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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI CAP.3 – LA LEGGE COSTITUTIVA ELASTO-PLASTICA _________________ CAPITOLO 3 _________________ LA LEGGE COSTITUTIVA ELASTO-PLASTICA 3.1 Introduzione Le microstruttura dei materiali policristallini è all’origine del comportamento elasto-plastico che sarà considerato e formalizzato in questo capitolo. Questo comportamento è alla base del successo dei materiali metallici in ambito strutturale. La funzione strutturale, infatti, deve essere svolta soddisfacendo i requisiti fondamentali di rigidezza e di resistenza, due caratteristiche che i materiali metallici presentano in modo peculiare. Le caratteristiche del legame metallico conferiscono elevati valori di rigidezza e la possibilità, quindi, di sopportare carichi elevati con limitate deformazioni. Inoltre, il comportamento plastico, originato dal moto e dalla generazione delle dislocazioni come descritto nel capitolo precedente, ha un’importanza centrale per gli aspetti tecnologici e le prestazioni strutturali dei metalli. Tecnologicamente, infatti, la plasticità consente l’applicazione di processi di grande efficienza e precisione per la realizzazione di parti strutturali e l’ottenimento di elementi metallici semilavorati o finiti con le forme più svariate. Non deve essere trascurato, tuttavia, anche il ruolo strutturale della plasticità, che riduce la fragilità del materiale, aumenta l’energia necessaria per portarlo a rottura e conferisce un carattere progressivo ai fenomeni di rottura. La plasticità, quindi, permette di garantire l’integrità strutturale anche quando, localmente, il materiale supera i limiti del campo elastico ed è fondamentale per comprendere i criteri di progetto applicati nelle strutture aerospaziali. La prima parte del capitolo presenta gli aspetti di base del comportamento elasto-plastico descrivendo e commentando i fenomeni che avvengono durante la prova di trazione uniassiale di un provino metallico. La seconda parte del capitolo, che può essere omessa per i lettori in già possesso dei fondamenti della meccanica dei continui, presenta i concetti di deformazione e sforzo in stati di sforzo pluriassiali. Infine, l’ultima parte del capitolo è dedicata alla formalizzazione della legge costitutiva in campo elastico, dei criteri che permettono l’individuazione del limite elastico dei materiali e del comportamento in campo plastico. 3.2 Aspetti fenomenologici del comportamento elasto-plastico 3.2.1 Sforzi e deformazioni in una prova di trazione uniassiale La prova di trazione uniassiale rappresenta l’esperimento cardine per la caratterizzazione delle proprietà dei materiali metallici. In estrema sintesi, la prova consiste nell’applicazione di un carico a un provino di materiale e nella misura dell’allungamento di un tratto del provino stesso sotto l’azione del carico applicato. Si esegue su provini di diverse tipologie e misure, secondo il materiale da esaminare, come quelle riportate in Figura 3.1. 1

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI CAP.3 – LA LEGGE COSTITUTIVA ELASTO-PLASTICA

_________________

CAPITOLO

3 _________________

LA LEGGE COSTITUTIVA

ELASTO-PLASTICA

3.1 Introduzione Le microstruttura dei materiali policristallini è all’origine del comportamento elasto-plastico che sarà considerato e formalizzato in questo capitolo. Questo comportamento è alla base del successo dei materiali metallici in ambito strutturale. La funzione strutturale, infatti, deve essere svolta soddisfacendo i requisiti fondamentali di rigidezza e di resistenza, due caratteristiche che i materiali metallici presentano in modo peculiare. Le caratteristiche del legame metallico conferiscono elevati valori di rigidezza e la possibilità, quindi, di sopportare carichi elevati con limitate deformazioni. Inoltre, il comportamento plastico, originato dal moto e dalla generazione delle dislocazioni come descritto nel capitolo precedente, ha un’importanza centrale per gli aspetti tecnologici e le prestazioni strutturali dei metalli. Tecnologicamente, infatti, la plasticità consente l’applicazione di processi di grande efficienza e precisione per la realizzazione di parti strutturali e l’ottenimento di elementi metallici semilavorati o finiti con le forme più svariate. Non deve essere trascurato, tuttavia, anche il ruolo strutturale della plasticità, che riduce la fragilità del materiale, aumenta l’energia necessaria per portarlo a rottura e conferisce un carattere progressivo ai fenomeni di rottura. La plasticità, quindi, permette di garantire l’integrità strutturale anche quando, localmente, il materiale supera i limiti del campo elastico ed è fondamentale per comprendere i criteri di progetto applicati nelle strutture aerospaziali. La prima

parte del capitolo presenta gli aspetti di base del comportamento elasto-plastico descrivendo e commentando i fenomeni che avvengono durante la prova di trazione uniassiale di un provino metallico. La seconda parte del capitolo, che può essere omessa per i lettori in già possesso dei fondamenti della meccanica dei continui, presenta i concetti di deformazione e sforzo in stati di sforzo pluriassiali. Infine, l’ultima parte del capitolo è dedicata alla formalizzazione della legge costitutiva in campo elastico, dei criteri che permettono l’individuazione del limite elastico dei materiali e del comportamento in campo plastico.

3.2 Aspetti fenomenologici del comportamento elasto-plastico

3.2.1 Sforzi e deformazioni in una prova di trazione uniassiale

La prova di trazione uniassiale rappresenta l’esperimento cardine per la caratterizzazione delle proprietà dei materiali metallici. In estrema sintesi, la prova consiste nell’applicazione di un carico a un provino di materiale e nella misura dell’allungamento di un tratto del provino stesso sotto l’azione del carico applicato. Si esegue su provini di diverse tipologie e misure, secondo il materiale da esaminare, come quelle riportate in Figura 3.1.

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI CAP.3 – LA LEGGE COSTITUTIVA ELASTO-PLASTICA

Figura 3.1 - Forme e normative di provini per la prova di trazione uniassiale

Una tipica modalità di esecuzione della prova è schematizzata in Figura 3.2. Il provino è vincolato a una macchina di prova attraverso due afferraggi, l’uno solidale con una parte fissa e l’altro con una parte mobile della macchina. Un sistema di attuazione, idraulico o meccanico, è installato fra la parte fissa e quella mobile e permette di applicare il carico al provino.

Figura 3.2 - Schema di esecuzione della prova di trazione uniassiale

La legge di applicazione del carico è impostata agendo sul sistema di controllo della macchina di prova. La prova può quindi avvenire applicando direttamente una storia di carico al provino e, in questo caso, si definisce controllata in forza. In alternativa, la prova può essere eseguita imponendo una legge temporale di spostamento alla parte mobile della macchina e il sistema di controllo, grazie a un meccanismo di retroazione, consentirà di applicare il carico necessario a ottenere lo spostamento desiderato. In quest’ultimo caso, la prova si definisce controllata in spostamento. Le velocità di applicazione del carico o dello spostamento sono, per il tipo di prova preso in esame in questo paragrafo, molto basse e certamente tali da permettere di assumere che il sistema evolva attraverso una serie di stati di equilibrio. La misura del carico applicato è eseguita da una cella di carico, installata in serie fra il provino e una delle due parti della macchina di prova. L’allungamento misurato durante la prova non è lo spostamento della parte mobile della macchina, ma si riferisce a un tratto centrale del provino di materiale, a sezione costante. Si deve considerare, infatti, che lo spostamento della parte mobile della macchina non è uguale all’allungamento del tratto a sezione costante del provino, ma comprende anche l’allungamento delle parti di provino vincolate e gli allungamenti o i giochi di tutto il sistema composto da afferraggi, cella di carico, struttura fissa e mobile della macchina.

Spostamento

Parte mobile Per tale motivo, uno specifico strumento di misura, generalmente un estensometro, è applicato al provino nella zona centrale di misura. Tale strumento, rappresentato in Figura 3.3, è in grado di misurare la variazione della distanza fra due punti del provino stesso, che, inizialmente, sono posti a distanza l0.

Figura 3.3 - Estensometro installato su un provino di trazione

La cella di carico e l’estensometro misurano il carico P e l’allungamento l = l-l0 nella zona di misura del provino. E’ intuibile che il carico P, da applicare per ottenere un determinato allungamento l nella zona di misura, sarà proporzionale alla sezione del provino, A0. D’altra parte, se un tratto di lunghezza iniziale l0 di un provino soggetto a un carico P subisce un

Forza

Parte fissa

Allungamento, l – l0

Carico, P

Estensometro

Cella di carico

Attuatore controllato in forza o spostamento

afferraggi

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allungamento l, un tratto di lunghezza iniziale doppia andrà necessariamente soggetto ad un allungamento doppio. L’allungamento è quindi proporzionale alla lunghezza iniziale del tratto di misura. La curva carico-spostamento ottenuta è pertanto dipendente non solo dal materiale di cui è costituito il provino, ma dalle dimensioni della sezione e dalla lunghezza della zona di misura considerata. Le precedenti considerazioni implicano che, dividendo il carico per la sezione del provino e l’allungamento per la lunghezza iniziale, si ottengono grandezze indipendenti da tali caratteristiche geometriche. In via preliminare, pertanto, si può definire uno sforzo nominale o ingegneristico, dato dal rapporto fra il carico applicato durante la prova e la sezione originale del provino, A0 (Eq. 3. 1). Fissata la lunghezza della zona di misura, quindi, si definisce inoltre una deformazione nominale o ingegneristica come rapporto fra l’allungamento della zona di misura e la sua lunghezza iniziale (Eq. 3. 2).

00 A

P

Eq. 3. 1

00

0~l

ll

ll

Eq. 3. 2 Assumendo che lo sforzo e la deformazione siano costanti nella zona di misura del provino, la curva sforzo-deformazione ottenuta misurando il carico e l’allungamento e applicando le definizioni in Eq. 3. 1 e Eq. 3. 2, è una caratteristica del materiale del provino. Dimensionalmente, lo sforzo rappresenta una forza per unità di superficie, [ 0]=[F][L]-2, ed ha le unità di misura di una pressione (Pa = Nm-2, nel SI). La deformazione, invece, è adimensionale. La deformazione è spesso espressa come deformazione percentuale, moltiplicando per un fattore 100 il valore ottenuto dall’Eq. 3. 2 o in termini di microdeformazioni, , ottenute moltiplicando per 106 il valore fornito dall’Eq. 3. 2. La deformazione nominale in Eq. 3. 2 misura l’allungamento del provino nella direzione di applicazione del carico, ma questa misura non descrive completamente il cambiamento di configurazione che il provino subisce durante la prova. Infatti, con l’applicazione del carico di trazione, il provino si allunga e, contemporaneamente, la sua sezione trasversale si contrae. Tale contrazione dà luogo a una deformazione trasversale trasv~ . Quando il provino si allunga la deformazione definita in Eq. 3. 2 è positiva. Poiché la sezione si contrae quando il provino si allunga, la deformazione trasversale è, nella prova di trazione, negativa. L’andamento del rapporto fra l’opposto della deformazione trasversale e la deformazione nella direzione di allungamento è una proprietà del materiale. Tale rapporto è chiamato coefficiente di

Poisson ed è universalmente indicato con la lettera v. La sua definizione è data in Eq. 3. 3.

~~ trasv

Eq. 3. 3 Il coefficiente di Poisson per i materiali isotropi deve, per ragioni fisiche, essere minore di 0.5. Esso è tipicamente compreso fra 0.0 e -0.5, sebbene possano esistere materiali, detti auxetici, che presentano coefficienti di Poisson negativi. I valori fra -1.0 e 0.0 sono infatti ammissibili.

Figura 3.4 �– Processo deformativo di un provino cilindrico durante la prova di trazione uni assiale

La Figura 3.4 schematizza il processo di deformazione durante la prova di trazione di un provino cilindrico. La lunghezza passa da l0 a l, mentre il raggio diminuisce da r0 a r. La deformazione trasversale, per il provino cilindrico risulta:

0

0~r

rrtrasv

Eq. 3.4 Poiché la sezione si contrae durante la prova, l’area trasversale del provino, sulla quale agisce lo sforzo cambia e, nella prova di trazione, diminuisce. Il valore dell’area sulla quale effettivamente agisce lo sforzo durante la prova è A < A0. Analogamente, si può osservare che la deformazione definita in Eq. 3. 2 misura l’allungamento rispetto alla dimensione iniziale della zona di misura, l0 che, durante la prova, cambia. Pertanto gli sforzi e le deformazioni ingegneristiche, definiti in Eq. 3. 1 e Eq. 3. 2 sono riferiti alle dimensioni iniziali del provino e si pone il problema di differenziare tali misure da quelle riferite alla configurazione deformata.

l0

r0

r

l

X1X2 x1

x2

x3 X3

3

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Nella gran parte delle applicazioni strutturali dei metalli, tale differenza è trascurabile, poiché il materiale raggiunge, anche nelle condizioni di esercizio più gravose, livelli di deformazione molto piccoli, dell’ordine di 10-4 10-3 (0.01% 0.1% o 100 1000

). Considerando il limite indicato in precedenza per il coefficiente di Poisson, anche le deformazioni trasversali saranno molto piccole. A livelli di deformazione più elevati, quali quelli che possono essere ottenuti nei processi di lavorazione dei materiali, la variazione di configurazione può essere tenuta in considerazione, utilizzando gli sforzi veri, o di Cauchy, definiti in base alla sezione deformata del provino, A.

AP

Eq. 3. 5 Anche le deformazioni possono essere riferite alla configurazione deformata in cui si considera la lunghezza effettiva l della zona di misura. A tale scopo si introduce una deformazione incrementale infinitesima d , corrispondente a un allungamento dl riferito alla configurazione indeformata, come in Eq. 3. 6.

ldld

Eq. 3. 6 La deformazione vera, o logaritmica, si ottiene integrando l’Eq. 3. 6 durante l’intero processo di deformazione, che porta la zona di misura dalla lunghezza l0 alla generica lunghezza l = l0 + l.

~1lnlnln0

0

000 lll

ll

ldld

l

l

l

l

Eq. 3. 7

Figura 3.5 - Deformazione ingegneristica e logaritmica al variare di l/l0

La Figura 3.5 riporta l’andamento della deformazione nominale e della deformazione logaritmica al variare del rapporto fra lunghezza deformata e lunghezza indeformata del tratto di misura. Appare evidente che per piccole deformazioni le differenze siano trascurabili. La differenza fra sforzo nominale e sforzo vero è invece dipendente dal comportamento del materiale, che determina la contrazione della sezione al variare della configurazione.

3.2.2 Curve sforzo-deformazione di materiali metallici elasto-plastici

La curva sforzo-deformazione nominale ottenuta in una prova di trazione controllata in spostamento ha tipicamente, per i materiali metallici elasto-plastico, una forma riconducibile a una delle due tipologie mostrate in Figura 3.6.

Figura 3.6 - Tipici andamenti delle curve sforzo-deformazione in materiali elasto-plastici

La curva permette di identificare diverse fasi che sono legate a fenomeni che avvengono a livello microstrutturale del materiale. In questo capitolo, tuttavia, tali fenomeni saranno per lo più considerati, classificati e modellati da un punto di vista macroscopico, focalizzandosi sui loro effetti sulla curva sforzo-deformazione. Tali effetti, d’altra parte, sono quelli rilevanti per il progetto e l’analisi di strutture realizzati con materiali metallici elasto-plastici.

0,

A

C A’ B A’’

A O

A

A’

C

O epB

A’’

0,

4

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Da questo punto di vista è sicuramente riconoscibile, in entrambe le curve riportate in Figura 3.6, un primo tratto di curva in cui la risposta è lineare. In questo tratto, OA, la rimozione del carico applicato comporta il ritorno del provino alla configurazione indeformata. Il comportamento del materiale si dice elastico-lineare ed è caratterizzato dal fatto che il lavoro compiuto per deformare il provino è conservato sotto forma di energia elastica nel materiale ed è completamente restituito rimuovendo il carico applicato, senza effetti dissipativi. Per lo stato di sforzo uniassiale corrispondente alla prova, la relazione fra lo sforzo e la deformazione è caratterizzata da una costante di proporzionalità, E, che rappresenta il modulo elastico o modulo di Young del materiale.

E Eq. 3. 8 Il modulo di Young rappresenta la pendenza della retta

- in campo elastico-lineare e ha dimensioni identiche a quelle dello sforzo, essendo la deformazione adimensionale. Il modulo di Young è uguale al valore dello sforzo che è teoricamente necessario per ottenere una deformazione pari a 1, cioè del 100%, corrispondente al raddoppio della lunghezza del provino per la definizione di deformazione ingegneristica, riportata in Eq. 3.2,. Tale livello di deformazione, com’è intuibile, è molto superiore a quello cui possono essere sottoposti in realtà i materiali metallici prima di subire rotture. Dopo il tratto elastico-lineare, le curve possono anche presentare un tratto AA’ che non è più lineare, ma è sempre caratterizzato da un comportamento elastico e implica, per definizione di elasticità, la restituzione dell’intera energia di deformazione in assenza di deformazioni residue allo scarico. L’elasticità, quindi, non comporta necessariamente la linearità della risposta. Il comportamento nel tratto OA è definibile elastico e lineare, mentre nel tratto AA’ il comportamento è solo elastico e il limite individuato dal punto A è definito limite di proporzionalità. Quando lo sforzo applicato supera il livello corrispondente ad A’ si attivano meccanismi anelastici che comportano la comparsa di deformazioni plastiche permanenti. Tale fenomeno è definito snervamento del materiale metallico e il carico al quale avviene è definito limite di snervamento ( Y). Le deformazioni permanenti sono collegate al moto delle dislocazioni e, a differenza delle deformazioni che avvengono prima dello snervamento, sono irreversibili. Quando il carico è rimosso, quindi, il materiale non ritorna alla configurazione indeformata. Tuttavia la comparsa delle deformazioni plastiche non influenza la rigidezza del materiale in campo elastico. Ciò è rilevabile dal comportamento del materiale allo scarico: se lo sforzo è gradualmente rimosso dopo che si è superato il limite A’ la curva sforzo-deformazione allo scarico è una retta, con una pendenza identica a quella del tratto OA’. Allo scarico, quando lo sforzo è

completamente rimosso, si può misurare il livello di deformazione permanente, p. La deformazione totale raggiunta durante la prova, può pertanto essere decomposta in una parte elastica, e ed in una plastica

p, come formalizzato dall’Eq. 3. 9.

pe Eq. 3. 9 Un aspetto particolarmente significativo delle deformazioni plastiche è che l’evidenza sperimentale mostra come esse si sviluppino mantenendo costante il volume del materiale. Il processo di deformazione plastica avviene dunque a volume costante e ciò ha una conseguenza diretta sul valore del coefficiente di Poisson, definito in Eq. 3. 3, in campo plastico. Se si considera, infatti, un provino cilindrico come quello rappresentato in Figura 3.4, la variazione di lunghezza e la varazione di area per un incremento infinitesimo di deformazione plastica, d p, risultano:

p

p

vrdrrdrrdrrdA

lddl

2222

Eq. 3.10

Se il volume rimane costante, la variazione di volume dV deve essere nulla. I passaggi riportati in Eq. 3.11 dimostrano che la condizione dV =0 implica un valore paro a 0.5 per il coefficiente di Poisson in campo plastico.

5.0012

22

22

vdvrl

ldrvdrlAdlldA

AldlldAAdV

p

pp

Eq. 3.11 Dopo lo snervamento, i materiali metallici possono presentare andamenti diversi. Nel comportamento in Figura 3.6-A, tipico degli acciai dolci a basso tenore di carbonio o degli acciai ricotti, lo snervamento è seguito da una diminuzione dello sforzo, che si stabilizza su un valore costante fino al punto A’’. In questo tipo di comportamento, lo snervamento è immediatamente rilevabile. Il valore di sforzo corrispondente ad A’ è detto limite di snervamento superiore, mentre quello corrispondente ad A’’ è detto limite di snervamento inferiore. Quest’ultimo valore di sforzo è il limite convenzionalmente utilizzato come carico di snervamento nelle progettazione strutturale con questo tipo di materiali. Nella curva sforzo-deformazione descritta in Figura 3.6-A, il livello di sforzo si mantiene costante dopo lo snervamento, fino a un punto B, oltre il quale lo sforzo torna a salire. Il comportamento fra A’’ e B è detto comportamento perfettamente plastico. In Figura 3.6-B è rappresentato il comportamento di tipico di altri materiali metallici elasto-plastici, quali, ad esempio, le leghe di alluminio, gli acciai legati o le

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leghe di titanio. In questo tipo di comportamento non è possibile identificare con chiarezza lo snervamento del materiale e si usa un limite convenzionale, basato su un livello pre-definito di deformazione plastica sviluppatasi dopo l’attivazione dei meccanismi anelastici. Tipicamente, si definisce come limite di snervamento, il livello di sforzo cui corrisponde, allo scarico, una deformazione plastica dello 0.2%. Tale

variazione del carico dP è ertanto data da:

punto è indicato da A’’ in Figura 3.6-B, In entrambi i casi riportati in Figura 3.6, dopo lo snervamento e l’eventuale fase di comportamento elastico-perfettamente plastico, lo sforzo ingegneristico aumenta. E’ quindi necessario incrementare lo sforzo applicato per generare altre deformazioni plastiche. Questo fenomeno è noto con il nome di incrudimento. Il valore dello sforzo ingegneristico sale fino al valore massimo nel punto indicato con C in entrambe le curve presentate in Figura 3.6. Si osservi che il provino, nella condizione indicata con C, non è rotto, ma che comunque il corrispondente livello di sforzo è il valore massimo, ingegneristico, che può essere trasmesso attraverso il provino. Tale valore è definito carico unitario a rottura o resistenza a trazione del materiale ( U). In corrispondenza di tale punto si può definire una deformazione a rottura, U. Questo valore di deformazione non deve essere mai essere confuso con l’allungamento a rottura, che verrà definito in seguito. In realtà, oltre il punto C, gli andamenti degli sforzi veri e degli sforzi ingegneristici divergono in modo rilevante. L’andamento degli sforzi veri è qualitativamente rappresentato in Figura 3.6 dalle linee tratteggiate. Il brusco incremento della divergenza fra le due misure di sforzo è dovuto al meccanismo di cedimento del provino, che si attiva in prossimità dello sforzo ingegneristico di rottura e che, per i materiali metallici, è tipicamente caratterizzato da un fenomeno definito strizione. A livello semplificato il fenomeno può essere compreso con alcune considerazioni di base. Infatti, lo sforzo ingegneristico 0 non è altro che il carico P, applicato al provino, diviso per il fattore costante A0. Il carico è però dato dal valore dello sforzo vero, (che dipende dal livello di deformazione raggiunto secondo la curva sforzi veri-deformazioni vere) per l’area effettiva A, che, durante la prova di trazione, si contrae. La p

Ad dAdPEq. 3. 12

si ottiene uando dP=0. Applicando l’Eq. 3. 12 risulta:

Il carico massimo, corrispondente al punto di stazionarietà nell’andamento dello sforzo ingeristico (che corrisponde al punto C in Figura 3.6), q

AdAddP 0

q. 3. 13

alla deformazione, applicando i eguenti passaggi:

E L’Eq. 3. 13 indica che il carico massimo può raggiungersi anche in presenza di un incremento

positivo d che riesce, tuttavia, appena a compensare la riduzione di area dA. Poiché, come sarà evidenziato anche in seguito, la deformazione plastica avviene pressoché a volume costante, è possibile legare la variazione di areas

ldl

AdA

AdlldAdVAlV

0cost

q. 3. 14

. 3. 14 nella condizione riportata in Eq. 3. 13 si ottiene:

E Applicando l’Eq

dP 0dddd

q. 3. 15

orzi-deformazioni

E L’Eq. 3. 15 mostra che quando la pendenza della curva sforzi veri – deformazione vere, che tende a diminuire come indicato in Figura 3.6, eguaglia il valore dello sforzo, il carico P non può aumentare. Conseguentemente la curva sfingegneristica avrà un massimo. Poiché il materiale non è omogeneo a livello micro strutturale, non tutte le sezioni giungeranno contemporaneamente alla condizione indicata dall’Eq. 3. 15, ed il processo di cedimento inizierà in una determinata zona del provino. Dal verificarsi di tale condizione in poi, tuttavia, il carico trasmesso attraverso le sezioni coinvolte nel processo può solo diminuire e, poiché le sezioni sono poste in serie nel provino, deve diminuire il carico applicato al provino. Ciò comporta che le altre zone, che erano giunte in prossimità della condizione descritta in Eq. 3. 15, iniziano a scaricarsi elasticamente, poiché sarebbe necessario un incremento di carico per giungere in corrispondenza dello sforzo al quale la condizione è verificata. Queste considerazioni indicano come la deformazione debba localizzarsi in una zona limitata del provino, che soggetta a sforzi veri crescenti e a crescenti contrazioni dell’area diviene la sede del fenomeno della strizione rappresentato in Figura 3.7. Nell’area effettiva della zona soggetta a strizione lo sforzo vero aumenta, ma lo sforzo ingegneristico, che rappresenta il carico totale applicato al provino, diminuisce. In seguito alla strizione la curva sforzi-deformazioni ingegneristica può tipicamente presentare un tratto discendente, prima della rottura vera e propria. Si osservi, tuttavia, che in tale tratto il concetto di deformazione ingegneristica perde di significato, poiché, a seguito della localizzazione delle deformazioni, la deformazione non è più uniforme nella zona di misura. Il livello di deformazione ingegneristico misurato in tale fase è quindi un valore medio nella zona di misura di lunghezza iniziale l0, che è molto differente dai livelli di deformazione raggiunti localmente nella zona di strizione e che dipende in

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modo sostanziale dalla lunghezza l0 della zona di misura. Tuttavia, l’allungamento cui è soggetto un tratto di lunghezza definita del provino, all’interno del quale avviene la rottura, indica la capacità del materiale di deformarsi in campo plastico senza presentare fratture. Tale indice è definito allungamento a rottura, ma è difficilmente misurabile dall’andamento della urva sforzo-deformazione ingegneristica.

c

Figura 3.7 - Strizione in provini metallici nella

rova di trazione uniassiale

drnire una indicazione della duttilità del

materiale.

p

La procedura corretta per misurarlo consiste nel contrassegnare con tacche equidistanti il provino e nell’avvicinare i lembi del provino spezzato dopo la prova. La misura dell’allungamento percentuale subito da un tratto all’interno del quale si è verificata la localizzazione delle deformazioni e la strizione, è definito allungamento percentuale a rottura, ed indicato con AR

. Tale allungamento è una misura della duttilità del materiale, cioè della possibilità di deformarlo plasticamente senza indurre la formazione di fratture. I materiali duttili presentano tipicamente una marcata strizione nella prova di trazione uniassiale. Un ulteriore misura della duttilità è la riduzione di area della sezione trasversale in cui si è verificata la strizione rispetto all’area originale del provino. In prima, approssimazione, la conoscenza della

eformazione in corrispondenza dello sforzo di rottura, U, può fo

3.2.3 Lavoro di deformazione e tenacità L’applicazione di uno stato di sforzo a un continuo provoca, in generale, un processo di deformazione. Il legame fra lo sforzo applicato e la deformazione ottenuta è detto legge costitutiva (o risposta costitutiva) del materiale. Senza specificare tale legame, si può affermare che lo sviluppo di deformazione comporta che le componenti dello stato di sforzo svolgano un lavoro durante il processo di deformazione, detto lavoro di deformazione. Per ottenere un’espressione del lavoro di deformazione occorre far procedere il processo di deformazione sotto l’azione dello stato di sforzo per successivi incrementi infinitesimi.

Figura 3. 8 �– Lavoro di deformazione in una prova di trazione uniassiale

La Figura 3. 8 si riferisce a una barra di area A e lunghezza l, soggetta a una trazione uniassiale, sotto l’azione di uno sforzo uniforme nella sua sezione trasversale, che è perpendicolare all’asse X del sistema di riferimento. Lo sforzo può essere fatto aumentare gradualmente, per permettere di considerare il fenomeno come una successione di stati di equilibrio, e a ciascun livello di sforzo far corrispondere un incremento infinitesimo di spostamento du, nella direzione X, che determina l’allungamento dl del provino. Si consideri l’incremento di allungamento di un tratto lungo dX. La sezione inferiore della porzione infinitesima, rappresentata in Figura 3. 8, sarà soggetta ad uno spostamento du, mentre lo spostamento della sezione superiore sarà du+(d(d u)/dX).

X

Y

Z

dX

A

dXdXduddu

du

l

7

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI CAP.3 – LA LEGGE COSTITUTIVA ELASTO-PLASTICA

Il lavoro infinitesimo svolto nella porzione dX della barra è pari alla forza risultante, A , per gli spostamenti di entrambe le sezioni. Poiché d(du)/ dX è il rapporto fra l’allungamento (infinitesimo) del tratto inizialmente lungo dX e la sua lunghezza iniziale, esso rappresenta una deformazione infinitesima d e risulta:

dXdAdXdXdudA

duAdXdXdudduAdWd

Eq. 3. 16 Il lavoro calcolato nell’Eq. 3. 16 si riferisce a un tratto di barra di lunghezza dX. L’espressione può essere integrata in tutta la barra, che è soggetta a uno stato di sforzo-deformazione uniforme, ottenendo:

dAldWd Eq. 3. 17 Il lavoro in Eq. 3. 17 è sempre infinitesimo poiché si riferisce ad un incremento di deformazione d , sebbene sia riferito all’intera barra, di volume V. E’ possibile definire il lavoro di deformazione per unità di volume, dato da:

ddld Eq. 3. 18 Il processo di deformazione, compiuto sotto l’azione dello sforzo , può essere fatto progredire fino a uno stato finale di deformazione, . Si osservi, che nell’ambito dell’ipotesi di deformazioni infinitesime, anche la deformazione sarà infinitesima, ma non è da confondersi con l’incremento di deformazione infinitesima d . Integrando l’Eq. 3. 18 si perviene all’espressione del lavoro di deformazione, per unità di volume, necessario per far arrivare il materiale a uno stato - .

1

0

dwd

Eq. 3. 19 Il lavoro di deformazione per unità di volume è pertanto l’area sottesa alla curva sforzi-deformazioni, come illustrato in Figura 3.9. Il lavoro di deformazione compiuto dagli sforzi durante il processo di deformazione nell’intera prova di trazione uniassiale, corrisponde al lavoro delle forze esterne e quindi all’energia fornita al provino per portarlo a rottura. Si osservi, infatti, che il legame fra area sottesa alla curva sforzo-deformazione e lavoro compiuto, può essere facilmente ottenuto considerando le definizioni di sforzo e deformazione vere date nelle Eq. 3. 5 e Eq. 3. 6.

Figura 3.9 - Rappresentazione grafica del lavoro di deformazione per unità di volume

Per un incremento di allungamento dl, infatti, la forza applicata alla zona di misura compie un lavoro infinitesimo dW = Fdl. Se si considera che la deformazione è, per l’ Eq. 3. 6, d = dl/l, si giunge all’Eq. 3.20.

000

dAlAldFdlW

Eq. 3.20 Poiché Al rappresenta il volume della zona di misura, l’Eq. 3.20 mostra che l’area sottesa alla curva sforzi veri – deformazioni vere fino ad un determinato livello di deformazione, è il lavoro per unità di volume applicato al materiale, come già visto in Figura 3.9. Per portare il materiale a rottura è quindi necessario compiere un lavoro per unità di volume pari all’intera area sottesa sotto la curva sforzi veri-deformazioni vere. Questa energia specifica per unità di volume, che deve essere fornita al materiale per portarlo a rottura, è un’importante caratteristica meccanica del materiale ed è chiamata Tenacità. La tenacità indica quindi quanta energia il materiale può assorbire localmente senza che si producano fratture e influenza una serie di proprietà del materiale di grande importanza in ambito tecnologico e strutturale. Ad esempio, aspetti caratteristiche che sono grandemente influenzate dalla tenacità sono la capacità di una struttura di tollerare, senza la formazione di fratture, la presenza di difetti, dovuti a processi tecnologici o a urti e la capacità di assorbire energia durante un impatto. La tenacità di un materiale non è immediatamente misurabile dalla curva sforzi-deformazioni, soprattutto poiché, dopo la strizione, la distribuzione degli sforzi e delle deformazioni non è più omogenea e la curva sforzi-veri deformazioni non può più essere ottenuta con facilità. Tuttavia la curva sforzi-deformazioni fornisce un’indicazione significativa del livello di tenacità del materiale. In particolare, è possibile comparare indicativamente la tenacità di due materiali (o dello stesso materiale, sottoposto a diversi trattamenti termici) valutando l’area sottesa alla curva sforzi-deformazioni fino alla strizione e quindi fino alla deformazione corrispondente allo sforzo di rottura, U. Nel caso presentato in Figura 3.11, ad esempio, il materiale A è sicuramente più resistente del materiale

O

0

dwd

8

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B, che è tuttavia in grado di subire deformazioni molto più grandi prima della strizione ed ha una maggiore tenacità.

Figura 3.10 �–Confronto fra la tenacità e la resistenza di due materiali

Si osservi che il materiale C, che è verosimilmente più duttile del materiae B, poiché presenta probabilmente un maggiore allungamento a rottura, è tuttavia meno tenace di B, poiché richiede una minore energia per essere portato a rottura. Tuttavia, i materiali più tenaci hanno anche, in generale, buona duttilità e presentano quindi grandi allungamenti a rottura. La rottura di un metallo con una curva simile a quella del materiale A in Figura 3.10 avviene tipicamente senza un’evidente strizione e con basso allungamento a rottura. Un materiale di questo tipo si dice fragile, mentre un materiali con una curve simili a quelle dei materiali B e C, si dicono duttile. L’integrale dell’area sottesa sotto la curva sforzo-deformazione fino al valore di sforzo di rottura R è detto modulo di tenacità, ed ha la definizione riportata in Eq. 3.21.

R

dT0

Eq. 3.21 In assenza dell’intera curva sforzo-deformazione è possibile approssimare il modulo di tenacità mediante di valori di sforzo di snervamento, di rottura e di deformazione a rottura, come indicato in Eq. 3.22.

UUY

T2

Eq. 3.22

3.2.4 Idealizzazioni del comportamento elasto-plastico

L’andamento della curva sforzo-deformazione è, in generale, piuttosto complesso ed esistono diversi approcci per approssimare la curva a forme più semplici. Le semplificazioni introdotte hanno in genere l’obiettivo di permettere una formalizzazione più semplice del comportamento elasto-plastico da introdurre in formulazioni teoriche per modellare il comportamento dei materiali in condizioni complesse, i

processi tecnologici e la risposta strutturale in presenza di deformazioni plastiche. La validità delle approssimazioni introdotte in tali idealizzazioni del comportamento elasto-plastico dipende dall’applicazione. In alcuni ambiti, approssimazioni molto schematiche del comportamento potranno essere adeguate per ottenere affidabili valutazioni quantitative, mentre in altri casi il comportamento dovrà essere rappresentato con maggiore dettaglio. La più semplice di tali idealizzazioni è il comportamento rigido-perfettamente plastico che considera trascurabili le deformazioni elastiche e l’incrudimento del materiale (Figura 3.11-A). Se l’incrudimento è invece ritenuto un aspetto non trascurabile, si può passare a un generico comportamento rigido-plastico con incrudimento lineare, rappresentato in Figura 3.11-B.

Figura 3.11 - Idealizzazioni rigido-plastiche del comportamento del materiale

Il tratto elastico può essere incluso nel modello semplificato del materiale, sempre schematizzando il comportamento plastico con un tratto a sforzo costante (comportamento elastico-perfettamente plastico, schematizzato in Figura 3.12-A) o con un tratto a pendenza costante (comportamento elasto-plastico bi-lineare, schematizzato in Figura 3.12-B).

Materiale A

Materiale B

Materiale C

A’’

O

A

A’’

O

C

B

9

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Figura 3.12 - Idealizzazioni elasto-plastiche del comportamento del materiale con incrudimento linerare

I modelli più completi considerano un tratto elastico lineare e introducono un’espressione analitica della curva della curva sforzo–deformazione nel tratto AC. Tali espressioni analitiche dipendono da parametri che sono calcolati in modo da minimizzare la differenza fra la curva sforzi-deformazione effettiva e l’approssimanzione analitica. Una delle approssimazioni più utilizzate è quella di Ramberg-Osgood (1943) che è riferita alla curva sforzi veri – deformazioni vere e dipende da due parametri, H ed n, come indicato in Eq. 3. 23.

n

EH

E

Eq. 3. 23 L’approssimazione di Voce (1948), espressa in forma = ( ) utilizza come parametri il limite di snervamento, Y, e il limite di rottura, U, ed un parametro n come espresso in Eq. 3. 24.

nYUY e1 Eq. 3. 24 Infine, in Eq. 3.25, è riportata l’approssimazione di Swift (1947), riportata in Eq. 3.25, anch’essa nella forma = ( ) con tre parametri di calibrazione: H, S ed n.

n

sH Eq. 3.25

Figura 3.13 - Approssimazioni analitiche

3.2.5 Aspetti fisici del comportamento plastico Come descritto nel Cap. 2, dedicato alla struttura dei materiali policristallini, la deformazione in campo elastico comporta lo spostamento degli atomi della loro posizione di minima energia nel reticolo cristallino. Tale deformazione è reversibile e l’energia applicata per la deformazione è restituita se il carico è rimosso. Le deformazioni plastiche sono invece irreversibili e sono il risultato dello spostamento irreversibile di una parte del reticolo cristallino rispetto al resto. Questi spostamenti sono a loro volta riconducibili al moto delle dislocazioni presenti nei reticoli cristallini, che rappresentano imperfezioni nella struttura del reticolo e alla generazione di nuove dislocazioni a causa degli sforzi applicati (cfr. il meccanismo definito sorgente di Frank-Read, descritto nel cap. 2). Il moto delle dislocazioni è in prima approssimazione indotto dagli sforzi di taglio che agiscono nel materiale. Lo sforzo critico risolto o sforzo di Peierls-Nabarro, introdotto dall’Eq. 3.2.2 del Cap. 2, è lo sforzo necessario per muovere una dislocazione ed è, appunto, uno sforzo di taglio. E’ necessario introdurre alcuni concetti sulla natura dello sforzo per illustrare come si possano sviluppare sforzi di taglio nella prova di trazione uniassiale. Infatti, nella descrizione della prova è stato introdotto lo sforzo , la cui risultante sull’area A equivale al carico P applicato al provino. Trascurando in questa sede la differenza fra sforzo ingegneristico e sforzo vero, va osservato che lo stato di sforzo dipende in realtà dalla giacitura della superficie su cui esso agisce. Lo sforzo che è stato definito nel par. 3.2.1 agisce in una sezione ottenuta tagliando il provino con un piano perpendicolare all’asse longitudinale del provino stesso. Variando la giacitura della sezione, ad esempio cambiando l’angolo indicato in Figura 3.14, si ottiene un valore diverso dello sforzo, . Lo sforzo introdotto nel par. 3.2.1, inoltre, rappresenta un tipo particolare di sforzo che è caratterizzato dalla proprietà

A’’

O

C = ( ) o = ( )

A’’

O

A

A’’

O

C

B

10

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di essere diretto perpendicolarmente alla sezione su cui agisce. Si deve però osservare che, attraverso una sezione ricavata in un solido, possono trasmettersi anche componenti di sforzo paralleli alla sezione stessa, che sono chiamati sforzi di taglio ed indicati, in generale, con il simbolo . Se si ricava una sezione tagliando con un piano avente diversa giacitura rispetto a quella normale all’asse del provino, nella sezione agirà, oltre a , anche uno stato di sforzo di taglio che dipende dalla giacitura , come indicato in Figura 3.14. L’espressione dello sforzo in funzione di , riportata in Figura 3.14, è un caso particolare delle formule che esprimono la variazione dello stato di sforzo con la giacitura, che saranno trattate in seguito. Nella prova di trazione uniassiale, il massimo dello sforzo di taglio si ottiene per giaciture corrispondenti a

=45°. Per questo motivo, sotto alcune condizioni, lo snervamento può essere evidenziato dalla formazione di bande di scorrimento che si manifestano come linee sottili inclinate a 45° sulla superficie del provino (bande di Lüders o Lueders).

Figura 3.14 - Sforzi di taglio in una prova di trazione uniassiale

Come si può evincere dalla trattazione svolta nel cap. 2, gli sforzi interni al materiale policristallino devono superare una serie di ostacoli per attivare e far proseguire il moto delle dislocazioni e produrre deformazioni permanenti. Tali ostacoli hanno pertanto un’influenza diretta sul limite di snervamento e sul successivo andamento della curva sforzi-deformazioni. Essi sono stati descritti nel cap. 2 e possono essere schematicamente riassunti nell’elenco seguente:

i. Effetto dei bordi dei grani cristallini, che possono saltare dalle dislocazioni applicando sforzi maggiori a quelli necessari per muovere la dislocazione all�’interno del grano.

ii. La presenza di precipitati dispersi nei grani del materiale, composti da elementi di lega introdotti nella composizione del materiale metallico

iii. Moltiplicazione delle dislocazioni e mutua interferenza con generazione di micro-autotensioni e di difficoltà cresecenti al moto delle dislocazioni stesse.

Tali meccanismi sono stati trattati in dettaglio nel cap. 2. E’ comunque interessante sottolineare come i primi due tipi di ostacoli alla generazione e al moto delle dislocazioni spieghino le influenze sul comportamento plastico dei metalli dell’aggiunta di elementi di lega e dei trattamenti termici, che modificano la microstruttura del materiale (formazioni di soluzioni solide, precipitazione degli elementi di lega, modifica delle dimensioni dei grani cristallini). Il terzo punto (iii), invece, è all’origine del fenomeno dell’incrudimento e cioè l’incremento necessario dello sforzo per generare deformazioni plastiche, descritto nel par 3.2.2. In sintesi, l’applicazione dello sforzo aumenta inizialmente la distanza fra gli atomi del reticolo cristallino, producendo una deformazione elastica e reversibile. Quando lo stato di sforzo supera la soglia necessaria per attivare la generazione e il moto delle dislocazioni (indicativamente quando gli sforzi di taglio raggiungono una determinata soglia), il reticolo si modifica irreversibilmente e si sviluppano deformazioni plastiche. Se il comportamento è elastico-perfettamente plastico, non è necessario un nuovo incremento di sforzo per generare altre deformazioni plastiche, e la curva sforzo-deformazione ingegneristica avrà l’aspetto riportato in Figura 3.15-A. Questo comportamento è tuttavia una idealizzazione cui possono avvicinarsi alcuni tipi di materiali ma, in generale, l’interazione fra la generazione ed il moto di molteplici dislocazioni provocherà incrudimento e la necessità di incrementare lo sforzo per sviluppare ulteriori deformazioni plastiche, come indicato in Figura 3.15-B. Sulla base delle definizioni di sforzo e di deformazione ingegneristica (Eq.ni 1 e 2 ) si può comunque affermare che sarà necessario compiere un lavoro, dato dall’integrale del carico P per l’allungamento dl della zona di misura, per deformare plasticamente il provino anche nel caso di materiale elastico-perfettamente plastico.

P

P

P

P

cossin0A

P

11

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Figura 3.15 - Sviluppo di deformazioni plastiche in un materiale elastico-perfettamente plastico ed in un materiale incrudente

In ogni caso, a seguito dello sviluppo di deformazioni plastiche, si verifica un cambiamento irreversibile rispetto allo stato originale, cui ci si riferisce come stato vergine. Se, giunti in uno stato di sforzo-deformazione oltre lo snervamento, indicato con A1 in Figura 3.15, il carico è rimosso, solo la deformazione elastica è recuperata, ristabilendo le distanze originarie fra gli atomi dei reticoli cristallini, ma gli spostamenti relativi fra le parti dei reticoli dovuti al moto delle dislocazioni rimangono impresse nella microstruttura del materiale. Pertanto, allo scarico, il percorso seguito nel piano - dallo stato di sforzo-deformazione del materiale è una retta con inclinazione uguale alla pendenza iniziale, pari al modulo di Young E, fino allo stato A2 che è caratterizzato da uno sforzo nullo (come in O) e dalla deformazione plastica p(A1). Se il materiale è nuovamente sottoposto a sforzo, non si genereranno deformazioni plastiche fino al raggiungimento dello sforzo necessario a muovere o generare dislocazioni che, per un materiale incrudente, non è più pari al limite di snervamento del materiale vergine, ma dipende in generale dalla deformazione plastica sviluppata nella storia precedente del materiale. Superato A1, la generazione di nuove deformazioni plastiche, ad esempio fino al punto A3 indicato in Figura 3.15, avviene a parità di sforzo, per il materiale elastico-perfettamente plastico o con ulteriore incremento di sforzo, per il materiale incrudente.

E’ importante osservare che un aumento di sforzo, quale quello necessario per generare nuove deformazioni plastiche nel materiale incrudente, corrisponde sempre a un incremento di deformazione elastica poiché, se lo sforzo aumenta, anche la distanza fra gli atomi nei reticoli cristallini, che rappresenta la deformazione elastica reversibile aumenta. Infatti, se consideriamo la decomposizione delle deformazioni in deformazione elastica e plastica, introdotta nell’Eq. 3.7, e’ sempre possibile scrivere:

Ee

Eq. 3.9 Pertanto, se in A3 lo sforzo è maggiore che in A1, anche la corrispondente deformazione elastica, e

A3, sarà maggiore di quella in A1, e

A3, come indicato in Figura 3.15-B. Nel caso di materiale elastico perfettamente-plastico, al contrario, la deformazione elastica fra A1 ed A3 non cambia. Se giunti ad A3 si considera un nuovo ciclo di scarico fino a uno stato caratterizzato da uno sforzo non nullo,

, si raggiunge lo stato indicato come A4 in Figura 3.15. Si osservi che, nell’ambito del comportamento elasto-plastico, la stato di deformazione corrispondente ad un determinato livello di sforzo non è più univocamente definito. Infatti, dato il valore , lo stato del materiale potrebbe essere rappresentato da uno qualsiasi dei punti sulla retta orizzontale di ordinata . L’effettivo stato del materiale, dunque, non dipende più solo dal valore dello sforzo applicato, come avviene in campo elastico. Per definirlo è anche necessario conoscere la storia di carico cui è stato sottoposto il materiale stesso. Un altro aspetto di questa dipendenza è dato da un fenomeno che può verificarsi all’inversione del carico. Se il carico passa da trazione a compressione, i valori dei massimi sforzi di taglio, dati dall’espressione riportata in Figura 3.14, rimangono uguali. Ci si aspetta, quindi, che il materiale abbia un comportamento elasto-plastico simmetrico a trazione e compressione, e che, di conseguenza, il limite di snervamento a compressione sia uguale a quello a trazione. Questa ipotesi è in generale verificata per il materiale allo stato vergine. Per un materiale che ha subito un incrudimento, il comportamento simmetrico dovrebbe implicare un identico incremento del valore assoluto del limite di snervamento a trazione e a compressione. Con riferimento alla Figura 3.16, pertanto, se dopo lo scarico del provino si applica uno stato di sforzo a compressione, il limite di snervamento dovrebbe situarsi al valore corrispondente ad A’3, che, in valore assoluto, corrisponde uno sforzo uguale a quello di trazione, in A3. In realtà le microautotensioni accumulatesi nel materiale durante il ciclo di carico a trazione possono ridurre il valore assoluto del limite di snervamento che può situarsi, indicativamente, in corrispondenza di A5, come indicato in Figura 3.16. Il modulo del limite di snervamento a compressione diviene quindi inferiore a quello dovuto ad un processo

O

B

A1

A2

A3

A4

pA1 e

A1 eA3

O

A1 A3

A

A2

A4

p(A1)

12

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di incrudimento a trazione. Tale fenomeno è noto con il nome di Effetto Bauschinger e rappresenta, pertanto, un ulteriore possibile effetto della storia di carico sulle caratteristiche del materiale.

Figura 3.16 - Effetto Bauschinger

In conclusione, la discussione degli aspetti fisici del comportamento elasto-plastico rende evidenti alcuni punti che sintetizzano alcuni aspetti essenziali del comportamento elasto-plastico:

il comportamento iniziale del materiale è elastico e lineare, caratterizzato da un modulo di Young che dipende dalla forza del legame metallico e dalla distanza fra gli atomi nel reticolo cristallino;

Se in campo elastico il carico è rimosso, la deformazione è interamente recuperata e il legame sforzi-deformazioni è univocamente determinato (nota la deformazione è noto lo sforzo applicato e viceversa);

Superato il limite di snervamento, si attiva il moto delle dislocazioni e si producono delle deformazioni permanenti;

A causa dell’incrudimento, tuttavia, il limite di snervamento cambia durante la storia di carico del materiale;

Anche in presenza di deformazioni permanenti, è possibile un comportamento elastico e lineare, ad esempio durante le fasi di scarico e quando, in generale, lo sforzo si trova al di sotto del limite di snervamento;

In base alle precedenti considerazioni, alcuni rami del percorso seguito dagli stati del materiale nel piano - possono essere percorsi in un solo verso: vi è differenza fra comportamento durante il carico e lo scarico del materiale;

Nel comportamento plastico è necessario conoscere o rappresentare in qualche modo la

storia di carico del materiale per definire il legame fra sforzi e deformazioni nel materiale.

3.2.6 Dipendenza del comportamento elasto-plastico dalla temperatura e dalla velocità di deformazione

Il comportamento elasto-plastico descritto nei precedenti paragrafi può essere significativamente influenzato dall’effetto della temperatura. Tuttavia, a temperature minori della temperatura di ricristallizzazione, definita nel cap. 2, gli aspetti globali, qualitativi, del comportamento non cambiano ed è possibile sempre identificare un comportamento elastico, un limite di snervamento ed osservare i fenomeni di incrudimento. L’effetto dunque, sotto la temperatura di ricristallizazione, è soprattutto quantitativo. L’aumento di temperatura diminuisce lo sforzo di snervamento, aumenta l’allungamento a rottura e favorisce, complessivamente, la duttilità e la tenacità a scapito del limite di snervamento e dello sforzi di rottura.

Figura 3.17 - Effetto della temperatura sul campo plastico della curva sforzi-deformazioni

Un ulteriore e molto importante effetto sul campo plastico è dato dalla velocità di deformazione. Infatti, fino a questo punto, si è ipotizzato che il carico o lo spostamento fossero applicati molto lentamente, in condizioni che sono definite quasi-statiche. L’ applicazione del carico e/o di deformazione a velocità superiori produce variazioni significative sul comportamento plastico. La velocità di deformazione, definita in Eq. 3.26 è il parametro più largamente utilizzato per caratterizzare il regime di applicazioni dei carichi

dtdl

llll

dtd

dtd

00

0 1

Eq. 3.26 La velocità di deformazione ha le dimensioni [T]-1 e si misura in s-1. Sotto determinati limiti di velocità di deformazione, il comportamento del materiale non cambia al variare di d /dt. Tali limiti definiscono il

O

T T1

T2

T3

T4

O

A1 A3

A4 A2

A5

A’3

13

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regime quasi-statico di applicazione dei carichi e variano per differenti tipi di materiali. Per i metalli, velocità di deformazione dell’ordine di 10-2 s-1 10-3 s-1 sono considerate in regime quasi-statico. Tale definizione sarebbe inadeguata, ad esempio, per un polimero che, già a 10-3 s-4 manifesta variazioni nel comportamento plastico. L’effetto della velocità di deformazione sul campo plastico è qualitativamente indicato in Figura 3.18, dove è chiaramente osservabile un incremento del limite di snervamento con l’aumentare di d /dt.

Figura 3.18 - Effetto qualitativo della velocità di deformazione sul campo plastico di un metallo

Occorre sottolineare che l’effetto riportato in Figura 3.18 è da interpretare come effetto della velocità di deformazione sui meccanismi anelastici attivati a livello micro-strutturale, e non è dovuto alla dinamica del provino e alla presenza di forze di inerzia a livello macroscopico. L’esecuzione di prove ad alta velocità di deformazione per caratterizzare questo effetto è particolarmente complicata e prevede, comunque, che i fenomeni dovuti alla dinamica del provino siano controllati in modo da misurare solo gli effetti di d /dt sul comportamento elasto-plastico del materiale. Come si è detto l’aumento della velocità comporta un incremento dello sforzo di snervamento. Definendo uno sforzo di snervamento in condizioni dinamiche,

Yd, si può valutare l’incremento di sforzo di snervamento rispetto a quello in condizioni quasi-statiche. Per le leghe di alluminio, il materiale metallico più utilizzato in campo aerospaziale, la sensibilità alla velocità di deformazione è tanto maggiore quanto minore è lo sforzo di snervamento in condizioni quasi-statiche, come si può desumere dalla Figura 3.19, che presenta l’andamento dell’incremento percentuale del limite di snervamento per un valore fisso d /dt = 1000 s-1.

Figura 3.19 - Incremento percentuale dello sforzo di snervamento dinamico in funzione del valore in condizioni quasi-statiche

Alcuni semplici modelli sono stati proposti per caratterizzare empiricamente la sensibilità alla velocità di deformazione. Uno dei più utilizzati è la legge di Cowper-Symonds che esprime l’andamento del rapporto fra lo sforzo di snervamento dinamico e quello in condizioni quasi-statiche, in funzione di due parametri D e q, riportati in Eq. 3.27.

q

Y

Yd

D

1

0 1

Eq. 3.27 Per le leghe di alluminio, la sensibilità alla velocità di deformazione è tipicamente contenuta. Il parametro D, che rappresenta in base all’Eq. 3.27 il valore di d /dt per il quale lo sforzo di snervamento raddoppia, assume, secondo diversi autori, valori fra 6500 s-1 e oltre 1000000 s-1. Il parametro q è compreso fra 4 e 5. La sensibilità alla velocità di deformazione per gli acciai a basso contenuto di carbonio è, invece, più rilevante, con valori di D fino a 40 s-1 e q pari a 5. La Figura 3.20 riporta gli andamenti del rapporto Yd/ Y per leghe di alluminio e acciai a basso tenore di carbonio, ottenuti applicando la legge di Cowper-Symonds, calibrata per leghe di alluminio e acciai a basso tenore di carbonio.

O

1

2

3

14

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI CAP.3 – LA LEGGE COSTITUTIVA ELASTO-PLASTICA

Figura 3.20 - Variazione del rapporto fra sforzo di snervamento dinamico statico seconda la legge di Cowper-Symonds

In alternativa alla legge di Cowper-Symonds, è possibile utilizzare la legge di Johnson-Cook, che non descrive solo la variazione dello sforzo di snervamento, ma rappresenta l’andamento della curva sforzo-deformazione in campo plastico, al variare di d /dt. La legge, espressa in Eq. 3.28, prevede la conoscenza dello sforzo di snervamento in condizioni quasi-statiche, Y, e la calibrazione di tre ulteriori parametri: B, n e C.

0ln1 CB nY

Eq. 3.28

3.3 Deformazione, sforzo e lavoro di deformazione in stati di sforzo pluriassiali

3.3.1 Deformazione in coordinate Lagrangiane Per procedere allo studio del comportamento dei materiali elasto-plastici in generici stati di sforzo e deformazione è necessario disporre di definizioni più complete di queste grandezze fisiche, rispetto alle semplici definizioni operative fornite nella presentazione della prova uniassiale, descritta nel par. 3.2.1. La deformazione di un corpo, che sarà trattata in questo sottoparagrafo, è un concetto cinematico, legato al cambiamento di configurazione del corpo stesso, completamente definibile senza conoscere le cause che la hanno originata. Per introdurre il concetto di deformazione, il corpo, sebbene costituito da entità discrete quali atomi o molecole, è idealizzato come un continuo consistente di particelle uniformemente distribuite in un dominio spaziale tridimensionale. Per introdurre il concetto di deformazione è necessario considerare una configurazione di riferimento che rappresenti la posizione delle particelle del corpo prima del processo di deformazione. La deformazione comporta un cambiamento di configurazione che potrà essere indotto da cause differenti quali la variazione di temperatura, l’applicazione di sistemi di forze in equilibrio al corpo o l’assorbimento di umidità. Nell’ambito della presente trattazione si considereranno descrizioni della configurazione e della deformazione in assi cartesiani, sebbene i concetti che saranno introdotti possano essere generalizzati a sistemi arbitrari di coordinate. In assi cartesiani, dunque, la configurazione del corpo è descritta dalla posizione di ogni particella del continuo, che è descrivibile da un vettore X, che in notazione vettoriale è esprimibile come in Eq. 3. 29.

TXXX 321X Eq. 3. 29 Il cambiamento di configurazione comporta, in generale, lo spostamento di ogni punto materiale del continuo, che va ad occupare la posizione x. Assumendo di utilizzare lo stesso sistema di riferimento, la nuova posizione sarà descritta dal vettore definito in Eq. 3. 30.

Txxx 321x Eq. 3. 30 E’ possibile creare una corrispondenza biunivoca, una mappa, che lega la nuova posizione x a quella occupata in precedenza X. Tale mappa è descrivibile da una funzione , introdotta in Eq. 3. 31.

Xx Eq. 3. 31 L’Eq. 3. 31 descrive la posizione della particella del corpo nella nuova configurazione in funzione della posizione che essa aveva nella configurazione di riferimento. Il moto delle particelle è dunque descritto sulla base delle loro posizioni iniziali e, per questo motivo, il punto di vista adottato è definito Lagrangiano. In termini di componenti la funzione include tre funzioni scalari i, definite in Eq. 3. 32, che indica come la coordinata k-esima del nuovo vettore posizione possa in generale dipendere da una qualsiasi delle componenti del vettore posizione nella configurazione indeformata.

TTxxx XXXx 321321 Eq. 3. 32 Lo spostamento di ogni punto è la differenza fra X ed x ed è espresso in funzione della mappatura come in Eq. 3. 33.

XXXxu Tuuu 321 Eq. 3. 33 Si ipotizzi, ora che la funzione sia derivabile, in modo che sia possibile introdurre un operatore lineare F, esprimibile in notazione matriciale come indicato in Eq. 3. 34.

15

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI CAP.3 – LA LEGGE COSTITUTIVA ELASTO-PLASTICA

16

3

3

2

3

1

3

3

2

2

2

1

2

3

1

2

1

1

1

XXX

XXX

XXX

XXX

XXX

XXX

XXF

Eq. 3. 34 L’operatore F definito in Eq. 3. 34 è chiamato gradiente di deformazione ed è esprimibile, applicando l’Eq. 3. 33, anche in funzione dello spostamento u. Nell’Eq. 3. 35 si sono introdotte le derivate dello spostamento u in funzione del vettore di coordinate X. Tali derivate sono esprimibili, in notazione matriciale, da matrici quadrate di ordine 3, in modo analogo all’operatore gradiente di deformazione, definito nell’ Eq. 3. 35.

IXu

XX

Xu

XXu

XXF

100010001

3

3

2

3

1

3

3

2

2

2

1

2

3

1

2

1

1

1

Xu

Xu

Xu

Xu

Xu

Xu

Xu

Xu

Xu

Eq. 3. 35

Figura 3.21 - Variazione della posizione relativa di due punti in un generico cambiamento di configurazione

Si considerino ora due punti che, nella configurazione di riferimento, siano separati da un tratto di lunghezza infinitesima dS, descritto da un vettore dX, mostrato in Figura 3.1. La lunghezza dS è il modulo del vettore dX e vale la seguente relazione:

XX dddS T2 Eq. 3. 36 Dopo la variazione di configurazione descritta da , il primo punto si sarà spostato in x X , mentre il

secondo sarà in XX d . Quindi il vettore dX si sarà trasformato in dx. La trasformazione è esprimibile sfruttando la definizione di gradiente di deformazione, come indicato in Eq. 3. 37.

XFXXXX

XXXX

XXXx

dddd

ddd

Eq. 3. 37 In base all’Eq. 3. 37, dunque, il gradiente di deformazione è l’operatore lineare che trasforma il vettore dX nella configurazione indeformata in dx. Inoltre, la distanza ds fra i due punti dopo la variazione di configurazione è data dal modulo di dx e si ottiene dalla seguente relazione:ij

XFFXxx TT ddddds T2 Eq. 3. 38 L’Eq. 3. 38 indica come il gradiente di deformazione F contenga tutte le informazioni necessarie per valutare la variazione della lunghezza, ds, rispetto a quella originale, dS. Tale variazione è la caratteristica distintiva di un processo deformativo poiché, se le lunghezze rimangono uguali è evidente che ci troviamo di fronte ad un moto rigido. Quindi se il prodotto

è pari alla matrice identità non esiste deformazione, mentre tanto più il prodotto si discosta dalla matrice identità si ha un processo de formativo. Una misura della deformazione, che è riferita alla configurazione iniziale, è rappresentata dalla seguente quantità:

FFT

IFFE T

21

Eq. 3. 39 Sebbene E sia stato ricavato applicando una notazione matriciale, è possibile dimostrare che, per un cambiamento di coordinate, le nove componenti Eij variano come le componenti di un tensore doppio. Per definizione di tensore, come sarà accennato nel paragrafo successivo, E è pertanto un tensore. Esso è chiamato tensore di deformazione di Almansi-Hemel

X

X+dX x+dx

x

3

2 1

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(o, in alcuni testi, tensore di deformazione di Lagrange). Se si considera la relazione fra F ed u, espressa in Eq. 3. 35, è possibile esprimere il tensore di deformazione E in funzione dello spostamento u. Tale espressione è fornita in Eq. 3. 40 e fa uso degli operatori u/ X, già utilizzati nell’ Eq. 3. 35.

Xu

Xu

Xu

Xu

IIXuI

XuE

T

TT

21

21~

Eq. 3. 40

3.3.2 Il tensore delle deformazioni infinitesime Il tensore di deformazione E descrive, da un punto di vista Lagrangiano, la deformazione anche in presenza di cambiamenti di configurazione caratterizzati da spostamenti e da gradienti di spostamento elevati. La deformazione descritta da E è riferita alla configurazione iniziale del corpo. Esistono altre misure di deformazione che permettono di riferirsi alla configurazione deformata. Vi sono tuttavia notevoli complicazioni insite nel considerare variazioni di configurazione con deformazioni finite, e, in molti ambiti, le deformazioni si possono assumere infinitesime. L’Eq. 3. 40 permette di valutare come il tensore di deformazione si semplifica prendendo in considerazione deformazioni infinitesime. In tale equazione E è espresso in funzione delle derivate spaziali dello spostamento u ed è possibile osservare che, in generale, il legame fra E e le derivate di u non è lineare. La singola componente Eij ha infatti l’espressione data in Eq. 3. 41, dove sono presenti termini lineari, ui/ Xj, e sommatorie di prodotti fra le diverse componenti ui/ Xj, che rappresentano termini quadratici.

3

121

m j

i

i

j

j

m

i

mij X

uXu

Xu

XuE

Eq. 3. 41 Se le deformazioni sono infinitesime, anche le derivate ui/ Xj saranno infinitesime ed i termini quadratici

potranno essere trascurati. Tale semplificazione dà origine alla definizione del vettore delle deformazioni infinitesime, la cui espressione in notazione matriciale è fornita in Eq. 3. 42.

Xu

Xu T

21

Eq. 3. 42

Anche i termini di , come quelli di E, rappresentano i componenti di un tensore doppio simmetrico. Si osservi che il tensore delle deformazioni infinitesime può anche essere ottenuto in modo diretto considerando l’espressione dello spostamento u in un intorno infinitesimo di un punto X. In tale intorno, infatti, lo spostamento può essere espresso noto lo spostamento u(X) e la matrice delle derivate u/ X, che a sua volta può essere decomposta in una parte emisimmetrica e in una parte simmetrica come indicato in Eq. 3. 43.

XXu

XuX

Xu

XuXu

XXuXuXXu

dd

dd

TT

21

21

Eq. 3. 43 Il terzo termine dell’espressione in Eq. 3. 43, cioè la parte simmetrica della matrice delle derivate u/ X, contiene le componenti del tensore , definito in Eq. 3. 42, che, come si è affermato, descrivono il processo di deformazione nell’ipotesi di deformazioni infinitesime. Il primo termine, u(X) rappresenta uno spostamento comune a tutti punti dell’intorno di X e quindi una traslazione del corpo nell’intorno. Per indagare il significato del secondo termine, si supponga uno spostamento dove sia la traslazione u(X) che la deformazione siano nulle. Se la deformazione è nulla vale l’Eq. 3. 44.

j

i

i

j

Xu

Xu

Eq. 3. 44 Lo spostamento descritto dal solo secondo termine in in Eq. 3. 43 è raffigurato un intorno infinitesimo di X nel piano i-j in Figura 3.22. Tutti i punti sull’asse i si muovono con una componente in direzione j pari a ( uj/ Xi)dXi. Se gli spostamenti sono infinitesimi, lo spostamento può essere interpretato come una rotazione dell’asse i di un angolo infinitesimo, d = tan-1 ( uj/ Xi) uj/ Xi. In virtù dell’Eq. 3. 44, anche l’asse j può essere considerato soggetto a una rotazione infinitesima di modulo d , nello stesso verso: la porzione di continuo nell’intorno di X ruota senza cambiare forma e subire deformazioni. Pertanto, nell’ipotesi di deformazioni e spostamenti infinitesimi, i primi due termini dell’Eq. 3. 43 rappresentano una rototraslazione rigida dei punti appartenenti all’intorno di X, mentre il terzo termine rappresenta una vera e propria deformazione.

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Figura 3.22 - Spostamento in un intorno di un punto materiale nell�’ipotesi di tensore delle deformazioni infinitesime nullo

Nell’ambito delle deformazioni infinitesime è possibile fornire un’espressione delle variazione di volume subita, in un generico processo deformativo, da un cubetto infinitesimo di dimensioni originali dX1, dX2 e dX3, raffigurato in Figura 3.23.

Figura 3.23 - Variazione di volume in un elemento infinitesimo

Le relazioni fra le dimensioni del cubetto infinitesimo nella configurazione originale e deformata possono essere scritte in termini di spostamenti e quindi di deformazioni infinitesime:

33333

333

22222

222

11111

111

1

1

1

dXdXXudXdx

dXdXXudXdx

dXdXXudXdx

j

Eq. 3. 45 Il rapporto fra il volume deformato dv e quello originale dV è esprimibile applicando le Eq. 3. 45, dove, con il simbolo tr( ), si indica la somma delle componenti ad indici uguali del tensore doppio di deformazione.

tr11111

ˆ1ˆ1ˆ1

332211332211

321

333222111

321

321

dXdXdXdXdXdX

dXdXdXdxdxdx

dVdv

Eq. 3. 46 Attraverso il rapporto dv/dV si definisce una componente idrostatica di deformazione, , la cui espressione è riportata in Eq. 3. 47.

tr311

31

31

dVdv

dVdVdv

Eq. 3. 47 Attraverso la particolare espressione di , è possibile individuare, nel generico stato di deformazione, una componente caratterizzata da una pura deformazione volumetrica del volumetto infinitesimo, in assenza di variazioni di forma. Questo è quanto accade quando i rapporti dx1/dX1, dx2/dX2 e dx3/dX3 sono uguali, e quindi 332211 = . Se le altre componenti del tensore di deformazione sono nulle, il cubetto infinitesimo si dilata conservando la propria forma. Nel generico stato di deformazione, allora, è possibile individuare una componente responsabile della sola deformazione volumetrica, caratterizzata da un valore

ottenuto dall’Eq. 3. 48.

33221131

Eq. 3. 48 Il tensore delle deformazioni infinitesime per uno processo di deformazione caratterizzato da una pura variazione di volume ha quindi la forma generale definita in Eq. 3. 49.

dX3

dX1

( ui/ Xj)dXj = -( uj/ Xi)dXj

dx1

dx3

dx2

dv

dX2 X1

X2 X3

( u1/ X1)dX1

dV

X1

X2 X3

( uj/ Xi)dXi= = -( ui/ Xj)dXi

i d

d

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I00

0000

Eq. 3. 49 In definitiva, mediante l’introduzione di , è possibile scomporre lo stato deformazione in una deformazione volumetrica, che avviene a forma costante, e in una deformazione responsabile del cambiamento di forma, che avviene senza variazione di volume. Quest’ultimo tipo di deformazione è definito deformazione deviatorica ed ha per definizione l’espressione riportata in Eq. 3. 50.

333231

232221

131211

333231

232221

131211

Ie

Eq. 3. 50 La deformazione deviatorica è, per sua natura, anch’essa un tensore e può essere espresso in notazione matriciale, come in Eq. 3. 50, o in notazione vettoriale. Per come è stata ottenuta, la deformazione deviatorica rappresenta processi deformativi a volume costante. Infatti, applicando l’Eq. 3. 48, risulta:

03etr 332211 Eq. 3. 51 Nel seguito della trattazione ci si porrà, per semplicità, sotto le ipotesi di deformazioni infinitesime. Oltre a semplificare l’espressione delle deformazioni, con l’eliminazione dei termini quadratici, l’ipotesi di deformazioni infinitesime comporta anche che la configurazione del corpo dopo il processo di deformazione differisca in misura trascurabile dalla configurazione originale. Tale considerazione permette innanzitutto di trascurare la differenza fra una misura di deformazione riferita alla configurazione originale, quale quella descritta dal tensore E, e quella riferita alla configurazione deformata. Si vedrà, inoltre, come l’ipotesi di deformazioni infinitesime elimina anche le ambiguità concernenti la configurazione da considerare nella descrizione dello stato di sforzo del corpo. Sotto questa ipotesi, dunque, lo stato di deformazione potrà quindi essere descritto dalle 9 componenti del tensore delle deformazioni infinitesime , che hanno espressione

i

j

j

iij u

uuu

21

Eq. 3. 52

Le 9 componenti del tensore delle deformazioni infinitesime, che è per natura simmetrico, possono essere rappresentate da una matrice del secondo ordine, come in Eq. 3. 53.

333231

232221

131211

Eq. 3. 53 Essendo il tensore simmetrico, tuttavia, le componenti indipendenti del tensore delle deformazioni infinitesime possono essere anche convenientemente arrangiate in un vettore di 6 componenti, come in Eq. 3. 54.

T231312332211ˆ

Eq. 3. 54 Nella notazione vettoriale, che è spesso utilizzata in ambito ingegneristico, le componenti ad indici diversi del tensore di deformazione sono sostituite dai termini definiti in Eq. 3. 55.

233

2

2

323

131

3

3

113

121

2

2

112

2

2

2

uu

uu

uu

uu

uu

uu

Eq. 3. 55 Tali termini, chiamati scorrimenti, definiscono i processi di deformazione a taglio, come sarà chiarito nel par. 3.3.3, e consentono di semplificare l’espressione del lavoro di deformazione quando si utilizzando le notazioni vettoriali. Il vettore di deformazione più usato in ambito ingegneristico è pertanto quello descritto in Eq. 3. 56.

T231312332211

Eq. 3. 56 Si osservi, comunque, che le rappresentazioni matriciali e vettoriali riportate in Eq. 3. 53 e in Eq. 3. 54 sono funzionali alla possibilità di utilizzare le notazioni e le operazioni dell’algebra matriciale per descrivere relazioni che coinvolgano le componenti del tensore di deformazione. Lo stato di deformazione, tuttavia, non è una matrice né un vettore, ma un tensore doppio con proprietà del tutto analoghe al tensore doppio di sforzo che sarà introdotto nel par. 3.3.4.

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3.3.3 Esempi di stati di deformazione In questo paragrafo si considereranno alcuni cambiamenti particolari di configurazione di corpi continui e sarà esaminato il corrispondente stato di deformazione. Il primo caso considerato è relativo all’allungamento e alla contrazione di un elemento cilindrico. La variazione di configurazione considerata, presentata in Figura 3.24, è analoga a quella di un provino soggetto a una prova di trazione uniassiale.

Figura 3.24 - Allungamento e contrazione di un provino cilindrico

La variazione di configurazione è descritta dalla mappa in Eq. 3. 57.

33

22

11

XxXxXx

R

R

L

Eq. 3. 57 Dove:

RrLl

R

L

Eq. 3. 58 Nel caso di trazione si ha L > 1 e R < 1. Il valore di L e R dipendono dal carico applicato e dalla risposta del materiale. Il vettore spostamento u e il gradiente di deformazione:

11

1

333333

222222

111111

RR

RR

LL

XXXXxuXXXXxu

XXXXxu

Eq. 3. 59 Il gradiente di deformazione F è calcolato in base alle espressioni in Eq. 3. 57 ed assume un forma particolarmente semplice:

R

R

L

XXX

XXX

XXX

000000

3

3

2

3

1

3

3

2

2

2

1

2

3

1

2

1

1

1

XXX

XXX

XXX

XXF

r

Eq. 3. 60 Una volta noti F ed u, è possibile ricavare l’espressione dei tensori di deformazione E ed :

2

222

222

22

2

2

2

00

00

00

21

100010001

21

100010001

000000

000000

21

21~

RRr

RRr

LLl

R

R

L

R

R

L

R

R

L

IFFE T

Eq. 3. 61

RRr

RRr

LLl

r

R

LT

00

00

00

100010001

21

Xu

Xu

Eq. 3. 62

L

R

l

X1 x1

X2 x2

X3 x3

20

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Il confronto fra Eq. 3. 61 e l’Eq. 3. 62 consente di individuare alcune conseguenze dell’adozione di una definizione rigorosa di deformazione (valida per deformazioni finite relative in stati tridimensionali di deformazione) e delle semplificazioni introdotte dal passaggio a deformazioni infinitesime. Si osservi, infatti, che la componente E11 non corrisponde all’allungamento (l-L)/L, che è intuitivamente definibile come la deformazione nella prova uniassiale. Nel tensore di deformazioni infinitesime, d’altra parte, la componente 11 è pari a (l-L)/L. La differenza è

itata anche per allungalim menti non rigorosamente trascurabili. Ad esempio, ammettendo L = 1.1, risulta

11~E =0.105 e 11 =0.100.

Si ricordi, inoltre, che nell’ipotesi di deformazioni infinitesime la differenza fra la configurazione deformata e indeformata è trascurabile e pertanto la

one longitudinale 11, definisce il oefficiente di contrazione trasversale (o di Poisson )

del materiale:

deformazione infintesima può anche essere assimilata alla deformazione logaritmica. Infine, riferendo l’esempio al comportamento di un provino metallico in una prova di trazione uniassiale, il rapporto fra l’opposto della deformazione nelle direzioni perpendicolari all’allungamento, - 22 o 33, e la deformazic

11

33

11

22v

Eq. 3. 63

Figura 3.25 - Dilatazione di un prisma

La Figura 3.25 presenta un cambiamento di configurazione caratterizzato da una dilatazione delle dimensioni di un corpo a forma prismatica, identica in tutte le direzioni. Il corpo conserva quindi la forma variando unicamente il suo volume. La mappa della variazione di configurazione è fornita in Eq. 3. 64.

33

22

11

XxXxXx

Eq. 3. 64 dove:

3

3

2

2

1

1Ll

Ll

Ll

Lo spostamento ed il gradiente di deformazione sono riportati in in Eq. 3. 65 e in Eq. 3. 66.

X1

X3

L3

L1

X2

L2

dV

l3

l3

x2

l2

x3 dv

x11

21

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11

1

333333

222222

111111

XXXXxuXXXXxu

XXXXxu

Eq. 3. 65

000000

3

3

2

3

1

3

3

2

2

2

1

2

3

1

2

1

1

1

XXX

XXX

XXX

XXX

XXX

XXX

XXF

Eq. 3. 66 I tensori di deformazione E ed sono calcolati in Eq. 3. 67 e in Eq. 3. 68. Le differenze fra le componenti ad indici uguali dei due tensori sono analoghe a quelle riscontrate nel caso dell’allungamento del prisma cilindrico considerato in precedenza.

100010001

21

100010001

000000

000000

21

21

2

2

2

IFFE T

Eq. 3. 67

3

33

2

22

1

11

00

00

00

100010001

21

LLl

LLl

LLl

T

Xu

Xu

Eq. 3. 68 Il prisma ha volume iniziale V=L1L2L3 che diviene v=l1l2l3 dopo il processo di deformazione. Il rapporto fra i due volumi è pari a 3. Tale rapporto è identico a quello che si ottiene considerando un volumetto infinitesimo all’interno del corpo, come riportato in Eq. 3. 69.

3

321

321

321

321

dXdXdXdXdXdX

dXdXdXdxdxdx

dVdv

Eq. 3. 69 Si osservi che il rapporto dv/dV risulta pari al determinante della matrice F che contiene le componenti del gradiente di deformazione. E’ possibile dimostrare che questo risultato è del tutto generale, e che, per qualsiasi variazione di configurazione risulta:

FdVdv det

Eq. 3. 70 Nell’ambito delle deformazioni infinitesime, il rapporto fra i volumi del cubetto infinitesimo, calcolato applicando l’Eq. 3. 46, non è perfettamente consistente con la variazione di volume del prisma finito. Infatti, applicando l’Eq. 3. 46 al caso in esame si ottiene:

1311 332211dVdv

Eq. 3. 71 La differenza è comunque contenuta. Ipotizzando una dilatazione con =1.1, corrispondente dunque a un aumento del 10% delle dimensioni lineari del prisma, si ha det(F)= 3=1.331, mentre il risultato dell’Eq. 3. 71 è pari a 1.3, con una discrepanza del 2.4% fra le due misure. La Figura 3.26 presenta il cambiamento di configurazione della base originariamente quadrata di un prisma con altezza indefinita, in direzione X3. La distorsione della forma quadrata in un parallelogramma è il tipico effetto di una deformazione a taglio. Nel caso considerato, solo le coordinate X1 dei punti vengono modificate e la sezione si distorce conservando l’altezza del parallelogramma uguale al lato iniziale del quadrato, L.

22

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Figura 3.26 - Deformazione semplice a taglio

La mappa del cambiamento di configurazione è la seguente:

33

22

211

XxXx

XXx

Eq. 3. 72 dove tan . Lo spostamento e il gradiente di deformazione sono espressi in Eq. 3. 73 e Eq. 3. 74.

00

333

222

2111

XxuXxu

XXxu

Eq. 3. 73

10001001

XXF

Eq. 3. 74 Dalle espressioni di F ed u è possibile calcolare il tensore delle deformazioni Lagrangiane e il tensore delle deformazioni infinitesime, riportati in Eq. 3. 75 e Eq. 3. 76.

X2

000000

21

100010001

10001001

10001001

21

21

2

IFFE T

Eq. 3. 75

000

0021

0210

000

00tan21

0tan210

0000000

21

21

Xu

Xu T

Eq. 3. 76 Si può osservare come, per il tensore di deformazioni infinitesime il processo di deformazione comporta solo componenti 12 non nulle. Estendendo i ragionamenti a deformazioni analoghe che avvengono sugli altri piani coordinati, si può affermare che le componenti ad indici misti del tensore di deformazione rappresentano deformazioni di puro taglio, come quella raffigurata in Figura 3.26. Il valore di tali componenti è pari alla metà dell’angolo di scorrimento e, pertanto, il valore degli scorrimenti, introdotti in Eq. 3. 55, è pari all’angolo di scorrimento in una deformazione di puro taglio. Si osservi che le componenti E12 del tensore E hanno identico valore a 12. E presenta anche una componente E22 non nulla, dovuta all’allungamento dei lati originariamente verticali e lunghi L, necessario per conservare l’altezza del parallelogramma. Questa deformazione di ordine superiore è correttamente colta dal tensore E, che presenta un termine E22 = 2. Si osservi, comunque, che il processo di deformazione avviene a volume costante, sia considerando le deformazioni finite, poiché det(F)=0, sia considerando le deformazioni infinitesime, essendo tr( )=0. Il meccanismo di deformazione considerando è quindi un esempio di processo di deformazione puramente devia torico.

3.3.4 Sforzo La deformazione è un concetto puramente cinematico che descrive una variazione di configurazione di un continuo non riducibile a uno spostamento rigido. Una delle possibilità per produrre un processo deformativo

L

L

X1

x2

L

L

x1

23

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI CAP.3 – LA LEGGE COSTITUTIVA ELASTO-PLASTICA

in un continuo è l’applicazione di un sistema di forze che, agendo sul corpo, producono in generale moto e deformazione. Le forze che agiscono su un corpo possono essere classificate come esterne o interne. Le forze esterne possono essere a loro volta suddivise in forze di superficie, che agiscono ai contorni del corpo e sono tipicamente dovute ad interazioni di contatto, oppure forze di volume, che agiscono direttamente sulle particelle del continuo in virtù di interazioni con sorgenti esterne, quali campi di forze gravitazionali, elettrici o magnetici, ad esempio. Le forze interne, invece, rappresentano azioni compiute da una parte del corpo su un’altra parte del corpo. L’esistenza di queste azioni interne è un’assunzione plausibile che si può ricondurre a un postulato noto come principio degli sforzi di Eulero-Cauchy. Secondo tale principio attraverso ogni sezione che può essere ricavata all’interno di un corpo si trasmettono delle forze di superficie. Con l’introduzione di tali forze le leggi della statica e della dinamica si applicano a ogni regione interna del corpo nello stesso modo in cui si applicano al corpo considerato nella sua totalità.

Figura 3.27 - Azioni interne all�’interno di un continuo

Se un corpo è sezionato con un piano avente normale n, le due parti R1 ed R2 in cui esso risulta diviso si scambieranno forze interne in base alle leggi della statica e della dinamica. Si consideri una porzione a della sezione, nell’intorno di un punto individuato dalla posizione x. Attraverso tale porzione di superficie si trasmetterà una forza p, che potrà essere considerata come il prodotto di una forza per unità di superficie Tn distribuita sull’area a per l’area stessa, come indicato in Eq. 3. 77.

anTp Eq. 3. 77 In base al principio di Eulero-Cauchy il limite del rapporto p/ a per a 0 esiste e non dipende dalla forma di a. Il valore limite della forza per unità di

superficie può essere definito come lo sforzo superficiale unitario tn.

aa

pt n 0lim

Eq. 3. 78 Dalla definizione precedente è evidente che lo sforzo superficiale unitario non dipende solo dalla posizione del punto nell’intorno del quale si considera a, ma dipende dalla giacitura del piano con cui si è tagliato il corpo, individuata dalla normale n. Per definire la variazione dello sforzo dalla giacitura vanno definite, nel punto considerato, gli sforzi superficiali unitari trasmessi attraverso piani con normali uscenti uguali alle direzioni degli assi coordinati, 1, 2 e 3. In assi cartesiani, le componenti di tali sforzi superficiali unitari sono riportate in Eq. 3. 79, dove con i1, i2 e i3 si sono indicati i versori degli assi cartesiani x1, x2 e x3.

3213

3212

3211

iiiiii

iii

333231

232221

131211

Eq. 3. 79

Figura 3.28 - Tetraedro di Cauchy

Si consideri ora il tetraedro riportato in Figura 3.28, con tre lati aventi gli assi coordinati come normali entranti. Su tali facce agiscono gli sforzi superficiali unitari - 1, - 2 e - 3. La quarta faccia del tetraedro, di vertici ABC, è un piano di giacitura generica, individuata dalla normale n con componenti cartesiane definite in Eq. 3. 80.

33221 iiin 1 nnn

Eq. 3. 80 Le componenti n1, n2 e n3 sono i coseni direttori della normale n. Detta a l’area della faccia ABC, si può osservare che l’area delle facce OAC, OBC e OCB del tetraedro si possono ottenere proiettando a sui piani coordinati e quindi moltiplicando a per i coseni direttori n1, n2 e n3 come indicato in Eq. 3. 81.

Tn

n -n

R1 x3

- 1

C - 2a n R2 a

O x2 B -Tn A - 3

x1

24

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3

2

1

naanaanaa

OAB

OAC

OBC

Eq. 3. 81

L’equilibrio del tetraedro di Figura 3.28 comporta quindi:

0aaaa OABOACOBC n321 t Eq. 3. 82 L’applicazione delle relazioni riportate in Eq. 3. 81 conduce alla seguente relazione, detta relazione di Cauchy:

321 nnn 321nt Eq. 3. 83 Si osservi che l’eventuale presenza di forze di volume non modifica l’Eq. 3. 83, poiché essa presuppone un passaggio al limite per a 0 ed in tale passaggio il volume rappresenta un infinitesimo di ordine superiore rispetto alla superficie. Per tale motivo le forze di volume possono essere a rigore trascurate. Anche il caso dinamico può essere considerato compreso, poiché, in base al principio di D’Alembert, esso può ricondursi al caso statico con l’introduzione di forze di inerzia che rappresentano un caso particolare di forze di volume. L’Eq. 3. 83 indica che lo sforzo superficiale su una qualsiasi giacitura, tn, è determinabile se sono noti gli sforzi superficiali sui tre piani mutuamente ortogonali. I tre vettori 1, 2 e 3 o le loro nove componenti definite nell’Eq. 3. 79, che rappresentano gli sforzi superficiali unitari su tali piani, sono dunque sufficienti a definire completamente lo stato di sforzo nel punto considerato. Per una rotazione del sistema di coordinate, che comporti il passaggio da vecchi assi x1, x2 e x3 a nuovi assi x’1, x’2 e x’3 è possibile definire una legge di trasformazione per le 9 componenti considerate. Detti ij il coseno direttore fra il vecchio asse xi ed il nuovo asse x�’j, la legge di trasformazione può essere derivata dall’Eq. 3. 83 ottenendo il risultato riportato in Eq. 3. 84.

ijk l

jlikij3,1 3,1

Eq. 3. 84 La trasformazione di coordinate indicata dall’Eq. 3. 84 definisce il carattere di tensore doppio dell’ente descritto dalle nove componenti ij. In altri termini, se un ente è formato da nove componenti che si comportano al variare del sistema di riferimento come indicato dall’Eq. 3. 84, tale ente è definito un tensore doppio. Questa stessa regola di cambiamento di riferimento si applica pertanto anche ai tensori di deformazione definiti nel par. 3.3.1.

L’applicazione dello sforzo provoca un cambiamento di configurazione del continuo con deformazioni e rotazioni. A rigore lo stato di sforzo deve essere riferito a una ben definita configurazione ed è necessario specificare se la terna di riferimento usata per definire le componenti dello sforzo ruota per seguire il cambiamento di configurazione del sistema. Nella trattazione fin qui sviluppata, la configurazione che si è presa in considerazione è quella già deformata, modificata dall’applicazione dello stato di sforzo stesso. Lo sforzo definito in questo modo è quindi da intendersi come lo sforzo vero o di Cauchy. Come nel caso delle deformazioni, l’ipotesi di deformazioni infinitesime permette comunque di trascurare le differenze fra configurazione deformata e indeformata. In base alle definizioni date in Eq. 3. 79, le componenti del tensore aventi indici uguali sono le componenti degli sforzi superficiali unitari che hanno direzione uguale alla normale al piano su cui agiscono. Una componente di sforzo di questo tipo è detto sforzo normale ed è comunemente indicato con il simbolo . Le componenti ad indici diversi sono diretti invece parallelamente alle facce su cui gli sforzi superficiali agiscono e sono detti sforzi di taglio. In molti casi vengono indicati con il simbolo . Se si considera un cubetto infinitesimo di materiale, con facce parallele ai piani coordinati e lati dx1, dx2 e dx3, l’insieme delle nove componenti del tensore di sforzo può essere rappresentato nel modo indicato in Figura 3.29. La figura considera un campo di sforzo variabile all’interno del continuo e indica le componenti agenti sulle facce che presentano gli assi cartesiani come normali uscenti. Gli sforzi agenti su tali facce sono incrementati di un termine infinitesimo per tenere conto della distanza dall’origine degli assi che rappresenta il punto nel quale si vuole considerare lo stato di sforzo. Le facce opposte del cubo, non rappresentate per semplicità in Figura 3.29, sono in corrispondenza dell’origine degli assi ma hanno come normali uscenti i versori degli assi coordinati. Su di esse, pertanto, agiscono le componenti del tensore di sforzo , senza termini incrementali e con il segno cambiato. Si osservi che la variazione di segno della componente per una rotazione di 180° di una faccia attorno ad un asse è prevista dalle Eq. 3. 83 così come dall’Eq. 3. 84.

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Figura 3.29 - Componenti del tensore degli sforzi in coordinate cartesiani Figura 3.29 - Componenti del tensore degli sforzi in coordinate cartesiani

L’equilibrio alla rotazione del cubo infinitesimo attorno ad un asse passante per il centro della faccia con normale i1 deve tenere conto dei momenti originati dalle componenti 23 e 32 sulle facce aventi rispettivamente normali i2 ed i3. Tali momenti si calcolano considerando la forza risultante dal prodotto dello sforzo per l’area delle facce ed il braccio di tale forza rispetto all’asse considerato. Ragionando in modo analogo per le rotazioni attorno agli altri assi si perviene alle seguenti equazioni:

L’equilibrio alla rotazione del cubo infinitesimo attorno ad un asse passante per il centro della faccia con normale i1 deve tenere conto dei momenti originati dalle componenti 23 e 32 sulle facce aventi rispettivamente normali i2 ed i3. Tali momenti si calcolano considerando la forza risultante dal prodotto dello sforzo per l’area delle facce ed il braccio di tale forza rispetto all’asse considerato. Ragionando in modo analogo per le rotazioni attorno agli altri assi si perviene alle seguenti equazioni:

022

22

022

22

022

22

21321

2132

2

21

12312

1231

1

12

13213

1321

1

13

31231

3123

3

31

32132

3213

3

32

23123

2312

2

23

dxdxdxdxdxdxdxx

dxdxdx

dxdxdxdx

x

dxdxdx

dxdxdxdx

x

dxdxdx

dxdxdxdx

x

dxdxdx

dxdxdxdx

x

dxdxdxdxdxdxdxx

Eq. 3. 85

Se si eliminano i termini con infinitesimi di ordine superiore e si semplifica, si giunge al seguente notevole risultato:

x3

2112

1331

3223

Eq. 3. 86 Si osservi che l’eliminazione degli infinitesimi di ordine superiore porterebbe anche ad eliminare eventuali forze di volume o di inerzia che non sono state considerate in Figura 3.29, rendendo il risultato ottenuto in Eq. 3. 86 del tutto generale. Per le Eq. 3. 86 dunque il tensore dello sforzo è simmetrico, poiché, in generale è possibile scrivere:

jiij Eq. 3. 87 In modo del tutto analogo alle componenti del tensore delle deformazioni infinitesime, introdotto nel par. 3.3.1, le componenti del tensore degli sforzi possono essere organizzate secondo una notazione matriciale, che rappresenta il tensore come una matrice simmetrica del secondo ordine, rappresentata in Eq. 3. 88.

333231

232221

131211

Eq. 3. 88 Tuttavia, le componenti indipendenti del tensore di sforzo sono solo 6, in virtù delle relazioni di simmetria introdotte dall’Eq. 3. 86. Questo permette di arrangiare le componenti del tensore di sforzo in notazione vettoriale, come riportato in Eq. 3. 89.

T231312332211

Eq. 3. 89 Analogamente al caso del tensore delle deformazioni infinitesime, è necessario rilevare come le Eq. 3. 88e Eq. 3. 89 rappresentino una possibile notazione per le componenti del tensore di sforzo che permette di sfruttare le operazioni definite nell’algebra matriciale. Tuttavia, le notazioni matriciali e vettoriali introdotte sono solo un’utile rappresentazione delle componenti dello stato di sforzo, la cui natura è tensoriale, come sancito dalle relazioni riportate in Eq. 3. 83 e in Eq. 3. 84.

Direzioni principali e invarianti dei tensori di sforzo e deformazione Lo stato di sforzo in un punto è caratterizzato dal tensore degli sforzi che è determinato se sono noti gli sforzi superficiali unitari agenti su tre piani coordinati. Come si è visto nel par. 3.3.4, le componenti del tensore di sforzo possono essere suddivise in sforzi

x1

x2

11

1111 dx

x

11

1212 dx

x

11

1313 dx

x

22

22

22

dxx

22

23

23

dxx

22

21

21

dxx

33

31

31

dxx

33

3333 dx

x

33

3232 dx

x

26

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normali, con direzione perpendicolari alle superfici sulle quali agiscono ed in sforzi di taglio, con direzione parallela alle superfici stesse. E’ possibile indagare la possibilità di individuare delle direzioni di riferimento in cui gli sforzi di taglio sui piani coordinati siano nulli e lo sforzo superficiale unitario, t(n) comprenda componenti normali. Una direzione con tale proprietà è definita direzione principale del tensore di sforzo (un ragionamento analogo porta a definire delle direzioni principali per il tensore di deformazione). Detto n il versore della direzione principale e il modulo dello sforzo agente nel piano con normale n, la definizione di direzione principale comporta l’Eq. 3. 90, che deriva direttamente dalla relazione di Cauchy (Eq. 3. 83).

nt n n321 321 nnn Eq. 3. 90 Considerando la simmetria del tensore di sforzo e applicando la notazione matriciale per il tensore di sforzo, l’Eq. 3. 91, che comprende la relazione di Cauchy, può essere riscritta nel modo seguente:

3

2

1

3

2

1

332313

232212

131211

nnn

nnn

=> 0100010001

3

2

1

332313

232212

131211

nnn

Eq. 3. 91 L’Eq. 3. 91 rappresenta un sistema di equazioni omogeneo che ammette soluzioni non banali solo se la matrice dei coefficienti ha determinante nullo. Il problema è pertanto riconducibile alla determinazione degli autovalori e degli autovettori della matrice che rappresenta lo stato di sforzo. Si perviene così all’Eq. 3. 92, che rappresenta l’equazione caratteristica per il calcolo delle direzioni principali.

0det

332313

232212

131211

Eq. 3. 92 L’Eq. 3. 92 rappresenta una equazione di terzo grado e può essere ridotta alla forma seguente:

0322

13 III

Eq. 3. 93 dove:

333231

232221

131211

3

231

223

2122233331122112

3322111

detI

I

trI

Eq. 3. 94 Per la simmetria del tensore degli sforzi, l’Eq. 3. 93 ammette 3 soluzioni reali, gli autovalori di , che vengono definiti sforzi principali e indicati con i simboli I, II e III. Sostituendo tali valori a nell’Eq. 3. 91, il sistema di equazioni omogeneo ammette come soluzione degli autovettori {n1 n2 n3}T che individuano, a meno di una costante moltiplicativa, i versori delle tre direzioni principali. Si può dimostrare che tali direzioni sono mutuamente ortogonali e definiscono una terna di assi cartesiani nello spazio definiti assi principali. Per loro natura, gli sforzi principali hanno un valore indipendente dal sistema di riferimento da cui si è partiti per impostare il problema agli autovalori. Ciò significa che anche i coefficienti dell’equazione caratteristica (Eq. 3. 93) non dipendono dall’orientamento del sistema di riferimento nel quale sono espresse le componenti del tensore di sforzo. Le quantità I1, I2 e I3 sono pertanto dette, rispettivamente primo, secondo e terzo invariante dello stato di sforzo. In modo analogo è possibile definire direzioni principali e invarianti per il tensore di deformazione. Assumendo come sistema di riferimento gli assi principali dello sforzo, l’espressione del tensore di sforzo in notazione matriciale diventa:

III

II

I

000000

Eq. 3. 95 In base all’Eq. 3. 95, utilizzando i valori degli sforzi principali, le espressioni degli invarianti dello stato di sforzo possono essere semplificate nelle forme riportate in Eq. 3. 96.

IIIIII

IIIIIIIIIIII

IIIIII

II

trI

3

2

1

Eq. 3. 96 In effetti, utilizzando la terna di riferimento delle direzioni principali, la descrizione dello stato di sforzo si semplifica notevolmente sotto diversi aspetti. Detti i iI, iII , iIII i versori delle direzioni principali, i vettori che rappresentano lo sforzo superficiale unitario sui piani perpendicolari ai tre assi divengono:

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IIIIII

IIII

II

ii

i

III

II

I

Eq. 3. 97 Pertanto, detti nI, nII e nIII i coseni direttori di un generico piano rispetto alle direzioni principali, lo sforzo t(n) su tale piano avrà l’espressione fornita in Eq. 3. 98, ottenuta applicando la relazione di Cauchy (Eq. 3. 83), mentre il quadrato del modulo dello sforzo t(n) ha l’espressione riportato in Eq. 3. 99.

IIIIIIIIIIIIn nnn IIIIII iiit Eq. 3. 98

2222222IIIIIIIIIIIIn nnnt

Eq. 3. 99 La Figura 3.30 mostra lo sforzo superficiale unitario su un generico piano, descritto utilizzando le direzioni principali come assi di riferimento. Sul generico piano, che non è perpendicolare ad una direzione principale, lo sforzo avrà una componente normale n ed una componente di taglio n.

Figura 3.30 - Stato di sforzo espresso nelle direzioni principali

Il valore della componente n è immediatamente calcolabile mediante il prodotto scalare fra il vettore di sforzo e la normale. Risulta:

222IIIIIIIIIIIInn nnnnt

Eq. 3. 100 Dall’Eq. 3. 99 e dall’Eq. 3. 100 è possibile ottenere l’espressione per il quadrato del modulo della componente di taglio, n.

2222

222222222

IIIIIIIIIIII

IIIIIIIIIIIInn

nnn

nnnnt

Eq. 3. 101 Lo stato di sforzo può essere esaminato considerandone l’andamento su piani paralleli ad una delle direzioni

principali. Ad esempio è possibile far ruotare la normale n nel piano iII-iIII e indagare lo stato di sforzo su piani paralleli al versore iI, come schematizzato in Figura 3.31.

nn

Figura 3.31 - Variazione dello stato di sforzo su piani paralleli al versore iI

Poiché per i piani in esame nI=0, n2II = cos2 e n2

III = 1- cos2 =sin2 , l’Eq. 3. 100 si riduce a:

IIIIIIII

IIIIIn2

22

cos

cos1cos

Eq. 3. 102 L’Eq. 3. 102 mostra come lo sforzo n vari fra un valore estremo, II, per cos =1, un altro valore estremo III, ottenuto per cos =0. Tali estremi rappresentano i massimi o i minimi dello sforzo normale sui piani paralleli ad iI, in dipendenza del segni della differenza II - III. Se i valori degli sforzi principali sono ordinati con I > II > III, allora II rappresenta il massimo dello sforzo normale sui piani paralleli a ad iI e III è il minimo. Si può dimostrare che il massimo e il minimo degli sforzi principali rappresentano effettivamente il massimo e il minimo valore degli sforzi normali agenti su un piano qualsiasi. Analoghi ragionamenti possono essere sviluppati per i piani paralleli agli altri versori, portanto alle seguenti equazioni:

1

2

3

iii

a//pianisucosa//pianisucosa//pianisucos

2

2

2

IIIIIIn

IIIIIIIn

IIIIIn

Eq. 3. 103 Sempre considerando i piani paralleli ad uno dei versori, ad esempio iI è possibile indagare l’andamento degli sforzi di taglio applicando l’ Eq. 3. 101 che diviene, con alcuni passaggi:

2sin41

2cos1cos

sincos

sincos

22

2222

222

22222

IIIII

IIIIIIIIII

IIIII

IIIIIn

Eq. 3. 104

tn

n

iII

iIII

n

tn n=tn n

iIII

n

iII iI

28

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Applicando analoghi passaggi per rotazioni attorno agli altri versori, il modulo dello sforzo di taglio risulta pertanto:

1

2

3

i

i

i

a//pianisu2sin2

a//pianisu2sin2

a//pianisu2sin2

IIIIn

IIIIIn

IIIn

Eq. 3. 105 Tali equazioni mostrano che, ruotando la normale del piano su cui agisce lo sforzo superficiale attorno ai versori delle direzioni principali, la componente di taglio passa da valori nulli, in corrispondenza delle direzioni principali (per angoli pari a 0°, 90°, 180°, 270°) a valori massimi nelle direzioni dove sin2 , sin2 o sin2 è uguale a 1 cioè per 45°, 135°, 225° e 315°. Complessivamente, il valore massimo dello sforzo di taglio agente nel materiale ha l’espressione data in Eq. 3. 106.

2,

2,

2max

maxIIIIIIIIIIII

n

Eq. 3. 106 Se gli sforzi normali sono ordinati come I > II > III, allora lo sforzo massimo di taglio risulta ( I - III)/2.

3.3.5 Componenti idrostatiche e deviatoriche dello stato di sforzo

Un caso particolare di stato di sforzo è quello relativo all’applicazione di uno stato di sforzo idrostatico p che dà luogo a uno sforzo normale costante al variare della giacitura del piano (analogamente a quanto accade per la pressione in un fluido). Tale stato di sforzo è caratterizzato da un tensore di sforzo avente I = II = III e pari a p. Sulla base delle Eq. 3. 103 e Eq. 3. 106 è immediato constatare che lo sforzo normale rimane costante sui piani indagati e che le componenti di taglio risultano sempre nulle. La matrice che rappresenta tale stato di sforzo ha la forma pI, dove I è la matrice identità. Per tale stato di sforzo, il tensore di deformazione è invariante alla rotazione degli assi e la matrice che lo rappresenta resta sempre identica a pI. Per la teoria della plasticità assume particolare interesse la possibilità di decomporre un qualsiasi stato di sforzo in due stati di sforzo, uno dei quali rappresenta le sole componenti idrostatiche, caratterizzate da una pressione p data da:

33221131p

Eq. 3. 107 Lo stato di sforzo che, sovrapposto a pI, ricostruisce lo stato di sforzo originale è chiamato sforzo devia torico ed ha espressione:

pp

p

332313

232212

131211

s

Eq. 3. 108 Si può dimostrare che le direzioni principali dello stato di sforzo deviatorico sono le stesse dello stato di sforzo complessivo. Infatti, se il vettore n è una direzione principale per lo stato di sforzo, le sue componenti soddisfano l’Eq. 3. 91 e dai membri sinistro e destro di tale equazione è possibile sottrarre un termine pI, ottenendo:

3

2

1

3

2

1

332313

232212

131211

nnn

pnnn

pp

p

3

2

1

3

2

1

332313

232212

131211

nnn

pnnn

sssssssss

Eq. 3. 109 I vettori n che soddisfano Eq. 3. 91 soddisfano anche l’Eq. 3. 109 e sono pertanto le direzioni principali anche del tensore di sforzo devia torico i cui sforzi principali risultano sI = I �– p, sII = II �– p, sIII = III �– p. Gi invarianti del tensore di sforzo devia torico hanno le seguenti espressioni:

IIIIIIij

IIIIII

IIIIIIIIIIII

SSSsJ

sss

J

J

det2161

61

0tr

3

222

222

213

223

212

21133

23322

222112

1 s

Eq. 3. 110

3.3.6 Il lavoro di deformazione in stati di sforzo pluri-assiali

Considerando il cubo di volume infinitesimo rappresentato in Figura 3.32 ed applicando incrementi di deformazione infinitesima caratterizzati da singole

29

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componenti non nulle del tensore di deformazione, è possibile estendere la definizione di lavoro di deformazione, presentata al par. 3.2.3 al caso più generale. In particolare, si giunge all’importante risultato che le componenti del tensore di sforzo lavorano solo per le corrispondenti componenti del tensore di deformazione.

Figura 3.32 - Sforzi e deformazioni in un cubo di volume infinitesimo

L’espressione generale del lavoro di deformazione per unità di volume è pertanto:

2323

3223313113132121

1212333322221111

ddddd

dddddwd

Eq. 3. 111 La simmetria del tensore degli sforzi, l’introduzione degli scorrimenti definiti in Eq. 3. 55 e applicazione della notazione vettoriale permettono un’espressione compatta del lavoro di deformazione, riportata in Eq. 3. 112.

ijijT

d

ddd

dddddw

32231313

1212333322221111

Eq. 3. 112 L’integrazione dell’Eq. 3. 112 da uno stato di iniziale indeformato fino a uno stato finale di deformazione caratterizzato da un vettore fornisce il lavoro di deformazione per unità di volume necessario per far svolgere il processo de formativo:

0

dw Td

Eq. 3. 113 Per ottenere il lavoro complessivo di deformazione sarà infine necessario integrare nel volume del continuo.

3.4 Modellazione del comportamento elasto-plastico

La risposta costitutiva di un materiale elasto-plastico a livello macroscopico è stata descritta nel par. 3.2. La descrizione si è tuttavia limita al caso monodimensionale, prendendo in considerazione i comportamenti ottenuti in una prova di trazione uniassiale. Il par. 3.3 ha fornito le nozioni della meccanica dei continui deformabile per trattare la modellazione del comportamento elasto-plastico in stati di sforzo e deformazione pluriassiali. Questo paragrafo formalizza la legge costitutiva elasto-plastica in stati di sforzo pluriassiali nell’ipotesi di deformazioni infinitesime. Si tratterrà dapprima il legame elastico. Successivamente saranno indagati i criteri per individuare il confine del campo elastico in stati di sforzo pluriassiali e le modalità di rappresentazione dei fenomeni di incrudimento. L’ultima parte del paragrafo è dedicata alla modellazione del legame costitutivo in presenza di sviluppo di deformazioni plastiche.

3.4.1 Il comportamento del materiale in campo elastico

Energia di deformazione Si è visto, nel Cap. 2, che la deformazione elastica comporta la variazione delle distanze fra gli atomi dei materiali policristallini e per sua natura è reversibile. Il lavoro speso da un sistema di forze esterne e interne per deformare elasticamente un solido comporta una variazione dell’energia potenziale associata alle forze di legame fra gli atomi e tale energia viene completamente restituita una volta che cessa l’agente che causa la deformazione. L’energia immagazzinata non dipende dal percorso seguito dal processo deformativo, ma solo dal valore finale dello stato di deformazione. Fintanto che il materiale rimane in campo elastico, il lavoro di deformazione, definito nel par. 3.3.6, compiuto a partire dalla configurazione indeformata fino allo stato di deformazione , fornisce l’espressione di un potenziale, detto energia di deformazione. L’energia di deformazione è uno scalare, funzione dello stato di deformazione, la cui espressione è data in Eq. 3. 114.

00

ddT

Eq. 3. 114 Il differenziale d è un differenziale esatto, che è esprimibile come in Eq. 3. 115 in funzione delle

33

32

11

12

13 31 23 d 22

22 21

X3

X3 d 23 X1

30

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI CAP.3 – LA LEGGE COSTITUTIVA ELASTO-PLASTICA

derivate parziali dello scalare rispetto alle componenti di deformazione:

ddddT

T

Eq. 3. 115 dove il vettore / ha per componenti le derivate dello scalare rispetto alle componenti di . Dalla Eq. 3. 115 discende la forma generale della legge costitutiva elastica, cioè del legame fra sforzi e deformazioni in campo elastico. Infatti, confrontando le diverse espressioni dell’energia di deformazione presentate in Eq. 3. 115, è immediato riconoscere che gli sforzi si ottengono derivando l’energia potenziale rispetto alle corrispondenti componenti di deformazione. Il risultato è formalizzato in Eq. 3. 116.

Eq. 3. 116 L’Eq. 3. 116 indica che, nota l’espressione dell’energia di deformazione in funzione delle deformazioni, la legge costitutiva elastica è completamente determinata. Per i materiali metallici, come si è visto nel par. 3.2.2, il campo elastico prevede anche la linearità del legame sforzi-deformazioni (con possibili deviazioni trascurabili oltre il limite di proporzionalità). La linearità, che non è un attributo necessario del comportamento elastico, specifica ulteriormente la forma del legame sforzi-deformazioni. La forma più generale per un legame lineare fra le componenti di sforzo e deformazione è riportata in Eq. 3. 117, che sfrutta la notazione vettoriale per il tensore di sforzo e deformazione.

D Eq. 3. 117 Applicando l’Eq. 3. 117, l’energia di deformazione per unità di volume ha la seguente espressione:

D

dDd

T

TTijij

21

00

Eq. 3. 118 L’energia di deformazione risulta pertanto una forma quadratica delle componenti del tensore di deformazione. La matrice D è una matrice di ordine 6 x 6, di componenti. Poiché lo scalare d è un differenziale esatto, si ha:

in

m

m

n

mnnm

Eq. 3. 119 Dove con m e n si sono indicate le posizioni delle componenti ij e ij nei vettori e nella notazione matriciale adottata. Quindi, considerando la notazione matriciale adottata in Eq. 3. 117, m/ n è una componente della matrice D, che può essere indicata come Dmn. L’applicazione dell’Eq. 3. 119 al legame elastico e lineare formalizzato in Eq. 3. 117 dimostra quindi che Dmn = Dnm e comporta, quindi, la simmetria della matrice D, che ha un numero massimo di elementi indipendenti pari a 21.

Legame elastico per materiali isotropi Il legame elastico espresso dall’Eq. 3. 117 dipende in generale dal sistema di riferimento in cui sono espresse le componenti dei tensori di sforzo e deformazione. Tuttavia, l’isotropia comporta che il legame non cambi al variare del sistema di riferimento stesso. L’Eq. 3. 116, inoltre, stabilisce che, una volta nota l’espressione dell’energia di deformazione in funzione delle componenti di deformazione, il legame elastico è completamente determinato. Queste considerazioni comportano necessariamente che l’energia di deformazione deve poter essere espressa in funzione degli invarianti del tensore di deformazione, che hanno espressione:

333231

232221

131211

3

223

213

2122233331122112

3322111

det

41

I

I

trI

Eq. 3. 120 Poiché si è anche dimostrato, nel caso lineare, che l’energia di deformazione è una forma quadratica delle componenti ij , il terzo invariante non può comparire e dovrà essere = (I1, I2). Inoltre, affinché l’espressione sia una forma quadratica, il primo invariante dovrà necessariamente comparire al quadrato. L’espressione dell’energia di deformazione è dunque:

22

21 bIaI

Eq. 3. 121 Attraverso considerazioni puramente teoriche, dunque è dunque possibile dimostrare che il legame elastico-lineare, per un materiale isotropo, deve dipendere da sole due costanti indipendenti. L’Eq. 3. 121 è riscritta

31

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nella forma presentata in Eq. 3. 122, dove e G sono note come costanti di Lamè:

22

21 22 GIIG

Eq. 3. 122 L’applicazione dell’Eq. 3. 116 alla forma di data in Eq. 3. 122, conduce a definire il legame elastico nel seguente modo:

2323

1313

1212

33221133

33221122

33221111

22

2

GGG

GG

G

Eq. 3. 123 Se il sistema di riferimento utilizzato per esprimere le componenti di sforzo e deformazione è quello delle direzioni principali del tensore di deformazione allora gli scorrimenti a taglio sono nulli, ij =0. In base alle Eq. 3. 123, anche gli sforzi di taglio sono nulli in tale sistema di riferimento: ij=0. La terna è quindi principale anche per il tensore degli sforzi e le direzioni principali del tensore di deformazione e di sforzo coincidono. L’espressione del legame elastico in funzione delle costanti di Lamè è utile per evidenziare che, in un materiale lineare elastico isotropo, si ha il disaccoppiamento fra i legami di sforzo-deformazione idrostatici e deviatorici. Infatti, sommando le espressioni delle componenti ad indici uguali nell’Eq. 3. 123 si ottiene:

KpG 332211332211 23

ni:

Eq. 3. 124 Dove K=3 +2G è definito Bulk modulus del materiale. Considerando l’Eq. 3. 124 è possibile ottenere dalle Eq. 3. 123, con alcuni passaggi, le seguenti espressio

232323

131313

121212

3333

2222

1111

222

222

GGGGGG

GpGpGp

Eq. 3. 125 Dalla definizione delle componenti del tensore di deformazione deviatorica, e, e del tensore di sforzo deviatorico, s, introdotte nei par. 3.3.2 e 3.3.5, l’Eq. 3. 125 implica che lo sforzo deviatorico dipende solo

dalle componenti di deformazione deviatorica e che, in particolare:

eGs 2 Eq. 3. 126 Le costanti di Lamè non hanno un chiaro significato fisico e, nella pratica ingegneristica, si preferisce esprimere il modulo elastico in funzione di grandezze definibili e misurabili in modo più diretto. In particolare, è possibile dimostrare che il modulo di Young, E, del materiale, definito nel par. 3.2.1, ha la seguente espressione in funzione delle costanti di Lamè:

GGGE 23

Eq. 3. 127 Il modulo di Young, a differenza delle costanti di Lamè, ha un chiaro significato fisico ed è immediatamente determinabile dalla curva sforzi-deformazioni. Un’altra costante elastica che ha significato fisico ed è di facile identificazione sperimentale è il coefficiente di contrazione trasversale (o di Poisson), v, definito nel 3.2.1, come l’opposto del rapporto fra la deformazione trasversale e quella longitudinale nella prova di trazione. In funzione delle costanti di Lamè, risulta:

Gv

22

Eq. 3. 128 Si osservi che anche la costante di Lamè G ha significato fisico poiché rappresenta il modulo di elasticità a taglio (o tangenziale) del materiale, come indicato dalle Eq. 3. 123. Il legame elastico è quindi tipicamente espresso in funzione di queste tre costanti E, v e G, che vengono talvolta definite costanti ingegneristiche. La matrice di rigidezza D, ottenuta considerando le Eq. 3. 123, Eq. 3. 127 e Eq. 3. 128 assume la forma

GG

Gvv

vEvv

Evvv

Evvv

Evvv

vEvv

Evvv

Evvv

Evvv

vE

000000000000000

000211

1211211

000211211

1211

000211211211

1

D

Eq. 3. 129 Nella matrice D, tuttavia due sole sono le costanti elastiche indipendenti, poiché dalle Eq. 3. 127 e Eq. 3. 128 discende direttamente il legame:

32

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vEG

212

Eq. 3. 130 La matrice D definisce completamente il legame diretto sforzo-deformazione, ma il comportamento elastico del materiale è illustrato in modo più chiaro dal legame inverso che indica, applicando uno stato di sforzo, la deformazione ottenuta. Tale legame è caratterizzato dalla matrice di flessibilità, C, tale che:

1DC

C

Eq. 3. 131 Nel legame elastico isotropico la matrice di flessibilità ha una forma particolarmente semplice, riportata in Eq. 3. 132.

G

G

G

Ev

Ev

Ev

Ev

EEv

Ev

Ev

E

C

100000

010000

001000

000

0001

0001

Eq. 3. 132 In base alle Eq. 3. 131 e Eq. 3. 132 si può osservare che l’applicazione di uno sforzo normale provoca un allungamento nella direzione dello sforzo e delle contrazioni nelle direzioni trasversali. Si osservi anche che l’espressione del legame diretto

=E introdotta nel 3.2.2 non è in generale valida, ma è specifica per il caso della trazione uniassiale. Infatti, se si considera la forma della matrice di cedevolezza, l’applicazione di uno stato di sforzo 11 comporta uno stato di deformazione caratterizzato da 22 = 33 = -v 11. Sotto tali condizioni, il legame diretto, caratterizzato dalla matrice D definita in Eq. 3. 129 diviene:

1111

2

11

111111

21121

211

2112111

Evv

EvvEvvv

Ev

vvv

Evvv

vE

Eq. 3. 133

3.4.2 Criteri di snervamento

Snervamento in stati di sforzo pluriassiali Il confine fra comportamento elastico e plastico è di particolare interesse sia in ambito tecnologico che

strutturale per le costruzioni aerospaziali. Infatti, la plasticità dei metalli è sfruttata per produrre manufatti in una serie di processi tecnologici di grande interesse per l’industria aerospaziale, ed è fondamentale individuare i livelli di sforzo necessari per produrre le deformazioni plastiche. D’altra parte, in ambito strutturale, le strutture devono, con pochissime eccezioni, rimanere in campo elastico in normali condizioni di utilizzo. La struttura di un veicolo aerospaziale è quindi dimensionata e progettata in modo che il materiale rimanga entro i confini del campo elastico, che devono pertanto essere ben definiti. Come si è visto nel par. 3.1, il confine tra il campo elastico e quello plastico è caratterizzato dal fenomeno dello snervamento. Si è anche osservato che non tutti i materiali presentano un punto di snervamento chiaramente identificabile dal comportamento macroscopico rilevato nella prova di trazione uniassiale. Infatti, nella maggior parte dei metalli di interesse aerospaziale, quali leghe di alluminio, titanio e acciai ad alta resistenza, l’attivazione dei fenomeni di generazione e moto delle dislocazioni può avvenire in modo graduale e il confine fra il comportamento elastico e quello plastico può essere sfumato. La necessità di determinare un preciso confine, per ragioni soprattutto applicative, ha tuttavia portato alla definizione di un limite di snervamento convenzionale (tipicamente individuato come il punto corrispondente allo sviluppo di deformazioni plastiche di 0.2%). Il limite individuato nella prova di trazione uniassiale è comunque riferito ad un particolare stato di sforzo. Come si è visto nel Par. 3.3.4, tale stato di sforzo è caratterizzato da un solo sforzo principale non nullo, con valore pari allo sforzo agente nella sezione trasversale del provino. In generale, tuttavia, il materiale può raggiungere il limite di snervamento in una generica condizione, caratterizzata da una combinazione qualsiasi delle componenti del tensore degli sforzi. Infatti, assumendo un punto di vista microstrutturale, le condizioni per l’attivazione del moto delle dislocazioni che provocano lo sviluppo della deformazione plastica, possono verificarsi per stati di sforzo diversi che non possono essere ricondotti al semplice stato di sforzo uniassiale. Poiché gli stati di sforzo che portano allo snervamento del materiale sono rappresentabili nello spazio a 6 dimensioni dalle componenti cartesiane del tensore di sforzo, un approccio puramente fenomenologico comporta la definizione di una superficie nello spazio degli sforzi con espressione analitica f( ) tale che:

osnervament di condizioniin materiale0elasticocampoin materiale0

ff

Eq. 3. 134 In generale, qualunque espressione come f( ) che cerchi di predire lo stato di sforzo al quale avviene lo snervamento si definisce criterio di snervamento e la superficie descritta nello spazio degli sforzi

33

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI CAP.3 – LA LEGGE COSTITUTIVA ELASTO-PLASTICA

dall’equazione f( ) = 0 è definita superficie di snervamento. Per altri tipi di materiale, che sono caratterizzati da rotture fragili senza sviluppo di deformazioni plastiche, espressioni simili alla f( ) possono essere definite criteri di rottura. Per la plasticità dei metalli, la conoscenza dei meccanismi fisici alla base del comportamento plastico e i risultati di numerose campagne di prove sperimentali hanno storicamente permesso di sviluppare criteri di snervamento derivanti da considerazioni di carattere fisico. Tali criteri sono basati sulla definizione di una grandezza indice del pericolo di snervamento, funzione delle componenti del tensore degli sforzi o degli sforzi principali. Questa grandezza può rappresentare un particolare aspetto dello stato di sforzo-deformazione (ad esempio il massimo sforzo principale, o il massimo sforzo di taglio o la massima deformazione principale, espressa in funzione degli sforzi attraverso il legame elastico) oppure avere un significato energetico (ad esempio un livello di lavoro di deformazione oltre il quale si verifica lo snervamento). La grandezza, che avrà generica espressione F( ), può essere confrontata con il valore che essa assume allo snervamento, , che è da determinarsi per via sperimentale. Il criterio di snervamento assume la forma:

osnervament di condizioniin materialeelasticocampoin materiale

FF

Eq. 3. 135 Dalle Eq. 3. 134e Eq. 3. 135 deriva la relazione fra grandezza indice del pericolo e criterio di snervamento:

Ff Eq. 3. 136 Un vantaggio importante dell’individuazione di una grandezza indice del pericolo che abbia significato fisico è la possibilità di calibrare il criterio, cioè di individuare , con poche o al limite una sola prova sperimentale, eliminando la necessità di esplorare il confine fra campo elastico e plastico nell’intero spazio degli sforzi. I punti cardine sui quali si è basata l’elaborazione di adeguati e affidabili criteri di snervamento per i materiali elasto-plastici, e in particolare i per i metalli, sono i seguenti:

Gli esperimenti hanno confermato che le

deformazioni plastiche avvengono a volume costante;

L’aggiunta di uno stato di sforzo idrostatico a una qualsiasi condizione di sforzo non varia il limite di snervamento, anche per valori elevatissimi della pressione idrostatica applicata (negli esperimenti compiuti da Bridgman, negli anni ’50, si usarono provini

immersi in una camera a pressione applicando fino a 25000 atmosfere)

Il limite di snervamento in un materiale vergine è in generale uguale in trazione e compressione

I materiali metallici elasticamente isotropi hanno, in generale, un comportamento che può essere approssimato come isotropo anche in campo plastico.

I primi due punti, che si riferiscono a evidenze sperimentali, sono in effetti intrinsecamente collegati poiché si è visto che, nel legame elastico, i legami sforzo-deformazione volumetrici e deviatorici sono disaccoppiabili (Eq. 3. 124 e Eq. 3. 126) . Non può sorprendere, dunque, che l’attivazione di un fenomeno caratterizzato dallo sviluppo di deformazioni solo deviatoriche (a volume costante) sia influenzata solo dalle componenti deviatoriche dello sforzo. L’assunzione relativa ai materiali isotropi semplifica la definizione della grandezza indice del pericolo, poiché essa dovrà necessariamente dipendere dagli invarianti del tensore degli sforzi o dagli sforzi principali (che sono anch’essi invarianti). La grandezza indice del pericolo dipenderà solo da tre variabili e il criterio di snervamento sarà rappresentabile nello spazio tridimensionale degli sforzi principali. In conclusione, le evidenze sperimentali e considerazioni teoriche conducono a considerare criteri e grandezze indice del pericolo che:

siano esprimibili in funzione degli invarianti o degli sforzi principali;

escludano l’influenza degli stati di sforzo idrostatico;

definiscano un limite di snervamento a trazione uguale a quello a compressione.

Criteri di Guest-Tresca e Hubert-Hencky-Von Mises I criteri di Guest-Tresca e di Hubert-Hencky-Von Mises sono i più diffusi per la formalizzazione della superficie di snervamento nei materiali metallici. Entrambi soddisfano i requisiti definiti alla fine della sezione precedente e ottengono buone correlazioni con i dati sperimentali. Il criterio di Guest-Tresca (o criterio di Tresca, formulato nel 1864) definisce come grandezza indice del pericolo il massimo sforzo di taglio max. Il criterio ha dunque la seguente espressione:

osnervament di condizioniin materialeelasticocampoin materiale

max

max

Eq. 3. 137 Il criterio di Tresca si adatta perfettamente a un’idealizzazione che considera i fenomeni di generazione e moto delle dislocazioni originati dai soli sforzi di taglio. L’espressione del massimo sforzo di taglio è data dall’Eq. 3. 106, che è qui riportata:

34

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI CAP.3 – LA LEGGE COSTITUTIVA ELASTO-PLASTICA

2,

2,

2max

maxIIIIIIIIIIII

n

Eq. 3. 138 L’Eq. 3. 138 conferma che la grandezza indice del pericolo dipende unicamente dagli invarianti dello stato di sforzo. Inoltre, il valore del massimo taglio è indipendente dallo stato di sforzo idrostatico applicato (che aumenta della stessa quantità gli sforzi principali e non ha effetto sulle differenze a secondo membro della Eq. 3. 138). La grandezza indice del pericolo è infine invariante rispetto al cambiamento di segno degli sforzi principali. I requisiti elencati alla fine della precedente sezione sono quindi soddisfatti. Se si considera uno dei tre piani nello spazio degli sforzi principali, il criterio di Tresca definisce un confine di forma esagonale fra il campo elastico e quello plastico. Infatti, considerando il piano di equazione III = 0 considerato in Figura 3.33, due rette inclinate limitano la differenza fra I e II, nel secondo e quarto quadrante. Inoltre, nel primo e nel terzo quadrante si ha | I| < 2 e | II| < 2 per limitare la differenza fra I e III =0 e fra II e III =0. L’individuazione della grandezza indice del pericolo,

, può essere eseguita mediante la prova di trazione uniassiale, dove lo stato di sforzo allo snervamento è caratterizzato da un unico valore di sforzo principale non nullo I = Y e pertanto risulta:

22max

YI

n

Eq. 3. 139

Figura 3.33 - Criterio di Guest-Tresca

Ancora più diffuso del criterio di Tresca è il criterio di Hubert-Hencky-Von Mises, noto come criterio di Von Mises. Anch’esso soddisfa i requisiti elencati alla fine della precedente sezione ed è probabilmente, allo stato attuale, il criterio più largamente utilizzato per la plasticità dei materiali metallici isotropi. E’ stato separatamente formulato da Huber (1904) e da Von

Mises (1913), mentre Hencky ne fornì l’interpretazione energetica. Formalmente, il criterio si esprime assumendo come grandezza indice del pericolo l’invariante secondo del tensore di sforzo deviatorico, J2, definito nel par. 3.3.5.

osnervament di condizioniin materialeelasticocampoin materiale

22

22

JJ

Eq. 3. 140 dove J2 ha le espressioni riportate in Eq. 3. 141, già introdotte nell’Eq. 3. 110, in funzione delle componenti del tensore di sforzo in assi cartesiani ed in assi principali:

222

213

223

212

21133

23322

222112

61

61

IIIIIIIIIIII

J

Eq. 3. 141 J2 è un invariante, non dipende dalla pressione idrostatica e, essendo una forma quadratica delle componenti di sforzo, non dipende dal segno dello sforzo stesso. Il criterio soddisfa quindi i requisiti espressi al termine della sezione precedente e ammette, inoltre, una significativa interpretazione energetica. L’interpretazione si basa sulla scomposizione dell’energia di deformazione in due contributi che si ottengono separando il lavoro compiuto dallo stato di sforzo per una deformazione deviatorica e per una deformazione volumetrica. Il lavoro compiuto dal tensore di sforzo per la deformazione deviatorica è chiamato energia di distorsione, d. In assi principali per lo stato di sforzo e deformazione si ha:

IIIIIIIIIIIT

d eeee21

21

Eq. 3. 142 Poiché, in base all’Eq. 3. 126, la deformazione deviatorica dipende solo dallo sforzo deviatorico, si può scrivere in, assi principali:

321

21

321

21

321

21

IIIIIIIIIIIIIII

IIIIIIIIIIII

IIIIIIIII

Gs

Ge

Gs

Ge

Gs

Ge

Eq. 3. 143 Introducendo l’Eq. 3. 143 nella Eq. 3. 142 e considerando l’espressione di J2 data nell’Eq. 3. 141, è possibile dimostrare che:

II I- II=2

I

I- II=-2

35

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI CAP.3 – LA LEGGE COSTITUTIVA ELASTO-PLASTICA

2

222

61

J

IIIIIIIIIIIId

Eq. 3. 144 L’Eq. 3. 144 indica che la grandezza indice del pericolo utilizzata nel criterio di Hubert-Hencky-Von Mises è l’energia di distorsione, cioè il lavoro per unità di superficie compiuto per la variazione di forma del continuo.

Figura 3.34 - Scomposizione dello stato di sforzo nello spazio degli sforzi principali

La superficie di snervamento definita dal criterio di Hubert-Hencky-Von Mises è rappresentabile nello spazio degli sforzi principali come mostrato in Figura 3.34. Si consideri la trisettrice del primo ottante dello spazio dove I = II = III ed i piani perpendicolari a tale trisettrice, che sono chiamati piani deviatorici o piani ottaedrali. Sulla trisettrice lo sforzo devia torico è nullo e, per tale motivo, tale retta si chiama asse degli sforzi idrostatici. Sia v un vettore che rappresenta un generico stato di sforzo I , II , III nello spazio degli sforzi principali. Poiché il versore up della trisettrice ha componenti 1/ 3 ,1/ 3 ,1/ 3 , la proiezione di v sulla trisettrice ha modulo:

3111

31 p

IIIIIIpv

Eq. 3. 145 Sottraendo dal generico stato di sforzo la sua proiezione, si ottiene il vettore vs, che giace sul piano deviatorico, mostrato in Figura 3.34, che ha espressione:

TIIIIII

TIIIIII

TT

IIIIII

sssppp

p

,,,,

31,

31,

31

3,,sv

Eq. 3. 146 Le componenti di vs sono gli sforzi deviatorici principali. Tuttavia, anche l’invariante secondo J2 può essere espresso in funzione degli sforzi principali nella particolare forma riportata in Eq. 3. 110. Il modulo del vettore vS, quindi, è legato al valore dell’invariante J2:

22222 2

121

svIIIIII sssJ

Eq. 3. 147 Il criterio di Hubert-Hencky-Von Mises comporta J2

2 affinché il materiale rimanga in campo elastico. Graficamente tale condizione si riflette su un limite per il modulo dei vettori vs, giacenti sui piani deviatorici con origine nella trisettrice del primo ottante:

22 pvJ

Eq. 3. 148 La superficie di snervamento di Von Mises è dunque un cilindro a base circolare con asse parallelo all’asse degli sforzi idrostatici.

Figura 3.35 - Superficie di snervamento di Hubert-Hencky-Von Mises

La determinazione del valore limite con cui confrontare la grandezza indice del pericolo J2 può avvenire, come nel criterio di Tresca, mediante il confronto con la prova di trazione uniassiale. In corrispondenza dello sforzo di snervamento Y, dove il materiale si trova sulla superficie di snervamento e J2 =

2, si ha:

II

III

I

kr 2

II

III

I

v = I, II, III

up

vs= sI, sII, sIII

vp

36

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI CAP.3 – LA LEGGE COSTITUTIVA ELASTO-PLASTICA

3

2612

61

61

222

2222

Y

YI

IIIIIIIIIIIIJ

Eq. 3. 149 L’espressione in funzione di Y conduce ad espressioni alternative del criterio di Hubert-Hencky-Von Mises, che sono spesso utilizzate nella pratica ingegneristica. Tali espressioni definiscono uno sforzo equivalente, detto anche sforzo di Von Mises, eq da confrontare direttamente con il valore di Y. Le Eq. 3. 150 e Eq. 3. 153 definiscono l’espressione degli sforzi di Von Mises rispettivamente in funzione degli sforzi principali e delle componenti di sforzo in generici assi cartesiani:

223

213

212

332233112211233

222

211

222

2

333

3

IIIIIIIIIIIIIIIIII

eq J

Eq. 3. 150 Si osservi che, in base alla definizione riportata in Eq. 3. 110, lo sforzo equivalente è legato al modulo del vettore che rappresenta il deviatore degli sforzi. Infatti, risulta:

ss

sssJ

T

IIIIIIeq

23

233 222

2

Eq. 3.151 Nella prova di trazione monoassiale, dove l’unico sforzo principale non nullo è lo sforzo applicato, I, l’espressione dello sforzo equivalente si riduce a:

IIeq J 223

Eq. 3.152 Il criterio di Hubert-Hencky-Von Mises, con la definizione di sforzo equivalente, diventa:

Yeq

Eq. 3. 153 Nel piano di equazione III = 0, il criterio definisce una curva di snervamento rappresentata da un’ellisse di equazione:

222 YIIIIII

Eq. 3. 154 Tale ellisse è l’intersezione sul piano III 0 del cilindro raffigurato in Figura 3.35 e può essere confrontata con il confine di forma esagonale individuato dal criterio di Guest-Tresca. L’ellisse di Hubert-Hencky-Von Mises contiene l’esagono di Guest-Tresca. Per uno stato di puro taglio, con 12 unica componente di sforzo non nulla in assi cartesiani, il valore di taglio corrispondente allo snervamento è, per l’Eq. 3. 153, pari a Y / 3 , mentre nel criterio di Tresca, per l’Eq. 3. 139, è pari a Y /2. La differenza è evidenziata in Figura 3.36, che riporta la retta I =- II , corrispondente ad una condizione di puro taglio. Si può anche osservare come, nel criterio di Hubert-Hencky-Von Mises, sia necessario applicare uno sforzo con modulo maggiore di Y per snervare il materiale in stato di sforzo di trazione biassiale ( I > 0 e II > 0) o, equivalentemente, di compressione biassiale ( I < 0 e

II < 0).

Figura 3.36 - Confronto qualitativo fra i criteri di Guest-Tresca e Hubert-Hencky-Von Mises

I criteri di Guest-Tresca e di Hubert-Hencky-Von Mises sono stati sottoposti a numerose verifiche sperimentali. Nel 1931 Taylor and Quinney usarono tubi a sezione circolare sottoposti a trazione e torsione realizzati in rame, acciaio dolce e aluminio. Le prove permettono di indurre uno stato di sforzo caratterizzato da una componente assiale, in direzione del tubo, e di taglio, in direzione circonferenziale.Le combinazioni in corrispondenza dello snervamento sono riportate in Figura 3.37 nel un piano - e confrontate con i criteri di Tresca e Von Mises.

II

Y

Y

I Y

Y II = - I

37

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI CAP.3 – LA LEGGE COSTITUTIVA ELASTO-PLASTICA

Figura 3.37 - Verifica dei criteri di snervamento (Taylor and Quinney, 1931)

I risultati riportati in Figura 3.38 sono invece riferiti a provini intagliati di alluminio puro. Il piano rappresentato in è un particolare piano deviatorico, che passa per l’origine degli assi e corrisponde quindi a uno stato di sforzo idrostatico nullo. L’esagono di Guest-Tresca e il cerchio di Hubert-Hencky-Von Mises sono rappresentati e confrontati con i dati sperimentali

Figura 3.38 - Verifica dei criteri di snervamento (Lianis and Ford, 1957)

Entrambi gli studi indicano una maggiore correlazione del criterio Hubert-Hencky-Von Mises con i dati sperimentali. Il criterio di Tresca, come d’altra parte già evidente dalla Figura 3.36, predice, in generale, livelli di sforzo di snervamento minori di quelli reali ed è, di conseguenza, più conservativo.

3.4.3 Funzioni di snervamento e incrudimento Gli aspetti essenziali del comportamento elasto-plastico, sintetizzati nei punti elencati al par. 1.4, includono la variazione del limite di snervamento per effetto dei fenomeni di incrudimento e la necessità di registrare la storia di carico per definire lo stato del materiale. Il criterio di snervamento f( ) = 0, introdotto al par. 3.4.2, permette di definire un dominio di snervamento nello spazio degli sforzi dove f( )<0 e il materiale ha compartimento elastico. Si ricordi che, per l’Eq. 3.

f( )=F( )- , e che , come si è visto nel 3.4.2, può essere messo in funzione del limite di snervamento Y misurato nella prova di trazione uniassiale del materiale. Ridefinendo opportunamente la grandezza indice del pericolo è possibile ottenere la seguente forma generale:

0YFf Eq. 3. 155

ell’Eq. 3. 155 il limite di snervamento è stato

Figura 3.39 - Variazione del dominio di

generale, è possibile tenere conto di questo

Nindicato con Y0 per sottolineare che esso si riferisce al caso di materiale vergine, non ancora incrudito. Infatti, considerando per semplicità il caso uniassiale illustrato in Figura 3.39, è possibile osservare che il dominio di snervamento per un materiale incrudente non è fisso, ma varia con la storia di carico.

Variazione del dominio di snervamento

snervamento per un materiale incrudente

Indefinendo una funzione di snervamento, , che estende il concetto di criterio di snervamento e ne considera l’evoluzione con la storia:

osnervament di condizioniin 0storia,elasticocampoin 0storia,

Eq. 3. 156

’evoluzione del confine elastico può essere descritta,

na prima possibilità di variazione del dominio di

Lin generale, da una serie di parametri i, detti parametri di incrudimento o variabili interne. Si osservi, per inciso, che in un materiale elastico-perfettamente plastico il domino di snervamento è fisso e la funzione non presenta dipendenza dai parametri di incrudimento. Usnervamento nel caso uniassiale è quella descritta da un

136, il criterio di snervamento può esprimersi come

38

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aumento del limite di snervamento sia a trazione che a compressione, come esemplificato in Figura 3.40.

Figura 3.40 - Incrudimento isotropo nel caso uniassiale

In questo tipo di comportamento il dominio di snervamento si espande, nel passaggio da A a B a C, in assenza di effetto Bauschinger (cfr. par. 3.2.5). L’estensione al caso pluriassiale prevede un’espansione del dominio di snervamento, identica in tutte le direzioni, mostrata in Figura 3.40. Per tale ragione, questo tipo di comportamento è definito incrudimento isotropo.

Figura 3.41 - Incrudimento isotropo nel caso pluriassiale

La forma che la funzione di snervamento assume per descrivere l’incrudimento isotropo è la seguente:

iY

i hFhf 0storia, Eq. 3. 157

La funzione h delle variabili interne i descrive l’aumento del limite di snervamento rispetto al limite originale Y0. Nel caso del criterio di Hubert-Hencky-Von Mises, espresso nella forma dell’Eq. 3. 153 nelle componenti del tensore di sforzo in assi cartesiani si ha:

iY h

2223

213

212

332233112211233

222

211

333

storia,

Eq. 3. 158 La forma finora attribuita alle variabili interne, i, è del tutto generale. In realtà, nella teoria classica della plasticità, si considerano due possibili alternative che consentono, entrambe, di utilizzare una sola variabile interna per definire completamente l’incrudimento isotropo. Entrambe le alternative comportano la conoscenza delle deformazioni plastiche irreversibili sviluppate nel corso della storia di carico. Tali deformazioni, nel caso pluriassiale, saranno descritte da un vettore p e si evolveranno per incrementi infinitesimi d p . Una prima possibilità si basa sull’assunzione che l’incrudimento, definito dalla funzione h dipenda da una deformazione plastica equivalente, P

eq, che ha espressione:

p

TpTppeq

peq

d

ddd

32

32

Eq. 3. 159 L’invarianza del volume durante il processo di deformazione plastica e, conseguentemente il valore di 0.5 del coefficiente di Poisson in campo plastico (dimostrato in Eq. 3.11) permettono di dimostrare che, in una prova di trazione monoassiale, l’incremento di deformazione plastica equivalente è uguale alla deformazione plastica nella direzione dello sforzo applicato. Infatti, assumendo che la direzione di applicazione dello sforzo sia x, risulta:

pxx

pxx

pxxx

pxx

pxx

pzz

pyy

pxx

peq

dd

ddd

dddd

2

222

222

23

32

21

21

32

32

Eq. 3.160 Il comportamento di un materiale plastico in cui l’incrudimento è descritto da una funzione h=h( P

eq) è detto strain hardening. Come indicato in Eq. 3. 159, la

A<0 B<0 C<0

C A B

II

I

Y( )

Y( )

A B C Y( )

Y( )

39

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deformazione plastica equivalente Peq rappresenta una

misura del modulo del vettore delle deformazioni plastiche nello spazio delle deformazioni. Pertanto, nello strain hardening, la sola informazione necessaria a definire l’incremento di sforzo necessario per lo sviluppo di nuove deformazioni plastiche consiste nel modulo delle deformazioni plastiche già sviluppate, indipendentemente dalla direzione di sviluppo. E’ possibile definire un incrudimento lineare in cui la funzione di incrudimento abbia la forma h( P

eq) =H P

eq. In una definizione alternativa, la variabile interna storica è rappresentata dal lavoro plastico compiuto durante la storia di carico del materiale:

pTp dl

Eq. 3. 161 In questo caso, sempre caratterizzato dall’utilizzo di una singola variabile interna, la funzione di incrudimento è h= h(lp) e il materiale ha comportamento work hardening. I due tipi di incrudimento, strain e work hardening possono essere del tutto equivalenti, se le leggi che regolano lo siluppo delle deformazioni plastiche hanno forme opportune. L’incrudimento isotropo non esaurisce le possibili trasformazioni del dominio di snervamento e non spiega, ad esempio, l’effetto Bauschinger rilevato sperimentalmente in molti metalli. Un'altra tipologia di incrudimento prevede un dominio di snervamento che non si espande, ma che si sposta nello spazio degli sforzi nella direzione in cui il materiale è sollecitato. Questo tipo di comportamento è detto incrudimento cinematico (Prager 1955) e, nel caso uniassiale è schematizzato in Figura 3.42. Nel caso pluriassiale, l’incrudimento cinematico è modellabile considerando un dominio di snervamento che non cambia forma, ma si sposta traslando nel piano degli sforzi. E’ tuttavia necessario definire, in questo caso, in che direzione il dominio trasla una volta che lo stato di sforzo giunge ai suoi confini. La Figura 3.43 mostra il modello di incrudimento cinematico proposto originariamente da Prager in cui la direzione di traslazione è normale alla superficie di snervamento. L’entità della traslazione è data dal modulo del vettore g funzione delle variabili interne i. Si osservi che il centro della superficie di snervamento, originariamente in = 0 (per la simmetria del comportamento plastico iniziale) si sposta in uno stato di sforzo definito da g( i). I componenti dello stato di sforzo g( i) sono definiti, con termine anglosassone, backstresses. La Figura 3.44 si riferisce ad un modello alternativo a quello di Prager, proposto da Ziegler, in cui il dominio di snervamento subisce una traslazione nella direzione radiale definita dal vettore che congiunge lo stato di sforzo raggiunto al centro della superficie di snervamento.

Figura 3.42 - Incrudimento cinematico nel caso uniassiale

Figura 3.43 - Incrudimento cinematico nel caso pluriassiale: modello di Prager

Figura 3.44 - Incrudimento cinematico nel caso pluriassiale: modello di Ziegler

La forma assunta dalla funzione di snervamento per l’incrudimento cinematico è del seguente tipo:

0storia, YFf ii gg Eq. 3. 162

I

II

A

B

g( i)

C<0 B<0

A<0

I

II

A

B

g( i) g

A B C

40

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Nel caso dell’incrudimento cinematico, quindi, l’applicazione del criterio di Von Mises porta alla seguente definizione della funzione di snervamento:

2022323

21313

2121233332222

33331111

222211112

3233

22222

21111

33

3

storia,

Yii

iii

ii

iii

ii

gg

ggg

gg

ggg

gg

Eq. 3. 163 Nell’ipotesi di comportamento strain hardening il vettore g è espresso in funzione delle componenti della deformazione plastica. La forma lineare dell’incrudimento cinematico è spesso utilizzata per semplificare i modelli elasto-plastici. In tale forma:

pi Gg

Eq. 3. 164 dove [G] è una matrice di costanti. E’ da osservare che né i modelli isotropici né quelli cinematici descritti definiscono esattamente il reale incrudimento del materiale. Essi rappresentano idealizzazioni che possono avvicinarsi al reale comportamento del materiale, in particolare se il percorso di carico non subisce inversioni o drastici cambiamenti. I modelli più completi per descrivere il comportamento del materiale per stati di sforzo pluriassiali prevedono un incrudimento di tipo misto, isotropo e cinematico, dove la funzione di snervamento ha la forma:

iY hF 0storia, ig

Eq. 3. 165 Un esempio di questo tipo è una funzione di snervamento alla Von Mises integrata da un modello di incrudimento misto, ma completamente lineare che prevede la determinazione di 3 parametri per la definizione del modello di materiale ( Y0, g, H). In assi cartesiani la funzione di snervamento assume la forma:

2022323

21313

2121233332222

33331111

222211112

3333

22222

21111

33

3

storia,

Ypeq

pp

ppp

pp

ppp

pp

hgcc

ccc

cc

ccc

cc

Eq. 3. 166

3.4.4 Sviluppo di deformazioni plastiche

Problemi elasto-plastici e natura incrementale del legame costitutivo L’applicazione del legame elastico e di una funzione di snervamento per il materiale non sono sufficienti a descriverne il comportamento elasto-plastico se non è possibile determinare le deformazioni plastiche sviluppate nella storia di carico del materiale. Nell’ambito della teoria classica della plasticità, la determinazione della risposta costitutiva elasto-plastica di un materiale sfrutta la possibilità di decomporre, nell’ipotesi di deformazioni infinitesime, la deformazione totale in una parte elastica ed una plastica, come già descritto nel caso uniassiale, al par. 3.2.2. La decomposizione, già introdotta dall’Eq. 3. 9 del par. 3.2.2, è estesa al caso pluriassiale dall’Eq. 3.167:

pe Eq. 3.167 Grazie a tale decomposizione, introducendo la matrice di rigidezza elastica [D] definita nel par. 3.4.1 è possibile scrivere il legame elastico nel seguente modo:

pe DD Eq. 3. 168 Se, assegnate le deformazioni totali, le deformazioni plastiche sono note, è possibile determinare lo stato di sforzo grazie all’Eq. 3. 168. D’altra parte, invertendo il legame espresso dall’Eq. 3. 168 e introducendo la matrice di cedevolezza [C], si può osservare come, assegnati gli sforzi, è possibile calcolare lo stato di deformazione totale se sono note le deformazioni plastiche.

pC Eq. 3. 169 In generale, quindi, la determinazione del comportamento elasto-plastico del materiale si può ridurre alla soluzione di due tipologie di problemi: - un problema elasto-plastico diretto, dove sono assegnati gli sforzi ed occorre conoscere le deformazioni plastiche p per calcolare le deformazioni totali . - un problema elasto-plastico inverso, dove sono assegnate le deformazioni totali e vanno calcolate le deformazioni plastiche p per determinare gli sforzi . Il calcolo delle deformazioni plastiche assume quindi un ruolo centrale nella teoria della plasticità. Tuttavia, tale calcolo non può avvenire attraverso un legame univocamente definito fra i valori di sforzo e di

41

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deformazione plastica. Si è visto, al termine del par. 3.2.5, che il legame sforzo-deformazione, in campo plastico, non può essere determinato senza seguire la storia del materiale e, nel paragrafo 3.4.3 si è formalizzato come le funzioni di snervamento variano in funzione delle variabili interne i, anch’esse dipendenti dalla storia del materiale. Pertanto:

- assegnato uno sforzo non è possible conoscere p e di conseguenza senza conoscere la storia del materiale;

- assegnata una deformazione non è possibile distinguere la parte plastica p , senza conoscere la storia del materiale.

Queste considerazioni indicano che il legame sforzo-deformazioni in campo plastico dovrà essere opportunamente posto in forma incrementale. Le relazioni fra sforzo e deformazione saranno delle equazioni differenziali che permetteranno, noto un incremento infinitesimo d di determinare l’incremento di deformazione plastica d p e l’incremento di deformazione totale d . Analogamente le relazioni incrementali permetteranno di individuare i legami inversi. Un modo per formalizzare la natura incrementale del legame è considerare un tempo T, non fisico, che permetta di riconoscere la sequenza degli eventi nella storia di carico del materiale. Tale tempo è detto tempo ordinativo e non comporta la necessità di considerare il fenomeno dal punto di vista dinamico. I fenomeni sono quindi sempre studiati staticamente, come successione di stati di equilibrio, ma è possibile ricorrere alle derivate delle quantità , o p rispetto al tempo ordinativo per formalizzare il legame incrementale. Si avranno dunque legami nella forma:

dTd

dTd oppure

Eq. 3.170 Le Eq. 3.170 possono essere considerate come equazioni differenziali che, note le condizioni iniziali, ed assegnate delle storie di carico o deformazione nel tempo ordinativo, (T) o (T), possono venire integrate per risolvere problemi elasto-plastici diretti o inversi. L’integrazione non può però essere espressa in forma chiusa perché, in corrispondenza della superficie di snervamento, la direzione degli incrementi di carico dovrà essere discussa, con disequazioni, per determinare se ci si trova in condizioni di carico (con sviluppo di deformazioni plastiche) o di scarico (con conseguente comportamento elastico). L’integrazione dovrà quindi avvenire passo-passo e l’intero problema espresso in forma incrementale. La decomposizione delle deformazioni e la formalizzazione del legame elastico diretto o inverso a livello incrementale è formalizzata nelle Eq. 3.171:

p

p

pe

C

D

Eq. 3.171 Come si può osservare dalle Eq. 3.171, anche a livello incrementale, è necessario, per risolvere il problema, conoscere lo sviluppo delle deformazioni plastiche per un incremento assegnato di sforzo o deformazione.

Potenziale plastico e condizioni per lo sviluppo di deformazioni plastiche Le deformazioni plastiche si sviluppano quando lo stato di sforzo raggiunge il limite di snervamento. E’ quindi naturale cercare di esprimere un legame fra i valori di sforzo applicati e l’entità e la direzione delle deformazioni plastiche sviluppate. Sebbene storicamente siano state proposte diverse teorie per legare lo sviluppo delle deformazioni plastiche agli incrementi di sforzo, una formulazione del tutto generale, che fa uso del concetto di potenziale plastico, fu proposta da Von Mises nel 1928. La formulazione comporta che gli incrementi di deformazione plastica p , siano proporzionali alle derivate di uno scalare, Q, funzione delle componenti di sforzo . Nello spazio degli sforzi, ciò implica una proporzionalità fra il vettore degli incrementi di deformazione plastica e il gradiente dello scalare Q. Quindi, il vettore degli incrementi di deformazione plastica non ha componenti nelle direzioni in cui Q non varia ed è pertanto perpendicolare alle superfici sulle quali Q è costante.

Figura 3.45 - Sviluppo delle deformazioni plastiche perpendicolarmente alle superfici iso-potenziale

Come si può desumere dalla Figura 3.45, la specifica forma della funzione Q( ) fornisce la direzione nella quale si sviluppano le deformazione plastiche a partire da un determinato stato di sforzo.

II

Q( I, II, III) = cost

p

I III

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L’entità delle deformazioni è data dal modulo del vettore p che è determinato da un fattore di proporzionalità. Tale fattore è indicato con il simbolo

ed è chiamato moltiplicatore plastico. Formalmente, in notazione matriciale, si ha pertanto:

Qp

Eq. 3.172 L’Eq. 3.172 è definita legge di flusso (flow rule) e indica che, con l’introduzione del potenziale plastico, il problema elasto-plastico si riduce alla determinazione di , come è possibile osservare dagli schemi presentati in Figura 3.46. Il moltiplicatore plastico deve essere sempre non negativo, , ma le deformazioni plastiche possono svilupparsi solo sotto determinate condizioni. La discussione delle condizioni che comportano è parte integrante della teoria della plasticità.

0

0

Una prima condizione prevede che le deformazioni plastiche possano svilupparsi solo se lo stato di sforzo si trova ai confini del dominio di snervamento, cioè sulla superficie di snervamento di equazione:

0,storia, i Eq. 3.173

Figura 3.46 - Schemi per la risoluzione dei problemi elasto-plastici diretti e inversi

Come è facilmente intuibile dal caso monodimensionale, la condizione formalizzata in Eq. 3.173 non è sufficiente a garantire lo sviluppo di deformazioni plastiche, poiché è anche possibile che il

percorso sforzi-deformazioni segua la curva di scarico elastico. Per formalizzare questa possibile alternativa nel generico stato di sforzo pluriassiale va osservato che lo stato di sforzo deve sempre necessariamente essere all’interno o al confine del dominio di snervamento. Tale osservazione deriva direttamente dalla considerazioni svolte nel par. 3.1 e approfondite nel par. 3.4.3. Quando la condizione di snervamento viene raggiunta, il livello di sforzo può aumentare ma ciò comporta una espansione (incrudimento isotropo) od una traslazione (incrudimento cinematico) del dominio di snervamento tale che:

0,storia, i Eq. 3.174 Non sono quindi ammessi valori positivi per la funzione di snervamento. Ne consegue che, se lo stato di sforzo è ai confini del dominio di snervamento, gli sforzi e le variabili interne (cioè i parametri di incrudimento i) devono variare in modo tale che l’incremento di risulti non positivo. Questa condizione è formalizzata in Eq. 3.175.

0

0,se

i

T

i

Ti

Eq. 3.175 La condizione sul segno di ammette solo due possibilità: se è negativo, il materiale si scarica elasticamente, mentre se è nullo sono possibili deformazioni plastiche. La Figura 3.47 riassume la discussione sui segni di e di che permette di dedurre le condizioni per un valore positivo del moltiplicatore plastico. E’ possibile osservare che solo quando =0 e =0 si ha >0. Formalmente è possibile definire una condizione, chiamata di complementarietà, che riassume le condizioni necessarie per lo sviluppo di deformazioni plastiche:

0 Eq. 3.176

Noti : , , p in T

Qp

Assegnato Assegnato

pD

+d , +d , p+d p in T+dT

Qp

pC

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Figura 3.47 - Possibili alternative nel legame costitutivo elasto-plastico

Posutlato di Drucker e plasticità associata La trattazione precedente è valida per una forma qualsiasi del potenziale plastico Q che definisce la direzione di sviluppo delle deformazioni plastiche. La forma di Q dipende dai tipi di materiali considerati, ma è possibile fare una importante distinzione sulla base della definizione di stabilità di un materiale secondo il postulato di Drucker. Il postulato considera un ciclo chiuso nello spazio degli sforzi, a partire da un stato di sforzo pre-esistente. Un materiale si dice stabile secondo Drucker se il lavoro di deformazione, compiuto nel corso del ciclo chiuso, è non negativo. Si consideri, per semplicità, un caso monodimensionale, con un ciclo compiuto a partire da uno stato di sforzo pre-esistente sulla superficie di snervamento. Il ciclo considerato consiste di un incremento infinitesimo di sforzo, , che avviene con sviluppo di deformazioni plastiche seguito da un incremento di carico opposto fino al livello di sforzo di partenza, come descritto nella Figura 3.48.

Figura 3.48- Materiali stabili e instabili secondo il postulato di Drucker

Poiché il lavoro compiuto per deformare elasticamente il materiale è interamente restituito, il lavoro netto compiuto dal ciclo è solo quello svolto, durante il primo incremento di carico, per lo sviluppo delle deformazioni plastiche. Per il ciclo considerato, quindi il postulato di Drucker comporta >0. p

Si osservi che, se il comportamento del materiale prevede una diminuzione dello sforzo per lo sviluppo di deformazioni plastiche (come nella curva riprodotta in Figura 3.48 oltre la linea tratteggiata), il postulato di Drucker non può più essere soddisfatto, poiché si ha

0 per . Con questo tipo di comportamento il materiale si dice strain softening e non è stabile secondo Drucker.

0p

L’importanza del postulato di Drucker sta in alcune conseguenze della stabilità, che non verranno per brevità dimostrate, e che possono riassumersi nei seguenti punti:

i. Se il materiale è stabile secondo Drucker il suo dominio di snervamento è convesso, cioè contiene l�’intero segmento che congiunge due qualsiasi punti scelti al suo interno (convessità).

ii. Se il materiale è stabile secondo Drucker, le deformazioni plastiche devono svilupparsi in direzione normale alla superficie di snervamento (normalità).

La condizione di normalità si traduce direttamente in un vincolo sulla forma del potenziale plastico, che, in base all’Eq. 3.172, determina la direzione di sviluppo delle deformazioni plastiche. Se tale direzione deve essere, come conseguenza della stabilità del materiale, normale alla superficie di snervamento, ne consegue che i materiali stabili secondo Drucker ammettono, come potenziale plastico, la funzione di snervamento. La legge di flusso che governa lo sviluppo delle deformazioni plastiche per materiali stabili secondo Drucker è pertanto:

O

0

0p

Materiale stabile secondo Drucker

Materiale instabile secondo Drucker

0

Scarico elastico

0

Sviluppo deformazioni

plastiche 0

Campo elastico

Stato di sforzo sulla sup. di snervamento

0, i

0, i

NO SI

0

SI

NO

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI CAP.3 – LA LEGGE COSTITUTIVA ELASTO-PLASTICA

p

Eq. 3.177 Nei materiali stabili secondo Drucker, quindi il potenziale plastico è associato alla funzione di snervamento. La legge di plasticità ottenuta in questo caso si dice associata ed è caratterizzata dalla condizione Q = . Si osservi che l’applicazione di una legge di plasticità associata conduce a buoni risultati nel caso di materiali metallici ma non è, in generale, una regola inderogabile. Alcuni tipi di materiale, che ammettono comportamento plastico, sono descritti meglio da una legge di plasticità non associata. Per quanto enunciato in questo paragrafo, tuttavia, tali materiali non possono essere considerati stabili secondo Drucker.

3.4.5 Soluzioni di problemi elasto-plastici in plasticità associata

L’individuazione della funzione di snervamento introdotta dall’Eq. 3. 156, la legge di normalità, espressa dall’Eq. 3.177, unitamente alla condizione di complementarietà, formalizzata in Eq. 3.176, ed alle relazioni che descrivono il legame elastico in forma incrementale, riassunte in Eq. 3.171, consentono la risoluzione dei problemi elasto-plastici. Per esemplificare la procedura, e fornire soluzioni in forma chiusa per alcuni casi particolari, si considerino innanzitutto casi monodimensionali. Si prenda in esame un comportamento elasto-plastico con incrudimento isotropo lineare, rappresentato in Figura 3.49.

Figura 3.49 �– Comportamento elasto-plastico con incrudimento isotropo lineare

La funzione di snervamento per tale materiale, in ambito monoassiale, può essere formulata nel modo seguente:

peq

Y H0 Eq. 3.178 dove la variabile di incrudimento, p

eq, equivale, in regime monodimensionale, al modulo della deformazione plastica:

ppeq

Eq. 3.179 La legge di normalità comporta:

sgnp

Eq. 3.180 La complementarietà implica che lo sviluppo di deformazioni plastiche, con >0, sia possibile solo se

=0. Quindi:

0sgn peq

peqp

eq

H

Eq. 3.181 L’ Eq. 3.180, che lega lo sviluppo della deformazione plastica al moltiplicatore plastico , fornisce la relazione fra il parametro di incrudimento pp

eq

e che, per definizione, è sempre positivo:

sgnp

Eq. 3.182 Considerando il risultato in Eq. 3.182, l’Eq. 3.181 consente di determinare il moltiplicatore plastico :

H

H

H peq

sgn

0sgn

0sgn

0

Eq. 3.183 Si osservi che, affinché vi sia sviluppo di deformazioni plastiche e debbono avere lo stesso segno ed il moltiplicatore risulta sempre positivo. Sostituendo l’Eq. 3.181 nella Eq. 3.180 si ottiene:

A<0

A B C

B<0 C<0

H

45

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI CAP.3 – LA LEGGE COSTITUTIVA ELASTO-PLASTICA

HHp sgnsgn

Eq. 3.184 Nel caso di problema elasto-plastico diretto, è richiesto il calcolo dell’incremento di deformazione , una volta assegnato l’incremento di sforzo . Applicando il legame elastico inverso e introducendo il risultato ottenuto nell’Eq. 3.184, l’espressione di è immediatamente calcolata:

HEEp 111

Eq. 3.185 Si osservi che, nel caso di plasticità perfetta, H=0 e la soluzione non esiste a meno di ammettere =0. In questo caso la soluzione è indeterminata. Se il problema elasto-plastico è inverso, cioè se è assegnato l’incremento di deformazione totale, , l’applicazione del legame elastico e dell’Eq. 3.184, consente di ottenere l’incremento di sforzo . Infatti:

EHHE

HEE p

Eq. 3.186 Il valore HE/(H+E) è detto modulo di rigidezza tangente del materiale. Il caso di plasticità perfetta, con H=0, ammette sempre soluzione per il problema inverso. Sempre rimanendo nell’ambito della plasticità monodimensionale è possibile formalizzare la soluzione dei problemi elasto-plastici anche nel caso di incrudimento cinematico lineare, come quello rappresentato in Figura 3.50.

Figura 3.50 - Comportamento elasto-plastico con incrudimento cinematico lineare

Una forma opportuna per la funzione di snervamento è rappresentata Eq. 3.187

202 YpG Eq. 3.187 dove la variabile di incrudimento è rappresentata dalla deformazione plastica . p

La legge di normalità comporta:

pp G2

Eq. 3.188 Imponendo =0 si ottiene:

022 ppp

pp

GGG

Eq. 3.189 Sebbene in questo caso la condizione di complementarietà consenta di determinare direttamente l’incremento di deformazione plastica, , è possibile seguire un procedimento analogo al precedente, mettendo innanzitutto in relazione l’incremento di variabile di incrudimento (che in questo caso è identico a ) con il moltiplicatore plastico attraverso l’Eq. 3.188. L’espressione di in funzione di si sostituisce nella Eq. 3.189, ottenendo:

p

p

p

0222

022

0

ppp

ppp

GGGG

GGG

Eq. 3.190 Da cui si ottiene:

pGG 21

Eq. 3.191 Sostituendo l’espressione di nella legge di normalità, si ottiene la legge di sviluppo delle deformazioni plastiche:

GG

GG

G

pp

pp

22

1

2

Eq. 3.192

C<0

A<0

A B C

B<0 G

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Il risultato ottenuto conduce alle seguenti soluzioni per il problema elasto-plastico diretto e inverso, analoghe a quelle ricavate per l’incrudimento isotropo.

GEEp 111

Eq. 3.193

EGGE

Eq. 3.194 Le soluzioni riportate in Eq. 3.184, Eq. 3.185, Eq. 3.193e Eq. 3.194 sono in forma incrementale e sono valide solo se il =0 e =0. Esse possono essere integrate se è assegnata una storia di carico o di deformazione. I risultati ottenuti sono, in effetti, banali, poiché il caso della plasticità monodimensionale è molto semplice. Si osservi, infatti, che i risultati nel caso

isotropo e nel caso cinematico, potevano essere intuitivamente dedotti dalle funzioni di snervamento fornite, rispettivamente, in Eq. 3.178 e Eq. 3.187. Dalla forma delle funzioni, infatti, è immediato dedurre che un incremento di deformazione plastica porta a un incremento di sforzo di snervamento proporzionale a H e G nei due casi.

pHpG

Tuttavia, le procedure seguite negli esempi precedenti in ambito monodimensionale sono alla base della soluzione dei problemi elasto-plastici in stati di sforzo pluriassiali molto più complessi. Per ottenere una soluzione in forma chiusa si considererà il caso di una funzione di snervamento con incrudimento cinematico e isotropo lineare.

0storia, YHF pG Eq. 3.195 Le variabili di incrudimento in questa funzione sono le componenti del vettore di deformazione plastica (per la parte cinematica) e il moltiplicatore degli sforzi plastici, per la parte isotropa, che rappresenta una misura del modulo del vettore di deformazione plastica. Considerando il problema diretto, con sforzi assegnati, occorre in primo luogo valutare se <0 e, qualora sia

=0 risulti <0. In entrambi i casi il comportamento è elastico e risulta:

C Eq. 3.196 Se invece =0 e =0, occorre imporre:

0HGFF pTT

pT

p

T

Eq. 3.197 dove i vettori / e / p contengono le derivate della funzione scalare rispetto alle componenti dello sforzo e della deformazione plastica. La legge di normalità, Eq. 3.177, può essere utilizzata per esprimere l’incremento di deformazione plastica in funzione del moltiplicatore degli sforzi plastici:

HFGFF

F

TT

p

Si osservi che, qualora si fosse utilizzata un’altra misura del modulo delle deformazioni plastiche per esprimere l’incrudimento isotropo, la legge di normalità permette, in linea di principio, di esprimere tale misura in funzione di e delle derivate della funzione di snervamento. Quindi, dalla condizione

=0 si ricava :

HFGF

F

T

T

Eq. 3.198 La decomposizione addittiva delle deformazioni elastiche e plastiche ed il legame elastico, consentono di ottenere la soluzione del legame in forma chiusa:

HFGF

FF

C

FCC

T

T

p

Eq. 3.199 La matrice che moltiplica l’incremento di sforzo nella Eq. 3.199 è detta matrice di cedevolezza tangente del materiale. La procedura per risolvere il problema inverso è analoga. Se <0 o se, qualora sia =0 risulti <0, allora il comportamento è elastico:

D Eq. 3.200

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dove la matrice che moltiplica l’incremento di deformazione assegnato, , prende il nome di matrice di rigidezza tangente del materiale.

In caso contrario, imponendo <0, si ottiene ancora

l’Eq. 3.197, che contiene, oltre alle incognite p e

, anche l’incognita vettoriale che, nel problema inverso, non è assegnata. La decomposizione addittiva delle deformazioni elastiche e plastiche ed il legame elastico, possono tuttavia essere sfruttate per ottenere

in funzione di , che è assegnato nel problema

ed p :

Bibliografia AAVV, “Manuale dei materiali per l�’ingegneria�”, a cura di AIMAT, McGraw-Hill Libri Italia, 1996

0HGF

DFDF

D

pT

pTT

p

Corradi L., “Meccanica delle Strutture”, Vol . 1, Mc Graw-Hill, 1992 Khan A.S., Huang S., “Continuum theory of plasticity�”, John Wiley & Sons, Inc, 1995 Malvern L. E., “Introduction to the mechanics of a continuous medium”, Prentice Hall, 1969 Eq. 3.201 Meyers M. A. ,“Dynamic Behavior of Materials”, John Wiley & Sons, Inc, 1994, Analogamente al caso precedente, l’applicazione della

legge di normalità , Eq. 3.177, consente di esprimere tutte le quantità dipendenti dalle deformazioni plastiche in funzione di e delle derivate della funzione di snervamento.

Mielnik E. M., “Metalworking science and engineering�”, Mc-Graw-Hill., 1991

0HFGF

FDFDF

F

T

TT

p

Eq. 3.202 L’espressione del moltiplicatore plastico si ottiene dall’Eq. 3.202:

HFGFFDF

DF

TT

T

Eq. 3.203 Infine, l’applicazione del legame elastico permette di esprimere l’incremento di sforzo in forma chiusa:

HFGFFDF

DFFDD

FDD

TT

T

p

Eq. 3.204