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Centro studi di economia sanitaria Ernesto Veronesi Direttore: Paolo Gazzaniga Osservatorio tecnologie Responsabile: Luigi Mazzei Tecnologie sanitarie emergenti nel settore dei dispositivi medici NUMERO 6 – DICEMBRE 2011 Federazione nazionale per le tecnologie biomediche, diagnostiche, apparecchiature medicali, servizi e telemedicina

Tecnologie sanitarie emergenti nel settore dei dispositivi medici · dei dispositivi medici NUMERO 6 – DICEMBRE 2011 Federazione nazionale per le tecnologie biomediche, diagnostiche,

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Centro studi di economia sanitaria Ernesto Veronesi Direttore: Paolo Gazzaniga Osservatorio tecnologie Responsabile: Luigi Mazzei

Tecnologie sanitarie emergenti nel settore dei dispositivi medici

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Federazione nazionale per le tecnologie biomediche, diagnostiche, apparecchiature medicali, servizi e telemedicina

Centro studi di economia sanitaria Ernesto Veronesi Direttore: Paolo Gazzaniga

Tecnologie sanitarie emergenti nel settore dei dispositivi medici A cura di: Vera Codazzi

INDICE INTRODUZIONE pag. 1 ROBOTICA ED ELETTRONICA pag. 4 DIAGNOSTICA ED IMAGING pag. 7 NANOTECNOLOGIE E NANOMEDICINA pag. 11 Nanotecnologie e diagnostica del cancro pag. 11 Nanotecnologie per la terapia del cancro pag. 12

BIOMATERIALI pag. 16 BIOTECNOLOGIE E DIAGNOSTICA IN VITRO pag. 17 Elettroporazione pag. 18 Diagnosi precoce di malattie neurodegenerative pag. 20

CONCLUSIONI pag. 24 BIBLIOGRAFIA pag. 25

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INTRODUZIONE Mai come in questo periodo è di stringente attualità la necessità per il nostro Paese di crescere. Non disponendo di risorse naturali ed avendo un elevato costo del lavoro, l’Italia può pensare di crescere unicamente puntando sui settori ad alta tecnologia e sugli investimenti in R&S. In tale contesto, la Sanità è un campo ideale. L’idea che la Medicina sia a pieno titolo un driver di sviluppo, un generatore di ricchezza per l'Italia, sembrerebbe aver incontrato fino ad ora una evidente resistenza culturale: si avverte, infatti, una certa riluttanza nell'associare il concetto di opportunità di sviluppo economico alla malattia e alla sofferenza. A ben vedere tale riluttanza è totalmente ingiustificata e la questione andrebbe capovolta: non sono le malattie e le sofferenze a rappresentare opportunità, bensì sono le capacità di prevenire o curare le stesse (che attraverso gli investimenti si mira a potenziare) a racchiudere in sé le opportunità in questione. Peraltro tutte le previsioni indicano una domanda di salute in crescita esponenziale, in Italia e nel mondo. Se considerassimo questo dato esclusivamente come un problema di natura finanziaria (ovvero in termini di spesa da contenere) incorreremo in due errori: il primo, perché la “battaglia” contro la spesa per la salute posta in questi termini sarebbe già persa in partenza; il secondo, perché non coglieremmo le importanti opportunità di crescita fornite da un mercato anticiclico e in forte espansione com’è appunto questo. Alcuni paesi guardano da tempo alla Sanità come volano di sviluppo socio-economico (cd. “Health Industry Model”). E non si tratta soltanto dei principali paesi industrializzati, ma anche di quelli emergenti. Nei confronti di tutti questi paesi l’Italia ha tuttora oggettivi punti di forza che devono essere mantenuti e potenziati, tra cui, e in primo luogo, una capacità di innovazione (e di attrarre investimenti a ciò destinati) oggi sfruttata solo in parte. L’Italia è al settimo posto nel mondo - dietro a Stati Uniti (1°), Inghilterra (2°), Germania (3°), Giappone (4°), Canada (5°), e Francia (6°) - (Essential science indicators, Thomson Reuters, 2009) per numero di articoli scientifici citati. Tra questi al primo posto si trovano le citazioni di pubblicazioni nel campo della Medicina, tre volte più numerose di quelle relative a Fisica e Chimica, due categorie scientifiche che pure hanno una grande tradizione nel nostro Paese. Questo dato non è frutto del caso, bensì del fatto che in Italia siamo ancora oggi all’avanguardia nel mondo per quanto concerne l’utilizzo di tecnologie sanitarie innovative, soprattutto per quanto riguarda i dispositivi medici e i dispositivi medici-diagnostici in vitro (da qui in avanti semplicemente dispositivi medici). Questo è un passaggio fondamentale che merita di essere sottolineato: i dispositivi medici sono tecnologie che pervadono i processi e le organizzazioni sanitarie; l’uso di un dispositivo medico innovativo non ha valore solo per via del miglioramento dell’efficacia della prestazione, bensì genera nuove competenze,

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le quali a loro volta hanno ricadute su altri processi di innovazione che interessano le tecniche di trattamento, ulteriori dispositivi, la sfera dell’organizzazione dei servizi sanitari. Il tutto avviene con grande velocità e frequenza in quanto, e questa è un’altra peculiarità del settore dei dispositivi medici, con riferimento a queste tecnologie si riesce a passare dall’idea al prodotto in pochissimo tempo, in molti casi appena due o tre anni, beneficiando altresì delle innovazioni e progressi che via via si susseguono in numerosi campi e saperi. La Medicina, infatti, si caratterizza come un “concentratore tecnologico” formidabile che, proprio con particolare riferimento ai dispositivi medici, fornisce l’occasione applicativa dei progressi scientifici e tecnologici che avvengono nei più disparati settori (biologia, biotecnologie, chimica fisica, informatica, nanotecnologie, elettronica e scienza dei materiali). Ebbene, dobbiamo essere bravi a trasformare questa eccellenza del nostro sistema sanitario in un vantaggio competitivo rispetto ad altri paesi nell’attrarre investimenti legati appunto allo sviluppo e alla validazione di tali tecnologie. Date le competenze che abbiamo in Italia, oggi riusciamo ad attrarre molto meno di quanto è teoricamente alla nostra portata; colmare questo gap, valorizzando le eccellenze della sanità italiana attraverso un’appropriata strategia a ciò finalizzata, dovrebbe quindi essere il primo obiettivo. E per questo occorre soprattutto guardare avanti, ovvero alle tecnologie emergenti che ci parlano di una Medicina sempre più preventiva, personalizzata, rigenerativa, mini-invasiva. Il presente lavoro, senza pretendere in alcun modo di essere esaustivo, tratta questo argomento e riporta alcuni esempi di tecnologie emergenti. Il focus è sui dispositivi medici, anche se per i motivi soprarichiamati i casi di studio qui considerati potrebbero un domani tradursi in innovazioni su più fronti (quello dei dispositivi, quello dei farmaci, quello delle biotecnologie, ecc.). A essere interessate sono tutte quattro le aree di intervento per la salute:

Prevenzione Diagnosi Terapia Riabilitazione.

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Da un lato, i sistemi diagnostici in vitro e parte della sezione riguardante la Terapia, si caratterizzano sul piano scientifico-tecnologico come aree specifiche afferenti alla sfera del vivente, il cd. “Biologico”. Dall’altro, i sistemi di Imaging e i restanti dispositivi medici rappresentano la massima concentrazione di quella parte della tecnologia cui ci si può riferire come “non Biologica”. A questo punto, prima di procedere esaminando le innovazioni che ci riserva il futuro e per meglio comprenderne la portata, ha senso dare un ultimo e rapido sguardo al passato. Il XX° secolo è stato definito come “il secolo breve” per la rapidità e la numerosità dei progressi che lo hanno caratterizzato. La Medicina, in quanto piattaforma di approdo di molti dei suddetti progressi, è stata tra i campi che hanno fatto registrare i maggiori avanzamenti, sia in termini di conoscenze sia in termini di capacità tecniche. E a questo riguardo possiamo distinguere, semplificando, tre momenti:

prima degli anni ’60, quando nasce e si sviluppa la Medicina moderna soprattutto intorno alle scoperte farmacologiche;

il periodo tra gli anni ’60 e gli anni ’80, in cui si sono concentrate le maggiori innovazioni riguardanti i dispositivi medici (in particolare negli anni ’70);

il periodo dagli anni ’90 in poi, caratterizzato ancora oggi da innovazioni incrementali, vale a dire da un’evoluzione tecnologica tesa a migliorare dispositivi già esistenti.

Rispetto a questa fotografia, il futuro sembra prometterci una nuova fase analoga per importanza a quella che venne definita come “il decennio della rivoluzione tecnologica” (anni ’70). Una fase in cui molto ruoterà intorno alle innovazioni che perverranno dall’emergere di nuove tecnologie soprattutto nel campo dell’imaging, della robotica, delle nanotecnologie e delle biotecnologie. Prendendo spunto da fonti di diverso tipo, e cercando riscontro in letteratura scientifica, sono quindi stati selezionati quelli che sembravano essere esempi di applicazioni particolari nel campo della diagnostica, della robotica e dell’imaging. La robotica è quella che probabilmente lascia più spazio all’immaginazione, proponendo le innovazioni più avveniristiche. La diagnostica è quella che sta più beneficiando delle biotecnolgie: infatti, grazie a biologia molecolare, immunochimica, genomica e nanotecnologie, è oggi possibile diagnosticare patologie che un tempo non si pensava portessero esistere e si sta cercando di colmare il gap tra le possibilità offerte da questa diagnostica avanzata e nuovi strumenti terapeutici. L’imaging in qualche modo unisce le potenzialità di queste due tecnologie, mentre la miniaturizzazione e le nanotecnologie in generale, aprono un ventaglio di opportunità straordinarie nei campi più disparati.

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ROBOTICA ED ELETTRONICA La robotica è una scienza che, in base ai comportamenti degli esseri intelligenti, cerca di sviluppare macchine in grado di interagire con l’ambiente esterno e di eseguire compiti specifici. Si tratta di una disciplina relativamente recente, che trova il suo spazio nel mercato sostituendosi all’uomo in compiti ritenuti rischiosi, faticosi, ripetitivi, noiosi e/o che richiedono precisione e velocità di esecuzione. Anche se la robotica è una branca dell'ingegneria, in essa confluiscono approcci di molte discipline sia di natura umanistica, come linguistica e psicologia, sia biologia e fisiologia, sia automazione, elettronica, fisica, informatica, matematica e meccanica. In virtù di questa natura interdisciplinare trova applicazioni in molteplici settori, in particolare le sotto-discipline che possono riferirsi al contesto sono la biorobotica e la robotica biomedicale. La prima è una disciplina teorica che studia il modo di creare sistemi viventi a partire da pezzi non viventi e spesso sfocia in quelle che vengono definite biologia sintetica o nanobiotecnologie; la robotica biomedicale, invece, è un ramo della robotica molto vasto che comprende i robot capaci di assistere il medico durante le operazioni chirurgiche, la radioterapia robotica e anche le sofisticate apparecchiature per analisi biologiche utilizzate nei laboratori. Per quanto concerne la robotica biomedicale, vale la pena accennare ad un’ ”infermiera robotizzata”. Un gruppo di ricercatori, guidati da Juan Pablo Wachs (Purdue University, Indiana, Stati Uniti) e finanziato dall’agenzia statunitense per la ricerca e la qualità in salute, sta sviluppando un sistema (http://www.purdue.edu/newsroom/research/2011/110203WachsGestures.html) che possa essere controllato dai chirurghi attraverso gesti e movimenti delle mani (Waches et al., 2011). Il dispositivo incorpora una videocamera sensibile al movimento del corpo umano e un software che sfrutta un algoritmo specifico basato sull’antropometria, in grado di riconoscere i movimenti delle mani come istruzioni. Il tentativo è quello di sviluppare un software che permetta al robot di associare a semplici gesti fatti con le mani (indicando dei numeri, ad esempio) uno specifico strumento chirurgico. Robot di questo tipo sono in studio, in particolare, per sostituire gli esseri umani in quelle operazioni ripetitive e monotone che però sono di estrema importanza in sala operatoria, come ad esempio passare gli strumenti al chirurgo e tenere sotto controllo quelli usati, in modo da velocizzare gli scambi e minimizzare gli errori dovuti a eventuali disattenzioni. La sfida sta nella messa a punto di un sistema che sia in grado di interpretare in modo corretto la posizione delle mani e la loro traiettoria, facendo in modo che i gesti siano brevi, semplici e il più naturali possibile, per esprimere determinate funzioni mediche. I ricercatori cercano di istruire il sistema in modo che non sia necessario indossare appositi guanti e/o indumenti, affinché sia in grado di reagire in tempi brevi e comunicare, in qualche modo, la ricezione del comando e, soprattutto capace di trascurare gesti involontari del chirurgo. Lo stesso tipo di software, una volta messo a punto, potrà essere impiegato anche per permettere al chirurgo di controllare computer

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in modo da poter accedere a diversi tipi di informazioni mantenendo la sterilità necessaria. Sempre per la camera operatoria, è stato sviluppato, in Francia, un dispositivo di nuova generazione, finalizzato alla diffusione dell’utilizzo della chirurgia assistita da computer a beneficio dei pazienti. Questo robot, sviluppato per procedure intracraniche che prevedono l’utilizzo di aghi, come biopsie, interventi per l’epilessia e resezioni tumorali, è capace di integrare un software per programmare gli interventi neurochirurgici, funzioni di robotica avanzata, tecnologia tattile e capacità di visualizzazione avanzate. Il sistema offre caratteristiche tecnologiche all’avanguardia come la navigazione “hands-free”, la complessa manipolazione degli strumenti e l’innovativo sistema di registrazione automatica markerless. I principali vantaggi offerti sono:

semplificazione della procedura chirurgica

riduzione dei tempi di sala

minor invasività

migliori outcome clinici

Un sistema per la chirurgia robotica spinale, sviluppato in Israele, permette ai chirurghi di eseguire interventi in modo più accurato e sicuro, dall’altro garantisce ai pazienti meno dolore e complicazioni, esiti migliori e richiede anche un minor tempo di ricovero. È supportato da tecnologie sia hardware sia software di ultima generazione e può essere impiegato per diverse applicazioni cliniche come osteotomie, impianti in particolari regioni del corpo, fusioni spinali, correzioni di scoliosi e biopsie. L’utilizzo di un sistema di questo tipo permette inoltre di esporre il paziente a una minore quantità di radiazioni, sia durante la fase pre-operatoria che durante l’intervento stesso. I ricercatori stanno cercando di ottimizzare il sistema in modo che possa essere utilizzato anche per effettuare operazioni intracraniche. La robotica può essere d’aiuto anche al di fuori dell’ospedale, soprattutto nell’ ”accudire” le persone anziane o con disabilità di diverso tipo, che risultano limitate nelle loro attività quotidiane, anche le più semplici e necessarie, compresa l’igiene personale. Essendo il numero di infermiere disponibili in continua diminuzione, in Georgia (Stati Uniti), all’Istituto di Tecnologia, è stato messo a punto un robot in grado di accudire e pulire i pazienti (King et al., 2010). Al contrario di un operatore umano questo sembra poi creare meno difficoltà nel paziente, più a suo agio. Si ritiene che l’operatore robotizzato possa comportare benefici di diverso tipo: i. aumento della privacy e del comfort; ii. maggior livello d’indipendenza e della qualità della vita; iii. buon livello di performance anche in operazioni piuttosto lunghe. Il sistema è dotato di un’interfaccia che permette all’operatore di selezionare l’area che il robot deve lavare, dopodiché questo esegue autonomamente una sequenza specifica di movimenti utilizzando il “braccio” destro. Per precauzione le estremità delle braccia del robot sono

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imbottite con materiale morbido in modo da non far male durante le operazioni, che non vengono comunque mai eseguite con troppa forza, essendo programmato per non esercitare mai una pressione eccessiva. Questo è solo un esempio, uno tra i primi passi verso lo sviluppo di robot capaci di curare, attivamente e autonomamente, l’igiene personale dei pazienti con limitata mobilità. Lo sviluppo di apparecchiature altamente tecnologiche spesso implica software particolari e altamente specializzati. Oltre a quelli necessari per il funzionamento dei sistemi accennati sono particolarmente interessanti quelli messi a punto per gestire l’enorme massa di dati e informazioni che le nuove tecnologie permettono di raccogliere ma anche quelli più avveniristici, come ad esempio il software in grado di simulare una realtà virtuale utile per le persone affette dal morbo di Parkinson’s. I ricercatori del Brain and Mind Research Institute (BMRI, Università di Sydney) si sono focalizzati in particolare su uno dei disturbi connessi alla sindrome, quello del “congelamento della camminata” (Freezing Of Gait), accentuato quando le persone affette devono camminare o attraversare zone strette. Utilizzando uno scanner a risonanza magnetica, il software riesce a simulare un ambiente con una serie di porte e corridoi, all’interno del quale i pazienti si muovono utilizzando dei pedali. Poiché nessuna terapia ha dato esiti positivi nel migliorare questa complicazione legata al morbo di Parkinson’s, la simulazione può esser sfruttata come sorta di allenamento e, soprattutto, per approfondire cosa accade a livello cerebrale durante questi episodi di “congelamento”.

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DIAGNOSTICA E IMAGING Nel campo della diagnostica per immagini, nonostante la tomografia computerizzata e tutti gli approcci basati sull’impiego dei raggi X, abbiano compiuto enormi progressi negli ultimi decenni, fondamentalmente il metodo per generare i raggi X non è cambiato rispetto a quello messo a punto da Roentgen alla fine dl XIX° secolo. Nel laboratorio di Otto Zhou (Carolina del Nord, Stati Uniti) è stato messo a punto un processo che utilizza nanotubi di carbonio (CNTs) per generare un campo di emissione (Qian et al., 2009). Questo sistema ha indubbi vantaggi, primo tra tutti la possibilità di modulare rapidamente la generazione dei raggi X, permettendo la sincronizzazione tra la sorgente dei raggi e il battito cardiaco, o la respirazione, in modo da minimizzare l’effetto sfuocato dovuto ai movimenti durante l’acquisizione delle immagini. Forse anche di maggior importanza poi è la possibilità di costruire arrays di sorgenti a nanotubi, che possono essere accesi e spenti in modo che le immagini vengano acquisite senza che il paziente sia fatto spostare, fornendo vantaggi non solo in termini di velocità, ma anche economici (Cao et al., 2009). La tecnologia CNT può essere applicata anche nelle radioterapie per la lotta contro il cancro, compresa l’irradiazione a micro fasci (Juliano et al., 2011). Una tecnologia nuova per l’analisi in vivo della mucosa gastrointestinale e la relativa micro vascolarizzazione, è quella dell’endomicroscopia laser confocale (CLE) (Săftoiu and Vilmann, 2011). I tumori a danno del sistema digestivo hanno, attualmente, un’elevata incidenza e rappresentano una delle maggiori cause di mortalità; la crescita della neoplasia e il suo potenziale metastatico dipendono dallo sviluppo di un network capillare dedicato che, da un lato, rifornisce le cellule tumorali di ossigeno e nutrienti e, dall’altro, consente loro di raggiungere la circolazione sistemica. La caratterizzazione di questo sistema di microvascolarizzazione attraverso miniprobes, con l’ausilio di software per l’elaborazione delle immagini, permette di diagnosticare precocemente una trasformazione neoplastica e il potenziale metastatico del tumore. Questo endomicroscopio nasce dall’associazione di un microscopio confocale miniaturizzato, all’estremità di un endoscopio classico, permettendo così di effettuare l’analisi classica e quella a livello microscopico della mucosa simultaneamente. L’endoscopio è attrezzato con un laser a ioni di argon che emette un raggio a 488nm sulla superficie del tessuto, permettendo la registrazione di immagini della mucosa a diverse profondità. Il sistema comprende un catetere flessibile che riveste fibre ottiche connesse a un micro - obbiettivo e ad un laser, che emette a 488nm, il tutto collegato a un software per il controllo e l’acquisizione. Questa tecnologia permette l’acquisizione di immagini a un elevato grado di risoluzione anche grazie all’utilizzo di mezzi di contrasto fluorescenti, eccitati appunto dal laser, quali la fluoresceina (somministrata per via intravenosa) o l’acriflavina (per uso topico). La prima si lega in modo aspecifico all’albumina del plasma, “colorando” il sistema vascolare, mentre

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l’acriflavina è in grado di penetrare nelle cellule evidenziando nucleo e citoplasma delle cellule. Lo spettro delle applicazioni potenziali della tecnologia endoscopica confocale è molto ampio e comprende patologie a carico sia dell’alto che del basso intestino, soprattutto nel monitoraggio dei cambiamenti a carico dell’architettura vascolare dell’esofago, dello stomaco e del colon. La CLE può essere infine utilizzata per monitorare e caratterizzare un determinato tipo cellulare se questo può essere marcato in modo specifico, dando origine a quella che viene definita immunoendoscopia (Hsiung et al., 2008). Sempre nel tentativo di migliorare l’accuratezza della diagnosi di eventi cancerosi nell’apparto digerente è stato presentato, dopo uno studio condotto in collaborazione tra diversi centri europei, un nuovo ago per effettuare le biopsie durante un’endoscopia. L’ago è stato studiato per poter essere utilizzato con la sonda di un endoscopio laser e permette di ottenere campioni di tessuto intatti che possono esser utilizzati per analisi di tipo istologico (al contrario delle analisi citologiche, basate sulle singole cellule, effettuati normalmente sui campioni bioptici) in quanto in grado di raggiungere tessuti in zone scarsamente accessibili. Ancora nell’ambito della diagnostica, si è costantemente alla ricerca di un sistema ottimale per la diagnosi precoce del cancro al senso, elemento che si è dimostrato ridurre significativamente la mortalità. La mammografia rappresenta senza dubbio la scelta d’elezione, ma è caratterizzata da una bassissima specificità e non è in grado di riconoscere la totalità delle lesioni neoplastiche mammary. I limiti della mammografia sono particolarmente importanti nelle donne con un seno cosiddetto "denso", nelle quali la presenza di una ghiandola mammaria di elevata radiopacità impedisce uno studio adeguato e rende difficoltoso, se non impossibile, il riconoscimento dei segni radiologici del tumore. La risonanza magnetica, con l’ausilio di un mezzo di contrasto, può essere utile, soprattutto perché non espone il tessuto a radiazioni ionizzanti, ma è caratterizzata da una specificità ancora minore rispetto a quella della mammografia (Saslow et al., 2007) e non sempre permette di distinguere tra lesioni benigne, quali fibroadenomi, e quelle cancerose. La caratterizzazione metabolica dei tessuti invece garantisce un ottimo livello di accuratezza e può fornire dati certi sulla natura delle lesioni riscontrate. Si può, a questo scopo, far ricorso alla spettroscopia di risonanza magnetica nucleare in vitro (NMR), che permette la determinazione dei metaboliti, e le loro concentrazioni, presenti in campioni prelevati (Belkić and Belkić, 2011). I segnali che si ottengono da analisi di questo tipo vanno integrati per poter ottenere una visualizzione sotto forma di spettro. Per fare questo si utilizza tendenzialmente la trasformata di Fourier, che, in questo tipo di analisi però mostra troppi limiti. È stato quindi messo a punto un software che sfrutta l’approssimante di Padé (Fast Padé Transform) ed è in grado di determinare l’esatto numero di metaboliti e le loro concentrazioni, anche quando questi sono caratterizzati da segnali

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veramente vicini se non in parte sovrapposti. Questo è particolarmente importante, per esempio, nella quantificazione di colina, fosfatidilcolina e fosfoetanolammina; le loro quantità relative e il rapporto infatti risulta essere caratteristico delle diverse condizioni che si possono diagnosticare. Al MIT (Massachusetts Institute of Technology, Boston) alcuni ricercatori hanno messo a punto un sistema economico e semplice da utilizzare per la diagnosi della cataratta. Il dispositivo utilizza una fotocamera, come quella di un telefono cellulare, contro cui va appoggiato l’occhio, che registra, attraverso un raggio di luce, spot sfocate. Questo permette di ottenere una sorta di mappa della cataratta, fornendo molte più informazioni di quelle ottenute mediante un test oftalmologico standard. In realtà, questo strumentino è in grado di fornire più informazioni di quelle necessarie, al momento, per stabilire se è necessario o meno l’intervento, ma che potranno essere sfruttate per ulteriori evoluzioni dello strumento. Sempre negli Stati Uniti, è stato messo a punto un sistema che utilizza una tecnologia innovativa per migliorare l’accesso alle linee vascolari periferiche, poiché permette di visualizzare la posizione e l’orientamento della vascolarizzazione del paziente. È infatti stimato che negli Stati Uniti ogni anno sia necessario effettuare circa un miliardo di punture intravenose rendendo necessari diversi tentativi. Questi però comportano un incremento della spesa, perdita di tempo, maggior rischio di infezioni e fastidio, quando non dolore, per il paziente. Ci sono poi casi in cui le vene sono troppo piccole o difficili da trovare; i risultati preliminari, raccolti negli studi effettuati finora, mostrano che l’utilizzo del sistema comporta un aumento delle probabilità di successo al primo tentativo dal 49% all’80%. Questo, a sua volta, è associato ad una diminuzione del dolore legato alle procedure e ad una diminuzione sia delle ferite sia della necessità di fare ricorso a procedure più invasive. L’applicazione delle nanotecnologie più avanzate in ambito diagnostico ha portato allo sviluppo, in Giappone, di una capsula endoscopica. Si tratta di un dispositivo lungo 4.5 cm e largo 1 con una specie di codina che ricorda una pinna magnetica e che le permette di muoversi all’interno del tubo digerente mentre viene controllata a distanza per mezzo di un joystick. La capsula riesce a muoversi lungo tutto il tubo digerente, dall’esofago al colon, e la fotocamera di cui è fornita, grazie ad una batteria in grado di resistere tra le 8 e le 10 ore, permette l’acquisizione di diverse immagini. Il movimento del dispositivo è garantito da una forza elettromagnetica, anche se non è chiaro se sia autonomo o richieda l’ausilio di una fonte esterna. Per diagnosticare in modo sempre più precoce ed accurato il cancro dell’esofago e del colon alcuni ricercatori del MIT (Massachussets Institute of Technology) hanno sviluppato un nuovo sistema di imaging che permette di visualizzare, attraverso immagini tridimensionali, modificazioni pre-cancerose a livello microscopico. Il sistema sfrutta una tecnologia emergente, già utilizzata nel campo dell’oftalmologia per la diagnosi del glaucoma, chiamata Tomografia a Coerenza Ottica (OCT), che consente la visione tridimensionale, nel dettaglio

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microscopico, al di sotto della superficie. Finora, per la diagnosi di tumori nel tratto gastrointestinale, l’endoscopia rappresenta il metodo per eccellenza, ma si limita ad esaminare le superfici, senza considerare quanto accade al di sotto di esse. L’OCT, al contrario, riesce a visualizzare anche la situazione sottostante, utilizzando, in modo analogo alle tecniche che sfruttano gli ultrasuoni, la luce per ottenere immagini in tempo reale del corpo umano. Questo endoscopio che sfrutta l’OCT (Fujimoto et al, 2011) riesce a catturare immagini ad una velocità elevatissima (980 frames al secondo), circa 10 volte più veloce degli strumenti attualmente a disposizione, permettendo l’acquisizione di dati in 3D con una risoluzione nella scala micrometrica. Poiché il sistema sfrutta un raggio di luce, la qualità delle immagini decresce esponenzialmente penetrando nei tessuti, per cui risultati ottimali si ottengono fino a 1-2 mm di profondità, che coincidono con la maggior parte delle zone da cui vengono prelevati generalmente i campioni bioptici. Il sistema, inoltre, sembra essere un ottimo strumento per guidare i campionamenti bioptici, in modo che questi possano essere realmente rappresentativi della situazione e non, per errore, raccolti in zone che non mostrano alterazioni cancerose.

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NANOTECNOLOGIE E NANOMEDICINA Quando si parla di nanoMedicina si fa riferimento a tutte le applicazioni nanotecnologiche in ambito di trattamento, diagnosi e controllo dei sistemi biologici (Moghimi et al., 2005), in particolare a beneficio della salute umana e degli esseri viventi (Surendiran et al., 2009). La nanoMedicina è un soggetto di ampio respiro e fa riferimento all’impiego di nanoparticelle (le cui dimensioni sono comprese tra 1 e 100 nm), concepite e sfruttate in diagnostica, terapia e come strumenti biomedicali utili per la ricerca (Medina et al., 2007). Grazie agli strumenti messi a disposizione è possibile, da un lato, mettere a punto terapie che vadano ad agire a livello molecolare e dall’altro incrementare sempre di più la sensibilità e precisione dei metodi diagnostici per un’individuazione sempre più precoce delle malattie. Le nanotecnologie rappresentano un ramo della scienza dedicato alla manipolazione di atomi e molecole per la realizzazione di strutture che rientrino nella scala dei nanometri (attorno ai 100nm se non più piccole), caratterizzate da proprietà uniche. Le caratteristiche chimiche e fisiche dei materiali possono, infatti, migliorare significativamente o comunque modificarsi radicalmente quando vengono ridotti ad essere piccoli gruppetti di atomi (Poole, 2003). In particolare le nanotecnologie offrono nuovi strumenti nel campo dell’oncologia, definendo il settore della nanooncologia (Jain, 2011), per quanto riguarda l’ambito sia diagnostico che terapeutico. Nanotecnologie e diagnostica del cancro Le tecniche assodate per quanto riguarda la diagnostica per immagini nel campo dell’oncologia sono attualmente la risonanza magnetica nucleare (MRI), la tomografia computerizzata (CT), l’ultrasonografia e la tomografia ad emissione di positroni (PET). Esse presentano però tutte limitazioni dovute principalmente alla scarsa risoluzione e all’impossibilità di monitorare cambiamenti che avvengono a livello microscopico o molecolare. Spesso poi l’interpretazione dei dati può essere complicata dalla presenza di edemi, infiammazioni o cicatrici o per un banale movimento del paziente durante l’esame. Le nanoparticelle, in particolare i nano sensori magnetici, sono i candidati ideali per lo sviluppo di piattaforme per l’individuazione di biomarkers specifici; la tecnologia alla base garantisce una sensibilità di almeno 1000 volte superiore rispetto a quella delle tecnologie attualmente in uso. Sui nanosensori possono trovare “posto” chip in grado di individuare simultaneamente una serie di proteine o trascritti (lo stampo che porta alla sintesi delle proteine) a partire dai fluidi corporei, permettendo una diagnosi precoce nei topi (Gaster et al., 2009). Sempre nei topi è stato messo a punto un sistema per l’individuazione delle cellule tumorali che circolano nel flusso sanguigno; nel dettaglio le nanoparticelle magnetiche, opportunamente funzionalizzate, sono in grado di riconoscere e legare, mediante l’ausilio di un magnete, le cellule cancerose tipiche di una neoplasia al seno (Galanzha et al., 2009). Questo tipo di approccio risulta utile anche nell’individuazione di cellule metastatiche.

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Alcune nanoparticelle, come ad esempio quelle paramagnetiche (MNPs) formate da ossido di ferro (principalmente magnetite, Fe3O4 e maghemite, γ-Fe2O3) vengono utilizzate in sostituzione dei mezzi di contrasto classici (Qiao et al., 2009). Queste permangono nei tessuti più a lungo, minimizzando la quantità necessaria per effettuare un esame e i relativi effetti tossici, permettendo di acquisire un maggior numero di scansioni, cosa che porta a un miglioramento nella qualità finale delle immagini registrate. La caratteristica più interessante è però collegata al fatto che queste particelle possono essere funzionalizzate attraverso diversi agenti (enzimi, peptidi, anticorpi, ecc), cosa che le rende estremamente specifiche e selettive per uno specifico tipo cellulare (Yang et al., 2008). Le MNPs, in questo ambito possono essere poi utilizzate anche per l’imaging in ambiti svincolati dall’oncologia; quelle rivestite di chitosano, ad esempio, vengono utilizzate per l’identificazione degli emboli, mentre quelle rivestite di destrani permettono di visualizzare lesioni a carico del fegato (discriminando anche tra tumori maligni e emoangiomi) e patologie a livello cardiovascolare; MNPs rivestite con l’amido invece sono state utilizzate, per il momento solo sui topi, per analisi MRI in vivo sul cervello ( Dias et al., 2011).

Nanotecnologie per la terapia del cancro Oltre ai trattamenti “classici” le nanotecnologie aprono la strada a nuove forme di terapia. Tra le più promettenti in questo ambito c’è l’ablazione termica delle cellule cancerose. Al contrario delle tecniche di ablazione impiegate finora questa è del tutto non invasiva e il riscaldamento delle nanoparticelle (a base di oro, di ferro, quelle paramagnetiche e i nano tubi) può essere indotto mediante l’utilizzo di magneti, lasers, ultrasuoni, terapia fotodinamica e raggi X a bassa potenza. Questo tipo di terapia, inoltre, può essere affiancato ad altri tipi di trattamento per aumentarne gli effetti: occorre una minor dose di radiazione per uccidere le cellule cancerose se queste vengono contemporaneamente trattate per ipertermia (Jain KK, 2008). Gli studi effettuati pongono tra i problemi quello di riscaldare selettivamente il sito colpito dal tumore senza danneggiare i tessuti circostanti. Le nanoparticelle potrebbero esser pilotate dal campo magnetico esterno fino a quando raggiungono la zona d’interesse, anche se questo comporta comunque un riscaldamento del corpo. Ideale sarebbe l’utilizzo di nanoparticelle funzionalizzate in grado di raggiungere specificatamente il sito bersaglio prima del riscaldamento. La temperatura critica in grado di indurre apoptosi nelle cellule cancerose è compresa tra i 42°, mentre le cellule normali sono in grado di sopravvivere in queste condizioni e i 45°C. Esistono attualmente in commercio prodotti per il trattamento ipertermico, che necessita però di esser ulteriormente ottimizzato perché in alcuni casi, in seguito all’esposizione al campo magnetico, la temperatura può raggiungere valori attorno ai 97.5°C (Zhao et al., 2009). Tra i trattamenti da poco entrati in trials clinici per cancri refrattari al collo o alla testa (El-Sayed, 2010) sembra particolarmente promettente la terapia fototermica plasmonica (Plasmonic PhotoThermal Theraphy) che utilizza nanoparticelle di oro in grado di assorbire il massimo livello di energia quando eccitate nella

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regione del vicino infrarosso ( tra 650 e 900 nm), altamente penetrante nei tessuti umani (Schwartz et al., 2009). Oltre all’impiego nell’ambito terapeutico e dell’ imaging, le nanoparticelle paramagnetiche possono essere utilizzate anche in quello diagnostico, per la costruzione di biosensori (Haun et al., 2010). La superficie delle MNPs infatti può essere modificata con recettori, anticorpi o enzimi di diverso tipo, portando allo sviluppo di biosensori miniaturizzati; come ad esempio il sensore per il glucosio (Kaushik et al.,2008) o quello per il riconoscimento di virus quali l’Herpes simplex e l’Adenovirus. Tra i dispositivi ibridi “del futuro”, a metà strada tra il biologico e l’elettronica, sembrano decisamente interessanti i respirociti e i microbivori. I respirociti sono globuli rossi artificiali (Freitas, 1998) caratterizzati da una maggiore capacità di ossigenazione. Presentano sulla loro superficie dei sensori capaci di percepire cambiamenti nell’ambiente in cui si trovano e, attraverso il nanocomputer di cui sono forniti, regolare di conseguenza sia l’intake che il rilascio di ossigeno e anidride carbonica. Le simulazioni effettuate mostrano che l’infusione di un litro di una soluzione salina di respirociti al 50% dovrebbe teoricamente permettere l’ossigenazione di un paziente per almeno 4 ore dopo un arresto cardiaco (Freitas, 2008). I microbivori, analogamente, sono strutture artificiali teoricamente in grado di funzionare come globuli bianchi (Freitas, 2005), e particolarmente adatti alla fagocitosi dei microbi presenti. Il microbo verrebbe veicolato in una zona specifica del dispositivo per la degradazione enzimatica. La sua digestione risulterebbe quindi in un rilascio di amminoacidi, acidi grassi, nucleotidi e zuccheri. Sono in fase di studio per un utilizzo nei casi di setticemia, durante i quali la loro funzione di “spazzini” ha una velocità di gran lunga superiore all’impiego dei classici antibiotici.

Le nanoparticelle, in virtù delle dimensioni microscopiche che conferiscono loro vantaggi unici, sembrano però avere anche possibili svantaggi per un utilizzo medico. Sembra, infatti, che siano potenzialmente capaci di causare diverse patologie a carico del sistema respiratorio, cardiovascolare e gastrointestinale. Nei topi, la somministrazione intra-tracheale di nanotubi, ha portato a un aumento dell’incidenza di differenti patologie dei polmoni (Li et al., 2007). D’altra parte le nanoparticelle poi possono anche raggiungere il sistema nervoso centrale attraverso l’accesso diretto tramite gli assoni nella via respiratoria o attraverso la circolazione sistemica: se da un lato la capacità di oltrepassare la barriera emato-encefalica rappresenta un vantaggio di considerevole importanza, presentandosi come una via alternativa di somministrazione di farmaci e altri fattori, può anche portare a reazioni infiammatorie all’interno del cervello (Elder et al. , 2006). Alcuni studi (Radomski et al., 2005) hanno anche messo in evidenza un effetto pro- aggregante in vitro e un’accelerazione di trombosi vascolari in studi effettuati su ratto.

Uno dei punti di forza dei nano materiali è la possibilità di essere utilizzati come un ottimo materiale di partenza per l’ingegneria biomedicale. In quest’ottica i ricercatori della Northwestern University (Illinois, Stati Uniti) hanno sviluppato

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delle nano fibre dotati di proprietà che permettono loro di mimare l’effetto del fattore di crescita dell’endotelio vascolare (VEGF). La rigenerazione dei vasi sanguigni, infatti, è di estrema importanza, non solo a seguito di attacchi ischemici, ma anche quando la circolazione risulta ostacolata o è necessaria in misura cospicua, come a seguito del trapianto di organi. Poiché il trattamento con il VEGF ha numerosi, troppi, svantaggi, il gruppo del prof. Stupp ha messo a punto una terapia completamente sintetica (Webber et al., 2011) che sfrutta una nano struttura in forma di fibra che permettono di accumulare sulla superficie un elevatissimo numero di peptidi in grado di mimare l’effetto del VEGF. La nanostruttura biodegradabile così assemblata è in grado, al contrario del VEGF, di rimanere nei tessuti per un periodo di tempo molto più lungo, può essere facilmente iniettato in forma liquida e la sua produzione è decisamente economica. I filamenti simil-VEGF, già testati su modelli murini, sembrano indurre la fosforilazione dei recettori per il VEGF e scatenare tutta la cascata di eventi in grado di promuovere il comportamento pro-angiogenico nelle cellule endoteliali, mentre il solo peptide non ha tale capacità. In quest’ottica, sempre per quanto concerne i biomateriali, un gruppo di nano-ingegneri dell’università di San Diego (California, Stati Uniti) ha sviluppato un nuovo tipo di biomateriale dotato d proprietà meccaniche straordinariamente simili a quelle dei tessuti umani. Questo materiale, spesso come un capello umano, al contrario di tutti i tessuti ingegnerizzati disposti in strati, che si dispongono a formare buchi circolari o quadrati, riescono ad organizzarsi in due nuove strutture alternative, “a nido d’ape” e “forma di costola”, che sono quelle che riescono a conferire delle proprietà peculiari e innovative. La proprietà più interessante di questi biomateriali è quella di possedere un rapporto di Poisson negativo che sta ad indicare che non formano grinze dopo esser stati tesi, proprietà che mantengono anche quando vengono posti in strati, uno sopra l’altro (Fozdar et al., 2011). Come il materiale, è innovativo anche il processo di produzione, una tecnica di biofabbricazione che utilizza la luce, nel dettaglio degli specchi controllati e un sistema di proiezione computerizzato; gli schemi sono proiettati su una soluzione di cellule e polimeri, in modo che si possano organizzare secondo quelli in strutture tridimensionali. Tutte le caratteristiche di tali biomateriali li rendono particolarmente compatibili per la costruzione di cerotti per le pareti danneggiate del cuore, per i vasi sanguigni e per la pelle, risultando maggiormente compatibili coi tessuti naturali, rispetto ai rimedi attualmente disponibili. Nello specifico, per “riparare” il tessuto cardiaco, danneggiato in seguito ad un infarto, i ricercatori della Brown University (Rhode Island, Stati Uniti) stanno lavorando per utilizzare i nano tubi in carbonio per rigenerare i cardiomiociti e i neuroni; utilizzando polimeri e nano tubi allestiscono una sorta di struttura su cui poi vengono fatti “crescere” i cardiomiociti. Le nanofibre di carbonio funzionano bene poiché sono ottimi conduttori di elettroni e riescono a ricreare quel tipo di collegamenti elettrici su cui il cuore fa affidamento per mantenere un ritmo costante. Le cellule cardiache vengono inoculate su strutture assemblate a partire dai nanotubi (CNF) e da un co-polimero di acido polilattico e di acido glicolico (PLGA) e quindi lasciate crescere. I risultati ( Stout et al., 2011) hanno evidenziato che su queste strutture composite, dopo poche ore, si sviluppano

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molti più cardiomiociti, fino a cinque volte, rispetto a quanti si sviluppano sullo scaffold costituito dal solo co-polimero e un risultato del tutto analogo è stato osservato anche per la proliferazione delle fibre nervose, entrambe importantissime per le applicazioni di ingegneria tissutale del miocardio. Un’applicazione innovativa e particolare dei nanomateriali è quella proposta in seguito ad uno studio congiunto tra la IBM e l’Istituto di Bioingegneria e Nanotecnologie di Singapore che ha portato allo sviluppo di di un nuovo polimero in grado di individuare distruggere batteri resistenti agli antibiotici quali l’MRSA (Staphylococcus aureus meticillino-resistenti). Il polimero, in virtù della nano struttura su cui è basato, non influisce sui globuli rossi in circolo, è completamente biodegradabile e viene quindi eliminato naturalmente dal corpo; la peculiarità maggiore sta nel fatto che riesce a prevenire che i batteri sviluppino la resistenza agli antibiotici (Nederberg et al., 2011). Al contrario dei polimeri dotati di tale attività in studio, quello riportato nell’articolo è il primo completamente biodegradabile che può essere impiegato in vivo. Questa struttura viene assemblato in seguito alla polimerizzazione di carbonati ciclici funzionalizzati, mediante una reazione che non prevede la catalisi mediata da metalli. Le nanoparticelle che la compongono sono risultate capaci di distruggere in modo selettivo la membrana e/o la parete microbica, inibendo la crescita del batterio Gram positivo MRSA e di alcuni funghi, senza indurre l’emolisi. Queste nano strutture possono essere prodotte commercialmente a bassi costi, per cui possono trovare posto in’ampia gamma di applicazioni quali l’iniezione diretta, la medicazione topica, ma anche in prodotti di largo consumo quali possono essere i deodoranti, i saponi e gli igienizzanti per mani.

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BIOMATERIALI Gli studiosi che operano nel settore delle scienze dei materiali sono molto interessati, tra le altre cose, a quelli che vengono definiti biomateriali, ovvero materiali compatibili con un sistema vivente, per le applicazioni medicali più diverse, compresa la “rigenerazione” dei tessuti. Tra questi hanno attirato particolare attenzione quelli definiti osteoinduttivi, ovvero capaci di indurre, una volta impiantati, la formazione delle ossa (processo noto anche come osteogenesi). Nonostante l’esatto meccanismo che sta alla base dell’osteoinduzione non sia ancora stato compreso a fondo, il fenomeno è stato riscontrato mediante l’utilizzo di diversi materiali soprattutto a base di fosfato di calcio, quali ad esempio ceramica e cementi, ma anche polimeri e metalli (Barradas et al., 2011). Gli studi effettuati hanno messo in luce come tali proprietà siano correlate alla composizione chimica, ma anche alle caratteristiche della superficie, quali la porosità, la ruvidezza del biomateriale. Peculiare è soprattutto l’importanza della porosità: non è mai stata osservata formazione di nuovo materiale osseo su ceramiche dense, ma sempre all’interno dei pori; sembra quindi che la macrostruttura del biomateriale debba garantire, da una parte, il corretto afflusso di nutrienti, ossigeno e cellule e, dall’altro zone protette (siano pori, canali o concavità) all’interno delle quali possa avvenire la neoformazione di materiale osseo. Diventa quindi fondamentale sviluppare tecniche che permettano un disegno razionale del biomateriale, in modo da poter controllare ogni singolo parametro e, all’occorrenza, modificarne uno o combinazioni di questi, per ottenere le caratteristiche desiderate. Sempre nel tentativo di stimolare la formazione delle ossa, diversi ricercatori del Fraunhofer Institute (Dresda) hanno sviluppato una specie di schiuma di titanio (Kim and Lee, 2011) in grado di sostituire il metallo solido negli impianti ortopedici. Il sistema di fabbricazione comporta la saturazione di una schiuma di poliuretano con una soluzione contenente anche polvere di titanio e porta alla formazione di una sostanza con caratteristiche meccaniche molto simili a quelle delle ossa umane, con un ottimo compromesso tra durezza estrema e minima rigidità.

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BIOTECNOLOGIE E DIAGNOSTICA IN VITRO Le biotecnologie permettono non solo di ampliare il panel di opzioni tra cui il paziente può scegliere, ma aumentano anche la qualità di tali opzioni. Trovano infatti espressione sia a livello terapeutico (per quanto riguarda la scoperta di nuovi farmaci e terapie in generale), sia a livello diagnostico e preventivo (per quanto concerne lo sviluppo di test e vaccini). Per quanto riguarda la sfera della prevenzione i vaccini rappresentano senza dubbio un campo applicativo di notevole interesse in cui i progressi provenienti da settori scientifici diversi possono convergere. Quelli di prima generazione si basavano su microorganismi in qualche modo resi inoffensivi, ma comunque in grado di scatenare una risposta immunitaria adeguata. Poiché questi mantenevano una residua capacità di revertire nella forma pericolosa sono stati sostituiti dai vaccini di seconda generazione, composti da singole porzioni dell’agente infettivo, in genere proteine peculiari definite antigeni, in grado di indurre una reazione del sistema immunitario minimizzando però la possibilità di infezione. Non si inocula nel paziente il germe attenuato, ma soltanto una sua frazione, generalmente degli antigeni presenti sulla sua superficie, di norma di natura proteica. Un'altra possibilità è usare soltanto la tossina prodotta da alcuni batteri patogeni, opportunamente resa inoffensiva con un trattamento chimico. Le tossine così trattate vengono definite “tossoidi”. Il vaccino antipertosse, per esempio, si basa appunto sul tossoide della Bordetella pertussis, il batterio all'origine della malattia. Le subunità possono essere ottenute anche con la metodica del DNA ricombinante. In pratica si inserisce nel DNA di un batterio "buono" il gene del germe che comanda la produzione della proteina, così da produrne grandi quantità. Sono ottenuti in questo modo il vaccino contro l'epatite B e quello contro la malattia di Lyme. In questo modo nulla di quanto viene introdotto nell'organismo ha mai avuto a che fare con il patogeno, quindi si azzera la possibilità di contaminazioni con altro materiale virale o batterico, spesso all'origine degli effetti collaterali registrati soprattutto nei bambini (rossore nel punto di inoculazione, febbre eccetera). Un passo successivo, attuato per quei particolari batteri dotati di una particolare struttura esterna detta capsula, è il ricorso non a proteine di superficie ma a oligosaccaridi o polisaccaridi (particolari tipi di zuccheri) specifici della capsula. L'evoluzione successiva sono i vaccini coniugati, nei quali il polisaccaride è legato a una frazione proteica, così da aumentare l'immunogenicità. Un vaccino coniugato di largo impiego è quello contro l'Haemophilus influenzae tipo b (Hib). Come si può facilmente capire, la tendenza in questo campo è arrivare al punto di esporre le persone soltanto a quanto è indispensabile a creare l'immunizzazione, ma non una molecola di più. I vaccini sviluppati più recentemente, quelli definiti di terza generazione, si basano sull’iniezione della sequenza di DNA codificante per gli antigeni, che vengono così prodotti dalle cellule dello stesso organismo. Il DNA estraneo, privato delle strutture proteiche che lo accompagnano di norma, entra facilmente nelle cellule bersaglio dell'organismo dove viene “letto” e tradotto nel prodotto finale, ovvero l’antigene che, trovandosi all'interno della

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cellula, verrebbe immediatamente riconosciuto dal più potente dei "meccanismi" immunitari, il Complesso Maggiore di Istocompatibilità Classe I. Questa strada sembra essere la più promettente per le infezioni virali croniche come l'epatite C e B, l'herpes virus e l'HIV. Finora esperienze coi vaccini DNA sono state condotte (ovviamente nel topo) sull'influenza. Il rischio maggiore è che il DNA virale venga incorporato nel genoma dell'individuo ospite. Per ora non vi sono dati che indichino che questo avvenga, ma è necessario che il pericolo possa essere escluso prima di passare alla sperimentazione nell'uomo. Il sostanziale vantaggio di un vaccino di questo tipo è che induce una risposta immunitaria senz'altro superiore a quella dei vaccini tradizionali, dove le tecniche per svirulentare i germi possono anche alterare la struttura dell'antigene e forse superiore a quella della stessa infezione "naturale". La ragione starebbe nel fatto che l'antigene prodotto all'interno delle cellule dell'organismo ospite viene presentato per un periodo più lungo alle cellule competenti per l'immunità. Elettroporazione I vaccini a DNA presentano numerosi vantaggi quali costi contenuti di produzione, possono essere conservati facilmente, sono altamente specifici e, soprattutto, possono essere combinati in modo da ottenere una vaccinazione verso diverse infezioni contemporaneamente (Gurunathan et al., 2000). D’altra parte, però, presentano anche alcune limitazioni tra cui I bassi livelli d’espressione e l’incapacità di scatenare una risposta immunitaria sufficiente. Entrambe sembrano poter essere comunque superate utilizzando l’elettroporazione (EP) come sistema di rilascio. L’applicazione di un campo elettrico, determina la formazione di pori sulla membrane cellulare che diventa così permeabile alle molecole di DNA. I metodi di elettroporazione esistenti però si basano sull’inserimento nei muscoli di elettrodi costruiti come aghi. I muscoli sono il tessuto prescelto perché accessibili, vascolarizzati, multinucleate e in grado di esprimere il DNA esogeno per lunghi periodi. Questo tipo di somministrazione è però piuttosto dolorosa; ecco perché sono in studio sistemi per la somministrazione per via transdermica attraverso sistemi che possano limitare il dolore, quali il Multi-Electrode Array (MEA) (Donate et al., 2011). Il sistema MEA è composto da 16 elettrodi posizionati a 2mm uno dall’altro e organizzati in 4 file. Gli impulsi vengono applicati seguendo una sequenza che utilizza 4 elettrodi alla volta secondo uno schema a quadrati di 2 per 2mm. Gli studi condotti, per il momento, su animali hanno mostrato che il sistema MEA è assolutamente utilizzabile per l’immunizzazione portando ad un incremento nell’espressione del DNA esogeno e nella reazione immunitaria. Inoltre non comporta nessun danno all’epidermide aprendo la via allo sviluppo di elettrodi ancora meno invasivi.

I diagnostici sono strumenti per l’analisi di campioni biologici con diverse finalità tra cui la valutazione della probabilità del manifestarsi di una certa patologia in un determinato individuo (105), la diagnosi o l’identificazione di questa e, durante il successivo trattamento terapeutico, permette di monitorarne l’andamento e l’efficacia. I diagnostici sviluppati grazie alle biotecnologie possono essere suddivisi tra protein-based o DNA-based.

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I primi possono individuare o cambiamenti nel livello d’espressione di alcune proteine peculiari, cui si assiste in seguito all’insorgenza della patologia (per esempio i test per identificare l’epatite o il cancro alla prostata), o proteine sintetizzate tipicamente durante l’infezione, come avviene nel caso dei test per l’HIV. L’identificazione delle proteine caratteristiche avviene tipicamente mediante un saggio immunochimico dove un anticorpo specifico riconosce solo ed esclusivamente la proteina d’interesse. Il saggio si complica leggermente quando deve essere quantitativo; in questo caso viene generalmente condotto in condizioni diverse, per poter definire l’abbondanza relativa delle proteine esaminate. I test di diagnostica molecolare (o DNA-based) invece, vanno ad identificare alterazioni a livello della sequenza di DNA. Questo è possibile quando una patologia o disfunzione è chiaramente associata ad un genotipo definito (sono attualmente disponibili test di diagnostica molecolare per oltre 1000 “disordini” genetici). Questo tipo di esame può esser impiegato per valutare il rischio di insorgenza di una determinata condizione, soprattutto in ambito pre-natale. Tra i sistemi diagnostico/terapeutici a carattere biotecnologico, alcuni ricercatori dell’Università di Sheffield (Regno Unito) hanno sviluppato un gel che contiene dei polimeri in grado di emettere fluorescenza in seguito alla presenza di batteri. Questi polimeri sono coniugati ad un antibiotico e a un colorante fluorescente in modo tale che l’interazione coi batteri comporti un cambiamento conformazionale capace di generare un segnale fluorescente se eccitato attraverso luce UV. Se il gel è applicato su una ferita, Il livello di fluorescenza è in grado di fornire indicazioni sulla colonizzazione batterica. Si tratterebbe di un sistema che permette di verificare in poco tempo la presenza o meno di un’infezione (di prassi è necessario invece attendere più giorni la crescita della coltura derivante da un tampone), in modo da poter garantir un trattamento antibiotico adeguato e tempestivo, soprattutto in casi “limite” e ad elevato rischio come nel caso della Medicina militare e delle ustioni. Gli studi effettuati hanno dimostrato la capacità di tali polimeri in grado di interagire e reagire con batteri Gram negativi (quali Legionella, Salmonella ed Escherichia coli), mentre per batteri Gram positivi (MRSA e Neisseria meningitidis, ad esempio) il team è alla ricerca di polimeri promettenti. I ricercatori confidano che questa tecnologia possa ridurre notevolmente i tempi per l’identificazione delle infezioni e possa essere impiegata anche nel caso di ingegneria tissutale della pelle. Quanto ottenuto fin’ora è il frutto di un progetto iniziato nel 2006 e finanziato dal Consiglio per la Ricerca in Ingegneria e nelle Scienze Fisiche e dal Laboratorio delle Scienze e Tecnologie per la Difesa (un’agenzia del Ministero della Difesa che ha interessi nella Medicina d’urgenza sul campo di battaglia). Oltre a polimeri adatti a riconoscere batteri di natura diversa il gruppo sta lavorando anche su una tecnica piuttosto sofisticata basata sull’emissione di fluorescenza in seguito alla trasmissione di energia non radiativa (NRET); questa, infatti, potrebbe risultare estremamente utile per rilevare contaminazioni batteriche o il rilascio di patogeni, accidentali o volontari, nella lotta contro il terrorismo e comunque per garantire a salute pubblica. Sempre in questa sfera, al confine tra il diagnostico e il terapeutico, si colloca anche un altro dispositivo, messo a punto da uno studente di dottorato della Monash University di Melbourne. Si tratta di una benda che cambia colore in

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risposta a variazioni della temperatura. Simile ad un anello che cambia colore in base all’umore in formato gigante, questa sorta di benda psichedelica è filata attraverso delle speciali fibre termocromatiche in grado di rilevare cambiamenti della temperatura nell’ordine di mezzo grado centigrado. Poiché sia l’infiammazione, sia problemi riguardanti il flusso sanguigno, in una zona ferita, possono determinare un incremento della temperatura che può causare un’infezione, una diagnosi rapida ed accurata è assolutamente auspicabile e necessaria. I metodi utilizzati solitamente sfuttano strumenti elttonici che necessitano, quindi di elettricità, sono più costosi e non danno risultati immediati, mentre queste fibre possono variare colore all’interno di una vasta gamma cromatica, in modo che gli addetti ai lavori possano identificare il cambiamento di temperatura riportandosi ad una sorta di curva di calibrazione.

Diagnosi precoce di malattie neurodegenerative Le malattie neurodegenerative rappresentano un onere considerevole per la Sanità Pubblica: hanno un decorso strisciante e inesorabilmente progressivo che viene portato alla luce quando il danno al paziente è già in fase avanzata, precludendo nella quasi totalità dei casi la possibilità di una terapia efficace, che non sia solamente sintomatica. Per risolvere il problema, si tratta di effettuare “prevenzione” sugli adulti di 50 anni e oltre, con una diagnosi precoce, per tamponare il processo neurodegenerativo nella sua fase iniziale, quando è ancora controllabile. Nella Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA - ALS - Amyotrophic Lateral Sclerosis), ma anche nella maggioranza delle altre malattie neurodegenerative quali il morbo di Alzheimer (AD - Alzheimer Disease), il morbo di Parkinson (PD - Parkinson Disease), la corea di Huntington (HD - Huntington Disease), la Sclerosi Multipla (MS), al momento della diagnosi definitiva, la letteratura riporta che il paziente ha già perduto fino al 70% dei motoneuroni o neuroni, minimizzando la possibilità di intervenire in modo efficace sul processo degenerativo già in atto da tempo (Prasad et al., 1999). Innumerevoli esperimenti su animali dimostrano che le stesse molecole che svolgono azione terapeutica, se somministrate all’inizio del processo patologico, sono del tutto inefficaci quando il processo predetto è in una fase più avanzata, come dimostra, nell’uomo, il pressoché totale fallimento delle numerose terapie sperimentate per la sclerosi laterale amiotrofica ed altre malattie neurodegenerative diagnosticate secondo i protocolli attuali. In queste patologie, molecole potenzialmente efficaci, seppure impiegate nella fase immediatamente post-diagnosi, non danno nella pratica clinica alcun vantaggio. Per l’ALS nei quasi 140 anni trascorsi dalla sua scoperta, non vi sono stati sostanziali progressi terapeutici. Per ottenere un’efficace terapia di questa tipologia di malattie, la problematica si sposta dunque sulla messa a punto di una metodica che consenta una diagnosi precoce affidabile, alla quale far seguire, ove necessario, un’adeguata terapia farmacologica, tanto più potenzialmente efficace quanto più in fase iniziale è il processo e la sua diagnosi, quando, in altri termini, il meccanismo di distruzione neuronale è ancora all’inizio.

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A completamento di quanto detto, si deve notare che il processo degenerativo avviato da una qualsiasi causa al tempo t0, si dirama progressivamente in una serie di sotto-processi, molti dei quali auto-sostenenti e divergenti (Fallon et al., 1997), in grado di sostenere la patologia anche in assenza di alcuni dei rami collaterali. Di qui la necessità di poter controllare l’evoluzione di ciascun “ramo” della malattia, mediante markers adeguati a controllarne sia la presenza, sia l’evoluzione. Attualmente la malattia viene identificata da una serie di sintomi, analisi di tipo elettrofisiologico, tests sul liquor cerebro-spinale e indagini con risonanza magnetico-nucleare, solamente quando si manifestano segni clinici che ne fanno sospettare la presenza. L’ identificazione di markers della singola patologia, specie se individuabili con precocità attraverso test condotti sul sangue o su altri campioni biologici, incide su un duplice aspetto: la possibilità di effettuare una diagnosi anticipata rispetto ai segni clinici, aprendo le porte a una terapia efficace negli stadi iniziali, ma anche alla possibilità di controllare l’efficacia di ciascuna molecola terapeutica sui singoli sottoprocessi che si sviluppano nell’iter patologico. È questa la prospettiva con cui si stanno muovendo diversi laboratori (Clemens, 2009). Tutti i dati pubblicati riguardano risultati ancora in fase di scoperta, che necessitano di essere validati da studi clinici (da fase I a III), ma che si presentano come ottimo punto di partenza per lo sviluppo di nuovi sistemi diagnostici. I fluidi corporei, quali sangue, urina, saliva e , più recentemente, il liquor cerebrospinale, sono stati analizzati per l’identificazione di markers significativi nei saggi d’espressione genica. Per interpretare correttamente analisi di questo tipo, diventa indispensabile esser in grado di distinguere le variazioni dei livelli di RNA dovute al caso da quelle invece correlate al manifestarsi di una delle patologie prese in esame. Per arrivare a dati “certi” è stata analizzata l’espressione di geni in individui sani e in pazienti affetti da malattie neurodegenerative a partire da campioni di sangue e comunque tessuti periferici. Analisi high-thoughput di trascrittomica hanno messo in evidenza elevati valori di osteopontina (una proteina di legame coinvolta in processi infiammatori e legati all’immunità) nel sangue di pazienti affetti da sclerosi multipla (Comabella et al., 2005), proponendola come un ottimo candidato tra i biomarkers. Per quanto riguarda invece il morbo di Alzheimer è stata individuata una correlazione con i livelli del trascritto del gene SORL1 (Scherzer et al., 2004). Per quanto riguarda poi il morbo di Parkinson si tratta di una malattia eterogenea dal punto di vista eziologico, genetico, patologico e clinico, per cui diventa difficile riconoscere indici di rischio efficaci. Dopo studi incrociati sono stati individuati 8 geni, i livelli di trascrizione e traduzione dei quali sembra essre collegato a un maggior o minore rischio di sviluppare la malattia (Scherzer et al., 2007). Oltre agli studi concernenti l’espressione genica, parte della letteratura scientifica pertinente, ipotizza la formazione di metaboliti e cataboliti nei processi ossidativi e nitrosilanti con anticipo rispetto ai primi segni clinici, in tutte le malattie degenerative. Ne è un esempio la formazione, nei topi, di 8-hydroxy-2-deoxy-guanosine (8-OHdG), un marker di ossidazione del DNA, con largo anticipo (oltre il 10% della vita, nell’uomo cinquantenne dunque più di cinque anni), rispetto ai primi segni clinicamente riscontrabili. L’ossidazione del DNA e quindi la

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formazione di 8-OHdG, è universalmente riconosciuto come uno dei primi segni di degenerazione in atto nella SLA, AD, PD ed HD (Warita et al., 2001). Altri cataboliti che possono essere individuati in modo precoce in diverse patologie degenerative sono quelli legati all’ossidazione di acidi nucleici, lipidi di membrana e proteine, così come l’accumulo di perossido di idrogeno in seguito alla carenza di enzimi quali catalasi e glutatione perossidasi. Nel Parkinson è significativa la presenza di citochine infiammatorie nella substantia nigra, in particolare TNF-α, IL-1β ed IFN-γ . Di grande rilievo la situazione dei neurotrasmettitori presenti nelle aree cerebro-spinali: serotonina nell’AD, dopamina e noradrenalina nell’ALS, cortisolo nello stress, etc. Un capitolo a parte è costituito dai metalli, siano essi liberi o aggregati ai relativi transporters (metallothioneins o altro): sono presi in esame il rame (Cu), lo zinco (Zn), il ferro: (Fe), il manganese (Mn), il cadmio (Cd), l’alluminio (Al), il piombo (Pb), il mercurio (Hg) ed altri metalli di transizione o pesanti di volta in volta ritenuti significativi nell’effettuazione della diagnosi. Tra le malattie neurodegenerative bisogna poi considerare anche quelle a carattere infettivo, quali la malattia di Creutzfeldt-Jakob e l’Encefalopatia Spongiforme Bovina (BSE), altrimenti detta il “morbo della mucca pazza”, ad esempio. Queste, così come altre già analizzate (quali il morbo di Parkinson e quello di Alzheimer) appartengono alla classe di disturbi degenerativi caratterizzati da un alterato folding di proteine e quindi sono detti disordini conformazionali proteici (PCD). L’evento critico nelle PCD consiste nel cambiamento della struttura secondaria e/o terziaria (cioè il ripiegamento che fa assumere una certa conformazione alla proteina) di una normale proteina senza che vi sia stata una alterazione della sua struttura primaria (cioè la sequenza di amminoacidi che la compongono). Questa modifica conformazionale può promuovere la malattia sia per l’aumento dell’attività tossica che per la perdita della funzione biologica della proteina nativa. Infatti, è noto che proteine che contengono sequenze amminoacidiche irregolari o una anomala struttura secondaria o terziaria possono causare la formazione di aggregati insolubili in certi tessuti sia centrali che periferici. Questi depositi, denominati placche amiloidi sono responsabili di varie patologie di tipo neurodegenerativo e ne costituiscono i marker. Attualmente sono disponibili pochi metodi per identificare, trattare o inibire l’aggregazione di beta-amiloide o prioni, ed è difficile sviluppare un agente selettivo per aggregati di beta-amiloide e prioni da usare in tecniche di imaging. Per la maggior parte queste placche amiloidi sono localizzate nel cervello, ma sono stati individuati prioni anche in altri tessuti e fluidi corporei maggiormente accessibili quali sangue e saliva. Sfortunatamente, in questi comparti la concentrazione dei prioni non è sufficiente per garantire una diagnosi corretta ed efficace sulla base dei saggi diagnostici attualmente a disposizione. Per superare questa ed altre limitazioni che li caratterizzano sono quindi in studio diversi approcci. Quella che sembra più promettente è un’ottimizzazione dei saggi già impiegati, che prevede un’immunoprecipitazione dei prioni prima di effettuare il saggio vero e proprio ( Orrù et al., 2011). Si tratta di beads magnetiche cui sono coniugati anticorpi monoclonali in grado di riconoscere e ligare selettivamente la forma aggregata della proteina target (Biasini et al., 2009). In questo modo, partendo da un fluido corporeo si può ottenere una soluzione arricchita in prioni

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compatibile con i saggi di amplificazione in vitro già disponibili, arrivando alla diagnosi della malattia quando la quantità di proteine “pericolose” è ancora diversi ordini di grandezza inferiore rispetto a quella necessaria a scatenare la patologia vera e propria. Test di questo tipo sono quindi auspicabili non solo a scopo diagnostico, ma anche per uno screening efficace ad esempio del sangue destinato alle trasfusioni, ma anche del cibo, degli organi e tessuti da trapiantare e dei medical devices. La messa a punto ed ottimizzazione di diagnostici in vitro di questo tipo richiede un duplice sforzo: da un lato è necessario un costante studio dei processi biologici alla base delle patologie in esame per poter identificare i markers ideali, dall’altra occorre continuare a investire per ottimizzare gli strumenti e le piattaforme impiegate, che devono garantire accuratezza, efficienza e velocità.

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CONCLUSIONI La Medicina è un formidabile concentratore di tecnologie e un incessante generatore di innovazione. In essa convergono le tecnologie più diverse, anche quelle apparentemente più lontane, che permettono un costante afflusso di innovazioni, in virtù della loro continua evoluzione. Il moderno concetto di Medicina, basato su una visione sempre meno specie-specifica e sempre più individuo-specifica, sembra essere trainato, in particolare, dall’unione tra la biologia e tutte quelle scienze che possono esser definite “in silico”, ovvero quelle che consentono una simulazione matematica di fenomeni chimico-biologici. Questo permette di considerare le diverse malattie nella loro “globalità”, sotto i diversi aspetti che le possono caratterizzare; a questo proposito, l’enorme sforzo dedicato a identificare i sintomi viene sempre più agevolato da un approccio in cui genetica e intelligenza artificiale (in tutte le sue sfaccettature) si fondono, permettendo di sapere esattamente dove cercare e trovare i problemi, prima che questi si manifestino. Ovviamente questa diagnosi quasi preventiva vuole essere rivolta non solo alle malattie infettive, ma anche alle patologie degenerative e porta quindi ad un approccio terapeutico del tutto innovativo. A questo proposito, l’idea è quella di affrontare le patologie alla fonte, eliminando quello che le determina, più che i sintomi ad esse connesse, anche se questo, ovviamente, non comporta un totale abbandono delle pratiche portate avanti fino ad oggi. Le aspettative create sia dalle nuove tecnologie, sia dalle nuove applicazioni di tecnologie già esistenti, in Medicina, sono molto importanti, così come la lista dei possibili benefici che se ne potranno trarre. È fondamentale definire la sicurezza di tali innovazioni, valutandone adeguatamente i fattori di rischio connessi, nonostante sia innegabile che queste, in futuro, potranno giocare un ruolo cruciale nella cura della salute umana. Dietro l’angolo stanno dunque già prendendo forma innovazioni destinate a tradursi in una nuova rivoluzione tecnologica, a conferma che la Sanità può realmente essere un formidabile volano di sviluppo. Al fine di cogliere tali opportunità, l’Italia ha un importante punto di forza: è un paese all’avanguardia nel mondo nell’utilizzo di tecnologie sanitarie innovative, soprattutto per quanto riguarda i dispositivi medici. A fronte di ciò, tuttavia, oggi sconta un’importante debolezza: quella di non essersi ancora data una strategia a livello di sistema-Paese finalizzata a trasformare questa eccellenza del nostro sistema sanitario in un vantaggio competitivo rispetto ad altri paesi nell’attrarre investimenti legati appunto allo sviluppo e alla validazione di tali tecnologie. Lavorare a questo obiettivo deve diventare una delle prossime priorità di intervento delle politica sanitaria, della ricerca, e dello sviluppo economico.

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PUBBLICAZIONI DEL CENTRO STUDI ASSOBIOMEDICA

ANALISI N. 0 Lo stato di attuazione della riforma del SSN - Luglio 1995 N. 1 La Manovra Finanziaria 1997 - Febbraio 1997 N. 2 Lo stato di attuazione della riforma del SSN - Primo aggiornamento - Maggio 1997 N. 3 Appalti pubblici di forniture al SSN - Dicembre 1997 N. 4 La Manovra Finanziaria 1998 - Febbraio 1998 N. 5 Lo stato di attuazione della riforma del SSN. Secondo aggiornamento Settembre 2000 N. 6 La Manovra Finanziaria 2001. Legge di bilancio di previsione 2001-2003, e avvio del federalismo

fiscale - Febbraio 2001 N. 7 Cosa attende la sanità nel triennio 2002-2004…e negli anni successivi - Gennaio 2002 N. 8 I sistemi tariffari per le prestazioni di assistenza ospedaliera. Un esame della normativa nazionale e

regionale in vigore - Settembre 2003 N. 9 I sistemi tariffari per le prestazioni di assistenza ospedaliera. Un esame della normativa nazionale e

regionale in vigore - Primo aggiornamento - Aprile 2005 N. 10 I sistemi tariffari per le prestazioni di assistenza ospedaliera. Un esame della normativa nazionale e

regionale. Secondo aggiornamento – Giugno 2010 N. 11 La mobilità sanitaria per la sostituzione della valvola aortica e la neuro stimolazione nel 2009 –

Luglio 2011 GUIDE PRATICHE N. 1 Imposta di bollo. Regime degli atti e dei documenti nella fase di acquisizione di beni e servizi da

parte delle Aziende Sanitarie - Marzo 1998 N. 2 Linee guida per la gestione di Consulenze, Convegni, Congressi degli Operatori della Sanità

Pubblica - Dicembre 1998 N. 3 Linee guida per la gestione dei dispositivi medici in applicazione della Direttiva 93/42/CEE e della

relativa legislazione nazionale di recepimento (D.Lgs. 46/97 e succ. modifiche) - Marzo 1999 N. 4 Direttiva europea 98/79/CE sui dispositivi medici per diagnostica in vitro - Aprile 1999 N. 5 Semplificazione amministrativa. D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445: Testo Unico in materia di

documentazione amministrativa. (Dal documento cartaceo, al documento informatico) - Maggio 2001 N. 6 Dalla Lira all’Euro. Linee guida F.A.R.E., Assobiomedica e Farmindustria Settembre 2001 N. 7 Semplificazione amministrativa. D.P.R. 28 dicembre 2002 n. 4445 Testo unico in materia di

documentazione amministrativa - Primo aggiornamento - e-procurement le gare elettroniche delle P.A. - Dicembre 2002

N. 8 Il Sistema di vigilanza per i dispositivi medici - Marzo 2003 N. 9 La Direttiva 98/79/CE sui dispositivi medico diagnostici in vitro: domande e risposte - Aprile 2004 N.10 Direttiva 2004/18/CE del Parlamento e del Consiglio relativa al coordinamento delle procedure di

aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi - Luglio 2004 N.11 I rapporti dell’impresa con gli operatori della Sanità pubblica:convegni, congressi, consulenze,

omaggi - Febbraio 2005 N.12 Rifiuti derivanti da apparecchiature elettriche ed elettroniche. Schema di decreto attuativo 2002/96/CE e

2002/95 CE (RAEE & RoHS) - Maggio 2005 N.13 Il sistema di vigilanza per i dispositivi medici e i dispositivi medico-diagnostici in vitro. Linee guida

desunte dal documento della Commissione Europea MEDDEV 2.12-1 rev. 6 (dicembre 2009) – Gennaio 2011

OSSERVATORIO TECNOLOGIE N. 1 I dispositivi impiantabili per la cardiostimolazione - Ottobre 2002 N. 2 La chirurgia laparoscopica - Ottobre 2002 N. 3 Protesi ortopediche. Considerazioni sulla regolamentazione, biomeccanica e materiali - Febbraio

2003 N. 4 La prevenzione delle ferite accidentali da aghi e dispositivi taglienti - Aprile 2004 N. 5 Medicazioni e bendaggi – Marzo 2007 N. 6 Tecnologie sanitarie emergenti nel settore dei dispositivi medici – Dicembre 2011

STUDI

N. 1 La spesa sanitaria, la diagnostica di laboratorio e il mercato delle tecnologie - Settembre 1996 N. 2 I tempi medi di pagamento delle strutture sanitarie pubbliche. Dati 1997 e anni precedenti - Marzo

1998 N. 3 Osservatorio Prezzi e politiche regionali di “Acquisto al prezzo minimo” - Aprile 1998 N. 4 Dispositivi per stomia - Febbraio 1999 N. 5 La spesa sanitaria, la diagnostica di laboratorio e il mercato delle tecnologie - Primo aggiornamento -

Giugno 1999 N. 6 Ausili assorbenti per incontinenza - Maggio 2000 N. 7 Medicazioni avanzate e medicazioni speciali - Ottobre 2000 N. 8 La spesa sanitaria, la diagnostica di laboratorio e il mercato delle tecnologie - Secondo

aggiornamento - Ottobre 2000 N. 9 Protesi mammarie esterne - Novembre 2000 N. 10 Dispositivi per incontinenza e ritenzione - Maggio 2001 N. 11 La brachiterapia - Maggio 2001 N. 12 I tempi medi di pagamento delle strutture sanitarie pubbliche. Dati 2000 e anni precedenti - Giugno

2001 N. 13 Protesi mammarie esterne - Primo aggiornamento - Giugno 2001 N. 14 Recepimento della direttiva 2000/35/CE e tempi medi di pagamento delle strutture sanitarie

pubbliche - Novembre 2002 N. 15 Il vaccino antiallergico - Gennaio 2003 N. 16 La Dialisi - Marzo 2003 N. 17 Medicazioni avanzate e medicazioni speciali - Secondo aggiornamento - Marzo 2003 N. 18 Il vaccino antiallergico (L’immunoterapia allergene specifica) - Primo aggiornamento - Settembre

2004 N. 19 La crisi finanziaria del Servizio sanitario e i tempi medi di pagamento delle strutture sanitarie

pubbliche - Marzo 2005 N. 20 I tempi medi di pagamento delle strutture sanitarie pubbliche. Dati 2005 e anni precedenti - Giugno

2006 N. 21 Aghi e siringhe - Febbraio 2007 N. 22 Lancette pungi dito e aghi penna per insulina – Ottobre 2008 N. 23 I tempi medi di pagamento delle strutture sanitarie pubbliche. Dati 2010 e anni precedenti – Marzo 2011 - ANCHE IN LINGUA INGLESE TEMI DI DISCUSSIONE N. 1 Spesa sanitaria e mercato delle tecnologie: verso un modello previsionale - Dicembre 1996 N. 2 Le proposte di Confindustria per una nuova sanità - Settembre 1997 N. 3 Scenari e tendenze per il settore delle tecnologie biomediche e diagnostiche - Ottobre 1997 N. 4 Progetto Sanità Confindustria - Secondo rapporto - Gennaio 1999 N. 5 L’impatto economico dell’evoluzione tecnologica: aspetti di valutazione - Febbraio 1999 N. 6 E-business in sanità - Marzo 2001 N. 7 Il mercato dei dispositivi medici: profilo e aspetti critici - Aprile 2001 N. 8 Il mercato dei dispositivi medici: profilo e aspetti critici - Primo aggiornamento - Ottobre 2002 N. 9 Health Technology Assessment in Europa - Giugno 2003 N. 10 Scenari per il settore della diagnostica in vitro - Dicembre 2003 N. 11 La Telemedicina: prospettive ed aspetti critici - Marzo 2005

Finito di stampare nel mese di Dicembre 2011

I dati e le informazioni di cui al presente documento possono essere trascritti da terzi alla condizione che sia citata la fonte:

Centro studi di economia sanitaria Ernesto Veronesi, Dicembre 2011

Stampato nel mese di Dicembre 2011 dal Centro Stampa di Accademia S.p.A.

Roma, Viale L. Pasteur 10 – Milano, via Marostica 1 – www.assobiomedica.it

IL PROCESSO DI PERVASIONE TECNOLOGICA in sanità è stato percepito in modo diverso a seconda del periodo storico. Ad esempio, quando nel 1816 Renè Laennec inventò lo stetoscopio, questo venne accolto con sospetto e sfiducia da molti medici di allora: ancora nel 1850, questo ausilio diagnostico veniva spesso descritto come uno “strumento pericoloso”. Tra la fine del ‘800 e la prima metà del ‘900, grazie all’evoluzione tecnologica, la sanità cessa di essere un fatto quasi esclusivamente di igiene pubblica ed assistenza ai poveri e diventa offerta di prestazioni di diagnosi e terapie, intorno alle quali nei decenni successivi si sviluppano i primi veri sistemi sanitari. Verso la fine del XX secolo, alla crescente velocità dell’innovazione tecnologica in campo medico è andata contrapponendosi un’ansia per la spesa sanitaria da contenere:considerazioni legate al “perché si spende” ed al “come si spende” rischiano oggi di essere molto sfumate di fronte alla percezione limitata e limitativa delle tecnologie, laddove queste vengano considerate tra i principali “colpevoli” dell’incremento della spesa stessa. Riguardo al “perché si spende”, non andrebbe mai dimenticato che aumento della longevità e miglioramento della qualità di vita sono obiettivi degni di essere continuamente perseguiti. Riguardo al “come si spende”, occorre puntualizzare che l’impatto di una determinata tecnologia sui costi e sulla spesa ad essa legati non è assolutamente scontato, bensì dipende da una pluralità di elementi; invece capita spesso che nel valutare l’impatto economico dell’evoluzione tecnologica vengano considerati costi in realtà da attribuire a inefficienze produttive, rigidità organizzative, miopia nella pianificazione. Giunti alle soglie di una nuova rivoluzione in campo medico, si rende necessario un nuovo approccio alle tecnologie volto ad accrescere l’innovazione e favorire la diffusione delle nuove forme di organizzazione e di produzione man mano che queste vengono consentite in linea teorica. Da questi presupposti nasce l’esigenza di una maggiore sensibilizzazione sul ruolo giocato dalle tecnologie biomediche e diagnostiche. L’OSSERVATORIO TECNOLOGIE DI ASSOBIOMEDICA si propone di ottenere questo risultato, dimostrando quale impatto hanno avuto o possono avere le innovazioni in questo campo sui processi sanitari e in particolare su: l’efficacia clinica, le forme di organizzazione, i processi produttivi, la struttura dei costi, e le policy di spesa.