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alfabeta2 maggio 2013 numero 29 anno III alfaBioipe r m e di a MOLTITUDINI CONNESSE 11. Gaspare Polizzi su Alexandre Kojève 11. Nicolas Martino su Pierre Clastres 11. Augusto Illuminati su Massimo Cacciari 12. Michele Spanò su Marco Revelli 12. Valentina Pisanty su Robert Gordon 12. Lorenzo Marmo su Jonathan Crary 12. Raffaella Perna su Gabriele D’Autilia 13. Stella Succi su Carla Subrizi 13. Marilena Renda su Sylvia Plath 13. Raffaella D’Elia su Ingeborg Bachmann 13. Laura Fortini su Alice Ceresa 14. Cetta Petrollo su Rosaria Lo Russo 14. Andrea Cortellessa su Mariangela Gualtieri 14. Clotilde Bertoni su Romano Luperini 14. Federico Francucci su Gabriele Frasca iLIBRI 15. Agostino Bonalumi: artista europeo Intervista a Francesca Pola a cura di Stella Succi 15. Stella Succi L’Argento di Giosetta Fioroni 15. Raffaella Perna Immagini come parole: i Ricalchi di Renato Mambor Le immagini sono tratte da video e installazioni di Nam June Paik A cura di Giorgio Griziotti GLI ARTISTI DI ALFABETA2 2. Giorgio Griziotti Sotto il regime della precarietà Bring Your Own Device 3. Tiziana Terranova Capitalismo cognitivo e vita neurale 3. Gianluca Giannelli Internet Sacer 4. Giuliana Guazzaroni Piegare la tecnologia alla creatività Superfici specchianti, gesti, forme e linguaggi non scontati La narrazione dell’Aquila in realtà aumentata 5. Anna Munster Nervi di dati La svolta neurologica verso/contro la rete multimediale 6. Gianluca Giannelli Smartvite / Smartcervelli 7. Danila Luppino, Marco Coratolo Estetiche sovversive e bioipermedia Per una genealogia del bioipermedia 8. Arianna Mainardi Confini in transito Tecnologie digitali e performance di genere 9. Francesca Bria, Federico Primosig, Francesco Nachira Internet come comune 9. Paolo Gerbaudo Social media e la coreografia del raduno 10. Lelio Demichelis Dal feticismo delle merci al feticismo della rete LA MOLTITUDINE CONNESSA Nam June Paik, Tribute to Pythagoras, 1991 (particolare). Courtesy Fondazione Mudima.

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alfabeta2maggio 2013numero 29anno IIIalfaBioipermedia

MOLTITUDINI CONNESSE

11. Gaspare Polizzisu Alexandre Kojève11. Nicolas Martino su Pierre Clastres 11. Augusto Illuminati su Massimo Cacciari 12. Michele Spanò su Marco Revelli 12. Valentina Pisantysu Robert Gordon 12. Lorenzo Marmo su Jonathan Crary 12. Raffaella Perna su Gabriele D’Autilia 13. Stella Succi su Carla Subrizi

13. Marilena Renda su Sylvia Plath 13. Raffaella D’Eliasu Ingeborg Bachmann 13. Laura Fortini su Alice Ceresa 14. Cetta Petrollo su Rosaria Lo Russo 14. Andrea Cortellessasu Mariangela Gualtieri 14. Clotilde Bertoni su Romano Luperini 14. Federico Francucci su Gabriele Frasca

iLIBRI15. Agostino Bonalumi: artista europeoIntervista a Francesca Polaa cura di Stella Succi15. Stella SucciL’Argento di Giosetta Fioroni15. Raffaella PernaImmagini come parole:i Ricalchi di Renato Mambor

Le immagini sono tratte da video e installazioni di Nam June Paik

A cura di Giorgio Griziotti

GLI ARTISTI DI ALFABETA2

2. Giorgio Griziotti Sotto il regime della precarietà Bring Your Own Device3. Tiziana TerranovaCapitalismo cognitivo e vita neurale 3. Gianluca GiannelliInternet Sacer 4. Giuliana GuazzaroniPiegare la tecnologia alla creativitàSuperfici specchianti, gesti, forme e linguaggi non scontatiLa narrazione dell’Aquila in realtà aumentata5. Anna Munster Nervi di datiLa svolta neurologica verso/contro la rete multimediale

6. Gianluca Giannelli Smartvite / Smartcervelli 7. Danila Luppino, Marco CoratoloEstetiche sovversive e bioipermediaPer una genealogia del bioipermedia8. Arianna MainardiConfini in transitoTecnologie digitali e performance di genere9. Francesca Bria, Federico Primosig, Francesco NachiraInternet come comune 9. Paolo GerbaudoSocial media e la coreografia del raduno 10. Lelio Demichelis Dal feticismo delle merci al feticismo della rete

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Periodicamente le corporationdel capitalismo tecnologico cibombardano di annunci elanci di nuovi dispositivi mo-bili a colpi di campagne pro-mozionali da miliardi di dolla-ri. I device, quali smartphone,

tablet, ultrabook, reader e ibridi, sono gli stru-menti fisici di mediazione dell’homo cognitivuscon lo spazio-tempo in cui interagiscono corpiviventi, macchine, codici, dati e reti: l’ambiente

del bioipermedia, termine derivato dall’assem-blaggio di bios/biopolitica e ipermedia.Le campagne pubblicitarie ci proiettano questemacchine in immagine di merce-feticcio che ca-ratterizza una nuova fase del capitalismo cogniti-vo. La stessa operazione fatta con l’automobileprima e con i personal computer poi. NemmenoSteve Jobs, nella sua maniacale ricerca di FormePure per stimolare nei suoi clienti il sentimentod’appartenenza a un’élite, poteva immaginare chei dispositivi mobili, dopo aver stabilito record didiffusione, diventassero la sofisticata chiave dellasocietà bioipermediatica.La sfera d’uso dei device impone il nuovo para-digma delle applicazioni, centinaia di migliaia diapp nascono grazie alle competenze di hacker esviluppatori formatisi nel movimento free/libre eopen source software (Floss) che appagano il de-siderio comune di disporre ovunque di unitàfunzionali semplici. Il fenomeno delle app viene però istanziato e isti-tuzionalizzato per la prima volta nel 2008 nel-l’App Store, un recinto virtuale in cui Apple siautorizza il diritto di vita e di morte prelevando,fra l’altro, rendita sul lavoro della comunità deglisviluppatori.1 Apple gioca spesso sull’ambiguitàd’una propaganda che esalta lo spirito «rivoluzio-nario» dell’innovazione tecnologica, come nel fa-moso spot di Ridley Scott per lanciare il Macin-

tosh ispirandosi al 1984 orwelliano, quando poipratica una politica di stretta osservanza neolibe-rale. Benefici per azionisti, manager ed evangeli-sti tecnologici, trattamenti indecenti per i giova-ni precari della catena degli Apple Store o per isubappaltati lavoratori cinesi che fabbricanoiPhone in condizioni di semischiavismo.Un’analisi politica dei ruoli spesso antagonisti deidevice, da strumento di produzione del comunea esche per nuove forme di sfruttamento dellaprecarietà, è essenziale per tracciare le mappedove s’intersecano produzione comune e prelievo

di rendita. L’auto, altro oggetto d’intera-zione col territorio, ha un valo-re d’uso cablato e limitato allefunzioni di trasporto e viaggio,che all’apice dell’era industrialesono al centro delle dinamichedi produzione e di vita. Tantoda diventare il soggetto centra-le d’uno dei romanzi culto diquell’epoca, On the Road, dovei trentasei metri del famoso ro-tolo di teletype su cui Jack Ke-rouac lo scrive d’un fiato nel1951 si trasformano in prolun-gamento simbolico del nastrod’asfalto percorso al volante. Negli anni Ottanta l’arrivo delpc permette di rompere glischemi dell’innovazione indu-striale; grazie a un sapere tecni-co-scientifico generalizzato essodiventa uno strumento d’indi-pendenza nella cooperazionenelle attività dei servizi in pienoboom e dove si gioca il bracciodi ferro fra produzione autono-ma e comando sul lavoro. In se-guito la diffusione esplosivadel la telefonia cellulare dà unforte impulso iniziale al con-fondersi di vita e lavoro, all’im-porsi del real-time macchiniconei ritmi del quotidiano, quasia estensione alla (iper)me tro -poli delle cadenze tipiche dellacatena nella fabbrica fordista.I dispositivi del bioipermedia,potenziando le tecnologie pre-cedenti, sono caratterizzati da

una miniaturizzazione e mobilità che li metteovunque talmente a portata di corpo da essere in-dossati, un weareable computing che preannunciail weareable network.In un’era di predominanza delle emozioni, l’inte-razione au fil du temps dei sensi con le reti diven-ta centrale e il device una longa manus di azioniremote. Esso può aumentare2 la realtà spaziale so-vrapponendole informazioni d’ogni genere, o puòtrasformarsi in hub delle nostre funzioni biologi-che vitali. Nell’ibridazione di queste nuove mac-chine germogliano sinapsi e articolazioni semprenuove, fra cui i dispositivi antropomorfi che af-fiancano gli schermi: gli occhiali comunicanti diGoogle o l’iWatch di Apple ecc. Interfacce intelli-genti che investono il carico sensoriale e impon-gono un continuo supplemento d’attenzione.Il pc ha una funzione primaria di mediatore deiprocessi linguistici scritti, e i suoi usi più tipicisono spesso legati alla concatenazione logica delpensiero e alla gestione di sequenze e priorità chesi susseguono nel tempo. Gli apparecchi mobilisono invece concentratori di percezione multi-sensoriale complessiva degli stimoli nella loro or-ganizzazione spaziale attorno al corpo e interven-gono nell’interpretazione emotiva. Probabilmen-te il nostro emisfero sinistro è più accaparrato dallavoro al pc, mentre quello destro lo è nei conti-nui scambi con uno smartphone.

“Bioipermedia» è l’attuale dimensione della mediazionetecnologica. Una nuova generazione di dispositivi mobili siaffianca ai media tradizionali e alla generazione dei desktopnel disegnare e plasmare l’esperienza del quotidiano di vita;è l’intera esistenza a essere coinvolta nell’iperrealtà.Le tecnologie connesse e «indossabili» ci sottomettono a una percezione multisensoriale in cui spazio reale e spazio virtuale si confondono estendendo e amplificando gli stimoli emozionali.Come si modificano in questo nuovo contesto i rapportisociali, di produzione e di potere? Quale impatto avranno i prossimi servizi nomadi «offerti» dalle corporationneurodigitali nell’accaparrare l’attenzione e nell’influenzarele intenzioni degli always connected? Si tratta di un’ulterioretrasformazione strutturale della società dell’informazione? E, soprattutto, quali i percorsi e le vie d’uscita ipotizzabiliper il dispiegarsi della moltitudine?Lo speciale che segue propone spunti di riflessione del declinarsi dell’esperienza bioipermediale nei diversiambiti dell’espressione umana: dall’arte alla società, dallo sviluppo tecnologico alla rete, dalla politica ai movimenti, dall’economia caratterizzata dai processi di finanziarizzazione alla precarizzazione e cognitivizzazione della forza-lavoro.Il dibattito è aperto e quanto mai attuale. Il collettivoUninomade, del quale fanno parte alcuni degli autori dei contributi, proporrà, in un convegno tematico che siterrà il 22 e 23 giugno a Napoli, una prima sintesi dellariflessione teorica e della prassi operata dai movimenti nel mutato contesto politico mediato dalle nuove tecnologiebioipermediali.

G.G. - G.G.

Stiamo assistendo a una svolta neurologica carat-terizzata dalla tendenza a estendere ad altri campile progressive scoperte delle neuroscienze. In que-sto movimento, analizzato da Anna Munster inNerves of Data,3 si concepiscono i nuovi servizidel capitalismo digitale che usano la neuroscien-za e le sue tecniche, come la risonanza magneticafunzionale (fMRI), tanto nello sfruttamento in-dividuale quanto nelle strategie di governance, dibusiness, di framing e d’influenza. Google, a cuinon basta più captare i comportamenti in rete, hareso disponibili interfacce programmatiche, lePrediction Api, per applicazioni destinate a farciconoscere «le nostre intenzioni» prima che diven-tino spontaneamente coscienti...In che modo entrerà in gioco la dimensione bioi-permediatica in questa corsa alla gestione dell’at-tenzione e alla predizione dei nostri desideri?Quali impulsioni verranno trasmesse tramite oc-chiali, orologi e i mille altri smart-gadget in ge-stazione? Come l’augmented reality diminuiràcapacità di attenzione e d’astrazione rimpiazzan-do gli obsoleti reality show? Quando ci sveleran-no una coscienza modificata di noi stessi? Dietroil rischio d’una smart technology che ci istupidi-sca, denunciato da Carr4 e Morozov,5 si nascon-de, male, l’intenzione di rendere le nuove genera-zioni emozionalmente fragili, impulsive e abuli-che. Condizioni propizie tanto all’accettazione disopravvivenza in un contesto di precarizzazionegaloppante su sfondo d’attacco decisivo agli equi-libri della biosfera, quanto all’espandersi dinuove psicopatologie.La governance neoliberale non solo sfrutta il po-tenziale di rendita e profitto del bioipermedia,ma, estendendo Internet al mondo degli oggettie dei luoghi concreti, trasforma progressivamen-te device e gadget in strumenti per un esercizioindividualizzato d’un biopotere anestetizzante ealienante. Il che spiega la furia della battaglia nel-l’oligopolio 2.0 per la messa in opera di recinti eprocedure di captazione emozionale, semantica,finanziaria ecc. governate da potenti algoritmicome il Page Rank di Google o i sistemi dell’highfrequency trading. Il primo determina l’impor-tanza d’ogni pagina del web, mentre i secondi,che gestiscono in automatico più del 50% deltrading borsistico US, sono capaci di trattare cin-quemila transazioni al secondo e possono farcrollare Wall Street in una decina di minuti comenel caso del flash crash del maggio 2010. Percompletare il quadro i servizi marketing dellecorporation delle neuroscientific information &communication technologies (Nict) inventano icomportamenti destinati a creare un mood emo-zionalmente favorevole nella corsa all’ultima tec-nologia. Nel contempo i designer li plasmanocome oggetti funzionali e attraenti, mentre iteam tecnici modellano congegni hardware e am-bienti software dalle potenzialità sempre più este-se, ma imbrigliandoli e infarcendoli di trappoled’intercettazione d’attenzione e di valore. Benchésiano tutti fondati sul Floss, vorrebbero farci cre-dere che l’iPhone 5, Windows 8 o Android Jelly-bean siano meraviglie che scendono dall’Olimpo,per le quali dovremmo ringraziare gli dèi.Le meraviglie costano care e gli dèi non godonopiù dello stesso credito: il telefono cellulare è pro-babilmente l’oggetto tecnologico più diffuso nelmondo, e una parte crescente d’utenti sa cavarse-la con le connessioni in rete. A partire da un certolivello una reazione a catena si innesta: l’intelli-genza collettiva e la precarietà a cui sono costret-te spinge le moltitudini dei digital native e dimolti altri a far uso delle potenzialità di cui pos-sono disporre.Al contrario delle automobili, o in minor misuradei pc, nei dispositivi mobili il valore d’uso nonè più determinato solo nella concezione iniziale.Una volta fatte cadere le barriere imposte all’in-terno per imbrigliarlo, l’utente cognitivo intro-

duce valore tramite parametraggi, creazioni mul-timediali e applicazioni in funzione delle sue di-namiche di vita, di lavoro, dei suoi sentimenti edesideri. Anche se le caratteristiche materiali permangono,quando lo smartphone viene continuamente pla-smato allora gli usi, i contenuti e addirittura leperformance evolvono sino a non avere che unlontano rapporto con quelle iniziali. Il lavorovivo dei singoli entra in relazione sulle reti perdar vita a una trasformazione continua. Una ric-chezza e una forza comune che rompono conti-nuamente i vincoli tessuti dal biopotere. Questeattività infatti non avvengono in un esclusivorapporto individuale uomo-macchina, ma trami-te le nuove forme di cooperazione della peer pro-duction, di cui troviamo descrizioni approfondi-te nel recente libro di Gabriella Coleman, CodingFreedom.6

Negli innumerevoli siti, blog, forum e nelle istan-ze del mondo hacker si concepiscono e diffondo-no le armi informazionali che scardinano le en-closure della governance digitale, un modo disottrarsi e opporsi al progetto di precarizzazione esottomissione della vita al lavoro tramite tecnichedi neurocondizionamento. Le multinazionaliNict incontrano nuove e impreviste resistenzenella ricerca sistematica d’obsolescenze program-mate per favorire il consumismo. A Parigi, in vi-coli d’atelier asiatici degni dello scenario di BladeRunner (ancora Ridley Scott!), per qualche deci-na d’euro si può riparare e prolungare la vita diqualsiasi smartphone o tablet. Sta emergendo unenorme mercato di device usati che possono an-cora essere mantenuti e fatti evolvere ad alto livel-lo d’efficienza dal lavoro vivo della peer produc-tion, al di fuori dei circuiti di valorizzazione fi-nanziaria. Mentre il movimento si contrapponecollettivamente alle grandi opere inutili ed ecolo-gicamente distruttive, basti pensare al NoTav inItalia e a Notre-Dames-des-Landes in Francia, isingoli precarizzati fanno di necessità virtù: illoro smartphone di seconda mano può essere piùduttile, rapido ed efficace di quelli nuovi, irreggi-mentati e venduti a prezzi esorbitanti.Queste nuove competenze-macchina, per dirlacon Foucault in Nascita della biopolitica,7 nonsfuggono alla caccia del capitale. Sino a tempi re-centi le imprese fornivano al lavoratore cognitivoi principali strumenti: un pc portatile e spesso uncellulare. Oggi sempre più spesso esse obbliganotutti a utilizzare il proprio terminale: il Byod,Bring Your Own Device, si trasforma in imperati-vo. Per ragioni economiche, ma soprattutto peruno sfruttamento personalizzato della produttivi-tà tramite la macchina che ciascuno ha modella-to per se stesso! Allora, quando ricevete in regalo un tablet, unosmartphone ultimo modellom o un ibrido tatti-le, sappiate che non sarete i soli a essere contenti:sotto il regime della precarietà, «Bring Your OwnDevice if you want to survive»...

1. Apple percepisce il 30% su tutto ciò che è venduto sul-l’App Store.2. Cfr. Augmented Reality in Wikipedia.3. Anna Munster, Nerves of Data. The Neurological Turnin/against Networked Media, Computationalculture.net, 2011.4. Nicolas Carr, Is Google Making Us Stupid?, in «The AtlanticMagazine», 2008.5. Evgeny Morozov, Is Smart Making Us Dumb?, in «WallStreet Journal - Saturday Essay», 23.2.2013.6. Gabriella Coleman, Coding Freedom. The Ethics and Aesthet-ics of Hacking, Princeton Unversity Press, Princeton, 2013.7. Michel Foucault, Naissance de la biopolitique, Gallimard,Parigi, 2004, p. 235.

Sotto il regime della precarietàBring Your Own DeviceGiorgio Griziotti

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naro o di comprare qualcosa attiva la stessa re-gione del cervello scoperta in topi da laboratorioin un famoso esperimento del 1954 di JamesMillner e Peter Olds. Nell’esperimento del 1954il tentativo da parte dei due scienziati di mani-polare il comportamento del topo a distanza ri-vela per caso una regione subcorticale del cervel-lo che reagisce agli stimoli piacevoli. Nel corsodell’esperimento i ricercatori permettono al topodi stimolare direttamente quest’area del cervello

Knuston, dal suggestivo titolo Visualizzare il de-siderio.5 L’esperimento, descritto come una «ri-cerca scientifica sul desiderio», si incentra sullostudio dell’eccitazione neurologica come chiavedi lettura dei processi psicologici di anticipazio-ne e intenzione. Avendo definito il desiderio«scientificamente» come ciò che motiva le deci-sioni, e l’eccitazione neuronale come «evocatore»o «segno» del desiderio, il ricercatore cerca di di-mostrare come l’anticipazione di guadagnare de-

spiazzano la centralità della repressione, delcomplesso di Edipo e dell’inconscio strutturatocome un linguaggio a favore di una concezionetecnica e neurocentrica delle psicopatologie or-dinarie del cervello connesso. Il carattere ordinario e normativo del piacere edel desiderio e la loro relazione con la composi-zoone neurochimica del cervello sono centrali aun video postato su YouTube da un giovane neu-roscienziato della Stanford University, Brian

La nostra relazione col cervel-lo diventa sempre più fragile,sempre meno “euclidea” e at-traversa piccole morti cere-brali. Il cervello diventa ilnostro problema e la nostramalattia, piuttosto che il no-

stro potere, la nostra soluzione, o decisione.»(Gilles Deleuze)

La centralità dei processi cognitivi alla produzio-ne del valore del capitalismo contemporaneospiega forse anche la cosiddetta «svolta neurolo-gica» identificata da Anna Munster come carat-teristica del discorso contemporaneo sulla rete,una svolta che ha spiazzato la centralità dellescienze della vita e della vita artificiale nella cy-bercultura degli anni Novanta.1 Se il capitalismodigitale degli anni Novanta aveva investito neipoteri produttivi della vita secondo un paradig-ma neoevoluzionista, gli anni Duemila hannovisto invece un massiccio investimento nellescienze del cervello e nelle tecnologie di intelli-genza artificiale. Quindi, da un lato, come sotto-lineato da Catherine Malabou, il cervello flessi-bile e neuroplastico è diventata la nuova imma-gine del capitalismo di rete,2 mentre dall’altrolato, per Munster, la ricerca sull’intelligenza arti-ficiale si è spostata dalla costruzione di una intel-ligenza macchinica simile all’umano e dalloscopo di creare una «mente» artificialmente in-telligente verso applicazioni «pratiche» per l’in-dustria e per l’esercito: «applicazioni smart»come sistemi elettronici per l’individuazionedella frode, riconoscimento di volti e voci e siste-mi di data mining.3

Il potere crescente della «neuro-immagine» ma-terializzata attraverso tecnologie come la fMRI(risonanza magnetica funzionale) definisce ladifferenza tra il normale e il patologico sulla basedell’attività del cervello, mentre allo stessotempo nuove ordinarie applicazioni di intelli-genza artificiale espongono le nuove capacità diassemblaggi inumani di prestare attenzione aiprocessi immanenti ai poteri produttivi del cer-vello sociale.4 La definizione di cosa è una psico-patologia e la sua generalizzazione sociale si di-spiega come parte di un modo di potere/sapereche concepisce la vita della psiche in termini che

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alfabeta2.29Capitalismo cognitivo e vita neuraleTiziana Terranova

Occorre secolarizzare il rapporto con Internet e la tecnologia. È questo il messaggio lanciato daEvgeny Morozov nel suo recente To Save Everything, Click Here. The Folly of Technological So-lutionism, PublicAffairs, Philadelphia, 2013.Nel mondo attuale l’inefficienza è un peccato contro lo Spirito Santo, diceva Huxley. La ricercadell’efficienza in ogni dove dell’umana esperienza riduce la complessità dell’agire a variabili nu-meriche da ottimizzare e a procedure da seguire. Le dinamiche umane sono assimilate a pro-blemi computazionali ai quali trovare soluzione piuttosto che domande alle quali fornire una ri-posta interrogando la storia, la filosofia, la politica.Questo approccio soluzionista è una patologia intellettuale che definisce problemi in quanto talisulla base di un unico e solo criterio: se essi siano risolvibili o meno utilizzando una tecnologia«nice and clean». Ma il soluzionismo non è figlio della rivoluzione di Internet, nonostante ogginulla sembri poter essere pensato al di fuori o prima della sua nascita «divina» e a dispetto dellaconcezione imperante, teologica, Internet-centrica, divenuta vera meta-narrazione di questacontemporaneità. Il soluzionismo ha radici più profonde. Esse affondano nell’illuminismo, passando per la scuoladi Chicago, per poi approdare alla teoria della scelta razionale che si delinea come paradigma insenso kuhniano variamente declinato e applicato nell’economia, nella politica, nella psicologia,nelle neuroscienze, nei media studies e nello sviluppo tecnologico degli ultimi decenni. È lageek generation, ormai giunta alla sua seconda generazione, a esserne divenuta l’interprete piùdevota e spietata grazie soprattutto al suo ingresso nel tecno-capitalismo finanziario che ne haamplificato il potere.Soluzionismo e Internet-centrismo tuttavia non caratterizzano solo l’approccio delle lobbytecno-entusiaste, ma anche dei loro oppositori.La ricca indagine condotta da Morozov svela la concezione dell’uomo e del suo futuro insita nelmodello di creazione e diffusione delle tecnologie illustrandone al tempo stesso le contraddi-zioni e l’inganno. Numeri e operazioni tra numeri: in questo viene convertita l’intera esperienzaumana.

Algoritmizzazione, big data, gatekeeping, gamification, feticismo del numero, quantificazionedel sé, semplificazione della realtà, proceduralizzazione dell’esperienza, industria del meme,compongono la cassetta degli attrezzi usata per plasmare l’individuo grazie all’apparente neu-tralità e pulizia dell’efficienza tecnologica, peraltro non sempre esente dagli stessi mali che siprefigge di combattere.Ma la sua indagine si rivolge anche agli oppositori e alle loro battaglie. Le azioni di Anonymous,piuttosto che del Partito pirata, o le iniziative sulla libertà e neutralità della rete piuttosto chequelle sulla privacy, sono anch’esse viziate dallo stesso falso presupposto e implicito riduzioni-smo semplificatore della complessità umana, finendo in alcuni casi addirittura per alimentarle.Soluzioni? Resterà deluso chi si aspetta soluzioni adeguate alla ricchezza della documentazio-ne fornita da Morozov a sostegno della pars destruens del suo discorso. Tuttavia importantisono le considerazioni di metodo e di approccio proposte. Occorre superare la concezione diInternet o cyberspazio come di un territorio concettuale unico che sviluppa e opera in confor-mità con le proprie tendenze e inclinazioni. Internet è la conseguenza, raramente la causa, delmondo che abitiamo. Internet è un insieme di tecnologie non la Tecnologia.Non si tratta quindi di rifiutare le soluzioni tecnologiche in quanto tali, ma piuttosto di metterein discussione ogni volta e per ogni singola componente la sua idoneità come risposta agli in-terrogativi specifici che il vivere comune impone. Un altro modo di pensare e di parlare diven-ta possibile: un pensiero tecnologicamente consapevole, attento ai dettagli, ma soprattutto me-more delle circostanze giuridiche ed economiche, nonché storicamente informato.Se Dio è morto, e Marx pure, è giunto il momento di uccidere anche Internet riportandola allasua funzione di strumento da piegare al fine del miglioramento dell’individuo nella sua qualitàumana così come definita storicamente, filosoficamente ed eticamente. I problemi dell’uomonon sono bug che un brillante architetto geek può risolvere ottimizzando un sistema di equa-zioni: essi sono l’essenza della condizione di un’umanità che migliora se stessa proprio attra-verso la scelta compiuta consapevolmente di come affrontare e superare i propri limiti. E que-sta scelta si chiama... Politica.

INTERNET SACERGianluca Giannelli

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BIOIPERMEDIA

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BIOIPERMEDIAalfabeta2.29attraverso un elettrodo collegato a una leva. Il ri-sultato è sorprendente: «Il topo continuava a sti-molarsi, non si fermava. Preferiva fare questopiuttosto che dormire, mangiare, bere o faresesso (cioè le sue funzioni biologiche basilari)».Nel caso dell’esperimento di Knuston sulla vi-sualizzazione del desiderio, lo stimolante scelto èil denaro. Come sottolinea Knuston nel video, ildenaro è un ottimo strumento sperimentale poi-ché non solo «motiva» la gente (per esempio a la-vorare), ma anche perché è reversibile (lo puoidare e te lo puoi riprendere) e scalabile (puoimodulare esattamente la somma coinvolta).Questo permette di mappare precisamente quel-le che il ricercatore definisce come «le decisionieconomiche più diffuse là fuori», cioè «investiresoldi o acquistare prodotti». La ricerca dimostrache l’anticipazione di guadagnare molti soldi (re-lativi al reddito del soggetto sperimentale) ocomprare un prodotto di un certo prezzo attivala stessa regione del cervello che portava il topoa perdere interesse nelle sue funzioni vitali.Le conclusioni del neuroscienziato sono sor-prendenti dal punto di vista della patologizzazio-ne della vita neurale nel capitalismo cognitivo. Ilcomportamento del topo al quale è stato datoaccesso al proprio cervello è considerato «norma-le» nell’operatore di borsa impegnato nel farescelte innescate neurochimicamente dall’antici-pazione di massicci guadagni futuri. Dall’altrolato, la mancanza di attivazione di questa regio-ne è collegata direttamente a una patologia che èdescritta come un tipo di comportamento antie-conomico: la schizofrenia. Per Knuston gli schi-zofrenici soffrono di una mancanza di desiderioche include la cosiddetta sindrome dell’anedonia(l’incapacità di provare piacere). La schizofreniaè ricodificata come disordine del desiderio, unerrore nei circuiti del cervello neuroeconomiconormale in quanto funzionale alla scelta efficien-te. La cura è chimica: la somministrazione dineurolettici «atipici» li riporta alla normalità delpiacere in quanto ricompensa per un comporta-mento economicamente funzionale. La patologizzazione sembrerebbe riguardaredunque solo la mancanza o il rifiuto dello schi-zofrenico, ma ciò che è esorcizzato è anche l’ec-cesso costruito nel comportamento orientatoalla ricompensa dei soggetti economici – il com-portamento autodistruttivo del topo con l’elet-trodo replicato dal comportamento dell’investi-tore di borsa. Questa riduzione del comporta-mento economico a processo neurale evade inol-tre la questione fondamentale del ruolo giocatodal contagio affettivo e dalla velocità inumanadelle tecnologie digitali. Come è stato recente-mente sottolineato, almeno dal 2006 nei merca-ti finanziari si è verificata una «transizione di faserobotica» innescata da tecnologie quali l’HighFrequency Trading, che ha visto «la quantità diinterazioni da robot a robot che operano alla ve-locità di millisecondi [eccedere] quella delle in-terazioni umani-robot».6

Anche se il mercato è posto come il topos del si-stema razionale e autoregolato, la sua razionalitàè esposta in quanto dipendente dall’anticipazio-ne, dallo sballo neurochimico del guadagno e dalpotere autonomo di intelligenze artificiali fuoricontrollo. Il risultato dischiude l’immagine diun cervello collettivo capitalista esposto non soloalla catastrofe occasionale dell’«evento “cignonero”, ma infestata da “piccole morti cerebrali” ofrequenti episodi “cigno nero” dalla durata ultra-veloce».7

Dall’altro lato è possibile vedere nella schizofre-nia, o meglio in quel singolo elemento dellaschizofrenia identificato come patologico, cioèl’anedonia, un sintomo del rifiuto di parteciparealla riproduzione del capitalismo comunicativo?La posizione anedonica sarebbe dunque esempli-ficata dal crescente numero dei cosiddetti «né-né», cioè quegli individui che non stanno né ri-cevendo un’istruzione, né hanno un impiego osvolgono altra attività lavorativa? Sembrerebberiduttivo qui leggere queste due figure in termi-ni di una netta opposizione. Gilles Deleuze con-siderava la schizofrenia come una condizione incui una lotta si dispiega tra due poli: un esacer-bato funzionamento delle macchine (un funzio-namento non-organico delle macchine-organo)e una stasi catatonica, una lotta che si traduce

nel tipo di ansia specifico allo schizofrenico.Creare una opposizione binaria tra il soggettoeconomico normale (tradotto socialmente nellafigura soggettiva dell’investitore/consumatore) ei disfunzionali e disordinati schizofrenici (tradu-cibili socialmente come «né-né») sottovaluta ilmutuo potere di contaminazione tra questi duepoli in lotta: «c’è sempre quale stimolo o impul-so che si insinua al cuore dello stupore catatoni-co, e viceversa lo stupore e la stasi rigida striscia-no sempre sulle macchine-sciame».8

Versione ridotta del testo di Tiziana Terranova, «OrdinaryPsychopathologies of Cognitive Capitalism», in Psychopatho-logies of Cognitive Capitalism, a cura di Warren Neiditch andArne De Boever, vol. I, Archive Books, 2013.

1. Cfr. Anna Munster, Nerves of Data. The Neurological Turnin/against Networked Media, in «Computational Culture. AJournal of Software Studies», 1, http://computationalculture.net/article/nerves-of-data.2. Cfr. Catherine Malabou, What Should We Do with OurBrain, Fordham University Press, New York, 2008.3. Cfr. Anna Munster, «Introduction: Neuro-perception andWhat’s at Stake in Giving Neurology Its Nerves?», in Nervesand Perception: Motor and Sensory Experience in Neuroscience,a cura di Anna Munster, Open Humanities Press, 2011.4. Cfr. J. Macgregor Wise, «Attention and Assemblage in aClickable World», in Communication Matters. MaterialistApproaches to Media, Mobility, and Networks, a cura di Jere-my Packer e Stephen B. Crofts Wiley, Routledge, Londra-New York, 2011. Cfr. anche Patrick Crogan, Samuel Kinsley(a cura di), Paying Attention, in «Culture Machine», 13,2012 (http://www.culturemachine. net/index.php/cm/issue/current), visualizzato 17.02.2013.5. Brian Knuston, Visualizing Desire (http:// www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=CUK8D-kX0fE#!)visualizzato 17.02.2013.6. Cfr. Neil Johnson et Al., cit. in Inigo Wilkins, BogdanDragos, Destructive Distraction? An Ecological Study of HighFrequency Trading, in «Mute», 2013 (http://www.metamute.org/editorial/articles/destructive-destruction-ecological-study-high-frequency-trading), visualizzato 17.02.2013, 4.7. Ibid.8. Gilles Deleuze, «Schizophrenia and Society», in Two Regi-mes of Madness. Texts and Interviews 1975-1995, Semio-text(e), Los Angeles, 2007, p. 19.

I portoni incatenati del centro storico dell’Aquila, i palazzi disabitati esorretti dalle impalcature, il vento che si incanala dentro gli infissi fra-cassati, rivelano all’occhio nudo del passante la desolazione di unluogo abbandonato dopo il sisma del 6 aprile 2009. Tuttavia i disposi-tivi tecnologici recenti, in particolare l’utilizzo della «realtà aumenta-ta», possono reinventare la storia di un territorio e ricrearla con formee linguaggi inusitati. Una particolare esperienza, iniziata il 30 giugno2012 all’Aquila, permette al visitatore che vorrà inoltrarsi ai limiti del-l’area terremotata di fatto percorribile, di raggiungere la «zona rossa»e anche, in un certo senso, superarla, potendo scrutare con i propriocchi la realtà che si presenta, mescolata a strati di realtà sintetica.Purché munito di cellulare o tablet di ultima generazione.La «realtà aumentata», applicata in questa città, ha infatti accresciutola percezione individuale (visiva-acustica-sensoriale) con elementi vir-tuali, amplificando un messaggio che irrompe dalla realtà politico-so-ciale del luogo e dei suoi abitanti. Così che, a un portone chiuso conle catene, si sovrappongono sullo schermo dello smartphone o del ta-blet varie immagini, fra cui spicca un seno di donna. Metafora che de-nuncia la mancata ricostruzione dei centri storici della zona colpita dalterremoto.Come tutte le abitazioni delle «zone rosse», la porta chiusa con la ca-tena e il lucchetto è simbolo del «nutrimento» per i grandi affari. Conil pretesto dell’emergenza, del recupero e della messa in sicurezzadegli edifici, il governo centrale in carica durante la catastrofe ha scel-to di edificare 19 new town, ovvero 19 centri abitati nuovi, denomina-ti Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili (Case), stravolgen-do storie e geografie di un territorio. Allattamento è il titolo di questa installazione in «realtà aumentata»che simboleggia il nettare che proviene dalle case sfollate e dal dirit-to negato di abitare laddove la vita aveva conficcato le proprie radici.Filosofia del mercato che nutre la shock economy e che vanifica l’ideae il futuro di una società, dimostrabile dalla fuga dei giovani.

Il seno nudo indica anche la seduzione che il potere esercita sulle po-polazioni colpite da catastrofi. Oppure l’immagine della «testa rossa»esangue che fluttua in «realtà aumentata» a indicare la mappa delcentro nevralgico della città e la fatica per riemergere. La «realtà aumentata», con gli strumenti mobili, consente pratichecreative non ammissibili altrimenti; permette, infatti, l’occupazionedematerializzata di spazi pubblici vasti o inaccessibili, come la «zonarossa», tuttora presidiata dalle camionette dei militari. D’altro cantopuò distrarre, sedurre o isolare dal concreto rapporto con altre realtà.L’esperienza dell’esposizione permanente di pittura digitale, visibileda giugno 2012, è un invito alla partecipazione, alla riflessione e allariscoperta di luoghi del vissuto quotidiano, ma presi da angolature dif-ferenti. Uno slittamento continuo tra il mondo reale e quello sintetico.Una realtà mutante. Una scossa per i visitatori che vedono mescolar-si, grazie all’uso di visori see-through nel piccolo schermo mobile,scorci di un centro terremotato e non ricostruito in stretto connubiocon la pittura digitale o la poesia.

PIEGARE LA TECNOLOGIA ALLA CREATIVITASuperfici specchianti, gesti, forme e linguaggi non scontati

La narrazione dell’Aquila in realtà aumentata

Giuliana Guazzaroni

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Nel corso dell’ultimo announ’idea vaga, ma con daticonsistenti, ha guadagnatoterreno: la «svolta neurologi-ca» nelle teorie umanistiche esociali, in particolare nel-l’analisi della ricezione delle

nuove tecnologie dei media e dello schermo. Lasvolta neurologica consiste principalmente nelricorso alle neuroscienze da parte di studiosi,giornalisti e commentatori di altri settori di stu-dio, alla ricerca di dati sulle varie modalità in cuiInternet, il gioco online, gli schermi in generale,i database e gli apparati informatici stanno mo-dificando le nostre «connessioni» cerebrali. Probabilmente la svolta più conosciuta verso ilricorso alle neuroscienze è rappresentata dall’ar-ticolo del 2008 di Nicholas Carr, Is Google Ma-king Us Stupid?,1 ampiamente discusso sia sullacarta stampata sia nella blogosfera, guadagnan-dosi una voce in Wikipedia.2 Osservando il cam-biamento che le proprie abitudini di lettura su-bivano come risultato di un costante «scorrere»le informazioni e i collegamenti te-stuali nel testo online, Carr, nono-stante debba il suo nome all’attivi-tà di giornalista-blogger, rimpian-ge la perdita di una qualità medita-tiva e profonda nel pensare ilmondo: «Un tempo facevo immer-sioni nel mare delle parole. Adessorimbalzo sulla superficie comefossi su una moto da acqua».3 Seb-bene Carr non offra qui alcun datoneuroscientifico a supporto diqueste pressanti paure sulla derivadelle sue sinapsi, cita un’altra autri-ce, la quale si potrebbe dire chesieda nel mezzo dello spettro diqueste «svolte» neurologiche, Ma-ryanne Wolf. Psicologa evolutiva,Wolf aveva pubblicato l’anno primaun altro volume che affrontava laquestione del fallimento delle no-stre capacità di pensiero e di letturacon un certo grado di profonditànell’era multimediale della superfi-cialità.4 In seguito Carr sviluppòl’argomento nella sua opera più re-cente, The Shallows, con l’ausilio didati neuroscientifici a dimostrazio-ne dell’impatto di Internet sullaneuroanatomia.5 Immagini in vivodel cervello realizzate mentre i sog-getti navigano in Internet, studi dirisonanza magnetica funzionaleimaging (fMRI), condotti da psichiatri altrettan-to convinti dell’impatto delle tecnologie contem-poranee sul nostro sitema di «connessione», sem-brano offrire prove incontrovertibili di un acce-lerato processo di ricircuitazione.6

Questa «svolta» verso le neuroscienze ha colpitouna certa generazione di studiosi di scienze uma-nistiche con qualche interesse alla «letteratura» eallo studio. Seppure con uno spirito leggermen-te diverso, anche Katherine Haley è tra le fila dicoloro che lamentano una potenziale perdita diprofondità nel pensiero e nella lettura.7 Da unaltro punto di vista ancora, Bernard Stieglerscorge la nascita di una nuova formazione di bio-petere – psicopotere –, le cui tecniche di marke-ting farmacologico e neurale funzionano a livel-lo di cattura neurale della capacità di attenzionedi un’intera generazione di giovani.8 Si tratta diun insieme di autori piuttosto amorfo, ma si re-gistrano varie osservazioni, nell’analisi delmondo multimediale contemporaneo, sul cre-scente ricorso al campo delle neuroscienze perottenere le prove del declino degli standard let-terari e cognitivi. Geert Lovink, per esempio, harecentemente denominato questa tendenza una

«svolta neurologica nella critica di Internet», sot-tolineando come ciò avvenga anche nel contestodella lingua tedesca parlata.9 Ciò fa seguito, se-condo lui, a un’ossessione mediatica contempo-ranea intorno alla mente e alla coscienza, eviden-ziata da studi di neuroscienza con un uso pene-trante di immagini del nostro aspetto interiore,dalla localizzazione del centro cerebrale della fe-licità attraverso le tecniche di fMRI, fino alladecsrizione del ruolo dei neuroni specchio negliesempi di attività cognitiva umana.Alla fine del 2011 un gruppo di neuroscienziatie ricercatori di scienza, tecnologia e filosofiahanno tenuto a Berlino un workshop per discu-tere la «svolta neurologica», un fenomeno che aloro avviso coinvolge una varietà di sfere socialie culturali e che alimenta a dismisura una seriedi affermazioni fatte in nome della neuroscien-za.10 Come Lovink, io condivido la preoccupa-zione per il modo in cui l’analisi contemporaneadei media prende come riferimento le neuro-scienze, utilizzando soprattutto il potere esplica-tivo delle immagini per provare che le nostre

menti si stanno in un modo o nell’altro «devol-vendo». Credo che tale ammassamento di imma-gini e studi su Internet e analisi dei media richie-da una maggiore attenzione. Non dovremmo di-scostarci totalmente dalla neuroscienza a favoredi una critica, ben più ovvia, da un punto divista sociale e politico, di Internet, del gioco on-line e delle tendenze dei media. Se la «svolta neu-rologica» nell’ambito di e contro i network mul-timediali è un bivio indistinto che coinvolge unavasta gamma di settori eterogenei quali le neuro-scienze, le entità dei network mediatici e gli ana-listi dei media, è tuttavia materialmente inscrit-ta nelle tecniche e nelle immagini della risonan-za magnetica funzionale. La fMRI, con tutte lesue promesse e affermazioni, si pone come unalente in vivo, un filmato in diretta, una colonnasonora dell’attività cerebrale. In qualità di pensa-tori di altre discipline oltrea quella scientifica,abbiamo bisogno di una comprensione maggio-re di ciò che costituisce la materialità dell’imma-gine neuroscientifica e di come questa materiali-tà si relazioni con l’ubiquità del «tempo reale»dei vettori immagine mediatici, per esempio. Ma la svolta neurologica, in particolare contro la

rete multimediale, comprende parte di un conti-nuum «neurale» in cui le tecniche mediatichecontemporanee sono sempre più imbricate.Questo continuum delinea un’assunzione piùgenerale del neurale come strumento di estensio-ne di una forma di simbiosi tra nuovi modelli disoftware, architettura computazionale e «softthought». In effetti la spinta verso lo sviluppo diuna «intelligenza artificiale» generale e globale,che ci accompagni e infine ci sostituisca nella ri-cerca online, da parte di corporazioni multime-diali quali Google, costituisce altresì una svoltaal neurale. Come rivelò George Dyson nel lon-tano 2005, dopo aver vistitato il quartier genera-le di Google a Mountain View, la corporazioneaveva già avviato l’impresa di catturare i datimondiali per costruire una forma di intelligenzaartificiale distribuita: «Non stiamo scansionandotutti quei libri per farli leggere alle persone –spiegò una delle guide dopo la visita –. Li stiamoscansionando affiché siano letti da un’intelligen-za artificiale».11

Ciò può apparire ben lontano da quelle paure di

una ristrutturazione del cervello ad opera di In-ternet. Ebbene, essa occupa una parte ristretta diuno spettro neurale che pervade la ricerca e lo svi-luppo della rete multimediale. Uno spettro neu-rale in cui da una parte si asserisce che i mediafanno marcire il cervello e dall’altra che si ha uninserimento più subdolo in cui la rete multime-diale territorializza interstizialmente i circuiti diazione e pensiero. La svolta di Google da motoredi ricerca a intelligenza artificiale, anticipata nel2005 e annunciata formalmente dall’ammini-stratore delegato Eric Schmidt nel 2010, fissa unnuovo spazio per il «soft thought».12

Google non è il solo a usare un ramo di intelli-genza artificiale – nello specifico l’apprendimen-to delle macchine – per estrapolare linee di ten-denza dai dati raccolti; il sistema di suggerimen-to per gli acquisti di Amazon ha già dettato ilpasso per la raccolta di dati che influenzano leabitudini di acquisto dei clienti. Ma nell’utilizzodi un numero di operazioni di apprendimentoartificiale, in particolare nello sviluppo delnuovo Prediction Api, Google occupa una fettacrescente dello spettro neuronale.Questo lega espressamente lo sviluppo di softwa-

re al desiderio di diventare struttura, architettu-ra dell’informazione, con funzioni che si esplica-no prima di pensare, cercare, agire. Questo nonè tanto lo spazio cognitivo quanto il territoriodel precognitivo: l’area grigia dell’«appenaprima» la coscienza e l’intenzione, dove le corpo-razioni della rete mirano a insinuarsi sempre più.Tutte quelle mail di «noi suggeriamo», le icone«mi piace» e i dispositivi di sicurezza che dimen-tichiamo di attivare sono il segno dei «neurosen-sori» di un apparato che presto si arrogherà la ca-pacità di dirci cosa pensiamo, dove vogliamo an-dare, cosa vogliamo comprare, prima che lo sap-piamo noi. Dunque la svolta neurologica controi media contemporanei potrebbe avere pochissi-mo impatto sulla predilezione generale deimedia stessi per una crescente larghezza di bandadello spettro neurale.

1. Nicholas Carr, Is Google Making Us Stupid? What the In-ternet Is Doing to Our Brains, in «The Atlantic Magazine»,2008.

2. Voce aggiunta a una voce relativa a Carrstesso. Cfr. Is Google Making Us Stupid?,2008-11, Wikipedia. The Free Encyclopedia,http://en.wikipedia.org/wiki/Is_Google_Making_Us_Stupid%3F 3. Nicholas Carr, op. cit. nota 1.4. Maryanne Wolf, Proust and the Squid.The Story and Science of the Reading Brain,Harper, Londra. 2007.5. Nicholas Carr, The Shallows. What theInternet Is Doing to Our Brains, W.W. Nor-ton and Co., New York, 2010.6. Le fonti principali di Carr sono GarySmall, Gigi Vorgan, iBrain. Surviving theTechnological Alteration of the ModernMind, Harper, New York, 2009. 7. Katherine Hayles, Hyper and Deep Atten-tion. The Generational Divide in CognitiveModes, in «Profession», n. 13, 2007. 8. Bernard Stiegler, «Biopower, Psychopo-wer and the Logic of the Scapegoat», in ThePhilosophy of Technology. A Colloquium withBernard Stiegler, Manchester MetropolitanUniversity, Manchester, 2008; Id., TakingCare of Youth and the Generations, StanfordUniversity Press, Stanford, 2010. 9. Geert Lovink, MyBrain.net. The Coloni-zation of Real-Time and Other Trends in Web2.0, in «Eurozine», 18 marzo 2010.10. Il workshop «Neuro Reality Check.Scrutinizing the “Neuro-turn” in the Hu-manities and Natural Sciences» è stato te-nuto da un network principalmente di stu-diosi di scienze sociali e filosofi chiamatoCritical Neuroscience che coinvolge ricer-catori del Max Planck Institute per la Storiae la Scienza di Berlino, l’Istituto di Filosofiadi Marburgo e l’Istituto di Scienze Cogniti-ve di Osnabrück. La sua missione è di af-frontare le aspettative della ricerca neuro-scientifica e la pratica della critica per esa-minare dove il potenziale e la promessa ven-gono meno o sono al di fuori delle politiche

attuate, della pratica clinica, del dibattito sull’etica. Il net-work si estende anche a ricercatori e scienziati canadesi, ame-ricani e brasiliani. Per ulteriori informazioni su questo net-work si veda il sito «Critical Neuroscience»,http://www.criticalneuroscience. org/11. Impiegato Google citato in George Dyson, Turing’s Ca-thedral, Edge: The Third Culture (2005), http://www. edge.org/3rd_culture/dyson05/dyson05_index.html12. Eric Schmidt, cit. in Holman Jenkins Jr., Google and theSearch for the Future, in «The Wall Street Journal - Wall StreetJournal Digital Network», 14 agosto 2010.

Nervi di dati La svolta neurologica verso/contro la rete multimedialeAnna Munster

BIOIPERMEDIA

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Smartphone, smarttv, ps4 social-game, smartglass, smartwatch,smartcity… Benvenuti nellasmartlife! Gadget intelligentiper una vita intelligente, chesfruttano le informazioni e lasocialità rese disponibili dall’ac-

cesso alla rete per migliorare l’esperienza umanaampliandone le possibilità, o, come nel casodelle città, per giungere, con il sostegno di cospi-cui finanziamenti pubblici, a una governancepartecipata della gestione delle risorse ambienta-li e sociali.La rete tende a inglobare la vita degli individui(catturandone e condividendone saperi ed espe-rienze emozionali), così come tende a inglobarefisicamente, con la disseminazione di sensori edevice, il territorio urbano. Si costituisce unanuova «agorà», ma… «bioipermediale». Di recente Sergey Brin, cofondatore di Google,ha definito «castranti» gli smartphone che co-stringono per ore i loro utilizzatori a isolarsi dalcontesto sociale per dedicarsi in solitaria al lorouso. Questa spinta all’asocialità viene correttaora con il nuovo dispositivo smartglass (gli oc-chiali per la realtà aumentata di Google) già invendita sperimentale negli Stati Uniti. Indossan-doli e utilizzando i soli comandi vocali per l’atti-vazione delle funzioni, l’uomo e la donna«smart» potranno continuare a vivere le relazio-ni sociali, e con esse l’intera esperienza delmondo reale, restando contemporaneamenteconnessi alla rete. Analogo discorso vale per la console di videogio-chi della Sony PlayStation giunta alla quarta re-lease, ove a essere mercificata, attraverso la cattu-ra ad opera del dispositivo e la condivisione «so-cial», è addirittura l’esperienza stessa del gioco, ilsuo stesso «spettacolarizzarsi» nella liturgia seco-larizzata del consumo ludico.Virtualizzazione biocognitiva tramite la rete evirtualizzazione dell’economia tramite la sua fi-nanziarizzazione sembrano processi peculiari econnessi nell’attuale fase del capitalismo. Reti,algoritmi e regolamentazione privatistica fonda-ta sul profitto e sull’individuo li accomunanostrutturalmente. Esistenze «derivate digitalmen-te» generano valore al pari dei «derivati digitali»nella finanza, mentre dispositivi biopolitici assi-curano assoggettamento, cattura, controllo e ri-producibilità.Nanotecnologie, intelligenza artificiale, roboti-ca, neuroscienze, ingegneria genetica, biotecno-logie e stampa 3D disegneranno i frame del fu-turo e con essi anche lo spazio dell’immaginazio-ne e del desiderio, ormai stratificati sull’unicoscenario del reale-possibile: macchine e uominisaranno sempre più non solo connessi ma anchefisicamente vicini, «in-corporandosi» o «in-mec-canizzandosi».È anch’essa recente la notizia, riportata dal «NewYork Times», circa la volontà dell’amministrazio-ne Obama di avviare, dopo il Progetto GenomaUmano, il Brain Activity Map Project conl’obiettivo di studiare il funzionamento del cer-vello umano e costruire una mappa intelligibiledelle sue attività, finalizzata alla individuazionedi cause e cure delle malattie neurologiche. Di-spositivi intelligenti e mappatura del cervello:convergenze… «macchiniche»?«L’uomo è e fa il proprio cervello.» Questo è, insintesi, il risultato di decenni di scoperte nelcampo delle neuroscienze. A tale conclusione sigiunge esaminando una specifica proprietà delcervello, definita «plasticità cerebrale» e intesacome l’attitudine del sistema nervoso centrale,in tutte le sue componenti – neuroni, sinapsiecc. –, a modificarsi nella propria struttura enelle funzioni successivamente allo sviluppo, alleesperienze e ai danni subiti.La specifica esperienza individuale, ossia l’inscri-

versi nella memoria del proprio vissuto relazio-nale con l’ambiente, modella progressivamente ilcervello facendo del singolo individuo un esem-plare unico pur nella sua appartenenza al model-lo generale della specie umana. La modellazionecerebrale in risposta a uno stimolo ambientalenon avviene, tuttavia, come semplice attuazionelineare di un programma inscritto geneticamen-te: i geni definiscono la struttura generale delcervello e la sua organizzazione, ma la rispostache il funzionamento neurale dà allo stimoloambientale contiene in sé anche un momentocreativo in senso proprio, un divenire «evento»rispetto a una regolarità prestabilita, inscritta nelprogramma genetico.L’azione creativa non si dà in modo casuale, ma,a sua volta, come conseguenza del potenziamen-to e depotenziamento dei circuiti sinaptici coin-volti dalla specifica esperienza ambientale.Come mostrato dall’analisi delle funzioni dellamemoria e dell’apprendimento, le sinapsi poten-ziate ingrandiscono la propria area di contatto edi permeabilità velocizzando la conduzione ner-vosa, al contrario di quelle depotenziate. Quan-do, ad esempio, si impara l’uso di unostrumento musicale, l’azione sinapticacorrispondente a un movimento erra-to determina il depotenziamento delcircuito interessato, contribuendo al-tresì al potenziamento del circuitocoinvolto dal movimento corretto cheingrandisce la propria area di contatto. La ripetizione e l’abitudine hanno unruolo considerevole e la risposta di uncircuito nervoso non è mai fissa. L’ef-ficacia delle sinapsi varia, quindi, infunzione del flusso di informazioniche le attraversano, che influisconosulla forma e sul funzionamento stessodelle reti cerebrali. Il sé «neurale» risul-ta pertanto una sintesi di tali processiplastici e forma primordiale di identi-tà e soggettività, determinandosi difatto una continuità tra il neuronale eil mentale. Mentre questa consapevolezza sul fun-zionamento e sulle potenzialità delcervello sembra alquanto assente nelsenso comune, o per lo meno non sene traggono le dovute conseguenze intermini di reale autocoscienza emanci-patrice, essa appare al contrario guida-re l’azione della governance biopoliticanella costruzione di dispositivi volti acatturare, assoggettando, la creatività ele emozioni, incanalando così l’azionedella plasticità cerebrale in una dire-zione specifica, funzionale alle esigen-ze di disciplinamento dell’ordine so-ciale ed economico, e limitando lo svi-luppo di possibilità diverse.Se è vero, come diceva Deleuze, che «ilcervello è conforme al mondo moder-no», ciò è vero nel senso che «il mondomoderno conforma il cervello». Cin-quant’anni di esposizione prolungataalla televisione, oltre venti a computere videogiochi, una quindicina a inter-net, una decina a social network esmartphone hanno lasciato certamen-te qualche «segno» neurale, in partico-lare se si considera il ruolo che il coin-volgimento emotivo e affettivo ha nel«fissare» le immagini del vissuto sulla«pellicola» della memoria. È il trasformarsi dell’uso di tali stru-menti in consumo di emozioni, insitoin tali dispositivi, che ne ha assicuratola diffusione crescente, inducendo bu-limia emozionale svuotata di sensograzie alla quale determinare assogget-

tamento e valorizzazione economica. I nuovipalcoscenici virtuali e le scenografie di mediazio-ne elettronica del rapporto tra uomo e ambienteplasmano così gli ambiti di attuazione dei dispo-sitivi biopolitici, contribuendo alla definizionedella cifra antropologica della contemporaneità edei suoi conflitti.Un tempo si riteneva che dal miglioramentodella società derivasse quello individuale; oggiimpera la convinzione che sia la crescita indivi-duale a determinare il miglioramento della so-cietà. Culto della personalità, della perfomance edel successo individuale, relativismo delle verità,svuotamento semantico del linguaggio attraver-so la semplificazione delle relazioni tra signifi-cante e significato, depotenziamento della sog-gettività politica in favore di quella del consumoedonista, trasformazione del lavoro in creazioned’opera individuale, caratterizzano l’odierno in-dividuo-performance. Dispositivi disciplinanti, come meritocrazia, le-galità e giustizia, perdono anch’essi la loro con-notazione sociale per assumere, oggi, forma emodalità rivendicativa dell’interesse individuale

Smartvite / SmartcervelliGianluca Giannelli

piegato alle nuove esigenze dell’accumulazione ealla necessità di trasferire il plusvalore in renditafinanziaria. In questo scenario anche le istanze li-bertarie e partecipative non sembrano sempresfuggire. Il flusso molecolare degli svariati free,open hack, della net-neutrality del net e mediaactivism, viene sussunto dalle start-up, dalcrowdsourcing, dal crowdfounding, dall’ eticahacker come spirito del capitalismo, arricchendoquel general intellect dal quale traggono conte-nuto innovativo, per la successiva valorizzazione,le varie Apple, Google, Facebook ecc.Occorre chiedersi se e quali siano gli spazi peruna reale appropriazione di tali strumenti, attra-verso la valorizzazione delle eccedenze che sfug-gono alla loro cattura, sulle quali istituire prati-che del comune volte a liberare le capacità crea-tive del cervello verso un cambiamento non mi-stificato e consustanziale alla trasformazione del-l’uomo performante in uomo del comune. L’uomo è il proprio cervello o il proprio smar-tdevice? «Hacking the brain!»

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Per una genealogia del bioipermediaIn Odyssey John Sculley parla di un dispositivo –il Knowledge Navigator – in grado di accedere auna larga rete di dati e informazioni tramite unassistente virtuale, una sorta di progenitore diSiri. Questo primo navigatore della conoscenzarappresenta un esempio perfetto di ogni inter-faccia multimodale, l’archetipo stesso di ogni si-stema d’interazione intermodale e, parallelamen-te, della sua massima ambizione: la scomparsadefinitiva dell’interfaccia fisica. I ricercatori hanno iniziato a interessarsi al pro-blema dell’interazione utente-macchina in segui-to all’articolo di J.C.R. Licklider sulla simbiosiuomo-computer (1960). Già questi primi studimisero in risalto due aspetti fondamentali per losviluppo di ogni interfaccia: (1) il problema del-l’interattività e (2) quello della ricchezza sensoria-le. Il primo problema venne risolto attraverso letecniche di time sharing, un criterio logico cheriproduce su scala informatica il modello econo-mico della divisione del lavoro di Adam Smith.Per quanto riguarda invece la ricchezza sensoria-le, l’interfaccia multimodale deve saper integrarein modo efficace i diversi canali comunicativi at-traverso i quali l’utilizzatore si esprime, sfruttan-do contemporaneamente i dispositivi I/O del-l’utilizzatore e quelli della macchina. In questomodo un canale di comunicazione sensorialepuò eventualmente integrare dati incompletiforniti da un altro canale. La dimensione percettiva rappresenta un accessoprivilegiato all’analisi del fenomeno bioiperme-dia. Solo una nuova griglia concettuale può per-metterci di analizzare in maniera adeguata l’infi-nita complessità di questo fenomeno. Questi di-spositivi richiedono infatti l’attivazione costantee concomitante di diversi canali sensoriali e, allostesso tempo, rappresentano una protesi del no-stro corpo vivente, un suo prolungamento. Pen-sare ai rapporti individuo-dispositivo-rete in un’ot-tica multisensoriale1 ci consente di comprenderegli schemi percettivi che sottendono a queste di-namiche d’interazione, senza trascurare il modoin cui questo nexus percettivo ci lega al bioiper-media, modificando sensibilmente il nostro «io»,la nostra coscienza e, infine, le nostre stesse vite. Non bisogna infine dimenticare il contesto ori-ginale in cui queste nuove tecnologie hannovisto la luce: pratiche di governamentalità mili-tare, statale ed economica, di gestione dei saperiaccademici, ecc. È qui che entra in gioco un’al-tra accezione di dispositivo, come «qualunquecosa che abbia la capacità di catturare, orientare,determinare, intercettare, modellare, controllaree assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i di-scorsi degli esseri viventi» (Agamben, 2006). Ilbioipermedia – questo milieu interattivo ed ete-rogeneo di pratiche di vita, linguistiche e non-linguistiche, di macchine e di dati – è dunqueun tipo particolare di dispositivo che caratteriz-za la nostra contemporaneità, rispondendo a de-terminate urgenze biopolitiche. Alcuni slogan,come il celebre «Stay always connected», dissi-mulano quello che è un controllo totale e diffu-so che investe in modo sempre più invasivo lenostre vite. In che modo possiamo far fronte aquesta situazione? Quale strategia possiamo se-guire nel nostro corpo a corpo con i dispositivi?Solo una profanazione radicale di questi disposi-tivi può restituire all’uomo ciò che gli era statosottratto all’uso comune. Questa pratica di con-tinuo svelamento dell’arcano del dispositivo è unelemento fondamentale che possiamo reperirenella maggior parte delle estetiche e delle prati-che dell’arte contemporanea. Alla ricerca di un confortevole spazio digitale e dinuove comunità virtuali, ci ritroviamo inondatida un’innumerevole quantità di spiriti «cristalliz-zati». Lo spazio bioipermedia è facilmente acces-sibile, non richiede particolari capacità e crea un

impegno o un legame tra corpi di-stanti. Altri campi, prevalentementeelitari, diventano accessibili e modifi-cabili da tutti tramite commenti, fe-edback, ranking e sharing. Nel 1934Walter Benjamin affermava cheun’opera d’arte dovrebbe attivamentepermettere ai suoi spettatori di parte-cipare al processo di produzionedella stessa. Grazie a questo sistema iconsumatori diventano produttori egli spettatori collaboratori. Oggi vi-viamo la stessa equazione, ma in ter-mini meno convincenti. L’arte con-temporanea è collettivamente pro-dotta, nonostante la proprietà edesclusività della creazione sia dichia-rata individuale e la cosiddetta «par-tecipazione» sia usata dal mercatocome studio dello spettatore con ilfine della manipolazione. L’arte e lapartecipazione diventano indiscuti-bilmente e intrinsecamente una stra-tegia politica.

L’arte contemporanea e il corpo nudo (del re)La padronanza delle tecniche artisti-che è ora tanto importante quanto laconoscenza della tecnologia e dellaprogrammazione. La tecnologia, con -siderata come una pratica delle arti edella mente, è uno strumento antro-pologico che rivela interfacce fisi-che/digitali permettendo la concre-tizzazione di astrazioni attraverso ilprocesso di enframing. L’artista creaattraverso l’utilizzo di strumenti di-gitali, facendoli intrecciare e connet-tere con i nostri corpi, intessendolialla nostra carne. David Cronenberg esplora il terroredell’uomo di fronte alla mutazionedei corpi e alla contaminazione dellacarne dovuta ai «dati biologici» ineXistenZ, Videodrome.L’assenza o modificazione dello spa-zio e del corpo cambia la topografiae la navigazione di contesti intellet-tuali e sociali. Stati alternati di coscienza si com-binano con l’esperienza fisica per creare un ter-reno fertile per un nuovo stile di vita. Le colla-borazioni tra le arti tradizionali, come per esem-pio la danza – interpretazione di un soggetto al-terato in movimento –, e la tecnologia generanonuove forme d’arte. La materialità del corpo creauna nuova poetica della virtualità. È fondamen-tale, nell’atto dell’improvvisazione, essere con-nessi con la situazione, essere disponibili e perce-pire. Si tratta di ri-contestualizzare e ri-attualiz-zare una comunicazione fatta di gesti appresi nelpassato, in uno spazio e tempo ipersensibile maallo stesso tempo impermeabile.François Chaignaud e Cécilia Bengolea (balleri-ni): «La danza non è semplicemente un avatarestetico formale. Ogni danza rimanda a un’epo-ca, una cultura, un modo di pensare. La danzapraticata in un club gay del quartiere jamaicanodi Brooklyn non assomiglia a quella praticata al-l’Opéra di Parigi o alla Scala di Milano. La danzacontemporanea tende ad accecarsi e a non esserepiù in grado di vedere i presupposti culturali cheancorano le sue radici. I gesti, la postura, il mo-vimento sono segregati. Il ballerino percepisce laplasticità del proprio corpo come un mezzo.Non si tratta di insegnare i dialoghi delle cultu-re, o di pretendere che tutto si equivalga, piutto-sto di affilare la coscienza personale sui disposi-tivi che interdicono certi gesti a certi corpi. Piut-tosto gioire del piacere che procura l’indeboli-mento di questi dispositivi».

Sulla base delle configurazioni delle dimensionifisiche e di un’esperienza di saturazione causatasul legame fusionale che si crea tra essere umano etecnologie computerizzate: non siamo più ingrado di dire dove termina il corpo digitale e doveinizia quello umano. Il virtuale diventa un’espe-rienza, l’artista uno spacedesigner e lo scienziatouno spacemaker in grado di creare un mondodove l’audience interagisce direttamente. Nonparliamo solo di cyberspazio oppure di realtà au-mentata (augmented reality), bensì di una realtàinteramente alterata digitalmente.The Raining Room è un’installazione interattivaricreata al Barbican Museum di Londra. Si trat-ta di una stanza ricostruita all’interno del museoin cui viene riprodotta della pioggia, con la pe-culiarità che questa cade ovunque tranne chesulla persona che cammina all’interno della stan-za, tutto questo grazie alle tecnologie di cameratracking e a dei codici di sviluppo openframe.Behance nasce come una piattaforma multime-diale che funge da portfolio online del creativo.Essa cerca di sradicare il mondo elitario delle gal-lerie, creando a sua volta gallerie online, gestiteda curatori online, basate su un sistema di infor-mazioni orizzontale/democratico. Il progettoprende piede velocemente, e in poco tempo sitrasforma in uno studio di massa finalizzato almondo pubblicitario e alla ricerca di nuove ten-denze artistiche da rivendere ai propri clienti, re-stando però nella pratica del copia-incolla, ri-di-mensiona, ri-nomina veloce, e all’artista egorife-

rito in cerca di rapido riconoscimento. Le capa-cità del creativo che pubblica su Behance sonomisurate dalla quantità di like e follower che ri-ceve e dall’essere selezionati dai curatori online.Finalmente il creativo, ossessionato dall’avere vi-sibilità in un mondo invisibile, si sente soddi-sfatto e diventa appetibile per il mondo del lavo-ro. Questa pratica crea un immediato confronto,ma quest’ultimo è indiretto e filtrato e, di conse-guenza, spesso alterato, per non dire falsificato.L’appeal dell’essere presente in una galleria,anche se online, è talmente alto per il creativofrustrato, che ha comunque portato la piattafor-ma a espandersi a tal punto da essere successiva-mente acquistata da Adobe System.Nel 2001 il «Green Paper» pubblica Everyone IsCreative. Nasce una nuova generazione di lavo-ratori creativi le cui abilità non vengono incana-late nel mondo culturale, bensì in quello del bu-siness. Tramite l’illusione della libertà di espres-sione, ti convincono a diventare self employed,promuovendosi attraverso blog, Twitter, Facebo-ok ecc. Una vera e propria dipendenza che nonlascia più tempo per la lettura, la scrittura, lasperimentazione, l’analisi e la critica. È così cheil curatore e l’artista si fondono per ritrovarsi in-fine nel ruolo del pr.

1. Per gli studi più recenti sull’integrazione multisensoriale siveda Spence e Ho, 2008; Albery, 2007; Cockburn e Brew-ster, 2005; Vitense, Jacko e Emery, 2003; Johnson, 2006.

Estetiche sovversive e bioipermedia Danila Luppino, Marco Coratolo

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All’interno di forme di ibridazione tra carne eoggetti tecnologici hanno preso corpo reti di in-formazione e spazi informatici che contribuisco-no alla ridefinizione della relazione tra identità etecnologia, tra tecnologia e corpo. Attraversoquale sguardo possiamo leggere le tensioni a cuil’individuo è sottoposto nel condurre un’esisten-za immersa negli ambienti digitali?Nella relazione con le tecnologie digitali, traesperienza incarnata e simulata, sono messi ingioco differenti livelli d’ibridazione che prendo-no forma sotto i nostri occhi nella naturalizza-zione delle nuove tecnologie digitali e nel rap-porto di simbiosi che stiamo sviluppando con al-cuni device mobili. Un punto di osservazione ef-ficace è offerto dalla crescente pervasività deglismartphone. Sempre più presenti nella nostraquotidianità, oltre a garantire una costante con-nessione alla rete e un’immersione negli ambien-ti digitali, gli smartphone si vanno a configurarecome una nostra stessa protesi e si offrono comespazio di mediazione della vita stessa. Prende spazio un nuovo tipo di intimità svilup-pata con le macchine, che si nutre anche dellesuggestioni derivanti dalla spinta del settorescientifico della robotica sociale e umanoide.1 Latraiettoria di ricerca in questo campo suggeriscenuovi stimoli alla riflessione sulla relazione trainformazioni e carne, tra intelligenza artificiale ecorpo. Si tratta di un filone di studi che spingepiù in là i confini dell’immaginario legato allarelazione tra essere umano e macchina, uno spo-stamento che si realizza attraverso la necessità diriconoscimento dei «bisogni relazionali» da partedelle macchine. In questo panorama contradditorio e frammen-tato, di quale umano e di quale macchina stiamoparlando? L’asse di riflessione postumano svilup-pato dalla critica femminista contemporanea ciaiuta a definire a quale individuo ci riferiamo. Sitratta di una riflessione sull’individuo che pren-de definitivamente congedo dalla visione umani-sta del soggetto e, in relazione con il femmini-smo di matrice deleuziana (tra le principali espo-nenti la filosofa Rosi Braidotti), si esplica met-tendo il corpo al centro del dibattito. Un corpofatto di carne, che con forza riprende centralitànella riflessione, proprio quando la pervasivitàdelle nuove tecnologie di comunicazione, cheproduce un assottigliamento della distanza tracorpo e protesi tecnologiche, potrebbe diversa-mente far supporre una sua uscita di scena. Richiamare il cyborg di Donna Haraway puòfornire una iniziale chiave di lettura critica anco-ra attuale dell’esistente. Il cyborg è una soggetti-vità che lascia spazio alle differenze, una sogget-tività che crea legami politici; si tratta di unaprospettiva sull’individuo che può permettere diarticolare il rapporto tra macchina e organicosulla base di una visione multipla e complessadel soggetto. In questo scenario, nella ricerca difigurazioni per soggettività alternative – «cy-borg», «nomade», «mestiza» –, le riflessioni fem-ministe si offrono come risorsa per leggere le tra-sformazioni e le tensioni a cui gli individui sonosottoposti nel mutevole paesaggio del postmo-derno. Nella relazione con le nuove tecnologiedigitali avviene il definitivo sgretolarsi di qua-lunque visione monolitica dei processi identita-ri. Il seme, il chip, il gene, il database sono le fi-gure cyborg frutto dell’implosione di oggetti esoggetti suggerite da Haraway per insinuare letradizionali metafore.Le riflessioni sulle tecnologie che muovono at-torno al tema delle identità di genere e della ses-sualità possono essere una valida chiave di lettu-ra delle ambivalenze del rapporto che instauria-mo con le macchine contemporanee, non solosu un piano teorico, ma anche su un pianomolto concreto di comprensione delle praticheche in questa relazione si sviluppano. In un im-

maginario composto da spinte contraddittorie,le tecnologie si naturalizzano come risorse per lacostruzione di processi identitari e spesso vengo-no piegate dagli individui alle proprie esigenzerelazionali producendo una continua ridefinizio-ne dei ruoli e dei confini tra tecnologia e umano,tra esistenza online ed esistenza offline. Le tec-nologie digitali possono anche aprire varchiverso espressioni identitarie impreviste e impro-prie e, seppur ambivalenti e conflittuali, possonooffrirsi come spazi di liberazione. Le pratiche sessuali sono state oggetto di regola-zione e sorveglianza attraverso la definizione diuna norma sessuale che facilitasse l’espulsione eil sanzionamento dei comportamenti fuorinorma, così definiti devianti. Si tratta di un pro-cesso normativo che vede tutti i corpi al centro,un processo di regolazione all’interno del qualele tecnologie digitali possono essere anche lettecome potenzialmente liberatrici da discorsi digenere oppressivi e normalizzanti. La forza dellarete è quella di poter mettere in discussione queidiscorsi di potere che traggono legittimazionedalla base incarnata della differenza sessuale,quelle forme di discriminazione basate sul sessobiologico. Come possono le nuove tecnologie digitali con-figurarsi come dispositivi capaci di sovvertirel’immaginario di genere? Lo spazio virtuale si èmostrato come un possibile palcoscenico performe di sperimentazione e per l’opportunità digiocare con il sesso, il genere e le sue rappresen-tazioni. In questa prospettiva la possibilità dinon dover avere nessun segno del corpo e l’as-senza della voce sono gli elementi capaci di inne-scare processi sovversivi delle rigide costruzioniidentitarie della vita «reale».In una performance virtuale delle Vns Matrixscenari fantascientifici e personaggi caricaturaliabitavano uno spazio interamente digitale chia-mato «Zona contestata, un terreno per la propa-ganda, la sovversione e la trasgressione». VnsMatrix è un collettivo femminista, tra le primeespressioni del cyber-femminismo, che già nel1991 si inseriva provocatoriamente nella retesovvertendo l’immaginario, giocando con leidentità e performando in modo creativo il rap-porto tra genere, sessualità e tecnologia. A ogni modo, non basta mettere l’accento sulladimensione incorporea della rete per abbando-narsi a una sua lettura ottimistica. A problema-tizzare la relazione tra esseri umani e nuove tec-nologie digitali vi è, tra le altre, la riflessione cri-tica sul tema della sorveglianza. Nella rete i pro-cessi identitari possono costruirsi facendo ricor-so a nuove e differenti risorse che potenzialmen-te possono produrre rappresentazioni di genderpiù fluide, meno forzatamente stabili e menoimbrigliate nelle maglie del binarismo sessuale.A ogni modo va considerato che l’attività onlineè fortemente influenzata dalla politica di spazioffline sia a livello materiale, sia a livello simbo-lico. Il rapporto tra tecnologie digitali e genere sicostruisce in una continua relazione tra dimen-sioni di vita offline e dimensioni di vita online.Gli sguardi che da una prospettiva di genere in-terrogano la rete come dispositivo di controllo edi sorveglianza suggeriscono come la reale possi-bilità trasformativa proveniente dalla relazionecon gli ambienti digitali dipenda in ultima istan-za dalla capacità del soggetto di controllare leproprie informazioni. I corpi genderqueer (termi-ne che si riferisce a chi non si riconosce nellanormatività di genere associata al sesso biologi-co) mettono chiaramente in luce l’impossibilitàdi affrancarsi anche nel mondo online dalle cate-gorizzazioni imposte, da quello che Gayle Rubinchiamava «sex gender system». Le identità sareb-bero quindi sottoposte analogamente nella rete asimili processi normativi che si esprimono ancheattraverso il controllo dei nostri dati personali.

Decostruendo il concetto scivoloso di identitànella prospettiva della queer theory, il ragiona-mento sul rapporto tra processi identitari enuove tecnologie digitali si può nutrire di nuovistrumenti di critica, dove queer è un’opzione perandare oltre l’assimilazione. Riferendosi alla«performatività di genere» – con cui si intende laripetizione di quei comportamenti attraverso cuii soggetti mettono in scena il proprio generedando significato al proprio sesso – la teoriaqueer scardina il primato del sesso sulla costru-zione del genere, ne mette in luce tutta l’instabi-lità e trova la via per ribaltare la norma. La messain discussione del concetto di identità, comefrutto del rapporto con la rete e con le tecnolo-gie digitali, e le conseguenze squisitamente ma-teriali sul nostro corpo derivanti dall’ibridazionetra carne e tecnologie, fanno parte di un mede-simo discorso che fa riferimento all’idea di per-formatività introdotta dalla critica queer e allapossibilità di costruire nuove soggettività. Sitratta di un discorso che fa riferimento a un con-cetto di differenza e alterità non più incentratosu una posizione dialettica basata su opposizionibinarie, ma su processi costanti di messa in rela-zione – assi di differenziazione – che portano aun’ibridizzazione delle differenze. La prospettiva queer non solo può consentire di

mettere in discussione una presunta autenticitàdi un soggetto definito dai poteri dominanti, maè anche il tentativo di farlo volendo incarnarenuove soggettività politiche. Seguire questo con-tributo per leggere la rete e il rapporto con lenuove tecnologie digitali come uno spazio diconferma o trasformazione dell’immaginario digenere, potrebbe permettere di individuare pos-sibili nuovi varchi per la costruzione di soggetti-vità originali.

1. Per robot sociale e umanoide si intende un robot – auto-nomo o semiautonomo – dotato di un volto che riproducequello umano, costruito con l’obiettivo di interagire e comu-nicare con gli esseri umani attraverso regole sociali legate aun ruolo specifico.

Confini in transitoTecnologie digitali e performance di genereArianna Mainardi

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Internet è il sistema nervoso globale, il mo-tore dell’intelligenza collettiva che si è svi-luppata negli ultimi trent’anni attraversoprincipi condivisi. Grazie a protocolli e for-mati aperti, al software libero, alle licenzecreative common, Internet è stato concepi-to come un’infrastruttura aperta e in grado

di far emergere dal basso la creatività e la colla-borazione sociale diffusa. Nonostante ciò, du-rante gli ultimi anni, l’architettura aperta delweb si sta trasformando in «giardini murati»controllati dai nuovi monopolisti del digitale.

I nuovi conflitti sulla reteDi fronte alla crisi di legittimità delle istituzionidella modernità (in primis il sistema politico e lafinanza), Internet sta diventando uno strumentoessenziale per immaginare e praticare nuoveforme di organizzazione, di democrazia e di atti-vismo sociale. Si potrebbero citare il Partito pi-rata in Europa e il Movimento 5 Stelle in Italia,ma soprattutto la nuova dorsale dei movimentisociali che, utilizzando la rete, in pochi annihanno imposto al consenso di massa ciò che finoa poco fa era inimmaginabile: da Occupy allaPrimavera araba, dagli Indignados ad Anony-mous e WikiLeaks e alle tante resistenze sociali,dimostrano la forte sinergia tra le forme di con-flitto sociale e i modelli di organizzazione basatisu Internet che mutano le forme della politica edella rappresentanza. I movimenti si organizzano online, attraversosemplici canali chat come nel caso di Anony-mous, piattaforme digitali aperte collaborativecome Wiki o chiuse e proprietarie come Twittere Facebook. Dal 2011 eserciti di utenti parteci-pano a battaglie cruciali, come quelle su neutra-lità della rete, open data, copyright e privacy,sconfiggendo accordi in difesa della proprietà in-tellettuale come Sopa/Pipa negli Usa e Acta inEuropa. Il tutto grazie alla forza inventiva dellamoltitudine connessa, un movimento globaleanimato dai tanti attivisti della rete come AaronSwartz, che si è tolto la vita dopo essere statocondannato per aver reso accessibili online pub-blicazioni accademiche protette da leggi draco-niane sul copyright. La battaglia contro il copy-right, per le libertà digitali, ha visto fronteggiar-si i vecchi monopolisti della conoscenza (indu-

strie dell’intrattenimento e operatori telefonici)contro gli utenti della rete appoggiati dai «Si-gnori dell’iCloud» (Google, Facebook, Amazonin testa). È solo l’inizio di un percorso di rivendicazionedella ricchezza collettiva prodotta in rete, per af-fermare nuovi diritti digitali, per la gestione co-mune delle infrastrutture critiche del futuro.Con la discussione nel Parlamento europeo dellaDirettiva sulla protezione dei dati, sta emergen-do la consapevolezza che un processo di nuovaaccumulazione è in corso per gestire e controlla-re i dati sociali e personali. Le vite stesse degliutenti sono continuamente tracciate, raggruppa-te e analizzate in profili e grafici da vendere aipubblicitari e aggregatori di dati nei «mercatidell’identità». La soggettività stessa è il cuore delprocesso di accumulazione, che vede nei «Signo-ri dell’iCloud» e nei «rentier dell’intelletto gene-rale» i nuovi padroni.

I Signori dell’iCloud vs Utenti di InternetLa recinzione da parte del capitale di Internet,che agli albori si stava configurando come uncommon, ne ha gradualmente e profondamentemodificato struttura, regole di proprietà, mappadei poteri e forme di controllo. È in corso unaselvaggia ricentralizzazione e monetizzazione didati, reti, risorse e regimi di applicazione delleleggi sulla proprietà intellettuale, con vere e pro-prie guerre di brevetti tra ecosistemi digitali. Imargini di guadagno elevati che aziende comeGoogle e Facebook realizzano con la pubblicità(80% del fatturato) sovvenzionano l’aperturadelle loro piattaforme secondo il modello dellacosiddetta «innovazione aperta», che di apertoha solo i meccanismi di cattura. Apertura basatasulla gestione e sul coordinamento verticale diinnovazione complementare, attivando unamassa di sviluppatori che possono creare servizie applicazioni a valore aggiunto sulle piattafor-me, attirando così una massa critica di utenti(Facebook conta 1 miliardo di utenti, 600.000sviluppatori con contratti esternalizzati che crea-no app monetizzate con il brokeraggio di Face-book, contro i 3500 dipendenti sul libro pagadell’azienda). Un pugno di oligopolisti basa il suo dominiosulla capacità di mettere al lavoro sviluppatori e

utenti «esterni» all’interno di ecosistemi digitalichiusi e proprietari, e sul possesso dei mezzi tec-nici per aggregare, elaborare e analizzare le infor-mazioni prodotte in rete dagli utenti. Piattafor-me usate quindi come strumenti di comunica-zione collettiva e di organizzazione per i movi-menti sociali, ma simultaneamente come stru-menti di cattura dell’intelligenza collettiva daparte di un capitalismo predatorio basato sullaproduzione biopolitica del comune.

Nuova accumulazione sui dati sociali: il «mercato dell’identità»La promessa dell’economia digitale è ancora unavolta l’innovazione schumpeteriana basata sulmito dell’imprenditore di se stesso, capace dicreare nel garage dei genitori una start-up cherimpiazzerà Google e Facebook, o di inserirsi nelmercato dell’identità e «commerciare» la propriareputazione e i propri dati per ricavare una partedei profitti ora intascati solo dalle aziende Usa.La realtà è ben diversa in un’Europa dove la crisidel debito fa chiudere imprese quotidianamentee precarietà e disoccupazione giovanile dilagano. Miliardi di persone usano servizi apparentemen-te gratis, ma in realtà pagati dal fatto che chi ligestisce può legalmente monitorare e spiare chili usa. L’evoluzione delle tecniche di marketing,ormai indistinguibile dalle tecniche di sorve-glianza, ha come fine l’efficace manipolazionedella domanda dei consumatori, acquistando unruolo sempre più centrale nel tentativo di moni-torare, catturare e controllare la soggettività stes-sa dei potenziali target dei loro prodotti di con-sumo. Monitoraggio che non va confuso con lacensura. Il tentativo che si sta operando su Internet èquello di accerchiare lo spazio aperto della co-municazione e dell’espressione di soggettivitàautonome all’interno di uno spazio chiuso e pro-prietario, di catturare le relazioni che qui si svi-luppano allo scopo di metterle a valore. Usandotermini foucaultiani, il progetto è di fondere lalocalizzazione spaziale della gestione disciplinareallo spazio aperto della biopolitica con la costan-te richiesta di «parlare di sé», di costituirsi comesoggettività, del potere pastorale. I miliardi dipensieri, sensazioni e sogni che milioni di perso-ne «condividono» in tutto il mondo sono l’in-

contenibile ricchezza della moltitudine diventa-ta immediatamente produttiva. La quotazione di Facebook in Borsa è un passag-gio paradigmatico, un punto di non ritorno, inquanto Facebook ha come asset strategico azien-dale il grafico sociale degli utenti, e la chiavedella valutazione delle sue azioni nei mercatiborsistici è la capacità di monetizzare l’attivazio-ne degli utenti e le loro relazioni sociali. Facebo-ok assomiglia dunque più a una banca del futu-ro che a un parco giochi. Più si forniscono datisulla propria vita personale, più si viene ricom-pensati con attenzione, il che è una forte moti-vazione sociale per continuare a condividere in-formazioni e creare reputazione. Il concetto diprivacy ne esce rivoluzionato, e diventa incom-prensibile alle nuove generazioni che si cimenta-no quotidianamente nel gioco comunicativo diFacebook, e i loro dati personali diventanomerce da commerciare in cambio di servizi per-sonalizzati gratis. Gratis in cambio però del con-senso a divenire tu stesso prodotto. Internetcome comune di cui reclamare la ricchezza pro-dotta. Diviene ora necessario inventare nuove forme diconflitto e organizzazione politica che rivendi-chino nella produzione e condivisione del comu-ne – di affetti e soggettività – un momento pro-duttivo centrale che passa per un’indisponibilitàa produrre valore a titolo gratuito. Quando lanostra capacità di comunicazione e di produzio-ne collettiva viene immediatamente trasformatain valore economico dai nuovi rentier dell’intel-letto comune, la questione centrale diventacome sottrarci a tutto ciò e come rivendicare unalibera produzione in rete per una ricchezza equa-mente distribuita (ad esempio istituendo un red-dito di base universale). È in corso la più grandebattaglia contro le nuove enclosure e privatizza-zioni della rete: alle lotte sul copyright si associa-no quelle contro il «mercato dell’identità», per ilcontrollo dei dati sociali, per un web aperto e laneutralitá della rete. La rete deve rimanere spaziosociale dell’intelligenza collettiva per la produ-zione del comune, e quindi va riappropriata percostruire un nuovo genere di democrazia e perorganizzare un welfare del comune.

Internet come comuneFrancesca Bria, Federico Primosig, Francesco Nachira

I movimenti popolari dell’ondata del 2011-2012, dalla Primavera araba agli Indignados e Occu-py, hanno portato alla ribalta l’uso dei social media come Facebook, Twitter e Tumblr come stru-menti di comunicazione di movimento. Mentre ormai a negarlo si ostina la solita truppa di vec-chi nostalgici e accademici empirei, il dibattito vero riguarda i termini del loro impatto nei pro-cessi di mobilitazione e organizzazione dei movimenti contemporanei. Che cosa ci dice la po-polarità dei social media nei movimenti contemporanei? Nel mio libro Tweets and the Streets. Social Media and Contemporary Activism, pubblicato nel2012 dall’editore inglese Pluto, sostengo che l’adozione dei social media come mezzo egemo-nico di comunicazione del movimento è il sintomo e al tempo stesso il fautore di una profondatrasformazione dello spazio di partecipazione politica che ci invita a buttare a mare tutta unaserie di categorie che hanno dominato il dibattito su nuovi media e movimenti negli anni No-vanta e primi Duemila. Invece di vedere i social media come un mezzo di costruzione di un «cyberspazio» autonomodalla realtà materiale, dobbiamo apprezzarne il ruolo di tessitura delle pratiche di azione collet-tiva nello spazio urbano e in particolare delle forme di raduno che trasformano un aggregato diindividui dispersi in un attore collettivo. Per usare i termini del mio libro, i social media sono di-venuti gli strumenti di una «coreografia del raduno» che interviene nella concentrazione di unabase sociale altamente individualizzata, come individualizzati sono profili Facebook e accountTwitter, attorno a luoghi simbolici, da Piazza Tahrir a Zuccotti Park, erti a totem di un’ondata diricomposizione sociale. L’idea di cyberspazio che ha dominato l’immaginario dei media-attivisti del periodo no-global ve-deva Internet come uno spazio altro, una specie di eterotopia alla Foucault, in cui rifugiarsi dalleristrettezze di uno spazio urbano reso sempre più inospitale dalle politiche di controllo neolibe-rali. In questo immaginario la comunicazione su Internet diveniva uno sdoppiamento della co-municazione di prossimità. Una realtà virtuale dentro cui si potevano costruire identità alterna-

tive e comunità di interesse e identità slegate dall’ancoraggio allo spazio di azione locale. Il tuttocondensato nell’idea risibile, ma nutrita da molti insospettabili, che la protesta in piazza fosseuna cosa passée o, per metterla nei termini del gruppo media-attivista Critical Art Ensemble,che le strade fossero «capitale morto», e che quindi le uniche forme di protesta efficaci fosse-ro attacchi hacker. I social media di movimento riflettono invece una condizione dell’esperienza contemporanea incui la comunicazione su Internet diventa sempre più un mezzo di tessitura delle nostre intera-zioni quotidiane, lo strumento per la gestione ed estensione della nostra esperienza di localitàe di partecipazione. Basta pensare all’importanza della creazione di eventi su Facebook, ad ap-plicazioni come Doodle usate per organizzare riunioni, ai Meetup tanto amati dai grillini, per con-vogliare le persone interessate in un certo tema o campagna nello stesso luogo politico, o an-cora ai locative media come Foursquare usati per comunicare la nostra posizione nello spaziourbano e di conseguenza i nostri gusti e le nostre affiliazioni. In questo contesto i social media diventano mezzo principe per un progetto di ricostruzionedello spazio di azione locale. Essi vengono adottati come strumenti coreografici attraverso cuicreare e pubblicizzare luoghi e tempi di convergenza di basi sociali diffuse e frammentate.Il paradigma con cui dobbiamo fare i conti oggi non è quindi più quello della realtà virtuale, maquello della cosiddetta realtà aumentata, in cui le nostre interazioni quotidiane, i nostri incontri,le nostre frequentazioni vengono coordinate sui network sociali e in cui diventa sempre più dif-ficile distinguere online e offline, realtà reale e realtà virtuale. È in questo quadro che bisogna ripensare le forme di organizzazione di movimento e riaprire ildibattito sulle forme di direzione dell’azione collettiva, andando oltre la pretesa di assoluta spon-taneità e leaderlessness che finora ha dominato il discorso degli attivisti con conseguenze de-leterie per i movimenti.

SOCIAL MEDIA E LA COREOGRAFIA DEL RADUNO

Paolo Gerbaudo

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Dal tempo di Marx molte cosesono accadute e molte si sonotrasformate. Compreso il con-cetto di feticismo (delle merci)e di reificazione (degli uominiche diventano cose). E se ilconcetto di feticismo era ap-

plicato a quelle società arcaiche che attribuivanoa determinati oggetti oppure a specifici animaliun potere magico-religioso di natura soprannatu-rale e che era necessario fare proprio e in-corpo-rare o al quale era impossibile resistere (comun-que facendosene però in-corporare), oggi il fetici-smo si ri-modula in modo nuovo e antico allostesso tempo. Ovvero: se il feticismo delle merciè l’evoluzione (o l’involuzione) del vecchio fetici-smo magico-religioso, oggi stiamo compiendoun passo in avanti (o indietro) verso una ulterio-re e ben più pericolosa forma di feticismo: quel-lo della rete come apparato tecnico, quello delmacrofeticismo del dover essere connessi, alimenta-to a sua volta da tanti sottofeticismi e sottofeticcifunzionali (feticcio-social network, iPhone, wiki,community, app). Per cui la rete – e non più lecose o gli animali, e non più le merci secondoMarx – è il baricentro della nuova attrazione feti-cistica che dobbiamo vivere. Attrazione che corri-sponde a un autentico falso bisogno marcusiano,falso in quanto prodotto/indotto dal sistema peril proprio migliore funzionamento («con un con-tenuto e una funzione sociali che sono determi-nati da potenze esterne, sulle quali l’individuonon ha alcun controllo; lo sviluppo e la soddisfa-zione di essi hanno carattere eteronomo»), oltreche discendere da un profondissimo senso di in-quietudine e di insicurezza individuale e socialegenerato dalla stessa rete e dalla globalizzazioneneoliberista. Una rete che ci ha in-corporati, daessa tutti noi facendoci voluttuosamente in-cor-porare, legandoci a essa e in essa con infiniti nodicon cui le persone si integrano a «un sistema didipendenza omnilaterale imposta», però non piùdalle cose (come credeva Marx) ma da un poten-tissimo e altrettanto unilaterale apparato organiz-zativo di natura tecnica. Questa tecnica come apparato è diventata oggi ilnostro feticcio. È il mana che veneriamo ognivolta che accendiamo il pc, che entriamo in rete,che chattiamo, che blogghiamo, che corriamo adacquistare l’ultimo iPhone. Venerando non tantol’oggetto in sé (il pc, lo smartphone, il social net-work), né il concetto di merce che comunque an-cora è, quanto il sistema di connessione che espri-me: per cui oggi il pre-dominio su uomini e so-cietà è esercitato non dalle merci (anche) e dal ca-pitalismo (anche), ma dalla tecnica come apparatodi integrazione e di connessione che esiste e fun-ziona solo se da un lato separa, isola, individua-lizza gli uomini e dall’altro li integra a sé, li con-nette, li lega insieme, li totalizza in sé come appa-rato organizzativo (e individualizzazione e totaliz-zazione sono i termini usati da Michel Foucault):perché questa è la logica di funzionamento diogni apparato tecnico, sia esso catena di montag-gio, consumismo oppure rete. Per cui dalla reificazione degli uomini siamo pas-sati alla loro tecnicizzazione, di questo nostrotempo anche di feticismo d’apparato dove il doveressere connessi non produce più o non fa percepi-re più l’alienazione, come accadeva ai tempi diMarx e poi del fordismo-taylorismo, ma la na-sconde sotto il velo della condivisione, della col-laborazione, del wiki e quindi della identificazio-ne di ciascuno con l’apparato-rete. Identificazionerichiesta dall’apparato ma a cui ciascuno di noichiede egli stesso di partecipare – è una formagramscianamente perfetta di egemonia – per cui ildover essere connessi si traduce in un grande van-taggio per l’apparato in termini di nostra utilità edi nostra docilità (ancora Foucault) – pena lapaura di essere esclusi/emarginati.

In realtà, già Marx aveva compreso che il fetici-smo non è tanto la sacralizzazione di determina-ti oggetti/merci, ma del sistema in sé. Siste-ma/apparato che (come ricorda Umberto Galim-berti), estendendo e «generalizzando il valore discambio, neutralizza la natura degli oggetti, perdiffonderne il valore (economico). E più il siste-ma si fa sistematico, più il fascino del feticismo sirafforza, per l’impossibilità di accedere all’ogget-to senza passare per il suo valore, che è “artificia-le” (in latino: facticius, donde “feticcio” e quindi“feticismo”), perché nel feticismo a parlare nonsono le cose, ma il codice che tutte le esprime per-ché in tutte si esprime». Se dunque il capitalismoè feticista, la sua patologia (perché il feticismo èuna patologia) è simile (ancora Galimberti) «aquella del collezionista a cui non interessa la na-tura delle cose raccolte, ma la sistematicità del-l’insieme collezionato, dove il passaggio continuoda un termine all’altro garantisce la costituzionedi un mondo chiuso e invulnerabile». Ma ora si è passati appunto a una nuova fase delfeticismo, quella da tecnica come apparato. Che èancora più sistematico del capitali-smo, imponendoci di accedere allavita sociale e individuale (relazioni,comunicazioni, informazione, lavo-ro, divertimento, amicizia) solo pas-sando per il suo valore di connessio-ne/connettività, un valore tanto arti-ficiale da essere diventato virtuale,dove a parlare e a dire non sono tan -to le cose (ancora il pc o lo smart -phone o l’ultima app), ma il codice(la rete) che tutte le cose tecnicheesprime perché in tutte si esprime. E,allora, a valere e a produrre valore e -conomico ma soprattutto tecnicoso no appunto le connessioni, perchéquanto maggiori e più forti/intense/condivise ed emozionali-relazionaliesse sono (ecco il capitalismo cogni-tivo, il marketing emozionale-rela-zio nale, le brand community), cosìmaggiore e più forte è l’identifica-zio ne di ciascuno con l’apparato-re -te cui deve essere connesso e quindimeglio è per l’apparato. Valore nonpiù di uso o di scambio, ma appuntovalore di connessione/tota lizzazioneoltre che di utilità economica e di do-cilità sociale (perché la condivisione– mantra della rete – esclude il con-flitto, e in rete non può nascere, e in-fatti non è mai nato, nessun veroconflitto). La rete dunque – che è sistema, codi-ce, valore – diventa così il vero fetic-cio che sa produrre un potente feti-cismo per sé; e l’uomo cessa di esse-re cosa (la vecchia reificazione) perdivenire nodo (la nuova tecnicizza-zione), ciascuno incapace di esisteresenza essere connesso con gli altrinodi, ma connesso non per liberascelta, per socialità intrinseca e percooperazione volontaria perché fon-data su una scelta di auto-nomia (el’auto-nomia era il sogno dell’illumi-nista Kant), ma perché un nuovopotere pastorale (ancora Foucault) –appunto la rete – ha assunto il pote-re di governamentalizzare le nostrevite, traducendole da sociali a tecni-che e producendo la più grande so-cietà, meglio, comunità di massamai realizzatasi nella storia umana.Una patologia prodotta dalla tecni-ca, che ci ha portati a disinteressarcidella natura delle cose reali privile-giando invece la sistematicità del-

l’insieme virtuale, dove il passaggio continuo daun termine all’altro (da un nodo all’altro, da unnetwork all’altro, da una app all’altra) garantiscela costituzione di un mondo chiuso e invulnera-bile. Ed è a questo mondo che la tecnica tende. Nonè dunque più la forma-merce a essere dominantee totalitaria. Totalitaria è piuttosto (riprendendoErnst Jünger) la mobilitazione totale che la tecni-ca ci impone. Perché (come sosteneva GüntherAnders) ormai la forma tecnica si è imposta sulleforme sociali, perché per la tecnica tutto ciò che sipuò fare si deve fare, perché essa vive e si riprodu-ce nella propria logica di accrescimento continuo,avendo cessato da tempo di essere mezzo per faree divenendo fine di ogni fare/pensare.Con un di più anch’esso evoluzione (o involuzio-ne) rispetto al feticismo arcaico e a quello dellemerci (pure sostenuto dalla moda, dall’invidia,dalla pubblicità, dalla manipolazione dei biso-gni/desideri): perché questa è una rete/apparatodove il narcisismo (i blog, il profilo su Facebook)si con-fonde con il feticismo, dove il dover essere inrete si è composto con il nostro godimento narci-

sistico, la rete permettendoci di esistere godendosolo es-ponendoci in rete, mettendoci in mostra(ma molto di più che come una merce), ovverovetrinizzandoci (Vanni Codeluppi), e di farlo inrete (è il narcisismo), in una rete che a sua voltaè forza soprannaturale incarnata in se stessa come(s)oggetto di culto (è il feticismo). Per cui la reteè il feticcio che genera feticismo, ma che ci per-mette di diventare feticcio e feticismo di noi stes-si, una volta connessi in rete (ulteriore fase difalso individualismo per una crescente identifica-zione con l’apparato), confermando l’altra tesi diMarcuse secondo cui la tecnica «serve per istitui-re nuove forme di controllo sociale e di coesionesociale, più efficaci e più piacevoli».In fondo, siamo ancora dei primitivi. Viviamosempre di feticismo magico-religioso. Oggi peròipertecnologico.

Dal feticismo delle mercial feticismo della reteLelio Demichelis

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Alexandre KojèveDiario del filosofoa cura di Marco Filoni, traduzione di Claudia Zonghetti Nino Aragno Editore, 2013, XXIII-112 pp., € 10,00

Marco FiloniKojève mon amiNino Aragno Editore, 2013, 88 pp., € 8,00

Se Raymond Queneau definì Alexan-dre Kojève «il filosofo della domenica»,non fu soltanto perché l’amico, nel1945 divenuto alto funzionario delloStato, diceva di potersi dedicare agli studisolo quel giorno della settimana. E neppu-re perché uno dei tre romanzi nei quali lorese protagonista si intitolava La dimanchede la vie. Nel penultimo capitolo del suo Ko-jève mon ami Marco Filoni aggiunge un’altrasfumatura. Kojève suggerì ad Hassner, un allie-vo di Aron, di leggere il romanzo L’uomo che fuGiovedì di Chesterton, nel quale si viene a sape-re che il capo della polizia, Domenica, è il caposegreto degli anarchici e ha ingaggiato altri seiagenti (ognuno dei quali porta il nome di un gior-no della settimana) per combattere contro il lorostesso capo. Filoni è il maggior curatore dell’immagine di questo filosofo in-classificabile e ambiguo: prima con la monografia Il filosofo delladomenica. La vita e il pensiero di Alexandre Kojève (Bollati Borin-ghieri, 2008; trad. fr. Gallimard, 2010) e ora con Kojève mon ami,libro che incarna le figure evanescenti di Kojève nelle testimo-nianze dei suoi amici. Quella che era da tempo un’icona della cul-tura filosofica francese degli anni Trenta del Novecento si alternae arricchisce con le immagini «private» del giovane «demone»russo nipote di Kandinskij, appassionato di Dostoevskij e Solo-v’ëv, dell’avventuroso fuggitivo nella Germania di Weimar, dell’af-fascinante retore delle lezioni hegeliane all’École Pratique desHautes Études, del funzionario che meglio conosceva il trattatoche ha regolato le relazioni commerciali fra le potenze occidenta-li fino al 1971. Con un’operazione parallela, il Diario del filosofo ci conduce allariflessione «segreta» di Kojève, in questo volume pubblicata in an-teprima internazionale riesumando quattro quaderni manoscrittiredatti in russo. Emerge un progetto filosofico di fondo, chiaro aKojève fin dai suoi quindici anni (il primo appunto del diario èdatato 1 gennaio 1917): pensare i principi fondamentali di una fi-losofia dell’inesistente, sia che tale «inesistente» si riconosca inDio (Filoni ribadisce nella sua introduzione ciò che aveva scrittoaltrove: «egli fu letteralmente ossessionato dall’idea di Dio»), siache richiami una visione del nulla o che aiuti a investigare sul pos-sibile. Essa fornisce le condizioni ontologiche preliminari per rea-lizzare quel progetto di «antropologia filosofica atea» racchiuso inun inedito manoscritto in russo di mille pagine – Sofia. Filosofiae fenomenologia (1940-41) – che segna l’intero percorso di Kojèvedegli anni Trenta e Quaranta. Il Diario, risalente al periodo 1917-21, con un’appendice di foglisparsi che arriva all’aprile 1927, unisce come un forte collante i re-centi tasselli della bibliografia kojeviana (negli ultimi cinque anniricordo L’ateismo, Quodlibet, 2008; Sostituirsi a Dio. Saggio su So-lov’ëv, Medusa, 2009; Sulla tirannide, in dialogo con Leo Strauss,Adelphi, 2010; Identité et réalité dans le «Dictionnaire» de PierreBayle, Gallimard, 2010; La nozione di autorità, Adelphi, 2011; eOltre la fenomenologia. Recensioni 1932-1937, Mimesis, 2012). Visi trovano tra l’altro le prime tracce di una filosofia dell’inesisten-te: a partire da un pensiero scritto a Varsavia il 18 febbraio 1920,sul limine di un periodo triste e tragico che solo l’amico d’infan-zia Witt, compagno dal gennaio 1920 nella fuga da Mosca, glifarà superare. Decisiva la contrapposizione tra pensiero ed essereche, se intesi come separati, sono illimitati e reali. Con una ten-sione dialettica che non si fatica a riconoscere come hegeliana,Kojève vede nel pensiero puro l’antitesi del pensabile, che si con-figura come essere illimitato, a sua volta irrisolvibile nel reale pen-sato, semplice «limitazione dell’illimitato». La dicotomia pensie-ro-essere diviene la chiave per intendere il «parallelismo metafisi-co dell’universo», nel quale «idea e realtà scorrono parallele senzainfluire l’una sull’altra», e confluisce in una visione «buddista»della realtà umana, vista come lotta dell’uomo contro il propriocorpo «in nome della rinuncia allo stesso e del non-essere». È que-sta la base della filosofia dell’inesistente, alla quale Kojève dedica

nel Diario altri pensieri (è il caso di quello romano del 10 agosto1920 o di quello, tormentato, scritto a Triberg il 30 dicembre1920) o esposizioni schematiche come le tre proposte il 6 novem-

bre 1920 (dove stupisce l’autodefinizione di «bol-scevismo in filosofia»). Negli appunti per il Saggio di filosofia della religio-ne lo schema espositivo pone al primo puntol’«insorgere dell’idea religiosa, pensare l’inesi-stente», spiegato a partire dall’affermazione cheessere e non-essere non esistono se non inquanto pensati e che pensare l’essere come an-titesi del non-essere equivale a pensare l’esi-stente in contrapposizione a un inesistente.Si tratta di «definire la natura del pensierofilosofico» tramite «un tentativo di formu-lazione astratta della natura e del caratte-re di qualsivoglia pensiero che comportila realizzazione dell’essere nell’una onell’altra sua forma». Compito imma-ne che condurrà Kojève anche a quel-l’antropologia filosofica rimasta –sulla scia di Hegel – uno dei contri-buti più originali della sua filosofia.

Gaspare Polizzi

Pierre ClastresL’anarchia selvaggia. Le società senza Stato,senza fede, senza legge, senza re introduzione di Roberto Marchionattielèuthera, 2013, 116 pp., € 12,00

«Si chiama Stato il più gelido di tutti i gelidi mostri. Esso è geli-do anche quando mente; e questa menzogna gli striscia fuori dibocca: “Io, lo Stato, sono il popolo”.» Questa la straordinaria in-tuizione di Nietzsche (Così parlo Zarathustra, 1885) cara a PierreClastres, l’antropologo francese erede libertario di Lévi-Straussche ha rovesciato il paradigma della filosofia politica occidentalecon una serie di innovative ricerche sul campo, tese a dimostrarecome la coercizione politica e lo Stato non siano il fondamentoinevitabile di ogni società umana. La cultura occidentale moderna ha sempre pensato il potere comestruttura verticale e gerarchica, relazione di comando e obbedien-za, e conseguentemente ha pensato le società primitive comemancanti di potere politico, incomplete ed embrionali in quantosocietà senza Stato. In realtà non esistono società senza potere, ilpotere politico è universale e immanente al fatto sociale, a fare ladifferenza è piuttosto la declinazione coercitiva o non coercitivadel potere, e la diversa relazione che si instaura tra sfera politica esociale. Lo studio sul campo della chieftainship amerindianasmentisce il postulato della non politicità dell’arcaico: nelle socie-tà primitive il potere appartiene al corpo sociale come unità indi-visa di liberi ed eguali. Il capo invece è il depositario di un para-dossale potere che non può nulla, è colui che parla a nome dellasocietà, costantemente sotto sorveglianza: la società vigila per im-pedire che il prestigio derivato dal privilegio della parola si trasfor-mi in Un potere separato e trascendente, in dominio sulla socie-tà. È così che il pensiero selvaggio ci dice che «il luogo di nascitadel Male, la fonte dell’infelicità, è l’Uno». E questo Uno è loStato, proprio come nella reductio ad unum del famoso frontespi-zio di Hobbes dove il corpo Uno e Sovrano del Leviatano contie-ne tutti i cittadini riducendoli a popolo. Società contro lo Stato,quindi, e non semplicemente senza Stato, che per esorcizzare ilmostro organizza la guerra e promuove la logica centrifuga dellaframmentazione, ostacolo potente alla forza centripeta dell’unifi-cazione. Hobbes ha visto chiaramente che lo Stato era contro laguerra, così la macchina da guerra primitiva è contro lo Stato e lorende impossibile.Eppure una rottura fatale è in agguato: l’evento irrazionale dellanascita dello Stato che precipita la società nella sottomissione ditutti a Uno solo. È l’enigma magistralmente indagato agli alboridella modernità da La Boétie nel suo Discorso sulla servitù volon-taria (in questa piccola ma preziosa antologia è compreso il sag-gio di Clastres sull’amico fraterno di Montaigne): «Il passaggiodalla libertà alla servitù fu senza necessità, la divisione tra chi co-manda e chi obbedisce fu accidentale». Si tratta di un malencontreche ha snaturato a tal punto l’uomo da fargli perdere la memoriadella sua prima condizione e il desiderio di riacquistarla. Alcunesocietà primitive per sventare il pericolo imminente si sarebberoaffidate alla seduzione della parola profetica che invitava ad ab-bandonare tutto per cercare la Terra senza il Male, manifestando

una volontà di sovversione «spinta fino al desiderio di morire, finoal suicidio collettivo»...Per chiudere due note: 1. La modernità politica occidentale nonè solo quella sovrana e neutralizzante di Hobbes, ma anche quel-la materialista e tumultuaria di Machiavelli che promuove il con-flitto come chiave di volta della libertà. È probabilmente in que-sta anomalia selvaggia e nella sua moltiplicaz,ione che si da la pos-sibilità di sventare quel malencontre sempre in agguato. 2. Ora, seè vero che la postmodernità ha polverizzato il Leviatano, la ricer-ca di Clastres continua però a interrogarci dacché la sussunzionereale della vita al capitale esercita una straordinaria capacità dimessa al lavoro di quella libido serviendi che occorre continuare astanare. Ora che lo Stato non è più niente, sta a noi essere tutto!

Nicolas Martino

Massimo CacciariIl potere che frenaAdelphi, 2013, 214 pp., € 13,00

Il katechon – chi o ciò che trattiene – è una figura enigmatica cheappare nella seconda Lettera ai Tessalonicesi di Paolo 2, 6-7, con lafunzione di ritardare l’avvento dell’Anticristo. Il quale a un certopunto comunque trionferà e perverrà allo scontro con Cristo ri-tornato in terra, ovvio vincitore che porrà fine ai tempi. Figuraenigmatica e ambigua: perché combatte il male, senza riuscire asconfiggerlo definitivamente, e però ritarda la parousia di Gesù,assai attesa dai primi cristiani e poi rimandata sine die. La copio-sa letteratura apocalittica sembra imbarazzata da questa aporia,tanto che l’esegesi di quel passo è affidata a un numero esiguo dicommenti, raccolti in appendice al libro e divisi nell’assegnazionedel ruolo catecontico all’Impero romano o alla stessa Chiesa comeorganizzazione e sacramenti. Secondo un’assennata notazione del-l’illirico Vittorino di Petovio (fine III secolo), «lo Spirito Santoparla in modo confuso, anticipa l’ordine degli avvenimenti e correfino all’ultimo tempo, per poi tornare nuovamente ai tempi chesono stati prima: presenta, infatti, un avvenimento che accadràuna sola volta come se fosse accaduto più volte». Donde le ricor-renti difficoltà per individuare sia il katechon che l’Anticristo,ancor più nel presagire l’avvento del tempo ultimo. In epoca mo-derna Carl Schmitt, che nella sua teologia politica ha molto insi-stito sul katechon assegnando tale ruolo alla rappresentanza baroc-ca dello Stato e il ruolo dell’Anticristo allo spirito anarchico del li-beralismo e del socialismo antirappresentativo, ha ammesso (nelterminale Glossarium) che per ogni momento storico esiste un ka-techon specifico. Lo stesso Cacciari, che pur definisce in terminileggermente diversi l’Iniquo (Anomos), ha trovato, di volta in voltacon declinante pathos tragico, varie figure catecontiche: il Pci nel1968, Montezemolo e Napolitano nel nuovo millennio.La contraddizione del katechon risulta, oltre che dall’ambivalenzadella dilazione della fine, dal fatto che i suoi possibili portatori sonospinti a travalicare la funzione puramente «amministrativa» (loStato) per conseguire un’auctoritas epocale di spettanza della Chie-sa, o viceversa (nel caso della Chiesa) a invadere le competenze sta-tali, per esercitare in prima persona il potere effettuale. Una divisio-ne perfetta del lavoro genera infatti, in ognuno dei due campi, unsenso di impotenza. La tensione irrisolta e procrastinatoria della fi-gura genera tali scambi e conflitti, mentre addirittura la Chiesa con-tiene in sé quell’eresia che poi si cristallizzerà nel trionfo provviso-rio dell’Anticristo. Cacciari analizza questa dinamica con grandeerudizione e finezza, così da sintetizzare il bimillenario dibattito conefficacia, malgrado i consueti manierismi linguistici. Il punto centrale dell’elaborazione sta però proprio nella differen-te definizione che del paolino mistero dell’iniquità offre Cacciari– in non lieve scarto da Schmitt. Il Nemico non è, come per ilgiurista tedesco, il comunismo anarchico (dai dolciniani alla Co-mune parigina, da Müntzer ai Räte monacensi e allo spartachismoberlinese), nella logica del Grande Inquisitore che tiene a bada ilCristo dostoevskiano, ma l’intera Modernità neopelagiana che sicrogiola nelle differenze e rifiuta la tragica consapevolezza del pec-cato e la necessità della Rappresentazione, la moltitudine degli ul-timi uomini di cui parlava Nietzsche dopo la morte di Dio; oggidunque il Nuovo Ordine Mondiale del neoliberalismo, l’imma-nenza laicista, il culto della Rete contro quello della Croce. Pro-meteo, il volto esplicitamente anticristico dei totalitarismi e delleideologie, ha ceduto il passo a Epimeteo, l’iniquità tollerante econciliante, la crisi permanente, il subdolo placidus dell’Apocalis-se. Così proprio adesso ci muoviamo fra i segni del dominio anti-cristico, cui ormai non riescono a opporsi Stato e Chiesa, ri-schiandone anzi la complicità.

Augusto Illuminati

iLIBRIIl libro

del mese

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Marco RevelliFinale di partitoEinaudi, 2013, 138 pp., € 10,00

L’ironico calco beckettiano con cui Marco Revelli ha voluto tito-lare il suo nuovo pamphlet non fa velo all’urgenza del tema: lacrisi di una delle forme più longeve dell’organizzazione della po-litica occidentale. La crisi conclamata e l’interminabile tramontodel partito politico sono indagati da Revelli senza nostalgie passa-tiste o vagheggiamenti di ripristino o restauro, ma anche senza in-dulgere alle facili pose della vendetta postuma o della resa deiconti. Molti dati, in avvio; una genealogia e una proposta di ezio-logia, nel mezzo; domande più che risposte, in coda. Certo è cheil libro di Revelli non ha né il tono né il passo del lavoro del lutto(è distante anni luce, tanto per intenderci, da alcune più recenti eimportanti riflessioni trontiane). In Oltre il Novecento (Einaudi, 2001) Revelli aveva disegnato e au-spicato una transizione possibile in grado di condurre dalla mili-tanza all’attivismo: analizzando quella parabola del mutamentoche investiva le forme dell’impegno civico degli attori sociali e letrasformazioni delle forme di vita (e di lavoro) contemporanee dicui quel nuovo modo di «fare» politica era la traduzione (e in ve-rità tutta la metamorfosi si giocava sul necessario indebolimentodi ogni «fare»). Oggi il discorso si fa insieme più esatto e meno ot-timistico. Se l’orizzonte del presente sembra essere quello di unvasto mare in cui si può solo «navigare a vista», dominato dunquedalla mancanza strutturale di «visione» e di «progetto», il sogget-to collettivo deputato alla sintesi di interessi (e desideri) socialiche è stato (o avrebbe potuto essere) il partito politico è letteral-mente alla deriva.Revelli mette al lavoro la genealogia dell’elitismo a dimostrare iltendenziale divenire oligarchico della forma partito e la necessaria«abrogazione» che oggi subirebbe quella che Roberto Michelschiamava, indagando in flagranti la nascita dei partiti di massa, la«ferrea legge dell’oligarchia». Il motivo che spiega tale «abrogazio-ne» sta in quella che si potrebbe definire una fondamentale iso-morfia tra le forme dell’organizzazione politica e di quella produt-tiva. È il divenire postfordista della politica a spiegare la fine delpartito e l’urto tra la sua naturale tendenza oligarchica e la «com-posizione di classe» delle forme della cooperazione sociale con-temporanea. Come il modo di produzione capitalistico è transita-to dal regime fordista a quello postfordista, così la politica si trovaimmersa in un ambiente in cui domina la «leggerezza» del just intime e la snellezza dell’organizzazione catalitica. I partiti si sareb-bero rivelati incapaci di dominare il passaggio d’epoca e, soprat-tutto, di governare lo squilibrio tra costi di transazione e di orga-nizzazione che lo caratterizza. Rimasti legati a un tempo dell’or-ganizzazione macchinico e fabbricocentrico, i partiti sono investi-ti après-coup dalle metamorfosi del capitalismo.Sono dunque le forme di vita contemporanee (i «cervelli furiosi»),che questi mutamenti hanno insieme (secondo una lezione che ètanto quella operaista quanto quella foucaultiana) prodotto e sop-portato, a essere irriducibili a quella forma e a quello schema or-ganizzativo. La crisi della forma-partito investe infatti il dispositi-vo cruciale della politica moderna: la rappresentanza. Una crisiche, nel riferimento al notevole programma di ricerca allestito daPierre Rosanvallon intorno alla «controdemocrazia», è assuntacon riserva. Revelli assegna infatti ai partiti il ruolo di discreticompagni di strada, di soggetti impegnati a sperimentare e prati-care forme di socialità orizzontali e autorganizzate. Sembra insomma che la vita prevalga sulle forme. È tuttavia unaproposta appena sbozzata, e c’è da credere che attorno al rapporto ditensione tra forme di vita e forme della politica (o istituzioni) ci siaancora molto da dire: il dibattito e gli esperimenti attorno alla pos-sibile costituzionalizzazione dell’autonomia delle forme della coope-razione sociale lo attestano al di là di ogni irragionevole dubbio.

Michele Spanò

Robert S.C. GordonScolpitelo nei cuoriL’Olocausto nella cultura italiana (1944-2010)traduzione di Giuliana OliveroBollati Boringhieri, 2013, 352 pp., € 27,00

Come tutte le memorie, anche quella italiana della Shoah è fun-zionale alle sensibilità, alle preoccupazioni e agli interessi di chi nedetiene il controllo. E come tutte le memorie è una preziosa risor-sa ideologica, uno strumento da forgiare, da impugnare e da sot-trarre agli usi rivali. Non sorprende pertanto che attorno a essa in-furino le più accese polemiche, come si evince dalle diatribe chesin dall’immediato dopoguerra accompagnano ogni iniziativacommemorativa della persecuzione nazifascista. La prima vertenza risale addirittura al 1946, quando nel Cimite-ro Monumentale di Milano fu eretto un mausoleo ai «caduti neicampi di sterminio nazisti», senza distinzioni tra i vari tipi di lagero le diverse categorie di deportati, senza accenno alle colpe fasci-ste, e senza elenco dei nomi delle vittime, con grave disappuntodell’Anppia (Associazione perseguitati politici italiani antifascisti)

che aveva commissionato il progetto. Altre più recenti dispute in-cludono il dibattito scatenato dall’Intervista sul fascismo di RenzoDe Felice (1975), lo scandalo dell’evasione di Herbert Kappler dalcarcere di Gaeta (1977), il caso Priebke e la concomitante contro-versia sulla responsabilità dei partigiani per l’eccidio delle FosseArdeatine (1996-98), le polemiche scoppiate all’epoca dell’istitu-zione della legge sul Giorno della memoria (2000) circa la presun-ta necessità di estendere le commemorazioni a «tutte le vittime diguerra», foibe incluse, sino all’imperscrutabile decisione di situareil museo romano della Shoah (tuttora in fase di gestazione) a VillaTorlonia, of all places. E questo è solo un campione dei casi esami-nati da Robert Gordon nel suo ultimo saggio dedicato alla rice-zione, alla comprensione e alla rappresentazione dell’Olocausto inItalia dal dopoguerra a oggi.Incrociando una moltitudine di fonti eterogenee (discorsi istitu-zionali, accademici, letterari, artistici, cinematografici, giornalisti-ci…) l’autore offre una mappatura enciclopedica – seppure nonesaustiva – del campo culturale in cui si accavallano discorsi in-fluenti, interpretazioni storiografiche, riflessioni pedagogiche e ri-costruzioni spettacolari che insieme generano il «mormorio diffu-so di attività culturali spesso non coordinate tra loro» di cui sonosaturi i luoghi della memoria. Certo, alcune voci si levano chiaresopra il brusio: quella di Primo Levi, innanzitutto, che dagli anniSessanta diventa «il principale mediatore della consapevolezza del-l’Olocausto» in Italia, e non solo. Ma alla consacrazione di Se que-sto è un uomo segue la stagione del naziporno e del negazionismo,giusto per citare due abusi particolarmente scabrosi, a dimostra-zione che gli interessi in gioco, quando si parla di memoria, sonoi più vari e disparati. Non sorprende che l’elaborazione della Shoah sia stata, e continuia essere, materia di aspra contesa: a maggior ragione se si conside-ra la difficoltà specificamente italiana di distillare una narrazionecomune a partire da esperienze radicalmente conflittuali. Piutto-sto, colpisce il carattere complessivamente gelatinoso della memo-ria italiana, tuttora elusiva sul tema delle responsabilità nazionaliriguardo al razzismo di Stato e al consenso che lo rese possibile. Inciò l’Italia è stata assecondata dal resto del mondo occidentale,complici il Piano Marshall e lo stereotipo di un’italianità facilonama tutto sommato inoffensiva. Gordon evita di enunciare questatesi in modo brutale, limitandosi a suggerire che la nostra imma-turità culturale sia in buona parte attribuibile alla persistenza delmito del bravo italiano e dei suoi addentellati simbolici: mostrifi-cazione dei cattivi tedeschi, tendenza a universalizzare e a metafo-rizzare il genocidio, conforto del «mito della Resistenza» (sino allasua demolizione revisionistica negli anni Ottanta e Novanta), insi-stenza sull’eroismo dei Giusti (come se l’onorificenza non impli-casse che la maggior parte degli italiani Giusta non fu), identifica-zione tenace e sistematica con le vittime anziché con i persecutori.

Valentina Pisanty

Jonathan Crary Tecniche dell’osservatoreVisione e modernità nel XIX secoloa cura di Luca AcquarelliEinaudi, 2013, 181 pp., € 22,00

Tradotto da Einaudi a più di vent’anni dalla sua pubblicazioneoriginale negli Stati Uniti (Techniques of the Observer, MIT,1990), quello di Jonathan Crary è un testo semplicemente fonda-mentale nel panorama delle riflessioni sulla cultura visuale. Lostudioso americano vi propone un’approfondita analisi delle me-tamorfosi della visione nella prima metà del XIX secolo: è propriodurante i primi quarant’anni dell’Ottocento che ha infatti luogo,secondo l’autore, quel cambiamento epocale nello statuto della vi-sione che segna la svolta verso una modernità piena. Al modellodella camera oscura, che aveva funzionato da perfetta metaforaper la fiducia sei-settecentesca nella separazione razionale tra sog-getto e oggetto, si sostituisce ora un paradigma opposto che ricol-loca la visione nel corpo, con l’effetto di far entrare in crisi ognidistinzione sicura tra sensazione interna e segno esterno.Questa storia della scoperta dell’immanenza del soggetto almondo viene tracciata da Crary con un approccio esplicitamentefoucaultiano. Opponendosi a una storia dell’arte basata unica-

mente sulle dinamiche della rappresentazione, Crary rivendica lanecessità di intrecciare le riflessioni estetiche con l’analisi dei di-battiti filosofici e scientifici dell’epoca. Dalla teoria dei colori diGoethe alle indagini sulla persistenza retinica delle immagini,dalla rilettura in chiave fisiologica di Schopenhauer allo studio didispositivi precinematografici come lo stereoscopio (senza dimen-ticare le splendide pagine sull’opera tarda di Turner), è propriol’ampio raggio della proposta di Crary che gli permette di defami-liarizzare e riperiodizzare i discorsi sulla modernità, superandoogni falsa dicotomia tra arte alta e cultura popolare. La sua pecu-liare archeologia dei media smentisce implacabilmente ogni nar-razione semplicistica delle magnifiche sorti e progressive della vi-sione occidentale. In particolare viene messa in crisi la genealogiaaproblematica che collega la fotografia e il cinema all’apollinea vi-sione proposta dalla prospettiva rinascimentale. Secondo Crarynon è certo la retorica del realismo a costituire il discorso domi-nante della modernità, che egli caratterizza piuttosto nel segno deltrionfo di teorie non veridiche della visione. La nuova importanza di cui vengono investite la soggettività, l’in-teriorità e la fisicità ha certamente un potenziale decostruttivo eliberatorio. Questa però non è che una parte della traiettoria de-lineata da Crary. La visione moderna è infatti attraversata contem-poraneamente da un’altra tendenza, che è insieme una conseguen-za della sua corporeizzazione e il suo contrario esatto: proprio inquanto attributo del soggetto, infatti, la visione diventa ora anchequalcosa di astratto, nel senso di qualcosa che può essere misura-to, calcolato e studiato. Essa diventa insomma uno strumento concui controllare e addomesticare il soggetto, in funzione del suo in-casellamento e della sua produttività all’interno del regime capita-listico.La rilevanza e il fascino del libro di Crary stanno proprio nell’ana-lisi di questa paradossale biforcazione della visione nella moderni-tà. Lo studioso investiga l’insopprimibile intreccio moderno trasocietà dello spettacolo e società della sorveglianza e ne rintraccial’origine; allo stesso tempo, la versione sostanzialmente antirefe-renziale della modernità che Crary ci propone si apparenta inmodo palese con la problematica del postmoderno, e illuminaanche la riflessione sulla contemporaneità.

Lorenzo Marmo

Gabriele D’AutiliaStoria della fotografia in Italia dal 1839 a oggiEinaudi, 2012, XXXI-429 pp., € 32,00

La consapevolezza della parzialità del punto di vista di chi scrive einterpreta la storia è un fatto di cui ognuno fa esperienza, sia chevesta i panni dell’autore, sia che si trovi nel ruolo del lettore. Lapresa di coscienza della mancanza di neutralità dello sguardo in-teressa tutti gli ambiti disciplinari, ma si rende ancora più chiaraper quanti intendano occuparsi di fotografia, medium di per sépolimorfo e pervasivo, sulla cui natura esiste, come è noto, una bi-bliografia vastissima. Sin dalla sua prima apparizione pubblica lafotografia ha trovato applicazione nei campi più disparati dell’esi-stenza umana, divenendo uno strumento imprescindibile di co-noscenza, un mezzo essenziale e ancora oggi insostituibile perl’autorappresentazione individuale e collettiva. Alla pluralità diusi sociali, estetici e politici della fotografia corrisponde quindiuna molteplicità di prospettive da cui è possibile partire per scri-vere la storia della fotografia o, per meglio dire, le storie della fo-tografia. Si muove da questa consapevolezza Gabriele D’Autilia, il quale ri-percorre la storia d’Italia degli ultimi due secoli attraverso le im-magini fotografiche che non soltanto hanno rappresentato e vei-colato questa storia, ma hanno contribuito attivamente a segnar-la e a determinarla. Nel fare ciò l’autore adotta una metodologiatrasversale ricorrendo all’apporto di discipline come l’antropolo-gia e la sociologia, per uscire dai modelli storiografici mutuati pri-mariamente dalla storia dell’arte, basati sull’analisi dei singoli au-tori o dei generi. La fotografia non viene dunque concepita solocome prodotto da fruire esteticamente per le sue qualità formali,ma come campo di interazione tra forze diverse, da analizzare neisuoi contesti storici, sociali, economici e alla luce dello sviluppodegli altri media. Partendo da tale prospettiva D’Autilia racconta la storia della foto-grafia in Italia prendendo in considerazione sia gli scatti dei foto-grafi di mestiere – osservatori privilegiati delle vicende del nostroPaese – sia tutte quelle fotografie, nate con finalità diversissime,scattate da autori non professionisti e spesso anonimi. La fotogra-fia di famiglia, ad esempio, si rivela un ambito di indagine prezio-so per comprendere l’autonarrazione di un popolo. Legata al ricor-do, alla memoria e al bisogno di autorappresentarsi, la foto di fa-miglia assolve importanti funzioni sociali: come ha rilevato PierreBourdieu in Un art moyen, volume edito nel 1965 ma ancora oggidi estremo interesse, nel rituale fotografico il gruppo si identifica,si riconosce e nel contempo si rinsalda. La fotografia di emigrazio-ne, come sottolinea D’Autilia, può essere considerata un sottoge-nere di quella familiare che, seppure a lungo trascurato dalla criti-ca, si dimostra utilissimo per comprendere i cambiamenti sociali ei nuovi rapporti gerarchici stabilitisi all’interno delle famiglie ita-

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liane. Le trasformazioni dei costumi del nostro paese vengono ana-lizzate seguendo gli sviluppi del fotogiornalismo: dalle spedizioniafricane dei fotografi e dei cineoperatori dell’Istituto Luce, all’usostrumentale e censorio delle immagini operato dal regime fascista,alla cronaca fotografica di Adolfo Porry Pastorel. L’analisi di D’Autilia si spinge fino alla contemporaneità, arrivan-do ad affrontare le questioni sociali ed estetiche legate al trapassodal sistema analogico a quello digitale: «C’è oggi una nuova reto-rica – scrive D’Autilia –, quella sul digitale, considerato a voltecome una delle cause di una presunta “morte” della fotografia. Dimolte attività umane è stata annunciata la morte, nel corso dellastoria: ma la temuta perdita di significato dell’immagine a causadella sua trasformazione in bit o della sua incontrollabile moltipli-cazione numerica, non può eliminare il fatto che di questo signi-ficato abbiamo bisogno».

Raffaella Perna

Carla SubriziAzioni che cambiano il mondoDonne, arte e politiche dello sguardoPostmedia Books, 2012, 256 pp., € 21,00

Si cadrebbe in errore nell’interpretare il titolo di questa raccolta disaggi come un mero riferimento alla performance di genere tra glianni Sessanta e gli Ottanta. Non è questo tipo di azione a legare,nell’analisi di Carla Subrizi, l’opera di Nancy Spero, ChantalAkerman, Hanne Darboven, Louise Bourgeois, Joan Jonas, BrunaEsposito, Eleanor Antin, Martha Rosler, Mierle Ukeles, Ottonel-la Mocellin, Ria Pacquée, Mary Cassatt e Gina Pane. È invecel’azione nel suo significato sia fisico che concettuale: tentativo dicambiare il mondo che non può escludere né la sperimentazionedi pratiche né l’apertura di contraddizioni, anche linguistiche.Il corpo, quindi, è sì un segno al quale restituire fisicità, genere,sesso, realtà, in un tentativo di fuga (specialmente negli anni Ses-santa e Settanta) dalle gabbie culturali nelle quali era stato confi-nato; ma è anche uno spazio di enunciazione, il luogo dell’incon-tro con l’osservatore: esso è talvolta presente e protagonista, neitagli di Gina Pane in maniera più evidente; ma esiste, ed è altret-tanto protagonista, nelle architetture di Louise Bourgeois, o nellefoto di Bruna Esposito. Immagini e luoghi che richiedono, o chealludono alla presenza del corpo: ciò che Subrizi definisce residuosensibile, un «brusìo» del corpo che, pur essendo concretamenteassente dall’opera vi è incluso, è embodied. Un cambiamento, que-sto, che ha anche una sua specificità storica nel passaggio daglianni Settanta agli Ottanta, in seguito al nuovo dibattito tra arti-ste e critiche se l’esibizione, l’esposizione del corpo femminilenella performance, ne abbia realmente cambiato la percezione.È quindi lo stesso sguardo a divenire azione. La scelta di concen-trare il proprio sguardo su un certo oggetto, o di osservarlo da unpunto di vista piuttosto che da un altro, diventa strumento poli-tico. A volte le artiste, semplicemente e intimamente, si guarda-no. Altre volte dirigono il proprio sguardo verso aree di margina-lità: basti pensare a Semiotic of the Kitchen (1975), in cui MarthaRosler si interroga provocatoriamente sul ruolo femminile nellavita quotidiana scegliendo come proprio dizionario quello degliattrezzi da cucina; o ancora, in maniera più sintetica, D’Est (1992-1993) di Chantal Akerman, che indirizza la macchina da presa suigesti più banali e autentici.Azione, corpo e sguardo sono dunque i protagonisti di questa sto-ria dell’arte di genere, che è – di fatto – una storia parallela: diver-sa ed esterna al sistema dell’arte.

Stella Succi

Sylvia PlathTutte le poesiea cura di Anna Ravano, introduzione di Seamus HeaneyMondadori, 2013, 870 pp., € 18,00

Linda Wagner-MartinSylvia Plathtraduzione di Paola PavesiCastelvecchi, 2013, 229 pp., € 22,00

Leggere Sylvia Plath a distanza di cinquant’anni dalla sua tragicamorte è un’azione che deve spingere a compierne un’altra, menodirettamente legata al godimento estetico e più indirizzata allastoricizzazione della sua opera e alla comprensione di cosa, per ilpubblico che siamo oggi, parli ancora e costruisca senso. Per chi, come me, abbia scoperto la poesia leggendo Sylvia Plath(era la fine degli anni Novanta, i suoi Collected Poems erano usci-ti nell’81, la piena valutazione della sua opera come centrale nonsolo all’interno della poesia confessionale ma per la poesia ameri-cana del Novecento era in corso d’opera), rileggere Plath a distan-za di molti anni è praticamente un’operazione di autoarcheologia;la sua poesia suona come un oggetto che rimbalzi dal passato par-lando una lingua stridente, affaticata sia dalla sofferenza psichicasia dallo sforzo di seppellire altri linguaggi (la poesia della tradi-zione, le ricerche accademiche del padre, la ricerca parallela del

marito-mentore Ted Hughes) per ascendere a una lingua propria,fiammeggiante come sarebbe stata la poesia dell’ultima Plath (lametafora ascensionale è quella che descrive meglio il suo percorsopoetico, e Ariel, il suo ultimo, scintillante libro, getta una tale luceall’indietro da illuminare il resto dell’opera di un’evidenza di asso-luta compiutezza). Adesso, due fatti. In occasione del cinquantenario dalla morte, inInghilterra esce una nuova edizione del romanzo plathiano Lacampana di vetro. Le vicende della giovane scrittrice di belle spe-ranze che approda a New York e si trova di fronte allo specchiodelle proprie ambizioni, incarnate in giornaliste glam e altre bril-lanti giovani donne degli anni Cinquanta, trova il suo corrispetti-vo grafico in una nuova copertina dall’aria un po’ vintage (edito-re Faber & Faber) in cui una di queste signorine si passa il rosset-to. Scoppiano le polemiche; si discute sull’opportunità o meno di«riposizionare» un libro che per molte donne è stato un Baedekerdelle tenebre della psiche su una fascia di mercato al confine conla chick-lit. Secondo: un’inchiesta del «Guardian» interroga alcu-ne scrittrici, artiste, registe sull’eredità di Sylvia Plath. Molte diesse parlano della Campana di vetro come di un libro fondativodella loro identità di donne adulte e di intellettuali, e dalle paro-le di molte di loro emergono sia la consapevolezza della distanzastorica – le cose sarebbero sicuramente andate in modo diversoper Sylvia, dice Jeanette Winterson, se fosse stata una giovanedonna problematica e talentuosa dei nostri tempi – sia il ricono-scimento di un debito; per molte venti-trentenni di oggi, infatti,leggere Sylvia Plath resta una folgorazione. Adesso Tutte le poesie di Sylvia Plath sono disponibili anche in unOscar Mondadori a cura di Anna Ravano, corredato da un atten-to saggio di Seamus Heaney, che descrive il movimento verso«l’autoscoperta e l’autodefinizione» come fondante nella poesia diPlath. In questa luce le ultime, folgoranti poesie («la poesia nonpiù come dovrebbe essere ma com’è») sarebbero innanzitutto unsegnale di evoluzione verso un’identità meno parcellizzata. Questa è la tesi anche di Linda Wagner-Martin, nella sua non re-centissima ma ben documentata biografia uscita da Castelvecchi.L’autrice è molto severa verso tutti i personaggi che animarono ildramma plathiano, dalla onnipresente madre al marito innegabil-mente manipolatore del materiale della moglie (Ariel, il libro piùimportante, apparve in forma decisamente diversa da come l’ave-va pensato Plath), alla poetessa stessa. Ecco, se è vero che il mo-dello di rapporto poesia-femminile rappresentato da Sylvia Plathci appare oggi molto datato, è anche vero che il riconoscimentodell’importanza storica della sua scrittura richiede anche di depor-re l’ascia del risentimento e di leggere l’opera da una prospettivapiù aggiornata.

Marilena Renda

Camilla MiglioLa terra del morso L’Italia ctonia di Ingeborg BachmannQuodlibet, 2012, 174 pp., € 22,00

È un viaggio nel Sud che segna un punto importante nella vicen-da biografica e artistica di Ingeborg Bachmann, quello che emer-ge dalle pagine molto ben documentate del nuovo libro di Camil-la Miglio, che segue il ricco saggio su Paul Celan, Vita a fronte(Quodlibet, 2005). Della scrittrice, poetessa, traduttrice nata aKlagenfurt nel 1926, e tragicamente scomparsa in un incendio nel1973 a Roma, gli anni italiani (dal 1953 fino alla morte) possonomeglio essere letti nella continuità/discontinuità rispetto al tòposdel viaggio in Italia degli autori tedeschi. Quello dell’autrice di Invocazione all’Orsa Maggiore è un calarsi inuna terra devastata dalla guerra, e ascoltata nei fremiti e nei sus-sulti che dal sottosuolo (non solo in senso figurato) emergono araccontare il Meridione italiano, terra sismica per eccellenza, po-polata da animali pericolosi – vipere, tarantole – e da voci sotter-ranee. Organizzato come un vero e proprio spartito in quattromovimenti musicali, quattro frammenti testuali e sonori costitui-ti da tre segmenti di Invocazione all’Orsa Maggiore (1956) – Laterra prima, Canti di un’isola, Apulia – e da un insieme di motivipresenti nella raccolta Non conosco mondo migliore e legati alle fi-gure di Gaspara Stampa, Maria Callas e Eleonora Duse (ma anchea eroine come Tosca e Violetta), il libro è stratificato e complesso,e salda perfettamente i nodi esistenziali della biografia bachman-niana a quelli artistici e letterari. Ecco allora che il Nord (la Carinzia, l’Austria, Vienna), origineproblematica ma mai dimenticata, viene in qualche modo abban-donato per il Sud (si allontana Paul Celan, trasferendosi a Parigi,e si avvicina Hans Werner Henze: è grazie al suo invito a Ischiache Bachmann giunge definitivamente in Italia). Camilla Migliodefinisce quella che emerge dai suoi versi una «geopoetica». Nellaquale si situano rituali collettivi, danze, voci, musiche, episodi ti-pici della cultura meridionale, tutti in qualche modo prossimi alconcetto di Ruck, «scossa» violenta: che sia per «morso» di viperao tarantola, esplosione tellurica echeggiata dal ritmico battere deipiedi durante una processione o, ancora, prodotta da una «voce daun altro secolo» come quella di Maria Callas. Il viaggio nel Meri-dione non può prescindere da questo choc, da questo «morso»: e

così l’opera di Bachmann si riflette in quella di Ernesto De Mar-tino e nella sua paradigmatica Terra del rimorso (1959).Il Quarto movimento del saggio, sottotitolato Il morso della creatu-ra-artista, è dedicato a quelle figure femminili di cui si diceva e dicui, come suggerisce lo stesso studio, «Bachmann ha intessuto fili“imperdonabili” della sua biografia, riscrivendo e rivisitando leloro biografie»: in controluce, Cristina Campo. E da un lavoro ba-sato sul concetto di strappo, ferita, scossa, morso – a sigillo dellavisione poetica di Bachmann e del suo Sud – piace citare un versodi una di queste fragili e potentissime figure ctonie, GasparaStampa: «vivere ardendo, e non sentire il male».

Raffaella D’Elia

Alice CeresaLa morte del padrecon Ritratto di Alice di Patrizia Zappa Mulaset al., 2013, 76 pp., € 10,00

Con la medesima precisione chirurgica de La figlia prodiga (1967)e di Bambine (1990), Alice Ceresa ha affrontato in tempi sorpren-dentemente lontani La morte del padre, cui ha dedicato nel 1978un racconto lungo e meravigliosamente perfetto, oggi ripropostoper le cure di Patrizia Zappa Mulas che lo accompagna con unpartecipe ritratto della scrittrice. Il quale identifica con precisioneil posizionamento di Ceresa: scrivere poco per scrivere l’essenzia-le (come la contemporanea, sua e nostra, Cristina Campo); scri-vere come forma di conoscenza, di dissezione analitica di tessuticostitutivi di un corpo, pubblico e privato, sull’orlo dell’implosio-ne simbolica (di cui le date della pubblicazione delle tre opere afirma di Ceresa costituiscono spia significativa, quasi preveggentedi quanto accaduto nei decenni successivi).Ognuno dei tre testi, di difficile nominazione (romanzi? saggi informa di narrazione?) per la voluta sottrazione ai generi della tra-dizione, costituisce infatti l’anticipatrice messa a fuoco di questio-ni che diverranno poi nodali nei tempi successivi, e che per moltiversi sono ancora irrisolte. La scrittura di Ceresa le disseziona conuna lama: quella di una scrittura del tutto e volutamente aliena, eche solo in virtù di questo riesce ad affrontare corpi simbolici incorso di deflagrazione.Alice Ceresa ha frequentato la tradizione letteraria europea nel suoinsieme con rispetto e conoscenza profonda, ma da una posizionealtra: rispetto cui i riferimenti tutti, dai racconti di Kafka fino aHenry James – evocato da Alfredo Giuliani a proposito di questoracconto –, risultano inappropriati, non perché infondati ma per-ché superati e fatti suoi in modo proprio e originale.Il corpo della lingua è altrettanto messo a dura prova dal plurilin-guismo originario di Ceresa: ticinese di nascita (nacque a Basilea

nel 1923), ha studiato prima nelle scuole elementari tedesche, poiin quelle italiane, mentre il francese ha contrassegnato la brevestagione universitaria. La scelta dell’italiano per la scrittura – a se-guito anche della permanenza a Roma dal 1950 fino alla morte,avvenuta nel 2001 – non reca apparentemente i segni di questotriplice registro: non vi è mescolanza, né il voluto, disorientantepassaggio da una lingua all’altra, come nel caso di Amelia Rossel-li. Al contrario, il suo è un monolinguismo apparentemente algi-do, innervato in una terza persona che solo in questo modo riescea sostenere fieramente il peso della sfida della declinazione sessua-ta, rispetto cui «il problema dei personaggi», già a partire dalla fi-gura della figlia prodiga, è affrontato e dispiegato proprio nell’es-sere lei una «persona da una parte unica e dall’altra esemplare», invirtù del suo essere figlia e figlia di famiglia.Il corpo sociale – privato e pubblico – della famiglia esplode cosìnella scrittura di Ceresa, come in quella di altre scrittrici e scritto-ri del Novecento; ma nella sua scrittura forse più che in altre si ce-lebra – pure se con pietas – la fine dell’ordine patriarcale che necostituisce la nervatura originaria. Si tratta di una fine preannun-ciata in modo sommesso ma fermo: l’esplosione della famiglia sucui si conclude il racconto La morte del padre («Allora la famigliainfine esploderà») non è oggetto di narrazione perché è storia giàprevista. Ben più interessante indagarne i prodromi, le motivazio-ni, le metamorfosi nelle figlie, la maggiore e la minore, nel figlio,

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maschio ma non per questo sottratto allo sgretolamento e alla dis-soluzione dell’ordine del padre. Racconto finissimo e definitivo,La morte del padre ci consegna intera la sfida dell’andare oltre, perinventare altre forme e altri corpi. È la strada sulla quale Alice Ce-resa ci precede.

Laura Fortini

Rosaria Lo RussoCrolli Le Lettere, 2012, 64 pp., € 15,00

Nella prefazione alla prima raccolta di Rosaria Lo Russo, Come-dia, Elio Pagliarani, non facile alle prefazioni e alle introduzionidi poeti – se ne contano poco più che le dita di una mano (e fului stesso a proporsi a Rosaria quando lei recitò i suoi versi a Reg-gio Emilia nel 1995) –, parla di «odore di corpo che percorre tuttoil poema, così come si levava un forte odore di corpo agli spetta-coli del Living Theater»: sottolineando la natura teatrale e vocaledei versi, la loro drammaticità e necessità. La lingua in subbugliodi Rosaria Lo Russo, dopo aver viaggiato, per dirla con Pagliara-ni, «dalla nascita, alla fanciullezza, alla pubertà, all’adolescenza»,esprime ora un’altra stagione del corpo e la ritaglia con «le ceso-iuzze e il coltellin dolente» della tradizione dell’avanguardia poe-tica in riduzione dell’io e compressione e contraddizione del sen-timento.Si legga così la splendida sequenza delle poesie d’amore, fined’amore, in digestiva definizione di organi esplodenti e imploden-ti: «ad occupare il palloncino verde bile e poi più giù / s’insedianel sacchetto floscio della matrice dove / impreziosisce. E prendefuoco la miccia carotide, / implodono parole dalla tua bocca allamia bocca / dello stomaco, e sgomitano». Le cose assistono al di-sfarsi di corpi e rapporti in ambienti domestici permeabili e pene-trabili al rovinio del fuori; il dolore, protagonista nascosto e pudi-co di questa raccolta, è insieme pubblico e civile, segno di tempiirrimediabilmente trascorsi, e privato, segno di storie concluse ecorpo trasformato. Come con amplissima scrittura e spietato vo-cabolario la Lo Russo sa modernamente dire.In questa caduta di anni e bagagli di storia trascorsa, la poesia sifa fortezza recuperando nella riedizione nascosta dei ritmi e deimetri – spesso doppi esametri e settenari – la sua salda etica. Lepietre della sua necessità in versi scandiscono e riaffermano il co-raggio di una lingua femmina non solo capace di adoperare paro-le di sangue e sperma ma di saperle orchestrare in autorità di lin-gua e in sorveglianza di trasformazione: «Ma è l’anima / dimessadelle cose l’avvertimento della loro / dolce presenza, la dolce pre-senza delle cose / dismesse dà loro una luce tutta particolare. / Ilrespiro si fa grosso e il tempo poco, / fra creature nude di legno sispegne il focolare».Se «nessuno abita questi due corpi», una lingua insieme dolce e fe-roce abita questi versi e li sprigiona in canto.

Cetta Petrollo

Mariangela GualtieriSermone ai cuccioli della mia speciea cura di Carolina Talon SampieriTeatro Valdoca, 2012, Cd di 9’ 30” con un libro di 36 pp., € 12,00

«Gustava soprattutto le cose oscure», Il poeta di sette anni di Rim-baud: mentre dall’abisso remotissimo dei «miei favolosi setteanni» si rivolge a un Chiaro senza aloni, a un’Illuminazione Piena– divenuta «quello che mai e poi mai avrei voluto essere: una per-sona grande» – la voce che tiene il Sermone ai cuccioli della miaspecie. Quello fra i propri testi, cioè (pubblicato su carta, nel2006, presso L’Arboreto), che Mariangela Gualtieri ha scelto perfinalmente iniziare a pubblicare (in un oltremodo curato, colora-tissimo astuccio stampato su carta pesante) la propria poesia nellaforma che più le è appropriata: quella fonografica. L’ironia delprecedente viene resecata con decisione da Mariangela, che sotto-pone alla medesima potatura anche altri ipotesti con ogni proba-bilità tenuti presenti: dal «Cari cuccioli» dell’apostrofe iniziale, apiù riprese ripetuta nel prosieguo (l’anafora essendo senz’altro lafigura che più contrassegna il suo temperamento), che echeggia il«Cari piccoli» del Fortini più sarcastico, in Composita solvantur(«Grande fosforo imperiale, fanne cenere»), all’appello conclusivo– «Nascete ancora, cuccioli. Restate. / Siate. Salvate. Giurate.Siate. Siate. / Siate» – che dall’ode Al mondo, nella Beltà di Zan-zotto («Mondo, sii, e buono; […] / su bravo, esisti»), reseca ap-punto l’ironia sulfurea in explicit («Su, bello, su. / Su, münchhau-sen»). L’unica citazione accolta in pieno è dal maestro più diretto,il Milo De Angelis di Millimetri («molto piano, millimetro dopomillimetro, / in un lavorio di tic tac e minuti molto piccoli, pianopiano / sono passata di là»): perché appunto da lui, dopo i Fortinie gli Zanzotto, viene il rifiuto di ogni obliquità ironica in nomedi una parola «giurata» e, per quanto oscura, frontale. La poetica di Mariangela è ben riassunta dal suo intervento sulloscorso numero 27 di «alfabeta2». Un testo in cui risuonano paro-le consapevolmente inattuali come «sublime» e «trasfigurazione»,«ebbrezza del sacro», «vocazione e ispirazione»: in un regime di-

scorsivo che «non sottostà al dominio della ragione ma piuttostocomunica con la nostra interezza». Si devono a queste componen-ti le resistenze che una simile poetica induce in un lettore comeme, di là dall’intermittente ammirazione per singoli testi difficil-mente resistibili contenuti in Fuoco centrale o in Bestia di gioia: esi spiega così l’assenza più pentita, quella di Mariangela appunto,dal canone di un’antologia del 2005, Parola plurale. Eppure nessuna poesia degna di questo nome, per fortuna, si ri-duce alla sua poetica. Non è un caso se l’ammirazione, tanto neiconfronti di Milo quanto in quelli di Mariangela, sia deflagrata –travolta ogni resistenza – solo dopo averli sentiti leggere i propritesti (vocazione e ispirazione intesi nel corpo: col respiro). In par-ticolare questa registrazione – splendida come può essere statasolo, nella nostra lingua, quella di Carmelo Bene dei Canti Orfici– fa capire come il «testo», di un autore quale Gualtieri, non siaaffatto la più o meno compiuta partitura che si legge sulla pagina:ma appunto, e soltanto, la sua stessa esecuzione. La poetica di Mariangela si conclude invocando l’«immobilità as-soluta» dello spettatore, teso ad ascoltare i propri stessi polmoni(il fiato dello spettatore di Pagliarani…); ma se si produce questomiracolo (laicissimo miracolo terrestre, del tutto fisiologico), èperché a muoversi, impercettibilmente, è il corpo che emette iltesto – nella sua tensione sul posto. È quello che gli attori da sempre definiscono «avere presenza», eche Eugenio Barba definiva «equilibrio di lusso». Che consiste nelsottendere, anche alla più frontale delle posture, l’incessante mi-cromovimento dell’intera macchina muscolare. Che a quella po-stura dà spessore, e forza, come un effetto di vibrato anima la piùsemplice delle frasi musicali.

Andrea Cortellessa

Romano LuperiniL’uso della vita. 1968Transeuropa, 2013, 144 pp., € 12,90

«L’intensità [...] a portata di mano», cifra classica degli stati d’ec-cezione, è il leitmotiv del nuovo libro di Romano Luperini, L’usodella vita. 1968, che, come è tipico dei romanzi storici, mescolapersonaggi e fatti autentici ad altri immaginari o ricreati, raccon-tando l’anno cruciale della contestazione attraverso lo specificofocolaio dell’Università di Pisa e la vicenda di ispirazione autobio-grafica del giovane insegnante Marcello. E il libro risulta a suavolta singolarmente intenso: perché, diversamente da tante altrerievocazioni, non chiude l’epoca in questione nella coerenza po-sticcia di immagini univoche (euforica rottura dei freni, preludiodella violenza terrorista), ma tende piuttosto a inseguirne – lungouna sequenza di rapidi scorci e scene serrate – le incoerenze, lecontraddizioni, le fratture.Innanzitutto quelle del movimento pisano, di cui la narrazioneinquadra i vari orientamenti (dai residui delle logiche partitiche aiprogrammi di rivoluzione immediata), riuscendo inoltre a rappre-sentare i dissensi tra le sue figure chiave, non tanto mediante le ci-tazioni delle loro parole o dei loro scritti, quanto con la restituzio-ne dei loro difformi atteggiamenti: la pacata disponibilità di Lu-ciano Della Mea, la riflessione incessante di Fortini, accesa di tra-sporto e anche di collera, il dogmatismo invece calmo, e intransi-gente, che curiosamente accomuna due leader in erba apparente-mente contrapposti, il D’Alema già politicante e il Sofri provoca-torio enfant terrible.Alle dissonanze che segnano la protesta si intrecciano quelle cheagitano il protagonista, turbato da nodi familiari irrisolti, divisotra l’ebbrezza del mutamento e un persistente senso di impaccio einquietudine, da un’esperienza all’altra: il periodo in carcere se-guito a una manifestazione, di cui il testo ripercorre con toccantesobrietà (e con il lieve inciampo di un anacronismo, il giudiceistruttore definito Gip) tutte le tappe, dalla completa vulnerabili-tà iniziale all’avvio di una straniata routine, alla solidarietà con glialtri detenuti; un legame sentimentale sia intellettualmente cheeroticamente difficilissimo, eppure pieno di amore reciproco, in-dirizzato invano verso una scelta definitiva (l’«esco e la sposo» pro-nunciato in prigione con richiamo al Metello di Pratolini che,come il modello echeggiato, non si cura affatto della volontà delladonna ma, diversamente da quello, dovrà poi farci i conti); i con-

trasti (un po’ manierati) con i padri attaccati all’ortodossia comu-nista, da quello vero ai gelidi esponenti del partito; la sollecitudi-ne intrisa di affettuosa invidia per un allievo diciassettenne insie-me brioso e serio, che è il Soriano Ceccanti di lì a poco reso para-plegico dai colpi sparati dalla polizia durante gli scontri alla Bus-sola di Viareggio su cui si chiuse il ’68 pisano – e su cui anche ilromanzo si arresta.La trama sottolinea l’inasprimento della repressione, accenna alleprime ipotesi di militanza clandestina, delinea dunque un vistosocrescendo di angoscia. Ma evita ogni morale conclusiva e anziogni vera conclusione, restando sospesa sul dubbio circa la possi-bilità di una lotta al tempo stesso protesa a una meta e continua-mente capace di ridiscutersi; dubbio d’altronde affiancato daun’implicita certezza, l’impegno strenuo e appassionato nel lavo-ro intellettuale e didattico che scandisce tutto il percorso del pro-tagonista, e che ha contrassegnato tutta la vita dell’autore.

Clotilde Bertoni

Gabriele FrascaRimiEinaudi, 2013, 130 pp., € 11,00

Che si moduli in versi d’amore o in prose di romanzi (per taceredella produzione critica, che è tra le più ricche del panorama na-zionale e va affrontata alle opere «creative», data la coerente dire-zione di pensiero che regge l’una e le altre), la scrittura di Gabrie-le Frasca è sempre una sfida. Lo è per chi la legge, come si capiscead aprire Rimi, la raccolta che dà seguito dopo dodici anni a Rive,e a confrontarsi con un tentativo di comunicazione inavvicinabi-le alle strategie user friendly che da tempo dominano le scene cul-turali. Rimi, che certo non è «cordiale», mette però le carte in ta-vola già dalla prima poesia della sezione iniziale di sonetti intito-lata Quevedo, esortando chi si affaccia sulla pagina a stabilire coltesto una sorta di amicizia atletica, o profonda attenzione com-partecipe in cui il testo istruisce il lettore (stampandogli nellamente la norma metrico-strofica del sonetto, per esempio) e il let-tore assimila il testo, o vi entra e lo rimette in funzione come unapila ridà la carica a un meccanismo, e ne completa singolarmenteil senso. Ma questa scrittura è una sfida anche per chi la fa, che deve riat-tivare una materia già formata, e modificarla con l’atto stesso diriprenderla: i venticinque sonetti della sezione sono in parte tra-duzioni di alcune tra le più celebri poesie quevediane, e in partetesti interamente scritti da Frasca con materiali, movenze e figu-re tipiche del grande poeta barocco: la corsa del tempo, l’evane-scenza del presente e l’impalpabilità di passato e futuro, il sensoincombente della morte, attesa e liberatoria; un eros irresistibileche è vanità e tormento. Il «tu» che apre la sezione è anche, senon sbaglio, quello di Quevedo, convocato ed esortato a lasciar-si rivivere e anche stravolgere con inserti allotrii. E un trattamen-to simile tocca al poeta con cui la raccolta, tripartita, si chiude: ilDylan Thomas più funereo e traumaticamente segnato dallaguerra, sottoposto dall’autore a un lavorio traduttorio e trasfor-mativo (e quindi anche metrico, con effetti di contrapposizionee complementarità a quello operato su Quevedo: le metriche diRimi esigono uno studio che sia alla loro altezza) che sfocia an-cora una volta su una poesia «thomasiana» scritta ex novo, oquasi, da Frasca. Nel mezzo di questa cornice fortemente europea, che tiene insie-me e rilancia una linea «barocca» per il nuovo secolo, ha sede ilgrosso della raccolta, quel Rimi che le dà il titolo. Composto diquaranta stazioni, impaginate come compatti blocchi di prosa maformate, tranne l’ultima più breve, da cinquanta doppi endecasil-labi ciascuno chiuso da un punto (l’unico segno interpuntivodella sezione), con la sintassi della frase che variamente contrariail metro, questo monstre segna una tappa decisiva nell’operare diFrasca. Nei soffocanti quadrati testuali, in cui solo la recitazionepuò inserire respiro – questo carattere sul piano dell’espressione èchiaramente articolato con l’ambientazione in interni quasi carce-rari che tante volte si incontra sul piano del contenuto –, vedia-mo una piccola folla di terze persone (o non-persone, come vole-va Benveniste) visitate o tormentate da voci fantasmatiche, prove-nienti dal passato o dal presente. Ma di più: non solo ciascunaterza persona (l’attribuzione di un sesso a queste figure linguisti-che risulta sempre impossibile) sente anche la propria voce comeun estraneo, un parassita; ma la stessa persona di turno (quasitutti i comparti prevedono un punto di vista privilegiato), che do-vrebbe fare almeno da contenitore, da scatola delle voci, si scoprea sua volta come nient’altro che voce o ronzio inconsistente, in unalveare senza centro alcuno che ripropone il paradosso cantorianodell’insieme sottoinsieme di se stesso. Da dove potrà venire ilbene, in questo scenario? Una risposta, forse, sta nell’ultimo ro-manzo di Frasca, quel Dai cancelli d’acciaio che probabilmentedobbiamo ancora cominciare a leggere.

Federico Francucci

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AgostinoBonalumi: artista europeoIntervista a Francesca Pola a cura di Stella Succi

Lei sta scrivendo un libro monografico su Agostino Bonalumi chesarà pubblicato il prossimo autunno: come è nato, e su cosa stannovertendo in particolare le sue ricerche?Il libro nasce come progetto specificamente dedicato all’opera diBonalumi negli anni Sessanta e primi Settanta: l’occasione della suauscita sarà la mostra, anch’essa in preparazione e a mia cura come il libro, dedicata a questo fondamentale periodo dell’operadell’artista, uno dei grandi protagonisti della neoavanguardiaeuropea, che si terrà alla galleria Robilant + Voena nella sua sedelondinese. La pubblicazione non sarà un semplice catalogo della mostra: graziealla diretta e fattiva collaborazione dell’artista e del suo archivio,oltre che all’impegno attivo della galleria in questo senso, è statopossibile concepire un esteso libro monografico che cerca di offrireuna chiave di lettura nuova del lavoro di Bonalumi in queidecenni, anche attraverso una vasta documentazione dicontestualizzazione internazionale. Oltre ai lavori in mostra il libroincluderà tutta una serie di opere storiche, soprattutto presenti nelle collezioni di importanti musei in tutto il mondo, e una estesadocumentazione – in parte inedita – relativa alle relazioni di Bonalumi con il contesto della neoavanguardia europea, a partire dai suoi compagni di strada italiani, come Piero Manzonio Enrico Castellani.

Quali modalità di lavoro sta adottando nella costruzione di questolibro?La ricerca si svolge su più piani paralleli, e sempre in ogni caso inun rapporto molto stretto con Bonalumi, il quale è artista tuttoramolto attivo e, nonostante il suo costante impegno profuso nellavoro, è molto generoso nel mettersi in dialogo con me rispetto al suo percorso storico. La costruzione di questo libro è stata dasubito pensata, come la mostra che si terrà a Londra, come unosguardo retrospettivo sulla sua opera, in sintonia con la visione cheBonalumi stesso ha del proprio lavoro, ricostruendone anche leragioni teoriche accanto a quelle storiche. Nel libro saranno infattiraccolti anche alcuni suoi significativi scritti di quegli anni, moltidei quali tradotti per la prima volta e così resi finalmente accessibilial pubblico internazionale; e sarà presente una lunga intervista che stiamo realizzando in queste settimane. Uno dei fulcri che guidano la costruzione dell’intero progetto è la ricerca, precoce e amplissima, che Bonalumi ha sviluppatosperimentando materiali eterogenei, non ortodossi, anticanonici,industriali, diversificati: è questo tipo di indagine che connotamolto presto il suo lavoro, e lo individua proprio nel suo procederecreativo di quegli anni, in una direzione che lo accompagna sino a oggi e che lo rende uno dei precursori di molte ricerche sullapercezione sensoriale dei decenni successivi (penso, ad esempio,a tanta scultura inglese che dopo gli anni Sessanta ha lavorato in questa direzione).

In concomitanza con l’uscita del libro, ai primi di ottobre verràinaugurata la mostra di Bonalumi presso Robilant + Voena, la seconda mostra dell’artista a Londra oltre cinquant’anni dopo la personale tenutavi nel 1960. Che importanzaha avuto quella prima e precoce mostrapersonale di Bonalumi nelcontesto internazionale?La personale del 1960a Londra si tenne alNew Vision Center, unodei luoghi sperimentalidella neoavanguardiaeuropea, che nell’arco deiprimissimi anni Sessantapresentò nei suoi spazi altriautori emergenti, come il gruppoNul olandese, Manzoni eCastellani, i tedeschi di Zero.

Si tratta di uno dei numerosi episodi significativi, di una cronologiamolto precoce, che documentano le strettissime relazioni diBonalumi con un circuito internazionale di diffusione e di ricercacreativa che si muoveva secondo strategie anticanoniche, spaziautogestiti dagli artisti stessi, che stava costituendo, insomma, unnuovo sistema di fare arte, non solo attraverso le opere ma ancheattraverso le riviste e altri strumenti di comunicazione. Il fatto che idealmente il libro e la mostra, presentati insiemeproprio a Londra, si riconnettano a questo momento germinale di costituzione di una nuova generazione artistica europea non fa che confermare la «precoce attualità» di una ricerca, quella di Bonalumi, che oggi ci si ripresenta in tutta la sua flagrantecontemporaneità.

Francesca Pola, Agostino Bonalumi. All the Shapes of Space, di prossima pubblicazione.Agostino Bonalumi, Robilant + Voena, Londra, 4 ottobre - 15 novembre 2013.

L’Argento di GiosettaFioroniStella Succi

Il 4 aprile si è inaugurata,presso il Drawing Center diNew York, L’Argento: la primamostra monografica in territoriostatunitense di Giosetta Fioroni,destinata a trasferirsi poi alla Galle-ria Nazionale d’Arte Moderna diRoma nell’autunno del 2013. La cura-trice, Claire Gilman, ha selezionato infat-ti come nucleo centrale della rassegna leopere del cosiddetto «periodo argento», in riferimento al colore dellapittura di smalto prediletta dall’artista. Il percorso si dispiega a parti-re dal gruppo di monocromi datati tra il 1959 e il 1961, che prefi-gurano i numerosi dipinti e disegni del periodo 1963-1970 e i ventipaesaggi argentati dei primi anni Settanta esposti nella Main Galle-ry: il minimalismo lirico di queste opere ha ispirato famosi pensato-ri italiani come Goffredo Parise, Vittorio Gregotti e Alberto Mora-via.La mostra comprende inoltre: alcuni disegni della fine degli anniCinquanta, nei quali oscure notazioni affiancano simboli riconosci-bili, tracciati a pastello e china; tre film dell’artista, ospitati nello spa-zio The Lab; tavole e libri illustrati ispirati al mondo del teatro, dellaletteratura, delle fiabe per bambini; infine un nucleo di materiale do-cumentario riguardante l’attività performativa di Giosetta Fioroni. I disegni dell’artista traggono spunto dalla cartellonistica cinemato-grafica, dalle riviste illustrate, dalle foto di famiglia; ma il fondamen-to del suo lavoro va ricercato, a detta di lei stessa, nel teatro, la formad’arte che più di qualsiasi altra ha la capacità di fondere messinscenae atto della visione. La ricerca di genere dell’artista della Scuola diPiazza del Popolo, infatti, non si ferma, se confrontata con il lavorocoevo delle artiste pop americane, alla liberazione della sessualitàfemminile rispetto a un punto di vista maschile dominante, ma si di-pana nella riflessione sulla visione stessa. I suoi soggetti, più frequen-temente femminili, sono catturati nell’atto dell’osservare, e circonda-ti da leggere linee prospettiche a matita. Nel dipinto stesso, dunque,viene rappresentato il processo visivo e immaginativo dell’osservato-re: Fioroni non «trova» semplicemente le immagini, ma le ricostrui-sce attraverso l’atto della percezione.La mostra si rivela quindi non solo un’occasione importante di ri-considerazione di alcuni aspetti dell’arte italiana del secondo dopo-guerra in territorio statunitense, ma si inscrive in un nuovo interesseper l’investigazione dell’estetica pop in generale, come è evidentedalla serie di mostre sul tema allestite negli ultimi anni: SeductiveSubversion: Women Pop Artists 1958-1968 (Brooklyn Museum,2010), Power Up - Female Pop Art (Kunsthalle Wien, 2010), SinisterPop (Whitney Museum, 2012).

Giosetta Fioroni. L’Argento, Drawing Center, New York, 5 aprile - 2 giugno 2013.

Immagini come parole: i Ricalchi diRenato MamborRaffaella Perna

«Le mie opere più recenti» – scriveRenato Mambor nel giugno1965 su «La Botte e il Violino»a proposito della serie dei Ricalchi– «sono ormai articolate con ele-menti fotografici di tipo didattico-didascalico; anzi, ho intensificato que-sta forma fino a ridurre le figure a uncontorno sagomale, quasi fossero l’equi-valente figurale delle voci che potrebberodefinirle. […] Una figura di aereo, ad esem-pio, la introduco solo se capace di conservar-si: “aeromobile più pesante dell’aria, capace diprocedere e di dirigersi nella atmosfera per mezzodi organi propulsori = aereo”. Il concetto aeroplano contiene cosìtutti quei predicati, ma io voglio che rimanga in questa ricchezza,senza scaricarsi in una vicenda o integrarsi in una qualifica.» Tale definizione è calzante per l’opera Aeroplano azzurro (1965-1966),donata dall’artista a Vittorio Rubiu ed entrata, con il lascito RubiuBrandi, nelle collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna diRoma. A partire da quest’opera, il 4 maggio Mambor è invitato a ri-percorrere la propria sperimentazione in occasione del ciclo di incon-tri L’artista, l’opera, il museo, organizzato dal museo romano per pro-muovere la conoscenza delle collezioni attraverso il dialogo tra artistie curatori; iniziativa che nei mesi scorsi ha già visto protagonisti Gian-franco Baruchello, Sandro Chia, Giosetta Fioroni, Luca Patella.La serie dei Ricalchi, intorno a cui è pensato l’incontro, si rivela cru-ciale nell’ambito della ricerca estetica di Mambor: essa si configuracome uno snodo decisivo tra la fase oggettuale e di azzeramento delcoinvolgimento autoriale dei primi anni Sessanta, esemplificata daiLegni, dagli Uomini statistici o dai Timbri, e l’analisi concettuale por-tata avanti con la serie Filtro del 1967. Con i Ricalchi Mambor s’interroga sullo scarto tra realtà e rappresen-tazione, andando a esplorare la natura codificata e i limiti del lin-guaggio; l’artista s’interessa all’aspetto stilizzato dei disegni enigmisti-ci, da cui recupera l’estrema semplificazione formale e l’immediatez-za visiva, realizzando immagini concepite come definizioni iconichedella parole a cui si riferiscono. Lo spazio della tela grezza («tela raccoglitrice», secondo Mambor)dove l’artista colloca queste figure-sagome è inteso come superficieneutra che, sul piano mentale, ha la funzione di distanziare le formepiuttosto che porle in relazione tra loro. Tali figure assumono un si-gnificato a sé stante rispetto alle figure contigue e sono intese dall’ar-tista come elementi monoverbali e tautologici: «Questi […] riman-gono autonomi, autodefiniti: intendo fuggire da qualsiasi interventomanuale che, reso manifesto, creasse una reciprocità contaminatricedi queste “essenze”. Una specie di processo designificatore, quindi, selo si analizza fino a questo punto. Al bando, allora, accostamenti conintenti significanti e induttori», scrive l’artista sempre sulla rivista diLeonardo Sinisgalli. Mambor non appare interessato all’effetto straniante caro ai surreali-sti, dovuto all’incontro tra oggetti incongrui (Zebra e Colosseo, Nudoe palazzo ecc.), quanto a rinvenire un metodo convenzionale, il piùpossibile obiettivo e di facile comprensione, per rappresentare attra-verso la pittura il termine zebra o palazzo, nudo ecc., in modo da for-mulare graficamente il corrispettivo iconico della parola. Se si vuolerintracciare un filo tra i Ricalchi e il movimento surrealista, come al-l’epoca è stato fatto in più occasioni dalla critica (Marisa Volpi, Vit-torio Rubiu ecc.), è piuttosto sulle questioni linguistiche di Les motset les images di René Magritte che occorre tornare a riflettere.A partire da Aeroplano azzurro Mambor – in dialogo con BarbaraMartusciello – è invitato a intervenire sulle tappe salienti del propriopercorso: dalle Azioni fotografate della fine degli anni Sessanta, al-l’esperienza teatrale con la compagnia Trousse, dall’elaborazione dellaserie Osservatore, presentata nel 1991 alla Fondazione Mudima diMilano, fino alle installazioni ambientali più recenti.

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