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(primi 12 capitoli)
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©2008 Stephenie Meyer
1. A prima vista
Questo era il momento del giorno in cui desideravo poter essere capace di dormire.
La scuola superiore.
O era purgatorio la definizione più corretta? Se c’era un qualche modo di fare
ammenda per i miei peccati, questo doveva pur contare qualcosa ai fini del punteggio
finale. Il tedio non era semplicemente qualcosa cui dovevo abituarmi. Ogni giorno
sembrava ancor più incredibilmente monotono del precedente.
Immagino fosse così che dormissi – se per dormire s’intende lo stato d’inerzia
esistente tra i periodi di attività.
Fissavo le crepe che attraversavano l’intonaco nell’angolo opposto della mensa,
riconoscendoci delle forme che non erano lì. Era un modo per far tacere le voci che come
la corrente di un fiume gorgogliavano nella mia testa.
Diverse centinaia di queste voci le ignoravo in preda alla noia.
Le avevo già sentite e risentite da quando si erano fatte strada nella mente umana.
Oggi, tutti i pensieri erano divorati dal futile dramma di una nuova aggiunta all’esiguo
corpo studentesco. Bastava così poco per farli eccitare tutti quanti. Avevo visto il viso
della nuova venuta ripetuto pensiero dopo pensiero da ogni angolazione. Una semplice
ragazza umana. L’entusiasmo per il suo arrivo era prevedibile in maniera irritante – come
mostrare un oggetto scintillante ad un bambino. La metà dei ragazzi, più simili a dei
caproni, stava già fantasticando di avere una relazione amorosa con lei, solamente perché
era qualcosa di nuovo cui guardare. M’impegnavo a fondo nel tentativo di farle tacere.
C’erano solamente quattro voci che bloccavo più per cortesia che per disgusto: la
mia famiglia, i miei due fratelli e le mie due sorelle, che erano talmente abituati alla
mancanza di privacy determinata dalla mia presenza che raramente si lasciavano sfuggire
un pensiero. Gli lasciavo quanta più privacy mi fosse possibile. Mi sforzavo di non
ascoltare se potevo.
Mi sforzavo come potevo, però…Sapevo.
Rosalie, come al solito, stava pensando a se stessa. Aveva colto il proprio profilo
riflesso sul bicchiere di qualcuno, e stava rimuginando sulla propria perfezione. La mente
di Rosalie era una pozzanghera poco profonda che non riservava molte sorprese.
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©2008 Stephenie Meyer
Emmett stava friggendo per un incontro di lotta che durante la notte aveva perso
contro Jasper. Gli ci sarebbe voluta tutta la sua limitata pazienza per riuscire ad arrivare
fino alla fine delle lezioni ed orchestrare una rivincita. Non mi sono mai sentito davvero
indiscreto nell’ascoltare i pensieri di Emmett, perché non pensa mai nulla che non direbbe
ad alta voce o che non metterebbe in pratica. Forse mi sentivo colpevole quando ascoltavo
i pensieri degli altri solamente perché sapevo che c’erano delle cose che avrebbero
preferito non condividere con me. Se la mente di Rosalie era una pozzanghera poco
profonda, allora quella di Emmett era un lago senza ombre, trasparente come il vetro.
E Jasper…Stava soffrendo. Trattenni un sospiro.
Edward. Alice aveva formulato il mio nome nella sua mente, catturando
immediatamente la mia attenzione.
Sarebbe stato esattamente lo stesso se qualcuno mi avesse chiamato a gran voce. Ero
contento che negli ultimi anni il mio nome di battesimo fosse passato di moda – sarebbe
stata una seccatura: ogniqualvolta qualcuno avesse pensato ad un qualunque Edward la
mia testa si sarebbe automaticamente voltata…
La mia testa adesso non si muoveva. Alice ed io eravamo bravi a conversare in
privato. Raramente qualcuno ci scopriva. Tenevo gli occhi fissi sulle linee dell’intonaco.
Come se la cava? Mi chiese.
Mi accigliai, solo un impercettibile cambiamento nella piega delle labbra. Niente
che potesse farci scoprire dagli altri. Potevo benissimo essermi accigliato per noia.
La voce mentale di Alice ora era allarmata, e nei suoi pensieri potevo vederla
mentre osservava Jasper di sottecchi. C’è qualche pericolo? Rovistava oltre,
nell’immediato futuro, scorrendo le visioni monotone per scoprire la causa del mio
cipiglio.
Girai lentamente la testa a sinistra, come per guardare i mattoni della parete,
sospirai, e poi a destra, di nuovo sulle crepe nel soffitto. Solamente Alice sapeva che stavo
scuotendo la testa.
Si rilassò. Fammelo sapere se diventa insopportabile.
Mossi solo gli occhi, in alto sul soffitto, e poi di nuovo giù.
Grazie per quello che stai facendo.
Ero contento di non poterle rispondere ad alta voce. Cosa avrei potuto dirle? “E’ un
piacere”? Non lo era affatto. Non mi divertiva ascoltare i conflitti interiori di Jasper. Era
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davvero necessario metterlo alla prova fino a questo punto? Non sarebbe stato più sicuro
ammettere semplicemente che forse non sarebbe mai stato capace di gestire la sete come il
resto di noi riusciva a fare, e non spingerlo al limite? Perché scherzare col fuoco?
Erano trascorse due settimane dalla nostra ultima battuta di caccia. Non era un arco
di tempo così immensamente duro per il resto di noi. Un poco spiacevole di tanto in tanto
– se un umano ci passava troppo vicino, se il vento soffiava nella direzione sbagliata. Ma
gli umani raramente ci camminavano troppo vicini. I loro istinti gli suggerivano quel che
le loro menti coscienti non avrebbero mai capito: eravamo pericolosi.
Jasper al momento era davvero pericoloso.
Proprio ora, una ragazza minuta si era fermata presso il bordo del tavolo più vicino
al nostro, per parlare con un’amica. Aveva scrollato i corti capelli biondo rossicci
pettinandoli con le dita. I radiatori avevano soffiato il suo profumo nella nostra direzione.
Ero abituato a come mi faceva sentire il profumo – il dolore pungente alla gola, la brama
cupa nello stomaco, la contrazione automatica dei muscoli, il flusso eccessivo di veleno
nella bocca…
Era tutto piuttosto normale, generalmente facile da ignorare. Ora, però, era un pò
più difficile, per via delle percezioni amplificate, duplicate dal mio monitorare la reazione
di Jasper. Una sete raddoppiata, invece della mia soltanto.
Jasper stava lasciando correre la propria fantasia. Se lo stava immaginando –
immaginando di alzarsi dal proprio posto accanto ad Alice e di andare a piazzarsi di fronte
a quella ragazza minuta. Pensando di chinarsi su di lei, come per bisbigliarle qualcosa
all’orecchio, e di lasciare che le sue labbra si posassero sull’arco della gola. Immaginando
che sensazione gli avrebbe dato in bocca il sangue circolante al di sotto della pelle
sottile…
Tirai un calcio alla sua sedia.
Per un attimo incrociò il mio sguardo, e poi abbassò gli occhi. Riuscivo a sentire il
conflitto tra la vergogna e la ribellione che lo impegnava mentalmente.
“Scusa” mormorò Jasper.
Scrollai le spalle.
“Non avresti fatto niente”, gli mormorò Alice, cercando di alleviarne la
mortificazione. “Lo avrei visto”.
Trattenni la smorfia che ne avrebbe scoperta la menzogna. Dovevamo sostenerci a
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vicenda, Alice ed io. Non era facile, ascoltare le voci o avere delle visioni sul futuro.
Entrambi bizzarrie tra coloro che erano già dei mostri. Proteggevamo i nostri segreti
reciprocamente.
“Aiuta un poco se pensi a loro come a delle persone”, suggerì Alice, con la sua
voce acuta e melodiosa troppo veloce per essere capita dalle orecchie umane, se anche
qualcuno si fosse trovato abbastanza vicino da poterla sentire. “Si chiama Whitney. Ha
una sorella minore che adora. Sua madre ha invitato Esme a quella festa in giardino,
ricordi?”
“So chi è”, aveva detto Jasper bruscamente. Si era voltato dall’altra parte per
guardare fuori da una delle piccole finestre piazzate proprio sotto il cornicione tutt’intorno
alla lunga stanza. Il suo tono aveva messo fine alla conversazione.
Sarebbe dovuto andare a caccia stanotte. Era ridicolo correre dei rischi come questo,
cercando di testarne la forza di volontà, per aumentarne la resistenza. Jasper doveva
semplicemente accettare i propri limiti e lavorare entro quelli. Le sue precedenti abitudini
non erano di alcun aiuto rispetto allo stile di vita che avevamo scelto; non avrebbe dovuto
spingersi tanto in là.
Alice sospirò silenziosamente e si alzò, portandosi via il vassoio del cibo – il suo
corredo di scena, perché questo era – e lo lasciò solo. Sapeva quando ne aveva avuto
abbastanza dei suoi incoraggiamenti. Sebbene Rosalie ed Emmett facessero maggiore
sfoggio della loro relazione, erano Alice e Jasper che meglio conoscevano ogni singolo
umore dell’altro come fosse il proprio. Come se potessero anche loro leggere nel pensiero
– solo l’uno dell’altra.
Edward Cullen.
Un riflesso condizionato. Mi voltai al suono del mio nome che veniva pronunciato,
quantunque non fosse stato davvero pronunciato, ma solo pensato.
I miei occhi s’incrociarono per non più di una frazione di secondo con un paio di
grandi occhi umani, marroni come il cioccolato, incastonati in un viso pallido a forma di
cuore. Conoscevo quel viso, nonostante non lo avessi visto da me prima di questo
momento. Aveva avviluppato ogni mente umana oggi. La nuova studentessa, Isabella
Swan. Figlia del capo della polizia, mandata a vivere qui in virtù di un nuovo accordo di
affidamento. Bella. Aveva corretto chiunque aveva usato il suo nome per esteso…
Guardai altrove, annoiato. Mi ci volle un momento per capire che non era stata lei a
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pensare il mio nome.
Naturalmente sta già prendendosi una cotta per i Cullen, ascoltai il seguito del
primo pensiero.
Avevo riconosciuto la “voce”, infine. Jessica Stanley – non era passato molto tempo
da quando mi aveva annoiato con il suo intimo blaterare. Era stato un vero sollievo quando
aveva superato la sua infatuazione fuori luogo. Era stato quasi impossibile fuggire i suoi
costanti, ridicoli sogni ad occhi aperti. Avevo desiderato, a quel tempo, di poterle spiegare
esattamente cosa sarebbe successo se le mie labbra, ed i denti dietro quelle, fossero
arrivate da qualunque parte vicino a lei. Sarebbe bastato a zittire le sue fastidiose fantasie.
Il pensiero della sua reazione quasi mi fece sorridere.
Dovrebbe mettere su un pò di ciccia, continuò Jessica. Non è neppure davvero
carina. Non capisco perché Eric la guardi tanto…o Mike.
Trasalì mentalmente a quell’ultimo nome. La sua nuova infatuazione, il
genericamente popolare Mike Newton, completamente ignaro di lei. A quanto pareva, non
era altrettanto indifferente nei confronti della ragazza nuova. Di nuovo, come un bambino
con un oggetto scintillante. Questo aveva reso i pensieri di Jessica ancora più meschini,
sebbene all’apparenza fosse amichevole con la nuova arrivata mentre le spiegava ciò che
era risaputo da tutti riguardo alla mia famiglia. La nuova studentessa doveva aver chiesto
di noi.
Tutti stanno guardando anche me, oggi. Il pensiero di Jessica sorrideva compiaciuto
in disparte. E’ una vera fortuna che io e Bella abbiamo in comune due lezioni…
Scommetto che Mike vuole chiedermi se è –
Cercai di tenere fuori dalla mia testa quel vuoto chiacchiericcio prima che la
grettezza e la banalità mi facessero diventare matto.
“Jessica Stanley sta lavando i panni sporchi di casa Cullen con la ragazza nuova, la
Swan” mormorai ad Emmett per distrarmi.
Ridacchiò sotto i baffi. Spero lo stia facendo bene, pensò.
“A dire il vero, senza un briciolo d’immaginazione. Appena un pizzico di scandalo.
Nemmeno un grammo di orrore. Sono un pò deluso”.
E la ragazza nuova? Anche lei è altrettanto delusa dai pettegolezzi?
Mi misi ad ascoltare per sentire cosa pensasse la nuova ragazza, Bella, della storia di
Jessica. Cosa vedeva quando guardava verso quella strana famiglia dalla pelle bianca
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come il gesso che veniva evitata da tutti?
Era una specie di responsabilità per me conoscere la sua reazione. In mancanza di
un termine migliore, si sarebbe potuto dire che stavo di vedetta per la mia famiglia. Per
proteggerci. Se qualcuno avesse nutrito dei sospetti, avrei potuto metterci in guardia per
tempo e garantirci una facile ritirata. Era capitato qualche volta – qualche umano con una
vivace immaginazione aveva visto in noi i personaggi di un libro o di un film. Solitamente
sbagliava la conclusione, ma per noi era meglio partire per qualche altro posto piuttosto
che rischiare un esame più approfondito. Molto, molto raramente, qualcuno indovinava.
Non gli offrivamo l’occasione di verificare le proprie teorie. Semplicemente sparivamo,
per diventare non più di un ricordo spaventoso…
Non sentivo niente, sebbene ascoltassi proprio accanto a dove il frivolo monologo
interno di Jessica continuava ad imperversare. Era come se non ci fosse nessuno seduto
vicino a lei. Che cosa bizzarra, la ragazza si era spostata? Improbabile, poiché Jessica
stava ancora parlottando con lei. Alzai lo sguardo per verificare, sentendomi come se
avessi perso l’equilibrio. Controllare ciò che il mio extra “udito” avrebbe dovuto dirmi –
era qualcosa che non avevo mai dovuto fare.
Di nuovo, il mio sguardo indugiò sugli stessi grandi occhi marroni. Era seduta
esattamente dov’era prima, e ci guardava, una cosa naturale da fare, supposi, giacché
Jessica la stava ancora deliziando con i pettegolezzi locali approposito dei Cullen.
Pensare a noi sarebbe stato altrettanto naturale.
Ma non riuscivo a sentire neppure un bisbiglio.
Un rosso invitante e caldo aveva colorato le sue guance mentre abbassava lo
sguardo, distogliendolo imbarazzata per la gaffe di essere stata scoperta a fissare uno
sconosciuto. Era un bene che Jasper stesse ancora guardando fuori dalla finestra. Non
volevo neppure immaginare l’effetto che avrebbe sortito sul suo autocontrollo quel
semplice afflusso di sangue.
Le emozioni sul suo viso erano leggibili come se le avesse scritte sulla fronte: la
sorpresa, intanto che assimilava inconsapevolmente i segni della sottile differenza tra la
sua specie e la mia; la curiosità, mentre ascoltava il resoconto di Jessica, e
qualcos’altro…fascino? Non sarebbe stata la prima volta. Per le nostre vittime predestinate
eravamo bellissimi. Poi, infine, l’imbarazzo, quando l’avevo scoperta a fissarmi.
E tuttavia, sebbene i suoi pensieri fossero tanto intellegibili nei suoi strani occhi –
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strani per via della loro profondità; gli occhi marroni sembravano sempre inespressivi per
via della loro cupezza –, dal posto in cui sedeva potevo ascoltare null’altro che il silenzio.
Il niente più totale.
Per un attimo mi sentii a disagio.
Era qualcosa che non mi era mai capitato prima. C’era qualcosa che non andava in
me? Mi sentivo esattamente come sempre. Turbato, mi misi ad ascoltare con maggiore
attenzione.
Tutte le voci che avevo bloccato stavano improvvisamente urlando dentro la mia
testa.
…Chissà che musica ascolta…Magari potrei parlarle di quel nuovo CD… Stava
pensando Mike Newton, a due tavoli da me, morbosamente fissato con Bella.
Guarda come la squadra. Non gli basta che la metà delle ragazze della scuola
abbiano una cotta per lui… I pensieri di Eric Yorkie erano astiosi, anch’essi incentrati su
Bella.
…così disgustoso. Verrebbe da pensare che è una famosa o chissà che…Persino
Edward Cullen la sta fissando… Lauren Mallory era talmente gelosa che la sua faccia, a
rigore di tutte le logiche, sarebbe dovuta essere di una tonalità verde scura. E Jessica, che
va pavoneggiandosi di essere la sua nuova migliore amica. Che cosa ridicola… I pensieri
al vetriolo continuarono a vomitare dalla ragazza.
…Scommetto che gliel’hanno chiesto già tutti. Però mi farebbe piacere parlare con
lei. Penserò a qualcosa di più originale da chiederle… Meditava Ashley Dowling.
…magari è nel mio corso di spagnolo… Sperava June Richardson.
…una montagna di cose da fare per stasera! Trigonometria, ed il test di inglese.
Spero che mamma… Angela Weber, una ragazza posata i cui pensieri erano insolitamente
gentili, era l’unica della tavolata a non essere ossessionata da Bella.
Riuscivo a sentire ognuno di loro, a sentire ogni singola inezia che gli passava per la
testa non appena la pensavano. Ma assolutamente niente da parte della nuova studentessa
con quegli occhi comunicativi più di quanto non sembrassero.
E, ovviamente, ero in grado di sentire cosa diceva la ragazza quando parlava con
Jessica. Non avevo bisogno di leggere il pensiero per riuscire ad ascoltare la sua voce
chiara e bassa dall’altra parte della lunga stanza.
“Qual è di loro quello con i capelli castano ramati?” la sentii chiedere, mentre con la
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coda dell’occhio mi lanciava un’occhiata furtiva, spostando rapidamente lo sguardo
altrove nell’accorgersi che la stavo ancora fissando.
Se avevo avuto il tempo d’illudermi che ascoltarne il suono della voce mi avrebbe
aiutato a localizzare il tono dei suoi pensieri, persi in qualche posto cui non potevo
accedere, ero rimasto immediatamente deluso. Generalmente, i pensieri della gente
assumono una parlantina simile a quella delle loro voci concrete. Ma questa voce timida e
discreta mi rimaneva estranea, non come le centinaia di pensieri che rimbalzavano per la
stanza, ne ero certo. Un fatto del tutto nuovo.
Oh, buona fortuna, idiota! Aveva pensato Jessica ancora prima di rispondere alla
domanda della ragazza.
“Quello è Edward. E’ uno schianto, naturalmente, ma non sprecare il tuo tempo. Non
esce con nessuna. A quanto pare nessuna delle ragazze di qui è abbastanza carina per lui”.
Aveva storto il naso.
Voltai la testa altrove per nascondere un sorriso. Jessica e le sue compagne di classe
non avevano idea di quanto fossero fortunate per il fatto che non trovassi nessuna di loro
particolarmente attraente.
Superato quel momento di fugace umorismo, sentii uno strano impulso, che non
riuscii a comprendere esattamente. Aveva qualcosa a che fare con la malignità debordante
dai pensieri di Jessica della quale la ragazza nuova era inconsapevole… Provavo la
stranissima voglia di mettermi tra di loro, per proteggere questa Bella Swan dalle più
bieche macchinazioni della mente di Jessica. Che cosa stramba da provare. Nel tentativo
di snidare le motivazioni di un simile slancio, esaminai ancora una volta la ragazza nuova.
Forse si trattava solamente di un istinto di protezione sopito da tempo – assistere gli
indifesi. Questa ragazza pareva molto più fragile dei suoi nuovi compagni. La sua pelle era
trasparente al punto che era difficile credere che potesse proteggerla davvero dalle
aggressioni del mondo circostante. Riuscivo a vedere il sangue che circolava ritmicamente
nelle vene sotto la membrana chiara, pallida… Ma non dovevo soffermarmi su quel
particolare. Ero bravo a vivere la vita che avevo scelta, ma ero assetato quanto Jasper e
non avevo ragione di stuzzicare la tentazione.
C’era una lieve ruga tra le sue sopracciglia della quale non pareva rendersi conto.
Era incredibilmente frustrante! Era evidente per me che faticava a restare seduta lì,
a fare conversazione con degli sconosciuti, ad essere al centro dell’attenzione. Potevo
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indovinarne la timidezza dal modo in cui teneva le spalle che parevano tanto delicate,
lievemente incurvate, come se si aspettasse di doversi scontrare con un secco rifiuto da un
momento all’altro. E tuttavia potevo solamente intuire, solo vedere, soltanto immaginare.
Da quella ragazza così ordinariamente umana mi giungeva null’altro che il silenzio. Non
riuscivo a sentire niente. Perché?
“Possiamo andare?” mormorò Rosalie, interrompendo la mia concentrazione.
Fu un sollievo distogliere lo sguardo dalla ragazza. Non volevo continuare a fallire
così – era irritante. E non volevo sviluppare interesse alcuno per i suoi pensieri nascosti
semplicemente perché mi erano estranei. Non avevo alcun dubbio che una volta che fossi
riuscito a decifrarli – e avrei trovato il modo di riuscirci – sarebbero stati banali ed
insignificanti come tutti gli altri pensieri umani. Non valevano lo sforzo che avrei dovuto
fare per raggiungerli.
“Allora, quella nuova ha già paura di noi?” chiese Emmett, che stava ancora
aspettando la risposta alla domanda precedente.
Scrollai le spalle. Non era sufficientemente interessato per sollecitare ulteriori
informazioni. Neppure io sarei dovuto esserlo.
Ci alzammo da tavola e uscimmo dalla mensa.
Emmett, Rosalie e Jasper fingevano di essere degli studenti dell’ultimo anno; se ne
andarono alle loro lezioni. Io interpretavo il ruolo di uno più giovane. M’incamminai
verso la mia lezione di biologia da studente del terzo anno, preparandomi mentalmente
alla noia. Era improbabile che il Signor Banner, un uomo di un’intelligenza che non
superava la media, fosse in grado di cavare dalla sua lezione qualcosa che potesse
sorprendere qualcuno che aveva due lauree in medicina.
In classe, mi sistemai e lasciai che i miei libri – corredi di scena, di nuovo; non
dicevano nulla che non sapessi già – si sparpagliassero sul tavolo. Ero l’unico studente ad
avere un tavolo tutto per sé. Gli esseri umani non erano abbastanza svegli da capire che
avevano paura di me, ma i loro istinti di sopravvivenza lo erano abbastanza da tenerli
lontani.
L’aula si stava riempiendo lentamente intanto che gli studenti arrivavano alla
spicciolata dalla pausa pranzo. Mi appoggiai allo schienale della sedia aspettando che il
tempo passasse. Di nuovo, desiderai poter essere capace di dormire.
Siccome stavo pensando a lei, quando Angela Weber accompagnò la ragazza nuova
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attraverso la porta, il suo nome s’impose alla mia attenzione.
Bella sembra essere timida almeno quanto me. Scommetto che oggi è davvero dura
per lei. Vorrei poterle dire qualcosa…ma probabilmente suonerebbe molto stupido…
Si! Fu il pensiero di Mike Newton, mentre si girava sulla sedia per osservare
l’entrata delle ragazze.
Ancora una volta, dal posto in cui si trovava Bella Swan, il nulla. Lo spazio vuoto
che i suoi pensieri avrebbero dovuto colmare m’irritava e mi sconcertava.
Si era avvicinata, risalendo il corridoio dalla mia parte per raggiungere la cattedra
dell’insegnante. Povera ragazza; il posto accanto al mio era l’unico disponibile.
Automaticamente, sgombrai quello che sarebbe stato il suo lato del tavolo, impilando i
miei libri. Dubitavo che si sarebbe sentita a proprio agio lì. Si profilava un lungo semestre
per lei – per lo meno in questa classe. Tuttavia, forse, sedendole accanto, sarei riuscito a
carpirne i segreti…Non che avessi mai avuto bisogno della vicinanza prima di allora…non
che avessi mai ascoltato qualcosa che valesse la pena…
Bella Swan era entrata nel flusso di aria calda che soffiava attorno a me dalla
ventola.
Il suo profumo mi colpì come una sfera da demolizione, al pari di un ariete. Non
c’era immagine abbastanza violenta che potesse sintetizzare la potenza di quello che mi
stava succedendo in quel momento.
In quell’istante, non sfioravo nemmeno l’ombra dell’uomo che ero stato capace di
essere; non rimaneva neppure un briciolo di quell’umanità della quale ero riuscito ad
ammantarmi.
Ero un predatore. Lei era la mia preda. Al mondo non esisteva altra verità apparte
questa.
Non c’era un’aula piena di testimoni – nella mia mente si erano già trasformati in
danni collaterali. Il mistero dei suoi pensieri era dimenticato. I suoi pensieri non
significavano nulla, perché non li avrebbe pensati ancora a lungo.
Io ero un vampiro, e lei aveva il sangue più dolce che avessi mai odorato negli
ultimi ottant’anni.
Non avevo mai pensato che potesse esistere un profumo del genere. Se avessi saputo
che c’era, l’avrei cercato molto tempo prima. Avrei setacciato il pianeta per lei. Potevo
immaginarne il sapore…
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La sete bruciava la mia gola come un incendio. La mia bocca era secca ed arida. Il
fresco flusso del veleno non poteva nulla per fugare quella sensazione. Il mio stomaco si
contorceva per quella fame che era un’eco della sete. I miei muscoli erano contratti pronti
a scattare.
Non era passato neppure un intero secondo. Stava ancora completando lo stesso
passo che l’aveva portata sottovento rispetto a me.
Non appena il suo piede toccò terra, i suoi occhi scivolarono verso di me, con un
movimento che evidentemente avrebbe voluto che fosse furtivo. Il suo sguardo incrociò il
mio, e mi vidi riflesso nell’immenso specchio dei suoi occhi.
Lo shock provocatomi dalla faccia che vidi lì le salvò la vita appena in tempo.
Non mi rese le cose più facili. Una volta elaborata l’espressione del mio viso, il
sangue le aveva inondato nuovamente le guance, donando alla sua pelle la tonalità più
deliziosa che avessi mai vista. Il suo profumo nella mia mente era una spessa nebbia. A
malapena riuscivo a pensarci attraverso. I miei pensieri si scatenarono indomabili,
incoerenti.
Camminava più velocemente adesso, quasi fosse consapevole della necessità di
dover scappare. La fretta l’aveva resa maldestra – era incespicata ed aveva inciampato in
avanti, quasi cadendo addosso alla ragazza seduta di fronte a me. Vulnerabile, debole.
Addirittura più del normale per un essere umano.
Cercavo di concentrarmi sulla faccia che avevo vista riflessa nei suoi occhi, un volto
che avevo riconosciuto disgustato. La faccia del mostro che era in me – il viso che ero
riuscito a seppellire grazie a decenni di sforzi e di rigida disciplina. Con quanta facilità
riaffiorava in superficie adesso!
Il profumo fluttuò di nuovo attorno a me, mandando all’aria i miei pensieri e
facendomi quasi saltare via dalla sedia.
No.
Serrai la mano sotto al bordo del banco mentre cercavo di costringermi a restare
seduto. Il legno non era abbastanza resistente per quel compito. La mia mano aveva
frantumato la superficie e si era staccata con in pugno una poltiglia di schegge, lasciando
l’impronta delle mie dita scolpita in quel che rimaneva del legno.
Distruggere le prove. Quella era una regola fondamentale. Polverizzai rapidamente i
contorni delle impronte con la punta delle mie dita, lasciando null’altro che un buco
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frastagliato ed un mucchietto di segatura sul pavimento, che sparpagliai con il piede.
Distruggere le prove. Danni collaterali…
Sapevo cosa stava per succedere. La ragazza si sarebbe seduta accanto a me, ed io
l’avrei dovuta uccidere.
Gli spettatori innocenti che si trovavano nell’aula, altri diciotto ragazzi ed un adulto,
non avrebbero potuto lasciare questa stanza, avendo visto ciò che presto avrebbero visto.
Rabbrividii al pensiero di ciò che dovevo fare. Neppure quando avevo dato
veramente il peggio di me avevo commesso questo genere di atrocità. Non avevo mai
ucciso degli innocenti, mai in ottant’anni. E ora programmavo di massacrarne venti tutti in
una volta.
Il viso riflesso del mostro si faceva beffe di me.
Nonostante una parte di me rabbrividisse alla vista del mostro, un’altra parte stava
elaborando un piano.
Se uccidevo prima la ragazza, non avrei potuto dedicarle più di quindici o venti
secondi prima che gli umani presenti in aula reagissero. Forse qualche secondo di più, se
non avessero capito immediatamente cosa stavo facendo. Non avrebbe avuto il tempo di
gridare o di sentire dolore; non l’avrei uccisa in modo crudele. Era il minimo che potessi
fare per questa sconosciuta dal sangue terribilmente appetibile.
Poi, però, avrei dovuto impedire agli altri di scappare. Non mi sarei dovuto
preoccupare delle finestre, perché erano troppo in alto e troppo piccole per offrire a
chiunque una via di fuga. Solo della porta – se l’avessi bloccata, sarebbero stati in
trappola.
Sarebbe stato molto più lento e molto più difficile cercare di farli fuori tutti, una
volta che fossero stati presi dal panico ed avessero cominciato ad agitarsi, muovendosi
caoticamente. Non impossibile, ma molto più rumoroso. C’era tempo per un sacco di urla.
Qualcuno avrebbe potuto sentire…E sarei stato costretto ad uccidere addirittura un
numero maggiore di innocenti in questa triste ora.
Ed il suo sangue sarebbe sfumato, mentre uccidevo gli altri.
Il suo profumo mi puniva, serrandomi la gola con un’aridità struggente…
Perciò i testimoni prima.
Rifinii mentalmente i dettagli del mio piano. Mi trovavo al centro dell’aula, nella
fila posteriore più arretrata. Prima avrei dovuto occuparmi del lato destro. Calcolavo di
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poter spezzare quattro o cinque dei loro colli al secondo. Non avrei fatto rumore. Il lato
destro sarebbe stato il lato fortunato; non mi avrebbero visto arrivare. Muovendomi in
fretta su e giù per il lato sinistro, non mi ci sarebbero voluti al massimo più di cinque
secondi per finire tutte le vite presenti in aula.
Abbastanza da permettere a Bella Swan di capire, per un breve momento, cosa stava
per succederle. Abbastanza da permetterle di sentire la paura. Abbastanza, forse, se lo
shock non l’avesse immobilizzata sul posto, da farla gridare una sola volta. Un grido
soffocato che non avrebbe fatto accorrere nessuno.
Respirai a fondo, ed il suo profumo era un fuoco che correva lungo le mie vene
riarse, avvampando dal mio petto fino ad annullare ogni miglior istinto di cui fossi capace.
Stava voltandosi proprio in questo istante. Entro pochi secondi si sarebbe seduta a
pochi centimetri da me.
Il mostro nella mia testa sorrideva nell’attesa.
Qualcuno alla mia sinistra aveva chiuso una cartellina sbattendola. Non alzai lo
sguardo per vedere quale di quegli umani condannati fosse stato. Ma quel gesto soffiò sul
mio viso una folata d’aria innocua, inodore.
Per un breve secondo, fui in grado di pensare chiaramente. In quel secondo
prezioso, vidi due volti nella mia mente, uno accanto all’altro.
Uno era il mio o, almeno, lo era stato: il mostro dagli occhi rossi che aveva ucciso
così tante persone che avevo smesso di contarle. Omicidi razionalizzati, giustificati. Un
assassino di assassini, un assassino di altri mostri meno dotati. Era stato un delirio di
onnipotenza, l’avevo riconosciuto – decidere chi meritasse la pena di morte. Un
compromesso che avevo fatto con me stesso. Mi ero nutrito di sangue umano, ma
solamente in senso lato. Le mie vittime erano state, nei loro differenti malefici trascorsi, a
malapena più umane di quanto non fossi io stesso.
L’altro viso era di Carlisle.
Non c’era alcuna rassomiglianza tra quei due volti. Come tra un giorno di sole e la
più scura delle notti.
Non c’era ragione per cui si dovessero rassomigliare. Carlisle non era mio padre
secondo l’accezione biologica del termine. Non condividevamo alcun lineamento. La
somiglianza dei nostri coloriti era il prodotto di ciò che eravamo; tutti i vampiri avevano
un’identica pelle bianca come il ghiaccio. La somiglianza nel colore degli occhi era
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un’altra faccenda – il riflesso di una scelta condivisa.
E tuttavia, benché non ci fossero i presupposti per una rassomiglianza, avevo
immaginato che, in qualche misura, il mio viso avesse cominciato a riflettere il suo nel
corso degli ultimi settanta bizzarri anni in cui avevo abbracciato la sua scelta e seguito i
suoi passi. I miei lineamenti non erano cambiati, ma mi sembrava che un pò della sua
saggezza avesse segnato la mia espressione, che un pizzico della sua compassione fosse
rimasto scolpito nella piega della mia bocca, e che un accenno della sua pazienza fosse
manifesto sulla mia fronte.
Tutti quei piccoli miglioramenti andavano persi sulla faccia del mostro. Entro pochi
attimi, in me non sarebbe rimasto nulla che potesse riflettere gli anni trascorsi con il mio
creatore, il mio mentore, mio padre da ogni punto di vista che contasse qualcosa. I miei
occhi si sarebbero accesi di rosso come quelli di un diavolo; qualunque somiglianza
sarebbe stata smarrita per sempre.
Nella mia mente, gli occhi gentili di Carlisle non mi giudicavano. Sapevo che mi
avrebbe perdonato lo scempio che stavo per commettere. Perché mi amava. Perché
pensava che fossi migliore di quel che ero. Ed avrebbe continuato ad amarmi, anche se
adesso dimostravo che aveva torto.
Bella Swan si era seduta sulla sedia accanto alla mia, i suo gesti erano rigidi ed
imbarazzati – per la paura? – e la fragranza del suo sangue mi avvolgeva in una nube
implacabile.
Avrei dimostrato a mio padre che aveva torto su di me. La sofferenza di una simile
prospettiva mi feriva quasi quanto il fuoco che avevo in gola.
Aumentai la distanza che ci separava per il disgusto – la repulsione verso quel
mostro che desiderava ardentemente di prenderla.
Perché doveva venire qui? Perché doveva esistere? Perché doveva rovinare la pace
di questa mia non-vita? Perché mai quest’esacerbante essere umana era mai nata? Mi
avrebbe rovinato.
Distolsi lo sguardo da lei, attanagliato da un odio improvviso e feroce,
ingiustificato.
Chi era questa creatura? Perché a me, perché adesso? Perché dovevo perdere tutto
solo perché aveva casualmente scelto di fare la sua comparsa in questa città inverosimile?
Perché era venuta qui!
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©2008 Stephenie Meyer
Non volevo essere il mostro! Non volevo uccidere un’intera aula di ragazzini
indifesi! Non volevo perdere tutto quanto mi ero guadagnato con un’intera esistenza di
sacrifici e privazioni!
Non lo avrei fatto. Non gliel’avrei permesso.
Il problema stava nel profumo, nel profumo terribilmente attraente del suo sangue.
Se ci fosse stato un modo per resistere…se solo un’altra folata di aria fresca avesse potuto
schiarirmi la mente.
Bella Swan scosse i suoi lunghi, folti capelli color mogano nella mia direzione.
Era pazza? Era come se volesse incoraggiare il mostro! Provocarlo.
Non c’era brezza complice che allontanasse il profumo da me ora. Presto sarebbe
stato tutto perduto.
No, non c’era alcuna brezza a supportarmi. Ma io non avevo bisogno di respirare.
Smisi di far affluire l’aria ai polmoni; il sollievo fu immediato, ma relativo. Avevo
ancora il ricordo del profumo nella mente ed il suo gusto sulla lingua. Non sarei riuscito a
resistere a lungo neppure a quelli. Ma forse potevo resistere per un’ora. Un’ora. Il tempo
necessario per uscire da quest’aula stipata di vittime, vittime che magari non dovevano
diventare vittime. Se avessi potuto resistere per una brevissima ora. Mi sentivo a disagio a
non respirare. Il mio corpo non aveva bisogno di ossigeno, ma andava contro i miei istinti.
Nei momenti di stress mi affidavo all’olfatto molto più che agli altri miei sensi.
M’indicava la strada quando cacciavo, era il primo ad avvertirmi se c’era un pericolo. Non
mi era capitato spesso d’imbattermi in qualcosa di pericoloso quanto me, ma l’istinto di
autoconservazione era tanto forte nella mia razza quanto lo era nella media degli umani.
Scomodo, ma sopportabile. Molto più tollerabile dell’odorarla senza affondare i
denti in quella pelle delicata e sottile, quasi trasparente, fino alla calda, umida, pulsante –
Un’ora! Soltanto un’ora. Non dovevo pensare al profumo, al gusto.
La taciturna ragazza lasciò cadere i capelli tra di noi, piegandosi in avanti cosicché
si riversassero sulla sua cartellina. Non riuscivo a vederne il viso, per cercare di leggerne
le emozioni negli occhi schietti e profondi. Era per questo che aveva lasciato che i suoi
capelli formassero una cortina tra di noi? Per sottrarmi quegli occhi? Per paura? Per
timidezza? Per tenermi nascosti i suoi segreti?
La mia iniziale irritazione per essere stato ostacolato dai suoi pensieri muti era
debole e pallida in confronto alla necessità – ed all’odio – che si erano appena
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impossessati di me. Perché odiavo questa fragile donna-bambina che mi stava accanto, la
odiavo con tutto il fervore con cui mi aggrappavo alla mia essenza, alla mia famiglia, ai
miei sogni di essere un qualcuno migliore di quel che ero… Odiarla, odiare il modo in cui
mi faceva sentire – era un pò d’aiuto. Si, l’irritazione che prima avevo provato era debole,
ma anche quella poteva essere di una qualche utilità. Mi aggrappai a qualunque emozione
capace di distrarmi dall’immaginarmi che sapore avesse…
Odio ed irritazione. Impazienza. Quell’ora sarebbe mai finita?
E quando l’ora finiva… Allora sarebbe uscita dall’aula. E cos’avrei fatto?
Mi potevo presentare. Ciao, mi chiamo Edward Cullen. Posso accompagnarti alla
prossima lezione?
Lei avrebbe risposto di si. Sarebbe stata la cosa più educata da fare. Sebbene avesse
già paura di me, come sospettavo, avrebbe seguito le convenzioni e mi avrebbe camminato
accanto. Sarebbe stato piuttosto facile spingerla nella direzione sbagliata. Uno sperone di
foresta si allungava come un dito indice a toccare l’angolo in fondo allo spiazzo del
parcheggio. Potevo dirle che avevo dimenticato un libro in macchina…
Qualcuno avrebbe notato che ero l’ultima persona con la quale era stata vista? Stava
piovendo, come al solito; due impermeabili scuri che s’incamminavano nella direzione
sbagliata non avrebbero destato molta attenzione, né mi avrebbero tradito.
Tranne per il fatto che non ero l’unico studente che si era accorto di lei oggi –
quantunque nessuno si fosse accorto di lei ferocemente quanto me. Mike Newton,
soprattutto, era cosciente di ogni singolo spostamento del suo peso mentre si agitava
nervosamente sulla sedia – si sentiva a disagio a starmi così vicina, come chiunque
avrebbe fatto, esattamente come mi ero aspettato prima che il suo profumo distruggesse
tutta la mia caritatevole sollecitudine. Mike Newton l’avrebbe notato se lei avesse lasciato
l’aula con me.
Se potevo resistere per un’ora, potevo farcela per due?
Il dolore dell’arsura mi fece trasalire.
Sarebbe rientrata in una casa vuota. L’ispettore Swan lavorava tutto il giorno.
Conoscevo la sua casa, così come conoscevo ogni casa di quella piccola città. La sua casa
si trovava proprio a ridosso della fitta boscaglia, isolata. Anche se avesse avuto il tempo di
gridare, e non l’avrebbe avuto, non ci sarebbe stato nessuno che potesse sentirla.
Quello sarebbe stato un modo responsabile di gestire la cosa. Avevo fatto a meno
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del sangue umano per settant’anni. Se trattenevo il respiro, potevo farcela per altre due
ore. E quando lei fosse rimasta da sola, non ci sarebbe stato alcun rischio di ferire qualcun
altro. E nessuna ragione per non godersi appieno l’esperienza, senza fretta, concordò il
mostro nella mia testa.
Era un sofisma pensare che salvando i diciannove umani di quest’aula,
faticosamente e con pazienza, sarei stato un pò meno mostro quando avessi ucciso questa
ragazza innocente.
Malgrado la odiassi, sapevo che il mio odio era ingiustificato. Sapevo che ciò che
odiavo veramente era me stesso. Ed avrei odiato entrambi molto di più una volta che fosse
morta.
Andai avanti così per l’intera ora – immaginando quali fossero i modi migliori di
ucciderla. Cercai di evitare di visualizzare l’atto nel concreto. Probabilmente sarebbe stato
troppo per me; avrei potuto perdere quella battaglia e finire per uccidere chiunque mi fosse
capitato a tiro. Perciò pianificavo le strategie, e nient’altro. Mi aiutò a superare l’ora.
Una volta, proprio verso la fine, aveva sbirciato verso di me attraverso la parete dei
suoi capelli morbidi. Avevo sentito l’odio ingiustificato bruciarmi dentro quando aveva
incontrato il mio sguardo – ne avevo visto il riflesso nei suoi occhi spaventati. Il sangue le
aveva colorato le guance prima che potesse nascondersi di nuovo dietro i capelli, e mi
aveva quasi rovinato.
Ma la campanella aveva suonato. Salvato dalla campanella – che cliché. Eravamo
entrambi salvi. Lei, salva dalla morte. Io, salvo solo per poco dall’essere la creatura da
incubo che temevo e aborrivo.
Non riuscii a camminare lentamente come avrei dovuto mentre mi precipitavo fuori
dalla stanza. Se qualcuno mi avesse visto, avrebbe potuto sospettare che ci fosse qualcosa
di sbagliato nel modo in cui mi muovevo. Nessuno mi prestava attenzione. I pensieri
umani ancora vorticavano tutti attorno a quella ragazza condannata a morire in poco più di
un’ora.
Mi nascosi in macchina.
Non mi piaceva pensare a me stesso costretto a nascondermi. Era una codardia. Ma
stavolta era indubbiamente meglio così.
Non mi era rimasta disciplina a sufficienza per aggirarmi tra gli umani ora. Dovermi
concentrare tanto nello sforzo di salvarne uno mi aveva lasciato senza risorse per resistere
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agli altri. Che spreco. Se ero in procinto di arrendermi al mostro, tanto valeva che la
sconfitta valesse il cedimento.
Misi su il CD di una musica che normalmente mi calmava, ma non servì a molto.
No, ciò che più mi aiutava in quel momento era l’aria gelida, umida e pulita che insieme
alla pioggia leggera entrava dai finestrini aperti. Nonostante riuscissi a ricordare l’odore
del sangue di Bella Swan con estrema chiarezza, inalare l’aria fresca era come depurare il
mio organismo dalla sua infezione.
Ero di nuovo sano di mente. Riuscivo di nuovo a pensare. E potevo nuovamente
combattere. Potevo combattere contro ciò che non volevo essere.
Non avevo bisogno di andare a casa sua. Non avevo bisogno di ucciderla.
Ovviamente, ero una creatura senziente, ragionevole, ed avevo un’alternativa. C’era
sempre un’alternativa.
Non mi ero sentito così in aula…ma adesso lei era lontana. Forse, se l’avessi evitava
con molta, molta cautela, non ci sarebbe stato alcun bisogno di stravolgere la mia vita. Le
cose sarebbero rimaste uguali a come mi piacevano. Perché avrei dovuto permettere ad un
esasperante e delizioso nessuno di rovinare tutto?
Non dovevo deludere mio padre. Non dovevo essere per mia madre causa di stress,
paura…dolore. Si, avrei ferito anche mia madre adottiva. Ed Esme era così dolce, così
tenera e gentile. Arrecare dolore a qualcuno come Esme era veramente imperdonabile.
Che ironia che avessi desiderato di proteggere questa ragazza umana dalla minaccia
inefficace, meschina dei pensieri maligni di Jessica Stanley. Ero l’ultima persona che
avrebbe mai potuto fare le veci di un protettore per Isabella Swan. Non avrebbe mai avuto
bisogno di essere protetta più di quanto non avesse bisogno di esserlo da me.
Dov’era Alice, mi chiesi all’improvviso? Non mi aveva visto uccidere la giovane
Swan in molteplici modi? Perché non era venuta ad aiutarmi – a fermarmi o ad aiutarmi a
far sparire le prove, una qualunque delle due? Era così presa dall’osservare i problemi di
Jasper che aveva mancato questa possibilità tanto più terribile? Ero più forte di quel che
pensavo? Davvero non avrei fatto nulla alla ragazza?
No, sapevo che non era vero. Alice doveva essere totalmente presa da Jasper.
Frugai nella direzione in cui sapevo di trovarla, nel piccolo edificio destinato alle
lezioni di inglese. Non mi ci volle molto per localizzare la sua “voce” familiare. Ed avevo
ragione. Ogni suo singolo pensiero era rivolto a Jasper, osservandone le infinite possibilità
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esaminandole a fondo.
Avrei voluto consigliarmi con lei, ma allo stesso tempo ero contento che non avesse
scoperto di cosa ero capace. Che fosse ignara della carneficina che avevo contemplata
nell’ultima ora.
Sentii montare un altro fuoco nel mio corpo – il fuoco della vergogna. Volevo che
nessuno di loro sapesse.
Se avessi potuto evitare Isabella Swan, se fossi riuscito a non ucciderla – anche solo
per averlo pensato, il mostro dentro di me si contorceva e digrignava i denti frustrato –,
allora nessuno avrebbe saputo. Se fossi riuscito a restare lontano dal suo profumo…
Non c’era motivo per cui non dovessi tentare, del resto. Fare la scelta giusta.
Cercare di essere quel che Carlisle pensava che fossi.
L’ultima ora di lezione era quasi finita. Decisi all’istante di mettere in pratica il mio
piano. Sempre meglio che restarmene seduto lì nel parcheggio dove avrebbe potuto
passarmi accanto e vanificare il mio sforzo. Di nuovo, provai quell’odio ingiustificato per
la ragazza. Odiavo che avesse un tale inconsapevole potere su di me. Che potesse farmi
diventare qualcosa che aborrivo.
Camminai a passo svelto – un pò troppo svelto, ma non c’erano testimoni –
attraverso il piccolo campus fino alla segreteria. Non c’era ragione di far incrociare la mia
strada e quella di Bella Swan. L’avrei evitata per quella pestilenza che era.
In ufficio c’era solamente la segretaria, colei che avevo bisogno di vedere.
Non aveva notato la mia entrata silenziosa.
“Signorina Cope?”
La donna con i capelli di un rosso innaturale alzò lo sguardo ed i suoi occhi si
spalancarono. Gli impercettibili segni che non riuscivano a capire li coglievano sempre
alla sprovvista, non importava quante volte ci avessero già visti prima.
“Oh” rimase a bocca aperta, appena un pò frustrata. Si lisciò la maglietta. Sciocca,
pensò rivolta a se stessa. E’ talmente giovane che potrebbe essere tuo figlio. Troppo
giovane per pensare a lui a quel modo… “Ciao, Edward. Cosa posso fare per te?”. Da
dietro le spesse lenti mi faceva gli occhi dolci.
Imbarazzante. Ma sapevo come essere affascinante quando volevo. Era facile,
considerato che potevo capire all’istante come veniva accolto ogni mio tono o gesto.
Mi sporsi in avanti, incrociando il suo sguardo come se stessi fissando intensamente
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le profondità dei suoi piccoli occhi marroni. I suoi pensieri erano già in subbuglio.
Sarebbe stato facile.
“Mi stavo chiedendo se poteva aiutarmi con il mio orario”, le dissi con la voce
morbida che serbavo quando non volevo spaventare gli umani.
Ascoltai il battito del suo cuore che accelerava.
“Certo, Edward. Cosa posso fare per te?”. Troppo giovane, troppo giovane,
cantilenava tra sé. Sbagliato, ovviamente. Ero più vecchio di suo nonno. Ma stando alla
mia patente di guida, aveva ragione.
“Mi stavo domandando se potevo spostarmi dal mio corso di biologia ad un corso
più avanzato di scienze? Fisica, magari?”
“C’è qualche problema con il Signor Banner, Edward?”
“No di certo, è solo che ho già studiato la sua materia…”
“In quella scuola per ragazzi dotati che tutti voi avete frequentato in Alaska,
giusto?”. Le sue labbra sottili si contrassero in una smorfia mentre ci pensava. Dovrebbero
già frequentare tutti l’università. Ho sentito i professori lamentarsene. Degli studenti
modello, troppo perfetti, mai un’esitazione nel rispondere, mai una risposta sbagliata ad
un test – come se avessero trovato il modo d’imbrogliare in tutte le materie. Il Signor
Varner preferirebbe credere che imbroglino tutti piuttosto che ammettere che uno
studente è più intelligente di lui…Scommetto che la loro madre li istruisce
personalmente… “Per la verità, Edward, fisica è piuttosto affollata al momento. Il Signor
Banner odia avere più di venticinque studenti per classe -”
“Non sarei di alcun disturbo”.
Certo che no. Non un perfetto Cullen. “Lo so Edward. Ma non ci sono abbastanza
posti a sedere…”
“Posso abbandonare il corso, allora? Potrei usare quel tempo per studiare da solo”.
“Lasciare biologia?” spalancò la bocca. Questo è assurdo. Quanto può essere
faticoso arrivare alla fine di un corso di cui già si conosce la materia? Deve esserci
qualche problema con il Signor Banner. Chissà se dovrei parlarne con Bob? “Non
potresti diplomarti”.
“Recupererò il prossimo anno”.
“Forse dovresti parlarne con i tuoi genitori”.
La porta alle mie spalle si era aperta, ma chiunque fosse non stava pensando a me,
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perciò ignorai il nuovo arrivato e mi concentrai sulla Signorina Cope. Mi sporsi
leggermente più vicino, e spalancai un pò di più gli occhi. Avrebbe funzionato meglio se
fossero stati dorati invece che neri. La nerezza spaventava gli umani, così come doveva.
“Per favore, Signorina Cope?”. Resi il tono della mia voce quanto più ammaliante
ed irresistibile potesse essere – e poteva essere estremamente irresistibile. “Non c’è un
altro corso in cui potrei spostarmi? Sono certo che da qualche parte deve esserci un posto
libero. La sesta ora di biologia non può essere l’unica alternativa…”.
Le sorrisi, stando attento a non mostrarle i denti così apertamente da farla
spaventare, lasciando che l’espressione ammorbidisse il mio viso.
Il suo cuore tamburellò più velocemente. Troppo giovane, ricordò a sé stessa
affannosamente. “Beh, forse potrei parlare con Bob – intendo dire il Signor Banner. Posso
vedere se -”
Un secondo fu tutto quanto ci volle per trasformare ogni cosa: l’atmosfera nella
stanza, la missione per cui ero lì, la ragione per cui mi ero allungato verso la donna dai
capelli rossi… Quello che prima aveva uno scopo adesso ne aveva un altro.
Un secondo fu tutto quanto ci volle a Samantha Walls per aprire la porta e
depositare una nota firmata in un contenitore vicino alla porta, e correre di nuovo fuori,
nella fretta di allontanarsi dalla scuola. Un secondo fu tutto quanto ci volle per essere
investito dall’improvvisa folata di vento che aveva attraversato la porta. Un secondo fu
tutto quanto ci volle per rendermi conto del perché quella prima persona che aveva
attraversato la porta non mi aveva interrotto con i suoi pensieri.
Mi voltai, anche se non avevo bisogno di farlo per essere sicuro. Mi voltai
lentamente, combattendo per tenere sotto controllo i muscoli che mi si ribellavano.
Bella Swan era in piedi con le spalle poggiate al muro accanto alla porta, che
stringeva tra le mani un pezzo di carta. I suoi occhi si spalancarono persino più del
normale quando s’immersero nel mio sguardo feroce e disumano.
L’odore del suo sangue impregnava ogni particella d’aria di quell’ufficio piccolo e
caldo. La mia gola era in fiamme.
Il mostro ancora una volta ricambiò il mio sguardo dallo specchio che erano i suoi
occhi, una maschera malefica.
La mia mano esitava nell’aria sopra il bancone. Non mi sarebbe servito di girarmi
per allungare il braccio e sbattere la testa della Signorina Cope sulla scrivania con una
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forza sufficiente ad ucciderla. Due vite, invece di venti. Un affare.
Il mostro attendeva ansiosamente, famelicamente che lo facessi.
Ma c’era sempre un’alternativa – Doveva esserci.
Bloccai il movimento dei polmoni, e mi concentrai sul viso di Carlisle che avevo
davanti agli occhi. Mi voltai di nuovo di fronte alla Signorina Cope ed ascoltai l’intima
sorpresa indottale dal mio cambiamento di espressione. Si allontanò da me, ma la sua
paura non si trasformò in parole coerenti.
Facendo uso di tutto il controllo che avevo imparato a dominare in decenni di
abnegazione, adottai un tono di voce pacato e mellifluo. Avevo giusto abbastanza aria nei
polmoni per parlare una volta ancora, scandendo rapidamente le parole.
“Non fa niente, allora. Capisco che non è possibile. Molte grazie lo stesso per il suo
aiuto”.
Mi voltai in un baleno e mi precipitai fuori dalla stanza, cercando d’ignorare il
calore del suo sangue caldo mentre passavo a pochi centimetri da lei.
Non mi fermai finché non arrivai alla macchina, muovendomi troppo in fretta lungo
tutto il percorso fino a lì. La maggior parte degli esseri umani se n’erano già andati, perciò
non c’erano molti testimoni. Uno studente del secondo anno, D.J. Garret, l’aveva notato,
ma poi aveva sminuito la cosa…
Da dove arriva Cullen? Sembra essersi materializzato dal nulla…Ci risiamo,
ancora la mia immaginazione. La mamma lo dice sempre…
Quando m’infilai dentro la Volvo, gli altri erano già lì. Cercavo di controllare il mio
respiro, ma stavo boccheggiando l’aria fresca come se fossi quasi soffocato.
“Edward?” domandò Alice, in tono apprensivo.
Mi limitai a scuotere la testa.
“Che diamine ti è successo?” chiese Emmett, momentaneamente distratto dal fatto
che Jasper non fosse dell’umore giusto per una rivincita.
Invece di rispondere, innestai rapido la retromarcia. Dovevo andarmene da quel
parcheggio prima che Bella Swan potesse seguirmi anche lì. Il mio demone personale, che
mi braccava… Girai bruscamente la macchina e accelerai. Avevo raggiunto i sessanta
prim’ancora di essere in strada. In strada, raggiunsi i centodieci prim’ancora di aver
svoltato l’angolo.
Senza bisogno di vederli, sapevo che Emmett, Rosalie e Jasper si erano tutti voltati
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a guardare Alice. Lei scrollò le spalle. Non riusciva a vedere il passato, ma solo ciò che
stava per arrivare.
Si era messa a rovistare nel futuro per me, ora. Entrambi elaborammo quello che
vedeva nella sua mente, ed entrambi ne rimanemmo sorpresi.
“Te ne vai?” mormorò.
Gli altri fissavano me adesso.
“Davvero?” sibilai a denti stretti.
Poi lo vide, nell’istante in cui la mia determinazione vacillava ed un’altra scelta
spingeva il mio futuro in una più cupa direzione.
“Oh”.
Bella Swan, morta. I miei occhi, di un rosso incandescente per il sangue appena
consumato. L’inchiesta che ne sarebbe seguita. Il tempo che avremmo dovuto far passare
perché fosse sicuro per noi trasferirci e ricominciare daccapo…
“Oh”, disse ancora. L’immagine si faceva sempre più dettagliata. Per la prima volta
vidi l’interno della casa dell’ispettore Swan, vidi Bella in una piccola cucina con gli
armadietti gialli, che mi dava le spalle mentre la spiavo dall’ombra… Lasciando che il
profumo mi spingesse verso di lei…
“Basta!” gemetti, incapace di sopportare altro.
“Mi dispiace”, bisbigliò, con gli occhi sgranati.
Il mostro esultava.
Poi la visione nella sua mente cambiò di nuovo. Una strada deserta, di notte, gli
alberi che la costeggiavano ricoperti di neve, baluginanti a quasi trecentoventi chilometri
l’ora.
“Mi mancherai”, disse. “Non importa per quanto poco tempo starai via”.
Emmett e Rosalie si scambiarono un’occhiata apprensiva.
Eravamo in prossimità della svolta per il lungo viale che conduceva a casa nostra.
“Lasciaci qui”, ordinò Alice. “Devi dirlo tu stesso a Carlisle”.
Annuii, e la macchina stridette per la brusca frenata.
Emmett, Rosalie e Jasper uscirono in silenzio; si sarebbero fatti spiegare tutto da
Alice quando me ne fossi andato. Alice toccò la mia spalla.
“Farai la cosa giusta”, mormorò. Non era una visione stavolta – ma un ordine. “Per
Charlie Swan è tutta la sua famiglia. Uccideresti anche lui”.
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“Si”, dissi, d’accordo soltanto sull’ultima parte.
Scivolò fuori per raggiungere gli altri, con le sopracciglia ansiosamente aggrottate.
Si dissolsero nella foresta, scomparendo alla vista prim’ancora che potessi girare la
macchina.
Accelerai di nuovo in direzione della città, e sapevo che le visioni nella mente di
Alice avrebbero lampeggiato dal buio alla luce come una lampada ad intermittenza.
Mentre sfrecciavo a centoquaranta verso Forks, non ero sicuro di cos’avrei fatto. Avrei
detto addio a mio padre? O avrei abbracciato il mostro che avevo dentro? La strada volava
via sotto le ruote.
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2. Libro aperto
Me ne stavo appoggiato ad un soffice banco di neve, lasciando che la massa farinosa si
modellasse attorno al mio peso. La mia pelle si era raffreddata per compensare l’aria
intorno a me, ed i minuscoli frammenti di ghiaccio parevano come velluto a contatto con
la mia pelle.
Il cielo sovrastante era limpido, brillante di stelle, acceso di blu in alcuni punti, di
giallo in altri. Le stelle creavano delle figure maestose e fluttuanti che contrastavano con
l’oscurità dell’universo – uno spettacolo meraviglioso. Straordinariamente bello. O
almeno, sarebbe dovuto essere straordinario. Lo sarebbe stato, se fossi riuscito a vederlo
davvero.
Non stava andando per niente meglio. Erano passati sei giorni, da sei giorni mi
nascondevo qui nella landa desolata di Denali, ma non ero più vicino alla libertà di quanto
non fossi la prima volta che avevo colto il suo profumo.
Quando alzavo lo sguardo al cielo incastonato, era come se ci fosse un’ostruzione
tra i miei occhi e la sua bellezza. L’ostruzione era un viso, solo un comune viso umano,
che però non riuscivo a bandire completamente dalla mia mente.
Sentii l’approssimarsi dei pensieri prim’ancora di riuscire a sentire i passi che li
accompagnavano. Il suono del movimento era solo un lieve fruscio contro la neve
farinosa.
Non ero sorpreso che Tanya mi avesse seguito. Sapevo che in quegli ultimi giorni
aveva rimuginato a lungo sulla conversazione in arrivo, rimandandola finché non era stata
sicura di cosa volesse dirmi esattamente.
Con un balzo apparve a circa sessanta metri da me, che si lanciava sulla cima di un
affioramento di rocce nere bilanciandosi sugli avampiedi nudi.
La pelle di Tanya era d’argento alla luce delle stelle, ed i lunghi ricci dei suoi capelli
biondi rilucevano pallidi, quasi rosa per via delle sfumature rosso fragola. I suoi occhi
ambrati scintillavano mentre mi spiava, mezza sepolta nella neve, e le sue labbra carnose
si distesero lentamente in un sorriso.
Magnifica. Se fossi stato veramente in grado di vederla. Sospirai.
Si rannicchiò sulla cima dell’affioramento, la punta delle dita a toccarne la roccia, il
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corpo involto.
Bomba, pensò.
Si lanciò in aria, la sua sagoma divenne un’ombra scura e indefinibile mentre
volteggiava tra me e le stelle. Si chiuse a palla proprio mentre centrava il banco di neve
ammucchiato al mio fianco.
Attorno a me montò una bufera di neve. Le stelle si oscurarono e mi ritrovai
sommerso da leggeri cristalli di ghiaccio.
Sospirai ancora, ma non feci nulla per riesumarmi. L’oscurità al di sotto della neve
né rovinava né migliorava la vista. Vedevo ancora lo stesso volto.
“Edward?”
Poi la neve ricominciò ad agitarsi intanto che Tanya mi dissotterrava rapidamente.
Tolse la neve farinosa dal mio viso inespressivo, senza quasi guardarmi negli occhi.
“Scusa” mormorò. “Era uno scherzo”.
“Lo so. Era divertente”.
La sua bocca s’imbronciò.
“Irina e Kate mi hanno detto che avrei fatto meglio a lasciarti da solo. Pensano che
ti stia dando il tormento”.
“Nient’affatto”, la rassicurai. “Al contrario, sono io quello che si comporta da
maleducato – tremendamente maleducato. Mi dispiace davvero”.
Torni a casa, non è vero?, pensò.
“Non l’ho…completamente…deciso ancora”.
Ma non resterai qui. I suoi pensieri si erano fatti malinconici, tristi.
“No. Non sembra essere…di alcuna utilità”.
Fece una smorfia. “E’ colpa mia, vero?”
“Certo che no”, mentii senza alcuna difficoltà.
Non fare il gentiluomo.
Sorrisi.
Ti metto a disagio, accusò.
“No”.
Alzò un sopracciglio, la sua espressione era talmente scettica che non potei fare a
meno di ridere. Una breve risata, seguita da un altro sospiro.
“D’accordo”, ammisi. “Appena un pò”.
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Sospirò anche lei ed appoggiò il mento tra le mani. I suoi pensieri erano delusi.
“Sei mille volte più affascinante delle stelle, Tanya. Ovviamente, ne se già
pienamente cosciente. Non lasciare che la mia testardaggine scalzi la tua sicurezza”.
Ridacchiai alla prospettiva di quanto quello fosse improbabile.
“Non sono abituata ad essere rifiutata” borbottò, sporgendo il labbro inferiore così
da mettere il broncio in maniera accattivante.
“Certo che no”, le accordai, cercando con scarso successo di tenere fuori i suoi
pensieri mentre rovistava fugacemente tra i ricordi delle sue migliaia di conquiste riuscite.
Tanya preferiva soprattutto gli uomini della specie umana – intanto perché erano molto
più numerosi, con in più il vantaggio di essere morbidi e caldi. E sempre compiacenti,
senza alcun dubbio.
“Succube”, la canzonai, sperando così d’interrompere le immagini che baluginavano
nella sua mente.
Spalancò il sorriso, sfoggiando la dentatura. “La sola”.
Diversamente da Carlisle, Tanya e le sue sorelle avevano scoperto le proprie
coscienze lentamente. Alla fine, era stata la loro inclinazione per i maschi della razza
umana che le aveva fatte ribellare alla carneficina. Adesso gli uomini che amavano…
sopravvivevano.
“Quando ti sei presentato qui”, disse Tania lentamente. “Ho pensato che…”
Sapevo cos’aveva pensato. Ed avrei dovuto immaginare che si sarebbe sentita così.
Ma non ero al meglio quanto a ragionamento analitico in quel momento.
“Hai pensato che avessi cambiato idea”.
“Si”. Si accigliò.
“Mi sento malissimo per aver giocato con le tue speranze, Tanya. Non intendevo –
non stavo riflettendo. E’ solo che sono venuto via…piuttosto di corsa”.
“Immagino che non mi diresti perché…?”
Mi misi a sedere cingendomi le ginocchia con le braccia, raggomitolandomi sulla
difensiva. “Non mi va di parlarne”.
Tanya, Irina e Kate erano davvero brave a vivere la vita cui si erano vincolate. Più
brave persino di Carlisle, per certi versi. A dispetto della follemente stretta vicinanza che
si permettevano di avere con coloro che sarebbero dovuti essere – e una volta erano – le
loro prede, non commettevano errori. Mi vergognavo troppo per ammettere la mia
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debolezza con Tanya.
“Problemi di donne?” tirò a indovinare, ignorando la mia riluttanza.
Risi sconfortato. “Non nel senso che credi tu”.
Dopodiché si fece silenziosa. Ne ascoltai i pensieri intanto che si lasciava andare a
diverse supposizioni, cercando di decifrare il senso delle mie parole.
“Non ci sei neanche vicina”, le dissi.
“Un aiutino?” chiese.
“Per favore lascia stare, Tanya”.
Si fece nuovamente silenziosa, mentre elaborava altre ipotesi. La ignorai, cercando
invano di godermi le stelle.
Dopo un momento di silenzio si arrese, ed i suoi pensieri presero una direzione
nuova.
Dove andrai, Edward, se te ne vai? Torni da Carlisle?
“Non credo”, mormorai.
Dove sarei andato? Non riuscivo a pensare a nessun posto sull’intero pianeta capace
di suscitarmi un qualche interesse. Non c’era niente che volessi vedere o fare. Perché,
ovunque mi fossi diretto, non sarei arrivato da nessuna parte – mi sarei limitato a
scappare.
Era una cosa che odiavo. Quand’ero diventato un tale codardo?
Tanya aveva allungato il braccio sottile attorno alle mie spalle. Mi ero irrigidito, ma
senza sottrarmi al suo tocco. Lo aveva inteso come nulla più di un conforto amichevole.
All’incirca.
“Credo che tornerai indietro”, disse, con nella voce solamente una sfumatura del
suo oramai svanito accento russo. “Non importa cosa…o chi…ti stia dando la caccia. Lo
affronterai a testa alta. Sei fatto così”.
I suoi pensieri erano sicuri come le sue parole. Cercai di abbracciare l’idea di me
che aveva nella mente. Di uno che affronta le cose a testa alta. Era piacevole pensare di
nuovo a me stesso in quel modo. Non avevo mai dubitato del mio coraggio, della mia
capacità di affrontare le avversità, prima di quell’orribile ora di poco tempo prima
trascorsa ad una lezione di biologia in una scuola superiore.
La baciai sulla guancia, ritraendomi in fretta quando aveva voltato il viso verso di
me, con le labbra già increspate. Sorrise mestamente per la mia prontezza.
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©2008 Stephenie Meyer
“Grazie, Tanya. Avevo bisogno di sentirmelo dire”.
I suoi pensieri si fecero petulanti. “Di niente, Edward, immagino. Vorrei che fossi
più ragionevole su certe cose, Edward”.
“Mi dispiace, Tanya. Sai di essere troppo buona per me. E’ solo…che ancora non ho
trovato quello che cerco”.
“Bene, nel caso partissi prima che ti riveda…arrivederci, Edward”.
“Arrivederci, Tanya”. Mentre pronunciavo quelle parole, potevo vedermi. Potevo
vedere me stesso partire. Forte abbastanza da tornare nell’unico posto in cui desideravo
stare. “Grazie ancora”.
Si era alzata con un solo agile movimento, e poi aveva cominciato a correre,
scivolando sulla neve così velocemente che i suoi piedi non avevano avuto il tempo di
affondarci dentro; non aveva lasciato impronte. Non si era voltata indietro. Il mio rifiuto
l’aveva infastidita più di quanto non avesse dato a vedere, persino nei suoi pensieri. Non
voleva rivedermi prima che partissi.
Lo scontento distorse la piega delle mie labbra. Non mi faceva piacere ferire Tanya,
sebbene i suoi sentimenti non fossero profondi, a malapena casti e, in ogni caso, non
qualcosa che potessi contraccambiare. Ciononostante mi faceva sentire meno gentiluomo.
Poggiai il mento sulle ginocchia e tornai a fissare le stelle, quantunque fossi
improvvisamente ansioso d’intraprendere il mio viaggio. Sapevo che Alice mi avrebbe
visto che tornavo a casa, che l’avrebbe detto agli altri. Questo li avrebbe resi felici –
Carlisle ed Esme soprattutto. Però rimasi a contemplare le stelle per un altro momento,
cercando di guardare oltre il viso che avevo in mente. Tra me e le luci che risplendevano
in cielo, un paio di sconcertati occhi marrone cioccolata ricambiavano il mio sguardo,
apparentemente domandando cos’avrebbe significato per lei quella decisione.
Ovviamente, non potevo essere certo che fosse davvero quella la risposta che i suoi occhi
curiosi cercavano. Perfino nelle mie fantasie non riuscivo ad ascoltarne i pensieri. Gli
occhi di Bella Swan continuavano a fare domande, ed una visuale sgombra delle stelle
continuava a sfuggirmi. Sospirando profondamente mi arresi, e mi alzai in piedi. Se
correvo, potevo tornare alla macchina di Carlisle in meno di un’ora…
Nella fretta di rivedere la mia famiglia – e desiderando con tutto me stesso di essere
l’Edward che affronta le cose a testa alta – mi precipitai attraverso il campo innevato
illuminato dalle stelle, senza lasciare impronte.
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©2008 Stephenie Meyer
“Andrà tutto bene”, sussurrò Alice. I suoi occhi erano distanti, e Jasper le poggiava
delicatamente una mano sotto il gomito, guidandola mentre entravamo nella mensa
malridotta stretti in gruppo. Rosalie ed Emmett facevano strada, Emmett con l’aria ridicola
di una guardia del corpo al centro di un territorio ostile. Anche Rosalie aveva l’aria
guardinga, ma più irritata che protettiva.
“Naturalmente” borbottai. Si comportavano in maniera assurda. Se non fossi stato
certo di poter gestire questo momento, me ne sarei rimasto a casa.
L’improvvisa trasformazione di una mattinata normale, persino allegra – aveva
nevicato durante la notte ed Emmett e Jasper non avevano esitato ad approfittare della mia
distrazione per bombardarmi con le palle di neve; quando si erano stancati del fatto che
non reagivo, si erano rivoltati l’uno contro l’altro – in quella vigilanza esagerata sarebbe
stato comico se non fossi stato tanto irritato.
“Non è ancora arrivata, ma presto sarà qui…non si troverà sottovento se ci sediamo
al nostro solito posto”.
“Naturalmente occuperemo il nostro solito posto. Smettila, Alice. Mi stai dando sui
nervi. Starò benissimo”.
Sbatté le palpebre una volta mentre Jasper l’aiutava a prendere posto, ed i suoi occhi
finalmente si focalizzarono sul mio viso.
“Hmm”, disse, apparentemente stupita. “Penso che tu abbia ragione”.
“Ovviamente ce l’ho” borbottai.
Odiavo essere il centro delle loro attenzioni. Provai un’improvvisa compassione per
Jasper, ripensando a tutte le volte che gli eravamo stati protettivamente addosso. Incrociò
brevemente il mio sguardo e spalancò il sorriso.
Irritante, non è vero?
Gli feci una smorfia.
Era passata solo una settimana da quando quello stanzone lungo e tetro mi era
sembrato così terribilmente monotono? Che mi era parso che stare lì fosse quasi come
dormire, come essere in coma?
Oggi i miei nervi erano ben tesi – come le corde di un pianoforte, tese per suonare
alla più leggera delle pressioni. I miei sensi erano in stato di piena allerta; scansionavo
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ogni suono, ogni sguardo, ogni movimento dell’aria che toccava la mia pelle, ogni
pensiero. Soprattutto i pensieri. C’era solamente un senso che tenevo sotto chiave,
rifiutandomi di usarlo. L’olfatto, naturalmente. Non respiravo.
Stavo aspettando di ascoltare qualcosa di diverso sui Cullen nei pensieri che
sondavo. Avevo aspettato tutto il giorno, in cerca di una qualunque nuova conoscenza con
la quale Bella Swan avesse potuto decidere di confidarsi, tentando di capire la direzione
che avrebbero preso i nuovi pettegolezzi. Ma non avevo trovato niente. Nessuno a mensa
pareva fare caso ai cinque vampiri, proprio come prima che la ragazza nuova arrivasse.
Diversi degli esseri umani presenti stavano ancora pensando a quella ragazza, formulando
ancora i medesimi pensieri della settimana passata. Invece di trovare la cosa
incredibilmente noiosa, adesso ne ero affascinato.
Non aveva raccontato a nessuno di me?
Non era possibile che non si fosse accorta del mio sguardo truce ed assassino.
Avevo visto come aveva reagito. Sicuramente, l’avevo spaventata a morte. Ero convinto
che ne avesse fatto parola con qualcuno, magari addirittura ingigantendo un poco la storia
per renderla più interessante. Rivolgendomi qualche epiteto.
E poi, mi aveva anche sentito mentre cercavo di ritirarmi dal corso di biologia che
frequentavamo assieme. Doveva essersi chiesta, dopo aver visto la mia espressione, se per
caso non fosse a causa sua. Una ragazza normale avrebbe domandato in giro, confrontato
la propria esperienza con quelle degli altri, in cerca di una ragione comune che spiegasse
la mia condotta così da non sentirsi esclusa. Gli esseri umani disperavano costantemente di
sentirsi normali, di ambientarsi. Di mescolarsi a tutti quelli che avevano intorno,
esattamente come un gregge di pecore. Un bisogno particolarmente sentito durante
l’instabile periodo dell’adolescenza. Questa ragazza non avrebbe fatto eccezione alla
regola.
Ma assolutamente nessuno faceva caso a noi seduti lì, al nostro solito tavolo. Bella
doveva essere eccezionalmente timida, se non si era confidata con nessuno. Forse ne
aveva parlato con il padre, magari era quello il legame più forte…senonché mi pareva
poco probabile, stante il poco tempo che aveva passato con lui nel corso della sua vita.
Probabilmente era più attaccata a sua madre. Ciononostante, avrei fatto meglio a passare
quanto prima dall’ispettore Swan per sentire cosa pensava.
“Niente di nuovo?” chiese Jasper.
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“Niente. Non deve…averne fatto parola con nessuno”.
Reagirono tutti alla notizia sollevando un sopracciglio.
“Magari non sei spaventoso come credi”, disse Emmett, ridacchiando. “Scommetto
che sarei stato capace di metterle molta più paura di così”.
Alzai gli occhi al cielo.
“Chissà perché…?”. Tornò a scervellarsi sulla mia rivelazione circa l’unicità del
silenzio della ragazza.
“Ci abbiamo già pensato e ripensato. Non lo so”.
“Sta entrando”, mormorò Alice a quel punto. Sentii il mio corpo che s’irrigidiva.
“Cerca di sembrare umano”.
“Umano, hai detto?” chiese Emmett.
Sollevò il pugno destro, aprendo le dita per mostrarci la palla di neve che aveva
conservata nella mano. Ovviamente non si era sciolta. L’aveva compressa fino a farla
diventare un bitorzoluto blocchetto di ghiaccio. Teneva gli occhi su Jasper, ma avevo visto
verso chi erano rivolti i suoi pensieri. E naturalmente lo aveva fatto anche Alice. Quando
improvvisamente le tirò addosso quel pezzo di ghiaccio, lei lo scansò con un gesto casuale
delle dita. Il ghiaccio rimbalzò per tutta la lunghezza della mensa, troppo veloce per
risultare visibile agli occhi umani, e si fracassò sulla parete di mattoni schiantandosi
rumorosamente. Pure i mattoni scricchiolarono.
Tutte le teste che si trovavano in quell’angolo della stanza si erano voltate a
guardare il mucchietto di ghiaccio sul pavimento, e poi si erano girate a caccia del
colpevole. Non avevano guardato più in là di pochi tavoli. Nessuno aveva guardato verso
di noi.
“Molto umano, Emmett”, disse Rosalie caustica. “Perché non ti lanci attraverso la
parete già che ci sei?”
“Sarebbe molto più d’effetto se lo facessi tu, piccola”.
Cercai di prestargli attenzione, continuando a trattenere sul viso un ampio sorriso,
come se stessi prendendo parte alla loro schermaglia. Non mi permettevo di guardare
verso la fila dove sapevo che si trovava. Ma era lì che si concentrava tutto il mio ascolto.
Potevo sentire l’insofferenza di Jessica nei confronti della nuova arrivata, la quale
sembrava anche lei distratta, immobile in mezzo alla fila che continuava a scorrere. Nei
pensieri di Jessica vidi le guance di Bella Swan colorarsi ancor di più di un rosa acceso di
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sangue.
Feci dei brevi respiri poco profondi, pronto a smettere di respirare semmai ci fosse
stata traccia del suo profumo nell’aria intorno a me.
Mike Newton era con le due ragazze. Potei sentirne entrambe le voci, quella
mentale e quella verbale, quando chiese a Jessica cosa non andasse nella giovane Swan.
Non mi piaceva il modo in cui i suoi pensieri le si avvolgevano attorno, il fremito delle già
consolidate fantasie che ottenebravano la sua mente mentre la guardava trasalire e
riscuotersi dal suo fantasticare quasi avesse dimenticato dove si trovava.
“Niente”, sentii dire a Bella con quella sua voce pacata e limpida. La quale parve
suonare come un campanello al di sopra del brusio della mensa, ma sapevo che era
solamente perché stavo aspettando con grande attenzione di poterla ascoltare.
“Oggi prendo solamente una soda”, aggiunse avanzando nella fila.
Non riuscii ad impedirmi di lanciare un’occhiata nella sua direzione. Teneva lo
sguardo basso sul pavimento ed il sangue stava lentamente svanendo dal suo viso. Mi
voltai rapidamente verso Emmett, che proruppe in una risata per il sorriso apparentemente
afflitto che avevo adesso in viso.
Sembri malato, fratello.
Ricomposi la mia espressione di modo che sembrasse disinvolta e naturale.
Jessica, ad alta voce, stava chiedendo spiegazione della mancanza di appetito della
ragazza. “Non hai fame?”
“A dire il vero, non mi sento molto bene”. La sua voce era più debole, ma ancora
molto chiara.
Perché m’infastidiva la premurosa preoccupazione che d’improvviso emanava dai
pensieri di Mike Newton? Cosa importava se avevano una sfumatura di possessività? Non
era affar mio se Mike Newton si sentiva inutilmente ansioso per lei. Forse era quello il
modo in cui tutti le reagivano. Non avevo io stesso, istintivamente, desiderato di
proteggerla? Prima di aver desiderato di ucciderla, insomma…
Ma la ragazza era malata?
Era difficile da stabilire – sembrava così delicata con quella pelle trasparente… Poi
mi resi conto che anch’io mi stavo preoccupando per lei, proprio come quella testa vuota
di ragazzo, e mi sforzai di non pensare alla sua salute.
Oltretutto, non mi piaceva doverla tenere d’occhio attraverso i pensieri di Mike
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Newton. Mi spostai su quelli di Jessica, voltandomi con cautela verso i tre mentre
sceglievano il tavolo al quale sedersi. Fortunatamente, presero posto insieme ai compagni
abituali di Jessica, in uno dei primi tavoli della mensa. Non sottovento, proprio come
aveva promesso Alice.
Alice mi diede una gomitata. Tra poco guarderà da questa parte, comportati da
umano.
Sorrisi a denti stretti.
“Rilassati, Edward”, disse Emmett. “Onestamente. Vabé, uccidi un solo umano.
Non è mica la fine del mondo”.
“Tu dovresti saperlo”, protestai.
Emmett scoppiò a ridere. “Devi imparare a fregartene. Come faccio io. L’eternità è
un tempo troppo lungo per crogiolarsi con i sensi di colpa”.
Proprio in quell’istante, Alice gettò una piccola manciata di ghiaccio che aveva
tenuta nascosta sul viso di Emmett, che non aveva sospettato nulla.
Lui sbatté le palpebre, sorpreso, e poi abbozzò una smorfia in previsione di quello
che avrebbe fatto.
“Te la sei voluta”, disse, mentre si allungava sul tavolo e le scuoteva addosso i
capelli incrostati dal ghiaccio. La neve, sciogliendosi al calore della stanza, gli volò via dai
capelli in una fitta doccia mezzo liquida, mezzo congelata.
“Ehi!” reclamò Rosalie, intanto che lei ed Alice rifuggivano dal diluvio.
Alice si mise a ridere, e tutti noi ci unimmo. Potevo leggere nella mente di Alice
come avesse orchestrato quel momento perfetto, e sapevo che la ragazza – dovevo
smetterla di pensare a lei in quella maniera, come se fosse l’unica ragazza esistente al
mondo – che Bella ci avrebbe visti ridere e scherzare, con l’aria felice ed umana ed
utopicamente idealizzata tipica di un dipinto di Norman Rockwell.
Alice continuava a ridere, e sollevò il proprio vassoio per farsene scudo. La ragazza
– Bella, di sicuro, ci stava ancora guardando.
…Sta di nuovo fissando i Cullen, pensò qualcuno, catturando la mia attenzione.
Automaticamente mi voltai a guardare la fonte di quel richiamo involontario,
comprendendo non appena i miei occhi ebbero raggiunta la loro destinazione che
conoscevo quella voce – l’avevo ascoltata talmente a lungo oggi.
Ma i miei occhi scivolarono subito alla destra di Jessica, ed andarono a convergere
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sullo sguardo penetrante della ragazza.
Abbassò gli occhi rapidamente, nascondendosi come già aveva fatto dietro i folti
capelli.
Cosa stava pensando? La frustrazione, piuttosto che smorzarsi, pareva farsi sempre
più pungente con l’andare del tempo. Tentavo – senza sapere bene cosa stessi facendo
perché mai prima ci avevo provato – di sondare con la mente il silenzio che la circondava.
L’extra udito era sempre stata una dote naturale che non avevo avuto bisogno di
sollecitare; non avevo mai dovuto lavorarci sopra. Però mi concentrai, nel tentativo di
aprirmi un varco attraverso qualunque barriera la circondasse.
Niente, apparte il silenzio.
Cosa mai ci sarà in lei? Pensò Jessica, facendo eco alla mia stessa frustrazione.
“Edward Cullen ti sta fissando”, bisbigliò all’orecchio della giovane Swan,
aggiungendo una risatina. Non c’era traccia alcuna della sua gelosa irritazione nel tono
della sua voce. Jessica sembrava essere fatta apposta per simulare l’amicizia.
Ascoltai, eccessivamente affascinato, la risposta della ragazza.
“Non sembra arrabbiato, vero?” bisbigliò come risposta.
Perciò aveva notato la mia reazione furiosa della scorsa settimana. Ovviamente
l’aveva fatto.
La domanda confuse Jessica. Vidi la mia faccia riflettersi nei suoi pensieri intanto
che verificava la mia espressione, ma non incontrai il suo sguardo. Ero ancora focalizzato
sulla ragazza, nel tentativo di sentire qualcosa. La mia concentrazione assorta non pareva
sortire effetto alcuno.
“No” le disse Jessica, e sapevo che desiderava di poterle dire di si – il mio sguardo
fisso la offendeva profondamente – anche se non sembrava dalla sua voce. “Dovrebbe?”
“Non credo di piacergli”, bisbigliò di rimando la ragazza, posando la testa sul
braccio come se si sentisse improvvisamente stanca. Cercai d’interpretare il gesto, ma
potevo solamente fare delle supposizioni. Forse era stanca.
“Ai Cullen non piace nessuno”, la rassicurò Jessica. “Beh, non che facciano
abbastanza caso agli altri perché possano piacergli”. Di solito non lo fanno. I suoi pensieri
borbottavano protestando. “Però ti sta ancora fissando”.
“Smettila di guardarlo”, le aveva risposto ansiosa la ragazza, sollevando la testa dal
braccio per assicurarsi che Jessica obbedisse al suo ordine.
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Jessica ridacchiava, ma fece come le era stato chiesto.
La ragazza non distolse lo sguardo dal proprio tavolo per tutto il resto dell’ora.
Pensavo – sebbene, naturalmente, non potessi esserne sicuro – che lo facesse di proposito.
Sembrava che invece volesse guardarmi. Il suo corpo si muoveva leggermente verso di
me, il mento cominciava a voltarsi, e poi si ricomponeva, respirava a fondo, ed inchiodava
lo sguardo su chiunque stesse parlando.
Per la maggior parte ignorai i pensieri che circondavano la ragazza, poiché,
momentaneamente, non la riguardavano. Mike Newton stava pianificando una guerra a
palle di neve nello spiazzo del parcheggio dopo la scuola, apparentemente ignaro del fatto
che la pioggia aveva già sostituito la neve. La morbida discesa dei fiocchi sul tetto si era
trasformata nel più usuale picchiettare delle gocce di pioggia. Davvero non riusciva a
sentire il cambiamento? A me suonava evidente.
Quando finì la pausa pranzo, rimasi seduto al mio posto. Gli umani uscivano in fila
indiana, e sorpresi me stesso a cercare di discernere il suono dei suoi passi da quello degli
altri, come se avessero qualcosa d’importante o d’insolito. Che stupidaggine.
Anche la mia famiglia non accennava ad andarsene. Aspettavano di vedere cos’avrei
fatto.
Sarei andato in classe, mi sarei messo seduto accanto alla ragazza dove avrei potuto
odorare il profumo spaventosamente potente del suo sangue e percepirne il calore della
circolazione nell’aria che sfiorava la mia pelle? Ero forte abbastanza per farlo? O ne avevo
avuto abbastanza per un solo giorno?
“Penso…che possa andare”, disse Alice, esitante. “La tua mente è ben focalizzata.
Penso che riuscirai a superare quest’ora”.
Ma Alice sapeva bene quanto in fretta una mente potesse rivoltarsi.
“Perché sfidare la sorte, Edward?” chiese Jasper. Malgrado non volesse compiacersi
del fatto che fossi io quello debole adesso, potevo sentire che lo faceva, appena un pò. “Va
a casa. Prenditela comoda”.
“Perché tutte queste storie?” si oppose Emmett. “O la ucciderà o non la ucciderà. In
entrambi i casi, ne verrà a capo”.
“Non voglio ancora traslocare” si lamentò Rosalie. “Non voglio ricominciare da
capo. Abbiamo quasi terminato le superiori, Emmett. Finalmente”.
Quella decisione mi lacerava in parti uguali. Volevo, volevo davvero affrontare la
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cosa a testa alta piuttosto che scappare di nuovo. Ma non volevo per questo spingermi
troppo oltre. La settimana passata Jasper aveva sbagliato a voler resistere tanto a lungo
senza andare a caccia; non stavo commettendo un parimenti inutile errore?
Non volevo costringere la mia famiglia a trasferirsi. Nessuno di loro mi avrebbe
ringraziato se lo avessi fatto.
Però volevo andare a lezione di biologia. Mi resi conto che volevo rivedere il suo
viso.
Fu questo a decidere al mio posto. La curiosità. Ero arrabbiato con me stesso perché
la provavo. Non mi ero forse ripromesso che non avrei lasciato che la mente silenziosa
della ragazza me la rendesse eccessivamente interessante? E tuttavia, eccomi lì,
decisamente troppo coinvolto.
Volevo sapere cosa stava pensando. La sua mente era chiusa, ma i suoi occhi erano
molto aperti. Potevo leggere quelli, semmai.
“No, Rose, credo davvero che andrà tutto bene”, disse Alice. “Si sta…consolidando.
Sono al novantatre per cento sicura che non succederà niente di brutto se andrà a lezione”.
Mi guardò con aria inquisitoria, cercando d’indovinare cosa potesse essere cambiato nei
miei pensieri al punto da rendere la sua visione più solida.
La curiosità sarebbe bastata a salvare la vita di Bella Swan?
Emmett aveva ragione, comunque – perché non venirne a capo in un modo o
nell’altro? Avrei affrontato la tentazione a testa alta.
“Andate in classe”, ordinai, spingendomi via dal tavolo. Mi ero voltato e me n’ero
andato a grandi passi senza guardarmi indietro. Potevo sentire l’inquietudine di Alice, il
biasimo di Jasper, l’approvazione di Emmett e l’irritazione di Rosalie che mi seguivano.
Davanti alla porta dell’aula presi un’ultima lunga boccata d’aria, e poi la trattenni
nei polmoni mentre entravo in quello spazio ristretto e caldo.
Non ero in ritardo. Il signor Banner stava ancora allestendo l’esercitazione di oggi.
La ragazza era seduta al mio – al nostro tavolo, con la testa nuovamente chinata in basso,
fissa sul quaderno sul quale stava facendo dei ghirigori. Esaminai lo schizzo mentre mi
avvicinavo, interessato persino a quella futile creazione della sua mente, ma era senza
senso. Solo uno scarabocchiare a caso di spirali su spirali. Forse non era concentrata sul
disegno, magari stava pensando a qualcos’altro?
Spinsi indietro la mia sedia con una brutalità eccessiva, lasciando che raschiasse il
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linoleum; gli esseri umani si sentivano molto più a loro agio quando un rumore
annunciava l’approssimarsi di qualcuno.
Sapevo che aveva sentito il rumore; non aveva alzato lo sguardo, ma la sua mano
aveva saltato una spirale nello scarabocchio che stava disegnando, rendendolo
disarmonico.
Perché non aveva alzato lo sguardo? Probabilmente era spaventata. Dovevo
assicurarmi di farle un’impressione diversa stavolta. Indurla a pensare di essersi
immaginata tutto prima.
“Ciao”, le dissi con la voce pacata che usavo quando volevo che gli umani si
sentissero più a loro agio, abbozzando un sorriso educato con le labbra attento a non
mostrare alcun dente.
A quel punto alzò lo sguardo, i suoi grandi occhi marroni erano allarmati – quasi
sbigottiti – e pieni di silenziose domande. Era la stessa espressione che aveva ostruito la
mia visuale per tutta la settimana passata.
Non appena guardai fisso in quegli occhi marroni stranamente profondi, compresi
che l’odio – l’odio che avevo immaginato che questa ragazza in qualche modo meritasse
per il solo fatto di esistere – era evaporato. Senza respirare, senza assaporarne il profumo,
era difficile credere che qualcuno di così vulnerabile potesse mai motivare l’odio.
Le sue guance cominciarono ad avvampare, e non disse niente.
Tenevo i miei occhi nei suoi, focalizzando solamente le profondità dei loro misteri,
e cercavo d’ignorare il colore appetitoso della sua pelle. Avevo fiato abbastanza per
parlarle ancora senza inalare. “Mi chiamo Edward Cullen”, dissi, anche se sapevo che lo
sapeva. Era un modo educato d’iniziare. “Non ho avuto occasione di presentarmi la
settimana scorsa. Tu devi essere Bella Swan”.
Sembrava confusa – c’era di nuovo quella ruga sottile tra i suoi occhi. Le ci volle
qualche secondo in più del normale per rispondere.
“Come fai a sapere come mi chiamo?” chiese, e la sua voce tremava solo un poco.
Dovevo averla veramente terrorizzata. Il che mi fece sentire in colpa; era talmente
indifesa. Risi gentilmente – era un suono che sapevo mettere gli umani più a loro agio. Di
nuovo, badai a non mostrarle i denti.
“Oh, credo che tutti conoscano il tuo nome”. Sicuramente doveva aver capito di
essere diventata il centro dell’attenzione in quel posto monotono. “L’intera città stava
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aspettando il tuo arrivo”.
Si accigliò a quella notizia, come fosse spiacevole. Immaginai che timida come
pareva essere, l’attirare l’attenzione fosse una brutta cosa per lei. La maggior parte degli
esseri umani provava l’opposto. Malgrado volessero uniformarsi al gregge, desideravano
ugualmente che un riflettore puntasse sulla loro affatto originale individualità.
“No”, disse. “Intendevo dire, perché mi hai chiamata Bella?”
“Preferisci Isabella?” le domandai, perplesso dal non riuscire a comprendere dove
sarebbe andata a parare quella domanda. Non capivo. Di sicuro, aveva più volte
manifestato chiaramente la sua preferenza già dal primo giorno. Gli esseri umani erano
tutti così incomprensibili senza l’ausilio di un contesto mentale?
“No, mi piace Bella”, rispose, chinando leggermente il capo di lato. La sua
espressione – se la stavo leggendo correttamente – era combattuta tra l’imbarazzo e la
confusione. “Ma penso che Charlie – voglio dire mio padre – mi chiami Isabella quando
non ci sono. E’ così che tutti sembrano conoscermi qui”. La sua pelle aveva assunto una
più scura sfumatura di rosa.
“Oh”, dissi laconicamente, e rapidamente distolsi lo sguardo dal suo viso.
Avevo appena compreso il significato della sua domanda: avevo fatto una gaffe –
commesso un errore. Se il primo giorno non avessi ascoltato tutti gli altri di nascosto,
allora da principio mi sarei rivolto a lei con il suo nome per esteso, proprio come chiunque
altro. Aveva notato la differenza.
Avvertii una stretta d’inquietudine. Era stato piuttosto facile per lei accorgersi della
mia svista. Davvero astuta, specialmente per qualcuno che si supponeva fosse terrorizzato
dalla mia vicinanza.
Ma avevo problemi assai maggiori di qualunque cosa potesse sospettare di me ben
al sicuro nella sua mente.
Avevo finito l’aria. Se intendevo parlarle ancora, dovevo inalare.
Sarebbe stato difficile evitare la conversazione. Sfortunatamente per lei, la
condivisione del tavolo l’aveva resa la mia partner di laboratorio, ed oggi avremmo
dovuto lavorare insieme. Sarebbe stato strano – ed incomprensibilmente scortese – da
parte mia ignorarla mentre ci esercitavamo. L’avrebbe resa ancor più sospettosa, più
spaventata…
Mi allontanai da lei quanto più potevo senza spostare la sedia, voltando la testa
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verso il corridoio. Mi preparai, serrando i muscoli sul posto, e poi aspirai una rapida
boccata a pieni polmoni, respirando solamente con la bocca.
Ahh!
Era genuinamente doloroso. Anche senza odorarla, potevo sentirne il gusto sulla
lingua. La mia gola improvvisamente era nuovamente in fiamme, il desiderio ardeva
intenso come in quel primo istante della settimana passata che avevo colto il suo profumo.
Serrai i denti ben stretti e cercai di ricompormi.
“Cominciate”, ordinò il Signor Banner.
Sembrò volerci ogni singolo granello di autocontrollo che avevo messo da parte in
settant’anni di duro lavoro, per voltarmi di nuovo verso la ragazza, che teneva lo sguardo
fisso sul tavolo, e sorridere.
“Prima le donne, collega?” le offrii.
Alzò lo sguardo sulla mia espressione ed il suo viso sbiancò, con gli occhi sgranati.
C’era qualcosa che non andava nella mia espressione? Era di nuovo spaventata? Non
parlava.
“O, posso cominciare io se preferisci”, dissi semplicemente.
“No”, disse, e la sua faccia da bianca diventò di nuovo rossa. “Comincio io”.
Fissai lo sguardo sull’attrezzatura che era sul tavolo, sul microscopio ammaccato,
sulla scatola dei vetrini, piuttosto che concedermi di guardare il sangue che affiorava da
sotto la pelle chiara. Aspirai un’altra boccata veloce, tra i denti, e sussultai quando il
sapore mi ferì la gola.
“Profase”, disse dopo una verifica sbrigativa. Aveva cominciato a rimuovere il
vetrino, malgrado l’avesse a malapena esaminato.
“Ti spiace se do un’occhiata?”. Istintivamente – stupidamente, come fossi uno della
sua specie – allungai la mano sulla sua per impedirle di rimuovere il vetrino. Per un
secondo, il calore della sua pelle incendiò sulla mia. Era come una scossa elettrica –
certamente più calda di una temperatura di soli trentasei gradi e mezzo. Il calore si sparò
attraverso la mia mano fino al braccio. Di scatto, tolse la mano da sotto la mia.
“Scusa” biascicai a denti stretti. Avendo bisogno di guardare altrove, afferrai il
microscopio e fissai brevemente l’interno dell’oculare. Aveva ragione.
“Profase”, concordai.
Ero ancora troppo turbato per guardarla. Respirando quanto più tranquillamente
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potevo, serrando i denti e cercando d’ignorare la sete feroce, mi concentrai su quel
semplice compito, scrivendo la risposta sulla linea corrispondente del foglio di laboratorio,
e poi sostituii il primo vetrino con il successivo.
Cosa stava pensando adesso? Che impressione le aveva dato, quando avevo toccato
la sua mano? La mia pelle doveva esserle sembrata fredda come il ghiaccio – ripugnante.
Non c’era da stupirsi che fosse tanto silenziosa.
Osservai brevemente il vetrino.
“Anafase”, dissi a me stesso intanto che lo scrivevo sulla seconda riga.
“Posso?” chiese.
La guardai, sorpreso di vedere che stava aspettando impaziente, con una mano
mezzo allungata verso il microscopio. Non sembrava intimorita. Pensava veramente che
avessi dato la risposta sbagliata?
Non potei fare a meno di sorridere di quell’espressione speranzosa che aveva sul
viso mentre facevo scivolare il microscopio verso di lei.
Guardò nell’oculare con un entusiasmo che sbiadì in fretta. Gli angoli della bocca le
s’imbronciarono.
“Numero tre?” chiese, senza alzare lo sguardo dal microscopio, ma allungando la
mano. Feci cadere il vetrino successivo sul suo palmo, senza permettere alla mia pelle di
avvicinarsi in qualsivoglia modo alla sua stavolta. Sederle accanto era come stare seduti
accanto ad una lampada bollente. La mia temperatura si stava leggermente alzando.
Non guardò a lungo il vetrino. “Interfase”, disse con nonchalance – magari
cercando un pò troppo di far sembrare che fosse così – e spinse il microscopio verso di
me. Non toccava il foglio, ma aspettava che fossi io a scrivere la risposta. Verificai –
aveva di nuovo ragione.
Terminammo così, scambiando a malapena qualche parola e senza mai incrociare
gli occhi l’uno dell’altra. Eravamo gli unici ad aver già finito – gli altri della classe
stavano incontrando maggiori difficoltà con l’esercitazione. Mike Newton apparentemente
faceva fatica a concentrarsi – stava cercando di guardare Bella e me.
Magari fosse rimasto in qualunque posto se n’era andato, pensò Mike, lanciandomi
uno sguardo infuocato. Hmm, interessante. Non mi ero accorto che il ragazzo scagliava
ogni genere di accidente verso di me. Era uno sviluppo del tutto inaspettato, a quanto
pareva coincidente con l’arrivo della ragazza. E la cosa più interessante, scoprii – con mia
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©2008 Stephenie Meyer
sorpresa – era che il sentimento era reciproco.
Guardai di nuovo la ragazza, stupefatto dalla vastità dello scompiglio e
dell’agitazione che, a dispetto del suo apparire ordinaria ed affatto minacciosa, stava
portando nella mia vita.
Non che non potessi vedere ciò che Mike non riusciva a smettere di pensare. In
verità era piuttosto bella…in maniera affatto comune. Meglio ancora dell’essere bello, il
suo viso era interessante. Non perfettamente simmetrico – il suo mento piccolino strideva
con gli zigomi alti; agli estremi nel colore – per il contrasto tra la luminosità della sua
pelle e lo scuro dei suoi capelli; e poi c’erano gli occhi, tracimanti segreti silenziosi…
Occhi che d’improvviso stavano perforando i miei.
Ricambiai il suo sguardo, cercando d’indovinare almeno uno di quei segreti.
“Porti le lenti a contatto?” chiese inaspettatamente.
Che strana domanda. “No”. Quasi sorrisi dell’idea di apportare dei miglioramenti
alla mia vista.
“Oh”, biascicò. “Pensavo ci fosse qualcosa di diverso nei tuoi occhi”.
D’improvviso sentivo di nuovo freddo, mentre mi rendevo conto che,
apparentemente, oggi non ero il solo che cercava di carpire dei segreti.
Scrollai le spalle, che s’irrigidirono, e guardai diritto davanti a me dove l’insegnante
stava girando tra i tavoli.
Ovviamente i miei occhi avevano qualcosa di diverso rispetto all’ultima volta che li
aveva guardati. Per prepararmi alla prova di oggi, all’odierna tentazione, avevo trascorso
l’intero fine settimana a caccia, saziando la mia sete quanto più possibile, esagerando a
dire il vero. Mi ero rimpinzato di sangue animale, non che facesse molta differenza di
fronte al gusto oltraggioso che fluttuava nell’aria attorno a lei. Quando l’avevo guardata
l’ultima volta, i miei occhi erano neri per la sete. Adesso che il mio corpo traboccava di
sangue, i miei occhi erano di una più calda tonalità dorata. Lievemente ambrati per via
dello smodato tentativo di spegnere la sete.
Un altro passo falso. Se avessi potuto prevedere il senso della sua domanda, avrei
potuto semplicemente risponderle di si.
Da due anni, oramai, sedevo accanto agli umani in quella scuola, e lei era la prima
che mi esaminava abbastanza da vicino da notare il cambiamento nel colore dei miei
occhi. Gli altri, pur ammirando la bellezza della mia famiglia, tendevano ad abbassare
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rapidamente lo sguardo quando ricambiavamo le loro occhiate. Arretravano intimoriti,
reprimendo i dettagli del nostro aspetto nello sforzo istintivo d’impedirsi di capire.
L’ignoranza era una beatitudine per la mente umana.
Perché proprio questa ragazza doveva essere quella che avrebbe visto troppo?
Il Signor Banner si avvicinò al nostro tavolo. Aspirai con gratitudine il fiotto di aria
fresca che portò con sé prima che potesse mischiarsi con il profumo di lei.
“Allora, Edward”, disse, controllando le nostre risposte, “non hai pensato che
Isabella dovesse avere anche lei l’opportunità di usare il microscopio?”
“Bella”, lo corressi di riflesso. “A dire il vero, è stata lei ad identificarne tre su
cinque”.
I pensieri del Signor Banner erano scettici e si voltò a guardare la ragazza. “Avevi
già fatto questa esercitazione?”
La guardai, affascinato, mentre sorrideva con aria lievemente imbarazzata.
“Non con le radici di cipolla”.
“Blastula di coregone?” indagò il Signor Banner.
“Si”.
Il che lo sorprese. L’esercitazione di oggi era un qualcosa che aveva preso da un
corso molto più avanzato. Fece un cenno di approvazione verso la ragazza, con aria
pensierosa. “A Phoenix facevi parte di un programma avanzato?”
“Si”.
Quindi era più avanti, intelligente per un essere umano. Questo non mi sorprese.
“Bene”, disse il Signor Banner, con una smorfia. “Suppongo sia un bene che voi due
lavoriate insieme”. Si voltò e si allontanò borbottando,“Così gli altri ragazzi potranno
avere l’opportunità d’imparare qualcosa da sé”, a bassa voce. Dubitavo che la ragazza
potesse aver sentito. Ricominciò a scarabocchiare delle spirali sul proprio quaderno.
Due passi falsi in meno di mezz’ora. Uno spettacolo davvero misero da parte mia.
Quantunque non avessi alcuna idea su cosa la ragazza pensasse di me – quanta paura
aveva, quanto sospettava? – sapevo di dover mettere in pratica uno sforzo maggiore per
lasciarla con una nuova impressione. Qualcosa capace di smorzare con più efficacia i
ricordi che aveva del nostro ultimo feroce incontro.
“E’ davvero un peccato per la neve, non è vero?” dissi, ripetendo la conversazione
che avevo già sentito fare ad una dozzina di studenti. Un noioso, normalissimo argomento
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di conversazione. Il tempo – per niente pericoloso.
Mi fissò con un’incertezza evidente nello sguardo – una reazione anomala rispetto
all’assoluta normalità delle mie parole. “Veramente no”, disse, sorprendendomi di nuovo.
Cercai di ricondurre la conversazione entro i sentieri della banalità. Veniva da un
posto più caldo e soleggiato – la sua pelle sembrava rispecchiarlo, in qualche modo, a
dispetto del suo candore – ed il freddo doveva metterla a disagio. Il mio tocco gelido
sicuramente l’aveva fatto…
“Non ti piace il freddo”, azzardai.
“Né l’umidità” ammise.
“Deve essere difficile per te vivere in un posto come Forks”. Forse non saresti
dovuta venire qui, avrei voluto aggiungere. Magari dovresti tornartene nel tuo ambiente.
Tuttavia, non ero sicuro di volere che lo facesse. Avrei sempre ricordato il profumo
del suo sangue – c’era una qualche garanzia che alla fine non l’avrei seguita? Oltretutto, se
se ne andava, la sua mente sarebbe rimasta per sempre un mistero. Un enigma perpetuo ed
assillante.
“Non ne hai idea”, disse a bassa voce, incupendosi senza guardarmi veramente.
Le sue risposte non erano mai quelle che mi aspettavo. Mi stuzzicavano altre
domande.
“Allora, perché sei venuta qui?” chiesi, comprendendo all’istante che il mio tono di
voce era eccessivamente accusatorio, non abbastanza disinvolto rispetto a quella
conversazione. La domanda suonava sgarbata, indiscreta.
“E’…complicato”.
Sbatté le palpebre dei suoi grandi occhi, senza aggiungere altro, ed ero quasi sul
punto d’implodere per la curiosità – la curiosità bruciava al pari della sete che avevo in
gola. Mi resi conto che respirare era addirittura leggermente più facile; il dolore stava
diventando sempre più tollerabile con l’aumentare della confidenza.
“Penso di potercela fare” insistei. Magari la normale cortesia l’avrebbe indotta a
continuare a rispondere alle mie domande fintanto che fossi riuscito ad essere abbastanza
maleducato da formularle.
Fissava silenziosamente le proprie mani, con lo sguardo abbassato. Il che mi rese
impaziente; avrei voluto metterle una mano sotto il mento e sollevarle la testa così da
poterle leggere gli occhi. Ma sarebbe stato assurdo – pericoloso – toccare di nuovo la sua
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pelle.
Di colpo sollevò lo sguardo. Fu un sollievo poterne leggere di nuovo le emozioni
negli occhi. Parlò di corsa, affrettando le parole.
“Mia madre si è risposata”.
Ah, questo era abbastanza umano, facile da capire. La tristezza attraversò i suoi
occhi limpidi e tra quelli ricomparve la ruga sottile.
“Non sembra tanto complicato”, dissi. Il tono della mia voce era stato gentile senza
che avessi fatto nulla per renderlo tale. La sua tristezza mi faceva sentire curiosamente
impotente, inducendomi a desiderare che ci fosse qualcosa che potessi fare per tirarla su.
Uno strano impulso. “Quand’è stato?”
“Lo scorso settembre”. Esalò profondamente – non proprio un sospiro. Trattenni il
fiato mentre il suo respiro caldo mi sfiorava il viso.
“E lui non ti piace”, ipotizzai, in cerca di nuove informazioni.
“No, Phil è apposto”, disse, correggendo la mia supposizione. La debole traccia di
un sorriso le sfiorava gli angoli delle labbra piene ora. “Troppo giovane, forse, ma
piuttosto carino”.
Questo non collimava con lo scenario che mi ero costruito nella mente.
“Perché non sei rimasta con loro?” chiesi, la mia voce era un pò troppo curiosa.
Dava l’impressione che stessi ficcanasando. E lo stavo facendo, dovevo ammetterlo.
“Phil viaggia molto. Di mestiere fa il giocatore di baseball”. Il sorriso appena
accennato si fece più pronunciato; la scelta di una simile professione la divertiva.
Sorrisi anch’io, senza averlo premeditato. Non stavo cercando di metterla a suo
agio. Il suo sorriso mi aveva semplicemente fatto venire voglia di sorriderle a mia volta –
di essere messo a parte del suo segreto.
“Ne ho sentito parlare?”. Mentalmente, feci un veloce riepilogo della lista dei
giocatori di baseball professionisti, cercando d’indovinare quale fosse il Phil cui si
riferiva…
“Probabilmente no. Non è così bravo”. Un altro sorriso. “Gioca solo nella Minor
League. Si sposta di continuo”.
Sostituii all’istante gli elenchi che avevo in mente, ed in meno di un secondo
elaborai una serie di alternative sotto forma di tabella. Contemporaneamente, mi figurai un
nuovo scenario.
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“E tua madre ti ha spedita qui in modo tale da poterlo seguire”, dissi.
Apparentemente, l’avanzare delle ipotesi mi faceva ottenere da lei molte più informazioni
di quante non ne fornissero le domande. Funzionò di nuovo. Sollevò il mento, e la sua
espressione era improvvisamente ostinata.
“No, non è stata lei a spedirmi qui”, disse, e nella sua voce c’era una punta di
alterazione del tutto nuova. La mia supposizione l’aveva infastidita, sebbene non riuscissi
davvero a capire perché. “Mi ci sono spedita da sola”.
Non avevo la minima idea di cosa volesse dire, né del motivo del suo essere piccata.
Ero completamente perso.
Perciò mi arresi. Non c’era proprio verso di dare un senso alla ragazza. Non era
come gli altri esseri umani. Forse il silenzio dei suoi pensieri e la fragranza del suo
profumo non erano le sole cose fuori dal comune che aveva.
“Non riesco a capire”, ammisi, detestando il doverlo riconoscere.
Lei sospirò, e fissò i miei occhi più a lungo di quanto la maggior parte dei comuni
esseri umani fosse capace di sopportare.
“All’inizio è rimasta con me, ma lui le mancava”, spiegò lentamente, con un tono di
voce sempre più triste ad ogni singola parola. “Era infelice…perciò ho deciso che era
arrivato il momento di trascorrere un pò di tempo con Charlie”.
La ruga sottile che aveva tra gli occhi si fece più scavata.
“Ma adesso sei tu quella infelice”, borbottai. A quanto pareva non ero capace di
trattenermi dal formulare le mie ipotesi ad alta voce, sperando così di apprendere qualcosa
dalle sue reazioni. L’ultima, tuttavia, non sembrava lontana dalla verità.
“E?” disse, come se questo fosse un aspetto che non meritasse nemmeno di essere
preso in considerazione.
Continuavo a guardarla negli occhi, sentendo che finalmente ero riuscito per la
prima volta ad intravedere di sfuggita uno scorcio della sua anima. Quell’unica parola era
bastata a farmi capire il posto che aveva assegnato a se stessa tra le sue priorità. A
differenza della maggior parte degli esseri umani, i suoi bisogni personali si collocavano
in fondo alla lista.
Era un’altruista.
Non appena lo capii, il mistero della persona che si nascondeva all’interno di quella
mente silenziosa cominciò ad assottigliarsi un poco.
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“Non sembra giusto”, dissi. Scrollai le spalle, cercando di sembrare indifferente,
cercando di nascondere l’intensità della mia curiosità.
Lei rise, ma non c’era alcuna allegria in quel suono. “Non te l’hanno mai detto
prima? La vita non è giusta”.
Volevo ridere delle sue parole, sebbene anch’io non ne fossi affatto divertito.
Sapevo qualcosina su quanto la vita fosse ingiusta. “Credo di averlo già sentito dire da
qualche parte”.
Ricambiò il mio sguardo, apparentemente di nuovo confusa. Distolse gli occhi, e poi
li riportò su di me.
“E questo è quanto”, mi disse.
Ma non ero disposto a lasciare che la nostra conversazione terminasse. La piccola
“V” che aveva tra gli occhi, una vestigia del suo dispiacere, m’infastidiva. Avrei voluto
poterla spianare con la punta del dito. Ma, ovviamente, non potevo toccarla. Sarebbe stato
pericoloso in davvero molti modi.
“Hai messo su un bello spettacolo”. Parlavo lentamente, vagliando ancora questa
nuova ipotesi. “Ma sarei pronto a scommettere che soffri molto di più di quanto non dai a
vedere”.
Fece una smorfia, socchiudendo gli occhi in due fessure, la sua bocca forzò un
sorrisetto imbronciato, e tornò a guardare l’aula di fronte a sé. Non era contenta quando
indovinavo. Non era la solita martire – non voleva testimoni per il suo dolore.
“Mi sbaglio?”
Trasalì leggermente, ciononostante finse di non avermi sentito.
Il che mi fece sorridere. “Non penso”.
“Perché la cosa dovrebbe interessarti?” chiese, sempre guardando altrove.
“Questa è davvero una buona domanda”, ammisi, più con me stesso che in risposta
a lei.
Il suo discernimento era migliore del mio – andava dritta al nocciolo delle questioni
mentr’io mi dimenavo ai margini, setacciando alla cieca tra gli indizi. I dettagli della sua
vita meramente umana non avrebbero dovuto interessarmi. Era sbagliato da parte mia
curarmi di ciò che pensava. Salvo che per proteggere la mia famiglia dal sospetto, i
pensieri umani non erano importanti.
Non ero abituato ad essere il meno intuitivo di una qualsivoglia accoppiata.
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Dipendevo troppo dal mio extra udito – chiaramente non ero così perspicace come
credevo.
La ragazza sospirò e lanciò degli sguardi cupi in direzione delle prime file. C’era
qualcosa di umoristico nella sua espressione frustrata. L’intera situazione, l’intera
conversazione erano comiche. Nessuno aveva mai corso pericolo maggiore di quella
ragazzina – in qualunque momento, distratto com’ero dal mio essere ridicolmente assorto
nella nostra conversazione, avrei potuto inalare dal naso ed attaccarla prima di riuscire a
fermarmi – e lei era irritata perché non avevo risposto alla sua domanda.
“Ti do fastidio?” chiesi, sorridendo per l’assurdità dell’intera faccenda.
Mi lanciò rapidamente un’occhiata, e poi i suoi occhi sembrarono rimanere
intrappolati nella fissità dei miei.
“Non esattamente”, mi disse. “Sono più infastidita da me stessa. La mia faccia è
così facile da leggere – mia madre mi chiama da sempre il suo libro aperto”.
Assunse un’espressione corrucciata, scontenta.
La guardai stupito. La ragione per cui era infastidita era perché pensava che fossi
stato capace di leggerle dentro troppo facilmente. Davvero bizzarro. Non mi ero mai
dovuto sforzare tanto per capire qualcuno in tutta la mia vita – o piuttosto esistenza,
poiché vita difficilmente era la definizione corretta. Io non avevo veramente una vita.
“Al contrario” dissentii, sentendomi stranamente…diffidente, come se lì ci fosse un
qualche pericolo nascosto che non ero in grado di riconoscere. Mi sentii improvvisamente
nervoso, quel presentimento mi rendeva ansioso. “Trovo che tu sia piuttosto difficile da
leggere”.
“Devi essere un bravo lettore allora”, ipotizzò, formulando una supposizione che,
ancora una volta, centrò in pieno il bersaglio.
“Di solito si”, ammisi.
A quel punto sfoderai un gran sorriso, lasciando che le mie labbra scoprissero le file
di denti splendenti, affilati come rasoi che nascondevano.
Era una cosa stupida da fare, ma improvvisamente, inaspettatamente ero disposto a
tutto pur di riuscire a comunicare alla ragazza un qualche genere di avvertimento. Il suo
corpo si era avvicinato di più al mio, spostandosi inconsapevolmente nel corso della nostra
conversazione. Tutti i piccoli indizi ed i segni che erano sufficienti a far scappare il resto
dell’umanità sembravano non funzionare con lei. Perché non si ritraeva di colpo
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terrorizzata? Sicuramente aveva visto abbastanza del mio lato più oscuro per rendersi
conto del pericolo, intuitiva come sembrava essere.
Non ebbi l’occasione di vedere se il mio ammonimento aveva sortito l’effetto
desiderato. Il Signor Banner richiamò l’attenzione della classe proprio in quel momento, e
lei si voltò subito dall’altra parte. Pareva un poco sollevata da quell’interruzione, perciò
magari inconsciamente aveva capito.
Speravo che l’avesse fatto.
Mi rendevo conto che l’attrazione stava crescendo dentro di me, malgrado tentassi
di sradicarla. Non potevo permettermi di trovare Bella Swan interessante. O piuttosto, lei
non poteva permetterselo. Ero già ansioso di poter avere l’opportunità di parlarle di nuovo.
Volevo saperne di più di sua madre, della sua vita prima che venisse qui, del suo rapporto
con il padre. Di ogni dettaglio più insignificante che potesse disvelarne meglio la
personalità. Ma ogni secondo che passavo con lei era un errore, un rischio che lei non
avrebbe dovuto correre.
Distrattamente, aveva scrollato i folti capelli proprio nel momento in cui mi
permettevo di prendere un’altra boccata d’aria. Un’ondata particolarmente intensa del suo
profumò investì il mio palato.
Era come il primo giorno – come la palla da demolizione. Il dolore della bruciante
aridità mi dava le vertigini. Fui di nuovo costretto ad aggrapparmi al tavolo per trattenermi
al mio posto. Stavolta avevo un controllo lievemente superiore. Perlomeno, non facevo
danni. Il mostro ringhiava dentro di me, ma senza compiacersi del mio dolore. Lo tenevo
troppo strettamente sotto controllo. Per il momento.
Smisi completamente di respirare, e mi allontanai quanto più potevo dalla ragazza.
No, non potevo permettermi di trovarla attraente. Quanto più la trovavo interessante,
tanto più era probabile che l’avrei uccisa. Avevo già fatto due piccoli passi falsi oggi. Ne
avrei fatto un terzo, uno che non era trascurabile?
Non appena suonò la campanella fuggii via dall’aula – probabilmente distruggendo
qualunque impressione di buona educazione che fossi più o meno riuscito a costruire nel
corso di quell’ora. All’esterno, boccheggiai l’aria pulita ed umida come fosse un’essenza
curativa. Mi misi a correre per mettere quanta più distanza fosse possibile tra me e la
ragazza.
Emmett mi stava aspettando fuori della porta della nostra classe di spagnolo. Studiò
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per un momento la mia espressione delirante.
Com’è andata? chiese prudentemente.
“Non è morto nessuno” biascicai.
Immagino sia già qualcosa. Quando verso la fine ho visto Alice piantare tutto, ho
pensato…
Intanto che entravamo in classe, vidi il suo ricordo di solo pochi attimi prima,
catturato attraverso la porta aperta della lezione appena terminata: Alice che camminava
svelta e sbiancata in viso per valide ragioni in direzione del polo di scienze. Sentivo
l’urgenza che ricordava di aver provato di alzarsi e di raggiungerla, e poi la sua decisione
di non muoversi. Se Alice avesse avuto bisogno di aiuto, l’avrebbe chiesto…
Chiusi gli occhi per l’orrore ed il disgusto mentre crollavo sulla sedia. “Non mi sono
reso conto di esserci andato tanto vicino. Non pensavo di essere sul punto di… Non mi ero
accorto che stava andando così male”, mormorai.
Non andava così male, mi rassicurò. Non è morto nessuno, giusto?
“Giusto”, dissi a denti stretti. “Non questa volta”.
Magari sarà sempre più facile.
“Sicuro”.
O magari la ucciderai. Scrollò le spalle. Non saresti il primo che fa casini. Nessuno
ti giudicherebbe troppo severamente. E’ solo che qualche volta una persona ha un odore
troppo buono. Sono impressionato dal fatto che tu abbia resistito tanto a lungo.
“Non sei di aiuto, Emmett”.
Ero disgustato dalla sua rassegnazione all’idea che avrei potuto uccidere la ragazza,
che fosse qualcosa d’inevitabile. Era colpa sua se aveva un profumo così buono?
So che quando è capitato a me…, si lasciò andare ai ricordi, portandomi indietro
con lui di mezzo secolo, su una stradina di campagna al tramonto, dove una donna di
mezza età stava ritirando le lenzuola asciutte da un filo appeso tra due meli. Il profumo
delle mele incombeva pesantemente nell’aria – il periodo della raccolta era finito ed i frutti
scartati erano sparpagliati sul terreno, le ammaccature sulla loro buccia spandevano la loro
fragranza in nuvole dense. Un campo di fieno appena falciato faceva da contorno a quel
profumo, un’armonia. Lui risaliva la stradina, del tutto ignaro della donna, per andare a
fare una commissione per Rosalie. Il cielo sovrastante era viola, arancione al di sopra degli
alberi ad ovest. Avrebbe proseguito per il tortuoso sentiero carreggiabile e non ci sarebbe
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stata ragione alcuna di ricordare quella sera, se non fosse che un’improvvisa brezza
notturna aveva gonfiato le lenzuola bianche come fossero vele e soffiato il profumo della
donna sul viso di Emmett.
“Ah” grugnii discretamente. Come se il ricordo della mia sete non fosse abbastanza.
Lo so. Non ho retto mezzo secondo. Non ho neppure pensato di resistere.
Il suo ricordo diventò di gran lunga troppo esplicito per me per sopportarlo.
Scattai in piedi, con i denti così serrati che avrebbero potuto tagliare l’acciaio.
“Esta bien, Edward?” chiese la Signora Goff, allarmata dal mio improvviso
movimento. Potevo vedere il mio viso nella sua mente, e sapevo che sembrava che stessi
tutt’altro che bene.
“Me perdona”, mormorai, e intanto mi precipiti verso la porta.
“Emmett – por favor, puedas tu ayuada a tu hermano?”, chiese, indicandomi a gesti
con aria preoccupata mentre uscivo in fretta dalla porta.
“Sicuro”, lo sentii dire. E poi fu proprio dietro di me.
Mi seguì fin dall’altra parte dell’edificio, dove si mise in pari con me e posò una
mano sulla mia spalla.
Spinsi via la sua mano con una forza eccessiva. Avrebbe mandato in frantumi le
ossa di una mano umana, e le ossa del braccio che le stava attaccato.
“Mi dispiace, Edward”.
“Lo so”. Aspirai delle profonde boccate d’aria, cercando di disintossicare la mia
mente ed i miei polmoni.
“E’ altrettanto brutto?” chiese, sforzandosi di non pensare al profumo ed al gusto del
suo ricordo mentre domandava, ma senza riuscirci del tutto.
“Peggio, Emmett, peggio”.
Restò in silenzio per un momento.
Forse…
“No, non sarebbe meglio se la facessi finita. Torna in classe, Emmett. Voglio restare
da solo”.
Si voltò senza dire un’altra parola o pensiero e se ne andò di corsa. Avrebbe detto
all’insegnante di spagnolo che ero malato, o che saltavo la lezione, o che ero un vampiro
pericolosamente fuori controllo. La sua scusa aveva davvero importanza? Forse non sarei
tornato. Forse dovevo andarmene.
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Tornai alla mia macchina, per aspettare la fine delle lezioni. Per nascondermi. Di
nuovo.
Avrei dovuto usare quel tempo per riflettere o per perorare la decisione già presa,
ma, come un tossicomane, mi scoprii a rovistare tra il brusio dei pensieri provenienti dagli
edifici della scuola. Le voci dei miei familiari spiccavano, ma non ero interessato ad
ascoltare le visioni di Alice o le lamentele di Rosalie per il momento. Trovai Jessica
facilmente, ma la ragazza non era con lei, perciò continuai a cercare. I pensieri di Mike
Newton catturarono la mia attenzione, ed alla fine riuscii a localizzarla, in palestra con lui.
Era scontento perché avevo parlato con lei durante la lezione di biologia. Ne stava
riepilogando le reazioni quando sollevò l’argomento…
In verità non l’ho mai visto scambiare con nessuno più di un paio di parole in
croce. Ovviamente ha deciso di trovare Bella interessante. Non mi piace il modo in cui la
guarda. Ma lei non sembra essere troppo entusiasta di lui. Cos’ha detto? “Chissà che
aveva lunedì scorso”. Qualcosa del genere. Non suona come se le importasse. Non deve
essere stata granché come conversazione…
Continuò a parlare a se stesso in questo modo per fugare il suo pessimismo,
rallegrato dall’idea che Bella non mostrasse interesse per lo scambio che aveva avuto con
me. Il che m’infastidì un pò più di quanto non fosse accettabile, perciò smisi di ascoltarlo.
Misi nello stereo un CD di musica dura, e poi alzai il volume finché non coprì le
altre voci. Dovetti concentrarmi fortemente sulla musica per impedirmi di tornare ad
ascoltare i pensieri di Mike Newton, per spiare l’ignara ragazza…
Imbrogliai un paio di volte, quando l’ora stava per finire. Non per spiare, cercavo di
convincermene. Mi stavo solo preparando. Volevo sapere esattamente quando avrebbe
lasciato la palestra, quando si sarebbe trovata nello spiazzo del parcheggio. Non volevo
che mi cogliesse di sorpresa.
Come gli studenti cominciarono a sfilare fuori dalla porta della palestra, scesi dalla
macchina, non ero sicuro del perché. La pioggia era leggera – la ignorai mentre
impregnava lentamente i miei capelli.
Volevo che mi vedesse lì? Speravo che venisse a parlarmi? Che stavo facendo?
Non mi mossi, benché cercassi di persuadermi a tornare in macchina, sapendo che il
mio comportamento era esecrabile. Incrociai le braccia al petto e respirai in maniera molto
superficiale quando la vidi camminare lentamente nella mia direzione, con gli angoli della
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bocca imbronciati. Non mi guardava. Lanciava qualche occhiata alle nuvole facendo una
smorfia, come se l’avessero offesa.
Rimasi deluso quando raggiunse la sua macchina prima di passarmi vicina. Avrebbe
voluto parlarmi? Avrei voluto parlarle?
Salì a bordo di un pick-up Chevy di un rosso sbiadito, un mastodonte arrugginito che
era più vecchio di suo padre. La guardai mettere in moto il pick-up – il vecchio motore
rombava più forte di qualunque altro veicolo nel parcheggio – e poi tendere le mani verso
le bocchette del riscaldamento. Il freddo la disturbava – non le piaceva. Si pettinava i folti
capelli con le dita, passando le ciocche sul flusso d’aria calda come per cercare di
asciugarle. Immaginai quanto dovesse profumare l’abitacolo di quel pick-up, e poi scacciai
rapidamente il pensiero.
Diede un’occhiata in giro mentre si preparava ad uscire in retromarcia, e finalmente
guardò nella mia direzione. Ricambiò il mio sguardo fissandomi per non più di mezzo
secondo, e tutto ciò che potei vedere nei suoi occhi fu la sorpresa, prima che li staccasse
da me e che facesse partire bruscamente il pick-up in retromarcia. E poi si arrestò facendo
stridere i freni, la parte posteriore del pick-up aveva mancato di scontrarsi con l’utilitaria
di Erin Teague per pochi centimetri.
Guardò nello specchietto retrovisore, spalancando la bocca per la mortificazione.
Quando l’altra macchina l’ebbe superata, controllò due volte tutti gli specchietti e poi uscì
dal posto auto con una circospezione tale da farmi spalancare il sorriso. Era come se
pensasse di essere pericolosa con il suo decrepito pick-up.
Il pensiero che Bella Swan potesse costituire un pericolo per qualcuno, non importa
cosa stesse guidando, mi fece ridere mentre la ragazza mi passava davanti, guardando
dritta dinanzi a lei.
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3. Fenomeno
In verità non avevo sete, ma decisi di andare di nuovo a caccia quella notte. Una piccola
dose di prudenza, che tuttavia sapevo essere inadeguata.
Carlisle mi accompagnava; non avevamo avuto occasione di rimanere da soli da
quando ero tornato da Denali. Intanto che correvamo attraverso la buia foresta, sentii che
ripensava a quell’affrettato arrivederci della settimana passata.
Nel suo ricordo, potevo vedere in che modo i miei lineamenti si erano distorti per la
disperazione feroce. Sentivo la sorpresa e l’improvvisa inquietudine che aveva provate.
“Edward?”
“Devo andarmene, Carlisle. Devo andarmene ora”.
“Cos’è successo?”
“Niente. Ma succederà, se resto qui”.
Aveva cercato di prendermi un braccio. Potevo sentire quanto l’avevo ferito quando
mi ero sottratto bruscamente alla sua mano.
“Non capisco”.
“Hai mai…c’è mai stato un momento…”
Osservavo me stesso respirare profondamente, vedevo il bagliore delirante dei miei
occhi attraverso il filtro della sua grave preoccupazione.
“Una qualunque persona ha mai avuto per te un odore più buono del resto di loro?
Molto più buono?”
“Oh”.
Quando mi ero reso conto che aveva capito, il mio viso si era abbassato per la
vergogna. Aveva cercato di toccarmi, ignorandomi quando avevo tentato di fuggire
ancora, ed aveva appoggiato una mano sulla mia spalla.
“Fai quel che devi per resistere, figlio mio. Mi mancherai. Ecco, prendi la mia
macchina. E’ più veloce”.
Si stava chiedendo, adesso, se avesse fatto la scelta giusta, allora, mandandomi via.
Domandandosi se la sua mancanza di fiducia mi avesse ferito.
“No”, mormorai mentre correvo. “Era ciò di cui avevo bisogno. Avrei tradito
facilmente quella fiducia, se mi avessi consigliato di restare”.
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©2008 Stephenie Meyer
“Mi spiace che tu stia soffrendo, Edward. Ma devi fare tutto quanto è in tuo potere
affinché la piccola Swan resti in vita. Anche se questo significa che devi lasciarci di
nuovo”.
“Lo so, lo so”.
“Perché sei tornato? Sai quant’io sia felice di averti qui, ma se è troppo difficile…”
“Non mi piace sentirmi un codardo”, ammisi.
Avevamo rallentato – stavamo a malapena facendo una corsa leggera nell’oscurità
adesso.
“Meglio questo che metterla in pericolo. Tra un paio d’anni se ne andrà”.
“Hai ragione. Lo so”. Di contro, però, le sue parole mi rendevano solamente più
ansioso di restare. La ragazza se ne sarebbe andata fra un anno o due…
Carlisle smise di correre ed io smisi con lui; si voltò per studiare la mia espressione.
Ma non intendi scappare, non è vero?
Chinai la testa.
E’ per orgoglio, Edward? Non c’è alcuna vergogna nel –
“No, non è l’orgoglio a tenermi qui. Non più”.
Non sai dove andare?
Risi brevemente. “No. Questo non mi fermerebbe, se potessi convincermi a partire”
“Verremo con te, naturalmente, se è ciò di cui hai bisogno. Devi solamente
chiederlo. Hai traslocato senza mai lamentarti per il resto di loro. Non te lo faranno
pesare”.
Sollevai un sopracciglio.
Rise. “Si, Rosalie lo farebbe, ma te lo deve. In ogni caso, è molto meglio andarsene
adesso, senza che alcun danno è stato fatto, piuttosto che partire troppo tardi, dopo che una
vita è stata spezzata”. Tutto l’umorismo se n’era andato verso la fine.
Trasalii alle sue parole.
“Si”, convenni. La mia voce suonava rauca.
Ma non intendi partire?
Sospirai. “Dovrei”.
“Cosa ti trattiene qui, Edward? Non riesco a capire perché…”
“Non so se riesco a spiegarlo”. Perfino per me non aveva senso.
Studiò a lungo la mia espressione.
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©2008 Stephenie Meyer
No, non riesco a capire. Ma rispetterò la tua privacy, se preferisci.
“Grazie. E’ generoso da parte tua, considerando che non concedo privacy a
nessuno”. Con una sola eccezione. E stavo facendo di tutto per sottrargliela, non è vero?
Abbiamo tutti le nostre piccole manie. Rise di nuovo. Possiamo andare?
Aveva appena colto l’odore di un piccolo branco di daini. Anche nelle migliori delle
circostanze, sarebbe stato difficile manifestare granché entusiasmo per ciò che era un
profumo ben lungi dal far venire l’acquolina in bocca. In verità, proprio adesso, con
ancora vivido nella mente il ricordo del sangue della ragazza, l’odore mi faceva rivoltare
lo stomaco.
Sospirai. “Andiamo”, accordai, benché sapessi che forzarmi a mandar giù dell’altro
sangue mi avrebbe aiutato ben poco.
Ci acquattammo entrambi per la caccia e lasciammo che il profumo poco appetitoso
ci spingesse silenziosamente avanti.
Faceva più freddo quando rientrammo a casa. La neve sciolta si era ghiacciata; era come
se un sottile foglio di vetro avesse ricoperto ogni cosa – ogni ago di pino, ogni fronda di
felce, ogni filo d’erba era ricoperto di ghiaccio.
Mentre Carlisle andava a prepararsi per il turno in ospedale, mi fermai presso il
fiume, aspettando il sorgere del sole. Mi sentivo quasi gonfio per la quantità di sangue che
avevo ingerito, ma sapevo che l’attuale mancanza di sete avrebbe significato ben poco una
volta che mi fossi seduto ancora accanto alla ragazza.
Freddo ed immobile come la pietra sulla quale sedevo, fissavo le acque profonde
che correvano lungo la sponda ghiacciata, guardandoci attraverso.
Carlisle aveva ragione. Dovevo lasciare Forks. Potevano mettere in circolazione una
qualche storia per spiegare la mia assenza. Un collegio in Europa. Una visita a dei lontani
parenti. Una fuga adolescenziale. La storia non contava. Nessuno avrebbe fatto troppe
domande.
Si trattava solamente di un anno o due, e poi la ragazza sarebbe sparita. Avrebbe
continuato la sua vita – avrebbe avuto una vita da continuare. Avrebbe frequentato
l’università da qualche parte, sarebbe cresciuta, avrebbe cominciato una carriera, magari si
sarebbe sposata. Potevo immaginarmelo – riuscivo a vedere la ragazza vestita tutta di
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bianco che camminava a passo misurato, sottobraccio al padre.
Era strano il malessere che quell’immagine mi procurava. Non riuscivo a capirlo.
Ero geloso perché lei avrebbe avuto un futuro che io non avrei mai potuto avere? Non
aveva senso. Ognuno degli umani che avevo intorno aveva quella stessa prospettiva
davanti a sé – una vita – e raramente mi fermavo ad invidiarli.
Dovevo lasciarla al suo futuro. Smetterla di rischiare la sua vita. Era la cosa giusta
da fare. Carlisle faceva sempre la scelta giusta. Dovevo ascoltarlo.
Il sole sorse dietro le nuvole, e la debole luce scintillò su tutte le superfici ricoperte
di ghiaccio.
Un altro giorno, decisi. L’avrei vista un’altra volta solamente. Potevo farcela. Forse
avrei dovuto menzionare la mia imminente partenza, montare la storia.
Sarebbe stata dura; potevo sentirlo nell’estrema riluttanza che già m’induceva ad
elaborare delle scuse per restare – per posticipare il termine di due giorni, tre, quattro…
Ma avrei fatto la cosa giusta. Sapevo di potermi fidare del consiglio di Carlisle. E sapevo
pure di essere troppo combattuto per prendere la decisione giusta da solo.
Davvero troppo combattuto. Quanta della mia riluttanza dipendeva dalla mia
morbosa curiosità, e quanta dal mio appetito insoddisfatto?
Entrai in casa per indossare dei vestiti puliti per andare a scuola.
Alice mi stava aspettando, seduta sul gradino più alto del terzo piano.
Te ne vai di nuovo, mi accusò.
Sospirai e feci cenno di si con la testa.
Non riesco a vedere dove andrai questa volta.
“Non so ancora dove andrò”, mormorai.
Voglio che resti.
Scossi la testa.
Magari Jazz ed io possiamo venire con te?
“Avranno ancor più bisogno di voi, se non sarò qui a tenere gli occhi aperti per loro.
E pensa ad Esme. Le porteresti via metà della famiglia in un sol colpo?”
Stai per renderla davvero infelice.
“Lo so. E’ per questo che tu devi restare”.
Non è lo stesso che averti qui, e tu lo sai.
“Si. Ma devo fare quel che è giusto”.
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Ci sono molti modi per fare la cosa giusta, e molti modi per fare la cosa sbagliata,
però, non è vero?
Per un breve momento fu trascinata via da una delle sue strane visioni; guardavo
con lei le immagini indistinte che baluginavano e turbinavano. Mi vidi confuso all’interno
di strane ombre che non riuscivo a distinguere – forme sfocate, imprecise. E poi,
improvvisamente, la mia pelle scintillò alla luce del sole brillante in una piccola radura
all’aperto. Quel posto lo conoscevo. C’era una figura nella radura insieme a me, ma, di
nuovo, era indistinta, non lì abbastanza da poterla riconoscere. Le immagini tremolarono e
scomparvero intanto che un milione di piccole scelte ricombinava ancora una volta il
futuro.
“Non sono riuscito a coglierne molto”, le dissi quando la visione fu svanita.
Nemmeno io. Il tuo futuro continua a cambiare così tanto che non riesco a stare al
passo con nessuna. Penso, tuttavia…
S’interruppe, e cominciò a scorrere una vasta collezione di altre visioni recenti a
mio beneficio. Erano tutte uguali – confuse e vaghe.
“Credo che qualcosa stia per cambiare, però”, disse ad alta voce. “La tua vita
sembra essere ad una svolta”.
Risi amaramente. “Ti rendi conto che in questo momento suoni come una zingara
fasulla del luna-park, vero?”
Mi fece la linguaccia.
“Oggi, però, andrà tutto bene, giusto?”, le chiesi con un tono di voce d’improvviso
apprensivo.
“Non ti vedo uccidere nessuno oggi”, mi rassicurò.
“Grazie, Alice”.
“Vai a vestirti. Non dirò nulla – lascerò che sia tu a dirlo agli altri quando sarai
pronto”.
Si alzò e si precipitò giù per le scale, con le spalle leggermente curve. Mi
mancherai. Tanto.
Si, anche lei mi sarebbe davvero mancata.
Il tragitto fino alla scuola fu piuttosto silenzioso. Jasper era certo che Alice fosse
turbata per qualcosa, ma sapeva che se lei avesse voluto parlarne l’avrebbe già fatto.
Emmett e Rosalie erano del tutto assenti, immersi in un altro dei loro momenti, e si
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guardavano vicendevolmente negli occhi estasiati – era piuttosto disgustoso a vederlo da
fuori. Eravamo tutti ben informati di quanto fossero disperatamente innamorati. O magari
ero così acido perché ero l’unico ad essere spaiato. Alcuni giorni era più difficile di altri
vivere con tre coppie di innamorati perfettamente assortite. Questo era uno di quelli.
Magari sarebbero stati tutti più felici senza avermi intorno, di malumore e
belligerante come il vecchio che a quel punto sarei dovuto essere.
Ovviamente, la prima cosa che feci quando arrivammo a scuola fu cercare la
ragazza. Solo per tenermi nuovamente pronto.
Esattamente.
Era imbarazzante come il mio mondo d’improvviso sembrasse contenere null’altro
che lei – la mia intera esistenza era incentrata sulla ragazza, non più attorno a me stesso.
Era facile da capire, tuttavia, davvero; dopo ottant’anni in cui ogni giorno ed ogni
notte erano sempre stati uguali, un qualunque cambiamento ti assorbiva completamente.
Non era ancora arrivata, ma potevo sentire il fragoroso scoppiettio del motore del
suo pick-up in lontananza. Mi misi ad aspettare appoggiato alla fiancata della macchina.
Alice rimase con me, mentre gli altri andarono diritti a lezione. Erano irritati dalla mia
fissazione – era incomprensibile per loro come un qualunque essere umano potesse
catturare il mio interesse così a lungo, non importa quanto delizioso fosse il suo profumo.
La ragazza comparve lentamente alla vista, con gli occhi concentrati sulla strada e le
mani strette sul volante. Sembrava ansiosa per qualcosa. Mi ci volle un attimo per capire
cosa fosse quel qualcosa, per rendermi conto che tutti gli esseri umani oggi avevano la
stessa espressione. Ah, la strada era scivolosa per il ghiaccio, e stavano tutti cercando di
guidare con maggiore attenzione. Vedevo bene che stava prendendo seriamente quel
rischio ulteriore.
Il che sembrava combaciare con quel poco che avevo appreso del suo carattere.
Aggiunsi questo alla mia breve lista: era una persona affidabile, una persona responsabile.
Parcheggiò non troppo lontano da me, ma ancora non mi aveva notato qui in piedi,
che la stavo fissando. Mi chiesi cos’avrebbe fatto una volta che l’avesse scoperto. Sarebbe
arrossita e se ne sarebbe andata? Quella fu la mia prima supposizione. Ma forse avrebbe
ricambiato il mio sguardo. Forse si sarebbe avvicinata per parlarmi.
Respirai a fondo, riempiendomi i polmoni ottimista, a scanso di equivoci.
Scese dal pick-up con cautela, saggiando il terreno scivoloso prima di spostarci
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sopra il proprio peso. Non alzò lo sguardo, il che mi deluse. Forse potevo andare a
parlarle…
No, sarebbe stato un errore.
Invece di voltarsi verso la scuola, si fece strada fino al retro del pick-up,
aggrappandosi in modo buffo al fianco del pianale, non fidandosi troppo del proprio
equilibrio. Mi fece sorridere, e sentii gli occhi di Alice sul mio viso. Non ascoltai
qualunque cosa ne avesse pensato – mi stavo divertendo troppo a guardare la ragazza che
controllava le sue catene da neve. In verità aveva l’aria di essere in procinto di cadere, per
come i suoi piedi scivolavano sul terreno. Nessun’altro stava avendo dei problemi – aveva
parcheggiato sul peggiore dei ghiacci?
Si fermò lì, a guardare in basso con una strana espressione sul viso. Era…tenerezza?
Come se ci fosse qualcosa lì che la facesse…commuovere?
Di nuovo la curiosità era una sofferenza pari alla sete. Era come se avessi bisogno di
sapere cosa stava pensando – come se null’altro avesse importanza.
Sarei andato a parlarle. In ogni caso, aveva l’aria di avere bisogno di una mano,
quantomeno per superare il pavimento scivoloso. Ovviamente, non avrei potuto
offrirgliela, o no? Esitavo, dilaniato. Considerata l’avversione che pareva dimostrare nei
confronti della neve, difficilmente avrebbe gradito il tocco gelido della mia mano
marmorea. Avrei dovuto indossare dei guanti –
“NO!” disse Alice ansimando ad alta voce.
Istantaneamente, esplorai i suoi pensieri, inizialmente convinto che stessi per fare
una scelta miserabile e che mi avesse visto commettere qualcosa d’imperdonabile. Ma non
aveva niente a che fare con me.
Tyler Crowley aveva deciso di svoltare per la curva d’entrata del parcheggio ad una
velocità sconsiderata. Questa decisione l’avrebbe fatto scivolare su una piccola lastra di
ghiacchio…
La visione anticipava la realtà solamente di mezzo secondo. Il furgoncino di Tyler
svoltò l’angolo mentre stavo ancora guardando la conclusione che aveva spinto fuori dalle
labbra di Alice quel rantolo pieno di orrore.
No, questa visione non aveva niente a che fare con me, e tuttavia aveva tutto a che
fare con me, perché il furgoncino di Tyler – i pneumatici stavano giusto urtando la lastra
di ghiaccio alla peggiore delle angolazioni possibili – stava per vorticare attraverso il
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parcheggio e per investire la ragazza che, mio malgrado, era diventata il punto focale del
mio mondo.
Anche senza la previsione di Alice sarebbe stato abbastanza facile intuire la
traiettoria del veicolo sfuggito al controllo di Tyler.
La ragazza, ferma esattamente nel posto sbagliato dietro al suo pick-up, alzò lo
sguardo, sconcertata dal suono stridente dei pneumatici. Guardò dritta nei miei occhi
accesi dal terrore, e poi si voltò per vedere l’approssimarsi della morte.
Non lei! Le parole gridavano nella mia testa come fossero appartenute a qualcun
altro.
Ancora bloccato nei pensieri di Alice, osservai la visione cambiare bruscamente, ma
non avevo il tempo di restare a guardarne l’esito.
Mi lanciai attraverso il parcheggio, tuffandomi tra il furgoncino che sbandava e la
ragazza impietrita. Mi spostavo così velocemente che ogni cosa era una macchia
irregolare, eccezion fatta per l’obiettivo sul quale convergevo. Non mi vedeva – nessun
occhio umano avrebbe potuto seguire il mio volo – ancora intenta sull’enorme sagoma del
furgoncino che era in procinto di schiacciarla contro il telaio di metallo del suo pick-up.
L’afferrai cingendole la vita, muovendomi con troppa urgenza per riuscire ad essere
tanto moderato quanto avrebbe avuto bisogno che fossi. Per un centesimo di secondo tra il
momento in cui tirai via la sua esile figura dalla traiettoria della morte ed il momento in
cui caddi a terra con lei tra le mie braccia, fui vividamente consapevole del suo corpo
fragile e delicato.
Quando udii la sua testa picchiare contro il ghiaccio, mi sentii come se mi fossi io
stesso trasformato in un pezzo di ghiaccio.
Ma non ebbi neppure un secondo di tempo per accertarmi delle sue condizioni.
Sentii il furgoncino alle nostre spalle, cigolante e stridente mentre girava attorno al robusto
telaio di ferro del pick-up della ragazza. Stava deviando la sua corsa, in un testacoda, per
abbattersi di nuovo su di lei – come se fosse una calamita che lo attirava verso di noi.
Una parola che non avevo mai pronunciata prima in presenza di una signora mi
scappò tra i denti.
Avevo già fatto troppo. Quand’ero quasi volato attraverso l’aria per spingerla via,
mi ero reso ben conto dell’errore che stavo commettendo. Sapere che era un errore non mi
aveva fermato, ma non ero ignaro del rischio che stavo correndo – correndo non solamente
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per me stesso, ma per tutta la mia famiglia.
Esposizione.
E questo certo non sarebbe stato d’aiuto, ma non c’era verso che permettessi al
furgoncino di mandare a segno il suo secondo tentativo di portarsi via la sua vita.
La lasciai andare e gettai le mani avanti, afferrando il furgoncino prima che potesse
toccare la ragazza. L’impatto mi scagliò contro la macchina parcheggiata accanto al suo
pick-up, e ne sentii la carrozzeria deformarsi dietro le mie spalle. Il furgoncino sobbalzò e
tremò contro la ferrea presa delle mie braccia, e poi beccheggiò, tenendosi in equilibrio
precario sulle ruote davanti.
Se avessi spostato le mani, le ruote posteriori del furgoncino si sarebbero abbattute
sulle sue gambe.
Oh, per amore di tutto quel che c’era di sacro, sarebbero mai finite le catastrofi?
C’era qualcos’altro che potesse andare storto? Non potevo certo restarmene seduto lì,
tenendo il furgoncino sollevato in aria, ad aspettare i soccorsi. Nemmeno potevo tirar via il
furgoncino – c’era da considerarne il guidatore, coi pensieri resi incoerenti dal panico.
Con un gemito interiore, spinsi il furgoncino cosicché rollasse lontano da noi per un
momento. Quando stava per ripiegare su di me, lo afferrai da sotto il telaio con la mano
destra mentre avvolgevo di nuovo il mio braccio sinistro attorno alla vita della ragazza e la
trascinavo via da sotto il furgoncino, tenendola ben stretta contro il mio fianco. Il suo
corpo si muoveva come fosse senza vita mentre la giravo bruscamente di modo che le sue
gambe fossero salve – era cosciente? Quanto male le avevo fatto nel mio improvvisato
tentativo di salvarla?
Lasciai andare il furgoncino, adesso che non poteva più farle del male. Si abbatté
sull’asfalto, tutti i finestrini andarono contemporaneamente in frantumi.
Sapevo di essere nel pieno di una crisi. Quanto aveva visto? Qualcun altro mi aveva
notato materializzarmi al suo fianco e poi destreggiarmi con il furgoncino mentre cercavo
di allontanarla da sotto le ruote? Quelle domande avrebbero dovuto costituire la mia
preoccupazione più grande.
Ma ero troppo in ansia per curarmi davvero del rischio dell’essermi esposto quanto
invece avrei dovuto. Troppo preso dal panico per la possibilità di averla ferita io stesso
nello sforzo di proteggerla. Troppo spaventato dall’averla così vicina, sapendo cos’avrei
odorato se mi fossi permesso d’inalare. Troppo cosciente del calore del suo corpo
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morbido, premuto contro il mio – a dispetto del duplice ostacolo dei rispettivi giacconi,
potevo sentire quel calore…
La prima paura era la paura più grande. Quando le grida dei presenti esplosero
attorno a noi, mi piegai per esaminare il suo viso, per controllare che fosse cosciente –
augurandomi ardentemente che non stesse sanguinando da nessuna parte.
I suoi occhi erano sgranati, estatici per lo shock.
“Bella?” chiesi con urgenza. “Stai bene?”
“Sto bene”. Pronunciò le parole automaticamente con un tono inebetito.
Il sollievo, così intenso da rasentare il dolore, mi pervase al suono della sua voce.
Presi fiato tra i denti, e non badai all’incendio in gola che lo accompagnò. Quasi lo accolsi
con gratitudine.
Tentò a fatica di mettersi a sedere, ma non ero ancora pronto a lasciarla andare. In
qualche modo dava l’impressione di essere…più sicuro? Quantomeno, era meglio che la
tenessi stretta al mio fianco.
“Fa attenzione”, l’avvisai. “Penso tu abbia sbattuto la testa piuttosto forte”.
Non c’era odore di sangue che stillava – una benedizione, quella – ma questo non
escludeva delle possibili lesioni interne. Improvvisamente fui ansioso di portarla da
Carlisle e di farla sottoporre ad un ciclo completo di accertamenti radiologici.
“Ahi” disse, con un tono comicamente sbalordito nel rendersi conto che avevo
ragione riguardo alla sua testa.
“Proprio come pensavo”. Il sollievo mi rendeva faceto, quasi frivolo.
“Come dia…”. La sua voce si era affievolita a poco a poco, e le sue ciglia
sbattevano. “Come hai fatto ad arrivare qui così in fretta?”
Il sollievo si guastò, l’umorismo svanì. Aveva visto troppo.
Ora che la ragazza pareva essere in condizioni discrete, la preoccupazione per la mia
famiglia si faceva grave.
“Ero in piedi proprio qui accanto a te, Bella”. Sapevo per esperienza che se mi
dimostravo molto sicuro di me mentre mentivo, chiunque mi stesse ponendo le sue
domande sarebbe stato meno certo di quale fosse la verità.
Di nuovo cercò faticosamente di muoversi, e stavolta glielo permisi. Avevo bisogno
di respirare per interpretare correttamente il mio ruolo. Avevo bisogno di staccarmi dal
fuoco del suo sangue caldo perché non si mescolasse col suo profumo e riuscisse a
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sopraffarmi. Scivolai quanto più lontano mi fosse possibile nel minuscolo spazio tra i
veicoli distrutti.
Mi fissava dal basso, ed io la fissavo di rimando. Distogliere lo sguardo per primo
era un errore che solamente un pessimo bugiardo avrebbe commesso, ed io non ero un
pessimo bugiardo. La mia espressione era serena, benevola… Il che parve confonderla.
Quello era un bene.
Il luogo dell’incidente era circondato adesso. Per lo più da studenti, ragazzini che si
facevano largo e sbirciavano tra le fessure per vedere se ci fosse qualche corpo mutilato.
Le grida schiamazzavano ed i pensieri sconvolti erano come un’onda. Passai i pensieri in
rassegna una volta per assicurarmi che non ci fossero sospetti, e poi li chiusi fuori e mi
concentrai solamente sulla ragazza.
Era distratta dal pandemonio. Si guardava intorno, con l’espressione ancora
sbalordita, e cercava di alzarsi in piedi.
Le poggiai delicatamente la mano sulla spalla per trattenerla.
“Resta qui e non muoverti per adesso”. Sembrava stesse bene, ma era saggio che
muovesse il collo? Di nuovo, desiderai che ci fosse Carlisle. I miei anni di studio teorico
della medicina non potevano competere con i secoli che aveva passato a praticarla.
“Ma fa freddo!” obiettò.
Era quasi morta schiacciata in due diverse occasioni ed azzoppata in un’altra ed era
il freddo che la preoccupava. Prima che potessi ricordare che la situazione non era affatto
divertente, una risatina soffocata mi scappò tra i denti.
Bella batté le palpebre, e poi i suoi occhi si concentrarono sul mio viso. “Tu stavi
laggiù”.
Il che mi rese nuovamente lucido.
Gettò un’occhiata verso sud, sebbene non ci fosse più niente da vedere ora eccetto la
fiancata accartocciata del furgoncino. “Stavi vicino alla tua macchina”.
“No, non è vero”.
“Ti ho visto”, insisteva; la sua voce diventava infantile quando s’intestardiva. Il suo
mento si sporse.
“Bella, ero qui vicino a te, e ti ho spinta via”.
La fissavo profondamente nei grandi occhi, cercando di forzarla ad accettare la mia
versione – l’unica versione ragionevole possibile.
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Assunse una posa decisa. “No”.
Cercavo di restare calmo, di non andare nel panico. Se solo avessi potuto farla stare
tranquilla per qualche momento, per darmi l’opportunità di distruggere le prove…e per
scalzare la sua storia con la rivelazione del suo trauma cranico.
Non avrebbe dovuto essere facile far stare tranquilla questa ragazza silenziosa,
misteriosa? Se solo si fosse fidata di me, solamente per qualche momento…
“Per favore, Bella”, dissi, e la mia voce era troppo intensa, perché d’improvviso
volevo che si fidasse di me. Lo desideravo disperatamente, e non solamente per quanto
riguardava l’incidente. Uno sciocco desiderio. Che senso avrebbe avuto per lei fidarsi di
me?
“Perché?”, chiese, ancora sulla difensiva.
“Fidati di me”, supplicai.
“Mi prometti che più tardi mi spiegherai tutto?”
Mi faceva arrabbiare doverle mentire ancora, quando desideravo così tanto di poter
meritare la sua fiducia in qualche modo. Perciò, quando risposi, le feci un torto.
“D’accordo”.
“D’accordo” mi fece eco con il medesimo tono.
Mentre attorno a noi cominciavano i tentativi di soccorso – l’arrivo degli adulti, la
chiamata alle autorità e le sirene in lontananza – tentai d’ignorare la ragazza e di
ricollocare le mie priorità nel giusto ordine. Rovistai in ogni singola mente del parcheggio,
dei testimoni e dei ritardatari insieme, ma non trovai niente di pericoloso. Molti erano
sorpresi di vedermi vicino a Bella, ma tutti conclusero – poiché non c’era altra possibile
conclusione – che non avevano fatto caso che mi trovavo accanto alla ragazza prima
dell’incidente.
Lei era l’unica a non accettare quella semplice spiegazione, ma l’avrebbero
considerata la meno credibile dei testimoni. Doveva essere spaventata, traumatizzata, per
non parlare della botta che aveva presa in testa. Probabilmente era in stato di shock. Era
più che accettabile che la sua storia fosse confusa, no? Nessuno le avrebbe dato più credito
che a così tanti testimoni…
Sussultai quando colsi i pensieri di Rosalie, Jasper ed Emmett, che stavano giusto
arrivando sul posto. Quella sera sarebbe scoppiato un casino per questo.
Volevo spianare l’ammaccatura che le mie spalle avevano lasciato sulla macchina
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marroncina, ma la ragazza era troppo vicina. Dovevo aspettare finché non si distraeva.
Era frustrante restare ad aspettare – così tanti occhi puntati su di me –, mentre gli
umani lottavano con il furgoncino, cercando di spingerlo lontano da noi. Avrei potuto
aiutarli, giusto per accelerare la cosa, ma ero già abbastanza nei guai e la ragazza aveva la
vista aguzza. Finalmente, riuscirono a spostarlo quanto bastava per permettere ai
paramedici di raggiungerci con le loro barelle.
Un viso familiare, brizzolato, mi squadrò.
“Hey, Edward”, disse Brett Warner. Era anche un infermiere professionale, e
l’avevo conosciuto bene in ospedale. Era un colpo di fortuna – l’unica fortuna oggi – che
fosse lui a raggiungerci per primo. Nei suoi pensieri, stava notando che avevo l’aria vigile
e calma. “Stai bene, ragazzo?”
“Perfettamente, Brett. Neanche un graffio. Ma ho paura che Bella possa avere una
commozione cerebrale. Ha preso una bella botta in testa quando l’ho tirata via dalla
strada…”.
Brett rivolse la sua attenzione alla ragazza, che mi lanciò un’occhiata truce per
averla tradita. Oh, giusto. Lei era la martire silenziosa – preferiva soffrire in silenzio.
Tuttavia, non aveva contraddetto subito la mia storia, e questo mi fece sentire più
tranquillo.
L’altro paramedico cercò d’insistere perché mi facessi visitare, ma non fu troppo
difficile dissuaderlo. Promisi che mi sarei fatto visitare da mio padre, e lasciò perdere. Con
la maggior parte degli esseri umani, parlare con sfacciata sicurezza era tutto ciò serviva.
Con la maggior parte degli esseri umani, ma non con la ragazza, ovviamente. Rientrava in
un qualunque canone di normalità?
Mentre le mettevano un collarino – e la sua faccia era diventata viola per
l’imbarazzo – approfittai del momento di distrazione per correggere con discrezione, con
il tallone, l’impronta dell’ammaccatura sull’auto marroncina. Solo i miei fratelli e le mie
sorelle si accorsero di quello che stavo facendo, e sentii Emmett promettere mentalmente
di provvedere a qualunque cosa avessi tralasciato.
Grato per il suo aiuto – ed ancor più grato che Emmett, almeno, aveva già perdonato
la mia scelta pericolosa – mi sentivo già più rilassato quando salii sul sedile anteriore
dell’ambulanza vicino a Brett.
Il capo della polizia arrivò prim’ancora che caricassero Bella sul retro
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dell’ambulanza.
Quantunque i pensieri del padre di Bella fossero avari di parole, il panico e la
preoccupazione che emanavano dalla mente di quell’uomo coprivano la voce di pressoché
ogni altro pensiero nelle vicinanze. L’ansia ed il senso di colpa inespressi, che ne
costituivano una larga parte, lo abbandonarono non appena vide la sua unica figlia sulla
barella.
Lo abbandonarono per passare a me, amplificati e sempre più forti. Quando Alice
mi aveva avvertito che uccidendo l’unica figlia di Charlie Swan avrei ucciso anche lui,
non aveva esagerato.
Quel senso di colpa mi fece chinare la testa mentre ascoltavo la sua voce
terrorizzata.
“Bella!” gridò.
“Sto benissimo, Char – papà”. Sospirò. “Non mi sono fatta niente”.
Le sue rassicurazioni a malapena ne smorzarono la paura. Si voltò all’istante verso il
più vicino paramedico e gli chiese maggiori informazioni.
Solamente quando lo sentii parlare, compitando delle frasi perfettamente coerenti a
dispetto del panico che provava, mi resi conto che la sua ansia e la sua preoccupazione
non erano inespresse. Solo che…non potevo sentirne le parole esatte.
Hmm. Charlie Swan non era silenzioso quanto sua figlia, ma capivo da chi lei
avesse preso. Interessante.
Non avevo mai dedicato molto tempo al capo della polizia cittadina. L’avevo
sempre considerato un uomo tardo di comprendonio – solo ora mi rendevo conto che ero
io quello tardo. I suoi pensieri erano parzialmente nascosti, non assenti. Potevo solo
distinguerne il tenore, il timbro…
Volevo ascoltare più a fondo, per vedere se potevo trovare in quel nuovo, più
semplice rompicapo la chiave per accedere ai segreti della ragazza. Ma proprio allora
Bella fu caricata sul retro, e l’ambulanza si mise in marcia.
Era difficile staccarmi dalla possibile soluzione del mistero che era diventata
un’ossessione per me. Ma dovevo pensare – esaminare quel che era capitato oggi da ogni
punto di vista. Dovevo ascoltare, per assicurarmi di non averci messi tutti in un pericolo
tanto grande da dover partire immediatamente. Dovevo concentrarmi.
Non c’era niente nei pensieri dei paramedici che mi potesse spaventare. Per quanto
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ne sapevano, la ragazza non aveva niente di serio. E Bella era rimasta fedele alla storia che
avevo fornita, finora.
La prima delle mie priorità, quando arrivammo in ospedale, fu quella di vedere
Carlisle. Attraversai di corsa le porte automatiche, ma fui incapace di rinunciare
completamente ad occuparmi di Bella; tenni un occhio su di lei attraverso i pensieri dei
paramedici.
Fu facile trovare la mente familiare di mio padre. Era nel suo piccolo ufficio, da
solo – il secondo colpo di fortuna in questa giornata sfortunata.
“Carlisle”.
Mi aveva sentito arrivare, e si era allarmato non appena aveva visto il mio viso.
Scattò in piedi, il suo viso impallidì bianco come un osso. Si allungò sulla scrivania di
noce perfettamente organizzata.
Edward – non hai –
“No, no, non è quello che pensi”.
Respirò a fondo. Ovviamente no. Mi spiace di averlo pensato. I tuoi occhi,
naturalmente, avrei dovuto saperlo… Osservò i miei occhi ambrati con sollievo.
“Lei è ferita, però, Carlisle, probabilmente non in modo serio, ma -”
“Cos’è successo?”
“Uno stupido incidente di macchina. Era nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Ma non potevo restarmene lì così – lasciare che fosse travolta -”
Comincia dal principio, non riesco a capire. Come sei stato coinvolto?
“Un furgoncino slittava sul ghiaccio”, mormorai. Fissavo la parete alle sue spalle
mentre parlavo. Al posto di una schiera di diplomi incorniciati, lui teneva una semplice
pittura ad olio – una delle sue favorite, un Hassam ancora sconosciuto. “Lei stava sulla sua
traiettoria. Alice l’ha visto arrivare, ma non c’era tempo di fare altro se non correre
davvero attraverso il parcheggio e spingerla via. Nessuno se n’è accorto…apparte lei. Ho
anche dovuto fermare il furgoncino, ma di nuovo, nessuno ha visto…tranne lei. Mi spiace
Carlisle. Non intendevo metterci in pericolo”.
Girò attorno alla scrivania e mi poggiò una mano sulla spalla.
Hai fatto la cosa giusta. E non deve essere stato facile per te. Sono orgoglioso di te,
Edward.
A quel punto potevo guardarlo negli occhi. “Lei sa che c’è qualcosa…di sbagliato in
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me”.
“Questo non conta. Se dovremo partire, partiremo. Cos’ha detto?”
Scossi la testa, un poco frustrato. “Niente, ancora”.
Ancora?
“Ha accettato di sostenere la mia versione degli eventi – ma si aspetta una
spiegazione”.
Aggrottò le sopracciglia, mentre meditava sulla cosa.
“Ha sbattuto la testa – beh, sono stato io”, continuai rapidamente. “L’ho spinta a
terra piuttosto violentemente. Sembra stia bene, ma… Non credo ci vorrebbe molto per
screditare il suo resoconto”.
Mi sentivo un mascalzone solo per averlo detto.
Carlisle percepiva il disgusto nella mia voce. Magari non sarà necessario. Andiamo
a vedere che succede, vuoi? Pare che abbia una paziente da visitare.
“Per favore”, dissi. “Ho davvero paura di averle fatto del male”.
L’espressione di Carlisle s’illuminò. Si lisciò i capelli biondi – appena più chiari dei
suoi occhi dorati – e si mise a ridere.
E’ stata una giornata interessante per te, non è vero? Nella sua mente, potevo
cogliere l’ironia, ed era divertente, almeno per lui. Un totale rovesciamento dei ruoli. Ad
un certo punto durante quel breve secondo sconsiderato in cui mi ero precipitato attraverso
il parcheggio congelato, mi ero trasformato da assassino a protettore.
Risi con lui, ricordando di quanto fossi stato certo che Bella non avrebbe mai avuto
bisogno di essere protetta da niente più che da me. C’era una punta di alterazione nella
mia risata perché, a dispetto del furgoncino, era ancora completamente vero.
Aspettavo da solo nell’ufficio di Carlisle – una delle ore più lunghe che abbia mai
trascorso – ascoltando il brulicare dei pensieri che riempivano l’ospedale.
Tyler Crowley, il conducente del furgoncino, sembrava fosse ferito assai più
gravemente di Bella, e l’attenzione si spostò su di lui mentre lei aspettava il suo turno in
sala raggi. Carlisle si teneva in disparte, confidando nella diagnosi del suo assistente
secondo cui la ragazza era rimasta ferita solo lievemente. Il che mi rese ansioso, ma
sapevo che aveva ragione. Una sola occhiata al viso di lui le avrebbe immediatamente
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ricordato di me, del fatto che c’era qualcosa di strano nella mia famiglia, e questo avrebbe
potuto indurla a parlare.
Certamente aveva un compagno piuttosto ben disposto con cui conversare. Tyler era
consumato dal senso di colpa per via del fatto che l’aveva quasi uccisa, e sembrava fosse
incapace di tacerlo. Potevo vedere l’espressione di lei attraverso i suoi occhi, ed era
evidente che desiderava che lui la smettesse. Come faceva lui a non accorgersene?
Ci fu un momento di tensione quando Tyler le chiese come fosse riuscita a
scansarsi.
Aspettavo, senza respirare, mentre lei esitava.
“Um…” la sentì dire. Poi fece una pausa così lunga che Tyler si chiese se la sua
domanda l’aveva confusa. Alla fine, continuò. “Edward mi ha spinta via”.
Esalai. E poi il mio respiro accelerò. Non l’avevo mai sentita pronunciare il mio
nome prima. Mi piaceva il suono che aveva – persino ascoltandolo solamente attraverso i
pensieri di Tyler. Volevo sentirlo con le mie orecchie…
“Edward Cullen”, disse, quando Tyler non capì a chi si riferisse. Mi ritrovai sulla
porta, con la mano sulla maniglia. Il desiderio di vederla si faceva sempre più intenso. Mi
costrinsi a ricordare quanto fosse necessario essere prudente.
“Stava proprio accanto a me”.
“Cullen?”. Huh. Questo è strano. “Non l’ho visto”. Avrei giurato… “Whow, è
successo tutto così in fretta, immagino. Sta bene?”
“Credo di si. E’ qui da qualche parte, ma non l’hanno portato in barella”.
Vidi l’aria meditabonda che aveva in viso, il sospetto che le faceva stringere gli
occhi riducendoli a due fessure, ma quei piccoli cambiamenti della sua espressione
andarono persi in Tyler.
E’ bella, stava pensando, quasi sorpreso. Perfino così in disordine. Non il mio solito
tipo, però… Dovrei invitarla ad uscire. Farmi perdonare per oggi…
A quel punto ero già nel corridoio, a metà strada dalla sala delle emergenze, senza
pensare nemmeno per un secondo a cosa stessi facendo. Fortunatamente, l’infermiera
entrò nella stanza prima che potessi farlo io – era il turno di Bella in radiologia. Mi
appoggiai contro la parete in un cantuccio buio proprio dietro l’angolo, e cercai di
controllarmi mentre la portavano via in barella.
Non importava che Tyler pensasse che fosse bella. Chiunque se ne sarebbe accorto.
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Non avevo ragione di sentirmi…come mi sentivo? Irritato? O arrabbiato corrispondeva di
più alla verità? Non aveva assolutamente senso.
Restai dov’ero finché potei, ma l’impazienza ebbe la meglio su di me ed imboccai
un corridoio secondario in direzione della sala raggi. L’avevano già riportata in
emergenza, ma riuscii a dare un’occhiata alle sue lastre mentre l’infermiere mi dava le
spalle.
Mi sentii più calmo dopo averlo fatto. La sua testa stava bene. Non le avevo fatto
male, non seriamente.
Carlisle mi sorprese lì.
Hai un aspetto migliore, commentò.
Mi limitai a guardare di fronte a me. Non eravamo soli, i corridoi erano affollati di
inservienti e visitatori.
Ah, si. Appese le radiografie alla lavagna luminosa, ma non avevo bisogno di una
seconda occhiata. Vedo. Sta benissimo. Ben fatto, Edward.
Il suono dell’approvazione di mio padre mi procurava una reazione contrastata.
Avrei voluto potermi compiacere, tranne che sapevo che non avrebbe approvato ciò che
stavo per fare. Quantomeno, non avrebbe approvato se avesse saputo quali fossero le mie
reali motivazioni…
“Penso che andrò a parlare con lei – prima che ti veda”, mormorai con un filo di
voce. “Mi comporterò normalmente, come se niente fosse successo. Minimizzerò”. Tutte
ragioni accettabili.
Carlisle annuì distrattamente, ancora intento sulle radiografie. “Buona idea. Hmm”.
Guardai per capire cosa avesse catturato il suo interesse.
Guarda quante contusioni cicatrizzate! Quante volte l’ha lasciata cadere sua
madre? Carlisle rise della sua stessa battuta.
“Sto cominciando a pensare che la ragazza abbia solo molta sfortuna. Sempre nel
posto sbagliato al momento sbagliato”.
Forks è certamente il posto sbagliato per lei, con te qui.
Trasalii.
Vai avanti. Risolvi la faccenda. Ti raggiungerò a momenti.
Mi allontanai velocemente, sentendomi colpevole. Forse ero un bugiardo davvero
troppo in gamba, se potevo ingannare Carlisle.
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Quando entrai nel pronto soccorso, Tyler stava ancora biascicando sottovoce, per
scusarsi. La ragazza stava cercando di scampare al suo rimorso fingendo di dormire. I suoi
occhi erano chiusi, ma il suo respiro non era regolare, e di quando in quando contraeva le
dita nervosamente.
Fissai il suo viso per un lungo momento. Questa era l’ultima volta che la vedevo.
Quella considerazione scatenò un dolore insopportabile nel mio petto. Era perché odiavo
lasciare qualunque mistero irrisolto? Non pareva una spiegazione adeguata.
Alla fine, respirai profondamente e mi resi visibile.
Quando Tyler mi vide, cominciò a parlare, ma mi poggiai un dito sulle labbra.
“Sta dormendo?” mormorai.
Gli occhi di Bella si aprirono di scatto e si focalizzarono sul mio viso. Si
spalancarono per un solo attimo, e poi si strinsero per la collera o il sospetto. Mi ricordai
di dover recitare una parte, perciò le sorrisi come se questa mattina non fosse successo
niente d’insolito – apparte un colpo alla sua testa ed un pizzico di fantasia galoppante.
“Hey Edward”, disse Tyler. “Mi dispiace davvero tanto -”
Sollevai una mano per interrompere le sue scuse. “Niente sangue, nessuna infamia”
dissi sarcasticamente. Senza pensarci, spalancai il sorriso per quella mia burla personale.
Era straordinariamente facile ignorare Tyler, sdraiato a non più di un metro da me,
coperto di sangue. Non avevo mai capito come riuscisse Carlisle a farlo – ignorare il
sangue dei suoi pazienti al fine di curarli. La tentazione costante non avrebbe dovuto
impedirgli di concentrarsi, di non essere pericoloso..? Ma ora…potevo capire come,
concentrandosi su qualcos’altro abbastanza intensamente, la tentazione svaniva del tutto.
Anche se caldo ed esposto, il sangue di Tyler non valeva niente in confronto a Bella.
Mi tenni a distanza da lei, sedendomi ai piedi del letto di Tyler.
“Allora, qual è il verdetto?” le chiesi.
Il suo labbro inferiore s’imbronciò appena. “Non ho assolutamente niente, ma non
vogliono lasciarmi andare. Come mai tu non sei legato ad una barella come il resto di
noi?”
La sua impazienza mi fece sorridere di nuovo.
Potevo sentire Carlisle nel corridoio adesso.
“Questione di conoscenze”, dissi con leggerezza. “Ma non temere, sono venuto a
liberarti”.
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Osservai la sua reazione molto attentamente quando mio padre entrò dalla porta.
Sgranò gli occhi e la bocca le si spalancò per la sorpresa. Gemetti mentalmente. Si, aveva
senza alcun dubbio notato la rassomiglianza.
“Allora, signorina Swan, come si sente?” chiese Carlisle. Aveva un modo di fare
straordinariamente rassicurante che metteva la maggioranza dei pazienti a proprio agio in
pochi istanti. Non avrei saputo dire che effetto avesse su Bella.
“Sto bene”, disse calma.
Carlisle appese le sue radiografie alla lavagna luminosa vicina al letto. “Le tue lastre
sono apposto. Ti fa male la testa? Edward dice che l’hai battuta piuttosto forte”.
Sospirò, e disse “Sto bene”, di nuovo, ma stavolta la sua impazienza trapelava dalla
sua voce. Poi mi lanciò uno sguardo truce.
Carlisle le si avvicinò e fece scorrere gentilmente le dita sulla sua nuca finché non
trovò il bernoccolo nascosto sotto i capelli.
Fui colto alla sprovvista dall’impeto dell’emozione che si abbatté su di me.
Avevo visto Carlisle trattare con gli umani migliaia di volte. Anni prima, lo avevo
persino assistito ufficiosamente – quantunque solamente in situazioni che non
coinvolgessero il sangue. Perciò non era una cosa nuova, per me, vederlo interagire con la
ragazza come se fosse umano quanto lei. Avevo invidiato il suo autocontrollo molte volte,
ma quest’emozione era differente. Gli invidiavo molto più del suo autocontrollo. Soffrivo
per la differenza che c’era tra Carlisle e me – perché lui poteva toccare la ragazza tanto
delicatamente, senza timore, sapendo che non le avrebbe mai fatto del male…
Lei sussultò, ed io m’irrigidii. Dovetti concentrarmi un istante per ritrovare la mia
postura rilassata.
“Male?” chiese Carlisle.
Sollevò il mento leggermente. “No davvero” disse.
Un altro piccolo tassello del suo carattere andò a posto: era coraggiosa. Non le
piaceva mostrarsi debole.
Probabilmente era la creatura più vulnerabile che avessi mai vista, e non voleva
sembrare debole. Una risatina soffocata mi scappò tra le labbra.
Mi lanciò un altro sguardo truce.
“Bene”, disse Carlisle. “Tuo padre ti sta aspettando in sala d’attesa – puoi andartene
subito a casa con lui. Ma torna immediatamente qui se ti senti girare la testa o se hai
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problemi di vista”.
Suo padre era lì? Rovistai tra i pensieri dell’affollata sala d’attesa, ma non riuscii a
distinguere la sua fievole voce mentale tra la massa prima che lei tornasse a parlare con in
viso un’espressione ansiosa.
“Non posso tornare a scuola?”
“Magari oggi dovresti prendertela comoda”, suggerì Carlisle.
I suoi occhi guizzarono ancora su di me. “Lui può tornare a scuola?”
Comportati normalmente, minimizza…ignora il modo in cui ti fa sentire quando ti
guarda negli occhi…
“Qualcuno deve far circolare la buona notizia che siamo sopravvissuti”, dissi.
“A dire il vero”, corresse Carlisle, “la maggior parte della scuola sembra essersi
trasferita in sala d’attesa”.
Anticipai la sua reazione stavolta – la sua avversione per le attenzioni. Non mi
deluse.
“Oh no”, gemette, e si coprì il viso con le mani.
Mi piaceva l’essere finalmente riuscito a fare una supposizione corretta. Stavo
cominciando a capirla…
“Preferisci rimanere qui?” chiese Carlisle.
“No, no” disse rapidamente, facendo penzolare le gambe oltre il bordo del
materasso e scivolando finché i suoi piedi non ebbero toccato il pavimento. Incespicò in
avanti, sbilanciata, tra le braccia di Carlisle. L’aveva afferrata e stabilizzata.
Di nuovo, l’invidia mi travolse.
“Sto bene” disse prima che lui potesse commentare, con una sfumatura di rosa sulle
guance.
Ovviamente, la cosa non infastidì Carlisle. Si assicurò che fosse in equilibrio, e poi
staccò le mani.
“Prendi del Tylenol per il dolore” la istruì.
“Non fa così male”.
Carlisle sorrise e firmò la sua cartella. “Pare che tu sia stata davvero fortunata”.
Voltò la testa leggermente, per fissarmi con uno sguardo severo. “Fortunata che
Edward si trovasse per puro caso vicino a me”.
“Oh, beh, si”, convenne in fretta Carlisle, percependo nella sua voce la stessa cosa
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che avevo sentito anch’io. Non aveva cancellato i suoi sospetti dalla sua immaginazione.
Non ancora.
E’ tutta tua, pensò Carlisle. Gestiscila come meglio credi.
“Grazie tante”, mormorai, velocemente e silenziosamente. Nessuno dei due umani
mi sentì.
Gli angoli delle labbra di Carlisle si sollevarono appena un poco per il mio sarcasmo
intanto che si voltava verso Tyler. “Temo che tu dovrai restare con noi un pò più a lungo”,
disse mentre iniziava ad esaminare i tagli lasciati dal parabrezza andato in frantumi.
Beh, io avevo fatto il casino, perciò era quantomeno giusto che fossi io ad
occuparmene.
Bella veniva verso di me con passo determinato, e non si fermò finché non si trovò
spiacevolmente vicina. Ricordavo quanto avessi sperato, prima di quel caos, che mi si
avvicinasse… Questa era la parodia di quel desiderio.
“Posso parlarti un minuto?” sibilò.
Il suo respiro caldo mi sfiorò il viso e fui costretto a barcollare un passo indietro.
L’attrazione che esercitava non si era minimamente ridotta. Ogni volta che mi era vicina,
scatenava i miei istinti peggiori e più pressanti. Il veleno mi salì alla bocca ed il mio corpo
desiderò ardentemente di aggredirla – di spingerla tra le mie braccia e di stringerne la gola
con i denti.
La mia mente era più forte del mio corpo, ma solo di poco.
“Tuo padre ti sta aspettando”, le ricordai, serrando le mascelle ben strette.
Lanciò un’occhiata a Tyler e Carlisle. Tyler non ci prestava alcuna attenzione, ma
Carlisle monitorava ogni mio singolo respiro.
Prudenza, Edward.
“Vorrei parlarti da solo, se non ti dispiace”, insistette abbassando la voce.
Volevo dirle che mi dispiaceva parecchio, ma sapevo che prima o poi avrei dovuto
affrontarla. Tanto valeva andare avanti.
Ero preda di una miriade di emozioni contrastanti, intanto che uscivo dalla stanza
impettito, ascoltandone i passi incerti alle mie spalle, mentre cercava di starmi dietro.
Avevo uno spettacolo da mettere in scena. Sapevo quale parte mi sarebbe toccata –
il personaggio ce l’avevo dentro: sarei stato il cattivo. Avrei mentito e ridicolizzato e sarei
stato crudele.
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Andava contro tutti i miei migliori istinti – gli istinti umani cui mi ero aggrappato in
tutti questi anni. Mai come in questo momento avevo desiderato di essere degno della sua
fiducia, proprio quando dovevo distruggerne ogni possibilità.
Era anche peggio sapendo che quello sarebbe stato l’ultimo ricordo che lei avrebbe
avuto di me. Quella era la mia scena d’addio.
Mi voltai verso di lei.
“Che vuoi?” chiesi freddamente.
Lei indietreggiò appena di fronte alla mia ostilità. I suoi occhi diventarono
sconcertati, l’espressione che mi aveva braccato…
“Mi devi una spiegazione” disse con voce fioca; il suo viso eburneo sbiancò.
Era molto difficile mantenere un tono di voce aspro. “Ti ho salvato la vita – Non ti
devo niente”.
Lei trasalì – bruciava come l’acido vederla ferita dalle mie parole.
“Hai promesso” sussurrò.
“Bella, hai battuto la testa, non sai cosa dici”.
A quel punto sollevò il mento. “Non c’è niente che non va nella mia testa”.
Era arrabbiata adesso, il che mi rendeva le cose più facili. Incrociai il suo sguardo,
con un viso ancor più cattivo.
“Che vuoi da me, Bella?”
“Voglio la verità. Voglio sapere perché sto mentendo per te”.
Quello che voleva era semplicemente giusto – mi frustrava doverglielo negare.
“Cosa credi che sia successo?” quasi le ringhiai.
Le sue parole si riversarono come un torrente. “Tutto ciò che so è che tu non eri
affatto vicino a me – neppure Tyler ti ha visto, perciò non dirmi che ho battuto la testa
troppo forte. Quel furgoncino stava per schiacciarci entrambi – e non l’ha fatto, e le tue
mani hanno lasciato un’ammaccatura sulla sua fiancata – ed hai lasciato un’ammaccatura
pure sull’altra macchina, e non ti sei fatto assolutamente niente – e il furgoncino avrebbe
dovuto spaccarmi le gambe, ma tu l’hai sollevato…”. D’improvviso, serrò i denti ed i suoi
occhi luccicarono trattenendo le lacrime.
La fissai, con un’espressione di scherno, sebbene ciò che sentissi davvero era
soggezione; aveva visto tutto.
“Pensi che abbia sollevato un furgoncino per te?” le chiesi sarcasticamente.
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Rispose con un solo rigido cenno del capo.
La mia voce diventò ancor più canzonatoria. “Nessuno ti crederà, lo sai”.
Si sforzò di contenere la propria rabbia. Quando mi rispose, scandì ogni singola
parola in maniera deliberatamente lenta. “Non lo racconterò a nessuno”.
Era la verità – potevo leggerglielo negli occhi. Nonostante fosse furiosa e tradita,
avrebbe mantenuto il mio segreto.
Perché?
Lo shock guastò la mia espressione attentamente calcolata per mezzo secondo, e poi
mi ricomposi.
“Allora che importanza ha?” chiesi, sforzandomi di mantenere un tono di voce
aspro.
“E’ importante per me”, disse con intensità. “Non mi piace mentire – perciò è
meglio che ci sia una buona ragione al perché lo sto facendo”.
Mi stava chiedendo di fidarmi di lei. Proprio com’io volevo che lei si fidasse di me.
Ma quello era un confine che non potevo oltrepassare.
La mia voce si mantenne insensibile. “Non puoi limitarti a ringraziarmi ed a lasciar
perdere?”
“Grazie”, disse, e poi fumò silenziosamente di rabbia, aspettando.
“Non intendi lasciar perdere, vero?”
“No”
“In questo caso…”. Non avrei potuto dirle la verità neanche se avessi voluto…e non
lo volevo. Preferivo che s’inventasse una storia tutta sua piuttosto che sapesse cos’ero,
perché niente poteva essere peggio della verità – ero un incubo vivente, strappato alle
pagine di un romanzo dell’orrore. “Spero tu goda a rimanere delusa”.
Ci guardammo torvi a vicenda. Era strana la tenerezza che suscitava la sua rabbia.
Come una gattina furibonda, morbida ed indifesa, e completamente ignara della propria
vulnerabilità.
Avvampò di rosa e di nuovo serrò i denti. “Perché prendersi tanto disturbo?”
La sua non era una domanda che mi sarei aspettato o alla quale mi ero preparato a
rispondere. Persi la presa sulla parte che stavo recitando. Sentii la maschera scivolarmi dal
viso, e le dissi – almeno per una volta – la verità.
“Non lo so”.
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Memorizzai il suo viso per l’ultima volta – era ancora contratto per la rabbia, il
sangue non era ancora sfumato dalle guance – poi mi voltai e me ne andai via da lei.
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4. Visioni
Tornai a scuola. Era la cosa giusta da fare, la maniera migliore di comportarsi per passare
inosservati.
Per la fine della giornata, anche quasi tutti gli altri studenti erano tornati in classe.
Solo Tyler e Bella e pochi altri – che probabilmente stavano usando l’incidente come
scusa per saltare le lezioni – rimasero assenti.
Non sarebbe dovuto essere tanto difficile per me fare la cosa giusta. Ma, per tutto il
pomeriggio, strinsi i denti per resistere allo slancio che mi faceva desiderare con
impazienza di assentarmi anch’io – per raggiungere di nuovo la ragazza.
Come un maniaco. Un maniaco ossessionato. Un maniaco ossessionato, e vampiro.
La scuola oggi era – in qualche modo, incredibilmente – persino più noiosa di
quanto non mi fosse sembrata giusto una settimana prima. Uno stato di coma. Era come se
tutto il colore fosse colato via dai mattoni, dagli alberi, dal cielo, dalle facce attorno a
me… Fissavo le crepe sulla parete.
C’era un’altra cosa giusta che avrei dovuto fare…ma che non stavo facendo.
Naturalmente, era anche una cosa sbagliata. Dipendeva tutto da quale prospettiva la si
considerava.
Dalla prospettiva di un Cullen – non di un semplice vampiro, ma di un Cullen, di
qualcuno che apparteneva ad una famiglia, una condizione piuttosto rara nel nostro mondo
– la cosa giusta da fare sarebbe suonata più o meno così:
“Sono sorpreso di vederti a scuola, Edward. Ho sentito che sei rimasto coinvolto in
quel terribile incidente di stamattina”.
“Si, Signor Banner, ma io sono quello fortunato”. Un sorriso amichevole. “Non mi
sono fatto assolutamente niente…Vorrei poter dire lo stesso di Tyler e di Bella”.
“Come stanno?”
“Penso che Tyler stia bene…giusto qualche taglio superficiale causato dal vetro del
parabrezza. Tuttavia, non sono sicuro per quel che riguarda Bella”. Un’espressione
preoccupata. “Potrebbe avere una commozione cerebrale. Ho sentito che per un pò è
stata piuttosto incoerente – che aveva persino delle allucinazioni. So che i dottori sono
preoccupati…”
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E’ così che sarebbe dovuta andare. Era ciò che dovevo alla mia famiglia.
“Sono sorpreso di vederti a scuola, Edward. Ho sentito che sei rimasto coinvolto in
quel terribile incidente di stamattina”.
“Non mi sono fatto niente”. Nessun sorriso.
Il Signora Banner spostò il peso da un piede all’altro, a disagio.
“Hai qualche idea su come stiano Tyler Crowley e Bella Swan? Ho sentito parlare di
qualche ferita…”
Scrollai le spalle. “Non saprei”.
Il Signor Banner si schiarì la gola. “Ehm, bene…” disse, la freddezza del mio
sguardo faceva sembrare la sua voce un pò tesa.
Tornò velocemente di fronte alla classe ed iniziò la lezione.
Era stata la cosa sbagliata da fare. Salvo che non la si guardasse da un punto di vista
più oscuro.
E’ solo che sembrava così…così poco cavalleresco calunniare la ragazza a
tradimento, soprattutto perché si stava dimostrando maggiormente degna di fiducia di
quanto non avessi potuto aspettarmi. Non aveva detto nulla che potesse scoprirmi,
malgrado avesse una buona ragione per farlo. L’avrei tradita quando non aveva fatto altro
che mantenere il mio segreto?
La conversazione con la Signora Goff fu pressoché identica – solo in spagnolo
invece che in inglese – ed Emmett mi lanciò una lunga occhiata.
Spero tu abbia un’ottima spiegazione per quel che è successo oggi. Rose è sul
sentiero di guerra.
Strabuzzai gli occhi senza guardarlo.
In verità avevo escogitato una spiegazione che suonava assolutamente perfetta.
Supponete solamente che non avessi fatto niente per impedire al furgoncino di schiantarsi
sulla ragazza…rifuggii quel pensiero disgustato. Ma se fosse stata investita, se fosse stata
mutilata e sanguinante, il fluido rosso a spandersi, a disperdersi sull’asfalto nero, il
profumo del suo sangue caldo circolante nell’aria…
Rabbrividii di nuovo, ma non solo per l’orrore. Una parte di me fremeva dal
desiderio. No, non sarei stato capace di vederla sanguinare senza esporre tutti noi in
maniera assai più flagrante e scioccante.
Era una scusa che suonava perfettamente plausibile…ma non l’avrei usata. Sarebbe
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stato troppo deplorevole.
Ed io non ci avevo pensato se non molto dopo il fatto, a dispetto di tutto.
Tieni d’occhio Jasper, continuò Emmett, ignaro delle mie elucubrazioni. Non è
altrettanto arrabbiato…ma è più risoluto.
Vidi cosa intendeva dire, e per un momento la stanza mi girò intorno. La mia rabbia
era talmente divorante che una bruma rossa mi offuscò la vista. Pensavo che mi avrebbe
soffocato.
ACCIDENTI, EDWARD! CONTROLLATI! Mi urlò contro Emmett mentalmente. La
sua mano si poggiò sulla mia spalla, trattenendomi sulla sedia prima che potessi scattare in
piedi. Raramente faceva pienamente uso della sua forza – raramente ce n’era bisogno,
perché era molto più forte di tutti i vampiri che chiunque di noi avesse mai incontrato –,
ma ora la usava. Mi afferrò il braccio, piuttosto che spingermi giù. Se mi avesse spinto, la
sedia sulla quale ero seduto avrebbe ceduto.
CALMATI! Ordinò.
Cercavo di calmarmi, ma era difficile. La rabbia m’incendiava la mente.
Jasper non farà nulla fintanto che non ne avremo parlato tutti assieme. Pensavo
soltanto che dovessi sapere che intenzioni ha.
Mi concentrai per rilassarmi, e sentii la mano di Emmett che allentava la presa.
Cerca di non dare altro spettacolo. Sei già abbastanza nei guai così.
Respirai a fondo ed Emmett mi liberò.
Sistematicamente cercai qua e là nella stanza, ma il nostro confronto era stato
talmente breve e silenzioso che solo poche persone sedute dietro ad Emmett l’avevano
notato. Nessuna di loro sapeva cosa pensarne, e perciò minimizzarono. I Cullen erano
strani – lo sapevano già tutti.
Caspita, ragazzo, sei conciato proprio male, aggiunse Emmett, in tono solidale.
“Mordimi”, bisbigliai a bassa voce, e lo sentii ridacchiare piano.
Emmett non serbava rancore, e probabilmente avrei dovuto essere assai più grato
per la sua natura rilassata e disinvolta. Ma potevo vedere che le intenzioni di Jasper erano
sensate per Emmett, che stava valutando quale fosse il modo migliore di trattare la cosa.
La rabbia covava, a malapena sotto controllo. Si, Emmett era più forte di me, ma
non era ancora riuscito a battermi in un incontro di lotta. Sosteneva che fosse così perché
baravo, ma leggere il pensiero faceva solamente parte di me come la sua immensa forza
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faceva parte di lui. Eravamo quasi alla pari in uno scontro.
Uno scontro? Era a questo che saremmo arrivati? Stavo per scontrarmi con la mia
famiglia per un’umana che conoscevo appena?
Ci pensai sopra per un momento, pensai alla sensazione di fragilità del corpo della
ragazza tra le mie braccia, contrapponendola a Jasper, Rosalie ed Emmett – forti e veloci
in modo soprannaturale, geneticamente programmati per uccidere…
Si, mi sarei battuto per lei. Contro la mia famiglia. Trasalii.
Ma non era giusto lasciarla indifesa quand’ero stato io metterla in pericolo.
Tuttavia, non potevo vincere da solo, non contro loro tre, e mi chiedevo chi sarebbe
stato mio alleato.
Carlisle, certamente. Non si sarebbe mai scontrato con nessuno, ma sarebbe stato
totalmente contrario ai propositi di Rose e di Jasper. Forse sarebbe bastato. Presto l’avrei
scoperto…
Esme, era un’incognita. Non si sarebbe schierata contro di me, ed avrebbe odiato il
doversi opporre a Carlisle, ma sarebbe stata favorevole a qualunque piano che avesse
mantenuto integra la sua famiglia. La sua immediata priorità sarei stato io, non l’essere
giusta. Se Carlisle era l’anima della nostra famiglia, allora Esme ne era il cuore. Lui era un
capo che meritava di essere seguito; lei trasformava quel consenso in un atto d’amore. Ci
amavamo tutti reciprocamente – persino così infuriato lo provavo nei confronti di Jasper e
di Rose, proprio ora, malgrado stessi progettando di battermi con loro per salvare la
ragazza, sapevo di amarli.
Alice…non ne avevo idea. Probabilmente sarebbe dipeso da cos’avrebbe visto
arrivare. Si sarebbe schierata con il vincitore, immaginai.
Perciò, avrei dovuto farcela senza aiuto. Non avrei potuto tenergli testa da solo, ma
non avrei permesso che fosse fatto del male alla ragazza per causa mia. Il che avrebbe
potuto significare un’azione evasiva…
La mia collera si smorzò un poco per un umorismo improvviso, macabro. Potevo
immaginare come avrebbe reagito la ragazza se l’avessi rapita. Certo, raramente riuscivo
ad indovinarne correttamente le reazioni – ma quale altra reazione avrebbe potuto avere
apparte il terrore?
Però, non ero sicuro di come gestire la cosa – il suo rapimento. Non sarei riuscito a
rimanerle vicino tanto a lungo. Forse l’avrei semplicemente rispedita dalla madre. Persino
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una cosa come quella era gravida di pericoli. Per lei.
Ed anche per me, compresi immediatamente. Se per errore l’avessi uccisa… Non
ero del tutto certo di quanto dolore mi avrebbe causato, ma sapevo che sarebbe stato
multisfaccettato ed intenso.
Il tempo passava velocemente mentre rimuginavo su tutte le complicazioni che mi
aspettavano: la discussione che mi attendeva a casa, il conflitto con la mia famiglia, tutto
ciò che in conseguenza potevo essere obbligato a fare…
Beh, non potevo più lamentarmi che la vita fuori da questa scuola fosse monotona.
La ragazza aveva cambiato tutto quanto.
Emmett ed io c’incamminammo lentamente verso la macchina quando suonò la
campanella. Era preoccupato per me, ed era preoccupato per Rosalie. Sapeva quale parte
sarebbe stato costretto a scegliere nel disaccordo, e lo infastidiva.
Gli altri ci stavano aspettando in macchina, anche loro in silenzio. Eravamo una
compagnia molto tranquilla. Solo io potevo sentire le urla.
Idiota! Lunatico! Ritardato! Somaro! Folle egoista irresponsabile! Rosalie
continuava senza posa ad urlare mentalmente a squarciagola un torrente d’insulti. Il che mi
rendeva difficile l’ascolto degli altri, ma la ignoravo quanto meglio potevo.
Emmett aveva ragione su Jasper. Era sicuro di quale sarebbe stata la sua linea
d’azione.
Alice era agitata, in apprensione per Jasper, perciò stava scorrendo le immagini del
futuro. Non importava in quale modo Jasper decideva di dare l’assalto alla ragazza, Alice
mi vedeva comunque lì, a contrastarlo. Interessante…né Rosalie né Emmett erano con lui
in queste visioni. Quindi Jasper contava di agire da solo. Il che pareggiava le cose.
Jasper era il migliore, sicuramente il combattente di maggiore esperienza tra di noi.
Il mio unico vantaggio risiedeva nel fatto che potevo anticiparne le mosse prima che le
mettesse in pratica.
Non avevo mai combattuto con Emmett o Jasper se non per scherzo – solo giocando
in maniera scatenata. Mi disgustava il pensiero di dover tentare di fare del male a Jasper
per davvero…
No, quello no. L’avrei solamente bloccato. Tutto lì.
Mi concentrai su Alice, memorizzando le differenti possibilità di attacco di Jasper.
Mentre lo facevo, le sue visioni si trasformavano, allontanandosi sempre di più da
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casa Swan. L’avrei fermato molto prima…
Smettila, Edward! Non succederà. Non lo permetterò.
Non le risposi, mi limitai a continuare a guardare.
Cominciò a rovistare più lontano nel futuro, nel regno avvolto dalla foschia,
instabile, delle possibilità più remote. Era tutto vago ed indistinto.
Per l’intero tragitto fino a casa, il silenzio carico di tensione non si alleggerì.
Parcheggiai nella vasta rimessa accanto alla casa; la Mercedes di Carlisle era lì, vicina
all’immane jeep di Emmett, alla M3 di Rosalie ed alla mia Aston Martin Vanquish. Ero
contento che Carlisle fosse già a casa – questo silenzio sarebbe terminato in maniera
esplosiva, e volevo che fosse lì quando fosse capitato.
Andammo diritti in sala da pranzo.
La sala, ovviamente, non veniva mai usata per lo scopo cui era destinata. Ma era
ammobiliata con un lungo tavolo ovale di mogano circondato da sedie – eravamo
scrupolosi riguardo all’avere gli opportuni corredi di scena esattamente al loro posto. A
Carlisle piaceva usarla come sala riunioni. In un gruppo caratterizzato da personalità tanto
forti ed eterogenee, qualche volta era necessario discutere le cose con calma, restando
seduti.
Avevo la sensazione che la cosa non sarebbe tornata granché utile oggi.
Carlisle sedeva al suo solito posto all’estremità orientale della stanza. Esme era
accanto a lui – si tenevano le mani congiunte sopra il tavolo.
Gli occhi di Esme indugiavano su di me, le loro profondità dorate erano colme di
preoccupazione.
Resta. Era il suo unico pensiero.
Avrei voluto poter sorridere a quella donna che era come una vera madre per me,
ma non potevo offrirle alcuna rassicurazione adesso.
Presi posto all’altro fianco di Carlisle. Esme lo aggirò per poggiare la mano che
aveva libera sulla mia spalla. Non aveva idea di quello che stava per cominciare; era
solamente in ansia per me.
Carlisle aveva una percezione migliore di quello che stava per succedere. Le sue
labbra erano premute strette e la sua fronte era corrugata. L’espressione pareva troppo
matura per il suo giovane viso.
Intanto che gli altri si sedevano, potei vedere gli schieramenti prendere forma.
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Rosalie aveva preso posto proprio di fronte a Carlisle, all’opposto del lungo tavolo.
Mi fissava truce, senza mai distogliere lo sguardo.
Emmett sedeva accanto a lei, con il viso ed i pensieri parimenti disgustati.
Jasper aveva esitato, e poi si era appoggiato alla parete alle spalle di Rosalie. Era
determinato, qualunque fosse l’esito di questa discussione. Serrai i denti.
Alice era entrata per ultima, ed i suoi occhi erano focalizzati su un qualcosa di
distante – il futuro, ancora troppo indistinto perché potesse tornarle utile. Apparentemente
senza pensarci, si era seduta vicino ad Esme. Si massaggiava la fronte come se avesse mal
di testa. Jasper s’irrigidì nervosamente e valutò la possibilità di raggiungerla, ma rimase
dov’era.
Respirai profondamente. Io avevo cominciato – io dovevo parlare per primo.
“Sono mortificato”, dissi, guardando dapprima Rosalie, e poi Jasper e poi Emmett.
“Non intendevo mettere a rischio nessuno di voi. E’ stato sconsiderato, e mi assumo
l’intera responsabilità del mio comportamento avventato”.
Rosalie mi guardò torva con aria minacciosa. “Che vuol dire “mi assumo l’intera
responsabilità”? Risolverai tu la faccenda?”
“Non nel modo che intendi tu”, dissi, sforzandomi di mantenere una voce pacata e
serena. “Sono pronto ad andarmene subito, se questo può servire ad appianare le cose”. Se
mi convincerò che la ragazza sarà al sicuro, se mi convincerò che nessuno di voi le
torcerà un capello, rettificai mentalmente.
“No”, mormorò Esme. “No, Edward”.
Le diedi un buffetto sulla mano. “Solo per pochi anni”.
“Esme ha ragione, però”, disse Emmett. “Non puoi andartene da nessuna parte
adesso. Faresti l’opposto che renderti utile. Dobbiamo sapere cosa pensa la gente, ora più
che mai”.
“Alice riuscirà a prevedere qualunque cosa ci sia d’importante”, obiettai.
Carlisle scosse la testa. “Credo che Emmett abbia ragione, Edward. Ci sono
maggiori probabilità che la ragazza parli se sparisci. O partiamo tutti, o nessuno”.
“Non dirà niente”, insistetti rapidamente. Rosalie era prossima ad esplodere, ed io
volevo puntualizzare il fatto prima che lo facesse.
“Non conosci la sua mente”, mi ricordò Carlisle.
“Lo so bene. Alice, dammi una mano”.
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Alice mi fissò con aria stanca. “Non riesco a vedere cosa succederà se ci limiteremo
ad ignorare la cosa”. Lanciò un’occhiata verso Rose e Jasper.
No, non poteva vedere quel futuro – non quando Rosalie e Jasper erano così
determinati a non ignorare l’accaduto.
I palmi delle mani di Rosalie batterono sul tavolo producendo un rumore assordante.
“Non possiamo concedere all’umana l’occasione di parlare. Carlisle, tu devi capirlo.
Anche se decidessimo di scomparire tutti, non è prudente per noi lasciarci delle storie alle
spalle. Viviamo in maniera così diversa dagli altri della nostra specie – lo sai che alcuni di
loro sarebbero ben felici di avere una scusa per puntarci il dito contro. Dobbiamo essere
più cauti di chiunque altro!”
“Ci siamo già lasciati dei pettegolezzi alle spalle”, le ricordai.
“Solo chiacchiere e sospetti, Edward. Non testimoni oculari e prove!”
“Prove!” sbuffai schernendola.
Ma Jasper stava annuendo, con occhi severi.
“Rose -” cominciò Carlisle.
“Lasciami finire, Carlisle. Non occorrerà una gran messa in scena. La ragazza ha
preso un colpo alla testa oggi. Perciò quel trauma forse potrebbe rivelarsi più serio di
quanto sia sembrato”. Rosalie scrollò le spalle. “Ogni mortale va a dormire con la
possibilità di non risvegliarsi mai più. Gli altri si aspetteranno che sistemiamo la cosa da
soli. Tecnicamente, questo dovrebbe essere compito di Edward, ma ovviamente va al di là
delle sue capacità. Sai che so controllarmi. Non lascerei alcun indizio dietro di me”.
“Si, Rosalie, sappiamo tutti che assassina professionista tua sia”, ringhiai.
Lei mi sibilò contro, furiosa.
“Edward, per favore”, disse Carlisle. Poi si rivolse a Rosalie. “Rosalie, mi voltai
dall’altra parte a Rochester perché sentivo che ti fosse dovuta giustizia. Gli uomini che hai
ucciso ti avevano violata mostruosamente. Questa situazione è diversa. La piccola Swan è
un’innocente”.
“Non c’è niente di personale, Carlisle”, disse Rosalie tra i denti. “E’ per proteggere
noi tutti”.
Ci fu un breve momento di silenzio mentre Carlisle rifletteva sulla risposta da dare.
Quando annuì con la testa, gli occhi di Rosalie s’illuminarono. Avrebbe dovuto conoscerlo
meglio. Quand’anche non fossi stato in grado di leggerne i pensieri, avrei potuto
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anticiparne le successive parole. Carlisle non scendeva mai a compromessi.
“So che sei benintenzionata, Rosalie, ma…ci terrei davvero a che la nostra famiglia
valesse la pena di essere protetta. Un’accidentale…disgrazia o perdita di controllo
costituisce una parte deplorevole di ciò che siamo”. Era proprio da lui includere sé stesso
nel plurale, quantunque non avesse mai commesso una tale mancanza. “Assassinare una
ragazzina innocente a sangue freddo è una cosa completamente differente. Credo che il
rischio che lei rappresenta, sia che parli o meno dei suoi sospetti, sia niente messo a
confronto di un rischio assai più grande. Se facciamo delle eccezioni per proteggere noi
stessi, rischiamo qualcosa di molto più importante. Rischiamo di perdere l’essenza di chi
siamo”.
Controllai la mia posa attentamente. Non avrebbe dispiegato del tutto un enorme
sorriso. Né avrebbe applaudito, come invece desideravo fare.
Rosalie si accigliò. “Si tratta solo di comportarsi responsabilmente”.
“Si tratta di essere disumani”, la corresse gentilmente Carlisle. “Ogni singola vita è
preziosa”.
Rosalie sospirò profondamente e mise il broncio. Emmett le diede una pacca leggera
sulla spalla. “Andrà tutto bene, Rose” la incoraggiò a bassa voce.
“La questione”, continuò Carlisle, “è se dobbiamo andarcene oppure no?”
“No”, si lagnò Rosalie. “Ci siamo appena sistemati. Non voglio ricominciare il
secondo anno delle superiori!”
“Potresti conservare la tua età attuale, naturalmente”, disse Carlisle.
“E doversi trasferire di nuovo con un tale anticipo?” replicò.
Carlisle scrollò le spalle.
“Mi piace qui! C’è così poco sole, cominciavamo quasi ad essere normali”.
“Beh, certamente non dobbiamo decidere adesso. Possiamo aspettare e vedere se
diventa necessario. Edward sembra sicuro che la piccola Swan manterrà il silenzio”.
Rosalie sbuffò.
Ma non ero più preoccupato per Rose. Potevo vedere che avrebbe accettato la
decisione di Carlisle, non importava quanto fosse in collera con me. La loro conversazione
si era spostata su dettagli irrilevanti.
Jasper restava immobile.
Capivo perché. Prima che lui ed Alice s’incontrassero, aveva vissuto in una zona di
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combattimento, un implacabile teatro di guerra. Sapeva quali fossero le conseguenze del
farsi beffa delle regole – ne aveva visto la raccapricciante evoluzione con i suoi stessi
occhi.
La diceva lunga il fatto che non aveva cercato di calmare Rosalie con le sue facoltà
supplementari, e che adesso non tentava neppure di farla innervosire. Stava tenendosi in
disparte da questa discussione – al di sopra della stessa.
“Jasper”, dissi.
Incrociò il mio sguardo, il suo viso non esprimeva alcuna emozione.
“Non pagherà per i miei errori. Non lo permetterò”.
“Perciò ne trarrà vantaggio? Sarebbe dovuta morire oggi, Edward. Rimetterei
semplicemente le cose a posto”.
Mi ripetei, enfatizzando ogni parola. “Io non lo permetterò”.
Sollevò bruscamente le sopracciglia. Non se l’aspettava – non aveva immaginato
che avrei fatto in modo di fermarlo.
Scosse la testa una volta. “Non permetterò che Alice viva nel pericolo, foss’anche
un pericolo minimo. Non provi per nessuno ciò che io sento per lei, Edward, e non hai
passato quello che ho passato io, che tu abbia visto o meno nei miei ricordi. Non puoi
capire”.
“Non lo sto mettendo in discussione, Jasper. Ma ti dico, ora, che non ti permetterò
di fare del male ad Isabella Swan”.
Ci squadravamo a vicenda – non per guardarci, ma per valutare l’avversario. Lo
sentivo saggiare l’umore che mi circondava, per testare la mia determinazione.
“Jazz”, disse Alice, interrompendoci.
Lui sostenne il mio sguardo per un altro momento, e poi si voltò verso di lei. “Non
disturbarti a dirmi che sei in grado di proteggere te stessa, Alice. Lo so già. Devo ancora -”
“Non è quello che stavo per dire”, lo interruppe Alice. “Stavo per chiederti un
favore”.
Vidi quello che aveva in mente, e la mia bocca si spalancò rantolando
rumorosamente. La fissai, sconvolto, solo vagamente consapevole che tutti tranne Alice e
Jasper mi stavano squadrando diffidenti.
“Lo so che mi ami. Grazie. Ma apprezzerei davvero che non cercassi di uccidere
Bella. Prima di tutto, perché Edward fa sul serio e non voglio che voi due litighiate. In
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secondo luogo, perché lei è una mia amica. Quantomeno, lo diventerà”.
Era trasparente come il vetro nella sua mente: Alice, sorridente, con il braccio
marmoreo attorno alle calde, fragili spalle della ragazza. E Bella, anche lei sorridente, con
un braccio attorno alla vita di Alice.
La visione era solida come la roccia; solo la collocazione temporale era incerta.
“Ma…Alice…” Jasper rimase senza fiato. Non riuscii a voltare la testa per vederne
l’espressione. Ero incapace di distogliere lo sguardo dall’immagine nella mente di Alice
per poterlo ascoltare.
“Le vorrò bene un giorno, Jazz. Mi arrabbierò moltissimo con te se non la lascerai
stare”.
Ero ancora incatenato ai pensieri di Alice. Vidi il futuro brillare non appena la
determinazione di Jasper vacillò di fronte alla sua inaspettata richiesta.
“Ah”, sospirò – l’indecisione di lui aveva palesato un nuovo futuro. “Vedi? Bella
non dirà niente. Non c’è nulla da temere”.
Il modo in cui aveva pronunciato il nome della ragazza…come se fossero già in
stretta confidenza…
“Alice”, m’imballai. “Cosa…questo…?”
“Te l’ho detto che era in arrivo un cambiamento. Non lo so, Edward”. Ma aveva
serrato le mascelle, e capii che c’era qualcosa di più. Stava cercando di non pensarci;
d’improvviso si era concentrata duramente su Jasper, sebbene fosse troppo sbalordito per
fare granché progressi nel prendere una decisione.
Faceva così le volte che cercava di nascondermi qualcosa.
“Che c’è, Alice? Cosa mi stai nascondendo?”
Sentivo Emmett borbottare. S’irritava sempre quando Alice ed io avevamo questo
genere di conversazione.
Lei scuoteva la testa, cercando di tenermi fuori.
“Riguarda la ragazza?” domandai. “Riguarda Bella?”
Stringeva i denti per la concentrazione, ma nel sentirmi pronunciare il nome di Bella
commise un errore. La sua distrazione era durata soltanto la più piccola frazione di un
secondo, ma era stata lunga abbastanza.
“NO!” strillai. Ascoltai la mia sedia cadere sul pavimento, e solo dopo mi resi conto
di essermi alzato in piedi.
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“Edward!”. Anche Carlisle era in piedi, con un braccio attorno alla mia spalla. Ne
ero a malapena consapevole.
“Si sta solidificando”, bisbigliò Alice. “Ogni minuto che passa sei sempre più
determinato. Ci sono rimaste solamente due alternative per lei. L’una o l’altra, Edward”.
Vedevo ciò che vedeva…ma non potevo accettarlo.
“No”, ripetei; il mio rifiuto era uscito muto. Le gambe mi parvero svuotarsi, e
dovetti aggrapparmi forte al tavolo.
“Qualcuno per favore può metterci a parte di questo mistero?” reclamò Emmett.
“Devo andarmene” dissi ad Alice con un filo di voce, ignorandolo.
“Edward, ne abbiamo già discusso”, disse Emmett con veemenza. “E’ la maniera
migliore d’indurre la ragazza a parlare. Oltretutto, se tagli la corda, non potremo sapere
con certezza se ha parlato o no. Devi restare ed affrontare la cosa”.
“Non ti vedo andare da nessuna parte, Edward” mi disse Alice. “Non so se puoi
andartene oramai”. Pensaci, aggiunse silenziosamente. Pensa al fatto di partire.
Capivo cosa intendeva. Si, l’idea di non vedere mai più la ragazza era…dolorosa.
Ma era anche necessaria. Non potevo sancire alcuno dei due futuri cui apparentemente
l’avevo condannata.
Non sono del tutto sicura di Jasper, Edward, continuò Alice. Se te ne vai, se lui
dovesse pensare che lei sia un pericolo per noi…
“Questo non lo sento”, la contraddissi, ancora consapevole solo a metà del nostro
auditorio. Jasper era esitante. Non avrebbe fatto nulla che avrebbe ferito Alice.
Non in questo preciso momento. Rischieresti la sua vita, lasciandola indifesa?
“Perché mi stai facendo questo?” gemetti. La testa mi cadde tra le mani.
Non ero il protettore di Bella. Non potevo esserlo. Il futuro diviso di Alice non ne
era una prova sufficiente?
Anch’io le voglio bene. O gliene vorrò. Non allo stesso modo, ma voglio che resti in
circolazione per questo.
“Anche tu le vuoi bene?”, mormorai, incredulo.
Lei sospirò. Sei così cieco, Edward. Non vedi dove sei diretto? Non vedi a che punto
sei già arrivato? E’ inevitabile più del sole che sorge ad est. Guarda cosa vedo…
Scossi la testa, orripilato. “No”. Cercai di respingere le visioni che mi rivelava.
“Non devo seguire quel corso. Andrò via. Cambierò il futuro”.
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“Puoi provarci”, disse, la sua voce era scettica.
“Oh, insomma!” muggì Emmett.
“Fa attenzione”, gli sibilò Rosalie. “Alice lo vede innamorato di un’umana! Proprio
nello stile di Edward!”. Emise un suono soffocato.
L’ascoltavo a stento.
“Cosa?” chiese Emmett, sbigottito. Poi la sua risata tonante echeggiò per la stanza.
“E’ questo che sta succedendo?”. Rise ancora. “Bella scalogna, Edward”.
Sentii la sua mano sulla spalla, e me ne liberai distrattamente. Non potevo prestargli
attenzione.
“Innamorato di un’umana?”. Ripeté Esme con un tono di voce sbalordito. “Della
ragazza che ha salvato oggi? Innamorato di lei?”
“Cosa vedi, Alice? Esattamente”, domandò Jasper.
Si era voltata verso di lui; io continuavo a fissarne il profilo con aria intontita.
“Dipende tutto dalla sua forza. O la ucciderà lui stesso” – si girò per incrociare di
nuovo il mio sguardo, con aria truce – “il che m’irriterebbe moltissimo, Edward, per non
parlare di quello che farebbe a te” – tornò a rivolgersi a Jasper, “oppure lei sarà una di noi
un giorno”.
Qualcuno emise un rantolo; non guardai per vedere chi.
“Non succederà!”. Urlavo di nuovo. “Nessuna delle due!”
Alice sembrava non ascoltarmi. “Dipende”, ripeté. “Potrebbe essere abbastanza
forte da non ucciderla – ma ci andrà vicino. Gli ci vorrà un’eccezionale capacità di
autocontrollo”, meditava. “Persino maggiore di quella di Carlisle. Potrebbe avere giusto
abbastanza forza… L’unica cosa per cui non è forte abbastanza è lo stare lontano da lei.
Quella è una causa persa”.
Non riuscivo a trovare la mia voce. Nessun altro sembrava riuscirci, in ogni caso. La
stanza era immobile.
Io fissavo Alice, e tutti fissavano me. Potevo vedere la mia espressione d’orrore da
cinque differenti punti di osservazione.
Dopo un lungo momento, Carlisle sospirò.
“Beh, questo…complica le cose”.
“Direi”, convenne Emmett. La sua voce era ancora prossima all’ilarità. Ci si poteva
contare che Emmett sarebbe riuscito a trovare del comico pure nella rovina della mia vita.
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“Suppongo che i piani rimangano comunque invariati”, disse Carlisle con aria
pensierosa. “Resteremo, e vedremo. Ovviamente, nessuno farà…del male alla ragazza”.
M’irrigidii.
“No”, disse Jasper con calma. “Posso accettarlo. Se Alice vede solamente due
possibilità -”
“No!”. La mia voce non era un grido o un ringhio o un guaito di disperazione, ma
una combinazione dei tre. “No!”
Dovevo andarmene, fuggire dal chiasso dei loro pensieri – il disgusto moralista di
Rosalie, l’umorismo di Emmett, l’infinita pazienza di Carlisle…
Peggio: l’assoluta sicurezza di Alice. La fiducia di Jasper in quella sicurezza.
Peggiore di tutti: la…gioia di Esme.
Uscii dalla stanza infuriato. Esme mi sfiorò il braccio mentre passavo, ma non
risposi al gesto.
Stavo correndo prim’ancora di essere fuori di casa. Superai il fiume con un solo
salto, e mi precipitai nella foresta. Aveva ricominciato a piovere, così forte che dopo pochi
attimi ero già inzuppato. La spessa parete d’acqua mi piaceva – innalzava un muro tra me
ed il resto del mondo. Mi rinchiudeva, permettendomi di restare da solo.
Corsi direttamente ad est, al di sopra ed attraverso le montagne, senza mai spezzare
la retta della mia direzione, finché non vidi le luci di Seattle dall’altra parte dello stretto.
Mi fermai prima di toccare i confini della civiltà umana.
Rinchiuso dalla pioggia, completamente solo, finalmente accettai di guardare
cos’avevo fatto – il modo in cui avevo mutilato il suo futuro.
Prima, la visione di Alice e della ragazza con le braccia l’una attorno all’altra – la
fiducia e l’amicizia erano così ovvie che gridavano da quell’immagine. I grandi occhi
color cioccolato di Bella non erano sconcertati in quella visione, ma ancora pieni di segreti
– in quel momento, parevano essere dei bei segreti. Non si sottraeva al braccio gelido di
Alice.
Cosa significava? Quanto sapeva? In quel fermo immagine di vita preso dal futuro,
cosa pensava di me?
Poi l’altra immagine, così simile, eppure adesso tinteggiata d’orrore. Alice e Bella,
con ancora le braccia l’una attorno all’altra in confidente amicizia. Ma ora non c’era più
differenza tra quelle braccia – entrambe erano bianche, lisce come il marmo, forti come
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l’acciaio. I grandi occhi di Bella non erano più color cioccolato. Le iridi erano di uno
scioccante, vivido rosso porpora. I segreti nascosti in quelli erano insondabili –
accettazione o desolazione? Era impossibile dirlo. Il suo viso era freddo ed immortale.
Rabbrividii. Non potei trattenere le domande, simili, ma differenti: cosa significava
– com’era successo? E cosa pensava di me adesso?
Potevo rispondere a quell’ultima. Se l’avessi relegata a quella vuota semi-vita per la
mia debolezza ed il mio egoismo, sicuramente mi avrebbe odiato.
Ma c’era un’altra immagine spaventosa – peggiore di ogni altra immagine che
avessi mai avuto in mente.
I miei occhi, resi di un rosso cupo dal sangue umano, gli occhi del mostro. Il corpo
straziato di Bella tra le mie braccia, di un pallore cinereo, prosciugato, senza vita. Era così
concreta, così nitida.
Non riuscivo a sopportare di guardarla. Non potevo accettarla. Cercavo di bandirla
dalla mia mente, cercavo di guardare qualcos’altro, qualunque altra cosa. Cercavo di
vedere ancora l’espressione vitale del suo viso che mi aveva ostruito la vista in quel
recente capitolo della mia esistenza. Era tutto inutile.
La cupa visione di Alice riempiva la mia mente, e mi contorcevo intimamente per
l’agonia che mi procurava. Contemporaneamente, il mostro dentro di me traboccava di
gioia, giubilante per la verosimile probabilità del suo successo. Mi dava la nausea.
Non era accettabile. Doveva esserci un modo per avere la meglio sul futuro. Le
visioni di Alice non mi avrebbero influenzato. Potevo scegliere un percorso differente.
C’era sempre un’alternativa.
Doveva esserci.
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5. Inviti
La scuola superiore. Non era più un purgatorio, adesso era semplicemente un inferno.
Tormento e fuoco…si, li avevo entrambi.
Stavo facendo tutto correttamente ora. Ogni “i” con il puntino ed ogni “t” con il
trattino. Nessuno poteva lagnarsi che mi stessi sottraendo alle mie responsabilità.
Per accontentare Esme e proteggere gli altri ero rimasto a Forks. Ero tornato alle
vecchie abitudini. Cacciavo non più del resto di loro. Ogni giorno, frequentavo la scuola
superiore e mi fingevo umano. Ogni giorno, restavo attentamente in ascolto di qualunque
cosa potesse esserci di nuova sui Cullen – non c’era mai niente di nuovo. La ragazza non
aveva fatto parola dei suoi sospetti. Si era limitata a ripetere la stessa storia ancora ed
ancora – io stavo vicino a lei e poi l’avevo tirata via – finché il suo impaziente uditorio
non si era annoiato e non aveva smesso di andare in cerca di ulteriori dettagli. Non c’era
pericolo. La mia condotta avventata non aveva danneggiato nessuno.
Nessuno tranne me.
Ero determinato a cambiare il futuro. Non mi ero assegnato il compito più facile, ma
non c’era altra alternativa con la quale potessi convivere.
Alice diceva che non ero abbastanza forte da riuscire a stare lontano dalla ragazza.
Le avrei provato che si sbagliava.
Mi ero convinto che il giorno più difficile sarebbe stato il primo. Verso la fine, ne
avevo avuta la certezza. Ma mi sbagliavo.
Mi aveva messo in difficoltà, sapendo che avrei urtato i sentimenti della ragazza.
Avevo confortato me stesso considerando che il suo male sarebbe stato niente più di una
puntura di spillo – solamente una microscopica fitta per essersi sentita rifiutata – in
confronto al mio. Bella era umana, e sapeva che io ero qualcos’altro, qualcosa di sbagliato,
qualcosa di spaventoso. Probabilmente si era sentita sollevata piuttosto che offesa quando
avevo voltato il viso dall’altra parte e finto che non esistesse.
“Ciao, Edward”, mi aveva salutato, quel primo giorno di ritorno a biologia. La sua
voce era stata affabile, amichevole, miglia e miglia distante da quella dell’ultima volta che
le avevo parlato.
Perché? Cosa voleva dire quel cambiamento? Aveva lasciato perdere? Aveva deciso
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di essersi immaginata l’intero episodio? Era forse possibile che mi avesse perdonato per
non aver mantenuto la mia promessa?
Le domande bruciavano come la sete che mi attaccava ogni volta che respiravo.
Un solo momento per guardarla negli occhi. Solo per vedere se potevo leggere lì le
risposte…
No. Non potevo concedermi nemmeno quello. Non se intendevo cambiare il futuro.
Avevo spostato di un pelo il mento nella sua direzione senza distogliere lo sguardo
dall’aula che avevo di fronte. Avevo annuito una volta, e poi avevo voltato il viso diritto
davanti a me.
Lei non mi aveva più parlato.
Quel pomeriggio, non appena le lezioni furono terminate, una volta finito
d’interpretare il mio ruolo, ero corso verso Seattle come già avevo fatto il giorno prima.
Sembrava che potessi gestire il dolore struggente leggermente meglio quando volavo
sopra il terreno, trasformando tutto quello che mi circondava in una macchia indistinta di
verde.
Questa corsa era diventata una mia abitudine quotidiana.
L’amavo? Non lo credevo. Non ancora. Tuttavia, non riuscivo a sbarazzarmi degli
scorci di Alice su quel futuro, e capivo quanto sarebbe stato facile cadere preda dell’inna-
moramento per Bella. Sarebbe stato esattamente come cadere: naturale. Il non permettere a
me stesso di amarla era l’opposto che cadere – era come arrampicarmi su una parete di
roccia, una mano dopo l’altra, un compito così estenuante che pareva avessi non più che la
forza di un mortale.
Era trascorso più di un mese, ed ogni giorno diventava più dura. Non aveva alcun
senso per me – continuavo ad aspettare che mi passasse, che diventasse più facile. Doveva
essere questo che intendeva Alice quando aveva predetto che non sarei stato capace di
stare lontano dalla ragazza. Aveva visto il dolore crescere ed intensificarsi. Ma potevo
gestire il dolore.
Non avrei distrutto il futuro di Bella. Se ero destinato ad amarla, allora non era
evitarla il minimo che potessi fare?
Evitarla era pressoché il massimo che potessi sopportare, tuttavia. Potevo fingere
d’ignorarla, e mai guardare dalla sua parte. Potevo fingere che non m’interessasse affatto.
Ma quello era il mio limite, solo una finzione e non la realtà.
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Ancora pendevo da ogni respiro che faceva, da ogni parola che diceva.
Avevo raggruppato i miei tormenti in quattro categorie.
Le prime due erano familiari. Il suo profumo ed il suo silenzio. O, piuttosto –
dovendomi assumere le mie responsabilità – la mia sete e la mia curiosità.
La sete era il più risalente dei miei tormenti. Era semplicemente mia abitudine,
oramai, non respirare affatto a biologia. Naturalmente, c’erano sempre le eccezioni –
quando dovevo rispondere a una domanda o qualcosa del genere, ed avevo bisogno di
fiato per parlare. Ogni volta che assaporavo il gusto dell’aria che circondava la ragazza,
succedeva proprio come la prima volta – il fuoco e l’urgenza e la brutale violenza disposti
a tutto pur di evadere. In quei momenti, era difficile aggrapparmi anche solo leggermente
alla ragione o controllarmi. E, proprio come la prima volta, il mostro dentro di me ruggiva,
vicinissimo alla superficie…
La curiosità era il più costante dei miei tormenti. La domanda non usciva mai dalla
mia testa: a cosa sta pensando adesso? Quando la sentivo sospirare silenziosamente.
Quando si attorcigliava distrattamente una ciocca di capelli attorno al dito. Quando si
precipitava in classe in ritardo. Quando tamburellava nervosamente il piede sul pavimento.
Ogni movimento che di sottecchi riuscivo a cogliere era un mistero esasperante. Quando
parlava con gli altri studenti umani, analizzavo ogni sua parola ed inflessione. Diceva
quello che pensava, o pensava a cosa avrebbe dovuto dire? A me pareva sempre che
cercasse di dire ciò che chi gli altri si aspettavano, e questo mi faceva pensare alla mia
famiglia ed alla nostra quotidianità fatta d’illusioni – eravamo più bravi in questo di
quanto non fosse lei. Sempreché non mi stessi sbagliando, immaginandomi semplicemente
delle cose. Perché avrebbe dovuto interpretare un ruolo? Lei era una di loro –
un’adolescente umana.
Mike Newton era il più sorprendente dei miei tormenti. Chi avrebbe mai
immaginato che quell’insignificante, noioso mortale potesse essere così esasperante?
Volendo essere giusti, avrei dovuto provare un pò di gratitudine nei confronti di quel
ragazzo irritante; più degli altri, riusciva a far parlare la ragazza. Imparavo così tanto di lei
grazie alle loro conversazioni – stavo ancora compilando la mia lista –, ma, al contrario, il
contributo di Mike a questo progetto mi faceva solamente adirare di più. Non volevo che
fosse Mike a svelarne i segreti. Volevo farlo io.
Era d’aiuto il fatto che non si rendeva mai conto delle sue piccole rivelazioni, dei
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©2008 Stephenie Meyer
suoi microscopici errori di distrazione. Non sapeva niente di lei. Si era creato mentalmente
un’immagine di Bella che non esisteva – solo una ragazza insignificante quanto lui. Non si
era accorto dell’altruismo e del coraggio che la mettevano al di sopra degli altri esseri
umani, non si era reso conto della singolare maturità dei pensieri che esprimeva. Non
aveva percepito che quando parlava di sua madre, suonava come un genitore che parla di
un bambino invece del contrario – affettuosa, indulgente, lievemente divertita, e
ferocemente protettiva. Non sentiva la pazienza nel tono della sua voce quando simulava
interesse per le sue storie incoerenti, e non indovinava la gentilezza che quella pazienza
nascondeva.
Grazie alle sue conversazioni con Mike, avevo potuto aggiungere la più importante
delle qualità alla mia lista, la più eloquente di tutte, tanto semplice quanto rara. Bella era
buona. Tutte le altre cose si sommavano a quell’intero – la gentilezza e l’auto privazione e
l’altruismo e l’amorevolezza ed il coraggio – era incommensurabilmente buona.
Queste utili scoperte, comunque, non mi avevano reso più tenero nei confronti del
ragazzo. La maniera possessiva in cui guardava Bella – come fosse un qualcosa da
acquisire – mi provocava quasi più delle sue volgari fantasie su di lei. Inoltre, stava
diventando più ottimista nei suoi riguardi, con il tempo, perché sembrava preferirlo a tutti
quelli che considerava rivali – Tyler Crowley, Eric Yorkie e, addirittura, sporadicamente,
anche me. Sistematicamente si sedeva sul suo lato del nostro tavolo prima che cominciasse
la lezione di biologia, per chiacchierare con lei, incoraggiato dai suoi sorrisi. Solo sorrisi
di cortesia, mi dicevo. Ciononostante, spesso mi deliziavo immaginando di fargli
attraversare l’aula con un manrovescio tale da schiantarlo contro la parete più
lontana…Probabilmente sarebbe rimasto ferito fatalmente…
Mike non pensava spesso a me come a un rivale. Dopo l’incidente, aveva temuto
che Bella ed io avremmo legato per via dell’esperienza condivisa, ma ovviamente era
risultato il contrario. All’epoca, era ancora irritato perché avevo scelto di dedicare a Bella
più attenzione che alle sue compagne. Ma ora che la ignoravo completamente così come
facevo con gli altri, non si curava più di me.
Cosa stava pensando adesso? Le sue attenzioni le erano gradite?
E, infine, l’ultimo dei miei tormenti, il più doloroso: l’indifferenza di Bella. Così
com’io la ignoravo, lei ignorava me. Non aveva più cercato di parlarmi. Per quanto ne
sapevo, neanche mi pensava mai.
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Il che avrebbe potuto portarmi all’esasperazione – o addirittura spezzare la mia
determinazione a cambiare il futuro –, senonché qualche volta mi fissava come già prima.
Non lo vedevo da me stesso, perché non permettevo a me stesso di guardarla, ma Alice ci
avvertiva sempre quando era in procinto di guardarci; gli altri diffidavano ancora di quel
suo problematico essere a conoscenza.
Alleviava un poco il dolore che di tanto in tanto mi fissasse da lontano. Ovviamente,
solamente per domandarsi che genere di mostro fossi.
“Bella fisserà Edward a momenti. Fate in modo di sembrare normali”, disse Alice
un martedì di marzo, e gli altri fecero attenzione ad agitare e spostare il peso del proprio
corpo come gli umani; l’assoluta immobilità era una caratteristica della nostra specie.
Avevo fatto caso a quanto spesso guardasse nella mia direzione. Ero contento,
sebbene non avrei dovuto, che la frequenza non diminuiva con il passare del tempo. Non
sapevo cosa significasse, però mi faceva stare meglio.
Alice sospirò. Vorrei…
“Stanne fuori, Alice”, dissi a bassa voce. “Non succederà”.
Mise il broncio. Alice era ansiosa di allacciare la prevista amicizia con Bella.
Stranamente, le mancava quella ragazza che non conosceva.
Lo ammetto, sei più bravo di quanto pensassi. A causa tua il futuro è di nuovo
completamente ingarbugliato e privo di senso. Spero tu sia soddisfatto.
“Ha parecchio senso per me”.
Grugnì delicatamente.
Cercai di tagliarla fuori, ero troppo impaziente per fare conversazione. Non ero
granché di buonumore – più teso di quanto non dessi loro a vedere. Solo Jasper era
consapevole di quanto profondamente mi sentissi lacerato, potendo avvertire lo stress che
propagava da me con la sua eccezionale abilità di percepire ed insieme influenzare
l’umore degli altri. Non capiva le ragioni alla base degli umori, tuttavia, e – poiché ero
costantemente di cattivo umore in quei giorni – non se ne curò.
Oggi sarebbe stato un giorno duro. Più difficile del giorno precedente, per come si
stava mettendo.
Mike Newton, l’odioso ragazzo che non potevo permettermi di considerare un
rivale, intendeva chiedere a Bella un appuntamento.
Un ballo in cui erano le ragazze che facevano gli inviti era alle porte, e lui aveva
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sperato davvero che Bella lo invitasse. Cosa che non aveva fatto, facendone così vacillare
la sicurezza di sé. In quel momento si trovava in una posizione imbarazzante – godevo del
suo malessere più di quanto non avrei dovuto – perché Jessica Stanley lo aveva appena
invitato al ballo. Lui non voleva dirle di si, sperando ancora che Bella avrebbe scelto lui
(dimostrando ai suoi rivali quanto li superasse), ma non voleva neppure dire di no e finire
col perdersi completamente il ballo. Jessica, ferita dalla sua esitazione ed immaginandone
la ragione, stava pensando le cose peggiori su Bella. Di nuovo, mi venne l’istinto di
piazzarmi tra i pensieri minacciosi di Jessica e Bella. Capivo quell’istinto molto meglio
adesso, il che serviva solo a renderlo più frustrante poiché non potevo assecondarlo.
Pensare di essere arrivato a quel punto! Ero totalmente assorbito dagli insignificanti
drammi della scuola superiore che un tempo avevo tanto disprezzato.
Mike stava cercando di mantenere i nervi saldi intanto che accompagnava Bella a
biologia. Ascoltavo il suo conflitto interiore mentre ne attendevo l’arrivo. Il ragazzo era un
mediocre. Aveva aspettato questo ballo di proposito, per il timore di rivelare la sua
infatuazione prima che lei desse dimostrazione di una marcata preferenza nei suoi
riguardi. Non voleva esporre sé stesso ad un rifiuto, preferendo che fosse lei a fare il primo
passo.
Codardo.
Era nuovamente seduto al nostro tavolo, a suo agio per la lunga familiarità del gesto,
ed immaginai il suono che avrebbe fatto il suo corpo se fosse andato a cozzare contro la
parete opposta con una forza sufficiente a rompergli la maggior parte delle ossa.
“Sai”, disse alla ragazza, con gli occhi rivolti al pavimento. “Jessica mi ha invitato
al ballo di primavera”.
“E’ grandioso”, aveva risposto immediatamente Bella e con entusiasmo. Era
difficile non sorridere mentre il tono della sua voce faceva presa sulla coscienza di Mike.
Aveva sperato che sarebbe stato costernato. “Ti divertirai tantissimo con Jessica”.
Si dibatteva nel cercare la risposta giusta da dare. “Beh…” esitò, e quasi si tirò
vigliaccamente indietro. Poi si riprese. “Le ho detto che dovevo pensarci”.
“Perché l’hai fatto?” chiese. Il suo tono era di disapprovazione, ma conteneva pure
una minuscola traccia di sollievo.
Cosa voleva dire quello? Una furia inaspettata, intensa mi fece stringere i pugni.
Mike non aveva percepito il sollievo. Il suo viso era avvampato di sangue – feroce
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quanto d’improvviso mi sentivo, questo sembrava un invito – ed era tornato a fissare il
pavimento mentre parlava.
“Mi stavo chiedendo se…beh, se magari non avessi pensato d’invitarmi”.
Bella esitò.
In quel suo momento di esitazione, potei vedere il futuro assai più chiaramente di
quanto non avesse mai fatto Alice.
La ragazza avrebbe potuto rispondere di si all’invito implicito di Mike adesso,
oppure avrebbe potuto non farlo, ma in ogni caso, presto o tardi avrebbe detto di si a
qualcuno. Era intrigante e deliziosa, ed i maschi della razza umana non ne erano
inconsapevoli. Sia che si fosse accontentata di qualcuno di quella scialba compagine, sia
che avesse aspettato di essere libera da Forks, sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe
detto si.
Immaginai la sua vita come già avevo fatto prima – università, carriera…amore,
matrimonio. La vidi di nuovo sottobraccio al padre, vestita di un bianco trasparente, con il
viso raggiante di felicità mentre avanzava al suono della marcia di Wagner.
Il dolore era superiore a qualunque cosa avessi mai provato prima. Un essere umano
si sarebbe trovato in punto di morte a provare questo dolore – un essere umano non gli
sarebbe sopravvissuto.
E non solo dolore, ma rabbia vera e propria, assoluta.
La furia agognava un qualche sfogo tangibile. Quantunque quell’insignificante,
immeritevole ragazzo potesse non essere quello cui Bella avrebbe detto si, bramavo di
frantumarne il cranio stringendolo nella mano, per lasciarlo farsi rappresentante di
chiunque fosse.
Non comprendevo quell’emozione – era una tale groviglio di dolore e rabbia e
desiderio e disperazione. Non mi ero mai sentito così prima di allora; non avrei saputo
darle un nome.
“Mike, penso che dovresti dirle di si”, Bella aveva risposto con voce gentile.
Le speranze di Mike precipitarono. Me ne sarei compiaciuto in altre circostanze, ma
ero perso nella ricaduta del dolore – e del rimorso per ciò che il dolore e la rabbia mi
avevano fatto.
Alice aveva ragione. Non ero forte abbastanza.
Proprio adesso, Alice stava probabilmente guardando il futuro che vorticava e si
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avviluppava, nuovamente indistinto. Le avrebbe fatto piacere?
“L’hai già chiesto a qualcuno?” chiese Mike astioso. Mi lanciò un’occhiata,
sospettoso per la prima volta dopo tante settimane. Mi resi conto di aver tradito il mio
interesse; la mia testa era inclinata in direzione di Bella.
L’invidia che si era scatenata nei suoi pensieri – invidia per chiunque questa ragazza
gli preferisse – d’improvviso aveva dato un nome alla mia emozione ancora senza nome.
Ero geloso.
“No” disse la ragazza con una traccia d’umorismo nella voce. “Non intendo proprio
venire al ballo”.
Al di là del rimorso e della rabbia, mi sentii rinfrancato dalle sue parole.
Inaspettatamente, cominciai a valutare i miei rivali.
“Perché no?” chiese Mike, con un tono quasi rude. Mi offendeva che usasse un
simile tono con lei. Mi trattenni dal ringhiare.
“Quel sabato me ne vado a Seattle”, rispose.
La curiosità non era tanto morbosa quanto lo sarebbe stata prima – ora che ero del
tutto intenzionato a scoprire le risposte ad ogni cosa. Avrei saputo i come ed i perché di
quella nuova rivelazione molto presto.
Il tono della voce di Mike diventò sgradevolmente adulatorio. “Non puoi andarci un
altro fine settimana?”
“No, mi dispiace”. Bella era più scostante ora. “Perciò non dovresti far aspettare
Jessica più a lungo – è scortese”.
La sua preoccupazione per i sentimenti di Jessica ravvivò le fiamme della mia
gelosia. Questo viaggio a Seattle era chiaramente una scusa per dire di no – aveva rifiutato
esclusivamente per lealtà nei confronti della sua amica? Era più che abbastanza altruista
per una cosa del genere. In realtà avrebbe voluto poter dire di si? O entrambe quelle
supposizioni erano sbagliate? Era interessata a qualcun altro?
“Si, hai ragione”, borbottò Mike, talmente demoralizzato che quasi mi fece pena.
Quasi.
Distolse gli occhi dalla ragazza, privandomi della vista del viso di lei attraverso i
suoi pensieri.
Non intendevo tollerarlo.
Mi voltai io stesso a leggere il suo viso, per la prima volta dopo più di un mese. Era
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un immenso sollievo permettermelo, come una boccata d’aria nei polmoni di un umano
rimasti troppo a lungo in apnea.
I suoi occhi erano chiusi, e le mani premevano contro i lati del viso. Le spalle erano
incurvate in avanti, sulla difensiva. Scuoteva la testa impercettibilmente, come se stesse
cercando di cacciar via un qualche pensiero dalla propria mente.
Frustrante. Affascinante.
La voce del Signor Banner la strappò alle sue fantasticherie, ed i suoi occhi si
aprirono lentamente. Si voltò immediatamente a guardarmi, forse percependo che la stavo
fissando. Guardò dentro ai miei occhi con la stessa espressione sbigottita che mi aveva
perseguitato tanto a lungo.
Non sentivo il rimorso o il senso di colpa o la rabbia. Sapevo che sarebbero tornati,
e presto, ma in quest’unico momento cavalcavo un’ignota, tumultuosa eccitazione. Come
se avessi trionfato, invece che perso.
Non spostò altrove lo sguardo, benché la stessi fissando con un fervore fuori luogo,
cercando invano di leggere i suoi pensieri attraverso il castano fondente dei suoi occhi.
Erano pieni di domande, invece che di risposte.
Riuscivo a scorgere il riflesso dei miei stessi occhi, e vedevo che erano neri per la
sete. Erano trascorse quasi due settimane dalla mia ultima battuta di caccia; oggi non era il
giorno migliore per far crollare la mia volontà. Ma la nerezza non pareva spaventarla.
Ancora non spostava altrove lo sguardo, ed un rosa tenue, attraente in maniera devastante
aveva cominciato a colorarle la pelle.
Cosa stava pensando adesso?
Quasi pronunciai la domanda ad alta voce, ma in quel momento il Signor Banner
chiamò il mio nome. Afferrai la risposta corretta nella sua mente mentre gettavo
laconicamente uno sguardo nella sua direzione.
Aspirai velocemente un pò di fiato. “Il Ciclo di Krebs”.
La sete bruciava graffiante nella mia gola – contraendo i miei muscoli e
riempiendomi la bocca di veleno – e chiusi gli occhi, cercando di concentrarmi sul
desiderio del suo sangue che infuriava dentro di me.
Il mostro era più forte di prima. Il mostro stava godendo. Abbracciava il duplice
futuro che gli rendeva giustizia, con il cinquanta per cento delle possibilità rispetto a quel
che bramava tanto brutalmente. Il terzo, traballante futuro che avevo cercato di costruire
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con la mia sola forza di volontà era andato in pezzi – distrutto dalla comune gelosia, tra
tutte le cose – e lui era molto più vicino a raggiungere il suo obiettivo.
Il rimorso ed il senso di colpa bruciavano insieme alla sete e, se avessi avuto la
capacità di produrre le lacrime, avrebbero riempito i miei occhi ora.
Cos’avevo fatto?
Sapendo di aver già perso la battaglia, non sembrava ci fossero più ragioni di
resistere a ciò che volevo; mi voltai di nuovo a guardare la ragazza.
Si era nascosta dietro i capelli, ma potevo vedere attraverso una breccia tra la
chioma che le sue guance adesso erano di un intenso color porpora.
Al mostro la cosa piaceva.
Non incrociò più il mio sguardo, ma si rigirò nervosamente una ciocca di capelli
scuri tra le dita. Le sue dita sottili, il suo polso delicato – erano così fragili, che pareva
proprio che un mio solo respiro potesse spezzarli.
No, no, no. Non potevo farlo. Lei era troppo fragile, troppo buona, troppo preziosa
per meritare un simile destino. Non potevo permettere a me stesso di entrare in collisione
con lei, di distruggerla.
Ma non potevo nemmeno starle lontano. Alice aveva ragione su questo.
Il mostro dentro di me sibilava per la frustrazione mentre oscillavo indeciso,
propendendo prima da una parte, e poi dall’altra.
La mia breve ora insieme a lei era trascorsa fin troppo velocemente, mentre restavo
in bilico tra l’incudine e il martello. La campanella suonò, e lei iniziò a raccogliere le sue
cose senza guardarmi. Il che mi deluse, ma difficilmente mi sarei potuto aspettare
altrimenti. Il modo in cui l’avevo trattata dal giorno dell’incidente era imperdonabile.
“Bella?” dissi, incapace di fermarmi. La mia forza di volontà era già ridotta a
brandelli.
Lei esitò prima di guardarmi; quando si voltò, la sua espressione era guardinga,
diffidente.
Ricordai a me stesso che aveva ogni diritto di non fidarsi di me. Che non avrebbe
dovuto farlo.
Aspettava che continuassi, ma io mi limitavo a guardarla, leggendo il suo viso.
Aspiravo delle superficiali boccate d’aria ad intervalli regolari, combattendo la sete.
“Cosa?” disse alla fine. “Hai deciso di parlarmi di nuovo?”. C’era una punta di
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risentimento nel tono della sua voce che, al pari della sua rabbia, suscitava tenerezza. Mi
faceva venire voglia di sorridere.
Non ero sicuro di come rispondere alla sua domanda. Avevo deciso di parlarle di
nuovo, nel senso che intendeva lei?
No. Non se potevo impedirlo. Avrei cercato d’impedirlo.
“No, non esattamente”, le dissi.
Lei chiuse gli occhi, il che era frustrante per me. Mi tagliava fuori dalla via migliore
di cui disponevo per accedere ai suoi sentimenti. Fece un lungo, lento respiro senza aprire
gli occhi. Le sue mascelle erano serrate.
Continuando a tenere gli occhi chiusi, parlò. Sicuramente non era una maniera di
conversare usuale per un umano. Perché lo faceva?
“Allora cosa vuoi, Edward?”
Il suono del mio nome sulle sue labbra faceva delle strane cose al mio corpo. Se
avessi avuto un battito cardiaco, avrebbe accelerato.
Ma come risponderle?
Con la verità, decisi. Sarei stato quanto più onesto possibile con lei da questo
momento in poi. Non volevo meritare la sua sfiducia, sebbene guadagnarmi la sua fiducia
fosse impossibile.
“Mi dispiace”, le dissi. Era più vero di quanto non avrebbe mai saputo.
Sfortunatamente, in tutta sincerità potevo solamente scusarmi per la mia villania. “Sono
stato davvero maleducato, lo so. Ma è meglio così, veramente”.
Sarebbe stato meglio per lei se avessi mantenuto il punto, continuando ad essere
maleducato. Potevo farlo?
I suoi occhi si spalancarono, la sua espressione era ancora diffidente.
“Non capisco che vuoi dire”.
Tentai di metterla sull’avviso quanto più mi fosse consentito. “E’ meglio se non
diventiamo amici”. Sicuramente, questo poteva capirlo bene. Era una ragazza brillante.
“Fidati di me”.
I suoi occhi diventarono due fessure, e ricordai di averle già detto quelle parole
prima di allora – proprio prima d’infrangere una promessa. Sussultai quando serrò i denti
– chiaramente se n’era ricordata anche lei.
“E’ un vero peccato che tu non l’abbia capito prima”, disse collerica. “Avresti
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potuto risparmiare a te stesso tutto questo rammarico”.
La fissai stupito. Che ne sapeva lei del mio rammarico?
“Rammarico? Rammarico per cosa?” domandai.
“Per non aver semplicemente lasciato che quello stupido furgoncino mi riducesse in
poltiglia” schioccò.
Raggelai, stordito.
Come poteva pensarlo? Salvarle la vita era l’unica cosa accettabile che avessi fatto
da quando l’avevo incontrata. La sola cosa di cui non mi vergognassi. La sola ed unica
cosa che in assoluto mi rendeva felice di esistere. Stavo lottando per tenerla in vita da quel
primo momento che ne avevo afferrato il profumo. Come poteva pensare questo di me?
Come osava mettere in dubbio la bontà della mia azione rivoltandola in questo modo?
“Pensi che mi rammarichi di averti salvato la vita?”
“Io so che lo fai”, replicò.
L’opinione che si era fatta delle mie intenzioni mi fece bollire di rabbia. “Tu non sai
niente”.
Quanto confusi ed incomprensibili erano i meccanismi della sua mente! Il modo di
lavorare del suo pensiero doveva essere del tutto differente da quello degli altri esseri
umani. Doveva essere quella la spiegazione alla base del silenzio della sua mente. Era del
tutto fuori della norma.
Allontanò di scatto il suo viso, stringendo nuovamente i denti. Le sue guance erano
avvampate, ma per la collera stavolta. Fece sbattere i libri mentre li impilava, con uno
strattone li prese tra le braccia e marciò verso la porta senza incrociare il mio sguardo.
Perfino irritato com’ero, era impossibile non trovare la sua rabbia un filo divertente.
Camminava impettita, senza guardare dove andava, ed il suo piede incappò nello
stipite della porta. Inciampò, e le sue cose caddero tutte a terra. Invece di piegarsi per
raccoglierle, se ne restava dritta come un fuso, senza neppure guardare giù, come se non
fosse sicura che i libri valessero la pena di essere recuperati.
Riuscii a non scoppiare a ridere.
Non c’era nessuno lì che potesse vedermi; volai al suo fianco, e prima che potesse
abbassare lo sguardo avevo già riordinato i suoi libri.
Si piegò a metà, mi vide, e poi si bloccò. Le resi i libri, assicurandomi che la mia
pelle ghiacciata non toccasse la sua.
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“Grazie”, disse con voce gelida, dura.
Il suo tono mi fece rimontare la rabbia.
“Non c’è di che”, le dissi altrettanto gelidamente.
Si tirò su e si avviò con passo pesante verso la lezione successiva.
Rimasi a guardare finché non potei più distinguerne la sagoma infuriata.
La lezione di spagnolo passò sfocata. La Signora Goff non reclamava mai per la mia
distrazione – sapeva che il mio spagnolo era superiore al suo, e mi concedeva ampi spazi
di manovra – lasciandomi libero di pensare.
Perciò, non potevo ignorare la ragazza. Quello era piuttosto ovvio. Ma questo
voleva dire per forza che non avevo altra alternativa se non quella di distruggerla? Quello
non poteva essere il solo futuro disponibile. Doveva esserci un’altra alternativa, un
qualche fragile equilibrio. Cercavo di pensare a un modo…
Non prestai particolare attenzione ad Emmett finché l’ora non fu quasi terminata.
Era curioso – Emmett non era eccessivamente intuitivo per quel che concerneva le
sfumature degli umori degli altri, ma poteva vedere l’evidente cambiamento che avevo
subito. Si chiedeva cosa fosse successo per far scomparire dal mio viso l’implacabile
espressione truce. Si sforzava di trovare una definizione per quel cambiamento, e alla fine
decise che sembravo ottimista.
Ottimista? Era così che sembravo visto dall’esterno?
Meditavo su quell’impressione di ottimismo mentre camminavamo verso la Volvo,
domandandomi per cosa esattamente sarei dovuto essere ottimista.
Ma non potei meditare a lungo. Sensibile com’ero ai pensieri che riguardavano la
ragazza, il suono del nome di Bella nelle menti dei…dei miei rivali, suppongo che dovessi
riconoscerlo, catturò la mia attenzione. Eric e Tyler, avendo appreso – con grande
soddisfazione – del fallimento di Mike, stavano preparandosi a fare le loro mosse.
Eric era già in posizione, poggiato contro il pick-up di modo che lei non avrebbe
potuto evitarlo. La classe di Tyler si era protratta oltre l’orario per l’assegnazione di un
compito, e lui andava disperatamente di fretta per raggiungerla prima che gli sfuggisse.
Questo lo dovevo vedere.
“Resta qui ad aspettare gli altri, d’accordo?” mormorai ad Emmett.
Lui mi guardò con sospetto, ma poi scrollò le spalle ed annuì.
Il ragazzo ha perso la testa, pensò, divertito dalla mia strana richiesta.
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Vidi Bella che usciva dalla palestra, ed aspettai che mi superasse dove sapevo che
non mi avrebbe notato. Come fu più vicina all’imboscata di Eric, avanzai di buon passo,
misurando la falcata in modo da trovarmi a passare al momento giusto.
Notai che il corpo le s’irrigidì quando si accorse del ragazzo che la stava aspettando.
Per un momento rimase immobile, poi si rilassò e proseguì.
“Ciao, Eric”, la sentii salutarlo in tono amichevole.
Ero improvvisamente ed inaspettatamente ansioso. E se quel ragazzino allampanato
dall’aria malaticcia le fosse in qualche modo risultato gradevole?
Eric deglutì rumorosamente, il suo pomo d’Adamo andava su e giù. “Ciao, Bella”.
Lei sembrava non accorgersi del suo nervosismo.
“Che succede?” chiese, aprendo il pick-up con la chiave senza guardarne
l’espressione impaurita.
“Uh, mi stavo solo chiedendo se…verresti al ballo di primavera insieme a me?”.
Balbettava.
Finalmente alzò lo sguardo. Si sentiva colta alla sprovvista, o compiaciuta? Eric non
aveva il coraggio d’incrociarne lo sguardo, perciò non potevo vederne il viso nei suoi
pensieri.
“Pensavo che spettasse alle ragazze fare gli inviti”, disse, apparentemente agitata.
“Beh, si” ammise con aria infelice.
Questo miserando ragazzo non m’irritava quanto Mike Newton, ma non riuscii a
trovare in me stesso alcuna traccia di compassione per le sue pene finché Bella non gli
rispose con voce gentile.
“Grazie per avermelo chiesto, ma intendo andare a Seattle quel giorno”.
L’aveva già sentito dire; ciononostante, fu una delusione per lui.
“Oh”, borbottò, quasi osando alzare gli occhi al livello del naso di lei. “Magari la
prossima volta”.
“Sicuro”, convenne. Poi si morse il labbro inferiore, come pentita di avergli lasciato
aperto uno spiraglio. Il che mi piaceva.
Eric ciondolò in avanti e s’incamminò, puntando nella direzione sbagliata rispetto
alla sua macchina, pensando solo a scappare.
In quel momento le passai di fronte, e sentii il suo sospiro di sollievo. Mi misi a
ridere.
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Si voltò bruscamente a quel suono, ma io guardavo diritto davanti a me, cercando
d’impedire alle mie labbra di dispiegarsi per il divertimento.
Tyler era dietro di me, quasi di corsa per la fretta di raggiungerla prima che se ne
andasse via. Era più audace e sicuro di sé rispetto agli altri due; aveva aspettato così tanto
ad approcciare Bella solo perché rispettava la priorità delle pretese di Mike.
Volevo che la raggiungesse per due ragioni. Se – come cominciavo a sospettare –
tutte quelle attenzioni erano seccanti per Bella, volevo godermi la sua reazione. Ma, se
non lo erano – se l’invito di Tyler era quello nel quale aveva sperato – allora volevo
comunque saperlo.
Valutai Tyler Crowley come rivale, sapendo che era sbagliato farlo. A me sembrava
noiosamente mediocre ed ordinario, ma che ne sapevo di cosa preferiva Bella? Magari le
piacevano i ragazzi ordinari…
Rabbrividii al pensiero. Non sarei mai potuto essere un ragazzo ordinario. Quant’era
assurdo considerare me stesso come un possibile rivale per i suoi affetti. Come avrebbe
mai potuto avere a cuore qualcuno che, da qualunque prospettiva lo si considerasse, era un
mostro?
Lei era troppo buona per un mostro.
Avrei dovuto lasciarla scappare, ma la mia imperdonabile curiosità mi tratteneva dal
fare ciò che era giusto. Di nuovo. Ma se Tyler mancava la sua occasione adesso, solo per
contattarla più tardi quando non avrei avuto modo di conoscere la risposta? Feci uscire la
Volvo sulla stretta corsia, bloccandole l’uscita.
Emmett e gli altri si avvicinavano, ma lui gli aveva descritto il mio strano
comportamento, e camminavano lentamente, cercando di decifrare cosa stessi facendo.
Osservavo la ragazza dallo specchietto retrovisore. Guardava con aria truce il
posteriore della mia macchina senza incrociare il mio sguardo, con l’aria di desiderare di
essere alla guida di un carro armato piuttosto che di un vecchio pick-up Chevy arrugginito.
Tyler corse alla sua macchina e si mise in fila dietro di lei, grato per la mia condotta
incomprensibile. La salutò, cercando di attirarne l’attenzione, ma lei non lo notò. Lui
aspettò un momento, e poi scese dalla macchina, avvicinandosi con passo noncurante al
suo finestrino dal lato del guidatore. Picchiettò sul vetro.
Lei fece un balzo, e poi lo guardò confusa. Dopo un secondo, abbassò il finestrino
girando la manovella, apparentemente con qualche difficoltà.
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©2008 Stephenie Meyer
“Mi spiace, Tyler”, disse, la sua voce era irritata. “Sono bloccata dietro a Cullen”.
Disse il mio cognome con voce aspra – era ancora arrabbiata con me.
“Oh, lo so”, disse Tyler, senza lasciarsi scoraggiare dal suo umore. “Volevo soltanto
chiederti qualcosa mentre siamo intrappolati qui”.
Il suo sorriso spalancato era arrogante.
Ero gratificato dal modo in cui lei era impallidita di fronte alle sue ovvie intenzioni.
“M’inviterai al ballo di primavera?” chiese, senza pensare di poter essere rifiutato.
“Non sarò in città, Tyler”, gli disse, l’irritazione era ancora palese nella voce.
“Si, Mike me l’ha detto”.
“Allora perché -?” lo fissò per chiederglielo.
Lui scrollò le spalle. “Avevo sperato che stessi solamente scaricandolo con
gentilezza”.
I suoi occhi lampeggiarono, poi si calmò. “Mi spiace, Tyler”, disse, non sembrando
affatto dispiaciuta. “Sarò veramente fuori città”.
Lui accettò quella scusa, la sua autostima era illesa. “Che ficata. Ci rimane il ballo
di fine anno”.
Tornò impettito alla sua macchina.
Avevo avuto ragione a voler aspettare per questo.
L’espressione inorridita che aveva sul viso era inestimabile. Mi diceva ciò che non
avrei dovuto così disperatamente avere bisogno di sapere – che non nutriva alcun
sentimento per nessuno di questi maschi umani che desideravano farle la corte.
Inoltre, la sua espressione era probabilmente la cosa più buffa che avessi mai vista.
La mia famiglia mi raggiunse allora, confusa dal fatto che, per cambiare, stavo
sbellicandomi dalle risate invece che fissando con aria assassina tutto ciò che avevo a tiro.
Che c’è di tanto divertente? Emmett voleva sapere.
Mi limitai a scuotere la testa torcendomi di nuove risate mentre Bella mandava
rabbiosamente su di giri il suo rumoroso motore. Aveva nuovamente l’aria di desiderare
un carro armato.
“Andiamo!” sibilò Rosalie impazientemente. “Smettila di fare l’idiota. Se ne sei
capace”.
Le sue parole non mi disturbavano – ero troppo divertito. Ma feci come chiese.
Nessuno mi parlò mentre tornavamo a casa. Continuavo a ridacchiare sotto i baffi di
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quando in quando, pensando all’espressione di Bella.
Quando voltai per il viale di casa – accelerando adesso che non c’erano testimoni –
Alice guastò il mio umore.
“Perciò posso parlare con Bella adesso?” chiese all’improvviso, senza prima
riflettere sulle parole, perciò senza darmi alcun preavviso.
“No”, schioccai.
“Non è giusto! Cosa sto aspettando?”
“Non ho ancora deciso niente, Alice”
“Come vuoi, Edward”
Nella sua mente, i due destini di Bella erano di nuovo nitidi.
“A che scopo conoscerla?” borbottai, adombrandomi improvvisamente, “Se tanto
finirò per ucciderla?”
Alice esitò per un secondo. “Un punto per te”, ammise.
Imboccai l’ultimo tornante a centoquaranta chilometri l’ora, e poi frenai facendo
stridere le gomme ad un palmo dalla parete di fondo del garage.
“Goditi la corsa”, disse Rosalie con aria di sufficienza mentre mi precipitavo fuori
dalla macchina.
Ma non stavo andando a correre oggi. Stavo andando a caccia, invece.
Gli altri avevano programmato di andare a caccia domani, ma non potevo
permettermi di avere sete adesso. Esagerai, bevendo più del necessario, rimpinzandomi di
nuovo – un piccolo gruppo di alci ed un orso bruno in cui avevo avuto la fortuna
d’incappare in anticipo sulla stagione quest’anno. Ero talmente pieno che mi sentivo a
disagio. Perché non poteva essere abbastanza? Perché il suo profumo doveva essere tanto
più forte di qualunque altra cosa?
Avevo cacciato per prepararmi al giorno seguente, ma, quando non potei più
cacciare ed il sole era ancora ad ore ed ore dal sorgere, sapevo che domani non era
sufficientemente vicino.
Il tumulto dell’eccitazione m’investì di nuovo quando mi resi conto che stavo per
andare a trovare la ragazza.
Per tutto il tragitto fino a Forks discussi con me stesso, ma il mio lato meno nobile
prevalse in quella disputa, e proseguii con il mio piano indifendibile. Il mostro era agitato,
ma tenuto saldamente in catene. Sapevo che mi sarei mantenuto a distanza di sicurezza da
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lei. Volevo solamente sapere dove fosse. Volevo solamente vedere il suo viso.
Era passata mezzanotte, e la casa di Bella era buia e silenziosa. Il suo pick-up era
parcheggiato a ridosso del marciapiede, la radiomobile del padre sul vialetto. Non c’erano
pensieri coscienti da nessuna parte nel vicinato. Per un attimo mi fermai ad osservare la
casa dall’oscurità della foresta che la costeggiava ad est. La porta principale
probabilmente era inchiavata – nessun problema, eccetto che non volevo lasciarmi dietro
una porta scardinata come prova. Decisi di tentare prima con le finestre del piano
superiore. Poche persone si sarebbero disturbate ad installare delle serrature lì.
Attraversai il giardino esterno e scalai la facciata della casa in mezzo secondo.
Dondolando appeso al cornicione sopra la finestra con una mano, guardai attraverso il
vetro, e mi si fermò il respiro.
Era la sua camera. Potevo vederla nel suo piccolo letto singolo, con le coperte sul
pavimento e le lenzuola attorcigliate alle gambe. Mentre la osservavo, si contrasse
irrequieta e scaraventò un braccio al di sopra della testa. Non dormiva sonni tranquilli,
almeno non questa notte. Riusciva a percepire il pericolo che le era vicino?
Ero disgustato di me stesso mentre la guardavo rigirarsi ancora. Come potevo essere
migliore di un qualunque schifoso guardone? Non ero affatto migliore. Ero molto, molto
peggio.
Allentai la presa dalla punta delle dita, pronto a lasciarmi cadere. Ma prima mi
concessi d’indugiare una volta soltanto con lo sguardo sul suo viso.
Non era pacifico. C’era quella piccola ruga tra i suoi occhi, e gli angoli delle labbra
erano imbronciati. Le sue labbra tremarono, e poi si socchiusero.
“D’accordo, mamma”, borbottò.
Bella parlava nel sonno.
La curiosità si scatenò, sopraffacendo il disprezzo che provavo per me stesso. Il
richiamo di quei pensieri indifesi, inconsapevolmente formulati ad alta voce era
incredibilmente allettante.
Provai con la finestra, e non era bloccata, sebbene inceppata perché non veniva
aperta da lungo tempo. La feci scorrere lentamente di lato, sussultando ad ogni lieve
cigolio del telaio di metallo. Mi sarei dovuto procurare dell’olio per la prossima volta…
La prossima volta? Scossi la testa, nuovamente disgustato.
Mi lasciai scivolare silenziosamente attraverso la finestra semi aperta.
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La sua camera era piccola – disordinata ma non sporca. C’erano dei libri impilati sul
pavimento accanto al letto, con le costole rivoltate dall’altra parte, e dei CD sparpagliati
vicino al suo lettore di poco prezzo – quello in cima era solo una custodia trasparente. Un
mucchio di carte circondavano un computer che sembrava appartenere ad un museo
dedicato alla tecnologia obsoleta. Le scarpe erano sparse qua e là sul pavimento di legno.
Desideravo moltissimo poter leggere i titoli dei suoi libri e dei suoi CD, ma avevo
promesso a me stesso che mi sarei tenuto a distanza; invece, mi misi a sedere sulla vecchia
sedia a dondolo nell’angolo più lontano della stanza.
Davvero un tempo avevo creduto che avesse un aspetto ordinario? Ripensai a quel
primo giorno, ed al mio disprezzo per quei ragazzi che ne erano rimasti istantaneamente
affascinati. Ma a ricordarne ora il viso che avevano in mente, non riuscivo a capire perché
non l’avessi trovata splendida all’istante. Sembrava una cosa talmente ovvia.
Proprio ora – con i capelli scuri scompigliati ed arruffati attorno al volto pallido, con
indosso una maglietta consumata e piena di buchi ed un paio di malandati pantaloni della
tuta, con i lineamenti rilassati in stato d’incoscienza, e con le labbra leggermente
socchiuse – mi toglieva il respiro. O lo farebbe, pensai sarcasticamente, se stessi
respirando.
Non parlava. Forse il suo sogno era terminato.
Fissavo il suo viso e cercavo di pensare ad un qualche modo di rendere il futuro
accettabile.
Farle del male non era un’opzione accettabile. Significava che l’unica alternativa
rimastami era il tentare ancora una volta di andarmene?
Gli altri non potevano più dissuadermi adesso. La mia assenza non avrebbe messo
in pericolo nessuno. Non ci sarebbero stati sospetti, nessun possibile collegamento tra i
pensieri di chicchessia e l’incidente occorso.
Vacillavo come già questo pomeriggio, e niente sembrava possibile.
Non potevo sperare di rivaleggiare con i ragazzi umani, a prescindere che fosse o
meno attratta da questi ragazzi in particolare. Io ero un mostro. Come avrebbe potuto
vedermi diversamente? Se avesse saputa la verità su di me, l’avrebbe spaventata e
disgustata. Come la vittima designata di un film dell’orrore, sarebbe corsa via, gridando
terrorizzata.
Ricordavo il primo giorno a biologia…e sapevo che questa era propriamente la
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reazione giusta che doveva avere.
Era pura follia immaginare che se fossi stato io ad invitarla a quello stupido ballo,
avrebbe cancellato i piani che così frettolosamente aveva organizzato per acconsentire ad
andarci con me.
Non ero io quello cui era destinata a dire di si. Era qualcun altro, qualcuno di umano
e di caldo. E non potevo nemmeno concedermi – un giorno, quando quel si fosse stato
detto – di dargli la caccia ed ucciderlo, perché era colui che lei meritava, chiunque fosse.
Lei meritava felicità ed amore con chiunque avesse scelto.
Avevo il dovere di fare la cosa giusta per lei adesso; non potevo fingere più a lungo
che ero solo in pericolo d’innamorarmi di questa ragazza.
In fin dei conti, non aveva veramente importanza se me ne andavo, perché Bella non
avrebbe mai potuto guardarmi nel modo in cui desideravo che facesse. Non mi avrebbe
mai visto come qualcuno degno di essere amato.
Mai.
Può un cuore morto, congelato spezzarsi? Sembrava che il mio potesse.
“Edward”, disse Bella.
Mi paralizzai, fissando i suoi occhi ancora chiusi.
Si era svegliata sorprendendomi qui? Pareva addormentata, ma la sua voce era
suonata così limpida…
Sospirò appena un lamento, e poi si mosse nuovamente irrequieta, rotolandosi sul
fianco – ancora profondamente addormentata e sognante.
“Edward”, biascicò in modo sommesso.
Stava sognando di me.
Può un cuore morto, congelato battere di nuovo? Sembrava che il mio fosse sul
punto di farlo.
“Resta”, sospirò. “Non andare. Ti prego…non andare”.
Stava sognando di me, e non era neppure un incubo. Voleva che rimanessi con lei, lì
nel suo sogno.
Mi sforzavo di trovare le parole per dare un nome ai sentimenti che mi
travolgevano, ma non c’erano parole forti abbastanza da poterli contenere. Per un lungo
momento mi ci lasciai annegare.
Quando riemersi, non ero più lo stesso uomo che ero stato.
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La mia vita era un’interminabile, immutabile mezzanotte. Doveva, per necessità,
essere sempre mezzanotte per me. Perciò com’era possibile che il sole stesse sorgendo ora,
nel bel mezzo della mia mezzanotte?
Nel momento in cui ero diventato un vampiro, barattando, nel dolore lancinante
della trasformazione, la mia anima e la mia mortalità con l’immortalità, ero stato
letteralmente congelato. Il mio corpo si era trasformato in qualcosa di più simile alla
roccia che alla carne, duraturo ed inalterabile. Lo stesso mio io si era congelato così
com’era – la mia personalità, le mie simpatie ed antipatie, i miei umori ed i miei desideri;
tutti erano rimasti bloccati lì.
Era lo stesso per ognuno di noi. Eravamo tutti congelati. Delle rocce viventi.
Quando sopraggiungeva il cambiamento, era una cosa rara e permanente. L’avevo
visto succedere con Carlisle, e poi un decennio più tardi con Rosalie. L’amore li aveva
cambiati in modo imperituro, in una maniera che non si affievoliva mai. Erano passati più
di ottant’anni da quando Carlisle aveva trovato Esme, e ciononostante ancora la guardava
con l’espressione incredula del primo amore. Sarebbe stato per sempre così per loro.
Sarebbe stato per sempre così anche per me. Avrei amato per sempre questa fragile
ragazza umana, per tutto il resto della mia sconfinata esistenza.
Contemplavo il suo viso incosciente, sentendo quest’amore per lei fissarsi ad ogni
frammento del mio corpo roccioso.
Dormiva più serenamente adesso, con un leggero sorriso sulle labbra.
Senza mai staccare gli occhi da lei, cominciai a tramare.
L’amavo, e perciò avrei cercato di essere forte abbastanza da lasciarla. Sapevo di
non essere così forte ora. Avrei dovuto lavorarci sopra. Ma forse ero forte abbastanza da
poter avere la meglio sul futuro in un altro modo.
Alice aveva visto solo due possibili futuri per Bella, ed ora li capivo entrambi.
Amarla non mi avrebbe impedito di ucciderla, se mi fossi concesso di commettere
degli errori.
Eppure non riuscivo a sentire il mostro ora, non riuscivo a trovarlo da nessuna parte.
Magari l’amore l’aveva messo a tacere per sempre. Se adesso l’avessi uccisa, non l’avrei
fatto intenzionalmente, ma solo per un’orribile disgrazia.
Sarei dovuto essere estremamente accorto. Non avrei mai, mai potuto abbassare la
guardia. Avrei dovuto controllare ogni mio singolo respiro. Avrei sempre dovuto
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mantenere una distanza di sicurezza.
Non avrei commesso errori.
Avevo finalmente capito quel secondo futuro. Ero rimasto sconcertato da quella
visione – cos’era mai potuto accadere da rendere Bella prigioniera di questa semi vita?
Ora – devastato dal desiderio per la ragazza – potevo capire come, in preda ad un egoismo
imperdonabile, avessi potuto chiedere quel favore a mio padre. Chiedergli di privarla della
sua vita e della sua anima così che potessi averla per sempre.
Lei meritava di meglio.
Ma vedevo un altro futuro, un filo sottile sul quale avrei forse potuto camminare, se
fossi riuscito a mantenere l’equilibrio.
Potevo farlo? Stare con lei e lasciarla umana?
Deliberatamente, respirai a fondo, e poi ancora, lasciando che il suo profumo
divampasse dentro di me come un fuoco greco. La stanza era intrisa del suo profumo; la
sua fragranza era stratificata su ogni superficie. Mi girava la testa, ma combattevo le
vertigini. Mi ci dovevo abituare, se volevo tentare di avere un qualunque genere di
relazione con lei. Presi un altro respiro, profondo, bruciante.
La guardai dormire, tramando e respirando, finché non spuntò il sole dietro le
nuvole ad est.
Arrivai a casa subito dopo che gli altri erano già usciti per andare a scuola. Mi cambiai in
fretta, evitando gli occhi inquisitori di Esme. Aveva scorto la luce febbrile sul mio viso, e
si sentiva insieme spaventata e sollevata. La mia lunga malinconia l’aveva addolorata, ed
era contenta che sembrasse essere finita.
Corsi a scuola, arrivando pochi secondi dopo i miei fratelli e le mie sorelle. Non si
voltarono, nonostante Alice, quantomeno, sapesse che stavo lì in piedi nel fitto della
foresta che costeggiava il selciato. Aspettai che nessuno potesse vedermi, e poi uscii da in
mezzo agli alberi camminando disinvolto nello spiazzo pieno di macchine parcheggiate.
Ascoltai il pick-up di Bella che svoltava l’angolo rimbombando, e mi fermai dietro
una Suburban, da dove potevo guardare senza essere visto.
Entrò nello spiazzo, lanciando un lungo sguardo truce alla mia Volvo prima di
parcheggiare in uno degli spazi più lontani, con in viso un’aria minacciosa.
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Era strano ricordare che probabilmente era ancora arrabbiata con me, e per delle
buone ragioni.
Volevo ridere di me stesso – o prendermi a calci. Tutto quel mio tramare e
pianificare era completamente inutile se non ricambiava il mio interesse, o no? Il suo
sogno poteva essere stato su una qualunque cosa del tutto casuale. Ero un tale stupido
arrogante.
Beh, era davvero molto meglio per lei se non s’interessava a me. Il che non mi
avrebbe impedito di non darle tregua, ma nel perseguitarla l’avrei messa lealmente
sull’avviso. Glielo dovevo.
Avanzai silenziosamente, domandandomi quale fosse il modo migliore di
abbordarla.
Mi semplificò le cose. Mentre scendeva, la chiave del pick-up le era scivolata tra le
dita, ed era caduta in una profonda pozzanghera.
Si era chinata, ma l’anticipai, recuperandola prima che fosse costretta a mettere le
dita nell’acqua gelida.
Mi appoggiai con le spalle al pick-up mentre mi fissava e poi si raddrizzava.
“Come riesci a farlo?” domandò.
Si, era ancora arrabbiata.
Le offrii la chiave. “Fare cosa?”
Lei allungò la mano, e lasciai cadere la chiave nel suo palmo. Respirai a fondo,
ingoiando il suo profumo.
“Apparire dal nulla”, specificò.
“Bella, non è colpa mia se sei eccezionalmente distratta”. Le parole erano ironiche,
quasi uno scherzo. Esisteva qualcosa che potesse sfuggirle?
Riusciva a sentire la mia voce avvilupparsi attorno al suo nome come una carezza?
Mi fissò, con l’aria di non apprezzare il mio umorismo. Il battito del suo cuore era
accelerato – per rabbia? Per paura? Un attimo dopo, abbassò lo sguardo.
“Perché l’ingorgo ieri sera?” chiese senza incrociare i miei occhi. “Pensavo avessi
deciso di fingere che non esisto, non d’irritarmi a morte”.
Ancora molto arrabbiata. Sistemare le cose con lei mi sarebbe costato qualche
sforzo. Mi ricordai di aver deciso di essere onesto…
“Per il bene di Tyler, non per il mio. Dovevo dargli la sua occasione”. E poi
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scoppiai a ridere. Non riuscii a trattenermi, ripensando alla sua espressione di ieri.
“Tu –” rantolò, per poi interrompersi, all’apparenza troppo furiosa per riuscire a
concludere. Eccola là – la stessa espressione. Soffocai un’altra risata. Era già
sufficientemente in collera.
“E non sto fingendo che non esisti” terminai. La cosa più giusta da fare era
mantenere un tono disinvolto, canzonatorio. Non avrebbe capito se le avessi fatto vedere
come mi sentivo davvero. L’avrei spaventata. Dovevo tenere i miei sentimenti sotto
scacco, andarci piano…
“Perciò stai cercando d’irritarmi a morte? Siccome il furgoncino di Tyler non c’è
riuscito?”
Mi colse un improvviso accesso di rabbia. Poteva onestamente pensare una cosa del
genere?
Non avevo ragione di sentirmi tanto insultato – non sapeva della trasformazione
intervenuta durante la notte. Ma ero ugualmente arrabbiato.
“Bella, sei completamente assurda”, schioccai.
Il suo viso avvampò, e mi voltò le spalle. Cominciò ad allontanarsi.
Rimorso. Non avevo alcun diritto di arrabbiarmi.
“Aspetta” la implorai.
Lei non si fermò, perciò le andai dietro.
“Scusa, sono stato sgarbato. Non dico che non sia vero” – era assurdo immaginare
che volessi che si facesse male in qualche modo – “ma in ogni caso è stato maleducato da
parte mia dirtelo”.
“Perché non mi lasci in pace?”
Credimi, volevo dire. Ci ho provato.
Oh, e anche, sono terribilmente innamorato di te.
Vacci piano.
“Volevo chiederti una cosa, ma mi hai distratto”. Mi era appena venuta in mente una
linea di condotta, e mi misi a ridere.
“Soffri di un disturbo da personalità multipla?” chiese.
Doveva sembrare così. Il mio umore era mutevole, tante erano le nuove emozioni
che mi si rincorrevano dentro.
“Lo stai facendo di nuovo”, puntualizzai.
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Lei sospirò. “Va bene allora. Cosa volevi chiedermi?”
“Mi stavo domandando se, tra una settimana a partire da sabato…” osservai lo shock
attraversarle il viso, e soffocai un’altra risata. “Sai, il giorno del ballo di primavera –”
Mi aveva interrotto, restituendo finalmente i suoi occhi ai miei. “Stai cercando di
fare lo spiritoso?”
Si. “Mi faresti finire?”
Aspettava in silenzio, con i denti premuti sul morbido labbro inferiore.
Per un attimo quella vista mi fece distrarre. Delle reazioni strane e sconosciute si
aggiungevano mescolandosi al profondo nucleo della mia umanità dimenticata. Cercai di
scrollarmele di dosso, così da poter interpretare il mio ruolo.
“Ti ho sentita dire che intendi andare a Seattle quel giorno, e mi stavo domando se
vorresti un passaggio?” offrii. Mi ero reso conto che avrei potuto fare di meglio che
limitarmi a domandarle dei suoi piani, avrei potuto condividerli.
Mi fissava perplessa. “Cosa?”
“Lo vuoi un passaggio per Seattle?”. Da solo in macchina con lei – la mia gola
avvampò al pensiero. Respirai a fondo. Facci l’abitudine.
“Da chi?” chiese, con gli occhi sgranati e di nuovo sconcertati.
“Da me, ovviamente”, dissi lentamente.
“Perché?”
Era davvero così scioccante che potessi desiderare la sua compagnia? Doveva aver
attribuito il peggior significato possibile al mio comportamento passato.
“Beh”, dissi, con quanta più indifferenza potevo, “stavo programmando di andare a
Seattle nelle prossime settimane e, ad essere onesti, non credo che il tuo pick-up possa
farcela”. Pareva più prudente canzonarla piuttosto che permettermi di essere serio.
“Il mio pick-up va alla grande, grazie molte per l’interessamento”, disse con voce
parimenti sorpresa. Aveva ricominciato a camminare. Io mantenevo il suo passo.
Non aveva detto veramente di no, perciò sfruttai quel vantaggio.
Avrebbe detto no? E se lo avesse fatto?
“Ma il tuo pick-up può farcela con un solo pieno?”
“Non vedo come la cosa possa riguardarti”, borbottò.
Neanche quello era un no. Ed il suo cuore stava battendo di nuovo più velocemente,
ed il suo respiro stava accelerando.
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“Lo spreco delle risorse non rinnovabili è una questione che riguarda tutti”.
“Francamente, Edward, non riesco a seguirti. Pensavo che non volessi essere mio
amico”.
Un brivido mi aveva attraversato quando aveva detto il mio nome.
Come potevo andarci piano ed essere onesto allo stesso tempo? Beh, era molto più
importante essere onesto. Specialmente su questo punto.
“Ho detto che sarebbe stato meglio se non fossimo diventati amici, non che non
volevo che lo fossimo”.
“Oh, grazie, ora è tutto più chiaro”, disse sarcasticamente.
Si era fermata sotto la tettoia sporgente della mensa, ed aveva incrociato il mio
sguardo. I suoi battiti erano tachicardici. Era spaventata?
Scelsi le parole con cura. No, non potevo lasciarla, ma forse lei sarebbe stata
abbastanza intelligente da starmi lontana, prima che fosse troppo tardi.
“Sarebbe più…prudente per te non essermi amica”. Fissando le limpide profondità
cioccolato dei suoi occhi, dimenticai che dovevo andarci piano. “Ma sono stanco di
cercare di starti lontano, Bella”. Le parole bruciavano con molto, troppo fervore.
Le si era bloccato il respiro ed il secondo che impiegò a ripartire mi fece
preoccupare. Quanto l’avevo spaventata? Beh, l’avrei scoperto.
“Verrai a Seattle con me?” domandai, a bruciapelo.
Lei annuì, con il cuore che le batteva all’impazzata.
Si. Aveva detto di si a me.
E poi la coscienza mi castigò. Quanto le sarebbe costato?
“Dovresti veramente starmi lontana”, l’avvisai. Mi aveva sentito? Avrebbe fuggito il
futuro con cui la stavo minacciando? C’era niente che potessi fare per salvarla da me?
Vacci piano, urlai a me stesso. “Ci vediamo in classe”.
Dovevo concentrarmi per impedirmi di correre mentre mi dileguavo.
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6. Gruppo sanguigno
La seguii tutto il giorno attraverso gli occhi degli altri, a malapena consapevole di quel che
circondava me.
Non con gli occhi di Mike Newton, perché non potevo più tollerarne le ripugnanti
fantasie, né con quelli di Jessica Stanley, perché il suo risentimento nei confronti di Bella
mi faceva arrabbiare in maniera affatto sana per quella ragazza meschina. Angela Weber
era un’ottima scelta quando i suoi occhi erano disponibili; era gentile – la sua mente era un
posto tranquillo in cui stare. E poi qualche volta erano gli insegnanti che mi fornivano la
visuale migliore.
Mi sorprese, vedendola incespicare tutto il giorno – inciampava sulle fenditure del
marciapiede, sui libri lasciati in giro e, più spesso, nei suoi stessi piedi – che la gente che
spiavo pensasse che Bella fosse maldestra.
Considerai la cosa. Era vero che aveva spesso dei problemi a restare diritta. Ricordai
che era inciampata nel tavolo il primo giorno, che era scivolata sul ghiaccio prima
dell’incidente, che era incespicata sul bordo inferiore dell’intelaiatura della porta
ieri…Che strano, avevano ragione. Era maldestra.
Non sapevo perché trovassi la cosa tanto divertente, ma scoppiai in una fragorosa
risata mentre andavo dalla lezione di storia americana a quella d’inglese, e diverse persone
mi lanciarono delle occhiate diffidenti. Come avevo fatto a non accorgermene prima?
Forse perché c’era qualcosa di molto grazioso nella sua immobilità, il modo in cui teneva
la testa, l’arco del suo collo…
Non c’era niente di grazioso in lei ora. Il Signor Varner la osservava mentre la punta
dello stivale le s’impigliava nel tappeto e caracollava letteralmente sulla sedia.
Scoppiai nuovamente a ridere.
Il tempo scorreva incredibilmente lento mentre aspettavo di avere l’occasione di
vederla con i miei occhi. Finalmente, la campanella suonò. Mi avviai a grandi passi verso
la mensa, per assicurarmi un posto. Giunsi lì tra i primi. Scelsi un tavolo che normalmente
rimaneva vuoto, ed era certo che sarebbe rimasto tale con me seduto qui.
Quando i miei familiari entrarono e mi videro seduto da solo in un posto nuovo, non
si sorpresero. Alice doveva averli avvertiti.
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Rosalie mi superò camminando impettita senza nemmeno guardarmi.
Idiota.
Rosalie ed io non avevamo mai avuto un rapporto facile – l’avevo offesa la prima
volta che mi aveva veramente sentito parlare, e da allora era stata tutta una salita – ma in
questi ultimi giorni pareva addirittura ancor più irritabile del solito. Sospirai. Rosalie
faceva si che tutto girasse intorno a lei.
Jasper mi fece un mezzo sorriso mentre mi passava accanto.
Buona fortuna, pensò con aria scettica.
Emmett roteò gli occhi e scosse la testa.
Ha perso la ragione, povero ragazzo.
Alice era raggiante, i suoi denti splendevano troppo vividi.
Posso parlare con Bella adesso??
“Stanne fuori”, le dissi a bassa voce.
Bene. Tieni duro. E’ solo una questione di tempo.
Sospirai ancora.
Non dimenticarti dell’esercitazione odierna di biologia, mi ricordò.
Feci cenno di si col capo. No, non l’avevo dimenticato.
Mentre aspettavo l’arrivo di Bella, la seguivo con gli occhi di una matricola che
stava giungendo a mensa alle spalle di Jessica. Jessica blaterava del ballo imminente, ma
Bella non rispondeva alcunché. Non che Jessica gliene desse granché l’occasione.
Nel momento in cui Bella attraversò la porta, i suoi occhi guizzarono in direzione
del tavolo al quale erano seduti i miei fratelli e le mie sorelle. Rimase a guardare per un
momento, e poi la sua fronte si aggrottò ed i suoi occhi si abbassarono sul pavimento. Non
mi aveva notato qui.
Sembrava così…triste. Fui preso dalla smania di alzarmi e di mettermi al suo
fianco, per confortarla in qualche modo, solo che non sapevo cos’avrebbe trovato
consolante. Non avevo idea del perché avesse quell’espressione. Jessica continuava a
cianciare del ballo. Bella era infelice perché se lo sarebbe perso? Non sembrava
verosimile…
Ma si poteva rimediare, se lo desiderava.
Si comprò una bibita per pranzo e null’altro. Era una cosa giusta? Non aveva
bisogno di nutrirsi più di così? Non avevo mai fatto molto caso al regime alimentare di un
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umano prima di allora.
Gli umani erano così esasperatamente fragili! C’erano milioni di cose di cui
preoccuparsi…
“Edward Cullen ti sta fissando di nuovo”, sentii dire a Jessica. “Chissà perché oggi
se ne sta seduto da solo?”
Ero grato a Jessica – sebbene adesso fosse anche più risentita – perché la testa di
Bella si era sollevata di scatto ed i suoi occhi cercarono finché non incontrarono i miei.
Non c’era più alcuna traccia di tristezza sul suo viso adesso. Mi permisi di sperare
che si fosse rattristata pensando che fossi uscito prima da scuola, e quella speranza mi fece
sorridere.
Con il dito le feci cenno di raggiungermi. Ne sembrava talmente sorpresa che avevo
voglia di canzonarla ancora.
Perciò le strizzai l’occhio, e le si spalancò la bocca.
“Ce l’ha con te?” chiese Jessica in modo sgarbato.
“Forse ha bisogno di aiuto per il compito di biologia”, disse a voce bassa ed incerta.
“Umm, meglio che vada a sentire cosa vuole”.
Questo era un altro si.
Incespicò un paio di volte nel raggiungermi al tavolo, malgrado sul cammino non ci
fosse null’altro che il linoleum perfettamente liscio. Seriamente, come avevo fatto a non
accorgermene prima? Avevo dedicato maggiore attenzione ai suoi pensieri silenziosi,
supposi… Che altro mi ero perso?
Comportati bene, vacci piano, cantilenavo tra me.
Si era fermata alle spalle della sedia di fronte a me, esitante. Inspirai a fondo, dal
naso questa volta invece che dalla bocca.
Senti come brucia, pensai sarcasticamente.
“Perché non ti siedi con me oggi?” le chiesi.
Scostò la sedia e si mise seduta, fissandomi per tutto il tempo. Sembrava nervosa,
ma quel consenso materiale era ancora un altro si.
Aspettavo che parlasse.
Le ci volle qualche momento, ma alla fine disse “Così è diverso”.
“Beh…” esitavo. “Ho deciso che poiché me ne andrò comunque all’inferno, tanto
vale che mi goda il viaggio”.
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Perché avevo detto una cosa del genere? Quantomeno, era onesta. E forse avrebbe
ascoltato l’avvertimento affatto sottile implicito nelle mie parole. Forse si sarebbe resa
conto che avrebbe fatto meglio ad alzarsi ed andarsene quanto più in fretta possibile…
Non si alzò. Mi fissava con aria interrogativa, attendente, come se avessi lasciato la
frase in sospeso.
“Sai che non ho la benché minima idea di cosa intendi”, disse quando non continuai.
Era un sollievo. Sorrisi.
“Lo so”.
Era difficile ignorare i pensieri che mi urlavano contro da dietro le sue spalle – e
comunque volevo cambiare discorso.
“Mi sa che i tuoi amici ce l’hanno con me perché ti ho rapita”.
Questo non sembrò preoccuparla. “Sopravvivranno”.
“Potrei non avere voglia di lasciarti andare, però”. Non sapevo nemmeno se stavo
cercando di essere sincero, adesso, o se stavo solamente tentando di canzonarla ancora.
Starle vicino rendeva difficile dare un senso ai miei stessi pensieri.
Bella deglutì rumorosamente.
Risi della sua espressione. “Sembri preoccupata”. Non avrebbe dovuto essere
veramente divertente. Avrebbe dovuto preoccuparla.
“No”. Era una pessima bugiarda; il picco nella sua voce non migliorava le cose.
“Sorpresa, a dire il vero… Che ti è preso?”
“Te l’ho detto”, le ricordai. “Mi sono stancato di cercare di starti lontano. Quindi ci
rinuncio”. Mi dovevo sforzare non poco per continuare a sorridere. Non stava funzionando
per niente – tentare di essere onesto e disinvolto allo stesso tempo.
“Rinunci?” ripeté, confusa.
“Si – rinuncio a cercare di fare il bravo”. E, apparentemente, stavo pure rinunciando
a tentare di fare il disinvolto. “D’ora in poi intendo fare solo quello che mi va, e lasciare il
resto al caso”. Questo era abbastanza onesto. Lasciarle vedere il mio egoismo. Lasciare
che la mettesse in guardia, anche.
“Di nuovo non ti seguo”.
Ero egoista quanto bastava per rallegrarmi che fosse così. “Mi lascio sempre
sfuggire troppe cose quando parlo con te – questo è uno dei problemi”.
Un problema piuttosto insignificante, paragonato al resto.
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“Non temere”, mi rassicurò. “Non ne capisco nessuna”.
Bene. Allora sarebbe rimasta. “Ci conto”.
“Quindi, per dirla in maniera comprensibile, adesso siamo amici?”
Ci pensai sopra un istante. “Amici…” ripetei. Non mi piaceva come suonava. Non
era abbastanza.
“O no?”, biascicò, apparentemente imbarazzata.
Pensava di non piacermi fino a quel punto?
Sorrisi. “Beh, possiamo provarci, suppongo. Ma ti avverto sin d’ora che non sono
buono per esserti amico”.
Aspettavo la sua risposta, lacerato in due – desiderando che finalmente mi
ascoltasse e capisse, pensando che sarei potuto morire se l’avesse fatto. Quant’ero
melodrammatico. Mi stavo trasformando in un tale essere umano.
Il suo cuore batteva più veloce. “Continui a ripeterlo”.
“Si, perché non mi stai a sentire”, dissi, di nuovo con un fervore eccessivo. “Sto
ancora aspettando che tu te ne convinca. Se sei furba, mi girerai a largo”.
Ah, ma gliel’avrei permesso, se ci avesse provato?
I suoi occhi erano diventati due fessure. “Penso tu abbia chiarito la tua opinione
anche riguardo alla mia intelligenza”.
Non ero del tutto sicuro di cosa intendesse, ma per scusarmi le sorrisi, immaginando
di averla offesa senza volerlo.
“Perciò”, disse lentamente, “Fintanto che non…mi faccio furba, proveremo ad
essere amici?”.
“Si direbbe che siamo d’accordo”.
Abbassò lo sguardo, fissando assorta la bottiglia di limonata che aveva tra le mani.
La solita curiosità mi tormentò.
“A cosa stai pensando?” le chiesi – era un sollievo pronunciare le parole ad alta
voce finalmente.
Incrociò il mio sguardo, ed il suo respiro accelerò e le sue guance si colorarono
leggermente di rosa. Inalai, assaporandone il gusto nell’aria.
“Sto cercando di capire cosa sei”.
Serrai i lineamenti del viso trattenendo il sorriso, mentre il panico mi attanagliava il
corpo.
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Ovviamente se lo stava chiedendo. Non era stupida. Non potevo sperare che potesse
essere tanto miope di fronte a qualcosa di così evidente.
“E stai facendo progressi?” le chiesi con quanta più leggerezza potevo.
“Non molti”, ammise.
Ridacchiai per il sollievo improvviso. “Quali sono le tue teorie?”
Non potevano essere peggiori della verità, qualunque cosa avesse escogitato.
Le sue guance diventarono di un rosso brillante, e non disse niente. Nell’aria
riuscivo a percepire il calore del suo rossore.
Tentai con il mio tono persuasivo. Funzionava bene con gli umani normali.
“Non me lo diresti?” sorrisi incoraggiante.
Scosse il capo. “Troppo imbarazzante”.
Ugh. Non sapere era peggio di qualunque altra cosa. Perché le sue ipotesi avrebbero
dovuto imbarazzare lei? Non sopportavo di non sapere.
“E’ davvero frustrante, lo sai”.
Il mio reclamo aveva scatenato qualcosa dentro di lei. I suoi occhi lampeggiarono e
le sue parole fluirono più in fretta del solito.
“No, proprio non immagino perché dovrebbe essere frustrante – solo perché
qualcuno si rifiuta di dirti a cosa sta pensando, nonostante tutto il tempo gli vengano fatte
sottili osservazioni criptiche appositamente studiate per tenerlo sveglio a domandarsi cosa
possano eventualmente significare…vediamo, perché dovrebbe essere frustrante?”
La guardai corrucciato, turbato nel rendermi conto che aveva ragione. Non mi stavo
comportando lealmente.
Lei continuò. “O meglio, diciamo che una certa persona abbia anche fatto una vasta
gamma di cose bizzarre – dal salvarti la vita in circostanze impossibili un giorno al trattarti
come un paria il giorno dopo, e che non ne abbia mai spiegata nessuna, malgrado avesse
promesso. Anche questo sarebbe davvero non-frustrante”.
Era il discorso più lungo che le avessi mai sentito fare, e mi fornì una nuova qualità
da aggiungere alla mia lista.
“Sei piuttosto in collera, non è vero?”
“Non mi piace che si usino due pesi e due misure”.
Ovviamente, la sua irritazione era completamente giustificata.
Fissavo Bella, chiedendomi come avrei mai potuto fare qualcosa di giusto accanto a
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lei, quando il grido silenzioso nella testa di Mike Newton mi fece distrarre.
Era talmente adirato che mi fece ridere.
“Che c’è?” domandò.
“Il tuo amichetto sembra pensare che mi stia comportando male con te – è
combattuto tra il venire o meno ad interrompere la nostra lite”. Mi sarebbe piaciuto
tantissimo vederlo provarci. Risi di nuovo.
“Non so a chi ti riferisci”, disse con voce gelida. “Ma sono comunque sicura che ti
sbagli”.
Apprezzai moltissimo il modo in cui l’aveva liquidato con quella frase sbrigativa.
“Non mi sbaglio. Te l’ho detto, per lo più le persone sono facili da leggere”.
“Non io, ovviamente”
“No. Tu no”. Doveva fare eccezione a tutto? Non sarebbe stato più giusto –
considerando tutto quanto mi dovevo già occupare – se avessi potuto sentire almeno
qualcosa di ciò che aveva in mente? Era chiedere troppo? “Chissà perché è così?”
Guardai fisso nei suoi occhi, riprovandoci…
Distolse lo sguardo. Aprì la sua limonata e bevve un rapido sorso, tenendo gli occhi
sul tavolo.
“Non hai fame?” le chiesi.
“No”. Osservò il tavolo vuoto che ci separava. “Tu?”
“No, non ho fame”, dissi. Senza alcun dubbio non ne avevo.
Fissò il tavolo sporgendo le labbra. Aspettai.
“Potresti farmi un favore?” chiese, tornando d’improvviso ad incrociare il mio
sguardo.
Cos’avrebbe voluto da me? Mi avrebbe chiesta la verità che non potevo dirle – la
verità che non avrei mai, mai voluto che sapesse?
“Dipende da quello che vuoi”.
“Non molto”, promise.
Aspettavo, nuovamente incuriosito.
“Mi stavo solo chiedendo…” parlava lentamente, fissando la bottiglia di limonata,
tracciandone il bordo con il mignolino. “Se potessi avvisarmi in anticipo la prossima volta
che deciderai d’ignorarmi per il mio bene? Tanto per essere preparata”.
Voleva un preavviso? Allora essere ignorata da me doveva essere una brutta cosa
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per lei… Sorrisi.
“Mi pare giusto”, concordai.
“Grazie”, disse, alzando lo sguardo. La sua espressione era talmente sollevata che
volevo ridere sollevato io stesso.
“Allora posso averne uno in cambio?” chiesi ottimista.
“Uno” concesse.
“Dimmi una tua teoria”.
Era avvampata. “Quello no”.
“Non hai specificato, hai solo promesso una risposta” le feci notare.
“E tu stesso hai infranto una promessa”, mi fece notare lei di rimando.
Mi aveva colto in fallo.
“Solo una teoria – non riderò”.
“Si, lo farai”. Pareva esserne molto sicura, sebbene non riuscissi ad immaginare
cos’avrei potuto trovarci di divertente.
Tentai di persuaderla in un altro modo. La fissai profondamente negli occhi – una
cosa facile da fare, con degli occhi tanto profondi – e sussurrai, “Per favore?”
Aveva battuto le palpebre ed il suo viso era sbiancato.
Beh, non era esattamente la reazione che avevo cercato di ottenere.
“Ehm, cosa?” chiese. Sembrava stordita. Cosa c’era che non andava in lei?
Ma non mi ero ancora arreso.
“Per favore, dimmi soltanto una piccola teoria”, la pregavo con la mia voce
morbida, non terrificante, tenendo i suoi occhi nei miei.
Con mia sorpresa e soddisfazione, alla fine funzionò.
“Uhm, allora, ti ha morso un ragno radioattivo?”
Fumetti? Non c’era da stupirsi se aveva pensato che mi sarei messo a ridere.
“Non è molto creativo”, la rimproverai, cercando di nascondere il mio ennesimo
sollievo.
“Spiacente, è tutto quello che sono riuscita ad escogitare”, disse, offesa.
Il che mi rese ancor più sollevato. Ero di nuovo in grado di canzonarla.
“Non ci sei neanche vicina”.
“Niente ragni?”
“Naaa”.
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“E nessuna radioattività?”
“Nessuna”.
“Accidenti”, sospirò.
“E neppure la Kryptonite mi fa niente”, dissi in fretta – prima che potesse chiedermi
di qualche altro morso – e poi non potei non ridere, perché pensava che fossi un supereroe.
“Non ti è permesso ridere, ricordi?”
Strinsi le labbra.
“Un giorno o l’altro riuscirò a capirlo”, promise.
E quando ci fosse riuscita, sarebbe scappata.
“Vorrei che non tentassi” dissi, tutto lo scherno se n’era andato.
“Perché…?”
Le dovevo onestà. Tuttavia, cercai di sorridere, per far sembrare le mie parole meno
minacciose. “E se non fossi un supereroe? E se fossi il cattivo?”
Spalancò gli occhi di una frazione e socchiuse appena le labbra. “Oh”, disse. E poi,
dopo un altro secondo, “Capisco”.
Finalmente mi aveva ascoltato.
“Davvero?” chiesi, faticando a nascondere la mia agonia.
“Sei pericoloso?” indovinò. La sua respirazione accelerò, ed il suo cuore cominciò a
battere forte.
Non potevo risponderle. Era questo il mio ultimo momento con lei? Sarebbe
scappata via adesso? Potevo concedermi di dirle che l’amavo prima che se ne andasse? O
questo l’avrebbe spaventata ancora di più?
“Ma non cattivo”, sussurrò, scuotendo la testa, senza alcuna paura negli occhi
limpidi. “No, non credo che tu sia cattivo”.
“Ti sbagli”, esalai.
Certo che ero cattivo. Non stavo gioendo, adesso, perché aveva di me un’opinione
migliore di quella che meritassi? Se fossi stato una persona buona, le sarei girato al largo.
Allungai la mano sul tavolo, cercando di raggiungere il tappo della sua limonata
come pretesto. Non rifuggì l’improvvisa vicinanza della mia mano. Davvero non aveva
paura di me. Non ancora.
Invece di guardarla, osservavo il tappo che facevo girare come una trottola. I miei
pensieri erano finiti in un ingorgo.
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Scappa, Bella, scappa. Non potevo indurmi a dire quelle parole ad alta voce.
Scattò in piedi. “Faremo tardi”, disse, proprio mentre cominciavo a temere che in
qualche modo avesse ascoltato il mio avvertimento muto.
“Non vengo a lezione”.
“Perché no?”
Perché non voglio ucciderti. “Fa bene alla salute saltare le lezioni ogni tanto”.
Ad essere precisi, faceva più bene agli esseri umani se i vampiri saltavano le lezioni
i giorni in cui il loro sangue veniva spillato. Il Signor Banner oggi aveva in programma la
lezione sui gruppi sanguigni. Alice aveva già saltato la sua lezione quella mattina.
“Beh, io vado”, disse. Non mi sorprese. Era responsabile – faceva sempre la cosa
giusta.
Era il mio opposto.
“Ci vediamo più tardi, allora”, dissi, cercando ancora di apparire disinvolto,
fissando ostinato il tappo che girava. E, a proposito, ti adoro…in modi spaventosi e
pericolosi.
Lei esitò, e malgrado tutto per un momento sperai che sarebbe rimasta con me. Ma
la campanella suonò e lei era corsa via.
Aspettai finché non se ne fu andata, e poi m’infilai il tappo nella tasca – un souvenir
di questa conversazione molto significativa – e camminai nella pioggia fino alla mia
macchina.
Misi su il mio CD rilassante preferito – lo stesso che avevo ascoltato quel primo
giorno – ma non sentii le note di Debussy a lungo. Altre note mi attraversarono la mente,
il frammento di una melodia che mi piaceva e m’intrigava. Abbassai il volume dello stereo
ed ascoltai la musica nella mia testa, giocando con quel frammento finché non evolse in
una melodia più compiuta. Istintivamente, le mie dita si mossero nell’aria sopra la tastiera
immaginaria di un pianoforte.
La nuova composizione stava davvero facendo progressi quando la mia attenzione
fu catturata da un’ondata di tormento mentale.
Mi rivolsi verso quell’angoscia.
Sta per perdere i sensi? Che devo fare? Mike era nel panico.
A una novantina di metri di distanza, Mike Newton stava poggiando l’inerme corpo
di Bella sul marciapiede. Lei era crollata senza alcuna reazione sul calcestruzzo bagnato,
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con gli occhi chiusi e la pelle di un gessoso bianco cadaverico.
Quasi sfondai la portiera della macchina.
“Bella?” strillai.
Niente cambiò sul suo viso esanime quando gridai il suo nome.
Il mio intero corpo diventò più freddo del ghiaccio.
Mi resi conto dello stupore irritato di Mike mentre rovistavo furiosamente nei suoi
pensieri. Pensava soltanto alla collera che provava per me, perciò non sapevo cosa non
andasse in Bella. Se in qualche modo le aveva fatto del male, l’avrei annientato.
“Che c’è che non va – è ferita?” domandai perentorio, cercando di mettere a fuoco i
suoi pensieri. Era esasperante dover tenere un’andatura umana. Non dovevo richiamare
l’attenzione sul modo in cui mi avvicinavo.
Poi riuscii a sentire il battito del suo cuore ed il suo respiro regolare. Mentre la
guardavo, strinse ancora più forte gli occhi già chiusi. Il che attenuò in parte il mio panico.
Intravidi un baluginio di ricordi nella mente di Mike, uno spruzzo d’immagini
dell’aula di biologia. La testa di Bella china sul nostro tavolo, la sua pelle diafana che
diventava verdognola. Gocce di rosso sui cartoncini bianchi…
Analisi del gruppo sanguigno.
Mi fermai dov’ero, trattenendo il respiro. Il suo profumo era una cosa, il suo sangue
che fluiva era una cosa completamente diversa.
“Credo che sia svenuta”, disse Mike, ansioso e risentito allo stesso tempo. “Non so
cosa sia successo, non si è nemmeno punta il dito”.
Il sollievo m’invase, e ricominciai a respirare, saggiando l’aria. Ah, potevo odorare
la minuscola perdita della puntura di Mike Newton. Un tempo, avrebbe potuto tentarmi.
M’inginocchiai accanto a lei mentre Mike mi si parava vicino, furioso per la mia
intromissione.
“Bella. Puoi sentirmi?”
“No”, si lagnò. “Vai via”.
Il sollievo fu così intenso che mi misi a ridere. Stava bene.
“La stavo portando in infermeria”, disse Mike. “Ma non ha voluto proseguire oltre”.
“Ce la porto io. Tu puoi tornartene in classe”, dissi in tono sbrigativo.
I denti di Mike si serrarono. “No. Ci si aspetta che sia io a farlo”.
Non intendevo restare a discutere con quel miserabile.
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Emozionato e terrorizzato, per metà grato e per metà afflitto da quella situazione
difficile che rendeva il toccarla una necessità, sollevai delicatamente Bella dal marciapiede
e la tenni tra le mie braccia, toccandone solo i vestiti, e mettendo quanta più distanza mi
fosse possibile tra i nostri corpi. Contestualmente, stavo già camminando speditamente,
nella fretta di saperla salva – lontana da me, in altre parole.
I suoi occhi si spalancarono di colpo, meravigliati.
“Mettimi giù”, mi ordinò con voce fioca – nuovamente imbarazzata, indovinai dalla
sua espressione. Non le piaceva mostrarsi debole.
A malapena riuscivo a sentire le urla di protesta di Mike alle nostre spalle.
“Hai un aspetto tremendo”, le dissi, spalancando il sorriso perché non c’era niente
che non andasse in lei salvo una mente sconclusionata ed uno stomaco debole.
“Rimettimi sul marciapiede”, disse. Le sue labbra erano bianche.
“E così svieni alla vista del sangue?”. Poteva essere più ironico?
Lei chiuse gli occhi e serrò le labbra.
“E nemmeno del tuo sangue”, aggiunsi, aprendo di più il sorriso.
Eravamo davanti alla segreteria. La porta era appena accostata, e le diedi un calcio
per aprirla.
La Signorina Cope fece un salto, allarmata. “Oh, mio”, ansimò mentre esaminava la
ragazza cinerea tra le mie braccia.
“Si è sentita mancare a biologia”, spiegai, prima che la sua immaginazione potesse
sfuggirle un pò troppo di mano.
La Signorina Cope corse ad aprire la porta dell’infermeria. Gli occhi di Bella erano
di nuovo aperti, e la osservavano. Ascoltai lo stupore interiore dell’anziana infermiera
mentre adagiavo delicatamente Bella sull’unico lettino malconcio. Non appena fu libera
dalle mie braccia, misi l’intera larghezza della stanza a separarci. Il mio corpo era troppo
eccitato, troppo affamato, i miei muscoli si erano tesi ed il veleno scorreva. Lei era così
calda e profumata.
“E’ solo un pò debole”, rassicurai la Signora Hammond. “Stanno facendo lezione
sui gruppi sanguigni a biologia”.
Lei annuì, benevola adesso. “Ce n’è sempre uno”.
Soffocai una risata. Potevo contarci che quell’uno sarebbe stata Bella.
“Resta sdraiata soltanto un minuto, cara”, disse la Signora Hammond. “Passerà”.
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“Lo so”, disse Bella.
“Ti succede spesso?” chiese l’infermiera.
“Qualche volta”, ammise Bella.
Cercai di camuffare la mia risata tossendo.
Il che mi riportò all’attenzione dell’infermiera. “Puoi tornare in classe ora”, disse.
La guardai diritta negli occhi e mentii con impeccabile sicurezza. “Ci si aspetta che
rimanga con lei”.
Mmh. Mi domando…oh insomma. La Signora Hammond annuì.
Funzionava proprio bene con lei. Perché Bella doveva essere tanto complicata?
“Vado a prendere del ghiaccio da metterti sulla fronte, cara”, disse l’infermiera,
lievemente a disagio guardandomi negli occhi – così come un umano avrebbe dovuto
sentirsi – ed uscì dalla stanza.
“Avevi ragione”, biascicò Bella, chiudendo gli occhi.
Cosa intendeva? Saltai alla conclusione peggiore: aveva accolto i miei avvertimenti.
“Come al solito”, dissi, cercando di mantenere l’ilarità nella mia voce; suonava
aspra ora. “Ma a proposito di cosa stavolta?”
“Saltare le lezioni fa bene alla salute”, sospirò.
Ah, di nuovo il sollievo.
Poi rimase in silenzio. Si limitava ad inspirare ed espirare lentamente. Le sue labbra
stavano cominciando a diventare rosa. La sua bocca era lievemente sproporzionata, il
labbro inferiore un pò troppo carnoso rispetto a quello superiore. Fissarne la bocca mi
faceva sentire strano. Mi faceva venire voglia di andarle più vicino, che non era una buona
idea.
“Per un momento mi hai fatto paura là fuori”, dissi – per rianimare la conversazione
così che potessi sentire di nuovo la sua voce. “Ho pensato che Mike Newton stesse
trascinando fuori il tuo corpo senza vita per seppellirlo nel bosco”.
“Ha, ha”, disse.
“Onestamente – ho visto dei cadaveri con un colorito migliore”. Era del tutto vero.
“Ero preoccupato di dover vendicare la tua morte”. E l’avrei fatto.
“Povero Mike”, sospirò. “Scommetto che è arrabbiatissimo”.
La furia mi pervase, ma riuscii a contenerla rapidamente. La sua preoccupazione era
sicuramente dettata dalla compassione. Era gentile. Nient’altro.
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“Mi detesta nella maniera più assoluta”, le dissi, rallegrato da quell’idea.
“Questo non puoi saperlo”.
“Ho visto la sua faccia – si capiva”. Probabilmente era vero che leggerne il viso
avrebbe potuto fornirmi abbastanza informazioni per fare quella particolare deduzione.
Tutta questa pratica con Bella stava affinando la mia abilità d’interpretare le espressioni
umane.
“Come hai fatto a vedermi? Pensavo stessi saltando le lezioni”. Il suo viso aveva un
aspetto migliore – il verde smorzato era svanito dalla sua pelle trasparente.
“Ero in macchina, che ascoltavo un CD”.
La sua espressione si era contratta, come se la mia risposta del tutto normale
l’avesse in qualche modo sorpresa.
Aprì di nuovo gli occhi quando la Signora Hammond tornò con un impacco di
ghiaccio.
“Ecco qui, cara”, le disse l’infermiera poggiandolo sulla fronte di Bella. “Hai un
aspetto migliore”.
“Penso di stare bene”, disse Bella, e si mise seduta mentre si toglieva l’impacco.
Ovviamente. Non le piaceva che ci si prendesse cura di lei.
Le mani rugose della Signora Hammond annasparono verso di lei, come per farla
sdraiare di nuovo, ma proprio allora la Signorina Cope aprì la porta della segreteria e si
sporse all’interno. Con la sua comparsa giunse l’odore di sangue che stillava, solo una
zaffata.
Invisibile nell’ufficio alle sue spalle, Mike Newton era ancora molto arrabbiato,
desiderando che il corpo pesante del ragazzo che trascinava ora fosse quello della ragazza
che era qui dentro con me.
“Ce n’è un altro”, disse la Signorina Cope.
Bella saltò in fretta giù dal lettino, ansiosa di sottrarsi ai riflettori.
“Ecco”, disse, restituendo l’impacco alla Signora Hammond. “A me questo non
serve”.
Mike grugnì intanto che quasi spingeva Lee Stevens attraverso la porta. Il sangue
stava ancora gocciolando dalla mano che Lee si teneva sul viso, colandogli sul polso.
“Oh no”. Questo era segno che dovevo andarmene – ed anche Bella,
apparentemente. “Scappa in segreteria, Bella”.
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Lei mi guardava con occhi sconcertati.
“Fidati di me – vai”.
Era scattata ed aveva imboccato la porta prima che si richiudesse, schizzando in
segreteria. Io le ero dietro di pochi centimetri. I suoi capelli fluttuanti mi sfioravano la
mano…
Si voltò a guardarmi, con gli occhi ancora sgranati.
“Mi hai dato subito retta”. Era la prima volta.
Il suo nasino si era arricciato. “Ho sentito l’odore del sangue”.
La guardai sbalordito. “Le persone non riescono a sentire l’odore del sangue”.
“Beh, io si – è questo che mi fa star male. Odora di ruggine…e di sale”.
La mia faccia s’immobilizzò, ancora fissa su di lei.
Era davvero veramente umana? Sembrava umana. Era morbida come un’umana.
Profumava come un’umana – beh, meglio per la verità. Agiva come un’umana…più o
meno. Ma non pensava come un’umana, né rispondeva come se lo fosse.
Quale altra soluzione c’era, però?
“Che c’è?” chiese.
“Niente”.
Mike Newton a quel punto c’interruppe, entrando nella stanza coi pensieri risentiti e
violenti.
“Stai meglio”, le disse sgarbatamente.
La mia mano si era contratta, desiderando insegnargli un pò di buone maniere.
Dovevo tenermi sotto controllo, o avrei finito per uccidere quest’odioso ragazzo.
“Basta che tieni la mano in tasca”, disse lei. Per un assurdo momento, pensai che
stesse parlando con me.
“Non sanguina più”, rispose astiosamente. “Intendi rientrare in classe?”
“Stai scherzando? Dovrei subito voltarmi e tornare qui”.
Benissimo. Avevo pensato che mi sarei dovuto perdere quest’intera ora insieme a
lei, ed invece, adesso, avevo del tempo in più. Mi sentivo ingordo, un avaro avidamente
attaccato ad ogni singolo minuto.
“Già, immagino…” borbottò Mike. “Allora ci sarai questo fine settimana? Alla
spiaggia?”
Ah, avevano dei progetti. La rabbia mi paralizzò sul posto. Era una gita di gruppo,
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però. Ne avevo visto qualcosa nella mente degli altri studenti. Non sarebbero stati loro due
soli. Ero ancora furioso. Mi appoggiai inespressivo al bancone, cercando di controllarmi.
“Sicuro, ho detto che sarei venuta” gli promise.
Perciò aveva detto di si anche a lui. La gelosia bruciava, più dolorosa della sete.
No, si tratta soltanto di un’uscita di gruppo, cercai di convincermi. Avrebbe
solamente trascorso la giornata con gli amici. Niente di più.
“Ci vediamo davanti al negozio di mio padre, alle dieci”. E Cullen NON E’ invitato.
“Ci sarò”, disse.
“Ci vediamo in palestra, allora”.
“A dopo”, rispose.
Tornò in classe trascinando i piedi, con i pensieri traboccanti d’ira. Cosa ci trova in
quel mostro? Certo, è ricco, immagino. Le pollastre pensano che sia uno schianto, ma a
me non sembra. Troppo…troppo perfetto. Scommetto che suo padre ha fatto degli
esperimenti di chirurgia plastica su tutti loro. Ecco perché sono tutti così pallidi e carini.
Non è normale. E in un certo modo è…terrificante. Qualche volta, quando mi guarda,
giurerei che sta pensando a come uccidermi… Mostruoso…
Mike non era completamente stupido.
“Ginnastica”, Bella ripeté debolmente. Un gemito.
La guardavo, e capivo che era di nuovo triste per qualcosa. Non ero certo del
perché, ma era chiaro che non voleva andare alla prossima lezione con Mike, ed io ero
completamente d’accordo con quel piano.
Mi misi al suo fianco e mi chinai accostandomi al suo viso, sentendo il calore della
sua pelle che s’irradiava fino alle mie labbra. Non osavo respirare.
“Di questo posso occuparmi io”, mormorai. “Vai a sederti ed impallidisci”.
Lei fece come le avevo chiesto, sedendosi su una delle sedie imbottite ed
appoggiando la testa contro la parete, mentre, dietro di me, la Signorina Cope usciva dalla
stanza sul retro ed andava alla sua scrivania. Con gli occhi chiusi, Bella sembrava essere
svenuta di nuovo. Non aveva ancora ripreso del tutto colore.
Mi voltai verso la segretaria. Con un pò di fortuna, Bella avrebbe prestato
attenzione, pensai sardonicamente. Quello era il modo in cui un umano si supponeva
dovesse reagire.
“Signorina Cope?” chiesi, usando di nuovo la mia voce persuasiva.
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Sbatté le ciglia, ed il suo cuore accelerò. Troppo giovane, controllati!
“Si?”
Interessante. Quando le pulsazioni di Shelly Cope aumentavano, era perché mi
trovava fisicamente attraente, non perché era spaventata. Mi ci ero abituato con le
femmine della specie umana…non avevo ancora preso in considerazione quella
spiegazione per il cuore accelerato di Bella.
Mi piaceva alquanto. Troppo, effettivamente. Sorrisi, ed il respiro della Signorina
Cope si fece ansimante.
“Bella ha ginnastica la prossima ora, e non credo che si senta abbastanza bene. A
dire il vero, stavo pensando che dovrei portarla a casa adesso. Pensa che potrebbe
dispensarla dalla lezione?”. Fissai i suoi occhi per niente profondi, godendomi lo
scompiglio che ciò causava ai suoi processi mentali. Era possibile che Bella...?
La Signorina Cope dovette deglutire rumorosamente prima di rispondere. “Hai
bisogno di una giustificazione anche tu, Edward?”
“No, io ho la Signora Goff, non ci baderà”.
Non le prestavo molta attenzione ora. Stavo esplorando questa nuova possibilità.
Hmm. Mi sarebbe piaciuto credere che Bella mi trovasse attraente come le altre
umane, ma quando mai Bella aveva le stesse reazioni degli altri esseri umani? Non avrei
dovuto illudere le mie speranze.
“Okay, è tutto sistemato. Ti senti meglio, Bella?”
Bella annuì debolmente - esagerando un pò.
“Puoi camminare, o vuoi che ti riporti in braccio?” chiesi, divertito dalla sua
pessima recitazione. Sapevo che avrebbe preferito camminare – non voleva sembrare
debole.
“Cammino”, disse.
Di nuovo esatto. Stavo facendo progressi.
Si era alzata, esitando un momento come per valutare il suo equilibrio. Le tenni la
porta aperta, e c’incamminammo fuori sotto la pioggia.
La guardai sollevare il viso verso la pioggia leggera con gli occhi chiusi, con un
sorriso appena accennato sulle labbra. A cosa stava pensando? Qualcosa in questo gesto
mi pareva stonato, e compresi immediatamente perché la posa mi fosse sembrata insolita.
Le normali ragazze umane non avrebbero sollevato i loro visi verso la pioggerella; le
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©2008 Stephenie Meyer
normali ragazze umane di solito erano truccate, perfino in un posto umido come questo.
Bella non si truccava mai, non che ne avesse bisogno. Le industrie cosmetiche
incassavano miliardi ogni anno dalle donne che cercavano di ottenere una pelle come la
sua.
“Grazie”, disse, rivolgendo il sorriso a me, adesso. “Val la pena stare male per
saltare ginnastica”.
Guardavo fisso oltre il campus, pensando a come prolungare il mio tempo con lei.
“Quando vuoi”, dissi.
“Allora vieni? Questo sabato, intendo?”. Sembrava speranzosa.
Ah, la sua speranza era tonificante. Era me che voleva con lei, non Mike Newton. E
volevo dirle di si. Ma c’erano parecchie cose da considerare. Per cominciare, ci sarebbe
stato il sole questo sabato…
“Dove andate, esattamente?”. Cercai di mantenere un tono di voce noncurante,
come se non avesse molta importanza. Mike aveva detto spiaggia, però. Non c’erano
molte possibilità di evitare la luce del sole lì.
“Giù a La Push, a First Beach”.
Maledizione. Beh, era impossibile, allora.
In ogni caso, Emmett si sarebbe seccato se avessi cancellato i nostri progetti.
Le lanciai un’occhiata, sorridendo sarcasticamente. “Davvero non penso di essere
stato invitato”.
Lei sospirò, già rassegnata. “Ti ho appena invitato io”.
“Evitiamo, tu ed io, di spingere oltre il povero Mike per questa settimana. Non
vogliamo che vada in pezzi”. Pensai di mandare in pezzi il povero Mike io stesso, e mi
gustai quell’immagine mentale immensamente.
“Mike-smaccato”, disse, di nuovo sbrigativa. Spalancai il sorriso.
E poi cominciò ad allontanarsi da me.
Senza pensare a quel che facevo, allungai la mano e l’afferrai da dietro il giubbotto
impermeabile. Si arrestò sobbalzando.
“Dove pensi di andare?”. Ero quasi arrabbiato perché mi stava lasciando. Il tempo
passato con lei non era stato abbastanza. Non poteva andarsene, non ancora.
“Me ne vado a casa”, disse, confusa dal perché questo avrebbe dovuto inquietarmi.
“Non mi hai sentito promettere che ti avrei accompagnata a casa sana e salva? Pensi
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che ti lascerò guidare nelle tue condizioni?”. Sapevo che quello non le sarebbe piaciuto –
la mia allusione ad una sua qualche debolezza. Ma avevo bisogno di far pratica per la gita
a Seattle, comunque. Vedere se potevo gestire l’averla così vicina in uno spazio ristretto.
Questo era un tragitto assai più breve.
“Che condizioni?” domandò. “E che mi dici del mio pick-up?”
“Chiederò ad Alice di riportartelo dopo la scuola”. La tiravo verso la mia macchina
facendola camminare all’indietro, con molta prudenza, perché ora sapevo che per lei era
già abbastanza impegnativo camminare in avanti.
“Lasciami andare!” disse, scartando di lato e quasi inciampando. Allungai la mano
per prenderla, ma si rimise diritta da sola prima che fosse necessario. Non avrei dovuto
cercare delle scuse per poterla toccare. Il che mi fece pensare alla reazione della Signorina
Cope nei miei riguardi, ma archiviai la questione per dopo. C’era molto da valutare su
quel fronte.
La lasciai andare accanto alla macchina, ed inciampò sbattendo contro la portiera.
Sarei dovuto essere perfino più accorto, tenendo conto del suo scarso equilibrio…
“Sei così aggressivo!”
“E’ aperta”.
Salii al mio posto e misi in moto la macchina. Lei se ne restava impettita, fuori,
benché la pioggia battesse più forte e sapevo che non le piacevano il freddo e l’umidità.
L’acqua stava inzuppandole i folti capelli, scurendoli fino a farli sembrare quasi neri.
“Sono perfettamente in grado di riportarmi a casa da sola!”
Ovviamente lo era – ero solo io che non ero in grado di lasciarla andare.
Abbassai il finestrino dalla sua parte e mi sporsi verso di lei. “Sali, Bella”.
I suoi occhi diventarono due fessure, ed indovinai che stava considerando se tentare
o meno di scappare.
“Ti ritrascinerò indietro”, promisi, divertito dal disappunto sul suo viso quando
aveva capito che l’avrei fatto davvero.
Con il mento affettatamente sollevato in aria, aveva aperto la portiera ed era salita. I
suoi capelli gocciolavano sui sedili di pelle ed i suoi stivali sciabordavano l’uno contro
l’altro.
“Questo non è assolutamente necessario”, disse freddamente. Pensai che sembrasse
più imbarazzata che indispettita.
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Mi limitai ad alzare il riscaldamento così che non si sentisse a disagio, e regolai il
volume della musica ad un piacevole livello di sottofondo. Guidai verso l’uscita,
guardandola con la coda dell’occhio. Il suo labbro inferiore sporgeva ostinatamente. Lo
fissavo, valutando come mi facesse sentire…ripensando alla reazione della segretaria…
D’improvviso guardò lo stereo e sorrise, spalancando gli occhi. “Clair de lune?”,
chiese.
Una patita dei classici? “Conosci Debussy?”
“Non bene”, disse. “Mia madre ascolta un sacco di musica classica a casa – conosco
solo le mie preferite”.
“E’ anche una delle mie preferite”. Fissai la pioggia, riflettendoci sopra. Avevo
addirittura qualcosa in comune con la ragazza. Avevo cominciato a pensare che fossimo
opposti in tutto.
Sembrava più rilassata ora, mentre fissava la pioggia come me, con gli occhi persi
nel vuoto. Approfittai della sua momentanea distrazione per esercitarmi con la
respirazione.
Presi aria dal naso con circospezione.
Potente.
Strinsi il volante ancor più saldamente. La pioggia migliorava il suo profumo. Non
avrei mai pensato che fosse possibile. Stupidamente, d’improvviso stavo immaginando
che sapore avesse.
Cercai di reprimere il fuoco che avevo in gola, di pensare a qualcos’altro.
“Com’è tua madre?” chiesi per distrarmi.
Bella sorrise. “Mi assomiglia parecchio, ma è molto più bella”.
Ne dubitavo.
“Ho preso un pò troppo da Charlie”, continuò. “E’ molto più estroversa di me, e più
coraggiosa”.
Dubitavo anche di questo.
“E’ irresponsabile e vagamente eccentrica, ed è una cuoca davvero imprevedibile.
E’ la mia migliore amica”. La sua voce si era fatta malinconica; la fronte le si era
corrugata.
Di nuovo, dava l’impressione di essere più un genitore che una figlia.
Mi fermai davanti a casa sua, domandandomi troppo tardi se si poteva supporre che
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sapessi dove abitava. No, questo non sarebbe parso sospetto in una città tanto piccola, con
il padre che era un personaggio pubblico…
“Quanti anni hai, Bella?”. Doveva essere più vecchia dei suoi compagni. Forse
aveva cominciato tardi la scuola, o era stata bocciata…non sembrava credibile, però.
“Diciassette” rispose.
“Non sembri una diciassettenne”.
Si mise a ridere.
“Che c’è?”
“Mia madre dice sempre che sono nata che avevo trentacinque anni e che ogni
giorno che passa mi avvicino di più alla mezza età”. Rise di nuovo, e poi sospirò. “Beh,
qualcuno deve pur fare l’adulto”.
Questo chiariva le cose. Adesso potevo capirlo…una madre immatura aiutava a
spiegare la maturità di Bella. Aveva dovuto crescere in fretta, per diventare una balia. Per
questo non le piaceva che gli altri si prendessero cura di lei – sentiva che quello era
compito suo.
“Neanche tu assomigli poi tanto ad uno studente del terzo anno delle superiori”,
disse, strappandomi alle mie elucubrazioni.
Feci una smorfia. Per ogni cosa che riuscivo ad intuire di lei, lei di rimando riusciva
ad intuirne troppe. Cambiai argomento.
“E così, come mai tua madre ha sposato Phil?”
Esitò un momento prima di rispondere. “Mia madre…è molto giovanile per la sua
età. Credo che Phil la faccia sentire ancora più giovane. Ad ogni modo, è pazza di lui”.
Scosse la testa con indulgenza.
“Tu approvi?” domandai.
“Ha importanza?” chiese. “Voglio che sia felice…e lui è ciò che vuole”.
L’altruismo insito nel suo commento mi avrebbe sbalordito, senonché si accordava
fin troppo bene con tutto quanto avevo imparato del suo carattere.
“Davvero generoso…Chissà”
“Cosa?”
“Pensi che ti ricambierebbe con la stessa generosità? Non importa su chi cadesse la
tua scelta?”
Era una domanda assurda, e non riuscii a conservare un tono disinvolto mentre la
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ponevo. Che idiozia anche solo considerare che qualcuno potesse dare la sua approvazione
a me per la propria figlia. Che idiozia anche solo pensare a Bella che sceglieva me.
“Io – io penso di si”, era sconvolta, per una qualche reazione al mio sguardo
penetrante. Paura…o attrazione?
“Ma è lei il genitore, dopo tutto. E’ un tantino differente”, concluse.
Sorrisi sarcasticamente. “Nessuno di troppo spaventoso quindi”.
Spalancò il sorriso. “Cosa intendi per spaventoso? Piercing facciali multipli ed una
gran quantità di tatuaggi?”
“Questa potrebbe essere una definizione, suppongo”. Una definizione affatto
minacciosa, dal mio punto di vista.
“Qual è la tua definizione?”
Faceva sempre la domanda sbagliata. O esattamente la domanda giusta, forse.
L’unica cui non volevo rispondere, in ogni caso.
“Pensi che io potrei essere spaventoso?” le chiesi, cercando di sorridere un pò.
Ci rifletté a fondo prima di rispondermi con voce seria. “Hmm…penso che potresti
esserlo, se volessi”.
Anch’io ero serio. “Hai paura di me adesso?”
Rispose all’istante, senza nemmeno pensarci. “No”.
Sorrisi con maggiore disinvoltura. Non credevo che mi stesse dicendo tutta la verità,
ma neanche stava davvero mentendo. Perlomeno, non era spaventata abbastanza da
volersene andare. Mi chiesi come si sarebbe sentita se le avessi detto che stava avendo
quella conversazione con un vampiro. Raccapricciai mentalmente all’immagine della sua
reazione.
“Allora, intendi parlarmi della tua famiglia adesso? Deve essere una storia assai più
interessante della mia”.
Più spaventosa, quantomeno.
“Cosa vuoi sapere?” le chiesi circospetto.
“I Cullen ti hanno adottato?”
“Si”.
Esitò, poi parlò a bassa voce. “Cos’è successo ai tuoi genitori?”
Questa non era così difficile; non dovevo neppure mentirle. “Sono morti parecchio
tempo fa”.
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“Mi dispiace”, biascicò, chiaramente preoccupata di avermi ferito.
Lei era preoccupata per me.
“In verità non me li ricordo tanto bene”, la rassicurai. “Carlisle ed Esme sono i miei
genitori da tanto tempo oramai”.
“E gli vuoi bene”, dedusse.
Sorrisi. “Si. Non potrei immaginare due persone migliori”.
“Sei molto fortunato”.
“So di esserlo”. In quell’unica circostanza, sulla questione dei genitori, la mia
fortuna era innegabile.
“E i tuoi fratelli e le tue sorelle?”
Se la lasciavo farmi pressione per troppi dettagli, avrei dovuto mentirle. Gettai uno
sguardo all’orologio, demoralizzato perché il mio tempo con lei era scaduto.
“I miei fratelli e le mie sorelle, e Jasper e Rosalie quanto a ciò, saranno parecchio
irritati se dovranno restare ad aspettarmi sotto la pioggia”.
“Oh, scusa, immagino tu debba andare”.
Non si muoveva. Neanche lei voleva che il nostro tempo scadesse. Il che mi piaceva
davvero, davvero tanto.
“E probabilmente vorrai riavere indietro il tuo pick-up prima che l’ispettore Swan
torni a casa, così da non dovergli raccontare dell’incidente occorso a biologia”. Spalancai
il sorriso al pensiero del suo imbarazzo mentre la tenevo tra le mie braccia.
“Sono certa che l’ha già saputo. Non ci sono segreti a Forks”. Aveva pronunciato il
nome della città con palese avversione.
Risi delle sue parole. Nessun segreto, davvero. “Divertiti alla spiaggia”. Lanciai
un’occhiata alla pioggia battente, sapendo che non sarebbe durata, e desiderando più
fortemente del normale che lo facesse. “Un tempo eccellente per i bagni di sole”. Beh,
sarebbe stato sabato. Si sarebbe divertita.
“Non ci vediamo domani?”
L’inquietudine nel tono della sua voce mi rallegrò.
“No. Emmett ed io cominciamo il fine settimana in anticipo”. Ero arrabbiato con me
stesso ora per aver fatto quei progetti. Avrei potuto disfarli…ma a questo punto non c’era
niente di simile all’andare troppo a caccia, e la mia famiglia era già abbastanza
preoccupata dalla mia condotta, senza bisogno di fargli capire quanto stessi diventando
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ossessivo.
“Cosa farete?” chiese, all’apparenza per niente felice della mia rivelazione.
Bene.
“Escursionismo alla Riserva Naturale di Goat Rocks, proprio a sud di Rainier”.
Emmett era impaziente di aprire la stagione della caccia all’orso.
“Oh, beh, divertitevi”, disse senza troppo entusiasmo. La sua mancanza di
entusiasmo mi rallegrò nuovamente.
Mentre la guardavo, cominciai a sentirmi quasi agonizzante al pensiero di salutarla
seppure solo provvisoriamente. Era talmente tenera e vulnerabile. Pareva sconsiderato
lasciarla uscire dal mio campo visivo, dove niente sarebbe potuto succederle. E tuttavia, la
cosa peggiore che poteva capitarle sarebbe risultata lo stare con me.
“Faresti una cosa per me questo fine settimana?” chiesi gravemente.
Fece cenno di si con la testa, con gli occhi sgranati e sbigottiti per il mio fervore.
Vacci piano.
“Non ti offendere, ma sembri una di quelle persone che attirano i guai come una
calamita. Perciò…cerca di non cadere nell’oceano o di finire investita o qualunque altra
cosa del genere, d’accordo?”
Le sorrisi mestamente, sperando che non riuscisse a vedere la tristezza che avevo
negli occhi. Quanto avrei voluto che non fosse tanto più al sicuro lontana da me,
qualunque cosa potesse succederle in mia assenza.
Scappa, Bella, scappa. Ti amo troppo, per fare il tuo bene o il mio.
La mia canzonatura l’aveva offesa. Mi guardava torva. “Vedrò cosa posso fare”,
schioccò, uscendo sotto la pioggia e sbattendo la portiera quanto più forte poté dietro di sé.
Proprio come una gattina infuriata che si crede una tigre.
Strinsi la mano attorno alla chiave che le avevo appena sottratto dalla tasca della
giacca, e sorrisi mentre me ne andavo.
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7. Melodia
Una volta tornato a scuola, fui costretto ad aspettare. Il che era un bene, perché avevo
molto a cui pensare ed avevo bisogno di stare da solo.
In macchina persisteva il suo profumo. Tenevo i finestrini chiusi, lasciando che mi
aggredisse, cercando di abituarmi alla sensazione di quel fuoco deliberatamente acceso
nella mia gola.
Attrazione.
Era una questione spinosa sulla quale riflettere. Così tanti aspetti da valutare, così
tanti significati e profondità tra loro differenti. Diversa dall’amore, ma in questo
ricompresa indissolubilmente.
Non avevo idea se Bella fosse attratta da me (il suo silenzio mentale, in qualche
modo, avrebbe continuato a crescere sempre più frustrante finché non fossi diventato
pazzo? O c’era un limite che alla fine avrei raggiunto?).
Cercavo di comparare le sue reazioni fisiche con quelle delle altre, come la
segretaria e Jessica Stanley, ma il paragone era inconcludente. Gli stessi sintomi – il
cambiamento del ritmo cardiaco e del modo di respirare – potevano facilmente attribuirsi
tanto alla paura o allo shock o all’ansia quanto all’interesse. Sembrava inverosimile che
Bella potesse nutrire il medesimo genere di pensieri cui Jessica Stanley era avvezza. In fin
dei conti, Bella sapeva molto bene che c’era qualcosa di sbagliato in me, anche se non
sapeva esattamente cosa fosse. Aveva toccato la mia pelle di ghiaccio, e poi aveva ritirato
bruscamente la mano sottraendola al freddo.
E ciononostante…se ricordavo quelle fantasie che erano solite disgustarmi, ma le
ricordavo con Bella al posto di Jessica…
Stavo respirando più velocemente, il fuoco era un artiglio su e giù per la mia gola.
E se fosse stata Bella ad immaginarmi con le braccia strette attorno al suo fragile
corpo? A sentirmi mentre l’attiravo saldamente al mio petto e poi con la mano le sollevavo
il mento? Togliendole con delicatezza la folta coltre di capelli dal viso arrossato?
Tracciando il contorno delle sue labbra piene con la punta delle mie dita? Inclinando il
mio viso più vicino al suo, dove potevo sentire il calore del suo respiro sulla mia bocca?
Avvicinandomi di più, ancora…
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Ma poi indietreggiai di colpo da quel sogno ad occhi aperti, sapendo, così come
avevo saputo quando Jessica aveva immaginato queste cose, cosa sarebbe successo se le
fossi andato tanto vicino.
L’attrazione era un rompicapo irrisolvibile, perché ero già troppo attratto da Bella
nella maniera peggiore.
Volevo che Bella fosse attratta da me, come una donna da un uomo?
Quella era la domanda sbagliata. La domanda giusta era “Dovrei volere che Bella
fosse attratta da me in quel modo?”. E la risposta era no. Perché io non ero un maschio
umano, e quello non era giusto per lei.
Con ogni fibra del mio io desideravo ardentemente essere un uomo normale,
cosicché avrei potuto tenerla tra le mie braccia senza rischiarne la vita. Cosicché avrei
potuto essere libero di prolungare le mie stesse fantasie, fantasie che non si sarebbero
concluse con il suo sangue sulle mie mani, il suo sangue incandescente nei miei occhi.
Il mio non darle tregua era imperdonabile. Che tipo di relazione avrei potuto
offrirle, quando non potevo rischiare di toccarla?
Mi presi la testa tra le mani.
Tutto era ancora più spiazzante perché non mi ero mai sentito così umano in tutta la
mia vita – nemmeno quando ero umano, per quanto riuscissi a ricordare. Quand’ero stato
umano, i miei pensieri erano stati tutti rivolti alla gloria di una carriera militare. La Grande
Guerra aveva infuriato per quasi tutta la mia adolescenza, e mancavano solamente nove
mesi al mio diciottesimo compleanno quand’era scoppiata l’epidemia d’influenza…
Avevo solamente delle vaghe impressioni su quegli anni da umano, dei ricordi indistinti
che scolorivano di più ad ogni decennio che passava. Ricordavo mia madre più
chiaramente, e sentivo un anelito antico quando pensavo al suo viso. Ricordavo a
malapena quanto aveva odiato il futuro verso il quale smaniavo di precipitarmi, pregando
ogni sera quando rendeva grazie per la cena che l’“orrida guerra” finisse… Non avevo
ricordi di un altro genere di desiderio. Apparte l’amore di mia madre, non c’era altro
amore che mi avesse fatto desiderare di restare…
Tutto questo era completamente nuovo per me. Non avevo paralleli da tracciare, né
paragoni da fare.
L’amore che sentivo per Bella era nato incontaminato, ma adesso le acque erano
torbide. Volevo davvero essere in grado di poterla toccare. Lei provava la stessa cosa?
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Non importa, cercai di convincermi.
Fissavo le mie mani bianche, odiando la loro durezza, la loro freddezza, la loro
forza disumana…
Sussultai quando la porta del passeggero si aprì.
Ah. Colto alla sprovvista. E’ una prima assoluta, pensò Emmett scivolando sul
sedile. “Sono pronto a scommettere che la Signora Goff crede che fai uso di droghe, sei
così strambo ultimamente. Dov’eri oggi?”
“Stavo…facendo delle buone azioni”.
Uh?
Ridacchiai. “Prendendomi cura degli ammalati, quel genere di cose”.
Il che lo confuse ancora di più, ma poi aveva inalato e colto il profumo nella
macchina.
“Oh. Ancora la ragazza?”
Feci una smorfia.
Sta diventando strano.
“Dimmi che ne pensi”, borbottai.
Inalò di nuovo. “Mmm, ha di certo una fragranza considerevole, non è vero?”
Il ringhio si aprì un varco tra le mie labbra addirittura prima che le sue parole
giungessero a destinazione, un riflesso condizionato.
“Calma, ragazzo, si faceva per dire”.
A quel punto arrivarono gli altri. Rosalie notò il profumo all’istante e mi lanciò uno
sguardo truce, ancora nel pieno della sua irritazione. Mi domandavo che problema avesse,
ma tutto ciò che riuscivo a sentire da lei erano insulti.
Neanche la reazione di Jasper mi piacque. Come Emmett, aveva notato il richiamo
di Bella. Non che il profumo esercitasse, su alcuno dei due, un millesimo dell’attrazione
che esercitava su di me. Ero comunque infastidito dal fatto che il suo sangue gli risultasse
dolce. Jasper aveva uno scarso autocontrollo…
Alice salterellò fino al mio lato della macchina e tese la mano in attesa delle chiavi
del pick-up di Bella.
“Ho solo visto che l’avrei fatto”, disse – misteriosamente, com’era sua abitudine. “Il
perché me lo devi dire tu”.
“Questo non significa -”
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“Lo so, lo so. Aspetterò. Non ci vorrà molto”.
Sospirai e le diedi le chiavi.
La seguii fino a casa di Bella. La pioggia batteva rumorosamente come un milione
di piccolissimi martelli, così forte che forse le orecchie umane di Bella non avrebbero
sentito il rombo del motore del pick-up. Guardai la sua finestra, ma lei non si affacciò.
Forse non era lì. Non c’erano pensieri da ascoltare.
Mi rattristò non essere in grado di ascoltare neppure quel tanto necessario per
controllarla – per assicurarmi che fosse felice, o incolume, almeno.
Alice salì dietro e sfrecciammo a casa. Le strade erano vuote, e così ci vollero
solamente pochi minuti. Ci dirigemmo in gruppo dentro casa, e poi ci dedicammo ai nostri
diversi passatempi.
Emmett e Jasper erano nel mezzo di un’elaborata partita di scacchi, giocata con otto
scacchiere riunite – distribuite lungo la scura parete a vetrata – ed una complicata serie di
regole tutte loro. Non mi avrebbero lasciato giocare; solo Alice giocava ancora con me.
Alice si era messa al computer proprio dietro l’angolo rispetto a loro e potevo
sentire i suoi monitor che prendevano vita ronzando. Alice stava lavorando al progetto per
dei modelli per il guardaroba di Rosalie, ma Rosalie non l’aveva raggiunta oggi,
mettendosi dietro di lei a decidere il taglio ed il colore intanto che la mano di Alice
disegnava sopra gli schermi sensibili al tocco (Carlisle ed io avevamo dovuto modificare
un poco quel sistema, poiché la maggior parte di quel genere di schermi reagiva alla
temperatura del corpo). Invece, oggi Rosalie era crollata astiosamente sul divano ed aveva
cominciato a scorrere venti canali al secondo sullo schermo piatto, senza mai fermarsi.
L’ascoltai cercare di decidere se andare o meno in garage a mettere ancora a punto la sua
BMW.
Esme era al piano di sopra, e canticchiava impegnata da una nuova serie di
cianografie.
Alice poco dopo fece capolino dalla parete e cominciò a scandire muta con il solo
labiale la mossa successiva di Emmett – che sedeva sul pavimento dandole le spalle – a
beneficio di Jasper, che mantenne la sua espressione molto pacata mentre abbatteva il
cavallo preferito di Emmett.
Ed io, per la prima volta dopo così tanto tempo che me ne vergognavo, presi posto
allo squisito pianoforte a coda sistemato proprio accanto alla porta d’ingresso.
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Feci correre delicatamente la mano sulle scale armoniche, testandone la tonalità.
L’accordatura era ancora perfetta.
Al piano di sopra, Esme aveva interrotto ciò che stava facendo ed aveva reclinato il
capo di lato.
Attaccai con il primo rigo della melodia che mi si era proposta in macchina oggi,
compiaciuto che suonasse persino migliore di quanto avessi immaginato.
Edward sta suonando di nuovo, pensò Esme giubilante, con un sorriso che le
attraversava viso. Si alzò dalla scrivania e corse silenziosamente in cima alle scale.
Aggiunsi un nuovo accordo, lasciando che la melodia principale vi si avviluppasse.
Esme sospirò appagata, sedendosi sul gradino più alto, ed appoggiò il capo contro la
balaustra. Un nuovo brano. E’ passato così tanto tempo. Che splendida melodia.
Lasciai che la melodia guidasse verso una nuova direzione, seguendola con un giro
di bassi.
Edward sta componendo di nuovo? Pensò Rosalie, ed i suoi denti si serrarono stretti
per la veemenza del suo risentimento.
In quell’istante, commise un errore di distrazione, e potei leggerne tutta la profonda
indignazione. Riuscii a vedere perché era tanto in collera con me. Perché l’idea di uccidere
Isabella Swan non aveva minimamente scosso la sua coscienza.
Con Rosalie, era sempre una questione di vanità.
La musica s’interruppe bruscamente, e scoppiai a ridere prima di riuscire ad
impedirmelo, un debordante latrato divertito che esplose rapidamente mentre mi portavo la
mano davanti alla bocca.
Rosalie si voltò a guardarmi, con gli occhi lampeggianti una mortificazione furiosa.
Anche Emmett e Jasper si voltarono a fissarmi, e riuscii a sentire la confusione di
Esme. Esme scese al piano di sotto in un baleno, fermandosi tra Rosalie e me e
lanciandoci delle occhiate inquisitorie.
“Non smettere, Edward”, m’incoraggiò Esme dopo un momento di tensione.
Ricominciai a suonare, voltando le spalle a Rosalie mentre cercavo con ogni sforzo
di controllare il sorriso spalancato che mi attraversava il viso. Lei si alzò in piedi ed uscì
altezzosamente dalla stanza, più arrabbiata che imbarazzata. Ma sicuramente piuttosto
imbarazzata.
Se lo dici a qualcuno ti darò la caccia come a un cane.
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Soffocai un’altra risata.
“Che c’è che non va, Rose?” la richiamò Emmett. Rosalie non si voltò. Proseguì
fino al garage con la schiena dritta come un fuso, e poi guizzò sotto la sua macchina come
se potesse seppellircisi.
“Di che si tratta?” mi chiese Emmett.
“Non ne ho la minima idea”, mentii.
Emmett brontolò, frustrato.
“Continua a suonare”, sollecitò Esme. Le mie mani si erano fermate di nuovo.
Feci come aveva chiesto, e lei si mise in piedi dietro di me, poggiandomi le mani
sulle spalle.
Il motivo era irresistibile, ma incompiuto. Giocai con uno stacco, ma in qualche
modo non sembrò appropriato.
“E’ adorabile. Ha un titolo?” chiese Esme.
“Non ancora”.
“C’è una storia dietro?” chiese, con un sorriso nella voce. Questo le dava un
immenso piacere, e mi sentivo colpevole per aver trascurato la mia musica per tanto
tempo. Ero stato egoista.
“E’…una ninna nanna, suppongo”. Inserii lo stacco in quel punto. Si portò con
disinvoltura al movimento successivo, prendendo vita da solo.
“Una ninna nanna”, ripeté tra sé.
C’era una storia dietro questa melodia, ed una volta vistala, le note andarono a
posto senza alcuna fatica. La storia era quella di una ragazza addormentata in un piccolo
letto, con i capelli scuri folti ed arruffati e sparpagliati sul cuscino come alghe marine…
Alice abbandonò Jasper a sé stesso e venne a sedersi vicino a me sul panchetto. Con
la sua voce cristallina, simile a dei campanellini, intonò un discanto privo di parole due
ottave sopra la melodia.
“Mi piace”, mormorai. “Ma che ne dici di questo?”
Aggiunsi il suo rigo all’armonia – le mie mani stavano volando sui tasti ora, per
ricomporre insieme tutti i pezzi – modificandolo appena, portandolo in una nuova
direzione…
Lei ne colse l’atmosfera, e lo seguì cantando.
“Si. Perfetto”, dissi.
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©2008 Stephenie Meyer
Esme strinse la mia spalla.
Ma ora potevo vederne la conclusione, con la voce di Alice che cresceva sopra la
melodia e la dirigeva altrove. Potevo vedere come il brano doveva finire, perché la ragazza
addormentata era perfetta proprio così com’era, ed un qualunque cambiamento sarebbe
stato un errore, una tristezza. Il brano deviò verso quella consapevolezza, più lento e più
basso adesso. Anche la voce di Alice si abbassò, e divenne solenne, un timbro che
apparteneva alla volta delle arcate sonore di una cattedrale illuminata dalle candele.
Suonai l’ultima nota, e poi chinai la testa sulla tastiera.
Esme mi accarezzò i capelli. Andrà bene, Edward. Si risolverà per il meglio. Tu
meriti la felicità, figlio mio. Il fato te la deve.
“Grazie”, dissi a bassa voce, sperando di poterci credere.
L’amore non sempre arriva nella forma più conveniente.
Risi divertito.
Tu, meglio di chiunque altro su questo pianeta, sei forse il più preparato per
trattare con una questione così difficile. Sei il migliore e il più intelligente tra tutti noi.
Sospirai. Ogni madre pensa lo stesso del proprio figlio.
Esme era ancora al colmo della gioia perché il mio cuore era stato finalmente
toccato dopo tutto questo tempo, il potenziale tragico non contava. Aveva pensato che
sarei rimasto da solo per sempre…
Lei non potrà non ricambiare il tuo amore, pensò improvvisamente, cogliendomi di
sorpresa per la direzione dei suoi pensieri. Se è una ragazza brillante. Sorrise. Ma non
riesco ad immaginare che possa esserci qualcuno di così ottuso da non riuscire a vedere
quale conquista tu sia.
“Basta, Mamma, mi stai facendo arrossire”, la presi in giro. Le sue parole,
quantunque inverosimili, mi avevano rallegrato.
Alice rise e strimpellò l’attacco di “Heart and Soul”. Spalancai il sorriso e completai
l’elementare melodia insieme a lei. Poi le concessi un’esecuzione di “Chopsticks”.
Emise un risolino, poi sospirò. “E così speravo che mi dicessi perché stavi ridendo
di Rosalie”, disse Alice. “Ma vedo che non lo farai”.
“No”.
Mi schioccò un colpetto sull’orecchio con il dito.
“Fa la brava, Alice”, la rimproverò Esme. “Edward è un gentiluomo”.
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©2008 Stephenie Meyer
“Ma io voglio sapere”.
Risi del tono piagnucoloso che aveva assunto. Poi dissi, “Ecco, Esme”, e cominciai
a suonare il suo brano preferito, un tributo senza nome all’amore che avevo visto tra lei e
Carlisle per così tanti anni.
“Grazie, caro”. Strinse forte la mia spalla di nuovo.
Non dovevo concentrarmi per suonare quel pezzo familiare. Invece pensai a Rosalie
che, metaforicamente parlando, era ancora in garage a torcersi per la mortificazione, e
sorrisi tra me.
Avendo appena scoperto io stesso il potere della gelosia, sentivo appena un pò di
pena per lei. Era un qualcosa di miserabile da provare. Ovviamente, la sua gelosia era
migliaia di volte più meschina della mia. Proprio come nello scenario della volpe alla
mangiatoia1.
Mi chiedevo se la personalità e la vita di Rosalie sarebbero state diverse se lei non
fosse sempre stata la più bella. Sarebbe stata una persona più felice se la bellezza non
fosse stata per tutto il tempo il suo maggior punto di forza? Meno egocentrica? Più
compassionevole? Beh, immaginavo che fosse inutile chiederselo, perché i giochi erano
fatti, e lei era sempre stata la più bella. Anche quand’era un’umana, aveva sempre vissuto
sotto la luce dei riflettori della sua stessa grazia. Non che se ne preoccupasse. Al contrario
– amava essere ammirata al di sopra d’ogni altra cosa. Il che non era cambiato con la
perdita della mortalità.
Non ero sorpreso, quindi, partendo da questo dato, che si fosse offesa quando, sin
dal principio, non avevo venerato la sua bellezza nel modo in si aspettava di essere
venerata da tutti gli uomini. Non che volesse me, comunque – tutt’altro. Ma l’aveva
esasperata che io non la volessi. Era abituata ad essere desiderata.
Era diverso con Jasper e Carlisle – erano entrambi già innamorati. Io non avevo
nessuno, e ciononostante rimanevo ostinatamente impassibile.
Pensavo che l’antico risentimento fosse sepolto. Che l’avesse superato da tempo.
E l’aveva fatto…fino al giorno in cui finalmente avevo trovato qualcuno la cui
bellezza mi aveva toccato nel modo in cui la sua non era riuscita.
Rosalie si era adagiata sulla convinzione che se non trovavo la sua bellezza degna di
venerazione, allora certamente non c’era bellezza sulla terra che avrebbe potuto colpirmi.
1 Riferimento a “La volpe alla mangiatoia” (“The fox in the manger”), di Pamela Lyndon Travers; n.d.t.
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Era stata furiosa sin dal momento in cui avevo salvato la vita di Bella, immaginando, con
il suo affilato istinto femminile, l’interesse del quale io stesso era ancora del tutto
inconsapevole.
Rosalie era mortalmente offesa perché trovavo una qualunque insulsa ragazza
umana più attraente di lei.
Trattenni l’impulso di scoppiare a ridere di nuovo.
Tuttavia, m’infastidiva un pò il modo in cui vedeva Bella. Rosalie pensava
veramente che fosse bruttina. Come poteva crederlo? Mi era del tutto incomprensibile.
Un parto della gelosia, senza dubbio.
“Oh!” disse Alice d’improvviso. “Jasper, indovina?”
Vidi cos’aveva appena visto, e le mie mani s’immobilizzarono sui tasti.
“Cosa, Alice?” chiese Jasper.
“Peter e Charlotte verranno a trovarci la prossima settimana! Si troveranno a passare
nei dintorni, non è carino?”
“Cosa c’è che non va, Edward?” chiese Esme, percependo la tensione nelle mie
spalle.
“Peter e Charlotte verranno a Forks?” sibilai ad Alice.
Lei roteò gli occhi. “Calmati, Edward. Non è la loro prima visita”.
I miei denti si serrarono. Era la loro prima visita da quando era arrivata Bella, ed il
suo sangue dolce non era attraente per me soltanto.
Alice aggrottò le sopracciglia di fronte alla mia espressione. “Non vanno mai a
caccia qui. Lo sai”.
Ma quella specie di fratello di Jasper e la piccola vampira che lui amava non erano
come noi; loro cacciavano alla maniera tradizionale. Non ci si poteva fidare di averli
attorno a Bella.
“Quando?” domandai.
Mise il broncio scontenta, però mi disse ciò che avevo bisogno di sapere. Lunedì
mattina. Nessuno farà del male a Bella.
“No”, convenni, e poi mi voltai altrove. “Sei pronto, Emmett?”
“Pensavo partissimo in mattinata”
“Faremo ritorno verso la mezzanotte di domenica. Immagino che spetti a te decidere
quando vuoi partire”.
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“D’accordo, va bene così. Lasciami salutare Rosalie prima”.
“Sicuro”. Considerando l’umore di Rosalie, sarebbe stato un saluto piuttosto breve.
Stavolta hai passato il segno, Edward, pensò mentre dirigeva verso la porta sul
retro.
“Immagino di si”.
“Suona il nuovo brano per me, una volta ancora”, chiese Esme.
“Se proprio ci tieni”, acconsentii, sebbene fossi un poco riluttante a seguire la
melodia fino alla sua inevitabile conclusione – la conclusione che mi aveva addolorato in
modi del tutto sconosciuti. Mi fermai a pensare per un momento, e poi presi il tappo della
bottiglia dalla tasca della mia giacca e l’appoggiai sopra il leggio vuoto. Il che mi aiutò un
poco – il mio piccolo memento del suo si.
Annuii tra me, e cominciai a suonare.
Esme ed Alice si scambiarono un’occhiata, ma nessuna delle due fece domande.
“Non ti ha mai detto nessuno che non si gioca con il cibo?” gridai ad Emmett.
“Oh, hey Edward!” mi gridò di rimando, sorridendomi e salutandomi con la mano.
L’orso approfittò della sua distrazione per affondare la zampa pesante lungo il torace di
Emmett. Gli artigli affilati stracciarono la sua maglia, e stridettero contro la sua pelle.
L’orso emise un ruglio acuto.
Miseriaccia, questa maglia me l’aveva regalata Rose!
Emmett ruggì di rimando alla bestia infuriata.
Sospirai e mi misi seduto su un pratico masso. Avrebbe potuto volerci del tempo.
Ma Emmett aveva quasi finito. Lasciò che l’orso provasse a staccargli la testa con
un’altra zampata, ridendo quando mancò il colpo e l’orso barcollò all’indietro.
L’orso bramì ed Emmett rise di nuovo fragorosamente. Poi si lanciò sull’animale,
che stava in piedi sulle zampe posteriori più alto di lui di una spanna, ed i loro corpi
caddero a terra aggrovigliati, portandosi dietro un pino adulto. I grugniti dell’orso si
zittirono con un gorgoglio.
Pochi minuti dopo, Emmett trotterellò dove lo stavo aspettando. La sua maglia era
distrutta, lacera e macchiata di sangue, appiccicosa di linfa e ricoperta di pelo. Aveva un
enorme sorriso sulla faccia.
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“Era uno forte quello. Riuscivo quasi a sentirlo quando mi artigliava”.
“Sei un tale bambino, Emmett”.
Squadrò la mia polo intatta ed immacolata. “Non sei riuscito a scovare quel leone di
montagna, dunque?”
“Naturale che ci sono riuscito. E’ solo che non mi nutro come un selvaggio”.
Emmett scoppiò nella sua fragorosa risata. “Vorrei che fossero più forti. Sarebbe più
divertente”.
“Non è detto che ci si debba azzuffare con il proprio cibo”.
“Già, ma con chi altri potrei azzuffarmi? Tu ed Alice barate, Rose non vuole mai
che le si spettinino i capelli, ed Esme diventa furiosa se Jasper ed io c’impegniamo sul
serio”
“La vita è piuttosto dura, non è vero?”
Emmett aveva spalancato il sorriso, spostando leggermente il peso così da trovarsi
improvvisamente pronto a dare la carica.
“Coraggio Edward. Disattivalo soltanto per un minuto e combatti alla pari”.
“Non si disattiva”, gli ricordai.
“Chissà come fa quella ragazza umana a tenerti fuori?” rifletté Emmett. “Forse
potrebbe darmi qualche dritta”.
Il mio buon umore svanì. “Stai lontano da lei”, ringhiai tra i denti.
“Siamo un pò suscettibili”
Sospirai. Emmett prese posto accanto a me sulla roccia.
“Scusa. So che stai attraversando un momento difficile. Ci provo davvero a non
essere troppo un tale bestione insensibile, ma, dal momento che è una sorta di dote
naturale per me…”
Aspettò che ridessi della sua battuta e poi mi fece una boccaccia.
Così serio tutto il tempo. Cos’è che ti rode adesso?
“Sto pensando a lei. Beh, mi sto preoccupando, in realtà”.
“Che c’è da preoccuparsi? Tu sei qui”. Rise fragorosamente.
Ignorai di nuovo la sua battuta, ma risposi alla sua domanda. “Hai mai pensato a
quanto fragili siano tutti loro? A quante cose brutte ci sono che possono capitare ad un
mortale?”
“Veramente no. Credo di capire cosa intendi, però. Non potevo davvero competere
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con un orso a quell’epoca, vero?”
“Orsi”, borbottai, aggiungendo una nuova preoccupazione alla lista. “Ci sarebbe da
aspettarselo con la sua fortuna, no? Un orso vagante per la città. Ovviamente punterebbe
diritto a Bella”.
Emmett ridacchiò. “Pare di sentir parlare un matto, lo sai vero?”
“Immagina solamente per un minuto che Rosalie sia umana, Emmett. E che possa
incappare in un orso…o essere investita da una macchina…o colpita da un fulmine…o
cadere per le scale…o ammalarsi – prendersi un accidente!”. Le parole mi esplodevano da
dentro come una tempesta. Era un sollievo lasciarle uscire – era tutto il fine settimana che
mi stavano logorando nel profondo. “Incendi e terremoti e tornadi! Ugh! Quand’è stata
l’ultima volta che hai guardato il telegiornale? Furti con scasso e omicidi…”. I miei denti
si serrarono, ed ero d’improvviso talmente furioso all’idea che un altro umano potesse
farle del male che non riuscivo a respirare.
“Ferma, ferma! Basta così, ragazzo. Lei vive a Forks, ricordi? Perciò può solo
pioverle addosso”. Scrollò le spalle.
“Penso che abbia una certa iella, Emmett, lo penso davvero. Non puoi ignorare
l’evidenza. Di tutti i posti al mondo in cui sarebbe potuta andare, è finita in una città in cui
i vampiri costituiscono una fetta considerevole della popolazione”.
“Si, ma noi siamo vegetariani. Questa non è una fortuna, invece che una sfortuna?”
“Considerando come profuma? Decisamente una sfortuna. E poi, altra sfortuna, il
modo in cui profuma per me”. Guardai torvo le mie mani, odiandole di nuovo.
“Tranne che hai più autocontrollo di chiunque, fatta eccezione per Carlisle. Un’altra
fortuna”.
“Il furgoncino?”
“Quello è stato solo un incidente”.
“Avresti dovuto vederlo venire per lei, Em, ancora ed ancora. Giuro, era come se
avesse una qualche forza di attrazione magnetica”.
“Ma tu eri là. Quella è stata una fortuna”.
“Davvero? Non è forse questa la peggiore sfortuna che una qualunque umana possa
avere - avere un vampiro innamorato di lei?”
Emmett ci meditò silenziosamente sopra per un momento. Si fece un ritratto
mentale della ragazza e trovò l’immagine priva d’interesse. Onestamente, non riesco
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davvero a capirne l’attrattiva.
“Beh, nemmeno io riesco a capire che fascino possa avere Rosalie”, dissi
sgarbatamente. “Onestamente, mi pare che richieda uno sforzo maggiore di quanto una
qualunque bella faccia meriti”.
Emmett ridacchiò. “Suppongo che non mi diresti…”.
“Non so qual è il suo problema, Emmett”, mentii, sfoderando di colpo un largo
sorriso.
Avevo previsto i suoi propositi in tempo per puntellarmi. Cercò di spingermi giù
dalla roccia, e si udì un forte schianto mentre una crepa si apriva nella pietra tra di noi.
“Baro”, borbottò.
Aspettavo che ci riprovasse, ma i suoi pensieri presero una direzione diversa. Stava
nuovamente tratteggiando il viso di Bella, ma immaginandolo più pallido, dipingendola
con gli occhi di un rosso brillante…
“No”, dissi, con voce strozzata.
“Risolverebbe le tue preoccupazioni sulla sua mortalità, o no? E poi neanche
vorresti più ucciderla. Non è la soluzione migliore?”
“Per me? O per lei?”
“Per te”, rispose semplicemente. Il suo tono sottintendeva un ovviamente.
Risi senza allegria. “Risposta sbagliata”.
“A me non è dispiaciuto così tanto”, mi ricordò.
“A Rosalie si”.
Sospirò. Sapevamo entrambi che Rosalie avrebbe fatto qualunque cosa, sacrificato
qualunque cosa, persino Emmett, se questo significava poter essere di nuovo umana.
“Si, a Rosalie si”, accondiscese a bassa voce.
“Non posso… Non dovrei… Non rovinerò la vita di Bella. Non proveresti lo stesso,
se si trattasse di Rosalie?”
Emmett ci pensò su per un attimo. Tu…la ami davvero?
“Non riesco neppure a spiegarlo, Emmett. D’improvviso, questa ragazza è tutto il
mio mondo. Non capisco che senso abbia il resto del mondo senza di lei”.
Ma non la trasformerai? Non durerà per sempre, Edward.
“Questo lo so” gemetti.
E, come tu stesso hai puntualizzato, è piuttosto fragile.
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“Credimi – so anche questo”.
Emmett non era una persona di tatto, e le discussioni delicate non erano il suo forte.
Era in difficoltà adesso, volendo davvero non risultare offensivo.
Non puoi neanche toccarla? Voglio dire, se ne sei innamorato…non vorresti, ecco,
toccarla…?
Emmett e Rosalie condividevano un’intensa passione fisica. Per lui era piuttosto
difficile capire come qualcuno potesse amare, senza quell’aspetto.
Sospirai. “Non posso nemmeno pensarci, Emmett”.
Wow. Allora quali sono le tue alternative?
“Non lo so”, dissi con voce fioca. “Sto cercando di trovare un modo per…per
lasciarla. Non riesco neppure a capire come fare a convincermi a starle lontano…”
Con un senso di profonda soddisfazione, d’un tratto mi resi conto che era giusto per
me rimanere – almeno per ora, con Peter e Charlotte in arrivo. Era più al sicuro con me
vicino, provvisoriamente, di quanto non sarebbe stata se me ne fossi andato. Per il
momento, potevo essere il suo improbabile protettore.
Il pensiero mi rese impaziente; smaniavo di tornare indietro così da poter
immergermi in quel ruolo quanto più a lungo potevo.
Emmett notò il cambiamento della mia espressione. A che stai pensando?
“Proprio ora”, ammisi con aria imbarazzata, “Sto morendo dalla voglia di tornare di
corsa a Forks e di darle una controllata. Non so se resisterò fino a domenica notte”.
“Uh-uh! Non tornerai a casa in anticipo. Lascia a Rosalie il tempo di sbollire un pò.
Per favore! Per il mio bene”
“Cercherò di restare”, dissi incerto.
Emmett diede un colpetto al cellulare nella mia tasca. “Alice avrebbe chiamato se ci
fossero delle ragioni fondate per il tuo attacco di panico. E’ strana quanto te nei confronti
di questa ragazza”.
Feci una smorfia per questo. “D’accordo. Ma non resterò più in là di domenica”.
“Non c’è alcun motivo di affrettare il rientro – ci sarà il sole, comunque. Alice ha
detto che saremo liberi di non tornare a scuola fino a mercoledì”.
Scossi rigidamente la testa.
“Peter e Charlotte sanno come devono comportarsi”.
“Non m’interessa granché, Emmett. Con la fortuna di Bella, se ne andrà a fare una
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passeggiata nel bosco esattamente al momento sbagliato e -” trasalii. “Peter non è famoso
per il suo autocontrollo. Rientrerò domenica”.
Emmett sospirò. Proprio come un matto.
Bella stava dormendo pacificamente quando mi arrampicai fino alla finestra della sua
stanza da letto lunedì mattina presto. Mi ero ricordato l’olio stavolta, e la finestra ora
scivolava silenziosamente sgombrandomi il passo.
Potevo dire, dal modo in cui i suoi capelli giacevano ordinati sul cuscino, che aveva
trascorso una notte meno agitata di quella dell’ultima volta che ero stato qui. Teneva le
mani ripiegate sotto la guancia proprio come una bambina piccola, e la sua bocca era
leggermente socchiusa. Potevo sentire il suo respiro entrare ed uscire lentamente tra le sue
labbra.
Era un sollievo straordinario essere qui, poterla rivedere. Mi rendevo conto che non
mi sentivo del tutto a mio agio a meno che non fosse così. Niente aveva senso quando
stavo lontano da lei.
Non che tutto avesse un senso quand’ero con lei, tuttavia. Sospirai, lasciando che il
fuoco della sete mi graffiasse la gola. Ero stato lontano troppo a lungo. Il tempo speso
senza il dolore e la tentazione rendevano tutto ancora più intenso adesso. Era forte
abbastanza da farmi temere d’inginocchiarmi accanto al suo letto in modo da poter leggere
i titoli dei suoi libri. Volevo sapere quali storie avesse in mente, ma ero preoccupato di
molto più che la mia sete, temendo che se avessi permesso a me stesso di avvicinarmi
troppo, le sarei voluto andare ancora più vicino…
Le sue labbra avevano l’aria di essere molto morbide e calde. Potevo immaginarmi
di toccarle con la punta delle dita. Sfiorandole appena…
Quello era esattamente il genere di errore che dovevo evitare.
I miei occhi correvano sul suo viso ancora ed ancora, per verificarne i cambiamenti.
I mortali cambiavano tutto il tempo – il pensiero di potermi perdere una qualunque cosa
mi rattristava…
Pensai che sembrasse…stanca. Come se non avesse dormito abbastanza quel fine
settimana. Era uscita?
Risi silenziosamente e sarcasticamente per come la cosa m’infastidiva. E se l’aveva
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fatto? Non la possedevo. Non era mia.
No, non era mia – e mi rattristai di nuovo.
Una delle sue mani si era mossa di scatto, e notai che c’erano delle sbucciature
superficiali, appena rimarginate che le attraversavano il palmo. Si era fatta male?
Quantunque non fosse con ogni evidenza una ferita grave, mi disturbava ugualmente.
Considerai la posizione, e decisi che doveva essere inciampata. Pareva una spiegazione
ragionevole, tutto considerato.
Era confortante pensare che non mi sarei dovuto scervellare per sempre su alcuno di
quei piccoli misteri. Eravamo amici adesso – o, almeno, stavamo cercando di essere amici.
Avrei potuto chiederle del suo fine settimana – della spiaggia, e di qualunque altra attività
che l’avesse tenuta impegnata fino a tarda notte facendola apparire così affaticata. Avrei
potuto chiederle cos’era capitato alle sue mani. Ed avrei potuto ridere un pò quando avesse
confermata la mia teoria.
Sorrisi dolcemente mentre mi domandavo se fosse caduta o meno nell’oceano. Mi
chiedevo se avesse trovata quell’uscita piacevole. Mi chiedevo se avesse pensato per
niente a me. Se le fossi mancato anche solo una minima parte di quanto lei era mancata a
me.
Cercai d’immaginarmela nel sole della spiaggia. L’immagine era incompleta, però,
perché non ero mai stato a First Beach. L’avevo vista solamente in fotografia…
Provai un lieve attacco di nausea pensando al motivo per cui non ero mai stato
nemmeno una volta in quella spiaggia amena che si trovava solamente a pochi minuti di
corsa da casa mia. Bella aveva trascorso la giornata a La Push – un posto nel quale, per
trattato, mi era vietato andare. Un posto dove alcuni anziani ancora ricordavano le storie
sui Cullen, le ricordavano e ci credevano. Un posto dove il nostro segreto era
conosciuto…
Scrollai la testa. Non avevo nulla di cui preoccuparmi. I Quileutes erano anche loro
vincolati dal trattato. Quand’anche Bella fosse incappata in uno di quei vecchi saggi, non
avrebbe potuto rivelarle nulla. E perché mai l’argomento avrebbe dovuto essere
affrontato? Perché Bella avrebbe dovuto dar voce alla propria curiosità proprio lì? No – i
Quileutes erano forse l’unica cosa della quale non dovevo preoccuparmi.
Mi arrabbiai con il sole quando cominciò a sorgere. Mi ricordava che nei prossimi
giorni non avrei potuto soddisfare la mia curiosità. Perché aveva deciso di splendere
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proprio ora?
Con un sospiro, uscii dalla sua finestra prima che ci fosse abbastanza luce da
permettere a chicchessia di vedermi qui. Intendevo fermarmi nel fitto bosco accanto a casa
sua per vederla uscire per andare a scuola, ma quando giunsi tra gli alberi, fui sorpreso di
trovare la traccia del suo profumo persistente lungo il sentiero.
La seguii velocemente, curioso, diventando sempre più preoccupato intanto che
s’inoltrava più profondamente nell’oscurità. Cosa ci faceva Bella qui fuori?
La traccia si era interrotta bruscamente, nel bel mezzo di niente in particolare. Si era
diretta di soli pochi passi fuori dal sentiero, tra le felci, dove aveva toccato il tronco di un
albero caduto. Forse si era seduta lì…
Mi misi a sedere dove aveva fatto lei, e mi guardai intorno. Tutto ciò che poteva
aver visto erano le felci ed il bosco. Probabilmente stava piovendo – il profumo era stato
lavato via, dato che non era mai penetrato a fondo nell’albero.
Perché Bella avrebbe dovuto sedersi qui da sola – ed era sola, non c’era dubbio –
nel bel mezzo del bosco umido e fosco?
Non aveva senso e, a differenza degli altri motivi della mia curiosità, difficilmente
avrei potuto sollevare la questione durante una chiacchierata qualunque.
Sai, Bella, stavo seguendo il tuo profumo attraverso il bosco dopo aver lasciato la
tua camera dove ero rimasto a guardarti dormire… Si, sarebbe stato davvero un bel modo
di rompere il ghiaccio.
Non avrei mai saputo cosa stava pensando o facendo qui, e questo mi fece
digrignare i denti per la frustrazione. Peggio ancora, questo assomigliava fin troppo allo
scenario che avevo immaginato per Emmett – Bella che passeggiava da sola nel bosco,
dove il suo profumo avrebbe richiamato chiunque avesse i sensi sviluppati da seguirne la
traccia…
Gemetti. Non solo aveva sfortuna, ma la corteggiava.
Beh, per il momento aveva un protettore. Avrei badato io a lei, l’avrei tenuta al
sicuro, fintanto che potevo giustificarlo.
Improvvisamente mi ritrovai a desiderare che Peter e Charlotte prolungassero la loro
visita.
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8. Fantasma
Non vidi molto gli ospiti di Jasper in quei due giorni di sole che passarono a Forks.
Tornavo a casa solamente il minimo indispensabile per non far preoccupare Esme. Per il
resto, la mia esistenza sembrava più quella di un fantasma che di un vampiro. Mi aggiravo,
invisibile tra le ombre, dove potevo seguire l’oggetto del mio amore e della mia ossessione
– dove potevo vederla e sentirla nella mente di quei fortunati umani che potevano
camminarle accanto nel sole, qualche volta sfiorandole incidentalmente il dorso della
mano con la propria. Non reagiva mai a quel contatto; le loro mani erano calde e morbide
proprio come le sue.
L’assenza forzata da scuola non era mai stata un tale tormento prima d’ora. Ma il
sole pareva renderla felice, perciò non potevo esserne troppo risentito. Qualunque cosa le
facesse piacere era nelle mie buone grazie.
Lunedì mattina origliai una conversazione che aveva il potenziale di distruggere la
mia fiducia e rendere il tempo trascorso lontano da lei una tortura. Ciononostante, quando
terminò, mi rese piuttosto felice.
Dovevo riconoscere un pò di rispetto a Mike Newton; non si era semplicemente
arreso e non se l’era svignata per andare a leccarsi le ferite. Aveva più coraggio di quanto
non gli avessi dato credito. Stava per riprovarci.
Bella era arrivata a scuola abbastanza in anticipo e, apparentemente determinata a
godersi il sole finché fosse durato, si era seduta su una delle panche da pic-nic usate di
rado mentre aspettava che suonasse la campanella della prima ora. I suoi capelli
catturavano la luce del sole in modi inaspettati, sprigionando un riflesso rossiccio che non
avevo previsto.
Mike l’aveva trovata lì, che faceva nuovamente dei ghirigori, ed era elettrizzato per
la sua buona sorte.
Era straziante poter solo restare a guardare, impotente, confinato tra le ombre della
foresta dalla luce del sole splendente.
Lei lo salutò con un entusiasmo sufficiente a rendere lui estatico, e me l’opposto.
Vedi, le piaccio. Non mi sorriderebbe a quel modo se non fosse così. Scommetto che
voleva venire al ballo con me. Mi domando cosa ci sia di così importante a Seattle…
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Notò il cambiamento nei suoi capelli. “Non me n’ero mai accorto prima – c’è del
rosso tra i tuoi capelli”.
Accidentalmente, sradicai il giovane pino sul quale poggiava la mia mano quando
prese una ciocca dei suoi capelli tra le sue dita.
“Solo alla luce del sole”, disse. Con mia profonda soddisfazione, indietreggiò
brusca appena un pò quando lui le rimise a posto la ciocca dietro l’orecchio.
A Mike serviva qualche momento per racimolare il suo coraggio, perciò perse
tempo in chiacchiere.
Lei gli ricordò del saggio che tutti dovevamo consegnare mercoledì. Data la sua
espressione lievemente compiaciuta, il suo doveva averlo già fatto. Lui se n’era
completamente dimenticato, il che riduceva grandemente il tempo libero che aveva
disponibile.
Maledizione – stupido saggio.
Alla fine arrivò al dunque – i miei denti erano serrati così stretti che avrebbero
potuto polverizzare il granito – ed anche allora, non riuscì a formulare la domanda come si
deve.
“Stavo pensando di chiederti se ti andava di uscire”.
“Oh”, disse lei.
Seguì un breve silenzio.
Oh? Che significa? Dirà di si? Aspetta – non mi pare di averglielo chiesto
veramente.
Deglutì a fatica.
“Beh, per una cena o qualcosa del genere…e potrei lavorare al saggio più tardi”.
Stupido – neanche questa era una domanda.
“Mike…”
L’angoscia e la furia della mia gelosia erano in tutto e per tutto potenti come lo
erano state la settimana precedente. Abbattei un altro albero cercando di trattenermi
dov’ero. Volevo con tutto me stesso precipitarmi attraverso il campus, troppo rapido per
gli occhi umani, ed afferrarla velocemente – per sottrarla a quel ragazzo che odiavo così
tanto in questo momento che avrei potuto ucciderlo e godere nel farlo.
Gli avrebbe detto si?
“Non credo che sarebbe una grande idea”.
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Ricominciai a respirare. Il mio corpo rigido si rilassò.
Seattle era solamente una scusa, dopo tutto. Non avrei dovuto chiederglielo. A che
pensavo? Scommetto che è per via di quel mostro, Cullen…
“Perché?” chiese astiosamente.
“Penso…” esitò. “E se mai ripeterai quello che sto per dirti proprio ora godrò nel
torturarti a morte -”
Scoppiai a ridere fragorosamente al suono di quella minaccia di morte pronunciata
dalle sue labbra. Una ghiandaia gracchiò stridula, allarmata, e si lanciò lontana da me.
“Ma penso che la cosa ferirebbe i sentimenti di Jessica”.
“Jessica?” Che cosa? Ma… Oh. D’accordo. Immagino… Perciò… Huh.
I suoi pensieri non rimasero coerenti più a lungo.
“Sul serio Mike, sei cieco?”
Feci eco ai suoi sentimenti. Non poteva aspettarsi che fossero tutti perspicaci quanto
lei, ma questo caso andava al di là dell’ovvio. Con tutta la fatica che a Mike era costata
l’essere pronto a chiedere a Bella di uscire, davvero immaginava che per Jessica non era
stato altrettanto difficile? Doveva essere l’egoismo a renderlo cieco nei confronti degli
altri. E Bella era così altruista, notava ogni cosa.
Jessica. Huh. Wow. Huh. “Oh”, riuscì a dire.
Bella approfittò della sua confusione per darsi alla fuga.
“E’ ora di andare in classe, e non posso arrivare di nuovo in ritardo”.
Da quel momento in poi Mike diventò un punto di osservazione inaffidabile. Scoprì,
mentre faceva girare l’idea di Jessica ancora ed ancora nella sua mente, che gli piaceva
non poco il pensiero che lei lo considerasse attraente. Era una seconda scelta, non buona
come Bella se fosse stata altrettanto ben disposta.
E’ carina, però, suppongo. Un corpo niente male. Meglio un uovo oggi…
A quel punto era partito, con nuove fantasie che erano volgari esattamente come
quelle che riguardavano Bella, ma che ora m’irritavano e basta piuttosto che farmi
infuriare. Quanto poco meritava entrambe le ragazze; erano quasi intercambiabili per lui.
Dopo di quello mi tenni lontano dalla sua mente.
Quando svanì dalla mia vista, mi raggomitolai contro il freddo tronco di un enorme
corbezzolo e volteggiai di mente in mente, tenendola d’occhio, sempre contento quando
Angela Weber era disponibile per guardarci attraverso. Desideravo ci fosse un qualche
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©2008 Stephenie Meyer
modo per ringraziare la giovane Weber per essere semplicemente una persona gentile. Mi
faceva sentire meglio pensare che Bella avesse un’amica che valeva la pena di avere.
Osservavo il viso di Bella da qualunque angolazione mi venisse offerta, e potevo
vedere che era di nuovo triste. Rimasi stupito – pensavo che il sole sarebbe bastato a farla
sorridere. A pranzo, la vidi più volte gettare un’occhiata al tavolo vuoto dei Cullen, il che
mi elettrizzò. Mi diede speranza. Forse anch’io le mancavo.
Aveva dei progetti per un’uscita con le altre ragazze – automaticamente avevo
pianificato la mia sorveglianza – ma quei piani furono posticipati quando Mike invitò
Jessica ad uscire per l’appuntamento che aveva pensato per Bella.
Perciò andai diritto a casa sua, facendo una veloce ricognizione per il bosco per
assicurarmi che nessuno di pericoloso si fosse avvicinato troppo. Sapevo che Jasper aveva
avvisato il suo fratello di un tempo di tenersi lontano dalla città – citando la mia
alienazione mentale sia come spiegazione sia come ammonimento – ma non volevo
correre alcun rischio. Peter e Charlotte non avevano intenzione alcuna di creare delle
tensioni con la mia famiglia, ma le intenzioni erano cose mutevoli…
D’accordo, stavo esagerando. Ne ero consapevole.
Come se sapesse che la stavo guardando, come se avesse pietà del tormento che
sentivo quando non potevo vederla, Bella uscì in giardino dopo una lunga ora in casa.
Aveva un libro nella mano ed una coperta sotto il braccio.
In silenzio, salii sui rami più alti dell’albero che si affacciava sul giardino più da
vicino.
Stese la coperta sull’erba umida e si sdraiò sullo stomaco e cominciò a sfogliare le
pagine del libro consunto, come cercando di ritrovare il segno. Lessi da sopra la sua spalla.
Ah – altri classici. Era un’appassionata di Jane Austen.
Leggeva velocemente, incrociando e reincrociando le caviglie in aria. Stavo
guardando la luce del sole ed il vento giocare tra i suoi capelli quando il suo corpo
s’irrigidì improvvisamente, e la sua mano si bloccò sulla pagina. Tutto ciò che vedevo era
che aveva raggiunto il terzo capitolo quando bruscamente strinse una spessa sezione di
pagine e la saltò passando oltre.
Colsi lo scorcio di un frontespizio, Mansfield Park. Stava cominciando una nuova
storia – il libro era una raccolta di romanzi. Mi chiesi perché avesse cambiato storia così
all’improvviso.
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©2008 Stephenie Meyer
Dopo solo pochi attimi, chiuse il libro arrabbiata sbattendolo. Con un cipiglio
furente sul viso, spinse il libro di lato e si voltò sulla schiena. Respirò a fondo, come per
calmarsi, si arrotolò le maniche e chiuse gli occhi. Ricordavo il romanzo, ma non riuscivo
a pensare a nulla di offensivo che potesse averla turbata. Un altro mistero. Sospirai.
Restò distesa pressoché immobile, salvo muoversi una volta soltanto per togliersi
nervosamente i capelli dal viso. I quali si sparpagliarono a ventaglio sopra la sua testa, in
un fiume di castano. E poi tornò immobile.
Il suo respiro rallentò. Dopo diversi lunghi minuti le sue labbra cominciarono a
tremare. Borbottava nel sonno.
Impossibile resistere. Ascoltai quanto più lontano potei, raccogliendo le voci delle
case nelle vicinanze.
Due cucchiai di farina…una tazza di latte…
Andiamo! Mandala a canestro! Oh, andiamo!
Rosso, o blu…o forse dovrei mettere qualcosa di più casual…
Non c’era nessuno nei paraggi. Saltai a terra, atterrando silenziosamente sulle punte
dei piedi.
Era davvero sbagliato, estremamente rischioso. Con quanta condiscendenza una
volta avevo giudicato Emmett per i suoi modi avventati e Jasper per la sua mancanza di
disciplina – ed ora stavo consapevolmente facendomi beffa di tutte le regole con un
abbandono così sfrenato da rendere le loro mancanze delle inezie. Di solito ero io quello
responsabile.
Sospirai, ma a dispetto di tutto, scivolai furtivo in pieno sole.
Evitai di guardarmi sotto il bagliore del sole. Era già abbastanza brutto che la mia
pelle fosse pietrificata e disumana all’ombra; non volevo vedermi vicino a Bella alla luce
del sole. La differenza tra di noi era già insormontabile, sufficientemente dolorosa anche
senza quest’immagine nella mia mente.
Ma non potei ignorare lo scintillio arcobaleno riflesso sulla sua pelle quando le
andai più vicino. Le mie mascelle si serrarono vedendolo. Potevo essere qualcosa di
diverso da un mostro? Immaginai il suo terrore se avesse aperto gli occhi ora…
Cominciai ad indietreggiare, ma borbottò di nuovo, trattenendomi lì.
“Mmm…Mmm”
Niente d’intellegibile. Beh, avrei aspettato un poco.
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Le portai via il libro facendo molta attenzione, allungando il braccio e trattenendo il
respiro mentre ero vicino, che non si sa mai. Ricominciai a respirare quando mi fui
allontanato di pochi metri, assaporando il modo in cui il sole e l’aria aperta influivano sul
suo profumo. Il caldo sembrava addolcirne la fragranza. La mia gola avvampò di
desiderio, il fuoco era nuovamente vivo e feroce per via della prolungata lontananza.
Impiegai un momento a gestirlo, e poi – obbligandomi a respirare dal naso – lasciai
che il suo libro si aprisse nelle mie mani. Aveva cominciato con il primo romanzo…
Sfogliai rapidamente le pagine fino al terzo capitolo di Ragione e Sentimento, cercando
qualcosa di potenzialmente offensivo nella prosa fin troppo garbata della Austen.
Quando i miei occhi si fermarono istintivamente sul mio nome – il personaggio di
Edward Ferrars veniva introdotto per la prima volta – Bella parlò di nuovo.
“Mmm. Edward”. Sospirò.
Stavolta non ebbi timore che si fosse svegliata. La sua voce era solamente un fioco
mormorio malinconico. Non il grido di paura che sarebbe stato se mi avesse visto ora.
La gioia contrastò l’odio per me stesso. Stava ancora sognando di me, almeno.
“Edmund. Ahh. Troppo…vicino…”
Edmund?
Ah! Non stava affatto sognando di me, compresi cupamente. L’odio verso me stesso
si rinvigorì. Stava sognando dei personaggi di fantasia. Alla faccia della mia vanità.
Rimisi apposto il suo libro, e furtivamente tornai a rifugiarmi all’interno delle
ombre – nel posto al quale appartenevo.
Il pomeriggio passava ed io guardavo, sentendomi di nuovo impotente, mentre il
sole lentamente tramontava nel cielo e le ombre avanzavano strisciando lungo il prato
verso di lei. Volevo spingerle via, ma l’oscurità era inevitabile; le ombre l’avvolsero.
Quando la luce fu svanita, la sua pelle parve troppo pallida – spettrale. I suoi capelli erano
di nuovo scuri, quasi neri a contrasto con il viso.
Era una cosa spaventosa da vedere – come assistere alla realizzazione delle visioni
di Alice. Il battito forte e regolare del cuore di Bella era l’unica rassicurazione, il suono
che impediva a questo momento di sembrare un incubo.
Fui sollevato quando suo padre rincasò.
Riuscii a sentirne poco intanto che da in fondo alla strada guidava verso casa. Un
qualche vago disappunto…passato, qualcosa successa al lavoro. Aspettativa e fame
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mescolate – immaginai che attendesse impaziente di cenare. Ma i suoi pensieri erano così
discreti e contenuti che non ero sicuro di avere ragione; potevo coglierne soltanto
l’essenza.
Mi domandai come fosse sua madre – che tipo di combinazione genetica le avesse
dato forma così eccezionalmente.
Bella cominciò a svegliarsi, scattando in posizione seduta quando i pneumatici della
macchina del padre raggiunsero i mattoni del vialetto d’accesso. Si guardò intorno,
apparentemente confusa dall’inattesa oscurità. Per un breve momento, i suoi occhi
toccarono le ombre in cui mi nascondevo, ma guizzarono via velocemente.
“Charlie?” chiamò a bassa voce, scrutando ancora tra gli alberi che circondavano il
piccolo giardino.
La portiera della radiomobile sbatté chiudendosi, e si voltò verso quel suono. Si alzò
rapidamente in piedi e raccolse le sue cose, gettando un’altra occhiata alle sue spalle in
direzione del bosco.
Mi spostai dietro un albero in prossimità della finestra sul retro vicina alla piccola
cucina, e ne ascoltai il corso della serata. Era interessante confrontare le parole di Charlie
con i suoi pensieri smorzati. L’amore e la preoccupazione per la sua unica figlia erano
quasi dominanti, e tuttavia le sue parole erano sempre concise ed occasionali. Per la
maggior parte del tempo restavano seduti in tacita intesa.
La sentii discutere i suoi progetti per la sera successiva a Port Angeles, e perfezionai
i miei piani mentre ascoltavo. Jasper non aveva avvisato Peter e Charlotte di stare lontani
da Port Angeles. Sebbene sapessi che si erano nutriti di recente e che non avevano
intenzione di cacciare da nessuna parte nei dintorni di casa nostra, l’avrei tenuta d’occhio,
a scanso di equivoci. Dopo tutto, c’erano sempre altri della mia specie là fuori. E poi, tutti
quei pericoli umani che non avevo mai preso granché in considerazione prima d’ora.
L’ascoltai dare voce alla sua preoccupazione riguardo al lasciare che il padre si
preparasse la cena da solo, e sorrisi a questa dimostrazione della mia teoria – si, era una
balia.
E poi me ne andai, sapendo che sarei tornato quando si fosse addormentata.
Non avrei violato la sua privacy come un qualunque guardone. Io ero lì per
proteggerla, non per spiarla maliziosamente così come non c’era dubbio che avrebbe fatto
Mike Newton, se fosse stato abbastanza agile da potersi muovere tra le cime degli alberi
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come me. Non l’avrei trattata in modo tanto grossolano.
Casa mia era vuota quando rientrai, il che era un bene per me. Non sentivo la
mancanza dei pensieri confusi o sprezzanti, che indagavano sulla mia sanità mentale.
Emmett mi aveva lasciato un messaggio appeso al montante della scala.
Football al campo Rainier – raggiungici! Per favore?
Trovai una penna e scarabocchiai la parola spiacente sotto la sua richiesta. In ogni
caso, le squadre erano al completo anche senza di me.
Feci la più breve delle battute di caccia, accontentandomi delle creature più piccole
e più miti che non avevano un sapore buono come quello dei predatori, e poi indossai dei
vestiti puliti e tornai di corsa a Forks.
Bella non dormiva granché bene stanotte. Si agitava tra le coperte, con il viso
talvolta ansioso, talvolta triste. Mi chiesi che tipo di incubo la perseguitasse…e poi mi resi
conto che forse non volevo saperlo veramente.
Quando parlava, per lo più borbottava con voce cupa delle cose sprezzanti su Forks.
Solo una volta, quando aveva sospirato la parola “Torna” e la sua mano si era aperta di
scatto – una supplica muta – ebbi l’occasione di sperare che sognasse di me.
Il giorno dopo a scuola, l’ultimo giorno in cui il sole mi avrebbe tenuto prigioniero,
fu pressoché identico a quello precedente. Bella sembrava addirittura più malinconica di
ieri, e mi chiesi se sarebbe venuta meno ai suoi progetti – non sembrava dell’umore giusto.
Ma, trattandosi di Bella, probabilmente metteva il divertimento delle proprie amiche
al di sopra del proprio.
Indossava una camicetta blu scura oggi, ed il colore metteva in risalto la sua pelle
alla perfezione, facendola sembrare panna fresca.
La scuola terminò, e Jessica acconsentì a passare a prendere le altre ragazze – anche
Angela sarebbe andata, del che fui grato.
Andai a casa per prendere la macchina. Quando scoprii che Peter e Charlotte erano
lì, decisi che potevo permettermi di concedere alle ragazze all’incirca un’ora di vantaggio.
Non avrei mai sopportato di seguirle a distanza, guidando entro i limiti di velocità – un
pensiero terrificante.
Entrai dalla cucina, facendo un vago cenno d’assenso ad Emmett ed Esme che mi
salutarono mentre nel salone passavo davanti a tutti ed andavo diritto al piano.
Ugh, è tornato. Rosalie, naturalmente.
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Ah, Edward. Odio vederlo soffrire in questo modo. La preoccupazione cominciava a
guastare la gioia di Esme. Avrebbe dovuto essere preoccupata. La storia d’amore che
aveva immaginato per me stava naufragando in tragedia ogni istante in modo più evidente.
Divertiti a Port Angeles stasera, pensò Alice allegramente. Fammi sapere quando
ho il permesso di parlare con Bella.
Sei patetico. Non posso credere che hai mancato la partita l’altra notte solo per
vedere qualcuno dormire, brontolò Emmett.
Jasper non mi prestò alcun pensiero, neanche quando il brano che suonavo diventò
un pò più burrascoso di quanto non avessi inteso. Era un vecchio brano, con un tema
familiare: l’impazienza. Jasper stava salutando i suoi amici, che mi squadravano
incuriositi.
Che strana creatura, stava pensando Charlotte, la biondina coi capelli quasi bianchi
della taglia di Alice. Ed era così normale ed affabile l’ultima volta che ci siamo incontrati.
I pensieri di Peter erano in sincronia con quelli di lei, com’era sempre stato.
Devono essere gli animali. La carenza di sangue umano li conduce alla follia alla
fine, stava concludendo. I suoi capelli erano chiari come quelli di lei, e quasi altrettanto
lunghi. Erano molto simili – eccetto per la taglia, poiché lui era alto quasi quanto Jasper –
sia nel modo di apparire che di pensare. Una coppia ben assortita, avevo sempre pensato.
Tutti tranne Esme smisero di pensare a me poco dopo, e suonai in toni più contenuti
così da non attirare l’attenzione.
Non feci loro molto caso per un lungo momento, lasciando che fosse solamente la
musica a distrarmi dal mio malessere. Era difficile non avere più la ragazza a portata di
vista o di mente. Riportai l’attenzione sulla loro conversazione solo quando i saluti si
fecero più definitivi.
“Se vedi di nuovo Maria”, stava dicendo Jasper, con una certa prudenza, “dille che
le auguro ogni bene”.
Maria era la vampira che aveva creato sia Jasper sia Peter – Jasper nella seconda
metà del diciannovesimo secolo, Peter più recentemente, nel millenovecentoquaranta.
Aveva cercato Jasper una volta quando stavamo a Calgary. Era stata una visita piuttosto
movimentata - eravamo dovuti partire immediatamente. Jasper le aveva chiesto
cortesemente di mantenere le distanze in futuro.
“Non credo che succederà presto”, disse Peter con una risata – Maria era
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innegabilmente pericolosa e lei e Peter non si potevano vedere. Peter, dopo tutto, aveva
contribuito alla defezione di Jasper. Jasper era sempre stato il favorito di Maria; lei
considerava un dettaglio minore che una volta aveva pianificato di ucciderlo. “Ma se
dovesse capitare, lo farò certamente”.
Al che stavano stringendosi la mano, preparandosi a partire. Lasciai che il brano che
stavo suonando sfumasse in una fine deludente, e mi alzai frettolosamente in piedi.
“Charlotte, Peter” dissi annuendo.
“E’ stato un piacere rivederti, Edward” disse Charlotte incerta. Peter si limitò ad
annuire di rimando.
Pazzo, inveì Emmett.
Idiota, pensò Rosalie contemporaneamente.
Povero ragazzo. Esme.
Ed Alice, con un tono di rimprovero. Andranno diritti ad est, verso Seattle. Neanche
lontanamente vicino a Port Angeles. Mi mostrò la prova nelle sue visioni.
Finsi di non aver sentito. Il mio alibi era già abbastanza inconsistente.
Una volta in macchina, mi sentii più rilassato; il ronzio energico del motore che
Rosalie aveva truccato per me – l’anno prima, quand’era meglio disposta – era calmante.
Era un sollievo essere in movimento, sapere che stavo per avvicinarmi sempre di più a
Bella ad ogni chilometro che volava via sotto i miei pneumatici.
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9. Port Angeles
Quando arrivai a Port Angeles, c’era troppa luce perché potessi guidare all’interno della
città; il sole era ancora troppo alto nel cielo e, sebbene i miei finestrini fossero oscurati,
non c’era ragione di correre dei rischi inutili. Ulteriori rischi inutili, avrei dovuto dire.
Ero certo che sarei riuscito a trovare i pensieri di Jessica a distanza – i pensieri di
Jessica avevano un volume superiore a quelli di Angela, ma una volta trovata l’una, sarei
stato in grado di ascoltare l’altra. Poi, quando le ombre si fossero allungate, mi sarei
potuto avvicinare. Per ora, mi levai dalla strada fermandomi appena fuori città, su un
passo carraio ricoperto dalle ortiche che sembrava essere usato di rado.
In generale sapevo in quale direzione cercare – c’era invero solamente un posto a
Port Angeles in cui si potevano acquistare dei vestiti. Non mi ci era voluto molto per
trovare Jessica, che stava rigirandosi davanti ad uno specchio a tre ante, e potevo vedere
Bella di sottecchi, che faceva degli apprezzamenti sul lungo vestito nero che indossava.
Bella sembra ancora incavolata. Ha ha. Angela aveva ragione – Tyler si sbagliava
di grosso. Non posso credere che sia ancora seccata per questo, però. Quantomeno ha
una riserva pronta in panchina per il ballo di fine anno. Che succede se Mike non si
diverte al ballo, e non m’invita più ad uscire?E se chiede a Bella di accompagnarlo al
ballo di fine anno?Lei lo avrebbe invitato al ballo se non avessi detto niente? Non è che
lui pensi che lei sia più bella di me? Non è che magari è lei a pensare di essere più bella
di me?
“Credo di preferire quello blu. Fa davvero risaltare i tuoi occhi”.
Jessica sorrideva a Bella con finto trasporto, mentre la squadrava diffidente.
Lo pensa veramente? O vuole soltanto che sabato sembri una mucca?
Ero già stanco di ascoltare Jessica. Cercai Angela lì vicino – ah, ma Angela stava
cambiandosi d’abito, e me la filai in fretta dalla sua mente per concederle un pò di privacy.
Beh, non c’erano molti guai in cui Bella potesse cacciarsi all’interno di un grande
magazzino. Le avrei lasciate alle loro compere e poi le avrei recuperate quando avessero
finito. Non mancava molto a che facesse buio – le nuvole stavano cominciando a ritornare,
accumulandosi da est. Potevo solamente intravederne degli scorci attraverso il fitto degli
alberi, ma capivo che avrebbero anticipato il tramonto. Diedi loro il benvenuto,
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avvertendone un bisogno disperato maggiore di quanto mai prima ne avessi agognate le
ombre. Domani mi sarei potuto sedere di nuovo vicino a Bella a scuola,
monopolizzandone ancora l’attenzione durante la pausa pranzo. Avrei potuto farle tutte le
domande che avevo messo da parte…
E così era furiosa per la presunzione di Tyler. L’avevo visto nella sua mente – che
aveva inteso dire letteralmente quando aveva parlato del ballo di fine anno, che stava
accampando dei diritti. La immaginai con l’espressione di quel pomeriggio – l’incredulità
sdegnata – e scoppiai a ridere. Mi chiedevo cosa gli avrebbe detto riguardo a questo. Non
avrei voluto perdermi la sua reazione.
Il tempo scorreva lento intanto che aspettavo che le ombre si allungassero. Di tanto
in tanto controllavo Jessica; la sua voce mentale era la più facile da trovare, ma non mi
piaceva soffermarmici a lungo. Vidi il posto in cui stavano progettando di cenare. Sarebbe
stato buio per l’ora di cena…magari avrei potuto scegliere per pura coincidenza lo stesso
ristorante. Sfiorai il cellulare nella mia tasca, pensando d’invitare Alice a mangiare fuori…
Ne sarebbe stata entusiasta, ma avrebbe anche voluto parlare con Bella. Non ero sicuro di
essere pronto a coinvolgere Bella ancora di più nel mio mondo. Un solo vampiro non era
un problema sufficiente?
Feci un altro controllo di routine su Jessica. Stava pensando alla sua bigiotteria,
chiedendo il parere di Angela.
“Forse avrei fatto meglio a prendere il girocollo nero. Ne ho uno a casa che
potrebbe andare, ed ho speso più di quanto avessi previsto…”. Mamma andrà fuori di
testa. A cosa stavo pensando?
“Non mi dispiace tornare al negozio. Tuttavia, pensi che Bella ci starà cercando?”
Questo cosa voleva dire? Bella non era con loro? Prima guardai fisso attraverso gli
occhi di Jessica, poi passai a quelli di Angela. Erano sul marciapiede di fronte ad una fila
di negozi, pronte a tornare sui propri passi. Bella non si vedeva da nessuna parte.
Oh, a chi importa di Bella? Pensò Jessica insofferente, prima di rispondere alla
domanda di Angela. “Lei starà bene. Arriveremo in tempo al ristorante, anche se
torniamo indietro. In ogni caso, credo che voglia restare da sola”. Catturai un breve
scorcio della libreria in cui Jessica pensava fosse andata Bella.
“Sbrighiamoci, allora”, disse Angela. Spero che Bella non pensi che l’abbiamo
scaricata. E’ stata così carina con me in macchina prima… E’ davvero una persona
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gentile. Ma è sembrata come depressa tutto il giorno. Chissà se è per via di Edward
Cullen? Scommetto che è per questo che mi ha chiesto della sua famiglia…
Avrei dovuto prestare maggiore attenzione. Quanto mi ero perso? Bella stava
girando da sola, e prima stava chiedendo di me? Angela dava retta a Jessica adesso –
Jessica stava ciarlando di quell’idiota di Mike – e non avrei ottenuto nient’altro da lei.
Misurai le ombre. Il sole presto sarebbe stato nascosto dalle nuvole. Se mi fossi
tenuto sul lato est della strada, dove gli edifici facevano ombra alla luce che stava
svanendo…
Cominciai a sentirmi in ansia mentre guidavo nel poco traffico del centro città.
Questo era qualcosa che non avevo considerato – Bella che se la svignava da sola – e non
avevo idea di come trovarla. Avrei dovuto considerarlo.
Conoscevo bene Port Angeles; andai diritto alla libreria nella mente di Jessica,
sperando che la mia ricerca fosse breve, ma dubitando che sarebbe stata così semplice.
Quando mai Bella l’aveva fatta facile?
Infatti, il piccolo negozio era vuoto, fatta eccezione per la donna dietro al bancone
vestita in modo anacronistico. Non sembrava il genere di posto che potesse attirare Bella -
troppo new age per una persona pragmatica. Chissà se si era presa il disturbo di entrare?
C’era una chiazza d’ombra in cui potevo parcheggiare… Creava un sentiero scuro
che sporgeva diritto proprio fin sopra il negozio. Davvero non avrei dovuto. Girovagare
nelle ore di sole non era sicuro. Che sarebbe successo se, proprio al momento sbagliato,
una macchina di passaggio avesse proiettato il riflesso del sole all’interno dell’ombra?
Ma non sapevo in che altro modo cercare Bella!
Parcheggiai e scesi, mantenendomi sul lato più scuro dell’ombra. A grandi passi
veloci camminai fin dentro il negozio, registrando la debole traccia del profumo di Bella
nell’aria. Era stata qui, sul marciapiede, ma non c’era alcun accenno del suo profumo
all’interno della libreria.
“Benvenuto! Posso -” cominciò a dire la commessa, ma ero già fuori della porta.
Seguii il profumo di Bella fintanto che l’ombra me lo permise, fermandomi al
limitare della luce del sole.
Quanto mi faceva sentire impotente – imprigionato nella linea tra il buio e la luce
che si allungava sul marciapiede di fronte a me. Così limitato.
Potevo solo supporre che avesse continuato lungo la strada, dirigendo a sud. Non
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c’era davvero granché in quella direzione. Si era persa? Beh, quella possibilità non
suonava del tutto estranea al suo carattere.
Tornai in macchina e guidai lentamente lungo le strade, cercandola. Scesi all’interno
di qualche altra chiazza ombrosa, ma potei solo cogliere il suo profumo ancora una volta,
e la direzione mi confuse. Dove stava cercando di andare?
Guidai su e giù tra la libreria ed il ristorante un pò di volte, sperando di vederla dove
sarebbe dovuta essere. Jessica ed Angela erano già lì, cercando di decidere se ordinare, o
aspettare Bella. Jessica stava facendo pressioni per ordinare immediatamente.
Cominciai a saltare nelle menti degli sconosciuti, guardando attraverso i loro occhi.
Sicuramente, qualcuno doveva averla vista da qualche parte.
Diventavo sempre più ansioso quanto più a lungo rimaneva dispersa. Finora non
avevo considerato quanto potesse dimostrarsi difficile trovarla una volta che, come adesso,
fosse uscita dal mio campo visivo e dai suoi percorsi abitudinari. Non mi piaceva.
Le nuvole si stavano ammassando all’orizzonte e, entro pochi minuti, sarei stato
libero di seguirne la traccia a piedi. Non mi ci sarebbe voluto molto a quel punto. Era solo
il sole a rendermi così impotente adesso. Ancora pochi minuti solamente, e poi il
vantaggio sarebbe stato di nuovo mio e sarebbe stato il mondo degli umani ad essere
impotente.
Un’altra mente, e un’altra. Così tanti pensieri irrilevanti.
…penso che il pupo abbia un’altra infezione alle orecchie…
Era seicentoquaranta o seicentoquattro…?
Di nuovo in ritardo. Dovrei dirglielo…
Ecco che viene! Aha!
Finalmente ero arrivato al suo viso. Finalmente, qualcuno l’aveva notata!
Il sollievo durò solamente una frazione di secondo, perché scrutai più a fondo nei
pensieri dell’uomo che tra le ombre stava gongolando intento sul suo viso.
La sua mente mi era estranea, e tuttavia, non completamente sconosciuta. Un tempo
avevo dato la caccia esattamente a questo genere di mente.
“NO!” ruggii, ed una raffica di urla rabbiose proruppe dalla mia gola. Il mio piede
spinse l’acceleratore a tavoletta, ma dove stavo andando?
A grandi linee conoscevo il luogo che aveva nei pensieri, ma non abbastanza nel
dettaglio. Qualcosa, doveva esserci qualcosa – un cartello stradale, una vetrina, qualcosa
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nella sua visuale che mi rivelasse la sua posizione. Ma Bella era immersa nell’ombra, e gli
occhi di lui focalizzavano solamente la sua espressione spaventata – godendo della paura
che c’era lì.
Nella sua mente il suo viso si confondeva con il ricordo di altri visi. Bella non era la
sua prima vittima.
Il suono dei miei ruggiti scuoteva il telaio della macchina, ma non mi distraeva.
Non c’erano finestre sulla parete alle sue spalle. Era una qualche zona industriale,
lontana dal quartiere più affollato dei negozi. La mia macchina sgommò girando un
angolo, superando un altro veicolo, puntando verso quella che speravo fosse la direzione
giusta. Per quando l’altro guidatore riuscì a suonare il clacson, il suono era già lontano alle
mie spalle.
Guarda come trema! L’uomo ridacchiava pregustando il momento. La paura era ciò
che l’attraeva – la parte che lo divertiva.
“Stai lontano da me”. La sua voce era bassa e calma, non un grido.
“Non fare così, dolcezza”.
La vide trasalire al suono di una fragorosa risata proveniente da un’altra direzione.
Era seccato dal rumore – Chiudi il becco, Jeff! pensò – ma gli piaceva il modo in cui
aveva sussultato. Lo eccitava. Cominciò ad immaginare le sue suppliche, il modo in cui
avrebbe pregato…
Non mi ero reso conto che ce n’erano degli altri con lui finché non avevo sentito
quella risata chiassosa. Gli rovistai intorno, disperando di trovare qualcosa che potesse
tornarmi utile. Stava facendo il primo passo verso di lei, flettendo le mani.
Le menti che lo circondavano non erano un pozzo nero come la sua. Erano tutti
lievemente ubriachi, nessuno di loro capiva quanto lontano intendeva spingersi l’uomo che
chiamavano Lonnie. Stavano seguendo le indicazioni di Lonnie alla cieca. Lui gli aveva
promesso un pò di divertimento…
Uno di loro lanciò un’occhiata in fondo alla strada, nervoso – non voleva essere
scoperto a molestare la ragazza – e mi fornì ciò di cui avevo bisogno. Riconobbi l’incrocio
stradale verso il quale guardava.
Passai con il rosso sfrecciando, infilandomi in uno spazio appena sufficiente tra due
macchine nel traffico in movimento. I clacson strombazzarono alle mie spalle.
Il cellulare che avevo in tasca vibrava. Lo ignorai.
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Lonnie si avvicinava lentamente alla ragazza, prolungando la tensione – il momento
di terrore che lo eccitava. Aspettava che strillasse, pregustandoselo.
Ma Bella serrò le mascelle e si mise in guardia. Era sorpreso – si era aspettato che
cercasse di scappare. Sorpreso e lievemente contrariato. Gli piaceva inseguire la sua preda,
l’adrenalina della caccia.
Coraggiosa questa. Anche meglio, immagino… combattiva.
Ero ad un isolato di distanza. Il mostro poteva sentire il rombo del mio motore
adesso, ma non ci badava, troppo preso dalla sua vittima.
Avrei visto quanto avrebbe apprezzato la caccia una volta diventato la preda. Avrei
visto cosa ne pensava del mio modo di cacciare.
In un altro compartimento della mia mente, stavo già passando in rassegna la varietà
di torture di cui mi ero reso testimone nei miei giorni da vigilante, cercando la più
dolorosa tra quelle. Avrebbe sofferto per questo. Si sarebbe contorto agonizzante. Gli altri
sarebbero semplicemente morti per avervi partecipato, ma il mostro di nome Lonnie
avrebbe pregato a lungo di morire prima che gli facessi quel regalo.
Stava attraversando la strada per raggiungerla.
Svoltai l’angolo di netto, i miei fanali inondarono la scena di fronte ed
immobilizzarono il resto di loro sul posto. Avrei potuto travolgere il capo, che saltò via
dalla strada, ma sarebbe stata una morte troppo veloce per lui.
Lasciai che la macchina facesse testacoda, girando completamente su se stessa
cosicché mi ritrovai rivolto verso la strada da cui ero venuto e con la portiera del
passeggero quanto più vicina a Bella. La spalancai, e lei stava già correndo verso la
macchina.
“Sali”, ringhiai.
Che diavolo?
Sapevo che era una cattiva idea! Non è sola.
Dovrei scappare?
Penso che sto per vomitare…
Bella saltò attraverso lo sportello aperto senza esitare, sbattendolo mentre se lo
chiudeva alle spalle.
E poi mi guardò con l’espressione più fiduciosa che avessi mai vista su un volto
umano, e tutti i miei propositi violenti andarono in pezzi.
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Mi ci volle meno, molto meno di un secondo per capire che non avrei potuto
lasciarla in macchina per occuparmi dei quattro uomini in strada. Cosa le avrei detto, di
non guardare? Ah! Quando mai faceva quello che le chiedevo? Quando mai faceva la cosa
più sicura?
Li avrei trascinati via, dove non poteva vedermi, e l’avrei lasciata qui da sola? Era
una scommessa che un altro pericoloso essere umano si stesse aggirando per le strade di
Port Angeles stasera, ma era pure una scommessa che ci fosse addirittura quel primo!
Come una calamita, lei attirava tutto ciò che c’era di pericoloso. Non potevo permettermi
di perderla di vista.
Avrebbe avuta la sensazione di una continuità dell’azione mentre acceleravo,
allontanandola dai suoi persecutori così velocemente che quelli spalancavano le bocche
con l’espressione di chi è lento a capire. Non si sarebbe resa conto di quel mio attimo di
esitazione. Avrebbe dato per scontato che fin dall’inizio il piano fosse quello di scappare.
Non potevo nemmeno travolgerlo con la macchina. Si sarebbe spaventata.
Volevo la sua morte così selvaggiamente che la necessità rimbombava nelle mie
orecchie e mi annebbiava la vista ed indugiava saporita sulla mia lingua. I miei muscoli
erano avviluppati dal desiderio, dalla brama, dal bisogno di farlo. Dovevo ucciderlo.
L’avrei scorticato lentamente, pezzo dopo pezzo, pelle dal muscolo, muscolo dall’osso…
Tranne che la ragazza – l’unica ragazza al mondo – si stava aggrappando al sedile
con entrambe le mani, guardandomi fisso, con gli occhi ancora spalancati e totalmente
colmi di fiducia. La vendetta avrebbe dovuto aspettare.
“Mettiti la cintura”, ordinai. La mia voce era roca per l’odio e la sete di sangue. Non
la solita sete di sangue. Non mi sarei sporcato bevendo anche solo una goccia del sangue
di quell’uomo.
Lei allacciò la cintura, sobbalzando leggermente al suono che produsse. Quel
piccolo scatto l’aveva fatta trasalire, tuttavia non batté ciglio mentre sfrecciavo attraverso
la città, ignorando tutte le regole sulla circolazione stradale. Mi sentivo addosso i suoi
occhi. Sembrava stranamente rilassata. Non aveva senso per me – non con quello che
aveva appena passato.
“Stai bene?” chiese, con la voce roca per la paura e lo stress.
Lei voleva sapere se io stavo bene?
Pensai alla sua domanda per una frazione di secondo. Non abbastanza per lei perché
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potesse notare l’incertezza. Stavo bene?
“No”, realizzai, ed il mio tono ribolliva di rabbia.
La portai sulla stessa strada dismessa in cui avevo passato il pomeriggio impegnato
nella più scadente sorveglianza mai messa in atto. Era buio ora sotto gli alberi.
Ero così furioso che il mio corpo era pietrificato lì sul posto, completamente
immobile. Le mie mani gelide chiuse a pugno anelavano di schiantare il suo aggressore, di
triturarlo in pezzi così maciullati che il suo corpo non sarebbe mai stato identificato…
Ma questo avrebbe implicato il lasciarla da sola, indifesa nell’oscurità della notte.
“Bella?” chiesi tra i denti.
“Si?” rispose rauca. Si schiarì la gola.
“Tu stai bene?”. Quella era la cosa davvero più importante, la prima di tutte le
priorità. Il castigo era secondario. Lo sapevo, ma il mio corpo era così pieno di rabbia che
mi era difficile ragionare.
“Si”. La sua voce era ancora roca – per la paura, senza alcun dubbio.
E perciò non potevo lasciarla.
Anche se non fosse stata costantemente a rischio per una qualche esasperante
ragione – un qualche scherzo che l’universo mi stava giocando –, anche se fossi potuto
essere certo che sarebbe stata perfettamente al sicuro in mia assenza, non potevo lasciarla
da sola nel buio.
Doveva essere talmente spaventata.
Tuttavia non ero in condizioni di poterla confortare – quand’anche avessi saputo
esattamente come andava fatto, cosa che non era. Di sicuro poteva sentire la brutalità che
irraggiavo, di sicuro almeno quella era palese. L’avrei spaventata ancora di più se non
fossi riuscito a placare la smania di fare una carneficina che mi stava ribollendo dentro.
Dovevo pensare a qualcos’altro.
“Fammi svagare, per favore” la pregai.
“Come scusa?”
A malapena avevo controllo a sufficienza per spiegarle ciò di cui avevo bisogno.
“Chiacchiera di qualcosa senza alcuna importanza finché non mi calmo”, le spiegai,
con le mascelle ancora serrate. Solo la consapevolezza che aveva bisogno di me mi
tratteneva in macchina. Potevo sentire i pensieri dell’uomo, il suo disappunto e la rabbia…
Sapevo dove trovarlo… Chiusi gli occhi, desiderando di essere incapace di vedere
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ugualmente…
“Um”. Esitava – cercando di dare un senso alla mia richiesta, immaginai. “Domani
prima di entrare a scuola intendo passare sopra a Tyler Crowley con la macchina?”. Disse
come se fosse una domanda.
Si – questo era ciò che mi serviva. Ovviamente Bella se ne sarebbe uscita con
qualcosa d’inaspettato. Come già era stato prima, una minaccia di violenza proferita dalle
sue labbra era esilarante – l’inconciliabilità era davvero comica.
“Perché?” latrai, per forzarla a parlare ancora.
“Va dicendo a tutti che mi porterà al ballo di fine anno”, disse, con la voce colma
del suo sdegno da gattina che si crede una tigre. “O è demente o sta ancora cercando di
farsi perdonare per avermi quasi uccisa l’ultima…beh te ne ricordi”, infilò
sarcasticamente, “e pensa che il ballo di fine anno non si sa come sia la maniera migliore
di farlo. Perciò immagino che se metto a repentaglio la sua vita, allora saremo pari, e la
smetterà di cercare di fare ammenda. Non ho bisogno di nemici e forse Lauren farebbe
marcia indietro se lui mi lasciasse stare. Potrei dover demolire la sua Sentra, però”,
continuò, meditabonda ora. “Se non ha una macchina non può portare nessuno al ballo…”.
Era incoraggiante scoprire che qualche volta anche lei fraintendeva le cose. La
perseveranza di Tyler non aveva niente a che fare con l’incidente. Non pareva rendersi
conto del fascino che esercitava sui ragazzi umani della scuola superiore. Non riusciva a
capire neppure l’attrazione che esercitava su di me?
Ah, stava funzionando. I meccanismi confusi della sua mente erano sempre
avvincenti. Stavo cominciando a riprendere il controllo di me stesso, a vedere qualcosa al
di là della vendetta e della tortura…
“L’ho sentito dire”, le dissi. Aveva smesso di parlare ed avevo bisogno che
continuasse.
“Anche tu?” chiese incredula. E poi la sua voce diventò più furiosa di prima.
“Neppure paralizzato dal collo in giù potrà andare al ballo”.
Volevo che ci fosse un modo per chiederle di continuare con le sue minacce di
morte e di lesioni fisiche senza sembrare folle. Non avrebbe potuto scegliere un modo
migliore per calmarmi. E le sue parole – solo sarcasmo nel suo caso, iperboli – erano un
tonico del quale sentivo grandemente la necessità in questo momento.
Sospirai, ed aprii gli occhi.
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“Meglio?” chiese timidamente.
“Veramente no”.
No, ero più calmo, ma non mi sentivo meglio. Perché avevo appena capito che non
potevo uccidere il mostro di nome Lonnie, e volevo ancora farlo quasi più di ogni altra
cosa al mondo. Quasi.
L’unica cosa che in questo momento volevo di più del commettere un omicidio
ampiamente giustificabile, era la ragazza. E, sebbene non potessi averla, bastava
l’illusione di poterla avere a rendermi impossibile l’andare a fare un massacro stasera –
non importa quanto potesse essere giustificabile.
Bella meritava di meglio che un assassino.
Avevo speso settant’anni cercando di essere qualcosa di più di quello – qualunque
cosa purché non un assassino. Tutti quegli anni di fatica non mi avrebbero mai reso degno
della ragazza che stava seduta accanto a me. E ciononostante, sentivo che se fossi tornato
a quella vita – la vita di un assassino – anche solo per una notte, sicuramente sarebbe stata
fuori dalla mia portata per sempre. Anche se non avevo pensato di berne il sangue – anche
se non ne avessi mostrata l’evidenza sfavillante rossa nei miei occhi – lei avrebbe notata la
differenza?
Stavo cercando di essere abbastanza buono per lei. Era un obiettivo impossibile.
Avrei continuato a provare.
“Che c’è che non va?” mormorò.
Il suo respiro mi riempì il naso, e mi ricordò perché non potevo essere degno di lei.
Dopo tutto questo, a dispetto di tutto l’amore che provavo per lei…ancora mi faceva
venire l’acquolina in bocca.
Sarei stato quanto più possibile sincero con lei. Glielo dovevo.
“Qualche volta ho dei problemi a controllarmi, Bella”. Guardai fuori nella notte
buia, desiderando insieme che percepisse e non percepisse l’orrore insito nelle mie parole.
In misura maggiore che non lo percepisse. Scappa, Bella, scappa. Resta, Bella, resta. “Ma
non sarebbe utile per me voltare la macchina e braccare quei…”. Il solo pensarlo quasi mi
spinse fuori dalla macchina. Respirai a fondo, lasciando che il suo profumo mi bruciasse la
gola. “Almeno, è ciò di cui sto tentando di convincermi”.
“Oh”.
Non disse altro. Quanto aveva capito dalle mie parole? Le lanciai un’occhiata
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furtiva, ma il suo viso era indecifrabile. Bianco per lo shock, forse. Beh, non stava
gridando. Non ancora.
Per un momento fu il silenzio. Lottai con me stesso, cercando di essere cos’avrei
dovuto essere. Cosa non avrei potuto essere.
“Jessica ed Angela saranno preoccupate”, disse calma. La sua voce era molto
serena, e non ero sicuro di come fosse possibile. Era in stato di shock? Forse gli
avvenimenti di stasera non avevano ancora fatto breccia in lei. “Avrei dovuto
raggiungerle”.
Voleva allontanarsi da me? O era solo preoccupata per la preoccupazione delle sue
amiche?
Non le risposi, ma misi in moto la macchina e la riportai indietro. Ogni centimetro
in più che mi avvicinavo alla città, diventava più difficile mantenere il mio proposito. Ero
così vicino a lui…
Se era impossibile – se mai avrei potuto avere o meritare la ragazza – allora che
senso aveva lasciare andare quell’uomo impunito? Certamente potevo concedermi almeno
quello…
No, non mi sarei arreso. Non ancora. La volevo troppo per arrendermi.
Eravamo arrivati al ristorante dove si presumeva che avrebbe incontrato le sue
amiche prim’ancora che cominciassi a dare un senso ai miei pensieri. Jessica ed Angela
avevano finito di mangiare, ed entrambe ora erano davvero preoccupate per Bella. Stavano
per andarla a cercare, incamminandosi lungo la strada buia.
Non era la serata giusta per andarsene in giro –
“Come facevi a sapere dove..?”. La domanda incompiuta di Bella mi aveva
interrotto, e mi resi conto di aver fatto un’altra gaffe. Ero stato troppo distratto per
chiederle dove avrebbe dovuto incontrare le sue amiche.
Ma, invece di completare la domanda e di tenere il punto, Bella si limitò a scrollare
il capo ed a fare un mezzo sorriso.
Cosa voleva dire quello?
Beh, non avevo tempo di scervellarmi sulla sua strana accettazione del mio ancora
più strano essere al corrente. Aprii la portiera.
“Che stai facendo?” chiese, apparentemente sbigottita.
Ti sto impedendo di scomparire dalla mia vista. Mi sto impedendo di rimanere da
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solo stasera. In quest’ordine. “Ti porto a cena”.
Beh, questo dovrebbe essere interessante. Pareva essere una serata completamente
differente rispetto a quando avevo immaginato di portare Alice con me e di simulare di
aver scelto per caso lo stesso ristorante di Bella e delle sue amiche. Ed ora, eccomi qui,
come se in pratica avessi un appuntamento con la ragazza. Solo che non poteva contare
come tale, perché non le stavo dando la possibilità di dirmi di no.
Aveva già aperto per metà la propria portiera prima che riuscissi a fare il giro della
macchina – di solito non era così frustrante doversi muovere ad una velocità che passasse
inosservata – invece di aspettare che lo facessi per lei. Era perché non era abituata ad
essere trattata come una signora, o perché non mi riteneva un gentiluomo?
Aspettai che mi raggiungesse, diventando sempre più ansioso man mano che le sue
amiche continuavano a camminare verso l’angolo buio.
“Vai a fermare Jessica ed Angela prima che debba mettermi a cercare anche loro”,
ordinai in fretta. “Non penso che potrei trattenermi se incontrassi di nuovo gli altri tuoi
amichetti”. No, non sarei stato abbastanza forte per quello.
Lei rabbrividì, e poi si ricompose immediatamente. Fece un mezzo passo nella loro
direzione, chiamandole ad alta voce, “Jess! Angela!”. Si voltarono, e lei le salutò agitando
il braccio al di sopra della testa per richiamarne l’attenzione.
Bella! Oh, sta bene! Pensò Angela sollevata.
Non è un pò tardi? Si lamentò Jessica tra sé, ma anche lei era contenta che Bella
non fosse smarrita o ferita. Il che me la rese solo poco più simpatica.
Corsero indietro, e poi si bloccarono, sbalordite, quando mi videro accanto a lei.
Uh-uh! Pensò Jessica, stupefatta. Non è stramaledettamente possibile!
Edward Cullen? Se n’è andata via da sola per incontrarlo?Ma perché avrebbe
chiesto del loro essere fuori città se sapeva che lui era qui… Colsi un breve flash
dell’espressione mortificata di Bella quando aveva chiesto ad Angela se la mia famiglia si
assentava spesso da scuola. No, non avrebbe potuto saperlo, decise Angela.
I pensieri di Jessica stavano passando dalla sorpresa al sospetto. Bella me lo stava
tenendo nascosto.
“Dove sei stata?” chiese perentoria, fissando Bella, ma sbirciandomi con la coda
dell’occhio.
“Mi sono persa. E poi mi sono imbattuta in Edward”, disse Bella, indicandomi con
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la mano. Il suo tono di voce era, strano a dirsi, normale. Come se quello fosse veramente
tutto quel che era successo.
Doveva essere sotto shock. Era l’unica spiegazione possibile per la sua calma.
“Andrebbe bene se mi unissi a voi?” chiesi – per essere educato; sapevo che
avevano già mangiato.
Santa miseria ma è uno schianto! Pensò Jessica, con la mente d’improvviso
leggermente incoerente.
Angela non era molto più composta. Vorrei che non avessimo già mangiato. Wow.
Solo. Wow.
Perché non potevo avere quell’effetto su Bella?
“Ehm…certo”, acconsentì Jessica.
Angela si accigliò. “Umh, veramente, Bella, nell’attesa abbiamo già mangiato”,
ammise. “Mi dispiace”.
Cosa? Chiudi il becco! Jessica reclamò interiormente.
Bella scrollò le spalle indifferente. Così rilassata. Decisamente in stato di shock. “Fa
niente – non sono affamata”.
“Penso che dovresti mangiare qualcosa”, obiettai. Aveva bisogno di mettere degli
zuccheri nel sangue – sebbene il suo profumo sia già abbastanza dolce così com’è, pensai
sarcasticamente. L’orrore l’avrebbe fatta crollare a momenti, ed uno stomaco vuoto non
sarebbe stato d’aiuto. Era una che sveniva facilmente, come sapevo per esperienza.
Queste ragazze non sarebbero state in pericolo se andavano diritte a casa. Il pericolo
non seguiva ogni loro passo.
E preferivo rimanere da solo con Bella – ammesso che lei fosse disposta a rimanere
da sola con me.
“Vi spiace se stasera riaccompagno io Bella a casa?” dissi a Jessica prima che Bella
potesse rispondere. “In questo modo non sarete costrette ad aspettare che finisca di
mangiare”.
“Uh, nessun problema, immagino…”. Jessica fissava Bella di proposito, cercando
una qualche conferma che questo fosse ciò che voleva.
Vorrei restare…ma probabilmente lei lo vuole tutto per sé. Chi non lo vorrebbe?
Pensò Jess. Contemporaneamente, vide Bella farle l’occhiolino.
Bella aveva fatto l’occhiolino?
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“D’accordo”, disse Angela rapidamente, avendo fretta di levarsi di torno se questo
era ciò che Bella voleva. E pareva che lo volesse. “Ci vediamo domani, Bella… Edward”.
Faticò a dire il mio nome con tono disinvolto. Poi afferrò la mano di Jessica e cominciò a
rimorchiarla.
Avrei dovuto trovare un modo per ringraziare Angela di questo.
La macchina di Jessica era vicina ed all’interno di un cerchio di luce proiettato da
un lampione. Bella le osservò attentamente, con una lieve ruga di preoccupazione tra gli
occhi, finché non furono salite in macchine, perciò doveva essere pienamente cosciente
del pericolo che aveva corso. Jessica salutò con la mano intanto che se ne andava, e Bella
la risalutò. Solo quando la macchina sparì fece un respiro profondo e si voltò a guardarmi.
“Onestamente, non ho fame”, disse.
Perché aveva aspettato che se ne fossero andate prima di parlare? Davvero voleva
restare da sola con me – anche ora, dopo essere stata testimone della mia furia omicida?
Che quello fosse o meno il caso, avrebbe mangiato qualcosa.
“Fammi contento”, dissi.
Le tenni aperta la porta del ristorante ed aspettai.
Lei sospirò, e l’attraversò.
Camminai al suo fianco fino al banco della hostess di sala. Bella sembrava ancora
completamente padrona di sé. Volevo toccarle la mano, la fronte, per controllarne la
temperatura. Ma la mia mano gelida le avrebbe fatto ribrezzo, come già era successo.
Oh mio, la voce mentale piuttosto acuta della hostess di sala fece breccia nella mia
coscienza. Mio, oh mio.
Pareva che non potessi fare a meno di provocare capogiri stasera. O lo stavo
semplicemente notando perché desideravo così tanto che Bella mi vedesse in quel modo?
Eravamo sempre molto attraenti per le nostre prede. Non ci avevo mai pensato granché
prima. Di solito – salvo che, come nel caso di soggetti quali Shelly Cope e Jessica Stanley,
non ci fosse una ripetizione costante ad ottundere l’orrore – la paura scalciava l’iniziale
attrazione piuttosto in fretta…
“Un tavolo per due?” sollecitai, poiché la hostess di sala non parlava.
“Oh, ehm, si. Benvenuti a La Bella Italia”. Mmm! Che voce! “Se volete seguirmi”. I
suoi pensieri giravano al massimo – calcolatori…
Forse è sua cugina. Non può essere sua sorella, non si somigliano affatto. Ma sono
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parenti, decisamente. Uno come lui non può stare con una come lei.
Gli occhi umani erano miopi; non vedevano niente con chiarezza. Come poteva
questa donna meschina farsi abbindolare così dalla mia prestanza – un’esca per le prede –,
e tuttavia non riuscire a vedere la dolce perfezione della ragazza al mio fianco?
Beh, non c’è bisogno di darle una mano, non si sa mai, pensò la hostess di sala
mentre ci guidava verso un tavolo formato famiglia nel bel mezzo della parte più affollata
del ristorante. Come faccio a dargli il mio numero con lei qui...? meditò.
Presi una banconota dalla tasca posteriore. Le persone erano tutte invariabilmente
disposte a collaborare quando si mettevano di mezzo i soldi.
Bella stava già quasi sedendosi nel posto indicatole dalla hostess di sala senza fare
obiezioni. Le feci cenno di no e lei esitò, piegando la testa di lato incuriosita. Si, sarebbe
stata molto curiosa stasera. Un luogo affollato non era il posto ideale per questo genere di
conversazione.
“Magari qualcosa di più riservato?” chiesi alla hostess di sala, allungandole la
banconota. I suoi occhi si spalancarono per la sorpresa, e poi si chiusero a fessura mentre
la mano s’avviluppava attorno alla mancia.
“Certo”.
Lanciò un’occhiata furtiva al biglietto mentre ci guidava oltre una parete divisoria.
Cinquanta dollari per un tavolo migliore? E’ ricco, anche. Tutto torna – scommetto
che la sua giacca vale più della mia ultima busta paga. Dannazione. Perché vuole
appartarsi con lei?
C’indicò un separé in un angolo tranquillo del ristorante dove nessuno avrebbe
potuto vederci – vedere le reazioni di Bella a qualunque cosa le avessi detto. Non avevo la
minima idea di cosa avrebbe potuto volere da me stasera. O di cosa avrei potuto darle.
Quanto aveva intuito? Che spiegazione si era data degli eventi di questa sera?
“Questo va bene?” chiese la hostess di sala.
“Perfetto”, le dissi e, sentendomi lievemente seccato dal suo atteggiamento risentito
nei confronti di Bella, le sorrisi apertamente, mostrando i denti. Facendoglieli vedere
chiaramente.
Whoa. “Uhm…la cameriera sarà subito da voi”. Non può essere reale. Devo essere
addormentata. Forse lei sparirà…magari scriverò il mio numero sul suo piatto con il
ketchup… Si allontanò, sbandando leggermente di lato.
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Strano. Ancora non era spaventata. Mi ricordai improvvisamente di Emmett che mi
prendeva in giro a mensa, parecchie settimane prima. Scommetto che sarei stato capace di
metterle molta più paura di così.
Stavo perdendo il mio tocco?
“Davvero non dovresti fare così con le persone”, Bella interruppe i miei pensieri con
un tono di disapprovazione. “Non è per niente corretto”.
Fissai la sua espressione grave. Che voleva dire? Non avevo per nulla spaventato la
hostess di sala, a dispetto delle mie intenzioni. “Fare cosa?”
“Abbacinarle a quel modo – probabilmente proprio adesso sta iperventilando in
cucina”.
Hmm. Bella aveva quasi perfettamente ragione. La hostess di sala parlava in modo
per metà sconnesso al momento, fornendo un’errata valutazione di me alla sua amica nel
retrocucina.
“Oh, andiamo”, mi rimproverò Bella quando non le risposi immediatamente. “Devi
essere ben cosciente dell’effetto che hai sulle persone”.
“Abbacino le persone?”. Era un modo interessante per descriverlo. Abbastanza
accurato per stasera. Mi chiedevo il perché di quella differenza…
“Non l’hai notato?” chiese, ancora critica. “Credi che tutti riescano a fare a modo
loro tanto facilmente?”
“Riesco ad abbacinare anche te?” diedi voce alla mia curiosità impulsivamente e,
una volta uscite le parole, era troppo tardi per ricacciarle indietro.
Ma prim’ancora che avessi il tempo di pentirmi profondamente di aver parlato ad
alta voce, lei rispose. “Spesso”. E le sue guance diventarono di un rosa acceso.
L’abbacinavo. Il mio cuore silenzioso si gonfiò di una speranza più intensa di
quanto ricordassi di aver mai provata prima.
“Salve”, disse qualcuno, la cameriera, presentandosi. I suoi pensieri erano rumorosi,
e più espliciti di quelli della hostess di sala, ma non l’ascoltai. Scrutavo il viso di Bella
invece di ascoltare, osservando il sangue spandersi sotto la sua pelle, facendo caso non a
quanto m’incendiasse la gola, ma piuttosto a come le illuminava il viso chiaro, a come
faceva risaltare il candore della sua pelle…
La cameriera aspettava qualcosa da me. Ah, aveva chiesto cosa volevamo bere.
Continuai a fissare Bella, e la cameriera seppure riluttante si rivolse a lei.
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“Prenderò una coca?” disse Bella, come cercando approvazione.
“Due coche”, emendai. La sete – la banale sete umana – era un sintomo dello shock.
Mi sarei assicurato che immettesse un supplemento di zuccheri nell’organismo con la
soda.
Sembrava in salute, tuttavia. Più che in salute. Sembrava radiosa.
“Che c’è?” chiese – incerta sul perché la stavo fissando, supposi. Ero a malapena
cosciente del fatto che la cameriera si era allontanata.
“Come ti senti?” chiesi.
Sbatté le palpebre, sorpresa dalla domanda. “Sto bene”.
“Non hai vertigini, nausea, freddo?”
Era anche più confusa adesso. “Dovrei?”
“Beh, in verità sto aspettando che tu cada in stato di shock”. Feci un mezzo sorriso,
sicuro della sua smentita. Non voleva che ci si prendesse cura di lei.
Le ci volle un minuto per rispondermi. I suoi occhi erano leggermente sfocati.
Aveva quell’aria qualche volta, quando le sorridevo. Era…abbacinata?
Mi sarebbe davvero piaciuto poterci credere.
“Non credo che succederà. Sono sempre stata molto brava a reprimere le cose
spiacevoli”, rispose, un pò a corto di fiato.
Sicché, era molto pratica di cose spiacevoli? La sua vita era sempre tanto rischiosa?
“Fa lo stesso”, le dissi. “Mi sentirò meglio quando avrai mandato giù un pò di
zuccheri e qualcosa da mangiare”.
La cameriera tornò con le coche ed un cestino di pane. Li mise di fronte a me, e mi
chiese cosa volessi ordinare, cercando di catturare i miei occhi nel farlo. Le feci segno che
avrebbe dovuto occuparsi di Bella, e poi tornai ad ignorarla. Aveva una mente volgare.
“Uhm…”. Bella diede una rapida occhiata al menù. “Prenderò i ravioli ai funghi”.
La cameriera si voltò di nuovo verso di me alacremente. “E tu?”
“Niente per me”.
Bella fece una leggera smorfia. Hmm. Doveva aver notato che non mangiavo mai.
Notava ogni cosa. Ed io dimenticavo sempre di fare attenzione quando c’era lei.
Aspettai che fossimo nuovamente soli.
“Bevi”, insistei.
Fui sorpreso quando accondiscese immediatamente e senza fare obiezioni. Bevve
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finché il bicchiere non fu completamente vuoto, perciò spinsi il secondo bicchiere di
fronte a lei, aggrottando appena la fronte. Sete, o shock?
Bevve un altro poco, e poi rabbrividì.
“Hai freddo?”
“E’ solo la coca”, disse, ma rabbrividì di nuovo, con le labbra che tremavano
leggermente come se i suoi denti stessero quasi per battere.
La graziosa camicetta che indossava aveva l’aria di essere troppo leggera per poterla
proteggere adeguatamente; le aderiva come una seconda pelle, delicata quasi quanto la
prima. Era così fragile, così mortale. “Non hai una giacca?”
“Si”. Si guardò intorno, leggermente perplessa. “Oh – l’ho lasciata nella macchina
di Jessica”.
Mi sfilai la giacca, augurandomi che il gesto non venisse rovinato dalla mia
temperatura corporea. Sarebbe stato bello poterle offrire un giaccone caldo. Mi fissò, le
guance le s’imporporarono di nuovo. Cosa stava pensando adesso?
Le passai la giacca da sopra il tavolo, e la indossò all’istante, e poi rabbrividì di
nuovo.
Si, sarebbe stato bello poter essere caldo.
“Grazie”, disse. Respirò a fondo, e poi tirò su le maniche troppo lunghe per liberare
le mani. Respirò di nuovo a fondo.
La serata si stava finalmente stabilizzando? Il suo colorito era ancora ottimo; la sua
pelle era come panna e rose a contrasto con il blu della camicetta.
“Quella tonalità di blu si sposa perfettamente con la tua carnagione”, mi
complimentai. Ero solo sincero.
Lei arrossì, esaltandone l’effetto.
Sembrava stesse bene, ma non c’era motivo di rischiare. Spinsi il cestello del pane
di fronte a lei.
“Seriamente”, obiettò, intuendo le mie ragioni. “Non cadrò in stato di shock”.
“Dovresti – una persona normale lo farebbe. Non sembri nemmeno scossa”. La
fissavo, con aria di disapprovazione, domandandomi perché non poteva essere normale e
poi chiedendomi se davvero avrei voluto che lo fosse.
“Mi sento molto al sicuro con te”, disse, con gli occhi nuovamente colmi di fiducia.
Una fiducia che non meritavo.
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I suoi istinti erano tutti sbagliati – alla rovescia. Doveva essere quello il problema.
Non riconosceva il pericolo nel modo in cui un essere umano avrebbe dovuto fare. Aveva
la reazione opposta. Invece di scappare, indugiava, attratta da ciò che avrebbe dovuto
spaventarla…
Come potevo proteggerla da me stesso quando nessuno di noi due voleva farlo?
“E’ più complicato di quanto avessi previsto”, mormorai.
Potevo vederla riflettere a fondo sulle mie parole, e mi chiesi cosa ne avrebbe fatto.
Prese un grissino e cominciò a mangiare apparentemente senza accorgersene. Masticò a
lungo, e poi chinò il capo di lato con aria pensierosa.
“Di solito sei di umore migliore quando i tuoi occhi sono così chiari”, disse con
noncuranza.
La sua osservazione, così tanto aderente alla realtà, mi fece vacillare. “Cosa?”
“Sei sempre più scontroso quando i tuoi occhi sono neri – almeno credo. Ho una
teoria su questo”, aggiunse con leggerezza.
Perciò aveva escogitato una spiegazione tutta sua. Ovviamente l’aveva fatto. Provai
un profondo senso di terrore domandandomi quanto si fosse avvicinata alla verità.
“Altre teorie?”
“Mm-hm”. Masticò un altro boccone, del tutto noncurante. Come se non stesse
discutendo delle particolarità di un mostro con il mostro in sé.
“Spero tu sia stata più creativa, stavolta…”. Mentii quando non proseguì. Ciò che
speravo davvero era che si sbagliasse – che fosse miglia e miglia distante dal centrare
l’obiettivo. “O stai ancora prendendo spunto dai fumetti?”
“Beh, no, non mi sono ispirata ad un fumetto”, disse, lievemente imbarazzata. “Ma
non è neppure tutta farina del mio sacco”.
“E?” chiesi tra i denti.
Sicuramente non avrebbe conversato così serenamente se fosse stata sul punto di
urlare.
Mentre esitava, mordicchiandosi il labbro, la cameriera ricomparve con il mangiare
per Bella. Non le prestai molta attenzione intanto che poggiava il piatto di fronte a Bella e
poi mi chiedeva se desiderassi qualcosa.
Rifiutai, ma chiesi un’altra coca. La cameriera non aveva notato i bicchieri vuoti. Li
prese e andò via.
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“Stavi dicendo?” proruppi ansiosamente non appena fummo di nuovo soli.
“Te lo dirò in macchina”, disse a bassa voce. Ah, doveva essere grave. Non era
disposta a parlare delle sue congetture in pubblico. “Se…” aggiunse d’improvviso.
“Ci sono delle condizioni?”. Ero così teso che quasi ringhiai le parole.
“Ho giusto qualche domanda, ovviamente”.
“Ovviamente”, presi atto, la mia voce era aspra.
Le sue domande probabilmente sarebbero bastate a farmi capire in che direzione
erano indirizzati i suoi pensieri. Ma come avrei risposto? Mentendo responsabilmente? O
l’avrei allontanata dalla verità? O non avrei detto niente, incapace di decidere?
“Beh, vai vanti”, dissi, con le mascelle contratte, quando cominciò.
“Come mai sei a Port Angeles?”
Quella era una domanda troppo semplice – per lei. Non rivelava nulla, mentre la mia
risposta, se onesta, avrebbe svelato davvero troppo di più. Che fosse lei a rivelare qualcosa
prima.
“La prossima”, dissi.
“Ma questa era la più facile!”
“La prossima”, ripetei.
Era frustrata dal mio rifiuto. Distolse lo sguardo, abbassandolo sul cibo.
Lentamente, riflettendoci parecchio, prese un boccone e cominciò a masticare con cura.
Lo annaffiò con dell’altra coca, e poi finalmente rialzò lo sguardo su di me. I suoi occhi
erano due fessure sospettose.
“E sia, allora”, disse. “Diciamo, solo per ipotesi, naturalmente, che… qualcuno…
sia in grado di sapere cosa pensa la gente, di leggere la mente, hai presente – con
solamente poche eccezioni”.
Poteva essere peggio.
Questo spiegava quel mezzo sorriso in macchina. Era svelta – nessun altro l’aveva
mai immaginato di me. Eccetto Carlisle, ed era stato piuttosto ovvio allora, all’inizio,
quando rispondevo a tutti i suoi pensieri come se me li avesse detti. Se n’era accorto prima
di me…
Questa domanda non era così brutta. Quantunque fosse evidente che sapeva che
c’era qualcosa che non andava in me, non era così grave come sarebbe potuta essere. La
lettura del pensiero dopo tutto non rientrava nei canoni tradizionali di un vampiro.
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Concordai con la sua ipotesi.
“Una sola eccezione”, corressi. “Solo per ipotesi”.
Trattenne un sorriso – la mia velata sincerità la compiaceva. “D’accordo, con
un’eccezione, dunque. Come funziona? Quali sono i limiti? Come potrebbe…quel
qualcuno…trovare qualcun altro esattamente al momento giusto? Come potrebbe sapere
che lei è nei guai?”
“Ipoteticamente?”
“Naturale”. Contrasse le labbra, ed i suoi limpidi occhi marrone cioccolato
diventarono impazienti.
“Beh”, esitai. “Se…quel qualcuno…”
“Chiamiamolo Joe”, suggerì.
Non potei fare a meno di sorridere del suo entusiasmo. Davvero pensava che la
verità potesse essere una cosa piacevole? Se i miei segreti erano piacevoli, perché glieli
avrei tenuti nascosti?
“Joe, allora”, accordai. “Se Joe avesse fatto attenzione, la tempistica non avrebbe
avuto bisogno di essere così millimetrica”. Scossi la testa e soffocai un brivido al pensiero
di quanto fossi stato vicino ad arrivare troppo tardi oggi. “Solo tu potevi finire nei guai in
una città tanto piccola. Avresti sconvolto le loro statistiche sul tasso di criminalità degli
ultimi dieci anni, lo sai”.
Le sue labbra si piegarono all’ingiù agli angoli della bocca, e s’imbronciarono.
“Stavamo parlando di un caso ipotetico”.
Risi della sua irritazione.
Le sue labbra, la sua pelle… Sembravano così morbidi. Volevo toccarli. Volevo
premere la punta delle mie dita contro gli angoli delle sopracciglia aggrottate e risollevarli.
Impossibile. La mia pelle l’avrebbe disgustata.
“Si, è vero” dissi, tornando a concentrarmi sulla conversazione prima che potessi
deprimermi troppo profondamente. “Possiamo chiamarti Jane?”
Si allungò sul tavolo verso me, tutto l’umorismo e l’irritazione erano scomparsi dai
suoi grandi occhi.
“Come facevi a saperlo?” chiese, con un tono di voce grave ed intenso.
Dovevo dirle la verità? E, se si, fino a che punto?
Volevo dirgliela. Volevo meritare la fiducia che ancora potevo leggerle in viso.
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“Puoi fidarti di me, lo sai”, mormorò, ed allungò una mano come per toccare le mie
che poggiavano sul tavolo vuoto di fronte a me.
Le tirai indietro – odiando il pensiero della sua reazione alla mia pelle gelida e
marmorea – e lei lasciò cadere la mano.
Sapevo di poter confidare nel fatto che avrebbe mantenuto i miei segreti; era
totalmente degna di fiducia, buona fino al midollo. Ma non potevo confidare nel fatto che
non l’avrebbero sconvolta. Sarebbe dovuta essere terrorizzata. La verità era un orrore.
“Non credo di avere più scelta oramai”, mormorai. Ricordavo di averla presa in giro
una volta definendola “eccezionalmente distratta”. Offendendola, se avevo giudicato la
sua espressione correttamente. Beh, potevo correggere quell’ingiustizia, quantomeno. “Mi
sbagliavo – sei un’osservatrice assai migliore di quanto non ti avessi dato credito”. E,
quand’anche non se ne fosse ancora resa conto, le avevo già dato un sacco di credito. Non
le sfuggiva nulla.
“Pensavo che avessi sempre ragione”, disse, sorridendo mentre mi canzonava.
“Una volta era così”. Una volta ero solito sapere cosa fare. Ero solito sapere sempre
con certezza che direzione prendere. E adesso tutto era caos ed agitazione.
Tuttavia non li avrei scambiati con niente. Non volevo una vita che avesse un senso.
Non se il caos significava che potevo stare con Bella.
“Avevo altrettanto torto su un’altra cosa che ti riguarda”, continuai, portando il
discorso in un’altra direzione. “Non sei una calamita per i guai – questa non è una
definizione abbastanza ampia. Tu sei una calamita per i disastri. Se c’è qualcosa di
pericoloso nel raggio di cento chilometri, invariabilmente troverà te”. Perché lei?
Cos’aveva fatto per meritare una cosa del genere?
L’espressione di Bella tornò seria. “E tu consideri te stesso parte della categoria?”
L’onestà era fondamentale relativamente a questa domanda più che ad ogni altra.
“Inequivocabilmente”.
I suoi occhi si socchiusero leggermente – non sospettosi ora, ma stranamente
preoccupati. Allungò di nuovo la mano attraverso il tavolo, lentamente e deliberatamente.
Scostai appena le mie mani, ma lei non ci badò, determinata a toccarmi. Trattenni il
respiro – non per via del suo profumo adesso, ma per via della tensione improvvisa e
travolgente. Paura. La mia pelle l’avrebbe disgustata. Sarebbe scappata via.
Sfiorò delicatamente con la punta delle dita il dorso della mia mano. Il calore del
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suo tocco gentile, spontaneo non somigliava a niente che avessi mai sentito prima. Era un
piacere quasi assoluto.
Lo sarebbe stato, tranne che per la mia paura. Osservai il suo viso mentre toccava la
gelida solidità della mia pelle, ancora incapace di respirare.
Un mezzo sorriso le incurvò gli angoli della bocca.
“Grazie”, disse, incrociando il mio sguardo estatico contemplandomi a sua volta. “E
con questa sono due”.
Le sue dita morbide indugiavano sulla mia mano come se trovassero piacevole
l’essere lì.
Le risposi, per quanto mi fosse possibile, disinvolto. “Cerchiamo di evitare la terza,
che ne dici?”
Fece una smorfia, ma annuì.
Tolsi la mia mano da sotto la sua. Per quanto splendido fosse il suo tocco, non avrei
aspettato che la sua miracolosa resistenza svanisse, trasformandosi in repulsione. Nascosi
le mani sotto il tavolo.
Potevo leggere i suoi occhi; nonostante la sua mente fosse silenziosa, riuscivo a
percepire sia la fiducia sia la meraviglia che albergavano in quelli. In quel momento mi
resi conto che volevo rispondere alle sue domande. Non perché glielo dovessi. Non perché
volevo che potesse fidarsi di me.
Volevo che mi conoscesse.
“Ti ho seguita a Port Angeles”, le dissi, le parole si riversarono troppo in fretta
perché potessi censurarle. Sapevo quanto fosse pericolosa la verità, il rischio che stavo
correndo. In qualunque momento, la sua calma innaturale poteva frantumare nell’isteria.
Tuttavia, il saperlo mi spinse solamente a parlare più velocemente. “Non ho mai cercato di
mantenere in vita una persona in particolare prima ed è molto più complicato di quanto
credessi. Ma probabilmente questo è solamente dovuto al fatto che si tratta di te. Le
persone comuni paiono riuscire ad arrivare alla fine della giornata senza tutte queste
catastrofi”.
La guardai, in attesa.
Lei sorrideva. Le sue labbra si erano incurvate agli angoli, ed i suoi occhi color
cioccolato si erano accalorati.
Avevo appena ammesso di spiarla ossessivamente, e lei sorrideva.
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“Hai mai pensato che forse il mio numero era già stato sorteggiato quella prima
volta, con il furgoncino, e che stavi solamente interferendo con il destino?” chiese.
“Quella non era la prima volta”, dissi, abbassando lo sguardo sulla tovaglia marrone
scuro del tavolo, con le spalle incurvate per la vergogna. Le mie barriere erano cadute, la
verità stava ancora riversandosi libera in maniera sconsiderata. “Il tuo numero è uscito la
prima volta che ti ho incontrata”.
Era vero, e mi rendeva furioso. Ero stato posto al di sopra della sua vita come la
lama di una ghigliottina. Era come se fosse stata condannata a morire da una fato ingiusto,
crudele e – poiché mi ero rivelato uno strumento riluttante – quello stesso fato continuava
ad attentare alla sua vita. Immaginai la personificazione di quel fato – un’orribile strega
gelosa, un’arpia vendicativa.
Volevo che qualcosa, qualcuno ne fosse responsabile – così avrei avuto qualcosa di
concreto contro il quale battermi. Qualcosa, una qualunque cosa da poter distruggere,
cosicché Bella potesse essere salva.
Bella restava in silenzio; il suo respiro era accelerato.
Alzai lo sguardo su di lei, sapendo che alla fine avrei visto la paura che stavo ancora
aspettando. Non avevo appena ammesso quanto ero stato vicino ad ucciderla? Più vicino
del furgoncino che era arrivato a pochi centimetri dall’investirla? E ciononostante, il suo
viso era ancora sereno, i suoi occhi erano ancora avvinti dalla preoccupazione.
“Te ne ricordi?”. Doveva ricordarlo.
“Si”, disse, con voce ferma e grave. I suoi occhi profondi erano colmi di
consapevolezza. Lei sapeva. Sapeva che avevo desiderato di ucciderla.
Dov’erano le grida?
“E ciononostante eccoti seduta qui”, dissi, sottolineando l’evidente contraddizione.
“Si, eccomi seduta qui…grazie a te”. La sua espressione si trasformò, tornando
curiosa, intanto che affatto sottilmente cambiava argomento. “Perché in qualche modo
oggi sapevi come trovarmi..?”
Disperatamente, tentai di nuovo di scostare la barriera che proteggeva i suoi
pensieri, disposto a tutto pur di capire. Non aveva alcuna logica per me. Come poteva
anche solo importarle del resto, con sul tavolo quella verità lampante?
Aspettava, solamente curiosa. La sua pelle era pallida, il che era naturale per lei, ma
ancora mi preoccupava. La sua cena era pressoché intatta di fronte a lei. Se avessi
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continuato a rivelarle troppo, avrebbe avuto bisogno di essere rianimata una volta che lo
shock fosse passato.
Dettai le mie condizioni. “Tu mangi, io parlo”.
Ci pensò su per un momento, e poi prese un boccone ad una velocità che tradì la sua
calma. Era più impaziente della mia risposta di quanto i suoi occhi non lasciassero
trapelare.
“E’ più difficile di quanto dovrebbe – non perderti di vista”, le dissi. “Di solito
riesco a trovare qualcuno piuttosto facilmente, una volta che ne ho ascoltata prima la
mente”.
Osservavo con attenzione il suo viso mentre parlavo. Indovinare il giusto era una
cosa, averne la conferma un’altra.
Restava immobile, con gli occhi sgranati. Sentii i miei denti serrarsi nell’attesa che
andasse nel panico.
Ma si limitò a battere le ciglia una volta sola, deglutendo rumorosamente, e poi si
mise di corsa un altro boccone in bocca. Voleva che continuassi.
“Stavo tenendo d’occhio Jessica”, proseguii, studiando l’effetto di ogni parola
mentre faceva presa su di lei. “Distrattamente – come ho detto, solo tu potevi metterti nei
guai a Port Angeles –”. Non potei fare a meno di aggiungerlo. Si era resa conto che le vite
degli altri esseri umani non erano altrettanto tormentate dallo sperimentare la morte così
da vicino, o pensava che fosse normale? Lei era la cosa più lontana dalla normalità che
avessi mai incontrata. “E all’inizio non mi sono accorto che te n’eri andata per conto tuo.
Poi, quando ho capito che non eri più con loro, sono andato a cercarti alla libreria che
avevo vista nella sua mente. Ero certo che non fossi entrata, e che ti eri diretta a sud…e
sapevo che saresti dovuta tornare indietro. Perciò mi sono limitato ad aspettarti, rovistando
a caso tra i pensieri dei passanti – per vedere se qualcuno ti aveva notata così da scoprire
dove fossi. Non avevo motivo di essere preoccupato…ma mi sentivo stranamente
ansioso…”. Il mio respiro accelerò al ricordo di quel senso di panico. Il suo profumo
divampò nella mia gola e ne fui felice. Era un dolore che significava che lei era viva.
Fintantoché che continuavo a bruciare, lei era salva.
“Ho cominciato a girare in tondo, restando…in ascolto”. Speravo che la definizione
avesse un senso per lei. Doveva essere disorientante. “Il sole stava finalmente calando, ed
ero prossimo a poter lasciare la macchina, per seguirti a piedi. E poi –”
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Quando il ricordo mi assalì – perfettamente limpido e vivido come se fosse di nuovo
quel momento – sentii la medesima furia omicida invadermi il corpo, imprigionandolo nel
ghiaccio.
Lo volevo morto. Avevo bisogno che morisse. Le mie mascelle si serrarono strette
mentre mi concentravo per costringermi a rimanere al tavolo. Bella aveva ancora bisogno
di me. Solo questo contava.
“Poi cosa?” mormorò, con gli occhi scuri sgranati.
“Ho sentito cosa stava pensando”, dissi tra i denti, incapace d’impedire alle parole
di uscire come un ringhio rabbioso. “Ho visto il tuo viso nella sua mente”.
A malapena riuscivo a resistere al desiderio di uccidere. Sapevo ancora esattamente
dove trovarlo. I suoi pensieri malvagi risucchiavano il cielo notturno, trascinandomi verso
di loro…
Mi coprii il viso, sapendo che la mia espressione era quella di un mostro, di un
predatore, di un assassino. Per mantenere il controllo, ad occhi chiusi mi concentrai sul
suo viso, focalizzando solamente quello. La struttura delicata delle sue ossa, il velo sottile
della sua pelle chiara – come seta distesa sopra un vetro, incredibilmente morbida e facile
da rompere. Era troppo vulnerabile per questo mondo. Aveva bisogno di un protettore. E,
per qualche strano scherzo del destino, io ero la cosa più simile disponibile.
Cercai di spiegarle la mia reazione violenta cosicché potesse comprendere.
“E’ stato molto…difficile per me – non puoi immaginare quanto difficile –
limitarmi a portarti via, e lasciarli…vivere”, dissi con un filo di voce. “Potevo farti andare
via con Jessica ed Angela, ma temevo che se mi avessi lasciato solo, sarei andato a
cercarli”.
Per la seconda volta stasera, confessavo un intento omicida. Perlomeno stavolta era
giustificabile.
Lei mantenne il silenzio mentre sforzavo di controllarmi. Ascoltai il battito del suo
cuore. Il ritmo era irregolare, ma rallentò per il tempo che mi ci volle per ritrovare la
calma. Anche il suo respiro era basso e regolare.
Ero troppo vicino al limite. Dovevo riaccompagnarla a casa prima di…
L’avrei ucciso, dunque? Mi sarei nuovamente trasformato in un assassino malgrado
lei si fidasse di me? C’era una qualche maniera per impedirmelo?
Aveva promesso di raccontarmi la sua ultima teoria quando fossimo rimasti soli.
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Volevo ascoltarla? Ne ero impaziente, ma la ricompensa per la mia curiosità sarebbe stata
peggiore del non sapere?
Ad ogni modo, doveva averne avuta abbastanza di verità per una sola sera.
La guardai di nuovo, ed il suo viso era più pallido di prima, ma composto.
“Sei pronta per andare a casa?” chiesi.
“Sono pronta ad andarmene da qui”, disse, scegliendo con cura le parole, come se
un semplice “si” non bastasse a spiegare del tutto cosa volesse dire.
Frustrante.
La cameriera ricomparve. Aveva ascoltata l’ultima affermazione di Bella mentre
tergiversava dall’altra parte della parete divisoria, immaginando cos’altro avrebbe potuto
offrirmi. Volevo strabuzzare gli occhi per qualcuna delle offerte che aveva in mente.
“Come andiamo?” mi chiese.
“Siamo pronti per il conto, grazie”, le dissi, tenendo gli occhi su Bella.
Alla cameriera mancò il respiro e per un istante – per usare la definizione di Bella –
fu abbacinata dalla mia voce.
Con un’intuizione improvvisa, considerando come la mia voce risuonava in questa
incoerente mente umana, compresi perché sembravo attrarre così tanta ammirazione
stasera – avulsa dalla consueta paura.
Era per via di Bella. Nel difficile tentativo di farla sentire al sicuro, di non
terrorizzarla, di essere umano, davvero avevo perso il mio tocco. Gli altri esseri umani
vedevano solo la bellezza adesso, perché tenevo attentamente a bada la mia innata capacità
di risultare spaventoso.
“Certo”, balbettò. “Voilà!”
Mi allungò una cartellina con dentro il conto, pensando al cartoncino che aveva fatto
scivolare dietro la ricevuta. Un biglietto con il suo nome ed il numero di telefono.
Si, era piuttosto divertente.
Avevo già preparato i soldi. Le restituii la cartellina all’istante, senza aprirla,
cosicché non avrebbe perso tempo ad aspettare una chiamata che non sarebbe mai arrivata.
“Niente resto”, le dissi, augurandomi che l’importo della mancia potesse mitigare la
sua delusione.
Mi alzai, e Bella seguì prontamente il mio esempio. Volevo offrirle la mia mano, ma
pensavo che significasse spingere pò troppo oltre la mia fortuna per una sola sera.
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Ringraziai la cameriera, senza mai distogliere gli occhi dal viso di Bella. Anche Bella
sembrò trovarci qualcosa di divertente.
Ci avviammo verso l’uscita; camminavo al suo fianco quanto più vicino osassi fare.
Così vicino che il calore che irradiava dal suo corpo pareva carezzare per davvero il lato
sinistro del mio. Mentre le tenevo aperta la porta, sospirò silenziosamente, e mi chiesi
quale rammarico la rattristasse. La fissai negli occhi, pronto a domandarglielo, quando
d’improvviso abbassò lo sguardo, apparentemente imbarazzata. Il che mi rese ancora più
curioso, quantunque anche più riluttante a fare domande. Il silenzio tra di noi andò avanti
finché non le aprii la portiera e poi la feci salire in macchina.
Alzai il riscaldamento – la temperatura più mite era inaspettatamente crollata; il
freddo abitacolo doveva metterla a disagio. Si rannicchiò nella mia giacca, con un leggero
sorriso sulle labbra.
Aspettai, posticipando la conversazione finché le luci del marciapiede non
svanirono. Il che mi fece sentire ancor più in intimità con lei.
Era giusto? Ora che ero completamente assorbito soltanto da lei, la macchina
sembrava davvero piccola. Il suo profumo fluttuava spinto dal flusso del riscaldamento,
acutizzandosi ed acquistando vigore. Si nutriva della sua stessa forza, come un’altra entità
all’interno della macchina. Una presenza che chiedeva di essere riconosciuta.
Fu accontentata; bruciavo. Le fiamme erano sopportabili, tuttavia. Mi pareva così
stranamente appropriato. Avevo rivelato così tanto stasera – più di quanto non mi sarei
aspettato. E ciononostante lei era ancora qui, ancora generosamente al mio fianco. Le
dovevo qualcosa in cambio per questo. Un sacrificio. Un olocausto.
Se solo avessi potuto fermarmi lì; al fuoco soltanto, e nient’altro. Ma il veleno
impastava la mia bocca, ed i miei muscoli erano tesi nella trepidazione, come se stessi
cacciando…
Dovevo tenere quel genere di pensieri fuori dalla mia mente. E sapevo cosa mi
avrebbe distratto.
“Adesso”, le dissi, la paura per la sua risposta placava le fiamme. “Tocca a te”.
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9. Teoria
“Posso farti solo un’altra domanda?” quasi supplicò invece di rispondere alla mia
esortazione.
Ero al limite, preoccupato per il peggio. E tuttavia, com’era allettante poter
prolungare questo momento. Avere Bella con me, di sua volontà, per pochi secondi
ancora. Sospirai di fronte a quel dilemma interiore, e poi dissi “Una”.
“Beh…”, esitò per un momento, come se stesse decidendo a quale domanda dare
voce. “Hai detto che sapevi che non ero entrata nella libreria, e che mi ero diretta a sud.
Mi stavo solo chiedendo come facevi a saperlo”.
Lanciai uno sguardo cupo oltre il parabrezza. Ecco un altro interrogativo che nulla
rivelava di lei, e troppo svelava di me.
“Pensavo che avessimo smesso di essere evasivi”, disse, con un tono critico e
contrariato.
Che ironia. Lei era implacabilmente evasiva, senza nemmeno tentare di esserlo.
Beh, voleva che fossi diretto. E questa conversazione, a dispetto di tutto, non
avrebbe portato a niente di buono.
“E sia, dunque”, dissi. “Seguivo il tuo profumo”.
Volevo guardarle il viso, ma avevo paura di quello che avrei potuto scoprirci.
Invece, ascoltai il suo respiro accelerare e poi stabilizzarsi. Poco dopo ricominciò a
parlare, la sua voce era più ferma di quanto non mi sarei aspettato.
“E poi non hai risposto alla prima delle mie domande…”, disse.
Abbassai lo sguardo su di lei, aggrottando le sopracciglia. Anche lei stava
temporeggiando.
“A quale ti riferisci?”
“Come funziona – la faccenda della lettura del pensiero?” chiese, reiterando la
domanda posta al ristorante. “Puoi leggere la mente di chiunque, ovunque? Come riesci a
farlo? Anche il resto della tua famiglia..?” smise a poco a poco di parlare, arrossendo di
nuovo.
“Queste erano più di una”, dissi.
Si limitò a guardarmi, aspettando che rispondessi.
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E perché non dirglielo? Il più l’aveva già indovinato, e l’argomento era ben più
semplice di quello che incombeva minaccioso.
“No, solo io riesco a farlo. E non posso ascoltare la mente di chiunque ed ovunque.
Devo trovarmi ragionevolmente vicino. Quanto più la…voce mi è familiare, tanto più
lontano riesco ad individuarla. Però, non oltre pochi chilometri”. Cercavo di pensare ad un
modo per descriverlo, cosicché potesse capire. Un’analogia a cui potesse attingere. “E’ un
pò come trovarsi in una grande sala gremita di persone, che parlano tutte insieme. E’ solo
un brusio – un ronzio di voci di sottofondo. Finché non mi concentro su una sola voce, e
allora quello che sta pensando mi diventa chiaro. Per la maggior parte del tempo ignoro il
tutto – può disorientare davvero. E poi è più facile sembrare normale” – feci una smorfia –
“quando per errore non si risponde ai pensieri di qualcuno piuttosto che alle sue parole”.
“Secondo te perché non riesci a sentirmi?” domandò stupita.
Le fornii un’altra verità ed un’altra analogia.
“Non lo so”, ammisi. “L’unica supposizione che posso fare è che forse la tua mente
non lavora allo stesso modo del resto di loro. Come se i tuoi pensieri fossero sintonizzati
in AM ed io potessi ricevere solamente in FM”.
Mi resi conto che quest’analogia non le sarebbe piaciuta. La previsione della sua
reazione mi fece sorridere. Non mi deluse.
“La mia mente non funziona come dovrebbe?” chiese, la mortificazione aveva reso
più acuta la sua voce. “Sono un mostro?”
Ah, che ironia, di nuovo.
“Io sento le voci nella mia testa e ti preoccupi di essere tu il mostro?”. Scoppiai a
ridere. Capiva ogni più piccolo dettaglio, e ciononostante tralasciava le cose più evidenti. I
suoi istinti erano sempre sbagliati…
Bella si stava mordicchiando il labbro, e la ruga tra i suoi occhi era scavata
profondamente.
“Non temere”, la rassicurai. “E’ solo una teoria…”. E c’era una teoria più
importante di cui discutere. Ero ansioso di arrivare al dunque e farla finita. Ogni secondo
che passava stava cominciando a sembrare sempre più come tempo preso a prestito.
“Il che ci riporta a te”, dissi, diviso a metà, tanto ansioso quanto riluttante.
Lei sospirò, mordicchiandosi ancora il labbro – temevo che si sarebbe fatta male da
sola. Mi fissava negli occhi, con un’espressione tormentata.
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“Non avevamo smesso di essere evasivi oramai?” chiesi in modo calmo.
Lei abbassò lo sguardo, combattendo con un qualche conflitto interiore.
Improvvisamente s’irrigidì e sgranò gli occhi. Per la prima volta, la paura le attanagliò il
viso.
“Miseriaccia boia!” era quasi senza fiato.
Andai nel panico. Cos’aveva visto? Cos’avevo fatto per spaventarla?
Poi urlò “Rallenta!”.
“Che c’è che non va?” non capivo da dove venisse il suo terrore.
“Stai andando a centosessanta!” mi urlò addosso. Gettò una rapida occhiata fuori dal
finestrino, e fece un salto indietro alla vista degli alberi scuri che ci sfrecciavano accanto.
Questa piccola cosa, solo un pò di velocità, l’aveva fatta gridare di paura?
Alzai gli occhi al cielo. “Rilassati, Bella”.
“Stai cercando di ucciderci?” domandò, la sua voce era acuta e tesa.
“Non andremo a sbattere”, le promisi.
Aspirò una vistosa boccata d’aria, e poi parlò con una voce lievemente più
modulata. “Perché vai tanto di fretta?”
“Guido sempre così”.
Incontrai il suo sguardo inchiodato al mio, divertito dalla sua espressione scioccata.
“Tieni gli occhi sulla strada!” gridò.
“Non ho mai fatto un incidente, Bella. Non ho neppure mai preso una multa”. Le
spalancai il sorriso e m’indicai la tempia. Rendeva il tutto addirittura più comico –
l’assurdità di poter scherzare con lei su qualcosa di così segreto e bizzarro. “Incorpora
un’antenna radar”.
“Molto divertente”, disse sarcasticamente, con una voce più allarmata che
arrabbiata. “Charlie è un poliziotto, ricordi? Sono stata cresciuta nel rispetto del Codice
della Strada. Oltretutto, se ci trasformi in un ammasso di Volvo abbarbicato al tronco di un
albero, tu potresti con ogni probabilità semplicemente allontanartene sulle tue gambe”.
“Con ogni probabilità”, ripetei, e poi scoppiai a ridere affatto divertito. Si, saremmo
usciti in maniera del tutto diversa da un incidente di macchina. Aveva ragione ad aver
paura, a dispetto della mia abilità al volante…“Ma tu non potresti”.
Con un sospiro, lasciai che la macchina rallentasse. “Contenta?”
Squadrò con diffidenza il contachilometri. “Quasi”.
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©2008 Stephenie Meyer
Era ancora troppo veloce per lei? “Odio andare piano”, borbottai, ma lasciai che
l’indicatore scendesse di un’altra tacca.
“Questo è piano?”
“Basta commenti sulla mia guida”, dissi impaziente. Quante volte aveva eluso la
mia domanda finora? Tre volte? Quattro? Le sue speculazioni erano terrificanti fino a quel
punto? Dovevo saperlo – immediatamente. “Sto ancora aspettando di sentire la tua ultima
teoria”.
Si mordicchiò il labbro nuovamente, e la sua espressione si fece turbata, quasi
afflitta.
Domai la mia impazienza ed ammorbidii la voce. Non volevo che si tormentasse.
“Non riderò”, promisi, augurandomi che fosse solo l’imbarazzo a renderla riluttante
a parlare.
“Temo di più che ti arrabbierai con me”, disse con un filo di voce.
Mi sforzai di mantenere una voce calma. “E’ così brutta?”
“Si, parecchio”.
Abbassò lo sguardo, rifiutandosi d’incrociare i miei occhi. I secondi passavano.
“Vai avanti”, la incoraggiai.
La sua voce era fievole. “Non so da dove cominciare”.
“Perché non cominci dall’inizio?”. Ricordai le sue parole di prima a cena. “Hai
detto che non è tutta farina del tuo sacco”.
“No”, ammise, e poi tornò nuovamente silenziosa.
Pensai alle cose che potevano averla ispirata. “Da dove hai preso spunto – un libro?
Un film?”
Avrei dovuto dare un’occhiata alla sua collezione quand’era fuori casa. Non avevo
idea se Braam Stoker o Ann Rice fossero lì nel mucchio dei suoi tascabili consumati…
“No”, disse ancora. “E’ stato sabato, alla spiaggia”.
Non me l’aspettavo. I pettegolezzi locali su di noi non si erano mai spinti verso
direzioni troppo bizzarre – o troppo accurate. Circolava una nuova voce che mi ero perso?
Bella mi diede una sbirciata distogliendo lo sguardo dalle sue mani e vide la sorpresa sul
mio viso.
“Per caso mi sono imbattuta in un vecchio amico di famiglia – Jacob Black”,
continuò. “Suo padre e Charlie sono amici sin da quando ero in fasce”.
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©2008 Stephenie Meyer
Jacob Black – il nome non mi era familiare, eppure mi ricordava qualcosa…un
qualche tempo, remoto nel passato… Guardavo fisso fuori del parabrezza, frugando tra i
miei ricordi in cerca di una connessione.
“Suo padre è uno degli anziani dei Quileutes”, disse.
Jacob Black. Ephraim Black. Un discendente, senza dubbio.
Non poteva essere più brutta.
Lei conosceva la verità.
La mia mente stava vagliando le possibili implicazioni, mentre la macchina volava
attorno alle curve della strada immerse nell’oscurità, il mio corpo era impietrito per
l’angoscia – immobile salvi i piccoli gesti automatici necessari per guidare la macchina.
Lei conosceva la verità.
Ma…se aveva appresa la verità sabato…allora doveva averla saputa per tutta la
sera…eppure…
“Siamo andati a fare una passeggiata”, proseguì. “E mi stava raccontando alcune
vecchie leggende – cercando di spaventarmi, suppongo. Me ne ha raccontata una...”
Si era interrotta lì, ma non aveva bisogno di farsi degli scrupoli oramai, sapevo cosa
stava per dire. L’unico mistero rimasto era perché era qui con me adesso.
“Continua”, dissi.
“Sui vampiri” sussurrò, le parole erano meno di un bisbiglio.
In qualche modo, sentirle dire quella parola ad alta voce era addirittura peggio del
sapere che sapeva. Trasalii a quel suono, e poi ripresi il controllo di me stesso.
“Ed hai immediatamente pensato a me?” chiesi.
“No. Lui…ha menzionato la tua famiglia”.
Che ironia che fosse proprio la progenie di Ephraim a violare il trattato che aveva
promesso solennemente di far rispettare. Un nipote, o un pronipote forse. Quanti anni
erano passati? Settanta?
Avrei dovuto capirlo che non sarebbero stati gli anziani che credevano nelle
leggende a costituire un pericolo. Ovviamente, la generazione più giovane – quella di
coloro che sarebbero stati ammoniti, ma avrebbero considerato le antiche superstizioni
ridicole – ovviamente era lì che il pericolo di essere esposti si sarebbe annidato.
Supposi che questo significava che adesso ero libero di massacrare la piccola,
indifesa tribù sulla costa, se ne avessi avuto voglia. Ephraim ed il suo branco di guardiani
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©2008 Stephenie Meyer
erano morti da tempo…
“Pensava soltanto che fosse una stupida superstizione”, disse Bella d’improvviso,
nella sua voce c’era una nuova punta di ansietà. “Non si aspettava che ci ricamassi sopra”.
Con la coda dell’occhio la vidi torcersi le mani a disagio.
“E’ stata colpa mia”, disse dopo una breve pausa, e poi chinò il capo come se si
vergognasse. “L’ho forzato a dirmelo”.
“Perché?”. Non era più tanto difficile mantenere un tono compassato ora. Il peggio
era già passato. Quanto più a lungo parlavamo dei dettagli di quella rivelazione, tanto
meno avremmo dovuto soffermarci sulle sue conseguenze.
“Lauren ha detto qualcosa su di te – stava cercando di provocarmi”. Fece una
piccola smorfia al ricordo. Fui lievemente distratto, chiedendomi come Bella avrebbe
potuto essere provocata da qualcuno che parlava di me… “Ed un ragazzo più grande della
tribù ha detto che la tua famiglia non andava alla riserva, solo che sembrava volesse
significare qualcos’altro. Perciò ho preso Jacob da una parte e gliel’ho estorto con
l’inganno”.
Chinò il capo addirittura più in basso mentre lo ammetteva, e la sua espressione
sembrò…colpevole.
Distolsi lo sguardo da lei e scoppiai a ridere fragorosamente. Lei si sentiva
colpevole? Cosa mai poteva aver fatto per meritare una censura di qualunque genere?
“Che tipo d’inganno?” chiesi.
“Ho tentato di flirtare con lui – ha funzionato meglio di quanto avessi pensato
avrebbe fatto”, spiegò, e la sua voce diventò incredula al ricordo di quel successo.
Potevo solo immaginarlo – considerando l’attrazione che sembrava esercitare su
tutti i tipi di maschio, totalmente involontaria da parte sua – quanto poteva diventare
implacabile quando tentava di essere attraente. D’improvviso fui pieno di pietà per
quell’ignaro ragazzo sul quale aveva scatenato una simile potenza.
“Mi sarebbe piaciuto vederlo”, dissi, e poi risi di nuovo per il mio bieco umorismo.
Mi sarebbe piaciuto aver potuto ascoltare la reazione del ragazzo, assistere personalmente
alla devastazione. “E tu accusi me di abbacinare le persone – povero Jacob Black”.
Non ero più tanto arrabbiato con la fonte del mio smascheramento come avrei
immaginato di sentirmi. Non avrebbe potuto fare diversamente. E come potevo aspettarmi
che qualcuno potesse negare a questa ragazza ciò che voleva? No, provavo solamente
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©2008 Stephenie Meyer
compassione per la rovina che aveva potuto causare alla sua pace mentale.
Sentivo il suo rossore scaldare l’aria tra di noi. Le lanciai un’occhiata, e stava
guardando fuori dal finestrino. Non parlava più.
“Cos’hai fatto dopo?” la sollecitai. Era tempo di tornare ai racconti del terrore.
“Ho fatto qualche ricerca su internet”.
Sempre pragmatica. “E ti sei convinta?”
“No”, disse. “Niente sembrava quadrare. Per la maggior parte erano un mucchio di
sciocchezze. E poi -”
Si era interrotta di nuovo, e sentivo che serrava i denti.
“Cosa?” domandai. Cos’aveva scoperto? Cos’aveva dato un senso a quell’incubo
per lei?
Ci fu una breve pausa, e poi mormorò “Ho deciso che non m’importa”.
Lo shock congelò i miei pensieri per mezzo secondo, e poi tutti i pezzi andarono
apposto. Perché aveva mandato via le sue amiche stasera piuttosto che scappare con loro.
Perché era salita di nuovo in macchina con me invece di fuggire, chiamando a gran voce la
polizia…
Le sue reazioni erano sempre sbagliate – sempre completamente sbagliate. Attirava
il pericolo verso di sé. Lo invitava.
“Non t’importa?” dissi tra i denti, andando in collera. Come avrei potuto proteggere
qualcuno così…così…così determinato a non voler essere protetto?
“No”, disse con una voce timida ed inspiegabilmente tenera. “Non m’importa cosa
sei”.
Era una creatura impossibile.
“Non t’importa se sono un mostro? Se non sono umano?”
“No”.
Cominciai a domandarmi se fosse completamente sana di mente.
Supposi che avrei potuto fare in modo che ricevesse le migliori cure disponibili…
Carlisle aveva le conoscenze giuste per trovarle i dottori più qualificati, i terapisti di
maggior talento. Forse poteva farsi qualcosa per curare qualunque cosa fosse che non
andava in lei, qualunque cosa la rendesse contenta di sedere accanto ad un vampiro con il
cuore che le batteva calmo e regolare. Avrei sorvegliato la clinica, naturalmente, e le avrei
fatto visita quanto più spesso mi fosse consentito…
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©2008 Stephenie Meyer
“Sei arrabbiato”, sospirò. “Non avrei dovuto dirti niente”.
Come se nascondere le sue tendenze deviate avrebbe potuto essere d’aiuto ad alcuno
di noi due.
“No. Preferisco comunque sapere a cosa stai pensando – anche se ciò che stai
pensando è folle”.
“Perciò mi sto sbagliando di nuovo?” chiese, un poco più belligerante ora.
“Non è a questo che mi stavo riferendo!”. I miei denti si serrarono di nuovo. “Non
m’importa!” ripetei in tono caustico.
Restò a bocca aperta. “Ho ragione?”
“Ha importanza?” replicai.
Respirò a fondo. Aspettavo incollerito la sua risposta.
“Veramente no”, disse, la sua voce era di nuovo composta. “Ma sono curiosa”.
Veramente no. Non aveva davvero importanza. Non se ne curava. Sapeva che non
ero umano, che ero un mostro, e questo non aveva alcuna importanza per lei.
A prescindere dalle mie preoccupazioni per la sua sanità mentale, cominciai a
provare una speranza debordante. Cercai di reprimerla.
“Di cosa sei curiosa?” le chiesi. Non c’erano più segreti, solo dettagli secondari.
“Quanti anni hai?” chiese.
La mia risposta era automatica e radicata. “Diciassette”.
“E da quant’è che hai diciassette anni?”
Cercai di non sorridere del suo tono condiscendente. “Da un pò”, ammisi.
“Va bene”, disse, inaspettatamente entusiasta. Mi sorrise. Quando la fissai con aria
inquisitoria, di nuovo ansioso per la sua sanità mentale, allargò il sorriso. Feci una
smorfia.
“Non ridere”, mi ammonì. “Ma come fai ad uscire durante il giorno?”
Risi a dispetto del suo avvertimento. La sua ricerca non l’aveva condotta a niente di
insolito, a quanto pareva. “Leggende”, le dissi.
“L’andare in cenere alla luce del sole?”
“Leggende”
“Il dormire nelle bare?”
“Leggende”
Il dormire non aveva fatto parte della mia vita per tanto tempo – almeno fino a
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queste ultime poche notti, in cui avevo guardato Bella sognare…
“Io non posso dormire”, borbottai, rispondendo più esaurientemente alla sua
domanda.
Restò in silenzio per un momento.
“Per niente?” chiese.
“Mai”, dissi con un filo di voce.
La guardai negli occhi, sgranati sotto la spessa frangia di ciglia, e desiderai
ardentemente di poter dormire. Non per raggiungere l’oblio, com’era stato prima, non per
sfuggire alla noia, ma perché volevo sognare. Forse, se avessi potuto essere incosciente, se
avessi potuto sognare, avrei potuto vivere per una manciata di ore in un mondo dove lei ed
io saremmo potuti stare insieme. Lei sognava me. Io volevo sognare lei.
Lei ricambiò il mio sguardo, la sua espressione era piena di meraviglia. Fui costretto
a guardare altrove.
Io non potevo sognarla. Lei non avrebbe dovuto sognarmi.
“Non mi hai ancora posto la domanda più importante”, dissi, il mio petto silenzioso
era più freddo e più pesante che mai. Dovevo obbligarla a capire. Ad un certo punto, si
sarebbe resa conto di ciò che stava facendo adesso. Doveva essere persuasa a comprendere
che tutto questo aveva importanza – più di ogni altra considerazione. Considerazioni quali
il fatto che l’amavo.
“Quale sarebbe?” chiese, sorpresa ed inconsapevole.
Questo rese solamente la mia voce più dura. “Non sei preoccupata della mia dieta?”
“Oh. Quello”. Parlò con un tono tranquillo che non potevo interpretare.
“Si, quello. Non vuoi sapere se mi nutro di sangue?”
Indietreggiò a quella domanda. Finalmente. Stava cominciando a capire.
“Beh, Jacob mi ha detto qualcosa in proposito”, disse.
“Cos’ha detto Jacob?”
“Ha detto che non date…la caccia alle persone. Ha detto che si presume non siete
pericolosi perché cacciate solo gli animali”.
“Ha detto che non siamo pericolosi?” ripetei cinicamente.
“Non esattamente”, specificò. “Ha detto che si presume che non siete pericolosi. Ma
i Quileutes ancora non vi vogliono sulla loro terra, a scanso di equivoci”.
Fissavo la strada, i miei pensieri erano un groviglio senza speranza, la mia gola era
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dolente per il fuoco familiare della sete.
“Allora, aveva ragione?” chiese, con un’aria così serena che sembrava stesse
cercando conferma ad un bollettino del tempo. “Sul fatto che non date la caccia alle
persone?”
“I Quileutes hanno una buona memoria”.
Annuì tra sé, riflettendoci sopra.
“Non esserne compiaciuta, però”, dissi in fretta. “Hanno ragione a mantenere le
distanze da noi. Siamo ancora pericolosi”.
“Non capisco”.
No che non capiva. Come farglielo capire?
“Ci proviamo”, le dissi. “Di solito siamo molto bravi in quello che facciamo.
Qualche volta commettiamo degli errori. Io, peresempio, permettendomi di restare solo
con te”.
Il suo profumo era ancora una forza d’urto all’interno della macchina. Stavo
abituandomici sempre di più, potevo quasi ignorarlo, ma non potevo negare che il mio
corpo ancora l’agognava per la ragione sbagliata. La mia bocca traboccava di veleno.
“Questo è un errore?” chiese, e nella sua voce c’era un che di straziante. Il suono mi
disarmò. Voleva stare con me – a dispetto di tutto, voleva stare con me.
La speranza debordò nuovamente, e la ricacciai indietro.
“Uno molto pericoloso”, le dissi senza mentire, desiderando che la verità potesse
veramente smettere di avere importanza in qualche modo.
Per un momento non rispose. Ne ascoltai la respirazione cambiare – singhiozzava in
modi strani che non somigliavano alla paura.
“Dimmi di più”, disse improvvisamente, con la voce alterata dal tormento.
La osservai con attenzione.
Stava soffrendo. Come avevo potuto permettere questo?
“Cos’altro vuoi sapere?”, chiesi, cercando di pensare ad un modo per impedirle di
soffrire. Non avrebbe dovuto soffrire. Non potevo lasciare che soffrisse.
“Dimmi perché cacciate gli animali invece delle persone”, disse, ancora tormentata.
Non era ovvio? O forse nemmeno questo aveva importanza per lei.
“Non voglio essere un mostro”, borbottai.
“Ma gli animali non sono abbastanza?”
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Cercai un’altra analogia, un modo per farle capire. “Non posso esserne sicuro,
naturalmente, ma credo si possa paragonare al vivere di tofu e latte di soia; definiamo noi
stessi vegetariani, una piccola burla tutta nostra. Non placa completamente la fame – o
piuttosto la sete. Ma ci dà forza a sufficienza per resistere. Per la maggior parte del
tempo”. La mia voce si affievolì; mi vergognavo del pericolo cui le avevo permesso di
esporsi. Un pericolo che continuavo a pemettere… “Qualche volta è più difficile di altre”.
“E’ molto difficile per te adesso?”
Sospirai. Ovviamente avrebbe posto la domanda cui non volevo rispondere. “Si”,
ammisi.
Riuscii a prevedere esattamente la sua reazione fisica stavolta: la sua respirazione
rimase costante, il cuore seguì il suo corso regolare. L’avevo prevista, ma non riuscivo a
capirla. Come poteva non essere spaventata?
“Ma non hai fame adesso”, dichiarò, perfettamente sicura di sé.
“Cosa te lo fa pensare?”
“I tuoi occhi”, disse, con tono noncurante. “Te l’ho detto che avevo una teoria. Ho
notato che le persone – soprattutto gli uomini – sono più scontrose quando sono affamate”.
Ridacchiai della sua definizione: scontroso. Un eufemismo. Ma aveva
maledettamente ragione, come al solito. “Sei un’osservatrice, non è vero?” risi di nuovo.
Sorrise appena, la ruga tra i suoi occhi ricomparve, come se si stesse concentrando
su qualcosa.
“Sei andato a caccia questo fine settimana, con Emmett?” chiese dopo che la mia
risata fu svanita. La maniera disinvolta in cui parlava era tanto affascinante quanto
frustrante. Poteva veramente accettare tutto quanto senza fare una piega? Ero più prossimo
io allo shock di quanto non sembrasse lei.
“Si”, le dissi, e poi, quand’ero sul punto d’interrompermi lì, avvertii la medesima
urgenza che avevo sentita nel ristorante: volevo che lei mi conoscesse. “Non volevo
partire”, continuai lentamente, “ma era necessario. E’ un pò più facile restare nei paraggi
quando non ho sete”.
“Perché non volevi partire?”
Respirai a fondo, e poi mi voltai ad incrociarne lo sguardo. Questo genere di
sincerità era difficile in maniera del tutto diversa.
“Mi rende…ansioso”, immaginai che quella definizione potesse bastare, ancorché
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non abbastanza incisiva, “stare lontano da te. Non stavo scherzando quando ti ho chiesto
di cercare di non cadere nell’oceano o di non farti investire lo scorso giovedì. Per tutto il
fine settimana sono stato distratto dalla mia preoccupazione per te. E dopo quello che è
successo stasera, mi sorprende che tu sia riuscita a superare l’intero fine settimana illesa”.
Poi mi ricordai delle abrasioni sui suoi palmi. “Beh, non completamente illesa”, mi
corressi.
“Che cosa?”
“Le tue mani”, le ricordai.
Sospirò e fece una smorfia. “Sono caduta”.
Avevo indovinato. “E’ quello che pensavo”, dissi, incapace di contenere un sorriso.
“Suppongo che, trattandosi di te, sarebbe potuta andare molto peggio – e questa possibilità
mi ha tormentato per tutto il tempo che sono stato via. Sono stati tre giorni molto lunghi.
Ho veramente fatto saltare i nervi ad Emmett”. Onestamente, la cosa non apparteneva al
passato. Con ogni probabilità stavo ancora facendo innervosire Emmett, ed anche tutto il
resto della famiglia. Fatta eccezione per Alice…
“Tre giorni?” chiese, con la voce improvvisamente acuta. “Non sei rientrato
solamente oggi?”
Non capivo l’acuto nella sua voce. “No, siamo tornati domenica”.
“Allora perché nessuno di voi era a scuola?”, domandò. La sua irritazione mi
confuse. Parve non accorgersi che questa sua domanda aveva di nuovo a che fare con le
leggende.
“Beh, mi hai chiesto se il sole mi fa male, e non lo fa”, dissi. “Ma non posso uscire
alla luce del sole, almeno, non dove chiunque può vedermi”.
Il che la deviò dal suo misterioso disappunto. “Perché?” chiese, piegando la testa di
lato.
Dubitavo di poter trovare un’adeguata analogia per spiegarglielo. Perciò le dissi
soltanto “Te lo mostrerò un giorno o l’altro”. E poi mi chiesi se questa era una promessa
che avrei finito per infrangere. L’avrei rivista ancora, dopo stasera? L’amavo abbastanza
da essere capace di sopportare di lasciarla?
“Avresti dovuto chiamarmi”, disse.
Che strana conclusione. “Ma io sapevo che stavi bene”.
“Ma io non sapevo dove fossi tu. Io -” si era interrotta bruscamente, e stava
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fissandosi le mani.
“Cosa?”
“Non mi è piaciuto”, disse timidamente, la pelle che le ricopriva le guance era calda.
“Non vederti. Rende ansiosa anche me”.
Sei felice adesso? Chiesi a me stesso. Beh, ecco la mia ricompensa per aver sperato.
Ero confuso, esaltato, terrorizzato – soprattutto terrorizzato – dal rendermi conto
che tutte le mie più sfrenate fantasie non erano poi così lontane dal realizzarsi. Questo era
il motivo per cui non le importava che fossi un mostro. Era esattamente la medesima
ragione per cui le regole avevano smesso di avere importanza per me. Perché il giusto e lo
sbagliato non erano più dei dogmi inconfutabili. Perché le mie priorità erano scese tutte un
gradino più in basso per fare posto a questa ragazza proprio in cima.
Anche Bella mi voleva bene.
Sapevo che non poteva essere niente a confronto di quanto io l’amavo. Ma era
abbastanza da farle rischiare la vita per stare seduta qui con me. Per farlo così di buon
grado.
Abbastanza per ferirla se avessi deciso di fare la cosa giusta e di lasciarla.
C’era qualcos’altro che potessi fare ora che non l’avrebbe ferita? Una qualunque
cosa?
Sarei dovuto restare lontano. Non sarei mai dovuto tornare a Forks. Non potevo
causarle altro che dolore.
Questo mi avrebbe impedito di restare ora? Di fare di peggio?
Il modo in cui mi sentivo proprio adesso, con il suo calore contro la mia pelle…
No. Niente mi avrebbe fermato.
“Ah”, ringhiai rivolto a me stesso. “Questo non va bene”.
“Cos’ho detto?”, chiese, pronta ad assumersi la colpa.
“Non capisci, Bella? Una cosa è che io mi renda miserabile, ma il fatto che tu sia
tanto coinvolta è una cosa completamente diversa. Non voglio più sentirti dire che provi
certe cose”. Era la verità, era una bugia. La parte più egoista di me era in estasi per la
consapevolezza che lei voleva me quanto io volevo lei. “E’ sbagliato. Non è prudente. Io
sono pericoloso, Bella – per favore, sforzati di comprenderlo”.
“No”. Le sue labbra s’imbronciarono con aria petulante.
“Sono serio”. Stavo combattendo con me stesso così fortemente – per metà
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disperato perché lo accettasse, per metà disperato perché volevo far tacere gli avvertimenti
– che le parole mi uscivano tra i denti come un ringhio.
“Anch’io”, insistette. “Te l’ho detto, non m’importa cosa sei. E’ troppo tardi”.
Troppo tardi? Per un secondo infinito il mondo fu di un tetro bianco e nero, intanto
che con la memoria tornavo ad osservare le ombre strisciare lungo il prato soleggiato fino
alla sagoma dormiente di Bella. Inevitabili, inesorabili. Avevano rubato il colore dalla sua
pelle, e l’avevano immersa nell’oscurità.
Troppo tardi? La visione di Alice mi vorticava nella mente, gli occhi rosso sangue
di Bella ricambiavano il mio sguardo imperturbabili. Privi di espressione – ma non c’era
alcuna possibilità che non potesse odiarmi per quel futuro. Odiarmi per averle portato via
tutto. Per averle sottratto la sua vita e la sua anima.
Non poteva essere troppo tardi.
“Non dirlo mai”, sibilai.
Guardava fissa fuori dal finestrino, mordicchiandosi nuovamente il labbro. Teneva
le mani strette a pugno sul grembo. Il suo respiro procedeva a scatti e si spezzava.
“A cosa stai pensando?”. Dovevo saperlo.
Scosse la testa senza guardarmi. Vidi qualcosa brillare, simile ad un cristallo, sulla
sua guancia.
Agonia. “Stai piangendo?”. L’avevo fatta piangere. L’avevo ferita così tanto.
Si asciugò le lacrime sfregandosi con il dorso della mano.
“No”, mentì, con voce strozzata.
Un qualche istinto sepolto da tempo mi stava spingendo ad allungare la mano verso
di lei – in quell’istante unico mi sentii più umano di quanto non mi fossi mai sentito. E poi
mi ricordai che…non lo ero. Ed abbassai la mano.
“Mi dispiace”, dissi, serrando le mascelle. Come avrei mai potuto farle capire
quanto fossi dispiaciuto? Dispiaciuto per tutti gli stupidi errori che avevo commesso.
Dispiaciuto per il mio sconfinato egoismo. Dispiaciuto che fosse stata così sfortunata da
ispirare quel mio primo, tragico amore. Dispiaciuto pure per tutte le cose che andavano al
di là del mio controllo – per essere stato sin dall’inizio il mostro designato a porre fine alla
sua vita.
Respirai profondamente – ignorando la mia disgraziata reazione al profumo nella
macchina – e cercai di ricompormi.
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Volevo cambiare argomento, pensare a qualcos’altro. Fortunatamente per me, la mia
curiosità su tutto quanto riguardava la ragazza era insaziabile. Avevo sempre una domanda
da farle.
“Dimmi una cosa”, dissi.
“Si?” chiese con voce roca, ancora rotta dal pianto.
“A cosa stavi pensando stasera, appena prima che svoltassi l’angolo? Non riuscivo a
capire la tua espressione – non sembravi tanto spaventata, pareva che ti stessi
concentrando molto intensamente su qualcosa”. Ripensai al suo viso – sforzandomi di
dimenticare di chi fossero gli occhi attraverso i quali la stavo guardando – all’espressione
determinata che aveva.
“Stavo cercando di ricordare come si rende inoffensivo un aggressore”, disse, con
una voce più composta. “Tecniche di autodifesa, insomma. Stavo per spaccargli il naso
fino a cacciarglielo nel cervello”.
La sua compostezza non durò fino alla fine della spiegazione. Il tono della sua voce
si era trasformato fino ad essere preda dell’odio. Questa non era un’iperbole, e la sua furia
da gattina non era per niente divertente adesso. Potevo vedere la sua sagoma fragile –
semplicemente seta sopra un vetro – sulla quale dominava quella più massiccia, micidiale
del mostro umano che le avrebbe fatto del male. La furia ribolliva sulla mia nuca.
“Intendevi batterti con loro?” volevo gemere. I suoi istinti erano letali – per sé
stessa. “Non hai pensato a scappare?”
“Tendo ad inciampare parecchio quando corro”, disse con aria imbarazzata.
“E non hai pensato di gridare per chiedere aiuto?”
“Ci stavo arrivando”.
Scossi la testa incredulo. Com’era riuscita a sopravvivere prima di venire a Forks?
“Avevi ragione”, le dissi, con una punta di acredine nella voce. “Sto decisamente
combattendo contro il destino cercando di tenerti in vita”.
Sospirò, e lanciò un’occhiata fuori dal finestrino. Poi tornò a guardarmi.
“Ti vedrò domani?” domandò all’improvviso.
Dal momento che me ne sarei andato comunque all’inferno – tanto valeva che mi
godessi il viaggio.
“Si – Anch’io devo consegnare un compito”. Le sorrisi, ed il farlo mi fece sentire
bene. “Ti terrò il posto a mensa”.
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Il suo cuore palpitava; il mio cuore senza vita d’improvviso sembrava più caldo.
Fermai la macchina davanti a casa di suo padre. Non fece segno di volersene andare.
“Prometti che ci sarai domani?” insistette.
“Prometto”.
Com’era possibile che fare la cosa sbagliata mi rendesse così felice? Sicuramente
c’era qualcosa che non andava in quello.
Annuì tra sé, soddisfatta, e cominciò a sfilarsi la mia giacca.
“Puoi tenerla”, le assicurai rapidamente. Preferivo lasciarla con qualcosa di mio. Un
pegno simbolico, come il tappo della bottiglia che era nella mia tasca adesso…
“Domattina sarai senza giacca”.
Lei me la restituì, sorridendo mestamente. “Non voglio doverlo spiegare a Charlie”,
mi disse.
Immaginavo di no. Le sorrisi. “Oh, d’accordo”.
Poggiò la mano sulla maniglia della portiera, e poi si fermò. Riluttante ad
andarsene, proprio com’io ero riluttante a lasciarla andare.
A lasciarla indifesa, anche se solo per poco tempo…
Peter e Charlotte dovevano essere piuttosto avanti nel loro viaggio oramai, senza
dubbio avevano superato Seattle già da tempo. Ma c’erano sempre gli altri. Questo mondo
non era un posto sicuro per nessun umano, e per lei sembrava essere più pericoloso di
quanto non fosse per gli altri.
“Bella?” chiesi, sorpreso dal piacere che mi dava il semplice pronunciare il suo
nome.
“Si?”
“Mi faresti una promessa?”
“Si”, acconsentì facilmente, e poi i suoi occhi si trasformarono in due fessure come
se avesse pensato ad una ragione per obiettare.
“Non andare nel bosco da sola”, l’avvisai, domandandomi se quella richiesta
avrebbe innescato l’obiezione che aveva negli occhi.
Sbatté le ciglia, sbigottita. “Perché?”
Lanciai uno sguardo cupo verso l’oscurità inaffidabile. L’assenza di luce non era un
problema per i miei occhi, ma non avrebbe neppure causato problemi ad un altro
predatore. Accecava solamente gli esseri umani.
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“Non sono sempre io la cosa più pericolosa là fuori”, le dissi. “Restiamo d’accordo
così”.
Lei rabbrividì, ma si ricompose immediatamente e stava persino sorridendo quando
mi disse “Come vuoi tu”.
Il suo respiro mi sfiorò il viso, così dolce e profumato.
Sarei potuto rimanere così tutta la notte, ma lei aveva bisogno di dormire. I due
desideri parevano eguagliarsi per intensità mentre si combattevano senza tregua dentro di
me: il mio desiderarla contro il mio desiderare che fosse al sicuro.
Sospirai di fronte a quell’inconciliabilità. “Ci vediamo domani”, dissi, sapendo che
l’avrei vista molto prima di così. Tuttavia, lei non avrebbe visto me prima di domani.
“A domani, allora”, concordò mentre apriva la portiera.
Un’altra agonia, il vederla andare.
Mi sporsi verso di lei, volendo trattenerla qui. “Bella?”
Si voltò, e poi s’impietrì, sorpresa di trovare i nostri visi così vicini l’uno all’altro.
Anch’io ero sopraffatto dalla vicinanza. Diffondeva calore sotto forma di onde,
carezzandomi il viso. Potevo tutto tranne sentire la seta della sua pelle…
Il suo cuore era tachicardico e la bocca le si spalancò per la meraviglia.
“Dormi bene”, sussurrai, e scivolai lontano, prima che l’urgenza del mio corpo –
che fosse la sete familiare o la smania del tutto nuova ed ignota che d’improvviso sentivo
– potesse farmi fare una qualunque cosa che potesse nuocerle.
Restò seduta immobile per un momento, con gli occhi sbarrati ed intontita.
Abbacinata, immaginai.
Come lo ero io.
Si ricompose – sebbene il suo viso fosse ancora lievemente confuso – e quasi cadde
dalla macchina, inciampando nei suoi stessi piedi ed afferrandosi al telaio dell’auto per
tenersi dritta.
Ridacchiai – sperando che il volume fosse troppo basso perché potesse sentirmi.
La guardai avanzare con passo malfermo fino al cerchio di luce che circondava la
porta d’ingresso. Salva per il momento. E sarei tornato presto indietro per assicurarmene.
Potevo sentire i suoi occhi che mi seguivano mentre mi avviavo per la strada buia.
Una sensazione del tutto differente da quella cui ero abituato. Di solito, potevo
semplicemente osservare me stesso attraverso gli occhi di qualcuno che mi seguivano, se
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avevo intenzione di farlo. Questa era sorprendentemente eccitante – questa intangibile
percezione di altri occhi che mi stavano guardando. Sapevo che era così perché erano i
suoi occhi.
Un milione di pensieri si rincorrevano tra loro attraverso la mia mente intanto che
guidavo senza meta nella notte.
Per un pò girai in tondo per le strade, diretto in nessun posto in particolare,
pensando a Bella ed all’incredibile sollievo dell’essere la verità svelata. Non dovevo più
temere che scoprisse cos’ero. Lo sapeva. Non le importava. Nonostante fosse ovviamente
una cosa brutta per lei, era straordinariamente liberatoria per me.
Oltre a quello, pensavo a Bella ed all’amore corrisposto. Non poteva amarmi nel
modo in cui io amavo lei – un amore così prepotente, divorante, devastante probabilmente
avrebbe spezzato il suo corpo fragile. Ma ci credeva abbastanza. Abbastanza da domare
l’istintiva paura. Abbastanza da voler essere con me. E stare con lei era la felicità più
grande che avessi mai conosciuta.
Per un momento – siccome ero completamente solo e non facevo male a nessuno,
per cambiare – mi permisi di provare quella felicità senza soffermarmi sulla tragedia.
Semplicemente felice che mi volesse bene. Solamente esultante nel trionfo di averne
conquistato l’affetto. Soltanto immaginandomi giorno dopo giorno di sederle vicino, di
ascoltarne la voce e di guadagnarne i sorrisi.
Ricambiavo quei sorrisi nella mia mente, osservandone gli angoli delle labbra piene
rivolti all’insù, l’accenno di una fossetta che le invadeva la punta del mento, il modo in cui
i suoi occhi si scaldavano e s’intenerivano… Le sue dita sulla mia mano, stasera, mi erano
parse così calde e morbide. Immaginai come sarebbe stato sfiorarne la pelle delicata tesa
sulle guance – carezzevole, calda…così fragile. Seta sopra il vetro…spaventosamente
fragile.
Non capii dove volessero guidarmi i miei pensieri finché non fu troppo tardi.
Mentre riflettevo su quella sconvolgente vulnerabilità, nuove immagini del suo viso
s’intromisero nelle mie fantasie.
Smarrito tra le ombre, pallido per la paura – malgrado ciò con le mascelle contratte
e determinate, gli occhi feroci, profondamente concentrati, il suo corpo esile pronto a
colpire le enormi sagome che le si avvicinavano, incubi dal buio…
“Ah”, gemetti, mentre l’odio latente che avevo tutto fuorché dimenticato nella gioia
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©2008 Stephenie Meyer
di amarla esplodeva di nuovo in un inferno di rabbia.
Ero solo. Bella era, confidavo, al sicuro a casa sua; per un momento fui
terribilmente contento che Charlie Swan – capo della polizia locale, addestrato ed armato
– fosse suo padre. Questo doveva significare qualcosa, fornirle una sorta di scudo.
Lei era al sicuro. Non mi ci sarebbe voluto molto per vendicare l’offesa…
No. Lei meritava di meglio. Non potevo permettere che volesse bene ad un
assassino.
Ma…e che dire delle altre?
Bella era al sicuro, si. Anche Jessica ed Angela erano, indubbiamente, al sicuro nei
loro letti.
Tuttavia un mostro si aggirava libero per le strade di Port Angeles. Un mostro
umano – questo lo faceva diventare un problema degli umani? Commettere l’omicidio che
desideravo fortemente commettere era sbagliato. Lo sapevo. Ma neppure lasciarlo libero
di aggredire ancora poteva essere giusto.
La bionda hostess di sala del ristorante. La cameriera che non avevo veramente
guardato. Entrambe mi avevano seccato in maniera sciocca, ma questo non significava che
meritassero di essere in pericolo.
L’una o l’altra di loro sarebbe potuta essere al posto di Bella.
Quella presa di coscienza mi fece decidere.
Voltai la macchina verso nord, accelerando adesso che avevo una meta. Ogni volta
che avevo un problema che era al di sopra delle mie possibilità – qualcosa di concreto
come questo – sapevo dove potevo trovare aiuto.
Alice era seduta nel portico, che mi aspettava. Mi fermai di fronte a casa invece di
aggirarla per raggiungere il garage.
“Carlisle è nel suo studio”, mi disse Alice prima che glielo potessi chiedere.
“Grazie”, dissi, scompigliandole i capelli mentre passavo.
Grazie a te per avermi richiamata, pensò sarcasticamente.
“Oh”. Mi fermai sulla porta, tirando fuori il cellulare ed aprendolo. “Scusami. Non
ho nemmeno controllato per vedere chi era. Ero…occupato”.
“Si, lo so. Scusami anche tu. Per quando ho visto cosa stava per succedere, ti eri già
mosso”.
“C’è mancato poco”, mormorai.
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©2008 Stephenie Meyer
Scusami, ripeté, vergognandosi di se stessa.
Era facile essere generosi, sapendo che Bella stava bene. “Non biasimarti. So che
non puoi stare dietro a tutto. Nessuno si aspetta che tu sia onnisciente, Alice”.
“Grazie”.
“Stavo quasi per chiederti di uscire a cena con me stasera – non l’hai visto prima
che cambiassi idea?”
Spalancò il sorriso. “No, mi sono persa anche quello. Avrei voluto saperlo. Sarei
venuta”.
“Su cosa ti stavi concentrando, che ti sei persa così tanto?”
Jasper sta pensando al nostro anniversario. Scoppiò a ridere. Sta tentando di non
prendere una decisione su cosa regalarmi, ma penso di averne un’idea piuttosto precisa…
“Sei senza pudore”.
“Si”.
Mise il broncio, e mi fissò, accusandomi velatamente con la sua espressione. Più
tardi farò maggiore attenzione. Glielo dirai che lei sa?
Sospirai. “Si. Più tardi”.
Non dirò nulla. Fammi un favore e dillo a Rosalie quando non sono in giro,
d’accordo?
Trasalii. “Certo”.
Bella l’ha presa piuttosto bene.
“Anche troppo”.
Alice mi fece una smorfia. Non sottovalutare Bella.
Cercai di bloccare l’immagine che non volevo vedere – Bella ed Alice, le migliori
delle amiche.
Impaziente ora, sospirai profondamente. Volevo passare alla fase successiva della
serata; volevo chiuderla. Ma avevo ancora paura di lasciare Forks…
“Alice…” cominciai. Vide cos’avevo in mente di chiederle.
Starà bene stanotte. La tengo d’occhio più attentamente adesso. Pare che abbia
bisogno di essere sorvegliata ventiquattro ore su ventiquattro, non è così?
“Come minimo”.
“In ogni caso, sarai di nuovo con lei tra pochissimo”.
Respirai a fondo. Quelle parole erano meravigliose per me.
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“Vai – fai quel che devi così da poter essere dove desideri essere”, mi disse.
Annuii, e corsi nello studio di Carlisle.
Mi stava aspettando, i suoi occhi erano sulla porta piuttosto che sullo spesso libro
sulla scrivania.
“Ho sentito Alice che ti diceva dove potevi trovarmi”, disse, e sorrise.
Era un sollievo essere con lui, vedere l’empatia e la profonda intelligenza dei suoi
occhi. Carlisle avrebbe saputo cosa fare.
“Ho bisogno di aiuto”.
“Qualunque cosa, Edward”, promise.
“Alice ti ha detto cos’è successo a Bella stasera?”
Quasi successo, corresse.
“Si, quasi. Mi trovo in un dilemma, Carlisle. Vedi, vorrei…davvero… ucciderlo”.
Le parole cominciarono a fluire veloci ed appassionate. “Proprio tanto. Ma so che sarebbe
sbagliato, perché sarebbe vendetta, non giustizia. Solo collera, nessuna imparzialità.
Tuttavia, non può essere giusto permettere ad uno stupratore ed assassino seriale di
aggirarsi per Port Angeles! Non conosco le persone di lì, ma non posso lasciare che
qualcun’altra diventi vittima al posto di Bella. Quelle altre donne – qualcuno potrebbe
sentire per loro quello che io sento per Bella. Potrebbe soffrire quello che io avrei sofferto
se le avessero fatto del male. Non è giusto -”
Il suo sorriso spalancato, imprevisto arginò all’istante l’impeto delle mie parole.
Ha un effetto decisamente positivo su di te, non è vero? Così tanta compassione,
così tanto controllo. Sono impressionato.
“Non sono in cerca di complimenti, Carlisle”.
“Certo che no. Ma non posso fare a meno di pensarlo, o no?”. Sorrise di nuovo. “Me
ne occuperò io. Puoi stare tranquillo. A nessun’altra verrà fatto del male al posto di Bella”.
Vidi il piano che aveva in mente. Non era esattamente ciò che volevo, non placava
la mia smania di brutalità, ma capivo che era la cosa giusta da fare.
“Ti mostrerò dove trovarlo”, dissi.
“Andiamo”.
Afferrò la sua borsa nera mentre ci muovevamo. Avrei preferito un tipo di sedativo
più aggressivo – come un cranio fracassato – ma avrei lasciato che Carlisle facesse a modo
suo.
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Prendemmo la mia macchina. Alice era ancora sui gradini. Spalancò il sorriso e ci
salutò con la mano mentre ci allontanavamo. Vidi che aveva sbirciato nel futuro per me;
non avremmo incontrato difficoltà.
Il tragitto sulla strada buia, vuota fu molto breve. Non accesi i fari per non attirare
l’attenzione. Mi fece sorridere il pensiero di come Bella avrebbe reagito a questa velocità.
Stavo già andando molto più lentamente di quanto non facessi di solito – per prolungare il
mio tempo con lei – quando aveva protestato.
Anche Carlisle stava pensando a Bella.
Non avevo previsto che fosse così adatta a lui. E’ del tutto inaspettato. Forse in
qualche modo era destino che fosse così. Forse risponde ad uno scopo superiore. Solo
che…
Si figurò Bella con la pelle bianca e fredda come la neve e gli occhi rossi come il
sangue, e poi rifuggì quell’immagine.
Si. Solo che. Davvero. Perché cosa poteva esserci di buono nel distruggere qualcosa
di così splendido e puro?
Guardai torvo nel buio, tutta la gioia della serata distrutta dai suoi pensieri.
Edward merita di essere felice. Gli è dovuto. L’intensità dei pensieri di Carlisle mi
sorprese. Deve esserci un modo.
Desideravo poterci credere – a tutto. Ma non c’era uno scopo superiore dietro quello
che stava capitando a Bella. Solo un’arpia malvagia, un fato ignobile, crudele che non
poteva tollerare che Bella avesse la vita che meritava.
Non mi attardai a Port Angeles. Accompagnai Carlisle fino alla bettola in cui
l’essere di nome Lonnie stava annegando il dispiacere con i suoi amici – due dei quali
avevano già perso i sensi. Carlisle capiva quanto fosse duro per me trovarmi così vicino –
ascoltare i pensieri del mostro e vedere i suoi ricordi, il ricordo di Bella mescolato a quello
delle altre ragazze meno fortunate che nessuno poteva più salvare oramai.
Mi si accelerò il respiro. Mi aggrappai al volante.
Vai, Edward, mi disse gentilmente. Farò in modo che non possano più nuocere a
nessuno. Torna da Bella.
Era esattamente la cosa giusta da dire. Il suo nome era l’unica distrazione che
potesse avere un qualche senso per me ora.
Lo lasciai in macchina, e tornai a Forks correndo in linea retta attraverso la foresta
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addormentata. Impiegai meno tempo che all’andata con la macchina. Solo pochi minuti
dopo stavo scalando la facciata di casa sua e facevo scivolare la sua finestra per
sgombrarmi il passo.
Sospirai di sollievo silenziosamente. Ogni cosa era proprio come doveva essere.
Bella era al sicuro nel suo letto, sognante, con i capelli umidi intrecciati come alche
marine sul cuscino.
Ma, diversamente dalla maggior parte delle notti, era raggomitolata in una piccola
palla con le coperte tirate strette attorno alle spalle. Freddo, immaginai. Prima che potessi
sedermi al mio solito posto, rabbrividì nel sonno, e le sue labbra tremarono.
Pensai per un breve istante, e poi scivolai delicatamente in corridoio, esplorando
un’altra parte della casa per la prima volta.
Il russare di Charlie era forte e regolare. Potevo quasi afferrare i contorni del suo
sogno. Qualcosa riguardo lo scorrere dell’acqua e l’aspettare pazienti…pesca, forse?
Là, in cima alle scale, c’era un armadio che pareva promettente. Lo aprii ottimista, e
trovai quello che stavo cercando. Scelsi la coperta più pesante tra l’esigua biancheria
dell’armadio, e la portai in camera di Bella. L’avrei rimessa a posto prima che si
svegliasse, e nessuno se ne sarebbe accorto.
Trattenendo il respiro, con cautela, le distesi sopra la coperta; non reagì al peso
aggiuntivo. Tornai alla sedia a dondolo.
Mentre aspettavo ansiosamente che si scaldasse, pensavo a Carlisle, domandandomi
dove fosse ora. Sapevo che il suo piano sarebbe filato liscio – Alice l’aveva visto.
Pensare a mio padre mi fece sospirare – Carlisle mi attribuiva troppo merito. Avrei
voluto essere la persona che pensava che fossi. Quella persona, quella che meritava di
essere felice, che avrebbe potuto sperare di essere degna di questa ragazza addormentata.
Quanto sarebbero state diverse le cose se avessi potuto essere quell’Edward.
Intanto che ci riflettevo, la mia mente fu invasa, senza che l’avessi invitata, da
un’immagine bizzarra.
Per un istante, il fato con il viso maligno che avevo immaginato, quello che
chiedeva la distruzione di Bella, fu rimpiazzato dal più folle e sconsiderato degli angeli.
Un angelo custode – qualcosa che secondo la prospettiva che Carlisle aveva di me avrei
potuto avere. Con un sorriso noncurante sulle labbra, con gli occhi azzurro cielo pieni di
malizia, l’angelo aveva modellato Bella in maniera tale che non mi fosse in alcun modo
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possibile non vederla. Un profumo assurdamente potente per richiamare la mia attenzione,
una mente silenziosa per infiammare la mia curiosità, una bellezza dissimulata per
catturare i miei occhi, un’anima disinteressata per guadagnare la mia soggezione.
Lasciando fuori l’innato istinto di conservazione - cosicché Bella potesse tollerare di
starmi vicina – e, alla fine, aggiungendo un’ampia dose di spaventosa sfortuna.
Con una risata spensierata, l’angelo irresponsabile aveva spinto la sua fragile
creazione direttamente sulla mia strada, confidando inopportuno nella mia fallace moralità
per tenere Bella in vita.
In questa visione, non ero la condanna di Bella; lei era la mia ricompensa.
Scossi la testa dinanzi alla fantasticheria di quell’angelo sconsiderato. Non era per
niente migliore dell’arpia. Non potevo pensare bene di un potere superiore che si
comportava in una maniera tanto pericolosa e stupida. Almeno un fato ignobile avrei
potuto combatterlo.
Ed io non avevo angeli. Quelli erano riservati ai buoni – alle persone come Bella.
Ma dov’era il suo angelo in tutto questo? Chi la stava sorvegliando?
Risi silenziosamente, sbigottito, perché mi resi conto che, proprio ora, stavo
ricoprendo quel ruolo.
Un vampiro custode – una bella impresa.
Dopo circa mezz’ora, Bella si rilassò smettendo di stare raggomitolata in una stretta
palla. Il suo respiro si fece più profondo e cominciò a borbottare. Sorrisi, soddisfatto. Era
una piccola cosa, ma almeno stava dormendo più serenamente stanotte perché ero qui.
“Edward” sospirò, e poi sorrise, anche.
Spinsi da parte la tragedia per un momento, e mi concessi di essere di nuovo felice.
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11. Interrogatori
La CNN fu la prima a raccontare l'accaduto.
Ero contento che desse la notizia prima che dovessi uscire per andare a scuola,
ansioso di sentire che tipo di resoconto avrebbero fornito, e quanta attenzione avrebbe
raccolto. Fortunatamente, era una giornata ricca di notizie. C’erano stati un terremoto in
Sudamerica ed un sequestro di persona di matrice politica in Medio Oriente. Sicché, finì
per guadagnarsi solo pochi secondi, poche frasi, ed una fotografia sgranata.
“Alonzo Calderas Wallace, sospetto maniaco stupratore ed omicida, ricercato in
Texas ed in Oklahoma, è stato arrestato a Portland, in Oregon, la scorsa notte, grazie ad un
informatore rimasto anonimo. Wallace è stato trovato in stato d’incoscienza in un vicolo
questa mattina presto, a soli pochi metri da una stazione di polizia. Le autorità non sono
ancora in grado di dire se sarà estradato a Houston o ad Oklahoma City per essere
processato”.
L’immagine non era nitida, una foto segnaletica, ed aveva una folta barba al tempo
in cui era stata scattata. Anche se Bella l’avesse vista, probabilmente non l’avrebbe
riconosciuto. Speravo non lo facesse; si sarebbe spaventata inutilmente.
“La diffusione qui in città sarà minima. E’ troppo lontano per essere considerato
d’interesse locale”, mi disse Alice. “E’ stata un’ottima idea quella di Carlisle di portarlo
fuori dai confini dello stato”.
Annuii. Bella non guardava molto la televisione in ogni caso, e non avevo mai visto
suo padre guardare altro al di fuori dei canali sportivi.
Avevo fatto quanto potevo. Questo mostro non avrebbe più cacciato, ed io non ero
un assassino. Non in tempi recenti, comunque. Avevo fatto bene a fidarmi di Carlisle, per
quanto ancora desiderassi che il mostro non se la cavasse tanto a buon mercato. Mi
sorpresi a sperare che fosse estradato in Texas, dove la pena di morte era così popolare…
No. Questo non contava. Me lo sarei lasciato alle spalle, e mi sarei concentrato su
quello che c’era di più importante.
Avevo lasciato la camera di Bella da meno di un’ora. Stavo già desiderando
ardentemente di rivederla.
“Alice, ti dispiace -”
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Mi aveva interrotto. “Guiderà Rosalie. Farà l’incavolata, ma sai bene quanto
apprezzerà l’avere una scusa per sfoggiare la sua macchina”. Alice trillò una risata.
Spalancai il sorriso. “Ci vediamo a scuola”.
Alice sospirò, ed il mio sorriso si trasformò in una smorfia.
Lo so, lo so, pensò. Non ancora. Aspetterò finché non sarai pronto a farmi
conoscere Bella. Dovresti sapere, però, che qui non si tratta soltanto del mio essere
egoista. Anch’io piacerò a Bella.
Non le risposi mentre correvo fuori della porta. Quello era un punto di vista diverso
sulla faccenda. Bella avrebbe voluto conoscere Alice? Avere una vampira come migliore
amica?
Conoscendo Bella…l’idea probabilmente non l’avrebbe disturbata neanche un pò.
Mi accigliai. Ciò che Bella voleva e ciò che era meglio per Bella erano due cose
davvero molto distinte.
Cominciai a sentirmi a disagio mentre parcheggiavo la macchina nel vialetto di
Bella. Una massima umana diceva che la notte porta consiglio – che le cose cambiano se
ci si dorme sopra. Sarei sembrato diverso a Bella nella tiepida luce di un giorno di nebbia?
Più sinistro o meno sinistro di quanto non fossi nell’oscurità della sera? La verità aveva
fatto presa su di lei mentre dormiva? Avrebbe avuto finalmente paura?
I suoi sogni erano stati pacifici, però, ieri notte. Quando aveva pronunciato il mio
nome, ancora ed ancora, aveva sorriso. Più di una volta aveva mormorato implorandomi di
restare. Non avrebbe significato più niente oggi?
Aspettavo nervosamente, ascoltando i suoni provenienti dall’interno di casa sua – i
passi rapidi, incespicanti sulle scale, lo strappo netto di un foglio di stagnola, i contenitori
del surgelatore che sbattevano l’uno contro l’altro quando lo sportello era stato chiuso con
forza. Sembrava che andasse di fretta. Ansiosa di arrivare a scuola? Il pensiero mi fece
sorridere, di nuovo ottimista.
Guardai l’orologio. Indovinai che – tenendo conto che la velocità del suo pick-up
decrepito l’avrebbe limitata – era in ritardo.
Bella si precipitò fuori di casa, con la sacca dei libri che le scivolava dalla spalla, i
suoi capelli erano raccolti in una treccia disordinata che in parte stava già sciogliendosi
alla base della nuca. Il pesante maglione verde che indossava non bastò ad impedire alle
sue spalle magre di curvarsi contro la nebbia fredda.
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Il lungo maglione, troppo grande per lei, non le rendeva giustizia. Nascondeva la
sua figura slanciata, trasformando tutte le sue curve delicate ed i morbidi contorni in una
massa informe. Apprezzai questo quasi quanto avevo desiderato che indossasse qualcosa
di più simile alla leggera camicetta blu che portava ieri sera…il tessuto le aveva aderito al
corpo in una maniera davvero attraente, scollato abbastanza da rivelare il modo
incantevole in cui la sua clavicola curvava dall’incavo al di sotto della sua gola. Il blu era
ricaduto morbidamente, come acqua, lungo la sagoma delicata del suo corpo…
Era meglio – essenziale – che tenessi i miei pensieri lontani, lontani da quelle forme,
perciò ero grato che indossasse quel maglione che non le donava. Non potevo permettermi
di commettere degli errori, e sarebbe stato un errore madornale soffermarsi sui desideri per
me del tutto nuovi che i pensieri sulle sue labbra… sulla sua pelle… sul suo corpo…
agitavano scatenati dentro di me. Desideri che mi avevano schivato per cento anni. Ma
non potevo concedermi di pensare di toccarla, perché quello era impossibile.
L’avrei mandata in pezzi.
Bella aveva voltato le spalle alla porta, talmente di fretta che quasi passò diritta
correndo accanto alla mia macchina senza neppure notarla.
Poi si fermò slittando, con le ginocchia piegate in dentro come quelle di un puledro
confuso che muove i primi passi. La sua sacca scivolò ancora più giù sul suo braccio, ed i
suoi occhi si spalancarono quando misero a fuoco la mia macchina.
Scesi, senza badare a muovermi a velocità umana, ed aprii la portiera del passeggero
per lei. Non avrei più cercato d’ingannarla – quando eravamo soli, quantomeno, sarei stato
me stesso.
Alzò lo sguardo su di me, di nuovo confusa come se apparentemente mi fossi
materializzato dalla nebbia. E poi la sorpresa nei suoi occhi si trasformò in qualcos’altro, e
smisi di avere paura – o di sperare – che i suoi sentimenti per me fossero cambiati nel
corso della notte. Calore, meraviglia, fascino, fluttuavano tutti nel morbido cioccolato dei
suoi occhi.
“Ti va di venire con me oggi?” chiesi. Diversamente dalla cena della sera prima, le
avrei permesso di scegliere. D’ora in poi, doveva essere sempre una sua scelta.
“Si, grazie”, mormorò, salendo in macchina senza esitazione.
Avrebbe mai smesso di elettrizzarmi, il fatto che fossi io quello a cui diceva di si?
Ne dubitavo.
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Saettai attorno alla macchina, impaziente di raggiungerla. Non mostrò alcun segno
di essere rimasta scioccata dalla mia subitanea riapparizione.
La gioia che provavo quando sedeva accanto a me in questo modo non aveva
precedenti. Nonostante apprezzassi l’amore e la compagnia della mia famiglia, a dispetto
dei vari intrattenimenti e delle distrazioni che il mondo aveva da offrire, non ero mai stato
così felice. Pur sapendo che era sbagliato, che non c’era alcuna possibilità che potesse
finire bene, non potei trattenere a lungo il sorriso lontano dal mio viso.
La mia giacca stava ripiegata sul poggiatesta del suo sedile. La vidi squadrarla.
“Ho portato la giacca per te”, le dissi. Era la mia scusa, se me ne fossi dovuta
procurare una, per essermi presentato senza invito questa mattina. Faceva freddo. Non
aveva una giacca. Sicuramente questa era un’accettabile forma di cavalleria. “Non volevo
che ti ammalassi o qualcosa del genere”.
“Non sono delicata fino a questo punto”, disse, fissando il mio torace piuttosto che
il mio viso, come se fosse riluttante ad incontrare i miei occhi. Ma indossò la giacca prima
che dovessi fare ricorso all’autorità o alla coercizione.
“Non lo sei?” borbottai tra me.
Guardava fissa la strada mentre acceleravo in direzione della scuola. Riuscii a
sopportare il silenzio per pochi secondi solamente. Dovevo sapere quali erano i suoi
pensieri stamattina. Era cambiato così tanto tra di noi dall’ultima volta che il sole era alto.
“Allora, niente domande a raffica oggi?” chiesi, andandoci di nuovo piano.
Lei sorrise, sembrando contenta che avessi toccato l’argomento. “Le mie domande
t’infastidiscono?”
“Non quanto le tue reazioni”, le dissi onestamente, sorridendo in risposta al suo
sorriso.
La sua bocca si era imbronciata. “Reagisco male?”
“No, è questo il problema. Prendi tutto con troppa calma – non è naturale”. Finora
nessuno strillo. Come poteva essere? “M’induce a chiedermi a cosa pensi veramente”.
Ovviamente, qualunque cosa facesse o non facesse m’induceva a domandarmelo.
“Ti dico sempre quello che penso veramente”.
“Lo censuri”.
I suoi denti premevano di nuovo sul suo labbro. Pareva non accorgersi di quando lo
faceva – una reazione inconscia alla tensione. “Non molto”.
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Solo quelle parole erano sufficienti a scatenare la mia curiosità. Cosa mi nascondeva
di proposito?
“Abbastanza da farmi perdere la testa”, dissi.
Esitò, e poi mormorò “Tu non vuoi sentirlo”.
Fui costretto a pensare per un momento, ripercorrendo la nostra intera
conversazione della sera prima, parola dopo parola, prima di riuscire a trovare la
connessione. Forse ci voleva così tanta concentrazione perché non riuscivo ad immaginare
nulla che non volessi che mi dicesse. E poi – giacché il tono della sua voce era identico a
quello della sera precedente, nuovamente ed improvvisamente tormentato – ricordai. Una
sola volta le avevo chiesto di non parlarmi dei suoi pensieri. Non dirlo mai, le avevo
praticamente ringhiato contro. L’avevo fatta piangere…
Era questo che mi nascondeva? La profondità dei suoi sentimenti per me? Che il
mio essere un mostro non aveva importanza per lei, e che pensava che fosse troppo tardi
per cambiare idea?
Ero incapace di parlare, perché la gioia ed il dolore erano troppo forti per le parole,
il conflitto tra di loro troppo delirante per dare adito ad una risposta coerente. C’era
silenzio in macchina tranne che per il ritmo regolare del suo cuore e dei suoi polmoni.
“Dov’è il resto della tua famiglia?” chiese d’improvviso.
Respirai profondamente – prendendo nota del profumo nella macchina con un
dolore crudo per la prima volta; mi ci stavo abituando, mi resi conto con soddisfazione – e
mi sforzai di fare di nuovo disinvolto.
“Hanno preso la macchina di Rosalie”. Parcheggiai in un posteggio libero accanto
alla macchina in questione. Nascosi il mio sorriso quando la vidi sgranare gli occhi.
“Appariscente, non è vero?”
“Um, whow. Se lei ha quella, perché si fa accompagnare da te?”
Rosalie avrebbe apprezzato la reazione di Bella…se fosse stata obiettiva su Bella, il
che probabilmente non sarebbe successo.
“Come ho detto, è appariscente. Cerchiamo di passare inosservati”.
“Non ci riuscite”, mi disse, e poi scoppiò in una risata liberatoria.
Il suono allegro, completamente spensierato della sua risata riscaldò il mio petto
vuoto pur annegando la mia mente nell’incertezza.
“Allora perché Rosalie oggi ha preso la macchina se si fa notare tanto di più?”
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chiese.
“Non te ne sei accorta? Sto infrangendo tutte le regole ormai”.
La mia risposta avrebbe dovuto essere moderatamente allarmante – perciò,
ovviamente, Bella sorrise.
Non aspettò che le aprissi la portiera, proprio come la sera precedente. Dovevo
fingere di essere normale a scuola – sicché non potevo muovermi abbastanza in fretta per
prevenirla – ma avrebbe dovuto abituarsi ad essere trattata con maggior cortesia, e ci si
sarebbe abituata presto.
Le camminavo vicino quanto più osavo fare, osservandola attentamente in cerca di
un qualunque segno che la mia prossimità potesse disturbarla. Un paio di volte le sue mani
si erano mosse nervosamente verso di me, e poi le aveva ritirate bruscamente. Sembrava
che volesse toccarmi…Il mio respiro accelerò.
“Perché avete macchine come quella allora? Se cercate di restare anonimi?” chiese
intanto che camminavamo.
“Una debolezza”, ammisi. “A noi tutti piace andare veloci”.
“Figurarsi”, borbottò, con un tono aspro.
Non aveva alzato lo sguardo per vedermi replicare spalancando il sorriso.
Noo-o! Non ci credo! Come diamine c’è riuscita Bella? Non lo capisco! Perché?
La mente sbalordita di Jessica aveva interrotto i miei pensieri. Stava aspettando
Bella, al riparo dalla pioggia sotto la tettoia sporgente della mensa, con la giacca invernale
di Bella poggiata sul braccio. I suoi occhi erano sgranati per l’incredulità.
Anche Bella la notò, un momento dopo. Un rosa appena visibile sfiorò le guance di
Bella quando prese atto dell’espressione di Jessica. I pensieri nella mente di Jessica erano
abbastanza intellegibili sul suo viso.
“Hey, Jessica. Grazie per essertene ricordata” la salutò Bella. Allungò la mano per
prendere la giacca e Jessica gliela passò senza dire una parola.
Dovevo essere educato con gli amici di Bella, sia che fossero buoni amici oppure
no. “Buongiorno, Jessica”.
Whoa…
Gli occhi di Jessica si spalancarono addirittura di più. Era bizzarro e divertente…e,
onestamente, un tantino imbarazzante…rendermi conto di quanto lo stare vicino a Bella
mi avesse ammorbidito. Se Emmett lo avesse scoperto, avrebbe riso per il secolo a venire.
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“Ehm…ciao”, biascicò Jessica, ed i suoi occhi guizzarono sul viso di Bella, pieni di
sottintesi. “Immagino che ti vedrò a trigonometria”.
Così vuoterai il sacco. Non accetterò un no come risposta. Dettagli. Devo
conoscere i dettagli! Edward da sballo CULLEN!! La vita è così ingiusta.
La bocca di Bella s’irrigidì. “Si, ci vediamo dopo allora”
I pensieri di Jessica correvano scatenati mentre si dirigeva in fretta alla sua prima
lezione, sbirciando verso di noi di tanto in tanto.
L’intera storia. Non accetterò niente di meno. Si erano messi d’accordo per
incontrarsi ieri sera? Si frequentano? Da quanto? Come ha fatto a tenerlo segreto?
Perché l’avrebbe fatto? Non può essere un qualcosa di occasionale – deve essere
seriamente interessata a lui. C’è una qualche altra possibilità? La scoprirò. Non sopporto
di non sapere. Chissà se se la fa con lui? Oh, da svenire… I pensieri di Jessica erano
diventati improvvisamente sconnessi, e lasciò che delle mute fantasie le vorticassero nella
mente. Trasalii per le sue speculazioni, e non solo perché aveva sostituito sé stessa a Bella
in quelle sue immagini mentali.
Non potevo essere così. E tuttavia io…io lo desideravo.
Mi rifiutavo di confessarlo, perfino a me stesso. In quanti altri modi sbagliati avrei
voluto coinvolgere Bella? Quale di questi avrebbe finito per ucciderla?
Scossi la testa, e cercai di tirarmi su.
“Cosa le dirai?” chiesi a Bella.
“Hey!”, bisbigliò ferocemente. “Pensavo che non potessi leggermi nella mente!”
“Non posso”. La fissai, sorpreso, cercando di dare un senso alle sue parole. Ah –
dovevamo aver pensato la medesima cosa nello stesso momento. Hmm…mi piaceva
alquanto. “Ad ogni modo”, le dissi, “posso leggere la sua – aspetta di tenderti un agguato a
lezione”.
Bella gemette, e poi lasciò scivolare la giacca dalle sue spalle. All’inizio non mi ero
reso conto che me la stava restituendo – non le avrei chiesto di farlo; avrei preferito che la
tenesse…un pegno simbolico – perciò fui troppo lento per offrirle il mio aiuto. Mi restituì
la giacca, ed infilò le braccia nella propria, senza alzare lo sguardo per accorgersi che le
mie mani si erano allungate per prestarle assistenza. Aggrottai le sopracciglia per quello, e
poi ricomposi la mia espressione prima che se ne potesse accorgere.
“Dunque, cosa le dirai?” insistetti.
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“Un aiutino? Cosa vuole sapere?”
Sorrisi, e scossi la testa. Volevo sentire cosa stava pensando senza alcuna
imbeccata. “Non è leale”.
I suoi occhi si socchiusero. “No, tu che non condividi ciò che sai – questo non è
leale”.
Giusto – a lei non piaceva il due pesi e due misure.
Arrivammo di fronte alla porta della sua classe – dove avrei dovuto lasciarla; mi
domandai inutilmente se la Signorina Cope sarebbe stata più accomodante rispetto ad una
modifica nel mio orario per il corso d’inglese… Mi costrinsi a concentrarmi. Potevo essere
leale.
“Vuole sapere se ci frequentiamo di nascosto”, dissi lentamente. “E vuole sapere
cosa provi per me”.
I suoi occhi erano sgranati – non sbigottiti, ma ingegnosi adesso. Erano spalancati
su di me, intellegibili. Stava facendo la parte dell’ingenua.
“Ahiahi”, mormorò. “Cosa dovrei rispondere?”
“Hmmm”. Cercava sempre di farmi rivelare più di quanto non svelasse. Valutai
come rispondere.
Una ciocca ribelle dei suoi capelli, lievemente umida a causa della nebbia, cadeva
morbida sulla sua spalla e formava un ricciolo nel punto in cui la sua clavicola era
nascosta da quel suo ridicolo maglione. Catturò i miei occhi…trascinandoli lungo gli altri
contorni che restavano nascosti…
Allungai la mano con attenzione, senza toccare la sua pelle – la mattina era fredda
abbastanza anche senza il mio tocco – e la attorcigliai rimettendola a posto nella crocchia
scomposta cosicché non potesse distrarmi di nuovo. Mi ricordai di quando Mike Newton
aveva toccato i suoi capelli, e la mia mascella si contrasse al pensiero. Lei si era
bruscamente tirata indietro allora. La sua reazione ora non era affatto identica; invece, i
suoi occhi si erano lievemente spalancati, il sangue era affluito sotto la sua pelle, ed il
battito del suo cuore era d’improvviso forte ed irregolare.
Tentai di nascondere un sorriso mentre rispondevo alla sua domanda.
“Immagino che potresti rispondere di si alla prima…se non ti dispiace -”, una sua
scelta, sempre una sua scelta, “- è più semplice di qualunque altra spiegazione”.
“Non mi dispiace”, disse con un filo di voce. Il suo cuore non aveva ancora ripreso a
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©2008 Stephenie Meyer
battere regolarmente.
“E quanto all’altra domanda…”. Non potei nascondere il sorriso stavolta. “Beh,
resterò io stesso in ascolto per scoprire la risposta”.
Dalle il tempo di riflettere su questo. Trattenni una risata quando lo shock le
attraversò il viso.
Mi voltai in fretta, prima che potesse farmi altre domande. Avevo delle difficoltà a
negarle qualunque cosa chiedesse. E volevo sentire i suoi pensieri, non i miei.
“Ci vediamo a pranzo”, la richiamai da sopra la spalla, una scusa per controllare se
mi stava ancora fissando, con gli occhi sgranati. La sua bocca era spalancata. Mi voltai di
nuovo, e scoppiai a ridere.
Mentre mi allontanavo, ero vagamente consapevole dei pensieri scioccati e
speculativi che mi turbinavano intorno – degli occhi che rimbalzavano avanti ed indietro
tra il viso di Bella e la mia sagoma in ritirata. Prestai loro scarsa attenzione. Non riuscivo a
concentrarmi. Era già abbastanza difficile costringere i miei piedi a mantenere una
velocità accettabile mentre attraversavo il prato fradicio per andare a lezione. Avevo
voglia di correre – correre sul serio, così veloce che sarei scomparso, così veloce che avrei
avuto l’impressione di volare. Una parte di me stava già volando.
M’infilai la giacca quando arrivai in classe, lasciando che la sua fragranza fluttuasse
densa attorno a me. Preferivo avvampare ora – lasciare che il profumo mi
desensibilizzasse – perché poi sarebbe stato più facile ignorarlo più tardi, quando fossi
stato a mensa insieme a lei…
Era una buona cosa che i professori da tempo non si disturbassero più ad
interpellarmi. Oggi sarebbe stato il giorno in cui mi avrebbero colto in fallo, impreparato
ed incapace di rispondere. La mia mente era in così tanti posti questa mattina; solo il mio
corpo era in aula.
Ovviamente stavo osservando Bella. Stava diventando naturale – automatico quanto
il respirare. Ascoltai la sua conversazione con un Mike Newton demoralizzato. Lei l’aveva
rapidamente deviata su Jessica, e spalancai il sorriso tanto che Rob Sawyer, che sedeva al
banco alla mia destra, trasalì visibilmente e scivolò più a fondo sulla sedia, lontano da me.
Ugh. Da rizzare i capelli.
Beh, non lo avevo perso del tutto.
Stavo anche tenendo d’occhio Jessica distrattamente, osservandola perfezionare le
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domande per Bella. Riuscivo a malapena ad aspettare che arrivasse la quarta ora, dieci
volte più impaziente ed ansioso di quell’umana curiosa a caccia di nuovi pettegolezzi.
E stavo anche ascoltando Angela Weber.
Non avevo dimenticato la gratitudine che provavo per lei – intanto, perché nutriva
null’altro che pensieri gentili nei riguardi di Bella, e poi per l’aiuto prestatomi la sera
prima. Perciò aspettai tutta la mattina, in cerca di qualcosa che potesse volere. Ritenevo
che sarebbe stato facile; come qualunque altro essere umano, doveva esserci un qualche
gingillo o giocattolo che desiderasse in modo particolare. Diversi, probabilmente. Le avrei
fatto recapitare qualcosa in forma anonima e saremmo stati pari.
Ma Angela, con i suoi pensieri, si era dimostrata accomodante quasi quanto Bella.
Era stranamente contenta per essere un’adolescente. Felice. Forse era questa la ragione
della sua inusuale benevolenza – era una di quelle rare persone che hanno ciò che
desiderano e desiderano ciò che hanno. Quando non prestava attenzione ai professori o
agli appunti, pensava ai fratellini, due gemelli, che avrebbe portato alla spiaggia questo
fine settimana – anticipandone l’eccitazione con una soddisfazione quasi materna. Si
occupava spesso di loro, ma non era risentita per questo… Era una cosa molto dolce.
Ma davvero poco utile per me.
Doveva esserci qualcosa che voleva. Avrei solamente dovuto continuare a tenerla
d’occhio. Ma più tardi. Per Bella era giunta l’ora della lezione di trigonometria con
Jessica.
Non badavo a dove andavo intanto che mi recavo alla lezione d’inglese. Jessica era
già al suo posto, con entrambi i piedi che martellavano impazienti il pavimento mentre
aspettava l’arrivo di Bella.
Invece, io, una volta sedutomi al posto assegnatomi in aula, mi trasformai in una
statua. Dovevo ricordare a me stesso di muovermi di quando in quando. Per continuare la
farsa. Era difficile, i miei pensieri erano talmente focalizzati su quelli di Jessica. Speravo
che avrebbe prestato attenzione, cercando veramente di leggere il viso di Bella per me.
Il martellamento di Jessica s’intensificò quando Bella entrò in classe.
Sembra…cupa. Perché? Forse non c’è niente in ballo con Edward Cullen. Sarebbe
una delusione. Tranne che…lui sarebbe disponibile…Se improvvisamente fosse
interessato ad uscire con le ragazze, non mi dispiacerebbe dargli una mano…
Il viso di Bella non appariva cupo, sembrava riluttante. Era preoccupata – sapeva
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che avrei ascoltato tutto. Sorrisi tra me.
“Raccontami tutto!” domandò perentoria Jessica intanto che Bella si stava ancora
sfilando la giacca per appenderla allo schienale della sedia. Si muoveva con cautela,
controvoglia.
Ugh, è così lenta. Forza coi particolari piccanti!
“Cosa vuoi sapere?” Bella temporeggiava mentre prendeva posto.
“Cos’è successo ieri sera?”
“Mi ha offerto la cena, e poi mi ha riaccompagnata a casa”
E poi? Andiamo, deve esserci più di questo! Sta mentendo comunque, lo so. La
obbligherò a dirmelo.
“Come avete fatto a tornare così presto?”
Vidi Bella strabuzzare gli occhi alla diffidente Jessica.
“Guida come un pazzo. E’ stato terrificante”
Abbozzò un sorriso, e scoppiai a ridere fragorosamente, interrompendo l’annuncio
del Signor Mason. Cercai di far passare la risata per un accesso di tosse, ma nessuno ci
cascò. Il Signor Mason mi schioccò un’occhiata irritata, ma non mi presi neppure il
disturbo di ascoltare i pensieri che c’erano dietro. Stavo ascoltando Jessica.
Huh. Pare che stia dicendo la verità. Perché mi sta costringendo a tirargliela fuori
a questo modo, parola per parola? Me ne vanterei gridandolo ai quattro venti se fossi in
lei.
“Era come un appuntamento – eravate d’accordo d’incontrarvi lì?”
Jessica osservò la sorpresa attraversare il viso di Bella, e fu delusa da quanto
sembrasse genuina.
“No – sono rimasta molto sorpresa di trovarlo lì”, le disse Bella.
Che sta succedendo?? “Ma è passato a prenderti per portarti a scuola oggi?”. Deve
esserci ben altro in questa storia.
“Si – anche questa è stata una sorpresa. Aveva notato che non avevo la giacca ieri
sera”.
Non c’è granché da divertirsi, pensò Jessica, nuovamente delusa.
Ero stanco della sua serie di domande mirate – volevo sentire qualcosa che non
sapessi già. Speravo non fosse così insoddisfatta da saltare le domande che stavo
aspettando.
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“E quindi, uscirete di nuovo?” domandò Jessica.
“Si è offerto di accompagnarmi a Seattle sabato perché non crede che il mio pick-
up possa farcela – questo conta?”
Hmm. Certamente lui ha abbandonato le vecchie abitudini per…beh, prendersi cura
di lei, più o meno. Da parte sua deve esserci qualcosa, se non da parte di lei. Come
potrebbe MAI essere? Bella è pazza.
“Si”, Jessica aveva risposto alla domanda di Bella.
“Beh, allora”, concluse Bella, “Si”.
“Whow…Edward Cullen”, Che le piaccia o no, è il massimo.
“Lo so”, sospirò Bella.
Il tono della sua voce incoraggiò Jessica. Finalmente – sembra esserci arrivata!
Deve rendersi conto…
“Aspetta!” disse Jessica, ricordandosi improvvisamente di quella che per lei era la
maggiore delle questioni di vitale importanza. “Ti ha baciata?”. Ti prego dì di si. E poi
descrivi ogni secondo!
“No”, borbottò Bella, e poi si guardò le mani, chinando il viso. “Non è quel genere
di cosa”.
Maledizione. Vorrei che…Ah. Sembra che anche lei lo vorrebbe.
Aggrottai le sopracciglia. Sembrava che Bella fosse inquieta per qualcosa, ma non
poteva essere delusione come supposto da Jessica. Non poteva volere quello. Non sapendo
quel che sapeva. Non poteva volere di trovarsi così vicina ai miei denti. Per quanto ne
sapeva, avevo le zanne.
Rabbrividii.
“Pensi che Sabato..?” Jessica la punzecchiò.
Bella sembrò persino più frustrata quando disse “Ne dubito fortemente”
Si, eccome se lo vorrebbe. Se ne muore dalla voglia.
Era perché stavo guardando tutto questo attraverso il filtro delle percezioni di
Jessica che sembrava che Jessica avesse ragione?
Per mezzo secondo fui distratto da quell’idea, dall’impossibilità, o da qualunque
cosa cui somigliasse il cercare di baciarla. Le mie labbra sulle sue labbra, fredda pietra su
seta calda, morbida…
E poi lei muore.
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Scossi la testa, raccapricciato, e mi costrinsi a prestare attenzione.
“Di cosa avete parlato?”. Gli hai parlato, o l’hai costretto a strapparti ogni singolo
grammo d’informazione in questo modo?
Sorrisi mestamente. Jessica non si era sbagliata di molto.
“Non lo so, Jess, di un sacco di cose. Per un pò abbiamo parlato del saggio
d’inglese”.
Per molto poco. Allargai il sorriso.
Oh, ANDIAMO. “Ti prego, Bella! Dammi qualche dettaglio”
Bella rifletté per un momento.
“Beh…d’accordo. Avresti dovuto vedere la cameriera come flirtava con lui – in
maniera plateale. Ma lui non l’ha guardata neanche”.
Che strano dettaglio da condividere. Ero sorpreso che Bella l’avesse persino notato.
Sembrava una cosa davvero irrilevante.
Interessante… “E’ un buon segno. Era carina?”
Hmm. Jessica teneva questo particolare in maggiore considerazione di me. Doveva
essere una cosa da donne.
“Molto”, le disse Bella. “E probabilmente aveva diciannove o venti anni”.
Jessica fu momentaneamente distratta dal ricordo di Mike al loro appuntamento di
lunedì sera – Mike era stato eccessivamente amichevole con una cameriera che Jessica
non riteneva per niente carina. Scacciò quel pensiero e ritornò, soffocando l’irritazione,
alla sua ricerca di dettagli.
“Anche meglio. Devi piacergli”.
“Penso di si”, disse Bella lentamente, e stavo sul bordo della sedia, con il corpo
rigidamente immobile. “Ma è difficile da dire. E’ sempre così criptico”.
Non dovevo essere stato così tanto esplicito e fuori controllo come pensavo.
Tuttavia…osservatrice com’era…Come non aveva potuto rendersi conto che ero
innamorato di lei? Passai in rassegna la nostra conversazione, quasi sorpreso che non
avessi detto le parole ad alta voce. L’impressione era che quella consapevolezza fosse
stata il sottotesto di ogni singola parola detta tra di noi.
Whow. Come fai a startene seduta di fronte ad un modello ed a fare conversazione?
“Non so dove trovi il coraggio di restare da sola con lui”, disse Jessica.
Lo shock balenò sul viso di Bella. “Perché?”
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Che strana reazione. Cosa pensava che volessi dire? “Mette così…” Come si
potrebbe dire? “In soggezione. Non saprei cosa dirgli”. Non sono riuscita nemmeno a
parlargli in una lingua comprensibile oggi, e tutto ciò che ha detto è buongiorno. Devo
essere sembrata una tale scema.
Bella sorrise. “Anch’io ho qualche problema a rimanere lucida quando sono con
lui”.
Di certo stava solamente tentando di far sentire meglio Jessica. Era padrona di sé in
maniera quasi innaturale quando eravamo insieme.
“Oh beh”, Jessica sospirò. “E’ incredibilmente bello”
Il viso di Bella si era indurito all’improvviso. I suoi occhi lampeggiavano come
quando non riusciva a sopportare qualche ingiustizia. Jessica non elaborò quel
cambiamento della sua espressione.
“C’è ben altro in lui che solamente questo”, schioccò Bella.
Oooh. Adesso si che facciamo progressi. “Davvero? Come cosa?”
Bella si mordicchiò il labbro per un momento. “Non so spiegarlo bene”, disse alla
fine. “Ma dietro quella faccia è ancora più incredibile”.
Distolse lo sguardo da Jessica, con gli occhi lievemente fuori fuoco come se stesse
fissando qualcosa di molto lontano.
Ciò che provavo ora era vagamente simile a come mi sentivo quando Carlisle o
Esme mi lodavano al di là di quanto meritassi. Simile, ma più intenso, più divorante.
Raccontalo a qualcun altro – non c’è niente di meglio di quella faccia! Salvo il suo
corpo. Da svenire. “E’ possibile?” Jessica fece un risolino.
Bella non si voltò. Continuava a fissare il vuoto, ignorando Jessica.
Una persona normale starebbe gongolando. Magari se formulo le domande in
maniera più elementare. Ah ha. Come se stessi parlando ad un bambino dell’asilo.
“Perciò ti piace, dunque?”
Ero di nuovo rigido.
Bella non guardava Jessica. “Si”.
“Voglio dire, ti piace davvero?”
“Si”
Guarda com’è arrossita!
Stavo guardando.
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“Quanto ti piace?” domandò Jessica.
L’aula di inglese sarebbe potuta andare a fuoco e non me ne sarei accorto.
Il viso di Bella era di un rosso acceso adesso – potevo quasi sentire il calore
attraverso quell’immagine mentale.
“Troppo”, disse con un filo di voce. “Più di quanto io piaccia a lui. Ma non vedo
cosa posso farci”
Accidenti! Cos’ha appena chiesto il Signor Varner? “Um – che numero Signor
Varner?”
Era un bene che Jessica non potesse più fare domande a Bella. Avevo bisogno di un
minuto.
A che diamine stava pensando la ragazza ora? Più di quanto io piaccia a lui? Da
dove l’aveva tirata fuori quella? Ma non vedo cosa posso farci? Cos’avrebbe voluto
significare? Non riuscivo a trovare una spiegazione razionale che si accordasse con quelle
parole. Erano praticamente senza senso.
Pareva che non potessi dare niente per scontato. Le cose ovvie, le cose che avevano
perfettamente senso, in qualche modo venivano travisate e rigirate al contrario in quel suo
cervello bizzarro. Più di quanto io piaccia a lui? Forse non avrei dovuto scartare tanto in
fretta l’idea dell’ospedale psichiatrico.
Lanciai uno sguardo torvo all’orologio, stringendo i denti. Come potevano dei
semplici minuti sembrare così incredibilmente lunghi ad un immortale? Dov’era la mia
prospettiva?
La mia mascella rimase serrata per tutta la lezione di trigonometria del Signor
Varner. Ascoltai più quella che la lezione nella mia classe. Bella e Jessica non parlarono
ancora, ma Jessica guardò di sottecchi Bella diverse volte, ed in una di quelle il suo viso
era di un brillante scarlatto senza apparente ragione.
La pausa pranzo non sarebbe mai arrivata abbastanza in fretta.
Non ero certo se Jessica sarebbe riuscita ad ottenere qualcun’altra delle risposte che
stavo aspettando per quando la lezione fosse finita, ma Bella fu più svelta di lei.
Non appena suonò la campanella, Bella si voltò verso Jessica.
“Ad inglese, Mike mi ha chiesto se mi avessi detto niente di lunedì sera”, disse
Bella, con il sorriso tirato fino agli angoli delle labbra. Lo presi per quello che era –
l’offesa è la miglior difesa.
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Mike ha chiesto di me? La gioia improvvisamente rese la mente di Jessica meno
aggressiva, più tenera, priva dell’usuale cipiglio di malignità. “Stai scherzando! Cosa gli
hai detto?”
“Gli ho detto che mi hai detto di esserti divertita un sacco – e sembrava contento”
“Dimmi esattamente cos’ha detto, e la tua risposta parola per parola!”
Chiaramente, oggi non avrei ottenuto altro da Jessica. Bella stava sorridendo come
se stesse pensando la stessa cosa. Come se avesse vinto quel round.
Beh, a pranzo sarebbe stata un’altra storia. Sarei riuscito a ricavare maggiori
risposte da lei che non da Jessica, avrei fatto in modo che fosse così.
In palestra, con Alice, mi muovevo apaticamente, ossia nel modo in cui mi
muovevo sempre quando ero coinvolto in un’attività fisica con degli umani. Lei era la mia
compagna di squadra, naturalmente. Era la prima lezione sul badminton. Sospiravo per la
noia, oscillando la racchetta a rallentatore per colpire il volano e rimandarlo dall’altra
parte della rete. Lauren Mallory era nella squadra avversaria; aveva perso. Alice stava
roteando la racchetta come un manganello, fissando il soffitto.
Odiavamo tutti ginnastica, soprattutto Emmett. Colpire per gioco lo considerava un
affronto alla sua filosofia personale. Ginnastica oggi pareva peggio del solito – mi sentivo
irritato proprio come era sempre Emmett.
Prima che la mia mente potesse esplodere per l’insofferenza, il Coach Clapp fischiò
la fine delle partite e ci mandò via in anticipo. Ero ridicolmente grato che avesse saltata la
colazione – un nuovo tentativo di mettersi a dieta – e per la smania che gliene era derivata
di lasciare in fretta il campus per trovare un pranzo bello unto da qualche parte. Si era
ripromesso di ricominciare domani…
Il che mi dava tempo sufficiente per raggiungere l’edificio di matematica prima che
la lezione di Bella finisse.
Divertiti, pensò Alice mentre si allontanava per incontrare Jasper. Ancora qualche
giorno di pazienza. Suppongo che non saluteresti Bella da parte mia, vero?
Scossi la testa, esasperato. Tutte le persone dotate di capacità paranormali erano così
compiaciute?
PTI2, ci sarà il sole da ambo i lati dello stretto questo fine settimana. Potresti voler
modificare i tuoi piani.
2 “Per Tua Informazione”; n.d.t.
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Sospirai intanto che mi allontanavo nella direzione opposta. Compiaciuta, ma
decisamente utile.
Mi appoggiai alla parete accanto alla porta, in attesa. Ero abbastanza vicino da poter
sentire la voce di Jessica attraverso i mattoni tanto chiaramente quanto i suoi pensieri.
“Non ti siederai con noi oggi, vero?” Pare come…sprizzare gioia da tutti i pori.
Scommetto che c’è una valanga di cose che non mi ha detto.
“Non penso”, rispose Bella, stranamente insicura.
Non le avevo promesso di pranzare con lei? A cosa stava pensando?
Uscirono dall’aula insieme, e gli occhi di entrambe le ragazze si spalancarono nel
vedermi. Ma potevo sentire soltanto Jessica.
Bello. Whow. Oh, si, qui sta succedendo molto più di quanto non mi abbia detto.
Magari la chiamo stasera…O forse non dovrei incoraggiarla. Huh. Spero che se ne
stanchi in fretta. Mike è carino ma...whow.
“Ci vediamo più tardi, Bella”
Bella camminò verso di me, fermandosi ad un passo di distanza, ancora incerta. La
pelle sulle sue guance era rosa.
La conoscevo oramai abbastanza da sapere che non era la paura a farla esitare.
Apparentemente, riguardava una qualche voragine che immaginava esistesse tra i suoi
sentimenti ed i miei. Più di quanto io piaccia a lui. Assurdo!
“Ciao”, dissi, con una voce un tantino brusca.
Il viso le era avvampato ancora di più. “Ciao”.
Non sembrava incline a dire altro, perciò feci strada fino alla mensa e lei mi
camminò accanto in silenzio.
La giacca aveva funzionato – il suo profumo non era più la solita batosta. Era
solamente un’intensificazione del dolore che già provavo. Potevo ignorarlo più facilmente
di quanto una volta avrei creduto possibile.
Bella era irrequieta mentre aspettavamo in fila, giocava distrattamente con la
cerniera della giacca e spostava nervosamente il peso da un piede all’altro. Mi lanciava
spesso un’occhiata, ma ogniqualvolta incrociava il mio sguardo, guardava in basso come
fosse imbarazzata. Era perché così tante persone ci stavano fissando? Forse riusciva a
sentire i rumorosi mormorii – il pettegolezzo era tanto verbale quanto mentale oggi.
O forse aveva compreso, dalla mia espressione, che era nei guai.
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Non disse nulla finché non cominciai a mettere insieme il suo pranzo. Non sapevo
cosa le piacesse – non ancora – perciò arraffavo uno di tutto.
“Cosa stai facendo?” sibilò a bassa voce. “Non starai prendendo tutta quella roba
per me?”
Scossi la testa, e feci scivolare il vassoio fino alla cassa. “Metà è per me,
naturalmente”.
Sollevò scettica un sopracciglio, ma non disse più niente mentre pagavo la roba da
mangiare e la scortavo fino al tavolo in cui c’eravamo seduti la settimana precedente,
prima della sua disastrosa esperienza con l’esercitazione sui gruppi sanguigni. Sembrava
essere passato assai di più che solo pochi giorni. Era tutto diverso adesso.
Si sedette di nuovo di fronte a me. Spinsi il vassoio verso di lei.
“Prendi quello che vuoi”, la incoraggiai.
Lei prese una mela e se la rigirò tra le mani, con un’espressione speculatoria in viso.
“Sono curiosa”
Che sorpresa.
“Cosa faresti se qualcuno ti sfidasse a mangiare del cibo?” continuò a voce bassa
così da non farsi ascoltare dalle orecchie umane. Le orecchie immortali erano un’altra
faccenda, se quelle orecchie stavano prestando attenzione. Probabilmente avrei dovuto
anticipare loro qualcosa…
“Sei sempre curiosa”, reclamai. Oh beh. Non era come se non avessi mai mangiato
prima. Era una parte della sciarada. Una parte spiacevole.
Allungai la mano verso la cosa più vicina, e sostenni il suo sguardo mentre staccavo
un piccolo morso da qualunque cosa fosse. Senza guardare, non potevo dirlo. Era viscido e
grumoso e disgustoso come ogni altro cibo umano. Masticai in fretta e deglutii, cercando
di allontanare la smorfia dal mio viso. La massa di cibo si muoveva lentamente e
scomodamente giù per la mia gola. Sospirai al pensiero di come avrei dovuto tirarla fuori
più tardi. Disgustoso.
L’espressione di Bella era scioccata. Impressionata.
Volevo strabuzzare gli occhi. Ovviamente avevamo fatto pratica con quel genere di
finzione.
“Se qualcuno ti sfidasse a mangiare del fango potresti farlo, non è vero?”
Arricciò il naso e sorrise. “L’ho fatto una volta…per scommessa. Non era così
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male”.
Scoppiai a ridere. “Ammetto di non esserne sorpreso”.
Sembrano intimi, non è vero? Un buon linguaggio del corpo. Più tardi dirò a Bella
delle mie impressioni. Lui è piegato verso di lei proprio come dovrebbe, se fosse
interessato. Ha l’aria interessata. Ha l’aria...perfetta. Jessica sospirò. Gnam gnam.
Incrociai gli occhi curiosi di Jessica, e lei guardò altrove nervosamente, facendo un
risolino alla ragazza che aveva accanto.
Hmmm. Probabilmente è meglio che mi concentri su Mike. Realtà, non fantasia…
“Jessica sta analizzando tutto quello che faccio”, informai Bella. “Più tardi non
mancherà di ragguagliarti su ogni più piccolo dettaglio”.
Spinsi indietro il piatto con il mangiare verso di lei – pizza, mi resi conto – cercando
di capire quale fosse il modo migliore per introdurre l’argomento. La mia precedente
frustrazione si riacutizzò al ripetersi delle parole nella mia mente. Più di quanto io piaccia
a lui. Ma non vedo cosa posso farci.
Diede un morso allo stesso spicchio di pizza. Era sbalorditivo quanta fiducia avesse
in me. Ovviamente, non sapeva che ero velenoso – non che condividere il cibo l’avrebbe
uccisa. Ciononostante, mi aspettavo che mi trattasse in maniera differente. Come qualcosa
di diverso. Non lo faceva mai – almeno, non in modo negativo…
Avrei esordito gentilmente.
“E così la cameriera era carina?”
Alzò nuovamente il sopracciglio. “Davvero non te ne sei accorto?”
Come se qualunque donna potesse sperare di distogliere la mia attenzione da Bella.
Assurdo, di nuovo. “No, non ci badavo. Avevo un sacco di cose per la mente”. Non ultima
delle quali la morbida aderenza della sua camicetta quasi trasparente…
Era davvero un bene che oggi indossasse quel brutto maglione.
“Povera ragazza”, disse Bella, sorridendo.
Apprezzava che non mi fossi affatto interessato alla cameriera. Potevo capirlo.
Quante volte avevo immaginato di polverizzare Mike Newton nell’aula di biologia?
Non poteva credere veramente che i suoi sentimenti umani, frutto di soli diciassette
anni da mortale, potessero essere più forti delle passioni immortali che avevo accumulato
per un secolo.
“Qualcosa che hai detto a Jessica…” non riuscivo a mantenere un tono di voce
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disinvolto. “Beh, mi ha infastidito”.
Si mise immediatamente sulla difensiva. “Non mi stupisce che tu abbia sentito
qualcosa che non ti è piaciuto. Sai quello che si dice di chi origlia”
Chi origlia dalla porta, sente la sua vergogna, questo era il detto.
“Ti avevo avvertita che sarei rimasto in ascolto” le ricordai.
“Ed io ti avevo avvertito che non avresti voluto conoscere tutto ciò che penso”
Ah, stava pensando a quando l’avevo fatta piangere. Il rimorso rese la mia voce più
roca. “L’hai fatto. Tuttavia, non hai del tutto ragione. Io voglio sapere cosa pensi – ogni
cosa. Solo vorrei…che non pensassi certe cose”.
Altre mezze verità. Sapevo che non avrei dovuto desiderare che mi amasse. Ma lo
desideravo. Eccome se lo desideravo.
“C’è una bella differenza”, borbottò, guardandomi torva.
“Ma non è questo il punto al momento”
“Allora qual è?”
Si protese verso di me, con la mano avvolta delicatamente a coppa attorno alla gola.
Attirò la mia attenzione – distraendomi. Quanto doveva essere morbida quella pelle…
Concentrati, comandai a me stesso.
“Credi veramente di tenere a me più di quanto io tenga a te?” chiesi. La domanda mi
parve ridicola, come se le parole fossero ingarbugliate.
I suoi occhi si spalancarono, il respiro le si fermò. Distolse lo sguardo, sbattendo
rapidamente le ciglia. Poi riprese a respirare ansimando piano.
“Lo stai facendo di nuovo”, mormorò.
“Cosa?”
“Abbacinarmi”, ammise, incrociando accorta i miei occhi.
“Oh”. Hmm. Non ero del tutto sicuro di cosa potessi farci. Non ero nemmeno sicuro
di non volerla abbacinare. Ero ancora entusiasta del fatto che potevo farlo. Ma non era
d’aiuto al progredire della nostra conversazione.
“Non è colpa tua”. Sospirò. “Non puoi farci niente”.
“Intendi rispondere alla mia domanda?” chiesi risoluto.
Fissava il tavolo. “Si”.
Fu tutto quello che disse.
“Si, intendi rispondere, o si, lo credi veramente?” chiesi impaziente.
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“Si, lo credo veramente” disse senza alzare lo sguardo. C’era un lieve accenno di
tristezza nella sua voce. Arrossì di nuovo, ed i suoi denti tormentavano inconsapevolmente
il suo labbro.
D’improvviso, mi resi conto che era molto difficile per lei ammetterlo, perché ci
credeva davvero. Ed io non ero per niente migliore di quel codardo di Mike, per averle
chiesto conferma dei suoi sentimenti prima di averle palesato i miei. Non aveva
importanza che ritenessi di aver abbondantemente chiarito la mia posizione. Non ero
riuscito a fargliela capire, e perciò non avevo scuse.
“Ti sbagli”, promisi. Doveva percepire la tenerezza della mia voce.
Bella mi guardò, con occhi inespressivi, che non tradivano alcunché. “Non puoi
saperlo…”, disse con un filo di voce.
Pensava che stessi sottovalutando i suoi sentimenti perché non potevo leggere i suoi
pensieri. Ma, per la verità, il problema era che lei stava sottovalutando i miei.
“Cosa te lo fa pensare?” chiesi.
Era tornata a fissarmi, con la ruga tra le sopracciglia, mordicchiandosi il labbro. Per
la milionesima volta, desiderai disperatamente di essere semplicemente in grado di
ascoltarla.
Stavo quasi per implorarla di dirmi con quale pensiero si stava confrontando, ma
sollevò un dito per trattenermi dal parlare.
“Lasciami pensare”, chiese.
Fintanto che riordinava semplicemente i suoi pensieri, potevo essere paziente.
O potevo fingere di esserlo.
Congiunse le mani, intrecciando e sciogliendo le dita affusolate. Si guardava le mani
come se appartenessero a qualcun altro quando parlò.
“Beh, evidenza apparte”, mormorò. “Qualche volta…Non posso esserne certa – non
sono capace di leggere nel pensiero – ma qualche volta, quando parli di tutt’altro, pare
invece che tu stia cercando un modo per allontanarti da me”. Non alzò lo sguardo.
Se n’era accorta, dunque? Aveva capito che erano solamente la debolezza e
l’egoismo a trattenermi lì? Mi stimava di meno per questo?
“Perspicace”, dissi quasi senza fiato, e poi osservai con orrore il dolore distorcere la
sua espressione. Mi affrettai a contraddire la sua supposizione. “Questo è esattamente il
motivo per cui ti sbagli, però -” cominciai, e poi mi fermai, ricordando le prime parole
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della sua spiegazione. M’irritavano, benché non fossi certo di averle comprese veramente.
“Che intendi per “evidenza apparte””?
“Beh, guardami”, disse.
Stavo guardando. Non facevo altro che guardarla. Cosa voleva dire?
“Sono assolutamente insignificante”, spiegò. “Beh, tralasciando le cose negative
come tutte le volte che sono quasi morta e l’essere talmente imbranata da rasentare la
disabilità. E guardati”. M’indicò con un ampio gesto sollevando in aria la mano, come se
stesse puntualizzando un qualcosa di talmente palese che non valeva neppure la pena di
spiegarlo.
Pensava di essere insignificante? Pensava che fossi in qualche modo preferibile a
lei? In base a quale metro di giudizio? Quello delle sciocche mentalità ristrette, cieche ed
umane, di persone come Jessica e la Signorina Cope? Come poteva non rendersi conto di
essere la più splendida…la più mirabile…Quelle parole non bastavano nemmeno.
E lei non ne aveva idea.
“Non hai una visione molto chiara di te stessa, lo sai”, le dissi. “Ammetto che hai
perfettamente ragione riguardo alle cose negative…” risi senza gusto. Non trovavo comico
il destino maligno che la perseguitava. Il suo essere maldestra, tuttavia, era piuttosto
divertente. Tenero. Mi avrebbe creduto se le avessi detto che era splendida, dentro e fuori?
Forse avrebbe trovato una conferma più persuasiva. “Ma tu non hai sentito cos’ha pensato
di te ogni singolo maschio umano il primo giorno”.
Ah, la speranza, il fremito, la brama di quei pensieri. La velocità in cui si erano
trasformati in fantasie irrealizzabili. Irrealizzabili, perché lei non voleva nessuno di loro.
Ero io quello cui aveva detto si.
Il mio sorriso doveva essere compiaciuto.
Il suo viso era pallido per la sorpresa. “Non ci credo”, borbottò.
“Credimi almeno questa volta – sei tutt’altro che insignificante”
La sua sola esistenza era un pretesto sufficiente a giustificare la creazione dell’intero
mondo.
Non era abituata ai complimenti, lo capivo. Un’altra cosa cui avrebbe dovuto
abituarsi. Arrossì, e cambiò argomento. “Ma io non cerco di allontanarmi da te”.
“Non capisci? Questa è la prova che ho ragione. Io ci tengo di più, perché se potessi
farlo…” Sarei mai stato così poco egoista da riuscire a fare la cosa giusta? Scossi la testa
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per la disperazione. Avrei dovuto trovare la forza. Meritava una vita. Non ciò che Alice
aveva visto che le sarebbe toccato. “Se andarmene fosse la cosa giusta da fare…”. E
doveva essere la cosa giusta, o no? Non c’era alcun angelo sconsiderato. Il posto di Bella
non era con me. “Allora farei del male a me stesso per impedirmi di farne a te, per tenerti
al sicuro”.
Mentre dicevo quelle parole, desiderai fortemente che fossero vere.
Mi lanciò uno sguardo truce. In qualche modo, le mie parole l’avevano fatta
arrabbiare. “E non credi che farei lo stesso?” domandò furiosa.
Così furiosa – così tenera e fragile. Come avrebbe mai potuto fare del male a
qualcuno? “Non sarai mai costretta a fare questa scelta”, le dissi, di nuovo abbattuto per
l’enorme differenza che c’era tra di noi.
Lei mi fissava, la preoccupazione stava rimpiazzando la rabbia nei suoi occhi e tra
quelli stava facendo riemergere la piccola ruga.
C’era qualcosa di veramente sbagliato nell’ordine dell’universo se una persona tanto
buona e tanto fragile non meritava un angelo custode che la tenesse fuori dai guai.
Beh, pensai con bieco umorismo, perlomeno ha un vampiro custode.
Sorrisi. Quanto amavo avere quella scusa per restare. “Ovviamente, tenerti al sicuro
sta cominciando a sembrare un’occupazione a tempo pieno che richiede la mia costante
presenza”.
Sorrise anche lei. “Nessuno ha cercato di farmi fuori oggi”, disse con leggerezza, e
poi il suo viso si fece speculativo per mezzo secondo ed i suoi occhi diventarono di nuovo
opachi.
“Non ancora”, aggiunsi ironicamente.
“Non ancora” ammise sorprendendomi. Mi ero aspettato che avrebbe negato
qualunque necessità di essere protetta.
Come può farlo? Quel somaro egoista! Come può fare questo a noi? L’acuto grido
mentale di Rosalie si era aperto un varco nella mia concentrazione.
“Calmati, Rose”, sentii Emmett bisbigliare dall’altra parte della mensa. Il suo
braccio le cingeva le spalle, tenendola stretta al suo fianco – trattenendola.
Mi dispiace, Edward, pensò Alice sentendosi colpevole. Dalla vostra conversazione
ha capito che Bella sapeva troppo…e, beh, sarebbe stato peggio se non le avessi detto la
verità all’istante. Credimi.
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Trasalii all’immagine mentale che seguì, a cosa sarebbe successo se avessi detto a
Rosalie che Bella sapeva che ero un vampiro una volta a casa, dove Rosalie non avrebbe
avuto una facciata da mantenere. Avrei dovuto nascondere la mia Aston Martin da qualche
parte fuori dello stato se non si fosse calmata per quando la scuola fosse finita. La vista
della mia macchina preferita, massacrata ed in fiamme, era sconvolgente – benché sapessi
di essermi guadagnato il castigo.
Jasper non era molto più felice.
Avrei affrontato gli altri più tardi. Il tempo concessomi per stare con Bella stava per
scadere, e non intendevo sprecarlo. E sentire la voce di Alice mi aveva ricordato che c’era
una questione importante di cui dovevo occuparmi.
“Ho un’altra domanda per te”, dissi, ignorando la crisi isterica di Rosalie.
“Spara”, disse Bella, sorridente.
“Hai davvero bisogno di andare a Seattle questo sabato, o era solamente una scusa
per evitare di dover dire di no a tutti i tuoi ammiratori?”
Mi fece una smorfia. “Sai, non ti ho ancora perdonato per la faccenda di Tyler. E’
colpa tua se s’illude credendo che andrò al ballo di fine anno con lui”.
“Oh, avrebbe trovato il sistema di chiedertelo anche senza che intervenissi – è solo
che volevo davvero vedere che faccia avresti fatto”.
Ridevo ora, ricordando la sua espressione spaventata. Niente di quello che le avevo
detto approposito della mia storia macabra l’aveva mai fatta apparire così inorridita. La
verità non la spaventava. Voleva stare con me. Sbalorditivo.
“Se te l’avessi chiesto, avresti rifiutato anche me?”
“Probabilmente no”, disse. “Ma avrei disdetto più avanti – simulando un malanno o
una distorsione alla caviglia”.
Che strano. “Perché l’avresti fatto?”
Scosse la testa, come se fosse delusa che non l’avessi capito subito. “Non mi hai
mai vista a ginnastica, suppongo, ma ero convinta che l’avresti capito”
Ah. “Ti riferisci al fatto che non puoi attraversare una superficie piana e stabile
senza trovare qualcosa su cui inciampare?”
“Ovviamente”.
“Non sarebbe un problema. Dipende tutto da chi guida”.
Per una breve frazione di secondo, fui sopraffatto dall’idea di tenerla tra le mie
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braccia ad un ballo – dove avrebbe sicuramente indossato qualcosa di grazioso e leggero
piuttosto che quest’orrendo maglione.
Ricordavo con assoluta lucidità come mi aveva fatto sentire l’avere il suo corpo
sotto al mio dopo che l’avevo sottratta alla corsa del furgoncino in avvicinamento. Più
forte del panico o della disperazione o della sofferenza, potevo ricordare quella
sensazione. Era stata così calda e morbida, nel corrispondere senza alcuna difficoltà alla
mia forma dura come la pietra…
Mi trascinai a forza via da quel ricordo.
“Ma non mi hai ancora detto -” aggiunsi in fretta, prevenendo la sua chiara
intenzione di voler discutere con me del suo essere maldestra. “Sei decisa ad andare a
Seattle, o ti dispiace se facciamo qualcosa di diverso?”
Ambiguo – darle l’opportunità di scegliere senza offrirle la possibilità di
allontanarsi da me quel giorno. Molto poco leale da parte mia. Ma le avevo fatto una
promessa ieri sera…e mi piaceva l’idea di mantenerla – quasi quanto quell’idea mi
terrorizzava.
Ci sarebbe stato il sole sabato. Le avrei potuto mostrare il mio vero io, se fossi stato
abbastanza coraggioso da sopportare il suo orrore ed il suo disgusto. Conoscevo giusto un
posto dove potevo correre quel rischio…
“Accetto altre proposte”, disse Bella. “Ma devo chiederti un favore”.
Un si condizionato. Cos’avrebbe voluto da me?
“Quale?”
“Possiamo andare con il mio pick-up?”
Era questa la sua idea di umorismo? “Perché?”
“Beh, essenzialmente perché quando ho detto a Charlie che sarei andata a Seattle,
mi ha chiesto espressamente se sarei andata da sola, e in quel momento era così. Se me lo
chiedesse di nuovo, probabilmente non mentirei, ma non credo che me lo chiederà ancora,
e lasciare il mio pick-up a casa significherebbe solamente sollevare la questione
inutilmente. Inoltre, perché la tua guida mi fa paura”.
Strabuzzai gli occhi. “Di tutte le cose di me che potrebbero spaventarti, hai paura di
come guido”. Sul serio, il suo cervello lavorava al contrario. Scossi la testa, disgustato.
Edward, Alice mi aveva chiamato allarmata.
All’improvviso mi ritrovai a fissare un brillante cerchio di luce solare, preso da una
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delle visioni di Alice.
Era un posto che conoscevo bene, il posto dove avevo appena pensato di portare
Bella – una piccola radura dove non andava nessuno tranne me. Un posto silenzioso e
ameno dove potevo contare di rimanere solo – lontano abbastanza da qualunque sentiero o
abitazione umana, in cui persino la mia mente poteva trovare pace e tranquillità.
Anche Alice l’aveva riconosciuto, perché mi aveva visto lì parecchio tempo prima
in un’altra visione – una di quelle visioni tremolanti ed indistinte che Alice mi aveva
mostrato la mattina in cui avevo salvato Bella dal furgoncino.
In quella visione sfarfallante non ero da solo. E adesso era chiaro – Bella era lì con
me. Perciò ero abbastanza coraggioso. Lei mi fissava, con gli arcobaleni che danzavano
sul suo viso e gli occhi imperscrutabili.
E’ lo stesso posto, pensò Alice, la sua mente traboccava un orrore incompatibile con
la visione. Tensione, forse, ma orrore? Cosa intendeva per “lo stesso posto”?
E poi lo vidi.
Edward! Alice protestava stridulamente. Le voglio bene, Edward!
La zittii brutalmente.
Lei non amava Bella nel modo in cui l’amavo io. La sua visione era irrealizzabile.
Sbagliata. In qualche modo era accecata, poiché vedeva l’impossibile.
Non era passato neppure mezzo secondo. Bella stava guardando il mio viso con
curiosità, aspettando che accettassi la sua richiesta. Aveva notato il lampo di terrore, o era
stato troppo veloce?
Mi concentrai su di lei, sulla conversazione rimasta in sospeso, spingendo Alice e le
sue fallaci, bugiarde visioni lontano dai miei pensieri. Non meritavano la mia attenzione.
Non ero in grado di mantenere il tono giocoso del nostro punzecchiamento, tuttavia.
“Non vuoi dire a tuo padre che passerai la giornata con me?” chiesi, le tenebre
trapelavano dalla mia voce.
Diedi un altro spintone alle visioni, cercando di allontanarle ancora di più, di
impedirgli di baluginare nella mia mente.
“Con Charlie meno si dice meglio è”, disse Bella, certa di questo fatto. “Dove
andiamo, comunque?”
Alice si sbagliava. Si sbagliava di grosso. Non c’era alcuna possibilità che potesse
accadere. Ed era solamente una vecchia visione, superata oramai. Le cose erano cambiate.
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“Farà bel tempo”, le dissi lentamente, combattendo con il panico e l’indecisione.
Alice si sbagliava. Sarei andato avanti come se non avesse sentito o visto niente.
“Perciò dovrò starmene alla larga dagli sguardi indiscreti…e tu puoi stare con me, se ti fa
piacere”.
Bella afferrò al volo il significato; i suoi occhi erano accesi ed entusiasti. “E mi farai
vedere cosa intendevi, riguardo al sole?”
Forse, come tante volte prima, la sua reazione sarebbe stata l’opposto di quella che
mi aspettavo. Sorrisi a quella possibilità, sforzandomi di ritornare alla leggerezza del
momento. “Si. Ma…”. Non aveva detto di si. “Se non vuoi restare…sola con me,
preferirei comunque che non te ne andassi a Seattle. Rabbrividisco al pensiero dei guai in
cui potresti cacciarti in una città tanto grande”.
Le sue labbra si serrarono; era offesa.
“Phoenix è tre volte più grande di Seattle – solo per numero di abitanti. Quanto
all’estensione territoriale -”
“Ma apparentemente il tuo numero non era ancora stato sorteggiato a Phoenix”,
dissi, interrompendo le sue giustificazioni. “Perciò preferirei che restassi con me”.
Poteva restare per sempre e non sarebbe stato abbastanza.
Non avrei dovuto pensare una cosa del genere. Non avevamo l’eternità. I secondi
che passavano contavano più di quanto non avevano mai fatto prima; ogni secondo la
cambiava mentr’io rimanevo identico.
“Come sempre, non mi dispiace restare da sola con te”, disse.
No – perché i suoi istinti erano rovesciati.
“Lo so”. Sospirai. “Dovresti dirlo a Charlie, però”.
“Perché diamine dovrei farlo?” chiese, apparentemente inorridita.
La guardai cupo, le visioni che non riuscivo più a reprimere turbinavano nauseanti
nella mia mente.
“Per offrirmi un qualche piccolo incentivo a riportarti indietro”, sibilai. Doveva
concedermi almeno quello – un testimone che mi obbligasse ad essere cauto.
Perché Alice mi aveva costretto a questa consapevolezza proprio ora?
Bella deglutì rumorosamente, e mi fissò per un lungo momento. Cosa vedeva?
“Penso che correrò i miei rischi”, disse.
Ugh! Traeva una qualche emozione dal rischiare la propria vita? Una qualche
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scarica di adrenalina della quale aveva un disperato bisogno?
Guardai severo Alice, che ricambiò il mio sguardo con un’occhiata monitoria.
Accanto a lei, Rosalie, furiosamente, mi lanciava degli sguardi minacciosi, ma non
avrebbe potuto importarmene di meno. Che distruggesse la mia macchina. Era solo un
giocattolo.
“Parliamo di qualcos’altro”, suggerì Bella inaspettatamente.
Tornai a guardarla, chiedendomi come potesse essere così incosciente di fronte alle
cose veramente importanti. Perché non mi vedeva per il mostro che ero?
“Di cosa vuoi parlare?”
I suoi occhi saettarono a sinistra e poi a destra, come per assicurarsi che nessuno
stesse origliando. Doveva avere in progetto di affrontare un’altra questione correlata alle
leggende. I suoi occhi s’immobilizzarono per un secondo ed il suo corpo s’irrigidì, e poi
tornò a guardarmi.
“Perché sei andato a Goat Rocks lo scorso fine settimana…a caccia? Charlie dice
che non è un buon posto per fare escursionismo, per via degli orsi”.
Così incosciente. La fissai, sollevando un sopracciglio.
“Orsi?” rimase senza fiato.
Sorrisi sarcasticamente, osservandola recepire la cosa. Questo l’avrebbe indotta a
prendermi sul serio? C’era una qualunque cosa che potesse farlo?
Ricompose la propria espressione. “Sai, non è ancora la stagione della caccia agli
orsi”, disse severamente, riducendo gli occhi a due fessure.
“Se guardi attentamente, le leggi disciplinano solamente la caccia con le armi da
fuoco”.
Perse di nuovo il controllo del suo viso per un istante. Le labbra le si spalancarono.
“Orsi?” ripeté, una domanda timida stavolta, piuttosto che un rantolo dovuto allo
shock.
“I grizzly sono i preferiti di Emmett”.
La guardai negli occhi, osservando la cosa prendervi posto.
“Hmm”, mormorò. Aveva dato un morso alla pizza, guardando in basso con aria
pensierosa, e poi aveva bevuto.
“E così”, disse, rialzando finalmente lo sguardo. “Qual è il tuo preferito?”
Immaginai che mi sarei dovuto aspettare qualcosa del genere, ma non l’avevo fatto.
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Bella era sempre interessante, come minimo.
“Il puma”, risposi bruscamente.
“Ah”, disse in tono neutro. Il suo battito si manteneva costante e regolare, come se
stessimo discutendo del ristorante preferito.
E va bene, allora. Se voleva pretendere che non ci fosse niente d’insolito…
“Naturalmente, dobbiamo tenere conto dell’impatto ambientale e perciò non
possiamo cacciare in maniera sconsiderata”, le dissi, con voce fredda e distaccata.
“Cerchiamo di concentrarci sulle zone in cui c’è una sovrabbondanza di predatori – a
prescindere da quanto siano lontane. Ci sono sempre un mucchio di cervi ed alci qui, e
basterebbero anche, ma dov’è il divertimento?”
Ascoltava con un’espressione educatamente interessata, come se fossi un professore
che stava facendo lezione. Non potei fare a meno di sorridere.
“Già, dov’è?” mormorò serenamente, dando un altro morso alla pizza.
“L’inizio della primavera è la stagione in cui Emmett preferisce dare la caccia agli
orsi”, dissi, continuando la lezione. “Sono appena usciti dal letargo, perciò sono più
irritabili”.
Erano passati settant’anni, e ancora non si era fatto una ragione dell’aver perso quel
primo incontro.
“Niente è più divertente di un grizzly irritato”, approvò Bella, annuendo
solennemente.
Non riuscii a trattenermi dal ridacchiare mentre scuotevo la testa per quella sua
calma irrazionale. Doveva essere una messa in scena. “Dimmi cosa stai pensando
veramente, per favore”.
“Sto cercando di figurarmelo – ma non ci riesco”, disse, la ruga tra i suoi occhi
ricomparve. “Come fate a cacciare un orso senza armi?”
“Oh, ma noi abbiamo delle armi”, le dissi, e poi le sfoggiai il sorriso spalancandolo.
Mi aspettavo che indietreggiasse, ma rimase perfettamente immobile, osservandomi.
“Certo non il genere che prendono in considerazione quando redigono le leggi sulla
caccia. Se hai mai visto l’attacco di un orso in televisione, dovresti essere in grado di
visualizzare Emmett mentre caccia”.
Lanciò un’occhiata verso il tavolo dove sedevano gli altri, e rabbrividì.
Finalmente. E poi risi di me stesso, perché sapevo che una parte di me stava
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desiderando che rimanesse incosciente.
I suoi occhi scuri ora mi fissavano spalancati e profondi. “Anche tu sei simile ad un
orso?” chiese quasi bisbigliando.
“Più ad un puma, o così mi hanno detto”, le dissi, sforzandomi di sembrare
nuovamente distaccato. “Forse i nostri gusti sono sintomatici”.
Le sue labbra si sollevarono appena agli angoli. “Forse”, ripeté. E poi chinò la testa
di lato, e la curiosità improvvisamente divenne evidente nei suoi occhi. “E’ qualcosa che
potrò mai vedere?”
Non avevo bisogno delle visioni di Alice per dipingermi quest’orrore – la mia
immaginazione era più che sufficiente.
“Assolutamente no”, le dissi in tono rabbioso.
Si era allontanata di scatto, con gli occhi sbalorditi e spaventati.
Anch’io mi tirai indietro, volendo aumentare la distanza tra di noi. Non avrebbe mai
preso coscienza, vero? Non mi avrebbe mai dato neanche un piccolo aiuto per aiutarmi a
tenerla in vita.
“Troppo spaventoso per me?”, chiese, la sua voce era calma. Il suo cuore, tuttavia,
marciava ancora a passo di corsa.
“Se così fosse, ti porterei fuori stanotte stessa”, replicai tra i denti. “Hai bisogno di
una salutare dose di paura. Niente potrebbe giovarti di più”.
“Allora perché?” chiese, per niente scoraggiata.
La guardai truce e minaccioso, aspettando che si spaventasse. Io ero spaventato.
Potevo immaginare fin troppo chiaramente cos’avrebbe significato avere Bella vicino
mentre cacciavo…
I suoi occhi rimanevano curiosi, impazienti, niente di più. Aspettava la sua risposta,
senza cedimenti.
Ma la nostra ora era terminata.
“Più tardi”, schioccai, e mi alzai in piedi. “Arriveremo in ritardo”.
Si guardò intorno, disorientata, come se avesse dimenticato che eravamo a pranzo.
Come se avesse addirittura dimenticato che ci trovassimo a scuola – sorpresa che non
fossimo da soli in un qualche luogo appartato. Comprendevo esattamente quel sentimento.
Era difficile ricordare il resto del mondo quand’ero con lei.
Si alzò rapidamente, inciampando una volta, e si lanciò la borsa sopra la spalla.
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“Più tardi, allora”, disse, e potei riconoscere la determinazione nella piega della sua
bocca; non mi avrebbe dato scampo.
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12. Complicazioni
Bella ed io camminavamo silenziosamente diretti a biologia. Stavo cercando di
concentrarmi sul momento, sulla ragazza al mio fianco, su ciò che era reale e concreto, su
qualunque cosa potesse tenere le visioni di Alice, ingannevoli e senza senso, fuori dalla
mia testa.
Superammo Angela Weber, che stava attardandosi in corridoio, discutendo di un
compito con un ragazzo del suo corso di trigonometria. Scrutai i suoi pensieri in modo
superficiale, aspettandomi un’altra delusione, per sorprendermi, invece, del loro tono
malinconico.
Ah, allora c’era qualcosa che Angela desiderava. Sfortunatamente, non era qualcosa
che si poteva incartare con facilità.
Mi sentii stranamente confortato per un momento, ascoltando il desiderio rassegnato
di Angela. Un sentimento di affinità del quale Angela non avrebbe mai saputo mi pervase,
ed ero, in quell’istante, all’unisono con la gentile ragazza umana.
Era curiosamente consolante sapere che non ero il solo che stava affrontando una
tragica storia d’amore. Ovunque c’erano cuori infranti.
Nell’istante successivo, mi sentii inaspettatamente e profondamente irritato. Perché
la storia di Angela non doveva essere tragica. Lei era umana e lui era umano e la
differenza che pareva così insormontabile nella sua mente era ridicola, veramente ridicola
paragonata alla mia situazione personale. Non aveva motivo di affliggersi per amore. Che
inutile spreco di tristezza, quando non aveva una ragione valida per non stare con la
persona che desiderava. Perché non avrebbe dovuto avere ciò che voleva? Perché la sua
storia non avrebbe dovuto avere un lieto fine?
Volevo farle un regalo… Beh, le avrei regalato ciò che desiderava. Sapendo quel
che sapevo io della natura umana, probabilmente non sarebbe stato neppure tanto difficile.
Rovistai nei pensieri del ragazzo che le stava vicino, l’oggetto dei suoi struggimenti, e lui
non pareva affatto disinteressato, era solamente in stallo per la medesima difficoltà in cui
si trovava lei. Senza speranza e rassegnato, proprio come lei.
Tutto ciò che avrei dovuto fare era dargli un’imbeccata…
Il piano prese forma facilmente, il copione si era scritto da solo senza alcuno sforzo
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da parte mia. Avrei avuto bisogno dell’aiuto di Emmett – indurlo ad accettarlo era l’unica
vera difficoltà. La natura umana era assai più facile da manipolare della natura
vampiresca.
Ero soddisfatto della mia soluzione, del mio regalo per Angela. Era una simpatica
distrazione dai miei problemi personali. Magari i miei si fossero potuti risolvere altrettanto
facilmente.
Il mio umore era leggermente migliorato quando Bella ed io sedemmo ai nostri
posti. Forse dovevo essere più ottimista. Magari per noi c’era una qualche soluzione a
portata di mano che però mi sfuggiva, allo stesso modo in cui ad Angela rimaneva
invisibile la sua ovvia soluzione. Improbabile… Ma perché perdere tempo a disperarsi?
Non avevo tempo da perdere quando si trattava di Bella. Ogni secondo era importante.
Il Signor Banner entrò spingendo un vecchio televisore ed un videoregistratore.
Intendeva occuparsi sbrigativamente di un argomento al quale non era particolarmente
interessato – i disordini genetici – proiettando un film per i successivi tre giorni. L’olio di
Lorenzo non era una pellicola molto allegra, ma quello non bastò a fermare l’eccitazione
in aula. Niente appunti, né esercitazioni pratiche. Tre giorni liberi. Gli umani esultavano.
Non aveva comunque importanza per me. Avevo in programma di prestare
attenzione a null’altro che a Bella.
Non allontanai la mia sedia dalla sua oggi, per darmi modo di respirare. Invece,
sedetti vicino al suo fianco come avrebbe fatto un qualunque umano. Più vicino di quanto
non sedessimo in macchina, abbastanza vicino che il lato sinistro del mio corpo si sentiva
sommergere dal calore della sua pelle.
Era un’esperienza bizzarra, tanto piacevole quanto snervante, ma preferivo questo al
sederle dall’altro capo del tavolo. Era più di quanto non fossi abituato, e ciononostante mi
resi rapidamente conto che non era ancora abbastanza. Non ero soddisfatto. Trovarmela
tanto vicino mi faceva solamente desiderare di avvicinarmi ancora di più. L’impulso era
tanto più forte quanto più mi avvicinavo.
L’avevo accusata di essere una calamita per il pericolo. Proprio ora, sentivo che
quella era propriamente la verità. Io ero un pericolo e, ad ogni centimetro che mi
consentivo di andarle più vicino, la sua attrazione cresceva d’intensità.
E poi il Signor Banner spense le luci.
Era strano quanta differenza facesse, considerando che la mancanza di luce
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significava ben poco per i miei occhi. Ero ancora in grado di vedere perfettamente come
prima. Ogni dettaglio dell’aula mi era chiaro.
E allora perché quell’improvvisa scossa di elettricità nell’aria, nell’oscurità che non
era affatto buia per me? Era perché sapevo di essere l’unico capace di vedere
distintamente? Che Bella ed io eravamo entrambi invisibili agli altri? Come se fossimo
soli, solamente noi due, nascosti nell’aula scura, seduti così vicini l’uno all’altra…
La mia mano si protese verso di lei senza il mio permesso. Solo per toccare la sua
mano, per tenergliela nell’oscurità. Sarebbe stato un errore così terribile? Se la mia pelle la
infastidiva, doveva solamente spingerla via…
Ritirai la mano con uno strattone, strinsi forte le braccia attorno al petto e chiusi i
pugni serrandoli bene. Niente errori. Avevo promesso a me stesso che non avrei
commesso errori, non importava quanto minimi potessero sembrare. Se le avessi preso la
mano, avrei solamente desiderato di più – di sfiorarla ancora in maniera insignificante, di
avvicinarmi di più a lei. Potevo sentirlo. Un nuovo genere di desiderio stava crescendo
dentro di me, lavorando per surclassare il mio autocontrollo.
Niente errori.
Bella stringeva saldamente le braccia attorno al petto, e le sue mani erano chiuse a
pugno proprio come le mie.
Cosa stai pensando? Morivo dalla voglia di bisbigliarle quelle parole, ma l’aula era
troppo silenziosa per dare inizio ad una conversazione anche solo sussurrata.
Il film cominciò, illuminando il buio soltanto di poco. Bella gettò un’occhiata verso
di me. Notò la rigidità in cui trattenevo il mio corpo – proprio come lei – e sorrise. Le sue
labbra si socchiusero leggermente, ed i suoi occhi sembrarono colmi di inviti appassionati.
O forse stavo vedendo quel che volevo vedere.
Le sorrisi di rimando; la sua respirazione fu colta da un profondo affanno e si voltò
rapidamente altrove.
Il che peggiorò le cose. Non conoscevo i suoi pensieri, ma d’improvviso ero certo di
aver avuto ragione prima, e che lei voleva che la toccassi. Avvertiva la pericolosità di
questo desiderio proprio come me.
L’elettricità tra il suo corpo ed il mio fremeva.
Non si mosse per l’intera ora, mantenendo una postura rigida e controllata così
com’io mantenevo la mia. Di tanto in tanto mi lanciava di nuovo un’occhiata furtiva,
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sicché la fervente elettricità mi attraversava scuotendomi come una scossa improvvisa.
L’ora passava – lentamente, e tuttavia non abbastanza lentamente. Era una cosa
talmente nuova per me, che sarei potuto rimanere seduto così con lei per giorni, soltanto
per sperimentare a fondo questa sensazione.
Argomentai con me stesso una dozzina di volte intanto che i minuti scorrevano, la
razionalità si scontrava con il desiderio mentre cercavo di giustificare il toccarla.
Finalmente, il Signor Banner riaccese le luci.
Nella vivacità della luce fluorescente l’atmosfera in aula tornò alla normalità. Bella
sospirava e si stiracchiava, flettendo le dita di fronte a lei. Doveva essere stato scomodo
per lei mantenere quella posizione tanto a lungo. Per me era più facile – l’immobilità mi
veniva naturale.
Ridacchiai dell’espressione sollevata del suo viso. “Beh, è stato interessante”.
“Umm”, mormorò, comprendendo chiaramente a cosa mi riferivo, ma senza fare
commenti. Cosa non avrei dato per sentire cosa stava pensando proprio ora.
Sospirai. Non c’era desiderio che avrebbe potuto essermi d’aiuto in quel caso.
“Possiamo andare?” chiesi, alzandomi.
Fece una smorfia e si alzò in piedi traballante, allargando le mani come temendo di
cadere.
Avrei potuto offrirle la mia mano. O avrei potuto poggiargliela sotto il gomito – con
delicatezza – ed aiutarla a mantenere l’equilibrio. Di certo non poteva essere un’infrazione
tanto terribile…
Niente errori.
Era molto silenziosa mentre camminavamo verso la palestra. La ruga tra i suoi occhi
era marcata, segno che stava riflettendo profondamente. Anch’io stavo riflettendo
profondamente.
Toccarla una volta non le avrebbe fatto male, sosteneva il mio lato egoista.
Potevo moderare con facilità la pressione esercitata dalla mia mano. Non era per
niente difficile, finché mantenevo fermamente il controllo di me stesso. Il mio senso del
tatto era più evoluto di quello di un umano; potevo destreggiarmi con una dozzina di calici
di cristallo senza romperne nessuno; potevo accarezzare una bolla di sapone senza
scoppiarla. Finché mantenevo fermamente il controllo di me stesso…
Bella era come una bolla di sapone – fragile ed effimera. Passeggera.
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©2008 Stephenie Meyer
Quanto a lungo avrei potuto giustificare la mia presenza nella sua vita? Quanto
tempo avevo? Avrei avuto un’altra occasione come questa occasione, come questo istante,
come questo secondo? Non sarebbe stata per sempre a portata della mia mano…
Davanti alla porta della palestra Bella si voltò verso di me, spalancando gli occhi
per l’espressione che avevo in viso. Non disse nulla. Mi vidi riflesso nei suoi occhi e
riconobbi il conflitto che stava infuriando nei miei. Osservai il cambiamento sul mio viso
quando il mio lato migliore perse lo scontro.
La mia mano si sollevò senza che le avessi scientemente ordinato di farlo.
Delicatamente, come fosse fatta del più sottile dei vetri, come se fosse fragile come una
bolla di sapone, le mie dita accarezzarono la pelle calda che le ricopriva la guancia.
Bruciava al mio tocco, e potevo sentire la circolazione sanguigna accelerare al di sotto
della sua pelle trasparente.
Basta, comandai, nonostante la mia mano desiderasse ardentemente modellarsi sul
lato del suo viso. Basta.
Era difficile ritirare la mano, impedirmi di andarle più vicino di quanto già non
fossi. Un migliaio di opzioni differenti mi attraversarono la mente in un istante – un
migliaio di modi differenti di toccarla. La punta del mio dito che tracciava la piega delle
sue labbra. Il mio palmo che le teneva il mento. Togliere il fermaglio dai suoi capelli e
lasciare che si sparpagliassero sulla mia mano. Le mie braccia che le cingevano la vita,
facendola aderire al mio corpo.
Basta.
Mi sforzai di voltarmi, di separarmi da lei. Il mio corpo si muoveva rigido -
controvoglia.
Lasciai la mia mente indugiare alle mie spalle per vederla mentre mi allontanavo di
fretta, quasi scappando dalla tentazione. Colsi i pensieri di Mike Newton – erano i più
rumorosi – mentre guardava Bella superarlo in stato d’incoscienza, con gli occhi assenti e
le guance in fiamme. S’incupì e d’improvviso il mio nome si mescolò alle maledizioni
nella sua mente; non potei fare a meno di rispondere allargando lievemente il sorriso.
La mia mano formicolava. Aprii e chiusi il pugno, ma continuò a pizzicare senza
dolore.
No, non le avevo fatto del male – ma toccarla era stato comunque un errore.
Avevo la sensazione di andare a fuoco – come se la sete che mi bruciava la gola si
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fosse diffusa in tutto il mio corpo.
La prossima volta che le fossi stato così vicino, sarei stato capace d’impedirmi di
toccarla di nuovo? E se l’avevo toccata una volta, mi sarei potuto fermare lì?
Niente più errori. Punto e basta. Goditi il ricordo, Edward, dissi amaramente a me
stesso, e tieni le mani apposto. O così, o mi sarei dovuto costringere ad andarmene…in
qualche modo. Perché non potevo permettermi di starle vicino se insistevo nel commettere
degli errori.
Respirai profondamente e cercai di calmare i miei pensieri.
Emmett mi raggiunse fuori dell’edificio di inglese.
“Hey, Edward”. Ha un aspetto migliore. Strambo, ma migliore. Felice.
“Hey, Em”. Sembravo felice? Immaginai che, a dispetto della confusione nella mia
mente, mi sentissi così.
Trova il modo di tapparti la bocca, ragazzo. Rosalie vuole strapparti la lingua.
Sospirai. “Mi spiace averti lasciato ad occupartene da solo. Sei arrabbiato con me?”
“Naaa. Rose se la farà passare. Tanto doveva succedere prima o poi”. Considerato
quello che ha previsto Alice…
Non volevo pensare alle visioni di Alice adesso. Guardai fisso davanti a me,
serrando stretti i denti.
Mentre cercavo qualcosa per riuscire a distrarmi, avvistai Ben Cheney che ci
precedeva entrando nell’aula di spagnolo. Ah – ecco la mia occasione per dare ad Angela
il suo regalo.
Smisi di camminare e presi Emmett per un braccio. “Aspetta un attimo”.
Che succede?
“So di non meritarlo, ma mi faresti comunque un favore?”
“Di che si tratta?” chiese, incuriosito.
Sottovoce – e ad una velocità che avrebbe reso le parole incomprensibili per un
umano a prescindere da quanto forte le avessi dette – gli spiegai cosa volevo.
Mi fissò in modo assente quando terminai, con i pensieri inespressivi quanto il suo
viso.
“Allora?” lo sollecitai. “Mi aiuterai a farlo?”
Gli ci volle un minuto per rispondere. “Ma, perché?”
“E dai, Emmett. Perché no?”
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Chi sei tu e cosa ne hai fatto di mio fratello?
“Non sei tu che ti lamenti perché la scuola è sempre uguale? Questo è qualcosa di
un pò diverso, o no? Consideralo un esperimento – un esperimento sulla natura umana”.
Mi fissò per un altro momento prima di cedere. “Beh, è differente, te lo
concedo…D’accordo, va bene”. Emmett grugnì e scrollò le spalle. “Ti aiuterò”.
Gli sorrisi apertamente, sentendomi più entusiasta del mio piano ora che era
decollato. Rosalie era uno strazio, ma le sarei sempre stato debitore per aver scelto
Emmett; nessuno aveva un fratello migliore del mio.
Emmett non aveva bisogno di fare pratica. Gli suggerii le battute a bassa voce
mentre entravamo in aula.
Ben aveva già preso posto nel banco dietro al mio, e stava riordinando i compiti che
doveva consegnare. Emmett ed io ci sedemmo entrambi e facemmo la stessa cosa. In aula
non era ancora sceso il silenzio; il mormorio delle conversazioni a bassa voce sarebbe
continuato finché la Signora Goff non ci avesse richiamati all’ordine. Non aveva fretta,
stava correggendo i questionari della lezione precedente.
“E così”, disse Emmett, con un tono di voce più alto del necessario – come se stesse
veramente parlando con me. “Hai già chiesto ad Angela Weber di uscire?”
Il suono delle carte fruscianti alle mie spalle s’interruppe bruscamente quando Ben
s’immobilizzò, la sua attenzione d’improvviso inchiodata alla nostra conversazione.
Angela? Stanno parlando di Angela?
Bene. Avevo catturato il suo interesse.
“No”, dissi, scrollando lentamente la testa per sembrare contrito.
“Perché no?” Emmett improvvisava. “Sei un fifone?”
Gli feci una smorfia. “No. Ho sentito che è interessata a qualcun altro”.
Edward Cullen vuole chiedere ad Angela di uscire? Ma… No. Non mi piace. Non
voglio che si avvicini a lei. Lui…non va bene per lei. Non è…affidabile.
Non mi ero aspettato la cavalleria, l’istinto di protezione. Stavo dandomi da fare per
ingelosirlo. Ma andava bene qualunque cosa purché funzionasse.
“E lascerai che questo ti fermi?”, chiese Emmett in modo sprezzante, di nuovo
improvvisando. “Non reggi la competizione?”
Lo guardai truce, ma feci uso di quel che mi aveva dato. “Ascolta, secondo me le
piace davvero questo tizio di nome Ben. Non intendo cercare di convincerla che non è
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vero. Ci sono altre ragazze”.
Nella sedia alle mie spalle ci fu una reazione elettrizzata.
“Chi?” chiese Emmett, tornando al copione.
“La mia compagna di laboratorio dice che è un qualche ragazzo che fa di cognome
Cheney. Non sono certo di sapere chi sia”.
Mi trattenni dal sorridere. Solo gli altezzosi Cullen potevano farla franca fingendo
di non conoscere ogni studente di questa minuscola scuola.
La mente di Ben stava mulinando sbalordita. Io? Al di sopra di Edward Cullen? Ma
perché dovrei piacerle io?
“Edward” Emmett borbottò ad un volume più basso, roteando gli occhi per indicare
il ragazzo. “E’ proprio dietro di te”, scandì muto con il labiale, in maniera talmente ovvia
che l’umano poteva facilmente leggere le parole.
“Oh”, borbottai di rimando.
Mi voltai sulla sedia e diedi un’unica occhiata al ragazzo dietro di me. Per un
secondo, gli occhi neri dietro gli occhiali furono spaventati, ma poi indurì e raddrizzò le
spalle strette, insultato dalla mia valutazione palesemente denigratoria. Sollevò il mento ed
un impeto di rabbia avvampò sulla sua pelle bronzea.
“Pfui”, dissi in maniera arrogante rigirandomi verso Emmett.
Pensa di essere migliore di me. Ma Angela non lo pensa. Gliela farò vedere…
Perfetto.
“Ma non hai detto che si sarebbe fatta accompagnare al ballo da Yorkie?” chiese
Emmett, sbuffando mentre diceva il nome del ragazzo che in molti prendevano in giro per
quanto era fastidioso.
“A quanto pare è stata una decisione di gruppo”. Volevo essere certo che Ben
avesse ben chiara la cosa. “Angela è timida. Se B – beh, se un ragazzo non ha il fegato di
chiederle di uscire, neppure lei lo farà mai”.
“A te piacciono le ragazze timide”, disse Emmett, tornando ad improvvisare. Le
ragazze silenziose. Le ragazze come…hmm, non lo so. Forse Bella Swan?
Gli spalancai il sorriso. “Esattamente”. Poi tornai a recitare. “Forse Angela si
stancherà di aspettare. Magari la inviterò al ballo di fine anno”.
No, non lo farai, pensò Ben, raddrizzandosi sulla sedia. E che importa se è tanto più
alta di me? Se a lei non interessa, allora nemmeno a me. E’ la più dolce, la più
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intelligente, la più bella ragazza di tutta la scuola…e vuole me.
Mi piaceva questo Ben. Sembrava brillante e ben intenzionato. Forse persino degno
di una ragazza come Angela.
Sotto il banco feci segno ad Emmett che era andato tutto bene mentre la Signora
Goff si alzava e salutava la classe.
Okay, devo ammetterlo – è stato abbastanza divertente, pensò Emmett.
Sorrisi tra me, soddisfatto di essere stato capace di dar forma al lieto fine di almeno
una storia d’amore. Ero certo che Ben si sarebbe mosso, ed Angela avrebbe ricevuto il mio
regalo anonimo. Il mio debito era saldato.
Quant’erano sciocchi gli umani, a lasciare che una differenza di quindici centimetri
di altezza mandasse a monte la loro felicità.
Il mio successo mi mise di buon umore. Sorridevo di nuovo mentre mi sistemavo
sulla sedia e mi preparavo ad essere intrattenuto. Dopo tutto, come Bella aveva
puntualizzato a pranzo, non l’avevo mai vista in azione a ginnastica prima.
I pensieri di Mike erano i più facili da localizzare nel brusio delle voci che
sciamavano in palestra. La sua mente era diventata fin troppo familiare nelle ultime poche
settimane. Con un sospiro, mi rassegnai ad ascoltare attraverso di lui. Almeno potevo
essere sicuro che avrebbe prestato attenzione a Bella.
Ero giusto in tempo per sentirlo offrirsi come suo compagno a badminton; mentre
formulava quel suggerimento, altre forme di accoppiamento gli passarono per la mente. Il
mio sorriso svanì, i miei denti si serrarono stretti, e dovetti ricordare a me stesso che
l’assassinio di Mike Newton non era un’opzione accettabile.
“Grazie, Mike – non sei costretto, lo sai”
“Non preoccuparti, non ti starò tra i piedi”
Si sorrisero a vicenda, e gli sprazzi di numerosi incidenti – sempre in qualche modo
connessi a Bella – balenarono nella mente di Mike.
Mike all’inizio giocò da solo, mentre Bella esitava sul fondo della metà campo,
tenendo la racchetta con cautela, come se fosse un qualche tipo di arma. Poi il Coach
Clapp si avvicinò camminando pigramente ed ordinò a Mike di lasciare che Bella
giocasse.
Oh oh, pensò Mike mentre Bella avanzava con un sospiro, reggendo la racchetta con
un’angolazione poco opportuna.
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Jennifer Ford servì il volano direttamente di fronte a Bella, convinta compiaciuta
che fosse un tiro ad effetto. Mike vide Bella barcollare in avanti, sventolando la racchetta
a parecchi metri dal suo obiettivo, e si precipitò nel tentativo di salvare la volée.
Osservai la traiettoria della racchetta di Bella con apprensione. Infatti, colpì tesa la
rete di netto e le rimbalzò addosso, picchiandola in fronte prima di urtare contro il braccio
di Mike con un fragoroso ciaf.
Ahi. Ahi. Ugh. Mi resterà il livido.
Bella si stava massaggiando la fronte. Era difficile trattenermi sulla sedia, sapendo
che si era fatta male. Ma cosa avrei potuto fare, se fossi stato lì? E non sembrava una cosa
grave…Esitai, restando a guardare. Se aveva intenzione di continuare a cercare di giocare,
mi sarei dovuto inventare una scusa per portarla fuori dalla palestra.
Il coach rideva. “Scusa, Newton”. Quella ragazza è la peggior iattura che abbia
mai vista. Non dovrei infliggerla agli altri…
Voltò deliberatamente le spalle e se ne andò a guardare un’altra partita, cosicché
Bella potesse tornare al suo precedente ruolo di spettatrice.
Ahi, pensò di nuovo Mike, massaggiandosi il braccio. Si voltò verso Bella. “Stai
bene?”
“Si, e tu?” chiese con aria imbarazzata, arrossendo.
“Penso che ce la farò”. Non voglio sembrare un piagnucolone. Ma ragazzi, fa male!
Mike fece ruotare il braccio, sobbalzando.
“Mi limiterò a restarmene qui in fondo”, disse Bella, con in viso più imbarazzo e
mortificazione che dolore. Forse Mike aveva avuto la peggio. Di sicuro mi auguravo che
fosse così. Almeno lei non stava più giocando. Teneva la racchetta con estrema prudenza
dietro la schiena, con gli occhi spalancati dal rimorso…Dovetti camuffare la mia risata
con un accesso di tosse.
Che c’è di divertente? Voleva sapere Emmett.
“Te lo dico dopo”, mormorai.
Bella non si azzardò più a giocare. Il coach la ignorò e lasciò che Mike giocasse da
solo.
Risposi con facilità al questionario alla fine dell’ora, e la Signora Goff mi lasciò
andare via in anticipo. Stavo ascoltando attentamente Mike mentre attraversavo il campus.
Aveva deciso di confrontarsi con Bella riguardo a me.
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Jessica giura che si frequentano. Perché? Perché doveva scegliere lei?
Non vedeva la cosa veramente straordinaria – che lei aveva scelto me.
“E così”.
“E così cosa?” chiese.
“Tu e Cullen, uh?” Tu e il mostro. Chissà, magari è il fatto che è ricco ad
importarti…
Digrignai i denti per la sua supposizione degradante.
“Non sono affari tuoi, Mike”
Si è messa sulla difensiva. Perciò è vero. Che schifo. “Non mi piace”.
“Non deve”, schioccò.
Come fa a non accorgersi di che razza di fenomeno da baraccone sia? Tutti loro lo
sono. Il modo in cui la guarda. Mi fa gelare il sangue. “Ti guarda come…come se fossi un
qualcosa da mangiare”
Raccapricciai, aspettando la sua risposta.
Il viso le si era acceso di un rosso brillante, e le sue labbra erano premute insieme
come se stesse trattenendo il respiro. Poi, inaspettatamente, una risatina le proruppe tra i
denti.
Adesso sta ridendo di me. Grande.
Mike si voltò, i suoi pensieri erano astiosi, e sparì a cambiarsi.
Come aveva potuto ridere dell’accusa di Mike – così perfettamente a segno che
cominciavo a temere che Forks stesse diventando troppo consapevole… Perché aveva riso
dell’allusione al fatto che avrei potuto ucciderla, quando sapeva che era esattamente la
verità? Cosa c’era di tanto divertente?
Cosa c’era che non andava in lei?
Aveva un macabro senso dell’umorismo? Non si addiceva all’idea che mi ero fatto
del suo carattere, ma come potevo esserne certo? O forse il mio sogno ad occhi aperti
sull’angelo sconsiderato era vero da quest’unico punto di vista, riguardo al fatto che fosse
incapace di provare la paura. Coraggiosa – si poteva vederla così. Altri avrebbero potuto
dire stupida, ma io sapevo quanto fosse intelligente. Ciononostante, qualunque ne fosse la
ragione, l’incapacità di provare la paura ed il contorto senso dell’umorismo non le
facevano affatto bene. Era questa bizzarra incapacità a metterla costantemente in pericolo?
Forse avrebbe avuto bisogno di me per sempre…
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All’improvviso, il mio umore stava salendo alle stelle.
Se fossi stato capace di autodisciplinarmi, di non essere un pericolo, allora forse
sarebbe stato un bene che restassi con lei.
Quando attraversò le porte della palestra, teneva le spalle rigide e si mordicchiava di
nuovo il labbro inferiore – un sintomo di ansietà. Ma non appena i suoi occhi incontrarono
i miei, le sue spalle contratte si rilassarono e sul viso le si spalancò il sorriso. Era
un’espressione stranamente serena. Senza esitare camminò diretta al mio fianco,
fermandosi solo quando fu così vicina che il calore del suo corpo s’infranse addosso a me
come una marea.
“Ciao”, disse a bassa voce.
La felicità che sentivo in questo momento era, ancora una volta, senza precedenti.
“Ciao”, dissi, e poi – giacché il mio umore era d’improvviso così sollevato che non
potevo trattenermi dal canzonarla – aggiunsi “Com’è andata in palestra?”
Il suo sorriso vacillò. “Bene”.
Era una pessima bugiarda.
“Davvero?” chiesi, per premere sull’argomento – ero ancora preoccupato per la sua
testa; le faceva male? – ma poi i pensieri di Mike Newton riuscirono a spezzare la mia
concentrazione tanto erano forti.
Lo odio. Vorrei che crepasse. Spero precipiti giù da un precipizio con quella sua
macchina tirata a lucido. Non poteva limitarsi a lasciarla in pace? A restare inchiodato a
quelli della sua razza – ai mostri?
“Che c’è?” chiese Bella.
I miei occhi tornarono a focalizzarsi sul suo viso. Guardò Mike che, di spalle, se la
batteva in ritirata, e poi di nuovo me.
“Newton mi sta dando sui nervi”, ammisi.
Spalancò la bocca, ed il suo sorriso scomparve. In quell’ultima ora doveva aver
dimenticato che avevo il potere di tenere d’occhio i suoi disastri, o sperava che non
l’avessi utilizzato.
“Non ti sarai mica rimesso ad ascoltare?”
“Come va la testa?”
“Sei incredibile!” disse tra i denti, e poi si voltò dall’altra parte ed impettita si
diresse furiosamente verso il parcheggio. La sua pelle era avvampata di un rosso scarlatto
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– era imbarazzata.
Tenevo il suo passo, sperando che la sua collera svanisse presto. Di solito mi
perdonava in fretta.
“Sei stata tu ad accennare al fatto che non ti avevo mai vista a ginnastica”, spiegai.
“Mi sono incuriosito”.
Non rispose; aggrottò le sopracciglia.
Nel parcheggio si fermò bruscamente, quando si rese conto che l’accesso alla mia
macchina era bloccato da un capannello di studenti maschi.
Mi domando quanto siano andati veloci con questa cosa…
Guarda il cambio automatico coi comandi al volante. Non l’avevo mai visto se non
su una rivista…
Belle rifiniture…
Vorrei proprio avere sessantamila dollari da parte…
Il che era esattamente il motivo per cui era meglio che Rosalie usasse la propria
macchina solamente fuori città.
Mi districai tra la folla dei ragazzi curiosi fino alla mia macchina; dopo un secondo
di esitazione Bella seguì il mio esempio.
“Appariscente”, borbottai mentre salivo.
“Che tipo di macchina è?” chiese.
“Una M3”.
Mi guardò male. “Non leggo Macchine e Motori”
“E’ una BMW”. Alzai gli occhi al cielo e poi mi concentrai sull’uscire in
retromarcia senza investire nessuno. Dovetti fissare insistentemente negli occhi alcuni
ragazzi che non sembravano propensi a sgombrarmi il passo. Incrociare il mio sguardo
fisso per mezzo secondo parve sufficiente a convincerli.
“Sei ancora arrabbiata?” le chiesi. Il suo cipiglio si era rilassato.
“Decisamente”, rispose seccamente.
Sospirai. Forse non avrei dovuto sollevare il discorso. Oh beh. Potevo cercare di
fare ammenda, supposi. “Mi perdoni se ti chiedo scusa?”
Ci pensò sopra per un momento. “Forse…se sei sincero”, decise. “E se prometti di
non farlo più”.
Non intendevo mentirle, e non c’era verso che potessi acconsentire a quello. Forse,
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se le avessi proposto uno scambio differente.
“E se sono sincero e in più accetto di lasciarti guidare sabato?” rabbrividii tra me a
quel pensiero.
Di colpo comparve quella ruga tra i suoi occhi mentre valutava il nuovo accordo.
“Aggiudicato”, disse dopo una breve riflessione.
Ora riguardo alle mie scuse… Non avevo mai tentato di abbacinare Bella di
proposito prima, ma adesso sembrava il momento giusto per farlo. La fissai intensamente
negli occhi intanto che guidavo allontanandomi dalla scuola, chiedendomi se lo stessi
facendo correttamente. Usai il tono più persuasivo di cui disponevo.
“In tal caso sono molto dispiaciuto di averti fatto arrabbiare”
Il cuore le batteva più forte di prima, ed il ritmo era vertiginosamente staccato. I
suoi occhi erano sgranati, all’apparenza lievemente sconvolti.
Feci un mezzo sorriso. Pareva che l’avessi fatto proprio bene. Ovviamente, anch’io
stavo incontrando delle difficoltà a staccarmi dai suoi occhi. Parimenti abbacinato. Era un
bene che avessi memorizzato questa strada.
“E sarò davanti alla tua porta sabato mattina di buon’ora”, aggiunsi, concludendo
l’accordo.
Sbatté in fretta le ciglia, scuotendo la testa come per schiarirsela. “Um”, disse, “non
è utile alla situazione con Charlie se una misteriosa Volvo viene lasciata sul vialetto”.
Ah, quanto poco sapeva ancora di me. “Non ho detto che sarei venuto in macchina”
“Come -” cominciò a chiedere.
L’avevo interrotta. Sarebbe stato difficile spiegarlo senza una dimostrazione, ed ora
e ce n’era a malapena il tempo. “Non preoccupartene. Sarò lì, niente macchina”.
Chinò la testa di lato, e per un momento parve volesse insistere, ma poi sembrò
cambiare idea.
“Più tardi è arrivato?” chiese, ricordandomi della conversazione rimasta in sospeso a
mensa; aveva rinunciato ad una domanda difficile solamente per richiamarne un’altra che
era ancora più scomoda.
“Suppongo che sia arrivato”, acconsentii di malavoglia.
Parcheggiai di fronte a casa sua, agitandomi mentre cercavo di pensare a come
spiegarmi…senza mettere troppo in evidenza la mia natura mostruosa, senza spaventarla
ancora. O era sbagliato? Minimizzare la tenebra che mi avvolgeva?
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Lei aspettava con la medesima maschera di educato interesse che aveva indossata a
pranzo. Se fossi stato meno teso, la sua calma irragionevole mi avrebbe fatto ridere.
“E tu vuoi ancora sapere perché non puoi vedermi cacciare?” chiesi.
“Beh, soprattutto mi stavo domandando il perché della tua reazione”, disse.
“Ti ho spaventata?” chiesi, certo che l’avrebbe negato.
“No”.
Cercai di non sorridere, ma fallii. “Ti chiedo scusa per averti fatto paura”. E poi il
mio sorriso svanì insieme all’umorismo passeggero. “Era dovuta soltanto all’averti
immaginata veramente lì…mentre cacciamo”.
“Sarebbe un male?”
Quell’immagine mentale era insostenibile – Bella, così vulnerabile nella vuota
oscurità; me stesso, fuori controllo… Cercai di bandirla dalla mia mente.
“Assolutamente”.
“Perché..?”
Respirai profondamente, concentrandomi per un momento sulla sete bruciante.
Assaporandola, domandola, dimostrando la mia capacità di dominarla. Non mi avrebbe
controllato ancora – volevo con tutto me stesso che fosse vero. Sarebbe stata al sicuro con
me. Fissavo le nuvole benvenute senza vederle, desiderando di poter credere che la mia
determinazione avrebbe fatto una qualche differenza se avessi incrociato il suo profumo
mentre stavo cacciando.
“Quando cacciamo…le nostre menti non ci dominano quasi più”, le dissi,
soppesando a fondo ogni singola parola prima di pronunciarla. “Ci abbandoniamo ai nostri
sensi. Specialmente al senso dell’olfatto. Se tu fossi da qualche parte vicina a me quando
perdo il controllo a quel modo…”
Scossi la testa agonizzante al pensiero di ciò che sarebbe – non che avrebbe potuto,
ma che sarebbe – sicuramente successo a quel punto.
Ascoltai il picco nel suo battito cardiaco, e poi mi voltai, irrequieto, per leggere nei
suoi occhi.
Il viso di Bella era composto, i suoi occhi erano gravi. La sua bocca era lievemente
imbronciata per ciò che supponevo fosse preoccupazione. Ma preoccupazione per cosa?
Per la sua sicurezza? O per il mio tormento? Continuai a fissarla, tentando di tradurre la
sua espressione ambigua in un dato certo.
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Lei ricambiò il mio sguardo. Dopo un istante i suoi occhi si spalancarono, e le
pupille le si dilatarono, sebbene la luce non fosse cambiata.
Mi si accelerò il respiro, ed improvvisamente il silenzio che c’era in macchina
sembrò fremere, proprio come nel buio dell’aula di biologia questo pomeriggio. La
corrente pulsante era tornata a scorrere tra di noi, ed il mio desiderio di toccarla fu, solo
per poco, persino più forte delle pretese accampate dalla mia sete.
L’elettricità vibrante mi faceva sentire come se avessi di nuovo un battito cardiaco.
Il mio corpo vibrava con lei. Come se fossi umano. Più di ogni altra cosa al mondo,
volevo sentire il calore delle sue labbra sulle mie. Per un solo secondo, lottai
disperatamente per trovare la forza, il controllo, per essere capace di poggiare la mia bocca
così vicina alla sua pelle…
Inspirò affannosamente, e solo allora compresi che quando avevo cominciato a
respirare più velocemente, lei aveva smesso di respirare completamente.
Chiusi gli occhi, cercando di spezzare la nostra connessione.
Niente più errori.
L’esistenza di Bella era collegata ad un migliaio di processi chimici delicatamente
bilanciati, tutti troppo facili da sconvolgere. La dilatazione regolare dei suoi polmoni, il
flusso d’ossigeno, per lei significavano vivere o morire. La cadenza palpitante del suo
cuore fragile poteva essere interrotta da così tanti stupidi incidenti o malattie o…da me.
Ero certo che nessuno dei miei familiari avrebbe esitato se gli o le fosse stata offerta
l’opportunità di tornare indietro – se lui o lei avesse potuto barattare l’immortalità con una
ritrovata mortalità. Chiunque di noi avrebbe attraversato il fuoco per quello. Bruciando per
quanti giorni o secoli fosse necessario.
La maggior parte di quelli della nostra specie stimavano l’immortalità al di sopra di
ogni altra cosa. C’erano addirittura degli umani che la bramavano, che cercavano
nell’oscurità coloro che potessero fargli il più funesto dei regali…
Non noi. Non la mia famiglia. Avremmo dato qualunque cosa per essere umani.
Ma nessuno di noi aveva mai disperato così tanto di poter tornare indietro come me
ora.
Fissavo le microscopiche intaccature ed imperfezioni del parabrezza, come se ci
fosse una qualche soluzione nascosta nel vetro. L’elettricità non si era smorzata, e dovevo
concentrarmi per trattenere le mani sul volante.
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La mia mano destra cominciò a pizzicarmi di nuovo senza dolore, come quando
prima l’avevo toccata.
“Bella, penso che dovresti rientrare ora”
Lei obbedì all’istante, senza fare commenti, scendendo dalla macchina e sbattendo
la portiera dietro di sé. Aveva percepito la potenzialità del disastro tanto chiaramente
quanto me?
L’andarsene l’aveva ferita, come a me feriva il lasciarla andare? L’unico conforto
era che l’avrei vista presto. Molto prima di quanto lei avrebbe visto me. Sorrisi per quello,
poi abbassai il finestrino e mi allungai per parlarle una volta ancora – era più sicuro
adesso, con il calore del suo corpo fuori dalla macchina.
Si voltò per vedere cosa volessi, curiosa.
Ancora curiosa, sebbene mi avesse fatto così tante domande oggi. La mia curiosità
era del tutto insoddisfatta; rispondere alle sue domande oggi era servito soltanto a rivelare
i miei segreti – avevo ottenuto ben poco da lei se non le mie stesse congetture. Non era
giusto.
“Oh, Bella?”
“Si?”
“Domani sarà il mio turno”
Aggrottò la fronte. “Il tuo turno per cosa?”
“Per le domande”. Domani, quando saremmo stati in un luogo più sicuro, circondati
da testimoni, avrei ottenuto le mie risposte. Spalancai il sorriso a quel pensiero, e poi mi
voltai perché non faceva alcun cenno di volersene andare. Nonostante fosse fuori dalla
macchina, l’eco dell’elettricità crepitava nell’aria. Volevo scendere anch’io,
accompagnarla fino alla porta come scusa per rimanerle accanto…
Niente più errori. Accelerai, e poi sospirai mentre scompariva dietro di me.
Sembrava come se stessi sempre correndo verso Bella o correndo lontano da lei, senza mai
fermarmi. Avrei dovuto trovare un modo per tenere duro se mai avessimo voluto un pò di
pace.
Traduzione: Ilaria Starnoni