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StreetBook Magazine #1

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StreetBook Magazine: narrativa, grafica e cultura contemporanea. Un progetto Three Faces.

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THREEFACES LA TERZA FACCIA DELLA MEDAGLIA

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CONTENUTI

RACCONTIACCIDIA//GIANLUCABINDI//P.7

OCEANO//ANDREAFEDERIGI//P.10STORIE DI PIAZZA//SIMONEPICCINNI//P.12

WALTER//TIZIANACAUDULLO//P.18

CONTENUTI EXTRAINDUBBIAMENTE//

BENEDETTABENDINELLI//P.20ANTIDOTINARRATIVI: INTERVISTAAWUMING//

ANDREAFEDERIGI&LORENZOFRITTELLI//P.22

ILLUSTRAZIONITOTEM//FEDERICOBRIA//P.2BLACKRHINO//ANDREASPOSITO//P.4ACCIDIA//GIULIABRACHI//P.6OCEANO//FEDERICOBRIA//P.10

FOTO & GRAFICAMAIESTATETANTUM//GIULIABRACHI//P.1RIFUGIODIPENSIERI//GUADALUPEMERLO//P.15SANTISSIMAANNUNZIATA//DARIOBOSIO//P.12WALTER//LORENZOFRITTELLI//P.18-19

EDITORIALE & POESIEEDITORIALE//THREEFACES//P.5LANOTTEDEGLISPECCHI//M.E.P.//P.9ILRESPIRODELLACALMA//NELLIS//P.17

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Ognuno di noi proviene da un angolo diverso della strada e porta con sé uno zaino in spalla pieno di memorie e conoscenze. In questo momento ci troviamo ad un incrocio, con lo stesso obiettivo, la

stessa meta.

L’intenzione del progetto Three Faces è quella di aprire gli occhi, di alzare la testa e guardare il mondo che stiamo attraversando in modo diverso. Vogliamo rallentare il passo, intraprendere un percorso che ci porti verso la riscoperta di valori e simboli che stanno andando persi, come il gusto di raccontare una storia, di emozionarsi di fronte alla parola scritta o alle immagini, e sorprendersi di quello che ci insegnano. Vogliamo ritrovare il piacere di osservare senza aver paura di perderci, perché a volte perdersi è la scelta più coraggiosa che possiamo fare e l’unico modo per potersi poi

ritrovare.

Quello che hai tra le mani, caro lettore, è solo uno dei volti che la nostra voglia di cambiare ha assunto. Ti sei accorto anche tu della vacuità della società contemporanea, intenta a rincorrere miti vuoti e sbiaditi? Ti sei accorto dell’atomismo in cui viviamo, mascherato dalla falsa socialità che i social

network ci servono su un piatto d’argento? Streetbook Magazine nasce per questo: per abbattere quelle maschere, provare a sconfiggere la superficialità che ci sta risucchiando e la chiusura mentale che ci circonda. E il modo migliore per farlo è leggere, inoltrarsi in storie e avventure, attraversare mondi diversi e differenti punti di vista; per poi scendere in strada e vivere, vivere in modo autentico, guardandosi attorno e assaporando

ciò che ci circonda.

Non vogliamo apparire come paladini di questo processo di ri-umanizzazione, ma vogliamo cercare di stimolare chiunque abbia qualcosa da raccontare a fare lo stesso, a mettersi ad un angolo della strada per leggere ad alta voce i propri pensieri. Magari al vento, inizialmente.

Dobbiamo lottare contro l’estinzione del lettore, del pensiero critico, della curiosità e della scoperta. I bracconieri sono l’ignoranza e la superficialità.

Lotta, leggi, pensa, vivi. Non estinguerti.

«Leggere un libro non è uscire dal mondo,

ma entrare nel mondo attraverso un altro ingresso»

(Fabrizio Caramagna)

e d i t o r i a l e

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ACCIDIA

Un gemito dall’oltretomba. Spengo l’abat jour e mi accascio sul letto. A giudicare dalla luce che filtra dalle finestre sprangate sembra sia sera: un’altra giornata se n’è finalmente andata.

Il tuo costante abbandono è quasi più preoccupante della tua puzza. Ha intriso il letto su cui giaci da giorni. Sei il cadavere di te stesso. Gli altoparlanti muti, e tu continui a fissare il soffitto da cento anni. Indeciso, non sai nemmeno cosa scegliere fra tutta la tua musica, minuziosamente e istericamente ordinata. Vado sul sicuro. Bravo, il tuo gruppo preferito, da quanto tempo non l’ascoltavi. Chiudi gli occhi e stammi a sentire: il tuo corpo relegato ad una gabbia passiva può riconoscere ancora i sentori di un’estate passata, le onde che solleticavano il tuo udito quella sera. Che bella sera, ricordi? Lasciala stare quella sera, sto cercando di godermi la canzone. Ti sentivi così protetto dal suo sorriso, lungo la passeggiata. Ti fermasti a comprare quel disco tanto agognato dal tuo desiderio di completezza. Odiavi lei perché non capiva, figuriamoci se poteva addirittura condividere l’ascolto di quella musica. Quella musica dannatamente distorta e perfetta. La musica in cui ancora credi di trovare nascosto tutto ciò che stai cercando. A che scopo cercare di farla comprendere? A che scopo provare a spiegare? Tempo sprecato. Così sordo è l’orecchio che si riempie costantemente di banalità. Ti amava per come eri, e ti odiava per lo stesso identico motivo. Non ci voglio pensare. E tu - oh ingenuo! - Non hai fatto altro che sciacquarti la bocca e le mani con le stesse banalità, solo per godere ancora un giorno in più del suo sorriso. Veramente penoso. Sapevi che eravate distanti e che sicuramente non era lei la più stupida tra i due. Avresti voluto evadere da quella prigione, ma non potevi liberarti dei suoi occhi. Quegli occhi in cui ti perdevi, vedendovi spesso riflesso il fallimento della tua personalità. Ma anche una subdola dose di effimera felicità. Finiscila! È solo passato, che cambia?

La musica è sempre stata la tua passione, ma in quei mesi diventò uno sfogo: una liberazione, un manifesto della legittima rivendicazione del tuo spazio vitale. Le note si aggrovigliavano in figure geometriche sempre più strane e composite; i tempi dispari le scandivano, abbracciando sonorità

così sporche e malate. L’oscuro senso di quei componimenti affollava di interrogativi quella parte di mente, che si poteva esimere dal contemplare tale connubio di enfasi e bellezza. Lasciami in pace, cazzo. No, ora mi ascolti. Quante lacrime, quanti sussulti sugli incisi così sfacciatamente irregolari che illuminavano il mondo di una luce così diversa, così giusta, finalmente. E la pelle d’oca che anche adesso sembra ricalcare lo spartito, a bruciar via le tue croci. Ti vedo commosso ancora, come quando eri un ragazzino. Lo sono ancora, un ragazzino. Lo eri. Appena un anno fa. Occhi chiusi, non devo far trapelare neanche un dettaglio. Preziosi particolari che facciano intravedere anche solo un po’ di speranza. Tanto sappiamo tutti e due che domattina sarà sempre la solita merda. È inevitabile. Sappiamo tutti e due che dovresti fare qualcosa della tua vita, invece. Dovresti almeno cercare di interessarti a qualcosa che non sia tutto. Cercare di essere brillante con la gente, di stringere nuove amicizie e di consolidare quelle di vecchia data. Ma se non reagisci continuerai invariabilmente a crogiolarti nella noia e nell’indecisione. Ancora un altro inutile giorno svanirà al tuo cospetto, aspettando che ti cada dai cieli un’improbabile folgorazione divina. Patetico, riporre tutte le aspettative in un accidentale inciso del fato, non trovi? Il caso scorre liscio, non può essere toccato. Scendi dalla tua nuvoletta! È assurdo, hai talmente poche palle che pensi che sia la falla di un universo così cieco e vorace, a fare la differenza; a salvarti dal naturale epilogo delle cose, subìto distrattamente mentre non hai mai mosso un dito quando potevi farlo. Guardati: sdraiato, immobile, solo come un cane, mentre ti lampano in testa reminiscenze di sogni adolescenziali seppelliti, fatti a pezzi dalla cruda realtà. Se non vuoi, fallirai sempre.

E che dovrei fare? Io l’amavo!

Sì, certo, devi soffrire davvero tanto. Ma lasciami affondare il dito nella piaga, genio: sei in questo stato avanzato di decomposizione perché l’amavi, oppure perché la consideravi talmente insignificante da non mettere in conto che potesse

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Dallamentedi//GianlucaBindi

ferirti in questo modo? Dì la verità, sacco di letame: ti fa più male il fatto che ti abbia tradito con un altro essere insignificante alla sua portata, oppure l’aver realizzato che il tuo ego fasullo era costruito interamente sull’impettito confronto con chi non poteva reggerlo? Lasciami stare.Ora basta! Apri gli occhi: l’ultima canzone è finita e non te ne sei nemmeno accorto. La pura arte che ha custodito finora il tuo corpo, neanche lei può più niente per te. Adesso capisci finalmente che solo io posso farti uscire dall’inettitudine che ti attanaglia? O farai finta di niente come ami fare? Ti piace subire le maledizioni e le conseguenze dei punti critici? I nodi vengono inesorabilmente al pettine se li lasci galleggiare costantemente in balìa del caso. Devi fidarti di me, sono qua per aiutarti.

Alzati, fatti guidare. La linea della disperazione si irradia dalla tua ombra coperta di buio. Il mesto silenzio è il non odore, il non sapore, la miopia di questa stanza e della tua più recente esistenza. Ottimo, un passo alla volta, raggiungi il bagno. Guardati allo specchio. Chi è lui? Lo riconosci? A me sembra un ammasso di reiettume, un’ ameba senza spina dorsale. Una brutta copia sbiadita che s’intravede dalla barba non curata, dall’addome non più scolpito, dagli occhi stanchi che non sanno dove guardare, una volta pieni di passione. Sorridi, ammicca, piangi, stupisciti. Vedi qualcosa di vivo nelle tue espressioni? Pensi che quest’ascetismo soporifero possa attenuare i tuoi fantasmi? Lo vuoi capire che non è la dialettica della tua vita, non sono gli altri, gli amici, non è nemmeno lei. Non è neppure il ricordo di lei che ti sta uccidendo. Sei tu stesso. Ti ordino di lavarti il viso, lentamente. Il sapone liquido sulla mano destra. Passalo piano sotto l’acqua e detergiti il viso. Senti che bella sensazione? Senti questa bianca schiuma che cinge i peli del viso? Adesso sul naso, sulla bocca. Gli occhi, la fronte, il collo. Prendine un altro po’ e bagnati anche i capelli. Alza lo sguardo di nuovo allo specchio. Guarda la tua forma buffa e ridicola. Adesso trascendila e prova a vedere cosa c’è dentro. Riesci a vedere qualcosa? Non vedo niente.Lo so. Non vedi niente perché non sei altro che niente. Sciacquati, togli il sapone. Fissa ancora lo specchio. Cosa noti? (...Silenzio...)

Muoviti, sto aspettando.Vedo zampilli d’acqua che cadono inesorabili dai miei lineamenti e si riassumono in tante piccole acciaccature sul marmo del lavandino. Mentre i più audaci, solcano sotto la maglietta le fattezze del mio corpo. E cosa deduci da tutto questo, lurido microbo? La gravità vince sempre. Ottimo, davvero notevole. Tieni bene in mente la frase che hai detto, e fattene una ragione.

Adesso vai in cucina, prendi il bicchiere e la bottiglia ammezzata di scotch scadente. Siediti e inizia a scrivere ciò che ti ordino. Bevi il tuo scotch, buttalo giù. L’immagine di lei è meschina: non solo non vuole andar via, ma presenta il conto a intervalli regolari. Sai benissimo di non averla mai incontrata veramente, quindi non puoi lasciare che il suo ricordo ricicli disperazione in eterno. La tua mente mi ha creato apposta per distruggerlo. Questa notte sei mio, inizia a scrivere. Quando non c’è musica che salvi, l’inciso sono le parole che tieni dentro. E forse domani sarà un nuovo giorno. Forse non sprofonderà di nuovo nella gaia noia.

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OCEANODallamentedi//AndreaFederigi

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sbuffa il Polle – Lasciamo perdere. Altro giro gente! –.Gli altri due si guardano complici e sorridono. L’Alpe lancia lontano il mozzicone sbuffando via dai polmoni l’ultimo tiro. – Ah...adesso ho capito. Quando dicevi di svoltarla stavi pensando a sbronzarti un’altra volta. Allora sì, tranquillo.. Non hai mica problemi a svoltarla così, tu! –.

Il Polle e i suoi amici si son trasferiti a Dublino da circa un paio d’anni. In Italia non c’era verso di trovare lavoro, se non come camerieri o baristi e si son detti: “Se dobbiamo sgobbare dentro a un pub o in un ristorante avendo una laurea, ‘sticazzi, meglio trasferirsi da qualche altra parte all’estero. Chi ce lo fa fare di rimanere in ‘sto paese di vecchi che non offre possibilità?”.E così eccoli tutti e tre in Irlanda a cercar fortuna, a far finta che non gli pesi portare piatti ai tavoli o servire cocktail ai turisti. Almeno quassù è tutto diverso. Ma dire che sono felici e soddisfatti delle proprie vite suonerebbe proprio come una balla. Negli occhi di tutti e tre si legge curiosità ed entusiasmo, si può notare una scintilla di speranza che ancora non si è spenta, nonostante i venti contrari e gli acquazzoni acidi che si sono scatenati nella vita di ognuno di

– La realtà è che dovremmo svoltarla –.Si fa riflessivo, il Polle, mentre una nuvola di fumo bianco e denso gli sfila via dalle labbra.– Mi son proprio rotto. Stai lì a sbatterti, a fare, a provarci e bom. Non serve a un cazzo. Dobbiam svoltarla! – ripete appoggiandosi al parapetto del molo sul Liffey.Si ferma un po’ così, incerto se continuare a vaneggiare, se riprendere a bere o se farcire un’altra cartina, gonfiandola di erba profumosa.– Se continui così la svolti di fisso! – gli si fa sarcastico l’Alpe, gigantesco e sorridente, col cranio rasato a pelle che sfida il gelo irlandese. Allunga una manona callosa a prendere la canna dalla mano dell’amico.– Meno seghe... Se non sei soddisfatto combina qualcosa! – gli si butta addosso pure Carlos sghignazzante, piccoletto e nervoso, indio peruviano col baffetto sottile e il pizzetto da narcos.– Ah... Non capite proprio un cazzo, come al solito –

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loro. Resistono e ci provano, non guadagnano male e sognano di riuscire a combinare qualcosa nella vita, o almeno di costruirsi un piccolo angolo felice dove vivere in pace le proprie passioni.

Qualche spintone, qualche risata, ed eccoli risalire per O’Connel street, vicino al palazzo della Heineken, in direzione Temple. Non ci fanno nemmeno troppo caso al nome del pub. Entrano e basta, assetati. – Three Jacks on the rocks – sbiascica Carlos ordinando da bere al barista. – And three pints of Guinness –, gli ricorda l’Alpe.Pagano e si sistemano su un tavolino ad angolo con i bicchieri pieni. E a piccoli, medi, grandi sorsi, non ci vuole nemmeno troppo tempo a ordinare il secondo giro. Parlano concitati. Tramano. S’ingegnano. Hanno da svoltarla. Ci scherzano su, ovvio, ma il disgusto per una vita mal spesa e sempre uguale, tra lavoro-amici-lavoro-domenicafuori-lavoro, è la cosa che li accomuna. – C’è da trovare i soldi – dice serio il Polle, – e poi partire –. L’Alpe e Carlos annuiscono persi, sbronzi. – Vado a pisciare – – Aspettami –.Il gigante rasato e il peruviano si alzano.

Il Polle rimane solo, e scola la sua Guinness, con lo sguardo fisso, stringendo il bicchiere. Ripensa a vecchie storie, avventure passate. Gli si fa nostalgica. Anche per questo è finito da queste parti: la sua ex lo ha lasciato per un altro e, forse, il vero motivo che l’ha portato lontano da casa è proprio questo. Non avrebbe sopportato di vederli felici insieme, camminare mano nella mano nelle stesse strade testimoni dei giuramenti d’amore eterno che si erano scambiati. Sì, forse la vera ragione del suo viaggio lontano dall’Italia è lei. E il destino, si sa, si diverte a tirare scherzi amari. Proprio in quel momento il cellulare suona. Il nostro giovane migrante al tavolino legge il messaggio: “Con Carlo è finita. Sono a Dublino. Voglio vederti. Sono qui apposta”, dice.– La stronza – borbotta scazzato rimettendo via il telefono, sempre più insofferente. Se ne andrebbe adesso, ci pensa seriamente, ma i due compari tornano proprio mentre si sta alzando.– Ohbbravo! Andiamo, via! – gli fa l’Alpe portandolo fuori e mettendogli un braccio intorno al collo, ché l’ha capito che qualcosa nella testa dell’amico non funziona come dovrebbe, stasera.Fuori dal locale non perdono tempo a lanciarsi nella serata irlandese: fiumi di birra e ragazze coi capelli rossi e gli occhi blu, – oh, ma l’hai vista quella come mi guardava? –. E poi ancora fuori, fino al prossimo pub, come se il domani non dovesse più venire. A bere, a ridere, a folleggiare. Al Polle quasi passa la malinconia, nonostante si vada a rileggere il messaggio di tanto in tanto, e si dica: “Solo stanotte e poi mai più”. Ma ha paura di buttarsi, di dover rivivere tutto il male che ormai è riuscito a staccarsi di dosso, lanciandolo via lontano, insieme a tutti i fottuti bei ricordi. Ma il sesso, quello buono, non si lascia dimenticare così. È per questo che va in bagno e la chiama. Ci fissa davanti al negozio di

dischi in zona Temple Bar, quello col murales stiloso che sbuca tra gli edifici grigio-vetro delle banche. Si defila dagli altri che tutti sbronzi continuano a ballare con delle studentesse spagnole rese leggere e quasi interessanti dall’alcool.

Sorride, il Polle, ed esce incamminandosi svelto. Un po’ troppo sorridente, nota guardandosi riflesso in una vetrina. Arriva. La vede. Vorrebbe tornare indietro mentre lei copre i passi che li separano, sorridente e bella come il Polle non si ricordava. Il dolore cambia tutto, pensa. Lei lo prende per mano, se lo tira dietro e cominciano a parlare. Ridono un sacco e stanno bene. Pensieri malati per il nostro eroe romantico che cerca di concentrarsi sul resto, cercando di lasciar perdere il profumo delle cose che lei dice, pensa, fa.Se lo porta dietro, lei, tutta baci e sorrisoni e ciglia lunghe che sbattono sul muso cotto di lui. Femmina pura. Passano un’oretta in giro, poi se ne vanno in ostello da lei. E succede quel che deve succedere. È bello, anche se il Polle è via coi pensieri, lontano anni luce. Meccanico, fa quel che deve. Un Oceano li separa. S’addormenta ancora dentro di lei, sfiancato dall’alcool e dal resto. Dormono, sereni e abbracciati. Non è nemmeno giorno, però, che lui si sveglia e va via come un ladro, angosciato per quel che è successo. Passa da casa. Gli altri devono aver avuto successo con le studentelle: non ci sono. Recupera uno zaino già pronto dal fondo dell’armadio, il passaporto e i pochi soldi messi da parte, sufficienti appena per un biglietto aereo che lo attende da mesi. E in culo le sicurezze.

Se ne va alla stazione, a Busàras. Sale sul bus blu a due piani per l’aeroporto.Si sbriga a far tutto, check-in e menate varie, sale sull’aereo, guarda fuori dal finestrino. Poi decolla e salgono di quota anche i suoi pensieri, mentre guarda Dublino farsi sempre più piccola. Ripensa agli amici a cui ha lasciato un messaggio. Ripensa a lei, ai suoi, all’Italia. Occhi rossi di sonno e lucidi di paura e rammarico.

Ma adesso è Messico, ed è tutto nella sua testa, nel cuore, si dice, e ci sarà sempre.

Ma ora è Messico, e non è più solo fantasia. Solo l’Oceano li separa.

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“Eccolo, il mio regno”.

Questo pensa il Malva, irrompendo in Santissima Annunziata dal corridoio di Via de’ Servi. Passo regale, leggermente barcollante. La busta di tisana per la stitichezza ben nascosta in saccoccia, dono per gl’ingenui turisti. Il cappellino da baseball calato in testa, ad immaginaria corona. La barba ferina e i capelli scarmigliati come una criniera.Un subumano incrocio tra un Re Magio e Simba.

Il suo regno, la piazza, l’ha adottato, accolto, quasi inglobato. Un utero di pietra, la Santissima, rifugio degli orfani della società: immigrati, nomadi, italiani senza dimora e ogni altro genere di fauna del sottobosco urbano. Ironico che questa sia da secoli anche la sede del primo orfanotrofio del mondo moderno: lo Spedale degli Innocenti.Ma non è da li che viene. Una famiglia ce l’aveva, lui, e nemmeno con le pezze sul sedere.“Inutili e bigotti figli di puttana”, è ciò che pensa delle sue ricche radici, il Malva. Non hanno mai accettato il suo stile di vita da borderline della legalità. La loro sentenza nei confronti del figlio? Un sonoro calcio in culo, e via, a far da Re in questa grigia reggia.

I suoi cortigiani questa sera sono assenti e l’aria della piazza spoglia ha un ché di surreale.I permessi di soggiorno sono merce rara, nel suo drappello multietnico, e ciò spinge a massicce fughe preventive alla vista di una qualsivoglia

sirena, lasciandolo solo sotto lo sguardo degli sbirri compiacenti. Mica vìola la legge, lui. Non troppo, almeno. E poi salda i suoi debiti in altra maniera, passando informazioni ai tutori dell’ordine a discapito degli impudenti marocchini che osano profanare il suo territorio. E, in fin dei conti, questo è il suo regno, checcazzo! Avete mai visto delle guardie mettere in dubbio l’integrità e il potere del Sovrano? Per sconfiggere la noia, decide che è giunto il momento di testare il souvenir dai Paesi Bassi, portato in dono dal suo amico Momo: estrae la batteria dal cellulare e tira fuori dal vano sottostante un piccolo ritaglio di cartoncino, avvolto nel cellophane. Non riesce a capire di che blotter si tratti, ma si fida della parola dell’amico: “Questo è come bomba di Hiroshima, fratello. Prendi mezzo, se nò tuo cervello... Puff!”. Si guarda intorno, srotola il trip dal suo trasparente sudario, lo osserva un attimo e se lo scucchiaia in bocca. Intero.“Fighetta d’un nigga... Mezzo? Venvia, ‘e mi piallavo di gocce quando ancora te ‘ttu te ne stavi nella Savana a scappà da’ leoni, fava!”, ghigna ironico, col retrogusto acìdulo che s’impadronisce della lingua.

Attendendo la deflagrazione si siede sulle scalinate della Loggia dei Servi di Maria a tracannare il Baffo più famoso d’Italia. Ne contempla il vestitino da 66 cl. Poi alza lo sguardo sulla faccia austera di Ferdinando I de’ Medici, che se ne sta impettito

STORIEDI PIAZZA

Dallamentedi//SimonePiccinni

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sul suo cavallo di bronzo, a sua volta impettito sul piedistallo marmoreo al centro della piazza. Gli occhi vuoti della statua fissano la finestra sempre aperta di Palazzo Budini Gattai.“Cazzo guardi, scemo? Quella baldracca che ti pigiavi è morta da quel dì...”, ridacchia da solo, ricordandosi di quella vecchia voce popolare sulla finestra dalle persiane sempre socchiuse. Secondo la leggenda, l’amante del Granduca sarebbe vissuta proprio in quelle stanze, da cui il posizionamento della statua: un sempiterno scambio di sguardi tra il condottiero e la sua bella, indissolubile nei secoli dei secoli. Questa è l’unica cosa che sa, il Malva, della ricca storia della piazza. D’altra parte, i fatti più facili da ricordare, nella maggior parte dei casi, riguardano il gossip. Poco importa che quella faccia da stitico a cavallo fosse anche un cardinale e conquistatore di mondi, avesse ristabilito lo stato di diritto e avesse lottato per l’indipendenza della Toscana dagli Asburgo, oltre a commissionare tutte le opere d’arte della piazza, il Forte Belvedere del Buontalenti eccetera, eccetera. Per il popolo e per il moderno reggente della Santissima Annunziata, quello lassù rimane impresso perlopiù come un adultero puttaniere. Il Malva guarda la finestra, attratto da quello che gli pare un movimento dietro al vetro. “Occhio a sta’ in quella stanza, ché ci son gli spiriti!”, ammonisce mentalmente, ghignando verso l’ignota ombra. Luma due passanti, ai quali rivolge il suo solito saluto: – Marijuana ragazzi? Serve nulla? –. Uno dei due borbotta qualcosa, senza fermarsi. “Merde”, pensa il Malva.Lentamente iniziano a farsi strada i preludi dell’esplosione: sensazione di calore, il battito del cuore che sembra l’eco di un tamburo di guerra all’interno del cranio, uno strano prurito dietro le orbite e i suoni della città che iniziano pian piano a farsi lontani, deformandosi in lunghi lamenti.

“Boia, inizio a sentilla...” pensa, alzandosi in preda alla smania. Girella per la piazza. Si sciacqua la faccia ad una delle fontane dei mostri marini del Tacca, cullandosi nell’illusione di lucidità che l’acqua fresca gli concede.

Gira la testa, alla ricerca di appigli visivi cui aggrapparsi, mentre i contorni di palazzo Budini Gattai iniziano a miscelarsi con la Cupola del Brunelleschi, sullo sfondo.Non c’è più nessuno in piazza, ad eccezione di una piccola figura alle spalle della statua equestre, ritta di fronte alla targa araldica sul piedistallo. Non l’aveva assolutamente visto avvicinarsi, il Malva, preso dal trip. Il bambino pare assorto, vestito con una tunica bianca che ciondola fino alle cosce, ricoprendo una calzamaglia dello stesso colore. Avrà sì e no 10 anni, o forse qualcosa in più. “Bada com’è vestito questo...”, riflette il Malva.– Oh, nacchero. Che t’hai perso la via di casa? – gli urla dietro, biascicando le parole. Non ottenendo risposta si avvicina.

– Ciccio, lo so che sei giovane, ma è bene inizià

presto a questo mondo. Marijuana? –.Il bambino sobbalza, dapprima spaventato, poi si volta verso di lui e con la faccia contorta in una smorfia sbotta:

– Messere, col vostro favellar senza senso non riuscirò mai a contar le dannate api! –.“Icché dice questo? Bada te come iniziano a drogassi presto! Ora gli butto lì un trip, tanto son pieno di biglietti dell’Ataf”, pensa il Malva, sbigottito.

– Ma come parli, bimbo? Dove sono i tuoi genitori? –, chiede, ricomponendosi.

– Col doveroso rispetto messere, ma è la vostra di parlata ad esser quantomeno bizzarra, anche se ormai c’ho fatto l’abitudine... – risponde il bimbo.

– Et per quanto riguarda i genitori, è ciò che vorrei sapere anch’io. In tal proposito, se voleste scusarmi, tornerei a contar le api – dice, tornando a fissare la targa.Il Malva non sa bene che fare, se abbandonarsi nei meandri delle sue distorsioni visive o indagare ancora. Prevale la seconda ipotesi.

– Non capisco se mi stai pigliando in giro o cosa, ma non dovresti stà qui da solo. ‘Gnamo, dov’è la tu mamma? –

– Sant’ Iddio! – sbotta nuovamente il bambino – Vi ho già detto, messere, che non lo so! Et giammai lo saprò, se non conto queste cose forgiate da Lucifero! Quella befana de Madre Superiora non mi lascerà mai libero da quel lazzaretto! – abbassa la voce tutto insieme sull’ultima frase, voltandosi ad indicare lo Spedale.

– Ahhh, ma sei un orfano. Vabbè, ma che gliè il modo? Lasciarti qui fuori di notte. Oh’ccome stanno ‘ste mentecatte di suore? –– Vi prego di non tediarmi oltre. Son fuito dal convitto, com’ogne calar del sole da trecensettantacinque anni per contar le maledette. Ma questa puot’esser la justa notte. Non avete da vender erbacce a qualcheduno? – rimbrotta il pargolo.

– Ma come cazzo parli? Bada nano, abbozzala di prendè per i’ cculo, ché ho già i miei problemi –risponde il Malva, cercando di mettere a fuoco i contorni del bambino.

– E che voi dì con “erbacce”? Che ne voi sapè te... –– Suvvia messere, è da quando eravate poco più che pargolo che vi scorgo a scambiar fogliame con giovinetti e genti d’oltremare – sogghigna il bimbo.

– Questi ‘un sò affari tuoi, gnomo. E poi finiscila di dì boiate. Oh che storia gliè? Quand ero pargolo io te ancora sguazzavi nelle palle di’ttu babbo, venvia –.Il piccoletto sbuffa. – Uff... Via, siccome oramai ho perduto il conto, et il tempo certo non mi manca, vi conterò la mia historia –.

– Il nome mio è Niccolò Nocentini – inizia, assumendo l’aria scocciata di uno scolaretto che ripete la lezione

– o meglio, questo è l’appellativo che mi diede l’abate Borgi: fui lo primo ad esser battezzato di sua mano, nell’anno domini 1642 – dice, quasi con una punta d’orgoglio. Poi, indicando la Ruota degl’Innocenti ormai murata, prosegue:

– Mi depose laggiù, mia madre –. Abbassa lo sguardo al collo ed estrae dal bavero un ciondolo argentato, spezzato a metà.

– Mi lasciò con un bacio, credo. Et questo monile –.

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Il Malva viene sopraffatto da un ondata lisergica e si siede a terra, assorto. “Ok, so’ partito...”. Ma che si tratti di un effetto dell’acido o meno il bimbo lo intrattiene, impedendogli di intripparsi a guardare gli universi nei lastroni di pietra o, peggio, di perdersi in pericolosi deliri introspettivi.

– Di lei nulla so, se non che giungerà il dì in cui la rivedrò. È la mia meta da quando serbo memoria. Sin fine, le scoppole prodigatemi dalla Priora per le mie ripetute fughe, e troppi i Pater Noster recitati a forza di ciaffoni. Sino a quando, pria che mi spedissero ad apprender il mestiere di pellajo, giunsi all’accordo colla vecchia: s’io fossi riuscito a contar le api della targa sine usar altro se non li miei occhi, ella avrebbe acconsentito a lasciarmi libero di partir alla ricerca di mia madre – il bimbo si rabbuia un istante, poi prosegue: – Passai giorni e giorni e ancora giorni qui davanti, ma il fato sin justitia volle prendersi gioco di me: mentr’ero qui, a tentar l’impresa, un destriero imbizzarrito mi menò una gran pedata sul groppone e io, cascando, mi fracassai la testa proprio sotto l’ape regina –.Uno sguardo allucinato si fa largo sulla faccia del Malva, incapace di parlare.

– Da allora, ogni sera mi ritrovo qui, invisibil per tutti men che pell’occhio di quell’arpia. Millanta volte provai a fuggir dalla piazza, ma come menavo per Via de’ Servi, Via de’ Fibbiai o Via della Colonna, una mano mi raggiungea, come una lingua di foco saettante, e mi prendea salda pell’orecchio – infervorandosi, mima lo schioccare di una frusta.

– La vecchiaccia persiste nell’oppressione financo post trapasso. Esige il rispetto del patto et, seppur la nostra presenza sulla terra dimostri l’infondatezza del suo divin potere, io quivi giaccio da quasi quattro secoli. Et la mi’ mamma ancor non so dove dimora. Fantasma, demone, angelo o qualsivoglia forma ella abbia assunto dovrò pur vederla, presto o tardi! –. Una lacrima serpeggia sulla guancia del bambino, che tira su col naso e immediatamente l’asciuga col dorso della mano.

- Ma fin a quel momento mi ritrovo rinchiuso com’una fiera in gabbia in questo rettangolo di pietra, lo sol di cui ricordi il guardo. Crebbi e morii nello stesso posto e, come somma punizione, ivi rimango anco nell’eterno riposo, se riposo si può chiamare. L’unico pensier che mi rallegra è la speranza che ‘l Tacca, l’immondo scalpellino livornese autor di siffatto malefizio, passi lo suo riposo tra le fiamme dell’Averno a scalpellarsi le gonadi sino allo Divin Juditio, ‘n compagnia del Giambologna, suo maestro! –, mimando martellate sul cavallo della calzamaglia.D’improvviso un fischio riecheggia vicino all’orecchio del Malva, che sussulta. Una scudisciata di fuoco azzurro sibila nell’aria, partendo da una finestra dello Spedale. Come una meteora impazzita, la mano anellata alla fine della fiamma si abbatte sulla faccia del bambino, facendogli compiere una mezza giravolta.

– Che cazzo è stato? – chiede il Malva col cuore in gola, sgranando gli occhi.

– Oioi... Povero me. Quest’invece era ‘l Borgi, ne riconosco il timbro... Bravo tutore, invero... – geme

il bimbo, pronunciando l’ultima parte della frase ad alta voce, rivolto alla finestra. – Non ama la scurrilità, il vecchio Cerbero malnato – conclude in un sussurro, massaggiandosi la guancia.S’intravedono i segni di cinque dita rosse sul suo volto, ma lui si ricompone un attimo e, scuotendo il capo per stoppare il ronzio all’orecchio, conclude: – Ordunque. Abbiam fatto li dovuti convenevoli, ergo tornerei a contar quelle bastarde, volesse il cielo ch’io stanotte ci riesca –.Detto questo il piccolo si volta perentoriamente verso il piedistallo, lasciando il Malva in stato confusionale, buttato a terra come uno straccio vecchio, con una Moretti ormai calda e sgassata tra le mani. Non ha nemmeno la forza di controbattere, spaesato.

Con una pesantezza infinita si tira in piedi, come sollevasse la statua equestre in spalla. “Devo camminare, questo nano non c’è mica del tutto, sempre che ci sia davvero. Per inventarti una storia del genere non devi stare troppo bene... O magari son io che sono alla buccia, vai a sapere... Pure le lingue di foco. Mai avute allucinazioni così...”.Lascia lì il bambino, concentrato sulla targa troneggiata dal motto Maiestate Tantum, come se il loro dialogo non avesse mai avuto luogo.Vaga per la piazza, mentre avanza la fase introspettiva del trip ad affiancarsi alle distorsioni visive. Cerca di schiacciare le domande che si fanno strada come si schiaccerebbero zanzare in estate, il Malva. Ma queste tornano immediatamente a pungere qualche altra porzione di cervello. Una cupa disperazione s’impadronisce di lui.

– Come vedo Momo gli appioppo due schiaffi. Sta roba dovrebbe essere illegale – sghignazza da solo, istericamente. Camminando sghembo sotto il loggiato della Basilica, la sensazione di aver perso una parte d’esclusiva sulla piazza lo massacra, destabilizzandolo. Tutto sembra vivo, tutto sembra che lo guardi, giudicandolo nella sua insignificanza. Ogni fregio, ogni mattone, colonna o lastrico di quella che fino a poco prima considerava una sua specie di proprietà privata, pare avere altre mille storie ben più interessanti della sua da raccontare.

Si guarda alle spalle, in direzione del palazzo Budini Gattai, e nota ancora una volta l’ombra alla finestra sempre aperta, avendo la spiacevole sensazione di aver degli occhi appiccicati addosso. Poi abbassa lo sguardo ai piedi della statua, sperando di non vedere nulla. Il bambino ha un sussulto e si contorce, battendosi un pugno snervato sulla coscia.

Poi, imperterrito, si rimette a contare.

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Per quanto l’Ignoto sia terrificanteNoi combatteremo con la Curiosità che è figlia di Libertà

Per quanto l’Ansia e l’Attesa possano essere asfissianti

Noi combatteremo con il respiro della Calma che è sicurezza della prossima Unione.

Solo combattendo la Pauraarmato di Sincerità

diventerai sfinge di Te stesso.

Aprirai gli occhi all’Infinito.

Lettere poesia? Nata dalla Lontananza di un viaggio tanto agognato.

Tutte le sensazioni sono scrtte in lettere maiuscole come fossero persone: vive. Devono essere nutrite per continuare a esistere, trascurate per morire.

Nascono, crescono, si spostano e viaggiano da un tema all’altro.

IL RESPIRO DELLA CALMA

Dallamentedi//NellisArondace

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Walter Brahimi è alto, dalla corporatura media. I suoi capelli sono ricci, brizzolati, schiacciati dal pànama che porta sempre con sé. Walter ha un sorriso che infonde serenità, così come lo sguardo. I suoi occhi color ambra amano catturare gli altri e trasportarli con sé in uno stato di profondo benessere. Non il benessere che si ha divertendosi a una festa o mangiando un dolce; non quello che si trova nell’idromassaggio di una Spa, o tra le braccia di un amante. Il suo è quel tipo di benessere che si scorge in un bosco vergine di rumore, quando ai piedi di una quercia ci si ferma a leggere e ad annotare i propri pensieri.

Walter è in autobus, ora. Sta andando a casa di sua figlia, che non vede da tredici anni. Walter ne ha fatte di cose, nella sua vita, di cui non va fiero. Ha sempre pensato che sia la scelta, la chiave di tutto. Accanto a lui, Keila, che torna da scuola, sta parlando al telefono con Anna; le descrive la collanina d’oro che il suo nuovo ragazzo le ha regalato. Si vanta con la sua amica, mentre Walter guarda in alto, davanti a sé, pensando all’ultima volta che ha visto sua figlia, pensando a cosa le dirà, immaginando la donna che si troverà di fronte. Nella testa, l’immagine di quella bambina, con gli stivaletti rossi e lo sguardo triste, che stringe a sé il nuovo libro di fiabe che il padre le ha regalato; quella bambina, che saluta con gli occhi e con le lacrime, mentre lo vede allontanarsi senza valigie; quella bambina, che cerca dentro di sé una spiegazione, invano. Questo ricordo segue Walter come un cane fedele da allora. Triste, sorride all’idea di poterlo rinnovare. Gli dà l’addio, mentre cerca di trattenere le lacrime che, testarde, gli rigano il viso e si fanno spazio tra le incanalature ai bordi

delle labbra. Quello che stringe tra le mani è un diario. È il diario che ha sempre portato con sé dalla sua partenza; ora è colmo di poesie, note, pensieri, sogni. La copertina nera è sfaldata sui bordi, gli angoli sono bianchi e arrotondati; smussati, tanto che lasciano intravedere alcune parole scritte all’interno, una calligrafia elegante, una scrittura fine. Fitta, copre quasi del tutto le pagine ingiallite dal tempo. È quello, il regalo per sua figlia. Quando le aveva telefonato avevano pianto. Non era stato facile trovare il consenso perché andasse a trovarla. Mi hai rovinato la vita, gli aveva detto. Non voglio aver bisogno di te. Avevano pianto ancora e Walter le aveva detto che era a Firenze. Aveva già percorso i duemila chilometri che li dividevano.

Keila è arrivata alla sua fermata, ma il posto accanto a Walter rimane vuoto per poco. A sedercisi è un uomo sulla cinquantina, folti baffi bianchi e occhi puntati su La Repubblica. Ogni tanto sbuffa e volta pagina, senza mai distogliere lo sguardo. Si chiama Olmo e la sua vita non lo soddisfa. Cerca sempre nuove motivazioni, nelle strade come nei giornali, per avere una scusa per sentirsi frustrato.

I pensieri di Walter, intanto, sono diventati caotici e ostinati. Vuole abbracciarla, non riesce a pensare ad altro. Sente già il calore del suo corpo riscaldare quello della figlia. Attraverso quell’abbraccio, le comunicherà tutto l’amore che ha tenuto in serbo per lei, la tragicità che ha conosciuto come inevitabile nella vita e la gioia della conoscenza. Le

WALTERDallamentedi//P.TizianaCaudullo

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avrebbe confidato la solitudine e il rosso del cielo al tramonto che accompagnava le sue letture, tutte le sue esperienze, tutti i suoi traguardi.

Aveva ventisei anni quando aveva rifiutato il posto come ricercatore presso l’Università di Tirana. Lui voleva inventare, progettare, produrre. Per questo aveva accettato il ruolo di Ingegnere Progettista Meccanico, per questo si alzava tutte le mattine e si recava di buonora in ufficio; studiava l’aspetto dell’ottimizzazione del combustibile nella camera di scoppio con lo stesso entusiasmo che un bambino impiega nei suoi giochi. Si accorse solo molti anni dopo che il tipo di produzione a cui era destinato dal fato aveva poco a che fare con quella materiale, che il suo spirito cercava altro e che nessuna macchina poteva darglielo. Quando se ne accorse, reagì scappando.

Quando era partito non sapeva bene dove sarebbe andato, né aveva eccessivamente chiaro in mente il motivo della sua partenza. Sentiva di doverlo fare ed egoisticamente aveva assecondato i suoi impulsi. La sensazione di essere schiacciato dalla superficialità della sua esistenza lo aveva portato alla fuga. Se n’era pentito? Quasi ogni giorno. Ogni giorno, ripensava alla moglie e alla figlia. Ma Walter pensava che fosse la scelta, la chiave di tutto. E ogni scelta determina, è inevitabile, gioia e dolore.

Mancano sei fermate, quando Walter posa lo sguardo sul diario, ancora stretto nelle sue mani, e lascia che si apra in modo casuale. La prima facciata è occupata da una poesia, di un certo R.C.; parla di passione e di rugiada, del destino e della brina; la legge con attenzione, assaporando quelle stesse emozioni che aveva provato quando aveva deciso di trascriverla. Nella seconda trova proprie annotazioni; riguardano l’essenza della conoscenza, la teoria dell’inconscio collettivo e gli archetipi di Jung; la sua attenzione è catturata subito da una

frase, scritta con una calligrafia estesa, che emerge tra le altre. Nel buio della realtà tutto acquista la luce che si riflette su di me – la mia luce riflessa, come quella della luna – che ormai porta con sé la mia essenza. Tutto quello che conosco ne è fradicio. Sorride, vergognandosi della segreta ammirazione che prova nei confronti di se stesso, e richiude il diario con cura.

Mancano due fermate. Quando sarà sceso dall’autobus, Walter dovrà percorrere circa cento metri a piedi verso ovest, voltare a destra e, da lì, a pochi passi, troverà il numero civico trentatré. Volge, ora, lo sguardo fuori dal finestrino. Vede scorrere le vetrine luminose dei negozi, vede una giovane ragazza che accompagna sotto braccio la nonna, lo fa sorridere; poi, una bambina che piange, mentre indica con una mano una bambola di stoffa che le sorride dalla vetrina; la madre la ignora e, tenendola per l’altra mano, la strattona via.

Walter inizia a sudare quando scende dal bus. I passi si susseguono, svelti, e sente rimbombare il battito accelerato del cuore. Tutti i pensieri che lo avevano accompagnato lungo il tragitto si dissolvono. È confuso, non può più pensare a cosa dirle; non può più immaginare la sua reazione o il suo sorriso. Non può più aspettare. Il numero trentatré è finemente inciso su una piccola tavola di legno color mogano affissa sulla parete. Esamina il portone di legno scuro, elegante, raffinato. Osserva l’indice della sua mano destra distendersi e avviarsi, cauto, verso il pulsante che affianca il nome Amisa Brahimi. Il ritmo dei passi che sente avvicinarsi alla porta coincide con quello dei suoi battiti.

È esattamente come se l’immaginava, il suo sguardo.

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INDUBBIA/MENTE – INDUBBIAMENTE

7 BUONI MOTIVI PER APPASSIONARSI AL CINEMA FRANCESE

IN/DUBBIA/MENTE

Il 2014 è stato l’anno di Matthew McCounaghey, protagonista di True Detective, star di un filmone da Oscar ma sopratutto testimonial della pubblicità delle auto Lincoln, in cui si confronta magistralmente con un gran bel bufalo. Tutto il resto è noia. Fra le varie proposte cinematografiche che non sono riuscite a raggiungere il livello del sopracitato Matthew e delle sue performance, vi è certamente la versione restaurata del capolavoro di Truffaut, I 400 Colpi, riproposto nelle minori sale italiane. Ho provato a portare due o tre persone al cinema - tutti amici intellettualoidi fidati – ma, anche millantando la presenza di scene di sesso, non sono riuscita nell’intento. Ecco allora la mia personale lista dei sette motivi che spero vi facciano venir voglia di assaggiare I 400 Colpi e di appassionarvi al cinema con la R moscia.

IMPARARE IL FRANCESE (propedeutico al terzo punto) - Molti di noi a scuola hanno imparato fin da piccoli a mettere il book on the table e il cat on the chair, abituandoci a masticare l’inglese con la stessa eleganza con il quale si maciulla una Vigorsol. Ma arrivati ad un certo punto della nostra brillante carriera anglofona abbiamo dovuto sacrificare un po’ del nostro tempo in nome dell’apprendimento della lingua facoltativa. Il francese è rimasto per molto tempo la scelta quasi forzata alla già secondaria opzione facoltativa. Avvicinarsi in età adulta alla produzione cinematografica francese significa conquistare la consapevolezza di ciò che si vuole o non vuole vedere; significa selezionare un certo tipo di pellicola con un particolare metodo narrativo, non convenzionale; significa, infine, accettare il fatto che molti dei film francofoni non li ha mai cagati nessuno e, perciò, non ne esiste versione doppiata. Quale occasione per rinfrescare

la vecchia lingua facoltativa e imparare un sacco di nuove parole tronche? Basta una tv, un dvd, et voilà.

CITARE FILM IMPROBABILI DEI QUALI QUASI NESSUNO POTRÀ CONFERMARE (O SCONFESSARE) L’ESISTENZA - Sappiamo bene come al giorno d’oggi sia difficile risultare brillanti e intelligenti nella vita quotidiana, quando sui profili social compaiono citazioni e frasi celebri dei più grandi attori, o massime di pensatori moderni del calibro di Fabio Volo. Tutti attingono a risorse interminabili di fascino e sapienza, e a volte non sappiamo come sorprendere i nostri amici e nemmeno noi stessi. Le cose cambiano se vi guardate almeno un paio di film dei registi Chabrol e Resnais. Certo, molti penseranno che vi stiate inventando tutto, ma apprezzeranno il vostro sforzo di fantasia quando butterete là un titolo come La Tigre profumata alla dinamite, un lavoro un po’ demmerda di Chabrol, che in questa occasione si cimenta in una trama di spionaggio in Guyana. L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais è invece un piccolo capolavoro che non ha un titolo sexy come quello di Chabrol - e ancor meno dialoghi da citare - ma la scena del gioco dei fiammiferi, da sola, vale il prezzo del biglietto.

TROMBARE DOPO IL FILM - Diciamoci la verità, quando invitiamo qualcuno a vedere un film a casa, a meno che non siano amici, come minimo ci aspettiamo un po’ di lingua. Se ci viene concesso tutto il resto vuol dire che o il film faceva cagare, oppure che abbiamo fatto un’ottima scelta. Siccome

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Dallamentedi//BenedettaBendinelli

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l’attesa della limonata è già snervante di suo, perché mai caricarci di ansie da prestazione scegliendo un film romantico nel quale a un certo punto qualcuno sfoggerà gli addominali o le tette perfette? No. Optate piuttosto per una commedia drammatica come Fino all’ultimo respiro (A Bout de Souffle), opera prima di Jean Luc Godard considerata il manifesto della Nouvelle Vague. A un certo punto i protagonisti si trovano a letto, lei tira fuori un libro di Faulkner e, leggendo un passo da Palme Selvagge, si rivolge a Belmondo chiedendo cosa sceglierebbe tra il nulla e il dolore. Lui risponderebbe volentieri la figa, ma a noi e a lei dà a credere di essere interessato ai piedi. Seguiranno altre perle come la conversazione sulle Svedesi, o la scena in bagno nella quale viene del tutto sdoganata la pacca sul culo nei film d’autore.

TROMBARE SENZA NEMMENO VEDERE IL FILM - A volte si è fortunati.

RICOLLEGARE QUESTA E’ LA MIA VITA A JEAN LUC GODARD DIMENTICANDOSI DI LIGABUE - Ligabue ruba le cose. Non era abbastanza sottrarre l’identità al pittore folle Antonio Costa, detto appunto Ligabue. Non era abbastanza monopolizzare le parole “bar” e “Mario” costringendoci a canticchiare il suo pezzo ogni qualvolta ci vediamo da un qualsiasivoglia Mario. Si è voluto spingere oltre, più in la di Elvis, oltre le stelle senza cielo. E col cavolo che ha perso le parole, magari l’avesse fatto! Ne ha così tante da condividere con noi che ce le vuol dire tutte, osannando le sue fatiche esistenziali in un brano - ahimè - indimenticabile come Questa è la mia vita. Abbiatene abbastanza di questi furti! Liberatevi dalla schiavitù cognitiva del Liga tiranno: là fuori c’è un mondo da scoprire. Vivre sa vie - in Italia distribuito appunto come Questa è la mia vita - è forse il più grande capolavoro di Jean Luc Godard. Il film è strutturato in dodici episodi, in ognuno dei quali recita la triste e lisergica Anna Karina. In ogni passaggio vengono narrate storie diverse, tutte però con la solita protagonista, prima aspirante attrice, poi commessa, poi ladra e infine prostituta. Nell’episodio numero 11, Lo Sconosciuto, Nana incontra un uomo in un caffè, si fa offrire da bere e interroga l’estraneo sull’importanza delle parole. Guardando questo frammento viene voglia di fumarsi una sigaretta, di confrontarci con le nostre certezze, vien voglia di parlare. E magari, alla fine, scopriamo che la conversazione non è poi così importante, ma allo stesso tempo impossibile da evitare. Ma sopratutto, certe notti, vien voglia di entrare al bar Mario e, invece di domandarci se Dio ha un momento, se il cielo è vuoto o il cielo è pieno,

magari speriamo solo di trovare Anna Karina, in bianco e nero, che ci chiede se le offriamo da bere.

GUARDARE THE DREAMERS NON SOLO PER LE BOCCE DI EVA GREEN - Se avete visto il film numerose volte, e la vostra scena preferita continua ad essere quella in cui Eva Green sveste i panni della Venere di Milo per sedurre il capovolto Micheal Pitt, probabilmente avete dei seri problemi. Ci sono molte altre scene affascinanti, e conoscere quei due o tre cult francesi vi aiuterà a redimervi dal peccato e guardare la pellicola firmata Bertolucci con occhi nuovi. Non voglio elencare i film citati o mimati dai protagonisti, ma vi sfido a riconoscere almeno tre titoli di grandi registi francesi. Ecco le scene: 1) Isabelle, Theo, e Matthew corrono per il Louvre battendo il record di 9 minuti e 45 secondi. 2) Isabelle tenta di uccidersi con il gas e, una volta chiusi gli occhi, ripercorre la scena di un film. 3) Isabelle si mette a gridare «New York Herald Tribune!».Buon divertimento.

PER LA SCENA FINALE DEI 400 COLPI - Avevo tredici anni quando vidi per la prima volta Les Quatre Cents Coups di Truffaut. Ricordo che il mio professore d’Italiano aveva molta premura di mostrarcelo, quasi quanta ne aveva di arrivare alla fine: ci aveva anticipato che l’ultima scena sarebbe stata indimenticabile. E così fu. Guardai tutto il film con la stessa attenzione che si dedica alla vita quando si è bambini: con la lingua tra i denti, le mani strette alla sedia e le gambe incrociate. Godard aveva ragione quando parlava di splendore del vero, la bellezza in sé non esiste, ma esiste la verità che essa libera nella sua espressione più pura. Il lungo piano sequenza che segue la corsa di Antoine è una delle cose più belle e autentiche che abbia mai visto. Il mio parere di adulta conta quanto il due di briscola, ma potete fidarvi del mio giudizio spassionato di bambina che ascolta una storia, che la osserva e ne rimane affascinata. Il mio invito pertanto è quello di fingervi di nuovo tredicenni, di incrociare le gambe sulla sedia, serrare la lingua tra i denti e gustarvi questa scena: sarà un’esperienza indimenticabile.

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Wu Ming (in cinese mandarino “senza nome” oppure “cinque nomi”, a seconda di come viene pronunciata la prima sillaba) è un collettivo di scrittori provenienti dalla sezione bolognese del Luther Blisset Project, un collettivo aperto composto da “centinaia di artisti, attivisti e burloni”, attivo dal 1994 al 1999.

I quattro precursori (poi cinque, poi di nuovo quattro) di Wu Ming divennero celebri sotto il nome appunto di Luther Blisset con il romanzo Q. Dopo la metamorfosi hanno realizzato in forma collettiva numerosi romanzi, tra i quali spiccano L’armata dei sonnambuli, Manituana, o raccolte come Anatra all’arancia meccanica. Racconti 2000-2010 e Quattro (in collaborazione con il collettivo di fotografi TerraProject), tradotti e pubblicati in svariati paesi. Inoltre, il collettivo fa parte di Wu Ming Foundation, che comprende numerosi altri progetti, come la punk-rock band Wu Ming Contingent, il blog Giap e l’officina di narrazioni Wu Ming Lab. In occasione della presentazione del disco Bioscop, opera prima di Wu Ming Contingent, al Glue di Firenze, abbiamo avuto l’occasione di fare una chiacchierata con due membri del collettivo: Giovanni Cattabriga (Wu Ming 2) e Riccardo Pedrini (Wu Ming 5). Questo è un estratto di ciò che ci hanno detto.

continuamente fluisce. La letteratura, appunto, è una specie di lago che ha in parte la funzione di fermare quel flusso, far decantare le cose, permettere anche a una certa complessità di essere afferrata e quindi magari di mettere insieme dei pezzi che altrimenti apparirebbero come spezzati. Nel fluire dell’informazione, tiri su delle notizie, però ti sfugge in qualche modo la mappa cognitiva, la connessione; la letteratura è uno strumento cognitivo per capire il mondo raccontandolo, per trasporlo in una forma che spesso ci permette di capire meglio.

Per quanto riguarda vari avvenimenti, se li metto

TF: Quale pensate sia il ruolo della narrativa e della scrittura nell’era dell’immagine e dei social media?

WM2: Questa è sicuramente una domanda ampia. Da un lato la letteratura serve a rallentare l’informazione, a creare una specie di bacino, se vogliamo anche artificiale, dove i flussi di informazione possano convogliarsi e rallentare, e quindi essere osservati in modo differente. Mentre li vedi continuamente scorrere (come accade sui social o sulle testate giornalistiche on-line. NdR), ci sei immerso: cerchi di raccogliere delle cose mentre questo fiume

ANTIDOTI NARRATIVI

INTERVISTA A WU MING//AndreaFederigi//LorenzoFrittelli

Dallamentedi

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dentro un racconto con le giuste connessioni, riesco a farti capire quello che magari prima non avevi capito.

Siamo immersi in una grande quantità di stili narrativi, tutta la narrazione si basa su strutture narrative, come quasi tutta la comunicazione, e quindi avere una competenza nel raccontare storie ci permette di offrire a chi legge una chiave di comprensione di come sono fatte le storie. Questo aiuta a smontare le narrazioni che ci vengono propinate e ci dà modo di provare a reagire raccontandone altre. Ci siamo accorti, infatti, che il modo migliore per reagire al fatto che il potere ti racconti storie e che, con queste storie, cerchi in qualche modo di plagiarti proponendole come uniche, sia proprio quello di moltiplicare la narrazione. Non si deve smettere di raccontare, o accusare la narrazione di manipolazione che nasconde i fatti, perché invece i fatti li fa parlare, ci permette di capirli. Però a volte capita sia intossicata, avvelenata. Bisogna cercare di disintossicarla per poi raccontare ancora.

WM5: È elementare non raccontarsela, però, essere impietosi. Prima di tutto è essenziale cercare di capire la propria posizione nell’orchestrazione generale del presente. Sviluppare un punto di vista individuale paradossale che ti permetta di individuare quali sono quelle narrazioni che, dal punto di vista sociale, agiscono in modo tossico. In questo senso, molto spesso, una critica efficace rispetto a quello che vedi parte da un livello di autocritica del presente. In che modo io sono implicato e impelagato in una miriade di reti relazionali che hanno alla base delle narrazioni in qualche modo viziate?

Bisogna coltivare un’angolazione di estraneità, cercare un luogo interiore che ti permetta di vedere le cose, non da molto lontano, ma da un luogo in cui il tuo coinvolgimento con ciò che noi chiamiamo potere, sia minimo. Qual è il tuo luogo interiore in cui non risenti delle pressioni socio-culturali riguardo l’identità e l’immagine di te che devi comunicare, ad esempio sui social-media? E quindi la riflessione è una specie di apologo su cosa è reale, e cosa effettivamente è la realtà. Io vedo un po’, non una dicotomia, ma proprio una differenza a livello ontologico: la realtà è un piano di oggettività condiviso da molte persone e convenzionalmente è definita come tale; il reale è esattamente quello che è dietro questa realtà. E in qualche modo è oltre la narrazione, ed è quello a cui in qualche modo la narrazione deve tendere, quello da cui il tuo punto di vista estraneo alla narrazione deve cercare di relazionarsi. Il taglio attraverso la realtà dei mezzi di comunicazione, della realtà della vita sociale, pubblica, in realtà sono tutte concrete: nel senso che agiscono sul corpo, sulla mente, sul destino, sul futuro.

Ma sono tutte convenzionali e si basano su reti simboliche convenzionali. Disinnescare questa

cosa è smettere di raccontarsela, non fare finta di far parte del concerto. C’è una parte di noi che è estranea alla realtà, che è in diretto contatto con il reale: questa parte di noi può essere sviluppata come attitudine critica nei confronti di quelle cose quotidiane orchestrate come narrazioni. Il discorso è complesso: il reale non può essere detto. Però reale è quello di cui si occupa la politica, in senso di liberazione o in senso di critica materialista del presente, ed è sempre qualcosa che ha a che fare col presente, con questo punto di vista non interno alle cose. Fa parte di una dialettica complessa, perché questo stesso punto di vista che ti permette di cogliere le cose in questo aspetto, in questa radianza che te le fa comprensibili è anche una possibile fonte di alienazione e auto-idealizzazione.

E’ necessario sviluppare una dialettica interno-esterno, una dialettica del limite. Sei interno alla realtà? Oggettivamente sì, perché il tuo sostentamento ha a che fare con alcune convenzioni. Però sei anche esterno, perché ciò che sei come corpo e come mente non ha a che fare con le convenzioni sociali.

TF: Nel corso della vostra carriera avete coniato il termine “narrazione tossica”. Cosa intendete di preciso con questa definizione, e come può uno scrittore adottare uno stile che non scada in questo tipo di narrativa?

WM5: Esistono artifici retorici tossici, vere e proprie “tossine narrative” che suonano come spie del fatto che una narrazione è intossicata ancora prima di andare a controllare le fonti. Prima dei dati ci sono strumenti retorici e strutture narrative che servono a fuorviare la narrazione. Uno scrittore dovrebbe compilare un catalogo di questi artifici, così da evitarli. La domanda da porsi è: “Cosa c’è di ideologico e consolante in questa narrazione?”. Dobbiamo decostruirla per vedere che ruolo sta svolgendo quell’icona nel nostro immaginario. Il livello di estraneità a un fatto è dato dalla sua decostruzione.

Senza fare questo, non riesci a capire quante narrazioni tossiche vengono diffuse, quanto viene travisato anche da chi ha un’idea simile alla tua e sta “dalla tua parte”; anche se uno ha un’idea rivoluzionaria, non vuol dire che anche la sua narrazione non abbia un contenuto ad alto grado di tossicità.

L’ossessione di questo momento (Novembre ‘14. NdR) di molti media occidentali per la soldatessa kurda è un esempio di narrazione che è stata amplificata, detonata e resa funzionale per un sistema occidentale-industriale, ma già alla fonte c’è qualcosa che non torna, già alla fonte c’è un grado di tossicità. Anche se le narrazioni provengono dalla tua parte politica, anche se tu stesso daresti sostengo a un certo tipo di lotte, questo non deve impedirti di vedere

//AndreaFederigi//LorenzoFrittelli

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come queste vengono raccontate. Dobbiamo evitare qualsiasi grado di intossicazione della narrazione anche nel nostro modo di proporre i contenuti. WM2: L’attività dello scrivere è come i sogni: quando racconti, proietti in maniera inconsapevole il tuo inconscio. Obliteri, cancelli i conflitti che istintivamente pensi che vadano cancellati e negati dalla società, ne introduci altri in maniera artefatta. Il modo di produrre narrazioni genuine è anche cercare di prendere consapevolezza. Raccontare una storia non è solo raccontare una storia: è anche un gesto nella società, un’azione politica della quale sei responsabile e, quindi, devi cercare di essere più consapevole che puoi, cercare di capire cosa stai raccontando. E devi accettare che quello che racconti è anche quello che sei, è quello che hai nel tuo inconscio e se ti fa schifo, forse devi cercare di cambiare. Scrivere ti dice chi sei. E non è detto che tu sia sempre genuino, non avvelenato. Questo aumenta l’importanza e la validità dello scrivere collettivamente. Perché da soli è più facile raccontarsela. In quattro quello di cui non ti rendi conto tu, te lo fa notare un altro, che ha una sorta di distanza critica da ciò che dici. Questo rende le narrazioni meno intossicate e più genuine.

TF: Leggendo il vostro ultimo libro, o ascoltando Bioscop, e alla luce della vostra produzione,sembra venir fuori la ricerca di una figura eroica. Qual’è la relazione tra questa ricerca e il mondo contemporaneo?

WM5: C’è tutta una riflessione del collettivo, portata avanti da Wu Ming 4, su cosa è un eroe e come definirlo. Ci sono alcune riflessioni molto interessanti, tratte dalla cultura occidentale del Novecento, sulla figura dell’eroe e sulle sue problematicità, soprattutto riferite all’immagine dell’eroe guerriero. Se guardi, gran parte della nostra produzione dopo Q può esser vista come un tentativo di moltiplicare la figura eroica centrale che porta in spalla la rivoluzione, e abbiamo cercato quasi una socializzazione del ruolo dell’eroe. Ad esempio: secondo i canoni eroici fumettistici, potrei indicare Scaramouche, che però è un attore, un narciso, un egoista, che fa anche la rivoluzione, ma non sempre mosso da motivazioni piacevoli. Ma è anche vero che come figura piace, e ne L’armata dei sonnambuli vuole essere una specie di provocazione nei confronti del lettore: Scaramouche pretende di rappresentare il popolo in senso teatrale. È come se chiedessi al lettore “ma ti va bene essere rappresentato così, come il vendicatore mascherato? O preferisci Marie? O una molteplicità eroica? E quindi D’Amblanc, Treignac, Scaramouche, Marie... A noi è sembrato evidente che l’antidoto per raccontare delle storie in una forma popolare, che si richiamano al mito, al viaggio dell’eroe, senza però riprodurre quelle strutture sociali che alcune narrazioni eroiche facevano nascere, fosse proprio quella di moltiplicare la figura eroica in

più personaggi.

WM2: Gli eroi vengono sempre considerati da quelli che appartengo alla classe dominante. Quindi ti chiedi: chi è l’eroe di una storia? Forse è semplicemente quello che ha desideri più forti, perché gli mancano delle cose, e quindi è il più manchevole. Secondo me la caratteristica principale dell’eroe è la mancanza. Però non molla: ha un desiderio, un bisogno, e lo insegue.

Per quanto riguarda la funzione guerriera si tratta sempre di eroi tormentati. Molto spesso ciò che spinge un eroe all’azione non viene mosso da istanze morali: sono spesso figure con un surplus di vita, non sono spinti da motivazioni etiche. Quando orchestri una narrazione che prevede degli eroi e lo fai dal punto di vista politico, è chiaro che metti in campo dei personaggi con un livello di consapevolezza alto.

L’intervista integrale la trovate sul nostro sito: www.threefaces.org

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//BENEDETTABENDINELLISCRITTRICE E FOTOGRAFA. DIPLOMATA IN REPORTAGE FOTOGRAFICO PRESSO IL CENTRAL ST. MARTIN’S COLLEGE OF ART&DESIGN. HA 29 ANNI E VIVE A

MONTECATINI TERME (PT).

//GIANLUCABINDISCRITTORE. STUDIA FILOSOFIA PRESSO L’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA. HA 24

ANNI E VIENE DA CHIESINA UZZANESE (PT).

//DARIOBOSIOFOTOGRAFO. NASCE A GENOVA NEL 1988. FONDATORE DEL COLLETTIVO PANAUT ED EDITORE DELLA RIVISTA ABOUT PHOTOGRAPHY. I SUOI LAVORI SONO STATI ESPOSTI IN ITALIA E ALL’ESTERO E PUBBLICATI SU NUMEROSE RIVISTE INTERNAZIONALI.

//GIULIABRACHIHA STUDIATO GRAFICA PRESSO L’ACCADEMIA ITALIANA DI FIRENZE E ATTUALMENTE LAVORA COME GRAFICA ED ILLUSTRATRICE . HA 23 ANNI E VIVE

A PRATO.

//FEDERICOBRIAILLUSTRATORE. É LAUREATO IN STUDI INTERNAZIONALI, MA LA SUA GRANDE

PASSIONE È IL DISEGNO. HA 27 ANNI E VIVE A FIRENZE.

//P.TIZIANACAUDULLOSCRITTRICE, 25 ANNI, ORIGINARIA DEL SALENTO. LAUREATA IN FILOSOFIA A LECCE,

CONTINUA I SUOI STUDI PRESSO L’UNIVERSITÀ DI FIRENZE.

//MICHELECECCHETTIILLUSTRATORE. LAUREATO IN ARTI VISIVE PRESSO L’ACCADEMIA DI BELLE ARTI

DI FIRENZE. VIENE DA VITERBO, MA VIVE E LAVORA NEL CAPOLUOGO TOSCANO.

//ANDREAFEDERIGISCRITTORE E CO-FONDATORE DI THREE FACES. É LAUREATO IN MEDIA E

GIORNALISMO, HA 27 ANNI E VIENE DA SANREMO (IM).

//LORENZOFRITTELLISCRITTORE E FOTOGRAFO. VIVE A FIRENZE. HA 26 ANNI, HA PUBBLICATO LA

GRAPHIC-NOVEL MADRID.

HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO:

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//GUADALUPEMERLOFOTOGRAFA ITALO-MESSICANA, MATURANDA PRESSO BRERA CON INDIRIZZO MULTIMEDIALE AUDIOVISIVO. VIVE A MILANO.

//ARONDACENELLISPOETA. HA 27 ANNI E VIENE DALLA PROVINCIA DI VITERBO. È LAUREATO IN PSICOLOGIA.

//SIMONEPICCINNISCRITTORE E CO-FONDATORE DI THREE FACES. É LAUREATO IN MEDIA E GIORNALISMO, HA 28 ANNI E VIVE A FIRENZE.

//CHIARAPICCINNILAUREATA IN GRAFICA E DESIGN DEL PRODOTTO, HA 25 ANNI. VIVE E LAVORA A MILANO COME GRAPHIC DESIGNER.

//ANDREASPOSITOILLUSTRATORE. HA 24 ANNI. E’ LAUREATO IN PITTURA ALL’ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI NAPOLI.

//M.E.P.IL MOVIMENTO PER L’EMANCIPAZIONE DELLA POESIA, FONDATO A FIRENZE NEL MARZO 2010, È UN MOVIMENTO ARTISTICO CHE PERSEGUE LO SCOPO DI INFONDERE NUOVAMENTE NELLE PERSONE INTERESSE E RISPETTO PER LA POESIA.

//WUMINGCOLLETTIVO DI SCRITTORI BOLOGNESI, NATI DALLE CENERI DEL LUTHER BLISSET PROJECT, SOTTO IL CUI PSEUDONIMO HANNO PUBBLICATO IL ROMANZO Q. I LORO RECENTI ROMANZI SONO EDITI DA EINAUDI E TRADOTTI IN SVARIATE LINGUE.

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RINGRAZIAMENTI

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