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amici di marco biagi associazione per la cultura riformista strumenti e criteri della spending review Position paper

Spending review

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Spendi review a cura del Prof. Francesco Verbaro

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amici di marco biagiassociazione per la cultura riformista

strumenti e criteri della spending review

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SINTESI

Il presente dossier è stato redatto sulla base dell'idea guida della RESPONSABILITÀ delle funzioni politiche e dirigenziale nelle pubbliche amministrazioni, ciascuna nel proprio ambito di competenza.

I conseguenti criteri prioritari sono: 1) l'adozione generalizzata della contabilità economica per centri di costo, riconciliata con la

contabilità finanziaria, al fine di rendere quantificabili gli obiettivi degli atti di indirizzo, sollecitare una gestione responsabile e misurabile, favorire comparazioni, migliorare i controlli interni ed esterni;

2) l'attuazione del federalismo fiscale, a partire dagli atti previsti per l'anno in corso ed anticipando quelli per il prossimo anno, in modo da disporre quanto prima dei costi standard per la sanità e dei fabbisogni standard per le municipalità;

3) la definizione quanto più estesa nelle Amministrazioni di costi standard e prezzi di riferimento;

4) una radicale deregolazione degli adempimenti, sostituendoli con la responsabilità sanzionata e vigilata delle persone fisiche e giuridiche tenute ai comportamenti disposti dalle leggi; il ridimensionamento delle funzioni pubbliche sulla base di soluzioni nel segno della sussidiarietà orizzontale;

5) il completamento della digitalizzazione delle funzioni pubbliche; 6) la trasparenza totale come strumento di partecipazione al governo e di

responsabilizzazione dei vertici politici e amministrativi delle istituzioni. In base a questi criteri si può tempestivamente attuare una solida e diffusa

razionalizzazione delle funzioni centrali e decentrate dello Stato, delle Agenzie e degli enti pubblici, delle Regioni, dei loro enti strumentali e delle loro società partecipate, dei servizi socio-sanitari regionali, del trasporto pubblico locale, degli Enti Locali e loro partecipate. In particolare deve essere assunto l'obiettivo di ridurre drasticamente i centri di costo e le sedi fisiche riorganizzando le funzioni con particolare riguardo a:

- ospedali marginali - aziende del trasporto pubblico locale - sedi universitarie decentrate - uffici periferici dello Stato - servizi di back office e di funzionamento delle forze di polizia - agenzie fiscali Il pubblico impiego deve essere ridotto nella dimensione degli occupati, ricondotto a

rapporti di lavoro coerenti con le funzioni, remunerato anche in relazione ai risultati della riorganizzazione. Potremmo dire: meno dipendenti, meglio remunerati. Decisive sono l'attuazione della mobilità, anche unilaterale, e la migliore ricollocazione delle risorse umane, anche attraverso processi di formazione mirata, rispetto ad un settore pubblico più sostenibile finanziariamente e più produttivo.

Roma, 4 giugno 2012

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*Questo paper è stato redatto con il contributo di: Carlo Conte, Angelo Lino Del Favero, Filippo Mazzotti, Stefano Parisi, Maurizio Sacconi, Antonella Valeriani, Francesco Verbaro

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La spending review in Italia: ripartire dalle funzioni per ridurre i costi e ridisegnare i servizi

in un'ottica di responsabilità federale

Premessa

La razionalizzazione della spesa richiede prioritariamente una riflessione sulle funzioni e quindi una razionalizzazione delle stesse rispetto ai compiti che il pubblico può e deve oggi esercitare, tenendo conto delle compatibilità di finanza pubblica e della domanda di servizi sociali. Il caso Italia richiede un'attenzione non solo riferita all'efficienza della spesa, come sembra finalizzato da ultimo il DL 52/2012 ("Disposizioni urgenti per la razionalizzazione della spesa pubblica"), ma anche sulla corretta allocazione delle risorse in relazione alle funzioni, agli interventi e all'efficacia degli stessi.

Il ridisegno delle funzioni tocca naturalmente il tema dei rapporti tra poteri pubblici e poteri privati e quindi della funzione allocativa e distributiva di risorse pubbliche svolta da parte delle istituzioni. Il fallimento dei Paesi occidentali è anche il fallimento nella capacità di gestire fenomeni speciali e complessi in maniera efficiente, senza moltiplicare inutilmente i centri di spesa e ridurre le risorse da destinare ai servizi.

Il nostro paese, in particolare dalla metà degli anni '80 in poi, ha conosciuto una crescita esponenziale del polimorfismo e policentrismo amministrativo che ha portato ad accrescere i costi del funzionamento e a ridurre le risorse destinate ai servizi e quindi all'outcome. Dalla metà degli anni '90 il numero delle pubbliche amministrazioni, ivi compresi enti strumentali (enti, agenzie, Ato, consorzi, unioni) e soggetti partecipati, aumenta del 30%; i procedimenti amministrativi vengono frammentati tra più centri amministrativi; cresce il personale a tempo indeterminato (fino a 3.400.000 u.), ma soprattutto il personale assunto con contratti di lavoro flessibili (circa 400.000 unità); crescono gli affidamenti agli esterni e la creazione di soggetti in house. In poche parole si ha una crescita interna ed esterna del perimetro della spesa pubblica, destinando in tal modo gran parte delle risorse pubbliche al funzionamento invece che ai servizi. Si perde il riferimento alle funzioni: circa la titolarità delle stesse e le risorse da attribuire alle stesse. Le tipologia di spese di funzionamento hanno riguardato in particolare le spese per il personale, gli immobili e utenze e gli organi; ciò ha contribuito a rendere la spesa corrente particolarmente rigida e a comprimere la spesa destinata ai servizi e quella per investimenti. Prima ancora che un "sovraccarico di governo pubblico" si è avuta una crisi da inefficienza, dovuta alla scarsa cultura manageriale presente nell'amministrazione italiana e all'approccio "proprietario" nella gestione delle risorse pubbliche.

Non si tratta quindi di avere come ambito di azione di un profondo processo di revisione solo l'area trasversale del funzionamento, ma i diversi settori di riferimento (giustizia, lavoro, ambiente, infrastrutture e territorio, sviluppo, formazione, et). Pertanto appare necessario partire dalle funzioni pubbliche necessarie e da come queste debbano essere esercitate (direttamente o indirettamente, attraverso soggetti pubblici o privati) per poi individuare le risorse da assegnare, anche in base alla compartecipazione del soggetto privato e ad un modello di sussidiarietà orizzontale programmato. Sull'impiego e allocazione delle risorse pubbliche assume una grossa rilevanza il tema della sussidiarietà orizzontale e del livello di responsabilizzazione del cittadino utente in settori del welfare come le politiche per la formazione, per l'occupazione, i servizi sociali o la sanità.

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A rendere maggiormente complesso il ragionamento e la riflessione sulle funzioni pubbliche del nostro Paese è la scelta effettuata di trasferire competenze dallo Stato alle regioni e agli enti locali, prima con il decentramento a costituzione invariata e poi con la modifica al Titolo V della Costituzione (il federalismo). Questo ha portato a frammentare, dato l'assetto derivato dall'art. 117 della Costituzione, le funzioni tra i diversi livelli di governo, rendendo spesso meno efficaci gli interventi pubblici e al contempo più costosi. La parcellizzazione delle funzioni tra diversi enti, portatori di specifici interessi, ha fatto lievitare incredibilmente l'area complessiva addetta al funzionamento e all'autogestione sottraendo risorse ai servizi, nel nome di una rappresentatività e specificità di una pluralità di interessi collettivi, che lasciava il passo di fatto agli interessi autoreferenziali degli enti e dei loro vertici. Mentre crescevano, infatti i livelli di governo regionali e locali, con le loro articolazioni, il livello centrale di Governo non diminuiva ma anzi aumentava di peso. Lo stesso d.lgs. 300/99, che aveva previsto una riduzione dei ministeri e l’accorpamento di tutti gli uffici periferici delle amministrazioni centrali dello Stato, viene subito accantonato nel 2001 per dare spazio alla nascita di diversi ministeri con e senza portafogli.

Per questo, per razionalizzare il settore pubblico occorre procedere partendo da alcune funzioni e non solo dai capitoli di spesa. Si tratta di operare una spending review "storica", di passaggio epocale, volta paradossalmente a dare rilevanza più al ridisegno organizzativo delle funzioni core che ai conseguenti e necessari risparmi.

Il compito di mettere in atto misure tese a riorganizzare e rendere più efficiente la spesa pubblica italiana, ha in Europa interessanti precedenti. In realtà un numero sempre più nutrito di Paesi dell'euro ha negli ultimi anni provveduto a mettere in atto programmi di valutazione sistematica della spesa pubblica e di periodica revisione e riorganizzazione delle finanze statali: Regno Unito, Finlandia, Olanda già dalla seconda metà degli anni '90, e più recentemente Irlanda, Danimarca e Svezia.

L'esempio più utile sembra essere quello ultradecennale del governo britannico, che nelle prime considerazioni sulla propria esperienza nel rapporto di "spending review" del 2010 - avendo sempre come obiettivo principale quello di rendere più efficiente e meno costosa la finanza statale - identifica da una parte (e in primo luogo) le priorità di spesa, con un significativo sostegno (tra l'altro) alla scuola e alle università, e dall'altra il recupero delle somme necessarie attraverso la riduzione o eliminazione delle erogazioni inutili, inefficienti o semplicemente obsolete. Il Ministero del Bilancio britannico, con la collaborazione di apposite istituzioni statali, nel portare avanti il programma permanente di revisione, si avvale di indicatori (frutto di lunghe e accurate analisi sui dati statistici più rilevanti ai fini della spesa) che vengono periodicamente reiterati, con lo scrupoloso monitoraggio di revisori esterni (auditing della revisione). L'Italia da qualche hanno ha avviato degli approfondimenti sulla spending review attraverso commissioni e gruppi di lavoro, ma le difficoltà nell'operare scelte di revisione radicale della spesa e le crisi finanziarie che hanno caratterizzato l'ultimo decennio hanno portato a privilegiare, in condizioni di urgenza, spesso i tagli lineari che i processi di revisione della spesa.

1. Evoluzione e caratteristiche della spesa pubblica in Italia

La storia del risanamento italiano, a partire dall’aggancio al gruppo di testa della moneta unica nella seconda metà degli anni ’90, è la storia della incapacità di fare tesoro dei rilevantissimi risparmi di spesa per interessi passivi. Se la riduzione strutturale dell’indebitamento a partire da allora si è tradotta in un ridimensionamento degli investimenti

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pubblici ed in una crescita della pressione fiscale ciò è dovuto alla sistematica erosione di quei risparmi da parte della spesa corrente primaria.

Rispetto al 1996, ultimo anno precedente la verifica dei parametri di Maastricht, il risparmio determinato dai minori interessi passivi è di 6,6 punti percentuali del Pil (oltre 100 miliardi € correnti), mentre la spesa corrente totale lorda è scesa solamente dell’1,4.

Accanto alla riduzione degli investimenti che costituisce ormai un risparmio acquisito e strutturale, ammesso che di “risparmio” effettivamente si tratti, l’unico strumento per “chiudere i buchi” e più in generale per colmare la distanza con gli obiettivi programmatici di deficit rimane quello dell’inasprimento del prelievo. Questo è ciò che accaduto nel 1992/93 con un salto dell’1,6% della pressione fiscale rispetto al 1991, e poi nel 1996/97 con un ulteriore 1,5%, e di nuovo negli anni recenti con un primo salto nel 2008/2009, ed un secondo di ben 2,6 punti programmato per il 2012.

La ragione del ricorrente rituale delle manovre annuali, in definitiva, risiede interamente nella qualità delle manovre stesse, per il vero stimolate anche da regole ed obiettivi europei eccessivamente orientati agli obiettivi annuali di saldo ed affatto propensi a tener conto della qualità delle manovre e del loro respiro temporale. Le manovre correttive italiane sono sempre rispettate ma mai definitive proprio perché le manovre stesse, con il consueto mix di maggior prelievo e minori investimenti, hanno determinato minor crescita, ed il mancato accento sulle riforme strutturali ha fatto ‘sì che i fattori alla radice degli squilibri continuassero ad operare, rendendo necessarie puntuali correzioni.

L’Italia ha quasi sempre realizzato gli obiettivi annuali di deficit ed ha conseguito negli ultimi venti anni avanzi primari cumulati per circa il 54% del Pil. Ad essi si aggiungono proventi da privatizzazioni, a seconda delle stime, fra il 10% e il 15% del pil. Proventi impiegati, con l’eccezione delle cartolarizzazioni immobiliari, per il buyback del debito pubblico. Ma nonostante tali risultati macroscopici il debito è sostanzialmente lo stesso di venti anni fa, crescendo in rapporto al PIL, e, per giunta, garantito da un patrimonio che ha via via perso le sue componenti di maggior qualità che avrebbero potuto assicurare, inoltre, consistenti entrate correnti da dividendi connessi alle partecipazioni statali, puntualmente sostituite da entrate fiscali.

Senza un intervento deciso sulla spesa corrente primaria il copione è destinato a ripetersi e con esso lo stato di emergenza italiano che varia di intensità con le oscillazioni della congiuntura, ma sembra non dover cessare mai. Nel suo ambito occorre, tuttavia, discernere fra la componente di flussi finanziari e quella dovuta alla produzione diretta dei servizi.

Nel primo caso l’ambito principale è quello delle prestazioni sociali in denaro. E’, questa, la voce che rispetto all’anno di riferimento 1996 ha eroso 2,8 dei 6,6 punti di risparmio per interessi. In questo caso, con la sola rilevante eccezione del “passo indietro” pensionistico del 2007, non si può parlare di eccesso di generosità legislativa quanto di eccesso di timidezza o difetto di tempestività nell’intervenire su voci di spesa composte in buona parte di entitlement e soggette ad una crescita strutturale dovuta a cause, dalla struttura demografica nel caso delle pensioni alla congiuntura economica, che sono indipendenti dalla volontà del legislatore.

Nel secondo caso l’ambito di riferimento è dato, in sostanza, dalla somma della spesa per il personale e per l’acquisto di beni e servizi, ed è a questo settore che occorre imputare almeno un altro 1,4% di crescita della spesa corrente rispetto al 1996. In realtà, tuttavia, la crescita è maggiore e collocabile attorno ai due punti del Pil, dal momento che nel ’96 la spesa per stipendi inglobava i contributi sanitari dei dipendenti pubblici, successivamente sostituiti dalla cosiddetta Irap pubblica. Il confronto con il primo anno “a parità di legislazione”, il 1998, suffraga questa interpretazione.

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Il confronto con il 1996, al netto dei contributi, indica come la spesa per il personale sia solo marginalmente responsabile della crescita: 0,1% del pil. Si registrano, tuttavia, dinamiche molto divergenti fra comparti, che meritano di essere approfondite: in termini nominali la spesa del complesso delle amministrazioni pubbliche fra il 1996 e il 2010 è cresciuta del 56%; quella dello Stato centrale del 46%; quella delle regioni, al netto della sanità, dell’86%; quella della sanità e quella delle province, entrambe del 78%; quella dei comuni del 36%.

E’ difficile, tuttavia, discernere quanto di tali divergenze sia da riferire a modifiche nell’assetto istituzionale (il buon risultato dei comuni suggerisce il contrario), quanto a crescita del livello dei servizi, e quanto ad efficienza produttiva a parità di servizio. Si tratta di considerazioni per le quali l’esperienza personale di ciascuno può essere più utile dell’esame delle cifre.

La medesima considerazione vale, ma per valori ben più elevati, per il comparto degli acquisti, nel quale la crescita della spesa rispetto al 1996 è prossima ai due punti del Pil. Il totale degli acquisti della pa cresce in quindici anni del 101%. Tale esito, tuttavia, è il prodotto di un +147% nel comparto sanitario che copre circa la metà del totale (69 miliardi su 137 nel 2010) e da dinamiche di altro segno negli altri livelli istituzionali (+72% per lo Stato, +106% per le regioni, +182% per le province, +64% per i comuni).

Anche in questo caso è difficile discernere le ragioni di andamenti così difformi, soprattutto nel comparto sanitario la cui spesa, al pari di quella pensionistica, è altamente influenzata dagli andamenti demografici. Rispetto alla spesa per il personale, inoltre, va tenuto conto di come la spesa per acquisti sia in qualche caso indice di un maggior ricorso all’outsourcing ed occorre, perciò, chiedersi se lo svantaggio da crescita degli esborsi, non sia a volte compensato dalla minor strutturalità della spesa stessa rispetto a quella per il personale interno. Non si può tuttavia non notare come, se si trattasse di una regola generale, l’andamento della spesa per personale e di quella per acquisti dovrebbero essere complementari. Nel caso italiano, al contrario, vi sono comparti (Stato e Comuni) che registrano crescite inferiori alla media in entrambe le voci, ed altri che fanno registrare valori di segno opposto.

La revisione della spesa appare, dunque, necessaria, soprattutto in un’ottica strutturale. In chiave immediata, infatti tutto può essere utile per scongiurare gli incombenti inasprimenti del prelievo. In una prospettiva più ampia, al contrario, valgono per le riduzioni le stesse considerazioni avanzate a proposito degli aumenti: occorre discernere dove finisca il guadagno di efficienza organizzativa, che è dato tecnico, e cominci la riduzione del servizio, che è dato politico, e perciò difficilmente affrontabile in sede sostanzialmente amministrativa. 2. Gli strumenti e i percorsi

È chiaro che i processi di spending review ancor più dei processi di performance review , attinenti alla efficienza della spesa e quindi ad organizzazione invariata, richiedono tempi adeguati di revisione della macro organizzazione e di ridistribuzione e ridisegno delle funzioni, poco compatibili temporalmente con i fabbisogni finanziari di breve periodo imposti dal fiscal compact. Occorre però, nell'adottare le manovre urgenti per migliorare i saldi, non abbandonare processi di riorganizzazione e di ridisegno del perimetro pubblico di carattere strategico. Il vincolo esterno va sfruttato non solo per contenere temporaneamente la spesa, ma per avviare processi di ristrutturazione e ridisegno del perimetro della spesa pubblica. La debolezza dello Stato sta anche qui, nel non avere una forza propria per avviare un processo di modernizzazione e nell'attendere vincoli e spinte dall'esterno, se non addirittura ad eluderle.

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La revisione organizzativa Il decentramento amministrativo a costituzione invariata e il pluralismo organizzativo che

esplodono come fenomeno in particolare dagli anni '90 non solo non soddisfano l'esigenza di assicurare una maggiore efficacia e specializzazione all'intervento pubblico, ma genera un incremento della spesa e sovente un'incertezza sulle competenze e sull'erogazione dei servizi. Al contempo a partire dal 2001, l'esigenza di assicurare un forte coordinamento degli interventi a livello centrale (vedi settore agricoltura, sviluppo, sanità, lavoro) e poi gli obblighi comunitari in materia di controllo della spesa hanno portato a rafforzare le strutture centrali, aumentando il numero delle direzioni generali (dal 2001 al 2006 aumentano da 348 a 506), e non facendo però decollare quelle funzioni di coordinamento e monitoraggio tipiche del centro in un assetto federale. Se nel 1999 vengono emanati due decreti legislativi (d.lgs. 300 e 303 del 1999) per ridisegnare i ministeri e la Presidenza del Consiglio dei ministri in un’ottica federale, diminuendo il numero e la dimensione della struttura, dal 2001 si assiste ad un crescendo di ministeri con e senza portafogli e delle relative direzioni generali. La stessa scelta, effettuata con gli stessi decreti legislativi, di accorpare gli uffici periferici delle amministrazioni centrali dello Stato presso gli UTG (uffici territoriali del Governo) viene sospesa e bloccata dalle resistenze di tutte le amministrazioni interessate. Dalla metà degli anni '90 al 2008 si registra un lieve aumento del personale, ma al contempo una crescita delle strutture, un aumento delle partecipate e del loro personale (dal 1999 al 2009 del 30% dati Istat-Unioncamere), un incremento delle esternalizzazioni e degli investimenti nelle ICT. Fenomeni che avrebbero dovuto portare ad una revisione organizzativa e ad una razionalizzazione e che invece sono stati tutti avviati in una logica incrementale e aggiuntiva. Diversi sono gli ambiti che potrebbero essere interessati da processi di spending review, sia con riferimento alle politiche di settore sia con riferimento all'area del funzionamento.

Ricordiamo come l'art. 01 del DL 138/2011 abbia previsto l'adozione di un programma "per l'integrazione operativa delle agenzie fiscali, la razionalizzazione di tutte le strutture periferiche dell'amministrazione dello Stato e la loro tendenziale concentrazione in un ufficio unitario a livello provinciale, il coordinamento delle attività delle forze dell'ordine, ai sensi della legge 1º aprile 1981, n. 121, l'accorpamento degli enti della previdenza pubblica, la razionalizzazione dell'organizzazione giudiziaria civile, penale, amministrativa, militare e tributaria a rete, la riorganizzazione della rete consolare e diplomatica." Inoltre, sempre lo stesso decreto, ha previsto " il programma, comunque, individua, anche attraverso la sistematica comparazione di costi e risultati a livello nazionale ed europeo, eventuali criticità nella produzione ed erogazione dei servizi pubblici, anche al fine di evitare possibili duplicazioni di strutture ed implementare le possibili strategie di miglioramento dei risultati ottenibili con le risorse stanziate". Gli obiettivi sono già previsti dalla normativa vigente e per certi versi lo sono anche i criteri. Serve accelerare in tal senso i processi di riorganizzazione come è avvenuto ad esempio nell'ambito degli enti previdenziali. Si ricorda, ad esempio, che con il DL 78/2010 sono state introdotte disposizioni (art.7) che hanno previsto l'accorpamento dell'Ispesl e Ipsema nell'Inail, dell'Ipost nell'Inps, dell'Enam nell'Inpdap, dello Ias nell'Isfol e dell'Ente nazionale di assistenza e previdenza per i pittori e scultori, musicisti, scrittori ed autori drammatici (Enappsmsad) nell'Enpals. Inoltre, con l'art. 8 dello stesso decreto legge 78/2010 si è prevista la costituzione di poli logistici integrati nell'area delle amministrazioni del welfare, per ridurre i costi di funzionamento degli uffici periferici.

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La contabilità economica e la trasparenza sui bilanci Uno strumento che certamente è mancato pur se previsto dalla normativa vigente è quello

della contabilità economica e per centri di costo da adottare non come ulteriore adempimento amministrativo, ma come strumento di governo del bilancio e della spesa.

Scopo di questo impegno era il tentativo di ottimizzare da un lato la decisione di bilancio per renderla più snella e di agevole lettura; e, dall’altro, di identificare un percorso agile e compiuto per rivedere il sistema delle decisioni assunte e, quindi, degli oneri preventivati, alla luce dell’andamento del ciclo economico e dei costi dei servizi stabiliti.

I prodromi di tali riflessioni si concretizzavano nel bilancio per funzioni e per programmi e nella contabilità economica applicata al sistema pubblico: essi si rinvengono, dapprima, nella Legge n. 421 del 1992 (Legge Amato o Finanziaria bis), e, poi, in un fondamentale atto normativo emesso in base alla delega in quella contenuta, e cioè nel Decreto Legislativo n. 29 del 1993. L’avvio di tali innovazioni veniva stabilito in via sperimentale e doveva (voleva) essere portato in breve termine a regime.

Il tempo breve nel sistema pubblico, però, non ha il significato keynesiano, e solo nel 1997 – con la legge 94/1997 e con il D.lgs 279/1997 – il cambiamento della struttura del bilancio trova una prima riforma: il bilancio viene strutturato per ministeri, centri di responsabilità e unità previsionali e viene prevista l’attuazione della contabilità economica con un piano unico dei conti per tutte le Amministrazioni Pubbliche.

Il Bilancio dello Stato per l’anno 1998 viene presentato con l’impostazione descritta a carattere vincolante, recando peraltro in allegato l’espressione dei valori secondo le funzioni dello Stato a titolo informativo. La contabilità economica viene attuata dall’anno 2000, ponendo in essere il Budget dello Stato per il medesimo anno e conseguentemente le rilevazioni contabili di gestione.

Bisogna attendere la Legge 196 del 2009 affinché il Bilancio per Funzioni e per Programmi diventi a tutto titolo oggetto di approvazione legislativa da parte del Parlamento, fermo restando, però, il carattere solo informativo del Budget dello Stato. Permane – e con maggior rilevanza – il carattere finanziario di tale bilancio e si specifica la tendenza alla redazione del solo Bilancio di Cassa.

Il Budget economico e le connesse rilevazioni prendono il ruolo di "Cenerentola" e vengono relegate a compendio pur rappresentando l’anello di congiunzione diretto con la contabilità economica nazionale e, quindi, il mezzo più diretto per la costruzione dei valori dell’Indebitamento Netto.

Siamo ormai nel presente 2012: la spending review non è stata mai attuata e solo ora si comincia ad applicarla; e la contabilità economica - che la stessa revisione delle spese avrebbe dovuto e potuto supportare – viene considerata un fardello o al più un adempimento. E pensare che era stata concepita per essere applicata a tutte le Amministrazioni Pubbliche in una logica di decisioni di convenienza tra il perpetrare al loro interno certi servizi ovvero di loro esternalizzazione.

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Cosa fare oggi in materia? • Applicazione integrale della Contabilità Economica (anche analitica) a tutte le

Amministrazioni Pubbliche; • Declaratoria di coniugazione della Spendig Review e della Contabilità Economica; • Effettuazione dei “tagli di Bilancio” solo previa verifica dei risparmi di costo; • Programmazione strategica e valutazione del management solo su dati di contabilità

economica. • Attivazione dell’AIR – analisi di impatto della regolamentazione da integrare nelle

relazioni tecniche alle nuove iniziative di spesa. Un dato che certamente è mancato e che ha portato a prevedere attraverso la legge

costituzionale 1/2012 una commissione indipendente sui bilanci è quello della trasparenza e accessibilità dei documenti di finanza pubblica. Troppe volte i debiti e le situazioni di dissesto sono stati scoperti con numerosi anni di ritardo; spesso i bilanci sono rimasti oscuri e incerti nonostante tutti i controlli e le certificazioni formali; sovente la programmazione strategica e gestionale è stata scollegata dalla programmazione finanziaria. Il principio della trasparenza, affermato per la prima volta con l’art. 11 del d.lgs. 150/2009, stenta ad affermarsi soprattutto in relazione ai documenti e alle informazioni più importanti degli enti. Il processo di responsabilizzazione innanzi tutto sulle risorse finanziarie non trova affermazione, anche a causa della scarsa trasparenza con la quale vengono allocate e spese le risorse. Vi è un aspetto di contabilità economica e di lettura economica dei bilanci, ma vi è anche il tema della trasparenza e leggibilità dei documenti finanziari. Ecco perché da questo punto di vista l’inventario di fine mandato così come l’indipendenza degli organi di revisione possono innescare un meccanismo trasparente e certo di gestione delle risorse pubbliche.

Tutto il ciclo della programmazione e di assegnazione degli obiettivi, connesso alla riforma del bilancio degli anni ’90, rimane sulla carta, così come il sistema di valutazione della dirigenza. La mancanza di dati utili, economici e non finanziari, e il non utilizzo dei pochi dati disponibili hanno impedito l’avvio di un processo reale di programmazione e allocazione efficiente ed efficace delle risorse. La mancanza di analisi e benchmark sulla base dei quali rivedere la spesa ha lasciato lo spazio alla logica dei tagli lineari deresponsabilizzando vertici politici e vertici amministrativi. Il non affermarsi della contabilità economica e del controllo di gestione porta ad una applicazione teorica ed astratta del new public management in Italia. Le proposte e gli interventi sull’open data costituiscono un’occasione per rendere trasparente la gestione delle amministrazioni pubbliche già a monte, sui documenti di programmazione finanziaria, e non a valle, su alcune singole voci di spesa. Le valutazioni sull’inefficienza e sull’inefficacia delle politiche devono coinvolgere già i cittadini, soprattutto in un’ottica federale, e per questo riteniamo che occorra spingere sulla previsione di espliciti obblighi sulla trasparenza sui dati relativi alla spesa pubblica come è avvenuto negli Usa con il Freedom of information act (Foia).

La gestione delle risorse umane nei processi di riorganizzazione La contrattualizzazione del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni non ci ha

consegnato una gestione delle risorse umane moderna e aziendale nelle pubbliche amministrazioni. La figura del datore di lavoro pubblico, come fictio iuris, non è decollata a causa di una figura dirigenziale debole che ha scelto il compromesso con una politica invasiva

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e un sindacato man mano fortemente arroccato nel pubblico impiego, piuttosto che cogliere la sfida della riforma del lavoro pubblico e della riforma generale degli anni '90. La cattiva gestione della contrattazione da parte delle pubbliche amministrazioni non ha solo portato ad un incremento delle retribuzioni dal 1998 al 2008 superiore a quelle dei lavoratori del settore privato, ma ha reso soprattutto rigida la gestione del personale e non ha introdotto quegli strumenti che servirebbero ad esigere la prestazione lavorativa in luogo diverso e a favorire un utilizzo della mobilità e ricollocazione del personale, come strumenti ordinari di gestione e non come episodi eccezionali e da scongiurare.

Pertanto pur in un processo di grandi ristrutturazioni e cambiamenti le risorse umane sono rimaste di fatto immutate rispetto alle esigenze organizzative ed istituzionali, che venivano soddisfatte con strumenti aggiuntivi e forme più o meno forti di esternalizzazione.

Sarebbe, oggi più che mai, necessario individuare degli strumenti di flessibilità interna e procedere ad una mappatura delle competenze, prevedendo la necessaria riconversione e riqualificazione del personale. Un ridisegno delle funzioni e del perimetro della spesa pubblica richiede uno strumentario adeguato per una gestione flessibile e produttiva delle risorse umane. Si tratta di ridistribuire il personale sulla base dei profili attuali e di riconvertire ove possibile le professionalità non più necessarie. Servono tabelle di equiparazione per la mobilità intercompartimentale, l'esigibilità delle prestazioni in luogo diverso dall'abituale in maniera semplificata, l'obbligo di porre in mobilità il personale in eccedenza e conseguente responsabilità anche del vertice politico in caso di inadempimento. Usare il fondo dell'accessorio per favorire la ricollocazione e riconversione dei profili, alimentato da una quota dei risparmi derivanti dai processi di razionalizzazione.

Chiaramente la gestione delle risorse umane deve essere guidata da processi e da scelte strategiche relative alle funzioni pubbliche e ai programmi e che devono interessare la macro organizzazione. Assurdo parlare, come spesso accade, di assegnazione di personale, di mobilità collettiva o di licenziamento per giustificato motivo economico senza avere avviato dei processi di riorganizzazione.

Nell'attuale contesto economico/finanziario vi è lo spazio per attivare anche nel settore pubblico delle moderne relazioni sindacali in grado di valorizzare il coinvolgimento delle parti in un processo di salvaguardia delle funzioni e di ridisegno del settore pubblico ormai necessario. Non si tratta più di ottenere forme defatiganti di partecipazione sindacale su singoli atti, ma di condividere l'idea generale del settore pubblico dei prossimi decenni e i processi di adeguamento necessari. Lo stesso secondo livello di contrattazione, pur in un contesto di rigore finanziario, potrebbe costituire uno strumento di flessibilità utile per accompagnare fenomeni di ristrutturazione e ridisegno delle istituzioni.

Le amministrazioni dovranno intanto applicare per i prossimi tre anni le disposizioni di razionalizzazione contenute nel decreto legge 78/2010, nel decreto legge 98/2011 e nel decreto legge 138/2011; misure in parte diverse per comparto e per livello di governo. Se le amministrazioni centrali dello Stato saranno tenute nei prossimi mesi a razionalizzare i propri uffici periferici, a rivedere in riduzione gli organici, accorpare gli enti previdenziali, et., oltre a sperimentare la spending review, per gli enti locali si prevedono maggiori limiti in materia di assunzioni, l'inclusione delle spese di personale delle partecipate nei vincoli di riferimento, la razionalizzazione delle partecipate, la realizzazione di unioni per i comuni sotto i 1.000 abitanti, nonché la gestione associata delle funzioni fondamentali per i comuni da 1.000 a 5.000 abitanti. A questo, inoltre, occorre aggiungere per gli enti locali gli effetti dei tagli ai trasferimenti e gli obiettivi del patto di stabilità.

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Il quadro è tale quindi da richiedere piani di razionalizzazione strutturali e nuovi modelli di gestione. Per questo occorre pensare ad alcune soluzioni organizzative e logistiche che già da tempo le amministrazioni avrebbero potuto adottare e che invece o sono rimaste sulla carta oppure hanno trovato un'applicazione distorta e inefficiente.

L'esempio classico e oggi più evidente è dato dalla gestione del personale, una funzione interna resa sempre più complessa dall'evolversi del quadro normativo e che assorbe molte energie e personale all'interno delle singole amministrazioni. Il paradosso è dato dal fatto che non solo ogni amministrazione ha un proprio ufficio per il personale, ma spesso ogni settore, dipartimento o direzione ha a sua volta una propria struttura dedicata. Un'area questa che potrebbe essere certamente esternalizzata e gestita in forma associata, migliorando così l'efficienza ma anche la qualità dei servizi. Nell'ambito della gestione del personale è possibile ad esempio ricorrere alle agenzie per il lavoro, che sono portatrici di un know how di rilievo nel settore della gestione delle risorse umane; questo consentirebbe alle amministrazioni interessate di liberare seriamente il settore pubblico da una serie di incombenze amministrative. Già l'art. 74 del DL 112/2008 aveva individuato i criteri di riorganizzazione e riduzione degli organici con particolare riferimento alla concentrazione dell'esercizio delle funzioni istituzionali, attraverso il riordino delle competenze degli uffici e all'unificazione delle strutture che svolgono funzioni logistiche e strumentali. Ma alla fine tutte le amministrazioni, paradossalmente, hanno proceduto al semplice taglio lineare.

Tanti altri esempi si possono fare, spesso supportati da una esplicita previsione normativa: dall'ufficio relazione con il pubblico all'ufficio disciplinare, dall'organismo di valutazione alla gestione del sito internet, nonché alla gestione dei bilanci e degli appalti.

Ma pur in presenza di una esplicita previsione normativa, le amministrazioni hanno sempre preferito gestire attraverso un proprio ufficio o settore oppure realizzarci persino delle società in house. Un'altra area da aggredire inoltre è quella della razionalizzazione degli immobili di proprietà e in locazione. Il blocco delle assunzioni per anni, i processi di semplificazione e digitalizzazione, le esternalizzazioni hanno ridotto sensibilmente il fabbisogno immobiliare delle pubbliche amministrazioni, ma resistenze interne e incapacità di mettere a valore gli immobili portano ad una spesa elevata e crescente per immobili da parte delle pubbliche amministrazioni.

La migliore razionalizzazione inoltre è quella che avviene dal basso, che è più prossima, in quanto è in grado di scegliere tra spesa buona e spesa cattiva, di tagliare ma di effettuare investimenti. I piani di razionalizzazione previsti dall'art. 16 del DL 98/2011 costituiscono un'occasione per avviare dei piani di razionalizzazione "industriali" e far nascere delle relazioni sindacali alte nel settore pubblico, non più fondate sul deficit spending ma sulle funzioni e i servizi che il pubblico dovrà assicurare, coinvolgendo e premiando il personale.

Per questo sarà necessario eliminare i vincoli finanziari sulla formazione, soprattutto se finalizzata ad accompagnare i piani di razionalizzazione o il programma di revisione della spesa previsti dalla recente normativa. Per ristrutturare e razionalizzare e quindi per superare la logica i tagli lineari occorre avere alcuni strumenti e alcune risorse, oltre a dei piani che le amministrazioni devono imparare ad adottare.

La semplificazione Come ha correttamente rilevato la stessa Commissione europea nell’ambito del Piano

d’azione per la Semplificazione del 2007 (PAS 2007), ridurre i costi della burocrazia non significa ridurre gli obblighi di rendicontazione o di informazione, piuttosto significa

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eliminare gli oneri obsoleti, rendere efficienti i meccanismi di verifica e controllo e favorire così l’osservanza degli obblighi realmente necessari.

Sulla base dell’esperienza degli Stati membri che hanno già realizzato esercizi di misurazione (Danimarca, Paesi bassi, Regno Unito e Repubblica Ceca) ed elaborato modelli economici, la valutazione d’impatto ha infatti dimostrato che una riduzione degli oneri amministrativi pari al 25%, può determinare un aumento del prodotto interno lordo (PIL) compreso fra l’1,4% e l’1,8%.

In particolare, la Commissione Europea ha stimato che per l’Italia i costi amministrativi che gravano sulle imprese sono pari al 4,6% del PIL e, pertanto, ipotizzando una loro riduzione del 25%, ha quantificato in circa 75 miliardi di euro l’impatto complessivo di crescita del prodotto interno lordo.

In linea con le aspettative comunitarie, il Governo italiano ha avviato nel 2008, con il decreto legge n. 112, un programma di misurazione degli oneri amministrativi derivanti dalla normativa statale, ponendosi l’obiettivo della loro riduzione del 25% entro il 2012. A tal fine, ha utilizzato la metodologia EU Standard Cost Model opportunamente adattata alle peculiarità dell’ambiente regolatorio (ovvero della presenza di più livelli di governo con poteri di regolazione), alle caratteristiche strutturali del sistema produttivo, contraddistinto da una forte presenza di piccole e medie imprese (4.446.137 unità, di cui l’88,6% con meno di 5 addetti), alla necessità di riconoscere il ruolo significativo svolto nel mercato dagli intermediari e dalle associazioni di categoria.

Tale metodo prevede la misurazione degli oneri amministrativi, stimando il costo dei singoli obblighi informativi imposti dalla normativa, per lo più attraverso interviste ad un campione di imprese. In particolare, gli oneri sono stimati sulla base del costo medio che le imprese sostengono per svolgere ogni attività amministrativa, moltiplicato per il numero di volte in cui, ogni anno, l’attività è svolta e per il numero delle imprese coinvolte.

Grazie ai numerosi interventi di semplificazione adottati in 11 aree di regolazione giudicate particolarmente impattanti, ad oggi sono stati quantificati risparmi per cittadini ed imprese per più di 8 miliardi di euro annui, con un risparmio stimato di circa il 30% dei costi.

La semplificazione operata nell’area lavoro e previdenza, giudicata fra le più onerose, ha comportato una riduzione complessiva degli oneri amministrativi per le PMI per circa 4.8 miliardi di euro annui, ossia pari al 45% dei costi dell’area. La sola sostituzione del libro paga e matricola con il Libro unico del lavoro, ha generato un risparmio stimato in 3,5 miliardi di euro.

A valle della misurazione operata, un dato da sottolineare è come l’informatizzazione di adempimenti formali e la gestione telematica e semplificata degli stessi abbia determinato laddove applicata risparmi straordinari di gestione sia per le imprese, sia per lo stesso apparato amministrativo deputato al controllo. Lo dimostra, ad esempio, l’intervento operato dalla legge n. 296/2006 con riferimento alla comunicazione di instaurazione e cessazione dei rapporti di lavoro (la c.d. CO), per le quali è stato stimato un risparmio pari all’87% rispetto alla vecchia procedura.

Solo guardando al passato recente non possono non registrarsi poi interventi significativi di semplificazione su ambiti particolarmente impattanti dell’azione amministrativa.

Penso alle semplificazioni in materia di certificazioni, alla programmazione dei controlli sulle imprese; agli interventi sulla trasparenza; alle liberalizzazioni; all’informatizzazione della PA.

Ciò nonostante, le piccole e medie imprese, che rappresentano in Italia la quasi totalità del tessuto connettivo imprenditoriale, continuano a lamentare la necessità di dover dedicare alla

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gestione delle pratiche amministrative oltre 86,3 milioni di giornate/uomo; vale a dire 60 giornate/uomo all’anno per impresa, secondo una recente ricerca realizzata dall’ufficio studi di Confartigianato (fonte: Italia Oggi, 7 maggio 2012). Il “costo di produzione dei servizi pubblici”, aumentato in 30 anni di più di quello del settore privato, con un aggravio di spesa di circa 70 miliardi, continua a mantenere livelli allarmanti.

Credo sia legittimo e doveroso chiedersi le ragioni di questa discrasia per individuare le necessarie azioni correttive. Ciò, sia in termini di verifica dei benefici effettivamente percepiti dal cittadino e dalle imprese a fronte dei risparmi stimati, sia in termini di effettiva riduzione della spesa pubblica improduttiva, di razionalizzazione delle funzioni e di miglioramento delle perfomance.

Per far ciò non può sfuggire la considerazione banale ma ineludibile secondo cui le norme sono importanti ma non bastano. Occorre dare loro concreta esecuzione sotto diversi profili.

Per raggiungere gli obiettivi prefissati, l’execution dovrà essere alla base del nuovo programma triennale 2012 – 2015 di misurazione e riduzione degli oneri amministrativi e regolatori gravanti su imprese e cittadini, e, a maggior ragione, alla base del programma 2012 – 2015 di riduzione degli oneri amministrativi gravanti sulle pubbliche amministrazioni, lanciati dal Governo con il decreto legge Salva Italia.

A tal fine, ci si permette di suggerire alcune aree di miglioramento.

Nel breve periodo:

• Occorre monitorare la concreta realizzazione degli interventi intrapresi, verificando la tempestiva adozione dei provvedimenti attuativi laddove previsti e l’effettività dell’intervento come stimato, attraverso l’adozione di meccanismi stringenti e pubblici di valutazione ex post e non solo ex ante. Ciò, anche valorizzando il ruolo svolto dagli intermediari e dalle associazioni di categoria, al fine di individuare le possibili criticità che hanno di fatto determinato la mancata percezione da parte del destinatario finale degli interventi di semplificazione.

• Occorre poi intervenire sulla durata del ciclo di misurazione-riduzione. In

alcune aree (privacy ed ambiente), i primi interventi di semplificazione sono stati adottati a distanza di circa 3 anni dalla misurazione. Sarebbe utile responsabilizzare i decisori e prevedere meccanismi di intervento sostitutivo in caso di mancato adempimento, così come sarebbe utile introdurre meccanismi premiali per le realtà che raggiungono i livelli prefissati o overperfomance.

Proprio al fine di ridurre la durata di tale ciclo sarebbe utile che le norme di

semplificazione fossero immediatamente applicabili e non si facesse, salvi casi eccezionali, rinvio a disposizioni attuative che dilatano spesso in modo eccessivo l’effettiva operatività dell’intervento.

• Occorre dare piena esecuzione agli interventi di semplificazione adottati, implementando a valle degli stessi i necessari adeguamenti organizzativi in capo alle strutture amministrative interessate. Nello specifico vuol dire agire su:

- organizzazione del lavoro; - mobilità del personale sul territorio e fra amministrazioni; - redistribuzione delle risorse strumentali e finanziarie;

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- soppressione di strutture, enti, uffici non più necessari; - riqualificazione del personale; - avvio di percorsi di accompagnamento all’uscita per il personale.

Ed infatti, la riduzione di un onere amministrativo, generato, ad esempio, da una sovrapposizione di competenze fra due o più soggetti pubblici o da casi di goldplating, non può non essere seguito da una modifica organizzativa che riconduca ad efficienza non solo la procedura amministrativa ma anche le stesse strutture delle PA interessate dall’intervento di semplificazione.

A valle del processo, è necessario ad esempio intervenire con la redistribuzione dei carichi di lavoro, con la razionalizzazione delle funzioni, con una più equa ripartizione delle risorse umane, economiche e strumentali fra i diversi livelli di governo interessati o, se necessario, intervenire con azioni più incisive di integrazione o accorpamento di strutture e enti o ancora con interventi di riduzione dello stesso perimetro della PA, dando concreta attuazione al principio di sussidiarietà orizzontale.

Ciò solo garantisce in ultima analisi l’accrescimento dell’efficienza e della produttività della pubblica amministrazione e la riduzione della spesa pubblica per il tramite della semplificazione.

Come accennato, i risultati raggiunti nel processo di revisione organizzativa e funzionale dovrebbe essere misurati ai fini della valutazione della performance dei decisori e della loro eventuale responsabilità amministrativa. D’altronde, le disfunzioni e gli appesantimenti burocratici che generano oneri inutili e gravosi per le imprese e per il cittadino, nascondono oneri inutili e gravosi per la stessa macchina pubblica, che gestisce evidentemente in modo disorganico, ridondante e inefficiente l’erogazione di un “servizio” che, in ultima analisi, potrebbe essere ritenuto non necessario e pertanto un mero costo per la collettività e per la finanza pubblica.

In quest’ottica, il processo di revisione della spesa pubblica e di razionalizzazione delle funzioni in atto potrebbe, anche nel breve periodo, valorizzare il grande lavoro di semplificazione svolto in questi anni, dando concreta esecuzione, nei casi di inerzia della PA, ai necessaria adeguamenti organizzativi, in vista di una maggiore produttività.

Nel medio periodo:

• Occorre cambiare la cultura e i comportamenti quotidiani, legando la valutazione della perfomance individuale all’effettivo raggiungimento del risultato, concreto e misurato;

• L’applicazione dell’ EU standard cost model alla pubblica amministrazione

(previsto dal decreto legge Salva Italia) può rappresentare una straordinaria occasione per porre rimedio alla crescita esponenziale del polimorfismo e policentrismo amministrativo, che ha determinato, dalla metà degli anni ’80, l’aumento esponenziale dei costi della macchina pubblica e una contrazione delle risorse destinate ai servizi e quindi all’outcome.

Un utile banco di prova potrebbe essere rappresentato dalla riorganizzazione delle funzioni che seguirà il ridimensionamento del ruolo delle Province previsto dal predetto decreto legge (che impone, entro il 31 dicembre 2012, il trasferimento ai Comuni delle funzioni conferite dalla normativa vigente alle Province, salvo per assicurarne l’esercizio unitario, le stesse siano

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acquisite dalle Regioni, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza).

In tale contesto, si potrebbe ad esempio, valutare una revisione più profonda del sistema di governance delle politiche e dei servizi per l’impiego, anche nell’ottica della sussidiarietà orizzontale, stante il contributo, non proprio soddisfacente, offerto in questi anni dalle Province per il tramite dei servizi per l’impiego. Ciò, anche in vista dell’esercizio della delega inserita nel DDL 3249 in materia di politiche attive e servizi per l’impiego (cfr. art. 60 del DDL) nonché dell’accordo, da stipularsi entro il 30 giugno prossimo, in sede di Conferenza Stato – Regioni, per identificare le linee di indirizzo e di riforma e gli eventuali riassetti di enti ed organismi ritenuti necessari in tale ambito (ivi inclusa la proposta del Governo di creare una Agenzia unica nazionale per la gestione in forma integrata delle politiche attive e dell’ASpI, partecipata da Stato, Regioni e Province autonome e caratterizzata da forte autonomia territoriale).

In quest’ottica, occorre anche superare la resistenza del livello sub-statale a misurarsi

con azioni concrete di riduzione degli oneri amministrativi, spingendo contemporaneamente le regioni ad adottare modelli omogenei di misurazione.

Ed infatti, se nonostante alcune difficoltà, la misurazione a livello statale può dirsi aver

raggiunto buoni risultati, altrettanto non può dirsi per il livello sub-statale. A parte alcuni progetti pilota promossi dalla Funzione Pubblica, in collaborazione con il Formez che hanno interessato alcune regioni italiane, decisamente sporadiche sono state le iniziative intraprese autonomamente dagli enti locali. Queste esitazioni nell’avvio del MOA regionale appaiono emblematiche delle sfide che un sistema multilivello pone all’impostazione e all’attuazione delle politiche di better regulation.

Il raggiungimento di obiettivi di miglioramento della qualità dell’ambiente regolatorio non può infatti prescindere dal coinvolgimento degli enti locali, in un assetto che assegna ad essi la competenza in settori cruciali per la vita dei cittadini e delle imprese e in cui la spesa per la fornitura di servizi pubblici risulta essere, paradossalmente, inversamente proporzionale alla dimensione dell’ente territoriale.

La misurazione degli oneri amministrativi nelle materie di competenza regionale presuppone poi accordi o intese in sede di Conferenza Unificata fra i diversi livelli di governo interessati.

È fondamentale l’adozione in tale sede di modelli omogenei di misurazione per tutti i livelli di governo.

Dall’estrema articolazione e diversificazione della realtà istituzionale, economica e sociale, continua infatti a scaturire una notevole varietà territoriale degli adempimenti che costituisce la principale sfida sul piano metodologico per l’implementazione della MOA regionale.

Appare pertanto necessaria l’adozione da parte delle Regioni di una metodologia condivisa con le autonomie locali al fine di ricondurre a uniformità i comportamenti differenziati troppo spesso assunti da comuni e province nell’ambito del territorio regionale.

Sul piano operativo, invece, l’efficacia del coordinamento multi-livello è legata tanto alla focalizzazione sugli adempimenti più irritanti e di comune interesse nelle materie a competenze concorrente quanto alla definizione ex ante di scadenze certe e modalità di reporting che garantiscano l’accountability dei programmi regionali.

A ostacolare la razionalizzazione degli ordinamenti regionali, però, non è solo la mancata collaborazione tra livelli di governo. Alcune ricerche condotte sul tema hanno individuato

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anche nella mancata modernizzazione delle forme di controllo dei Consigli sulla Giunte regionali una ulteriore criticità in tema di qualità normativa regionale. In particolare, lo studio delle esperienze regionali di Lombardia, Emilia Romagna e Toscana ha evidenziato una scarsa efficacia dei meccanismi di controllo programmato e sistematico dei Consigli sulle Giunte con riferimento alle clausole valutative quale strumento di valutazione dell’impatto dei testi legislativi ex post. In primo luogo, raramente le clausole valutative spingono le Giunte e le relative strutture amministrative a formulare relazioni di ritorno che rendano disponibili le informazioni richieste dai Consigli. In secondo luogo, anche nei rari casi in cui tali informazioni siano rese disponibili, mancano momenti di valutazione formalizzati in atti di indirizzo da parte dei Consigli. In terzo luogo, l’attività di valutazione condotta dalle Assemblee regionali non risulta capace di vincolare la successiva produzione normativa. In assenza di specifici meccanismi istituzionali sulla scorta di quanto già previsto da alcuni statuti in relazione ai progetti di legge che non seguano determinate prescrizioni sulla qualità della legislazione, anche la valutazione delle leggi regionali è dunque destinata a restare un mito piuttosto che concreta realtà. 3. La Spending Review attraverso la digitalizzazione del sistema pubblico

Un vasto programma di digitalizzazione delle Amministrazioni Pubbliche può avere un effetto importante, da un lato sulla riduzione strutturale della spesa corrente e dall’altro sul recupero di maggiori entrate, grazie alla digitalizzazione end to end della Pubblica Amministrazione (dalla riorganizzazione dei processi produttivi all’erogazione finale dei servizi pubblici on-line). Tabella di sintesi: impatto annuo della digitalizzazione del sistema pubblico Proposta Impatto Minori spese per gli acquisti in beni e servizi della PA grazie all’obbligo di ricorso all’e-Procurement

13 mld. di euro

Minore spesa grazie alla digitalizzazione end to end e alla conseguente maggiore produttività del personale della PA

6 mld. di euro

Maggiori entrate da recupero di evasione grazie alle banche dati integrate e ai misuratori fiscali connessi in rete

12 mld. di euro

3.1 I modelli di digitalizzazione e la riduzione della spesa

Dal punto di vista della spesa pubblica corrente un’organizzazione orientata alla digitalizzazione della produzione e allo switch-off dei servizi pubblici può guadagnare significativamente in termini di efficienza economica e di riduzione degli sprechi.

Un primo tipo di sprechi che la digitalizzazione contribuisce a ridurre è quello legato all’acquisto di fattori produttivi pagando prezzi superiori al prezzo di mercato o all’effettivo valore (ad es. si può citare il caso, più volte riscontrato nell’acquisto di farmaci, che diverse aziende sanitarie pagano prezzi diversi per lo stesso prodotto).

Dal lato dei consumi intermedi, quindi, l’impatto dei risparmi di spesa portati dalla digitalizzazione, come dimostra l’esperienza Consip, è immediato: sulla cosiddetta spesa affrontata direttamente (gare, centralizzazione acquisti) o in via indotta (semplice applicazione dei criteri di razionalizzazione) i risparmi potenziali generati nel 2010 sono stati mediamente del 19%. Se si estendesse il raggio d’azione Consip, o quantomeno il sistema della

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digitalizzazione degli acquisti, all’intera spesa pubblica per beni e servizi, pari a circa 136 miliardi (comprensiva degli enti locali, la cui maggior parte di spesa passa per la sanità, dove con le aste on-line e l’e-procurement si potrebbero più facilmente applicare i costi standard), e ipotizzando un risparmio medio del 10%, si potrebbe raggiungere un risparmio pari ad almeno 13 miliardi di euro, riducendo strutturalmente la spesa corrente anche nel breve periodo. Sono nella PA centrale i risparmi potrebbero arrivare a 4 mld. l’anno.

Dal lato della produttività vale la pena citare il caso dell’INPS, dove grazie alla digitalizzazione dei servizi primari la produttività nei processi di erogazione (calcolata come Unità di produzione equivalente per addetto) è aumentata dell’8,7% medio annuo nel periodo 2006-2010. Ciò dimostra che lo switch-off dalla gestione cartacea a quella digitale delle pratiche e un approccio end to end dell’informatizzazione è in grado di aumentare significativamente l’efficienza delle pubbliche amministrazioni.

Considerando che il valore aggiunto medio per addetto nella Pubblica Amministrazione è pari a 40mila euro anno un aumento di produttività anche solo del 5% avrebbe un impatto positivo sul PIL (calcolato al costo dei fattori e a valori concatenati al 2000)dello 0,5% annuo, pari a 6 miliardi.

Lo stesso valore, ma in termini di risparmio di spesa, si ottiene considerando un monte ore annuo di circa 1.600 ore e un costo del lavoro orario nella PA pari a circa 25 euro. Un taglio di 80 ore anno per lavoratore applicato ai 3 milioni di lavoratori della PA (pari al citato 5% di maggiore produttività), raggiungibile con un maggiore utilizzo delle tecnologie digitali ed un recupero di efficienza, vale quindi un risparmio strutturale di 6 miliardi di euro in termini minori spese per il personale.

Naturalmente questo processo va collegato alla formazione dei dipendenti pubblici, alla gestione degli esuberi, ad un diffuso sistema di monitoraggio e valutazione delle performance in modo da ridurre gli sprechi e garantire una maggiore qualità nell’erogazione dei servizi ai cittadini.

La digitalizzazione totale ("end to end ") e il passaggio dei processi al digitale ("switch off") La digitalizzazione e lo switch-off contribuiscono soprattutto ad aumentare l’efficienza nella

produzione dei servizi pubblici e a ridurre gli sprechi legati: • all’utilizzo di fattori produttivi in misura eccedente la quantità necessaria. E’ questo il

caso quando due impiegati vengono utilizzati per fare un lavoro per il quale uno sarebbe sufficiente;

• all’adozione di tecniche di produzione sbagliate rispetto ai prezzi dei fattori produttivi impiegati e quindi produzione a costi superiori al costo necessario. Nella produzione pubblica c’è una tendenza inarrestabile ad utilizzare, tra le diverse tecniche di produzione disponibili, quelle che si caratterizzano per la più alta intensità di lavoro;

• all’utilizzo di modi di produzione antichi, chiaramente più inefficienti (e quindi più costosi) di quelli che si avrebbero utilizzando le tecnologie più avanzate e innovative. Ciò è notoriamente associato all’incapacità delle strutture pubbliche di investire ed innovare nelle tecnologie di produzione utilizzate;

• all’utilizzo di modi di produzione che impiegano fattori di produzione incompatibili tra di loro, ad esempio lavoro non specializzato applicato al funzionamento di tecnologie innovative ed evolute.

In tutti gli esempi citati il superamento della fase attuale in cui ciascuna Pubblica Amministrazione informatizza parti del processo produttivo, per passare ad una fase

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contraddistinta dalla digitalizzazione “end to end” di tutte le fasi del processo produttivo (dalla gestione delle banche dati nel back office all’erogazione del servizio al cittadino nel front office) comporterebbe, come illustrato, una riduzione degli sprechi e significativi recuperi di efficienza produttiva.

Il processo di digitalizzazione end to end prevede interventi: • nel back office per migliorare l’efficienza operativa nei processi interni di produzione e

di funzionamento delle organizzazioni al fine di razionalizzare l’impiego delle risorse assegnate (umane, finanziarie e strumentali);

• nel front office per modificare le interazioni tra Pubbliche Amministrazioni e i loro utenti, attraverso l’informatizzazione dei servizi esistenti, l’ampliamento delle modalità di interscambio di informazioni e la semplificazione dei processi di produzione;

• di razionalizzazione dell’infrastruttura tecnologiche per estendere l’interconnessione tra i sistemi informatici delle pubbliche amministrazioni e a migliorarne affidabilità, sicurezza e performance.

Un modello di digitalizzazione totale, end to end, è stato elaborato partendo dall’esempio della Lombardia nel settore della Sanità. L’adozione di una piattaforma digitale integrata di Sanità permetterebbe non solo un maggiore controllo di gestione sulla spesa sanitaria finale (con una maggiore trasparenza e minore corruzione) grazie all’integrazione e all’interoperabilità dei database di tutti gli attori coinvolti (enti erogatori, MMG/PLS, Farmacie, Ospedali, Stakeholders) che consentirebbero quindi un monitoraggio in tempo reale dei flussi, ma permetterebbe anche di accelerare la diffusione di servizi digitali in rete (CUP, EHR, FSE, Teleassistenza, Telemedicina) con un risparmio di progetto stimato nell’11,7% soprattutto grazie alla remotizzazione delle cure e alla conseguente deospedalizzazione di pazienti cronici (quali i cardiopatici e i diabetici che possono essere seguiti a distanza).

Lo switch-off e la digitalizzazione del sistema pubblico non richiedono necessariamente maggiori investimenti pubblici in tecnologie. La spesa ICT delle PA, pari a circa 6 mld. annui, è contraddistinta da una forte frammentazione di iniziative, per cui si continua a spendere nell’informatizzazione di pezzi del sistema scollegati tra loro, senza ottenere benefici di efficienza Occorre una maggiore governance e una migliore riallocazione degli investimenti su grandi progetti come quello citato della Sanità, o analoghe piattaforme per la Mobilità, per la Scuola, per la Giustizia.

Si possono ottenere risparmi di spesa, anche tecnologica, rendendo il sistema più efficiente soprattutto con una strategia end to end. Si tratta di intervenire sulla revisione dell’architettura delle informazioni, sull’aggiornamento delle infrastrutture, sulla sicurezza dei dati.

In tutto il mondo è prevista una forte spinta verso la standardizzazione dei data center, verso la loro modularità e la riduzione dei consumi energetici connessi alla gestione dei CED. Negli Stati Uniti, per esempio, è già stata completata la pianificazione di un ampio consolidamento dei data center della Pubblica Amministrazione.

In Italia, mentre questi processi sono in atto nelle grandi imprese private, molto poco avviene nella Pubblica Amministrazione centrale, la quale dispone di 82 sistemi informatici di grandi dimensioni e 27mila sistemi informatici intermedi, oltre a 1.033 data center caratterizzati da un numero di addetti e da uno spazio occupato eccessivi in confronto ai parametri tipici basati sulle nuove tecnologie cloud. Senza considerare la moltiplicazione dei centri di calcolo negli oltre 8.100 comuni ed enti locali italiani.

Ad esempio è in corso la progettazione in architettura cloud dei Ced in capo al Dipartimento del Tesoro, alla Ragioneria generale dello Stato e al Dipartimento Affari generali per puntare a razionalizzare l’esistente fondendo in un’unica infrastruttura i sei Ced

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attualmente operativi. Oltre a generare un immediato risparmio di costi – si pensi solo agli spazi fisici liberati ed ai consumi energetici – il progetto consentirà di fare fronte in modo più efficiente alla gestione di una mole di dati in crescente aumento.

L’attuale stadio di realizzazione dell’Amministrazione digitale italiana, ancora caratterizzato da un patrimonio ICT assai frammentato dal punto di vista delle piattaforme e degli ambienti operativi, spesso neppure interoperabili tra di loro, potrebbe trovare nell’utilizzo del cloud un’importante occasione di miglioramento per conseguire gli obiettivi di efficienza e diffusione dei servizi on-line.

È in atto ad esempio un progetto della Ragioneria Generale dello Stato per realizzare un’architettura Erp (sistema informativo di pianificazione delle risorse, ndr) centralizzato ed interoperabile in grado di permettere alle amministrazioni di interfacciare i propri sistemi gestionali in modo standardizzato. Ciò consentirà di disporre in maniera uniforme di dati amministrativi, contabili e di bilancio. Da parte sua la RGS potrà effettuare rilevazioni in tempo reale anche e soprattutto a scopo previsionale: in questo modo sarà possibile ottimizzare l’allocazione delle risorse con ingenti risparmi sui costi.

Interventi dal lato delle Entrate Una società più informatizzata riduce i costi pubblici e libera risorse attraverso la

semplificazione, la trasparenza e l’economicità della macchina amministrativa. Dal lato delle Entrate la digitalizzazione costituisce quindi un’opportunità di sviluppo, perché le risorse liberate possono essere riutilizzate o per altre innovazioni nel pubblico o per favorire la capacità di investimento dei privati, incrementando il PI e influenzando positivamente il gettito erariale.

D’altra parte in futuro, grazie alla digitalizzazione, occorreranno sempre meno risorse per ottenere maggiore gettito.

In quest’ottica occorre muoversi su due binari paralleli: • raddoppiare il gettito derivante dal contrasto all’evasione (stimata in 250 mld. di euro

l’anno) attraverso una maggiore digitalizzazione dell’amministrazione finanziaria e condivisione delle informazioni tra le amministrazioni pubbliche;

• investire con sistematicità ed innovazione nelle tecnologie per favorire, attraverso servizi in rete di sempre maggiore qualità ed efficacia, il rapporto digitale con i contribuenti.

Si tratta di ragionare sul sistema della entrate identificando: • le infrastrutture-Paese che possano accelerare il percorso intrapreso da ciascuna

amministrazione, pur garantendone l’autonomia, e favorire l’effettivo e pratico utilizzo di alcune delle innovazioni introdotte dal Codice Amministrazione Digitale;

• gli investimenti strategici in grado di alleggerire, nel futuro, gli oneri di gestione della macchina amministrativa;

• percorsi innovativi e cooperanti di riprogettazione dei servizi in rete che non siano la mera trasposizione digitale di quanto era presente su carta in ciascuna amministrazione isolata dal contesto.

La diffusione dell’infrastruttura consentirà la completa smaterializzazione dei processi

interni, con conservazione a norma della documentazione elettronica della PA (analogamente a quanto in corso presso le imprese) e la comunicazione mediante Posta Elettronica Certificata (PEC) con cittadini, imprese e professionisti.

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In questo contesto occorre accelerare nell’attuazione della fatturazione elettronica verso la Pubblica Amministrazione che avrà effetti sulle imprese in termini di risparmi e di minore pervasività fisica dell’azione di controllo fiscale, e rappresenta una delle voci d’innovazione del contesto di digitalizzazione del sistema delle entrate. Per favorire l’azione di controllo digitale sugli esercizi commerciali ad esempio si potrebbe rendere obbligatorio l’uso di misuratori fiscali collegati in rete all’infrastruttura informatica dell’Agenzia delle Entrate.

Occorre rafforzare l’infrastruttura di cooperazione informatica per lo scambio dati tra le amministrazioni, per ridurre gli oneri informativi su dati già disponibili nel contesto pubblico, anche tramite Carta di Identità Elettronica (CIE) e Carta Nazionale dei Servizi (CNS), oltre che la stipula di documenti in rete tramite firma digitale.

Rivedere le modalità di crescita del personale della pubblica amministrazione dando valenza a competenze specialistiche, anche di tipo informatico, che saranno alla base delle future professionalità del servizio pubblico.

Procedere ad una rapida una semplificazione procedurale e/o normativa per rendere effettivo lo switch-off e rendere economicamente vantaggiose le transazioni di tipo telematico. 3.2 Innovazione tecnologica e innovazione organizzativa

Risulta chiaro che un processo "totale" di digitalizzazione debba partire da una revisione dei procedimenti dei processi, da una revisione dell'organizzazione e una riqualificazione del personale e avere degli impatti non solo sull'utenza ma anche sull'organizzazione con recuperi elevati di produttività ed efficienza. Data questa finalità appare necessario provvedere ad una razionalizzazione della governance delle politiche di digitalizzazione.

L’attuale assetto istituzionale e organizzativo, finalizzato alla attuazione delle politiche di digitalizzazione definite a livello sovranazionale, risente di una elevata segmentazione delle competenze, già a partire dall’attuale distribuzione delle deleghe, della conseguente necessità di istituire una cabina di regia con diversi gruppi per le diverse tematiche dell’agenda digitale.

A questa complessa organizzazione si aggiungono il DDI (Dipartimento Digitalizzazione e Innovazione tecnologica), DIGITPA e l’Agenzia dell’innovazione che si sovrappongono in molti ambiti, competenze e funzioni.

In questo contesto è importante provvedere ad una riorganizzazione sia per razionalizzare le diverse risorse e duplicazioni di funzioni, sia per semplificare e rilanciare con strumenti dinamici, efficienti e soprattutto rapidi l’attuazione dell’agenda digitale italiana.

È necessario dunque inglobare DDI, DIGITPA e Agenzia innovazione in un unico ente strumentale a supporto di una struttura leggera formata da un (CIO e una decina di dirigenti esperti) in connessione diretta con il Presidente (dal quale deve ricevere un forte commitment) ed in particolare con i suoi delegati alla “Spending review” e alla pubblica amministrazione.

A tale CIO devono anche far riferimento le società in house che si occupano di procurement e di ICT, ad esempio: CONSIP , SOGEI, etc. Tali società dovrebbero essere unificate in modo da razionalizzarne i costi e rendere più semplice e veloce la governance in accordo con i programmi del governo.

In particolare, nell'ambito del settore ICT, è opportuno utilizzare le risorse a disposizione per il Cloud (dovrebbero essere 200 milioni di euro), al fine di realizzare una unica infrastruttura nazionale, basata su un sistema organizzativo di regole e processi e tecnologie che sia una evoluzione dell’attuale (SPC)Sistema Pubblico di Connettività.

Tale sistema deve essere realizzato mantenendo una logica federale e un coordinamento nazionale, razionalizzando effettivamente i sistemi informativi, considerando, come base di

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partenza per la reingegnerizzazione dei servizi, la centralità dell’utente e le sue reali priorità, riducendo il digital divide con un approccio mirato alla multicanalità. Per rendere effettivo questo processo occorre individuare strumenti normativi e azioni organizzative volte a ridurre i trasferimenti agli enti locali per la gestione dei sistemi informativi (infrastrutture hardware e software ) e allo stesso tempo favorire gli enti che migrano sulla nuova infrastruttura CLOUD. Il "federalismo informatico" ha prodotto un incremento notevole dei costi e al contempo non ha consentito la creazione di sistemi informativi idonei per governare lo sviluppo, il welfare e la valorizzazione del territorio e dell'ambiente. 3.3 La Governance delle politiche di e-government

La governance dei processi va quindi riportata a livello centrale: Consip centrale acquisti per l’e-Procurement e per tutti gli investimenti in IT e una nuova Agenzia per la digitalizzazione della PA che ( superando le attuali DIT, DigitPA e Agenzia per l’Innovazione) si occupi della definizione delle architetture, degli standard, della mappatura dei processi, della diffusione dei sistemi di monitoraggio delle performance, della razionalizzazione dei centri di calcolo e della transizione al cloud.

Una governance per la digitalizzazione del sistema pubblico dovrebbe essere orientata a: • raggiungere la piena condivisione e interoperabilità tra le banche dati delle diverse

amministrazioni per rendere unica la PA davanti a cittadini e imprese; • offrire soluzioni standard per tutte le amministrazioni pubbliche evitando ridondanze

nella progettazione e acquisto di servizi di base per realtà senza massa critica, con effetti di razionalizzazione dei costi anche negli stessi servizi IT delle amministrazioni.

• non richiedere ai cittadini e alle imprese dati già in possesso delle amministrazioni pubbliche, facendo diventare pratica generalizzata la modalità one-stop-shop, soprattutto attraverso la diffusione degli open data;

• unificare lo strumento di accesso ai servizi (Carta d’Identità Elettronica, CNS) • realizzare lo switch-off eliminando l’erogazione tradizionale di quei servizi accessibili

in forma digitale; • eliminare progressivamente l’uso della carta (dematerializzazione); • istituire un sistema di call center e chat on-line per ascoltare e guidare il cittadino e le

imprese all’uso dei nuovi servizi. 4. Il federalismo fiscale e la spending review a livello regionale e locale

Il federalismo fiscale, se attuato coerentemente è un imponente processo di razionalizzazione della spesa (oltre 1/3 della spesa pubblica italiana è gestita dal comporto enti territoriali) e quindi è la spending review già attuata (grazie a tre anni di lavoro). E’ anche la razionalizzazione di un parte importante del sistema fiscale (in relazione a tutta l’imposizione decentrata).

Il processo di spending review a livello regionale e locale deve trovare realizzazione attraverso l'attuazione dei decreti legislativi sul federalismo fiscale e in particolare con l'individuazione dei fabbisogni e dei costi standard, la semplificazione fiscale e la trasparenza e certificazione sui bilanci.

In questo ambito dovrebbe essere previsto uno strumentario per favorire processi di razionalizzazione dal basso quali:

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⇒ piani di razionalizzazione obbligatori per tutte le pubbliche amministrazioni; ⇒ norme che favoriscano la fuoriuscita di personale; ⇒ tetto vincolante e inderogabile sulle spese di funzionamento in generale (e non su alcune

voci di spesa). Un sistema federale con quello italiano non può non fondarsi che su due importanti pilastri:

un sistema di finanza pubblica correlato a meccanismi di premi e sanzioni, come in parte viene prefigurato dal d.lgs. 6 settembre 2011, n. 149; un sistema informativo e informatico poggiato su alcuni importanti sistemi, che consentano di assicurare la massima trasparenza sull'allocazione delle risorse, sui programmi e sulle politiche, nonché sulla qualità dei servizi (total disclosure ed open data). La legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, di modifica all'art. 81 della Costituzione, all'art. 5 prevede che venga costituito presso le Camere, nel rispetto della relativa autonomia costituzionale, un organismo indipendente al quale attribuire compiti di analisi e verifica degli andamenti di finanza pubblica e di valutazione dell'osservanza delle regole di bilancio. Ciò fa capire quanto sia forte e sentito il problema della veridicità dei bilanci e del controllo sugli stessi: non solo dal punto di vista finanziario ma anche dal punto di vista dell'efficacia delle politiche approvate.

Il governo delle politiche è stato attuato esclusivamente per legge senza strumenti di analisi economiche e di impatto. I sistemi di monitoraggio sono stati di carattere finanziario volti a verificare la presenza e l'ammontare dei residui delle risorse stanziate. Ciò ha contribuito ad una gestione dei bilanci di carattere finanziario e per competenza, fondata sulla spesa storica, generando un'allocazione delle risorse pubbliche inefficiente ed inefficace. Il controllo di gestione e la contabilità economica, strumenti da tempo individuati come utili dal legislatore, fanno fatica ad affermarsi per mancanza di competenze e strutture. Quindi, dopo la mancata adozione dei livelli essenziali delle prestazioni, un'occasione importante ci è data dal federalismo fiscale e dalla definizione dei fabbisogni e dei costi standard. I costi standard rappresentano il nuovo modello economico di riferimento sul quale fondare il finanziamento integrale dell’attività pubblica afferente l’erogazione ai cittadini dei principali diritti sociali (sanità, assistenza sociale e istruzione, nonché trasporto pubblico locale). I costi standard consentono la rideterminazione del fabbisogno standard ideale, necessario per assicurare a tutti i cittadini le prestazioni/servizi essenziali, ovverosia quanto questi dovranno costare nei diversi territori regionali, in favore dei quali andranno, rispettivamente, attribuite le risorse relative.

Dal 2013 i fabbisogni standard orienteranno la perequazione di Comuni e Province, in modo che questa non sia più in base alla spesa storica, ma al fabbisogno standard. Man mano che vengono disponibili i fabbisogni standard questi quindi incidono sulla perequazione in modo graduale (3 anni: vuol dire che dal 2013 al 2016 per le prime 4 funzioni ci sarà un graduale (già dal 2013) spostamento della perequazione dalla spesa storica al fabbisogno standard in modo che dal 2016 non ci sia più un euro dato in base alla spesa storica)

Primi risultati. Riguardo alla prima funzione, quella della polizia locale, emergono già da subito le

differenze. Ad esempio, nella classe dei Comuni sui 20.000 abitanti emerge una variazione di spesa storica che varia dai 7 euro ai 150 euro pro capite.

Per quanto riguarda il Veneto, dalle prime elaborazioni sulla prima funzione standardizzata, che è appunto quella della polizia locale, emerge che proprio il Veneto sarà in Italia la Regione più premiata dai fabbisogni standard, seguita dalla Lombardia. Ad esempio sulla polizia locale il Veneto avrebbe un premio di circa il 20%, dal momento che la sua spesa

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storica è inferiore del 20% al finanziamento che riceverebbe attraverso i fabbisogni standard. Altre regioni invece hanno una spesa storica decisamente superiore a quello che sarebbe il fabbisogno standard. Questo è il grafico generale sulla spesa pro capite polizia locale.

Log Naturale numero 3 = 20 abitanti. 4 = 55 abitanti. 5 = 148 abitanti. 6 = 403

abitanti. 7 = 1.097 abitanti. 8 =2.981 abitanti. 9 = 8.103 abitanti. 10 = 22.026 abitanti. 11 = 59.874 abitanti.12 = 162.755 abitanti. 13 =442.413 abitanti. 14 = 1.202.604 abitanti. 15 = 3.269.017 abitanti

Finalità del federalismo fiscale E’ il superamento della spesa storica nell’ambito del finanziamento di Comuni e Province::

il passaggio dalla spesa storica (che finanzia indistintamente servizi e inefficienze) a quello del fabbisogno standard (che finanzia solo i servizi) ha implicazioni costituzionali che meritano di essere considerate. I fabbisogni standard infatti si raccordano alla perequazione e quindi al principio di solidarietà.

E’ utile ricordare la complicata vicenda per cui oggi i trasferimenti statali agli enti locali vengono ancora assegnati in base alla stratificazione del criterio della spesa storica. Nel 1973 (entrata in vigore della riforma fiscale), la soppressione dei tributi locali viene compensata con l’introduzione di trasferimenti statali, realizzando una situazione di accentramento della finanza locale e di perdita di autonomia impositiva dei Comuni. Viene creato un solo sportello centrale per le entrate e gli Enti locali diventano centri autonomi per la spesa completamente deresponsabilizzati sul versante delle entrate. Il risultato di questa scelta è un significativo aumento della spesa pubblica e conseguentemente, della pressione fiscale. Nel 1977 con i

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decreti “Stammati 1” e “Stammati 2” l’obiettivo dell’eliminazione del ricorso degli enti locali ai debiti bancari per finanziare le spese correnti viene perseguito con l’attuazione del criterio della “spesa storica”, ossia della determinazione delle erogazioni statali a favore dei singoli enti locali, in misura pari alla spesa sostenuta l’anno precedente, aumentata di una certa percentuale fissa.

Negli anni Novanta si assiste al tentativo di superare la prassi dei ripiani a piè di lista rafforzando l’autonomia impositiva locale; il criterio della spesa storica non viene tuttavia superato e il D.L. n. 41/1995 (c.d. manovra Dini), convertito con modificazioni dalla legge 22 marzo 1995 n. 85, cerca di introdurre il cd. “fabbisogno teorico standardizzato” calcolato con parametri monetari predeterminati.

Il nuovo sistema viene però criticato da una parte degli Enti locali e portato alla sospensione.

Stesso destino incontra anche il decreto 30 giugno 1997, n. 244 sul “Riordino del sistema dei trasferimenti erariali agli enti locali” che si caratterizza per l’introduzione di un principio diretto a premiare lo sforzo fiscale e tariffario. Il sistema, tuttavia, non è mai stato applicato.

Si tratta quindi di una storia di fallimenti, che richiedeva una nuova modalità di approccio al problema, pena il rischio di incorrere nell’ennesimo fallimento.

Il decreto attuativo della legge delega sui fabbisogni standard di Comuni, Province e Città metropolitane1, ha stabilito le procedure e i metodi per la determinazione dei fabbisogni standard per 12 funzioni fondamentali, 6 dei Comuni e 6 delle Province2. Si tratta di circa dell’80% del bilancio degli enti locali.

Il decreto è diretto a garantire la razionalizzazione del quadro precedente, nel rispetto, però, del principio di uguaglianza perché i fabbisogni standard sono solidali rispetto alla spesa effettiva per i servizi, ma non riguardo agli sprechi.

Lo scopo è abbandonare definitivamente gli effetti distorsivi e deresponsabilizzanti generati dal modello di gestione attuale, nonché rafforzare l’efficienza e il controllo democratico dell’elettorato.

Va precisato che i tentativi compiuti nel passato per superare il criterio della spesa storica hanno condotto a ripetuti fallimenti, poiché si è cercata una standardizzazione della spesa dei Comuni attraverso formule desunte dalla procedura econometrica. La ricerca di una formula in grado si rappresentare la realtà, e al contempo di colpire gli sprechi e premiare chi forniva servizi efficienti, si è rivelata impossibile, perché la formula matematica risultava o troppo rigida o troppo ampia, e comunque non in grado di considerare il complesso sistema di governance nel settore.

Ad esempio, in Veneto la legislazione regionale spinge molto verso le esternalizzazioni a cooperative sociali3. Questo determina una maggiore spesa per la funzione di amministrazione e controllo (anch’essa destinata ad essere standardizzata) che non è uno spreco, ma è funzionale a governare efficacemente i servizi sociali esternalizzati a soggetti Non profit, che

1 Decreto Legislativo 26 novembre 2010, n. 216 “Disposizioni in materia di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Città metropolitane e Province”. 2 Le funzioni fondamentali stabilite dal decreto sui fabbisogni standard per i Comuni sono: polizia locale; istruzione pubblica, compresi i servizi per gli asili nido e quelli di assistenza scolastica e refezione, nonché l’edilizia scolastica; viabilità e trasporti; gestione del territorio e dell’ambiente; funzioni del settore sociale. Per le Province: istruzione pubblica, compresa l’edilizia scolastica; trasporti; gestione del territorio; tutela ambientale; sviluppo economico e mercato del lavoro. Cfr. art. 3, comma 1, lett. a) e b), D. Lgs. 216/2010. 3 Cfr. Audizione di Luca Antonini Presidente COPAFF alla Camera dei Deputati, Fabbisogni standard e decisioni di finanza pubblica nell’attuazione del federalismo fiscale, Roma, 19 ottobre 2010, trascrizione consultabile al sito, http://www.tesoro.it/documenti/open.asp?idd=25605.

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però costano meno della gestione diretta (il costo di un asilo nido convenzionato in molte Regioni è quasi la metà di quello di un asilo comunale).

Se non si potessero considerare queste variabili si arriverebbe a penalizzare indebitamente un modello virtuoso basato sul principio di sussidiarietà.

I fabbisogni standard, invece di eliminare gli sprechi finirebbero per penalizzare la qualità e l’economicità di un servizio, solo perché strutturato secondo formule organizzative originali. Altro esempio: se un Comune tiene aperta l’anagrafe il sabato consentendo ai cittadini di ritirare i certificati fuori dall’orario di lavoro, non è uno spreco, come invece sarebbe se il personale dedicato al servizio fosse il doppio di quello di un Comune analogo.

Se ci fosse affidati, come in passato, a formule calate dall’alto desunte dalla procedura econometrica, si sarebbe quindi rischiato di tagliare servizi di qualità e di premiare sprechi: la realtà è sempre più complessa delle formule. Per evitare questo paradosso è nata, grazie anche al contributo al dibattito avvenuto nella Commissione bicamerale, la soluzione di applicare al federalismo fiscale la metodologia elaborata con successo negli studi di settore. Di qui l’affidamento del processo di standardizzazione - secondo i criteri, il monitoraggio e i procedimenti definiti dal decreto - a Sose s.p.a (la società interamente pubblica che ha elaborato studi di settore per 3 milioni di contribuenti) in collaborazione con Ifel, in qualità di partner scientifico.

La SOSE possiede, infatti, le caratteristiche per qualificarsi come soggetto idoneo per la costruzione dei fabbisogni standard. Nello specifico, si tratta di una società interamente pubblica (di proprietà per l’88% del MEF e per il restante 12% della Banca d’Italia), che ha acquisito un’esperienza ormai decennale nell’applicazione delle metodologie per la determinazione degli studi di settore, dove le problematiche erano simili a quelle della determinazione dei fabbisogni standard.

La soluzione Sose può essere considerata maggiormente praticabile rispetto ai tentativi avanzati nel passato4. L’esistenza di un numero elevatissimo di variabili rende, infatti, quasi impossibile applicare una regressione, perché si arriverebbe inevitabilmente a colpire dei servizi di qualità e/o a favorire degli sprechi, poiché la realtà è troppo variegata. L’unica ipotesi ragionevole che si è presentata è stata quindi quella di utilizzare il metodo degli studi di settore.

La metodologia degli studi di settore presenta, infatti, alcuni punti di forza che la rendono particolarmente interessante anche ai fini della costruzione del federalismo. In particolare, si basa sulla condivisione, con gli esperti del settore e dell’amministrazione finanziaria, delle scelte tecniche in tutte le diverse fasi di predisposizione degli studi di settore: la predisposizione dei questionari, con cui vengono raccolti i dati contabili e strutturali del settore; la scelta della metodologia di stima econometrico-statistica più appropriata; la validazione dei risultati.

Inoltre si tratta di una metodologia che innesta un processo graduale di emersione degli sprechi, procedendo a una revisione periodica degli standard.

4 Un modello più tradizionale che era stato preso in considerazione prevedeva l’applicazione delle “determinanti”. A lungo usato nell’ambito del Ministero dell’Interno, questo sistema utilizza l’econometria sotto forma di regressioni multiple, che stimano la dipendenza della spesa di volta in volta considerata da una serie di variabili (determinanti) in grado di cogliere i principali elementi di differenziazione tra gli Enti. Prevedendo una convergenza dei singoli Enti verso un livello medio, sebbene ponderato in base a fattori oggettivi, il modello delle determinanti di fatto genera una riallocazione della spesa storica complessiva senza modificarne il livello. Con questo metodo non è pertanto agevole discriminare adeguatamente gli Enti in base alle prestazioni effettivamente offerte in base alla spesa effettuata: in altri termini, risulta difficile definire un benchmark per l’efficienza della performance degli Enti.

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Si tratta di un metodo che permette di considerare ben 25.000 variabili e che è in grado di filtrare le informazioni anche superando il problema della eventuale inattendibilità dei dati contabili. I fabbisogni standard di ogni singolo Comune italiano costituiranno un nuovo fondamentale punto di riferimento sia per i politici locali che per gli elettori.

Il fabbisogno standard sarà determinato con riferimento a ciascuna funzione fondamentale, ad un singolo servizio, o ad aggregati di servizi, in relazione alla natura delle singole funzioni fondamentali.

Per esplicito richiamo del decreto, fino a nuova determinazione, dovranno essere considerati livelli essenziali quelli già fissati in base alla legislazione statale vigente.

La metodologia dovrà inoltre tener conto delle specificità legate ai recuperi di efficienza ottenuti attraverso le unioni di Comuni, o l’esercizio di funzioni in forma associata. In questo processo, particolare riguardo è posto nella individuazione degli obiettivi di servizio cui devono tendere le amministrazioni locali nell’esercizio delle funzioni riconducibili ai livelli essenziali delle prestazioni o alle funzioni fondamentali loro assegnate.

Il provvedimento dispone che per l’individuazione dei fabbisogni standard si dovrà tener conto della spesa relativa a servizi esternalizzati..

Nel decreto, infine, si precisa che eventuali economie, realizzate dall’ente locale tra la spesa effettiva ed il fabbisogno standard, siano acquisite al bilancio dell’ente.

In merito alle modalità e ai tempi di attuazione del passaggio al fabbisogno standard, il D. Lgs. 216/2010 prevede tre fasi: entro il 30.4. 2012 verranno determinati i fabbisogni standard, che entreranno in vigore nel 2012, riguardo ad almeno un terzo delle funzioni fondamentali; sempre nel 2012 verranno determinati i fabbisogni standard, che entreranno in vigore nel 2013, riguardo ad almeno due terzi delle funzioni fondamentali; nel 2013 verranno determinati i fabbisogni standard, che entreranno in vigore nel 2014, riguardo a tutte le funzioni fondamentali.

Ogni passaggio si svolgerà con un processo di gradualità diretto a garantire l’entrata a regime nell’arco del triennio successivo. Lo Stato dell’arte: dai decreti fiscali ai correttivi di urgenza

In attuazione della legge delega n. 42 del 2009 sono stati definitivamente varati ben 9 decreti legislativi:

- federalismo demaniale (d. lgs. n. 85/2010 in G.U. dell’11.6. 2010, n. 134); - ordinamento di Roma Capitale (d. lgs. n. 156/20010 in G.U. del 18.9.2010, n. 219 e - funzioni e finanziamento di Roma Capitale decreto approvato il 6 aprile 2012 in via

definitiva dal Governo); - determinazione dei costi e fabbisogni standard di comuni, città metropolitane e province (d.

lgs. n. 216/2010 in G.U. del 17.12.2010, n. 294); - federalismo fiscale municipale (d. lgs. n. 23/2011 in G.U. del 23.3.2011, n. 67); - autonomia di entrata di regioni a statuto ordinario e province nonché determinazione di

costi e fabbisogni standard nel settore sanitario (d. lgs. n. 68/2011 in G.U. del 12.5.2011, n. 109);

- risorse aggiuntive ed interventi speciali per la rimozione degli squilibri economici, attuativo dell’art. 16 della legge n. 5 maggio 2009, n. 42 (d. lgs. n. 88/2011 in G.U. del 22.6.2011, n. 143).

- il decreto legislativo in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e dei bilanci delle Regioni, degli enti locali e dei loro enti ed organismi (d. lgs. n. 118/2011 in G.U. del 172 del 26/07/11)

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- il decreto legislativo in materia di meccanismi sanzionatori e premiali relativi a regioni, province e comuni, pubblicato sulla a Gazzetta Ufficiale n. 219 del 20 settembre 2011.

CON IL Decreto legge 201/2011 (il decreto "Salva Italia"):

- è stata anticipata l’IMU dal 2014 al 2012. - sono state di fatto abolite le Province e così come le prevede la Costituzione,

trasformate in organi di mero coordinamento, di II livello - sono stati rafforzati i poteri dell’Agenzia del Demanio, di fatto sovrapponendo e

fermando il federalismo demaniale CON IL Decreto legge 1/2012 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitivita' . (liberalizzazioni): - è stata reintrodotta la tesoreria unica prevista nel 1984, sospendendo fino al 2014 la tesoreria mista che era stata introdotta nel 1997. Il quadro che risulta da tutto questo determina: 1) punti da rivedere; 2) punti fermi, da sbloccare; 3) punti che rischiano di fermarsi e che vanno sostenuti; 4) punti da valorizzare. 1) PUNTI DA RIVEDERE

LA FISCALITA' MUNICIPALE Con la manovra “salva Italia” è stata anticipata al 2012 l’entrata in vigore dell’imposta

municipale prevista dal federalismo fiscale. Nel disegno originario sarebbe dovuta avvenire nel 2014, assieme a quella dell’imposta municipale secondaria, nell’ottica di semplificare il farraginoso catalogo delle imposte locali (ben 18 diverse forme di entrata: dall’Ici alla “tassa sull’ombra”). Con il combinato operare delle due imposte il quadro si semplificava in 10 forme impositive, permettendo una nuova tracciabilità dei tributi. Se è, infatti, corretto imporre la tracciabilità dei pagamenti dei privati per contrastare l’evasione, è simmetricamente altrettanto fondamentale che anche le istituzioni pubbliche facciano la loro parte, grazie a imposte tracciabili che permettano – come ribadiva spesso Einaudi – al contribuente di conoscere il perché delle imposte, verificando le finalità pubbliche finanziate. Se evadere è un “delitto”, lo è anche sprecare le imposte; l’elettore deve quindi poter verificare e sanzionare con il voto chi commette sprechi. L’anticipo al 2012 dell’imposta municipale non comporta particolari problemi, come nemmeno la sua estensione alla prima casa, che anzi rafforza il legame tra l’elettore residente e la politica locale rendendo maggiormente efficace il controllo democratico. Un problema grave, invece, deriva dalla soluzione, adottata nella manovra, di riservare allo Stato metà del gettito dell’imposta municipale sulle seconde case (9 mld). Peraltro, i Comuni perdono di fatto anche il gettito derivante dall’estensione alle prime case (3,8 mld), dal momento che il decreto prevede un taglio al fondo di riequilibrio destinato ai Comuni per 1,45 mld (cui si aggiunge il taglio di 1 mld derivante dalla manovra di luglio) e una sua riduzione “compensativa” per altri 3,2 mld. Insomma, quest’anno arriva un’imposta che si chiama Municipale, che i cittadini vedranno più che raddoppiata rispetto alla vecchia Ici (soprattutto per effetto delle rivalutazioni catastali e dell’inclusione della prima casa). Sarà il Comune a metterci la faccia di fronte agli elettori quando arriverà la cartella esattoriale - l’imposta si chiama appunto “Municipale” - ma questi elettori non vedranno nessun miglioramento nei servizi municipali, perché il Comune non riceverà nemmeno un euro aggiuntivo: il maggior gettito lo incassa lo Stato. La tracciabilità del tributo a questo punto è gravemente compromessa (peraltro in un contesto dove inizieranno a diventare operativi i

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fabbisogni standard sulla spesa locale). Avere riservato allo Stato una grossa fetta del gettito - che potrà spenderlo a prescindere da ogni controllo della democrazia locale - di un tributo proprio comunale rappresenta una soluzione che compromette l’accountability, che si può giustificare solo in via transitoria data l’emergenza fronteggiata dal decreto “salva Italia” ma che non può essere definitiva, pena l’alterazione di un principio fondamentale del federalismo fiscale. Riparto del gettito dell’Imposta Municipale nel 2012 e tagli al Fondo di riequilibro dei Comuni Gettito vecchia Ici: 9,2 mld Gettito complessivo nuova IMU: 21,8 mld, di cui 9 mld riservati allo Stato. Riduzione ulteriore Fondo di riequilibrio per i Comuni 2012: - 2,45 mld (1,45 + 1 manovra luglio). Riduzione “compensativa” Fondo di riequilibrio per i Comuni: - 3,2 mld (1,6+ 1,6). Percorso: La Copaff (Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale) sta lavorando per proporre una revisione che corregga, a partire dal 2013, la distorsione. Una ipotesi è quella di lasciare tutta l’Imu ai Comuni e di eliminare le esistenti compartecipazioni ai tributi statali: imposte sui trasferimenti di immobili (imposta di registro e di bollo, imposta ipotecaria e catastale, tributi speciali catastali e tasse ipotecarie), imposte di bollo e registro contratti di locazione, irpef redditi fondiari, compartecipazione IVA. Queste compartecipazioni alimentano il fondo sperimentale di riequilibrio, che se si accoglie l’ipotesi che si formula verrebbe invece alimentato in senso orizzontale dall’Imu dei Comuni stessi. Il quadro tornerebbe ad essere razionale dal punto di vista fiscale (superando tutte le irrazionalità che stanno mettendo in crisi i cittadini, le imprese e i Comuni stessi), mentre dal punto di vista del peso dell’imposizione il riequilibrio si può ottenere lavorando sulla riforma degli estimi catastali che è previsto dalla delega fiscale approvata dal Governo. 2) PUNTI FERMI:

IL FEDERALISMO DEMANIALE Quello sul federalismo demaniale è stato il primo decreto legislativo (n. 85 del 28.5.10) del

federalismo fiscale. Eppure è ancora fermo al palo, nonostante sia un provvedimento che, come ha evidenziato la Corte dei Conti - conoscitrice sul campo dei luoghi del vero spreco -, può “comportare due importanti effetti positivi: da un lato, può offrire un volano finanziario per specifici interventi di riqualificazione del territorio e, dall’altro, può rappresentare una importante opportunità per rivedere e potenziare le possibilità di utilizzo di un patrimonio spesso trascurato o messo a reddito in maniera inadeguata” (Audizione del 4.5.10).

E’ fermo anche il provvedimento di attuazione più semplice: il trasferimento della proprietà delle spiagge alle Regioni, che richiede un banale decreto ministeriale; a distanza di oltre un anno e mezzo non è ancora stato firmato. Potenza della resistenza delle amministrazioni statali! Eppure quella semplice firma permetterebbe di avviare un significativo processo di valorizzazione. Non ha senso che la proprietà delle spiagge sia statale e quindi i canoni demaniali li incassi lo Stato, quando tutte le competenze in materia di turismo sono regionali. E’ molto più funzionale – ovviamente nel rispetto del regime demaniale, per cui le spiagge non potranno certo essere vendute – che sia un unico soggetto, la Regione, il titolare sia della funzione sia del bene: trattenendo i canoni demaniali avrà interesse a valorizzare spiagge e

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relativi contesti con gli strumenti legislativi e amministrativi di cui dispone. Oggi, sotto la gestione statale, i tassi di abusivismo, di assenza di controlli e di deresponsabilizzazione sono impressionanti. Così come i divari territoriali: un km di spiaggia balneabile rende in canoni 108 mila euro in Veneto e 8 mila euro in Calabria. Sono disfunzioni e gap che si riducono responsabilizzando i territori inefficienti; mentre le realtà già virtuose, come il Veneto, sono pronte a valorizzare ulteriormente questa eccezionale risorsa. Non è un salto nel buio: nelle Regioni Speciali tutto questo è già avvenuto con ottimi risultati. Da tempo la regione Friuli Venezia Giulia è proprietaria delle spiagge: è la realtà italiana dove la gestione dei canoni è più regolare e dove il demanio marittimo è meglio valorizzato.

Analoghe resistenze si riscontrano sui beni della Difesa, proprietaria di oltre mille immobili ad alto potenziale di valorizzazione non necessari per le funzioni di sicurezza nazionale. Anche qui è tutto fermo, come pure sul trasferimento agli Enti locali degli altri beni.

La manovra “salva Italia” ha rafforzato enormemente aumentato i poteri della Agenzia del Demanio, che diventa il solo vero protagonista del processo di valorizzazione, estromettendo di fatto gli enti locali. A questi assegna una percentuale modesta (tra il 5% e il 15% del ricavato della vendita degli immobili statali valorizzati), nonostante siano loro in realtà i veri protagonisti del successo delle valorizzazioni: in questi casi la chiave di volta si chiama variante urbanistica, se manca chi se la compra una caserma? Quindi il nuovo processo è presumibilmente destinato al fallimento. Peraltro le Regioni hanno impugnato alla Corte costituzionale questa disposizione del "Salva Italia". Quindi su questo aspetto si rischia una situazione di paralisi. 3) I PUNTI DI FORZA DA SOSTENERE:

FABBISOGNI STANDARD COMUNI E PROVINCE Il cuore del federalismo è sul lato della spesa, attraverso i costi e i fabbisogni standard e il

superamento della spesa storica. Fino a prima del federalismo fiscale il nostro sistema ha distribuito ogni anno (ad esempio nel 2008) ben circa 100 miliardi di euro in base al criterio demenziale della spesa storica, per cui più spendi più prendi, e se spendi male fino a creare un buco lo Stato interviene a ripianare con risorse di tutti gli italiani (l’ultimo governo Prodi stanziò 12 miliardi di euro per cinque regioni del Sud in extradeficit sanitario; regioni che quel ripiano l’hanno assorbito quasi come nulla fosse e oggi continuano ad essere in deficit e a mantenere fortissimi livelli di migrazione sanitaria). Oppure basti considerare che nel 2008 si è scoperto che tutta la contabilità della sanità della Calabria era completamente inattendibile. La spesa storica è stato non solo un criterio demenziale ma anche un criterio profondamente iniquo. Nel tempo ha portato che a Treviso arrivassero con trasferimenti statali per circa 200 euro pro capite e a Napoli per circa 700.

Il passaggio dalla spesa storica ai fabbisogni standard è la vera spending rewiew per il comparto degli enti territoriali (dove si colloca oltre un terzo della spesa pubblica italiana); è un intervento strutturale che modifica nel lungo periodo il sistema istituzionale, con un impatto su i grandi temi: i comportamenti, la responsabilità, la trasparenza, la democraticità, il controllo elettorale. I costi e i fabbisogni standard permettono il risultato epocale del superamento della irrazionalità del finanziamento in base alla spesa storica.

Ad oggi sono state determinate, nel giro al massimo di un mese arriveranno in Copaff, i fabbisogni standard di due funzioni fondamentali: polizia locale e amministrazione generale.

Tuttavia, il questionario relativo alla terza funzione fondamentale è stato trascurato dai Comuni (probabilmente sul piede di guerra per la vicenda IMU e Tesoreria Unica): ben 5000

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non lo hanno compilato. E’ un segnale grave, che richiede che il processo venga sostenuto politicamente.

Dai primi dati, relativi alle funzioni sulla polizia locale, emerge che il Veneto è la regione maggiormente premiata dal passaggio dalla spesa storica al fabbisogno standard.

COSTI STANDARD SANITA’ Dovrebbero essere utilizzati, sulla base dei risultati prodotti nel 2011 dalle singole regioni,

per determinare il Patto della Salute dal 2013. La sensazione, a detta di alcuni assessori regionali, che ci sia un fronte, all’interno delle

Regioni, che vuole rinviare la cosa.

INVENTARIO DI FINE MANDATO Mai le competizioni elettorali si sono svolte sui dati di bilancio e anzi spesso è stata

frequente - ad elezione avvenuta - la denuncia di veri o presunti buchi ereditati dalle gestioni precedenti (ultimo caso quello di Milano).

L’inventario di fine mandato introduce la certificazione dei saldi di uscita di una amministrazione comunale, provinciale o regionale, in modo da rendere consapevole il voto dei cittadini. Viene pubblicato sul sito internet dell’ente 20 giorni prima delle elezioni.

La sua attuazione, per la quale occorre un decreto del Ministero dell’Interno, è stata bloccata per quest’anno e cos’ le prossime lezioni amministrative non avverranno sulla base di questo strumento fondamentale di responsabilizzazione. Va assolutamente attuato per l’anno prossimo.

ARMONIZZAZIONE BILANCI L’armonizzazione dei bilanci inciderà, modernizzandoli, sui bilanci di 9.700 enti portando il

nostro sistema ad un livello di trasparenza e di ordine che spesso era gravemente compromesso. Anche i criteri di redazione dei bilanci, non uniformati e non consolidati con i servizi esternalizzati, ne impedivano una seria lettura non solo ai cittadini, ma addirittura anche alla stessa opposizione politica. Fino a casi eclatanti di bilanci che si sono dimostrati chiaramente inattendibili, come quello di Catania presentato nel 2008 che determinò il fatto che fosse poi premiata con un milione di euro di premio di sovra spesa (Bergamo con 300.000 euro!) per il rispetto del Patto di stabilità, nonostante una voragine effettiva di oltre cento milioni di euro poi ripianata dallo Stato. Il federalismo fiscale, interviene radicalmente su questo quadro: i bilanci vengono resi leggibili, vengono fatti emergere e puliti i residui attivi e passivi, ecc.

Il processo di armonizzazione è in corso e diversi enti sono coinvolti nel passaggio alla contabilità finanziaria accompagnata da quella economica. Questo permetterà a breve una nuova ed inedita trasparenza.

Peraltro, recentemente a livello europeo è stato stabilito espressamente questa uniformità e la Commissione potrà fare verifiche dirette sui singoli Enti. Grazie al federalismo fiscale, non partiamo da zero, ma il lavoro è pronto.

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Art. 8 (reg. 479/2009) La Commissione (Eurostat) valuta periodicamente la qualità sia dei dati effettivi trasmessi dagli Stati membri sia dei conti pubblici settoriali sottostanti compilati a norma del SEC95 («conti pubblici»). Per qualità dei dati effettivi si intende che essi ottemperano alle norme contabili e che sono dati statistici completi, affidabili, tempestivi e coerenti. La valutazione si incentra sugli ambiti individuati negli inventari degli Stati membri quali la delimitazione del settore delle amministrazioni pubbliche, la classificazione delle operazioni e delle passività pubbliche e la data di registrazione. Art. 11 (introdotto dal Reg. UE 679/2010) La Commissione (Eurostat) provvede a un dialogo permanente con le autorità statistiche degli Stati membri. A tal fine la Commissione (Eurostat) effettua in tutti gli Stati membri visite di dialogo periodiche ed eventuali visite metodologiche. Le visite metodologiche sono intese a controllare i procedimenti e verificare i conti su cui si basano i dati trasmessi e a trarre conclusioni dettagliate circa la qualità dei dati trasmessi, come descritta all’articolo 8. 5. Linee e percorsi per una Spending review nella sanità 5.1 La spesa sanitaria

La dinamica della spesa sanitaria italiana è significativo. Picchi impressionanti si sono verificati dalla fine degli anni Novanta, quando è praticamente raddoppiata, passando dai 55,1 mld del 1998 ai 101,4 mld del 2008. Poi il trend di crescita è rallentato per effetto della introduzione del principio “chi rompe paga” (l’aumento delle addizionali regionali all’Irpef per chi sfora i bilanci): in ogni caso oggi si sono superati i 110 mld. Il dato mette in evidenza due elementi indispensabili per considerare il fenomeno. Il primo è che la spesa sanitaria cresce fisiologicamente per effetto dell’invecchiamento della popolazione conseguente all’innalzamento dell’età media; il secondo è che i processi di decentramento devono essere accompagnati da seri meccanismi di responsabilizzazione, altrimenti la spesa finisce fuori controllo. Il decentramento è importante perché permette modelli calibrati sulle specificità territoriali; oggi in Italia abbiamo vari modelli sanitari, quello lombardo o veneto è diverso da quello toscano o emiliano: è un fattore di efficienza perché permette di valorizzare specifiche situazioni e tradizioni. Tuttavia, il decentramento implica la responsabilizzazione regionale sul piano finanziario: se lo Stato interviene con ripiani a piè di lista (l’ultimo fu attuato nel 2008 dal governo Prodi con 12 mld di euro) la spesa finisce fuori controllo, soprattutto nelle realtà meno efficienti. Si è, infatti, parlato spesso delle inefficienza regionali nella sanità italiana, dove abbiamo dieci regioni (insieme contano circa 29 ml di abitanti) sottoposte a piani di rientro e cinque commissariate, oberate da inefficienze e debiti pregressi, generati e tramandati in modo bipartisan dai vari governatori che si sono succeduti. Ma la situazione italiana nel complesso non è male: siamo secondi al mondo per qualità (l’aspettativa di vita da noi e' più alta di quella della Germania) e undicesimi per la spesa, molto inferiore non solo a quella degli USA (di circa il 50%) ma anche a quella dei principali Paesi europei. Si dice che dipenda anche dalla salubrità della dieta mediterranea; in realtà se questa vi concorre, non basta certo a spiegare il risultato. La verità è un’altra: nella sanità italiana si trova il meglio e il peggio dei Paesi industrializzati. Ad esempio, nel Lazio dopo stagioni in cui i debiti pregressi hanno raggiunto i 18 mld di euro, al momento rimangono, pur dopo le varie vicende di ripiani statali, ancora assestati a ben 11 mld di euro. L’inefficienza, quindi, continua a concentrarsi in alcune

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Regioni, le “solite note”, dove la situazione è, da un lato, figlia del passato perché le risorse per garantire i servizi vengono drenate per coprire il pregresso; dall’altro, è generata dall’oggi essendo spesso disatteso il vero problema: una seria programmazione dell’organizzazione della sanità. Ci si impegna (quando va bene) in termini ragionieristici sui piani di rientro - tagliando posti letto - ma si stenta a riprogettare la macchina dell’assistenza con tutto ciò che vi sarebbe connesso: chiudere gli ospedali piccoli e quelli inutili, potenziare i servizi territoriali e le strutture intermedie (piccola radiologia, medici di base, ecc.). La programmazione è invece l’unica strada per riportare efficienza: ad esempio il punto di forza del modello veneto è di avere ridotto il tasso di ospedalizzazione a vantaggio di un sistema territoriale capillare ed efficiente, chiudendo gli ospedali piccoli. I posti letto per acuti sono passati dai 4,6 ogni mille abitanti del 2000 ai 3,4 del 2011: così, senza ridurre la qualità, si e' ridotta del 14% la spesa complessiva. Il Veneto si sta ora attrezzando per fronteggiare le nuove sfide dell'invecchiamento della popolazione (oggi in Italia gli over 65 sono il 20% della popolazione, nel 2050 supereranno il 30 %) passando da un sistema basato su patologie acute (da orientare verso centri specializzati concentrati in determinate zone) a uno più focalizzato sulle malattie croniche, aumentando i servizi di assistenza territoriale (la cronicità va assistita vicino a casa). Il federalismo fiscale è il solo modo per favorire questi processi: perché da un lato, attraverso i costi standard, certifica gli sprechi mentre dall’altro, attraverso il rafforzamento dell’autonomia fiscale, elimina l’aspettativa del ripiano statale. Un governatore che non affronta la riprogrammazione del sistema dovrà quindi affrontare gli elettori, con un costo politico ben maggiore dell’inerzia.

Gli impegni assunti in sede comunitaria, tra cui l’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio, il ripianamento progressivo del debito pubblico e il nuovo rigore (Six pack e Fiscal compact), impongono, quindi, una svolta anche nelle politiche della salute. Per questo il coordinamento centrale della spesa è fondamentale, così come l’assunzione di responsabilità delle Regioni nell’ambito del federalismo. E’ un equilibrio difficile da individuare, dal momento che la giusta esigenza di moralizzazione negli acquisti di beni e servizi (strumenti terminali di un malaffare diffuso che ha più inciso, negativamente, sulla formazione di montagne di debiti pregressi) si scontra con un’autonomia costituzionalmente riconosciuta, che le Regioni, di fronte a imposizioni governative di centralizzazione generalizzata degli acquisti, saranno subito pronte a far valere di fronte alla Corte costituzionale, forti della loro competenza esclusiva in materia di organizzazione sanitaria. A Bondi potrebbe quindi venire in aiuto il federalismo fiscale con i costi standard, sotto un nuovo punto di vista: alle Regioni che spendono più dello standard (che possono essere già da subito individuate in quelle sottoposte a piani di rientro o addirittura commissariate) l’imposizione della centralizzazione degli acquisti si può giustificare dal punto di vista costituzionale in nome del potere sostitutivo statale, esercitabile ai sensi dell’articolo 120 della Costituzione. In questo modo il Governo si tutelerebbe dai rischi di incostituzionalità ed eviterebbe, peraltro, di penalizzare le realtà già virtuose e quelle che per conto loro hanno già istituito centrali acquisti, mentre riuscirebbe legittimamente ad imporre un fattore di moralizzazione, quanto mai opportuno, alle altre.

Il mondo sanitario ha iniziato già dai primi anni 2000 (attraverso strumenti “pattizi” Stato-Regioni) un profondo processo di analisi dell’andamento della spesa nelle varie Regioni e dei livelli di assistenza garantiti dalle stesse. Il panorama nazionale è estremamente variegato, con una costante: la profonda differenziazione tra Centro Nord e Sud del Paese: la sanità dell’Italia settentrionale e della dorsale appenninica è simile a quella erogata nella media dei Paesi

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europei evoluti per quanto attiene la prevenzione, la cura, il trattamento del post acuzie e la cronicità.

Parte dell’Italia Centrale (Lazio, Abruzzo, Molise) e di quella meridionale, al contrario sono caratterizzate da un eccesso di offerta ospedaliera, spesso frammentata in piccoli presidi, da sistemi di urgenza–emergenza inadeguati, da una presenza della medicina di base ed Assistenza territoriale (R.S.A., assistenza domiciliare, ospedali di Comunità, Hospice) del tutto inadeguati.

Il modello descritto è costoso, fonte di profondi disavanzi, caratterizzato sovente da bassa qualità, che genera flussi di migrazione sanitaria Sud–Nord assolutamente atipici e distorsivi.

I “Patti per la Salute” dal 2005 in poi, hanno previsto strumenti sanzionatori dei disavanzi piuttosto gravosi, finalizzati a recuperare le perdite attraverso fiscalità regionali aggiuntive, maggior compartecipazione alla spesa dei cittadini (ticket) e altri strumenti similari.

Ben otto Regioni sono soggette a “piani di rientro” e di riorganizzazione dei modelli assistenziali, secondo parametri di spesa per macro livello assistenziale consolidati nelle aree virtuose, ovvero: 5% prevenzione, 44% ospedale, 51% territorio.

Il Decreto Legislativo 6 maggio 2011, n. 68 “Disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario”, ha introdotto, inoltre, in sanità, il principio dei fabbisogni e costi standard su scala nazionale e regionale, assumendo come benchmark le performance di spesa per livelli assistenziali, delle tre migliori su scala nazionale, garantendo, ove ricorrano le condizioni, rappresentanza geografica di Nord, Centro e Sud; l’applicazione avrà luogo dal 2013 con dati di riferimento dell’esercizio 2011.

Altro strumento di estremo interesse per il governo della spesa è l’introduzione, con la Legge n. 11/2011 dei prezzi di riferimento per beni sanitari e non sanitari, compresi i dispositivi medici che, diversamente dai farmaci, non sono sottoposti ad alcuna autorità di vigilanza che ne valuti l’efficacia, il prezzo, la qualità. La spesa per dispositivi medici (compresa la protesica) è sottoposta, dal 2013, ad un tetto di spesa pari al 5,2%.

Il provvedimento si è reso necessario per l’eterogeneità dei prezzi sul territorio nazionale, per beni sanitari e non sanitari, questi ultimi in particolare registrano una dinamica di gran lunga al di sopra del tasso di inflazione.

La “griglia” complessiva di governo della spesa in sanità ha raggiunto, negli ultimi due anni, dei risultati apprezzabili riducendo la dinamica annua di incremento di spesa attorno all’1.5/2%, di almeno due/tre punti al di sotto dell’andamento degli ultimi cinque anni.

Prima di entrare nel merito dei processi di spending review, occorre precisare che l’Italia, nel complesso, si colloca nell’area medio/bassa del rapporto PIL - spesa sanitaria pubblica in Europa. Il trend dei costi è destinato, comunque, a crescere nel tempo significativamente per effetto dell’invecchiamento della popolazione e sviluppo di nuove tecnologie e ricerca farmacologica.

Le aspettative del Governo di aggredire la spesa complessiva della P.A. per 100 miliardi di euro, di cui, orientativamente un terzo in sanità, sono piuttosto ottimistiche; si consideri, infatti che il Fondo Sanitario Nazionale 2012, ammonta a 107,6 miliardi di euro.

Tuttavia, è del tutto evidente che siamo forzosamente chiamati ad uno sforzo eccezionale in una situazione assolutamente straordinaria.

Il processo di spending review, per essere efficace nel tempo ed avviare un deciso “cambio di marcia” nel processo riorganizzativo, deve assegnare maggiore forza e incisività agli strumenti citati: costi standard, prezzi di riferimento, acquisti centralizzati ed inoltre avviare in via

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definitiva il progetto di sanità digitale ed elettronica, che da sola, secondo stime ministeriali e confindustriali, a regime, può assicurare un risparmio stimato in 1,3 miliardi di euro.

Secondo quanto anticipato dagli organi di informazione, uno dei primi ambiti oggetto di intervento sarà l’acquisizione di beni e servizi. In sanità sono in corso più iniziative virtuose per affrontare in modo nuovo la questione: le ESTAV (Ente per i Servizi Tecnico-amministrativi di Area Vasta) in Toscana, le Centrali di Acquisto in più Regioni ed infine l’esperienza delle Confederazioni in Piemonte.

Si tratta di soggetti giuridici, per lo più autonomi, deputati agli acquisti con lo scopo primario di ridurre il prezzo unitario di acquisto, garantendo la qualità, ovviamente, dei prodotti.

Il problema non è limitato, comunque, all’acquistare a prezzi competitivi, ma anche ai volumi acquistati e consumati, ovvero, all’appropriatezza dei processi prescrittivi a monte, che non sempre sono “standardizzati” in quanto a percorsi diagnostico terapeutici.

Il costo standard delle prestazioni, o meglio delle aree assistenziali, può essere un utile strumento in quanto ingloba sia fattori di efficienza produttiva, sia aspetti di efficacia e appropriatezza, fornendo un’essenziale dimensione quantitativa e qualitativa ai LEA.

Recentemente il CERM ha avanzato un’ipotesi di lavoro piuttosto suggestiva di revisione del perimetro dei LEA e ripensamento delle politiche di copayement.

Ovviamente sono processi che devono avvenire salvaguardando principi di equità e di tutela delle fasce più deboli della popolazione.

Altra questione finora, forse sottovalutata a livello centrale, ma di primaria importanza è la centralizzazione, seguendo criteri di economia di scala, delle strutture erogatrici di servizi amministrativi, in particolare: personale, uffici tecnici, informatica, ingegneria clinica, ecc…

Si tratta di processi “timidamente” avviati in alcune Regioni o trasferendo funzioni a soggetti preposti: ESTAV in Toscana, Federazioni in Piemonte, Capoluoghi di Provincia in Veneto (Piano in corso di approvazione), oppure ampliando le dimensioni delle A.S.L. con il rischio di innescare delle diseconomie organizzative, ove il tessuto organizzativo e gestionale è fragile (Sud in particolare).

Se dalla politica degli acquisti ci si può attendere una economia iniziale sull’ ordine del 5/10% (su 30 miliardi cca), dall’accentramento delle funzioni amministrative e logistica può derivare (nel tempo), un risparmio di personale amministrativo del 20/30%.

Si è già accennato dell’agenda digitale che in sanità significa ospedali senza carta e produzione digitale di immagini e referti, prescrizione elettronica di visite ed esami, ricette del farmaco, fascicolo sanitario elettronico del paziente, ecc…

I percorsi di risparmio in molti casi significano percorsi di qualità, modernizzazione del sistema, migliori servizi, più sicurezza per il paziente.

Ultima questione che si pone all’attenzione è la recente valutazione del Comitato LEA , circa il rapporto tra posti letto e strutture operative complesse, ovvero, il numero di apicalità (primari) in ambito ospedaliero e territoriale, rapportati al fabbisogno. I dati emersi che vanno, comunque, presi con attenzione e letti su scala regionale, indicano un esubero di circa 3000 figure apicali (primariali) ed una pletora poco motivata di incarichi dirigenziali di strutture semplici e dipartimentali.

La spending review nell'ambito della sanità deve essere intesa, pertanto, come un’azione coordinata che garantisca i livelli qualitativi di assistenza e che agisca profondamente sui modelli organizzativi, operativi e sulla filiera assistenziale assicurando appropriatezza e sicurezza del paziente.

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5.2 La revisione della spesa assistenziale Nell'ambito dei processi di riforma del welfare e di revisione della spesa può avere un

importante ruolo la Delega al Governo per la riforma fiscale e assistenziale (AC 4566) promossa dal Governo Berlusconi e in particolare gli interventi ivi previsti finalizzati, sul presupposto della separazione del dovere fiscale da quello di assistenza sociale, alla riqualificazione e integrazione delle prestazioni socio assistenziali in favore dei soggetti autenticamente bisognosi, al trasferimento ai livelli di governo più prossimi ai cittadini delle funzioni compatibili con i principi di efficacia e adeguatezza, alla promozione dell’offerta sussidiaria di servizi da parte delle famiglie e delle organizzazioni con finalità sociali. Si ricordano i principi e criteri direttivi quali: la revisione degli indicatori di situazione economica equivalente, con particolare attenzione alla composizione del nucleo familiare; il riordino dei criteri, inclusi quelli relativi alla invalidità e alla reversibilità, dei requisiti reddituali e patrimoniali, nonché delle relative situazioni a carattere personale e familiare per l’accesso alle prestazioni socio assistenziali; l'armonizzazione dei diversi strumenti previdenziali, assistenziali e fiscali di sostegno alle condizioni di bisogno allo scopo di evitare duplicazioni e sovrapposizioni, favorire una adeguata responsabilizzazione sull’utilizzo e sul controllo delle risorse da parte dei livelli di governo coinvolti anche, ove possibile e opportuno, con meccanismi inerenti al federalismo fiscale e perseguire una gestione integrata dei servizi sanitari, socio sanitari e assistenziali. La Delega prevede tra i propri principi e criteri l'istituzione per l’indennità di accompagnamento di un fondo per l’indennità sussidiaria alla non-autosufficienza ripartito tra le Regioni, in base a standard afferenti alla popolazione residente e al tasso di invecchiamento della stessa, nonché a fattori ambientali specifici, al fine di: favorire l’integrazione e la razionalizzazione di prestazioni sanitarie, socio sanitarie e sociali; favorire la libertà di scelta dell’utente; diffondere l’assistenza domiciliare; finanziare prioritariamente le iniziative e gli interventi sociali attuati sussidiariamente via volontariato, non profit, Onlus, cooperative e imprese sociali, quali organizzazioni con finalità sociali quando, rispetto agli altri interventi diretti, sussistano i requisiti di efficacia e di convenienza economica in considerazione dei risultati. Come rilevato dalla relazione tecnica al provvedimento, il sistema previdenziale e assistenziale delineato dal provvedimento di delega, riprendendo il quadro tracciato dalla legge 328/2000, opera attraverso l’attribuzione dei compiti ai diversi livelli di Governo, fortemente responsabilizzati sull’utilizzo e il controllo delle risorse. Il disegno di riordino della legislazione in materia sociale intende superare le attuali sovrapposizioni e duplicazioni che caratterizzano un sistema che, nelle relazioni allegate al provvedimento, viene giudicato scarsamente efficace e non più sostenibile dal punto di vista finanziario. L’obiettivo dichiarato è quello di integrare i servizi socio-sanitari con i servizi del welfare. In particolare, la delega mira a riqualificare e integrare le prestazioni socio-assistenziali in favore dei soggetti autenticamente bisognosi; una definizione, come sottolineato dalle relazioni, che indica la finalità dell’intervento, mirato a superare un utilizzo improprio delle risorse e a frenare il dilagare delle contribuzioni monetarie dirette, prima fra tutte l’indennità di accompagnamento. Nel passaggio dal contributo economico ad un sistema di servizi alla persona, viene fortemente promossa, attraverso la scelta del finanziamento prioritario, l’offerta sussidiaria di servizi da parte delle famiglie e delle organizzazioni con finalità sociali (volontariato, no profit, onlus, cooperative ed imprese sociali) ove sussistano i requisiti di efficacia e convenienza economica. In ordine agli effetti finanziari, viene espressamente disposto che dall'attuazione della legge di delega devono derivare effetti positivi, ai fini dell'indebitamento netto, non inferiori a 4.000 milioni di euro per l'anno 2013 e a 20.000 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2014.

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Prime considerazioni Trattandosi di un "work in progress" è apparso corretto chiudere questa prima versione del

paper senza far riferimento a delle "conclusioni", ma ritenendo che il percorso indicato soprattutto dal punto di vista dell'impostazione delle tematiche richiede continui aggiornamenti, approfondimenti e ampliamenti ad ambiti non ancora considerati.

La crisi fiscale degli Stati ci obbliga a superare inefficienze storiche, gestionali e culturali, rispetto alla gestione della "cosa pubblica" e al contempo a rivedere sostanzialmente il rapporto tra Stato, economia e società. Pesanti sono le eredità del passato in termini di inefficienza, così come sono forti le sfide che provengono da un lato dalla crisi del debito sovrano e dall'altro dalla domanda proveniente dal disagio sociale generato dalla complessità delle società e dalla crisi di un modello di welfare e di Stato. Rivedere la spesa e ridisegnare il perimetro del settore pubblico sono processi obbligatori che non hanno solo a che fare con il rispetto di vincoli comunitari, di carattere finanziario, ma con la sostenibilità del modello democratico delle nostre istituzioni investendo i diritti sociali e quindi le modalità attraverso le quali questi debbano o possano essere oggi protetti.

Proprio la riforma del welfare e le domande sociali che provengono dalla collettività ci obbligano a rivedere le nostre strutture organizzative e i nostri modelli gestionali e di spesa con riferimento a tutti gli ambiti dell'intervento pubblico. Un esercizio non più rinviabile, che richiede le migliori passioni, e che sarebbe da irresponsabili, e ancor più doloroso, evitare e scaricare alle generazioni successive. Posto che sia possibile farlo.

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ALLEGATI ALLEGATO A

LA SEMPLIFICAZIONE COME VOLANO PER LA CRESCITA E LA RAZIONALIZZAZIONE DELLA SPESA

Il contesto e gli obiettivi

Il quadro economico e finanziario, gli obblighi derivanti dal Fiscal compact e i dati che vedono la spesa pubblica raggiungere livelli allarmanti, superando il 50% del PIL, impongono l’adozione di misure tempestive di riduzione della spesa pubblica, anche per evitare, nel breve periodo, l’aumento di 2 punti dell’IVA, previsto in mancanza per il prossimo ottobre, oltre che per raggiungere l’auspicato obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013.

Il Governo ha più volte sottolineato il rifiuto della logica dei tagli lineari e nel dare concreta attuazione al piano di spending review ha ribadito la necessità che la riduzione della spesa avvenga in modo selettivo, onde eliminare gli sprechi, evitare inefficienze ed ottenere risorse da destinare alla crescita. Ciò, in linea con gli impegni assunti nella manovra di luglio dallo scorso Governo con il d. l. n. 98/2011 (che dava avvio dal 2012 ad un ciclo di spending review) e ribaditi più specificamente nella manovra di agosto (d. l. n. 138/2011), in vista dell’obiettivo di razionalizzazione della spesa e di superamento del criterio della spesa storica. Tali impegni prevedano, fra l’altro, l’individuazione, anche attraverso la sistematica comparazione di costi e risultati a livello nazionale ed europeo, di eventuali criticità nella “produzione ed erogazione dei servizi pubblici, anche inerenti le possibili duplicazioni di strutture e le possibili strategie di miglioramento dei risultati ottenibili con le risorse stanziate”.

Il Piano Garda si pone in continuità con tale programma, dandone massima vitalità e accelerazione, anche grazie alla costituzione della task force interministeriale che si pone nel brevissimo periodo, ossia entro il 2012, l’obiettivo di ridurre di 4,2 miliardi di euro la spesa pubblica, a fronte di una spesa rivedibile nel “breve periodo” stimata, alla luce delle più recente dichiarazioni del Ministro, in 100 miliardi e, a tendere, in 295 miliardi. La semplificazione come occasione ad alto potenziale

Condividendo l’impostazione in base alla quale la razionalizzazione della spesa richiede a monte una più profonda riflessione sulle funzioni e quindi una razionalizzazione delle stesse, la semplificazione legislativa ed amministrativa può, soprattutto nel medio periodo, rappresentare un’occasione ad alto potenziale, anche grazie all’uso ormai diffuso della metodologia della misurazione degli oneri amministrativi, secondo i principi dello EU standard cost model, adottati a seguito delle sollecitazioni delle principali organizzazioni internazionali e alle positive esperienze di altri Paesi europei.

Semplificare significa rendere più fruibile il quadro delle regole del Paese, ridurre il numero delle norme esistenti, eliminare gli oneri amministrativi inutili che gravano sui cittadini e sulle imprese, agevolando l’adempimento di quelli necessari per garantire un livello di tutela adeguato e per assicurare lo svolgimento delle pubbliche funzioni.

In questa accezione, la semplificazione assume una valenza strategica, in quanto accresce la fiducia dei cittadini e delle imprese nell’amministrazione e costituisce il

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presupposto per la creazione di un contesto normativo e amministrativo favorevole agli investimenti, all’innovazione e all’imprenditorialità.

D’altronde, uno degli obiettivi della Strategia di Lisbona per la crescita e l’occupazione è proprio quello di incrementare la competitività internazionale nell’Unione, facendo leva anche sul miglioramento dell’attività legislativa e sulla riduzione degli oneri amministrativi (le c.d. “lungaggini burocratiche”) che gravano sulle imprese e sui cittadini, spesso in modo del tutto inutile ed inefficace in nome di una non meglio precisata necessità di “controllo” su atti ed attività degli stessi 5.

Nell’annuale classifica «Ease of doing business» per l’anno 2012, realizzata dalla World Bank, il nostro Paese è stato collocato all’87° posto. Vale a dire dietro ai principali Paesi dell’Ocse, ma anche a Stati quali Moldova, Zambia, Ghana o Ruanda. Il ranking è guidato nell’ordine da Singapore, Hong Kong, Nuova Zelanda, Stati Uniti e Danimarca. Tale dato è ancora più significativo laddove si consideri che il PIL dell’Italia, in termini assoluti certo e non in base alla crescita annuale, ci colloca al 3° posto nell’Eurozona e all’8° posto a livello mondo.

A incidere negativamente sul giudizio complessivo sull’Italia pesano in particolare due aspetti: il sistema fiscale, che colloca l’Italia al 134° posto, e la giustizia civile, che la fa sprofondare addirittura al 158° posto su 183 Paesi osservati, ossia dietro a gran parte degli Stati appartenenti al cosiddetto «terzo mondo» 6.

L’Italia si colloca nella seconda metà della classifica anche per quanto riguarda l’accesso al credito (98°) e la facilità di ottenere autorizzazioni e permessi a costruire (96°). Entrambi gli indici registrano un lieve peggioramento rispetto alla classifica 2011, quando tali parametri erano rispettivamente pari a 96 e 93. Per quanto concerne le autorizzazioni, peraltro, dal rapporto si evince che il numero di procedure richieste è inferiore alla media Ocse (11 contro 14), ma questo apparente snellimento viene «bruciato» dai tempi lunghi che rendono comunque l’intero processo più lento degli altri Paesi: in Italia per ottenere tutti i permessi a edificare un capannone servono in media 258 giorni, nell’area Ocse 152. Sono leggermente più incoraggianti i dati che riguardano la tutela degli investitori (65° al mondo) e la facilità di effettuare scambi con controparti straniere (63°).

Anche alla luce di questi dati allarmanti, la semplificazione e la riduzione degli oneri amministrativi per rilanciare la crescita, attrarre investimenti, aumentare la produttività della pubblica amministrazione, ridurre i costi di produzione dei servizi pubblici, non possono non rappresentare delle priorità nell’agenda del Governo, specie in un momento storico di profonda crisi come quello che stiamo vivendo.

Come ha correttamente rilevato la stessa Commissione europea nell’ambito del Piano d’azione per la Semplificazione del 2007 (PAS 2007), ridurre i costi della burocrazia non significa ridurre gli obblighi di rendicontazione o di informazione, piuttosto significa eliminare gli oneri obsoleti, rendere efficienti i meccanismi di verifica e controllo e favorire così l’osservanza degli obblighi realmente necessari.

Sulla base dell’esperienza degli Stati membri che hanno già realizzato esercizi di misurazione (Danimarca, Paesi bassi, Regno Unito e Repubblica Ceca) ed elaborato modelli

5 Dagli studi eseguiti dall’Ufficio centrale di pianificazione dei Paesi Bassi emerge che gli oneri amministrativi variano in percentuale del PIL dal 6,8% in Grecia, Ungheria e nei Paesi Baltici, all’1,5% nel Regno Unito e in Svezia (cfr. Documento di accompagnamento alla comunicazione, cit.). 6 Per quanto riguarda la giustizia, il gap con le economie avanzate è piuttosto marcato: in Italia la durata media dei processi civili inerenti a inadempienze contrattuali si aggirano intorno ai 1.210 giorni; negli altri paesi Ocse, la tutela giurisdizionale di un contratto avviene in poco più di 500 giorni.

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economici, la valutazione d’impatto ha infatti dimostrato che una riduzione degli oneri amministrativi pari al 25%, può determinare un aumento del prodotto interno lordo (PIL) compreso fra l’1,4% e l’1,8% 7.

In particolare, la Commissione Europea ha stimato che per l’Italia i costi amministrativi che gravano sulle imprese sono pari al 4,6% del PIL e, pertanto, ipotizzando una loro riduzione del 25%, ha quantificato in circa 75 miliardi di euro l’impatto complessivo di crescita del prodotto interno lordo.

In linea con le aspettative comunitarie, il Governo italiano ha avviato nel 2008, con il decreto legge n. 112, un programma di misurazione degli oneri amministrativi derivanti dalla normativa statale, ponendosi l’obiettivo della loro riduzione del 25% entro il 2012. A tal fine, ha utilizzato la metodologia EU Standard Cost Model opportunamente adattata alle peculiarità dell’ambiente regolatorio (ovvero della presenza di più livelli di governo con poteri di regolazione), alle caratteristiche strutturali del sistema produttivo, contraddistinto da una forte presenza di piccole e medie imprese (4.446.137 unità, di cui l’88,6% con meno di 5 addetti), alla necessità di riconoscere il ruolo significativo svolto nel mercato dagli intermediari e dalle associazioni di categoria.

Tale metodo prevede la misurazione degli oneri amministrativi, stimando il costo dei singoli obblighi informativi 8 imposti dalla normativa, per lo più attraverso interviste ad un campione di imprese 9. In particolare, gli oneri sono stimati sulla base del costo medio che le imprese sostengono per svolgere ogni attività amministrativa, moltiplicato per il numero di volte in cui, ogni anno, l’attività è svolta e per il numero delle imprese coinvolte. Grazie ai numerosi interventi di semplificazione adottati in 11 aree di regolazione giudicate particolarmente impattanti, ad oggi sono stati quantificati risparmi per cittadini ed imprese per più di 8 miliardi di euro annui, con un risparmio stimato di circa il 30% dei costi.

7 Gelauff e Lejour (Gelauff, G.M.M. and A.M. COM (2006), Five Lisbon highlights: the economic impact of reaching these targets, CPB Document 106. CPB, L’Aia, preparato per la DG ENTR.) calcolano che una riduzione del 25% degli oneri amministrativi può determinare un aumento del PIL sino all’ 1,4%. I calcoli si basano sul principio che gli oneri amministrativi sono costituiti essenzialmente dai salari e che la loro riduzione si tradurrebbe in una maggiore efficacia e produttività. Calcoli interni alla Commissione, basati sullo stesso metodo e sullo stesso modello, cioè il modello di equilibrio WORLSCAN, ma con alcuni variabili introdotte rispetto alle ipotesi concordate, hanno confermato tali risultati. Un altro modello econometrico (QUEST) suggerisce una possibile crescita del PIL fino all’1,8%. Anche questo modello tiene conto di possibili effetti positivi sull’occupazione, in ragione del fatto che il probabile aumento degli utili, spinge nuove imprese ad affacciarsi sul mercato. 8 Gli obblighi informativi (OI) consistono in tutti quegli obblighi posti a carico delle imprese e che riguardano la raccolta, il mantenimento e la trasmissione di informazioni a terzi e/o alle autorità pubbliche. In sostanza, la misurazione è mirata a stimare i costi che l’impresa non sosterrebbe se non vi fosse un obbligo imposto da una specifica disposizione di legge. Secondo l’“Action programme for reducing administrative burden in the EU” (cfr. nota 1) della Commissione europea, “unnecessary and disproportionate administrative burdens can have a real economic impact. They are also seen as an irritant and a distraction for business”. 9 La rilevazione diretta effettuata in Italia presso le imprese è stata realizzata su un campione più ampio rispetto a quello comunemente utilizzato nelle esperienze di misurazione di altri Stati europei (in tal senso le dichiarazioni rese nel corso della predetta conferenza stampa).

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(Fonte presentazione al Forum PA 2012 de “Le nuove metodologie: consultazione, misurazione, proporzionalità e

attenzione all’implementazione”, del Direttore generale per la semplificazione amministrativa – Dipartimento della Funzione Pubblica).

La semplificazione operata nell’area lavoro e previdenza, giudicata fra le più onerose, ha comportato una riduzione complessiva degli oneri amministrativi per le PMI per circa 4.8 miliardi di euro annui, ossia pari al 45% dei costi dell’area. La sola sostituzione del libro paga e matricola con il Libro unico del lavoro, ha generato un risparmio stimato in 3,5 miliardi di euro.

A valle della misurazione operata, un dato da sottolineare è come l’informatizzazione di adempimenti formali e la gestione telematica e semplificata degli stessi abbia determinato laddove applicata risparmi straordinari di gestione sia per le imprese, sia per lo stesso apparato amministrativo deputato al controllo. Lo dimostra, ad esempio, l’intervento operato dalla legge n. 296/2006 con riferimento alla comunicazione di instaurazione e cessazione dei rapporti di lavoro (la c.d. CO), per le quali è stato stimato un risparmio pari all’87% rispetto alla vecchia procedura.

Solo guardando al passato recente non possono non registrarsi poi interventi significativi di semplificazione su ambiti particolarmente impattanti dell’azione amministrativa. Penso alle semplificazioni in materia di certificazioni, alla programmazione dei controlli sulle imprese; agli interventi sulla trasparenza; alle liberalizzazioni; all’informatizzazione della PA Ciò nonostante, le piccole e medie imprese, che rappresentano in Italia la quasi totalità del tessuto connettivo imprenditoriale, continuano a lamentare la necessità di dover dedicare alla gestione delle pratiche amministrative oltre 86,3 milioni di giornate/uomo; vale a dire 60 giornate/uomo all’anno per impresa, secondo una recente ricerca realizzata dall’ufficio studi di Confartigianato (fonte: Italia Oggi, 7 maggio 2012). Il “costo di produzione dei servizi

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pubblici”, aumentato in 30 anni di più di quello del settore privato, con un aggravio di spesa di circa 70 miliardi, continua a mantenere livelli allarmanti. Credo sia legittimo e doveroso chiedersi le ragioni di questa discrasia per individuare le necessarie azioni correttive. Ciò, sia in termini di verifica dei benefici effettivamente percepiti dal cittadino e dalle imprese a fronte dei risparmi stimati, sia in termini di effettiva riduzione della spesa pubblica improduttiva, di razionalizzazione delle funzioni e di miglioramento delle perfomance. Per far ciò non può sfuggire la considerazione banale ma ineludibile secondo cui le norme sono importanti ma non bastano. Occorre dare loro concreta esecuzione sotto diversi profili. Per raggiungere gli obiettivi prefissati, l’execution dovrà essere alla base del nuovo programma triennale 2012 – 2015 di misurazione e riduzione degli oneri amministrativi e regolatori gravanti su imprese e cittadini, e, a maggior ragione, alla base del programma 2012 – 2015 di riduzione degli oneri amministrativi gravanti sulle pubbliche amministrazioni, lanciati dal Governo con il decreto legge Salva Italia. A tal fine, ci si permette di suggerire alcune aree di miglioramento. NEL BREVE PERIODO:

• Occorre monitorare la concreta realizzazione degli interventi intrapresi, verificando la tempestiva adozione dei provvedimenti attuativi laddove previsti e l’effettività dell’intervento come stimato, attraverso l’adozione di meccanismi stringenti e pubblici di valutazione ex post e non solo ex ante. Ciò, anche valorizzando il ruolo svolto dagli intermediari e dalle associazioni di categoria, al fine di individuare le possibili criticità che hanno di fatto determinato la mancata percezione da parte del destinatario finale degli interventi di semplificazione.

• Occorre poi intervenire sulla durata del ciclo di misurazione-riduzione. In alcune aree (privacy ed ambiente), i primi interventi di semplificazione sono stati adottati a distanza di circa 3 anni dalla misurazione. Sarebbe utile responsabilizzare i decisori e prevedere meccanismi di intervento sostitutivo in caso di mancato adempimento, così come sarebbe utile introdurre meccanismi premiali per le realtà che raggiungono i livelli prefissati o overperfomano.

Proprio al fine di ridurre la durata di tale ciclo sarebbe utile che le norme di semplificazione fossero immediatamente applicabili e non si facesse, salvi casi eccezionali, rinvio a disposizioni attuative che dilatano spesso in modo eccessivo l’effettiva operatività dell’intervento. • Occorre dare piena esecuzione agli interventi di semplificazione adottati,

implementando a valle degli stessi i necessari adeguamenti organizzativi in capo alle strutture amministrative interessate. Nello specifico vuol dire agire su:

- organizzazione del lavoro; - mobilità del personale sul territorio e fra amministrazioni; - redistribuzione delle risorse strumentali e finanziarie; - soppressione di strutture, enti, uffici non più necessari; - riqualificazione del personale; - avvio di percorsi di accompagnamento all’uscita per il personale.

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Ed infatti, la riduzione di un onere amministrativo, generato, ad esempio, da una sovrapposizione di competenze fra due o più soggetti pubblici o da casi di goldplating, non può non essere seguito da una modifica organizzativa che riconduca ad efficienza non solo la procedura amministrativa ma anche le stesse strutture delle PA interessate dall’intervento di semplificazione.

A valle del processo, è necessario ad esempio intervenire con la redistribuzione dei carichi di lavoro, con la razionalizzazione delle funzioni, con una più equa ripartizione delle risorse umane, economiche e strumentali fra i diversi livelli di governo interessati o, se necessario, intervenire con azioni più incisive di integrazione o accorpamento di strutture e enti o ancora con interventi di riduzione dello stesso perimetro della PA, dando concreta attuazione al principio di sussidiarietà orizzontale.

Ciò solo garantisce in ultima analisi l’accrescimento dell’efficienza e della produttività della pubblica amministrazione e la riduzione della spesa pubblica per il tramite della semplificazione.

Come accennato, i risultati raggiunti nel processo di revisione organizzativa e funzionale dovrebbe essere misurati ai fini della valutazione della performance dei decisori e della loro eventuale responsabilità amministrativa. D’altronde, le disfunzioni e gli appesantimenti burocratici che generano oneri inutili e gravosi per le imprese e per il cittadino, nascondono oneri inutili e gravosi per la stessa macchina pubblica, che gestisce evidentemente in modo disorganico, ridondante e inefficiente l’erogazione di un “servizio” che, in ultima analisi, potrebbe essere ritenuto non necessario e pertanto un mero costo per la collettività e per la finanza pubblica.

In quest’ottica, il processo di revisione della spesa pubblica e di razionalizzazione delle funzioni in atto potrebbe, anche nel breve periodo, valorizzare il grande lavoro di semplificazione svolto in questi anni, dando concreta esecuzione, nei casi di inerzia della PA, ai necessaria adeguamenti organizzativi, in vista di una maggiore produttività. NEL MEDIO PERIODO:

• Occorre cambiare la cultura e i comportamenti quotidiani, legando la valutazione della perfomance individuale all’effettivo raggiungimento del risultato, concreto e misurato;

• L’applicazione dell’ EU standard cost model alla pubblica amministrazione (previsto dal decreto legge Salva Italia) può rappresentare una straordinaria occasione per porre rimedio alla crescita esponenziale del polimorfismo e policentrismo amministrativo, che ha determinato, dalla metà degli anni ’80, l’aumento esponenziale dei costi della macchina pubblica e una contrazione delle risorse destinate ai servizi e quindi all’outcome. Un utile banco di prova potrebbe essere rappresentato dalla riorganizzazione delle

funzioni che seguirà il ridimensionamento del ruolo delle Province previsto dal predetto decreto legge (che impone, entro il 31 dicembre 2012, il trasferimento ai Comuni delle funzioni conferite dalla normativa vigente alle Province, salvo per assicurarne l’esercizio unitario, le stesse siano acquisite dalle Regioni, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza).

In tale contesto, si potrebbe ad esempio, valutare una revisione più profonda del sistema di governance delle politiche e dei servizi per l’impiego, anche nell’ottica della sussidiarietà orizzontale, stante il contributo, non proprio soddisfacente, offerto in questi anni

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dalle Province per il tramite dei servizi per l’impiego. Ciò, anche in vista dell’esercizio della delega inserita nel DDL 3249 in materia di politiche attive e servizi per l’impiego (cfr. art. 60 del DDL) nonché dell’accordo, da stipularsi entro il 30 giugno prossimo, in sede di Conferenza Stato – Regioni, per identificare le linee di indirizzo e di riforma e gli eventuali riassetti di enti ed organismi ritenuti necessari in tale ambito (ivi inclusa la proposta del Governo di creare una Agenzia unica nazionale per la gestione in forma integrata delle politiche attive e dell’ASpI, partecipata da Stato, Regioni e Province autonome e caratterizzata da forte autonomia territoriale).

In quest’ottica, occorre anche superare la resistenza del livello sub-statale a misurarsi con azioni concrete di riduzione degli oneri amministrativi, spingendo contemporaneamente le regioni ad adottare modelli omogenei di misurazione.

Ed infatti, se nonostante alcune difficoltà, la misurazione a livello statale può dirsi aver raggiunto buoni risultati, altrettanto non può dirsi per il livello sub-statale. A parte alcuni progetti pilota promossi dalla Funzione Pubblica, in collaborazione con il Formez che hanno interessato alcune regioni italiane, decisamente sporadiche sono state le iniziative intraprese autonomamente dagli enti locali. Queste esitazioni nell’avvio del MOA regionale appaiono emblematiche delle sfide che un sistema multilivello pone all’impostazione e all’attuazione delle politiche di better regulation. Il raggiungimento di obiettivi di miglioramento della qualità dell’ambiente regolatorio non può infatti prescindere dal coinvolgimento degli enti locali, in un assetto che assegna ad essi la competenza in settori cruciali per la vita dei cittadini e delle imprese e in cui la spesa per la fornitura di servizi pubblici risulta essere, paradossalmente, inversamente proporzionale alla dimensione dell’ente territoriale. La misurazione degli oneri amministrativi nelle materie di competenza regionale presuppone poi accordi o intese in sede di Conferenza Unificata fra i diversi livelli di governo interessati.

E' fondamentale l’adozione in tale sede di modelli omogenei di misurazione per tutti i livelli di governo.

Dall’estrema articolazione e diversificazione della realtà istituzionale, economica e sociale, continua infatti a scaturire una notevole varietà territoriale degli adempimenti che costituisce la principale sfida sul piano metodologico per l’implementazione della MOA regionale.

Appare pertanto necessaria l’adozione da parte delle Regioni di una metodologia condivisa con le autonomie locali al fine di ricondurre a uniformità i comportamenti differenziati troppo spesso assunti da comuni e province nell’ambito del territorio regionale.

Sul piano operativo, invece, l’efficacia del coordinamento multi-livello è legata tanto alla focalizzazione sugli adempimenti più irritanti e di comune interesse nelle materie a competenze concorrente quanto alla definizione ex ante di scadenze certe e modalità di reporting che garantiscano l’accountability dei programmi regionali.

A ostacolare la razionalizzazione degli ordinamenti regionali, però, non è solo la mancata collaborazione tra livelli di governo. Alcune ricerche condotte sul tema hanno individuato anche nella mancata modernizzazione delle forme di controllo dei Consigli sulla Giunte regionali una ulteriore criticità in tema di qualità normativa regionale. In particolare, lo studio delle esperienze regionali di Lombardia, Emilia Romagna e Toscana ha evidenziato una scarsa efficacia dei meccanismi di controllo programmato e sistematico dei Consigli sulle Giunte con riferimento alle clausole valutative quale strumento di valutazione dell’impatto dei testi legislativi ex post. In primo luogo, raramente le clausole valutative spingono le Giunte e le

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relative strutture amministrative a formulare relazioni di ritorno che rendano disponibili le informazioni richieste dai Consigli. In secondo luogo, anche nei rari casi in cui tali informazioni siano rese disponibili, mancano momenti di valutazione formalizzati in atti di indirizzo da parte dei Consigli. In terzo luogo, l’attività di valutazione condotta dalle Assemblee regionali non risulta capace di vincolare la successiva produzione normativa. In assenza di specifici meccanismi istituzionali sulla scorta di quanto già previsto da alcuni statuti in relazione ai progetti di legge che non seguano determinate prescrizioni sulla qualità della legislazione, anche la valutazione delle leggi regionali è dunque destinata a restare un mito piuttosto che concreta realtà 10

Spunti per un efficace approccio metodologico In questo contesto, in vista dell’adozione a breve del programma di misurazione degli

oneri amministrativi gravanti sulla stessa PA e della necessità di individuare una metodologia di lavoro per aggredire la parte di costi di competenza della PA centrale e locale, che come descritto in precedenza hanno nella semplificazione amministrativa e non solo, una prima spinta strategica, si propone di seguire quello che in altri sistemi economici ad ispirazione anglosassone ha prodotto significativi risultati.

Nel dettaglio le esperienze internazionali che hanno conseguito i migliori risultati in ambito di ottimizzazione della spesa pubblica ed incremento della sua focalizzazione ed efficacia si basano su tre principi chiave:

a. la spending review è un processo dinamico, che non si esaurisce “one shot”, ma deve entrare nel processo gestionale e decisionali delle pubbliche amministrazioni a tutti i livelli di governo;

b. la responsabilità di ridurre le voce di spesa e/o di indirizzare meglio la stessa, deve essere in capo agli organi dirigenziali/direttivi, sulla quale dovranno essere valutati;

c. l’analisi deve partire in modo strutturato da una verifica delle funzione core e dalla valutazione “costi-benefici” delle funzioni e dei servizi erogati dalle pubbliche amministrazione centrali e locali.

Nello specifico le logiche di approccio al problema anche nel nostro Paese dovrebbe basarsi sui seguenti passaggi metodologici chiave:

• Analisi dei servizi erogati dalle amministrazioni, in relazioni alle macro attività istituzionali assegnate e valutazione comparativa costi e benefici;

• Individuazione per ogni tipologia di servizio erogato dei soggetti coinvolti a livello centrale e locale, anche attraverso società ed enti di scopo;

• Verifica della sostenibilità costi-benefici dei servizi erogati e benchmarking internazionale per decidere cosa esternalizzare, anche con l’apertura ad investimenti privati;

• Semplificazione degli attori coinvolti con accorpamento, eliminazione, trasferimento di sovrapposizioni di strutture (siano essere agenzie, enti, società, istituti di ente pubblico o privato) tra centro e periferia

10 Cfr Recensioni. La Qualità della Legislazione Regionale: il numero Monografico de “Le Istituzioni del Federalismo”, Quaderno 1, Anno XXXII, Recensione a cura di Fabrizio Di Mascio

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• Analisi delle macrocategorie merceologiche di spesa ed introduzione per ognuna di essere del criterio del costo “benchmark”, in superamento del costo storico. La logica del benchmark dovrebbe essere impostata per

singola categoria organizzata per zone (non essendo sufficiente, vista la peculiarità del

territorio italiano, applicare esclusivamente una media nazionale)

• “Reale” implementazione del modello di controllo di gestione su base trimestrale di avanzamento sulle singole voci di spesa e re-introduzione della logica del consuntivo economico-gestionale

• Individuazione elenco servizi completamente informatizzabili e loro completa semplificazione con eliminazione di: processi, procedure, organi deputati, materiali cartacei e modulistiche a supporto, personale dedicato (da destinare ad altre attività a maggior valore aggiunto o a smaltimento arretrati complessivi sui servizi di riferimento)

• Revisione complessiva del meccanismo contabile a supporto delle decisioni di spesa con:

implementazione modello di budget unico per centro di responsabilità amministrativa (e non per capitolo) libertà di movimento tra i singoli capitoli di bilancio, con possibilità di

muovere risorse tra i capitoli in funzione delle priorità

• Valutazione degli organi dirigenziali/direttivi sulla capacità di gestire i processi di spending review

• Introduzione di un “premio risorse” per amministrazione virtuose che potranno utilizzare quota parte dei risparmi e/o ricevere premi specifici aggiuntivi in relazione al percorso intrapreso

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ALLEGATO B

ALCUNI ESEMPI E PERCORSI DI RAZIONALIZZAZIONE ORGANIZZATIVA

Alcuni esempi possono meglio far comprendere l'approccio per funzioni che dovrebbe essere adottato per realizzare una spending review efficace nel nostro paese.

Settore sicurezza: le diverse forze di Polizia (Carabinieri, Polizia, Corpo forestale, Guardia di finanza, Polizia

penitenziaria, Corpo delle Capitanerie di porto) dovrebbero trovare delle sinergie obbligatorie sul back office e sul funzionamento (immobili, acquisti, centralini, laboratori), anche per liberare risorse per l'azione di prevenzione e controllo

Settore fiscale: abbiamo quattro agenzie fiscali che svolgono funzioni contigue e ben integrabili, che hanno

duplicazioni di sedi in tutte le province italiane, sistemi informativi e strutture di supporto duplicate. Agenzia delle dogane e Monopoli potrebbero essere incorporati nell'agenzia delle entrate. Agenzia del demanio accorpata con l'agenzia del territorio.

Politiche per l'immigrazione: abbiamo uffici statali in materia con competenze frammentate presso il Ministero

dell'interno, la Presidenza del consiglio e il Ministero del lavoro e politiche sociali. A questi si aggiungono gli uffici delle regioni e dei comuni capoluoghi e delle prefetture.

Riorganizzare il centro: le strutture da accorpare presso la Presidenza del Consiglio dei

Ministri e gli uffici periferici dei Ministeri: Abbiamo la Presidenza del consiglio dei Ministri più grande d'Europa con oltre 3.000

dipendenti, 100 dirigenti generali e ben 29 dipartimenti. Alcune proposte: dipartimento delle pari opportunità e dipartimento politiche giovanile da incorporare presso il Ministero del lavoro; accorpare Dipartimento della funzione pubblica, Dipartimento per federalismo e per la semplificazione, che svolgono funzioni omogenee. Si tratta inoltre di accorpare gli uffici periferici dello Stato per funzioni omogenee (lavoro e sicurezza, economia ed interni, infrastrutture, patrimonio e beni culturali), per favorire i risparmi ma anche le sinergie sulle funzioni. Il progetto "case del welfare" avviato nel 2009 dal Ministero del lavoro costituisce un modello in tal senso sul quale puntare per assicurare al contempo minori costi di funzionamento, integrazione, semplificazione e maggiore efficacia nell'offerta dei servizi.

Oltre le norme, una migliore organizzazione del lavoro Dal 1992 l'attenzione del legislatore si è soffermata prevalentemente sulle norme

riguardanti il rapporto di lavoro, trascurando la dimensione organizzativa e gestionale. La distribuzione del personale, la dimensione delle strutture, il rapporto dirigenti/personale e la stessa occupazione degli spazi ha perso negli anni di razionalità ed economicità. L'organizzazione del lavoro ha risposto a logiche altre e quindi oggi appare come la risultante caotica di forze vettoriali autoreferenziali. Partendo da un'analisi delle funzioni, dei processi e prodotti e dei fabbisogni di personale, sarebbe necessario intervenire sui seguenti ambiti: prevedere un rapporto dirigente/personale assegnato più basso dell'attuale; rapporto che è cresciuto ampiamente negli ultimi dieci anni soprattutto nei comparti Presidenza del

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Consiglio, Ministeri e regioni; favorire e incentivare ove possibile il telelavoro per ridurre l'occupazione di immobili da parte degli uffici pubblici e favorirne la dismissione; ridurre nella PA il rapporto mq occupati/dipendente mediamente più alto di quello del settore privato, tenendo conto altresì che il costo della postazione di lavoro nel settore pubblico è mediamente più alto di circa 6 volte quello del settore privato dello stesso territorio.

Superare le duplicazioni ed esternalizzazioni inutili: In questi anni le pubbliche amministrazioni hanno proceduto ad esternalizzare compiti e

servizi attraverso la creazione di soggetti controllati o gli appalti di servizio, senza per questo ridurre le strutture amministrative. Tali scelte sono state effettuate negli anni senza alcuna analisi costi benefici e senza aver avviato una contabilità economica. Occorre invece oggi obbligare le amministrazioni a scegliere tra l'internalizzazione del servizio, la creazione di un soggetto in house o l'appalto di servizio, prevedendo in caso di mantenimento dell'organismo in house o dell'appalto la riduzione degli organici e la dichiarazione di eccedenza. Un esempio di duplicazione e ridondanza è dato dalle Scuole di formazione della pubblica amministrazione: ve ne sono circa 7 (Scuola superiore della pubblica amministrazione, Scuola dell'economia e delle finanze, Scuola degli Interni, Scuola degli enti locali, Istituto diplomatico, Formez, Scuola dell'amministrazione della difesa, Istituto Tagliacarne). Il disegno di legge delega diramato dal Ministro della pubblica amministrazione e la semplificazione prevede un forte coordinamento e centralizzazione delle procedure, mentre si ritiene che in materia sia possibile andare anche oltre.

Ridurre il peso degli uffici di staff e di diretta collaborazione: Negli ultimi anni abbiamo assistito alla crescita degli uffici di diretta collaborazione a

supporto dell'indirizzo politico, generando così la duplicazione delle strutture e favorendo la deresponsabilizzazione del vertice politico nei confronti della dirigenza nominata.

Le diseconomie di scala e la riduzione dell'inefficienza produttiva La frammentazione delle funzioni, il policentrismo e polimorfismo amministrativo ed una

presenza di "rappresentanza" e non economica funzionale delle amministrazioni hanno generato forti diseconomie di scala e pesanti inefficienze nella produzione dei servizi. La scarsa diffusione della contabilità economica e del controllo di gestione e soprattutto lo scarso utilizzo dei dati derivanti da questi sistemi di contabilità e controllo non hanno consentito di far conoscere le inefficienze di determinate scelte e l'economicità di alcune strutture. Un esempio classico italiano è dato dalla presenza di 8.100 comuni in Italia. Oggi nel nostro ordinamento è stato previsto di accorpare le funzioni di supporto (personale, bilancio e acquisti) per i comuni sotto i 5.000 abitanti. Qui si può procedere prendendo ad esempio il modello britannico: "Back to Front: Efficiency of back office functions in Local Government". In quest'ottica, salvaguardando le identità storiche e culturali, dal punto di vista amministrativo e gestionale è possibile andare oltre. L’Italia, insieme al Portogallo, è l’unico Paese d’Europa a non aver drasticamente tagliato il numero dei Comuni dal dopoguerra ad oggi (ma il Portogallo si è limitato a costituire un nuovo Comune sui circa 350 esistenti). Calcolando un dimensionamento minimo a 10.000 abitanti (ma quello ideale, per la gestione dei servizi, ad almeno 25.000 abitanti) e accorpando tutti Comuni sotto i 10.000 abitanti (circa 5.000 sugli 8.100 esistenti), si potrebbe scendere ad un numero complessivo di circa 4.500 su tutto il territorio nazionale (calcolando che tra tutto essi assommano una popolazione residente di poco più di 15.000.000 di abitanti, pari a 1.500 Comuni da 10.000 abitanti). Se poi si cercasse di

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tendere al dimensionamento ideale di 25.000 abitanti (con un taglio che interesserebbe altri 7/800 comuni e 10.000.000 circa di cittadini), si potrebbe ulteriormente scendere fino a 3.200 Comuni. Si potrebbe anche pensare di stabilire una soglia minima per l’esistenza di un Comune: un territorio pari ad almeno lo 0,05% di quello nazionale (più o meno 150 kmq) e/o una popolazione pari almeno allo 0,05% di quella nazionale (più o meno 30.000 abitanti), il che porterebbe il numero dei Comuni complessivamente attorno ai 2000. Un altro esempio su cui soffermarsi per ragionare sulle diseconomie di scala è dato dalle autonomie funzionali. Le Università e le Camere di commercio in alcune sedi hanno un costo fisso tale da non poter essere giustificato dal numero degli iscritti. Le Camere di commercio in particolare, in una logica sussidiaria, potrebbero essere privatizzate in quanto enti di rappresentanza delle categorie. Le Università dovrebbero ridurre le proprie sedi distaccate e rafforzare al contrario la qualità della propria offerta formativa, nella logica del meno funzionamento e più servizio.