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Sulla via del romazo in versi: Attilio Bertolucci e Alberto Bellocchio(1) Di Gabriella Palli Baroni Fu Sereni in Lettera danteguerra(2) a riconoscere ad Attilio Bertolucci il pregio di saper restituire fedelmente « il dono dellaria e delle ore», la verità della vita quotidiana, sfiorata dallombra della morte, e i colori del paesaggio domestico della campagna e della città. Fu ancora lui in lettere private (3) a sottolineare nel Viaggio dinverno(4) e nella Camera da letto la conquista di un paesaggio, storico, sociale, geografico, persino topografico definito e riconoscibile e di aver «ai vertici» unito le emozioni e i bagliori della memoria involontaria e dell evocazione e le forme del racconto, coniugando poesia e romanzo, fino a trasformare i luoghi conosciuti in «patria poetica», di cui essere, dopo un lungo doloroso itinerario, il «sovrano». Ma fu Pasolini (Sereni non amò essere ristretto nella «linea lombarda», così definita da Luciano Anceschi(5), consapevole dei confini più vasti cui deve obbedire la poesia) a tracciare per primo, intorno al nome di Attilio Bertolucci, una linea poetica «parmigiana» allinterno della più vasta linea «emiliana», che da Pascoli e da Serra scendeva a Bassani, agli Arcangeli, a Rinaldi, a Giovanelli e ai più giovani Roversi e Leonetti. Pasolini indicava in particolare, facendo perno sulla poesia Emilia di Fuochi in novembre, la raccolta del 1934(6), una perfetta aderenza dei versi alla figura ambientale e geografica della regione, interpretata geologicamente e fisicamente, coi torrenti, LEnza e il Cinghio, le campagne, i monti dellAppennino. Evidenziava anche una tendenza realistica e prosastica coerente a una ideologia conservatrice e illuministica, che solo il distacco avrebbe potuto incrinare, modificando il rapporto del poeta con i luoghi e con le figure della sua poesia - città, campagna e famiglia-(7). Fu quanto in verità avvenne. Finché visse in Emilia, a Baccanelli e a Parma, il poeta, con sensibilità fortemente sensitiva e percettiva, aveva illuminato di «luce vera» le immagini, tanto da conservare loro lemozione dello sguardo e dellanimo e da trasformarle, con Keats, in «visione» tra realtà, immaginazione e sogno(8); aveva saputo accogliere, come confessò nel diario del 1958(9), lo «strazio» e la gioia di «cose già pronte per la poesia, già belle fatte col simbolo dietro come lalone che ha la luna». Quando decise di lasciare la sua terra per Roma, « città troppo grande e bella e non mia»(10), ansia e dolore, un sentimento di nostalgia e di esclusione, un cammino di malattia e di «cose durissime senza alone» entrarono nella sua opera, dando nuova sostanza di verità alluniverso abbandonato, chegli sentiva perduto. E se da un lato furono composti i versi drammatici di Viaggio dinverno, dallaltro ecco il compenso, la chiarificazione e la soluzione dei propri traumi nel grande itinerario verso le radici testimoniato dalla Camera da letto. Più recentemente, in un articolo sull«Espresso» del 3 marzo 2005, salutando il Libro della famiglia di Alberto Bellocchio e versi inediti di Bertolucci raccolti sotto il titolo Il viaggio di nozze(11), Enzo Siciliano ha evidenziato un orizzonte geografico e morale, quello della bassa del Po, da Parma verso il piacentino e lAppennino, quale legame tra il più giovane poeta e Attilio Bertolucci in una continuità di rappresentazione fisica, etica e poetica delluniverso emiliano. Soprattutto Siciliano ha sottolineato, pur nelle forti differenze dintonazione e di linguaggio, la scelta di Bellocchio di misurarsi con il «romanzo in versi» di Bertolucci raccontando, con uno sguardo alle origini lontane, il romanzo della propria famiglia attraverso alcune generazioni, dei nonni, dei genitori e la propria. Il genere fu, come sappiamo, reinventato da Attilio Bertolucci, che, appassionato lettore fin dalla prima giovinezza della Recherche e assai vicino al metodo lirico-narrativo della Woolf di Mrs. Dalloway e di To the lighhouse, volle coniugare poesia e romanzo, immettendosi nella tradizione dei poeti inglesi, da Browning a Derek Walcott. Anche per Siciliano sono la «resa trasparente della realtà» e il «calore della vita» che percorre i versi e investe il rapporto del poeta con il suo paesaggio a caratterizzare l arte somma di Bertolucci. Quando Attilio Bertolucci avviò la sua Camera da letto, si mostrò consapevole daver scelto di comporre unopera fragile e rischiosa, antica e nuova, «fatale» e necessaria. Poe in The philosophy of composition aveva giudicato oramai impossibile il poema e le lunghe composizioni in versi. Bertolucci volle portare la sua sfida alla grammatica della poesia

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Sulla via del romazo in versi: Attilio Bertolucci e Alberto Bellocchio(1)

Di Gabriella Palli Baroni

Fu Sereni in Lettera d’anteguerra(2) a riconoscere ad Attilio Bertolucci il pregio di saper restituire

fedelmente « il dono dell’aria e delle ore», la verità della vita quotidiana, sfiorata dall’ombra della

morte, e i colori del paesaggio domestico della campagna e della città. Fu ancora lui in lettere private(3)

a sottolineare nel Viaggio d’inverno(4) e nella Camera da letto la conquista di un paesaggio, storico,

sociale, geografico, persino topografico definito e riconoscibile e di aver «ai vertici» unito le emozioni e

i bagliori della memoria involontaria e dell’evocazione e le forme del racconto, coniugando poesia e

romanzo, fino a trasformare i luoghi conosciuti in «patria poetica», di cui essere, dopo un lungo

doloroso itinerario, il «sovrano».

Ma fu Pasolini (Sereni non amò essere ristretto nella «linea lombarda», così definita da Luciano

Anceschi(5), consapevole dei confini più vasti cui deve obbedire la poesia) a tracciare per primo,

intorno al nome di Attilio Bertolucci, una linea poetica «parmigiana» all’interno della più vasta linea

«emiliana», che da Pascoli e da Serra scendeva a Bassani, agli Arcangeli, a Rinaldi, a Giovanelli e ai più

giovani Roversi e Leonetti. Pasolini indicava in particolare, facendo perno sulla poesia Emilia di Fuochi

in novembre, la raccolta del 1934(6), una perfetta aderenza dei versi alla figura ambientale e geografica

della regione, interpretata geologicamente e fisicamente, coi torrenti, L’Enza e il Cinghio, le campagne,

i monti dell’Appennino. Evidenziava anche una tendenza realistica e prosastica coerente a una ideologia

conservatrice e illuministica, che solo il distacco avrebbe potuto incrinare, modificando il rapporto del

poeta con i luoghi e con le figure della sua poesia - città, campagna e famiglia-(7).

Fu quanto in verità avvenne. Finché visse in Emilia, a Baccanelli e a Parma, il poeta, con sensibilità

fortemente sensitiva e percettiva, aveva illuminato di «luce vera» le immagini, tanto da conservare loro

l’emozione dello sguardo e dell’animo e da trasformarle, con Keats, in «visione» tra realtà,

immaginazione e sogno(8); aveva saputo accogliere, come confessò nel diario del 1958(9), lo «strazio»

e la gioia di «cose già pronte per la poesia, già bell’e fatte col simbolo dietro come l’alone che ha la

luna». Quando decise di lasciare la sua terra per Roma, « città troppo grande e bella e non mia»(10),

ansia e dolore, un sentimento di nostalgia e di esclusione, un cammino di malattia e di «cose durissime

senza alone» entrarono nella sua opera, dando nuova sostanza di verità all’universo abbandonato,

ch’egli sentiva perduto. E se da un lato furono composti i versi drammatici di Viaggio d‟inverno,

dall’altro ecco il compenso, la chiarificazione e la soluzione dei propri traumi nel grande itinerario verso

le radici testimoniato dalla Camera da letto.

Più recentemente, in un articolo sull’«Espresso» del 3 marzo 2005, salutando il Libro della famiglia di

Alberto Bellocchio e versi inediti di Bertolucci raccolti sotto il titolo Il viaggio di nozze(11), Enzo

Siciliano ha evidenziato un orizzonte geografico e morale, quello della bassa del Po, da Parma verso il

piacentino e l’Appennino, quale legame tra il più giovane poeta e Attilio Bertolucci in una continuità di

rappresentazione fisica, etica e poetica dell’universo emiliano.

Soprattutto Siciliano ha sottolineato, pur nelle forti differenze d’intonazione e di linguaggio, la scelta di

Bellocchio di misurarsi con il «romanzo in versi» di Bertolucci raccontando, con uno sguardo alle

origini lontane, il romanzo della propria famiglia attraverso alcune generazioni, dei nonni, dei genitori e

la propria.

Il genere fu, come sappiamo, reinventato da Attilio Bertolucci, che, appassionato lettore fin dalla prima

giovinezza della Recherche e assai vicino al metodo lirico-narrativo della Woolf di Mrs. Dalloway e di

To the lighhouse, volle coniugare poesia e romanzo, immettendosi nella tradizione dei poeti inglesi, da

Browning a Derek Walcott. Anche per Siciliano sono la «resa trasparente della realtà» e il «calore della

vita» che percorre i versi e investe il rapporto del poeta con il suo paesaggio a caratterizzare l’arte

somma di Bertolucci.

Quando Attilio Bertolucci avviò la sua Camera da letto, si mostrò consapevole d’ aver scelto di

comporre un’opera fragile e rischiosa, antica e nuova, «fatale» e necessaria.

Poe in The philosophy of composition aveva giudicato oramai impossibile il poema e le lunghe

composizioni in versi. Bertolucci volle portare la sua sfida alla grammatica della poesia

pura e del simbolismo, dell’ermetismo novecentesco, coniugando lirica e narrazione, convinto che, per

non girare a vuoto, si dovesse «cadere nella prosa» per rinnovare la poesia, privilegiando il «verso

sfiorante la prosa («mais avec les ailes», secondo Sainte Beuve)». Se la dimensione narrativa entra già

nella Capanna indiana del 1951, fu la Camera da letto tuttavia a rivelare pienamente la novità della

poetica bertolucciana, novità felicemente raccolta da Bellocchio nelle sue caratteristiche più innovative.

Mantenendosi non sulle strade alte del romanticismo di Wordsworth, poeta da lui molto amato e

tradotto, ma, seguendo Puskin sulle vie della quotidianità, Bertolucci, dopo aver percorso il tempo

antico ed epico della fondazione della casa degli avi maremmani a Casarola, aveva scavato nella propria

storia, famigliare e personale, sino al trasferimento a Roma negli anni cinquanta. Componendo la

propria autobiografia, ma romanzescamente «autobiografia in uno specchio mobile», come la definì in

un breve appunto di sapore stendhaliano, aveva cercato di interpretare e svelare il segreto della propria

esistenza e di compensarne i traumi: il distacco dalla madre, la prigionia in collegio, la perdita dei luoghi

amati, la fragilità di una lunga adolescenza. Li compensava con la bellezza e la forza di un amore tenace

e profondo, condiviso (si legga per cogliere il senso di questa esperienza tra poesia e vita reale Ninetta

la bella di Lella Ravasi Bellocchio)(12) e con il miracolo della poesia, «Flauti per cercare un ritmo che

duri tutta la vita…»(13); della poesia che salva dall’assenza e ridona il tempo, con Proust, «allo stato

puro».

Bertolucci, traducendo in versi i materiali domestici, crea un romanzo esistenziale che parla del mistero

della vita e del mistero della morte, della felicità privata come antidoto alle crudeltà della storia. Crea un

romanzo che, partendo da una topografia documentabile dei luoghi e delle attività umane e da vicende

veramente accadute al protagonista «A.», all’amata «N.» e agli altri personaggi, i nonni, i genitori, la

sorellina Elsa, gli amici, i figli, Bernardo e Giuseppe, gli zii e le domestiche, li restituisce «fantasticati»

al modo di Stendhal, rinnovati nella luce della memoria involontaria. Crea un romanzo che ridona tempo

fisico e fisicità, costumi e usi di una borghesia di montagna, di pianura e di città, conservando le

caratteristiche geografiche, storiche e sociali che individuano il paesaggio e i modi del vivere del secolo

trascorso. Crea un romanzo infine, interiore, che si regge sui pilastri del Tempo e nel Tempo trova la sua

unità e che, pur privilegiando l’andamento della prosa, il suo basso continuo, la naturalezza dello

svolgersi del quotidiano, la concretezza della vita pratica, procede sul ritmo poeticissimo

dell’evocazione e della variazione di motivi e immagini «incantevolmente ritornanti», come li diceva il

poeta, di respiri elegiaci o impennate liriche.

Piace che Alberto Bellocchio abbia raccolto la sfida di Bertolucci e abbia composto, dopo le prime

prove in versi, che, ispirate da dati della vita reale (si pensi in particolare a Sirena operaia, che porta

come sottotitolo «un racconto in versi», ma anche alla plaquette Il gioco dei quattro cantoni)(14), già si

muovono in direzione narrativa, il romanzo Il libro della famiglia.

Il titolo subito segnala, come d’altra parte il titolo molto domestico di Bertolucci La camera da letto, il

desiderio dell’autore di raccontare, con Bachtin, non il mondo altrui nel tempo dell’avventura, ma il

mondo proprio nel tempo della quotidianità(15).

Attilio Bertolucci aveva raccontato di un «libro di famiglia», (effettivamente presente nel suo archivio),

Memorie dei fatti straordinari(16) accaduti ai Bertolucci durante un lungo numero d’anni e annotati da

un antenato. Se da un lato giustificava la presenza, nel più vasto orizzonte della storia (uno dei fatti

registrati fu l’annessione della provincia al «liberale» Regno d’Italia) di quei particolari eventi riferiti

alla campagna, alla società agricola, all’economia di una borghesia agraria, proprietaria di case e terreni,

dall’altro, proprio nell’accezione «straordinari» suggeriva il valore della memoria famigliare,

l’eccezione nell’ordine della natura e, pensiamo, l’intervento e la libertà dell’invenzione:

Tutte le cose della Camera da letto, salvo il primo capitolo che è fantasticheria, sono inventate,

inventatissime.(17)

I materiali delle mie poesie sono stati da me raccolti quasi esclusivamente in famiglia, quella da cui

provengo, l’altra che chissà come, …ho, naturalmente in felice collaborazione, formato. Senza di esse

non avrei proprio saputo di che scrivere. Non avrei di conseguenza saputo vivere.(18)

La famiglia è dunque al centro dell’opera , tema arduo, se è vero, - lo ricorda lo stesso Bertolucci nelle

pagine di Aritmie appena citate Ŕ che dalla scandalosa frase di Gide: «Io vi odio famiglie» a quella, non

meno sorprendente, di James Joyce: «Io non ho amato altro al mondo che le mia famiglia» a Freud(19),

la famiglia è nodo fondamentale dei rapporti umani, con Virgilio, semina flammae: ragione d’ansia, di

«tensioni, buchi neri, nidi di vespe pungenti e persino di vipere», ma anche «supremo bene-rifugio».

La felicità

privata è la sola protezione

che ci sia concessa contro l’angoscia della storia

abbiamo letto nel Viaggio di nozze, dove il tema dell’ «intima stanza protettrice», luogo simbolo

dell’esistenza umana, risuona intensamente, riannodandosi ai sensi che la tastiera della Camera da letto

ci propone continuamente.

La famiglia è anche al centro dell’opera di Alberto Bellocchio, che ne riconosce il valore nel suo essere

il segno della continuità. È lo stesso forte legame ch’egli rivendica nell’epigrafe(20) del capitolo del

Libro della famiglia intitolato Barbara e gli altri, vera e propria dichiarazione di poetica: la trama che

affiora dalle poche carte rimaste «prende colore» a poco a poco; ma come penetrare nel segreto degli

animi e della vita?

tracce ho trovato dentro me stesso:

pagliuzze d‟oro a volta

e più spesso fili di ferro,

turbamenti, voglia di perdersi

e una stella polare ferma

inchiodata a capo del letto.

Lampi e intermittenze, dunque, bagliori e legami profondi, forse dolorosi, spesso inquietanti; e infine la

poesia della memoria, «stella polare ferma/ inchiodata», che raccoglie il passato e la storia familiare, la

trasmette e la perpetua.

Bellocchio, sulla strada aperta da Bertolucci, verso cui riconosce il proprio debito, sceglie così lo

strumento del romanzo in versi per la sua storia. Sceglie di raccontarla in versi liberi, raccolti in

sequenze di diversa misura, e di suddividere la sequenze in capitoli, ora lunghi ora brevi, che raccoglie

in quattro parti assai variate, corrispondenti a quattro tempi della vicenda. Ma più esposta è da subito

l’angolazione, laica e razionale, critica, che si avvale di scansioni e formule veloci, senza la rêverie («la

mappa rivelatasi in sogno») o le divagazioni sapientissime e le forme diramate e ampie di Bertolucci.

Dapprima epicamente, per scorci che riflettono il procedere convulso della storia che «scavalla come

un’ombrosa bestia»; sempre con un realismo lucido, che descrive, rappresenta, tiene il passo della prosa,

ma s’incrina, s’innalza, si modula e si ritma nella poesia, Alberto Bellocchio rifonda, al pari di

Bertolucci, una propria «patria poetica», che abbraccia due spazi, diversi simbolicamente e visivamente,

ma uniti dal sentimento e dallo sguardo che li ripensano.

È la storia di una città, Bobbio, dalla sua fondazione fino al primo piano delle vicende della famiglia dei

Bellocchio. È la storia di una città nobile e antica e austera, petrosa e chiusa, che s’intreccia, attraverso il

matrimonio di Bruno con una fanciulla della pianura, Dora(21), alla storia di un’altra città, anch’essa

nobile e antica, ma di costumi più dolci, «di una terra | e di un’acqua

ricca di suggestioni, di lasciarsi vivere…», città risplendente del colore giallo del tufo e che, aerea,

«inalbera torri sottili»: Castell’Arquato.

Le vicende dei luoghi e delle genti, della borghesia cui appartiene la famiglia, dell’ascesa economica e

del declino, scorre dunque sotto lo sguardo partecipe, ironico e acuto del poeta, che valuta alla luce di

salde idee di uguaglianza e di giustizia e che si rivela attento alla vita pubblica e sociale anche nella

lingua, forte e moderna, concreta e incisiva. Qualche specimen: nel capitolo Benestanti e borghesi una

notazione sul potere, «il potere si distribuisce. Stanno col nuovo o col vecchio?»; o ancora, un trycolon

che potrebbe rimandare a uno stilema costante in Proust e in Bertolucci, ma con ben diversa valenza,

«tra i campi assolati infeudati accaparrati» ; o la esemplare sequenza sulla «caccia» del borghese,

sequenza simbolica di quella «riserva di caccia» che è il censo, riserva di nobili, preti e borghesi.

Bellocchio sa bene che un libro di famiglia, libro di annotazioni, di acquisti di terre e case, di passaggi

di proprietà di beni, di piccoli fatti dell’economia della casa, porta con sé qualcosa d’altro; se

opportunamente indagato e «fantasticato», direbbe Bertolucci, porta con sé l’esistenza e il destino, porta

con sé anche la storia più vasta degli uomini, creando sofferenze e rimpianti, speranze e slanci verso il

futuro.

Per questo quel vento dal «soffio lontano» dell’epigrafe in corsivo, che incontriamo in limine alla prima

parte, Gli antecedenti, è l’immagine potente e consapevole che ci guida lungo il destino degli uomini e il

destino della famiglia.

Ė un vento di vita e di morte, di rivolgimenti e mutamenti; ora soffia incalzante ora è brezza più lieve,

pausa nel lento snodarsi e svolgersi di generazioni, per rinforzarsi impetuoso, rinnovare e travolgere e di

nuovo placarsi in un volo lieve d’ali d’Angelo. Entra nei versi, anima il ritmo di un narrare agile, vario e

mai statico, appoggiato com’è su verbi d’azione e su rari aggettivi o participi o voci verbali, che si

presentano nell’originale scansione di coppia separata da una barra obliqua, che sostituisce la

congiunzione e crea una disposizione spazio-temporale mossa e accelerata: «s’avverte/fluisce»;

«frettoloso/lontano»; «isolato/ accerchiato»; «sopravvivere/ crescere»; «crudo/esigente»;

«incupito/sbiancato»; «viziati/svagati»; «landa brulla/gelata»; «aprire/ allargarmi la strada»(22).

Aggiungi a questo le enumerazioni e le immagini nominali che rappresentano e incalzano, come nella

bellissima sequenza «La piazza. Com’è diversa di voci e di umori»(23), mentre le diverse voci,

appoggiate a una sapiente plurivocalità, escono sulla scena, la ricolmano, modulano e ritmano ora il

lento svolgersi dei giorni, ora la violenza degli eventi esterni, delineano caratteri e atti, facendo affiorare

pieghe dell’animo, umori, malinconie di donne volontariamente sacrificate (Carolina o Laura, ad

esempio o la stessa Dora, la madre), tensioni di uomini attivi e capaci, intrecci stretti con la tradizione o

fughe in avanti verso il nuovo o verso il miglioramento economico e il possesso.

Ė un vento infine che, nel farsi alito soccorrevole o «orma» lieve può accompagnare, elegiacamente

nella sottile malinconia della parola che si fa tenera e carezzevole, la fine di una vita, del padre e della

madre, di un fratello, Emilio, fragile e perdente(24):

Pareva che il vento spazzasse assieme alle foglie

la luce, la linfa preziosa.

È un breve viaggio. Il tempo

d’un colpo leggero di vento tra i noccioli

sulle colline tra le foglie d’alloro

nell’orto, che l’allodola batta due volte

le ali…

Lasciando un piccolo segno, l’orma

leggera di una carezza, il profilo d’un fiore

infilato tra i fogli d’un libro. Una traccia

al tavolo dove tu lentamente leggevi il tuo gioco

nella partita di poker, per ricordare

quel giocatore cui toccarono in mano

non favorevoli carte.

Alla fermata della corriera

una vecchia avvolta di nero.

Come in posa tra le erbe dell’orto

una bambina senza memoria

vestita di bianco e di rosa. È la Dora

che vola e che torna.

Le piace abitare le stanze dell’aria

migrare.

Su tutte, la voce del Narratore, voce di storyteller, che si segnala come personaggio nella seconda parte,

dove la partitura è assai composita, anche musicalmente e stilisticamente, poiché all’interno di capitoli

fondati su monologhi s’inserisce un vero e proprio racconto epistolare. Basti ricordare l’incipit ripetuto

della Terra promessa «L’inizio fu magistrale […] L’inizio fu magistrale e si è detto»; o le sprezzature

rapide che introducono modi popolari, ora conclusivi («riassumendo») ora proverbiali: «Amen»; «Ci

siamo»; «È meglio che vada in America!»; «Non si vive d’aria | alla fine!»; « un infarto secco e addio!»

«Basta! che giudicare è il mestiere di Dio!»; «la testa sta tutto lì!…in quanto, per sua stessa natura, | la

testa si fa pane e vino, e lo moltiplica!»)(25) per coglierne la voce antica (anche anagraficamente se

Carolina lo interpella «vecchio»)(26) e nuova nel guidare le vicende, costruire la rappresentazione,

animare la scena.

Mentre Bertolucci aveva scelto di narrare prevalentemente in terza persona, ricorrendo poche volte a

una figura di «annalista», «testimone-cronista» o «copista di giornate», e affidando momenti epifanici e

intimi alla prima persona in seguenze virgolettate; Bellocchio, che usa la prima persona nella prima

parte e nell’ultima, diviene figura autonoma nella seconda e terza, alternando la sua voce a quella dei

suoi personaggi che via via porta in primo piano. Così la plurivocalità diviene azione teatrale,

rappresentazione, dialogo, improvvisazione e animazione. Si veda come talora il Narratore si ponga

proprio come attore («Eccoti qua, Barburin…vieni avanti»), ordisca la trama dei giorni, dia il volto e

l’animo dei suoi comprimari. Ma si veda anche come il Narratore si ritragga quando è l’intimità

dell’altro a dover essere indagata e a dover emergere.

Diceva Bassani, scrivendo della scelta del punto di vista, d’aver privilegiato componendo le Cinque

storie ferraresi la terza persona, tenendosi «celato tra gli schemi tra patetici e ironici della sintassi e

della retorica»(27); aggiungeva tuttavia che potevano affacciarsi «difficoltà anche morali» che

impedivano all’autore di penetrare nel cuore del suo personaggio. Allora si doveva abbandonare il

realismo affidato alla scelta della terza persona per apparire sulla scena e osar «dire finalmente Ŗioŗ». È

quanto Bellocchio confessa quando si avvicina al padre («Comunque in lui non è facile entrare…Ce lo

dica lui- allora- dove vuole veramente arrivare»), introducendo uno dei monologhi interiori che

costituiscono, con la forma epistolare di cui si è detto, la struttura fondamentale dell’opera.

Ma prima o terza persona che sia, alla sua voce di cantastorie è affidato il significato profondo di questa

«storia di famiglia», che si rivela passo passo, ma soprattutto negli ultimi capitoli dell’ultima parte, Il

libro di Dora. Ė qui che si realizza e si scopre la ragione del romanzo e il segno della sua unità narrativa

e poetica , che è riscatto e compenso dal trauma filiale di un’esistenza «bloccata», segnata dalla

«privazione», divisa tra due mondi dissimili, quello paterno e quello materno, tra il compito di far

crescere l’albero della famiglia di Bruno (si veda il bellissimo L‟albero dei talenti della seconda parte

La pietra dei talenti) e la creatività inaridita di Dora, il suo isolarsi e allontanarsi. Ma dopo la malattia

dolorosa e la morte del padre, intransigente e costrittivo

nella difesa del patrimonio e di un’educazione rigida e tradizionale(28), avviene la sua riscoperta

proprio attraverso la madre. Dora dapprima «respira, ritorna la musica/ il canto», ritrova «il tempo dei

veli leggeri/ e dei senza pensieri….lo stupidario felice/ d’un’età che di nuovo le danza intorno». Poi è

lei, la madre, a spostarsi

[…] al centro del gioco,

e attraverso il suo nutrimento recuperiamo…

riaffiora quel genus paterno Ŕmorto e sepolto-

che avevamo sdegnato di assumere in quanto

Assoluto Bellocchio. Lasciamo filtrare beviamo

dalle due fonti. Quella paterna, fin troppo presente

ossessiva dalla quale ci siamo difesi; ma ora la pietra

riprende a parlare…Quella materna, non percepita,

da prima, durante l’interminabile attesa nell’astanteria

della giovinezza, ma presente in profondo,

venuta alla fine alla superficie…fragile, lieve

ma ispirativa, ci attraversa ci permea…

con nostra sorpresa. Ha un sapore intrigante,

come il rabarbaro delle sue caramelle.

Allora le dolcezze materne si coniugano con l’autorevolezza paterna. Allora può avvenire la diaspora

dei figli e, mentre giacciono a terra, nell’eden fiorito della casa «lance spezzate, cavalieri | disarcionati e

morti e feriti tra i fanti | tra quelli più esposti più fragili| scesi in campo con un armamento leggero»,

ciascuno cerca la propria «verità» e «tutti dicono addio a tutti». Allora nasce la commozione e la pietà.

Ed ecco che anche i luoghi, per un aggettivo ora più affettuoso ora più lieve ora più visionario,

riacquistano quella «grazia» che riesce a rivestire anche la sofferenza e l’orrore ed è propria della

tradizione pittorica e poetica emiliana del Correggio, del Parmigianino, di Bertolucci.

La rivolta irrazionalistica contro la norma e la chiusura del vivere borghese famigliare dei Pugni in

tasca di Marco Bellocchio lascia spazio in questo romanzo in versi a una profonda pietas: criticando

dall’interno, alla luce della ragione e del sentimento, quel mondo famigliare e borghese, paterno e

materno, raccogliendone la storia dalle radici, attraverso i passaggi del tempo e del destino, attraverso i

luoghi, la pietrosa Bobbio, Castell’Arquato della fanciullezza ritrovata («terra feconda che ha uve

amabili e perfino | i salami sono gentili, acque salse e zolle | e colline di rosso e di oro»), Alberto

Bellocchio ha saputo rappresentare anche la verità di dolore, di sconfitta, di speranza, d’illusione e di

delusione , di nevrosi e d’ansia di libertà che la famiglia aveva racchiuso nel suo seno. Così, ricolmando

di vita l’assenza, l’io narrante si svela, non rallenta la spinta narrativa e prosastica, ma la innerva con le

ragioni del cuore, per risalire lungo i sentieri di una liricità che accoglie le pieghe della tenerezza, della

malinconia, della leggerezza, della fedeltà.

Note. (1) Il presente intervento è stato anticipatamente pubblicato su ŖNuovi Argomentiŗ, n.32, Quinta serie, ottobre-

dicembre 2005, pp. 348-362 col titolo Libri di famiglia nel paradiso emiliano: da Attilio Bertolucci a Alberto

Bellocchio.

(2) La Lettera porta la data «Parma, maggio 1938». Pubblicata in «La luna sul Parma», Almanacco per il 1946-47,

Tipografia cooperativa «Gazzetta di Parma», 1946, col titolo Per un amico; successivamente in Gli immediati dintorni,

il Saggiatore, Milano 1962 e in Gli immediati dintorni primi e secondi, il Saggiatore, Milano 1983, si legge ora in

Vittorio Sereni, La tentazione della prosa, a cura di Giulia Raboni, Introduzione di Giovanni Raboni, Mondadori,

Milano 1998, pp.9-10.

(3) Si rimanda al carteggio: Attilio Bertolucci Vittorio Sereni, Una lunga amicizia.Lettere 1938-1982, a cura di

Gabriella Palli Baroni, Prefazione di Giovanni Raboni, Garzanti, Milano 1994. Si ricordano in particolare le lettere del

17 settembre 1971 e del 12 gennaio 1980.

(4) Di Viaggio d‟inverno (Garzanti, Milano 1971) Sereni scrisse nella lettere del 24 maggio e del 17 settembre 1971.

Della Camera da letto (Garzanti, Milano 1984 e 1988) il poeta conobbe i primi capitoli del poema, ma attraverso la

corridpondenza con Bertolucci aveva accompagnato l’itinerario compositivo del grande romanzo lirico. Le Opere di

Attilio Bertolucci si leggono ora nel Meridiano Mondadori, a cura di Paolo Lagazzi e Gabriella Palli Baroni, Milano

1997.

(5) Si veda in Una lunga amicizia, cit., quanto scrive a Bertolucci il 22 aprile 1965. La definizione risale a Linea

Lombarda- Sei poeti, a cura di Luciano Anceschi, Magenta, Varese 1952; poi in Del Barocco e altre prove, Vallecchi,

Firenze 1953.

(6) Attilio Bertolucci, Fuochi in novembre, Alessandro Minardi , Parma 1934; l’opera è stata ristampata nel 2004, a

cura della scrivente, nelle Edizioni San Marco dei Giustiniani di Genova. Per la storia della raccolta si rimanda

all’Edizione critica in Attilio Bertolucci, Opere, cit.

(7) Si vedano i saggi Bertolucci e Officina parmigiana , rispettivamente del 1956 e del 1957, presenti in Passione e

ideologia (Garzanti, Milano 1960); si leggono ora in Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull‟arte, a cura di

Walter Siti e Silvia De Laude con un saggio di Cesare Segre, Cronologia a cura di Nico Naldini, I Meridiani, Arnoldo

Mondadori, Milano 1999, pp. 1149-1160.

(8) Si segnala l’influenza di Keats particolarmente nei Fuochi in novembre (cfr. la Prefazione all’ edizione San Marco

dei Giustiniani, cit.).

(9) Il diario, conservato presso l’Archivio di Stato di Parma, è parzialmente inedito, se si eccettuano alcuni passi

pubblicati nella Cronologia del Meridiano Opere.

(10) È un leit motiv nelle lettere di Bertolucci ad alcuni corrispondenti.

(11) Attilio Bertolucci, Il viaggio di nozze, Versi inediti a cura di Gabriella Palli Baroni con Disegni e acquerelli di

Carlo Mattioli, Università degli Studi di Parma, Facoltà di Architettura, MUP, Parma 2004.

(12) Il saggio si legge in «Rivista di Psicologia Analitica», n.62, A. 2000.

(13) Il verso appartiene alla prima sequenza del cap. XXXVIII, Metamorfosi del corpo di N.

(14) Il gioco dei quattro cantoni ( Lietocollelibri, Como 1997) anticipa figure e temi dell’opera maggiore; Sirena

operaia fu pubblicata dal Saggiatore, Milano 2000.

(15) A. Cicchetti- R. Mordenti, La scrittura dei libri di famiglia, in Letteratura italiana, Einaudi, vol.III, p. 1118.

(16) Il titolo del manoscritto è Memorie dei fatti straordinari successi alla Casa Bertolucci ed altri degni di memoria

nelli anni 1837 e negli altri progressivi.

(17) Così confida Bertolucci a Paolo Lagazzi in All‟improvviso ricordando. Conversazioni, Guanda, Parma 1997.

(18) Cfr. In nome della sacra camera da letto, Aritmie, in Opere, cit., p. 980.

(19) Bertolucci lesse con vivo interesse la Storia famigliare di un nevrotico. I casi clinici descritti da Freud sono

ricordati nel cap.XXVII Le sorelle della Camera proprio per l’aspetto romanzesco : «[…] e ancora il dottor Freud

descrive casi clinici | prolungando il romanzo, moribondo genere della sua classe in via d’immolarsi;».|

(20) Il poeta fa precedere la prima e la terza parte e alcuni capitoli da «dediche introduttive» in corsivo, cui affida il

senso delle vicende. Nella loro forma metrica richiamano gli Epitaffi di In rima e senza di Giorgio Bassani.

(21) Si ricorda che anche nella Camera pianura e montagna s’incontrano nel matrimonio del giovane Bernardo con

Maria Rossetti.

(22) Questi esempi tra i molti dello stilema si incontrano alle pp.13; 25; 31; 32; 69; 73; 119; 125.

(23) La sequenza si legge a p. 61 del capitolo I turbamenti di Antonio della II parte.

(24) Le citazioni si leggono alle pp. 72; 185; 271; 277.

(25) Le citazioni portate ad esempio s’incontrano alle pp. 62-69.

(26) Il verso si legge a p. 74.

(27) Giorgio Bassani, Laggiù, in fondo al corridoio, in Opere, cit., pp. 942-943.

(28) Si colga peraltro, nella sequenza commossa che chiude il capitolo La canzone del salice, la poesia della fine e della

memoria: «Il paradiso terrestre |interpretato in questo inizio d’ottobre |che sempreverdi miscela e alberi spogli |

foglie che volano e frotte di passeri | e il sole caldo del mezzogiorno li fonde | in una perfetta armonia. La montagna |

gli corrisponde, ai nostri occhi | esibisce i rossi cespugli della rosabella…| Non farti scrupolo, prendi metti più luce |

che puoi nel tuo cuore, affrettati | che il pomeriggio è precoce…| in un momento la collina è scomparsa | non vedi che

nebbie».