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www.comparazionedirittocivile.it - settembre 2016 1 SPORT, MINORI E RESPONSABILITÀ GENITORIALE ANNAMARIA GIULIA PARISI SOMMARIO: 1. Dal gioco allo sport. — 2. Sport, diritti e responsabilità. — 3. Le norme che regolano l’organizzazione e l’esercizio dell’attività sportiva. Gli sport a violenza necessaria o eventuale. — 4. Liceità dell’attività sportiva. Il c.d. c. d. rischio consentito. — 5. I minori e lo sport. I doveri dei genitori. — 6. Il regime della responsabilità. — 7. Altre esperienze di civil law e di common law. 1. Un milione di anni fa alcuni adolescenti si rincorrono e si sfidano sullo stesso tratto erboso, in un gioco che è diventato una consuetudine, tanto che per il ripetersi delle corse il prato è segnato dai loro passi come da un sentiero. Dopo qualche tempo, spontaneamente, la gara consiste nel raggiungere più velocemente di tutti un albero o una roccia poco lontano che vengono scelti come termine: uno dei ragazzi, più accorto, decide di prendere un percorso diverso dal solito sentiero già tracciato, e arriva primo. Tutti gli altri protestano, perché il vincitore non ha seguito la solita via, la stessa via di tutti gli altri: dopo una accalorata discussione i giovani adottano alcune regole esplicite che superano quelle che fino a quel momento avevano accettato implicitamente, senza alcuna formalità. Si fissa, così, oltre alla meta, il percorso a cui tutti devono attenersi: in tal modo la corsa non è più soltanto un gioco, ma, proprio in virtù delle condizioni fissate per la gara, il gioco si è trasformato in uno sport. Per Huizinga, in ogni gioco le norme sono “obbligatorie e inconfutabili”: e, non appena si trasgrediscono le regole, il mondo del gioco crolla, non esiste più… Il giocatore che si oppone alle regole o vi si sottrae toglie al gioco l’illusione, l’inlusio ossia, per l’etimo, l’essere nel gioco. D’altra parte, in ragione dell’assunto che in ogni sport vi sono delle regole da rispettare, si può dire che proprio nelle prime pratiche assimilabili a quelle sportive che si sono palesate agli albori della civiltà organizzata, proprio in quelle primitive regolamentazioni, sono ravvisabili le prime manifestazioni del Diritto, e precisamente, del Diritto dello sport.

SPORT, MINORI E RESPONSABILITÀ GENITORIALE · istituzione. Jean-Marie Brohm definisce infatti lo sport come un sistema istituzionalizzato di pratiche competitive prevalentemente

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SPORT, MINORI E RESPONSABILITÀ GENITORIALE

ANNAMARIA GIULIA PARISI

SOMMARIO: 1. Dal gioco allo sport. — 2. Sport, diritti e responsabilità. — 3. Le

norme che regolano l’organizzazione e l’esercizio dell’attività sportiva. Gli sport a

violenza necessaria o eventuale. — 4. Liceità dell’attività sportiva. Il c.d. c. d. rischio

consentito. — 5. I minori e lo sport. I doveri dei genitori. — 6. Il regime della

responsabilità. — 7. Altre esperienze di civil law e di common law.

1. Un milione di anni fa alcuni adolescenti si rincorrono e si sfidano

sullo stesso tratto erboso, in un gioco che è diventato una consuetudine, tanto che per il ripetersi delle corse il prato è segnato dai loro passi come da un sentiero.

Dopo qualche tempo, spontaneamente, la gara consiste nel raggiungere più velocemente di tutti un albero o una roccia poco lontano che vengono scelti come termine: uno dei ragazzi, più accorto, decide di prendere un percorso diverso dal solito sentiero già tracciato, e arriva primo.

Tutti gli altri protestano, perché il vincitore non ha seguito la solita via, la stessa via di tutti gli altri: dopo una accalorata discussione i giovani adottano alcune regole esplicite che superano quelle che fino a quel momento avevano accettato implicitamente, senza alcuna formalità. Si fissa, così, oltre alla meta, il percorso a cui tutti devono attenersi: in tal modo la corsa non è più soltanto un gioco, ma, proprio in virtù delle condizioni fissate per la gara, il gioco si è trasformato in uno sport.

Per Huizinga, in ogni gioco le norme sono “obbligatorie e inconfutabili”: e, non appena si trasgrediscono le regole, il mondo del gioco crolla, non esiste più… Il giocatore che si oppone alle regole o vi si sottrae toglie al gioco l’illusione, l’inlusio ossia, per l’etimo, l’essere nel gioco.

D’altra parte, in ragione dell’assunto che in ogni sport vi sono delle regole da rispettare, si può dire che proprio nelle prime pratiche assimilabili a quelle sportive che si sono palesate agli albori della civiltà organizzata, proprio in quelle primitive regolamentazioni, sono ravvisabili le prime manifestazioni del Diritto, e precisamente, del Diritto dello sport.

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Lo sport infatti nasce nel momento in cui la reiterazione della pratica di una determinata attività fisica si trasforma in una realtà socio-culturale grazie all’assunzione di proprie regole e principi, nel rispetto dei quali risulta organizzata, accessibile e riconoscibile: in tal modo lo sport diviene istituzione.

Jean-Marie Brohm definisce infatti lo sport come un sistema istituzionalizzato di pratiche competitive prevalentemente fisiche, delimitate, codificate,

e regolate convenzionalmente1

. Per Santi Romano lo sport, giusta la sua natura istituzionale, si

“giuridifica”, e diviene uno dei distinti ordinamenti giuridici, vale a dire, una unità indipendente di diritto oggettivo. E dunque, lo sport è diritto, o

meglio, nella concezione pluralista, è una parte del Diritto2

.

1 J. M. BROHM, Sociologie politique du Sport, 2ª ed., Nancy, 1992.

2Santi Romano identifica una istituzione con ogni ente sociale che possieda determinate

caratteristiche, ed essenzialmente: 1) che abbia una esistenza obiettiva ed una

individualità che per quanto immateriale, deve essere esteriore e visibile; 2) che sia

espressione della natura sociale e non individuale dell’uomo; 3) che costituisca un ente

chiuso e circoscritto in sé e per sé, per avere una specifica individualità propria; 4) che si

configuri come una unità definita e permanente, anche se cambiano i suoi elementi (cfr.

SANTI ROMANO, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1946, p. 130 s.). In definitiva,

l’istituzione è una organizzazione sociale che ha la sua essenza, per l’appunto, nella

organizzazione. In effetti, ogni istituzione costituisce un ordinamento giuridico: dunque

lo sport, in quanto istituzione, è un ordinamento giuridico.

Nello sport si verificano, peraltro, le condizioni richieste da Giannini per parlare di

ordinamento: plurisoggettività, organizzazione e normazione, intese queste come caratteristiche

indissociabili, in quanto l’una determina l’altra (cfr. M. S. GiANNINI, Diritto Amministrativo,

v. I, 1970, p. 93. Adde, ID., Prime osservazioni sugli ordinamenti sportivi, in Riv. Dir. Sport.,

1949, n. 1-2; ID., Gli elementi degli ordinamenti giuridici, in Riv. Trim. dir. Pubbl., 1958, p. 221).

L’elemento istituzionale nello sport è riconosciuto anche da INIGO e ALBERTO MARANI

TORO, per i quali esso si configura come comunità organizzata, in quanto è costituito da

una collettività di soggetti -quale che sia il loro numero - che agiscono, cioè vogliono delle

azioni, per uno scopo comune. E non v’è dubbio che lo sport, all’origine, si manifestasse

come un’aggregazione elementare di relazioni intersoggettive (cfr. I. MARANI TORO – A.

MARANI TORO, Gli ordinamenti sportivi, Milano, 1977, p. 56.). Oggi i diversi sport

costituiscono un compendio di istituzioni sportive che insieme formano lo Sport,

l’istituzione delle istituzioni, e quindi un ordinamento superiore, che confluisce a sua

volta nel movimento sportivo internazionale, da taluno definito una Superistituzione. È

tuttavia innegabile, che, a livello generalizzato, si riconosce la rilevanza e, implicitamente

o espressamente, in termini di originarietà o di settorialità, a livello interno e

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Divenuto istituzione e quindi diritto, lo sport si integra nell’ordinamento e partecipa in certo modo alla soggezione a quegli obblighi e limitazioni che le norme pongono a tutela di ogni altro diritto e di ogni altro interesse o posizione rilevante: negli ordinamenti di civil law rinviene il principale riferimento nella disciplina del danno e della responsabilità, specialmente nelle attività di tipo professionistico o gestionali; nel common law, invece, l’attenzione prevalente è rivolta alla

prevenzione dei reati. La Carta olimpica annovera il diritto allo sport fra i diritti umani; la

Carta internazionale dello sport adottata dall’UNESCO sancisce, all’art. 1, il diritto di ogni essere umano allo sport, in quanto indispensabile per lo sviluppo della sua personalità; la Convenzione dei diritti del fanciullo ratificata dall’Italia con la legge 176 del 1971, all’art. 7 riconosce il diritto del minore di dedicarsi al gioco e alle attività ricreative consone all’età.

In Italia, la l. 23 marzo 1981, n. 91 ha confermato la libertà dell’attività sportiva, considerata come una “esplicazione della personalità dell’individuo” meritevole di promozione e di tutela. La clausola generale dei diritti inviolabili che si ravvisa nell’art. 2 della Costituzione legittima l’interprete, nella ricerca degli spazi di tutela, a costruire tutte le posizioni soggettive idonee a salvaguardare, nell’ambito dell’ordinamento positivo, ogni proiezione della persona nella realtà sociale, entro i limiti in cui si colloca nelle richiamate formazioni ove si esplica la sua personalità.

Anche in Germania, come nei sistemi costituzionali più recenti, i diritti fondamentali si sono moltiplicati, includendo nel loro numero altri diritti di natura socio-culturale, come il diritto alla salute, alla formazione e all’educazione, e la dottrina spagnola cita come esempio la Costituzione

internazionale, l’esistenza dell’ordinamento giuridico dello sport. (Adde: V. BACHELET,

Disciplina militare e ordinamento giuridico statale, Milano, 1962, ora in Scritti giuridici, II, Le

garanzie nell'ordinamento democratico, Milano, 1981; N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento

giuridico, Torino, 1960; ID., Diritto e potere. Saggi su Kelsen, Napoli, 1992; A. CATANIA,

Argomenti per una teoria dell’ordinamento giuridico, Napoli, 1976; F. MODUGNO, v. Pluralità

degli ordinamenti, in Enc. Dir., XXXIV, 1985; J. RUIZ MANERO, Jurisdicción y normas,

Madrid, 1990; H. KELSEN, General Theory of Law and State, Cambridge (Mass.), 1945; V.

CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, 2ª ed., I, Padova, 1970; M. S. GIANNINI, Ancora

sugli ordinamenti giuridici sportivi, in Studi in onore di Feliciano Benvenuti, Modena, 1996, II; A.

BONOMI, L' ordinamento sportivo e la costituzione, in Quaderni costituzionali, 2005, 363 ss.; G.

NAPOLITANO, L'adeguamento del regime giuridico del CONI e delle federazioni sportive, in

Giornale dir. amm., 2004, 354 ss.).

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italiana che nel suo art. 2 normativiza una cláusula de promoción de los derechos fundamentales y libertades públicas, conformemente, all’art. 9, c. 2, della Costituzione spagnola. Dunque lo sport, sorto come gioco, si atteggia a istituzione e si configura come diritto, anzi, nella prospettiva costituzionale, come diritto fondamentale della persona, rilevando segnatamente tra quelli naturalmente ad essa ascrivibili e connessi ai momenti della freie Entfaltung della personalità. 2. Vasta e complessa problematica rileva dalla lettura in chiave ordinamentale del fenomeno sportivo: nella marcata complessità nel microcosmo di diritti, situazioni soggettive e figure giuridiche che permea il mondo dello sport rileva la problematica pregnante connessa all’istituto della responsabilità civile.

All’interno delle due macroaree comprendenti, rispettivamente, gli atleti o coloro che a qualsiasi titolo praticano un’attività sportiva e gli spettatori - comunque “terzi” – che fruiscono diversamente dello sport e che potrebbero definirsi i consumatori dello spettacolo sportivo, agiscono, a vario titolo, innumerevoli soggetti che, con il loro atteggiarsi o con l’operare, possono addurre o subir danno, essere autori o vittime di un illecito. La medesima responsabilità, nei diversi casi, viene ad assumere una connotazione soggettiva od oggettiva, e si estende anche ad organizzatori, proprietari e gestori di impianti, a custodi di strutture e di attrezzi, ad arbitri, precettori e genitori, e non di rado viene a connettersi con la previsione dell’art. 2050, dato che l’attività sportiva rientra tra quelle che, per la loro stessa natura e per le caratteristiche dei mezzi usati, comportano una rilevante probabilità del verificarsi del danno.

Va inoltre considerato il ‘catalogo’ dei diritti che nell’esercizio della pratica sportiva possono venir lesi, in primis, quelli personalissimi e ricompresi nel novero dei diritti fondamentali o comunque

costituzionalmente protetti3

. Talché, la quaestio potrà concernere il diritto

3 Il Legislatore costituente nell’art. 2 della nostra Legge fondamentale ha sancito che: La

Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni

sociali, ove si svolge la sua personalità…La giurisprudenza ha trasformato l’art. 2 Cost. in una

sorta di clausola aperta, in quanto il medesimo articolo lascia all’interprete e al giurista la

possibilità di verificare se nel corso dell’evoluzione sociale emergano diritti direttamente

dalla consapevolezza di nuove necessità fondamentali di tutela e di garanzia (cfr. Corte

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alla vita o il diritto all’integrità fisica, che di quello è un complemento; il danno derivante dalla lesione del diritto alla riservatezza o all’immagine o quello connesso alla perdita di chance, ma si incardina altresì nella tematica degli atti di disposizione, alienazione o rinuncia aventi ad oggetto il proprio corpo.

Il diritto alla vita, al pari degli altri diritti della personalità, è per legge intrasmissibile, irrinunciabile, imprescrittibile, insurrogabile e, in primis, indisponibile: da tale indisponibilità consegue l’inefficacia del consenso del titolare.

La disposizione di cui all’art. 32 Cost., primo comma, che garantisce tutela ordinamentale alla salute, come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, essenzialmente accoglie e recepisce il diritto all’integrità fisica intesa come valida pienezza di tutti gli elementi componenti l’organismo umano, senza peraltro specificarne aspetti o limitarne la dimensione.

Il codice civile vigente all’art. 5 stabilisce che gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione

Cost. n. 399/1998; adde, Cass. civ., 10 maggio 2001, n. 6507, in Nuova giur. civ. commentata,

2002, I, 529, con nota di ZACCARIA).

Più specificamente l’art. 2 Cost. racchiude la giustificazione della atipicità dei diritti della

persona, potendosi tutt’al più ammettere una tipicità sociale di tale categoria, ma non una

tipicità giuridica. La mancanza di esplicite previsioni dunque non equivale affatto

all’inesistenza di situazioni giuridiche soggettive la cui primaria rilevanza non sia venuta

emergendo nelle vicende storiche delle Carte dei diritti. La struttura stessa della nostra

Legge fondamentale induce all’affermazione della atipicità dei diritti in parola, in quanto

proprio in base alla sua formulazione la dottrina ha definito l’art. 2 Cost. la clausola

generale di tutela della personalità (cfr. P. MORO, I diritti indisponibili, Torino, 2004, p. 231),

che riconosce e garantisce i diritti inviolabili - mai disgiunti dal dovere inderogabile di

solidarietà - senza elencarli, ma includendo tra essi anche diritti non espressamente

stabiliti.

Il successivo art. 3 Cost. al comma 2 stabilisce quella che viene definita invece la clausola

di effettività o di specifica realizzazione dei diritti fondamentali, attraverso la quale tali diritti

vincolano i poteri pubblici e grazie alla quale se ne impone la vigenza nei confronti dei

terzi: tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di

sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito

della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e

l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione

di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

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permanente dell’integrità fisica o quando…siano contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume: talché rileva ancora la quaestio incentrata sugli atti di disposizione, in cui assume particolare rilevanza il consenso dell’avente diritto. In realtà il legislatore ha sancito la disponibilità del diritto all’integrità fisica, in via generale ed in tutta la sua estensione, ovviamente nei limiti stabiliti dalla tutela penale: vale a dire a condizione che il consenso prestato non abbia il fine di produrre una menomazione permanente dell’integrità stessa e non sia comunque contrario alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume. Sono riconducibili alla disciplina delineata dall’art. 5 c. c. anche gli atti di disposizione del proprio corpo e della propria integrità fisica compiuti da chi pratica, da dilettante o da professionista, una attività sportiva che lo espone all’eventualità di contatti violenti con l’avversario o al rischio di lesioni per la pratica stessa o per la pericolosità del mezzo o delle modalità adottate. 3. Le norme che regolano l’organizzazione e l’esercizio dell’attività sportiva e che costituiscono l’insieme di comandi e divieti finalizzati alla garanzia della parità della competizione ed alla tutela dell’integrità fisica degli atleti, dalla giurisprudenza definite comunemente “regolamenti indipendenti delle federazioni”, possiedono unicamente un’efficacia giuridica interna, mentre sono notoriamente indifferenti per

l’ordinamento statale4

.

4 Il che vale anche per tutti i regolamenti di gioco, per le norme di disciplina sportiva e

per quelle regole di gara finalizzate a garantire un comportamento leale e corretto nei confronti degli altri partecipanti.

Talché, l’insieme delle discipline che regolamentano la pratica di ogni genere di sport per

il quale è prevista dal CIO ed esiste una federazione di riferimento costituisce

l’ordinamento sportivo. L’espressione “ordinamento giuridico sportivo” si diffonde in

dottrina a partire dagli anni Trenta, fino a diventare di uso comune: nonostante

l’opposizione di chi, come Carnelutti, vedeva incompatibilità tra diritto e sport,

sostenendo che era il fair play, e non la norma, a governare lo sport (cfr., F.

CARNELUTTI, Figura giuridica dell’arbitro sportivo, in Riv. dir. proc., 1953, 20). Dalla lettura in

chiave ordinamentale del fenomeno sportivo rileva una vasta e assai complessa

problematica: ne fa fede l’evoluzione a base privatistica degli statuti e dei regolamenti

delle federazioni e delle associazioni, definiti atti negoziali; il richiamo forte al cosiddetto

“diritto dei privati” (cfr., CESARINI SFORZA, La teoria degli ordinamenti giuridici e il diritto

sportivo, in Foro It., 1933, I, 1381 ss.), di cui l’ordinamento sportivo è stato considerato

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espressione, fino alla tendenza che qualifica il medesimo come ordinamento a carattere

originario e sovranazionale. Ne consegue la duplice qualificazione dei fatti sportivi, l’una,

alla luce dell’ordinamento sportivo, l’altra, non sempre conforme, ai sensi

dell’ordinamento statale.

Una questione di natura esegetica concerne, peraltro, la definizione della portata e

dell’estensione dell’intera materia identificata come ordinamento sportivo. Tale dibattito

si pone in un contesto indubbiamente complesso, al centro di coordinate giuridiche che

ne sottolineano l’ampiezza – con riferimento alle implicazioni socioeconomiche dei

provvedimenti di settore – e l’attualità. A livello generalizzato si riconosce la rilevanza ed

implicitamente o espressamente, in termini di originarietà o di settorialità, a livello

interno e internazionale, l’esistenza dell’ordinamento giuridico dello sport.

Per sua parte, il legislatore italiano, nel decreto legislativo di riordino del C.O.N.I. e di

giustizia sportiva – d. lgs. 23 luglio 1999, n. 242167, cosi come modificato dal d. lgs. 8

gennaio 2004, n. 15 - e nel d. l. 19 agosto 2003, n. 220, in materia di giustizia sportiva,

convertito con modificazioni dalla l. 17 ottobre 2003, n. 280, fa esplicito riferimento

all’esistenza di un ordinamento sportivo internazionale.

Tra il citato decreto di riordino del C.O.N.I. e l’approvazione del relativo statuto - di cui

al d.m. 23 giugno 2004 - , si è andata evidenziando sempre più quella che da più parti è

stata chiaramente definita come la crisi del rapporto tra l’autodichia ordinamentale

sportiva ed il sistema di giustizia amministrativa statale. L’urgenza della problematica ha

indotto il legislatore nazionale a dettare con chiarezza i termini della relativa risoluzione:

tanto è avvenuto tramite il d. l. n. 220 del 2003, convertito con la l. n. 280 del medesimo

anno, che, come precisa attenta opinione, rappresenta, forse ancora meglio di una legge

di sistema, l’affermazione del principio di autonomia dell’ordinamento sportivo

nazionale rispetto all’ordinamento statale. In particolare, il comma 2 dell'art. 1, d. l. n.

220 del 2003 dispone che i rapporti tra l'ordinamento sportivo e l'ordinamento della Repubblica

sono regolati in base al principio di autonomia, salvi i casi di rilevanza per l'ordinamento giuridico della

Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l'ordinamento sportivo.

Tornando alla previsione del d. lgs. 242/1999, e successive modificazioni, rileva altresì

la norma dell’art. 2 che definisce il C.O.N.I. come la confederazione delle federazioni

sportive nazionali e delle discipline sportive associate, e che stabilisce che lo stesso ente

si conforma ai principi dell’ordinamento sportivo internazionale, in armonia con le

deliberazioni e gli indirizzi emanati dal Comitato Olimpico internazionale.

In realtà, un più recente orientamento della dottrina ricollega l’ordinamento di

cui si discorre a quel “contesto di rapporti privati transnazionali, sempre più strutturati

attraverso forme di autorganizzazione spontanea”, in virtù dei quali non pochi hanno

riconsiderato principi e canoni finora consolidati, propri della dimensione internazionale

dell’ordinamento sportivo.

Ma autorevole e consolidata dottrina italiana rileva che quel potere di

autodeterminazione e di autonomia, che include quello di organizzarsi e di disciplinare i

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Tuttavia in alcuni casi una condotta sportiva non conforme a tali regole interne può determinare la reazione dell’ordinamento statale e l’irrogazione di sanzioni civili e penali.

Peraltro nell’attività sportiva ricorre anche l’evenienza per cui un atleta, titolare come tutti gli individui di diritti essenziali come quello alla vita o all’integrità fisica, debba prestare il proprio consenso non solo a subire lesioni, talvolta gravemente invalidanti, ma anche ad arrecarle a terzi: è il caso classico del pugile che concede per contratto tale consenso.

La pratica del pugilato, infatti, prevede comportamenti che, commessi al di fuori dell’attività sportiva, certamente costituirebbero, di per sé, reato: si tratta di uno sport definito anche, come la lotta, a violenza

necessaria5

. Infatti, la pratica di tali attività sportive, nelle quali la competizione, in sé e per sé, per il modo stesso di svolgersi, determina o può determinare fatti lesivi della persona, si sostanzia in fatti che, se

rapporti di organizzazione nel loro svolgimento normale ed anomalo deriva, per dirla

con i termini della Suprema Corte (cfr. Cass., Sez. Un., 26 febbraio 1931, in Foro it.,

1931, I, c. 1424 ss. e Cass., Sez. Un., 26 ottobre 1989, n. 4399, in Giur. it., 1990, I, 1,

1281), da quel dato di fatto obiettivo dell’esistenza di un’organizzazione dalla quale

emanano norme regolatrici dei rapporti che nell’organizzazione stessa hanno vita. In tal

modo, le norme trovano il fondamento della loro giuridicità in quell’ordinamento stesso

e non in uno diverso, più specificamente, nella fattispecie, “non negli ordinamenti degli

Stati membri né in quello internazionale”: la loro validità e l’efficacia obbligatoria si

fondano sull’esistenza dell’ente sociale in cui consta l’organizzazione, ed appartengono

ad un ordinamento originario, indipendente ed autonomo, simile a quello degli Stati

(cfr., A. COMBA, L’ordinamento sportivo internazionale, in AA.VV. Diritto internazionale dello

sport , Torino, 2010; L. GIACOMARDO, Sport e diritto: giurisdizione esclusiva e diffidenza verso

la giustizia interna. Le incertezze nell'applicazione della l. n. 280 del 2003, in Il caso Napoli, in Dir.

e giust., 2004, 35, suppl., XXVIII; N. OCCHIOCUPO, Autodichia, in Enc. giur., IV, Roma,

1988, 1; S. CONFORTI, Brevi considerazioni sul principio dell'autodichia, in Giur. it., 2005,

1886). 5 Nello specifico un pugile è perfettamente consapevole del rischio fisico che affronta,

perché sa bene che la supremazia agonistica si conquista solo con mezzi violenti e

ponendo a rischio l’integrità propria e quella dell’avversario: le lesioni che può riportare

rientrano, dunque, nel rischio professionale che si è assunto volontariamente.

Giurisprudenza di merito, nel rigettare l’eccezione di legittimità costituzionale posta dal

p.m., nega che il pugile che sale sul ring consenta la lesione della propria integrità fisica:

al contrario egli accetta il combattimento ponendo in essere una determinazione

opposta, in quanto cerca la vittoria colpendo l’avversario e soprattutto cercando di

evitare di prendere colpi, per quanto è possibile (Cfr. Trib. Milano, 14 gennaio 1985, in

Riv. it. medicina legale 1986, 859).

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commessi al di fuori dell’esercizio dell’attività stessa, certamente costituirebbero in sé reato: peraltro, anche per tali discipline sportive è indubbio che, allorché l’esito dannoso (lesioni o evento letale) si verifica a causa della violazione delle regole del gioco, come ad esempio per un colpo basso nel pugilato, la responsabilità penale sussiste, per dolo

preterintenzionale o colpa, secondo i casi”6

. In altri sport, come il calcio, in cui la violenza è proibita, le stesse

modalità di gioco possono analogamente produrre eventi lesivi7

. In talune occasioni la condotta illecita è originata chiaramente dall’intento specifico di aggredire e di arrecare danno all’integrità fisica dell’avversario, e risulta del tutto estranea allo svilupparsi dell’azione di gioco o a finalità agonistiche: non rientra quindi in alcuna ipotesi di tutela o di scriminante disposta dall’ordinamento giuridico statale.

4. È necessario, dunque, nel definire i limiti della liceità dell’attività

sportiva e la connessa questione della responsabilità, considerare come l’attività sportiva, sebbene soggetta alle regole del diritto comune, si presti ad una applicazione originale di quelle norme che in effetti subiscono un certo adattamento dovendo tener conto delle esigenze specifiche dello sport. Infatti lo Stato e la società civile accettano il rischio connesso con l’espletamento dell’attività sportiva in considerazione ed a tutela dell’interesse prevalente che lo sport comporta dal punto di vista sociale, intrinseco nella superiore finalità del perfezionamento psicofisico della popolazione e del corretto sviluppo dello spirito agonistico.

Dottrina e giurisprudenza, con interpretazione presso che costante, riconducono alla previsione dell’art. 50 c. p. - e quindi considerano scriminate - le lesioni dell’integrità fisica della persona causate dal gareggiante che abbia però rispettato a pieno le regole tecniche e di comportamento proprie della disciplina sportiva praticata.

Talché, nelle ipotesi in cui la lesione dell’integrità fisica derivi effettivamente dall’azione di gioco, il giudice è chiamato ad una duplice valutazione, che concerne sia l’effettiva conformità del comportamento

6 Cfr., Cass., sez. I, 12 giugno 1957, in Riv. pen. 1958, II, 163.

7Anche in altri sport ricorre l’accettazione di un rischio elevato: ad esempio, nella pratica

del motociclismo o dell’automobilismo il margine di pericolo è assai alto né possono

essere adottate misure tali da scongiurarlo completamente (cfr. Trib. Firenze, 9 dicembre

1954, in Arch. Giur. circ., 1956, 465).

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posto in essere dall’atleta allo specifico regolamento tecnico, sia l’adeguatezza di quest’ultimo al combinato disposto dell’art. 2043 cod. civ. e dell’art. 43 c. p., che richiamano sia le regole interne, sia i comuni obblighi di diligenza, prudenza e perizia.

Naturalmente, nei casi in cui l’uso della violenza fisica risulti effettivamente in contrasto con le regole del gioco, al suo ricorrere l’atleta risponderà della propria condotta a titolo di dolo o di colpa secondo le

vigenti norme giuridiche8

. Interpretando i principi e le norme dell’ordinamento, la Suprema

Corte ha ripetutamente affermato che nelle competizioni sportive nelle quali la violenza fisica costituisce elemento essenziale e che implicano la possibilità di causare un danno fisico all’avversario, sono lecite le lesioni prodotte nello stretto esercizio e nei limiti dell’attività sportiva e si risponde a titolo di colpa solo per quelle cagionate dalla violazione colposa di tali limiti. E più specificamente, nel caso di lesioni personali derivanti dalla pratica dello sport, la Suprema Corte ha ritenuto oltrepassati i limiti del c. d. rischio consentito - con conseguente responsabilità - allorché sono violate volontariamente le regole tecniche. Talché, viene a configurarsi un reato doloso quando la circostanza del gioco è solo l'occasione dell'azione volta a cagionare lesioni, sorretta dalla volontà di compiere un atto di violenza fisica; il reato, invece, è colposo quando la violazione delle regole tecniche avviene nel corso di un'ordinaria situazione di gioco ed ha il fine di conseguire un determinato

obiettivo agonistico, non di arrecare pregiudizi fisici all'avversario9

. La ratio della suddetta interpretazione si fonda sul principio generale

del nostro ordinamento in base al quale “l’esercizio di una attività autorizzata dallo Stato purché rispondente all’interesse della comunità sociale, importa la non punibilità dei fatti lesivi che ne derivino, quando tutte le regole che disciplinano l’attività medesima siano osservate: tale principio discende dallo stesso criterio che informa le cause di giustificazione previste dal codice penale; criterio che si riassume nella mancanza di danno sociale per l’esistenza di due interessi in conflitto, uno dei quali può essere soddisfatto solo a costo del sacrificio dell’altro”. Si

8 Cfr. Cass., 22 maggio 1967, in Riv. dir. sport., 1968, 487. Adde, Pret. Bari, 9 marzo 1962,

in Arch. pen., 1962, II, 655, con nota di R. PANNAIN, Violazione delle regole del gioco e delitto

sportivo. 9 Cfr. Cfr. Cass. pen, Sez. V, 20 gennaio 2005, n. 19473, in Resp. civ. e prev. 2005, 1034,

con nota di FACCI.

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ravvisa, dunque, in tali ipotesi, il ricorrere di cause di giustificazione non codificate, fondate proprio sul principio del bilanciamento degli interessi.

Per la Suprema Corte, “qualora siano derivate lesioni personali ad un partecipante all'attività sportiva a seguito di un fatto posto in essere da un altro partecipante, il criterio per individuare in quali ipotesi il comportamento che ha provocato il danno sia esente da responsabilità civile risiede nello stretto collegamento funzionale tra gioco ed evento lesivo: tale collegamento va escluso se l'atto sia stato compiuto allo scopo di ledere, ovvero con una violenza incompatibile con le caratteristiche concrete del gioco, con la conseguenza che sussiste in ogni caso la responsabilità dell'agente in ipotesi di atti compiuti allo specifico scopo di ledere, anche se gli stessi non integrino una violazione delle regole dell'attività svolta”. In ogni caso è da assumere a criterio di condotta e dunque di valutazione - il riscontro dell’obbligo cui è tenuto ciascun atleta, rectius, ciascun essere umano, di conservare in ogni sua azione il senso vigile e prudente del rispetto dell’integrità fisica e della vita dell’avversario e dei terzi, e di conformare in tal senso la sua condotta.

Se lo sport deve essere considerato a tutti gli effetti uno strumento di esplicazione della personalità dell'individuo che in quanto tale lo Stato favorisce e tutela, risulta particolarmente importante non solo educare «attraverso» lo sport, ma soprattutto educare «allo» sport.

5. Lo stesso palese favor dello Stato verso lo sport come momento di

crescita e maturazione dell'individuo richiama necessariamente l'attenzione sul soggetto minore che pratica un'attività sportiva: e proprio nell'età in cui lo sport riveste per lui grande importanza e occupa buona parte del suo tempo libero. È fondamentale che coloro che allenano e preparano il minore non si limitino a insegnare la tecnica astratta di una disciplina, ma indirizzino il minore a una pratica sportiva corretta e leale, trasmettendogli una concezione dello sport improntata a principi quali la correttezza e il rispetto delle regole e degli avversari.

Educare allo sport e con lo sport, dunque. E l'obbligo di provvedere all'educazione del minore compete non solo alla famiglia, ma a tutta una serie di strutture fra cui la scuola e tutte quelle istituzioni che si occupano di organizzare il tempo libero.

Ai genitori soprattutto, in base agli obblighi di cui all’art. 147 c. c.,

fondati sull’art. 30 Cost.10

, spetta il delicato e non facile compito di trasmettere ai figli attraverso l'educazione valori positivi, offrendo al

10

Cfr., A. C. PELOSI, La patria potestà, Milano, 1965, pp. 182 ss.

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minore, tramite la fruizione dell'insegnamento sportivo, un modello di ciò che dovrebbe essere l'educazione tout court; un insieme di proposte, stimoli, suggerimenti, indicazioni, atte a preparare il soggetto a compiere autonome e consapevoli scelte, privilegiando quanto più si adatta alle sue esigenze e alla sua personalità.

Il dovere di istruzione e il dovere di educazione che si enucleano, assieme al dovere di mantenimento, dai precetti dettati dagli artt. 30 Cost. e 147 c. c., costituiscono una specificazione della funzione educativa ed implicano il dovere di custodire il figlio, evitando che rechi danno a sé o ad altri ed il dovere di correggerlo.

Dalla lettera della previsione del codice non emergono definite prescrizioni relative all’esplicazione del dovere di educazione, al di là della guideline di cui all’art. 147, che obbliga i genitori a tener conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni dei figli. Pianamente discende, quindi, dal testo della norma costituzionale combinato con la previsione codicistica, l’ampia discrezionalità - in materia di educazione - conferita a chi è investito della responsabilità genitoriale: pertanto la funzione educativa è libera ed è sottratta all’ingerenza di terzi, sia pure nell’essenziale rispetto dei principi costituzionali fondamentali, che devono costituire il sostrato culturale di ogni persona, di ogni cittadino della società attuale, e quindi anche del minore, in modo che non si senta sradicato ed

estraneo al contesto sociale in cui deve vivere11

. Altrettanto cogente e ineludibile il limite imposto alla libertà e alla discrezionalità dei genitori nell'esercizio della funzione educativa dal divieto di abusare delle proprie funzioni.

Per quanto concerne le lesioni causate da un minore durante lo svolgimento di un'attività sportiva, analogamente a quanto avviene per il mondo degli adulti, per la giurisprudenza la responsabilità viene in rilievo quando le regole del gioco non sono state rispettate, e il contesto è la semplice occasione per il verificarsi dell'evento lesivo che dunque non è direttamente consequenziale allo svolgimento del gioco stesso. E ciò vale ad ogni livello, nel corso di un campionato studentesco, in una partita di calcetto tra amici o in un gioco come il ruba bandiera in cui le regole non sono codificate da una federazione sportiva, ma risiedono nella consuetudine.

11

Cfr. M. BESSONE, Rapporti etico sociali, in Comm. Cost. BRANCA, Bologna-Roma, 1977,

pp.101 ss. Per opinione condivisa, proprio in base alla libertà educativa fondata sul

principio costituzionale, i genitori possono trasmettere ai figli le proprie convinzioni

etiche, politiche e religiose.

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Infatti, anche in riferimento all’attività praticata dal minore, l’interprete, soprattutto nelle decisioni meno risalenti, ha fondato la propria valutazione sul medesimo criterio connesso alla circostanza che il comportamento dal quale è derivato il danno sia, oppur no, in collegamento funzionale con il gioco. Talché ha escluso l’intento di ledere quando ha ritenuto il grado di violenza impegnato adeguato allo sport praticato, al contesto ambientale in cui l’attività si svolge in concreto e alla qualità dei soggetti partecipanti.

Peraltro, la giurisprudenza in materia di fatto illecito provocato da minore è orientata ad individuare in ogni caso un responsabile del danno. Ne è conferma la tendenza a procedere nella disamina a ritroso nella serie causale, fino a rinvenire, tra gli antecedenti, un fattore imputabile ad un soggetto che si trovi in una relazione qualificata con l'autore materiale del fatto.

Ed anche in ambito ludico-sportivo, l'evento dannoso è conseguenza tanto dell'azione del minore che ha materialmente commesso il fatto, quanto dell'omissione del genitore e/o del precettore che quel fatto aveva l'obbligo di impedire e che non ha impedito. Talché l'evento è la risultante di due violazioni che hanno ugualmente concorso a determinarlo.

6. Come è noto, il regime della responsabilità per lesioni arrecate dal

minore si incardina nelle previsioni degli artt. 2047 e 2048 del c. c. La norma di cui all’art. 2047 c. c., in caso di danno cagionato da un

incapace, ravvisa la responsabilità nei sorveglianti e dunque in primis nei genitori che non hanno agito per impedire il fatto.

La responsabilità di cui alla previsione successiva si riferisce ad un minore dotato di capacità naturale o di sufficiente capacità di

discernimento12

che abbia compiuto un atto illecito: anche qui la responsabilità ricade sul genitore che incorre, quindi, nella culpa in educando, una figura di creazione squisitamente giurisprudenziale e strettamente connessa ai doveri di cui all’art. 147 c. c. In entrambe le ipotesi normative trattasi, comunque, di una responsabilità vicaria e solidale che può accomunare anche altri soggetti ed istituzioni.

In ogni caso, rileva che la responsabilità in vigilando, ex art. 2047 c. c., e la responsabilità in educando, ex art. 2048 c. c., sono legate da una

12

Per un’analisi del concetto di discernimento, per tutti cfr. P. STANZIONE, Capacità e

minore età nella problematica della persona umana, Napoli, 1975.

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relazione di proporzionalità inversa all’età ed alla capacità di discernimento del minore: infatti, man mano che l’opera educatrice ha conseguito i propri progressivi risultati consentendogli una sempre maggiore capacità di corretto inserimento nella vita di relazione, consono alla sua età ed al suo ambiente, si attenua l’intensità del correlativo dovere del genitore di vigilare sulla sua condotta, permettendo di elargire al minore quei proporzionali, maggiori gradi di libertà di movimento e di autodeterminazione di cui quello, per le sue attitudini ed abitudini e per l’affidabilità

delle inclinazioni in precedenza manifestate, si sia reso meritevole13

. La ricostruzione dell’istituto della responsabilità dei genitori è affidata

in gran parte agli esiti giurisprudenziali, dal momento che il dettato normativo dell’art. 2048 c.c. è solo apparentemente chiaro e la sua effettiva portata risulta in gran parte ricostruita in via pretoria.

Nella sostanza, la culpa in vigilando e in educando, in mancanza di prova contraria, per l’interprete possono essere dimostrate dalle modalità stesse del fatto dannoso; i genitori rispondono per culpa in vigilando se l’evento avviene in loro presenza, mentre incorrono in culpa in educando se il fatto avviene in loro assenza, secondo una duplice articolazione dell’onere probatorio. Talché, la responsabilità dei genitori (o sorveglianti) sarà esclusa quando sia raggiunta la prova che l’evento dannoso non fosse in concreto evitabile nonostante l’osservanza degli obblighi di diligenza; mentre in caso di minore imputabile, il genitore dovrà fornire anche la

prova – positiva – di aver impartito una corretta ed idonea educazione14

. In realtà, l’articolazione degli oneri probatori è da taluno definita un

vero circolo vizioso: infatti, se i genitori dimostrano di aver

13

Cfr. Cass. 30 ottobre 1984, n. 5564, in Foro it.,1985, I, c. 145 ss., con nota di PAGANELLI. 14

Per il Tribunale di Monza, la responsabilità del genitore (ex art. 2048, comma 1, c.c.) e quella

del precettore (ex art. 2048, comma 2, c.c.) - per il fatto commesso da un minore capace di intendere e

volere mentre è affidato a persona idonea a vigilarlo e controllarlo - non sono tra loro alternative, giacché

l'affidamento del minore alla custodia di terzi solleva il genitore dalla presunzione di colpa “in

vigilando” (dal momento che dell'adeguatezza della vigilanza esercitata sul minore risponde il

precettore cui lo stesso è affidato), ma non anche da quella di colpa “in educando”, rimanendo

comunque i genitori tenuti a dimostrare, per liberarsi da responsabilità per il fatto compiuto dal minore

in un momento in cui lo stesso si trovava soggetto alla vigilanza di terzi, di avere impartito al minore

stesso un'educazione adeguata a prevenirne comportamenti illeciti. Ne consegue che il coniuge separato

non affidatario non può per ciò solo liberarsi dalla responsabilità per culpa in educando, soprattutto

allorquando le modalità dello stesso fatto illecito rivelino un grado di maturità e di educazione del

minore (irresponsabilità, assoluta mancanza di capacità di controllo e di giudizio critico sulle possibili

conseguenze del proprio operato) palesemente conseguente al mancato adempimento dei doveri incombenti

sui genitori ai sensi dell'art. 147 c.c. (Trib. Monza, Sez. IV, 12 giugno 2006).

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adeguatamente sorvegliato il minore - o giustificano la propria assenza al momento del compimento del fatto -, si chiede loro di dimostrare di avere impartito al figlio una buona educazione e, specificamente, di fornire la prova dell’adeguatezza dell’educazione impartita alle

caratteristiche psico-fisiche del minore15

: tuttavia, nella maggioranza dei casi, e segnatamente quando il fatto lesivo attribuito al minore ha avuto conseguenze di particolare gravità, al di là della prova prodotta si obietta che le stesse modalità di compimento del fatto rivelano in re ipsa la colpa

del genitore per un’educazione insufficiente o non appropriata16

. La prova del difetto educativo è infatti desunta ex post dal comportamento dannoso posto in essere dal minore.

Per autorevole dottrina, l’adozione della tecnica res ipsa loquitur - riferita alle modalità del fatto dannoso - come deduzione della culpa in educando dei genitori, vale a trasformare «la prova relativa all’obbligazione di aver educato in una vera e propria dimostrazione del risultato

educativo»17

, in quanto, per giurisprudenza costante della Suprema Corte, “non si può affermare che educando si sono impartite direttive <anche> per evitare un dato fatto lesivo per i terzi, se poi il fatto si è puntualmente verificato”.

15

Con chiarezza il Tribunale di Genova specifica che “In relazione all'interpretazione

della disciplina prevista nell'art. 2048 c.c., è necessario che i genitori, al fine di fornire

una sufficiente prova liberatoria per superare la presunzione di colpa dalla suddetta

norma desumibile, offrano non la prova legislativamente predeterminata di non aver potuto

impedire il fatto (atteso che si tratta di prova negativa), ma quella positiva di aver impartito al figlio

una buona educazione e di aver esercitato su di lui una vigilanza adeguata; il tutto in conformità alle

condizioni sociali, familiari, all'età, al carattere e all'indole del minore” (Trib. Genova, 15 maggio

2015). Nello stesso senso, Trib. Trento, 9 marzo 2015; Trib. Torre Annunziata, 17

febbraio 2015. 16

“La responsabilità del genitore per il danno cagionato dal fatto illecito del minore

trova fondamento, a seconda che il minore sia o meno capace di intendere e di volere al

momento del fatto, rispettivamente nell'art. 2048 c.c., basato su una presunzione iuris

tantum di difetto di educazione, ovvero nell'art. 2047 c.c., basato su una presunzione iuris

tantum di difetto di sorveglianza e vigilanza…”(App. Bologna, Sez. II, 9 febbraio 2015). 17

Cfr., in tema, J. TOGNON, A. STELITANO, Sport, Unione europea e diritti umani, Padova,

2011. Adde, per l’ampia casistica, M. MANTOVANI, Responsabilità dei genitori, dei tutori, dei

precettori e dei maestri d'arte, in La responsabilità civile, v. II, tomo I, in Gius. sist. dir. civ. comm.

diretta da G. ALPA e M. BESSONE, Torino, 1987.

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L’interprete dunque sembra andar oltre il dettato normativo, che

prevede una presunzione iuris tantum di responsabilità18

, giungendo a delineare, di fatto, tra le critiche della dottrina, una figura di responsabilità oggettiva o, secondo alcuni, una forma di responsabilità indiretta per fatto altrui.

La rigorosa e pressoché costante applicazione giurisprudenziale divide la dottrina che oscilla tra un criterio di imputazione soggettivo fondato sulla culpa juris tantum e una responsabilità oggettiva tout court: infatti alla responsabilità per culpa in vigilando o per culpa in educando il genitore può sottrarsi tramite una prova liberatoria costantemente intesa non in termini negativi, ossia dimostrando di non aver potuto impedire il fatto, ma in termini positivi, dimostrando di aver vigilato ed altresì educato il proprio figlio - incapace o naturalmente capace – in modo adeguato: una vera probatio diabolica, in cui il verificarsi del danno è di per sé prova sufficiente, talché la culpa è in re ipsa, o in risultato, a nulla rilevando le circostanze solitamente addotte da tutti i genitori, come il comportamento corretto del figlio nei vari contesti relazionali, i buoni – o accettabili – risultati scolastici, il rispetto degli orari di rientro e delle

regole familiari, l’avviamento al lavoro…19

18

Cfr. Trib. Cagliari, 29 maggio 1991, in Riv. Giur. Sarda, 1992, 89; adde, Trib. Frosinone,

12 giugno 2002 in Giur. romana, 2002, 10, 385. 19

Il Tribunale di Genova, esclusa la responsabilità degli insegnanti per la lesione

apportata ad un compagno da un minore al di fuori del fatto sportivo, afferma, invece, la

responsabilità dei genitori per culpa in educando: i giudici ribadiscono l'esistenza della culpa

in educando quando le modalità del fatto illecito dimostrano di per sé un'educazione

impropria (Trib. Genova, Sez. II, 24 aprile 1994, in Giur. It., 1995, 7) e, per la Suprema:

…l’inefficacia dell’educazione impartita dai genitori ai fini dell’affermazione della loro responsabilità

per il risarcimento del danno provocato dal loro figlio, è desumibile anche dalla condotta di questi, in

violazione di leggi e regolamenti (Cass. 26 novembre 1998, n. 11984); ovvero: l’inadeguatezza

dell’educazione può essere ricavata dalle modalità dell’illecito commesso, che ben può rivelare il grado di

immaturità e non-educazione del minore, conseguenti al mancato adempimento del dovere che l’art. 147

c. c. pone in capo ai genitori (Cass. 29 maggio 2001, n. 7270, in Nuova giur. civ. comm., 2002, I,

326 ss., con nota di SALINAS, Responsabilità dei genitori per culpa in educando ed in

vigilando. Criteri di determinazione.). Per la dottrina, cfr. A. DI BIASE, La prova liberatoria nel

sistema della responsabilità civile dei genitori: tra colpa presunta ed obbligo di risultato, in Danno e

responsabilità, 10/2010; adde, A. FERRANTE, La responsabilità civile dell’insegnante, del genitore e

del tutore, Milano, 2008; R. PARDOLESI, Danni cagionati dai minori; pagano sempre i genitori?, in

Fam. e dir., 1997; E. CARBONE, La responsabilità aquiliana del genitore tra rischio tipico e colpa

fittizia, in Riv. dir. civ., 2008, II.

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Il criterio rigido adottato dall’interprete italiano conserva presso che integra la funzione precettiva e preventiva della norma, la cui ratio per taluno risiede, sostanzialmente, nell’allocare in capo al genitore, assieme alla responsabilità, il costo sociale delle lesioni provocate a terzi dal minore, in una prospettiva di massima tutela e garanzia della vittima del danno.

Sempre alla luce di considerazioni di efficienza economica, una dottrina minoritaria approva il prevalente orientamento giurisprudenziale, rilevando come, dal momento che la responsabilità civile agisce per via di ridistribuzioni patrimoniali dal danneggiante al danneggiato e solitamente il minore dipende economicamente dai genitori, per cui saranno questi ultimi a sopportare il peso economico delle sue azioni illecite, l’art. 2048 c.c. avrebbe lo scopo di «creare incentivi alla prevenzione degli incidenti

tramite l’operato dei genitori»20

. Per Calabresi, l’attribuzione ai genitori di responsabilità per i fatti illeciti anche in assenza di una loro colpa corrisponderebbe al principio della deep pocket, della “tasca profonda”, ossia della loro maggiore disponibilità patrimoniale rispetto ai figli.

Per sua parte, la giurisprudenza si è esplicitamente pronunciata in favore della tesi per cui la responsabilità dei genitori è una responsabilità

diretta per fatto proprio fondata su colpa21

.

20

Per autorevole dottrina, la responsabilità ex art. 2048 c.c. è ben diversa dalla

responsabilità prevista dagli artt. 2 e 6, comma 2, l. 24 novembre 1981, n. 689, che

accollano ai genitori gli oneri della sanzione amministrativa in ogni caso, che il minore

sia imputabile, oppur no: e ciò in quanto la sanzione amministrativa ha la funzione di

prevenire gli illeciti tramite la sanzione comminata al loro autore; l’art. 2048 c. c. mira,

invece, a garantire il risarcimento del danno ai terzi (così, M. FRANZONI, Dei fatti illeciti,

in Comm. Scialoja, Branca, Sub art. 2048, Bologna-Roma, 1993, p. 351). 21

Infatti, per il Tribunale di Firenze, la norma di cui all’art. 2048 c. c. configura un'ipotesi di

responsabilità diretta dei precettori o dei genitori per il fatto illecito commesso dai minori, atteso che, ai

fini della sua concreta applicazione, non è sufficiente la semplice commissione dell'illecito, essendo

necessaria una condotta (commissiva o, di regola, soltanto omissiva), direttamente ascrivibile ai

medesimi, che si caratterizzi per la violazione del precetto della vigilanza (e per i genitori anche di quello

di cui all'art. 147 c.c.) e rispetto alla quale, in seno alla struttura dualistica dell'illecito, lo stesso fatto

del minore, nella sua globalità, rappresenta il correlato evento giuridicamente rilevante (Trib. Firenze,

Sez. II, 18 luglio 2016). Franzoni ritiene più coerente con l'evoluzione della famiglia

negli ultimi decenni e con le nuove fenomenologie dei processi educativi che sembrano

precludere ai genitori il ruolo di esclusivi “maestri di vita” il modello di responsabilità

che tuttavia considera il genitore come garante della buona educazione impartita,

condizione indispensabile questa per l'inserimento del minore nella comunità: ma in

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Vi è, inoltre, chi richiama la c.d. teoria della puriqualificazione dell’illecito, per dimostrare, così, che uno stesso evento dannoso verificatosi nel corso della pratica sportiva possa essere sanzionato a norma dell’ordinamento sportivo e non di quello statale, ovvero in base

ad entrambi, secondo le circostanze22

, con riferimento anche al criterio dell’accettazione del ‘rischio sportivo’. Ma non appare del tutto chiaro quando sia consentito, in tema di minori, invocare la responsabilità sportiva tout court.

7. Il regime di estremo rigore che disciplina la responsabilità per fatto del minore costituisce il trend che accomuna i principali ordinamenti di civil law, e segnatamente le dottrine francese, tedesca e spagnola, che giungono a discorrere di automatismo della condanna del genitore, sia in relazione alla pretesa prova dell’assenza di culpa in vigilando o in educando, sia con riferimento alla scelta di desumere tale prova, in negativo, dallo stesso accadimento lesivo, in una progressiva tendenza all’oggettivazione della stessa responsabilità, ed alla sua cuasi objectivaciòn jurisprudencial.

L’esempio forse più significativo è quello della Francia, laddove, nelle norme del code civil, che pure hanno avuto una chiara influenza sul codice spagnolo, la rigorosa presunzione di responsabilità juris tantum a carico dei genitori è contenuta nella previsione di cui all’art. 1384, commi 4 e 6, code civil, e viene configurandosi, sempre più, nelle decisioni della Suprema Corte francese, a partire dagli arresti del 9 maggio 198423 e del 19 febbraio 1997, fino ai leading cases del 13 dicembre 2002 e del 17 gennaio 2003, in

cui viene a configurarsi decisamente una responsabilità di tipo oggettivo24

.

occasione delle pratiche sportive ritiene che il ruolo attivo del genitore possa essere

limitato alla fase di iniziazione ad uno sport ed alla scelta di maestri affidabili: M.

FRANZONI, La responsabilità civile nell'esercizio di attività sportive, in Resp. civ., 2009, 11, 922. 22

Cfr., R. GIAMPIETRAGLIA, Riflessioni in tema di responsabilità sportiva, Napoli, 2002, p.

119. 23

Cour de Cassation, Assemblée plénière, 9 mai 1984, n. 79-16612: Pour que soit présumée, sur le

fondement de l'article 1384 alinéa 4 du Code civil, la responsabilité des père et mère d'un mineur

habitant avec eux, il suffit que celui-ci ait commis un acte qui soit la cause directe du dommage invoqué

par la victime. Par suite, un père ne saurait faire grief à un arrêt de l'avoir déclaré entièrement

responsable d'un dommage causé par son enfant mineur, sans avoir recherché si celui-ci présentait un

discernement sufisant pour que l'acte puisse lui être imputé à faute. Cfr., Cass. 26 giugno 2001, n.

8740, in Foro it., 2001, I, 3098; Cass. 20 aprile 2007, n. 9509, in Resp. civ. prev., 2007 7-8,

1706), adde, Cass. 4 giugno 1997, n. 4971, in Danno e responsabilità, 1998, 252. 24

Per la Cour de Cassation, ormai, le seul fait de l’enfant conduit à la faute de ses parents.

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L’unica prova liberatoria ammessa per i genitori sarebbe quella della forza maggiore o del fatto della vittima, configurandosi quindi un’ipotesi di responsabilità oggettiva assai simile a quella del gardien de la chose.

Nell’esperienza spagnola, il combinato disposto dell’art. 20 código penal e dell’art. 1903, VI, código civil fondano la responsabilità dei genitori su una presunzione di culpa in vigilando, che per essere confutata esige la prova di aver adottato la diligenza richiesta a un pater familias. Tuttavia per i minori infrasedicenni il livello di diligenza richiesto è talmente rigoroso, che si parla di una responsabilità oggettiva senza colpa o per rischio, così come

confermato esplicitamente dallo stesso Tribunal Supremo25

. Peraltro, nell’ordinamento spagnolo il danneggiato può optare per

l’applicazione della disciplina civilistica anche nelle ipotesi di responsabilidad civil ex delicto, regolata dalle norme penali (artt. 118 ss del código penal e art. 61 della Ley penal del menor del 2006), indipendentemente dal fatto che la responsabilità sia riferibile ai genitori, ai tutori o a centros docentes. Ha preso vigore inoltre la più recente elaborazione di una regolamentazione della responsabilità del genitore graduata sull’età del minore, sul modello tedesco e olandese: la presunzione di responsabilità opera nel caso dei minori di 14 anni, mentre la figura del grande minore

sta assumendo una decisiva rilevanza nei giudizi risarcitori26

. Anche in Portogallo la prassi giurisprudenziale ha reso la prova

liberatoria dalla culpa in vigilando presunta dall’art. 491 còdigo civil

estremamente difficile da fornire27

. Ma in altri ordinamenti, il mantenimento dell’onere probatorio in

capo al soggetto danneggiato, assieme ad una graduazione degli obblighi dei genitori in relazione all’età del minore, ha permesso un regime meno rigoroso per i genitori medesimi: in Germania e in Austria, dove sono gli stessi codici civili (e specificamente il § 832 BGB ed il § 1309 ABGB) ad imporre al soggetto danneggiato l’onere probatorio di una culpa in vigilando

25

TS, 2.1.1991, in RAJ, 1991, n. 304. 26

Cfr., S. DÍAZ ALABART, La responsabilidad por los actos ilícitos dañosos de los sometidos a patria

potestad o tutela, in ADCe, 1997, 797. Adde, M. NAVARRO MICHEL, La responsabilidad civil

de los padres por los hechos de sus hijos, Barcellona, 1998, 87. 27

Artigo 491 (Responsabilidade das pessoas obrigadas à vigilância de outrem): As pessoas que, por

lei ou negócio jurídico, forem obrigadas a vigiar outras, por virtude da incapacidade natural destas, são

responsáveis pelos danos que elas causem a terceiro, salvo se mostrarem que cumpriram o seu dever de

vigilância ou que os danos se teriam produzido ainda que o tivessem cumprido.

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dei genitori e dell’antigiuridicità del fatto del minore, è reso meno gravoso per i genitori il regime di esonero da responsabilità.

Quanto alla valutazione degli obblighi di vigilanza e di educazione del minore che incombono sui genitori, in Germania il livello di sorveglianza dipende dal grado di successo nell’educazione di un figlio: meno efficace

è stata l’educazione, più stretta dovrà essere la sorveglianza28

. Il grado di sorveglianza inoltre dipende dall’età, dall’indole, dal carattere del minore e da cosa si possa esigere da un supervisore secondo le circostanze del

caso29

. Peraltro, il genitore non risponde del fatto del minore ormai prossimo alla maggiore età.

In Austria, nonostante il § 1309 ABGB si riferisca espressamente alla responsabilità dei genitori per i minori infraquattordicenni, la giurisprudenza ha esteso l’obbligo di educare i figli finché essi siano

bisognosi di sorveglianza, indipendentemente dall’età30

, anche se poi tali obblighi vanno commisurati all’età e alle condizioni del minore.

L’ordinamento olandese, all’art. 6:169 del Burgerlijk Wetboek prevede una responsabilità oggettiva per gli illeciti compiuti da minori con età fino a 14 anni, una presunzione iuris tantum nel caso in cui il minore abbia un età compresa tra 14 e 16 anni, mentre non prevede la responsabilità parentale se i minori hanno un’età compresa tra 16 e 18 anni, dando applicazione all’art. 6:162 BW.

Agli orientamenti di civil law si contrappone la realtà delle esperienze di common law, laddove la tendenza è a non ritenere il genitore responsabile per il fatto del minore. E la ratio del sistema della responsabilità de qua, ben diversamente rispetto ai modelli continentali, la cui disciplina è posta sostanzialmente a tutela del danneggiato, risiede, in primis, nella prevenzione e nel controllo della delinquenza giovanile, e solo in subordine nella tutela del soggetto leso, il cui risarcimento si configura soltanto quale effetto indiretto. E dunque l’intento dell’ordinamento non concerne l’allocazione dei costi, ma la ricaduta educativa nei confronti dei genitori al fine di indurli ad impartire ai loro figli una disciplina più efficace per limitare la ricorrenza dei reati.

Sostanzialmente nell’ordinamento nord-americano la responsabilità dei genitori per la condotta del figlio, fondata sul mandato o sulla colpa, rileva in due categorie di casi specifici: 1) qualora il genitore autorizzi o

28

Cfr., BGH, 10.7.1984, in NJW, 1984, 2574. 29

Cfr., BGH, 19.1.1993, in FamRZ, 1993, 666. 30

Cfr., OGH, 27.1.1971, in SZ 44/8.

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ratifichi l’atto compiuto dal minore o addirittura si configuri come mandante dello stesso; e 2) quando l’evento lesivo sia derivato dall’uso, da parte del minore, di un’arma, di uno strumento pericoloso o di un autoveicolo, in concomitanza con la negligenza o il mancato controllo da parte dei genitori. Talché si condanna il bad parenting come fonte dell’attività delinquenziale del minore e la stessa condanna al risarcimento

si configura come funzione correttiva del ruolo parentale31

. Nel common law inglese, in cui la responsabilità dei genitori si fonda su

un tort of negligence e il duty of care si basa solamente su una culpa in vigilando e non anche su una culpa in educando, il ruolo genitoriale rileva essenzialmente quale dovere nei confronti della comunità e sono previsti interventi e programmi di guida e controllo, perché i genitori stessi acquistino la giusta consapevolezza del miglior sistema educativo, idoneo

ad indurre i figli a socializzare nelle forme corrette32

. E ciò, nell’opinione diffusa che giunge a definire il minore, fin dalla

sua venuta al mondo, un soggetto intrinsecamente socialmente incontenibile: infatti, seppure col progredire dell’età aumenti la sua capacità di discernimento, una volta divenuto un “grande minore” egli tende ad agire e di fatto si dimensiona in un contesto sempre più ampio e assai poco gestibile dalla figura genitoriale.

E la vastità del campo d’azione autonomo del gran minore è moltiplicata dall’utilizzo delle nuove tecnologie e dall’accesso incontrollabile ad un universo di dati che lo irretiscono in un mondo parallelo in cui si ritrova inevitabilmente assoggettato all’influenza esterna di svariati contatti, tra cui in primis i social network, il più delle volte nella completa ignoranza dei genitori.

Tutto ciò avviene oggi in una dimensione familiare che troppo spesso si disintegra e si ricombina in una stepfamily, o in una complessa cerchia di adulti che iure o in facto, entrano in una relazione parentale col minore. Ne consegue che in codesto ‘diverso’ contestualizzarsi dell’istituzione famiglia vanno forse riconsiderati anche i limiti e gli effetti della responsabilità in educando e in vigilando nei confronti dei figli e dei terzi.

31

Talché, la tutela in termini di risarcimento del terzo danneggiato viene ad essere solo

un effetto indiretto. In tema, cfr. K. HOLLINGSWORTH, Responsibility and rights: children

and their parents in the youth justice system, in 21 Int’l J.L. Pol’y & Fam. 203, 2007, §. 2. d. 32

Cfr. K. OLIPHANT, Children as Tortfeasors under the Law of England and Wales, in Aa.Vv.,

Children in Tort Law. Part I.