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Storia dell'Eremo di S. Alberto di Butrio
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STORIA DELL’EREMO DI S. ALBERTO DI BUTRIO
Sant’Alberto di Butrio è un’oasi di pace dove la fede, l’arte e la storia nobilitano l’incanto di una
regione ancora inviolata
dell’Appennino vogherese.
Quel panorama, contemplato
dalle vette sovrane del Penice,
del Bogleglio, del Giarolo,
dell’Ebro, presenta una
successione digradante di
scogliere biancastre, franose,
prive di vegetazione, come
risultato di chissà quale
cataclisma geologico.
Ma chi risale dalla pianura ha
dinanzi il prospetto dei colli più
esposti a tramontana e perciò
ricchi di terreni coltivati e
rivestiti di foltissime boscaglie.
La zona montagnosa di san’Alberto, dove il pittoresco s’alterna con l’orrido che riserva qualche
volta sorprese anche ai più sperimentati, è battuta secondo le stagioni da frotte di cacciatori del
genovesato, del pavese, dell’alessandrino e da solitari cercatori di funghi che ne conoscono tutti gli
anfratti, tutte le coste, tutti i sentieri più minuti.
L’eremo sorge a 687 m. su di uno sperone calcareo che emerge dal fondo valle entro una verde
chiostra montana. Solo il versante a nord è arido e brullo con striature di pietrisco e una stentata
vegetazione di arbusti.
Su di un costone roccioso, situato a sud-est dell’eremo, torreggiava, verso il secolo X l’antico
castello che diede il nome al paese e andò presto in rovina, senza lasciar traccia neppure di
fondamenta. Lo separava dal monastero un breve avvallamento solcato da un torrente vorticoso, il
Butrio, che gli abitanti del luogo chiamano Borrione( Burion) di fianco al quale si indica la grotta di
Sant’Alberto nel punto ove sorge una cappelletta dovuta all’iniziativa di Don Orione.
Questo torrente per balzi scoscesi getta le sue acque nel Begna che solca la profonda valle posta a
nord- ovest e tra dirupi arditissimi si versa nel Nizza affluente dello Staffora.
Lo sperone calcareo sul quale sorge l’eremo emerge tra le due profonde incisioni del Borrione e del
Begna.
Un senso di pace e di beatitudine si comunica allo spirito dal paesaggio. Attorno ai muri grezzi
della chiesa e del convento, dominati dalla torre quadrata e da un campani letto disadorno, non ci
sono casa di abitazione.
Un po’ più in su è la bianca cinta del cimitero.
L’apparizione dell’eremo per chi, raggiunto da un punto d’osservazione, lo scopre un po’ più in
basso della sua linea visiva in quella cornice di verde solitudine, suscita nell’animo soavi sensazioni
come d’inesprimibile melodia che fa rivivere il passato.
L’incontro di Sant’Alberto vibra di più intense comunicazioni spirituali quando sul vespero il suono
della campana riempie la valle e chiama sull’eremo l’oro degli astri. Si vorrebbe trascorrere la notte
in contemplazione.
Solitudine, silenzio, preghiera. Solo verso sud- ovest è uno spiraglio che rompe il cerchio claustrale,
e da esso s’intravvedono le montagne che s’alzano di là dello Staffora, avvolte nella nebbia della
distanza, come le preoccupazioni del mondo che qui non hanno più contorni e rilievi per chi è
venuto in cerca di pace.
FONTI STORICHE
Non giudichiamo l’importanza dell’Abbazia di sant’Alberto dal poco che avanza della sua mole.
Un “ tornado” non provocherebbe danni maggiori abbattendosi su di una regione.
A prescindere dalle costruzioni recenti, rimangono le tre chiesine fra loro comunicanti, ( per noi
oggi un tutt’uno); la torre, un lato del chiostro e qualche rudere di muraglione.
Non s’è mai trattato di un monastero amplissimo , popolato da tanti monaci intenti, tutti alla
preghiera e particolarmente chi allo studio, chi al lavoro , chi al minio, … paragonabile a Bobbio o
a Montecassino; ma ebbe tuttavia un suo volto e una sua grandezza degna di essere segnalata nella
storia.
L’impressione d’immutabile potenza che dà l’eremo guardato da quel raro osservatorio a fondo
valle, cede, una volta entrati, a un doloroso stupore nel constatare che il tempo e l’incuria degli
uomini lo avevano quasi completamente votato all’abbandono.
Che cosa sarebbe rimasto di Sant’Alberto senza la fede di un apostolo, don Orione, animatore tra i
più efficaci della sua rinascita e collaboratore entusiasta del suo vescovo diocesano?
Tre studiosi principalmente hanno il merito indiscutibile d’aver sottratto all’oblio completo il
monastero.
Il canonico Giuseppe Bottazzi con la pubblicazione dei “ Monumenti dell’archivio capitolare” nel
1837, sollevò per primo il velo polveroso e ponderoso che gravava sulla storia dell’abbazia e scoprì
dai pochi segni rimessi in luce quale tesoro nascosto si celava tra quelle povere mura sgretolate.
Il suo esempio fu seguito poi con intelletto d’amore dal Conte Antonio Cavagna Sangiuliani,
pavese, che tentò una ricostruzione storica nel volume “ Dell’Abbazia di Sant’Alberto di Butrio”
stampato a Milano nel 1865. Egli riporta tutti i documenti d’archivio che ha a disposizione.
Il canonico Vincenzo Legè pubblicò a sua volta nel 1901 la monografia “ Sant’Alberto Abate e il
suo culto” che riassume gli studi del Sangiuliani e li integra, sfrondandone le inesattezze e
aggiungendo i risultati di altre indagini da lui condotte meticolosamente negli archivi della diocesi e
altrove con la collaborazione di studiosi eminenti anche stranieri.
Malgrado tanta passione e tanto zelo, il materiale storico è paurosamente scarso, le fonti a cui
attingere sono di un’aridità sconfortante. Basta pensare che dei 1800 volumi di cui la biblioteca
dell’eremo era ancora fornita nei primordi del secolo XIX non è rimasto nulla.
Gli archivi di Tortona e di altre diocesi poco o niente hanno rivelato e meno ancora daranno forse
in seguito, sebbene non si possa escludere il contrario; il caso spesso conduce alle scoperte più
sensazionali.
Il tentativo di far rivivere un passato così remoto nell’epoca delle conquiste spaziali è senza dubbio
umile e coraggioso.
GLI ATTI DEL SANTO E LA TRADIZIONE.
Alcuni santi di nome Alberto sono stelle di prima
grandezza nel firmamento della Chiesa. Domina su
tutti per elevatezza d’ingegno Alberto Magno. Di
poco anteriore è Sant’Alberto di Butrio.
Con tutta probabilità dovettero esistere in antico gli
Atti della sua vita come da quattro secoli prima
esistevano per San Colombano. Infatti Giona di Susa
monaco di Bobbio, entrato nel convento nel 618, tre
anni dopo la morte del fondatore, e divenuto
segretario e confidente di Attala e Bertulfo immediati
successori, ci lascò con la biografia di san Colombano
uno dei più insigni monumenti del secolo VII.
Non è pensabile che sant’Alberto, al quale pochi anni dalla morte viene dedicata una chiesa, non
abbia trovato un monaco premuroso di tramandarne le memorie.
Niente purtroppo è giunto a noi di quella presumibile biografia ancora tutta fragrante di impressioni
e di ricordi personali.
Ma la prova d’un esistenza della raccolta degli Atti del Santo ci viene indirettamente dalla
tradizione che ha un carattere di veridicità e di serietà pur affondando le radici negli abissi
insondabili del tempo.
La più antica tradizione scritta su s. Alberto è contenuta in una pubblicazione apparsa nel 1613 a
Milano e dovuta a un religioso dei Servi di Maria P. Filippo Ferrari di Alessandria.
In un suo “ Catalogo dei Santi” alla data 5 settembre traccia in poche righe la biografia di
Sant’Alberto confessore: “ Alpertus monacus et sacerdos apud Cecimam agri derthonensis pagum
vitam duxisse traditur.
Egli accenna alla mancanza degli Atti, ma segnala l’esistenza di un affresco della chiesa sotto il
quale figura questa frase: “ Qualiter S. Alpertus cum esset ad mensam papae in vinum convertit.
L’affresco di Sant’Alberto di grande valore biografico ci riporta indietro di altri due secoli rispetto
alla tradizione raccolta da P. Ferrari, ma siamo ancora lontani di 400 anni dall’epoca del Santo che è
il XI secolo.
L’immensa lacuna tra i dati storici forniti dall’affresco e il periodo di fondazione del monastero
cercheremo però di colmarla con alcune frammentarie rivelazioni da documenti d’archivio. Sono
pagliuzze d’oro rintracciabili nella sabbia di un deserto, ma preziosissime per la loro rarità
Sarebbe stato lecito attendersi qualche utile indicazione dalle lezioni dell’Ufficio proprio di S.
Alberto che almeno fino al 1568 era obbligatorio per tutta la diocesi, mentre poi cadde in disuso.
Ma di esso non ci sono pervenute che due antifone, probabilmente ignorate dal Ferrari e che non
mancheremo d’illustrare a suo tempo.
Non c’è che da interrogare la tradizione che riflette certamente documentazioni scritte a noi ignote,
come la luce del sole dopo il tramonto investe ancora le alte nubi di tinte smaglianti. E’ difficile
sceverare in essa quanto potrebbe esserci di leggendario; però nelle tradizioni vigono delle leggi di
conservazione che difficilmente si possono violare; e dove esse non urtano palesemente la storia è
buona regola custodirle.
La tradizione su Sant’Alberto non si abbandona a narrazioni ampollose di sospetta derivazione; è
contenuta in limiti più che ragionevoli, e questo giova alla causa della autenticità
INFLUSSO DEI BENEDETTINI SUL MONDO ROMANO – BARBARICO.
Il monachesimo in genere, l’ordine benedettino in particolare, sorto quasi contemporaneamente alle
grandi invasioni barbariche ( Sec V – VI) esercitò un influsso multiforme religioso, sociale,
culturale sull’Occidente cristiano.
Ai monaci pre – benedettini mancava una grande regola comune rispondente alla natura della vita
religiosa e allo spirito occidentale.
Le molte regole in uso non erano in sostanza che raccolte di massime spirituali con liste di
proibizioni e di penitenze.
Merito inestimabile di San Benedetto è quello di aver dato al monachesimo occidentale una
legislazione pratica, ragionevole e discreta, una vera regola fissa, con l’aggiunta di elementi nuovi
quali la “ stabilità” nel monastero e il lavoro manuale.
Nel secolo VII in Italia la diffusione dell’Ordine benedettino subì qualche remora a opera dei
Longobardi, ma dopo la conversione di questi vi fu una vera fioritura di monasteri.
Crollata l’antica civiltà romana, l’Impero, percorso dalle orde barbariche, sarebbe potuto diventare
un deserto materiale e moralmente. Le città e i castelli erano abbandonati; gli antichi monumenti
profanati, le istituzioni del diritto sommerse nelle consuetudini dei rozzi vincitori; la vita
intellettuale soffocata nelle eresie, negli scismi, e nelle corruzioni: l’economia sociale ricondotta a
sistemi rudimentali. Soprattutto minaccioso era l’urto delle razze e delle religioni.
Solo la Chiesa si eresse a difesa del mondo occidentale e per suo merito Roma potè sopravvivere.
Strumento efficacissimo di salvezza fu il Monachesimo.
I Benedettini fecero rinascere non solo in Italia, ma entro i confini del vecchio Impero, il senso
pratico di operosità nei diversi campi assegnati al braccio e al pensiero. Dissodarono le terre incolte,
penetrarono nelle selve per aprirvi delle vie di comunicazione e fondarvi dei centri abitati,
incanalarono le acque, prosciugarono le paludi, instaurarono nuovi metodi di agricoltura.
Per ore e ore del giorno sfacchinavano, poi lasciato lo strumento di fatica, prendevano la sottile
verghetta di piombo e copiavano manoscritti riportandoli dai fragili papiri alle resistenti pergamene
che qualche secolo dopo l’umanista riscoprirà per arricchire il patrimonio del sapere del mondo.
La letteratura latina e greca fu salva nei monasteri e nelle chiese. E non si trattò di cultura chiusa,
essa fu estesa al pubblico per mezzo delle scuole.
Altrettanto benefico influsso dei Benedettini nel mondo delle Arti, tanto da chiamarsi arte
monastica quella romanica. Monaci furono architetti, ingegneri, artieri e costruttori pittori, scultori,
musici.
Essi si preoccupavano non soltanto di assicurare ai poveri la sistemazione materiale e intellettuale
ma l’una e l’altra forma di carità integravano con l’assistenza spirituale distribuendo i tesori della
sapienza, della virtù e della Grazia, secondo il programma simboleggiato nella croce e nel motto: “
Ora et Labora”, del loro grande Patriarca, definito da San Gregorio Magno” maestro per eccellenza
della vita perfetta” ( Dialoghi).
Gli oratori da essi fondati anche nei luoghi meno accessibili divennero col tempo chiese intorno alle
quali si agglomerarono le prime capanne dei bifolchi felici di trascorrere la vita sotto la guida di
quei monaci usciti spesso dal ceto nobile per condividere coi semplici le fatiche e le soddisfazioni
spirituali.
L’etimo dei nomi di parecchie città ce ne svela l’origine monastica.
Purtroppo la storia degli ordini religiosi alterna periodi di splendore con altri di decadenza.
Anche a non dar troppo credito, come di dovere, alla leggenda dell’Anno Mille, capziosamente
divulgata dagli enciclopedisti, dobbiamo convenire che un profondo abbassamento del tono di vita
religiosa contrassegna la società cristiana nei secoli IX-X- XI pure accompagnandosi a imponenti
manifestazioni d’una religiosità esteriore.
Il costume di vita nelle abbazie e nei conventi subì una flessione dopo il periodo di più intenso
fervore specialmente a causa di interferenze laiche e del fattore politico economico che ne
allentavano la disciplina.
Ma proprio da allora cominciò a manifestarsi una reazione salutare che portò alla rinascita, giunta al
suo apogeo nei secoli XII-XIII.
Centro propulsore divenne l’Abbazia di Cluny ( 910) la cui riforma fu protetta dal Papa fin dal 931
e sottratta a ogni influsso della potestà civile ed ecclesiastica locale.
Con Gregorio VII già monaco di Cluny immense energie furono poste al servizio della Chiesa.
Seguirono dopo il Mille altre riforme particolari intonate generalmente a criteri di una più severa
ascetica monastica e d’un ritorno alla pratica della povertà in opposizione alla potenza economica –
politica delle grandi Abbazie.
Ecco le principali: Camaldolesi ( 1012), Vallombrosani( 1036) Certosini ( 1084) Cistercensi ( 1098)
Silvestrini
( 1231) Olivetani( 1313) e finalmente la congregazione di Santa Giustina di Padova ( 1419) detta
poi ( 1504) Cassinese con tendenza ed evoluzione federativa adatta ai tempi mutati.
In questo panorama è compresa la vicenda storica di sant’Alberto e della sua famosa Abbazia.
LA FAMIGLIA BENEDETTINA DI SANT’ALBERTO.
Per situare nel suo tempo Sant’Alberto e accostarsi a lui si
suol prendere le mosse da un altro santo che operò nella stessa
regione: San Colombano di Bobbio.
Dal suo celebre monastero partirono diverse colonie religiose
per le zone circostanti. Germogli dell’Abbazia bobbiese si
possono considerare alcuni antichi conventi delle valli Sturla e
Lavagna. In diocesi di Tortona sorsero le abbazie di
Precipiano, Savignone, Patrania ( Torriglia), Vendersi,
Bavantore, Molo, San Clemente ( Dova), San Marziano(
Tortona), fondata dal vescovo Giselprando ex abate di Bobbio,
Santo Stefano ( Tortona) che occupava una vasta area
compresa tra la basilica di Loreto e piazza Malaspina, san
Paolo( Tortona); un po’ più tardi Rivalta ( sec. XII).
Merita un cenno di distinzione tra le abbazie quella di
Montebello che ebbe come primo abbate un Alberto e fu presa
sotto la protezione dal Papa ma, dal quale, tramite l’Abate
Caronti, abbiamo avuto queste precisazioni, ritiene che quello
di Butrio sia un monastero indipendente, condizione generale,
del resto, dei monasteri prima del secolo XV.
Potremmo allora conchiudere così: S. Alberto e suoi monaci per alcuni secoli non appartennero a
determinati organismi benedettini, se non nello spirito e nell’osservanza comune regolare; dopo il
XV sec. epoca degli affreschi forse si unirono alla congregazione Cassinese.
QUANDO E DOVE NACQUE SANT’ALBERTO?
Sulla data di nascita e sul luogo di origine nulla sappiamo di sicuro.
S. Alberto visse a lungo: questo pare certo, anche dagli affreschi che ce lo dipingono vecchio dalla
barba candida, dal volto austero e dagli occhi profondi. Conoscendo l’anno di morte che è 1073, si
potrebbe ascrivere la sua nascita agli ultimi decenni del X sec.
Più ardua la questione del luogo d’origine. Non si può dare una risposta documentata, ma solo
probabile e assai vicina al vero. Il parere degli studiosi al riguardo è discorde ed elastico. C’è
persino chi lo vuole romano per farne un compagno di S. Ponzo nell’identico desiderio di fuggire il
mondo per ridursi a vivere in grotte.
Si tratta d’uno svarione marchiano, giacchè, se l’accostamento può essere valido per la comunanza
dei luoghi, la valle Staffora, la cronologia ne rimane sovvertita. S. Ponzo è un martire del IV sec. e
S. Alberto visse nell’XI.
L’abbate Lugano accosta S. Alberto al monaco Gezzone tortonese autentico che fa spicco per
dottrina e per pietà e ci ha lasciato un trattato “ De corpore et sanguine Domini”. Egli aspirava a vita
solitaria, ma suo mal grado si arrese alla volontà del vescovo Giselprando che lo destinò prima a
reggere l’abbazia di S. Marziano e poi il monastero di S. Pietro in Breme dove morì nel 1014.
Il suo esempio di vita claustrale non fu senza seguito. S. Alberto è da considerare nella scia di
Gezzone e di Giselprando. Così la decadenza del monachismo a Bobbio determinò la restaurazione
dell’osservanza regolare nella diocesi di Tortona. Non si può separare l’opera di Giselprando e di
Gezzone da quella di S. Alberto. Da questi rapporti di intenti si potrebbe dedurre che S. Alberto o
veniva direttamente da Bobbio come eremita desideroso di maggior pace e più alto grado di
perfezione, oppure era d’origine tortonese. Questa l’ipotesi di padre Lugano che però non ha nulla
di definitivo.
Altre vie di indagine si aprono allo studio. La frequenza del nome Alberto nella genealogia dei
marchesi Malaspina e il favore accordato da questi potenti signori all’eremita di Butrio potrebbero
accreditare l’opinione di chi lo ritiene di origine patrizia anzi addirittura membro di quella famiglia,
tanto illustre da meritare più tardi d’esser celebrata da Dante e che aveva spinto le sue conquiste
dalla Lunigiana al Monferrato, dominando, fra l’altro, tutta la valle Staffora, la val Curone, la val
Trebbia, la val Borbera.
S. Alberto potrebbe aver sortito i natali in uno dei castelli numerosi della regione soggetta ai potenti
feudatari che avevano per emblema il ramo secco e il ramo fiorito.
VITA DI PENITENZA
Un altro interrogativo dobbiamo subito affrontare: perché S. Alberto cercò ristoro spirituale lontano
dal mondo scegliendo di vivere fra boscaglie e dirupi?
La vocazione eremitica di s. Alberto non può spiegarsi se non col desiderio di evadere da un
ambiente troppo discorde da quella purezza dell’ideale evangelico nel quale egli voleva liberamente
spaziare. Non è probabile che egli si conducesse a far vita di preghiera e di penitenza direttamente
dalla casa natale. L’aver scelto un luogo selvaggio e solitario come Butrio, mentre non mancavano
posizioni più accessibili ed amene per fondarvi un monastero, fa supporre che egli abbia agito sotto
l’impressione di qualche grave avvenimento a noi sconosciuto che potrebbe avergli risvegliato nel
cuore un’antica brama di vivere più a contatto di Dio. Dio sempre e dovunque si adora, ma tra le
rupi alpestri e i liberi orizzonti Dio si sente.
Una tradizione antichissima segnala che egli primieramente si portò nella zona compresa tra
Valverde e Pietragavina, per cercarvi una dimora eremitica: ma poi, avendo sentito il canto di un
gallo, comprese che lì presso dovevano trovarsi dei centri abitati e decise di spingersi oltre verso
località più silvestri.
Prima di allontanarsi piantò il bastone per terra, come segno del suo passaggio, e da quel punto
scaturì miracolosamente una fonte che tuttora esiste e si chiama “ la fontana di S. Alberto”, la quale
non cresce mai per pioggia nè diminuisce per siccità.
Egli certamente era già sacerdote e quindi doveva essersi formato altrove. Tale suo desiderio di
maggior perfezione si conciliava con il proposito forse precedentemente maturato in lui di dar vita a
un romitorio al quale attrarre i primi seguaci.
La novella Tebaide testimone delle virtù eroiche di Alberto fu la conca di Butrio, allora più vergine
nelle sue foreste, più selvaggia nell’aspetto delle sue valli profonde e dei suoi ruinosi torrenti;
dominata a distanza da un gruppetto di case strette attorno al castello destinato a rovina col sorgere
della nuova istituzione.
La popolazione semplice e rozza era costituita di contadini, di pastori, di mandriani, di boscaioli.
La località più nota della zona, Cecima, era lontana quasi tre ore di cammino, di là della Staffora.
Era feudo del Vescovo di Pavia, ma sottoposta alla giurisdizione religiosa di Tortona. I castelli
circostanti di Saliano, Pizzocorno, Casalasco, Oramala, tutti signoreggiati dai Malaspina non erano
visibili dal punto dove l’eremita, trovata una spelonca, l’aveva trasformata in suo abitacolo.
Era incavernata nel dosso del monte a destra del torrentaccio che lo incide e con fragore assordante
dopo le grandi pioggie si sprofonda tra balzi e dirupi nell’oscura valle del Begna. Col termine
generico di Zerbone gli abitanti indicano la località selvaggia attraversata dal Barrione.
L’anacoreta lasciava la grotta e compiva qualche escursione verso le frazioni abitate per esercitarvi
il suo apostolato di carità, e celebrare i divini misteri. E’ presumibile che non abbia rotto del tutto i
suoi rapporti con gli uomini, specialmente con quelli che mostravano desiderio di seguire il suo
esempio nella pratica delle virtù religiose e nella rinuncia al mondo. Ma inizialmente egli visse solo
con se stesso e con Dio. La tradizione ce lo presenta in veste di romito che trascorre molte ore del
giorno e della notte in estasi contemplative, si nutre di radici d’erbe e di castagne, beve solo acqua.
Tra le scabre pareti di quella spelonca egli macerandosi dotava la propria anima di profonde
esperienze ascetiche. Di notte s’affacciava a quel lembo di cielo compreso tra i dorsi oscuri della
montagna e nello sfavillio degli astri avvertiva sublime la presenza del Signore.
LA FONDAZIONE DEL MONASTERO E I PRIMI SEGUACI.
A quell’antro dove forse mai nessuno era
prima capitato s’accostò un giorno un
eccezionale cacciatore. Era secondo la
tradizione un Marchese della famiglia
Malaspina che abitava il castello di
Casalasco in Val di Nizza. Smarrito il
cane, s’era dato affannosamente a
richiamarlo e a cercarlo finchè lo sorprese
accosciato davanti alla grotta. La vista
dell’eremita lo sorprese e quasi lo
sgomentò come un’apparizione irreale,
ma la voce del Servo di Dio , i suoi occhi
pieni di bontà e di dolcezza destarono in
lui un profondo sentimento di
venerazione. Prima di allontanarsi lo
invitò al castello. Accondiscese il santo e al giorno stabilito fu a trovarlo. Appena egli giunse al
palazzo gli si fece incontro il figlio del Marchese sventuratamente sordomuto fin dalla nascita e al
primo cenno di benedizione acquistò l’udito e la favella. Il Marchese a quello strepitoso prodigio
maggiormente si convinse della virtù di Alberto e non sapendo come retribuirlo di così grande
favore lo pregò di esporre i suoi desideri.
Il Santo rispose che la sua maggior aspirazione sarebbe stata di veder sorgere una chiesuola con
alcune cellette per sé e per qualche compagno . Avrà così principio il monastero di Butrio sotto
l’alta protezione di un marchese Malaspina.
Rapida si diffonde la fama del pio anacoreta e alla Grotta accorrono i primi seguaci. Tra i visitatori
sono in commovente fraternità i rappresentanti più vari di quella società ancora divisa in classi di
uomini liberi e di servi della gleba. Nella conversazione col Santo e al contatto della Grazia
ritrovavano una forza rigeneratrice che dirozzava i loro costumi e fugava gli ultimi avanzi di
paganesimo ancora radicati nel loro spirito. Parecchi addirittura decidevano di mettersi sotto la sua
austera e paterna disciplina.
Fu allora che sorse la chiesuola per munificenza del Marchese Malaspina di Casalasco, in una
posizione rocciosa un po’ più in su dello speco e al centro d’una verde chiostra montana che le
conferiva amenità e solitudine.
L’averla dedicata alla Madre di Dio dimostra la devozione speciale di Sant’Alberto per la Madonna.
Il titolo di S. Maria rimase alla primitiva chiesuola, finchè, sorte le altre due chiesette attigue, fu
sostituito nei documenti e negli atti ufficiali con quello di S. Alberto esteso all’intero complesso.
Essa si circondò presto di alcune celle a uso di eremitaggio. L’ambiente solitario non offriva certo
le comodità di altri monasteri e quelle montagne che lo circondavano erano pure un simbolo di netto
distacco dal mondo; ma assolutamente non presentava quei caratteri che alcuni storici vi hanno
riscontrato parlando di paurose solitudini e di inaccessibili vette.
Attorno alla chiesa di santa Maria vivevano agli inizi non dei cenobiti ma degli eremiti.
L’eremita abita la sua cella indipendente dalle altre; i cenobiti, ossia i religiosi, fanno vita comune.
In seguito si passò dal romitorio al cenobio o monastero secondo la regola benedettina.
Le ristrette dimensioni della chiesa consentiva appena l’uso del coro che esistette certo fino dalle
origini, non però dietro l’altare, ma lungo le pareti longitudinali fuori del presbiterio.
L’Olivetano Fabrizio Malaspina che visitò l’abbazia nell’autunno del 1806 dice che era formato di
otto stalli da un lato e sette di fronte senza suppedanei.
ZELO DI SANT’ALBERTO.
La vita del santo fondatore è tutta intessuta di amor di Dio e degli uomini, di lavoro, di
peregrinazioni, di organizzazione della nuova famiglia benedettina che si viene formando attorno a
lui.
E’ composta di sacerdoti – monaci, di monaci non sacerdoti e di conversi. Nei primi tempi converso
significava adulto “ convertito alla vita monastica”, in contrasto con il religioso cresciuto nel
monastero fin da fanciullo; poi passò al significato d’uso corrente di laico incaricato dei lavori.
Forse c’era già anche qualche sacerdote non propriamente monaco che viveva tuttavia in comunità.
Alle dipendenze del monastero si venivano costituendo vere e proprie colonie di lavoratori che
presumibilmente portarono un aumento di popolazione anche nel vecchio villaggio di Butrio.
Erano distinti in due classi principali: quella degli aldiloni o semiliberi e quella degli arimanni,
liberi. Gli aldiloni erano dediti alla coltivazione dei campi donati al monastero dai Malaspina e da
altri possidenti.
Divenuto Abate S. Alberto prese a diffonderne il funzionamento di là della regione di Butrio. Da un
Breve di Gregorio VII veniamo a sapere con certezza che sant’Alberto fondò personalmente diverse
celle. Così si chiamavano dei piccoli monasteri o priorati dipendenti dall’Abbazia principale. In
esse, secondo un decreto del Concilio di Aquisgrana dell’anno 817, non potevano abitare meno di
sei persone.
Un’altra Bolla, del Papa Eugenio III, ci illumina sulle attività apostoliche di sant’Alberto abbate.
Le località circostanti a Butrio risentono l’influsso benefico del suo zelo e della sua sapienza. Infatti
le prime celle da lui fondate sono S. Giulio, Santa Maria di Primorago, San Giovanni di Piumesana,
San Gervaso di Susella, Santa maria di Pozzolo e altre sconosciute come riferisce la Bolla.
Ma in seguito egli dilata la sua attività e si spinge ben oltre il raggio di poche miglia. Esce di valle
Staffora e fonda piccoli monasteri nelle adiacenze di Rivanazzano e Pontecurone; risale i monti più
a oriente, infaticabile zelatore della causa di Cristo tra le popolazioni del piacentino, per
sant’Albano, Montelongo e Valversa; apre un cenobio presso la chiesa di S. Genesio, poi tocca
Donelasco per volgersi a Santa Mustiola; di là rimonta a Sant’Andrea della Costa e dappertutto
stabilisce Colonie di monaci, che egli viene formando del suo spirito a Butrio, in parte accoglie, già
formati altrove.
Parecchi giovani crescono all’ombra dell’Abbazia alternando lo studio e il lavoro con la preghiera.
Al tempo dell’ordinazione sacerdotale lo stesso Abbate li accompagna a Tortona, edificando clero e
popolo col buon esempio delle sue virtù.
Delle tante fondazioni ricordate quella di Santa Mustiola merita un cenno speciale, per la sua
distanza da Butrio.
Uno storico piacentino ( Campi – Historia Ecclesiastica 1651) ne colloca la fondazione al tempo del
Vescovo Dionigi circa l’anno 1065: “ Nei giorni che fu Vescovo di Piacenza Dionigi, di licenza di
lui rizzossi a Santa Mustiola Vergine e Martire, un tempio allora posto non lungi dal castello di S.
Miniato ( oggi Seminò appellato) ma ora più vicino rimane alla terra di poi edificata di Borgonovo;
e i fondatori furono Nantelmo nobil piacentino alfiere o capitano che fosse e sua moglie Otta, i quali
introdotti in tal luogo alcuni monaci li sottoposero all’ubbidienza dell’Abate di Sant’Andrea di
Botrio sul tortonese”.
La notizia è preziosa per quanto abbisogni di rettifica. L’autore che scrive nel 1651 fa una bella e
pittoresca storpiatura di nomi. Voleva certo dire: “ lo sottoposero all’obbedienza dell’Abbate
Alberto di Butrio, dal momento che nel 1065 il nostro Santo era ancor vivo.
La fama della sua virtù era tanto diffusa da indurre a sottomettergli i monaci della nuova chiesa
eretta a Santa Mustiola.
Che non si trattasse di semplice attività amministrativa, ma di zelo per le anime, è dimostrato da
uno di quei preziosi e rari frammenti sopravvissuti alla dispersione.
E’ l’Antifonario che faceva parte dell’Ufficiatura propria di Sant’Alberto, conservata nei libri corali
in pergamena del XIV secolo ( anteriore quindi agli affreschi) esistenti nell’Archivio Capitolare.
Purtroppo mancano le Lezioni relative a quell’Ufficiatura che sarebbe per noi d’inestimabile valore.
Ricordiamo a spiegazione che anticamente il testo dell’Ufficio Divino era distinto in tanti volumi;
antifonari, lezionari, salterio. Ecco perché ci pervennero le antifone mentre andò perduta la raccolta
delle lezioni.
Il contenuto di tali antifone è come una sintesi delle virtù del Santo e illumina di intensa spiritualità
il suo zelo per la religione e per le anime.
Egli è chiamato luce di vera sapienza, splendore di virtù, tesoro di grazia.
L’abbate Lugano sorretto dalla speranza di portare nuovi contributi alla biografia del Santo si diede
alla ricerca delle lezioni con profondo acume d’investigatore e riuscì soltanto a scoprire ( per una
citazione fatta dal parroco di Villguatera don Francesco Bettio nella sua opera su san Bovo) che un
antico Leggendario dei Santi era usato dai canonici della Collogiata di S. Lorenzo in Voghera.
Sperava di trovarvi le notizie di sant’Alberto ma non potè neppure rinvenire una copia di quel
Leggendario che è citato ancora di recente, 1886.
UNA PAGINA DEL SUO OMELIARIO
Della sua predicazione abbiamo un saggio indiretto in un foglio pergamenaceo staccatosi dal
volume di omelie di cui si serviva il Santo. I suoi monaci ce lo tramandarono e la fortuna lo salvò
dalla dispersione comune a tanti altri documenti per merito di un appassionato cultore della storia
tortonese, il già citato Abbate Fabrizio Malaspina. (( L’abbate don Fabrizio dei Marchesi Malaspina
di Varzi, nei primi anni dell’Ottocento raccolse quante memorie storiche potè rintracciare
sull’Eremo di Sant’Alberto particolarmente sul castello di Montefratello ( Staghiglione),
appartenente a uno dei tanti rami dei Marchesi Malaspina e trovandosi poi a Torino, la Valle
Staffora è territorio del ( vecchio Piemonte), come Riformatore degli Studi altre memorie potè
raccogliere che accuratamente ricopiò. Legò per testamento tutta la preziosa collezione,
comprendente la pergamena che c’interessa, al canonico Giuseppe Manfredi, storiografo di Voghera
un nipote del quale, il Nob. D. Lazzaro Manfredi, ne fece dono al Can. Vincenzo Legè che a sua
volta ne arricchì l’archivio capitolare della cattedrale di Tortona. La pergamena rimase proprietà
della biblioteca parrocchiale di Voghera, però non siamo riusciti a rintracciarla( 1958).
L’abbate Malaspina morì di 91 anni a Torino il 2 aprile 1863 ed è tumulato a Casanova Staffora di
fianco alla chiesa.
Questo prezioso frammento di Omeliario scritto su due facciate è il commento del testo evangelico
che dice: “ Lucerna corporis tui est oculus. Si oculus tuus fuerit simplex totum corpus tuum lucidum
erit. ( Mt, /, 21 – 22; Lc11, 34)
In esso si spiega come la fede è quella lucerna che illumina i nostri passi nella notte morale di
questo mondo, mentre chi ne è privo s’incammina agli eterni supplizi; volgiamo i desideri al cielo e
operiamo il bene finchè siamo in vita, perché venuta l’oscurità della morte, non è possibile operare
e non rimane che attendere o il premio o il castigo. Quindi facciamo penitenza, viviamo casti e
umili e mediante le opere di giustizia e di carità procuriamoci la felicità eterna. Imitiamo
Sant’Ambrogio di cui celebriamo la festa. Teniamoci fedeli all’orazione assidua e rendiamoci degni
della comunione del Corpo e del Sangue del Signore. Diamo pane al prossimo indigente e conforto
agli afflitti. Mettiamo in Dio ogni nostra aspirazione, non nelle cose caduche. Si degni di aiutarci
Colui che vive e regna per tutti i secoli dei secoli Amen!
Si tratta dunque del brano conclusivo dell’omelia per la festa di S. Ambrogio non sappiamo da chi,
ma familiare alla mente del nostro Santo.
Il calce alla seconda facciata c’è la seguente informazione vergata in inchiostro diverso e in parte
consunta: “ Questo libro e dell’Abbazia o monastero di Sant’Alberto di Butrio della Val Nizza e in
questo libro Sant’Alberto lesse e studiò, ed egli lo lasciò ad uso dei monaci, e beato chi in esso
leggerà per divozione di Sant’Alberto padre nostro.”( Abbiamo tradotto letteralmente dal latino).
IL PRODIGIO DAVANTI AL PAPA.
Se Sant’Alberto avesse vissuto sempre da eremita chi avrebbe potuto ingelosirsi di lui? Ma egli era
divenuto Abbate di un monastero già influente su molti paesi della diocesi. Per la sua posizione, per
il suo zelo, e per le opere di giustizia che compiva era esposto agli strali dei malevoli che non
mancano mai a mettere in atto le persecuzioni contro i
virtuosi, prima con le critiche e le recriminazioni e poi con
le calunnie.
Così toccò a S. Alberto d’essere tacciato di una gravissima
inflazione delle regole ecclesiastiche. Egli avrebbe
celebrato la S. Messa senza osservare il prescritto digiuno.
Per un uomo che si macerava nella penitenza l’accusa ha in
sé qualche cosa di grottesco e di controproducente.
Ma essa non fu presentata al Vescovo. Troppo facile
sarebbe stato smentirla a Tortona. Fu portata a Roma dal
Papa, probabilmente Alessandro II, impegnatissimo nella
lotta che era già in atto contro le invadenze dell’Impero per
le investiture ecclesiastiche. Il Pontefice lo convocò presso
di sé perché si discolpasse.
L’Abbate Alberto, col buon testimonio della sua coscienza, imprese il lungo viaggio di Roma dove,
dinnanzi al Papa, diede la prova prodigiosa della sua innocenza trasformando con un semplice
segno di croce l’acqua in vino. Questo fatto straordinario caratterizza la santità taumaturgica di
Alberto, Tanto che sopravvisse nella tradizione e dovette costituire negli Atti smarriti l’episodio
centrale, quello che puntualizzava meglio di ogni altro l’incontro della virtù con i doni di grazia e le
sue relazioni con le supreme gerarchie della Chiesa che formeranno il titolo di maggior lode per lui
e per la sua famiglia religiosa.
Esso suggerì il tema per uno dei migliori affreschi dell’oratorio a lui dedicato.
Abbiamo già rilevato che l’affresco è, allo stato attuale delle cose, il documento più antico che
possediamo della vita del Santo. E’ sulla parete a destra di chi guarda l’urna. Raffigura una mensa
imbandita: al centro il Papa con l’anacronistico triregno in capo; ai suoi fianchi tre Cardinali; un
donzello presenta un vaso d’acqua e l’Abbate Alberto in piedi con mitra e pastorale stende la mano
in atto di benedire. Sotto l’affresco si legge questa frase: “ Qualiter Sanctus Alpertus cum esset ad
mensam papae aquam in vinum convertit.”
Il pittore ( 1484) deve essersi ispirato agli Atti della vita di Sant’Alberto, se ancora esistevano, o
quanto meno aver interpretato la tradizione.
Come osservammo nell’esame delle fonti, l’episodio è ricordato nel “ Catalogus sanctorum” del P.
Ferrari il quale lo derivò dalla testimonianza del clero di Tortona o da una sua visita al monastero di
Butrio dove però intorno al 1613 ( data di pubblicazione) non dovevano conservarsi altre memorie
del Santo; se no ce le avrebbe tramandate, sia pure in forma di compendio. Invece egli, raccontato il
prodigio, soggiunge che Alberto, tornato tra i suoi monti, dopo aver servito a Dio per altro tempo in
ogni santità, se ne volò al Cielo il 5 settembre.
L’ ELOGIO DI GREGORIO VII.
Gregorio VIII, già monaco di Cluny, strenuo assertore dei diritti della Chiesa contro le ingerenze
laiche e imperiali, riformatore deciso e avveduto dei costumi, dimostrò per Sant’Alberto una
particolare predilezione.
Forse lo conobbe a Roma quando egli si presentò ad Alessandro II, di cui Ildebrando era segretario,
o in qualcuno dei frequenti Concilii ai quali intervenivano anche gli Abbati.
Due importanti documenti di questo Papa hanno per oggetto l’Abbazia di Butrio; e mentre
forniscono preziosi elementi alla sua storia, riflettono un raggio di luce sulla figura del Fondatore.
Val la pena di fermarci ad esaminarli, riservandoci di riportare il testo d’uno di essi in appendice.
Dal primo documento possiamo accertare l’anno della morte di Sant’Alberto che è precisamente il
1073.
Subito dopo il sereno transito del Fondatore i suoi discepoli, resi a lui i suffragi, si riunirono per
eleggere il nuovo Abbate. La scelta cadde sull’anziano monaco Benedetto, un po’ cagionevole di
salute, a giudicare dalle apparenze. A norma dei sacri canoni il Vescovo della diocesi avrebbe
dovuto confermare la nomina perché i monasteri soggiacevano alla giurisdizione episcopale e non
godevano del privilegio dell’esenzione, salvo che la Santa Sede si compiacesse di accordarlo per
delle ragioni speciali.
Un gruppo di monaci condotto dall’Abbate Benedetto si presentò invece, poche settimane dopo, al
Papa Gregorio VII che si trovava ad Argentea tra Cassino e Terracina.
Se ne deduce che il monastero di Sant’Alberto godeva già del privilegio di esenzione.
Ma lo scopo della visita al Papa era anche quella di ottenere la convalida di altri privilegi che
risultavano concessi all’Abbazia in un documento del predecessore di Gregorio VII esibito in tale
circostanza.
Gregorio VII, esaminata la Bolla del suo antecessore non la riconobbe autentica per due indizi: la “
corrotta latinità” e la “ diversa autorità canonica”. Questo risulta dal suo Breve diretto ai monaci di
Butrio in data 28 novembre 1073.
In esso si asserisce come di recente avvenuta la morte di Alberto; e siccome la festa di lui si celebra
al 5 settembre, ne consegue che egli morì il 5 settembre 1073, sebbene si possa discutere questa
data quanto al giorno, perché risulterebbe dagli statuti medioevali della città di Tortona che
anticamente la festa di sant’Alberto si celebrava non il 5 ma il 9 settembre.
Non c’è dubbio però sulla reale esistenza del privilegio accampato da Benedetto, non confermato
subito da Gregorio VII, ma riconosciuto in seguito. Le Bolle di Innocenzo II e di Eugenio III che si
richiamano ai documenti di Alessandro II e Gregorio VII ne forniscono una prova inoppugnabile.
Nella Bolla Veniens ad nostram presentiam che stiamo esaminando Gregorio VII dimostra prudenza
e paternità. Insinua l’idea di una sostituzione di Benedetto per vecchiaia e infermità, ma intanto
esorta i monaci ad obbedirgli finchè rimarrà Abbate e promette che, vagliate bene le situazioni e
assunte le informazioni del caso, appagherà i loro desideri.
Queste informazioni sarebbero potute venire dai Regesti o Registri che accuratamente riportavano
tutte le lettere dei Sommi Pontefici; ma il Papa era fuori di Roma, ad Argentea, quando il 28 XI
1073 indirizzava il suo Breve a Butrio. Noi non possiamo far altro perché quelle raccolte anteriori al
1198 andarono perdute. ( Nota: Jaffè, Monumenta Gregoriana in Biblioteca Rerum Germanicarum
1865).
PRIVILEGI CONFERMATI DA ROMA
Durante quei pochi anni l’Abbazia di Butrio aveva preso uno sviluppo notevole sotto la saggia
guida di Benedetto, erede dello spirito del Fondatore Alberto.
Quei santi monaci ritennero giunto il momento di procedere a una donazione in perpetuo del
monastero con tutti i relativi possessi alla Sede Apostolica.
Mentre intendevano con un gesto così significativo render omaggio al Papa in quei tempi in cui la
Chiesa era divisa e lacerata da scismi e perseguitata da Enrico IV di Franconia sostenitore
dell’antipapa Onorio II (Cadolao vescovo di Parma), si ripromettevano anche di assicurarsi una
valida difesa contro le possibili usurpazioni dei prepotenti. E’ un tratto di avvedutezza e di prudenza
che li onora.
Il Papa rispose con u’altra Bolla, importante non meno della precedente alla quale si ricollega, e che
contiene del Fondatore dell’Abbazia un elogio ancora più esplicito, quasi eco, pensiamo, della
crescente fama de santità che circondava la sua figura.
E’ indirizzata all’Abbate Benedetto e a tutta la congregazione dei monaci di Santa Maria di Butrio.
(Per ora si chiama così l’Abbazia: presto anche nei documenti pontifici figurerà come Abbazia di
Sant’Alberto).
L’esperienza di quei tre anni aveva dimostrato che il “vecchio e infermiccio” Benedetto governava
con molto zelo e sapienza il monastero; e il Papa, quasi ricreduto dell’opinione che se n’era fatto
precedentemente esortandolo a rinunciare alla prelatura, lo chiama “carissimo fratello e figlio” e lo
consacra Abbate con le sue mani (… prefatum monasterium cui tu nostris in Abbatem consecratus
minibus preesse dinosceris).
Riguardo al Fondatore usa espressioni che valgono una dichiarazione di santità quando ricorda il
monastero “incominciato dal religioso uomo distinto Alberto del quale adesso e in perpetuo per
divina grazia è felice e veneranda la memoria ( … venerabilis locus veser inceptus atque
constructus a religios viro Alberto cuius nunc et in perpetuum ex divina gratia felix est et
veneranda memoria).
Il Pontefice dichiara di prendere sotto la protezione della Santa Sede il monastero, al quale accorda
i seguenti privilegi: Che nessuna potestà secolare o ecclesiastica possa mutare o proibire la
professione monastica vigente: che nessun imperatore duca marchese conte prelato o dignitario
qualsiasi, o altri, possa menomare togliere o destinare ad altri usi, neppure sotto il pretesto di causa
pia, ciò che dai fondatori o da altri era stato donato o si donasse, ma tutto fosse posseduto in
permanenza e pacificamente dal monastero per sostentamento dei religiosi che ivi servivano Dio.
Determina il contributo annuo da pagarsi alla Sede Apostolica in due denari lucani da presentarsi al
Romano Pontefice o ad un suo Legato entro gli otto giorni che precedono o seguono il primo
maggio. Stabilisce che morendo l’Abbate nessun altro gli succeda che non sia eletto dai monaci
locali di comune accordo, secondo la regola di San Benedetto, tra gli appartenenti alla stesa
congregazione. Che se in essa non si trovasse persona degna di reggere l’Abbazia, potranno i
monaci eleggerne uno di fuori, ma informandone la Santa Sede. Quanto poi o l’Abbate o alcuno dei
confratelli fosse da promuovere Sacri Ordini, o ci fossero altare o chiese di monasteri da consacrare,
ricevessero la consacrazione del vescovo della diocesi in cui il monastero era situato, purchè il
vescovo volesse prestarsi gratuitamente e non fosse avvisato della Sede Apostolica. In caso diverso
era lecito rivolgersi a qualsiasi vescovo cattolico. Del rimanente nessun vescovo doveva aver
potestà sul monastero, né di chiamare l’Abbate al sinodo, ne di scomunicare o interdire i frati che
l’abitavano. Che se in qualche caso si fossero resi meritevoli di riprensione, benignamente li
ammonisse e non vedendosi ascoltato ne riferisse alla Sede Apostolica. Finalmente il predetto
monastero gli Abbati e i monaci dovevano essere esenti da ogni servizio e gravame secolare
essendo essi soggetti unicamente alla Sede Romana.
CONTESTAZIONI SULL’AUTENTICITA’ DELLA BOLLA
Questa seconda Bolla di Gregorio VII “ Licet officii nostri” che potremmo definire delle esenzioni
concesse al Monastero di Butrio e dell’elogio di Sant’Alberto , fu oggetto di contestazioni da parte
degli studiosi.
Intanto essa, pubblicata la prima volta dal canonico Bottazzi come originale, è soltanto una copia
sia pure antichissima, forse dei tempi di Pasquale II ( 1099 – 1118) e, contiene molte alterazioni ed
inesattezze.
Lo studioso Pflugk Harttung è decisamente contro la sua autenticità e non concede proprio nulla
alla tese avversaria. ( Nota: Pfluk Harttung – Acta Romanorum Pontificum inedita, Stuttgart 1884).
Il dottor Luigi Schiapparelli che la esaminò nel 1900 ne giudicò autentico il testo e asserì che la
falsificazione appare solo neel’escatollo ( la parte finale: data e sottoscrizioni).
Un altro tedesco molto competente in materia, il dottor P. Kehr professore di Storia all’Università
di Gottinga, la giudicò scorrettissima specialmente nella datazione che dal 1084 deve essere
retrocessa al 1077, ma sicuramente autentica nel testo. E non esitò a pubblicarla in una nuova
edizione del “ Bollario dei Romani Pontefici”.
La data probabile è quella del 6 febbraio 1077. Essa ci accosta a una pagina di storia delle più
drammatiche. Par di poterci cogliere i brividi della giornate nevose al Castello di Canossa dove
Gregorio VII il 28 gennaio di quello stesso anno ammise alla sua presenza il penitente Imperatore
Enrico IV che subito dopo la fittizia riconciliazione già tramava insidie al Pontefice incamminato
alla volta di Mantova per tenervi un Concilio.
Dopo aver percorso un buon tratto di strada o perché avvertito segretamente o perché insospettito da
qualche indizio del progettato tradimento, Gregorio VII troncò il viaggio e ritornò sui suoi passi
verso Canossa, sostando in diversi castelli del modenese.
Precisamente da Bibbianello il 6 febbraio datò la Bolla per i monaci di Santa Maria di Butrio.
A togliere ogni dubbio sulla sostanziale autenticità del testo basta il confronto di essa con una
successiva del Papa Innocenzo II “ Pie desiderium voluntatis” datata da Pisa l’8 aprile 1134 e
diretta alla’Abbate Pietro del monastero di Sant Maria di Butrio.
In quest’ultimo documento sono nominati i predecessori Alessandro II e Gregorio VII a conferma
dei privilegi precedentemente accordati e si accenna al “ venerabile monastero della Beata Vergine
Maria che è stato costruito da Alberto e Benedetto”( considerato quindi come un secondo
fondatore).
La Bolla di Innocenzo II emendata di alcuni errori fu pubblicata da P. Kehr nell’opera citata.
Ma c’è di meglio. Anche Eugenio III dal Laterano il 31- XII- 1145 indirizza una Bolla ad un
Abbate di S. Maria di Butrio chiamato Benedetto( II). E’ quella da noi ricordata perché nomina i
molti monasteri fondati da S. Alberto e altre chiese venute in seguito in possesso dell’Abbazia di
Butrio. Qui ci preme osservare che essa si richiama alle disposizioni dei pontefici Alessandro ( II),
Gregorio ( VII), Innocenzo( II) e quindi convalida l’autenticità dei Brevi precedenti.
Eugenio III riconosce come possesso dell’Abbazia le seguenti chiese, alcune delle quali, come
vedemmo, fondate direttamente da sant’Alberto; Sant’Alberto di Gromello ( Vigevano), S Stefano
di Sale, San Nicola di Vigallo ( Pontecurone), Santa Maria di Pozzolo ( Groppo), San Giovanni
Piumesana ( Godiasco), San Jenone o Zenone o Junani; ( che Legè ritiene corrispondere a
Sanguignano in Valle Ardivestra presso Godiasco), s. Gervasio( Rocca Susella), S. Pietro di
Peregallo ( Rivanazzano), S, Stefano di Nizza, S. Michele e S. Giulio di Loio ( Valdinizza) S. Maria
di Primolago o Primorago( fra S. Martino dei Bagozzi e Fortunago), Santa Mustiola( Borgonovo
Val Tidone), Santa Maria di Vicolo ( Piacenza), S. Andrea della Sala ( Valtidone), S. Genesio (
Valleversa), Toppino( Legè dichiara di non saperlo identificare, mentre Mons. Bobbi, afferma che
detta chiesa si trova nei pressi di Ponte Organasco in parrocchia di Carisasca, Bobbio. Sarebbe
l’estrema punta sud del vasto territorio in qualche modo dipendente dall’Abbazia).
Queste documentazioni integrano autorevolmente la tradizione e con esse crediamo esaurito il
nostro compito biografico. Rimane da trattare del culto di S. Alberto attraverso la storia .
ANTICHISSIMI SEGNI DI VENERAZIONE.
La più antica biografia quella brevissima contenuta nel “ Catalogus) di P. Ferrari, afferma che
sant’Alberto splendette per molti miracoli e che gli infermi accorrevano alla sua tomba da ogni
parte e scioglievano voti per la ricuperata guarigione : “ Nella chiesa dedicata al suo nome si mostra
ancora il sarcofago nel quale si ritiene dagli abitanti conservarsi il suo corpo”. Il culto della Santità
di Alberto ebbe inizio dalla sua morte e varcò i confini della diocesi. Non sembri profanazione
asserire che quel nome sarebbe oggi circondato di maggior splendore se non si fosse trovato in
concorrenza con altri nomi di più celebri Santi ai quali egli non era inferiore per meriti di virtù e di
miracoli.
Erano passati appena sei anni dalla sua morte e già gli si attribuiva il titolo di Santo. Veramente
quando ci capitò sott’occhio il documento relativo, che è del 1080, abbiamo dubitato fortemente
della sua autenticità, perché ci pareva sospetta la frase “ monastero di Sant’Alberto”, visto che per
parecchi anni posteriori si indicò sempre Abbazia con il titolo di S. Maria di Butrio e solo più tardi
si accedette a quello di “ Sant’Alberto”. Ma riflettendoci meglio ci siamo persuasi che quel
documento non avendo nulla di ufficiale canonicamente, rispecchiava un dato di fatto, cioè l’uso
nella zona di chiamare Alberto già col nome di santo.
Non era una canonizzazione in perfetta regola; era però la voce popolare. Il documento in parola,
pubblicato dal Can. Bottazzi, è una pergamena originale esistente nell’archivio capitolare di
Tortona. Con atto rogato da Lanfranco, notaio di Casalasco vivente secondo la legge dei
Longobardi ( Nota: dai documenti dell’epoca risulta che erano contemporaneamente in vigore il
diritto romano e quello longobardo. Il primo si applicava di preferenza nelle successioni, il secondo
nei crimini. Anche i nomi indicano chiaramente la discendenza longobarda di buona parte della
popolazione. La legge longobarda fu abrogata con gli Statuti tortonesi del 1243.)… dona al
monastero i beni da lui posseduti nel predetto castello e altri ancora. Esso porta la data del 10
febbraio 1080 e contiene la frase che c’interessa: “ …in monasterio sancte Marie et sancti Alberti
sito loco qui dicitur Butrio”.
Da un altro documento del 2 maggio 1198 si ha notizia dell’esistenza in Bagnolo di una chiesa
dedicata a sant’Alberto. Bagnolo è un villaggio situato fra Pontecurone e Casei Gerola sul rio
Limbione. Nel medio evo aveva un castello oggetto di contese tra Pavia e Tortona. Diede i natali a
Brunone il Santo Abbate di Chiaravalle ( presso Milano), che trattò con Federico Barbarossa le
condizioni di resa dei tortonesi nel 1155 e che vedendo poi violati i patti e la città distrutta ne morì
di crepacuore di lì a tre giorni. ( Nota: Muratori- Annali 1155)
Quando avvenne questa prima ricognizione? Certo avanti il 1127 com’è dimostrato dal fatto che
Arduino vescovo di Piacenza nel privilegio di esenzione concesso alla chiesa di Santa Mustiola nel
1127 indicava il monastero già col titolo di Santa Maria e di Sant’Alberto di Butrio.
Anche nelle antiche litanie in uso nel secolo XVI Sant’Alberto era invocato tra i monaci e gli
eremiti( Goggi – Storia della diocesi vol. III). Ma perché andarono smarriti “ tutti” i libri corali che
contenevano gli essenziali elementi biografici del Santo?. La spiegazione si può desumere dalle
vicende storiche della Cattedrale di Tortona dove quei volumi giacevano dimenticati in qualche
ripostiglio ad insaputa magari degli stessi canonici. Essa sorgeva sul punto più alto del Castello e
l’aveva fatta costruire il vescovo S. Innocenzo fin dal sec. IV. Era insigne per le memorie storiche:
là nell’anno 877 era stata incoronata l’Imperatrice Richilde consorte di Carlo il Calvo, da papa
Giovanni VIII. Altri papi e imperatori essa aveva accolti tra le sue stupende navate ricche di marmi
e di pietre preziose. Ma gli Spagnoli verso la metà del 1500 la convertirono in un magazzino e i
canonici dovettero scendere in città a officiare prima la chiesa di S. Stefano ( ora distrutta), poi
Santa Maria Canale e finalmente l’attuale Duomo aperto al culto nel 1583.
Il 3 settembre 1609 si abbattè sulla zona un uragano ricordato negli annali per i suoi aspetti
apocalittici; un fulmine colpì l’altissima torre della vecchia cattedrale, ove erano stipati circa 500
barili di polvere da sparo, e tutto andò distrutto fin dai fondamenti. ( Ghilini – Storia di
Alessandria). Tra quelle rovine furono trovate molte sacre reliquie fra le quali alcune ossa di
Sant’Alberto. Dei libri corali non si rinvenne più nulla e le appassionate ricerche di mons. Legè,
dell’Abbate Lugano e di altri cultori di storia ebbero sempre esito negativo.
L’APPROVAZIONE DEL CULTO ( CANONIZZAZIONE).
L’autorizzazione della Chiesa per la pubblica venerazione da tributare alle persone morte in
concetto di santità era richiesta anche nel passato. Nei primi secoli bastava quella del vescovo i cui
decreti avevano valore nell’ambito della diocesi. Per estendere il culto a tutta la Chiesa era
necessaria la conferma espressa o tacita del Sommo Pontefice. Si verificavano ciò nonostante delle
sconvenienze gravissime per abuso di autorità. Per troncare ogni causa di disordine Alessandro III
nel 1170 stabilì che non si dovesse venerare nessuno come santo senza licenza della Chiesa
Romana. Quella decisione, accolta nelle Decretali da Gregorio IX, costituisce il fondamento del
diritto, pratico vigente in ordine alla beatificazione e canonizzazione dei Santi, da Sisto V affidata
alla Congregazione dei Riti la quale introdusse l’elemento nuovo dell’eroicità delle virtù. ( Il
requisito dei due miracoli fu posto più tardi da Benedetto XIV):
Ma anche prima di Alessandro III era invalsa la consuetudine di ricorrere alla S. Sede Apostolica
per far iscrivere qualcuno nell’albo dei Santi. E i Papi non rispondevano che ecezzionalmente a tali
richieste senza il concorso di un Concilio.
Il processo, così inteso, di canonizzazione era molto semplice, Esaminata la vita, le virtù, i miracoli
del Servo di Dio con risultato favorevole, il Papa permetteva che sopra il venerato corpo si
costruisse l’altare. Così infatti si procedette per Romualdo di pochi anni anteriore a sant’Alberto.
Fondatamente possiamo ritenere che la stessa procedura sia stata seguita per Sant’Alberto. Il suo
corpo fu ritrovato nel 1899 in una ristretta urna di pietra e su di essa sorgeva l’altare nel quale fu
rinvenuta una cassettina vecchissima contenente un omero e un cubito giudicati, dopo diligente
esame appartenenti allo stesso scheletro dell’arca; segno evidente di pubblica venerazione,
naturalmente dietro l’autorizzazione episcopale.
Ma dell’approvazione dell’Apostolica Sede che cosa possiamo dire? Purtroppo la dispersione dei
documenti di Butrio tante volte lamentata non ci permette di conoscere l’anno preciso in cui un
Papa procedette alla canonizzazione, la quale peraltro è da collocare sullo scorcio del secolo XI.
L’Abbazia era proprietà della santa Sede e Cencio Camerario ( ossia Camerlengo), divenuto poi
Papa Onorio III, fin dal 1192 nomina nel Libro dei Censi “ la chiesa di sant’Alberto” assegnandole
il tributo annuo di 15 soldi: “ In Episcopatu Terdonensi…Ecclesia Sancti Alberti XV solidos”.
Abbiamo visto in precedenza che Gregorio VII nel suo Breve Licet officii notri la nomina” chiesa di
Santa maria”. Dal momento che il nome è mutato in quello di “ Sant’Alberto”, bisogna ammettere
che il culto di lui era stato approvato dalla Santa Sede.
In un atto originale di transazione tra due parti in contesa il Card. Fidanzio Legato della santa Sede
delega come arbitro un Enrico “ Abbate di Sant’Alberto” nel 1194.
Per dar esecuzione ad una sua sentenza di condanna d’un certo Giovanni Beruti di Viguzzolo che
vantava diritti sull’arcipretura di san Desiderioin Brignano conferita a Bernardo Roveda di Tortona,
il Papa Clemente VI da Avignone il 12 gennaio 1346 nomina, tra gli altri da lui delegati; “
L’Abbate di Sant’Alberto di Butrio”.
Giulio II il 28 Ottone 1512 dirige un Breve al Card. Nicolò Fieschi Commendatario.: “ Monasterii
sancti Alberti de Buttrio Terdonensis Dioecesis” relativo alle contese sorte coi Conti Dal Verme per
il Castello di Pizzocorno.
Paolo III nel 1543 riconosce a Mario Sforza di santa Fiora la commenda di sant’Alberto: “ ut
Monasterium S. Alberti de Butrio Terrdon. Dioec. Sibi comendaretur”.
E ci sono altri Atti pontifici nei quali il monastero di Butrio è sempre chiamato “ di Sant’Alberto”.
Dunque il culto di sant’Alberto era non solo antichissimo, ma approvato dalla legittima autorità. I
decreti restrittivi di Urbano VIII( 1625) non lo interruppero, come appare dal Sinodo celebrato
nell’Aprile 1659 dal Vescovo Settala che tra i giorni di chiusura del Foro tortonese annovera il 5
settembre festa di sant’Alberto; dalla riposizione delle sue reliquie, ritrovate fra le rovine dell’antica
cattedrale, in un’artistica custodia d’ebano e d’argento e portata solennemente in processione per le
vie della città il 14 settembre 1673; dall’esposizione che di una particella dicesse si fa insieme con
molte altre ogni anno in cattedrale nel giorno d’Ognissanti; e finalmente dalla festa annuale della
parrocchia di Butrio mai soppressa o vietata, come mai fu tolta l’aureola della santità dalle sue
diverse immagini ivi dipinte.
Soprattutto lo confermano, dopo i decreti di urbano VIII, gli Atti emanati dalla Santa Sede, tra i
quali basterà ricordare tre lettere del Cardinal Prodatario scritte a nome del Papa al vescovo di
Tortona nel 1663 e il Breve di Clemente XII dell’8 aprile 1738 con cui si conferisce a Mons.
Andujar vescovo di Bobbio la commenda di “ Sant’Alberto”.
Tale denominazione ricorre costantemente accompagnata dalla specificazione “ di Butrio” quasi per
distinguere il titolo della santità dalla indicazione del luogo.
Quali saranno state le cause per cui cessò l’ufficiatura del Santo tanto tempo prima del decreto di
Urbano VIII?
Pare che uno dei motivi principali sia da ricercarsi nella Bolla di san Pio V” Quod a nobis” del 9
luglio 1568, nella quale si prescriveva l’uso del breviario della Chiesa Romana allora riformato, pur
concedendo alcune eccezioni che potevano valere per l’ufficiatura di Sant’Alberto “ in uso da più di
200 anni”.
Il Vescovo e il Capitolo della Cattedrale, per quella sincera devozione alla Santa Sede che è
caratteristica costante della diocesi di Tortona, aderirono con prontezza ai desideri del Papa e
adottarono la nuova edizione del breviario romano, tanto più volentieri in quanto Pio V era egli un
con diocesano, essendo nato il 17 gennaio 1504 a Boscomarengo passato sotto la giurisdizione di
Alessandria dopo le riforme napoleoniche.
L’abbandono dell’ ufficiatura con la già descritta dispersione dei libri corali spiega anche perché il
canonico- teologo della Cattedrale G.B. Capuis non potè riferire più ampie notizie di Sant’Alberto
ai PP. Henschenio e Papebrochio, primi collaboratori di G. Bollando, che nel marzo del 1662 si
erano rivolti al vescovo di Tortona Mons. Carlo Settala per aver memorie intorno ai santi della
diocesi.
Quando poi nel 1680 Tortona ottenne dalla sacra Congregazione dei Riti l’approvazione delle
Lezioni del secondo Notturno per san marziano e sant’Innocenzo, non si pensò e la colpa esigerebbe
riparazione a risuscitare la festa liturgica di Sant’Alberto.
A queste cause specifiche aggiungiamo quelle generali che si possono riassumere nella decadenza
dell’Abbazia iniziatasi con l’introduzione delle Commende.
( Malgrado tutto non diminuì la devozione verso sant’Alberto da parte dei fedeli e dei pellegrini che
salivano all’Eremo e sostavano alla sua tomba a domandare grazie offrendo larghe oblazioni a
quella chiesa).
Al fervore religioso dei primi secoli subentrava la tiepidezza, la polvere dell’abbandono posava
sull’altare, un silenzio che non era più di pace ma di oblio incombeva sull’antico monastero, finchè
agli albori del secolo XX squilli di rinascita solcarono il cielo di sant’Alberto ad opera di un altro “
tortonese” divorato come lui dall’amore di Cristo, della Madonna, del Papa e delle Anime, per
mezzo del Sacerdote San Luigi Orione.
VASTO DOMINIO TERRITORIALE
Il monastero di sant’Alberto, protetto dalla Santa Sede e insignito del privilegio di esenzione tre
anni dopo la morte del Fondatore, si consolidò e
progredì rapidamente sotto il governo dell’anziano
Abbate Benedetto che in patite membra svelava un
temperamento di ferro.
Già dai tempi di Gregorio VII esso possedeva un vasto
patrimonio e nei sec. XI e XII divenne ricchissimo e
potente.
La storia dell’Abbazia, quale risulta dai documenti
rintracciati frugando meticolosamente negli archivi,
presenta una serie di atti notarili per acquisti, donazioni,
vendite, investiture, trapassi, contratti, nomine,
assegnazioni, permute, con interventi anche della Santa
Sede per garantire al Monastero la sua inviolabilità e i suoi diritti.
E’ una storia piuttosto monotona, conveniamo, ma non c’è di meglio da riferire, e può anche avere i
suoi aspetti interessanti.
L’ottima fama che circonda l’Abbazia è occasione e incentivo di continue offerte da parte dei ricchi
possessori. La più antica di cui si ha memoria, da un atto notarile rogato da Lanfranco il 10 febbraio
1080, è la donazione fatta da Gosberto dei suoi possedimenti di Casalasco, Omara, Corlienasco,
Lanagelo, Castelletto, Costa, Camposolero, Mollie, Monte Terranera, Fontana, Zuza, Ronco,
Morinasto, Rovereto, Albareto, e molti altri luoghi nei dintorni di Val di Nizza.
I sec. XII- XIII- XIV segnano l’apogeo della potenza economica e religiosa dell’Abbazia che
signoreggiava tutto il territorio circostante per un raggio di circa dodici chilometri e protendeva
cunei di penetrazione fino alle colline del piacentino e ai grossi centri di Sale, Volpedo,
Pontecurone, Montebello, per tacere di località molto più distanti come Toppino in Val Trebbia, e
Gromello in Lomellina.
Dai monaci di S. Alberto dipendevano latifondi, villaggi, castelli, molini, diritti d’irrigazione,
giurisdizioni civili ed ecclesiastiche, oltre diverse chiese, parrocchie, e priorati.
GLI ABBATI REGOLARI PROTETTI DAI MALASPINA.
I Marchesi Malaspina per via di donazioni e di vendite contribuirono a consolidare e ampliare il
dovizioso patrimonio dell’Abbazia e ad accrescerne l’importanza oltre i confini della diocesi
tortonese. L tradizione li vuole benefattori del Monastero fin dai tempi del Fondatore e non c’è
ragione per dubitare che essa sia nel vero.
Nel 1155 Guglielmo del Ghisolfo vivente secondo la legge dei Longobardi dona il molino di
Albereto con atto rogato dal notaio Ruffino.
Un fatto molto importante è la vendita al Monastero, contro il pagamento di 122 libbre d’argento e
sei soldi, del Castello e della Villa di Pizzocorno, con annessi diritti di temporale giurisdizione.
L’atto rogato dal notaio Anfossi del Sacro Palazzo, il 4 ottobre 1158, è sottoscritto ( col segno della
mano) dai contraenti il Marchese Opizzone Malaspina, valoroso difensore di Tortona assediata dal
Barbarossa, e l’Abbate Guglielmo, uomo pio fornito di preclari virtù, appartenente alla nobile
famiglia Cachi di Tortona.
Nel Marchesato dei Malaspina, Pizzocorno figurava come uno dei più solidi castelli dominante da
un’aspra roccia a due punte la valle Staffora. L’Abbate acquistava il titolo di Conte e il diretto
dominio sulla borgata; ma già da tempo la parrocchia – arcipretura di sant’Ambrogio era unita al
Monastero di Butrio, e all’Abbate spettava l’onore di presentare il parroco.
Si ha notizia di giuramenti di fedeltà che gli uomini di Pizzocorno facevano nelle mani dell’Abbate
di Sant’Alberto in riconoscimento del diretto dominio che egli aveva sul luogo, col diritto di esigere
tributi e di esercitarvi la giustizia, amministrata però da un giudice laico in nome del Monastero.
Tuttavia i Malaspina ebbero confermata sul Castello di Pizzocorno l’investitura Imperiale da
Federico Barbarossa nel 1164.
Nel 1180 Bosio di Clemente e Gisla di Rebaldo, viventi secondo la legge romana, donarono al
Monastero, nella persona dell’Abbate Ponso, i loro beni esistenti nella Curia di Pizzocorno e in Val
di Nizza.
Similmente fecero i tre fratelli Manuele, Alberto e Obizzo, figli del Marchese Opizzone Malaspina,
per dei fondi esistenti in Val Staffora e nel territorio di Pizzocorno, integrando quindi quanto il loro
illustre e valoroso padre aveva già favorevolmente venduto ai Monaci; mentre con atto pubblico del
1Aprile 1196 Uberto di Tommaso e Silvia di Tebaldo coniugi donavano i loro stabili di Menconico,
Carpeneto, e Casasco in aggiunta ad altri posti nella curia di Pizzocorno.
Nell’atto rogato dal notaio Ruffino viene così specificata la natura di queste donazioni che
estendono il patrimonio terriero dell’Abbazia all’alta valle Staffora: “gerbis, silvis, pratis,
castagnetis, boschis, ripis, ruinis, coltis, incoltis, et cum omnibus aliis rebus”.
Si può dire che da S. Alberto dipende ormai tutto il vasto territorio circostante denominato “
Langhe Malaspina”, perché feudo dell’illustre casata che per otto secoli signoreggiò la Lunigiana,
Massa e Carrara, ed estese i suoi domini nel Tortonese e nel Monferrato.
Da un atto del 1197 apprendiamo il nome dell’Abbate Fulcone che acquista terreni in val di Nizza
da Guido “ vivente secondo la legge romana”.
Gli succede l’Abbate Ugo che s’adopera per via di compere a consolidare il patrimonio
dell’Abbazia.
SPLENDORE RELIGIOSO.
Qui una parentesi di guerra interrompe la monotonia degli avvenimenti registrati negli atti notarili.
Era insorta una grave discordia tra il Papa Innocenzo III e l’imperatore Ottone IV che da Milano
mosse contro Pavia per punirla della sua fedeltà a Roma. Voghera e i paesetti della pianura erano
alleati con Pavia e quindi con Federico Ruggero subito accorso da Genova nel 1212, mentre i paesi
della media e alta valle Staffora, di val Curone e val di Nizza , feudi dei Malaspina, ( esclusi san
Ponzo e Cecima) vennero dai loro Signori consegnati ai Milanesi e ai Piacentini alleati
dell’Imperatore.
Di fatti d’arme e di tentate aggressioni o infiltrazioni nel territorio dell’Abbazia non si hanno
notizie. Però è da supporre che la tranquillità sia stata per diverso tempo turbata. Non per nulla
l’Eremo si era munito di una salda cintura difensiva.
La serie degli atti notarili ci illumina ora su parecchie nuove prerogative spettanti all’Abbate, come
il diritto di nominare il Priore di Santa Mustiola nel piacentino, quello di “ presentare” il parroco
nelle chiese di S. Giovanni Piumesana, di Santa Maria Primorago e di Sant’Andrea della Sala , e
quello di nominare i cappellani di due chiese di Bagnaria, Santo Stefano e Sant’Ambrogio.
Dai documenti veniamo informati che queste nomine si compivano nella chiesa di S. Alberto e
siamo edotti anche sulle funzioni del “ sindaco del Monastero”che incontriamo tanto spesso negli
Atti.
Il sindaco è un monaco con attribuzioni di economo e di procuratore; compie le operazioni di
compra – vendita, riceve le donazioni e tutela gli interessi della comunità a nome dell’Abbate.
Da un atto rogato nel 1290 appare eletto sindaco e procuratore il monaco Marenco già priore della
chiesa di S. Mustiola, con il consenso di altri religiosi i cui nomi diventano per noi degni di
trascrizione. Sono: Corrado monaco e Ruffino prete del monastero di Butrio, Arnaldo arciprete
della pieve di San paolo( presso Rocca Susella?), Baldino chierico di S. Andrea della Costa (
Piacenza), e Alberto monaco – converso di Butrio-
La presenza dell’Abbate conferiva solennità e splendore alle funzioni che egli presiedeva.
Infatti da tempo antichissimo l’Abbate commendatario di Sant’Alberto godeva il diritto e il
privilegio della mitra e del pastorale secondo quando scrive il Lubin ( Lubin – Abbatiarum Italiae
brevis notitia – pag 67)
Dal quale abbiamo riportato le notizie concernenti le nomine nelle chiese dipendenti dall’Abbazia.
Che il “ tempo antichissimo” possa riferirsi allo stesso S. Alberto raffigurato sempre con mitra e
pastorale negli affreschi della chiesa, lo storico mons. Legè dubita fortemente, com’egli asserisce, si
conferivano di rado tali insegne. Fino a prova contraria però noi preferiamo rappresentarci
sant’Alberto come è ritratto nei sec. XV quando il diritto alla mitra e al pastorale era un fatto
acquisito.
A nome dell’Abbate di Sant’Alberto l’arciprete di Rovescala risulta nei documenti del 1364 compie
alcune investiture di terreni nei dintorni di Borgonovo e di Santa Mustiola.
Anche l’arciprete di san Ponzo con atto pubblico riconosce nel 1380 all’Abbazia di S. Alberto
alcuni diritti.
ABBATI DEGNI DEL FONDATORE.
A questo punto, trovandoci nel periodo di maggior splendore dell’Abbazia, è doveroso domandarci:
Che uso facevano i monaci di tante ricchezze da loro accumulate per donazioni di fedeli e saggia
economia amministrativa?
Non c’è dubbio che a S. Alberto si verificava quanto troviamo raccontato e descritto nelle pagine
stupende d’alto valore storico di Mabillon e Montalembert.
“ Noi siamo come il mare che ricava acqua da tutte le parti e la torna a distribuire a tutti i fiumi”
dirà fra Galdino alludendo alla carità dei Cappuccini.
I Benefattori di S. Alberto facevano proprio così: delle ricchezze si servivano per onorare Dio e
beneficare il prossimo. Sollevavano il popolo dalla miseria con elemosine generose e con larga
offerta di lavoro di pubblica e privata utilità, aprivano chiese al culto, fondavano celle e monasteri,
promuovevano le affermazioni dell’arte nelle sue diverse branche; dall’architettura alla pittura, alla
miniatura dei codici.
Sant’Alberto, pur nelle sue irreparabili rovine, ne è una prova. Il complesso del Monastero s’era
venuto formando gradualmente. Prima la chiesuola che rimonta ai tempi del Santo Fondatore, poi
negli anni immediatamente successivi le altre cappelle. Attorno erano disposte le celle per i singoli
romiti che in seguito si costituirono in congregazione cenobitica sotto la direzione e l’autorità
dell’Abbate che vuol dire “ padre”.
Egli deve essere fornito di carità e di temperanza, mostrarsi mite e benigno con i monaci diligenti,
austero coi protervi, ma sempre tale che il nome di padre non sia una menzogna, irreprensibile, e
più di fatti che di parole, maestro.
Nessuna parzialità, nessun compromesso, nessun privilegio; niente autocrazie, niente arbitrii. Se gli
affari da trattare sono gravi, egli chiamerà a raccolta i monaci e ne ascolterà i consigli, senza
peraltro soggiacervi, ma usandone saggiamente.
Questo in sostanza dice la regola di san Benedetto intesa a promuovere la vita di comunità.
E veramente il Monastero ebbe una serie di Abbati degni del posto che la fiducia universale e
l’amore dei Sommi Pontefici aveva loro assegnato.
L’aspetto esteriore dell’Eremo s’è venuto modificando nei sec. XII-XIII. Non più celle romitorie
sparse qua e là nei dintorni della chiesuola primitiva dedicata a S. Maria, ma la solenne maestà del
Castello – monastero, via via munito di bastioni, di torre quadrata, di bertesche, di fossati e ponte
levatoio, per difendersi dalle scorrerie e dai saccheggi delle bande armate che infestavano i luoghi.
Il pericolo di assalti al monastero che nei primi tempi della fondazione era minimo, data la sua
estrema povertà, si manifestò quando quei monaci divennero potenti sia per censo che per autorità e
giurisdizioni, ed acquistarono anche prerogative proprie dei feudatari costretti a munirsi contro la
minaccia dei signorotti confinanti.
PROBLEMI DI DECADENZA.
Con i sec. XIV e XV l’Abbazia di sant’Alberto, pur migliorando l’esteriore tenuta artistica e
accentuando la sua potenza economica, avverte i primi segni d’una deleteria trasformazione morale.
Molte istituzioni religiose, raggiunto l’apogeo dello splendore, perdettero la semplicità iniziale e
decaddero per aver accumulato troppe ricchezze.
Che questa sia la ragione valida per la decadenza di Butrio non possiamo affermare ma solo intuire
dalla dolorosa esperienza che diviene costante legge di storia e dimostrare come la seduzione del
denaro indebolisce lo spirito, disgrega le forze del bene, soffoca il fervore, fa deviare dal giusto
fine. Influirono forse altre cause; le condizioni d’ambiente; le discordie, le guerre, gli scismi, il
manifestarsi d’una tendenza nuova e ribelle che va sotto il nome umanesimo; forse anche l’infierire
delle pestilenze ( famosissima quella del 1348) che spopolarono anche i monasteri.
Una causa sicura c’è tuttavia: l’essere stata data l’Abbazia in commenda.
Una breve spiegazione. Quando un beneficio ecclesiastico era vacante per assenza o morte del
titolare, se ne affidava temporaneamente la custodia e l’amministrazione ad un economo che si
chiamava “ commendatore”, cioè depositario di quei beni a lui “ commendati”, affidati. Queste
commende, lodevoli nelle origini e frequentissime ai tempi di San Gregorio Magno, ben presto
degenerarono in abuso.
Troviamo già nel sec. VIII dei Principi che davano monasteri o vescovati in commenda perpetua a
dei laici. Papi e Concilii vietarono con frequenti decreti le commende perpetue. Clemente V nel
1305 le annullò tutte senza riguardo neppure per i Cardinali. Molto più tardi le proscrisse il Concilio
di Trento. E tuttavia storicamente è certo che prima e dopo il Tridentino la Santa Sede concedeva le
commende o perché i monasteri erano rimasti senza religiosi o perché erano decaduti dalla
osservanza e quindi di quelle rendite venivano investite altre persone ecclesiastiche.
I primi sintomi d’un fatale progredire verso l’uso della commenda compaiono quando il Monastero
cerca dei naturali protettori nelle più potenti famiglie confinanti investendole di alcune sue terre.
Ecco il contenuto di un documento del 1380 che ci illumina anche sulle consuetudini proprie
dell’Abbazia: “ Nel Monastero di Santa Maria Genitrice e di Sant’Alberto di Butrio, riuniti i frati, al
suono della campana, l’Abbate ( di cui non è riferito il nome) conferisce al Conte Giacomo Dal
Verme l’investitura della terra di Mollia presso Pizzocorno”. I Conti Dal Verme acquistarono
ragguardevole potenza dopo aver servito con fedeltà i Visconti di Milano, ed ebbero parecchie
signorie tra le quali quella di Voghera.
Lo stesso Conte Giacomo nel 1387 ebbe dal Vescovo di Bobbio l’investitura di Zavattarello,
confermata dall’Imperatore Venceslao. I Dal Verme estendevano il loro dominio su Bobbio, Castel
S. Giovanni, Romagnese, su tutti i paesi intorno a Voghera e si spingevano anche verso la media
valle Staffora scontrandosi con i Malaspina nemici dei Visconti.
L’anno 1398 i Vogheresi condussero un’azione offensiva sopra Godiasco, Groppo e Piumesana e vi
operarono gravi distruzioni. Su Piumesana avevano giurisdizione ecclesiastica i monaci di
Sant’Alberto i quali dalle ostilità tra i Malaspina e i Visconti, tramite Voghera e i Dal Verme,
subivano frequenti danni.
Perciò nel 1407 l’Abbate Antonio dei Conti di Lomello avanzò una supplica al Duca Giovanni
Maria Visconti per ottenere la restituzione di certi beni e crediti che aveva a Pontecurone e dintorni,
dei quali con vani pretesti era entrato in possesso il vescovo di Tortona; e il Duca di Milano rispose
con un decreto favorevole obbligando a restituire tutto “ sine strepitu et figura judicii”.
Il documento che enumera tutti i beni e i titoli passati sotto il dominio dei Dal Verme ci dà
un’esatta demarcazione dei confini di questo feudo che si estendeva per quattro miglia di larghezza
e cinque di lunghezza ed era circoscritto dai castelli e dai marchesati di Oramala, Sant’Alberto,
Casalasco, Trebbiano, Godiasco, Cecima, Bagnaria, Zuccaro, Sagliano; e conferma come l’Abbate
di Sant’Alberto in qualità di Conte e feudatario di pizzo corno aveva il diritto al vassallaggio, al
mero e misto impero, al fodro( specie di tributo in grano), con ogni giurisdizione temporale , al
molino, all’acquedotto, alle pescagioni, ai frutti, ai censi, alle pensioni, ai redditi; escluse due chiese
e un mulino in Val di Nizza.
Erano in sostanza tutte quelle prerogative ricevute dall’Abbazia quando acquistò il feudo dai
Malaspina in data 4 ottobre 1158.
IL PRIMO ABBATE COMMENDATARIO.
Nell’epoca in cui l’Abbazia si privava del feudo di Pizzocorno, fa la sua prima
apparizione l’Abbate Commendatario.
Il tenore di vita muta radicalmente. All’antica pace, sia pure minacciata
qualche volta da irruzioni di soldatesche o di rapinatori, subentra la lotta
sistematica coi vicini signorotti. Ai ministri di equità e di fede succedono
contestazioni ed avari assertori di diritti materiali. Contese armate turbano quel simbolo e quel
lembo di religiosa ascesi. L’Abbazia non rappresenta più l’esempio della perfezione cristiana, il
richiamo alla fede in tempi di perversioni intellettuali imputabili all’umanesimo, il patrimonio dei
poveri, il prezzo di riscatto delle anime.
Il commendatario è estraneo agli sviluppi spirituali dell’Abbazia, non s’interessa dei suoi mali, non
s’interessa dei suoi mali, non appresta i rimedi, non ne comprende le tendenze. Egli è il dilapidatore
delle sostanze dei monaci e delle rendite del monastero. Egli apre l’età del ferro a Sant’Alberto che
coincide con l’età dell’oro del Rinascimento.
Questo è il quadro a fosche tinte che si suol produrre per caratterizzare l’epoca. Ma è un quadro
troppo di maniera per rispecchiare tutte le realtà. Qualche cosa di buono bisogna ascrivere a merito
e a onore anche degli Abbati Commendatari; e basterà accennare agli affreschi delle tre chiese. Ciò
che vien meno inesorabilmente è lo spirito della fondazione. Il resto è più di peso e d’inciampo che
di aiuto al rifiorire della vita religiosa.
Stefano Landolfi di Pavia chiude la serie degli Abbati regolari. Quali rivolgimenti si saranno poi
verificati per giustificare l’introduzione della commenda?
Il primo Abbate Commendatario è il suo successore un Taddeo de Noxeto che conosciamo solo
perché nel 1454 dotò il monastero della celebre campana. L’Abbate Taddeo fu confuso sia dal conte
Sangiuliani che da Mons. Legè con un Abbate posteriore dello stesso nome, Taddeo Busseti.
Mons. Legè scrivendo più tardi operò la rettifica.
Il suo paese d’origine potrebbe essere Casalnoceto, ma è supposizione incerta.
La seconda metà del Sec. XV segna per l’Abbazia il periodo di maggior splendore artistico per i
preziosi affreschi fatti eseguire dagli Abbati Commendatari i quali forse vi tennero nei primi anni la
residenza.
Mons. Legè vede nelle opere di restauro e di abbellimento un segno di temporaneo ritorno degli
Abbati regolari e ne trova un indizio nel fatto che i nobili signori Aragone e Malaspina il 4 marzo
1458 citarono il vescovo di Bobbio Marziano de’ Buccarini a comparire dinnanzi all’Abbate di
Sant’Alberto per legalizzare un loro atto di proprietà. Non vedo che valore di prova abbia questo
atto.
Sotto il regime commendatario l’Abbazia compie frequenti investiture di possessioni; una di queste
si verifica il 12 febbraio 1461 in territorio di Codio.
Lo splendore della porpora si riflette sull’antico monastero. Uno dei suoi primi Abbati
Commendatari è il Cardinal Niccolò Fieschi fratello di Santa Caterina da Genova, della nobilissima
famiglia che aveva dato alla chiesa due Papi, Innocenzo IV e Adirano V, per non dire di
arcivescovi, cardinali, abbati, nunzi apostolici e prelati. Avremo occasione d’incontrare uno dei
membri di questa famiglia legato alla storia dell’Abbazia attraverso la misteriosa figura di Edoardo
II re d’Inghilterra.
Munificentissimo il card. Fieschi nel 1484 ordinò il restauro della Chiesa di Sant’Antonio ricavata
dall’antico atrio di Santa Maria e nell’intero complesso fece eseguire i famosi affreschi.
Il 12 luglio 1494 egli prese possesso anche del priorato di santa Mustiola conferitogli con Breve dal
Papa Innocenzo VIII.
L’anno dopo, per concessione apostolica di Alessandro VI, la chiesa di S. Ambrogio di Pizzocorno
è unita all’Abbazia. L’atto è rogato da Giovanni Alberia del collegio notarile di Tortona.
Abbiamo detto che il feudo di Pizzocorno fu ceduto al Conte Luigi Dal Verme nel 1449. Dobbiamo
soggiungere che i Dal Verme l’avevano restituito all’Abbazia riservando a sé soltanto le antiche
proprietà. Ora veniamo a conoscere da un documento pontificio che il Conte Pietro Dal Verme
confinate coi dominii abbaziali per via dei suoi feudi, condusse un’azione di forza contro
Pizzocorno w s’impadronì della borgata tenendo così sotto lo minaccia di nuove invasioni lo stesso
territorio dell’Abbazia.
Per questo il Papa Giulio II, savonese, il 28 ottobre 1512 diresse un Breve all’Abbate di
Sant’Albertoche era ancora il card. Niccolò Fieschi eletto vescovo di Agata, delegandolo a far uso
delle censure ecclesiastiche per costringere i dal Verme alla restituzione di Pizzocorno con tutti i
suoi diritti e redditi, giurisdizioni e pertinenze. Ma non se ne fece nulla perché, morto Pietro dal
Verme, i suoi possessi furono arraffati da Lodovico il Moro che assegnò Pizzocorno in feudo agli
Eustachi di Piacenza.
GLI OLIVETANI A S. ALBERTO
La storia minuta dell’Abbazia s’inserisce nella grande storia del rinascimento per l’azione esercitata
su di essa da Leone X.
Quando questo Papa, figlio di Lorenzo il Magnifico, era semplicemente il Cardinal Giovanni de
medici, fu invitato da Giulio II a Bologna come suo Legato a Ravenna l’11 aprile 1512 fu fatto
prigioniero dai Francesi che lo tradussero a Milano e disposero in seguito di trasferirlo in Francia.
Al passo del Po presso Pieve del Cairo da alcuni coraggiosi “ dei quali fu capo Rinaldo Zallo, fu
tolto di mano ai soldati francesi che attesero più a fuggire che a resistere” ( Guicciardini - storia
d’Italia, libro X). Il Ghilini di Alessandria racconta l’episodio con dei particolari più drammatici; “
Di già erano arriuati a Bassignana quando nel volere passare il Po finse il detto Cardinale che la
mula ch’esso cavalcava non voleva passare il fiume e tanto andò indugiando che sopraggiunse
l’oscura notte e con l’aiuto di Rinaldo Zazzo, Ottavio Isimbardi e Gentile Beccaria tutti e tre
principali pavesi e suoi amici, dai quali fu egli a quel luogo accompagnato, fuggì dalle mani di quei
cardinali ( che dovevano scortarlo in Francia) e sopra una barca per tal effetto apparecchiata n’andò
con ogni sicurezza e velocità verso il piacentino e quindi per il mantovano a Bologna, mentre i suoi
nemici seguitavano per l’alessandrino il loro viaggio alla volta di Francia. ( Girolamo Ghilini –
Annali di Alessandria- Milano 1666).
Non c’è dunque concordanza sul nome dei liberatori. E le cose si complicano quando leggiamo in
san giuliani che uno di essi e il più importante, tanto da scontrare sul patibolo il suo gesto audace, fu
il marchese di Godiasco Bernabò Malaspina. “ Bernabò Malaspina fu sempre nemico degli Sforza e
il 1514 alla vigilia di S. matteo tradotto a Voghera fu pubblicamente squarciato vivo per sentenza
del Duca Massimiliano e spogliato dei feudi per aver aderito contro i francesi e liberato dalla
prigionia dei medesimi al passo del Po il card. Giovanni Medici” ( Sangiuliani, Dell’Abbazia di S.
Alberto pag. 151).
I particolari più attendibili sono quelli che ricavo dal Bollettino parrocchiale di Godiasco compilato
dall’arciprete D. Robecchi. “ Una turba di contadini sotto la guida di Rinaldo De Zazzi, ( deve
essere un nome davvero scorbutico), Gentile Beccaria feudatario della Pieve e Ottaviano Isimbardi
feudatario del Cairo, sbucò dalle macchie mandando altissime grida, assalì i fuggitivi e strappò dalle
loro mani il Cardinale la cui mula aveva già messo le zampe anteriori nella nave del porto sul Po.
Isimbardi condusse il prigioniero a Godiasco e lo consegnò al Marchese Bernabò Malaspina il quale
chiese istruzioni a Gian Giacomo Trivulzio maresciallo di Francia, mentre il Cardinale era rinchiuso
in una stanza del palazzo all’ultimo piano, ancora oggi visibile con un’apertura nel muro per la
quale gli porgevano gli alimenti. Il Trivulzio rispose che il Re Luigi XII avendo l’esercito in fuga
non poteva pensare al prigioniero e consigliò Bernabò di provvedere al caso proprio considerando
l’avvicinarsi vittorioso delle armi avversarie. L’avviso non andò perduto. Il Marchese, fingendo un
tradimento da parte dei suoi servitori, lasciò fuggire il prigioniero che si calò a terra con una fune e
andò a Voghera e di là, il 17 luglio 1512,a Piacenza, allora occupata dall’esercito pontificio. L’anno
seguente moriva Giulio II e l’11 marzo 1513 era eletto Papa Leone X. Cacciati i francesi
Massimiliano Sforza ricuperò il Ducato e volle vendicarsi. Bernabò Malaspina si fortificò e si difese
nel castello di Cella, ma fu preso e squartato vivo a Voghera il 20 settembre 1514”. Ecco perché
riteniamo Leone X in qualche modo direttamente interessato alle vicende dell’Abbazia di
sant’Alberto. Se confrontiamo i dati del suo soggiorno al palazzo Malaspina di Godiasco, non è
un’ipotesi troppo arrischiata immaginare che egli invece di raggiungere Piacenza per Voghera abbia
seguito l’antica via dei monti che traversava il territorio dell’Abbazia molto più sicuro.
Risulta dai documenti che egli per due volte se ne occupò da Pontefice.
Con un Breve di capitale importanza nel 1516 univa l’Abbazia di Sant’Alberto di Butrio a quella di
: “ San Bartolomeo in Strada” di Pavia abitata dai monaci Olivetani.
Con altro Breve del 17 luglio 1516 univa la chiesa arcipresbiterale di Pizzocorno con L’Abbazia di
S. Alberto.
La storia degli Olivetani a sant’Alberto è di breve durata.
Subentrati nel 1516 ai Benedettini della primitiva osservanza, nel 1543 abbandonavano l’Eremo.
Emergono dalle nebbie obliviose del tempo alcune memorie. Si tratta di cessioni e di vendite
suggerite parrebbe dalla difficoltà di amministrare i beni troppo distaccati dal complesso dei
latifondi.
Il 5 dicembre 1519 l’Abbazia vende alcune terre in località san Guiniano ( Sanguignano in valle
Ardivestra sopra Godiasco).
L’anno dopo l’Abbate fra Celso reggente di Sant’Alberto, in qualità di sindaco del monastero di san
Bartolomeo, accetta la rinuncia fatta in favore dell’Abbazia di beni e fondi situati a Villa di
Parguario ( Bobbio). L’atto è rogato dal notaio Zanino della Mollia.
Il 15 aprile 1523 i monaci acquistano dei beni posti nelle ville di Monte e di Codio. Il 16 gennaio
1526 rappresentanti di sette ville circostanti a Butrio giurano fedeltà e obbedienza nelle mani di fra
Giovanni Giacomo Della Chiesa , di Milano, che governava l’Abbazia come sindaco da parte del
monastero di San Bartolomeo. Due particolari meritano rilievo: La cerimonia non priva di solennità
si compie “ in quada sala magna et inferiori” che fa pensare ad un monastero più vasto di quanto
non indichino gli attuali avanzi.
L’altro particolare è un ricorso casuale ma non per questo meno interessante: Tanti anni dopo un
Giacomo Della Chiesa sarebbe diventato Papa Benedetto XV.
L’atto è rogato dal notaio Martino. Più che degli Abbati è l’ora dei sindaci e procuratori che
agiscono sempre in dipendenza degli Olivetani di Pavia.
Nel 1540 frate Francesco Dal Monte procuratore e governatore dell’Abbazia transige colla Fabbrica
del Duomo di Milano su certi diritti e dà in affitto alcuni terreni presso Volpedo a un Bernardo de
Bidoni e a un Giovanni de Sartennis.
Con quest’atto, che conferma i beni lontani si preferiva alienarli o affittarli ad altri per per tener più
salda la compagine dei latifondi circostanti l’eremo, la storia degli Olivetani a S.Alberto si avvia
alla conclusione.
L’amministrazione di Butrio presentava per gli Olivetani troppe difficoltà. Uno dei Marchesi
Malaspina, Cesare, era in lite con i monaci. Pretendeva di aver giurisdizione su alcuni luoghi
soggetti al monastero e vi aveva fatto intimare dei proclami coi quali obbligava quegli abitanti a
notificargli la loro proprietà. Essi obbedirono. I monaci ricorsero all?imperatore Carlo V, ossia al
Senato di Milano, al quale in data 2 agosto 1540 emanò un rescritto ordinate al Marchese Cesare di
presentare le sue ragioni giuridicamente e di desistere da ogni innovazione.
Durante queste controversie che già da sole stancheggiavano gli olivetani un grave fatto di sangue
contribuì in misura determinate ad allontanarli da sant’Alberto.
Un loro monaco di nome Giovanni Antonio, procuratore, sorpreso nel territorio di Godiasco, e
precisamente in località detta Campora, ai piedi di Nazzano, da uno o più sicari, venne assassinato o
per ordine ricevuto o a scopo di rapina. ( Manoscritto di A. Tonso citato da C. Goggi nella storia
della Diocesi di Tortona Vol I).
Bastò per decidere gli Olivetani a ritirarsi definitivamente da sant’Alberto.
Siccome la Casa Sforza di Roma godeva già da tempo parte del Marchesato di Varzi e Menconico e
desiderava arrotondare i suoi possessi nelle vicinanze, si trattò dai monaci Olivetani con detta Casa
la permuta dei beni di Sant’Alberto con quelli di san Pietro di Breme.
Il 1 luglio del 1543 il Papa Paolo III con Bolla datata da Busseto concedeva agli Olivetani che il
monastero di Sant’Alberto e la chiesa arcipresbiterale di Pizzocorno perpetuamente uniti fossero
permutati con la chiesa di san Pietro di Breme. Con la medesima Bolla nominava Abbate
Commendatario Mario Sforza dei Conti di Santa Fiora che non aveva ancora compiuto i tredici
anni, dandogli per procuratore il Marchese don Mercurio Malaspina arciprete di Varzi. ( Gli Sforza
divennero Conti di santa Fiora per eredità Aldobrandeschi).
L’Abbate Lugano, un po’ melodrammatico ma sinceramente commosso, così commenta la
scomparsa dei monaci da Sant’Alberto: “ la seconda metà del secolo XVI vide gli ultimi suoi
abitatori partirsi da quella valle incantevole e giunti su quel dorso che sta di fronte allo storico
edificio scuotersi dai sandali la polvere di quel luogo pio santificato da tanti uomini di eccellente
virtù e poi profanato”: ( Lugano Op, pag.34).
ULTIME VICENDE E SOPPRESSIONE DELL’ABBAZIA.
Ritiratisi gli Olivetani la chiesa rimase affidata a un Vicario che veniva nominato e meschinamente
retribuito dal Commendatario.
Fra i documenti della Curia Vescovile troviamo
infatti l’atto di nomina di don Maurizio Dallocchio a
rettore della chiesa di Sant’Alberto fatta nel 1625 dal
Cardinal Francesco Barberini e quello con cui Mons.
Andujar nel 1739 nominava alla stessa carica don
Domizio Monticelli di Bobbio. Questa dunque
sarebbe stata la prassi seguita dopo la partenza degli
Olivetani.
Mentre la chiesa di Sant’Alberto perdeva gli usi
monastici, gli Abbati Commendatori, salvo rare
eccezioni, si godevano le rendite della ricca Abbazia,
trattenuti da altre cure a Milano, a Roma, o altrove.
In nome dell’Abbate fanciullo, Mario Sforza, l’8 febbraio 1546 vengono affidate al nobile Pietro
marchese di Berteris abitante a Viguzzolo delle terre poste in Volpedo, per lire 36 annue, con atto
rogato dal notaio Lanfranco de Levatis di Casteggio. Dieci anni dopo al giovanissimo Abbate
succedeva Guido Ascanio Sforza anch’egli dei Conti di santa Fiora, uomo pio e munificente, eletto
cardinale a 16 anni da Paolo III suo zio e zelantissimo della religione.
Altre terre sono date in affitto tra monte bello e Fortunago. Egli morì ancor giovane a Piacenza il 7
ottobre 1561.
Gli succedette suo fratello Alessandro Sforza che nel 1572 troviamo in lite col Marchese di
Oramala Ercole Malaspina per il possesso della valle di Nizza. Il Senato di Milano appoggiò il
Malaspina dichiarando clandestina la riscossione dei fitti e dei redditi compiuta dall’Abbazia di
Butrio.
Nel 1586 era Abbate Commendatario Mons. Corrado Asinari conte di San Marzano e Costigliole,
della più antica nobiltà astigiana, che meritò dalla santa Sede la somma dignità del romano
patriziato. Ce ne dà conferma una ricevuta di pagamento fatto il 1 dicembre 1586 da un suo agente
per la somma di lire 49 e soldi 19 sborsata al seminario di Tortona a conto della mezza decima
imposta dal Vescovo. Morì nel 1590 arcivescovo di Vercelli. Gregorio XIV nominò dopo di lui
Abbate un religioso dei Conventuali di San Francesco, fra Costantino Sarnoni, anc’egli cardinale.
Nel 1603 tornarono i santa Fiora col Card. Francesco Sforza nominato Papa Clemente VIII. Nel
1625 fu Abbate Commendatario Francesco Barberini, testè citato, e nel 1628 il card. Antonio
Barberini nipote di Urbano VIII. E’ questi l’Antonio detto juniore per distinguerlo dallo zio Antonio
seniore fratello del Papa ricordato dal Manzoni nel capitolo XIX dei Promessi Sposi, e che costruì
la chiesa dell’immacolata a Roma, dov’è il famoso ossario.
Sotto il suo governo l’Abbazia, potente di aderenze, venne investita del castello di Sagliano che
Federico Barbarossa aveva dato in feudo al Malaspina nel 1164.
Ancora un Barberini, il card. Vincenzo risulta Abbate da un documento del 31 gennaio 1640.
Gli succedette il card. Virginio dei principi Orsini. I beni dell’Abbazia furono in quell’epoca posti
sotto sequestro della Camera Ducale di Milano, perché l’Abbate era diffidente della Corona di
Spagna; e le entrate furono esatte per venti anni dal Referendario di Tortona. ( Archivio del già
Fondo Religioso di Milano).
Morto l’Orsini nel 1669, fu nominato Abbate da Clemente IX il nobile Giacomo Parravicini di
Valtellina. Il sequestro fu tolto nel 1674 e l’Abbazia rientrò nel pieno possesso dei suoi beni; anzi il
Parravicini investì il priore di santa Mustiola dei terreni posti in Monte Segale ( Valle Ardivestra) e
si rivelò abilissimo nel promuovere gli interessi dell’Abbazia. Egli nel 1692, in qualità di feudatario
Abbate e perpetuo Commendatario, nominò il notaio Domenico Schiavone podestà di Pizzocorno e
Butrio. La carica di podestà durava due anni. Da esso dipendevano i consoli.
L’Abbate Parravicini morì il 12 gennaio 1693 e dopo un anno d’interregno, durante il quale si
avvicendarono come rettori Bartolomeo Rovaudo e Bernardino de Ambrosiis, fu eletto da Papa
Innocenzo XII con bolla del 20 marzo 1694 il card. Ferdinando D’Adda, e alla rinuncia di questi (
1718) da Papa Clemente XI, con Bolla del 26 marzo 1719, il lrev. Giovanni Maria Rossi che non
era cardinale ma semplice rettore parrocchiale della chiesa di Monte Segale, feudo dei Conti
Gambarana.
A questo Abbate di origine Tortonese succede il Conte don Ercole Marliani milanese che però l’8
aprile 1738 rinuncia alla carica chiedendo a mezzo del Vescovodi Bobbio mons. Andujar un’annua
pensione di 152 ducati sul reddito dell’Abbazia “ che è di rendita lire 3000”; ciò che ottiene con un
decreto di Carlo VI da Vienna il 20 agosto di quell’anno.
Il nuovo Abbate fu nominato da Clemente XII nella persona di mons. Giuseppe de Andujar
dell’ordine dei Predicatori.
Pochi mesi dopo, il Trattato di Vienna del 18 novembre 1738 ratificava il passaggio di Tortona alla
Casa Savoia . Ma sant’Alberto dipendeva da Voghera e dovette attendere fino al trattato di
Aquisgrana del 18 ottobre 1748 per essere annessa al Piemonte.
Il Manzoni a questo punto direbbe: Ci siamo imbattuti in una di quelle figure che impongono un po’
di sosta.
Mons. Andujar aveva già occupato le più importanti cariche del suo Ordine e da Benedetto XIII era
stato elevato all’impiego di Inquisitore generale.
Fu Vescovo di Bobbio per tre anni e di Tortona per 40.. Don Goggi nella sua raccolta di notizie
storiche per la Diocesi di Tortona ce ne dà un ritratto morale. Era d’ingegno eccellente, dottissimo
in ogno ramo di sapere, consultato dai Sovrani Carlo Emanuele e Vittorio Amedeo III. Nutriva
grande amore per l’Italia, dov’era nato nel 1669, in quel di Como, da padre spagnolo e madre
lombarda. Rimproverato da un generale spagnolo di parteggiare per Casa Savoia, rispose: “
Confesso e mi glorio d’aver un padre spagnolo, ma mi sento italiano e tutto al più la Spagna posso
nominarla come mia patria con l’aggiunta di antica”. Provocò la soppressione del monastero di
Viguzzolo e con i ricavati ed i redditi fondò un’opera pia per i parroci vecchi ed inabili. ( Un
bellissimo precedente per la Casa di Riposo della Guardia a Tortona). La strada che da san Rocco
porta al Castello fu suggerita da lui. Ecco un brillante aneddoto che lo riguarda. Quando diede
l’esame da vescovo finì in un bagno di sudore e uno degli esaminatori disse: “ Eh, monsignore,
l’abbiamo fatta sudare!” “ Sì, è vero, rispose pronto e arguto, io ho sudato acqua, però se avessi dato
io gli esami a loro li avrei fatti sudar sangue”.
Questo zelante vescovo, che tanta buona memoria lasciò in diocesi, s’interessò, come
Commendatario, dell’Abbazia visitandola e amministrando la Cresima ai fanciulli, previa
autorizzazione del Vescovo di Tortona, quand’egli era ancora a Bobbio.
La noncuranza degli altri Abbati Commendatari non deve scandalizzare se riporta ai tempi, agli usi,
e alle molte cure che li occupavano. Ve ne furono anche dei generosi nel provvederla. Altri magari
davano gli ordini ai loro procuratori ma questi li trasgredivano malgrado le ripetute lagnanze e
rimostranze del vescovo di Tortona sul quale gravava una maggiore responsabilità per il
funzionamento parrocchiale dell’antica Abbazia.
A mons. Andujar morto il 2 dicembre 1782 succedette come Abbate mons. Giuseppe Morozzo dei
Conti della Rocca e di Bianzè, nominato con Bolla del 1783 da Pio VI. Ebbe anch’egli il titolo di
cardinale e fu vescovo di Novara dove morì nel 1842. Donò all’Abbazia una pisside d’argento
finemente cesellata e un ostensorio pure d’argento.
Siamo agli sgoccioli di quel sistema di vita imperniato sul rispetto delle tradizioni e socialmente
ancora ligio a certi usi feudali come risulta da un curioso documento citato dal Sangiuliani. E’ una
lettera scritta l’11 marzo 1717 dal can. Cattaneo, sembrerebbe al Conte Gerolamo Gambarana, per
informarlo della situazione dell’Abbazia di Sant’Alberto ( Nota: E’ nell’archivio del già Fondo
Religioso di Milano). Ci sono notizie molto utili per chi vuol farsi un’idea del costume dei tempi. “
Particolari” sono chiamati i sudditi dell’Abbazia. Questa è “posta fra monti orridi e vede il sole
appena alcune ore del Giorno” ( Qui proprio non ci siamo!). Si accenna all’obbligo di mantenervi
un curato per l’amministrazione dei Sacramenti alla “ Villetta” ( una frazione, la più importante di
Butrio). Interessante il luogo e specificato elenco delle entrate dell’Abbazia: “ fromento, biada,
segale, castagne, vino , frutta, cera, capponi, pollame, e altre cose simili”, ma “ quell’entrate sono
minute” ( ripartite) in modo che alcuni particolari pagano “ un ottavo di staia di frumento, due
boccali di vino, un quarto di cappone”. Questi dipendenti tenuti all’annuo omaggio sono in numero
di circa duemila, non raggruppati intorno all’Abbazia ma distribuiti anche a distanza di 10 e più
miglia, “ in altre terre e feudi” più lontani. Si fanno dei nomi, tra i quali: Sagliano, Valdinizza, S.
Albano, Cecima, Lumello, Godiasco, Pozzol Groppo, Volpedo, Casalnoceto, Viguzzolo,
Pontecurone, Tortona, Voghera, Montebello, Borgomanero piacentino, ( ma sarà Borgonovo) e fin
la Fabbrica del Duomo di Milano.
L’Ottantanove è prossimo e spazzerà via ogni avanzo d’uso e costume feudale abbattendo
purtroppo alcune delle più sane e religiose istituzioni; e segnerà la fine dell’Abbazia.
Mons. Giuseppe Morozzo chiude la lista degli Abbati Commendatari di Sant’Alberto.
L’uragano rivoluzionario probabilmente non fu avvertito nella iniziale sua esplosione e per qualche
anno non produsse conseguenze notevoli fra di noi; ma, salito all’orizzonte politico europeo l’astro
di Napoleone, il Piemonte fece parte dell’impero, il suo Re si rifugiò in Sardegna e le leggi
d’incameramento dei beni ecclesiastici entrarono in vigore anche a S. Alberto.
L’8 giugno 1805 i beni dell’Abbazia furono requisiti dal Governo. Ai monaci ivi dimoranti fu
corrisposta un’annua meschina pensione. Il Sangiuliani ce ne fornisce i nomi che riporteremo per
quel senso di simpatia che ispirano le cose volte al tramonto: Giuseppe Govi, priore, Giovanni
Angelo Rabbi parroco, Evangelista Palotti sacerdote, Amadio Gnudi sindaco, Gaetano Morelli
viceparroco, Giacomo Ramponi laico, Giuseppe Gotti laico. ( Ci sarà da fare un’osservazione sulla
presenza di codesti monaci essendosi la tradizione monastica spezzata definitivamente molto tempo
prima).
Cinque anni dopo, è precisamente il 25 aprile 1810, l’Abbazia venne soppressa e il 14 maggio
salirono al Monastero gli agenti governativi per fare l’inventario dei beni e degli oggetti. Un colpo
di penna troncava la vita di un’istituzione tra le più gloriose della nostra diocesi e degna di figurare
negli Annali della Chiesa.
Gli inventari redatti nella triste primavera del 1810 sono depositati nell’archivio del già Fondo
Religiosi di Milano e da essi veniamo a sapere che i monaci di sant’Alberto possedevano ancora
una biblioteca di 1860 volumi, tutti dispersi, molti ricchi arredi sacri e diversi oggetti d’arte.
Questo però non significa che il monastero e la chiesa fossero degni del loro più glorioso passato.
Sant’Alberto di Butrio è un’oasi di pace dove la fede, l’arte e la storia nobilitano l’incanto di una regione ancora
inviolata dell’Appennino vogherese.
Quel panorama, contemplato dalle vette
sovrane del Penice, del Bogleglio, del
Giarolo, dell’Ebro, presenta una
successione digradante di scogliere
biancastre, franose, prive di vegetazione,
come risultato di chissà quale cataclisma
geologico.
Ma chi risale dalla pianura ha dinanzi il
prospetto dei colli più esposti a tramontana
e perciò ricchi di terreni coltivati e rivestiti
di foltissime boscaglie.
La zona montagnosa di san’Alberto, dove
il pittoresco s’alterna con l’orrido che
riserva qualche volta sorprese anche ai più
sperimentati, è battuta secondo le stagioni
da frotte di cacciatori del genovesato, del pavese, dell’alessandrino e da solitari cercatori di funghi che ne
conoscono tutti gli anfratti, tutte le coste, tutti i sentieri più minuti.
L’eremo sorge a 687 m. su di uno sperone calcareo che emerge dal fondo valle entro una verde chiostra
montana. Solo il versante a nord è arido e brullo con striature di pietrisco e una stentata vegetazione di arbusti.
Su di un costone roccioso, situato a sud-est dell’eremo, torreggiava, verso il secolo X l’antico castello che diede
il nome al paese e andò presto in rovina, senza lasciar traccia neppure di fondamenta. Lo separava dal
monastero un breve avvallamento solcato da un torrente vorticoso, il Butrio, che gli abitanti del luogo chiamano
Borrione( Burion) di fianco al quale si indica la grotta di Sant’Alberto nel punto ove sorge una cappelletta
dovuta all’iniziativa di Don Orione.
Questo torrente per balzi scoscesi getta le sue acque nel Begna che solca la profonda valle posta a nord- ovest e
tra dirupi arditissimi si versa nel Nizza affluente dello Staffora.
Lo sperone calcareo sul quale sorge l’eremo emerge tra le due profonde incisioni del Borrione e del Begna.
Un senso di pace e di beatitudine si comunica allo spirito dal paesaggio. Attorno ai muri grezzi della chiesa e
del convento, dominati dalla torre quadrata e da un campani letto disadorno, non ci sono casa di abitazione.
Un po’ più in su è la bianca cinta del cimitero.
L’apparizione dell’eremo per chi, raggiunto da un punto d’osservazione, lo scopre un po’ più in basso della sua
linea visiva in quella cornice di verde solitudine, suscita nell’animo soavi sensazioni come d’inesprimibile
melodia che fa rivivere il passato.
L’incontro di Sant’Alberto vibra di più intense comunicazioni spirituali quando sul vespero il suono della
campana riempie la valle e chiama sull’eremo l’oro degli astri. Si vorrebbe trascorrere la notte in
contemplazione.
Solitudine, silenzio, preghiera. Solo verso sud- ovest è uno spiraglio che rompe il cerchio claustrale, e da esso
s’intravvedono le montagne che s’alzano di là dello Staffora, avvolte nella nebbia della distanza, come le
preoccupazioni del mondo che qui non hanno più contorni e rilievi per chi è venuto in cerca di pace.
FONTI STORICHE
Non giudichiamo l’importanza dell’Abbazia di sant’Alberto dal poco che avanza della sua mole.
Un “ tornado” non provocherebbe danni maggiori abbattendosi su di una regione.
A prescindere dalle costruzioni recenti, rimangono le tre chiesine fra loro comunicanti, ( per noi oggi un
tutt’uno); la torre, un lato del chiostro e qualche rudere di muraglione.
Non s’è mai trattato di un monastero amplissimo , popolato da tanti monaci intenti, tutti alla preghiera e
particolarmente chi allo studio, chi al lavoro , chi al minio, … paragonabile a Bobbio o a Montecassino; ma
ebbe tuttavia un suo volto e una sua grandezza degna di essere segnalata nella storia.
L’impressione d’immutabile potenza che dà l’eremo guardato da quel raro osservatorio a fondo valle, cede, una
volta entrati, a un doloroso stupore nel constatare che il tempo e l’incuria degli uomini lo avevano quasi
completamente votato all’abbandono.
Che cosa sarebbe rimasto di Sant’Alberto senza la fede di un apostolo, don Orione, animatore tra i più efficaci
della sua rinascita e collaboratore entusiasta del suo vescovo diocesano?
Tre studiosi principalmente hanno il merito indiscutibile d’aver sottratto all’oblio completo il monastero.
Il canonico Giuseppe Bottazzi con la pubblicazione dei “ Monumenti dell’archivio capitolare” nel 1837, sollevò
per primo il velo polveroso e ponderoso che gravava sulla storia dell’abbazia e scoprì dai pochi segni rimessi in
luce quale tesoro nascosto si celava tra quelle povere mura sgretolate.
Il suo esempio fu seguito poi con intelletto d’amore dal Conte Antonio Cavagna Sangiuliani, pavese, che tentò
una ricostruzione storica nel volume “ Dell’Abbazia di Sant’Alberto di Butrio” stampato a Milano nel 1865.
Egli riporta tutti i documenti d’archivio che ha a disposizione.
Il canonico Vincenzo Legè pubblicò a sua volta nel 1901 la monografia “ Sant’Alberto Abate e il suo culto”
che riassume gli studi del Sangiuliani e li integra, sfrondandone le inesattezze e aggiungendo i risultati di altre
indagini da lui condotte meticolosamente negli archivi della diocesi e altrove con la collaborazione di studiosi
eminenti anche stranieri.
Malgrado tanta passione e tanto zelo, il materiale storico è paurosamente scarso, le fonti a cui attingere sono di
un’aridità sconfortante. Basta pensare che dei 1800 volumi di cui la biblioteca dell’eremo era ancora fornita nei
primordi del secolo XIX non è rimasto nulla.
Gli archivi di Tortona e di altre diocesi poco o niente hanno rivelato e meno ancora daranno forse in seguito,
sebbene non si possa escludere il contrario; il caso spesso conduce alle scoperte più sensazionali.
Il tentativo di far rivivere un passato così remoto nell’epoca delle conquiste spaziali è senza dubbio umile e
coraggioso.
GLI ATTI DEL SANTO E LA TRADIZIONE.
Alcuni santi di nome Alberto sono stelle di prima grandezza nel
firmamento della Chiesa. Domina su tutti per elevatezza
d’ingegno Alberto Magno. Di poco anteriore è Sant’Alberto di
Butrio.
Con tutta probabilità dovettero esistere in antico gli Atti della
sua vita come da quattro secoli prima esistevano per San
Colombano. Infatti Giona di Susa monaco di Bobbio, entrato nel
convento nel 618, tre anni dopo la morte del fondatore, e divenuto
segretario e confidente di Attala e Bertulfo immediati successori,
ci lascò con la biografia di san Colombano uno dei più insigni
monumenti del secolo VII.
Non è pensabile che sant’Alberto, al quale pochi anni dalla morte viene dedicata una chiesa, non abbia trovato
un monaco premuroso di tramandarne le memorie.
Niente purtroppo è giunto a noi di quella presumibile biografia ancora tutta fragrante di impressioni e di ricordi
personali.
Ma la prova d’un esistenza della raccolta degli Atti del Santo ci viene indirettamente dalla tradizione che ha un
carattere di veridicità e di serietà pur affondando le radici negli abissi insondabili del tempo.
La più antica tradizione scritta su s. Alberto è contenuta in una pubblicazione apparsa nel 1613 a Milano e
dovuta a un religioso dei Servi di Maria P. Filippo Ferrari di Alessandria.
In un suo “ Catalogo dei Santi” alla data 5 settembre traccia in poche righe la biografia di Sant’Alberto
confessore: “ Alpertus monacus et sacerdos apud Cecimam agri derthonensis pagum vitam duxisse traditur.
Egli accenna alla mancanza degli Atti, ma segnala l’esistenza di un affresco della chiesa sotto il quale figura
questa frase: “ Qualiter S. Alpertus cum esset ad mensam papae in vinum convertit.
L’affresco di Sant’Alberto di grande valore biografico ci riporta indietro di altri due secoli rispetto alla
tradizione raccolta da P. Ferrari, ma siamo ancora lontani di 400 anni dall’epoca del Santo che è il XI secolo.
L’immensa lacuna tra i dati storici forniti dall’affresco e il periodo di fondazione del monastero cercheremo
però di colmarla con alcune frammentarie rivelazioni da documenti d’archivio. Sono pagliuzze d’oro
rintracciabili nella sabbia di un deserto, ma preziosissime per la loro rarità
Sarebbe stato lecito attendersi qualche utile indicazione dalle lezioni dell’Ufficio proprio di S. Alberto che
almeno fino al 1568 era obbligatorio per tutta la diocesi, mentre poi cadde in disuso. Ma di esso non ci sono
pervenute che due antifone, probabilmente ignorate dal Ferrari e che non mancheremo d’illustrare a suo tempo.
Non c’è che da interrogare la tradizione che riflette certamente documentazioni scritte a noi ignote, come la
luce del sole dopo il tramonto investe ancora le alte nubi di tinte smaglianti. E’ difficile sceverare in essa quanto
potrebbe esserci di leggendario; però nelle tradizioni vigono delle leggi di conservazione che difficilmente si
possono violare; e dove esse non urtano palesemente la storia è buona regola custodirle.
La tradizione su Sant’Alberto non si abbandona a narrazioni ampollose di sospetta derivazione; è contenuta in
limiti più che ragionevoli, e questo giova alla causa della autenticità
INFLUSSO DEI BENEDETTINI SUL MONDO ROMANO – BARBARICO.
Il monachesimo in genere, l’ordine benedettino in particolare, sorto quasi contemporaneamente alle grandi
invasioni barbariche ( Sec V – VI) esercitò un influsso multiforme religioso, sociale, culturale sull’Occidente
cristiano.
Ai monaci pre – benedettini mancava una grande regola comune rispondente alla natura della vita religiosa e
allo spirito occidentale.
Le molte regole in uso non erano in sostanza che raccolte di massime spirituali con liste di proibizioni e di
penitenze.
Merito inestimabile di San Benedetto è quello di aver dato al monachesimo occidentale una legislazione pratica,
ragionevole e discreta, una vera regola fissa, con l’aggiunta di elementi nuovi quali la “ stabilità” nel monastero
e il lavoro manuale.
Nel secolo VII in Italia la diffusione dell’Ordine benedettino subì qualche remora a opera dei Longobardi, ma
dopo la conversione di questi vi fu una vera fioritura di monasteri.
Crollata l’antica civiltà romana, l’Impero, percorso dalle orde barbariche, sarebbe potuto diventare un deserto
materiale e moralmente. Le città e i castelli erano abbandonati; gli antichi monumenti profanati, le istituzioni
del diritto sommerse nelle consuetudini dei rozzi vincitori; la vita intellettuale soffocata nelle eresie, negli
scismi, e nelle corruzioni: l’economia sociale ricondotta a sistemi rudimentali. Soprattutto minaccioso era l’urto
delle razze e delle religioni.
Solo la Chiesa si eresse a difesa del mondo occidentale e per suo merito Roma potè sopravvivere. Strumento
efficacissimo di salvezza fu il Monachesimo.
I Benedettini fecero rinascere non solo in Italia, ma entro i confini del vecchio Impero, il senso pratico di
operosità nei diversi campi assegnati al braccio e al pensiero. Dissodarono le terre incolte, penetrarono nelle
selve per aprirvi delle vie di comunicazione e fondarvi dei centri abitati, incanalarono le acque, prosciugarono
le paludi, instaurarono nuovi metodi di agricoltura.
Per ore e ore del giorno sfacchinavano, poi lasciato lo strumento di fatica, prendevano la sottile verghetta di
piombo e copiavano manoscritti riportandoli dai fragili papiri alle resistenti pergamene che qualche secolo dopo
l’umanista riscoprirà per arricchire il patrimonio del sapere del mondo.
La letteratura latina e greca fu salva nei monasteri e nelle chiese. E non si trattò di cultura chiusa, essa fu estesa
al pubblico per mezzo delle scuole.
Altrettanto benefico influsso dei Benedettini nel mondo delle Arti, tanto da chiamarsi arte monastica quella
romanica. Monaci furono architetti, ingegneri, artieri e costruttori pittori, scultori, musici.
Essi si preoccupavano non soltanto di assicurare ai poveri la sistemazione materiale e intellettuale ma l’una e
l’altra forma di carità integravano con l’assistenza spirituale distribuendo i tesori della sapienza, della virtù e
della Grazia, secondo il programma simboleggiato nella croce e nel motto: “ Ora et Labora”, del loro grande
Patriarca, definito da San Gregorio Magno” maestro per eccellenza della vita perfetta” ( Dialoghi).
Gli oratori da essi fondati anche nei luoghi meno accessibili divennero col tempo chiese intorno alle quali si
agglomerarono le prime capanne dei bifolchi felici di trascorrere la vita sotto la guida di quei monaci usciti
spesso dal ceto nobile per condividere coi semplici le fatiche e le soddisfazioni spirituali.
L’etimo dei nomi di parecchie città ce ne svela l’origine monastica.
Purtroppo la storia degli ordini religiosi alterna periodi di splendore con altri di decadenza.
Anche a non dar troppo credito, come di dovere, alla leggenda dell’Anno Mille, capziosamente divulgata dagli
enciclopedisti, dobbiamo convenire che un profondo abbassamento del tono di vita religiosa contrassegna la
società cristiana nei secoli IX-X- XI pure accompagnandosi a imponenti manifestazioni d’una religiosità
esteriore.
Il costume di vita nelle abbazie e nei conventi subì una flessione dopo il periodo di più intenso fervore
specialmente a causa di interferenze laiche e del fattore politico economico che ne allentavano la disciplina.
Ma proprio da allora cominciò a manifestarsi una reazione salutare che portò alla rinascita, giunta al suo apogeo
nei secoli XII-XIII.
Centro propulsore divenne l’Abbazia di Cluny ( 910) la cui riforma fu protetta dal Papa fin dal 931 e sottratta a
ogni influsso della potestà civile ed ecclesiastica locale.
Con Gregorio VII già monaco di Cluny immense energie furono poste al servizio della Chiesa.
Seguirono dopo il Mille altre riforme particolari intonate generalmente a criteri di una più severa ascetica
monastica e d’un ritorno alla pratica della povertà in opposizione alla potenza economica – politica delle grandi
Abbazie.
Ecco le principali: Camaldolesi ( 1012), Vallombrosani( 1036) Certosini ( 1084) Cistercensi ( 1098) Silvestrini
( 1231) Olivetani( 1313) e finalmente la congregazione di Santa Giustina di Padova ( 1419) detta poi ( 1504)
Cassinese con tendenza ed evoluzione federativa adatta ai tempi mutati.
In questo panorama è compresa la vicenda storica di sant’Alberto e della sua famosa Abbazia.
LA FAMIGLIA BENEDETTINA DI SANT’ALBERTO.
Per situare nel suo tempo Sant’Alberto e accostarsi a lui si suol prendere
le mosse da un altro santo che operò nella stessa regione: San Colombano
di Bobbio.
Dal suo celebre monastero partirono diverse colonie religiose per le zone
circostanti. Germogli dell’Abbazia bobbiese si possono considerare alcuni
antichi conventi delle valli Sturla e Lavagna. In diocesi di Tortona sorsero
le abbazie di Precipiano, Savignone, Patrania ( Torriglia), Vendersi,
Bavantore, Molo, San Clemente ( Dova), San Marziano( Tortona), fondata
dal vescovo Giselprando ex abate di Bobbio, Santo Stefano ( Tortona) che
occupava una vasta area compresa tra la basilica di Loreto e piazza
Malaspina, san Paolo( Tortona); un po’ più tardi Rivalta ( sec. XII).
Merita un cenno di distinzione tra le abbazie quella di Montebello che
ebbe come primo abbate un Alberto e fu presa sotto la protezione dal Papa
ma, dal quale, tramite l’Abate Caronti, abbiamo avuto queste precisazioni,
ritiene che quello di Butrio sia un monastero indipendente, condizione
generale, del resto, dei monasteri prima del secolo XV.
Potremmo allora conchiudere così: S. Alberto e suoi monaci per alcuni
secoli non appartennero a determinati organismi benedettini, se non nello
spirito e nell’osservanza comune regolare; dopo il XV sec. epoca degli
affreschi forse si unirono alla congregazione Cassinese.
QUANDO E DOVE NACQUE SANT’ALBERTO?
Sulla data di nascita e sul luogo di origine nulla sappiamo di sicuro.
S. Alberto visse a lungo: questo pare certo, anche dagli affreschi che ce lo dipingono vecchio dalla barba
candida, dal volto austero e dagli occhi profondi. Conoscendo l’anno di morte che è 1073, si potrebbe ascrivere
la sua nascita agli ultimi decenni del X sec.
Più ardua la questione del luogo d’origine. Non si può dare una risposta documentata, ma solo probabile e assai
vicina al vero. Il parere degli studiosi al riguardo è discorde ed elastico. C’è persino chi lo vuole romano per
farne un compagno di S. Ponzo nell’identico desiderio di fuggire il mondo per ridursi a vivere in grotte.
Si tratta d’uno svarione marchiano, giacchè, se l’accostamento può essere valido per la comunanza dei luoghi,
la valle Staffora, la cronologia ne rimane sovvertita. S. Ponzo è un martire del IV sec. e S. Alberto visse
nell’XI.
L’abbate Lugano accosta S. Alberto al monaco Gezzone tortonese autentico che fa spicco per dottrina e per
pietà e ci ha lasciato un trattato “ De corpore et sanguine Domini”. Egli aspirava a vita solitaria, ma suo mal
grado si arrese alla volontà del vescovo Giselprando che lo destinò prima a reggere l’abbazia di S. Marziano e
poi il monastero di S. Pietro in Breme dove morì nel 1014.
Il suo esempio di vita claustrale non fu senza seguito. S. Alberto è da considerare nella scia di Gezzone e di
Giselprando. Così la decadenza del monachismo a Bobbio determinò la restaurazione dell’osservanza regolare
nella diocesi di Tortona. Non si può separare l’opera di Giselprando e di Gezzone da quella di S. Alberto. Da
questi rapporti di intenti si potrebbe dedurre che S. Alberto o veniva direttamente da Bobbio come eremita
desideroso di maggior pace e più alto grado di perfezione, oppure era d’origine tortonese. Questa l’ipotesi di
padre Lugano che però non ha nulla di definitivo.
Altre vie di indagine si aprono allo studio. La frequenza del nome Alberto nella genealogia dei marchesi
Malaspina e il favore accordato da questi potenti signori all’eremita di Butrio potrebbero accreditare l’opinione
di chi lo ritiene di origine patrizia anzi addirittura membro di quella famiglia, tanto illustre da meritare più tardi
d’esser celebrata da Dante e che aveva spinto le sue conquiste dalla Lunigiana al Monferrato, dominando, fra
l’altro, tutta la valle Staffora, la val Curone, la val Trebbia, la val Borbera.
S. Alberto potrebbe aver sortito i natali in uno dei castelli numerosi della regione soggetta ai potenti feudatari
che avevano per emblema il ramo secco e il ramo fiorito.
VITA DI PENITENZA
Un altro interrogativo dobbiamo subito affrontare: perché S. Alberto cercò ristoro spirituale lontano dal mondo
scegliendo di vivere fra boscaglie e dirupi?
La vocazione eremitica di s. Alberto non può spiegarsi se non col desiderio di evadere da un ambiente troppo
discorde da quella purezza dell’ideale evangelico nel quale egli voleva liberamente spaziare. Non è probabile
che egli si conducesse a far vita di preghiera e di penitenza direttamente dalla casa natale. L’aver scelto un
luogo selvaggio e solitario come Butrio, mentre non mancavano posizioni più accessibili ed amene per fondarvi
un monastero, fa supporre che egli abbia agito sotto l’impressione di qualche grave avvenimento a noi
sconosciuto che potrebbe avergli risvegliato nel cuore un’antica brama di vivere più a contatto di Dio. Dio
sempre e dovunque si adora, ma tra le rupi alpestri e i liberi orizzonti Dio si sente.
Una tradizione antichissima segnala che egli primieramente si portò nella zona compresa tra Valverde e
Pietragavina, per cercarvi una dimora eremitica: ma poi, avendo sentito il canto di un gallo, comprese che lì
presso dovevano trovarsi dei centri abitati e decise di spingersi oltre verso località più silvestri.
Prima di allontanarsi piantò il bastone per terra, come segno del suo passaggio, e da quel punto scaturì
miracolosamente una fonte che tuttora esiste e si chiama “ la fontana di S. Alberto”, la quale non cresce mai per
pioggia nè diminuisce per siccità.
Egli certamente era già sacerdote e quindi doveva essersi formato altrove. Tale suo desiderio di maggior
perfezione si conciliava con il proposito forse precedentemente maturato in lui di dar vita a un romitorio al
quale attrarre i primi seguaci.
La novella Tebaide testimone delle virtù eroiche di Alberto fu la conca di Butrio, allora più vergine nelle sue
foreste, più selvaggia nell’aspetto delle sue valli profonde e dei suoi ruinosi torrenti; dominata a distanza da un
gruppetto di case strette attorno al castello destinato a rovina col sorgere della nuova istituzione.
La popolazione semplice e rozza era costituita di contadini, di pastori, di mandriani, di boscaioli.
La località più nota della zona, Cecima, era lontana quasi tre ore di cammino, di là della Staffora.
Era feudo del Vescovo di Pavia, ma sottoposta alla giurisdizione religiosa di Tortona. I castelli circostanti di
Saliano, Pizzocorno, Casalasco, Oramala, tutti signoreggiati dai Malaspina non erano visibili dal punto dove
l’eremita, trovata una spelonca, l’aveva trasformata in suo abitacolo.
Era incavernata nel dosso del monte a destra del torrentaccio che lo incide e con fragore assordante dopo le
grandi pioggie si sprofonda tra balzi e dirupi nell’oscura valle del Begna. Col termine generico di Zerbone gli
abitanti indicano la località selvaggia attraversata dal Barrione.
L’anacoreta lasciava la grotta e compiva qualche escursione verso le frazioni abitate per esercitarvi il suo
apostolato di carità, e celebrare i divini misteri. E’ presumibile che non abbia rotto del tutto i suoi rapporti con
gli uomini, specialmente con quelli che mostravano desiderio di seguire il suo esempio nella pratica delle virtù
religiose e nella rinuncia al mondo. Ma inizialmente egli visse solo con se stesso e con Dio. La tradizione ce lo
presenta in veste di romito che trascorre molte ore del giorno e della notte in estasi contemplative, si nutre di
radici d’erbe e di castagne, beve solo acqua.
Tra le scabre pareti di quella spelonca egli macerandosi dotava la propria anima di profonde esperienze
ascetiche. Di notte s’affacciava a quel lembo di cielo compreso tra i dorsi oscuri della montagna e nello
sfavillio degli astri avvertiva sublime la presenza del Signore.
LA FONDAZIONE DEL MONASTERO E I PRIMI SEGUACI.
A quell’antro dove forse mai nessuno era prima
capitato s’accostò un giorno un eccezionale
cacciatore. Era secondo la tradizione un Marchese
della famiglia Malaspina che abitava il castello di
Casalasco in Val di Nizza. Smarrito il cane, s’era
dato affannosamente a richiamarlo e a cercarlo finchè
lo sorprese accosciato davanti alla grotta. La vista
dell’eremita lo sorprese e quasi lo sgomentò come
un’apparizione irreale, ma la voce del Servo di Dio , i
suoi occhi pieni di bontà e di dolcezza destarono in
lui un profondo sentimento di venerazione. Prima di
allontanarsi lo invitò al castello. Accondiscese il
santo e al giorno stabilito fu a trovarlo. Appena egli
giunse al palazzo gli si fece incontro il figlio del
Marchese sventuratamente sordomuto fin dalla
nascita e al primo cenno di benedizione acquistò l’udito e la favella. Il Marchese a quello strepitoso prodigio
maggiormente si convinse della virtù di Alberto e non sapendo come retribuirlo di così grande favore lo pregò
di esporre i suoi desideri.
Il Santo rispose che la sua maggior aspirazione sarebbe stata di veder sorgere una chiesuola con alcune cellette
per sé e per qualche compagno . Avrà così principio il monastero di Butrio sotto l’alta protezione di un
marchese Malaspina.
Rapida si diffonde la fama del pio anacoreta e alla Grotta accorrono i primi seguaci. Tra i visitatori sono in
commovente fraternità i rappresentanti più vari di quella società ancora divisa in classi di uomini liberi e di
servi della gleba. Nella conversazione col Santo e al contatto della Grazia ritrovavano una forza rigeneratrice
che dirozzava i loro costumi e fugava gli ultimi avanzi di paganesimo ancora radicati nel loro spirito. Parecchi
addirittura decidevano di mettersi sotto la sua austera e paterna disciplina.
Fu allora che sorse la chiesuola per munificenza del Marchese Malaspina di Casalasco, in una posizione
rocciosa un po’ più in su dello speco e al centro d’una verde chiostra montana che le conferiva amenità e
solitudine.
L’averla dedicata alla Madre di Dio dimostra la devozione speciale di Sant’Alberto per la Madonna. Il titolo di
S. Maria rimase alla primitiva chiesuola, finchè, sorte le altre due chiesette attigue, fu sostituito nei documenti e
negli atti ufficiali con quello di S. Alberto esteso all’intero complesso.
Essa si circondò presto di alcune celle a uso di eremitaggio. L’ambiente solitario non offriva certo le comodità
di altri monasteri e quelle montagne che lo circondavano erano pure un simbolo di netto distacco dal mondo;
ma assolutamente non presentava quei caratteri che alcuni storici vi hanno riscontrato parlando di paurose
solitudini e di inaccessibili vette.
Attorno alla chiesa di santa Maria vivevano agli inizi non dei cenobiti ma degli eremiti.
L’eremita abita la sua cella indipendente dalle altre; i cenobiti, ossia i religiosi, fanno vita comune.
In seguito si passò dal romitorio al cenobio o monastero secondo la regola benedettina.
Le ristrette dimensioni della chiesa consentiva appena l’uso del coro che esistette certo fino dalle origini, non
però dietro l’altare, ma lungo le pareti longitudinali fuori del presbiterio.
L’Olivetano Fabrizio Malaspina che visitò l’abbazia nell’autunno del 1806 dice che era formato di otto stalli da
un lato e sette di fronte senza suppedanei.
ZELO DI SANT’ALBERTO.
La vita del santo fondatore è tutta intessuta di amor di Dio e degli uomini, di lavoro, di peregrinazioni, di
organizzazione della nuova famiglia benedettina che si viene formando attorno a lui.
E’ composta di sacerdoti – monaci, di monaci non sacerdoti e di conversi. Nei primi tempi converso significava
adulto “ convertito alla vita monastica”, in contrasto con il religioso cresciuto nel monastero fin da fanciullo;
poi passò al significato d’uso corrente di laico incaricato dei lavori. Forse c’era già anche qualche sacerdote non
propriamente monaco che viveva tuttavia in comunità.
Alle dipendenze del monastero si venivano costituendo vere e proprie colonie di lavoratori che presumibilmente
portarono un aumento di popolazione anche nel vecchio villaggio di Butrio.
Erano distinti in due classi principali: quella degli aldiloni o semiliberi e quella degli arimanni, liberi. Gli
aldiloni erano dediti alla coltivazione dei campi donati al monastero dai Malaspina e da altri possidenti.
Divenuto Abate S. Alberto prese a diffonderne il funzionamento di là della regione di Butrio. Da un Breve di
Gregorio VII veniamo a sapere con certezza che sant’Alberto fondò personalmente diverse celle. Così si
chiamavano dei piccoli monasteri o priorati dipendenti dall’Abbazia principale. In esse, secondo un decreto del
Concilio di Aquisgrana dell’anno 817, non potevano abitare meno di sei persone.
Un’altra Bolla, del Papa Eugenio III, ci illumina sulle attività apostoliche di sant’Alberto abbate.
Le località circostanti a Butrio risentono l’influsso benefico del suo zelo e della sua sapienza. Infatti le prime
celle da lui fondate sono S. Giulio, Santa Maria di Primorago, San Giovanni di Piumesana, San Gervaso di
Susella, Santa maria di Pozzolo e altre sconosciute come riferisce la Bolla.
Ma in seguito egli dilata la sua attività e si spinge ben oltre il raggio di poche miglia. Esce di valle Staffora e
fonda piccoli monasteri nelle adiacenze di Rivanazzano e Pontecurone; risale i monti più a oriente, infaticabile
zelatore della causa di Cristo tra le popolazioni del piacentino, per sant’Albano, Montelongo e Valversa; apre
un cenobio presso la chiesa di S. Genesio, poi tocca Donelasco per volgersi a Santa Mustiola; di là rimonta a
Sant’Andrea della Costa e dappertutto stabilisce Colonie di monaci, che egli viene formando del suo spirito a
Butrio, in parte accoglie, già formati altrove.
Parecchi giovani crescono all’ombra dell’Abbazia alternando lo studio e il lavoro con la preghiera. Al tempo
dell’ordinazione sacerdotale lo stesso Abbate li accompagna a Tortona, edificando clero e popolo col buon
esempio delle sue virtù.
Delle tante fondazioni ricordate quella di Santa Mustiola merita un cenno speciale, per la sua distanza da
Butrio.
Uno storico piacentino ( Campi – Historia Ecclesiastica 1651) ne colloca la fondazione al tempo del Vescovo
Dionigi circa l’anno 1065: “ Nei giorni che fu Vescovo di Piacenza Dionigi, di licenza di lui rizzossi a Santa
Mustiola Vergine e Martire, un tempio allora posto non lungi dal castello di S. Miniato ( oggi Seminò
appellato) ma ora più vicino rimane alla terra di poi edificata di Borgonovo; e i fondatori furono Nantelmo
nobil piacentino alfiere o capitano che fosse e sua moglie Otta, i quali introdotti in tal luogo alcuni monaci li
sottoposero all’ubbidienza dell’Abate di Sant’Andrea di Botrio sul tortonese”.
La notizia è preziosa per quanto abbisogni di rettifica. L’autore che scrive nel 1651 fa una bella e pittoresca
storpiatura di nomi. Voleva certo dire: “ lo sottoposero all’obbedienza dell’Abbate Alberto di Butrio, dal
momento che nel 1065 il nostro Santo era ancor vivo.
La fama della sua virtù era tanto diffusa da indurre a sottomettergli i monaci della nuova chiesa eretta a Santa
Mustiola.
Che non si trattasse di semplice attività amministrativa, ma di zelo per le anime, è dimostrato da uno di quei
preziosi e rari frammenti sopravvissuti alla dispersione.
E’ l’Antifonario che faceva parte dell’Ufficiatura propria di Sant’Alberto, conservata nei libri corali in
pergamena del XIV secolo ( anteriore quindi agli affreschi) esistenti nell’Archivio Capitolare. Purtroppo
mancano le Lezioni relative a quell’Ufficiatura che sarebbe per noi d’inestimabile valore. Ricordiamo a
spiegazione che anticamente il testo dell’Ufficio Divino era distinto in tanti volumi; antifonari, lezionari,
salterio. Ecco perché ci pervennero le antifone mentre andò perduta la raccolta delle lezioni.
Il contenuto di tali antifone è come una sintesi delle virtù del Santo e illumina di intensa spiritualità il suo zelo
per la religione e per le anime.
Egli è chiamato luce di vera sapienza, splendore di virtù, tesoro di grazia.
L’abbate Lugano sorretto dalla speranza di portare nuovi contributi alla biografia del Santo si diede alla ricerca
delle lezioni con profondo acume d’investigatore e riuscì soltanto a scoprire ( per una citazione fatta dal parroco
di Villguatera don Francesco Bettio nella sua opera su san Bovo) che un antico Leggendario dei Santi era usato
dai canonici della Collogiata di S. Lorenzo in Voghera. Sperava di trovarvi le notizie di sant’Alberto ma non
potè neppure rinvenire una copia di quel Leggendario che è citato ancora di recente, 1886.
UNA PAGINA DEL SUO OMELIARIO
Della sua predicazione abbiamo un saggio indiretto in un foglio pergamenaceo staccatosi dal volume di omelie
di cui si serviva il Santo. I suoi monaci ce lo tramandarono e la fortuna lo salvò dalla dispersione comune a tanti
altri documenti per merito di un appassionato cultore della storia tortonese, il già citato Abbate Fabrizio
Malaspina. (( L’abbate don Fabrizio dei Marchesi Malaspina di Varzi, nei primi anni dell’Ottocento raccolse
quante memorie storiche potè rintracciare sull’Eremo di Sant’Alberto particolarmente sul castello di
Montefratello ( Staghiglione), appartenente a uno dei tanti rami dei Marchesi Malaspina e trovandosi poi a
Torino, la Valle Staffora è territorio del ( vecchio Piemonte), come Riformatore degli Studi altre memorie potè
raccogliere che accuratamente ricopiò. Legò per testamento tutta la preziosa collezione, comprendente la
pergamena che c’interessa, al canonico Giuseppe Manfredi, storiografo di Voghera un nipote del quale, il Nob.
D. Lazzaro Manfredi, ne fece dono al Can. Vincenzo Legè che a sua volta ne arricchì l’archivio capitolare della
cattedrale di Tortona. La pergamena rimase proprietà della biblioteca parrocchiale di Voghera, però non siamo
riusciti a rintracciarla( 1958).
L’abbate Malaspina morì di 91 anni a Torino il 2 aprile 1863 ed è tumulato a Casanova Staffora di fianco alla
chiesa.
Questo prezioso frammento di Omeliario scritto su due facciate è il commento del testo evangelico che dice: “
Lucerna corporis tui est oculus. Si oculus tuus fuerit simplex totum corpus tuum lucidum erit. ( Mt, /, 21 – 22;
Lc11, 34)
In esso si spiega come la fede è quella lucerna che illumina i nostri passi nella notte morale di questo mondo,
mentre chi ne è privo s’incammina agli eterni supplizi; volgiamo i desideri al cielo e operiamo il bene finchè
siamo in vita, perché venuta l’oscurità della morte, non è possibile operare e non rimane che attendere o il
premio o il castigo. Quindi facciamo penitenza, viviamo casti e umili e mediante le opere di giustizia e di carità
procuriamoci la felicità eterna. Imitiamo Sant’Ambrogio di cui celebriamo la festa. Teniamoci fedeli
all’orazione assidua e rendiamoci degni della comunione del Corpo e del Sangue del Signore. Diamo pane al
prossimo indigente e conforto agli afflitti. Mettiamo in Dio ogni nostra aspirazione, non nelle cose caduche. Si
degni di aiutarci Colui che vive e regna per tutti i secoli dei secoli Amen!
Si tratta dunque del brano conclusivo dell’omelia per la festa di S. Ambrogio non sappiamo da chi, ma familiare
alla mente del nostro Santo.
Il calce alla seconda facciata c’è la seguente informazione vergata in inchiostro diverso e in parte consunta: “
Questo libro e dell’Abbazia o monastero di Sant’Alberto di Butrio della Val Nizza e in questo libro
Sant’Alberto lesse e studiò, ed egli lo lasciò ad uso dei monaci, e beato chi in esso leggerà per divozione di
Sant’Alberto padre nostro.”( Abbiamo tradotto letteralmente dal latino).
IL PRODIGIO DAVANTI AL PAPA.
Se Sant’Alberto avesse vissuto sempre da eremita chi avrebbe potuto ingelosirsi di lui? Ma egli era divenuto
Abbate di un monastero già influente su molti paesi della diocesi. Per la sua posizione, per il suo zelo, e per le
opere di giustizia che compiva era esposto agli strali dei malevoli che non mancano mai a mettere in atto le
persecuzioni contro i virtuosi, prima con le critiche e le recriminazioni
e poi con le calunnie.
Così toccò a S. Alberto d’essere tacciato di una gravissima inflazione
delle regole ecclesiastiche. Egli avrebbe celebrato la S. Messa senza
osservare il prescritto digiuno.
Per un uomo che si macerava nella penitenza l’accusa ha in sé qualche
cosa di grottesco e di controproducente.
Ma essa non fu presentata al Vescovo. Troppo facile sarebbe stato
smentirla a Tortona. Fu portata a Roma dal Papa, probabilmente
Alessandro II, impegnatissimo nella lotta che era già in atto contro le
invadenze dell’Impero per le investiture ecclesiastiche. Il Pontefice lo
convocò presso di sé perché si discolpasse.
L’Abbate Alberto, col buon testimonio della sua coscienza, imprese il
lungo viaggio di Roma dove, dinnanzi al Papa, diede la prova prodigiosa della sua innocenza trasformando con
un semplice segno di croce l’acqua in vino. Questo fatto straordinario caratterizza la santità taumaturgica di
Alberto, Tanto che sopravvisse nella tradizione e dovette costituire negli Atti smarriti l’episodio centrale, quello
che puntualizzava meglio di ogni altro l’incontro della virtù con i doni di grazia e le sue relazioni con le
supreme gerarchie della Chiesa che formeranno il titolo di maggior lode per lui e per la sua famiglia religiosa.
Esso suggerì il tema per uno dei migliori affreschi dell’oratorio a lui dedicato.
Abbiamo già rilevato che l’affresco è, allo stato attuale delle cose, il documento più antico che possediamo
della vita del Santo. E’ sulla parete a destra di chi guarda l’urna. Raffigura una mensa imbandita: al centro il
Papa con l’anacronistico triregno in capo; ai suoi fianchi tre Cardinali; un donzello presenta un vaso d’acqua e
l’Abbate Alberto in piedi con mitra e pastorale stende la mano in atto di benedire. Sotto l’affresco si legge
questa frase: “ Qualiter Sanctus Alpertus cum esset ad mensam papae aquam in vinum convertit.”
Il pittore ( 1484) deve essersi ispirato agli Atti della vita di Sant’Alberto, se ancora esistevano, o quanto meno
aver interpretato la tradizione.
Come osservammo nell’esame delle fonti, l’episodio è ricordato nel “ Catalogus sanctorum” del P. Ferrari il
quale lo derivò dalla testimonianza del clero di Tortona o da una sua visita al monastero di Butrio dove però
intorno al 1613 ( data di pubblicazione) non dovevano conservarsi altre memorie del Santo; se no ce le avrebbe
tramandate, sia pure in forma di compendio. Invece egli, raccontato il prodigio, soggiunge che Alberto, tornato
tra i suoi monti, dopo aver servito a Dio per altro tempo in ogni santità, se ne volò al Cielo il 5 settembre.
L’ ELOGIO DI GREGORIO VII.
Gregorio VIII, già monaco di Cluny, strenuo assertore dei diritti della Chiesa contro le ingerenze laiche e
imperiali, riformatore deciso e avveduto dei costumi, dimostrò per Sant’Alberto una particolare predilezione.
Forse lo conobbe a Roma quando egli si presentò ad Alessandro II, di cui Ildebrando era segretario, o in
qualcuno dei frequenti Concilii ai quali intervenivano anche gli Abbati.
Due importanti documenti di questo Papa hanno per oggetto l’Abbazia di Butrio; e mentre forniscono preziosi
elementi alla sua storia, riflettono un raggio di luce sulla figura del Fondatore.
Val la pena di fermarci ad esaminarli, riservandoci di riportare il testo d’uno di essi in appendice.
Dal primo documento possiamo accertare l’anno della morte di Sant’Alberto che è precisamente il 1073.
Subito dopo il sereno transito del Fondatore i suoi discepoli, resi a lui i suffragi, si riunirono per eleggere il
nuovo Abbate. La scelta cadde sull’anziano monaco Benedetto, un po’ cagionevole di salute, a giudicare dalle
apparenze. A norma dei sacri canoni il Vescovo della diocesi avrebbe dovuto confermare la nomina perché i
monasteri soggiacevano alla giurisdizione episcopale e non godevano del privilegio dell’esenzione, salvo che la
Santa Sede si compiacesse di accordarlo per delle ragioni speciali.
Un gruppo di monaci condotto dall’Abbate Benedetto si presentò invece, poche settimane dopo, al Papa
Gregorio VII che si trovava ad Argentea tra Cassino e Terracina.
Se ne deduce che il monastero di Sant’Alberto godeva già del privilegio di esenzione.
Ma lo scopo della visita al Papa era anche quella di ottenere la convalida di altri privilegi che risultavano
concessi all’Abbazia in un documento del predecessore di Gregorio VII esibito in tale circostanza.
Gregorio VII, esaminata la Bolla del suo antecessore non la riconobbe autentica per due indizi: la “ corrotta
latinità” e la “ diversa autorità canonica”. Questo risulta dal suo Breve diretto ai monaci di Butrio in data 28
novembre 1073.
In esso si asserisce come di recente avvenuta la morte di Alberto; e siccome la festa di lui si celebra al 5
settembre, ne consegue che egli morì il 5 settembre 1073, sebbene si possa discutere questa data quanto al
giorno, perché risulterebbe dagli statuti medioevali della città di Tortona che anticamente la festa di
sant’Alberto si celebrava non il 5 ma il 9 settembre.
Non c’è dubbio però sulla reale esistenza del privilegio accampato da Benedetto, non confermato subito da
Gregorio VII, ma riconosciuto in seguito. Le Bolle di Innocenzo II e di Eugenio III che si richiamano ai
documenti di Alessandro II e Gregorio VII ne forniscono una prova inoppugnabile. Nella Bolla Veniens ad
nostram presentiam che stiamo esaminando Gregorio VII dimostra prudenza e paternità. Insinua l’idea di una
sostituzione di Benedetto per vecchiaia e infermità, ma intanto esorta i monaci ad obbedirgli finchè rimarrà
Abbate e promette che, vagliate bene le situazioni e assunte le informazioni del caso, appagherà i loro desideri.
Queste informazioni sarebbero potute venire dai Regesti o Registri che accuratamente riportavano tutte le
lettere dei Sommi Pontefici; ma il Papa era fuori di Roma, ad Argentea, quando il 28 XI 1073 indirizzava il suo
Breve a Butrio. Noi non possiamo far altro perché quelle raccolte anteriori al 1198 andarono perdute. ( Nota:
Jaffè, Monumenta Gregoriana in Biblioteca Rerum Germanicarum 1865).
PRIVILEGI CONFERMATI DA ROMA
Durante quei pochi anni l’Abbazia di Butrio aveva preso uno sviluppo notevole sotto la saggia guida di
Benedetto, erede dello spirito del Fondatore Alberto.
Quei santi monaci ritennero giunto il momento di procedere a una donazione in perpetuo del monastero con
tutti i relativi possessi alla Sede Apostolica.
Mentre intendevano con un gesto così significativo render omaggio al Papa in quei tempi in cui la Chiesa era
divisa e lacerata da scismi e perseguitata da Enrico IV di Franconia sostenitore dell’antipapa Onorio II (Cadolao
vescovo di Parma), si ripromettevano anche di assicurarsi una valida difesa contro le possibili usurpazioni dei
prepotenti. E’ un tratto di avvedutezza e di prudenza che li onora.
Il Papa rispose con u’altra Bolla, importante non meno della precedente alla quale si ricollega, e che contiene
del Fondatore dell’Abbazia un elogio ancora più esplicito, quasi eco, pensiamo, della crescente fama de santità
che circondava la sua figura.
E’ indirizzata all’Abbate Benedetto e a tutta la congregazione dei monaci di Santa Maria di Butrio. (Per ora si
chiama così l’Abbazia: presto anche nei documenti pontifici figurerà come Abbazia di Sant’Alberto).
L’esperienza di quei tre anni aveva dimostrato che il “vecchio e infermiccio” Benedetto governava con molto
zelo e sapienza il monastero; e il Papa, quasi ricreduto dell’opinione che se n’era fatto precedentemente
esortandolo a rinunciare alla prelatura, lo chiama “carissimo fratello e figlio” e lo consacra Abbate con le sue
mani (… prefatum monasterium cui tu nostris in Abbatem consecratus minibus preesse dinosceris).
Riguardo al Fondatore usa espressioni che valgono una dichiarazione di santità quando ricorda il monastero
“incominciato dal religioso uomo distinto Alberto del quale adesso e in perpetuo per divina grazia è felice e
veneranda la memoria ( … venerabilis locus veser inceptus atque constructus a religios viro Alberto cuius nunc
et in perpetuum ex divina gratia felix est et veneranda memoria).
Il Pontefice dichiara di prendere sotto la protezione della Santa Sede il monastero, al quale accorda i seguenti
privilegi: Che nessuna potestà secolare o ecclesiastica possa mutare o proibire la professione monastica vigente:
che nessun imperatore duca marchese conte prelato o dignitario qualsiasi, o altri, possa menomare togliere o
destinare ad altri usi, neppure sotto il pretesto di causa pia, ciò che dai fondatori o da altri era stato donato o si
donasse, ma tutto fosse posseduto in permanenza e pacificamente dal monastero per sostentamento dei religiosi
che ivi servivano Dio. Determina il contributo annuo da pagarsi alla Sede Apostolica in due denari lucani da
presentarsi al Romano Pontefice o ad un suo Legato entro gli otto giorni che precedono o seguono il primo
maggio. Stabilisce che morendo l’Abbate nessun altro gli succeda che non sia eletto dai monaci locali di
comune accordo, secondo la regola di San Benedetto, tra gli appartenenti alla stesa congregazione. Che se in
essa non si trovasse persona degna di reggere l’Abbazia, potranno i monaci eleggerne uno di fuori, ma
informandone la Santa Sede. Quanto poi o l’Abbate o alcuno dei confratelli fosse da promuovere Sacri Ordini,
o ci fossero altare o chiese di monasteri da consacrare, ricevessero la consacrazione del vescovo della diocesi in
cui il monastero era situato, purchè il vescovo volesse prestarsi gratuitamente e non fosse avvisato della Sede
Apostolica. In caso diverso era lecito rivolgersi a qualsiasi vescovo cattolico. Del rimanente nessun vescovo
doveva aver potestà sul monastero, né di chiamare l’Abbate al sinodo, ne di scomunicare o interdire i frati che
l’abitavano. Che se in qualche caso si fossero resi meritevoli di riprensione, benignamente li ammonisse e non
vedendosi ascoltato ne riferisse alla Sede Apostolica. Finalmente il predetto monastero gli Abbati e i monaci
dovevano essere esenti da ogni servizio e gravame secolare essendo essi soggetti unicamente alla Sede Romana.
CONTESTAZIONI SULL’AUTENTICITA’ DELLA BOLLA
Questa seconda Bolla di Gregorio VII “ Licet officii nostri” che potremmo definire delle esenzioni concesse al
Monastero di Butrio e dell’elogio di Sant’Alberto , fu oggetto di contestazioni da parte degli studiosi.
Intanto essa, pubblicata la prima volta dal canonico Bottazzi come originale, è soltanto una copia sia pure
antichissima, forse dei tempi di Pasquale II ( 1099 – 1118) e, contiene molte alterazioni ed inesattezze.
Lo studioso Pflugk Harttung è decisamente contro la sua autenticità e non concede proprio nulla alla tese
avversaria. ( Nota: Pfluk Harttung – Acta Romanorum Pontificum inedita, Stuttgart 1884).
Il dottor Luigi Schiapparelli che la esaminò nel 1900 ne giudicò autentico il testo e asserì che la falsificazione
appare solo neel’escatollo ( la parte finale: data e sottoscrizioni).
Un altro tedesco molto competente in materia, il dottor P. Kehr professore di Storia all’Università di Gottinga,
la giudicò scorrettissima specialmente nella datazione che dal 1084 deve essere retrocessa al 1077, ma
sicuramente autentica nel testo. E non esitò a pubblicarla in una nuova edizione del “ Bollario dei Romani
Pontefici”.
La data probabile è quella del 6 febbraio 1077. Essa ci accosta a una pagina di storia delle più drammatiche. Par
di poterci cogliere i brividi della giornate nevose al Castello di Canossa dove Gregorio VII il 28 gennaio di
quello stesso anno ammise alla sua presenza il penitente Imperatore Enrico IV che subito dopo la fittizia
riconciliazione già tramava insidie al Pontefice incamminato alla volta di Mantova per tenervi un Concilio.
Dopo aver percorso un buon tratto di strada o perché avvertito segretamente o perché insospettito da qualche
indizio del progettato tradimento, Gregorio VII troncò il viaggio e ritornò sui suoi passi verso Canossa,
sostando in diversi castelli del modenese.
Precisamente da Bibbianello il 6 febbraio datò la Bolla per i monaci di Santa Maria di Butrio.
A togliere ogni dubbio sulla sostanziale autenticità del testo basta il confronto di essa con una successiva del
Papa Innocenzo II “ Pie desiderium voluntatis” datata da Pisa l’8 aprile 1134 e diretta alla’Abbate Pietro del
monastero di Sant Maria di Butrio.
In quest’ultimo documento sono nominati i predecessori Alessandro II e Gregorio VII a conferma dei privilegi
precedentemente accordati e si accenna al “ venerabile monastero della Beata Vergine Maria che è stato
costruito da Alberto e Benedetto”( considerato quindi come un secondo fondatore).
La Bolla di Innocenzo II emendata di alcuni errori fu pubblicata da P. Kehr nell’opera citata.
Ma c’è di meglio. Anche Eugenio III dal Laterano il 31- XII- 1145 indirizza una Bolla ad un Abbate di S.
Maria di Butrio chiamato Benedetto( II). E’ quella da noi ricordata perché nomina i molti monasteri fondati da
S. Alberto e altre chiese venute in seguito in possesso dell’Abbazia di Butrio. Qui ci preme osservare che essa
si richiama alle disposizioni dei pontefici Alessandro ( II), Gregorio ( VII), Innocenzo( II) e quindi convalida
l’autenticità dei Brevi precedenti.
Eugenio III riconosce come possesso dell’Abbazia le seguenti chiese, alcune delle quali, come vedemmo,
fondate direttamente da sant’Alberto; Sant’Alberto di Gromello ( Vigevano), S Stefano di Sale, San Nicola di
Vigallo ( Pontecurone), Santa Maria di Pozzolo ( Groppo), San Giovanni Piumesana ( Godiasco), San Jenone o
Zenone o Junani; ( che Legè ritiene corrispondere a Sanguignano in Valle Ardivestra presso Godiasco), s.
Gervasio( Rocca Susella), S. Pietro di Peregallo ( Rivanazzano), S, Stefano di Nizza, S. Michele e S. Giulio di
Loio ( Valdinizza) S. Maria di Primolago o Primorago( fra S. Martino dei Bagozzi e Fortunago), Santa
Mustiola( Borgonovo Val Tidone), Santa Maria di Vicolo ( Piacenza), S. Andrea della Sala ( Valtidone), S.
Genesio ( Valleversa), Toppino( Legè dichiara di non saperlo identificare, mentre Mons. Bobbi, afferma che
detta chiesa si trova nei pressi di Ponte Organasco in parrocchia di Carisasca, Bobbio. Sarebbe l’estrema punta
sud del vasto territorio in qualche modo dipendente dall’Abbazia).
Queste documentazioni integrano autorevolmente la tradizione e con esse crediamo esaurito il nostro compito
biografico. Rimane da trattare del culto di S. Alberto attraverso la storia .
ANTICHISSIMI SEGNI DI VENERAZIONE.
La più antica biografia quella brevissima contenuta nel “ Catalogus) di P. Ferrari, afferma che sant’Alberto
splendette per molti miracoli e che gli infermi accorrevano alla sua tomba da ogni parte e scioglievano voti per
la ricuperata guarigione : “ Nella chiesa dedicata al suo nome si mostra ancora il sarcofago nel quale si ritiene
dagli abitanti conservarsi il suo corpo”. Il culto della Santità di Alberto ebbe inizio dalla sua morte e varcò i
confini della diocesi. Non sembri profanazione asserire che quel nome sarebbe oggi circondato di maggior
splendore se non si fosse trovato in concorrenza con altri nomi di più celebri Santi ai quali egli non era inferiore
per meriti di virtù e di miracoli.
Erano passati appena sei anni dalla sua morte e già gli si attribuiva il titolo di Santo. Veramente quando ci
capitò sott’occhio il documento relativo, che è del 1080, abbiamo dubitato fortemente della sua autenticità,
perché ci pareva sospetta la frase “ monastero di Sant’Alberto”, visto che per parecchi anni posteriori si indicò
sempre Abbazia con il titolo di S. Maria di Butrio e solo più tardi si accedette a quello di “ Sant’Alberto”. Ma
riflettendoci meglio ci siamo persuasi che quel documento non avendo nulla di ufficiale canonicamente,
rispecchiava un dato di fatto, cioè l’uso nella zona di chiamare Alberto già col nome di santo.
Non era una canonizzazione in perfetta regola; era però la voce popolare. Il documento in parola, pubblicato dal
Can. Bottazzi, è una pergamena originale esistente nell’archivio capitolare di Tortona. Con atto rogato da
Lanfranco, notaio di Casalasco vivente secondo la legge dei Longobardi ( Nota: dai documenti dell’epoca
risulta che erano contemporaneamente in vigore il diritto romano e quello longobardo. Il primo si applicava di
preferenza nelle successioni, il secondo nei crimini. Anche i nomi indicano chiaramente la discendenza
longobarda di buona parte della popolazione. La legge longobarda fu abrogata con gli Statuti tortonesi del
1243.)… dona al monastero i beni da lui posseduti nel predetto castello e altri ancora. Esso porta la data del 10
febbraio 1080 e contiene la frase che c’interessa: “ …in monasterio sancte Marie et sancti Alberti sito loco qui
dicitur Butrio”.
Da un altro documento del 2 maggio 1198 si ha notizia dell’esistenza in Bagnolo di una chiesa dedicata a
sant’Alberto. Bagnolo è un villaggio situato fra Pontecurone e Casei Gerola sul rio Limbione. Nel medio evo
aveva un castello oggetto di contese tra Pavia e Tortona. Diede i natali a Brunone il Santo Abbate di
Chiaravalle ( presso Milano), che trattò con Federico Barbarossa le condizioni di resa dei tortonesi nel 1155 e
che vedendo poi violati i patti e la città distrutta ne morì di crepacuore di lì a tre giorni. ( Nota: Muratori-
Annali 1155)
Quando avvenne questa prima ricognizione? Certo avanti il 1127 com’è dimostrato dal fatto che Arduino
vescovo di Piacenza nel privilegio di esenzione concesso alla chiesa di Santa Mustiola nel 1127 indicava il
monastero già col titolo di Santa Maria e di Sant’Alberto di Butrio.
Anche nelle antiche litanie in uso nel secolo XVI Sant’Alberto era invocato tra i monaci e gli eremiti( Goggi –
Storia della diocesi vol. III). Ma perché andarono smarriti “ tutti” i libri corali che contenevano gli essenziali
elementi biografici del Santo?. La spiegazione si può desumere dalle vicende storiche della Cattedrale di
Tortona dove quei volumi giacevano dimenticati in qualche ripostiglio ad insaputa magari degli stessi canonici.
Essa sorgeva sul punto più alto del Castello e l’aveva fatta costruire il vescovo S. Innocenzo fin dal sec. IV. Era
insigne per le memorie storiche: là nell’anno 877 era stata incoronata l’Imperatrice Richilde consorte di Carlo il
Calvo, da papa Giovanni VIII. Altri papi e imperatori essa aveva accolti tra le sue stupende navate ricche di
marmi e di pietre preziose. Ma gli Spagnoli verso la metà del 1500 la convertirono in un magazzino e i canonici
dovettero scendere in città a officiare prima la chiesa di S. Stefano ( ora distrutta), poi Santa Maria Canale e
finalmente l’attuale Duomo aperto al culto nel 1583.
Il 3 settembre 1609 si abbattè sulla zona un uragano ricordato negli annali per i suoi aspetti apocalittici; un
fulmine colpì l’altissima torre della vecchia cattedrale, ove erano stipati circa 500 barili di polvere da sparo, e
tutto andò distrutto fin dai fondamenti. ( Ghilini – Storia di Alessandria). Tra quelle rovine furono trovate molte
sacre reliquie fra le quali alcune ossa di Sant’Alberto. Dei libri corali non si rinvenne più nulla e le appassionate
ricerche di mons. Legè, dell’Abbate Lugano e di altri cultori di storia ebbero sempre esito negativo.
L’APPROVAZIONE DEL CULTO ( CANONIZZAZIONE).
L’autorizzazione della Chiesa per la pubblica venerazione da tributare alle persone morte in concetto di santità
era richiesta anche nel passato. Nei primi secoli bastava quella del vescovo i cui decreti avevano valore
nell’ambito della diocesi. Per estendere il culto a tutta la Chiesa era necessaria la conferma espressa o tacita del
Sommo Pontefice. Si verificavano ciò nonostante delle sconvenienze gravissime per abuso di autorità. Per
troncare ogni causa di disordine Alessandro III nel 1170 stabilì che non si dovesse venerare nessuno come santo
senza licenza della Chiesa Romana. Quella decisione, accolta nelle Decretali da Gregorio IX, costituisce il
fondamento del diritto, pratico vigente in ordine alla beatificazione e canonizzazione dei Santi, da Sisto V
affidata alla Congregazione dei Riti la quale introdusse l’elemento nuovo dell’eroicità delle virtù. ( Il requisito
dei due miracoli fu posto più tardi da Benedetto XIV):
Ma anche prima di Alessandro III era invalsa la consuetudine di ricorrere alla S. Sede Apostolica per far
iscrivere qualcuno nell’albo dei Santi. E i Papi non rispondevano che ecezzionalmente a tali richieste senza il
concorso di un Concilio.
Il processo, così inteso, di canonizzazione era molto semplice, Esaminata la vita, le virtù, i miracoli del Servo
di Dio con risultato favorevole, il Papa permetteva che sopra il venerato corpo si costruisse l’altare. Così infatti
si procedette per Romualdo di pochi anni anteriore a sant’Alberto. Fondatamente possiamo ritenere che la
stessa procedura sia stata seguita per Sant’Alberto. Il suo corpo fu ritrovato nel 1899 in una ristretta urna di
pietra e su di essa sorgeva l’altare nel quale fu rinvenuta una cassettina vecchissima contenente un omero e un
cubito giudicati, dopo diligente esame appartenenti allo stesso scheletro dell’arca; segno evidente di pubblica
venerazione, naturalmente dietro l’autorizzazione episcopale.
Ma dell’approvazione dell’Apostolica Sede che cosa possiamo dire? Purtroppo la dispersione dei documenti di
Butrio tante volte lamentata non ci permette di conoscere l’anno preciso in cui un Papa procedette alla
canonizzazione, la quale peraltro è da collocare sullo scorcio del secolo XI. L’Abbazia era proprietà della santa
Sede e Cencio Camerario ( ossia Camerlengo), divenuto poi Papa Onorio III, fin dal 1192 nomina nel Libro dei
Censi “ la chiesa di sant’Alberto” assegnandole il tributo annuo di 15 soldi: “ In Episcopatu
Terdonensi…Ecclesia Sancti Alberti XV solidos”. Abbiamo visto in precedenza che Gregorio VII nel suo
Breve Licet officii notri la nomina” chiesa di Santa maria”. Dal momento che il nome è mutato in quello di “
Sant’Alberto”, bisogna ammettere che il culto di lui era stato approvato dalla Santa Sede.
In un atto originale di transazione tra due parti in contesa il Card. Fidanzio Legato della santa Sede delega
come arbitro un Enrico “ Abbate di Sant’Alberto” nel 1194.
Per dar esecuzione ad una sua sentenza di condanna d’un certo Giovanni Beruti di Viguzzolo che vantava diritti
sull’arcipretura di san Desiderioin Brignano conferita a Bernardo Roveda di Tortona, il Papa Clemente VI da
Avignone il 12 gennaio 1346 nomina, tra gli altri da lui delegati; “ L’Abbate di Sant’Alberto di Butrio”.
Giulio II il 28 Ottone 1512 dirige un Breve al Card. Nicolò Fieschi Commendatario.: “ Monasterii sancti
Alberti de Buttrio Terdonensis Dioecesis” relativo alle contese sorte coi Conti Dal Verme per il Castello di
Pizzocorno.
Paolo III nel 1543 riconosce a Mario Sforza di santa Fiora la commenda di sant’Alberto: “ ut Monasterium S.
Alberti de Butrio Terrdon. Dioec. Sibi comendaretur”.
E ci sono altri Atti pontifici nei quali il monastero di Butrio è sempre chiamato “ di Sant’Alberto”.
Dunque il culto di sant’Alberto era non solo antichissimo, ma approvato dalla legittima autorità. I decreti
restrittivi di Urbano VIII( 1625) non lo interruppero, come appare dal Sinodo celebrato nell’Aprile 1659 dal
Vescovo Settala che tra i giorni di chiusura del Foro tortonese annovera il 5 settembre festa di sant’Alberto;
dalla riposizione delle sue reliquie, ritrovate fra le rovine dell’antica cattedrale, in un’artistica custodia d’ebano
e d’argento e portata solennemente in processione per le vie della città il 14 settembre 1673; dall’esposizione
che di una particella dicesse si fa insieme con molte altre ogni anno in cattedrale nel giorno d’Ognissanti; e
finalmente dalla festa annuale della parrocchia di Butrio mai soppressa o vietata, come mai fu tolta l’aureola
della santità dalle sue diverse immagini ivi dipinte.
Soprattutto lo confermano, dopo i decreti di urbano VIII, gli Atti emanati dalla Santa Sede, tra i quali basterà
ricordare tre lettere del Cardinal Prodatario scritte a nome del Papa al vescovo di Tortona nel 1663 e il Breve di
Clemente XII dell’8 aprile 1738 con cui si conferisce a Mons. Andujar vescovo di Bobbio la commenda di “
Sant’Alberto”.
Tale denominazione ricorre costantemente accompagnata dalla specificazione “ di Butrio” quasi per distinguere
il titolo della santità dalla indicazione del luogo.
Quali saranno state le cause per cui cessò l’ufficiatura del Santo tanto tempo prima del decreto di Urbano VIII?
Pare che uno dei motivi principali sia da ricercarsi nella Bolla di san Pio V” Quod a nobis” del 9 luglio 1568,
nella quale si prescriveva l’uso del breviario della Chiesa Romana allora riformato, pur concedendo alcune
eccezioni che potevano valere per l’ufficiatura di Sant’Alberto “ in uso da più di 200 anni”.
Il Vescovo e il Capitolo della Cattedrale, per quella sincera devozione alla Santa Sede che è caratteristica
costante della diocesi di Tortona, aderirono con prontezza ai desideri del Papa e adottarono la nuova edizione
del breviario romano, tanto più volentieri in quanto Pio V era egli un con diocesano, essendo nato il 17 gennaio
1504 a Boscomarengo passato sotto la giurisdizione di Alessandria dopo le riforme napoleoniche.
L’abbandono dell’ ufficiatura con la già descritta dispersione dei libri corali spiega anche perché il canonico-
teologo della Cattedrale G.B. Capuis non potè riferire più ampie notizie di Sant’Alberto ai PP. Henschenio e
Papebrochio, primi collaboratori di G. Bollando, che nel marzo del 1662 si erano rivolti al vescovo di Tortona
Mons. Carlo Settala per aver memorie intorno ai santi della diocesi.
Quando poi nel 1680 Tortona ottenne dalla sacra Congregazione dei Riti l’approvazione delle Lezioni del
secondo Notturno per san marziano e sant’Innocenzo, non si pensò e la colpa esigerebbe riparazione a
risuscitare la festa liturgica di Sant’Alberto.
A queste cause specifiche aggiungiamo quelle generali che si possono riassumere nella decadenza dell’Abbazia
iniziatasi con l’introduzione delle Commende.
( Malgrado tutto non diminuì la devozione verso sant’Alberto da parte dei fedeli e dei pellegrini che salivano
all’Eremo e sostavano alla sua tomba a domandare grazie offrendo larghe oblazioni a quella chiesa).
Al fervore religioso dei primi secoli subentrava la tiepidezza, la polvere dell’abbandono posava sull’altare, un
silenzio che non era più di pace ma di oblio incombeva sull’antico monastero, finchè agli albori del secolo XX
squilli di rinascita solcarono il cielo di sant’Alberto ad opera di un altro “ tortonese” divorato come lui
dall’amore di Cristo, della Madonna, del Papa e delle Anime, per mezzo del Sacerdote San Luigi Orione.
VASTO DOMINIO TERRITORIALE
Il monastero di sant’Alberto, protetto dalla Santa Sede e insignito del privilegio di esenzione tre anni dopo la
morte del Fondatore, si consolidò e progredì rapidamente sotto il
governo dell’anziano Abbate Benedetto che in patite membra
svelava un temperamento di ferro.
Già dai tempi di Gregorio VII esso possedeva un vasto patrimonio e
nei sec. XI e XII divenne ricchissimo e potente.
La storia dell’Abbazia, quale risulta dai documenti rintracciati
frugando meticolosamente negli archivi, presenta una serie di atti
notarili per acquisti, donazioni, vendite, investiture, trapassi,
contratti, nomine, assegnazioni, permute, con interventi anche della
Santa Sede per garantire al Monastero la sua inviolabilità e i suoi diritti.
E’ una storia piuttosto monotona, conveniamo, ma non c’è di meglio da riferire, e può anche avere i suoi aspetti
interessanti.
L’ottima fama che circonda l’Abbazia è occasione e incentivo di continue offerte da parte dei ricchi possessori.
La più antica di cui si ha memoria, da un atto notarile rogato da Lanfranco il 10 febbraio 1080, è la donazione
fatta da Gosberto dei suoi possedimenti di Casalasco, Omara, Corlienasco, Lanagelo, Castelletto, Costa,
Camposolero, Mollie, Monte Terranera, Fontana, Zuza, Ronco, Morinasto, Rovereto, Albareto, e molti altri
luoghi nei dintorni di Val di Nizza.
I sec. XII- XIII- XIV segnano l’apogeo della potenza economica e religiosa dell’Abbazia che signoreggiava
tutto il territorio circostante per un raggio di circa dodici chilometri e protendeva cunei di penetrazione fino alle
colline del piacentino e ai grossi centri di Sale, Volpedo, Pontecurone, Montebello, per tacere di località molto
più distanti come Toppino in Val Trebbia, e Gromello in Lomellina.
Dai monaci di S. Alberto dipendevano latifondi, villaggi, castelli, molini, diritti d’irrigazione, giurisdizioni
civili ed ecclesiastiche, oltre diverse chiese, parrocchie, e priorati.
GLI ABBATI REGOLARI PROTETTI DAI MALASPINA.
I Marchesi Malaspina per via di donazioni e di vendite contribuirono a consolidare e ampliare il dovizioso
patrimonio dell’Abbazia e ad accrescerne l’importanza oltre i confini della diocesi tortonese. L tradizione li
vuole benefattori del Monastero fin dai tempi del Fondatore e non c’è ragione per dubitare che essa sia nel vero.
Nel 1155 Guglielmo del Ghisolfo vivente secondo la legge dei Longobardi dona il molino di Albereto con atto
rogato dal notaio Ruffino.
Un fatto molto importante è la vendita al Monastero, contro il pagamento di 122 libbre d’argento e sei soldi, del
Castello e della Villa di Pizzocorno, con annessi diritti di temporale giurisdizione. L’atto rogato dal notaio
Anfossi del Sacro Palazzo, il 4 ottobre 1158, è sottoscritto ( col segno della mano) dai contraenti il Marchese
Opizzone Malaspina, valoroso difensore di Tortona assediata dal Barbarossa, e l’Abbate Guglielmo, uomo pio
fornito di preclari virtù, appartenente alla nobile famiglia Cachi di Tortona.
Nel Marchesato dei Malaspina, Pizzocorno figurava come uno dei più solidi castelli dominante da un’aspra
roccia a due punte la valle Staffora. L’Abbate acquistava il titolo di Conte e il diretto dominio sulla borgata; ma
già da tempo la parrocchia – arcipretura di sant’Ambrogio era unita al Monastero di Butrio, e all’Abbate
spettava l’onore di presentare il parroco.
Si ha notizia di giuramenti di fedeltà che gli uomini di Pizzocorno facevano nelle mani dell’Abbate di
Sant’Alberto in riconoscimento del diretto dominio che egli aveva sul luogo, col diritto di esigere tributi e di
esercitarvi la giustizia, amministrata però da un giudice laico in nome del Monastero.
Tuttavia i Malaspina ebbero confermata sul Castello di Pizzocorno l’investitura Imperiale da Federico
Barbarossa nel 1164.
Nel 1180 Bosio di Clemente e Gisla di Rebaldo, viventi secondo la legge romana, donarono al Monastero, nella
persona dell’Abbate Ponso, i loro beni esistenti nella Curia di Pizzocorno e in Val di Nizza.
Similmente fecero i tre fratelli Manuele, Alberto e Obizzo, figli del Marchese Opizzone Malaspina, per dei
fondi esistenti in Val Staffora e nel territorio di Pizzocorno, integrando quindi quanto il loro illustre e valoroso
padre aveva già favorevolmente venduto ai Monaci; mentre con atto pubblico del 1Aprile 1196 Uberto di
Tommaso e Silvia di Tebaldo coniugi donavano i loro stabili di Menconico, Carpeneto, e Casasco in aggiunta
ad altri posti nella curia di Pizzocorno.
Nell’atto rogato dal notaio Ruffino viene così specificata la natura di queste donazioni che estendono il
patrimonio terriero dell’Abbazia all’alta valle Staffora: “gerbis, silvis, pratis, castagnetis, boschis, ripis, ruinis,
coltis, incoltis, et cum omnibus aliis rebus”.
Si può dire che da S. Alberto dipende ormai tutto il vasto territorio circostante denominato “ Langhe
Malaspina”, perché feudo dell’illustre casata che per otto secoli signoreggiò la Lunigiana, Massa e Carrara, ed
estese i suoi domini nel Tortonese e nel Monferrato.
Da un atto del 1197 apprendiamo il nome dell’Abbate Fulcone che acquista terreni in val di Nizza da Guido “
vivente secondo la legge romana”.
Gli succede l’Abbate Ugo che s’adopera per via di compere a consolidare il patrimonio dell’Abbazia.
SPLENDORE RELIGIOSO.
Qui una parentesi di guerra interrompe la monotonia degli avvenimenti registrati negli atti notarili.
Era insorta una grave discordia tra il Papa Innocenzo III e l’imperatore Ottone IV che da Milano mosse contro
Pavia per punirla della sua fedeltà a Roma. Voghera e i paesetti della pianura erano alleati con Pavia e quindi
con Federico Ruggero subito accorso da Genova nel 1212, mentre i paesi della media e alta valle Staffora, di
val Curone e val di Nizza , feudi dei Malaspina, ( esclusi san Ponzo e Cecima) vennero dai loro Signori
consegnati ai Milanesi e ai Piacentini alleati dell’Imperatore.
Di fatti d’arme e di tentate aggressioni o infiltrazioni nel territorio dell’Abbazia non si hanno notizie. Però è da
supporre che la tranquillità sia stata per diverso tempo turbata. Non per nulla l’Eremo si era munito di una salda
cintura difensiva.
La serie degli atti notarili ci illumina ora su parecchie nuove prerogative spettanti all’Abbate, come il diritto di
nominare il Priore di Santa Mustiola nel piacentino, quello di “ presentare” il parroco nelle chiese di S.
Giovanni Piumesana, di Santa Maria Primorago e di Sant’Andrea della Sala , e quello di nominare i cappellani
di due chiese di Bagnaria, Santo Stefano e Sant’Ambrogio.
Dai documenti veniamo informati che queste nomine si compivano nella chiesa di S. Alberto e siamo edotti
anche sulle funzioni del “ sindaco del Monastero”che incontriamo tanto spesso negli Atti.
Il sindaco è un monaco con attribuzioni di economo e di procuratore; compie le operazioni di compra – vendita,
riceve le donazioni e tutela gli interessi della comunità a nome dell’Abbate.
Da un atto rogato nel 1290 appare eletto sindaco e procuratore il monaco Marenco già priore della chiesa di S.
Mustiola, con il consenso di altri religiosi i cui nomi diventano per noi degni di trascrizione. Sono: Corrado
monaco e Ruffino prete del monastero di Butrio, Arnaldo arciprete della pieve di San paolo( presso Rocca
Susella?), Baldino chierico di S. Andrea della Costa ( Piacenza), e Alberto monaco – converso di Butrio-
La presenza dell’Abbate conferiva solennità e splendore alle funzioni che egli presiedeva.
Infatti da tempo antichissimo l’Abbate commendatario di Sant’Alberto godeva il diritto e il privilegio della
mitra e del pastorale secondo quando scrive il Lubin ( Lubin – Abbatiarum Italiae brevis notitia – pag 67)
Dal quale abbiamo riportato le notizie concernenti le nomine nelle chiese dipendenti dall’Abbazia.
Che il “ tempo antichissimo” possa riferirsi allo stesso S. Alberto raffigurato sempre con mitra e pastorale negli
affreschi della chiesa, lo storico mons. Legè dubita fortemente, com’egli asserisce, si conferivano di rado tali
insegne. Fino a prova contraria però noi preferiamo rappresentarci sant’Alberto come è ritratto nei sec. XV
quando il diritto alla mitra e al pastorale era un fatto acquisito.
A nome dell’Abbate di Sant’Alberto l’arciprete di Rovescala risulta nei documenti del 1364 compie alcune
investiture di terreni nei dintorni di Borgonovo e di Santa Mustiola.
Anche l’arciprete di san Ponzo con atto pubblico riconosce nel 1380 all’Abbazia di S. Alberto alcuni diritti.
ABBATI DEGNI DEL FONDATORE.
A questo punto, trovandoci nel periodo di maggior splendore dell’Abbazia, è doveroso domandarci: Che uso
facevano i monaci di tante ricchezze da loro accumulate per donazioni di fedeli e saggia economia
amministrativa?
Non c’è dubbio che a S. Alberto si verificava quanto troviamo raccontato e descritto nelle pagine stupende
d’alto valore storico di Mabillon e Montalembert.
“ Noi siamo come il mare che ricava acqua da tutte le parti e la torna a distribuire a tutti i fiumi” dirà fra
Galdino alludendo alla carità dei Cappuccini.
I Benefattori di S. Alberto facevano proprio così: delle ricchezze si servivano per onorare Dio e beneficare il
prossimo. Sollevavano il popolo dalla miseria con elemosine generose e con larga offerta di lavoro di pubblica
e privata utilità, aprivano chiese al culto, fondavano celle e monasteri, promuovevano le affermazioni dell’arte
nelle sue diverse branche; dall’architettura alla pittura, alla miniatura dei codici.
Sant’Alberto, pur nelle sue irreparabili rovine, ne è una prova. Il complesso del Monastero s’era venuto
formando gradualmente. Prima la chiesuola che rimonta ai tempi del Santo Fondatore, poi negli anni
immediatamente successivi le altre cappelle. Attorno erano disposte le celle per i singoli romiti che in seguito si
costituirono in congregazione cenobitica sotto la direzione e l’autorità dell’Abbate che vuol dire “ padre”.
Egli deve essere fornito di carità e di temperanza, mostrarsi mite e benigno con i monaci diligenti, austero coi
protervi, ma sempre tale che il nome di padre non sia una menzogna, irreprensibile, e più di fatti che di parole,
maestro.
Nessuna parzialità, nessun compromesso, nessun privilegio; niente autocrazie, niente arbitrii. Se gli affari da
trattare sono gravi, egli chiamerà a raccolta i monaci e ne ascolterà i consigli, senza peraltro soggiacervi, ma
usandone saggiamente.
Questo in sostanza dice la regola di san Benedetto intesa a promuovere la vita di comunità.
E veramente il Monastero ebbe una serie di Abbati degni del posto che la fiducia universale e l’amore dei
Sommi Pontefici aveva loro assegnato.
L’aspetto esteriore dell’Eremo s’è venuto modificando nei sec. XII-XIII. Non più celle romitorie sparse qua e là
nei dintorni della chiesuola primitiva dedicata a S. Maria, ma la solenne maestà del Castello – monastero, via
via munito di bastioni, di torre quadrata, di bertesche, di fossati e ponte levatoio, per difendersi dalle scorrerie e
dai saccheggi delle bande armate che infestavano i luoghi.
Il pericolo di assalti al monastero che nei primi tempi della fondazione era minimo, data la sua estrema povertà,
si manifestò quando quei monaci divennero potenti sia per censo che per autorità e giurisdizioni, ed
acquistarono anche prerogative proprie dei feudatari costretti a munirsi contro la minaccia dei signorotti
confinanti.
PROBLEMI DI DECADENZA.
Con i sec. XIV e XV l’Abbazia di sant’Alberto, pur migliorando l’esteriore tenuta artistica e accentuando la sua
potenza economica, avverte i primi segni d’una deleteria trasformazione morale.
Molte istituzioni religiose, raggiunto l’apogeo dello splendore, perdettero la semplicità iniziale e decaddero per
aver accumulato troppe ricchezze.
Che questa sia la ragione valida per la decadenza di Butrio non possiamo affermare ma solo intuire dalla
dolorosa esperienza che diviene costante legge di storia e dimostrare come la seduzione del denaro indebolisce
lo spirito, disgrega le forze del bene, soffoca il fervore, fa deviare dal giusto fine. Influirono forse altre cause; le
condizioni d’ambiente; le discordie, le guerre, gli scismi, il manifestarsi d’una tendenza nuova e ribelle che va
sotto il nome umanesimo; forse anche l’infierire delle pestilenze ( famosissima quella del 1348) che
spopolarono anche i monasteri.
Una causa sicura c’è tuttavia: l’essere stata data l’Abbazia in commenda.
Una breve spiegazione. Quando un beneficio ecclesiastico era vacante per assenza o morte del titolare, se ne
affidava temporaneamente la custodia e l’amministrazione ad un economo che si chiamava “ commendatore”,
cioè depositario di quei beni a lui “ commendati”, affidati. Queste commende, lodevoli nelle origini e
frequentissime ai tempi di San Gregorio Magno, ben presto degenerarono in abuso.
Troviamo già nel sec. VIII dei Principi che davano monasteri o vescovati in commenda perpetua a dei laici.
Papi e Concilii vietarono con frequenti decreti le commende perpetue. Clemente V nel 1305 le annullò tutte
senza riguardo neppure per i Cardinali. Molto più tardi le proscrisse il Concilio di Trento. E tuttavia
storicamente è certo che prima e dopo il Tridentino la Santa Sede concedeva le commende o perché i monasteri
erano rimasti senza religiosi o perché erano decaduti dalla osservanza e quindi di quelle rendite venivano
investite altre persone ecclesiastiche.
I primi sintomi d’un fatale progredire verso l’uso della commenda compaiono quando il Monastero cerca dei
naturali protettori nelle più potenti famiglie confinanti investendole di alcune sue terre.
Ecco il contenuto di un documento del 1380 che ci illumina anche sulle consuetudini proprie dell’Abbazia: “
Nel Monastero di Santa Maria Genitrice e di Sant’Alberto di Butrio, riuniti i frati, al suono della campana,
l’Abbate ( di cui non è riferito il nome) conferisce al Conte Giacomo Dal Verme l’investitura della terra di
Mollia presso Pizzocorno”. I Conti Dal Verme acquistarono ragguardevole potenza dopo aver servito con
fedeltà i Visconti di Milano, ed ebbero parecchie signorie tra le quali quella di Voghera.
Lo stesso Conte Giacomo nel 1387 ebbe dal Vescovo di Bobbio l’investitura di Zavattarello, confermata
dall’Imperatore Venceslao. I Dal Verme estendevano il loro dominio su Bobbio, Castel S. Giovanni,
Romagnese, su tutti i paesi intorno a Voghera e si spingevano anche verso la media valle Staffora scontrandosi
con i Malaspina nemici dei Visconti.
L’anno 1398 i Vogheresi condussero un’azione offensiva sopra Godiasco, Groppo e Piumesana e vi operarono
gravi distruzioni. Su Piumesana avevano giurisdizione ecclesiastica i monaci di Sant’Alberto i quali dalle
ostilità tra i Malaspina e i Visconti, tramite Voghera e i Dal Verme, subivano frequenti danni.
Perciò nel 1407 l’Abbate Antonio dei Conti di Lomello avanzò una supplica al Duca Giovanni Maria Visconti
per ottenere la restituzione di certi beni e crediti che aveva a Pontecurone e dintorni, dei quali con vani pretesti
era entrato in possesso il vescovo di Tortona; e il Duca di Milano rispose con un decreto favorevole obbligando
a restituire tutto “ sine strepitu et figura judicii”.
Il documento che enumera tutti i beni e i titoli passati sotto il dominio dei Dal Verme ci dà un’esatta
demarcazione dei confini di questo feudo che si estendeva per quattro miglia di larghezza e cinque di lunghezza
ed era circoscritto dai castelli e dai marchesati di Oramala, Sant’Alberto, Casalasco, Trebbiano, Godiasco,
Cecima, Bagnaria, Zuccaro, Sagliano; e conferma come l’Abbate di Sant’Alberto in
qualità di Conte e feudatario di pizzo corno aveva il diritto al vassallaggio, al mero e misto
impero, al fodro( specie di tributo in grano), con ogni giurisdizione temporale , al molino,
all’acquedotto, alle pescagioni, ai frutti, ai censi, alle pensioni, ai redditi; escluse due
chiese e un mulino in Val di Nizza.
Erano in sostanza tutte quelle prerogative ricevute dall’Abbazia quando acquistò il feudo
dai Malaspina in data 4 ottobre 1158.
IL PRIMO ABBATE COMMENDATARIO.
Nell’epoca in cui l’Abbazia si privava del feudo di Pizzocorno, fa la sua prima apparizione l’Abbate
Commendatario.
Il tenore di vita muta radicalmente. All’antica pace, sia pure minacciata qualche volta da irruzioni di
soldatesche o di rapinatori, subentra la lotta sistematica coi vicini signorotti. Ai ministri di equità e di fede
succedono contestazioni ed avari assertori di diritti materiali. Contese armate turbano quel simbolo e quel
lembo di religiosa ascesi. L’Abbazia non rappresenta più l’esempio della perfezione cristiana, il richiamo alla
fede in tempi di perversioni intellettuali imputabili all’umanesimo, il patrimonio dei poveri, il prezzo di riscatto
delle anime.
Il commendatario è estraneo agli sviluppi spirituali dell’Abbazia, non s’interessa dei suoi mali, non s’interessa
dei suoi mali, non appresta i rimedi, non ne comprende le tendenze. Egli è il dilapidatore delle sostanze dei
monaci e delle rendite del monastero. Egli apre l’età del ferro a Sant’Alberto che coincide con l’età dell’oro del
Rinascimento.
Questo è il quadro a fosche tinte che si suol produrre per caratterizzare l’epoca. Ma è un quadro troppo di
maniera per rispecchiare tutte le realtà. Qualche cosa di buono bisogna ascrivere a merito e a onore anche degli
Abbati Commendatari; e basterà accennare agli affreschi delle tre chiese. Ciò che vien meno inesorabilmente è
lo spirito della fondazione. Il resto è più di peso e d’inciampo che di aiuto al rifiorire della vita religiosa.
Stefano Landolfi di Pavia chiude la serie degli Abbati regolari. Quali rivolgimenti si saranno poi verificati per
giustificare l’introduzione della commenda?
Il primo Abbate Commendatario è il suo successore un Taddeo de Noxeto che conosciamo solo perché nel 1454
dotò il monastero della celebre campana. L’Abbate Taddeo fu confuso sia dal conte Sangiuliani che da Mons.
Legè con un Abbate posteriore dello stesso nome, Taddeo Busseti.
Mons. Legè scrivendo più tardi operò la rettifica.
Il suo paese d’origine potrebbe essere Casalnoceto, ma è supposizione incerta.
La seconda metà del Sec. XV segna per l’Abbazia il periodo di maggior splendore artistico per i preziosi
affreschi fatti eseguire dagli Abbati Commendatari i quali forse vi tennero nei primi anni la residenza.
Mons. Legè vede nelle opere di restauro e di abbellimento un segno di temporaneo ritorno degli Abbati regolari
e ne trova un indizio nel fatto che i nobili signori Aragone e Malaspina il 4 marzo 1458 citarono il vescovo di
Bobbio Marziano de’ Buccarini a comparire dinnanzi all’Abbate di Sant’Alberto per legalizzare un loro atto di
proprietà. Non vedo che valore di prova abbia questo atto.
Sotto il regime commendatario l’Abbazia compie frequenti investiture di possessioni; una di queste si verifica
il 12 febbraio 1461 in territorio di Codio.
Lo splendore della porpora si riflette sull’antico monastero. Uno dei suoi primi Abbati Commendatari è il
Cardinal Niccolò Fieschi fratello di Santa Caterina da Genova, della nobilissima famiglia che aveva dato alla
chiesa due Papi, Innocenzo IV e Adirano V, per non dire di arcivescovi, cardinali, abbati, nunzi apostolici e
prelati. Avremo occasione d’incontrare uno dei membri di questa famiglia legato alla storia dell’Abbazia
attraverso la misteriosa figura di Edoardo II re d’Inghilterra.
Munificentissimo il card. Fieschi nel 1484 ordinò il restauro della Chiesa di Sant’Antonio ricavata dall’antico
atrio di Santa Maria e nell’intero complesso fece eseguire i famosi affreschi.
Il 12 luglio 1494 egli prese possesso anche del priorato di santa Mustiola conferitogli con Breve dal Papa
Innocenzo VIII.
L’anno dopo, per concessione apostolica di Alessandro VI, la chiesa di S. Ambrogio di Pizzocorno è unita
all’Abbazia. L’atto è rogato da Giovanni Alberia del collegio notarile di Tortona.
Abbiamo detto che il feudo di Pizzocorno fu ceduto al Conte Luigi Dal Verme nel 1449. Dobbiamo
soggiungere che i Dal Verme l’avevano restituito all’Abbazia riservando a sé soltanto le antiche proprietà. Ora
veniamo a conoscere da un documento pontificio che il Conte Pietro Dal Verme confinate coi dominii abbaziali
per via dei suoi feudi, condusse un’azione di forza contro Pizzocorno w s’impadronì della borgata tenendo così
sotto lo minaccia di nuove invasioni lo stesso territorio dell’Abbazia.
Per questo il Papa Giulio II, savonese, il 28 ottobre 1512 diresse un Breve all’Abbate di Sant’Albertoche era
ancora il card. Niccolò Fieschi eletto vescovo di Agata, delegandolo a far uso delle censure ecclesiastiche per
costringere i dal Verme alla restituzione di Pizzocorno con tutti i suoi diritti e redditi, giurisdizioni e pertinenze.
Ma non se ne fece nulla perché, morto Pietro dal Verme, i suoi possessi furono arraffati da Lodovico il Moro
che assegnò Pizzocorno in feudo agli Eustachi di Piacenza.
GLI OLIVETANI A S. ALBERTO
La storia minuta dell’Abbazia s’inserisce nella grande storia del rinascimento per l’azione esercitata su di essa
da Leone X.
Quando questo Papa, figlio di Lorenzo il Magnifico, era semplicemente il Cardinal Giovanni de medici, fu
invitato da Giulio II a Bologna come suo Legato a Ravenna l’11 aprile 1512 fu fatto prigioniero dai Francesi
che lo tradussero a Milano e disposero in seguito di trasferirlo in Francia. Al passo del Po presso Pieve del
Cairo da alcuni coraggiosi “ dei quali fu capo Rinaldo Zallo, fu tolto di mano ai soldati francesi che attesero più
a fuggire che a resistere” ( Guicciardini - storia d’Italia, libro X). Il Ghilini di Alessandria racconta l’episodio
con dei particolari più drammatici; “ Di già erano arriuati a Bassignana quando nel volere passare il Po finse il
detto Cardinale che la mula ch’esso cavalcava non voleva passare il fiume e tanto andò indugiando che
sopraggiunse l’oscura notte e con l’aiuto di Rinaldo Zazzo, Ottavio Isimbardi e Gentile Beccaria tutti e tre
principali pavesi e suoi amici, dai quali fu egli a quel luogo accompagnato, fuggì dalle mani di quei cardinali (
che dovevano scortarlo in Francia) e sopra una barca per tal effetto apparecchiata n’andò con ogni sicurezza e
velocità verso il piacentino e quindi per il mantovano a Bologna, mentre i suoi nemici seguitavano per
l’alessandrino il loro viaggio alla volta di Francia. ( Girolamo Ghilini – Annali di Alessandria- Milano 1666).
Non c’è dunque concordanza sul nome dei liberatori. E le cose si complicano quando leggiamo in san giuliani
che uno di essi e il più importante, tanto da scontrare sul patibolo il suo gesto audace, fu il marchese di
Godiasco Bernabò Malaspina. “ Bernabò Malaspina fu sempre nemico degli Sforza e il 1514 alla vigilia di S.
matteo tradotto a Voghera fu pubblicamente squarciato vivo per sentenza del Duca Massimiliano e spogliato
dei feudi per aver aderito contro i francesi e liberato dalla prigionia dei medesimi al passo del Po il card.
Giovanni Medici” ( Sangiuliani, Dell’Abbazia di S. Alberto pag. 151).
I particolari più attendibili sono quelli che ricavo dal Bollettino parrocchiale di Godiasco compilato
dall’arciprete D. Robecchi. “ Una turba di contadini sotto la guida di Rinaldo De Zazzi, ( deve essere un nome
davvero scorbutico), Gentile Beccaria feudatario della Pieve e Ottaviano Isimbardi feudatario del Cairo, sbucò
dalle macchie mandando altissime grida, assalì i fuggitivi e strappò dalle loro mani il Cardinale la cui mula
aveva già messo le zampe anteriori nella nave del porto sul Po. Isimbardi condusse il prigioniero a Godiasco e
lo consegnò al Marchese Bernabò Malaspina il quale chiese istruzioni a Gian Giacomo Trivulzio maresciallo di
Francia, mentre il Cardinale era rinchiuso in una stanza del palazzo all’ultimo piano, ancora oggi visibile con
un’apertura nel muro per la quale gli porgevano gli alimenti. Il Trivulzio rispose che il Re Luigi XII avendo
l’esercito in fuga non poteva pensare al prigioniero e consigliò Bernabò di provvedere al caso proprio
considerando l’avvicinarsi vittorioso delle armi avversarie. L’avviso non andò perduto. Il Marchese, fingendo
un tradimento da parte dei suoi servitori, lasciò fuggire il prigioniero che si calò a terra con una fune e andò a
Voghera e di là, il 17 luglio 1512,a Piacenza, allora occupata dall’esercito pontificio. L’anno seguente moriva
Giulio II e l’11 marzo 1513 era eletto Papa Leone X. Cacciati i francesi Massimiliano Sforza ricuperò il Ducato
e volle vendicarsi. Bernabò Malaspina si fortificò e si difese nel castello di Cella, ma fu preso e squartato vivo a
Voghera il 20 settembre 1514”. Ecco perché riteniamo Leone X in qualche modo direttamente interessato alle
vicende dell’Abbazia di sant’Alberto. Se confrontiamo i dati del suo soggiorno al palazzo Malaspina di
Godiasco, non è un’ipotesi troppo arrischiata immaginare che egli invece di raggiungere Piacenza per Voghera
abbia seguito l’antica via dei monti che traversava il territorio dell’Abbazia molto più sicuro.
Risulta dai documenti che egli per due volte se ne occupò da Pontefice.
Con un Breve di capitale importanza nel 1516 univa l’Abbazia di Sant’Alberto di Butrio a quella di : “ San
Bartolomeo in Strada” di Pavia abitata dai monaci Olivetani.
Con altro Breve del 17 luglio 1516 univa la chiesa arcipresbiterale di Pizzocorno con L’Abbazia di S. Alberto.
La storia degli Olivetani a sant’Alberto è di breve durata.
Subentrati nel 1516 ai Benedettini della primitiva osservanza, nel 1543 abbandonavano l’Eremo. Emergono
dalle nebbie obliviose del tempo alcune memorie. Si tratta di cessioni e di vendite suggerite parrebbe dalla
difficoltà di amministrare i beni troppo distaccati dal complesso dei latifondi.
Il 5 dicembre 1519 l’Abbazia vende alcune terre in località san Guiniano ( Sanguignano in valle Ardivestra
sopra Godiasco).
L’anno dopo l’Abbate fra Celso reggente di Sant’Alberto, in qualità di sindaco del monastero di san
Bartolomeo, accetta la rinuncia fatta in favore dell’Abbazia di beni e fondi situati a Villa di Parguario (
Bobbio). L’atto è rogato dal notaio Zanino della Mollia.
Il 15 aprile 1523 i monaci acquistano dei beni posti nelle ville di Monte e di Codio. Il 16 gennaio 1526
rappresentanti di sette ville circostanti a Butrio giurano fedeltà e obbedienza nelle mani di fra Giovanni
Giacomo Della Chiesa , di Milano, che governava l’Abbazia come sindaco da parte del monastero di San
Bartolomeo. Due particolari meritano rilievo: La cerimonia non priva di solennità si compie “ in quada sala
magna et inferiori” che fa pensare ad un monastero più vasto di quanto non indichino gli attuali avanzi.
L’altro particolare è un ricorso casuale ma non per questo meno interessante: Tanti anni dopo un Giacomo
Della Chiesa sarebbe diventato Papa Benedetto XV.
L’atto è rogato dal notaio Martino. Più che degli Abbati è l’ora dei sindaci e procuratori che agiscono sempre in
dipendenza degli Olivetani di Pavia.
Nel 1540 frate Francesco Dal Monte procuratore e governatore dell’Abbazia transige colla Fabbrica del Duomo
di Milano su certi diritti e dà in affitto alcuni terreni presso Volpedo a un Bernardo de Bidoni e a un Giovanni
de Sartennis.
Con quest’atto, che conferma i beni lontani si preferiva alienarli o affittarli ad altri per per tener più salda la
compagine dei latifondi circostanti l’eremo, la storia degli Olivetani a S.Alberto si avvia alla conclusione.
L’amministrazione di Butrio presentava per gli Olivetani troppe difficoltà. Uno dei Marchesi Malaspina,
Cesare, era in lite con i monaci. Pretendeva di aver giurisdizione su alcuni luoghi soggetti al monastero e vi
aveva fatto intimare dei proclami coi quali obbligava quegli abitanti a notificargli la loro proprietà. Essi
obbedirono. I monaci ricorsero all?imperatore Carlo V, ossia al Senato di Milano, al quale in data 2 agosto
1540 emanò un rescritto ordinate al Marchese Cesare di presentare le sue ragioni giuridicamente e di desistere
da ogni innovazione.
Durante queste controversie che già da sole stancheggiavano gli olivetani un grave fatto di sangue contribuì in
misura determinate ad allontanarli da sant’Alberto.
Un loro monaco di nome Giovanni Antonio, procuratore, sorpreso nel territorio di Godiasco, e precisamente in
località detta Campora, ai piedi di Nazzano, da uno o più sicari, venne assassinato o per ordine ricevuto o a
scopo di rapina. ( Manoscritto di A. Tonso citato da C. Goggi nella storia della Diocesi di Tortona Vol I).
Bastò per decidere gli Olivetani a ritirarsi definitivamente da sant’Alberto.
Siccome la Casa Sforza di Roma godeva già da tempo parte del Marchesato di Varzi e Menconico e desiderava
arrotondare i suoi possessi nelle vicinanze, si trattò dai monaci Olivetani con detta Casa la permuta dei beni di
Sant’Alberto con quelli di san Pietro di Breme.
Il 1 luglio del 1543 il Papa Paolo III con Bolla datata da Busseto concedeva agli Olivetani che il monastero di
Sant’Alberto e la chiesa arcipresbiterale di Pizzocorno perpetuamente uniti fossero permutati con la chiesa di
san Pietro di Breme. Con la medesima Bolla nominava Abbate Commendatario Mario Sforza dei Conti di Santa
Fiora che non aveva ancora compiuto i tredici anni, dandogli per procuratore il Marchese don Mercurio
Malaspina arciprete di Varzi. ( Gli Sforza divennero Conti di santa Fiora per eredità Aldobrandeschi).
L’Abbate Lugano, un po’ melodrammatico ma sinceramente commosso, così commenta la scomparsa dei
monaci da Sant’Alberto: “ la seconda metà del secolo XVI vide gli ultimi suoi abitatori partirsi da quella valle
incantevole e giunti su quel dorso che sta di fronte allo storico edificio scuotersi dai sandali la polvere di quel
luogo pio santificato da tanti uomini di eccellente virtù e poi profanato”: ( Lugano Op, pag.34).
ULTIME VICENDE E SOPPRESSIONE DELL’ABBAZIA.
Ritiratisi gli Olivetani la chiesa rimase affidata a un Vicario che
veniva nominato e meschinamente retribuito dal Commendatario.
Fra i documenti della Curia Vescovile troviamo infatti l’atto di
nomina di don Maurizio Dallocchio a rettore della chiesa di
Sant’Alberto fatta nel 1625 dal Cardinal Francesco Barberini e
quello con cui Mons. Andujar nel 1739 nominava alla stessa
carica don Domizio Monticelli di Bobbio. Questa dunque sarebbe stata la prassi seguita dopo la partenza degli
Olivetani.
Mentre la chiesa di Sant’Alberto perdeva gli usi monastici, gli Abbati Commendatori, salvo rare eccezioni, si
godevano le rendite della ricca Abbazia, trattenuti da altre cure a Milano, a Roma, o altrove.
In nome dell’Abbate fanciullo, Mario Sforza, l’8 febbraio 1546 vengono affidate al nobile Pietro marchese di
Berteris abitante a Viguzzolo delle terre poste in Volpedo, per lire 36 annue, con atto rogato dal notaio
Lanfranco de Levatis di Casteggio. Dieci anni dopo al giovanissimo Abbate succedeva Guido Ascanio Sforza
anch’egli dei Conti di santa Fiora, uomo pio e munificente, eletto cardinale a 16 anni da Paolo III suo zio e
zelantissimo della religione.
Altre terre sono date in affitto tra monte bello e Fortunago. Egli morì ancor giovane a Piacenza il 7 ottobre
1561.
Gli succedette suo fratello Alessandro Sforza che nel 1572 troviamo in lite col Marchese di Oramala Ercole
Malaspina per il possesso della valle di Nizza. Il Senato di Milano appoggiò il Malaspina dichiarando
clandestina la riscossione dei fitti e dei redditi compiuta dall’Abbazia di Butrio.
Nel 1586 era Abbate Commendatario Mons. Corrado Asinari conte di San Marzano e Costigliole, della più
antica nobiltà astigiana, che meritò dalla santa Sede la somma dignità del romano patriziato. Ce ne dà conferma
una ricevuta di pagamento fatto il 1 dicembre 1586 da un suo agente per la somma di lire 49 e soldi 19 sborsata
al seminario di Tortona a conto della mezza decima imposta dal Vescovo. Morì nel 1590 arcivescovo di
Vercelli. Gregorio XIV nominò dopo di lui Abbate un religioso dei Conventuali di San Francesco, fra
Costantino Sarnoni, anc’egli cardinale.
Nel 1603 tornarono i santa Fiora col Card. Francesco Sforza nominato Papa Clemente VIII. Nel 1625 fu
Abbate Commendatario Francesco Barberini, testè citato, e nel 1628 il card. Antonio Barberini nipote di
Urbano VIII. E’ questi l’Antonio detto juniore per distinguerlo dallo zio Antonio seniore fratello del Papa
ricordato dal Manzoni nel capitolo XIX dei Promessi Sposi, e che costruì la chiesa dell’immacolata a Roma,
dov’è il famoso ossario.
Sotto il suo governo l’Abbazia, potente di aderenze, venne investita del castello di Sagliano che Federico
Barbarossa aveva dato in feudo al Malaspina nel 1164.
Ancora un Barberini, il card. Vincenzo risulta Abbate da un documento del 31 gennaio 1640.
Gli succedette il card. Virginio dei principi Orsini. I beni dell’Abbazia furono in quell’epoca posti sotto
sequestro della Camera Ducale di Milano, perché l’Abbate era diffidente della Corona di Spagna; e le entrate
furono esatte per venti anni dal Referendario di Tortona. ( Archivio del già Fondo Religioso di Milano).
Morto l’Orsini nel 1669, fu nominato Abbate da Clemente IX il nobile Giacomo Parravicini di Valtellina. Il
sequestro fu tolto nel 1674 e l’Abbazia rientrò nel pieno possesso dei suoi beni; anzi il Parravicini investì il
priore di santa Mustiola dei terreni posti in Monte Segale ( Valle Ardivestra) e si rivelò abilissimo nel
promuovere gli interessi dell’Abbazia. Egli nel 1692, in qualità di feudatario Abbate e perpetuo
Commendatario, nominò il notaio Domenico Schiavone podestà di Pizzocorno e Butrio. La carica di podestà
durava due anni. Da esso dipendevano i consoli.
L’Abbate Parravicini morì il 12 gennaio 1693 e dopo un anno d’interregno, durante il quale si avvicendarono
come rettori Bartolomeo Rovaudo e Bernardino de Ambrosiis, fu eletto da Papa Innocenzo XII con bolla del 20
marzo 1694 il card. Ferdinando D’Adda, e alla rinuncia di questi ( 1718) da Papa Clemente XI, con Bolla del
26 marzo 1719, il lrev. Giovanni Maria Rossi che non era cardinale ma semplice rettore parrocchiale della
chiesa di Monte Segale, feudo dei Conti Gambarana.
A questo Abbate di origine Tortonese succede il Conte don Ercole Marliani milanese che però l’8 aprile 1738
rinuncia alla carica chiedendo a mezzo del Vescovodi Bobbio mons. Andujar un’annua pensione di 152 ducati
sul reddito dell’Abbazia “ che è di rendita lire 3000”; ciò che ottiene con un decreto di Carlo VI da Vienna il 20
agosto di quell’anno.
Il nuovo Abbate fu nominato da Clemente XII nella persona di mons. Giuseppe de Andujar dell’ordine dei
Predicatori.
Pochi mesi dopo, il Trattato di Vienna del 18 novembre 1738 ratificava il passaggio di Tortona alla Casa Savoia
. Ma sant’Alberto dipendeva da Voghera e dovette attendere fino al trattato di Aquisgrana del 18 ottobre 1748
per essere annessa al Piemonte.
Il Manzoni a questo punto direbbe: Ci siamo imbattuti in una di quelle figure che impongono un po’ di sosta.
Mons. Andujar aveva già occupato le più importanti cariche del suo Ordine e da Benedetto XIII era stato
elevato all’impiego di Inquisitore generale.
Fu Vescovo di Bobbio per tre anni e di Tortona per 40.. Don Goggi nella sua raccolta di notizie storiche per la
Diocesi di Tortona ce ne dà un ritratto morale. Era d’ingegno eccellente, dottissimo in ogno ramo di sapere,
consultato dai Sovrani Carlo Emanuele e Vittorio Amedeo III. Nutriva grande amore per l’Italia, dov’era nato
nel 1669, in quel di Como, da padre spagnolo e madre lombarda. Rimproverato da un generale spagnolo di
parteggiare per Casa Savoia, rispose: “ Confesso e mi glorio d’aver un padre spagnolo, ma mi sento italiano e
tutto al più la Spagna posso nominarla come mia patria con l’aggiunta di antica”. Provocò la soppressione del
monastero di Viguzzolo e con i ricavati ed i redditi fondò un’opera pia per i parroci vecchi ed inabili. ( Un
bellissimo precedente per la Casa di Riposo della Guardia a Tortona). La strada che da san Rocco porta al
Castello fu suggerita da lui. Ecco un brillante aneddoto che lo riguarda. Quando diede l’esame da vescovo finì
in un bagno di sudore e uno degli esaminatori disse: “ Eh, monsignore, l’abbiamo fatta sudare!” “ Sì, è vero,
rispose pronto e arguto, io ho sudato acqua, però se avessi dato io gli esami a loro li avrei fatti sudar sangue”.
Questo zelante vescovo, che tanta buona memoria lasciò in diocesi, s’interessò, come Commendatario,
dell’Abbazia visitandola e amministrando la Cresima ai fanciulli, previa autorizzazione del Vescovo di Tortona,
quand’egli era ancora a Bobbio.
La noncuranza degli altri Abbati Commendatari non deve scandalizzare se riporta ai tempi, agli usi, e alle molte
cure che li occupavano. Ve ne furono anche dei generosi nel provvederla. Altri magari davano gli ordini ai loro
procuratori ma questi li trasgredivano malgrado le ripetute lagnanze e rimostranze del vescovo di Tortona sul
quale gravava una maggiore responsabilità per il funzionamento parrocchiale dell’antica Abbazia.
A mons. Andujar morto il 2 dicembre 1782 succedette come Abbate mons. Giuseppe Morozzo dei Conti della
Rocca e di Bianzè, nominato con Bolla del 1783 da Pio VI. Ebbe anch’egli il titolo di cardinale e fu vescovo di
Novara dove morì nel 1842. Donò all’Abbazia una pisside d’argento finemente cesellata e un ostensorio pure
d’argento.
Siamo agli sgoccioli di quel sistema di vita imperniato sul rispetto delle tradizioni e socialmente ancora ligio a
certi usi feudali come risulta da un curioso documento citato dal Sangiuliani. E’ una lettera scritta l’11 marzo
1717 dal can. Cattaneo, sembrerebbe al Conte Gerolamo Gambarana, per informarlo della situazione
dell’Abbazia di Sant’Alberto ( Nota: E’ nell’archivio del già Fondo Religioso di Milano). Ci sono notizie molto
utili per chi vuol farsi un’idea del costume dei tempi. “ Particolari” sono chiamati i sudditi dell’Abbazia. Questa
è “posta fra monti orridi e vede il sole appena alcune ore del Giorno” ( Qui proprio non ci siamo!). Si accenna
all’obbligo di mantenervi un curato per l’amministrazione dei Sacramenti alla “ Villetta” ( una frazione, la più
importante di Butrio). Interessante il luogo e specificato elenco delle entrate dell’Abbazia: “ fromento, biada,
segale, castagne, vino , frutta, cera, capponi, pollame, e altre cose simili”, ma “ quell’entrate sono minute” (
ripartite) in modo che alcuni particolari pagano “ un ottavo di staia di frumento, due boccali di vino, un quarto
di cappone”. Questi dipendenti tenuti all’annuo omaggio sono in numero di circa duemila, non raggruppati
intorno all’Abbazia ma distribuiti anche a distanza di 10 e più miglia, “ in altre terre e feudi” più lontani. Si
fanno dei nomi, tra i quali: Sagliano, Valdinizza, S. Albano, Cecima, Lumello, Godiasco, Pozzol Groppo,
Volpedo, Casalnoceto, Viguzzolo, Pontecurone, Tortona, Voghera, Montebello, Borgomanero piacentino, ( ma
sarà Borgonovo) e fin la Fabbrica del Duomo di Milano.
L’Ottantanove è prossimo e spazzerà via ogni avanzo d’uso e costume feudale abbattendo purtroppo alcune
delle più sane e religiose istituzioni; e segnerà la fine dell’Abbazia.
Mons. Giuseppe Morozzo chiude la lista degli Abbati Commendatari di Sant’Alberto.
L’uragano rivoluzionario probabilmente non fu avvertito nella iniziale sua esplosione e per qualche anno non
produsse conseguenze notevoli fra di noi; ma, salito all’orizzonte politico europeo l’astro di Napoleone, il
Piemonte fece parte dell’impero, il suo Re si rifugiò in Sardegna e le leggi d’incameramento dei beni
ecclesiastici entrarono in vigore anche a S. Alberto.
L’8 giugno 1805 i beni dell’Abbazia furono requisiti dal Governo. Ai monaci ivi dimoranti fu corrisposta
un’annua meschina pensione. Il Sangiuliani ce ne fornisce i nomi che riporteremo per quel senso di simpatia
che ispirano le cose volte al tramonto: Giuseppe Govi, priore, Giovanni Angelo Rabbi parroco, Evangelista
Palotti sacerdote, Amadio Gnudi sindaco, Gaetano Morelli viceparroco, Giacomo Ramponi laico, Giuseppe
Gotti laico. ( Ci sarà da fare un’osservazione sulla presenza di codesti monaci essendosi la tradizione monastica
spezzata definitivamente molto tempo prima).
Cinque anni dopo, è precisamente il 25 aprile 1810, l’Abbazia venne soppressa e il 14 maggio salirono al
Monastero gli agenti governativi per fare l’inventario dei beni e degli oggetti. Un colpo di penna troncava la
vita di un’istituzione tra le più gloriose della nostra diocesi e degna di figurare negli Annali della Chiesa.
Gli inventari redatti nella triste primavera del 1810 sono depositati nell’archivio del già Fondo Religiosi di
Milano e da essi veniamo a sapere che i monaci di sant’Alberto possedevano ancora una biblioteca di 1860
volumi, tutti dispersi, molti ricchi arredi sacri e diversi oggetti d’arte.
Questo però non significa che il monastero e la chiesa fossero degni del loro più glorioso passato.
LA SERIE INCOMPLETA DEGLI ABBATI
Prima di conchiudere esporremo osservazioni suggerite dagli stessi documenti
che ci sono serviti di guida.
La storia così avara non ci ha conservato che alcuni dati che chiameremo di
ordinaria amministrazione. Ciò non toglie che essa si articoli nelle vicende più
celebri incontrando nomi illustri di Papi, d’Imperatori, di Sovrani.
Non è possibile neppure esibire l’intera serie degli Abbati. Il Sangiuliani che
per primo ha lavorato sodo sui documenti ci presenta tra il 1290 e il 1407 un
vuoto di oscurità rotto appena da due date aride e spoglie: il 1317 e il 1380.
Mons. Legè, che sorretto da notevoli capacità di storico ha tentato di risolvere
il rebus di quel “ lungo silenzio”, è riuscito appena a inserirvi un’altra data: il
1346. Nessun nome di persona per quel periodo di 117 anni.
L’anno indica o l’epoca della elezione o la data di qualche avvenimento relativo al personaggio.
Sec. XI Alberto fondatore morto il 5 settembre 1073.
1073 Benedetto I
1085 Guido
1134 Pietro
1145 Benedetto II
1158 Guglielmo nobile Cachi di Tortona
1180 Ponzo
1194 Enrico
1197 Fulcone
1203 Ugo
1228 Tebaldo de Vira
1237 Guido ( da un documento citato da Goggi Vol. I pag 195 risulta Guido fin dal 1233)
1290 Marenco monaco ( sindaco e procuratore)
1316 Sigimbaldo de Nivione
1328 Alberto Malaspina (Nota: Archivio Segreto Vaticano, Registro Avignonense n° 29)
1407 Antonio dei Conti di Lomello
1449 Stefano de’ Landolfi monaco ultimo Abbate regolare.
1453 Taddeo de Noxeto primo Commendatario ( Sia Sangiuliani che Legè nelle opere citate segnano alla data
1453 Taddeo Busseti, invece di Taddeo di Noceto, ma si tratta di un errore e ce lo segnala lo stesso Legè nel
numero speciale su Sant’Alberto edito nel 1926. Il Bussetti d’altronde si chiamava Giovanni)
1461 Emanuele di Zebedassio
1469 – 1472 Matteo nobile da Ponzano di Tortona
1472 Giovanni Antonio nobile Bussetti di Tortona
1481 Pietro Marco nobile Sannazzaro di Rivanazzano
1494 Niccolò nobile Fieschi di Genova cardinale
1516 Benedetto della Chiesa ( procuratore di S. Bartolomeo in Strada di Pavia)
1520 Celso de Corrigo monaco( sindaco e procuratore)
1526 Giovanni Giacomo Della Chiesa ( sindaco e procuratore)
1540 Francesco Del Monte monaco
1543 Mario nobile Sforza dei Conti di Santa Fiora di Roma
1559 Guido Ascanio Sforza conte di Santa Fiora
1564….
1572 Alessandro Sforza cardinale
1586 Corrado Asinari conte di san Marzano e di Castiglione d’Asti
1590 Costantino Sarnoni, dei Conventuali di S. Francesco, cardinale
1603 – 1624 Francesco nobile Sforza di S. Fiora di Milano
1625 Francesco Barberini cardinale
1628 Antonio Barberini cardinale
1640 Vincenzo Barberini cardinale
1660 Virginio dei Principi Orsini cardinale
1669 Giacomo nobile Parravicini di Como cardinale
1693 Francesco nobile D’Adda di Milano cardinale
1714 Cosimo nobile Castiglione di Firenze cardinale
1719 Francesco nobile d’Adda di Milano cardinale
1719 – 1730 Giovanni Maria Rossi di Montesegale
1730 - 1738 Conte Ercole Marliani di Milano
1738 -1782 Giuseppe Luigi de Andujar di Milano ( Vescovo di Bobbio indi di Tortona)
1743 Ludovico Andujar vescovo di Tortona
1782 Ottavio nobile Buonamici di Voghera ( Economo).
1783 – 1784 Sigismondo Gerdil
1786 Giuseppe Morozzo governatore di Civitavecchia poi vescovo di Novara e cardinale, ultimo Abbate
Commendatario.
1785 – 1819 Don Carlo Giuseppe Morazzo della Rocca di Asti
1809 – 1829 Don Antonio Tornari ( Rettore)
1829 – 1836 DonAgostino Panigazzi ( Rettore)
1836 – 1857 Don Carlo Giorgetti ( Rettore)
1857 – 1868 Don Giovanni Marione ( Rettore)
1868 – 1900 Don Giuseppe Bevilacqua ( Rettore).
1900 – 1920 Don Paolo Cassola (Rettore).
1920 – 1921 Don Giuseppe Zanocchi ( D’ora in poi saranno tutti Religiosi della Congregazione dei Figli della
Divina Provvidenza Opera San Luigi Orione).
1921 -1937 Don Domenico Draghi
1937 – 1943 Don Masci Salvatore
1943 – 1944 Don Scordo Carmelo
1944 – 1948 Don Angelo Mezzalira
1948 – 1957 Don Francesco Scarsoglio
1957 – 1976 Don Emilio Chiocchetti
1976 – 1984 don Angelo Mezzalira
1984 – 1987 Don Sergio Zanatta
1987 – 1990 Don Giuseppe Meneghetti
1990 – 1993 Don Mario Villa
1993 – 1995 Don Giorgio Ancelliero
1995- 1999 Don Arcangelo Campagna
1999 – 2001 Don Francesco Maragno
2001 – 2004 Don Severino Tolfo
2005- 2011 Don Luigi Fiordaliso
2012-…..Don Vincenzo Marchetti.
Tra gli Abbati Commendatari dovrebbe figurare anche un Castiglioni fiorentino in un’epoca imprecisata.
NOZIONI GENERALI A INTEGRAZIONE DELLE NOTIZIE STORICHE.
Una domanda che viene spontanea è quella relativa al numero dei monaci che risiedevano a Sant’Alberto, se
pensiamo che a Cluny, per esempio, ne dipendevano dall’Abbazia fino a cinquemila.
All’Eremo propriamente detto abitavano pochi monaci che di frequente si avvicendavano, come appare dai
pochi documenti che ci sono pervenuti.
Il p. Ildebrando Mannocci, benedettino, ci informa da Parma che anche nella sua comunità in epoche remote,
per esempio nel quattrocento, si verificavano a breve distanza di tempo cambiamento di personale.
In un documento del 1228, quando l’Abbazia è in pieno rigoglio, il numero dei monaci di Sant’Alberto
segnalato è di dieci, compreso l’Abbate. Forse non sono tutti quelli che vi dimorano e questo si può desumere
dal fatto che vengono nominati solo perché compiono un istrumento. C’è il venerabile Abbate don Teobaldo de
Vira, c’è il priore del monastero prete don Guido e con essi altri otto confratelli; prete Bernardo, prete don
Giovanni, prete don Bertanfo, don Alberto, don Bonifacio, don Serpigio, don Facio, don Bernardo.
Il “ don” non porta necessariamente il sacerdozio; era possibile o per la nobiltà della famiglia da cui
provenivano o per la carica che rivestivano come decani; e naturalmente per l’Ordine Sacro.
Trascorrono appena cinque anni e un altro documento del 1233 ci dà dei presenti all’Eremo un elenco quasi
interamente nuovo. Intanto l’Abbate è Guido ( forse il priore di cinque anni prima), il priore è Ugo ( notiamo
come le cariche di Abbate e di priore siano ben distinte), e si ricordano undici monaci riuniti con essi a Capitolo
per fare un altro istrumento. Essi sono: don Bernardo, prete Bernardo Faunotti, don Superfio, don Rolandino,
don martino, Michele sindaco del monastero, Oberto converso, Guglielmo converso, prete Lione, Bonifacio
monaco, Giovanni converso e “ i frati tutti”.
L’ultima frase “ i frati tutti” lascia comprendere che erano più di tredici gli abitatori del monastero.
Anche qui p. Ildebrando mi segnala che se si tratta di Atti Capitolari è ben facile che il documento non riporti
né il numero totale dei componenti l comunità, né gli stessi nomi.
Naturalmente una comunità di monaci che si aggirava, dobbiamo credere, sulla quarantina esigeva un
monastero di dimensioni più ampie di quello che indicherebbero i miseri avanzi che al principio del secolo ne
testimoniavano melanconicamente l’esistenza.
Ma l’autorità dell’Abbate si esercitava anche su quei monaci che egli stesso destinava a popolare le celle
sparse nel territorio della sua giurisdizione o ad officiare le chiese dipendenti dall’Abbazia. Perciò cresce la
famiglia religiosa, sebbene non ci sia possibile fornire di essa, neppure per un dato periodo, una cifra almeno
approssimativa.
Si aggiunga che l’uso delle congregazioni benedettine voleva che i giovani si preparassero alla vita religiosa e
ai sacri studi in comunità. Che cosa dobbiamo pensare dei “ probandi” e dei “ novizi” di sant’Alberto? E’
presumibile che crescessero nel monastero centrale, oppure venissero formati in celle dipendenti?
Nei documenti a noi pervenuti non troviamo nessun cenno agli studenti che certo non dovevano mancare,
sebbene, poi praticamente il contributo di personale potesse venire anche da sacerdoti cresciuti altrove e da laici
adulti.
Gli avvicendamenti procedevano dall’esigenza di provvedere alle varie celle che per costituirsi e funzionare
dovevano accogliere almeno sei religiosi. L distinzione di titoli tra Abbate e priore non avrebbe ragione di
essere se l’autorità de primo non si estendesse sull’intera circoscrizione abbaziale, mentre quella del secondo
era delimitata a delle funzioni che egli compiva in quel monastero.
Fino all’avvento degli Abbati Commendatari l’Abbazia fu fiorente per numero di monaci; poi, venuta meno
l’osservanza religiosa, la popolazione locale si contrasse anche per incidenze di guerre e di contagi e per l’avida
concorrenza dei signorotti vicini che rendevano meno spirabile l’aria di Sant’Alberto agli amanti di pace e di
solitudine.
Al partire degli Olivetani il sacro luogo non risuonò più del canto dei monaci e la famiglia religiosa potè dirsi
dispersa, esaurita, spenta. Il Vescovo diocesano doveva subentrare col suo clero dove scarseggiava l’elemento
religioso. Rimaneva il titolo di Abbazia e rimanevano le doviziose rendite che finirono ai tempi di Napoleone
nelle fauci ingorde dei conquistatori.
Sant’Alberto si ridusse a una povera chiesa vestita della tristezza dei tempi passati.
IL PERIODO SUCCESSIVO ALL’ESTINZIONE DELL’ABBAZIA.
E’ l’epoca più squallida quella che va dal 1810 al 1900. Quasi un secolo,
durante il quale la polvere dell’oblio si deposita sull’antico monastero.
Il canonico Pollini assegna al 1595 la data di fondazione della parrocchia di
Sant’Alberto. Infatti se ne parla nel Sinodo indetto quell’anno dal vescovo
Gambara. Dipendeva dalla Vicaria di san Ponzo smembrata da Bagnaria.
Sovrano civile era lo stato di Milano ( cioè la Spagna); feudatario l’Abbate.
Il Sinodo celebrato da Mons. Carlo Settala nel 1659 divise la diocesi di
Tortona in 8 regioni comprendenti ciascuna diverse pievi. Sant’Alberto fu
assegnato alla sesta regione che faceva capo a Momperone con le parrocchie
di Brignano, S. Sebastiano, S. Ponzo, Gremiasco, e Varzi. Dall’arcipresbiterale di S. Ponzo dipendeva la chiesa
parrocchiale di Sant’Alberto con le società del SS. Sacramento e della dottrina cristiana e con l’oratorio di
Mollie.
Nel 1732, al dir del Pollini, ebbe il primo vicario perpetuo secolare.
Dal Papa Pio VII Napoleone ottiene una Bolla in data 10 giugno 1803 in virtù della quale la diocesi di Tortona
viene incorporata in quella di Alessandria; ma l’esecuzione di essa subì un notevole ritardo e quando il 17
luglio 1805 andò a effetto un decreto del card. Caprara univa Tortona, con Bobbio e con la stessa Alessandria,
alla diocesi di Casale. Tortona rimase distretto ecclesiastico, ma perdette ugualmente diverse parrocchie a
beneficio di altre diocesi limitrofe.
Sant’Alberto, assegnato alla vicaria di Valdinizza passò sotto il distretto ecclesiastico di Bobbio. Col trattato di
Vienna del 1815 i luoghi della diocesi già spettanti al Piemonte tornarono all’antico sovrano. Tortona, Voghera
e Novi furono le prime due ricostituite la terza creata capoluogo di provincia e tali rimasero fino al 1860,
quando Voghera divenne città lombarda dipendente da Pavia.
Pio VII, previo accordo con Vittorio Emanuele I, ristabilì nel 1817 la diocesi, peraltro modificata nella sua
estensione. Andò perduta in favore di Alessandria la parrocchia di Bosco che aveva dato i natali a S Pio V e
tornarono quelle di Valdinizza e Sant’Alberto. La diocesi che contava 264 parrocchie, distaccata dalla provincia
ecclesiastica di Milano, passava a quella diGenova. Ebbe assegnato come vescovo il patrizio tortonese mons.
Carlo Carnevale consacrato dal card. Morozzo in Novara nel 1819.
Il suo successore mons. Negri tenne un Sinodo nel 1843 durante il quale le parrocchie furono distribuite in 12
distretti e vicariati. Il distretto di Varzi aveva dei centri di vicaria in Bagnaria, Cegni, Pei e Pizzocorno.
Sant’Alberto dipendeva dal vicariato di Bagnaria.
RINASCITA DELL’EREMO
Come aveva preconizzato monsignor Igino Bandi nel raccomandare a don Orione che si allegasse all’istruzione
della pratica per l’officiatura di S. Alberto del 1 marzo 1902: “ una
dichiarazione della Curia con la quale si manifesti il desiderio che,
presso la tomba di Sant’Alberto, sorga e si consolidi l’opera degli
Eremiti, la quale avrebbe maggior importanza dal culto pubblico che
venisse dato al Santo da tutta la diocesi, finalmente nel maggio 1920,
con il ritiro dalla Parrocchia di don Cassola, destinato alla confinate di
Livelli, don Orione potè realizzare il caro progetto, prima
infaustamente naufragato, di riutilizzare l’antico Cenobio per la sua
Opera.
Narra al riguardo don Giulio Florian: “ Il 4 giugno seguente, giorno
solenne per il convegno all’Eremo per la festa dei fanciulli, egli stesso
annunciava alla popolazione di S. Alberto di aver chiesto al Vescovo
la gestione della Parrocchia e di averla ottenuta in assegnazione,
stabilendovi i suoi religiosi, vale adire parroco ed eremiti. Il 16
gennaio 1921 avveniva la presa di possesso della parrocchia di S.
Alberto da parte della Congregazione di don Orione e dei suoi Eremiti.
Don Giuseppe Zanocchi, scelto da don Orione, era a capo di quella
piccola schiera di suoi figli prediletti, oltre che parroco di S. Alberto”.
Don Zanocchi verso il termine del 1921 fu surrogato da Don Domenico Draghi, affiancato da tre eremiti dediti
alla preghiera ed al lavoro ai quali, il 13 maggio 1923, si unirà il chierico cieco Cesare Pisano, prendendo il
nome di Frate Ave Maria, la perla delle due nuove istituzioni volute da don Orione; gli Eremiti ciechi nel 1923
e le Sacramentine cieche Adoratrici nel 1927.
Sotto la guida di don Draghi, nell’estate del 1926, si realizzò l’ampliamento dell’ edificio conventuale
occupando l’orticello adiacente. L’antico pozzo invece riaffiora nel ricordo di don Giulio Florian: “ Il cortile
del pozzo, vale a dire del vecchio monastero, era ridotto a orto. Il pozzo stesso era ricoperto da una piccola
tettoia, spiovente, sostenuta da due muraccioli laterali al pozzo stesso. L’orto era diviso in due da una pergola
ricoperta di verzura, credo vite, nella bella stagione. Alla fine del pergolato iniziava un sentiero che scendeva
fra cespugli e pietre o blocchi di pietre, residui dell’antico monastero. Pareva di aggirarsi, in piccolo, per i fori
di Roma. Al fondo, da un pianerottolo erboso, si potevano vedere i resti del muraglione che sosteneva un tempo
l’antico convento. Tutto ciò risulta da una fotografia risalente ai primi anni del 1900 e da ricordi personali di
poco più recenti”. Si edificò un vasto salone per gli ospiti con dodici stanzette soprastanti da destinare agli
eremiti mentre, nella quiete di S. Alberto, due anni dopo, la vita ascetica dei monaci fu, se non turbata, per lo
meno ridestata dall’arrivo degli aspiranti alla Piccola Opera di Voghera e di Tortona, ospitata dapprima nelle
nuove strutture create da don Draghi, e dal 1930 circa, in un enorme capannone di legno su due piani di circa
200 metri quadrati, ricco di giacigli fatti di paglia sparsa sul pavimento, smantellato solo nel 1940. ( Era
addossato alla torre).
In quegli anni l’Eremo e i boschi che gli fanno da corona si rianimarono di voci e grida giovanili alternate a
preghiera che si diffondeva per le valli circostanti: “ riposavano i probandi sulla paglia. Passeggiate, talora
anche lunghe al Giarolo, al Penice, canti, rallegravano quella distensione accanto al vecchio Cenobio,
santificata dalla preghiera dei nostri eremiti ciechi e veggenti”. ( da un bollettino dell’Opera ).
Nel contesto poi di una sempre maggiore valorizzazione del
complesso ecclesiastico ed abbaziale di S. Alberto, si colloca
la celebrazione del 25° anniversario della ricognizione delle
spoglie del Santo, rinviate al 1926 per non farle coincidere
con lo svolgimento dell’Anno Santo. In quel frangente le
sacre spoglie furono trasportate a Tortona presso la Piccola
Opera, da dove, dopo la venerazione popolare, con un grande
pellegrinaggio indetto dal Vescovo, in occasione di quelle
onoranze, ritornarono all’Abbazia già collocate in un
simulacro a grandezza naturale riproducente le sembianze del
Santo, modellato dalle Suore del Cottolengo di Torino,
contenuto a sua volta in grande teca lignea realizzata dagli
apprendisti falegnami dell’Istituto Manin di Venezia con legno ricavato da alberi di castagni e faggi dei boschi
di S. Alberto.
Scriverà don Sparpaglione ricordando quella giornata di
sabato 4 settembre 1926: “ Una fila di macchine si ordinò
davanti all’episcopio. La prima recava l’urna con don Orione;
seguiva quella del Vescovo Grassi, accompagnato dall’Abate
don Placido Lugano procuratore generale degli Olivetani e
figlio della diocesi tortonese; altre macchine avevano a bordo
prelati, canonici, autorità, giornalisti, figli della Piccola
Opera, devoti e pellegrini. Il corteo si mosse sotto un’acqua
torrenziale il cui scroscio si confondeva col tripudiante
concerto delle campane. Ad ogni centro attraversato si
rinnovavano ponenti dimostrazioni di fede e d’entusiasmo.
Mons. Vescovo benediceva le folle con una reliquia del santo.
Era un’apoteosi che cresceva in intensità man mano che si avvicinava alla valle Staffora. Viguzzolo, Castellaro,
Volpeglino, Casalnoceto, Rivanazzano, Godiasco, Molino del Conte, Pizzocorno: altrettante tappe di questo
festoso viaggio trionfale. L popolazioni offrivano fiori, sventolavano bandiere, mentre le campane rotolavano
nel cielo gravido di pioggia note di giubilo incontenibile… La campana dal suo d’argento squillò a festa e a
raccolta e una processione notturna, punteggiata di fiaccole si snodò attraverso i boschi per raggiungere le
frazioni del piccolo villaggio… segnando l’inizio di una nuova
tradizione tra le più suggestive.”
Il 26 maggio 1937 intanto, a don Draghi successe don Salvatore
Masci accolto, pochi mesi dopo, alla festa dell’Eremo, dallo
stesso don Orione, ritornato dall’Argentina dopo tre anni di
assenza ed accorso a Butrio per partecipare alla tradizionale
processione con le fiaccole.
Sei anni dopo anche don Masci, per motivi di salute, lasciava S.
Alberto, in cui subentrava don Carmelo Scordo il 10 settembre
1943, nei giorni dunque infausti che seguirono all’armistizio ed
allo spopolamento del nostro Esercito, allorquando, come
accadde per altri centri religiosi, anche il nostro eremo si
trasformò in un opportuno rifugio per militari sbandati e poi
renitenti alla nuova leva della costituita Repubblica Sociale
Italiana, coinvolgendo così quel piccolo mondo nel turbine della
guerra partigiana, come testimonia lo stesso parroco: “ Nei mesi
aprile e maggio del 1944 si sono costituite le cosiddette Formazioni partigiane della Giustizia e Libertà, ed
allora parecchi ospiti nascosti, compreso il comandante ed altri ufficiali, si sono spostati verso Zavattarello,
Bobbio e paesi vicini. Alcuni però rimasero all’Eremo fino al termine della guerra e mi aiutarono non poco
nella coltivazione dei campi, nei boschi, in casa e nei viaggi con i buoi a Pontenizza”.
A Don Scordo l’Abbazia deve inoltre il restauro, compiuto nell’estate del 1944, della Chiesa di S. Maria,
operato sotto l’egida della Soprintendenza ai Monumenti di Milano che l’affidò alle cure del prof. Ugo Nebbia.
Per l’occasione fu ristorato il vecchio intonaco ottocentesco dell’aula, affrescata con uno stile lombardo che
richiamava le quattrocentesche affrescazioni delle altre due Chiese dal pittore Domenico Fossati, che realizzò
una Annunciazione nell’area absidale e simbologie dei quattro evangelisti alle fiancate.
Nell’ottobre 1944 a don Scordo succede don Angelo Mezzalira a cui si deve la promozione presso il Genio
Civile di Pavia della domanda per ottenere l’acquedotto, costruito poi a beneficio delle popolazioni locali nel
1946 tra Casa Nobile e Casa Panzini.
Tra le realizzazioni di don Scarsoglio ricordiamo, nel 1953, il livellamento del terreno dell’area fronteggiante
l’ingresso attuale della Chiesa, con la creazione di una scaletta tra il primo e il secondo sagrato.
Il 23 marzo 1957 anche don Scarsoglio lasciava l’Eremo. Da Venezia vi approdava don Emilio Chiocchetti che
vi si mantenne per ben 18 anni realizzando, su stimolo di frate Ave Maria, importanti opere di riforma ed
ampliamento del complesso. Del 1959 fu dunque la creazione del grande terrazzo o belvedere, ricavato sulla
copertura di un manufatto rustico edificato per destinarlo a stalla per il bestiame ed a magazzino di derrate
alimentari ed attrezzi agricoli. Nel corso delle opere di sbancamento emersero i ruderi dell’antico Monastero,
capitelli, colonnine del chiostro, ed una pietra incisa con la data del 1107. Sempre don Emilio realizzò tra il
1968 ed il 1969, il comodo piano viabile che dal Cimitero comunale raggiungeva l’Eremo ed il suo sagrato a
cui seguì, nel 1971 il viale alberato verso la valletta del rio Borrione.
Intanto nel 1967, a tre anni dalla scomparsa in Voghera, furono traslate in S. Alberto le spoglie di Frate Ave
Maria, collocate in una cripta, su progetto dell’ingegner Scarabelli di Voghera, nell’area sottostante la parte
terminale della Chiesa, in un’arca di pietra, sormontata da un rilievo raffigurante una testa di Cristo dolente,
opera di un giovane scultore di Vicenza.
Fu quella un’anticipazione delle opere di ristrutturazione preventivata da Don Chiocchetti per celebrare
degnamente il novecentesimo della morte di S. Alberto, cadente nel 1973. Direttore dei lavori fu padre
Giovanni Maria Tognazzi del Convento cappuccino di Varzi, nel cui disegno di riforma si previde un ritorno
alle strutture più antiche, privandole di tutto quanto vi si era sovrapposto.
I lavori furono avviati nella Chiesa di S: Maria, riportata al suo
aspetto a pietra vista con sostituzione della pavimentazione che
portò alla luce le antiche sepolture dei monaci e degli abati ospitati
dal XII al XV sec.
Furono salvate solo le affrescazioni della volta. Nel 1974 la
Chiesetta era ultimata e riconsegnata al culto mentre si era
riformato pure il sagrato: “ con l’apporto di due scarpate di scalini
di pietra grezza, la prima a poco distanza dalla torre, e una seconda
a pochi passi dalla grande quercia. D’ora in avanti dovremo
nominare tre sagrati; l’inferiore, il medio di fronte alla torre; il
superiore nei pressi della grande quercia fino all’inizio delle strade.
Questo per intendersi.”.
Anche la Chiesa di S. Alberto ebbe il rifacimento della pavimentazione con lastre di pietra grezza, realizzato,
come le altre opere dall’impresa del capomastro Camerini Augusto, in tempo per la celebrazione tanto
agognata, svoltasi il 4 giugno alla presenza del vescovo di Tortona monsignor Canestri.
Dotato di un comodo impianto di riscaldamento, l’Eremo fu consegnato ai fedeli per sempre maggior culto
verso il Santo fondatore, ulteriormente onorato nel giugno del 1974 con il riadattamento della cappelletta
edificata nel 1926 su progetto del geometra Alessandro Torti di Molino del Conte, nella valletta del rio
Borrione ove sorgeva la grotta in cui l’asceta Alberto si ritirava a pregare.
In quello stesso autunno poi fu ripresa l’idea di frate Ave Maria per la creazione di un centro di spiritualità, da
ricavarsi dai rustici sottostanti il belvedere; iniziati in questi mesi, i lavori furono sospesi con l’inverno e non
più ripresi. Intanto nel 1976 il 28 settembre, don Chiocchetti lasciava S. Alberto per Udine, sostituito da don
Angelo Mezzalira, dopo quasi tre decenni di lontananza dall’Eremo. A lui si deve la ristrutturazione della
veranda posta presso la cucina, la selciatura del pronao d’ingresso, il rifacimento del tetto della torre, ed il
rimboschimento dell’area circostante. Nel 1979 poi furono ripresi i lavori per realizzare il Centro di Spiritualità
, mentre nel 1981 la Comunità Montana costruiva la nuova strada che dalla località Favaro o Passo della Croce,
attraverso il bosco di castagni, permette di raggiungere l’Eremo senza attraversare l’abitato soprastante.
Tracciata dalla Ditta Castelli di ponte Nizza, la nuova arteria fu ultimata con l’asfaltatura nell’ottobre del 1982.
Nel medesimo anno finalmente maturò nella sua completezza il progetto del Centro di Spiritualità, ideato da
Padre Giovanni Maria Tognazzi e realizzato dalla ricordata Ditta Castelli di Ponte Nizza con la direzione
dell’ingegner Tiziano Conti di Godiasco. La stessa impresa, sempre nel 1982, fu chiamata all’allargamento del
tracciato della strada Pizzocorno- S. Alberto, inaugurata il 10 luglio di quello stesso anno. Il nastro tricolore era
già teso attraverso la strada, coperta in quel punto da un drappo colorato. Nino Nobile teneva il vassoio con
forbice, e l’On. Panigazzi tagliò il nastro fra gli applausi della folla ivi radunata.
Nel novembre,seguente si ultimava il ricordato Centro con l’apposizione della grande ringhiera in ferro da
parte della Ditta Albertocchi di Godiasco, nasceva un altro cantiere edile in Butrio, destinato con 1983, al
prolungamento per sei metri dell’ala grande del Convento, terminata nel luglio 1984, epoca in cui, ricorderemo
il quinto centenario della affrescazione interna, con l’interessamento di Padre Tognazzi, si avviarono le dovute
opere di restauro da parte del pittore Luciano Bianchi sulle raffigurazioni del presbiterio della Chiesa di S.
Alberto. In quell’anno don Mezzalira fu sostituito in settembre da don Sergio Zanatta con il quale, nel 1985
sarà tracciato un organico progetto di intervento sulle opere pittoriche, seguito dal rifacimento dei tetti delle tre
chiesuole nel 1986.
(Testi di don Domenico Sparpaglione e di Fabrizio Bernini).
In questi ultimi decenni oltre ai lavori di ordinaria manutenzione ( e non sono pochi), segnaliamo il nuovo
complesso della Via Crucis all’esterno con la statua sul piazzale del Venerabile Frate Ave Maria realizzate nel
1998 e benedette durante la festa patronale di S. Alberto.
Il 29 luglio 1999 si è festeggiato il centenario di fondazione del ramo degli eremiti e
per l’occasione ci siamo recati a Stazzano AL, al Santuario del Sacro Cuore ove
avvenne la Vestizione dei primi tre eremiti di Don Orione, fra Gaetano, Fra
Vincenzo e fra Colombano.
Nell’estate del 2004 si è realizzato il lastricato di una gran parte del piazzale,
rendendo così più pulito e ordinato l’ingresso alla chiesa, e abbattendo qualche
barriera architettonica si può giungere fino alla tomba di Frate Ave Maria e al
chiostro con la sedia a rotelle… Nel 2008 siamo giunti a poter offrire un “Rifugio” che si tratta di una casetta
in legno con servizio igienico, e distributori automatici di bevande calde e fredde, per dare un coperto a
gruppetti, scout ecc… e per i pellegrini che di passaggio possono usufruire per mangiare al sacco in caso di
cattivo tempo…..
Nel 2008 la ristrutturazione della Cappellina nel luogo ove sorgeva la grotta di S.
Alberto con la posa della statua del santo in preghiera eseguita dallo scultore
Antonio De Paoli, benedetta dal Vescovo Mons. Martino Canessa Di Tortona nel
luglio 2009. Sempre secondo le possibilità e la sensibilità di chi ci è vicino si è
cercato di valorizzare l’eremo….
Ora la cosa più necessaria e santa.. è che il Signore e la Madonna nell’intercessione
di S. Luigi Orione ci mandino qualche vocazione…….
NOZIONI GENERALI A INTEGRAZIONE DELLE NOTIZIE STORICHE.
Una domanda che viene spontanea è quella relativa al numero dei monaci che risiedevano a
Sant’Alberto, se pensiamo che a Cluny, per esempio, ne dipendevano dall’Abbazia fino a
cinquemila.
All’Eremo propriamente detto abitavano pochi monaci che di frequente si avvicendavano, come
appare dai pochi documenti che ci sono pervenuti.
Il p. Ildebrando Mannocci, benedettino, ci informa da Parma che anche nella sua comunità in
epoche remote, per esempio nel quattrocento, si verificavano a breve distanza di tempo
cambiamento di personale.
In un documento del 1228, quando l’Abbazia è in pieno rigoglio, il numero dei monaci di
Sant’Alberto segnalato è di dieci, compreso l’Abbate. Forse non sono tutti quelli che vi dimorano e
questo si può desumere dal fatto che vengono nominati solo perché compiono un istrumento. C’è il
venerabile Abbate don Teobaldo de Vira, c’è il priore del monastero prete don Guido e con essi altri
otto confratelli; prete Bernardo, prete don Giovanni, prete don Bertanfo, don Alberto, don
Bonifacio, don Serpigio, don Facio, don Bernardo.
Il “ don” non porta necessariamente il sacerdozio; era possibile o per la nobiltà della famiglia da cui
provenivano o per la carica che rivestivano come decani; e naturalmente per l’Ordine Sacro.
Trascorrono appena cinque anni e un altro documento del 1233 ci dà dei presenti all’Eremo un
elenco quasi interamente nuovo. Intanto l’Abbate è Guido ( forse il priore di cinque anni prima), il
priore è Ugo ( notiamo come le cariche di Abbate e di priore siano ben distinte), e si ricordano
undici monaci riuniti con essi a Capitolo per fare un altro istrumento. Essi sono: don Bernardo,
prete Bernardo Faunotti, don Superfio, don Rolandino, don martino, Michele sindaco del
monastero, Oberto converso, Guglielmo converso, prete Lione, Bonifacio monaco, Giovanni
converso e “ i frati tutti”.
L’ultima frase “ i frati tutti” lascia comprendere che erano più di tredici gli abitatori del monastero.
Anche qui p. Ildebrando mi segnala che se si tratta di Atti Capitolari è ben facile che il documento
non riporti né il numero totale dei componenti l comunità, né gli stessi nomi.
Naturalmente una comunità di monaci che si aggirava, dobbiamo credere, sulla quarantina esigeva
un monastero di dimensioni più ampie di quello che indicherebbero i miseri avanzi che al principio
del secolo ne testimoniavano melanconicamente l’esistenza.
Ma l’autorità dell’Abbate si esercitava anche su quei monaci che egli stesso destinava a popolare
le celle sparse nel territorio della sua giurisdizione o ad officiare le chiese dipendenti dall’Abbazia.
Perciò cresce la famiglia religiosa, sebbene non ci sia possibile fornire di essa, neppure per un dato
periodo, una cifra almeno approssimativa.
Si aggiunga che l’uso delle congregazioni benedettine voleva che i giovani si preparassero alla vita
religiosa e ai sacri studi in comunità. Che cosa dobbiamo pensare dei “ probandi” e dei “ novizi” di
sant’Alberto? E’ presumibile che crescessero nel monastero centrale, oppure venissero formati in
celle dipendenti?
Nei documenti a noi pervenuti non troviamo nessun cenno agli studenti che certo non dovevano
mancare, sebbene, poi praticamente il contributo di personale potesse venire anche da sacerdoti
cresciuti altrove e da laici adulti.
Gli avvicendamenti procedevano dall’esigenza di provvedere alle varie celle che per costituirsi e
funzionare dovevano accogliere almeno sei religiosi. L distinzione di titoli tra Abbate e priore non
avrebbe ragione di essere se l’autorità de primo non si estendesse sull’intera circoscrizione
abbaziale, mentre quella del secondo era delimitata a delle funzioni che egli compiva in quel
monastero.
Fino all’avvento degli Abbati Commendatari l’Abbazia fu fiorente per numero di monaci; poi,
venuta meno l’osservanza religiosa, la popolazione locale si contrasse anche per incidenze di guerre
e di contagi e per l’avida concorrenza dei signorotti vicini che rendevano meno spirabile l’aria di
Sant’Alberto agli amanti di pace e di solitudine.
Al partire degli Olivetani il sacro luogo non risuonò più del canto dei monaci e la famiglia religiosa
potè dirsi dispersa, esaurita, spenta. Il Vescovo diocesano doveva subentrare col suo clero dove
scarseggiava l’elemento religioso. Rimaneva il titolo di Abbazia e rimanevano le doviziose rendite
che finirono ai tempi di Napoleone nelle fauci ingorde dei conquistatori.
Sant’Alberto si ridusse a una povera chiesa vestita della tristezza dei tempi passati.
IL PERIODO SUCCESSIVO ALL’ESTINZIONE DELL’ABBAZIA.
E’ l’epoca più squallida quella che va dal 1810 al 1900. Quasi un
secolo, durante il quale la polvere dell’oblio si deposita
sull’antico monastero.
Il canonico Pollini assegna al 1595 la data di fondazione della
parrocchia di Sant’Alberto. Infatti se ne parla nel Sinodo indetto
quell’anno dal vescovo Gambara. Dipendeva dalla Vicaria di san
Ponzo smembrata da Bagnaria. Sovrano civile era lo stato di
Milano ( cioè la Spagna); feudatario l’Abbate.
Il Sinodo celebrato da Mons. Carlo Settala nel 1659 divise la
diocesi di Tortona in 8 regioni comprendenti ciascuna diverse pievi. Sant’Alberto fu assegnato alla
sesta regione che faceva capo a Momperone con le parrocchie di Brignano, S. Sebastiano, S. Ponzo,
Gremiasco, e Varzi. Dall’arcipresbiterale di S. Ponzo dipendeva la chiesa parrocchiale di
Sant’Alberto con le società del SS. Sacramento e della dottrina cristiana e con l’oratorio di Mollie.
Nel 1732, al dir del Pollini, ebbe il primo vicario perpetuo secolare.
Dal Papa Pio VII Napoleone ottiene una Bolla in data 10 giugno 1803 in virtù della quale la diocesi
di Tortona viene incorporata in quella di Alessandria; ma l’esecuzione di essa subì un notevole
ritardo e quando il 17 luglio 1805 andò a effetto un decreto del card. Caprara univa Tortona, con
Bobbio e con la stessa Alessandria, alla diocesi di Casale. Tortona rimase distretto ecclesiastico, ma
perdette ugualmente diverse parrocchie a beneficio di altre diocesi limitrofe.
Sant’Alberto, assegnato alla vicaria di Valdinizza passò sotto il distretto ecclesiastico di Bobbio.
Col trattato di Vienna del 1815 i luoghi della diocesi già spettanti al Piemonte tornarono all’antico
sovrano. Tortona, Voghera e Novi furono le prime due ricostituite la terza creata capoluogo di
provincia e tali rimasero fino al 1860, quando Voghera divenne città lombarda dipendente da Pavia.
Pio VII, previo accordo con Vittorio Emanuele I, ristabilì nel 1817 la diocesi, peraltro modificata
nella sua estensione. Andò perduta in favore di Alessandria la parrocchia di Bosco che aveva dato i
natali a S Pio V e tornarono quelle di Valdinizza e Sant’Alberto. La diocesi che contava 264
parrocchie, distaccata dalla provincia ecclesiastica di Milano, passava a quella diGenova. Ebbe
assegnato come vescovo il patrizio tortonese mons. Carlo Carnevale consacrato dal card. Morozzo
in Novara nel 1819.
Il suo successore mons. Negri tenne un Sinodo nel 1843 durante il quale le parrocchie furono
distribuite in 12 distretti e vicariati. Il distretto di Varzi aveva dei centri di vicaria in Bagnaria,
Cegni, Pei e Pizzocorno. Sant’Alberto dipendeva dal vicariato di Bagnaria.
RINASCITA DELL’EREMO
Come aveva preconizzato monsignor Igino Bandi nel raccomandare a don Orione che si allegasse
all’istruzione della pratica per l’officiatura di S. Alberto
del 1 marzo 1902: “ una dichiarazione della Curia con la
quale si manifesti il desiderio che, presso la tomba di
Sant’Alberto, sorga e si consolidi l’opera degli Eremiti, la
quale avrebbe maggior importanza dal culto pubblico che
venisse dato al Santo da tutta la diocesi, finalmente nel
maggio 1920, con il ritiro dalla Parrocchia di don Cassola,
destinato alla confinate di Livelli, don Orione potè
realizzare il caro progetto, prima infaustamente naufragato,
di riutilizzare l’antico Cenobio per la sua Opera.
Narra al riguardo don Giulio Florian: “ Il 4 giugno
seguente, giorno solenne per il convegno all’Eremo per la
festa dei fanciulli, egli stesso annunciava alla popolazione
di S. Alberto di aver chiesto al Vescovo la gestione della
Parrocchia e di averla ottenuta in assegnazione,
stabilendovi i suoi religiosi, vale adire parroco ed eremiti.
Il 16 gennaio 1921 avveniva la presa di possesso della
parrocchia di S. Alberto da parte della Congregazione di don Orione e dei suoi Eremiti. Don
Giuseppe Zanocchi, scelto da don Orione, era a capo di quella piccola schiera di suoi figli prediletti,
oltre che parroco di S. Alberto”.
Don Zanocchi verso il termine del 1921 fu surrogato da Don Domenico Draghi, affiancato da tre
eremiti dediti alla preghiera ed al lavoro ai quali, il 13 maggio 1923, si unirà il chierico cieco Cesare
Pisano, prendendo il nome di Frate Ave Maria, la perla delle due nuove istituzioni volute da don
Orione; gli Eremiti ciechi nel 1923 e le Sacramentine cieche Adoratrici nel 1927.
Sotto la guida di don Draghi, nell’estate del 1926, si realizzò l’ampliamento dell’ edificio
conventuale occupando l’orticello adiacente. L’antico pozzo invece riaffiora nel ricordo di don
Giulio Florian: “ Il cortile del pozzo, vale a dire del vecchio monastero, era ridotto a orto. Il pozzo
stesso era ricoperto da una piccola tettoia, spiovente, sostenuta da due muraccioli laterali al pozzo
stesso. L’orto era diviso in due da una pergola ricoperta di verzura, credo vite, nella bella stagione.
Alla fine del pergolato iniziava un sentiero che scendeva fra cespugli e pietre o blocchi di pietre,
residui dell’antico monastero. Pareva di aggirarsi, in piccolo, per i fori di Roma. Al fondo, da un
pianerottolo erboso, si potevano vedere i resti del muraglione che sosteneva un tempo l’antico
convento. Tutto ciò risulta da una fotografia risalente ai primi anni del 1900 e da ricordi personali di
poco più recenti”. Si edificò un vasto salone per gli ospiti con dodici stanzette soprastanti da
destinare agli eremiti mentre, nella quiete di S. Alberto, due anni dopo, la vita ascetica dei monaci
fu, se non turbata, per lo meno ridestata dall’arrivo degli aspiranti alla Piccola Opera di Voghera e
di Tortona, ospitata dapprima nelle nuove strutture create da don Draghi, e dal 1930 circa, in un
enorme capannone di legno su due piani di circa 200 metri quadrati, ricco di giacigli fatti di paglia
sparsa sul pavimento, smantellato solo nel 1940. ( Era addossato alla torre).
In quegli anni l’Eremo e i boschi che gli fanno da corona si rianimarono di voci e grida giovanili
alternate a preghiera che si diffondeva per le valli circostanti: “ riposavano i probandi sulla paglia.
Passeggiate, talora anche lunghe al Giarolo, al Penice, canti, rallegravano quella distensione accanto
al vecchio Cenobio, santificata dalla preghiera dei nostri eremiti ciechi e veggenti”. ( da un
bollettino dell’Opera ).
Nel contesto poi di una sempre maggiore
valorizzazione del complesso ecclesiastico ed
abbaziale di S. Alberto, si colloca la celebrazione
del 25° anniversario della ricognizione delle
spoglie del Santo, rinviate al 1926 per non farle
coincidere con lo svolgimento dell’Anno Santo.
In quel frangente le sacre spoglie furono
trasportate a Tortona presso la Piccola Opera, da
dove, dopo la venerazione popolare, con un
grande pellegrinaggio indetto dal Vescovo, in
occasione di quelle onoranze, ritornarono
all’Abbazia già collocate in un simulacro a
grandezza naturale riproducente le sembianze del Santo, modellato dalle Suore del Cottolengo di
Torino, contenuto a sua volta in grande teca lignea realizzata dagli apprendisti falegnami
dell’Istituto Manin di Venezia con legno ricavato da alberi di castagni e faggi dei boschi di S.
Alberto.
Scriverà don Sparpaglione ricordando quella
giornata di sabato 4 settembre 1926: “ Una fila di
macchine si ordinò davanti all’episcopio. La
prima recava l’urna con don Orione; seguiva
quella del Vescovo Grassi, accompagnato
dall’Abate don Placido Lugano procuratore
generale degli Olivetani e figlio della diocesi
tortonese; altre macchine avevano a bordo prelati,
canonici, autorità, giornalisti, figli della Piccola
Opera, devoti e pellegrini. Il corteo si mosse sotto
un’acqua torrenziale il cui scroscio si confondeva
col tripudiante concerto delle campane. Ad ogni
centro attraversato si rinnovavano ponenti dimostrazioni di fede e d’entusiasmo. Mons. Vescovo
benediceva le folle con una reliquia del santo. Era un’apoteosi che cresceva in intensità man mano
che si avvicinava alla valle Staffora. Viguzzolo, Castellaro, Volpeglino, Casalnoceto, Rivanazzano,
Godiasco, Molino del Conte, Pizzocorno: altrettante tappe di questo festoso viaggio trionfale. L
popolazioni offrivano fiori, sventolavano bandiere, mentre le campane rotolavano nel cielo gravido
di pioggia note di giubilo incontenibile… La campana dal suo d’argento squillò a festa e a raccolta
e una processione notturna, punteggiata di fiaccole si snodò attraverso i boschi per raggiungere le
frazioni del piccolo villaggio… segnando l’inizio di
una nuova tradizione tra le più suggestive.”
Il 26 maggio 1937 intanto, a don Draghi successe
don Salvatore Masci accolto, pochi mesi dopo, alla
festa dell’Eremo, dallo stesso don Orione, ritornato
dall’Argentina dopo tre anni di assenza ed accorso a
Butrio per partecipare alla tradizionale processione
con le fiaccole.
Sei anni dopo anche don Masci, per motivi di salute,
lasciava S. Alberto, in cui subentrava don Carmelo
Scordo il 10 settembre 1943, nei giorni dunque
infausti che seguirono all’armistizio ed allo
spopolamento del nostro Esercito, allorquando, come
accadde per altri centri religiosi, anche il nostro
eremo si trasformò in un opportuno rifugio per militari sbandati e poi renitenti alla nuova leva della
costituita Repubblica Sociale Italiana, coinvolgendo così quel piccolo mondo nel turbine della
guerra partigiana, come testimonia lo stesso parroco: “ Nei mesi aprile e maggio del 1944 si sono
costituite le cosiddette Formazioni partigiane della Giustizia e Libertà, ed allora parecchi ospiti
nascosti, compreso il comandante ed altri ufficiali, si sono spostati verso Zavattarello, Bobbio e
paesi vicini. Alcuni però rimasero all’Eremo fino al termine della guerra e mi aiutarono non poco
nella coltivazione dei campi, nei boschi, in casa e nei viaggi con i buoi a Pontenizza”.
A Don Scordo l’Abbazia deve inoltre il restauro, compiuto nell’estate del 1944, della Chiesa di S.
Maria, operato sotto l’egida della Soprintendenza ai Monumenti di Milano che l’affidò alle cure del
prof. Ugo Nebbia.
Per l’occasione fu ristorato il vecchio intonaco ottocentesco dell’aula, affrescata con uno stile
lombardo che richiamava le quattrocentesche affrescazioni delle altre due Chiese dal pittore
Domenico Fossati, che realizzò una Annunciazione nell’area absidale e simbologie dei quattro
evangelisti alle fiancate.
Nell’ottobre 1944 a don Scordo succede don Angelo Mezzalira a cui si deve la promozione presso il
Genio Civile di Pavia della domanda per ottenere l’acquedotto, costruito poi a beneficio delle
popolazioni locali nel 1946 tra Casa Nobile e Casa Panzini.
Tra le realizzazioni di don Scarsoglio ricordiamo, nel 1953, il livellamento del terreno dell’area
fronteggiante l’ingresso attuale della Chiesa, con la creazione di una scaletta tra il primo e il
secondo sagrato.
Il 23 marzo 1957 anche don Scarsoglio lasciava l’Eremo. Da Venezia vi approdava don Emilio
Chiocchetti che vi si mantenne per ben 18 anni realizzando, su stimolo di frate Ave Maria,
importanti opere di riforma ed ampliamento del complesso. Del 1959 fu dunque la creazione del
grande terrazzo o belvedere, ricavato sulla copertura di un manufatto rustico edificato per destinarlo
a stalla per il bestiame ed a magazzino di derrate alimentari ed attrezzi agricoli. Nel corso delle
opere di sbancamento emersero i ruderi dell’antico Monastero, capitelli, colonnine del chiostro, ed
una pietra incisa con la data del 1107. Sempre don Emilio realizzò tra il 1968 ed il 1969, il comodo
piano viabile che dal Cimitero comunale raggiungeva l’Eremo ed il suo sagrato a cui seguì, nel
1971 il viale alberato verso la valletta del rio Borrione.
Intanto nel 1967, a tre anni dalla scomparsa in Voghera, furono traslate in S. Alberto le spoglie di
Frate Ave Maria, collocate in una cripta, su progetto dell’ingegner Scarabelli di Voghera, nell’area
sottostante la parte terminale della Chiesa, in un’arca di pietra, sormontata da un rilievo
raffigurante una testa di Cristo dolente, opera di un giovane scultore di Vicenza.
Fu quella un’anticipazione delle opere di ristrutturazione preventivata da Don Chiocchetti per
celebrare degnamente il novecentesimo della morte di S. Alberto, cadente nel 1973. Direttore dei
lavori fu padre Giovanni Maria Tognazzi del Convento cappuccino di Varzi, nel cui disegno di
riforma si previde un ritorno alle strutture più antiche, privandole di tutto quanto vi si era
sovrapposto.
I lavori furono avviati nella Chiesa di S: Maria,
riportata al suo aspetto a pietra vista con sostituzione
della pavimentazione che portò alla luce le antiche
sepolture dei monaci e degli abati ospitati dal XII al
XV sec.
Furono salvate solo le affrescazioni della volta. Nel
1974 la Chiesetta era ultimata e riconsegnata al culto
mentre si era riformato pure il sagrato: “ con l’apporto
di due scarpate di scalini di pietra grezza, la prima a
poco distanza dalla torre, e una seconda a pochi passi
dalla grande quercia. D’ora in avanti dovremo nominare tre sagrati; l’inferiore, il medio di fronte
alla torre; il superiore nei pressi della grande quercia fino all’inizio delle strade. Questo per
intendersi.”.
Anche la Chiesa di S. Alberto ebbe il rifacimento della pavimentazione con lastre di pietra grezza,
realizzato, come le altre opere dall’impresa del capomastro Camerini Augusto, in tempo per la
celebrazione tanto agognata, svoltasi il 4 giugno alla presenza del vescovo di Tortona monsignor
Canestri.
Dotato di un comodo impianto di riscaldamento, l’Eremo fu consegnato ai fedeli per sempre
maggior culto verso il Santo fondatore, ulteriormente onorato nel giugno del 1974 con il
riadattamento della cappelletta edificata nel 1926 su progetto del geometra Alessandro Torti di
Molino del Conte, nella valletta del rio Borrione ove sorgeva la grotta in cui l’asceta Alberto si
ritirava a pregare.
In quello stesso autunno poi fu ripresa l’idea di frate Ave Maria per la creazione di un centro di
spiritualità, da ricavarsi dai rustici sottostanti il belvedere; iniziati in questi mesi, i lavori furono
sospesi con l’inverno e non più ripresi. Intanto nel 1976 il 28 settembre, don Chiocchetti lasciava S.
Alberto per Udine, sostituito da don Angelo Mezzalira, dopo quasi tre decenni di lontananza
dall’Eremo. A lui si deve la ristrutturazione della veranda posta presso la cucina, la selciatura del
pronao d’ingresso, il rifacimento del tetto della torre, ed il rimboschimento dell’area circostante.
Nel 1979 poi furono ripresi i lavori per realizzare il Centro di Spiritualità , mentre nel 1981 la
Comunità Montana costruiva la nuova strada che dalla località Favaro o Passo della Croce,
attraverso il bosco di castagni, permette di raggiungere l’Eremo senza attraversare l’abitato
soprastante.
Tracciata dalla Ditta Castelli di ponte Nizza, la nuova arteria fu ultimata con l’asfaltatura
nell’ottobre del 1982. Nel medesimo anno finalmente maturò nella sua completezza il progetto del
Centro di Spiritualità, ideato da Padre Giovanni Maria Tognazzi e realizzato dalla ricordata Ditta
Castelli di Ponte Nizza con la direzione dell’ingegner Tiziano Conti di Godiasco. La stessa impresa,
sempre nel 1982, fu chiamata all’allargamento del tracciato della strada Pizzocorno- S. Alberto,
inaugurata il 10 luglio di quello stesso anno. Il nastro tricolore era già teso attraverso la strada,
coperta in quel punto da un drappo colorato. Nino Nobile teneva il vassoio con forbice, e l’On.
Panigazzi tagliò il nastro fra gli applausi della folla ivi radunata.
Nel novembre,seguente si ultimava il ricordato Centro con l’apposizione della grande ringhiera in
ferro da parte della Ditta Albertocchi di Godiasco, nasceva un altro cantiere edile in Butrio,
destinato con 1983, al prolungamento per sei metri dell’ala grande del Convento, terminata nel
luglio 1984, epoca in cui, ricorderemo il quinto centenario della affrescazione interna, con
l’interessamento di Padre Tognazzi, si avviarono le dovute opere di restauro da parte del pittore
Luciano Bianchi sulle raffigurazioni del presbiterio della Chiesa di S. Alberto. In quell’anno don
Mezzalira fu sostituito in settembre da don Sergio Zanatta con il quale, nel 1985 sarà tracciato un
organico progetto di intervento sulle opere pittoriche, seguito dal rifacimento dei tetti delle tre
chiesuole nel 1986.
(Testi di don Domenico Sparpaglione e di Fabrizio Bernini).
In questi ultimi decenni oltre ai lavori di ordinaria manutenzione ( e non sono pochi), segnaliamo il
nuovo complesso della Via Crucis all’esterno con la statua sul piazzale del Venerabile Frate Ave
Maria realizzate nel 1998 e benedette durante la festa patronale di S. Alberto.
Il 29 luglio 1999 si è festeggiato il centenario di fondazione del ramo
degli eremiti e per l’occasione ci siamo recati a Stazzano AL, al
Santuario del Sacro Cuore ove avvenne la Vestizione dei primi tre
eremiti di Don Orione, fra Gaetano, Fra Vincenzo e fra Colombano.
Nell’estate del 2004 si è realizzato il lastricato di una gran parte del piazzale, rendendo così più
pulito e ordinato l’ingresso alla chiesa, e abbattendo qualche barriera architettonica si può giungere
fino alla tomba di Frate Ave Maria e al chiostro con la sedia a rotelle… Nel 2008 siamo giunti a
poter offrire un “Rifugio” che si tratta di una casetta in legno con servizio igienico, e distributori
automatici di bevande calde e fredde, per dare un coperto a gruppetti, scout ecc… e per i pellegrini
che di passaggio possono usufruire per mangiare al sacco in caso di cattivo tempo…..
Nel 2008 la ristrutturazione della Cappellina nel luogo ove sorgeva la
grotta di S. Alberto con la posa della statua del santo in preghiera
eseguita dallo scultore Antonio De Paoli, benedetta dal Vescovo Mons.
Martino Canessa Di Tortona nel luglio 2009. Sempre secondo le
possibilità e la sensibilità di chi ci è vicino si è cercato di valorizzare
l’eremo….
Ora la cosa più necessaria e santa.. è che il Signore e la Madonna nell’intercessione di S. Luigi
Orione ci mandino qualche vocazione…….