Gesù : il “big bang” della fede cristiana

Se Cristo non fosse risorto, cosa resterebbe di lui? .................................................................................... Pag. 23

3) La predicazione, gli incontri e i miracoli : annuncio del Regno di dio

La predicazione del Regno di Dio e la legge dell’amore.............................................................................. Pag. 26

L’amore senza confini verso il prossimo : la parabola del buon samaritano .............................................. Pag. 29

Gli incontri di Gesù nella logica del regno di Dio ........................................................................................ Pag. 30

4) L’identità di Gesù

“Figlio dell’uomo” ....................................................................................................................................... Pag. 35

“Figlio di Dio” .............................................................................................................................................. Pag. 36

5) L’equilibrio tra l’umano e il divino in Gesù Cristo

Negazione o riduzione della divinità di Gesù .............................................................................................. Pag. 44

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1) Il cammino dell’incarnazione fino alla croce

“Il Verbo si fece carne” (Gv 1,14)

Tempo del primo avvento David Maria Turoldo , O Sensi miei...Poesie Tempo del primo avvento tempo del secondo avvento sempre tempo d'avvento: esistenza, condizione

d'esilio e di rimpianto. Anche il grano attende anche l'albero attende attendono anche le pietre tutta la creazione attende. Tempo del Concepimento di un Dio che ha sempre da nascere.

Ecco si tendon le braccia le madri, David Maria Turoldo, Laudario alla Vergine, Ecco si tendon le braccia le madri, di gioia il grembo trasale all'anziana: più del creato ora grandi parole da quella soglia avvolgono il mondo. Udì la voce per prima la sterile, sentì la grazia il Bimbo nel ventre: quale mistero la carne nasconde,

cosa nascondono in seno le madri! Udì la donna secondo natura, il figlio invece secondo il mistero: e tutto fuori appariva normale, mentre la giovane prese a danzare: con grande voce cantavi, Maria! Gli antichi salmi parevan brillare di luce nuova e fondere i colli, e tutti i poveri ti odono ancora.

In sì mirabil notte a mezzo il verno Torquato Tasso, da : Rime Sacre In si mirabil notte a mezzo il verno d'angelici concenti il cielo sereno sonare udissi, e d'alto affetto or pieno per ch'io gli ascolti col mio senso interno; e'l celeste Figliol del Padre Eterno si degnò diventare Figlio terreno

di mortal madre; e del suo nobil seno nacque in vil loco, e pur non l'ebbe a scherno. E questa notte Cristo ancor rinasce fra l'umiltà: chi gli apparecchia albergo degno di lui, che porti pace al mondo ? Gliel dia l'anima mia, ch'a lui sol tergo fra questo e quel desir, ch'in lei si pasce, e presepio gli sia, ma puro e mondo.

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Piccolo Vangelo Giovanni Pascoli

In oriente

III E un canto invase allora i cieli: Pace sopra la terra! E i fuochi quasi spenti arsero, e desta scintillò la brace, come per improvvisa ala di venti silenziosi, e si senti nei cieli come il soffio di due grandi battenti. Dio su la terra ». Ed a ciascuno il cuore bianca; e diceva: «Gioia con voi! Scese tra loro, come un'alta esile croce, i pastori guardando di sui monti,

e chi presso le tombe, onde una voce uscia di culla, e chi presso le fonti, Erano in alto nubi, pari a steli di giglio, sopra Betlehem: già pronti erano, in piedi, attoniti ed aneli, onde un tumulto scaturia di foce: e un angelo era, con le braccia stese, sobbalzò verso il bianco angelo, e prese via: per vedere il Grande che non muore, come l'agnello che pur va carponi; il Dio che vive tutto in sé, pastore di taciturne costellazioni.

IV Mossero: e Betlehem, sotto l'osanna de' cieli ed il fiorir dell'infinito, dormiva. E videro, ecco, una capanna. Ed ai pastori l'accennò col dito un angelo: una stalla umile e nera, donde gemeva un filo di vagito. E d'un figlio dell'uomo era, ma era quale d'agnello. Esso giacea nel fieno del presepe, e sua madre, una straniera, sopra la paglia. Era il suo primo, e il seno le apriva; e non aveva ella né due assi: all'albergo alcun le disse: È pieno:

Nella capanna povera le sue lacrime sorridea sopra il suo nato; su cui fiatava un asino ed un bue. Noi cercavamo Quei che vive... - entrato disse Maath. Ed ella con un pio dubbio": Il mio figlio vive per quel fiato... Quei che non muore... - .Ed ella: Il figlio mio morrà (disse, e piangeva su l'agnello suo tremebondo) in una croce... - Dio..; Rispose all'uomo l'Universo: È quello!

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In occidente

III Roma dormiva. Uno vegliava, un Geta, gladiatore. Egli era nuovo, appena giunto: il suo piede, bianco era di creta.

L'avea, col raffio, tratto dall'arena del circo; e nello spoliario immondo alcun nel collo gli apri poi la vena. Rantolava; il silenzio era profondo: il cader lento d'una goccia rossa solo restava del fragor del mondo. Ma d'uomini gremita era la fossa in cui giaceva. All'occhio suo, tra un velo, parea scoprirne e ricoprirne l'ossa.

Ed era solo, e l'uomo che col gelo lo pungea di sua cute, più lontano gli era del più lontano astro del cielo: più della terra sua, più del suo piano lunghesso l'Istro, e de' suoi bovi ch'ora sdraiati ruminavano pian piano, e de' suoi figli ch'attendean l'aurora, piccoli nella lor nomade cuna, e del suo plaustro, ch'era sua dimora, là fermo e nero al lume della luna.

IV E venne bianco nella notte azzurra un angelo dal cielo di Giudea, a nunziar la pace: e la Suburra non l'udiva; e nel tempio alto di Rhea bandì la pace; e non alzò la testa quell'uomo rosso ai piedi della Dea; e vide un fuoco, e disse Pace; e Vesta ardeva, e le Vestali al focolare sedeano avvolte nella lor pretesta; e vide un tempio aperto, e dal sogliare mormorò, Pace: e non l'udì che il vento che uscì gemendo e portò guerra al mare.

E l'angelo passò candido e lento per i taciti trivi, e dicea, Pace sopra la terra!... Udì forse un lamento... Vegliava, il Geta. Entrò l'angelo: Pace! disse. E nella infinita urbe de' forti sol quegli intese. E chiuse gli occhi in pace. Sol esso udì; ma lo ridisse ai morti, e i morti ai morti, e le tombe alle tombe; e non sapeano i sette colli, assorti, ciò che voi sapevate, o catacombe.

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Torna Gesù Luigi Pirandello 1867-1936 La memoranda notte è ormai vicina e mi risuona ancora negli orecchi, eco gentil dell'età mia bambina, la voce de' miei vecchi: Candido roseo e biondo come nato da giorni, eri anche tu, vien questa notte al mondo il Bambino Gesù ! Ogn'anno, ogn'anno in questo freddo mese, per quanto stanca, l'anima risogna la festa che a Gesù fa il mio paese. Già suona la zampogna... Ah che profonda, arcana malinconia, che nostalgia m'assal della casa lontana, del villaggio natal ! Rigide sere della pia novena in cui, sur ogni piazza, in ogni via, fiamman, fuochi gregal, fasci d'avena: mentre la litania il vicinato intuona raccolto innanzi a un rustico altarin, e la zampogna suona, tintinna l'acciarin. Ed io fanciullo, alla finestra dietro me ne stavo, e schiarendo con un dito

timidamente l'appannato vetro, rimiravo smarrito, in un'ansia segreta, se in quella notte piena di mister la fulgida cometa apparisse davver... . E dubitavo allora, e ho dubitato sempre, dappoi. S'inaridì l'istinto della fede nel cuore: errai bendato per questo labirinto della vita mortale, e te pure chiamai causa, Gesù, d'una parte del male che si soffre quaggiù. Ma santa adesso appar la tua follia anche al mio sguardo, o dolce redentore. E torna, io prego, a noi, torna, Messia, a predicar l'amor! Altri, del rosso tuo mantello avvolto, d'odio nudrendo la gentil parola, batte alle oscure case, e infosca il volto de la miseria. Vola il grido della guerra... Pace tu sei, Gesù, tu sei pietà: torna a rifare in terra d'amor la carità.

Per il santo Natale Giacomo Leopardi 1798-1837 Tacciano i venti tutti, del mar si arrestino le acque, Gesù, Gesù già nacque, già nacque il Redentor. Il Sommo Nume Eterno scese dall'alto cielo, il misterioso velo già ruppe il Salvator. Nascesti alfin nascesti, pacifico Signore, al mondo apportatore d'alma felicità. L'empia, funesta colpa, giacque da te fiaccata, gioisci, o avventurata, felice umanità.

Sorgi, e solleva il capo dal sonno tuo profondo; il Redentor del mondo omai ti liberò. No, più non senti il giogo di servitù pesante, son le catene infrante da lui che ti salvò. Gloria sia dunque al sommo, Onnipossente Iddio, guerra per sempre al rio d'Averno abitator. Dia lode e Cielo, e Terra, al Redentor divino, al sommo Re Bambino di pace alto Signor .

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Canto di Natale Gilbert Keith Chesterton Nel grembo di Maria giaceva il Bimbo la sua chioma era simile a una luce (stanco e disfatto è il mondo, ma qui tutto proprio tutto va bene). Sul seno di Maria giaceva il Bimbo la sua chioma era simile a una stella (sono astiosi e astuti tutti i re ma qui sinceri i cuori).

Sul cuore di Maria giaceva il Bimbo ed era la sua chioma come il fuoco (stanco è il mondo ma del mondo è questo il desiderio). Stava Cristo ai ginocchi di Maria la sua chioma pareva una corona. E tutti i fiori a lui guardavan su tutte le stelle giù.

Il senso è nell’attesa Ronald Stuart Thomas E Dio prese in mano un piccolo globo. Guarda, disse. Il figlio guardò. Molto lontano, come attraverso l’acqua, vide una terra bruciata di un feroce colore. La luce ardeva là: case incrostate proiettavano le loro ombre; un luccicante serpente, un fiume

srotolava le sue spire, radiante di fango. Su una nuda collina un nudo albero intristiva il cielo. Molti tendevano le loro esili braccia verso di esso, come se aspettassero che un aprile scomparso ritornasse ai suoi rami incrociati. Il figlio li osservò. Ci vado, disse.

Notte santa Diego Valeri Mamma, chi é che nella notte canta questo canto divino? Caro è una mamma poveretta e santa che culla il suo bambino; ma m'é parso di sentire un suono come di ciaramella... Sono i pastori, mio piccino buono, che van dietro alla stella..

Mamma, c'é un batter d'ali, un sussurrare di voci intorno, intorno...; Sono gli angeli discesi ad annunziare il benedetto giorno. Mamma, il cielo si schiara e si scolora come al levar del sole... Splendono i cuor degli uomini; é l'aurora del giorno dell'amore.

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La notte santa Guido Gozzano - Consolati, Maria, del tuo pellegrinare! Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei. Presso quell'osteria potremo riposare, ché troppo stanco sono e troppo stanca sei. Il campanile scocca lentamente le sei. - Avete un po' di posto, o voi del Caval Grigio? Un po' di posto per me e per Giuseppe? - Signori, ce ne duole: è notte di prodigio; son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe Il campanile scocca lentamente le sette. - Oste del Moro, avete un rifugio per noi? Mia moglie più non regge ed io son così rotto! - Tutto l'albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi: Tentate al Cervo Bianco, quell'osteria più sotto. Il campanile scocca lentamente le otto. - O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno avete per dormire? Non ci mandate altrove! - S'attende la cometa. Tutto l'albergo ho pieno d'astronomi e di dotti, qui giunti d'ogni dove. Il campanile scocca lentamente le nove. - Ostessa dei Tre Merli, pietà d'una sorella! Pensate in quale stato e quanta strada feci! - Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella. Son negromanti, magi persiani, egizi, greci... Il campanile scocca lentamente le dieci. - Oste di Cesarea... - Un vecchio falegname?

Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente? L'albergo è tutto pieno di cavalieri e dame non amo la miscela dell'alta e bassa gente. Il campanile scocca le undici lentamente. La neve! - ecco una stalla! - Avrà posto per due? - Che freddo! - Siamo a sosta - Ma quanta neve, quanta! Un po' ci scalderanno quell'asino e quel bue... Maria già trascolora, divinamente affranta... Il campanile scocca La Mezzanotte Santa. È nato! Alleluja! Alleluja! È nato il Sovrano Bambino. La notte, che già fu sì buia, risplende d'un astro divino. Orsù, cornamuse, più gaje suonate; squillate, campane! Venite, pastori e massaie, o genti vicine e lontane! Non sete, non molli tappeti, ma, come nei libri hanno detto da quattro mill'anni i Profeti, un poco di paglia ha per letto. Per quattro mill'anni s'attese quest'ora su tutte le ore. È nato! È nato il Signore! È nato nel nostro paese! Risplende d'un astro divino La notte che già fu sì buia. È nato il Sovrano Bambino. È nato! Alleluja! Alleluja!

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Natale Salvatore Quasimodo Natale. Guardo il presepe scolpito, dove sono i pastori appena giunti alla povera stalla di Betlemme. Anche i Re Magi nelle lunghe vesti salutano il potente Re del mondo. Pace nella finzione e nel silenzio delle figure di legno: ecco i vecchi del villaggio e la stella che risplende,

e l'asinello di colore azzurro. Pace nel cuore di Cristo in eterno; ma non v'è pace nel cuore dell'uomo. Anche con Cristo e sono venti secoli il fratello si scaglia sul fratello. Ma c'è chi ascolta il pianto del bambino che morirà poi in croce fra due ladri?

A Gesù Bambino Umberto Saba

La notte è scesa e brilla la cometa che ha segnato il cammino. Sono davanti a Te, Santo Bambino! Tu, Re dell’universo, ci hai insegnato che tutte le creature sono uguali, che le distingue solo la bontà,

tesoro immenso, dato al povero e al ricco. Gesù, fa’ ch’io sia buono, che in cuore non abbia che dolcezza. Fa’ che il tuo dono s’accresca in me ogni giorno e intorno lo diffonda, nel Tuo nome.

C’ era Juan Ramon Jmenez

L’agnello belava dolcemente. L’asino, tenero, si allietava in un caldo chiamare. Il cane latrava quasi parlando alle stelle. Mi svegliai…Uscii. Vidi orme celesti sul terreno fiorito come un cielo capovolto.

Un soffio tiepido e soave velava l’alberata: la luna andava declinando in un occaso d’oro e di seta apersi la stalla per vedere se Egli era là C’era

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Natale Jorge Guillen

Allegria di neve Per le strade. Allegria! Tutto è in attesa della grazia Del Nuovo Eletto.

Miserabili gli uomini, Dura la terra. Più cade la neve, Più il cielo è vicino.

Tu ci salvi, Creatura Sovrana!

Qui risplende Più rosa che bianca. Le fossette ridono Di sorrisi silenziosi.

Freschezza e perfezione Risplendono per sempre

Come in una rosa Che diresti del cielo.

E non più silenziosi, Sonori sorrisi Rivelano a tutti Una rosa viva.

Tu ci salvi, Creatura Sovrana!

Com’è rosea la carne Appena nata, E quanta fretta Di piacere!

Allegria di neve Per le strade. Allegria! Tutto è in attesa della grazia Del Nuovo Eletto.

Il Natale Alessandro Manzoni Qual masso che dal vertice di lunga erta montana, abbandonato all'impeto di rumorosa frana, per lo scheggiato calle precipitando a valle, barre sul fondo e sta; là dove cadde, immobile giace in sua lenta mole; né, per mutar di secoli, fia che riveda il sole della sua cima antica, se una virtude amica in alto nol trarrà: tal si giaceva il misero figliol del fallo primo, dal dì che un'ineffabile ira promessa all'imo d'ogni malor gravollo, donde il superbo collo più non potea levar. Qual mai tra i nati all'odio, quale era mai persona

che al Santo inaccessibile potesse dir: perdona? far novo patto eterno? al vincitore inferno la preda sua strappar? Ecco ci è nato un Pargolo, ci fu largito un Figlio: le avverse forze tremano al mover del suo ciglio: all' uom la mano Ei porge, che sì ravviva, e sorge oltre l'antico onor. Dalle magioni eteree sgorga una fonte, e scende, e nel borron de' triboli vivida si distende: stillano mele i tronchi dove copriano i bronchi, ivi germoglia il fior. O Figlio, o Tu cui genera l'Eterno, eterno seco; qual ti può dir de' secoli: Tu cominciasti meco?

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Tu sei: del vasto empiro non ti comprende il giro: la tua parola il fe'. E Tu degnasti assumere questa creata argilla? qual merto suo, qual grazia a tanto onor sortilla se in suo consiglio ascoso vince il perdon, pietoso immensamente Egli è. Oggi Egli è nato: ad Efrata, vaticinato ostello, ascese un'alma Vergine, la gloria d'lsraello, grave di tal portato da cui promise è nato, donde era atteso usci. La mira Madre in poveri panni il Figliol compose, e nell'umil presepio soavemente il pose; e l'adorò: beata! innazi al Dio prostrata, che il puro sen le aprì. L’Angel del cielo, agli uomini nunzio di tanta sorte, non de' potenti volgesi alle vegliate porte; ma tra i pastor devoti, al duro mondo ignoti, subito in luce appar. E intorno a lui per l'ampia notte calati a stuolo, mille celesti strinsero

il fiammeggiante volo; e accesi in dolce zelo, come si canta in cielo A Dio gloria cantar. L’allegro inno seguirono, tornando al firmamento: tra le varcare nuvole allontanossi, e lento il suon sacrato ascese, fin che più nulla intese la compagnia fedel. Senza indugiar, cercarono l'albergo poveretto que' fortunati, e videro, siccome a lor fu detto videro in panni avvolto, in un presepe accolto, vagire il Re del Ciel. Dormi, o Fanciul; non piangere; dormi, o Fanciul celeste: sovra il tuo capo stridere non osin le tempeste, use sull'empia terra, come cavalli in guerra, correr davanti a Te. Dormi, o Celeste: i popoli chi nato sia non sanno; ma il dì verrà che nobile retaggio tuo saranno; che in quell'umil riposo, che nella polvere ascoso, conosceranno il Re.

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Il Natale del 1833 Bertolt Brecht

Tuam ipsius animam pertransivit gladius Luc. II. 35.

Sì che Tu sei terribile!

Sì che in quei lini ascoso, In braccio a quella Vergine, Sovra quel sen pietoso, Come da sopra i turbini Regni, o Fanciul severo! E fato il tuo pensiero, È legge il tuo vagir. Vedi le nostre lagrime, Intendi i nostri gridi; Il voler nostro interroghi, E a tuo voler decidi. Mentre a stornar la folgore Trepido il prego ascende Sorda la folgor scende Dove tu vuoi ferir.

Ma tu pur nasci a piangere, Ma da quel cor ferito Sorgerà pure un gemito, Un prego inesaudito: E questa tua fra gli uomini Unicamente amata, Nel guardo tuo beata, Ebra del tuo respir, Vezzi or ti fa; ti supplica Suo pargolo, suo Dio, Ti stringe al cor, che attonito Va ripetendo: è mio! Un dì con altro palpito, Un dì con altra fronte, Ti seguirà sul monte. E ti vedrà morir. Onnipotente ...........

Alla vigilia di Natale Bertolt Brecht

Oggi siamo seduti, alla vigilia di Natale, noi, gente misera, in una gelida stanzetta, il vento corre fuori, il vento entra. Vieni, buon Signore Gesù, da noi, volgi lo sguardo: perché tu ci sei davvero necessario.

Lauda del Natale Anonimo del XIV secolo Cantiam di quello amor divino, di Iesù Cristo piccolino. Or quellera amor rosato veder Cristo, amor beato, picciolino fantin nato, aulente fior di gersonzino Sì fu alto amore e caro, che i tre magi l'aroraro; con reverenzia i presentaro encenso e mirra e auro fino.

Grande umiltade pensare che volse l'angel andare alli pastori annunziare che è nato Cristo mammulino. La mangiatoia fu il suo letto, l'asin e i bue ebbe ‘n sul petto, ben ebbe ‘l mondo in dispetto fin ched e' fu picciolino

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Vergine bella, che di sol vestita Francesco Petrarca Vergine bella, che di sol vestita, coronata di stelle, al sommo Sole piacesti sí, che ’n te Sua luce ascose, amor mi spinge a dir di te parole: ma non so ’ncominciar senza tu’ aita, et di Colui ch’amando in te si pose. Invoco lei che ben sempre rispose, chi la chiamò con fede: Vergine, s’a mercede miseria extrema de l’humane cose già mai ti volse, al mio prego t’inchina, soccorri a la mia guerra, bench’i’ sia terra, et tu del ciel regina. Vergine saggia, et del bel numero una de le beate vergini prudenti, anzi la prima, et con piú chiara lampa; o saldo scudo de l’afflicte genti contra colpi di Morte et di Fortuna, sotto ’l qual si trïumpha, non pur scampa; o refrigerio al cieco ardor ch’avampa qui fra i mortali sciocchi: Vergine, que’ belli occhi che vider tristi la spietata stampa ne’ dolci membri del tuo caro figlio, volgi al mio dubbio stato, che sconsigliato a te vèn per consiglio. Vergine pura, d’ogni parte intera, del tuo parto gentil figliola et madre, ch’allumi questa vita, et l’altra adorni,per te il tuo figlio, et quel del sommo Padre, o fenestra del ciel lucente altera, venne a salvarne in su li extremi giorni; et fra tutt’i terreni altri soggiorni sola tu fosti electa, Vergine benedetta, che ’l pianto d’Eva in allegrezza torni. Fammi, ché puoi, de la Sua gratia degno, senza fine o beata, già coronata nel superno regno. Vergine santa d’ogni gratia piena, che per vera et altissima humiltate salisti al ciel onde miei preghi ascolti, tu partoristi il fonte di pietate, et di giustitia il sol, che rasserena il secol pien d’errori oscuri et folti; tre dolci et cari nomi ài in te raccolti, madre, figliuola et sposa: Vergina glorïosa, donna del Re che nostri lacci à sciolti et fatto ’l mondo libero et felice,

ne le cui sante piaghe prego ch’appaghe il cor, vera beatrice. Vergine sola al mondo senza exempio, che ’l ciel di tue bellezze innamorasti, cui né prima fu simil né seconda, santi penseri, atti pietosi et casti al vero Dio sacrato et vivo tempio fecero in tua verginità feconda. Per te pò la mia vita esser ioconda, s’a’ tuoi preghi, o Maria, Vergine dolce et pia, ove ’l fallo abondò, la gratia abonda. Con le ginocchia de la mente inchine, prego che sia mia scorta, et la mia torta via drizzi a buon fine. Vergine chiara et stabile in eterno, di questo tempestoso mare stella, d’ogni fedel nocchier fidata guida, pon’ mente in che terribile procella i’ mi ritrovo sol, senza governo, et ò già da vicin l’ultime strida. Ma pur in te l’anima mia si fida, peccatrice, i’ no ’l nego, Vergine; ma ti prego che ’l tuo nemico del mio mal non rida: ricorditi che fece il peccar nostro, prender Dio per scamparne, humana carne al tuo virginal chiostro. Vergine, quante lagrime ò già sparte, quante lusinghe et quanti preghi indarno, pur per mia pena et per mio grave danno! Da poi ch’i’ nacqui in su la riva d’Arno, cercando or questa et or quel’altra parte, non è stata mia vita altro ch’affanno. Mortal bellezza, atti et parole m’ànno tutta ingombrata l’alma. Vergine sacra et alma, non tardar, ch’i’ son forse a l’ultimo anno. I dí miei piú correnti che saetta fra miserie et peccati sonsen’ andati, et sol Morte n’aspetta. Vergine, tale è terra, et posto à in doglia lo mio cor, che vivendo in pianto il tenne et de mille miei mali un non sapea: et per saperlo, pur quel che n’avenne fôra avenuto, ch’ogni altra sua voglia era a me morte, et a lei fama rea. Or tu donna del ciel, tu nostra dea (se dir lice, e convensi),

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Vergine d’alti sensi, tu vedi il tutto; e quel che non potea far altri, è nulla a la tua gran vertute, por fine al mio dolore; ch’a te honore, et a me fia salute. Vergine, in cui ò tutta mia speranza che possi et vogli al gran bisogno aitarme, non mi lasciare in su l’extremo passo. Non guardar me, ma Chi degnò crearme; no ’l mio valor, ma l’alta Sua sembianza, ch’è in me, ti mova a curar d’uom sí basso. Medusa et l’error mio m’àn fatto un sasso d’umor vano stillante: Vergine, tu di sante lagrime et pïe adempi ’l meo cor lasso, ch’almen l’ultimo pianto sia devoto, senza terrestro limo, come fu ’l primo non d’insania vòto.

Vergine humana, et nemica d’orgoglio, del comune principio amor t’induca: miserere d’un cor contrito humile. Che se poca mortal terra caduca amar con sí mirabil fede soglio, che devrò far di te, cosa gentile? Se dal mio stato assai misero et vile per le tue man’ resurgo, Vergine, i’ sacro et purgo al tuo nome et penseri e ’ngegno et stile, la lingua e ’l cor, le lagrime e i sospiri. Scorgimi al miglior guado, et prendi in grado i cangiati desiri. Il dí s’appressa, et non pòte esser lunge, sí corre il tempo et vola, Vergine unica et sola, e ’l cor or coscïentia or morte punge. Raccomandami al tuo figliuol, verace homo et verace Dio, ch’accolga ’l mïo spirto ultimo in pace.

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Notte santa Iolanda Colombini Monti Mentre il sole, piano piano dietro ai monti tramontava, nella terra di Betlemme un evento s'annunciava... ...un evento che nell' aria dava palpiti d' attesa ! Quella sera straordinaria prometteva una sorpresa !

E la notte di quel giorno, buia e quieta era discesa : qualche lume solo, intorno, di candela ancora accesa. Una stella passeggiava or vicina ed or lontana. Che voleva ? Dove andava, quella stella lunga e strana ?

Poi la notte d' improvviso come giorno diventò e un chiaror di paradiso tutto il cielo rischiarò. Un bell' angelo dall' ali grandi e aperte allor comparve disse : " E' notte di Natale. Gesù e nato !" e poi scomparve.

" Gesù è nato ! Osanna ! Osanna !" col suo gregge ogni pastore corre verso la capanna, inneggiando al Redentore. Pieni i cuori di letizia. Alle genti più lontane, corre, vola la notizia tra un frastuono di campane !

Tutti vedon la cometa, così fulgida e splendente ! " Essa c' indica una meta !" lieta mormora la gente. E noi pure andar dobbiamo, per la strada ch'essa addita. Gesù è nato ! Lo sappiamo e la stella a Lui c'invita.

La cometa s'è fermata ! Ecco ! Ecco la capanna ! Molta folla è già arrivata. Cresce il grido : Osanna ! Osanna ! S' odon canti d' alleluia ! A pregar ogniun s' appresta, e la notte prima buia ora ha luci di gran festa !

Nato, sì ! Ma senza nulla, senza fasce poverino. Senza maglia, senza culla, con la paglia per lettino ! Per fortuna, nella notte, chi dal monte chi dal piano, portan doni a frotte a frotte, da vicino, da lontano !

Il Bambino è poverello. Per scaldarlo non c'è fiamma ! Solo un bue, un asinello ed il cuor della sua Mamma ! Ma quel Bimbo è il Redentore e la stella, da lassù, fa che tutti, al suo chiarore, giunger possano a Gesù !

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“Tutto è compiuto” (Gv 19,30)

Gesù Giovanni Pascoli E Gesù rivedeva, oltre il Giordano, campagne sotto il mietitor rimorte, il suo giorno non molto era lontano. E stettero le donne in sulle porte delle case, dicendo: Ave, Profeta! Egli pensava al giorno di sua morte. Egli si assise, all'ombra d'una mèta di grano, e disse: Se non è chi celi sotterra il seme, non sarà chi mieta. Egli parlava di granai ne' Cieli: e voi, fanciulli, intorno lui correste con nelle teste brune aridi steli.

Egli stringeva al seno quelle teste brune; e Cefa parlò: Se costì siedi, temo per l'inconsutile tua veste; Egli abbracciava i suoi piccoli eredi: -Il figlio Giuda bisbigliò veloce- d'un ladro, o Rabbi, t'è costì tra 'piedi: Barabba ha nome il padre suo, che in croce morirà.- Ma il Profeta, alzando gli occhi -No-, mormorò con l'ombra nella voce, e prese il bimbo sopra i suoi ginocchi.

Ultima cena Renzo Pezzani Le donne preparano sul desco un po' di vino e un po' di pane fresco. E Gesù mesce il vino e il pane tocca, ma prima d'accostarseli alla bocca dice per tutti le parole arcane: «Ecco; chi mangerà di questo pane di frumento, di me sarà saziato, e chi berrà del vino che ho toccato del mio sangue berrà, né più avrà sete. Poi la bevanda e il cibo spartirete e verso il mondo col mio cuore; andrete »

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“obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8). Donna de Paradiso Iacopone da Todi Nuntio «Donna de Paradiso, lo tuo figliolo è preso Iesù Cristo beato. Accurre, donna e vide che la gente l'allide; credo che lo s'occide, tanto l'ò flagellato». Maria «Como essere porria, che non fece follia, Cristo, la spene mia, om l'avesse pigliato?». Nuntio «Madonna, ello è traduto, Iuda sì ll'à venduto; trenta denar' n'à auto, fatto n'à gran mercato». Maria «Soccurri, Madalena, ionta m'è adosso piena! Cristo figlio se mena, como è annunziato». Nuntio «Soccurre, donna, adiuta, cà 'l tuo figlio se sputa e la gente lo muta; òlo dato a Pilato». Maria «O Pilato, non fare el figlio meo tormentare, ch'eo te pòzzo mustrare como a ttorto è accusato». Folla «Crucifige, crucifige! Omo che se fa rege, secondo nostra lege contradice al senato». Maria «Prego che mm'entennate, nel meo dolor pensate! Forsa mo vo mutate de que avete pensato». Folla «Traiàn for li latruni, che sian soi compagnuni; de spine s'encoroni, ché rege ss'è clamato!». Maria «O figlio, figlio, figlio, figlio, amoroso giglio! Figlio, chi dà consiglio al cor me' angustiato?

Figlio occhi iocundi, figlio, co' non respundi? Figlio, perché t'ascundi al petto o' sì lattato?». Nuntio «Madonna, ecco la croce, che la gente l'aduce, ove la vera luce déi essere levato». Maria «O croce, e que farai? El figlio meo torrai? E que ci aponerai, che no n'à en sé peccato?». Nuntio «Soccurri, plena de doglia, cà 'l tuo figliol se spoglia; la gente par che voglia che sia martirizzato». Maria «Se i tollit'el vestire, lassatelme vedere, com'en crudel firire tutto l'ò ensanguenato». Nuntio «Donna, la man li è presa, ennella croc'è stesa; con un bollon l'ò fesa, tanto lo 'n cci ò ficcato. L'altra mano se prende, ennella croce se stende e lo dolor s'accende, ch'è plu multipiicato. Donna, li pè se prènno e clavellanse al lenno; onne iontur'aprenno, tutto l'ò sdenodato». Maria «Et eo comenzo el corrotto; figlio, lo meo deporto, figlio, chi me tt'à morto, figlio meo dilicato? Meglio aviriano fatto ch'el cor m'avesser tratto, ch'ennella croce è tratto, stace desciliato!». Gesù «O mamma, o' n'èi venuta? Mortal me dà' feruta, cà 'l tuo plagner me stuta, ché 'l veio sì afferato».

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Maria «Figlio, ch'eo m' aio anvito, figlio, pat'e mmarito! Figlio, chi tt'à firito? Figlio, chi tt'à spogliato?». Gesù «Mamma, perché te lagni? Voglio che tu remagni, che serve mei compagni, ch'êl mondo aio aquistato». Maria «Figlio, questo non dire! Voglio teco morire, non me voglio partire fin che mo 'n m'esc' el fiato. C'una aiàn sepultura, figlio de mamma scura, trovarse en afrantura mat'e figlio affocato!». Gesù «Mamma col core afflitto, entro 'n le man' te metto de Ioanni, meo eletto; sia to figlio appellato. Ioanni, èsto mea mate: tollila en caritate, àginne pietate, cà 'l core sì à furato».

Maria «Figlio, l'alma t'è 'scita, figlio de la smarrita, figlio de la sparita, figlio attossecato! Figlio bianco e vermiglio, figlio senza simiglio, figlio, e a ccui m'apiglio? Figlio, pur m'ài lassato! Figlio bianco e biondo, figlio volto iocondo, figlio, perché t'à el mondo, figlio, cusì sprezzato? Figlio dolc'e placente, figlio de la dolente, figlio àte la gente mala mente trattato. Ioanni, figlio novello, morto s'è 'l tuo fratello. Ora sento 'l coltello che fo profitizzato. Che moga figlio e mate d'una morte afferrate, trovarse abraccecate mat'e figlio impiccato!».

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Inni Sacri La Passione Alessandro Manzoni [3 marzo 1814 - 15 ottobre 1815] O tementi dell'ira ventura, Cheti e gravi oggi al tempio moviamo, Come gente che pensi a sventura, Che improvviso s'intese annunziar. Non s'aspetti di squilla il richiamo; Nol concede il mestissimo rito: Oual di donna che piange il marito, E la veste del vedovo altar. Cessan gl'inni e i misteri beati, Tra cui scende, per mistica via, Sotto l'ombra de' pani mutati, L'ostia viva di pace e d'amor. S'ode un carme: l'intento Isaia Proferì questo sacro lamento, In quel dì che un divino spavento Gli affannava il fatidico cor. Di chi parli, o Veggente di Giuda? Chi è costui che, davanti all'Eterno Spunterà come tallo da nuda Terra, lunge da fonte vital? Questo fiacco pasciuto di scherno Che la faccia si copre d'un velo Come fosse un percosso dal cielo, Il novissimo d'ogni mortal? Egli è il Giusto che i vili han trafitto, Ma tacente, ma senza tenzone; Egli è il Giusto; e di tutti il delitto Il Signor sul suo capo versò. Egli è il santo, il predetto Sansone Che morendo francheggia Israele; Che volente alla sposa infedele La fortissima chioma lasciò. Quei che siede sui cerchi divini, E d'Adamo si fece figliolo, Né sdegnò coi fratelli tapini Il funesto retaggio partir: Volle l'onte, e nell'anima il duolo, E l'angosce di morte sentire, E il terror che seconda il fallire, Ei che mai non conobbe il fallir. La repulsa al suo prego sommesso, L'abbandono del Padre sostenne: Oh spavento! l'orribile amplesso D'un amico spergiuro soffrì. Ma simìle quell'alma divenne Alla notte dell'uomo omicida: Di quel Sangue sol ode le grida, E s'accorge che Sangue tradì.

Oh spavento! lo stuol de' beffardi Baldo insulta a quel volto divino, Ove intender non osan gli sguardi Gl'incolpabili figli del ciel. Come l'ebbro desidera il vino, Nell'offese quell'odio s'irrita; E al maggior dei delitti gl'incita Del delitto la gioia crudel. Ma chi fosse quel tacito reo, Che davanti al suo seggio profano Strascinava il protervo Giudeo, Come vittima innanzi a l'altar, Non lo seppe il superbo Romano; Ma fe' stima il deliro potente, Che giovasse col sangue innocente La sua vil sicurtade comprar. Su nel cielo in sua doglia raccolto Giunse il suono d'un prego esecrato: I celesti copersero il volto: Disse Iddio: Qual chiedete sarà. E quel Sangue dai padri imprecato Sulla misera prole ancor cade, Che mutata d'etade in etade Scosso ancor dal suo capo non l'ha. Ecco appena sul letto nefando Quell'Afflitto depose la fronte, E un altissimo grido levando, Il supremo sospiro mandò: Gli uccisori esultanti sul monte Di Dio l'ira già grande minaccia; Già dall'ardue vedette s'affaccia Quasi accenni: Tra poco verrò. O gran Padre! per Lui che s'immola Cessi alfine quell'ira tremenda; E de' ciechi l'insana parola Volgi in meglio, pietoso Signor. Sì, quel Sangue sovr'essi discenda; Ma sia pioggia di mite lavacro: Tutti errammo; di tutti quel sacro santo Sangue cancelli l'error. E tu, Madre, che immota vedesti Un tal Figlio morir sulla croce, Per noi prega, o regina de' mesti, Che il possiamo in sua gloria veder Che i dolori, onde il secolo atroce Fa de' boni più tristo l'esiglio, Misti al santo patir del tuo Figlio Ci sian pegno d'eterno goder.

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L'Orto del Getsemani Boris Pasternak Lo scintillio di lontane stelle un'indifferente luce gettava alla curva della strada. La strada aggirava il Monte degli Ulivi, giù, sotto di lei, scorreva il Cedron. Il prato a metà s'interrompeva. Dietro cominciava la Via Lattea. Canuti, argentei ulivi tentavano nell'aria passi verso la lontananza. In fondo c'era un orto, un podere. Lasciati i discepoli di là dal muro, disse loro: «L'anima è triste fino alla morte, rimanete qui e vegliate con me. » E rinunciò senza resistenza, come a cose ricevute in prestito, all'onnipotenza e al miracolo, e fu allora come i mortali, come noi. Lo spazio della notte ora pareva il paese dell'annientamento e dell'inesistenza. La distesa dell'universo disabitata, e soltanto l'orto un luogo capace di vita. E guardando quei neri sprofondi, vuoti, senza principio e fine, perché quel calice di morte via da lui passasse in un sudore di sangue pregò il padre suo. Lenito dalla preghiera lo spasimo mortale, tornò al di là della siepe. Per terra i discepoli, vinti dal sonno, giacevano nell'erba lungo la strada.

Li destò: «Il Signore vi ha scelti a vivere nei miei giorni, ed eccovi crollati come massi. L'ora del figlio dell'uomo è venuta. Egli si darà in mano ai peccatori. » E aveva appena parlato che, chissà da dove, ecco una folla di servi, una turba di schiavi, luci, spade e, davanti a tutti, Giuda col bacio del tradimento sulle labbra. Pietro tenne testa con la spada agli sgherri e un orecchio a uno di loro mozzò. Ma sente: «Non col ferro si risolve la contesa, rimetti a posto la tua spada, uomo. Pensi davvero che il padre mio di legioni alate qui, a miriadi, non m'avrebbe armato? E allora, incapaci di torcermi un capello, i nemici si sarebbero dispersi senza lasciar traccia. Ma il libro della vita è giunto alla pagina più preziosa d'ogni cosa sacra; Ora deve compiersi ciò che fu scritto, lascia dunque che si compia. Amen. Il corso dei secoli, lo vedi, è come una parabola e può prendere fuoco in piena corsa. In nome della sua terribile grandezza scenderò nella bara fra volontari tormenti. Scenderò nella bara e il terzo giorno risorgerò; e, come le zattere discendono i fiumi, in giudizio da me, come chiatte in carovana, affluiranno i secoli dall'oscurità.»

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Mio fiume anche tu da Il dolore - da Roma occupata 1. Giuseppe Ungaretti Mio fiume anche tu, Tevere fatale, Ora che notte già turbata scorre; Ora che persistente E come a stento erotto dalla pietra Un gemito d'agnelli si propaga Smarrito per le strade esterrefatte; Che di male l'attesa senza requie, Il peggiore dei mali, Che l'attesa di male imprevedibile Intralcia animo e passi; Che singhiozzi infiniti, a lungo rantoli Agghiacciano le case tane incerte; Ora che scorre notte già straziata, Che ogni attimo spariscono di schianto O temono l'offesa tanti segni Giunti, quasi divine forme, a splendere Per ascensione di millenni umani; Ora che già sconvolta scorre notte, E quanto un uomo può patire imparo; Ora ora, mentre schiavo Il mondo d'abissale pena soffoca; Ora che insopportabile il tormento Si sfrena tra i fratelli in ira a morte; Ora che osano dire Le mie blasfeme labbra: "Cristo, pensoso palpito, Perchè la Tua bontà S'è tanto allontanata?" Ora che pecorelle cogli agnelli Si sbandano stupite e, per le strade Che già furono urbane, si desolano; Ora che prova un popolo Dopo gli strappi dell'emigrazione, La stolta iniquità Delle deportazioni; Ora che nelle fosse

Con fantasia ritorta E mani spudorate Dalle fattezze umane l'uomo lacera L'immagine divina E pietà in grido si contrae di pietra; Ora che l'innocenza Reclama almeno un eco, E geme anche nel cuore più indurito; Ora che sono vani gli altri gridi; Vedo ora chiaro nella notte triste. Vedo ora nella notte triste, imparo, So che l'inferno s'apre sulla terra Su misura di quanto L'uomo si sottrae, folle, Alla purezza della Tua passione. Fa piaga nel Tuo cuore La somma del dolore Che va spargendo sulla terra l'uomo; Il Tuo cuore è la sede appassionata Dell'amore non vano. Cristo, pensoso palpito, Astro incarnato nell'umane tenebre, Fratello che t'immoli Perennemente per riedificare Umanamente l'uomo, Santo, Santo che soffri, Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli, Santo, Santo che soffri Per liberare dalla morte i morti E sorreggere noi infelici vivi, D'un pianto solo mio non piango più, Ecco, Ti chiamo, Santo, Santo, Santo che soffri.

E pure il tuo figlio David Maria Turoldo E pure il tuo figlio il divino tuo figlio, il figlio che ti incarna, l'amato unico figlio uguale a nessuno, anche lui ha gridato, alto sul mondo: "Perché...!" Era l'urlo degli oceani

l'urlo dell'animale ferito l'urlo del ventre squarciato della partoriente urlo della stessa morte:" Perché"". E tu non puoi rispondere non puoi... Condizionata onnipotenza sei! Pretendere altro è vano.

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“Celso” Pagano del 178 D.c. «Questa è la pretesa dei cristiani […]: un Dio o un Figlio di Dio […] è disceso: idea così vergognosa che non c’è bisogno di un lungo discorso per confutarla[…] Quale scopo avrebbe dovuto proporsi Dio, per una tale discesa? […] Gli è forse impossibile ricrearci mediante la sua divina potenza, senza inviare qualcuno votato per sua natura a realizzare questo disegno?». (10)

«Oh insolita unione, o mirabile mescolanza! Colui che è, nasce; e Colui che non è creato, viene creato; Colui che è incomprensibile viene compreso […] Colui che arricchisce conosce la povertà; si fa povero, infatti, della mia carne, affinché io potessi arricchire della sua divinità. E Colui che è pienezza diviene vuoto: si svuota, infatti, per breve tempo della sua gloria, affinché io possa partecipare alla sua pienezza». (11)

«Dal fatto che c’è la differenza infinita di qualità fra Dio e l’uomo, nasce la possibilità dello scandalo che non può essere eliminata. Per amore Dio diventa uomo, dicendo: vedi che cosa vuol dire essere uomo! – ma, Egli aggiunge: guarda bene, perché io sono nello stesso tempo Dio – beato chi non si scandalizza di me […]. “Il Padre ed io siamo una cosa sola” [Gv 16, 30]; eppure io sono questo singolo pover’uomo bisognoso, abbandonato, lasciato in balia agli uomini». (12)

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2) La risurrezione di Gesù: il “big bang” della fede cristiana

Se Cristo non fosse risorto, cosa resterebbe di lui?

La risurrezione di Gesù come lente per una migliore comprensione di lui

Inni Sacri La Risurrezione (Alessandro Manzoni) [Aprile-23 giugno 1812] È risorto: or come a morte La sua preda fu ritolta? Come ha vinte l'atre porte, Come è salvo un'altra volta Quei che giacque in forza altrui? Io lo giuro per Colui Che da' morti il suscitò. È risorto: il capo santo Più non posa nel sudario È risorto: dall'un canto Dell'avello solitario Sta il coperchio rovesciato: Come un forte inebbriato Il Signor si risvegliò. Come a mezzo del cammino, Riposato alla foresta, Si risente il pellegrino, E si scote dalla testa Una foglia inaridita, Che dal ramo dipartita, Lenta lenta vi risté: Tale il marmo inoperoso, Che premea l'arca scavata, Gittò via quel Vigoroso, Quando l'anima tornata Dalla squallida vallea, Al Divino che tacea: Sorgi, disse, io son con Te. Che parola si diffuse Tra i sopiti d'Israele! Il Signor le porte ha schiuse! Il Signor, I'Emmanuele! O sopiti in aspettando, È finito il vostro bando: Egli è desso, il Redentor. Pria di Lui nel regno eterno Che mortal sarebbe asceso? A rapirvi al muto inferno, Vecchi padri, Egli è disceso; Il sospir del tempo antico, Il terror dell'inimico, Il promesso Vincitor. Ai mirabili Veggenti,

Che narrarono il futuro Come il padre ai figli intenti Narra i casi che già furo, Si mostrò quel sommo Sole Che, parlando in lor parole, Alla terra Iddio giurò; Quando Aggeo, quando Isaia Mallevaro al mondo intero Che il Bramato un dì verria, Quando, assorto in suo pensiero, Lesse i giorni numerati, E degli anni ancor non nati Daniel si ricordò. Era l'alba; e molli il viso Maddalena e l'altre donne Fean lamento sull'Ucciso; Ecco tutta di Sionne Si commosse la pendice, E la scolta insultatrice Di spavento tramortì. Un estranio giovinetto Si posò sul monumento: Era folgore l'aspetto, Era neve il vestimento: Alla mesta che 'l richiese Diè risposta quel cortese: E risorto; non è qui. Via co' palii disadorni Lo squallor della viola: L'oro usato a splender torni: Sacerdote, in bianca stola, Esci ai grandi ministeri, Tra la luce de' doppieri, Il Risorto ad annunziar. Dall'altar si mosse un grido: Godi, o Donna alma del cielo; Godi; il Dio cui fosti nido A vestirsi il nostro velo, È risorto, come il disse: Per noi prega: Egli prescrisse, Che sia legge il tuo pregar. O fratelli, il santo rito Sol di gaudio oggi ragiona;

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Oggi è giorno di convito; Oggi esulta ogni persona: Non è madre che sia schiva Della spoglia più festiva I suoi bamboli vestir. Sia frugal del ricco il pasto; Ogni mensa abbia i suoi doni; E il tesor negato al fasto Di superbe imbandigioni, Scorra amico all'umil tetto, Faccia il desco poveretto Più ridente oggi apparir. Lunge il grido e la tempesta

De' tripudi inverecondi: L'allegrezza non è questa Di che i giusti son giocondi; Ma pacata in suo contegno, Ma celeste, come segno Della gioia che verrà. Oh beati! a lor più bello Spunta il sol de' giorni santi; Ma che fia di chi rubello Torse, ahi stolto! i passi erranti Nel sentier che a morte guida? Nel Signor chi si confida Col Signor risorgerà

Pasqua

Ada Negri

E con un ramo di mandorlo in fiore, a le finestre batto e dico: «Aprite! Cristo è risorto e germinan le vite nuove e ritorna con l'april l'amore Amatevi tra voi pei dolci e belli sogni ch'oggi fioriscon sulla terra, uomini della penna e della guerra, uomini della vanga e dei martelli. Aprite i cuori. In essi irrompa intera di questo dì l'eterna giovinezza ». lo passo e canto che la vita è bellezza. Passa e canta con me la primavera.

La Pasqua dei poveri Betocchi Carlo (1899-1986) Forse per noi che non abbiam che pane, forse più bella è la tua Santa Pasqua, O Gesù nostro, e la tua mite frasca si spande, oliva, nelle stanze quadre. Povero il cielo e povere le stanze, Sabato Santo, il tuo chiaror ci abbaglia, e il nostro cuore fa una lenta maglia col cielo, che ne abbraccia le speranze. Semplice vita, alle nostre dimande tu ci rispondi: Su coraggio andate! Noi t'ubbidiamo; e questa povertà non ha bisogno più d'altre vivande.

Noi siamo tanti quanti alla campagna sono gli .uccelli sulle mosse piante, cui sembra ancor che le parole sante giungan col vento e l'acqua che li bagna. A noi, non visti, nelle grigie stanze, miriadi in mezzo alla città che fuma, Sabato Santo, la tua luce illumina solo le mani, unica festa, stanche: A noi la pace che verrà, operosa già dentro il cuore e sulla mano sta, che ti prepara, o Pasqua, e che non ha che il solo pane per farti festosa

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Emmaus Lina Galli “E’ sera. Resta con noi Signore!” La dolcezza di quell’ora ci avvolge. Tutto il nostro precipitare nel vuoto Ti chiama. Quel tuo abbraccio Sentire il tuo contro il nostro cuore. Fuori buio, minacce agghiaccianti Ululati lontani. Essere colmi di te nella solitudine nemica. “E’ sera. Resta con noi, Signore!” Campane di Pasqua Gianni Rodari Campane di Pasqua festose che a gloria quest'oggi cantate, oh voci vicine e lontane che Cristo risorto annunciate, ci dite con voci serene: "Fratelli, vogliatevi bene! Tendete la mano al fratello, aprite la braccia al perdono; nel giorno del Cristo risorto ognuno risorga più buono!" E sopra la terra fiorita, cantate, oh campane sonore, ch'è bella, ch'è buona la vita, se schiude la porta all'amore.

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3) La predicazione, gli incontri e i miracoli: annuncio del Regno di Dio

La predicazione del Regno di Dio e la legge dell’amore Piccolo Vangelo Giovanni Pascoli (1855-1912) 1) Sconforto Gesù: - Per le città, per le castella andava lungo il limpido Giordano, predicando la sua buona novella. E cui sul capo Egli imponea la mano, e cui dicea la sua parola vera, cieco, ossesso, lebbroso, ecco era sano. Ed il dolore al suo passar non era più. Ma gran pianto era al suo lento arrivo Moveva a l'alba e si fermava a sera. A sera stanco il figlio del Dio vivo, come lavoratore, era, ma pago; e s'assideva al tronco d'un olivo,

guardando al cielo. E subito il suo vago occhio abbassava, ch'e' s'udiva intorno come l'immenso mormorio d'un lago. Ecco, e vedeva, al fine del suo giorno, turbe infinite sotto il ciel vermiglio, ch'attendean sua venuta o suo ritorno. E giacevan nei solchi, sopra il ciglio dei fossi, per le vie, pecore sparse senza pastore. E tu gemevi, o figlio di Dio: TROPPA È LA MESSE E L'OPRE SCARSE!

2) L'allodola Gesù: Guardate, disse ancor, li uccelli del cielo; che non hanno essi le falci per mietere, non hanno essi i marrelli per seminare... E disse Giuda: Ai tralci miei piluccano l'uva essi, ed il grano ne le mie parche prima ch'io le falci. E il Rabbi: O tu che il murmure lontano del fiume credi chiocchiolio di gora vicina; o tu per cui discesi in vano: chiedi a la dolce allodola, che ad ora

ad ora per desio di miglior esca non voglia alzarsi ad incontrar l'aurora; chiedile che non s'alzi da la fresca piaga del suolo che l'aratro ha franto! Il poco ell’ ebbe, e non desia ch'e' cresca. Poco sopra la terra ebbe, ma tanto ebbe nel cielo; che lassù romita contempla, e canta: e che è dunque il canto? Il miele ch'è nel fiore de la vita.

3) Il fiore E seguitò: Nel fiore de la vita. Che non è pianta, che non è vermena che non si trovi al tempo suo fiorita; o presso mormorante acqua di vena o ne lo stagno tacito; per lande o in solchi; sopra il fimo o ne la rena: e la quercia che immensa l'ombra spande, piccolo; e il fioraliso ch'ha lo stelo sottile, porta il fiore suo più grande:

piccolo il pino, grande il grogo: e il melo l'ha bianco e pure è la fuggevol cosa! e il cardo, eterno e del color di cielo. In verità! non è così ritrosa vita, che il fiore al tempo suo non metta: e da l'irsuto branco esce la rosa: e tale è nuda e squallida e soletta a li occhi nostri, sopra ignave zolle, che a l'ombra de le stelle d'oro aspetta d'aprir l'olezzo de le sue corolle.

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4) L’ape E disse ancora: De le sue corolle; ch'ape non vide, ch'ape non desia: l'ombre lei gode, ed essa: altro non volle: essere volle sopra un'ara pia come l'incenso de l'incensiere, di cui l'opra s'adempie in vanir via. Ma non mancano calici a cui bere, ciò di cui; paziente anima umana, a te non piace che l'altrui piacere:

c'è la quercia che in aria s'allontana e la viola che le resta al calcio, e il fior d'assenzio e il fior di maggiorana. E quale odore è mai del fior del tralcio! odor che pare l'ombra del novello vino che viene. E c'è l'amaro salcio. In verità ti dico, anima: ornello o salcio o cardo, ognuno ha sua fiorita; amara o dolce; ma sol dolce è quello che tu ne libi miele de la vita.

5) Il loglio Era in patria Gesù; lungo le sponde del suo lago; e ne' campi opere a schiere mietean le spighe, ch'erano già bionde. Egli vedeva; ma credea vedere angioli bianchi, con mannelle in mano, sparsi in un suo ceruleo podere. Diceva: - È il regno mio, come se al piano buon seme alcuno seminò; ma loglio il suo nemico sparse poi tra il grano. E, quando l'erbe vennero in rigoglio, il servo, accorto dell'inganno muto,

disse al Signore: "Io roncherò"-"Non voglio:" ma quando il mondo tutto avrò mietuto, tu svella il grano: crescan ora insieme; disse il Signore "Non col loglio irsuto io dirò: "Ne' granai solo il buon seme, angioli, riponete; e il loglio sia gittato al fuoco, ove -si piange e freme!" Uno, che un fascio avea di loglio: "Via, al fuoco!" disse. Ed egli tra un pio suono d'acque e di frondi: "che nol porti a mia madre? ché per le sue tortori è buono."

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Tra l’argine e il bosco, EDB, Bologna 1991, pp. 57-59 racconto del 1936 Don Primo Mazzolari “Anche il mio parroco, nella sua stanchezza di povero uomo preso in mano dal Signore, sogna... La porta laterale s’apre piano piano. Il catenaccio è smosso con fatica da mani poco pratiche e da gente che s’è levata sulla punta de’ piedi per arrivarci. Devono essere in parecchi che vi si provano. Dopo il cigolio del catenaccio lo strascicarsi dell’uscio, poi un rumore, uno scalpiccio sommesso contenuto di piccole persone che vengono avanti con garbo. — Gente in chiesa a quest’ora? — pensa il parroco, e nel sogno non resiste alla curiosità di vedere chi nella notte di quel lunedì ha voglia di chiesa. Un corteo strano — roba da sogni — procedeva per la corsia di mezzo verso l’altar maggiore. Erano i “santi” del paese, quelli delle case, i santi di carta, di gesso, di legno, di maiolica, oleografie stinte e malincorniciate, statuette mutilate e corrose, santi e angeli di prima comunione, di lontani giubilei: una piccola folla nonostante le decimazioni degli ultimi tempi. Si eran dati convegno per quella notte di baraonda, propizia a un mite pronunciamento, senza prima nominare un comitato, senza una circolare. I santi, anche quelli di carta, son sempre d’accordo. Un unico motivo li aveva mossi: erano stanchi di stare in paese. Che ci stavano a fare, appesi alla parete o in cima al cantonale, tra una bottiglia e il belletto, tra l’annuncio del sapone e un ventaglio di cartoline poco pulite? Non contavano nulla: nessun più vi badava. Qualche dissennato nel vederli bestemmiava più forte, quasi ci trovasse gusto che ci fosse qualcuno a sentirlo, sia pure in effigie. Negletti, senza credito, buttati qua e là, in grama compagnia sempre, la loro presenza non serviva neppure al bambino per il bacio serale, un di que’ baci innocenti che compensano i “santi” della giornata vuota. Quanto sopportare e quanti adattamenti. S’eran lasciati sporcare, mutilare, imbrancare con personaggi d’ogni risma e d’ogni colore: avevano dato il braccio a Marx, a Ferri, a Lenin... Adesso, proprio non ne potevano più; avevano il loro piccolo cuore di carta colmo d’obbrobrio: si sentivano avviliti, inutili. Ed eran venuti a dirlo al Signore, a prendere congedo prima di lasciare il paese, a lamentarsi con lui, che li aiutava poco, che non li difendeva abbandonandoli inermi all’irriverenza d’un popolo senza fede. A quel ciabattar di piccola gente che stava invadendo con discreta arditezza perfin il presbiterio, il Signore mise fuori la testa. — Che fate qui, figlioli, a quest’ora? Cosa volete? — Silenzio. Molti si voltarono a un sant’Antonio di gesso, mutilato d’ambedue le braccia per dirgli: — Parla tu. E quegli incominciò a parlare. Con quei due moncherini e senza il suo Gesù, che da secoli usa tener fra le braccia, faceva proprio pietà. Parlò piano, senza amarezza, in nome di tutti. Non potevano più durarla. Dovevano essere continuamente testimoni di cose troppo tristi senza potervi rimediare in qualche modo; ormai erano stanchi e intendevano cambiar domicilio. Intanto, il Signore li guardava a uno a uno e parea che gli occhi di lui ripetessero: “Venite a me voi che siete stanchi”. Ma in quanto all’andarsene era un’altra cosa. — Sentite, figlioli — disse alfine — avete ragione. Vi ho dato un ufficio ingrato: i parrocchiani di qui vi pagano un po’ male la protezione che loro accordate. Del resto, in vita non foste trattati meglio. Non ve l’avevo detto: “Vi mando come pecore in mezzo ai lupi: il discepolo non è più del maestro: come hanno trattato me...”? Da qui io vedo certo cose non molto più consolanti: né più dilettevole è questa mia dimora. Se vi raccontassi ciò che vedo e soffro! Eppure rimango. In croce mi sono fatto inchiodare: qui mi faccio chiudere. Anche questa è una maniera di voler bene, l’unica maniera di vincere quaggiù. In patientia vestra... Ora tutti chinavano la testa non osando guardare il Signore. Ed il Signore continuò: — Non avete un po’ esagerato, figlioli? Non tutto è brutto e malvagio in quelle povere case che volete lasciare. Pensateci: si soffre, si pena molto, c’è tanta miseria... Raccontate... Timidamente qualcuno cominciò a contare di una genti¬lezza veduta, di una bestemmia ingozzata, di qualche vendetta rattenuta proprio per quella presenza che si voleva adesso rifiutare. E poi tante lagrime, poi tanti dolori, tanta povertà! Tutti avevano il loro raccolto buono di briciole. Ma di briciole è fatta la gioia che c’è in cielo. — Allora — concluse sorridendo il Signore — voi tornate a star co’ miei poveri, a veder benedire e godere di quel poco bene che solo occhi buoni e mani generose come le vostre riescono a vedere e a raccogliere per il gran giorno. Il resto non vale: sarà vinto.

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L’amore illimitato di Dio: la parabola del padre misericordioso

L’amore senza confini verso il prossimo: la parabola del buon samaritano

don Primo Mazzolari

Signore, non ti voglio: non ti voglio con me; non ti voglio seguire. Lasciami andare solo: voglio andare solo, capisci? Con uno come te, con i piedi forati, non si può camminare. Sono tanto diverse le nostre strade da quelle del tuo paese! Sono venuto per vedere e mi trovo inchiodato. Ora che ho visto il tuo volto di Crocifisso cosa ho guadagnato? Quando troverò uno che ha fame non gli potrò più dire (era così spiccio e comodo!): “Non so chi tu sia”, perché ti ho visto. Davanti allo sguardo mortificato di un operaio non potrò più voltargli le spalle dignitoso e sdegnato, perché io non ti posso più licenziare, o Cristo. Se vedrò piangere, non potrò più scantonare perché sei tu che piangi. Quando leggerò le cifre dei morti che la guerra ammucchia, non potrò pensare che i miei “dividendi” crescono per la sola ragione che gli altri muoiono, perché tu mi obbligherai a guardarmi le mani. E chi può guardare delle mani, le proprie mani che grondano sangue? Questo ho guadagnato stasera. Quel “resto” di persone senza nome, che nessuno vuole, che nessuno capisce e che da anni e anni, con sforzo disumano ero riuscito a confinare in un angolo morto della mia anima, ha rotto gli argini, m’inonda e mi sommerge.

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Gli incontri di Gesù nella logica del regno di Dio

Piccolo Vangelo

Giovanni Pascoli

Il centurione « ... Una volta, mentre mi trovavo a passeggiare in quel paese da cui i ricchi si fanno venire i profumi, ecco che presso la riva di un ameno lago, diritto sopra una navicella, tra cielo e mare, vedo uno... chi devo dire? C'era sul lido una folla grande di gente e quello parlava e li ammaestrava come un padre i figlioli. La sua voce, sospinta da una brezza leggera, toccava la riva come fa l'onda del mare che va e viene. Parlava cosi, sospeso nell'aria, come da un suggesto ceruleo. E pareva che la terra il mare il cielo e i cuori della gente, tutti fossero pacificati dalla blandizie di quel suo parlare. Stavano ad ascoltarlo mendichi di ogni specie, e uomini travagliati da pene, e madri piangenti, e schiavi dall'occhio torvo. E quello parlava e su quelle facce si distendeva un lume di consolazione ». « Che cosa diceva? ». « Io ero com'è naturale noi Romani, ignorante di quel linguaggio; ma una parola, una sola, tante volte la pronunciò, questa la potei imparare ». « Quale parola? ». «La dirò ». « Una volta, lo trovai seduto cosi come io ora fra voi, in mezzo a fanciulli. Le madri da tutte le parti gli portavano i piccolini perché almeno egli li toccasse, e da tutte le parti accorrevano per conto loro ragazzi già grandicelli come voi. E quello con la mano li accarezzava, e li abbracciava, uno per uno, tutti. I suoi compagni si adirarono con le madri e le rimproverarono o minacciavano; e il maestro o chi egli fosse, a calmare la loro collera. A un tratto, avvicinandomi io, come se uno spettro tacitamente fosse comparso loro davanti, ci fu un fuggi fuggi; e i ragazzi, impauriti dall'elmo e dalla spada, si rifugiavano in grembo al loro caro maestro. Che cosa era stato? Forse vedevano in me le tracce dell'antica strage? Mi fermo. E allora quella parola, l'unica che io conoscevo, con un suo triste suono ma dolce, venne alle mie orecchie...». «Ma che cosa vuol dire quella parola? » « Oh, figlioli, niente, proprio niente che si addica a un soldato ». « Ma via, per piacere, che cosa? » «Ve lo dirò ». « Una volta, mentre io mi trovavo nella città che essi dicono sacra, mi percosse un insolito accorrere e fluttuare di gente. Da tutte le contrade si riversavano tutti in un medesimo punto, e tutti portavano nelle mani ramoscelli di pallido olivo. E poi, su quelle vie strette distendevano vestì e spargevano fronde e fiori e cantavano laudi, come quando da noi bianchi cavalli conducono un carro trionfale. Io non capivo le loro parole. E mentre ero li e mi domandavo, incerto, quel tumulto che cosa fosse o quella follia, ecco che, con grande stupore, vedo lui, quell'uomo, a cavallo di un'asina. Avanza adagio, sorride alla folla che gli fa festa. Tutti acclamano. Dietro l'asina, saltellando, viene il suo puledrino. E lui, perché il piccolino, tra quella turba non si spaventi e non si smarrisca, ogni tanto si volta, lo accarezza, gli tiene una mano sulla schiena. Io sono lì fermo e guardo. E l'uomo subito mi riconosce, e nel momento che mi passa davanti, come un soffio, mi mormora quella parola ». «Ma quale parola? ». «Ora ve la dico ». « Non molto tempo dopo il primipilo mi aveva mandato su quell'altura che vi ho detto, su quella cima di colle al tutto rasa di alberi e di erbe, e dove quel giorno c'erano sì alberi... ma alberi senza radici. Insomma, io ero di guardia alle croci. Chi ci fosse appeso a ciascuna di quelle croci non m'importava niente. Il colle era pieno di grida e di vituperi. Venuta la sera, le grida, il fermento e tutta la feccia della città si dileguarono. La cupola d'oro del tempio più non splendeva ai raggi del sole. Volitavano intorno molte rondini come ora, o fanciulli; e mi rammento che rosee nubi ondeggiavano per il cielo. Mi pareva di essere ritornato al mio paese, in Ulubre, e di sentire, come in sogno, piangere mia madre. Non so perché, levo il capo. E chi credete, figlioli, chi credete che allora io abbia visto inchiodato a una delle tre croci? Lui, quello che chiamava a sé i fanciulli e gl'infelici. Pallidissimo era; e da quell'albero di morte, già sul punto di morire; a me, ministro di quella scellerata morte, disse una parola... ». «Ma quale, padre, quale fu quella parola? ». « Pace ».

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Il centurione non disse di più. I nidietti di loto avevano accolto tutte le rondini, e i rondinini pigolavano al tepore delle ali materne. A quando a quando si udiva lontano il gracidio querulo delle rane. Qui il centurione come parlando tra sé, «veramente », disse «egli fu uomo giusto ». La causa della morte era appesa in iscritto su la croce. Questo è il Re. Io guardavo stupito. Poi corse voce che egli avesse infranto il sepolcro. Ho da credere che ancora sia vivo? Dicono che nel luogo del supplizio si oda quella voce, come di uno che ammonisce, « Pace ». I fanciulli guardano attorno. Ora mai è notte e tutto è silenzio. Ed è l'ora di andare a dormire. Ma il figlio dell'esattore Albino non è soddisfatto. «Racconta ancora », dice «c'è un angolo al mondo dove noi non siamo penetrati? C'è qualcuno, Etrio, che noi non abbiamo vinto? ». La scuola dei paggi La mattina il pretore al suo cospetto, attorniato dai fanciulli in piedi, fa venire Alessameno: - Tu sembri un ragazzo per bene e di giudizio, quantunque ti sappiam da un poco fatto segno a una vaga diceria. Ma questa or prende piede: la parete stessa parla. Insomma si mormora, mio caro, che, messoti con Cristo, offri devoto a una bestia gli incensi. - E che vedere ci avrà un devoto - replica il fanciullo con una bestia? - E io direi, nemmeno con una croce. Ché la croce è fatta per gl'infami assassini e per gli schiavi riacciuffati. Venerar la croce debbono i corvi. Taci? Or via, ragazzo, pochi discorsi: tu ben sai che il nostro signore e tuo cognome ha Pio, ma nome Severo: avanti! maledici Cristo. - Anzi lo benedico. - Ah manigoldo! tu sai la legge. - Cristo è la mia legge, e il mio signore è Dio. - Levati subito dai fanciulli incorrotti. Andiamo. Il branco l'avrò salvato. Portati lontano la tua peste con te, mentre appestato sei tu solo. - T'inganni: eccone un altro - grida Careio; e strettosi al fratello, tenendolo per man, seco si avvia.

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La samaritana Mauriac François (1885-1970) In quei giorni, delle divergenze sorsero fra i discepoli di Giovanni e quelli di Gesù. Giovanni battezzava presso Salim. Gesù non battezzava, ma non vietava ai suoi discepoli di farlo; ed essi attiravano più gente che il Battista. Questi s'ingegnava di placare i suoi con parole sublimi: "Colui che ha la sposa è lo sposo, ma l'amico dello sposo, che è presente e l'ode, gioisce grandemente della voce dello sposo. Quest'allegrezza è la mia... Conviene ch'egli cresca e io diminuisca". E nondimeno il Figlio dell'uomo che gli lascia libero il campo. Gesù per ridursi in Galilea avrebbe potuto seguire il Giordano come nell'ultimo suo ritorno e come fanno tutti i Giudei preoccupati d'evitare la Samaria, regione disprezzata e maledetta da quando dei coloni assiri vi avevano introdotti i loro idoli. I samaritani avevan fatto peggio: avevano accolto un sacerdote ribelle, cacciato da Gerusalemme, e costui aveva eretto un altare sul monte Garizim. Se Gesù seguiva questa strada, a traverso le messi di Samaria, era per incontrare un'anima, non certo meno macchiata né meglio disposta di tante altre; per lei, pertanto, e non per un'altra, egli si addentrava in territorio nemico. La prima venuta, alla lettera, la prima in cui si imbatterebbe, e della quale si servirebbe per conquistarne molte altre. Spossato, siede su l'orlo del pozzo che Giacobbe ha scavato, un po' prima di arrivare alla piccola città di Sichar. I suoi discepoli sono andati a comprar del pane, e aspetta che ritornino. La prima anima venuta... Accade che è una donna. Gesù avrebbe avuto più d'una ragione per non rivolgerle la parola. Anzitutto non sta bene che un uomo parli sulla strada a una donna. E poi, egli è ebreo, e lei samaritana. E infine, lui che conosce i cuori e pure i corpi, non ignora chi è quella graziosa creatura. Era l'Uomo-Dio che alzava gli occhi verso quella femmina. Lui, la Purità infinita, che non ha avuto bisogno di uccidete il desiderio sotto la sua forma bassa e triste, non è meno il desiderio incarnato. Egli vuole l'anima di quella donna con violenza. La vuole con quella avidità che non tollera né attesa né dilazione, immediatamente, nel medesimo istante e luogo. Il Figlio dell'uomo esige il possesso di quella creatura. Ella ha un bell'essere ciò che è: una concubina, una donna che si è trascinata e voltolata per terra, che sei uomini hanno stretta nelle braccia, e colui che ora la possiede e con lei si gode non è suo marito. Gesù prende ciò che trova, raccoglie qualsiasi cosa, purché il suo regno arrivi. La guarda, e decide che oggi stesso ella si impadronirà di Sichar in suo nome e fonderà in Samaria il regno di Dio. Un'intera notte gli è toccato faticare per catechizzare un dottore della legge, per fargli intendere che cosa significa morire e rinascere. La donna dei sei mariti capirà a tutta prima ciò che il teologo non ha afferrato. Gesù la squadra: egli non ha quel soprassalto, quella contrazione dei virtuosi dinanzi a una ragazza la cui massima occupazione è l'amore. Ma nemmeno indulgenza, né connivenza. È un'anima, la prima venuta, della quale si serve. Una freccia di sole attraversa un rottame, tra le immondizie, e la fiamma scaturisce, e tutta la foresta s'incendia. La sesta ora. Fa caldo. La donna si sente chiamare. Quel giudeo le rivolge la parola? Ma sì! "Dammi da bere" ha detto. Immediatamente, civettuola e beffarda, risponde a quello sconosciuto in sudore. «Come? Domandi da bere a me che sono samaritana?» « Se tu conoscessi il dono di Dio, e chi è colui che ti dice: dammi da bere, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli t'avrebbe dato dell'acqua viva.» Il Cristo brucia le tappe; questa parola è incomprensibile per la samaritana; ma egli è già penetrato come un ladro in quell'anima buia. Ciò che ella doveva provare era d'essere investita da ogni parte, e che lo sconosciuto di cui vedeva il viso molle di sudore e i cui piedi erano grigi di polvere, la occupava nell'intimo, la invadeva: e che quell'onda vivente era irresistibile. Interdetta, cessava di beffeggiare, e come tutte le donne si abbandonava subito a delle domande infantili . « Signore, tu non hai nulla per attingere, e il pozzo è profondo. Onde adunque avresti quest'acqua viva? Sei forse maggiore del nostro padre Giacobbe che ci diede questo pozzo, e ne bevve egli stesso, e i suoi figliuoli e il suo bestiame? » Gesù non ha tempo da perdere: con un impaziente spintone la immerge in piena verità. Dice:

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«Chiunque beve di codest'acqua avrà ancora sete. Ma chi berrà dell'acqua ch'io gli darò non avrà giammai sete in eterno. E l'acqua ch'io gli darò diverrà in lui una fonte d'acqua zampillante in vita eterna. » Ogni parola del Signore dev'essere presa alla lettera... Gli è che molti hanno creduto essersi inebbriati di quell'acqua, e si sono ingannati, e non era quella di cui parla Gesù; poi che, avendo bevuto, hanno ancora sete. Nondimeno la donna rispose: «Signore, dammi di codest'acqua acciocché io non abbia più sete e non venga più lì ad attingere. » « Va', chiama tuo marito, e vieni qua. » Sempre lo stesso sistema per convincere i semplici: quello di cui s'è servito con Natanaele, quando gli aveva detto: "Ti ho visto sotto il fico". Rivelava loro d'un tratto la conoscenza ch'egli aveva della loro vita, o meglio il suo potere d'insediarsi in loro, di stabilirsi nel cuore dell'essere; ed è perciò che, quando la samaritana gli ebbe risposto: "Io non ho marito", egli replicò: «Bene tu hai detto: non ho marito. Perché tu hai avuto cinque mariti, e quello che ora hai non è tuo marito: questo hai detto con verità ». La donna non apparteneva alla stirpe regale di Natanaele e di Simone, di quelli che subito cadono in ginocchio picchiandosi il petto. Non è anzitutto che una colpevole presa in flagrante delitto e che, per istornare l'attenzione di questo Rabbi troppo chiaroveggente, porta il dibattito sul piano teologico. Dopo aver balbettato: "Signore, io vedo che tu sei un profeta..." aggiunge precipitosamente: «I nostri padri hanno adorato su questo monte, e tu, tu dici che è a Gerusalemme che conviene adorare...» Gesù non si lascia trascinare: rimuove l'obiezione con qualche parola... Ma il tempo stringe: laggiù, ormai vicini, i discepoli stanno venendo con le provvigioni. Egli li sente parlare e ridere fra loro. Conviene tuttavia che il tutto si adempia al di fuori della loro presenza. La verità sarà dunque aperta in un tratto rapidissimo a quella poveraccia. «L'ora viene, e già è venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in ispirito e verità. Sono questi gli adora tori che il Padre richiede. Iddio è spirito, e coloro che l'adorano conviene che l'adorino in ispirito e verità. » E la samaritana: « Io so che il Messia ha, da venire e ch'egli annunzierà ogni cosa. » I passi dei discepoli risonano già sul sentiero: ormai non c'è più tempo. Per rivelare il grandissimo segreto che ancora non ha confidato a nessuno, Gesù sceglie quella donna che ha avuto cinque mariti e oggi ha un amante: «Io lo sono, io che ti parlo. » E in pari tempo, una grazia di luce è data a quella miserabile, così potente che nessun dubbio potrebbe intaccarla: si, questo povero ebreo stanco che aveva camminato al sole e nella polvere, e che moriva di sete al punto di mendicare un po' d'acqua a una samaritana, era il Messia, il Salvatore del mondo. Ella rimase impietrita finché non ebbe inteso avvicinarsi coloro ch'erano con quest'uomo. Allora lasciata la secchia si gittò a correre come chi gli ha preso fuoco il vestito, entrò in Sichar, radunò la gente a gran grida: « Venite a vedere un uomo che m'ha detto tutto ciò che io ho fatto!» Si direbbe che il Cristo, seduto sempre sulla spalletta del pozzo, mentre i suoi apostoli gli porgono un pezzo di pane, stenti a rientrare nell'angusto universo ov'essi l'obbligano a vivere: "Maestro, mangia!" insistono. Ma l'Amor vivente, smascherato da quella donna, non ha ancora avuto tempo di ridivenire un uomo che ha fame e sete. « Ho da mangiare un cibo che voi non sapete. » Questa risposta discende pure da un altro mondo. I poveretti si immaginano che qualcuno gli abbia portato una vivanda misteriosa. Egli guarda quegli occhi spalancati, quelle bocche semiaperte, e al di là, la messe di Samaria, nella luce abbagliante, le spighe che imbiancano; e al disopra delle spighe, teste che si muovono: la frotta di gente che la donna trae seco: tra cui, forse, il suo amante.

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Gesù scende a terra, alfine; parla loro delle cose dei campi, ch'essi ben conoscono, fa loro comprendere che raccoglieranno ciò ch'egli ha seminato. Li ha già fatti pescatori d'uomini: ora, ecco, saranno mietitori di spighe umane. Due giorni si trattenne fra i samaritani reietti, dando così ai suoi un esempio che invano sarà trasmesso al rimanente mondo. Perché se v'è una parte del messaggio cristiano che gli uomini abbiano rifiutata e respinta con invincibile ostinazione, è la fede nell'ugual valore di tutte l'anime, di tutte le razze, dinanzi al Padre che è nei cieli.

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4) L’identità di Gesù

“Figlio dell’uomo”

O sensi miei..., p. 292 la Domenica delle palme David Maria Turoldo PROLOGO I miei giorni camminano davanti ai Tuoi e dànno loro un senso. Essi Ti hanno strappato alla Tua dimora eterna facendoTi il primogenito dei perduti. Tu ora non sei che un nostro fratello,

hai sofferto in Te ogni nostro dolore. Noi ti sentiamo vicino nel Tuo lamento e nel Tuo pianto sulla fossa di Lazzaro. Ora la nostra carne non Ti abbandona; sei un Dio che si consuma in noi. Un Dio che muore.

O sensi miei..., p.80 Offertorio David Maria Turoldo Preparate vasi ai davanzali, stendete da balcone a balcone ghirlande di glicine e magnolie: o gente, affacciatevi alle porte, torno ora dai campi e il corpo è un fascio solo di profumi: m'invocava l'attesa dei fanciulli e l'amore infallibile delle cose. Questo è un ramo di pesco tutto sangue e questo è un mazzo di vitalbe e corone di narcisi e rosmarino e questo è un ramo di bosso tutto candore...

Si ammantano i prati all'imminente rito, sorridono olivi al mio passaggio, mi espande il vento sulle colline e come stelle al prodigio splendono croci e vessilli dalle torri e dai templi. Sono laghi di colore gli occhi delle fanciulle a sera. Pensieri ramificano eguali a radici giù per il corpo; nessuno può essere sradicato dalla terra: frumento e vite fioriscono per la carne di Dio...

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“Figlio di Dio” Vita di Cristo Luigi Santucci (1918) Non guardate il cielo. E mentre li benediceva, si staccò da loro e si sollevò su in cielo, alla loro presenza. Questa è certo la cosa più bella che il Padre ha creato, perché si può possederla ed esserne posseduti senza toccarla, è un oggetto e non risveglia concupiscenze, un paese e non vi scoppiano risse né vi fermentano taverne. È il cielo. Nei suoi primi guadi, appena staccato da terra, mi hanno sfiorato farfalle e scarabei; poi, ultime di queste minime vite, mi hanno inseguito le libellule dal volo più librato. Sopra infine gli scatti geometrici delle rondini e le sentinelle ultime dell'aria, i falchi. Poi più niente di vita. O vita è invece anche questa delle nuvole che si smagliano a segreti venti e ordiscono pigre figure, cigni e cornamuse, lepri immense il cui orecchio si straccia in un veliero. Oltre ancora il cielo è solo preziosa trasparenza, il gioiello azzurro che l'alba cambierà in perla e il tramonto in rosa, la materia stessa dell'anima o della libertà. Qui si condensa l'emozione incantata di tutti gli esodi, la liberazione da tutte le schiavitù, il destino umano del navigare da un dolore che ci si lascia alle spalle che diventerà buon poema e leggenda, verso la felicità che è sempre nelle mattutine partenze. E io navigo in questo felice silenzio non avendo altro porto che il silenzio. Io m'innalzo e nel salire non cesserò di parlarvi, perché solo se udrete quanto sto dicendo quest'ora sarà per voi sopportabile. Vissuta di laggiù, fra orti e case che rimpiccioliscono, quest'ora è infinitamente triste, questo giorno che i calendari chiameranno l'Ascensione in verità è per voi la fine di un lungo Natale, tra questi cirri si dissolve la fortunata notte in cui ero calato tra voi. Presepio volle dire. far siepe, siepi e graticci intorno a me per imprigionarmi in una festa che coincideva con la vostra infanzia, con l'allegria dei vostri camini. Ma dove sono oggi, a che servono tutti i vostri presepi? Anche dell'ora della mia morte questa può parervi più triste. La croce vi lasciava ancora la mia salma, da imbalsamare di lagrime e unguenti, da visitare con fiori e lanterne. So che per voi un sepolcro in terra può dare maggior conforto che un punto irraggiungibile nel cielo. Ma se d'un balzo io abbandono la terra nel colmo della mia giovinezza e della mia vittoria, nel sole delle mie amicizie e delle mie cene, è per dirvi che anche voi non avete qui la vostra casa: Betania e il suo cane di pietra, i suoi stipiti decorati di pannocchie, io v'insegno oggi a lasciarli senza voltarvi indietro. Non qui nemmeno col corpo. Questo corpo che sembra fatto per la terra, vedete io lo strappo via come una bandiera riconquistata e m'innalzo con lui lassù, verso la patria. So che per voi è difficile capire. Voi capite solo che ero giù tra voi e non ci sono più; che potevate toccarmi e adesso sulla terra non rimane se non l'impronta dei miei piedi che presto il vento cancellerà. Avreste preferito un dio che restasse confitto alle vostre zolle, anche un dio di pietra come i vecchi idoli, a cui tingere la fronte di vino al tempo delle vostre vendemmie, attorno al quale ballare e su cui l'edera e il muschio, la pioggia e la neve segnassero la vicenda delle vostre stagioni. Io salgo e do scacco alla terra, alla vostra psicologia di animali senz'ali. Il difficile del vostro vivere comincia da quèsto momento. Poiché lo prevedevo, vi ho detto (ostinatamente, ricordate?, vi ho detto): « Ancora un poco e mi vedrete di nuovo... non vi lascerò orfani... resterò con voi fino alla consumazione dei secoli... vado al Padre ma ritornerò... vi manderò lo spirito e la vostra tristezza sarà cambiata in gioia». E tuttavia adesso questa cima verde di ulivi dove fate gruppo a voi sembra uno scoglio di naufraghi abbandonati; e a me nel vedere le vostre barbe protese verso l'alto, i vostri ciuffi neri e le vostre teste calve che scolorano come un mucchio di marionette a spettacolo finito, il cuore si turba in un assurdo rimorso. Perdonatemi questa fuga verticale dalla collina.

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Porto con me anche la mestizia vostra di Emmaus, quella luce vespertina attorno al tavolo della locanda, la voce di Cle6fa che supplicava: "si fa sera, resta con noi". Quando la nuvola mi avrà cancellato ai vostri occhi, voi seguiterete a guardar lo sfrangiarsi inquieto dei cirri sulla seta del cielo. Vorreste fermarvi migliaia di anni, perché vi è stato detto verrà precisamente nella stessa maniera che l'avete visto salire. Allora due personaggi vestiti di bianco vi diranno di andare a casa. Obbedite, discendete con gli altri. E quando, chiusa dietro le spalle la porta, in mezzo ai vostri poveri oggetti v'appoggerete alla finestra, sappiate che io ho ancora una cosa da dirvi. Non guardate il cielo. In questo. di dell'Ascensione io mi eclisso dietro quella nube, ma potrei nascondermi dietro un cespuglio, nel tronco cavo di un albero, o inabissarmi in uno stagno di Galilea. Il Padre da cui vado non abita oltre il volo degli uccelli. Egli è nelle brughiere spazzate dal vento, nei fienili sconosciuti dove vi accadrà di dormire una notte, sulle cenge dei monti, sotto il letto e sui tetti della città. Dopo che sarò asceso, lui ed io saremo sciolti negli abitacoli del mondo. Allora più nulla vi sarà straniero. Ogni terra dove sbarcherete la riconoscerete dietro una segreta memoria perché io l'avrò abitata per voi. Ogni paese che lascerete partendo saprete di non abbandonarlo del tutto perché vi lascerete me. Tutto lo spazio diventerà per voi patria e casa. Le lontananze si cancelleranno da questo istante in cui io mi libro sul monte e mi sono messo in viaggio per il mondo. Allora capirete che io ho finto di andarmene. Da questo lo capirete: che non avrete più paura. La mia vita non finisce qui, se finisse voi pure morireste. Essa continua anche quando vorreste dissolvervi, perché è appunto in me che bramate dissolvervi. Ogni disperazione; ogni rifiuto del vostro giorno è un'ansia di ricongiungervi a me, di rivedermi sulle nubi, di servirmi a tavola. Gesù il fedele Rebora Clemente (1885-1957) Gesù, il Fedele, il Verace, è il Giudice che prese a esprimere visibile nel giorno del Santo Natale l'inesprimibile misericordia del Padre: prese a raggiar malvisto nel volto sublime la bellezza divina e materna compiendo: e nuovo incanto di beltà pervase con intimo fremito l'universo fra linee terrene presagio di Cielo per educarci lassù, al Paradiso; ma prima ancora la Bontà rifulse, accese d'esser buono il gran tormento, accese d'esser buono un vasto incendio che a somiglianza divina cresce e arde per ogni cuore in carità di Dio trasfigurato: cura d'una vita monda, sete d'innocenza anelito di vergine scienza, e devota attenzione presso il Bimbo, attenzione devota al Fanciullo fatto emblema d'ogni cosa pura, sciolto problema d'ogni vita piena; e infine salvifico effetto sopra l'intero creato a salvare già qui tutto l'uomo, ciò che è nato nel mondo perituro e portarlo sicuro al giudizio; Gesù il Fedele, il solo punto fermo nel moto dei tempi, in sterminata serie d'eventi: il solo Santo che non manca mai,

che trascende dove ci comprende e si fa dono in cima ai nostri guai e pareggia la grazia col perdono: vero Dio trasumanante e a Deità aperto vero Uomo: Egli, il Fedele per sempre, Maestro vivente di Fede, Egli che viene a Natale in peccato per meritarci in maestà di gloria, continuo avvento al termine segnato: se non invano passiamo il breve tempo come luce del Figlio Incarnato, come frutti di dolce consiglio, impegno amoroso di vita, di vita del singolo unanime nel segno, vita raggiunta infinita, in beata circolazione dove l'impeto la porta che ineffabilmente ovunque va non ritorna, ma in desio del Padre universalmente procede, nel fulgore del fuoco tutti insieme gloriando quali figli di Dio alleluiando al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo che universalmente procede, tutti insieme in gioco giocondo festando quali in gaudio rapiti figli di Dio nell'impeto che procede su per la multanime fiamma di fratelli nella Mamma Celeste i Fratelli di Gesù il Fedele.

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Santuario Pèguy Charles (1873-1914) Gesù non è venuto per dirci delle cose semplici. Gesù non ci ha affidato delle parole morte da conservare nell'olio rancido, come le mummie d'Egitto... Ci ha dato delle parole vive, di vita. La morale è stata inventata dai deboli. Ma la vita cristiana è stata inventata da Gesù Cristo. Gesù ha creato per noi il modello perfetto dell'obbedienza filiale e della sottomissione, nel medesimo tempo che creava per noi il modello perfetto del lavoro manuale e della pazienza. L'obbedienza, la sottomissione quotidiana di Gesù a Giuseppe e a Maria non erano che l'annuncio, la raffigurazione, l'anticipo della tremenda obbedienza e sottomissione del Giovedì Santo. L'incarnazione: ecco l'unica storia interessante che sia mai accaduta. Gesù ha predicato, pregato, sofferto... Dobbiamo imitarlo secondo tutte le nostre forze... Dobbiamo sforzarci con tutte le nostre forze umane di diffondere, di insegnare la parola divina, meglio che ci è possibile; dobbiamo sforzarci con tutte le nostre forze umane di pregare meglio che ci è possibile, secondo la parola divina; dobbiamo sforzarci con tutte le nostre forze umane di soffrire quanto più ci è possibile, e fino all'estrema sofferenza, senza mai finire, tutto ciò che ci è possibile dell'umana sofferenza. Vi è una questione, intorno alla quale siamo sicuri che non ci sarà mai riconciliazione, ma scissione eterna: la questione di Gesù:.. Sfido chiunque a trovarmi nei tempi dei tempi un solo uomo che come storico abbia parlato di Gesù. Di lui è possibile parlare solo da cristiani o da anticristiani. La Comunione dei Santi comincia da Gesù, egli ne fa parte, ne è il capo. Tutte le preghiere, tutte le sofferenze messe insieme, tutte le fatiche, tutti i meriti, tutte le virtù messe insieme, sia di Gesù che di tutti gli altri santi messi insieme, tutte le santità messe insieme lavorano e pregano per tutto il mondo, per tutta la cristianità. Gesù si è abbandonato all'esegeta, allo storico, al critico, come si è abbandonato ai soldati, ai giudici, al popolo... Se avesse tentato di sfuggire alla critica e alla controversia, se si fosse sottratto all'esegeta, al critico, allo storico, l'incarnazione non sarebbe stata integrale. Vi è in Omero un certo cielo sopra la terra la quale è diversa dal suo cielo... Quel cielo non è una cosa sola con la terra... i suoi dei non sono gli dei di quegli uomini... Voi mi capite benissimo: Gesù è dell'ultimo dei peccatori e l'ultimo dei peccatori è di Gesù. È uno stesso. mondo. Per quelli invece, gli dei non sono loro amici, ed essi non sono amici loro. C'è nel cielo un tesoro di grazia, che scende eternamente e che è eternamente pieno; ma i dottori della terra non l'hanno capito. C'è il tesoro delle sofferenze, il tesoro eterno delle sofferenze. La passione di Gesù l'ha posseduto interamente, d'un tratto. Tuttavia egli aspetta sempre che anche noi l'abbiamo a possedere interamente, ma i dottori della terra non l'hanno capito. C'è il tesoro delle preghiere. Subito, la prima volta, Gesù l'ha posseduto interamente. Egli aspetta sempre che noi l'abbiamo a possedere interamente, ma i dottori della terra non l'hanno capito. C'è il tesoro dei meriti. Esso è colmo, completamente colmo dei meriti di Gesù. È un tesoro infinito, al quale tuttavia noi non possiamo aggiungere nulla. Ma i dottori della terra non l'hanno capito.

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C'è il tesoro delle promesse. Subito Gesù ha mantenuto tutte le promesse... Esse aspettano il loro avverarsi, il loro compiersi eternamente da noi, anche da noi, perfino da noi. Egli era troppo grande fra i dottori della legge... si era manifestato troppo come Dio. Ai dottori non piace questo... Quel giorno egli li aveva certamente feriti: a dodici anni... A trentatré anni l'avevano finalmente nelle unghie. I dottori hanno la memoria lunga. La samaritana Mauriac François (1885-1970) Il momento della storia in cui siamo ci aiuta a penetrare questa misteriosa domanda che Gesù pose a se stesso e lasciò senza risposta: «Quando il Figlio dell'Uomo ritornerà, troverà ancora della Fede sulla terra? » Noi vediamo oggidì ciò che indubbiamente egli troverà: una preparazione alla fede, nel quasi-nulla di ogni credenza positiva, una straordinaria disponibilità dell'anima umana. Queste moltitudini spossate e senza pastore, il cui gregge invade i viali delle grandi capitali e che scalpicciano dietro delle orifiamme, dilapidano, al servizio di dottrine che appartengono al tempo, un tesoro di disinteresse e d'amore abbastanza grande per acquistare la vita eterna, il giorno in cui Colui che è la vita, apparirà e dirà: «Sono io, non temiate ». Ciò che, più di qualsiasi altra ragione, mi ha persuaso a osar di scrivere questa vita, è appunto il bisogno di ritrovare, di toccare in qualche modo l'Uomo vivente e sofferente, il cui posto rimane vuoto in mezzo al popolo; il Verbo incarnato, ossia un essere di carne, d'una carne simile alla nostra. Alcuni dei miei contraddittori (tra gli altri Edouard Dujardin) si meravigliano che io non provi come loro la tentazione di risparmiare a Gesù gli avvilimenti della vita carnale, per non accordargli che una vita puramente spirituale. Perché un Couchoud, un Dujardin, non sono già dei bestemmiatori né, per essere esatti, degli atei: essi non negano l'esistenza storica del Salvatore se non per assicurargli una vita indipendente da tutto ciò che limita, impiccolisce e umilia in lui il Dio. Non solo una tale tentazione non mi ha mai sfiorato, ma su questo punto io sempre ho ceduto a un'esigenza del mio spirito che non si muove a proprio agio se non nel concreto. Devo confessarlo? Non avessi conosciuto il Cristo, « Dio» sarebbe stato per me un vocabolo vuoto di senso. Salvo il caso d'una grazia particolarissima, l'Essere infinito mi sarebbe stato inimmaginabile, impensabile. Il Dio dei filosofi e degli eruditi non avrebbe occupato nessun posto nella mia vita morale. È bisognato che Dio s'immergesse nell'umanità e che a un preciso momento della storia, sopra un determinato punto del globo, un essere umano, fatto di carne e di sangue, pronunciasse certe parole, compiesse certi atti, perché io mi getti in ginocchio. Se il Cristo non avesse detto: «Padre nostro...» io non avrei mai avuto da me stesso il senso di questa filiazione; questa invocazione non sarebbe mai salita dal mio cuore alle mie labbra. Io non credo che a ciò che tocco, che a ciò che vedo, che a ciò che s'incorpora nella mia sostanza; ed è perciò che ho fede nel Cristo. Tutti gli sforzi per diminuire in lui la condizione umana, si scontrano con la mia profonda tendenza; e certamente ad essa bisogna riferire la mia ostinazione a preferire al volto del Cristo-Re, del Messia trionfante, l'umile figura torturata che nella locanda d'Emmaus i pellegrini di Rembrandt riconobbero alla frattura del pane: il fratello nostro coperto di ferite, il nostro Dio. Infine confesso di non essere mai entrato nella condizione di spirito - che io rispetto - degli uomini che si dichiarano appartenenti al Cattolicismo, pur rifiutandosi di credere al Cristo reale. Se io non credessi alla parola d'un certo uomo nato sotto Augusto e crocifisso sotto Tiberio, se tutta la Chiesa riposasse sopra un sogno o sopra una menzogna (medesima cosa ai miei occhi), i suoi dogmi, la sua gerarchia, la sua disciplina e liturgia si spoglierebbero per me d'ogni valore e anche d'ogni beltà: la sua beltà è lo splendore del vero. Se Gesù non fosse il Cristo, io non sentirei nelle cattedrali che un vuoto immenso. In caso di guerra i vetri istoriati di Chartres, la cui sorte rende con ragione inquiete le persone di gusto, mi interesserebbero meno del più umile soldato di seconda classe. Un artista incredulo considera la nobile e illustre facciata che la Chiesa innalza dinanzi al mondo; egli ammira la nave di Pietro immutabile al disopra dei secoli. Ma ne dimentica le fondamenta: tante vite sacrificate, tanti olocausti. Da diciannove secoli, di generazione in generazione, la miglior parte dell'umanità si mette, di sua piena volontà, in croce, e vi rimane senza che nessuna beffa possa farnela discendere. Nessuna considerazione d'ordine morale, estetico o sociale, mi farebbe accettare questa

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crocifissione di tante creature, se Gesù di Nazaret non fosse il Cristo, il Figlio di Dio - s'egli non fosse esistito. I conventi, i presbiterii (per non parlare che dei chierici e dei conventuali) non sono unicamente popolati d'anime liete, ricolme di consolazioni. E senza dubbio esse vi abbondano. Ma anche quelle godono d'una pace che non è la pace che il mondo dispensa. La loro gioia è il frutto d'una continua vittoria sulla natura - d'una penosissima vittoria. E poi, ci sono gli altri, i fedeli che rimangono a mezza costa, che lottano, soccorrono, si rialzano, ricadono, si trascinano di nuovo su per l'erta rossa del sangue di quelli che li hanno preceduti. Tutti, peccatori e santi, hanno creduto a una parola, hanno confidato in una stessa affermazione: « Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno ». Gli uni e gli altri, i santi e i peccatori, nei loro momenti di dubbio e d'angoscia hanno gridato: «Verso chi andremo, Signore? Tu possiedi le parole della vita eterna ». Si guarderebbero bene dal fare ciò che hanno fatto i morti! Che importa a loro. la cenere di quelli che non hanno amato! No!, si tratta, per essi, di accettare una eredità nazionale, né di simulare la fede in leggende che gioverebbero alla conservazione di certe utili virtù. Se, tanto per dire, fosse loro rivelato che il Figlio dell'Uomo non è il Figlio di Dio, essi non lo seguirebbero più, non abbraccerebbero più la sua croce, - fosse pure per la salvezza d'una certa civiltà, d'una certa cultura. Camminano dietro a lui perché egli ha detto: «lo sono il Cristo...» ed essi l'hanno creduto sulla parola. E non mi si obietti che la speranza senza fondamento non manca d'essere la speranza; che i cristiani, se l'eternità non ci fosse, non lo saprebbero mai, e che infine il nulla non può turbare nessuno. Simile ragionamento vale per quelli che non hanno abbandonato il mondo se non quando, da lunga pezza, il mondo li aveva abbandonati; per quelli che offrono a Dio delle reliquie di cui nessuno vuol più sapere. Sì, quei là, nella scommessa a cui Pascal li invita, vincono di certo. Ma per gli altri? Essi hanno del pari rinunciato a una realtà: la miserabile felicità umana esiste. L'amore non ci appare precario e derisorio, se non perché non è che una caricatura dell'unione divina. Se questa unione fosse una semplice lusinga, se le promesse eterne non avessero mai echeggiato nel mondo, questo triste amore sarebbe stato la perla d'inestimabile valore; al disopra della quale non vi sarebbe stato nulla, e a tutto si sarebbe dovuto rinunziare per acquistarla. Ma il Verbo si è fatto carne. La croce non è adorabile se non perché Egli vi è stato inchiodato. La croce senza il Verbo non sarebbe nulla più che una forca. Ed è perciò che un credente, per quanto debole e sprovveduto si senta, ha il dovere di rispondere all'eterna domanda: «E voi, che dite voi di quest'uomo? »Questo libro, così indegno del suo oggetto, non è che una risposta, tra mille altre: la testimonianza d'un Cristiano che sa che ciò che crede è vero. Questo grand'albero cattolico non ci sembra così bello se non perché è realmente vivo, e malgrado tanti rami secchi gorgoglia di succhi, e il sangue di Cristo seguita a circolarvi, dalle radici ai minimi ramoscelli, e fino all'ultima foglia. Il Cattolicismo senza il Cristo sarebbe un guscio vuoto, curiosamente lavorato. Per .contro, che un maremoto distrugga i templi e i chiostri, i palazzi e le opere: nulla in realtà sarà distrutto, poiché resterà l'Agnello di Dio del quale io ho tentato di dare qui un'immagine infedele. Signore Altissimo Roberto Melli (1885-1958) Signore Altissimo Signore vastissimo Signore profondissimo Signore giocondissimo E terribile!

Signore luminosissimo Invisibile e tangibile A che mirano la tua potenza inaudita Le nostre inguaribili piaghe disperate?

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Divina Commedia, Purgatorio Canto XI Dante Alighieri «O Padre nostro, che ne' cieli stai, non circunscritto, ma per più amore ch'ai primi effetti di là sù tu hai, laudato sia 'l tuo nome e 'l tuo valore da ogni creatura, com'è degno di render grazie al tuo dolce vapore. Vegna ver' noi la pace del tuo regno, ché noi ad essa non potem da noi, s'ella non vien, con tutto nostro ingegno. Come del suo voler li angeli tuoi fan sacrificio a te, cantando osanna, così facciano li uomini de' suoi.

Dà oggi a noi la cotidiana manna, sanza la qual per questo aspro diserto a retro va chi più di gir s'affanna. E come noi lo mal ch'avem sofferto perdoniamo a ciascuno, e tu perdona benigno, e non guardar lo nostro merto. Nostra virtù che di legger s'adona, non spermentar con l'antico avversaro, ma libera da lui che sì la sprona. Quest'ultima preghiera, segnor caro, già non si fa per noi, ché non bisogna, ma per color che dietro a noi restaro».

Divina Commedia, Paradiso, Canto XXXIII Dante Alighieri O somma luce che tanto ti levi da' concetti mortali, a la mia mente ripresta un poco di quel che parevi, e fa la lingua mia tanto possente, ch'una favilla sol de la tua gloria possa lasciare a la futura gente; ché, per tornare alquanto a mia memoria e per sonare un poco in questi versi, più si conceperà di tua vittoria. Io credo, per l'acume ch'io soffersi del vivo raggio, ch'i' sarei smarrito, se li occhi miei da lui fossero aversi. E' mi ricorda ch'io fui più ardito per questo a sostener, tanto ch'i' giunsi l'aspetto mio col valore infinito. Oh abbondante grazia ond'io presunsi ficcar lo viso per la luce etterna, tanto che la veduta vi consunsi! Nel suo profondo vidi che s'interna legato con amore in un volume, ciò che per l'universo si squaderna: sustanze e accidenti e lor costume, quasi conflati insieme, per tal modo che ciò ch'i' dico è un semplice lume. La forma universal di questo nodo credo ch'i' vidi, perché più di largo, dicendo questo, mi sento ch'i' godo. Un punto solo m'è maggior letargo che venticinque secoli a la 'mpresa, che fé Nettuno ammirar l'ombra d'Argo. Così la mente mia, tutta sospesa, mirava fissa, immobile e attenta, e sempre di mirar faceasi accesa. A quella luce cotal si diventa, che volgersi da lei per altro aspetto è impossibil che mai si consenta; però che 'l ben, ch'è del volere obietto, tutto s'accoglie in lei, e fuor di quella è defettivo ciò ch'è lì perfetto. Omai sarà più corta mia favella,

pur a quel ch'io ricordo, che d'un fante che bagni ancor la lingua a la mammella. Non perché più ch'un semplice sembiante fosse nel vivo lume ch'io mirava, che tal è sempre qual s'era davante; ma per la vista che s'avvalorava in me guardando, una sola parvenza, mutandom'io, a me si travagliava. Ne la profonda e chiara sussistenza de l'alto lume parvermi tre giri di tre colori e d'una contenenza; e l'un da l'altro come iri da iri parea reflesso, e 'l terzo parea foco che quinci e quindi igualmente si spiri. Oh quanto è corto il dire e come fioco al mio concetto! e questo, a quel ch'i' vidi, è tanto, che non basta a dicer 'poco'. O luce etterna che sola in te sidi, sola t'intendi, e da te intelletta e intendente te ami e arridi! Quella circulazion che sì concetta pareva in te come lume reflesso, da li occhi miei alquanto circunspetta, dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige: per che 'l mio viso in lei tutto era messo. Qual è 'l geomètra che tutto s'affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond'elli indige, tal era io a quella vista nova: veder voleva come si convenne l'imago al cerchio e come vi s'indova; ma non eran da ciò le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne. A l'alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e 'l velle, sì come rota ch'igualmente è mossa, l'amor che move il sole e l'altre stelle

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Alta Trinità beata (dal Laudario Cortonese) Alta Trinità beata, da noi sempre si' adorata. Trinitade glorïosa, unità maravigliosa, Tu se' manna savorosa a tutor desiderata. Da Voi, maiestad' eterna, Deïtade sempiterna, la citade ch'è superna chiaramente è lumina[ta]. Noi credém senza fallanza fermamente cum speranza tre persone, una sustanza, da li santi venerata. Li animali oculati, ch'evangelisti son chiamati, lauda[n] l'alta Potestate cum la voce concordata. Abraàm en Trini[ta]te intese la Deïtate: li angeli li fôr mostrati en figura umanata. Quando vidde tre figure, adorò un creatore, e 'mperciò da Te, Segnore, la so fe' fo confirmata. En tutte le creature

sì reluca el Tuo splendore, come dicon le Scritture ed è verità provata: la potenza in creando, sapienza in ordinando, bonità in gubernando ogne cosa tutta fiata. Tu, Padre celestïale, per lor guardar d'ogne male, el Figliolo a Te uguale mandast'a la gente insanata. Nella Vergene descese, stette 'n leï nove mese, pura carne di lei prese, per noi molto tormentata. Spirto santo, amor iocondo, che rempisti tutto 'l mondo, Tu ne guarda dal profondo e perdona li peccata. Chi Te ama, crede sempre tutto 'l mondo per nïente; alt'e fort'è la sua mente più che rocca ch'è fidata. O verace Trinitade, fa' per la Tua pïetade che nostra umilitade en vita eterna si' exaltata.

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Amor dolze senza pare (dal Laudario cortonese) Amor dolze senza pare se’ tu, Cristo, per amare! Amor senza comincianza se’ tu: padre in substanza, in Trinità per amanza, fillio et spiritu regnare. Tu, amore ke congiungi, cui più ami spesso pungi; omni piaga poi ke l’ungi senza unguento fai saldare. Dolce amore, tu se’ speme; ki bene ama sempre teme, nasce et cresce del tuo seme ke bon fructo fa granare. Amor, tu non abandoni ki t’ofende: sì perdoni, e di gloria el coroni ki si sa humiliare. Amor grande, dolc’e fino, increato se’ divino: tu fäi lo saraphyno di tua gloria inflammare. Cherubin’ et li alti chori, apostoli, gran predicatori, martiri et confessori, virgene fai iocundare. Patriarche et prophete, tu li traiesti de la rete; di te, amor, avìene gran sete: mai non si credian satiare! Or son consolati en tutto di te, gaudio cum disducto: tu se’ canto senza lucto, cielo e terra fai cantare. Dolce amore, di te nasce la speranza c’omo pasce, unde al peccator tu lasce pietanza adimandare. Poi ke ‘n cielo lo intendi,

tu, cortese ke t’arendi, tu medesmo sì te spendi, ki te vol thesaurizare. Tu, amore, se’ concordia; tu se’ pace, non discordia; per la tua misericordia ne venisti a visitare. Nella croce lo mostrasti ke per noi t’umiliasti, ai nostri mali non guardasti sì te lasciasti conficcare. Ki de te, amor, ben pensa già mai non te farà offensa; tu se’ frutüosa mensa ov’è d’ogne gloriare. Amor dolze, tanto n’ame k’al to regno ben ne kiami, satiando d’ogne fame, sì se’ dolze a gustare. Amor, pien de caritade, tu verace maiestade, in cui una dëitade sempre dovem venerare. Amor, ben fo digna cosa ke ‘n tale amanza delectosa dëità facesti posa sovr’ogn’altra d’onorare. Quella vergene beata (poi ke fo inamorata sempre stecte temorata) tu la voleste obumbrare. Amor grande fòr misura, di cui nulla creatura puote avere in sé natura, di te amar si sa scusare. Dolze amore amoroso cum dolzore savoroso, di t’è Garzo gaudioso: sovr’ogn’altro se’ d’amare.

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5) L’equilibrio tra l’umano e il divino in Gesù Cristo

Negazione o riduzione della divinità di Gesù

La preghiera da il sentimento del tempo - da inni Giuseppe Ungaretti Come dolce prima dell'uomo Doveva andare il mondo. L'uomo ne cavò beffe di demòni, La sua lussuria disse cielo, La sua illusione decretò creatice, Suppose immortale il momento. La vita gli è di peso enorme Come liggiù quell'ale d'ape morta Alla formicola che la trascina. Da ciò che dura a ciò che passa, Signore, sogno fermo, Fa' che torni a correre un patto. Oh! rasserena questi figli.

Fa' che l'uomo torni a sentire Che, uomo, fino a te salisti Per l'infinita sofferenza. Sii la misura, sii il mistero. Purificante amore, Fa' ancora che sia la scala di riscatto La carne ingannatrice. Vorrei di nuovo udirti dire Che in te finalmente annullate Le anime s'uniranno E lassù formeranno, Eterna umanità, Il tuo sonno felice.

Da “Preghiera a Cristo” Giovanni Papini

Abbiamo bisogno di te, di te solo, e di nessun altro. Tu solamente, che ci ami, puoi sentire, per noi tutti che soffriamo, la pietà che ciascuno di noi sente per se stesso. Tu solo puoi sentire quanto è grande, immisurabilmente grande, il bisogno che c' è di te, in questo mondo, in questa ora del mondo. Nessun' altro, nessuno dei tanti che vivono, nessuno di quelli che dormono nella mota della gloria, può dare, a noi bisognosi, riversi nell'atroce penuria, nella miseria più tremenda di tutte, quella dell'anima, il bene che salva. Tutti hanno bisogno di te, anche quelli che non lo sanno, e quelli che non lo sanno assai più di quelli che sanno. L 'affamato s'immagina di cercare il pane e ha fame di te; l'assetato crede di voler l'acqua e ha sete di te; il malato s'illude di agognare la salute e il suo male è l'assenza di te. Chi ricerca la bellezza nel mondo cerca, senza accorgersene, te che sei la bellezza intera e perfetta; chi persegue nei pensieri la verità, desidera, senza volere, te che sei l'unica verità degna d'esser saputa; e chi s'affanna dietro la pace cerca te, sola pace dove possono riposare i cuori più inquieti. Essi ti chiamano senza sapere che ti chiamano e il loro grido è inesprimibilmente più doloroso del nostro.

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Noi non gridiamo verso di te per la vanità di poterti vedere come ti videro Galilei e Giudei, ne per la gioia di guardare una volta i tuoi occhi, ne per l' orgoglio matto di vincerti colla nostra supplicazione. Non chiediamo, noi, la grande discesa nella gloria dei cieli, né il fulgore della Trasfigurazione, né gli squilli degli angeli e tutta la sublime liturgia dell'ultima venuta. C'è tanta umiltà, tu lo sai, nella nostra irrompente tracotanza! Noi vogliamo soltanto te, la tua persona, il tuo povero corpo trivellato e ferito, colla sua povera camicia d'operaio povero; vogliamo veder quegli occhi che passano la parete del petto e la carne del cuore, e guariscono quando feriscono collo sdegno, e fanno sanguinare quando guardano con tenerezza. E vogliamo udire la tua voce che sbigottisce i demoni da quanto è dolce e incanta i bambini da quanto è forte.

Tu sai quanto sia grande, proprio in questo tempo, il bisogno del tuo sguardo e della tua parola. Tu lo sai bene che un tuo sguardo può stravolgere e mutare le nostre anime, che la tua voce ci può trarre dallo stabbio della nostra infinita miseria; tu sai meglio di noi, tanto più profondamente di noi, che la tua presenza è urgente e indifferibile in questa età che non ti conosce.

Sei venuto, la prima volta, per salvare; nascesti per salvare; parlasti per salvare; ti facesti crocifiggere per salvare: la tua arte, la tua opera, la tua missione, la tua vita è di salvare. E..noi abbiamo oggi, in questi giorni grigi e maligni, in questi anni che sono un condensamento e un accrescimento incomportabile d'orrore e dolore, abbiamo bisogno, senza ritardi, d'esser salvati!

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L’orto degli ulivi - Pietà - La discesa di Cristo all’inferno Rilke Rainer Maria (1875-1926) Tutto è compiuto L'orto degli ulivi Sotto le grigie fronde Egli saliva grigio, disfatto - su per l'oliveto, premendo a tratti la cinerea fronte entro le ardenti mani polverose. «Dopo tutto, anche ciò. Questa, la fine. Mi è forza andare, pur se spenti ho gli occhi. E vuoi che affermi, Dio, la tua presenza, nel mentre io stesso più non ti ritrovo? Più non ti trovo. Non ti trovo in me. E non negli altri. Non in questa pietra. Più non ti trovo, no. Solo, son io. Solo, con tutta la miseria umana, che a lenir nel tuo nome avevo impreso... Inaudita vergogna... E tu, non sei! ». Dissero, poi, che un angelo discese. Un angelo? Perché? La notte, scese.

E sfrascò di tra gli alberi, distratta, agitando i discepoli nel sonno. Un angelo? Perché?.. La notte, scese. Notte non insueta. All'altre, uguale. Alle notti infinite, in cui riposa anche il cane randagio, anche la pietra. Triste notte qualunque; all'altre, uguale: prona, in attesa, al rifiorir del giorno. Ché non scendono, no, verso un siffatto supplice in terra, gli angeli dal cielo. Non si accrescon le notti attorno a lui. Quando naufraga, è solo. E lo abbandona, fra i marosi, anche il padre. E lo respinge anche il grembo materno.

Pietà Ora, la mia miseria si fa colma: e tutta mi riempie di uno strazio implacabile, che non ha volto e nome. Irrigidisco, come irrigidisce la pietra in ogni vena. E, fatta pietra dura, questo soltanto io so:

tu sei cresciuto, sei cresciuto, Figlio, dismisuratamente, per superare - Angoscia senza limiti - l'ambito smisurato del mio cuore. Ora, sul grembo tu mi giaci, tutto sghembo e riverso... E non ti posso, non ti posso, Figlio, più partorire...

La discesa di Cristo all’inferno L'anima sua, compiuta di soffrire, si liberò dal carcere del corpo, tutto uno strazio d'orride ferite. E abbandonò la spoglia. L'oscurità rabbrividì sgomenta, rimasta sola con la vuota salma. Contro la bianca massa illividita, stormi scagliò di pipistrelli. E a notte, nel loro svolazzar, permane ancora il ribrezzo del rapido rimbalzo da quella immensa raggelata pena. Un'aria fosca si spossava, insonne, al cadavere intorno. E nelle grandi belve notturne, vigili in allarme, era un peso d'insolito corruccio. Nel liberato Spirito, restava il senso ancora d'essere trasfuso, greve ,ed inerte, entro il creato attorno. Ché il dramma immenso della sua Passione era pur sempre. Gli parea spirare dagli spettri notturni delle cose. E si raccolse, come un triste spazio sovra di quelle. Ma inaridita dalla secca arsura delle ferite sue, la terra, a un trattò,

s'aprì, squarciata, in un gorgo d'abissi. Egli l'Inferno udìdal cupo baratro,urlar chiedendo di conoscer tutta la sua compiuta pena, a sbigottire di quella propria, perdurante ancora oltre la fine della Doglia eterna. E lo Spirito, adesso, franò giù con tutto il peso della sua stanchezza. Veloce trapassò per un attonito riguardar dietro d'ombre in mezzo ai paschi. Levò su Adamo gli occhi, un solo istante. Corse più giù. Scomparve. Ricomparve. Per scomparir di nuovo in un risucchio di selvagge voragini... Repente, in alto, in alto, oltre la schiuma immensa d'erbe balzanti, sulla torre eccelsa del suo soffrire, Egli avanzò. Tornato. Senza respiro stie': su quella vetta, senza ringhiera. Ed in possesso, alfine, d'ogni' Dolore, - assortamente, tacque.

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Potere tu perdonarci - Litania - Ancora obbligati a vivere David Maria Turoldo (1916-1992) Potere tu perdonarci Ma tu non avevi lacrime, a noi invece era dato piangere. Questo, forse, ti ha sospinto tra noi? Non ti apparteneva il fiotto azzurro di queste vene che pure avevi scavato nella nostra carne. Tu senza misteri, tu senza il rischio di questa esistenza sempre giocata

nell'incertezza del tempo defettibile, nella continua paura di non esistere. Tu dovevi essere felice e noi perduti. Cosi sei venuto a cercare i cibi delle tue creature maledette, a farti carne di peccato mentre ti donavi. E ciò solo noi t'invidiamo: questo potere tu perdonarci.

Litania Perché tu sei un peso grave perché è duro rispondere alla tua voce e il tuo messaggio è desolante, tu mi perdonerai. Perché grande è la mia vita debole il mio volere penta la mia luce, tu mi perdonerai. Perché grande è il mio orgoglio fondo il mio bisogno

orribile la mia storia, tu mi perdonerai. Perché, sono stanche le mie mani di pregare, stanco il mio cuore di perdonare; la mia bocca di benedire, tu mi perdonerai. Tu consacrerai le sue macchine, il suo sudore, tu solo ancora guarderai alle sue donne ai suoi bambini, darai pane e pace; ma tu resterai dimenticato.

Ancora obbligati a vivere Mi spreme invidia della tua sorte, Gesù, come torchio sanguinante in nuova vendemmia; questa è la mia settimana santa: un tino colmo di uve fuori stagione. Decisa è la pressura dei legni, geme la vite, cigola il frantoio, ma non mi è dato ancora morire Tu invece ucciso, giovane. Un doppio giro di stagione, un messaggio breve:

« Beato chi ha fame e sete, beato colui che si perde... » ti ha consegnato subito a morte. Noi siamo obbligati a vivere e nessuno beve del nostro vino. Cosa, Signore, ci resta ancora per conquistare la tua morte?

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Ai piedi di Cristo Verlaine Paul (1844-1896) M'ha ferito, mio Dio, il tuo amore infinito, e la ferita in me a lungo vibra ancora. M'ha, ferito, mio Dio, il tuo amore infinito. Il timore di te m'ha colpito, o Signore, e quella piaga ardente ancora in me risuona. Il timore di te m'ha colpito, O Signore. Ho compreso, mio Dio, che tutto è poca cosa, e in me la tua divina gloria si è installata. Ho compreso, mio Dio, che tutto è poca cosa. Nell'onda del tuo Vino anneghi la mia anima, riposi la mia vita sulla tua Mensa sacra, nell'onda del tuo Vino anneghi la mia anima. Ecco il mio sangue che non ho versato, e la mia carne indegna di dolore, ecco il mio sangue che non ho versato. Ecco la fronte piena di vergogna, perché vi ponga i tuoi piedi adorabili, ecco la fronte piena di vergogna. Ecco le mani a cui il lavoro è ignoto, per gli ardenti carboni e i rari incensi, ecco le mani a cui il lavoro è ignoto. Ecco il mio cuore che ha battuto invano, per straziarsi alle spine del Calvario, ecco il mio cuore che ha battuto invano.

Ecco i miei piedi, frivoli viandanti, per correre al richiamo della grazia, ecco i miei piedi, frivoli viandanti. E la mia voce, aspra e insincera, per l'espiazione della Penitenza, e la mia voce, aspra e insincera. Ecco i miei occhi, luci dell'errore, per spegnersi nel pianto e la preghiera, ecco i miei occhi, luci dell'errore. Ahimè, o Dio d'offerta e di perdono, non ha fondo in me l'ingratitudine. Ahimè, o Dio d'offerta e di perdono. Dio di terrore e Dio di santità, nero è l'abisso della mia vergogna, Dio di terrore e Dio di santità. Dio di pace, di speranza e di gioia, le mie paure e ogni mia ignoranza, Dio di pace, di speranza e di gioia. Tu conosci di me tutto, ogni cosa, e sai la nuda povertà che è in me, Tu conosci di me tutto, ogni cosa, ma quel che ho, mio Dio, lo dono a te.

Cristo risorto – Emmaus La risurrezione di Gesù Cristo risorto Rilke Rainer Maria (1875-1926) Sino alla morte, non avea potuto proibir che lo amasse, - e di gridarlo. Ora, ella cadde ai piedi della croce, vestita di una pena senza nome, tutta pesante del suo grande amore. Ma quando, a profumargli il dolce corpo di molli aromi, al suo sepolcro venne, tutta lagrime il volto, - Egli, risorto era di già... Per Lei. Solo, per dirle reciso, adesso, il suo divino: No.

Più tardi, nella squallida caverna, ella comprese come, rinnovato entro il fuoco gagliardo della morte, le ricusasse il più potente balsamo (anche un sospiro di sperati baci!) per formare di lei solo un' Amante che non s'inclina più verso l'Amato, perché nell'urlo di bufere enormi trascende già la idolatrata voce.

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Emmaus Non dal passo, per quanto Egli sicuro venisse, pronto a accompagnarsi a loro, e la soglia varcasse più solenne che loro il colmo di virilità, neppure quando al tavolo d'intorno si sparsero, timidi preparando tutto ed Egli, con aria rassegnata, li guardava da quieto spettatore; neanche quando furono seduti pronti a conoscersi da convitati,

ed Egli afferrò il pane colle belle mani esitanti, per far quanto scosse, come panico timore il lor cuore per un riferimento senza fine - ma solo quando, illuminati, videro com'Egli il poco cibo dividesse, lo riconobbero. E trasalendo in ginocchio tremavano commossi. Poi vedendo che ancora Egli spartiva, mani tremanti verso il pane tesero.

da 'Lo sguardo di Gesù' Gli incontri di Gesù nella logica del Regno Bacchelli Riccardo (1891-1986) Presentazione Nel romanzo qui ripreso del grande scrittore (Lo sguardo di Gesù) Itamar è uno dei due indemoniati di Gerasa che Gesù risana. L'altro indemoniato guarito è il bestiale Masma. Invano Itamar chiede a Gesù di poterlo seguire: per un segreto motivo Gesù rifiuta, e Itamar si strugge da allora in cerca di uno sguardo, di una spiegazione da parte del maestro. Ma sotto la croce Itamar,ormai purificato da ogni scoria di egoismo, sarà degno di seguire Gesù, e non per le vie della Palestina, ma in paradiso. Sarà strumento di ciò Masma, ritrovato sul Calvario quando ormai, ladrone perseguitato per i suoi misfatti, lo si credeva morto. 'Lo sguardo di Gesù' Che la dottrina di Gesù fosse d'una mente sana, non pareva neanche a lui. Eran precetti, pensava, che sfidavano la natura, proponendo all'uomo quello di cui essa è incapace e intollerante; sovvertivano il mondo, senza nemmeno, d'altronde, convincere che essi vi avrebber fondata una giustizia meno ingiusta di quella che v'intrattiene la forza con le sue passioni. Tendi l'altra guancia... - Itamar non era lontano da concordare col giudicato di Erode, che fosse una stravaganza. Bisognerebbe dire, pensava, non dare mai schiaffi. Ma poi, invece dei violenti sinceri, avremmo gli ipocriti vili. Ma rivedeva Gesù seduto assorto nel nimbo misterioso di un'indicibile luce dello spirito, solitario e sublime in quel suo mite e pacato raccoglimento. Nuova ed antica, dallo sprofondo dell'animo, sorgeva la persuasione d'avere accolto nelle parole di quell'uomo un che d'inaudito e di nuovo al mondo, da che vi si eran pronunciate parole e fino a che vi si sarebbero pronunciate. Riluttante, scandalizzata, disperata, la ragione poteva rifiutar loro l'accesso, non che l'assenso; ma esse si imponevano, non già per forza propria, ma della persona di quell'uomo Gesù, il quale colla sua presenza le rivelava nate coll'anima prima dell'origine dei tempi, e perenni, fino alla fine ed oltre, da sempre e per sempre. La ragione, al par del mondo, poteva ricusarle ed odiarle, ma doveva arrendersi a quel che v'era in esse, di là dalle parole medesime per se stesse.

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E quel che nell'animo egli raccoglieva, col senso infinito emerso dalla presenza di Gesù apparito a lui e al mondo, in quei giorni numerati coevo coll'eternità dello spirito, Itamar lo riconosceva, per averlo provato intièro dal primo momento che l'aveva visto, in quell'unico sguardo: del Figliuol dell'Uomo nel dirgli miti parole di ripulsa e' di allontanamento. La violenza di quella mansuetudine, la forza di quella pace, la rapina di quella carità, eran tali, che l'animo gridava di spavento, come davanti all'infinito e all'eterno aperti in una dolcezza di felicità senza parole. Ne rifuggiva con indignazione, ma sapeva che questo era l'irrecusabile modo di ritrovarvisi; più forte della ragione indignata, era l'acquiescenza dell'anima al mistero d'una suprema pace contenta, in cui essa anima, ritrovando se stessa nel perdersi come nel mirifico gorgo della contemplazione, conosceva l'ultimo di sé medesima in una semplice gioia abbandonata e confidente. Qualcosa di simile Itamar si ricordava d'aver trovato descritto nel greco contemplatore delle idee, in Platone; ma descritto; e in ciò stava l'incomparabile ed incolmabile differenza. Nel filosofo altissimo, la parola era pur sempre un velo, su cui la verità traluceva per nascosto splendore, per simboli e immagini. In questo santo di Nazaret, la parola era il corpo di luce della verità presente, che, della parola vestendosi, vi si rivelava, e rapiva lo spirito, e rinnovava l'anima. In Platone egli aveva viste le- ombre sul fondo della caverna; adesso aveva visto, in Gesù e nella sua parola, la luce che le generava. Quest'uomo Gesù non diceva la verità: era la verità incarnata in innocenza di spirito, in carità d'anima, perfette e viventi. Che cosa ciò fosse, Itamar non sapeva; non aveva nome sufficiente a mostrarlo. Sapeva che né i profeti d'Israele né i filosofi di Grecia si potevano comparare a quel che nell'uomo di Nazaret era semplicità e umiltà e innocenza della verità da lui incarnata. Sapeva che quella sua carità era il verbo della verità di Dio. Colui che la incarnava, aveva respinto lui, rifiutandolo: e Itamar cessò d'indignarsene. Allora, subitamente trasalì di una nuova gioia. Ravvisava in quel rifiuto, sancita, la propria incapacità a comprendere e a dare se stesso a quella verità rivelata e incarnata in un uomo; ne soffriva, ma smetteva di ribellarsi al rifiuto, smetteva di giudicarlo. Comprendeva e sapeva che l'ardente desiderio e l'incorrotta e inoffuscabile nostalgia dell'anima sua per uno sguardo di quell'uomo, bastavano a colmar l'anima, a dargli di questa la cognizione intiera e il possesso. Intuì che fino a quando Gesù si rifiutasse a rendergli uno sguardo, la sua carità l'avrebbe obbligato a Itamar per forza ai pietà e misericordia. Tutto poteva costui, ma non esaurire, non consumare, non ultimare la carità in lui vivente, la quale Itamar rivedeva splendere nel ricordo, come l'aveva colta splendente nell'infinità del sorriso, nell'arcana solitudine in cui il mondo e l'uomo erano assunti è trasfigurati, in eterno, dalla vivente persona di Gesù. - Ecco, - si disse con Davide peccatore, - ecco che l'anima mia chiamò dal profondo; e costui può bensì respingermi, ma mi ama. Tormentoso, scarso, contraddetto :e contrariato era tutto quello ch'egli sapeva e sentiva e faceva di sé al mondo, fuor che l'umiltà e remissione della felicità incomprensibile e fuggitiva, che a baleni l'assicurava di non essere dimenticato da Gesù. Per quel poco ch'egli si sentiva d'essere, nella carità di Gesù sentiva la presenza di Dio nel mondo. Per qualche tempo stette senza più cercarlo; e fu il tempo in cui gli avvenne d'incontrarlo più spesso e più facilmente. Si fermava a distanza e in disparte, quanto bastava a vederne il viso e a sentir la voce e le parole. Si faceva riguardo e ritegno di perseguirne gli occhi e l'attenzione, per attrarne lo sguardo. Quel suo desiderio s'era purgato d'ogni avidità e passione, e s'avvicinava ad essere amore, nell'umiltà e nel pudore che gli ispirava. E tutte le parole che gli udì pronunciare in quei giorni, erano di pietà e di misericordia e di pace dello spirito. Tanto si adattavano al suo sentire, che parevano dette per lui non a lui, consolanti e pacificanti in quello stesso desiderio ch'esse aprivano, inesausto e inesauribile, nell'animo suo; e avrebbe potuto essere aspro ed amaro, sol che non fosse stato cosi semplice e dolce, umile che si sarebbe contentato d'uno sguardo; ma si contentava anche di non riceverlo, pur che gli fosse concesso di poterlo desiderare. In tale umiltà, Itamar sentiva un miracolo, si sentiva visitato e graziato: perché da se stesso, certamente, non gli veniva.

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In tale foschia del tempo, la gente andava e veniva attorno alla sommità del Calvario, sotto le croci dei tre suppliziati di quel giorno. Si formavano e riformavano gruppetti e capannelli; qualcuno gridava al crocifisso di mezzo di scendere, di schiodarsi, di mostrare chi era, poiché aveva detto d'essere il Messia e il Figlio di Dio onnipotente. Ma lo scherno e l'ira cedevano sempre più, anch'essi, a una specie di stanca e logora soddisfazione, poi che insomma la fine di quell'uomo, per la gente, dava la prova logica, legale, sperimentata, che egli aveva mentito o s'era illuso, e aveva meritata la condanna. Un poco in disparte, alcune donne piangevano; ed una non occorreva chiedere chi fosse, per ravvisar la madre dell'agonizzante. Fra quelle dolenti, Itamar riconobbe il giovine discepolo Giovanni, e gli chiese, passando, a bassa voce: - E adesso? - Cosi dicendo, additò Gesù sull'alta croce. - Risorgerà, - rispose Giovanni, - e noi ch'egli ha chiamato a fondar la sua chiesa, i salvati dallo Spirito Santo, i credenti del Verbo, vivremo per la grazia del suo sacrificio, nell'eterna vita del regno di Dio. A queste parole, Itamar fu ripreso d'un tratto dal suo immortale e inespiabile desiderio di rivedere lo sguardo di Gesù, ma l'impediva la vicinanza in cui si trovava e l'altezza della croce, che non gli consentivano di scorger il viso del crocifisso, se non di scorcio. S'allontanò dunque- di qualche passo, frettolosamente, e udì la voce dell'agonizzante: - Padre, perdona, perché non sanno quel che fanno. I soldati seduti attorno al piede della croce, giuocavano a sorte gli indumenti del giustiziato. La gente commentava, sempre più stancamente, le vicende dell'esecuzione; e Itamar senti dire, da uno di quei competenti della crudele materia, che se non venivano aiutati a morire, i condannati alla croce stentavano a volte anche più di dodici ore. Si senti straziare dal raccapriccio, benché non fosse una notizia che gli giungesse nuova. Fra l'altro, si ricordò d'alcuni, fra quei compagni di Masma ladrone ch'egli aveva crocifissi, i quali appunto avevano stentato più del credibile innanzi di morire. E un altro spettatore diceva: - Ecco, gli daranno, per ristorarlo, se ha sete, un po' d'aceto. Mentre Itamar si voltava, ecco, Gesù non guardava né lui né alcun altro sulla terra, ma i suoi occhi splendevano di quella luce del divino, che Itamar vi aveva vista dal primo istante, e in questo più che mai. Senza badare, il caso, o piuttosto la comunità del proposito e dell'atto, aveva fermato Itamar al fianco d'un uomo, che anche lui figgeva lo sguardo verso le croci. La luce fosca e in barlume, impedì a Itamar di ravvisarlo e d'esserne ravvisato. Lassù il cartello dello scherno diceva nelle tre lingue: Gesù Nazareno, Re dei Giudei. E un capannello di scribi scontenti disputava, dicendo che Ponzio Pilato avrebbe dovuto correggerlo, scrivendoci: Gesù Nazareno che ha detto d'essere il Re dei Giudei. Poi s'allontanarono anch'essi, e Itamar fissava la luce degli occhi moribondi, pregando fra sé senz'andarsene: - Gesù misericordioso,. abbi pietà della mia miseria d'uomo, Gesù, in questa e nell'altra vita. Ma l'uomo fosco, che gli era vicino, bestemmiò a bassa voce, afferrando per un braccio Itamar, che gli chiese: - Che hai? - Non vedi, - rispose colui, - non vedi il crocifisso di destra? - Ebbene? - Costui sta per tradirmi. - E tu chi sei? - Io sono venuto qui - rispose l'uomo senza rispondergli direttamente - per vedere come sanno morire cotesti due uomini. - I due ladroni? - Si, i miei ladroni, i miei due ladroni, i miei uomini. Ascolta e taci, o altrimenti ti freddo con una coltellata fra le costole. Io sono - continuò sfogando l'ira e la feroce iattanza - il loro capo e padrone; e tutti abbiamo giurato per Satana nostro dio protettore, di morire, se caschiamo fra le mani della giustizia, da uomini, come abbiamo vissuto, senza paure né pentimenti, senza debolezze. Sono venuto a veder come muoiono costoro; e ti so dire - soggiunse ridacchiando - che se la giustizia mi prendesse, farebbe festa: e c'è una taglia sul mio capo, da arricchire tre famiglie.

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Guarda: quel di sinistra muore e bestemmia bravamente, e ha sfidato quel tale lì di mezzo; ha saputo dirgli: - Se tu fossi colui che dici, salveresti te e noi. - Ma l'altro cede: guarda come si torce sforzandosi di veder negli occhi cotesto Gesù! Oh maledetto, lo supplica, e ha già detto or ora al compagno: - Noi scontiamo le nostre colpe, ma questi è innocente. - Ti so dir io che se campa fino a notte, vado io a staccarlo, per dargli morte a modo mio, che cotesta gli avrà a sembrare di miele! Senti, senti... maledizione... Il crocifisso di destra diceva: - Signore, ricordati di me nel tuo regno. Itamar vide Gesù muover le labbra, ma non poté udire, perché il forsennato suo vicino bestemmiava e gli stringeva il braccio tanto da fargli male. Del resto, leggeva nel volto di Gesù ch'egli assolveva quel pentito. Disse allora con sdegno al vicino: - E tu lasciami! Ma che razza di uomo sei, sciagurato? La stretta e lo sdegno e il poco lume gli avevano volta e accostata la faccia alla faccia di costui, che guatò, sussultò, soffiò e rise, scoppiando a dire: - Oh, oh, oh chi si vede! Vedo o stravedo o posso credere ai miei occhi? Questo mi compensa largamente della scioccheria di quel mio ladroncello vilmente pentito là in cima. Tu non credevi di rivedermi; tu credevi che fossi morto; t'ingannai con una falsa morte! Son vivo, son io... - Sei tu, Masma? - Son Masma. Assapora nel mio nome la morte, gustala tutta, gustala lentamente. Ma: - Ho sete, - diceva in quel punto Gesù; e sotto la croce apprestavano in cima alla canna una spugna, con un po' d'aceto. La faccia mostrava che egli pativa. nel suo corpo la stretta dell'ultima agonia. Chiuse gli occhi, ma teneva ancor alta la testa. Sulle sue labbra Itamar credette di cogliere, imitandone il moto colle proprie, una parola. - È consumato, gli parve di veder pronunciare, e ripeté colle labbra di Gesù. Intento daccapo tutto nel crocifisso, non che la stretta di Masma, nemmen l'odio più sentiva, né la minaccia, né la morte propria. Pregava per colui che pativa sulla croce l'ultima passione, per lui che soffriva: per sé non chiedeva niente, nemmeno uno sguardo. E ciò che di Gesù agonizzava secondo natura, la sua parte d'umanità corporea, naturale, mortale, la parte di lui che stava per morire, a gran voce: - Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? - gridò. Poi ci fu un silenzio, nel quale Itamar accolse nel cuore e nel sangue l'umana passione di quelle parole; e intanto travedeva la spugna dell'aceto alle labbra del moribondo, che l'assaporarono un poco. Itamar le vide muoversi ancora, in un soffio di voce, in un'ombra di sorriso, nei quali indovinò che raccomandava lo spirito al Padre. Poi chinò il capo. E fu il grido della morte, quand'emise lo spirito, e si fecer le tenebre, e la terra tremò, e i sepolcri restituirono corpi e spettri di morti, e si ruppe il velo del tempio. Ma quegli ch'era stato un tempo l'indemoniato delta riva gerasena, Itamar, nel sentire che gli fuggiva dagli occhi la luce e che la terra gli mancava sotto i piedi per le tenebre cadute sul mondo e per il terremoto che lo scuoteva, non dava più mente a Masma e alla feroce promessa dell'antico compagno. In quelle tenebre e in quella scossa, in quel grido supremo, accolse coscienza di morire insieme a Gesù, e non d'altro: salvo che sentiva un immenso sollievo nel dimettere per la prima volta del tutto dall' animo quel funesto e troppo fedele compagno della tristezza, quel segreto pensiero della disperazione: ch'era meglio non risanare, se la coscienza gli era stata restituita per sapersi perduto e riprovato e morto in ispirito. E il grido della sua morte insegue sulla croce il grido di Gesù: grido di morte, ma di liberazione e di grazie, perché Itamar ha portato e patito l'ansia di quel funesto pensiero fino a consumarvi lo spirito suo. Fido alla sua promessa, Masma, nelle tenebre, gli ha piantato il coltello fra le costole, passandolo da parte a parte: e Itamar non sentì la ferita. Senti soltanto che allora e solo allora era del tutto guarito, e ringraziò Gesù della grande misericordia, d'averlo guarito. E passò nel mistero di quell'ora e di sempre.

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Gli apostoli sbigottiti (Negazione o riduzione della divinità di Gesù) Bo Carlo (1911) Cristo non è cultura Per un cattolico Cristo è l'unica immagine di vita e la sua rivoluzione non sopporta le condizioni del tempo: non m'importa l'influenza che può aver avuto Cristo, m'importa soltanto quella che può avere dentro di me come misura attiva, come una proposta di correzione continua. È fallita quella rivoluzione? Ma noi non possiamo dirlo, finché ci sarà un uomo sulla terra quella rivoluzione resta intatta, resta da inventare, deve diventare davvero sangue dei nostri giorni. E così non si può pretendere di vedere dei risultati pratici di questa rivoluzione: in questo senso non c'è progresso e la nostra miseria raggiunge quella dei primi cristiani, l'ultima guerra che ricorda Vittorini ne è la più bella conferma. E in questo senso ci lascia molto perplessi la sua speranza in un mondo «ridotto», «rinnovato», irriconoscibile: sono utopie, il cattolico sa che il male è insuperabile, anzi è necessario: così come il peccatore conta più del santo. Come si potrebbe dare la vita senza questi oggetti di prova, senza queste misure offerte al nostro sacrificio o alla nostra viltà? I rimedi in cui spera Vittorini non ci possono dare nessun aiuto vero; siamo pronti a combattere con lui contro l'ingiustizia ma qualcosa dentro di noi ci avverte che questa ingiustizia comincia da noi, che il male che vediamo in spaventose forme esteriori ha una esatta rispondenza nel nostro cuore. Vittorini lo chiama per nomi di uomini e anch'io grido contro queste figure il mio bisogno di giustizia e di verità ma immediatamente devo mettermi al posto di questi uomini e calcolare la mia condotta, fare le proporzioni e allora troverò che sono malato dello stesso male: non conta qui la misura del veleno: e se devo essere sincero sento di cominciare la lotta da me stesso, vincere il male dentro di me se voglio vederlo annullato al di fuori. Non per niente il povero è l'immagine reale del Cristo, in quanto il povero è l'unica figura irraggiungibile, perfetta: il quale soltanto si può inseguire e raggiungere ma non il bene che è la voce reale di Dio. Solo Dio è buono: che spaventosa parola per tutti noi, per gli stessi Santi, per questi nostri fratelli maggiori, ma ancora fratelli, uomini offerti alla loro parte di male. La rivoluzione a cui aspira Vittorini si può avverare, e io stesso divido questo desiderio, ma in quel nuovo mondo so benissimo che la mia posizione non muta, resta tale e quale, e cioè la vera rivoluzione è ancora da iniziare. Al cristiano importa solo salvare l'anima: tutto il resto lo può sacrificare a Dio e non già per una vana rassegnazione ma per un dolore che si trasforma, che frutta. Né pensare soltanto all'anima vuol dire lasciar carta bianca a Cesare, la parola del Vangelo che cita Vittorini avvilisce molto, ma molto, la figura di questo Cesare e nello stesso tempo limita l'importanza del tempo immediato della politica. La vita per noi è una prova e resterà sempre una prova anche se cambiano le sue condizioni, anche se le nostre domande pratiche vengano soddisfatte. D'altra parte se tutti, anzi se noi applicassimo queste parole di Cristo avremmo eliminato di colpo queste cause di dolore che fanno gridare Vittorini: ma avremmo vinto il male, saremmo soltanto buoni e questo sappiamo che non è possibile, che la morte soltanto può far cessare questa disperazione che ci tiene legati e divisi: Vittorini ed io allo stesso modo, seppure con diverse intensità. Ma davvero Vittorini ha mai pensato alla realtà del mondo fantastico a cui aspira? o meglio quel mondo annullerà di colpo questa sua disperazione che oggi ci chiama e ci colpisce? Ho paura di no, ho paura che non ci voglia pensare, ho paura che questo mondo prenda il posto della cultura che rifiuta: un mondo che consoli nelle sofferenze, lo protegga e cioè lo illuda ancora. Ancora, ma fino a quando? Crede cioè davvero che cambiato l'ordine della casa la sua anima muti sostanza, e ancora che il male sia soltanto nelle cose? No, il male è dentro di noi e la strada più breve per combatterlo - non per annullarlo - comincia proprio dalla nostra anima: più sicuri di noi saremo anche più forti mentre se ci presentiamo avviliti corriamo il rischio di confondere i piani, di oltrepassare i limiti delle speranze e delle nostre possibilità. Infine tra il cattolico e il comunista il punto di partenza può essere uguale ma dove il comunista si ferma il cristiano sente di dover fare ancora molta strada, forse tutta la strada.

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C'è ancora un'altra parola del Vangelo che mi serve, quella per il povero e per il ricco: il miserabile è il ricco, è un'anima con più «impedimenta », arriverà sempre dopo, se arriverà. Il vero cristiano dovrebbe pensare a questo: lo so, sono pochissimi a pensare queste cose, la maggior parte ignora questo peso del peccato e quindi non conta, un'altra accetta una lotta politica ma con un bersaglio ben limitato, fa la sua piccola guerra e non può interessarci, accetta troppe cose perché gli sia consentito il peso dell'aggettivo che proclama e in questo senso Unamuno ha parlato ben chiaro nella sua Agonia. Agonia, che bella definizione per noi che dovremmo sempre essere svegli, che dovremmo temere soltanto il sonno dell'anima e poi se davvero seguissimo questo emblema interiore nessuna cultura potrebbe servirci. Anche noi siamo per una cultura interessata ma sappiamo che non può essere definitiva: lotto con Vittorini per rifiutare una cultura che consoli - per noi, traduco, che addormenti - e per sollecitare una cultura che ci aiuti sulla strada della verità: parli ancora al nostro cuore, sia attiva. Attiva, cioè legata alla vita ma senza nozione di riposo. Vittorini vuole abolire un paradiso artificiale per conquistare un paradiso naturale ma sono tutt'e due legati al tempo: e poi? e la morte? e noi che continuiamo oltre questi segni sensibili? Non ci è concesso di credere a un senso così diminuito della nostra natura ma forse qui il mio discorso esula dalle intenzioni stesse di Vittorini le mie amplifìcazioni ci portano troppo in là, troppo lontano dalla guerra in fondo moderata che Vittorini conduce con amore nelle. file del suo partito. Per un cristiano ogni rivoluzione che non sia la sua, così assoluta e così bruciata, è sempre troppo poco, un rimedio inefficace. E non contano le accuse che potrebbe farci, nessuno come un cristiano - buono o cattivo che sia, anzi più cattivo è,meglio conosce la forza del suo errore - sa scavare dentro la propria anima e trovare i nomi dei suoi delitti e delle sue vergogne. Quando Cristo ci dice «io sono la via, la verità, la vita» non sceglie a caso quest'ordine, questa progressione interiore: la via, e qui vediamo ancora Vittorini vicino, ma dopo al momento della verità? e Cristo lascia per ultimo «la vita»: la vita è soltanto lui e il cristiano che muore dei suoi peccati dovrebbe morire d'amore. E sottolineiamo questa parola, amore: non crede Vittorini che proprio l'amore, un amore continuo, sacrificato, perduto contro noi stessi potrebbe essere l'unico mezzo per cambiare davvero il mondo, per annullare tutti i padroni del mondo, ma si badi quei padroni che hanno il nome dei nostri peccati? Ma la vita è Cristo, se non avessi paura di errare direi che è Dio, Dio ottenuto attraverso l'amore di Cristo: e anche qui nella leggenda divina non ci sono ostacoli, non c'è il dolore, il bene non vive sulle radici stesse del male? Ma Vittorini vuole limitare il giuoco e un cristiano deve buttare sul tappeto. tutti i suoi capitali: una volta per sempre., Lo so io che sono cristiano, un pessimo cristiano: un uomo che conosce il senso della sua disperazione.

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Gv 1,14 (Capitolo 1, Il Verbo si fece carne) Borges Jorge Luis (1899-1986) Non sarà meno un enigma questo foglio di quelli dei Miei libri sacri né di quegli altri che ripetono le bocche ignoranti credendoli d'un uomo, non già specchi oscuri dello Spirito. lo che sono l'È, il Fu, il Sarà, torno ad accondiscendere al linguaggio, che è tempo successivo ed emblema. Chi gioca con un bimbo gioca con qualcosa di vicino e misterioso; io volli giocare con i Miei figli, tra loro stetti con sorpresa e dolcezza. Per opera di magia stranamente nacqui da un ventre. Vissi affatturato, incarcerato in un corpo e nell'umiltà d'un'anima. Conobbi la memoria, quella moneta che non è mai la stessa. Conobbi la speranza e il timore, quei due volti dell'incerto futuro. Conobbi la veglia, il sonno, i sogni, l'ignoranza, la carne, i tardi labirinti della ragione, l'amicizia degli uomini, la misteriosa devozione dei cani. Fui amato, compreso, lodato e pendetti da una croce. Bevvi la coppa fino alla feccia. Vidi attraverso i miei occhi ciò che mai avevo visto: la notte e le sue stelle. Conobbi il pulito, l'arenoso, il disuguale, l'aspro, il sapore del miele e del pomo, l'acqua nelle fauci della sete, il peso d'un metallo nella palma, la voce umana, il rumore d'alcuni passi sull'erba, l'odore di pioggia in Galilea, l'alto grido degli uccelli. Conobbi anche l'amarezza. Ho affidato questa scrittura a un uomo qualunque; non sarà mai ciò che voglio dire, non cesserà d'esserne il riflesso. Dalla Mia eternità cadono questi segni. Altri, non d'ti ne è oggi l'amanuense, scriva il poema. Domani sarò una tigre fra le tigri e predicherò la Mia legge alla sua selva, o un grande albero in Asia Penso talvolta con nostalgia a quel sentore di falegnameria.

Il Signore della danza (Figio di Dio) Sidney Carter Il filosofo Nietzsche ha affermato: «Potrei credere solo in un Dio che sappia danzare!». Il Dio della Bibbia, il Dio di Gesù Cristo è il Signore della danza, della gioia. Vuole la nostra gioia, fa di tutto perché la nostra vita sia un banchetto di nozze. Ci guarda negli occhi con sguardo d’amore e ci invita alla festa. Forse siamo noi che non abbiamo il coraggio di addentrarci nell'avventura evangelica e ce ne andiamo via tristi... Ma Lui insiste: Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena (Giovanni 15, 1l). «Danzavo per lo scriba e per il fariseo. ma non hanno voluto né danzare né seguirmi. Danzavo per i pescatori, per Giacomo e per Andrea, mi han seguito e sono entrati nella danza. Danzavo il giorno del Sabato e guarivo il paralitico, e i giusti han detto che era una vergogna. Mi hanno frustato e lasciato nudo e mi hanno appeso in alto su una croce per morirvi. Danzavo il venerdì. quando il cielo divenne tenebre... Oh, quant'è difficile danzare con il demonio sulla schiena! Hanno sepolto il mio corpo, hanno creduto che fosse finita... Ma io sono la Danza e guido sempre il Ballo. Guiderò la danza di tutti voi ovunque voi siate, guiderò la danza di tutti voi. Han voluto sopprimermi ma son balzato ancora più in alto, perché io sono la Vita che non può morire ed io vivrò in voi e voi vivrete in me, perché io sono - dice Dio il Signore della Danza».

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Il Volto Santo (Tutto è compiuto) Non potrai cancellare dal tuo cuore un'immagine, L'immagine che non è se non quella impressa sul lino della Veronica. Un volto affilato e sottile, e una lunga barba ne circonda il mento. E tale è l'austerità dello sguardo, che atterrisce, e tale la santità, Che l'antico peccato, radicato in noi, Freme nelle sue più intime radici, e tale la profondità del dolore da quel volto espresso, Che noi, sconvolti, siamo come fanciulli quando, senza comprendere, vedono piangere il padre: piange! Invano, Ivors, vorresti spiegare innanzi a quello sguardo la gloria e lo splendore del mondo; Quegli occhi che con un solo sguardo hanno creato l'universo Sono volti a terra, e lacrime severe ne sgorgano; Dalla fronte trasudano gocce di sangue. Ma ora contempla, figlio, la bocca del tuo Dio, la bocca del Verbo, L'amarezza che essa conosce, la parola a se stessa incomprensibile che assapora. Poiché le labbra, vedi, si schiudono in un sorriso atroce. Ed egli piange, con tutto il suo essere, come piangono i bambini quando dalle labbra lasciano sfuggire la saliva! Non vi è pane per noi, figlio, fino a quando dovremo consolare quella sofferenza. La sofferenza del Figlio dell'Uomo, che ha voluto prendere su di sé il nostro delitto. La sofferenza del Figlio di Dio: Che Egli non possa offrire al Padre nel mistero del Sacrificio l'uomo nella sua interezza. La solitudine sulla terra. (Figlio di Dio) L'Onnipotente è vinto. Egli non può! Ha creato cielo e terra e non può vincere questa semplice creatura che rifiuta! Questo fanciullo, non vi è speranza, non lo conquisterà mai. Quella scintilla di Se Stesso nell'intimo del ribelle, non la riprenderà più. Non Lo vogliono. Mostra agli uomini l'inferno, e gli uomini ridono. Una minaccia vecchia. Indica agli uomini il cielo e la terra, e gli uomini non vogliono. Lui Stesso scende sulla terra, Lui Stesso si offre, si cinge i fianchi, si prosterna ai nostri piedi, li prende, li bacia, li bagna con le sue lacrime. Gli uomini lo respingono con orrore, con odio, con ironia, o lo respingono - ed è, questa, la peggiore offesa con annoiata sufficienza, sbadigliando, con esasperata mollezza. Non pensano valga neppure la pena di discutere. «Ma via! Quando la smetterà! Ne abbiamo abbastanza di queste storie! Basta! Che ci lasci in pace! »E ora il Figlio di Dio è sulla croce. Affronta la prova suprema, e da ogni parte viene attaccato: ed Egli si strazia, il costato si fende, il cuore è allo scoperto e pare quasi che sgorghi dal petto. Ma sul viso dello spettatore, un viso che noi conosciamo, appare appena una smorfia di disgusto. «Che ora è?»

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Davvero è Natale (Capitolo 1 – Il Verbo si fece carne) Claudel Paul (1868-1955) Il poeta e saggista francese si convertì al cattolicesimo dopo aver meditato su Rimbaud. Ci ha lasciato pagine di una religiosità fremente e di una fede compatta. Uno stelo è sorto da David, un fiore dalla radice di Jesse, La persona di David è uscita dal seno della Vergine senza peccato! Ecco la carne della nostra carne, ecco il Fanciullo-con-Dio che noi abbiamo voluto Riprendere piena l'eredità che Satana ci aveva strappato. Il suo nome è Ammirabile, Consigliere, Dio-forte, Padre-del-secolo-futuro, Principe-della-pace! Angeli della Persia e di Grecia! Angelo di Roma! Angelo del Nord e di quelli del mare! O pastori di popoli ciechi nella notte, veglianti una veglia amara! Da gran tempo come il grido che le sentinelle ripetono di torre in torre, Da un capo all'altro del mondo, voi vi passate la notizia sul far del giorno! Ora, come il suddiacono dal diacono e questi dall'officiante, quando ha ricevuto la pace; Va verso il primo dei suoi fratelli ordinati nel coro e salutandolo con rispetto, Gli mette le mani sulle spalle e la guancia contro la guancia; Così il messaggero che da una galera all'altra annuncia la liberazione dai ceppi. E presto, in mezzo al fumo e all'oro ed al fuoco, dal pontificante che officia all'altare, Preceduto dal turibolo e dalle trombe si muove il solenne corteo, Dell'araldo che sale l'ambone, annunziando l'universale Vangelo! «È nato il divino Fanciullo! » E voi anche ascoltate il significato di questo canto! Voi, Patriarchi, che l'Inferno rinserra nell'immensa fossa! La radice oscura sente nel cuore del suo fogliame sbocciare la sua benedizione. L'albero di Vita ove nasce il frutto eterno si scuote nelle sue generazioni: Ecco l'ammirevole maschio che una Vergine pone nelle braccia di Simeone! Madri e Patriarchi, rallegratevi, antenati di Gesù Cristo. Dal seme uscito dal vostro seme è nato il Vendicatore di cui è scritto. E fra poco, attraverso tutti i morti generati l'uno dall'altro che la ricoprono, La terra sino al profondo trema e si spacca. Dalla tortura e dalla nera prigione si elevano voci estenuate Delle anime gementi che esclamano: «O figlio, sei giunto! » Fino a che lo stesso Vivente passa attraverso la soglia della morte che non ha creato E precedendo l'Anima-Dio, nel Sabato della sua discesa, Un Angelo batte con un colpo formidabile alle porte che rimbombano. Ormai l'alba imbianca nel deserto, di questo giorno che non finirà, Il punto del nostro primo giorno cristiano, l'anno Primo della grazia e della nostra salvezza! Qui, e vicino, Dio resta sempre con noi, Fintanto che vorremo essere con lui e nemmeno, perché corto è il nostro volere. E subito rifacciamo il male, ma abbiamo un rifugio In questo cuore nel tabernacolo così dolce con noi e pieno d'amore! Davvero è Natale, tutto d'oro purissimo che nessun male corrode. Domani, giacché così succede, serviremo il crudele Erode, Riprendendo l'utensile dell'artigiano e la sedia dell'impiegato. lo, però sono nella gioia divina, come Giuseppe il falegname, Vedendomi vicino questo bambino che è Nostro Signore, E Maria, madre nostra, che tace e tutto conserva nel cuore.