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Sottobanco caldo BOLLETTINO DI INFORMAZIONE PER STUDENTI INTELLIGENTI LUGLIO 2010 Qualche tempo fa è morto Pietro Taricone e non mi sono ancora scrollato di dosso l’idea che in migliaia se non milioni si sono mobilitati per ricordarlo. Intendia- moci: a me non fa piacere che sia morto Taricone, no- nostante fosse un fascista affiliato a Casa Pound che per diventare famoso non ha fatto altro che stare 100 giorni chiuso in una casa. E questo per il semplice motivo che non è mai augurabile la morte a nessuno, neanche al peggior nemico. Però addirittura doversi dispiacere per un tizio che è di- ventato famoso per aver partecipato ad un reality è cosa inaccettabile. Lo è ancor di più quando mi ricordo il motivo principale per cui faccio politica: il fatto che ogni giorno un miliardo di persone in tutto il mondo non riesca a mettere assieme un po’ d’acqua e di pane e a stenti si trascini fino a fine giornata. Se mi devo dispia- cere per qualcuno mi dolgo per quei 13 mila bambini africani che ogni giorno muoiono nell’indifferenza e nel silenzio mediatico generale. Chi si dispiace per Taricone dovrebbe dispiacersi anche per tutti questi morti, di cui è responsabile indirettamente, accettando passivamente un sistema economico (la globalizzazione, ossia il capitalismo liberista applicato al Terzo Mondo) che è la prima causa della povertà nel pianeta. Perché credete che i bimbi africani muoiano di fame? L’Africa è un continente ricchissimo di risorse e di potenzialità umane, ma è stato sfruttato da noi paesi Occidentali prima con la forza militare (imperialismo e colonialismo) poi con quella economica (neocolonialismo, ossia la forza delle multinazionali, sostenute dai governi locali corrotti e da quelli Occidentali in diversa maniera). All’interno troverete un articolo che esemplifica la situazione del Kenya (ma si potrebbero fare esempi per un libro intero), giusto per dare concretezza a queste affermazioni. Tutto ciò per dire che se vi dispiacete per Taricone e non per i bimbi africani siete razzisti, superficiali e anche un tantino stronzi. Se invece avete un minimo di morale e di solidarietà e pensate sia giusto fare qualcosa sap- piate che non serve a niente mandare un messaggino da un euro per sentirsi la coscienza a posto. E’ necessario capire che finché non si metterà in discussione questo violento sistema economico non si riuscirà a risolvere strutturalmente la situazione. E’ per questo che noi (inteso come Sottobanco ma in generale come i comunisti e i sinistroidi che siamo) stiamo dalla parte di tutti quei 13 mila bimbi africani e di tutti i milioni di sfruttati che ogni giorno vivono in condizioni tragiche. E’ da qui che troviamo un senso al nostro agire e a portare avanti un’azione politica fondamentale per giungere ad un esito rivoluzionario. La rivoluzione sarebbe creare un mondo in cui nessuno muore di fame, in cui tutti hanno almeno il minimo necessario per vivere (una casa, qualche vestito, cibo sano). Noi non siamo ipocriti. Non piangiamo Taricone. Non mandiamo messaggini. Noi sappiamo che l’unico modo per porre freno alla fame del Terzo Mondo è una via politica, con cui si metta un freno alla prepotenza di un capitalismo sempre più selvaggio e onnipresente. Ogni azione di cordoglio o di vo- lontariato che non si accompagni a questa necessità è poco più di una chiacchiera o un atto auto-consolatorio squallidamente borghese. Stai uccidendo questo bambino e non te ne rendi neanche conto! Alessandro Pascale «Nel 2005 Berlusconi ha promesso di aumentare gli aiuti verso l’Africa, ma da al- lora li ha solo diminuiti. Le sue promesse non mantenute costano delle vite, quindi dovremmo cacciarlo fuori dal G8» One International, l’associazione di Bono e Bob Geldof

Sottobanco caldo

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luglio 2010

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S o t t o b a n c oca l d o

BOLLETTINO DI INFORMAZIONE PER STUDENTI INTELLIGENTI – LUGLIO 2010

Qualche tempo fa è morto Pietro Taricone e non mi sono ancora scrollato di dosso l’idea che in migliaia se non milioni si sono mobilitati per ricordarlo. Intendia-moci: a me non fa piacere che sia morto Taricone, no-nostante fosse un fascista affiliato a Casa Pound che per diventare famoso non ha fatto altro che stare 100 giorni chiuso in una casa. E questo per il semplice motivo che non è mai augurabile la morte a nessuno, neanche al peggior nemico. Però addirittura doversi dispiacere per un tizio che è di-ventato famoso per aver partecipato ad un reality è cosa inaccettabile. Lo è ancor di più quando mi ricordo il motivo principale per cui faccio politica: il fatto che ogni giorno un miliardo di persone in tutto il mondo non riesca a mettere assieme un po’ d’acqua e di pane e a stenti si trascini fino a fine giornata. Se mi devo dispia-cere per qualcuno mi dolgo per quei 13 mila bambini africani che ogni giorno muoiono nell’indifferenza e nel silenzio mediatico generale. Chi si dispiace per Taricone dovrebbe dispiacersi anche per tutti questi morti, di cui è responsabile indirettamente, accettando passivamente un sistema economico (la globalizzazione, ossia il capitalismo liberista applicato al Terzo Mondo) che è la prima causa della povertà nel pianeta. Perché credete che i bimbi africani muoiano di fame? L’Africa è un continente ricchissimo di risorse e di potenzialità umane, ma è stato sfruttato da noi paesi Occidentali prima con la forza militare (imperialismo e colonialismo) poi con quella economica (neocolonialismo, ossia la forza delle multinazionali, sostenute dai governi locali corrotti e da quelli Occidentali in diversa maniera). All’interno troverete un articolo che esemplifica la situazione del Kenya (ma si potrebbero fare esempi per un libro intero), giusto per dare concretezza a queste affermazioni. Tutto ciò per dire che se vi dispiacete per Taricone e non per i bimbi africani siete razzisti, superficiali e anche un tantino stronzi. Se invece avete un minimo di morale e di solidarietà e pensate sia giusto fare qualcosa sap-piate che non serve a niente mandare un messaggino da un euro per sentirsi la coscienza a posto. E’ necessario capire che finché non si metterà in discussione questo violento sistema economico non si riuscirà a risolvere strutturalmente la situazione. E’ per questo che noi (inteso come Sottobanco ma in generale come i comunisti e i sinistroidi che siamo) stiamo dalla parte di tutti quei 13 mila bimbi africani e di tutti i milioni di sfruttati che ogni giorno vivono in condizioni tragiche. E’ da qui che troviamo un senso al nostro agire e a portare avanti un’azione politica fondamentale per giungere ad un esito rivoluzionario. La rivoluzione sarebbe creare un mondo in cui nessuno muore di fame, in cui tutti hanno almeno il minimo necessario per vivere (una casa, qualche vestito, cibo sano). Noi non siamo ipocriti. Non piangiamo Taricone. Non mandiamo messaggini. Noi sappiamo che l’unico modo per porre freno alla fame del Terzo Mondo è una via politica, con cui si metta un freno alla prepotenza di un capitalismo sempre più selvaggio e onnipresente. Ogni azione di cordoglio o di vo-lontariato che non si accompagni a questa necessità è poco più di una chiacchiera o un atto auto-consolatorio squallidamente borghese.

Stai uccidendo questo bambino e non te ne rendi neanche conto!

Alessandro Pascale

«Nel 2005 Berlusconi ha promesso di aumentare gli aiuti verso l’Africa, ma da al-lora li ha solo diminuiti. Le sue promesse non mantenute costano delle vite, quindi dovremmo cacciarlo fuori dal G8» One International, l’associazione di Bono e Bob Geldof

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2 S o t t o b a n c o S o t t o b a n c o

C o m e N e s t l é & C . d e v a s t a n o l ’ A f r i c aIl Kenya ha una superficie di 600.000 kmq., quasi il doppio dell’Italia, ma solo 125.000 sono coltivabili: il re-sto è steppa arida e deserto sassoso. Le multinazionali del caffè, del tè, dell’ananas, dei fiori, si impossessano della terra migliore. Che resta alle popolazioni locali? Le zone aride, senza piogge, senza possibilità di irriga-zione e in più isolate, senza strade per il commercio. Se uno visita il Kenya con qualche itinerario organizzato da chi è sensibile a questi problemi e non dalle solite agenzie turistiche, può vedere con i suoi occhi. Ottime zone come quelle di Thica, Limuru, Kiambu, Nyanyuki, pendici del monte Kenya, Rongai, le così dette High Lands, sono ormai tutte nelle mani delle multinazionali del caffè, del tè, del piretro, del frumento, di quant’al-tro. I kenyoti dove sono? A tribolare nelle baraccopoli che si stanno sempre più gonfiando e a seminare per non raccogliere, a volte, neanche il seme, nelle zone aride.Uno si domanderà: ma chi vende o affitta questi terreni alle multinazionali? Il governo! In particolare alcuni ministri. Questa è la strategia delle multinazionali: hanno una notevole disponibilità di denaro per corrompere governi e individui. Propagano e stimolano la corruzione per entrare nei mercati e vincere la concorrenza. E’ ridicolo pensare che la corruzione a livello internazionale possa diminuire se le grandi centrali del denaro che sono le multinazionali usano la corruzione come normale strategia. Se non ci saranno accordi internazionali per bloccare questa piaga, la corruzione causerà insostenibili condizioni di vita, aumentando le guerre e l’in-stabilità politica e sociale, soprattutto in Africa.Qualcuno potrebbe obiettare: ma danno lavoro alla gente! E’ proprio vero? E’ vero in misura ridottissima. Con l’agricoltura industrializzata gli operai sono pochissimi e poi spesso i prodotti sono portati e lavorati in Europa. L’Africa diventa il mercato dove le multinazionali cercano di vendere i prodotti, più che il luogo di lavorazione. Inoltre i salari sono bassissimi: se un operaio agricolo prende l’equivalente di 50 euro al mese – e senza alcuna assicurazione – è un miracolo. La minima malattia diventa una tragedia familiare. Le condizioni di lavoro sono generalmente spaventose; perché, per esempio, nel periodo in cui vengono irrorati i pesticidi, aumenta la mortalità infantile e le malattie alle vie respiratorie? Non si dimentichi che la maggior parte della gente va scalza e beve acqua raccolta all’aperto, per cui è facilissimo restare avvelenati. Ma chi se ne preoccupa?C’è inoltre da chiedersi: come mai negli anni Sessanta l’Africa era autosufficiente dal punto di vista alimenta-re, mentre ora dipende sempre più dal cibo importato? Ora l’Africa produce ciò che non consuma e consuma ciò che non produce.Prendiamo il Kenya. La gente era abituata a vivere su granturco, fagioli, arachidi, cavoli, pomodori e carne di pollo, vacca e capra. Ora i terreni dove tutto questo cresceva sono stati riciclati per coltivare caffè, tè, frutta, grano, fiori. La produzione degli alimenti usati dalla gente è diminuita drammaticamente, perciò la fame au-menta e la popolazione è malnutrita.Un segno è il ritorno della tubercolosi, favorita dall’insufficienza alimentare. Il dono di un po’ di cibo, che alcune multinazionali esportano a volte in Africa con grandi squilli di fanfare, è meno di una goccia di fronte a questo squilibrio alimentare che la loro politica sta provocando. La loro produzione non tiene conto dell’A-frica, ma dei mercati in altre parti del mondo dove si possono realizzare consistenti profitti.L’Africa deve ancora far fronte ai bisogni fondamentali: cibo, acqua potabile, alloggio, educazione primaria per le nuove generazioni, un minimo di strutture sanitarie e di rete stradale. Le multinazionali, con la loro martellante propaganda alla radio, su giornali, tv e fogliet-ti volanti, creano falsi bisogni e false convinzioni. Se non bevi quel caffè, non sei uno del 2000. Se non usi questo o quel biberon (Nestlé) o questo o quel pannolino (Johnson), non sei una buona mamma, non vuoi bene al tuo bambino. Senza parlare poi dei cosmetici e dei coloranti della pelle e dei capelli.La gente non è abituata ancora alla dialettica della pubblici-tà, difficilmente si difende e scambia per importante quello che è un ingrediente inutile se non dannoso. Se i falsi biso-gni creati dalla pubblicità sono dannosi ovunque, in Africa sono mortali.Da quanto detto, appare chiaro che la logica delle multina-zionali è violenta, perché mette il prodotto e il guadagno al di sopra della persona e del bene della comunità. Le persone vengono usate per obiettivi finanziari e di potere. Si instal-lano dove la gente è più debole, meno capace di difendersi, e le strutture statali meno organizzate per resistere alle loro pressioni.

NB: Questo articolo non è stato scritto da un trotzkista ma dal missionario comboniano Francesco Pierli.

da “L’altrapagina”, mensile di Città di Castello (Perugia)

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C o m e N e s t l é & C . d e v a s t a n o l ’ A f r i c a A p p e l l o f i n a l e s u c l i m a d e lS o c i a l Fo r u m E u ro p e o d i I s t a n bu l

I giornali possono riempirsi di pagine sulla crisi economica e finanziaria, ma quando ci guardiamo intorno quello che vediamo non sono derivati e mercati finanziari. Vediamo la distruzione delle comunità, del contesto sociale e della natura, delle relazioni tra di noi. Vediamo che il capitalismo ci sta distruggendo. Contro questa devastazione, e i tempi duri che si porta dietro, le persone stanno resistendo, stanno combattendo, stanno cercando di creare quei nuovi mondi che sappiamo sono necessari: dal Ghana alla Grecia, da Copenhagen a Cochabamba, da Bangkok a Bruxelles. Noi, movimenti per la giustizia sociale e climatica riuniti al Forum So-ciale Europeo di Istanbul, apparteniamo e ci ispiriamo a questi processi globali di resistenza e di creazione, ma sappiamo anche che abbiamo bisogno di lottare nei luoghi dove viviamo: per creare un altro mondo abbiamo bisogno di creare un’altra Europa e di buttare giù i muri della fortezza che la circonda.Contro quelli che vogliono separare la lotta per la giustizia sociale da quella ecologica, noi affermiamo che non sono contraddittorie. Devono essere complementari”. Il nostro è il sogno di assicurare una vita buona per tutti, non l’incubo di una eco-austerity autoritaria.Contro quelli che si oppongono al desiderio delle persone di avere un posto di lavoro dignitoso e ben pagato e di superare la pazzia di una crescita infinita in un pianeta finito, noi chiediamo una giusta transizione rispetto al modo in cui lavoriamo, alle strutture di produzione e di consumo. Abbiamo bisogno, ad esempio, di fermare le pratiche distruttive di produzione di energia che sfruttano carbone, carburanti fossili, energia nucleare e acqua, come di fermare la pazzia di costruire ancora automobili personali per ciascuno. Abbiamo bisogno di espandere le esperienze di controllo comunitario delle fonti di energia rinnovabili, la sovranità alimentare e servizi pubblici determinanti per il nostro obiettivo di assicurare una vita buona per tutti, come trasporti pub-blici gratuiti, sistemi sanitari, abitativi e dell’educazione universali. Questo cambiamento creerebbe milioni di posti di lavoro utili per la società e per l’ambiente.Questo è quello che intendiamo per giusta transizione, per giustizia climatica: non si tratta di avere soltanto la “giusta” posizione su quello che si negozia ai summit sul clima delle Nazioni Unite. Anche se è importante cambiare i nostri stili di vita individuali, giustizia climatica vuol dire cambiare i nostri modelli di produzione e consumo di cibo, beni materiali e immateriali, energia, i nostri modelli di vita nel loro complesso. Vuol dire porre rimedio, finalmente, al nostro debito ecologico con il resto del mondo.Noi in Europa stiamo cominciando adesso a imboccare la strada giusta verso la giustizia climatica, creando e resistendo in molti modi diversi come azioni dirette, la costruzione di alternative locali, la disobbedienza civile o le campagne di sensibilizzazione, solo per nominarne alcune forme.

Fonte: www.greenreport.it

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“La ricchezza delle società, nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico, si presenta come una immane raccolta di merci e la singola merce si presenta come sua forma elementare” (K. Marx – Per la critica dell’economia politica)Cos’è la merce?E’ “semplicemente” la colonna portante del capitalismo. Per Marx infatti il capitalismo è un sistema teso alla valorizzazione fine a se stessa del valore e alla produzione di merci.Infatti Marx distingue la circolazione pre-capitalistica, che si articola nello schema M – D – M (si vende la Merce in cambio di Denaro per acquistare altra Merce), da quella capitalista, che si esemplifica secondo lo schema D – M – D’ (Denaro – Merce – più Denaro): l’obiettivo non è più il soddisfacimento dei bisogni, ma l’accumulazione di capitale. Qui va fatta una prima precisazione. Esistono due tipi di valori: il valore d’uso (la capacità di soddisfare un certo bisogno, il suo carattere qualitativo) e il valore di scambio (la proprietà della merce di poter essere scambiata, tramite i prezzi, con altre merci). Nelle parole di Marx: “ In modo immediato, il valore d’uso è la base materiale in cui si presenta un determinato rapporto economico, il valore di scambio. Il valore di scam-bio appare in primo luogo come un rapporto quantitativo, entro il quale valori d’uso sono intercambiabili”. Nella società odierna il valore di scambio ha del tutto soppiantato il valore d’uso, facendo si che siano i prezzi (espressioni monetarie del valore di scambio) a dominare il mondo. Mi spiego: una fonte di energia rinnovabile e non inquinante in un mondo che avesse come scopo primario quello del miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo sarebbe automaticamente un bene da sfruttare. Nel capitalismo questo non accade automaticamente. Accade solo qualora la fonte rinnovabile in questione produca dei profitti. Il valore delle cose viene così capovolto: l’utilità pratica di un bene è sottomessa al gua-dagno economico che questo bene può procurare. Si può anche ribaltare il discorso: il primo mercato mondia-le è quello delle armi... Si fanno soldoni su qualcosa che serve per ammazzare la gente. Un capovolgimento di senso totale.Il problema principale delle merci, per Marx, è quello della “cosalità”. La questione è semplice: avendo a

che fare con merci, con valori di scambio, con prezzi, tendiamo a scambiare per delle cose quelli che invece sono rapporti sociali. La merce infatti è il prodotto di un particolare tipo di rapporto sociale, quello legato al modo di produzione capitalistico, il quale trae origine dal fatto che esista una classe di possidenti ed una classe che possiede solamente il proprio la-voro, il quale deve essere venduto alla classe possidente (capitalista) in cambio di un salario. Da questo rapporto sociale di produzione hanno origine le merci. In particolare il valore di scambio di una merce è determinato dal tempo di lavoro sociale impiegato per produrla. Essa è il frutto del tempo che l’uomo vende al capitalista, il quale lo impiega per trarne un profitto personale e che remunera secondo quelle che sono le esigenze primarie del lavoratore (oggi i

1000 euro al mese guadagnati dai più). Lo scam-bio tra merci appare dunque come un rapporto tra cose, quando invece è un rapporto sociale, più precisamente un rapporto tra quantità uguali di lavoro compiuto da persone diverse.La merce sembra però, nel capitalismo, un’entità indipendente, scollegata dalle mani che l’hanno prodotta. Il processo produttivo è scomposto in tantissime parti che non permettono al lavoratore stesso di sentire come proprio il prodotto finale. L’alienazione è il risultato di questo processo. “Di fronte alle merci gli uomini si comportano come di fronte ad altrettanti dèi”. Pensate allo shopping, ai centri commerciali, alle vie centrali dove l’elemento portante è la vetrina, pensate al

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M e rc i e f e t i c i s m o

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M e rc i e f e t i c i s m o

consumismo, pensate al bisogno di indebitarsi per consumare. Stiamo parlando proprio di questo.Il denaro è, in questo contesto, l’elemento che dà una forma all’alienazione. E anche qui la gente cade nell’er-rore di considerare il denaro una cosa, una merce (ad esempio nelle teorie del signoraggio), mentre questo è espressione di valore, più precisamente “equivalente generale astratto”. Il denaro è la forma che assume il “coagulo di potere sociale per alcuni”.Ma torniamo alla merce. Il feticismo della merce è un male che affligge tutt’oggi la società. Ci poniamo di fronte alle cose come se queste ci sfuggissero, come se queste fossero sovrasensibili. Alle cose sacrifichiamo tempo, sforzi, ambizioni, aspirazioni... Il consumista è un eterno insoddisfatto, che si illude di trovare nel con-sumo in se stesso una soddisfazione che però evapora appena si svela il mero feticismo del gesto di adorazione dell’oggetto-merce. Il consumo diventa un rito, non un atto di bisogno. Il rapporto cosa-uomo nel capitalismo si configura come distorto, perverso e capovolto: l’uomo è in funzione dell’oggetto e non viceversa. L’uomo è dominato dalle merci e dal denaro. La reificazione cosificata vede nelle merci i veri soggetti del mondo moderno, facendo invece degli uomini degli oggetti, degli strumenti per la loro produzione. Vedete come tutto è invertito e contraddittorio?Non parliamo poi della attuale “società dello spettacolo” (analizzata splendidamente da Guy Debord), nella quale lo stato di accumulazione è così elevato che la merce si fa immagine, rappresentazione, contemplando se stessa (la pubblicità...) in un sistema di supremo dominio dell’immagine e della parvenza.In questo strano mondo l’uomo produce merci e lo fa con l’obiettivo stesso di produrre merci per continuare a produrle. Il Pil deve crescere, bisogna essere ottimisti e continuare a consumare. Bisogna cambiare auto, bisogna creare artificialmente nuovi bisogni illusori per iniettare nuovi consumi.Come combattere tutto questo? Innanzitutto prendendone coscienza. Ritornando a capire che l’uomo è il soggetto della storia, non le merci. Demercificando, almeno nell’immaginario, la quotidianità. Riscoprendo i valori d’uso, il valore qualitativo del nostro rapporto con il mondo, con gli altri uomini e con la natura. Chia-matela decrescita, umanizzazione, comunismo... Spero solo che sia chiaro il concetto. Mi auguro che questa sommaria sintesi possa stimolare riflessioni e approfondimenti.

Testi consigliati: · Manoscritti economico-filosofici del ‘44 (K. Marx, 1844) · Per la critica dell’economia politica (K. Marx, 1859) · La società dello spettacolo (Guy Debord, 1967)

Matteo Castello

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C a ro l avo r a t o r e d i Po m i g l i a n o

E c c i d i n a z i s t i s c o p e r t i d a l l e i n t e r c e t t a z i o n i

- dovrai effettuare la produzione su 18 turni a settimana, tre turni al giorno per sei giorni a settimana;- non potrai scioperare se l’azienda ha comandato lo straordinario. Se non intendi accettare questa imposizio-ne le ritorsioni potranno essere pesantissime (e potrai addirittura essere licenziato);- dovrai effettuare a turni interi 80 ore di straordinario obbligatorio, anziché 40; altre 200 ore potranno essere richieste sfruttando la mezz’ora di pausa pranzo;- subirai ritmi di produzione serrati e sarai soggetto ad una crescente flessibilità;- l’azienda potrà arbitrariamente rifiutarsi di pagarti giorni di malattia qualora si assista a picchi “anomali” di certificati medici;- la mezz’ora di pausa pranzo non ti verrà concessa dopo sei ore di lavoro, ma solamente al termine del turno, e potrà essere soppressa completamente per esigenze di lavoro straordinario.Caro lavoratore di Pomigliano, queste sono sostanzialmente le condizioni che dovrai accettare se non vuoi rinunciare al tuo posto di lavoro. L’Amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne ti offre gentilmente questa opportunità. Sì, è vero, l’alternativa è piuttosto “asimmetrica”, ma d’altronde, come ha dichiarato lo stesso Marchionne, quello di portare la produzione della Panda dalla Polonia a Pomigliano, con un investi-mento di 700 milioni di euro, è “un grande impegno che, razionalmente, dal punto di vista economico, non prenderebbe nessuno”. Quindi non ti stupire se l’accordo, firmato da Fim-Cisl, Uilm, Fismic e Ugl, ma non da quei faziosi della Fiom, diventa un vero e proprio ricatto, e nemmeno se tu, caro operaio, vieni praticamente schiavizzato. E non stupirti nemmeno se in futuro si tenterà di esportare questo modello in cui le imprese, ormai libere dal vincolo di contrattare collettivamente diritti e salari dei lavoratori, potranno costringere questi ultimi a rinunciare ai loro diritti fondamentali in cambio di uno stipendio ridicolo.Eppure, caro lavoratore di Pomigliano, quando sei stato chiamato a decidere con un referendum sul sì o no all’accordo separato, non hai dimostrato la gratitudine, o la rassegnazione, che ci si aspettava. Niente plebisci-to, anzi, addirittura un no al 36 %. Vuoi forse dire che trovi vergognoso il modo in cui si stanno calpestando i diritti dei lavoratori e la Costituzione?Questo tuo comportamento è stato quantomeno sconsiderato. Non hai voluto chinare la testa. Sei ostinato, caro lavoratore di Pomigliano.Il povero Marchionne non se lo aspettava, si è irritato, ha quasi pensato di rinunciare a trasferire la produzione della Panda. Ma questo vorrebbe dire rivedere tutto l’assetto strategico della Fiat in Italia. È addirittura riaf-fiorata la possibilità di costituire una newco, nuova azienda, ma “smontare” la fabbrica campana per crearne una nuova presenterebbe più lati negativi che positivi. E adesso invece si parla di riaprire le trattative, anche con la Fiom, mentre i firmatari dell’accordo vorrebbero andare avanti da soli.Chissà come andrà a finire questa storia, caro lavoratore di Pomigliano...

“In quell’azione sono stati uccisi anche dei bambini, anche un neonato di tre mesi. e adesso dico una cosa molto importante: Wolfgang, l’assassinio non è caduto in prescrizione e l’uccisione di un bambino è sempre assassinio. Mi capisci, vero? Lì in quell’azione sul Monte Falterona sono capitate quelle cose e... Wolfgang, tu lì non ci sei stato”.Questo è solo uno stralcio delle telefonate di un gruppo di anziani signori, intercettate dalla magistratura tede-sca. Dalle loro conversazioni è emersa una pagina terribile della nostra Storia: le stragi perpetrate sull’Appe-nino dall’Armata Goring e dalla Guardia Nazionale di Salò. Oggi sono 8 gli imputati, tutti cittadini tedeschi, la maggior parte ultra novantenni, che in gioventù militarono tra le fila dell’esercito nazista. L’accusa è di aver trucidato più di 360 civili. A maggio, dopo più di 65 anni dal giorno della strage, il Tribunale militare di Verona ha ammesso la richiesta di danni nei confronti dello Stato Tedesco.Le indagini sono cominciate nel 2006: gli intercettati si coprivano tra di loro durante gli interrogatori, e si mettevano d’accordo su cosa dire (o meglio cosa non dire) ai procuratori. La rivelazione più inquietante emersa alle intercettazioni riguarda però le affermazioni di un certo Lotz, che al telefono dice: “Ho parlato on quel procuratore generale importante di qui, dice... come si può fare così con un ottantenne.... deve presentare un certificato medico che non è in grado di sostenere gli interrogatori”. Dunque agli otto non mancavano gli agganci in ambienti altolocati.Questo episodio dimostra due cose. Uno: l’importanza di permettere alla magistratura di effettuare le intercet-tazioni, che in questo caso hanno addirittura permesso la cattura di un gruppo di soldati che hanno compiuto il loro crimine durante la Seconda Guerra Mondiale. Due: l’importanza di rendere pubbliche le intercettazioni. Se il ddl sulle intercettazioni venisse approvato, notizie come questa, o come quelle riguardanti le specula-zioni edilizie all’Aquila, o ancora quelle riguardanti la Mafia e i suoi rapporti con lo Stato resterebbero ignote all’opinione pubblica. Forse è questo l’aspetto più negativo del ddl: la volontà di rendere la conoscenza della verità un privilegio di pochi.

Alice Fazzari

Isma Fayad

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C a ro l avo r a t o r e d i Po m i g l i a n o D a l l a c ave r n a d i P l a t o n e a i m a s s m e d i aIl 26 giugno al parco dello scientifico si è parlato di media e informazione; alcuni spunti emersi da questa discussione sono particolarmente fecondi e dunque meritevoli di essere condivisi nella speranza che possano aiutare a farvi vedere oltre le ombre che vengono agitate davanti ai nostri occhi (riferimento, per chi ancora non avesse avuto la fortuna di conoscerlo, al mito platonico della caverna) .Innanzitutto cosa sono i media? Facciamo chiarezza: i media sono mezzi artificiali, tecnologie che potenziano la comunicazione umana e permettono il superamento di alcuni dei limiti del linguaggio orale. Dai primi tentativi di scrittura oltre 5000 anni la loro diffusione ha raggiunto un tale livello di pervasività dal 1800 in avanti con la radio, il cinema, la televisione, l’estensione capillare di internet e dei new media da imporci una riflessione. I punti cardine degli studi su queste tecnologie affondano nel novecento: il filone della bullet theory (teoria della pallottola), detta anche dell’ago ipodermico vede nei media potenti strumenti di persuasione in grado di agire “sparando o inoculando messaggi” pressoché automaticamente su riceventi passivi e inermi. In risposta a questa visione rigida si sviluppa la teoria del consumatore attivo, non più semplice ricevente, ma soggetto attivo e membro di una comunità. In primo luogo la potenza persuasiva dei media è ridotta dal fatto che le persone ne consumano i contenuti attraverso un’esposizione selettiva agli stimoli (ognuno è libero di sceglie-re, seppur tra opzioni predefinite). In secondo luogo si sottolinea come la comunicazione attraverso i mezzi di diffusione su larga scala avvenga in due momenti: in un primo tempo la notizia penetra nella comunità, ma solo attraverso le interazioni con i membri più influenti (opinion leaders) si possono indurre dei cambiamenti. Ad oggi non c’è un solo orientamento alla base degli studi che al contrario si sono aperti all’integrazione dei vari punti di vista e dei diversi modelli. Questi cenni sugli studi magari un po’ noiosi servono per introdurre il tema degli effetti dei mass media, su cui mi piacerebbe riuscire a farvi respirare la stessa aria frizzante e piena di insofferenza di quel pomeriggio al parco: si è parlato di agenda setting ovvero organizzazione dell’ordine del giorno. I media, ad esempio i tg, unica fonte di informazione per circa il 60% degli italiani, contribuiscono ad indicare quali sono i temi rilevanti per la vita sociale, con quali priorità vanno affrontati, creando una sorta di taccuino mentale nelle persone degli argomenti di attualità. Pensateci: prendiamo come esempio la campagna elettorale delle ultime elezioni politiche, quelle del 2008. I mesi prima del voto avevamo avuto come sottofondo continuo i servizi televisivi urlati e strazianti, invasioni nelle nostre case di minacce di vendetta e lacrime a proposito di con-tinue violenze sessuali compiute da stranieri. Come non sospettare che ci sia stato un uso strumentale dei

media, uno sventolare davanti ai nostri occhi fantasmi di stranieri violenti e bestiali, un fare appello alla paura in un paese in cui il 6% degli elettori dichiara di sceglie-re unicamente attraverso la televisione e un altro 16% ammette che la tv ha “contribuito a rafforzare” le sue de-cisioni politiche per imporre come necessario un voto a chi prometteva che avrebbe tutelato la nostra sicurezza, così pericolosamente minacciata. Non voglio proporre di eliminare i media o dipingerne una rappresentazione demonizzata: non sono né noci-vi né positivi in assoluto. Bisogna pensare a un nuovo modo di utilizzo e consumo, centrato sulla consapevo-lezza delle grandi potenzialità che ci vengono offerte, ad esempio in termini di disponibilità di informazioni, ma anche della necessità di una riflessione critica. Non si può, come succedeva ai prigionieri immaginati da Plato-ne, non voltare il collo e credere che la realtà siano quel-le ombre proiettate da dietro le spalle, o attualizzando il discorso confidare che la realtà siano unicamente quella catturata in mezz’ora di tg e proiettate sullo schermo. Spostiamo il nostro sguardo verso l’origine di queste ombre, anche se questo voltare il collo porta con sé la fatica costante di interrogarsi e informarsi, di parlare di ciò che si vede con altri, insieme cercare di cambiare le cose. Facciamolo in fretta prima che sui tg si parli solo di ufo, tette e presunti vip, prima che il nostro diritto di tutti di essere informati sia calpestato per nascondere le malefatte di pochi e prima che al nostro collo ci siano vere catene per imporci di guardare solo le ombre.

Paolo Guaramonti

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C o m e l a G o l d m a n S a c h s h a c a u s a t o u n“ S i l e n z i o s o O m i c i d i o d i M a s s a ”

s c o m m e t t e n d o s u l l a Fa m e n e l M o n d o i n Vi a d i S v i l u p p oPremessa: Goldman Sachs è una delle piu grandi e affermate banche d’affari del mondo. Secondo la classifica stilata annualmente dalla Vault, Goldman Sachs risulta essere la banca più prestigiosa del mondo.“Abbiamo contribuito allo scoppio della bolla che ha portato alla crisi, finanziando progetti immobiliari con un livello di indebitamento troppo elevato”. Lloyd Blankfein, dirigente di Goldman Sachs, ha riconosciuto in un’intervista alla Cnn che la banca d’affari ha avuto una parte di responsabilità nella crisi finanziaria tuttora in corso.Liberismo: applicazione in ambito economico delle idee liberali. Ideologia del libero mercato svincolato da controlli di ogni tipo. Per Friedrich von Hayek “democrazia vuol dire libertà economica”.

Forse la vostra opinione sulla Goldman Sachs e la schiera dei suoi alleati di Wall Street si è abbassata ai livelli di una cruda ripugnanza. Vi sbagliate. C’è di più. È venuto fuori che la più distruttiva delle loro azioni più recenti non è stata quasi affatto discussa. Questa è la storia di come alcune delle persone più ricche del mondo - Goldman, Deutsche Bank, quelli della Meryll Lynch ed altri - hanno causato la fame di milioni di persone. Tutto comincia con un apparente mistero: alla fine del 2006 i prezzi degli alimenti in tutto il mondo cominciano a salire, in modo improvviso e stratosfe-rico. Nell’arco di un anno, il prezzo del grano è cresciuto dell’80%, quello del mais del 90%, quello del riso del 320%. Con uno sbalzo della fame in tutto il mondo, 200 milioni di persone – più che altro bambini – non potevano più permettersi il cibo e sono sprofondati nella malnutrizione e nella fame. Ci sono stati disordini in più di 30 paesi ed almeno un governo è stato rovesciato con la violenza. Poi, nella primavera del 2008, in maniera altrettanto misteriosa, i prezzi sono ridiscesi ai livelli precedenti. Jean Ziegler, il Relatore Speciale dell’ONU per il Diritto al Cibo, lo chiama “un silenzioso omicidio di massa”, interamente dovuto alle “azioni dell’uomo”. La maggior parte delle spiegazioni che ci sono state date all’epoca si sono rivelate false. Non è successo perché l’offerta è crollata: l’International Grain Council, ad esempio, afferma che la produzione mondiale di grano è in effetti cresciuta in quel periodo. E non è stato neanche perché la domanda è cresciuta (anzi è scesa del 3%). Altri fattori - come l’aumento dei biocombustibili ed il picco del prezzo del petrolio – hanno contri-buito, ma da soli non bastano a spiegare un cambiamento così violento. Per capire la causa maggiore, si deve scavare: per più di un secolo, gli agricoltori dei paesi benestanti hanno potuto impegnarsi in un meccanismo che li proteggeva dai rischi. La Farmer Giles può accordarsi nel mese di gennaio nel vendere ad un prezzo fisso il suo raccolto ad un commerciante nel mese di agosto. In caso di una buona stagione estiva perderà un po’ di soldi, ma se ci fosse un’estate pidocchiosa o se il prezzo globale dovesse collassare, allora farebbe un affare. Quando questo processo era strettamente regolamentato e solo le aziende con un interesse diretto nel campo potevano essere coinvolte, tutto funzionava. Poi, nel corso degli anni ’90, la Goldman Sachs ed altri hanno fatto molta pressione e le regolamentazione sono state abolite. Improvvisamente, questi contratti furono trasformati in “strumenti derivati”che potevano essere acquistati e venduti tra commercianti che non avevano niente a che fare con l’agricoltura. Era nato il mercato della “speculazione alimentare”. Così, la Farmer Giles accetta ancora di vendere il suo raccolto in anticipo ad un commerciante per 10.000 sterline. Ma da ora quel contratto può essere venduto a speculatori, che trattano il contratto stesso come un mezzo di potenziale ricchezza. La Goldman Sachs può acquistarlo e rivenderlo per 20.000 sterline alla Deutsche Bank, che a sua volta lo vende alla Merrill Lynch per 30.000 sterline, e così via... Se appare mistificante, in effetti lo è. Questo cosa c’entra con il pane nel piatto di Abiba? Fino alla deregolamentazione, il prezzo del cibo era stabilito dalle forze della domanda e dell’offerta del cibo stesso. (Ed era già profondamente imperfetto: ha af-famato un miliardo di persone). Ma dopo la deregolamentazione, non era più soltanto un mercato alimentare. È diventato, allo stesso tempo, un mercato di contratti alimentari basato su ipotetici raccolti futuri – in cui gli speculatori alzavano i prezzi alle stelle. Ecco com’è andata. Nel 2006, gli speculatori finanziari come quelli della Goldman Sachs si sono tirati fuori dal tracollo del mercato immobiliare americano. Hanno calcolato che

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i prezzi del cibo sarebbero rimasti fermi oppure saliti mentre il resto dell’economia sarebbe crollata, quindi hanno trasferito i loro fondi. Improvvisamente, gli investitori di tutto il mondo, terrorizzati, si sono precipitati in questo campo. Così mentre la domanda e l’offerta di cibo sono rimaste più o meno le stesse, la domanda e l’offerta per gli strumenti derivati basati sul cibo sono aumentati in modo massiccio – il che ha significato che i prezzi sono saliti all’unisono ed è iniziata la fame. La bolla è scoppiata solo nel marzo 2008, quando la situazione negli Stati Uniti era diventata così negativa che gli speculatori dovettero ridurre fortemente le loro spese per coprire le loro perdite. Quando ho chiesto al portavoce della Merrill Lynch di commentare l’accusa di aver causato la fame di massa, ha detto: “Ah. Non ne sapevo nulla”. In seguito ha mandato una email per dire: “Rifiuterò dicommentare”. Anche la Deutsche Bank evita i commenti. La Goldman Sachs è stata più dettagliata, affermando che hanno venduto i loro indici azionari all’inizio del 2007 e indicando che “delle serie analisi… hanno concluso che i fondi degli indici non hanno causato una bolla nei futuri prezzi delle merci”, offrendo come prova una dichiarazione dell’OECD [Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico]. Come sappiamo che è sbagliato? Alcune colture vitali non verranno messe sui mercati futuri, compresi miglio, manioca e patate. Il loro prezzo è leggermente salito in questo periodo – ma solo di una frazione rispetto alle merci intaccate dalla speculazione. Delle ricerche mostrano che la speculazione è stata la “causa principale” dell’aumento. E quindi siamo arrivati a questo. Gli speculatori più ricchi del mondo hanno messo su un casinò dove le puntate sono gli stomaci di centinaia di milioni di persone innocenti. Hanno scommesso sulla crescente fame, ed hanno vinto. Il loro momento di Terra Desolata ha creato davvero una terra desolata. Questo cosa ci dice del fatto che il nostro sistema economico e politico possa così casualmente infliggere così tanto dolore? Se non ristabiliamo una regolamentazione, sarà solo questione di tempo prima che accada di nuovo. Quante persone verranno uccise la prossima volta?

Fonte: http://www.independent.co.uk/opinion/commentators/johann-hari/johann-hari-how-goldman-gambled-on-starvation-2016088.htmlTraduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Roberta Papaleo

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E s p a c eCinque anni fa nasceva l’Espace Populaire. Sentivamo, insieme ad altri compagni e compagne, la necessità di una casa della sinistra. Un luogo che unisse tutte le esperienze passate e presenti. Un luogo dove fare cul-tura alternativa a quella egemone dell’UV e del mercato. Dove parlare di politica, divertirsi, ascoltare buona musica, fare teatro e tante altre cose.Cinque anni fa era tutto diverso è vero, Berlusconi & C. c’erano si ma c’era anche un’opposizione in Parla-mento (l’anno dopo il centrosinistra sarebbe andato al Governo). La nostra Valle sembrava un’isola lontana dal resto dell’Italia berlusconizzata e la prima grossa scissione dell’UV si presentava alle comunali tanto che l’Union Valdotaîne sembrava avviata verso l’esplosione (quanto ce lo siamo detti), la destra locale non im-pensieriva (e almeno elettoralmente ancora non sfonda).Oggi è un po’ diverso, Berlusconi c’è sempre e l’Italia se è possibile è ancora più berlusconizzata, la Lega ha preso più che mai piede al nord nonostante continui a prendere in giro la gente con slogan razzisti (quando nei suoi feudi le imprese vivono sulle spalle dei migranti) e con il “federalismo” fiscale (siamo ancora in guerra), l’Union appare forse un po’ più debole dopo le ultime comunali ma è ancora vincente e la sinistra per la prima volta nella storia repubblicana è fuori dal Parlamento.Ma, nonostante tutto, l’Espace Populaire c’è ancora. Nonostante tutte le peripezie ed avversità che ha dovuto e deve attraversare, l’Espace Populaire resiste. Resiste in noi quella voglia di fare cultura, musica, divertimento. Insieme ai tanti amici e compagni che gravitano intorno all’Espace: Beppe Barbera ed il Jazz, Lo IUBAL collettivo musicale, L’Orage, la Federazione della Sinistra, l’associazione Saperi e Sapori (che tanto si dà da fare per tenere in piedi la nostra casa), l’ARCI, Nora e Rosi, noi Giovani Comunisti, i tanti e le tante che sono venuti anche per poco tempo a dare una mano. Sono state fatte tante iniziative all’Espace in questi anni: dagli incontri di Roberto Mancini con i vari personaggi più o meno conosciuti (Litizzetto, Travaglio, Gabanelli, De Magistris, Novelli solo per citarne alcuni), ai concerti di musica Jazz, i concerti dei gruppi giovanili (come dimenticare Musicalmente che è forse la più ampia rassegna di musica fatta da giovani mai fatta in Valle), i vari dibattiti sullo stato della sinistra, gli incontri con gli operai della Cogne sul problema amianto, i corsi più svariati, le proiezioni di documentari ma anche dei mondiali (2006/2010 mica possiamo far vedere solo quelli dove si vince eh) e tanto altro ancora...E’ vero l’Espace è un fortino che resiste al mercato e all’UV. Questa è la casa della Sinistra che abbiamo costruito giorno dopo giorno. E’ stato semplice? No, per niente, e tanti compagni e compagne ne sanno qualcosa. Abbiamo dovuto romperci le corna per tanti mesi contro atteggiamenti di duemila anni fa, figli di un secolo meraviglioso, terribile e finito. Ma le nostre magliette, come disse un tempo un uomo che è stato anche presidente della Camera, recavano altre immagini per quegli stessi sogni. Quei sogni vivono se corrono e domandano, così abbiamo vinto e lo spazio popolare c’è e resiste. E la militanza anche tra i GC riprende, con un nuovo gruppo di giovani che stanno dando tanto sia in termini di idee che in organizzazione e voglia.A differenza di altre situazioni di movimento dove sono emersi “personaggi” che pensano di rappresentare tutto e tutti, l’identità di questo progetto rimane collettiva e multipla.

Abbiamo passato tanto tempo chiusi, forse senza accorgercene e con tutte le buone intenzioni, a discutere delle ragioni del co-munismo e forse ora rischiamo di rifare lo stesso errore almeno a livello nazionale. Abbiamo cercato di proporre e indagare, di scomporre e ricomporre la risposta che era di fronte a noi. L’a-nalisi critica del capitalismo, se agita nella società, funziona. Al contrario, se viene tenuta alla catena, per quanto lunga, di un luogo triste e noioso, diventa sterile e banale.Abbiamo capito che parlare della necessità del superamento del capitalismo in una riunione di partito è bello quanto inutile.Volevo chiudere questa riflessione individuando un elemento simbolico della nostra casa della sinistra, ma non è possibile tro-vare un unico elemento simbolico. L’elemento è la molteplicità del provare a partire. Questo credo che sia, in sintesi, l’Espace Populaire. Andrea Padovani

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Aforismi e citazioni: - Se faccio un bilancio della mia vita, credo di poter dire che ho lavorato con sufficiente rettitudine e abnega-zione a consolidare la vittoria della Rivoluzione. - Il sangue del popolo è il nostro tesoro più sacro, ma è necessario versarlo per impedire che in futuro ne venga sparso di più. - Studiate molto per padroneggiare la tecnica, che permette di dominare la natura. Ricordatevi che è la Rivoluzione a essere importante e che ciascuno di noi, preso isolatamente, non vale nulla. Soprattutto, nel più profondo di voi stessi, siate capaci di sentire ogni ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo. È la più bella qualità del rivoluzionario - La Rivoluzione si fa attraverso l’uomo, ma l’uomo deve forgiare giorno per giorno il suo spirito Rivolu-zionario. - Vale milioni di volte di più la vita di un solo essere umano che tutte le proprietà dell’uomo più ricco della terra. - O siamo capaci di sconfiggere le idee contrarie con la discussione, o dobbiamo lasciarle esprimere. Non è possibile sconfiggere le idee con la forza, perché questo blocca il libero sviluppo dell’intelligenza. - Di fronte a tutti i pericoli, di fronte a tutte le minacce, le aggressioni, i blocchi, i sabotaggi, tutti i frazio-nismi, tutti i poteri che cercano di frenarci, dobbiamo dimostrare, una volta di più, la capacità del popolo di costruire la propria storia. - Se io muoio non piangere per me, fai quello che facevo io e continuerò vivendo in te. - Il proletariato non ha sesso: è l’insieme di tutti gli uomini e donne che, in tutti i luoghi di lavoro del Paese, lottano conseguentemente per uno scopo comune. - Ho tanti fratelli che non riesco a contarli e una sorella bellissima che si chiama libertà. - Dicono che noi rivoluzionari siamo romantici. Si è vero lo siamo in modo diverso, siamo quelli disposti a dare la vita per quello in cui crediamo. - La mia vita è stata una marea di scelte contrastanti.Ho giurato di non darmi pace finché non avrò visto annichilite queste piovre capitalistiche - La rivoluzione del mondo, passa attraverso la rivoluzione dell’individuo. - Il destino può essere compiuto dalla forza di volontà. - Fuggi da te stesso, dona al tuo pensiero l’azione, affinché esso non sia più tuo: sarà il modo attraverso il quale diffonderai libertà.

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E r n e s t o “ C h e ” G u e v a r aErnesto Raphael Guevara De la Serna, più conosciuto come “Che” nasce il 14 giugno 1928 a Buenos Aires in Argenti-na. A causa della sua salute cagionevole e dell’asma che lo affliggerà per tutta la vita, la famiglia Guevara si trasferisce a Rosario. Fin da ragazzo si avvicina alle teorie marxiste e, alla fine dell’università, parte con Alberto Grenado per un viaggio nel Sud America durante il quale entra a contatto con la miseria dei popoli sottomessi al capitalismo ameri-cano. Nel 1954 si avvicina al “Movimento del 26 luglio”. All’inizio della guerriglia a Cuba è l’unico a non essere cu-bano. Partecipa alla rivoluzione inizialmente come medico e diventando in seguito uno dei principali comandanti. A se-guito della gloriosa vittoria dei guerriglieri resta per qualche anno a Cuba come ministro dell’Economia e dell’Industria. Nel 1965 con una lettera a Fidel rinuncia al suo incarico e alla cittadinanza cubana e si sposta in Congo per aiutare la rivoluzione locale. In seguito si muoverà molto per soste-nere le rivolte di tutti i paesi. Finisce i suoi pellegrinaggi in Bolivia dove viene ucciso la notte tra l’8 e il 9 ottobre 1967 a La Higuera dalle truppe boliviane sostenute dalla Cia.

Davide Torrent

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CICL.IN.PROP.VIA MOCHET,7 PRC

Matteo AmatoriMatteo CastelloAndrea PadovaniAlessandro Pascale

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